L'inquietudine dell'esistenza. Le radici luterane dell'ontologia della vita di Martin Heidegger 9788857521749

Nei corsi friburghesi degli anni Venti la lettura heideggeriana non solo degli autori cristiani (Paolo e Agostino), ma a

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Italian Pages 306 Year 2014

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L'inquietudine dell'esistenza. Le radici luterane dell'ontologia della vita di Martin Heidegger
 9788857521749

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N. 12 Collana diretta da Caterina Resta Università degli Studi di Messina Comitato scientifico Gérard Bensussan (Università di Strasbourg) Gianfranco Dalmasso (Università di Bergamo) Günter Figal (Università di Freiburg i.B.) Eugenio Mazzarella (Università di Napoli) Giusi Strummiello (Università di Bari) I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review Il secolo che da poco si è concluso non ci sta alle spalle, ma ci viene incontro, nel nuovo millennio che si annuncia, con l’onda d’urto delle questioni che in esso sono giunte a conflagrazione. Novecento non è solo il nome di un periodo storico segnato da eventi davvero dirompenti: l’affermarsi dei totalitarismi, Auschwitz, l’arma atomica, la cortina di ferro, il crollo del muro di Berlino, la globalizzazione, la crisi del Politico e il disastro della comunità, le sfide della tecnica e del post-umano, la devastazione ambientale, una costellazione cui, ancor prima di profilarsi all’orizzonte, con grande preveggenza, Nietzsche diede il nome di nichilismo, «il più inquietante degli ospiti». Novecento è il nodo inestricabile di tutti questi problemi, e di quelli ad essi strettamente intrecciati, in primo luogo la crisi irreversibile del Soggetto moderno, che oggi con urgenza chiedono di essere pensati, tornando a scandagliare quella che indubbiamente è stata una straordinaria stagione filosofica, di cui non possiamo non riconoscerci gli eredi e la cui potenza di interrogazione è ancora ben lungi dall’essersi affievolita. Novecento, dunque, non allude alla mera delimitazione di un arco temporale, ma a quel tempo non ancora passato perché aperte e ineludibili rimangono le sue domande, alle quali non solo la filosofia non può sottrarsi, ma cui ha il compito, per il tempo a venire, di tentare di trovare qualche risposta.

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VALENTINA SURACE

LʼINQUIETUDINE DELLʼESISTENZA Le radici luterane dellʼontologia della vita di Martin Heidegger

MIMESIS Novecento

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Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Messina.

© 2014 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana: Novecento, n. 12 Isbn: 9788857521749 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected] In copertina: E. Munch, Melancolia, 1894-1896 (partic.)

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INDICE

SIGLE

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RINGRAZIAMENTI

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INTRODUZIONE

23

I. DECOSTRUZIONI 1. Verso l’ontologia della vita 2. Alle radici cristiane 3. La Riforma 3.1. L’ermeneutica riformata 3.2. L’antropologia riformata 4. Destructio e Destruktion 5. Decostruire il lógos 5.1. Theologia gloriae 5.2. Theologia crucis 6. Decostruire l’uomo 6.1. La morte di Adamo 6.2. La ri-nascita di Abramo

35 35 46 53 55 60 65 68 70 77 82 84 91

II. LA VITA DEL CRISTIANO 1. Parusía 1.1. L’attimo dell’incontro 1.2. Hos mé 2. In cammino 2.1. “Alle spalle”: la legge 2.2. “Di fronte”: la fede 2.3. La giusta via 3. Il mistero del peccato 4. Voca me

97 97 103 109 116 117 121 124 129 137

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5. Auditione 6. La cura [Bekümmerung] 6.1 “La mèta”: la beata vita 7. “Timore e tremore” 8. Sperare è r-esistere

144 147 151 154 159

III. RITORNO AD ARISTOTELE: UN’ALTRA STRADA PER SALVARSI 1. Ur-Aristotele 2. La filosofia atea 3. Ripetere la vita 4. Kínesis 5. Poter-esser vero o falso 6. Il sapersi 6.1. Noús 6.2. Sophía 6.3. Phrónesis

169 169 173 177 185 193 199 202 203 207

IV. ZÓON LÓGON ÉCHON 1. Il tempo come kinéseos 1.1. L’éschaton a-theíon 2. La cura [Sorge] 3. La rovina 4. Il télos: l’eu zén 5. La parola afona 6. Teoria delle passioni 6.1. Phóbos ed elpís 7. Il páthos della morte

215 215 219 223 227 234 237 242 245 249

V. VOLO UT SIT 1. La rivoluzione 2. L’uomo ‘etero-logo’ 3. Bíos politikós 4. Con-esserci 5. Aver cura dell’altro 6. Per mortem ad vitam

257 257 262 274 281 287 296

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a Enzo

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SIGLE

Per gli scritti di Martin Heidegger citati dall’edizione delle opere complete (Martin Heidegger, Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt a.M. 1975-) verrà utilizzata la sigla HGA seguita dal numero del volume. Di volta in volta si rimanda al riferimento di pagina dell’originale tedesco e, qualora disponibile, della traduzione italiana. Per i testi di cui non è disponibile l’edizione italiana, la traduzione è dell’autore. HGA 2

Sein und Zeit (1927), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1977; tr. it. di F. Volpi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2006.

HGA 3

Kant und das Problem der Metaphysik (1929), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1991; tr. it. di M. E. Reina e V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981.

HGA 4

Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung (1936-1968), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1981; tr. it. di L. Amoroso, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 2001.

HGA 5

Holzwege (1935-1946), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1977; tr. it. di P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Milano 2002.

HGA 6.1/6.2 Nietzsche (1936-1939)/(1939-1946), hrsg. von B. Schillbach, 1996/1997; tr. it. di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 2000. HGA 7

Vorträge und Aufsätze (1936-1953), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 2000; tr. it. di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1996.

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

HGA 8

Was heißt Denken?, hrsg. von P.-L. Coriando, 2002; tr. it. di U.M. Ugazio e G. Vattimo, Che cosa significa pensare?, SugarCo, Milano 1994.

HGA 9

Wegmarken (1919-1961), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1976; tr. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano 2002.

HGA 10

Der Satz vom Grund (1955-1956), hrsg. von P. Jaeger, 1997; tr. it. di G. Gurisatti e F. Volpi, Il principio di ragione, Rizzoli, Milano 2001.

HGA 11

Identität und Differenz, hrsg. von F.-W. von Herrmann, 2006; tr. it. parz. di G. Gurisatti, Identità e differenza, Adelphi, Milano 2009.

HGA 12

Unterwegs zur Sprache (1950-1959), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1985; tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1999.

HGA 14

Zur Sache des Denkens (1962-1964), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 2007; tr. it. di E. Mazzarella, Tempo ed essere, Guida, Napoli 1998.

HGA 15

Seminare (1951-1973), hrsg. von C. Ochwadt, 1986; tr. it. di F. Volpi, Seminari, Adelphi, Milano 1992.

HGA 16

Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges (1910-1976), hrsg. von H. Heidegger, 2000; tr. it. di N. Curcio, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, il melangolo, Genova 2005.

HGA 17

Einführung in die phänomenologische Forschung (Wintersemester 1923-1924), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1994.

HGA 18

Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (Sommersemester 1924), hrsg. von M. Michalski, 2002.

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Sigle

11

HGA 19

Platon: Sophistes (Wintersemester 1924-1925), hrsg. von I. Schüßler, 1992.

HGA 20

Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs (Sommersemester 1925), hrsg. von P. Jaeger, 1994; tr. it. di R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, il melangolo, Genova 1998.

HGA 21

Logik. Die Frage nach der Wahrheit (Wintersemester 1925-1926), hrsg. von W. Biemel, 1976; tr. it. di U.M. Ugazio, Logica. Il problema della verità, Mursia, Milano 1986.

HGA 22

Die Grundbegriffe der antiken Philosophie (Sommersemester 1926), hrsg. von F.-K. Blust, 1993; tr. it. di G. Gurisatti, I concetti fondamentali della filosofia antica, Adelphi, Milano 2000.

HGA 24

Die Grundprobleme der Phänomenologie (Sommersemester 1927), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1975; tr. it. di A. Fabris, I problemi fondamentali della fenomenologia, il melangolo, Genova 1999.

HGA 29/30 Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit (Wintersemester 1929-1930), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1983; tr. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, il melangolo, Genova 1999. HGA 38

Logik als die Frage nach dem Wesen der Sprache (Sommersemester 1934), hrsg. von G. Seubold, 1998; tr. it. di U.M. Ugazio, Logica e linguaggio, Marinotti, Milano 2008.

HGA 39

Hölderlins Hymnen „Germanien”und „Der Rhein”(Wintersemester 1934-1935), hrsg. von S. Ziegler, 1980; tr. it. di G.B. Demarta, Gli inni di Hölderlin “Germania” e “Il Reno”, Bompiani, Milano 2005.

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

HGA 40

Einführung in die Metaphysik (Sommersemester 1935), hrsg. von P. Jaeger, 1983; tr. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1972.

HGA 45

Grundfragen der Philosophie. Ausgewählte «Probleme» der «Logik» (Wintersemester 1937-1938), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1984; tr. it. di U.M. Ugazio, Domande fondamentali della filosofia. Selezione di «problemi» della «logica», Mursia, Milano 1988.

HGA 53

Hölderlins Hymnen “Der Ister” (Sommersemester 1942), hrsg. von W. Biemel, 1984; tr. it. di C. Sandrin e U.M. Ugazio, L’inno “Der Ister” di Hölderlin, Mursia, Milano 2003.

HGA 54

Parmenides (Wintersemester 1942-1943), hrsg. von M.S. Frings, 1982; tr. it. di G. Gurisatti, Parmenide, Adelphi, Milano 1999.

HGA 55

Heraklit. 1. Die Anfang des abendländischen Denkens (Sommersemester 1943) 2. Logik. Heraklits Lehre vom Logos (Sommersemester 1944), hrsg. von M.S. Frings, 1987; tr. it. di F. Camera, Eraclito. L’inizio del pensiero occidentale. Logica. La dottrina eraclitea del logos, Mursia, Milano 1993.

HGA 56/57 Zur Bestimmung der Philosophie. 1. Die Idee der Philosophie und das Weltanschauungsproblem (Kriegnotsemester 1919); 2. Phänomenologie und transzendentale Wertphilosophie (Sommersemester 1919); 3. Anhang: Über das Wesen der Universität und des akademischen Studiums (Sommersemester 1919), hrsg. von B. Heimbüchel, 1999; tr. it. di G. Auletta, Per la determinazione della filosofia. 1. L’idea della filosofia e il problema della visione del mondo (semestre straordinario di guerra del 1919); 2. Fenomenologia e filosofia trascendentale dei valori (semestre estivo 1919); 3. Appendice I: Sull’essenza dell’università e dello studio accademico (semestre estivo 1919), Guida, Napoli 2002.

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Sigle

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HGA 58

Grundprobleme der Phänomenologie (Wintersemester 1919-1920), hrsg. von H.-H. Gander, 1992.

HGA 59

Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks. Theorie der philosophischen Begriffsbildung (Sommersemester 1920), hrsg. von C. Strube, 1993.

HGA 60

Phänomenologie des religiösen Lebens. 1. Einleitung in die Phänomenologie der Religion (Wintersemester 1920-1921), 2. Augustinus und der Neuplatonismus (Sommersemester 1921), 3. Die philosophischen Grundlagen der mittelalterlichen Mystik (Ausarbeitung und Einleitung zu einer nicht gehaltenen Vorlesung 1918-1919), hrsg. von C. Strube, 1995; tr. it. di G. Gurisatti, Fenomenologia della vita religiosa. 1. Introduzione alla fenomenologia della religione (semestre invernale 1920-1921), 2. Agostino e il Neoplatonismo (semestre estivo 1921), 3. I fondamenti filosofici della mistica medievale (Prime stesure e abbozzi per un corso non tenuto 1918-1919), Adelphi, Milano 2003.

HGA 61

Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forschung (Wintersemester 1921-1922), hrsg. von W. Bröcke und K. Bröcker-Oltmanns, 1985; tr. it. di M. De Carolis, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica (semestre invernale 1921-1922), Guida, Napoli 2001.

HGA 62

Phänomenologische Interpretationen ausgewählter Abhandlungen des Aristoteles zur Ontologie und Logik (Sommersemester 1922), hrsg. von G. Neumann, 2005; tr. it. del solo Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Ausarbeitung für die Marburger und die Göttinger Fakultät (1922), qui indicato con la sigla NB (Natorp-Bericht), tr. it. di A.P. Ruoppo, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Elaborazione per le facoltà filosofiche di Marburgo e di Gottinga, Guida, Napoli 2005; in taluni casi ci si è avvalsi della tr. it. di G. Vitiello e G. Camarrota, Interpretazio-

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

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ni fenomenologiche di Aristotele, “Filosofia e Teologia”, 3, 1990. HGA 63

Ontologie. Hermeneutik der Faktizität (Sommersemester 1923), hrsg. von K. Bröcker-Oltmanns, 1988; tr. it. di G. Auletta, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività (semestre estivo 1923), Guida, Napoli 1998.

HGA 64

Der Begriff der Zeit (1924), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 2004; tr. it. del solo Der Begriffe der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft (Juli 1924), tr. it. di F. Volpi, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 2006.

HGA 65

Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) (1936-1938), hrsg. von F.-W. von Hermann, 1989; tr. it. di A. Iadicicco, Contributi alla filosofia. Dall’evento, Adelphi, Milano 2007.

HGA 66

Besinnung (1938-1939), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1998; tr. it. del solo Ein Rückblick auf den Weg, tr. it. di R. Cristin, Uno sguardo all’indietro sul mio sentiero, in E. Husserl – M. Heidegger, Fenomenologia, Unicopli, Milano 1999.

HGA 70

Über der Anfang (1941), hrsg. von P.-L. Coriando, 2005; ed. it. a cura di G.B. Demarta, Sul principio, Bompiani, Milano 2006.

HGA 77

Feldeweg-Gespräche (1944-1945), hrsg. von I. Schüßler, 1995; tr. it. di A. Fabris e A. Pellegrino, Colloqui su un sentiero di campagna, il melangolo, Genova 2007.

HGA 79

Bremer und Freiburger Vorlesungen, hrsg. von P. Jaeger, 2005; tr. it. di G. Gurisatti, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002; citiamo nel testo: Die Kehre, tr. it. (con testo a fronte) di M. Ferraris, La svolta, il melangolo, Genova 1990.

HGA 90

Zu Ernst Jünger, hrsg. von P. Trawny, 2004.

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Sigle

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Per le opere non comprese nella Gesamtausgabe verranno utilizzate le seguenti sigle: G

Gelassenheit, Neske, Pfullingen 1959; tr. it. di A. Fabris, L’abbandono, il melangolo, Genova 1998.

PS

Das Problem der Sünde bei Luther, in B. Jaspert, Sachgemässe exegese. Die Protokolle aus Rudolf Bultmanns Neutestamentlichen Seminaren 1921-1951, Elwert, Marburg 1996; tr. it. di A. Ardovino, Il problema del peccato in Lutero, “MicroMega”, 5, 2010.

ShU-R

Die Selbstbehauptung der deutschen Universität – Das Rektorat 1933/34, hrsg. von H. Heidegger, Klostermann, Frankfurt a.M. 1983; tr. it. di C. Angelino, L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, il melangolo, Genova 2001.

WDF

Wilhelm Diltheys Forschungsarbeit und der gegenwärtige Kampf um eine historische Weltanschauung. 10 Vorträge (gehalten in Kassel vom 16-21 April 1925), „Dilthey-Jahrbuch“, 8, 1992-1993; tr. it. di F. Donadio, Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l’attuale lotta per una visione storica del mondo. 10 Conferenze tenute a Kassel dal 16 al 21 aprile 1925, Guida, Napoli 2001.

Per gli epistolari verrà utilizzata la sigla BrH (Briefe Heideggers) seguita dall’iniziale del cognome del corrispondente: BrH-A

M. Heidegger – H. Arendt, Briefe 1925 bis 1975 und andere Zeugnisse, hrsg. von U. Ludz, Klostermann, Frankfurt a.M. 1998; tr. it. di M. Bonola, Lettere 19251975 e altre testimonianze, Comunità, Torino 2001.

BrH-B

M. Heidegger – E. Blochmann, Briefwechsel 19181969, hrsg. von J.W. Storch, Deutsches Literaturarchiv, Marbach am Neckar 1989; tr. it. di R. Bruscotti, Carteggio 1918-1969, il melangolo, Genova 1991.

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

BrH-Bu

M. Heidegger – R. Bultmann, Briefwechsel 1925 bis 1975, hrsg. von A. Großmann e C. Landmesser, Klostermann, Frankfurt a.M. 2009.

BrH-E

M. Heidegger, „Mein liebes Seelchen!“: Briefe Martin Heideggers an seine Frau Elfride 1915-1970, hrsg. von G. Heidegger, Deutsche Verlags-Anstalt, München 2005; tr. it. di P. Massardo e P. Severi, «Anima mia, diletta!». Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride 1915-1970, il melangolo, Genova 2007.

BrH-J

M. Heidegger – K. Jaspers, Briefwechsel 1920-1963, hrsg. von W. Biemel und H. Saner, Klostermann, Frankfurt a.M. 1992.

BrH-R

M. Heidegger – E. Rothacker, Briefe, „Dilthey Jahrbuch“, 8, 1992-93.

Per gli scritti [Schriften] di Martin Lutero citati dall’edizione delle opere complete (Martin Lutero, Werke. Kritische Gesamtausgabe „Weimarer Ausgabe“, Böhlaus, Weimar 1883-) verrà utilizzata la sigla WA seguita dal numero del volume. Per quanto concerne le Lettere [Briefe], i Discorsi a tavola [Tischreden] e la Bibbia in tedesco [deutsche Bibel] alla sigla WA verranno aggiunte le iniziali Br, TR e dB. Di volta in volta si rimanda al riferimento di pagina dell’originale latino o tedesco e, qualora disponibile, della traduzione italiana. Per i testi di cui non è disponibile l’edizione italiana, la traduzione è dell’autore. Nel seguente elenco, comprendente solo le opere citate, in parentesi quadre accanto alla sigla è indicato l’anno di pubblicazione del volume. WA 1 [1883]

Sermone aus den Jahren 1514-1517; Quaestio de viribus et voluntate hominis sine gratia disputata (1516); Die Sieben Bußpsalmen (1517), tr. it. di V. Vinay, I sette salmi penitenziali, in Scritti religiosi, Utet, Torino 1986; Disputatio contra scholasticam theologiam (1517); Sermo de poenitentia (1518); Disputatio Heidelbergae habita (1518), tr. it. di V. Vinay, La disputa di Heidel-

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Sigle

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berg, in Scritti religiosi, cit.; Decem praecepta Wittenbergensi predicata populo (1518). WA 2 [1884]

Auslegung deutsch des Vaterunser für die einfältigen Laien (1519), tr. it. di V. Vinay, Il “Padre nostro” spiegato nella lingua volgare ai semplici laici, in Scritti religiosi, cit.; Resolutiones Lutherianae super propositionibus suis Lipsiae disputatis. (1519); In epistolam Pauli ad Galatas commentarius (1519); Sermon von dem heiligen hochwürdigen Sakrament der Taufe (1519), tr. it. di V. Vinay, Sermone sul santo e venerabile sacramento del battesimo, in Scritti religiosi, cit.

WA 3 [1885]

Dictata super Psalterium (1513-1516): Ps. ILXXXIII.

WA 4 [1886]

Dictata super Psalterium (1513-1516): Ps. LXXXIV-CL; Sermone aus den Jahren ca. 15141520.

WA 5[1892]

Operationes in Psalmos (1519-1521).

WA 6 [1888]

Disputatio de circumcisione (1520); Condemnatio doctrinalis librorum Martini Lutheri per quosdam Magistros Nostros Lovanienses et Colonienses facta. Responsio Lutheriana ad eandem damnationem (1520); Von den guten Werken (1520), tr. it. di V. Vinay, Delle buone opere, in Scritti religiosi, cit.; Von dem Vapsttum zu Rom wider den hochberuhmten Romanisten zu Leipzig (1520).

WA 7 [1897]

Von der Freiheit eines Christenmenschen (1520), tr. it. di G. Miegge, Libertà del cristiano, Doxa, Milano 1931; Ad librum eximii Magistri Nostri Magistri Ambrosii Catharini, defensoris Silvestri Prieratis acerrimi, responsio (1521), tr. it. di L. Ronchi de Michelis, Replica ad Ambrogio Catarino sull’Anticristo, in Opere scelte 3, a cura di P.

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

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Ricca, Claudiana, Torino 1989; Ein Sermon auf dem Hinwege gen Worms zu Erfurt gethan (1521). WA 8 [1889]

Rationis Latomianae confutatio (1521); De votis monasticis Martini Lutheri iudicium (1521).

WA 9 [1893]

Zu Augustini Opuscula (1509), Zu den Sentenzen des Petrus Lombardus (1510-1511).

WA 10/II [1907] Vom ehelichen Leben (1522). WA 14 [1895]

Vorlesung über das Deuteronomium (1523-1524).

WA 17/I [1907]

Warnung vor falschen propheten (1525).

WA 20 [1904]

Vorlesung über den Prediger Salomo (1526). Annotationes in Ecclesiasten (1532).

WA 25 [1902]

Vorlesung über die Briefe Titus und Philemon (1527); Vorlesung über Iesaia (1527-1529).

WA 27 [1903]

Predigten des Jahres 1528.

WA 29 [1904]

Sermo von christlicher Gerechtigkeit und Vergebung der Sünden (1530).

WA 30/I [1910]

Deutch Katechismus (Der Große Katechismus) (1529), tr. it. di F. Ferrario, Il Grande Catechismo, in Opere scelte 1, a cura di P. Ricca, Claudiana, Torino 1998.

WA 30/II [1909] Vorrede zu „Die Epistel S. Pauli zum Colossern durch Philippum Melanchton zum andern Mal ausgelegt, verdeutscht durch Iustum Ionam”(1529); Sendbrief vom Dolmetschen (1530), tr. it. di V. Vinay, Epistola sull’arte del tradurre e sulla intercessione dei santi, in Scritti religiosi, cit.; De Iustificatione (1530). WA 30/III [1910] Das Marburger Gespräch und die Marburger Artikel (1529).

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Sigle

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WA 31/I [1913]

Explicatio trium sequentium psalmorum de autographo D. Lutheri expressa est (Scholae 1513-16).

WA 37 [1910]

Predigten des Jahres 1533-1534.

WA 39/I [1926]

Die Doktorpromotion von Hieronymus Weller und Nikolaus Medler (11 e 14 settembre 1535); Die Disputation de iustificatione (14 gennaio 1536?); Die Disputation de homine (1536), tr. it. di S. Rostagno, Le tesi de homine, “Protestantesimo”, 4, 1990; Die Zirkulardisputation de veste nuptiali (15 giugno 1537).

WA 40/I [1911]

In epistolam Pauli ad Galatas commentarius ex praelectione D. Martini Lutheri (1531).

WA 40/III [1930] Vorlesung über die Stufenpsalmen (1532-1533). WA 41 [1910]

Predigten des Jahres 1535.

WA 42 [1911]

Vorlesung über 1. Mose (1535-1545), hrsg. von G. Kossmane e D. Reichert.

WA 43 [1912]

Vorlesung über 1. Mose (1535-1545), hrsg. von K. Drescher.

WA 44 [1915]

Vorlesung über 1. Mose (1535-1545), hrsg. von D. Reichert.

WA 51 [1914]

Predigten (1545-1546).

WA 54 [1928]

Vorrede Luthers zum ersten Bande der Gesamtausgabe seiner lateinischen Schriften (1545).

WA 56 [1938]

Der Brief an die Römer (1515-1516), tr. it. di G. Pani, Lezioni sulla lettera ai Romani, 2 voll., Marietti, Genova 1991-92; in taluni casi ci si è avvalsi della traduzione italiana di F. Buzzi, La Lettera ai Romani, Edizioni Paoline, Milano 1991.

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WA 57/II [1939] Die erste Vorlesung über den Galaterbrief (15161517). WA 57/III [1939] Die Vorlesung über den Hebräerbrief (15171518). WA 59 [1983]

Die philosophischen Thesen der Heidelberger Disputation mit ihren Probationes (1518), tr. it. parz. (conclusiones) basata su WA 1 di V. Vinay, La disputa di Heidelberg, in Scritti religiosi, cit.; tr. it. completa (conclusiones e probationes) di E. Andreatta, Tesi di contenuto filosofico, in Lutero contro Aristotele: le tesi e prove filosofiche della Disputa di Heidelberg, “Studia Patavina”, 37, 1990.

WA 60 [1980]

Die „Dialectica”(ca. 1540).

WATR 1 [1912] Veit Dietrichs Nachschriften (1531). WATR 3 [1914] Die Sammlung des Konrad Cordatus (1533). WABr 1 [1930]

Briefe von Luther an Lang, Ioh.

WadB 7 [1931]

Vorrede auss die Epistel S. Pauli an di Römer; tr. it. di V. Vinay, Prefazione all’Epistola ai Romani, in Scritti religiosi, cit.

Si precisa che per le citazioni tratte dal Vecchio e Nuovo Testamento ci si è avvalsi de La Bibbia di Gerusalemme, Dehoniana, Bologna 2009.

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RINGRAZIAMENTI

Per ‘ringraziare’ offro questo lavoro ad ognuno che ho incontrato sul cammino della mia ricerca, dai primi passi incerti fino agli ultimi, certo più saldi, ma anche più faticosi. Lo offro al prof. W.-F. von Hermann, che nella fase iniziale mi ha dato preziosi consigli; alla prof.ssa Giuliana Gregorio, che ha condiviso generosamente con me il frutto di alcuni suoi studi; al dott. Eugenio Andreatta, che con grande disponibilità mi ha fornito indispensabili indicazioni sulle opere luterane. Ma soprattutto lo offro alla mia maestra, la prof.ssa Caterina Resta, che mi ha indicato la via e ha creduto che potessi percorrerla per sentieri poco battuti, che non solo mi ha donato la sua esperienza di pensiero e molto del suo tempo per ascoltarmi e indirizzarmi, ma soprattutto ha avuto cura di me con il suo interrogare ardito, che costringe al confronto radicale, desta inquietudine ed esige la disponibilità alla ‘conversione’, così come la debole forza della fedeltà che custodisce. Lo offro, poi, ai miei amici e colleghi. A chi mi ha aperto la strada straniera, a chi ha condiviso i dubbi, a chi senza remore mi ha aiutata, soprattutto in momenti difficili. Lo offro, infine, alla mia famiglia, che mi ha sostenuto, sgravandomi spesso dalle preoccupazioni quotidiane. Lo offro e lo dedico a Enzo, che con amore paziente ha rispettato l’estraniazione a cui meditare e scrivere costringono, e con intelligenza ha atteso. Reggio Calabria, 1 novembre 2013

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INTRODUZIONE Più di ogni cosa degna di cura custodisci il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita (Pr, 4, 23)*.1

Un passo indietro [Schritt zurück] verso l’origine. È questa la pratica di pensiero che più d’ogni altra Heidegger ha lasciato in consegna a quanti con lui, dopo di lui, decidono di incamminarsi sul suo Denkweg. Ed è questo anche lo sprone iniziale che ha spinto la seguente ricerca a ritornare all’origine delle riflessioni heideggeriane, sapendo che là dove un pensiero sorge non c’è un’origine, una ed una sola, non c’è un fondamento, ma l’abisso senza fondo della provenienza, allo stesso modo in cui non c’è una destinazione, una ed una sola, un percorso lineare, ma ritmi diversi d’andatura, deviazioni, svolte, interruzioni, incrinature, debordamenti, salti. Lo Schritt zurück è qui diretto genealogicamente verso quel luogo in cui comincia la Denkerfahrung di Heidegger, in quegli anni (1919-1923) in cui il filosofo muove i primi passi all’interno dell’ambiente accademico friburghese ed inaugura – anche grazie agli stimoli recepiti, non senza criticità, da Dilthey e Husserl – una comprensione della vita nella sua storicità e concretezza, ovvero un’ontologia della vita fattizia. Già soltanto le indicazioni bibliografiche sono sufficienti a mostrare che, tra i molteplici interessi di questo periodo, spicca la ricerca di un confronto serrato con il cristianesimo, nel cui alveo il pensatore tedesco si è formato. Educato al cattolicesimo, destinato ad entrare nella Compagnia di Gesù e a dedicarsi al sacerdozio, Heidegger si inscrive alla Facoltà di Teologia, maturando con il tempo una crescente insofferenza nei confronti del dogmatismo di Santa Romana Chiesa, che lo costringerà ad una clamorosa rottura con il “sistema cattolico”. È forse anche in seguito a questo doloroso distacco che Heidegger si avvicinerà a Lutero, il cui influsso sul suo pensiero di questo periodo va molto al di là di quanto a prima vista i pochi espliciti riferimenti possano dimostrare. *

Versetto inciso sulla porta della casa di Heidegger a Friburgo.

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

È precisamente la ricerca di queste tracce, per lo più nascoste o cancellate, l’intento del nostro lavoro, teso a illuminare un’ascendenza per lo più trascurata nella complessa e stratificata genesi del pensiero di Heidegger. La Beziehung del giovane Heidegger con il giovane Lutero, considerata, com’è ovvio, non in chiave storicobiografica, ma filosofico-ermeneutica, riveste, a nostro parere, un’importanza cruciale per una migliore comprensione non solo di Sein und Zeit, il capolavoro del 1927, che ne rappresenta il frutto più maturo, ma anche dell’intera filosofia di Heidegger, la quale, al di là delle sue “svolte”, non ha mai tradito, in ultima istanza, il suo impulso e la sua impronta iniziali. Non si tratta di innestare la teologia luterana nella filosofia heideggeriana, ma, al contrario, di mostrare come essa sia il risultato di una complessa decostruzione e di una profonda rielaborazione dell’intera tradizione del pensiero occidentale in quanto onto-teo-logia, rese possibili anche dalla “violenta” appropriazione ermeneutica di quella linea cristiana che da Paolo giunge fino a Lutero, attraverso Agostino, uomini “in lotta”, per i quali l’incontro con la fede cristiana ha comportato l’attuazione di una modalità di esistenza nuova. Per questo, si può anticipare fin d’ora che andrà delusa la curiosità riguardo alla conferma o meno di una possibile “conversione” di Heidegger al luteranesimo, che è di poco conto rispetto al fatto decisivo che, da un attento esame dei corsi sulla Fenomenologia della religione e sull’Interpretazione di Aristotele, si possono delineare i tratti di un’analitica esistenziale profondamente segnata dalla tradizione cristiana di matrice protestante, anche attraverso la ‘scossa’ provocata da un pensatore come Søren Kierkegaard, ben al di là del riduttivo giudizio espresso in Essere e tempo. Così come, concentrandosi su questi autori cristiani, l’intento di Heidegger non è quello di approdare ad una professione di fede confessionale, né tantomeno di compiere una mera de-teologizzazione o secolarizzazione dei teolegumeni, allo stesso modo, nell’interpretazione di Aristotele, si tratterà di mostrare come, mantenendosi entro il rigoroso limite della filosofia, si possano elaborare anche al suo interno le categorie della vita fattizia che, attraverso un’ulteriore rielaborazione, sfoceranno in quelle esistenziali di Sein und Zeit. Le analisi di fenomenologia della religione non vengono, perciò, rinnegate da Heidegger con il suo rivolgersi ad Aristotele, anzi le categorie acquisite nel confronto con il cristianesimo continuano ad esercitare la loro funzione di formale Anzeige, poiché il télos è il

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medesimo: accedere alla dimensione della fatticità, alla vita nel mondo, che è insieme mondo del sé, degli altri e mondo-ambiente. Le categorie proto-cristiane di Paolo, così come le categorie protofenomenologiche di Aristotele, spesso interpretate attraverso Lutero, indicano formalmente il modo in cui la vita fattizia si attualizza. Così, tanto nel confronto con Paolo e Agostino, quanto nel confronto coi greci, il problema non è il fondamento teologico o metafisico della vita, bensì il come della sua attuazione, divisa tra possibilità opposte. Va, perciò, precisato che il presente studio non vuole ricostruire storiograficamente i corsi friburghesi – così come già diversi ed eccellenti studi hanno fatto –, ma seguire nella loro genesi teoretica e nel loro sviluppo, fino all’approdo in Sein und Zeit, i caratteri della vita fattizia, che Heidegger rintraccia nell’esperienza protocristiana e mette alla prova nel confronto con Aristotele, appropriandosene con un gesto consueto del suo modus operandi, certo violento, ma sempre rigoroso, che mostra non poche movenze luterane. L’intento di questa ricerca è, detto in maniera ancora più esplicita, render manifesto come gli Initia theologiae Lutheri, ovvero un certo Lutero, non il riformatore, ma il monaco agostiniano che approssimativamente tra il 1515 e il 1520 tiene all’Università di Wittenberg alcune lezioni sulle Lettere paoline e sui testi aristotelici, abbia una decisiva influenza – purtroppo per lo più misconosciuta o sottovalutata – sulla lettura heideggeriana non solo degli autori cristiani, ma anche del “pagano” Aristotele. Per dare uno sguardo d’insieme, che renda conto di questa influenza, si cercherà in questa sede – e nei limiti che essa impone – di abbozzare l’orizzonte generale che il presente lavoro ha cercato di delineare. Alla luce di quanto emerge più analiticamente nel percorso tracciato in ogni singolo capitolo, si potrebbe dire che lo studio di Lutero indirizza Heidegger quantomeno su due fronti, metodologico e antropologico, qualificabili non senza una certa approssimazione rispettivamente come destruens e costruens. Se la connotazione fenomenologica dell’approccio ermeneutico, in quanto approccio storico-originario, Heidegger l’apprende dal maestro Husserl, l’antecedente più prossimo alla Destruktion, il “metodo” di cui si avvale per compiere una decostruzione delle categorie classiche della filosofia, è la destructio di Lutero. Così come l’ermeneutica luterana ‘decostruttiva’ di Paolo, Agostino e Aristotele, anche la corrispettiva interpretazione heideggeriana è iperbolica,

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

è una oltre-interpretazione, per nulla fedele o storiografica. Non per questo, però, la decostruzione, sia quella di Lutero che quella di Heidegger, è un’operazione di per sé negativa, una mera demolizione, poiché è, piuttosto, uno smantellamento, che libera il fenomeno originario dell’esistenza dai retaggi dei contenuti della metafisica tradizionale. In un primo significato la destructio luterana è il procedimento atto a disfare l’architettura scolastico-tomistica, che, replicando elementi ellenistici, dimentica l’esperienza di fede, l’esperienza della croce e della passione. Lutero decostruisce, cioè, la theologia gloriae, la teologia in quanto conoscenza teoretica di Dio, che, fondandosi su un fraintendimento di stampo platonico di Rm, 1, 20, parte dalla presenza visibile di Dio nella creazione e risale a Dio come Sommo Bene, secondo la relazione aristotelica di causa ed effetto, che lega il creatore alle creature. Anche nell’interpretazione di Aristotele, Lutero privilegia l’aspetto ‘pratico’ e, servendosi delle coppie concettuali speculative-obiective e intelligere-sentire, opera una netta distinzione tra il prender conoscenza e il fare esperienza, tra una conoscenza teoretica distaccata e una comprensione ‘concreta’, che non si ritrae davanti al moto vivente. Allo stesso modo, Heidegger indirizza la sua Destruktion contro la filosofia speculativa, intesa come conoscenza teoretica della vita che si stacca dalla sua origine fattizia, contro la filosofia come metafisica della presenza, che innesca un processo di de-vitalizzazione [Ent-Lebung], da cui discende, come massimo pericolo, la cancellazione della situazione concreta, la “de-storicizzazione [Ent-geschichtlichung]. La decostruzione della metafisica, che intende l’essere come presenza, è anche la revoca del primato della dimensione temporale del presente, poiché la temporalità “autentica” può essere colta soltanto alla luce di quel tempo messianico, caratteristico delle prime comunità cristiane, in cui passato, presente e futuro si raccolgono nell’istante della decisione e nell’attesa incalcolabile della parusía. Nel suo secondo significato la destructio è per Lutero lo smantellamento dell’uomo vecchio (der alt Adam) che, essendo «immagine e gloria di Dio» (1 Cor, 11, 7), tende ingannevolmente ad avere fiducia in sé, dimenticando la sua condizione finita. Analogamente Heidegger, considerando che il termine zoé indica un fenomeno fondamentale intorno a cui ruota l’interpretazione greco-cristiana dell’esserci umano, si propone di smantellare i tradizionali concetti di uomo come essere creato da Dio a sua immagine, come persona,

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essere vivente dotato di ragione, superbo – per usare un lessico agostiniano – animal rationale, sorti, ognuno a suo modo, dalla definizione greca di zóon lógon échon, e operanti ancora nella filosofia moderna, che continua a concepire la vita come res cogitans, res subiecta. Così come per Lutero l’uomo non è una sostanza razionale, ma è materia chiamata ad assumere una forma, e per questo non soltanto può trovarsi in diversi stati, ma può vivere effettivamente in essi in modo [Wie] diverso, per Heidegger la vita fattizia è l’esserci finito come essere-gettato-nel-mondo, è l’«esser-come» dell’esserci, ovvero la vita nel come [Wie] del suo attuarsi. Detto alquanto sommariamente, da ciò discendono due conseguenze decisive: il fatto che l’esserci è finito, implica che la vita fattizia ha un legame esclusivo ed ineludibile con la morte, mentre il fatto che non sia una “sostanza”, implica che il suo essere non è nulla di fisso o di immobile. La vita e la morte sono legate a doppio filo, poiché, come afferma Lutero – e Heidegger ripete con lui – ab utero matris mori incipimus, o come scrive Agostino ne La città di Dio, replicando quanto già riferito da Paolo ai Corinzi (1 Cor, 15, 31), questa vita altro non è che una corsa verso la morte. Comprendendo la morte in senso indicativo-formale non come il momento biologico nel quale la vita cessa, bensì come il tratto costitutivo della finitudine dell’Esserci, in quanto essere-per-la-fine, Heidegger converte il cartesiano cogito sum nel neo-testamentario muribundus sum (2 Cor, 6, 9), in quanto certezza fondamentale dell’esserci. Nella tranquilla serenità del fare quotidiano la morte è sempre in agguato, di modo che coloro che non esperiscono fino in fondo l’ansia, l’inquietudine e l’insicurezza dell’esistenza e predicano “pace e sicurezza”, non riusciranno a pervenire al proprio essere, che consiste nella radicale espropriazione e traspropriazione di sé provocata dall’essere-per-la-morte. La questione della morte assume, dunque, un ruolo fondamentale in relazione alla nascita dell’uomo nuovo, alla rinascita di Abramo, ovvero al vivere “appropriato”, dal momento che solo un esserci che è consapevole che fin dall’utero materno comincia non solo a vivere, ma anche a morire, cambia totalmente il proprio rapporto con sé e con il mondo; solo un esserci che si pensa a partire dalla propria irrimediabile finitezza non sciupa il proprio tempo come se ne avesse a volontà, ma piuttosto cerca di essere quel che può e ha da essere. Esperire la propria finitezza significa praticare la morte, non nel senso di renderla reale con un atto suicida, ma nel senso di ricono-

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

scerla e assumerla come propria possibilità eminente. Fuga [Fliehen] e precorrimento [Vorlaufen], i due movimenti attraverso i quali la vita fattizia si rapporta alla morte, si ritrovano in Lutero, accompagnati dagli stati d’animo della paura e dell’amore, e in Aristotele, a proposito del lógos, capace di negazione [apóphasis] e affermazione [katáphasis] e dell’órexis, il “desiderio”, che insegue [díoxis] o fugge [phugé]. Le alternative davanti alla morte indicano che il modo di essere dell’Esserci non è né univoco né stabile, ma in movimento: homo viator semper in motus, affermava Lutero, che, tradotto nel linguaggio heideggeriano, significa: il modo d’essere dell’esserci è l’essere in cammino. Il Geworden-sein, l’esser-divenuti, l’eghenéthe paolino riferito ai Tessalonicesi, dice che la vita fattizia non è in quiete: inquietum est cor nostrum, asseriva Agostino, confessandosi davanti a Dio e agli uomini. Se tutte le cose che esistono sono in movimento, come Aristotele constata a partire dall’esperienza, la kínesis, la motilità [Bewegtheit], non è uno stato tra gli altri, ma la determinazione essenziale dell’esserci, in quanto possibilità, disponibilità a divenire. Heidegger legge con Lutero la kínesis del Dasein come un movimento sempre in fieri, un movimento che non è teleíos, perfetto, al modo di quello della produzione che si compie nel prodotto, com’è, per esempio, nel caso del costruire, che si compie nella casa o dello scolpire, che si compie nella statua. La Bewegtheit, nominando il passaggio in quanto tale “da – a” [von – zu], significa la metánoia, la metabolé, la conversione, intesa non in un’accezione religiosa, ma come quella sterzata, quell’inversione assoluta [Wendung], che si compie allorché si decide per il proprio poter-essere nel suo senso vollzugsgeschichtlich. In effetti, come la theologia crucis luterana, in quanto teologia del Dio incarnato che cerca di conoscerlo, anzi di ri-conoscerlo per passiones et crucem, è eminentemente pratica, è, per dirla in termini aristotelici, una diánoia praktiké, la filosofia della vita fattizia heideggeriana è la filosofia della vita nel suo Vollzugssinn, della vita il cui modo d’essere è la práxis originaria, tant’è che il suo essere in cammino è un partecipare all’essere in cammino dell’uomo. Heidegger intende arrivare ad una scienza pre-teoretica [vor-theoretische], a una genuina scienza originaria [Ur-wissenschaft], che non ha nulla a che vedere con una visione del mondo [Weltanschauung], come quelle elaborate dalle altre filosofie della vita, che non colgono il fenomeno dell’esistenza, la fatticità storica. Come il lógos del-

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la croce, la follia dei cristiani (1 Cor, 1, 19-21), e la phrónesis aristotelica, l’Ur-wissenschaft non è la saggezza del mondo, non è un sapere universale e necessario, ma indica in direzione della dimensione decisionale della vita fattizia, la quale è posta sempre davanti ad un kierkegaardiano aut-aut, che non le lascia tregua e che implica una radicale trasformazione, che avviene nell’attimo [kairós, Augenblick]. Il tempo kairologico, il tempo breve (1 Cor, 7, 29) come un battito di ciglia, il resto del tempo (Rm, 11, 5) che precede la venuta del Messia, il tempo opportuno come occasione dell’Etica Nicomachea, è il fra-tempo che sospende la continuità cronometrica e comporta l’attuazione di una modalità di esistenza rinnovata, in cui si rivela l’Essere del sé e dell’altro, a partire da una scelta deliberata. Infatti, come davanti allo «scandalo della croce» (Gal 5, 11) ci sono soltanto due alternative che si escludono a vicenda, fede o incredulitas, allo stesso modo, davanti all’Esserci ci sono solo autenticità e inautenticità dell’esistenza. La fede, indicata formalmente, non riguarda, perciò, l’esistenza di Dio, di un essere eterno e immutabile, bensì quella dell’uomo. Per questo Heidegger precisa che una cosa è la fede cattolica, in quanto “tener per vero”, nel senso di ritenere certa l’esistenza di Dio, altra cosa la fiducia dei protestanti, che non è né una conoscenza teoretica di Dio né un’esclusiva relazione con Dio, piuttosto è il modo di far “propria” la rivelazione, attuando una determinata condotta. Ed ecco allora aprirsi il baratro che separa la legge (Mosè) e la fede (Abramo) – modalità diverse per accedere alla salvezza, al proprio – che esprime la lacerazione dell’individuo: la legge, che ha carattere giuridico-normativo-economico, comporta una mera trasformazione esteriore, qual è per esempio la circoncisione del prepuzio; la fede, invece, che ha il carattere della gratuità del dono, in quanto accoglie la predicazione, comporta una trasformazione assoluta dell’esistenza, una circoncisione del cuore. È per questo motivo che la fede si può comprendere specularmente al peccato, in quanto si tratta di due modi assolutamente alternativi di vivere la propria esistenza. Totus homo è simul iustus et peccator, afferma Lutero, l’uomo è cioè, allo stesso tempo, spirito [pneúma] e carne [sárx] per esprimerci con Paolo, alethés e pseúdos, per utilizzare gli aggettivi con cui Aristotele qualificava le possibilità del lógos enunciativo, l’esserci è insieme eigentlich e uneigentlich, come dirà Heidegger. I termini tenuti insieme dalla particella “simul” non sono parti o facoltà dell’uomo contrapposte ed esclu-

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dentesi vicendevolmente, come ritiene Agostino, bensì disposizioni, tendenze della vita fattizia, tipologie di comportamento. Così come nella dinamica luterana dell’opus proprium e alienum Dio mette l’uomo alla prova, lo tenta, attraverso la sofferenza, ma questo suo modus agendi apparentemente malevolo, è il tramite della grazia, che è la sua opera propria, l’Esserci è teso tra due modi di essere – entrambi compresi come possibilità del suo essere – l’uno proprio e l’altro improprio. Il modo fondamentale dell’essere-nel mondo è lo spaesamento [Unheimlichkeit], che tiene insieme (simul) il tratto heimlich (familiare) e unheimlich (estraneo) e rivela l’essenza dell’esistenza come non identica a se stessa, ma sempre differente. L’Esserci, alla fine del suo cammino, in cui passo dopo passo cerca di appropriarsi di sé, è costretto a riconoscere la sua pre-originaria dis-appropriazione, l’alienum nel proprium, l’héteros nell’autós. Ma c’è di più: l’opus alienum, la tentatio probationis, costringe l’uomo a mettere costantemente in questione se stesso (quaestio mihi factus sum). Infatti, allorché si spalanca l’orizzonte infinito della rivelazione, si insinua una spina nella carne (2 Cor, 12, 7), che fa sì che la ricerca di Dio diventi profondamente scomoda e tormentata, in quanto, per vivere la fede, bisogna esperire fino in fondo il senso di piccolezza e precarietà, in una parola la debolezza, che costituisce il proprium della fatticità. Perciò, come la materia tende e aspira alla forma, ma d’altra parte mantiene una fragilità incline alla corruzione, l’uomo è in divenire, ma conserva il peccato radicale, la sua costitutiva “curvità”, come la definisce Lutero, quell’inclinazione al male che determina una relazione di distanza, distinzione e chiusura con Dio e con sé stesso. La kínesis imperfetta della vita fattizia serba la sua tendenza deiettiva, in modo tale che, nel riferimento al mondo, l’Esserci possa scegliere se tenerlo o meno a distanza [Abstand]. Se mantenendo la giusta misura – secondo una ri-formulazione in chiave ontologica del principio etico del mesótes – dalle significatività mondane, la vita si mantiene aperta per la propria autenticità, nella sua inclinazione [Neigung] a lasciarsi trascinare da esse – in multa defluximus dice Agostino – avviene la chiusura [Abriegelung] della vita nei confronti di sé. È in questo crocevia che si incontra l’ambivalenza fondamentale racchiusa nel concetto di cura [Sorge]. La Sorge, l’epiméleia greca, che in Aristotele ha due ambiti di riferimento, quello domestico e quello politico, l’órexis, in quanto “tendenza” o “tensione”, è il modo d’attuazione della vita, che, come si apprende dall’antropolo-

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Introduzione

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gia paolino-agostiniana, può essere genuino o meno, in quanto preoccupazione [Bekümmerung] per le «cose del Signore» [frui] o per le «cose del mondo» [uti] (1 Cor, 7, 32-34), sudor ecclesiasticus e sudor oeconomicus in termini luterani, preoccupazione da parte dell’Esserci per il proprio poter-essere ovvero darsi da fare per le significatività, che lo manda in rovina [Ruinanz]. L’esserci è chiamato a ritrarsi dalla dispersione nelle significatività mondane e ad appropriarsi del suo proprio poter-essere vero. La chiamata [klésis, vocatio, Ruf] è una convocazione [Be-rufung], che designa e assegna un compito, e in questo senso la intende Lutero, in riferimento all’investitura della missione apostolica di Paolo (Rm, 1, 1); la chiamata è un’in-vocazione, un ri-chiamo [An-ruf], e come tale il parallelo più immediato è con la coscienza [Bewußtsein], in quanto, come la phrónesis aristotelica, è una disposizione, che ri-chiama l’Esserci a sé stesso. La risposta alla chiamata, che implica l’ascolto, in quanto è l’autentica relazione con se stessi, si concretizza non nel mettere tra parentesi i contenuti significativi al modo di un’epoché, nell’abbandonare o negare il mondo al modo di un’ascesi o di una presa di posizione gnostica, perché si tratta, piuttosto, di attuare una Wendung nel vivere storico-mondano. Infatti, dal momento che il mutamento imperfetto della kínesis presuppone che qualcosa muti – gli accidenti – e qualcosa permanga – il sostrato –, secondo la medesima dinamica dell’hos mé paolino, che chiama ciascuno a restare nella propria condizione, seppure nell’assoluta revocazione di ogni condizione mondana compiuta dall’evento messianico, l’esserci ha da attuare una trasformazione radicale del senso di attuazione della propria vita, del modo stesso in cui vive in questo fra-tempo nel mondo. Persino le tonalità emotive vanno rimodulate, tant’è che Heidegger, in base alla nota distinzione agostiniana tra timor castus, l’opera “aliena” che Dio compie in noi, e timor servilis, il terrore del castigo – quello di Adamo ed Eva per intenderci –, arricchita da Lutero da una terza forma, il timore mondano che teme di perdere i beni di questo mondo, esorta a non confondere la paura, phóbos, descritta nella Retorica, che è l’essere mondanamente preoccupati, con il “timore e tremore”, l’angoscia del come tenersi pronti, poiché, se la paura è una vera e propria trappola o prigione per il sé, al contrario, l’angoscia rappresenta lo stato d’animo attraverso cui l’esserci è posto dinnanzi a sé. Solo nell’angoscia, solo nel casto timore, è data la speranza, che Heidegger intende come il vero atteggiamento di r-esistenza dell’Esserci, operando una netta distinzione

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

tra la speranza degli uomini, nel significato comune, e la speranza dei cristiani o l’elpís greca. Nel suo senso originario, infatti, la speranza è in-audita, perché si dà come promessa al culmine della disperazione, è in-visibile (Rm, 8, 24-25), perché se fosse evidente si ridurrebbe a mera pre-visione, che trasforma, mediante il calcolo e l’anticipazione, il possibile in reale, è in-attesa, perché non è il semplice aspettare un possibile accadimento futuro, ma è l’aprirsi all’impossibile, all’avvenire di un evento improvviso e imprevedibile, che scardina il continuum temporale. Avviandoci alla conclusione, sarà oramai palese che la mèta di questo lungo percorso è quella di un’esistenza ‘autentica’, il “vivere bene”, l’eu zén aristotelico, che, indicato formalmente, costituisce l’Eigentlichkeit, l’esser-appropriato del Dasein, il quale, come insegna Aristotele, trova la sua piena attuazione solo nella vita in comune, insieme agli altri. Per questo, per sommi capi, è possibile asserire che se la riflessione antropologica luterana confluisce in una riforma “spirituale” della comunità ecclesiastica, la riflessione heideggeriana sulla fatticità confluisce in una rivoluzione “etica” – intendendo per etica la condotta fondamentale nel mondo – della pólis, con tutti i rischi che questo comporta, che avremo modo in seguito di considerare. Qui basti dire che, così come Aristotele aveva già prospettato, l’uomo, in quanto è un essere parlante, è co-originariamente un essere politico, capace di creare una koinonía, che va ben oltre il semplice comportamento gregario degli animali; come ribadisce Heidegger in Essere e tempo, benché questo sia poi rimasto un sentiero interrotto, l’esserci, in quanto essere-nel-mondo, è co-originarimanete con-esserci: infatti, come sottolinea anche Lutero riprendendo un noto passo della Politica, l’uomo solitario o è una bestia o è un dio, o è un diavolo o è un angelo. Contro l’accusa di solipsismo che investirà in particolare la filosofia heideggeriana di Essere e tempo, è possibile sostenere che le meditazioni sullo zóon lógon échon e su quella che Lutero definisce la sua differentia essentialis, che lo distingue dall’animale, ossia la potestas del lógos, conducono necessariamente a riflettere sullo zu Anderen zu sprechen, l’indirizzarsi ad altri del parlare, e sull’Aufeinanderhören, l’ascoltarsi-l’un-l’altro, i quali si attuano sulla base del costitutivo esserecon [Mit-sein] e sull’essere-l’uno-con-l’altro [Miteinandersein] del Dasein. L’essenza della cura genuina nei confronti del Mit-dasein può essere racchiusa nella formula agostiniana dell’amore in quanto benevolentia, «volo, ut sit», volere che l’altro sia, che sia propria-

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Introduzione

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mente se stesso e che sia altro, volere il “bene” dell’altro – secondo le indicazioni date da Aristotele e riprese da Lutero –, che è l’eudaimonía, intesa da Heidegger, in senso strettamente ontologico, come l’autenticità dell’essere dell’uomo. È nel bíos politikós, considerato come il Wie della zoé, che, secondo Heidegger – ancora una volta in ascolto di Aristotele e di Lutero – il Dasein può accedere alla propria essenza e condurre ‘propriamente’ la sua esistenza. In tal modo, sottraendo il bíos ad una caratterizzazione meramente naturalistica e cogliendo, attraverso la lente dell’esperienza protocristiana della conversione e della parusía così come della motilità dell’essere e del kairós aristotelici, la mobilità e l’apertura originarie della vita fattizia, Heidegger infrange la staticità e la chiusura dei concetti tradizionali di persona, soggetto, io, ed apre la strada alle attuali riflessioni sul biopotere, sulla biopolitica e sull’essere incomune, sorte su una riduzione biologistica e monadistica dell’uomo. Il pensiero del con-essere è sicuramente uno dei lasciti più importanti, visto che il suo mancato sviluppo da parte di Heidegger ha provocato importanti riprese e sviluppi nel pensiero del Novecento, suscitando un decisivo dibattito intorno al tema della comunità – che sia acefala (Bataille), inoperosa (Nancy), inconfessabile (Blanchot), a venire (Agamben) o del munus (Esposito) – e della fine di ogni comunitarismo come di ogni ipsismo, in nome di singolarità con-divise, plurali (Derrida, Nancy). Peraltro, se l’esperienza autentica dell’esserci è l’esperienza della sua morte, in quanto è simul il modo in cui accedere al proprio e la totale espropriazione ed estraneazione di sé, allora l’esperienza autentica del con-esserci è l’esperienza della morte altrui, in quanto paradigma dell’ineliminabile solitudine dello stesso e dell’incommensurabile alterità dell’altro. È da qui che prende avvio, al di là delle riflessioni di Heidegger, quel nuovo pensiero del Politico, che pensa una comunione di mortali che non accomuna, una condivisione che tiene insieme separando, una con-vivenza che custodisce la differenza. Dovrebbe esser chiaro a questo punto che interrogare la genesi cristiano-luterana di alcuni concetti fondamentali del pensiero di Heidegger non è per noi un mero esercizio storiografico, filologico o esegetico-speculativo, che si compiace di far sfoggio di ardui tecnicismi. Mettere in luce questo importante “debito” nei confronti di tale tradizione significa, anche, illuminare la portata “etica” ed escatologica che sotterraneamente ispira ed alimenta un’opera come Essere e tempo.

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I DECOSTRUZIONI

1. Verso l’ontologia della vita Le tappe del Denk-weg orientato verso l’ontologia della vita nella sua motilità [Be-weg-theit]1 è Heidegger stesso a indicarle in una lettera che indirizza a Rudolf Bultmann il 31 dicembre 1927: il mio lavoro mira ad una radicalizzazione dell’ontologia antica e allo stesso tempo ad una sua universale decostruzione [Ausbau] in relazione alla regione della storia. La base di questa problematica costituisce l’uscita dal “soggetto” verso la corretta comprensione del senso del “Dasein umano” […]. Agostino, Lutero, Kierkegaard sono filosoficamente essenziali per la formazione di una più radicale comprensione del Dasein, Dilthey per l’interpretazione del “mondo storico”. Aristotele – la Scolastica per una rigorosa formulazione di certi problemi ontologici2.

Heidegger ammette il suo debito di pensiero nei confronti del protocristianesimo, del protestantesimo e dell’aristotelismo, ricono1

2

La Weghaftigkeit del pensiero riflette la viatoricità dell’esserci: «il pensiero stesso è un cammino. Corrispondiamo a questo cammino soltanto restando in cammino. […] Per arrivare ad essere in cammino dobbiamo cominciare a muoverci. Questo in due sensi: da una parte nel senso che dobbiamo aprirci noi stessi all’apertura e alla direzione che il cammino stesso apre, dall’altra nel senso che dobbiamo recarci sul cammino, compiere cioè quei passi che fanno del cammino un cammino. Il cammino del pensiero non va da un luogo ad un altro luogo, come le strade che percorriamo abitualmente, né è qualcosa che si possa trovare in qualche luogo alla maniera di ciò che è semplicemente presente [vorhanden]. Soltanto la marcia e null’altro prima di essa […] è il movimento [Be-wegung]. Esso è ciò che consente al pensiero di aver inizio» (HGA 8, pp. 173-174; tr. it., pp. 268-269). Sul Weg in quanto Grund-Wort del pensiero heideggeriano, si veda C. Resta, Il luogo e le vie. Geografie del Pensiero in Martin Heidegger, Angeli, Milano 1996, pp. 15-46. BrH-Bu, p. 48.

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

sce a Dilthey di aver visto il significato del “singolare”3 nella realtà storica e soprattutto riferisce di un Ausbau della filosofia, che significa “smontaggio”, decostruzione, ma anche “ampliamento”, “costruzione a partire da”. Esercitandosi gradualmente e criticamente con Husserl nel vedere fenomenologico orientato “alle cose stesse”4, Heidegger apprende che la filosofia è «un modo dell’indagine, ossia: interrogare qualcosa così come esso si mostra»5, è un metodo di dischiusura, meta-odós6, puro moto del possibile, coglimento di 3

4

5

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HGA 56/57, pp. 164-165 (tr. it., pp. 150-151). Della ricca bibliografia sulla presenza di Dilthey nella filosofia heideggeriana degli anni Venti segnaliamo: O. Pöggeler, Dilthey und die Phanomenologie der Zeit, „Dilthey Jahrbuch“, 3, 1985, pp. 105-139 e Id., Heideggers Begegnung mit Dilthey, „Dilthey Jahrbuch“, 4, 1986-1987, pp. 121-160; H. Vetter, Dilthey statt Nietzsche – eine Alternative für Heidegger? Ein Beitrag zum Thema „Lebensphilosophie und Phänomenologie“, in AA. VV., Nach Heidegger: Einblicke – Ausblicke, hrsg. von H. Vetter, Peter Lang, Frankfurt a.M. 2003, pp. 185-205; F. Dastur, Phenomenologie et histoire (Dilthey, Husserl, Heidegger), in La phenomenologie en questions, Vrin, Paris 2004, pp. 175-189; R.A. Makkreel, Dilthey, Heidegger und der Vollzugssinn der Geschichte, in AA. VV., Heidegger und die Anfänge seines Denkens, hrsg. von A. Denker und H. Zaborowski, Alber, FreiburgMünchen 2004, pp. 307-321; M. Jacobsson, Heidegger e Dilthey. Vita, morte e storia, Mimesis, Milano-Udine 2010. Cfr. HGA 63, p. 5 (tr. it., pp. 13-14). Per una ricostruzione introduttiva del rapporto tra Husserl e Heidegger, si rimanda quantomeno a R. Cristin, Husserl - Heidegger: la fenomenologia in discussione, in E. Husserl - M. Heidegger, Fenomenologia, Unicopli, Milano 1999, pp. 11-129 e a F. Volpi, La trasformazione della fenomenologia da Husserl a Heidegger, “Teoria”, 4, 1984. HGA 63, p. 71 (tr. it., pp. 78-79). Per il chiarimento del nome fenomenologia, si rimanda a HGA 58, pp. 11-17 e HGA 20, pp. 110-122 (tr. it., pp. 101-112). È, però, nel noto § 7 di Essere e tempo che Heidegger ricostruisce in maniera più particolareggiata l’etimologia del termine, attraverso l’esatta determinazione di ciò che si intende originariamente con phainómenon e lógos, ovvero “ciò che si manifesta in se stesso” e “render manifesto”, e attraverso la fissazione del senso che risulta dalla loro unione, apophaínestai tá phainómena, “lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso” (HGA 2, pp. 36- 52; tr. it., pp. 41-55). Sulla fenomenologia come metodo di dis-chiusura, cfr. G. Kovacs, Philosophy as primordial science (Urwissenschaft) in the early Heidegger, “Journal of the British Society for phenomenology”, 21, 1990. Per Heidegger «il senso del “metodo” è da fissare in un significato formale (ad esempio di “via”)» (M. Heidegger, Ammerkungen zu Karl Jaspers «Psychologie der Weltanschauungen», in HGA 9, p. 9; tr. it., Note sulla «psicologia delle visioni del mondo» di Karl Jaspers, p. 439).

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Decostruzioni

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possibilità rimaste inespresse e inoperanti7. Pertanto, per rifondare la filosofia come scienza rigorosa, Heidegger, consapevole anche grazie al maestro che «essa possiede un rigore rispetto al quale ogni rigore della scienza è meramente derivato»8, considera necessaria «un’inversione di percorso [Um-wendung] lungo la via, non però una semplice inversione che si limiti a indirizzare la conoscenza verso altri oggetti, bensì, in senso più radicale, una vera e propria conversione [Um-wandlung]»9. Si tratta, come indica la preposizione locativa um, di un cambiamento di marcia [Rückwendung], ben 7

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Cfr. HGA 63, p. 74 (tr. it., p. 81). Heidegger ribadisce spesso che «la grandezza della scoperta della fenomenologia non consiste nei risultati conseguiti in senso fattuale, apprezzabili o criticabili […], ma consiste piuttosto nel fatto che essa è la scoperta della possibilità del ricercare nella filosofia» (HGA 20, p. 184; tr. it., p. 166). Nell’opera del ’27 si legge che l’essenziale per la fenomenologia «non sta nell’esser reale come “corrente” filosofica. Più in alto della realtà si trova la possibilità» (HGA 2, pp. 5152; tr. it., pp. 54-55). Nello scritto in omaggio all’editore Niemeyer, Heidegger scrive: «la fenomenologia in ciò che le è proprio non è affatto un indirizzo filosofico. Essa è la possibilità del pensiero […] di corrispondere all’appello di ciò che si dà a pensare» (M. Heidegger, Mein Weg in die Phänomenologie, in HGA 14, p. 101; tr. it., Il mio cammino di pensiero e la fenomenologia, p. 201). Husserl sembra condividere questa posizione, allorché afferma che: «la vecchia dottrina ontologica, che la conoscenza delle “possibilità” debba precedere quella delle realtà, qualora sia giustamente intesa e legittimamente usata, è una grande verità» (E. Husserl, Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, in Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Nijhoff, Den Haag 1950; tr. it. di G. Alliney e E. Filippini, Introduzione generale alla fenomenologia pura, in Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1976, I, p. 178). Come nota Cristin, «il metodo si dinamizza qui nel sentiero, immagine a cui Heidegger è molto legato, inteso come flusso della possibilità […]. Questa fluidificazione della possibilità, da cui non è affatto estranea l’epoché – la quale nella sua essenza rimane sempre una possibilità e mai una realtà definitiva, un Immer e insieme un Wieder –, permea l’idea husserliana di metodo, tanto distante dall’irrigidimento metodologico delle scienze positive tra fine Ottocento e inizio Novecento, quanto lo è l’interrogare heideggeriano» (R. Cristin, Sul metodo fenomenologico, in F. W. von Hermann, Il concetto di fenomenologia in Heidegger e Husserl, tr. it. di R. Cristin, il melangolo, Genova 1997, p. 18). HGA 60, p. 10 (tr. it., p. 42). Cfr. E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, in Aufsätze und Vorträge (1911-1921), Nijhoff, Den Haag 1987; tr. it. di C. Sinigaglia, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 3-12. HGA 60, p. 10 (tr. it., p. 43).

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diverso dal cambiamento di prospettiva [Blickwendung] husserliano, perché è un «ritorno allo storico originario [Rückgang ins Ursprünglich-historische]»10, inteso non nel senso usuale di trascorrere nel tempo, critica delle fonti, tradizione, accadimento, insegnamento, ma come dimensione della vita fattizia [faktisch Leben]11. 10

11

HGA 60, p. 90 (tr. it., pp. 129-130). Nel corso del semestre estivo 1920, Heidegger individua sei significati di storia: scienza storica, totalità obiettiva di ciò che è accaduto, tradizione, magistra vitae, avvenimento significativo e proprio passato, quest’ultimo è il significato più originario, in quanto stabilisce una connessione tra storia e mondo del sé (HGA 59, pp. 49-59 e HGA 58, p. 160). In questa fase il termine “storico” è reso tanto con historischen che con geschichtlich, ma già nel 1925 Heidegger distingue la storia [Geschichte], «un accadimento, che noi stessi siamo, in cui siamo coinvolti», dalla storiografia [Historie], «la conoscenza di un evento» (WDF, p. 174; tr. it., p. 52). Geschichte è «la “catena degli strati” [das Geschicht] come la catena montuosa per i monti» (M. Heidegger, „Andenken“, in HGA 4, p. 106; tr. it., “Rammemorazione”, pp. 128-129), è l’accadere in relazione al Geschick, al destino dell’essere (M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in HGA 9, p. 331; tr. it., La lettera sull’«umanismo», p. 284 e Id., Der Spruch des Anaximander, in HGA 5, pp. 326327; tr. it., Il detto di Anassimandro, pp. 304-305). Su questo tema si veda almeno: R. Viti Cavaliere, Heidegger e la storia della filosofia, Giannini, Napoli 1979 e G. Gregorio, Forme ‘destinali’ dell’essere nella concezione heideggeriana della storia, “Atti della Reale Accademia Peloritana dei Pericolanti”, LXIII, 1987. Si rendono necessarie due precisazioni terminologiche. Va detto che al termine Leben, più adatto a designare l’oggetto di una scienza regionale, quale la biologia, Heidegger preferirà Dasein, che indica in senso specifico l’essere dell’uomo e non il modo di essere del mondo in generale. Rispetto a Faktizität e faktisch, va detto, invece, che la loro traduzione è un impegno di non poco conto, che ha occupato i curatori e gli studiosi delle opere heideggeriane. Limitandoci al panorama italiano, ne diamo un breve resoconto. Nella classica traduzione di Essere e tempo, Chiodi sceglie “effettività” ed “effettivo”, mentre nella nuova edizione Volpi preferisce “fatticità” e “di fatto, fattuale”, distinguendo, in base all’indicazione fornita da Heidegger (HGA 2, p. 180; tr. it., p. 168), Faktum, il fatto, da Tatsache, il dato di fatto, il factum brutum, la semplice-presenza, e rievocando il significato neokantiano di Faktizität come “ciò che è temporale”. Auletta, curando il corso Ontologia ermeneutica dell’effettività, opta per la traduzione adottata da Chiodi e lo stesso fa Gurisatti per le lezioni di Fenomenologia della vita religiosa, avvalendosi delle precisazioni heideggeriane (HGA 60, p. 9; tr. it., p. 41). De Carolis, nel volume Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, distinguendo Faktizität e faktisch tanto dalla semplice fattualità degli oggetti e dei dati di fatto [Tatsälichkeit], quanto dalla realtà effettuale [Wirklichkeit], li rende con “fatticità” e “fattizio”, termine quest’ultimo

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Heidegger, al contrario di Husserl, non intende operare un’epoché, “mettere tra parentesi” il mondo circostante – fatto di altri esseri vipreso nell’accezione di auto-mascheramento e non-immediatezza (M. De Carolis, Nota del traduttore, in HGA 61; tr. it., pp. 234-235). Marini, in Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, accomuna nel glossario Faktum/ -isch/ -izität/ Tatsälich e traduce con “fatticità” e “fattuale”; Fabris, seguendo dichiaratamente Marini, ne I problemi fondamentali della fenomenologia, traduce il sostantivo con “fatticità” e l’aggettivo con “fattuale” e raramente con “di fatto”, riservando “effettività” a Wirklichkeit. Del tutto singolare, infine, la scelta di Caputo, che rende faktische Leben con la “vita come di fatto è”, o “in quanto tale” (A. Caputo, Pensiero ed affettività: Heidegger e le Stimmungen (1889-1923), Angeli, Milano 2007, p. 179, nota 4) e, inoltre, suggerisce che il termine Fakta usato da Husserl per definire l’“io sono” e il “mondo è” «può essere stato spunto per Heidegger e la sua Faktizität» (ivi, p. 196, nota 5). Dovendo compiere questo primo passo sul cammino dell’ontologia della vita, che è quello della traduzione, ci fanno da guida, oltre alle interpretazioni sopra esposte, i preziosi suggerimenti di Benjamin, che valgono da premessa teorica: il tradurre [über-setzen], in quanto tra-dire, ossia portare attraverso il ‘tra’ l’appello di una parola che chiede di sopravvivere, non deve mirare alla somiglianza con l’originale, ad una riproduzione senza resti che elimina le differenze, ma all’affinità, che, mantenendo l’estraneità, libera la pura lingua e fa emergere l’eccesso di senso intraducibile (W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, in Gesammelte Schriften, Bd. IV/1, hrsg. von R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1972; tr. it. di R. Solmi, Il compito del traduttore, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 2007, pp. 39-52. Cfr. anche M. Blanchot, Traduire, in L’amitié, Gallimard, Paris 1971; tr. it. di R. Cuomo e M. Ghidoni, Tradurre, in L’amicizia, Marietti, Genova-Milano 2010, pp. 82-86). A questo punto, come sovente faceva Heidegger alla ricerca del proto-significato delle parole, partiamo dall’etimologia: “effettività” ed “effettivo” derivano dal latino efficax, efficiens, e dal greco energhés, che significano, “attivo, che ha effetto”, “che produce, che causa”; invece, “fatticità” e “fattivo, fattuale, fattizio” derivano dal latino facticius e dal greco cheiropoíetos, “fatto con la mano dell’uomo”, “non naturale”. Decidiamo, dunque, di tradurre Faktizität con “fatticità” e faktisch con “fattizio”, per i seguenti motivi: innanzitutto, fattizio nella lingua comune è un termine poco usato e pertanto più facilmente rigiocabile rispetto a “fattivo”, usato solitamente per persona che si dà da fare, e “fattuale”, che concerne la realtà di fatto; a differenza del produrre, che indica il movimento che ha un fine fuori di sé ed è giunto alla fine, “fattizio” ha a che vedere con facio, “praticare” e quindi con la práxis che, nel senso originario di movimento autotelico nel farsi, rimanda alla motilità dell’esserci umano; fattizio, inoltre, avendo la stessa radice di “factum”, inteso – accogliendo le indicazioni di quell’eminente traduttore che è Lutero: «sumus in fieri sancti, et non in facto esse» (M. Lutero, Psalmus 45, in WA 40/II, p. 532; si veda anche Id., Die philo-

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venti, cose, valori “qui per me”, “alla mano” – e le afferenti teorie, per rinvenire come residuo la coscienza12, perché la Umwendung «non è un salto in un atteggiamento del tutto estraneo alla vita»13. Husserl e Heidegger condividono, perciò, la premessa di metodo e rigore, ma approdano a esiti diversi: il primo ad una “fenomenologia della coscienza [Bewußtsein]”, dell’io puro, ad una scienza eidetica dei vissuti [Erlebnisse]14 coscienziali – noetica (degli atti soggettivi) e noematica (degli oggetti come atti intenzionati) –; il secondo ad una “fenomenologia dell’esserci [Dasein]” storico, una «filosofia della vita vivente [Philosophie des lebendigen Lebens]»15,

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sophischen Thesen der Heidelberger Disputation mit ihren Probationes, in WA 59, p. 418; tr. it., Tesi di contenuto filosofico, p. 47) – non come participio passato di facere, ma come participio di fieri, “divenire”, rinvia all’essere in cammino, che è il modo fondamentale dell’esserci; il significato di “fatto con la mano dell’uomo” segna, inoltre, un distanziamento dalla creaturalità divina; infine, in quanto “non naturale”, fattizio è più idoneo a distinguere l’esserci umano, storicamente determinato, dal semplice vivente, inteso in senso zoologico o vitalistico. Per un approfondimento della distinzione di faktisch da naturwirklich (reale secondo natura), kausalbestimmt (causalmente determinato), dingwirklich (reale-concreto), tatsächlich (un dato di fatto) e hergestellt (essere prodotto), nonché della sua derivazione dal facticia est anima di Agostino, si rinvia a G. Agamben, La passion de la facticité, in AA. VV., Heidegger. Questions ouvertes, Osiris, Paris 1988, pp. 63-84 e C. Esposito, Die Gnade und das Nichts. Zu Heideggers Gottesfrage, in AA.VV., Herkunft aber bleibt stets Zukunft. Martin Heidegger und die Gottesfrage, hrsg. von P.L. Coriando, Klostermann, Frankfurt a. M. 1998, p. 204. E. Husserl, Introduzione generale alla fenomenologia pura, cit., I, pp. 6669. Sul rifiuto heideggeriano di utilizzare termini legati alla tradizione filosofica moderna quali “coscienza” o “soggetto”, cfr. L. Landgrebe, Der Weg der Phänomenologie, Gütersloh, Mohn 1963; tr. it. G. Piacenti, Itinerari della fenomenologia, Marietti, Torino 1974, pp. 43 sgg. HGA 58, p. 228. E. Husserl, Introduzione generale alla fenomenologia pura, cit., I, § 34. Ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale Husserl sostituisce il termine “esperienza vissuta” [Erlebnis] con “mondo della vita” [Lebenswelt], un orizzonte onnicomprensivo in cui lo spazio non è geometrico e il tempo è drammaticamente irreversibile. Non è da escludere che ciò sia stato dovuto all’esigenza, manifestata soprattutto da Heidegger, di recuperare la dimensione mondana. BrH-E, p. 36 (tr. it., p. 33). Come giustamente suggerisce von Hermann, «la differenza tra la posizione di Husserl e quella di Heidegger sembra risiedere nella distinzione tra le sfere oggettuali della “coscienza” e dell’“esserci”, mentre il loro aspetto comune sembra trovarsi nel metodo fenomenologico – a patto di essere disposti a vedere la presenza, tra coscienza ed

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dell’esperienza vissuta [Erlebnis], che non mi sta davanti come un oggetto, perché «io stesso me ne approprio [er-eigne]» in quanto è l’evento [Er-eignis] che, «secondo la sua essenza, si fa appropriare [er-eignet]»16. Per Heidegger «il problema dell’autocomprensione della filosofia è stato sempre preso troppo alla leggera. Se lo si concepisce in termini radicali, ci si accorge che la filosofia scaturisce [entspring] dall’esperienza effettiva della vita [faktische Lebenserfahrung], per poi farvi ritorno rimbalzando [zurückspringen] al suo interno»17. Di-

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esserci, di una differenza essenziale, addirittura enorme, e non solo accidentale» (F.-W. von Hermann, Der Begriff der Phänomenologie in Heidegger und Husserl, Klostermann, Frankfurt a.M. 1981; tr. it., Il concetto di fenomenologia in Heidegger e Husserl, cit., p. 28). HGA 56/57, p. 75 (tr. it., pp. 72-73). Nel corso del KNS Heidegger gioca per la prima volta sul doppio senso di er-eignen, che correntemente significa «accadimento», «avvenimento», ma che, legando lo eignen a eigen (proprio) e derivati, come zueignen (appropriare) ed enteignen (espropriare), assume il significato di «appropriazione» (M. Heidegger, Zeit und Sein, in HGA 14, pp. 24-30; tr. it., Tempo ed essere, pp. 127134). Il termine Ereignis resterà, per stessa ammissione di Heidegger, la «parola chiave» del suo pensiero (M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in HGA 9, p. 316, nota a; tr. it., La lettera sull’«umanismo», p. 270, nota a), un pensiero dell’essere come evento (M. Heidegger, Der Weg zu Sprache, in HGA 12, p. 248, nota 2; tr. it., Il cammino verso il linguaggio, p. 205, nota), come l’ambito «grazie al quale l’uomo e l’essere si porgono e raggiungono l’un l’altro» (HGA 11, p. 46; tr. it., p. 46). Sull’Ereignis che, permettendo il reciproco incontro di essere ed esserci, apre un altro inizio del pensiero, d’obbligo è il rimando agli scritti heideggeriani degli anni Trenta e Quaranta, in particolare ai Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis). Della sterminata bibliografia secondaria su questo tema ci limitiamo a segnalare: F.-W. von Herrmann, Wege ins Ereignis: zu Heideggers „Beiträgen zur Philosophie“, Klostermann, Frankfurt a.M. 1994; J. Greisch, Les “Contributions à la philosophie (A partir de l’Ereignis)” de Martin Heidegger, “Archivio di filosofia”, 1-3, 1994; G. Strummiello, L’altro inizio del pensiero. I “Beiträge zur Philosophie” di Martin Heidegger, Levante, Bari 1995; S. Gorgone, Il tempo che viene. Martin Heidegger: dal kairós all’Ereignis, Guida, Napoli 2005. HGA 60, p. 8 (tr. it., p. 40). In Essere e tempo Heidegger insiste nel dire che «la filosofia è ontologia universale fenomenologica, muovente dall’ermeneutica dell’Esserci, la quale, in quanto analitica dell’esistenza, ha assicurato il termine del filo conduttore di ogni indagine filosofica nel punto dove l’indagine sorge [entspring] e infine si ripercuote [zurücksclägt]» (HGA 2, p. 51; tr. it., p. 54).

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smettendo il termine Erlebnis, «logoro e sbiadito»18, a favore di Erfahrung, nozione che designa unitamente l’esperire [erfahren] e l’esperito [Erfahrenes], Heidegger ristruttura la relazione husserliana tra nóesis e nóema19, perché solo in un atteggiamento originariamente intuitivo – «l’assoluta simpatia della vita [Lebenssympathie]»20 – si può avere una Lebenserfahrung. Quindi, occorre «liberare la fi18

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HGA 56/57, p. 66 (tr. it., p. 65). Per la storia del concetto di Erlebnis, soprattutto nell’accezione diltheyana di unità strutturale tra atteggiamento osservativo e contenuti, si rimanda a H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen 1960; tr. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000, pp. 145-165. Per il confronto tra l’Erlebnis, inteso come il mettere in relazione a sé l’ente che contribuisce all’autocontraffazione dell’abbandono dell’essere, e l’Erfahrung, nella sua scala di gradazione che va dal fare esperienza in quanto imbattersi in qualcosa, fino all’osservare sperimentale, passando per il “rivolgersi a” e il provare, si veda HGA 65, pp. 129-135; 159-166 (tr. it., pp. 146-152;.172-178). Per un approfondimento cfr. R. Cristin, Dall’esperienza del vissuto all’esperienza del pensiero. Sulla trasformazione dei concetti di “Erlebnis” ed “Erfahrung” nei Beiträge zur Philosophie, “aut aut”, 248-249, 1992, pp. 153-172. E. Husserl, Introduzione generale alla fenomenologia pura, cit., I, pp. 198-218. Secondo Sheehan «la nóesis e il nóema non devono essere separati, come se fossero due “cose” distinte, ma legati insieme nella complessa struttura di ciò che, in senso ampio, Heidegger chiama intenzionalità. Nella loro unità sono “la cosa stessa”, il “fenomeno”. “Fenomeno”, quindi, non è solo ciò che viene sperimentato, ma, al contempo, il modo di sperimentare ciò che viene sperimentato, cioè il modo in cui il che mostra sé stesso: il come dell’apparire» (T. Sheehan, Heidegger’s Introduction to the “Phenomenology of. Religion” 1920 – 1921, “The Personalist”, 55, 1980; tr. it. di A. Cazzullo, Heidegger e il suo corso sulla Fenomenologia della religione (1920-21), “Filosofia”, XXXI, 1980, p. 438). HGA 56/57, pp. 109-110 (tr. it., pp. 102-103). Cfr. il “principio dei principi” husserliano: «tutto ciò che si dà originariamente nell’“intuizione” […] è da assumere come si dà» (E. Husserl, Introduzione generale alla fenomenologia pura, cit., I, p. 50). Interessante è la differenza, proposta da Levinas, tra l’intenzionalità husserliana e l’essere-nel-mondo heideggeriano: «l’In-der-Welt-sein di Heidegger indica, innanzitutto, che l’uomo è già da sempre oltrepassato dalla propria esistenza. L’intenzionalità, al contrario, caratterizza una monade. L’uomo conserva il potere di riservarsi rispetto al mondo e proprio perciò è libero di compiere la riduzione fenomenologica. Più che un In-der-Welt-Sein, l’intenzionalità, in un certo senso, è piuttosto un Ausser-der-Welt-sein da parte della coscienza» (E. Lévinas, L’oeuvre d’Edmund Husserl, in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1949; tr. it. di F. Sossi, L’opera di Edmund Husserl, in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina, Milano 1998, p. 54).

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losofia dalla “secolarizzazione” in scienza e anche in teoria scientifica delle visioni del mondo»21, per giungere ad «una scienza pre-teoretica [vor-theoretische] o sovra-teoretica [über-theoretische], in ogni caso non teoretica [nicht-theoretische], una genuina scienza originaria, dalla quale anche il teoretico stesso ha la sua scaturigine»22. La teoreticizzazione, infatti, deducendo da un principio gli elementi della realtà, innesca il cosiddetto «processo della de-vitalizzazione [Ent-Lebung]»23, da cui discende come massimo pericolo «la “destoricizzazione [Ent-geschichtlichung]»24, l’interruzione del riferimento dell’esserci alla sua “situazione”. Mentre nella spiegazione teoretica la vita si conosce, nell’intuizione originaria, nella corrispondenza pre-teoretica, si ha, si attua: Noi proviamo a comprendere come la vita faccia esperienza di se stessa, come l’esperienza vitale della vita sia caratterizzata conformemente al compimento, e cioè nella forma in cui la vita non riconosce se stessa all’incirca come oggetto e termina nel suo avere conoscenza, ma – senza preoccuparsi di un’obiettivazione teoretica – si prende, si ha in modo vitale e in questo avere si compie25.

La comprensione non-teoretica della vita fattizia non va assimilata ad una visione del mondo [Weltanschauung], come quelle elaborate da «ogni compiaciuta filosofia della vita che […] fornisce un’originarietà solo apparente»26 e «non si chiede nemmeno come 21 22 23 24 25 26

HGA 60, p. 10 (tr. it., p. 42). HGA 56/57, p. 96 (tr. it., p. 92). HGA 56/57, p. 91 (tr. it., p. 86). HGA 56/57, p. 206 (tr. it., p. 190). HGA 58, p. 156. M. Heidegger, Ammerkungen zu Karl Jaspers «Psychologie der Weltanschauungen », in HGA 9, p. 4 (tr. it., Note sulla «psicologia delle visioni del mondo» di Karl Jaspers, p. 434). Della vasta bibliografia secondaria su Heidegger e Jaspers segnaliamo: AA. VV., Heidegger and Jaspers, a cura di A.M. Olson, Temple University Press, Philadelphia 1994; I.M. Fehér, Phenomenology, Hermeutics, Lebenphilosophie: Heidegger’s Confrontation with Husserl, Dilthey, and Jaspers, in AA. VV., Reading Heidegger from the Start. Essays in His Earliest Trought, State University of New York Press, Albany 1994, pp. 73-89; J.A. Barash, Existence et Historie. La critique heideggérienne de Jaspers dans le Années 1919-’20, in Heidegger et son siècle. Temps de l’Etre, temps de l’histoire, PUF, Paris 1995, pp. 19-34; A. Denker, Die Neubelebung der Philosophie in dürftiger Zeit. Martin Heidegger und Karl Jaspers (1919-1933), in AA. VV., Leben, Tod und Entscheidung. Studien zur

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l’esserci effettivo possa essere esplicato [expliziert] in termini originari»27. La questione della connessione tra Weltanschauung e filosofia non si può neanche risolvere nelle due tradizionali formulazioni secondo cui «in un caso la visione del mondo è definita come il compito immanente della filosofia […]; nell’altro la visione del mondo è il limite della filosofia»28, poiché tra esse vi è assoluta estraneità. Assimilare la filosofia ad una visione del mondo, seppure del senso ultimo, significa conferirle i tratti di una conoscenza totalizzante e definitiva, che risolve nella tranquillità di una definizione «la lotta interiore con gli enigmi della vita e del mondo»29. L’urgenza di fondo per Heidegger è che «stiamo al crocevia metodologico che decide in generale sulla vita e la morte della filosofia, stiamo sull’orlo di un abisso: o si precipita nel nulla, cioè nell’assoluta attualità, oppure riesce il salto in un altro mondo, o, più esattamente: nel mondo»30. Dunque, la filosofia non può continuare a battere la pista della gnoseologia moderna, che a partire da Cartesio si interroga sull’ego sum, centrando «il fulcro della domanda sull’“io” anziché sul “sono”»31, come fosse un s-oggetto isolato e immobile;

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Geistesgeschichte der Weimarer Republik., hrsg. von S. Loos und H. Zaborowski, „Beiträge zur politischen Wissenschaft“, Bd. 127, Duncker & Humblot, Berlin 2003, pp. 33-56. HGA 60, p. 54 (tr. it., pp. 88-89). HGA 56/57, p. 10 (tr. it., p. 18). HGA 56/57, p. 8 (tr. it., p. 16). HGA 56/57, p. 63 (tr. it., p. 63). Per la questione cruciale del “salto nel mondo”, che mostra l’insufficienza delle relazioni tra soggetto e oggetto e tra due s-oggetti, misurando la distanza della fenomenologia heideggeriana da quella husserliana, si veda S. Galanti Grollo, Esistenza e mondo. L’ermeneutica della fatticità in Heidegger, Il Poligrafo, Padova 2002. HGA 61, pp. 172-173 (tr. it., pp. 203-204). Per Heidegger l’ego sum va ripensato problematizzando il sum: «quanto al “cogito”, tutta la filosofia cristiana m’interpella, perché lo consideri all’inverso, perché lo guardi per così dire in verso» (T. Kisiel, The genesis of Heidegger’s Being and Time, University of California, Berkeley 1993, p. 554, nota 10 [lettera di M. Heidegger a K. Löwith del 13.9.1920]). Infatti, «col cogito sum Cartesio pretende di porre la filosofia su basi nuove e più sicure. Ma ciò che questo inizio “radicale” lascia indeterminato è il modo di essere della res cogitans, più precisamente il senso dell’essere del sum» (HGA 2, p. 33; tr. it., p. 38). In definitiva, «Cartesio ebbe fondamentalmente l’intuizione di fare della filosofia una conoscenza assoluta. E proprio in lui possiamo osservare un fatto singolare. Il filosofare inizia con il dubbio, e sembra che tutto venga posto in questione. Ma è solo un’apparenza. L’esistenza, l’io (l’ego) non viene affatto posto in questione.

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piuttosto, in quanto scienza originaria [Urwissenschaft], scienza dell’origine [Usprung-wissenschaft], deve occuparsi dell’Urfaktum, che non è la conoscenza, ma la vita, che «è come vita soltanto in quanto vive in un mondo»32. E dal momento che «vita significa: essere in un mondo e, qui, con essere si intende l’avere-a-che-fare che si prende cura di esso»33, per esplicarne la totalità di senso [Sinnganzheit], va considerato – servendosi dell’indicazione formale [formale Anzeige]34 –, non solo, come fa Husserl, il contenuto [Gehalt], il cosa [Was], e il riferimento [Bezug], ossia come [Wie] il contenuto è esperito, ma anche l’attuazione [Vollzug] nel suo Wie35. Indicato formalmente, il mondo è una struttura ontologica, un «contesto del tutto particolare di significatività [Bedeutsamkeit]»36, esplicantesi in tre articolazioni – «mondo-ambiente [Umwelt]», a cui ineriscono oggettualità materiali e ideali, «mondo degli altri [Mitwelt]», caratterizzati in un determinato modo, e «mondo del sé [Selbstwelt]»37 –, che

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Questa apparenza illusoria e questa ambiguità dell’atteggiamento critico si trascinano attraverso tutta la filosofia moderna, fino ai nostri giorni» (HGA 29/30, p. 30; tr. it., pp. 30-31). HGA 58, pp. 33-34. NB, in HGA 62, p. 355, nota 29 (tr. it., p. 20, nota 27). Cfr. anche HGA 61, p. 86 (tr. it., p. 121). La formale Anzeige è una «direzione d’impostazione [Ansatzrichtung]» (HGA 61, p. 33; tr. it., p. 69), «l’uso metodico di un senso che fa da guida all’esplicazione fenomenologica» (HGA 60, p. 55; tr. it., p. 90) e si distingue dalla formalizzazione [Formalisierung] e dalla generalizzazione [Generalisierung], che sono forme di universalizzazione [Verallgemeinerung] (HGA 60, pp. 57-64; tr. it., pp. 92-100; e HGA 58, pp. 216-217; cfr. anche E. Husserl, Logische Untersuchungen, Niemeyer, Tübingen 1900; tr. it. di G. Piana, Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano 2005, I, pp. 235240). Streeter sottolinea che l’indicazione formale, in quanto indirizzata a cogliere l’incompiutezza dell’esserci, è essa stessa incompiuta (R. Streeter, Heidegger’s formal indication: a question of method in Being and Time, “Man and world”, 4, 1997, p. 416). Per questo tema si veda G. Imdahl, Formale Anzeige bei Heidegger, „Archiv für Begriffsgeschichte“, XXXVII, 1994, pp. 306-332. HGA 60, p. 63 (tr. it., p. 99). HGA 58, p. 105. Cfr. HGA 60, p. 13 (tr. it., p. 45) e HGA 2, pp. 111-119 (tr. it., pp. 107-114). HGA 60, p. 11 (tr. it., p. 43). Cfr. HGA 58, pp. 33-34. Per dare risalto all’inevitabilità del rapporto della vita con il mondo, Heidegger insisterà in seguito più che sulla tripartizione mondo proprio, collettivo e ambiente sulla Welt in generale, fino a caratterizzare l’uomo come Dasein e In-der-Welt-sein.

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

non sono regioni ontiche, ma modi in cui il “mondeggiare” [es weltet] è vissuto. Delineate in breve le premesse storico-filosofiche e metodologiche del pensiero heideggeriano sulla vita, in cammino perché partecipa della Bewegtheit dell’esserci, si tratta ora di risalire ai caratteri fattizi, nella loro provenienza cristiana e greca, che costituiscono, peraltro, l’indispensabile retroterra di Essere e tempo38. 2. Alle radici cristiane Nel 1937/38, gettando uno sguardo all’indietro sul sentiero battuto, Heidegger non solo individua le due direzioni fondamentali del suo pensiero, quella fenomenologica e quella storica che ritorna alla filosofia greca, ma rivela che nella sua ricerca procedette nascostamente anche il confronto con il Cristianesimo – un confronto che non era e non è un “problema” raccattato, ma la custodia della più propria provenienza – della famiglia, della terra natia e della giovinezza – e al tempo stesso dolorosa separazione da tutto ciò. Soltanto chi era così radicato in un mondo cattolico realmente vissuto, può avvertire qualcosa delle necessità che come spinte terrestri sotterranee agirono sul sentiero fino ad allora percorso dal mio interrogare. Il periodo di Marburg aggiunse a ciò anche la più ravvicinata esperienza di un Cristianesimo protestante – tutto però già inteso come quel qualcosa che deve essere radicalmente superato, ma non distrutto39.

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Kisiel nota giustamente che «la genesi di Essere e tempo coincide con l’ambizione radicale della fenomenologia di andare verso la vera essenziale [material] (materna) [mater-nal] genesi di senso dell’esperienza umana» (T. Kisiel, Das Entstehen des Begriffsfeldes Faktizität im Frühwerk Heideggers, „Dilthey Jahrbuch“, 4, 1986/87, p. 35) e che «il Nullpunkt dello sviluppo di Heidegger verso Essere e tempo è il corso del Kriegnotsemester 1919» (ivi, p. 96). M. Heidegger, Ein Rückblick auf den Weg, in HGA 66, p. 415 (tr. it., Uno sguardo all’indietro sul mio sentiero, p. 229). Nel maggio del 1919 Heidegger scrive a Elisabeth Blochmann di avere a che fare con «problemi fondamentali della metodica fenomenologica, affrancamento dalle ultime scorie di punti di vista meccanicamente acquisiti – costante spingersi avanti fino alle origini autentiche, lavori preliminari per la fenomenologia della coscienza religiosa» (BrH-B, p. 16; tr. it., p. 34).

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Una semplice lettura delle ricostruzioni biografiche dedicate a Heidegger è già di per sé sufficiente come sprone a riflettere sul suo intricato e intenso rapporto con il cristianesimo, il cui senso eccede ogni possibile definizione, quale “fenomenologo cattolico”40, “teologo cristiano”41 o “ateo di principio”42. Di umili origini, fin dagli anni del ginnasio e ancora negli anni dell’università, Heidegger usufruisce di sostegni economici da parte di ambienti ecclesiastici per proseguire gli studi e, anche per questo, si sente vincolato da un punto di vista confessionale. Cresciuto in una famiglia cattolica – il padre era sagrestano nella parrocchia di Meßkirch –, il giovane Heidegger decide, nel 1909, di entrare nella Compagnia di Gesù di Feldkirch per il noviziato, ma è costretto ad uscirne quasi subito a causa delle frequenti crisi tachicardiche di origine nervosa, che gli impediscono di proseguire secondo le regole dell’ordine. Heidegger si inscrive comunque alla Facoltà di Teologia di Friburgo, ma, dopo due anni, deve interrompere i suoi studi per il ripetersi dei suoi disturbi cardiaci. Heidegger vede sfumare così non solo il progetto della carriera ecclesiastica, ma anche la possibilità di usufruire dell’indispensabile borsa, legata agli studi teologici. Dopo il forzato riposo e un breve tentativo di dedicarsi agli studi di matematica e scienze naturali, Heidegger, con il supporto economico di una borsa di studio concessa dall’Università di Friburgo, approda infine, nel 1913, alla laurea in Filosofia. 40

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Rifiutando ogni etichetta confessionale per la sua filosofia, Heidegger puntualizza: «il mio lavoro filosofico è stato chiamato “fenomenologia cattolica”. Presumibilmente ciò è avvenuto perché io sono convinto che anche pensatori come Tommaso d’Aquino e Duns Scoto abbiano capito qualcosa della filosofia, forse più dei moderni. Il concetto di fenomenologia cattolica è però ancora più assurdo che quello di una matematica protestante» (HGA 24, p. 28; tr. it., p. 19). Per una ricognizione biografica, soprattutto degli anni friburghesi, si vedano: F. Volpi, Vita e opere, in AA. VV., Guida a Heidegger, a cura di F. Volpi, Laterza, Bari 1997, pp. 3-23; H. Ott, Martin Heidegger: unterwegs zu seiner Biographie, Campus, Frankfurt a.M. 1988; tr. it. di F. Cassinari, Martin Heidegger: sentieri biografici, SugarCo, Milano 1990, pp. 43-110; e B. Casper, Martin Heidegger und die Theologische Fakultät Freiburg 1909-1923, in AA. VV., Kirche am Oberrhein, hrsg. von R. Bäumer, K.S. Frank, H. Ott, Herder, Freiburg 1980, pp. 534-541. AA. VV., Zur philosophischen Aktualität Heideggers, II: Im Gespräch der Zeit, hrsg. von D. Papenfuss e O. Pöggeler, Klostermann, Frankfurt a.M. 1990, p. 29 [lettera di M. Heidegger a K. Löwith del 19.8.1921]. HGA 61, p. 197 (tr. it., p. 224).

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

Quando nel 1914 Pio X emana il Motu proprio Doctoris Angelici, scritto con cui dà un giro di vite ortodosso e antimodernista, eleggendo Tommaso d’Aquino ad unica ed incontestabile autorità dottrinale, comincia a maturare in Heidegger una vera e propria insofferenza verso il dogmatismo di Santa Romana Chiesa, insofferenza che non manca di palesare all’amico teologo Engelbert Krebs: «il Motu proprio sulla filosofia manca ancora. Forse lei come “accademico” può proporre un procedimento migliore, che tutte le persone che si fanno venire una buona idea, e hanno un pensiero autonomo, si levino il cervello e lo sostituiscano con dell’insalata italiana»43. Tre anni dopo, il 21 marzo 1917, è proprio Krebs a celebrare con rito cattolico, nella cappella universitaria friburghese, il matrimonio di Heidegger con Elfride Petri, una giovane di confessione evangelica. Ma già nel dicembre del 1918 Elfride confida a Krebs che lei e il marito non possono mantenere l’obbligo contratto con il matrimonio relativo all’educazione cattolica dei figli, perché hanno iniziato a pensare da protestanti, ovvero liberi da ogni impostazione dogmatica: mio marito non possiede più la sua fede religiosa, e io non l’ho mai trovata. Fin da quando ci siamo sposati la sua fede era minata da dubbi, ma io sollecitavo il matrimonio cattolico e speravo col suo aiuto di trovare la fede. Insieme abbiamo perciò letto molto, parlato, pensato e pregato, e il risultato è che entrambi siamo arrivati solo a pensare come protestanti, vale a dire senza il saldo vincolo del dogma; crediamo in un Dio personale, lo preghiamo nello spirito di Cristo, ma senza l’ortodossia né protestante né cattolica. In tali condizioni non riterremo sincero battezzare cattolicamente nostro figlio44.

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H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, cit., p. 76 [lettera di M. Heidegger a E. Krebs del 9.7.1914]. H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, cit., p. 99 [annotazione tratta dal diario di E. Krebs]. Il figlio di Heidegger, Hermann, ricorda: «Dal momento che proveniva da una famiglia cattolica, la sua impronta, la sua educazione fu cattolica. Ma presto vide che non poteva andare d’accordo con i dogmi della Chiesa. Fu una convinzione che maturò internamente, ma che all’inizio non poteva rendere pubblica. Un giovane come lui poteva studiare solo grazie all’appoggio della Chiesa. Fu solo quando conseguì la libera docenza, diventando professore a Marburgo, che Heidegger disse veramente cosa pensava. Ma posso dire con certezza che non è mai stato un ateo. Comunque sia, ha sempre creduto nella presenza di un Dio. Poi è stato scritto che era diventato protestante. Detto così non è giusto. Egli si è confrontato molto profondamente con Lutero» (A. Gnoli - F. Volpi, I ricordi di Hermann Heidegger, in I filosofi e la vita, Bompiani, Mi-

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Di questa ‘evoluzione’ dà testimonianza anche Husserl, il quale, per soddisfare la richiesta avanzata da Natorp di un giudizio sull’idoneità di Heidegger ad occupare la cattedra di Storia della Filosofia Medievale a Marburgo e sulla sua appartenenza a confessioni religiose, riconosce in un primo momento i forti legami del suo allievo con l’ambiente cattolico45; tre anni più tardi, però, l’11 febbraio 1920, si corregge: «permettetemi di informarvi che, sebbene a quel tempo io non lo sapessi, Heidegger (nel 1917) si era già liberato dal Cattolicesimo dogmatico. Subito dopo ne mise in atto le conseguenze, e si ritirò – in modo chiaro ed energico e tuttavia con tatto – dalla sicura e facile carriera di ‘filosofo della visione cattolica del mondo’»46. Del resto, già in una lettera indirizzata allo storico della religione Rudolf Otto, Husserl aveva evidenziato questo cambiamento di convinzioni religiose di Heidegger: la mia attività filosofica ha qualcosa di particolarmente rivoluzionario: gli evangelici diventano cattolici, i cattolici protestanti. Ma io non penso a cattolicizzare o ad evangelizzare, io non voglio fare altro che educare i giovani all’onestà radicale del pensiero […]. Non voglio, nella cattolicissima Friburgo, essere considerato un istigatore di giovani, un nemico della Chiesa cattolica a caccia di proseliti: non lo sono. Non ho esercitato alcuna oscura influenza sul passaggio di Heidegger e di Ochsner nel campo del protestantesimo, sebbene egli, con me, in quanto libero cristiano – così può definirsi colui che ha davanti agli occhi un obiettivo ideale di possibilità religiosa e vede per sé un compito infinito – e “protestante non dogmatico”, possa essere stato in ottimi rapporti47.

Negli stessi anni, Heidegger dichiara apertamente alla moglie in due lettere il motivo per cui Lutero ha assunto tanta importanza nelle sue riflessioni. Nella prima, del 9 settembre 1919, scrive: «da quando ho letto il commento di Lutero alla Lettera ai Romani, molte cose, che prima erano tormentose e oscure, sono diventate chiare e liberatrici – comprendo in maniera totalmente nuova il Medioevo

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lano 2010, p. 102; l’intervista di Gnoli e Volpi a Hermann Heidegger è originariamente apparsa con il titolo Mio padre, un genio normale, “La Repubblica”, 12.4.1996). Lettera di E. Husserl a P. Natorp dell’8.10.1917, citata in T. Sheehan, Heidegger e il suo corso sulla Fenomenologia della religione (1920-21), cit., p. 432. Ivi, pp. 433-434. Lettera di E. Husserl a R. Otto del 5.3.1919, citata in H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, cit., pp. 106-107.

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e l’evoluzione della religiosità cristiana; e mi si sono aperte prospettive del tutto inedite di problematiche filosofico-religiose»48. Nella seconda lettera dell’agosto 1920 Heidegger conferma che l’opera luterana è oramai divenuta per lui indispensabile: «die Lutherausgabe ist mir schon unentbehrlich geworden»49. Queste parole riecheggiano quelle, divenute ormai celebri, con cui confessa a Krebs che è oramai divenuto per lui «problematico e inaccettabile il sistema del cattolicesimo – non il cristianesimo e la metafisica in quanto tali, determinazioni che hanno, però, assunto un senso nuovo»50, e precisando di non voler fare una sterile e risentita pole48 49

50

BrH-E, p. 100 (tr. it., p. 93). BrH-E, p. 112 (tr. it., p. 103). Karl Jaspers rammenta, nella sua Autobiografia filosofica, una visita fatta a Heidegger nella primavera del 1920, durante la quale «lo vidi studiare Lutero, vidi l’intensità del suo lavoro» (K. Jaspers, Heidegger, in Philosophische Autobiographie, Piper, München 1977; tr. it. di G. Bonanni, Heidegger, “MicroMega”, 3, 2006, p. 120). E poco oltre prosegue: «grazie a Heidegger, la tradizione di pensiero cristiana, e in particolare cattolica, che pure già conoscevo, mi divenne visibile nell’inconsueta freschezza di un uomo che vi era immerso con tutto se stesso e che nel contempo la superava. […] Ricordo come parlava di Agostino, Tommaso, Lutero. Vedeva le potenze che erano all’opera in loro. Mi dava preziose indicazioni bibliografiche, mi segnalava i passi» (ivi, p. 122). Lettera di M. Heidegger a E. Krebs del 9.1.1919, citata in H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, cit., p. 97. Diversi studiosi definiscono questo episodio di rottura con il “sistema” cattolico e il suo apparato di dogmi la prima vera svolta nel pensiero heideggeriano. Fehér, in particolare, ritiene che «la svolta di Heidegger del primo dopoguerra bisogna non solo che venga dichiarata come la sua svolta fondamentale, ma può essere anche vista come ciò che contiene in sé, o prevede, le tracce della svolta propriamente detta» (I.M. Fehér, Heidegger’s postwar turn, “Philosophy today”, 1/4, 1996, p. 23). Ferraris avanza l’ipotesi che nella Kehre propriamente detta «risuoni alcunché di questo messianismo ed escatologismo che induceva il giovane Heidegger a leggere insieme a Aristotele, Paolo, Agostino e Lutero» (M. Ferraris, Recensione a M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), “aut aut”, 236, 1990, p. 81). Caputo sottolinea che è «in conseguenza a questa svolta dal cattolicesimo al protestantesimo che gli interessi filosofici del giovane pensatore slittano dalle questioni di logica a quelle della storia, dalla pura fenomenologia (husserliana) a ciò che chiama l’“ermeneutica della fatticità” (ovvero, vita concreta), e dalla teologia dogmatica alla teologia del Nuovo Testamento» (J. Caputo, Heidegger and theology, in AA. VV., The Cambridge Companion to Heidegger, Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 272).

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mica da apostata, afferma contestualmente «di aver profondamente avvertito – forse più di un pensatore ortodosso – ciò che vi è di valido nel Medioevo cattolico e che siamo ancora estremamente lontani dall’aver interpretato esattamente»51. È il sistema in quanto tale ad essere insostenibile, poiché opera una reductio teoretica del Gehaltssinn della religione, che va, invece, attuato storicamente: nella struttura del sistema (che di per sé non è nato da un atto culturale organico) è insito a priori che il contenuto di valore della religione che va vissuto, la sua sfera contenutistica di senso, deve anzitutto passare attraverso uno sbarramento dogmatico intricato, inorganico, teoreticamente del tutto non chiarito di principi e procedure dimostrative, per poi alla fine – in qualità di statuto di diritto canonico – sopraffare il soggetto, opprimendolo e schiacciandolo oscuramente con potere poliziesco [Polizeigewalt]. Per di più il sistema esclude completamente che al suo interno possa darsi un’esperienza vissuta [Werterleibnis] originaria, genuina, religiosa del valore52.

Nella vita di Heidegger si produce un autentico urto [Anstoß] con il sistema cattolico, non, però, con il cristianesimo delle origini, così come si conserva negli scritti luterani giovanili, nei quali è elaborata una teologia esistentiva in controtendenza a quella scolastica, che compromette coi dogmi l’immediatezza dell’esperienza religiosa. Per Heidegger «vi è la necessità di principio del confronto con la filosofia greca e con la deformazione dell’esistenza cristiana causata da essa. […] La via verso una teologia cristiana originaria è libera da qualsiasi grecità»53. Ritornare al protocristia51 52

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Lettera di M. Heidegger a E. Krebs del 9.1.1919, cit., p. 97. HGA 60, p. 313 (tr. it., p. 395). Ott precisa che non è la religiosità, ma «è il sistema a essere posto in questione. […] Perché nel sistema e attraverso il sistema la capacità di vivere l’esperienza viene limitata e infine annientata, perché manca la coscienza originaria» (H. Ott, Die katholischen Wurzeln im Denken Martin Heideggers, Vortrag Heidegger-Symposion, Trient 8.2.1990; tr. it. di M. Cianciullo, Le radici cattoliche nel pensiero di Heidegger, in AA. VV., Heidegger e la teologia, a cura di H. Ott e G. Penzo, Morcelliana, Brescia 1995, p. 79). HGA 59, p. 91. In Essere e tempo Heidegger insiste sul contrasto tra dogma ed esperienza di fede: «la teologia è alla ricerca di una più originaria interpretazione dell’essere dell’uomo rispetto a Dio, prescritta dal senso stesso della fede ed interna ad essa. Pian piano essa incomincia a capire di nuovo l’intuizione di Lutero secondo cui la sua sistematica dogmatica riposa su un fondamento che non è scaturito da una ricerca in cui la fede è primaria, e il cui apparato concettuale non solo non è ade-

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nesimo, al cristianesimo prima dell’ellenizzazione, prima di quel processo di concettualizzazione del messaggio evangelico messo in atto dalla tradizione platonico-agostiniana e aristotelico-tomista, significa allora decostruire il dogma in quanto «eterno arsenale a priori»54 e porre «il vero problema del “dogma” nel senso dell’esplicazione religiosa»55: infatti, come mostra la predicazione paolina, diretta non a formulare una dottrina, ma al compimento dell’esistenza cristiana, «in quanto contenuto dottrinale separato, inteso nel suo risalto conoscitivo-obiettivo, il dogma non poté mai svolgere una funzione di guida per la religiosità cristiana; al contrario, la sua genesi è comprensibile solo in base all’attuazione dell’esperienza cristiana della vita»56. Alla luce di quanto appena esposto è allora palese che un’indagine sull’ontologia della vita elaborata da Heidegger non possa pre-

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55 56

guato alla problematica teologica, ma la nasconde e la storce» (HGA 2, pp. 13-14; tr. it., p. 22). HGA 60, p. 136 (tr. it., p. 181). Heidegger, prendendo spunto dal concetto husserliano di “a priori materiale” (E. Husserl, Terza ricerca. Sulla teoria degli interi e delle parti, in Ricerche logiche, cit., II, pp. 19-49), pensa l’a priori, a partire dal nome – próteron, prius, prima –, in un’accezione nonsoggettivistica e non-trascendentale, ma eminentemente vollzugsgeschichtlich: «apriori è un titolo nel quale risiede qualcosa come una sequenza temporale» (HGA 20, p. 99; tr. it., p. 91). A partire da Kant e dalla sua definizione di trascendentale, l’«apriori è una conoscenza che non si fonda sull’esperienza empirica» e che, come attesta anche il cogito cartesiano, «è disponibile anzitutto e unicamente nel soggetto come tale» (HGA 20, p. 100; tr. it., p. 92). La fenomenologia, invece, ha mostrato che «l’a priori non è soltanto alcunché di immanente, che appartiene primariamente alla sfera del soggetto, e non è neppure alcunché di trascendente, che inerisce specificamente alla realtà» (HGA 20, p. 101; tr. it., p. 93). Per un breve, ma chiaro ed esaustivo resoconto degli sviluppi dell’a priori materiale da Husserl a Foucault si rimanda a P. Amato, Ontologia e storia. La filosofia di Michel Foucault, Carocci, Roma 2011, pp. 51-71. HGA 60, p. 72 (tr. it., p. 110). HGA 60, p. 112 (tr. it., p. 154). Giannetto nota che Heidegger ribalta la storia dei dogmi: «non si tratta di vedere l’ellenizzazione del cristianesimo come dovuta ad un fattore teoretico esterno o interno, ma piuttosto di comprendere come la deformazione della vita fattizia dall’autenticità cristiana in occidente richieda come sua legittimazione teoretica e ideologica una dogmatica. Il non vivere più nell’attualità della Parousia e del Regno di Dio porta all’intrusione di elementi greco-occidentali teoretici e alla nascita della teologia dogmatica» (E. Giannetto, Un fisico delle origini. Heidegger, la scienza e la Natura, Donzelli, Roma 2010, p. 40).

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scindere dal rapporto che il filosofo intrattiene, «in quanto uomo religioso»57, con la sfera cristiana in generale e con gli initia Luteri in particolare. 3. La Riforma Heidegger sceglie Paolo, Agostino, Lutero, perché da veri ‘fuorilegge’ contrappongono al dogma l’esperienza di fede, perché si convertono ad una modalità di esistenza nuova, perché, solo in quanto profondamente radicati, possono esperire lo strappo dello sradicamento come occasione per tornare, in modo rinnovato, all’inizio: chi non era veramente radicato e al tempo stesso non è stato spinto dall’interrogare, come può costui fare realmente l’esperienza dello sradicamento? E come può uno che non sopporta questa esperienza riflettere radicalmente su una nuova fondazione che non sia un mero distacco dall’antico e una mera brama di novità, ma ancor meno una gracile mediazione e un gracile livellamento, bensì una trasformazione creatrice, nella quale tutto l’iniziale si innalzi fino all’altezza delle sue vette?58.

Tra Paolo, l’apostolo che riceve la vocazione direttamente da Cristo, Agostino e Lutero, chiamati per mezzo del «più piccolo tra gli apostoli» (1 Cor, 15, 9), c’è un’innegabile linea di continuità. Infatti, seppure ad introduzione del corso sulla fenomenologia della vita religiosa Heidegger raccomanda di tenersi liberi dalla prospettiva luterana, in quanto «Lutero guarda Paolo a partire da Agostino»59, 57 58 59

HGA 60, p. 309 (tr. it., p. 391). M. Heidegger, Ein Rückblick auf den Weg, in HGA 66, p. 412 (tr. it., Uno sguardo all’indietro sul mio sentiero, p. 230). HGA 60, p. 68 (nella traduzione italiana manca la proposizione «Luther sieht Paulus von Augustinus aus»). All’inizio del corso del semestre invernale 1920/1921, Heidegger suggerisce di fare attenzione alle traduzioni della Bibbia che si utilizzano: «la migliore edizione greca è il Novum Testamentum Graecum curato da Nestle. Se si utilizza, come sussidio, una traduzione, non si prenda quella di Lutero, che è troppo dipendente dal suo personale punto di vista teologico. Si consiglia la traduzione di Weizsäcker (Mohr, Tübingen), oppure quella di Nestle» (HGA 60, p. 68; tr. it., p. 106). Heidegger conosceva bene la versione luterana della Bibbia, tant’è che nel 1927 tiene un seminario sul commento di Lutero alla Lettera ai Galati insieme a Bultmann, il quale, a riguardo, scrive a Hans von Soden: «questa volta, il seminario è particolarmente istruttivo, poiché

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che all’interno del protestantesimo è «il padre della Chiesa tenuto nella maggiore considerazione»60, d’altro canto, afferma che il «nuovo atteggiamento religioso fondamentale di Lutero» deriva «da un’interpretazione, acquisita in modo originario, di Paolo e Agostino»61. Perciò, se «dal punto di vista religioso Lutero e Paolo si contrappongono […]. Ciò nondimeno vi sono nessi genuini fra il protestantesimo e Paolo»62. Agli esordi del suo percorso di ricerca Heidegger si confronta con questi ‘riformatori’ e, riscontrando la difficoltà di vivere effettivamente da filosofo l’intimo amore per la verità [innere wahrhaftigkeit], fa a Krebs la sua confessione di fede: credo di possedere la vocazione interiore [innere Beruf] per la filosofia e per la sua realizzazione nella ricerca e nell’insegnamento, orientati alla definizione eterna dell’uomo interiore [innerer Mensch]; solo in virtù di questo credo di poter compiere ciò che è nelle mie forze e in questo modo giustificare davanti a Dio la mia esistenza e il mio operato [mein Dasein und Wirken selbst vor Gott zu rechtfertigen]63.

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partecipa il nostro nuovo filosofo Heidegger, un allievo di Husserl. Viene dal cattolicismo, ma è interamente protestante, ciò l’ha dimostrato l’altra volta durante un dibattito ad una conferenza di Hermelink su Lutero e il Medio Evo. Possiede non solamente un’eccellente conoscenza della Scolastica, ma anche di Lutero, al punto che ha messo in difficoltà Hermelink. Ha esposto la questione in maniera più profonda di quello» (B. Jaspert, Der unveröffentlichte Nachlass von Rudolf Bultmann – Ausschnitte aus dem biografischen Material, in Rudolf Bultmanns Werk und Wirkung, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1984, p. 202 [lettera di R. Bultmann a H. von Soden del 23.12.1923]. Negli stessi termini Bultmann si esprime in una lettera indirizzata a Gogarten: R. Bultmann - F. Gogarten, Briefwechsel 1921-1967, hrsg. von H. Götz Göckeritz, Mohr, Tübingen 2002, pp. 52-53). Heinrich Schlier, che prese parte a questo seminario, rammenta: «del tempo di Marburgo mi è rimasto un ricordo: non solo la partecipazione (di Heidegger) al seminario di Bultmann, bensì anche la conferenza, che ci tenne, sulla Lettera ai Galati di Lutero. Non ricordo più tanto di ciò che disse, ma so ancora bene, che fece una grossa impressione sugli ascoltatori, che rimasero meravigliati per questo lato nascosto del loro professore, specialmente per la sua ricca conoscenza di Lutero» (H. Schlier, Denken im Nachdenken, in AA. VV., Erinnerung an Martin Heidegger, hrsg. von G. Neske, Neske, Pfullingen 1977, p. 219). HGA 60, p. 159 (tr. it., p. 209). NB, in HGA 62, p. 372 (tr. it., p. 38). HGA 60, pp. 67-68 (tr. it., pp. 105-106). Lettera di M. Heidegger a E. Krebs, cit., p. 98.

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L’insistenza sulla sfera interiore non ha a che vedere con il classico contrasto tra Äusserlichkeit e Innerlichkeit, tra realtà esterna e coscienza, ma riguarda il carattere originario della vocazione e dell’uomo. L’innere Beruf e l’innerer Mensch sono un chiaro riferimento alla klésis e all’uomo interiore di Paolo, così come altrettanto chiaro è il rimando alla teoria della Rechtfertigung di Lutero, motivo principale della sua condanna per eresia. Heidegger risponde alla sua chiamata da vero airetikós, perché, nel contesto della riforma universitaria, decide di operare una “riforma della filosofia”64 per liberarla dalle maglie metodologico-contenutistiche entro cui il “sistema” l’aveva costretta, al fine di arrivare all’autentica definizione dell’esserci. Antesignano di un tale gesto è di sicuro Lutero, che lotta contro il dogmatismo della Chiesa ritornando al senso iniziale delle Scritture in nome del rinnovamento della vita cristiana. La riforma luterana, a cominciare da quella degli studi condotta a Wittemberg, indirizza Heidegger quantomeno sui tragitti da percorrere, che sono due: ermeneutico e antropologico. 3.1. L’ermeneutica riformata Lutero è «compagno di ricerca»65 di Heidegger nello “spirito” dell’«interrogare aperto, che non sia sin dall’inizio spaventato per le possibili conseguenze»66. Infatti, l’azione riformatrice luterana consiste anzitutto nell’interpretare, svincolandosi dalla lettura canonica, la sola Scriptura – che non è un sistema statico di verità, ma la Parola davanti a cui l’uomo ha un’inalienabile responsabilità ermeneutica –, restituendola al contesto vitale a cui appartiene67. Heidegger 64

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A. Grossmann, Heidegger und Luther, “Quaestio”, 1, 2001, p. 201 (in questo numero monografico della rivista, dal titolo Heidegger e i medievali, sono stati raccolti, a cura di C. Esposito, gli Atti del colloquio internazionale di Cassino, 10-13 maggio 2000). HGA 63, p. 5 (tr. it., p. 14). Per un’introduzione generale alla vita e al pensiero di Lutero cfr. O.H. Pesch, Hinführung zu Luther, Matthias-Grünewald, Ostfildern-Ruit 2004; tr. it. di C. Danna, Martin Lutero. Introduzione storica e teologica, Queriniana, Brescia 2007. HGA 63, p. 1 (tr. it., p. 9). M. Lutero, Sendbrief vom Dolmetschen, in WA 30/II, pp. 632-646 (tr. it., Epistola sull’arte del tradurre e sulla intercessione dei santi, pp. 701721). A proposito di Lutero, Quinzio osserva che «era ebraicamente preoccupato della salvezza dell’uomo anziché grecamente contemplante e speculante sui misteri divini, ebraicamente risoluto a decidere tutto sulla

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condivide la rottura con l’impostazione dottrinaria e il ritorno alla situazione effettiva; quest’ultima, però, dal suo punto di vista, non è la situazione storica obiettiva, ovvero il contenuto del mondo ambiente e del mondo degli altri all’interno del quale l’autore scrive, ma la situazione storica relativa all’attuazione. Il problema dell’immedesimazione [Einfühlung] non va, perciò, posto «in termini gnoseologici», né risolto «senza il fenomeno della tradizione (ossia dell’esperienza storica effettiva della vita)»68; l’Einfühlung va distinta tanto dallo sprofondarsi con la fantasia, quanto dal comprendere empatico, dalla simpatia come fusione emotiva, perché è essenzialmente il ritorno allo storico originario. In quest’ottica, persino il carattere epistolare delle Lettere paoline e quello memorialistico-diaristico delle Confessioni agostiniane assumono una particolare rilevanza, non da un punto di vista stilistico – aspetto su cui insiste la teologia speculativa –, ma perché riguardano il ‘come’ della predicazione. Non si devono considerare le Lettere come un genere letterario, ma come una manifestazione del Sitz im Leben; non si deve «isolare il carattere epistolare, trasferendo nel problema questioni letterarie di stile che non sono primarie. Lo stile epistolare stesso è espressione di chi scrive e della sua situazione»69. Scrivere lettere per Paolo non è «un capriccio casuale, un divertimento [?], un piacere, una gentilezza»70, ma è un modo per esperire la necessità entro cui vive la propria missione apostolica: il Vangelo, infatti, non è un insegnamento sapienziale, ma una «comunicazione esistenziale»71, che determina l’intera vita fattizia, sia di chi predica, che di chi ascolta. Allo stesso modo, se «Agostino comunica tutti i fenomeni con l’atteggiamento del confiteri», è perché «il problema del confiteri nasce dalla coscienza dei propri

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parola di Dio scritta nel Libro (sola Scriptura)» (S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 2006, p. 106). Secondo Gadamer la grande ambizione dell’ermeneutica luterana era di pervenire al senso originario (H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 367), indebolendo il rispetto per le autorità umane, specie per i dogmi (ivi, p. 575). Sull’ermeneutica luterana come ascolto responsabile e non lettura dogmatica, cfr. F. Donadio, In margine al nesso tra dogma, ermeneutica e vita, in AA. VV., Heidegger oggi, a cura di E. Mazzarella, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 221-225. HGA 60, p. 89 (tr. it., p. 128 ). Cfr. HGA 60, p. 85 (tr. it., p. 124). HGA 60, p. 83 (tr. it., p. 122). Cfr. HGA 60, pp. 80-81 e 133-134 (tr. it., pp. 119-120 e 178). HGA 60, p. 143 (tr. it., p. 189). HGA 60, p. 136 (tr. it., p. 181).

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peccati»72; in altri termini, il fatto che Agostino confessi a Dio e agli uomini come «gli vengano tentazioni, e come si comporti (o tenti di comportarsi) nei loro confronti»73 è espressione del suo sapere riguardo al proprio mondo. Le Confessioni come le Lettere sono un’autointerpretazione, una «storia del Sé»74 dal carattere protrettico, che esorta all’esercizio della vita religiosa. Non si può, quindi, esaurire il nesso tra cristianesimo ed ermeneutica nel fatto che quest’ultima sorga come esegesi biblica, perché vi è un’intima comunanza tra il carattere trascendentale dell’esperienza cristiana e quello ex-egetico dell’interpretazione, intesa come possibilità dell’esserci di comprendersi. Per questo Heidegger prende le distanze dai significati tradizionali di “ermeneutica” – critica testuale, arte dell’interpretazione, metodologia delle scienze dello spirito –, e le assegna il compito della riflessione sull’esistenza: l’ermeneutica non è utilizzata nel significato moderno e in generale non come dottrina, per quanto generalmente intesa, dell’interpretazione. Il termine, in connessione con il suo significato originario, indica piuttosto: una determinata unità dell’esecuzione dello ermeneúein (del comunicare), ossia dell’interpretare l’effettività75. 72 73 74

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HGA 60, p. 283 (tr. it., pp. 360-361). Cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, tr. it. di C. Vitali, Rizzoli, Milano 2001, X, 2-3, pp. 271-273. HGA 60, p. 212 (tr. it., p. 272). Cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 6, p. 275. HGA 58, p. 59. Sull’argomento si veda C. Sommer, (Qui) suis-je? Quaestio Augustinienne et Seinsfrage heideggerienne ( 1919-1927), in AA. VV., Le jeune Heidegger (1909-1926). Herméneutique, Phénoménologie, Théologie, édité par S.-J. Arrien et S. Camilleri, Vrin, Paris 2011, pp. 174178. HGA 63, p. 14 (tr. it., p. 24). Fabris, basandosi sulla derivazione dallo ermeneúein, “portare messaggi, annunci” e sulla relazione al dio Ermes, che, se anche filologicamente non giustificata, è nondimeno molto significativa per Heidegger – tant’è che viene mantenuta anche negli scritti successivi (cfr. M. Heidegger, Aus einem Gespräch von der Sprache, in HGA 12, p. 115; tr. it., Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, pp. 104-105) –, delinea il carattere cristiano dell’ermeneutica heideggeriana sotto tre aspetti: innanzitutto, il Dasein è il frammezzo ontologico e gnoseologico così come Cristo è il medium, lo zwischen tra Dio e gli uomini; in secondo luogo, solo in virtù dell’essere in relazione è possibile comprendere così come solo “a colui che ha, verrà dato” (Mt, 13, 12); infine, chi si appropria di certi presupposti interpretativi può comprendere, così come chi risponde alla chiamata può essere salvato (A. Fabris, Heidegger e il rapporto tra sapere e fede. Alcuni momenti di confronto con le radici

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

Nella ricognizione storica che Heidegger fa del termine ermeneutica un posto privilegiato è riservato ad Agostino, che «fornisce la prima “ermeneutica” in grande stile»76, mentre Schleiermacher è accusato di aver «ridotto l’dea, complessiva e vivente, di ermeneutica (cfr. Agostino) ad un’“arte” (tecnica) del comprendere»77 e Dilthey, che chiude il corso degenerativo, di aver «ripreso il concetto schleiermacheriano dell’ermeneutica come “regolamentazione del com-

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scolastiche, “Quaestio”, 1, 2001, pp. 167-173). Zeami, pur non negando il carattere ermeneutico dell’esperienza religiosa, sostiene tuttavia che «la tesi di Fabris è convincente se pensata come strumento di interpretazione del rapporto tra teologia cristiana […] ed ermeneutica», invece «è poco convincente nel caso specifico delle interpretazioni fenomenologiche e religiose heideggeriane del cristianesimo di Agostino e del protocristianesimo di Paolo», nelle quali «non soltanto manca, ad esempio, il concetto di Dasein come frammezzo, ma manca totalmente la figura di Cristo come medium» (G. Zeami, La conversione del pensiero. L’etica cristiana originaria nelle frühe Freiburger Vorlesungen di Martin Heidegger, il melangolo, Genova 2010, p. 243, nota 376). HGA 63, p. 12 (tr. it., p. 22). HGA 63, p. 13 (tr. it., p. 23). Va precisato che Heidegger raccoglie l’eredità luterana e schleiermacheriana del “circolo ermeneutico”, che lega la comprensione della totalità del testo alla comprensione delle sue singole parti e viceversa. Furono, infatti, Lutero ed i suoi successori a trasferire l’immagine del rapporto circolare del tutto con le parti, già nota alla retorica antica che paragonava il discorso perfetto ad un organismo, al processo della comprensione, sviluppando «un principio generale dell’interpretazione testuale in base al quale tutti gli aspetti particolari di un testo vanno intesi in base al contesto (contextus) e al senso unitario a cui l’insieme mira, lo scopus» (H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 369). Il “circolo ermeneutico”, annunciato negli anni Venti nella connessione tra filosofia e vita fattizia, viene tematizzato da Heidegger nel noto § 32 di Essere e tempo: «il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma di conoscere, ma l’espressione della pre-struttura esistenziale propria dell’Esserci stesso. Il circolo non deve essere degradato a circolo vizioso e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, che è afferrata in modo genuino solo se l’interpretazione ha compreso che il suo compito primo, durevole ed ultimo, è quello di non lasciarsi imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio tema» (HGA 2, p. 203; tr. it., p. 189). Per una più approfondita analisi della figura del circolo ermeneutico, si rimanda a G. Gregorio, Il circolo ermenutico, in Linguaggio e interpretazione: su Gadamer e Heidegger, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.

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prendere” […]. Della evoluzione dell’autentica ermeneutica gli sono perciò rimaste nascoste le epoche decisive (patristica e Lutero)»78. Per Heidegger «la scienza dell’origine in fin dei conti è quella ermeneutica»79, l’Hermeneutik der Faktizität, la diaermeneutica della «vita in sé e per sé [Leben an sich und für sich]», nell’attuarsi, distinta dalla «vita in sé [Leben an sich]»80.

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HGA 63, p. 14 (tr. it., pp. 23-24). L’ermeneutica della finitezza storica di Dilthey diviene con Heidegger ermeneutica dell’esistenza e, peraltro, come per Heidegger, «anche per Dilthey la familiarità con l’ermeneutica proveniva dalla stessa fonte, dai suoi studi di teologia, in particolare dalle sue ricerche su Schleiermacher» (M. Heidegger, Aus einem Gespräch von der Sprache, in HGA 12, p. 92; tr. it., Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, p. 90). Per una ricognizione generale sull’ermeneutica heideggeriana, anche in relazione a quella diltheyana, si veda G. Mura, Ermeneutica e verità, Città Nuova, Roma 1990, pp. 209-215; F. Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 91-105; D. Di Cesare, Utopia del comprendere, il melangolo, Genova 2003. Per gli aspetti più specifici della concezione heideggeriana dell’ermeneutica in rapporto alla sua concezione del linguaggio e della poesia si veda C. Resta, Ermeneutica del silenzio, in La Terra del mattino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger, Angeli, Milano 1998. HGA 58, p. 55. Nell’opera del 1927 l’ermeneutica, nel senso filosoficamente primario, è l’«analitica dell’esistenzialità dell’esistenza» (HGA 2, p. 50; tr. it., p. 54). HGA 58, p. 29. Lazzari individua nella distinzione tra Leben an sich und für sich e Leben an sich «una terminologia di ascendenza dialettica», hegeliana (R. Lazzari, Fenomenologia come scienza dell’origine. Osservazioni sulle prime lezioni friburghesi di Heidegger, “Discipline filosofiche”, 2, 1999, p. 25); ma, come nota giustamente Ruoppo, «Heidegger non introduce tra la “vita in sé” e la “vita in sé e per sé”, il momento negativo della “vita per sé”. In conseguenza di tale mancanza, pertanto l’accesso alla “vita in sé e per sé” non sarà possibile attraverso un movimento dialettico, quanto attraverso un graduale mutamento della prospettiva, dell’osservazione» (A.P. Ruoppo, Vita e metodo nelle prime lezioni friburghesi di Martin Heidegger (1919-1923), Le Cáriti, Firenze 2008, p. 63). Heidegger elabora, in realtà, un tipo particolare di dialettica, che «non è dialettica nel senso del confronto sintetico di concetti, bensì la dialettica filosofica è “diaermeneutica”» (HGA 58, p. 263), in grado di legare senso di contenuto e senso d’attuazione. Per questo tema si rinvia a R.A. Makkreel, Heideggers Auslegung ursprünglicher der Faktizität des Lebens: Diahermeneutik als Aufbau und Abbau der geschichtlichen Welt, in AA. VV., Zur philosophischen Aktualität Heideggers, II, cit., pp. 178-188.

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3.2. L’antropologia riformata Heidegger considera l’ermeneutica in quanto autocomprensione della vita fattizia, sapere dell’esserci di se stesso, la via maestra per elaborare «un’antropologia radicalmente fenomenologica»81, che si occupi dell’Innerlichkeit dell’uomo, del suo modo d’essere originario, che è un essere in lotta, un poter-essere, conteso tra possibilità opposte. Nelle opere degli autori cristiani Heidegger scorge i caratteri originari della vita, ma questo non significa che operi una mera deteologizzazione o secolarizzazione dei teolegumeni, anzi, secondo un suo tipico modo di procedere, compie un’apprensione/appropriazione spesso anche violenta82. Heidegger attinge a piene mani 81

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NB, in HGA 62, p. 371 (tr. it., p. 40). Partendo dalla quarta domanda posta da Kant nella Logica, “che cos’ è l’uomo?”, che ricomprende le prime tre – che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? –, Heidegger si interroga sull’antropologia e su come diventi filosofica. L’antropologia considera l’uomo da vari punti di vista, per questo il suo ambito è talmente vasto da risultare indeterminato, tant’è che nella modernità non indica più soltanto una disciplina, ma una tendenza: «nessuna epoca ha avuto come l’attuale, nozioni così numerose e svariate sull’uomo. Nessuna epoca è riuscita, come la nostra a presentare il suo sapere intorno all’uomo in modo così efficace e affascinante, né a comunicarlo in modo tanto rapido e facile. È anche vero, però, che nessuna epoca ha saputo meno della nostra cosa sia l’uomo» (HGA 3, p. 209; tr. it., p. 181). L’indeterminatezza caratterizza anche la cosiddetta antropologia filosofica, che è giustificata non in base all’essenza della filosofia, ma in base ad un concetto esteriore del suo punto di partenza o del suo scopo (HGA 3, p. 211; tr. it., p. 183). Pertanto, lo svelamento della finitezza non è antropologia, ma ontologia: «se l’uomo è tale soltanto sul fondamento dell’esserci nell’uomo, la questione relativa a ciò che è più originario dell’uomo stesso non può, per principio, essere una questione antropologica. Ogni antropologia, anche filosofica, pone in partenza l’uomo già come uomo» (HGA 3, pp. 229-230; tr. it., p. 197). Schlink fu probabilmente il primo a sostenere che «di certo l’analitica esistenziale dell’esserci è una radicale secolarizzazione dell’antropologia di Lutero» (E. Schlink, Weisheit und Torheit, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1955, p. 6). Jonas, allievo di Heidegger negli anni Venti, ritiene che «si trovi molto cristianesimo secolarizzato nel pensiero di Heidegger. Questo era evidente fin dall’inizio, a partire da Essere e tempo; e nonostante l’energica rassicurazione di Heidegger, e di altri a suo nome, che concetti quali colpa, cura, angoscia, appello della coscienza, decisione, Verfallenheit, autenticità-inautenticità, abbiano un significato puramente ontologico senza alcuna connotazione ontica corrente (per es. psicologica) e, meno che mai, siano da intendersi in senso morale, un osservatore

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soprattutto dall’antropologia luterana, in particolare dalla teoria storico-salvifica del totus homo, che conosceva bene, visto che, per smentire Scheler, il quale attribuiva a Lutero la definizione dell’uomo come carne, cita direttamente l’Exegetica opera latina: «porro caro significat totum hominem, cum ratione et omnibus naturalibus donis»83. Lutero ritiene che «est autem homo duplex, interior et exterior»84 (cfr. 2 Cor, 4, 16: «ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfa-

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ragionevole, senza entrare nella questione della sua onestà individuale, non permetterà che tali detrattori lo distolgano dal pagare il proprio tributo alla tradizione. Egli pertanto riconoscerà, ripetiamo, come il pensare profano di Heidegger incarni effettivamente elementi provenienti dal pensiero cristiano» (H. Jonas, Heidegger and Theology, “The Review of Metaphysics”, 18/70, 1964; Heidegger und die Theologie, „Evangelische Theologie“, 24/12, 1964; tr. it. di R. Franzini Tibaldeo, Heidegger e la teologia, Medusa, San Giorgio a Cremano (NA) 2004, p. 33). Altri studiosi, come Lehmann, ritengono abbia poco senso parlare di secolarizzazione della teologia cristiana (K. Lehmann, »Sagen, was Sache ist«: der Blick auf die Wahreit der Existenz. Heideggers Beziehung zu Luther, in AA. VV., Heidegger und die christliche Tradition. Annäherungen an ein schwieriges Thema, hrsg. von N. Fischer - F.W. von Hermann, Meiner, Hamburg 2007, p. 153). Per Capelle «è possibile rilevare una doppia tensione inscritta nel cammino di pensiero heideggeriano, l’una confessionale, l’altra anti-religiosa: tra l’intelligenza della fede cattolico-scolastica e il mondo della teologia protestante; tra il cristianesimo e l’uscita mai compiuta dal cristianesimo, e paradossalmente nutrita dal cristianesimo. Il riconoscimento della prima tensione permette senza alcun dubbio di fare nuova luce sulla questione delle determinazioni propriamente filosofiche e sulla complessità della loro provenienza. La seconda tensione permette di evitare gli scogli di una diagnosi di una secolarizzazione heideggeriana della teologia cristiana» (P. Capelle, La signification du christianisme chez Heidegger, in AA.VV., Heidegger, sous le direction de M. Caron, Cerf, Paris 2006, p. 327). HGA 63, p. 27 (tr. it., p. 37). È qui opportuno ricordare che il 20 ottobre 1922 Heidegger manifesta a Rothacker l’intenzione di scrivere per il primo numero della sua nuova rivista, „Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistgeschichte“, un saggio dal titolo La fondazione ontologica dell’antropologia tardo medievale e la teologia del giovane Lutero (BrH-R, p. 192). Purtroppo rimase solo un’intenzione, seppur costante, come testimoniano due lettere del 1924: nella prima, del 4 gennaio, Heidegger conferma di voler pubblicare i suoi studi medievali (BrH-R, p. 203), nella seconda, del 21 settembre, promette un trattato sull’ontologia medievale e l’antropologia (BrH-R, p. 207). M. Lutero, In epistolam Pauli ad Galatas commentarius, in WA 2, p. 517. Per la dottrina del totus homo si rimanda al commento a Rm, 7, 7-18, in

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cendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno») e precisa che «homo dicitur interior et absconditus eo quod non vivit seculariter et carnaliter»85, viceversa «carni autem adherere est hominem interiorem in veterem et exteriorem nimis migrasse»86. Da queste definizioni è possibile dedurre due importanti equivalenze: l’uomo interiore è l’uomo spirituale, nuovo, che confida e spera in Dio, lo prega e lo cerca, mentre l’uomo esteriore è «caro vetus homo»87, «carnem veterem hominem»88, dedito esclusivamente alla ‘mondanità’. Tuttavia, come puntualizza Lutero, si tratta di antitesi che non si escludono a vicenda, ma che convivono, costituendo un’unica realtà antropologica. Geistlicher, neuer, innerlich Mensch e leiplicher, alter und äusserlich Mensch sono nient’altro che due modi d’essere che guerreggiano [pugnent] nello stesso uomo: ogni uomo ha una doppia natura, spirituale e corporale. Secondo l’anima, è detto uomo spirituale, interiore, nuovo, secondo la carne, è detto uomo carnale, esteriore, vecchio […]. Questa differenza fa sì che la Scrittura affermi dello stesso uomo delle cose che si combattono, come a dire che due uomini si combattono all’interno dello stesso uomo89.

Non bisogna considerare, come fa la Scolastica, carne e spirito parti distinte dell’uomo, in quanto ciascuno dei termini indica tutto l’uomo in una determinata direzione di vita: «carne è un uomo che vive e opera interiormente ed esteriormente ciò che giova alla carne e alla vita terrena, spirito è invece l’uomo che vive e opera interiormente ed esteriormente ciò che serve allo spirito e alla vita avvenire»90. Fu in effetti Agostino a proporre, rileggendo le Lettere

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Id., Der Brief an die Römer, in WA 56, pp. 339-354 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, pp. 268-284). M. Lutero, Dictata super Psalterium, in WA 3, p. 150. M. Lutero, Dictata super Psalterium, in WA 4, p. 174. M. Lutero, Die erste Vorlesung über den Galaterbrief, in WA 57/II, p. 41. Ivi, p. 44. M. Lutero, Von der Freiheit eines Christenmenschen, in WA 7, p. 50 (tr. it., Libertà del cristiano, p. 24). Büttgen osserva che la pubblicazione di questo trattato e il 1520 in generale rappresentano una svolta fondamentale all’interno della riflessione di Lutero, che approda al concetto moderno di interiorità come interiorità libera, in base a cui è in quanto uomo interiore che il cristiano è libero (P. Büttgen, Luther et la philosophie, Vrin, Paris 2011, p. 264). M. Lutero, Vorrede auss die Epistel S. Pauli an di Römer, in WadB 7, p. 13 (tr. it., Prefazione all’Epistola ai Romani, p. 522).

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paoline, in particolare Ef, 4, 22-24, l’identità tra homo interior e homo novus così come la traduzione dell’aggettivo pneumatikós con spiritualis, facendo di carne e spirito due istanze separate e incompatibili: «se l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno, è evidente che prima di rinnovarsi era vecchio. È nell’interno che si realizza ciò che lo stesso Apostolo dice: Spogliatevi dell’uomo vecchio e rivestitevi del nuovo»91. Sviluppando la tesi luterana, Heidegger sostiene che «sárx, la carne, è la sfera originaria di tutte le passioni non motivate da Dio»92 e, quindi, va intesa in termini più generali di quanto faccia Agostino, che la considera una forma di tentatio, la concupiscentia carnis, il compiacimento dei cinque sensi (la voluttà, l’intemperanza nel bere e nel mangiare, l’attrattiva dei profumi, la fruizione dei suoni, dei canti e della bellezza)93, che trasforma la necessità e l’indigenza della vita in piacere. E, prendendo spunto dalle analogie tra la terminologia paolina e quella ermetica, riscontrate da parte della storia delle religioni, che, seppur legittime da un punto di vista linguistico, stilistico e temporale, sono del tutto inappropriate per un’interpretazione vollzugsgeschichtlich, Heidegger osserva che è un grave fraintendimento della predicazione di Paolo contrapporre, sulla scorta del Corpus Hermeticus, un “uomo pneumatico” e un “uomo carnale”. Infatti, se gli scritti ermetici parlano di pneúma eínai, “essere spirito”, Paolo parla di pneúma échein, “avere spirito”, di modo che spirito e carne non sono intese come parti o facoltà dell’uomo contrapposte ed escludentesi vicendevolmente, bensì come tendenze della vita, tipologie di comportamento (Rm, 8, 4-13): «sárx è un phrónema (8, 6), una disposizione dell’animo [Gesinnung]»94, in particolare «è il contesto dell’attuazio91 92 93

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Sant’Agostino, Opere. La Trinità, tr. it. di G. Beschin, Città Nuova, Roma 1973, IV, 3.6, p. 185. HGA 60, p. 98 (tr. it., pp. 138-139). Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 30-34, pp. 297-306. Agostino riprende le caratterizzazioni della concupiscenza da 1 Gv, 2, 15-17: «non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!». HGA 60, p. 124 (tr. it., p. 167). In una lettera del 23 agosto 1925, Heidegger consiglia a Hanna Arendt alcune letture di preparazione al seminario organizzato da Bultmann sull’antropologia di Paolo: «sull’argomento del seminario in senso stretto non c’è quasi niente, e in ogni caso niente di

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ne dell’autentica fatticità nella vita relativa al mondo-ambiente»95, mentre pneúma è la Gesinnung di un uomo «che si è appropriato di una determinata caratteristica della vita»96 (1 Cor, 2, 10-15). Il fatto decisivo è che la «lotta interiore [innerer Kampf]»97 tra lo spirito e la

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soddisfacente. Un libretto di cui conosco soltanto il titolo: Lüdemann, Die Antropologie des Paulus, potrebbe essere solo un’antologia di testi; forse puoi cercarlo un giorno in biblioteca. Unilaterale – ma scritto molto bene – è il libro di Kabisch, Die Eschatologie des Paulus. Penso poi di averti citato già una volta Bousset, Die Religion des Judentums im neutestamentlichen Zeitalter. È scritto completamente seguendo il metodo della scuola storico-religiosa, ma è molto ricco di materiali e istruttivo sotto il profilo della storia dei concetti» (BrH-A, pp. 45-46; tr. it., pp. 31-32). Il testo di Lüdemann citato da Heidegger presenta due accezioni della “carne” in Paolo, da cui derivano due diverse concezioni del peccato e della salvezza: “carne” in senso ampio è l’essere naturale dell’uomo, cui si legano un concetto di peccato come espressione della libera volontà umana e un concetto giuridico-soggettivo di redenzione, che dipende dalla misericordia di Dio elargita in base a un atto di fede; “carne” in senso stretto è l’antitesi dello spirito, cui si legano un concetto di peccato come necessità naturale e un concetto dualistico-oggettivo di redenzione, in quanto è lo Spirito a produrre nell’uomo una nuova creatura mediante il battesimo (H. Lüdemann, Die Antropologie des Apostels Paulus und ihre Stellung innerhalb seiner Heilslehre, nach den vier Hauptbriefen dargestellt, Universität-Buchhandlung, Kiel 1872). Kabisch, a sua volta, ritiene che in Paolo il battesimo sia non un rito simbolico di purificazione, ma un rito mistico di rinascita (R. Kabisch, Die Eschatologie des Paulus, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1893). Heidegger, invece, sulla scorta di 1 Cor, 1, 14 («Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi»), sostiene che «non è il battesimo […] l’elemento decisivo, bensì la predicazione» (HGA 60, p. 144; tr. it., p. 189). Lutero attribuisce alla metafisica fallace di Aristotele la colpa di aver indotto i teologi a pensare che il peccato si possa annullare con il battesimo e a ignorare le parole di Paolo in Rm, 7, 17 sul “peccato che abita in me” (M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 349; tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 279). La dottrina della Chiesa ha considerato la giustizia alla stessa stregua della virtù aristotelica che perfeziona la natura dell’anima, come proprietà ontologica del cristiano, sminuendo l’opera della grazia: «iustitiam non esse formaliter in nobis, ut Aristoteles disputat, sed extra nos in sola gratia et reputatione divina» (M. Lutero, In epistolam S. Pauli ad Galatas Commentarius, in WA 40/I, p. 370). HGA 60, p. 124 (tr. it., p. 167). Sul rapporto carne/spirito e sul tema del corpo in Paolo, cfr. J.A. Robinson, The Body. A Study in Pauline Theology, SCM Press, London 1957 e G. Furlani, Il corpo secondo Paolo. Un esame della Prima Lettera ai Corinzi, Cittadella, Assisi 2009. HGA 60, p. 124 (tr. it., p. 167). HGA 60, p. 274 (tr. it., p. 350).

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carne, la «lotta fra i due amori»98, come la definisce Agostino, l’amore di Dio e l’amore del mondo, non si può dissolvere – nel senso di separare e risolvere –, perché «nel contesto dell’esperienza non c’è in nessun caso un medius locus in cui non siano presenti al tempo stesso le possibilità contrarie»99. 4. Destructio e Destruktion La fenomenologia ermeneutica dell’esperienza religiosa si distingue da ogni filosofia della religione volta ad afferrare concettualmente il fenomeno religioso, perché scorgere nel protocristianesimo il paradigma della comprensione della vita fattizia non è «un compito “descrittivo”, bensì un compito dell’es-plicazione»100, in quanto estrapolazione dell’attuazione. Le strutture esplicative vanno intese «in modo distruttivo e storico»101: distruttivo, perché rimuovono gli aspetti descrittivi dell’analisi teoretica; storico, perché puntano alla situazione della vita fattizia. Perciò, «per giungere all’elemento teoretico originario [das Ur-theoretische] è necessaria una nuova “distruzione della situazione”»102, che non è una mera demolizione [Zerstörung], ma uno smantellamento [Abbau] atto a liberare il fenomeno dell’esistenza dalle costruzioni filosofiche e teologiche: qui il positivo è altrettanto poco del “negativo” […]. La demolizione [Abbruch] (la destituzione Absetzung) è solo l’espressione della finitezza [Endlichkeit] […]. La distruzione non ha il senso di far pervenire

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Sant’Agostino, Opere. Discorsi (su argomenti vari), tr. it. di V. Paronetto, A.M. Quartiroli, Città Nuova, Roma 1989, VI, n. 344, 1, p. 55. 99 HGA 60, p. 209 (tr. it., p. 269). Löwith sostiene che Heidegger tragga da Lutero il motto inespresso dell’ontologia esistenziale: «unus quisque robustus sit in existentia sua» (K. Löwith, Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933. Ein Bericht (1940), Metzler, Stuttgart 1986; tr. it. di E. Grillo, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Il Saggiatore, Milano 1988, p. 54). 100 HGA 60, p. 129 (tr. it., p. 173). Sulla fenomenologia heideggeriana in quanto fenomenologia del cristianesimo primitivo cfr. J. Greisch, Le buisson ardent et les lumières de la raison. L’invention de la philosophie de la religion, in Vers un paradigme herméneutique, Cerf, Paris 2004, pp. 543-552. 101 HGA 60, p. 129 (tr. it., p. 173). 102 HGA 60, p. 310 (tr. it., p. 386).

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con il suo risultato all’autentico. L’autentico è essa stessa e la sua effettività, cioè il deporre che con essa assume consistenza103.

L’antecedente teorico diretto della Destruktion heideggeriana, in quanto «radicale decostruzione e ricostruzione [Ab- und Rückbauens]»104, è la destructio luterana105, che ha inscritti in sé due 103 HGA 59, p. 184. La “distruzione”, la “riduzione” o riconduzione dello sguardo e la “costruzione” sono le tre componenti del metodo fenomenologico, che «appartengono essenzialmente l’una all’altra e debbono essere fondate in questa loro appartenenza reciproca. La costruzione della filosofia è necessariamente distruzione, vale a dire è decostruzione di ciò che è stato tramandato attuata con un ritorno storico alla tradizione. Questo non significa negare la tradizione o condannarla all’annullamento: vuol dire invece appropriarsi positivamente di essa» (HGA 24, p. 31; tr. it., p. 21). La Destruktion non «ha il senso negativo di uno sbarazzarsi della tradizione ontologica. Al contrario, essa mira a circoscriverla nelle sue possibilità positive (il che significa sempre nei suoi limiti) […]. La distruzione non si propone di seppellire il passato nel nulla, ma ha un intento positivo; la sua funzione negativa resta inesplicita e indiretta» (HGA 2, pp. 30-31; tr. it., pp. 36-37). 104 M. Heidegger, Ammerkungen zu Karl Jaspers «Psychologie der Weltanschauungen», in HGA 9, p. 5 (tr. it., Note sulla «psicologia delle visioni del mondo» di Karl Jaspers, p. 435). Sulla decostruzione come possibilità cfr. C. Esposito, Die Gnade und das Nichts. Zu Heideggers Gottesfrage, cit., pp. 200-201. 105 Derrida non ha fatto mistero di riprendere il termine Destruktion – divenuto sinonimo del suo stesso gesto di pensiero – dal lessico heideggeriano: «Destruktion (Heidegger si serve del termine Destruktion e spiega anche che la Destruktion non è una distruzione, che è piuttosto una destrutturazione per disfare dei sottofondi strutturali nel sistema, ecc.) o anche Abbau che va nello stesso senso; disfare un edificio per vedere come esso è costituito o decostituito. È classico. Quel che non era classico era ciò a cui si applicava questa forza, questo Abbau, cioè a tutta l’ontologia classica, a tutta la storia della filosofia occidentale» (AA. VV., L’oreille de l’autre: otobiographies, transfert, traductions. Textes et débats avec Jacques Derrida, a cura di C. Levesque e C.V. McDonald, VLB Editeur, Montreal 1982, p. 118. Si veda anche J. Derrida, Lettre à un ami japonais, in Psyché. Inventions de l’autre. Tome 2, Galilée, Paris 2003; tr. it. di R. Balzarotti, Lettera a un amico giapponese, in Psyché. Invenzioni dell’altro. Vol. 2, Jaca Book, Milano 2009, pp. 8-10). Per quanto voglia distanziarsene, Derrida ha pure riconosciuto la filiazione luterana della Destruktion di Heidegger: «“Lutero qui genuit Heidegger” [...]. Il motivo e la parola Destruktion designavano in Lutero una desedimentazione della teologia istituita (si potrebbe dire anche dell’ontoteologia) che permettesse di ritornare a una verità più originaria delle Scritture. Heidegger fu evidentemente un grande lettore di Lutero» (J. Derrida, Voyous, Ga-

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significati complementari: indica, infatti, lo ‘smontaggio’ della teologia, che si distacca dall’esperienza religiosa concreta, in vista di una sua ri-formulazione, nonché l’opus alienum di Dio, distinto da quello proprium, che uccide l’uomo del peccato in vista della sua ri-nascita. La destructio luterana è, dunque, dialettica, poiché, lungi dall’essere un mero mandare in rovina, è allo stesso tempo un’aedificatio: la dialetticità è inscritta nella tensione tra la teologia della gloria e quella della croce, tra la condanna della superbia dell’uomo vecchio e la creazione dell’uomo nuovo. In uno stesso atto si ricompongono la distruzione della teologia scolastica e dell’«alt Adam»106 e la riedificazione della teologia della croce e del nuovo Abramo, come afferma Samuele: «il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire» (1 Sam, 2, 6). Ma a dare il senso della dinamica destructio/aedificatio sono soprattutto le parole di Geremia, inviato «per sradicare e demolilée, Paris 2003; tr. it. di L. Odello, Stati canaglia, Cortina, Milano 2003, p. 214, nota 3). O ancora: «Lutero […] parlava già di destructio per designare la necessità di una de-sedimentazione degli strati teologici che dissimulavano la nudità originale del messaggio evangelico da restaurare» (J. Derrida, « Autrui est secret parce qu’il est autre », in Papier machine. Le ruban de machine à écrire et autres résponses, Galilée, Paris 2002; tr. it. di S. Maruzzella, Al di là delle apparenze. L’altro è segreto perché è altro, Mimesis, Milano 2010, p. 21) e tale ascendenza cristiano-luterana della Destruktion heideggeriana non deve essere cancellata: «Non dobbiamo mai dimenticare la memoria cristiana, luterana in verità, della decostruzione heideggeriana (la Destruktion fu al principio la destructio d’un Lutero preoccupato di restituire forza al senso originario dei Vangeli decostruendo le sedimentazioni teologiche» (J. Derrida, Le toucher. Jean-Luc Nancy, Galilée, Paris 2000; tr. it. di A. Calzolari, Toccare, Jean-Luc Nancy, Marietti, Genova-Milano 2007, p. 83). Anche Nancy ricorda come, per Heidegger, «decostruire significa smontare, disassemblare, dare gioco all’assemblaggio per lasciar giocare tra i pezzi di questo assemblaggio, una possibilità da cui esso procede, ma che, come assemblaggio, nasconde» (J.-L. Nancy, La Déclosion (Déconstruction du christianisme, 1), Galilée, Paris 2005; tr. it. di R. Deval e A. Moscati, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I, Cronopio, Napoli 2007, p. 207) e, sulla scorta di Derrida, la Destruktion heideggeriana viene accostata alla destructio luterana, in quanto entrambe sono essenzialmente il «gesto di un’apertura o di una riapertura in direzione di ciò che ha preceduto ogni costruzione» (ibidem, nota 7). 106 M. Lutero, Die erste Vorlesung über den Galaterbrief, in WA 57/II, p. 41. Sul carattere dialettico della decostruzione, si veda anche Id., Die Vorlesung über den Hebräerbrief, in WA 57/III, p. 129 e p. 141; cfr. B.D. Crowe, Heidegger’s Religious Origins. Destruction and Authenticity, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 2006, pp. 44-66.

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lire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (Ger, 1, 10), in vista di una nuova alleanza fondata sulla religione del cuore e non della legge esteriore; chiamato a gridare la parola del Signore agli orecchi di Gerusalemme (Ger, 2, 2-4), perché converta la sua condotta in attesa dei giorni che verranno (Ger, 23, 5-8). 5. Decostruire il lógos La destructio luterana nel suo primo significato è l’operazione atta a disfare l’architettura scolastico-tomista che, assumendo motivi ellenistici, esclude l’esperienza della croce e della passione, minimizza la portata del peccato e si costituisce come discorso teoretico su Dio; allo stesso modo la «distruzione della teologia cristiana e della filosofia occidentale»107 da parte di Heidegger significa il ritorno al cristianesimo originario, per rintracciarne il modello della vita fattizia. Per raggiungere il suo intento, Lutero si rivolge ad Agostino, che si dibatteva nella lotta tra carne e spirito, e a Paolo che, con la sua predicazione, in nome della fede voleva «distruggere, sradicare e annientare ogni sapienza e giustizia dell’uomo [iustitiam carnis]»108; lo stesso fa Heidegger. Il rapporto che Heidegger intrattiene con Agostino è, però, altamente ambivalente e problematico, poiché, sebbene gli riconosca di riuscire a cogliere i caratteri fondamentali dell’esistenza di fede, nondimeno lo accusa di coprirli con slittamenti metafisici. Nonostante in ciascuna delle determinazioni agostiniane di Dio – quale lux, summum bonum, incommutabilis substantia, summa pulchritudo – emergano diverse modalità d’accesso, nel complesso «l’esplicazione dell’esperienza di Dio in Agostino è 107 HGA 60, p. 135 (tr. it., p. 180). Per Heidegger «la filosofia è il possibile correttivo ontologico che indica formalmente il contenuto ontico, cioè precristiano, dei concetti teologici fondamentali» (M. Heidegger, Phänomenologie und Theologie, in HGA 9, p. 66; tr. it., Fenomenologia e Teologia, p. 22). Come osserva Oehlschläger, la filosofia di Heidegger e la teologia di Lutero sono entrambe una “risposta”, l’una al neo-positivismo, al realismo critico, al neo-kantismo, alle teorie della conoscenza e dei valori, l’altra alla legge delle opere, al sacramentalismo e alla gerarchia (G. Oehlschläger, Der junge Luther und Martin Heidegger, „Lutherjahrbuch“, 70, 2003, p. 120). 108 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 157 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 81).

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specificamente “greca” […]. Non si giunge ad una problematica e a una considerazione dell’origine radicalmente critiche (distruzione)»109. Il ritorno luterano a Paolo è, invece, pienamente condiviso da Heidegger, che vuole distruggere la “sapienza del mondo” (1 Cor, 1, 20)110, ovvero la concettualità di matrice ellenistica, per giungere alla Lebenserfahrung. Heidegger, come Kierkegaard, sa che «capire è per un uomo la sua comprensione dell’umano, ma credere è il suo rapporto con il divino»111, sa che «la misura

109 HGA 60, p. 292 (tr. it., pp. 371-372). 110 Risalendo alle origini dell’essenza onto-teologica della filosofia, Heidegger richiama questo passo paolino per dire che «la sophía toú kósmou è ciò che, come lì si dice (loc. cit., 1, 22), gli Éllenes zetoúsin, i Greci cercano» (M. Heidegger, Einleitung zu „Was ist Metaphysik?“, in HGA 9, p. 379; tr. it., Introduzione a “Che cos’è metafisica?”, p. 330). 111 HGA 60, p. 178 (tr. it. p. 233). Cfr. S. Kierkegaard, Sygdommen til Døden, in Søren Kierkegaards Skrifter, Bd. 11, a cura di N.J. Cappelørn, J. Garff, J. Kondrup, Gads, København 2006; tr. it. di E. Rocca, La malattia per la morte, Donzelli, Roma 1999, p. 96. Per Caputo «non è un’esagerazione dire che il tentativo di Heidegger di formulare un’“ermeneutica della fatticità”, o come verrà chiamata in Essere e tempo un’“analitica esistenziale”, che vuole delineare i tratti distintivi della vita fattizia – del Dasein – era ispirata dalla critica di Lutero alla teologia metafisica medievale e alla critica di Kierkegaard alla cristianità speculativa di Hegel» (J. Caputo, Heidegger and theology, cit., p. 273). Per Hegel, infatti, l’unità della coscienza religiosa dell’uomo e del suo oggetto, Dio, accade nella rappresentazione, ossia accade «non solo recandosi alla semplicità della fede e alla devozione del sentimento, ma anche al pensiero» (G.-W.F. Hegel, Enzyklopädie der Wissenschaften philosophischen im Grundrisse, hrsg. von E. Moldenhauer e K.-M. Michel, Werke, Bd. 9, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1970; tr. it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Roma-Bari 2002, III, III, § 571, p. 549); perciò la fede, che è l’abbandono a Dio da parte della coscienza religiosa, diviene chiara e consapevole solo se interviene la riflessione filosofica. Kierkegaard, nel saggio dedicato ad Abramo, colui che per fede salta oltre l’intelligenza terrena, attacca questa concezione hegeliana che determina la superiorità della speculazione sulla fede: «è disonesto da parte della filosofia sostituirla con qualcos’altro e mettersi a deriderla» (S. Kierkegaard, Frygt og bæven, in Søren Kierkegaards Skrifter, Bd. 4, a cura di N.J. Cappelørn, J. Garff, J. Kondrup, Gads, København 1998; tr. it. di C. Fabro, Timore e tremore, Rizzoli, Milano 2001, p. 54). La fede è passione: «ogni movimento dell’infinità avviene con passione e nessuna riflessione può produrre un movimento. Questo è il salto continuo nell’esistenza che spiega il movimento, mentre la mediazione è una chimera che in Hegel deve spiegare tutto e nello stesso tempo è l’unica cosa ch’egli non ha cercato di spiegare. […]

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del sapere [Wissen] non è la misura della devozione [Frömmigkeit]»112 e che «l’amore di Dio per gli uomini è il fatto fondamentale, non una conoscenza teoretica»113. Heidegger approfondisce l’opposizione tra saggezza del mondo e follia dei cristiani, tra conoscenza teoretica ed esperienza fattizia, rileggendo le Disputazioni di Heidelberg del 1518, in cui Lutero, in occasione della polemica sulle indulgenze, contrappone la teologia della gloria a quella della croce: «“Theologus gloriae dicit malum bonum et bonum malum, Theologus crucis dicit id quod res est”. Il theologus gloriae, che si delizia esteticamente delle meraviglie del mondo, nomina il sensibile in Dio. Il teologo della croce dice come sono le cose»114. 5.1. Theologia gloriae Lutero reputa la theologia gloriae una teologia ‘indegna’, dal momento che adotta argomenti della filosofia greca, tanto platonica che aristotelica, che non le sono propri: «“Non ille digne Theologus dicitur, qui invisibilia Dei per ea, quae facta sunt, intellecta conspicit”. Non è teologo colui che scorge l’invisibile di Dio [das UnsichtCiò che manca al nostro tempo non è la riflessione, ma la passione» (ivi, p. 65, nota). 112 HGA 60, p. 320 (tr. it., p. 402). 113 HGA 60, p. 71 (tr. it., p. 109). Nella proposta di Heidegger di leggere Gal 4, 9 («ora invece che avete conosciuto Dio») insieme a Gal, 1, 1 («Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti»), Crowe vede l’intenzione di evidenziare che la vera fondazione della vita religiosa non è la conoscenza di Dio, ma Dio stesso, e perciò la vita religiosa è un dono e non un raggiungimento, è ricevuta e non costruita (B.D. Crowe, Heidegger’s Phenomenology of Religion. Realism and Cultural Criticism, Indiana University Press, Bloomington 2008, p. 83). In effetti, Heidegger preciserà che «la teologia può render la coscienza consapevole della serietà implicita nel credere in quanto modo d’esistenza “donato”» (M. Heidegger, Phänomenologie und Theologie, in HGA 9, p. 56; tr. it., Fenomenologia e Teologia, pp. 13-14). Sul fatto che solo dell’amore di Dio si può avere certezza cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 6, p. 275. 114 HGA 60, p. 282 (tr. it., p. 359). Cfr. M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 354 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 183). Secondo Riedel, «la teologia della croce, che dice come le cose sono effettivamente, giunge dai fenomeni alle cose stesse» (M. Riedel, Reformation und deutscher Idealismus: Martin Heidegger zwischen Luther und Melanchthon, in AA. VV., Heideggers Zwiegespräch mit dem deutschen Idealismus, hrsg. von H. Seubert, Böhlau, Köln 2003, p. 19).

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bar Gottes] per mezzo di ciò che è creato. La donazione dell’oggetto della teologia non si ottiene tramite una considerazione metafisica del mondo»115. La teologia della gloria è illusoria, giacché si illude (e illude) che sia possibile risalire dal visibile all’invisibile, mentre, invece, è costretta ad arrestarsi dinnanzi all’essente così come si presenta, perché solo la fede può oltrepassare la realtà presente, orientando l’uomo all’avvenire: a proposito della realtà materiale l’apostolo ragiona e pensa in modo diverso dai filosofi e dai metafisici. I filosofi immergono lo sguardo sulle cose che hanno davanti a sé per considerarne l’essenza e le qualità; l’apostolo invece distoglie il nostro sguardo dall’attenzione per le cose presenti, dalla loro essenza e dai loro accidenti, e lo indirizza verso il loro futuro116.

L’attacco luterano alla cognitio Dei per ea, quae facta sunt corrisponde per certi versi a quello che Heidegger sferra nei confronti della metafisica della presenza, che pensa l’essere come un essente semplicemente-presente. Così come l’ontologia gloriae, che corrisponde né più e né meno alla scienza teoretica della vita, concentrandosi sull’io e non sul sono, lo conosce come un soggetto devitalizzato e destoricizzato, la theologia gloriae non coglie Dio nella sua effettività e storicità:

115 HGA 60, p. 282 (tr. it., p. 359). Cfr. M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 354 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 183). Kisiel definisce la teologia della gloria una «forma speculativa di idolatria» (T. Kisiel, The genesis of Heidegger’s Being and Time, cit., p. 206). 116 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 371 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 113). Van Buren osserva che «la gloria (doxa, gloria) è il termine di Lutero per l’esperienza greca e scolastica dell’essere come una presenza piena di magnificenza, goduta nella contemplazione quietistica, estetico-oculare» (J. Van Buren, Martin Heidegger, Martin Luther, in AA. VV., Reading Heidegger from the Start. Essays in His Earliest Trought, cit., p. 167). Alla destructio luterana della theologia gloriae corrisponde «la decostruzione del giovane Heidegger del senso iperbolico e mistico dell’essere nell’ontologia gloriae» (J. Van Buren, The Young Heidegger. Rumor of a hidden king, Indiana University Press, Bloomington 1994, p. 167) e alla theologia crucis luterana corrisponde «l’ontologia crucis di Heidegger che è il tentativo di pensare l’essere attraverso “la croce” della storicità e della vita fattizia» (ibidem).

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quando Dio è concepito primariamente come oggetto di speculazione si ha un decadimento [Abfall] dal comprendere autentico. Lo si capisce soltanto quando si attua l’esplicazione dei nessi concettuali. Questo però non lo si è mai tentato, poiché la filosofia greca è penetrata nel cristianesimo. Soltanto Lutero ha fatto un tentativo in questa direzione, e ciò spiega il suo odio per Aristotele117.

Il rimando implicito qui è al tema centrale della tradizione tomista, la dottrina dell’analogia entis d’ispirazione aristotelica, che instaura un rapporto di causa-effetto tra il creatore e le creature, ovvero erige Dio a causa assoluta, riducendolo a mero oggetto di speculazione e facendo del vedere la modalità di conoscenza privilegiata; al contrario, per Lutero, Dio, incarnandosi, si offre all’ascolto e si lascia soltanto ascoltare, cioè ci accorda solo la fede e non la visione118. Heidegger riconosce ad Agostino il merito di aver individuato nel primato della vista la seconda forma di tentatio, la concupiscentia oculorum, in quanto vana curiositas, guardarsi intorno, avidità del nuovo, che si ammanta del nome di scienza119. Tuttavia, Agostino è 117 HGA 60, p. 97 (tr. it., p. 137). 118 M. Lutero, Sermones aus den Jahren 1514-1517, in WA 1, p. 25. Come nota Van Buren: «molto prima di Nietzsche, Lutero ha già ucciso il Dio ontoteologico della metafisica occidentale» (J. Van Buren, The Young Heidegger. Rumor of a hidden king, cit., p. 163), accusando la teologia scolastica di voler conoscere Dio razionalmente, basandosi sulla metafisica aristotelica: Dio, infatti, è visto come ente superiore, causa prima, motore immobile. Sulla condanna luterana dell’ontoteologia, cfr. G. Ebeling, Luther. Einführung in sein Denken, Mohr, Tübingen 1964; tr. it. di G. Beari, Lutero. Un volto nuovo, Morcelliana, Brescia 1970, pp. 214-216. Ma per Heidegger lo schema aristotelico di causa-effetto applicato da Tommaso al rapporto tra Dio e mondo finì per incidere anche sulla teologia luterana: «questo problema, se cioè la nozione di essere sia analoga o univoca in riferimento all’essere di Dio e del mondo, e in che senso sia univoca, ha avuto un ruolo rilevante nel Medioevo e soprattutto nel tardo Medioevo. Tutto il problema della determinazione dell’essere di Dio e del mondo in questa direzione, ha influito negativamente anche sull’intero sviluppo teologico di Lutero» (HGA 20, p. 235; tr. it., p. 212). 119 Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 35, pp. 306-308. Seppure Agostino nota il primato del vedere, occupandosi nelle Confessioni della concupiscentia oculorum – la curiosità [Neugier], che insieme alla chiacchiera [Gerede] e all’equivoco [Zweideutigkeit] costituisce uno degli aspetti caratterizzanti l’Esserci nella quotidianità – non ne dà un autentico chiarimento (HGA 20, pp. 379-380; tr. it., pp. 340-341; HGA 2, pp. 226-227; tr. it., pp. 209-210).

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accusato contestualmente di predisporre un ordine di semplici-presenze culminante nel summum bonum, differenziando l’uti, l’averea-che-fare, l’utilizzo strumentale degli enti intramondani, dal frui, il godere disinteressato rivolto alle cose eterne ed immutabili. L’uti e il frui hanno una funzione ordinatrice, stabiliscono una gerarchia tra un bene relativo e un fine in sé: si tratta di «una “assiologizzazione” che in definitiva si pone sullo stesso piano della “teorizzazione”. Questa gerarchia dei valori ha un’origine greca. (L’intero stile della sua struttura concettuale deriva in ultima analisi da Platone)»120. Seppure «la “fruitio” di Agostino non è quella specificamente plotiniana, culminante nella contemplazione»121, in essa «è implicito un determinato senso estetico fondamentale. Si nota l’influsso neoplatonico: il bello inerisce all’essenza dell’essere»122. Pertanto, non è possibile limitarsi «a eliminare l’elemento platonico presente in Agostino, ed è sbagliato credere di poter ottenere l’elemento autenticamente cristiano facendo riferimento alla sua opera»123. 120 HGA 60, p. 277 (tr. it., p. 353). A proposito dell’assiologizzazione Heidegger anche in seguito afferma che «il colpo più duro contro Dio non consiste nel ritenerlo inconoscibile, nel provare la indimostrabilità della sua esistenza, ma nell’innalzarlo a supremo valore» (M. Heidegger, Nietzsches Wort „Gott ist tot“, in HGA 5, p. 260; tr. it., La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, pp. 238-239). 121 HGA 60, p. 272 (tr. it., p. 348). Lutero per certi versi sembra avallare la distinzione agostiniana tra uti e frui, poiché sostiene che l’uomo extra Christum vuol godere delle creature, anziché usarne: «nusquam enim utitur, sed fruitur homo creatura» (M. Lutero, Die philosophischen Thesen der Heidelberger Disputation mit ihren Probationes, in WA 59, p. 410; tr. it., Tesi di contenuto filosofico, p. 37). L’uomo extra Christum «viene detto “uomo vecchio” non solo perché compie le opere della carne, ma molto più allorquando agisce con giustizia, sa vivere con sapienza e si esercita in tutti i beni spirituali, e addirittura ama Dio per se stesso e gli rende culto: la ragione è che in tutto ciò gode dei doni di Dio e usa Dio» (M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 325; tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 254). La sapienza della carne consiste nel godere di sé stessi e servirsi di tutte le altre cose, Dio compreso (ivi, p. 361; tr. it., II, p. 102), mentre la sapienza che proviene dallo spirito si serve delle cose, ma non ne gode, perché sa che la fruizione riguarda solo Dio (ivi, p. 373; tr. it., II, p. 116). 122 HGA 60, p. 271 (tr. it., p. 346). 123 HGA 60, p. 281 (tr. it., p. 358). Il X libro delle Confessioni, che Heidegger prende in esame, dimostrerebbe che l’influsso del neoplatonismo su Agostino fu più duraturo e profondo di quanto egli fosse disposto ad ammettere (cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., VII, 20-21, pp. 211-213).

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La filosofia scolastica trae la convalida del platonismo da Paolo, o meglio da un’interpretazione distorta di Rm, 1, 20: «a partire dalla creazione del mondo, l’invisibile di Dio si rende visibile al pensiero per mezzo delle sue opere». Di fatto, «questa frase ritorna costantemente negli scritti patristici e dà la direzione dell’ascesa (platonica) dal mondo sensibile a quello sovrasensibile»124, dalle cose belle all’idea del Bene, che esse riflettono per mímesis. Da Rm, 1, 20 «è tratto il motivo per la fondazione e la ricostruzione [Unter- und Neubau] greca della dogmatica cristiana»125, per il passaggio dalla religione alla teologia, la quale parte dagli enti per giungere ad un fondamento. Ad attuare una corretta interpretazione di questo passo paolino è, secondo Heidegger, soltanto Lutero, che «nelle sue prime opere ha inaugurato una nuova comprensione del cristianesimo delle origini, benché in seguito sia caduto vittima egli stesso del peso della tradizione, dando inizio così allo sviluppo della scolastica protestante»126. Lutero riconduce Rm 1, 20 al contesto di denuncia 124 HGA 60, p. 281 (tr. it., p. 359). 125 HGA 60, p. 281 (tr. it., p. 358). Come suggerisce Duque, la religione comincia a essere teologia allorché si parte «dagli enti per giungere a un fondamento, a una causa prima che è a disposizione della manus mentis, allo stesso modo che le cose mondane sono alla portata della manus carnis» (F. Duque, Il contrattempo. Lo spostamento ermeneutico della religione nella fenomenologia heideggeriana, cit., p. 187). 126 HGA 60, p. 281 (tr. it., p. 359). Heidegger osserva in più occasioni che con «l’assorbimento, lo sviluppo ma, al tempo stesso, in taluni casi anche la rimozione dei nuovi motivi della teologia luterana, si pervenne così alla formazione della scolastica protestante» (HGA 61, p. 7; tr. it., p. 44). Barash, partendo dall’antitetica esegesi di Rm, 1, 20 fatta da Lutero e da Spinoza – per Lutero la vera teologia considera le manifestazioni di Dio a partire dalla passione e dalla croce, per Spinoza invece «ciascun uomo può, col lume naturale, chiaramente conoscere la virtù di Dio e la eterna divinità» (B. Spinoza, Tractatus Theologico-politicus, in Opera, III, hrsg. von C. Gebhardt, Winter, Heidelberg 1972; tr. it. di S. Casellato, Trattato teologico-politico, Rizzoli, Milano 2001, cap. IV, p. 89) –, conclude che il privilegio accordato da Heidegger all’interpretazione protestante del passo paolino rientra in una «tendenza più generale, soprattutto a partire da Essere e tempo, a escludere dall’ontologia fondamentale tutte le determinazioni non solamente teologiche, ma anche etico-politiche» (J.A. Barash, Heidegger et son siècle. Temps de l’Etre, temps de l’histoire, cit., pp. 97-98). Non è certo questa la sede per affrontare la controversa questione etica nella filosofia di Heidegger, ma è altrettanto certo che su di essa non si può semplicemente sorvolare. Spesso si nega una dimensione etica al pensiero heideggeriano sulla base del rifiuto del

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dell’idolatria e osserva che una cosa è metiri Deum, concepire un’idea di Dio con un ragionamento sillogistico che parte dalla constatazione che nell’universalità degli esseri ne esiste sempre uno più sublime che sovrasta e sorregge gli altri che stanno al di sotto, altra cosa è, invece, colere nude ipsum, aver cura e onorare Dio così com’è. I pagani hanno sbagliato, nel non aver lasciato o onorato questa divinità come essa era, e nell’averla invece stravolta e accomodata ai propri voti e desideri. Ognuno ha voluto che la divinità consistesse in quello che gli piaceva, e così essi hanno mutato in menzogna la verità di Dio. Essi hanno dunque riconosciuto che è proprio della divinità, cioè di colui filosofo di considerarla nel senso precettistico di una disciplina morale, di un insieme di principi, valori o norme per l’agire. Fin dalla pubblicazione di Essere e tempo venne avanzata nei confronti di Heidegger la richiesta di scrivere un’etica: è lo stesso Heidegger a dirlo, riconoscendo la legittimità e l’urgenza di suddetta richiesta e tracciando una sorta di genealogia dell’éthos, per riportarlo al suo senso iniziale (M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in HGA 9, p. 353; tr. it., La lettera sull’«umanismo», p. 304). Alcuni interpreti hanno piuttosto parlato di un’“etica originaria”, che tenta di scartarsi da una concezione “metafisica”, riconoscibile nella ‘condotta’ del Dasein nei confronti dell’essere, che gli si dona: custodire, vegliare e aver cura sono le sue modalità. Si tratta di un “compito” che è assegnato in senso destinale, che l’uomo è chiamato ad assumere, un impegno a cui deve mantener fede, fidandosi e affidandosi. Da questo punto di vista, l’etica di Heidegger è un etica del cor-rispondere: infatti l’essere si rivolge all’uomo interpellandolo, richiedendo l’ascolto del suo appello silenzioso che deve essere portato al linguaggio. Per i tratti fondamentali di questa “etica originaria” cfr. J.-L. Nancy, L’«éthique originaire» de Heidegger, in La pensée dérobée, Galilée, Paris 2001; tr. it. A. Moscati, L’«etica originaria» di Heidegger, in Sull’agire. Heidegger e l’etica, Cronopio, Napoli 2005). Per un’etica dell’ascolto e del cor-rispondere si veda C. Resta, L’etica del linguaggio, in La terra del mattino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger, cit., pp. 7-56. A questo testo si rinvia anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, tra le quali vanno menzionate: P. Ricoeur, Il problema etico in Essere e tempo, in AA. VV., Heidegger in discussione, a cura di F. Bianco, Angeli, Milano 1992 (sull’etica al di là della morale); J. Derrida, L’oreille de Heidegger. Philopolémologie, in Politiques de l’amitié, Galilée, Paris 1994; tr. it. di C. Scibilia e G. Chiurazzi, L’orecchio di Heidegger. Filopolemologia, in La mano di Heidegger, a cura di M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1991 (sull’“ascolto”); M. Ruggenini, I fenomeni e le parole, Marietti, Genova 1992 e J.-L. Nancy, Le partage des voix, Galilée, Paris 1982; tr. it. di A. Follin, La partizione delle voci, il Poligrafo, Padova 1993 (sul “colloquio”).

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che è Dio, essere potente, invisibile, giusto, immortale, buono; quindi hanno conosciuto le perfezioni invisibili di Dio, la sua eterna potenza e divinità127.

La conoscenza naturale di Dio, che deduce dalla presenza delle opere l’esistenza di un autore, in realtà non apre gli occhi, ma abbacina: la «sapienza che scorge l’invisibile di Dio per mezzo delle sue opere, insuperbisce, acceca ed indurisce»128. Coloro che si illudono di possedere questa sapientia sono “idropici dell’anima” che, quanto più bevono, tanto più hanno sete, poiché «è impossibile che la loro concupiscenza venga appagata dalle cose che brama, una volta che siano state acquisite»129; come accade per ogni concupiscenza, il desiderio di gloria non è soddisfatto dalla gloria conseguita, il desiderio di dominio dal potere, e così via. E, richiamando 1 Cor, 3, 1819 («nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio»), Lutero conclude: «chi desidera divenire savio non cerchi sapienza progredendo, ma si faccia stolto cercando la pazzia, retrocedendo»130. Ed è questo “passo indietro”131, che va in direzione contraria rispetto ad ogni fi127 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 177 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 102). Nell’esegesi di Rm, 1, 20, Agostino afferma che la comprensione delle cose divine invisibili a partire dall’intelligenza umana è incompleta, perciò l’uomo deve affidarsi alla fede, e, facendo un esplicito riferimento a 1 Cor, 13, 12, predice che solo nell’eternità «non sarà come ora, che con l’intelletto scorgiamo le perfezioni invisibili nelle opere da Lui compiute, come in uno specchio, in maniera confusa e parziale, dove la fede con cui crediamo conta in noi più dell’apparenza delle realtà corporee, che osserviamo attraverso gli occhi del corpo» (Aurelio Agostino, La città di Dio, tr. it. di L. Alici, Rusconi, Milano 1997, XXII, 29, 6, p. 1188). 128 HGA 60, p. 282 (tr. it., p. 360). Cfr. M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 354 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 183). 129 M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, pp. 362-363 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 199). 130 Ivi, p. 363 (tr. it., p. 199). 131 L’esegesi di Rm 1, 20 dà a Heidegger l’opportunità di fare i primi accenni a quella critica all’onto-teo-logia, che lo impegnerà lungo tutto il suo Denkweg: la filosofia è fin dapprincipio teologica, poiché è la domanda sull’essere quale fondamento dell’ente, «è la domanda del theíon, che sorge già all’inizio della metafisica in Platone e Aristotele, che sorge cioè dall’essenza della metafisica» (HGA 6.2, p. 313; tr. it., p. 820). L’ingresso di Dio nella filosofia non è casuale, ma è conforme alla cosa stessa del

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losofia della religione, ad ogni sapere cumulativo, e ritorna all’esperienza originaria della croce, che è anche l’esperienza fattizia, quello che Heidegger compie insieme a Lutero. 5.2. Theologia crucis A partire dalla lezione agostiniana, Heidegger individua due vie d’accesso a Dio: seguendo la prima, il pensiero, rivolgendosi alla sua incommensurabile grandezza, se ne allontana, attraverso l’altra, badando all’“aspetto del cuore”, si avvicina. Pertanto, «va respinta qualsiasi reificazione cosmico-metafisica del concetto di Dio, anche in quanto concetto irrazionale. Ci si deve appropriare piuttosto della facies cordis (l’interiorità). Dio sarà presente nell’uomo interiore quando avremo capito che cosa significano ampiezza, lunghezza, altezza, profondità»132. Accogliere Dio nell’interiorità significa accogliere la pensiero, pensata come próte arché, «la causa [Ursache] intesa come causa sui. È questo il nome appropriato per il dio nella filosofia. A un dio simile l’uomo non può rivolgere preghiere né può offrire sacrifici. Dinanzi alla causa sui l’uomo non può cadere devotamente in ginocchio né può suonare e danzare. Di conseguenza, il pensiero senza-dio [das gott-lose Denken], che deve rinunciare al dio della filosofia – cioè al dio come causa sui –, è forse più vicino al dio divino. Il che, in questo caso, significa soltanto: questo pensiero è libero per tale dio più di quanto la onto-teo-logica non sia disposta ad ammettere. Possa quest’ultima osservazione gettare una debole luce sulla via verso cui si sta incamminando un pensiero che compie il passo indietro» (HGA 11, pp. 77-78; tr. it., pp. 95-96). Compiere un passo indietro non vuol dire indagare un problema già affrontato, bensì indagare ciò che è rimasto non indagato: il passo indietro non è una mera regressione storiografica, «un passo isolato del pensiero, ma la dinamica stessa del pensiero e un lungo cammino» (HGA 11, pp. 58-59; tr. it., p. 63). Capelle osserva che Heidegger riconosce a Lutero di aver «messo in rapporto la questione della trascendenza divina con la problematica del soggetto in cerca di salvezza», anche se si allontana da Lutero perché «non è andato fino in fondo nella sua ricerca della fatticità, sacrificandola in un al di là dell’esperienza come fa ogni metafisica»; eppure, gli resta sempre debitore, in quanto è in lui che trova la determinazione del cosiddetto “passo indietro” verso il primo inizio, ripensando il quale è possibile un nuovo inizio oltre la metafisica: «sulla sua scia, infatti, Heidegger sostiene che l’accesso al vero sapere si realizza non nel progresso cumulativo, ma nel ritorno all’origine» (P. Capelle-Dumont, Philosophie et théologie dans la pensée de Martin Heidegger, Cerf, Paris 1998; tr. it. di L. Gianfelici, Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger, Queriniana, Brescia 2011, p. 162). 132 HGA 60, p. 290 (tr. it., p. 368).

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croce, nella cui simbologia il braccio trasversale (latitudo) ove sono inchiodate le mani rappresenta le buone opere, il legno in cui è eretto il corpo (longitudo) la perseveranza, la parte in alto (altitudo) la speranza e il pezzo interrato (profundum) la grazia segreta133. Anche per Lutero ci sono due tipi di cognitio Dei: uno è il vedere intellettivo [intellecta conspicit], che scruta le perfezioni invisibili di Dio [invisibilia Dei] ex operibus, l’altro l’intendere credente [conspecta intelligit], «che comprende la natura di Dio, visibile e volta verso il mondo [visibilia et posteriora Dei], per mezzo della passione e della croce [per passione et crucem]»134. Il conspecta intelligit va concepito come l’«intuizione ermeneutica» heideggeriana «dalla quale è escluso ogni porre teoretico-oggettivante, trascendente»135: la theologia crucis, infatti, non è un tipo particolare di teologia che ha ad oggetto la croce, bensì è essa stessa crucifixa, poiché non ex-cede dall’incarnazione, sapendo che «in Cristo crocifisso è la vera teologia e la conoscenza di Dio»136. La theologia crucis, il lógos di un Dio incarnato che partecipa della motilità della vita umana, è una teologia activa, perché di un Dio crocifisso non si può avere conoscenza, ma solo farne esperienza137, e lo stesso vale 133 Cfr. Sant’Agostino, Opere. Discorsi (sul Nuovo Testamento), tr. it. di L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1982, II/1, n. 53, 15.16, p. 105. 134 M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 354 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 183). L’espressione “posteriora Dei” è tratta da Es, 33, 20- 23, dove è narrato l’episodio in cui Dio dice a Mosè, che gli chiede di mostrarsi: «“ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. Aggiunse il Signore: “Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere”». Sulla croce come principio di conoscenza di Dio cfr. G. Miegge, Lutero giovane, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 134-138. 135 HGA 56/57, p. 117; tr. it., p. 109. La coappartenenza di ontologia e teologia, come anche la loro differenza, diviene manifesta, secondo Heidegger, proprio quando la metafisica «nomina il tratto fondamentale in base al quale conosce l’ente in quanto tale. È la trascendenza […]. L’ontologia rappresenta la trascendenza come il trascendentale. La teologia rappresenta la trascendenza come il trascendente» (HGA 6.2, pp. 314315; tr. it., p. 821). 136 M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 362 (tr. it., La disputa di Heidelberg, pp. 196-197). 137 M. Lutero, Veit Dietrichs Nachschriften, in WATR 1, p. 16, n. 46: «sola autem experientia facit theologum». Camilleri, commentando quest’affermazione luterana, definisce la teologia della croce “theologia experimen-

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per l’ontologia crucis, la Philosophie des lebendigen Lebens, il cui «punto di partenza e punto d’arrivo», per Heidegger, «è l’esperienza effettiva della vita, che è essenzialmente un’esperienza storica»138. Al Dio manifesto della theologia gloriae si oppone il «Deus crucifixus et absconditus»139 (Is, 45, 15), espressione questa che non designa il mistero insondabile, l’essenza occulta di Dio, ma il carattere inaudito della sua rivelazione: infatti, in Cristo, Dio sceglie di mostrarsi solo “di schiena”, non nel senso che si rivela indirettamente, quasi che la schiena simboleggiasse il riflesso, l’ombra, ma nel senso che si manifesta sub contraria specie. Le tracce di questo Dio, talis” (S. Camilleri, Phénomenologie de la Religion et Herméneutique théologique dans la pensée du jeune Heidegger. Commentaire analytique des Fondements philosophiques de la mystique médiévale (1916-1919), Springer, Dordrecht 2008, p. 189). 138 HGA 60, p. 15 (tr. it., p. 48). Heidegger ritiene che «il concetto racchiuso nella parola teo-logia vuol dire scienza di Dio. Ma Dio non è affatto oggetto della ricerca teologica come lo sono, ad esempio, gli animali per la zoologia. La teologia non è la conoscenza speculativa di Dio» (M. Heidegger, Phänomenologie und Theologie, in HGA 9, p. 59; tr. it., Fenomenologia e Teologia, p. 16), ma «ha per essenza il carattere di una scienza pratica. Come scienza dell’agire di Dio sull’uomo che agisce con fede» (ivi, pp. 58-59; tr. it., p. 15). La teologia come scienza pratica, ispirata dalle intuizioni di Lutero, va «alla ricerca di una più originaria interpretazione dell’essere dell’uomo rispetto a Dio, prescritta dal senso stesso della fede ed interna ad essa» (HGA 2, p. 13; tr. it., p. 22). 139 M. Lutero, Briefe an Lang, Ioh, in WABr 1, p. 70. Sommer spiega che «la figura paradossale della teologia della croce è distante dalla teologia negativa di uno Pseudo-Dionigi, di cui Lutero critica la tendenza speculativa […]. Il rimprovero principale che Lutero rivolge alla teologia speculativa di Dionigi e alla tradizione neoplatonica è la ricerca del Deus absconditus in majestate» (M. Heidegger, Le probleme du peché chez Luther, “Alter”, 12, 2004, pp. 277-278, nota 21 del curatore). Buzzi sostiene che la negazione luterana è «la negazione di sé, la rinuncia alla propria autoaffermazione (nel quadro generale della “theologia crucis”). È questa la fondamentale correzione “esistenziale” entro la quale Lutero accoglie e trasforma la teologia negativa, puramente o prevalentemente, “speculativa” di Dionigi» (M. Lutero, La lettera ai Romani (1515-1516), tr. it. e cura di F. Buzzi, Edizioni Paoline, Milano 1991, p. 508, nota 65 del curatore). Nel pensiero luterano «l’assunzione della “teologia negativa” avviene nella misura in cui essa è riconducibile nel quadro della “theologia crucis” che ha, come suo terreno d’esercizio e sua strumentazione, non una logica speculativa astratta, ma la vita stessa del cristiano, in cui si riproduce la vicenda di Cristo: qui la “negazione” equivale all’“abnegazione”» (ivi, p. 555, nota 30 del curatore).

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l’humanitas, l’infirmitas e la stultitia, sembrano una negazione della sua perfezione, una detrazione della sua onnipotenza, eppure sono un ex-cessum se lette alla luce del rovesciamento paradossale di Paolo tra rivelazione gloriosa e sconfitta, forza e debolezza, sapienza e stoltezza, vita e morte. Il lógos tou theou in quanto lógos toú stauroú corrisponde alla follia [moría] di Dio, alla sua «pura follia»140, per usare parole nietzscheane, che, lungi dall’essere dissennatezza [aphrosýne] o delirio [manía], è un’ex-stasis, non nel segno del misticismo, ma dell’ex-sistere (o ex esse) dalla logica umana (Mc, 3, 21); il lógos della croce “è fuori” dal nostro modo di pensare e dai nostri propositi: non lascia in piedi quel nostro modo di pensare, anche in ciò che ha di più santo, ma lo distrugge [destrui], lo sradica, lo disperde tutto. […]. La parola di Dio “spezza la pietra”, e distrugge e crocifigge in noi tutto ciò di cui ci compiacciamo, e non ci lascia altro che quanto ci dispiace; e per questa via ci insegna a trovare soddisfazione, e ragione di gioia e di fiducia solo in Dio141.

Come scrive Heidegger, «il Vangelo fa colpo [einschlägt]»142, spacca la roccia (Ger, 23, 29), perché è una «theologia paradoxa»143 140 F. Nietzsche, Der Antichrist. Fluch auf das Christentum, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, VI/III, hrsg. von G. Colli e M. Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1969; tr. it. di F. Masini, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, Adelphi, Milano 1995, p. 43. Per il rapporto tra la sapienza umana e la follia di Cristo, in una lettura che considera la polemica nietzschena nei confronti del cristianesimo, si rimanda a C. Resta, Ecce Homo, “Segno”, 330, 2011, pp. 105-116. 141 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 423 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 175). Arendt nota che «quando si giunge a Paolo, ogni accento si sposta dal fare al credere, dall’uomo esteriore che vive in un mondo di apparenze […] a un’interiorità che per definizione non si manifesta mai in modo non equivoco e può esser scrutata solo da un Dio che a sua volta non appare mai in modo non equivoco» (H. Arendt, The Life of the Mind, Harcourt, New York-London 1978; tr. it. di G. Zanetti, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1996, p. 383). 142 HGA 60, p. 143 (tr. it., p. 189). 143 M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 353; (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 181). È evidente l’ascendente che la theologia crucis esercita su Kierkegaard, il quale contrappone al “Gesù della gloria” il “Gesù dell’umiliazione”: «se fosse vero che è stato colui che siede nella gloria a pronunciare quelle parole: “Venite qui!”, è del tutto comprensibile che gli uomini correrebbero a buttarsi nelle braccia della gloria», ma «è

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che va contro [pará] l’opinione comune [dóxa], un dire che è un trasgre-dire. Ecco perché il fatto decisivo è la predicazione [Verkündigung] «e precisamente il suo come: non nella forma del discorso sapienziale – affinché la croce non sia svuotata dal molto chiacchierare –, ma solamente tramite il suo parlare semplice e opportuno»144 (cfr. 1 Cor, 1, 17). La predica paradossale della croce non è ‘contraddittoria’, ma è la parola della riconciliazione (2 Cor, 5, 19) e della conversione (Ef, 2, 14-16 e 4, 21-24) che, a differenza dei «discorsi magniloquenti che occultano l’autentico»145, dei discorsi della sophía che non conducono alla salvezza, pone l’uomo dinnanzi ad una scelta che non ha margine di evasione ed è al di là del razionalismo e dell’irrazionalismo, poiché è una scelta di fede. Lo “scandalo della croce” (Gal, 5, 11) è «l’autentico caposaldo del cristianesimo, di fronte al quale ci sono soltanto fede [Glaube] o miscredenza [Un-glaube]»146; la croce «rappresenta un aut-aut […]. Lo il Gesù Cristo dell’umiliazione che ha detto quelle parole», è lui l’Invitante (S. Kierkegaard, Indøvelse i christendom, in Søren Kierkegaards Skrifter, Bd. 12, a cura di N.J. Cappelørn, J. Garff, J. Kondrup, Gads, København 2008; tr. it. di C. Fabro, Esercizio di cristianesimo, Piemme, Casale Monferrato 2000, p. 66). 144 HGA 60, p. 144 (tr. it., pp. 189-190). 145 HGA 60, p. 144 (tr. it., p. 190). Per la follia di Dio che si esplica nel lógos della croce, nel linguaggio della profezia, intesa nel suo senso etimologico come la parola chiara rivolta al popolo, si rimanda a M. Cacciari, Un’estasi sobria, “Segno”, 330, 2011, pp. 117-128. 146 HGA 60, p. 71 (tr. it., p. 110). Lo “scandalo” [katexochén] è un concetto cardine della spiritualità kierkegaardiana: «come il concetto di “fede”, anche quello di “scandalo” è una categoria specificamente cristiana che si rapporta alla fede. La possibilità dello scandalo è una specie di bivio ovvero è ciò che pone davanti a un bivio. Da questa possibilità si dipartono due vie, l’una porta allo scandalo e l’altra alla fede, ma non si giunge mai alla fede senza passare attraverso la possibilità dello scandalo» (S. Kierkegaard, Esercizio di cristianesimo, cit., p. 121). Kierkegaard sostituisce la categoria moderna di “dubbio” con quella originaria di “scandalo” (cfr. Mt, 11, 6; Lc, 7, 23 e 15, 12; Gv, 6, 61 e 16, 1), sostituisce l’alternativa dubitare o credere con scandalizzarsi o credere che un uomo singolo, il più umile fra gli umili, sia Dio: «la possibilità dello scandalo è la collisione [Frastød] da cui può sorgere la fede» (ivi, p. 177). Il danese Frastød, simile al tedesco Anstoß utilizzato da Heidegger, l’urto, il movimento di arresto, esprime la drammaticità dello scandalo, la disperazione, che la filosofia moderna tende a neutralizzare con il dubbio: «la disperazione stessa è una scelta. Si può dubitare senza scegliere il dubbio, non si può disperare senza scegliere la disperazione. E mentre si dispera, si sceglie di nuovo. E cosa si sceglie? Si sceglie se stessi, non nella propria immediatezza, non

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scandalo non deve essere neutralizzato e attenuato da un atteggiamento ricettivo che, mediante il discorrere e la sapienza, distoglie lo sguardo da esso, quindi non si mantiene radicalmente aperto»147. La croce, che è l’opera più singolare, il lavoro più inconsueto di Dio (Is, 28, 21), follia per quelli che si perdono, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, ma potenza di Dio per quelli che si salvano e che sono chiamati (1 Cor, 1, 18-24), indicata formalmente non è altro che la «diabolica lacerazione [Zerrissenheit]»148 della vita fattizia, sempre posta dinanzi ad una decisione che ha la forma del dilemma. 6. Decostruire l’uomo L’esperienza di un Dio crocifisso sta sotto il segno della contraddizione che tormenta, mentre la conoscenza di un Dio glorioso si declina secondo il principio della corrispondenza, che genera nell’uomo una «mera et mala securitate»149. La creatura, fatta a «immagine e gloria di Dio» (1 Cor, 11, 7; Gen, 1, 26-27), tende ingannevolmente ad aver fiducia nella propria opera e, come dice Lutero, «confidacome questo individuo casuale, ma si sceglie se stessi nel proprio eterno valore. […] Il dubbio è la disperazione del pensiero, la disperazione è il dubbio della personalità. […] Solo nella disperazione la personalità è acquietata; non con necessità (perché non dispero mai necessariamente), ma con libertà, e solo così vien conquistato l’assoluto» (S. Kierkegaard, Enten-Eller in Søren Kierkegaards Skrifter, Bd. 2, a cura di N.J. Cappelørn, J. Garff, J. Kondrup, Gads, København 1997; tr. it. di K.M. Guldbrandsen e R. Cantoni, Aut-Aut. Estetica ed etica nella formazione della personalità, Mondadori, Milano 2009, pp. 68-71). 147 HGA 60, p. 144 (tr. it., p. 190). Le parole “aut-aut”, assunte da Kierkegaard come motto dell’esistenza, «non sono, come credono i grammatici, congiunzioni disgiuntive, no, esse si appartengono indissolubilmente, e perciò vanno scritte in una parola sola» (S. Kierkegaard, Aut-Aut. Estetica ed etica nella formazione della personalità, cit., p. 6), poiché nell’unione esprimono il carattere ontologico della vita, ovvero la scelta che chiama ognuno a decidersi per se stesso: «la grandezza, infatti, non consiste nell’essere questo o quello, ma nell’essere se stesso, e questo ciascuno lo può se lo vuole» (ivi, p. 27). 148 HGA 60, p. 209 (tr. it., p. 269). 149 M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 358 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 190). Sul principio della concordanza della teologia della gloria e quello della contraddizione della teologia della croce cfr. G. Ebeling, Lutero. Un volto nuovo, cit., pp. 209-224.

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re [confidere] nella propria opera, anziché temerla [timere], significa dare gloria a sé stesso e toglierla a Dio, che si deve temere in ogni opera»150. Detto in altri termini, abbandonando il timore di Dio, gli uomini fanno di se stessi degli idoli, «divengono sicuri di sé e quindi superbi, cosa questa pericolosa. Infatti, così si toglie regolarmente a Dio la gloria che gli è dovuta e la si attribuisce a sé stessi»151. A questo riguardo Paolo dà un importante avvertimento, dicendo non solo «chi si vanta si vanti nel Signore»152 (1 Cor, 1, 31), ma anche «“Ringrazio”, 1 Cor, 1, 14, di non aver più battezzato, sicché non me ne posso vantare»153. La superbia è la terza forma agostiniana di tentatio, l’ambitio saeculi, l’autoconsiderazione [Selbstgeltung], che a differenza degli altri modi della concupiscenza, non mira a qualcosa di relativo al mondo-ambiente, poiché in essa ne va propriamente dell’Ich-Selbst, che si dà da fare per conquistare «una determinata posizione in rapporto al mondo degli altri. Si tratta di un velle: volere, desiderare, mettere coscientemente in opera la vita in modo da essere temuti o amati dagli altri»154. La vita dominata da timeri e amari velle è «una misera vita, una vita miserevole, e una foeda incantatia, una vergognosa arroganza»155, perché «l’uomo non può essere oggetto del frui»156 come la trinitas. L’autocompiacimento ha quattro differenti manifestazioni, che costituiscono non una scala, ma una gamma di miserevolezza: «si prende sul serio ciò che si “è fatto”, si “fa”, si è “capaci di fare”»157; oppure «se al sé inerisce un bene genuino […] – cosa che però, in quanto tale può essere soltanto di Dio – questo fatto è assunto di fronte a se stessi come acquistato grazie a se 150 M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 358 (tr. it., p. 189). Si tratta della probatio alla tesi 7: «le opere dei giusti sarebbero peccati mortali, se i giusti stessi, presi da pio timore, non temessero che esse siano peccati mortali» (ibidem). 151 Ibidem (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 191). 152 Sul vantarsi nel Signore e non nella propria giustizia cfr. Sant’Agostino, Opere. Discorsi (sul Nuovo Testamento), tr. it. di M. Recchia, Città Nuova, Roma 1990, III/2, n. 160, pp. 615-627. 153 HGA 60, p. 144 (tr. it., p. 189). 154 HGA 60, p. 229 (tr. it., p. 293). Cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 36-39, pp. 308-312. 155 HGA 60, p. 230 (tr. it., p. 294). 156 HGA 60, p. 278 (tr. it., p. 355). 157 HGA 60, p. 238 (tr. it., p. 304). Cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 39, p. 312.

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stessi»158; ancora, seppure il bene è riconosciuto come dono, il sé si ritiene «degno della dote»159; infine, «anche qualora il sé non si attribuisca nemmeno il merito e ammetta di possedere il bene immeritatamente, ex gratia, il gaudium boni può essere tale che il sé si rallegra di non condividerlo con altri»160. La superbia non fa altro che adombrare il «carattere di grazia della vita intera [Gnadencharackter allen Leben]»161, operando un pervertimento del concetto di grazia e della sua gratuità infinitamente sproporzionata rispetto alla finitezza dell’uomo: infatti, la «fatticità non può essere conquistata con le proprie forze, ma proviene da Dio – fenomeno dell’effetto della grazia. […] Il fenomeno è decisivo per Agostino e Lutero»162; allo stesso modo l’esserci, pur non essendo concepito da Heidegger come un essere-creato, è nondimeno un essere-gettato, la cui gettatezza è sia una deficienza intrascendibile, sia un dono, un “tesoro in vasi di argilla” (2 Cor, 4, 7). 6.1. La morte di Adamo Da “nemico della croce” (Fil, 3, 18), «lo Scolastico assume contezza di Cristo soltanto in via supplementare, ovverosia soltanto dopo aver determinato l’essere di Dio e del mondo. Questa modalità di riflessione greca, propria dello Scolastico, rende l’uomo orgoglioso»163. Il teologo “amico della croce” sa che attraverso di essa viene distrutto il vecchio Adamo pieno di sé: mediante la croce si distruggono [destruuntur] le opere e viene crocifisso Adamo, che dalle opere è piuttosto edificato [aedificatur]. Infatti è impossibile che non si gonfi delle proprie opere buone colui che non 158 HGA 60, pp. 238-239 (tr. it., p. 305). 159 HGA 60, p. 239 (tr. it., p. 305). 160 HGA 60, p. 239 (tr. it., p. 305). Anche Lutero individua quattro aspetti della superbia: l’ingratitudine, la vanità, l’accecamento e l’autoinganno (M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, pp. 178-179; tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 104). 161 BrH-B, p. 14 (tr. it., p. 32). 162 HGA 60, pp. 121-122 (tr. it., p. 164). Per Heidegger «l’Esserci è stato-gettato, cioè non si è portato nel suo Ci da se stesso» (HGA 2, p. 377; tr. it., p. 339), perciò, «non può mai insignorirsi» (HGA 2, p. 377; tr. it., p. 339), non può mai «essere signore dell’essere più proprio. Questo “non” rientra nel senso esistenziale dell’esser-gettato» (HGA 2, pp. 377-378; tr. it., p. 340). 163 PS, p. 30 (tr. it., p. 210).

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sia stato prima annientato e distrutto [destructus] dalle sofferenze e dai mali, in modo da sapere di non essere nulla e che le opere sue non sono sue, ma di Dio164.

La consapevolezza che le proprie opere non sono proprie, ma di Dio, non solo destituisce la securitas, annienta la superbia, ma conduce alla humilitas: diventare peccatore comporta distruggere [destrui] quel modo di sentire per cui si è ostinatamente convinti di vivere, di parlare e di agire bene, santamente e giustamente; e rivestirsi di un altro modo di sentire (che viene da Dio), per cui si crede sinceramente di essere peccatori e di agire, di parlare, di vivere male e di sbagliare165.

L’umiltà rimanda a quel processo di kénosis, letteralmente “svuotamento”, del lógos divino, che è un’epifania rovesciata in cui il culmine della rivelazione corrisponde all’alienazione, descritto nel celebre brano paolino di Fil, 2, 5-8: «abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò [ekénose] se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce»166. In Cristo, Dio esce fuori da sé e «con il suo uscire […], ci fa entrare in noi stessi»167; Cristo, spiega Lutero commentando il Prologo giovanneo, è l’opus Dei pro nobis: 164 M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 362 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 198). 165 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 233 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 162). Sull’humilitas fidei che scardina l’idea di giustificazione ex nobis, cfr. B. Forte, La giustificazione. Gli ‘Initia Lutheri’, in Sui sentieri dell’Uno. Saggi di storia della teologia, Paoline, Cinisello Balsamo 1992, pp. 139-140. 166 La formula “ha spogliato se stesso fino alla morte”, che è l’essenza della decisione di Cristo di farsi intercessore per la salvezza degli uomini, è tratta da Is, 53, 12. Quinzio dà una lettura radicale di questo passo della Lettera ai Filippesi, sottolineando che la chenosi divina non è semplicemente «la privazione della gloria di Dio» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, p. 47), ma esprime l’«originaria lacerazione» (ivi, p. 49) di Dio, che sceglie di essere ciò che non è (cfr. 1 Cor, 1, 27-28). 167 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 229 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 158).

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infatti il verbo diviene carne appunto perché la carne divenga verbo. Dio diviene uomo appunto perché l’uomo divenga Dio, la forza diviene debole appunto perché la debolezza divenga forte, riveste la nostra forma e figura e immagine e somiglianza per rivestirci della sua immagine e forma e somiglianza, la sapienza diviene stolta appunto perché la stoltezza divenga sapienza, e così tutte le altre cose, che sono in Dio e in noi168.

Così come fa Dio assumendo la carne, «quando assumiamo il verbo occorre che abbandoniamo e svuotiamo noi stessi»169; per accogliere e tollerare la potente parola di Dio, è necessario che ci spogliamo di noi stessi, abnegandoci: «bada perciò di non bere vino se ancora sei un lattante. Ogni dottrina ha la sua misura, il suo tempo e la sua età»170, avverte Heidegger citando la Prefazione luterana all’Epistola di S. Paolo ai Romani. Se «ogni uomo è Adamo, come […] ogni uomo è Cristo»171 – per usare una celebre espressione di Agostino –, allora «la humilitas, la tribulatio diventano esse stesse espressione della salvezza personale»172. L’humilitas in fin dei conti è una ex-propriatio, è la destructio dell’uomo vecchio, del suo abituale modo di pensare e agire, nella quale è insita la riedificazione. Attraverso la croce e la sofferenza Dio tenta l’uomo, ma questo suo modus agendi apparentemente malevolo e vendicativo nasconde la misericordia, è il tramite della grazia: «le opere di Dio per 168 M. Lutero, Sermones aus den Jahren 1514-1517, in WA 1, p. 28. Per un approfondimento della predica di Natale del 1514 dedicata al Prologo giovanneo, in cui Lutero afferma che l’essenza di Dio è il divenire (motus) e che nella fede l’uomo diviene Dio cfr. S. Leoni, Motus essentia Dei, Deus essentia beatorum. Ontologia e teologia in una predica giovanile di Lutero, “Protestantesimo”, 3, 1996. 169 M. Lutero, Sermones aus den Jahren 1514-1517, in WA 1, p. 29. 170 HGA 61, p. 182 (tr. it., p. 214). Cfr. M. Lutero, Vorrede auss die Epistel S. Pauli an di Römer, in WadB 7, p. 25 (tr. it., Prefazione all’Epistola ai Romani, p. 529) e il commento a Rm, 8, 26, ove afferma che è nella natura di Dio «di distruggere prima e di annientare tutto ciò che è nostro, e solo dopo darci ciò che è suo» (M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 375; tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 118). 171 Sant’Agostino, Opere. Esposizioni sui Salmi, tr. it. di V. Tarulli, Città Nuova, Roma 1970, II, sul Salmo 70, n. 2, 1, p. 763. 172 HGA 60, p. 309 (tr. it., p. 390). Come osserva Van Buren: «il tema della crocifissione dell’homo gloriens della metafisica e la rinascita dell’homo crucis che il giovane Heidegger trovò in Lutero, Kierkegaard e altri pensatori cristiani fu per un certo tempo un modello per il suo tentativo di […] decostruire il concetto metafisico tradizionale del sé» (J. Van Buren, The Young Heidegger. Rumor of a hidden king, cit., p. 189).

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quanto possano apparire deformi e malvagie, sono tuttavia meriti immortali. […]. È quello che Isaia al capitolo XXVIII chiama “opera aliena di Dio”, per mezzo della quale compie l’opera sua propria»173. L’opus alienum è, in termini agostiniani, la tentatio probationis o tribulationis, la tendenza di Dio a mettere alla prova, che si distingue dalla tentatio deceptionis del diavolo, che è la tendenza a far cadere. Dio non risparmia nessuno, né il giusto né il peccatore, perché, da buon agricoltore di vite, usa la falce in modo diverso, taglia i tralci che non portano frutto e pota quelli che ne portano, perché ne portino di più (Gv, 15, 1): «nessun uomo infatti è dotato di tanto grande giustizia che non gli sia necessaria la prova della tribo-

173 M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, pp. 356-357 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 187). Non si può omettere di notare la stretta relazione tra il tema luterano dell’opus alienum e proprium e i temi dell’appropriazione del proprio attraverso l’estraneo e della salvezza nel pericolo estremo, capisaldi del pensiero heideggeriano: M. Heidegger, Wozu Dichter?, in HGA 5, p. 296 (tr. it., Perché i poeti?, p. 273) e Id., Die Frage nach der Technik, in HGA 7, p. 29 (tr. it., La questione della tecnica, p. 22), ove sono citati i versi dell’inno di Hölderlin a Patmo, l’isola in cui Giovanni fu rapito e compose l’Apocalisse: «ma là dove c’è il pericolo, cresce /anche ciò che salva» (F. Hölderlin, Patmo, in Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1999, p. 667, vv. 3-4). Si veda altresì M. Heidegger, Der Spruch des Anaximander, in HGA 5, p. 373 (tr. it. Il detto di Anassimandro, p. 348); Id., Bauen Wohnen Denken, in HGA 7, p. 152 (tr. it., Costruire abitare pensare, p. 100); Id., Die Kehre, in HGA 79, p. 72 (tr. it., La svolta, p. 19); HGA 65, p. 54 (tr. it., p. 79). Sarebbe interessante approfondire – ma non è questa la sede per farlo – lo spunto offerto da Ronchi, il quale nota che l’influenza della teologia di Lutero sul pensiero heideggeriano continua anche quando il filosofo si rivolge alla poesia hölderliniana: infatti «l’archetipo linguistico e stilistico di Hölderlin affonda le proprie radici nella Bibbia, versione di Lutero, e quindi nel sottofondo teologico relativo» (S. Ronchi, Heidegger e la teologia, “Protestantesimo”, 2, 1992, p. 115, nota 51). Pöggeler dedica a questo sentiero un breve, ma interessante saggio: O. Pöggeler, Heideggers Weg von Luther zu Hölderlin, in AA. VV., Heidegger und die christliche Tradition. Annäherungen an ein schwieriges Thema, cit., pp. 167-186. Per l’influenza sul pensiero heideggeriano, dopo la cosiddetta Kehre, della tradizione protestante, in particolare del metodo decostruttivo e di alcune tematiche specificamente luterane, mi permetto di rimandare a V. Surace, Alienum et proprium. Ascendenze luterane nella lettura heideggeriana degli inni di Hölderlin, in AA. VV., L’evento dell’ospitalità tra etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resta, Mimesis, Milano 2013.

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lazione, al fine di perfezionare, di confermare»174. Persino Paolo, portando la propria esperienza di apostolo, dice: «per la straordinaria grandezza delle rivelazioni è stata data alla mia carne una spina [skólops té sarkí], un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia» (2 Cor, 12, 7). Per Heidegger skólops té sarkí non fa riferimento, come si è a lungo ipotizzato, ad un’infermità fisica, ad una malattia o alla resistenza di Israele all’evangelo, ma alla tentatio probationis, che è l’autentica tentatio, in quanto fa sì che «l’uomo metta in questione se stesso»175, attenuando la sua disposizione vanagloriosa e ogni disposizione che non venga da Dio. Come suggerisce Lutero, solo accettando di essere annichiliti dall’opera aliena è possibile essere deificati, solo dipartendo dal mondo è possibile rimpatriare nel Regno di Dio, solo morendo è possibile vivere in Cristo: colui che è stato annientato dalle sofferenze non opera più egli stesso, ma sa che Dio opera in lui e compie ogni cosa. […]. Sa che gli basta di soffrire e di essere distrutto dalla croce, per essere maggiormente annientato. È ciò che Cristo dice in Giovanni, III: Bisogna che nasciate di nuovo. Se bisogna rinascere, bisogna prima morire […]. Morire, dico, è sentire la morte presente176.

Nel tema dell’annihilatio e della deificatio, nel «mori, inquam, id est, mortem presentem sentire» non si può non avvertire l’essereper-la-morte di Heidegger, nonché un Leitmotiv della letteratura tanto profana che sacra: l’immagine della vita come corsa verso la morte. Seneca è il primo ad introdurre, accanto all’aspetto tradizionale della morte come liberazione, l’idea che la vita è in sé un iter mor174 Sant’Agostino, Opere. Contro Fausto manicheo, tr. it. di U. Pizzani, L. Alici, A. Di Pilla, Città Nuova, Roma 2004, XIV/2, XXII, 20, p. 491. Cfr. Id., Le Confessioni, cit., X, 32, p. 302: «nessuno deve ritenersi sicuro in questa vita che è detta una continua tentazione, sicché chi da cattivo è divenuto buono, non possa anche da buono ricadere nel peggio». 175 HGA 60, p. 274 (tr. it., p. 349). Per Agostino «il termine “tentazione” ha diversi significati, in quanto c’è la tentazione consistente nell’inganno e c’è la tentazione consistente in una prova, ben diverse l’una dall’altra: nella prima il tentatore è solo il diavolo, nella seconda è Dio» (Sant’Agostino, Opere. Le Lettere, tr. it. di L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1974, III, n. 205, 2.16, p. 473). 176 M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 363 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 200). Cfr. Sal, 73 (72), 22: «ego ad nihilum redactus sum».

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tis177; del resto, l’antropologia cristiana non ha mai omesso di sottolineare che «vita ↔ morte»178 sono legate a doppio filo l’una all’altra: Paolo sa che la morte non è la fine della vita, perché l’uomo è ogni giorno un morente (1 Cor, 15, 31; 2 Cor, 4, 11-12 e Rm, 14, 8) e per Agostino l’uomo, dal momento in cui incontra Cristo, è «destinato a vivere per la morte»179. E, in questo contesto, non si può omettere di ricordare l’esortazione ad amare la morte che conclude l’Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura e il dir sì a “sorella” morte di Francesco d’Assisi, che per Heidegger rappresentano «for177 Seneca scrive all’amica Marcia, consolandola per la perdita prematura del figlio: «a ciascuno è stata data una capacità diversa di vita. Nessuno muore troppo presto, perché non doveva vivere più a lungo di quanto è vissuto. […] Non c’è perciò motivo per cui tu ti opprima in questo modo: “Avrebbe potuto vivere di più”. La sua vita non è stata spezzata a metà né mai a interrompere gli anni si frappone il caso. Viene mantenuto ciò che è stato promesso a ciascuno; vanno per la loro strada, i fati, e non aggiungono né tolgono nulla a ciò che è stato una volta per sempre promesso. Vani risultano i voti, i desideri: ciascuno avrà quanto il primo giorno gli ha destinato. È dal giorno in cui vide per la prima volta la luce che si è messo sulla strada della morte e si è avvicinato sempre di più al suo destino, mentre quegli anni stessi che si aggiungevano a render piena la giovinezza si sottraevano alla vita» (L.A. Seneca, Consolazione a Marcia, in Dialoghi, a cura di P. Ramondetti, Utet, Torino 1999, 21.4 e 21.6, pp. 523525). Il memento mori è presente anche nelle lettere che Seneca indirizza al procuratore imperiale della Sicilia: «moriamo ogni giorno: ogni giorno, infatti, ci è tolta una parte della vita; anche quando il nostro organismo cresce, la vita decresce. […]. Come non vuota la clessidra l’ultima goccia, ma tutte quelle che sono già cadute, così l’ultima ora in cui cessiamo di esistere non produce, da sola, la morte, ma la compie; allora non giungiamo al termine, ma da tempo vi siamo avviati» (L.A. Seneca, Lettere a Lucilio, tr. it. di E. De Negri, Rizzoli, Milano 2001, lettera 24, p. 70). Si vedano anche le lettere 4: «dal momento in cui sei nato, tu sei avviato alla morte» (ivi, p. 34) e 78: «morirai non perché sei malato, ma perché vivi» (ivi, p. 134). 178 HGA 60, p. 140 (tr. it., p. 186). Heidegger nota che «l’antropologia elaborata in seno alla teologia cristiana, da Paolo alla meditatio futurae vitae di Calvino, ha sempre incluso la morte nella sua interpretazione della “vita”» (HGA 2, p. 331 nota 2; tr. it., p. 299, nota 6). 179 Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 17, p. 287. Il XIII libro del De civitate dei è dedicato all’origine della morte: «dal momento in cui ciascuno comincia ad esistere in questo corpo mortale, non c’è azione che non costituisca un passo verso la morte. Infatti, durante tutto il tempo di questa vita (se pure si può chiamare vita) la mutabilità dell’uomo è alla base del suo tendere verso la morte […]. Così il tempo di questa vita altro non è che corsa verso la morte» (Id., La città di Dio, cit., XIII, 10, pp. 612-613).

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me di liberazione e di conversione»180. Il cristiano, a differenza del miste, non offre «la fede in modo vuoto come stato e beatitudine definitiva, bensì come riferimento conforme all’attuazione dell’ingresso preoccupato nel futuro; essere-defunti dall’inizio del tempo della fine! […]. Fede: è morire con Cristo»181. Morire con e in Cristo (1 Ts, 4, 16) significa far morire ciò che appartiene alla terra (Col, 3, 5);

180 HGA 56/57, p. 211 (tr. it., p. 194). La morte è da assumere positivamente, senza negazione, perché è l’altra faccia della vita, o meglio perché tocca «i mortali nella loro essenza mettendoli sulla via dell’altra parte della vita e quindi dell’intero Bezug» (M. Heidegger, Wozu Dichter?, in HGA 5, p. 304; tr. it., Perché i poeti?, p. 280). 181 HGA 60, p. 128 (tr. it., p. 172). Dal punto di vista formale «la fede è un modo di esistere dell’Esserci umano che […] non matura spontaneamente a partire dall’Esserci, né per opera sua, ma […] a partire da ciò che si crede. Per la fede “cristiana”, ciò che primariamente è manifesto per la fede e soltanto per essa, e che in quanto rivelazione la fa maturare, è Cristo, il Dio crocifisso» (M. Heidegger, Phänomenologie und Theologie, in HGA 9, p. 52; tr. it., Fenomenologia e Teologia, p. 10). Nel «“prendere parte” [Teil-nehmen] e “avere parte” [Teil-haben] all’evento della crocifissione, tutto l’esserci in quanto cristiano, in quanto cioè riferito alla croce, viene posto davanti a Dio, e l’esistenza colpita da questa rivelazione, diviene manifesta a se stessa nella sua dimenticanza di Dio. […] L’esser posto davanti a Dio implica una conversione dell’esistenza che avviene nella e ad opera della misericordia di Dio colta attraverso la fede. […] L’autentico senso esistentivo della fede è dunque: fede = rigenerazione [Wieder-geburt]. Qui rigenerazione non significa un’assunzione temporanea di una qualche qualità, ma il modus dell’esistere storico dell’Esserci» (ivi, p. 53; tr. it., pp. 10-11). Sono evidenti gli influssi di Kierkegaard, il quale afferma, con una evidente allusione a Mt, 10, 39 («chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà»; cfr. Mt, 16, 25; Mc, 8, 35; Lc, 9, 24 e 17, 33; Gv, 12, 25), che il salto della fede consiste nel «coraggio di perdere se stesso per conseguire se stesso» (S. Kierkegaard, La malattia per la morte, cit., p. 70). Brejdak definisce la filosofia heideggeriana una Kreuzphilosophie, tesa tra l’attesa della morte [erwartete Tod] e la (ri)-nascita [(Wieder)-Geburt], in quanto «è una permanente decostruzione della fatticità deformata e un ritorno all’origine» ed «esige una disponibilità, non solo di prescindere dai contenuti, ma anche ad accogliere il nulla, il che significa un morire delle significatività mondane, un superamento del loro significare […]. Questa philosophia crucis non è attuabile senza la metánoia più radicale dell’esistenza attuale» (J. Brejdak, Philosophia crucis. Heideggers Beschäftigung mit dem Apostel Paulus, Peter Lang, Frankfurt 1996, p. 194).

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per questo Heidegger precisa: «nekroí en Christó, non thánatos!»182, nell’accezione kierkegaardiana di «morire a [at afdøe; gr. apothnésko]»183, una mortificazione che è un risanamento (1 Cor, 15, 21-22). Comprendendo la morte in senso indicativo-formale non come il momento biologico nel quale la vita cessa, bensì come il tratto costitutivo della finitudine dell’esserci, come ciò che «può spaesare l’esserci nel bel mezzo della gloria della sua quotidianità»184, Heidegger converte il cartesiano cogito sum nel neo-testamentario muribundus sum (2 Cor, 6, 9: «come moribondi, e invece viviamo»), in quanto «certezza fondamentale dell’esser-ci stesso»185. 6.2. La ri-nascita di Abramo «Quel che è grande nell’uomo è che egli è un ponte e non un fine: quel che si può amare nell’uomo è che egli è un passaggio e un trapasso»186, afferma Nietzsche nel proemio di Così parlò Zarathustra. E in effetti, per Heidegger, è questo il senso attuativo della rinascita dell’uomo, che sente la morte presente: la sua non è una 182 HGA 60, p. 138 (tr. it., p. 184). In uno scritto più tardo Heidegger dirà che quando l’anima «raggiunge la sua vera essenza, la figura umana in cui precedentemente compariva vien meno. Cade [ver-fällt] l’uomo antico, perde il suo modo d’essere, si tramuta [ver-west]» (M. Heidegger, Die Sprache im Gedicht, in HGA 12, p. 42; tr. it., Il linguaggio nella poesia, p. 52). Questa è la morte intesa non in maniera generica come la fine della vita, non «decomposizione [Verwesung], ma deposizione [Verlassen] di una figura umana decomposta [verwesten]» (ibidem). 183 S. Kierkegaard, La malattia per la morte, cit., p. 6. Rocca legge il nesso kierkegaardiano tra morte e peccato alla luce di Rm, 5, 12 «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte» (cfr. Rm, 5, 21 e 6, 16) e spiega che l’espressione “at afdøe” si riferisce al peccato (1 Pt, 2, 24: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia»), alla legge (Rm, 7, 4 «anche voi, mediante il corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto alla Legge») e in generale agli elementi mondani (S. Kierkegaard, La malattia per la morte, cit., p. 134, nota 9 del curatore). 184 M. Heidegger, Der Begriffe der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft, in HGA 64, p. 117 (tr. it., Il concetto di tempo, p. 39). 185 HGA 20, p. 437 (tr. it., p. 393). 186 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, VI/I, hrsg. von G. Colli e M. Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York 2013; tr. it. di S. Giammetta, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, a cura di G. Pasqualotto, Rizzoli, Milano 2001, p. 30.

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“conversione religiosa” [Bekehrung], bensì una Bewegtheit. La situazione esistenziale «si pone al di là dell’alternativa “staticodinamico”»187, poiché è un passare, un tra-passare; l’uomo è in statum viae, suggerisce Lutero, mai fermo, ma sempre in moto e si trasforma rinnovandosi (Rm, 12, 2) «come un infermo che passi dalla malattia alla guarigione»188. Nella vita degli Ebrei l’irrompere della predicazione di Paolo produce qualcosa di nuovo: «infatti, prós eklerótesin, “da – a” [von – zu], vale a dire in loro stessi qualcosa si deve essere rovesciato»189, liberato. Nella vita fattizia c’è un prima, un ‘da dove’, e un dopo, un terminus, e nel mezzo, nel “tra” [zwischen], il momento decisivo, evenemenziale e rivoluzionario, poiché da quel momento «ogni esperienza di vita naturale viene rifusa in un nuovo senso e da parte dell’uomo religioso diventa comprensibile solo a partire da quel punto»190. Tuttavia, l’a quo e l’ad quem non devono essere considerati come due punti spazialmente e/o temporalmente determinati, di modo che la motilità religiosa venga identificata come un meccanicistico passaggio di stato o un processo di sviluppo. L’essere-divenuti [Geworden-sein, eghenéthe] dei Tessalonicesi, determinato dall’ingresso di Paolo nella loro vita, è un’“evoluzione” [Entwiklung], una “trasformazione” [Wandel], una vera e propria “svolta”; in 1 Ts, 1, 9 («vi siete convertiti dagli idoli a Dio») è detto chiaramente che «si tratta di un’inversione assoluta [Wendung], più precisamente di un volgersi-verso [Hinwendung zu] Dio e di un volgersi-via [Wegwendung] dagli dei»191, rispettivamente nel senso del187 HGA 60, p. 92 (tr. it., p. 132). Come nota Duque: «è importante non confondere qui “motilità” [Bewegtheit] con “mobilità” [Beweglichkeit]. Il primo termine significa “capacità di muoversi”; il secondo “capacità di essere mosso”. In questa distinzione mette radici lo spostamento – e distanziamento – di Heidegger riguardo all’esperienza aurorale della religione cristiana, il paolino: in ipso movemur. Cioè: nella vita effettiva ci muoviamo […]. Non: in Dio siamo mossi» (F. Duque, Il contrattempo. Lo spostamento ermeneutico della religione nella fenomenologia heideggeriana, cit., p. 191, nota 32). 188 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 441 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 196). 189 HGA 60, p. 141 (tr. it., p. 186). 190 HGA 56/57, p. 211 (tr. it., p. 194). 191 HGA 60, p. 95 (tr. it., p. 135). Sui due aspetti della Wendung Heidegger torna nel saggio scritto in occasione del sessantesimo compleanno di Jünger: «la dedizione [Zuwendung] e il distoglimento [Abwendung] dell’es-

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la “dedizione” [Zuwendung] e del “dare le spalle a, distogliersi da” [Abwendung von]. L’essere-divenuto, la conversio Dei, allo stesso modo della concupiscentia, l’aversio Dei, sono due distinte direzioni dell’esperire e «la direzione dell’esperire indica qualcosa di possibile, dischiude possibilità», poiché in essa «sono presenti un “verso dove” [hin-zu] e un “via da” [weg-von]»192. Paradigmatica di questa virata è l’esperienza abramitica: il primo atto con cui Abramo diventa padre di una moltitudine è uno schísma, una separazione che lacera i legami di vita comune, le «belle relazioni di gioventù»193, le definisce Hegel, con gli uomini e la natura. Abramo, figlio di un costruttore di idoli, chiamato da Dio, si distacca dalle proprie origini, lascia la sua casa e la sua parentela, esce dalla terra natia e va verso un luogo ignoto. Come Abramo, anche i Tessalonicesi sono «in cammino; l’essere-divenuti, l’essere un nuovo divenire; i Tessalonicesi divenuti un (assoluto) divenire (l’usterema ha, lo steríxai

sere non possono mai essere rappresentati come se riguardassero l’uomo solo di quando in quando e solo per qualche istante. Piuttosto, l’essere dell’uomo consiste nel fatto che ognora, in un modo o nell’altro, esso perdura e dimora in questa dedizione e in questo distoglimento» (M. Heidegger, Zur Seinsfrage, in HGA 9, p. 407; tr. it., La questione dell’essere, p. 356. Anche in E. Jünger – M. Heidegger, Oltre la linea, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2004, p. 141). 192 HGA 60, p. 253 (tr. it., p. 324). 193 G.-W.F. Hegel, Der Geist des Christentums und sein Schicksal, in Frühe Schriften, hrsg. von E. Moldenhauer e K.-M. Michel, Werke, Bd. 1, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1971 (tr. it. di N. Vaccaro e E. Mirri, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, Guida, Napoli 1989, p. 377). Cfr. G. Lafon, Abraham ou l’invention de la foi, Le Seuil, Paris 1996 (tr. it. di L. Majocchi, Abramo o l’invenzione della fede, Gribaudi, Milano 1998). Commentando Eb, 11, 8 («con fede, Abramo chiamato, accettò di uscire dalla terra»), Lutero asserisce: «in primo luogo era difficile lasciare il luogo di nascita, che noi naturalmente amiamo. Anzi l’amore della patria è considerato la somma virtù delle genti. Quindi è dura lasciare gli amici, i parenti e la casa del padre [...]. In secondo luogo, dal momento che uscì ignaro, non avendo niente, non seguì alcuna cosa manifesta se non la Parola di Dio. [...] Questa è la gloria della fede, ignorare certamente dove sei, che cosa fai, che cosa sopporti, seguire la voce nuda di Dio ed essere condotto e guidato piuttosto che guidare. Abramo mantenne la promessa della fede con sommo esempio di vita evangelica [...]. Perciò giustamente è nominato “padre di molte genti”, “padre della nostra fede”» (M. Lutero, Die Vorlesung über den Hebräerbrief, in WA 57/III, pp. 235-237).

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deve)»194. Il Geworden-sein è l’essere-attuale [Jetzt-sein], perciò non è un possesso saldo raggiunto una volta per tutte, poiché in sé ha la mancanza (l’usterema ha) e deve essere (lo sterixai deve) completato e consolidato (1 Ts, 3, 10) incessantemente. Nel ripercorrere l’itinerario ad Deum di Agostino, il quale, dopo aver interrogato invano i corpi fisici, giunge negli “ampi ricettacoli” della memoria – che nel suo Vollzugssinn è la dinamica del cercare e del trovare –, Heidegger osserva che l’uomo è nella sua essenza alla ricerca, non nel senso che è l’oggetto o il soggetto della ricerca, ma nel senso che è il ricercare stesso che mai s’acquieta, poiché “trovarsi” vuol dire continuare a cercarsi, “convertirsi” vuol dire cercare sempre195. L’uomo non può liberarsi dall’irrequietezza, alleggerirsi dal peso del sé – che è un «grande enigma [magna quaestio]»196, «un terreno irto di difficoltà e fonte di sudore»197, una natura «svariata e multiforme»198 –, magari adoperando ‘tranquillanti’ metafisici, ma deve tolerare, farsene carico. Tuttavia, una lunga tradizione, che fa capo proprio ad Agostino, pur pensando l’inquietudine della vita fattizia («inquietum est cor nostrum»199), la 194 HGA 60, p. 146 (tr. it., p. 192). Come sottolinea Stagi, lo steríxai «da un lato rappresenta la coscienza del consolidamento dell’essere-divenuto, dall’altro non manca di evidenziare la labilità della vita fattizia. […] Lo sterixai mostra la volontà del cristiano di venire a capo della labilità della vita fattizia. È la testimonianza di un agire vitale che non combatte contro la labilità della vita fattizia attraverso la teoretizzazione, ma attraverso il consolidamento delle tendenze vitali» (P. Stagi, Il giovane Heidegger. Verità e rivelazione, Zikkurat, Teramo 2010, p. 74). 195 HGA 60, p. 192 (tr. it., p. 250). Cfr. M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 266 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 196). Secondo McGrath, nell’indicazione formale della vita fattizia come cercare c’è un chiaro riflesso luterano, in quanto «il significato della vita per Lutero, non è avere Dio [Gott zu Haben], bensì cercare Dio [Gott zu suchen]» (S. J. McGrath, Das verborgene theologische Anliegen von Sein und Zeit: Die Luther-Lektüre des jungen Heidegger, in AA. VV., Phänomenologie der Religion. Zugänge und Grundfragen, hrsg. von M. Enders, Alber, Freiburg-München 2004, p. 274). 196 Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., IV, 4, p. 122. Sul «peso» dell’esserci come «ciò che è da-portare» cfr. HGA 2, p. 179, nota a (tr. it., p. 167, nota a). 197 Ivi, X, 16, p. 286. 198 Ivi, X, 17, p. 287. 199 Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., I, 1, p. 53. Grossi fa un’importante precisazione: «cor sta per uomo situato, già relazionato, che ha i suoi punti di appoggio, eppure la radice del suo essere è irrequieta: è in cerca di Dio» (V. Grossi, Aspetti dell’umanesimo cristiano in Agostino Pelagio

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risolve nel quietismo speculativo della fruitio Dei («donec requiescat in te»200). Se «il frui è quindi la caratteristica fondamentale dell’atteggiamento di fondo di Agostino nei confronti della vita stessa»201, allora «per Agostino lo scopo della vita è la quies»202, intesa come perfezione divina. Al contrario, per Heidegger – che apLutero, in AA. VV., Agostino e Lutero. Il tormento per l’uomo, Augustinus, Palermo 1985, p. 24). 200 Ibidem. 201 HGA 60, p. 272 (tr. it., p. 347). Secondo Strummiello, «Agostino è assunto come il punto critico in cui – attraverso il tema della fruitio Dei come stabile compimento dell’attesa – il predominio platonico del rassicuramento teoretico torna ad insediarsi nell’alveo stesso del cristianesimo, distruggendone la capacità di attenersi alla costituzione effettiva (preteoretica) della vita» (G. Strummiello, Heidegger e la «filosofia», in AA.VV. La cosa stessa. Seminari fenomenologici, a cura di G. Semerari, Dedalo, Bari 1995, p. 91). Negli stessi termini si esprime Mazzarella: «è proprio nella figura di Agostino che nell’autoapprensione cristiana della vita come fatticità originariamente storica si ripropone la potenza di retroazione della Entlebung platonizzante come tendenza della teoretizzazione a ricoprire, nella riflessione, il fenomeno della fatticità, pure originariamente scoperto» (E. Mazzarella, Introduzione a M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, tr. it. di M. De Carolis, Guida, Napoli 2001, p. 17; anche in Id., Heidegger a Friburgo, in Ermeneutica dell’effettività. Prospettive ontiche dell’ontologia heideggeriana, Guida, Napoli 2001, p. 32). 202 HGA 60, p. 272 (tr. it., p. 348). Secondo Pöggeler, «Heidegger vede qualcosa che deve essere distrutto già nel semplice fatto che, in generale, venga definito un ordine del mondo, che Dio venga valutato come bonum in generale, e che, quale summum, venga posto in una comparazione con altro. Con tale stimare e valutare s’accompagna una sorta di quietismo: si aggira il problema della vita reale, e si ricerca Dio come “quiete”» (O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Neske, Pfullingen 1983; tr. it. di G. Varnier, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, Guida, Napoli 1991, p. 44). Per Esposito, «la fruitio Dei, distinguendo e optando tra il mutabile e l’immutabile, tra il visibile e l’invisibile, più che manifestare la (vera) vita, in realtà l’occulta; più che compierla, la blocca. Fruire un Dio identificato come bonum e soprattutto gerarchizzato come summum, significherebbe allora tradire e rovesciare l’inquietudine in una sorta di “quietismo”, più che religioso, appunto metafisico – “neoplatonico”» (C. Esposito, Quaestio mihi factus sum. Heidegger di fronte ad Agostino, in AA. VV., Ripensare Agostino: interiorità e intenzionalità, Institutum patristicum Augustinianum, Roma 1993, p. 239). Per Savarino, «l’idea della fruizione sembra irrimediabilmente legata a un atteggiamento di tipo teoretico che guarda alla vita come a una totalità “semplicemente presente” […]. La vita viene privata di quella costitutiva motilità e inquietudine che sono caratteristiche dell’effettività: gli ideali greci della quiete e dell’au-

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prende da Lutero: «ubi semper Deus movetur et quiescit»203 – l’esperienza della vita cristiana, che è l’esperienza della vita nella sua attualizzazione, indica che «noi siamo essenzialmente in cammino»204, il nostro essere è sempre nel farsi: «il “fieri potuit”, il passato, ciò che è stato possibile e ciò che io sono in questo esseredivenuto, sta in un “fiat”, in ciò che ancora potrebbe divenire»205.

tarchia penetrano all’interno dell’esperienza cristiana» (L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo. 1916-1927, Liguori, Napoli 2001, p. 105). 203 M. Lutero, Sermones aus den Jahren 1514-1517, in WA 1, p. 28. 204 BrH-B, p. 7 (tr. it., p. 22). 205 HGA 60, p. 217 (tr. it., p. 279).

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II LA VITA DEL CRISTIANO

1. Parusía L’esperienza religiosa dei primi cristiani è un’esperienza del tempo, più precisamente espresso in protasi e apodosi: «1. La religiosità protocristiana si dà nell’esperienza protocristiana della vita ed è essa stessa un’esperienza siffatta. 2. L’esperienza effettiva della vita è storica. La religiosità cristiana vive la temporalità in quanto tale»1. La fatticità della vita cristiana è legata al Secondo Avvento del Signore, perciò va innanzitutto chiarito cosa si intenda per parusía: nel greco classico parusía significa “avvento” (presenza); nell’Antico Testamento (ossia nei Settanta): “l’avvento del Signore nel giorno del giudizio”; nel tardo ebraismo: “l’avvento del Messia come vicario di Dio”. Per i cristiani, invece, parusía significa “la ricomparsa del Messia già comparso”, ossia qualcosa che in un primo momento non è contenuto nell’espressione letterale. In tal modo, però, l’intera struttura del concetto è diventata un’altra2.

Il mutamento del significato del concetto di parusía mostra la diversità essenziale della vita dei cristiani, che attendono non semplicemente un evento futuro, ma l’avvenire di un evento già stato e ancora presente. La decostruzione della metafisica dell’essere come presenza è anche la revoca del primato della dimensione temporale del presente, come mostra l’esperienza protocristiana della vita, che è un’esperienza complessa del tempo, in cui passato, presente e futuro si raccolgono nella decisione e nell’attesa. Per chiarire l’idea 1 2

HGA 60, pp. 80 e 82 (tr. it., pp. 118 e 121). Sembra che la trascrizione di Oskar Becker contenesse una variante significativa: al posto di “vive”[lebt] “insegna” [lehrt] la temporalità. HGA 60, p. 102 (tr. it., pp. 142-143).

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cristiana di parusía, Heidegger analizza due brani della Prima Lettera ai Tessalonicesi, 1 Ts, 5, 1-6, che riguarda i tempi della venuta del Signore, e 1 Ts, 4, 13-18, che, come una teofania, descrive la situazione dei vivi e dei morti al momento di questa venuta. A proposito della prima questione Paolo opera un sostanziale ribaltamento, sottolineando che non è importante quando la parusía avverrà, ma come è già presente nella vita di ciascuno: riguardo ai tempi e ai momenti [perí tón chrónon kai tón kairón], fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: “c’è pace e sicurezza!”, allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri.

Paolo mette a confronto due diversi modi di vivere, quello di coloro che, cercando pace e sicurezza nel mondo, all’arrivo del Signore sono colti impreparati, come le doglie del parto sorprendono una donna incinta, e quello dei cristiani, i quali, sapendo che «non c’è alcuna sicurezza» e che «la costante insicurezza [Unsicherheit] è anche il tratto caratteristico di tutte le “cose aventi un significato fondamentale”»3, restano svegli e sobri, perché il giorno del Signore arriva come un ladro di notte. Dunque, «coloro “che dicono: pace e sicurezza” […] sono catturati da ciò che la vita offre, mentre, quanto al sapere di sé stessi, sono nelle tenebre. I credenti, invece, sono figli della luce e del giorno»4. Le tenebre rappresentano l’esistenza lontana dalla verità e nascosta a se stessa; al contrario, la luce [eméra] è «”il giorno del Signore”, ossia “giorno della parusía”» ed è la «luce del sapere di se stessi»5. Il discrimen nell’opposizione 3 4

5

HGA 60, p. 105 (tr. it., p. 146). HGA 60, p. 105 (tr. it., p. 146). Heidegger riprenderà i tratti caratteristici del modo di vivere di coloro che dicono “pace e sicurezza” in Essere e tempo, trattando l’essere-nel-mondo deiettivo dell’Esserci, che è in sé stesso tentatore, tranquillizzante, estraniante, auto-imprigionante (HGA 2, pp. 235-237; tr. it., pp. 217-218). HGA 60, p. 104 (tr. it., p. 144). La metafora del lumen torna in Essere e tempo a proposito dell’Esserci, che nel suo essere più proprio è «illuminato» (HGA 2, p. 177; tr. it., p. 165) da una luce, che non è né «una forza on-

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luce-tenebre, giorno-notte, veglia-sonno, come suggerisce Agostino, è il potere decisionale: «durante la veglia se ho a che fare con le tentazioni, sono in grado di resistere [...]. Nel sonno e in sogno, invece, divento loro schiavo […]. Forse che, con gli occhi, si chiude anche la ratio, ossia la possibilità del libero decidere, valutare, prendere posizione e scegliere?»6. L’uomo può optare tra un progetto di vita chiuso, autosufficiente, assorbito dal mondo ed uno che si sottragga alla dinamica del ricercare tranquillità e rassicurazione, riconoscendo il costitutivo carattere di inquietudine e incertezza della

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ticamente presente in esso», né «una forza esterna semplicemente-presente», ma la sua struttura ontologico-esistenziale, la Cura (HGA 2, p. 464; tr. it., p. 415). È, peraltro, sempre nell’opera del ’27 che Heidegger definisce la decisione l’attuazione della vera fede del Dasein: «la decisione costituisce la fedeltà dell’esistenza al proprio se Stesso» (HGA 2, p. 516; tr. it., p. 459). HGA 60, pp. 212-213 (tr. it., p. 274). Cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 30, pp. 297-298. Commentando Rm, 13, 11 («è giunta l’ora che ci svegliamo dal sonno»; cfr. 1 Cor, 15, 34 e Ef, 5, 14), Lutero fa riferimento al capitolo V della Prima Lettera ai Tessalonicesi, in cui l’Apostolo parla di “sonno spirituale” in senso negativo, poiché dormire significa prendersi cura non dei beni spirituali, ma di quelli temporali. Tuttavia, nella Scrittura “sonno” ha vari significati. Infatti, c’è un “sonno spirituale” buono, come quello della sposa del Cantico dei Cantici (5, 2) – “dormire”, in questo caso, significa non badare ai beni temporali e stimarli immaginazioni ed ombre, piuttosto che realtà vere – e c’è il “sonno corporale” come quello di Lazzaro (Gv, 11, 11) (M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, pp. 486-487; tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 244). Sulla differenza tra vita sveglia e dormiente Figal osserva: «la vita può essere “sveglia”, presente nel fatto che il suo compimento è determinato dall’attenzione e dall’apertura; in questo caso la vita “ci” è in senso proprio. Oppure si può ritrarre dalla sua chiarezza e apertura, in direzione di un autonascondimento che non vuole riconoscere il “come del suo proprio essere”, fuggendo dinnanzi a se stesso verso la sicurezza soltanto supposta dei legami mondani» (G. Figal, La totalizzazione della filosofia pratica. Riflessioni sul rapporto fra etica ed ermeneutica a partire dal Natorp-Bericht, in M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Elaborazione per le facoltà filosofiche di Marburgo e di Gottinga, tr. it. di A. P. Ruoppo, Guida, Napoli 2005, p. 138). Figal nota, inoltre, che nei diversi modi di vivere è possibile intravedere la domanda socratica sulla norma di vita che occorre adottare, così come a Socrate potrebbe risalire la convinzione che la vita debba essere sveglia e non sognante, prigioniera di rappresentazioni (Platone, Repubblica, tr. it. di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 1999, 552d, p. 71 e 533 c, p. 497). Cionondimeno, per la sua ermeneutica della vita, Heidegger si rivolge al fondatore dell’etica, Aristotele (ivi, p. 139).

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vita. La parusía costringe a fare i conti con se stessi; per questo, già al termine del primo secolo, nonostante i discorsi di Gesù di cui danno testimonianza i Vangeli di Matteo e Marco, «il centro della vita cristiana: il problema escatologico»7 venne occultato e diluito in umanistiche e anestetiche dottrine morali e sociali. Per quanto attiene la seconda questione, «Paolo non dice nulla sul destino dei defunti (ora) – che cosa ne è stato di loro dove si trovano – ma anche in questo caso dice solo l’unica cosa decisiva: essi non “ci rimetteranno”»8, poiché il giorno della seconda venuta, al grido della voce, che è un grido di comando, ma non di sfida, e al suono della tromba, che è un simbolo di potenza, ma anche il segnale per l’adunata del popolo, vivi e morti entreranno nelle nubi: infatti, «il resuscitare e il condurre in cielo coincidono con la parusía»9. Heidegger, però, si chiede a questo punto: «se la morte (secondo 2 Cor, 5, 8 e Fil, 1, 21) rappresenta il passaggio diretto alla comunità con Cristo, perché il motivo della consolazione è cercato solo nella parusía futura? La morte non è forse già un equivalente?»10. La parusía, indicata formalmente, è la rivelazione della possibilità più propria dell’esistenza, la morte, che è sempre imminente, ma ciò nonostante resta sbalorditiva, perché arriva come un ladro di notte: «quando la morte giunge, ciò per l’esserci è del tutto indeterminato. Questa possibilità, però, è al tempo stesso incombente nella certezza»11. Perciò, «anche se abbiamo un’autocertezza del nostro essere, siamo ugualmente insicuri riguardo a quanto vivremo (quamdiu futurum sit)»12. Tenere presente questa possibilità indeterminata sui tempi, eppure certa, obbliga l’uomo a un cambiamento essenziale del modo in cui vive, togliendogli l’arroganza di comportarsi come fosse immortale, rendendolo consapevole che passa insieme a tutto il resto del mondo. Per questo comunemente «la vita 7 8 9

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HGA 60, p. 104 (tr. it., p. 145). HGA 60, p. 150 (tr. it., p. 196). HGA 60, p. 153 (tr. it., p. 200). La resurrezione dei morti è la promessa di Cristo a lungo dimenticata nel cristianesimo, che Quinzio rivivifica facendo scrivere all’ultimo papa, Pietro II, l’enciclica Resurrectio mortorum (S. Quinzio, Misterium iniquitatis, Adelphi, Milano 1995, pp. 15-51). Sull’importanza che questo tema svolge nel pensiero di Quinzio si è soffermata R. Fulco, Il tempo della fine. L’apocalittica messianica di Sergio Quinzio, Diabasis, Reggio Emilia 2007. HGA 60, p. 150 (tr. it., pp. 196-197). WDF, p. 167 (tr. it., p. 41). HGA 60, pp. 298-299 (tr. it., p. 378).

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si tranquillizza intorno alla morte e tenta attraverso il modo in cui la interpreta di estraniarsi da essa, di eliminarla dall’orizzonte della vita»13. Prima della parusía verrà, però, l’apostasia (2 Ts, 2, 3), che non è né «un’“Apocalisse” isolata»14 né un differimento definito in base alla temporalità scandita nell’ordine del prima e del poi, piuttosto indica l’intensificazione dell’angustia e della necessità [Not] dell’uomo, che è messo alla prova di continuo, come dimostra lo stile pletorico utilizzato da Paolo per rivelare che «il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene [katéchon]» (2 Ts, 2, 6-7). Heidegger non fa congetture su chi o cosa freni la venuta dell’apostasia, se sia una potenza spirituale o storico-politica – ad esempio «Teodoreto, Agostino ed altri vedono nel katéchon il rude ordinamento dell’Impero romano che reprime la persecuzione dei cristiani da parte degli Ebrei»15 –, anzi non pensa il katéchon come una forza qui tenet la fine in opposizione ad una presunta anarchia conseguente alla paralisi escatologica dell’accadere umano, perché «i versetti 6-7 racchiudono il problema dell’atteggiamento cristiano nei 13 14 15

WDF, p. 167 (tr. it., p. 41). HGA 60, p. 107 (tr. it., p. 149). HGA 60, pp. 114-115 (tr. it., pp. 156-157). Nella storia degli effetti del controverso concetto paolino di katéchon, Heidegger si colloca in modo “eccentrico”, dal momento che ne sottolinea il carattere decisivo e imminente e non la natura di freno, che per le tante e discordanti interpretazioni è un Leitmotiv. Per limitarci al Novecento, significativa è l’interpretazione di Schmitt, il quale, riallacciandosi alla tradizione dei Padri della Chiesa ripresa dall’Impero cristiano medievale, avvalora l’aspetto politico-mondano del katéchon in quanto forza frenante in grado di trattenere l’ordine di questo mondo (C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Duncker & Humblot, Berlin 1974; tr. it. di E. Castrucci, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus pubblicum europaeum”, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2006, pp. 42-47). Taubes, in “divergente accordo” con Schmitt, afferma che il katéchon «è già un primo segno di come l’esperienza cristiana del tempo della fine [Endzeit] venga addomesticata, adattandosi al mondo e ai suoi poteri» (J. Taubes, Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fügung, Merve, Berlin 1987; tr. it. di G. Scotto e E. Stimilli, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, Quodlibet, Macerata 1996, p. 33). Forse si avvicina di più alla prospettiva heideggeriana Quinzio, che sovrappone la forza katechontica e il “mistero dell’iniquità” (S. Quinzio, Misterium iniquitatis, cit., pp. 53 sgg.). Per un chiarimento esaustivo del concetto di katéchon si rimanda a M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano 1990, pp. 597 sgg. e Id., Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.

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confronti del mondo degli altri e del mondo ambiente non cristiani, quindi il problema della storia della salvezza»16. Heidegger fa propria l’intuizione teologica fondamentale di Lutero, che, convinto di vivere come i primi cristiani nell’epoca anticristica, ritiene erroneo far «corrispondere l’Anticristo, che Paolo chiama uomo del peccato e figlio della perdizione [2 Ts, 2, 3], ad una sola persona»17, perché l’Apostolo si riferisce in generale alla menzogna, al non accogliere la verità (2 Ts, 2, 10: «quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità»), che «Daniele chiama con la parola ebraica pesha‘im, che propriamente è la prevaricazione, la trasgressione, l’allontanarsi dalla fede»18. Heidegger punta l’attenzione sul fatto che il mistero del peccato è già all’opera e che «l’apparire dell’Anticristo non è un avvenimento puramente passeggero, bensì qualcosa in cui si decide il destino [Schicksal] di ciascuno»19. L’apostasia è il «tempo della verifica, della necessità e della decisione suprema, del più drastico autaut»20, perché «alla comparsa improvvisa dell’Anticristo ciascuno deve decidersi»21 e riconoscerlo per quel che è, lo pseúdos. Rifacen16 17 18 19 20 21

HGA 60, p. 115 (tr. it., p. 157). M. Lutero, Ad librum eximii Magistri Nostri Magistri Ambrosii Catharini, defensoris Silvestri Prieratis acerrimi, responsio, in WA 7, pp. 722723 (tr. it., Replica ad Ambrogio Catarino sull’Anticristo, p. 69). M. Lutero, Ad librum eximii Magistri Nostri Magistri Ambrosii Catharini, defensoris Silvestri Prieratis acerrimi, responsio, in WA 7, p. 723 (tr. it., Replica ad Ambrogio Catarino sull’Anticristo, p. 70). HGA 60, p. 113 (tr. it., p. 155). HGA 60, p. 156 (tr. it., p. 203). HGA 60, p. 110 (tr. it., p. 152). Cacciari, richiamando l’espressione di 1 Gv, 2, 18 («Figlioli, questa è l’ultima ora. Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi. Da questo conosciamo che è l’ultima ora»), sottolinea che così come il corpo del “dio mortale”, il Leviatano di Hobbes, era formato dalla moltitudine dei cives, allo stesso modo diverse sono le facies del katéchon. Tuttavia, l’estrema figura dell’apostasia è la secessio dalla fede, lo smarrimento della fede nella predicazione di Cristo: «l’ultimo segno delle potenze catecontiche è questo peccato di disperazione» (M. Cacciari, Il potere che frena, cit., p. 111). Pertanto, «il katéchon scoprirà che il suo potere di contenimento veniva ancora dalla fede di agire nella prospettiva della conversio, del ri-volgersi, dell’uomo intero verso quell’impossibile misura di libertà, di cui Gesù è icona» (ibidem). Infatti, il katéchon cristiano non coincide semplicemente con il differimento della venuta del Messia, com’è per il giudaismo, poiché è proprio a partire da quella venuta che inizia la sua missione; perciò, «il tempo della fine è questo; ora si è fatto necessario decidersi. Ma come affrontare la decisione? Come armarsi per questo

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dosi allo stesso passo della Seconda Lettera ai Tessalonicesi preso in considerazione da Lutero, Heidegger precisa che anche non decidere è prendere una posizione, perché in questo caso «l’ouk (“non”) non è né un non privativum né un non negativum, ma ha piuttosto il senso del “non” “conforme all’attuazione” [das vollzugsmäßige Nicht]. Il “non” “conforme all’attuazione” non è un rifiuto dell’attuazione, non è un “porsi fuori” dall’attuazione [sichheraus-stellen]»22. Questo Vollzug interessa a Heidegger perché non è importante «interrogarsi se il diavolo ci sia e che cosa sia, bensì comprendere come esso sia presente e agisca nella vita»23 in quanto “antagonista”, per usare un termine veterotestamentario; così come nel suo pensiero non trova posto il problema dell’esistenza di Dio, ma quello della sua vicinanza o lontananza esperite nella vita di ognuno. 1.1. L’attimo dell’incontro La concezione cronometrica del tempo si rivela inadeguata a cogliere la temporalità della fatticità cristiana, cosicché la propensione all’a-venire, che ricomprende passato e presente, richiede una temporalità altra: «si tratta di un tempo senza un proprio ordine e senza punti fissi, eccetera. È impossibile cogliere questa temporalità in base a un qualsiasi concetto obiettivo di tempo»24. Il tempo del Messia, che non arriva teleologicamente l’ultimo giorno, ma “come un ladro di notte”, producendo un arresto del tempo cronologico vuoto ed omogeneo, è il tempo dell’evento, che non può essere calcolato, programmato, anticipato, poiché è fortuito e sorprendente come un dono o un flagello25. Il tempo messianico, che dalla morte di Cristo

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tempo di ‘eccezione’? Ve ne sarà il tempo? Come essere già pronti alla decisione, se ancora tempo non ci viene concesso? L’angoscia di queste domande descrive la dimensione catecontica […]. Nel loro insieme, tali domande formano l’inquietum cor dell’Evo» (ivi, pp. 113-114). Dunque, per i cristiani «l’attesa riguarda essenzialmente il come ogni singolo si disporrà nei confronti dell’Annuncio, che è Evento accaduto e tuttavia sempre presente» (ivi, p. 114). La parusía «si manifesterà allora come un ladro di notte, non importa quando. Verrà come la morte» (ivi, p. 115). HGA 60, p. 109 (tr. it., p. 151). HGA 60, p. 99 (tr. it., p. 139). HGA 60, p. 104 (tr. it., p. 145). Il senso del kairós, come suggerisce Lehmann, è teso tra il poter-essere e il pericolo imminente: «il kairós non è solo una possibilità [Möglichkeit], ma è esperito come una costante minaccia [Bedrohung]» (K. Lehmann,

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volge alla fine, non va inteso in senso millenaristico, ma in senso originariamente escatologico come il tempo breve, il resto del tempo (Rm, 11, 5) che precede la parusía, e va distinto tanto dal tempo profetico, il futuro, quanto dal tempo apocalittico, la fine del tempo26. Va precisato che «l’indirizzo escatologico fondamentale è già tardo-ebraico, e la coscienza cristiana ne costituisce una trasformazione peculiare»27. Infatti, mentre nel tardo ebraismo l’«aión méllon

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Christliche Geschicktserfahrung und ontologische Frage beim jungen Heidegger, in AA. VV., Heidegger. Perspektiven zur Deutung seines Werks, a cura di O. Pöggeler, Beltz Athenäum, Weinheim 1994, p. 146). Sulla relazione tra dono, tempo ed evento, in riferimento anche a Heidegger, si veda J. Derrida, Donner le temps. La fausse monnaie, Galilée, Paris 1991; tr. it. di G. Berto, Donare il tempo. La moneta falsa, Cortina, Milano 2004, in particolare pp. 123-124. Sul tempo messianico, che si contrae e comincia a finire, Agamben scrive: «non è la fine del tempo, ma il tempo della fine […] il tempo che resta tra il tempo e la sua fine. […] Né il tempo cronologico né l’éschaton apocalittico: è, ancora una volta, un resto, il tempo che resta tra questi due tempi, se si divide, con un taglio di Apelle, la stessa divisione del tempo» (G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 63). Quinzio, nella sua lettura della Seconda Lettera ai Tessalonicesi, nota che «il breve tempo intermedio è ritagliato come una piccola nicchia provvisoria nell’incombente montagna della catastrofe apocalittica che domina l’orizzonte» (S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, Adelphi, Milano 1991, p. 730). HGA 60, p. 105 (tr. it., p. 145). Secondo Taubes, «volgendo l’esperienza messianica all’interno, Paolo apre la porta alla coscienza introspettiva dell’Occidente» (J. Taubes, The Price of Messianism, “Journal of Jewish Studies”, XXXIII, 1-2, 1982; tr. it. di E. Stimilli, Il prezzo del messianesimo, in Il prezzo del messianesimo, Quodlibet, Macerata 2000, p. 39). L’“interiorizzazione” indica una crisi dell’escatologia ebraica nel momento dell’attualizzazione, ovvero nella fase del cristianesimo paolino: «allorché l’attesa della redenzione si scontra con la sua mancata realizzazione, all’esperienza messianica non resta che volgersi all’interno» (ibidem). Tuttavia, la coscienza «è interiore, ma è in costante tensione con il mondo» (ibidem). Derrida, al contrario, indica una via ebraica dell’interiorizzazione: «la “spiritualizzazione”, come si dice spesso, l’interiorizzazione che consiste nell’ampliare il senso della parola ben al di là dell’incisione carnale, non data a partire da San Paolo, non si limita alla circoncisione dell’anima o del cuore […]. Prima di San Paolo, la Bibbia faceva leggere la circoncisione o l’essere incirconciso delle labbra, ovvero, in questa lingua, della lingua (Esodo, 6, 12-30) delle orecchie (Geremia, 6, 10) e del cuore (Levitico, 26, 41)» (J. Derrida, Schibboleth. Pour Paul Celan, Galilée, Paris 1986; tr. it. di G. Scibilia, Schibboleth. Per Paul Celan, Gallio, Ferrara 1999, pp. 78 e 83). Sull’importanza dell’eredità ebraica nel pen-

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(o) autentica eternità, oppure il tempo del Messia è solo migliore rispetto all’attuale, ma è ancora terreno, non è autenticamente tempo della fine, pur essendo comunque futuro!»28, il kairós synestalménos (1 Cor, 7, 29), il tempo tagliato nel suo continuum dall’attimo, è un fra-tempo, fra il tempo e la sua fine, un “contrattempo”29, un tempo contratto, che custodisce la possibilità del tra-passo storico. Per evidenziarne il carattere improvviso ed imprevedibile, fugace e stringente, Heidegger traduce kairós con il termine tedesco

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siero di Derrida, anche alla luce del suo costante confronto con Martin Heidegger, si è soffermata S. Geraci, L’ultimo degli ebrei. Jacques Derrida e l’eredità di Abramo, Mimesis, Milano-Udine 2010. HGA 60, p. 153 (tr. it., p. 200). Sulla dimensione aionica Cacciari sottolinea: «l’Aión è il fulmine che governa tutti i generi dell’essere, pre-potenza dell’essere. […] Come l’istante, exaíphnes-nýn, da nessun ‘punto’ di Chronos, dunque, Aión è separato, eppure in nessun punto è spazializzabile. L’átopon dell’istante è vera immagine di Aión, della pre-potenza di Aión rispetto ad ogni determinazione» (M. Cacciari, Dell’inizio, cit., p. 279). Dreon ritiene che «l’insistenza di molti interpreti sull’opposizione tra chrónos e kairós come contrasto tra una temporalità ordinaria e una temporalità escatologica possa risultare in parte sviante» rispetto alla caratterizzazione del kairós in quanto attuazione e urgenza della scelta e impossibilità di differimento (R. Dreon, Esperienza e tempo. La condizione temporale tra ermeneutica e ontologia nel pensiero di Martin Heidegger, Angeli, Milano 2003, p. 102, nota 32). Duque intende il “contrattempo” come la condizione necessaria per la distruzione della meta-fora primordiale tra il sensibile transeunte e il sovrasensibile eterno (F. Duque, Il contrattempo. Lo spostamento ermeneutico della religione nella fenomenologia heideggeriana, cit., p. 190). Brejdak definisce i due modi in cui la temporalità è esperita come il «presente della carne» e l’«avvenire dello Spirito» (J. Brejdak, Philosophia crucis. Heideggers Beschäftigung mit dem Apostel Paulus, „Philosophisches Jahrbuch“, 105, 1998, p. 28). Sulla distinzione tra il tempo creaturale e quello escatologico Gorgone scrive: «il tempo di cui si attende la fine, è il tempo del mondo, il tempo della creazione che già declina verso il tramonto e che sta per ‘compiersi’; il tempo che si avvicina, il tempo la cui imminenza ed incombenza segna le esistenze sospese dei primi cristiani, è, invece, il tempo senza tempo del Regno che sarà inaugurato dal definitivo ritorno del Messia ed in cui si adempiranno tutte le promesse escatologiche» (S. Gorgone, Il tempo che viene. Martin Heidegger dal kairós all’Ereignis, cit., p. 34). Tra questi due tempi, Paolo ne introduce un terzo: «il manifestarsi del mistero dell’iniquità costituisce la storia, ormai bimillenaria, del tempo intermedio che è, nel frattempo, divenuto il tempo storico: in esso si compie il venir meno, il ‘fallimento’ del Messia e della speranza del suo ritorno» (ivi, p. 39).

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«Augenblick»30, “batter d’occhio”, inteso come l’attuazione autentica del presente (tó nýn), che nell’esperienza ordinaria del tempo è 30

HGA 60, p. 150 (tr. it., p. 197). Come Heidegger suggerisce, «ciò che qui denominiamo “attimo” è ciò che per la prima volta in filosofia Kierkegaard ha realmente compreso – una comprensione grazie alla quale, dall’antichità, inizia la possibilità di un’epoca della filosofia completamente nuova» (HGA 29/30, p. 225; tr. it., p. 198). Il tedesco Augenblick corrisponde al danese Øjeblikket che Kierkegaard utilizza per designare il momento della decisione, convinto che pecca chi vive solo nel momento e, invece, si salva chi nel momento si rapporta all’eternità. Per Kierkegaard è Platone a introdurre la categoria del “momento” in filosofia: «il “momento” si presenta come quell’essere strano (il termine greco átopon: Parm. 156 D, lo esprime eccellentemente) che sta tra il movimento e la quiete senza essere in alcun tempo; entrando in esso quel che si muove passa in quiete ed uscendo da esso ciò che è in quiete passa in movimento. Perciò il “momento” diventa la categoria del passaggio per eccellenza (metabolé: Parm., p. 156 D-E); […] è l’attimo in cui non c’è né én né pollá, in cui non si distingue e non si riunisce (oúte diakrínetai oúte xuvkrínetai: 157 A)» (S. Kierkegaard, Begrebet Angest, in Søren Kierkegaards Skrifter, Bd. 4, a cura di N.J. Cappelørn, J. Garff, J. Kondrup, Gads, København 1997; tr. it. di C. Fabro, Il concetto dell’angoscia, Sansoni, Firenze 1991, p. 104, nota 2). Nonostante la significativa esplicazione di Platone, il “momento” fino all’avvento del cristianesimo resta noncompreso, perché «il momento in fondo non è l’atomo del tempo, ma l’atomo dell’eternità; è il primo riflesso dell’eternità nel tempo; è il suo primo tentativo, per così dire, di arrestare il tempo […]. Il “momento” è quell’ambiguità nella quale il tempo e l’eternità si toccano; […]. Soltanto ora acquista il suo significato quella divisione: il tempo presente, il tempo passato, il tempo futuro» (ivi, pp. 109-110; è interessante notare che con dieci roventi fascicoli dal titolo Il momento Kierkegaard sferrò l’ultimo attacco contro la cristianità). Sull’Augenblick da Platone a Heidegger, passando per Kierkegaard, cfr. O. Pöggeler, Heidegger in seiner Zeit, Fink, München 1999, pp. 61-81. Agli occhi di Heidegger, Kierkegaard ha il merito di aver «visto nel modo più penetrante il fenomeno esistentivo dell’attimo», ciononostante «non esce dall’ambito del concetto ordinario del tempo e determina l’attimo sulla scorta dell’istante e dell’eternità. Quando Kierkegaard parla di “temporalità”, intende l’“essere-nel-tempo” da parte dell’uomo. Il tempo come intratemporalità conosce soltanto l’istante [Jetzt] e mai l’attimo [Augenblick]» (HGA 2, p. 447, nota 2; tr. it., p. 401, nota 3). L’attimo è il presente autentico, distinto dal semplicemente-presente, mantenuto nell’avvenire del poter-essere e nell’essere-stato dell’esser-gettato; l’attimo è «l’estaticità dell’Esserci decisa e mantenuta nella decisione» (HGA 2, p. 447; tr. it., p. 400) e, perciò, si distingue dall’istante, che «è un fenomeno temporale proprio del tempo come intratemporalità: l’istante “in cui” qualcosa sorge, passa o è semplicementepresente. “Nell’attimo” nulla può accadere; ma solo esso, in quanto pre-

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esperito, invece, sequenzialmente come “punto-ora”. L’Augenblick allude al dì di festa, allo shabbat31, il giorno della celebrazione e del ricordo, in cui si ha non una mera pausa dalle attività lavorative, bensì la piena sospensione del tempo ordinario; allude alla domenica, il giorno del riposo, che consiste, come spiega Lutero, in senso fisico «nel tralasciare ogni opera»32 per ascoltare la parola di Dio e in senso spirituale «nel lasciare che Dio solo operi in noi»33. L’Augenblick è il «tempo di marzo»34,

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sente autentico, rende possibile l’incontro con ciò che può essere “in un certo tempo” come utilizzabile o come semplice-presente» (HGA 2, p. 447; tr. it., pp. 400-401). L’Augenblick in quanto “ora” autentico si trova anche in Rosenzweig: «l’attimo/colpo d’occhio mostra all’occhio, ogni volta che questo si apre, sempre cose nuove. Il nuovo che noi cerchiamo dev’essere un nunc stans, non un attimo che svanisce ma un attimo “che sta”. Un ‘adesso’ che in questo modo, a differenza dell’attimo, sta [stehen], si chiama ora [Stunde]. L’ora, proprio perché ‘sta’, può già avere in sé stessa la molteplicità del vecchio e del nuovo, la ricchezza degli istanti; la sua fine può sfociare di nuovo nel suo inizio» (F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Kaufmann, Frankfurt a.M. 1921; tr. it. di G. Bonola, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 298). Come sottolinea Heschel, lo Shabbat ha un ruolo particolare rispetto alle altre feste ebraiche, legate al ciclo stagionale: «il sabato è completamente indipendente dal mese e non ha alcuna relazione con la luna; la sua data non è determinata da alcun evento della natura, ma dall’atto della creazione. L’essenza del sabato è assolutamente al di fuori dello spazio. […] In questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo» (A. J. Heschel, The Shabbath: Its Meaning for Modern Man, Farrar, Straus and Giroux, New York 1951; tr. it. di L. Mortara ed E. Mortara di Veroli, Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Rusconi, Milano 1972, p. 18). Sullo shabbat in quanto tempo messianico Agamben sottolinea: «non è un altro giorno, omogeneo agli altri: è, piuttosto, nel tempo, l’intima sconnessione attraverso cui si può – per un pelo – afferrare il tempo, portarlo a compimento» (G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, cit., p. 71). Per Kierkegaard è il venerdì, il culto della cena, a irrompere nell’ordinarietà: «ogni giorno festivo è un’interruzione dell’abituale (e questo è il giovamento), ma il giorno festivo è esso stesso l’abituale interruzione e può dunque diventare facilmente un’abitudine. Ma il venerdì è l’interruzione dell’originario» (S. Kierkegaard, Papier, a cura di P.A. Heiberg, V. Kuhr e E. Torsting, Gyldendal, København 1909-1948, 8, 1 A 284, p. 135). M. Lutero, Von den guten Werken, in WA 6, p. 243 (tr. it., Delle buone opere, p. 384). Ivi, p. 244 (tr. it., p. 385). F. Hölderlin, Ricordo, in Le liriche, cit., p. 560, v. 22.

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il momento spazialmente determinato come limite, come soglia o cerniera, che chiude e delimita uno spazio, ma nel contempo apre e rende comunicanti gli spazi che separa35. Il kairós synestalménos interrompe il tempo difficile (2 Tm, 3, 1), grave, pericoloso, dell’attesa della parusía, il tempo della decisione, della krísis, che non ammette dilazioni, ma che è in sé occasione (1 Cor, 16, 12; Gal, 6, 10), opportunità (2 Cor, 6, 2); l’attimo interrompe l’ancora un poco, un poco appena, prima della seconda venuta del Signore (Eb, 10, 37), un tempo ridotto, sincopato, che mette alle strette: «la temporalità concentrata [zusammengedrängte Zeitlichkeit] è costitutiva della religiosità cristiana: un “ancora-soltanto” [das NurNoch]; non c’è tempo per rimandare»36. L’attimo è un incontro e in quanto tale «può essere l’occasione per la nascita di nuove attuazioni, mai però come in questo caso, in cui l’esistenza si fonda su questo incontro»37. Come per i cristiani il tempo dell’attesa della parusía implica che l’intera esistenza si trasformi, la temporalità kairologica indica quel ‘moto di rivoluzione’ impresso alla vita fattizia che si predi35

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Gorgone nota che la determinazione spaziale del kairós è più originaria di quella temporale: «il kairós indica non solo un istante ma anche un luogo decisivo, un punto critico. Nell’Iliade esso designa spesso un punto nevralgico, una parte del corpo particolarmente vulnerabile, vitale che il nemico prende di mira per rendere letale il suo colpo; linea di giuntura e di articolazione, ma anche di rottura. Proprio in quanto indicante la regione più vulnerabile del corpo dove più facile è la penetrazione delle armi, il kairós è stato tradotto dai Romani con il termine tempus; esso esprimeva “qualcosa di tagliato” (da cui templum nel senso di “spazio circoscritto”) e si prestava ad indicare sia il tempio che la tempia in quanto punto più debole del cranio» (S. Gorgone, Il tempo che viene. Martin Heidegger dal kairós all’Ereignis, cit., p. 77, nota 137). HGA 60, p. 119 (tr. it., p. 162). Per Bultmann il das Nur-Noch caratterizza l’esistenza dei cristiani come «l’essere dialettico del “non più” e “non ancora”. I credenti sono già sottratti al mondo e il loro essere è un essere escatologico, e tuttavia essi vivono ancora nel mondo» (R. Bultmann, Geschichte und Eschatologie, Mohr, Tübingen 1958; tr. it. di E. Spagnoli, Storia ed escatologia, Bompiani, Milano 1962, p. 66). Il das Nur-noch fa inevitabilmente tornare alla mente il «tempo di povertà» [durftige Zeit], al quale pensa Heidegger sulla scorta di Hölderlin, che «è il tempo degli dèi fuggiti e del dio che viene. È il tempo di privazione perché esso si trova in una doppia mancanza e in un doppio non: nel “non più” degli dèi fuggiti e nel “non ancora” del dio che viene» (M. Heidegger, Hölderlin und das Wesen der Dichtung, in HGA 4, p. 47; tr. it., Hölderlin e l’essenza della poesia, p. 57). HGA 60, p. 142 (tr. it., p. 188).

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spone all’incontro con la propria morte: nel precorrere [vor-laufen] la morte come «certezza indeterminata della possibilità più propria dell’essere-alla-fine»38, il mio essere-al-mondo si rivela non più certo [läufig], ma provvisorio [vor-läufig], perché «il mondo è ormai soltanto il puro in-cui dell’essere-appena-ancora»39. 1.2. Hos mé Un densissimo brano paolino racchiude il carattere originario del «“tempo” liberato dalla sua concezione linearmente spaziale, non come mera cornice strutturale, bensì come motivo»40, tendenza della vita fattizia, è 1 Cor, 7, 29-31: Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!

A Heidegger va il merito di aver riconosciuto la radicale e straordinaria trasformazione che l’hos mé produce nell’io-stesso del cri38 39 40

M. Heidegger, Der Begriff der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft, in HGA 64, p. 116 (tr. it., Il concetto di tempo, p. 37). HGA 20, p. 439 (tr. it., p. 395). HGA 60, p. 307 (tr. it., p. 388). Come nota Esposito, «il tempo non è un contesto o una “cornice”, al cui interno si vivano delle esperienze, ma è propriamente “ciò” che viene vissuto, […] giacché vivendo il tempo, la vita vive ultimamente se stessa. In questo senso non si “ha” mai il tempo, piuttosto lo si “è” già da sempre» (C. Esposito, Il tempo in questione, Guerini e Associati, Milano 1997, p. 297). Nella formula agostiniana «in te, o anima mia, misuro il tempo» (Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., XI, 27, p. 344), Heidegger vede espressa in nuce l’interpretazione dell’Esserci come temporalità. Agostino intravede la dimensione storica dell’Esserci, ma, rimanendo ancorato al tempo ordinario, non la esplica fino in fondo: «nel libro XI delle sue Confessioni Agostino ha spinto il problema fino al punto di domandarsi se l’animo stesso sia il tempo. E qui ha smesso di domandare» (M. Heidegger, Der Begriff der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft, in HGA 64, p. 111; tr. it., Il concetto di tempo, p. 29). Sulla concezione agostiniana del tempo Heidegger tenne una conferenza a Beuron, il 26 ottobre 1930, dal titolo Augustinus: Quid est tempus? Confessiones lib. XI, di prossima pubblicazione all’interno della Gesamtausgabe, edita da Klostermann, nel band 80, a cura di B. Heimbüchel.

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stiano e nel suo rapporto con il mondo: il kósmos in cui «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At, 17, 28) non è, infatti, un territorio stabile, una sostanza, ma una contrada, una transitività, la Welt è weralt (antico germanico), il “tempo dell’uomo”, il tempo intermedio in cui l’uomo vive, nel quale le significatività rimangono, però «sono vissute hos mé, “come se non” [als ob nicht]»41. L’hos mé è la formula della vita messianica, in cui ciascuno è chiamato a restare nella propria condizione, seppure nell’assoluta revocazione di ogni condizione fattizia compiuta dall’evento messianico, che rompe con l’abituale, inter-rompe la successione del tempo, ricapitolando passato, presente e futuro nel senso non della sommarietà, ma della pienezza (Gal, 4, 4 e Ef, 1, 10). Rendendo l’hos mé con “come se non” si è spinti erroneamente a ritenere che il cristiano debba escludere i riferimenti al mondo, mentre «in termini positivi l’hos significa un nuovo senso che sopraggiunge. Il mé riguarda il contesto dell’attuazione della vita cristiana»42. Il “come” non introduce una semplice 41

42

HGA 60, p. 117 (tr. it., p. 160). La complessa dinamica dell’hos mé trova un’esplicazione nell’anonima Lettera a Diogneto risalente al II secolo, ove, riguardo ai cristiani, è scritto: «risiedono nella loro patria, ma come stranieri domiciliati. Adempiono a tutti i doveri di cittadini e ricoprono ogni incarico come stranieri. […] In una parola, ciò che l’anima è nel corpo i Cristiani sono nel mondo. […] L’anima abita il corpo, pertanto non appartiene al corpo, così i Cristiani abitano il mondo ma non appartengono al mondo» (Didaché e A Diogneto, tr. it. di V. Solenghi, Berti, Piacenza 1999, pp. 25-26). Su questo tema interessante è il commento heideggeriano al verso di George Trackl «è l’anima straniera sulla terra» che, scongiurando una curvatura marcionita, rompe con la lettura tradizionale secondo cui l’anima appartiene al mondo sovrasensibile, eterno, e il permanere nel mondo sensibile, transeunte, non è per essa che una condanna, perché «proprio nell’essere in cammino alla ricerca della terra, per potervi poeticamente costruire e dimorare così soltanto salvando la terra come terra, l’anima realizza la propria essenza» (M. Heidegger, Die Sprache im Gedicht, in HGA 12, p. 37; tr. it., Il linguaggio nella poesia, p. 48). HGA 60, p. 120 (tr. it., p. 163). Considerando i passi dei Vangeli in cui compare la particella “come” (es. Mt, 18, 3: «se non diventerete come bambini»), Agamben nota che «l’hos svolge una funzione importante nei sinottici, come termine introduttivo di una comparazione messianica […]. I grammatici medievali interpretavano il comparativo non come espressione di un’identità o di una semplice somiglianza, ma […] come la tensione (intensiva o remissiva) di un concetto verso un altro. […] L’hos mé paolino appare allora come un tensore di tipo speciale, che non tende il campo semantico di un concetto in direzione di un altro concetto, ma lo mette in tensione con se stesso nella forma del come non: piangenti come

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finzione o una simulazione, ma mette in atto una decisiva rivoluzione, che non va contro l’esistente, perché è una rivoluzione del Vollzugssinn, una con-versione, che, lasciando apparentemente immutata l’esteriorità della condizione, pure la destituisce, la sospende. Il “non”, la negazione, comincia a delegittimare le istanze mondane, preparandone la fine, comincia ad incrinare il potere di questo mondo, che non ha più alcuna presa sul cristiano43. L’hos mé non

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non piangenti. La tensione messianica non va, cioè, verso un altrove né si esaurisce nell’indifferenza fra qualcosa e il suo opposto. […] Tendendo ogni cosa verso se stessa nel come non, il messianico non la cancella semplicemente, ma la fa passare, ne prepara la fine» (G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, cit., pp. 29-30). Giannetto reputa fuorviante questa lettura, che «facendo pensare a una comparazione o a una finzione non rende bene l’akh la del testo aramaico siriaco: l’akh la letteralmente andrebbe tradotto “nella modalità del non” (senza), indicando un modo autentico-spirituale di essere in questo mondo, senza appartenere a questo mondo» (E. Giannetto, Un fisico delle origini. Heidegger, la scienza e la Natura, cit., pp. 36-37 e nota 92). Interessante, a proposito del concetto di rivoluzione, la lettura proposta negli anni Venti da Karl Barth che, tenendo insieme Rm, 12, 21 («non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male») e Rm, 13, 1 («ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio»), introduce il concetto di non-rivoluzione in quanto «grande possibilità negativa» (K. Barth, Der Römerbrief, Evangelischer Verlag, Zollikon-Zürich 1954; tr. it. di G. Miegge, L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 2006, p. 458). La ribellione – come quella degli zeloti all’Impero romano, che è comunque destinato a tramontare – è, secondo Barth, un nonsense, poiché «quella che si svolge qui è la lotta del male col male. Anche la più radicale rivoluzione può soltanto contrapporre all’ordine esistente un altro ordine esistente» (ivi, p. 462); perciò, il restare sottomessi, «la non-rivoluzione è la migliore preparazione alla vera rivoluzione» (ivi, p. 464), che è la rivoluzione messianica, il “segno meno” negante posto davanti alla totalità degli ordinamenti umani (Stato, Chiesa, diritto, società, etc.). Facendo suo l’insegnamento luterano della destructio, Barth conclude: «noi definiamo l’amore: “la grande possibilità positiva” perché in esso si rivela chiaramente il significato rivoluzionario di ogni éthos, perché in esso veramente l’ordine esistente viene negato e distrutto. […] Perché in quanto ci amiamo gli uni gli altri non possiamo voler mantenere l’ordine, l’esistente come tale, noi attuiamo nell’amore il “nuovo” che abbatte il “vecchio”» (ivi, p. 473). Recependo la lezione barthiana, Taubes accosta il concetto di nichilismo benjaminiano, come «metodo della politica mondiale» (W. Benjamin, Theologisch-politisches Fragment, in Gesammelte Schriften, Bd. II,1, hrsg. von R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1977; tr. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, Frammento teologico-politico, in Sul concetto di storia,

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conduce ad un abbandono del mondo, ma ad una appropriazione “autentica”: «le direzioni di senso che mirano al mondo-ambiente, all’attività svolta e a ciò che si è (mondo del sé) non determinano in alcun modo la fatticità del cristiano, eppure ci sono, vengono mantenute e solo così sono attribuite in senso proprio»44. Va, perciò, scongiurata l’identificazione dell’hos mé con un atteggiamento nichilistico al modo del disprezzo gnostico, del rozzo anarchismo, del generale disimpegno o della fiacca passività. Accogliendo la predicazione [dékhesthai tón lógon], si acquisisce un nuovo comportamento fondamentale [ghénesthai]; tuttavia, «ciascuno deve rimanere nella vocazione in cui si trova. Il génesthai è un ménein. Per quanto radicale sia la trasformazione, qualcosa rimane […]. Ciò che viene trasformato non è il senso del riferimento, e ancor meno ciò che attiene al contenuto. Il cristiano non esce quindi fuori dal mondo»45, non lo nega, ma neppure si lega ad esso, vive

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Einaudi, Torino 1997, p. 255), all’hos mé, alla teologia politica negativa di Paolo (J. Taubes, Die Politische Theologie des Paulus, Wilhelm Fink, München 1993; tr. it. di P. Dal Santo, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano 1997, p. 137), che non implica alcun ordinamento giuridico ‘positivo’, anzi delegittima ogni tipo di potere di questo mondo, attuando una trasvalutazione di tutti i valori. Da “zelota spirituale”, Paolo attua la sua opposizione a Roma attraverso la predicazione: infatti, «la Lettera ai Romani è una teologia-politica, in quanto dichiarazione di guerra politica nei confronti dei Cesari» (ivi, p. 42). In tal modo, Paolo supera lo zelotismo, poiché non contrappone al nómos romano la Torah: «non il nómos, ma colui che è stato crocifisso dal nómos, è l’imperatore» (ivi, cit., p. 55), è l’anti-Cesare. Per queste tematiche, mi permetto di rinviare a V. Surace, Il frammento teologico-politico di Walter Benjamin. Politica messianica come nichilismo, “Democrazia e diritto”, 3-4, 2008. HGA 60, p. 119 (tr. it., p. 161). Secondo Agamben, mediante l’hos mé Heidegger elabora per la prima volta la dialettica di proprio e improprio e «l’idea di un’appropriazione dell’improprio come carattere decisivo dell’esistenza umana. Il modo di vita cristiano non è determinato, infatti, dalle relazioni mondane e dal loro contenuto, ma dal modo in cui queste sono vissute e – in questo modo soltanto – appropriate nella loro stessa improprietà. Resta che, per Paolo, non di appropriazione si tratta, ma di ‘uso’ e il soggetto messianico non solo non è definito da proprietà, ma non può nemmeno possedere se stesso come un tutto, sia pure nella forma della decisione autentica e dell’essere-per-la-morte» (G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, cit., p. 38). HGA 60, pp. 118-119 (tr. it., p. 161). Stimilli sostiene che la logica messianica ha luogo «in una sorta di punto di indistinzione, in cui tutto quello che è, deve essere come se non fosse se stesso, al di là, cioè, di ciò che lo distingue, qualificandolo e opponendolo ad altro. Non un’indifferenza,

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nella carne, ma non secondo la carne (2 Cor, 10, 3), mettendo in atto una nuova condotta, che va intesa «in termini non etici»46. Dunque, è un grave fraintendimento individuare l’origine del cristianesimo in un sentimento di vendetta nei confronti del mondo, come ha fatto Nietzsche, poiché «in tale contesto non si può assolutamente parlare di ressentiment»47. Il cristiano non è l’uomo del risentimento che dice “no” alla vita, piuttosto è colui che decide di trasformare la sua vita, adempiendo alla richiesta di Dio di essere “santo” (Lv, 19, 2), ovvero “separato” (in ebraico kados) non dal mondo, ma dal modo di pensare di questo mondo (Rm, 12, 2). La storia è l’orizzonte di senso, di conseguenza la relazione con il saeculum è intrinseca e

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dunque, ma un’adesione radicale, un’appropriazione, si potrebbe forse dire nei termini di Heidegger, che non tiene alcun conto di qualità e selezioni. La nuova esperienza di vita messianica annunziata da Paolo, dunque, coincide con la stessa condizione di vita fattizia in cui ciascuno si trova ed è stato chiamato, e la nullifica dall’interno rendendola così diversa (il ghénesthai, sottolinea giustamente Heidegger, è un ménein). In tal senso, potremmo dire ancora con Heidegger, l’esistenza messianica, in Paolo, acquista senso non a partire dal contenuto da cui procede; ma, al contrario, il senso che essa instaura col mondo si determina dal modo stesso in cui esiste» (E. Stimilli, Jacob Taubes, Morcelliana, Brescia 2004, p. 244. Cfr. anche Id., Il messianesimo come problema politico, postfazione a J. Taubes, Il prezzo del messianesismo, cit., p. 191). HGA 60, p. 120 (tr. it., p. 162). Fédier sottolinea la differenza tra il moralismo esteriore, che è un’étique fétiche, e l’etica cristiana, che sposta il proprio centro di gravità nel mondo del sé (F. Fédier, Heidegger: edition intègrale, tome 60. Phenomenologie de la vie religieuse, „Heidegger Studies“, 13, 1997, pp. 155-156). HGA 60, p. 120 (tr. it., p. 162). Sull’origine del cristianesimo dal ressentiment Nietzsche si sofferma nella prima dissertazione de La genealogia della morale – dal titolo “Buono e malvagio”, “buono e cattivo” – preparatoria alla trans-valutazione dei valori: «mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi; la morale degli schiavi dice fin da principio no a un “di fuori”, a un “altro”, a un “non io”: e questo no è la sua azione creatrice. Questo rovesciamento del giudizio che stabilisce valori […] si conviene appunto al ressentiment» (F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, VI/II, hrsg. von G. Colli e M. Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1968; tr. it. di F. Masini, La genealogia della morale, Rizzoli, Milano 2000, p. 26). Va precisato, però, che Nietzsche di Gesù, a suo avviso il solo cristiano mai esistito, afferma: «egli non ha mai avuto una ragione per negare “il mondo” […]. Negare è appunto per lui del tutto impossibile» (F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, cit., p. 43).

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inaggirabile, l’importante, però, è che non diventi totalizzante e schiacciante, poiché l’aspetto [morphé]48 di questo mondo è destinato a passare. L’esperienza weltlich non va rifiutata a causa della sua vanità, come farebbe chi ancora è sottoposto alla legge; la logica messianica presuppone, piuttosto, un essenziale cambiamento del rapporto con il mondo: «il mondo-proprio entra come tale nella vita e viene vissuto come tale. Nella vita delle prime comunità cristiane è presente qualcosa che significa un radicale spostamento delle direzioni di tendenza della vita, per il quale di solito si intende la negazione del mondo e l’ascesi»49. Concepire in termini ascetici questo spostamento del baricentro dall’esterno all’interno significa, secondo Heidegger, misconoscere la grande rivoluzione prodotta dal cristianesimo, tale per cui l’uomo non è più, come nella scienza antica, uno spettatore distaccato e neutrale del mondo, ma è coinvolto storicamente in esso. Perciò, l’hos mé non si traduce in un negativo “distacco” [Abgeschiedenheit] ascetico dal mondo, ma in quella nuova “propensione al mondo” [Weltzugewandtheit], di cui parla Lutero50. La vita cristiana si attua, infatti, secondo il monaco agostiniano, in tre diverse relazioni-coram: coram me ipso, al cospetto di me stesso, coram hominibus, al cospetto degli uomini, e coram mundo, al cospetto del mondo. La seconda e la terza modalità si identificano in una sola, mentre la prima si sublima nell’essere extra se e coram Deo; ma l’essere al cospetto del mondo e di Dio non sono possibilità facoltative o realtà separate: chi pone il suo essere coram Deo, non smette di esistere coram mundo e viceversa51. Allo stesso modo, 48

49 50 51

Per Heidegger morphé non va tradotto con “forma”, intesa come una proprietà semplicemente-presente nella materia, perché nel senso greco iniziale «la morphé è l’“aspetto”, e, più precisamente, lo stare in esso e il mettervisi, in generale l’installarsi [Gestellung] nell’aspetto» (M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der phýsis. Aristoteles, Physik B, 1, in HGA 9, p. 276; tr. it., Sull’essenza e sul concetto della phýsis. Aristotele, Fisica B, 1, p. 230). HGA 58, p. 61. HGA 60, p. 308 (tr. it., p. 389). Abgeschiedenheit è un termine fondamentale della mistica eckhartiana, insieme a Gelassenheit, l’abbandono delle cose e l’abbandono a Dio, nozione per la quale si rimanda infra, nota 80. Uno dei passi luterani in cui emerge l’“essere al cospetto di”, in quanto relazione in cui l’uomo si trova già da sempre, è il seguente «in humanis doctrinis reuelatur et docetur Iustitia hominum, i. e. quis et quomodo sit et fiat Iustus coram se et hominibus. Sed in solo euangelio reuelatur Iustitia Dei (i. e. quis et quomodo sit et fiat Iustus coram Deo) per sola fidem, qua

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per Heidegger l’esperienza fattizia si articola in Selbst-, Um- e Mitwelt, sensi di riferimento che il cristiano continua a vivere, ma in modo inedito: infatti, «il miste è distolto dal contesto della vita, di modo che, in uno stato di rapimento, Dio e il Tutto sono avuti nel presente. Il cristiano non conosce un simile “entusiasmo”, bensì dice: “Vegliate e siate sobri”»52; non neutralizza «il pericolo [Gefahr] di cedere alla “corrente” e di cadere nel non genuino»53, ma cerca di «catturare la corrente»54, di risalirla per non annegare; il cristiano non si sottomette al fattuale, ma neppure gli oppone il proprio diniego. Infatti, «ciò che importa non è fuggire, bensì avere costantemente un confronto radicale con il fattuale. Io devo averlo per giungere all’esistenza. Questo avere si chiama viverci dentro, non però cedere, ma nemmeno superare comodamente e assiologicamente»55. Se «è la fatticità – in cui mi trattengo e mi do “esistenza” – che si intromette in me stesso nel movimento verso

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53 54 55

Dei verbo creditur» (M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, pp. 171-172; tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 96). Per la coramSruktur in quanto determinazione locativa e insieme temporale, che richiama da vicino una locuzione veterotestamentaria tipicamente ebraica, si rimanda a G. Ebeling, Lutero. Un volto nuovo, cit., pp. 177-192. HGA 60, p. 124 (tr. it., p. 167). Nel contributo per il sessantesimo compleanno di Husserl, Heidegger nota che nel cristianesimo il “mondo” ha un carattere antropologico: «kósmos oútos significa in Paolo (cfr. 1 Cor e Gal) non solo e non primariamente lo stato delle cose del “cosmo”, ma lo stato e la situazione dell’uomo, la modalità della sua posizione nei confronti del cosmo, la sua valutazione dei beni. Kósmos è l’essere umano nel “come” di un modo di pensare che ha voltato le spalle a Dio (e sophía toú kósmou). Kósmos oútos vuol dire quindi l’Esserci umano in una determinata esistenza “storica”, contrapposta a un’altra già cominciata (aión o méllon)» (M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, in HGA 9, p. 143-144; tr. it., Dell’essenza del fondamento, pp. 99-100). Anche nel Vangelo di Giovanni «mondo designa la forma fondamentale dell’Esserci umano che dimora lontano da Dio» (ivi, p. 144; tr. it., p. 100), significato che si tramanda fino ad Agostino, per il quale mundus non è solo l’ens creatum, ma anche mundi habitatores, «nel senso di amare mundum, che equivale a non cognoscere Deum» (ivi, p. 145; tr. it., p. 101). HGA 60, p. 209 (tr. it., p. 269). BrH-E, p. 100 (tr. it., p. 91). HGA 60, p. 265 (tr. it., p. 338). Come Heidegger dirà nei termini dell’analitica esistenziale: «la decisione in quanto autentico-esser-se-Stesso, non scioglie l’Esserci dal suo mondo, non lo isola in un io ondeggiante nel vuoto. Come lo potrebbe se essa, in quanto apertura autentica, è null’altro che l’essere-nel-mondo autentico?» (HGA 2, p. 395; tr. it., p. 355).

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l’esistere “autentico”»56, solo vivendoci dentro, confrontandomi con essa e non aggirandola con un atteggiamento sprezzante di moralistica stizza o di romantica fuga, è possibile un’inversione assoluta. Mediante la logica messianica dell’hos mé si acquisisce un modo genuino di stare al mondo, basato su un doppio rifiuto, ossia né “valutare positivamente”, come pure tanto protestantesimo – soprattutto di matrice calvinista – ha fatto, fraintendendo Lutero, né fare “compromessi”, come il cattolicesimo: fissare e fare proprio in modo genuinamente effettivo il mondano, ovvero il riferimento e l’attuazione dell’esperienza. Ciò non significa né “valutare positivamente” – dato che questo non è affatto in discussione e costituisce una falsa interpretazione (“Lutero” e fraintendimento) – né “fare compromessi”, il che costituisce comunque un affaccendarsi deteriore (cattolicesimo!)57.

Ciò che viene trasformato non è il contenuto, che rimane, seppure volge alla fine, ma il senso d’attuazione della vita fattizia, il modo in cui si vive in questo fra-tempo. Il cristiano non esclude i riferimenti al mondo, ma fa sì che non siano essi a determinare la sua fatticità: «la vita cristiana non procede in modo lineare, ma è infranta [gebrochen]: tutti i riferimenti relativi al mondo-ambiente debbono passare attraverso il contesto dell’attuazione dell’essere-divenuti»58. 2. In cammino C’è un passo della Lettera ai Filippesi in cui emerge la «comprensione storica originaria del proprio sé e del proprio esserci» di 56 57

58

HGA 60, p. 215 (tr. it., p. 277). HGA 60, pp. 265-266 (tr. it., p. 338). Riguardo all’hos mé, Bultmann afferma: «non significa che il credente abbia un rapporto negativo con il mondo, bensì che il rapporto positivo, che ha con il mondo e i suoi ordinamenti, è un rapporto critico. La fede sa, infatti, che Dio il creatore è anche il giudice del mondo. Sa, ciò che gli uomini sempre dimenticano, che i beni e gli ordinamenti del mondo mettono l’uomo al servizio, gli indicano i suoi compiti e non sono dati come possesso e godimento. Sa che lo sforzo umano, tanto individuale quanto collettivo, mira sempre a disporre del mondo, ad assicurarselo. Sa che l’uomo, dimenticando la sua creaturalità vuole sempre comprendersi come il signore della sua vita» (BrH-Bu, p. 279). HGA 60, p. 120 (tr. it., p. 163).

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Paolo, a partire da cui «si compie la sua opera di apostolo e di uomo»59; è un passo il cui carattere, fortemente aporetico, riflette la frattura [Bruch] esistenziale di ogni cristiano, che vive il tempo che resta affrancandosi da ciò che è stato e proiettandosi nell’avvenire; si tratta di Fil, 3, 13-14: «dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro, verso la meta». “Alle spalle” sta la legge che Dio sul monte Sinai ha dato a Mosè, di cui Paolo da «Israelita, Ebreo da Ebrei, fariseo figlio di farisei» (Gal, 1, 13-14; Fil, 3, 4-5; At, 23, 6 e 26, 4) è stato scrupoloso osservante e zelante custode. “Di fronte” sta la fede di «Paolo servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio» (Rm, 1, 1). L’esistenza di Paolo è divisa tra legge e fede, «entrambe modalità particolari della via della salvezza»60, modi diversi di concepire la giustificazione. Nell’esperienza protocristiana «il confronto tra la fede e la legge è l’elemento decisivo: il come della fede e del compimento della legge – come mi rapporto alla fede e alla legge»61, che formalmente indicano l’«aut-aut delle vie»62 nel quale ne va dell’esistere. Infine, «la meta è la “salvezza” (he sotería), in definitiva la “vita” (o zoé)»63, in merito a cui Paolo afferma: «non ritengo [ou loghízomai] ancora di averla conquistata» (Fil, 3, 13), utilizzando in forma negativa il verbo greco loghízomai per esprimere l’incertezza assoluta, che non può essere risolta con alcun calcolo razionale. Paolo è ansioso di raggiungere la mèta, tant’è che va di corsa – come evidenzia anche il verbo greco tréchein di Gal, 2, 2 –, «Paolo ha fretta poiché la fine del tempo è già iniziata»64, perciò è «contro la “legge”, non solo in quanto legge, bensì in quanto appartenente all’attuale “età del mondo” [Weltzeit]»65. 2.1. “Alle spalle”: la legge A determinare l’esperienza di vita religiosa di Paolo è, in un primo tempo, la legge: «qui la “legge” va intesa prevalentemente come legge rituale e cerimoniale. Anche come legge morale, che è solo se59 60 61 62 63 64 65

HGA 60, pp. 73-74 (tr. it., p. 112). HGA 60, p. 69 (tr. it., p. 107). HGA 60, pp. 72-73 (tr. it., p. 111). HGA 60, p. 127 (tr. it., p. 171). HGA 60, p. 69 (tr. it., p. 107). HGA 60, p. 70 (tr. it., p. 108). HGA 60, p. 127 (tr. it., p. 171).

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condaria. Per questo c’è una lotta della comunità ebraico-cristiana per la legge concepita come ciò che fa dell’Ebreo un Ebreo: érgon nómou»66. Quest’ordine legalistico entra in crisi, non tanto nei dettami etici, quanto nei riti che agiscono da discrimen nella comunità, quando Cristo, come il sovrano che proclama lo «stato di eccezione»67, sospende la Legge, facendo valere al suo posto il più grande comandamento dell’amore (Mt, 22, 37-40; Mc, 12, 29-31; Lc, 10, 25; Gv, 13, 34; cfr. Dt, 6, 5 e Lv, 19, 18), in base a cui si è vero Giudeo nell’intimo e non esteriormente, così come è vera circoncisione quella del cuore (cfr. Rm, 2, 28 e Gal, 6, 15) e non quella del prepuzio. Paolo, dal canto suo, riconoscendo l’equivocità della Legge, che da un lato rivela il peccato, ma dall’altro, comandando di “non desiderare”, scatena ogni sorta di desiderio (Rm, 7, 7-8)68, si 66 67

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HGA 60, p. 73 (tr. it., p. 111). La nozione di “stato d’eccezione”, un momento di crisi, un vuoto di diritto in cui la vecchia legge è sospesa e la nuova non è ancora sopraggiunta, che richiama la durftige Zeit, è centrale nella dottrina della sovranità di Schmitt: «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione» (C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1922; tr. it. di P. Schiera, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio, Il Mulino, Bologna 2008, p. 33). Secondo Kierkegaard dal messia ci si aspettava che rispettasse «il governo del mondo» e il suo sviluppo, che «non è in forma di rivoluzione, ma di evoluzione», Cristo, invece, non venne per riconoscere l’ordine costituito, ma per sopprimerlo (S. Kierkegaard, Esercizio di cristianesimo, cit., pp. 82-83). Come spiega Agamben, «tanto in ambito ebraico che in quello cristiano o shiita, l’evento messianico significa innanzitutto una crisi […] di tutto l’ordine della Legge […]. Il Messia è, cioè, la figura in cui la religione si confronta col problema della Legge, viene con questa ad una resa dei conti definitiva» (G. Agamben, Il Messia e il sovrano, in La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 254-255). A proposito di questi versetti della Lettera ai Romani, Agostino scrive: «l’Apostolo ha scelto il comandamento: Non desiderare a principio generale in cui abbraccia tutto, come se esso fosse la voce della legge che tiene lontani da ogni peccato, e di fatto nessun peccato si commette se non per concupiscenza: perciò è buona e lodevole la legge che comanda così. Ma quando non aiuta lo Spirito Santo, suscitando al posto della concupiscenza cattiva la concupiscenza buona, ossia riversando nei nostri cuori la carità, allora quella legge, per quanto buona, con la sua proibizione accresce il desiderio del male» (Sant’Agostino, Lo Spirito e la lettera, in Opere. Natura e Grazia, tr. it. di I. Volpi, Città Nuova, Roma 1981, I, 4.6, p. 261). Agostino, basandosi su 2 Cor, 3, 6 («la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita»), costruisce una serrata argomentazione atta a sostenere che

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lascia alle spalle i dettami rabbinici e della Mishna, a cui era stato scrupolosamente educato, e afferma il “compimento” [katárgesis] della Legge nell’unico comandamento cristologico dell’amore (Rm, 13, 10). La katárgesis non nega, non abolisce, non elimina la Legge, ma oppone una figura non normativa della Legge a quella normativa: si tratta di un togliere conservando nel senso della Aufhebung69 hegeliana. La negazione paolina è rivolta al carattere formalisticonormativistico ed esteriore della Legge, che prescrive la scrupolosa osservanza di ben 613 mitzwot che ogni ebreo deve rispettare, di contro al quale viene fatto valere il carattere interiore della fede, di cui Abramo è modello, poiché ha creduto nell’impossibile, ha creduto in tarda età e con una moglie sterile di poter avere un figlio. La negazione paolina è rivolta dunque al carattere prescrittivo della legge, di contro al quale viene fatto valere il carattere performativo della fede, in quanto patto stretto con Dio nella parola, che non de-

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la legge mosaica uccide se non è sostenuta dalla grazia che dà la fede: se «c’è la fede che opera per mezzo dell’amore, allora questa comincia a suscitare il piacere della legge di Dio nell’intimo dell’uomo e tale piacere non è dono della lettera, bensì dello Spirito, per quanto continui nelle membra la lotta di un’altra legge contro la legge della mente, fino a quando tutto il regime vecchio muti e passi nel regime nuovo che va crescendo di giorno in giorno nell’intimo dell’uomo, liberandoci dal corpo di questa morte la grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore» (ivi, 14. 26, p. 295). Perciò, legge e grazia o lettera e spirito non sono antitesi che si escludono, ma alternative che si integrano: infatti, quando «l’Apostolo dice che, a suo avviso, l’uomo è giustificato per mezzo della fede senza le opere della legge, non lo sostiene perché, una volta accolta e professata la fede, le opere della giustizia siano trascurate, ma perché ciascuno sappia che può essere giustificato per mezzo della fede, anche senza aver prima compiuto le opere della legge. Queste infatti seguono la giustificazione, non la precedono» (Sant’Agostino, La fede e le opere, in Opere. La vera religione, tr. it. di G. Ceriotti, L. Alici, A. Pieretti, Città Nuova, Roma 1995, VI/2, 14.21, p. 729). Agamben propone un’interessante genealogia del tedesco aufheben, “abolire” e “conservare”, che fa del concetto chiave della dialettica hegeliana un concetto secolarizzato della teologia cristiana, dal momento che è il verbo con cui Lutero traduce il katargeín di Paolo: «un esame del lessico luterano mostra che Lutero è consapevole del doppio significato del verbo, che prima di lui è attestato, ma non è frequente, e che è dunque con ogni probabilità attraverso la traduzione delle lettere paoline che il termine ha acquisito la particolare fisionomia che Hegel doveva raccogliere e sviluppare» (G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, cit., p. 95).

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scrive uno stato di cose, ma produce un atto, come la nascita di Isacco. La teologia di Paolo, «il maestro della distruzione della legge»70, come lo definisce Nietzsche, ha un carattere antinomico, non perché contrappone al nómos romano la Torah, ma in quanto mira a scardinare con la croce i nómoi terreni in quanto tali. Il «senso dell’intera legge», infatti, come afferma Heidegger, è «rinviare l’uomo al suo fare; la ricompensa è data per le opere del fare»71, invece che per la grazia e la fede, che rinnovano il cuore. Che la legge umana istruisca solo su quali opere si debbano o non si debbano fare, il filosofo lo ricava senza dubbio da Lutero, il quale, servendosi della distinzione agostiniana tra la legge delle opere: un imperativo che minaccia, e la legge della fede, che insegna a rimanere in ascolto72, afferma: l’opera della legge è tutto ciò che l’uomo fa o può fare per la legge con la sua libera volontà e con le sue proprie forze. Ma siccome con tali opere rimangono nel cuore disgusto e costrizione alla legge, quelle opere sono nel loro insieme perdute ed inutili. […] Compiere la legge significa fare le opere da essa richieste con piacere e amore, e liberamente, vivere con pietà e bontà senza la costrizione della legge, come se non

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F. Nietzsche, Morgenröte. Gedanken über die moralischen Vorurteile, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, V/I, hrsg. von G. Colli e M. Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1970; tr. it. di F. Masini, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, Adelphi, Milano 2001, af. 68, p. 52. Scilironi sostiene che il contra legge paolino è «l’inveramento dell’ebraismo più autentico, pre-esilico», «il ritorno al significato genuino della Torah» (C. Scilironi, San Paolo filosofo della fede, in AA. VV., San Paolo e la filosofia del Novecento, a cura di C. Scilironi, Cleup, Padova 2004, p. 383), la cui «essenza non è giuridica, bensì esistenziale» (ivi, p. 388), in quanto è l’alleanza tra Dio e l’uomo. HGA 60, p. 127 (tr. it., p. 171). Sant’Agostino, Lo Spirito e la lettera, cit., 13.22, p. 287: «con la legge delle opere Dio dice: “Fa’ quello che comando”, con la legge della fede si dice a Dio: “Da’ quello che comandi”». Secondo Arendt nella Lettera ai Romani Paolo affronta il problema di due leggi, «la legge spirituale che gli consente di compiacersi della legge di Dio “nel suo più intimo sé” e la legge delle sue “membra” che gli ordina di fare ciò che nel più profondo di se stesso egli odia. […] L’Antica Legge diceva: tu devi fare; la Nuova Legge dice: tu devi volere» (H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 383). Agostino parla di due volontà antagoniste, una nuova e l’altra vecchia, una spirituale e l’altra carnale (ivi, p. 405), il cui conflitto si risolve mediante la trasformazione redentiva della volontà in amore (ivi, pp. 421424). Cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., VIII, 8, pp. 231-232.

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vi fosse alcuna legge né pena […]. Perciò soltanto la fede giustifica, e adempie la legge73.

La legge mosaica, che corrisponde a nient’altro che a comandamenti tesi a regolare la vita quotidiana in base ad una precisa scala assiologica, è l’espressione dell’uomo vecchio; l’uomo nuovo deve liberarsene, per ascoltare la parola di Dio, avendo con sé la fede in Cristo, colui che rimodula e trasforma radicalmente ogni relazione mondana (giudeo e pagano, schiavo e libero, sacerdote e laico, ricco e povero, etc.). Peraltro, se in questo “fra-tempo” rimangono fede, speranza e amore, nel giorno della parusía rimarrà solo Agápe (1 Cor, 13, 13) che «è propriamente la legge di Cristo, la pienezza della legge di Mosè. Di più: è la legge senza legge, senza misura, che non ha termine e non conosce limiti, ma ricopre pure tutto ciò che la legge ordina o può comandare»74. 2.2. “Di fronte”: la fede La fede, quell’opera aliena che mette in crisi il concetto tradizionale di opera, portando a compimento tutte le opere propriamente dette75, non può essere spiegata con criteri secolari, anzi «la fede non deve affatto consistere nella sapienza umana: cfr. 1 Cor, 2, 5»76, perché, come suggerisce la definizione luterana, «la fede è una fiducia viva e audace nella grazia di Dio»77. Colpendo al cuore la critica 73

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M. Lutero, Vorrede auss die Epistel S. Pauli an di Römer, in WadB 7, p. 7 (tr. it., Prefazione all’Epistola ai Romani, pp. 517-518). Su quest’argomento cfr. G. Pani, Il De Spiritu et littera nella Römerbriefvorlesung di M. Lutero, “Annali di Storia dell’esegesi”, 3, 1986, pp. 128-131. M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 203 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 130). Quinzio distingue la “teologia del Patto”, «la quale pensa alla salvezza come conseguente alla libera osservanza della Legge» (S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 108), dalla “teologia della Promessa”, che «è basata invece sulla tragica consapevolezza dell’impossibilità per l’uomo di osservare la Legge, e si affida quindi totalmente alla misericordia di Dio» (ibidem), e osserva che «Lutero, ponendo la salvezza nella fede anziché nelle opere, inevitabilmente ritorna al significato originario» dell’annuncio di Cristo (ivi, p. 109). M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 364 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 201): «la legge dice: “Fa’ questo”, e ciò non è mai fatto; la grazia dice: “Credi in costui” e tutte le cose son già fatte». HGA 60, p. 137 (tr. it., p. 182). M. Lutero, Vorrede auss die Epistel S. Pauli an di Römer, in WadB 7, p. 11 (tr. it., Prefazione all’Epistola ai Romani, p. 520).

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nietzscheana al cristianesimo, secondo cui «ogni fede è un tener per vero. […] Dunque un’illusione prospettica, la cui origine è in noi»78, l’illusione di derivazione platonica che esista un mondo vero che dà senso all’assurdità del mondo apparente, Heidegger riconosce a Lutero di pensare la fede nel suo senso originario di pístis, non come “tener per vero” [für-wahr-halten], ma come “fiducia” [Treue]: fede e fede sono fondamentalmente diverse nel protestantesimo e nel cattolicesimo. Esperienze vissute nettamente distinte dal punto di vista noetico e noematico. In Lutero emerge una forma di religiosità originale, non rintracciabile nemmeno nei mistici. Il “tener per vero” della fede cattolica è fondato in modo completamente diverso da come lo è la fiducia dei riformatori79.

Heidegger annota questa distinzione negli appunti per il corso sulla mistica medievale, ove, per descrivere la specificità dell’esperienza vissuta della fede, parla di «docile abbandono [demütige Gelassenheit]»80, nominando uno dei vocaboli chiave del mistici78

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F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 - März 1888, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, VIII/II, hrsg. von G. Colli e M. Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1970; tr. it. di S. Giametta, Frammenti postumi (1887-1888), in Opere, VIII/II, Adelphi, Milano 1971, fr. 9 (41), p. 15. Cfr. Id., Che cosa significano gli ideali ascetici?, in La genealogia della morale, cit., § 28, pp. 156-157. HGA 60, p. 310 (tr. it., p. 391). Negli anni Cinquanta, durante un seminario a Zurigo, Heidegger ribadisce: «la fede non ha bisogno di pensare l’essere. Se avesse bisogno di farlo già non sarebbe più fede. Lutero l’ha compreso» (HGA 15, p. 437; tr. it., p. 207). HGA 60 p. 309 (tr. it., p. 390). Fabris ricostruisce la storia del concetto di Gelassenheit a partire dalla formulazione religiosa di Meister Eckart, passando per l’acquisizione nell’ambito della Riforma, in cui indica una revoca della volontà umana, per la caratterizzazione psicologica nel Seicento e Settecento che l’avvicina ai concetti di apátheia e ataraxía, fino alla formulazione prettamente filosofica nell’Ottocento ad opera, tra gli altri, di Nietzsche, che la intende come l’atteggiamento di chi domina il proprio tempo, e nel Novecento ad opera di Jaspers, che la riconduce al rapporto con Dio, un rapporto segnato, più che dall’abbandono fiducioso, dalla scepsi, e di Heidegger, che riconduce il termine al lassen, contrapposto al wollen, perché «se il “volere” si ricollega alla dimensione della soggettività rappresentativa che domina l’età moderna […], il “lasciare” invece allude ad un rapporto con le cose che le rispetta nel loro disvelarsi (M. Heidegger, L’abbandono, tr. it. e cura di A. Fabris, il melangolo, Genova 1998, pp. 79-80, nota 3 del curatore). Dopo essersi servito del termine Gelassenheit per denotare il pensiero della filosofia (M. Heidegger, Vom We-

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smo cattolico e protestante, Gelassenheit, inteso non nel significato corrente di “calma”, “tranquillità”, ma come il sich lassen, il lasciarsi andare, l’abbandonarsi, l’af-fidarsi alla grazia di Dio. Heidegger ricorda, a questo proposito, la distinzione agostiniana «gratia operans – gratia cooperans»81, in base a cui l’inizio della fede proviene da Dio, che comincia l’opera della salvezza spingendoci al bene (cfr. Fil, 2,13), ma anche noi cooperiamo alla grazia (cfr. Rm, 8, 28) fidandoci: la fede è, infatti, il credito depositato presso qualcuno, che in cambio assicura una garanzia82. Ricomponendo l’opposizione nietzscheana tra fede e “pratica di vita” evangelica83, tra Paolo e Gesù, Heidegger sostiene che la fede è come un cristiano deve vive-

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sen der Wahreit, in HGA 9, p. 199; tr. it., Dell’essenza della verità, p. 154; e Id., Nachwort zu „Was ist Metaphysik?“, in HGA 9, p. 305; tr. it., Poscritto a “Che cos’è metafisica?”, p. 259), la meditazione (Id., Wissenschaft und Besinnung, in HGA 7, p. 63; tr. it., Scienza e meditazione, p. 43) e l’ascolto (Id., Der Weg zu Sprache, in HGA 12, p. 250; tr. it., Il cammino verso il linguaggio, p. 206), Heidegger ne fa una precisa tematizzazione, volendo designare con questa parola sia l’atteggiamento dell’uomo di «abbandono di fronte alle cose» (Id., Gelassenheit, in G, p. 25; tr. it., L’abbandono, p. 38), che è abbandono delle e alle cose, sia il rapporto tra l’uomo e l’essere, l’essere affidato dell’uno all’altro (Id., Zur Erörterung der Gelassenheit, in G, pp. 51-52; tr. it., Per indicare il luogo dell’abbandono, pp. 61-62). HGA 60, p. 309 (tr. it., p. 390). Agostino introduce questa distinzione della grazia spiegando che Dio «fa sì che noi vogliamo senza bisogno di noi; ma quando vogliamo, e vogliamo in maniera tale da agire, coopera con noi. Tuttavia senza di lui che opera affinché noi vogliamo o coopera quando vogliamo, noi non siamo validi a nessuna delle buone opere» (Sant’Agostino, La grazia e il libero arbitrio, in Opere. Grazia e libertà, tr. it. di M. Palmieri, Città Nuova, Roma 1987, 17.33, p. 71). Cfr. E. Benveniste, « La fidélité personnelle », in Le vocabulaire des istitutions indo-européennes, Minuit, Paris 1969; tr. it. di M. Liborio, La fedeltà personale, in Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1999, I, pp. 87-88. Hanno insistito su questi caratteri della fede J. Derrida, Foi et savoir. Les deux sources de la «religion » aux limites de la simple raison. Suivi par Le Siècle et le Pardon, Le Seuil, Paris 2000; tr. it. di A. Arbo, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, in AA. VV., La religione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1995 e G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Laterza, Roma-Bari 2008. F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, cit., p. 50. Occorre precisare che per Nietzsche la “buona novella” di Gesù riguarda proprio una fede che «non si formula neppure – essa vive, è restia alle formule» (ivi, p. 42).

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re, tant’è che «il pisteúein è un contesto dell’attuazione suscettibile di intensificazione»84, che non resta sempre uguale, ma fa progressi (uperáuxanei 2 Ts, 1, 3). La fede ha il significato originario del tedesco Treue derivante dal greco drýs: oltre a “legno, albero, quercia”, questo termine significa “essere fermo, solido, stabile, resistente”85, che è il modo in cui i cristiani si mantengono in vista della parusía (2 Ts, 2, 15). Il senso d’attuazione della fede è, infatti, in relazione all’urgenza escatologica: la fede è «precisamente il riconoscimento del Cristo redento, del fatto che Egli è il Messia. Ciò ha però la sua essenziale tendenza escatologica, dunque racchiude in sé il procedere verso la meta»86. Ma, seppure la fiducia dei protestanti è meno vuota ed inadeguata del mero tener per vero, «entrambi estrapolano un momento del riferimento, però non vedono né ciò che è autentico né ciò che è conforme all’attuazione»87. Lutero resta nell’ottica trascendente del riferimento dell’uomo a Dio, nonostante scorga l’aspetto fattizio della fede, «un’opera divina in noi che ci trasforma [wandelt] e ci fa nascere di nuovo a Dio, Giovanni, I. Essa uccide il vecchio Adamo, trasforma noi uomini completamente nel cuore, nell’animo, nel sentire e in tutte le energie, e reca con sé lo Spirito Santo. Oh la fede è cosa viva, attiva, operante»88. La fede, indicata formalmente, non riguarda l’esistenza di Dio, di un essere eterno e immutabile, bensì quella dell’uomo, perché si attua come metánoia, un “mutamento” interiore, che si riflette in una pratica di vita. 2.3. La giusta via Per quanto attiene la giusta via della salvezza, «Paolo getta subito sul piatto il suo argomento teologico capitale: Abramo stesso è giustificato solo dalla fede. […] L’adempimento della legge è impossibile, chiunque fallisce in questo, solo la fede giustifica»89. Sola fide è la particula exclusiva che usa Lutero, legittimandola non

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HGA 60, p. 108 (tr. it., p. 149). Cfr. E. Benveniste, La fedeltà personale, cit., pp. 77-80. HGA 60, p. 128 (tr. it., p. 172). HGA 60, p. 152 (tr. it., pp. 198-199). M. Lutero, Vorrede auss die Epistel S. Pauli an di Römer, in WadB 7, p. 11 (tr. it., Prefazione all’Epistola ai Romani, p. 520). HGA 60, p. 73 (tr. it., p. 111).

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in termini stilistici o linguistici, ma in base al senso della predicazione paolina: se in Romani, 3 ho aggiunto “solum” (“allein”) non l’ho fatto soltanto per esigenze linguistiche, ma perché il testo e il pensiero di Paolo lo richiedevano e me lo imponevano con forza. Infatti, l’apostolo tratta, in questo passo, il punto principale della dottrina cristiana, cioè della nostra giustificazione mediante la fede in Cristo, senza alcuna opera della legge […]. E porta come esempio Abramo, giustificato senz’opera alcuna, tanto che neppure l’opera più alta, che era stata appunto allora comandata da Dio ed era superiore a tutte le altre leggi e opere, cioè la circoncisione, gli era stata di alcun giovamento in vista della giustificazione, al contrario egli è divenuto giusto senza la circoncisione e senza alcuna opera, ma mediante la fede90.

L’apostolo afferma: «sappiate dunque che, coloro che vengono dalla fede, quelli sono figli di Abramo» (Gal, 3, 7) e Lutero precisa: «non dunque quelli (provenienti) dalla stirpe o dalla circoncisione»91; Agostino, dal canto suo, sottolinea che, «se la circoncisione del corpo e le altre opere legali avessero avuto realmente tanta efficacia da salvare l’uomo, Cristo sarebbe venuto senza un perché»92. La disputa sulla circoncisione, che vide entrare in polemica a Gerusalem90

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M. Lutero, Sendbrief vom Dolmetschen, in WA 30/II, pp. 640-641 (tr. it., Epistola sull’arte del tradurre e sulla intercessione dei santi, p. 713). All’interno della dottrina della giustificazione sola fide si colloca la lettura luterana di Abramo, che «senza opera alcuna, è stato giustificato soltanto mediante la fede, così che, anche prima dell’opera della sua circoncisione, viene celebrato dalla Scrittura come uomo giustificato soltanto per la sua fede, Genesi, 15. Se dunque l’opera della circoncisione non ha contribuito alla sua giustizia, che pure era indicata nel comandamento di Dio come buona opera di obbedienza, non potrà certamente nessun’altra opera buona contribuire alla giustizia. Ma, come la circoncisione di Abramo era un segno esteriore per dimostrare la sua giustizia nella fede, così tutte le opere buone sono segni esteriori che derivano dalla fede e provano, come frutti buoni, che l’uomo è già interiormente giusto dinnanzi a Dio» (M. Lutero, Vorrede auss die Epistel S. Pauli an di Römer, in WadB 7, p. 17; tr. it., Prefazione all’Epistola ai Romani, p. 524). M. Lutero, In epistolam Pauli ad Galatas commentarius, in WA 2, pp. 510-511. Lutero costruisce un ragionamento sillogistico, per dimostrare, attraverso l’esempio di donne e fanciulli, la veridicità dell’affermazione che a giustificare non è la circoncisione, ma la fede, come fu per Abramo (M. Lutero, Disputatio de circumcisione, in WA 6, pp. 30-31). Sant’Agostino, Esposizione della Lettera ai Galati, in Opere esegetiche, tr. it. di D. Gentili e V. Tarulli, Città Nuova, Roma 1997, X/2, 4, p. 573.

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me le due anime della cristianità nascente, Pietro e Paolo (At, 15, 5-21), come afferma Heidegger, non è altro che la «questione delle condizioni per l’ingresso nella vita cristiana; segno esteriore dell’appartenenza interiore al mondo dell’alleanza dopo l’esilio. Ciò che distingue non è la legge con le sue opere e la sua morale, bensì la fede in Gesù Cristo»93. Heidegger insiste sull’antitesi tra l’essere reso giusto dalle opere della legge [ex érgon nómou] e l’essere reso giusto per fede [ex písteos], seguendo sicuramente il ragionamento luterano riguardo alla giustificazione. Di contro alla concezione giudaica secondo cui la Torah è preesistente, creata prima del mondo e, dunque, già valida per Abramo, Lutero mette in evidenza che la legge è tardiva – poiché si è aggiunta a causa delle trasgressioni degli uomini ed è stata promulgata per mezzo di angeli attraverso un mediatore (Gal, 3, 19) –, perciò non può invalidare il patto di Dio con Abramo, non può abrogare la promessa, altrimenti annienterebbe e neutralizzerebbe la fede (Rm, 4, 14): «la promessa ad Abramo e │oppure│ alla sua discendenza di essere erede del mondo opera non mediante la legge o la discendenza carnale, ma mediante la giustizia della fede; perché se fossero eredi per via della legge e della discendenza di Abramo la fede sarebbe resa vana e la promessa abolita»94. Non è il diritto o il privilegio derivato dalla nascita e neppure il merito ciò per cui l’uomo viene giustificato, ma la fede in Cristo; alla iustitia domestica o propria (Rm, 10, 3) di filosofi e giuristi, Lutero oppone una “nuova e meravigliosa” definizione di giustizia: «iustitia est fides Ihesu Christi»95; il genitivo Ihesu Christi è al tempo stesso soggettivo: la fede di Cristo nel piano del Padre, ed oggettivo: la fede in Cristo come disposizione o conformazione dell’uomo ai suoi comandamenti. La giustizia retributiva o distributiva, aristotelico-scolastica e ciceroniana-giustinianea, la giustizia degli 93 94 95

HGA 60, p. 127 (tr. it., p. 171). M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 293 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, pp. 221-222). M. Lutero, Die erste Vorlesung über den Galaterbrief, in WA 57/II, p. 69. Per una generale esposizione della dottrina della giustificazione nella Galaterbriefvorlesung, si rinvia a S. Barlone, Giustificazione e libertà nel primo commento alla Lettera ai Galati, Dehoniane, Roma 1998 e G. Ebeling, Erbe Abrahams und Funktion des Gesetzes, in Die Wahrheit des Evangeliums. Eine Lesehilfe zum Galaterbrief, Mohr, Tübingen 1981; tr. it. di A. Rizzi, L’eredità di Abramo e la funzione della legge, in La verità dell’evangelo. Commento alla lettera ai Galati, Marietti, Genova 1989, pp. 206-232.

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uomini che proviene dalle opere – come «afferma esplicitamente Aristotele (libro III dell’Etica) secondo il quale la giustizia è conseguenza ed effetto delle azioni»96 – è sostituita dalla iustitia Dei extranea o iustitia Christi aliena, una giustizia che non deriva dalla sapienza umana, che non siamo in grado di scrutare e che ai nostri occhi, rispetto alle nostre regole, può finanche apparire iniqua: «nelle dottrine umane si insegna la giustizia degli uomini […]. Ma soltanto nell’Evangelo si rivela la giustizia di Dio […]: una giustizia che si ottiene mediante la sola fede, quella per cui si crede alla Parola di Dio»97. La iustitia extranea o aliena non è, perciò, quella del «libro V dell’Etica, ovvero quella dei giuristi»98, ma è la grazia ricevuta per fede e non acquisita «mediante atti frequentemente ripetuti, come insegna Aristotele»99, per il quale la virtù etica è un possesso derivante dall’héxis (da écho, “avere”), dall’habitus (da habeo, “avere”). La critica di Lutero si rivolge non solo al fatto che il concetto aristotelico di virtù lasci la salvezza alle sole forze dell’uomo, ma anche al fatto che la virtù sia legata ad azioni esteriori e non ad un rinnovamento interiore. Secondo Lutero, non è «operando iusta iu96

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M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 172 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 97). Per Aristotele gli uomini «sono responsabili del loro essere ingiusti» per il fatto di «commettere azioni malvagie» (Aristotele, Etica nicomachea, a cura di M. Zanatta, RCS, Milano 1996, I, III, 7, 1114a, 5, p. 145), così come «dal compiere le cose giuste deriva l’uomo giusto e dal compiere le cose moderate l’uomo moderato» (ivi, , II, 3, 1105b, 10-12, p. 117). M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, pp. 171-172 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 96). È Agostino ad insegnare che «si dice giustizia di Dio, perché è Dio che impartendola ci fa giusti, come si dice salvezza del Signore quella con cui ci fa salvi. E la fede di cui si dice che la giustizia di Dio si rivela di fede in fede è questa: dalla fede degli annunziatori alla fede degli accoglitori» (Sant’Agostino, Lo Spirito e la lettera, cit., 11.18, p. 279). M. Lutero, Explicatio trium sequentium psalmorum de autographo D. Lutheri expressa est, in WA 31/I, pp. 465-466. M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 364 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 200). Per Aristotele le virtù sono di due specie: la virtù dianoetica, che deriva dall’insegnamento, e la virtù etica, che «nasce, invece, dall’abitudine, donde ha tratto anche il nome, per una piccola modificazione da “abitudine” (éthos). Dal che è pure evidente che nessuna delle virtù etiche sorge in noi per natura» (Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, II, 1, 1103a, 16-19, p. 109).

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sti efficiuntur» 100, ma il contrario: «existendo iusti iusta operantur»101. Alla stessa stregua di un corpo, che non diventa caldo riscaldando gli altri corpi, ma può riscaldarli in quanto è caldo, l’uomo non diventa giusto compiendo azioni giuste, ma può compiere azioni giuste solo in quanto è giusto; utilizzando un’altra immagine: «non per via dei frutti l’albero è quello che è, ma i frutti sono tali per via dell’albero: così la virtù non viene dagli atti e dalle opere, come vorrebbe Aristotele; bensì gli atti vengono dalle virtù, come insegna Cristo. Insomma l’atto secondo presuppone l’atto primo»102. Tale dottrina, sebbene implicasse un orizzonte di riferimento totalmente intramondano, venne ripresa dalla teologia scola100 M. Lutero, Dictata super Psalterium, in WA 4, p. 3. È questo un tipico caso che rivela il rapporto ambiguo di Lutero con Aristotele, poiché più avanti afferma che anche per il filosofo greco la bontà della volontà precede l’atto buono: «unde nec Aristoteles sic intelligendus est, quod quis iusta operari possit nondum iustus. Sed non potest perfecto habitu. Oportet enim esse iustum in voluntate et sic in opus procedere» (ivi, p. 19). 101 M. Lutero, Dictata super Psalterium, in WA 4, p. 3. Analoghe considerazioni si trovano in M. Lutero: Disputatio contra scholasticam theologiam, in WA 1, p. 226, n. 40: «non efficimur iusti iusta operando, sed iusti facti operamur iusta. Contra philosophos»; Operationes in Psalmos, in WA 5, pp. 398-399: «la filosofia morale dei peripatetici si sbaglia del tutto quando sostiene che facendo cose giuste e temperanti noi diveniamo giusti e temperanti. […] È una volta divenuti giusti e temperanti che noi facciamo cose giuste e temperanti. E diveniamo giusti per la fede»; Briefe an Lang, Ioh, in WABr 1, p. 70: «non enim, ut Aristoteles putat, iusta agendo iusti efficimur, nisi simulatorie, sedi usti (ut sic dixerim) fiendo et essendo operamur iusta. Prius esse personam esse mutatam, deinde opera»; De votis monasticis Martini Lutheri iudicium, in WA 8, p. 607; in riferimento al detto aristotelico secondo cui «si diventa […] citaredi col suonare la citra» (Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, II, 1, 1103a, 34, p. 110): Die Zirkulardisputation de veste nuptiali, in WA 39/I, p. 282: «Aristoteles respondet: Cytharizando fit bonus cytaraedus, item bene operando fit bonus, iuste faciendo fit iustus. Haec valent in foro philosophico et mundo, sed non sic fit apud Deo»; De Iustificatione, in WA 30/II, p. 658; In epistolam Pauli ad Galatas commentarius, in WA 40/I, p. 402. 102 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 364 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 106). Pani spiega l’accezione luterana di iustitia dicendo: «coram hominibus – di fronte agli uomini – si è ritenuti giusti perché si fa il bene, perché si compiono opere giuste, perché ci si comporta secondo la legge; […]. Coram Deo si ha un capovolgimento di tutti i valori: si è giusti perché Dio rende giusti, e quindi capaci di fare cose giuste» (G. Pani, Martin Lutero interprete della Lettera ai Romani (15151516), in AA. VV., Agostino e Lutero. Il tormento per l’uomo, cit., p. 49).

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stica, che, nonostante la distinzione tra un habitus acquisitus con le proprie forze ed un habitus infusus da Dio, contribuì a mantenere viva l’idea di giustizia legata al merito103. Ma se la giustizia dipendesse dall’uomo, questi non solo avrebbe la sicurezza che comportandosi in un certo modo sarebbe salvato, ma per di più andrebbe fiero di sé e in tal modo gli resterebbe preclusa la sua essenziale finitezza; invece, osserva Heidegger, l’uomo «non ha nulla che potrebbe mai esibire come meritevole di lode e se ce l’ha, lo ha ricevuto: il donum, il dono, la dote»104. La iustitia autentica è, spiega Heidegger, «duces iustum»105, ove duco rimanda alla duplice disposizione (sárx e pneúma) della vita, alla direzione [Richtung], alla rettitudine [Richtigkeit] della condotta, e richten, oltre al significato giuridico di “giudicare”, ha quello di “dirigere”, “raddrizzare” e, nella forma riflessiva, “rivolgersi”, “orientarsi a”: «la iustitia è la dirittura [Gerichtetheit] autenticamente, originariamente sensata (devozione [Frömmigkeit])»106, è un rivolgimento [anastrophé], un ritorno [epistrophé]. 3. Il mistero del peccato Heidegger osserva che «il peccato è un mistero tanto quanto la fede»107 e che entrambi si possono comprendere solo nella loro specularità, il che «significa, detto teologicamente, che “si può comprendere la fede soltanto se si comprende il peccato, e si può comprendere il peccato soltanto se si possiede una corretta comprensione

103 Sull’habitus cfr. S. Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, a cura dei domenicani italiani, Salani, Milano 1968, X, qq. 49-54, pp. 20-113; sul rapporto tra il merito e la grazia, cfr. ivi, 1965, XIII, q. 114, pp. 224-255. Per la critica luterana della dottrina scolastica dell’habitus cfr. G. Ebeling, Lutero. Un volto nuovo, cit., pp. 80-82 e pp. 138-144. 104 HGA 60, p. 234 (tr. it., p. 300). Heidegger recupera qui due delle parole greche per dono: dóron, corrispondente al latino donum, in quanto dono gratuito e disinteressato, evento della fatticità, e dós, la dote, che la sposa porta al momento del matrimonio, il dono che permette di stabilire relazioni. Cfr. E. Benveniste, Dono e scambio, in Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, cit., I, pp. 47-63. 105 HGA 60, p. 211 (tr. it., p. 271). 106 HGA 60, p. 237 (tr. it., p. 303). 107 HGA 60, p. 115 (tr. it., p. 157).

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dell’essere dell’uomo”»108. Considerando che il problema centrale della teologia riguarda l’esser coram Deo dell’uomo, «il peccato non è altro che il contrapposto della fede, laddove fede significa: stare (esser-posto) dinanzi a [Gestellt-seins vor] Dio»109; peccato, allora, significa non stare (esser-posto) dinanzi a Dio, meglio ancora: «il peccato autentico è l’incredulitas, la miscredenza, la aversio dei»110, che si attua come distrazione, tradimento e distacco [Abkehr] ed è accompagnata da una conversio ad creaturas. Perciò, quando Lutero afferma che «come la fede soltanto rende giusti e conferisce lo spirito e la volontà per le opere buone esteriori, così pure pecca solo l’incredulità»111, vuol dire che l’uomo nella sua vita ha due alternative che si escludono a vicenda: fede o miscredenza. Il peccato in quanto posizione, dis-posizione, nel senso espresso dal verbo tedesco stellen, è, dunque, un positum, non una negazione; per questo Heidegger dà ragione a Kierkegaard che critica la determinazione socratica di peccato come ignoranza: «“inteso in termini cristiani il peccato sta dunque nel volere, non nella conoscenza; e questa corruzione della volontà ricade sulla coscienza del singolo”. Proprio il fatto che il peccato sia dinnanzi a Dio ne costituisce il lato positivo. La categoria del peccato è la categoria della singolarità»112. Nella definizione socratica di peccato vengono tralasciate volontà e ostinazione, poiché si reputa inammissibile che un uomo possa commettere l’ingiusto coscientemente, conoscendo il giusto. Tuttavia, se nella pura 108 PS, pp. 32-33 (tr. it., p. 213). «Una delle determinazioni più decisive per l’intero cristianesimo», scrive Kierkegaard, è «che l’opposto del peccato non è la virtù ma la fede» (S. Kierkegaard, La malattia per la morte, cit., p. 84). 109 PS, p. 31 (tr. it., p. 211). 110 PS, p. 31 (tr. it., p. 211). 111 M. Lutero, Vorrede auss die Epistel S. Pauli an di Römer, in WadB 7, p. 7 (tr. it., Prefazione all’Epistola ai Romani, p. 518). 112 HGA 60, pp. 264-265 (tr. it., p. 337). Cfr S. Kierkegaard, La malattia per la morte, cit., p. 96. Per motivi di coerenza espositiva si è preferito tradurre la frase di Kierkegaard «Gaaer u dover den Enkeltes Bevidsthed» come propone Rocca, curatore dell’edizione italiana de La malattia per la morte: «ricade sulla coscienza del singolo», anziché «trascende la coscienza del singolo». In questa sede segnaliamo l’ormai nota tesi di Wahl – tenuta in grande considerazione nell’ambito della Renaissance kierkegaardiana francese – secondo cui gli esistenziali elaborati da Heidegger, primi tra tutti l’esperienza dell’angoscia e l’essere-per-la-morte, sono implicitamente sorretti dalla fenomenologia del peccato di Kierkegaard (J. Wahl, Heidegger et Kierkegaard, “Recherches philosophiques”, 6, 1936-1937).

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idealità il passaggio dall’aver compreso al fare avviene per necessità e senza difficoltà, nella realtà non è «veloce come il vento»113, anzi è altamente problematico; per questo motivo il cristianesimo insegna che il peccato non sta nel non aver compreso il giusto, ma nel non volerlo comprendere o nel non volerlo in assoluto. La possibilità di peccare dipende dall’essere nella colpa [Schuld], che non è la privazione del bene, ma l’effettivo poter-essere tanto del bene quanto del male, lo stato originario dell’Esserci. Heidegger asserisce, citando ancora una volta Kierkegaard, che “La colpa è una rappresentazione più concreta che trovandosi con la libertà nel rapporto della possibilità, diventa via via sempre più possibile”. “Tuttavia chi diventa colpevole, si rende colpevole anche di ciò che ha occasionato la colpa, poiché la colpa non ha mai un’occasione esteriore, e colui che cade in tentazione è egli stesso colpevole nella tentazione”114.

113 S. Kierkegaard, La malattia per la morte, cit., p. 95. 114 HGA 60, p. 257 (tr. it., p. 328). Cfr. S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, cit., p. 136. Heidegger ritiene insufficienti per l’interpretazione ontologica della “colpa” le definizioni comuni legate al concetto di privazione: non «è possibile orientare la ricerca intorno al fenomeno esistenziale della colpa sull’idea del malum in quanto privatio boni. Boni e privatio provengono entrambi dall’ontologia della semplice-presenza, non diversamente dall’idea di valore che da essi deriva» (HGA 2, pp. 379-380; tr. it., p. 341). L’essere-colpevole non è una “proprietà persistente di una semplice-presenza”, ma la “possibilità esistentiva” dell’Esserci, è un “poter-essere-colpevole” (HGA 2, p. 380; tr. it., p. 364) in quanto condizione di possibilità del bene e del male. In questo senso «l’esser-colpevole [Schuldigsein] che originariamente appartiene alla costituzione dell’Esserci è ben diverso dallo status corruptionis come lo intende la teologia. La teologia può trovare nell’esser-colpevole, esistenzialmente determinato, una condizione ontologica della sua possibilità effettiva. La colpa inclusa in questa idea di status è una colpevolezza effettiva di tutt’altro genere. Essa ha una sua propria attestazione che rimane fondamentalmente preclusa a ogni esperienza filosofica. L’analisi esistenziale dell’esser-colpevole non dimostra nulla né in favore né contro la possibilità del peccato. A rigor di termini non si può neppure dire che l’ontologia dell’Esserci lasci aperta questa possibilità in base a se stessa, giacché, in quanto ricerca filosofica, non “sa” fondamentalmente nulla del peccato» (HGA 2, p. 406, nota 1; tr. it., p. 365, nota 2). Secondo Caputo, Heidegger comprese la differenza ontologica tra il peccato e la colpa: «il peccato è una determinazione ontico-esistenziale della struttura ontologica della colpa, che è elaborata in Essere e tempo. Il concetto cristiano di peccato dipende da un

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Qui la riflessione heideggeriana si avvicina quanto mai a Lutero, per il quale il problema del peccato «è strettamente congiunto con la questione relativa allo stato d’origine [Urstand] (iustitia originalis). […] Per un verso, l’uomo deve essere considerato come summum bonum della creazione, ma per altro verso deve essere costituito in modo tale che siano possibili […] la caduta [Fall] e l’essere del peccato»115. La condizione essenziale dell’uomo include tanto la possibilità della caduta, quanto quella della redenzione, a seconda del rapporto che si intrattiene con Dio: per la fede l’uomo, così come lo si incontra ed è ora, è “caduto” [gefallen] oppure è un redento [erlöster], restituito attraverso Cristo. La caduta, l’essere nel peccato è uno stato che non deriva da Dio ma nel quale l’uomo stesso ci si è messo; perciò da una parte, in quanto creato da Dio, deve essere buono (bonum), ma in modo che in questo essere-così sia data anche la possibilità della caduta. La determinazione dello stato attuale si motiva essa stessa a partire dalla esperienza di volta in volta originaria dell’essere peccatore, e questa a sua volta è motivata ogni volta dall’originarietà, oppure non-originarietà del rapporto con Dio116.

Dichiarando che il peccato «è entrato nel mondo» (Rm, 5, 12) e gli uomini non l’hanno subito passivamente, non l’hanno ricevuto per trasmissione generazionale, ma l’hanno scelto, è fatta salva la sua fisionomia volontaristica e allo stesso tempo è fatto salvo il senso fondamentale della redenzione, dal momento che «quanto più viene misconosciuta la radicalità del peccato, tanto più viene sminuita la redenzione [Erlösung], e tanto più perde di necessità l’incarnazione di Dio [Menschwerdung]»117. Ora, se per la Scolastica la natura hominis, anche dopo la caduta, è integra, di modo che l’uomo non perde il suo naturale essere-disposto davanti a Dio, per Lutero, spiega Heidegger, «la natura hominis è corrupta. L’essere stesso dell’uomo, in quanto tale, è peccato. […] Esso non è pertanto un gravame della costituzione morale dell’uomo, bensì il suo nocciolo autentico [Kern]»118. Lute-

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adeguato chiarimento del concetto “proto-cristiano” (universale e ontologico) di colpa» (J. Caputo, Heidegger and theology, cit., p. 276). PS, pp. 28-29 (tr. it., p. 209). HGA 63, p. 28 (tr. it., p. 38). PS, p. 29 (tr. it., p. 209). C’è reciprocità tra redenzione e peccato: «redenzione – tanto più presa originariamente ed assolutamente, tanto più peso deve avere il peccato» (HGA 63, p. 111; tr. it., p. 114). PS, p. 31 (tr. it., p. 211).

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ro riprende l’identificazione tradizionale peccato/niente, in base a cui il peccatore deve riconoscere che è nihil coram Deo e che tutto il suo essere viene ex Deo e nihil ex se, ma intende la corruptio non come mancanza accidentale di un attributo o corruzione della sostanza creata, bensì come privazione dell’esse gratia. Se i teologi scolastici intendono la corruptio come indebolimento [Abschwächung], Lutero pensa, invece, che la «corruptio […] amplificanda est»119, allo stesso modo della pístis, che «costituisce un contesto dell’attuazione, che può subire una intensificazione»120. In polemica con i teologi scolastici, Lutero sposta l’attenzione dai “peccati attuali”121, esteriori, al peccato interno, che è il peccatum naturale, originis, di Adamo, anzi, ricorrendo alla terminologia amartiologica ebraica, distingue quattro tipi di peccato: “Pescha” che significa la colpa, i delitti, ossia i peccati attuali, le prevaricazioni, le trasgressioni; “Hattaa” invece il fomite, il peccato radicale, la concupiscenza, la malattia della natura; “Aon” l’ingiustizia, cioè la mancanza di giustizia, nel senso che non si è giusti di fronte a Dio anche se si compiono molte opere buone e giuste. […] “Rascha”, che significa empietà. Si tratta del vizio della superbia, la negazione della verità e della giustizia di Dio, lo stabilire la propria giustizia, la difesa della saggezza del proprio modo di pensare122.

Il peccatum per eccellenza, hattá, che è causa dei singoli atti peccaminosi e contamina persino le buone azioni come pretesa di autogiustificazione, ripiega la nostra natura su sé stessa. La curuitas (da curuare), l’essere concentrato su di sé, è il vitiosus amore di sé, che 119 M. Lutero, Vorlesung über 1. Mose, in WA 42, p. 107. Per Fadini l’intensificarsi della corruptio è la cifra dell’estraneità [Entfremdung] caratterizzante il rapporto tra uomo e Dio, che non è «solo quella dell’uomo che si allontana da Dio sprofondando nel peccato […] ma quella di Dio stesso che, per un verso arriva straniero alla natura umana operando il miracolo di redimerla dalla sua ontologicità, e, per l’altro, è straniero allo stesso tempio che dovrebbe abitare» (G. Fadini, Tempo e rivoluzione. Per una lettura heideggeriana di San Paolo, in AA. VV., San Paolo e la filosofia del Novecento, cit., p. 77). 120 HGA 60, p. 109 (tr. it., p. 150). 121 Sulla differenza tra peccato originale o naturale e peccato attuale o umano, si rimanda a S. Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, cit., 1964, XI, q. 81, p. 234. 122 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, pp. 283-284 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 213).

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si manifesta sotto tre aspetti: la superbia, la brama della sicurezza temporale e la “prudenza della carne”123; solo «quelli, i cui cuori sono giusti davanti a Dio, guardano a lui di continuo, lo percepiscono, e non si curvano su sé stessi. Infatti, l’uomo retto davanti a Dio è chiamato “directus cum deo” oppure “directus dei seu deo”»124. L’essere incurvatus in se è, perciò, speculare alla rectitudo, alla rettificazione [Rechtfertigung], operata da Dio attraverso la croce, come si apprende dall’episodio riguardante la donna curva che, guarita da Cristo, si raddrizzò (Lc, 13, 11-13; cfr. Eccle, 1, 15: «ciò che è storto non si può raddrizzare»). Se l’essenza del peccato è il desiderio (Rm, 7, 7-11), l’essenza del peccatum primum è il desiderio d’essere Dio, dimentico della differenza ontologica: «questa è l’essenza del peccato: “velle se esse deum et deum non esse deum”»125, 123 Per la differenza tra “prudenza della carne”, che sceglie il proprio bene ed evita il proprio male, e “prudenza dello spirito”, che rifiuta il proprio bene e sceglie il proprio male, si rimanda a M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, pp. 361-366 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, pp. 102-108). 124 M. Lutero, Die Sieben Bußpsalmen, in WA 1, p. 210 (tr. it., I sette salmi penitenziali, p. 147). 125 PS, p. 29 (tr. it., p. 210). Cfr. M. Lutero, Disputatio contra scholasticam theologiam, in WA 1, p. 225. Sulla superbia adamitica dell’uomo che desidera esser Dio, cfr. Sant’Agostino, La Genesi alla lettera, in Opere. La Genesi, tr. it. di L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1989, II, libro XI, 34.46, p. 615. Sul “circolo del desiderio” come “mobilità del peccare”, si veda C. Sommer, Through Theology to Phenomenology, and Back to Anthropology? Heidegger, Bultmann, and the Problem of Sin, in AA. VV., Phenomenology and religion: new frontiers, a cura di J. Bornemark - H. Ruin, Södertörn University, Huddinge 2010, pp. 67-75. Per Corrington il recupero, da parte di Lutero, della problematica interna alla fede serve da prototipo all’ontologia heideggeriana che riapre lo spazio della differenza ontologica in cerca dell’originaria comprensione dell’essere: «la persona senza la fede è come il Dasein inautentico che crea un’idolatria dell’essere per oscurare la realtà della differenza ontologica. Nella sua Disputatio contra scholasticam theologiam (1517), Lutero dà la propria succinta dichiarazione della propensione dell’uomo a dimenticare la differenza ontologica» (S. Corrington, Being and faith: Sein und Zeit and Luther, “Anglican Theological review”, 70, 1988, p. 24). Per Crowe la tesi 17 della disputa contro la teologia scolastica è un’«anticipazione della critica di Heidegger di ciò che chiama “onto-teologia”. “Onto-teologia” non rinvia al teismo in quanto tale, ma ad una specifica versione di esso. “Dio” serve come una giustificazione per l’orgoglio e la presunzione umani, una specie di segreta auto-congratulazione. “Dio” serve, in uno schema “ontoteologico”, per fondare un’onnicomprensiva spiegazione della realtà»

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afferma Heidegger citando la tesi 17 della Disputatio contra scholasticam theologiam. Questo velle presuppone che il sé abbia assunto Dio come métron, potenziandosi all’infinito: infatti, «“la misura del sé è sempre costituita da che cosa sia ciò rispetto a cui esso è un sé; questa però è a sua volta la definizione di “misura”. “Quanto più immagine di Dio, tanto più sé; quanto più sé, tanto più immagine di Dio”»126, afferma Heidegger con parole kierkegaardiane. Il peccato radicale non è negativamente l’assenza di una qualità, ma è un resto di peccato che continua a vivere nell’uomo – anche se con il battesimo non è più imputato – sotto forma di amor sui contrapposto all’amor Dei, e in questo senso, secondo Heidegger, anche Agostino l’ha riconosciuto come un “solletico” che mai s’acquieta (cfr. Gal, 5, 17), poiché è la lotta tra lo spirito e la carne: «questo prurito c’è e permane anche quando non è più viva alcuna tentazione»127. Tuttavia, Agostino, rimanendo nell’orizzonte neopla(B.D. Crowe, Heidegger’s Religious Origins. Destruction and Authenticity, cit., p. 49). 126 HGA 60 p. 248 (tr. it., p. 318). Cfr. S. Kierkegaard, La malattia per la morte, cit., pp. 81-82. Secondo Chiereghin, «l’infinità che nella Lebensphilosophie veniva presentata solitamente come un carattere positivo della vita, gioca anche per Heidegger un ruolo decisivo, ma in senso contrario: l’infinità riguarda l’infinita possibilità di andare errando lontano da sé, è la maschera con cui la vita cerca sicurezza e tranquillità distogliendosi da se stessa» (F. Chiereghin, La lotta della filosofia per l’esistenza. L’«Aristoteles–Einleitung» nell’ambito dei primi anni dell’insegnamento friburghese di Heidegger (1910-1922), “Verifiche”, 3-4, 1991, pp. 278-279). 127 HGA 60, p. 276 (tr. it., p. 352). Sul peccato d’origine come titillatio, Agostino scrive: «tale solleticazione (e, con essa, il nemico) non muove guerra né regna, tuttavia c’è e rimane nella carne mortale un qualcosa che [nell’eternità] non ci sarà più. […] Allora non ci sarà cosa alcuna che muova guerra o faccia solletico: tutto si acquieterà in [perfetta] pace» (Sant’Agostino, Opere. Esposizioni sui Salmi, tr. it. di V. Tarulli, Città Nuova, Roma 1977, IV, libro 143, § 6, pp. 661 e 663). Cfr. M. Lutero, Sermon von dem heiligen hochwürdigen Sakrament der Taufe, in WA 2, pp. 727-737 (tr. it., Sermone sul santo e venerabile sacramento del battesimo, pp. 279-296). Inoltre, commentando Rm, 7, 18 («Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo»), Agostino evidenzia che Paolo «non ha detto “fare”, ma portare a compimento il bene. Fare il bene significa non seguire le proprie brame, portarlo a compimento, invece, significa non avere brame» (Sant’Agostino, Polemica con Giuliano, tr. it. di N. Cipriani, Città Nuova, Roma 1985, I, III, 26.62, p. 653). Lutero, rifacendosi dichiaratamente a questo passo agostiniano, distingue tra il facere e il perficere ri-

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tonico, non può far da guida nell’interpretazione fenomenologica del peccato: infatti, «il concetto di peccato ha in Agostino un triplice carattere. 1. Un carattere teoretico: peccato come privatio boni, orientato sul summum bonum. […] 2. Un carattere estetico»128, manifesto nella deformità fisica e, infine, «3. Un carattere conforme all’attuazione»129, che è la fuga da Dio. È quest’ultimo carattere attuativo quello decisivo per Heidegger, il quale trova nel commento di Lutero al Genesi la Bewegtheit della deiezione, «la motilità del peccato: primum enim cadit homo ex fide in incredulitatem et inoboedientiam: incredulitatem autem sequitur pavor, odium et fuga Dei, quae desperationem et impoenitentiam secum adducunt»130. In volti ai desideri: «facere concupiscentias est eas habere, titillari et moveri ab illis sive ad iram sive libidinem, sed perficere est eis consentire et eas implere» (M. Lutero, In epistolam Pauli ad Galatas commentarius, in WA 2, p. 584); di conseguenza «facere bonum est post concupiscentias non ire, perficere autem bonum est non concupiscere» (ibidem). Ma come nota De Biase, Lutero, «il giovane monaco sassone – e non il vecchio teologo riformatore – toglie al peccato ontologico dell’uomo la sua “innocenza”, il suo essere, per Agostino, mera disposizione a peccare, ma non peccato reale» (R. De Biase, L’agostinismo di Martin Lutero tra peccato e predestinazione. Le radici medievali e moderne della ‘gettatezza’ umana, Edizioni Partagées, Napoli 2006, p. 84). 128 HGA 60, p. 284 (tr. it., p. 361). 129 HGA 60, p. 284 (tr. it., p. 362). 130 PS, p. 32 (tr. it., p. 212). In Essere e tempo Heidegger precisa che lo stato di deiezione [Verfallen] dell’Esserci «non deve essere inteso come “caduta” [Fall] da uno “stato originario” [Urstand]» (HGA 2, p. 233; tr. it., p. 215), perché «l’Esserci è, innanzi tutto, sempre già de-caduto da se stesso come autentico poter-essere e deietto nel “mondo”» (HGA 2, p. 233; tr. it., p. 215). La deiezione indica «un concetto ontologico di movimento» (HGA 2, p. 238; tr. it., p. 219), è la fuga dell’Esserci dinanzi a se stesso, «nella deiezione l’Esserci diverge da se stesso […]. La diversione [Abkehr] propria della deiezione non è un fuggire fondato nella paura di fronte a un ente intramondano. La diversione è così poco una fuga di questo genere da essere piuttosto una conversione [hinkehrt] verso l’ente intramondano per rifugiarsi presso di esso» (HGA 2, p. 247; tr. it., p. 227). In seguito Heidegger spiega che «l’oblio della verità dell’essere a favore dell’imporsi dell’ente, non pensato nella sua essenza, è il senso di ciò che Sein und Zeit chiama “deiezione”. La parola non si riferisce a un qualche peccato dell’uomo inteso dal punto di vista della “filosofia morale” e contemporaneamente secolarizzato, ma indica un rapporto essenziale dell’uomo con l’essere, all’interno del riferimento dell’essere all’essere umano» (M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in HGA 9, p. 332; tr. it., Lettera sull’«umanismo», pp. 285-286).

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seguito alla caduta l’uomo, quando Dio lo chiama, «fugge perché non capisce che il peccato significa la “vera discessio a Deo” […]. Il senso autentico del peccato è questo: chi comincia a fuggire, fugge in modo tale da desiderare di allontanarsi sempre di più, “fugit in aeternum”»131. Dal momento che l’essere di Dio si attua come verbum e quello dell’uomo come audire, se la fede è accogliere la parola, il peccato è non accoglierla: «Adamo ed Eva, pertanto, non vengono tentati a causa di un singolo peccato determinato, bensì sono aizzati contro Dio stesso e la sua parola. E il loro peccato consiste nel fatto di aver prestato ascolto a una parola che non è parola di Dio»132. 4. Voca me Heidegger, glossando Gal, 1, 12 («infatti, io non l’ho ricevuto ne l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo»), sottolinea che Paolo è «giunto al cristianesimo grazie a un’esperienza originaria, non attraverso una tradizione storica»133. È l’evento di Damasco a condurre Paolo a Cristo, l’evento non già di una folgorante illuminazione, quanto di una vocazione: sulla via damascena 131 PS, p. 32 (tr. it., p. 212). 132 PS, pp. 31-32 (tr. it., p. 212). Commentando Gen, 3, 1 Lutero sostiene che, come la salvezza proviene dalla parola di Dio, la perdizione proviene dalla parola corrotta: «ex verbo Die vero salus est, Ita etiam ex verbo Die depravato est perditio. Voco autem verbum depravatum non solo vocale ministerium, sed etiam persuasionem internam seu opiniones a verbo dissidentes» (M. Lutero, Vorlesung über 1 Mose, in WA 42, p. 111). 133 HGA 60, p. 69 (tr. it., p. 108). In questo contesto Heidegger riferisce di una «controversa teoria, discussa nella teologia protestante, secondo cui Paolo non avrebbe avuto una coscienza storica di Gesù di Nazareth, ma avrebbe fondato una sua nuova religione cristiana, un nuovo protocristianesimo destinato a dominare il futuro: la religione paolina non la religione di Gesù. Non c’è bisogno di tornare a un Gesù storico. La vita di Gesù è del tutto indifferente» (HGA 60, p. 69; tr. it., p. 108). Sulla teoria secondo cui, rompendo per primo le barriere della legge mosaica e della religione ebraica, Paolo sarebbe il vero fondatore del cristianesimo, non già il suo principale banditore cfr. E.P. Sanders, Paul, the law, and the Jewish People, Fortress Press, Philadelphia 1983; tr. it. di P.G. Borbone, Paolo, la legge e il popolo giudaico, Paideia, Brescia 1989 e Id., Paul, Oxford University Press, Oxford 1991; tr. it. di P. Ursino, San Paolo, il melangolo, Genova 1997.

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Paolo ode la voce di Dio, è kletós apóstolos (vocatus apostolus), come si legge nell’incipit della Lettera ai Romani, è “chiamato” ed “inviato” (da apostéllo) in quanto presbútes (Fil, 1, 9), non nel senso di “anziano”, ma di “portatore di un messaggio”. La predicazione è la risposta di Paolo, che da quel momento diventa davvero un ‘ebreo errante’ tra due mondi, due culture e ben quattro lingue diverse. Paolo è chiamato per nome (At, 9, 4) dal Verbo a mettersi in cammino per diffondere il verbum alle genti, pertanto la sua non è parola di uomo, ma Parola di Dio (1 Ts, 2, 13) in un doppio significato: «lógon theoú è al tempo stesso genitivo soggettivo e genitivo oggettivo»134, ovvero è la Parola rivelata da Dio e che rivela Dio. Anche Lutero fa un’esperienza originaria, la cosiddetta “esperienza della torre” [Turm-erlebnis], l’esperienza di un Dio non conoscibile, non categorizzabile, di un Dio che fa sentire la sua voce, che chiama tramite il “minimo” dei suoi apostoli. Nel Turm-erlebnis Lutero, meditando su Rm, 1, 16-17, accoglie il kérygma paolino: «ero stato infiammato dal desiderio di intendere bene […] un vocabolo adoperato da Paolo nella Epistola ai Romani, al capitolo 1: “la giustizia di Dio è rivelata nell’Evangelo”»135. La chiamata è una convocazione [Be-rufung], che designa e assegna un compito, e in questo senso intende Lutero l’investitura della missione apostolica di Paolo (Rm, 1, 1)136. Heidegger utilizza il ter134 HGA 60, p. 94 (tr. it., p. 135). 135 M. Lutero, Vorrede Luthers zum ersten Bande der Gesamtausgabe seiner lateinischen Schriften, in WA 54, p. 185. 136 M. Lutero, WadB 7, p. 29: «Paulus ein Knecht Jhesu Christi, beruffen zum Apostel, ausgesondert zu predigen das Evangelium Gottes». Cfr. anche Id., Der Brief an die Römer, in WA 56, pp. 339-354 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, pp. 268-284). Una delle più note interpretazioni del concetto di Beruf è quella di Weber, il quale ritiene che la traduzione luterana di “chiamata” con “professione” dia avvio a quel processo di secolarizzazione della klésis messianica, da cui deriva la moderna organizzazione e razionalizzazione del lavoro: «nei primi anni della sua attività riformatrice, poiché giudicava la professione in termini sostanzialmente creaturali, prevaleva in lui una concezione della specie dell’attività intramondana interiormente affine a quell’indifferenza escatologica paolina che si esprime nella I Epistola ai Corinzi 7 (20-24): in ogni stato, in ogni condizione si può raggiungere l’eterna beatitudine» (M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, Mohr, Tübingen 1934; tr. it. di A.M. Marietti, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Bur, Milano 1996, p. 106). Va fatta con Agamben una precisazione: «klésis indica la particolare trasformazione che ogni stato giuridico e ogni condi-

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mine luterano Beruf, perché il forte intreccio di vocazione, incarico e professione racchiude il Vollzugssinn della chiamata, che è una dezione mondana subiscono per il fatto di essere posti in relazione con l’evento messianico. Non di indifferenza escatologica si tratta quindi, ma della mutazione, quasi dell’intimo spostamento di ogni singola condizione mondana in virtù del suo essere “chiamata”» (G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, cit., p. 28). Tornando all’analisi weberiana, bisogna dire che, secondo il pensatore tedesco, «dopo le lotte con i “fanatici” e le rivolte dei contadini, l’ordine storico oggettivo in cui l’individuo è stato inserito da Dio per Lutero assume sempre più il significato di una diretta emanazione della volontà divina» (M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., p. 107), cosicché «il singolo deve conservare, in linea di principio, la professione e lo stato, la condizione che Dio gli ha assegnato» (ibidem). Il lavoro non è più una maledizione (Gen, 3, 19), ma il tramite tra uomo e Dio, così dopo l’ascetismo monastico medievale, l’homo religiosus per volere divino torna al mondo: «nel concetto di Beruf trova dunque espressione quel dogma centrale di tutte le chiese protestanti […] secondo cui l’unico modo di essere graditi a Dio non sta nel sorpassare la moralità intramondana con l’ascesi monacale, ma consiste esclusivamente nell’adempiere ai doveri intramondani, quali risultano dalla posizione occupata dall’individuo nella vita, ossia dalla sua professione, che appunto perciò diventa la sua “vocazione”» (M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., p. 102). Come nota Zaretti, «il Beruf diventa perciò la realizzazione lavorativa di qualcosa di più alto di un qualsiasi lavoro mondano, un’investitura e allo stesso tempo un dovere da compiere, che trasforma l’esperienza professionale in obbedienza al volere di Dio» (A. Zaretti, Religione e modernità in Max Weber. Per un’analisi comparata dei sistemi sociali, Angeli, Milano 2006, pp. 32-33). Quinzio sottolinea che seppure Beruf ha finito per designare le varie professioni, nell’area luterana rimane carico di vibrazioni vocazionali, anzi «vocazione religiosa e ruolo professionale vengono a coincidere, perché Dio chiama ciascuno a esercitare un determinato ruolo nel mondo» (S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano 1990, p. 90). Per Quinzio, inoltre, il Beruf esprime l’originario rapporto tra sacro e profano, secondo cui la sacralità è in Dio, che crea il mondo dandolo in uso all’uomo, un mondo – a differenza di quello pagano – libero da presenze divine, profano: «nel mondo prima di Lutero permanevano ancora dei ruoli sacri e dei ruoli profani: un conto è il sacerdote che celebra o il monaco che prega, un altro conto è il contadino che zappa: la prima operazione è sacra, la seconda è profana. Proprio ritornando alla Bibbia, alla sola scriptura, solo Dio è diverso: la sacralità e la santità appartengono esclusivamente a Dio, tutti gli altri ruoli umani, che siano quelli del vescovo o che siano quelli di chi fa il lavoro più basso e più umile, sono tutti connotati allo stesso modo, perché la sacralità è totalmente posta in Dio. Nasce questo strano destino della parola tedesca Beruf, perché Beruf è la “vocazione” intesa come vocazione religiosa, la

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cisione e in quanto tale non ha a che vedere con la conoscenza o la comprensione, dal momento che non c’è decisione che non si faccia atto, che non sia atto. La chiamata [klésis, vocatio, Ruf] è una vocazione [Be-ruf], meglio ancora una re-vocazione [Wider-ruf] di ogni vocazione mondana, che non si concretizza nel rifiuto del proprio Sitz im Leben, ma nel ribaltamento del suo senso interno, secondo quanto scrive Paolo in 1 Cor, 7, 20-24: Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione! Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio del Signore! Allo stesso modo chi è stato chiamato da libero, è schiavo di Cristo. Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini! Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato.

Bisogna rimanere nella vocazione in cui ci si trova, sottolinea Heidegger, anche se essa subisce una radicale trasformazione, «perciò lo schiavo deve rimanere schiavo. […]. Lo schiavo in quanto cristiano, è libero da ogni vincolo. Il libero, invece, in quanto cristiano, diventa schiavo dinnanzi a Dio»137. La chiamata è un’in-vocazione, un ri-chiamo [An-ruf], un ri-sveglio [Auf-ruf] e come tale è interna all’uomo, per questo il parallelo immediato è con la coscienza [Gewissen]138. Va, però, liberato il campo da tutte le configurazioni vocazione a diventare sacerdote, a farsi religioso. Invece il Beruf ha acquistato anche linguisticamente il significato di “incarico”, di un “compito” raffinato: c’è il Beruf del giardiniere, c’è il Beruf del pescatore, e così via. In questo senso Lutero ci ha riportato alle origini bibliche» (Ebraismo e modernità, intervista a Sergio Quinzio di Giancarlo Burghi, “caffè Europa”, 98, 2000). 137 HGA 60, p. 119 (tr. it., p. 161). Nella Lettera a Filèmone Paolo, presentandosi come «prigioniero di Gesù Cristo» (Fm, 1), «in catene per il Vangelo» (Fm, 13), chiede all’amico di riprendere con sé Onèsimo, «non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo» (Fm, 16). 138 Secondo quanto suggerisce De Negri, fu Lutero a dare un significato preciso al termine tedesco Gewissen, per tradurre l’ebraico “nechona” del salterio (Sal, 5, 10): «Gewissen significò “solidum, certum, plenum, firmum, indubitatum” […] in ultima analisi Gewissen “est vocabulum cordis”» (E. De Negri, La teologia di Lutero. Rivelazione e dialettica, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 124). In Essere e tempo Heidegger svolgerà un’analisi ontologica del Gewissen distante da ogni spiegazione psico-

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tradizionali del Gewissen per comprendere come Heidegger intenda questo fenomeno. Non si tratta dello stoico ritiro dal mondo per rifugiarsi in se stessi o del saggio distacco neo-platonico; la coscienza non è intesa neanche nel senso della sinteresi tomista come guida morale né tantomeno come la cartesiana auto-evidenza esistenziale, il cui senso si propaga all’interno della filosofia moderna fino a Husserl, passando per Kant e Hegel; la voce della coscienza non è la voce di Dio nell’uomo, ma neanche nietzscheanamente la «voce di alcuni uomini nell’uomo»139. La coscienza è, piuttosto, l’apertura dell’Esserci al suo poter-essere più proprio, la voce della coscienza logica, biologica e teologica (HGA 2, §§ 54-60). La coscienza, che dal punto di vista indicativo formale è l’“apertura” dell’Esserci (HGA 2, pp. 357-358; tr. it., p. 322), chiama contro i nostri progetti, le nostre attese e la nostra volontà, pur non provenendo da nessun altro che sia nel mondo o trascendente: è l’Esserci il chiamante e il chiamato (HGA 2, pp. 368-369; tr. it., p. 332). Deietto nel mondo, l’Esserci è colpevole di non sentire più se stesso: la chiamata mette fine a questo non-sentire (HGA 2, p. 360; tr. it., p. 324), «ri-chiama (chiama “innanzi”) l’Esserci alle sue possibilità più proprie» (HGA 2, p. 363; tr. it., p. 327). La comprensione del richiamo è un voler-aver-coscienza, o meglio «l’ascolto genuino del richiamo equivale all’auto-comprensione dell’Esserci nel suo poter-essere più proprio […]. L’Esserci, che comprende la chiamata, ascoltando ubbidisce alla possibilità più propria della sua esistenza. Ha scelto se stesso» (HGA 2, pp. 381-382; tr. it., p. 343). La chiamata è, dunque, la decisione dell’Esserci per se stesso e «col fenomeno della decisione ci troviamo in cospetto della verità originaria dell’esistenza. […] Con ciò la dispersione nell’indecisione è minata esistentivamente» (HGA 2, p. 407; tr. it., p. 366). 139 F. Nietzsche, Der Wanderer und sein Schatten, in Menschliches, Allzumenschliches. Zweiter Band, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, IV/III, cit., 1967, af. 52 (Inhalt des Gewissens); tr. it. di S. Giametta, Il viandante e la sua ombra, in Umano troppo umano, Adelphi, Milano 2001, II, af. 52 (Contenuto della coscienza), p. 165. Tuttavia, la «voce dell’amico [Stimme des Freundes] che ogni Esserci porta con sé [bei sich trägt]» (HGA 2, p. 217; tr. it., p. 201), come «una voce estranea [Eine fremde Stimme]» (HGA 2, p. 367; tr. it., p. 331), di cui Heidegger parla in Essere e tempo, descrivendo l’apertura dell’esserci al suo poter essere, potrebbe risuonare nella “voce della coscienza”, come sostengono J. Derrida, L’orecchio di Heidegger. Filopolemologia, cit.; J.-F. Courtine, La voix (étrangère) de l’ami. Appel et/ou dialogue, in Heidegger et la phénoménologie, Vrin, Paris 1990; tr. it., La voce (estranea) dell’amico. Richiamo e/o dialogo, in AA. VV., Heidegger e la filosofia pratica, a cura di P. Di Giovanni, Flaccovio, Palermo 1994 e F. Fédier, Voix de l’ami, Éditions Du Grand Est, Paris 2007; La voce dell’amico. Sul prodigio dell’ascolto, tr. it. di C. Greppi, Marinotti, Milano 2009.

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è la voce stessa dell’Esserci che richiama indietro se stesso dalla dispersione nelle significatività. Del resto, è innegabile che alcuni motivi tradizionali vengano ripresi, anche se non mantenuti intatti. Della nozione platonica si conserva la muta discorsività connessa al Verstehen: la chiamata della coscienza, infatti, è un dialogo silenzioso del sé, che in quanto tale implica la comprensione ed ha come possibilità ontologico-esistenziali il sentire ed il tacere140. Della nozione scolastica si serba il senso originario della syntéresis, in quanto “custodia” e “cura”, e di quella agostiniana il movimento di ritorno a sé come trascendimento, il sinolo di interiorità e trascendenza141, intendendo per trascendenza non un aldilà che oltrepassa l’esistenza, ma ciò che struttura l’esistenza in al di là, in ex-sistere, star fuori, oltrepassare la realtà semplicemente-presente in direzione della possibilità. Neanche nell’epoca moderna, secondo Heidegger, si è scoperto il fenomeno originario della coscienza, perciò «finché si presta fede alla psicologia e alla gnoseologia odierne e si lascia che siano esse a presentarci i fenomeni della coscienza, si giunge ad una falsa concezione del “sapere”»142. L’esperienza originaria, non gnoseologica, 140 Per Platone «pensiero e discorso sono la stessa cosa: la differenza sta in questo, che quello che noi chiamiamo pensiero è un discorso che si svolge internamente, senza emissione di voce, come in un dialogo dell’anima con sé stessa. […]. Chiamiamo invece propriamente discorso quella corrente fonica che, partendo dall’anima, viene emessa attraverso la bocca» (Platone, Il sofista, a cura di M. Vitali, Fabbri, Milano 1996, XLVII, 263e, pp. 75-76). 141 Sant’Agostino, La vera religione, in Opere. La vera religione, tr. it. di A. Pieretti, Città Nuova, Roma 1995, VI/1, 39.72, pp. 109 e 111: «non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore e, se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che trascendi l’anima razionale: tendi, pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione». 142 HGA 60, p. 123 (tr. it., pp. 165-166). Secondo Levinas «la coscienza trascendentale, scoperta dalla riduzione fenomenologica non è un’astrazione, non è una coscienza in generale. È una possibilità concreta in ognuno di noi […]. Ma Husserl, per lo meno nelle sue opere pubblicate, non si pone il problema di come sia possibile questa individualità della coscienza in generale, svuotata, comunque, di ogni “fatticità” della nascita e della morte […]. Su questo punto l’opera di Heidegger è rivoluzionaria» (E. Lévinas, L’opera di Edmund Husserl, cit., pp. 41-42). Masullo definisce “logica” la coscienza husserliana e “patica” quella heideggeriana: «una volta è in gioco la coscienza-del-mondo, in cui il mondo è solo una costruzione astratta, e un’altra volta è in gioco la coscienza-mondo, in cui il

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della coscienza si trova descritta nelle Lettere paoline, è l’esperienza privata e personale (1 Cor, 10, 29) del peccato (Eb, 10, 2), che risveglia l’ansia dell’attesa della parusía (Eb, 10, 22-31). Da Paolo Heidegger riprende soprattutto l’impostazione antilegalistica, ovvero lo scioglimento della coscienza dal vincolo esteriore della legge e dal timore del castigo: «quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza» (Rm, 2, 15) e perciò «è necessario stare sottomessi non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza» (Rm, 13, 5). È propriamente l’“avere coscienza” quello a cui fa riferimento Heidegger, riprendendo l’“avere spirito” [pneúma échein] di Paolo, in quanto capacità decisionale e discernitiva (1 Cor, 2, 15: «l’uomo mosso dallo Spirito giudica ogni cosa»): «in Paolo lo pneúma è il fondamento dell’attuazione da cui scaturisce il sapere in quanto tale. Nei suo scritti pneúma è connesso con anakrínein e eraunán»143, “interrogare” e “ricercare”, che rimandano al sapere ‘modale’ della Selbstwelt, che sta in netto contrasto con il gnorízein in quanto conoscenza e spiegazione di stampo teoretico. Come per la memoria agostiniana, anche in questo caso a Heidegger non interessano i contenuti, quali che siano, morali o religiosi, ma il Vollzug, poiché «“coscienza”, qui intesa come attuazione della coscienza, non come un avere occasionalmente coscienza – conscientia – è, nel suo senso fondamentale, la modalità storicamente caratterizzata dell’autoesperirsi»144. Heidegger ritrova il significato di coscienza come chiamata e risveglio, che interrompe il corso della vita com’è normalmente vissuto anche nel commento luterano a Gen, 3, 9 («ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”»): infatti, «le parole “dove sei?” sono parole di legge dirette da Dio alla coscienza»145 di Adamo, il quale «spaventato dalla coscienza dei suoi peccati fugge da Dio»146. E quando Adamo risponde «ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono

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mondo è il vissuto concreto» (A. Masullo, La cura in Heidegger e la riforma dell’intenzionalità husserliana, “Archivio di Filosofia”, 4, 1989, p. 381, nota 8). HGA 60, p. 124 (tr. it., pp. 166-167). M. Heidegger, Ammerkungen zu Karl Jaspers «Psychologie der Weltanschauungen», in HGA 9, p. 33 (tr. it., Note sulla «psicologia delle visioni del mondo» di Karl Jaspers, p. 461). M. Lutero, Vorlesung über 1 Mose, in WA 42, p. 129. Ibidem.

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nascosto» (Gen, 3, 10), non fa altro che accusare Dio di essere la causa della sua paura e della sua fuga, invece di farsi carico del proprio peccato, tant’è che «prima non temeva la sua voce, ma con volontà ascoltava Dio»147. 5. Auditione La chiamata chiama a rispondere, la risposta alla chiamata, la corrispondenza, implica com’è ovvio l’aver ascoltato; nel caso di Paolo la risposta alla chiamata, che si attua nella predicazione, presuppone ch’egli abbia ascoltato il lógon theoú: il dire dell’apostolo è, perciò, un dire di rimando, un ri-dire o meglio un far ri-udire. Cercando di epurare il cristianesimo dal dominio teoretico del vedere di stampo platonico, Heidegger riscopre l’ascolto come autentica relazione con Dio: infatti, «la “prova” e la dimostrazione di quanto è predicato non consistono nell’“aver preso visione”, giacché la predicazione è piuttosto “apodissi” (apódeixis) dello “spirito” e della “forza” (1 Cor, 2, 4)»148. “Apodissi” non è in questo caso la dimostrazione deduttiva, la prova sillogistica tipica della logica aristotelica, apó-deixis viene da apo-deíknymi, che, accanto al significato principale di “far vedere”, “far conoscere”, ha anche quelli di “accennare” e “far-diventare”. Il primo significato si può illustrare poeticamente: «per cenni [Winke] da ogni tempo ci parlano gli dèi»149 e il dire dell’apostolo è la continuazione presso gli uomini di questi cenni, la cui essenza è massimamente enigmatica, poiché allo stesso 147 Ivi, p. 130. 148 HGA 60, p. 137 (tr. it., p. 182). Sull’impossibilità di conoscere Dio tramite la scienza apodittica, cfr. Sant’Agostino, I soliloqui, in Opere. Dialoghi, tr. it. di D. Gentili, Città Nuova, Roma 1970, I, libro I, 2.7, p. 393; 3.8, pp. 393-395; e 5.11, pp. 399-401. 149 F. Hölderlin, Rousseau, in Le liriche, cit., p. 320, v. 32. Anche Eraclito nel frammento 93 fa riferimento al dire originario che né solo rivela né solo nasconde: «Il signore di cui è l’oracolo di Delfi né dice né occulta, ma dà cenni [semainei]» (Eraclito, Sulla natura, in I Presocratici, Testimonianze e frammenti da Talete ad Empedocle, a cura di A. Lami, Rizzoli, Milano 2001, p. 166). Il cenno [Wink] è diverso dal segno [Zeich] e dalla cifra [Chiffre], è diverso dal convenzionale e funzionale “mostrare”, “far notare”, poiché è un dire che manifesta e cela allo stesso tempo. Sui cenni del dio e i segni dell’uomo, cfr. C. Resta, Ermeneutica del silenzio, cit., pp. 63-71.

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tempo svelano e nascondono, a differenza del dire argomentativo che esplica e dimostra. Riguardo al “far-diventare” è immediato il riferimento a 1 Ts, 1, 6, ove Paolo dichiara che «il ghénesthai è un dékhesthai tón lógon, un “accogliere la predicazione”»150, più precisamente che «l’essere-divenuti è un accogliere e ciò che è accolto riguarda il “come” del comportar-si [das Wie des Sich-Verhaltens]»151. La comprensione della chiamata è, dunque, un sapere diverso da ogni altro, un sapere ‘apodittico’, il sapere riguardo al proprio essere-divenuti (“oídate” 1 Ts, 2, 2-11), per il quale Heidegger usa il verbo greco paralambánein, che «non significa un appartenere, bensì un accogliere raggiungendo un’interazione vivente. […] L’accogliere è in sé stesso un cambiamento davanti a Dio»152. Il Signore chiama, dicendo «venite a me voi tutti» (Mt, 11, 28)153; i chiamati, a loro volta, in quanto disposti all’ascolto, interagiscono, chiamandolo, esclamando «vieni!»154 (1 Cor, 16, 22; Ap, 22, 20), 150 151 152 153

HGA 60, p. 94 (tr. it., p. 134). HGA 60, p. 95 (tr. it., p. 135). HGA 60, p. 95 (tr. it., p. 135). Su Mt, 11, 28 Kierkegaard basa le sue prediche del venerdì, in cui non presenta Gesù di Nazareth come guida etica, né tantomeno espone la dottrina della Chiesa, ma fa parlare Cristo, colui che chiama, che invita spezzando tutte le differenze (S. Kierkegaard, Samlede Värker, a cura di A.B. Drachmann, J.L. Heiberg, H.O. Lange, Gyldendaske Boghandel, Nordisk Forlag, København 1901-1906, Bd. 10, pp. 265-271; tr. it. di E. Rocca, Esercizi di cristianesimo, “MicroMega”, 2, 2000, pp. 97-108; e Id., Esercizio di cristianesimo, cit., pp. 27-114). 154 Nell’ambito dell’interpretazione dell’inno Der Ister di Hölderlin, Heidegger, commentando l’invocazione “ora vieni, fuoco!”, precisa non solo che «la chiamata non produce il venire» (HGA 53, p. 6; tr. it., p. 10), perché quel che è da venire viene di sua iniziativa, ma che «la chiamata dice che noi, quelli che chiamano in questo modo, siamo pronti. […] E lo siamo perché siamo noi stessi chiamati» (HGA 53, p. 6; tr. it., p. 11). Sul «Vieni!» in quanto evento assolutamente unico, eppure sempre iterabile, che pone l’uomo dinnanzi alla sua possibilità e alla sua responsabilità più proprie si rimanda a J. Derrida, D’un ton apocalyptique adopté naguère en philosophie, Galilée, Paris 1983; tr. it. di A. Dell’Asta e P. Perrone, Di un tono apocalittico adottato di recente, in AA. VV., Di-segno. La giustizia nel discorso, a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1984 e Id., Parages, Galilée, Paris 1986; tr. di S. Facioni, Paraggi, Jaca Book, Milano 2000. Ha colto il carattere di evento del «vieni» derridiano anche nel suo intreccio con l’Ereignis heideggeriano C. Resta, Pensare al limite. Tracciati di Derrida, Guerini e Associati, Milano 1990, pp. 199-211 e Id., L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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una preghiera [Gebet], che non è una forma espressiva, una pratica cultuale, ma un invito [da bitten] che rievoca il precari e porta in sé l’angoscia per la ‘precarietà’ dell’esistenza. Come si evince dalla spiegazione luterana dell’espressione “venga il tuo regno” del Padre nostro, si tratta di una richiesta che ci abbatte costringendoci a confessare con le nostre stesse labbra la nostra grande, lamentevole miseria; ma ci risolleva mostrandoci come ci dobbiamo comportare in tale umiliazione. Così ogni parola di Dio ha la proprietà di atterrire e di consolare, di colpire e di risanare, di frantumare e di edificare, di divellere e di ripiantare, di umiliare e di risollevare155.

L’ascolto della chiamata di Dio non è come l’ascolto quotidiano, un “ascolto comprendente”, ma in quanto è l’ascolto dell’assolutamente altro è un «ascolto credente»156 (cfr. Gal, 3, 2), che fa “entrare in relazione con” e “cambiare condotta”. Nessuno, afferma Lutero, è in grado di accogliere la parola di Dio «se non la riceve con l’ascolto e la fede»157; ciò che viene annunziato è una realtà spirituale e perciò «è dato di coglierla solo con l’ascolto e la fede»158. Per esprimerne il carattere ‘attuale’ dell’ascolto, ovvero l’azione del verbo di Dio nel suo giungere alle orecchie degli uomini, Lutero utilizza al posto del termine audito, “ciò che si è ascoltato”, auditione, l’atto di ascoltare nel suo attuarsi, che è equivalente a auditui, l’oggetto dell’ascolto. L’audizione è un’opportunità, una prova in base

155 M. Lutero, Auslegung deutsch des Vaterunser für die einfältigen Laien, in WA 2, p. 95 (tr. it., Il “Padre nostro” spiegato nella lingua volgare ai semplici laici, p. 227). 156 HGA 60, p. 71 (tr. it., p. 109). Nelle lezioni sugli inni hölderliniani Heidegger distingue l’ascolto pietoso [das erbarmende Hören] degli dèi, che è un dare udienza, l’ascolto degli uomini, che è un non-voler-ascoltare [das Nichthörenwollen] e un non-poter-ascoltare [das Nichthörenkönnen] e l’ascolto del poeta, che dice ascoltando e il suo ri-dire è un far ri-udire l’appello silenzioso dell’essere (HGA 39, pp. 199-204; tr. it., pp. 210215). Sul dire in quanto ouï-dire che, nella tonalità escatologica di un dono senza debito, è un originario sì scaturente dall’ascolto cfr. J. Derrida, Ulysse gramophone. Deux mots pour Joyce, Galilée, Paris 1987; tr. it. di M. Ferraris, Ulisse grammofono. Due parole per Joyce, il melangolo, Genova 2004, pp. 92-95. 157 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 426 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 178). 158 Ivi, p. 428 (tr. it., p. 180).

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alla quale avviene una “s-elezione”: «la parola di Dio di suo è buona in assoluto, ma nel passare agli uomini si diversifica e, pur rimanendo uguale a se stessa, ha effetti differenti: dà vita ai buoni e morte ai perversi, è un bene per i primi e un male per gli altri»159. Gli uomini si distinguono in chiamati [Berufune, sozómenoi] e reietti [Verworfene, apollýmenoi]: questa divisione non concerne il fatto di essere o meno chiamati, poiché Dio si rivolge a tutti, bensì il fatto che la sua parola venga accolta o meno nella propria vita, che si abbia nei suoi confronti il riguardo dell’ascolto. Apollýmenoi, infatti, non significa propriamente “reietti”, ma “essere nello stato del venire reietti”, «il participium praesentis al posto del participium perfecti pone l’accento sull’attuazione ancora perdurante. Si tratta di un assumere che è estremo decider-si [sich-ent-scheiden]»160. Allo stesso modo il participio presente di sozómenoi indica un movimento ancora nel compiersi, mediante un de-cidere [ent-scheiden] che è insieme un re-cidere [ab-scheiden]: infatti, «i cristiani debbono essere klétoi, in contrasto con i reietti»161 e con il loro ‘vecchio’ modo di essere. Il Signore, dunque, chiama tutti con parole semplici, ma l’ascolto del suo appello da parte degli uomini non è altrettanto adeguato; in termini agostiniani «“liquide tu rispondes, sed non liquide (in modo chiaro, limpido, puro, genuino) omnes audiunt (audire: “comprendere”, ossia modo dell’attuazione”»162. I più odono da Dio ciò che vorrebbero, ciò che preme e fa loro comodo in quel momento, invece «tutto dipende dall’udire in modo autentico, dal come dell’atteggiamento interrogativo, del voler udire»163, tutto dipende dalla capacità di trasformare ciò che si è udito in ciò di cui si deve veramente aver cura. 6. La cura [Bekümmerung] La fede in quanto esperienza non è un fatto coscienziale, ma un atto, perché «l’esperienza non significa presa di coscienza, bensì vitale essere-partecipe, esser-preoccupato di modo che il sé risulta co159 160 161 162

Ibidem. HGA 60, p. 113 (tr. it., p. 155). HGA 60, p. 107 (tr. it., p. 148). HGA 60, p. 203 (tr. it., p. 263). Cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 26, p. 295. 163 HGA 60, p. 203 (tr. it., p. 263).

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stantemente co-determinato da una tale preoccupazione [Bekümmerung]»164. In 1 Cor, 7, 32-34 si trova questa determinazione essenziale della vita fattizia, che è la Bekümmerung: io vorrei che voi foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.

Il modo d’attuazione della vita è la cura, che in base al suo Vollzugssinn si distingue in preoccupazione per le “cose del Signore” e per le “cose del mondo”, distinzione che corrisponde a quella degli uomini in chiamati e reietti. Questi ultimi, che «si lasciano ingannare precisamente nel loro estremo affaccendarsi riguardo alla “sensazione” della parusía, decadono dalla cura originaria per il divino»165, vivono disordinatamente e smettono di lavorare (2 Ts, 3, 11). I chiamati, invece, si danno «da fare per la dóxa del Signore – 164 HGA 59, p. 17. Nell’accostamento dell’Erfahrung alla Bekümmerung si configura la trasformazione heideggeriana dell’intenzionalità husserliana, puramente ideale, nel concetto di cura, inteso in senso fattuale come essere dell’esserci (cfr. A. Masullo, La cura in Heidegger e la riforma dell’intenzionalità husserliana, cit., pp. 377-394). 165 HGA 60, p. 113 (tr. it., p. 155). Heidegger ritrova la determinazione ontologica dell’Esserci come cura nel concetto neo-testamentario di mérimna o phrontís (Mt,13, 22), sollicitudo nella Vulgata, che esprime il contrasto tra l’affaccendarsi nel mondo e il darsi da fare per il Signore (Mt, 6, 2434), tra Marta e Maria (Lc, 10, 41), nonché nella favola n. 220 di Igino, dal titolo Cura, rielaborata da Goethe nel Faust (HGA 20, p. 418-420; tr. it., pp. 375-377 e HGA 2, pp. 261-265; tr. it., pp. 239-243). Per Larivée e Leduc il tema della cura, contrariamente ad altri, s’inscrive nel solco della tradizione (A. Larivée - A. Leduc, Saint Paul, Augustin et Aristote comme sources gréco-chrétiennes du souci chez Heidegger. Élucidation d’un passage d’Être e temps (§ 42 note 1), “Philosophie”, 69, 2001, p. 30); i precedenti sono la imitatio Christi di Thomas von Kempen, per il quale l’uomo interiore antepone la cura di sé a tutte le altre (ivi, p. 32), e Paolo, che dà alla cura una tonalità angosciosa, in relazione con la parusía (ivi, pp. 33-35). Allo stesso modo, l’analisi della cura in Agostino – descritta da Heidegger non nella cosiddetta “fase ascendente” dell’anima alla ricerca di Dio, ma nella “fase discendente” dell’anima che si trova nella tentazione (ivi, pp. 35-36) – nel suo duplice carattere di preoccupazione mondana e inquietudine autentica, cui si associano l’appello alla vigilanza e

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la cura»166 (cfr. 2 Ts, 2, 13-14), vivendo «perisseúein mállon, la cura perdurante, l’autentica appropriazione nell’esperienza effettiva della vita, cioè la temporalità»167, vivendo la «cura assoluta nell’orizzonte della parusía»168. Lutero ricava i diversi significati del termine “cura” da Gen, 3, 19 («con il sudore del tuo volto mangerai il pane»), allorché Dio, per punire Adamo, gli «impone la cura»169, ovvero di preoccuparsi del proprio nutrimento, della protezione e del governo, di essere padre, re e sacerdote: «molteplice è il sudore del volto. Il primo è degli agricoltori o degli economi, il secondo dei magistrati e il terzo dei dottori della Chiesa»170. Fra questi, «il sudore economico è grande, maggiore è quello politico, massimo è quello ecclesiastico»171. Tutti sono chiamati alla cura, perché la regola d’oro dei cristiani, come dice l’Apostolo, è: «chi non vuole lavorare, neppure mangi» (2 Ts, 3, 10), ma sono chiamati in modo diverso; infatti, «optima conditio»172, pena meno gravosa, è quella degli agricoltori, invece maxima è la cura pastorale, in quanto più gravi sono le cose che ha da amministrare, soprattutto perché ha da educare ed edificare uomini pii e lottare contro gli empi173. Allo stesso modo in cui «non si dice all’infermo il pericolo rappresentato dalla sua malattia per dargli motivo di disperare o di morire, ma piuttosto per far nascere in lui la preoccupazione di cercare un rimedio»174, il provocare ad curam non ha lo scopo di rendere gli uomini disperati, ma di spingerli a desiderare la grazia. Per queste riflessioni, Lutero, come Heidegger, attinge dichiaratamente all’antropologia agostiniana, nella quale si incontra il fenomeno della cura nel suo duplice Bezugssinn, ossia nel significato mediopassivo di “trovarsi nella preoccupazione” e nel significato attivo dell’“aver cura di”: infatti, c’è una «connessione fenomenologica fra curare come cura (vox media) e uti come (nella cura) avere a che fare

166 167 168 169 170 171 172 173 174

alla conoscenza di sé, si lascia ricondurre all’epiméleia eautoú della filosofia antica (ivi, pp. 39-40). HGA 60, p. 107 (tr. it., p. 148). HGA 60, p. 157 (tr. it., p. 182). HGA 60, p. 98 (tr. it., p. 138). M. Lutero, Vorlesung über 1. Mose, in WA 42, p. 157. Ivi, p. 158. Ivi, p. 159. Ivi, p. 158. Ivi, p. 159. M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 361 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 195).

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con [umgehen mit]»175. La ricchezza semantica del termine Bekümmerung, quindi, compendia in sé la cura come inquietudine e angoscia e il prendersi cura, entrambe esperienze che non sono flussi psichici transitori, ma determinazioni ontologiche, la cui compresenza è espressione della “conflittualità” [Zwie-spältigkeit] propria dell’Esserci. Traducendo Agostino, Heidegger scrive: «“in multa defluximus”, ci dissolviamo [zerfließen] in molteplici cose e siamo completamente assorbiti nella distrazione [Zerstreutheit]. Tu esigi la reazione contro la dispersione [Zerstreuung], contro il cadere in pezzi della vita»176. Multum è il molteplice in cui ci si disperde, «un orientato essere attratti dalla e nella delectatio: la vita mondana nella sua molteplicità di significatività»177, mentre l’unum [ein] è il ‘proprio’ [ei(ge)

175 HGA 60, p. 207, nota 11 (tr. it., p. 267, nota 1). I due caratteri della Cura si ritrovano in Prolegomeni alla storia del concetto di tempo come l’inquietudine e «l’uniformità tranquillizzante del fare quotidiano, l’indifferenza nel disbrigo» (HGA 20, p. 351; tr. it., p. 314). In questa sede Heidegger puntualizza che «per la verità né Agostino né in generale l’antica antropologia cristiana conoscono esplicitamente questo fenomeno, benché in Seneca, come anche notoriamente nel Nuovo Testamento la cura abbia già una sua parte» (HGA 20, p. 418; tr. it., p. 375). Seneca, infatti, consiglia a Lucilio: «se vorrai stare veramente bene, preoccupati anzitutto della salute dello spirito, poi anche dell’altra, che non ti costerà molta fatica» (L.A. Seneca, Lettere a Lucilio, cit., lettera 15, p. 51). Agostino parla della cura soprattutto come angoscia e preoccupazione: l’angoscia («curam meam») che lo coglie durante il periodo milanese (Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., VI, 11, p. 180), la preoccupazione del suo cuore («ingravidato curis») di morire prima di conoscere il vero (ivi, VII, 5, p. 195), le molte preoccupazioni («innumerabili varietate curarum») che attanagliano l’anima (ivi, XIII, 17, p. 399). Tuttavia, ad Agostino non sfugge neanche il senso del cura habere, ad esempio quando afferma: «avevo cura della mia incolumità – riflesso di quella unità misteriosa da cui traevo origine» (ivi, I, 20, p. 73). 176 HGA 60, p. 205 (tr. it., p. 265). Cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 30-34, pp. 297-306. Negli stessi termini Heidegger si esprime anche in Essere e tempo, laddove afferma che «l’Esserci si disperde fra le mille cose che “succedono” ogni giorno» (HGA 2, p. 515; tr. it., p. 458), in modo tale che, per giungere a se stesso, deve «raccogliersi dalla dispersione» (HGA 2, p. 515; tr. it., p. 458). 177 HGA 60, p. 206 (tr. it., p. 266). Secondo Kierkegaard, «se il cristianesimo esige dal cristiano che egli dimentichi molto e in un certo senso tutto, cioè tutto il molteplice, esso indica anche il mezzo: raccomanda di ricordare un’altra cosa, di rammentare l’unica cosa, il Signore Nostro Gesù Cristo» (S. Kierkegaard, Esercizio di cristianesimo, cit., p. 214).

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n] a cui tendere. La «dóxa originaria [Urdóxa]»178 non è, dunque, la disposizione d’animo conseguente all’annuncio, bensì ciò che l’annuncio rivela, ossia la vita come cura, la cura genuina per le cose del Signore, che, indicata formalmente, è il modo in cui ci si pre-occupa della possibilità più propria (ei-ge-n), la morte, decidendo di anticiparla [vorlaufen], e il darsi da fare per le significatività mondane (multum), che è lo s-cadimento [verfallen] dalla cura genuina, un’attesa passiva della morte, che induce a smettere di esistere come coloro che nell’attendere la parusía smettono di lavorare. 6.1. “La mèta”: la beata vita Nell’aver cura di Dio, vita vitae, mi “pre-occupo” di me stesso, «nel cercare-Dio [Gott-suchen] qualcosa in me stesso non solo viene “espresso”, bensì costituisce la mia fatticità e la mia cura a riguardo»179. Il cercare la vita [Lebensuchen] è un atto esperito da tutti, solo che, come per la ricerca di Dio si tratta di quomodo quaero Deum, in questo caso si tratta di quomodo quaero vitam beatam. Heidegger non intende caratterizzare il contenuto della vita beata, ma il suo senso attuativo in quanto delectatio, che è «un determinato appetitus, un aspirare a qualcosa»180. Ciò che tutti desiderano è la felicità, solo che non tutti sanno come raggiungerla; tutti la desiderano, ma la esperiscono in modo differente. Tuttavia, «indicata formalmente, la beata vita in quanto tale e riguardo al “come” del suo Esserci è una sola. In senso proprio qui si tratta del singolo, di come egli se ne appropria. Ce n’è una sola genuina»181 ed è il gaudium de veritate. I più vogliono avere la vita beata, ma 178 179 180 181

HGA 60, p. 329 (tr. it., p. 412). HGA 60, p. 192 (tr. it., p. 249). HGA 60, p. 222 (tr. it., p. 285). HGA 60, p. 197 (tr. it., p. 256). Casper legge l’interpretazione heideggeriana della beata vita alla luce della differenza agostiniana tra videre viam e via ducens (cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., VII, 20-21, pp. 211213): «l’esserci si trova nella situazione aporetica di colui che certo vede “quo eundum sit”, dove si dovrebbe andare, ma non vede “qua” (via), non vede il come ciò dovrebbe accadere. Il vicolo cieco in cui si trova consiste nel fatto che egli sa in quale direzione dovrebbe muoversi, ma non trova la “via ducens”, quella che dovrebbe realmente condurlo» (B. Casper, L’esistenziale della tentatio, in AA.VV., Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’epistolario paolino, a cura di A. Molinaro, Urbaniana University Press, Roma 2008, p. 43).

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non quella genuina, perché si fermano a ciò che è direttamente disponibile. L’essenziale è come attuare il volere, è come la vita è avuta, poiché bisogna «appropriarsi dell’“avere” in modo tale che diventi un “essere”»182: poiché, «la certezza di sé e l’“avere se stessi” nel senso di Agostino sono qualcosa di completamente diverso dall’evidenza cartesiana del “cogito”»183; l’essenziale è che l’avere se stessi sia cura per l’essere, o meglio per il poter-essere di se stessi, perché «nella cura di sé il sé – nel come del suo essere più proprio – dà forma sia alla possibilità radicale del decadimento sia all’“occasione” di conquistarsi»184. Con l’efficacia che solo una formula possiede si può affermare «Vita = tentatio tota»185, che nel senso attuativo di molestia, in quanto “travaglio” e “combattimento” (cfr. Gb, 7, 1), può degradare la vita; tuttavia, «la “molestia” va definita in termini esistenziali: non “peso” [Last] – in senso greco-ascetico –, bensì “occasione” [Gelegenheit]»186. Il fatto importante è che essa può, che è la possibilità inscritta nella vita, che cresce “quanto più la vita vive”, quanto più il curare si stabilisce in ogni direzione, e “quanto più la vita perviene a se stessa”, dal momento che l’essere della vita consiste nel suo essere-avuta. La tentazione è la chance tanto del perdersi quanto del conquistarsi: «nell’attuazione concretamente genuina dell’esperienza si dà la possibilità del decadimento, però nella cura più propria e radicale di se stessi si dà nel contempo l’“occasione” piena, concreta ed effettiva di pervenire all’essere della vita più propria»187. La tentatio, in quanto tendenza dell’esistenza, ha inscrit182 HGA 60, p. 195 (tr. it., p. 253). Nei §§ 4 e 9 di Essere e tempo Heidegger tematizza l’“avere-da-essere” in quanto rapportarsi pratico dell’esserci a se stesso, ma come nota Volpi, «quando l’esserci non verrà più compreso a partire da se stesso in prospettiva ontologico-trascendentale, bensì muovendo dall’orizzonte entro il quale esso è già sempre calato e costituito, Heidegger cancellerà sistematicamente ogni traccia di questa connotazione pratica e determinerà il carattere “apertu-rale” dell’esistenza non più come avere-da-essere, ma come esistenza che sta nell’apertura dell’essere» (F. Volpi, Essere e tempo: una versione dell’Etica nicomachea? Heidegger e il problema della filosofia pratica, in AA. VV., Heidegger e la filosofia pratica, cit., p. 345). 183 HGA 60, p. 298 (tr. it., p. 378). 184 HGA 60, p. 245 (tr. it., p. 311). 185 HGA 60, p. 252 (tr. it., p. 323). 186 HGA 60, p. 266 (tr. it., p. 338). 187 HGA 60, p. 244 (tr. it., p. 311).

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te due possibilità contrarie, la dispersio e la continentia. La dispersio è la tendenza a cadere a pezzi della vita, lasciandosi attirare e assorbire dalla molteplicità delle significatività, sicché coloro che sono così attirati e assorbiti «non possono salvare se stessi perché non hanno se stessi, perché hanno dimenticato il proprio sé, perché non hanno se stessi nella chiarezza del sapere autentico»188 e, perciò, restano de-formi, senza forma, che è il proprio sé. La «continentia, che nell’esperienza della tentatio costituisce la modalità e la direzione del superare e del frenare il decadimento»189, non corrisponde al privarsi dei riferimenti mondani, ma è la cura che tiene l’esistenza in piedi, che la riconduce allo Ei(ge)n. Considerando che «la continentia per propria forza è un’impresa disperata e che essa se in qualche modo va “avuta,” dev’essere data»190 (cfr. Sap, 8, 21), occorre anche prendere atto che resistere alla dispersione non è mai una vittoria definitiva, poiché persino «nella cura estrema, più decisiva e più pura di se stessi sta in agguato la possibilità della caduta più abissale e del vero e proprio perdere se stessi»191. Dunque, dal momento che «l’uomo non si conosce affatto se non si conosce [discat se] nella tentatio»192, nella prova intesa non come singola difficoltà contingente, ma come storicità fattizia, e che il discere è un contesto d’attuazione soggetto ad essere 188 HGA 60, p. 103 (tr. it., p. 144). Cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 27, p. 295: «tardi ti ho amato! Ecco, Tu eri dentro di me, io stavo al di fuori: e qui ti cercavo, e deforme quale ero, mi buttavo su queste cose belle che tu hai creato». 189 HGA 60, p. 237 (tr. it., p. 302). 190 HGA 60, p. 209 (tr. it., p. 269). 191 HGA 60, p. 240 (tr. it., p. 307). 192 HGA 60, p. 274 (tr. it., p. 349). Secondo Agostino «la tentazione di Dio non ha lo scopo di far conoscere a lui qualcosa che prima gli era nascosto, ma di rivelare, tramite la sua tentazione, o meglio provocazione, ciò che nell’uomo è occulto. […] L’uomo non conosce se stesso a meno che non impari a conoscersi nella tentazione. Quando avrà conosciuto se stesso non si trascuri. E se trascurava se stesso quando non si conosceva, non si trascuri più una volta conosciutosi» (Sant’Agostino, Opere. Discorsi (sul Vecchio Testamento), tr. it. di P. Bellini, F. Cruciani, V. Tarulli, Città Nuova, Roma 1979, I, n. 2, 3, pp. 15 e 17). Per Kierkegaard «questa nostra esistenza terrena è veramente una prova, tempo di prova […]. Essere uomo, vivere in questo mondo, significa essere messo alla prova […] – la vita è un esame. L’esame più grande, a cui l’uomo si deve assoggettare e per il quale gli è assegnata la vita intera, consiste nel diventare e nell’essere cristiano» (S. Kierkegaard, Esercizio di cristianesimo, cit., p. 256).

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intensificato; una volta che ci “si conosce”, bisogna continuare a non trascurarsi: non ho mai la possibilità di richiamarmi a un momento “fissato” in cui io posso sostenere di aver penetrato me stesso. Già l’attimo successivo può smentirmi, rivelandomi come del tutto diverso. Perciò l’“avere me stesso” [das Michselbst-haben] – nella misura in cui è attuabile – si dà sempre solo nel corso e nella direzione di questa vita, un avanti e indietro [ein Vor und Züruck]193.

Il Dasein, in quanto essere-gettato, è finito, ma questa finitezza non è una limitazione che rinvia a un’istanza trascendente, piuttosto finitezza vuol dire che il significato ultimo del Dasein, il suo “avere se stesso”, non è un possesso stabile radicatosi nel tempo, una proprietà, non è una materia indistruttibile, ma è alla costante ricerca di una ‘forma’. Finitezza vuol dire che il senso fondamentale dell’esistenza «si ottiene soltanto nell’esperienza fondamentale dell’aver cura di sé»194 e del proprio poter-essere. 7. “Timore e tremore” Le tonalità emotive che accompagnano l’una la cura de-caduta dei reietti e l’altra la cura autentica dei chiamati sono la paura [Furcht], che è sempre diretta a qualcosa, e l’angoscia [Angst], che non è provocata da nulla di determinato195, perché, come insegna 193 HGA 60, p. 217 (tr. it., p. 279). 194 M. Heidegger, Ammerkungen zu Karl Jaspers «Psychologie der Weltanschauungen», in HGA 9, p. 30 (tr. it., Note sulla «psicologia delle visioni del mondo» di Karl Jaspers, p. 459). 195 In Essere e tempo Heidegger fa una compiuta caratterizzazione dei fenomeni della paura e dell’angoscia. Nel § 30 prende in esame la paura sotto tre aspetti, il “davanti-a-che”, l’“aver-paura”e il “per-che”: «il davanti-ache della paura, “ciò che fa paura”, è sempre un ente che si incontra nel mondo, sia esso un utilizzabile, una semplice-presenza o un con-Esserci. […] Il davanti-a-che della paura ha il carattere della minacciosità. […] L’aver-paura come tale lascia che l’oggetto minaccioso si faccia innanzi […]. Il per-che la paura ha paura, è l’ente stesso che ha paura, l’Esserci. Solo un ente a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso può aver paura» (HGA 2, pp. 186-188; tr. it., pp. 174-175). Nel § 40 Heidegger descrive, invece, il fenomeno dell’angoscia: «il davanti-a-che dell’angoscia non è un ente intramondano. […] Il davanti-a-che dell’angoscia è comple-

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Kierkegaard, è la vertigine della libertà: «l’angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità»196, ma «la possibilità deltamente indeterminato. Questa indeterminatezza non solo lascia effettivamente del tutto indeciso da quale ente intramondano venga la minaccia, ma sta a significare che in generale l’ente intramondano è “irrilevante”. […] L’ente intramondano è divenuto in se stesso così recisamente privo di importanza che, in virtù di questa insignificatività dell’intramondano, ciò che ci colpisce è ormai unicamente il mondo nella sua mondità. […] Se dunque il davanti-a-che dell’angoscia è il nulla, cioè il mondo in quanto tale, ne viene: ciò dinanzi a cui l’angoscia è tale, è l’essere-nel-mondostesso. […] L’angoscia non è soltanto angoscia davanti a…, ma, in quanto situazione emotiva, è nel contempo angoscia per… Il per-che dell’angoscia non è un determinato modo di essere o una possibilità dell’Esserci. […] Il per-che dell’angoscia è l’essere nel mondo come tale» (HGA 2, pp. 247-249; tr. it., pp. 227-229). Nel § 68 b Heidegger differenzia la temporalità della paura e dell’angoscia: entrambe si fondano in un originario essere-stato, l’essere-gettato, solo che la paura scaturisce dal “presente dispersivo”, l’angoscia dall’“avvenire” o meglio da un presente che si riporta indietro e si mantiene aperto per l’attimo della decisione (HGA 2, pp. 449-457; tr. it., pp. 402-409). L’angoscia rivela il poter-essere puro e semplice dell’Esserci, l’esser-gettato nella morte, e in questo senso non va confusa con la paura di morire (HGA 2, p. 334; tr. it., p. 301). In seguito Heidegger assegna all’angoscia una funzione rivelativa, in quanto stato d’animo in grado di far dileguare l’ente nella sua totalità, portando l’Esserci dinnanzi al nulla: «l’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di… è sempre anche paura per qualcosa di determinato. E poiché è propria della paura la limitatezza del suo oggetto e del suo motivo chi ha paura ed è pauroso è prigioniero di ciò in cui si trova. […] L’angoscia è sempre angoscia di…, ma non di questo o di quello. L’angoscia di…è sempre angoscia per…, ma non per questo o per quello. Tuttavia, l’indeterminatezza di ciò di cui e per cui noi ci angosciamo non è un mero difetto di determinatezza, bensì l’essenziale impossibilità della determinatezza. […] Nell’angoscia, noi diciamo, “uno è spaesato”. […] Non possiamo dire dinanzi a cosa uno è spaesato, perché lo è nell’insieme. […] L’angoscia rivela il niente» (M. Heidegger, Was ist Metaphysik?, in HGA 9, pp. 111-112; tr. it., Che cos’è metafisica?, p. 67). 196 S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, cit., p. 51. L’“angoscia soggettiva” è la vertigine della libertà (ivi, pp. 73-76), l’“angoscia oggettiva” il riflesso della peccaminosità nel creato (ivi, pp. 68-73). Heidegger riconosce che «in tempi recenti – soprattutto in rapporto col problema del peccato originale – Kierkegaard ha fatto del fenomeno dell’angoscia il tema del suo speciale scritto “Il concetto dell’angoscia”» (HGA 20, p. 404; tr. it., p. 362). Ma nota anche che tutte le considerazioni sul concetto d’angoscia, incluse quelle kierkegaardiane, non colgono la struttura esistenziale

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la libertà non è poter scegliere il bene o il male. […] La possibilità è il potere»197. Poiché apre l’abisso del poter-essere, «l’angoscia scopre il destino»198: infatti, come spiega Heidegger, c’è l’angoscia che non ha «nessuna direzione a partire dal sé autentico»199 e l’angoscia «diretta in relazione al sé»200, che è «l’angoscia genuina: timore reverenziale»201, uno “spaesamento” che libera l’uomo dal prediligere le significatività. Non bisogna, pertanto, confondere la «falsa paura»202, che è l’essere mondanamente preoccupati per aver prestato ascolto agli inganni di coloro che proclamano un’indicazione obiettiva del “quando” della parusía, e il «timore e tremore religioso»203, che è l’angoscia del come tenersi pronti. L’espressione “timore e tremore” nelle Lettere paoline è piuttosto frequente e non per una casuale ripetizione, ma perché, nell’orizzonte dell’attuazione, «va concepita come tendenza ricorrente, motivo»204. È, infatti, la disposizione di coloro che sanno di essere deboli e peccatori e si preoccupano di non essere in grado di tenersi saldi per l’avvento del Signore, arrivando ad un passo dalla disperazione: «quelli che la pensano così si angosciano in un senso genuino, nel segno della vera cura riguardo alla loro possibilità di compiere le opere della fede e

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dell’Esserci, «col che l’angoscia (come è anche il caso in Kierkegaard) diventa un problema psicologico» (HGA 20, p. 402; tr. it., p. 363). Su questo limite dell’analisi kierkegaardiana, Heidegger insiste anche in Essere e tempo: «Kierkegaard fece i maggiori progressi nell’analisi del fenomeno dell’angoscia, ma sempre nel quadro teologico di un’esposizione “psicologica” del problema del peccato originale» (HGA 2, p. 253, nota 3; tr. it., p. 232, nota 4). Del resto, il sottotitolo de Il concetto dell’angoscia è Semplice riflessione per una dimostrazione psicologica orientata in direzione del problema dogmatico del peccato originale. S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, cit., p. 59. HGA 60, p. 268 (tr. it., p. 341). Cfr. S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, cit., p. 199. HGA 60, p. 268 (tr. it., p. 341). HGA 60, p. 268 (tr. it., p. 341). HGA 60, p. 268 (tr. it., p. 341). HGA 60, p. 154 (tr. it., p. 201). HGA 60, p. 154 (tr. it., p. 201). L’espressione biblica “timore e tremore” (Sal, 2, 11 e 55, 6; 1 Cor, 2, 3; 2 Cor, 7, 15; Ef, 6,5; Fil, 2, 12) dà il titolo al libro che Kierkegaard dedica ad Abramo, messo alla prova da Dio con la legatura di Isacco (Gen, 22, 1-19): l’angoscia è qui nella tensione tra la dimensione della generalità etica – uccidere Isacco – e la dimensione singolare della fede – sacrificare Isacco –. HGA 60, p. 93 (tr. it., p. 133).

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dell’amore, e di resistere fino al giorno decisivo»205. Mediante la disperazione, l’individuo si pone contro la fede (diversione), mentre mediante l’angoscia si forma alla fede (conversione), perché, come dice sempre Kierkegaard, «timore e tremore denotano che si è in divenire e ogni uomo singolo, come anche l’intera umanità, ha e deve avere coscienza d’essere in divenire»206. Agostino, riconoscendo «l’aspetto in definitiva “angosciante” [beängstigend] dell’Esserci»207, introduce la nota distinzione tra il “timore servile”, in quanto timore di Dio per paura di essere puniti, per paura dell’inferno e del castigo, e il “timore casto”, che è il timore di Dio nell’angoscia della propria finitezza: «altro è temere che Iddio ti mandi, col diavolo, nella geenna, altro è temere che Iddio si allontani da te. Quel timore per cui temi di andare a finire, col diavolo, nella geenna non è ancora santo, non viene dall’amore di Dio, ma dal timore del castigo. Se invece temi Iddio, temi che ti manchi la sua presenza»208.

205 HGA 60, p. 107 (tr. it., p. 148). 206 S. Kierkegaard, Esercizio di cristianesimo, cit., p. 130. Derrida sostiene che «noi temiamo e tremiamo davanti al segreto inaccessibile di un Dio che decide per noi benché noi siamo responsabili, ovvero liberi di decidere, di lavorare, di assumere la nostra vita o la nostra morte» (J. Derrida, Donner la mort, Galilée, Paris 1999; tr. it. di L. Berta, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2003, p. 91). 207 HGA 60, p. 241 (tr. it., p. 307). 208 Sant’Agostino, Commento alla prima Lettera di San Giovanni, tr. it. di P. Tablino, Paoline, Roma 1954, IX, 5, pp. 195-196. Cfr. HGA 60, pp. 296297 (tr. it., pp. 375-377). Secondo Heidegger il timore «è visto in Agostino non tematicamente, ma di fatto in quanto coinvolto in una breve considerazione “de metu” contenuta in una raccolta di quaestiones “de diversis quaestionibus octoginta tribus”» (HGA 20, p. 404; tr. it., p. 362). Nella suddetta questio Agostino parla del timore come della paura «di un male futuro o imminente» (Sant’Agostino, Ottantatré questioni diverse, in Opere. La vera religione, cit., VI/2, n. 33, p. 65) che corrisponde «all’angoscia dei mali presenti» (ivi, p. 67): infatti, «nessuno dubita che l’unico motivo del timore sia il pensiero di perdere quello che amiamo dopo averlo conquistato o di non ottenere quello che si è desiderato» (ivi, p. 65). Affrontando la situazione emotiva fondamentale dell’angoscia, Heidegger rileva: «non è a caso che i fenomeni dell’angoscia e della paura, che in genere rimangono indistinti, furono presi in esame dalla teologia cristiana; e non solo onticamente, ma, sia pure in limiti assai ristretti, anche ontologicamente. Ciò avvenne ogniqualvolta il problema antropologico dell’essere dell’uomo rispetto a Dio venne in primo piano e l’impostazione proble-

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Agostino mette a confronto due passi della Scrittura, 1 Gv, 4, 18: «nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo» e Sal, 18, 10: «il timore del Signore è puro»; anche se apparentemente discordanti, questi passi hanno una segreta consonanza, poiché è il medesimo Spirito a soffiare dentro due flauti diversi, a parlare due lingue diverse attraverso due bocche diverse, l’una di Giovanni e l’altra di David. La differenza di non poca importanza tra le due espressioni è che l’una parla di timore e l’altra definisce il timore “puro”, evidentemente in antitesti a quello non-puro, allo stesso modo in cui, come recita il Salmo 55, c’è da distinguere il non timere genuino, che nasce dalla fiducia nel Signore e dall’umiltà, da quello impuro dovuto a durezza di cuore ed eccesso di superbia. Per spiegare ulteriormente questa distinzione, Agostino accosta il timere al dolere e individua tre condizioni, la salute [sanitas] che esclude il dolore, la paralisi [stupor] che è la perdita di sensibilità al dolore, e l’immortalità [immortalitas] che non conosce dolore: «non c’è, dunque, alcun dolore nel corpo immortale, come non c’è nessun dolore nel corpo colpito da paralisi. Chi è paralizzato non creda, però, di essere già immortale. È più vicina all’immortalità la salute di uno che prova dolore, che non l’insensibilità di chi è paralizzato»209. Pertanto, un uomo tronfio e arrogante, convinto di non aver nulla da temere, non è più coraggioso di Gesù, che ha detto «la mia anima è triste fino alla morte» (Mt, 26, 38), ma è affetto da paralisi, ha perso la sensibilità. Dunque, «per il genuino essere coraggiosi deve sussistere la possibilità del timore»210. Anche Lutero descrive il timore casto insieme all’humilitas, considerandolo un’opera “aliena” che Dio compie in noi: «dappertutto nella Scrittura coloro che hanno questo timore davanti alla Parola di Dio venmatica fu guidata da fenomeni come la fede, il peccato, l’amore e il pentimento» (HGA 2, pp. 252-253, nota 3; tr. it., p. 232, nota 4). 209 Sant’Agostino, Opere. Esposizioni sui Salmi, cit., II, LV, 6, p. 135. Cfr. HGA 60, pp. 295-296 (tr. it., pp. 374-375). 210 HGA 60, p. 296 (tr. it., p. 375). Senza voler formulare né una “filosofia dell’angoscia”, né una “filosofia eroica”, Heidegger afferma: «che cosa sarebbe ogni coraggio, se non trovasse nell’esperienza dell’angoscia essenziale il suo costante corrispettivo? […]. Ora, il coraggio è in grado di sostenere il niente, perché riconosce nell’abisso dello sgomento [Schrecken] lo spazio pressoché inviolato dell’essere, dalla cui radura ogni ente ritorna in ciò che è e può essere» (M. Heidegger, Nachwort zu „Was ist Metaphysik?“, in HGA 9, pp. 307-308; tr. it., Poscritto a “Che cos’è metafisica?”, p. 262).

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gono lodati e confortati. Essi disperano di sé, e la Parola di Dio compie la sua opera, suscitando in loro la paura di Dio»211. Il timore servile è per Lutero la paura di Adamo ed Eva, i quali, abbandonata la fiducia in Dio, «quando sentono un soffio oppure il vento, immediatamente pensano che Dio si stia avvicinando per punirli e si nascondono»212. Ma Lutero, riflettendo sullo “spirito di servitù” di Rm, 8, 15, introduce una terza forma di timore, peggiore di quello servile, il “timore mondano”, «attento non al compimento della legge, ma alla possibile perdita dei beni di questo mondo, o al danno incombente»213. In definitiva, davanti al «mysterium tremendum et fascinans»214, il timore ha o la direzione del “tenersi alla larga” o quella “dell’attirare a sé”: «il primo timore (timor servilis), il “timore del mondo” (partendo dal mondo-ambiente e dal mondo degli altri), è la paura da cui si è afferrati, che ci assale; all’opposto, il timor castus è il “timore relativo al sé”, che trova la sua motivazione nell’autentica speranza»215. In termini indicativo-formali, se la paura della morte porta alla fuga, che è fuga da se stessi, l’angoscia della morte è un phármakon, che può avvelenare l’esistenza degenerando in disperazione, oppure ‘redimerla’ sublimandosi nella speranza di una resurrectio fattizia. 8. Sperare è r-esistere Citando la Pharsalia (2, 15) di Lucano, Agostino afferma: «a chi è nel timore, sia consentita la speranza»216, ma, ricordando le parole 211 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 387 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 132). Cfr. Sal, 111, 1: «Beato l’uomo che teme il Signore». 212 M. Lutero, Vorlesung über 1 Mose, in WA 42, p. 127. Heidegger nota che «Lutero ha trattato il fenomeno dell’angoscia nel tradizionale contesto di un’interpretazione di contritio e poenitentia nel suo commentario al Genesi» (HGA 20, p. 404; tr. it., p. 362 e HGA 2, p. 253, nota 3; tr. it., p. 232, nota 4). 213 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 367 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 109). 214 R. Otto, Das Heilige: über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Beck, München 2004; tr. it. di E. Buonaiuti, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, SE, Milano 2009. 215 HGA 60, p. 297 (tr. it., p. 377). 216 Sant’Agostino, Manuale sulla fede, speranza e carità. Enchiridion, a cura di L. Alici, Città Nuova, Roma 2001, 2.8, p. 46.

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dell’apostolo Giacomo (Gc, 2, 19), precisa che: «anche i demoni credono e tremano: tuttavia non sperano né amano»217; solo al cristiano sono riservati l’amore e la speranza nell’angoscia. Lutero, da eccellente interprete di Agostino, riscopre il significato originario di elpís, che compendia in sé il “timore”, la croce dell’uomo vecchio, e la “speranza”, la vita dell’uomo nuovo: la speranza e la disperazione sono opposte l’una all’altra, eppure nella disperazione si deve ancora sperare. In realtà, il timore non è altro che un’incipiente disperazione, e la speranza il principio di una guarigione, e queste due cose, naturalmente opposte fra loro, devono essere in noi, perché in noi vi sono due uomini opposti per natura, l’uomo vecchio e l’uomo nuovo; l’uomo vecchio deve temere ed essere disperato e soccombere, l’uomo nuovo deve sperare, sussistere ed essere elevato, e questi due fatti devono avvenire ad un tempo in un medesimo uomo218.

La speranza cristiana è inaudita, poiché nasce per via della sua privazione, della sua mancanza, dalla disperazione, che non viene superata dialetticamente, ma viene combattuta attraversandola [verwinden, upomoné] per riconvertirla nel contrario, allo stesso modo in cui ci si rimette da una malattia: «la speranza non è esperita come un millantare senza curarsi di se stessi, ma proprio elpída nel superamento, ypomoné della thlípsis!»219. La thlípsis, la tribolazione, è un segno, «un éndeigma della vocazione»220 e in quanto tale ha il senso tragico della formula eschiliana del páthei máthos, la miseria originaria in quanto varco – aperto da Zeus ai mortali –, che conduce alla vera cura di sé; la tribolazione ‘scopre l’uomo’, lo conferma nella disposizione in cui lo trova, perciò negli uni produce pazienza, la quale, a sua volta, produce la prova e la prova la speranza, che è gioia autentica, chará (Rm, 5, 3-5; 12, 12; Gv, 16, 20), negli altri, invece, «genera l’impazienza, l’impazienza la riprovazione, la riprovazione poi la disperazione»221. Thlípsis e chará sono l’«oneri mihi 217 Ivi, 2.8, p. 48. Cfr. HGA 60, p. 288 (tr. it., p. 366). 218 M. Lutero, Die Sieben Bußpsalmen, in WA 1, p. 208 (tr. it., I sette salmi penitenziali, p. 144). 219 HGA 60, p. 151 (tr. it., p. 198). 220 HGA 60, p. 112 (tr. it., p. 154). 221 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 303 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 232). Resta ricorda che «c’è la desperatio per difetto, per incapacità di perseveranza; a causa di essa, ci si arrende troppo presto e si anticipa il non raggiungimento di ciò che viene sperato. […]

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sum»222 agostiniano, che non è un peso qualsiasi, ma il peso di vivere nel contrasto tra due stati d’animo opposti, maeror e gaudium, «dolore peccaminoso, disperazione – gioia fiduciosa»223, sapendo che la vita si attua solo laddove la speranza precede: «quo precedi spes vestra, sequitur vita vestra»224. Ma vi è pure mancanza di speranza per eccesso: la praesumptio, la presunzione che anticipa la realizzazione di quanto si spera a tal punto da dichiarare già saldamente posseduto ciò cui, invece, possiamo soltanto aspirare. […] La speranza, al contrario, richiede pazienza, non ama la fretta, non cerca scorciatoie. Essa è sempre in cammino, fedele specchio del nostro status viatoris, della nostra condizione itinerante. Anzi, è proprio essa a provocare quella spinta che fa di ciascuno di noi un homo viator» (C. Resta, Sperare nell’impossibile, in AA. VV., Il Libro, la parola, il dialogo, Grafica Saturnia, Siracusa 2007, pp. 97-98). Per il legame tra speranza e status viatoris, si rinvia a G. Marcel, Homo viator. Prolégomènes à une métaphysique de l’Espérance, Présence de Gabriel Marcel, Paris 1998; tr. it. di L. Castiglione e M. Rettori, Homo viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, Borla, Roma 1980. 222 Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 28, p. 296. Per Agostino l’enigma del sé è la debolezza davanti a Dio, che si risolve nel pianto: «piangete meco, piangete per me, o voi tutti che coltivate nel cuore i buoni sentimenti che conducono poi ai fatti: voi che non lo fate, non potete essere sensibili a queste considerazioni. Ma Tu, Signore, ascoltami, volgi a me il tuo sguardo, e abbi pietà, e guariscimi. Sotto i tuoi occhi sono diventato un enigma per me stesso, e questa proprio è la mia debolezza» (ivi, X, 33, p. 303). Derrida afferma significativamente che «le Confessioni di Sant’Agostino probabilmente raccontano una preistoria dell’occhio, della visione o della cecità. [...] Io le ho sempre lette come il grande libro delle lacrime» (J. Derrida, Mémoires d’aveugle. L’autoportrait et autres ruines, Edition de la réunion des musées nationaux, Paris 1990; tr. it. di A. Cariolato e F. Ferrari, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, a cura di F. Ferrari, Abscondita, Milano 2003, p. 148): le lacrime, infatti, velando la vista, svelano il ‘proprio’ dell’occhio, che non consiste nel vedere, ma nel piangere (ivi, p. 152). 223 HGA 60, p. 250 (tr. it., p. 320). Cercando la traduzione migliore per thlípsis e chará, Caputo osserva che è «difficile rendere palpabile il thlíbo che vibra nella thlípsis: il sentirsi ‘premere’, come ‘stretti’ dalla morsa della precarietà e della finitezza, l’angustia del non comprensibile, il dolore dei limiti. Difficile lasciar sentire il chaíro della chará: il gioire per qualcosa di troppo grande per essere più di un sorso nel mare della sete, il senso di un ‘piacere’ che diventa saluto (chaíre mói) al mondo e alla vita, anche solo per quell’attimo di pienezza miracolosamente offerto, del tutto gratuito: ‘grazia’, ‘grazie’» (A. Caputo, Pensiero ed affettività: Heidegger e le Stimmungen (1889-1923), cit., p. 137). 224 HGA 60, p. 272 (tr. it., p. 348).

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La speranza si dà non per un qualche merito, ma al culmine della disperazione, «la speranza [Hoffnung] non viene dalle opere, bensì dalla sofferenza [Leiden]»225, afferma Heidegger, riprendendo la venticinquesima tesi della Disputatio contra scholasticam theologiam. Come avviene per i Tessalonicesi (1 Ts, 1, 6), il déchesthai porta «con sé l’afflizione [Trübsal], la quale pure permane, benché al tempo stesso sia viva una “gioia” (metá charás), che proviene dallo Spirito Santo (pneúmatos agíou) ed è un dono, dunque, non è motivata dalla propria esperienza»226. La speranza ha il carattere della gratuità del dono, della promessa, come sostiene Agostino, riconoscendo davanti a Dio che la confessione della propria colpevolezza «scuote il cuore impedendo di assopirsi nella disperazione e di dire: “Non posso”; lo tien desto nell’amore della tua misericordia e nella soavità della tua grazia che costituisce la forza dei deboli, ai quali dà la coscienza della loro debolezza»227. Sperare non significa confidare nelle proprie capacità, piuttosto sperare si può solo in ciò che non è in nostro potere, sperare è la nostra «debole forza messianica»228 (2 Cor, 12, 2-10), una forza che non ci appartiene e che travalica le nostre possibilità. La paradossale speranza cristiana è una virtù da deboli: sono, infatti, coloro che non sanno e non vedono che sperano non già di poter raggiungere qualche securitas, ma di poter resistere nell’essere in-securi. Quella dei cristiani è «una speranza non in un senso umano, bensì nel senso dell’esperire la parusía. Quest’esperire è un angustia assoluta»229, eppure solo grazie ad esso i cristiani all’arrivo del Messia non sono colti impreparati. Il giorno del Signore, invece, «per coloro che non hanno speranza, quindi sono afflitti, però possiedono gioia apparente e sicurezza, giunge come “improvviso” e inevitabile; inatteso»230. Vi è allora una differenza essenziale ed assoluta tra l’impotente speranza cristiana, 225 PS, p. 30 (tr. it., p. 210). Cfr. M. Lutero, Disputatio contra scholasticam theologiam, in WA 1, p. 225: «spes non venit ex meritis, sed ex passionibus merita destruentibus. Contra usum multorum». 226 HGA 60, p. 94 (tr. it., p. 135). 227 Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., X, 3, p. 273. Cfr. ivi, X, 29, p. 296: «ogni mia speranza non è riposta che nella tua grandissima misericordia». 228 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Gesammelte Schriften, Bd. I/2, hrsg. von R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1974; tr. it., Sul concetto di storia, cit., tesi II, p. 23. 229 HGA 60, p. 97 (tr. it., pp. 137-138). 230 HGA 60, p. 150 (tr. it., p. 197).

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rivolta all’evento della parusía, e l’attesa di un qualsiasi altro avvenimento: a tutta prima si potrebbe pensare che il comportamento fondamentale nei confronti della parusía sia un attendere e che la speranza (elpís) cristiana ne sia un caso speciale. Questo però è falsissimo! […] La struttura della speranza cristiana, che in verità è il senso del riferimento nei confronti della parusía, è radicalmente diversa da ogni attesa231.

Sperare [erharren] non è aspettare [erwarten] un possibile accadimento futuro, rappresentandosene il quando dell’arrivo e progettandone la realizzazione, è piuttosto aprirsi all’impossibile, aprirsi “qui ed ora” all’avvenire di un evento imprevisto ed incalcolabile che scardina il continuum temporale, un evento che sfugge alla nostra dýnamis, al vedere preveggente come al sapere calcolante. È nelle parole di Paolo che Heidegger ritrova il senso di questa differenza tra erharren ed erwarten, nelle parole che l’apostolo pronuncia, osservando che noi gemiamo e soffriamo come tutto il resto delle creature sperando nella redenzione: «nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno vede come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm, 8, 24-25). La speranza non è cieca certezza contro ogni evidenza, perché non rientra nell’ordine cartesiano della certezza, ed è cieca non perché è stupida, ma perché non può pre-vedere. Accostando Rm, 8, 24 a Eb, 11, 1 («la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede»), Agostino sottolinea il legame tra sperare e credere: infatti, «ciò che attiene al non vedere, siano esse cose nelle quali si crede o si spera, è comune alla fede e alla speranza»232. Allo stesso modo in cui credere in ciò che si vede non è più credere (fiducia), ma “tener per vero”, sperare in ciò che si vede non è più sperare, ma conoscere, progettare e trasformare, mediante il calcolo e l’anticipazione, il possibile in reale. Sperare è necessario «fintanto che non vediamo ciò che crediamo»233, sperare si dà solo per l’invi231 HGA 60, p. 102 (tr. it., p. 143). 232 Sant’Agostino, Manuale sulla fede, speranza e carità. Enchiridion, cit., cap. 2.8, p. 47. 233 HGA 60, p. 288 (tr. it., p. 366). Cfr. M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 374 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 117). Heidegger, mantenendo l’accostamento agostiniano tra fede e speranza, che non

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sibile, per ciò che non si può prevedere, e per l’impossibile, che non si può tradurre in anticipazione del reale. Questa sostanziale discrepanza tra la “speranza degli uomini”, che spera in ciò che pre-vede possibile, e la “speranza dei cristiani”, che spera contro ogni previsione (spes contra spem) e si mantiene salda nella fede, è marcata anche da Lutero, nel commento a Rm, 4, 18 («Egli, contro la speranza, credette nella speranza») riferito ad Abramo: qui si tocca con mano la differenza tra la speranza umana e quella cristiana. La prima va non contro la speranza, ma secondo la speranza, per qualcosa che può facilmente. Gli uomini sono capaci di sperare non là dove è in vista il contrario di quanto si spera, bensì qualcosa che gli somiglia assai, o c’è una possibilità precisa che avvenga. Una simile speranza è piuttosto negativa che positiva: quando si comincia a cogliere un avvio sicuro che avvenga ciò che si spera, allora si mettono finalmente a sperare che non compaia alcun impedimento a quanto si spera. [...] Al contrario, la speranza dei cristiani fonda la sua certezza proprio nella parte negativa: sa che quanto si spera non può non avvenire e nemmeno essere trattenuto, purché si continui a sperare; nessuno può mettere impedimenti a Dio. Ma nella parte positiva è quanto mai incerta: non ha alcuna sicurezza su cui fare affidamento; tutto le rimane profondamente nascosto, o mostra apparenza contraria234.

La fede e non il sapere, la fede in quanto Wendung assoluta verso Dio, è il fondamento della speranza cristiana, che è speranza di salvezza e vita nuova: infatti, «l’assoluto volgersi-verso all’interno del senso dell’attuazione della vita effettiva si esplica in due direzioni: douleúein e anaménein, un mutare dinnanzi a Dio e uno sperare»235; si tratta di due direzioni fondamentali, il cui senso si manifesta esclusivamente nella reciprocità. Douleúein non è tanto essere servo di Dio aspettandolo, quanto camminare e mutare al suo cospetto, accoglierlo nella propria vita, sapendo che è stato presente, sentendolo presente e sperando che sia là da-venire: «lo sperare non è un “attendere” conforme all’attuazione, bensì un douleúein theó. Lo sono forme di conoscenza, ma di esistenza, riporta una citazione tratta dall’opera omnia luterana: «Lutero dice: “la fede è l’arrendersi nelle cose che non vediamo”» (M. Heidegger, Phänomenologie und Theologie, in HGA 9, p. 53; tr. it., Fenomenologia e Teologia, p. 11). 234 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 295 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 224). 235 HGA 60, p. 95 (tr. it., p. 135).

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“sperare” sta nel contesto dell’attuazione dell’intera vita cristiana»236. Anaménein in greco è «indossare, l’armamento! Lotta»237, indossare «le armi della luce» (Rm, 13, 13), la “corazza della fede” e l’“elmo la speranza” (1 Ts, 5, 8), riconoscendosi disarmati; anaménein nomina la lotta della fede, che è quanto mai impari, pericolosa, sofferta, ma che pure porta all’unica vera vittoria, all’unica vera salvezza, all’unica vera vita. Il cristiano non è figlio delle tenebre e del buio, ma del giorno e della luce e per questo sa che vivere effettivamente la propria fede significa vivere il Das nur noch, come ‘notte-tempo’ che resta, s-vegliandosi come se fosse mattino pieno (Rm, 13, 1112). La speranza dell’uomo nuovo è, come nota Lutero, una vigilia paziente, silenziosa, orante, che non conosce sosta né riposo, che il sonno non può sopraffare in alcun modo, una vigilia rischiarata dalla luce soffusa della grazia che squarcia il buio più del lumen naturale della ragione che abbaglia e acceca238, una vigilia scandita come il servizio di guardia notturno dei Romani: la Scrittura divide la notte in quattro parti e le chiama veglia o attesa, siccome le sentinelle della città vigilano di notte vegliando e attendendo per vedere se alcuno viene o se ne va. […] Da un mattino all’altro bisogna attendere Iddio, cioè senza tregua e senza diminuire la vigilanza. Se anche Dio tardasse tutto il giorno, dobbiamo attendere fino al giorno successivo. […] Poiché l’uomo nuovo, la cui opera non è altro che aspettare Iddio e sperare in lui, non può cessare dall’opera, come fa e deve fare l’uomo esteriore239.

Nel vivere la notte come «notte sacra [heilige Nacht]»240 che prepara al giorno, l’uomo nuovo, riconoscendo che «non è pensabile in base alle proprie forze»241, ha due possibilità: o cercare un sostegno 236 HGA 60, p. 112 (tr. it., p. 153). 237 HGA 60, p. 150 (tr. it., p. 197). 238 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 356 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 97). 239 M. Lutero, Die Sieben Bußpsalmen, in WA 1, pp. 209-210 (tr. it., I sette salmi penitenziali, p. 146). 240 M. Heidegger, „Andenken“, in HGA 4, p. 110 (tr. it., “Rammemorazione”, p. 133). Heidegger definisce sacra la notte in quanto è «il tempo che serba il divino trascorso [das Vergangengöttliche] e serba e nasconde [bergend-verbergend] gli dèi che vengono» (ivi, p. 110; tr. it., p. 132). 241 HGA 60, p. 122 (tr. it., pp. 164-165). Lutero sottolinea non solo l’impotenza della condizione umana, ma anche la peccaminosità dell’affidarsi alle proprie forze [ex naturalibus], «come se la ragione ci richiamasse

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

[Halt] in Dio o cercare di resistere [Durchhalten]. Heidegger, capovolgendo il tradizionale modo di pensare di ogni filosofia della religione, ritiene che il concetto di sostegno, nel senso di hypóstasis, non possa essere applicato a Dio: «Dio non è mai un “sostegno”. Al contrario, un “avere sostegno” si attua sempre in riferimento a una significatività, un atteggiamento, una concezione del mondo determinati, poiché nel dare sostegno e nell’ottenere sostegno Dio è il correlato di una significatività»242. Il cristiano sa che non deve adagiarsi comodamente sugli allori di certezze costruite ad hoc, ma insistere dentro la contraddizione assoluta, riconoscendola come condizione ineludibile dell’esistenza, che insidia continuamente la conversione; il cristiano sa che deve «comprendere il suo essere come un tener duro nel mondo»243 e per questo «decisivo diventa non lo sprofondamento mistico, lo sforzo particolare, bensì sopportare la debolezza [Durchhalten der Schwachheit] della vita»244. Dunque, «la speranza che hanno i cristiani non è semplicemente fede nell’immortalità, bensì fiduciosa resistenza»245, non è la «buona speranza»246 di Socrate che ci sia un aldilà e che sia migliore per i buoni che per i cattivi, ma è il “tenere” o “sostenere” espresso dal tedesco halten, che riprende da vicino il verbo latino sustineo utilizzato da Lutero per esprimere il divenire speranza dell’uomo spirituale: «sustinui dominum, sustenitrix seu expectatrix fuit anima mea»247. Il sostrato è la teologia della croce in base a cui siamo chiamati a resistere alle prove: infatti, «Dio ci umilia in noi medesimi, ci rende di-

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sempre a ciò che è migliore» (M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 355; tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 95), rimandando esplicitamente al principio aristotelico «epí tá bélista parakaleí o lógos» (Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, I, 13, 1102b, 15, p. 107). HGA 60, p. 122 (tr. it., p. 165). Barizza ritiene che «il proposito di fare della filosofia della religione una scienza finisce per irrigidirsi in una visione del mondo in cui ogni cosa ha una sua collocazione e il ruolo assegnato a Dio è quello di un consolatorio sostegno» (A. Barizza, Filosofia e fenomenologia della religione nella Vorlesung heideggeriana Einleitung in die Phänomenologie der Religion, “Verifiche”, 1-3, 2002, p. 163). PS, p. 29 (tr. it., p. 209). HGA 60, p. 100 (tr. it., p. 140). HGA 60, p. 151 (tr. it., p. 198). Platone, Fedone, tr. it. di P. Fabrini, Bur, Milano 1998, 63c, p. 100; 64 a, p. 101; 67 c, p. 107. M. Lutero, Die Sieben Bußpsalmen, in WA 1, p. 209 (tr. it., I sette salmi penitenziali, p. 145).

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sperati per elevarci nella sua misericordia, suscitando in noi una nuova speranza»248. La nova spes è la resistenza dell’uomo inter vias, come si evince anche da un’etimologia non giustificata filologicamente, ma molto significativa, che la lega a pes, piede: la speranza è quasi stabilis pes249 per Cassiodoro, come un’àncora sicura e salda (Eb, 6, 19), e pes progrediendi250 per Isidoro di Siviglia, perché fa andare avanti.

248 M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 357 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 187). 249 F.M.A. Cassiodorus, Expositio in Psalterium, in Patrologiae cursus completus, Intra moenia Parisina, J.-P. Migne ed., 1865, tomo LXX, in psalm. 39, 4, p. 288. 250 Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, a cura di A. Valastro Canale, Utet, Torino 2004, VIII, 2, 5, p. 629.

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III RITORNO AD ARISTOTELE: UN’ALTRA STRADA PER SALVARSI

1. Ur-Aristotele «La vita troverà una strada per salvarsi»1 è il motto che guida l’interpretazione fenomenologica di Aristotele, un’altra strada, ol1

NB, in HGA 62, p. 345 (tr. it., p. 5). Da diverse testimonianze autobiografiche emerge che la riflessione heideggeriana sui testi aristotelici e sul significato dell’essere in essi contenuto comincia dagli anni del ginnasio e prosegue con lo studio de Sul molteplice significato dell’essere in Aristotele di Brentano e Dell’essere. Compendio d’ontologia di Carl Braig; a questo proposito, si vedano di M. Heidegger: Mein Weg in die Phänomenologie, in HGA 14, p. 93 (tr. it., Il mio cammino di pensiero e la fenomenologia, pp. 193-194); Aus einem Gespräch von der Sprache, in HGA 12, p. 88 (tr. it., Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, p. 87); Von Zeitverständnis in der Phänomenologie und im Denken der Seinsfrage, in AA. VV., Phänomenologie: lebendig oder tot?, hrsg. von H. Gehrig, Badenia, Karlsruhe 1963, p. 67 (tr. it. di R. Cristin, Della comprensione del tempo nella fenomenologia e nel pensiero della questione dell’essere, in E. Husserl - M. Heidegger, Fenomenologia, cit., pp. 256-257); Die Grundfrage nach dem Sein selbst, „Heidegger Studies“, 2, 1986, p. 1 (tr. it. di R. Cristin, La questione fondamentale dell’essere stesso, in E. Husserl - M. Heidegger, Fenomenologia, cit., p. 232). Se in una prima fase Heidegger legge Aristotele con la lente husserliana per l’impostazione metodologica («quanto più era evidente per me la fecondità della crescente familiarità con il vedere fenomenologico per l’interpretazione degli scritti di Aristotele, tanto meno potevo separarmi da Aristotele e dagli altri pensatori greci»: M. Heidegger, Mein Weg in die Phänomenologie, in HGA 14, pp. 97-98; tr. it. Il mio cammino di pensiero e la fenomenologia, pp. 197-198), in una seconda fase si rivolge alla filosofia aristotelica della praxis per liberare la tematizzazione della fatticità dall’esclusivo rapporto con l’esperienza religiosa. L’esigenza di maggiore determinatezza concettuale come motivo del passaggio heideggeriano dalla fenomenologia della vita religiosa all’ontologia greca è la tesi più condivisa dagli studiosi, come sottolinea Ardovino: «l’interpretazione aristotelica costituisce soltanto un aspetto dell’operazione ermeneutica avviata da Heidegger nei

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tre a quella aperta dall’esperienza cristiana, libera da ogni possibile contaminazione tanto religiosa quanto metafisica. Decostruendo l’apparato dogmatico teologico-filosofico con l’intento di cogliere il Vollzugssinn della vita, Heidegger ritorna prima a Paolo, ovvero al proto-cristianesimo, poi all’Aristotele ‘primitivo’. Un’indicazione succinta di questo percorso si ritrova in un appunto preparatorio per il corso del semestre estivo 1923: «Aristotele – Nuovo Testamento – Agostino – Lutero […]. Distruzione della filosofia con idea di ricerca, ermeneutica dell’effettività»2. Nel ritorno all’inizio greco Heidegger scorge la possibilità di una meditazione che “salvi”, per questo bisogna «iniziare, iniziare veramente, accedere all’inizio, se è vero che l’inizio stesso deve essere innanzitutto cercato, se è vero cioè che l’accesso ad esso è andato perduto»3. La filosofia non deve dire qualcosa di nuovo, ma comprendere autenticamente «il non-nuovo, l’antico»4, operandone una demolizione; «demolizione [Abbau] significa qui: ritorno alla filosofia greca, a Aristotele, per vedere come un originario determinato pervenga al degrado e alla copertura, e vedere che noi stiamo in questo degrado [Abfall]»5. La decostruzione riguarda il modo in cui siamo dentro la tradizione, per cui

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suoi confronti. Ancora più decisiva è in realtà l’appropriazione positiva della strumentazione ontologico-categoriale di Aristotele, che ha come scopo il tentativo di pensare in modo concettualmente più determinato l’esperienza della vita effettiva» (A. Ardovino, Heidegger: esistenza ed effettività. Dall’ermeneutica dell’effettività all’analitica esistenziale (1919 - 1927), cit., p. 145). HGA 63, p. 106 (tr. it., p. 110). In un altro appunto del semestre invernale 1921-1922 Heidegger riporta questo iter della sua interpretazione di Aristotele: «le interpretazioni successive – Nuovo Testamento, Patristica, Agostino, Lutero» (HGA 61, p. 183; tr. it., p. 214). HGA 61, p. 186 (tr. it., p. 217). HGA 61, p. 193 (tr. it., p. 223). HGA 63, p. 76 (tr. it., p. 82). Chiereghin scorge un’identità strutturale tra vita fattizia e filosofia: «così come la vita effettiva è indotta dalla sua inclinazione deiettiva a vivere nell’inautenticità e a interpretarsi a partire da una comprensione vaga e media di se stessa, che le viene trasmessa come ovvia e scontata; altrettanto la filosofia patisce la medesima tendenza deiettiva, la quale si fa sentire nella sua gravezza quando la filosofia accoglie tacitamente dalla tradizione un orizzonte predeterminato di significati» (F. Chiereghin, La lotta della filosofia per l’esistenza. L’«Aristoteles–Einleitung» nell’ambito dei primi anni dell’insegnamento friburghese di Heidegger (1910-1922), cit., p. 286).

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Ritorno ad Aristotele: un’altra strada per salvarsi

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il confronto distruttivo con la storia non è un accessorio finalizzato all’illustrazione di ciò che è stato prima, né uno sguardo d’insieme occasionale su ciò che gli altri hanno “fatto” precedentemente, né tanto meno un’opportunità per ricostruire delle prospettive della storia del mondo che abbiano una funzione di semplice intrattenimento. La distruzione, piuttosto, è l’autentica strada su cui si deve incontrare il presente nella sua motilità fondamentale6.

Heidegger condivide l’intenzione che sta alla base del gesto decostruttivo del pensiero dello Stagirita con il giovane Lutero; per questo tali ricerche «che assumono il compito della distruzione fenomenologica, si pongono come meta la tarda scolastica ed il primo periodo teologico di Lutero»7, durante il quale il monaco rilegge i 6 7

NB, in HGA 62, p. 368 (tr. it., p. 37). NB, in HGA 62, p. 372 (tr. it., p. 41). Gadamer ritiene rivoluzionaria la critica heideggeriana all’interpretazione scolastica di Aristotele, in quanto «qui non si affronta Aristotele come se fosse un importante oggetto storico, ma si sviluppa una posizione problematica radicale a partire dalle questioni della filosofia contemporanea, ovverosia dalla spinta problematica prodotta dal concetto di vita» (H.G. Gadamer, Heideggers „theologische“ Jugendschrift, „Dilthey Jahrbuch“, 6, 1989; tr. it., Lo scritto “teologico” giovanile, in M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, cit., pp. 125-126). Per Gadamer «dietro a questo interesse per un Aristotele non scolastico incalza l’antica domanda di Heidegger alla teologia cristiana: non c’è forse un’autocomprensione del cristiano più adeguata di quella offerta dalla teologia contemporanea?» (H.G. Gadamer, Die religiöse Dimension, in Heideggers Wege. Studien zum Spätwerk, Mohr, Tübingen 1983; tr. it. di R. Cristin e G. Moretto, La dimensione religiosa, in I sentieri di Heidegger, Marietti, Genova 1987, p. 155). A conferma di ciò, il manoscritto inviato a Natorp comincia «con il giovane Lutero, il Lutero appunto che pretendeva che chiunque volesse essere realmente cristiano dovesse rinnegare Aristotele, questo “grande mentitore”» (ibidem). Caputo osserva che le riflessioni heideggeriane tra il 1919 e il 1922 si proponevano d’indagare l’esperienza della vita e «il modello di Heidegger in questo progetto era la critica di Lutero ad Aristotele e alla scolastica medievale aristotelica» (J. Caputo, Heidegger and theology, cit., p. 272), seppure, al contrario di Lutero, non considera Aristotele una piaga inviata da Dio agli uomini a motivo dei loro peccati, ma il più grande fenomenologo dell’antichità (ivi, p. 273). In realtà, come sottolinea Stagi, Lutero «non è nemico di Aristotele, come spesso la tradizione l’ha descritto, bensì intende solo tenere distinta la teologia dalla filosofia e mantenere entrambe le discipline al confine dei loro Gultigkeitshorizonts. Da questo punto di vista Heidegger è luterano ed è profondamente legato alla tradizione del luteranesimo» (P. Stagi, Der faktische Gott, orbis phaenomenologicus, Könighausen & Neumann,

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

testi aristotelici non per attaccare il filosofo greco tout court, ma per criticare le interpretazioni che ne hanno stravolto il pensiero. Lutero è convinto che è «assai dubbio che il pensiero di Aristotele si trovi presso i Latini»8 ed, inoltre, che «chi vuole filosofare in Aristotele senza pericolo, deve essere prima reso ben folle in Cristo»9. Pertanto, consapevole che la filosofia come la libido non è un male in sé, ma va distinto il bene philosophari, che coincide con la distruzione della filosofia perseguita con mezzi filosofici, da quello perverso10, Lutero rivendica un’interpretazione più corretta di quella scolastica, che addirittura va oltre e contro Aristotele: «vide quam apte serviat Aristoteles in Philosophia sua Theologiae, si non ut ipse

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Freiburg 2006, p. 190). Sommer è risoluto nell’affermare che «il corso friburghese che Heidegger tenne nel 1921-1922, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, è esplicitamente posto sotto l’autorità di Lutero» (C. Sommer, L’inquiétude de la vie facticielle. Le tournant Aristotélicien de Heidegger (1921- 1922), « Etudes philosophiques », 1, 2006, p. 1). M. Lutero, Disputatio contra scholasticam theologiam, in WA 1, p. 226. Secondo Andreatta, nelle opere della maturità l’interpretazione luterana di Aristotele «ha il dichiarato intento di smontare la filosofia aristotelica e di dimostrarne l’inconsistenza. Negli anni giovanili invece predomina il tentativo di portare Aristotele dalla propria parte, rileggendo i suoi concetti in chiave spirituale» (E. Andreatta, Lutero e Aristotele, Cusl Nuova Vita, Padova 1996, p. 117). M. Lutero, Die philosophischen Thesen der Heidelberger Disputation mit ihren Probationes, in WA 59, p. 409, tesi 1 (tr. it., Tesi di contenuto filosofico, p. 35). Cfr. anche Id., Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 355, tesi 29 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 184). Le dodici “tesi filosofiche” con le relative prove sono l’unica trattazione filosofica di una certa organicità e consistenza arrivata fino a noi; sono andate perdute, invece, le lezioni sull’Etica nicomachea (1508), il commentario alla Fisica (1517) e le probationes della Disputatio contra scholasticam theologiam (1517). M. Lutero, Die philosophischen Thesen der Heidelberger Disputation mit ihren Probationes, in WA 59, p. 409, tesi 2 (tr. it., Tesi di contenuto filosofico, p. 35). Cfr. anche Id., Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 355, tesi 30 (tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 184). Le prime due tesi filosofiche sono sotto il segno della theologia crucis e perciò in continuità con quelle teologiche, in particolare con la ventiquattresima: «tuttavia questa sapienza non è in sé cattiva, né la legge dev’essere evitata; ma l’uomo senza la teologia della croce fa pessimo uso delle cose migliori» (Id., Disputatio Heidelbergae habita, in WA 1, p. 363; tr. it., La disputa di Heidelberg, p. 200) e con quel passo della probatio alla tesi 22 in cui è scritto: «chi desidera divenire savio non cerchi sapienza progredendo, ma si faccia stolto cercando la pazzia, retrocedendo» (ivi, p. 363; tr. it., p. 199).

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Ritorno ad Aristotele: un’altra strada per salvarsi

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voluit, sed melius intelligitur et applicatur»11. Allo stesso modo, le ricerche heideggeriane «non hanno in verità né l’intenzione di porre in opera un recupero filosofico e un’apologia di Aristotele, né tantomeno mirano a un suo rinnovamento per dar vita ad un aristotelismo rammendato alla meglio con i recenti risultati delle scienze»12. Heidegger attua un’interpretazione iperbolica, un’oltre-interpretazione [Über-deutung], per nulla fedele o storiografica, in grado di far emergere l’Ur-Aristoteles, che possa fare da «modello [Vorbild]»13. D’altronde, un modello non è una guida da imitare pedissequamente, ma è anzitutto un avversario col quale intraprendere quella che Platone, con parole di Esiodo, definiva «una vera e propria battaglia di giganti a proposito dell’essere»14. Pertanto, «un’acquisizione comprendente di modelli, che metta in gioco se stessa, sottoporrà tali modelli in tutto e per tutto ad un’accurata critica e vi si contrapporrà nel modo più fecondo possibile»15. Dunque, si tratta di addentrarsi con Heidegger e Lutero «ad germanum Aristotelis sensum»16. 2. La filosofia atea La filosofia, in quanto interrogare rivolto alla vita fattizia, «deve essere a-tea in senso di principio»17, ossia libera da ogni vincolo e 11 12 13 14 15 16 17

M. Lutero, Sermones aus den Jahren 1514-1517, in WA 1, p. 28. HGA 61, p. 11 (tr. it., p. 49). HGA 63, p. 5 (tr. it., p. 14). Sull’inizio della filosofia come modello, si vedano le lettere di Heidegger a Blochmann del 20 dicembre 1931 e del 19 dicembre 1932 (BrH-B, pp. 46 e 55; tr. it., pp. 80 e 94). Platone, Il sofista, cit., XXXIII, 246a, p. 48. Sulla gigantomachia a proposito dell’essere, cfr. HGA 2, p. 3 (tr. it., p. 13) e HGA 3, p. 239 (tr. it., p. 206). NB, in HGA 62, p. 350 (tr. it., p. 14). M. Lutero, Condemnatio doctrinalis librorum Martini Lutheri per quosdam Magistros Nostros Lovanienses et Colonienses facta. Responsio Lutheriana ad eandem damnationem, in WA 6, p. 188. HGA 61, p. 196 (tr. it., p. 227). L’ateismo del giovane Heidegger ha dato seguito a diverse interpretazioni, a cui brevemente cerchiamo di dar spazio. Di ateismo metodico parlano tra gli altri: Brejdak, che lo accomuna all’epoché fenomenologica (J. Brejdak, Philosophia crucis. Heideggers Beschäftigung mit dem Apostel Paulus, cit., p. 215); Pöggeler, che ne evidenzia la connessione con la formale Anzeige (O. Poggeler, Destruction and Moment, in AA. VV., Reading Heidegger from the start, cit., p. 141); Stünkel, che lo intende come «monito di fronte alla tentazione di voler riempire l’elemento formale mediante concetti teologici» (K. M. Stünkel,

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da ogni anticipazione; la filosofia deve essere atea, perché non aspira a cogliere il fondamento ultimo della fatticità: infatti, «è troppo comodo porsi semplicemente al di fuori del mondo e della vita e situarsi di colpo nella terra beata dell’assoluto»18: arrivati a “tanta altezza” non ha senso neppure continuare a filosofare. L’ateismo è, dunque, un’indicazione di principio, tenendo conto, come spiega Aristotele, che «il principio è più della metà del tutto e che per mez-

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Phänomenologie der Religion als Frage und Antwort. Heidegger und urchristliche Lebensfahrung, „Jahrbuch für Religionsphilosophie“, 5, 2006, p. 170); Strummiello, che lo ritiene essenziale poiché la filosofia «non può ammettere nessuna spiegazione estrinseca (anche di tipo religioso) che si sovrapponga dall’esterno al movimento di autocomprensione della vita» (G. Strummiello, Heidegger e la «filosofia», cit., pp. 93-94); e Savarino, il quale cerca di mostrare come le analisi di fenomenologia della religione non siano in contrasto con le riflessioni ontologiche, anche perché l’intenzione di Heidegger non è di elaborare una filosofia della religione o identificare filosofia e teologia (L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo. 1916-1927, cit., p. 124). Per Esposito si tratta di un ateismo fenomenologico insito nel cristianesimo, che «conduce a porre in questione le rappresentazioni metafisiche di Dio (precisamente in un modo a-teistico) per concentrare nell’esperienza fattuale di se stesso l’avvento storico del Signore» (C. Esposito, Die Gnade und das Nichts. Zu Heideggers Gottesfrage, cit., p. 203). Per Greisch è un ateismo esistenziale, che esprime la separazione tra uomo e Dio, che non può essere superata sulla base di alcuna necessità metafisica, anche se «la separazione non significa l’impossibilità di una relazione con Dio, essa ne è proprio la condizione di possibilità» (J. Greisch, L’arbre de la vie e l’arbre du savoir. Le chemin phénoménologique de l’herméneutique heideggérienne (1919-1923), Cerf, Paris 2000, p. 217). Ruff accosta l’ateismo filosofico heideggeriano alla teologia mistica e negativa a motivo del suo orientamento non rappresentativo e non oggettivante (G. Ruff, Am Ursprung der Zeit. Studie zu Martin Heideggers phänomenologischem Zugang zur christlichen Religion in den ersten “Freiburger Vorlesungen”, Duncker & Humblot, Berlin 1997). Tentando un rendiconto delle diverse posizioni, De Vitiis rileva che il problema è «se si tratti di un ateismo metodologico o esistenziale, che ha un significato formale […] e che implica che la nozione di Dio non rientri propriamente nel pensiero dell’essere, che può avere rispetto ad essa solo una funzione preparatoria, nel senso appunto dell’indicazione formale; oppure di un ateismo che attiene più ai contenuti, nel senso di una riduzione storicistica del cristianesimo, che lo priva dei suoi riferimenti trascendenti» (P. De Vitiis, Principali interpretazioni della Vorlesung heideggeriana del 1920-1921: Einleiutng in die Phänomenologie der Religion, in AA. VV., Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’epistolario paolino, cit., pp. 118-119). HGA 61, p. 99 (tr. it., pp. 133-134).

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zo di esso diventano chiare molte delle soluzioni che si ricercano»19. Pertanto, solo «coloro che sono ciechi per i principi e insensibili alla motivazione radicale di quello che, in senso di principio, è l’esserci dell’uomo accessibile nella fatticità»20 speculano intorno all’aldilà, all’anima e a Dio. Ma per meglio comprendere l’ateismo del giovane Heidegger, conviene procedere con un metodo filosofico classico, ossia indicando ciò che non è. La filosofia è atea non nel senso di una teoria del materialismo o qualcosa di simile. Ogni filosofia, che si vuole comprendere nella sua essenza, ovvero come modo effettivo dell’interpretazione della vita, proprio se ha un’“idea” di dio, deve sapere che lo strappare della vita a se stessa, da essa compiuto, è, parlando in termini religiosi, un alzare la mano contro dio. Solo in questo modo, essa però sta, in modo autentico, e cioè in modo conforme alle possibilità che le sono disponibili, dinanzi a dio; ateo significa qui: mantenersi lontano da preoccupazioni tentatrici che inducono semplicemente religiosità21.

La rivendicazione di un ateismo filosofico non va confusa con un’adesione al materialismo, a quello antico dei filosofi cosiddetti presocratici – di cui parla Platone nelle Leggi22 –, che pongono a principio di tutte le cose un elemento naturale, o a quello settecentesco, che ammette come causa solo la materia, o ancora a quello marxista, che ha lo scopo di affermare l’autonomia dell’uomo dal divino. Che non si tratti di una prospettiva materialista è chiaro per il fatto che questa filosofia atea non è diretta a determinare la causalità mondana, ma intende offrire un’ermeneutica della fatticità scevra da pregiudizi religiosi, metafisici, scientifici o ideologici. L’ateismo di cui parla Heidegger non è neppure scetticismo, né quello antico alla Carneade né quello moderno alla Hume, improntato a dimostrare l’inconsistenza delle prove dell’esistenza di Dio; non è la scepsi, che mette in questione la comprensione di ciò che è decisivo, e non lo è perché «la scepsi pigra e stanca, la scepsi vuota che non arriva mai a un inizio, ma parla soltanto; espressione auten-

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Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, I, 7, 1098b, 6-8, p. 94. HGA 61, p. 192 (tr. it., p. 222). NB, in HGA 62, p. 363, nota 54 (tr. it., p. 31, nota 53). Platone, Le Leggi, tr. it. di F. Ferrari e S. Poli, Bur, Milano 2005, X, 891c892b, pp. 863-865.

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tica per questa scepsi: vuoto, mero stare a guardare. Non è adatta ad un autentico interrogare!»23. L’ateismo di Heidegger non è né il panteismo del Deus sive natura di Spinoza, né una forma di pessimismo, come quello schopenhaueriano, per il quale il male del mondo è un ostacolo insormontabile all’affermazione dell’esistenza di Dio, e non lo è perché per interpretare la fatticità si deve prescindere dal trascendente come da ogni giudizio morale. L’ateismo heideggeriano non è identico neanche a quello nietzscheano, che rivela Dio come «la nostra più lunga menzogna»24 e ne annuncia la morte per tramite de «l’uomo folle»25, anche se Heidegger accosta l’ateismo fenomenologico a quello che Nietzsche definiva «ateismo scientifico»26: la ricerca filosofica è e rimane ateismo, e proprio perciò essa può procurarsi la presunzione del pensiero; non solo la procurerà a sé, ma costituisce l’interna necessità della filosofia e la sua autentica forza, e proprio in questo ateismo essa diviene ciò che un grande ebbe una volta a dire: “gaia scienza”27.

Questo ateismo filosofico non è certo il paganesimo e l’irreligiosità di cui Lutero accusa Aristotele, che, a suo avviso, è gentilis28, propha23 24

25

26 27 28

HGA 61, p. 197 (tr. it., p. 227). F. Nietzsche, Idyllen aus Messina. Die fröhliche Wissenschaft, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, V/II, cit., 1973; tr. it. di F. Masini, La gaia scienza e idilli di Messina, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1999, § 344, p. 255. Ivi, § 125, pp. 162-164. Ci limitiamo a precisare che per Heidegger la sentenza nietzscheana “Dio è morto” «non è la sentenza dell’ateismo, ma la sentenza dell’onto-teologia di quella metafisica nella quale si compie il nichilismo autentico» (HGA 6.2, p. 314; tr. it., p. 820). Perciò, «anche la metafisica di Nietzsche, in quanto ontologia, […] è al tempo stesso teologia» (HGA 6.2, p. 314; tr. it., p. 820), teologia negativa, la cui «negatività si manifesta nella sentenza: Dio è morto» (HGA 6.2, p. 314; tr. it., p. 820). F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina, cit., § 357, p. 280. HGA 24, pp. 109-110 (tr. it., pp. 100-101). M. Lutero, Resolutiones Lutherianae super propositionibus suis Lipsiae disputatis, in WA 2, p. 422. Cfr. anche Id.: Sermone aus den Jahren ca. 1514-1520, in WA 4, p. 667; Ad librum eximii Magistri Nostri Magistri Ambrosii Catharini, defensoris Silvestri Prieratis acerrimi, responsio, in WA 7, p. 736 (tr. it., Replica ad Ambrogio Catarino sull’Anticristo, p. 88); Vorlesung über das Deuteronomium, in WA 14, pp. 573-574; Warnung vor falschen propheten, in WA 17/I, p. 363; Vorlesung über die Briefe Titus

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nus29, wider got30 – solo per citare alcuni epiteti con cui lo etichetta –, poiché Heidegger, non mancando di assumersi il proprio Beruf mondano, è autenticamente religioso nel suo filosofare31. Heidegger è consapevole che la filosofia «non deve avere l’ardire di possedere o di determinare Dio. Quanto più è radicale, tanto più chiaramente si presenta come un via-da-Lui, e tuttavia, proprio nell’attuazione radicale del “via”, come suo proprio, difficile “presso” di Lui»32. Heidegger non intende negare il contenuto della religione, bensì far emergere le caratterizzazioni della vita fattizia da un sostrato diverso da quello religioso, per dar loro piena legittimità ontologica, dal momento che «chiese, conventicole, circoli, gruppi […] hanno portato forzatamente ad un determinato incasellamento dell’interpretazione della vita […]. Su tutto questo esiste anche già una teoria: solidarietà, sociologia, amministrazione della cultura; si chiama in causa l’umanità senza l’uomo, la storia senza la storicità, la vita senza la sua autenticità come modo d’essere»33. Per la filosofia votarsi all’ateismo è decidersi per il proprio poter-essere: «se la filosofia è fondamentalmente atea, e si comprende in quanto tale allora essa ha scelto se stessa, in modo decisivo, e ha posto come suo oggetto la vita effettiva»34. Per la filosofia votarsi all’ateismo è decidersi per la radicalità: infatti, «il fondamento autentico della filosofia è il radicale afferramento esistenziale e la maturazione della problematicità; collocare nella problematicità se stessi, la vita e le attuazioni decisive è il vero afferramento fondamentale di ogni cosa ed è la forma di chiarificazione più radicale»35. 3. Ripetere la vita La fenomenologia, che nel comprendere la fatticità pone nuovamente le domande dei greci, è «la ripetizione, la riappropriazione

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und Philemon, in WA 25, p. 34; In epistolam Pauli ad Galatas commentarius, in WA 40/I, pp. 410- 411; Vorlesung über 1. Mose, in WA 42, p. 478. M. Lutero, Dictata super Psalterium, in WA 3, p. 517. M. Lutero, Ein Sermon auf dem Hinwege gen Worms zu Erfurt gethan, in WA 7, p. 811. HGA 61, p. 197 (tr. it., p. 227). HGA 61, p. 197 (tr. it., p. 227). HGA 61, p. 188 (tr. it., p. 219). NB, in HGA 62, p. 363 (tr. it., p. 31). HGA 61, p. 35 (tr. it., p. 71).

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dell’inizio»36: difatti, «comprendere, non significa solamente prendere conoscenza in modo constatativo, ma ripetere [wiederholen], in modo originario, ciò che è stato compreso»37 e ripetere, a sua volta, non vuol dire attingere passivamente da ciò che viene prima, ma appropriarsene esercitando una critica radicale. La ripetizione non è la riproposizione dello stesso, ma l’attuazione autentica del passato, la ripresa di possibilità già-state, rimaste nascoste e inattive. La fenomenologia, che nella sua possibilità più propria compie un passo indietro [Schritt zurück], è una «“contro”-motilità [Gegen-Bewegtheit]»38, o meglio una «motilità contro-rovinante [Gegenruinante-Bewegtheit]»39, 36 37

38 39

HGA 20, p. 184 (tr. it., p. 166). Cfr. anche HGA 22, p. 11 (tr. it., p. 80). NB, in HGA 62, p. 350 (tr. it., pp. 13-14). La ripetizione è «il tramandamento esplicito, cioè il ritorno alle possibilità dell’Esserci essenteci-stato» (HGA 2, p. 509; tr. it., p. 454) e come tale «non è una restaurazione del “passato”, né un semplice collegamento del “presente” con ciò “che fu superato” […]. La ripetizione è piuttosto una replica», ovvero «ciò che in quanto passato si ripercuote sull’oggi» (HGA 2, pp. 509-510; tr. it., p. 454). Dunque, «per ripetizione di un problema fondamentale intendiamo l’esplicitazione delle sue possibilità originarie ancora nascoste. Nella messa in opera di tali possibilità il problema si trasforma; ma questo è anche il solo modo per salvaguardarne il contenuto problematico. Salvaguardare un problema significa, peraltro, mantener libere e deste quelle forze interne che lo rendono possibile come problema nel fondo della sua essenza» (HGA 3, p. 204; tr. it., p. 177). Resta vede in nuce nella ripetizione, legata alla concezione antistoricistica dell’eredità [Erbe] non come tramandamento di possibilità, ma come decisione di riattivarle, il pensiero dell’evento: «la ripetizione [Wiederholung], la ripresa, nella libera assunzione di un’eredità, che richiede anche una certa fedeltà nei confronti del passato, tuttavia non va intesa come una restaurazione [Wiederbringen] del passato. Heidegger non condivide l’illusoria e confortante idea di un facile collegamento [Zurückbinden] tra il presente e ciò che l’ha preceduto. Non intende cadere nella seducente immagine di una ripresentazione del passato: la ripetizione è piuttosto una replica [Erwiderung] che, nell’attimo in cui de-cide del e nel possibile, anche interrompe quella connessione che, nell’immagine di un continuum temporale, lega e collega il passato al presente. La Wiederholung, allora, lungi dall’essere mera ripetizione, è ri-affermazione che, nell’attimo de-cisivo, provoca una revoca [Wiederruf], una sospensione, una cesura che, ritmando il tempo, lo scandisce, mostrando la sua intrinseca sconnessione, dis-giunzione. Solo in virtù di un tempo out of joint un’eredità può divenire non solo testimonianza del passato, ma anche apertura all’a-venire» (C. Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, cit., p. 38, nota 29). HGA 61, p. 132 (tr. it., p. 164). HGA 61, p. 153 (tr. it., p. 183).

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che ri-prende [nimmt zurück] dallo scadimento la filosofia e con essa la vita fattizia. Infatti, «la filosofia è un modo fondamentale della vita stessa, sicché essa propriamente ri-pete sempre la vita, nel senso che la ri-prende dalla de-cadenza»40. La ripetizione del problema della Faktizität è il punto di partenza dello sguardo [Blickstand], che determina la direzione [Blickrichtung] e delimita l’estensione [Sichtweite] dell’interpretazione heideggeriana dell’apparato categoriale mediante cui Aristotele comprende l’essere dell’uomo41. Infatti, «le categorie non sono un’invenzione o un’insieme di schemi logici per sé, delle “griglie”, ma sono invece, in modo originario, in vita nella vita stessa; in vita per “formare” la vita»42, poiché considerano l’ente nel suo aspetto [eídos, Aussehen] e lo custodiscono nella sua essentità [ousía, Seinshaftigkeit]43. Se «la vita […] è estranea o fin troppo nota»44, ed è estranea proprio perché troppo nota, «l’intricata molteplicità dei significati e dell’uso della parola “vita” non è un motivo sufficiente perché essa sia semplicemente accantonata»45. Per questo Heidegger decide di “ripetere” i concetti tradizionali di vita per comprenderla nella sua originarietà, che va ben oltre l’alternativa tra metafisica e biologia, la disputa tra il vitalismo, che ne dichiara l’irriducibilità ai fenomeni fisico-chimici, e il meccanicismo inaugurato da Descartes, che paragona l’uomo ad una macchina ben congegnata e organizzata. Heidegger, sapendo che «il termine Zoé, vita, indica un fenomeno fondamentale intorno a cui ruota l’interpretazione greca, veterotestamentaria, cristiano-neotestamentaria e greco-cristiana dell’esserci umano»46, cerca di decostruire il concetto di uomo come animal rationale, come essere vivente dotato di ragione, come essere creato da Dio a sua immagine e come persona, sorti ognuno a suo modo 40 41 42 43 44 45 46

HGA 61, p. 80 (tr. it., p. 116). NB, in HGA 62, p. 372 (tr. it., pp. 41-42). HGA 61, p. 86 (tr. it., pp. 122-123). NB, in HGA 62, p. 373 (tr. it., p. 43). HGA 61, p. 189 (tr. it., p. 219). NB, in HGA 62, p. 351 (tr. it., pp. 15-16). Sappiamo che Heidegger si ricrederà su questo punto, abbandonando, a partire da Essere e tempo, il termine troppo equivoco di “vita”. NB, in HGA 62, p. 352 (tr. it., p. 16). Sull’antropologia antica e cristiana che deforma, svia, dimentica il problema dell’essere dell’uomo, considerandolo nel senso dell’esser semplicemente-presente comune a tutti gli esseri viventi e alle cose create, si rimanda a HGA 2, pp. 65-66 (tr. it., pp. 68-69).

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

dalla definizione greca di zóon lógon échon. La definizione di essere vivente provvisto di ragione «non centra il senso decisivo dello zóon lógon échon. Lógos nella classica filosofia scientifica dei greci (Aristotele) non significa mai “ragione” ma discorso, discussione; cioè l’uomo è un essente che ha il suo mondo nel modo degli interpellati [Angesprochene]»47. Stesso limite ha il concetto biblico di persona, basato su Gen, 1, 26 («Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza»), passo che induce ad individuare il discrimen tra animale e uomo nella “vita secondo l’intelletto”, come fa Agostino: a proposito di questo passo deve notarsi da un lato una certa unione e da un altro una certa separazione degli esseri viventi, poiché la Scrittura dice che l’uomo fu fatto lo stesso giorno che furono fatte le bestie; essi infatti sono insieme tutti esseri viventi della terra. Ciononostante a causa della superiorità della ragione, conforme alla quale l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, si parla separatamente di lui dopo che a proposito di tutti gli altri la Scrittura conclude come al solito dicendo: E Dio vide ch’è una cosa buona48.

D’altronde già Aristotele, descrivendo la vita contemplativa, aveva parlato di un elemento divino nell’uomo che eccelle e lo rende beato e virtuoso: «in lui è presente qualcosa di divino […]. Di conseguenza, se l’intelletto è una cosa divina rispetto all’uomo, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita dell’uomo»49. 47

48 49

HGA 63, p. 21 (tr. it., p. 32). Per Heidegger «l’Esserci, cioè l’essere dell’uomo, è determinato, sia nella “definizione” ordinaria sia in quella filosofica, come zóon lógon échon, come quel vivente il cui essere è costituito in linea essenziale dalla possibilità di discorrere» (HGA 2, p. 34; tr. it., p. 39), come «“colui che raccoglie”, raccolta in vista del’Essere [Seyn] – permanendo essenzialmente nell’apertura dell’ente» (HGA 2, p. 219, nota b; tr. it., p. 203, nota a). Pertanto, «la successiva interpretazione di questa definizione dell’uomo come animal rationale non è certamente “falsa”; essa però nasconde il terreno fenomenico da cui questa definizione dell’Esserci è stata tratta. L’uomo si presenta come l’ente che parla. Ciò non significa che egli abbia la possibilità della comunicazione orale, ma che questo ente esiste nella maniera dello scoprimento del mondo e dell’Esserci stesso» (HGA 2, p. 219; tr. it., p. 203). In questa prospettiva va anche interpretato l’antiumanismo propugnato da Heidegger nella celebre Lettera sull’«umanismo». Sant’Agostino, Libro incompiuto su La Genesi, in Opere. La Genesi, tr. it. di L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1988, I, 16.55, pp. 255 e 257. Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, X, 7, 1177b, 27-31, p. 571.

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Ritorno ad Aristotele: un’altra strada per salvarsi

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In base all’intellectus si misura la presa di distanza principale tra Aristotele, che attribuisce un carattere divino al noús dell’uomo, e Lutero, che lo reputa a confronto con la sapienza di Dio tanto riprovevole da dover essere distrutto (cfr. Rm, 1, 28 e 1 Cor, 1, 19), nonché tra Agostino e Lutero, perché quest’ultimo è del tutto estraneo all’idea di una superiorità dell’uomo interiore su quello esteriore, proporzionale a quella dell’anima sul corpo50. Sull’uomo come immagine di Dio insistettero Calvino e Zwingli; in particolare, secondo Heidegger, è l’idea di persona che «i riformatori hanno contribuito ad affermare contro un aristotelismo esteriorizzato della scolastica»51, distinguendo più status o modi di essere dell’uomo: status integritatis, corruptionis, gratiae e gloriae. Lutero, invece, critica il concetto di persona, in quanto «“persona” in tota Scriptura, presertim in novo testamento, nullo modo accipitur ut apud theologos scolasticos pro rationalis nature individua substantia»52. Nella Bibbia non si parla di una sostanza razionale, perché il termine persona indica la mera esteriorità dell’uomo: «nam “persona” proprie nihil aliud est nisi “facies” seu “vultus”, que et “larva” dicitur. In iis omnibus loci et aliis, ubi habetur “facies”, habetur idem verbum gre50

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52

Sulla superiorità dell’uomo interiore, cfr. Sant’Agostino, Opere. Commento al Vangelo di San Giovanni, tr. it. di G. Madurini, Città Nuova, Roma 1968, 32, 2, pp. 689 e 691; sulla possibilità esclusiva dell’uomo interiore di conoscere con intelligenza, cfr. Id., Il maestro, in Opere. Dialoghi, tr. it. di D. Gentili, Città Nuova, Roma 1976, II, 12.40, p. 787 e sull’impossibilità degli occhi del corpo di percepire con intelligenza, cfr. Id., Opere. Le lettere, tr. it. di L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1971, II, n. 147, 18.45, p. 421. Come sottolinea Büttgen all’uso gnoseologico che Agostino fa della metafora dell’uomo interiore, Lutero ne sostituisce uno cristologico: «la dottrina agostiniana dell’uomo interiore si comprende in base ad una teoria della conoscenza che si prolunga a volte in una teoria dell’identità […]. In Lutero, l’uomo interiore non conosce, né “vede”, “scruta”, né “comprende” o “intuisce”» (P. Büttgen, Luther et la philosophie, cit., p. 274). HGA 63, p. 27 (tr. it., p. 36). La definizione teologica dell’uomo risponde alla domanda «dov’è l’uomo? (sub peccato/diabolo – sub gratia; in terra – in coelo). Una definizione teologica dice anche ciò che una cosa è nel foro teologico» (M. Heidegger, Systematisches Seminar von Prof. Dr. Ebeling WS 1960/61. Protokoll der Seminarsitzung am 4. März 1961, in BrH-Bu, p. 295) rispetto agli altri fora – politico, filosofico, etc. – (ivi, pp. 299-300). Sugli status dell’uomo, si rinvia a HGA 2, p. 238 (tr. it., p. 219). M. Lutero, Die erste Vorlesung über den Galaterbrief, in WA 57/II, p. 67.

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

cum “prósopon”»53. Per Lutero «l’uomo è la creatura di Dio, composta di corpo e anima vivente, fatta dall’inizio ad immagine di Dio senza peccato, con il fine di generare le cose e di non morire. Ma dopo la caduta di Adamo la creatura è sottomessa alla potestà del diavolo, quindi al peccato e alla morte»54, da cui potrà esser liberata solo tramite la fede in Cristo. L’uomo, pura materia Dei55 chiamata ad assumere una forma, non è stabile nella posizione in cui si trova, poiché anche quando aspira ad occuparsi delle realtà più grandi può essere tentato di prendersi cura soltanto della propria gloria56. Nell’idea luterana secondo cui l’uomo non soltanto può trovarsi in diversi stati (Wo), ma può vivere effettivamente in essi in modo diverso (Wie) e 53

54 55

56

Ibidem. Il termine “persona” deriva dal greco prósopon, che significa sia “maschera”, nell’accezione stoica ripresa dalla psicoanalisi che la considera come il nascondimento che l’individuo adotta per rispondere alle convenzioni sociali, sia “ciò che si vede”, l’aspetto, corrispondente all’ebraico panîm, volto, spesso usato per designare ciò che Dio mostra o cela (Nm, 6, 25: «il Signore faccia risplendere per te il suo volto»; Sal, 12, 2: «fino a quando mi nasconderai il tuo volto?»), anche se già nei primi secoli del cristianesimo per indicare Dio a prósopon si preferì hypóstasis, “supporto”. M. Lutero, Die Disputation de homine, in WA 39/I, p. 176, tesi 21-22 (tr. it., Le tesi de homine, p. 307). Ivi, p. 177, tesi 35 (tr. it., p. 308). Lutero insiste anche altrove sul fatto che «alius est homo ante lapsum, alius post lapsum, alius ‘renatus aqua et spiritu’ et fide vivens in hoc mortali corpore, alius a resurrectione, cum referet ‘imaginem’ clarificati corporis Filii DEI, sanctus et immortali set totus gloriosus» (M. Lutero, Die “Dialectica”, in WA 60, p. 147). In questo passo Lutero, parlando di Adamo come creatura della Santa Trinità, plasmata dal fango della terra a somiglianza di Dio, usa diversamente le categorie aristoteliche: il fango della terra è la materia, l’immagine di Dio la forma substantialis, la Trinità è la causa efficiente e la gloria di Dio la causa finale. M. Lutero, Volesung über 1. Mose, in WA 42, p. 292. C’è differenza anche tra peccatori e peccatori, perché «ci sono dei peccatori che confessano di aver peccato, ma non desiderano essere giustificati, anzi perdono la speranza e peccano di più, sicché sono disperati nel momento della morte e schiavi del mondo durante la vita. Altri poi sono peccatori e riconoscono di aver peccato e di peccare, ma soffrono e odiano di essere tali, e desiderano di venire giustificati […]. Allo stesso modo c’è differenza tra giusti e giusti. Alcuni affermano di essere giusti e non desiderano più essere giustificati, preferiscono attendere il premio e la corona di alloro. Altri negano di essere giusti, temono di essere condannati, e desiderano di essere giustificati» (M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 266; tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 196).

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Ritorno ad Aristotele: un’altra strada per salvarsi

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corre sempre il rischio di essere tentato dal diavolo, non si può non vedere una vicinanza con l’idea heideggeriana della fatticità «intesa come di volta in volta il nostro proprio esserci»57, l’«Esser-come»58, la cui determinazione fondamentale è la Verfallenheit. La filosofia moderna, secondo Heidegger, non compie passi avanti rispetto alla tradizione greco-scolastica nella comprensione della vita fattizia, poiché la concepisce in fondo come una sostanza, quando invece essa «non include innanzitutto niente dell’idea di “io”, persona, io-polo, centro dell’atto. Anche il concetto di sé, quando viene utilizzato non ha un’origine “egotica”»59. Heidegger vuol liberare la fatticità dalla gabbia costruita da Cartesio, quella dell’egoità come cosa che pensa, che dubita, che intende e che desidera, come coscienza e soggettività, che ha fatto imboccare all’analisi del sé una «direzione decadente, da cui in seguito l’intera filosofia recente non è più riuscita a staccarsi»60. Difatti, l’io in Kant diviene soggetto di pensiero e oggetto del senso interno (anima), distinto dall’oggetto del senso esterno (corpo), distinzione a partire dalla quale Fichte elabora la dottrina dell’io assoluto, il quale pone tutto ciò che è61. Persino Dilthey, che formula la domanda fondamentale sulla vita, non s’interroga sul senso d’essere dell’esserci e «nella stessa mancanza si trova la ricerca fenomenologica condotta finora. Essa presuppone la vita. Quando domanda che cosa sia l’uomo, anch’essa ha solo la risposta tradizionale: animal rationale»62. Non si tratta semplicemente di passare dal razionale e superbo “io penso” ed “io creo” al consapevole ed umile “io posso”, ma di decostruire l’io in quanto tale, di decostruire tutta l’architettura antropo57 58 59 60 61

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HGA 63, p. 21 (tr. it., p. 31). HGA 61, p. 189 (tr. it., p. 219). HGA 63, p. 29 (tr. it., p. 38). HGA 60, p. 298 (tr. it., p. 378). In realtà, «già le più antiche “ontologie” di questo ente intesero l’“io” e il “se-Stesso” come il fondamento che sostiene (sostanza o soggetto)» (HGA 2, p. 420; tr. it., p. 377). Per Heidegger «l’analisi kantiana è positiva sotto due aspetti: per un verso essa vede l’impossibilità del ricorso ontico all’io come sostanza e per l’altro tiene fermo l’io come “io penso”. Tuttavia essa intende ancora questo io come soggetto e quindi in un senso ontologicamente inadeguato […]. Determinare ontologicamente l’io come soggetto significa assumerlo come già da sempre semplicemente-presente» (HGA 2, pp. 423-424; tr. it., p. 380) e non come “io penso qualcosa”: infatti, «nel “dire io” si esprime l’Esserci come essere-nel-mondo» (HGA 2, p. 425; tr. it., p. 382). WDF, p. 161 (tr. it., p. 32).

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

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logico-filosofica moderna, che in fin dei conti deriva dall’interpretazione greco-cristiana della vita: la filosofia della situazione attuale si muove ancora nella posizione dell’idea dell’uomo, dell’ideale di vita, delle rappresentazioni ontologiche della vita umana, nelle diramazioni delle esperienze fondamentali che si sono temporalizzate nell’etica greca e, soprattutto nell’idea cristiana dell’uomo e dell’esserci umano. Anche le tendenze anticristiane e antigreche si mantengono fondamentalmente nelle stesse direzioni dello sguardo e nelle stesse modalità di interpretazione63.

Alle spalle dell’anti-umanismo heideggeriano si colloca certamente Nietzsche, il quale fece il primo gesto in direzione dello sradicamento dell’antropologia, promettendo il superuomo e decretando l’imminente morte dell’uomo: «io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato»64. Con l’intento non 63 64

NB, in HGA 62, pp. 367-368 (tr. it., p. 36). F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 28. Il superuomo nega l’essenza metafisica dell’uomo come animal rationale, «la sua negazione colpisce la tradizionale connotazione distintiva dell’uomo, la ragione» (HGA 6.2, p. 264; tr. it., p. 775). Nell’Übermensch nietzscheano bisogna vedere «quell’uomo che va oltre l’uomo così com’è stato e com’è, soltanto per portare finalmente l’uomo attuale in quella sua essenza che ancora gli manca e stabilirlo in essa» (M. Heidegger, Wer ist Nietzsches Zarathustra?, in HGA 7, p. 105; tr. it., Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, p. 69). Per dirla con le parole di un altro filosofo ‘antiumanista’ del Novecento, Foucault, con il superuomo Nietzsche annuncia la fine dell’uomo e sveglia la filosofia dal sonno dell’antropologia: «Nietzsche, proponendoci tale futuro come scadenza ed insieme come compito, fissa la soglia a partire dalla quale la filosofia contemporanea può ricominciare a pensare […]. Oggi possiamo pensare soltanto entro il vuoto dell’uomo scomparso. Questo vuoto infatti non costituisce una mancanza; non prescrive una lacuna da colmare. Non è né più né meno che l’apertura d’uno spazio in cui finalmente è di nuovo possibile pensare» (M. Foucault, Les mots e les choses, Gallimard, Paris 1966; tr. it. di E. Penaitescu, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Bur, Milano 2007, p. 368). Non si può omettere di segnalare, però, che, per Heidegger, Nietzsche rappresenta il compimento del nichilismo, e, pertanto, il superamento dell’uomo in vista del superuomo che propone non fa altro che compiere la parabola umanistica del pensiero occidentale, conducendo all’affermazione della super-bestia: «il superuomo è la razionalitas estrema nel conferimento del potere alla animalitas, è l’animal rationale che si compie nella brutalitas» (HGA 6.2, p. 16; tr. it. p. 557). La sentenza che chiude l’epoca della metafisica, «homo est brutum bestiale» (HGA 6.2, p. 178; tr. it. p. 699), sem-

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di ricostruire storiograficamente le diverse visioni antropologiche, ma di individuare le strutture ontologiche ad esse sottese, Heidegger inizia a «domandare “in avanti”, “all’indietro”, “come ripetizione”»65. In quest’operazione si rivolge ad Aristotele, il quale «assume nella sua Fisica un nuovo principio fondamentale da cui derivano quella logica e quella ontologia, attraverso le quali si è affermata, tornando alle fonti, la storia dell’antropologia filosofica»66: il principio del movimento. 4. Kínesis «Problema della fatticità, problema della kínesis»67: l’identificazione della Faktizität con il movimento è quanto mai netta ed inequivocabile, è per questo che Heidegger si rivolge all’essere della motilità tematizzato nella Fisica, che è il centro del pensiero dello Stagirita considerato da un punto di vista storico-originario. Per illustrare il fenomeno della kínesis Aristotele problematizza «le opinioni e le esplicazioni degli “antichi filosofi della natura”, chiedendosi fino a che punto essi abbiano fatto parlare il fenomeno del movimento a partire da se stesso»68. La critica aristotelica si rivolge in particolare agli Eleati, i quali «assumono premesse false e procedono inoltre scorrettamente nella loro argomentazione

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bra far crollare la differenza essenziale, che separa l’uomo dall’animale. La razionalità dell’animal rationale si rivela alla fine come l’istinto bruto dell’“animale da lavoro”, ossia dell’homo technicus, che mira al padroneggiamento totale del reale. Dedicato a questa tematica è il saggio di C. Resta, Heidegger: provocazione tecnica e umanità dell’umano, in Nichilismo tecnica mondializzazione. Saggi su Schmitt, Jünger, Heidegger e Derrida, Mimesis, Milano 2013, pp. 125-150. HGA 61, pp. 189-190 (tr. it., p. 220). NB, in HGA 62, p. 371 (tr. it., p. 40). HGA 61, p. 117 (tr. it., p. 150). Heidegger, pur traendo la caratterizzazione della motilità della vita dalla Fisica, afferma che «Aristotele ha esposto i primi lineamenti fondamentali di un’ontologia della vita nel trattato Perí psychés. È del tutto fuorviante vedere in quest’opera una psicologia» (HGA 22, p. 182; tr. it., p. 274). L’anima, infatti, non è una sostanza psichica accanto al corporeo, ma un modo d’essere dell’esserci, il suo «vehementissimos motus» (M. Lutero, Volesung über 1. Mose, in WA 44, p. 590). NB, in HGA 62, p. 394 (tr. it., p. 74).

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dimostrativa»69. Parmenide, infatti, sostenendo che l’essere è e non può non essere, attribuisce all’essere il carattere della necessità, che rispetto alla categoria del divenire è l’immutabilità70; Aristotele, invece, pone come assunto di base che «tutte le cose che esistono per natura, o tutte o alcune, sono in movimento: questo è attestato dall’esperienza»71. Anche per Heidegger la vita fattizia non è in quiete, non giace immobile e perciò il movimento [Bewegung] non è uno stato tra gli altri, ma la sua determinazione essenziale, il suo modo d’essere fondamentale, in quanto possibilità, disponibilità a divenire72; la vita fattizia è «tortuosa [umwegig]»73, può cioè percorrere diverse strade e prendere deviazioni, e la tortuosità è «qualcosa che non va rimosso, ma va anzi invece fatto proprio»74. Solo che Heidegger, pur considerando «il movimento come una maniera d’essere dell’esserci»75, precisa che l’Esserci non è in movimento come un dynámei ón, sia perché non è statico come un oggetto, ma ex-statico, sia perché non può giungere a un fine, anzi, visto che il télos del suo movimento è il movimento stesso, è finito e nondimeno in incessante compimento. Anche Lutero, che basa la dottrina della giustificazione sulla formula «prius esse personam esse mutatam, deinde opera»76, descrive attraverso la terminologia aristotelica il continuo passaggio dell’uomo dal non-essere del peccato all’essere della grazia come un motus, un perenne in actu, in fieri, contrapposto all’in facto esse della scolastica: nei processi naturali, secondo Aristotele, si danno cinque gradi: il non-essere, il divenire, l’essere, l’azione, la passività […]. Nell’uomo questi cinque elementi sono sempre in movimento […]. Tutto ciò che si può trovare nell’uomo con la nuova nascita è un transito dal peccato alla grazia, e quindi dal non essere al divenire e all’essere […]. Sicché l’uomo si trova sempre privo di qualcosa (cioè in potenza e materia), e 69 70 71 72 73 74 75 76

Aristotele, Fisica, a cura di L. Ruggiu, Mimesis, Milano 2007, I, 2, 185a 10-11, p. 7. Parmenide, Poema sulla natura, tr. it. di G. Cerri, RCS, Milano 2001, fr. 8, pp. 153-155. Aristotele, Fisica, cit., I, 2, 185a 13-14, p. 7. HGA 22, pp. 170-174 (tr. it., pp. 259-264). NB, in HGA 62, p. 361 (tr. it. di G. Vitiello e G. Camarrota, p. 505). HGA 61, p. 88 (tr. it., p. 123). HGA 18, p. 294. M. Lutero, Briefe an Lang, Ioh, in WAbr 1, p. 70.

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sempre in atto: questo è il filosofare di Aristotele circa la realtà; ed è un buon modo di filosofare, anche se non se ne trova mai un’applicazione siffatta. L’uomo è dunque sempre non-essere, divenire, essere […]; ossia è sempre peccatore, sempre penitente, sempre giusto!77.

Lutero dimostra di conoscere bene la distinzione tra actus e motor sia quando insiste sul fatto che persino Dio non è in quiete – perché la quiete non è la perfezione –, ma partecipa della motilità della vita umana attraverso l’incarnazione e la croce, sia quando descrive il movimento della fede come un atto e non un’opera, in quanto nell’atto io divento, nell’opera, invece, rimango quel che sono. «Motus est ipsa essentia Dei»78, afferma Lutero rovesciando la priorità ontologica dell’esse rispetto al fieri, perciò non è come sostiene Aristotele che l’ente in quanto è diviene, perché l’essenza intesa come sostanza è qualcosa di inerte, che «non genera né viene generata»79. Nell’identificazione di motus ed essentia è ricompresa quella dell’unum esse con il fieri: infatti, è nel divenire di Dio simile all’uomo e nel divenire dell’uomo simile a Dio che si realizza l’unione tra i due80. Ma il divenire presuppone che ci si privi di se stessi, che ci si spogli di se stessi, allo stesso modo in cui ha fatto Dio incarnandosi, perché «come dicono i filosofi, non si può dare una (nuova) forma se non là dove prima c’è privazione o espulsione della forma precedente»81. L’homo viator semper in motu come una materia prima tende alla forma, la quale implica la privazione e la corruzione82; per questo il movimento è sempre atto imperfetto, 77 78 79 80 81 82

M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 442 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, pp. 196-197). M. Lutero, Sermones aus den Jahren 1514-1517, in WA 1, p. 27. Ivi, p. 28. Ivi, p. 29. M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, pp. 218-219 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 149). M. Lutero, Zu Augustini Opuscula, in WA 9, p. 13. Sulla scorta della Fisica (Aristotele, Fisica, cit., II, 1, 192b, 8-32, p. 49), Lutero distingue la materia natura aut arte facta – le cose prodotte artificialmente – dalla materia rudis – le cose secondo natura – (Id., Die “Dialectica”, in WA 60, p. 145). Quest’ultima è, spiega Agostino, la materia prima: «se il mondo è stato creato da qualche materia informe, questa materia è stata creata interamente dal nulla. Infatti, anche ciò che non ha ancora una forma, è in qualche modo predisposto per riceverla: può assumere una forma per la bontà di Dio, perché è cosa buona avere una forma. Dunque, anche la capacità di avere una forma è un bene; quindi l’autore di tutti i beni, che ha

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

«imo privatio»83. Il riferimento qui è a quel passo della Fisica, in cui Aristotele afferma che: «il movimento sembra essere un certo atto, benché incompiuto. La ragione di ciò dipende dal fatto che ciò che è in potenza – e di cui il movimento costituisce l’atto –, è incompiuto. In effetti, non sembra assolutamente possibile collocare il movimento tra le realtà che sono necessariamente o nella privazione, o nella potenza, o nell’atto, considerati in senso assoluto»84. Secondo una prospettiva fenomenologica il movimento non è il passaggio dalla potenza all’atto, ma il passaggio come tale, che ha il carattere di atelés, poiché ciò che si muove è in cammino verso qualcosa, ovvero è nella mancanza [stéresis], ma non nel non-essere: infatti, per Aristotele stéresis è la privazione «di quello che per natura si può avere, anche se la cosa per sé non è disposta natural-

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dato la forma, ha dato anche la possibilità di avere la forma. Così, tutto ciò che è, in quanto è, e tutto ciò che ancora non è, in quanto può essere, dipendono da Dio; e, per dirla in un altro modo, tutto ciò che ha una forma, in quanto ha una forma, e tutto ciò che non ha ancora una forma, in quanto può avere una forma, dipendono da Dio» (Sant’Agostino, La vera religione, cit., VI/1, 18.36, p. 63). M. Lutero, Die philosophischen Thesen der Heidelberger Disputation mit ihren Probationes, in WA 59, p. 414 (tr. it., Tesi di contenuto filosofico, p. 43). Lutero, riferendosi ad Aristotele, osserva che «nel secondo capitolo del secondo libro della Metafisica egli dice che la materia è qualcosa di mezzo tra l’essere e il non essere e cioè il divenire stesso» (ivi, p. 421; tr. it., p. 53). Il rimando è a quel passo in cui Aristotele afferma: «l’uomo proviene dal fanciullo, come ciò che è divenuto da ciò che diventa, o ciò che è perfetto da ciò che si perfeziona; invero è sempre un processo compreso tra due estremi e come la genesi è tra l’essere e il non essere, così ciò che si genera è tra l’ente e il non ente» (Aristotele, La metafisica, tr. it. di P. Eusebietti, Rizzoli, Milano 1996, I, II, 2, 994a, 27-29, p. 455). Lutero insiste sul concetto di materia come fieri tra ente e non-ente: «se qualsiasi cosa è, fu o sarà, in tanto è, fu o sarà in quanto poté essere generata o può essere generata. Ebbene, in che modo sarebbe generata se non avesse potuto esserlo o da Dio immediatamente o attraverso una qualche causa seconda? Ne deriva che la materia, e cioè (lo dico per farmi comprendere) il poter essere generato, non è considerata dai filosofi un nulla, ma una via di mezzo tra il nulla e il qualcosa» (M. Lutero, Die philosophischen Thesen der Heidelberger Disputation mit ihren Probationes, in WA 59, p. 422, nota g; tr. it., Tesi di contenuto filosofico, p. 55, nota 1). Cfr. Aristotele, La metafisica, cit., II, XXII, 2, 1069b, 18-19, p. 638: «da un ente si generano tutte le cose, da un ente, però, in potenza, che, invece, è un nonente in atto». Aristotele, Fisica, cit., III, 2, 201b, 31-35, p. 95. Si veda altresì ivi, VIII, 5, 257b, 8, p. 347 e Id., La metafisica, cit., II, IX, 6, 1048b, 29, p. 587.

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mente (a ciò)»85. Il termine tedesco Bewegung conserva il significato di Weg, in quanto come la via è il passaggio tra il già percorso e il non ancora-percorso, il movimento è il passaggio tra il non-più e il non-ancora, è odós: «al movimento appartiene di necessità questa indeterminatezza, la non finitezza [Unfertigkeit], il “non essere giunto a fine” [das Nicht-zu-Ende-gekommen-sein]. Il carattere dell’essere in cammino verso qualcosa è essenziale per il movimento»86. Aristotele ha il merito di aver compreso l’essere a partire dalla kínesis, di aver compreso che «la vita è “movimento”»87, tuttavia, determinando il movimento esclusivamente come produrre, rimane prigioniero dell’orizzonte metafisico: infatti, «nella problematica indirizzata alla kínesis [dei phýsei ónta] assume il ruolo dell’esempio guida il “divenire della statua da un minerale” (nella

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Aristotele, La metafisica, cit., II, V, 22, 1022b, 21, p. 522. Per Heidegger «se qualcosa manca, ciò che manca [Fehlende] è sì via, ma proprio questo via, cioè il mancare, ci irrita e ci inquieta, e tutto ciò il “mancare” lo può provocare solo se esso è “presente” [da], cioè è [ist], ossia costituisce un essere. In quanto assentarsi [Abwesung] la stéresis non è semplicemente assenza [Abwesenheit], ma un presentarsi [Anwesung], e precisamente quel presentarsi in cui si presenta l’assentarsi – e non già l’assente» (M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der phýsis. Aristoteles, Physik B, 1, in HGA 9, pp. 296-297; tr. it., Sull’essenza e sul concetto della phýsis. Aristotele, Fisica B, 1, p. 251). Come afferma Courtine: «Heidegger pone l’accento sull’esperienza greca della kínesis e della metabolé, sulla coappartenenza al senso della phýsis dell’apousía e della parousía», sull’esperienza fondamentale della pres-assenzialità (J.F. Courtine, Une difficile transaction: Heidegger, entre Aristote et Luther, in AA. VV., Nos Grecs et leurs modernes, Le Seuil, Paris 1992, p. 358). HGA 22, p. 321 (tr. it., p. 425). Nella Trascrizione del corso su I concetti fondamentali della filosofia antica Bröcher riporta il seguente esempio fatto da Heidegger: «fino al momento in cui il legno, in quanto érgon, è finito, esso è per così dire in cammino verso il tavolo […]. L’“essere in cammino” del dynámei ón, del legno, verso l’érgon, il tavolo, attribuisce al movimento il carattere dell’atelés. Ciò che si muove è necessariamente in cammino verso qualcosa, verso ciò in cui esso giunge “a fine”. Il legno è in lavorazione fintanto che il tavolo non è finito; ma non appena il tavolo è finito, il movimento cessa, e il tavolo è divenuto» (HGA 22, pp. 320321; tr. it., pp. 424-425; cfr. anche M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der phýsis. Aristoteles, Physik B, 1, in HGA 9, p. 285; tr. it., Sull’essenza e sul concetto della phýsis. Aristotele, Fisica B, 1, p. 239). M. Heidegger, Ammerkungen zu Karl Jaspers «Psychologie der Weltanschauungen», in HGA 9, p. 16 (tr. it., Note sulla «psicologia delle visioni del mondo» di Karl Jaspers, p. 446).

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motilità dell’avere-a-che-fare della produzione)»88. Analizzando il settimo capitolo del primo libro della Fisica dedicato al divenire ed ai suoi principi, tanto Heidegger quanto Lutero evidenziano come la poíesis sia l’esempio dell’idea dell’essere in movimento, «del phýsei ón – che si produce sempre a partire da se stesso»89. Come spiega Lutero, la statua e la casa sono in atto ciò che sono potute divenire secondo la loro potenzialità, che non è una potenzialità generica, ma potenza che si può realizzare in un determinato modo: ogni forma è un abito, è quello che la potenzialità insita nella materia ha acquisito ed ottenuto, come si dice: una volta che gli abiti si realizzano nella materia, l’attività cessa. Così, ugualmente, la privazione è la mancanza di un abito, il quale dal verbo “habere” trae il nome […]. Così l’intelletto agente è la forma dell’intelletto possibile, come la forma del bronzo in una statua90.

L’essere per Aristotele è l’esser mosso, le cui categorie – «dýnamis, il determinato poter disporre su; enérgeia, il prendere in un’autentica utilizzazione tale disponibilità; entelékeia, il mantenere in custodia che utilizza questa disponibilità»91 – sono categorie degli oggetti del fare (poioúmena): «ciò che è è ciò che è stato realizzato nella motilità dell’aver-a-che-fare della produzione, ciò che è giunto all’esser presente, disponibile per una tendenza d’uso. Essere significa esser-prodotto, e, in quanto prodotto, significativo e disponibile relativamente ad una tendenza dell’aver-a-che-fare» 92. Heidegger intende pensare l’esserci al di là dell’‘ontotecnologia’ aristotelica per la quale «il senso originario dell’essere è l’esser-

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NB, in HGA 62, pp. 394-395 (tr. it., p. 75). La filosofia moderna inaugurata da Cartesio riprende un iniziale pregiudizio, poiché la res cogitans, in quanto fundamentum incocussum, è ens nel senso medievale di ens creatum e «la creaturalità, nel senso lato di ciò che è prodotto, è un momento strutturale essenziale del concetto di essere degli antichi» (HGA 2, p. 33; tr. it., p. 39). NB, in HGA 62, p. 385, nota 24 (tr. it., p. 59, nota 24). M. Lutero, Die philosophischen Thesen der Heidelberger Disputation mit ihren Probationes, in WA 59, p. 416 (tr. it., Tesi di contenuto filosofico, p. 45). Sull’esse come actus e il fieri come potentia, cfr. Id., Veit Dietrichs Nachschriften, in WATR 1, p. 58, n. 135. NB, in HGA 62, p. 396 (tr. it., p. 76). NB, in HGA 62, p. 373 (tr. it., p. 43). Si veda altresì HGA 24, p. 152 e pp. 162-165 (tr. it., p. 102 e pp. 109-111).

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prodotto»93, poiché l’Esserci non diviene compiuto [teleíos] come un oggetto manifatturiero, come una casa o una statua, che sono il compimento di un progetto iniziale di un architetto o di uno scultore. Il movimento di produzione finisce allorché l’opera riposa nella piena presenza, invece, il movimento dell’esserci non è teleologicamente legato alla sua realizzazione. Di contro al produrre come movimento arrivato alla sua fine, «ogni movimento in quanto bádisis eis télos, ovverosia essere in cammino verso, è, secondo il suo senso, un non aver ancora raggiunto il suo verso-che; esso è proprio in quanto avvicinarsi verso qualcosa»94. Il tratto caratteristico del movimento è il mutamento [metabolé, Umschlag]95, il cambiamento, il passaggio tra due termini estremi e 93

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NB, in HGA 62, p. 398 (tr. it., p. 78). Secondo Mora, «Heidegger fa notare che gli esempi addotti da Aristotele per rendere intelligibile il processo del divenire sono tutti derivati dalla sfera del movimento produttivo [Umgangsbewegtheit der Herstellung] – edificare una casa, plasmare una statua – alla base del quale sta la stéresis. Produrre significa, in un certo senso, avere la possibilità di acquisire una forma di cui si era privi; il materiale che serve ad edificare una casa non ha, fin dall’inizio, la forma del mattone, ma la acquisisce all’atto del processo di costruzione, così che all’atto dell’edificazione la pietra diventa mattone. Questo non è solo processo di produzione ma è il processo del divenire, cioè la manifestazione dell’essere in quanto movimento. Così l’essere non è l’essere prodotto come pensavano i Greci, ma è la movimentazione [Bewegtheit] del produrre, ovvero il processo stesso del divenire» (F. Mora, L’ente in movimento. Heidegger interprete di Aristotele, Il Poligrafo, Padova 2000, pp. 199-200). NB, in HGA 62, p. 386 (tr. it., p. 60). Figal osserva che «in Aristotele i movimenti sono sempre e solo indirizzati a un fine e compresi proprio a partire da esso, mentre Heidegger vuol mostrare che ogni comportamento non consiste solo nell’attuazione in direzione di un fine già noto in precedenza, ma anche sempre in un lasciare aperta la distanza verso ciò che ci sta di fronte nella sua indeterminata possibilità» (G. Figal, Martin Heidegger, Phänomenologie der Freiheit, Athenäum, Frankfurt a.M. 1988; tr. it. di F. Filippi, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, il melangolo, Genova 2007, p. 221). HGA 22, p. 318 (tr. it., pp. 266-267). Heidegger nota che «al posto di kínesis Aristotele dice anche metabolé. Questo è il concetto più generale di movimento, letteralmente “cambiamento”» (HGA 24, p. 332; tr. it., pp. 225), «il passaggio da qualcosa a qualcos’altro. La forma più semplice di movimento, di passaggio, e quella a cui più di frequente si richiama Aristotele nella sua analisi, è la phorá, il passaggio da un luogo (tópos) ad un altro, il cambiamento, il mutamento di luogo […]. Già da qui emerge chiaramente che al movimento appartiene l’importante struttura dello ék tinos

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differenti, che è in sé la fluttuazione di presenza e assenza [Ab- und Anwesenheit]. La metabolé aristotelica, come l’eghenéthe paolino, indica il divenire dell’Esserci “da – a” [von – zu]: «nel mio esistere, infatti, io sono sempre “ancora in cammino”. Rimane sempre qualcosa che non è ancora arrivato alla fine. Alla fine, quando vi si è giunti, esso appunto non è più»96. In effetti, analizzando il processo della generazione, Aristotele osserva che nel divenire qualcosa permane immutato (il sostrato) e qualcosa muta (gli accidenti), nel senso che il génesthai è sempre anche un ménein. Così avviene, ad esempio, che «l’uomo non-musico diviene uomo musico»97; in tal caso «l’uomo, mentre diviene “uomo musico”, rimane stabile come uomo, mentre il “non-musico” e l’“immusico” non rimane immutato»98. Dunque, l’uomo è il sostrato che rimane, mentre “musico” ed “immusico” i due contrari che mutano nel divenire99. Lutero spiega che se da una parte la materia tende e aspira alla forma, dall’altra mantiene un «mysterium mali»100, una fragilità, una debolezza, incline alla corruzione: l’uno che permane, infatti, è causa assieme alla forma, delle cose che si generano, come se fosse una madre. La parte rimanente della contrarietà, invece, spesso sembra in ragione del suo carattere distruttivo, non esistere del tutto. Dal momento che sussiste qualcosa di divino, di buono e di desiderabile, infatti, noi diciamo che da un lato esiste un principio che è contrario a queste cose, e dall’altro ciò che per natura desidera e tende verso questo101.

In conclusione, tre sono le categorie indicativo-formali del movimento riferite alla fatticità: l’esserci è sempre in divenire, il divenire presuppone che qualcosa muti e qualcosa permanga, e, infine, il divenire mantiene la tendenza alla deiezione/reiezione.

eís ti, il “da qualcosa a qualcos’altro”» (HGA 24, p. 343; tr. it., p. 232). Cfr. Aristotele, Fisica, cit., V, 1, 225a, 34, p. 203. 96 M. Heidegger, Der Begriff der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft, in HGA 64, p. 115 (tr. it., Il concetto di tempo, p. 36). 97 Aristotele, Fisica, cit., I, 7, 190a, 5, p. 33. 98 Ivi, I, 7, 190a, 10-12, p. 33. 99 Ivi, I, 7, 191a, 4-5, p. 37. 100 M. Lutero, Dictata super Psalterium, in WA 3, p. 223. 101 Aristotele, Fisica, cit., I, 9, 192a, 13-19, p. 43.

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5. Poter-esser vero o falso Nel suo cammino l’Esserci, secondo Heidegger, ha da scegliere tra due modi di essere – entrambi compresi nello stesso tempo come possibilità del suo essere – l’uno vero [alethés] e l’altro falso [pseúdos], per utilizzare i termini con cui Aristotele definisce le possibilità del lógos. Lutero, dal canto suo, contravvenendo al principio aristotelico secondo cui «una stessa cosa non può nello stesso tempo e sotto il medesimo punto di vista inerire e non inerire allo stesso soggetto»102, introduce l’assurdo logico secondo cui l’uomo è «simul iustus et peccator»103. Il simul luterano, che è lo stesso proibito dal principio di non-contraddizione, scardina ogni logica: infatti, in polemica con il teologo cattolico Latomo, che cercava di dimostrare 102 Aristotele, La metafisica, cit., II, IV, 3, 1005b, 20, p. 483. 103 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 442 (tr. it., La Lettera ai Romani, II, p. 197). Per una ricognizione generale della storia degli effetti della formula simul iustus et peccator, si rimanda a: E. Andreatta, Lutero e Aristotele, cit., pp. 141-146; G. Pani, Martin Lutero Lezioni sulla Lettera ai Romani, Agostiniane, Roma 1983 pp. 93-100 e Id., Paolo, Agostino, Lutero: alle origini del mondo moderno, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 229-234. Tuttavia, va detto brevemente che sono due le posizioni principali ed antitetiche, che si muovono l’una su un piano ontologico, considerando la formula una doctrina de contradictionis (cfr. E. De Negri, La teologia di Lutero. Rivelazione e dialettica, cit., p. 64), l’altra su un piano gnoseologico, considerando l’uomo malato coram hominibus, intrinsece peccator, e sano coram Deo, estrinsece iustus (cfr. F. Buzzi, La teologia di Lutero nelle “Lezioni sulla Lettera ai Romani”, Introduzione a M. Lutero La Lettera ai Romani (1515-1516), cit., p. 85). A nostro avviso quest’ultima interpretazione ‘cattolicizza’ Lutero stemperando la radicalità del simul, che non rimanda all’incapacità dell’uomo di percepirsi nello stato di grazia, ma alla sua essenziale contraddittorietà. A questo proposito Löwith nota che il presupposto perché il protestantesimo possa unirsi ad una filosofia atea come quella heideggeriana è l’interpretazione del credente in tutta la sua umanità: «anche l’esserci “improntato alla fede” è un esserci “umano”, e ciò significa non solo che esso prende parte alle fondamentali strutture formali dell’esserci “in generale” pensato ontologicamente, ma anche che la sua vita di esserci improntato di fatto alla fede non è la vita sacra di un uomo eccezionale con esperienze e vissuti religiosi eccezionali, ma quella di un essere profano e universalmente umano» (K. Löwith, Phänomenoligische Ontologie und protenstantische Theologie, in Sämtliche Schriften, Bd. III, hrsg. von K. Stichweh, Metzler, Stuttgart 1985; tr. it. di U. Ugazio, Ontologia fenomenologica e teologia protestante. Due studi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001, p. 149).

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che lo stesso uomo è insieme peccatore e giusto in quanto ora è peccatore, ma in futuro potrebbe convertirsi e divenire giusto, Lutero afferma che l’uomo in se stesso è giusto e peccatore eo ipso momento, conservando intatta la clausola aristotelica “nello stesso tempo” (aliquando) ed escludendo la dilazione nel tempo104. L’Esserci è, dunque, simul alethés e pseúdos come il discorso della cui essenza fa parte il discoprire [Ent-decken] e il coprire [Ver-decken]: difatti, «il lógos non è per sua natura vero, ossia scoprente, ma esso può scoprire in quanto è qualcosa che può anche coprire»105. Ma è precisamente al discorso enunciativo o apofantico che «appartiene l’esprimere il vero o il falso; ciò non appartiene a tutti i discorsi, per esempio la preghiera è discorso, ma né vero né falso»106. Perciò, «quando Aristotele caratterizza con riferimento alla verità l’enunciazione come un modo particolare del discorso, bisogna che questo riferimento sia compreso correttamente, ossia riferendosi al poteresser-vero o falso»107. Se il discorso enunciativo si distingue da altri, quali la preghiera, il desiderio, il comando, la domanda, per il poter-essere vero o falso, è necessario intendere queste possibilità nell’accezione originaria: aletheúein «significa qualcosa come scoprire, nel senso di disvelare, di togliere da qualcosa il nascondimento; il termine appropriato è dis-coprire» 108; pseúdesthai «significa invece 104 M. Lutero, Rationis Latomianae confutatio, in WA 8, pp. 76-77. 105 HGA 21, p. 135 (tr. it., p. 91). 106 Aristotele, De interpretatione, a cura di E. Riondato, Antenore, Padova 1957, IV, 17a, 1-4, p. 25. Come spiega Heidegger, il Perí ermeneías ha per tema «il lógos apophantikós, quel discorso e quella forma di discorso che ha la funzione di manifestare l’ente così come esso è. Aristotele distingue fra il lógos in generale, cioè un discorso che è significante e ha una forma che può essere quella della preghiera, dell’esortazione o del lamento, e il lógos apophantikós, il discorso che ha la funzione specifica di esibire» (HGA 24, pp. 255-256; tr. it., pp. 173-174). Perciò, non ogni discorso «è manifestante, cioè tale che nella sua maniera di dare-a-comprendere ha la tendenza specifica a manifestare semplicemente ciò che intende in quanto tale» (HGA 29/30, p. 448; tr. it., p. 395), ma ogni lógos è semantikós (HGA 29/30, p. 448; tr. it., p. 396). 107 HGA 21, p. 129 (tr. it., p. 86). Per l’opposizione essenziale tra lethés e pseúdos e il successivo mutamento in verum e falsum, si rimanda al corso di Heidegger su Parmenide (HGA 54, pp. 25-86; tr. it., pp. 57-121). 108 HGA 21, p. 131 (tr. it., p. 88). In Essere e tempo Heidegger torna sul significato dell’essere-vero come esser-scoprente: «che un’asserzione sia vera significa: essa scopre l’ente in se stesso: enuncia, mostra, “lascia vedere”

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ingannare»109, nel senso di coprire, dissimulare, come si evince dall’espressione aristotelica «dóxa pseudés eghíneto, óte láthoi metapesón tó prágma»110. Le autentiche scoperte dei greci riguardo alla verità e alla falsità sono, però, cadute nel dimenticatoio: uno dei meriti immortali di Platone è quello di aver mostrato come anche l’errore e la falsità siano […]. Tuttavia, egli non ha trovato una risposta che dicesse che cosa sia questo essere del falso e come esso sia possibile, come non l’ha trovata Aristotele, che si spinse oltre sul terreno del lavoro platonico. Aristotele mostra come vi sia nell’ente stesso e nel suo possibile modo d’essere una condizione di possibilità della falsità111.

Quel noto passo della Metafisica in cui è scritto: «il vero, pertanto, e il falso, non sono nelle cose […], ma sono nella mente»112, è eretto a teorema fondamentale della concezione della verità come corrispondenza, inaugurata da Platone, per il quale vero è il discorso che dice le cose come sono, falso quello che le dice come non

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(apóphansis) l’ente nel suo esser-scoperto. Esser-vero (verità) dell’asserzione significa essere-scoprente. La verità non ha quindi la struttura dell’adeguazione del conoscere all’oggetto nel senso dell’assimilazione di un ente (il soggetto) a un altro ente (l’oggetto)» (HGA 2, p. 289; tr. it., p. 264). Il senso originario dell’alétheia è il lasciar-vedere nel suo non-essere-nascosto l’ente, che Aristotele identifica con i prágma, i phainómena, le “cose stesse” (HGA 2, p. 290; tr. it., p. 265). A questo punto è chiara la derivazione ontologica in base a cui il concetto di verità, come apertura, si tramuta in adeguazione: «poiché nell’esser-scoperto in quanto ESSERSCOPERTO DI… persiste un riferimento alla semplice presenza, l’esserscoperto (verità) diviene, da parte sua, una relazione semplicemente-presente fra due semplici-presenze (intellectus e res)» (HGA 2, p. 297; tr. it., p. 271). HGA 21, p. 132 (tr. it., p. 88). Aristotele, Dell’anima, in Opere 4, tr. it. di A. Russo e O. Longo, Laterza, Roma-Bari 2007, III, 3, 428b, 9, p. 172. HGA 21, pp. 168-169 (tr. it., p. 113). Aristotele, La metafisica, cit., II, VI, 4, 1027b, 25, p. 535. Per Aristotele «si dicono false le cose o perché non sono proprio esse, o perché la rappresentazione che ne deriva è del non ente» (ivi, II, V, 29, 1024b, 25, p. 527): infatti, «è possibile esprimere ciascuna cosa non solo colla sua propria nozione, ma anche colla nozione di un’altra» (ivi, II, V, 29, 1024b, 35, p. 527). Perciò, «uomo falso è colui che è pronto a far proprie intenzionalmente tali nozioni, non per altro motivo se non perché false, e che instilla in altri tali nozioni false, e così diciamo false le cose che producono rappresentazioni false» (ivi, 1025a, 4-5, p. 528).

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sono113. Erroneamente si attribuisce ad Aristotele un concetto di verità come «qualcosa “che accade nel giudizio”, più precisamente la “concordanza” del pensare con l’oggetto»114, che sta alla base della cosiddetta “teoria della copia”. Il concetto di verità come concordanza è un concetto derivato, in quanto il luogo della verità non è il giudizio, ma l’apertura [Erschlossenheit] originaria dell’Esserci: la verità ha il carattere dello scoprimento o meglio dell’essere scoperto dell’ente e dell’essere scoprente dell’Esserci115. Aletheúein originariamente non è il corrispondere del pensiero all’oggetto, un riconoscimento, piuttosto è un prendere in custodia l’ente: il senso di alethés: in quanto essere lì scoperto, ovverosia essere presupposto intenzionalmente in se stesso, non è affatto ricavato in modo esplicativo dal “giudizio”, e non trova la sua collocazione originaria né in esso, né in relazione ad esso. Alethéuein non significa: “impadronirsi della verità”, ma prendere in custodia l’ente di volta in volta, presupposto intenzionalmente [vermeint], in quanto tale116. 113 Platone, Cratilo, tr. it. di G. Zanetto, RCS, Milano 1996, 385b, p. 275. Vedi anche Id., Il sofista, cit., XLVI, 263b, p. 74. 114 NB, in HGA 62, p. 377 (tr. it., p. 49). Secondo Heidegger «quando, come oggi ormai tutti fanno, la verità è definita come ciò che appartiene “propriamente” al giudizio, facendo per di più risalire questa tesi ad Aristotele, si cade in un duplice errore: perché il richiamo ad Aristotele è infondato e perché, soprattutto, non si comprende il concetto greco di verità» (HGA 2, p. 45; tr. it., p. 48). Per portare alla luce il fenomeno originario della verità, bisogna operare una distruzione delle tre tesi interpretative: «1) il luogo della verità è l’asserzione (il giudizio). 2) L’essenza della verità consiste nella “adeguazione” del giudizio al suo oggetto. 3) Aristotele, il padre della logica, ha considerato il giudizio come il luogo originario della verità e ha introdotto la definizione della verità come “adeguazione”» (HGA 2, p. 284; tr. it., p. 260). A prova di quest’ultima tesi viene utilizzata l’affermazione aristotelica secondo cui le affezioni dell’anima [noémata] «sono le medesime per tutti, e sono le medesime già le cose delle quali queste (affezioni) sono immagini» (Aristotele, De Interpretatione, cit., I, 16a, 6, p. 17), affermazione ripresa da Tommaso, che definisce la verità adaequatio intellectus et rei. Tuttavia «Aristotele non ha mai sostenuto la tesi che il “luogo” originario della verità sia il giudizio. Egli dice invece che il lógos è quel modo di essere dell’Esserci che può essere scoprente o coprente» (HGA 2, pp. 298-299; tr. it., p. 272). 115 HGA 21, p. 169 (tr. it., p. 114). 116 NB, in HGA 62, pp. 377-378 (tr. it., pp. 49-50). A mettere a nudo il fenomeno originario dell’alétheia sono i fondamenti ontologico-esistenziali dello scoprire, in quanto modo d’essere dell’essere-nel-mondo: «primariamente “vero”, ossia scoprente è l’Esserci. Verità nel senso secondo non

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L’aletheúein del lógos non è altro il deloún, l’apophaínesthai, ovvero il render-manifesto un ente partendo da [apó] esso stesso; il lógos apofantico presuppone, allora, la struttura ermeneutica dell’Esserci, la capacità, che attiene al comprendere [hermeneúein], di lasciar vedere qualcosa assieme a qualcosa: infatti, «laddove l’ente non è inteso semplicemente in se stesso, ma in quanto questo o quello, nel carattere dell’“in quanto”, il percepire è nel modo del riunire e del comporre [des Zusammen – und Mitnehmens]»117, perché, come insegna Aristotele, «il falso e il vero stanno nell’unione [sýnthesis] e nella separazione [diaíresis]»118, nell’affermazione [katáphasis], che attribuisce, e nella negazione [apóphasis], che sottrae119. In quanto tale l’ente non è semplicemente presente, ma è un verso-che, come mostra chiasignifica esser-scoprente (scoprimento) ma esser-scoperto (stato di scoprimento)» (HGA 2, p. 292; tr. it., p. 266). L’Esserci è originariamente nell’alétheia, perciò della sua costituzione d’essere fanno parte: l’apertura in generale, che comporta l’esser-scoperto dell’ente; l’esser-gettato, in cui si fa chiaro che l’apertura è effettiva, ossia situata; il progetto, che è l’apertura autentica dell’Esserci al suo poter-essere, che mostra il fenomeno originario della verità, in quanto verità dell’esistenza; la deiezione, a causa della quale l’Esserci, perdendosi nel mondo, è nella non verità (HGA 2, p. 293; tr. it., pp. 267-268). 117 NB, in HGA 62, p. 378 (tr. it., p. 51). 118 Aristotele, De interpretatione, cit., I, 16a, 12, p. 18. Vedi anche Id., Dell’anima, cit., III, 6, 430b, 1-5, p. 178. Secondo Heidegger è indicativo che Aristotele dia ragguagli più precisi circa la possibilità del discorso di velare e dis-velare nel Perí psychés, che «tratta dell’essenza della vita e degli stadi del vivente», uomo e animale, in quanto lógon échon e álogon (HGA 29/30, p. 454; tr. it., p. 400). 119 Aristotele, De interpretatione, cit., V, 17 a, 8, p. 26: «uno anzitutto è fra i discorsi enunciativi l’affermazione, poi la negazione». Cfr. HGA 21, pp. 137-138 (tr. it., p. 92). Secondo Heidegger, nell’analisi del lógos Aristotele andò più a fondo di Platone, in quanto «per lui ogni lógos è sýnthesis e diaíresis a un tempo; non, dunque, solo l’uno (in quanto “giudizio positivo”) o solo l’altro (in quanto “giudizio negativo”). Ogni asserzione, sia essa affermativa o negativa, vera o falsa, è cooriginariamente sýnthesis e diaíresis. Il mostrare è congiunzione e divisione. Tuttavia Aristotele non ha spinto così a fondo la sua analisi da porre il seguente problema: qual è il fenomeno che, all’interno della struttura del lógos, è tale da permettere e richiedere che ogni asserzione sia caratterizzata come sýnthesis e diaíresis?» (HGA 2, p. 211; tr. it., pp. 195-196). Ciò che Aristotele non indagò è il “qualcosa in quanto qualcosa”, il fatto che qualcosa è compreso sempre in congiunzione con altro; per questo la sua analisi del lógos scadde a mera teoria del giudizio, le cui operazioni sono l’unire e il dividere.

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ramente il carattere «privativo»120 del concetto greco originario di verità (a-létheia, dis-occultamento [Unverborgenheit], dis-velamento [Aufdeckenheit]), racchiuso nella duplicità del lógos come modo d’essere scoprente o coprente dell’Esserci: l’ente nel come delle sue possibili “determinazioni – in quanto che cosa” non è semplicemente lì, esso è un “compito”. Ciò che deve essere preso in custodia contro una possibile perdita è l’ente nel suo essere disvelato, ón hos alethés […]. L’ón hos alethés non è l’essere proprio, il campo d’essere o l’ambito di validità del “giudizio vero”, ma l’ente in se stesso nel come (hos) del suo essere lì come disvelato121.

L’Esserci deve prendere in custodia se stesso, assumendosi il compito di comprendersi nel come del proprio poter-essere e del proprio in-vista-di. 120 NB, in HGA 62, p. 379 (tr. it., p. 52). La privazione insita nel concetto greco di verità non è casuale, ma appartiene al modo d’essere dell’Esserci: «il fatto che la dea della verità che guida Parmenide lo ponga innanzi a due vie, quella dello scoprire e quella del nascondere, significa nient’altro che questo: l’Esserci è già sempre nella verità e nella non verità. La via dello scoprire è raggiunta solo nel krínein lógo, nella distinzione consapevole delle due possibilità e nel decidersi per la prima» (HGA 2, pp. 294-295; tr. it., p. 269). Rispetto alla disvelatezza (alétheia) il nascondimento (léthe) non è un elemento aggiuntivo, ma costitutivo: «il disvelarsi ama il nascondersi», poiché sorge da esso (M. Heidegger, Alétheia, in HGA 7, p. 278; tr. it., Alétheia, p. 185). Ma non è sufficiente tradurre alétheia invece che con “verità”, con “non-nascondimento”: «si dice benevolmente che uno dei meriti di Essere e tempo sia di aver rimesso in circolazione questa traduzione letterale di alétheia. Dopo Essere e tempo si traduce alétheia con non-nascondimento, e tutto resta come prima. Infatti, con il semplice cambiamento dell’uso linguistico non si è ottenuto nulla» (HGA 45, p. 101; tr. it., p. 76). È necessario interrogarsi sul non-nascondimento a partire da una comprensione originaria del primo inizio e di ciò che in esso è rimasto non-interrogato (HGA 45, pp. 120-122; tr. it., pp. 88-89). 121 NB, in HGA 62, pp. 379-380 (tr. it., p. 52). Regina nota giustamente che Heidegger riscopre «in Aristotele, al di sotto della concettualità fissante di tipo socratico, contro la quale si era prodotta la “grande rivoluzione” dell’esperienza cristiana, un’effettività che resta “compito”. Da quest’ultimo punto di vista, tuttavia, il fondamento della riflessione aristotelica appare in sinergia con il fondamento cristiano: si deve eseguire il “compito” posto da Aristotele, non custodendo dei risultati, ma “restando svegli”, come i cristiani, in costante confronto con i problemi della vita effettiva» (U. Regina, Noi eredi dei cristiani e dei greci. Destruktion e Faktizitat nel cammino di Heidegger, in AA. VV., Heidegger oggi, cit., p. 213).

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6. Il sapersi Heidegger si rivolge ad Aristotele riconoscendolo come proto-fenomenologo, in quanto autore di una fenomenologia degli atteggiamenti scoprenti mediante i quali l’uomo accede all’ente ancora più completa di quella husserliana: l’atteggiamento scoprente osservativo della pura contemplazione (theoría), quello produttivo che ha come fine l’opera (poíesis) e quello attuato nelle azioni autoteliche (práxis)122. Heidegger, considerando theoría, poíesis e práxis non forme ontiche del fare, ma veri e propri modi d’essere, spodesta la theoría dal suo primato a favore della práxis originaria, considerata come la struttura stessa dell’esserci. Tanto nell’ordine teoretico che in quello pratico le disposizioni mediante cui l’anima razionale coglie la verità sono, per Aristotele, le cosiddette virtù dianoetiche definite da Heidegger «i modi del disporre sulla possibilità di un’autentica custo-

122 Dal punto di vista di Heidegger Aristotele è il primo dei fenomenologi o meglio «l’ultimo dei grandi filosofi che ha avuto gli occhi per vedere e, cosa che è ancor più importante, l’energia e la tenacia per costringere sempre e di nuovo l’indagine nell’ambito dei fenomeni e di ciò che aveva visto» (HGA 24, p. 329; tr. it., p. 223). Per il rapporto tra Heidegger e Aristotele inaggirabile è l’interpretazione di Volpi, che approfondisce la corrispondenza tra i modi d’essere della “semplice-presenza” [Vorhandenheit], dell’utilizzabilità [Zuhandenheit] e dell’esserci [Dasein] e le determinazioni aristoteliche della theoría, della poíesis e della práxis, alle quali si accompagnano il sapere osservativo [sophía], il sapere produttivo [téchne] e la saggezza pratica [phrónesis] (F. Volpi, Essere e tempo: una versione dell’Etica nicomachea? Heidegger e il problema della filosofia pratica, cit., pp. 340-341). Volpi sottolinea anche le modificazioni a cui Heidegger sottopone queste determinazioni: «la trasformazione più evidente è il conferimento ad esse di un carattere ontologico, e quindi l’esclusione da esse di ogni senso ontico […]. Un’altra trasformazione è lo spostamento che avviene nella gerarchia delle tre disposizioni. Non è più la theoría a essere considerata la disposizione suprema», ma la práxis «concepita come la modalità d’essere e come la struttura stessa dell’esserci» (ivi, pp. 341-342). Si veda anche: AA. VV., Heidegger und Aristoteles, hrsg. von A. Denker, G. Figal, F. Volpi e H. Zaborowski, Alber, Freiburg-München 2007; D. Yfantis, Die Auseinandersetzung des frühen Heidegger mit Aristoteles. Ihre Entstehung und Entfaltung sowie ihre Bedeutung für die Entwicklung der frühen Philosophie Martin Heideggers (1919 - 1927), Duncker & Humblot, Berlin 2009; e M. Bowler, Heidegger and Aristotle. Philosophy as praxis, Continuum, London 2008.

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dia dell’essere»123. Tali disposizioni sono in numero di cinque: téchne, epistéme, phrónesis, sophía e noús, ovvero «procedimento che produce ed effettua, determinare che dimostra solo guardando in una precisa direzione e discutendo, guardarsi intorno che si prende cura (avvedutezza), comprendere che vede autenticamente, puro percepire»124. Le virtù dianoetiche, pur differenziandosi in base alle regioni d’essere a cui corrispondono, sono tutte «modi del compimento del puro percepire [Vernehmen]»125, che fa da guida nella custodia dell’essere. Dal momento che Heidegger non ha intenzione di scoprire l’essenza sovrastorica dell’Esserci, il suo “da dove?”, ma mira a coglierne la fatticità storica, il tipo di sapere appropriato a questo progetto non è un sapere speculativo, un noús theorikós, ma piuttosto un sapere che riguarda la concretezza, un noús praktikós, non è scienza, ma empeiría. Del resto, Aristotele stesso afferma che «scienza ed arte derivano agli uomini dall’esperienza»126, che è «cognizione dei particolari»127; ne è prova, ad esempio, il fatto che il medico non cura l’uomo in generale, ma ogni malato: «se, dunque, si possiede la scienza ma non l’esperienza, e si conosce l’universale, ma se ne ignorano i particolari, spesso si sbaglierà la cura; infatti ciò che si cura è l’individuo»128. Anche Lutero, pur non trattando sistematicamente le virtù dianoetiche, privilegia l’aspetto pratico della filosofia aristotelica e ope123 NB, in HGA 62, p. 376 (tr. it., p. 47). Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VI, 2, 1139b, 10-13, p. 432. 124 NB, in HGA 62, pp. 376-377 (tr. it., p. 48). Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VI, 2, 1139b, 15-17, p. 432. Secondo Kisiel dall’interpretazione dei testi aristotelici, in particolare del libro Z dell’Etica nicomachea, derivano le due suddivisioni di Essere e tempo: la téchne della poíesis (la capacità di fare e usare le cose) e la phrónesis della práxis (la prudenza propriamente umana), mentre il noús è rimpiazzato dalla Lichtung, come temporalità estatica, in opposizione al noús eterno della filosofia greca (T. Kisiel, The genesis of Being and Time, “Man and world”, 25, 1992, p. 31). 125 NB, in HGA 62, p. 375 (tr. it., p. 45). 126 Aristotele, La metafisica, cit., I, I, 1, 981a, 1, p. 429. Kisiel chiarisce che l’“esperienza” non è un subire passivo, ma un attivo “go-round” [Umgehen] e “know-how” [Auskennen], perciò tutti gli altri stadi della vita umana devono essere compresi come sviluppi di questo primo stadio, che non è mai lasciato alle spalle (T. Kisiel, The genesis of Heidegger’s Being and Time, cit., pp. 239-240). 127 Aristotele, La metafisica, cit., I, I, 1, 981a, 15, p. 429. 128 Ivi, I, I, 1, 981a, 22-24, p. 430.

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ra una distinzione tra “fare conoscenza” e “fare esperienza”: «speculative quidem facile difinitur ab Aristotele: Anima est actus primus corporis organici physici, etc. Sed non potest exprimere quid sit, nisi obiective tantum. Intelligere autem et sentire animam quoad affectus suo et vehementissimos motus, non est speculativae et obiectivae, sed praticae cognitionis»129. L’argomento luterano ruota intorno alle coppie speculative-obiective e intelligeresentire, che esprimono l’opposizione tra una conoscenza teoretica distaccata e una comprensione pratica, che non si ritrae davanti al moto vivente, ma che anzi lo esperisce fino in fondo in vista della salvezza. Allo stesso modo, se come afferma Aristotele «ogni arte ed ogni ricerca scientifica e similmente ogni azione ed ogni scelta deliberata tende – tutti ne convengono – ad un bene»130, che è il proprio, il noús praktikós heideggeriano ha un in-vista-di, che è l’eu zén, il viver bene, l’esistenza ‘vera’. Pertanto, seppure Heidegger avvii l’analisi delle virtù dianoetiche «prescindendo provvisoriamente dalla specifica problematica etica»131, in realtà l’éthos, in quanto comportamento autentico nei riguardi di sé, del mondo e degli altri, è il fine a cui tende.

129 M. Lutero, Volesung über 1. Mose, in WA 44, p. 590. Per Andreatta scopo della critica di Lutero ad Aristotele è «sacrificare la ragione metafisica per far spazio alla fede, far valere […] un Aristotele pratico ed antispeculativo, censurando invece l’Aristotele che risale alle cause non sensibili del mondo sensibile. Un Aristotele, quest’ultimo, metafisico, difficilmente utilizzabile da parte di una teologia che non sente più la necessità di quaerere intellectum» (E. Andreatta, Lutero e Aristotele, cit., p. 289). 130 Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, I, 1, 1094a, 1-3, p. 79. 131 NB, in HGA 62, p. 376 (tr. it., p. 47). La sospensione della questione etica è un costante motivo d’accusa nei confronti di Heidegger e uno dei punti di maggiore problematicità del suo pensiero, anche se la scelta dell’Esserci per il proprio poter-essere autentico ha i tratti di un’etica originaria, che non si riduce ad un insieme di precetti morali. Come suggerisce Caputo: «se l’autenticità è éthos, anche tutta l’analitica esistenziale avrà un potente risvolto ‘etico’. Ma questa etica esistenzialontologica non potrà essere in alcun modo paragonata alla morale classica, di stampo più o meno soggettivistico o oggettivistico… Da qui la critica di Heidegger alla morale e il rifiuto di catalogare la sua posizione come ‘eticistica’. Non esiste, infatti, secondo Heidegger un criterio assoluto (soggettivo o oggettivo) di applicazione della phrónesis» (A. Caputo, Pensiero ed affettività: Heidegger e le Stimmungen (18891923), cit., p. 244).

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6.1. Noús Il noús «è il percepire per antonomasia»132, poiché ha la funzione originaria dello scoprire e in quanto tale «pone tutto lì come un poter disporre su di esso, cioè allo stesso modo della luce»133, nel senso che, come afferma Aristotele, produce tutte le cose «come la luce, ché in certo senso anche la luce fa i colori in potenza colori in atto»134. Con un altro paragone, come la mano «è lo strumento degli strumenti»135, in quanto in essa ogni strumento raggiunge il suo essere autentico, «il noús è aistesís tis, un percepire, che restituisce di volta in volta, semplicemente l’aspetto degli oggetti»136, è il puro percepire, che svela l’ente in quanto tale. Non è che il noús e l’aletheúein non abbiano originariamente un carattere “teoretico”; è solo che il theoréin e il “non teoretico” sono da intendersi in modo diverso dal “teoretico” moderno; non si tratta del “teoretico” (moderno) del noús, ma del carattere noetico (noús-haften) del teoretico. L’ale132 NB, in HGA 62, p. 380 (tr. it., p. 53). Per i greci il noús determina l’uomo come «colui che apprende l’ente, che ne custodisce l’essere-essente, che ne custodisce cioè la verità» (HGA 45, p. 139; tr. it., p. 100). Tuttavia, presso i latini lo zóon, la cui capacità fondamentale è il noús, diviene animal rationale, cosicché «la determinazione iniziale dell’uomo, di essere colui che apprende e custodisce l’ente, è stata ben presto abbandonata. L’apprendere divenne la ragione e la ragione divenne una facoltà dell’anima, che appartiene ad un corpo […]. Ben presto, poi, nel cristianesimo, l’anima divenne l’anima del singolo, dalla salvezza ultraterrena della quale tutto dipende, salvezza che diviene certa solo nella fede e non nella ratio. L’uomo e la ragione umana, adesso, non sono neanche più un avvenimento all’interno dell’ente, ma sono, come l’ente in generale, solo qualcosa di creato e di fatto, affidato alla terra per un soggiorno temporaneo, ma non autentico. Di colui che apprende e custodisce l’ente non resta più nulla» (HGA 45, pp. 140-141; tr. it., p. 101) e non resta nulla soprattutto nell’epoca moderna, allorché la ragione diviene calcolante e l’ente è ridotto a oggetto delle sue manovre (HGA 45, p. 141; tr. it., p. 101). 133 NB, in HGA 62, p. 381 (tr. it., p. 53). 134 Aristotele, Dell’anima, cit., III, 5, 430a, 15-16, p. 176. 135 Ivi, cit., III, 5, 430a, 15-16, p. 176. 136 NB, in HGA 62, p. 381 (tr. it., p. 54). Heidegger ricava questo senso dell’aistesís dal De anima, laddove Aristotele precisa che «la sensazione dei sensibili propri è sempre vera» (Aristotele, Dell’anima, cit., III, 3, 427b, 11, p. 170), in quanto il sensibile proprio è «quello che non è possibile sia sentito con altro senso e intorno al quale non è possibile ingannarsi, ad esempio per la vista il colore, per l’udito il suono, per il gusto il sapore» (ivi, II, 6, 418a, 11-14, p. 144).

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theúein ha un legame originario di senso (legame d’essere), con la kínesis, avere-a-che-fare con [Umgang] e per questo il theoréin è l’essere più elevato come essere della vita effettivo – motilità; phrónesis137.

Il percepire del noús, in quanto custodisce le archaí dell’ente, ossia l’ente e il suo da cui, si attua come un ritorno indietro, in modo tale da «comprendere il punto di partenza [Ausgang] in quanto intenzionalità – partire da esso e con ciò assumerlo come percorso [Gang]»138. Il noús realizza il suo compito attraverso la sophía, che prende in custodia l’ente che è necessariamente ciò che è, e la phrónesis, che prende in custodia l’ente che può essere diverso da quel che è. Entrambi questi modi della custodia si attuano metá lógou, poiché «guardano verso le archaí non come cose isolate, ma in quanto tali»139. Pertanto, i modi del compimento del noús, la sophía e la phrónesis, rendono accessibile e custodiscono l’ente di volta in volta scoperto, solo che mentre il Verstehen perde di vista la fatticità, l’avvedutezza fürsorglich le rimane, per così dire, fedele. 6.2. Sophía La sophía, il sapere corrispondente all’atteggiamento scoprente osservativo della theoría, si esplicita nel thaumázein140 (“meravigliarsi”) e nel mállon eidénai141 (“vedere/sapere di più”), che richiamano da vicino la curiositas, la concupiscentia oculorum agostiniana. Considerando la sophía una scienza divina, in quanto verte su cose divine ed è possesso della divinità, Aristotele promuove la vita 137 NB, in HGA 62, p. 378, nota 5 (tr. it., p. 50, nota 4). 138 NB, in HGA 62, p. 382, nota 21 (tr. it., p. 55, nota 20). Dopo il confronto degli anni 1919-1920 con la fenomenologia husserliana, l’intenzionalità torna al centro degli interessi heideggeriani. A tal proposito, Esposito parla di «verifica ontologica della fenomenologia husserliana» (C. Esposito, Il fenomeno dell’essere. Fenomenologia e ontologia in Heidegger, Dedalo, Bari 1984, p. 103); più che una correzione, è un far proprio, attraverso un percorso di ritorno all’origine. 139 NB, in HGA 62, p. 382 (tr. it., p. 56). 140 Aristotele, La metafisica, cit., I, I, 2, 982b, 11, p. 432: «gli uomini ora come in origine, imprendono a filosofare per la meraviglia». 141 Per Aristotele “più sapienti” sono coloro che «in ciascuna cosa esercitano una funzione direttiva, perché conoscono le cause delle cose che si fanno» (Aristotele, La metafisica, cit., I, I, 981a, 31-32, p. 430), così come importano più saggezza «le scienze contemplative che quelle fattive» (ivi, I, I, 982a, 32, p. 430), in quanto vertono sulle cause e sui principi.

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del sophóteron a rango di bíos supremo, in quanto attraverso la contemplazione, che è «la cosa più divina di ciò che è in noi»142, si realizza la felicità perfetta. Tuttavia, questa delectatio «per noi dura poco tempo»143 a causa di «una certa cattiveria della nostra natura»144, che ci rende corruttibili, ovvero sottomessi al cambiamento, mentre a Dio, il “vivente eterno”, l’atto dell’intelletto appartiene sempre145. L’uomo, però, deve cercare di rendersi simile agli dei, contrastando la tendenza a restare attaccato alle cose contingenti – a disperdersi nel multum – ed aspirando alle cose più alte – all’unum –: «non si deve dare ascolto a coloro che consigliano di porre mente, essendo uomini, a cose umane e non, essendo mortali, a cose immortali, ma, per quanto è possibile, si deve diventare immortale e compiere ogni cosa per vivere in modo conforme a quella che, tra le cose che sono nell’individuo, è la più alta»146.

Il favore accordato da Aristotele alla vita contemplativa attesta una sorta d’appetito d’eternità ed immutabilità, che vuol sfuggire, secondo Heidegger, alla mutabilità fattizia insita nello stesso theoréin, che è la più pura motilità di cui la vita dispone. Perciò è qualcosa di “divino”. L’idea del divino, tuttavia, non deriva per Aristotele dall’esplicazione di un’oggettività divenuta accessibile in un’esperienza religiosa fondamentale, il theíon è, più precisamente, l’espressione del più elevato carattere d’essere, derivante dalla radicalizzazione ontologica dell’idea dell’essere in movimento147. 142 143 144 145

Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, X, 7, 1177a, 16, p. 569. Aristotele, La metafisica, cit., II, XII, 7, 1072b, 15, p. 645. Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VII, 15, 1154b, 29, p. 488. Aristotele, La metafisica, cit., II, XII, 7, 1072b, 29-30, p. 645. Sommer suggerisce che se Heidegger avesse riformulato questo passaggio, avrebbe scritto: «l’esserci mortale deve limitarsi alle cose umane e mortali e deve, per quanto possibile, divenire mortale» (C. Sommer, Heidegger, Aristote, Luther. Les sources aristoteliciennes et neo-testamentaires d’Etre et temps, PUF, Paris 2005, p. 288). 146 Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, X, 7, 1177 b, 31-34, p. 571. 147 NB, in HGA 62, p. 389 (tr. it., p. 66). Cfr. Aristotele, La metafisica, cit., I, I, 2, 983a, 1-10, p. 432. Sugli oggetti dell’intelletto, cfr. Aristotele: Etica nicomachea, cit., II, X, 7, 1177a, 20, p. 569; Topici, in Organon, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 2003, III, 1, 116a, 21, p. 461; Retorica, in Retorica e poetica, a cura di M. Zanatta, Utet, Torino 2006, I, 7, 1364b, 7, p. 177. Facendo uno studio etimologico, Heidegger nota che il verbo the-

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A questo riguardo Lutero nell’esegesi di Rm, 11, 33 («o profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!»), mirando a destituire il potere riconosciuto dai filosofi alla sophía, asserisce non solo che alla ragione umana è inaccessibile la sapienza divina, ma che peraltro essa è sottoposta ad una radicale insicurezza anche nell’ambito mondano, «perciò sono sciocchi tutti quelli che cercano di spiegare la realtà mediante le cause, come fa Aristotele, dato che tali cause rimangono “incomprensibili”»148. Dal canto suo, Heidegger è convinto che l’autentica sophía, in quanto ricerca delle cause e dei principi, è accessibile solo a partire dal suo radicamento nella vita fattizia, tant’è che Aristotele accede al suo senso attraverso «l’interpretazione di una motilità effettiva del curare nella sua ultima tendenza»149, quella del sophóteron. Le aitía e le archái si origioréin «deriva da due radici: théa e oráo. Théa (cfr. “teatro”) è l’aspetto, l’apparire in cui qualcosa si mostra, la veduta nella quale si offre», mentre oráo «significa: guardare qualcosa, osservare, considerare. Da qui risulta che theoréin è théan oráo: guardare l’aspetto sotto cui la cosa presente [das Anwesende] appare». Ma «le due radici di cui è composta la parola, théa e oráo, possono suonare, con un’altra accentuazione: theá e óra. Theá è la dea. Come tale appare a Parmenide, il pensatore dell’origine, la Alétheia, la disvelatezza», invece óra è «il riguardo che usiamo, l’onore e l’attenzione che tributiamo». Pertanto, theoréin è «guardare, custodendola, la verità» (M. Heidegger, Wissenschaft und Besinnung, in HGA 7, pp. 46-47; tr. it., Scienza e meditazione, pp. 32-33); quest’ultima accezione, ancor più della prima, motiva il primato accordato dai greci al bíos theoretikós. Ma, come spiega Ardovino, dal punto di vista heideggeriano la concezione aristotelica della kínesis e il privilegio della sophía sono inconciliabili: «da una parte, l’esperienza della vita effettiva cui ha accesso Aristotele è certamente fondamentale e istitutiva (e dunque rappresenta un’apertura filosofica autentica) in rapporto alla “visione” del carattere d’essere dell’essente in quanto “motilità” autoassegnata: tuttavia denuncia Heidegger, proprio la motilità della práxis con il suo carattere di indecidibilità inserito nella Unruhe della vita e del suo kairós, in breve con la sua esperienza autentica del tempo viene occultata in Aristotele dal privilegio dell’epi-stéme, cioè del “pensiero stabilizzante”, inteso come arresto e come blocco di quella stessa motilità effettiva» (A. Ardovino, Heidegger: esistenza ed effettività. Dall’ermeneutica dell’effettività all’analitica esistenziale (1919 - 1927), cit., pp. 153-154, nota 26). 148 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 116 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 51). 149 NB, in HGA 62, p. 389 (tr. it., p. 65). Cfr. Aristotele, La metafisica, cit., I, I, 2, 982a 30-982b 5, pp. 431-432. Foucault, ritornando alla platonica Apologia di Socrate, marca il rapporto tra lo gnothi seautón, il noto pre-

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nano dalla ricerca pratica e dall’agire, così, ad esempio, una malattia per il medico è una causa: «l’“aspetto” (per esempio di una malattia) ha per il prendersi cura (iatreúein, “curare”), che avviene nel modo dell’aver-a-che-fare, un carattere di perché (aitíon). Il perché ha originariamente un senso “pratico”»150. Tuttavia, la sophía, nella sua tendenza a vedere di più, «perde di vista proprio la vita in cui si radica»151 e, liberandosi dalla preoccupazione dell’in-vista-di, esclude l’esserci, che aspira a ciò che ancora non è152. Lutero per questo motivo dà alla sophía l’appellativo di “stoltezza dei filosofi”, i quali alla ricerca dell’essenza delle cose, degli accidenti e delle differenze, perdono di vista il creato: diverrete perciò filosofi eccellenti e ottimi osservatori della realtà, se imparerete dall’apostolo a osservare il creato in attesa, che geme, che è in travaglio, che non vuole saperne di quello che è e aspira a ciò che ancora non è. Perché allora conoscere la scienza delle cose, degli accidenti e delle differenze (specifiche) all’improvviso non conterà più nulla; e la stoltezza dei filosofi apparirà simile a quella di chi, mentre dà una mano a chi costruisce una scena, ammira la scelta dei legni, il lavoro di sezione delle tavole, intagli e incastri, e si accontenta stupidamente di tutto ciò, senza curarsi dell’intenzione che lo scenografo si propone con tutto il suo da fare153.

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cetto dell’oracolo delfico «conosci te stesso», e l’epiméleia heautoú, la cura sui dei latini: «la regola del “conosci te stesso” risulta formulata all’interno di una sorta di subordinazione rispetto al precetto della cura di sé. Lo gnothi seautón (“conosci te stesso”) appare infatti, in maniera piuttosto chiara e in una serie di testi nient’affatto secondari, nel quadro più generale dell’epiméleia heautoú (cura di se stessi), come una delle forme, come una delle conseguenze, e come una sorta di applicazione concreta, precisa e particolare, della regola generale: è necessario occuparsi di se stessi, è necessario non dimenticarsi di se stessi, è necessario prendersi cura di se stessi. È solo nel contesto di tutto ciò che appare e viene formulata la regola “conosci te stesso”, proprio come se si trattasse del momento culminante di tale cura» (M. Foucault, L’Herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 1981-1982, Gallimard – Le Seuil, Paris 2001; tr. it. di M. Bertani, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, pp. 6-7). NB, in HGA 62, p. 388 (tr. it., p. 64). NB, in HGA 62, p. 389 (tr. it., p. 66). Cfr. Aristotele, La metafisica, cit., I, I, 2, 982a 15, p. 431. HGA 18, p. 290. M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, pp. 371-372 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 114).

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Ritorno ad Aristotele: un’altra strada per salvarsi

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La sophía non prende in custodia la vita nella sua fatticità come vorrebbe nella sua intenzione, ma anzi «perde il senso della sua provenienza e decade, nel corso del successivo sviluppo della ricerca ontologica nella medietà significativa indeterminata della realtà effettiva»154. 6.3. Phrónesis Heidegger oppone all’indebito privilegiamento della sophía una rivalutazione della práxis originaria, intesa come l’essere dell’esserci, orientata dalla phrónesis, la forma di sapere più adeguata alla comprensione della vita nella sua kínesis155. Per comprendere cos’è la phrónesis bisogna, anzitutto, notare cosa non è: non è noús theorikós, perché appartiene all’ambito dell’azione; non è sophía, perché non ambisce ai principi e alle cause; non è epistéme, perché è le154 NB, in HGA 62, p. 399 (tr. it., pp. 79-80). 155 Per Heidegger «esistere è agire [Existieren ist Handeln], cioè práxis» (M. Heidegger, Phänomenologie und Theologie, in HGA 9, p. 58; tr. it., Fenomenologia e Teologia, p. 15), detto in altri termini: «il grado più alto del vivente è l’uomo, il modo fondamentale del suo muoversi è l’agire: práxis» (HGA 6.1, p. 52; tr. it., p. 66). Per Figal la “totalizzazione della filosofia pratica” iniziata da Kant, «viene portata a compimento, con particolare coerenza, dal giovane Heidegger con il nome di “ermeneutica dell’effettività” […]. “Effettività” è il carattere del “nostro proprio” esserci», mentre ermeneutica «non è un’arte dell’interpretazione, ma un portare alla parola la vita afferrandola» (G. Figal, La totalizzazione della filosofia pratica. Riflessioni sul rapporto fra etica e ermeneutica a partire dal Natorp-Bericht, cit., pp. 137-139). Di contro, «la filosofia teoretica è un compimento della vita, che in se stesso è dimenticanza della vita. Essa assume la vita come “oggetto dell’intuizione” e per questo deve essere corretta attraverso l’orientamento ermeneutico della ragione pratica» (ivi, p. 141). Per l’influenza di Heidegger nella formazione di quei pensatori, come Hans-Georg Gadamer e Hanna Arendt, i quali, negli anni sessanta, diedero inizio a quel fenomeno tedesco di ripresa dell’etica e della politica aristoteliche, noto come “riabilitazione della filosofia pratica” – dal titolo di una raccolta di saggi curata da M. Riedel, Die Rehabilitierung der praktischen Philosophie, Rombach, Freiburg 1972, 2 voll. –, si veda: F. Volpi, Essere e tempo: una versione dell’Etica nicomachea? Heidegger e il problema della filosofia pratica, cit., pp. 333-334 e 369-370; AA. VV., Heidegger und die praktische Philosophie, hrsg. von A. Gethmann-Siefert, O. Pöggeler, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1988; J. Taminiaux, Poíeisis e práxis nell’ontologia fondamentale di Heidegger, “aut aut”, 223-224, 1988, pp. 111-128; F. Chiereghin, Phýsis e éthos. La fenomenologia dell’agire in Heidegger, “Archivio di filosofia”, 1-3, 1989, pp. 445-463.

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

gata alla temporalità delle singole situazioni e non è necessaria ed universale; e non è téchne, perché non produce qualcosa fuori di sé. La phrónesis, in quanto accortezza [Umsicht] e discernimento [Einsicht], è la vista [Sicht] della vita per se stessa, che si distingue tanto dal vedere sensibile quanto dal guardare in una direzione dell’atteggiamento teoretico. L’oggetto della phrónesis è la vita umana, che si differenzia dalla vita nutritiva dei vegetali e da quella sensitiva comune a tutti gli animali per il fatto di essere «una certa vita attiva della parte dell’anima che possiede la regola»156; usando le parole di Heidegger, «l’oggetto della phrónesis è la práxis, la zoé dell’uomo, l’esserci umano stesso»157, caratterizzato, come «ciò, “che può essere anche diversamente”, “non necessariamente e sempre è” ciò che è»158, in opposizione negativa rispetto all’essere che sempre è, svelato e custodito dalla sophía. La phrónesis, dunque, non è né una scienza né un’arte, «una scienza perché ciò che è oggetto d’azione può essere altrimenti da quello che è; un’arte perché il genere dell’azione è diverso da quello della produzione. Infatti, il fine della produzione è diverso dalla produzione stessa, mentre non potrebbe esserlo quello dell’azione: ché la stessa condotta virtuosa è un fine»159. In altri termini, se l’epistéme è un sapere dimostrativo, che ha ad oggetto realtà che non possono essere diversamente da quello che sono, la phrónesis è un sapere deliberativo, che si occupa delle cose che possono essere anche altrimenti [tó endechómenon állos échein]. Inoltre, se la produzione tecnica è finalizzata ad altro da sé, alla realizzazione di un’opera, la práxis, oggetto della phrónesis, è in sé autotelica: il fatto che la zoé possieda la determinazione ontologica fondamentale di essere qualcosa che si impone da sé non è casuale, bensì necessario. Questo perché alla sua essenza appartiene il movimento 156 Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, I, 6, 1098a, 3, p. 92. Secondo Aristotele «dell’anima vi è la parte senza regola e la parte che possiede la regola» (ivi, I, I, 13, 1102a, 27-28, p. 106), ovvero la parte razionale e quella irrazionale. Di quest’ultima «la parte vegetativa non ha assolutamente nulla in comune con la regola, mentre la parte appetitiva e in generale desiderativa partecipa in qualche modo della regola, in quanto è capace di ascoltarla e di obbedirle» (ivi, I, I, 13, 1102b, 28-31, p. 108), di “tenerne conto” [lógon échein], ma non “renderne conto” (ivi, I, I, 13, 1102a, 3132, p. 106). 157 HGA 19, p. 143. 158 NB, in HGA 62, p. 385 (tr. it., p. 59). 159 Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VI, 5, 1140b, 1-3, p. 435.

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stesso, e perché nel caso del vivente il télos, il “fine”, ovvero ciò in cui il movimento giunge alla sua fine, si trova al suo stesso interno. Invece, nel caso dell’attività manuale, della produzione, eccetera – ovvero di ciò con cui opero manualmente –, il télos si situa all’esterno, come opera […]. Viceversa, il muover-si del vivente implica che il suo télos sia contenuto al suo stesso interno, sicché esso non è un érgon, che salta fuori e sta accanto al movimento, bensì è un modo del movimento stesso160.

La produzione non si interessa della qualità morale del prodotto e perciò non è etica per sé, ma per esserlo ha bisogno della virtù, la phrónesis, invece, è una virtù in se stessa, come afferma Aristotele riprendendo un paradosso socratico: «nell’arte è preferibile chi sbaglia volontariamente, mentre nell’ambito della saggezza è peggio, come pure nell’ambito della virtù. È chiaro dunque che la saggezza è una virtù e non un’arte»161. La phrónesis, dal punto di vista fenomenologico, «è una héxis, un modo del disporre della custodia d’essere. In quanto héxis, essa è un ghignómenon tés psychés, che si temporalizza nella vita stessa come sua possibilità, portandola in un determinato stadio [Stand] – cioè portandola a compimento in un determinato modo»162. La phrónesis è prescrittiva, perché dà l’ente come ciò di cui ci si deve prendere cura: «la phrónesis custodisce nel suo proprio essere il verso-che dell’avere-a-che-fare della vita umana con se stessa e il modo di questo avere-a-che-fare. Questo avere-a-che-fare è la práxis»163. Infatti, «nell’esserci umano, zoé praktiké metá lógou, l’essere è determinato attraverso la práxis […], il potere di disporre delle possibilità d’essere»164; il praktón è, appunto, un «non ancora [Noch160 HGA 22, p. 323 (tr. it., p. 427). 161 Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VI, 5, 1140b, 22-24, p. 436. Platone espone il suddetto paradosso nel dialogo tra Socrate ed Ippia: «(Socrate) E non è uomo buono chi ha una buona anima, cattivo chi l’ha cattiva? (Ippia) Sì. (Socrate) Ma, allora, è di un uomo buono commettere ingiustizia volontariamente e di uno cattivo involontariamente, dal momento che virtuoso è chi possiede un’anima buona. (Ippia) Senza dubbio ha un’anima buona. (Socrate) Dunque chi volontariamente erra e di propria volontà si comporta vergognosamente e ingiustamente, un simile uomo, Ippia, dato ch’esista, non può essere altro che l’uomo buono» (Platone, Ippia minore, in Opere complete, tr. it. di F. Adorno, Laterza, Roma-Bari 1984, V, 376b, p. 354). 162 NB, in HGA 62, p. 385 (tr. it., p. 59). 163 NB, in HGA 62, p. 383 (tr. it., p. 56). 164 HGA 18, p. 356.

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Nicht] questo o questo»165 e un «già [Schon] questo o questo»166, determinazioni la cui categoria è la stéresis167. Dunque, «l’elemento decisivo nella phrónesis è la práxis. Nella phrónesis, la práxis è arché e télos»168; e dal momento che mette in luce dal principio alla fine l’essere dell’azione, ovvero il senso d’attuazione dell’esserci, l’avvedutezza è una dis-posizione [diáthesis], e in quanto tale rientra tra le cosiddette nozioni relative, «ciascuna delle quali, proprio ciò che è, in sé, si dice esserlo di qualcos’altro, o in qualsiasi altro modo viene riferita a qualcos’altro»169, e tra le qualità che «subiscono mutamenti con facilità e si trasformano rapidamente»170. Per questo motivo nell’interpretazione delle lettere paoline Heidegger definisce phrónema, disposizione dell’animo [Gesinnung], pneúma e sárx (cfr. Rm, 8, 6), che sono due possibili modi d’essere dell’esserci. La phrónesis è, perciò, «una disposizione che orienta la scelta [prohaíresis]»171, la quale ha la forma della deliberazione [Entschlossenheit, bouleúsasthai]: infatti, «deliberiamo sulle cose che dipendono da noi e che sono oggetto d’azione»172. In quanto è “in-vista”173 del Vollzug dell’esserci, la pro-haíresis ha bisogno di un pro-getto, da pro-iacio, gettare avanti: «oggetto di scelta deliberata [prohaíreton] è una cosa che si può prendere avanti [pro héteron airetón]»174. L’“avanti” [pro] designa l’anteriorità 165 NB, in HGA 62, p. 383 (tr. it., p. 57). 166 NB, in HGA 62, p. 383 (tr. it., p. 57). 167 NB, in HGA 62, pp. 383-384 (tr. it., p. 57). Considerando il significato di stéresis in quanto essere e non essere, non ancora essere ed essere già, riferito alla práxis originaria, Van Buren osserva che «come Lutero e Kierkegaard, Heidegger ha trovato nella stéresis un analogo dell’occultamento all’opera nel Deus absconditus nonché nel mysterium dei mistici. Secondo Heidegger in Aristotele, abscondere, nascondere, è la léthe, l’occultamento (Verborgenheit), che essenzialmente definisce la a-létheia praktiké» (J. Van Buren, The Young Heidegger. Rumor of a hidden king, cit., p. 231). 168 HGA 19, p. 139. 169 Aristotele, Categorie, in Organon, cit., 6b, 5-8, p. 22. 170 Ivi, 8b, 35-36, p. 30. 171 Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, II, 6, 1106b, 35, p. 121. 172 Ivi, I, III, 5, 1112a, 30, p. 140. 173 Aristotele, Etica eudemia, tr. it. di P. Donini, Laterza, Roma-Bari 1999, II, 10, 1226a, 11-13, p. 65: «prendendo una decisione uno mostra sempre che cosa decide e in vista di che cosa: l’“in vista” è ciò per cui decide altro, il “che cosa” è quel che decide in vista di altro». 174 Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, III, 4, 1112a, 18, p. 139. Cfr. Id., Etica eudemia, cit., 1226b, 7-8, p. 67. Arendt spiega che l’azione «ha biso-

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della volontà sull’azione: infatti, come nota Lutero, è «a partire da Aristotele che tutte le buone opere procedono da una scelta [ex electione]»175. Electio non è altro che la traduzione medievale di prohaíresis e in questo senso sembra la utilizzi Heidegger allorché afferma che l’attuazione della vita cristiana «si fonda su una elezione [Erwählung]»176, da non intendersi come una sorta di preferenza o predestinazione, poiché Dio si rivolge a tutti indistintamente, ma come la scelta dell’uomo di corrispondere, che in termini indicativoformali è la decisione [Entscheidung] dell’Esserci per il proprio poter-essere. Phrónimos è, dunque, colui che è capace di deliberare su ciò che riguarda sé stesso e il proprio agire: «è opinione comune», scrive Aristotele, «che proprio del saggio è l’esser capace di deliberare [bouleúsasthai] bene sulle cose che sono buone e vantaggiose per lui [tá autó agatá]»177. Phrónimos, afferma Heidegger, è «colui che è in grado di riflettere bene, in modo adeguato»178 e l’oggetto della sua riflessione è «la zoé stessa», la sua arché l’esistenza dell’uomo e il suo télos «l’essere dello stesso riflettente»179. Lutero reputa l’uomo saggio un modello vivente, in quanto è capace di moderare180, e lo accosta all’uomo equo [epieikés], che, secondo Aristotele, «è capace di scegliere deliberatamente»181, di esprimere un giudizio, fondato sulla prudenza. L’epieíkeia, di cui

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gno di un deliberato progettare per il quale Aristotele conia un neologismo, prohaíresis, scelta, nel senso di preferenza tra alternative – l’una cosa piuttosto d’un’altra. Le archaí, inizi e principi [principles] di tale scelta sono il desiderio e il lógos: quest’ultimo ci fornisce lo scopo in vista del quale si agisce; e la scelta diviene il punto di partenza delle azioni stesse. La scelta costituisce una facoltà mediana, inserita, per dir così, all’interno della precedente dicotomia di ragione e desiderio: la sua funzione principale consiste nel mediare l’una con l’altro» (H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 375). M. Lutero, In epistolam Pauli ad Galatas commentarius ex praelectione D. Martini Lutheri, in WA 40/I, p. 419. HGA 60, p. 150 (tr. it., p. 197). Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VI, 5, 1140 a, 25-30, p. 435. La connessione tra saggezza e deliberazione riprende la definizione platonica della sophía come “buon consiglio” (Platone, Repubblica, cit., IV, 428bd, pp. 247-249). HGA 19, p. 48. HGA 19, p. 49. M. Lutero, Volesung über 1. Mose, in WA 44, p. 704. Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, V, 14, 1137b, 34-36, p. 229.

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«Aristotele parla nel bellissimo passo dell’eccellente quinto libro dell’Etica»182, è la «dikastiké phrónesis»183, l’avvedutezza che permette di scegliere il iustum medium, vicina alle virtù bibliche della mediocritas (2 Cor, 10, 1; Ef, 4, 2; Fil, 4, 5; Col, 3, 12; Tt, 3, 2) e della moderatio (1 Tm, 2, 15)184. La dikastiké phrónesis è una «diánoia praktiké»185, che non «ha per oggetto soltanto gli universali, ma deve conoscere anche i particolari»186, in quanto riguarda «una determinata decisione, il centrare il bersaglio o il mancarlo, l’aut aut»187. Dunque, «il prendersi cura nel mondo proprio non è né si basa su di un’autoriflessione nel senso usuale del termine»188, 182 M. Lutero, Volesung über 1. Mose von 1535-1545, in WA 44, p. 704. Lutero parla spesso dell’epieíkeia aristotelica, cfr. Id.: Vorlesung über die Briefe Titus und Philemon, in WA 25, p. 59; Die Doktorpromotion von Hieronymus Weller und Nikolaus Medler, in WA 39/I, p. 61; Predigten des Jahres 1535, in WA 41, pp. 474-475; Vorlesung über 1. Mose, in WA 42, p. 21 e p. 505; Vorlesung über 1. Mose, in WA 43, p. 292; Predigten 1545, in WA 51, p. 103. Per un approfondimento, si veda M. Arnold, La notion d’epieíkeia chez Martin Luther, « Revue d’histoire et de Philosophie Religieuses », 79, 1999. 183 Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VI, 8, 1141b, 24, p. 440. Per Aristotele l’equo, in quanto adattamento della norma alla situazione effettuato dalla scelta deliberata, è un correttivo del giusto legale, ovvero è il giusto che oltrepassa la legge scritta. Di conseguenza, va distinto l’arbitro che guarda l’equo dal giudice che guarda la legge (Aristotele, Retorica, cit., I, 13, 1374a, 27-1374b, 22, pp. 212-213). A proposito della dikastiké phrónesis, Gadamer osserva che chi applica la giustizia deve, «nel caso concreto, prescindere dall’esattezza rigorosa della legge. Ma quando ciò accade non è perché non si può fare di meglio, bensì perché altrimenti non sarebbe giusto. Quando così ci si stacca dalla legge non si fanno dunque delle “riduzioni” della giustizia, ma anzi si trova ciò che è più giusto. Aristotele esprime ciò nel modo migliore nell’analisi dell’epieíkeia, dell’equità, là dove dice che l’epieíkeia è la correzione della legge» (H.G. Gadamer, L’attualità ermeneutica di Aristotele, in Verità e metodo, cit., p. 657). 184 M. Lutero, Volesung über 1. Mose von 1535-1545, in WA 44, p. 704. Sulla differenza tra giustizia come « légalité de l’action » e giustizia come « égalité de proportion » in Lutero e Aristotele, si rimanda a P. Büttgen, Luther et la philosophie, cit., pp. 70-78. 185 Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VI, 2, 1139a, 26, p. 431. 186 Ivi, II, VI, 8, 1141b, 15, p. 439. 187 HGA 19, p. 54. 188 HGA 61, p. 95 (tr. it., p. 129). Sulla saggezza che ha ad oggetto le cose umane, cfr. Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VI, 8, 1141b 10-33, pp. 439-440. Secondo Gadamer, a differenza di Socrate e Platone, che hanno applicato il concetto di téchne all’essere dell’uomo, Aristotele ha operato

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il saper-si dell’esserci non è una forma di psicologismo, di percezione dei vissuti interni, né un’inspectio sui, ma un sapere ‘modale’ in cui il momento ‘pratico’ non è accidentale o secondario, ma essenziale, poiché è la decisione sul proprio modo di essere.

una profonda distinzione tra phrónesis e téchne: «l’uomo non dispone di sé stesso come l’artigiano dispone della materia su sui lavora. Egli non può foggiare sé stesso come foggia qualcosa d’altro. Dovrà dunque essere diverso anche il sapere che egli ha di sé nel campo morale; questo dovrà essere un sapere che si distingue nettamente dal sapere che guida la produzione di oggetti. Aristotele fonda questa distinzione in modo ardito, anzi in termini assolutamente unici, in quanto chiama questo sapere un saper-si, cioè un sapere per sé. In tal modo il sapersi della coscienza morale viene distinto dal sapere teoretico» (H. G. Gadamer, L’attualità ermeneutica di Aristotele, cit., p. 653).

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IV ZÓON LÓGON ÉCHON

1. Il tempo come kinéseos La problematizzazione heideggeriana della temporalità procede di pari passo con quella del movimento, in quanto il tempo non è la cornice in cui si ordinano i fatti, bensì «un modo della motilità nel senso di un carattere che non solo rende possibile la motilità ammettendola al suo interno, ma che entra a farne parte e di fatto genera autonomamente un movimento»1. In effetti, anche Aristotele nell’affrontare la questione attinente alla phýsis del tempo passa in rassegna alcune concezioni precedenti, come quelle che identificano il tempo con il movimento del tutto o con la rotazione della sfera celeste, e conclude che in esse vi è qualcosa di vero, in quanto «il tempo sembra essere soprattutto movimento [kínesis] e un certo cambiamento [metabolé]»2; ma, a differenza del movimento e del cambiamento, che sono rispettivamente in ciò che è mosso e in ciò che cambia, «il tempo è presente ugualmente dappertutto e in ogni singola cosa [pantachú kaí pará]»3. Pertanto, «il tempo non è movimento»4 in senso stretto, kínesis, ma è qualcosa del movimento, kinéseos5, o meglio è «il numero [arithmós] del movimento secondo prima [próteron] e poi [ýsteron]»6. Da questa definizione è 1 2 3 4 5 6

HGA 61, p. 139 (tr. it., pp. 170-171). Aristotele, Fisica, cit., IV, 10, 218b, 9-10, p. 171. Ivi, IV, 10, 218b, 13, p. 171. Ivi, IV, 10, 218b, 18, p. 171. Ivi, IV, 11, 219a, 3, p. 173. Ivi, IV, 11, 219b, 2, p. 175. Per Heidegger il «tempo è numero non nel senso del numero numerante, ma è numero nel senso del numerato. Il tempo come numero del movimento è ciò che è numerato nel movimento» (HGA 24, pp. 338-339; tr. it., p. 229). Perciò, la definizione del concetto ordinario di tempo è: «il NUMERATO che si manifesta nell’osservazione presentante e numerante della lancetta che si sposta, tale che la presentazio-

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possibile ricavare due ulteriori caratterizzazioni. In primo luogo, il tempo, essendo numerato del movimento, lo è anche della quiete: «il tempo è misura [métron] del movimento e del riposo [eremías]»7, ovvero le cose che sono nel tempo possono essere in moto o in quiete, tant’è che non sono nel tempo né il non-essere né l’essere che è sempre, l’eterno. In secondo luogo, se il tempo è arithmós e «se null’altro per natura numera eccetto l’anima»8, il tempo è ovunque, eppure solo nell’anima; in altri termini, poiché il numerare è un atto dell’anima, quest’ultima è il luogo ontologico del tempo. Nell’esposizione aristotelica – la prima esposizione analitica del tempo – Heidegger rinviene alcune intuizioni fondamentali. Innanzitutto, il tempo, pur non coincidendo con il movimento e con il cambiamento, ha a che fare con essi: «il tempo è ciò in cui si svolgono eventi. Già Aristotele vide questo in connessione con il modo fondamentale d’essere dell’essere-natura, cioè del mutamento»9.

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ne si temporalizza in unità estatica col ritenere e con l’aspettarsi, orizzontalmente aperti secondo il prima ed il poi» (HGA 2, p. 556; tr. it., p. 493). Aristotele, Fisica, cit., IV, 12, 221b, 22-23, p. 183. Ivi, IV, 14, 223a, 25, p. 191. M. Heidegger, Der Begriff der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft, in HGA 64, p. 109 (tr. it., Il concetto di tempo, p. 27). Secondo Heidegger «la trattazione aristotelica del tempo è la prima interpretazione dettagliata di questo fenomeno che ci sia stata tramandata. Essa ha determinato in modo essenziale ogni successiva concezione del tempo» (HGA 2, p. 35; tr. it., p. 40), fino a Hegel e Bergson, che ricavano le loro analisi dalla Fisica, in cui il tempo è studiato con il luogo e il movimento, «nel contesto di un’ontologia della natura» (HGA 2, p. 566; tr. it., p. 501). Alla filiazione del concetto hegeliano di tempo da Aristotele, Heidegger dedica alla fine di Essere e tempo una lunga e gravida nota (HGA 2, p. 570571, nota 14; tr. it., pp. 505-506, nota 30; cfr. anche HGA 21, pp. 263-269; tr. it., pp. 174-178), sulla quale Derrida fa, a sua volta, un’altra “nota”, in cui scrive «il concetto di tempo appartiene completamente alla metafisica e dà nome al predominio della presenza. Bisogna dunque concluderne che tutto il sistema dei concetti metafisici, attraverso tutta la loro storia, sviluppa la cosiddetta “volgarità” di tale concetto (cosa che Heidegger senza dubbio non contesterebbe), ma anche che non si può opporgli un altro concetto, poiché il tempo in generale appartiene alla concettualità metafisica. A voler produrre quest’altro concetto, ci si renderebbe presto conto di costituirlo con altri predicati metafisici o onto-teologici» (J. Derrida, Ousia et Grammé. Note sur une note de Sein und Zeit, in Marges – de la philosophie, Minuit, Paris 1972; tr. it. di M. Iofrida, “Ousia” e “grammé”. Nota su una nota di “Sein und Zeit”, in Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, p. 98). Infatti, «l’opposizione di originario e derivato

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Inoltre, la definizione del tempo come il numerato del prima e del poi che a tutta prima sembra una tautologia, perché in fondo non significa altro che il tempo è il tempo, in realtà nasconde la distinzione tra il tempo volgarmente inteso e quello originario10. Tuttavia, dal momento che manca di esperire questa differenza, ad Aristotele si fa risalire esclusivamente la concezione del tempo quantificabile e misurabile con l’orologio, omogeneo ed irreversibile, in cui un “punto-ora” può essere fissato a piacimento in modo tale che di due punti temporali l’uno è prima e l’altro poi: non è un caso che la prima definizione scientifica tratta del tempo della natura. Aristotele si rese conto di cosa nella misurazione del tempo venisse autenticamente misurato. L’orologio solare mostra un’ombra che gira nel costante mutamento di luogo, essa è adesso qui, adesso qui, adesso qui… Tempo è, dunque, dice Aristotele, il numerato in base al movimento rispetto al prima e dopo. Questa definizione è essenzialmente mantenuta fin nella modernità. Anche Kant determina il tempo a partire dalla comprensione della natura. Si tratta ora di comprendere il tempo come realtà di noi stessi. L’essere inautentico del tempo è quello comune, il tempo autentico siamo noi stessi nella nostra singolarità11.

Nonostante dietro la concezione cinetica del tempo si nasconda la storicità della vita fattizia, Aristotele non riesce a cogliere la temporalità come fondamento unitario dell’essere umano, perché rimane prigioniero dell’orizzonte metafisico della comprensione ordinaria del tempo declinata esclusivamente al presente, che lo porta a concepire il movimento in generale come un “produrre” che arriva alla fine e non come un “passaggio” «ék tinos eís ti, “da qualcosa a qualcos’altro”»12, e il tempo come una successione di “ora” finiti, l’uno

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non è ancora metafisica? La richiesta dell’archia in generale, quali che siano le precauzioni con cui si circonda questo concetto, non è l’operazione “essenziale” della metafisica?» (ivi, p. 99). HGA 24, pp. 341-342 (tr. it., p. 231). WDF, p. 173 (tr. it., p. 51). Per Heidegger «non vi è un tempo della natura perché ogni tempo appartiene essenzialmente all’esserci. Piuttosto, vi è un tempo mondano. Chiamiamo perciò il tempo “tempo mondano” perché ha il carattere della significatività, un carattere che è sfuggito alla definizione aristotelica e, in generale, alla determinazione tradizionale di questo fenomeno» (HGA 24, p. 370; tr. it., p. 250). HGA 24, p. 348 (tr. it., p. 235). Secondo Heidegger l’analisi aristotelica del tempo è «guidata da una comprensione dell’essere, la quale – operando di nascosto da se stessa – comprende l’essere come presenza [Gegenwart] per-

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accanto all’altro. Eppure, come per Agostino, che lo definisce «distensio animi»13, anche per Aristotele il tempo è qualcosa che avviene nell’anima, tant’è che Heidegger suggerisce di destituire la tradizionale opposizione tra il padre della concezione ‘psicologica’ del tempo e quello della concezione fisica14. Aristotele, dunque, in qualche modo intuisce l’essenza temporale del corpi mondani15, come dice Lutero, ovvero in termini heideggeriani che la vita è essenzialmente storica, in quanto è una mobilità e «la mobilità un Come della temporalità, dell’effettività»16.

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sistente, e determina, in conformità, l’“essere” del tempo a partire dall’“adesso” [Jetzt], vale a dire dal carattere temporale che nel tempo, è sempre presente [anwesend], ossia che propriamente “è”» (HGA 3, p. 241; tr. it., p. 207). Aristotele ricava dal tempo «la determinazione del senso dell’essere, come ousía e parousía, che ha il significato ontologico-temporale di “presenzialità” [Anwesenheit]. L’ente è concepito nel suo essere come presenzialità, cioè viene compreso in riferimento a un determinato modo del tempo, il presente» (HGA 2, p. 34; tr. it., p. 39). Lutero contrappone al filosofare dei greci, atto a cogliere l’ente presente, quello di Paolo, che «non dice “essenza”, oppure “operazione” creaturale (cioè “actio”, o “passio”, “motus”), ma con un nuovo stupendo vocabolo dice teleologicamente “l’attesa della creazione”» (M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 371; tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 113). Sant’Agostino, Le Confessioni, cit., XI, 26, p. 342. Come è già stato messo in luce, nonostante quest’intuizione sulla temporalità dell’uomo, Agostino, secondo Heidegger, rimane prigioniero della concezione metafisica del tempo e della presenza; in effetti, per Agostino futuro e passato non esistono e «impropriamente si dice: “tre sono i tempi: il passato, il presente e il futuro”. Più esatto, sarebbe dire: “tre sono i tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro”. Queste ultime tre forme esistono nell’anima, né vedo possibilità altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa» (ivi, XI, 20, p. 337). Heidegger adduce come esempi Aristotele e Agostino per mostrare che, «benché l’esperienza ordinaria del tempo, innanzitutto e per lo più, conosca soltanto il “tempo-mondano”, essa gli conferisce pur sempre un particolare riferimento all’“anima” e allo “spirito”» (HGA 2, p. 564; tr. it., p. 500 e HGA 3, p. 241; tr. it., p. 207). M. Lutero, Das Marburger Gespräch und die Marburger Artikel, in WA 30/III, p. 153. Cfr. Aristotele, Il cielo, a cura di A. Jori, Rusconi, Santarcangelo di Romagna 1999, I, 279a, 17, p. 195: «fuori del cielo non esistono né luogo, né vuoto, né tempo». HGA 63, p. 65 (tr. it., p. 70). La domanda che chiede “che cos’è il tempo?” rinvia «all’esserci, se con “esserci” si intende l’ente che noi conosciamo come vita umana, nel suo essere; questo ente inteso nell’essere-di-voltain-volta [Jeweiligkeit] del suo essere, l’ente che ognuno di noi è, che

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1.1. L’éschaton atheíon Nella Fisica Heidegger rinviene due nozioni che esprimono la Geschichtlichkeit della vita fattizia, týche e autómaton, solitamente tradotte “fortuna” e “caso”, che sono cause accidentali, oscure e indeterminate, poiché contravvengono a ogni ragionamento; in particolare, la prima ha a che fare con la scelta e perciò si riferisce esclusivamente ad enti che hanno capacità di agire, la seconda, invece, vale per tutti gli esseri animati e inanimati. Heidegger «intende dimostrare come Aristotele con le espressioni týche e autómaton (del tutto intraducibili nel loro significato autentico) espliciti ontologicamente la motilità “storica” della vita effettiva, la motilità di ciò che “ad uno accade e può accadere quotidianamente”»17. Attraverso la ‘contingenza’ di týche e autómaton Heidegger pensa, come aveva fatto nel corso su Paolo a proposito dell’avvento dell’Anticristo, alla cosiddetta «logica del destino [Logik des Schiksal]»18, all’evento [Geschehen] dell’Esserci, al fine di sviluppare la sua scienza originaria della fatticità in opposizione al principio aristotelico secondo cui si dà scienza solo del necessario, di ciò che «non può comportar-

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ognuno di noi coglie nell’asserzione fondamentale: io sono» (M. Heidegger, Der Begriff der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft, in HGA 64, pp. 111-112; tr. it., Il concetto di tempo, pp. 30-31). NB, in HGA 62, p. 395 (tr. it., p. 75). Cfr. Aristotele, Fisica, cit., II, 4-6, 195b 31-198a 13, pp. 65-75. NB, in HGA 62, p. 365 (tr. it., p. 34). Il destino è «l’accadere originario dell’Esserci, quale ha luogo nella decisione autentica in cui l’Esserci, libero per la sua morte, si tramanda in una possibilità ereditata e tuttavia scelta. L’Esserci è esposto ai colpi del destino solo perché, nel fondo del suo essere, è destino nel senso suddetto. Carico di destino, esistente nella decisione autotramandantesi, l’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, è aperto al “venire incontro” delle circostanze “felici” e delle crudeltà del caso» (HGA 2, p. 508; tr. it., p. 452). Pertanto, «se il destino costituisce la storicità originaria dell’Esserci, la storia non ha il suo centro di gravità né nel passato né nel presente e nella sua connessione col passato, ma nell’accadere autentico dell’esistenza quale scaturisce dall’avvenire» (HGA 2, p. 510; tr. it., p. 454). A partire dagli anni Trenta, Heidegger sviluppa pienamente la Logik des Schiksal, come storia del darsi dell’essere: «il destino è essenzialmente destino dell’essere, e lo è in modo tale che l’essere si invia e sussiste sempre come un destino, e si trasforma conforme al suo mandato» (M. Heidegger, Die Kehre, in HGA 79, p. 69; tr. it., La svolta, p. 11). Infatti, «ciò che nel destino è segnato è proprio il fatto di destinarsi secondo un mandato che di volta in volta è unico […]. Ciò che nel destino è segnato si raccoglie in sé in un attimo cruciale» (ibidem).

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si diversamente da come si comporta»19. Lutero, a sua volta, si appella ai concetti di “fortuna” e “caso” per sottolineare il limite davanti al quale è costretta ad arrestarsi la razionalità di matrice aristotelica, che pretende di cogliere l’eternità, l’essenza di Dio, extra et ante tempus, al di là della creazione e dell’incarnazione20, affermando: «ibi maiorem esse fortunam, ubi intellectus est minor»21. Lutero si serve, inoltre, delle nozioni di týche e autómaton per il tema della caducità delle cose umane, in quanto il caso e la fortuna interferiscono sull’anánke [Not], la condizione d’indigenza che caratterizza la vita dell’uomo22. È, però, nell’Etica che Heidegger trova non solo la differenza tra aión e chrónos, tra eternità e tempo misurabile, che in fondo già Eraclito conosceva, quanto un’altra modalità di aístesis del tempo, il tempo come Geschehen: si tratta del kairós, il bene [agathón] predicato «nel tempo, come occasione»23. Kairós è rappresentato dagli antichi come un giovinetto in equilibrio su una sfera in movimento, con ali sulla schiena e ai piedi, con un ciuffo sulla fronte per essere afferrato al volo e con in mano un rasoio per recidere/decidere o una bilancia per soppesare le scelte24. Kairós è, infatti, il tempo riconosciuto opportuno e propizio per agire, perché «nel campo delle azioni e dell’utile non vi è nulla di stabile, come non v’è neppure in materia di salute […]. È necessario che siano sempre quelli stessi che agiscono a scorgere le cose che la circostanza richiede, come avviene anche nel caso della medicina e dell’arte del pilotare la nave»25. 19 20 21 22

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Aristotele, Secondi Analitici, in Organon, cit., I, 33, 88 b, 32, p. 353. M. Lutero, Vorlesung über 1. Mose, in WA 42, p. 10. M. Lutero, Vorlesung über die Stufenpsalmen, in WA 40/III, p. 242. Cfr. anche Id.: Dictata super Psalterium, in WA 4, p. 459; Vorlesung über 1. Mose, in WA 42, p. 98; Die “Dialectica”, in WA 60, pp. 145-146. M. Lutero, Vorlesung über die Stufenpsalmen, in WA 40/III, pp. 202-203. Cfr. altresì Id., Ad librum eximii Magistri Nostri Magistri Ambrosii Catharini, defensoris Silvestri Prieratis acerrimi, responsio, in WA 7, p. 707 (tr. it., Replica ad Ambrogio Catarino sull’Anticristo, p. 48). Lutero, facendo salva la possibilità propria dell’uomo di autoprogettarsi, distingue l’anánke dalla necessità logica – usata dai teologi per misinterpretare il testo sacro – e dal mero determinismo del mondo animale e vegetale. Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, I, 4, 1096a, 27, p. 86. Per l’iconografia di kairós, si rimanda a A. Zaccaria Ruggiu, Le forme del tempo. Aion Chronos Kairos, Il Poligrafo, Padova 2006. Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, II, 2, 1104a, 4-9, p. 112. Si veda anche Id., Retorica, cit., III, 1408b, 1, p. 331e 1415b, 12, p. 360.

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È la phrónesis a far compiere ogni scelta al momento giusto, a far agire «quando si deve e nelle circostanze in cui si deve»26, come ad esempio accade «quando nelle tempeste si getta in mare il carico. Infatti in assoluto nessuno lo getta volontariamente, ma per la salvezza propria e degli altri tutte le persone fornite di senno lo fanno»27. Dunque, «la phrónesis rende accessibile la situazione di colui che agisce, tenendo fermo l’ouk éneka, il per-che, mettendo a disposizione il per-che-cosa appena determinato, afferrando l’“adesso”; prescrivendo il come»28; la phrónesis scaturisce e si indirizza verso l’éschaton, che è «il punto estremo della deliberazione e, allo stesso tempo, la presentificazione della situazione fattuale in cui l’azione comincia»29. Mentre la sophía custodisce il necessario e l’eterno, la phrónesis custodisce il kairós, ciò che non necessariamente e sempre è ciò che è, che Heidegger traduce – analogamente al kairós paolino – con Augenblick: la phrónesis è lo scorgere ciò che è unico [Erblicken des Diesmaligen], l’unicità della situazione attimale [augenblicklich]. In quanto aísthesis, essa è il colpo d’occhio [der Blick des Auges], l’occhiata [der Augen-blick] su ciò che di volta in volta si offre come concreto e che può essere sempre altrimenti. Invece il noéin nella sophía è il considerare ciò che è aeí e che è sempre presente nella sua Stessità. Il tempo – l’attimo [Augen-blick] e il Sempre-essente – funge qui da discrimine del noéin nella phrónesis e nella sophía30.

L’unicità dell’esserci sta nel fatto che «c’è in quanto non ancora, come infine per-, come già, come quasi, come fin’ora, come prima cosa, come infine. Questi siano indicati come momenti kairologici dell’esserci»31 e distinti da quelli meramente cronologici. Dunque, la vita avviene e «ogni forma di avvento ha come tale un carattere cairologico (kairós, tempo) determinato (fattizio), una sua determi26 27 28 29

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Ivi, I, II, 5, 1106b, 21, p. 120. Ivi, I, III, 1, 1110a, 9-11, pp. 131-132. NB, in HGA 62, p. 383 (tr. it., p. 56). HGA 19, p. 158. La deliberazione in quanto ricerca giunge alla causa prima, che nell’ordine della scoperta è l’ultima (Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, III, 5, 1112b, 11-28, pp. 140-141); pertanto, «i principi delle nostre azioni sono il fine al quale le azioni tendono» (ivi, II, VI, 5, 1140b, 16-17, p. 436; si veda anche Id., Dell’anima, cit., III, 10, 433a, 16, p. 184). HGA 19, p. 164. HGA 63, p. 101 (tr. it., p. 106).

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nata relazione col tempo, e cioè col suo tempo»32. Il tempo dell’evento dell’Esserci è il tempo come «limite [péras]»33, come estremo dei tempi, il «tempo della grazia [der Zeit der Gnaden]»34 (cfr. 32

33

34

HGA 61, p. 137 (tr. it., p. 169). La temporalità costituisce il senso unitario della cura, in quanto poter-essere dell’Esserci, e ricomprende in sé esistenzialità, fatticità e deiezione (HGA 2, pp. 254-261; tr. it., pp. 233-239). Difatti, «l’avanti-a-sé [Sich-vorweg] si fonda nell’avvenire. L’esser-già-in [Schon-sein-in]… manifesta l’essere-stato. L’esser-presso [Sein-bei]… è reso possibile nella presentazione» (HGA 2, p. 433; tr. it., p. 388). Avvenire, esser-stato e presente «rivelano la temporalità come l’ekstatikón puro e semplice» (HGA 2, p. 435; tr. it., p. 390). Pertanto, «l’espressione ekstatikón non ha nulla a che fare con stati di estasi o simili. La comune espressione greca ekstatikón significa l’uscir-fuori-di-sé. Essa si ricollega al termine “esistenza”. Attraverso il carattere estatico noi interpretiamo l’esistenza e questa, considerata da un punto di vista ontologico, è l’unità originaria dell’esser-fuori-di-sé pervenente-a-sé, rivenente-su-di-sé e presentificante. La temporalità determinata estaticamente è la condizione della struttura ontologica dell’esserci» (HGA 24, pp. 377-378; tr. it., pp. 255-256). Quest’accezione di ekstatikón risale ad Aristotele, il quale afferma che il tempo «è numero del movimento, e il movimento costringe fuori di sé l’esistente [e dé kínesis exístesin tó ypárchon]» (Aristotele, Fisica, cit., IV, 12, 221b, 2-3, p. 183; vedi anche Id., Dell’anima, cit., I, 3, 406b, 13, p. 112) e che «ogni cambiamento è per sua natura distruttore [ekstatikón]» (ivi, IV, 13, 222b, 16, p. 187). Aristotele, Fisica, cit., VI, 3, 234a, 3, p. 247. Secondo Heidegger, «pensato nell’accezione filosofica greca, péras non è il limite nel senso del bordo esteriore dove qualcosa cessa. Limite è ciò che delimita e determina, ciò che dà sostegno e consistenza, ciò con cui ed in cui qualcosa ha principio ed è» (M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der phýsis. Aristoteles, Physik B, 1, in HGA 9, p. 269; tr. it., Sull’essenza e sul concetto della phýsis. Aristotele, Fisica B, 1, p. 224). M. Lutero, Die Sieben Bußpsalmen, in WA 1, p. 170 e p. 201 (tr. it., I sette salmi penitenziali, p. 88 e p. 132). Il dono, come insegna Derrida, «non dona che nella misura in cui esso dona il tempo. La differenza tra un dono e ogni altra operazione di scambio puro e semplice, è che il dono dona il tempo. Dove c’è il dono, c’è il tempo» (J. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, cit., p. 44). Il concetto di dono appartiene tanto al mondo greco – basti pensare alla “prodigalità” aristotelica (Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, IV, 1, 1119b, 20-IV, 3,1122a, 16, pp.165-173) – che a quello latino – esempio ne è la “generosità”, posta da Seneca a fondamento della società (L. A. Seneca, Sui benefici, tr. it. di M. Menghi, Laterza, Roma-Bari 2008) – così come all’orizzonte cristiano. Nel Novecento hanno preso il via, a partire dal Saggio sul dono di Marcel Mauss, in ambito socio-economico le ricerche del MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales), sviluppate da Alain Caillé, Jacques T. Godbout e Serge Latouche, e in ambito propriamente filosofico le riflessioni di Ge-

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Is, 49, 8), del dono, che è dono dell’inizio e della fine (éschaton); è il tempo in cui si attualizza la decisione [proaíresis, l’Entscheidung] dell’Esserci per la propria Eigentlichkeit: «l’alétheia praktiké è semplicemente l’attimo […] della vita effettiva, nel come della disponibilità ad aver-a-che-fare con se stessa, nel modo della decisione, e ciò avviene all’interno di un rapporto effettivo che si prende cura del mondo, proprio nel momento in cui esso gli viene incontro»35. 2. La cura [Sorge] Per Heidegger «la motilità della vita fattizia può essere preventivamente presentata e descritta come inquietudine [Unruhe]»36, tenendo conto che «inquietudine non significa uno stato d’animo che si esprime in un’espressione del viso preoccupata, ma l’esser deciso effettivo, l’afferrare l’esistenza come ciò di cui ci si prende cura»37. La cura, in tedesco Sorge, traduce l’epiméleia greca, che in Aristotele ha due ambiti di riferimento, domestico e politico38; corrispondenze signifi-

35 36 37

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orges Battaile, incentrate sulla nozione di Dépense. Oltre all’importante saggio di Jacques Derrida sopra menzionato, per una prima ricognizione di questa tematica rimandiamo a: P. Gilbert - S. Petrosino, Il dono, il melangolo, Genova 2001; G. Richard, Nature et formes du don, L’Harmattan, Paris 2000 e S. Zanardo, Il legame del dono, Vita e pensiero, Milano 2007. NB, in HGA 62, p. 384 (tr. it., p. 57). HGA 61, p. 93 (tr. it., p. 128). HGA 62, p. 357, nota 39 (tr. it., p. 24, nota 37). Il punto di vista sulla cura, proprio dell’analitica esistenziale, Heidegger lo adotta «in occasione dei tentativi di un’interpretazione dell’antropologia agostiniana (cioè grecocristiana) in riferimento ai fondamenti basilari raggiunti nell’ontologia aristotelica» (HGA 2, p. 264, nota 3; tr. it., p. 242, nota 7). Larivée e Leduc sostengono che «attraverso le sue analisi sulla práxis in Aristotele Heidegger sviluppa l’idea che la cura è il modo d’essere primario di tutto l’uomo nel suo rapporto al mondo e non solamente un orientamento particolare e interiore dell’anima, così come la presentano, per una larga parte, le analisi della vita fattizia cristiana» (A. Larivée – A. Leduc, Saint Paul, Augustin et Aristote comme sources gréco-chrétiennes du souci chez Heidegger. Élucidation d’un passage d’Être e temps (§ 42 note 1), cit., pp. 45-46); così il termine Bekümmerung viene progressivamente sostituito con Sorge, perché la cura non è solo inquietudine, ma la struttura originaria dell’Esserci (ivi, p. 49). Aristotele, Politica, a cura di C. A. Viano, Bur, Milano 2002, III, 4, 1277b, 24-25, pp. 247-249.

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cative ci sono, però, anche con un altro concetto aristotelico, l’órexis, la cui traduzione comune è “desiderio”, sebbene più vicini al significato originario siano i termini “tendenza” o “tensione”, che rendono meglio l’essenziale funzione di generare il movimento: la matrice del vocabolo è, infatti, orégo, “tendo”, cerco di raggiungere o di colpire, e nella forma mediale “mi protendo”, nel duplice senso di tendere le mani per abbracciare o l’asta per ferire39. Nel linguaggio aristotelico l’órexis designa «una sorta di movimento»40, più precisamente un movimento atto a concludersi, che non ha ancora raggiunto il compimento; l’órexis è la tensione di un ente verso il suo fine, il suo bene41, la tendenza, che esprime l’azione del divenire mentre diviene42. L’órexis, peraltro, da un lato è infinita, poiché non esaurisce mai la sua potenza, dall’altro è finita, poiché è anche limite: come la lotta e la giornata, che mentre si svolgono non sono concluse, ma nel concludersi, l’órexis è sempre nel suo compiersi, «è sempre nella generazione e nella corruzione: ogni suo momento è finito ma sempre diverso [éteron kaí éteron]»43. Nella caratterizzazione heideggeriana della Sorge viene custodito l’attuarsi in diversi ambiti proprio dell’epiméleia, il carattere di motilità in quanto pro-tendersi dell’órexis, nonché il suo modo [Wie] non univoco. La cura è il senso di riferimento del vivere, che ha come contenuto, come consegna, il mondo – il mondo ambiente, proprio e collettivo44 – e che si attua in maniera rovinante o auten39

40 41

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È lo stesso Heidegger a tradurre, ontologizzandola, órexis con Sorge. Il caso più significativo riguarda il passo iniziale della Metafisica: «tutti gli uomini desiderano per natura di conoscere [pántes ántropoi tou eidénai orégontai phýsei] (Aristotele, La metafisica, cit., I, I, 1, 980a, 21, p. 429), che Heidegger traduce: «nell’essere dell’uomo sta essenzialmente la cura del vedere [im Sein des Menschen liegt wesenhaft die Sorge des Sehens]» (HGA 20, p. 380; tr. it., p. 341). Aristotele, Dell’anima, cit., III, 10, 433b, 18, p. 186. L’órexis è un’aspirazione universale: «ciascuno aspira [orégetai] al bene» (Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VIII, 15, 1162b, 13, p. 516). Per l’interpretazione heideggeriana dell’órexis, si veda HGA 6.1, pp. 51-54 (tr. it., pp. 65-67). Aristotele, Dell’anima, cit., III, 10, 433a, 15-16, p. 184: «l’appetito ha […] sempre di vista uno scopo». Aristotele, Fisica, cit., III, 6, 206a, 32-33, p. 115. In Essere e tempo Heidegger riporta alla radice unitaria della Sorge i tre modi d’agire dell’uomo, theoría, poíesis e práxis: la cura, infatti, è un fenomeno articolato, che si attua, rispetto agli altri, come Für-sorge, “aver cura” (HGA 2, § 26), e, rispetto agli enti intramondani, come Be-sorgen, “prendersi cura”, comprendente comportamenti pratico-tecnici e teoretici

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tica, a seconda che l’esserci dia o meno una posizione privilegiata a uno dei contesti di significatività che incontra: infatti, «è proprio una caratteristica del modo di maturazione della vita fattizia che il mondo sia vissuto in uno specifico non-evidenziamento di questi mondi»45. La motilità della cura emerge considerando le sue tre categorie fondamentali riferite al mondo: l’inclinazione, la distanza e la chiusura. L’inclinazione [Neigung] spinge la vita verso il mondo, le dà «una peculiare gravità [Gewicht], una direzione di gravitazione [Gewichtsrichtung], un impulso-verso [Zug-zum]»46. Non si tratta di un peso che è impresso alla vita dall’esterno, ma è invece il peso della vita stessa, l’oneri mihi factus sum agostiniano: la vita effettiva ha il carattere ontologico di soffrire sotto il suo stesso peso. La manifestazione inconfondibile di tale carattere è la tendenza della vita a prendersi alla leggera. In questo soffrire sotto il proprio peso la vita è faticosa, secondo il suo senso fondamentale d’essere, e non nel senso di una qualità casuale. Se essa è autenticamente ciò che è in questo essere pesante e faticosa, allora il modo di accesso propriamente adeguato ad essa e i suoi modi di custodia potranno consistere solo in un rendersi la vita faticosa47.

“Rendersi la vita faticosa” e “prendersi alla leggera” sono le due tendenze fondamentali, l’una autentica l’altra inautentica, della vita fattizia; ad ogni modo, nell’inclinazione «la vita riluce su di sé in quanto vita avente-cura»48, cosicché come «l’inclinazione che ci porta al male e che resiste al bene»49 è per Lutero il fomite essenziale della natura umana, l’essere-incline [Geneigtheit] è per Heideg-

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(HGA 2, § 15). Perciò, non c’è un primato del “pratico” sul “teoretico”: «“teoria” e “prassi” sono possibilità dell’essere di un ente il cui essere deve essere determinato come Cura» (HGA 2, p. 257; tr. it., p. 236). Come spiega Ruggenini, il senso della prassi originaria «viene prima ed è più fondamentale di quello che entra in gioco nelle consuete distinzioni tra teoria e prassi, tra azione e contemplazione, dato che si tratta in ogni caso di comportamenti che sono possibili solo sul fondamento dell’originario comprendersi-progettarsi del Dasein in un mondo» (M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica, Bulzoni, Roma 1977, p. 55). HGA 61, p. 95 (tr. it., p. 129). HGA 61, p. 100 (tr. it., p. 134). NB, in HGA 62, p. 349 (tr. it., pp. 12-13). HGA 61, p. 119 (tr. it., p. 152). M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 271 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 202).

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ger una ‘fatalità’ ontologico-esistenziale e non un cattivo carattere da eliminare: nella motilità del curare è vitale un’inclinazione verso il mondo, in quanto propensione a disperdersi e a lasciarsi prendere da esso. Questa inclinazione propria del curarsi è espressione di una tendenza, effettiva e fondamentale, della vita ad allontanarsi da se stessa e, in ciò, a decadere nel mondo, ovvero una tendenza alla rovina di se stessa. Questo carattere fondamentale della motilità della cura deve essere fissato terminologicamente come inclinazione della vita effettiva alla deiezione (o in breve: deiezione verso)50.

Nel riferimento al mondo, la vita ha le significatività dinanzi a sé e può decidere se tenerle o meno a distanza: «distanza [Abstand]» e «cancellazione della distanza [Abstandstilgung]»51 sono assolutamente rilevanti per l’attuazione. Infatti, quando l’esserci assume come métron il mondo, quando si progetta a partire dal mondo, si lascia trascinare per mera autosoddisfazione dalle significatività di cui si prende cura – in multa defluximus diceva Agostino –: «è la cura stessa nei suoi riferimenti, la vita nel mondo, che si distrae, e l’essere incline, che è ben desto in questa tendenza, mantiene la vita nelle sue distrazioni [Zerstreuungen]»52. Cedendo alla pressione delle significatività, la vita fattizia cancella il dinanzi, «vivendo nell’essere-incline e nella distrazione la vita non mantiene la distanza; prende cioè una “svista” […]. Nella svista [ver-sehen], rispetto alla distanza, la vita perde di vista [ver-messen] se stessa»53, rifulgendo in determinate distinzioni [Abständlichkeiten] mondane – di rango, fama, ricchezza, e quant’altro –, che le conferiscono un carattere iperbolico. Se, mantenendo la distanza, la vita fattizia si mantiene aperta per la propria autenticità, nel farsi trascinare dalla ‘mondanità’, nella sua ambitio saeculi, si evita, si lascia-fuori: «nella cura la vita si chiude contro se stessa e tuttavia, proprio in questa chiusura [Abriegelung], non può liberarsi di sé. Nel suo incessante guardare altrove, essa si cerca sempre e si incontra proprio laddove non se l’a50

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NB, in HGA 62, p. 356 (tr. it., p. 21). Nell’«inclinazione dell’Esserci a lasciarsi “vivere” nel mondo in cui già sempre è», l’“esser-avanti-a-sé”, in quanto essere per il proprio poter-essere, si perde in un “esser-sempre-giàsoltanto-presso”(HGA 2, p. 259; tr. it., p. 238). HGA 61, p. 103 (tr. it., p. 136). HGA 61, pp. 101-102 (tr. it., p. 135). HGA 61, p. 103 (tr. it., p. 137).

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spetta, per lo più proprio nei suoi mascheramenti (larvanza)»54. Per descrivere la vita che si nasconde da sé, divenendo niente più che una maschera, un simulacro, uno spettro, Heidegger rispolvera il senso latino di larva così come è utilizzato anche da Lutero55. In questo caso la vita ha un carattere ellittico, in quanto ‘in giro’ per il mondo, gira in continuazione intorno a sé, si ag-gira, nel senso luterano dell’atto di peccare in quanto «girare alla larga dal bene»56; la vita, nel curarsi del mondo, si tras-cura, omette di curarsi, cercando di darsi falsa securitas, che è appunto un’assenza di cura [Sorglosigkeit]. Entrambi i caratteri, l’iperbolico e l’ellittico, racchiudono il significato originario del greco hamartía, che oltre a “peccato” e “errore” significa “mancante di”; del resto l’allontanarsi della vita dalla giusta misura in direzione dell’eccesso e del difetto rimanda alla nota formulazione aristotelica del mesótes57 – un punto d’equilibrio difficile da raggiungere a cui tende ogni virtù –, reinterpretato da Heidegger, anche a partire dalla nozione paolina di enkráteia, continentia, il dominio di sé di chi vive secondo lo spirito (Gal, 5, 22; 1 Cor, 9, 25; Tt, 1, 8), in chiave ontologica: «mesótes non è qualcosa come la medietà»58, anzi è ciò che orienta la héxis a trarre l’esserci fuori dalla quotidianità per «guadagnare se stesso»59. 3. La rovina «Strage e rovina è sul loro cammino» (Rm, 3, 16) afferma Paolo a proposito degli uomini indaffarati in cose mondane e Lutero osserva che l’apostolo «qui ritrae il loro destino. Il primo elemento è la 54

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HGA 61, p. 107 (tr. it., p. 140). L’apertura dell’Esserci al proprio essere autentico si realizza come «chiarificazione delle contraffazioni con cui l’Esserci si occlude [abriegeln] contro se stesso» (HGA 2, p. 173; tr. it., p. 161). M. Lutero, In epistolam Pauli ad Galatas commentarius ex praelectione D. Martini Lutheri, in WA 40/I, p. 174: «ogni creatura è sua [di Dio] larva». M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 271 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 203). Ogni virtù «ha per oggetto passioni ed azioni, nelle quali l’eccesso costituisce un errore e il difetto è biasimato, mentre il mezzo è lodato» (Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, II, 1106b, 24-25, p. 120). HGA 18, p. 179. HGA 18, p. 180.

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rovina, il fatto cioè, che essi vengano calpestati, sminuiti e umiliati tanto nel corpo che nell’anima»60 e «quanto più a lungo perseverano in quella loro via, tanto più si avviliscono, incattiviscono e si inaspriscono. Al contrario, coloro che camminano nelle vie del Cristo crescono sempre più e si impongono. Perciò in loro predomina il consolidamento e la crescita, negli altri invece la rovina e la desolazione»61. Se “ruina”, in termini cristiano-filosofici significa «decedere, trapassare – in riferimento all’immortalità»62, indicata formalmente è la motilità che «la vita fattizia attua, cioè “è” in sé stessa, in quanto è sé stessa, per sé stessa, fuoriuscendo da sé e, in tutto ciò, contro sé stessa»63. Nel rovinio, in quanto attuazione deietta della cura, inclinazione, distanza e chiusura sono permeate da due categorie intimamente connesse tra loro, la rilucenza [Reluzenz] e la prestruzione [Praestruktion]. La rilucenza è il «movimento della vita verso se stessa all’interno di ciascun incontro»64, è il re-lucere della vita non di luce propria, ma di luce riflessa, è il modo in cui la vita si determina non a partire da sé, ma da ciò con cui di volta in volta entra in rapporto. Rilucendo di luce riflessa, la vita non può mai essere comple60 61 62 63 64

M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 245 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 175). Ivi, p. 246 (tr. it., I, p. 175). HGA 60, p. 215 (tr. it., p. 276). HGA 61, p. 131 (tr. it., p. 163). HGA 61, p. 119 (tr. it., p. 152). La Reluzenz ritorna in Essere e tempo, come «il riflettersi [Rückstrhlung] ontologico della comprensione del mondo sulla interpretazione dell’Esserci» (HGA 2, p. 22; tr. it., p. 29), nel senso che l’Esserci «ha l’inclinazione a cadere in quel mondo che gli appartiene e in cui è, e ad interpretarsi alla luce riflessa [reluzent] da esso» (HGA 2, pp. 2829; tr. it., p. 35). Per questo il nostro esserci «ci è onticamente vicino» (HGA 2, p. 21; tr. it., p. 28; cfr. anche HGA 2, p. 59; tr. it., p. 62 e p. 412; tr. it., p. 370), ma «nonostante ciò, o proprio per ciò, esso è ontologicamente ciò che vi è di più lontano» (HGA 2, p. 21; tr. it., p. 28). Il fatto che al nostro esserci rimanga nascosto il suo modo d’essere, fintantoché si comprende in base all’ente a cui si rapporta innanzitutto e per lo più, rimanda alla descrizione aristotelica del processo di conoscenza, che muove dalle cose più manifeste per noi (il generale) per arrivare a quelle più manifeste per natura (il particolare), fatta nel primo capitolo del primo libro della Fisica (Aristotele, Fisica, cit., I, 1, 184a, 18-23, p. 3), che «è l’introduzione classica alla filosofia e rende ancora oggi superflue intere biblioteche di letteratura filosofica. Chi ha compreso questo capitolo può osare i primi passi sulla via del pensiero» (HGA 10, p. 94; tr. it., p. 114).

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tamente trasparente a se stessa, anzi resta sempre in una sorta di opacità: «la nebulosità [Diesigkeit] è colpa [Schuld] della vita stessa; la fatticità della vita consiste proprio nel tenersi in quella colpa, nel ricadere sempre di nuovo in essa»65. La colpa non è una qualità morale, ma attiene al «problema del principio e di ciò che è principiale (arché – aítion)»66, tant’è che i termini greci per “principio”67 hanno il senso duplice di Ursache, «da dove (arché)»68, e Schuld, «in che senso (aítion)»69. Lutero, attenendosi alle categorie aristoteliche, definisce la Schuldigkeit il “peccato” in potenza, che non è una privazione accidentale, rientrante «nel predicamento della qualità, stando al linguaggio della logica e della metafisica»70 caro ai teolo65

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HGA 61, p. 88 (tr. it., p. 123). Secondo Kierkegaard «in ogni uomo vi son degli ostacoli che, in un certo senso, non gli permettono di diventare completamente trasparente a se stesso» (S. Kierkegaard, Aut-Aut. Estetica ed etica nella formazione della personalità, cit., p. 7). Gadamer spiega che «la nebulosità non significa semplicemente offuscamento della vista, ma descrive la costituzione fondamentale della vita come tale, il movimento in cui essa si realizza. La vita annebbia se stessa. In questo annebbiamento risiede la sua caratteristica antiteticità, come ha insegnato Nietzsche: non solo tendere e conoscere nella chiarezza, ma anche nascondersi e obliarsi nell’oscurità» (H.G. Gadamer, Der Denker Martin Heidegger, in Heideggers Wege. Studien zum Spätwerk, cit.; tr. it., Il pensatore Martin Heidegger, in I sentieri di Heidegger, cit., p. 55). HGA 61, p. 112 (tr. it., p. 145). Heidegger lega esplicitamente colpa e causa originaria: «da dove, a partire da dove, quale fondamento, quale causa, perché così e non altrimenti, perché in generale e in virtù di che cosa? In termini formali, e da un punto di vista generale, archaí – aítion: che cosa ne reca la colpa?» (HGA 22, p. 191; tr. it., p. 283). La causa originaria è «quella cosa per colpa della quale un ente è ciò che esso è. Questo aver colpa non ha il carattere del causare, nel senso del produrre “causalmente” degli effetti […]; la parola “causa” va qui intesa letteralmente come quell’elemento primordiale che costituisce la cosalità [Sachheit] di una cosa» (M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der phýsis. Aristoteles, Physik B, 1, in HGA 9, pp. 245-246; tr. it., Sull’essenza e sul concetto della phýsis. Aristotele, Fisica B, 1, p. 200). Aristotele, Generazione e corruzione, in Opere 4, cit., I, 7, 324a, 27, p. 41: «il principio è la prima delle cause». Scoprire il perché di ogni cosa significa impadronirsi della causa prima (Aristotele, Fisica, cit., II, 3, 194b, 19-20, p. 59). Sui concetti di principio e di causa, cfr. Id., La metafisica, cit., II, IV, 2, 1003b, 22-24, p. 180 e V, 1, 1012b, 34-V, 2, 1014a, 25, pp. 501-504. NB, in HGA 62, p. 375 (tr. it., p. 45). NB, in HGA 62, p. 375 (tr. it., p. 45). M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 312 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 240). Per Aristotele alla qualità appartiene la con-

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gi scolastici, ma la natura stessa dell’uomo, la sua sostanza decadente, il suo «proprio»71, la sua esclusiva proprietà72. Una volta assunta una misura mondana, la vita predispone i suoi orientamenti, formula piani, prende precauzioni, elabora propositi e istanze e l’insieme di questi atteggiamenti costituisce la prestruzione. Come suggerisce il latino praestruere, che significa tanto “costruire davanti” e “preparare”, quanto “chiudere” e “sbarrare”, la prestruzione è il tratto progettante e assicurativo-protettivo dell’esserci: «la vita costruisce e progetta a partire dal suo mondo e per esso; si struttura nel senso dei suoi pro-grammi [Vor-nahmen] e del proposito [Vor-habe] ad essa appropriato; si assicura e si protegge con un proposito tale che il suo prendersi-cura si riferisca in forma esplicita o inespressa ad esso»73. La vita fattizia, che si progetta in base alle significatività mondane, che radica nel mondo il suo prendersi-cura, non fa altro che nascondere a sé stessa dietro false certezze la propria essenziale indeterminatezza. Per spiegare questa ten-

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trarietà, così «ad esempio la giustizia è contraria all’ingiustizia, la bianchezza è contraria alla nerezza, ed analogamente per le altre qualità […]. E inoltre, quando uno dei due contrari sia una qualità, anche l’altro sarà una qualità […]. Se ad esempio la giustizia è contraria all’ingiustizia, e se d’altro canto la giustizia è una qualità, anche l’ingiustizia sarà allora una qualità» (Aristotele, Categorie, cit., 8, 10b, 12-20, p. 35). Aristotele, Topici, cit., 102a, 17-19, p. 412. «Proprio», stando a quanto afferma Aristotele, è «ciò che pur non rivelando l’essenza individuale oggettiva, appartiene tuttavia a quell’unico oggetto, e sta rispetto ad esso in un rapporto convertibile di predicazione» (ibidem). M. Lutero, Rationis Latomianae confutatio, in WA 8, p. 77. HGA 61, p. 120 (tr. it., p. 152). Heidegger utilizza la nozione di Praestruktion anche in un senso “non-rovinante”, come «la prestruzione della propria esistenza attuata nell’appropriazione di sé nella rispettiva fatticità della vita, ossia la prestruzione del dischiudere e del tenere aperto il concreto orizzonte d’attesa, connotato dalla cura, che ogni contesto d’attuazione in quanto tale costituisce» (M. Heidegger, Ammerkungen zu Karl Jaspers «Psychologie der Weltanschauungen», in HGA 9, p. 22; tr. it., Note sulla «psicologia delle visioni del mondo» di Karl Jaspers, p. 451). In Essere e tempo Heidegger, descrivendo il circolo ermeneutico, articola la pre-struttura [Vor-Struktur] del comprendere [Verstehen] in pre-disponibilità [Vor-habe], totalità delle relazioni col mondo che già da sempre abbiamo, pre-cognizione [Vor-griff], concettualità presupposta, e pre-visione [Vor-sicht], prospettiva prestabilita. Questo pre- [Vor], che non va concepito come un a priori formale, ma va legato al fenomeno ontologico-esistenziale del progetto, è la finitezza dell’esserci, il suo esser gettato (HGA 2, pp. 197-204; tr. it., pp. 183-189).

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denza alla comodità [Bequemlichkeit], quest’«inclinazione del rendersi-facili le cose [es-sich-leicht-machen], della fuga»74, che è fuga da sé, Heidegger cita direttamente Aristotele: «l’errare ha molte forme (infatti il male si trova nella colonna dell’illimitato, come immaginavano i Pitagorici, mentre il bene in quella del limitato), invece il riuscire ne ha una sola – per questo il primo è facile, il secondo è difficile: è facile fallire il bersaglio, ma è difficile l’andare a segno»75. Facile per la vita fattizia è distogliere lo sguardo da sé, fuggire via-da-sé, fuori-di-sé, difficile è mantenersi desta e libera per le proprie possibilità: la motilità della vita fattizia ha dunque il carattere di una particolare autosussistenza, un’auto-motilità che ha la sua autenticità proprio nel fatto che la vita vive fuori-di-sé [aus sicht hinaus lebt] […]; è la motilità della vita fattizia che costituisce questa vita stessa, ma in modo tale che a produrre il movimento non è autenticamente (!) la vita fattizia in se stessa, in quanto vive nel mondo, ma il mondo in quanto è ciò in cui, verso cui e per cui la vita vive76.

La prestruzione, che allontana la vita da se stessa in funzione di una rilucenza mondana, è una caduta [Sturz]. Infatti, come si evince dalla teologia luterana del moto di caduta della vita sotto il peso del peccato, l’uomo vorrebbe compiere il bene, ma è spinto dal male che alberga in lui nel senso opposto77, come le membra paralizzate, di cui riferisce Aristotele, che «quando si intende muoverle a destra, si portano al contrario a sinistra»78; lasciandosi trascinare dalla vanità, l’uomo si manda in rovina, perché «malum destruit seipsum»79 o, come afferma Aristotele, «il vizio distrugge anche se stesso»80. 74

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HGA 61, p. 109 (tr. it., p. 142). Di tendenza alla facilità [Leichte] Heidegger parla anche in Essere e tempo, affermando che non solo il “Si” sgrava l’Esserci nella sua quotidianità, ma che per di più «in questo sgravamento di essere, il Si si rende accetto all’Esserci perché ne soddisfa la tendenza a prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili» (HGA 2, p. 170; tr. it., pp. 159-160). Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, II, 1106b, 28-32, pp. 120-121. HGA 61, p. 130 (tr. it., p. 162). M. Lutero, Predigt am 19. Sonntag nach Trinitas, in WA 27, pp. 374-375. Cfr. anche Id., Predigten des Jahres 1533, in WA 37, p. 178. Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, I, 13, 1102b, 19-20, p. 108. M. Lutero, Vorlesung über Iesaia, in WA 25, p. 204. Cfr. anche Id., Die Sammlung des Konrad Cordatus, in WATR 3, p. 105, n. 2938a. Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, IV, 11, 1126a, 12, p. 187.

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Heidegger descrive il movimento della caduta in base a quattro caratteri indicativo-formali di chiara ascendenza agostiniano-luterana: «seduttivo [verfürerisch], quietivo [beruhigend], alienante [entfremdend] e negativo [vernichtend]»81. La seduttività è la condizione ontologica della caduta, pertanto non investe la vita dall’esterno, ma le è costitutiva: infatti, non è che «la vita fattizia è esposta a delle tentazioni, ma che il suo proprio senso d’essere è tale che essa si es-pone ogni volta al suo mondo»82. La seduttività compresa fenomenologicamente è la tentatio della vita fattizia, che va intesa non in senso religioso – benché «solo attraverso il cristianesimo diviene visibile la tentazione come carattere della motilità»83 –, ma in quanto tendenza alla deiezione. La motilità deiettiva «è per la vita stessa tentatrice, nella misura in cui, a partire dal mondo, le spiana la strada verso la possibilità idealizzante di prendersi alla leggera e con ciò di venire meno a se stessa»84. Gli altri due caratteri, il quietivo e l’alienante, si riferiscono al modo in cui la caduta è attuata, al modo in cui la vita fattizia trae dal mondo spensierata tranquillità, alienandosi dalla sua fondamentale inquietudine e perciò da se stessa. Infatti, «la tendenza alla deiezione è, in quanto tentatrice, anche tranquillizzante»85, nel senso che irrigidisce la vita in una situatività caratterizzata da una falsa securitas, così come avviene per i reietti di cui parla Paolo che dicono “pace e sicurezza” (1Ts, 5, 3). E «in quanto tranquillizzante, la tentazione che caratterizza la tendenza alla deiezione è estraniante»86, poiché la vita, nel prendersi cura del mondo, diviene 81 82 83 84 85 86

HGA 61, p. 140 (tr. it., p. 171). HGA 61, p. 142 (tr. it., p. 174). HGA 61, p. 154 (tr. it., p. 185). NB, in HGA 62, p. 357 (tr. it., pp. 22-23). NB, in HGA 62, p. 357 (tr. it., p. 23). NB, in HGA 62, p. 357 (tr. it., p. 23). Caratterizzando la deiezione come modo d’essere dell’Esserci nella quotidianità, Heidegger così scrive in Essere e tempo: «è l’Esserci stesso a preparare a se stesso la tentazione costante della deiezione. L’essere-nel-mondo è in sé stesso tentatore» (HGA 2, p. 235; tr. it., p. 217); peraltro, la presunzione «di condurre una “vita” piena e genuina crea nell’Esserci uno stato di tranquillità: tutto va nel “modo migliore” e tutte le porte sono aperte. L’essere-nel-mondo deiettivo è verso se stesso tentatore e, nel contempo tranquillizzante» (HGA 2, p. 236; tr. it., p. 217). La tranquillizzazione non fa che spingere l’Esserci «in un’estraniazione in cui nasconde a se stesso il suo più proprio poter-essere. L’essere-nel-mondo deiettivo, in quanto tentatore e

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sempre più estranea a se stessa. La cura è, infatti, un contesto d’attuazione e come tale è suscettibile di intensificarsi, l’intensificazione della cura [Steigerung der Sorge] è l’apprensione [Besorgnis], ovvero il prendersi-cura che si prende cura di sé, il prendersi cura preso o ap-preso esso stesso nella cura: non si tratta di un’azione riflessiva, piuttosto il prendersi cura mondano prende o ap-prende il Si-stesso nella cura e «nell’apprensione la vita fattizia rovinante ricopre, per così dire, se stessa!»87 e «finisce col diventare pazza o stupida»88. La vita fattizia rovinante vive in conformità alle realtà quotidianamente disponibili, vive in una medietà, è anzi «il “Si” che vive effettualmente la singola vita – ci si preoccupa, si vede, si giudica, si gode di qualcosa, si pratica e si chiede»89. Il «“Si” è il “nessuno” [Niemand] che si aggira come uno spettro»90, poiché nel dominio pubblico nessuno è se stesso; «ciò che egli è, e il modo in cui lo è, non lo è nessuno: nessuno, eppure tutti insieme, senza che nessuno sia se stesso»91. L’ultimo carattere, quello negativo, esprime il verso dove [das wohin] della caduta, che non è un luogo qualsiasi, «il verso dove della caduta non è qualcosa di estraneo ad essa, ma ha a sua volta il

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tranquillizzante, è nello stesso tempo estraniante» (HGA 2, p. 236; tr. it., p. 217). Infine, «il movimento dell’estraniazione deiettiva, tentante e tranquillizzante, porta l’esserci ad imprigionarsi in se stesso» (HGA 2, p. 236; tr. it., p. 218). HGA 61, p. 136 (tr. it., p. 168). HGA 61, p. 140 (tr. it., p. 172). NB, in HGA 62, p. 358 (tr. it., p. 24). Il Man, che trova piena esplicazione in Essere e tempo, non è né una semplice-presenza né un soggetto universale né tantomeno il genere del singolo Esserci o una sua qualità, ma «è un esistenziale e appartiene, come fenomeno originario, alla costituzione positiva dell’Esserci» (HGA 2, p. 172; tr. it., p. 161). I modi d’essere del “Si”, la contrapposizione commisurante che «implica che l’Esserci, in quanto Esserci-assieme quotidiano, stia nella soggezione agli altri» (HGA 2, p. 168; tr. it., p. 158), la medietà che «sorveglia ogni eccezione» (HGA 2, p. 169; tr. it., p. 159) ed «il livellamento di tutte le possibilità d’essere», costituiscono la cosiddetta pubblicità, che «regola ogni interpretazione del mondo e dell’Esserci» (HGA 2, p. 169; tr. it., p. 159). L’Esserci, disperso nel “Si”, deve ritrovarsi: infatti, «il se-Stesso dell’Esserci quotidiano è il Si-stesso, che noi distinguiamo dal se-Stesso autentico, cioè posseduto in modo proprio» (HGA 2, p. 172; tr. it., p. 161). HGA 63, p. 32 (tr. it., p. 41). M. Heidegger, Der Begriff der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft, in HGA 64, p. 113 (tr. it., Il concetto di tempo, pp. 33-34).

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carattere della vita fattizia, ed è precisamente “il niente della vita fattizia”»92. Liberando il campo da tutte le interpretazioni correnti e tradizionali del niente che lo intendono come negazione del senso d’essere di qualcosa e lo collegano al vuoto, Heidegger punta al suo originario senso esistenziale in quanto annientamento [Vernichtung] e nientificazione [Nichtung]: il niente della vita fattizia è il suo nonavvento [Nicht-vorkommen]. Per distinguere la nihilitas dell’Esserci dalla nozione ontica di mancanza, Heidegger utilizza una terminologia aristotelica, opponendo a ousía, presenza [Gegenwärtigsein], apousía, assenza [Abwesenheit], che è «il fondamento ontologico della categoria fondamentale della stéresis»93, la privazione originaria. Tuttavia, seppure «la negazione detiene un primato originario rispetto alla posizione»94, il “non” conserva in sé la possibilità di un contro-movimento. 4. Il télos: l’eu zén Per Aristotele «il fine è bene»95 e tra i beni maggiori sono da ascrivere «le cose (radicate) nel fine della vita»96 e «le cose che hanno rapporto con la verità»97; la convergenza di bene e fine è l’ar92 93

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HGA 61, p. 145 (tr. it., p. 176). HGA 18, p. 34. Per Heidegger «“nullità” non significa affatto non esserpresente e insussistenza; essa concerne un “non” che è costitutivo dell’essere dell’Esserci, del suo esser-gettato» (HGA 2, p. 377; tr. it., p. 340). In altri termini, «la nullità esistenziale non ha affatto il carattere di una privazione, di una manchevolezza, rispetto a un ideale proclamato e non raggiunto nell’Esserci. È l’essere di questo ente a esser nullo precedentemente a tutto ciò che può progettare e per lo più raggiunge, a esser nullo già come progettare. La nullità non compare occasionalmente nell’Esserci per inerirgli come una qualità oscura che esso potrebbe anche rimuovere nel giro di tempo necessario» (HGA 2, p. 379; tr. it., p. 341). NB, in HGA 62, p. 362 (tr. it., p. 30). Aristotele, Retorica, cit., I, 6, 1363a, 5, p. 170. Nell’espressione il bene è «ciò a cui tende ogni cosa» (ivi, I, 7, 1363b, 14, p. 172), il neutro pánta, come spiega Zanatta, non si riferisce alla totalità delle cose, quasi che «il bene costituisca, per Aristotele, il termine di una finalità universale dell’esistente, secondo una concezione […] propria della filosofia cristiana», piuttosto, esprime la totalità dell’agire dell’uomo (ivi, p. 172, nota 63 del curatore). Ivi, I, 7, 1365a, 38, p. 181. Ivi, I, 7, 1365b, 1, p. 181.

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gomento che apre tanto l’Etica Nicomachea – «il bene è ciò a cui tutte le cose tendono»98 –, quanto la Politica – «tutti compiono ogni loro azione per raggiungere ciò che ad essi sembra essere un bene»99. Lutero, dal canto suo, descrive il verbum, che identifica con il motus, come ciò che «cresce e si sviluppa per giungere al suo compimento»100, il fieri di ogni ente verso il bene. Anche per Heidegger il télos della vita fattizia, il compimento della cura autentica, è la ‘vita buona’: l’essere dell’uomo è determinato come prendersi cura, ogni cura in quanto prendersi cura ha una determinata fine [Ende], un télos. Fin tanto che l’essere dell’esserci è determinato dalla práxis e ogni práxis ha un télos, nella misura in cui il télos di ogni práxis in quanto péras è l’agathón, l’agathón è l’autentico carattere d’essere dell’uomo101.

Su quale sia il bene supremo, la maggior parte convergono, afferma Aristotele: «infatti dicono che è la felicità [eudaimonía] sia il volgo che le persone raffinate»102; invece, su che cosa sia la felicità c’è disaccordo, «il volgo non la definisce in modo uguale ai sapienti»103. Alcuni «la identificano con una delle cose visibili e apparenti, ad esempio col piacere o con la ricchezza o con l’onore»104, altri, i sofisti, con la cultura, altri invece, primo tra tutti Platone, «pensano che al di là di questi beni molteplici di quaggiù, ne esista un altro»105, che è la loro causa. Tuttavia, il sommo bene non si iden98

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Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, I, 1, 1094a, 1-4, p. 79. Cfr. Id., La Metafisica, cit., I, I, 2, 982b, 6-7, p. 432: «ciò in vista di cui si opera è il bene (specifico) in ciascuna cosa, e in generale è l’ottimo nella natura tutta quanta». Aristotele, Politica, cit., I, 1, 1252a, 3, p. 71. M. Lutero, Sermones aus den Jahren 1514-1517, in WA 1, p. 26. HGA 18, p. 65. In Essere e tempo Heidegger parla della «possibilità esistentiva di essere “buono”» (HGA 2, p. 382; tr. it, p. 344). Come spiega Figal, «“essere buono” significa qui, come in Aristotele, l’essere il meno possibile contraffatti in ciò che veramente si è» (G. Figal, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, cit., p. 275). Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, I, 2, 1095a, 18, p. 82. Ivi, I, I, 2, 1095a, 20, p. 82. Ivi, I, I, 2, 1095a, 21, p. 83. Ivi, I, I, 2, 1095a, 26, p. 83. Sulla felicità e le sue parti (buona nascita, figliolanza, vecchiaia, fama e fortuna, ricchezza, onore, salute, bellezza, forza, grandezza, capacità agonistica, abbondanza di amici), si veda Aristotele, Retorica, cit., I, 5, 1360 b, 5 – 1362 a, 15, pp. 162-167.

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tifica né con la vita di puro godimento, che è una vita da animali o da schiavi, né con l’onore, che dipende da chi lo conferisce e non da colui al quale è conferito, e neanche con la ricchezza, che è soltanto una cosa utile, un mezzo e non un fine106. E va confutata anche la teoria platonica, che identifica l’idea del bene con alcunché di universale anteriore alla sostanza, che invece è prima107. Sospendendo la riflessione se la felicità sia o meno un dono divino [daímon], pur ammettendo che è da annoverare tra le cose divine, Aristotele afferma che «quelli che sono chiamati felici, sono felici in forza della speranza (che compiranno belle azioni)»108, tant’è che non possono essere detti felici né gli animali né i fanciulli, poiché non sono capaci di un’attività dell’anima secondo virtù. Il bene e la felicità consistono nell’opera propria dell’uomo, che non è il puro fatto di vivere (nutrizione e crescita), comune a tutti i viventi, né tantomeno la vita sensitiva, comune anche ad altri animali, ma una certa vita activa: «il bene umano consiste in un’attività dell’anima secondo virtù, e se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la più perfetta»109, la sophía. Aítion e télos della felicità non sono, perciò, fuori di noi, ma in noi: l’eudaimonía è l’eupraxía, l’agire bene, che è la medesima cosa del viver bene: «e eudaimonía práxis tis, eupraxía gár»110. Se «la buona condotta è fine in senso assoluto e il desiderio ha questo fine per oggetto»111, intendendo per desiderio una scelta deliberata, l’eudaimonía, il dono ‘a-teo’, il dono come evento dell’Esserci, è la conversione che si attua nell’assumere una nuovo comportamento fondamentale, nel decidersi per il proprio poter-essere: infatti, «l’esistenza umana è veramente e propriamente sé stessa quando è sempre, in senso eminente, così come può 106 107 108 109

Ivi, I, I, 3, 1095b, 19-1096a, 10, pp. 84-85. Ivi, I, I, 4, 1096a, 11-1097a, 14, pp. 85-89. Ivi, I, I, 10, 1100a, 3-4, pp. 98-99. Ivi, I, I, 6, 1098a, 15-16, p. 92. Poiché «c’è una vita perfetta ed una imperfetta […], la felicità dovrà essere l’attività di una vita perfetta secondo virtù perfetta» (Aristotele, Etica eudemia, cit., II, 1, 1219a, 36-39, p. 29). 110 Aristotele, Fisica, cit., II, 6, 197b, 5, p. 70. Cfr. Id., Etica eudemia, cit., II, 1, 1219b, 1-2, p. 29. 111 Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VI, 2, 1139b, 3, p. 431. Il fine assoluto è l’agire bene, che si realizza attraverso la diánoia praktiké: «fine è la riuscita [e gár eupraxía télos], cioè ancor sempre un’azione [práxis]: soprattutto noi diciamo che agiscono in senso pieno, anche nel caso di azioni esterne, quelli che con i pensieri dirigono le azioni» (Id., Politica, cit., VII, 3 1325b, 21-23, pp. 553-555).

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essere»112. Dunque, «Aristotele comprende l’eudaimonía come télos in senso strettamente ontologico […]. Essa costituisce l’autenticità dell’essere dell’uomo»113, così come «l’agathón è il carattere d’essere proprio dell’uomo»114. Tuttavia, se per Aristotele la virtù che realizza il télos dell’uomo, è la sophía, per Heidegger è la phrónesis, «una disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l’agire»115, una disposizione che dirige l’esserci a poter-esser vero: infatti, «nella phrónesis si mostra per eccellenza il senso dell’a-letheúein, in quanto scoprire qualcosa che è latente»116. 5. La parola afona La phrónesis, in quanto disposizione “accompagnata da ragionamento”, è per Heidegger la capacità discernitiva e decisionale, ovvero l’“avere coscienza”, che ricorda da vicino l’“avere spirito” di Paolo: la phrónesis non è nient’altro che la coscienza [Gewissen] messa in movimento che rende trasparente [Durchsichtigmachen] un’azione. Non si può dimenticare la coscienza. Certo, ciò che la coscienza svela 112 HGA 18, p. 171. Volpi spiega che «secondo Aristotele, nel caso del vivere dell’uomo non si tratta di un vivere puro e semplice (zén), ma si tratta del come vivere, ossia del vivere nel modo migliore, del vivere bene (eu zén). È ciò vuol dire che l’uomo è quell’ente del tutto particolare che ha da decidere intorno ai modi e alle forme del proprio vivere, scegliendo il migliore di essi. Analogamente, per Heidegger l’esserci è quel particolare ente per il quale ne va del proprio essere, cioè quell’ente che ha da assumersi sempre e comunque il peso del decidere del proprio essere; anzi, l’attuazione autentica dell’esistere si ha solo là dove l’esserci si riconosce in questo suo dover decidere, che rispecchia la struttura pratica del suo essere, e non fugge dinanzi ad esso, ma lo affronta e se ne fa carico» (F. Volpi, Heidegger e Aristotele, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 66). 113 HGA 19, p. 172. Secondo Heidegger «con la traduzione romano-cristiana nel senso della beatitudo (cioè dello stato del beatus, del beato), l’eudaimonía è stata trasformata in mero attributo dell’anima umana, la “beatitudine”. Ma eudaimonía significa l’eu che domina in misura adeguata, ovvero l’apparire e l’essere presente del daimónion» (HGA 54, p. 173; tr. it., p. 214), che non è il “demoniaco”, ma l’“in-solito”, che risplende in ogni solito. 114 HGA 18, p. 65. 115 Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VI, 5, 1140 b, 4-6, p. 435. Cfr. anche ivi, VI, 5, 1140 b, 20-21, p. 436. 116 HGA 19, p. 52.

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può essere alterato o lasciato inattivo a causa della edoné e della lýpe, ossia a causa delle passioni. Ma la coscienza si fa sentire sempre di nuovo117.

Dal momento che durchsichtigmachen, rendere trasparente l’agire, è la traduzione di logízesthai, «la retta e completa riflessione dell’azione a partire dalla sua arché sino al suo télos»118, la phrónesis è un modo del lógos e in quanto tale ha il carattere persuasivo della retorica, che è «una facoltà di scorgere ciò che è capace di essere persuasivo in merito a ciascun argomento»119. La phrónesis, però, non libera l’uomo dalla sua Verfallenheit, dal pericolo di perdersi a causa del piacere o del dolore, cosicché di essa non ci si può dimenticare, a differenzia dell’epistéme, che, come suggerisce Aristotele, «non è soltanto una disposizione accompagnata da ragionamento: ne è prova il fatto che di una tale disposizione c’è dimenti117 HGA 19, p. 56. Come ricorda Gadamer, già durante un seminario del 1923 sull’Etica nicomachea, affrontando l’analisi della phrónesis e rifiutando la traduzione classica di prudentia, Klugheit, Heidegger dichiarò risolutamente: «ecco la coscienza morale [Das ist das Gewissen]» (H.G. Gadamer, Die Marburger Theologie, in Heideggers Wege. Studien zum Spätwerk, cit.; tr. it., La teologia di Marburgo, in I sentieri di Heidegger, cit., p. 28). 118 HGA 19, p. 149. Interessante è la proposta di Zovko di assumere, quale punto di partenza per l’elaborazione della concezione heideggeriana della coscienza, «l’indiscutibile nesso che sussiste nella riflessione riferita alla práxis tra l’élenchos socratico, la phrónesis aristotelica e la conscientia cristiana» (J. Zovko, Aspetti ermeneutici della coscienza: una discussione con M. Heidegger, in AA. VV., Ermeneutiche della finitezza: atti del settimo Colloquio su Filosofia e Religione, Macerata, 16-18 maggio 1996, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Macerata 1998, p. 183). 119 Aristotele, Retorica, cit., I, 2, 1355b, 25, p. 147. Interpretando la coscienza come un modo del lógos, Heidegger prende le distanze dalle interpretazioni tradizionali inadeguate in senso ontologico-antropologico: «definendo la coscienza come chiamata, non intendiamo affatto far ricorso a un “immagine” [Bild], quale ad esempio la rappresentazione kantiana della coscienza come un tribunale» (HGA 2, p. 271; tr. it., p. 325). Se Heidegger ricorre ad un vocabolario giuridico in relazione alla coscienza, lo fa, come suggerisce Sommer, a prescindere da ogni suggestione legata al tribunale della ragion pura, per mettere «in opera performativamente la struttura comunicazionale di un discorso retorico in situazione d’audizione [Gerichtverhandlung], al fine di convincere e persuadere [überzeugen] l’esser-ci umano del suo poter-essere esistenziale concreto» (C. Sommer, Heidegger, Aristote, Luther. Les sources aristoteliciennes et neo-testamentaires d’Etre et temps, cit., pp. 202-203).

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canza, ma non c’è dimenticanza della saggezza»120. La decisione dell’Esserci per il proprio poter-esser vero va costantemente reiterata, rinnovata, sia perché, come nota Aristotele, «ciò che è potenziale, può non essere»121 sia perché «tutte le potenze razionali sono capaci dei contrari»122. Nella definizione della phrónesis come dýnamis metá lógou Heidegger ritrova gli elementi costituitivi originari (parola, silenzio, ascolto e comprensione) che il Gewissen condivide con il lógos. Come per Aristotele «il discorso si compone di tre cose: di colui che parla, di ciò di cui parla e di colui al quale parla. E il fine è in relazione a costui, intendo dire all’ascoltatore»123, per Heidegger l’uomo è non soltanto parlante e ascoltante, ma è anche in se stesso un ente che s’ascolta [auf sich hört]. Parlare, in quanto esprimersi-suqualche cosa [Sichaussprechen-über-etwas], è nello stesso tempo un parlar-a-se-stesso [Zu-sich-selbst-sprechen], di modo che la determinazione del lógon échon comprende anche questo: l’uomo possiede il lógos anche per ascoltare le sua propria parola124.

Nella misura in cui l’uomo, a differenza degli animali, non possiede semplicemente la voce (phoné), ma la parola, che è «voce significante»125, ha la possibilità di parlar-si, di «lasciarsi-dire-qual120 Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VI, 5, 1140b, 28-30, p. 436. 121 Aristotele, La metafisica, cit., II, XII, 6, 1071b, 19, p. 643. Cfr. anche ivi, IX, 8, 1050b, 10-12, p. 591: «ciò che può essere, può essere e non essere, e perciò la stessa cosa può essere e non essere». 122 Ivi, II, IX, 2, 1046b, 5, p. 582. 123 Aristotele, Retorica, cit., I, 3, 1358a, 37-1358b, 1, pp. 155-156. Heidegger individua «quattro momenti strutturali che appartengono essenzialmente al linguaggio: 1° il su-cui di cui si parla; 2° il che-cosa si va dicendo, 3° la comunicazione, 4° la notifica» (HGA 20, p. 363; tr. it., p. 326; HGA 2, p. 216; tr. it., p. 200). 124 HGA 18, p. 105. 125 Aristotele, De interpretatione, cit., IV, 16b, 26, p. 25. Per Aristotele «la voce è un suono proprio dell’essere animato: degli esseri inanimati nessuno ha “voce” […]. Ma molti animali non hanno voce, ad esempio quelli senza sangue e tra i sanguigni i pesci. E ciò è ben ragionevole se il suono è un movimento d’aria» (Id., Dell’anima, cit. II, 8, 420b, 5-11, p. 150), anche se «la voce è un suono significativo e non un semplice urto d’aria ispirata, come la tosse» (ivi, 420b, 35-421a, 1, p. 151). Heidegger riprende questa tesi, affermando che «nessuna delle emissioni fonetiche che gli animali emettono sono parole, in quanto sono meri psóphoi, rumori. Sono emissioni fonetiche vocali (phoné) alle quali manca qualcosa, cioè il si-

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cosa-da-se-stesso [Sich-von-sich-selbst-etwas-sagen-Lassen]»126, e di ascoltar-si. Ma «la parola non attende al suo fine se non allorché è recepita come annuncio [Mitteilung]»127, inteso non «come segnalazione e trasmissione di una conoscenza»128, ma come un «voler prendere in considerazione la vita fattizia»129. L’annuncio della coscienza è un rovello, un tormento [Quälen], che affligge e rode, di modo che ciò che è roso e afflitto desideri essere ri-preso: «l’esserdesto [wach-sein] dell’esserci nei suoi stessi confronti»130 è la vo-

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gnificato. L’animale nel suo grido non intende né comprende nulla» (HGA 29/30, p. 444; tr. it., p. 392). HGA 18, p. 111. HGA 18, p. 123. HGA 61, p. 138 (tr. it., p. 170). HGA 61, p. 138 (tr. it., p. 170). Come viene chiarito meglio in Essere e tempo, la voce della coscienza non è una comunicazione verbale, ma un «dare a comprendere» (HGA 2, p. 361; tr. it., p. 325). Ciò di cui si discute nella coscienza è l’Esserci, chiamato a comprendersi (HGA 2, p. 362; tr. it., p. 326). A rigor di termini, «al se-Stesso richiamato non è detto “nulla”; esso è semplicemente ridestato a se-Stesso, cioè al suo più proprio poter-essere» (HGA 2, p. 363; tr. it., p. 327), per questo «la chiamata non ha bisogno di comunicazione verbale […]. La coscienza parla unicamente e costantemente nel modo del tacere», costringendo al silenzio e all’ascolto (HGA 2, p. 363; tr. it., p. 327). HGA 63, p. 15 (tr. it., p. 24). Il destare [Weckung], che non è «la constatazione di qualcosa che sussiste bensì un far svegliare ciò che dorme» (HGA 29/30, p. 89; tr. it., p. 81), va colto, in base all’insegnamento aristotelico, al di fuori dell’alternativa tra coscio ed incoscio: «Aristotele, che ha scritto sulla veglia e il sonno un trattato specifico (Perí úpnou kaí egregórseos), che possiede un carattere particolare, ha intravisto qualcosa di notevole quando afferma che il sonno è una forma di akinesía. Non pone il sonno in connessione con coscienza e incoscienza, afferma piuttosto: il sonno è un desmós, un esser-legati, un modo peculiare di esserlo, caratteristico dell’aístesis; non soltanto della percezione, ma dell’essenza nel senso che questa non può cogliere un altro ente che non sia se stesso. Questo modo di caratterizzare il sonno è molto più di un’immagine, e apre una vasta prospettiva, che non è stata assolutamente afferrata da un punto di vista metafisico» (HGA 29/30, p. 94; tr. it., p. 85). Per Aristotele sonno e veglia sono contrari reversibili, in quanto si alternano, naturalmente e necessariamente, e riguardano corpo e anima, in quanto hanno, come parametro comune, la percezione: difatti, «l’esser svegli non consiste in altro che nel percepire [aisthánesthai]» (Aristotele, Il sonno e la veglia, in Il sonno e i sogni, a cura di L. Repici, Marsilio, Venezia 2003, 454a, 5, p. 85), mentre il sonno «è un’affezione della parte percettiva, come una sorta di incatenamento [desmós] e immobilità [akinesía]» (ivi, 454b, 10, p. 87). Freud riconosce ad Aristotele l’aver posto i fondamenti della scienza

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lontà dell’Esserci, che «vuole [will] essere ripreso»131, poiché si è allontanato da sé, il suo è un «voler-avere-coscienza»132, un voler-essere-responsabile-di-sé. Vale in questo caso quanto Aristotele afferma riguardo all’atto volontario, «il cui principio risiede nel soggetto, il quale conosce le condizioni particolari in cui si svolge l’azione»133. Perciò, «solo là dove si sa parlare e ascoltare, intese come possibilità d’essere, sussiste anche la possibilità di obbedire»134 all’appello della coscienza. L’ob-audire dipende dall’órexis, la tendenza diretta al bene, che, come dice Aristotele, è propria anche della parte irrazionale dell’anima: la parte vegetativa non ha assolutamente nulla in comune con la regola, mentre la parte appetitiva e in generale desiderativa partecipa in qualche modo della regola, in quanto è capace di ascoltarla e di obbedirle […]. Che la parte senza regola sia in qualche modo influenzata dalla regola testimoniano anche il richiamo all’ordine ed ogni rimprovero ed esortazione135.

A questo passo dell’Etica fa riferimento Lutero allorché afferma «quia nullus est tam malus, quin sentiat rationem murmurum et syntheresium, iuxta illud: Ratio semper deprecatur ad optima. Et ista expositio est pulchra valde»136. Lutero accenna qui alla sinderesi scolastica, la capacità rimasta nell’uomo anche in seguito al peccato originale di vedere il bene da farsi, connettendola, però, non alla vi-

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onirica: «nei due scritti di Aristotele sul sogno (De divinazione per somnium e De somniis), esso è già divenuto oggetto della psicologia […]. Prima di Aristotele gli antichi, com’è noto, ritenevano che il sogno non nascesse dalla psiche del sognatore ma da un’ispirazione di origine divina» (S. Freud, Die Traumdeutung, Deutike, Leipzig-Wien 1900; tr. it. di C. L. Musatti, L’interpretazione dei sogni, in Opere, Boringhieri, Torino 1978, III, pp. 12-13). Sul rapporto sonno-veglia, si rinvia anche a Platone, Teeteto, tr. it. di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 1999, XIII, 158d, p. 47: «persino si dubita se si è svegli o si dorme; poiché il tempo in cui dormiamo è uguale a quello in cui siamo svegli». HGA 2, p. 361 (tr. it., p. 325). HGA 20, p. 441 (tr. it., p. 396). Con l’espressione “voler-aver-coscienza” «non si vuole alludere al voler avere una “buona coscienza” e neppure alla sollecitazione volontaria della chiamata, ma unicamente alla disponibilità per l’esser chiamati» (HGA 2, p. 382; tr. it., p. 343). Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, III, 3, 1111a, 21-23, p. 135. HGA 20, p. 368 (tr. it., p. 330). Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, I, 13, 1102b, 28-35, p. 108. M. Lutero, Dictata super Psalterium, in WA 3, p. 94.

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sta, ma all’ascolto. La possibilità di ascoltare i richiami della coscienza rivela la tendenza dell’uomo a comprendere e volere il bene, allo stesso modo in cui i rimproveri e le esortazioni testimoniano che la parte irrazionale dell’anima è influenzata in qualche modo da quella razionale. Partendo dal carattere preliminare della conoscenza sensibile rispetto a quella intelligibile delineato da Aristotele nel De anima, Lutero riconosce la propedeuticità dell’ascolto, in quanto vehiculum dei doni di Cristo, rispetto alla conversione: «necesse igitur est prius audiri verbum, quam credere illud possimus et iustificemur»137. Così come i murmures rationis mettono il cristiano davanti al dovere di decidersi per la fede, facendosi carico della sua croce, il Gewissen obbliga l’Esserci a decidersi per il proprio poteresser vero, assumendosene tutto il peso. La libertà dell’Esserci, in quanto non poter non decidersi, è un “servo arbitrio”138: obbedire alla coscienza significa rendersi libero per il sé autentico; del resto Aristotele definiva «libero l’uomo che è per sé»139. 6. Teoria delle passioni Secondo quanto afferma Aristotele «le voci sono simbolo delle affezioni (che si producono) nell’anima»140 e «le cose che si produ137 M. Lutero, Vorlesung über Iesaia, in WA 25, p. 336. Cfr. Aristotele, Dell’anima, cit., III, 8, 432a, 4-7, p. 182: «ora poiché nessuna cosa, come sembra, esiste separata dalle grandezze sensibili, è nelle forme sensibili che esistono gli intelligibili e quelli che si dicono per astrazione e quanti sono qualità e proprietà dei sensibili». 138 Per il rapporto tra la libertà dell’uomo e l’opera della grazia, anche in riferimento al De servo arbitrio di Lutero, cfr. HGA 17, p. 153. Come suggerisce Volpi, il concetto di libertà in Heidegger ha una valenza peculiare: «non significa tanto il poter decidere in positivo per questo o per quello, ma diventa la struttura fondamentale che sta alla base di ogni poter decidere. Ovvero, detto paradossalmente: alla base del poter decidere sta la libertà come un non poter non decidere. La libertà è allora per l’esserci quel peso che, in quanto peso del proprio essere e diversamente da ogni altro peso, non può essere né deposto né alleviato» (F. Volpi, Heidegger e Aristotele, cit., p. 68). 139 Aristotele, La metafisica, cit., I, I, 2, 982b, 25, p. 432. 140 Aristotele, De interpretatione, cit., I, 16a, 3, p. 17. Per Derrida questo passo aristotelico rileva che «la voce, produttrice dei primi simboli, ha un rapporto di prossimità essenziale ed immediata con l’anima. Produttrice del primo significante, essa non è un semplice significante fra altri.

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cono nell’anima sono tre: passioni, facoltà e disposizioni»141. Tuttavia, il soggetto delle passioni, «tutte quelle a causa delle quali (gli uomini), mutando, differiscono in rapporto ai giudizi, e a esse seguono dolore e piacere»142, è l’uomo intero, sia nell’anima che nel corpo: «noi diciamo che l’anima s’attrista e gioisce, è audace e timorosa, e ancora s’adira, percepisce le sensazioni, pensa: tutti questi stati sembra siano movimenti […]. Meglio sarebbe forse dire non che l’anima prova compassione, apprende, pensa, ma che è l’uomo mediante l’anima»143. Heidegger parafrasa, dicendo: «l’essere ha tre modi diversi di divenire: páthe, dynámeis, éxeis»144 e tra questi le passioni (in tedesco Befindlichkeit, “situazione emotiva”, ma anche Stimmung, “disposizione emotiva”)145 sono le «maniere dell’essere

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Essa significa lo “stato d’anima”» (J. Derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967; tr. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.C. Loaldi, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1998, p. 29). Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, II, 4, 1105b, 19-21, p. 111. Aristotele, Retorica, cit., II, 1, 1378a, 19-20, p. 226. Il fatto che Aristotele si occupi dei páthe in relazione al compito della retorica è la conferma, per Heidegger, che sono un tratto essenziale del lógos e quindi dell’esserci: «non è a caso che la prima trattazione sistematica delle emozioni che la tradizione ci tramandi non sia stata condotta nell’ambito della “psicologia”. Aristotele analizza i páthe nel secondo libro della Retorica. L’interpretazione tradizionale presenta la retorica come una sorta di “disciplina”; essa deve invece essere intesa come la prima ermeneutica sistematica dell’essere-assieme quotidiano» (HGA 2, p. 184; tr. it., p. 172). Il motivo di questa scelta aristotelica va rintracciato nel fatto che l’oratore ha «bisogno di conoscere le variazioni della tonalità emotiva per suscitarle e dirigerle nel giusto modo» (HGA 2, pp. 184-185; tr. it., p. 172). L’interpretazione aristotelica dei páthe giunge fino all’età moderna, anzi «l’interpretazione ontologico-fondamentale dei principi delle emozioni non ha compiuto alcun passo avanti degno di nota da Aristotele in poi» (HGA 2, pp. 184-185; tr. it., p. 172). Il complesso delle analisi aristoteliche ha innanzitutto «determinato la concezione della Stoa e con ciò quella di Agostino e del Medio Evo» (HGA 20, p. 393; tr. it., p. 353) ed «è poi penetrato nella filosofia moderna e lì vi ha assunto una posizione di stallo» (HGA 20, p. 393; tr. it., p. 353). Aristotele, Dell’anima, cit., I, 4, 408b, 1-15, p. 118. HGA 18, p. 168. Per Heidegger «ciò che in sede ontologica definiamo con l’espressione “situazione emotiva” è onticamente un fenomeno ben noto e quotidiano: la tonalità emotiva, l’umore» (HGA 2, p. 178; tr. it., p. 167). Secondo Sommer «Heidegger forgia il suo concetto di Befindlichkeit a partire da un complesso fenomenale che comprende le nozioni di katáphasis, diáthesis,

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stesso intanto che noi viviamo, maniere di divenire, relative all’essere-in-un-mondo»146, ancor meglio «i páthe caratterizzano l’uomo intero nella sua disposizione nel mondo»147. Il páthos è caratterizzato, dunque, da mutevolezza e alterazione, perché, come precisa Aristotele, «talora è la distruzione per opera del contrario, talora piuttosto la conservazione [sotería] di ciò che è in potenza per opera di quel che è in entelécheia»148. Il ‘patire’, come spiega Heidegger, «è ciò che mi fa perdere qualcosa, ed è un preservare [Aufheben], un salvare [Retten] – preservare nel senso di conservare [Aufbewahren], di elevare [Hinaufheben] all’essere proprio»149. Attraverso la complessa nozione di sotería, che è «il contro-concetto della phthorá, del dileguarsi-dell’esserci»150 e richiama la destructio di Cristo il salvatore [sotér] e la katárgesis paolina (Rm, 3, 3; 1 Cor, 15, 26) tradotta da Lutero con Aufhebung, Heidegger pensa il divenire dell’Esserci dall’essere inautentico (alienum) all’essere autentico (proprium). Infatti, «l’inautenticità appartiene all’essenza dell’esserci fattuale. L’autenticità è soltanto una modificazione [Modifikation], non una cancellazione [Ausstrei-

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aisthésis, páthos e edoné, il cui tratto comune si può designare come uno stato più o meno “naturale” e “sensibile”. Heidegger trae il senso principale della Befindlichkeit dalla traduzione interpretativa di katáphasis e di diáthesis in Retorica I, 11: il piacere è un certo movimento dell’anima e un ritorno [katástasis] completo e sensibile allo stato naturale, il dolore il contrario. Ma se il piacere è questo tipo di cosa, è chiaro anche che ciò che è atto a produrre la disposizione [diáthesis] suddetta è piacevole; invece, ciò che è atto a corromperla o è atto a produrre la condizione opposta, è doloroso» (C. Sommer, Heidegger, Aristote, Luther. Les sources aristoteliciennes et neo-testamentaires d’Etre et temps, cit., p. 128). HGA 18, p. 169. La situazione emotiva ha tre caratteri essenziali: 1) «apre l’Esserci nel suo esser-gettato e, innanzi tutto e per lo più, nella forma della diversione evasiva» (HGA 2, p. 181; tr. it., p. 169); 2) «è un modo esistenziale fondamentale della cooriginaria apertura del mondo, del con-Esserci e dell’esistenza» (HGA 2, p. 182; tr. it., p. 170); 3) fonda la possibilità dell’in-essere di essere colpito, affetto, dall’ente intramondano che incontra (HGA 2, pp. 182-183; tr. it., pp. 170-171). HGA 18, p. 192. Aristotele, Dell’anima, cit., II, 5, 417b, 2-5, p. 142. Per Aristotele «vi sono due modi di alterazione: l’uno è un passaggio verso le disposizioni privative, l’altro verso gli abiti positivi e la natura stessa del soggetto» (ivi, 417b, 14-16, pp. 142-143). HGA 18, p. 196. HGA 18, p. 262.

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chung] totale dell’inautenticità»151, modificazione che avviene grazie ad una passione, l’angoscia. 6.1. Phóbos ed elpís Heidegger si occupa della dottrina degli affetti, che all’interno delle domande fondamentali della teologia medievale e della filosofia, è particolarmente rilevante per Lutero. È soprattutto la paura a giocare un ruolo particolare nel Medioevo, perché il fenomeno della paura è particolarmente connesso con quello del peccato e il peccato è il contro-concetto della fede. Anche Lutero si è confrontato e si è occupato della paura, nei primi scritti, in particolare nel Sermo de poenitentia152.

Alla paura è riservato un posto di primo piano tanto da Lutero, che se ne occupa nell’ambito della contritio, la prima parte della penitenza, in quanto «timor poenae»153 del peccatore, quanto da Aristotele, che la analizza sotto tre aspetti, esattamente come fa Heidegger; in particolare, il primo distingue al cospetto di chi [tíni], riguardo a cosa [diá poía] e la condizione in cui [pós] si è spaventati, il secondo il davanti-a-che [Wovor], il modo in cui [Wie] e il perche [Worum]. Per Aristotele la paura è «una sorta di dolore o di turbamento derivante dalla rappresentazione di una male futuro atto a distruggere o a dare dolore»154 e pertanto non si temono tutti i mali, ma solo quelli «capaci (di procurare) grandi dolori e distruzioni, e questi se non appaiono distanti, ma vicini, così da stare per (verificarsi)»155. Il davanti a che della paura, in termini heideggeriani, è qualcosa di minaccioso, «un malum futurum, ovvero un kakón méllon, ma non nel senso di un avvenimento, di cui si constata obiettivamente che verrà, ma un futurum che nel suo avvicinarsi può anche non intervenire»156. Il davanti a che della paura è qualcosa di svantaggioso che si incontra nel mondo, che è vicino anche se non sottomano, 151 152 153 154 155 156

HGA 24, p. 243 (tr. it., p. 163). Cfr. HGA 2, p. 238 (tr. it., p. 219). HGA 18, pp. 177-178. M. Lutero, Sermo de poenitentia, in WA 1, p. 319. Aristotele, Retorica, cit., II, 5, 1382a, 21-22, p. 240. Ivi, II, 5, 1382a, 23-25, p. 241. HGA 20, p. 396 (tr. it., p. 355).

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poiché «ciò che è ancora molto lontano, dice Aristotele giustamente, non viene propriamente temuto, ossia l’aver paura di-fronte-a può essere escluso in quanto ci si rende chiaro che si ha ancora tempo prima che arrivi, e finché è ancora assai lontano può darsi che non accada affatto»157. Certo, Aristotele precisa che «tutte quante le cose temibili che alle persone che sbagliano non è possibile raddrizzare, ma o sono assolutamente impossibili, o non dipende da loro, bensì dagli avversari, sono più temibili. E quelle delle quali non esistono soccorsi, oppure non sono facili»158. In una tale situazione, commenta Heidegger, l’Esserci è abbandonato alla sua impotenza, è ridotto a se-stesso, gettato nello sconforto; «una tale situazione incute paura al massimo grado: l’ineluttabile, non in senso assoluto, ma solo per me»159. Così si chiarisce il secondo momento strutturale dell’aver paura, la maniera d’essere davanti a ciò che fa paura, che non è un sapere circa un male futuro o «come dice giustamente Aristotele (non letteralmente ma de facto): la paura non è una qualche phantasía, nel senso del far vedere qualcosa di minaccioso, bensì la paura è tale a partire dalla fantasia (ek phantasías), a partire da un lasciar vedere il kakón méllon, l’elemento svantaggioso incombente»160. Infine, dal momento che il minaccioso è un ente mondano determinato, la condizione della paura, il suo per-che, non è altro che l’essere nel Ci dell’Esserci e lo stesso vale per tutti i páthe, in quanto «sono i tratti caratteristici che determinano essenzialmente la maniera di essere-nel-mondo, di essere-nell’attimo»161. Ma, poiché è riferita sempre a qualcosa di mondano, «la paura è un fenomeno derivato e si fonda a sua volta nel fenomeno che noi designiamo come angoscia»162; il davanti a-che dell’angoscia non è il mondo o una cosa del mondo, ma la mondità stessa, «il davanti-ache dell’angoscia è il nulla»163, un nulla così vicino da togliere il fiato, eppure non presente, il nulla del poter-essere. L’angoscia apre al possibile in tutta la sua impossibilità, come già gli autori cristiani avevano suggerito e come lo stesso Aristotele suggerisce, dicendo che nell’angoscia «occorre che sussista una qualche speranza di 157 158 159 160 161 162 163

HGA 20, p. 395 (tr. it., pp. 354-355). Aristotele, Retorica, cit., II, 5, 1382b, 22-24, p. 242. HGA 18, p. 258. HGA 20, p. 396 (tr. it., p. 355). HGA 18, p. 192. HGA 20, pp. 392-393 (tr. it., p. 352). HGA 20, p. 401 (tr. it., p. 359).

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salvezza»164, la quale, secondo Heidegger, rivela «la disposizione particolare nella quale io mi curo di ciò che temo»165. Se «la paura è sentimento, unito ad attesa, di patire qualcosa che è atto a corrompere»166, il contrario della paura è l’ardimento, che «è una speranza, unita a rappresentazione, delle cose salutari, nella supposizione che siano vicine, e di quelle temibili, nella supposizione o che non sussistano, o che siano lontane»167. La speranza di salvezza è propria esclusivamente degli uomini, in quanto sono gli «esseri che hanno la percezione del tempo»168, e pertanto «essi soli ricordano»169 come anche essi soli sono proiettati «in vista del futuro»170. Davanti a ciò che è pericoloso solo gli uomini, pur credendo di essere perduti, nutrono allo stesso tempo la speranza di essere salvati: il credere di essere in pericolo è tale da muoversi contemporaneamente anche in una elpís, la quale consiste nell’appropriarsi di ciò che ci minaccia come di qualcosa che ci riguarda e nello sperare allo stesso tempo, di riuscire ad evitarlo. Dell’aver paura fanno parte in modo egualmente essenziale sia la elpís soterías che il credere di essere minacciato171.

Anche Lutero si appella ad Aristotele per descrivere il rapporto dell’uomo con la speranza:

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Aristotele, Retorica, cit., II, 5, 1383a, 5-6, p. 243. HGA 18, p. 260. Aristotele, Retorica, cit., II, 5, 1382b, 29-30, p. 242. Ivi, II, 5, 1383a, 17-19, p. 243. Aristotele, Dell’anima, cit., III, 10, 433b, 6, p. 185. Aristotele, Della memoria e della reminiscenza, in Opere 4, cit., I, 449b, 29, p. 238. 170 Aristotele, Dell’anima, cit., III, 10, 433b, 7, p. 185. Ricostruendo la storia dell’interpretazione filosofica del concetto di tempo, Heidegger ritrova nella modernità alcuni elementi aristotelici; in particolare, trova in Hegel il collegamento del passato al ricordo e del futuro al timore o alla speranza (HGA 21, p. 262; tr. it., pp. 173-174). Hegel, infatti, rispetto al presente, al passato e al futuro, osserva che: «nella natura dove il tempo è l’istante, non si perviene a differenziare quelle tre dimensioni in modo da dar loro sussistenza separata; esse sono necessarie soltanto nella rappresentazione soggettiva, nel ricordo, e nel timore o nella speranza» (G.-W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., II, I, § 259, p. 235). 171 HGA 18, p. 260.

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La speranza nata dal desiderio di ciò che si ama aumenta sempre l’amore quando venga differita. Così può accadere, nel corso di una speranza intensa, che della cosa sperata e di colui che la spera si faccia una sola realtà, secondo il detto di Agostino: “l’anima è di più là dove ama, che dove anima” […]. E Aristotele nel De anima (libro 3) afferma che di intelletto e intelligibile, di senso e sensibile si fa una sola cosa, e ciò vale universalmente nel rapporto tra potenza operativa e oggetto a lei interno. Questo è il modo con cui l’amore trasferisce l’amante nell’amato. Ecco dunque che la speranza si trasferisce nella cosa sperata. Ma se la cosa sperata non appare, si trasferisce nell’ignoto, nel segreto, nelle tenebre interiori, al punto di non sapere più cosa speri, e di sapere tuttavia che non speri. Così dunque l’anima è divenuta insieme speranza e cosa sperata: perché risiede in ciò che non vede, cioè nella speranza. Perché se la speranza avesse evidenza di sé, cioè se chi spera e ciò che è sperato fossero presenti l’uno all’altro, l’anima non dovrebbe trasferirsi nella cosa sperata, cioè nel rapporto tra speranza ed ignoto, ma si lascerebbe afferrare da ciò che vede e godrebbe della sua conoscenza172.

Per Lutero nella speranza ciò che si spera e colui che spera divengono un’unica cosa, così come per Aristotele, al momento della sensazione l’oggetto sentito (aisthetikón) e il senso che sente (aisthetón) sono aspetti del medesimo fenomeno, ossia «l’atto del sensibile e del senso sono, in realtà, lo stesso e unico atto, benché la loro essenza non sia la stessa»173. La coincidenza tra cosa sperata e colui che spera è possibile solo perché la speranza è invisibile; se, invece, fosse evidente, se alla sua essenza non appartenesse il segreto, i due termini starebbero l’uno di fronte all’altro in un rapporto 172 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 374 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, pp. 116-117). Riguardo all’affermazione “l’anima è di più là dove ama, che dove anima”, Pani precisa: «probabilmente Lutero riprende questa citazione dal mistico Tauler, che l’attribuisce ad Agostino (Sermones, Augsburg 1508, Sermo 6: fol. 12b). Di fatto l’autore del detto è San Bernardo (De praecept. et dispensat. 20, 60: PL 182, 892)» (M. Lutero, Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 117, nota 163 del curatore). 173 Aristotele, Dell’anima, cit., III, 2, 425b, 26, p. 165. Anche per Heidegger l’esserci che spera è ‘coinvolto’ in ciò in cui spera: «a differenza della paura, che si riferirebbe a un malum futurum, si è caratterizzata la speranza come attesa di un bonum futurum. Ma ciò che è decisivo per la struttura del fenomeno non è il carattere “futuro” di ciò a cui la speranza si riferisce, bensì il senso esistenziale dello sperare stesso […]. Colui che spera si coinvolge, per così dire, nella speranza e va così incontro a ciò che spera. Ma ciò presuppone il raggiungimento di sé» (HGA 2, pp. 456-457; tr. it., pp. 408-409).

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conoscitivo: infatti, sperare in ciò che si vede non è sperare (Rm, 8, 24-25), ma progettare, trasformare il possibile in reale. Il Geheimnis174 della speranza nomina l’apertura al possibile in quanto im-possibile e imprevedibile, indica il limite davanti a cui è costretta ad arrestarsi la finitezza del nostro essere e del nostro pensiero, nomina l’inaccessibile che abita nello Heim, nella casa, che non va violato, ma custodito. 7. Il páthos della morte Tra i mali distanti che non si temono, anche se si sa certamente che si verificheranno, Aristotele annovera la morte; «i (mali) distanti non spaventano eccessivamente: tutti sanno, infatti, che moriranno, ma poiché (questo) non è vicino, non si danno alcuna 174 A partire dagli anni Trenta Geheimnis diverrà un termine fondamentale del lessico heideggeriano, in quanto mistero dell’essere: «la velatezza impedisce lo svelamento dell’alétheia e non la lascia essere ancora come stéresis (privazione), ma custodisce ciò che ad essa è più proprio come proprietà. Pensata dal punto di vista della verità come sveltezza, la velatezza è allora la non-svelatezza e quindi la non-verità autentica e più appropriata all’essenza della verità […]. L’autentica non-essenza della verità è il mistero» (M. Heidegger, Vom Wesen der Wahreit, in HGA 9, p. 193; tr. it., Dell’essenza della verità, p. 149). Il confronto con Aristotele e Husserl è determinante per Heidegger al fine di sviluppare una «fenomenologia dell’inapparente» (HGA 15, p. 399; tr. it., p. 179), mentre l’incontro con Hölderlin al fine di caratterizzare il Geheimnis come intima consonanza, armonia nascosta [armonía aphanés], per usare le parole di Eraclito (Eraclito, Sulla natura, cit., frammenti 51 e 54, p. 161), che fa sì che uomo ed essere giungano alla loro essenza: «il segreto non è un qualunque enigma, il segreto è l’intimità [Innigkeit], ma quest’ultima è l’essere stesso» (HGA 39, pp. 250-251; tr. it., p. 265). Sull’essenza del Ge-heimnis, racchiusa nella tensione tra il tratto heimlich, familiare e intimo, e quello unheimlich, estraneo e inaccessibile, si rimanda a C. Resta, Il luogo e le vie. Geografie del pensiero in Martin Heidegger, cit., pp. 112-119. Sull’insondabilità del “segreto assoluto”, nel senso di una eterogeneità che eccede il velamento e lo svelamento, che non appartiene in nessun caso alla verità – né alla verità come adeguazione, né alla verità rivelata, né alla non-verità – perché si rifiuta ad ogni presentificazione, si rinvia a J. Derrida, Passions, Galilée, Paris 1993; tr. it. di F. Garritano, Passioni. “L’offerta obliqua”, in Il segreto del nome. Chora. Passioni, Salvo il nome, a cura di G. Dalmasso e F. Garritano, Jaka Book, Milano 1997.

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preoccupazione»175. Glossando questo passo con parole heideggeriane: «noi non temiamo ciò che è lontano. Tutti sanno che devono morire, che la morte è imminente, ma quando non è vicina non sono presso di essa con la loro phrónesis, non sono rivolti verso di essa, non se ne preoccupano»176. Questa, per Heidegger, è una riprova del fatto che i greci «si preoccupano dell’essere come presenza»177 ed uno sprone ad elaborare un’interpretazione fenomenologica della morte come assenza e non come mera negazione della presenza. Applicando alla morte il concetto di télos come fa Aristotele allorché afferma: «anche la morte per metafora è detta fine, perché l’una e l’altro sono estremi»178, la si comprende, in quanto non-più-esserci [Nicht-mehr-Dasein] ed essere assente [Wegsein], come il limite dell’esserci: la morte in quanto assenza (apousía) è la rivelazione dell’essere della vita fattizia, della presenza (ousía). La meditatio mortis heideggeriana è una meditatio vitae, perché «io stesso sono la mia morte precisamente allorché io vivo. Non si tratta di descrivere modi della morte, ma di comprendere la morte come possibilità della vita. Non vogliamo fare una metafisica della morte, ma comprendere le sue strutture d’essere nella vita»179. La morte appartiene all’essenza della vita, è la sua quiddità, la sua sostanza per usare un termine aristotelico, cosicché la problematica ontologica della morte «non ha a che fare con una metafisica dell’immortalità e del “che cosa dopo?”»180, ma anzi svela la temporalità dell’Esserci. Così come la faktische Leben non è un movimento produttivo, tanto meno la morte è il compimento di questo movimento, «così come la vita effettiva, in base al suo carattere d’essere, non è 175 176 177 178 179

Aristotele, Retorica, cit., II, 5, 1382a, 25-27, p. 241. HGA 18, p. 252. HGA 18, p. 192. Aristotele, La metafisica, cit., II, V, 16, 1021b, 29, p. 520. WDF, p. 166 (tr. it., p. 40). Commentando l’asserzione aristotelica «vivere è per i viventi l’essere» (Aristotele, Dell’anima, cit., II, 4, 415b, 13, p. 137), Heidegger afferma: «l’anima non è un ente (lo psichico) accanto al corporeo (il fisico), bensì è il modo di essere di un ente corporeo determinato, e precisamente nel senso che quest’ultimo, in virtù di tale essere, si distingue come vivente [das Lebende] da ciò che è privo di vita. Il privo di vita [das Lebenlose] è ciò che si pone oltre l’antitesi fra vita e morte, poiché la morte non è il privo di vita, bensì il non-vivente [das Unlebendige], ovvero una determinazione del vivente, così come la quiete è una determinazione del movimento» (HGA 22, p. 184; tr. it., pp. 275-276). 180 NB, in HGA 62, p. 359 (tr. it., p. 26).

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un processo, tanto meno la morte è una cessazione di tale processo, caratterizzata come un’interruzione che prima o poi sopraggiunge. La morte è qualcosa che incombe [bevorsteht] nella vita effettiva»181. La morte non sta al di fuori della vita, ma incombe ineluttabilmente su di essa e «in quanto sempre già incombente, la morte appartiene all’esserci anche quando esso non è ancora terminato e non è del tutto terminato, quando dunque non è nel morire. La morte non è una parte mancante di un tutto in quanto composito, ma costituisce la totalità dell’esser-ci fin dal principio»182. Iniziamo a morire da quando iniziamo a vivere, afferma Lutero in un passo della Genesisvorlesung che Heidegger riporta sui propri appunti: la vita, che viviamo qui, è una morte […], è nient’altro, senza dubbio, che una corsa incessante verso la morte. Allo stesso modo di colui che è affetto dalla peste: non si può toccare che si comincia a morire. Così, dopo che questa vita è stata infettata dal peccato, non si può più parlare di vita, in verità, a causa del peccato e del suo castigo, la morte. Già dal grembo di nostra madre, noi cominciamo a morire183.

Lutero, confrontandosi con il cattolico Latomo sostenitore del principio aristotelico di non contraddizione184, afferma – richiamando il passo del De caelo, secondo cui «l’impossibile deriva dall’impossibile»185 – che «non c’è uomo vivente che non veda la morte»186, e che da tale premessa impossibile derivano due conseguenze contraddittorie e, tuttavia, entrambe possibilmente vere, che egli vive e muore allo stesso tempo e che egli non vive e muore allo stesso tempo187. 181 NB, in HGA 62, pp. 358-359 (tr. it., p. 25). 182 HGA 20, p. 432; (tr. it., p. 388). L’assunto di base della fenomenologia heideggeriana dell’esserci è che «la morte è un fenomeno della vita» (HGA 2, p. 328; tr. it., p. 296). 183 M. Lutero, Vorlesung über 1. Mose, in WA 42, p. 146. Cfr. HGA 61, p. 182 (tr. it., p. 214). 184 Aristotele, La metafisica, cit., II, IV, 3, 1005b 19-20, p. 483: «una stessa cosa non può nello stesso tempo e sotto il medesimo punto di vista inerire e non inerire allo stesso soggetto». 185 Aristotele, Il cielo, cit., I, 12, 281b, 15, p. 213. 186 M. Lutero, Rationis Latomianae confutatio, in WA 8, p. 76. 187 È probabile che qui Lutero faccia riferimento al principio di Duns-Scoto, ripreso da Popper: «se si ammettono due asserzioni, contraddittorie, si deve ammettere qualsiasi asserzione» (K. Popper, Conjectures and Refutations: The Growth of Scientific Knowledge, Routledge & Kegan Paul,

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La morte, la rosa del deserto dell’umano che racchiude il più segreto contenuto della vita, in quanto negazione della fatticità non ha un senso privativo, ma positivo, perciò è fondamentale il modo in cui è presente nella práxis. La morte, «l’ultimo nemico a essere annientato» (1 Cor, 15, 26; 2 Tm, 1, 10; Eb, 2, 14-15), nella sua incombenza «si manifesta, da un lato nel modo della preoccupazione che spinge alla fuga [fliehende Besorgnis], dall’altro nel modo dell’inquietudine che spinge ad afferrare [zugreifende Bekümmerung]»188. Fuga [Flucht] e precorrimento [Vorlauf], le due possibilità date all’esserci dinnanzi alla morte, si ritrovano in Aristotele a proposito del lógos capace di affermazione e negazione – «all’anima dianoetica le immagini tengono il posto delle sensazioni e quand’essa afferma o nega il bene o il male, essa fugge o insegue»189 – così come dell’órexis, che ha due modalità, l’inclinazione e il timore – «díoxis e phugé. Díoxis significa “inseguire”, “perseguire”, “tendere a qualcosa”, phugé vuol dire invece “ritrarsi”, “darsi alla fuga”, “andarvia-da”, “volgersi-da”»190. Nel senso originario del pheúghein, il rifuggire, l’indietreggiare, sono racchiusi entrambi i caratteri del flüchten descritti da Heidegger, ossia il correre via e la paura: cosa è questo fuggire dell’esser-ci di fronte a se stesso? Cos’è ciò di fronte a cui l’esser-ci fugge? Formalmente si può dire: esso fugge di fronte ad una minaccia. Come viene esperita questa minaccia e questo ché di minaccioso? Un ché di minaccioso non è dato primariamente in un fuggire di fronte ad esso, ma in ciò in cui la fuga stessa è fondata, e cioè nella paura. Ogni fuggire si fonda su un aver paura. Ma non ogni ripiegare-di-fronte-a, è necessariamente anche già un fuggire e con ciò un aver paura. Nel concetto antico della phughé e in quello medievale della fuga (che in tedesco traduciamo semplicemente con Flucht), i due significati spesso si sovrappongono191.

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London 1989; tr. it. di G. Pancaldi, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Rizzoli, Milano 2001, II, p. 539). NB, in HGA 62, p. 359 (tr. it., pp. 25-26). Aristotele, Dell’anima, cit., III, 7, 431a, 15-16, p. 180. Aristotele dice anche che «quando il sensibile apporta piacere o dolore, (l’anima), quasi facendo un’affermazione o una negazione, l’insegue o fugge» (ivi, III, 7, 431a, 9-10) e che «quello che nel pensiero sono affermazione e negazione, nel desiderio sono ricerca e repulsione» (Id., Etica nicomachea, cit., II, VI, 2, 1139a, pp. 21-22). HGA 24, p. 193 (tr. it., p. 130). HGA 20, p. 392 (tr. it., p. 351).

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Se «la forzata mancanza di inquietudine della cura della vita per la sua morte si compie nella fuga verso le preoccupazioni mondane»192 e via da sé, «il precorrere la morte in ogni istante dell’esser-ci significa il riprendersi da parte dell’esser-ci dal si nel senso dello scegliere-se-stessi»193. Pertanto, «il precorrimento, in quanto mette l’esserci di fronte alla sua possibilità estrema, è l’atto fondamentale dell’interpretazione dell’esserci»194. La decisione anticipatrice fa accedere al proprio essere, perché dona la possibilità di una dis-posizione di fronte all’angoscia della morte: una tale possibilità è il coraggio. È chiaro che io non posso essere veramente coraggioso se non allorché sono nella paura. La paura è la condizione di possibilità del coraggio. Colui che è incapace di aver paura, o colui che si persuade di esserne privo (che è il caso più frequente), non ha l’occasione di decidersi autenticamente e di essere coraggioso. Si tratta di afferrare il coraggio. Si tratta di temere autenticamente, e, per questo, di accedere alla decisione195.

Heidegger, che aveva già individuato la connessione strutturale tra paura e coraggio nel timor castus agostiniano, la ritrova in Aristotele, il quale sostiene che il coraggio è la disposizione migliore per rapportarsi alla paura, in quanto è «la disposizione mediana tra temerarietà e viltà»196. Nessuno è più capace del coraggioso di sopportare i pericoli e fra questi il più spaventoso è la morte, soprattutto la morte in guerra, «pertanto si dirà in senso proprio che coraggioso è chi è senza paura in presenza di una morte bella e di quelle cose che, quando sono imminenti, inducono la morte; e tali sono soprattutto quelle della guerra»197. Anche per Heidegger il coraggio, che richiama una virtù guerriera come quella del soldato [Vorläufer] che 192 NB, in HGA 62, p. 359 (tr. it., p. 25). 193 HGA 20, p. 440 (tr. it., p. 395). Cfr. Aristotele, Poetica, in Retorica e poetica, cit., 6, 1450b, 10, p. 603. 194 M. Heidegger, Der Begriff der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft, in HGA 64, p. 117 (tr. it., Il concetto di tempo, p. 39). 195 HGA 18, p. 261. Heidegger rievoca qui l’affermazione agostiniana tratta da Sal, 110, 10: «inizio della sapienza è il timore del Signore» (cfr. Sant’Agostino, Il discorso del Signore sulla montagna, in Opere esegetiche, cit., X/2, I, 1.3, p. 85), evidenziando l’importanza del timere per l’esserci. 196 Aristotele, Etica eudemia, cit., III, 1, 1228b, 3, p. 79. Sul rapporto tra coraggio e giusto mezzo, si veda anche ivi, II, 2, 1104a, 25-27, p. 113; II, 5, 1106b, 11-12, p. 120; II, 7, 1107b, 1-4, p. 122. 197 Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, III, 9, 1115a, 32-35, p. 149.

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esce dalla trincea per andare incontro al fuoco di sbarramento nemico, è legato al precorrere [Vorlaufen] la morte, è «il coraggio della paura davanti alla morte»198. Lutero, dal canto suo, contrappone paura e amore della morte: se ti accorgi di avere orrore della morte, e non piuttosto di amarla, sappi per segno certo che ti avvolgi ancora nella “saggezza della carne” […]. Coloro invece che hanno la “saggezza dello spirito” sono innamorati della volontà di Dio ed esultano nel conformarvisi […]. Così, quello che per gli altri è oggetto di estremo sgomento, per loro è gioia grandissima, perché vogliono con volontà perfetta quanto Dio vuole. Quando si vuole davvero qualcosa, non c’è più posto per il dolore o il timore199.

Qui troviamo al posto della formula nietzscheana dell’amor fati200 degli spiriti liberi, che vuole l’eterno ritorno e ama la vita, l’amor providentiae della saggezza dello Spirito, che vuole la volontà di Dio al punto da amare la morte come parte della vita. Non è un caso se tanto l’oltre-uomo quanto l’uomo di fede fanno esperienza dell’«attimo»201, 198 HGA 64, p. 50, nota 28. 199 M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, pp. 364-365 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 106). Come scrive Agostino: «colui che desidera di vivere ancora, quando giunge l’ora della morte, pazientemente si rassegna a morire; lotta contro se stesso per seguire la volontà di Dio e fa così perché così vuole Dio e non la sua volontà umana. Da questo desiderio della vita di quaggiù, nasce la lotta con la morte, e in questa lotta usa pazienza e fortezza per ben morire: costui muore rassegnato. Colui invece che desidera, come dice l’Apostolo, “sciogliersi dal corpo per essere con Cristo”, non a morire si rassegna, ma a vivere, e muore con gioia» (Sant’Agostino, Commento alla prima Lettera di San Giovanni, cit., IX, 2, p. 189). 200 Nella sua opera testamentaria, che ha significativamente come titolo l’espressione riferita a Cristo Ecce homo, Nietzsche scrive: «la mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l’eternità. Non solo sopportare, e tanto meno dissimulare il necessario […] ma amarlo…» (F. Nietzsche, Ecce homo. Wie man wird, was man ist, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, VI/III, cit., 1969; tr. it. a cura di R. Calasso, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Adelphi, Milano 2001, p. 54). 201 L’immagine dell’attimo, annunciata nel § 341 de La gaia scienza dal titolo Il peso più grande (F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina, cit., pp. 248-249), viene ripresa da Nietzsche nello Zarathustra, a proposito della visione e l’enigma della porta carraia (Id., Così parlò Zarathustra, cit., pp. 178-184), in cui, come sottolinea Heidegger, l’attimo non costituisce il fulcro di una teoria, ma il culmine di un’esperienza, poiché

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la temporalità autentica custodita dalla phrónesis. Infatti, la phrónesis, che si attua come serbare in attesa [in Erwartung behalten] e custodire [Verwahren], guidando l’uomo a precorrere la morte, «contribuisce a temporalizzare la vita nel suo essere»202; al contrario del rovinio, che, attuandosi come «non-volere e non-poter-attendere [nicht-warten-wollen/können]»203, «sottrae il tempo, cioè cerca di cancellare dalla fatticità il carattere storico»204. Nel correre incontro alla propria morte, nel pre-correre, che ha il senso del pro-airéin, lo scegliere deliberatamente rivolto in avanti, «l’esserci è il suo futuro, e precisamente in modo da ritornare, in questo essere futuro, sul suo passato e sul suo presente. L’esserci compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo»205. Pertanto, secondo l’antico insegnamento di Platone, per apprendere a vivere, per apprendere il proprio tempo, l’esserci deve esercitarsi a morire, perché solo la morte può rendere trasparente la vita a se stessa, può renderle trasparente il suo adesso, il suo non-più e il suo nonancora206. Meditare sulla propria morte non vuol dire calcolarne il mo-

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vederlo significa star-ci: «definiamo “attimo” il tempo in cui futuro e passato sbattono la testa l’uno contro l’altro, il tempo in cui essi vengono dominati e messi in atto dall’uomo secondo una decisione, stando l’uomo nel punto di questo scontro, anzi, essendo egli stesso tale punto» (HGA 6.1, p. 318; tr. it., p. 299). NB, in HGA 62, p. 383 (tr. it., p. 56). Sull’interesse heideggeriano per la phrónesis, che riguarda la temporalità della vita, cfr. R. A. Makkreel, The genesis of Heidegger’s phenomenological hermeneutics and the rediscovered Aristotle introduction of 1922, “Man and world”, 23, 1990, pp. 315-316). HGA 61, p. 184 (tr. it., p. 215). HGA 61, p. 140 (tr. it., p. 171). M. Heidegger, Der Begriff der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft, in HGA 64, p. 118 (tr. it., Il concetto di tempo, p. 40). Nell’Esserci si ricompongono le tre dimensioni temporali: «nell’essere-deciso l’esserci è il suo futuro, nell’essere-colpevole il suo passato e nell’agire esso perviene al presente. Esserci è nient’altro che essere-tempo. Il tempo non è niente che accade fuori nel mondo, ma ciò che io stesso sono. Nell’anticipazione, nel diventar-colpevole e nell’agire è presente il tempo stesso» (WDF, p. 169; tr. it., pp. 44-45). Sul praticare la filosofia come imparare a morire, si rimanda a Platone, Fedone, cit., 64a, p. 101; 67e, p. 108; 80e, pp. 132-133. Derrida osserva che Heidegger, seppure in Sein und Zeit, riflettendo sull’origine della cura, evoca la sollicitudo della Vulgata e la mérimna stoica, tralascia di citare la meléte o epiméleia platonica, «la disciplina dell’esercizio che insegna a morire per accedere alla nuova immortalità: meléte thanátou, il

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mento della venuta o progettarne la realizzazione magari agognando la vita immortale, «anticipare la più estrema possibilità d’essere, non è morire, ma vivere»207. Aver cura della propria morte significa «lasciar sussistere questa possibilità in quanto possibilità, non trasformarla nella realtà, ad esempio nel suicidio»208, e questo non in nome del precetto biblico «non uccidere» (Es, 20, 13), che non «eccettua nessuno neppure la persona cui il comando è rivolto»209, ma perché realizzare il possibile equivale ad annullarlo. Si tratta di praticare la morte nel senso di assumerla su di sé nel momento in cui si esiste come possibilità estrema, ineludibile finitezza, inevitabile télos.

prendersi cura della morte, l’esercizio della morte, l’“esercitarsi a morire” di cui parla Socrate nel Fedone. Il Fedone definisce così la filosofia: è l’anticipazione sollecita della morte, la cura da prendere nel morire, la meditazione sul modo migliore di ricevere, di dare o di darsi la morte, l’esperienza di una vigilia della morte possibile, e della morte possibile come impossibilità» (J. Derrida, Donare la morte, cit., pp. 51-52). Secondo Resta l’aver cura heideggeriano della morte si distanzia dal meléte thanátou, inteso come terapia e liberazione dell’anima ottenute tramite la sapienza, e si avvicina all’angustia cristiana, carica della speranza impossibile nella resurrezione, fermo restando che da Platone in poi la vita autentica è quella che precorre la morte: «la Cura stessa, che altro sarebbe se non cura della morte? Meléte thanáou nominerebbe dunque, come la meditatio latina, non un semplice meditare sulla morte, ma una pratica, un esercizio preparatorio. Il verbo mélo significa “darsi pensiero di”, “mi sta a cuore”, “sono sollecito” e meléte ha anche il significato di cura, di un esercizio attento e riguardoso, di una occupazione che è soprattutto preoccupazione. Anticipandola premurosamente, il filosofo è sempre alla vigilia della morte, vigila senza posa, veglia su di essa, affinché l’anima si risvegli, non si addormenti, vinta dal torpore del corpo. Insonnia nel cuore della notte in cui, come un ladro, l’ultimo giorno può sempre annunciarsi» (C. Resta, Ospitare la morte, “B@beleonline/print”, 2, 2006, p. 109). 207 HGA 64, p. 56. 208 WDF, p. 168 (tr. it., p. 43). L’Esserci per la morte deve avere un contegno «tale da lasciare che la possibilità rimanga come possibilità, non per esempio tale per cui la possibilità diventi realtà, per esempio mediante il fatto che io possa condurmi alla morte nel suicidio. Per mezzo del suicidio io faccio proprio cessare la possibilità come possibilità, la stravolgo fin nel fondamento, fino a farla cioè diventare una realtà. La possibilità tuttavia è ciò che essa è soltanto se resta tale, cioè se rimane incombente» (HGA 20, p. 349; tr. it., p. 394). Con il suicidio, che realizza la possibilità della morte, «l’Esserci sottrarrebbe a se stesso proprio la possibilità di assumere, esistendo, l’essere-per-la-morte» (HGA 2, p. 347; tr. it., p. 312). 209 Aurelio Agostino, La città di Dio, cit., I, 20, p. 110.

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V VOLO UT SIT

1. La rivoluzione Per grandi linee è possibile sostenere che così come la riflessione antropologica luterana prepara la strada ad una riforma “spirituale” della comunità ecclesiastica, la riflessione heideggeriana sulla vita fattizia prepara la strada ad una riforma o per meglio dire ad un’autentica rivoluzione “etica” della pólis1. La rivoluzione a cui pensa 1

Non si può certo non accennare al fatto che nel 1933/1934, Heidegger – considerando che «spirito è decisione [Entschlossenheit] originariamente e consapevolmente determinata verso l’essenza dell’essere» (ShU-R, p. 14; tr. it., p. 40) – darà l’attributo di “spirituale” alla sua guida [Führung] dell’Università tedesca, alla missione incombente sul destino del popolo tedesco nonché alla rivoluzione che, anche solo per poco tempo, pensa possa essere portata a compimento dal nazionalsocialismo. In Essere e tempo, invece, Heidegger invita ad evitare l’uso del termine Geist e i relativi aggettivi, geistig e geistlich, perché esso «va di pari passo con una singolare indifferenza rispetto alla questione dell’essere dell’ente così designato. Non è quindi per un capriccio terminologico che evitiamo questi termini (come, del resto, le espressioni “vita” e “uomo”) quando vogliamo denotare l’ente che noi stessi siamo» (HGA 2, p. 62; tr. it., p. 65). Come giustamente nota Gorgone, c’è, però, una continuità tra Sein und Zeit e la Rektoratsrede, che è rappresentata dalla “decisione”, dalla “risolutezza”, a favore dell’essenza dell’essere: infatti, nell’opera del 1927 «l’Entschlossenheit costituiva la struttura essenziale capace di condurre il Dasein alla Eigentlichkeit, cioè all’assunzione della propria radicale finitezza. Nel Discorso di Rettorato, l’Entschlossenheit diviene il principio politico fondamentale della Führung spirituale che conduce il Dasein al suo destino storico in quanto popolo» (S. Gorgone, Nel deserto dell’umano. Potenza e Machenschaft nel pensiero di Martin Heidegger, Mimesis, Milano 2011, p. 135, nota 18). Per un approfondimento della questione dello spirito nel Denkweg di Heidegger, che ne restituisce il posto che le spetta accanto alle altre – a differenza della maggior parte degli interpreti heideggeriani e anti-heideggeriani, che la schivano, forse a motivo dell’iniziale ammonimento di Essere e tempo o ancor di più per la successiva

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Heidegger è il ritorno a sé compiuto dall’Esserci per divenire quel che può e ha da essere; è il rivoltarsi del sé, concepito dalla tradizione come un io chiuso e autosufficiente, una monade, e insieme il suo rivolgersi ad altro2. La rivoluzione a cui pensa Heidegger è il ritor-

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controversa celebrazione – e che ne evidenzia il carattere inevitabilmente doppio, in quanto il Geist è pervaso da parte a parte dallo spettro [Gespenst], che incombe su di esso pervertendolo, si rimanda a J. Derrida, De l’esprit. Heidegger et la question, Galilée, Paris 1987; tr. it. di G. Zaccaria, Dello Spirito. Heidegger e la questione, SE, Milano 2010. Infine, è il caso di notare en passant che anche Lutero, che prima d’ogni altro contribuì a formare lo spirito nazionale tedesco, venne tacciato di antisemitismo – addirittura Jaspers afferma che «Hitler ha eseguito alla lettera» i suoi consigli (K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, R. Piper & Co, München 1962; tr. it. di F. Costa, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, p. 103) – a motivo dei suoi scritti, considerando, però, l’“aspra misericordia” che mostrò tre anni prima di morire in Degli ebrei e delle loro menzogne (1543) e non le affermazioni che da giovane, sull’esempio di Paolo e Agostino, rivolse ai cristiani chiusi e ostili in Gesù Cristo è nato ebreo (1523). Per l’importanza della riflessione luterana sul Geist – e sui composti come Volksgeist e Zeitgeist –, che contiene in sé la questione identitaria della Germania e precede il tema heideggeriano della storia come destino, si rimanda a N. Parfait, Une certaine idée de l’Allemagne. L’identité allemande et ses penseurs de Luther à Heidegger, Desjonquères, Paris 1999. Nella critica che Heidegger fa alla soggettività moderna rientra anche la critica al mito dell’autoctonia, poiché «l’uomo non è meno soggetto, se mai lo è più essenzialmente, quando esso si concepisce come nazione, come popolo, come razza […]. Proprio il concetto di razza è possibile solo sul terreno della soggettività» (HGA 90, p. 38). Sulla genesi filosofica ed estetica del mito nazionalsocialista della razza, si veda P. Lacoue-Labarthe e J.-L. Nancy, Le mythe nazi, Editions de l’Aube, La Tour d’Aigues 1991; tr. it. di C. Angelino, Il mito nazi, il melangolo, Genova 1992. Come nota Resta, l’idea heideggeriana di rivoluzione mostra l’Altro che si cela nello Stesso, prepara il passaggio ad un altro essere, ad un essere altrimenti: «se l’essere-soggetto non è che un accadimento storico dell’essereuomo, una sua possibilità, allora resta ancora a-venire quell’umanità che saprà pensarsi altrimenti. È verso l’apertura di quest’uomo a-venire, che viene dopo aver consumato fino in fondo tutte le lusinghe della Soggettività, che Heidegger si incammina a passi sempre più decisi. Per favorirne l’evento è necessaria un’autentica “rivoluzione”: essa innanzitutto consiste in un “trasloco” dell’uomo, in una dislocazione che dal centro lo trasponga in quel margine, in quel ‘tra’ [Zwischen], che, esponendolo alla vicinanza con l’Estraneo, lo trasformi in uno straniero tra gli enti, solo così capace di salvaguardarne l’insondabile mistero» (C. Resta, “Gli stranieri dal cuore uguale”: die Zukünftigen, in La terra del mattino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger, cit., p. 83). Sulla rivoluzione

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no all’inizio che interrompe il corso ordinario della storia, il ritorno al significato iniziale di ethízein, in quanto «portarsi-in-una-determinata-possibilità attraverso il fare sempre più spesso [das ÖfterDurchmachen]»3, che non è l’atto aristotelico frequentemente ripe-

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come ri-volgimento storico originario Saffioti osserva: «per i latini “rivoluzione” (revolutio) significa ritorno, “giro”, quindi raddoppiamento di sé, rotazione della direzione, descrizione di un circolo che non può essere misurato che dall’altro, da ciò da cui è circoscritto. La “rivoluzione” non ha, dunque, originariamente alcun significato utopico, di proiezione verso un futuro a cui andrebbero attribuiti i caratteri della presenza, quindi della stabilità, al contrario essa indica un differimento del presente stesso, la cui rotazione non lo fa mai coincidere con sé. La rivoluzione è dunque sempre già altro» (F. Saffioti, Geofilosofia del mare. Tra Oceano e Mediterraneo, Diabasis, Reggio Emilia 2007, p. 148). HGA 18, p. 188. Per Heidegger «il sovvertimento dell’usuale, la rivoluzione, è il genuino rapporto con l’inizio. L’atteggiamento conservatore, per contro, mira solo a mantenere, e a mantenere saldamente, quel che è cominciato grazie all’inizio e che a partire da esso si è trasformato. La semplice conservazione, infatti non potrà mai abbracciare l’inizio, perché avere inizio significa: pensare ed agire in base a quel che deve venire, all’inusuale, rinunciando alle stampelle e alle scappatoie dell’usuale e dell’usato» (HGA 45, pp. 40-41; tr. it., p. 37; sul pensiero dell’inizialità, si veda HGA 70). Negli anni Trenta Heidegger insegue una sorta di “utopia della pólis” (F. Fistetti, Heidegger e l’utopia della polis, Marietti, Genova 1999), crede cioè nella possibilità della ripetizione del primo inizio della civiltà occidentale, in grado di condurre il popolo tedesco al proprio Dasein e crede di poter guidare il movimento nazionalsocialista ad aprire tale possibilità, assegnando una funzione basileica alla propria filosofia – che rievoca l’originaria coincidenza greca di teoria e prassi: «l’inizio è ancora, non è alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato, ma ci sta di fronte, davanti a noi. […] L’inizio è inscritto nel nostro futuro, ci è di fronte come l’ingiunzione che da lontananze remote ci chiama a riconquistare di nuovo la sua grandezza» (ShU-R, pp. 12-13; tr. it., p. 39). Non si può certo liquidare nello spazio esiguo di una nota il controverso rapporto di Heidegger con il nazionalsocialismo; è tuttavia almeno il caso di notare che la scelta del filosofo, concretizzatasi nell’assunzione della carica di rettore, non può essere considerata né una reductio ad hitlerum, né un incidente di percorso, un errore, né una mera adesione politica, poiché è in linea col suo pensiero, essendone un possibile sbocco sul piano della práxis. Sulla portata filosofica o archipolitica dell’engagement di Heidegger con il nazionalsocialismo, si rimanda a AA. VV., La Germania segreta di Heidegger, a cura di F. Fistetti, Dedalo, Bari 2001; P. Lacoue-Labarthe, L’Imitation des modernes (Typographie 2), Galilée, Paris 1985; tr. it. di P. Di Vittorio, L’imitazione dei moderni (Typographie 2), Palomar, Bari 1995 e Id., La finction du politique, Christian Bourgois Editeur, Paris 1987; tr. it. di G. Scibilia, La finzione del politico, il melangolo, Genova 1991.

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tuto messo sott’accusa da Lutero, da cui si genera la virtù etica, ma la ripetizione della decisione, che riprende la vita dallo scadimento in vista del suo poter-essere autentico. L’éthos, che nel significato greco è l’“abito” e l’“abituale”, per Heidegger riguarda l’abitare dell’Esserci nel mondo: la mobilità si vede in realtà solamente a partire dal “soggiornare” di volta in volta genuino. […] Perciò il massimo compito è ottenere il genuino soggiornare e non quello arbitrario; il soggiornare davanti al possibile salto della decisione preoccupata […]. Nel soggiornare è visibile il movimento e in questo modo, a partire da esso, in quanto genuino soggiornare, la possibilità del contromovimento4.

La vita fattizia, nel soffermarsi [Sichaufhalten] presso il mondo, restando aperta al possibile, «liberandosi dalla tendenza alla realizzazione, compie un soggiorno [Aufenthalt]»5, in cui ha occasione di fare degli incontri. L’Esserci come essere-nel-mondo è un con-esserci e il con-esserci, a sua volta, è il fenomeno fondamentale da cui risultano e a cui vanno rinviati, in linea di principio tutti i problemi dell’etica […]. La domanda antropologica fondamentale in quanto domanda, del tutto a prescindere dal tipo di risposta, non può essere posta né nel ristretto orientamento verso un soggetto isolato né in riferimento a questo io isolato nella sua semplice relazione con gli oggetti, dal momento che, piuttosto, tanto i rapporti personali quanto anche i riferimenti mentali del soggetto verso il “mondo” si costituiscono sulla base dell’originario essere-l’uno-con-l’altro degli uomini6. 4

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HGA 63, p. 109 (tr. it., p. 113). Riattivando il significato originario di éthos in quanto Aufenthalt, Heidegger riprende il fr. 119 di Eraclito «éthos antrópo daímon» – la cui traduzione consueta «l’indole è per l’uomo il suo demone» (Eraclito, Sulla natura, cit., p. 168) deriva da un modo di pensare moderno, non greco – e lo traduce: «il soggiorno (solito) è per l’uomo l’ambito aperto alla presenza del dio (in-solito)» (M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in HGA 9, p. 356; tr. it., Lettera sull’«umanismo», p. 307). NB, in HGA 62, p. 354 (tr. it., p. 19). M. Heidegger, Presentazione alla commissione esaminatrice della facoltà di filosofia dell’Università di Marburgo dello scritto di abilitazione di Löwith, in K. Löwith, Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, in Sämtliche Schriften, Bd. I, cit., 1981; tr. it. di A. Cera, L’individuo nel ruolo del co-uomo, Guida, Napoli 2007, pp. 269-270. Löwith, che nella premessa alla prima edizione del suo scritto dichiara di occuparsi non di va-

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Etico non è l’agire isolato di un soggetto che in una determinata situazione risponde a un principio, a un valore o a un precetto, bensì la con-dotta [Vehalten] dell’Esserci con-veniente [das Schickliche] al suo destino [Geschick] di essere-nel-mondo. La katárgesis operata da Paolo nei confronti della Legge guida Heidegger – influenzandone anche l’interpretazione della filosofia aristotelica – a mettere tra parentesi la questione etica, intesa come prescrizione di un dovere morale che determina l’agire esteriore corretto dell’uomo: uno può progettare un sistema assoluto dell’eticità, dei valori etici e dei loro rapporti validi in sé, e restare in tutto questo non dico un uomo moralmente cattivo – un argomento simile qui sarebbe fuori luogo, almeno in prima istanza – ma può, proprio in virtù di questa forma di legalità e di questi rapporti di validità assoluti, restare cieco di fronte a oggetti e a riferimenti che nell’eticità vivente – ovvero nella fatticità come modo del suo possibile senso d’essere e d’attuazione – hanno il vizio di riproporsi regolarmente7.

Il carattere destruens del pensiero heideggeriano, che si esplica come distruzione di ogni costrutto, spingendosi fino al sovvertimento dell’assetto prestabilito, del “sistema assoluto” di norme valoriali, non nega, però, la responsabilità etica, anzi la fa propria in modo originario attraverso il fenomeno della cura. Ma così come non si tratta di un mero crollo [Umsturz], non si tratta neanche di una transvalutazione dei valori in vista della costituzione di un nuovo ordine, di un nuovo sistema, al modo del «rovesciamento del platonismo»8 nietzscheano o del rovesciamento violento di un regime – come tanti ne descrive la storiografia: questo sarebbe un tradimento, come lo è stato per il luteranesimo che, cadendo vittima della tradizione, ha

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lori etici o di una genealogia della morale, ma dell’essere-l’uno-con-l’altro, in quanto terreno che ogni etica presuppone, afferma: «gli uomini si rapportano [sich vehalten] l’uno all’altro e questo rapportare, questa condotta [Vehalten] implica un atteggiamento-fondamentale [Grund-Haltung] umano, ossia un “éthos”, che è il tema originario dell’“etica” e che, da parte sua, si esprime solo perché l’uomo si rapporta, cioè come co-uomo ai suoi co-uomini. […] Ogni filosofia, anche se non discute affatto di morale e di etica ed evita queste parole, possiede un tale éthos, che determina gli uomini come co-uomini» (ivi, p. 268). HGA 61, p. 164 (tr. it., p. 196). M. Heidegger, Überwindung der Metaphysik, in HGA 7, p. 77 (tr. it., Oltrepassamento della metafisica, p. 51).

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dato inizio allo sviluppo della scolastica protestante9. Piuttosto, Heidegger pensa, senza esperirla fino in fondo, ad un’“eticità vivente”, un’“archi-etica”, una rivoluzione del senso, del Vollzugssinn, che, in quanto riferita al Da del Dasein, è insieme un’“archi-politica”. Allo stesso modo di Lutero che di sé afferma: «il mio destino è spaccare tronchi e ceppi, tagliare siepi e rovi, riempire pantani; sono il rude taglialegna che apre strade nel bosco»10, Heidegger procede, per usare le parole dell’allieva Hanna Arendt, «come fa il taglialegna – per il quale il bosco è un luogo di lavoro – sulle vie da lui stesso tracciate»11. 2. L’uomo ‘etero-logo’ Il pensiero della rivoluzione non può che ripartire dalla definizione greca iniziale dell’uomo interpretata nella prospettiva di un conesserci costitutivo e originario. Aristotele stesso afferma che l’uomo, l’unico animale che possiede la parola, «lógon dé mónon ántropos échei tón zóon»12, è per natura un essere politico, «ántropos phýsei politikón zóon»13. Rispetto alla prima formula, Heidegger osserva che il termine zóon indica non l’animalità nel senso biologico della corporeità e di ciò che è istintuale, quanto il carattere 9

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HGA 60, p. 281 (tr. it., p. 359). Sotto la categoria di tradimento va considerato, dal punto di vista heideggeriano, anche l’esito della rivoluzione nazionalsocialista e della sua rozza “scienza politica” dottrinaria: il III Reich (ShU-R, p. 28; tr. it. p. 53). In questo senso, avvalendoci della differenza tra rivoluzione e rivolta messa in luce da Jesi, potremmo dire che, mentre la rivoluzione nazionalsocialista designa quel «complesso di azioni a lunga e breve scadenza che sono compiute da chi è cosciente di voler mutare nel tempo storico una situazione politica, sociale, economica» (F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 23), la rivoluzione, a cui pensa Heidegger, è «una sospensione del tempo storico» (ibidem). M. Lutero, Vorrede zu „Die Epistel S. Pauli zum Colossern durch Philippum Melanchton zum andern Mal ausgelegt, verdeutscht durch Iustum Ionam“, in WA 30/II, p. 68. H. Arendt, Martin Heidegger ist achtzig Jahre alt, „Merkur“, 258, 1969; tr. it. di N. Curcio, Martin Heidegger compie ottant’anni (1969), in AA. VV., Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Donzelli, Roma 1998, p. 66. Aristotele, Politica, cit., I, 2, 1253a, 9-10, p. 76. Ivi, I, 2, 1253a, 2, p. 76. Cfr. anche Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, I, 5, 1097b, 11, p. 90; II, IX, 9, 1169b, 18, p. 541.

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“insorgente” della vita14, il verbo écho, a sua volta, non vuol dire soltanto “ho”, “possiedo”, ma anche “abito”, “ospito”, “ho cura”, 14

Heidegger osserva che «il verbo záo, zén, non significa niente di diverso da sorgere per... [Aufgehen zu...], dallo schiudersi, dall’aprirsi dell’aperto. [...] Per i Greci le fondamentali parole arcaiche zóon e zoé non hanno niente a che vedere con la zoologia e neppure con la sfera del biologico in senso lato [...]. Pensato grecamente l’animale si determina a partire dallo zóon, a partire da ciò che sorge e che, finché non si manifesta, riposa in se stesso in un modo del tutto particolare» (M. Heidegger, Heraklit. 1. Die Anfang des abendländischen Denkens, in HGA 55, pp. 94-95; tr. it., Eraclito. L’inizio del pensiero occidentale, pp. 65-66). Perciò, non solo l’animale, ma anche «l’uomo è zóon, è un essere vivente, un essere caratterizzato dalla vita. Ma che cosa significa qui “vita”, zoé? Con questa parola, analogamente alla parola phýsis, i Greci pensano il “sorgere a partire da se stesso” [das Von-sich-aus-aufgehen]» (M. Heidegger, Heraklit. 2. Logik. Heraklits Lehre vom Logos, in HGA 55, p. 280; tr. it., Eraclito. Logica. La dottrina eraclitea del logos, p. 184). Ora, «nell’interpretazione dell’uomo come animal rationale, corrente per l’Occidente, l’uomo viene prima esperito nella cerchia degli animalia, zóa, degli esseri viventi. All’ente che così si presenta viene poi attribuita, come caratteristica e distinzione della sua animalità da quella dei meri animali, la ratio, il lógos» (HGA 6.2, p. 173; tr. it., p. 694). Invece, «noi adoperiamo “vita” solo per denominare gli enti vegetali e animali e distinguiamo da loro l’esser-uomo, che è qualcosa di più e di diverso della mera “vita”. […] Ciò che noi designiamo con “esserci” non compare nella storia della filosofia fino a oggi» (HGA 6.1, p. 246; tr. it., p. 235). Come nota Resta, Heidegger evidenzia che la formula animal rationale non è una semplice traduzione, bensì anche un’interpretazione del greco zóon lógon échon: «là dove la zoé, agli albori del pensiero greco, allude alla vita nel senso dell’insorgenza della phýsis, animal rimanda piuttosto a un concetto meramente zoologico di vita. E lo stesso si potrebbe dire del lógos che, dall’originario significato di “raccoglimento”, finisce con l’assumere quello di ragione discorsiva. Ma, al di là di questi pur importanti rilievi, ciò che Heidegger non mancherà di criticare in questa formula ogni qual volta, e accadrà spesso, vi farà riferimento, è quell’indebita giustapposizione di due elementi, come se l’essenza dell’uomo potesse essere dedotta dall’animalità, dal mero essere vivente, cui basterebbe aggiungere “in più” la sua specifica facoltà, quella della ragione» (C. Resta, Heidegger: provocazione tecnica e umanità dell’umano, cit., pp. 133-134). Sgombrando il campo dalle interpretazioni metafisiche dell’umanismo, che pensano l’uomo, a partire dalla sua animalitas, come un essere vivente, Heidegger approda non ad un anti-umanismo, ma ad un humanismus originario: «le supreme determinazioni umanistiche dell’essenza dell’uomo non esperiscono ancora l’autentica dignità dell’uomo. In questo senso, il pensiero di Sein und Zeit è contro l’umanismo. Questa opposizione non significa che tale pensiero si schieri contro l’umano e propugni l’inumano, difenda l’inumanità e sva-

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“custodisco”, “posso” e lógos, infine, va tradotto non con “ragione”, ma con “parola” o “discorso”, distinto dal verso dell’animale, per rendere conto della sua essenza manifestante da ricondursi al verbo légein (lat. legere; ted. lesen), “raccogliere” e “metter dinnanzi” (ted. legen)15. L’uomo, quindi, non è un animal rationale – come interpreta la traduzione latina e di conseguenza la tradizione filosofica occidentale – né un essere vivente che ha la facoltà di parlare come un possesso fra gli altri, poiché il lógos non è la ratio, ma il suo modo d’essere, la sua capacità di percepire l’ente non come semplice-presenza, ma in quanto questo o quello, «nel suo-esserscoperto “in quanto-qualcosa”»16.

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luti la dignità dell’uomo. Si pensa contro l’umanismo, perché non si pone l’humanitas dell’uomo a un livello abbastanza elevato» (M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in HGA 9, p. 330; tr. it., Lettera sull’«umanismo», p. 283). Un tale umanismo non è un antropocentrismo, bensì un antropo-ex-centrismo, in quanto riposa sull’essenza dell’uomo che è l’esistenza: all’«accusa di aver assunto in Sein und Zeit un “punto di vista antropocentrico”» (M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, in HGA 9, p. 162, nota 59; tr. it., Dell’essenza del fondamento, p. 118, nota 59), Heidegger risponde che i suoi sforzi sono stati riposti «unicamente nel mostrare che l’essenza dell’esserci, che sta qui “al centro”, è estatica, cioè “eccentrica”» (ivi, p. 162, nota 59; tr. it., p. 119, nota 59). Heidegger ricostruisce il significato essenziale del lógos a partire dai frammenti eraclitei, in particolare il carattere riunente del dire, in quanto lasciarmanifestare l’unità, emerge dal fr. 50: «ouk emoú allá toú Lógou akoúsantas omologeín sophón estin. Én pánta» (M. Heidegger, Logos, in HGA 7, pp. 213-217; tr. it., Logos, pp. 141-145. Cfr. Eraclito, Sulla natura, cit., p. 161) e dal fr. 93: «o ánax oú tó manteión esti tó en Delphoís, oúte légein oúte krýptei allá semaínein» (HGA 40, pp. 178-179; tr. it., pp. 176-177; M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der phýsis. Aristoteles, Physik B, 1, in HGA 9, pp. 278-279; tr. it., Sull’essenza e sul concetto della phýsis. Aristotele, Fisica B, 1, p. 233; e Id., Heraklit. 1. Die Anfang des abendländischen Denkens, in HGA 55, pp. 177-181; tr. it., Eraclito. L’inizio del pensiero occidentale, pp. 117-119. Cfr. Eraclito, Sulla natura, cit., p. 166). NB, in HGA 62, p. 378 (tr. it., p. 51). L’accesso all’ente in quanto tale è il fulcro della questione del Bezug tra uomo e animale, di cui Heidegger si occupa soprattutto in Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, laddove, partendo da tre tesi fondamentali, «la pietra è senza mondo [weltlos], l’animale è povero di mondo [weltarm], l’uomo è formatore di mondo [weltbilden]» (HGA 29/30, p. 261; tr. it., p. 230), afferma: «nella misura in cui il lógos è connesso al noús e al noéin, l’apprendere qualcosa, possiamo dire: all’uomo è proprio un esser-aperto per… tale che questo esser-aperto per… ha il carattere della percezione di qualcosa in quanto qualcosa. Questo modo di riferirsi all’ente lo definia-

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Analizzando i passi del De anima dedicati all’intelletto e all’appetito quali principi del movimento, Heidegger ribadisce che «l’uomo condotta, di contro al comportamento proprio dell’animale. Così l’uomo è un zóon lógon échon, l’animale invece è álogon» (HGA 29/30, p. 443; tr. it., p. 391). L’animale, chiuso in un cerchio ambientale e senza rapporto con la totalità significativa, non può percepire qualcosa in quanto tale, non può parlare né agire [handeln], avere una condotta [sich verhalten], ma solo comportarsi [sich benehmen] istintivamente (HGA 29/30, p. 261; tr. it., p. 230): il suo modo d’essere è lo stordimento [Benommenheit] (HGA 29/30, pp. 360-362; tr. it., pp. 316-318), in virtù del quale l’ente è aperto [offen], ma non svelato [offenbar] (HGA 29/30, p. 368; tr. it., p. 323). Questa apertura senza svelamento, che fa sì che l’animale, a differenza dell’uomo, sia weltarm, povero di mondo e non semplicemente weltlos, privo di mondo, come la pietra (HGA 29/30, pp. 391-392; tr. it., pp. 343-344), rende davvero enigmatica l’essenza dell’animale (HGA 29/30, p. 394; tr. it., p. 346); come Heidegger segnalerà anche in seguito: «fra tutti gli enti l’essere-vivente è il più difficile da pensare, perché da un lato è quello che in un certo modo ci è più affine, e dall’altro è ad un tempo separato da un abisso dalla nostra essenza e-sistente» (M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in HGA 9, p. 326; tr. it., Lettera sull’«umanismo», p. 279). Resta il fatto che «il salto dall’animale vivente all’uomo dicente è grande quanto quello dalla pietra priva di vita all’essere vivente, o ancora di più» (HGA 39, p. 75; tr. it., p. 80): infatti, «la pietra è priva di Mondo. Piante ed animali sono egualmente senza Mondo. Essi appartengono al velato afflusso di un ambiente di cui fanno parte», l’uomo, invece, «ha un Mondo, perché soggiorna nell’aperto dell’ente» (M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes, in HGA 5, p. 31; tr. it., L’origine dell’opera d’arte, p. 30). Un significativo spostamento di prospettiva si registra allorché «formatore di mondo [weltbildender]» (HGA 38, p. 169; tr. it., p. 235) non è più l’uomo, ma il linguaggio stesso: in tal modo, osserva Costa, «l’essere umano ha perduto la sua posizione di privilegio nella totalità dell’essere, e con ciò viene meno la nozione stessa di differenza antropologica» (V. Costa, Differenza antropologica e animalità in Heidegger, “Discipline filosofiche”, 1, 2002, p. 161). Negare il lógos agli animali è una costante della tradizione filosofica – basti pensare a quanto dice Gadamer: «di un linguaggio degli animali si può parlare solo per aequivocationem. Il linguaggio è infatti, nel suo uso, una libera e variabile possibilità dell’uomo» (H.G. Gadamer, Verità e Metodo, cit., p. 905). Pur considerando il linguaggio non un mero strumento di cui l’uomo possa vantare il possesso, ma «l’evento [Ereignis] che dispone della suprema possibilità dell’essere-uomo» (M. Heidegger, Hölderlin und das Wesen der Dichtung, in HGA 4, p. 38; tr. it., Hölderlin e l’essenza della poesia, p. 46), Heidegger, tuttavia, secondo Derrida, non si discosterebbe da quella concezione logo-antropo-centrica che caratterizza, in forme diverse, tutta la storia del pensiero occidentale: «una tesi sull’animale privo di lógos, privo del poter-avere il lógos: tesi questa, posizione o presupposto che resta costante

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mo si distingue dall’animale grazie al noús, e più precisamente grazie al lógos. Il lógos rientra di necessità nella definizione dello zóon da Aristotele a Heidegger, da Descartes a Kant, Lévinas e Lacan» (J. Derrida, L’animal que donc je suis, a cura di M.-L. Mallet, Galilée, Paris 2006; tr. it. di M. Zannini, L’animale che dunque sono, a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 2006, p. 66). Derrida, partendo dal concetto di “traccia”, che precede la voce e scardina la contrapposizione netta umano/non umano, pone come questione decisiva non se gli animali sono del tipo zóon lógon échon, ma «se gli animali possono soffrire. […] La questione si tinge di una certa passività. […] Poter soffrire non è più un potere, è una possibilità senza potere, una possibilità dell’impossibile» (ivi, pp. 66-67). La questione dell’animale si lega alla decostruzione dell’antropocentrismo metafisico, che segna un’opposizione netta tra uomini e viventi, invece di segnalare la pluralità di confini esistente tra essi, perché sussume i viventi, senza riguardo alle differenze, sotto un’unica categoria, generale e astratta, “animale”, opposta «a questo medesimo che io sono» (ivi, p. 138), categoria che Derrida sostituisce con quella singolare/plurale di animot. In realtà, Heidegger non solo denuncia l’intima affiliazione tra antropologia, umanismo e metafisica, ma ammette come limiti della sua analisi la non-distinzione nella varietà dei viventi (HGA 29/30, p. 386; tr. it., p. 339) e il confronto comparativo: «infatti solo visto a partire dall’uomo l’animale è povero quanto al mondo» (HGA 29/30, p. 393; tr. it., p. 345). Heidegger accenna anche al páthos dell’animale: «se in certe sue varianti il fare a meno è un soffrire, allora, se il fare a meno del mondo e l’esser-povero fanno parte dell’essenza dell’animale, la sofferenza e il dolore dovrebbero aggirarsi per l’intero regno animale e per il regno della vita in generale» (HGA 29/30, p. 393; tr. it., p. 345). Agamben nota che, nominando la struggente attesa della creazione [apokaradokía tes ktíseos] di Rm, 8, 19 (HGA 29/30, p. 396; tr. it., p. 348), Heidegger ricompone, per certi versi, il divario tra semplice-vivente e Dasein: «come nella Lettera paolina, l’apokaradokía avvicinava di colpo nella prospettiva della redenzione messianica la creatura all’uomo, così lo scuotimento essenziale che l’animale sperimenta nel suo essere esposto in un non-svelamento accorcia drasticamente le distanze che il corso aveva segnato fra l’animale e l’uomo» (G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 64). Di Martino suggerisce che la differenza tra uomo e animale non vada negata, capovolgendo o eliminando la gerarchia classica, ma ripensata: «da una parte, essa può essere interpretata come il “pregiudizio” capitale di un antropocentrismo indebito e tutto occidentale, principio di una violenza senza limite di una specie di viventi su tutte le altre specie che popolano la terra. […] Dall’altra parte, la differenza o superiorità umana può essere riconosciuta come un evento – intrascendibile, irriducibile – che ci assegna al nostro destino di uomini e che si dispiega come apertura di una possibilità unica, singolare, di rapporto all’altro, come inaugurazione di una inaudita possibilità di “trasposizione” nell’altro» (C. Di Martino, Figure dell’evento. A partire da Jaques Derrida, Guerini e Associati, Milano 2009, p. 198).

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“uomo”: zóon lógon échon, un “essere vivente che può parlare”, che può cioè apophaínestai»17. Anche Lutero, nella Disputation de homine, afferma il primato ontologico dell’uomo, partendo sì dalla definizione di animal rationale formulata dalla filosofia – «sapientia humana»18 –, ma determinando la ratio come qualcosa di eccelso e divino che è «omnium rerum res»19, determinazione questa di chia17

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HGA 22, p. 310 (tr. it., p. 413). Cfr. Aristotele, Dell’anima, cit., III, 10, 433a, 10-433b, 30, pp. 184-186. Heidegger, nell’intento di determinare l’essenza della phýsis, seguendo il filo conduttore del légein, afferma: «è solo perché l’uomo è in quanto si comporta in rapporto all’ente come tale, svelandolo e velandolo, l’uomo può e deve avere la “parola”, cioè dire dell’essere dell’ente» (M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der phýsis. Aristoteles, Physik B, 1, in HGA 9, p. 279; tr. it., Sull’essenza e sul concetto della phýsis. Aristotele, Fisica B, 1, p. 234). M. Lutero, Die Disputation de homine, in WA 39/I, p. 175, tesi 1 (tr. it., Le tesi de homine, p. 306). Heidegger analizza questa disputa luterana durante le sessioni conclusive del seminario “La filosofia di Martin Heidegger e la teologia”, organizzato da Ebeling a Zurigo nel marzo 1961. In quest’occasione, per accedere al significato originario della definizione dell’uomo quale zóon lógon échon, Heidegger parte dal concetto di “definizione” [orismós], in quanto «indicazione [Angabe] del genus proximum e della differentia specifica. […] L’indicazione del ghénos (latino: genus, tedesco: Gattung) apre la vista sull’origine della cosa (ghéneis), la più prossima determinazione fornisce l’eídos (latino: species)» (M. Heidegger, Systematisches Seminar von Prof. Dr. Ebeling WS 1960/61. Protokoll der Sitzung von 3.3.1961, in BrH-Bu, p. 288). La definizione greca dell’uomo «determina il suo ghénos come zóon e il suo eídos come lógos. Lo zóon (l’essere vivente [Lebewesen]) si differenzia dal non-vivente [Nichtlebendigen] per il fatto che ha il principio del suo movimento in sé stesso, mentre il non-vivente per il suo movimento ha bisogno di un impulso iniziale dall’esterno. Fra tutti gli esseri viventi, però, l’uomo si distingue in quanto parla» (ibidem). La traduzione latina animal rationale dimentica quest’ultimo aspetto, tuttavia «con ratio è imparentato reor nel significato di “ritenere”; “presumere qualcosa”; “considerare qualcosa in quanto qualcosa (nel senso, che è vero)”. La radice re- si incontra di nuovo nella parola tedesca “Rede”, che nel Medioevo significava “render conto” […]. In alcune traduzioni medievali ratio è reso con Rede. Si rivela così nell’etimologia l’originaria vicinanza di ratio e lógos (lógon didónai), e perciò non è escluso che essa possa trapelare anche nell’uso linguistico di Lutero» (ivi, p. 289). M. Lutero, Die Disputation de homine, in WA 39/I, p. 175, tesi 4 (tr. it., Le tesi de homine, p. 306). Cfr. Aristotele, Dell’anima, cit., III, 8, 431 b, 21, p. 181: «l’anima è in qualche maniera tutte le cose [e psyché tá ónta pós estin]». Da questa proposizione Heidegger evince che «il problema ontico-ontologico dell’Esserci è già stato notato fin dall’antichità, senza tutta-

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ra ascendenza aristotelica in cui si conserva l’eídos della comprensione greca dell’ántropos: il noús, il lógos. Lutero, tralasciando di considerare se il termine “animale” sia proprio o improprio per l’uomo20 e sottolineando solo che lo riguarda in quanto mortale21, individua nella ratio la «differenza essenziale»22 rispetto agli altri esseri viventi, che circoscrive il dominio assegnato all’uomo super terram23 (Gen, 1, 26). Ma nel corso della stessa disputa Lutero modifica la definizione dell’uomo, puntando lo sguardo non più sulla ratio in sé, ma sul suo posse, per sottolineare il carattere caduco della vita nella sua concreta storicità. Per l’uomo è, infatti, impossibile conoscere non solo la causa efficiente e finale24, Dio creatore, ma anche se stesso25 «e quel che è miserabile è il fatto che l’anima non possegga un potere certo sui suoi pensieri e propositi, ma in essi sia piuttosto sottoposta al caso e alla vanità»26. Per segnare il limes da-

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via che ne fosse colta la struttura ontologica genuina, o almeno ne fosse posto il relativo problema» (HGA 2, p. 18; tr. it., p. 26). La determinazione della ratio come res rerum è contenuta nella definizione greca dell’uomo: «se si rinviene nella comprensione greca del lógos, ovvero del noús, ciò che contraddistingue la psyché, appare allora il parallelismo tra Lutero e Aristotele: e psyché tá ónta pós estin, l’“anima” è in un certo senso tutto, in quanto noús, in quanto percepiente. Tutto ciò che è, è come tale solo nel percepire. Il rapporto con l’essere dell’essente determina ancora presumibilmente in questo modo anche la ratio latina, sebbene tale supposizione non è espressa nella tesi di Lutero. L’uomo è quell’essere che possiede la comprensione dell’essere. Questa determinazione si estende anche alla definizione dell’uomo come animal rationale. Solo quell’essere che comprende l’essere parla» (M. Heidegger, Systematisches Seminar von Prof. Dr. Ebeling WS 1960/61. Protokoll der Sitzung von 3.3.1961, in BrH-Bu, pp. 288-289). M. Lutero, Die Disputation de homine, in WA 39/I, p. 175, tesi 2 (tr. it., Le tesi de homine, p. 306). Ivi, p. 175, tesi 3 (tr. it., p. 306). Ivi, p. 175, tesi 6 (tr. it., p. 306). La differentia essentialis, che Heidegger traduce con “prossimità” [Nachbarschaft], tra uomo e animale, sta nel fatto che «l’uomo accede al linguaggio per la sua facultas e potestas» (M. Heidegger, Systematisches Seminar von Prof. Dr. Ebeling WS 1960/61. Protokoll der Sitzung von 3.3.1961, in BrH-Bu, p. 290). M. Lutero, Die Disputation de homine, in WA 39/I, p. 175, tesi 7 (tr. it., Le tesi de homine, p. 306). Ivi, p. 175, tesi 13 (tr. it., p. 307). Ivi, p. 175, tesi 17 (tr. it., p. 307). Ivi, p. 176, tesi 18 (tr. it., p. 307). Heidegger osserva che la ratio «ha potere discrezionale su ciò da cui essa stessa si riconosce come differente, ma non su se stessa» (M. Heidegger, Systematisches Seminar von Prof.

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vanti a cui la ragione è costretta a fermarsi oltre alla locuzione biblica vanitas vanitatum et omnia vanitas (Eccle, 1, 2; 12, 8), che nell’accezione ebraica – hebēl significa prima di tutto ‘fiato’, ‘soffio’ – descrive la fragilità umana, ad essere rievocate sono le nozioni aristoteliche di týche e autómaton, cause accidentali, oscure e indeterminate, che esplicitano la Geschichtlichkeit della vita: «quale è questa vita, tale è anche la definizione e la conoscenza dell’uomo, vale a dire esigua, sfuggente»27. In tal modo, però, viene adombrata la differentia essentialis, che distingue l’uomo dall’animale, ossia la potestas di parlare, che non è accessoria o accidentale, ma appunto wesentlich. Il Dasein non è innanzitutto un semplice-vivente, zoé nel senso dell’animalitas, cui si attribuisce secondariamente e

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Dr. Ebeling WS 1960/61. Protokoll der Sitzung von 3.3.1961, in BrH-Bu, p. 290), ossia che «in relazione a comprensione e giudizio su sé stesso l’uomo è senza potere, assoggettato al caso e alla nullità. Quest’esperienza non viene alla parola nella definizione filosofica dell’uomo come animal rationale» (ibidem). M. Lutero, Die Disputation de homine, in WA 39/I, p. 176, tesi 19 (tr. it., Le tesi de homine, p. 307). In questo passaggio della disputa, che insiste sull’essenza mortale dell’uomo, si consuma, secondo Heidegger, il distacco di Lutero da Aristotele e dalla definizione originaria dell’uomo come zóon lógon échon: «i greci ricavarono la definizione [orismós] dalla considerazione del ghénos e dell’eídos. La definizione latina si alimenta certamente da questa origine, ma in Lutero essa era già sbiadita ad illustrazione da manuale» (M. Heidegger, Systematisches Seminar von Prof. Dr. Ebeling WS 1960/61. Protokoll der Sitzung von 3.3.1961, in BrH-Bu, p. 289). Tuttavia, Heidegger stesso mostra, nel Colloquio serale, non solo che la determinazione dell’uomo come thnetós, mortale, è più originariamente greca rispetto a quella di zóon lógon échon, ma soprattutto che le due definizioni non sono incompatibili, in quanto ambedue collocano l’essenza dell’uomo nel disporsi in attesa [warten auf] e nel lasciar-essere [sein-lassen]: «se lógos significa il raccoglimento nell’uno che originariamente tutto unisce, e l’uno non è altro che il divino stesso, allora entrambe queste determinazioni dell’essenza, che in un primo momento sembrano quasi inconciliabili o perlomeno reciprocamente estranee, pensano in fondo la stessa cosa» (HGA 77, p. 224; tr. it., p. 199), ossia che l’uomo è l’essere che può morire e può parlare, perché si pre-dispone all’attesa della morte e della parola e le lascia-essere. Nel legame tra lógos e morte è racchiusa la differentia essentialis tra l’esserci e l’animale: «i mortali sono coloro che possono esperire la morte come morte. L’animale non lo può. Ma anche il parlare è precluso all’animale. Come per un lampo improvviso balza qui allo sguardo il rapporto costitutivo tra morte e linguaggio, ma ancora non lo si è tematizzato» (M. Heidegger, Das Wesen der Sprache, in HGA 12, p. 203; tr. it., L’essenza del linguaggio, p. 169).

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dall’esterno il lógos, tant’è che bisogna pensare l’animalità non come negazione dell’humanitas, bensì in base al concetto aristotelico di stéresis come «presentarsi in cui si presenta l’assentarsi – e non già l’assente»28. 28

M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der phýsis. Aristoteles, Physik B, 1, in HGA 9, p. 297 (tr. it., Sull’essenza e sul concetto della phýsis Aristotele, Fisica B, 1, p. 251). A proposito della stéresis dell’animale, Derrida nota che «continuamente Heidegger dice delle cose deliberatamente contraddittorie, cioè che l’animale ha un mondo come “se non l’avesse”» (J. Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 216). Per «rendere conto degli enunciati contraddittori del tipo “l’animale ha e non ha un mondo”, dunque ha e non ha l’“in quanto tale” – bisognerebbe finire per uscire da questa opposizione, che è assolutamente strutturante in tutta la filosofia, ivi compreso Heidegger tra l’“in quanto tale” e il “non in quanto tale”» (ivi, p. 217), bisognerebbe uscire da questa struttura, che altro non è che lo schema cartesiano della rappresentazione; del resto, Heidegger ricorda con Aristotele che l’essere apofantico è solo uno dei modi del lógos (HGA 29/30, p. 448; tr. it., pp. 395-396). Il problema della costituzione ontologica del “vivere”, nella prospettiva heideggeriana, «va esaminato attraverso una riduzione privativa a partire dall’ontologia dell’Esserci» (HGA 2, p. 257; tr. it., p. 236). A tal proposito Dastur parla di “zoo-logia privativa”, che non dice niente sull’animale, se non che è la cosa più difficile da pensare, al modo della teologia negativa, che non dice niente su Dio, ma ne parla per comandare di non parlarne (F. Dastur, Pour une zoologie privative, “Alter”, 3, 1995, p. 306); d’altronde, non marcare la rottura tra animalità e umanità «è, come nota Heidegger, ad un tempo umanizzare l’animale e animalizzare l’uomo» (ivi, p. 316). Come osserva Russo, «l’animalitas finisce con l’uomo, l’uomo è finito, cioè chiuso, accerchiato, delimitato, dall’animalitas» (M. Russo, Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica, “Discipline filosofiche”, 1, 2002, p. 182). Sarebbe interessante approfondire, a partire dalla differenza privativa, il modo in cui il Dasein è insieme all’animale, ovvero se e in che misura l’esserecon-l’animale è una struttura dell’essere-nel-mondo, visto che uomo e animale condividono la gettatezza: «la chiocciola scivola fuori talvolta dal proprio guscio e al tempo stesso vi resta attaccata, si protende all’infuori verso qualcosa, verso il cibo, verso certe cose che trova sul terreno. Ma in questo modo la chiocciola perviene ad un rapporto d’essere con il mondo? La risposta è no! Lo sgusciar fuori è solo una modificazione locale del suo essere-già-nel-mondo. Anche se essa è nel guscio, il suo essere è, correttamente inteso, essere-fuori. Essa non è nella propria casa come l’acqua nel bicchiere, ma possiede l’interno della propria casa come mondo, al quale si appoggia, che tasta, nel quale si riscalda e così via. […] Con l’atto del tastare essa non si procura un mondo, ma tasta perché il suo essere non significa altro che essere in un mondo» (HGA 20, p. 224; tr. it., p. 202). Il rapporto tra il semplice vivente (e con-vivente) e il Dasein (e il Mit-Dasein) si complica notevolmente considerando come primo termine

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Individuato nella parola il discrimen tra l’Esserci e il semplice vivente álogon, Heidegger guarda alla struttura del lógos nella sua totalità e riconosce come elemento essenziale lo zu Anderen zu sprechen, l’indirizzarsi ad altri: «ogni parlare […] è in quanto modo d’essere dell’esser-ci essenzialmente essere-con [Mit-sein], ossia ogni parlare è secondo il suo senso parlare ad altri e con altri»29. Revocata la distinzione fra Um-, Mit- e Selbst-welt, Heidegger utilizza i termini Mitsein e Mitwelt per indicare la condizione ontologica dell’esserci presupposta dal lógos: infatti, poiché ha un’essenza manifestante ed ermeneutica, «l’io storico-pratico ha necessariamente una natura sociale»30, non nel senso dell’animal sociale dei romani, i quali ritenevano il vivere in comune la condizione naturale condivisa da uomo e animale, ma nel senso che «si trova in una connessione vitale [Lebenszusammenhang] con gli altri io»31. Heidegger, d’altro canto, riconosce un’attività semiotica anche agli animali, considerando che «animali e uomini non sono semplicemente-

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gli animali domestici: «gli animali domestici vengono da noi tenuti in casa, “vivono” con noi. Ma noi non viviamo con loro, se vivere significa: essere nella maniera dell’animale. E tuttavia noi siamo con loro. Ma questo con-essere non è un esistere con, dal momento che un cane non esiste, bensì semplicemente vive. Questo con essere con gli animali è tale che lasciamo che gli animali si muovano nel nostro mondo. […] Un accompagnarsi, una trasposizione – eppure no» (HGA 29/30, p. 308; tr. it., p. 271). HGA 20, p. 362 (tr. it., p. 325). Commentando l’affermazione aristotelica secondo cui ogni discorso è significante «per convenzione nel senso che nessun nome è tale per natura, ma è nome quando sia divenuto simbolo» (Aristotele, De interpretatione, cit., II, 17a, 27, p. 21), Heidegger precisa che il linguaggio ha la sua genesi nel sýmbolon, «dobbiamo guardarci dal tradurre sýmbolon con “simbolo” e introdurre per sýmbolon un concetto oggi corrente. Symbolé significa gettare-insieme l’uno con l’altro, tenere insieme qualcosa con qualcos’altro, cioè tenerlo unito con qualcos’altro, congiungere l’uno all’altro e l’uno nell’altro» (HGA 29/30, p. 445; tr. it., p. 393). Nel tenere-insieme è insito un con-venire: «le parole sorgono da quella convenzione essenziale reciproca degli uomini secondo la quale nel loro esser-l’uno-l’altro sono aperti per l’ente che li circonda» (HGA 29/30, p. 447; tr. it., p. 395). HGA 56/57, p. 210 (tr. it., p. 193). Durante le lezioni marburghesi, riferendosi alle tre articolazioni della Welt, Heidegger ammette: «nelle mie precedenti lezioni io ho visto le cose in questo modo e ho inteso i termini usati in questo senso. La cosa è però radicalmente sbagliata. […] Ecco perché fin dall’inizio io ho voluto usare qui l’espressione “essere-con”» (HGA 20, p. 333; tr. it., p. 300). HGA 56/57, p. 210 (tr. it., p. 193).

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presenti vicini gli uni agli altri, bensì sono gli-uni-con-gli-altri»32, solo che ritiene gli uomini più politici. In effetti, la koinonía è già per Aristotele il proprio dell’uomo in quanto politikón zóon, che lo differenzia non solo dall’animale, ma anche dagli dei: «chi non vive in una città [ápolis], per la sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo: è il caso di chi Omero chiama con scherno “senza parenti, senza leggi, senza focolare”»33. Lutero, che nel ribadire sempre la discrepanza tra giustizia divina e politica non smette di pensare da civilis homo e di lodare Aristotele come teorico della pólis, fa esplicito riferimento a questo passo della Politica, sostenendo che è Dio stesso a volere che gli uomini vivano insieme, poiché «la vita solitaria è bestiale, demoniaca o totalmente divina»34. Dunque, Aristotele insegna che l’uomo, in quanto è un essere parlante, è co-originariamente un essere politico, capace di creare una comunanza, che va ben oltre il semplice comportamento gregario: l’uomo è animale più socievole di qualsiasi ape e di qualsiasi altro animale che viva in greggi. Infatti, secondo quanto sosteniamo, la natura non fa nulla invano, e l’uomo è l’unico animale che abbia la favella: la voce [phoné] è segno del piacere e del dolore e perciò l’hanno anche gli altri animali, in quanto la loro natura giunge fino ad avere e a significare agli altri la sensazione del piacere e del dolore. Invece la parola [lógos] serve a indicare l’utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e l’ingiusto. E questo è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali: esser l’unico ad avere nozione del bene e del male, del giusto [díkaion] e dell’ingiusto [ádikon] e così via. È proprio la comunanza [koinonía] di queste cose che costituisce la famiglia e la città35.

Commentando questo brano, Heidegger considera che «l’uomo è nella maniera dell’essere-insieme, la determinazione fondamentale 32 33 34

35

HGA 18, p. 21. Aristotele, Politica, cit., I, 2, 1253a, 3-5, p. 77. Cfr. anche ivi, I, 2, 1253a, 29, p. 79. M. Lutero, Sermo von christlicher Gerechtigkeit und Vergebung der Sünden, in WA 29, p. 237. Cfr. anche Id., Vorlesung über 1. Mose, in WA 42, p. 497. Secondo Cotta, Lutero, insistendo sul divario tra volontà umana e divina ed esasperando la malvagità dell’uomo, da cui si genera uno stato di costante conflittualità, anticipa il pensiero politico moderno, in generale, e l’homo homini lupus hobbesiano, in particolare (G. Cotta, La nascita dell’individualismo moderno. Lutero e la politica della modernità, Il Mulino, Bologna 2002). Aristotele, Politica, cit., I, 2, 1253a, 9-19, pp. 77-79.

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del suo essere è l’essere-insieme. Questo essere-insieme [Miteinandersein] ha la possibilità fondamentale nel parlare, del comprendere nel parlare-insieme [Miteinandersprechen]»36. Ma il parlare è solo una delle possibilità del lógos, le altre sono il silenzio e l’ascolto. L’altro comunica anche nel modo del tacere e «il tacere nell’essere l’uno con l’altro può recuperare e richiamare l’esser-ci al suo più proprio essere»37 dalla confusione del parlarsi quotidiano; il tacere lascia essere il Dasein in quanto con-esserci ed istituisce la dimensione prettamente politica della parola: «è da un tale passare sotto silenzio [Stille] che scaturisce il genuino saper ascoltare e in questo si costituisce il genuino essere l’un con l’altro»38. Dal momento che «nell’essere-insieme, l’uno può essere colui che parla, l’altro colui che ascolta»39, «l’ascoltare appartiene al parlare come l’essere-con all’essere-nel-mondo […]. Ascoltare è la maniera fondamentale del comprendente essere l’un con l’altro»40. L’ascoltarsi-l’un-l’altro [Aufeinanderhören] marca una co-appartenenza [Zugehörigkeit] originaria: l’essere-con ha la struttura di una appartenenza (pertinentia ad) che è “dare-ascolto-e-osservanza-ad” altri, ed è solo sulla base di questa appartenenza primaria che vi è qualcosa come secessione, formazione di gruppi, configurazione di società e simili […]. Sulla base di un simile saper ascoltare, che è costitutivo dell’in-essere, vi è qualcosa come l’obbedire (ob-audire)41. 36 37 38

39 40 41

HGA 18, p. 104. HGA 20, p. 369 (tr. it., p. 331). HGA 20, p. 369 (tr. it., p. 331). Cfr. HGA 2, p. 219 (tr. it., p. 202). Il termine Stille, preso a prestito dalla mistica, sarà fondamentale nelle successive riflessioni heideggeriane sul linguaggio, in special modo poetico: «la filosofia e la poesia sono [wesen] nel linguaggio, poiché esse nella loro essenza [Wesen] sono Dichtung, cioè la risposta [Antwort] alla parola [Wort] dell’essere. Perciò esse sono il dire cioè il suggerire [Vorsagen], che può essere solo come ripetere [Nachsagen]. Il ridire è [west] nella docile, attenta cura al cenno e al suono del silenzio» (M. Heidegger, Das Wesen der Philosophie (Philosophie und Poesie), Jahresgabe der Martin-HeideggerGesellschaft (1987); tr. it. di N. Curcio, L’essenza della filosofia, “aut aut”, 234, 1989, p. 20). Sul silenzio in quanto linguaggio autentico, che porta alla parola il sacro, si veda M. Blanchot, La parole “sacré” de Hölderlin, in Le part du feu, Gallimard, Paris 1949; tr. it. di F. Sossi, La parola “sacra” di Hölderlin,“aut aut”, 234, 1989. HGA 18, p. 105. HGA 20, p. 368 (tr. it., p. 330). HGA 20, p. 367 (tr. it., p. 329). In questa sede si affaccia tutta la costellazione dell’ascolto, tematizzata in Essere e tempo: «poiché comprende a

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

L’originaria pertinentia dà all’essenza dell’Esserci un carattere costitutivamente etero-logo; detto in termini luterani, l’uomo esiste al cospetto dell’altro, del suo volto [Gesicht], e può non aver riguardo [wegsehen] di lui, ma non può prescindere [absehen] da lui, e questa co-relazione è la strutturazione stessa del linguaggio [Sprachlichkeit]42. Se il disporsi [Horchen] all’ascolto [Hören] costituisce la modalità “positiva” fondamentale dello stare reciprocamente a sentirsi su cui si basa il con-essere, il non voler sentire è un modo privativo della Zugehörigkeit, è un modo di negare il Mit-eineder-sein in quanto costituzione ontologica dell’Esserci, un modo di sottrarsi alla chiamata anche silenziosa che proviene dall’altro e ad ogni responsabilità originariamente politica. 3. Bíos politikós Il termine zoé per Aristotele è synonimum43 in quanto designa il semplice fatto di vivere, comune tanto agli animali e alle piante che all’uomo, mentre l’érgon di quest’ultimo, «ciò che gli è proprio»44, riguarda il vivere bene, l’eu-zén, o meglio il vivere politicamente

42 43

44

partire dal suo essere-nel-mondo con gli altri, l’Esserci è, rispetto al conEsserci e a se stesso, nella soggezione dello “stare a sentire” [hörig], e in tale soggezione appartiene loro [zugehörig]» (HGA 2, p. 217; tr. it., p. 201). La Zugehörigkeit, come suggerisce Resta, sottrae il Da-sein all’orizzonte metafisico dell’animalizzazione, ovvero permette di attuare quel mutamento essenziale [Wesenwaldel] dell’uomo dalla bestia [Tier] razionale (animal rationale) all’esser-ci: «un homo humanus potrà annunciarsi solo nella responsabile consapevolezza del limite e nel riconoscimento di un’alterità inappropriabile e indisponibile» (C. Resta, Heidegger: provocazione tecnica e umanità dell’umano, cit., p. 150). Sul tema del vivente nel pensiero heideggeriano, si veda anche L. Illetterati, Tra tecnica e natura. Problemi di ontologia del vivente in Heidegger, Il Poligrafo, Padova 2002. Riguardo alla relazione-coram, come quella tra marito e moglie, sui cui è fondata la strutturazione del linguaggio, in quanto parola di Dio, si rinvia a M. Lutero, Vom ehelichen Leben, in WA 10/II, p. 294. Per Aristotele «si dicono sinonimi quegli oggetti, che hanno tanto il nome in comune quanto il medesimo discorso definitorio. Ad esempio, sia l’uomo che il bue si dicono animali. In realtà, l’uomo e il bue vengono designati con il comune nome di animale, ed inoltre il loro discorso definitorio è lo stesso» (Aristotele, Categorie, cit., 1, Ia, 6-10, p. 5). Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, I, 6, 1097b, 33, p. 91.

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qualificato. La vita dell’uomo, asserisce Heidegger, non è mera zoé, ma è bíos, vita in fieri, colta nella sua dinamicità storicamente determinata, nel suo essere in cammino, nella sua kínesis: bíos: un nuovo concetto di “vita”, che non va confusa con zoé. La biologia moderna non fa più riferimento al bíos greco. Bíos vuol dire “possibilità della vita”, “cammino della vita”, la temporalità specifica di una vita dalla nascita alla morte, “il percorso di una vita”, in modo tale che bíos significa ugualmente “storia di una vita”, il come d’una zoé è il bíos, la storia di una vita45.

Considerando il bíos il Wie della zoé, il come della sua attuazione, Heidegger si mostra refrattario a qualsivoglia definizione zoologica o biologica della vita, sottesa ad ogni antropologia filosofica, che si occupa della natura del vivente, mentre il Dasein propriamente è storia: i concetti biologici di vita vanno lasciati da parte fin dal primo momento; un peso inutile quand’anche ne emergano dei motivi significativi, giacché questo è possibile comunque solo se la comprensione dell’esserci dell’uomo come vita vi si tiene aperta sul piano della precognizione, e questa comprensione in se stessa è essenzialmente più antica della biologia moderna46. 45 46

HGA 18, p. 74. HGA 61, p. 81 (tr. it., p. 117). Nell’Introduzione di Essere e tempo Heidegger afferma che l’analitica esistenziale fornisce frammenti essenziali per la fondazione di un’antropologia filosofica (HGA 2, p. 23; tr. it., p. 30), tuttavia non manca di palesare un’insofferenza nei confronti del biologismo, sotteso ad ogni antropologia filosofica (HGA 2, pp. 12-15; tr. it., pp. 20-24), anticipando le successive critiche all’umanesimo metafisico, un’antropologia estetico-morale, che non pone il problema del che cos’è l’uomo, perché presuppone di saperlo; se lo ponesse, «dovrebbe infatti riconoscersi rovesciata e oltrepassata» (M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes, in HGA 5, p. 111, nota 10; tr. it., L’epoca dell’immagine del mondo, p. 98, nota 10). A una dottrina siffatta Heidegger contrappone un umanismo che pensa l’humanitas dell’homo humanus, a partire dalla vicinanza all’essere: «l’essenza dell’uomo consiste nel fatto che egli è qualcosa di più del mero uomo come ce lo si rappresenta quando lo si intende come un essere vivente fornito di ragione. Qui il “più” non lo si deve intendere come un’aggiunta, come se la tradizionale definizione dell’uomo dovesse restare la determinazione fondamentale, per poi subire un’amplificazione attraverso l’aggiunta del carattere esistenziale. Il “più” significa: più originario» (M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in HGA 9, p. 342; tr. it., Lettera sull’«umanismo», pp. 294-295). L’uomo è più che animal

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

La vita, separata dalla caratterizzazione meramente naturalistica, è la vita fattizia, nel suo poter-essere, nel suo Geworden-sein, nel suo divenire inteso come accadere storico concreto, nella sua práxis: una vita siffatta non è soltanto zoé, bensì bíos, “esistenza”. Nel corso della storia il significato di questo concetto è mutato: bíos è ciò che l’uomo ha in comune con gli altri esseri viventi. Vi sono diverse possibilità di bíos (bíoi). Ma qual è il bíos supremo, la suprema possibilità di esistenza, il modo di essere in cui l’uomo soddisfa in sommo grado il suo autentico poter-essere e in cui egli è in modo autentico? Tutti i comportamenti pratici sono rivolti a qualcosa di esterno all’uomo, a qualcosa di determinato come questo o quello, temporalmente circoscritto. Ogni fare si compie nel kairós, l’“attimo pratico”. Un’esistenza così concepita è una possibilità specifica dell’uomo: bíos politikós (cfr. Eth. Nic. I 5, 1095 b, 18), “vita nella comunità”47.

Nel passo dell’Etica nicomachea qui citato da Heidegger, Aristotele distingue tre diversi generi di vita, la vita da animali del volgo dedita al godimento, quella contemplativa, che avvicina gli uomini agli dei, e quella politica, prediletta dalle persone portate all’azione. Se la práxis originaria è l’essere stesso dell’esserci, allora la vita po-

47

rationale, in quanto è meno rispetto all’uomo che si concepisce a partire dalla soggettività; da ciò discende che «l’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere» (ivi, p. 342; tr. it., p. 295). Heidegger giungerà a sostenere che l’antropologia è la filosofia dell’epoca della metafisica compiuta: «che si parli ancora di antropologia “filosofica” oppure no è del tutto indifferente. La filosofia è diventata antropologia, e su questa via si è trasformata in una preda per la discendenza della metafisica, cioè per la fisica intesa nel senso più vasto, che comprende la fisica della vita e dell’uomo, la biologia e la psicologia. Divenuta antropologia, la filosofia stessa perisce a causa della metafisica» (M. Heidegger, Überwindung der Metaphysik, in HGA 7, p. 85; tr. it., Oltrepassamento della metafisica, p. 56). HGA 22, p. 312, (tr. it., p. 415). Sullo zóon politikón Arendt, citando Paideía. La formazione dell’uomo greco di Jäger, nota: «secondo il pensiero greco, la capacità degli uomini di organizzarsi politicamente non solo è differente, ma è in diretto contrasto con l’associazione naturale che ha il suo centro nella casa (oíkia) e nella famiglia. Il sorgere della città-stato significò per l’uomo ricevere “accanto alla sua vita privata una sorta di seconda vita, il suo bíos politicós. Ora ogni cittadino appartiene a due ordini di esistenza; e c’è una netta distinzione nella sua vita tra ciò che è suo proprio (ídion) e ciò che è in comune (koinón)”» (H. Arendt, The human condition, The University of Chicago, U.S.A. 1958; tr. it. di S. Finzi, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1999, p. 19).

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litica è quella propriamente umana, l’essere-insieme è il modo d’essere in cui l’Esserci realizza il suo autentico poter-essere. La vita fattizia, che nella sua essenza è “logoteta”, vita di relazione, ha come determinazione fondamentale la Verfallenheit, pensata da Heidegger non nell’accezione scolastica di “contingenza” [Zufälligkeit]48 – traduzione del temine aristotelico endechómenon49 – né semplicemente come ‘caduta’, Ruinanz, lo stato di deiezione, l’esteriorità del Man in cui l’Esserci si allontana da sé abbandonandosi al modo d’essere anonimo, ma come esposizione originaria all’altro. Decidersi per il proprio bíos significa, dunque, per l’Esserci, farsi carico della Verfallenheit, riconoscersi come sempre aperto al proprio poter-essere, e dunque mai identico a sé a partire da un’essenza data una volta per tutte. 48

49

La categoria centrale della fatticità, come nota Agamben, non è «per Heidegger (com’era invece ancora per Husserl) la Zufälligkeit, la contingenza, per cui qualcosa è in un certo modo e in un certo luogo, ma potrebbe essere altrove e altrimenti, ma la Verfallenheit, la deiezione, che caratterizza un essere che è e ha da essere i suoi stessi modi di essere. La fatticità non è semplicemente l’essere contingentemente in un certo modo e in una certa situazione, ma l’assunzione decisa di questo modo e di questa situazione, in cui ciò che era dote (Hingabe) deve essere trasformato in compito (Aufgabe)» (G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005, pp. 167-168). Negli anni Trenta Heidegger pensa l’essenza storica del Dasein a partire dalla dialettica hölderliniana tra il proprio e l’estraneo: «uno è innato (dote) [Mitgegebenen], l’altro è assegnato [Aufgegebenen] come missione, da conquistare. La destinazione storica risiede sempre nel convertire quanto si possiede come dote, l’elemento nazionale, in ciò che si impone come missione» (HGA 39, pp.; tr. it., pp. 291-292). Aristotele, De Interpretatione, cit., 12, 20b, 35, p. 51. Derrida lega il concetto di endechómenon, “ricettacolo”, a quello platonico di khôra, «spazio che fornisce sede a tutte le cose» (Platone, Timeo, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, 52B, 1, p. 151), ovvero, con parole heideggeriane, «ciò che ammette […] qualcos’altro e “gli fa posto”» (HGA 40, p. 71; tr. it. p. 77), passività che si lascia imprimere da altro, principio di apertura e ospitalità: l’endechómenon «scava con il suo enigma tutta la meditazione del Timeo in rapporto alla Khôra (eis khôran). Endekhomai significa prendere su di sé, in sé, presso di sé, con sé, ricevere, accogliere, accettare, ammettere qualcos’altro rispetto a sé, l’altro da sé. Vi si può ritrovare una certa esperienza dell’ospitalità» (J. Derrida, Apories. Mourir – s’attendre aux “limites de la vérité”, Galilée, Paris 1996; tr. it. di G. Berto, Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità”, Bompiani, Milano 1999, p. 11; per un approfondimento, si rimanda a Id., Chōra, in Il segreto del nome. Chora. Passioni, Salvo il nome, cit., pp. 45-86).

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

Non si può, di conseguenza, assimilare il pensiero del con-essere ad una visione organicistica della comunità come quelle elaborate a partire dall’idea teologica medievale d’unità e dall’identificazione tomista del corpus mysticum con il corpus ecclesiae, basate, a loro volta, sulla concezione aristotelica del corpo come microcosmo nonché sulla metafora di Rm, 12, 4-5 («poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri»). Il primo a rifiutare questa comm-unio, è Lutero che, pur convinto che l’aggettivo politicus delimiti la sfera di ciò che è corporale50, punta l’attenzione non sull’unità, ma sulla differenza, che è differenza di vocazione: «ita in piis iuxta et impiis sunt omnia naturalia dona, sed modo diverso»51. Di conseguenza, analizzando il termine Chiesa [Kirke], Lutero traduce tanto koinonía che ekklesía (da ek-kaléo: “chiamar fuori”) con Gemeinde, “assemblea” – significato derivato in maniera originale, anche se filologicamente problematica, da kyría e curia –, poiché non di comunione si tratta, ma del raduno di coloro che sono messi a parte in vista di un compito52. Se l’organicismo politico attraversa come motivo ricorrente tutta la storia occidentale, nella modernità si palesa un fenomeno del tutto nuovo, che già Heidegger riconosce, ossia il mutamento di significato del termine bíos, che viene a coincidere non più con ciò che è proprio dell’uomo, ma con la falda biologica che l’uomo ha in comune con gli esseri viventi. Non si tratta di una questione terminologica, poiché il progressivo oscuramento dell’originario concetto di zoé e la riduzione di zoé e bíos a mera vita zoo-biologica determina un cambiamento fondamentale nella concezione della vita umana e della sua vocazione politica, accentuandone i risvolti biopoliti50

51 52

M. Lutero, Annotationes in Ecclesiasten, in WA 20, p. 194: «est autem corpus nostrum domus quaedam, in qua invenire est politiam et oeconomiam, cuius politiae rex caput est, custodes manus». È d’obbligo qui il rimando al paradigma teologico-politico e a Carl Schmitt, che ne dà la più celebre definizione: «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico […] ma anche nella loro struttura sistematica» (C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 61). M. Lutero, Die Sammlung des Konrad Cordatus, in WATR 3, p. 105, n. 2938a. M. Lutero, Deutch Katechismus (Der Große Katechismus), in WA 30/I, p. 189 (tr. it., Il Grande Catechismo, pp. 239-240).

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ci53. Attraverso la nozione di Verfallenheit Heidegger sottrae l’essenza della vita al dualismo di necessità e contingenza, ad ogni logica meccanicistica e finalistica e ad ogni riduzionismo biologistico54. Tuttavia, è proprio l’assolutizzazione della Verfallenheit ciò 53

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Per una ricognizione generale sul concetto di biopolitica cfr. L. Bazzicalupo, La biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010, che ne evidenzia non solo la duplice declinazione, negativa, come potere sulla vita (Foucault), e affermativa, come potenza vitalistica, politica della vita (da Spinoza, passando per Nietzsche, fino a Deleuze e a Negri), ma anche le sfumature e gli sconfinamenti all’interno di uno stesso pensiero (per esempio nel caso di Agamben e Esposito). Secondo Levinas, invece, le riflessioni heideggeriane potrebbero ispirare una politica biologistico-razziale, quale quella del nazionalsocialismo, la cui origine attiene «ad una possibilità essenziale del Male elementale […]. Possibilità che s’inscrive nell’ontologia dell’essere che ha cura d’essere» (E. Levinas, Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlerisme, « Esprit », 26, 1934; tr. it. di A. Cavalletti, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996, p. 21). In altri termini, Levinas suggerisce che nell’heideggeriana ontologia della vita, categorie come quella di Geworfenheit, l’esser-gettato, che il filosofo francese traduce, non senza violenza ermeneutica, nell’être rivé, l’essere-inchiodato dell’uomo alla propria corporeità, potrebbe prestare il fianco ad interpretazioni biologistiche, compatibili con l’hitlerismo: «l’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento. Essere veramente se stessi […] significa […] prendere coscienza dell’incatenamento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo; significa soprattutto accettare questo incatenamento» (ivi, p. 32), cosicché ad essere messa in causa «è l’umanità stessa dell’uomo» (ivi, p. 35). Per Agamben, Levinas trascura di considerare che il nazionalsocialismo, trasformando l’esperienza della vita fattizia in un mero valore biologico, tradisce la prospettiva heideggeriana: «la prestazione più propria del genio filosofico di Heidegger è consistita, infatti, nell’aver elaborato le categorie concettuali che impediscono alla fatticità di presentarsi come un fatto, mentre il nazismo ha finito coll’imprigionare la vita fattizia in una determinazione razziale oggettiva ed ha, così, abbandonato la sua ispirazione originale» (G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 169). Per Esposito, non solo la tematica della vita fattizia si differenzia essenzialmente dal primato vitalistico del bíos e dalla sua declinazione politica ad opera del nazionalsocialismo (R. Esposito, Bíos. Biopolitica e Filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. 165-166), ma bisogna vedere «nella polemica di Heidegger nei confronti del biologismo una forma di contrapposizione anticipata» (ivi, p. 168) alla biopolitica nazista, «caratterizzata dal predominio della categoria di vita sulla categoria di esistenza» (ibidem). Questa contrapposizione è evidente anche rispetto all’esperienza della morte, perché «mentre nella tanatopolitica nazista la morte rappresenta il presupposto, prima ancora che il destino, della vita svuotata di potenza biologica – e

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

che determina la trasformazione della vita fattizia in vita meramente biologica e la sua subordinazione al controllo delle tecno-scienze e della tecno-politica, che ne fanno oggetto di sperimentazione e manipolazione55. Certo è, però, che nella sua contro-motilità (o mo-

55

perciò ridotta a mera esistenza –, per Heidegger essa è il modo di essere proprio di un’esistenza distinta dalla nuda vita» (ivi, p. 169). Ma il punto di massima divergenza si ha nella concezione dell’animale: se il nazismo, nella sua essenza biocratica, considera l’animale «la parte non umana dell’uomo, quella zona inesplorata, o quella fase arcaica, della vita in cui l’humanitas si ripiega su se stessa separandosi attraverso un discrimine interno tra ciò che può continuare a vivere e ciò che deve morire» (ivi, p. 169), per Heidegger l’uomo «è precisamente il non-animale, così come l’animale è il vivente non-umano» (ivi, p. 170). Profetiche in questo senso le parole di Jünger, che, descrivendo il tipo umano del XX secolo, l’Arbeiter, conia l’espressione “costruzione organica”, per esprimere la compenetrazione fra l’elemento costruttivo-organizzativo (la macchina) e quello organico (l’uomo) (E. Jünger, Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, Klett, Stuttgart 1981; tr. it. di Q. Principe, L’operaio. Dominio e forma, Guanda, Parma 1991, p. 107). Per Heidegger «la costruzione organica è la definitiva liberazione della tecnica in quanto “verità” unica ed incondizionata dell’essente» (HGA 90, p. 201); un esempio sono le S.S. (HGA 90, p. 202). Per questo, nell’epoca della fine della filosofia, la cibernetica – «la teoria che ha per oggetto la direzione della possibile pianificazione e organizzazione del lavoro umano» (M. Heidegger, Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens, in HGA 14, p. 72; tr. it., La fine della filosofia e il compito del pensiero, p. 176) – si mette a capo di tutte le scienze. All’esserci, che ha perso la sua humanitas a causa del dominio tecnico, Heidegger attribuisce la «povertà di mondo [weltarmut]» (HGA 65, p. 277; tr. it., p. 278) dell’animale. Nell’epoca conclusiva della tecnica moderna si compie, infatti, l’assoluta tecnicizzazione di tutto il vivente, ivi compreso l’uomo: «se la vita come tale divenisse un artefatto producibile “tecnicamente”; […] se ciò avvenisse, in quello stesso momento non ci sarebbe più salute, né nascita e morte. Talvolta sembra che l’umanità corra all’impazzata verso questa meta: che l’uomo produca tecnicamente se stesso. Se ciò riuscirà, l’uomo avrà fatto saltare in aria se stesso» (M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der phýsis. Aristoteles, Physik B, 1, in HGA 9, p. 257; tr. it., Sull’essenza e sul concetto della phýsis. Aristotele, Fisica B, 1, p. 211). Heidegger prefigura la nascita della biotecnologia, che riduce l’uomo a materiale d’uso: «l’elemento animale, in ognuna delle sue forme, viene sempre più completamente sottomesso al calcolo e alla pianificazione (pianificazione sanitaria, allevamento). Poiché l’uomo è la materia prima più importante ci si può aspettare che, sulla base delle attuali ricerche della chimica, un giorno si possano creare fabbriche per la produzione artificiale di materiale umano» (M. Heidegger, Überwindung der Metaphysik, in HGA 7, p. 93; tr. it., Oltrepassamento della metafisica, p. 62).

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tilità contro-rovinante) la vita fattizia eccede ogni possibile apprensione, sfugge tenacemente alla presa del potere che vorrebbe ridurla a vita meramente vivente; irriducibile ad una sostanza, psichica o corporea, essa si rivolta, resiste e lotta per il proprio poter-esserenel-mondo e con gli altri. 4. Con-esserci «L’uomo è spirito. Ma che cos’è lo spirito? Lo spirito è il sé. Ma che cos’è il sé? Il sé è un rapporto»56, scriveva Kierkegaard, e Heidegger, che dal filosofo danese riceve numerose suggestioni per la comprensione dell’Esserci, nonostante ritenga che «la “sostanza” dell’uomo non è lo spirito come sintesi di anima e corpo, ma l’esistenza»57, mantiene fermo il fatto che il Dasein è ‘in rapporto’. Infatti, nell’apertura della vita fattizia oltre alla “semplice-presenza” [Vorhandenheit], caratterizzata dall’«essere utile per»58, si incontra l’“apparire [Vor-schein] con-mondano”, «gli altri, in quanto viventi effettivi»59, con-viventi [Mit-lebende]. L’esperienza della fatticità è l’esperienza dell’incontro [Begegnung] sul cammino [Fahrt] della vita: «il fatto che noi, ciascuno nel suo vivere fattuale, incontriamo questo o quello, […] il fatto che “c’imbattiamo” ciascuno nell’altro uomo, noi lo chiamiamo es-perire [er-fahren]»60. Pertanto, non può esistere un Esserci che non sia nel-mondo in quanto, anche, Essercicon-gli-altri, perché «vita primariamente è già sempre vita con gli altri, sapere dei suoi simili [Mit-menschen]»61. 56 57 58 59 60

61

S. Kierkegaard, La malattia per la morte, cit., p. 15. HGA 2, p. 157 (tr. it., p. 148). HGA 63, p. 97 (tr. it., p. 103). HGA 63, p. 99 (tr. it., p. 104). HGA 58, p. 67. Il senso d’incontro [Begegnung] della Erfahrung resterà saldo anche negli scritti heideggeriani successivi: «l’esatto significato di erfahren è: eundo assequi, camminando raggiungere qualcosa per via, raggiungere qualcosa camminando lungo una via» (M. Heidegger, Das Wesen der Sprache, in HGA 12, p. 159; tr. it., L’essenza del linguaggio, p. 135). WDF, p. 157 (tr. it., p. 25). Mit-mensch è il termine della löwithiana Mitanthropologie, in quanto individuo «determinato in lui stesso del tutto attraverso altri corrispondenti e fissato formalmente come io di un tu, come individuo in prima “persona”, cioè di una possibile seconda persona e dunque come co-uomo – attraverso questo “ruolo” principale» (K. Löwith,

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

Attraverso la Destruktion del solipsismo tipico di ogni umanismo del sub-iectum posto a fondamento degli enti, che è un in-dividum, ab-solutum, sciolto da ogni relazione, e autós, ‘a(u)to-mico’ e autonomico, Heidegger trasforma l’ego sum nell’ego cum, ovvero pensa l’io e l’altro, non più come entità assolute, ma come già da sempre ‘relazionati’: solo in quanto il “soggetto” è determinato dall’essere-nel-mondo esso può, come se-stesso, divenire un tu per un altro. Solo perché sono un me-stesso esistente io posso essere un tu per un altro, inteso come sestesso. La determinazione fondamentale della possibilità del se-stesso, l’essere un possibile tu nel con-essere con altri, si fonda sul fatto che l’esserci, come quel se stesso che esso è, è tale da esistere come esserenel-mondo. Infatti “tu” vuol dire: il tu che è con me in un mondo62.

Fra l’Esserci e il mondo esiste una connessione dinamica strutturale e non uno statico legame esteriore, nel senso che l’Esserci ha essenzialmente il mondo e in quanto essere-nel-mondo, l’esserci è con-essere con altri, prescindendo dal fatto che e dal modo in cui gli altri sono fattualmente conpresenti. D’altro canto, però, l’esserci non è neppure in primo luogo

62

L’individuo nel ruolo del co-uomo, cit., p. 266). Levinas prende, invece, le distanze dal termine Mit-mensch, che da Aristotele in poi rappresenta niente più che un “alter-ego”, preferendogli Neben-Mench, autrui: «“Altri”, in quanto “altri”, non è solo un alter ego. Esso è ciò che io non sono» (E. Lévinas, De L’existence a l’existant, Vrin, Paris 1949; tr. it. di F. Sossi, Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 87). Levinas rimprovera a Heidegger di dare al “con” il compito di definire la relazione: «l’altro, in Heidegger, appare nella situazione essenziale del Miteinandersein – essere reciprocamente l’uno con l’altro. La preposizione mit (con) descrive qui la relazione. Si tratta, perciò, di un’associazione basata sul fianco a fianco, intorno a qualcosa, intorno ad un termine comune, e più esattamente, per Heidegger, intorno alla verità. Non è la relazione del faccia a faccia» (E. Levinas, Le temps et l’autre, Fata Morgana, Montpellier 1979; tr. it. di F. P. Ciglia, Il tempo e l’altro, il melangolo, Genova 1997, p. 14). Il Miteinadersein è «una collettività intorno a qualcosa di comune» (ivi, p. 56), mentre il faccia a faccia «è una collettività che non è una comunione» (ibidem). Al di là dei limiti che, a torto o a ragione, Levinas rimprovera all’esserci-l’uno-con-l’altro prospettato da Heidegger, tuttavia, per sua stessa ammissione, è innegabile il debito nei confronti dell’analitica esistenziale. HGA 24, p. 422 (tr. it., p. 285).

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soltanto con-essere con altri, per imbattersi poi, entro l’essere-assieme, nelle cose intramondane, ma con-essere con altri significa con-essere con altri essere-nel-mondo, cioè con-essere-nel-mondo63.

63

HGA 24, p. 394 (tr. it., p. 266). Nancy – forse l’erede più fedele del Mitsein heideggeriano – considera l’analitica esistenziale «l’impresa cui ogni pensiero ulteriore resta tributario» (J.-L. Nancy, Être singulier pluriel, Galilée, Paris 1996; tr. it. di D. Tarizzo, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2004, p. 125), in quanto «l’essere-con (il Mitsein, il Miteinandersein, il Mitdasein) è definito con chiarezza, dallo stesso Heidegger, essenziale alla costituzione del Dasein medesimo. Su questa base dovrebbe essere assolutamente chiaro che il Dasein non è “uno”, non più di quanto sia “uomo” o “soggetto”, ma è soltanto l’uno, ogni uno, dell’unocon-l’altro» (ivi, p. 39). Il ‘con’ appartiene originariamente all’essere, che è, allo stesso tempo, singolare e plurale, nel senso dell’aristotelico pollakós legómenon: «essere singolare plurale vuol dire: l’essenza dell’essere è, ed è soltanto, una co-essenza; ma una co-essenza, o l’essere-con – l’essere-in-tanti-con – designa a sua volta l’essenza del co-, o ancora meglio il co- (il cum) stesso in posizione o in guisa di essenza» (ivi, p. 45). Dunque, «Heidegger, all’estrema frontiera della filosofia, è il primo ad aver situato l’essere-con nell’essere stesso» (J.-L. Nancy, Une pensée finie, Galilée, Paris 1990; tr. it. di L. Bonesio e C. Resta, Un pensiero finito, Marcos y Marcos, Milano 2002, p. 199). Heidegger riconosce che «se il mondo è Mitwelt, mondo condiviso, l’essere in quanto è “nel mondo” è costitutivamente essere-con, ed essere-secondo-la-condivisione» (ibidem), ma, secondo Nancy, il Dasein resterebbe nonostante tutto invischiato nel registro della soggettività: «avvicinandosi più di quanto mai era stato fatto alla costituzione alterata (traversata dell’altro) dell’essere nella sua singolarità, Heidegger 1) determinava l’essenza del Dasein fuori dalla soggettività (e a fortiori aldifuori dell’intersoggettività), in un essere-esposto o in un essere-offerto ad altri di cui la filosofia (a partire da Platone? Malgrado Platone?) è sempre stata, malgrado tutto, la denegazione, – e 2) manteneva, malgrado tutto (suo malgrado), l’assegnazione di questo Dasein nella forma, almeno apparente, di una individualità distinta, opposta nella stessa misura che esposta alle altre individualità, e per questo irrimediabilmente trattenuta in una sfera di tipo auto-nomico, se non soggettivo» (ivi, p. 201). Anche Roberto Esposito riconosce la svolta, in controtendenza rispetto all’individualismo moderno inauguarato da Hobbes, operata da Heidegger, perché il “con-Esserci” «significa che tutto ciò che esiste, coesiste; o che l’esistenza è l’essere la cui essenza è il ‘con’, il ‘Mit’, l’‘avec’. O l’esistenza è ‘con’, con-esistenza, o non esiste. Il cum non è qualcosa che si aggiunga dall’esterno all’essere dell’esistenza. È precisamente ciò che lo fa essere quell’essere che è. Perciò in Heidegger viene del tutto meno ogni possibilità di un ego o di un ipse che non sia già da sempre un noi» (R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, p. 99).

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

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L’Esserci è determinato dal con-esserci di altre realtà che hanno il suo stesso carattere d’essere e condividono con lui il mondo: noi abbiamo un modo peculiare dell’essere l’un-con-l’altro. Noi abbiamo tutti lo stesso mondo ambiente; noi siamo nello stesso spazio. Lo spazio c’è per noi l’un-con-l’altro e noi stessi l’un per l’altro. Le sedie in questo spazio, invece, sono tutte semplicemente presenti, non esistono l’una per l’altra e sono certo tutte in questo spazio, ma esse non dispongono di questo spazio. L’essere-nel-mondo è, dunque, con-essere. Ciò determina il con-essere anche quando di fatto non c’è alcun altro uomo64.

L’Esserci e gli altri sono insieme e, intendendo “insieme” nel senso espresso dal simul luterano, ciò significa che l’esserci è allo stesso tempo esserci-con, per cui l’affermazione fenomenologica riguardo il con-essere non è una constatazione ontica della semplice-presenza di altri, ma una determinazione ontologico-esistenziale, che caratterizza l’Esserci anche quando di fatto è solo. L’Esserci non è anzitutto nell’isolamento egotico della non-relazione e successivamente nel con-essere della relazione, perché il “con” non esprime la situazione contingente in cui io mi trovo con altri simili a me, il “con” non è una qualità accessoria aggiunta all’Esserci da fuori e in un secondo momento, ma è l’attestazione della sua originaria relazione, a cui non può sottrarsi neanche qualora l’altro non ci sia effettivamente. È per questo motivo che già nell’analisi delle lettere paoline Heidegger prende le mosse «dalla “relazione dell’avere” [Habensbeziehung] dell’egoico [Ichlichen]»65, ovvero dal fatto che «l’“io” “è” e, come tale, “ha”»66 un contesto di relazione [Beziehungszusammenhangs]67. In termini indicativo-formali, in ciò 64

65 66 67

WDF, p. 163 (tr. it., p. 35). L’esser-solo dell’Esserci è un modo del con-essere, «d’altra parte, la solitudine effettiva non viene meno per l’“avvicinarsi” di un altro esemplare della specie umana, o dieci» (HGA 2, p. 161; tr. it., p. 152). HGA 60, p. 93 (tr. it., p. 132). HGA 60, p. 193 (tr. it., p. 147). Infatti, «nella natura della comunità (dei tinés) è contenuto [mitenthalten] lo stesso Paolo. I Tessalonicesi sono tali da essergli toccati in sorte. In loro egli coesperisce necessariamente anche se stesso» (HGA 60, p. 93; tr. it., p. 133). L’Apostolo fa esperienza di sé nell’esperienza degli altri, di quei “taluni” che “aderirono” a lui (At, 17, 4), e la sua vita dipende dalla loro saldezza nella fede (1 Ts, 3, 8); «egli dunque si rimette completamente al loro destino» (HGA 60, p. 97; tr. it., p. 137), condivide il loro destino.

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che incontriamo quotidianamente «ci sono gli altri, ogni volta determinati altri, determinati dalla temporalità. I con-viventi, quelli che sono insieme nella quotidianità non appaiono innanzitutto e per lo più in un isolato risalto, ma proprio in ciò che si fa, in ciò con cui si è occupati»68 e rispetto a questi determinati altri (i “taluni”), con i quali si ha a che fare, «molti altri sono gli “indifferenti”»69. La totalità fenomenale che si incontra ha il carattere della familiarità [Vertrautheit], nel senso che «di volta in volta ognuno se ne intende, conosce altri, così come questi altri lui. Questo esser-conosciuti con-mondano è di tipo medio, cresciuto nella quotidianità»70. Del resto, si può anche presentare «qualcosa come “un che di estraneo” [Fremdes]; esso è il non familiare, “sta tra i piedi”, “appare sotto sopra”, è imbarazzante, “disturba”, “scomodo”, inibente»71. Questo Fremdes non è accidentale, ma è insito nella Verfallenheit stessa, la quale indica che al cuore del Dasein vi è un’intima ed inquietante estraneità, comunemente occultata e dissimulata, anzi «lo spaesamento [Unheimlichkeit] è il modo fondamentale dell’essere-nel mondo, anche se è quotidianamente coperto»72. La Un-heimlichkeit 68 69 70 71 72

HGA 63, p. 98 (tr. it., p. 104). HGA 63, p. 99 (tr. it., p. 104). HGA 63, p. 99 (tr. it., p. 105). HGA 63, p. 100 (tr. it., p. 105). HGA 18, p. 264. Gorgone osserva che, nei primi corsi universitari, la deiezione è una sorta di kénosis: «un vuoto originario sarebbe, allora, al centro o al cuore della vita, una non-identità con se stessa che l’aprirebbe alla venuta, o meglio, all’intrusione dello straniero. La vita diviene, così, nella sua Verfallenheit, non tanto, come negli sviluppi successivi dell’analitica heideggeriana del Dasein, esteriorità inautentica ed im-proprietà del Si, ma, utilizzando un’espressione di Nancy, “esposizione infinita” all’estraneità e alla sua “intrusione”» (S. Gorgone, La nuda vita. Dall’ermeneutica heideggeriana della vita alla biopolitica, in AA. VV., La biopolitica. Il potere sulla vita e la costituzione della soggettività, a cura di P. Amato, Mimesis, Milano 2004, pp. 87-88). Gorgone allude a quel testo in cui Nancy, raccontando l’esperienza del suo trapianto cardiaco, esplora le categorie di identità ed estraneità, chiedendosi cosa ne è dell’io se nel suo petto batte il cuore di un altro: J.-L., Nancy, L’intrus, Galilée, Paris 2000; tr. it. di V. Piazza, L’intruso, Cronopio, Napoli 2000. Secondo Derrida l’Unheimlichkeit apre «il varco a tutti i rivolgimenti (capovolgimenti, conversioni, inversioni, rivoluzioni) tra l’amico e il nemico. Essa dà ospitalità al nemico nel cuore dell’amico – e reciprocamente. Perché diciamo che “dà ospitalità” all’altro, lo straniero o il nemico? Perché la parola unheimlich non è estranea, proprio perché dice per l’appunto lo straniero, all’intimità del focolare e all’ospitalità familiare,

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

dell’Esserci, che tiene insieme, non in una dialettica, ma nella consonanza espressa dal simul luterano, il tratto heimlich (familiare) e quello unheimlich (estraneo), è l’improprietà [Un-eigentlichkeit] stessa dell’esistenza: il proprium dell’esserci è alienum, improprio, cosicché il mondo è l’in-comune, il ‘luogo comune’, lo spazio condiviso, ma anche il terreno dove nulla si ha in comune. Esposizione, estraneità e improprietà scardinano l’identificazione e l’identità di sé come dell’altro: estraneo sono a me stesso non meno di quanto estraneo è l’altro con cui con-esisto. Il proprio del Dasein non è una proprietà già data, ma una possibilità che richiede di essere scelta, un compito che va assunto, scoprendo, nel proprio costitutivo essere-per-la-morte la proprietà più propria in quanto alla radice espropriante. Se l’Esserci è già da sempre co-esistenza, se non c’è un’esistenza anteriore e poi una relazione intersoggettiva, che metta in co-relazione gli individui73, la loro essenziale co-esistenza, proprio perché

73

all’oikeiótes; ma soprattutto perché fa posto, in maniera conturbante, ad una forma di accoglienza in sé che ricorda tanto la frequentazione fantasmatica (hantise) quanto l’habitat – Unterkunft, dimora, alloggio, habitat ospitale» (J. Derrida, Politiques de l’amitié, Galilée, Paris 1994; tr. it. di G. Chiurazzi, Politiche dell’amicizia, Cortina, Milano 2005, p. 74). Sull’importanza del tema della Unheimlichkeit, a partire da Freud e Heidegger e sulla scorta del pensiero di Derrida, si veda C. Resta, L’inquietante estraneità del familiare. Freud e Heidegger, in L’Estraneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, il melangolo, Genova 2008, pp. 51-75. È da qui che prende le mosse la differenza introdotta in Essere e tempo tra la società [Gesellschaft] del Si, in cui è occultata la vera essenza plurale del Dasein, e la comunità [Gemeinschaft] originaria di ex-sistenze, necessariamente ex-propriate ed ex-poste, differenza che Heidegger riprenderà nel confronto con Hölderlin, sottolineando che la «comunità originaria non nasce attraverso l’accoglimento di una relazione reciproca – così nasce la società –, bensì la comunità è attraverso il legamento antecedente di ogni singolo con quello di superiore che lega e determina ciascun singolo» (HGA 39, p. 72; tr. it., p. 77). Utilizzando un lessico senza dubbio pericoloso, che rievoca topoi come Volk e Kampf, piegandolo, però, ad un senso tutt’altro, Heidegger apporta come esempio di comunità il cameratismo dei soldati al fronte, accomunati non dalla lontananza dei propri cari e neanche da un entusiasmo comune rivolto contro un comune nemico, ma da ciò che massimamente li separa, ossia dalla vicinanza alla morte: «la morte che ciascun singolo uomo deve morire per sé, la morte che isola in sé all’estremo ciascun singolo, proprio la morte e la prontezza al suo sacrificio creano prima di ogni altra cosa lo spazio della comunità dal quale scaturisce il cameratismo» (HGA 39, p. 73; tr. it., p. 78). Losurdo, inve-

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costitutivamente impropria, è irriducibile ad ogni tentativo di fusione o di comunione, di riappropriazione di sé di un essere-con inteso come substantia comune, immanente ed immutabile. 5. Aver cura dell’altro Se l’essere-colpevole [Schuldigsein]74 caratterizza l’Esserci prima di ogni azione o omissione, a causa della sua gettatezza [Geworfenheit] e del suo esistere come Cura [Sorge], ciò investe anche il Mit-sein: «in quanto essere-con che agisce con gli altri e in quanto tale l’esserci è eo ipso colpevole, anche se e proprio se non sa che

74

ce, inquadra la comunità heideggeriana nella cornice della Kriegsideologie, che permeò il periodo a cavallo tra le due guerre e soprattutto la successiva propaganda nazionalsocialista (D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’“ideologia della guerra”, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 46-48). In realtà, come già precedentemente notato, Heidegger vede nel coraggio di precorrere [vorlaufen] la morte, come un soldato [Vorläufer] che va incontro al nemico, la possibilità dell’Esserci di accedere al proprio essere ed è in quest’ottica che va inquadrato anche il destino comune dei mortali, che come soldati lottano insieme, uniti da ciò che li divide assolutamente. Come suggerisce Resta, «allora, esattamente all’opposto di quanto sostiene Losurdo, si potrebbe osservare che la morte di cui i soldati fanno esperienza sul fronte e quel cameratismo che, a partire da essa, condividono, divengono per Heidegger esemplari di un essere-insieme sperimentato nella sua radicalità non in quanto soggettivismo eroico, dal momento che la morte è rapporto con quel massimamente estraneo che rende estraneo ogni Io anche in sé, né come fusione in un’unità organica, sul piano di un’immanenza totalizzante» (C. Resta, “Gli stranieri dal cuore uguale”: die Zukünftigen, cit., p. 112, nota 117). Si tratta, per dirla con Nancy, di un essere-in-comune dove niente è in comune, di una “comunità inoperosa”, che non è entificabile, che non rientra nel registro dell’“opera”, che non si fa opera e che non fa opera né di vita immortale né di morte, trasfigurandosi magari in una qualche sostanza superiore, come un soggetto-patria, perché è «l’incontro degli “esseri per la fine” che questa fine, la loro fine, ogni volta “mia” (o “tua”), assimila e separa con lo stesso limite, al quale o sul quale essi com-paiono» (J.-L. Nancy, La communauté désoeuvrée, Christian Bourgois Editeur, Paris 1986; tr. it. di A. Moscati, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1995, p. 75). Per la questione della “colpa” [Schuld], affrontata a partire dall’interpretazione luterana del peccato, si veda supra, cap. II, § 3. All’esser-colpevole [Schuldigsein] Heidegger dedica il cruciale § 58 di Essere e tempo, all’interno della trattazione della coscienza.

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Lʼinquietudine dellʼesistenza

danneggia o addirittura distrugge un altro nel suo esser-ci»75. L’essere-diventato-colpevole comporta il riconoscimento di questa colpa costitutiva, che sta all’origine di ogni responsabilità come della stessa possibilità morale di scegliere il bene o il male. Esso riguarda non solo il sé, che ha da diventare se stesso, ma, concerne allo stesso titolo anche l’altro con cui l’esserci è, assurgendo a presupposto unico della Mitsorge. Ancor prima della celebre trattazione in Essere e tempo, Heidegger, sviluppando la tematica della cura [Sorge] come modo essenziale dell’esserci in-vista-di (di se stesso, del mondo e degli altri), distingue il prendersi-cura degli enti intramondani [Besorge] dall’aver-cura rivolto agli altri [Fürsorge], che si attua secondo diverse modalità: l’aver-cura può comportarsi in modo tale da togliere all’altro la cura e da mettersi, prendendosi cura di lui, al suo posto. Questo comporta che l’altro rinunci a se stesso e si ritiri per accettare quel che gli è stato procurato o per liberarsene completamente. In questo aver-cura, colui al posto del quale subentra la cura diventa dipendente e dominato: il dominio può essere tacito e non c’è bisogno che se ne abbia esperienza. Indichiamo questo aver-cura come l’aver-cura subentrante, sostituentealleggerente e dominante. In contrapposizione ad esso, c’è un con-essere con l’altro che non ne prende il posto, né lo sostituisce nella sua situazione o nel suo compito, né lo alleggerisce delle sue responsabilità, ma lo presuppone con riguardo, per non togliergli la cura, per non sottrarlo cioè a se stesso, al suo esserci più proprio, anzi per ridargli tutto questo; questo aver-cura non è dominante, ma liberante76. 75

76

HGA 20, p. 441 (tr. it., pp. 396-397). Al di là della violazione di una norma, «il concetto formale dell’esser-colpevole nel senso dell’essersi-resocolpevole verso l’altro può esser determinato così: esser-fondamento di una deficienza nell’esserci dell’altro in modo tale che questo esser-fondamento stesso si determini, in ragione del suo per-che, come “difettivo”. Questa deficienza consiste nel non far fronte a un’esigenza che si rivolge all’esistere come con-essere con gli altri» (HGA 2, p. 375; tr. it., p. 337). Su questo cfr. G. Figal, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, cit., pp. 245-246. HGA 21, p. 223 (tr. it., p. 148). Come si chiarirà meglio in Essere e tempo, l’aver cura guidato da mancanza di riguardo e negligenza è il modo con cui comunemente si ha a che fare con gli altri: «l’essere l’uno per l’altro, l’uno contro l’altro, l’uno senza l’altro, il trascurarsi l’un l’altro, il non importare all’uno dell’altro sono modi possibili dell’aver cura. Sono proprio i modi citati per ultimi, cioè quelli della deficienza e dell’indifferenza, che caratterizzano l’essere-assieme quotidiano e medio» (HGA 2, p. 162; tr. it., pp. 152-153). Ma oltre alla contrapposizione negativa, alla

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Nel primo modo dell’aver-cura ci si sostituisce all’altro e lo si domina, sollevandolo dal carico del prendersi cura degli utilizzabili e dell’aver cura degli altri, mentre solo nel secondo lo si rende libero per la propria esistenza. Nella quotidianità dello scadimento l’Esserci per lo più è con-fuso con gli altri e stabilisce falsi legami di accordo, cosicché il «dominio pubblico, che regge il con-esserci degli uomini, rende evidente che noi per lo più non siamo noi stessi, ma gli altri, noi siamo vissuti dagli altri»77. L’aver-cura autentico, invece, che tiene l’altro vicino mantenendo la distanza, lo abbraccia senza stringerlo, è un lasciar-essere [sein-lassen] che libera l’altro per la sua cura, alla sua possibilità di essere propriamente se stesso, affinché possa pervenire al suo più proprio esserci. «Volo, ut sis»78 ripete spesso Heidegger, ravvisando in questa espressione agostiniana la dichiarazione più appropriata dell’amore

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noncuranza e al disinteresse, all’intromissione che domina, si può anche aver autenticamente cura dell’altro liberandolo e restituendolo a sé: «l’aver cura può in certo modo sollevare l’altro dalla “cura” sostituendosi a lui nel prendersi cura, intromettendosi al suo posto. Questo aver cura assume, per conto dell’altro, ciò di cui si deve prendere cura. L’altro risulta allora espulso dal suo posto e retrocesso, per ricevere a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile, ciò di cui si prendeva cura, risultandone del tutto sgravato. In questa forma di aver cura l’altro può essere trasformato in dipendente e dominato, anche se il predominio è tacito e dissimulato per chi lo subisce. […] Opposta a questa è la possibilità di aver cura, la quale, anziché intromettersi al posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro la “cura”, ma per inserirli autenticamente in essa. Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè l’esistenza dell’altro e non qualcosa di cui egli si prenda cura, aiuta l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa» (HGA 2, p. 163; tr. it., p. 153). WDF, p. 164 (tr. it., p. 36). Questa formula Heidegger la ricava dai Sermones di Agostino: «chi ama una cosa vuole che esista o che non esista? Ritengo che se ami i tuoi figli vuoi che esistano, ma, se non ne vuoi l’esistenza, non li ami. Anche tutto ciò che ami vuoi che esista, non ami affatto ciò che non desideri che sia» (Sant’Agostino, Opere. Discorsi, tr. it. di M. Recchia, Città Nuova, Roma 1986, V, n. 335, 1.3, p. 925). Il 13 maggio 1925 Heidegger scrive a Hanna Arendt: «essere innamorato = essere sospinto all’esistenza più autentica. Agostino ha detto una volta: amo significa volo, ut sis: ti amo – voglio che tu sia, ciò che sei» (BrH-A, p. 31; tr. it., p. 20; si veda anche la lettera del 7.12.1927, ivi, p. 59; tr. it., p. 42). L’11 gennaio 1928 Heidegger scrive a Elisabeth Blochmann: «volo ut sis, voglio che Tu sia, così una volta Agostino interpreta l’amore. E con questo lo riconosce come la più intima libertà dell’uno rispetto all’altro» (BrH-B, p. 23; tr. it., p. 46). Arendt, che

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per l’altro. Volere che l’altro sia, che sia se stesso e quindi anche altro rispetto a me, è la formula della cura autentica, di cui è proto-tipo l’amore materno, opposto diametralmente all’amor sui. La principale condizione per essere amici è – afferma Aristotele – che per l’amico «si deve volere ciò che è bene per lui»79, si deve volere che «esista e viva»80 come le madri lo vogliono per i loro figli. C’è una sorta d’identità formale tra il bene individuale e il bene comune in quanto bene supremo e propriamente umano, tra l’etica e la politica: «il bene infatti è amabile anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è più bello e più divino quando concerne un popolo o delle città»81. Aristotele, tratteggiando il profilo della pólis fondata sulla dikaiosýne, ingiunge che «il maggior compito della politica sia quello di stabilire l’amicizia»82, perché l’amicizia è al di sopra per-

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ripete spesso questa formula – «il modo più forte di affermare qualcosa o qualcuno è amarlo, dire cioè: “Voglio che tu sia” – Amo: Volo ut sis» (H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 424) –, dedica al concetto di amore in Agostino la sua tesi di dottorato, in cui, in linea con altri allievi di Heidegger degli anni Venti, come Jonas e Löwith, affronta la questione dell’essere-insieme e del ruolo dell’altro nell’essere-nel-mondo, a partire dai concetti agostiniani di civitas terrena – in quanto societas fondata sulla discendenza degli uomini da Adamo, sull’origine della comune partecipazione al peccatum originale, che a sua volta instaura una comunanza di destino – e di dilectio proximi – in quanto amare l’altro non per se stesso, non nella sua esistenza mondana concreta, per esempio di amico o nemico, non come moriturus, bensì sicut Deus, come immagine dell’eterno (H. Arendt, Liebesbegriff bei Augustin. Verruche einer philosophischen Interpretation, Springer, Berlin 1929; tr. it. di L. Boella, Il concetto d’amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica, SE, Milano 2004). Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VIII, 2, 1155b, 31, p. 492. Ivi, II, XI, 4, 1166 a, 4, p. 529. Ivi, I, I, 1, 1094b, 8-10, p. 81. Cfr. anche Id., Politica, cit., VII, 1, 1323b, 40-41, p. 543. Aristotele, Etica eudemia, cit., VII, 1, 1234b, 22-23, p. 113. Rispetto al fatto che l’opera propria della politica consista nel produrre amicizia, Derrida scrive: «questa legge tendenziale, si potrebbe dire questo télos, sembra con ciò legare l’amicizia alla politica nella loro origine come nel loro fine. Se il politico porta a perfezionare la sua opera nel progresso stesso dell’amicizia, i due motivi, nonché i due movimenti, sembrano allora contemporanei, cooriginari e coestensivi. L’amicizia sarebbe originariamente e da parte a parte politica» (J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. 231-232). Il problema è che «si dice amicizia implicando un qualche modo di uguaglianza» (Aristotele, Etica eudemia, cit., VII, 3, 1238b, 17, p. 135), un rapporto simmetrico e reciproco tra soggetti, ancor più tra fratelli – «politeía d’é tón adelphón» (Aristotele, Etica eude-

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sino della giustizia: infatti, «se gli uomini sono amici non c’è nessun bisogno della giustizia, ma, se sono giusti, hanno inoltre bisogno dell’amicizia: e l’attitudine che tra tutte è la più giusta è, ad avviso unanime, un’attitudine amicale»83. L’amico è già giusto, poiché amico è «chi tiene il giusto mezzo, essendo un tipo d’uomo senza ar-

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mia, cit., VII, 9, 1241b, 29-30, p. 150). La fraternità tra uguali, che accomuna la concezione greca e cristiana della philía, attraversa tutta la storia occidentale, facendo da fondamento alla democrazia; tuttavia, bisogna pensare ad una forma diversa dell’essere-con-l’altro, che non cancelli le differenze, le dissimmetrie e le discordanze; bisogna aprire l’avenire di una democrazia sradicata da qualsivoglia fraternità o familiarità, una democrazia giusta al di là del diritto, che appartiene al tempo della promessa. Del resto, anche Heidegger riteneva che la decisione per se stesso apre l’esserci a un rapporto con gli altri orientato non sulla dóxa, ma sulla verità dell’esistenza: «la decisione per se stesso pone l’esserci nella possibilità di lasciar “essere” gli altri che ci-sonocon nel loro poter-essere più proprio e di con-aprire questo poter essere nell’aver cura preveniente-liberante. L’Esserci che ha deciso può divenire la “coscienza” degli altri. Soltanto dall’essere se-Stesso autentico nella decisione scaturisce l’essere-assieme autentico; non quindi dall’equivoco e geloso accordo o dall’affratellamento ciarliero nel Si e nelle sue imprese» (HGA 2, p. 395; tr. it., p. 355). Aristotele, Etica nicomachea, cit., II, VIII, 1, 1155a, 26-28, p. 490. Derrida osserva che «se l’amicizia è al di sopra della giustizia – giuridica, politica o morale –, è allora anche immediatamente la più giusta. Giustizia al di là della giustizia» (J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 326). L’amicizia svela l’aporia tra diritto e giustizia: infatti, se il diritto, in quanto costruito, è decostruibile, «la giustizia in se stessa, se esiste qualcosa di simile al di fuori, al di là del diritto, non è decostruibile. Non più della decostruzione stessa, se esiste qualcosa di simile. La decostruzione è la giustizia […]. La decostruzione ha luogo nell’intervallo che separa l’indecostruibilità della giustizia e la decostruibilità del diritto. Essa è possibile come un’esperienza dell’impossibile» (J. Derrida, Force de loi. Le « fondement mystique de l’autorité », Galilée, Paris 1994; tr. it. di A. Di Natale, Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorità”, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 64). La giustizia va distinta anche dall’“economia”, perché, come nota Derrida analizzando l’interpretazione heideggeriana del “didónai díken” (M. Heidegger, Der Spruch des Anaximander, in HGA 5, p. 354; tr. it., Il detto di Anassimandro, p. 330), appartiene al registro del dono senza calcolo, restituzione o debito: «la questione della giustizia, quella che porta sempre al di là del diritto, non si separa più, nella sua necessità come nelle sue aporie, da quella del dono» (J. Derrida, Spectres de Marx: L’état de la dette, le travail du deuil et la nouvelle Internationale, Galilée, Paris 1993; tr. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Cortina, Milano 2009, p. 37).

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tefatti, è persona incline alla verità sia nella sua vita che nella sua parola»84; l’amico è l’alétheutikos e per questo eticamente «è lodevole»85. Ciò significa, parafrasa Heidegger, che «la rivelazione di sé e l’essere con gli altri non consiste nell’occultarsi, nel dissimularsi, ma nel rivelarsi come si è e secondo ciò che si pensa»86 e nel volere che l’altro si riveli com’è e secondo quel che pensa. Infatti, «dietro il dominio della dóxa si nascondono gli altri, i quali sono indeterminati in senso proprio e non possono essere afferrati»87. Tra questi Aristotele annovera il millantatore, «persona incline a dare a vedere i titoli di gloria che non possiede, o a darne a vedere di maggiori di quelli che possiede»88, e il dissimulatore, che «nega le qualità che possiede, o le rende minori»89; si tratta in entrambi i casi, precisa Heidegger, di un uomo «che nega ciò che è, che non ammette il proprio essere»90. Dunque, la cura dell’altro, che lo lascia essere quell’altro che è, è la philía, l’agápe, che si esplica nel segno dell’aletheúein. Ancora una volta Heidegger fa incrociare Aristotele con la tradizione cristiana di Paolo, Agostino e Lutero: mediante l’amore (agápe/caritas), che è il compimento della Legge, si è messi «al servizio gli uni degli altri» (Gal, 5, 13) e allo stesso tempo, come so84 85 86

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Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, IV, 13, 1127a, 24-25, p. 191. Ivi, I, IV, 13, 1127a, 30, p. 191. HGA 18, p. 264. Derrida apprezza il fatto che «quando Heidegger evoca l’amico o l’amicizia, lo fa in uno spazio che non è, non più, o non è ancora quello della persona o del soggetto, né dell’ántropos, oggetto dell’antropologia, né della psyché degli psicologi. Né dunque di una politica a esse coordinata» (J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. 285-286). Tuttavia, per Derrida è problematica l’esclusione heideggeriana di Aristotele dall’accusa di antropologizzazione della philía: «come sostenere che il punto di vista antropologico, anzi psicologico, resti estraneo ad Aristotele?» (ivi, p. 285; cfr. anche p. 230), considerando che annovera sì tre forme di amicizia, «quella fondata sull’utile è l’amicizia dei più […]; quella fondata sul piacere è propria dei giovani […], mentre l’amicizia fondata sulla virtù è delle persone migliori» (Aristotele, Etica eudemia, cit., VII, 2, 1236a, 33-1236b, 1, pp. 121-123), ma riserva la próte philía, la teleía philía, soltanto agli uomini, dotati, a differenza degli animali e degli dei, della proaíresis: infatti, «l’amico vero […], come tale, è oggetto di scelta» (ivi, VII, 2, 1236b, 28-29, pp. 121-123). HGA 18, p. 151. Aristotele, Etica nicomachea, cit., I, IV, 13, 1127a, 22, p. 191. Ivi, I, IV, 13, 1127a, 23, p. 191. HGA 18, p. 265.

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stiene Lutero, «diligendo, que sunt aliorum, et non que vestra»91, si è liberati dalla gloria di sé, l’ambitio saeculi, come da ogni rigida scala di valori. Anche Heidegger, che prende a modello non l’amor sensibile, ma la dilectio che «si riferisce a qualcosa che ha un valore superiore»92, sottrae l’amore al contesto assiologico, rifacendosi al Tractatus sull’epistola di Giovanni, in cui Agostino insegna che non bisogna amare gli uomini come i crapuloni amano i tordi, per ucciderli e cibarsene, affinché non siano [non esse], «non bisogna amare gli uomini in modo da sottometterli al proprio scopo. Nondimeno l’amicizia [Freundschaft] è pur sempre qualcosa come la benevolentia, un dono [Geschenk] del nostro amore»93. Di conseguenza, bisogna amare non solo chi necessita del nostro dono così da sottometterlo, ma ancor più colui al quale non possiamo offrire nulla: «elimina la miseria umana, e l’opera buona scomparirà! Scompare l’opera della misericordia, però rimane la fiamma dell’amore nobile. Al principio […] ami l’uomo che è felice, cui non hai nulla da donare. Un simile amore è puro e nobile, mentre, se l’altro è misero, 91 92 93

M. Lutero, Die erste Vorlesung über den Galaterbrief, in WA 57/II, p. 40. HGA 60, p. 291 (tr. it., p. 370). HGA 60, p. 291 (tr. it., p. 370). Agostino, ricordando quanto Cristo chiese a Pietro (Gv, 21, 17: «mi ami tu?»), scrive: «ogni affetto, anche quello carnale, che non è affetto, ma piuttosto amore […] contiene sempre una certa benevolenza verso coloro che sono l’oggetto di questo affetto. Noi, infatti, […] non dobbiamo amare gli uomini nello stesso senso in cui sentiamo dire dai golosi: “Amo i tordi”. Se infatti cerchi il perché, vedrai che è per ucciderli e mangiarseli. Dicono di amarli e li amano per distruggerli. […] Forse così vanno amati gli uomini, per essere consumati? No certamente; l’amicizia di benevolenza consiste nel dare qualcosa a coloro che amiamo. E se non c’è da dar nulla? La benevolenza stessa è sufficiente a chi ama. Non dobbiamo infatti desiderare che ci siano dei poveri, per poter esercitare le opere di misericordia. Tu dai il pane a chi ha fame; ma sarebbe meglio che nessuno patisse fame e non ci fosse bisogno del tuo dono. Tu dai vestiti a chi è senza: oh se tutti avessero da vestirsi e non ci fosse questa necessità. […] Tutte queste opere, infatti, sono doveri legati alle necessità altrui, togli la miseria, cesseranno le opere di misericordia, ma si estinguerà forse l’ardore della carità? Più genuino sarà l’amore verso l’uomo felice, cui nulla avrai da donare, più puro, assai più sincero. Quando, infatti, dai qualcosa a chi è povero, può capitare che desideri innalzarti ai suoi occhi e che lui ti sia sottomesso, perché tu sei l’autore del beneficio. Egli ha bisogno, tu hai dato. Avendo dato quasi ti pare di essere più grande di colui che ha ricevuto» (Sant’Agostino, Commento alla prima Lettera di San Giovanni, cit., VIII, 5, pp. 166-168).

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facilmente ti insuperbisci»94. La Freundschaft è il ben volere, scevro di ogni compiacimento di sé, che vuole il bene dell’altro, aiutandolo a diventare se stesso: l’amore autentico tende fondamentalmente al dilectum, ut sit. Amore significa volere l’essere dell’amato […]. L’amore di sé tende ad assicurare il proprio essere, però in modo sbagliato, non come cura di se stessi, bensì come calcolo del contesto di esperienza riferito al mondo del sé. L’“amore di sé” è quindi propriamente odio di sé. […] L’amore relativo al mondo degli altri ha il senso di aiutare l’amato altro a conquistare l’esistenza, affinché pervenga a se stesso [zu sich selbst kommt]95.

Nel concetto di benevolentia – in quanto frutto dello spirito (Gal, 5, 22; 2 Cor, 6, 6), virtù d’accoglienza e ospitalità (Eb, 11, 31; 2 Cor, 2, 7), simbolo d’alleanza (Zc, 11, 7) – rifulge l’esperienza di Cristo, che per amore «si è offerto davvero, effettivamente, a Dio Padre»96, come evidenzia Lutero, accusando coloro che «credono che amare in primo luogo se stessi equivalga a volere e desiderare il proprio bene; ma ignorano in che cosa consista un tale bene e che cosa significhi amare»97. Eppure, persino un filosofo come Aristotele a suo modo comprese che l’amore è «il volere per qualcuno le cose che si ritengono buone, avendo per fine lui e non se stessi»98, che l’amore è un atto di fede nell’altro, tant’è che «un’amicizia non è stabile senza la fiducia [áneu písteos] e non si ha fiducia senza che passi del tempo [áneu chrónou]»99. 94 95 96 97 98 99

HGA 60, p. 291 (tr. it., p. 370). HGA 60, pp. 291-292 (tr. it., pp. 370-371). M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 392 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, II, p. 138). M. Lutero, Der Brief an die Römer, in WA 56, p. 392 (tr. it., Lezioni sulla Lettera ai Romani, I, p. 139). Aristotele, Retorica, cit., II, 4, 1380b, 35- 1381a, 1, p. 236. Aristotele, Etica eudemia, cit., VII, 2, 1237 b, 12-13, p. 129. L’amicizia, come osserva Derrida, «non si presenta mai fuori del tempo: non c’è amico senza il tempo (oud’áneu chrónou phílos), cioè senza ciò che mette alla prova la fiducia. Non c’è amicizia senza fiducia (pístis), né fiducia che non si misuri con qualche cronologia, che non sia messa alla prova di una durata sensibile del tempo (he dé pístis ouk áneu chrónou). […] L’impegno nell’amicizia prende tempo, dà tempo perché porta al di là dell’istante presente e, insieme, conserva la memoria e anticipa» (J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. 25-26).

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Quasi traducendo in termini esistenziali il discorso luterano, in una lettera del giugno 1925 indirizzata a Hanna Arendt, Heidegger scrive che «noi tra tutti i surrogati della “fede”, non abbiamo nessuna autentica fede nell’esistenza [Glauben an das Dasein] e nemmeno siamo disposti a riceverla»100. Una fede siffatta «non “giustifica” niente, essa non è affatto un espediente per mettersi in pace con se stessi», piuttosto una fede siffatta «che in quanto fede nell’altro – è l’amore, riesce a prendere sul serio il “tu”», ossia «coglie la possibilità dell’altro», amandolo così com’è, senza costruirsi un ideale o volerlo educare in funzione di un ideale, amandolo di un amore che è «forte per il futuro e non si riduce al facile godimento di una occasione»101. La conversione, il divenire “uomo nuovo”, è, perciò, il moto rivoluzionario dal desiderio di possesso e sottomissione all’amore: noi agiamo soltanto nella misura in cui riusciamo a dare [geben] – non importa se il dono [Gabe] viene ricevuto subito o no. E abbiamo diritto di essere soltanto nella misura in cui riusciamo a prestare attenzione. Perché noi stessi possiamo donare soltanto ciò che esigiamo da noi stessi. Ed è unicamente la profondità con cui posso pretendere il mio essere da me stesso a decidere sul mio essere verso l’altro. L’eredità che ci rende felici nell’esistenza è che l’amore c’è, che può esserci102.

Non è un caso se, nella logica paradossale della fede, così come nel giorno della parusía rimarrà solo la carità (1 Cor, 13, 13), il luogo privilegiato in cui si manifesta l’essenza dell’amore, il dilectum, ut sit, è la morte.

100 BrH-A, p. 36 (tr. it., p. 24). 101 Ibidem. 102 BrH-A, p. 37 (tr. it., p. 24). Ravvisando nella corrispondenza con Hanna Arendt degli anni ’25-’28, un concetto di amore come “prendersi cura”, come vero luogo di un “noi”, come con sempre singolare, Nancy si domanda, in coda al suo scritto sulla co-essenzialità di Dasein e Mitdasein: «bisogna forse legare alla morte un altro nome, un nome che Heidegger pronunciava fuori del testo, fuori dell’opera, ma non fuori del pensiero, proprio nel periodo in cui scriveva Essere e tempo? » (J.-L. Nancy, L’êtreavec de l’être-là, « lieu-dit Revue », 19, 2003; tr. it. A. Moscati, Il con-essere dell’esserci, in Sull’agire. Heidegger e l’etica, cit., p. 85). Sul concetto di “amore” all’interno dell’analitica del Dasein, cfr. anche G. Agamben, La passione della fatticità, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Pozza, Vicenza 2010.

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6. Per mortem ad vitam103 I saperi ontico-regionali sulla vita, per primi quelli antropologici e biologici, come si è visto, sono secondari rispetto all’ontologia della vita del Dasein, in quanto si fondano su preconcetti senza porli in questione, e lo stesso vale per i saperi ontico-regionali riguardanti la morte. L’ontologia della vita fattizia è pre-ordinata rispetto ad ogni antropo-tanato-logia, ad ogni cultura, storia, biologia, psicologia, metafisica o teologia della morte, che già da sempre presuppongono “che cos’è la morte” e non distinguono il de-cedere [ableben] o morire [sterben] dell’Esserci dal finire [verenden] o per-ire del semplice-vivente, al quale è preclusa l’esperienza della morte in quanto tale104. 103 Quest’espressione dà il titolo allo scritto che Heidegger dedica, nel marzo del 1910, a un “moderno Agostino”, lo scrittore danese Johannes Jörgesen, celebre biografo di Francesco d’Assisi, la cui conversione dall’ateismo al cristianesimo è descritta come una sorta di passaggio dalla morte alla vita (HGA 16, pp. 3-6; tr. it., pp. 9-11). Per una lettura dei corsi di Heidegger sull’ontologia della vita, basata sul filo conduttore della morte, mi permetto di rinviare a V. Surace, Per mortem ad vitam. La meditazione heideggeriana sulla morte nei corsi friburghesi, “Inschibboleth”, 2, 2013. 104 La morte e il tempo sono i due loci in cui Heidegger affronta in Essere e tempo la questione dell’animalità: «l’uscire-dal-mondo da parte dell’Esserci nel senso del morire dev’essere tenuto distinto dall’uscire-dal-mondo proprio del semplice-vivente. La fine di un ente semplicemente vivente noi la chiamiamo cessazione della vita» (HGA 2, p. 320; tr. it., p. 289). La consapevolezza che la morte «è possibile a ogni attimo» (HGA 2, p. 343; tr. it., p. 309) distingue il Dasein, determinato storicamente, dal semplice vivente, per il quale si pone il problema se ha o non ha il tempo: «è un problema a sé […] se e in quale modo, in generale, l’essere degli animali sia, ad esempio, costituito da un “tempo”» (HGA 2, p. 457; tr. it., p. 409). In base alla distinzione tra il “morire propriamente” [eigentlich sterben] del Dasein e il “finire del vivente” [das Enden von Lebendem], Heidegger pensa, come nota Derrida, l’umanità dell’uomo: «se la distinzione tra il morire (propriamente) e il perire non si riduce a una questione terminologica, se non è una semplice distinzione di linguaggio, non per questo essa rinuncia a marcare, per Heidegger (e ben al di là di Sein und Zeit), la differenza del linguaggio, la differenza insuperabile tra quell’essere parlante che è il Dasein e ogni altro vivente. […] Heidegger non smetterà di modulare l’affermazione secondo la quale il mortale è colui che fa la prova della morte in quanto tale, in quanto morte. E poiché lega la possibilità dell’“in quanto tale”, come quella della morte in quanto tale, alla possibilità della parola, dovrà concluderne che l’animale, il vivente come tale, non è propriamente un mortale. Può finire, certo, cioè perire (verenden),

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L’esplicazione heideggeriana della morte non ha a che vedere con un aldilà, religioso o metafisico che sia, né con l’immortalità o la resurrezione, ma «si realizza nel più radicale aldiqua»105 – sebbene è innegabile che permangano in essa motivi presi a prestito dalla teologia e sopratutto dell’antropologia cristiana. Heidegger non si preoccupa della vita dopo la morte, di un orizzonte trascendente inteso come condizione del principio divino o dell’essere che è oltre le cose, ma della vita fattizia per la morte, di quel movimento di autentica trascendenza106 che caratterizza l’ex-sistenza. La morte non si può sperimentare direttamente o “oggettivamente” se non attraverso l’altro: «la morte s’incontra nella quotidianità quotidianamente. Noi la sperimentiamo, sappiamo del morire, dell’uscire-dal-mondo dell’uomo in una certa indifferenza come un qualcosa che forse un giorno ci può anche colpire»107. Sono due gli finisce sempre per crepare. Ma non muore mai propriamente» (J. Derrida, Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità”, cit., p. 31). 105 HGA 20, p. 434 (tr. it., p. 390). Cfr. HGA 2, pp. 329-330 (tr. it., p. 297). 106 Heidegger oppone al principium individuationis, che identifica monadologicamente il soggetto, la nozione di trascendenza, in quanto “oltrepassamento” [Überstieg], «che è proprio dell’esserci umano, non però come un suo comportamento possibile fra altri, talvolta attuato, talvolta no, ma come costituzione fondamentale di questo ente che precede qualsiasi comportamento» (M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, in HGA 9, p. 137; tr. it., Dell’essenza del fondamento, pp. 93-94). Ciò che viene oltrepassato è l’ente nella sua totalità, in modo tale che «nell’oltrepassamento, l’esserci perviene anzitutto a quell’ente che esso è, e vi perviene come a se “stesso”. La trascendenza costituisce l’ipseità [Selbstheit]. Ma di nuovo, essa non costituisce mai soltanto questa, perché l’oltrepassamento concerne sempre contemporaneamente anche l’ente che l’esserci “stesso” non è» (ivi, p. 138; tr. it., p. 95). La trascendenza, quale tratto costitutivo del Dasein, caratterizza anche il rapporto con gli altri enti intramondani e con gli altri Dasein: «l’uomo che come trascendenza esistente si slancia in avanti verso delle possibilità, è un essere della lontananza. Solo attraverso lontananze originarie che egli si forma nella sua trascendenza rispetto ad ogni ente, cresce in lui la vera vicinanza alle cose. E solo il saper ascoltare nella lontananza fa maturare nell’esserci, in quanto se stesso, il risveglio della risposta dell’altro esserci, nell’essere assieme al quale esso può rinunciare all’egoità per conquistarsi come autentico se stesso» (ivi, p. 175; tr. it., p. 131). 107 WDF, p. 167 (tr. it., p. 41). Il passaggio al non esserci più sottrae all’Esserci la possibilità di esperire questo passaggio, «tanto più impressionante è perciò la morte degli altri. Essa ci fa vedere “oggettivamente” la fine dell’Esserci» (HGA 2, p. 316; tr. it., p. 286). Il morire di altri è «un innegabile fatto d’esperienza» (HGA 2, p. 341 tr. it., p. 308), in base a cui «si

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elementi fondamentali dell’esperienza della morte: l’“uscire-dalmondo” del defunto e l’“indifferenza” dei sopravvissuti. Se ogni sa della certezza della morte, ma non si “è” autenticamente certi della propria» (HGA 2, p. 342; tr. it., p. 309). Levinas contesta a Heidegger di ridurre la morte dell’altro ad un fatto empirico: «la relazione con la morte d’altri non è un sapere sulla morte d’altri, né un’esperienza di quella morte nel suo modo stesso di annullare l’essere» (E. Lévinas, Dieu, la Mort, et le Temps, Grasset, Paris 1993; tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Dio, la morte e il tempo, Jaca Book, Milano 1996, p. 57), piuttosto «la morte d’altri che muore mi intacca (affecte) nella mia stessa identità di io responsabile – identità non sostanziale, non semplice coerenza dei diversi atti di identificazione, ma fatta d’indicibile responsabilità. È il mio essere intaccato (affection) dalla morte d’altri ad essere la mia relazione con la sua morte, ad essere, nella mia relazione, la mia deferenza a qualcuno che non risponde più; è già una colpevolezza – colpevolezza da sopravvissuto» (ivi, p. 54). E «nella colpevolezza del sopravvissuto la morte dell’altro è affar mio. La mia morte è la mia parte nella morte d’altri, e nella mia morte io muoio questa morte che è la mia colpa» (ivi, p. 82). Sopravvivere da colpevoli significa che «è della morte dell’altro che sono responsabile al punto da includermi nella morte. In termini forse più accettabili: “sono responsabile dell’altro in quanto egli è mortale”. La morte dell’altro: è questa la morte prima» (ivi, p. 86). Per Levinas c’è un’esteriorità dell’altro pre-originaria, che mi ‘affetta’, mi richiede, mi reclama, mi convoca, mi interpella, pre-originaria rispetto alla mia libertà, tale per cui nel volto dell’altro è (in)scritta la sentenza “non uccidere”, non come una proibizione o un limite, ma come la destituzione della mia paura di morire davanti alla paura di uccidere: «quest’essere in faccia al volto nella sua espressione – nella sua mortalità – mi assegna, mi domanda, mi reclama: come se la morte invisibile cui fa fronte il volto d’altri – pura alterità separata, in qualche modo, da ogni insieme – fosse “affar mio”. Come se, ignorata d’altri che, nella nudità del suo volto, essa già concerne, “mi riguardasse” prima del suo confronto con me, prima di essere la morte che mi fissa [dévisage]. La morte dell’altro uomo mi mette in causa e in questione come se, di questa morte invisibile all’altro che vi si espone, io diventassi, per la mia eventuale indifferenza, il complice; e come se, prima di esserle votato io stesso, dovessi rispondere di questa morte dell’altro, e non dovessi lasciare altri solo nella sua solitudine mortale» (E. Levinas, Altérité et trascendance, Fata Morgana, Montpellier 1995; tr. it. di S. Regazzoni, Alterità e trascendenza, il melangolo, Genova 2006, p. 36). Se la paura della mia morte mi limita, la paura della morte dell’altro mi fa debordare il limite: «il timore per altri, timore per la morte dell’altro uomo, è il mio timore, ma non è per nulla uno spaventarsi. Esso contrasta dunque con l’ammirabile analisi fenomenologica che Sein un Zeit propone dell’affettività, della Befindlichkeit: struttura riflessiva che si esprime in un verbo alla forma pronominale in cui l’emozione è sempre emozione di qualcosa di commovente, ma anche emozione per se stessi […]. Mi inquieto e mi pre-

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singolarità è apertura di un mondo e se l’apertura degli altri contribuisce a formare la mondità del nostro mondo, l’altro, morendo, lascia un mondo, «l’unico mondo nel quale siamo»108. Il riguardo, come modo autentico dell’aver cura dell’altro, si esplica in questo occupo della mia morte. Doppia intenzionalità del di e del per e così ritorno su di sé, ritorno all’angoscia per sé, per la propria finitezza […]. Il timore per l’altro uomo non ritorna all’angoscia per la mia morte. Esso eccede l’ontologia del Dasein heideggeriano e la sua buona coscienza d’essere in vista di questo stesso essere. […] L’essere-per-la-morte di Heidegger marca, certo, per l’essente, la fine del suo essere in-vista-di-questoessere-stesso e lo scandalo di questa fine, ma in questa fine non si risveglia nessun scrupolo d’essere» (ivi, p. 37). 108 HGA 20, p. 442 (tr. it., p. 397). Con-essere significa «essere-assieme in un medesimo mondo. Il defunto ha lasciato il nostro “mondo” e l’ha lasciato dietro di sé. Soltanto a partire da questo mondo i rimasti possono ancora essere con lui» (HGA 2, p. 318; tr. it., p. 287). Secondo Derrida «ogni volta singolarmente, ogni volta irrimpiazzabilmente, ogni volta infinitamente, la morte non è niente di meno che una fine del mondo. Non soltanto una fine tra altre, la fine di qualcuno o di qualche cosa nel mondo, la fine di una vita o di un vivente. La morte non pone un termine a qualcuno nel mondo, né a un mondo tra gli altri, essa marca ogni volta, ogni volta a dispetto dell’aritmetica, l’assoluta fine del solo e dello stesso mondo, di ciò che ciascuno apre come un solo e medesimo mondo, la fine dell’unico mondo» (J. Derrida, Béliers. Le dialogue ininterrompu: entre deux infinits, le poéme, Galilée, Paris 2003, p. 23). La morte dell’altro è la fine del mondo, che condividevamo, nella sua irriproducibile unicità: «la morte dell’altro, soprattutto se lo si ama, non è l’annuncio di un’assenza, di una sparizione, la fine di questa o quella vita, cioè della possibilità di un mondo (sempre unico) di apparire a un vivo. La morte dichiara ogni volta la fine del mondo nella sua totalità, la fine di tutto il mondo possibile, ed ogni volta la fine del mondo come totalità unica e quindi insostituibile e quindi infinita» (J. Derrida, Chaque fois unique, la fin du monde, Galilée, Paris 2003; tr. it. di M. Zannini, Ogni volta unica, la fine del mondo, Jaca Book, Milano 2005, p. 11). Partendo dal paradosso della morte che è sempre mia, ma che esperisco solo attraverso la scomparsa dell’altro e del mondo nella sua totalità, Derrida individua nell’amicizia il luogo privilegiato di quest’esperienza: «avere un amico, guardarlo, seguirlo con gli occhi, ammirarlo con amicizia, significa sapere con intensità crescente e anticipatamente ferita, sempre insistente, sempre più indimenticabile, che uno dei due vedrà fatalmente morire l’altro. Uno di noi – ognuno se lo dice – uno di noi due, verrà quel giorno, guarderà un se stesso che non vede più l’altro e per un certo tempo lo porterà ancora dentro di sé, seguendo con gli occhi senza vederlo, un mondo sospeso a qualche lacrima unica, ogni volta unica, attraverso la quale tutto ormai, il mondo stesso, verrà quel giorno, verrà a riflettersi tremulo, a riflettere la scomparsa stessa» (ivi, p. 123).

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caso nel portare con sé, dentro di sé, il suo mondo e la sua morte, nell’ospitarlo nella segretezza più intima del ricordo e del rimpianto, del com-memorare e del com-piangere, senza tentare di eliminare l’incolmabile distanza, cercando di tenerlo in vita a tutti i costi, ma lasciandolo andare109. Tuttavia, il morire di altri a cui “si assiste” ogni giorno attira l’attenzione dell’Esserci, il quale, restando in quest’ambito empirico, non coglie la morte in quanto tale, ma la vive spostandola, allontanandola da sé. Nell’essere-l’uno-con-l’altro la morte è un incontro fisso interpretato come “si muore”, ma «questo “si muore” cela in sé un equivoco; infatti questo si è proprio ciò che non muore mai e non può mai morire. L’esser-ci dice: “si muore”, poiché in questo modo si dice: “nessuno muore”, cioè non io stesso»110. Ciò nonostante, la morte dell’altro mette davanti agli occhi un importante fenomeno ontologico, il passare di un ente dal modo di essere dell’Esserci a quello del «non-essere-più»111. La 109 HGA 2, p. 317 (tr. it., p. 287). 110 HGA 20, p. 435 (tr. it., p. 391). 111 HGA 20, p. 430 (tr. it., p. 386). La morte «è per l’Esserci la possibilità di non-poter-più-esserci. […] La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci» (HGA 2, p. 333; tr. it., p. 301). Secondo Derrida l’esperienza della fine, del con-fine o dei con-fini, della vita, permette di riconoscere il carattere eterologico dell’Esserci e fa, persino, vacillare il limite tra uomo e animale: «se la morte è la possibilità dell’impossibile e quindi la possibilità dell’apparire come tale dell’impossibilità di apparire come tale, l’uomo o l’uomo come Dasein non ha mai, nemmeno lui, rapporto con la morte come tale, ma soltanto con il perire, con il decedere, con la morte dell’altro che non è altro. La morte dell’altro diviene così di nuovo “prima”, sempre prima […]. La morte dell’altro, questa morte dell’altro in “me”, è in fondo, la sola morte nominata nel sintagma la “mia morte”, con tutte le conseguenze che se ne possono trarre. […] Se la morte, la possibilità più propria del Dasein, è la possibilità della sua impossibilità, diviene la possibilità più impropria e più espropriante, la più inautenticante. Il proprio del Dasein, nell’interiorità più originaria della sua possibilità, si vede dunque contaminato, parassitato, diviso dal più improprio» (J. Derrida, Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità”, cit., pp. 66-67). A proposito del “lutto originario”, che rivela l’eterologia come essenza dell’esserci, Resta scrive: «la morte dell’altro, essendo l’unico accesso all’esperienza della morte, si rivela anche come passaggio ineludibile per arrivare fino a me. Pur sempre mia, la morte mi viene sempre dall’altro, a partire dall’altro: insinuandosi in quell’io che ancora devo diventare, vi introduce già da sempre un’alterità irriducibile, un’alterazione di cui è impossibile liberarmi poiché, senza l’altro, smarrirei anche ogni possibile accesso a me stesso» (C. Resta, Ospitare la morte, cit., p. 121).

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morte non è semplicemente un potere non-esserci o non-più-esserci, non è una fra le possibilità dell’Esserci, ma la possibilità eminente in quanto possibile fine di tutte le possibilità, in quanto possibilità dell’impossibile. Dunque, non solo la morte è la possibilità indeterminata, ma certa «che incombe [bevorsteht] sull’esserci»112 fin da principio e costantemente, ma con la morte «l’esser-ci incombe [steht sich] a se stesso»113, ovvero si pro-tende verso il suo poter-essere più proprio, precorrendo e at-tendendo il suo arrivo. La morte è sempre in agguato, è sempre lì nella vita fattizia, possibile in ogni momento per ogni vita in quanto sua maniera d’essere, di modo che distogliere lo sguardo da essa significa distoglierlo da se stessi, fuggire da sé. La morte è la più “propria” rispetto alle altre possibilità che l’Esserci incontra, perché segna l’insostituibilità di ciascuno: infatti, mentre nella quotidianità dell’esser-ci l’uno con l’altro ci si può reciprocamente rappresentare, l’uno può assumere l’esserci dell’altro, questa possibilità di sostituire e rappresentare naufraga semplicemente se si tratta di rappresentare l’essere di ciò che costituisce la fine dell’esser-ci e che fornisce ad esso di volta in volta la sua completezza. Come dire: nessuno può sottrarre all’altro il suo morire. Egli può certamente morire per un altro, ma questo morire per un altro significa sempre in virtù di una determinata cosa, vale a dire nel senso di procurare l’essere-nel-mondo dell’altro; morire per l’altro non significa che 112 HGA 20, p. 432 (tr. it., p. 388). 113 HGA 20, p. 433 (tr. it., p. 389). Cfr. HGA 2, p. 333 (tr. it., p. 300). Derrida traduce steht sich con s’at-tend: «è qui, e forse solo qui, alla fine, che ci si attende o che si attende-a o solo qui che ci si attende-che; e che l’attendersi se stessi non è altro che l’attendersi l’altro, o che l’altro arrivi» (J. Derrida, Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità”, cit., p. 57). Derrida parla di eterodidattica tra vita e morte, poiché bisogna apprendere a morire per apprendere a vivere: «imparare a vivere, impararlo da sé, soli, insegnarsi a vivere da sé (“je voudrais apprendre à vivre enfin”) non è, per un vivente, l’impossibile? Non lo vieta la logica stessa? Vivere, per definizione, non lo si impara né lo si insegna. Non da sé, dalla vita attraverso la vita. Solamente dall’altro e attraverso la morte. In ogni caso dall’altro sul bordo della vita. Sul bordo interno o sul bordo esterno, si tratta di una eterodidattica tra vita e morte. […] Proprio uno strano impegno, per un vivente supposto vivente, quello che è al tempo stesso impossibile e necessario: “Je voudrais apprendre à vivre enfin”. Non ha senso e non può essere giusto se non spiegandosi con la morte. Che sia la mia, o quella dell’altro» (J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, cit., pp. 3-4).

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così all’altro venga sottratta e portata via la sua morte […]. La morte è di volta in volta la mia morte, cioè appartiene a me nella misura in cui io sono114.

114 HGA 20, pp. 428-429 (tr. it., p. 385). La morte, come suggerisce Nancy, è la firma del “con”: «se è vero, come dice ancora Heidegger, che io non posso morire al posto di qualcun altro, è anche vero, ed è la stessa verità, che l’altro muore in quanto è con me, e che noi nasciamo e moriamo gli uni agli altri, esponendoci gli uni agli altri» (J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, cit., p. 119). In Essere e tempo Heidegger spiega che «nessuno può assumersi il morire di un altro. Ognuno può, sì, “morire per un altro”. Ma ciò significa sempre: sacrificarsi per un altro in una determinata cosa [in einer bestimmten Sache]. Ma questo morire-per… non può mai significare che all’altro sia sottratta [abgenommen sei] la propria morte. Ogni Esserci deve assumersi [auf sich nehmen] sempre in proprio la morte. Nella misura in cui la morte “è” è sempre essenzialmente mia» (HGA 2, p. 319; tr. it., pp. 288-289). Secondo Derrida, attraverso le considerazioni sul sacrificio, Heidegger in qualche modo previene le critiche levinassiane: «è nella misura in cui il morire, se “è”, rimane il mio morire, che io posso morire per l’altro o dare la mia vita all’altro. Non c’è, non è pensabile un dono di sé che nella misura di questa insostituibilità» (J. Derrida, Donare la morte, cit., p. 79). Il sacrificio riguarda einer bestimmten Sache, perciò «posso dare tutta la mia vita per l’altro, posso offrire la mia vita all’altro, ma così non rimpiazzerò o non salverò che qualcosa di parziale in una qualche situazione particolare (ci sarà scambio o sacrificio non totale, economia del sacrificio). Non morirò al posto dell’altro» (ivi, p. 80). Pertanto, «la morte che non si può “abnehemen” (prendere all’altro per risparmiargliela, non più di quanto egli possa prendere o togliere la mia), la morte senza sostituzione possibile, la morte che non si può prendere né dall’altro né all’altro, è ciò che bisogna prendere su di sé (auf sich nehmen)» (ivi, p. 82). Derrida smonta le obiezioni levinassiane, osservando che il sintagma tra virgolette “la mia morte” «nomina l’insostituibilità stessa della singolarità assoluta (nessuno può morire al mio posto o al posto dell’altro) […]. La morte di ciascuno, di tutti coloro che possono dire la “mia morte”, è insostituibile. E anche “la mia vita”» (J. Derrida, Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità”, cit., p. 20). E, partendo dalla differenza tra il morire proprio dell’Esserci, il decedere [ab-leben], nel senso di lasciare la vita, e il perire del vivente, Derrida afferma: «quando Levinas rimprovera a Heidegger di privilegiare, nell’esistenza del Dasein, la sua propria morte, si tratta dello Sterben. E infatti è nel morire proprio e propriamente detto che l’“esser-mio” è insostituibile, che nessuno può morire per l’altro». Quando Levinas parla della morte dell’altro come la morte prima si riferisce al decesso oppure alla cooriginarietà di Mitsein e Sein zum Tode, «questa cooriginarietà non contraddice, ma, al contrario, presuppone un esser-mio del morire o dell’esser-per-la-morte, che non è quello di un io o di una medesimezza egologica» (ivi, p. 34).

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Il fatto che la morte sia sempre mia non significa che isoli, che tagli tutti i legami con gli altri, perché persino la solitudine è un modo difettivo dell’essere-insieme, persino il “mancare” e l’“esser-via” sono modi del con-essere. Perciò, con la tematizzazione del morire da soli Heidegger non (rin)nega il Mit-sein: la morte è, piuttosto, la separazione senza la quale non vi può essere relazione, la divisione che permette la condivisione, la distanza che presuppone la prossimità115. La morte, quello iato che interpone una distanza infinita tra i Dasein, è la possibilità del Vollzug del con-essere originario, dell’amicizia e della cura genuine, di quell’amicizia e quella cura che serbano la vicinanza lasciando essere l’altro héteros. Aristotele – nonostante sia il padre di una tradizione che lega l’amicizia all’uguaglianza – è il primo a parlare non solo della dissimmetria del rapporto d’amore, come quello che unisce il figlio al padre e la moglie al marito, ma della nonreciprocità del legame tra vivi e morti: è proprio dell’amicizia più amare che essere amato […]. Prova ne è questa: se non fossero possibili entrambe le cose, l’amico sceglierebbe piuttosto di conoscere che di essere conosciuto […]. E infatti sembra che il voler essere conosciuto sia in vista di sé medesimo e di ricevere un qualche bene ma non di farlo, mentre il conoscere sembra che abbia in vista di fare del bene e amare. Perciò, anche, lodiamo coloro che restano fedeli nel loro amore ai morti: appunto perché conoscono, ma non sono conosciuti116.

115 In un passaggio di Essere e tempo, Heidegger precisa che l’isolamento provocato dalla morte ha il fine di rendere il Dasein capace di comprendere il poter-essere degli altri: «come possibilità insuperabile, la morte isola l’Esserci, ma solo per renderlo, in questa insuperabilità, consapevole come con-essere del poter-essere degli altri» (HGA 2, pp. 350-351; tr. it., p. 316). 116 Aristotele, Etica eudemia, cit., 1239a, 33-1239b, 42, p. 139. Secondo Blanchot la cesura con cui la morte spartisce la relazione con l’amico è già da sempre all’opera: è in vita che l’amico è accolto nell’irriducibile estraneità, che permette il dialogo, che permette di parlarsi l’un-l’altro, nella distanza che, separando, istituisce il rapporto e allontana da ogni presa di possesso, nel «puro intervallo che, da me a quest’altro che è un amico, misura tutto ciò che è un amico, misura tutto ciò che è fra noi, l’interruzione d’essere che non mi autorizza mai a disporre di lui, né del mio sapere di lui (anche solo per lodarlo) e che, lungi dall’impedire ogni comunicazione ci mette in relazione l’uno all’altro nella differenza e a volte nel silenzio della parola» (M. Blanchot, L’amicizia, cit., p. 344).

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In termini indicativo-formali la morte, svelando l’assoluta a-simmetria dell’essere-l’uno-con-l’altro, svela la possibilità di un esserci-insieme, di una comunità ove la cum-unio è impossibile, perché non si è tutti uguali senza distinzioni (di sesso, razza, religione, condizione personale, etc.), ma ognuno è riconosciuto ‘distinto’ (héteros, alienum) in sé. Rivela la possibilità impossibile di un’autentica Umwandlung etico-politica, che oltre Heidegger, ma pur sempre a partire da lui, ci resta da pensare.

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Collana diretta da Caterina Resta 1 Pierandrea Amato, Tecnica e potere. Saggi su Michel Foucault 2 Pierandrea Amato, Sandro Gorgone, Tecnica lavoro resistenza. Studi su Ernst Jünger 3 Silvia Geraci, L’ultimo degli ebrei. Jacques Derrida e l’eredità di Abramo 4 Gérard Bensussan, Etica ed esperienza. Levinas politico, a cura di Silvia Geraci 5 Sandro Gorgone, Nel deserto dell’umano. Potenza e Machenschaft nel pensiero di Martin Heidegger 6 Maria Teresa Catena (a cura di), Artefatti. Dal Postumano all’Umanologia 7 Pierandrea Amato e Gianluca Miglino (a cura di), Lo stile di Dioniso. La filosofia di Nietzsche nella letteratura tedesca del Novecento 8 Hans Blumenberg, L’uomo della luna. Su Ernst Jünger, a cura di Sandro Gorgone 9 Caterina Resta, Nichilismo Tecnica Mondializzazione. Saggi su Schmitt, Jünger, Heidegger e Derrida 10 Rita Fulco, Essere insieme in un luogo. Etica, Politica, Diritto nel pensiero di Emmanuel Levinas 11 Gabriele Guerra - Sandro Gorgone (a cura di), L’eco delle immagini e il dominio della forma. Ernst e Friedrich Georg Jünger e la visual culture 12 Valentina Surace, L’inquietudine dell’esistenza. Le radici luterane dell’ontologia della vita di Martin Heidegger

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Finito di stampare marzo 2014 da Digital Team - Fano (PU)

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