Téchne. Le radici della violenza [1 ed.] 8818010336, 9788818010336

La parola téchne esprime il modo in cui i Greci pensavano l’agire dell’uomo: per sua natura fondato sul divenire, sull’o

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Italian Pages 292 [390] Year 1988

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Téchne. Le radici della violenza [1 ed.]
 8818010336, 9788818010336

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Problemi attuali

Emanuele Severino

Téchne Le radici della violenza Rusconi

Prima edizione febbraio 1979 Tutti i diritti riservati © 1979 Rusconi Libri S.p.A., via Oldofredi 23, 20124 Milano

INTRODUZIONE

Questo libro non si rivolge a specialisti. Pren­ de le mosse da alcune convinzioni possedute pro­ babilmente dalla maggior parte dei lettori sugli aspetti più generali dei fenomeni politico-sociali contemporanei. Ma lo scopo è di invitare verso qualcosa che sta molto lontano. Più lontano di quanto si ritenga lontana la composizione dei pro­ blemi sociali; e più lontano anche di quanto si ritenga lontano ciò che la tradizione ha chiamato " Dio " o la " salvezza dell'anima " . La maggior lon­ tananza - in cui si colloca il significato del nostro tempo non è questione di quantità: riguarda una dimensione essenzialmente diversa. Ma, intanto, il libro prende le mosse da que­ ste due ipotesi interpretative molto comuni (seb­ bene investano un'ampia zona della realtà poli­ tica contemporanea) e che non sembra siano state sinora sostanzialmente smentite. la. Stati Uniti e Unione Sovietica non in­ tendono scatenare il conflitto atomico decisivo che elimini definitivamente l'avversario. Questo atteggiamento non è momentaneo: entrambi si sono resi conto che dopo l'urto non esisterebbe un " vinci t ore " , nel senso elementare e primario che usualmente diamo a questo termine - e forse non esisterebbe più nemmeno la razza umana. -

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lP. Sulla terra si diffonde sempre più rapi­

damente una gigantesca pressione, con sensi, mo­ dalità, intensità e ritmi diversi, ma accomunati tutti dalla stessa direzione dal basso verso l'alto : si tratta del processo di emancipazione dei popoli poveri da quelli ricchi, delle classi sfruttate da quelle sfruttatrici , dei gruppi dalle istituzioni, dei giovani dagli adulti, delle femmine dai maschi, degli emarginati e anormali dagli inseriti e nor­ mali, delle azioni umane dalle leggi e dalle tradi­ zioni, di tutti gli altri popoli e Stati dal mono­ polio del dominio detenuto dalle due superpo­ tenze mondiali. Ma una volta accolte queste due ipotesi è dif­ ficile rifiutare certe " conseguenze " che indiche­ remo qui di seguito e che costituiscono in sostanza lo sviluppo di questo libro. Col termine " conse­ guenze " non intendiamo soltanto il concetto spe­ cifico di " conseguenza logica " , ma anche il rap­ porto tra le due ipotesi e certi altri gruppi di concetti, che in parte valgono essi stessi come ipotesi di raggio minore, e in parte occupano invece una sfera che sta al di fuori di un discorso consistente nella semplice interpretazione fondata su ipotesi. È soprattutto su questa sfera che nel saggio si intende richiamare l'attenzione . Il " si­ gnificato del nostro tempo " , comunque, non è un dato, ma si forma all'interno di una interpreta­ zione. Qui si voleva dire che la logica di questo libro non si rinchiude nella logica dell'interpreta­ zione e cioè nella logica dell'ipotesi. Ed ecco, sempre in forma schematica, le " conseguenze" delle due ipotesi. l. La volontà delle due superpotenze di evitare il conflitto atomico - cioè la distruzione

dell'umanità - è il fattore stabilizzante più po­ tente che oggi esista sulla terra. Più potente di ogni tradizione. Poiché tale volontà scaturisce dal sostanziale equilibrio di forze dei due avversari e tale equilibrio è determinato anche dalle due sfe­ re di influenza che essi hanno stabilito nel mondo, ne segue che, anche indipendentemente dagli ac­ cordi di Yalta, e indipendentemente dalla rota­ zione al potere da parte dei " falchi " e delle " co­ lombe " , il fondamentale interesse comune degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica è di perpe­ tuare indefinitamente l'attuale rapporto di forze e quindi l 'ordine oggi esistente nel mondo . 2 . Questo fattore stabilizzante è il più po­ tente sulla terra, perché le due superpotenze han­ no sostanzialmente il monopolio della forza più invincibile che mai sia apparsa nella storia del­ l 'uomo : la tecnica, cioè l'applicazione dei metodi e dei procedimenti della scienza moderna ::tlla grande industria. La convergenza di interessi di Russia e America costituisce il modo storicamente determinato in cui la civiltà della tecnica domina ormai su tutta la terra . Ma questa convergenza di interessi è la risultante della tensione tra le due superpotenze; sl che il fattore stabilizzante è appunto la tensione. 3. La pressione dal basso verso l'alto, affer­ mata nella seconda ipotesi, è invece il maggior fattore destabilizzante del nostro tempo. Poiché ciò che in generale viene destabilizzato è un " or­ dine " e poiché l'ordine che ormai subordina a sé ogni altro ordine è l'organizzazione tecnologica del mondo concordata dalle due superpotenze, os­ sia è ciò che abbiamo chiamato il fattore stabi­ lizzante più potente, ne segue che l'ordine contro 7

cui si dirige la pressione destabilizzante è appun­ to, da ultimo - cioè come resistenza di fondo che sorregge tutte le resistenze opposte a tale pressione -, il fattore stabilizzante costituito dal­ l'equilibrio di forze e dalla convergenza di inte­ ressi delle due superpotenze. Il fattore destabilizzante è composito, ma in esso si ritrovano tutti i " valori " della tradizione : le istanze della "giustizia " , dell"' eguaglianza", del­ la " libertà " , della " fraternità", dello " spirito", dell"' amore " , della " fede interiore ", della " coscienza " . 4 . Ma oggi come non mai lo " spirito " è debole di fronte alla " carne", perché la " carne " ha incorporato in sé l'essenza stessa della razio­ nalità occidentale e si pone come dominio tec­ nologico della terra. Proprio perché si scaglia contro la forza più potente della terra, la pres­ sione destabilizzante è destinata a frantumarsi, oppure a organizzarsi proprio secondo quei pa­ rametri di potenza che hanno raggiunto nella civiltà della tecnica (che oggi si presenta come civiltà dell'equilibrio atomico) la loro elaborazione sinora più perfetta. O ci si illude di organizzare la lotta dello " spirito" contro l'" organizzazione " ( l'ordine dominante, la " carne"), e allora l'orga­ nizzazione dello " spirito " sopprime lo " spirito" , se essa raggiunge il grado di efficienza richiesto ; oppure lo " spirito " è soppresso dall'organizzazione contro cui si scaglia. 5. Ciò significa che il fattore stabilizzante è destinato ad arginare per lungo tempo la pressione che tende a rimuoverlo. Non si allude con ciò a un futuro di pace : all'opposto si vuoi dire che la guerra permanente contro l'ordine del mondo .

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organizzato dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovie­ tica è destinata a vedere per lungo tempo il falli­ mento delle forze che si muovono contro questo ordine. Se tale fallimento non si producesse e la pres­ sione dal basso riuscisse a squilibrare in modo incisivo il rapporto di forze tra le due superpo­ tenze, verrebbe meno la ragione fondamentale per cui esse non intendono scatenare tra loro il con­ flitto decisivo. Se lo " spirito " riuscisse a indebolire oltre un certo limite uno dei due avversari, l'altro si troverebbe di fronte all'occasione più favorevole per eliminarlo del tutto . Ma, appunto, questa è l'ipotesi che potrebbe realizzarsi solo qualora, nel­ la storia dell'Occidente, si facesse innanzi una forza più potente della tecnica. E di una forza siffatta non appaiono neppure, in questa storia, i più lontani presagi. 6 . Il perpetuarsi dell'equilibrio attuale non esclude che la società sovietica possa svilupparsi in senso democratico e quella americana possa spingere a fondo il processo di partecipazione del­ le masse ai profitti delle imprese: quanto più Stati Uniti e Unione Sovietica venissero ad asso­ migliarsi, tanto più resterebbe rafforzata l'attuale convergenza dei loro interessi; anche se non sa­ rebbe questo un motivo sufficiente perché i due centri di potere avessero a rinunciare alla loro po­ tenza, sia rispetto all'avversario, sia rispetto al resto del mondo . 7 . Poiché la perpetuazione degli attuali rap­ porti di equilibrio mira a rendere stabile anche l'equilibrio delle sfere di influenza che essi hanno nel mondo, e poiché l'Italia appartiene al centro della sfera di influenza americana, la convergenza 9

usA-URS s esclude la possibilità di una rivoluzione comunista in Italia che distrugga l 'assetto capita­ listico della società e porti il PCI al potere. Que­ sto, il PCI lo sa bene, e da tempo ha rinunciato alla rivoluzione . Il nodo forse decisivo della si­ tuazione economico-politica italiana - nel quale si nasconde anche la causa dei vari fenomeni di terrorismo e di guerriglia - è il muro di diffidenza che il PCI non è ancora riuscito a dissolvere. Tale diffidenza scaturisce, da un lato, dall'incapacità del capitale di scorgere le condizioni oggettive di stabilizzazione che rendono impossibile al PCI di diventare la guida del nostro Paese; dall'altro lato dall'incapacità del PCI di rendersi conto del carat­ tere destabilizzante del concetto di " distensione " , che fa d a asse portante alla strategia del "compro­ messo storico". Ciò vuoi dire che se non si rico­ nosce da entrambe le parti l'inevitabilità della tensione nel mondo - cioè l'inevitabilità che le due superpotenze accrescano indefinitamente il loro potenziale distruttivo per mantenere le at­ tuali distanze da tutti gli altri popoli che vanno accumulando quantità sempre maggiori di poten­ za -, se quindi non si riconoscono le conseguenze stabilizzanti della tensione mondiale, nessun ac­ corgimento economico-politico potrà salvare l'or­ dine pubblico in Italia. La progettazione del " compromesso storico " sulla base di una " distensione " a livello nazionale e internazionale e che dunque investa gli stessi rapporti tra le due superpotenze - questo pacifi­ smo universale che il PCI sottolinea e promuove in modo particolarmente accentuato - è invece un fattore altamente destabilizzante, e forse è il più destabilizzante della situazione politica italiana; lO

perché in un mondo disarmato le masse di sinistra non troverebbero più alcun ostacolo consistente, in Italia, in Francia e altrove, alla presa del potere. Anche se i comunisti sono in buona fede e non intendono più rinunciare alle libertà formali delle democrazie parlamentari, il loro progetto di di­ stensione è destinato ad alimentare la diffidenza del mondo capitalistico. Si può anche mostrare che è un progetto irrealizzabile. Ma non si può pretendere che tale irrealizzabilità sia così chiara agli occhi del capitale, da fargli trascurare la cir­ costanza - ben più percepibile da quegli occhi che la realizzazione di tale progetto determinerebbe le condizioni più idonee per l'eliminazione del capitalismo. Il " compromesso storico " , come ope­ razione intesa a tranquillizzare il capitale, rag­ giunge l'effetto opposto. È cioè una contraddizione. 8. Se la situazione economico-politica ita­ liana, e non solo italiana, è determinata da quel­ l'equilibrio di forze tra le superpotenze, che a sua volta è reso possibile da uno sviluppo tecnologico senza precedenti nella storia dell'uomo, ne segue che un'analisi del mondo contemporaneo che igno­ ri il senso della tecnica e della scienza moderna rimane alla superficie. Affermando questo, non si opera una svolta dalla " concretezza " dell'analisi politica all"' astrattezza " di una riflessione sul senso della tecnica e della scienza moderna: astrat­ ta è invece un'analisi che si fermi ai fenomeni e ignori le condizioni di fondo della dimensione politica. È perché la civiltà della tecnica domina ormai su tutta la terra che si è potuto produrre qualcosa come un equilibrio atomico ; ed è per questo equilibrio che la situazione economico-po­ litica italiana (e non solo italiana) si sviluppa in 11

una certa direzione. Ciò non significa trascurare la ricchezza ed eterogeneità di fattori che detenni­ nano un evento cosl complesso quale può essere l'esistenza di un Paese come l'Italia: significa invece raccogliere tale ricchezza ed eterogeneità al­ l'interno di un fattore dominante che conferisce ai fattori subordinati un ordine e un significato specifici. 9 . La civiltà della tecnica sta distruggendo ogni forma tradizionale di civiltà - cristiana, bor­ ghese, marxista - e quindi anche ogni forma tradi­ zionale di conoscenza. Questo è anzitutto un fat­ to ampiamente descritto dalla cultura contempora­ nea; ma è anche - ed è qui l'aspetto più rilevante del problema - qualcosa di inevitabile, e il senso autentico di questa inevitabilità sfugge invece co­ stitutivamente a tale cultura. Al cuore di questa distruzione inevitabile della tradizione si trova la distruzione della filosofia da parte della scienza moderna, la distruzione cioè della contemplazione del senso del mondo, che pretende valere come definitiva , immodificabile, incontrovertibile, da par­ te del sapere operativo che si riconosce come ipo­ tetico, modificabile, falsificabile, ma capace, in quanto sapere tecnologico, di modificare la realtà. La crisi del marxismo è appunto l'evoluzione del marxismo da dottrina filosofica a dottrina scientifica, e cioè a una forma di sapere che ab­ bandona il concetto filosofico di una rivoluzione globale della società e persegue invece quello tipi­ camente scientifico di un intervento settoriale in relazione a problemi particolari e limitati della società. Ciò significa che il dominio mondiale della tecnica per un verso determina quell'equilibrio atomico che costringe il PCI alla rinuncia della ri12

voluzione in favore di un riformismo di tipo so­ cialdemocratico, per altro verso determina quel­ l' evoluzione del marxismo che anche in sede teo­ rica lo riporta a questo tipo di riformismo. Quan­ do questo processo sarà giunto al suo compimento, il muro di difEdenza che oggi ostacola l 'avanzata del PCI sarà con ciò stesso dissolto : le condizioni oggettive internazionali consentiranno al PCI di andare al governo appunto perché il PCI che an­ drà al governo sarà divenuto qualcosa di molto diverso da ciò che ancora oggi continua ad essere. Questo partito si è mostrato largamente capace di non aver fretta; oggi dà segni di impazienza, col rischio di pregiudicare la propria crescita (che è insieme la propria trasformazione) . A lato di quanto si è detto, si avverta che quando si parla di inevitabilità della distruzione della tradizione da parte della civiltà della tecnica non ci si trova più semplicemente all'interno di una interpretazione fondata su " ipotesi " . Certo, bisogna essere in grado di mostrare in concreto questa " inevitabilità". Come distruzione inevitabile della tradizione, la tecnica ha destabilizzato ogni ordine del pas­ sato. La civiltà della tecnica, che, come ordine organizzato dai due più potenti Stati della terra, è il fattore oggi più stabilizzante, risulta dalla destabilizzazione più radicale che mai sia stata compiuta. La destabilizzazione di cui si parla nella seconda delle due ipotesi sopra indicate è allora il fenomeno inadeguato della destabilizzazione ef­ fettiva operata dalla civiltà della tecnica ; e questa destabilizzazione - di cui la cultura contempora­ è a sua volta il nea è largamente consapevole fenomeno inadeguato di quel senso autentico della -

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destabilizzazione, che è contenuto nell'essenza del­ la tecnica e che, come rende inevitabile la distru­ zione di ogni tradizione, così è inevitabilmente inaccessibile alla cultura contemporanea - anche quando e soprattutto quando essa si esprime con cadenze apparentemente affini ad alcune figure con­ cettuali di questo libro. Certo, la civiltà della tecnica può destabiliz­ zare anche l'organizzazione russo-americana del­ l'ordine tecnologico. Anzi, tale destabilizzazione è già in atto nel processo che, distruggendo le ideologie dei due avversari, li rende omogenei e trasforma in modo sempre più radicale l'organiz­ zazione ideologica della tecnica in organizzazione tecnologica della tecnica. Questa trasformazione rafforza la perpetuazione dell'ordine esistente. 1 0 . La distruzione dell'atteggiamento filo­ sofico per opera dell'atteggiamento scientifico ha come conseguenza che ogni legge, ogni ordinamen­ to etico, sociale, religioso, ogni forma di cono­ scenza, ogni sentimento dell'uomo, ogni costume divengono forme di violenza. E cioè di fede. Da ciò segue, ad esempio, che nel nostro Paese la critica delle forze democratiche alla violenza fa­ scista si basa su quella stessa violenza che esse intendono eliminare. In una società democratica o religiosa, la democrazia o la fede religiosa sono forme di violenza più potenti della violenza posse­ duta dagli avversari della democrazia e della reli­ gione. Ma la forma di violenza che oggi domina su ogni altra è quella costituita dall'organizzazione tecnologica della società. La critica dell'umane­ simo di tipo laico o religioso contro la civiltà della tecnica non è altro, nel suo significato essenziale, che la protesta della violenza soccombente contro 14

la violenza vincente. La rabbia del più debole contro il più forte. Ma anche il discorso di Nietz­ sche sui deboli e sui forti è il discorso di un debole. Ciò che infatti rimane completamente ignorato dalla cultura occidentale è che la scienza, distrug­ gendo la filosofia, ne conserva il tratto essenziale, e in questo tratto si nasconde la matrice origina­ ria della violenza. A partire dal pensiero greco, tale matrice si è impadronita di tutte le forme della civiltà occidentale e oggi, come tecnica, do­ mina incontrastata su tutta la terra. Per tale mo­ tivo la parola greca téchne dà il titolo di questo libro. Per quanto paradossale possa sembrare, se si vuoi comprendere il significato essenziale della violenza che ci sta attorno è necessario risalire al di là di ogni interpretazione meramente storica, politica, economica, psicologica, sociologica, antro­ pologica, religiosa e anche filosofica - al pensiero greco, e penetrarlo in modo completamente diverso da quello sperimentato lungo l'intero corso della storia occidentale . La psicoanalisi rileva il carat­ tere determinante dell'infanzia per la vita del­ l'adulto : il pensiero greco è l'infanzia che l'Occi­ dente continua ad avere dentro di sé. Ma tale pensiero, come inconscio essenziale dell'età adultl'! dell'Occidente, non ha nulla a che vedere con ciò di cui parlano le migliaia di libri che sono stati scritti e si continuano a scrivere sul senso del pensiero e della civiltà greca. In questo inconscio essenziale - e qui è il punto più arduo di tutto il discorso - si nasconde l'alienazione estrema in cui può trovarsi l'esistenza dell'uomo. Questo libro tenta di portarla alla luce. Il tratto essenziale del pensiero greco, che forma 15

l'inconscio essenziale dell'Occidente è quello stes­ so atteggiamento che diventa esplicito nella malat­ tia mentale : la persuasione del malato di essere un niente e che niente sono le cose del mondo in cui egli vive. Da questa persuasione, in cui tutto viene pensato e vissuto come un niente , gli abi­ tatori dell'Occidente si ritraggono inorriditi, sen­ za rendersi conto che la malattia del malato psi­ chico esprime la stessa dimensione fondamentale in cui l'Occidente si mantiene e in cui è cresciuta tutta la sua storia, dalla filosofia greca alla " buona novella " di Gesù, alle grandi istituzioni sociali e alle grandi forme di cultura europee, al compor­ tamento delle masse. Solo se ci si spinge in que­ sto sottosuolo essenziale possiamo dire di trovarci sul cammino che porta a scoprire il significato autentico del nostro tempo. Del tutto estraneo alle mode culturali, ma an­ che alle persuasioni di fondo della nostra cultura, questo libro è soltanto un'indicazione che, in quanto rivolta a un interlocutore molto differen­ ziato, si propone di essere chiara e semplice\ ma che non può evitare di essere insieme avvolta dal­ l'infinita ambiguità che conviene a un linguaggio il quale, mantenendosi all'interno delle forme quotidiane del dire, accenna a qualcosa che non appartiene né al quotidiano né a ciò che è stato pensato e vissuto dalla civiltà dell'Occidente. Avrà raggiunto il suo scopo se il lettore si sentirà rag1 Per l'approfondimento di questa indicazione (e soprat­ tutto per il modo in cui il marxismo è avvolto dall'alienazione essenziale dell'Occidente e, in essa, giunge al proprio tramon­ to), cfr. E. SEVERINO, Gli abitatori del tempo, Armando, Roma 1978, che a sua volta rinvia a Essenza del nichilismo, Paideia, Brescia 1972.

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giunto, per un solo momento, dal sospetto che, forse, sta aperto un sentiero - lontano dai per­ corsi dell'Occidente - lungo il quale, soltanto, può apparire il senso del tutto inesplorato dell'aliena­ zione della nostra civiltà e può forse prepararsi il tramonto di tale alienazione.

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Capitolo primo

TERRORISMO

l. lL TERRORISMO E LA SITUAZIONE INTERNA­

ZIONALE Le stragi di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia e del treno Italicus hanno caratteristiche diverse sia dai sequestri di persona, dall'uccisione e dai ferimenti di poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, uomini politici dell'arco costituzionale - operazioni rivendicate nella maggior parte dei casi dall'estremismo di sinistra -, sia dalla guerri­ glia urbana sperimentata dagli " autonomi" nel '77 . Innanzitutto, questo secondo tipo di terrorismo si intensifica a partire dal '75 ; mentre dopo l'estate del '7 4 non si verifica più qualcosa di analogo alla strage di Piazza della Loggia - di analogo cioè ad atti rivolti contro folle anonime o di sinistra e non contro singoli individui o (come nella guer­ riglia degli "autonomi ") contro le forze di polizia. Da un lato, dunque, la strage indiscriminata e so­ stanzialmente anonima; dall'altro l'offesa a singoli esponenti dell'establishment, accompagnata dall'as­ sunzione di responsabilità da parte di gruppi che si qualificano " di sinistra " , oppure la guerriglia che ha come controparte diretta le forze legali dell'establishment. Da un lato, almeno tendenzial­ mente, il silenzio; dall'altro lato, gruppi che si 21

propongono quella rivoluzione comunista che or­ mai il PCI non intende più fare. Se si suppone che coloro che si dichiarano ri­ voluzionari di sinistra lo siano per davvero, la questione, nei loro confronti, sembra subito chiusa: si tratta di gruppi sprovvisti della minima perce­ zione della realtà in cui vivono e che si illudono di realizzare l'impossibile. Si apre però il problema di come sia possibile un vuoto teorico così im­ pressionante, in qualche modo comprensibile nei giovanissimi, ma molto meno in chi li guida e in chi oggi teorizza la necessità di risolvere con una rivoluzione armata di sinistra i problemi della società italiana. Questo terrorismo " di sinistra " non può raggiungere gli scopi che dichiara di pro­ porsi. Rispetto a questi scopi è smisuratamente inadeguato : nonostante il dramma delle persone che lo devono subire, non riesce a spostare di un millimetro la società italiana verso la rivoluzione di sinistra. Il terrorismo " di sinistra " , tuttavia, raggiun­ ge di fatto due obbiettivi di diversa importanza e tra loro contrastanti: contribuisce a determinare quel disfacimento dello Stato, che è la condizione principale di una svolta a destra in Italia ; e, in­ sieme, è un avvertimento alle forze in grado di operare tale svolta, che, qualora si decidessero in questo senso, la via non sarebbe del tutto priva di ostacoli. Ma se si considera che una svolta a destra in Italia avrebbe l'appoggio dell'intero capitalismo occidentale e che quindi gli ostacoli opposti dal­ l'estrema sinistra verrebbero inevitabilmente tra­ volti (anche se in questa circostanza è difficile pen­ sare che il PCI si limiterebbe a subire l'iniziativa delle destre), ne segue che il risultato sostanzial22

mente raggiunto dal terrorismo dell'estrema sini­ stra è di rafforzare le probabilità che in Italia l'asse politico si sposti verso destra . La forma di terrorismo, dunque, che ha con­ crete possibilità di trasformare sostanzialmente la situazione politica italiana è quella che conduce a una svolta a destra e non certo a una società comunista. L'efficacia di questa forma di terrori­ smo, pertanto, può essere determinata o da una organizzazione che mira intenzionalmente a elimi­ nare la pressione delle sinistre in Italia, oppure da quello stesso terrorismo rosso che dichiara di voler realizzare la rivoluzione di sinistra. In que­ sto senso, si potrebbe dire che la strage dell'Itali­ cus è stata l'ultima di questa serie, perché si è ritenuto che il terrorismo rosso poteva svolgere quella stessa funzione che sino al '7 4 era stata svolta dalle stragi semianonime - e comunque mai rivendicate dall'estrema sinistra -, ma chiaramen­ te miranti ad arrestare l'avanzata delle sinistre in Italia. Se la serie dovesse riprendere, vorrebbe dire che l'attività del terrorismo rosso sarebbe ritenuta inadeguata a stabilire un clima di dissuasione per le sinistre e soprattutto per il PCI . La forma di terrorismo politicamente rilevante è dunque quest'ultima, di carattere anticomunista: appunto perché ha la capacità di realizzare i pro­ pri scopi anche mediante l'attività terroristica dei propri avversari . È una conferma di quanto si è incominciato a rilevare nell'Introduzione, a pro­ posito dell'esistenza di un fattore stabilizzante e di un fattore destabilizzante nel mondo . Il terro­ rismo di destra è espressione del fattore stabiliz­ zante: destabilizza l'ordinamento democratico in Italia per mantenere il fondamentale tipo di sta23

bilità promosso dalle superpotenze. Il terrorismo di sinistra è invece espressione del tentativo fal­ limentare di modificare quella stabilità. E il falli­ mento è dovuto anche, come si diceva, alla circo­ stanza che, lungi dal rimuoverla, esso favorisce oggettivamente quella stabilità - la stabilità so­ stanziale che è voluta dalle due superpotenze e che, per mantenersi, può spingersi sino ad esigere l'eliminazione dell'assetto democratico in Italia e la sua sostituzione con un regime di destra. Indubbiamente, si può supporre che il terro­ rismo di sinistra miri a provocare una reazione di destra di tipo anticostituzionale, ma con l'in­ tento ultimo di costringere il PCI a reagire a sua volta e ad abbandonare il !egalitarismo confor­ mistico, imboccando la strada della lotta armata contro l'ordinamento capitalistico . Senonché, le ragioni che oggi rendono ancora impensabile, no­ nostante tutto, la presa del potere da parte del Per mediante l'uso degli strumenti offerti dalla democrazia parlamentare, tali ragioni rendono an­ cor più impensabile che il PCI vada al potere in conseguenza di una lotta armata vittoriosa. Ap· punto queste ragioni (che confermano il vuoto teo­ rico dell'estremismo che intenda realizzarsi come movimento di sinistra) devono esser poste ora nella giusta luce. Pochi giorni dopo la strage di Piazza della Loggia ( 2 8 maggio 1 97 4) scrivevo queste pagine per « Bresciaoggi » : « In questo momento, l'er­ rore più irreparabile che la democrazia in Italia può compiere è di sottovalutare il pericolo fasci­ sta. Si alimenta questo errore quando si tenta di convincere le masse popolari che il fascismo è 24

costituito da " squallide minoranze " , che "è morto per sempre il 25 aprile 1 94 5 " che la sua elimi­ nazione è una semplice questione di efficienza del­ le forze di polizia e della magistratura, o di ade­ guatezza della legislazione che dovrebbe esser resa più severa sino a prevedere, per certi reati, il ri­ pristino della pena di morte. Il risultato di tutti questi modi di impostare il problema è che il fascismo viene presentato come qualcosa di ben più debole di quanto esso sia in realtà . Ma, in qualsiasi lotta, per combattere con successo è ne­ cessario sapere di quali forze l'avversario disponga. « Ancora oggi il fascismo vede nel comunismo il suo nemico principale ed è convinto che in Ita­ lia i partiti democratici abbiano già ceduto troppo terreno sotto le pressioni delle sinistre. Credere che il fascismo non abbia questa base ideologica e che i suoi esponenti siano soltanto dei " raziona­ lizzatori per lo più inconsci e quasi sempre imbe­ cilli delle proprie private tare " , come ha scritto Moravia sul " Corriere " di mercoledl 29 maggio, significa, ancora una volta, sottovalutare il peri­ colo. Le stragi e gli attentati sono perpetrati da un'ideologia anticomunista. E sono diretti contro le masse lavoratrici in quanto organizzate dai mo­ vimenti politici di sinistra o da quelle forze poli­ tiche che, secondo il fascismo, stanno aprendo o hanno già aperto al comunismo la strada del po­ tere . « Stragi e attentati hanno come effetto il ter­ rore, che paralizza, e lo sdegno, che spinge alla reazione violenta. I mandanti lo sanno ; e sanno anche che in una situazione sociale come quella italiana lo sdegno è superiore al terrore. Il fasci­ smo vuole dunque provocare una reazione vio,

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lenta delle sinistre ; vuole che appaia evidente l'im­ potenza dello Stato costituzionale a mantenere l'or­ dine pubblico e vuole che le sinistre scendano in campo per farsi quella giustizia che lo Stato non è più in grado di assicurare. Il fascismo è una continua provocazione rivolta alle sinistre; mentre la parola d'ordine delle sinistre e soprattutto del partito comunista italiano è di " non cedere alla provocazione fascista " . « Già questo fatto è illuminante: u n nano non va a schiaffeggiare un gigante. Se il fascismo fosse e si sentisse politicamente un nano non andrebbe a schiaffeggiare le masse lavoratrici (e sono schiaffi che a qualcuno hanno dato la morte). E non si dica che gli attentatori sono soltanto dei folli criminali che si illudono di modificare l'as­ setto democratico. In questo momento è nell'inte­ resse stesso del fascismo essere considerato come una semplice follia criminale, perché in questo modo l'attenzione e le iniziative dell'antifascismo vengono dirottate su bersagli la cui distruzione non intacca le forze reali che il fascismo è pronto a far entrare in azione . Se il fascismo provoca le sinistre alla lotta è perché è sicuro di vincere. Se il partito comunista non raccoglie la provocazione è perché sa molto bene che se accettasse la lotta armata ( e si sostituisse allo Stato) sarebbe la sua fine. Perché ? La risposta presenta due aspetti com­ plementari. Incominciamo dal primo. « Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica si sono divisi il dominio del mondo, o di buona parte di esso, e l'Italia appartiene all'area il cui destino politico è stabilito da ultimo dagli Stati Uniti. La pace e la sopravvivenza del genere umano di que­ sti ultimi decenni dipendono dal fatto che le due 26

superpotenze hanno rispettato i confini delle rispet­ tive aree di influenza. Gli Ungheresi hanno fatto la rivoluzione e hanno chiesto l'intervento degli Stati Uniti. Ma gli Stati Uniti non si sono mossi. Se si fossero mossi, sarebbe stata la guerra con l'Unione Sovietica e la distruzione atomica del­ l'umanità. E non si sono mossi nemmeno per i Cecoslovacchi . A sua volta, l'Unione Sovietica sa che gli Stati Uniti non accetterebbero mai una mutazione dello status qua dell'Europa occiden­ tale, che alterasse i n favore dell'Unione Sovietica l'attuale equilibrio delle forze. La crisi dei rap­ porti tra Europa e America, le ventate dell'isola­ zionismo americano, le minacce di Kissinger di ritirare le truppe americane dall'Europa sono tutti aspetti di un gioco politico che non potrà mai mettere a repentaglio i reali interessi dell'economia americana, la quale non acconsentirà mai all'idea suicida di aggiungere il potenziale economico del­ l'Europa a quello dell'Unione Sovietica. « Questo significa : l) che gli Stati Uniti non permetteranno mai che il partito comunista ita­ liano vada al potere e determini una mutazione nella politica estera dell 'Italia; 2) che l'Unione Sovietica si guarderebbe bene dall'intervenire qua­ lora gli Stati Uniti soffocassero o aiutassero a sof­ focare in Italia una rivoluzione comunista; 3) che si stabilirebbero in questo modo le condizioni per l'eliminazione di quell'assetto democratico che, avendo dato spazio al comunismo, si sarebbe di­ mostrato incapace di evitare la minaccia di un rovesciamento deli'equilibrio politico europeo; 4) che le forze fasciste, le quali fanno leva sui due temi dell'anticomunismo e dell'atlantismo, si tro­ verebbero pertanto, automaticamente, nella posi27

zione di garanti sicuri di quell'equilibrio, per quan­ to riguarda la situazione italiana. Per gli Stati Uniti ciò che conta è questo equilibrio: alla resa dei conti non importa che esso sia mantenuto dai colonnelli, dai generali o dai partiti democratici . « Veniamo ora al secondo aspetto della rispo­ sta. Il fascismo vuole provocare una reazione vio­ lenta delle sinistre, non solo perché sa di essere coperto sul piano internazionale, ma anche perché s·1 che, qualora quella reazione scoppiasse, sarebbe capetto anche sul piano nazionale. Sa cioè che se le sinistre accettassero la lotta armata ( sostituendo­ si quindi ai poteri dello Stato) , larghissimi strati della borghesia italiana, grosse porzioni del ceto agrario e delle popolazioni del Sud, buona parte dei clericali e certi altri ceti sociali si dimentichereb­ bero subito di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia e si schiererebbero immediatamente al fianco delle forze fasciste per arginare l'avanzata comunista. Sarebbero sufficienti molto meno dei dodici milioni che al referendum sul divorzio han­ no votato " sì " (e che Almirante, alla televisione, ha dichiarato di prendere sotto la sua tutela) per dare veste popolare all'eliminazione della democra­ zia e veste nazionale all'intervento americano. Per molti, in Italia, l'avvento del comunismo è qual­ cosa di infinitamente più grave di qualche decina o centinaia di morti. « Il partito comunista e le masse lavoratrici stanno dando prova di estrema maturità politica. Non abboccano all'amo fascista. Ma è anche chiaro che l'immobilismo non è uno sbocco politico. È la condizione immediata per evitare la catastrofe, ma non è la soluzione del problema. Se la demo­ crazia italiana non esce dall'attuale situazione di 28

cns1 economica e politica, l'iniziativa resta al fa­ scismo. Il problema centrale può essere allora espresso in questi termini : il partito comunista non può andare al governo ; ma oggi in Italia non si può più governare e non si può più uscire dalla crisi senza l'appoggio del partito comunista, cioè senza l'appoggio delle masse lavoratrici, di cui il partito comunista è la guida più seguita. Occorre allora una forza democratica antifascista che sia così solida e così fermamente anticomunista da poter avvalersi, senza insospettire e intimorire i ceti moderati, della collaborazione esterna del par­ tito comunista. Nella situazione attuale della so­ cietà italiana la democrazia cristiana è l'unico rag­ gruppamento politico che ha la possibilità di di­ ventare questa forza. Ma a condizione che essa metta la distanza di sicurezza tra sé e il fascismo . Il capitalismo italiano è sottoposto da tempo a un duplice attacco : quello politico-sindacale delle sinistre e quello della concorrenza del capi­ tale estero. Non solo, ma non si sente nemmeno adeguatamente difeso dalla classe politica al po­ tere. In questa situazione, una svolta a destra è nell'interesse oggettivo del capitale italiano, indi­ pendentemente dalla buona fede e dalle convin­ zioni democratiche di certi capitalisti. Meravigliar­ si del nesso tra capitale e bombe fasciste significa dimenticare che da quasi un secolo la guerra è divenuta uno dei modi fondamentali in cui i grup­ pi industriali-finanziari hanno combattuto la con­ correnza dei gruppi antagonisti, e che già nell'Ot­ tocento la dinamite era largamente usata in Ame­ rica per risolvere problemi di concorrenza. È inu­ tile stracciarsi le vesti : la lotta per il potere è «

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sempre stata cruenta e sarebbe strano che non lo fosse più per il semplice fatto che gli uomini politici continuano a parlare di pace e di giustizia e che la gente si è abituata a vedere che ogni con­ flitto finisce con l'essere pacificato e composto sullo schermo televisivo. « A sua volta, il PCI non fa la rivoluzione (che non sarebbe certo incruenta) solo perché ha ca­ pito che, nell'attuale situazione mondiale, non può più farla. Non vuole, perché sa di non potere . Questa, la sua saggezza. Già da prima che in Cile Allende facesse la fine che sappiamo, il PCI ha capito che se si provasse a fare la rivoluzione, il risultato inevitabile - in Italia ancor più inevita­ bile che in Cile - sarebbe un governo autoritario di destra appoggiato dall'America. « È di fondamentale importanza che il capitali­ smo italiano si convinca di questa saggezza del PCI: che non solo non vuoi fare la rivoluzione, ma non vuole nemmeno andare al governo . Sba­ glia quindi l'amico Alberoni quando scrive (« Cor­ riere della sera » , l giugno) che per dare il suo appoggio alla ne il PCI « chiederebbe come mini­ mo di entrare nel governo » . È di estrema impor­ tanza che il capitalismo italiano si convinca di questa saggezza del PCI, perché con questa convin­ zione il suo timore di venire soffocato ed eliminato dalle sinistre si ridurrebbe considerevolmente e quindi si ridurrebbero proporzionalmente le con­ dizioni e le occasioni della collusione tra capitale e fascismo. « È vero che il capitale ritiene che il livello di sicurezza (della sua sicurezza), sotto la pres­ sione delle sinistre, è stato ormai superato e che quindi, anche essendo sicuri che il PCI non spin.30

gerà per andare al governo (e tanto meno per fare la rivoluzione), è tuttavia necessario modificare la situazione politica con una svolta a destra. Se cioè il capitale ritiene che la classe politica al po­ tere ha già concesso troppo al PCI, allora è nel suo interesse che venga alimentato uno stato di disor­ dine e di tensione che, dimostrando l'inettitudine della classe politica democratica e provocando nel­ la gente un desiderio di ordine e di tranquillità, farebbe apparire improrogabile l'intervento di una forza equilibratrice - per esempio l'esercito che, riportando l'" ordine ", riporterebbe insieme il capitale sulle posizioni perdute in questi ultimi tempi. « In questo contesto (in relazione cioè al fatto che il capitale, pur conoscendo la volontà del PCI di non andare al governo, ritiene di dover comun­ que migliorare le proprie posizioni, favorendo una svolta a destra) , la capacità della democrazia di mantenere l'ordine pubblico diventa una questione decisiva per la sua sopravvivenza. In questo con­ testo: ché, al di fuori di esso, la semplice richiesta di efficienza della polizia e della magistratura esprime soltanto l'incapacità di certi nostri uomi­ ni politici di percepire il senso della situazione attuale . Ed è appunto in questo contesto che il PCI richiede con insistenza un governo che abbia quella capacità (ma di cui non vuole far parte). Si tratta infatti di togliere al capitale ogni prete­ sto per favorire l'avvento di un regime di destra . Ma, per riuscirvi, le forze politiche che oggi sono al governo hanno bisogno dell'appoggio del PCI. Non c'è altra via. « Se infatti la DC, il PSDI, il PRI e il PLI deci­ dessero di appoggiare il tentativo del capitale di re31

cuperare le posizioni perdute, oltre che a trovarsi in compagnia del MSI si troverebbero abbando­ nati dal partito socialista e da almeno tutta la sinistra ne; si troverebbero cioè ad essere una minoranza e impegnati in una avventura che se­ gnerebbe la loro fine. Giacché un'azione di potere di questa ( e di ogni) minoranza non vorrebbe dire altro che l'eliminazione di quel regime parla­ mentare nella cui difesa i partiti democratici inten­ dono caratterizzarsi. « Se invece rifiutano di schierarsi esplicita­ mente col fascismo e di agire esplicitamente con­ tro la democrazia, non possono imboccare questa strada (anche se su di essa non troverebbero osta­ coli da parte dell'America) . Devono allora imboc­ care l'altra, quella cioè dove le forze democrati­ che si mettono in condizione di mantenere un or­ dine pubblico democratico, eliminando il pretesto di operare una svolta a destra per ristabilire l"' or­ dine ", e impedendo quindi al capitale di recupe­ rare il terreno perduto . « Ma per riuscire in questo intento hanno bi­ sogno, come si diceva, del PCI, perché è noto che l'ordine pubblico non si mantiene soltanto con le forze di polizia, ma con la normalizzazione della vita economica, cioè con la ripresa produttiva; e quest'ultima è possibile solo con l'appoggio delle masse lavoratrici, cioè col consenso del PCI. Se cioè le forze democratiche devono ostacolare il tentativo del capitale di recuperare il terreno per­ duto, devono anche evitare che ne perda dell'al­ tro - giacché attualmente le sorti dell'economia sono da noi legate alle sorti del capitale - e per evitare che il capitale perda altro terreno è neces­ sario l'appoggio del PCI. 32

« A sua volta il PCI ha bisogno che le forze democratiche gli sbarrino con decisione la strada verso il potere. E poiché la DC è la più forte delle forze anticomuniste, il PCI ha soprattutto bisogno della DC. Infatti, il PCI sa di non poter andare al potere, ma evita di dirlo alle masse . Ma se nes­ suno gli sbarrasse decisamente l'accesso al potere, allora dovrebbe confessare la propria impotenza alle masse che lo seguono . Il PCI è potente e de­ terminante sin tanto che la terra promessa non gli è a portata di mano. Esso preme per entrare, ma se trovasse la porta aperta gli si piegherebbero le ginocchia, e dovrebbe confessare la propria in­ capacità di varcare la soglia. « E tuttavia non può consentire che gli si tolga forza quando, trovando la porta chiusa, pre­ me per entrare : è quanto, incautamente, la DC ha tentato di fare col referendum sul divorzio. La DC sa di aver bisogno del PCI, ma per non intimo­ rire i suoi elettori e i benpensanti intende avva­ lersi della collaborazione del PCI stando in una posizione di forza. Ma se avesse vinto il referen­ dum, non solo si sarebbe trovata in posizione di forza, ma avrebbe addirittura stabilito le premesse per non aver più bisogno del PCI. Il quale ha sì bisogno che la DC sia forte, ma non fìno al punto di poter fare a meno della sua collaborazione. Ed è appunto perché ha bisogno che la DC gli sbarri l'accesso al potere che il PCI, pur avendo vinto il referendum, cerca di evitare che la sconfitta della DC ne determini un indebolimento eccessivo. Ognu­ no dei due avversari sopravvive solo in quanto anche l'altro sopravvive. Se uno dei due soccom­ besse, soccomberebbe anche l'altro. La pressione che ognuno dei due esercita sull'altro è la condi33

zione della sopravvivenza dell'altro. Essi orma1 l 'hanno ben capito . « Se anche il capitale lo capisce ( e capisce che hanno capito) - se cioè capisce che questa con­ flittualità controllata e concordata tra PCI e ne è la condizione più sicura e realistica per tenere in vita se stesso - c'è da esser certi che le bombe scoppieranno sempre di meno. « Riepilogando : i partiti democratici, per so­ pravvivere come tali, non possono tentare l'avven­ tura fascista, ma devono appoggiarsi al partito comunista; il quale, a sua volta, per sopravvivere, deve sottoporre sì il capitale e i partiti democra­ tici ad una pressione continua, ma evitando di provocare il loro eccessivo indebolimento. Se il capitale capisce questa solidarietà che sussiste tra sé e il partito comunista e tra quest'ultimo e i partiti democratici, può allora anche comprendere che questo equilibrio di forze è l'alternativa più realistica che il capitale può scegliere per soprav­ vivere e che gli consente di non imbarcarsi nel rischioso tentativo di creare un pretesto per rea­ lizzare una svolta a destra nella vita politica ita­ liana. È di estrema importanza che lo capisca, perché nessuno imbocca la strada più difficile quan­ do sa che ne esiste una più facile. » Mi sembra che anche oggi, nonostante l'inten­ sificazione del terrorismo di sinistra, queste pagine mantegano tutta la loro validità. Tra l'altro anti­ cipano, addirittura alla lettera, il tipo di collabo­ razione che da qualche tempo il PCI fornisce ef­ fettivamente alle forze governative. È risultato falso che per dare il suo appoggio il PCI avrebbe 34

richiesto "come minimo di entrare nel governo " . Il PCI appoggia il governo della DC, m a non è andato al governo - anche se ai propri elettori doveva e deve continuare a dire che questo passo è ormai inderogabile. L'elemento sostanzialmente nuovo che nel frattempo si è presentato per quanto riguarda l'individuazione della fonte del terrori­ smo, è che mentre nella primavera del '7 4 i diri­ genti democristiani parlavano dei terroristi come di " squallide minoranze " , a partire invece dalla primavera del '77 è avvenuto che sia la dirigenza del PCI, sia quella della DC hanno incominciato a riconoscere ufficialmente che la strategia della ten­ sione in Italia è progettata a livello internazionale. Solo che mentre il PCI ha interesse a non sbilan­ ciarsi con una diagnosi puntuale, in area democri­ stiana e in genere al centro e a destra si tende a leggere alla lettera il fenomeno del terrorismo di sinistra e quindi a cercare nei Paesi del blocco orientale le componenti internazionali di tale fe­ nomeno . L'Unione Sovietica fomenterebbe il ter­ rorismo in Italia in funzione anticomunista (la­ sciamo da parte l'ipotesi ingenua di un'Unione So­ vietica che miri senz'altro a favorire una rivolu­ zione di sinistra che spinga l'Italia fuori dell'area occidentale), perché sarebbe preoccupata dell'au­ tonomia del PCI, che verrebbe a contagiare i par­ titi comunisti dell'Est e in primo luogo quello russo, già alle prese con un tenace dissenso. L'Unione Sovietica preferirebbe pertanto deter­ minare le condizioni per una svolta a destra in Italia, piuttosto che tenere in vita un PCI esempio di insubordinazione e causa di incrinature nel bloc­ co orientale. - Ma fino a che punto questa ipo­ tesi coglie nel segno? 35

Innanzitutto, in quanto essa esprime il punto di vista della dirigenza democristiana e delle forze anticomuniste, e in quanto in essa si riconosce che la causa delle iniziative eversive dell'Unione Sovietica in Italia sarebbe l'autonomia del PCI da Mosca, non si vede perché si continui a tenere il PCI fuori del governo e a discriminare tra PCI e PSI in favore di quest 'ultimo (che dal punto di vista ideologico oggi si differenzia ben poco dal PCI e anzi assume rispetto al PCI atteggiamenti che spesso lo scavalcano a sinistra) . In altri ter­ mini, se Stati Uniti e DC sono effettivamente con­ vinti che sia l'Unione Sovietica a spingere l'Italia verso destra per eliminare l'eresia del comunismo italiano, vuoi dire che essi sono convinti che il PCI costituisce effettivamente un'eresia rispetto al blocco orientale - dove l'aspetto sostanziale del­ l'eresia non è tanto quello ideologico, ma quello pratico dell'indipendenza del PCI dalle direttive dell'Unione Sovietica. Non si vede allora perché, convinti di questo, DC e Stati Uniti non abbiano già aperto al PCI le porte del governo in Italia e continuino invece a mostrarsi sospettosi circa le reali intenzioni del PCI e la natura dei suoi rap­ porti con Mosca. Né può trattarsi di una finta, perché la situazione economica italiana non con­ sente alcuna finta su una questione - la presenza del PCI al governo - che, risolta in senso positivo con l'approvazione degli Stati Uniti, contribui· rebbe notevolmente ad alleggerire tale situazione. Avremmo dunque questo assurdo : DC e Stati Uni· ti saprebbero di avere nel PCI un vero alleato (vero alleato perché nemico mortale dell'Unione Sovie­ tica) e ciononostante gli impedirebbero di entrare in casa per aiutare a spegnere l'incendio. Se si 36

esclude che la logica della ne e dei responsabili statunitensi sia così debole, allora l'ipotesi che sia l'Unione Sovietica ad alimentare in Italia il ter­ rorismo, in funzione anticomunista, serve a ma­ scherare una situazione reale molto più complessa. E in effetti si può pensare che gli Stati Uniti sia· no così imbelli da lasciar scivolare l'Italia nelle­ braccia di un partito che ancora tiene ben fermi i legami col movimento comunista internazionale? Se quanto affermano gli Stati Uniti circa il lorc, rispetto per l'autodeterminazione dei popoli fosse da prendere alla lettera, ciò vorrebbe dire che di fronte ad un'ipotetica autodecisione dell'Europ� di passare nello schieramento opposto , essi non alzerebbero un dito. Senonché è proprio la con­ vergenza di interessi tra Russia e America ad esi­ gere che quest'ultima, di fronte a un PCI di cui non si fìda e che considera pericoloso per l'equi­ librio del mondo occidentale, non alzi semplice­ mente un dito, ma le m�mi (naturalmente facendo in modo che il gesto passi il più inosservato pos­ sibile, perché Io stile delle democrazie parlamen­ tari impone certe apparenze di cui non si curano le democrazie popolari, che sotto gli occhi del mondo fanno entrare i loro carri armati a Buda­ pest e a Praga) . L'ipotesi di una responsabilità di fondo del­ I 'Unione Sovietica riguardo alla tensione in I t alia, volta ad eliminare Io scandalo che il PCI costitui­ rebbe agli occhi dei partiti comunisti orientali, suppone inoltre che questi partiti, che da decenni hanno a che fare con la gigantesca eresia cinese e con quella non meno puntigliosa e incisiva del maresciallo Tito, di fronte all'eresia del PCI ven­ gano ad essere tentati come Adamo nel paradiso 37

terrestre e non abbiano imparato la lezione che Budapest e Praga non sono Roma o Parigi, ossia che quanto è consentito a un partito comunista che si muove nella sfera di influenza degli Stati Uniti non è consentito a un partito comunista della sfera sovietica . È ben più scandaloso e peri­ coloso che all 'autorità di Mosca si sottraggano società già comuniste, come quella jugoslava o cinese, che non partiti comunisti che agiscono nell'ambito del capitalismo, di cui si può ben prevedere subiscano l'influenza. In questa ipotesi, dunque, diventano troppo ingenui ( troppo, dopo Budapest e Praga) i dirigenti dei partiti comuni­ sti dell 'Est, e anche i dirigenti sovietici, a ritene­ re Berlinguer più pericoloso di Mao Tse-tung e a non capire che l'eurocomunismo, prevedendo un'Europa unificata, prevede un'assemblea parla­ mentare europea dove i comunisti sarebbero net­ tamente in minoranza e quindi la loro eresia per­ derebbe quello spicco e quella forza di seduzione che invece essa possiede nei parlamenti nazionali. L'eurocomunismo è l'espediente escogitato dal PCI per diffondere e, proprio per questo, diluire sul­ l'area europea la pressione dei voti di sinistra, che, circoscritta all'area italiana, si fa gestire con crescente difficoltà. Giacché è semplicistico rite­ nere che oggi il PCI voglia andare al governo e non si renda invece conto che questo suo passo avanti è prematuro, perché deve essere preceduto da un rapporto tale tra la dirigenza e le masse del PCI che in esso si metta fermamente in chiaro un punto che sinora circola solo in forma esoterica, e cioè che il PCI non ha più l'intenzione di elimi­ nare il capitalismo (e cioè che il PCI non è più un partito comunista) . 38

Una Unione Sovietica, infine, che per mot1v1 ideologici alimenti in funzione anti-PCI la strate­ gia della tensione in Italia presuppone una dire­ zione storica globale che va in senso inverso a quello effettivamente esistente, a quello cioè della progressiva deideologizzazione delle grandi forze istituzionali esistenti sulla terra. Sarebbe infatti solo un astratto e ottuso fanatismo ideologico a far preferire all'Unione Sovietica di avere in Ita­ lia un grosso nemico in più, quale sarebbe appunto il PCI sottoposto alla defenestrazione di ispira­ zione sovietica - e un nemico mortale, perché, se l'ipotesi in discussione fosse vera, la Russia mire­ rebbe né più né meno che all'eliminazione del PCI -, piuttosto che un mezzo alleato, la cui ani­ ma inclina tuttavia più verso Est che verso Ovest. Anzi, resta ancora aperto il problema se que­ sto alleato sia mezzo o intero; perché nella fase attuale dello sviluppo del PCI esistono ancora ele­ menti che, come vedremo (cfr . capitolo quarto), indipendentemente dalle intenzioni soggettive dei protagonisti producono un'oggettiva consonanza con il marxismo-leninismo ufficiale dell'Unione Sovietica. In generale : il PCI è destinato a non essere più un partito comunista, ma per non es­ serlo più deve superare un grosso scoglio : la poli­ tica del " compromesso storico " , in quanto basata sul concetto di distensione nazionale e internazio­ nale. È per questo motivo (e anche per quello sopra accennato, cioè la chiarificazione tra diri­ genza e masse del PCI) che se mi sembra di aver visto giusto nel '7 4, dicendo che una " collabora­ zione esterna " del PCI col governo era ormai in­ differibile perché richiesta dalle cose stesse, credo di vedere giusto anche ora ritenendo che occor39

rerà ancora parecchio tempo prima che il PCI abbia ad andare al governo. Il problema fondamentale non è infatti quel­ lo di scoprire le basi del terrorismo, ma di com­ prendere la situazione reale che rende possibile il fenomeno del terrorismo . In Italia l'elemento real­ mente destabilizzante non è il terrorismo, ma l'avanzata del PCI. Estremamente complessa, per­ ché se da un lato il PCI guadagna terreno sul pia­ no del consenso elettorale, dall 'altro il PCI va evolvendo verso una radicale eliminazione della propria ideologia. Si tratta di due processi in atto che moltiplicano l'ambiguità oggettiva in cui il PCI oggi si trova. Da questo punto di vista non solo è abbastanza secondario individuare le basi del terrorismo, ma esistono tutti gli elementi per rendersi conto del carattere improprio di una lo­ gica dell'imputazione che si basa costantemente su questa alternativa : il progetto che guida il terrorismo o è costruito nei Paesi dell'area capita­ listica, oppure è costruito nei Paesi dell'area so­ cialista. In effetti, la destabilizzazione operata dal­ l'avanzata del PCI è di natura tale da dover essere ostacolata sia dal capitalismo occidentale, sia dal socialismo sovietico . Per motivi opposti, gli inte­ ressi degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, anche in Italia, finiscono col coincidere. Per il mondo capitalistico l'avanzata elettorale del PCI è troppo veloce rispetto al processo di elimina­ zione dell'ideologia marxista-leninista e di allenta­ mento dei legami con l'Unione Sovietica ; per que­ st'ultima la deideologizzazione e la socialdemocra­ tizzazione del PCI è troppo veloce rispetto alle posizioni effettivamente guadagnate dal PCI nella guida del Paese. Per entrambi, all'imprevedibilità

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dell'evoluzione del PCI è da preferire il manteni­ mento della situazione esistente. È sì verosimile che l 'Unione Sovietica si proponga di ostacolare l'attuale politica del PCI, ma non puramente allo scopo di salvaguardare l'ortodossia del marxismo, ma perché giudica che i vantaggi che il PCI sta conseguendo nella situazione politica italiana non sono proporzionali alle concessioni che esso va facendo sul piano ideologico. Giacché la politica di equilibrio delle due superpotenze non è statica, ma è la politica di due forze in espansione in un universo politico in espansione ; e questo fatto im­ plica, per ognuna delle due forze, l 'obbiettivo di non perdere nessuno degli spazi occupati (e uno spazio è appunto , per l'Unione Sovietica, la consi­ stenza del comunismo marxista in Italia) e di oc­ cupare ogni spazio lasciato libero dall'avversario. Con quanto si è detto non si intende soste­ nere che il terrorismo in I talia sia concordemente organizzato dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovie­ tica, ma che la convergenza oggettiva dei loro interessi fa da sfondo al fenomeno del terrorismo in modo ben più decisivo che non il movimento di protesta con il quale in I t alia gli emarginati reagiscono alla crisi economica e al tradimento del PCI. In sostanza : l 'evoluzione del PCI desta­ bilizza in Italia la politica di equilibrio perseguita dalle superpotenze, mentre l'effetto primario del terrorismo è di arginare questa evoluzione, ossia è oggettivamente convergente rispetto agli inte­ ressi dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti e, quindi, di fatto stabilizzante. Di qui, certamente, la necessità che ai fini del­ la tranquillità sociale in Italia il PCI affronti nel modo più radicale il problema dei modi per uscire

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dall'ambiguità in cui si trova. Ma più ancora dei progetti intenzionali del PCI è la struttura stessa della situazione politica a spingere il PCI verso questa chiarificazione. Cerchiamo di precisare que­ sto punto. Tutti sanno ormai che di fronte al terrorismo lo Stato non può che irrigidire il proprio apparato repressivo, determinando un processo al cui ter­ mine si profila un regime autoritario di destra avallato dagli Stati Uniti e accettato dall'Unione Sovietica. Più il processo si avvicina a questo termine e più è messa in questione la sopravvi­ venza del partito comunista italiano . Rispetto al­ l'equilibrio mondiale voluto dalle superpotenze, l'autentico fattore squilibrante è in Italia l'avan­ zata progressiva del PCI. Il PCI lo sa molto bene e quindi si sforza di associare alla propria avanzata nel Paese l'abbandono proporzionalmente progres­ sivo di tutti quei connotati che ne fanno una forza nemica di una democrazia parlamentare in area capitalistica. Ha quindi via via rinunciato alla rivoluzione marxista, alla dittatura del proletaria­ to , alla lotta di principio contro il Patto atlantico e l'economia di mercato, alla difesa di principio della linea operaistica, all'aderenza all'ortodossia marxista-leninista, eccetera, eccetera. Due processi, dunque : il primo, sollecitato dal terrorismo, si sviluppa verso un regime autoritario di destra; il secondo verso la compiuta socialdemocratizzazione del PCI. Se il primo processo fosse più veloce del se­ condo il PCI si troverebbe di fronte a un dilemma pressocché insolubile : o lasciarsi sopprimere in breve tempo dallo Stato di destra (la cui tipologia potrebbe variare dallo Stato cileno a quello della 42

Repubblica Federale Tedesca) , oppure difendersi con la forza, con una lotta armata, provocando una guerra civile che consentirebbe soltanto l'interven­ to degli Stati Uniti ma non certo dell'Unione So­ vietica, e che quindi si chiuderebbe con l'elimi­ nàzione del PCI. Una eliminazione soltanto dif­ ferita, dunque, rispetto al primo corno del di­ lemma. Se l'estremismo di sinistra perde di vista que­ sto esito inevitabile della guerra civile in Italia, non è da escludere che la chimera infantile da esso vagheggiata sia un po ' meno infantile e cioè che tale estremismo, cosciente di non poter attuare la rivoluzione da solo, tenti di coinvolgere le masse di sinistra guidate dal PCI, provocando quel­ la svolta a destra dell'apparato statale, che a sua volta spingerebbe il PCI a combattere con le armi per la propria sopravvivenza. Solo che mentre il progetto dell'estremismo di sinistra si illude circa la possibilità di successo di questa lotta, il PCI non si fa illusioni e comprende che, per evitare di trovarsi nel dilemma cui si è accennato, non può far altro che spingere a fondo il processo della propria socialdemocratizzazione e cioè della pro­ pria immedesimazione con l'assetto costituzionale della democrazia parlamentare italiana, coinvol­ gendo il più possibile in questa operazione le forze dell'arco costituzionale, in modo quindi da far emergere con chiarezza sempre maggiore il carattere anticostituzionale e antidemocratico di un eventuale colpo di Stato anticomunista. Que­ sto non significa che, così facendo, il PCI potrebbe sopravvivere a un colpo di Stato di destra, bensl che, così facendo, esso compie lo sforzo maggiore 43

e più efficace per impedire che tale possibilità si verifichi. · Se, dunque, s i suppone che l'estremismo di sinistra non sia affetto da un vuoto teorico totale, ma miri a provocare un colpo di Stato di destra per spingere il PCI sulla strada della lotta armata, si deve allora tener presente che questa strategia si propone inconsapevolmente una situazione in cui al PCI non resta che o soccombere in breve tempo o soccombere dopo una guerra civile per­ duta. Pertanto l'estremismo di sinistra, anche co­ sì interpretato, raggiunge in realtà un effetto op­ posto a quello che si prefigge : invece di coinvol­ gere il PCI in una rivoluzione marxista-leninista vittoriosa, lo spinge inevitabilmente verso l'inte­ grazione più radicale al sistema democratico parla­ mentare del capitalismo italiano. Per quanto cinico possa apparire il rilievo, si deve dunque dire che se questo progetto terroristico di sinistra esiste, esso è, a medio termine (sino a che cioè non si produca la svolta autoritaria di destra) , un potente contributo alla democratizzazione e all'integrazione del PCI al sistema - ma a termine più lungo ( quan­ do cioè quella svolta dovesse prodursi) esso sareb­ be uno dei fattori più determinanti della distru­ zione del partito comunista e del comunismo ita­ liano. Senonché l'ipotesi sopra formulata, per la qua­ le il processo che, sollecitato dal terrorismo, con­ duce alla svolta a destra è più veloce del processo di socialdemocratizzazione del PCI, è difficilmente sostenibile. Ecco il motivo. Non mi risulta che sia stata sufficientemente sottolineata la circostanza che abbiamo indicato all'inizio del capitolo : il tipo di terrorismo che si chiama Piazza Fontana, Piazza

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della Loggia, treno Italicus cessa, con l'intensificarsi del terrorismo che porta la firma delle Brigate Ros­ se. Cessa la strage perpetrata contro folle indif­ ferenziate e incomincia l'attentato che si firma ed è diretto contro persone aventi ruoli specifici. Se non ci si lascia prendere dall'ingenuità di ritenere che quel primo tipo di terrorismo cessi, perché sono state eliminate le forze che l'hanno organizza­ to, allora il fenomeno del terrorismo in Italia pre­ senta questa caratteristica, di essere un terrorismo dosato. Dosato, in rapporto alle possibilità di te­ nuta dell'assetto democratico . Il dosaggio significa che le forze terroristiche non producono tutta in una volta la quantità di disordine civile, che, pure, esse hanno la capacità di produrre, ma la distri­ buiscono nel tempo a dosi varianti. La facilità con cui sono eseguibili gli atti di terrorismo fa pensare che il loro dosaggio non sia effetto di debolezza operativa, ma di un progetto intenzionale. Certo, le dosi sono varianti . L'ultima, la tragica vicenda di Moro, segna indubbiamente una punta, ma non un'uscita dal criterio del dosaggio. Se lo scopo è di provocare un colpo di Stato di destra - sia per sostare a destra, sia per provocare la reazione ar­ mata del PCI - la dose è ancora troppo insufficiente; cioè non sono state somministrate, pur essendo di­ sponibili, tutte le dosi che questo scopo richiede. Ciò significa che il dosaggio del terrorismo ral­ lenta il processo di spostamento verso un regime autoritario di destra e che questo rallentamento consente al PCI di accelerare il processo della pro­ pria immedesimazione alla legalità democratica, cioè il processo della propria socialdemocratizza­ ziOne. Ebbene, tutto questo è in linea con una stra45

tegia di destra ( con un processo oggettivo che sposta a destra il Paese} o con una strategia di sinistra che non sa quello che vuole. Se si vuole la svolta a destra al fine di coinvolgere il PCI nella lotta rivoluzionaria è necessario accelerare il pro­ cesso che porta a destra e quindi il terrorismo non deve essere dosato, ma sviluppato in tutte le sue possibilità. In questo modo, un regime di destra sorprenderebbe un PCI ancora alle prese con le resistenze, che esso trova al suo interno, alla pro­ pria socialdemocratizzazione, e quindi meno di­ sposto ad accettare una regressione mortale dei valori che le sinistre hanno difeso e promosso dalla Resistenza in avanti. Se ci si rifiuta di credere che il terrorismo di sinistra non sappia quello che vuole, allora i dubbi che non si tratti semplice­ mente di una strategia di sinistra si fanno molto consistenti. Il dosaggio del terrorismo è infatti uno strumento efficace all'interno di un moderno pro­ getto di destra, la cui logica essenziale e oggettiva non è necessario che coincida con le intenzioni con­ sapevoli di certi gruppi e di certi individui. Giac­ ché in Italia per l'assetto capitalistico è molto più conveniente spingere il PCI sulla strada della reale sincera adesione alla democrazia parlamen­ tare, piuttosto che adottare una soluzione scredi­ tata come quella di instaurare un regime di mili­ tari che si trovi tra l'altro alle prese col problema dell'eliminazione di uno dei più grossi partiti di sinistra del mondo occidentale. In questa logica oggettiva, che tende ad agire alle spalle delle logi­ che intenzionali, il terrorismo costringe il PCI a entrare definitivamente nella legalità del parlamen­ tarismo democratico di tipo capitalistico , mentre il dosaggio del terrorismo (e il dosaggio consiste 46

anche nel lasciar agire i gruppi dell'estrema sini­ stra, sospendendo il terrorismo " fascista " ) dà al PCI il tempo necessario per effettuare questa con­ versione e per fargli capire che non deve bruciare le tappe nella sua marcia di avvicinamento all'area di governo. La strategia di fondo delle grosse forze di destra riesce cosl a rendere funzionali al sistema e il terrorismo di sinistra ( oltre, naturalmente, a quello di destra), e la democratizzazione in buona fede del Per, e la stessa democrazia italiana. A riprova di una tesi di Max Weber, che agli inte­ ressi del capitalismo evoluto è più consentanea una vera democrazia che non un regime autorita­ rio di destra. Ma a conferma anche della tesi che una " vera " democrazia non può essere ormai che una democrazia " indotta " , cioè fabbricata all'in­ terno della gestione reale del potere. Per questi motivi, si può dire che in Italia la democrazia è minacciata, ma non è in pericolo. Certo che se il PCI riprendesse ad avanzare e raggiungesse nel Paese posizioni di forza giudicate dall'amministra­ zione politica del potere come troppo avanzate ri­ spetto all'entità della smobilitazione ideologica e dello sganciamento dall'Unione Sovietica nel frat­ tempo realizzati dal PCI, allora il progetto della fabbricazione della democrazia in I t alia verrebbe sostituito dal progetto della fabbricazione di un regime autoritario di destra, tanto più vicino a quello cileno quanto più è accentuata la spropor­ zione tra i due processi in cui oggi consiste l'evolu­ zione del PCI. Ma anche qui, come vedremo, l'evoluzione del PCI non è semplicemente affidata alla politica inten­ zionalmente perseguita da questo partito, ma a una struttura oggettiva che determina l'intenzione 47

politica e spinge il PCI ad assumere i requisiti d­ chiesti dall'amministrazione capitalistica del po­ tere. Questa struttura oggettiva non è qualcosa di riducibile alla situazione politica italiana o euro­ pea, ma determina ormai ogni azione intenzionale esistente oggi nel mondo . Anche le fabbricazioni intenzionali operate dal capitalismo evoluto. An­ che la politica di equilibrio tra le superpotenze. 2 . I CONDIZiùNAMENTI DELLA SITUAZIONE POLI­ TICA ITALIANA Gli attentati di Piazza della Loggia e del treno Italicus avvengono nelle ultime settimane dell'am­ ministrazione Nixon. Durante la visita di Leone in America nel '74, Kissinger dichiara in modo espli­ cito l'interesse degli Stati Uniti per la situazione politica interna italiana. Poco dopo il ritorno di Leone incomincia l'azione relativamente più decisa di smascheramento delle forze eversive di destra, che mai fosse stata effettuata nella storia della no­ stra Repubblica. Che relazione esiste tra questi fatti? Incominciamo dalla dichiarazione di Kissinger. In quello stesso periodo egli ebbe a minacciare il ritiro delle truppe americane dall'Europa, se gli alleati europei non si fossero allineati alle posizioni degli Stati Uniti nei confronti dei Paesi produttori di petrolio . Questa minaccia era un bluff, che non deponeva molto a favore della stima che Kissinger nutriva per l'intelligenza dei suoi i11terlocutori eu­ ropei, giacché non ci vuoi molto a capire che gli Stati Uniti non smobiliteranno mai la loro orga­ nizzazione militare in Europa. Se lo facessero, sa-

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rebbe, né più né meno, un suicidio, perché questo vuoto di potere sarebbe immediatamente riempito dall'Unione Sovietica, che verrebbe così a disporre in funzione antiamericana del potenziale econo­ mico europeo. Non era invece per niente un bluff la dichiara­ zione fatta da Kissinger durante il soggiorno di Leone in America . A chi gli insinuava l'ingerenza degli Stati Uniti nelle questioni interne della vita politica italiana, Kissinger rispose chiaro e tondo che se l'Italia fosse caduta sotto la sfera di in­ fluenza dell'Unione Sovietica, sarebbero stati poi in molti a rimproverare agli Stati Uniti di non aver " salvato " l'Italia. Detto da una persona come lui, che non intendeva certo lasciarsi cogliere in fallo per incompetenza politica, questo significava che gli Stati Uniti stavano lavorando per " salvare " l'Italia dal comunismo - come, in questo senso, avevano lavorato in tanti altri Paesi del globo, per esempio in Cile. Il contenuto di questa dichiarazione non era proprio una novità sorprendente . Solo qualche sprovveduto poteva essere ancora convinto di sto­ rie come quella dell'onestà americana che non si sporca le mani con certe cose. E, d'altra parte, che cosa si vorrebbe ? Che il capitale americano si con­ segnasse come una colomba nelle mani dell'Unione Sovietica ? A parte il fatto che le colombe sono pericolose , perché fan venir voglia di accendere il fuoco per cucinarle, che gli Stati Uniti non pos­ sano avere nemmeno oggi, rispetto alla situazione italiana, un atteggiamento diverso da quello indi­ cato da Kissinger, è qualcosa di inevitabile. E che da tempo è conosciuto molto bene anche dai no­ stri uomini politici, comunisti compresi. Non si

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può credere che i nostri uomini politici siano così poco dotati da galleggiare sulla presenza della for­ za americana in Italia senza rendersene conto, e senza rendersi conto delle implicazioni di questa presenza, che vanno dalle solenni dichiarazioni di principio e di solidarietà democratica, giù giù, at­ traverso i passaggi più imprevisti e i meandri più tenebrosi e incontrollabili, fìno a Piazza della Log­ gia e al treno Italicus. Se da noi qualche uomo politico protesta che " la politica non può essere disgiunta dalla morale " , non è che sia così ebete da ritenere che per la " morale " e l"'l'onestà " il capitale americano rassegni le proprie dimissioni davanti all'Unione Sovietica; ma, formulando que­ sta pia protesta, fa anche lui la sua brava politica senza morale, la sua Realpolitik, come si usa dire : perché se anche per lui è inevitabile che gli Stati Uniti tengano in pugno la situazione italiana (con tutto quel che segue) egli ritiene però anche molto pericoloso dir tutto questo in faccia alla gran massa dell'elettorato, che resterebbe parecchio disorien­ tata da questo cinismo, d'altronde inevitabile, della classe politica in cui ha riposto la propria fìducia. Di fronte alla dichiarazione di Kissinger, dun­ que, non c'era proprio da meravigliarsi per quello che diceva (appunto perché non diceva nulla di nuovo), ma c'era da chiedersi perché egli l'avesse fatta e l'avesse fatta proprio in quel momento . Diventa illuminante, a questo punto, il rapporto con l'azione che nell'autunno del '74 lo Stato ita­ liano incominciava a condurre contro le forze eversive di destra. Quest'azione (che pur non avendo mai raggiunto risultati decisivi dura tut­ tora) voleva dire che gli Stati Uniti si erano con­ vinti che per tenere in pugno la situazione italiana

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era necessario riconoscere definitivamente il dirit­ to di esistere al partito comunista italiano. Infatti, sino a che gli Stati Uniti non avevano impedito l'azione delle forze eversive di destra, avevano favorito un processo che alla fine avrebbe con­ dotto all'eliminazione del PCI. È quanto avevano fatto sino allora . È difficile non avvertire la sensa­ zione che nelle ultime settimane dell'amministra­ zione Nixon si sia fatto uno dei tentativi più de­ cisi per mettere in crisi il PCI. Gli altri hanno te­ nuto dietro o hanno immediatamente preceduto le vittorie elettorali del PCI. Il quale sapeva e sa bene che , se le masse fossero scese in piazza per reagire al terrorismo, sarebbe stata la sua fine . Non si può fare un torto così grosso ai servizi di sicu­ rezza americani supponendo che essi ignorassero che il PCI sapeva bene tutto questo. Si tentava (e si tenta ancora) , piuttosto, di mettere il PCI nella condizione di non poter più frenare le masse da esso controllate. ( In questo senso, l'emancipazione dei sindacati di sinistra dal PCI è un fatto ogget­ tivamente reazionario.) Nel '74 il tentativo è fallito ; e se è molto pro­ babile che l'opinione pubblica mondiale non avreb­ be reagito ad un'azione di destra condotta con­ tro masse di lavoratori di sinistra che si fossero sostituiti ai poteri dello Stato italiano nella lotta contro il terrorismo , questa stessa opinione pub­ blica non avrebbe potuto accettare altrettanto fa­ cilmente un'azione condotta contro un PCI che se ne fosse stato buono. Visto il fallimento di que­ sto tentativo, la nuova amministrazione Ford ha dato segnale verde alle forze politiche italiane per l'inizio dell'operazione di smantellamento (ma fino a che punto ? ) di quell'organizzazione eversiva che 51

aveva avuto la sua copertura nella precedente am­ ministrazione Nixon . Quando nel '74 Leone si re­ cò in America, la nostra stampa accennava, con l'aria di chi ne capisce molto, ai colloqui che egli avrebbe avuto circa l'eventualità di una parteci­ pazione dei comunisti al governo . Ingenuità? Co­ munque il problema politico non era certo questo, giacché era ed è fuori discussione (sino a che il PCI mantiene la sua attuale fisionomia) che gli Stati Uniti non avrebbero mai aperto al PCI la porta del governo. Il vero problema era di con­ cordare con gli Stati Uniti un diverso tipo di strategia nella lotta contro il comunismo. Lo scopo della dichiarazione di Kissinger era di far capire che se gli Stati Uniti avessero dato il loro bene­ placito a che in Italia incominciasse (ma fino a che punto? ) la smobilitazione delle forze eversive di destra, ciò non avrebbe significato affatto che essi non avevano più l'intenzione di controllare la si­ tuazione italiana. Al contrario, intendevano farlo in modo più adeguato. Ad esempio, le basi mili­ tari che l'America sembrava costretta a ritirare dalla Grecia, trasferite in Italia avrebbero costi­ tuito per il PCI (e i suoi alleati internazionali) un argine di ben diversa consistenza di quello dei generali, principi e colonnelli. E tutto questo è andato molto bene anche al PCI, perché non solo, come si diceva, ha ricevuto dagli Stati Uniti l'autorizzazione ad esistere nella vita politica italiana, ma si è trovato anche facili­ tato nel compito di spiegare, alle masse che lo se­ guono, perché la rivoluzione bisogna ormai met­ terla nel cassetto, o, comunque, bisogna farla in modo diverso da quello che fa impallidire i bor­ ghesi . Una volta allontanata la possibilità di eli-

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minare il PCI con un " golpe " di destra, il PCI rimane una forza della cui collaborazione, ormai, i partiti democratici non possono più fare a meno. Il problema fondamentale della DC è dunque di salvare la propria credibilità agli occhi del " si­ stema " economico-politico del mondo occidentale. Un sistema che, nonostante la crisi che sta attraver­ sando, non è per niente rassegnato a lasciarsi sot­ terrare dal comunismo . Essere credibili agli occhi di tale " sistema " significa evitare il disastro economi­ co riuscendo insieme a contenere la spinta delle sinistre al di sotto di ciò che il " sistema " consi­ dera il livello di guardia. Ma per essere credibili, la DC e i suoi alleati devono vincere la concorrenza delle forze di destra. Giacché anche la destra sta tentando di rendersi credibile agli occhi del " si­ stema " , screditando i partiti democratici . In Ita­ lia si parla ormai con naturalezza di " fascismo democristiano ", ma negli ambienti dell'estrema de­ stra la DC viene presentata come l'ala arretrata dello schieramento rivoluzionario di sinistra, cioè come il guardiano imprevidente che si è lasciato convincere dagli ammiccamenti dei carcerati ad aprire il cancello , e ora tenta sempre più vana­ mente di arginare la valanga dell 'evasione. Per continuare ad essere l 'interlocutrice del " sistema " la DC deve vincere la concorrenza della destra, che ha il vantaggio della semplicità (teorica) : elimina­ zione del PCI, dittatura del capitale . È appunto in questa lotta di concorrenza che il mantenimeno dell'ordine pubblico e il " no " alla diretta collabo­ razione governativa dei comunisti costituiscono gli ingredienti indispensabili per tranquillizzare l'elet53

torato tradizionale democristiano e per acquistare voti a destra. Nel momento in cui la DC cessasse di essere l'interlocutrice credibile del " sistema " , questo, per sopravvivere, si rivolgerebbe definitivamente alle forze di destra, che si sostituirebbero alla DC nella funzione di baluardo contro il comunismo. Ma nel '2 1 il parti to comunista era appena nato e l'Unione Sovietica una grande incognita : oggi il PCI non si lascerebbe mettere fuori gioco senza reagire, anche perché se è vero che, oggi come oggi, i comunisti al governo in Italia sbilancereb­ bero in favore dell'Unione Sovietica l'equilibrio tra quest 'ultima e gli Stati Uniti (un equilibrio che i due antagonisti intendono perpetuare all'infinito), è anche vero che, se la destra cancellasse dalla realtà il più forte partito comunista del mondo occidentale si verificherebbe uno sbilanciamento opposto ; e quindi le forze di sinistra non com­ batterebbero la loro lotta con l'animo di chi è rassegnato alla propria fine perché non vede al­ cuna possibilità di sopravvivenza. Dietro il frana­ mento della DC compare dunque lo spettro di una lunga guerra civile. Questa situazione è, insieme, il punto di forza e il punto di debolezza della DC. La quale, quando ha governato male, lo ha fatto soprattutto perché è sempre stata fin troppo consapevole della pro­ pria insostituibilità. (Nixon si può sostituire, la DC no, ripeteva Andreotti a Pasolini.) Ma che la classe dirigente della DC sia consapevole della in­ sostituibilità del proprio partito non significa che ne sia consapevole anche la massa dell'elettorato italiano. Sentendosi governata male, la gente che per protesta dà il suo voto al più grosso partito 54

di opposiztone ha così continuato a crescere. Sì che quello che avrebbe dovuto essere l'alibi della DC ( cioè la sua insostituibilità) perché l'elettorato continuasse a sostenerla ha finito, per il malgo­ verno favorito da questo alibi, col diventare il motivo fondamentale del rafforzamento del PCI. Contrariamente a quanto spesso si dice, che la DC sia forte e governi bene (che sia cioè effi­ ciente dal punto di vista della logica di un capi­ talismo illuminato e riformista) è dunque nell'in­ teresse stesso del PCI. La prudenza, l'equilibrio, le offerte di collaborazione che caratterizzano oggi la politica del PCI non esprimono una sorta di " buona volontà " democratica, quanto piuttosto la percezione, chiaramente posseduta dal PCI, che il franamento della DC sarebbe insieme il frana­ mento delle posizioni che il PCI è riuscito sin qui a conquistarsi. Il PCI non vuole andare al governo e vuole una DC forte ed efficiente . Quando pro­ pone la realizzazione del " compromesso storico " nel senso di una partecipazione diretta al governo, lo fa proprio perché - per ora - non vuole andare al governo e non vuole che il proprio elettorato cresca in modo pericoloso (l'eccessivo incremento dei voti al PCI equivarrebbe al franamento della DC ) . È proprio perché non vuole andare al governo (così come nelle elezioni del '78 in Francia si è toccato con mano che i comunisti hanno evitato la vittoria delle sinistre) che dice e fa sapere di volerei andare. Dicendo e facendo sapere questa sua volontà, da un lato conserva il proprio elet­ torato tradizionale (che si sentirebbe tradito da un PCI deciso a non assumere responsabilità go­ vernative) , dall'altro lato incute sufficiente timo­ re agli elettori incerti che, constatandone gli ap55

petiti, si guardano attorno per mettersi al riparo di chi da tali appetiti li protegga. Ma come il PCI ha interesse che la DC sia forte, così la DC ha inte­ resse che il PCI si conservi in salute : se il diavolo non esiste, che bisogno c'è di ripararsi dietro lo scudo crociato? Certamente, questo è il vero " com­ promesso storico " , che da tempo non aspetta più di nascere. Ali 'inizio del '7 5 giungono da New York due notizie di particolare rilievo. La prima riguarda la dichiarazione di Kissinger al « Business \YJeek » circa la possibilità di un'azione militare degli Stati Uniti contro i Paesi produttori di petrolio ; la se­ conda riguarda il verdetto definitivo di colpe­ volezza emesso dal tribunale federale di Washing­ ton nei confronti degli imputati implicati nello scandalo Watergate . La relazione tra i due fatti è estremamente significativa, perché la dichiarazione di Kissinger mostra il limite del verdetto di Wash­ ington . Il segretario di Stato americano affermava : « Io non dico che non esista alcuna circostanza in cui non ci rifiuteremmo di usare la forza » ( cioè - egli voleva dire - non escludo che gli Americani possano trovarsi in condizione di usare la forza) . « Ma osservo che una cosa è usare la forza in caso di semplice litigio sui prezzi del petrolio , un'altra usarla se esistesse il pericolo di una specie di stran­ golamento economico del mondo industriale. » Dal punto di vista della " coscienza etica " che in Ame­ rica aveva istituito il processo contro Nixon e i suoi collaboratori e che stava avviando un'inchie­ sta sull'attività della CIA in Cile e in altri Paesi del mondo, la dichiarazione di Kissinger era il 56

riconoscimento più esplicito che il governo ameri­ cano avrebbe potuto essere costretto a compiere davanti agli occhi del mondo e su scala enor­ memente più ampia proprio quell'azione di for­ za contro Stati sovrani, che i moralisti ameri­ cani si stavano sforzando di portare alla luce e condannare nei loro processi e nelle loro inchieste. La contraddizione tra legislazione interna di uno Stato e diritto internazionale (ad esempio, l'omi­ cidio, punito dalla legge in tempo di pace, è invece imposto da questa legge in caso di guerra) esiste dacché esistono Stati ; ma la dichiarazione di Kis­ singer ha particolarmente acuito questa contrad­ dizione . Il problema riguardava il prezzo del petrolio e Kissinger distingueva tra l'usuale disparità di ri­ chieste tra venditore e compratore e la disparità che determina lo " strangolamento economico del mondo industriale " . Il mondo industriale dice al venditore : « Se tieni il prezzo troppo alto, ti elimi­ no , perché altrimenti sono io ad essere eliminato » . Tuttavia, questa eliminazione - " lo strangolamento economico " - non è paragonabile allo strangola­ mento non metaforico subito dai Paesi venditori in condizione di sottosviluppo , che però non han­ no la forza di minacciare un'azione militare contro il mondo industriale. Lo " strangolamento " di que­ st'ultimo consiste o nella riduzione dell'incremen­ to della produzione o, nel peggiore dei casi, nella riduzione pura e semplice della produzione rispetto ai livelli già raggiunti. Ma anche nel peggiore dei casi le condizioni di vita delle popolazioni del mondo industriale resterebbero enormemente al di sopra delle condizioni di vita dei Paesi sottosvi­ luppati venditori di petrolio . Dal punto di vista 57

della " coscienza etica " , se gli Stati Uniti intra­ prendessero un'azione militare contro i Paesi pro­ duttori di petrolio sarebbe come se al mercato il compratore bastonasse e derubasse il venditore perché quest'ultimo gli consente un guadagno col quale il compratore sarà costretto d'ora innanzi ad andare in bicicletta invece che in automobile. La situazione, tuttavia, è ben più complessa di quanto possa essere suggerito dal punto di vi­ sta etico. Nella sua intervista, Kissinger aveva ag­ giunto che « qualsiasi presidente che ricorresse a un'azione militare nel Medio Oriente senza preoc­ cuparsi di quello che farebbero i Russi sarebbe irresponsabile » . È chiaro che parlava di un presi­ dente americano. Ma è anche chiaro che Kissinger non si è servito della sua intervista al « Business Week » per sollecitare i Russi a dire che cosa avrebbero fatto in caso di un'azione militare degli Stati Uniti. Se la sua dichiarazione avesse colto di sorpresa i Russi, l 'unica immaginabile reazione di questi ultimi (e indubbiamente ben immaginata da Kissinger) non sarebbe potuta essere che la diffida esplicita agli Stati Uniti ad avventurarsi in un'impresa del genere ; con la conseguenza che la pressione psicologica della dichiarazione di Kis­ singer sui Paesi arabi avrebbe perduto ogni effi­ cacia. Ma tutto ciò significa che Kissinger si decise a fare la sua dichiarazione solo perché l'Unione So­ vietica aveva già fatto sapere agli Stati Uniti quale sarebbe stata la sua posizione nel caso in cui essi avessero aggredito gli Stati arabi (una notizia, que­ sta, che non è stata mai riportata da alcun organo di stampa e che tuttavia è richiesta dalla logica del discorso) . Non solo, ma significa anche che 58

l'Unione Sovietica non si sarebbe opposta a que­ sta aggressione. Se infatti l'Unione Sovietica aves­ se fatto conoscere agli Stati Uniti la propria deci­ sione inequivocabile di opporsi all'aggressione-ame= ricana, Kissinger non avrebbe prospettato la pos­ sibilità di questa aggressione, perché , ancora una volta, l'effetto pratico della sua dichiarazione, espo­ nendosi ad una smentita sostanziale da parte del­ l'Unione Sovietica, sarebbe stato controproducen­ te. È chiaro che la stampa sovietica avrebbe reagito negativamente alle parole di Kissinger, ma si sa­ rebbe trattato soltanto di una reazione verbale. Perché ? Perché anche se lo strangolamento economico del mondo industriale è, in termini umani, irrile­ vante rispetto allo strangolamento non metaforico dei Paesi sottosviluppati, tuttavia sia gli Stati Uni­ ti sia l'Unione Sovietica sanno che una depres­ sione economica del mondo industriale, anche se non scendesse ai livelli della grande crisi del '29, avrebbe degli effetti incomparabilmente più dram­ matici per l'intera umanità. Nel '29 la crisi del mondo industriale avveniva in un contesto dove l'Unione Sovietica non costituiva ancora una mi­ naccia per la sopravvivenza del mondo capitali­ stico ; ma oggi la situazione è radicalmente diversa. Oltre un certo limite, l'indebolimento dell'econo­ mia americana e, in genere, dell'economia capita­ listica, rompe l'equilibrio di forze che si è costi­ tuito tra Stati Uniti e Unione Sovietica e dal quale dipende la sopravvivenza della razza uma­ na. Se il prezzo del petrolio determina questo in­ debolimento, il mondo capitalistico è minacciato a morte non tanto perché dovrà viaggiare in bici59

eletta invece che in automobile, ma perché la pro­ pria industria verrà a trovarsi in condizioni di inferiorità rispetto al potenziale industriale so­ vietico . È vero che gli Stati Uniti sono quasi del tutto indipendenti dal petrolio arabo (e sono autosuffi­ cienti per il 7 5 % del loro consumo), ma è anche vero che non sono indipendenti dal tracollo eco­ nomico dell'Europa (la quale, all'opposto, dipende quasi esclusivamente dal petrolio mediorientale) ; sì che lo strangolamento di quest'ultima viene a coincidere col loro strangolamento . Appunto per questo gli Americani parlano, indifferentemente, di strangolamento dell 'Occidente e degli Stati Uni ti. Se questi ultimi lasciano andare a picco l'Europa, l'Unione Sovietica è pronta a prenderla per i ca­ pelli e a farla rinvenire. E un'Europa rinvenuta e a :fianco dell'Unione Sovietica non solo sarebbe lo strangolamento degli Stati Uniti, ma qualcosa che essi tenterebbero di impedire anche a costo di un conflitto atomico totale. La crisi del capitalismo è auspicata soltanto dai vecchi intellettuali marxisti. L'attuale equilibrio tra Russia e America trova cioè entrambe con­ senzienti, perché nessuna delle due si trova in condizione oggettiva e psicologica di scatenare la guerra definitiva contro l'avversario. La Russia si rende quindi conto che l'America non può sop­ portare il ricatto economico dei Paesi arabi, e se nel '7 5 da un lato tentava una mediazione tra Arabi e Americani, dall'altro si disponeva ad ac­ cettare, qualora la sua mediazione fosse fallita, l'intervento militare americano. Per questo moti­ vo le proteste sovietiche che in quei giorni abbiamo

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sentito a proposito della dichiarazione di Kissinger erano soltanto verbali. Se l'equilibrio di forze tra Russia e America si rompesse a vantaggio della Russia, quest'ultima si troverebbe inoltre costretta ad appoggiare la pressione delle sinistre, che nei Paesi occidentali aumenterebbe in misura proporzionale all'inde­ bolimento dell'America. E le forze capitalistiche si troverebbero costrette ad una reazione di tipo fascista contro l'avanzata delle sinistre. A quali altre forze Kissinger poteva essersi riferito in quella sua dichiarazione del '7 5, dicendo che « in Europa il sentimento di impotenza aumenta », se non alle forze capitalistiche minacciate dalla possibilità che con il rompersi dell'equilibrio tra le superpotenze in favore della Russia, il capitale venga a trovarsi " impotente " ( e quindi disperato, e quindi disposto a tutto) contro l'avanzata co­ munista? È solo un caso che, parlando del petro­ lio, Kissinger abbia rilevato l'aumento dei voti comunisti in Francia e soprattutto in Italia? Infine, poiché l'Unione Sovietica è consape­ vole che gli Stati Uniti non possono accettare che l'aumento del prezzo del petrolio determini uno squilibrio di forze a loro svantaggio, e quindi è disposta da tempo a consentire l'intervento mili­ tare degli Stati Uniti, d'altra parte questo inter­ vento determinerebbe uno squilibrio in senso op­ posto, che, questa volta, non potrebbe essere ac­ cettato dall'Unione Sovietica. La quale, a sua volta, riceverebbe carta bianca dagli Stati Uniti per intervenire militarmente in alcuni Stati arabi, per " proteggerli " dall'invasione americana . Col ri­ sultato che il petrolio del Medio Oriente sarebbe equamente diviso tra Russia e America. Il con61

flitto arabo-israeliano è appunto la premessa di questa spartizione possibile. La tensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica determina ormai ogni evento della terra e quindi, naturalmente, anche la situazione politica italiana . Si tratta ormai di una pura contrapposizione di forze , dove l'armamento atomico, e cioè il livello tecnologico, ha un carattere decisivo. La tecnica stabilisce ormai i ritmi della vita e della morte sulla terra. L'origine della tecnica è ben più remota di quanto si creda. Risale al pensiero greco : téchne è la capacità di produrre e distruggere gli enti. Il senso della téchne è determinato dal senso dell'ente, ossia dal senso che il pensiero greco, una volta per tut­ te, ha assegnato alle " cose " (cfr. capitolo sesto) . Se non ci si porta in questa dimensione, tutto quanto vien detto sulla situazione mondiale con­ temporanea si lascia sfuggire l'essenziale. 3. TERRORISMO, INTELLETTUALI E POTERE

Il giorno successivo alla strage di Piazza della Loggia, Moravia scriveva sul « Corriere » che i terroristi fascisti sono degli anormali psichici che, senza rendersene conto, tentano di dare un signifi­ cato, una ragione, uno scopo alla propria anorma­ lità. L'espressione da lui usata nei loro confronti era appunto : « razionalizzatori per lo più incon­ sci delle proprie private tare » . I termini " raziona­ lizzatori " e " inconsci " sono propri del linguaggio psicoanalitico ; meno ortodosso il termine " tara 62

privata " , che tuttavia corrisponde al concetto di paranoia o, in generale, di alterazione psichica. Nell'insieme, l'espressione di Moravia si mantiene a mezza strada tra l'ingiuria e la diagnosi scienti­ fica. Solo diagnosi scientifica, e propriamente psi­ coanalitica, voleva essere invece l'articolo di Fran­ co Fornari, apparso qualche tempo dopo sul « Cor­ riere » e intitolato appunto Psicoanalisi del terro­

rzsmo.

Rifacendosi al suo libro Psicoanalisi della guer­ ra, Fornari sosteneva che la capacità di utilizza­ zione bellica dell'energia atomica ha determinato la crisi della guerra come strumento supremo per risolvere i dissensi tra i popoli : poiché entrambi gli avversari che oggi si dividono il mondo (usA e URS S ) dispongono di un gigantesco arsenale atomico, essi hanno capito che non possono più combattersi senza distruggersi vicendevolmente e che quindi devono raggiungere un accordo. L'ac­ cordo, il compromesso, è l'unico modo in cui , a livello mondiale, può essere ormai risolto il dis­ senso e quindi quella forma emergente di dissenso che è la lotta tra capitalismo e socialismo. Le guer­ re che ancora si combattono sono ormai lotte di retroguardia, che scoppiano nelle zone depresse (Vietnam, Medio Oriente) e . che hanno soprattut­ to la funzione di mostrare che la guerra non si può più fare e che a un certo momento è neces­ sario passare alla contrattazione e alla ragionevo­ lezza. È chiaro che non era la psicoanalisi a far dire tutto questo a Fornari , ma un'interpretazione sto­ rica, che egli ha in comune con molti altri, e che è fondata sulla comprensione che le scienze stori­ che, economiche, politiche e sociali sono in grado 63

di fornire della realtà attuale. La psicoanalisi inter­

viene per far compiere a Fornari il secondo passo del suo discorso, quello relativo, appunto, alla diagnosi psicoanalitica del terrorismo. Nel terrorista si riproduce la situazione del bambino molto piccolo che è incapace di accettare la propria dipendenza dai genitori e compensa le sue frustrazioni con fantasie e sogni nei quali si esprime il suo desiderio di dominare la realtà (che per lui si compendia nella figura del padre e della madre) e di negarla e cancellarla, invece di rico­ noscerla. Come il sogno distruttivo del bambino è un atto terroristico immaginario, così gli atti terroristici dei neri e dei rossi sono un sogno, un " delirio " dove ci si illude di distruggere la realtà mediante una serie di operazioni che riprodu­ cono gli schemi tradizionali della guerra. La realtà che i terroristi, invece di riconoscere, vogliono distruggere, è appunto quella situazione storica dove l'utilizzazione bellica dell'energia ato­ mica ha reso impossibile la guerra. Pertanto, come il bambino, nei suoi sogni terroristici, sogna l'on­ nipotenza, costituita dalla capacità di distruggere i genitori, così il terrorista, nel suo delirio infan­ tile, sogna l'onnipotenza che in questo caso è la capacità di realizzare, con la guerra, quel domi­ nio assoluto sulle cose, al quale i veramente po­ tenti, cioè le potenze atomiche, hanno dovuto ri­ nunciare in favore della coesistenza e del compro­ messo. Ebbene, la psicoanalisi non intende certamente essere una dottrina reazionaria, borghese, fascista; e nemmeno Fornari vuol esserlo. Tuttavia in que­ sto suo discorso si trova una conferma di quanto, da tempo, si va rilevando nella cultura di sinistra, 64

che cioè la psicoanalisi, nella sua funzione ogget­ tiva - indipendentemente cioè dalle intenzioni di questa scienza e dei suoi cultori -, è una dottrina reazionaria e borghese che serve da puntello e da alibi al capitale e all'ordine costituito. È stato osservato che, mentre per il rivoluzionario di sini­ stra è la società che è malata - e quindi va tra­ sformata -, per la psicoanalisi, invece, è il rivolu­ zionario che si trova ad essere un malato mentale incapace di accettare la società reale in cui vive, e quindi è lui a dover essere curato e trasformato. Per risolvere questa alternativa bisognerebbe sapere che cos'è la malattia e la salute . Un com­ pito, questo, che la cultura occidentale non è in grado di assolvere. Il marxismo è la fede che la malattia sia l'organizzazione capitalistica della so­ cietà ; la psicoanalisi è la fede che la malattia sia l'incapacità psicologica di adeguarsi alla realtà di fatto esistente ; il cristianesimo è la fede che la malattia sia il peccato; e così via. In questa situa­ zione, è solo dal punto di vista della fede marxista che la psicoanalisi è una dottrina reazionaria; ed è solo dal punto di vista della fede psicoanalitica (o, in generale, scientifica) che il rivoluzionario è un malato mentale. Ma anche rimanendo all'interno di questa si­ tuazione, in cui tutto è divenuto fede (cfr. capi­ tolo secondo), il discorso psicoanalitico di Fornari finisce col diventare, nella sua funzione oggettiva, un alibi e una copertura del terrorismo fascista. Ne è alibi e copertura proprio perché lo intende semplicemente come sogno, " delirio ", alterazione mentale. Infatti il fascismo è una reale minaccia per le democrazie occidentali, non in quanto esso venga identificato al terrorismo e ai suoi mandanti, 65

ma in quanto è una possibilità reale che viene tenuta aperta proprio da quella coesistenza ato­ mica tra USA e URS s , che anche per Fornari costi­ tuisce la realtà attuale. Tra realtà attuale e fasci­ smo non sussiste semplicemente il rapporto realtà­ sogno, ma il rapporto realtà-conseguenza reale. È proprio l'impossibilità della guerra tra USA e URS S , ossia è proprio l a coesistenza (che sottintende la spartizione del mondo tra le due superpotenze) che dà a un " golpe " di destra il carattere di una possibilità reale e non di un delirio paranoico. È proprio questa coesistenza a mostrare l'inconsi­ stenza della tesi degli " opposti estremismi " alla quale Fornari rimane sostanzialmente legato e che oggi è ridiventata di moda. Questa tesi è sbagliata, ed è essa stessa un alibi che copre la minaccia fascista, non già perché non esista un estremismo di sinistra, ma perché mentre oggi una rivoluzione di sinistra in Italia non è una possibilità reale - anche se tale viene ritenuta dai gruppi dell'estrema sinistra e da un ampio settore dei moderati -, lo è invece una con­ trorivoluzione di destra. È la stessa coesistenza tra usA e UR s s a far sl che in I t alia e in generale nelle democrazie occidentali sia la controrivolu­ zione di destra e non la rivoluzione di sinistra ad avere probabilità di riuscita. La tesi degli op­ posti estremismi non sta in piedi perché la mi­ naccia fascista, lungi dall'essere un delirio analiz­ zabile e curabile psicoanaliticamente, è una possi­ bilità reale prodotta dalla circostanza che gli USA non ostacolerebbero un rafforzamento autoritario dell'anticomunismo in Italia, mentre l'uR s s non interverrebbe in Italia e in generale nell'area di influenza degli Stati Uniti per appoggiare una ri66

voluzione comunista o per combattere una contro­ rivoluzione di destra @oamericana. La psicoanalisi si limita a dire che il terrori­ smo fascista è un delirio infantile che rifiuta la realtà. Si tratta quindi di trovare una terapia per i deliranti. In questo modo, la psicoanalisi non si avvede che è proprio la realtà - cioè la logica della coesistenza tra le superpotenze - a togliere al fascismo quel carattere delirante che lo rende re­ lativamente innocuo e a conferirgli il carattere di minaccia reale, per difendersi dalla quale occorre ben altro che una terapia psicoanalitica. Occorre cioè che le cose stesse, cioè la realtà vada in un certo modo, ossia che non si producano le condi­ zioni che renderebbero conveniente, alla coesi­ stenza tra le superpotenze, una svolta a destra m Italia. Con tutta la simpatia che si può avere per lui, Pasolini rappresentava, con la sua istanza mo­ rale, gli intellettuali che non hanno ormai più nulla da obbiettare al potere - perché non ne han­ no più il diritto. La fede morale è una forma ar­ caica di potere, destinata ad essere travolta dalle forme di potere che oggi dominano sulla terra . È inevitabile che gli uomini di potere non diano ascolto agli intellettuali che, con la morale, ripro­ pongono una gestione arcaica del potere. All'in­ terno della cultura occidentale, l'unica accusa che può essere mossa ai politici non è quella di non prestare ascolto alla morale degli intellettuali, ma di essere ancora troppo legati a questa morale. Gli eredi legittimi dei grandi intellettuali del pas­ sato non sono gli intellettuali del presente, ma gli uomini che oggi controllano il potere sulla

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terra. Certo, questo è il punto più difficile a com­ prendersi: che la matrice della volontà di potenza sia costituita proprio da quelle forme " spirituali " ed " umane" della cultura tradizionale, su cui gli intellettuali come Pasolini e come tanti altri cre­ dono di potersi appoggiare nella loro lotta contro il potere. Ne riparleremo. La tesi di fondo di Pasolini era che tra il '60 e il '70 s i fosse verificata in Italia una trasforma­ zione analoga a quella teorizzata da Adorno, Mar­ cuse e tanti altri per le società industriali avanzate: l 'avvento del " potere consumistico " con il conse­ guente " edonismo di massa " : una trasformazione immane, un " cataclisma antropologico " che egli non esitava a dichiarare " millenaristico " . Tramon­ tati i vecchi valori di una società agricola e reli­ giosa si fa avanti un nuovo criterio di valori, cioè un nuovo tipo di potere che spinge alla folle corsa per produrre, con un lavoro sempre più alie­ nato, ciò che deve essere consumato sempre più in fretta e con godimento fisico sempre maggiore. Ne segue che il potere politico, rappresentato so­ prattutto dalla DC, è apparente, perché il potere reale, il consumismo edonistico, non sa più che farsene dei valori (Vaticano, esercito nazionale, famiglia, patria, lavoro, onestà, risparmio) che la DC si proponeva di difendere. « Nella realtà » scri­ veva Pasolini « i potenti democristiani coprono con le loro manovre da automi e i loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro ; ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient'altro che il luttuoso doppiopetto . » Questi poveri illusi che credono di avere il potere, ma non l'hanno, possono suscitare soltanto la commiserazione. Pa68

salini, invece, si " scandalizzava " . " Scandaloso e provocatorio " , per lui, che nonostante la sua assi­ curazione dell'impotenza di codesti doppiopetti, costoro continuassero invece a restare al potere. Provocatorio, per lui, che quello che per lui era un morto continuasse a vivere. (Ma non era un morto che organizzava la strategia della tensione ? ) Egli parlava della « provocatoria ostinazione dei potenti a restare al potere » . Non gli veniva nep­ pure in mente che la DC stava e sta ancora al potere perché forse era lui ad aver sbagliato la diagnosi del potere reale. La sua indignazione di­ ventava incontenibile quando Andreotti gli faceva capire che, nel mondo occidentale, si può sl far andare Nixon a gambe all'aria, ma non lo si può fare con la nc. Pasolini commentava: « C'è una sfida quasi luciferina in questa oscura allusione di Andreotti dal senso così chiaro » . Dunque que-sti illusi che non sanno di essere morti e si illudono di avere il potere, queste " teste di legno " , « la cui inconsapevolezza è stata assoluta » per quanto riguarda ciò che è accaduto e sta accadendo in I tali a, ebbene costoro lanciano " una sfida quasi luciferina ", cioè dimostrano di non avere alcuna intenzione di andarsene. Eppure Pasolini, che se ne intendeva di cose bibliche, avrebbe dovuto sapere che Lucifero, nelle cose di questo mondo, è capace di non lasciarsi sfuggire di mano il po­ tere, e i doppiopetti luttuosi li indossa per i lutti altrui. I valori tradizionali, che in Italia sono stati difesi anche dalla DC, vengono indubbiamente spin­ ti al tramonto dall'organizzazione tecnologica del­ l'esistenza umana - e il consumismo è il modo in cui questa organizzazione si configura attuai69

mente nelle società industriali avanzate. Ma la civiltà della tecnica spinge al tramonto anche le grandi ideologie, come il cristianesimo e il mar­ xismo, e quindi anche quel tipo di " umanesimo " al cui interno si mantiene tutto il discorso di Pa­ solini. Ma ciò che Pasolini non riusciva a scor­ gere è che la DC continua a detenere il potere pro­ prio perché, da tempo, non si propone più come compito essenziale la difesa dei valori della tra­ dizione, bensì la gestione del " potere reale " . Que­ sto anche se la DC si trova ancora in una fase dove questa gestione è tuttora lontana dall'essere ade­ guatamente razionalizzata. Pasolini, parlando del " potere reale ", affermava che gli uomini politici democristiani lo « servono, praticamente detenen­ dolo e gestendolo » , e per lui questa sarebbe la prova della nullità del loro potere. E invece que­ sta è la prova autentica della sopravvivenza del loro potere: tutto ciò che di fronte all'organiz­ zazione tecnologica dell'esistenza non tramonta e sopravvive , può sopravvivere soltanto come un " servo " della tecnica, ossia della forza che oggi, sulla terra, vince ogni altra forza; sì che solo a condizione di " servire " il potere reale - solo a condizione di non contrapporsi ad esso sulla base dei valori e delle ideologie della tradizione è consentito ormai ad una classe politica di posse­ dere l'unico tipo di potere politico che oggi è pos­ sibile . La DC, ripeto, deve compiere ancora molti passi per diventare un partito tecnocratico (un par­ tito che serve il potere reale, gestendolo) , ma è proprio perché ha già compiuto alcuni passi in questa direzione che essa riesce a mantenere il potere in Italia. (Il PCI, in questa stessa direzione, ha compiuto un percorso notevolmente più lungo.) -

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Capitolo secondo

IL SIGNIFICATO DELLA VIOLENZA

l . VIOLENZA E FEDE Ogni volta che la violenza esplode - e la ve­ diamo continuamente da vicino in carne ed ossa si levano le voci dell'indignazione e della condan­ na; e la condanna è morale, civile, religiosa, poli­ tica. Sono le voci della nostra " civiltà " . Alla pre­ varicazione devastante esse oppongono i " valori " di cui sono portatrici: la pace, la dignità dell'uo­ mo, l 'amore cristiano, la giustizia, la democrazia. Che questi " valori " stiano agli antipodi della vio­ lenza è per noi cosl ovvio che avvertiamo ben presto la retorica della maggior parte dei discorsi in cui tali " valori " vengono proclamati. Una delle componenti della retorica è infatti l'insistere su cose ovvie . Dal punto di vista della nostra " civiltà " è fuo­ ri discussione che la violenza costituisce una ma­ lattia estranea al funzionamento normale delle nostre istituzioni, qualcosa cioè di accidentale, che non proviene dalle idee grandi e solenni, o lucide e profonde, da cui il vivere civile è guidato, ma dal loro abbandono e dalla loro dimenticanza, dalla loro trasgressione e tradimento. Che cosa hanno in comune, ad esempio, l'amore cnsuano e la violenza? Anche il non credente è subito 73

disposto a riconoscere che non hanno proprio nulla in comune e che l'amore cristiano è anzi il rifiuto più radicale della violenza. Questa non nasce dall'amore cristiano o dalla giustizia demo­ cratica, ma da una volontà che non intende pra­ ticare questi " valori " . Ma siamo certi di sapere che cosa sia la nostra " ci viltà? " Quando scoppiano le bombe, queste domande infastidiscono. Ciò che occorre sono infatti delle soluzioni " immediate " , "pratiche " , " concrete " , e se non se ne è capaci è bene non accrescere la confusione con le domande intorno al senso della nostra civiltà. E si aggiunga che questo fastidio non è provato soltanto da chi " ha i piedi per ter­ ra " , ma anche dalla cultura più avanzata, che ormai da tempo va mostrando come i problemi autentici, quelli cioè di cui è serio interessarsi, siano soltanto i problemi particolari , che tutti ca­ piscono e per i quali è possibile una soluzione " immediata " , " pratica " , " concreta " . Ma allora, domandandoci : « Che cos'è la no­ stra civiltà? » non ci appoggiamo alla " cultura più avanzata " ? Ebbene no, non ci appoggiamo. E poiché la " cultura più avanzata " è la discendenza legittima e inevitabile della cultura tradizionale ( cioè della cultura che è stata sopravanzata), con quella domanda non intendiamo nemmeno richia­ mare in vita le istanze della nostra tradizione culturale. Tuttavia, il fastidio per quella domanda è simile al fastidio di coloro che, trovandosi su una nave che imbarca acqua, si infastidiscono perché certi loro compagni di navigazione non gli tolgon l'acqua d'attorno ( ecco la soluzione " pratica " e 71

"immediata·" ), ma si preoccupano di scoprire la falla. Altro esempio, non allegorico : la violenza fascista (che nell'esempio precedente corrisponde all 'acqua che si va imbarcando) non si esaurisce nelle azioni terroristiche, ma è effetto e sintomo del più ampio scontro tra le forze del capitale e le forze del proletariato ; e questo scontro, quale si configura in Italia, dipende a sua volta dallo scontro tra il capitale internazionale e i Paesi so­ cialisti. Ma c'è ancora un passo da compiere : lo scontro tra capitalismo e socialismo non è qual­ cosa di casuale nella nostra storia, ma è determi­ nato dal modo in cui è venuta a formarsi quell'im­ mensa compagine di eventi che chiamiamo " civiltà occidentale " . Ma - la domanda ritorna - siamo certi di sapere che cosa sia la nostra civiltà ? E sin tanto che non sappiamo andare oltre questa do­ manda siamo forse in grado di sapere che cosa sia la violenza, quella che vediamo e subiamo da vicino? E, non sapendolo, che possibilità di riu­ scita ha il tentativo di evitarla? Nella nostra civiltà tutto è diventato fede. Anzi, è ridiventato fede. Gli uomini vivono nella fede da quando stanno sulla terra. " Fede " signi­ fica " fiducia " . Ci si fida di qualcuno, quando non si vede e non si sa ciò che egli sa e vede . Ad esem­ pio, quando ci fidiamo di una guida alpina non conosciamo il sentiero lungo il quale saremo da essa condotti ; e quando si ha fiducia in un mes­ saggio o in una parola non si vede ciò di cui messaggio e parola parlano. L'aver fede è un non vedere e un non sapere. E l'apostolo Paolo dice appunto che si ha fede nelle " cose che non appaiono " (non apparentium) . Il fedele può quindi ingannarsi . Anzi, è solo 75

il fedele che può ingannarsi. (Ma, stiamo dicendo, oggi non esistono altro che fedeli.) Ciò in cui si ripone la fiducia - una persona, un discorso può essere un inganno, appunto perché, quando ci si affida, non si vede quello che si spera di ottenere dalla persona o dal discorso cui ci si affida. E nella lingua greca più antica il verbo péi­ thein significa ad un tempo persuadere (infondere fiducia ) e ingannare. Fino al sesto secolo avanti Cristo ogni cono­ scenza umana è fede : non solo le convinzioni religiose, morali, sociali, ma anche le cognizioni tecniche e le stesse osservazioni intorno alla realtà sensibile . Solo a partire dal sesto secolo prima di Cristo il popolo greco compie il tentativo - l'uni­ co nella storia dell'uomo - di oltrepassare la fede e la possibilità dell'inganno che alla fede è con­ nessa . Questo tentativo è stato chiamato " filoso­ fia " . Mentre il fedele, affidandosi, non vede, e quindi crede in ciò che è oscuro, il " filo-sofo " è colui che si prende cura della sophia, ossia di ciò che è illuminato se si vuole salvaguardare la vicinanza tra la parola greca soph6s, che normal­ mente vien tradotta con il termine saggio , e la parola greca saphés , che significa chiaro, manife­ sto, illuminato. Il filosofo non vuole dare la pro­ pria fiducia a ciò che non è manifesto e visibile . Egli è la negazione del fedele . Ha cura della " ve­ rità " . Nella lingua greca la parola che corrisponde a " verità " significa appunto " il non star nasco­ sto ", " il non rimanere oscuro " . Ma non sappiamo tutti che da tempo la filo­ sofia è morta? Ormai la si studia come un reperto archeologico. Il primo colpo mortale le è stato inferto dal cristianesimo. Soprattutto nel cristia-

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nesimo la salvezza dell'uomo è una questione di fede . Il più umile e ignorante degli uomini può giungere, con la fede in Cristo, là dove il più sapiente dei filosofi non saprà mai sollevarsi. Per entrare nel Regno dei Cieli si deve diventare come i bambini, i fiduciosi per eccellenza. Il secondo colpo mortale le è stato inferto dalla moderna società borghese. La filosofia non serve. Il che significa : non serve ad accumulare ricchezza. I filosofi sono pomposi e inutili. Senza pretese e utili sono invece gli artigiani, i vetrai, i fabbri, i fonditori, i capomastri e i carpentieri, i tessitori, i cardatori, gli incisori, gli orefici . La scienza moderna nasce dall'artigianato medievale. Serve (e i padroni hanno soprattutto bisogno di servi) e non si preoccupa della " verità " . Come il cristianesimo promette il Regno dei Cieli a chi ha fiducia in Cristo, così la scienza promette il Regno della Terra a chi ha fiducia nelle leggi scientifiche. La scienza, oggi, non ha alcuna diffi­ coltà a riconoscere di essere una fede : ben più scaltrita e complessa di quella del primitivo che è fiducioso di ottenere, danzando, la benedizione della pioggia; ma pur sempre una fede, qualcosa cioè di oscuro e di infido (l'oscuro è per definizione infido) cui ci si affida. La civiltà occidentale ha finito col ristabilire, cancellando la filosofia, la solidarietà con tutti i millenni della storia umana che precedono l'av­ ventura filosofica. Nella nostra civiltà tutto è ti­ diventato fede : la scienza, la morale, la politica, l'arte, la religione e anche l'incredulità religiosa. In nome del contenuto della sua fede, la nostra civiltà condanna la violenza. Ma la fede, in quanto

tale, non è forse la forma originaria della violenza?

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Se a questa domanda si dovesse rispondere posi­ tivamente, non si dovrebbe dire allora che la con­ danna della violenza da parte della nostra civiltà - che è la civiltà della fede - è una mistificazione estrema? 2 . I CONFINI DELLA VIOLENZA All'inizio della civiltà occidentale i Greci por­ tano alla luce un significato nuovo : il significato di ciò che è stato chiamato " verità " . Non si vuoi dire che essi abbiano scoperto la vera dottrina, ma che la condizione per mettersi alla ricerca di que­ sta - ossia della dottrina che abbia verità - è che il significato della parola " verità " stia già dinanzi manifesto ; così come, prima di costruire una scien­ za astronomica, è necessario che gli astri brillino nello sguardo dell'uomo. Per primi i Greci hanno lasciato brillare il significato della " verità " . Essa è il luogo della necessità, il destino che né uomini né dèi, né l'erosione del tempo o la forza degli eventi, o la crescita più smisurata delle conoscenze e attività umane possono annullare o modificare. I Greci sono stati anche i primi a porsi in cam­ mino per scoprire quale sia la dottrina che abbia la verità, per svelare quale disegno e figura abbia il luogo della necessità e quali eventi dimorino in esso stabilmente. Da questa origine sono sorti via via i concetti di " verità assoluta " , " definitiva " , " eterna " , " sapere assoluto " , " dottrina infallibile " , eccetera. Per la cultura contemporanea, le forme tra­ dizionali del sapere filosofico-teologico - ossia della dimensione in cui si è esplicitamente inteso 78

determinare la vera dottrina - non debbono più venir considerate come illusioni di una classe so­ ciale vissuta al di fuori del mondo, ma come at­ tività moralmente colpevoli, che hanno inteso le­ gittimare e razionalizzare la violenza dei gruppi politici dominanti e il dolore e la miseria dei dominati . La " verità definitiva " è un agire col­ pevole che presenta come definitive e intoccabili le convinzioni storiche (perciò contingenti e revi­ sionabili) che hanno via via costituito la strut­ tura di potere delle classi dominanti. La " verità definitiva " è una colpa perché è l'aspetto teorico della violenza . Cultura borghese e marxista si trovano con­ cordi in questa condanna, anche se il marxismo accusa la borghesia di quella stessa colpa che la borghesia attribuisce alle varie forme storiche di assolutismo politico e religioso . Le grandi lotte combattute dalla borghesia fino alla sconfitta del fascismo si sono presentate come la vittoria di un modo umano su un modo disumano di intendere e realizzare la vita. Concezione umana della vita significa qui, soprattutto, il rispetto delle convin­ zioni altrui e il bando di ogni violenza soffocante le iniziative degli individui per realizzare libera­ mente l'esistenza. Il rispetto democratico delle convinzioni altrui è venuto così a legarsi sempre più strettamente all'insofferenza per ogni dottrina che si presenti come definitiva e come elimina­ zione di un diverso modo di interpretare il mondo. Ma in quanto la filosofia si è fatta portatrice, nella storia, di " verità definitive " , l'ostilità per la filosofia appartiene non solo alla matrice della bor­ ghesia, ma anche a quella del proletariato. Il marxismo si è accorto cioè che la violenza, com79

battuta dalla borghesia, è andata insieme sempre più rafforzandosi nella stessa struttura economica che la borghesia aveva costruito e difeso nel corso della sua lotta. Capitalismo e consumismo delle società industriali costituiscono così, secondo il marxismo, la forma attuale della violenza ; e ancora una volta, sebbene in modo estremamente più raf­ finato e indiretto, viene soffocata negli uomini la libertà di pensare e di agire, giacché l'appa­ rente libertà democratica nasconde lo sfruttamento del lavoro e la costrizione al consumo dei prodotti offerti dal mercato . La cultura borghese ha il vecchio compito di giustificare e difendere, sul piano delle idee, la più radicale forma di violenza alla quale l'uomo sia mai stato sottoposto. Questa critica del marxismo alla concezione assolutistica della verità acquista pertanto, a sua volta, una radicalità estrema, giacché scende allo smascheramento di quelle nozioni apparentemente ovvie ed elementari che presiedono alla costru­ zione della struttura economica del capitalismo, ossia alla costruzione della violenza radicale. E tut­ tavia, proprio attraverso la critica alla cultura e alla prassi borghese, il marxismo riprende e porta a fondo il rifiuto borghese della " verità definitiva ". Eppure, il regno della violenza ha un'esten­ sione e una profondità che la nostra cultura non riesce ancora a sospettare. In primo luogo ( degli altri luoghi, ancora più inesplorati e decisivi, si parlerà in seguito) , perché non si rende conto che il rifiuto della verità, intesa come spazio in cui si apre il destino e la necessità degli eventi, è sintomo della violenza non meno di quanto lo sia l'affer­ mazione della " verità definitiva " . Poiché la nostra civiltà ha imboccato una via che volta risoluta80

mente le spalle al destino della necessità, si può quindi prevedere il suo esser destinata a un domi­ nio della violenza tanto più rigoglioso e inestir­ pabile quanto più a fondo si sarà andati in quella lotta in favore del rispetto delle convinzioni e della libertà umane, che considera la " verità definitiva " come negazione di tale rispetto. Questa previsione non può valere come implicita esortazione a rista­ bilire un sodalizio con le forme tradizionali della nostra cultura, ma intende alimentare il sospetto che la cultura occidentale continui a non essere in grado di cogliere il senso e di misurare i confini della violenza. In una civiltà che vive la mancanza della verità anche quando ritiene di possederla, ogni forma pratica o teorica di esistenza è una forza, che riesce a imporsi sulle forme antagoniste per questa ultima semplice " ragione " : di essere più forte . Ciò vuoi dire che la sua capacità di dominio pra­ tico-teorico non ha né può a\·ere una " ragione " ultima che sia qualcosa di diverso dalla stessa for­ za che consente al dominio di sopraffare le forze antagoniste. Nella misura in cui l'uomo rimane privo della verità , l'avvento della ci\·iltà non spo­ sta in alcun modo i termini essenziali della lotta primitiva per l'esistenza, dove il dominio si espri­ me come pura forza. La civiltà tenta sì di mostrare le " ragioni " delle forze da via dominanti ; ma se tali " ragioni " differiscono dalla verità e si pon­ gono come " ragione storica " , il loro valere come " ragione " è, da ultimo, la pura forza che ad esse compete di farsi trattare come " ragione " da certi gruppi umani ( ossia è la forza della volontà, pos­ seduta da certi gruppi umani, che esse srano, ap­ punto, " ragioni " ) . 81

Nell'assenza della verità, il significato auten­ tico dei grandi contrasti culturali dell'Occidente è quindi uno scontro di forze, dove la " ragione " e la " verità " competono alle forze che riescono ad imporsi e a soffocare le altre. L'unico torto di quelle che alcuni o molti ritengono forme aberranti di esistenza e di organizzazione sociale è stato di lasciarsi sopraffare da forme più potenti. L'unica autentica " ragione " del neocapitalismo consiste nel­ la sua capacità di contenere ogni movimento rivo­ luzionario di sinistra; come l'unico " torto " au­ tentico di quest'ultimo è la sua attuale incapacità di distruggere il capitalismo. Ogni altra " ragione " e ogni altro " torto " mascherano l'essenziale, cioè la violenza. Si dice che la violenza di chi lotta per liberare l'uomo dalla violenza non può essere identificata alla violenza brutale delle classi dominanti . Ma l'aspetto originario della violenza di quella lotta risiede nella stessa volontà di liberare l'uomo dalla violenza. Perché liberarlo? Nell'assenza della ve­ rità, la domanda rimane da ultimo senza alcun'al­ tra risposta che non sia la stessa forza della libe­ razione. È in questo carattere decisivo della pura forza che la violenza dei dominanti non differisce dalla violenza della volontà di liberarsi. (Dove è chiaro che l'indicazione di questo aspetto origina­ rio della violenza non va confuso con il luogo co­ mune per cui la liberazione socialista dalla vio­ lenza si è tradotta, negli Stati socialisti, nella vio­ lenza dell'apparato burocratico al potere .) Analo­ gamente, l'aspetto originario della violenza delle classi dominanti risiede nella volontà di realizzare un ordinamento sociale di un certo tipo - che poi, subordinatamente, implica una certa forma storica. 82

empmca, di violenza. Nell'assenza della verità, l'aspetto originario della violenza, comune ad ogni forma di organizzazione dell'esistenza, è la sopraf­ fazione di ciò che ha lo stesso diritto alla sopraf­ fazione. Nella storia dell'uomo la violenza è ri­ masta l'essenziale. Ma siamo certi che non sia essenziale in un senso ancora più profondo e inavvertito di quello che qui abbiamo incominciato a intravedere? 3. LA MEDICINA COME LA MALATTIA

" Violenza " significa oltrepassare un limite che non deve essere oltrepassato . Gli uomini si imbat­ tono anche in limiti che possono essere oltrepas­ sati : la maggior parte delle cose che ci circondano sono appunto limiti di questo genere. Ad esempio il frutto che pende dal ramo, a una certa distanza dal suolo, è un limite rispetto al nostro desiderio di mangiarlo ; ma, se l'albero non ha padroni , è un limite che può essere oltrepassato . Similmente, il lume spento è un limite rispetto al desiderio di illuminare la stanza, la fìnestra chiusa è un limite rispetto al desiderio di respirare aria fresca , la stra­ da che va dal campo alla casa è un limite per il contadino che, terminato il lavoro, desidera sedersi davanti al fuoco . Ma anche questi sono limiti che, nella nostra condizione storica, avvertiamo come oltrepassabili : il frutto può essere raccolto, il lu­ me acceso , aperta la fìnestra, percorsa la strada. Ma, in ogni condizione storica, gli uomini sono convinti che esistono certi limiti inoltrepassabili. I comandamenti " , le " leggi " hanno il compito di indicarli e nominarli. Come dice l'espressione "

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stessa, ogni " violazione della legge " è dunque vio­ lenza . Oggi noi riteniamo che l'omicidio sia la forma estrema di violenza, che cioè la vita del­ l'uomo sia il primo di tutti i limiti che non devono essere oltrepassati . E da lungo tempo il comanda­ mento dice : « Non uccidere » . Ma perché il comandamento proibisce di ucci­ dere? Esprime forse una verità che sta dinanzi agli occhi di tutti, con l'evidenza con cui il sole brilla nel mezzo del cielo ? Sin da quando vivono sulla terra, gli uomini hanno dato una risposta negativa a questa domanda. Sin da allora, l'irrag­ giungibilità del sole è per essi evidente come il suo risplendere nel cielo . Per essi, non solo è evidente lo splendore del sole, ma è anche evidente che il sole è un limite inoltrepassabile. E infatti nessuno, di quanti hanno avuto occhi mortali per vederlo, si è proposto di spegnerlo. Invece, l'invio­ labilità della vita dell'uomo non brilla con l'evi­ denza con cui il sole risplende nel cielo, e lungo la storia molti si sono proposti e sono riusciti a spegnere la vita di altri uomini. La vita del sole è apparsa e per molti continua ad apparire irraggiun­ gibile, cioè ad apparire, rispetto ad ogni iniziativa umana, come un limite inoltrepassabile ; la vita dell'uomo, invece, è stata subito raggiunta e spenta. La sua inviolabilità non è apparsa come una verità evidente. Se uno ha due pani, non si propone di darne uno a testa a tre persone : gli appare evidente che il due non è il tre. È per questo motivo che, men­ tre non c'è stato bisogno di un comandamento che dicesse : « Non spegnere il sole », o « Non dare, tu che hai due pani, un pane a testa a tre per­ sone », c'è invece stato bisogno di un comanda-

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mento che dicesse : « Non uccidere » . Certamente, ciò che è sembrato evidente in passato, può cessare di esserlo : la volontà di dominio che oggi guida la nostra civiltà può indurre a ritenere che il sole non sia più irraggiungibile dalle tecniche umane; e lo sconvolgimento che si è prodotto nella co­ scienza critica delle discipline matematiche spinge a concepire la diseguaglianza tra il due e il tre come un semplice postulato ; sì che si è prodotta la tendenza ad affiancare al comandamento che proibisce di uccidere, anche i comandamenti che proibiscono di spegnere il sole e di identificare il due al tre. ( E infatti, già il dire che la disegua­ glianza tra il due e il tre è un " postulato " significa dire che è qualcosa di " richiesto " , cioè di " co­ mandato " . ) I risultati ai quali è giunta - e inevitabilmen­ te ! - la cultura occidentale la costringono ad assumere, rispetto al comandamento che proibisce di uccidere, lo stesso atteggiamento dell'uomo comune, che in quel comandamento non vede alcuna evidenza e che, proprio perché non scorge l'evidenza di ciò che esso comanda, lo sente ap­ punto come un comando . La nostra cultura, che ha portato . sino in fondo - e non poteva non farlo ! - la lotta contro ogni " verità definiti­ va ", o " verità assoluta ", o " verità metafisica " , esclude nel modo più deciso che all'interno di una verità indiscutibile possa apparire incontro­ vertibilmente che cosa è il bene e che cosa il male, e cioè quali sono i veri comandamenti . Per la nostra cultura, il comandamento che proibisce di uccidere non è un vero comandamento, ap­ punto perché, per essa, noi non possediamo la verità. Per essa, le " verità " che sono in nostro 85

possesso sono soltanto storiche, condizionate, prov­ visorie, modificabili, relative - non sono dunque verità, ma fede e il " non uccidere " non -può fare eccezione. Senonché, è poi questa stessa cultura che si indigna e che condanna la violenza, per esempio la violenza fascista. Ma al di sotto di questa in­ dignazione non c'è nulla; ossia ci sono soltanto le istituzioni sociali e politiche che hanno la forza di circoscrivere e di eliminare la violenza. Questo vuoi dire che, rimanendo all'esempio qui sopra introdotto, la violenza fascista non è un male perché sia evidente il suo essere un male, ma perché esiste la forza capace di eliminarla. Per comandare, infatti, è necessario essere forti. All'interno di una società può sorgere un " comandamento " solo perché esiste la forza di farlo rispettare e di punire chi lo trasgredisce. Quasi sempre, questa forza è costituita dall'insie­ me delle istituzioni e degli ordinamenti in cui tale società consiste. Il comandamento di " non ucci­ dere " non è divenuto la legge suprema della ci­ viltà per l'evidenza del suo contenuto, ma perché un poco alla volta coloro che l'hanno accettato sono diventati più forti di quelli che lo rifiuta­ vano. L'omicidio è divenuto un male da quando l'omicida è diventato più debole dei suoi perse­ cutori. Dove questo non avviene, l'omicidio non è un male. Ciò significa che è stata la forza a imporre ai gruppi umani di considerare la vita dell'uomo nello stesso modo in cui essi conside­ rano la vita del sole : come un limite inoltrepas­ sabile. Ed è stata la forza a trasformare in evi­ denza ciò che non è evidente. La " coscienza mo­ rale " , per la quale è " evidente " che non si deve -

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uccidere, è il risultato di questa trasformazione operata dalla forza. Ma anche se si ammette che la coscienza mo­ rale e la fede religiosa riescano a svincolarsi dalla forza sociale che le condiziona, e si ammette che in esse il comandamento di " non uccidere " non sia il risultato della crescente difficoltà di uccidere, ma una pura convinzione interiore, rimane pur sempre il fatto che nella coscienza morale e nella fede religiosa, così purificate, il non evidente è assunto come evidente. È proprio perché non è evidente, che qualcosa può essere comandato. Ri­ spettando il comandamento, la coscienza morale e la fede religiosa, anche quando sono una pura convinzione interiore, considerano come evidente e indiscutibile ciò che non è evidente e che è discutibile. Anche nella pura coscienza morale e nella pura fede religiosa accade cioè che venga oltrepassato quel certo limite in cui consiste il non evidente e il discutibile. L'oscuro ( il non evidente) vien reso luminoso (evidente) . Rendere luminoso l'oscu­ ro significa oltrepassare il limite che compete al­ l'oscuro e in cui esso consiste . N"ella coscienza morale e nella fede religiosa il comandamento che proibisce di uccidere è cioè violenza, giacché l'es­ senza della violenza è appunto l'oltrepassamento dell'inoltrepassabile. Se la differenza tra l'oscuro e il luminoso, l'incerto e il certo, il non evidente e l'eYidente è un limite che non può essere oltre­ passato ( oltrepassarlo significa appunto negare quella differenza), allora, anche la pura coscienza morale e la pura fede religiosa, rendendo luminoso l'oscuro, oltrepassano l'inoltrepassabile e si ma­ nifestano come violenza. La fede, anche come 87

pura fede interiore, è una prevaricazione che vuole che il mondo abbia un certo senso e che fa tacere gli altri sensi possibili. Nella fede, ciò che è cre­ duto oltrepassa il proprio limite, la propria mi­ sura - cioè il suo essere oscuro - e si pone, esso che è oltrepassabile, come l'inoltrepassabile. E, ormai, nella nostra civiltà tutto è diventato fede. Certo, oggi si preferisce - i più preferiscono - quella forma di violenza che consiste nel co­ mandamento di non uccidere e nell'amore cristia­ no, alla violenza dell'omicidio e della strage. E tuttavia l'essenza di ogni comandamento è iden­ tica a ciò che esso proibisce. Nella legge che vieta il delitto è presente l'essenza del delitto. Nella fede dell 'amore è presente l'essenza dell'odio . Si può, certo, preferire la fede nell'amore all'odio; ma si può davvero credere che una malattia pos­ sa essere guarita con una medicina che ha la stessa natura della malattia? Da più parti si auspica il ritorno alla Chiesa delle origini, si vuole cioè che la Chiesa dei Cesari vada distrutta e rinasca la Chiesa dei Santi. I santi hanno una fede pura. La fede è la volontà che la realtà abbia un certo senso e non un altro. Perché vuole proprio questo senso (ad esempio il senso cristiano) ? La fede risponde di volerlo perché lo vuole. Essa cioè non accetta di rispon­ dere alla domanda. Quanto più è pura, tanto me­ no lo accetta. Quanto più è pura, tanto più si abbandona a ciò in cui crede e fa tacere il dubbio e le altre fedi. La realtà deve avere il senso che la fede le impone . Tutte le cose devono essere ricondotte a questo senso. Riconducendole al pro­ prio senso la fede se ne impadronisce. Imporre loro il proprio senso è ridurle in proprio potere. 88

La Chiesa dei Santi è già da sempre la Chiesa dei Cesari. Il potere è l'essenza di ogni fede. Il ten­ tativo cristiano di distinguere il fallimento nel mondo dal fallimento nello spirito, la salvezza del­ l'anima dal successo mondano, appare come un'in­ tenzione destinata a dissolversi, giacché la fede che vuole la salvezza dell'anima è la forma origi­ naria della volontà di potenza che poi si esprime come volontà di successo mondano. Il modo in cui la Chiesa intende la fede, vedremo, conferma, al di là delle intenzioni, la natura prevaricante della fede. 4 . IL « VALORE » DELLA FORZA Non esiste una concezione politica più scredi­ tata del nazismo. Nella sua condanna concordano le forze marxiste, borghesi, cattolico-protestanti, cioè le forze che oggi determinano la storia del mondo. Generalmente, si distingue il valore del giu­ dizio morale che si esprime in quella condanna, dall efficacia dell'azione che ha condotto alla vit­ toria militare sul nazismo : anche se questa vit­ toria fosse mancata, si ritiene che quel giudizio morale avrebbe egualmente mantenuto il suo va­ lore. Questa affermazione può avere due signifi­ cati : l) se il nazismo avesse vinto la seconda guerra mondiale, sarebbe sempre esistito un tipo d'uomo che avrebbe giudicato il nazismo come male da cui ci si deve liberare ( o anche : al fondo di ogni coscienza umana sarebbero pur sempre rimaste le condizioni per un rifiuto esplicito del nazismo) ; 2) se il nazismo avesse vinto, e anche '

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qualora non fosse più es1st1to nemmeno un indi­ viduo umano ad avvertire il male di questa conce­ zione dell'esistenza, ciononostante il giudizio mo­ rale che pone il nazismo come male avrebbe egual­ mente mantenuto il suo valore. Nel primo caso si assicura che dalla storia del mondo non può mancare un certo tipo d'uomo (o che la coscienza umana deve contenere certi principi di valutazio­ ne) ; nel secondo caso si assicura di sapere che cosa sia il male e il bene, indipendentemente dall'idea che di fatto gli uomini possono farsene. Qual è il valore di queste due assicurazioni? La cultura che ha guidato le forze vittoriose sul nazismo non crede più che esistano assicura­ zioni definitive e assolute. Il cristianesimo intende sl presentarsi come verità definitiva, ma esso rico­ nosce di essere una fede, cioè qualcosa che si può accettare o rifiutare. Aver fede significa prestar fiducia senza disporre di una assicurazione defini­ tiva. Anche nell'Unione Sovietica il marxismo è presentato come verità indiscutibile, come dot­ trina sulla cui base si possono dare assicurazioni assolute. Ma già Engels scriveva che l'insegna­ mento irrinunciabile della filosofia hegeliana con­ siste nel fatto « che essa pone termine una volta per sempre al carattere definitivo di tutti i risultati del pensiero e dell'attività umani. Per questa filo­ sofia non vi è nulla di definitivo, di assoluto, di sa­ cro ; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la caducità, e null'altro esiste per essa all'infuori del processo ininterrotto del divenire » . Per la cultura oggi dominante, ogni conoscenza umana è provvisoria e ipotetica; e la scienza fisico-mate­ matica fornisce il modello di ogni tipo di sapere, proponendosi - essa, che pur riesce a rendere

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l'uomo padrone della natura - come sapere ipo­ tetico-deduttivo, che ha rinunciato alla verità defi­ nitiva dei suoi principi e metodi. Ciò vuol dire che la cultura oggi dominante (che pure, contrariamente ad ogni apparenza, è il risultato inevitabile della cultura tradizionale) non è in grado di assicurare il modo definitivo che le forme " aberranti " di organizzazione dell'esi­ stenza, come ad esempio il nazismo, siano " male " . Ancora oggi non sappiamo che cosa significhi " be­ ne " e " male " . Giacché non basta stabilire il si­ gnificato di questi due termini all'interno di con­ cezioni del mondo che ormai riconoscono il pro­ prio carattere ipotetico. In questa situazione, il " valore " supremo e decisivo della condanna del nazismo non può essere dato da un giudizio mo­ rale separato dall'efficacia dell'azione che ha con­ dotto alla vittoria militare sul nazismo : il valore della condanna consiste in questa distruzione pra­ tica, effettiva, del nazismo - anche se una com­ ponente non certo secondaria di questo processo distruttivo è stata indubbiamente la fede morale che ha visto nel nazismo un mostro da distrug­ gere. Un mostro, dunque, che non sarebbe stato tale se non fosse stato distrutto. Nella storia dell'Occidente, ogni società ha definito come male, mostruosità, pazzia tutto ciò che i gruppi dominanti sono riusciti a reprimere e a ricacciare nel nulla. Aver ragione, essere nel bene, essere psicologicamente normali significa es­ sere vincenti, significa forza; aver torto, essere nel male e nell 'anormalità psichica significa essere perdenti, significa debolezza. Ma larghi strati del­ la nostra cultura si trovano ancora nella situazione patetica di voler dar vita, insieme , ad una raffi91

nata coscienza cntlca del carattere problematico di ogni sapere umano, e ad una condanna morale del nazismo - o dello sfruttamento capitalistico, o della dittatura sovietica - che intende mante­ nersi valida sul piano morale, assunto come net­ tamente differenziato dalla forza che ha condotto o conduce alla distruzione pratica di ciò che viene qualificato come moralmente negativo. Ma chi non preferisce il modo di vivere delle democrazie a quello consentito dalle dittature? Chi non preferisce la libertà di pensare, di espri­ mere la propria opinione e di renderla operante mediante il sistema parlamentare, nonostante i difetti di esso e il condizionamento capitalistico delle forme democratiche? Queste domande non sono un'abbiezione a quanto si è detto, giacché in esse si parla appunto di " preferenza " , ossia di volontà che la vita sia vissuta in un modo piuttosto che in un altro. Le libertà democratiche sono state certamente " pre­ ferite " dalle classi che sono riuscite ad emanciparsi dalle vecchie classi dominanti . Ma il valore di tali libertà non è dato dalla loro " verità " o " giusti­ zia " : esse hanno assunto queste caratteristiche quando la borghesia ha avuto la forza di distrug­ gere lo Stato assolutista. La libertà di espressione è divenuta un " principio " delle democrazie, per­ ché le vecchie classi dominanti non hanno più avuto la forza di far tacere il dissenso. NeWorizzonte della cultura occidentale, la leg­ ge suprema rimane la lotta per l'esistenza. Può es­ sere espressa nel modo seguente : razionale ( = ve­ ro, bello, giusto, ecc.) è ciò che di fatto esiste, ossia ha avuto la forza di effettuarsi - e quindi è l 'insieme dei sistemi politico-sociali di fatto esi-

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stenti. Irrazionale è tutto ciò (e quindi anche il sistema sociale) che non ha la forza di diventare o di restare un fatto. È inutile che la cultura cer­ chi ancora dei valori diversi dalla forza; ed è inevitabile che la scienza e la tecnica, come su­ preme produttrici della forza, divengano la guida del mondo. Esiste un'alternativa alla cultura occidentale? Ha senso cercarla ? 5 . CRIS I DELL'AUTORITÀ DELLA CHIES A L'autorità della Chiesa cattolica sta attraver­ sando una crisi che presenta un aspetto parados­ sale. È infatti accaduto che la crisi si sia aperta e resa acuta proprio in un'epoca come la nostra, che ha provveduto a togliere di mezzo e a rendere inefficace il maggiore ostacolo che in passato l'au­ torità della Chiesa si era trovato dinanzi. " Auto­ rità " è innanzitutto capacità di farsi credere e quindi, quando ciò in cui si crede è una norma o un ordine, è capacità di farsi obbedire. Ma que­ sta capacità non è dovuta a ciò che si vuol far credere, bensì a chi vuol farsi credere : non è una qualità del contenuto, cioè della dottrina che si vuoi proporre, ma è una qualità di chi lo propone. Il contenuto che si vuoi proporre e far credere può essere anzi del tutto impersuasivo; e quanto più è impersuasivo, tanto più diciamo che ha autorità chi riesce a farlo accettare e a renderne persuasi. L'autorità della Chiesa è consistita essenzial­ mente nella capacità di far credere il Vangelo ai popoli, e di farlo credere in un determinato modo.

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In questa sua opera la Chiesa ha trovato nella sa­ pienza mondana l'ostacolo e il limite maggiore alla sua autorità . Sino all'età moderna, la sapienza mondana ha il suo fondamento nella filosofia, in un sapere cioè, secondo la definizione aristotelica, ove non è possibile che quanto viene saputo esi­ sta in modo diverso da come viene saputo. Così intesa, la filosofia è epistéme. Noi traduciamo so­ litamente questa parola greca col termine scienza; ma secondo la sua autentica struttura linguistica, epistéme significa appunto un pensare che " ri­ mane fermo in sé " e non si lascia smentire, modi­ ficare, negare da nulla. La filosofia così intesa ha costituito il limite essenziale per l'autorità della Chiesa, giacché ci si può certamente proporre di far credere ai popoli l'incredibile che è tale per­ ché annuncia qualcosa di estremamente lontano dalle loro millenarie tradizioni e convinzioni co­ muni; ma non ci si può spingere al punto di voler far credere l'incredibile che è incredibile perché è e si manifesta come negazione dell' epistéme, ossia come negazione di ciò che non può essere smentito . Nel primo caso, cioè nella capacità di far credere ai popoli l'inaudito, l'autorità della Chiesa si manifesta in tutta la sua imponenza; nel secondo caso (ossia là dove l'incredibile è l 'assolutamente impensabile e impossibile) l'auto­ rità della Chiesa sarebbe soltanto una cieca vio­ lenza. La Chiesa cattolica non ha mai inteso essere una cieca violenza ; anzi, ciò che qui sopra è stato qualificato come limitazione della sua autorità da parte della filosofia, è stato inteso dalla Chiesa co­ me " armonia di ragione e fede " , armonia tra il messaggio in cui la Chiesa vuole che i popoli ere-

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dana e il contenuto dell'epistéme. Ma al di sotto di ogni intenzione esplicita, l'intera storia dell'Oc­ cidente è guidata e dominata dalla violenza. Se si discende nel significato più riposto della dot­ trina dell'" armonia di ragione e fede " si scopre la lotta mortale ave la ragione resta soccombente di fronte alla fede e dove l 'autorità della Chiesa riesce a liberarsi da ogni limite. In questa lotta la Chiesa non si è trovata sola : tutte le grandi forze della civiltà moderna hanno operato in modo esplicito quella stessa elimina­ zione della ragione (intesa come epistéme) che la Chiesa è andata realizzando nel sottosuolo della propria coscienza. Il contrasto tra cattolicesimo e cultura moder:na è solo l'aspetto più superficiale di una profonda solidarietà. L'emancipazione eco­ nomica e politica delle classi sociali, le nuove scienze della natura, lo stesso modo in cui in se­ guito si è inteso il senso della filosofia, insegnano ormai da tempo, in guise diverse ma tutte con­ vergenti, che l'idea di un sapere incontroverti­ bile è un mito da cui l'uomo moderno deve li­ berarsi. La certezza, in qualsiasi campo, non di­ pende dall'incontrovertibilità o dall"' evidenza " del contenuto di cui si è certi, ma dalla decisio­ ne di prestar fiducia (per un poco, per molto, per sempre) a quel contenuto . Si presta fiducia a ciò che in qualche modo si nasconde e che quindi potrebbe non meritare alcuna fiducia. Il prestar fiducia è l'essenza della fede. Le fedi si differenziano per il loro contenuto (la fede in Cri­ sto, la fede nell'ordinamento democratico), non per il loro essere un prestar fiducia. Nella lotta contro la ragione ( intesa come epistéme) la Chiesa si trova in compagnia di tutte le grandi forze della 95

civiltà occidentale, perché esse sono l 'espressione di altrettante fedi. Nella storia dell'Occidente la progressiva dominazione della violenza è la stessa progressiva dominazione della fede. In questa situazione, il compito della Chiesa cattolica - e la vita del cristianesimo sulla terra - non è mai stato così facile e insieme così diffi­ cile. Non è mai stato così facile, perché ogni " cri­ tica " al messaggio in cui la Chiesa vuole che i popoli credano è una fede che si oppone a un'altra fede e che dunque ha lo stesso peso della fede cui si oppone (ossia entrambe - relativamente al piatto dell'epistéme - non hanno alcun peso ). Questo è il limite invalicabile sia di ogni cri­ tica condotta dalla cultura laica,. sia di ogni critica sviluppantesi all'interno della Chiesa cat­ tolica da parte delle teologie progressiste. La Chiesa non ha più nulla da temere dalla scienza e dalla filosofia, perché anch'esse sono fedi, ossia anche il loro contenuto può persuadere solo qua­ lora gli si presti fiducia. Poiché l'autorità è ap­ punto la capacità di farsi prestar fiducia , l'auto­ rità della Chiesa non è una figura anomala, ma si trova in compagnia, sullo stesso piano e con egual valore, all'autorità della scienza, all'autorità delle organizzazioni economiche e politiche, al­ l 'autorità dell'arte e della filosofia. D'altra parte, il compito della Chiesa non è mai stato così difficile - e la sua autorità così in­ stabile e discussa -, perché oggi le masse vanno sempre più prestando fiducia alla tecnica e all'or­ ganizzazione tecnologica della società. I miracoli oggi avvengono al di fuori e non all'interno della Chiesa e la forza dei miracoli tecnologici persuade le masse ben di più che il ricordo sbiadito dei 96

miracoli evangelici. Anche la tecnica è soltanto una fede, ma sembra che le promesse della tecnica possano essere mantenute molto prima delle pro­ messe dei Vangeli . E le moltitudini credono ormai soltanto al mantenimento immediato delle promes­ se. Con la distruzione della ragione, esplicitamente operata dalla cultura moderna, la Chiesa si trova dinanzi distrutto il proprio limite essenziale (che essa ha contribuito a distruggere nel sottosuolo della propria coscienza) : ormai non ha più nulla da temere dalle altre fedi e la sua autorità è legit­ tima tanto quanto l'autorità in cui si esprimono le grandi forze della civiltà occidentale. Ma è ine­ vitabile che la distruzione della ragione porti in primo piano ed abbia come protagonista la fede e quindi l'autorità più potente, cioè la tecnica. Aiutando il cristianesimo a liberarsi della ragione, la tecnica porta così il cristianesimo al tramonto.

6 . « ARMONIA » DI RAGIONE E FEDE Nella sua storia la Chiesa cattolica ha sempre dato il massimo spicco al principio che il cristia­ nesimo non è un rifiuto della natura e dei valori umani, bensì il loro più alto perfezionamento, in cui essi sono mantenuti e riconosciuti in tutto ciò che posseggono di autenticamente valido . Ma quan­ do si dice che il cristianesimo non è una negazione dell'uomo, è necessario che quest'ultimo sia cono­ sciuto indipendentemente dalla fede cristiana: se ci si trovasse completamente all'interno di questa, come si potrebbe infatti allontanare il sospetto che l'uomo, che il cristianesimo afferma di non voler rifiutare, sia già un uomo modellato secondo 97

le esigenze della fede, le quali avrebbero potuto soffocare ciò che in verità egli potrebbe essere indipendentemente da esse? Solo quando egli sia apparso al di fuori della fede e si sia certi che quanto si riesce a scorgere non sia parvenza o illusione, ma il vero tracciato dei confini che deli­ mitano e configurano la natura dell'uomo, solo allora ci si potrà proporre di sostenere che que­ st'ultimo e i suoi valori non restano negati dalla fede cristiana. Un proponimento, questo, che dun­ que acquista tanto più credito, quanto più la real­ tà umana viene conosciuta indipendentemente dal­ la fede cristiana. E la Chiesa cattolica ha voluto guadagnarsi il massimo credito, ossia ha voluto promuovere nel modo più efficace la massima indi­ pendenza e autonomia della ragione rispetto alla fede - giacché è appunto la ragione il luogo in cui emerge la verità della realtà umana . Questa promozione dell'autonomia della ragione rispetto alla fede è del tutto coerente all'intento di non rendere il cristianesimo nemico della realtà umana, appunto perché la ragione è la vera dimora di questa (e di ogni) realtà. La concezione tomisti­ ca del rapporto tra fede cristiana e ragione - dove quel riconoscimento dell'autonomia della ragione viene esplicitamente operato è divenuta dottri­ na ufficiale della Chiesa e lo rimane tuttora. Ed il cuore di questa concezione è la dottrina del­ l"' armonia di ragione e fede " , l'esclusione della loro incompatibilità (cfr. capitolo quarto, 2 ) . Ep­ pure questa " armonia " è la maschera di una lotta mortale tra due contrapposte volontà di potenza; una lotta, dunque, che si conclude con la morte di uno dei due contendenti - la ragione -, ma in cui sopravvive ciò che è comune ad entrambi : la vio-

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lenza prevaricante della volontà di potenza, ossia l'essenza dominatrice dell'Occidente. La nostra cultura è ancora ben lontana dal comprendere il senso più profondo della volontà di potenza, che si esprime sia nella ragione (la cui autonomia ri­ spetto alla fede la Chiesa crede di voler tutelare) , sia nella fede cristiana, che si presenta come la fede dell'amore e del rispetto degli autentici di­ ritti dell'uomo. E la dottrina dell'armonia di ra­ gione e fede contribuisce in modo specifico ad allontanare la possibilità di quella comprensione, appunto perché per Tommaso - e dunque per la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica - non può prodursi contrasto alcuno tra la ragione (ossia l'epistéme) e la fede. Oggi, si è visto, la " ragione " non costituisce più un pericolo per la Chiesa, perché anche la " ragione " riconosce di essere una fede. Il pericolo si è spostato interamente sul piano della forza, cioè sul piano del controllo della potenza tecno­ logica. La " vera " critica laica della fede cristiana non può essere altro, oggi, che l'emarginazione pratica della Chiesa dalla vita sociale; e la " vera " vittoria di quella fede sulla irreligiosità e sul lai­ cismo non può essere altro che il successo pratico­ politico delle masse che ancora posseggono quella fede. Tuttavia, la Chiesa cattolica non ha mai ab­ bandonato la dottrina dell"' armonia di ragione e fede " . Tiene in serbo quella dottrina per circo­ scrivere ed eliminare ogni tentativo della filosofia di differenziarsi dalla fede . Sin tanto che la filosofia è volontà di potenza è " giusto " che la fede cristiana la elimini: appunto perché, eliminandola, dimostra di essere una più 99

forte e quindi più " vera " volontà di potenza. Ma che accade se la filosofia porta al tramonto la volontà di potenza? 7 . LA S CIENZA E IL PARADI SO La caratteristica più appariscente del mondo occidentale è l'elevato tenore di vita delle masse rispetto al periodo preindustriale e al modo in cui ancor oggi vivono le grandi masse dell'Oriente . Per quanto grave possa essere la crisi economica, nell'area della nostra civiltà vanno ovunque rapi­ damente scomparendo la mortalità infantile, le epidemie incontrollabili, gli stenti, la rinuncia al superfluo. Le macchine e le automazioni liberano sempre più, in ogni aspetto della vita umana, dalle fatiche più dure e le nuove sinistre lavorano al progetto della rivoluzione che conduca ad una organizzazione della società, ove l'automazione integrale delle fabbriche, e quindi l 'accresciuto tempo libero, consentano la trasformazione delle masse lavoratrici in una società di individui, che possano finalmente dedicarsi a ciò che loro auten­ ticamente interessa e consumare le loro energie per ciò che effettivamente desiderano. Alla radice dell'efficienza della nostra civiltà si trova la sua organizzazione tecnologica; e que­ sta si fonda a sua volta sul formidabile sviluppo e perfezionamento delle scienze della natura. È per opera della scienza moderna che la civiltà occidentale differisce cosl nettamente da ogni al­ tra e si pone come il modello che ogni altra forma di civiltà si prefigge ormai di imitare. Il progetto che guida la civiltà della scienza è il progetto

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stesso dell'intera cultura moderna: fare dell'uo­ mo il padrone delle cose e indentificare il senso delle cose alla dimensione dominata dall'uomo. La scienza conferisce a questo progetto una forza pratica, che la filosofia moderna aveva preparato, ma non aveva potuto produrre. La cultura tra­ dizionale può discutere la teoria della supremazia assoluta dell'uomo su ogni dio, ma non ha più la possibilità di discutere la produzione effettiva di questa supremazia. Può tuttavia constatare che questa produzione non è ancora avvenuta, e può assicurare che non avverrà mai, che ci sarà sem­ pre qualcosa che l 'uomo non riesce a dominare. Il cristianesimo vuole essere una siffatta assicura­ zione. Ma il cristianesimo è una fede, e accanto alla fede cristiana c'è la fede nella capacità umana di vincere la morte, il dolore, l'infelicità e tutto ciò che provoca il desiderio di una vita ultrater­ rena. E il paradiso scientifico è lo sviluppo rigo­ roso della logica secondo cui si costituisce il para­ diso cristiano. Ma chi si dà pensiero di questa logica? E tale pensiero è così a portata di mano che sia soltanto una leggerezza non occuparsene? Sono invece disponibili gli elementi che con­ sentono di affermare che la civiltà della tecnica è destinata ad un'angoscia essenziale, che si costi­ tuisce proprio nell'atto in cui si riesca a realizzare il paradiso della scienza. La civiltà della tecnica cresce sul fondamento della scienza e la scienza è un sapere ipotetico . Oggi è la scienza stessa a riconoscere il carattere ipotetico del proprio apparato concettuale. La nascita della scienza moderna è accompagnata dalla constatazione che la filosofia, come espres­ sione di " verità definitive " , lascia inalterato il

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mondo : non dà all'uomo la potenza di liberarsi dalla fame, dalle insidie della natura, dal dolore, dal bisogno. La filosofia, si osserva, è il sapere delle vecchie classi dominanti, che entro certi li­ miti hanno realizzato quella liberazione e che quindi hanno interesse che il mondo non muti; la scienza è invece il sapere delle nuove classi sociali, che vogliono liberarsi dallo sfruttamento e vogliono quindi cambiare il mondo. Se l'effi­ cienza dell'organizzazione scientifica non fa pii1 rimpiangere l'organizzazione metafisico-filosofico­ teologica della società e " verità " significa ormai ciò che promuove e accresce la potenza dell'uomo, l'abbandono della verità lascia tuttavia nella più insanabile insicurezza . La " sicurezza " del sapere scientifico è per defi­ nizione relativa : la scienza ha deciso da tempo e metodicamente di lasciar da parte ogni tentativo di scoprire una conoscenza assolutamente incon­ trovertibile della realtà e riconosce che i propri principi e metodi sono ipotesi. Esse consentono il dominio più efficace delle cose, ma, in quanto ipo­ tesi, sono esposte alla possibilità della più radicale smentita. Il senso comune osserva che la tristezza ci assale quando siamo felici : abbiamo paura di perdere la felicità. La scienza può produrre una felicità, di cui forse non riusciamo ancora a so­ spettare l'ampiezza e l'intensità. Ma c'è un'unica cosa che la scienza non può produrre : la sicurezza della felicità, la sicurezza che non può essere data dalla " sicurezza " di ogni possibile metodologia scientifica e nemmeno da una qualsiasi fede reli­ giosa. Anche la scienza è, in quanto scienza, una fede. E per chi ha raggiunto la felicità, non può bastare la fede di non perderla. Anche per il cril 02

stianesimo la fede è una virtù di questo mondo, che non può appartenere al paradiso. Ma non può bastare nemmeno vedere il dio facie ad faciem : perché può sempre sorgere il dubbio che ciò che vediamo non sia la faccia di dio . Perché il para­ diso non sia un inferno - cioè l'angoscia dell'im­ minente vanificazione della felicità - deve mo­ strarsi la verità del paradiso, la verità che, in nes­ sun senso, sia un'ipotesi . Ma che cos'è la verità? Dobbiamo forse riprendere il cammino della cultura filosofico-teologica tradizionale, interrotto dall'avvento della scienza moderna? Ma dove clo­ vremo cercare la verità se, al di là di ogni appa­ renza e di ogni aspettativa, la cultura tradizionale si presentasse, proprio essa, come la matrice ori­ ginaria della scienza e della civiltà della tecnica, e cioè come l'origine profonda dell'abbandono della verità, nel quale cresce la storia dell'Occi­ dente?

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Capitolo terzo

MARXISMO, SCIENZA, TECNICA

l . SoLGENITSIN E IL TENENTE ZoTov

Poco prima dell'esilio Solgenitsin aveva invia­ to a Breznev una lunga lettera, la cui traduzione è stata pubblicata dal settimanale « Panorama » nel '75 ( nn. 4 1 3 , 4 1 4 ) . Un ampio sguardo sulla politica dell'Unione Sovietica, unito alla propo­ sta di eliminare la causa fondamentale degli aspet­ ti negativi della società russa. Per Solgenitsin questa causa è il marxismo . Egli non ha alcun dubbio sulla inconsistenza del marxismo come strumento teorico, sugli effetti dannosi che produce nell'organizzazione sociale, sul discredito in cui è caduto . « L'ideologia che ci è toccata in eredità » scrive « non solo è decrepita, non solo è irrimediabilmente antiquata, ma anche nei suoi decenni migliori ha sbagliato tutte le sue predizioni, non è mai stata scienza . » Tanto che in Russia non c'è più quasi nessuno che creda nel marxismo, nemmeno i dirigenti sovietici. Si " finge " di considerarlo la premessa indispensabile dell'esistenza sociale, e quindi si vive in una con­ tinua " menzogna ". « Questa menzogna generale , forzata, di uso obbligatorio, è divenuta il lato più tormentoso dell'esistenza nel nostro Paese, peg­ giore di qualsiasi mancanza di libertà civica. » 1 07

« Infatti, come altrimenti un morto può fingere di essere ancora vivo, se non puntellandosi con la menzogna? » Dunque : primo, il marxismo è responsabile di tutti gli aspetti negativi della società russa e dei suoi rapporti col resto del mondo ( e anche la tensione con la Cina deriva dalla volontà del­ l'Unione Sovietica di mantenersi alla guida del comunismo mondiale, ed è appunto il marxismo ad alimentare nei dirigenti sovietici questa vo­ lontà); secondo, il marxismo in Russia è un morto che finge di essere ancora vivo. Sulla base di que­ ste due premesse, Solgenitsin propone che la Rus­ sia si liberi dal cadavere che le sta addosso soffo­ candola . Ormai il marxismo « è una colonna sce­ nica di cartapesta, se la togliessimo non crollereb­ be nulla, nulla vacillerebbe » . Ed egli spinge il suo discorso sino a suggerire ai dirigenti sovietici il modo di evitare che l'ab­ battimento di questa " colonna scenica " degeneri in una rivoluzione cruenta, dove gli attuali deten­ tori del potere verrebbero a scontrarsi con le forze popolari antimarxiste. Questo è possibile, secondo Solgenitsin, solo se l'attuale classe diri­ gente sovietica continua a mantenere il proprio potere assoluto (« a voi rimarrà tutto l'incrolla­ bile potere, un forte partito, chiuso e isolato, l'esercito , la polizia, l'industria, le comunicazioni, le risorse del sottosuolo, il monopolio del com­ mercio estero, il corso forzoso del rublo » ) e pro­ cede essa stessa, all'interno di un apparato statale che conserva il proprio carattere autoritario, allo smantellamento del marxismo in quanto istitu­ zione di Stato. La proposta è cioè di passare da uno Stato autoritario marxista, marcio, ad uno 1 08

Stato autoritario efficiente, che consenta al popolo di « respirare, pensare, e svilupparsi » . Anche s e può lasciare perplessi, questo discor­ so è di estremo interesse. Fornisce delle indica­ zioni sulla società sovietica, che possono essere raccolte solo da chi vive in mezzo ad essa, ma dimostra anche una singolare incapacità di capire, da un lato , che cosa è il marxismo, dall'altro le ragioni che hanno condotto l'Unione Sovietica al punto in cui si trova. In questo senso, anche se non ci sono motivi per dubitare di quanto viene riferito da Solgenitsin sul modo disumano e stu­ pido in cui i suoi compatrioti sono costretti a vivere, la cultura ufficiale sovietica ha ragione di affermare che gli scritti di Solgenitsin alterano il senso della realtà sovietica e ne costituiscono una denigrazione arbitraria. Per afferrare questo senso non è sufficiente vivere in Russia, anzi, proprio chi vive in Russia si trova forse nel peg­ gior punto di osservazione. Come il contadino, che vede le cose più care distrutte da un'eruzione vulcanica, si trova nella condizione peggiore per conoscere i fattori che rendono possibile il vul­ canismo. Perché è indubbio : la rivoluzione so­ vietica è stata un'eruzione vulcanica e il popolo russo vive da tempo in una sorta di pietri:ficazione. Ma perché tutto questo? Solgenitsin non se lo chiede e si limita a descrivere la desolazione del paesaggio . E tende a illudersi che la lava sia carta­ pesta . Leggendo quanto scrive, viene il sospetto che Solgenitsin - a differenza del tenente Zotov, il protagonista di un suo racconto, che nelle ore libere si immerge nella lettura del « primo grosso volume blu del Capitale, stampato sulla ruvida 109

carta rossiccia degli anni trenta » - non conosca, dei libri di Marx, molto di più del loro colore. È impossibile che, ad esempio, egli si sia imbat­ tuto in certe pagine di Marx ( molte), dove si ri­ vendica la dignità dell'uomo in un modo piano e accessibile anche a un letterato o a un laureato, come lui, alla Facoltà di Fisica e Matematica del­ l'Università di Rostov, e, ciononostante, conti­ nui a restar fermo in quella rozza identificazione tra il pensiero di Marx e l'ideologia ufficiale dello Stato sovietico, che pervade tutta la sua lettera. Giacché per lui non ci sono dubbi : tra quel pen­ siero e quell'ideologia non esiste scarto, sono la stessa cosa. Per quanto paradossale possa appa­ rire, Solgenitsin è rimasto vittima della propa­ ganda ufficiale sovietica che mira, appunto, ad accreditare la sostanziale continuità e fedeltà del­ l'ideologia ufficiale rispetto al pensiero di Marx. Proprio in questo suo disgusto per tale pensiero, Solgenitsin non esce dal conformismo dell'ideo­ logia ufficiale sovietica. Appunto per questo egli può giungere a rove­ sciare i rapporti reali che sussistono tra il pen­ siero di Marx e l'ideologia ufficiale . Per Solge­ nitsin infatti non è l'assetto attuale dell'ideologia sovietica ad aver tradito il pensiero di Marx, ma è questo pensiero a tradire lo Stato e i dirigenti sovietici. Rivolgendosi ai quali scrive : « Abbiamo visto sopra come non sia stato il vostro buon senso, ma proprio la decrepita Dottrina di Avan­ guardia [cioè il marxismo ] da voi ereditata a legarvi al collo tutte le macine che vi fanno anne­ gare [ cioè « collettivizzazione », « nazionalizzazio­ ne dei mestieri e dei servizi », « ostacoli nello svi-

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luppo industriale e nella ricostruzione tecnolo­ gica » , « persecuzione della religione » ] » . M a perché queste " macine " sono legate al collo dello Stato sovietico? Nella sua lettera Solge­ nitsin ignora completamente questa domanda ed è quindi inevitabile che l'assetto marxista della società russa, separato dal processo della sua genesi, gli appaia come cosa morta. Sì, il marxismo (come il cristianesimo e il capitalismo borghese) è malato mortalmente. Ma possiede ancora una forza gigantesca, con la quale si debbono fare conti che Solgenitsin non so­ spetta. 2 . APPARENZA E REALTÀ DEL MARXISMO Il socialismo marxista, quale si presenta nel­ l 'immagine che la società sovietica ha costruito di se stessa, è qualcosa di diverso dalla funzione reale che questa società ha nel mondo. Il primo è un'ideologia - l'ideologia ufficiale dello Stato sovietico - che nasconde e altera la società che presume rispecchiare; la seconda è la conforma­ zione effettiva di questa società, il suo peso e significato storico reale. Smascherare l'ideologia sovietica non significa quindi aver liquidato la realtà sovietica; cosl come smascherare l'ideologia capitalistica non significa essersi sbarazzati della realtà capitalistica. Eppure proprio questo è l'er­ rore che domina la critica di Solgenitsin al marxi­ smo. Per lui il marxismo si identifica senza resi­ dui all'ideologia ufficiale sovietica, cioè alla " men­ zogna " che fa sembrare " vivo " cio che è " morto " ; sl che liberarsi dall'ideologia marxista, come lo

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scrittore russo propone a Breznev, significa aver chiuso definitivamente i conti col marxismo. Come non gli viene neppure il sospetto che il pensiero di Marx sia qualcosa di diverso dall'ideologia ufficiale sovietica, cosl non sospetta neppure che il marxismo, oltre ad essere una menzogna ideolo­ gica, sia anche una realtà sociale che affonda le sue radici in tutto il mondo. È così fissato sul concetto di " sincerità " (si pensi alla cri tica della " sincerità in letteratura " che in Reparto C egli mette ironicamente in bocca alla ragazza Avieta, integrata al sistema sovietico e aspirante poetes­ sa), che, avendo trovata insincera l'ideologia uffi­ ciale, viene a convincersi che la forza reale del marxismo nel mondo è una pura invenzione. Come se un affamato buttasse via del pane perché ha scoperto che un imbroglione gli ha fatto credere che fosse caviale. Nella lettera di Solgenitsin non appare un solo cenno alla lotta che da un secolo e mezzo il pro­ letariato conduce contro la borghesia. La si potrà deprecare, ma esiste; ed è per questa lotta che esiste l'Unione Sovietica . Un poco alla volta, le masse operaie sono andate convincendosi di es­ sere vittime di una profonda ingiustizia da parte della borghesia al potere. Poi è venuto il marxi­ smo (quello che Solgenitsin non conosce), che ha creduto di interpretare il senso autentico di que­ sta ingiustizia. Ha detto : non si tratta di un'in­ giustizia qualsiasi, ma dell'ingiustizia fondamen­ tale, che attraverso lo sfruttamento del lavoro impedisce ai lavoratori di essere uomini. Sarà di­ scutibile; ma il fatto è che il marxismo si è messo alla testa del proletariato per organizzare la rivo­ luzione mondiale ed eliminare lo sfruttamento del

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lavoro. (Ed è un fatto - da noi queste cose sono state ripetute a sazietà - che nel mondo occiden­ tale il marxismo si è in buona parte sostituito al cristianesimo nel compito di proteggere gli op­ pressi e di alimentare la speranza in una vita più umana.) La rivoluzione c'è stata; ma non è stata mon­ diale ed è stata vittoriosa solo in Russia. Da quel momento la Russia sovietica è diventata il luogo - l'isola - dove per la prima volta nella storia viene compiuto l'esperimento di un'organizzazio­ ne comunista della società, l 'esperimento che do­ vrebbe portare ad un nuovo modo di vivere, dove ciascuno non riceve più dalla società in propor­ zione al suo lavoro, ma in proporzione ai suoi bisogni. Questa intenzione originaria della rivo­ luzione sovietica - cioè questa volontà di giu­ stizia e di democrazia effettiva - non va dimenti­ cata o sottovalutata, perché è l'elemento fonda­ mentale della forza di attrazione che, nonostante tutto, l'Unione Sovietica esercita ancora oggi sul proletariato mondiale : nonostante Stalin, l'Un­ gheria, la Cecoslovacchia, la persecuzione degli intellettuali dissidenti, eccetera. In questa forza di attrazione consiste la forza reale del marxismo sovietico, che Solgenitsin considera cosa morta, la cui eliminazione definitiva non provocherebbe alcun " crollo " . Il punto è questo : nella coscienza delle masse proletarie mondiali l 'Unione Sovietica rappresenta ancora e nonostante tutto il luogo dove si tenta di eliminare lo sfruttamento del proletariato da parte della borghesia. Senonché, questo esperimento ha nemici in­ terni ed esterni: il vecchio assetto e la vecchia mentalità feudali-borghesi, in Russia, e i Paesi 1 13

capitalisti . Vuole condurre ad una società dove non esista più la violenza, ma per difendersi dai suoi nemici e realizzarsi è costretto a dar vita ad una delle società più violente della storia. Ancora Lenin sapeva che sin che fosse durata la " dittatura del proletariato " - cioè l'inevitabile oeriodo inter­ medio dell'organizzazione violenta della società, avente lo scopo di difendere il proletariato dalla violenza borghese -, sino allora non avrebbe po­ tuto realizzarsi il comunismo, cioè lo scopo della rivoluzione. Giacché questo era l'intendimento originario della rivoluzione : la convinzione che per raggiungere il comunismo - la dignità e la felicità dell'uomo - fosse necessario un periodo intermedio di repressione e di violenza. La rivoluzione marxista oggi in Russia è tra­ dita non perché il periodo intermedio continua ad essere violenza, repressione, sofferenza - non perché è tuttora ai ferri corti con i suoi vecchi nemici - , ma perché l'ideologia ufficiale sovietica si sforza di far credere che in Russia il periodo intermedio è superato, che l'esperimento di libe­ razione del proletariato è ormai sostanzialmente riuscito, che la società senza classi esiste già, che la violenza è bandita, che i dissidenti sono sol­ tanto dei malati mentali. Questa è la " menzogna" che si respira in Russia e che Solgenitsin denuncia, senza però comprendere che la sua eliminazione non è ancora l'eliminazione dell'effettiva forza so­ ciale del marxismo, ma solo della sua maschera. Un'eliminazione, quest'ultima, che porta sì alla luce una realtà drammatica (il permanere della violenza nella società russa) , ma illumina insieme le ragioni di fondo che spiegano come il marxi­ smo, che promette la liberazione dalla violenza,

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sia costretto ad essere violenza estrema per poter sopravvivere e per tenere aperta la strada della liberazione mondiale del proletariato. Certo, tutto questo è discutibile, ma è questa realtà senza maschera che, più o meno confusa­ mente e nonostante la concorrenza della Cina, sta dinanzi al proletariato mondiale. Le peggiori crudeltà avvenute nell'Unione Sovietica non rie­ scono a far dimenticare la ragione di fondo che le ha determinate, anche se tale ragione è servita da alibi a coloro che hanno fatto dell'esperimento contro la violenza borghese la base del loro potere personale. Solgenitsin riesce a guardare soltanto all'interno della falsa coscienza che la classe diri­ gente russa possiede della rivoluzione sovietica. Ed è inevitabile che il marxismo gli appaia come " una colonna scenica di cartapesta " . Ma vi è anche quella realtà più seria e preoccupante che è la funzione esercitata dalla rivoluzione russa dinanzi agli occhi del proletariato mondiale. Ed è in relazione a questa realtà che Solgenitsin si illu­ de : qui il marxismo è ben più valido e vivo di quanto egli non sospetti. Ciò non vuoi dire che il marxismo, inteso in questo senso sostanziale, non sia mortalmente ma­ lato. Esso ha già a che fare con l'avversario rhe lo porterà al tramonto. E che compare anche nella lettera di Solgenitsin. Egli lo nomina, ma non ne vede il carattere decisivo. Cerchiamo di indi­ viduarlo.

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3. TECNOLOGIA E MARXISMO La diagnosi del marxismo, quale appare nella " lettera " di Solgenitsin a Breznev, è estrema­ mente ingenua; e tuttavia contiene lo spunto fon­ damentale (ma non più che lo spunto) della dia­ gnosi autentica. Sinora avevamo considerato sol­ tanto la prima parte di questo discorso; veniamo ora alla seconda. Solgenitsin è convinto che il marxismo sia una rozza dottrina, ormai morta nella coscienza e nella vita reale del suo Paese, e sulla base di questa convinzione si illude di poter proporre ai diri­ genti sovietici di liberare la Russia da questo peso morto nel giro di una decina d'anni, senza rivolu­ zione cruenta e !asciandoli alla guida di uno Stato assoluto. Ma il marxismo va verso il tramonto non per­ ché sia un'idiozia o una ferocia inutile, ma per­ ché, come tutte le altre grandi ideologie della ci­ viltà occidentale (cristianesimo e capitalismo in­ clusi), ha nel suo cuore il principio del proprio tramonto . Non mi propongo, qui, di chiarire il senso di questa affermazione (cfr. capitolo setti­ mo), ma di mettere in vista il suo affiorare nella diagnosi del marxismo compiuta da Solgenitsin. Una delle accuse principali che nella sua " let­ tera " egli muove al marxismo è di non avere dignità scientifica. Il marxismo non solo è una ideologia « decrepita » e « irrimediabilmente anti­ quata », « ma anche nei suoi anni migliori ha sbagliato tutte le sue predizioni, non è mai stato scienza ». « Non ha saputo predire un solo evento in cifre, quantità, tempi e luoghi, cosa che fanno oggi agevolmente le macchine elettroniche con

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le previsioni sociali, non certo guidate dal marxi­ smo. » Il quale è invece responsabile di tutti « gli ostacoli nello sviluppo industriale e nella rico­ struzione tecnologica )>. Ecco il punto : il marxismo ostacola il pro­ gresso tecnologico. È una sorta di mitologia e di filosofema che impedisce l'affermarsi della razio­ nalità scientifica. La differenza tra il marxismo sovietico degli anni venti e quello degli anni set­ tanta è data appunto dalla circostanza che sono stati in molti e sono sempre di più in Russia e, si capisce, fuori della Russia - ad accorgersi che l'ideologia marxista ostacola lo sviluppo tecnolo­ gico. E qui è il dramma del marxismo sovietico, perché lo sviluppo tecnologico è condizione ne­ cessaria della sopravvivenza del marxismo. Ve­ diamo. Contrariamente alle previsioni di Marx, la rivoluzione proletaria non è stata mondiale ed è stata vittoriosa solo in Russia - si sarebbe poi dovuto attendere un altro quarto di secolo perché lo fosse anche in Cina. Guidata dalla filosofia di Marx, la rivoluzione proletaria mira a realizzare una società dove la violenza sia completamente bandita. Ma attorno alla giovane Repubblica so­ vietica è rimasta la vecchia violenza, cioè i vecchi Stati capitalistici che hanno sempre mirato alla soppressione del germe pericoloso. Se si vuole che la società non violenta sopravviva la si deve allora difendere dall'aggressione capitalistica. Ma la filosofia rivoluzionaria, nello scontro im­ mediato, è una debole arma di difesa. Lo sviluppo tecnologico del capitalismo occidentale aggrava la minaccia. Se il proletariato russo vuole conser­ vare la sua conquista, deve saper reggere il con-

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fronto con la tecnologia capitalistica. Per sal­ vare il germoglio della società non violenta, la rivoluzione deve realizzare una società che sappia reggere l'urto del capitalismo, cioè una società concorrenziale, organizzata per raggiungere una posizione di forza, e quindi secondo criteri - ap­ parato burocratico e sviluppo tecnologico - che non sono più quelli che conducono alla società non violenta, ma sono gli stessi criteri dell'avver­ sario. Per difendersi dal capitalismo, la rivolu­ zione socialista è costretta ad adottare la logica e gli strumenti del capitalismo . (Il vantaggio dei partiti comunisti " ortodossi " sui movimenti delle sinistre extraparlamentari consiste nell'aver ca­ pito l'inevitabilità dell'adozione degli strumenti di lotta dell'avversario. Ne è conferma il mutamento della politica economica di Cuba e della Cina, che hanno appunto compreso l'impossibilità di te­ nere in vita il socialismo prescindendo dalle tec­ niche della società capitalistica.) Se non li adotta, perisce distrutta dall'avversario. E tuttavia, se li adotta, perisce distrutta da se stessa. La politica di fondo dell'Unione Sovietica è lo sforzo di trovare un equilibrio in questa contrad­ dizione . Ma ogni sforzo risente della contraddi­ zione di fondo e si rivela precario. Ad esempio, per alleggerire la pressione delle istanze di organiz­ zazione tecnologica e non soffocare le originarie istanze ideologiche della società non violenta, l'Unione Sovietica ha ogni interesse a promuo­ vere la distensione con i Paesi capitalisti. Ma se l'ideologia respira, riacquista forza il progetto del­ la rivoluzione mondiale, che a questa ideologia è essenziale; con la conseguenza dell'irrigidimento degli Stati capitalisti di fronte all'accentuata espan118

sione dell'ideologia sovietica nel mondo, e col conseguente ripristino della tensione, che a sua volta produce il riacutizzarsi dello scontro tecno­ logico e l 'accantonamento delle istanze ideologiche. Anche i milioni di morti del periodo staliniano sono - dal punto di vista oggettivo - una conse­ guenza della necessità che l'apparato burocratico­ tecnologico dell'Unione Sovietica non abbia incri­ nature; e la menzogna costante con la quale in Russia la classe dirigente spaccia come società non violenta una delle forme più violente di so­ cietà non è semplicemente, come crede Solgeni­ tsin, l'espediente col quale quella cosa morta che è il marxismo si fa passare per viva, ma è il ten­ tativo di distogliere l'attenzione delle masse dal mancato raggiungimento del traguardo ideologico della società non violenta, affinché ogni sforzo venga concentrato sul rafforzamento dell'apparato tecnologico. Il contrasto tra marxismo e tecnologia, in Russia (e nel mondo), è destinato a risolversi in favore della tecnologia, perché quest'ultima ha argomenti tali da produrre nelle masse la convin­ zione che essa sia in grado di realizzare ciò r.he la rivoluzione marxista ha saputo soltanto vagheg­ giare, cioè la liberazione degli uomini dal bisogno. Oggi la tecnica si dispone a trasformare i pro­ blemi sociali - e anche quelli religiosi - in pro­ blemi tecnici . In questa prospettiva, come ha scritto il tecnocrate Alvin Weinberg, non è più necessario perdere tanto tempo per cambiare la testa alla gente. Le rivoluzioni sociali, come quella sovietica, esigono questa perdita di tempo. Invece, scrive Weinberg, « se gli uomini hanno bisogno di più acqua, si dà loro l'acqua (magari con un 1 19

impianto di desalinizzazione) , invece di esigere che ne consumino meno ; se la gente vuole pro­ prio guidare l'auto in stato di ubriachezza, le si danno automobili che non provochino ferite an­ che in caso di grave incidente » . Ma anche in relazione a problemi meno avveniristici; per sfa­ mare la popolazione mondiale (sfamarla nel corpo e nello spirito) oggi non è più necessaria una rivoluzione sociale : è in grado di farlo l'appa­ rato tecnologico attualmente a disposizione degli uommt . In Russia, e ormai anche in Cina, il marxismo va verso il tramonto, perché ci si convince sem­ pre più che lo sviluppo tecnologico non è soltanto la condizione indispensabile per difendere il so­ cialismo dalla pressione capitalistica, ma è anche lo strumento più idoneo per realizzare quella so­ cietà non violenta, liberata dai bisogni, che l'ideo­ logia marxista non ha saputo produrre. È in questa prospettiva che l'invocazione di Solgenitsin alla classe dirigente sovietica , affinché liberi la Russia dal marxismo, non è una pura utopia da letterato. Andiamo verso un tempo in cui anche gli scrittori e i poeti ( oltre che le anime religiose) avvertono sempre meno la voce delle ideologie e sempre più la voce della scienza e della tecnica . Tra molte incertezze : quella di Solgenitsin è di non accorgersi che il declino del marxismo di fronte alla tecnica è insieme il declino del cristianesimo, nel quale, invece, egli ancora crede .

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4 . SoCIOLOGIA

E

MARXISMO

La nascita delle scienze moderne è dovuta a un progressivo distacco da una matrice comune , la filosofia. Esiste una certa somiglianza tra l'ipo­ tesi che concepisce l'universo come il risultato dell'esplosione di un centro di energia originaria che si frantuma in una miriade di costellazioni e di mondi allontanantisi a velocità vertiginosa dal loro comune luogo d'origine, e la constatazione storica dell'esplosione dell'antica saggezza filoso­ fica dell'Occidente e del frantumarsi di questa saggezza in una molteplicità di scienze che si allontanano vertiginosamente dal senso originaria­ mente posseduto dalla parola " scienza " . Ma il distacco delle scienze moderne dal loro comune luogo d'origine non avviene, come nell'esplosione cosmica, simultaneamente, bensì un poco alla vol­ ta, in una successione che è aperta dalla fisica e che per ora è chiusa dalla sociologia. I figli prodi­ ghi sono fuggiti uno alla volta dalla casa paterna . Questo è stato possibile perché la porta della casa era aperta, e cioè perché la casa stessa ha favorito la fuga. Ma non è su questo aspetto - la solidarietà tra la casa paterna e i figli prodighi che intendiamo qui soffermarci : anche se è l'aspet­ to fondamentale, decisivo, ma che, proprio per questo, è il più riluttante a lasciarsi tradurre in uno scritto che si proponga di attutire le difficoltà. La sociologia è l'ultimo dei figli fuggiti ( o forse, in relazione alle specializzazioni che si sono verificate nell'ambito delle discipline scientifiche fondamentali, è uno degli ultimi) . Con poco più di un secolo di vita è la più giovane delle scienze. Come dice la parola stessa, la sociologia è la scienza

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che !>tudia la società umana. Ciò non significa che l'antico sapere filosofico non avesse mai volto lo sguardo alla società; al contrario se l'è sempre tenuta dinanzi con cura solerte. La sociologia è scienza, e non filosofia della società, perché ad un certo momento la società non è più stata guardata con l'occhio della filosofia, ma con quello della scienza; ossia perché anche la società umana, co­ me già era avvenuto per la natura e, più recente­ mente, per la psiche umana, è stata studiata con i metodi propri della scienza moderna. Tuttavia, mentre nella parabola evangelica, quando il figlio fugge, il padre resta a casa ad attenderlo e di lui non si sa più nulla fino al ritorno del figlio, nel nostro caso accade qual­ cosa di diverso : il padre (o, se si preferisce, la madre) rincorre i figli fuggitivi, e a volte rimane indietro, altre volte li raggiunge e si mette a par­ lare con loro per convincerli a ritornare ; e qual­ che volta sembra riuscirvi, ma per poco, perché quelli riprendono la loro fuga, sempre più lontani dalla casa paterna. Se volessimo raccontare l'intera trascrizione della parabola, dovremmo dire che alla fine il padre inseguitore si convince che i figli hanno fatto bene a fuggire di casa ed egli stesso trasforma la sua corsa per riportarveli in una fuga dalla propria casa. Anche il padre, come il figlio prodigo, è fuggito dalla propria casa: anche la filosofia, come le scienze moderne, ha abbando­ nato la propria dimora. La fine della parabola sarebbe questa. Anche se, poi, altre parabole si dovrebbero dire (e soprattutto quella, cui sopra si è fatto cenno, della solidarietà della porta aperta della casa paterna con la fuga dei figli) . Ma i rap­ porti tra filosofia e sociologia che qui intendiamo 122

considerare appartengono a una fase che precede la conclusione della parabola; appartengono cioè al momento in cui il padre tenta ancora, e con forza, e con validi argomenti , di riportare a casa il figlio. Il padre che compie questo tentativo si chiama marxismo. (Ma ancora oggi nell'Unione Sovietica la sociologia è considerata una " scienza borghese " , cioè una scienza apparente. ) Per Marx i l capitalismo è errore ( " alienazio­ ne "); un errore che domina tutti gli aspetti della vita umana, un'atmosfera ammorbata in cui respi­ riamo, ma che non cessa di essere errore per il fatto che è stato assunto come la legge fondamen­ tale dei rapporti sociali. Marx ritiene cioè di sa­ pere che cosa sia una società che non viva secondo l 'errore. Non solo, ma ritiene che la propria dia­ gnosi sull'alienazione capitalistica sia vera. Ai miei amici marxisti che mi ricordano che per il marxi­ smo la verità è storica cioè non è definitiva, assoluta, immodificabile, ma è aderente alla tra­ sformazione storica della realtà - faccio sempre il seguente discorso, che alla fine conclude con una domanda, alla quale essi rispondono sempre con molta fatica e molta riluttanza. La verità, dice il marxismo, è storica. Bene. Questo significa che la realtà muta e che quindi muta la teoria che la descrive, sl che, ad esempio, la diagnosi del capitalismo inglese della seconda metà dell'Otto­ cento non può essere identica alla diagnosi del capitalismo inglese contemporaneo. Ma - ecco la domanda - se Marx poteva e doveva certamente concedere che in futuro il capitalismo inglese avrebbe assunto altre forme e avrebbe quindi richiesto una diversa descrizione teorica, egli avrebbe potuto concedere che in futuro ci s1 sa-

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rebbe accorti che la sua diagnosi del capitalismo inglese della seconda metà dell'Ottocento era sba­ gliata? Il marxista contemporaneo può ammettere che in futuro ci si accorga che la sua diagnosi del capitalismo contemporaneo è sbagliata e che altri sono i criteri e gli strumenti con i quali si deve accostare e interpretare la realtà sociale? Può egli ammettere che la sua diagnosi dell'alienazione ca­ pitalistica sia una semplice ipotesi che in seguito può mostrarsi falsa? Può egli ammettere che in futuro ci si accorga che lo sfruttamento del prole­ tariato non è mai esistito, ma è stato qualcosa di imputabile semplicemente a un'ottica inadeguata, da sostituirsi con una più rispondente all'autentica fisionomia della società? Se a questa domanda si risponde no e questa è la risposta di Marx, di Engels, di Lukks, di Lenin, di Stalin e di molti e molti altri -, il mar­ xismo riconosce che il proprio giudizio sulla so­ cietà attuale ha un carattere assoluto, incontro­ vertibile, definitivo . Riconosce cioè di essere filo­ sofia e non semplice ipotesi scientifica. Se si risponde sì, il marxismo riconosce di essere un'interpretazione ipotetica e falsificabile della società, riconosce cioè di essere scienza e non filosofia, giacché appunto questa è la carat­ teristica determinante del moderno sapere scien­ tifico, di essere non una verità incontrovertibile e definitiva (questa è la pretesa che la filosofia ha avuto sin dalla sua nascita) , ma un'ipotesi che può essere falsificata, modificata, corretta, sosti­ tuita. La storia del marxismo è il passaggio da que­ sto " no " a questo " sl " ; a un " sl " pronunciato dapprima timidamente e poi sempre più decisa-

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mente ed esplicitamente. Il marxismo ha sempre più accentuato il suo distacco dalla filosofia, e cioè dal sapere incontrovertibile e assoluto, per essere e riconoscersi sempre più come scienza, cioè sa­ pere ipotetico, empirico, provvisorio. Sempre me­ no filosofia e sempre più scienza economica, che intende discutere l'economia capitalistica dal pun­ to di vista scientifico, che dunque l'economia mar­ xista ha in comune con l'economia capitalistica. E questo passaggio del marxismo dalla filoso­ fia alla scienza è il suo passaggio a un diverso modo di intendere la rivoluzione. Sino a che il marxismo rimane filosofia e non si avvede che il suo destino è di diventare anch'esso scienza accorciando così la distanza che lo separa da quella società capitalistica che è stata la condi­ zione del costituirsi del moderno sapere scienti­ fico -, nei suoi rapporti con la sociologia il mar­ xismo è il padre che rincorre il figliol prodigo e tenta di convincerlo a ritornare. Vedremo tra poco che cosa gli dice. Ma già sappiamo che alla fine sarà il figlio che convincerà il padre a fuggire con lui : lo studio della società umana dev'essere portato al di fuori delle astrattezze della specu­ lazione filosofica; analogamente a quanto accade alle scienze della natura, anche la sociologia si rivolgerà all'esperienza, metterà in evidenza i rap­ porti, tra fenomeni sociali, che si ripetono con regolarità e che possono essere osservati da un qualsiasi soggetto psichicamente normale, e sulla base di queste regolarità empiriche formulerà del­ le ipotesi e delle previsioni, la cui verità o falsità sarà determinata dalla concordanza o discordanza con l'esperienza da parte delle proposizioni che da quelle ipotesi e previsioni discendono.

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E tutto questo è molto plausibile. La plausi­ bilità di questa rivendicazione del sapere scientifi­ co di contro al sapere filosofico è analoga a quella oggi reperibile nei discorsi che contrappongono alla fumosità e incompetenza degli uomini poli­ tici la competenza dei tecnologi. Che c'è di " bor­ ghese " nell'esigenza che un ministro del Tesoro o della Sanità debba essere un competente di pro­ blemi finanziari e sanitari ? E che c'è di " borghe­ se " nell'esigenza che i problemi della società ven­ gano sottratti all'inconcludenza della filosofia e affrontati con i metodi, così fecondi di risultati tangibili, della fisica o della biochimica? Gyorgy Lukacs, il maggiore filosofo marxista del nostro secolo, circa cinquant'anni fa ha scritto un libro, Storia e coscienza di classe, dove in modo essenziale anticipa quanto verrà poi detto, con minore profondità di pensiero, da Adorno, Hork­ heimer, Marcuse, Habermas e tanti altri. Nes­ suno meglio di Lukacs può rappresentare la figura del padre che rincorre i figli fuggitivi - anche la sociologia, dunque - per convincerli a ritornare. In questo libro è presente anche lo sforzo di sfa­ tare la plausibilità e la neutralità politica del di­ scorso con il quale la sociologia intende costituirsi come scienza . Sembra, ripetiamo, che non vi sia nulla di più innocente, di più neutrale, di più lontano dall'interesse economico-politico che il proposito di voler studiare scientificamente la so­ cietà umana. Come può l'intento di onestà scien­ tifica avere un sottinteso politico ? Come può la volontà di imparzialità nell'analisi dei fatti sociali nascondere gli interessi della borghesia ? Tutta­ via, chi oggi si stupisce, o magari considera con sufficienza le espressioni come " medicina borghe-

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. se , , " b'10 log1a borghese , fisrca borghese , e, naturalmente, " scienza economica borghese " , ab­ bondantemente presenti nel linguaggio usato da Mao Tse-tung, ignora che i fondamenti teorici di questo linguaggio si trovano in quel lontano libro del pensatore ungherese e costituiscono uno dei temi fondamentali del rapporto tra marxismo e società borghese. « L'ideale conoscitivo delle scienze naturali » scriveva dunque Lukacs « che, applicato alla na­ tura, serve unicamente al progresso della scienza, quando viene riferito allo sviluppo sociale si pre­ senta come mezzo della lotta ideologica della borghesia. » Dal punto di vista del metodo delle scienze della natura, infatti, l'oggetto della scien­ za (la natura, appunto) non è affetto da alcuna contraddizione. Principio metodologico fondamen­ tale di queste scienze è che la realtà da esse inda­ gata, proprio perché è realtà, non può essere in contrasto con se stessa, cioè non può possedere e insieme non possedere una certa proprietà; non può tendere e insieme non tendere in una certa direzione ; le sue leggi non possono essere in conflitto con se stesse. Pertanto, se tra alcune teo­ rie scientifiche o tra le parti di una stessa teoria sussiste qualche contraddizione, « ciò è soltanto un segno del grado ancora imperfetto finora rag­ giunto dalla conoscenza » scientifica. Il comparire della contraddizione significa che c'è qualcosa che non va nella riflessione scientifica sulla realtà, e non nella realtà. Sì che per togliere la contraddizio­ ne è necessario modificare la conoscenza scientifica, e non la realtà; è necessaria una diversa sistema­ zione del sapere, che ne determina insieme il progresso . ,

"

.

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Ebbene, se questo principio metodologico del­ le scienze naturali viene applicato allo studio del­ la società, se cioè la sociologia si propone di acco­ stare la società con l'atteggiamento metodico che è proprio delle scienze della natura, accade allora che la società umana viene a presentarsi - analo­ gamente alla natura, in quanto oggetto di scienza - come una dimensione reale in cui non possono esistere contraddizioni, antagonismi, contrasti tra i vari fattori e tra le varie forze sociali e dove dunque non ha senso modificare le leggi secondo cui si costituisce la società esistente. Ma queste leggi sono le leggi della società borghese. Applicare alla realtà sociale i metodi delle scienze naturali - e in questa applicazione consiste la sociologia - significa quindi conside­ rare la società borghese come qualcosa di immo­ dificabile e insostituibile, e significa addossare alla semplice conoscenza e non alla realtà sociale le contraddizioni che eventualmente emergono nel­ l'indagine sociologica. Anche la società borghese, come la natura, non può essere un errore . Per togliere queste contraddizioni, quindi, non avrà senso alcuno una modificazione della società - cioè una rivoluzione , ma sarà sufficiente una rettifica e un miglioramento nell'apparato conosci­ tivo della scienza sociale . Non occorrerà una rivo­ luzione, ma basterà un progresso scientifico. In questo modo, alla società borghese è assicurata una vita eterna e la sociologia se ne fa garante e ne fornisce avallo scientifico . L'apparente innocenza e neutralità del proposito di applicare alla società i metodi delle scienze naturali si rivela quindi co­ me un « mezzo della lotta ideologica della bor­ ghesia » . -

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Questo il discorso, anzi una parte del discorse> del padre al figliuol prodigo. Ma questo discorso presume di sapere che cosa siano la società esistente e la sua malattia, indi­ pendentemente da ciò che ne sa la scienza. Presu­ me cioè di essere conoscenza e giudizio incontro­ vertibile sulla società. Conoscenza e giudizio filo­ sofico, dunque. In una delle opere fondamentali della cultura liberai-democratica del nostro secolo, La società aperta e i suoi nemici, di K.R. Popper, viene realizzata un'operazione culturale alquanto inso­ lita per un filosofo della scienza, avvezzo a sotto­ porre ad indagine le procedure del sapere fisico­ matematico. Popper ha infatti raggiunto risultati di rilevante importanza nell'applicazione alle scien­ ze sociali delle sue riflessioni sulla conoscenza fisico-matematica, e nell'amplissima esplorazione storica dei presupposti più lontani dalla società attuale. Questa attenzione per i condizionamenti storici del presente lo differenzia nettamente non solo dalle altre forme della sociologia " borghese " ( scientifica) contemporanea, ma anche dalla debo­ lezza dell'impianto storico dei maggiori filosofi della scienza neopositivisti. E l'acutezza di quella attenzione lo distingue anche dall'analoga ma meno rigorosa sintesi tentata da Russell tra inte­ ressi logico-epistemologici e interessi storico-so­ ciali . La stesura de La società aperta e i suoi nemici ebbe inizio nel 1 938 ( invasione dell'Austria) e durò fino al 1 9 4 3 . Pochi anni dopo, sul versante opposto, Gyorgy Lukacs iniziava la stesura del grosso saggio La distruzione della ragione, termi­ nato nel 1 952. Il problema discusso nelle due

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opere è il medesimo, cioè la responsabilità della cultura. Più propriamente, le responsabilità che la cultura possiede nell'avvento della repressione e della violenza in quanto caratteristiche dello Stato totalitario contemporaneo. Ma già nell'identificazione di questo Stato Pop­ per e Lukacs divergono, perché per il marxista ortodosso Lukacs la repressione totalitaria (un aggettivo, questo, che egli usa però in altro senso) si identifica allo Stato hitleriano, mentre, per il " liberale " Popper, Stato totalitario è sia quello hitleriano, sia quello sovietico. Nel suo saggio Lu­ kacs non cita mai Popper, sebbene il contesto del suo discorso gliene offra continuamente l'occasio­ ne. Tuttavia nel Poscritto finale c'è un passo che ben difficilmente Lukacs può aver scritto senza pensare a Popper: « La coalizione contro il fa­ scismo ben presto si spezza e la " crociata " anti­ comunista, filo conduttore della propaganda hit­ leriana, viene accolta con sempre maggiore ener­ gia dalla parte " democratica " . Naturalmente cam­ bia, cosl, la direzione di queste concezioni " demo­ cratiche " . Durante la guerra mondiale esse erano dirette contro il fascismo e potevano quindi sen­ tirsi, a volte a ragione, come continuazione del periodo aureo, da gran tempo trascorso, della de­ mocrazia borghese » . In seguito, « viene compiuto il tentativo di conservare l'apparenza di questa continuità : di rivolgere la lotta contro il " totali­ tarismo " , riducendo fascismo e comunismo allo stesso denominatore. L'ideologia " antitotalitaria " assume inevitabilmente un carattere fascista sem­ pre più pronunciato » . Questa riduzione di fascismo e comunismo allo stesso denominatore del " totalitarismo " è il tema 130

fondamentale de La società aperta e i suoi nemici. La " società aperta " è appunto la società demo­ cratica non totalitaria, e il primo dei due volumi che compongono quest'opera porta come sottoti­ tolo : Platone totalitario. Giacché questa è la tesi sostenuta da Popper, che Platone è il maggior " nemico " della " società aperta " e che la sua filo­ sona è la matrice originaria dello Stato totalitario contemporaneo. Hegel e Marx non faranno poi che camminare lungo la strada aperta da Platone. Nel saggio di Lukacs, all'opposto, la " distru­ zione della ragione ", identificata all'ideologia " fa­ scista " ( nazista), consiste proprio nella distruzione della via che da Platone conduce a Hegel e a Marx; ossia consiste in quell"' irrazionalismo " (la « corrente che va da Schelling a Hitler ») che, oltre a Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, la filosofia della vita, il razzismo di Gobineau e Chamberlain, il " soggettivismo parassitario " di Heidegger e J aspers, la sociologia tedesca del periodo imperialista, include anche quella filoso­ fia analitica di cui Popper è esponente. Non a caso quanti hanno raccolto l'eredità di Lukacs, da Adorno a Habermas, hanno sentito il biso­ gno di misurarsi costantemente con la sociologia di Popper, che oggi può essere considerato il maggior teorico antimarxista e anticomunista. Anche per Popper, la civiltà occidentale ha origine con i Greci. Ma, per lui, la cultura greca è responsabile non solo di tutto ciò che nella nostra storia appare degno di essere vissuto dall'uomo, ma anche dell'orrore e della disumanità che lungo la storia dell'Occidente vanno perpetuandosi sino alla loro forma estrema, costituita dallo Stato totalitario fascista e sovietico. I Greci furono,

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nella storia dell'uomo, « i primi a compiere il pas­ saggio dal tribalismo all'umanitarismo » : quella loro duplice responsabilità nei confronti della ci­ viltà occidentale scaturisce da questo passaggio decisivo. Anche per Popper, come per molta parte del­ l'antropologia moderna, non esiste una sostanziale differenza tra l'antica società tribale greca e le so­ cietà tribali extraeuropee. La tribù è l'associazione umana più antica; dove tutti gli aspetti fonda­ mentali dell'esistenza umana - non solo la guerra e la pace, ma anche l'abitare, il nutrirsi, la caccia e il lavoro, il matrimonio, la nascita e la morte non hanno il carattere di azioni compiute dai sin­ goli individui, ma riguardano e interessano l'intera comunità e sono vissuti secondo norme e leggi sempre eguali, dalle quali il singolo non può e non vuole nemmeno sottrarsi. Per il singolo la tribù è la prosecuzione di ciò che il grembo ma­ terno è per il bambino : lo protegge, non gli la­ scia alcuna iniziativa, lo esonera da ogni problema e responsabilità e lo mantiene costantemente al­ l'interno della giusta via, per quanto difficile possa essere il percorrerla. Per Popper questo si­ gnifica che nella società tribale è completamente assente ogni atteggiamento critico e razionale da parte dell'individuo nei confronti dell'ambiente in cui vive. Che l'antropologia contemporanea si sia allontanata di molto da questa critica neoillu­ ministica della società primitiva non ha qui un peso determinante, perché a Popper interessa il rapporto tra la civiltà greca e il tribalismo e que­ sta civiltà è stata in effetti il primo tipo di critica illuministica della società tribale - il primo esem-

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pio di un atteggiamento all'interno del quale Pop­ per intende mantenersi. Il passaggio dal tribalismo all"' umanitarismo " è il passaggio dalla " società chiusa " - immutabil­ mente avvolta in un'interpretazione " magica " e irrazionale del mondo - alla " società aperta ", dove gli uomini incominciano a mettere in discussione le proprie convinzioni e i propri costumi. Prende così inizio, insieme alla critica della struttura eco­ nomico-religiosa del tribalismo, quella lotta di classe che nell'organismo tribale è impensabile, come è impensabile nell'organismo umano una lotta tra il ventre e le braccia. L'" umanitarismo " è il carattere fondamentale della " società aperta " , in quanto rivendicazione critica e razionale dei diritti dell'individuo, completamente vanificati nel " collettivismo " e nel " totalitarismo " paternalistico della società tribale. Ma l'aspetto più interessante del discorso di Popper è la considerazione dell "' effetto stressante " della nuova società critica e umanitaria. Il vecchio mondo crolla ; gli aspetti positivi del nuovo sono troppo acerbi e sporadici, e il popolo che aveva compiuto il primo passo al di fuori della società tribale si sente sprofondare nell'insicurezza e nel disorientamento . Il tentativo di bloccare il pro­ cesso di superamento del tribalismo e di farlo riconvergere verso la società chiusa era quindi inevitabile. Viene compiuto sia sul piano politico­ militare, sia sul piano culturale. Nel quinto secolo avanti Cristo la guerra del Peloponneso è il ten­ tativo di eliminare la democrazia ateniese - cioè la prima concreta espressione della società aperta - da parte del « bloccato totalitarismo oligarchico di Sparta » e del partito oligarchico ateniese. La 133

filosofia di Platone è il tentativo, ben più deter­ minante nelle sue conseguenze, di utilizzare la nuova arma della ragione per fondare e giustifi­ care l'opposto della ragione, cioè l'immobilismo del collettivismo e del totalitarismo tribale - che è insieme il tentativo di immobilizzare e perpe­ tuare i privilegi di classe . Per Popper l'influenza esercitata da Platone è decisiva. (E lo è certamente . Ma in senso abissal­ mente diverso da quello indicato da Popper e da quanti scorgono nella cultura greca la matrice della nostra civiltà: in un senso, i cui contorni, forse, un poco alla volta, in lontananza, potranno emergere da queste pagine.) Come la filosofia di Platone, cosl lo Stato totalitario fascista e sovie­ tico è lo sforzo di eliminare l'insicurezza, il disor­ dine, la problematicità, l'instabilità, il contrasto di opinioni, le lotte di classe, l'effetto stressante della società aperta, per ritornare alla quiete e alla sicurezza del tribalismo . Nel suo saggio, Pop­ per utilizza poco e male il discorso di Freud . Ma la sua interpretazione del totalitarismo rientra di fatto nell'interpretazione psicoanalitica dell'esi­ stenza. Anche se di sfuggita, l'analogia tra l'in­ dividuo della società tribale e il bambino, e l'iden­ tificazione del tribalismo al " paradiso perduto " sono esplcitamente introdotte dallo stesso Popper . Per Freud il paradiso perduto è l'utero materno . Popper parla dell"' effetto stressante " e dello " choc " provocati dal passaggio dal tribalismo alla società aperta, dall'infanzia alla maturità dell 'uo­ mo . Il tentativo di ritornare all'infanzia è quindi una reazione patologica dovuta a un traulll a psi­ chico. In questa prospettiva, lo Stato totalitario fascista e sovietico si presenta, nel discorso di

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Popper, come una sorta di regressio ad uterum che coincide con l'istinto di morte. La filosofia di Platone è la responsabile fondamentale di questa follia. Ma c'è qualcosa di ben più importante che va sottolineato. La società tribale è immobile e ripete se stessa. Nella società aperta, invece, l'uo­ mo crea la propria vita, inventa il proprio futuro e si rinnova continuamente . La critica e il rifiuto di tutto ciò che si presenta come immutabile è una costante (la costante) della cultura moderna. La rivoluzione francese esprime il rifiuto della borghesia di considerare come immutabile (" as­ soluto ", " divino ") l'assetto feudale e i privilegi di classe. La rivoluzione sovietica è il rifiuto del proletariato di considerare come immutabile e " naturale " l'ordinamento economico borghese. (Lo stesso Popper rileva che nella società tribale è assente ogni distinzione tra le consuetudini, le convenzioni della vita sociale e le « regolarità ri­ scontrate nella natura >>, considerate entrambe co­ me qualcosa di immutabile .) Ma il marxismo è giunto a sua volta a un punto critico : se insiste nel presentarsi come ve­ rità filosofica, affermando come fine ultimo della lotta di classe l'eliminazione delle classi - se insi­ ste nel presentare come non criticabile e inelimi­ nabile, e dunque come immutabile, l'affermazione dell'esistenza di una lotta tra capitale e proleta­ riato -, allora il marxismo è destinato a diventare a sua volta il bersaglio di un ennesimo rifiuto dell'immobilismo, cioè, come appunto accade nel­ l'analisi di Popper, finisce col presentarsi come reincarnazione dell'immobilismo tribale . È in questo senso che la sociologia scientifica, 135

" borghese " , soprattutto nella forma da essa as­ sunta nell'indagine di Popper, ha l'ultima parola rispetto al marxismo filosofico : essa gli rivolge quella stessa critica che il marxismo filosofico ha rivolto alla pretesa di considerare come immuta­ bile la struttura economica borghese. Come il capitalismo tradizionale " merita " la critica mos­ sagli dal marxismo, così quest'ultimo " merita " questa stessa critica, che vari settori della cultura neocapitalistica vanno ormai da tempo rivolgen­ dogli. Analogamente alla pretesa borghese di consi­ derare " naturale " e immutabile l'ordine econo­ mico borghese - una pretesa che implica la vo­ lontà di mantenere e di imporre con la forza quest'ordine -, così la filosofia marxista e il conse­ guente totalitarismo politico ripropongono una regressio ad uterum. La cultura neocapitalistica sta convincendo il marxismo a lasciar perdere la filo­ sofia. (Sta convincendo anche la Chiesa. ) Il figliuol prodigo, di cui si parlava qualche pagina addie­ tro, sta convincendo il padre a fuggire con lui.

5. INDIVIDUO E SOCIETÀ In questi ultimi anni si è notevolmente dif­ fusa la capacità di ricondurre aspetti e problemi particolari dell'esistenza umana alla configurazione che la società possiede nel suo insieme, o in quanto essa è un tutto. Ad esempio, il principio tradizionale che nella scuola deve essere premiato chi ha più preparazione e capacità vien visto come il riflesso di una società che privilegia le classi più agiate, giacché, in media, solo chi è libero da 136

certe preoccupazioni economiche può dedicarsi agli studi. Altro esempio : buona parte dei distur­ bi mentali viene oggi imputata al clima di com­ petitività imposto dalla società dei consumi o ad­ dirittura alla frustrazione prodotta dalla coscienza di non poter stare al passo, nell'esibizione del benessere, con i vicini di casa. Questa connessione tra l 'esistenza dell'indi­ viduo e la configurazione globale della società è stata rilevata con grande energia dal marxismo, per il quale il capitalismo determina l'insieme della società moderna, ossia, scrive Marx, « è una luce generale che si diffonde su tutti gli altri co­ lori modificandoli nella loro particolarità », « un'at­ mosfera particolare che determina il peso speci­ fico di tutto quanto essa avvolge >>. L'individuo è un essere sociale, qualcosa che esiste soltanto nel tutto sociale di cui esso è parte. Appunto per questo motivo l'individuo non può subordinare la società ai propri interessi, come invece accade nell'organizzazione capitalistica della società. " L'individuo è un essere sociale " . Che cosa significa questa affermazione ? Di certi individui noi diciamo che sono operai, studenti, impiegati, soldati, eccetera. Quando Marx afferma che un individuo è un essere sociale non intende pro­ nunciare un asserto che abbia la stessa struttura logica dell'affermazione che un certo individuo è studente o soldato : perché uno può continuare ad essere un individuo e tuttavia cessare di essere studente o soldato, mentre per Marx un individuo non è più tale se viene isolato dalla società . Il comportamento di Robinson Crusoe rimane pur sempre un comportamento sociale, anche quando egli vive su un 'isola deserta, come uno rimane 137

italiano anche quando è all'estero. L'individuo, dunque, non vive nella società come uno si trova in una casa (dalla quale può uscire) . L'individuo non può uscire dalla società e non può preesistere ad essa . Nemmeno il capitalista ne esce, ma vive in essa con la persuasione di poterne uscire e questa persuasione, questo errore, sono divenuti appunto « l'atmosfera che determina il peso spe­ cifico » di tutti gli aspetti della società moderna. L'individuo non può separarsi dalla società. " Non può " : nel linguaggio comune espressioni come questa vengono usate senza una particolare attenzione . E tuttavia sono decisive, e non solo rispetto al linguaggio, ma rispetto all'esistenza e al suo senso. L'espressione " non può " indica l'impossibilità. Ma, daccapo, nel discorso di Marx questa impossibilità non è un traslato o una metafora. Quando una persona, anche degna di fede, ci riferisce che un conoscente comune ha compiuto un'azione che va al di là di tutte le nostre previsioni, noi diciamo : " È impossibile ! " ; ma con questo non intendiamo chiudere ogni porta alla possibilità che il soggetto in questione si sia effettivamente comportato nel modo che ci è stato riferito. Qualcosa di diverso accade in­ vece quando diciamo che " è impossibile " che per un punto esterno a una retta passi più di una parallela alla retta data. Tuttavia, anche in questo caso, questa impossibilità sussiste solo all'interno della geometria euclidea, ma vien meno in altri tipi di geometria . Ci sono molte ragioni per rite­ nere che, quando Marx afferma che un individuo " non può " esistere separatamente dalla società, intenda non queste impossibilità relative, ma un'impossibilità categorica, assoluta, non relativa 138

a certi presupposti, o a una certa epoca, o a certe condizioni. La filosofia si è da sempre occupata dell"' im­ possibilità " intesa in quest'ultimo senso. L'impos­ sibilità è il risvolto della necessità, giacché afferma­ re l'impossibilità che l'individuo sia separato dalla società significa affermare la necessità del suo es­ serle unito. Ma l'impossibilità e la necessità non son cose che si vedono con gli occhi e si sentono con le orecchie : non sono oggetti che si possono mo­ strare nell'esperienza, ma nessi ( tra oggetti) che devono essere dimostrati, fondati. Per il marxi­ smo, il rapporto dell'individuo alla società è un nesso necessario; ma il marxismo non è riuscito a dimostrare la necessità di questo nesso. Si badi: nessuna ricognizione storica - che è pur sempre un appello all'esperienza - per quanto ampia e concreta può valere come una siffatta dimostra­ zione o fondazione ; come nessuna indagine sto­ rica sul passato dell'uomo è in grado di affermare la necessità della permanenza nel futuro del com­ portamento passato della razza umana. Quanto più il marxismo si è lasciato alle spalle la filosofia e si è proposto come scienza, tanto meno ha potuto fondare la necessità del nesso tra individuo e società e, anche non volendolo riconoscere, ha dovuto intendere questo nesso come semplice covarianza di due elementi che, come tali, potreb­ bero staccarsi l'uno dall'altro. Nel marxismo tradizionale il carattere sociale dell'individuo rimane quindi un dogma, perché è una semplice situazione di fatto che viene pre­ sentata come avente un valore assoluto, cioè, ap­ punto, come un nesso necessario. È così accaduto

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che l'ingenuità del pensiero borghese premarxista, che aveva teorizzato l'autonomia e l'indipendenza dell'individuo rispetto alla società, diventasse, dopo il fallimento della fondazione marxista del nesso necessario tra individuo e società, la posi­ zione sociologica più scaltrita e più rigorosa. Quan­ do infatti, dopo Marx, la moderna scienza sociale si rende conto di quel fallimento, è inevitabile che veda l'individuo e la società come due elementi uniti soltanto di fatto e quindi, come tali, reci­ procamente autonomi e separabili. Per il più grande scienziato sociale del Novecento, Max We­ ber, che l'individuo entri in società è un evento contingente, che, come è sopraggiunto in modo fortuito, nello stesso modo potrebbe scomparire. Per dominare il mondo la scienza ha dovuto voltare le spalle alla filosofia, cioè alla cura per l'impossibilità e la necessità. Non lo ha fatto sol­ tanto nelle scienze sociali. Jacques Monod ha scritto pochi anni or sono un libro che ha fatto parecchio rumore: Il caso e la necessità. Si può dire che la sostanza di questo scritto sia costi­ tuita dalla teoria che l'organismo vivente si evolve indipendentemente dall'ambiente in cui vive . Il sistema dell'organismo biologico, nel suo insieme, scrive Monod, « è totalmente e intensamente con­ servatore, chiuso in se stesso e assolutamente in­ capace di ricevere un qualsiasi insegnamento dal mondo esterno. Per le sue proprietà e il suo fun­ zionamento di orologeria microscopica, questo si­ stema sfida ogni descrizione dialettica. Esso è fon­ damentalmente cartesiano e non hegeliano: la cel­ lula è una macchina ». In un'intervista Monod aveva detto che Hegel è un « cancro filosofico ». Molto probabilmente non aveva mai letto una 140

riga di Hegel, e tuttavia aveva fiutato nella dire­ zione " giusta " . Hegel rappresenta infatti la filo­ sofia, il tentativo estremo di fondare - con la " dialettica ", appunto - la necessità dei nessi tra gli oggetti : è a questo tentativo che si rifà sostan­ zialmente . l'affermazione marxista dell'esistenza di un nesso necessario tra individuo e società. Per Monod, invece, la cellula vivente è separata dal­ l'ambiente, come per Weber e tutta la cultura capitalistica l'individuo è separato dalla società. Il fallimento e l'eclissi dell a filosofia conduce inevitabilmente a questi risultati . Il marxismo non può evitarli se non a patto di invertire il processo, ormai inarrestabile, in cui esso stesso allontana da sé ogni tentazione filosofica, per farsi scienza; e quindi allontana ogni tentazione di farsi trasformazione filosofica della società, per propor­ si come trasformazione scientifica di essa. È questo un tema di fondamentale importanza se si vuole sapere - dato per scontato lo scarto che sussiste tra il marxismo teorico e le organiz­ zazioni politiche che ad esso si ispirano - che cosa sono diventati oggi i partiti comunisti nei Paesi occidentali e a quali incognite vada incontro chi, in questi Paesi, si propone di farli andare al governo.

6 . ALLA CONQUI STA DEGI INTELLETTUALI Sino a poco tempo fa, la politica del PCI nei confronti degli intellettuali poteva essere cosl riassunta : la cultura non marxista è cultura " bor­ ghese " - e dunque più o meno " di destra " -, oppure è contestazione anarchica e velleitaria.

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Anche oggi il PCI tien fermo questo atteggiamento critico rispetto alla cultura " contestatrice " che si pone alla sua sinistra, ma è mutata la presa di po­ sizione rispetto agli intellettuali non marxisti, che ora non solo vengono collocati in una prospet­ tiva più articolata, ma vengono anche invitati ad una forma più o meno diretta di collabora­ zione. La socialdemocratizzazione cui il PCI è costretto, si ripercuote inevitabilmente nel suo atteggiamento verso gli intellettuali non di sini­ stra . Come era già chiaro nella relazione che G. Napolitano ha tenuto nel '75 in qualità di diri­ gente della sezione culturale del PCI, dove si par­ lava poco o niente della " filosofia " marxista e invece si parlava sempre di più di " scienza " , cioè di quel tipo di sapere che la socialdemocrazia ha sempre contrapposto alla " dialettica " filosofica del marx1smo. È vero che Marx non ha mai negato il valore delle scienze della natura in quanto tali; ma il problema è un altro. Marx rifiuta l'organizzazione e lo sfruttamento capitalistico della scienza e della tecnica e si batte perché esse vengano orga­ nizzate all'interno di una società comunista. La " filosofia " di Marx è presente appunto in questo concetto di organizzazione anticapitalistica della scienza e della tecnica ; sì che, quando parliamo di slittamento dalla filosofia alla scienza nel PCI (e in genere nel comunismo sovietico e in quello dei Paesi comunisti dell'area occidentale), non intendiamo che si proceda da una negazione ad un'affermazione della scienza e della tecnica, ma che, partendo da un progetto " filosofico " dell'or­ ganizzazione della scienza e della tecnica, si tende sempre più decisamente verso un progetto tecnico-

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scientifico di tale organizzazione. È appunto il progressivo abbandono di questo progetto filoso­ fico a consentire oggi al PCI l'operazione di aper­ tura verso gli intellettuali non marxisti . In questo senso, l'analoga operazione di ag­ gancio degli intellettuali che contemporaneamente - su scala molto più ridotta - il M S I aveva inco­ minciato ad avviare, partiva in ritardo e si rivol­ geva contro un bersaglio (il Per) che nel frattempo non era rimasto fermo . Il piano della cultura di destra era in sostanza cosl riassumibile. I comu­ nisti hanno sempre preso le distanze da ogni forma di cultura che non fosse marxista (che cioè non fosse riconosciuta come marxismo dall'orto­ dossia ufficiale sostenuta dai partiti comunisti). Per i comunisti, cioè, tutta la cultura non marxi­ sta è " borghese " e " di destra " . Il M S I vedeva allora in questo fatto l'occasione più propizia al tentativo di gestire l'intera cultura non marxista in funzione anticomunista: la politica culturale della sinistra sembrava lasciar libero essa stessa quel terreno della cultura non marxista che per­ tanto il M S I si accingeva ad occupare con l'in­ tento di mostrare che esso è la cultura e che dun­ que la cultura è di destra. Questo, il piano cultu­ rale della destra. Ma, appunto, un piano partito in ritardo, perché non teneva conto della trasformazione es­ senziale alla quale il comunismo italiano è co­ stretto dalla situazione internazionale di equili­ brio atomico, che Lenin non poteva prevedere e che Kruscev ha esplicitamente teorizzato. L'ope­ razione culturale della destra è partita in ritardo, perché in Italia la trasformazione del PCI nel più grande partito socialdemocratico dell'Occidente

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incomincia con Togliatti. Nel Memoriale di Yalta si trovano affermazioni di questo tipo: « Il mag­ gior successo lo si ha sempre quando si passa dall'esame dei temi generali (carattere dell'impe­ rialismo e dello Stato, forze motrici della rivolu­ zione, ecc.) alle questioni concrete della nostra politica corrente ( lotta contro il governo, critica del partito socialista, unità sindacale, scioperi, ecc.) » . E nel saggio Sul movimento operaio in­ ternazionale scrive : « La mia opinione è che, sulla linea del presente sviluppo storico e delle sue pro­ spettive generali ( avanzata e vittoria del sociali­ smo in tutto il mondo), le forme e condizioni

concrete di avanzata e vittoria del socialismo sa­ ranno oggi e nel prossimo avvenire molto diverse da ciò che sono state in passato » (molto diverse

cioè dalla rivoluzione armata) . A quell'epoca, per Togliatti, la debolezza del comunismo cinese era data appunto dalla sua incapacità ad uscire dai " temi generali " (cioè dalla " filosofia " ) per affron­ tare le " questioni concrete " , quelle cioè la cui soluzione richiede che la classe operaia si impa­ dronisca delle tecniche operative e degli stru­ menti di indagine che sono propri del sapere scien­ tifico . " Il maggior successo " è cioè direttamente proporzionale all'adeguazione e subordinazione del­ l'ideologia filosofica alle esigenze dell'utilizzazione del sapere scientifico-analitico. Se questo processo di trasformazione del PCI non inizia da ieri, la recente politica di apertura del PCI agli intellettuali non marxisti non è una improvvisazione (e quindi sono doppiamente mal­ destri quegli intellettuali del PCI che hanno ap­ plicato da semplici funzionari le direttive di Na­ politano), sl che il MSI si è proposto di arare un 144

terreno in fase di espropriazione. Un esempio. Nel primo numero della rivista « Cultura di destra (no­ vembre '7 4) » A. Plebe, allora ideologo del MSI si domandava : Esiste la cultura di destra? Per lui, " militare in una cultura di destra " significava riconoscere che « l'esercizio creativo del­ la cultura dev'essere riservato ai suoi protagonisti, cioè ai professionisti dotati di talento e compe­ tenza specifica » . Ora, questo concetto della " com­ petenza specifica " dell'uomo di cultura non è affatto qualcosa di peregrino. È, né più né meno, il concetto che la cultura occidentale ha sempre avuto di se stessa e che ha trovato una particolare accentuazione nella cultura borghese. È perfino un luogo comune. Se " cultura di destra " signi­ fica " competenza specifica " , " esperienza " , " capa­ cità ", " talento ", eccetera, chiedersi se esista una cultura di destra è come chiedersi, passeggiando in un bosco, se esistano alberi. Plebe, invece, aveva l 'aria di chi passeggiando nel bosco, dice a chi lo sta ad ascoltare : badate, voi credete che gli alberi non ci siano. E invece ci sono ! Sono soltanto dei clandestini del luogo ; ma, fra non molto, voi non vedrete altro che alberi. Il suo articolo incominciava infatti cosl: « La cultura di destra è la cultura clandestina del nostro tempo. Ciò significa, come insegna la storia di ogni epoca, ch'essa è destinata ad essere la cultura del futuro ». Ma, se la cultura di destra viene definita come la definisce Plebe (" competenza specifica " , ecc.) , non c'è nulla che sia meno clandestino e cosl ab­ bondantemente appartenente al passato. L'intento della rivista « Cultura di destra » era di convin­ cere il pubblico che tale cultura esiste; ma non aveva da fare molta fatica: sulla base della defi1 45

mz10ne adottata, bastava nominare gente come Kant, Beethoven, Einstein; e Manzoni, Le Cor­ busier, Schonberg, Eliot, Russell. Ma questi nomi, e tutti gli altri similari, in questa rivista manca­ vano. Quali nomi faceva uscire invece dalla clan­ destinità quel primo numero della rivista ? Eccoli : J anine Chasseguet Smirgel (psicologa) , Plebe, Oth­ mar Spann (economista) , Enoch Powell ( politico) , Adolfo Mufioz Alonso (filosofo), Barry Goldwater ( politico), Mircea Eliade, Evola, Pino Rauti, e cioè persone che - a parte il diverso livello cultu­ rale - sono state o sono tuttora legate a partiti o movimenti politici fascisti e di estrema destra. Ovviamente, la rivista nominava anche intellet­ tuali che non si trovano in questa condizione, ma, in tal modo, questa rivista di " cultura " faceva soprattutto un gioco politico : quello di accredi­ tare la cultura esplicitamente fascista, qualifican­ dola con una definizione (" competenza specifica ") che conviene a tutta la cultura occidentale. Il gioco quindi di attribuire a tutti gli alberi della foresta le caratteristiche che sonv proprie degli alberi fascisti. Se infatti si incomincia a definire erroneamente un certo albero, per esempio il cipresso, soltanto con le caratteristiche che sono proprie di tutti gli alberi, e si dice che i cipressi sono quelle piante che hanno un lungo e grosso fusto legnoso e che spandono rami (se, fuor di metafora, si defi­ nisce la cultura di destra servendosi soltanto di una caratteristica - la tesi della " competenza spe­ cifica " - che è propria di tutta la cultura occiden­ tale), accade allora che, qualora si rifletta su una qualche caratteristica effettivamente specifica del cipresso, per 3empio il suo aspetto funereo, ci si r

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venga a trovare in condizione di poter attribuire a tutti gli alberi tale caratteristica: se si incomin­ cia a dire che il cipresso è la pianta da lungo e gros­ so fusto legnoso spandente rami (proprietà questa che notoriamente appartiene a tutti gli alberi e non solo ai cipressi), se cioè si stabilisce un'equazione tra l'esser cipresso e l'essere albero, ne viene che l'aspetto funereo del cipresso può esser fatto pas­ sare come proprietà di tutti gli alberi. Se, fuor di metafora, si incomincia a dire che la difesa della " competenza specifica " è caratteristica della cul­ tura di destra, ne viene che lo stare a destra (il fascismo) può essere fatto passare come una pro­ prietà di tutta la cultura occidentale. Il gioco di attribuire agli alberi fascisti le caratteristiche di tutti gli alberi della foresta diventa cosl il gioco di attribuire a tutti gli alberi della foresta le caratteristiche degli alberi fascisti. Comunque, affinché la cultura possa « svilup­ pare e soddisfare il bisogno, innato nell'uomo, di esercitare le sue funzioni intellettuali », occorre scriveva Plebe-- - che « l'intelligenza e l'ordine mentale riescano ad avere la supremazia sul disor­ dine psichico » : « la lotta contro il disordine psi­ chico, si traduce, in termini politici, nella lotta contro l'anarchia e contro il sovvertimento mar­ xista che vorrebbe proclamare il prevalere del­ l'economia sull'intelletto e dei " collettivi " sull'in­ dividualità ». Con la maggior naturalezza di que­ sto mondo, Plebe stabiliva dunque un'equazione tra la lotta contro il disordine psichico e la lotta contro il " sovvertimento marxista " , che è sov­ vertimento perché in esso l'economia prevale sul­ l'intelletto. Mentre - è chiaro come la luce del sole - nel mondo capitalistico, do"!f.! è una pura 147

fola che lo scopo di tutti gli scopi sia il profitto, è l'intelletto che prevale sull 'economia. Le società multinazionali e i grandi trusts finanziari si guar­ dano bene dal far prevalere l'economia : è ovvio che il loro scopo fondamentale è di far prevalere l "' intelletto " ed è ovvio che in essi si proietta, come si può constatare in tutte le fabbriche del mondo capitalistico, la volontà di « sviluppare e soddisfare il bisogno, innato nell'uomo, di eser­ citare le sue funzioni intellettuali ». O si sostiene quella meravigliosa tesi che nel mondo capitalisti­ co l'intelletto prevale sull'economia, oppure si riconosce che questo non avviene; ma allora la lotta contro il disordine psichico non dovrà avere come unico avversario il " sovvertimento marxi­ sta " , ma anche il " sovvertimento capitalista " . Poiché l'estremismo della sinistra extraparla­ mentare impedisce puntualmente che l 'antifasci­ smo si presenti agli occhi delle masse come qualcosa di sostanzialmente diverso dalla violenza fascista (e consente al MSI di dissociare la propria respon­ sabilità da quella dell'estrema destra extraparla­ mentare, in modo analogo a quello con cui il PCI dissocia le proprie responsabilità da quelle del­ l'estrema sinistra) , il MSI viene agevolato nel pro­ prio intento di presentarsi come partito dell'or­ dine e della libertà - un intento che viene perse­ guito dalla destra anche in quella dimensione particolarmente delicata della vita sociale, che è formata dal rapporto tra cultura e potere poli­ tico . Anche volendo limitare il discorso a questa dimensione, il MSI ha particolarmente bisogno dell'aiuto dell'estremismo di sinistra perché il MSI si presenta agli intel1ettuali non marxisti come l'u­ nica difesa che essi e il loro mondo possono tro148

vare in una società scossa dalla violenza di sini­ stra. Di questa violenza il MSI ha bisogno, anche perché il modo nel quale esso prospetta il rapporto tra sé e gli intellettuali ha tutte le caratteristiche della quadratura del circolo. Per A. Plebe, che gestiva questa quadratura in nome del MSI, è ne­ cessario difendere la libertà della cultura e rifiu­ tare la sua politicizzazione. E questo è il circolo . La quadratura è la stretta alleanza che per Plebe sussisteva tra cultura libera e non politicizzata e partiti di destra, in particolare il MSI. Egli mo­ strava in questo modo come si possa sostenere che la cultura autentica è cultura di destra, senza contraddire il principio dell'autonomia e della non politicizzazione della cultura : « La cultura di destra può non contraddire l'ideale dell'autono­ mia della cultura perché è una cultura libera che solo in quanto tale si trova ad essere alleata degli unici autentici difensori, sul piano politico, di tale libertà, cioè dei partiti di destra. Il partito poli­ tico di destra, o la qualifica " di destra " , a cui si appoggia oggi la libera cultura è soltanto il suo braccio secolare, necessario se non vuoi soccom­ bere: ma è un braccio che non pretende mai di sostituirsi alla mente » . Sostanzialmente, i n questo passo erano affer­ mate due tesi : l ) i partiti di destra ( al plurale) sono gli " unici autentici difensori " della cultura libera, l a quale si trova dunque in naturale al­ leanza con essi; 2 ) il partito di destra è soltanto il " braccio secolare " della cultura libera, neces­ sario per la sopravvivenza di questa, ma che non pretende mai di sostituirsi alla mente. La prima tesi non è una bazzecola; è una grossa tesi ; il lettore vorrebbe vederne la giustificazione, ma 149

Plebe non lo accontenta nemmeno in m1mma parte. Giacché anche ammettendo che i partiti di sinistra siano nemici della cultura libera, da ciò non segue che i partiti di destra siano gli unici difensori di tale cultura. Seconda tesi. Formidabile. Conferma quanto si diceva prima, a proposito del­ l'intrinseca tendenza e dell'invincibile vocazione delle multinazionali e dei trusts finanziari a far prevalere l'intelletto sull'economia . Plebe afferma dunque: i partiti di destra non si creda che stiano n a difendere e a gestire interessi estranei alla cultura, per esempio gli interessi economici del capitale ! Liberiamoci da questa fola: è fin troppo chiaro che i partiti di destra hanno come scopo fondamentale di difendere quegli intellettuali che hanno nella propria arte e nella propria professio­ ne " lo scopo più importante " della loro vita! È fin troppo chiaro che i partiti di destra esistono in funzione delle estasi del libero intellettuale. Sono il braccio secolare dell'intellettuale in estasi, un braccio che non si permetterebbe mai di distur­ bare tale estasi - figuriamoci poi di sostituirsi ad essa ! I n questo discorso l'illusione che l a critica degli intellettuali al potere abbia qualche valore diventa addirittura l'illusione che il potere esista in funzione degli intellettuali. (Ma, e questo libro non vuoi essere l'autentica critica radicale del po­ tere che guida l'intera storia dell'Occidente? Cer­ tamente ! Ma può esserlo, solo in quanto ciò che fa parlare questo libro è qualcosa di diverso dal­ l'essenza dell'Occidente, in cui ogni critica al po­ tere è destinata al fallimento ).

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7 . COMPLICITÀ DELLA FILOSOFIA? Il filosofo non ha altra scelta: o complice della borghesia, o complice del proletariato . Lo scriveva, prima dell'ultima guerra, Paul Nizan, vecchio com­ pagno di scuola di Sartre ed esponente del par­ tito comunista francese, da cui usd nel 1 939 in seguito al patto Hitler-Stalin - e l'anno dopo mo­ riva vicino a Dunkerque combattendo contro i Te­ deschi . Lo stesso Sartre dichiara di avere sempre subito il fascino dell'uomo e del suo modo di pensare. Che il filosofo sia inevitabilmente " complice " , dei padroni o dei servi, è diventato un tema di fondo della cultura di sinistra. Significa che non può rimanere neutrale di fronte alla lotta tra bor­ ghesia e proletariato : anche se crede o fa credere di esserlo, si trova in realtà da una parte o dal­ l'altra della barricata. Senonché, il filosofo non è la filosofia. Se si ha cura di tener ferma questa differenza, allora si deve incominciare a riconoscere che, cer­ tamente, al filosofo non rimane altra scelta che di essere complice della " borghesia " o del " proleta­ riato " . Ma in questa condizione non si trova sol­ tanto il filosofo o l'intellettuale, ma ogni uomo del nostro tempo . Gesù diceva : « Chi non è con me è contro di me ». E questo può e deve dirlo ogni altra voce che esprime una norma di vita. Anche la borghesia può dirlo, anche il proletariato . Che cosa significa, infatti, " essere con il proleta­ riato " (cioè esserne " complice " ) ? Significa lottare contro il capitale; cosl come " essere con Gesù " significa lottare contro il peccato. Chi non lotta contro il capitale, ne è complice , cioè lotta più o

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meno consapevolmente contro il proletariato. Chi non è con il proletariato è contro il proletariato. Non può rimanere neutrale. Perché, anche quando non si propone di combattere il proletariato, se egli non lotta contro il capitale, si trova inevita­ bilmente a vivere inserito in un ordinamento so­ ciale che nei Paesi capitalisti è stabilito dalla classe dominante, che è la borghesia. Il semplice recarsi in un negozio per acquistare un vestito o un chilo di pasta è un atto che alimenta l'organizzazione capitalistica del mercato e che quindi rafforza il nemico del proletariato. E per un intellettuale che non intenda lottare né per il proletariato né per la borghesia, la stessa appartenenza, poniamo, al ruo­ lo di professore universitario, il puro fatto di es­ sere inquadrato in un " ruolo ", alimenta e rafforza l'organizzazione borghese della cultura. Non c'è scampo: chi non lotta contro il capitale, inevi­ tabilmente vi si adegua e la forza del capitale è appunto questo adeguarsi alle strutture da esso costituite. E dunque il filosofo che non lotta contro il capitale vi si adegua e ne è complice. Nello stesso senso, tuttavia, in cui ne è complice un filosofo o un intellettuale marxista che, nella società capi­ talistica, non abbia compiti politici o sindacali. È vero che anche gli esponenti dei partiti comunisti e i proletari si recano nei negozi ad acquistare vestiti e chili di pasta - onde è inevitabile che anche i nemici della borghesia si trovino costretti ad esserne complici (e ne sono complici soprat­ tutto gli operai, il cui lavoro è una condizione fondamentale della sopravvivenza del capitale) ; m a rimane pur sempre netta l a differenza tra la complicità del proletario, che tuttavia lotta (quan152

do lotta) per liberarsi da questa complicità , e la complicità del filosofo che a quella lotta non par­ tecipa e intende mantenersi al di fuori dello scon­ tro tra servi e padroni. Il filosofo, dunque, o è complice della borghe­ sia, o è complice del proletariato . Se ne resta ap­ partato e non lotta né per il capitale, né per l'operaio? È complice del capitale (o della ditta­ tura del proletariato, là dove il capitalismo è sta­ to distrutto) . Certamente. Ma la tendenza dei marxisti è di chiudere il discorso a questo punto, o almeno è di concentrare su di esso la loro at­ tenzione. E invece il discorso è solo all'inizio. Giacché, avevamo detto, il filosofo non è la filo­ sofia. Anche della filosofia si deve dire che non ha scelta e che è inevitabilmente complice o della borghesia o del proletariato? È indubbio che la cultura contemporanea ( Marx compreso) tende a ricondurre la filosofia al :filosofo, cioè a mostrare che il modo in cui il filosofo vive condiziona ciò che egli pensa. In questa prospettiva si è portati a ritenere che se un filosofo vive come complice del capitale, anche la sua filosofia è complice del capitale. Una ventina d'anni fa J.O. Wisdom ha scritto un libro per mostrare che il disgusto ossessivo per le feci da parte del piccolo Berkeley (il futuro grande filoso­ fo e vescovo anglicano) sarebbe stato la condizione fondamentale della sua ostilità verso la materia, culminata poi nel suo immaterialismo :filosofico . Ma come l'immaterialismo non è liquidato dall'os­ servazione psicoanali tica che le difficoltà della fase anale del piccolo Berkeley hanno favorito l'in­ sorgere di un atteggiamento critico nei confronti del concetto di materia, così una filosofia non 153

resta liquidata dal semplice rilievo sociologico (ripetuto con monotonia dalla " mezza cultura " marxista) che essa è la filosofia di un borghese o di un piccolo borghese . E tuttavia, se si guarda ciò che oggi è divenuta la filosofia, si deve dire che anche ad essa, come al filosofo, non rimane altra scelta che di essere complice o della borghesia o del proletariato. La filosofia contemporanea non marxista, infatti, per­ cepisce ed esprime ( ma ne comprende il senso? ) lo smarrimento e la sfiducia della nostra epoca. Ci siamo accorti di non sapere nulla e di esserci illusi di aver mangiato il frutto dell'albero della scienza. La nota dominante della filosofia della nostra epoca è la convinzione che la nostra esi­ stenza rimane un problema, che cioè non sap­ piamo che cosa sia il bene e il male, il vero e il falso, anche se disponiamo di strumenti che ci conducono verso il dominio dell'universo. In questa situazione, la filosofia non ha nem­ meno la possibilità di sapere se il capitalismo ab­ bia verità o sia un errore, un bene o un male, e lo stesso sforzo del proletariato di liberarsi dal­ lo sfruttamento del capitale non appare come ri­ vendicazione del " vero " senso dell'uomo, ma come semplice volontà di rovesciare il dominio della borghesia. Poiché la filosofia è divenuta problema­ ticismo, borghesia e proletariato appaiono come forze indifferenti . Una vale l 'altra. E sono indiffe­ renti gli assetti sociali che ognuna di queste due forze intende realizzare . In questo modo, la filo­ sofia non può più giudicare la società in cui vi­ viamo e scoraggia ogni tentativo di modificarla, anche quando si presenta come filosofia rivolu­ zionaria o contestatrice. Rimanendo indifferente 1 54

nella lotta tra borghesia e proletariato, non ha nulla da opporre al dominio della borghesia e non può far altro che riconoscerne l'esistenza. Non avendo la possibilità di condannare niente e nes­ suno, diventa per ciò stesso complice del potere borghese . Come il filosofo che, volendo rimanere neutrale nella lotta tra servi e padroni, finisce col vivere secondo le leggi dei padroni, così il pro­ blematicismo filosofico, rimanendo neutrale nello scontro tra le idee dei servi e quelle dei padroni , finisce col lasciar dominare le idee dei padroni. La doppia neutralità del filosofo problematicista è un doppio legame al capitale. Ma il modo in cui oggi vive la filosofia è l 'ultima parola della filosofia? E se non lo è, non si deve dire allora che la complicità inevita­ bile della filosofia con la borghesia o il proleta­ riato è ancora tutta da discutere?

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Capitolo quarto

IL

«

COMPROMESSO STORICO ))

l . COMUNISMO E SOCIALDEMOCRAZIA

Il dissenso fondamentale tra comunismo e socialdemocrazia riguarda, come è noto, il metodo di lotta per l'emancipazione della classe operaia. Per il comunismo, il proletariato può liberarsi dallo sfruttamento capitalistico solo con un'azione violenta, che conduce alla distruzione dell'intera società borghese. La socialdemocrazia, invece, sin dall'ultimo decennio del secolo scorso ha inteso mantenere la lotta per l'emancipazione operaia all'interno delle regole della competizione demo­ cratica e ha sostituito il progetto di una rivolu­ zione globale con un'azione parlamentare volta a ottenere riforme specifiche, di volta in volta de­ terminate, per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. La diversità di queste due strategie risale ad una profonda divergenza teo­ rica . Il comunismo è rimasto tendenzialmente fe­ dele a un'interpretazione filosofica del pensiero di Marx; la socialdemocrazia ha invece sviluppato sempre più decisamente una revisione di tale pen­ siero , che tende a trasformare il marxismo da teo­ ria fìlosofìca in teoria scientifica, ossia in econo­ mia politica. Le polemiche suscitate dalla pubbli­ cazione, nel 1899, de I presupposti del socialismo 1 59

e i compiti della socialdemocrazia, di Eduard Bern­

stein, il fondatore delle basi teoriche della social­ democrazia, costituiscono il principale punto di riferimento dell'intero scontro teorico tra comu­ nismo e socialdemocrazia. Per il comunismo, la socialdemocrazia è la quinta colonna del capitalismo tra le file del prole­ tariato, perché, accettando le regole del gioco de­ mocratico parlamentare, essa non solo lascia im­ mutata, ma finisce col rafforzare la struttura capi­ talistica della società, conferendole un aspetto pro­ gressista : sono proprio i successi della lotta so­ cialdemocratica per l'emancipazione operaia a pro­ durre l'illusione che il capitalismo possa convi­ vere con il raggiungimento di un umano e digni­ toso livello di esistenza da parte dei lavoratori. Ciò non significa che il comunismo rifiuti a priori ogni tattica parlamentare e democratica (ne è prova la partecipazione del PCI ai primi governi presieduti da De Gasperi) : solo che la considera appunto come un espediente, cioè come momen­ to provvisorio del processo rivoluzionario che de­ ve condurre all'eliminazione violenta della borghe­ sia. Senonché, per tenere in piedi questa strategia della rivoluzione, è necessario che la rivoluzione, come azione violenta, sia possibile . Il partito co­ munista italiano (e anche quello francese) non lo crede più da un pezzo. Le " vie nazionali del comunismo " di Togliatti e il " compromesso storico " di Berlinguer dicono la stessa cosa. La spartizione della terra tra Ame­ rica e Russia determina un equilibrio, la cui alte­ razione equivale alla distruzione atomica dell'uma­ nità. In questa situazione, è la stessa Unione So-

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v1et1ca a scoraggiare ogni velleità rivoluzionaria dei partiti comunisti che, come quello italiano, agiscono nella sfera di influenza degli Stati Uniti. In questa situazione, per il PCI la possibilità della rivoluzione è inesistente. " Via nazionale del co­ munismo " significa allora, per il comunismo ita­ liano, la necessità di escogitare un tipo di azione politica diversa da quella, rivoluzionaria, che ha costituito l'aspetto caratterizzante del comunismo internazionale. E "compromesso storico " significa che il PCI prende atto dell'impossibilità, nell a si­ tuazione politica mondiale contemporanea, di dar vita all'azione politica che lo caratterizza - e che lo distingue dalla socialdemocrazia. Il " compro­ messo storico " non è qualcosa che il PCI proponga ai partiti della coalizione governativa, dai quali dipenda l'accettarlo o meno, ma è la nuova di­ mensione non rivoluzionaria in cui il PCI è da tempo costretto a muoversi e che quindi - cioè come conseguenza - lo porta, certamente, a pro­ porre nuove forme di collaborazione con i partiti di governo. Ma la necessità di muoversi all'interno della dimensione non rivoluzionaria porta il PCI a svi­ luppare un tipo di lotta politica che è quello tra­ dizionalmente perseguito dalla socialdemocrazia. Il continuo stato di crisi del partito sociali sta italiano, sin dai primissimi anni del dopoguerra, è determinato da una contraddizione di fondo, per la quale esso, da un lato, ha inteso alimentare la solidarietà col PCI per non farsi abbandonare da un proletariato economicamente più arretrato di quello degli altri Paesi europei e quindi incline a trovare la propria espressione politica nel Per ; dall'altro lato non ha potuto dimenticare e rin161

negare la propria origine e vocazione socialdemo­ cratica, che lo spingono ad una decisa opposizione al Per. Per esistere come socialdemocrazia era ine­ vitabile che il PSI si spezzasse e allontanandosi dal PCI si dirigesse verso quella zona politica dove sarebbe divenuta possibile la sua partecipazione al governo . Per vivere , la socialdemocrazia doveva occupare il terreno che le è congeniale, quello della lotta democratico-parlamentare per la realizzazione delle riforme in favore del proletariato . Senonché il PCI sta ora invadendo questo terreno e minac­ cia di non lasciar più alcuno spazio alla socialde­ mocrazia e allo stesso PSI. Dire che la situazione politica internazionale costringe il Per ad abbandonare il progetto rivo­ luzionario, significa infatti che lo costringe non solo ad appropriarsi dei metodi di lotta della so­ cialdemocrazia, ma ad appropriarsene come di una strategia che, in relazione alla situazione interna­ zionale, non può non essere definitiva e dunque non è più un semplice espediente tattico in vista dell'esplosione rivoluzionaria. Sin tanto che dura l'attuale rapporto di forze nel mondo, cioè l'equi­ librio U S A-URS s , il PCI è costretto a diventare socialdemocrazia. Ma le forze che oggi dominano il mondo si propongono di mantenere indefinita­ mente l'equilibrio attuale. Quindi il PCI è defini­ tivamente costretto ad appropriarsi degli scopi e dei metodi di lotta della socialdemocrazia. E anche sul piano teorico si sta verificando, nelle forze culturali controllate dal PCI, un abbandono progressivo, talvolta impercettibile, talvolta preci­ pitoso e scomposto, dell'interpretazione " filosofi­ ca " del pensiero di Marx, in favore dell'interpre­ tazione " scientifica " , tipica della socialdemocrazia. 1 62

L'occupazione del terreno socialdemocratico da parte del PCI si sta cioè verificando sia sul piano politico, sia su quello teorico. Il passaggio dall'amministrazione Nixon all'am­ ministrazione Ford e soprattutto a quella di Car­ ter ha probabilmente consolidato e stabilizzato questa nuova fisionomia dell'azione politica del PCI. Ciò non significa che il PCI si accinga senz'al­ tro ad andare al governo e gli altri parti ti a rice­ ver!o, ma che il tipo di azione che il PCI è co­ stretto a sviluppare tende a presentarsi come lo strumento politico più efficace per ottenere quelle riforme che il partito socialdemocratico e lo stesso PSI solo in misura molto ridotta sono riusciti a strappare dopo tanti anni di partecipazione al governo . Ma un PCI che getta tutto il suo peso nella lotta per le riforme è la fìne, in Italia, della socialdemocrazia di tipo tradizionale. In questa prospettiva, si può avanzare la previsione che la sinistra del PSI sarà sempre più sollecitata a ri­ durre al minimo le distanze col PCI e che il centro e la destra del PSI torneranno a prendere in con­ siderazione l'unione con il partito socialdemocra­ tico. 2 . « PREOCCUPAZIONI » DI BERLINGUER Il xrv Congresso nazionale del Per ha chiarito nel modo più inequivocabile che cosa non vuoi essere il " compromesso storico " : « il compromes­ so storico » ha detto Berlinguer, non deve essere inteso « come alleanza di governo che comprende il partito comunista ». In quell'occasione « L'Uni­ tà » ha sottolineato con compiacimento come la 1 63

stampa italiana avesse compreso questo punto fondamentale della relazione di Berlinguer : « Sia la cronaca che i commenti della stampa hanno colto che la proposta del " compromesso storico " , come è stata posta ieri nella relazione del com­ pagno Berlinguer, non può essere letta nella chia­ ve di un'offerta del PCI di immediata partecipa­ zione al governo » (20 marzo 1975). Berlinguer ha ribadito che affinché una siffatta partecipazio­ ne divenga possibile, « devono maturare processi profondi che però non è possibile stabilire se sa­ ranno rapidi o meno ». La partecipazione del PCI al governo è cioè cosl estranea alla strategia at­ tuale di questo partito che, ancora nel '7 5 , per Berlinguer, non aveva nemmeno senso affrontare il problema se sarebbero occorsi tempi brevi o lunghi per la realizzazione delle condizioni che renderebbero possibile tale partecipazione. La stampa italiana avrebbe dunque capito, . come osservava « L'Umta' », l a d'ff 1 erenza tra " compromesso storico " e " partecipazione al governo " . Direi che di tempo, per capirlo, ne mette parec­ chio. E sono molti gli uomini politici, i sociologi e i politologi che continuano a non capirlo. Ag­ giungerei anche che, nel suo complesso, la stampa italiana e straniera ha fatto un cattivo servizio, negli ultimi tempi, alla causa della pace sociale in Italia, dando per scontata la possibilità di un ingresso del PCI al governo. Tutto quel mostrare di saperla lunga sulle imminenti nuove combina­ zioni governative non ha avuto altro risultato che suscitare sospetti e irrigidimenti e alimentare quel­ la reazione da destra e da sinistra che oggi costi­ tuisce il maggior pericolo per la democrazia in Italia, perché da una parte non ci si fida ancora, 164

dall'altra ci si sente traditi dalla trasformazione del PCI. Che intellettuali e giornalisti abbiano compiu­ to e compiano tuttora quest'errore può non de­ stare meraviglia. Si rimane invece più perplessi quando un uomo politico come Ugo La Malfa ancor prima delle elezioni amministrative si la­ sciava andare a considerazioni come quelle da lui espresse in relazione alla condotta che avrebbe as­ sunto nel prossimo futuro il partito repubblicano : già nel febbraio del '7 5 egli dichiarava ad un grup­ po di giornalisti che il suo partito avrebbe atteso di vedere se la DC, dopo le elezioni regionali , sa­ rebbe giunta o meno al " compromesso storico " col PCI. In tal modo La Malfa mostrava già allora di intendere il " compromesso storico " come qual­ cosa di realizzabile nei tempi relativamente brevi che sono richiesti per varare una formula gover­ nativa e , cosa ancor più grave, mostrava di am­ mettere la possibilità di quella bazzecola che sa­ rebbe la partecipazione dei comunisti al governo . Certamente, La Malfa sapeva benissimo che non si tratta di una bazzecola ed era ben consa­ pevole dei condizionamenti internazionali della nostra politica interna, sl che la sua dichiarazione poteva anche essere un ballo n d'éssai per portare la DC al grado di chiarezza da lui ritenuto indi­ spensabile nei rapporti tra questo partito e il PCI. Ma se il suo intento era di stabilire fino a che punto trovava credito presso la DC la proposta del " compromesso storico ", è chiaro che anche lui era convinto che con questa espressione fosse da in­ tendersi la partecipazione dei comunisti al governo . E che La Malfa dichiarasse già all'inizio del '75 di aspettare di vedere se i comunisti sarebbero an1 65

dati al governo, per decidere la condotta del PRI, non è certo servito a promuovere la tranquillità so­ ciale di questi ultimi tempi. Molto ambigua anche la recente e ripetuta richiesta di La Malfa che il PCI vada al governo. Per lui ( anche per lui) la società italiana è a un punto di rottura e si impone quindi un governo che agisca in modo radicale e dunque impopolare - e il PCI al governo dovrebbe far da antidoto al­ l'impopolarità. Ma per La Malfa i rimedi che un governo efficiente deve adottare sono quelli tradi­ zionali dell 'economia di mercato : aumento della produzione, riduzione della spesa pubblica e del tasso d'incremento dei salari ; sl che un PCI al go­ verno è per La Malfa un PCI direttamente impe­ gnato a realizzare un'operazione che, oggi, lo allon­ tanerebbe troppo bruscamente dal proprio eletto­ rato. La Malfa scambia il processo in atto di social­ democratizzazione del PCI - e il contesto nazionale e internazionale di questo processo - con il pro­ cesso già compiuto. Egli può essere convinto che il PCI si muova ormai decisamente nell'area della democrazia parlamentare, ma ciò che conta non è che La Malfa ne sia convinto, ma che ne sia convinto l'insieme delle forze del capitalismo occi­ dentale . L'accoglienza piuttosto tiepida che lo stesso PCI ha riservato alla proposta di La Malfa mostra come questo partito si renda chiara­ mente conto di non essere ancora in grado di agire come parla, e cioè di non essere in grado, ancora, di intervenire nella guida del Paese in modo da salvare e potenziare la struttura del­ l'economia capitalistica - un'operazione, questa, che il PCI dice già, certamente, di proporsi, ma che appunto, ancora non è in grado di realizzare 1 66

come forza di governo senza distruggersi come forza politica. E la coscienza che il PCI possiede di non poter ancora fare quello che dice è insie­ me coscienza che il capitalismo percepisce questa impossibilità del PCI e quindi considera il PCI come una forza politica che è sl in fase di tra­ sformazione, ma che ancora si trova a metà stra­ da della trasformazione e non può essere quindi ancora utilizzata per salvare la struttura economica e politica di una società capitalistica. Sono ormai anni che sulla stampa nazionale compaiono articoli e corrispondenze sui contatti più o meno segreti che da qualche anno esiste­ rebbero tra il PCI e gli Stati Uniti e che comunque sembra ormai che vadano alquanto per le lunghe. Si è parlato di viaggi regolari compiuti in Ame­ rica da membri del Per e di altrettanto regolari contatti con il Per da parte dell'ambasciata ame­ ricana e, addirittura, dei servizi segreti ameri­ cani. In sostanza, queste rivelazioni giornalistiche più o meno esplicitamente lasciavano intendere che tali contatti erano il sintomo più convincente dell'imminenza della partecipazione del PCI al governo. Se però si leggeva con attenzione, ci si poteva accorgere che le cose stavano ben diversa­ mente da come si voleva lasciare intendere; col risultato che non si è fatto altro che buttare legna sul fuoco . (Ad esempio, in uno scritto intito­ lato Incontri segreti PCI-USA. Un americano alle Botteghe Oscure, « Il Mondo }>, 1975, si leggeva che l'americano che fino allora frequentava la sede romana del Per un certo R. Boies, segre­ tario d'ambasciata - « era un uomo di prim'ordine, per niente intossicato dai pregiudizi, che anzi di­ mostrava un'intelligenza molto aperta }> . La di-

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chiarazione era di S . Segre, responsabile della sezione esteri del PCI, il quale tuttavia aggiungeva che al posto di R . Boies era proprio allora suben­ trato un certo Martin Wenick, « un americano che viene direttamente da Mosca » e che « può darsi che sappia tutto sul partito comunista dell'Unione Sovietica, ma è un po' complicato spiegargli co­ me stanno le cose da noi » . E già questa osserva­ zione lasciava intendere come le conversazioni col signor Wenick non avessero molto l'aria di met­ tere a punto il trionfale accesso del PCI al governo con la benedizione americana, ma presentassero piuttosto intoppi e difficoltà. Ma Segre avrebbe anche aggiunto : « I servizi americani in Italia oggi risentono visibilmente della crisi in cui si dibatte la politica di Washington , che è poi la crisi di Kissinger », una crisi che « può provocare attività e interventi pericolosamente contraddit­ tori » . ( E questo non è certo il linguaggio di chi è ormai sicuro di avere il beneplacito degli Stati Uniti alla sua scalata al potere, bensì di chi teme una involuzione della politica americana nei con­ fronti del Per .) In effetti da qualche anno è incominciato uno dei periodi più delicati per gli Stati Uniti: la crisi economica del mondo occidentale, il di­ sastro militare in Cambogia e nel Vietnam del Sud, lo sbandamento a sinistra del Portogallo, che non è certo rientrato per la pura forza delle elezioni democratiche, l'instabilità della Grecia e della Turchia nel sistema difensivo della Nato, il rafforzamento dei partiti comunisti in Italia e in Francia hanno determinato un indebolimento del mondo occidentale, che prelude inevitabil­ mente a una reazione riequilibratrice da parte

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degli Stati Uniti. Il vero problema del PCI, per­ tanto, non è quello di andare al governo : più si aggravano le condizioni del mondo occidentale, più diventa imminente una tirata di redini per evitare il collasso : il vero problema del PCI è di evitare di rimanerne strozzato. Se i dirigenti co­ munisti vanno in America e si incontrano con i funzionari dei servizi segreti statunitensi non lo fanno per mettere a punto la loro scalata al governo, ma per convincere che non hanno alcuna intenzione di aggravare ulteriormente con la loro politica le già precarie condizioni di salute del mondo occidentale. Non per nulla Berlinguer ha parlato delle « preoccupazioni » che anche il PCI nutre per « l'indebolimento del ruolo dell'Occi­ dente » . Quanto poi alle presunte dichiarazioni della CIA che vedrebbe con favore la presenza dei co­ munisti al governo con funzione equilibratrice nella situazione italiana, c'è per lo meno da os­ servare che esse sono a loro volta equilibrate dalle dichiarazioni dello stesso Carter sulle com­ plicazioni che scaturirebbero dalla presenza dei comunisti nei governi occidentali ( dichiarazioni notevolmente diverse da quelle che egli faceva prima di diventare presidente) , e che quindi sa­ rebbe grossa ingenuità inferire che gli Stati Uniti hanno dato ormai il loro beneplacito alla parte­ cipazione dei comunisti al governo . Il problema sostanziale è questo : tale partecipazione pregiu­ dicherebbe l'equilibrio tra USA e URS S lo pre­ giudicherebbe per lo meno nel senso che sareb­ -

bero molte le forze del capitale a ritenere che tale equilibrio sarebbe pregiudicato (in questo caso, cioè, la realtà economico-politica è costituita 1 69

in modo determinante dall'opinione economico­ politica) ; pertanto, anche qualora, per una mio­ pia dell'attuale politica americana, il PCI oggi mettesse piede nel governo in Italia, mantenendo la sua attuale fisionomia, gli oggettivi interessi del capitalismo occidentale non tarderebbero a farsi sentire e a ripristinare l'equilibrio compro­ messo . Essendo chiaro, ripeto, che l'oggettività dell'interesse è fondamentalmente determinata dal­ l'opinione che il capitale possiede intorno ai propri interessi oggettivi; e se il capitale è ormai convinto che la ripresa economica in Italia esige un governo appoggiato da una maggioranza inclu­ dente il PCI, il capitale, e non solo esso, non è e non può essere ancora convinto delle garanzie che il PCI può oggi offrire della propria volontà e capacità di mantenere l'ordine democratico in Italia. È chiaro che il PCI sa bene che se, una volta al governo, non mantenesse quest'ordine, l'ordine sarebbe ristabilito con la forza dagli Stati Uniti, e, così ristabilito, non sarebbe più un or­ dine democratico - e quindi è chiaro che un PCI al governo sarebbe più realista del re. Ma la questione è un'altra: che la medicina non sia peggiore della malattia, e cioè che per uscire dalle difficoltà attuali si porti al governo un PCI che, pur lottando strenuamente per la legalità democratica, si lasci sfuggire di mano il controllo della situazione, sotto la spinta di quelle avan­ guardie di sinistra che da tempo mostrano con assoluta evidenza di non possedere un briciolo della prudenza del PCI e che vedendo il PCI al governo potrebbero sostituire l'attuale delusione per il tradimento del PCI con la convinzione che il PCI al governo sia la condizione sufficiente per

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decidersi a scatenare quella rivoluzione (che alla fine sarebbe un aborto), che in questi ultimi tem­ pi, sulla base di quella delusione, esse stanno tentando di avviare. Perché il PCI al governo non ill uda le forze rivoluzionarie di sinistra di essere dalla loro parte, bisogna che esso cambi la propria immagine molto più di quanto attualmente esso non sia disposto a fare, bisogna cioè che appaia complice del capitale ben di più di quanto oggi gli si rinfaccia da parte delle forze di estrema sinistra. Questo PCI come è oggi, al governo, illuderebbe invece fatalmente quelle forze che la rivoluzione si può fare . E, certo, le illuderebbe contro le proprie intenzioni. E allora, stiamo di­ cendo, meglio per tutti (per tutti quelli che pre­ feriscono al sangue di una rivoluzione la più grave crisi economica) che il PCI rimanga fuori del go­ verno sino a che non riesca a darsi quell'immagine - e per darsela deve abbandonare, come vedremo, anche il modo in cui concepisce la " distensione " . Si può dunque cosl completare i l discorso che stiamo conducendo : sino a che il PCI non è al governo, la possibilità preminente di un rove­ sciamento dell'ordine democratico viene da de­ stra (ma dipende soprattutto dalla prudenza del PCI evitare tale rovesciamento) ; con questo PCI oggi al governo - sia pure in compagnia della ne - diventerebbero invece più consistenti le possibilità di una rivoluzione di sinistra, contra­ stata da un PCI che, in questa sua veste di boia al servizio del capitale, da un lato perderebbe ogni credito anche presso le masse operaie (lo perderebbe incomparabilmente di più di quello che oggi perde, tra molte strizzate d'occhio, pas­ sando per " complice del capitale " ) e, dall'altro 171

lato, sarebbe dilaniato tra quella parte di sé che sarebbe convinta della necessità di soffocare la rivoluzione di sinistra, e quella parte di sé che sentirebbe risvegliarsi l'antica vocazione rivolu­ zionaria. Tutto quanto il PCI ha saputo conqui­ stare in questi ultimi quarant'anni andrebbe cosl perduto.

3 . AMBIGUITÀ DEL PCI L'offerta di collaborazione che al XIV Con­ gresso nazionale del PCI Berlinguer ha rivolto al mondo capitalistico e alla democrazia parlamen­ tare non poteva essere più esplicita e più ras­ sicurante . Molti hanno avuto l'impressione che Berlinguer avesse definitivamente liquidato l'or­ todossia marxista-leninista. Il PCI - ha dichia­ rato il suo segretario - non intende il compro­ messo storico come partecipazione al governo. Non propone l'uscita dell'Italia dall 'Alleanza Atlantica . Rifiuta la politica di Mao, che contrasta la distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Si augura che, dopo Tito, la Iugoslavia non venga riassorbita nella sfera di influenza sovietica. Con­ danna nel modo più esplicito le decisioni del consiglio militare portoghese di escludere la ne locale dalla competizione elettorale ( 1 9 7 5) e ri­ vendica la « posizione di principio » che « si rias­ sume nella necessità di assicurare pieno eserci­ zio dei diritti politici a tutte le formazioni poli­ tiche di sinistra, di centro o di destra » ( anche di destra ! ) . Le autentiche " garanzie " che il PCI ha da offrire a quanti sono dubbiosi della sua fe­ deltà ai principi della democrazia non sono tanto

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« l'offerta di impegni e vincoli solennemente pro­ clamati per il futuro vicino e lontano », ma sono l'impegno a realizzare « un sistema di rapporti sociali e politici che renda oggettivamente sem­ pre più difficile e in ultima analisi impossibile ogni tentazione, da parte di chiunque, di uscire dall e regole dell a democrazia » ( da parte di chiun­ que ! ) . E si preoccupa perfino « dell'indebolimento del ruolo di quell'Occidente in cui siamo anche noi Italiani, come popolo, come nazione , e come comunisti italiani » . E, infine, intende il « pro­ cesso rivoluzionario » non come un'azione vio­ lenta, ma come un'« analisi » e un'« iniziativa » « che sollecitino tutte le componenti progressive, cioè tutte le forze democratiche laiche e cattoli­ che antifasciste, ad esprimere il meglio di sé e insieme le spostino su posizioni sempre più avan­ zate ». Che cosa avrebbe potuto dire di più ? Cer­ to, il PCI esiste e per rassicurare il mondo bor­ ghese non può chiudersi in convento. Fermo re­ stando che non intende suicidarsi, il PCI, per rassicurare, non può ritirarsi sull'Aventino (come voleva Terracini), ma deve offrire nel modo più costruttivo la propria collaborazione. E invece, nonostante ogni apparenza, il ten­ tativo del PCI di rassicurare il mondo capitalistico contiene un elemento di disturbo cosl grave da rendere controproducente questo tentativo. A que­ sto punto, cioè, non si devono perdere di vista i motivi oggettivi che giustificano l'intransigenza della ne, o di certi suoi settori nei confronti del PCI e che forse non sono nemmeno del tutto chiari alla stessa classe politica democristiana. Non si tratta del solito dubbio che le intenzioni reali del PCI corrispondano alle sue parole (un dubbio,

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tuttavia, che non è meno legittimo per il fatto di essere solito) . E d'altra parte, nonostante ogni apparenza, e, soprattutto, nonostante il reale pro­ cesso di socialdemocratizzazione del PCI, di cui si è già parlato, Berlinguer non ha fatto nessuna concessione ideologica all'anticomunismo e an­ che se ha preferito citare Machiavelli invece di Marx, egli si è mantenuto rigidamente all'inter­ no della strategia tradizionale del marxismo-le­ ninismo . Per la quale l'azione politica deve man­ tenersi del tutto aderente alle condizioni concrete e specifiche dello sviluppo storico, evitando di prospettarsi come un ideale astratto che la situa­ zione reale renderebbe inevitabilmente irraggiun­ gibile. Il problema va discusso con attenzione. Innanzitutto - ma la considerazione fondamen­ tale verrà espressa più avanti (cfr. parr. 4 , 5) quando Berlinguer dichiara che il PCI è preoc­ cupato dell'indebolimento dell'Occidente, non esce di un millimetro dalla strategia marxista-leninista, perché l 'indebolimento dell'Occidente è la con­ dizione oggettiva di una sua virata a destra. Un comunista occidentale che in questo momento non dia tutto il suo appoggio all'ordine demo­ cratico-parlamentare e alla gestione democratico­ parlamentare dell'assetto capitalistico per evitare la virata a destra, non è un vero marxista-lenini­ sta . Il vero marxista sa che la società capitalistica è come la donna ( un certo tipo di donna) : se le si propone subito la camera da letto si corre il rischio di prendere uno schiaffo . Il libertino e il comunista ortodossi sanno che bisogna proce­ dere gradualmente. Questo però non significa rhe il primo non pensi più alla camera da letto e il secondo alla società senza classi. -

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Il concetto di " legalità democratica " (le " re­ gole della democrazia ") è l'ambito generale all 'in­ terno del quale si iscrivono tutti gli elementi dell'offerta di collaborazione avanzata dal PCI. Berlinguer vuole difendere le regole della demo­ crazia. Intorno agli anni venti il maggiore dei teorici marxisti, Gyorgy Lukacs, scriveva che per i partiti comunisti stare nella legalità o nella ille-ga­ lità non è una questione di principio, ma dipende interamente dalla situazione storica. Esistono situa­ zioni in cui gli " opportunisti " e i " socialtraditori " socialdemocratici possono trovarsi nell'ill egalità; e, all'opposto, « si possono senz'altro immaginare condizioni nelle quali il partito comunista più rivoluzionario e più avverso ai compromessi possa talora lavorare in modo quasi completamente le­ gale » . Sbaglierebbe quindi chi, rilevando che la caratteristica della socialdemocrazia è il volersi mantenere ad ogni costo nell a legalità, credesse che caratteristica dei veri partiti comunisti sia la volontà di mantenersi ad ogni costo nell'ille­ galità. Questa volontà è una " forma di roman­ ticismo dell'illegalità ", una " malattia infantile del movimento comunista " . Il quale comprende il significato della propria azione politica quando si rende conto « del carattere puramente tattico della legalità e dell'illegalità, liberandosi sia dal cretinismo della legalità, sia dal romanticismo dell a illegalità » . Il partito comunista più radical­ mente rivoluzionario può quindi trovarsi in una situazione storica che lo costringe, senza fargli

perdere di vista lo scopo rivoluzionario della pro­ pria azione, a mantenersi nell a legalità più rigo­ rosa e nel più grande rispetto per le " regole della democrazia" .

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Berlinguer vuole la collaborazione con le for­ ze democratico-parlamentari. Ma basta aprire il Manifesto del partito comunista per sapere che già per Marx e Engels la strategia dei comunisti consiste sempre nell'alleanza con le forze poli­ tiche più avanzate, quelle cioè democratiche, che aiutano il comunismo nella distruzione delle for­ ze più arretrate, ma che costituiscono, poi, il primo ostacolo da cui il comunismo deve libe­ rarsi. « Dal primo momento della vittoria » scri­ veva Marx « noi non dobbiamo più rivolgere la nostra diffidenza contro il nemico reazionario battuto, ma contro i nostri ex alleati. » E quindi Lenin poteva scrivere, in Stato e rivoluzione: « La democrazia ha una grandissima importanza nella lotta della classe operaia contro i capitali­ sti per la sua emancipazione. Ma la democrazia non è affatto un limite insuperabile, è semplice­ mente una tappa sulla strada che va dal feuda­ lesimo al capitalismo e dal capitalismo al comu­ nismo ». Una tappa, quindi, che bisogna raggiun­ gere. Sì che un partito comunista può essere radicalmente rivoluzionario e insieme impegnar­ si a fondo, come il PCI ha già fatto negli anni della Resistenza, nella lotta per la democrazia (in sin­ tonia col grande processo storico che ha affian­ cato l'Unione Sovietica e le democrazie occiden­ tali nella lotta contro il nazismo) . Persino il re­ cente europeismo del PCI può essere interpretato in questa luce: è vero che l'instaurazione di_ stretti legami tra l'Italia e l'Europa capitalistica renderebbe estremamente più difficile una rivo­ luzione comunista nel nostro Paese; ma in ogni caso farebbe compiere un reale passo innanzi in quella direzione, perché, insieme, renderebbe an176

cora più difficile una regressione m Italia all'au­ toritarismo di destra. Se l'offerta di collaborazione democratica avan­ zata dal PCI non ha soltanto l'intento - indi­ retto - di rendersi accetto a una più larga cer­ chia di elettori, ma ha anche quello di stabilire appunto una collaborazione con le forze democra­ tiche, allora i comunisti italiani non possono non rendersi conto dell'ambiguità che ancora permane nella loro posizione e quindi delle difficoltà che, nella situazione attuale, la loro offerta di colla­ borazione venga accettata. Il comunismo inter­ nazionale sta certamente cambiando ; e in Italia più velocemente che altrove. Ma non è ancora cambiato . È in fase di transizione; e proprio per questo è ambiguo e non può non insospettire i suoi avversari. L'impostazione politica di Berlin­ guer ha fatto guadagnare voti al PCI, ma è molto difficile che abbia dissipato i sospetti del mondo capitalistico. Anche se quasi tutta la stampa si è data da fare per scoprire nelle dichiarazioni di Berlinguer una svolta dell'ideologia marxista in Italia, è incontestabile che tutto quanto il segre­ tario comunista ha detto in questi ultimi anni in fatto di collaborazione, di impegno per salvaguar­ dare le regole della democrazia e per impedire l'ulteriore indebolimento del mondo occidentale, non solo può essere inteso, nella situazione at­ tuale, come un semplice espediente tattico, ma come un espediente tattico che il marxismo ha teorizzato da quasi un secolo nei termini stessi in cui verrebbe ora riproposto da Berlinguer. Voglio dire che sino a quando il comunismo italiano non esce dall'ambiguità in cui si trova, i suoi avversari possono interpretare come espe177

cliente tattico ciò che invece è segno di un reale cambiamento di rotta. Ma per uscire dall'ambi­ guità il comunismo italiano deve operare una chiarificazione ideologica (che tuttavia è già in atto e a volte assume aspetti persino paradossali), che gli consenta di prendere le distanze dai grandi teorici rivoluzionari del passato. Una chiarificazio­ ne che deve andare molto al di là delle operazioni di recupero e di reinterpretazione che sono state recentemente tentate delle dottrine di Gramsci e di Togliatti. 4. DI STENS IONE E TENTAZIONE

Il marxismo è sempre meno filosofia e sempre più scienza, sempre meno progetto globale di ri­ costruzione della società e sempre più " ingegneria sociale " che si preoccupa di risolvere gradualmen­ te i singoli problemi che si presentano nella con­ creta situazione storica. Sul piano politico, que­ sta evoluzione del marxismo dalla filosofia alla scienza corrisponde a un processo oggettivo di socialdemocratizzazione del comunismo internazio­ nale e quindi anche di quello italiano. Le ragioni dell'abbandono della filosofia per la scienza so­ no remote e profonde : riguardano il senso stesso dello sviluppo della civiltà occidentale, cioè l'ine­ vitabilità che l'organizzazione tecnologica dell'esi­ stenza umana porti al tramonto tutte le ideologie ( il cristianesimo, il marxismo, il capitalismo) che sinora hanno guidato la storia dell'uomo . Ebbene, proprio perché il processo di allon­ tanamento dalla filosofia e di socialdemocratizza­ zione del comunismo è un processo in atto, sono 178

reperibili in esso sia gli elementi del luogo dal quale il comunismo si allontana (la filosofia, il progetto totale di ricostruzione della società), sia gli elementi del luogo al quale il comunismo si avvicina (la scienza, la società organizzata in base ai criteri dell'ingegneria sociale gradualistica) . A prima vista, la politica attuale del PCI sem­ bra tutta proiettata verso questo secondo dei due luoghi. L'offerta di collaborazione col mondo ca­ pitalista è così esplicita e determinata, che si po­ trebbe pensare che il PCI abbia dato l'addio defi­ nitivo all'impostazione filosofica marxista-leninista e a tutto ciò che essa comporta. Al XIV Congresso è sembrato evidente lo stacco tra il " nuovo " co­ munismo di Berlinguer e quello " vecchio " di Terracini. E invece le cose non stanno così : quel­ lo di Terracini non è il marxismo ortodosso, ma esprime l'incapacità di comprendere la strategia che il marxismo ortodosso richiede in questo mo­ mento. Mentre il " nuovo " marxismo di Berlin­ guer dimostra appunto la capacità di comprendere quale strategia deve seguire, nella situazione at­ tuale, la tradizionale ideologia marxista-leninista. È vero che lo stesso Berlinguer ha sostenuto la continuità della linea che va da Gramsci e Togliat­ ti, Longa, fino all'attuale segreteria del PCI; ma l'ha sostenuta con l'aria di chi vuoi mostrare l'au­ tonomia del comunismo italiano rispetto alla posi­ zione ideologica del marxismo-leninismo tradizio­ nale , nascondendo in questo modo la ben più profonda solidarietà tra il suo " nuovo " marxismo e l'ortodossia marxista tradizionale, che può ap­ parire ad una considerazione più attenta del fe­ nomeno. È ora il momento di prendere in esame l'aspet179

to fondamentale di questa solidarietà, che costi­ tuisce primariamente quel grave elemento di di­ sturbo (cui sopra si è fatto cenno) , che è pre­ sente nel tentativo della politica attuale del PCI di rassicurare il mondo capitalista e che quindi finisce col rendere controproducente questo ten­ tativo. Il punto decisivo per comprendere tutto que­ sto è il modo in cui Berlinguer intende l'attuale equilibrio di forze tra Stati Uniti e Unione Sovie­ tica. Lo intende come una situazione precaria, che dev'essere superata per dar luogo a un rap­ porto di « distensione », di « coesistenza » e « co­ operazione », « l'unica via concreta » egli sostiene « per garantire non solo il futuro dell'umanità in­ tera, ma anche la sicurezza e l'indipendenza di tutti i Paesi » . Ora, questa futura situazione sarà veramente distensiva solo se le due superpotenze non costi­ tuiranno più una reciproca minaccia e dunque solo se non si faranno più paura. Berlinguer deve am­ mettere che se in questa futura situazione esi­ stessero ancora dei partiti marxisti-leninisti, que­ sti si troverebbero la strada spianata per la con­ quista del potere : a spianargliela sarebbero appun­ to la " distensione " , la " coesistenza " e la " coope­ razione " internazionale . O il PCI sconfessa espli­ citamente la propria tradizione culturale - e al­ lora si capisce perché non fa la rivoluzione teo­ rizzata da Marx e da Lenin -, oppure deve rico­ noscere che il motivo fondamentale per cui si trova a dover differire continuamente la rivolu­ zione è l 'esistenza della tensione tra USA e U R S s , che rende ormai praticamente impossibile sottrarre l'Italia al sistema economico-politico occidentale.

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È probabile che Berlinguer alla rivoluzione non ci pensi più per davvero; tuttavia è inevitabile {e insieme tragico ) che il PCI, proponendo ad ogni livello la distensione e la cooperazione, venga og­ gettivamente a proporre la realizzazione delle con­ dizioni che non renderebbero più utopica, nei Paesi dell'area capitalistica, la possibilità di una rivoluzione che porti i partiti comunisti al potere e allo smantellamento della democrazia parlamen­ tare borghese. Quanto più il comunismo è conci· liante , tanto più è pericoloso per l'assetto capi­ talistico : appunto perché la conciliazione e la distensione lo favoriscono oggettivamente. A meno che il PCI rifiuti per davvero la filoso­ fia marxista e porti fino in fondo la distruzione della propria base ideologica. Ma questo rifiuto e questa distruzione sono ancora allo stato di tenta­ tivo, operazioni di élites, che anche per la loro indeterminatezza non raggiungono la base del par­ tito. In questa situazione - nella situazione cioè in cui il PCI non riesce a sconfessare esplicita­ mente e univocamente la propria ideologia -, an­ che se Berlinguer non crede più in cuor suo né a Marx né a Lenin, ciononostante il significato og­ gettivo della sua politica è dato - agli occhi del capitalismo più scaltrito - da una rigorosa fedeltà all'unica strategia che oggi può consentire il suc­ cesso all'impostazione ideologica tradizionale del marxismo-leninismo. È per questo che i suoi avversari , istintivamente, avvertono che la disten­ sione farebbe il gioco della rivoluzione comuni­ sta, e che il capitalismo è costretto a tenere l'uma­ nità sull'orlo di un conflitto nucleare, proprio per evitare quella distensione che lo consegnerebbe, vinto, nelle mani della rivoluzione marxista. 181

Le ragioni che costringono il capitalismo ad alimentare la tensione atomica sono quindi più complesse di quelle indicate da Marcuse. Qui è il vero ostacolo della politica che oggi il PCI propone. Molto chiaramente, Berlinguer ha detto che le « garanzie » che il PCI intende offrire non consistono tanto in « impegni e vincoli solennemente proclamati )>, ma nell'impegno di rea­ lizzare « un sistema di rapporti sociali e politici che renda oggettivamente sempre più difficile ed in ultima analisi impossibile ogni tentazione, da parte di chiunque, di uscire dalle regole della de­ mocrazia )>. Da parte di chiunque, e dunque anche da parte del PC!. Senonché, è proprio la disten­ sione e la collaborazione che il PCI propone a li­ vello internazionale e nazionale, è proprio essa a costituire per i partiti comunisti occidentali (e soprattutto per quelli italiano e francese) la con­ dizione oggettivamente più favorevole per la loro uscita dalle regole della democrazia, ossia la ten­ tazione più irresistibile. Berlinguer ha ragione nel dire che non basta far promesse alla democrazia, ma bisogna escogitare un sistema che renda in ultima analisi impossibile ogni tentazione di tra­ dirla. Solo che il suo sistema - nonostante ogni buona intenzione - non può funzionare. Si badi : non può funzionare sino a che quell'autosupera­ mento del marxismo in direzione di un'organizza­ zione scientifico-tecnologica-non ideologica della società non abbia compiuto molti dei passi che in quella direzione deve ancora muovere .

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5. PER U SCIRE DALL 'UTOPIA La contraddizione fondamentale della società italiana contemporanea è data dal fatto che, da un lato, non è più pensabile di poter continuare a tenere al di fuori delle responsabilità di governo una forza come il Per, che esprime così larghi strati popolari, e, dall'altro lato, non è nemmeno pensa­ bile, nella situazione attuale, che il PCI assuma responsabilità di governo senza che in Italia si scateni la guerra civile. L'errore delle formazioni politiche che si schierano alla sinistra del PCI è di ritenere che gli Stati Uniti siano ormai una " tigre di carta " priva della volontà e della responsabilità effettive di mantenere i confini attuali del suo im­ pero. Il PCI non compie questo errore; e tuttavia la sua strategia politica non riesce ancora ad uscire dall'astrattezza, cioè dalla situazione in cui i pro­ getti e le idee fondamentali non hanno la possi­ bilità di diventare realtà. Intendo dire che la po­ litica attuale del PCI non è ancora in grado di pro­ porre quelle alternative che gli consentano di andare al governo senza provocare o l'intervento degli Stati Uniti o la rivoluzione degli illusi del­ l'ultrasinistra che con il PCI al governo credereb­ bero realizzate le condizioni richieste per la di­ struzione del capitalismo ; in ogni caso, la guerra civile . In questa situazione gli stessi progressi elettorali del PCI finiscono col diventare contro­ producenti, perché molto prima del cinquantun per cento di voti dati ai socialcomunisti il capi­ tale avrà trovato il modo di neutralizzare la spinta delle sinistre. Se si vuole evitare questo risultato è allora necessario aiutare il PCI ad uscire dal vicolo cieco 183

in cui è andato a cacciarsi, è cioè necessario tro­ vare il modo di uscire dalla contraddizione qui sopra indicata, senza attendere che essa esploda in modo improvviso e quindi incontrollabile. Nemmeno la DC può avere convenienza a gestire all'infinito un equilibrio che può tramutarsi da un momento all'altro in una catastrofe. La quale è molto difficile che venga determinata da un passo falso del PCI (che tuttavia deve resistere alla tentazione di mostrare ad ogni costo che è ben lontano dal ripetere l'errore del '2 1 , quando, sulla base della convinzione che il fascismo sarebbe stato la rapida agonia del capitalismo, non fece nulla per impedire al fascismo la conquista del potere) ; ma è molto facile che venga determinata da un ingente incremento di voti comunisti che il PCI fosse costretto a subire nonostante ogni sua intenzione contraria. È vero che il PCI è con­ vinto di poter avanzare ancora per qualche trat­ to senza pericolo ; ma ormai ogni passo avanti può essere quello che supera il limite che dal punto di vista del sistema capitalistico non può essere oltrepassato dalle forze di sinistra senza che risulti compromessa la sicurezza del sistema. È vero che la DC tende a costruirsi un alibi proponendo l'alternativa " o il caos o il rafforza­ mento della DC " ; ma è anche vero che indipen­ dentemente della lettura interessata che la DC tende a dare della situazione attuale, esiste un limite (più o meno rigido) oltre il quale il capitale non è disposto a ritirarsi . E nessuno sa dove questo limite si trovi (anche perché la sua non è una esistenza oggettiva, ma esso è là dove il capi­ tale crede che sia) ; se esso sia ormai a portata di mano delle forze di sinistra, o se l'abbiano già 1 84

superato, sì che ormai non ci sia che da attendere il momento scelto dalle forze di destra per rista­ bilire l'equilibrio compromesso. In questo senso l'alibi della ne è insieme un invito alla prudenza affinché le forze popolari, per volere di più, non finiscano col perdere anche quello che hanno gua­ dagnato . È difficile che per le prossime elezioni poli­ tiche il PCI giunga a quella chiarificazione ideolo­ gica che consenta la sua utilizzazione sul piano del­ le responsabilità di governo. Ma sin d'ora è ne­ cessario che la sua politica esca dall'astrattezza e, come dicevo, è opportuno non !asciarlo solo in questa non facile impresa. Bisogna innanzitutto che il PCI comprenda l'irrealizzabilità della sua strategia attuale, imperniata sulla proposta della distensione a livello nazionale e internazionale. Sino a quando il PCI propone la distensione senza operare un netto rifiuto della propria ideologia rivoluzionaria e quindi senza operare una chiari­ ficazione, di fronte al proprio elettorato ( è ovvio che non si tratta di una bazzecola) , dei suoi rap­ porti con l'Unione Sovietica, la distensione pro­ posta dal PCI serve soltanto a determinare - come già si è rilevato - le condizioni più favorevoli alla buona riuscita della rivoluzione marxista nei Paesi occidentali. Sino a che il comunismo non porta a fondo la propria smobilitazione ideologica il suo proporre la distensione equivale a chiedere al ca­ pitale di impiccarsi con le proprie mani. E non è che si avrebbe dispiacere a imprestargli la corda, ma il fatto è che il capitale non sembra disposto a mettersela attorno al collo. È proprio convinto il PCI, quando propone la distensione, che il capi­ tale abbocchi all'amo? Vorrei pensare di no, in 185

omaggio alla grande esperienza politica che il PCI è andato accumulando . Ma se non ne è convinto - e tutta la manovra si esaurisce nel tentativo di guadagnare più voti rendendosi rispettabile agli occhi della borghesia -, allora la proposta della distensione, formulata come proposta globale al­ l'interno della quale si articolano tutte le altre, significa che l'esperienza politica del PCI è giunta a un punto morto e cioè là dove non si è più ca­ paci di progettare qualcosa che abbia la possibi­ lità di realizzarsi. Se esistessero dubbi sull'impossibilità che il mondo capitalistico accetti la proposta comunista della distensione, basterebbe riflettere su dichiara­ zioni come quelle espresse da Ford alla vigilia del suo ultimo viaggio in Europa in qualità di presi­ dente degli Stati Uniti, e in seguito ampiamente riprese : « Dobbiamo essere assolutamente certi che la politica della distensione non intacchi la sicu­ rezza dell'Occidente )), Che è affermazione già di per sé eloquente, perché significa che per gli Americani la tensione è meno pericolosa della di­ stensione per la sicurezza del mondo occidentale. A Bruxelles, poi, oltre ad avvertire Vasco Gonçal­ ves che gli Stati Uniti non potevano accettare che un Paese della Nato fosse controllato da forze comuniste, Ford aveva esortato i Paesi dell'Al­ leanza Atlantica a « mettere a punto una realistica e produttiva agenda per la distensione, che serva i nostri interessi e non quelli di altri che non condividono i nostri valori » . Su questa frase che un poco alla volta anche l'amministrazione Carter ripete sempre più di frequente - è oppor­ tuno che si soffermi l'attenzione dell'attuale diri­ genza del PCI. Essa significa che il sistema econo186

mica-politico occidentale non può accettare un tipo di distensione che faccia gli interessi dei comuni­ sti e non gli interessi del capitale. Ma questa è appunto la distensione proposta da Berlinguer. Si tratta quindi di una proposta astratta, utopica, che nonostante le apparenze ribadisce la contrapposi­ zione frontale tra l'ideologia marxista-leninista e l'ideologia capitalistica e quindi finisce col riba­ dire lo stato di segregazione in cui il PCI si è tro­ vato sino ad oggi. Il Per sta intensificando i contatti col mondo politico americano : il suo intento principale è di mettere le carte in tavola, per mostrare che l'Occi­ dente non ha nulla da temere da esse, ma anzi ha convenienza a usarle . Eppure, nonostante le appa­ renze, il PCI sta sbagliando. Si tratta di compren­ dere che se il PCI è convinto di scoprire carte ras­ sicuranti per il capitalismo occidentale, esse, rassi­ curanti non lo sono affatto, sì che l'incontro con il mondo politico americano è destinato a risolversi in un fallimento (con le prevedibili ripercussioni sul piano della politica interna italiana) . Rivediamo ancora una volta queste carte non rassicuranti . Poi diremo come, cambiando gioco, il PCI abbia maggiori probabilità di successo . È da ritenere che il Per si stia sforzando di chiarire ai responsabili della politica americana la strategia emersa al xrv Congresso e poi continua­ mente ribadita: collaborazione con tutte le forze democratiche per evitare un ulteriore indeboli­ mento dell'assetto politico-economico dell'Occiden­ te ; distensione internazionale. Anche « L'Unità >>, in polemica con la « Pravda », che riaffermava il concetto di maggioranza popolare in senso politico e non aritmetico (cioè il concetto di dittatura del

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proletariato) , sosteneva la necessità « di comple­ tare la distensione politica con quella militare e realizzare una riduzione degli armamenti, avan­ zando sulla via del disarmo generale e totale » . L'errore del PCI è di non capire che è proprio que­ sta sua enfasi pacifistica e questo suo ottimismo moralistico a insospettire il mondo capitalistico e a rendere quindi inaccettabile l'offerta di collabo­ razione con esso. La ragione oggettiva per cui il PCI - un grande partito rivoluzionario, che gode di un largo consenso popolare - non prende con la forza il potere in I talia è sostanzialmente data dal fatto che nella spartizione della Terra, operata da Stati Uniti e Unione Sovietica, l'Italia appartiene a quella zona della sfera di influenza americana, alla quale gli Stati Uniti (repubblicani o democrati­ ci alla presidenza) non intenderanno mai rinun­ ciare, e sulla quale l'Unione Sovietica (con Brez­ nev o con l'eventuale emancipazione dei militari nel " dopo-Breznev " ) non alzerà mai lo sguardo. La tensione tra mondo capitalistico e mondo comunista non è qualcosa di aggiunto e di acci­ dentale rispetto alla spartizione della Terra tra questi due mondi , ma esprime il continuo stato di allarme e di mobilitazione in cui ognuna delle due superpotenze deve mantenersi per impedire che l'equilibrio mondiale venga meno in favore dell'avversario . Ed ecco che il PCI si mette a pre­ dicare la distensione, con la persuasione che que­ sto sia un buon argomento per convincere gli Ame­ ricani della sua buona fede . Non si rende conto che la distensione è precisamente l'eliminazione di quella situazione esistente - cioè lo stato di ten­ sione determinato dalla spartizione della Terra tra le due superpotenze - che, come si diceva, è la 1 88

ragione oggettiva per la quale un partito come il PCI non può impadronirsi con la forza del potere. Un futuro di " distensione ", di " coesistenza " e di " cooperazione " e " amicizia " tra i popoli, dove Stati Uniti e Unione Sovietica non costituiscano più una minaccia reciproca, rappresenta la condi­ zione ideale della conquista violenta del potere da parte di un partito marxista-leninista. In altri termini : il PCI vuole evitare un ulte­ riore indebolimento della democrazia parlamentare borghese e, insieme, vuole la distensione. Senon­ ché la distensione è l'indebolimento più grave di tale democrazia, specie di quella italiana, perché la espone alla concreta possibilità di essere tolta di mezzo dalla rivoluzione marxista. Se il PCI vuole collaborare per davvero con le altre forze democratiche, evitando che la sua mag­ giore incidenza nella vita italiana provochi la rea­ zione di destra, è allora necessario che cambi gio­ co. Il cambiamento di gioco non consiste nell'ado­ zione di un diverso " espediente " , ma in un 'auten­ tica aderenza alla situazione oggettiva internazio­ nale. La distensione infatti, proposta dal PCI, non solo insospettisce il mondo del capitale e rende quindi fallimentare la politica del " compromesso storico " , ma è anche irrealizzabile . Il PCI insospet­ tisce il capitale proponendo qualcosa che non può realizzarsi. Vediamo perché. Stati Uniti e Unione Sovietica hanno segnato un distacco rispetto a tutti gli altri Paesi del mon­ do. Oggi sarebbe pura demenza, per la sproporzio­ ne delle forze, se uno di questi Paesi si proponesse di attaccare militarmente gli Stati Uniti, come fece il Giappone nell'ultimo conflitto mondiale, o l'Unione Sovietica, come fece la Germania di Hit-

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ler - in entrambi i casi, con concrete possibilità di successo . Ogni accordo tra Americani e Russi per la riduzione degli armamenti e ogni " disten­ sione " tra loro può avvenire ormai solo all'in­ terno di una condizione irrinunciabile : non per­ dere quella superiorità economico-militare che li rende invincibili nei confronti del resto del mondo. Per le due superpotenze, il distacco che esse han­ no segnato deve restare definitivo. È cioè impen­ sabile che esse rinuncino al loro ruolo di super­ potenze. Ma se la sostanziale parità di forze tra le due superpotenze è un coefficiente di stabilizzazione nel­ la situazione internazionale, la tendenza invece, continuamente crescente, di tutti gli altri Paesi ad aumentare la propria potenza è un coefficiente di instabilità nell'equilibrio di forze tra le due super­ potenze. In un mondo dove gli armamenti nu­ cleari non sono più loro monopolio e tendono alla proliferazione, e dove si moltiplicano i pro­ blemi e i punti di rottura determinati dall'inquie­ tudine e dall'ansia di emancipazione dei popoli, è inevitabile che gli accordi sul disarmo tra Stati Uniti e Unione Sovietica non abbiano altro intento che di stabilire un comune tasso di incremento del loro armamento atomico e tradizionale. Per man­ tenere le distanze rispetto agli altri, che si fanno avanti, le due superpotenze devono aumentare di continuo il proprio armamento, diventando così sempre più pericolose l'una per l'altra; sì che al di là di ogni apparenza richiesta dal gioco politico - gli accordi per il disarmo non esprimono, né possono esprimere una volontà di pace, ma la necessità che il costante aumento di potenza non determini lo sbilanciamento dello stato di equi190

librio raggiunto ( e dal quale dipende la sopravvi­ venza della razza umana) . E l'equilibrio sottin­ tende l'intoccabilità delle sfere di influenza dei due imperi . È la stessa volontà di potenza e di pro­ gressiva emancipazione dei popoli a rendere mito e utopia quella " distensione " , quell"' amicizia " tra i popoli, quel " disarmo generale e totale " che il PCI va proponendo. Anche se esistono le condizio­ ni interne per una distensione tra le due superpo­ tenze (la crisi delle ideologie è la più importante di queste condizioni), queste non possono più per­ dere il vantaggio dell'invincibilità che ormai han­ no conquistato nei confronti del resto del mondo . E ciò le obbliga a un incremento costante degli armamenti, che è la causa fondamentale dell'im­ possibilità che tra esse si realizzi una vera disten­ siOne. Ma è proprio perché la distensione è irrealiz­ zabile che il compromesso storico è realizzabile e non è un cavallo di Troia per penetrare nella for­ tezza del capitalismo (e che quindi il capitalismo bada a tener fuori dalle mura ). Il contesto reale in cui il PCI oggettivamente si muove consente cioè un tipo di distensione internazionale, e quindi di collaborazione tra le forze antifasciste che non è quello formulato dal PCI, ma non è nemmeno un espediente per far crollare il capitalismo, e che pertanto è nell'interesse dello stesso PCI eviden­ ziare nel suo autentico significato. È cioè nell'in­ teresse stesso del PCI abbandonare l'ottimismo pa­ cifistico della distensione ( che lo rende sospetto agli occhi del capitale e rende improponibile il compromesso storico) e fare questo discorso : « L'amicizia tra i popoli è una bella cosa, ma, nella situazione attuale, è anche un'utopia. La tensione 191

tra usA e UR S S è quindi destinata a perpetuarsi e ciò significa che l'Italia resta definitivamente asse­ gnata alla sfera di influenza del capitalismo occiden­ tale. La " distensione " che il PCI si propone di pro­ muovere non vuoi essere quindi l'eliminazione della tensione (che per altro è ineliminabile) - e non può quindi avere secondi fini -, ma è l'orga­ nizzazione della società nel modo più razionale che è consentito all'interno della tensione e cioè, per quanto riguarda l'Italia, all'interno dell'assetto ca­ pitalistico ». La tensione è appunto quel sistema di rapporti sociali e politici, di cui parla Berlinguer, che « rende oggettivamente impossibile » al PCI di « uscire dalle regole della democrazia » . Invece di voler convincere i propri interlocu­ tori a perseguire qualcosa di irrealizzabile (la di­ stensione), il PCI ha dunque tutto l'interesse a convincerli di qualcosa che non ha bisogno di rea­ lizzarsi per la semplice ragione che è già reale ed è esso la garanzia più idonea a dissipare i sospetti del mondo capitalistico : l'insuperabilità della ten­ sione tra capitalismo e socialismo; la quale sta costringendo il PCI ad abbandonare definitivamen­ te la propria ideologia rivoluzionaria e lo sta tra­ sformando nel più grande movimento socialdemo­ cratico-riformista del continente europeo. Indipen­ dentemente dalle intenzioni soggettive, la volontà oggettiva del PCI non può essere che questa. 6. ALTRI EQUIVOCI PER IL CAPITALE Le tesi fondamentali sostenute da Berlinguer al XIV Congresso del PCI sono divenute il princi­ pale punto di riferimento dei partiti comunisti 1 92

francese e spagnolo. A partire dalla dichiarazione comune approvata nell'estate del '75 dal PCI e dal partito comunista spagnolo, dove venivano so­ prattutto ribadite le tesi della distensione interna­ zionale, della collaborazione del partito comunista con le diverse forze democratiche, dell'attuazione del socialismo attraverso la democrazia. « I comu­ nisti italiani e spagnoli » affermava il documento « dichiarano solennemente che nella loro conce­ zione di una avanzata democratica al socialismo, nella pace e nella libertà, si esprime non un at­ teggiamento tattico, ma un convincimento strate­ gico. » È di certo evidente, in questa dichiarazione, l'intento di rispondere all'accusa, frequentemente rivolta ai partiti comunisti, di volersi servire del­ la democrazia per eliminarla {sì che l'adesione alla democrazia avrebbe soltanto un carattere tattico, provvisorio) . Ma è anche evidente che tale dichia­ razione costituisce un superamento di fondamen­ tale importanza della tradizione rivoluzionaria mar­ xista-leninista, che ha esplicitamente teorizzato il carattere tattico dell'adesione, da parte dei par­ titi comunisti rivoluzionari, ai principi della de­ mocrazia parlamentare. Se così stanno le cose, allora il PCI non è asso­ lutamente più un partito marxista-leninista. Ma che non sia assolutamente più un partito marxi­ sta-leninista è qualcosa di troppo importante e di troppo macroscopico per essere passato sotto si­ lenzio, come appunto accadeva nella dichiarazione dei due partiti comunisti - e continua tutt'oggi ad accadere -, sì che alle forze della borghesia capi­ talistica può venire il legittimo sospetto che, essi, marxisti-leninisti, lo siano ancora (per lo meno per quel tanto che impedisce loro di riconoscere 193

che non lo sono più) e che pertanto, quando par­ lano dei « convincimenti che sono parte fonda­ mentale delle loro impostazioni politiche e teori­ che », non stiano scavando la fossa ai loro padri rivoluzionari con l'aria del figlio innocente che non ha alcun parricidio sulla coscienza, ma siano invece bravi figlioli che fanno onore ai loro geni­ tori e che quando tessono gli elogi delle varie forme della democrazia borghese (cooperazione di iniziativa pubblica e privata compresa) conce­ piscono l 'attuazione della democrazia in modo ana­ logo a quello in cui l 'ortocultore concepisce l'at­ tuazione del seme. Cioè come la sua fine nel frutto. Queste considerazioni non hanno un intento astrattamente polemico . Si vuoi ribadire invece che è nell'interesse del PCI uscire dall'ambiguità, ed è anche nell'interesse del Paese. Se la conver­ genza tra il PCI e le altre forze democratiche mira ad impedire che « certi gruppi capitalistici » ten­ tino di dare alla crisi economica « uno sbocco aper­ tamente reazionario ed autoritario » (così si espri­ meva la dichiarazione congiunta) è necessario che il PCI non alimenti quel tentativo con l'ambiguità della sua posizione teorica . In questa direzione il PCI ha certamente già percorso molti passi (e gli ultimi successi elettorali hanno confermato la giustezza della direzione imboccata) , ma gli rima­ ne ancora quello più difficile e penoso : il distacco esplicito - direttamente rivolto e direttamente re­ cepito dalle masse comuniste - dall'ideologia mar­ xista-leninista, e quindi la chiarificazione inequi­ vocabile dei propri rapporti con l'Unione Sovie­ tica, che intende porsi come la garante dell'orto­ dossia marxista-leninista.

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Alla chiari6cazione dell'impostazione teorica del PCI appartiene la chiarificazione degli scopi che esso si propone. Tra i quali spicca, anche nella dichiarazione di cui abbiamo parlato, la distensio­ ne internazionale. Manca ancora, da parte del PCI, un'analisi approfondita del concetto di distensio­ ne. E l'incertezza di questo concetto - che è incer­ tezza dello scopo - si ripercuote negativamente sull'azione politica, nel senso che, come si è detto, l'appello alla distensione non può non riuscire so­ spetto al capitale. Cosl come sono fonte di equi­ voco, sintanto che il PCI non esce dall 'incertezza teorica, le stesse polemiche tra « L'Unità » e la « Pravda ». La serie di queste polemiche è incominciata il 6 agosto del '7 5, con un articolo della « Pravda » in cui si ricordava in che modo un vero partito comunista può andare al potere - e cioè realiz­ zando, « al di là degli accordi congiunturali » con le forze non reazionarie, la dittatura del proleta­ riato. Il PCI rispose subito ribadendo che quegli accordi non possono essere congiunturali ( cioè me­ ramente tattici), ma che la via verso il socialismo deve svilupparsi con il consenso delle masse - e la stampa ha incominciato a sottolineare con perspi­ cacia il divario tra l'ortodossia sovietica e l'attuale ideologia del PCI. Il motivo per il quale la « Pra­ vda » abbia continuato a pubblicare articoli di quel genere, subito rimbeccati dall'« Unità », è rimasto invece, negli interventi della stampa, in secondo piano. Con notevole sforzo interpretativo, la stam­ pa, non solo italiana, ha continuato a cogliere il significato immediato, diretto dell'atteggiamento del giornale sovietico : in quell'articolo della « Pra­ vda » si afferma che « i conciliatori di oggi », ossia 195

« coloro che vogliono l 'unità a tutti 1 costi, non sono meno opportunisti dei menscevichi » e che « la politica della conciliazione e dell'unità a tutti i costi con le forze democratiche non comuniste costituisce precisamente l 'essenza del " compromes­ so storico " » ? Dunque l'Unione Sovietica è con­ traria all'attuale politica del PCI (che si è sempre ben guardato dallo smentire conclusioni di que­ sto genere) . Eppure i l significato diretto degli eventi non è mai il significato autentico. In questo caso, poi, l 'evento possiede i requisiti per farsi interpretare dal capitale in modo molto meno ottimistico. In­ nanzitutto, perché l 'Unione Sovietica dovrebbe es­ sere contraria al " compromesso storico " ? Perché, si può rispondere, è una deviazione dalla dottrina leninista ed è un esempio pericoloso per i partiti comunisti dell'Est. Supponiamo che lo sia, e che l 'Unione Sovietica sia conseguentemente contra­ ria a questa deviazione. Sta di fatto, però, che la pubblicazione sulla « Pravda » di articoli critici nei confronti del PCI è un mezzo estremamente effi­ cace non già per impedire, ma per favorire la poli­ tica del " compromesso storico " . L'articolo che in quella stessa estate del '7 5 la « Pravda » ha pub­ blicato sulla situazione portoghese, aveva la fun­ zione di condannare duramente l'atteggiamento dei socialisti portoghesi alle prese con Cuiihal. Anche qui, pronta, ma misurata replica dell'« Unità », in favore del partito socialista portoghese e quindi dell"' unità di azione " di tutte le forze antifasci­ ste portoghesi (e italiane) . Fuori dei gangheri era­ no andati invece, in quell'occasione, i socialisti di casa nostra, che senza mezzi termini avevano dato alla « Pravda » la patente di imbecillità. Prima 1 96

di dare dell'imbecille a qualcuno è però prudente domandarsi se costui non sia invece un finto ton­ to, cioè un furbo . Che i redattori della « Pravda » siano degli imbecilli non si può escludere in modo assoluto, ma è più prudente ritenere che, in casi come questi, siano dei finti tonti. Anche perché è estremamente improbabile che la classe dirigente sovietica, pur con tutte le sue pesantezze, sia cosl sprovveduta da non saper controllare, in relazione ad una adeguata percezione della situazione mon­ diale, il più importante dei propri organi di stampa. È fuori dubbio, si diceva, che i summenzio­ nati articoli della « Pravda » , lungi dall'ostacolare, favoriscano la politica del " compromesso storico " . Vediamo . Elemento essenziale di questa politica è l'autonomia del PCI rispetto all'Unione Sovietica. Che è anche l'aspetto di più difficile realizzazione, perché se i nuovi milioni di voti che il PCI ha guadagnato nelle ultime elezioni si può ritenere siano pressoché indifferenti alla funzione di Stato­ guida del socialismo, che l 'Unione Sovietica pre­ tende di esercitare, a questa funzione non è inve­ ce indifferente una buona parte dei quadri diri­ genti e del vecchio elettorato comunista (proba­ bilmente la parte più matura e più attiva del vec­ chio elettorato) , la quale non può non essere de­ lusa da un atteggiamento autonomistico che metta in pericolo l'unità del comunismo internazionale . Se dunque per il PCI è pericoloso prendere decisa­ mente l'iniziativa nel processo di affrancamento dall'Unione Sovietica (pericolo di perdere a sini­ stra quello che ha guadagnato a destra) , le cose si semplificano notevolmente se è l'Unione Sovie­ tica a prendere l'iniziativa di una sia pur velata 1 97

condanna della politica del "compromesso stori­ co " , e se quindi il PCI è costretto a difendersi riba­ dendo appunto, in contrasto con le lezioni della « Pravda », la propria volontà di promuovere la più ampia convergenza delle forze antifasciste. In questo modo, il PCI raggiunge il doppio risultato di mostrare all'opinione pubblica mondiale che la propria autonomia rispetto all'Unione Sovietica è un fatto reale, e di non scontentare quella parte del proprio elettorato e dei propri quadri dirigenti che è più sensibile alla necessità che il comunismo mondiale abbia una guida unitaria che subordini a sé le esigenze dell'autonomia. Per favorire il " compromesso storico " la « Pravda » non potrebbe dunque far nulla di meglio che condannarlo, dando così occasione al PCI di dissentire vistosamente e di mostrare la propria autonomia (sempre all'inter­ no, comunque, di quella dimensione in cui il PCI continua a dichiarare di sentirsi legato all'Unione Sovietica e al comunismo internazionale) . Lasciando ai socialisti l a loro opinione sull'im­ becillità della « Pravda » e partendo invece dal presupposto che non si tratti di imbecillità, ma di astuzia politica, la conseguenza è che il partito co­ munista russo è d'accordo con quello italiano sulla politica del "compromesso storico " ( sempreché, con questa espressione, non si intenda la parteci­ pazione immediata del PCI al governo) e che lo condanna appunto con l'intenzione di favorirlo. In un terzo articolo di quell'estate del '75 (poi il gioco ha continuato con lo stesso ritmo) la « Pravda » riferiva con evidente compiacimento che l'opinione pubblica italiana « giudica sempre più impossibile risolvere qualunque grave problema del Paese sen­ za i comunisti o contro di essi » - che sarebbe un 1 98

ben strano riconoscimento da parte di chi vor­ rebbe boicottare il " compromesso storico " . È vero che l'autonomia del PCI mette in crisi il controllo che l'Unione Sovietica ha esercitato su questo par­ tito, ma è anche vero che la tendenza degli USA e dell'uRs s a cristallizzare e perpetuare la spartizione del mondo in due grandi sfere di influenza, non consente più da tempo all'Unione Sovietica di tra­ durre quel controllo in una mossa che possa so­ stanzialmente alterare l'equillbrio internazionale, sì che anche per l'Unione Sovietica la politica del " compromesso storico " è l'unica che, all'interno di quell'equilibrio, consente un avanzamento del comunismo. Certo, il destino del PCI è che per avanzare esso deve trasformarsi. Intesa alla let­ tera, la « Pravda » dice appunto che, proprio per questa trasformazione, l'avanzamento è apparente, cioè non è un avanzamento del comunismo. ( E non h a torto.) Ma l'unico sviluppo reale che il comunismo internazionale può realizzare nei Paesi occidentali è dato appunto da quell'avanzare tra­ sformandosi, che la « Pravda » favorisce dichiaran­ dolo apparente e " opportunistico " . (Ed è molto probabile che in questo modo la « Pravda » riesca contemporaneamente a favorire l'avanzata del PCI e a far capire ai partiti comunisti dell'Est che questo tipo di avanzate non è roba per loro .) Se le cose non stessero così, se cioè questo tipo di articoli della « Pravda » fossero davvero da intendersi alla lettera, come giudizio negativo sul " compromesso storico " , questo vorrebbe dire che per le due superpotenze l'equilibrio interna­ zionale concordato è molto più rigido di quanto non si pensi, e comunque è tale da non consen­ tire più alcun passo in avanti al PCI. L 'articolo

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della « Pravda » sarebbe cioè la voce dell'America, che si servirebbe di questo test per sondare e pre­ venire le reali intenzioni del PCI. Un test che però modifica la situazione che dovrebbe misurare, per­ ché più il PCI si mostra autonomo rispetto all'Unio­ ne Sovietica, più si ritiene autorizzato a compiere quei passi avanti che, nell'ipotesi ora considerata, gli Stati Uniti non intendono !asciargli fare. È per questo motivo che, se la « Pravda » fosse stata la voce dell'America, per far sentire bene quella voce avrebbe dovuto far silenzio. E siccome non ha fatto silenzio, l'ipotesi più probabile è quel­ l'altra, e cioè che la condanna del " compromesso storico " espressa dalla « Pravda » non sia da in­ tendersi alla lettera, cioè direttamente, ma in senso rovesciato, cioè come segno dell'approvazione che il comunismo russo dà alla politica di Berlinguer. Che non è certo un elemento rassicurante per il capitale che, da un lato, riesca a comprendere tut­ to questo, ma non si trovi ancora di fronte un PCI che ha rifiutato in modo inequivocabile la filo­ sofia marxista-leninista. Intendo dire che in una fase in cui il PCI si trova a mezza strada tra il passato e il futuro, anche quegli elementi che pos­ sono essere sintomo di un'autentica volontà di indipendenza del PCI dall'Unione Sovietica (come appunto la polemica da qualche tempo in atto tra la stampa del PCI e quella sovietica) possono costituire altre fonti di equivoco per il capitale . 7 . lL PERICOLO DI UNA VITTORIA Uno dei motivi che spingono la gente a votare per il PCI è l'immagine che esso è riuscito a dare 200

della propria serietà morale. Un'immagine che ha acquistato spicco soprattutto nel confronto con la grave disfunzione degli apparati pubblici più o meno direttamente controllati dalla DC. Le grandi masse, colpite dalla crisi economica più grave del dopoguerra, hanno identificato nella DC la respon­ sabile dell'incapacità di uscire dalla crisi senza adottare soluzioni sostanzialmente sfavorevoli agli interessi dei lavoratori . È difficile negare che, pro­ prio per questo, anche una consistente porzione dell 'elettorato democristiano abbia votato comu­ nista. E altri motivi sono rilevabili. Ma ciò che qui va sottolineato è che l'ultimo dei motivi che hanno determinato l'avanzata del PCI è quello ideologico , l'adesione cioè a quella fìlosofìa politica che ancora oggi costituisce il quadro ufficiale entro cui si sviluppano la strategia e la tattica del PCI. Si tratta dell'ultimo motivo, se non altro perché l'ideologia marxista-leninista è sottoposta da tem­ po, nell'ambito stesso del PCI e del comunismo in­ ternazionale, a un processo di revisione che finisce col darle più l'aspetto di una contraddizione che di una verità in cui credere. Sl che se è del tutto impensabile che le masse lavoratrici italiane fac­ ciano le loro scelte politiche sulla base di una ideo­ logia complessa come lo è quella marxista, l'im­ pensabilità raggiunge il massimo se l'ideologia stes­ sa vive in modo sempre più contraddittorio e quin­ di sempre meno idoneo a renderla oggetto di un consenso di massa. Se l'ideologia marxista è l'ultimo dei motivi che spiegano il successo del PCI, essa è anche l'ele­ mento più pericoloso nell'attuale situazione poli­ tica italiana, perché in essa è contenuta tutta la 201

carica rivoluzionaria che minaccia il mondo del capitale e lo spinge ad adottare le misure più drastiche per la propria sopravvivenza. In questo momento, il PCI dimostra la propria maturità poli­ tica solo se riesce a spogliare la propria avanzata da ogni implicazione ideologica e a interpretarla per quello che realmente è , in relazione ai motivi reali che l'hanno determinata. Non si tratta cioè, semplicemente, per il PCI, di far credere al mondo del capitale che il comunismo italiano non attri­ buisce un significato ideologico alla propria vit­ toria; si tratta invece di adottare una prassi eco­ nomico-politica che scaturisce dalla consapevolezza che l'avanzata del PCI non ha nulla a che vedere con il consenso delle masse all'ideologia marxista­ leninista, alla quale esso ufficialmente si ispira e alla quale sono imputabili i suoi rapporti col co­ munismo internazionale e in particolare con l'Unio­ ne Sovietica. Se il PCI non riuscisse a far questo, se cioè non riuscisse ad andare incontro a ciò che la gente ha realmente voluto dandogli il proprio voto, e cedesse invece alla tentazione di interpre­ tare questa volontà come un consenso dato dalle masse alla concezione marxista-leninista, se cioè cedesse alla tentazione di sognare, riducendo la realtà alla propria filosofia residua, allora noi ci troveremo in It alia agli inizi della vicenda cilena : l'avanzata del PCI sarebbe la condizione prossima della sconfitta delle forze di sinistra in Italia. Tutto questo è detto in base all'ipotesi inter­ pretativa di fondo che il mondo capitalista non ha ancora fiducia nel PCI e possiede i mezzi per evi­ tare che il PCI vada al potere (e che quindi è negli interessi stessi del PCI fare ogni sforzo per non avvalorare l'immagine di una sua affermazione

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ideologica) . Non accettare questa ipotesi significa coltivare la pericolosa illusione che la destra inter­ nazionale e nazionale abbia già acquisito l'even­ tualità di una conquista del potere da parte del PCI e si disponga a considerare questo partito come il nuovo interlocutore valido. È la tesi sostenuta, ad esempio , da G . Galli, per il quale ciò che gli Stati Uniti vogliono dal­ l'Italia non è un contributo positivo all'organizza­ zione della Nato, ma « semplicemente che l'Itqlia non aggiunga - con la sua instabilità - una nuova " questione " alle molte che assillano Washington » e si limiti a mettere a disposizione il proprio terri­ torio per i problemi logistici dell'Alleanza. Ma Galli non crede che la DC sia in grado di andare incontro a questa " realistica " strategia americana, e ritiene che « in Italia stabilità democratica e ri­ spetto delle alleanze sono possibili solo ridando vigore alla nostra democrazia rappresentativa » . Il che gli sembra difficile a ottenere « senza ridurre il peso politico della DC e senza utilizzare il con­ tributo del PCI » naturalmente nel senso di una diretta partecipazione del PCI al governo . Questo ottimismo è estremamente pericoloso. E paradossale. Vuoi far credere che il PCI al potere - al governo - in Italia tranquillizzerebbe gli Stati Uniti più dell'attuale compagine governativa. An­ che ammettendo che il governo americano sappia bene « quale fragile sostegno siano per la sua politica europea i governi della DC, deboli e cor­ rotti », è molto strano pensare che gli Stati Uniti, assetati come sono di stabilità in Europa, gettino via il bicchiere perché la DC glielo offre riempito a metà con acqua non molto pulita. Se gli Stati Uniti temono l'instabilità, è perché apre la porta -

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alle sinistre; e sarebbe assurdo che, per il timore che le sinistre riescano a sfondare la porta, essi la facessero togliere dai cardini. L'avanzata del PCI è dunque per l'America, una grossa " questione " , molto più grossa, ad esempio, di quella portoghe­ se dove, dopo tutto, i militari tenevano il potere con mano ferma, e i comunisti erano una mino­ ranza che si sforzava di far credere che il proprio accordo con i militari equivalesse all'accordo dei militari con essa. È per questo motivo che la fase più delicata per l'avvenire del comunismo in Italia è incomin­ ciata con le ultime elezioni . Parlando di sconfitte della borghesia, molto più gravi di quelle subite recentemente in Italia, Lukacs scriveva : « Una classe abituata da una tradizione di molte genera­ zioni al dominio ed al godimento di privilegi non può mettersi senz'altro il cuore in pace per il solo fatto di aver subito una sconfitta » . 8 . « LABURISTI » E « CONSERVATORI » La DC corre il rischio di perdere la propria identità. Chi se ne compiace dimostra soltanto la propria ottusità politica. Il PCI non se ne compia­ ce : comprende che il crollo della DC lo coinvolge­ rebbe inevitabilmente. Il problema fondamentale, per la DC, è di stabilire che senso debba avere il proprio anticomunismo. È anche il problema fon­ damentale del Paese. Più importante ancora dei problemi determinati dalla crisi economica, per­ ché anche se esistessero le condizioni per uscire dalla crisi, se ne potrebbe uscire soltanto se quel problema fosse risolto. La macchina economica 204

può avere un m1mmo di funzionamento solo se tra coloro che possono guidarla esiste un minimo di accordo. L'anticomunismo è il tratto che ormai defini­ sce la DC. Certamente, è l'anticomunismo di un partito che intende rispettare le regole del plura­ lismo democratico - e in questo senso differisce dall'anticomunismo dell'estrema destra. Ma la DC è stata innanzitutto la più efficiente organizzazione politica dell'anticomunismo in Italia : se le si to­ glie questo carattere , ormai non rimane più niente. Già da tempo, infatti, non è più il partito dei cat­ tolici; anche se è vero che rimane il partito di certi cattolici : di quelli che ancora ritengono in­ conciliabile la propria visione del mondo e il proprio modo di vivere con le proposte politiche del PCI. Ma si tratta di una fascia di elettori che va progressivamente scomparendo. Molti, tra i cattolici che danno qualche peso alla propria fede religiosa, stanno infatti modificando, e anche pro­ fondamente, il proprio atteggiamento verso il co­ munismo. Si tratta dei cattolici che sono già fug­ giti o stanno fuggendo dalla DC. La quale trova invece il suo elettorato più sicuro in tutti quei ceti che non intendono perdere i benefici, piccoli o grandi, che sono riusciti a ottenere nel sistema vigente, e ritengono che l'avanzata del PCI metta a repentaglio l'equilibrio del sistema e il godimen­ to dei benefici . Gli uomini politici democristiani stanno pensando troppo ai voti perduti a sinistra, e troppo poco a quelli guadagnati a destra e che in questo momento sono l'indicazione di ciò che oggi, nella DC, appare ancora credibile per il trenta e più per cento dell'elettorato. Si dirà che si tratta della maggioranza silenziosa e retrograda, dei vec205

chi, delle donne, dei contadini, dei meridionali, oltre che della piccola borghesia. Può darsi. Ma l'errore più grave che la DC in questo momento può compiere è dimenticarsi di quelli che l'hanno votata, per correre dietro a quelli che le hanno voltato le spalle, e per ridarsi una vocazione cat­ tolico-popolare che ha ormai perduto da tempo. Oggi tutti si danno le arie di forti uomini di sinistra e di nemici sarcastici dell'arretratezza de­ mocristiana . Ma spesso si tratta della solita idio­ zia politica. Una vera politica di sinistra, oggi, in Italia, deve impegnarsi a fondo affinché la DC divenga un buon partito " conservatore " , che non si vergogni di esser tale. Un partito cioè che tuteli gli interessi fondamentali della non trascurabile fetta di elettori che gli hanno dato il loro voto. Nonostante tutte le apparenze, quindi, la defene­ strazione di Fanfani è stata un errore. Un errore che indebolisce non solo la DC, ma anche il PCI. È negli interessi stessi del PCI che la DC divenga un efficiente partito " conservatore " sul tipo di quello inglese, in parallelo al processo nel quale il PCI va sempre più assomigliando al partito labu­ rista inglese. Che cosa succede, infatti, se si fa sbandare la DC a sinistra? Non solo le si fa perdere l'eletto­ rato " conservatore " che le dà il proprio voto, ma la si fa anche fallire nel suo tentativo di recupero delle masse popolari orientate a sinistra. Per quan­ to riguarda la prima conseguenza, una volta che l'elettorato " conservatore " non si sentisse più espresso dalla linea politica della DC si affiderebbe inevitabilmente a quelle forze che gli dessero più garanzie di arginare la pressione comunista e che non potrebbero essere altro che le forze dell'estre206

ma destra, molto meno preoccupate della DC una volta che si trovassero a gestire un incremento di milioni di voti - di adeguarsi alle regole del pluralismo democratico e quindi molto pericolose per la sopravvivenza del PCI, dati anche gli ap­ poggi internazionali di cui tali forze si trovereb­ bero a godere. Il PCI vuole davvero che il Paese vada pacificamente verso un socialismo democra­ tico ? Allora deve impedire in ogni modo che la DC abbia uno sbandamento a sinistra, cioè deve favorire con ogni mezzo il processo nel quale essa riesca a divenire un autentico partito conservatore . Solo nella dialettica con un partito di questo tipo, e non con lo squagliamento del centrismo demo­ cristiano, che andrebbe a tutto vantaggio dell'estre­ ma destra, il socialismo democratico può diven­ tare una realtà in Italia. Ma se si spinge la DC a sinistra, essa perde l'elettorato " conserva tore " , ma non fa nemmeno breccia in quello " progressista " . Il PCI sta diven­ tando la maggior forza riformista in Italia, che invade i tradizionali campi di azione del P S I e del PSDI. Già ora si stenta a comprendere su quali elementi oggettivi si basi la separazione tra PCI e PSI. La rottura era avvenuta per il diverso modo di intendere i rapporti con l'Unione Sovietica. Ma via via che il PCI accentua la propria autonomia da Mosca, che senso ha la separazione del PSI dal PCI ? La progressiva socialdemocratizzazione del PCI mette seriamente in discussione non solo la sopravvivenza e il significato del PSDI, ma dello stesso P S I . È ormai al PCI che si guarda come alla forza in grado di promuovere le grandi riforme sociali di cui il nostro Paese ha bisogno. In questa situazione, se gli stessi partiti socialisti si trovano -

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in difficoltà a sostenere l a concorrenza del PCl, quali probabilità di successo potrà mai avere una rinnovata vocazione popolare della ne? Affermare che le possibilità di sopravvivenza della DC sono legate alla sua capacità di trasfor­ marsi in un vero ed efficiente partito conservatore di fede democratica non significa che la DC debba rinunciare ad ogni programma di riforme e svilup­ pare una suicida politica difensiva, e nemmeno che debba evitare quel processo di risanamento e di moralizzazione che da tutto il Paese le viene richiesto. Certo, le riforme realizzate con la preoc­ cupazione di salvaguardare gli interessi essenziali dell'elettorato " conservatore " non possono avere lo smalto delle riforme progettate da chi queste preoccupazioni non possiede (e che tuttavia si espone al pericolo di vagheggiare trasformazioni sociali che, per le controspinte cui sarebbero sog­ gette, non potrebbero mai essere realizzate o po­ trebbero esserlo solo a prezzo di sconvolgimenti sociali incontrollabili). Ma per la ne è meglio esse­ re un buon partito conservatore, che un partito ine­ sistente. Al PCI, poi, il realismo non fa difetto : può rendersi conto, allora, che l'esistenza di un partito " conservatore " di questo tipo - un partito, quindi, democratico, che abbia la forza di assor­ bire e dissolvere in sé, come un filtro, ogni spinta antidemocratica dell'estrema destra - è nei suoi stessi interessi. Il che significa, ancora una volta, che gli interessi della ne (rettamente intesi) coin­ cidono dialetticamente con quelli del PCI ( retta­ mente intesi) . Le masse dei lavoratori cattolici, so­ prattutto le masse contadine, che erano il serba-

Nota.

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toio di voti democristiani, scriveva Pasolini, « non ci sono più ». Ora è fuori dubbio che il cattoli­ cesimo italiano ha subito una profonda trasfor­ mazione, che non può non essersi ripercossa sulla ne, ma quello che Pasolini non sapeva spiegare - e ancor meno avrebbe saputo spiegare dopo le ultime elezioni - era come mai la DC continui ad essere il partito di maggioranza relativa. Dopo le elezioni amministrative del '7 5, egli scriveva che se l'Italia fosse stato un Paese civile la DC avreb­ be dovuto ridursi a zero . Ma l'azzeramento della ne avrebbe dovuto essere la conseguenza della diagnosi di Pasolini : se le masse cattoliche non esistevano più, alle elezioni la ne sarebbe dovuta andare a zero. Senonché la ne non è andata a zero. Allora era " evidente " che gli I tali ani sono degli incivili. Anche se " evidente " , " chiaro " , " fol­ gorante " sono stati i termini più frequentemente usati da Pasolini per qualificare i passaggi del proprio discorso, si è presi dal legittimo sospetto che incivile fosse la logica di cui egli si serviva (senza con questo voler togliere nulla agli Italia­ ni). Insomma, se l'elettorato tradizionale della DC non esisteva più, chi è stato a votare per la ne? e se non sono stati i marziani, ma gli Ita­ liani incivili, è proprio vero che la DC non ha capito che il terreno su cui si appoggiava stava trasformandosi? O non si deve dire piuttosto che la ne, dopo essere stata capace di appoggiarsi alle masse contadine, è stata poi capace di appog­ giarsi alle masse degli incivili ? E siccome il pro­ cesso che Pasolini voleva muovere alla ne non riguardava i reati comuni e non intendeva collo­ carsi in una prospettiva etica, ma intendeva col­ pire il reato politico compiuto dalla ne per non 209

avere capito la trasformazione del terreno su cui metteva i piedi, non si dovrebbe concludere che da tale processo la DC esce assolta con formula piena? Inoltre, la gestione anticomunista che la DC effettua dei dodici milioni di voti che continuano a sostenerla esclude si possa senz'altro affermare che, come sosteneva Pasolini, « il partito demo­ cristiano non ha mai avuto dei principi » : appunto perché ha avuto e continua ad avere questo, poli­ ticamente fondamentale, dell'anticomunismo, che rappresenta quella continuità reale del potere democristiano che Pasolini considerava invece ine­ sistente. E tuttavia Pasolini finiva poi col mostrare che quella continuità, che per lui non era esistente, era però ben esistente . Perché, in un primo tempo, cioè fino a una dozzina d'anni fa la DC avrebbe tratto il proprio bagaglio ideologico interamente dalla Chiesa cat­ tolica . Si sarebbe cioè adeguata alla vecchia forma di potere. Mentre ora la scomparsa delle masse cattoliche avrebbe trasformato anche la Chiesa, che « altro non è che una potenza finanziaria; e quindi una potenza straniera » accanto all'altra po­ tenza straniera presente in Italia, gli Stati Uniti. Pasolini prevedeva quindi che la DC si sarebbe trasformata da un lato, in un « piccolo partito cattolico socialista » e, dall'altro lato, in un « gran­ de partito teologico : un tecnofascismo, finanziato dunque da due potenze straniere, e in grado di trovare, nelle enormi masse " imponderabili " di giovani che vivono un mondo senza valori, una potente truppa psicologicamente neonazista ». A questo punto il letterato Pasolini che dal lido di Ostia o dalla solitudine di un bosco lanciava i 210

suoi anatemi contro la ne, e la metteva so tto pro­ cesso, metteva anche tenerezza. Infatti queste sue previsioni centravano il bersaglio, ma che cosa gli aveva combinato nel frattempo quel diavolo della ne? Aveva detto addio - parola di Pasolini - alle vecchie masse contadine sull'orlo della tom­ ba; aveva detto addio alla vecchia Chiesa, anch'es­ sa sull'orlo della tomba, che le forniva i principi morali e spirituali atti a " ben governare " ; si era intesa con la nuova Chiesa-potenza finanziaria e si faceva finanziare da essa; aveva buttato fuori della porta quei seccatori della propria sinistra, mandandoli a sbrigare gli affari loro in un "pic­ colo partito socialista cattolico " ; era diventata un "grande partito " " teologico-tecnofascista " , molto simile cioè al modello costruito dall'economista americano Robert L. Heilbroner, delle cui teorie si è invaghito nientedimeno che l'avvocato Gianni Agnelli ; aveva trovato rispondenza " nelle enormi masse " di giovani psicologicamente neonazisti; continuava a trovar credito e ad essere finanziata dagli Stati Uniti, cioè anche dalla seconda delle " due potenze straniere " . . . e vivaddio si vorrebbe ancora qualcosa da questa ne moribonda, che se­ condo Pasolini sarebbe assolutamente incapace di " individuare " la realtà politica in cui essa stessa si trova ? Diventando un grande partito tecno­ cratico la ne non si sarebbe forse perfettamente adegua ta al passaggio verifica tosi in I t alia dalla vecchia alla nuova forma di potere, meritando così di essere pienamente assolta dal processo che le si voleva fare? Seguendo l 'atroce " evidenza " della sua logica, Pasolini finiva col diventare un grosso democristiano inverosimilmente ottimista sul futuro del proprio partito.

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Giacché occorreva un ottimismo grandioso per credere, come Pasolini, che discorsi del genere avessero la virtù di « determinare nel Paese una nuova volontà politica » . È invece proprio l'av­ vento della tecnocrazia (su questo avvento l'istin­ to di Pasolini non si ingannava) a determinare ogni futura volontà politica. Le ragioni ultime della crisi dei fondamenti ideologici della DC sono le stesse che determinano la crisi del marxismo nel PCI : il progressivo prevalere delle esigenze della tecnica ( più veloce nel PCI, molto meno nella DC, legata alle strutture ideologiche millenarie della Chiesa). È sulla base di questo terreno comune che può verificarsi il " compromesso storico " tra PCI e DC, nel suo significato più sostanziale .

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Capitolo quinto

LE CONTRADDIZIONI DEL CRISTIANESIMO

l . COERENZA DELLA CHIE S A

I l documento conclusivo della conferenza di Bucarest del '7 4, dedicata ai problemi dell'incre­ mento demografico nel mondo, è stato approvato da tutte le delegazioni partecipanti meno che da quella vaticana. Esso infatti prevede metodi per la limitazione delle nascite, che la Chiesa cattolica respinge. L'accordo predettosi durante la confe­ renza tra le tesi dei Paesi socialisti e quelle vati­ cane era soltanto apparente. Per i Paesi socialisti l'invito ad una riduzione dell'incremento demo­ grafico è sostanzialmente una pressione che i po­ poli ricchi esercitano sui popoli poveri ( dove l'au­ mento demografico è più massiccio ) per salvare i propri privilegi e perpetuare quindi l'assetto ca­ pitalistico. L'opposizione a questo neomalthusia­ nesimo capitalistico e il rifiuto del principio della riduzione delle nascite su scala mondiale non esclu­ de però, per i Paesi socialisti, l'adozione in deter­ minati casi di tutte le tecniche contraccettive og­ gi a disposizione. Per la Chiesa cattolica, all'op­ posto, sono proprio queste tecniche che vanno rifiutate, sì che la proposta di applicarle su scala mondiale viene ad esprimere, anche agli occhi del­ Ia Chiesa, il tentativo dei popoli ricchi di conser-

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vare i propri privilegi. Ciò che per i Paesi socia­ listi è la premessa ( negazione dei privilegi ), per la Chiesa cattolica è la conseguenza. E ciò che per essa è la premessa (rifiuto di organizzare su scala mondiale la limitazione delle nascite, utiliz­ zando ovviamente tutte le tecniche a disposizione) è per i Paesi socialisti la conseguenza. L'atteggiamento della Chiesa cattolica alla con­ ferenza di Bucarest non ha un peso inferiore al­ l'atteggiamento da essa assunto in occasione del re­ ferendum per il divorzio in Italia. In entrambe le occasioni la cultura " laica " si è stracciata le ve­ sti. {Sarebbe meglio che non esagerasse - ma chiu­ do subito la parentesi - perché, senza vesti, le sue fattezze non sono tali da allietare lo sguardo : hanno la stessa deformità tragica di quelle della Chiesa - e la stessa cosa andrebbe detta per le fattezze della cultura antifascista rispetto a quel­ le del suo avversario. ) Ma oggi si fa ben poco per comprendere le ragioni che spingono la Chiesa ad agire in questo modo, anche se storici, sociologi, psicologi, teologi, romanzieri e giornalisti conti­ nuano a riempire migliaia di pagine per " spiegare " che cosa sia diventata la Chiesa. Sia in occasione del referendum, sia in occa­ sione della conferenza di Bucarest e del proble­ ma dell'aborto in Italia, la Chiesa ha dato prova di coerenza. Che buona parte degli uomini di Chie­ sa e dei cattolici osservanti capiscano ben poco di questa coerenza, alla quale cooperano come i bam­ bini cooperano alla regolarità del movimento ro­ tatorio della giostra su cui si trovano, è un'altra faccenda. Ma è anche vero che di questa coeren­ za capiscono ben poco anche la maggior parte dei " cattolici intelligenti " , dei " cattolici progressisti " 210

e " aperti " o " per il socialismo " , insomma tutta quella scapigliatura piccolo-cattolica contestatrice che restando aggrappata alle gonne di madre Chie­ sa continua per altro a tirarle calci negli stinchi . La Chiesa ha dato prova di coerenza, perché, an­ cora una volta, si è ispirata a un principio che, in modo più o meno esplicito, la guida sin dalla sua nascita. Che in questo modo abbia commesso grossi errori politici e abbia lasciato nei guai i suoi alleati ; che la coerenza a un principio non si identifichi necessariamente agli espedienti adot­ tati dalla Chiesa per indurre le masse a compor­ tarsi conformemente ad esso, tutto questo può essere vero, ma, daccapo, è un'altra questione. Si tratta del principio che, formulato esplici­ tamente da san Tommaso, regola il rapporto tra il messaggio evangelico e il sapere umano . Il prin­ cipio afferma che se nel sapere umano esiste qual­ cosa di vero - che non sia apparentemente vero, ma veramente vero -, allora questo, che di vero esiste nella nostra conoscenza, non può essere contrario a quanto viene affermato nei Vangeli, perché quanto in essi è contenuto è rivelato da Dio e Dio non può insegnare agli uomini qualco­ sa di falso. Ma che cosa è detto nei Vangeli? Non esiste forse la possibilità di interpretarli nei modi più diversi? Indubbiamente. Ma, per la Chiesa, la vera interpretazione dei Vangeli è quella com­ piuta dalla Chiesa stessa, giacché è ad essa che Gesù ha affidato il compito di insegnare la buo­ na novella. Il vero senso dei Vangeli è quello che l'autorità carismatica (papa, vescovi, concilii) sta­ bilisce essere il vero senso. Che la vera interpre­ tazione dei testi sacri sia quella compiuta dall'au­ torità carismatica è cioè, per la Chiesa ( cioè per 217

l'autorità carismatica ), una delle verità rivelate da Cristo. Se allora il sapere umano giunge a proporre qualcosa che è in contrasto con quanto è affermato nei Vangeli ( ossia con quanto l'autorità carisma­ tica stabilisce esservi affermato), ciò significa l ) che questo sapere non è un vero sapere, ossia fal­ lisce anche come sapere umano; 2 ) che il vero sa­ pere umano ha la possibilità di scoprire e sma­ scherare gli errori contenuti nel sapere palesatosi in contrasto con la rivelazione di Cristo. Orbene, per la Chiesa il divorzio e la limitazione " inna­ turale " delle nascite sono in contrasto col mes­ saggio di Cristo - e sarà inutile che storici ed ese­ geti dei testi sacri si sforzino di mostrare che il senso del Vangelo è diverso : appunto perché, come si è detto, per la Chiesa è il Vangelo stesso a stabilire che il vero senso del Vangelo è quel­ lo attribuitogli dalla Chiesa. Divorzio e limita­ zione innaturale delle nascite sono quindi erro­ re, e, per la Chiesa, la stessa scienza umana ha la possibilità di mostrare che una società che li pratica vive nell'errore . Non è stato un caso o un semplice espediente tattico che durante la campagna per il referendum gli antidivorzisti ab­ biano continuamente e vistosamente insistito sul fatto che la loro ostilità al divorzio non era per niente una questione di fede cattolica, ma mi­ rava a un bene - l'abolizione del divorzio che era un bene anche per i non credenti. Questo atteggiamento degli antidivorzisti era rigorosamen­ te guidato dal pensiero teologico ufficiale della Chiesa; giacché, sulla base del principio che tra fede cattolica e vero sapere umano non può es­ serci contrasto, si deve concludere che i contenuti 218

della fede sono un bene non solo per una società cristiana, ma per la società in quanto tale, ossia per ogni società, sia essa o no cristiana. Ai suoi uomini di cultura la Chiesa ha quindi affidato e continua ad affidare il compito di mostrare in che modo il divorzio, l'aborto, i contraccettivi, l'eu­ tanasia, eccetera, sono errore e quindi un male per ogni società umana. Se si accetta il principio cattolico dell'" armonia tra fede e ragione " , que­ ste conseguenze sono inevitabili . Ispirandosi a quel principio è cioè inevitabile che la Chiesa con­ tinui a condannare il divorzio, l'aborto, eccetera. Se si accetta l'" armonia " tra fede e ragione, ne discende che chi nega la fede nega insieme la ra­ gione, e che ogni istituzione umana che rifiuti o alteri la fede rinuncia alla propria umanità. Poi­ ché il soprannaturale coinvolge il naturale, ossia il temporale, l'iniziativa temporale della Chiesa è quindi inevitabile e non si presenta come so­ vrapposizione di contenuti estrinseci ai problemi reali degli uomini, ma come contributo supremo alla loro soluzione umana : la certezza che gli oc­ chi che scrutano tali problemi non siano malati è data appunto dalla circostanza che Io spettacolo da essi offerto e l'agire conseguentemente promos­ so non si trovino in contrasto con il messaggio cristiano. La Chiesa condanna il divorzio e l'abor­ to non solo perché ne vede l'inconciliabilità col contenuto della fede, ma, insieme, perché è in­ conciliabile con la ragione e la natura umana. Questa inconciliabilità è conosciuta a priori dal­ la Chiesa : in base appunto alla dottrina dell"' ar­ monia di ragione e fede " . Spetterà poi ai cultori delle discipline etiche e giuridiche mostrare co­ me il divorzio sia negazione di una società raz10219

nalmente costruita. Che Io sia, la Chiesa lo sa già; come Io sia, questo è compito che essa affida alla scienza, che se è per davvero tale ( se cioè i suoi occhi non sono malati), presto o tardi lo as­ solverà . Una società che accetta il divorzio o l'a­ borto o l'eutanasia ha voltato le spalle non solo al cielo, ma anche alla terra, come accade per l'omi­ cidio, l'incesto, la rapina . Voltare le spalle al cie­ lo significa appunto voltarle alla terra : una volta che la dottrina dell "' armonia di fede e ragione " sia stata accettata, le conseguenze or ora indicate sono inevitabili . Ciò che dunque va discusso è quel principio dell'(( armonia di fede e ragione ", al quale la Chie­ sa continua a ispirarsi. Esso ha l'apparenza di da­ re a Cesare (la ragione umana) quel che è di Ce­ sare e a Dio quel che è di Dio. Quando Gesù pro­ clama questa massima, sottintende che a Cesare non si debba dare qualcosa che sia in contrasto con quanto si deve dare a Dio. Il principio del­ l"' armonia di fede e ragione " asserisce appunto che se a Cesare si desse qualcosa che contrasta il nostro debito con Dio, allora quel Cesare non sa­ rebbe veramente Cesare. Il che significa che, per Gesù, ciò che si dà al vero Cesare non è in con­ trasto con ciò che si dà a Dio. È dunque su questo principio che va concen­ trata l'attenzione, se si vuoi comprendere l'atteg­ giamento che la Chiesa continua ad assumere ri­ spetto ai problemi del mondo contemporaneo. Ma è anche in questo principio, che ha la sua prima espressione nelle parole di Gesù, che vengono al­ la luce le contraddizioni di fondo della Chiesa e la fede cristiana raggiunge l'ambiguità più profonda e tradisce l'alienazione essenziale da cui è domi220

nata. La difficoltà di scoprirle consiste nel fatto che la nostra cultura - la cultura "laica " e " pro­ gressista " che si sente così superiore al " dogma­ tismo " della Chiesa - ne è altrettanto affiitta.

2 . DILEMMA DELLA CHIESA La Chiesa cattolica ha ribadito recentemente in più modi e in forma solenne l'importanza che ha per essa il pensiero di san Tommaso. Il con­ gresso tomistico internazionale a Roma, nella pri­ mavera del '7 4, i frequenti richiami di Paolo VI all'insegnamento di san Tommaso e il suo pelle­ grinaggio nei luoghi che videro la nascita e la mor­ te del doctor angelicus documentano a sufficienza che l'autorità ecclesiastica non intende lasciarsi smuovere dalle nuove voci che insistentemente si levano nella cristianità per criticare e superare la dottrina tradizionale della Chiesa. Che l'autorità ecclesiastica faccia questo è inevitabile e fa bene a farlo: il cattolicesimo, e anzi il cristianesimo (come il marxismo ) è destinato al tramonto, ma le forze che lo devono condurre al tramonto non hanno ancora preso coscienza di sé, ossia della lo­ ro forza, e sono come armi impugnate da mani de­ boli che non le sanno sollevare e usare. E ancora più deboli sono le mani che all'interno del cristia­ nesimo o addirittura del cattolicesimo vogliono portare la Chiesa su posizioni " più avanzate " . Che ne s a tutta questa gente di ciò che significa " avanzare " ? Ciò che avanza è il tramonto dell'in­ tera tradizione della civiltà occidentale. Ma chi si rende conto del senso di questo tramontare? Fa dunque bene l'autorità che guida la Chie,

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sa a starsene col suo vecchio Tommaso. Per il qua­ le la ragione umana ha la capacità di raggiungere con i propri mezzi la verità. La Chiesa non vuole attenersi soltanto al Vangelo, perché se in esso so­ no contenute le parole di Dio - cioè le " verità soprannaturali " -, tuttavia la Chiesa rivendica all'uomo la capacità di dire cose altrettanto vere : diverse, ma altrettanto vere : le " verità naturali " che si chiamano così non perché riguardino sem­ plicemente la natura, ma perché riguardano tutto ciò che la natura umana può riuscire a scoprire con i propri mezzi. I due aggettivi ( " soprannatu­ rale " , " naturale " ) differenziano la verità, ma non la rendono più o meno verità; come una casa non è più o meno casa per il fatto di trovarsi in mon­ tagna o in pianura. La " verità soprannaturale " è la casa di montagna, posta così in alto che gli uo­ mini non possono essersela costruita da soli ed è quindi un dono del Cielo; ma le case che essi rie­ scono a costruirsi in pianura sono case anch'esse. " Verità naturale " non significa quindi semplice pro­ babilità o ragionevolezza, ma conoscenza che non potrà mai essere smentita, sapere incontrovertibi­ le. Secondo la Chiesa, la ragione umana, per rag­ giungere le verità di ordine naturale non ha biso­ gno del Vangelo e della rivelazione di Cristo, e quindi è libera e autonoma . E non si tratta di una ragione che ancora attenda di realizzarsi, ma di una ragione che almeno nei suoi tratti fondamen­ tali è già apparsa nella storia, lungo un cammino che va dalla fìlosofìa greca sino al pensiero dei Padri della Chiesa e che culmina nella grandiosa sistemazione dottrinale compiuta da Tommaso d'Aquino e che solo apparentemente la cultura mo­ derna e quella contemporanea sono riuscite a di222

struggere . Questo culmine intende costrUirsi m­ dipendentemente dalla rivelazione di Cristo, e cioè come l'incarnazione della libertà e autonomia del­ la ragione umana. La Chiesa ha accettato questa autointerpretazione della fìlosofìa tomistica. Ma tra la ragione umana, così concepita, e il messag­ gio di Cristo, la Chiesa - seguendo anche in que­ sto l'insegnamento di Tommaso - esclude che possa mai verificarsi un qualsiasi contrasto. Come già si è visto, è proprio perché la " verità sopran­ naturale " e la " verità naturale " sono entrambe verità, che non può e non potrà mai presentarsi alcuna contraddizione tra le due ; sì che quando la ragione umana viene a trovarsi in contrasto con la fede, questo è il segno che essa non è stata ret­ tamente usata e che le sue conclusioni sono sol­ tanto verità apparenti, che la ragione autentica è in grado di smascherare, mostrandone l'erroneità. Ed eccoci alla questione fondamentale. Perché non ci può essere contrasto tra ragione e fede? perché la ragione autentica, nel suo sviluppo, non potrà mai imbattersi in conclusioni contrarie alla rivelazione di Cristo ? Perché, risponde la Chiesa, sia le " verità soprannaturali " della rivelazione, sia le " verità naturali " della ragione sono verità e la verità non può essere in contrasto con se stessa. Ma su quale base si afferma che il contenuto dei Vangeli è " verità soprannaturale " e cioè rivela­ zione divina? Lo si afferma in base alla ragione? La risposta della Chiesa deve essere negativa. Da un lato, perché, di fatto, la stessa ragione, co­ me è concepita da Tommaso e dalla Chiesa, non è in grado di stabilire, sulla base della " verità naturale " , se il messaggio di Cristo sia verità di­ vina o estrema menzogna. ( La " ragionevolezza " 223

della fede, sostenuta dalla teologia cattolica - la fede come rationabile obsequium non ha nulla a che vedere con la ragione in quanto conoscenza necessaria e incontrovertibile della verità. ) Dal­ l'altro lato, perché se si riuscisse a dimostrare in base alla ragione che il messaggio di Cristo è rive­ lazione di Dio, allora anche l'intero contenuto di questo messaggio cesserebbe di essere un dono soprannaturale e una rivelazione concessa all'uo­ mo dalla Grazia divina e diventerebbe un'opera della ragione umana. Se cioè la ragione dimo­ strasse che i Vangeli sono parola di Dio, allora la ragione riporterebbe entro il proprio dominio an­ che le parole di Dio, che così diverrebbero parole degli uomini. E la Chiesa, che ha sempre combat­ tutto ogni tentativo di ridurre a filosofia il mes­ saggio di Cristo, non può accettare questa con­ clusione. Ma se non è la ragione il fondamento su cui la Chiesa afferma che i Vangeli sono parola di Dio, allora questo fondamento è la fede : come si ha fede che Cristo sia Dio, così si ha fede che i Van­ geli siano parola di Dio. E quindi è la fede ad af­ -

fermare che tra sé e la ragione non potrà mai pro­ dursi alcun contrasto. Ma se è soltanto la fede e

non la ragione ad affermarlo, questo significa che il contrasto tra la fede e la ragione, escluso dalla fede, è tuttavia possibile. Le cose in cui si ha fe­ de non sono in luce: non apparentia) dice san Paolo, e quindi potrebbero essere diverse da co­ me ce le fa apparire la fede. Non solo, ma se è la fede ad escludere ogni contrasto tra sé e la ragio­ ne, allora la libertà e l'autonomia della ragione sono soltanto apparenti, perché la fede predeter­ inina i confini all'interno dei quali la ragione deve

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mantenersi. Se è soltanto la fede ad escludere ogni possibilità di contrasto tra sé e la ragione, allora la verità potrebbe essere questa : che il messaggio di Cristo e l'insegnamento della Chiesa sono una grande menzogna. La Chiesa non può accettare che la dottrina dell'" armonia di fede e ragione " sia fondata sulla ragione. Ma non può nemmeno accettare che sia fondata sulla fede e che dunque esprima sempli­ cemente il modo in cui la fede intende il proprio rapporto con la ragione. Può infatti la Chiesa ac­ cettare la possibilità che le parole sue e quelle di Cristo siano estrema menzogna? È in questo di­ lemma che la Chiesa continua a dibattersi. È da questa contraddizione che essa non può uscire. . Alla domanda : « L'affermazione che non esi­ ste e non può esistere contrasto tra fede e ragio­ ne è un postulato della fede o un principio della ragione ? » la Chiesa evita tuttavia di rispondere esplicitamente e lascia che il valore di fede, pro­ prio di quell'affermazione, svolga di fatto una funzione che potrebbe essere svolta soltanto da un principio della ragione. Senonché, la convinzio­ ne che il contenuto della fede cristiana è rivelato da Dio e, come tale, " verità soprannaturale " , è essa stessa una parte di quel contenuto. È cioè il credente a credere che la Bibbia e i Vangeli siano parola di Dio e quindi verità suprema. È anzi, questo, il suo primo atto di fede, che avvolge e sostiene tutti gli altri. Ed è ancora il credente a credete che nessuna sapienza umana (sapientia huius mundi) sarà mai in grado di smentire o rag­ giungere il contenuto della fede cristiana: per lui che crede - ma, appunto solo per lui - una sa­ pienza che volesse far questo sarebbe soltanto 225

stultitia apud Deum. Ciò significa che è solo dal punto di vista della fede che ogni negazione della fede si presenta come stultitia. Quindi è solo da quel punto di vista che è consentito escludere possa prodursi una qualsiasi contraddizione tra la fede e la ragione umana. Contrariamente a quanto la teologia della Chie­ sa cattolica lascia intendere, la dottrina dell'ar­ monia di fede e ragione non apre quindi una di­ mensione neutrale, che ponendosi al di sopra del­ la contesa tra le due proclama con voce imparziale il carattere apparente della contesa e lo sostituisce con il carattere reale dell'accordo. Quella dottrina è invece totalmente compromessa, esprime cioè il modo in cui la fede intende il rapporto tra fede e ragione, il modo in cui la contesa rimane assor­ bita e dominata da uno dei due contendenti. Non li lascia parlare secondo la voce che ad essi si ad­ dice, ma spegne la voce della ragione. Nella sto­ ria dell'Occidente la ragione e la fede cristiana sono rispettivamente la veste razionale e la veste religiosa della violenza, ossia della prevaricazione che s'impone su altri modi di pensare e di vivere che hanno lo stesso diritto a rendersi prevaricanti. Soffocando la voce della ragione, la fede cristiana non compie un"' ingiustizia " - la civiltà occiden­ tale sa che cosa sia in verità la giustizia, e cioè che cosa sia la giustizia della verità? -, ma dimostra di essere, in chi crede, una volontà di potenza più potente della volontà di potenza impersonata dal­ la ragione. A questo punto, quindi, non si tratta di li­ berare la ragione dalla fede - questo è il vecchio compito che nella storia occidentale ogni forma di anticristianesimo tenta di realizzare. Si tratta di 226

rendersi conto che il contrasto tra fede cristiana e ragione è in realtà armonia dei due contendenti: non nel senso che questo termine assume nella dottrina deli"' armonia di fede e ragione " , ma nel senso che la lotta mortale tra i due contendenti è la lotta della violenza contro se medesima. 3 . L'INCONS CIO DEGLI ANTIDIVORZI STI I promotori del referendum sul divorzio vo­ levano, né più né meno, che le loro convinzioni religiose diventassero leggi dello Stato. Certo, es­ si hanno sempre dichiarato il contrario, cioè che il divorzio è un male della società anche se lo si considera senza preoccupazioni religiose. Ma al­ tro è volere qualcosa, altro è sapere ciò che si vuole. Persone come Gabrio Lombardi o Sergio Cotta sono indubbiamente in buona fede, ma ciò non significa che essi sapessero quello che voleva­ no quando affermavano che il divorzio è un " can­ cro " da estirpare. ( E poiché i promotori del re­ ferendum si son fatti tali perché la Chiesa non li ha dissuasi, la stessa osservazione va fatta a pro­ posito della Chiesa: altro è ciò che essa vuole in realtà, altro è ciò che crede di volere. ) Per sco­ prire ciò che essi vogliono realmente, al di sotto di quanto credono di volere, basta mettere in ri­ lievo le conseguenze che scaturiscono dai loro di­ scorsi. E soprattutto da quello, cosl efficace, che l'esistenza del divorzio produce un clima di irre­ sponsabilità, giacché chi si sposa sapendo di po­ ter sciogliere quando vuole il proprio vincolo ma­ trimoniale affronta il matrimonio senza la serietà e il senso di responsabilità che ci si trova a pos227

sedere quando invece si sa che l'unione dovrà du­ rare tutta la vita. Dunque, affinché, sposandosi, non si sia leggeri e irresponsabili e non ci si ar­ renda alle prime difficoltà della vita matrimonia­ le, l'indissolubilità del matrimonio deve essere una legge dello Stato italiano . Quali sono, dun­ que, le conseguenze di questo modo di pensare? Domandiamoci : che cos'è un credente? un ve­ ro credente, che non sia semplicemente abituato a credere ? Il credente è una persona che decide di dare il proprio assenso ad un insieme di affer­ mazioni - per esempio l'insegnamento della Chie­ sa cattolica - e di vivere coerentemente a questo suo assenso. La Chiesa dice appunto che la fede autentica è libera: se si è costretti a credere non la si possiede. Chi dunque decide di credere si uni­ sce a una certa fede. Il cattolico che, responsabil­ mente e liberamente, decide di credere, si unisce alla fede cristiana apostolica romana. Unisce la propria vita alla Chiesa. Un vero matrimonio. I concetti di " sposo di Cristo " o " sposa di Cristo " sono, nella teologia e nella liturgia cattoliche, qual­ cosa di più che semplici simboli. Chi responsabil­ mente e liberamente decide di credere, si unisce alla Chiesa con un vincolo che è il fondamento di tutti gli altri vincoli che la Chiesa gli impone. È il matrimonio originario. Senonché, chi decide di credere si impegna sì a compiere ogni sforzo per mantener viva la propria fede, ma non ha e non può avere la garan­ zia che questo suo sforzo sarà sempre coronato da successo. Crede, con totale sincerità e impegno, ma non può escludere la possibilità che la fede gli venga meno, che cioè egli abbia a cessare di essere credente. Tanto è vero che, anche il cattolico, pre228

ga Dio di conservargli ( tra le altre cose) la fede. Prega, appunto perché è possibile che la fede lo abbandoni. Dunque, l'unione con la fede, che il credente contrae quando decide di credere, è un'unione che può essere sciolta e che il credente sa di poter sciogliere. Il credente sa cioè che la sua libertà può condurlo a sciogliere il vincolo che egli, decidendo di credere, ha stretto con la fede e con la Chiesa. Ma proprio questo è il fatto che riempiva di sospetto l'animo del professar Lombardi : il cre­ dente che, decidendo di aver fede, si unisce alla Chiesa sapendo che questa sua unione potrà esse­ re tuttavia sciolta per il venir meno della sua fe­ de, è una cosa che non va ! Il credente che si ac­ costa al suo matrimonio con la Chiesa, sapendo che questo matrimonio potrà essere sciolto, si pre­ para alle nozze con leggerezza e con una fonda­ mentale mancanza di serietà. Alle prime difficoltà che per la sua fede egli sarà costretto ad affron­ tare cederà subito le armi e divorzierà dalla Chie­ sa. E per giunta divorzierà essendo lui il colpe­ vole e il traditore, e la Chiesa, sua sposa innocen­ te e fedele, sarà costretta ad accettare il divorzio. Le leggi che in una società consentono questo di­ vorzio sono un vero " cancro " . " Il divorzio crea divorzio " , cioè chi decide di credere , avendo la coscienza di non essere garantito per sempre dal­ l'incredulità, è un credente che affronta il matri­ monio con la Chiesa con leggerezza e irresponsa­ bilità e che prima o poi finirà col diventare un non credente, un divorziato. Ben altrimenti serio e responsabile sarà inve­ ce il matrimonio tra il credente e la Chiesa, dove il credente sappia che, una volta convolato a que229

ste nozze, egli resterà unito per tutta la vita ( e, in questo caso, anche nell'altra) alla sua sposa e non gli sarà data alcuna possibilità di separarse­ ne. Credente a vita. E come riuscirà ad esserlo? Nessuna paura : ci sono, fatte apposta per que­ sto, le leggi dello Stato, anzi dello Stato italiano! Nei matrimoni tra maschi e femmine non è forse lo Stato italiano che, abolendo il divorzio e po­ nendolo fuori della legge, fa in modo che i no­ velli sposi si accostino con serietà e senso di re­ sponsabilità al loro matrimonio ? Bene: nello stes­ so modo, affinché i credenti si sposino con la Chie­ sa con altrettanta serietà e altrettanto senso di responsabilità, bisognerà che essi non siano se­ dotti dalla possibilità di sciogliere la loro unione con la Chiesa, ed ecco che a liberarli da questa seduzione ci penserà lo Stato italiano, abrogando la legge che consente ai credenti di non creder più e cioè di divorziare dalla Chiesa. Affinché il " cancro " di quella seduzione non infetti i catto­ lici, lo Stato italiano abrogherà l'attuale legisla­ zione divorzistica in materia di fede e promulgherà una legge che stabilisca l'indissolubilità del ma­ trimonio tra i credenti e la Chiesa. Poiché, a que­ sto punto, non è il caso di andare troppo per il sottile, e credenti vanno considerati non soltanto quelli veri, che decidono responsabilmente e li­ beramente di credere, ma tutti i battezzati, ecco allora che lo Stato italiano, per impedire il " can­ cro " del divorzio dalla Chiesa, stabilirà per legge che tutti i battezzati hanno l'obbligo di essere dei buoni cattolici e dei buoni credenti per tutta la durata della vita presente ( e anche futura). Sta­ bilirà cioè per tutti i battezzati il matrimonio in­ dissolubile con la Chiesa e perseguirà a termini 210

di legge tutti i cattolici che perdono la fede o che non vanno a messa la domenica. Legati a vita alla Chiesa, come legati a vita alla moglie (o al marito). Infine, il Concordato è il matrimonio tra Sta­ to e Chiesa ; e, anche qui, per affrontare questa unione con serietà e responsabilità è necessario che essa sia resa indissolubile e che l'indissolubi­ lità sia una legge dello Stato italiano. Il che si­ gnifica che bisogna introdurre nella Costituzio­ ne una legge che proibisca per sempre il divor­ zio tra Stato italiano e Chiesa. Questo l'inconscio, nemmeno troppo repres­ so, degli antidivorzisti. (E non si dica che altro è il matrimonio tra maschio e femmina e altro è l'unione tra il credente e la Chiesa o tra lo Stato italiano e la Chiesa. Saper pensare vuoi dire, tra l'altro, cogliere ciò che vi è di identico nelle situa­ zioni più diverse. Nel nostro caso, questo qual­ cosa di identico è il principio che l'unione di qualcuno con qualcun altro o qualche altra cosa è affrontata con impegno diverso a seconda che essa sia indissolubile o meno. Ed è questo princi­ pio come tale ad essere riuscito persuasivo per molti. Gli antidivorzisti fanno poi un altro passo e aggiungono che l'indissolubilità dell'unione deve essere tutelata dalle leggi dello Stato. È da questo passo ulteriore che discendono le conseguenze che abbiamo qui sopra indicato e che ci consentono di affermare che i cattolici come Lombardi non sospettano che cosa sia ciò che essi stessi in real­ tà vogliono. )

NoTA . - L'argomento pm convincente che i divorzisti avevano formulato era questo : chi vo231

ta in favore del divorzio vuole una società dove coloro che sono contrari al divorzio non sono ob­ bligati dalla legge a divorziare; chi invece vota contro il divorzio vuole una società dove coloro che sono contrari al matrimonio indissolubile so­ no obbligati dalla legge a non sciogliere il loro matrimonio, qualora intendano farlo. In altri ter­ mini : chi vota in favore del divorzio non obbliga quanti la pensano come lui a vivere come egli in­ tende vivere; mentre chi vota contro il divorzio obbliga gli altri a vivere come egli vuoi vivere. Pertanto, il no all'abrogazione del divorzio signi­ fica tolleranza, rispetto dell'altrui modo di pen­ sare, democrazia; mentre il sì all'abrogazione si­ gnifica intolleranza, pretesa che anche gli altri abbiano a vivere come a noi piace vivere, anti­ democrazia. Certo, questo argomento è convincente per chi è sensibile al principio fondamentale delle democrazie : che ogni individuo è libero, ma la sua libertà ha un limite, cioè non può spingersi sino a danneggiare gli altri e a toglier loro quella porzione di libertà che anche ad essi spetta. Ora, gli antidivorzisti spingevano la loro libertà oltre quel limite, appunto perché volevano realizzare una società che impedisce agli altri di praticare un tipo di matrimonio diverso da quello che gli antidivorzisti intendono praticare. La loro libertà di vivere il matrimonio come unione indissolubile era fuori discussione ; senonché, essi pretendevano che anche gli altri avessero a viverlo in questo modo e quindi finivano col togliere agli altri quel­ la libertà che essi invece pretendono salvaguarda­ re per se stessi. La regola fondamentale della li­ bertà democratica è così perduta. 232

Sembra che questo argomento dei divorzisti sia apparso particolarmente pericoloso ai loro av­ versari, che non si sono limitati a formulare un " controargomento ", ma lo hanno posto al centro della loro campagna contro il divorzio. Per i cat­ tolici del Comitato nazionale promotore del refe­ rendum, il " controargomento " era al centro di quella campagna, ma in compagnia di un altro te­ ma fondamentale, quello cioè dell'armonia tra so­ cietà e rivelazione cristiana. La DC, invece, non solo ha messo il " controargomento " al centro del­ la campagna contro il divorzio, ma ha puntato tutto su di esso. Fanfani lo disse esplicitamente. In un'intervista rilasciata a « Epoca » ( 1974, n. 126) egli affermava: « È questo il punto su cui i cittadini sono chiamati a pronunciarsi il 1 2 mag­ gio. Può la famiglia essere sciolta per volontà di un solo coniuge, come prevede la legge Fortuna­ Baslini ? Non si può sorvolare su questo proble­ ma di fondo » . Il " controargomento " è appunto questo " problema di fondo " . Sulla base dell'attuale legge sul divorzio, in­ fatti, se uno dei due coniugi è deciso a divorziare, ottiene il divorzio ( dopo un certo periodo di tem­ po ) anche se l'altro coniuge non vuole divorziare. Ed ecco l'abbiezione dell'antidivorzista : mentre al coniuge che vuole il divorzio è concessa la li­ bertà di divorziare, il coniuge invece che non vuo­ le il divorzio è obbligato a divorziare. Pertanto, intollerante e antidemocratico non è l'antidivor­ zista, ma il divorzista, che impone al coniuge con­ trario al divorzio di subire la volontà del coniuge che invece lo vuole. Come l'argomento del divorzista, anche que­ sto " controargomento " dell'antidivorzista intende 233

fondarsi sul princ1p10 fondamentale della convi­ venza democratica: che la libertà di un individuo ha un limite, ossia non può ledere la libertà al­ trui. La libertà del coniuge che vuole divorziare oltrepassa questo limite, giacché impone all'altro coniuge di fare ciò che egli non vuoi fare. Lo ri­ pete, in quell'intervista, anche Fanfani : « Di­ ritti di libertà sì, purché esercitandoli senza li­ miti non si leda la libertà altrui. Il comporta­ mento di ciascuno non può mai legittimamente risolversi in un danno per il suo prossimo. Per la famiglia il discorso non è diverso ». Il divor­ zio « è una concessione alla libertà individuale che va oltre i limiti che il rispetto della libertà al­ trui può consentire » . Il principio della libertà democratica sta così dalla parte dell'antidivorzi­ sta. Proprio?

Questo " controargomento " aveva innanzi tut­ to il difetto di poter essere rovesciato. Sulla base della legislazione attuale, il coniuge che non vuo­ le divorziare è indubbiamente obbligato a farlo, qualora l'altro coniuge lo voglia. Ma se il divor­ zio non esiste, allora è altrettanto indubbio che chi non vuole la continuazione del proprio ma­ trimonio è obbligato a farlo continuare, e l'obbli­ go è ben più inesorabile, perché in una società divorzista l'obbligante è (quando si divorzia) sol­ tanto il coniuge che vuole divorziare, mentre in una società non divorzista l'obbligante non è sol­ tanto il coniuge che non vuole divorziare, ma è anche la legge. E se nel primo caso il coniuge che non vuole divorziare ha la possibilità (per quanto remota possa essere) di far cambiar parere al co2 34

niuge che vuole il divorzio, nel secondo caso, in­ vece, ( nel caso cioè di una società che non preve­ de il divorzio ), il coniuge che vuoi divorziare non ha la possibilità di far cambiar parere alla legge. Egli è ancor più pesantemente obbligato a far ciò che non vuole. Il "controargomento " degli antidi­ vorzisti si fonda sul principio che la libertà del­ l'individuo non deve ledere la libertà altrui, e ap­ plicando questo principio al divorzio constata che la libertà di uno dei due coniugi è lesa dalla li­ bertà dell'altro di divorziare. Ma applicando que­ sto stesso principio a un matrimonio fallito esi­ stente in una società che non ammette il divorzio, risulta che la libertà di uno dei due coniugi ( in questo caso, quello che vorrebbe sciogliere il ma­ trimonio) è ben più profondamente lesa, giacché a lederla non è soltanto la volontà dell'altro co­ niuge, ma addirittura la legge. È dunque fuori discussione che, sia nel divor­ zio, sia in un matrimonio fallito esistente in una società non divorzista, uno dei coniugi è obbligato a far ciò che non vuole. Il " controargomento " controdivorzista non riesce cioè a mostrare che è solo il divorzio a far sl che uno dei coniugi deb­ ba fare ciò che non vuole : la logica del " controar­ gomento " implica che questo inconveniente acca­ da anche nei matrimoni falliti protetti da una leg­ ge antidivorzista. E allora? Allora, il "controargomento " · era un'arma spuntata che ( anche se ha avuto un gros­ so peso sul piano propagandistico) non è riuscita a mettere fuori combattimento l'argomento dei divorzisti, quello di cui si parlava all'inizio : che chi vota in favore del divorzio vuole una società che non obbliga a divorziare (non obbliga né se 235

stesso né gli altri), mentre chi vota contro il di­ vorzio vuole una società che obbliga gli altri a vivere come l'antidivorzista vuoi vivere. Le conseguenze penose del divorzio esistono indubbiamente ; ma un punto è fuori discussione : che se uno solo dei coniugi ( santo o farabutto) vuole divorziare vuoi dire che il disaccordo è tra tutti e due, e che non c'è bisogno, per esserne si­ curi, di introdurre nella legge la clausola che il divorzio, per essere effettuato, debba essere ri­ chiesto da entrambi i coniugi. Si badi : non stia­ mo dicendo qui che la società abbia il compito di eliminare la felicità illusoria della moglie san­ ta: stiamo dicendo soltanto che una società di­ vorzista dà la possibilità di eliminare questa fe­ licità illusoria. Certo, il cattolico può dire che il sacramento del matrimonio unisce con un vincolo che non è scalfito dalla incompatibilità e discordia più pro­ fonde che possono sussistere tra i coniugi, e che pertanto, nonostante tutto, il matrimonio non è mai fallito e non è mai qualcosa di sostanzialmen­ te orrendo. Certo si può dire questo; ma in tal modo si introduce nella discussione una compo­ nente nuova : quella appunto dei rapporti tra il matrimonio e la fede cristiana; una componente dalla quale però, nella campagna per il referen­ dum, gli antidivorzisti hanno preferito girare alla larga e che anche noi abbiamo qui lasciato da par­ te per seguire gli avversari del divorzio sul ter­ reno nel quale essi intendevano rimanere, il ter­ reno cioè della " ragione naturale " , ossia della ra­ gione che si ritiene capace di smascherare i mali del divorzio indipendentemente da ciò che l'in­ segnamento della Chiesa ha da dire in proposito. 2.36

Fanfani, a proposito del modo in cui la DC aveva impostato la battaglia del referendum, ebbe a dichiarare: « La religione non c'entra. Se mai c'entra la ragion pura ». È appunto a questa " ra­ gion pura " che ci siamo riferiti. Trovandola im­ pura. ( Il che non significa, naturalmente, che la purezza della ragione fosse un privilegio dei divor­ zisti . Tutt'altro. E non significa nemmeno che Fanfani abbia compiuto un errore politico a ser­ virsi della ragione impura. Tutt'altro ! )

4 . OFFERTA E RICONCILIAZIONE Oggi, molti cattolici " aperti " sono marx1st1 . Ma è questione di tempo : prima o poi smetteran­ no di essere cattolici e rimarranno marxisti - o in­ cominceranno ad esserlo per davvero. ( Intanto, i marxisti stanno smettendo di essere marxisti. ) Certo, può darsi che per alcuni il tempo occor­ rente sia lungo come tutta la loro vita, ed essi giungano al termine di essa continuando ad esse­ re, insieme, cattolici e marxisti. Ma, nella storia, il marxismo si è già liberato del cristianesimo e , a maggior ragione, del cattolicesimo : h a già mo­ strato l'impossibilità di essere cristiani. Questo non vuoi dire che un qualsiasi lettore dell'« Uni­ tà » abbia la possibilità di mettere con le spalle al muro, in quattro e quattr'otto, un qualsiasi in­ tellettuale cattolico. La " razionalità " storica - in questo caso : la " razionalità " consistente nel pro­ cesso in cui il marxismo si libera del cristianesi­ mo - non si rispecchia direttamente nelle capacità soggettive degli individui. Anzi, la " razionalità " storica non conosce la propria forza. Nel nostro 237

caso : il marxismo ha distrutto il cristianesimo, ne ha mostrato l'impossibilità, ma il marxismo igno­ ra qual è la forza, di cui esso stesso si è trovato a disporre, che gli ha consentito la distruzione del cristianesimo - la forza con la quale il nichili­ smo distrugge le forme incoerenti del nichilismo; cfr. capitolo sesto. - Sì che è ancora possibile che un umile lettore del Vangelo (ce ne sono ancora? ) metta con le spalle al muro un intelettuale mar­ xista. E se è questione di tempo che i cattolici mar­ xisti cessino di essere cattolici e rimangano solo marxisti, è anche questione di tempo che i mar­ xisti " aperti " - aperti cioè alle istanze della ci­ viltà tecnologica, i marxisti tecnologi - cessino di essere marxisti e rimangano solo tecnologi o tec­ nocrati. Come il marxismo si è storicamente libe­ rato dal cristianesimo, cosi la tecnica si è storica­ mente liberata dal marxismo e da ogni ideologia (cioè dai luoghi dove sono stati innalzati gli im­ mutabili ; cfr. capitolo settimo ). I cattolici marxisti sostengono comunque che la fede cristiana ha inevitabilmente un'espressio­ ne politica. « Il neutralismo in politica per un cri­ stiano è un assurdo. Nella realtà, chi non è cri­ stiano per la liberazione dell'uomo è oggettiva­ mente, lo voglia o no, cristiano per la schiavitù. Politicamente tertium non datur, non esiste cioè una terza via. O si mettono le cose, e cioè il capi­ tale, avanti all'uomo o si mette l'uomo avanti alle cose. » Queste parole sono di padre Turoldo, ma il concetto è ripetuto all'infinito dai cattolici mar­ xisti. Osserviamolo con un po' d'attenzione. Opera innanzitutto una separazione decisiva tra ciò che un individuo vuole ( « lo voglia o no » ) 238

e ciò che fa effettivamente, oggettivamente; tra volontà soggettiva e comportamento oggettivo. Una separazione, questa, naturalmente, che non so­ no stati i cattolici marxisti a inventare, ma risale a Marx, e anzi, prima ancora che a Marx, a Hegel) . Un cristiano può volere, i n buona fede, l a libera­ zione dell'uomo, ma se non lotta contro il capi­ tale, ne viene che, in realtà, oggettivamente, fa­ vorisce la schiavitù dell 'uomo. Operata questa se­ parazione tra volontà soggettiva e comportamen­ to oggettivo, si attribuisce poi un peso decisivo al comportamento oggettivo : l'essenziale non è ciò che si vuole, non è l"' intenzione " , ma il signi­ ficato oggettivo di ciò che si vuole. Tu poi volere in buona fede la liberazione dell'uomo, ma il si­ gnificato oggettivo delle tue azioni può essere quello di agire per renderlo schiavo. Da ciò di­ scende che se ciò che conta non è la buona volon­ tà soggettiva, ma il valore negativo che l'azione compiuta può avere oggettivamente, allora ciò che conta non è la cattiva volontà soggettiva, ma il valore positivo che oggettivamente può avere un'azione compiuta con una volontà cattiva. Si voglia o no la liberazione dell'uomo, ciò che conta è se l'azione compiuta lo libera o lo rende schiavo. Qui desidero solo ricordare che Gesù affer­ mava precisamente l'opposto ( e qui non interessa stabilire se sia vero o no ciò che egli affermava). Decisiva, per lui, è la buona volontà, la retta in­ tenzione, la buona fede, il cuore puro. Gesù dice : « Se tu, nel fare la tua offerta sull'altare, ti ram­ menti che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia n la tua offerta davanti all'altare e va' prima a riconciliarti col tuo fratello ; poi ritorna a fare l'offerta » . Ciò che conta è la volontà buo239

na con cui l'offerta vien fatta, la volontà che è buona perché si sente in pace con Dio e con gli uomini. L'offerta può essere differita e l'altare può aspettarla; la riconciliazione non può aspet­ tare. È vero che la volontà non è buona se la riconciliazione non avviene; ma, daccapo, la ri­ conciliazione non si identifica con gli abbracci, i doni, le buone parole, se tutte queste cose non sono fatte con una volontà buona - cioè con quella volontà soggettiva che, prima, spin­ ge a differire l'offerta e poi rende autentica la riconciliazione -, ma sono fatte, per esempio, con l'intento di mostrare che prima dell'offerta ci si è riconciliati col fratello. Rispetto all'altare della lotta di classe contro il capitale e in favore della liberazione dell'uo­ mo, il passo evangelico suona allora in questo modo: « Se tu , nel fare la tua offerta alla lotta di classe (cioè nel dare il tuo contributo ad essa, nel tuo impegnarti per essa ), ti rammenti che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia Il la tua lotta di classe e va' prima a riconciliarti col tuo fratello ; poi ritorna a riprendere la lotta » . Per i cattolici marxisti, invece, anche se uno è animato dalla buona volontà di riconciliarsi col fratello, sta di fatto che abbandona l'offerta da­ vanti all'altare; e cioè il significato oggettivo del­ la sua azione è la rinunzia ad offrire, cioè a impe­ gnarsi per la liberazione dell'uomo. Quindi: « Se quando vai a riconciliarti col fratello ti rammenti di avere abbandonato l'offerta davanti all'altare, torna indietro di corsa e fa' la tua offerta; poi an­ drai a riconciliarti col tuo fratello ». Il che vuoi dire : anche se ti accorgi che nella lotta di classe le tue intenzioni non sono rette, non preoccupar-

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tene, perché quello che fai serve alla liberazione dell'uomo. Che è il modo in cui le istituzioni (Chiesa, Stato, partito, ecc.) hanno sempre assol­ to chi ha fatto i propri interessi promuovendo il bene delle istituzioni. Certo, si può obbiettare che il vero modo di riconciliarsi col fratello è fare la propria offerta sull'altare della liberazione dell'uomo ( e quindi anche del fratello) - e cioè che la vera buona vo­ lontà è quella che si realizza in certe condizioni oggettive . Ma dicendo questo si abbandona, ap­ punto, quel concetto che separa la volontà sog­ gettiva dal significato oggettivo dell'azione, e per il quale la buona volontà finisce con l'essere irri­ levante per il valore oggettivo dell'azione libe­ ratrice. Si ha dunque a che fare con un altro con­ cetto, meno frequentato dai cattolici marxisti, ma che è poi quello tradizionale della Chiesa cat­ tolica - che per la bontà dell'azione richiede e la buona volontà e la bontà del significato ogget­ tivo dell'azione, sì che uno deve correre a ricon­ ciliarsi col fratello, ma senza muoversi dall'alta­ re, sul quale egli deve continuare a fare la sua offerta ( solo che, in questo caso, l'offerta non è la lotta di classe, ma il conformarsi all'insegna­ mento della Chiesa).

5 . l L GIUDIZIO FINALE Subito dopo, il filosofo si trovò al cospetto di Dio, che gli disse : « Tu in vita hai molto pec­ cato; va' quindi alla dannazione eterna » . Ma il filosofo non si muovera e se ne stava lì zitto. « Perché non te ne vai ? che cosa aspetti? »

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Aspetto che tu non mi parli come parlano gli uomini, ma come un Dio. » « E invece tu fingi di non avere capito. Per­ ché tu ricordi bene che, quando peccavi, sapevi di peccare e sapevi quindi di meritare la pena eterna; e in vita non ti sei mai veramente pentito dei tuoi peccati . Vedi dunque che io non parlo come un uomo, ma come un Dio : la mia condanna è la condanna che tu stesso ti sei inflitto. » « Eppure c'è ancora qualcosa che non mi è chiaro; e credo che tu me lo debba chiarire, per­ ché non penso che tu mi voglia lasciar andare al­ la pena eterna col sospetto di essere stato ingiu­ stamente condannato. Questo sospetto, poi, se ne chiamerebbe dietro un altro : quello di essere sta­ to cacciato agli Inferi non da un Dio, ma da uno che, certo molto più potente di me, sarebbe, ap­ punto per questo, un pre-potente. » « Ebbene, chiedi quello che vuoi e dimmi da che cosa sono prodotti questi tuoi sospetti. Ma non fingere di ignorare che il giudizio finale non è cosa da scherzarci sopra, come fanno cer­ tuni che ne scrivono alla leggera persino sui set­ timanali. » « Ecco quello che non mi è chiaro. Supponia­ mo pure che, quando peccavo, fossi convinto di meritare l 'eterno castigo. E supponiamo pure che in vita non mi sia mai veramente pentito dei miei peccati. C'era però una domanda alla quale io non sapevo dare risposta; ed è appunto quella alla quale vorrei che rispondessi tu. Mi domandavo : ma perché mai un uomo deve essere eternamente dannato per la sua " coscienza " e cioè perché è convinto che ciò che compie merita dannazione eterna? E viceversa: perché mai deve eternamen«

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te sal vario la sua " coscienza " e cioè la convinzione che ciò che compie non è un male? Lo so che, anche se gli uomini non sapessero ancora che co­ sa è il bene e che cosa è il male, lo so che, nel mon­ do, la dottrina cattolica sostiene che per salvarsi è sufficiente la " retta coscienza " ; e so anche che questa dottrina dice di sapere che cosa è il bene e che cosa è il male e distingue tra male oggettivo e retta intenzione. E, tuttavia, quello che non mi era chiaro e ancora mi è oscuro è proprio questo : perché la buona volontà deve salvare per sempre e la cattiva volontà deve perdere per sempre gli uomini? Perché il malvagio che crede di essere malvagio e di meritare un castigo infinito, e se ne va dalla vita con questa persuasione, perché questa sua persuasione ha tanta potenza da stabi­ lire il destino di quest'uomo; e non accade invece che tu, o Dio, lo abbia a liberare dalla sua malva­ gità, quando viene qui al tuo cospetto e lo abbia a rendere eternamente beato? Ma c'è ancora una cosa che vorrei dirti, se me lo consenti, prima che tu mi risponda. » « Va' pure avanti . » « Ecco : quella domanda alla quale io non sa­ pevo e ancora non so dare risposta, si deve forse pensare che non avesse alcuna influenza sulla mia " coscienza " , cioè sulla mia convinzione di com­ piere azioni malvagie e di meritare quindi un eter­ no castigo? O non si deve piuttosto riconoscere che quella mia ignoranza si insinuava nella mia " coscienza " , le scavava la terra sotto i piedi e la rendeva sempre meno ferma e sicura ? « Voglio dire questo. Se uno possiede ferma­ mente la convinzione che un certo cibo è danno­ so alla sua salute, ma ignora e sa di ignorare il

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vero motivo per il quale gli è dannoso, non si do­

vrà forse dire che questa sua ignoranza scuote quella sua convinzione, sì che per questa sua ignoranza, da lui conosciuta, quella sua convinzio­ ne non può essere ferma o può esserlo solo in ap­ parenza? » « Va' avanti. » « Ebbene, nello stesso modo, in vita io mi dicevo fermamente convinto - ammettiamo che sia stato così - di compiere il male e di meritare la dannazione eterna ( e tu, prima, mi avevi ricor­ dato che se uno continua a compiere azioni mal­ vagie con questa convinzione è lui stesso che si condanna). Ma, insieme, io ignoravo e sapevo di ignorare il vero motivo per il quale questa mia convinzione aveva il potere di determinare il mio destino eterno. Mi domandavo perché mai tu non avresti potuto, a differenza dei giudici terreni, rendere beati gli uomini di cattiva volontà, facen­ do sorgere in loro una volontà buona. E poiché questa mia domanda - ma, ora debbo dirti, an­ che tante altre, e di peso anche maggiore - resta­ va senza risposta, ecco che, come nell'esempio del cibo, questa mia ignoranza rendeva inevitabil­ mente vacillante la mia convinzione di compiere il male e di meritare la pena eterna, sì che per la mia ignoranza questa convinzione non poteva es­ sere ferma e senza incertezze, o lo era solo in ap­ parenza. « Quindi io mi trovo qui di fronte a te come uno che in vita non è mai stato fermamente con­ vinto di meritare la pena eterna e che ora attende da te che tu lo liberi da quell'ignoranza che gli impediva di essere così fermamente convinto e lo 24 4

lasciava incerto e dubbioso. Ma, prima di rispon­ dermi, dimmi ancora questo . . » « Che vuoi? » « Quando mi avrai liberato da quella ignoran­ za, io sarò finalmente convinto, fermamente e senza più alcuna incertezza, di meritare la pena eterna? » « Sl. » « E per liberarmi da quell'ignoranza, tu mi farai vedere quel vero motivo, di cui prima par­ lavo e che in vita mi sfuggiva, il vero motivo per il quale tu non puoi rendere beati gli uomini di cattiva volontà ? » « Sì . » « E per mostrarmi quel vero motivo mi farai guardare in faccia la verità, senza la quale io non potrei scorgere alcun vero motivo? e non una ve­ rità qualsiasi, ma quella che nessuna forza umana o divina può smuovere o smentire? » « Sì . » « Quella verità, stando al cospetto della qua­ le l'uomo raggiunge il culmine della perfezione e della beatitudine consentitagli ? O c'è forse qual­ cosa di meglio che stare nella verità? E se non c'è nulla di meglio, sarà quella verità, abitando nella quale uno non vuoi più aver nulla a che fare col male e vuole soltanto il bene? » « Sì. » « Dico anch'io " sì " insieme a te, perché se la verità che tu mi facessi vedere non fosse que­ sta, assolutamente non smentibile e somma, io continuerei a tenermi il mio sospetto di non es­ sere stato giudicato da un Dio. « E ora non ti domando più nulla : con animo lieto attendo la tua risposta. La tua risposta mi .

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libererà dall'ignoranza, mi farà guardare in faccia la verità somma, mi porterà al culmine della per­ fezione e della beatitudine umane, mi farà amare il vero bene e aborrire il vero male . Dopo di che, io sarò pronto, cosl raggiante di verità e di bon­ tà, ad andarmene alla dannazione eterna. Se ti pare. » Per il cristianesimo gli uomini, al termine del­ la vita, sono giudicati da Dio. Da questo giudizio escono beati o dannati. Il giudizio è un incontro tra Dio e l'uomo : come i pescatori, tirate a riva le reti, si incontrano con i pesci e mettono quelli buoni nei canestri e gettano via quelli cattivi (Mt . 1 3 ) ; o come il re al pranzo di nozze del figlio si incontra con gli invitati che non indossano l'abito di festa e li fa cacciare (Mt. 22); o come lo sposo si incontra con le vergini previdenti, che atten­ dendolo hanno fatto scorta d'olio per le loro lam­ pade, e con quelle imprevidenti che vengono la­ sciate fuori dal talamo (Mt. 25). Ma, incontrandosi con l'uomo, nel giudizio fi­ nale Dio deve palesarsi come Dio. Quando tutte le genti saranno adunate dinanzi al Giudice, non potrà esserci nessuno che si domandi : " Ma costui che ci giudica è proprio Dio? " . Se questo dub­ bio non fosse dissolto, la condanna sarebbe, per il dubitante che la subisce, un sopruso, e il pre­ mio un caso fortunato. Come nella vita terrena, il premiato e il condannato si sentirebbero ancora una volta in balia di una forza incomprensibile e avrebbero diritto di considerare come vero Dio il proprio desiderio di comprendere e non quel Giudice che, di certo più potente di loro, sarebbe tuttavia incapace di resistere al loro dubbio. Il 246

dannato, pieno di speranza, se ne andrebbe agli Inferi dicendo tra sé: " Prima o poi mi libererò anche da questo dio che non sa dissipare il so­ spetto che egli non sia dio " . Il beato, pieno di apprensione se ne andrebbe in paradiso pensando : " Chi mi assicura che prima o poi la buona sorte che costui mi concede non si cambi in sorte cat­ tiva? " . Nel giudizio finale, infatti il " Figlio dell'uo­ mo " verrà in maiestate sua (Mt. 25), cioè nella sua gloria. Maiestas e gloria sono la traduzione del termine greco d6xa. In questo contesto, nella parola d6xa risuona quel senso del verbo greco dokéo, che è analogo al verbo latino videor. Cioè d6xa non significa qui opinione o congettura in­ torno a qualcosa, bensì ciò che l'opinione e la con­ gettura non riescono mai ad essere, ossia l'appa­ rire, il rivelarsi, il manifestarsi della cosa così co­ me essa è in se stessa . Dire che il Figlio dell'uo­ mo verrà nella sua d6xa significa che egli verrà, mostrando, rendendo palese il suo essere Figlio di Dio e cioè dissipando ogni dubbio possibile sulla sua identità . Nella sua vita terrena il Figlio dell'uomo è vissuto " in veste di servo " : un uomo come gli altri ; coloro che gli stavano attorno non avevano alcuna garanzia che egli fosse il Figlio di Dio. Se ne erano convinti, lo erano per la fede, ossia per la fiducia che essi avevano nelle sue parole e nelle sue azioni. Ma nel giudizio finale il Figlio di Dio non può più essere oggetto di una fede, bensì deve manifestarsi nella verità. La dimensione in cui avviene il giudizio finale e in cui il Figlio del­ l'uomo si mostra non può più essere quella della fede. Infatti si può pur sempre dubitare di colui 247

al quale si è prestata fiducia, specie se egli sta decidendo del nostro destino eterno. E, in que­ sto caso, non solo si può dubitare, ma si può an­ che dissentire dai motivi che egli adduce per pre­ miare e per condannare. Se il giudizio finale non vuoi essere una sem­ plice ripetizione o una iperbole dei tribunali ter­ reni, è cioè necessario che la dimensione in cui esso avviene sia la verità, ossia il luogo la cui vi­ sta spegne definitivamente ogni possibile dubbio o dissenso, ogni possibile tentativo di alterarlo, distruggerlo, dimenticarlo, evitarlo. Non solo, ma se il Figlio dell'uomo, per giudicare, parla, è an­ che necessario che le sue parole siano le parole della verità, siano cioè esse stesse dei tratti di quel luogo luminoso. Già nella sua vita terrena Gesù aveva detto: « Io sono la verità » ; ma quella era una promessa che poteva essere accettata solo da chi gli crede­ va. Ma ora, nel giudizio finale, è necessario che Gesù mantenga la sua promessa e che nella luce della verità mostri di essere la verità e dica le pa­ role della verità. E queste non possono essere le parole che ad esempio leggiamo nel Vangelo di Mat­ teo ( 25 ), o in qualsiasi altra pagina del Nuovo Testamento, giacché queste sono le parole della fede. Scrive Matteo che il Figlio dell'uomo dirà a quanti stanno alla sua destra di entrare nel Re­ gno del Padre, perché egli ebbe fame ed essi gli diedero da mangiare; e a quelli che stanno alla sua sinistra di andarsene al fuoco eterno, perché egli ebbe fame e non gli diedero da mangiare. E ai giusti che si stupiranno e gli domanderanno quando mai essi gli hanno dato da mangiare, egli risponderà che in verità ( amén) tutto ciò che co-

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storo hanno dato al più miserabile degli uomm1 lo hanno dato a lui. E nello stesso modo rispon­ derà agli ingiusti. Nonostante la presenza della parola amén ( che in ebraico significa in verità ), questo è il discorso della fede. « Quanto avete fatto al più miserabile degli uomini lo avete fatto a me » : le genti che nella dimensione della verità stanno adunate di­ nanzi al trono del Giudice, non possono accon­ tentarsi di questa assicurazione: è necessario che esse vedano in verità la presenza, in ogni uomo, di chi sta loro cosl parlando ; è necessario che tut­ ta la loro esistenza e l'esistenza di tutti gli uomi­ ni e di tutta la storia si presentino in verità ai lo­ ro occhi trasfigurate dalla presenza del Figlio di Dio in ogni uomo e in ogni evento, e che dunque la loro vita e la storia e l'universo acquistino, co­ si trasfigurati, un senso che non avevano mai avu­ to per loro. Nella dimensione della verità, che è la condi­ zione richiesta affinché il giudizio finale non si presenti immediatamente come un mito, le genti raggiungono un'altezza e una nobiltà prima sco­ nosciute. Tutti : i buoni e i cattivi restano più at­ toniti per la bellezza del luogo, che timorosi per il giudizio imminente. Raggiunta questa condizione sovrana - il di­ morare nella luce della verità -, alcuni si sentono dire di essere eternamente dannati. Vengono por­ tati nel punto più alto che essi abbiano mai rag­ giunto nella loro esistenza, per essere gettati nel punto più basso. Se tra i dannati vi è un vero fi­ losofo, costui scorge il carattere inevitabilmente mitico del giudizio finale e forse può mettere il Giudice in imbarazzo. E gli altri ? 24 9

Al termine del Vangelo di Marco si leggono le parole con le quali Gesù ribadisce il tratto fon­ damentale del suo insegnamento : « Chi crederà sarà salvo; chi invece non crederà sarà condan­ nato » . Le fede salva. Il servo del centurione guarisce per la fede del suo padrone, e per la fe­ de guariscono il lebbroso, il paralitico, l 'emorois­ sa, i due ciechi, il lunatico, e risuscitano la figlia di Giairo, il figlio della vedova di Naim, Lazzaro. Ma può esistere la fede? Questa domanda va intesa alla lettera : non chiede se la fede possa avere, ad esempio, valore, ma chiede proprio se possa esistere l'atteggiamento che vien chiamato " fede " , ossia l'atteggiamento di colui che - cosl si esprime Gesù nel Vangelo di Marco - « non ha alcun dubbio nel suo cuore ». Infatti Gesù salva coloro che non dubitano di poter essere sal­ vati da lui. Chiedere se la fede possa esistere sembra dunque una domanda fuori luogo. Gesù salva coloro che credono in lui, e dunque costo­ ro esistono. Tuttavia questa domanda non può essere mes­ sa da parte cosl facilmente. Tu dici : « lo credo. Credo in Dio Padre Onnipotente, e in Gesù Cri­ sto Suo figlio unigenito . . . }> . Eppure, anche se tu sei Pietro, anche se tu sei il più umile e il più semplice dei fedeli, ti illudi. Ti illudi di credere. Tu non hai, non puoi avere la fede che Gesù esi­ ge da te. « In verità vi dico che se qualcuno dirà a que­ sta montagna : " Togliti di là e gettati in mare " e non avrà alcun dubbio nel suo cuore, ma crederà che quel che dice s'abbia a compiere, gli acca­ drà }> ( Mc. 1 1 ). Appena gli si ricorda questo pas­ so evangelico, il credente si sente subito solleva250

to. Perché, nella Chiesa, nessuno ha mai preso sul serio queste parole di Gesù. Sono state sem­ pre intese come una fìgura retorica, come l 'imma­ gine di un limite da tenere sl costantemente pre­ sente, ma che non potrà mai essere raggiunto dal­ l'uomo. Se la fede che Gesù esige è quella che muove le montagne, allora il credente si tranquil­ lizza subito, perché è abituato a considerare que­ sta fede come una metafora. Se non si trattasse di una metafora, sarebbe qualcosa di poco serio. Ma Gesù non è poco serio ; non è privo di buon senso ; e quindi la fede che egli esige dev'essere qualcosa di accessibile, di praticabile dall'uomo. Tuttavia, nel passo riportato, la capacità di muovere le montagne non esprime l'essenza della fede, ma è una conseguenza di essa . L'equivoco di Simon Mago, che col denaro vuoi comprare il potere degli Apostoli, sta appunto nel non com­ prendere questa differenza. La fede, dice Gesù, è propria di chi « non avrà alcun dubbio nel suo cuore », non haesitaverit in corde suo. Subito do­ po il passo sopra riportato, Gesù aggiunge : « Per­ ciò vi dico : tutte le cose che domanderete nella preghiera, abbiate fede di attenerle e le otterre­ te » . Se cioè nel vostro cuore non avrete più dub­ bi che le otterrete (per esempio che le montagne si tolgano dal loro luogo e si gettino nel mare ), ma sarete certi di attenerle, le otterrete per dav­ vero (cioè le montagne si getteranno per davvero nel mare ). Ma, questa, è appunto una conseguen­ za della fede. La fede è il non aver più dubbi nel proprio cuore. Quando tu dici : « Io credo », tu dici : « Io non ho più dubbi nel mio cuore, re­ lativamente a ciò in cui dico di credere » . Eppure, . . .

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ripeto, anche se tu sei Pietro, ti illudi. Ti ill udi di credere. Ma, ancora un volta, il credente può non sen­ tirsi turbato da questo avvertimento. La fede è infatti una lotta continua contro il dubbio. Se questa lotta è assente, non c'è fede, ma abitudine. La vera fede è quella che vince il dubbio, e quin­ di ha a che fare costantemente con esso. Tutto questo, il credente lo sa bene. Sa che il suo cuore è conteso dalla fede e dal dubbio, e cioè che non è conquistato una volta per tutte dalla fede, ma è preso, perduto, ripreso da ognuno dei due con­ tendenti . Quando il cristiano dice : « Io credo » , esprime la situazione in cui si trova, che non è sempre esistita e non è garantita una volta per tutte. Appunto a questa situ azione si riferisce Gesù; che dunque non esige dal fedele che egli non abbia mai dubbi nel proprio cuore, ma che riesca a superarli. Eppu re, ripeto ancora, anche se tu sei Pietro, anche se tu sei un santo, ti illudi di credere. E se Gesù è, secondo la dottrina della Chiesa, vero uo­ mo oltre che vero Dio, allora, come vero uomo, è anch'egli un credente, e come ogni altro credente si illude di credere. Perché diciamo questo? Il credente non è chi non dubita mai, ma chi riesce a vincere il dubbio. Magari per un attimo. Il credente esisterà per un attimo. Ma in quell'at­ timo, come dice Gesù, non haesitaverit in corde suo, non avrà alcun dubbio nel suo cuore. Se il credente non è chi non dubita mai, il credente non è nemmeno colui che non riesce mai ad uscire dal dubbio e a raggiungere quell'attimo . Che cosa ac-

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cade in quell'attimo (che può durare anche una vita), dove ogni esitazione è scomparsa? In quell'attimo, il credente crede qualcosa. Questo credere è la fede. Nella Lettera agli Ebrei, l'apostolo Paolo dice che la fede è « argomento delle cose che non si vedono » ( argumentum non apparentium) . Le cose che non si vedono, gli in­ visibili, sono appunto le cose in cui il credente crede. Il messaggio di Gesù le annuncia . Il mes­ saggio è visibile ( i contemporanei di Gesù udiva­ no le sue parole e i cristiani d'oggi le riascoltano dai successori degli Apostoli). Ma il messaggio visibile parla dell'invisibile. E l'invisibile non è soltanto ciò che sfugge agli occhi, alle orecchie, al tatto, ma è anche ciò che sfugge alla ragione del­ l 'uomo. Così insegna anche la Chiesa. A Pietro che gli dice : « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente », Gesù risponde : « E tu sei beato, perché né il sangue né la carne te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli » . Ossia la divinità di Gesù non è rivelata dal visibile - la carne, il san­ gue -, ma dalla fede suscitata dal Padre. Ma, proprio perché invisibili, le cose credute non si basano su argomenti, non hanno argomen­ ti. L'argomentare conduce l'argomentato nel visi­ bile. Nella parola latina argumentum risuona lo stesso significato della parola greca argon. L'argon è il lucente e il risplendente, il visibile per eccel­ lenza (e l'arg-ento è appunto il metallo che riluce). L'invisibile è invece il nascosto e l'oscuro, e quin­ di è privo di argomento. Secondo l'apostolo Paolo e l'intero insegnamento della Chiesa, la fede in­ terviene per dare alle cose invisibili l'argomento che esse non posseggono . La fede dice alle cose invisibili : voi siete oscure, nascoste, senza argo-

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mento : ma, ecco, il vostro argomento sono io, io che, pur non vedendovi, credo che voi siate cosi come il messaggio di Gesù vi annuncia; io mi fido del messaggio .

Ma diventando argomento delle cose invisibi­ li, la fede non le rende visibili. L'argomento che

essa conferisce loro non è l'argomento di cui esse mancano . Esse continuano a restare invisibili, oscure, nascoste. Ebbene, il dubitare è appunto

l'aver a che fare con ciò che rimane invisibile. È solo dell'invisibile, infatti, che si dubita. È pro­

prio perché il credente vede che le cose invisibili sono senza argomento, è proprio per questo che egli elargisce loro l'argomento della fede . Proprio perché le vede oscure ha bisogno di illuminarle con la luce della fede - una luce diversa, questa, dalla luce di cui le cose invisibili mancano. Ma questo vedere l'oscurità delle cose invisibili, que­ sto vedere che esse sono senza argomento, è ap­ punto il dubitare. Per credere, dunque, tu devi dubitare : non prima o dopo il tuo credere, ma proprio mentre credi e in quanto credi. Il non aver prove decisive di ciò in cui si crede è una si­ tuazione della coscienza; non è uno stato fisico. È la coscienza che non ha prove decisive. E non aver­ le significa, per la coscienza, essere incerta, dub­ biosa intorno a ciò che, nel credente, si manife­ sta senza prove decisive. Il puro credente, dun­ que, non esiste. Quindi, quella fede, che Gesù esige, quell'attimo in cui non ci sono più esita­ zioni e tutti i dubbi sono stati superati, quella fe­ de e quell'attimo non esistono. Il fedele che non haesitaverit in corde suo è un fantasma. Tutti du­ bitano, anche i credenti . E se al termine del Van­ gelo di Marco Gesù dice : « Chi crederà sarà sal254

vo ; chi invece non crederà sarà condannato » , al­ lora il suo paradiso è popolato da fantasmi, visto che il credente non esiste. Quando dunque tu di­ ci : « Io credo . . » , tu credi di credere. E cioè ti illudi di credere e dubiti, anche tu, del messag­ gio di Gesù ; e, insieme, dubiti di credere in que­ sto messaggio. Credi di essere soltanto fede e non ti rendi conto del dubbio di cui sei portavoce e che ti travaglia proprio nell'attimo in cui la tua fede si apre. I credenti sono coloro nei quali la fede è contrastata dal dubbio, e viceversa, pro­ prio nell'atto in cui credono. Essi sono dunque una contraddizione. (Ormai tutto è diventato una fede. Anche il marxismo. E se allora tu dici di aver fede nel so­ cialismo marxista, anche tu ti illudi di essere un fedele e sei invece anche tu un dubbioso e quindi anche tu ti trovi davanti sbarrata la porta del tuo paradiso. ) Dire che il Regno dei Cieli è destinato ai credenti, significa dire che è destinato a dei fan­ tasmi. Per il cristianesimo si salva chi è " in buo­ na fede " - " l'uomo di buona volontà " . La buo­ na fede e la buona volontà sono il fantasma in cui consiste il credente, colui che " non ha alcun dubbio nel suo cuore " . Il vero fìlosofo è invece colui che è pieno di veri dubbi nel suo cuore. Per avere veri dubbi bisogna essere veri fìlosofì, ossia bisogna testimoniare la verità in cui si abita. La cultura occidentale non può avere veri dubbi, per­ ché si mantiene al di fuori della verità. Tuttavia un dubbio falso non è un non dubitare, ma è un non saper rendere ragione del proprio dubitare . Tutti coloro che sono in rapporto al messaggio cristiano ne dubitano - anche i credenti, anche i .

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santi, anche l'uomo Gesù. Ne dubitano, anche se nessun abitatore dell'Occidente può avere un ve­ ro dubbio. Intanto, se nel giudizio finale le genti si do­ vessero radunare dinanzi al trono del Giudice, tutti si troverebbero nella condizione del filosofo di cui abbiamo sopra parlato. Se dannato è chi trasgredisce la propria fede, il filosofo non può essere dannato, perché, dubitando, non ha avuto fede . Ma ora vediamo che il trono del Giudice è stato eretto invano perché tutte le genti, e quindi anche tutti i non filosofi, si troveranno nella neces­ sità di confessare di non aver avuto fede perché hanno insieme dubitato. Ma hanno dubitato per­ ché hanno dovuto dubitare. Di fronte alle cose invisibili della fede è inevitabile essere in dubbio: anche quando si crede. La fede è dunque un ten­ tativo. Si tenta di credere. Il dubbio entra inevi­ tabilmente a costituire la situazione oggettiva del­ la coscienza che si rapporta al messaggio di Gesù. Il credente si illude di essere soltanto credente. Ma in un vero giudizio finale devono cadere tutte le illusioni; e anche i credenti, venendo a sapere di essere stati insieme degli increduli, prendono coscienza dell'impossibilità di un giudizio finale che, misurando la fede, metta i pesci buoni nei ca­ nestri e getti via quelli cattivi.

6.

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VERITÀ UMANA

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Vi sono oggi due modi di esercitare la critica dei fondamenti dottrinali e dell'organizzazione so­ ciale della Chiesa cattolica. Il primo è guidato dall a cultura che si pone esplicitamente al di fuo256

ri del cnsuanesimo e rifiuta l'interpretazione cri­ stiana del senso della vita; il secondo opera inve­ ce all'interno della fede cristiana e della stessa Chiesa cattolica e si propone di aprire quest'ul­ tima alle istanze della cultura moderna, che di volta in volta sono ritenute irrinunciabili per la comprensione e promozione dell'esistenza cristia­ na. A questo tipo di critica appartengono tutti i movimenti progressisti e i fermenti innovatori che nella Chiesa cattolica mirano a instaurare nuo­ ve condizioni di dialogo con la teologia protestan­ te, il marxismo e le sue forze istituzionalizzate (UR S S , Cina, partito comunista ), le forme più au­ daci della contestazione giovanile, l'organizzazio­ ne tecnologica della società. La dimensione in cui si portano e si manten­ gono queste pagine non ha nulla a che vedere con entrambi i due tipi di critica qui sopra indicati: non solo perché, in quella dimensione, fondamen­ ti dottrinali e organizzazione sociale della Chiesa non interessano in quanto tali, bensì in quanto espressione di un più ampio orizzonte, ossia co­ me aspetto - indubbiamente emergente - dell'es­ senza della civiltà occidentale; ma perché in quel­ la dimensione si riesce a comprendere che la lo­ gica di fondo di quei due tipi di critica è rigoro­ samente identica. Di più : la logica di fondo in cui il cristianesimo è andato sviluppandosi è quella stessa logica che ha alimentato ogni critica e ogni rifiuto più radicale del cristiane­ simo. L'opposizione di cristianesimo e anticri­ stianesimo si costituisce all'interno di una soli­ darietà sostanziale. Detto questo, è anche più fa­ cile rendersi conto che queste pagine non hanno nemmeno nulla a che vedere con i tentativi di sot-

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trarre il cristianesimo al " naturalismo greco " , per reinterpretarlo alla luce delle categorie dello spi­ ritualismo moderno . Giacchè anche ogni forma di " spiritualismo cristiano " si muove all'interno del tratto dominante della cultura occidentale, porta­ to per la prima volta alla luce dal pensiero greco. Cristianesimo e anticristianesimo vanno per la stessa strada : la strada del nichilismo, ossia del­ l'alienazione più essenziale in cui si svolge l'in­ tera storia dell'Occidente (cfr. capitolo sesto). Ma che valore potrebbe avere questa afferma­ zione, se essa non fosse altro che l'espressione del punto di vista di " uno di noi " , di un individuo umano storicamente condizionato, finito e quindi fallibile? Nessuno. Per la nostra cultura è del tut­ to ovvio che ogni affermazione esprime il modo di pensare di un individuo umano, e cioè che il pensare è opera e prodotto di un individuo, cosl come lo sono le sue azioni. Non è forse ogni uomo un ente che pensa? E tuttavia, una volta che il pensare sia inteso in questo modo ( ossia come ope­ ra, prodotto di un individuo umano), è inevita­ bile che i limiti dell'individuo divengano i limiti del pensiero, che la finitezza e condizionatezza storica di quello determinino l'inadeguatezza, la non assolutezza e fallibilità di questo. Se il pensiero è opera dell'individuo, non può avere verità (verità in senso forte, tale cioè che nemmeno un onni­ potente iddio possa smentire o distruggere ) : avrà soltanto una "verità umana " , con tutti i limiti che questo aggettivo comporta, e quindi una " ve­ rità " rifiutabile e distruggibile. Se l'affermazione che cristianesimo e anticristianesimo vanno per la stessa strada (la strada dell'alienazione essenziale) è soltanto una " verità umana ", è allora del tutto

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naturale che la coscienza cnstlana - e quindi la Chiesa, in quanto si ritiene guida suprema di que­ sta coscienza - respinga tale affermazione senza alcuna preoccupazione e titubanza. Ancora una volta, i risultati cui perviene la cultura moderna facilitano la difesa del cristiane­ simo. Giacché il principio che la " verità " è con­ quista e opera dell'uomo appartiene al processo attraverso il quale il pensiero moderno si libera dal monopolio culturale della Chiesa, cioè da un tipo di esistenza ove la " verità " è data, imposta all'individuo da un magistero esterno. Che cosa c'è di più " moderno " del concetto che la " verità " è conquista dell'impegno e dello sforzo personale dell'uomo e non un presupposto dogmatico che egli riceve dall'esterno, convalidato da una ester­ na autorità? A una " verità " fondata sull'autorità della Chiesa, la cultura moderna sostituisce la " ve­ rità" come conquista dell'individuo. Ma proprio per questa sostituzione, proprio perché in questo modo la " verità " si presenta come " umana " , es­ sa non costituisce più una voce non smentibile, rispetto alla quale la fede e la Chiesa siano costret­ te a misurarsi e a giustificarsi. Che ostacolo può essere per la coscienza cristiana una semplice " ve­ rità umana " ? E come può l'individuo pretendere di imporre al gruppo il proprio modo di pensare, specie se il gruppo ritiene di essere depositario di una rivelazione divina? La dimensione in cui intendono mantenersi queste pagine - e all'interno della quale si affer­ ma che cristianesimo e anticristianesimo cammi­ nano entrambi lungo la strada del nichilismo non è la " prospettiva ", il " modo di pensare " , il " prodotto teorico " di un individuo. In essa vien

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messa in questione la stessa antropologia dominan­ te della cultura occidentale, per la quale è sconta­

to che il pensiero sia opera e prodotto dell'indi­ viduo. Ci si vorrà rendere conto che lo scettici­ smo e il relativismo che conseguono da tale antro­ pologia - ( se la verità è soltanto umana, essa non ha valore assoluto, ma è storica e provvisoria) sono conseguenza del dogmatismo più radicale? e che si può affermare che la " verità " è " soltanto umana " - quindi superabile e rifiutabile - pro­ prio perché si concepisce come insuperabile e ir­ rifiutabile il principio che il pensiero è opera e prodotto dell'individuo, effetto della sua attività? « È quest'uomo qui che pensa » diceva Tomma­ so. « La vita determina la coscienza » ripete Marx (ossia si deve partire « dagli individui reali vi­ venti >> e considerare la coscienza, il pensiero, « solo come loro coscienza >> ) .

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Capitolo sesto

IL SENSO DELLA CIVILTÀ DELLA TECNICA

l.

LA METAFIS ICA E LA S TORIA DELL 'OCCIDENTE

C'è un tipo d'uomo, che quasi ovunque viene oggi considerato o come un modello da imitare, o con invidia. È l'uomo pratico, con i piedi per terra, serio, intelligente, lavoratore instancabile, pieno di spirito di iniziativa. Questo tipo d'uo­ mo si è ormai affermato non solo nel mondo del lavoro, ma anche nel mondo politico e perfino in quello della cultura e della religione. Anche l'in­ tellettuale impegnato o fornito di potere politico, anche il prete operaio o il missionario non posso­ no essere dei meditativi. Questa distinzione psicologica tra uomo prati­ co e uomo meditativo - indubbiamente ben più complessa e sfumata di quanto qui possa appari­ re - mostra il suo significato profondo se vien vi­ sta alla luce dello sviluppo della civiltà europea. L'uomo meditativo è il residuo psicologico di una cultura ormai sorpassata. L'uomo pratico, invece , è l'espressione psicologica della cultura moderna, cioè della cultura scientifica. Il tratto essenziale della vecchia cultura è co­ stituito dalla metafisica. Oggi, la parola " metafi­ sica " viene usata per indicare quanto di più irrea­ le, nebuloso, infecondo, arbitrario esiste nel pen-

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siero degli uomini . L'uso comune di quella parola mostra il · discredito in cui è caduto il tipo di sa­ pere che fino al Rinascimento era considerato co­ me la forma suprema della sapienza umana. Mo­ stra, soprattutto, che oggi non vi sono più dubbi su che cosa sia la metafisica. Alla distruzione di essa ha lavorato un insie­ me di forze convergenti . Le moderne scienze sto­ rico-sociologiche non hanno difficoltà a individuar­ le, rafforzando così la convinzione che il senso del­ la metafisica non sia per nulla un mistero e ormai non resti altro che determinarne lo sviluppo stori­ co, così come si stabilisce il decorso di una malat­ tia di cui si conoscono cause e terapie. In questo modo, si trova la possibilità di sta­ bilire che con la nascita della scienza moderna si produce qualcosa di ben più radicale di una " cri­ tica " teorica del sapere metafisico: si mostra in modo palmare che l'uomo riesce a divenire padro­ ne del mondo servendosi di procedure concettuali diverse e persino opposte ai principi e metodi di un sapere che, come quello metafisico, si limita a " contemplare " le cose. E si rileva che dell'inutili­ tà di questo sapere e di coloro che lo coltivano si accorsero ben presto i ceti sociali in ascesa del­ la nascente borghesia imprenditoriale: lo svilup­ po dell'economia moderna non ha bisogno della metafisica, ma di un tipo di conoscenza che sia in grado di incrementare l'efficienza del lavoro pro­ duttore di beni di consumo e di scambio. Per al­ tro verso, l'osservazione storica può constatare che i " bisogni dello spirito " restano largamente soddisfatti dalla religione, in una forma concreta e immediatamente comprensibile dalle masse. Nel­ le quali si diffonde così, accanto alla fede cristia264

na, la fede nella scienza e nel sistema economico produttore di ricchezza. Messa in questione sul piano culturale, la metafisica perde anche ogni in­ cidenza sul piano sociale e diviene occupazione privata di élites intellettuali . L'ultimo atto della sua distruzione è il rifiuto di essa anche all'inter­ no di queste élites : si può dire che la filosofia con­ temporanea non consista in altro che in una cri­ tica radicale della metafisica. L'analisi storico-sociologica è dunque in gra­ do di mostrare che scienza, religione cristiana, eco­ nomia e politica formano, nell'Europa moderna, un sistema di condizioni che rende impossibile la sopravvivenza di un sapere che intende scoprire la "verità " . Dal punto di vista metafisica la verità è tale anche se gli ignoranti e i deboli di intelletto non la capiscono . Sino a che costoro non hanno forza politica ed economica, non capire la verità è segno di inferiorità: ci si deve adattare al lavoro artigianale e al commercio. Ma quando lavoro e commercio si sviluppano sino a rovesciare l'eco­ nomia feudale guidata dalla razionalità metafisica, quando la forza politica ed economica passa nelle mani di coloro che, rispetto a quella razionalità, erano qualificati come ignoranti e deboli di intel­ letto, viene allora ad imporsi un nuovo modo di intendere il sapere e il rapporto tra questo e gli individui. Vero sapere è quello che ognuno può capire. Così come la vera consolazione dei " biso­ gni dello spirito " è quella cristiana, che si esprime in termini a tutti accessibili. E, se non i metodi, i risultati della scienza moderna possono essere toccati con mano da chiunque. Il significato della guarigione da una malattia o di una esplosione

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atomica è identico per l'uomo della strada e per lo scienziato. Se guarigioni ed esplosioni non fos­ sero avvertite, quando avvengono, da chiunque, esse non sarebbero nemmeno un risultato scienti­ fico. Ci si è resi conto, pertanto, che come per la democrazia moderna una decisione è " giusta " quan­ do è presa dalla maggioranza, così per la scienza moderna il fatto può avere valore " scientifico " quando viene percepito dalla maggioranza degli osservatori. La scienza moderna è un sapere " de­ mocratico " . E dalle democrazie è stato riconosciu­ to come il vero tipo di sapere. La metafisica è un sapere " aristocratico ", che non si cura del con­ senso delle masse. In questa arretratezza " politi­ ca " della metafisica è contenuta una delle ragioni fondamentali del suo fallimento. Inoltre, che cosa ha in comune l'atteggiamento contemplativo con la volontà di dominio che gui­ da la nascita della scienza e dell'economia moder­ na, e che è insieme volontà di liberare l'uomo dal dolore e dal bisogno ? Se si aggiunge che la Chie­ sa condanna la pretesa della metafisica di porsi come il punto di vista supremo della sapienza umana, che non intende lasciarsi giudicare da al­ cuna fede, ci si può rendere conto che il fallimen­ to della metafisica è insieme l'espressione delle for­ ze che oggi dominano il mondo : la scienza, l'eco­ nomia industriale, le democrazie capitalistiche e socialiste , la Chiesa. L'ammirazione per l'uomo pratico, scientifico, democratico, religioso è ben riposta. Anche i contestatori appartengono alla matrice culturale che ha prodotto questo tipo uma­ no. Vogliono soltanto rendere più intelligente l'or­ ganizzazione del lavoro e più godibili le possibili266

tà dell a scienza e le risorse della natura. Anche per essi la verità deve essere democratica. La nostra civi l tà ha chiuso i conti con l a me­ tafisica e allontana con impazienza il sospetto che il senso di essa - e dunque il senso della sua mor­ te - rimanga ancora inesplorato e nasconda i l si­ gnificato ultimo della nostra storia . Ma quel sospetto non si l ascia a llontanare e rimane in attesa che ci si renda conto che l a meta­ fisica ha preparato una vol ta per tutte - in un senso essenzialmente sconosciuto alla nostra cul­ tura - l 'abitazione all 'interno della quale è cresciu­ to e ha preso significato il gigantesco intreccio di fatti e di eventi che ha condotto la storia dell 'Oc­ cidente sino alla civi ltà della tecnica. Se il falli­ mento della metafisica non è semplicemente l 'ef­ fetto di una critica filosofica, ma è conseguenza ed espressione dell 'assetto che l 'Europa si è data nell 'ambito dell 'economia, dell a politica, della re­ ligione, del sapere scientifico, tuttavia queste for­ me si muovono completamente avvol te dalla di­ mensione che la metafisica ha portato all a luce, sl che il fall imento dell a metafisica è l 'aspetto este­ riore di una profonda vitalità trionfante. Nella no­ stra cultura è divenuta sempre più indiscutibile la convinzione che, come l a nascita della civiltà ha segnato l 'eclissi del pensiero magico dell 'uomo primitivo, così l a civil tà attivistica dell 'Europa moderna segna l 'eclissi del contemplativismo me­ tafisica in cui si rispecchia un modo di vivere che l 'uomo moderno non intende più accettare. E tut­ tavia nell a contempl azione metafisica è presente, allo stato puro e nel suo tratto essenziale, l a do­ minazione e l 'aggressione scientifico-tecnologica dell a terra, che oggi si determina come progetto

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di una produzione-distruzione senza limiti della totalità degli enti. Ma quest'ultima affermazione non è una delle tesi più caratteristiche di Heidegger, che a sua volta la riprende in qualche modo da Nietzsche? Si tratterà allora di comprendere che quest'ultima affermazione - e, in generale, l'affermazione che la metafisica è il luogo ove cresce la storia del­ l'Occidente - ha un senso abissalmente diverso dal senso che questa " stessa " affermazione ha in Hei­ degger o in Nietzsche ( e nei loro epigoni). Le " stesse " parole alludono a qualcosa di abissalmen­ te diverso; e il nascondimento del senso autenti­ co della metafisica raggiunge cosl il suo punto estremo, perché il senso autentico viene essenzial­ mente alterato proprio là dove si crede di avverti­ re che esso è immerso nell'oscurità e ci si propo­ ne di portarlo alla luce. Intanto, si richiami (cfr. capitolo secondo) 2 ) che, s e il modo in cui nella storia dell'Occidente s i è presentata la " verità definitiva " ha fatto di questa la consacrazione degli interessi delle classi sociali di volta in volta dominanti - onde la " verità defini­ tiva " è stato l'aspetto teorico della violenza -, d'altra parte, l'abbandono del tentativo di vivere in rapporto alla verità rende violento ogni aspetto della vita dell'uomo : sono violenza non solo quei modi di pensare e di esistere che oggi noi siamo abituati a considerare come prevaricazione, ma anche tutto ciò che potrebbe sembrare agli anti­ podi della violenza, come l'amore per gli uomini, la fede cristiana, il rispetto democratico per la persona altrui . (Si può dire, certamente, che la violenza di una civiltà in cui gli uomini si soppor­ tano è preferibile alla violenza di una civiltà in cui 268

essi di distruggono . Ma in questo modo veniamo a dire solamente che le forze umane che oggi do­ minano il mondo preferiscono sopportarsi piutto­ sto che distruggersi; e che, come ieri, altre forze umane possono irrompere e dominare con la pre­ ferenza della distruzione. Quale maggior " valore " , quale maggiore " verità " possiede quella prima, ri­ spetto a questa seconda preferenza ? ) Ebbene, l'affermazione che la metafisica ha preparato la dimora in cui l'Occidente va crescen­ do, viene innanzitutto a significare - indipenden­ dentemente dal credito che le si voglia attribuire che la metafisica ha preparato la dimora della vio­ lenza, ed è anzi la violenza stessa nella sua forma più originaria e più pura. E se la potenza scienti­ fico-tecnologica è il culmine sin qui raggiunto dal­ la violenza - se cioè non esiste oggi una forza che sappia contrapporsi con successo a quella poten­ za -, ciò significa che la civiltà della tecnica è il modo in cui oggi esiste e domina la metafisica. L'abbandono della " verità definitiva " della cultura tradizionale e l'avvento della cultura scien­ tifico-tecnologica promuovono allora una rivolu­ zione che si svolge all'interno della dimensione dominante e permanente che la metafisica ha aper­ to. Ogni rivoluzione dell'Occidente si è svolta al­ l'interno di questa dimensione. La cultura che og­ gi alimenta ogni " contestazione " (come pure la cul­ tura che oggi sorregge il potere costituito) vi è più che mai immersa. Ogni critica antimetafisica e ogni " superamento " o " confutazione " della meta­ fisica sono essenzialmente guidati da quella di­ mensione dominante . E tuttavia la dominazione es­ senziale della metafisica è ignorata non solo da quanti ne proclamano la morte, ma anche da co-

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loro - i " metafìsici " - che ancora si propongono di " difenderla " . Come difendere ciò che non ha bisogno di alcuna difesa perché non ha dinanzi a sé alcun avversario? ciò che non è rimasto un astratto modo di pensare, coltivato da un'élite, ma è divenuto le città, le macchine, l'organizzazio­ ne industriale e ideologica della nostra civiltà? Di quale difesa ha bisogno la misteriosa potenza di ciò che è così vivo da poter sopportare che tutti lo ritengano morto? Che cos'è dunque la metafisica? 2.

LA

«

COSA

»

E IL TRIONFO DELLA METAFIS ICA

Tutte le azioni dell'uomo sono determinate e guidate dal senso che le cose hanno per lui. L'ar­ tigiano prende in mano il martello per spingere i chiodi nel legno, perché la mano, il martello, i chiodi, il legno hanno per lui il senso che comune­ mente attribuiamo a queste parole. I gesti e i mo­ vimenti del suo lavoro sono determinati da que­ sto senso. Anche la soddisfazione o insoddisfazione che il lavoro gli procura - e quindi l'azione come rapporto tra il gesto visibile e lo stato d'animo in­ teriore - sono determinate e guidate da quel sen­ so. Se esso dovesse cambiare per lui, egli agireb­ be diversamente. Anche in una fabbrica l'operaio prende in mano il martello per spingere i chiodi nel legno, ma la mano e gli strumenti di lavoro da essa usati hanno qui un senso diverso da quello che essi posseggono per l'artigiano. La mano è qualcosa che l'operaio, a differenza dell'artigiano, ha venduto all'imprenditore per un certo numero di ore della giornata, e il martello, i chiodi, il le2 70

gno non sono proprietà dell'operaio, come invece lo sono dell'artigiano, ma dell'imprenditore. Ap­ parentemente, il lavoro dell'operaio è identico a quello dell'artigiano, ma in realtà sono profonda­ mente diversi. E spesso è possibile scorgere que­ sta diversità anche nel gesto esteriore, giacché so­ lo un'osservazione molto grossolana può ritenere che il gesto di chi non ha venduto il proprio la­ voro e di chi possiede gli strumenti con cui lavora sia identico al gesto di chi invece non è più pa­ drone del proprio lavoro e lavora con strumenti posseduti da altri, per produrre qualcosa che ri­ mane proprietà altrui. Così come un'osservazione molto grossolana può ritenere che i gesti compiu­ ti nell'unione sessuale con la donna che si ama siano identici ai gesti compiuti nell'accoppiamento con una prostituta. Per Marx, « non è la coscienza che determina la vita, ma è la vita che determina la coscienza » . Ma questa è una tesi che può essere sostenuta so­ lo se per " coscienza " si intendono le forme cul­ turali di una società, come l'arte, la fìlosofìa, l'or­ dinamento giuridico, la religione, eccetera . La " vi­ ta " è il modo in cui l'uomo lavora e produce. La tesi di Marx sostiene allora che, ad esempio, la produzione artigianale determina un tipo di cultu­ ra che è diverso da quello determinato dalla pro­ duzione industriale. Ma dallo stesso punto di vista marxiano, il lavoro produttivo (per esempio spin­ gere i chiodi nel legno con il martello, per otte­ nere un certo manufatto) è sempre un'attività co­ sciente. Pertanto, se il modo in cui l'uomo lavora e produce determina il modo in cui egli pensa (determina cioè la sua " coscienza " , intesa come produzione delle forme culturali di una società),

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d'altra parte, all'interno del suo lavoro, il modo in cui egli pensa determina il modo in cui lavora. Qui - cioè all'interno del lavoro - " pensare " si­ gnifica appunto esser coscienti del senso che pos­ seggono le cose coinvolte dal lavoro. L'artigiano batte i chiodi nel legno, solo perché, per lui, essi hanno la virtù di tenere stabilmente uniti i pezzi di legno inchiodati e i pezzi così inchiodati sono idonei a sostenere oggetti a una certa distanza dal suolo, e cioè formano un " tavolo " . Il senso che posseggono per l'artigiano il tavolo, gli strumenti di lavoro e il materiale usato è la " coscienza " che determina il lavoro dell'artigiano. Ma esistono cose il cui senso è presente nel senso di altre. Ad esempio, il legno attorno al qua­ le l'artigiano lavora può essere di abete, di noce, di cirmolo, o di altra specie . La qualità del legno determina certamente diversi tipi di lavorazione e progetti diversi, tuttavia in questa diversità esi­ ste anche qualcosa di identico, che è determinato dal fatto che tanto l'abete, quanto il cirmolo e il noce sono legno. Se cioè il senso che l'abete pos­ siede per l'artigiano determina e guida soltanto quel gruppo di azioni che egli compie quando fab­ brica oggetti di abete, il senso che il legno possie­ de per lui determina e guida invece un ben più ampio insieme di azioni : tutte quelle in cui egli fabbrica, oltre che oggetti di abete, anche oggetti di altro legname. Ma egli sa anche, nel suo lavoro, che il legno non è il martello, i chiodi e gli altri oggetti della sua bottega e del suo mondo; e, daccapo, sebbene il senso che ha per lui il legno sia diverso da quel­ lo del martello, della pialla, della casa, della don­ na e dei figli, tuttavia in questi diversi oggetti 272

egli vede anche un che di identico. Questo " che " di identico egli lo chiama " cosa " . Il legno è una " cosa " . E così pure il martello. Anche i figli sono una " cosa ", sebbene estremamente più complessa e più cara. Tutte le cose del suo mondo sono, ap­ punto " cose " . A quali conseguenze conduce que­ sta constatazione apparentemente così banale? Innanzitutto, come per l'artigiano il legno e il martello hanno un senso (e il senso del legno è presente nel legno di abete, di noce, di cirmolo e di ogni altra specie di legname), nello stesso modo, anche la " cosa " ha per lui un senso. Non solo ha un senso l'esser legno, l'esser cirmolo, l 'esser mar­ tello, l'esser figlio, ma ha un senso anche l'es­ ser cosa. Anzi, il senso che è posseduto dall'es­ ser " cosa " è presente in tutti quegli altri sensi, e, appunto, è presente nel senso di ogni cosa. Inoltre, poiché tutto ciò che appartiene al mon­ do dell'artigiano (e di ognuno ) è una " cosa " , allora tutte le azioni che egli compie sono deter­ minate e guidate dal senso che per lui ha una " co­ sa " . Se questo senso appare non solo nel mondo dell'artigiano, ma anche in quello dei suoi simili e dell'intera società alla quale egli appartiene, al­ lora tutte le opere (le azioni) compiute da questa società sono determinate e guidate dal senso che ha, per essa, l'essere una " cosa " . Ad esempio, il campo guida gran parte delle azioni compiute dal contadino durante la vita. Nella buona stagione egli si alza per tempo, usa certi attrezzi, semina, miete, e nella cattiva rima­ ne in attesa e pensa al futuro raccolto, perché il campo è un campo e non un fiume o una stella. Essere un campo (o fiume, stella) vuoi dire ap­ punto aprire un senso, e il senso del campo - il suo

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essere luogo ove semina e raccolto sono legati alla vicenda delle stagioni - stabilisce e guida le azioni che il contadino, come contadino, può compiere e può evitare: le fa essere così e non altrimenti, in un certo tempo piuttosto che in altro. Ci sono poi altre azioni, diverse, che non restano stabilite dal senso del campo, ma dal senso della casa, della donna, del corpo del contadino . Le cose si divi­ dono la sua vita : quando fa l'amore, i suoi gesti sono guidati dal senso che la donna ha per lui e non dal campo (che tuttavia, con la casa, gli at­ trezzi e il bestiame è lo sfondo in cui la donna prende senso). E tuttavia la casa, la donna e il campo hanno un senso comune : l'aprirsi come donna o come casa non è l'aprirsi come campo, ma nella donna, nel campo e nella casa c'è un tratto che ha lo stes­ so senso. Il contadino nomina questo tratto quan­ do parla della sua " roba " . Se il senso del campo guida e stabilisce certe azioni e il senso della donna certe altre azioni del contadino, il senso della " roba " guida e stabilisce sia queste, sia quelle e tutte le altre azioni del contadino. Del suo campo egli non sente soltanto l'esser campo, ma anche l'esser " roba " ; e il senso che ha per lui la " roba " si rispecchia nel modo in cui semina, miete e attende la buona stagione. Tutta la sua vita è guidata e stabilita dal senso della " roba " . Il cambiamento di questo senso sa­ rebbe cambiamento dell'intero modo di vivere. Il significato originario e ormai quasi perdu­ to della parola " roba " è dato dal germanico rau­ ba ; ancor oggi, in tedesco Raub significa preda (noi, diciamo " rubare " ). Inizialmente, la don­ na, il bestiame, il campo, il riparo, sono sentiti

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come preda, bottino fruttato da un'impresa riu­ scita: il loro esser preda guida e stabilisce le azio­ ni del maschio adulto, che vive come predatore non solo quando impugna le armi, ma anche quan­ do miete o giace con la donna. Quando il senso iniziale della " roba " impallidisce per il gruppo umano che da esso era stato guidato, incomincia un altro modo di vivere. E lungo i secoli il pre­ datore diventa un contadino. La parola " roba " non ha un corrispettivo in inglese e in francese e anche il tedesco usa termi­ ni come Sache, Ding, che significano cosa. Qual è dunque il significato di questa parola ? qual è il senso della " cosa " ? Prima ancora di rispondere a questa domanda si deve ribadire che se il cam­ po del contadino è l'aprirsi di un senso che guida e stabilisce certe azioni, diverse da quelle stabili­ te dal bestiame o dal fiume, il senso che la " cosa " ha ed è in un certo tempo guida e stabilisce tutte le opere di quel tempo, giacché il campo, la don­ na, il fiume, gli dèi, la guerra, la pace e tutte le altre cose sono, appunto, " cose " . Allorché il sen­ so della " cosa " si apre in un certo modo, le azio­ ni del mangiare, del ripararsi dalle intemperie e dell'invocazione agli dèi non sono stabilite sem­ plicemente dall'apertura del senso del cibo, del­ l'abitazione e degli dèi, ma anche e innanzitutto dal modo in cui il senso della "cosa " si apre. Il senso che la " cosa " possiede è cioè presente nel modo in cui l'uomo mangia, genera, lavora e in­ voca. E se in un'epoca storica un nuovo senso si impone e porta al tramonto ogni altro senso del­ la " cosa " , l'intera esistenza umana di quell'epoca viene ad essere stabilita e guidata da questo nuo­ vo senso della "cosa " . Di fatto, che tale senso non 27 5

sia rimasto sempre eguale dacché l'uomo è appar­ so sulla terra sembra comprovato dalla stessa di­ versità strutturale delle parole che, nelle diverse lingue, indicano il senso della "cosa " : la diversità della struttura linguistica esprime la diversità del senso. Noi crediamo che il senso della " cosa" sia ov­ vio e scontato e che basti pronunciare la parola " cosa " per sapere in proposito tutto quanto c'è da sapere. Ma non è cosl. Intanto, la parola " co­ sa " è italiana. Deriva dal latino causa. Chi ha in­ cominciato a pronunciarla, sentiva la " cosa " co­ me una causa. Ma già la lingua latina usa un'altra parola res per designare la " cosa " e res allu­ de a un significato diverso da causa. Forse, de­ riva dal verbo latino reor, che significa ritenere, credere, e allora res significherebbe il " creduto " ; ma è più probabile che res risalga al sanscrito rayis, che significa ricchezza, e in questo caso res è sentita dal linguaggio come una ricchezza. E an­ cora ad altri sensi alludono le parole che nell'an­ tica lingua greca nominano ciò che noi chiamiamo una " cosa " (come diverso è il senso della parola " oggetto " - dal latino objectum, che propriamen­ te significa gettato incontro che prima abbiamo usato come sinonimo di cosa). E tuttavia la storia dell'Occidente è la pro­ gressiva dominazione di un unico senso della " co­ sa " , al quale oggi non sfugge più alcuna azione compiuta sul nostro pianeta. Qualche secolo pri­ ma di Cristo, la filosofia, in Grecia, ha portato alla luce un senso inusitato della " cosa " . Di esso non vi è traccia in alcun'altra civiltà a noi nota; e in esso, ancor oggi, ci muoviamo noi tutti. Co­ me il senso che il legno, i chiodi e il martello pos-

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seggono per l 'artigiano guida il suo lavoro, cosi il senso della " cosa " , che è stato portato alla luce dalla filosofia greca, guida e stabilisce quel mare sterminato di lavori e di opere che costituiscono la civiltà occidentale. Che pretesa si può avere di conoscere la civiltà in cui viviamo e la realtà che noi siamo, se quel senso ci sfugge ? Rimetterlo di­ nanzi agli occhi non è allora il compito decisivo? La forza suprema che oggi domina incontra­ stata sulla terra è l'azione scientifico-tecnologica. In essa si realizza il progetto di una produzione e distruzione senza limite della totalità delle cose. Di fronte alla capacità produttiva-distruttiva della tecnica vanno cadendo tutti i limiti che in passato, come inderogabili leggi, erano stati posti all'azio­ ne dell'uomo : la legge di Dio, la legge naturale, la legge morale. La tecnica oltrepassa ogni limite e diventa sempre più invenzione di un mondo nuovo che si libera dal vecchio : la capacità tecni­ ca di inventare il nuovo - la quale è ben altro dalla capacità di inventare nuove immagini del mondo è la stessa capacità di distruggere radi­ calmente il mondo vecchio. La civiltà della tecni­ ca non si limita più a produrre beni di consumo e strumenti di lavoro, ma si è già incamminata verso la produzione dell'uomo, della sua vita, cor­ po, sentimenti, rappresentazioni, ambiente, e del­ la sua felicità ultima. È all'interno di questo pro­ getto produttivo-distruttivo che si realizza ogni preoccupazione mirante a non rendere disuma­ na la civiltà della tecnica. L'umanesimo socia­ lista e l'ecologia non si propongono l'abolizio­ ne di quel progetto, ma la sua razionalizzazione più efficace e più rispondente ai valori ritenuti oggi irrinunciabili. E se il cristianesimo e le sue -

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Chiese hanno fede e speranza nell'incapacità del­ la tecnica di produrre il Regno di Dio sulla ter­ ra, riconoscono ormai, tuttavia, che lo stesso amo­ re cristiano fra i popoli è impossibile al di fuori deli'organizzazione scientifico-tecnologica dell'esi­ stenza. Ed ecco il punto sul quale il pensiero è chia­ mato a fermarsi. Il progetto tecnologico di produ­ zione-distruzione illimitata delle cose esige che la " cosa " sia un'assoluta disponibilità all'esser pro­ dotta e distrutta. In questo progetto la " cosa " non si presenta disponibile fino a un certo punto, ol­ tre il quale essa si rifiuti di lasciarsi maneggiare, ma come interamente disponibile. Ebbene, per la prima volta nella storia dell'uomo, è stata la me­ tafisica greca a portare alla luce il senso di questa assoluta disponibilità della " cosa " , nel momento stesso in cui ha legato il senso della " cosa " al­ l' essere e al niente. Da quel momento in poi, " co­ sa " è ciò che è disponibile all'essere e al niente. Questa pianta è; ma prima di nascere era un nien­ te (anche se qualcosa di essa preesisteva alla sua nascita) e tornerà ad essere un niente con la sua morte ( anche se qualcosa di essa continuerà ad es­ sere dopo la sua morte). Quando ancora è un niente, è disponibile all'essere; e, quando è, è dispo­ nibile al niente. La " cosa " non è semplicemente disponibile a nuove forme, colori , stati, incontri, ma alle due vie che si allontanano l'una dall'altra sino a raggiungere quella infinita distanza che è la lontananza dell'essere dal niente. Come disponibile all'essere e al niente la " co­ sa " è un'oscillazione infinita che percorre l'infini­ ta distanza che separa l'essere dal niente. In que­ sto senso essenziale, la "cosa " è la " preda " delle 278

forze divine ed umane che la conducono all'esse­ re e al niente. L'espressione originaria della vo­ lontà di potenza risale così al modo stesso in cui, all'inizio della storia dell'Occidente, la metafisica greca ha portato alla luce il senso della " cosa " . Esso è andato guidando e stabilendo regioni sem­ pre più ampie dell'esistenza dell'uomo occiden­ tale e sta ormai al fondamento di quegli stessi rapporti di produzione che per il marxismo de­ terminano le forme del pensiero e della cultura. La storia dell'Occidente è il progressivo im­ padronirsi delle cose, cioè il progressivo approfit­ tare della loro disponibilità assoluta e della loro infinita oscillazione tra l'essere e il niente. Il pro­ getto tecnologico della produzione-distruzione il­ limitata di tutte le cose scioglie ogni riserva ri­ spetto a quella disponibilità e in esso resta per­ tanto celebrato il trionfo della metafisica.

3 . IL S ENTIMENTO E IL DOMINIO DEL TEMPO Così un poeta rimpiange il fratello : « Ma di te, di te più non mi circondano / che sogni, bar­ lumi, l i fuochi senza fuoco del passato. l La me­ moria non svolge che le immagini l e a me stes­ so io stesso l non sono già più l che l'annientan­ te nulla del pensiero » . I " fuochi " del passato sono " senza fuoco " , perché a d essi manca ormai il calore della vita. " Barlumi " che si accendono nella memoria come fuochi fatui. Che ne è del calore della vita, cioè del fuoco reale di cui essi so n privi ? La risposta è esplicita : il passato - tutto, anche quello di me stesso - è un " nulla " , è ciò che è divenuto un nul-

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la. Del calore di un tempo son rimasti soltanto i fuochi senza fuoco della memoria. Il " nulla del pensiero " dell'ultimo verso è appunto " i fuochi senza fuoco " : la privazione del fuoco è il " nulla " cui il fuoco è ormai ridotto; e questo nulla è " del pensiero " , perché il " pensiero " e la " memoria " sono soltanto l"' immagine " del fuoco reale, " i fuochi senza fuoco " . M a nell'ultimo verso i l " nul­ la del pensiero " è detto " annientante " . Ciò non significa che pensiero e memoria siano essi ad an­ nientare la vita. Essi sono lo sguardo che accom­ pagna, guardandolo, l'annientamento della vita, e che è incapace di salvare dalla morte. Sono " il sentimento del tempo " : è il tempo che annienta, ma in quanto il sentimento del tempo è incapace di salvare dall 'annientamento, diviene esso stesso corresponsabile dell'annientamento e merita per­ tanto di essere detto " annientante " . Anche i poeti - tutti i poeti dell'Occidente parlano dell'annientamento del passato. Ne parla­ no in quell'unico modo in cui ormai ovunque se ne parla sulla terra e che incomincia con l'inizio della storia dell'Occidente . Ma se il " sentimento del tempo " assiste impotente alla creazione e al­ l'annientamento delle cose, in cui il tempo con­ siste, domina oggi sulla terra un sentimento del tempo che non è un semplice sguardo impotente, ma è la capacità più radicale che l'uomo abbia mai avuto di guidare e determinare la creazione e l'an­ nientamento delle cose. Questa capacità estrema è la tecnica. Quanto più cresce l'efficacia del mezzo, tanto più esso tende a diventare fine. Il mezzo è lo stru­ mento; per esempio, una vanga. Il fine è lo scopo, ossia ciò che si vuole realizzare servendosi di cer280

ti strumenti; per esempio dissodare il campo ser­ vendosi della vanga . Nella sua funzione originaria, anche il denaro è un mezzo : serve, nello scambio economico, a sostituire provvisoriamente le mer­ ci. Marx ha mostrato come nella società capita­ listica il processo di scambio venga rovesciato; perché invece di andare dalla merce, attraverso il denaro, alla merce, il processo va dal denaro, attraverso la merce, al denaro (cioè dalla quan­ tità di denaro investita dalla produzione della mer­ ce alla maggior quantità di denaro ricavato dalla vendita della merce ). In questo modo, da mezzo il denaro diventa fine. L'importanza di questo ro­ vesciamento della funzione del denaro è per Marx cosl rilevante da sollecitare l'analogia con il ro­ vesciamento della funzione originaria di Gesù, che, da " mediatore " (cioè tramite, mezzo, strumento) del rapporto tra l'uomo e Dio, è divenuto, nel cri­ stianesimo, lo scopo del processo religioso; da mezzo per la salvezza, salvezza. Ma se i grandi mediatori (Gesù, il denaro) sono divenuti scopo, nella storia della civiltà oc­ cidentale, essi tendono anche a tramontare in quanto scopi : la crisi del cristianesimo e del ca­ pitalismo sono la crisi di Gesù e del denaro in quanto scopi . Ma il cristianesimo e il capitalismo (e anche il marxismo) sono spinti al tramonto da ciò che è divenuto ormai lo strumento fondamentale del­ l'uomo. Uno strumento che possiede una potenza e un'efficacia che nessun altro strumento umano ha mai avuto. Uno strumento, quindi, che come nessun altro si è cosl radicalmente trasformato da mezzo in fine. Questo strumento decisivo, che è ormai divenuto lo scopo supremo dell'intera vita

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degli uomini sulla terra, è la tecnica, ossia quel sistema di capacità operative che si fonda sull'ap­ parato concettuale della scienza moderna . La ten­ denza dell'umanità è di credere sempre più nei miracoli della tecnica e sempre meno nei mira­ coli di Gesù o di un ordinamento economico-socia­ le fondato su una ideologia. La funzione originale della tecnica è di essere uno strumento di eccezionale efficacia per promuo­ vere un certo ordinamento economico-sociale. Ad esempio, i telai meccanici servono a rafforzare il capitalismo incipiente e dopo la rivoluzione d'Ot­ tobre le fabbriche russe servono a costruire la base economica del comunismo. Inizialmente, la tecnica è un mezzo che ha come scopo una ideo­ logia (borghese, socialista, cristiana). Ma, rapida­ mente, l 'efficacia e l'importanza di questo mezzo spingono le ideologie a organizzare la società in modo che lo sviluppo della tecnica sia ostacolato il meno possibile e il più possibile agevolata la sua applicazione alla risoluzione dei problemi eco­ nomico-sociali. Capitalismo e socialismo tendono così a ridurre a zero la distanza che li separa, per­ ché entrambi tendono ad adeguarsi alle esigenze dell'organizzazione tecnologica della società. La tecnica diviene così lo scopo dell 'ideologia. E poiché essa rimane anche il mezzo più potente, il destino delle ideologie è di dissolversi non solo come scopi, ma anche come mezzi. La tecnica è la capacità, scientificamente con­ trollata, di produrre e distruggere le cose. In li­ nea di principio, essa considera ormai la stessa totalità delle cose come producibile e distruggi­ bile mediante operazioni scientificamente controlla­ te. Al fondamento del progetto tecnologico del do282

minio di tutte le cose sta il senso che il pensiero greco ha assegnato alla " cosa " : proporsi la pro­ duzione-distruzione scientificamente controllata di tutte le cose significa innanzi tutto pensare la "cosa " come ente, ossia come ciò che può uscire e ritornare nel nulla. Il tempo è appunto questo uscire e ritornare nel nulla da parte delle cose. Solo in quanto la " cosa " è pensata come ente, cioè come essere nel tempo, è possibile il domi­ nio tecnico delle cose. La capacità tecnica di produrre e distruggere è infatti la capacità di gui­ dare le cose dal nulla all'essere e dall'essere al nulla. Proprio perché la tecnica da mezzo va diven­ tando scopo di tutto ciò che l'uomo oggi compie, proprio per questo il senso greco della " cosa " domina ormai su tutta la terra. Domina anche la poesia . Se la poesia dell'Oc­ cidente può essere soltanto sentimento del tem­ po, mentre la tecnica è la guida e il dominio del tempo, tuttavia il tempo è ciò che la poesia e la tecnica dell'Occidente hanno in comune. La pa­ rola " poesia " deriva dal greco poiesis, che signi­ fica produzione. La tecnica è la " poesia " cui l'Oc­ cidente è destinato. La " poesia " delle parole è destinata ad essere oltrepassata dalla " poesia " del­ le cose. Ma, ancora una volta, crediamo forse di sapere quale sia il senso autentico della poiesis? 4. l L SEGRETO DELLA FOLLIA «

Avevo circa dodici anni, e per raggiungere

il negozio di mio padre dovevo attraversare un

grande parco. La lunga camminata mi faceva un 283

po' paura, specie quando cominciava a far buio, e per passare il tempo inventai un gioco. Lei sa che da bambini si contano le pietre e si salta da una pietra all'altra evitando le fessure: il mio gioco era una cosa di questo genere . Mi venne in mente che, se avessi guardato a lungo e intensa­ mente il paesaggio, mi sarei confusa con esso fi­ no a sparire, cioè il posto sarebbe rimasto vuoto e io non ci sarei più stata : come quando ci si por­ ta a non saper più chi si è né dove ci si trova . Insomma si arriva a confondersi completamente con l'ambiente. Allora viene anche un po' di spa­ vento, perché si comincia a sentirsi così anche quando non si vuole. Io andavo avanti e sentivo che mi ero confusa con il paesaggio, allora mi spaventavo e mi chiamavo per nome tante volte, come per farmi tornare. » Sono parole scritte da una donna affetta da lungo tempo da una grave forma di schizofrenia e riportate dal R.D. Laing nel suo Studio di psichiatria esistenziale) del 1 959. In esse, la malata indica con grande chiarezza la forma iniziale in cui si è manifestata la sua ma­ lattia e insieme l'essenza di questa. Il gioco, fat­ to all'inizio volontariamente, sfugge al controllo della volontà ( « si comincia a sentirsi così anche quando non si vuole ») e diventa la prigione da cui il malato non sa più evadere. Il gioco consi­ ste nel fingere di " sparire ", di lasciar 1' vuoto " il posto che si occupa sulla terra, " confondendosi " con quanto sta all'intorno; consiste nel fingere di non esserci più ( « e io non ci sarei più stata » ) . Poi il gioco diventa una cosa seria : la bambina del parco finisce col convincersi di " confondersi completamente " col mondo circostante e di 1'non esserci più " . Ma quando questo le accade si fa 284

anche innanzi l'angoscia per il niente che essa si vede diventata. « Allora mi chiamo per nome tan­ te volte, come per farmi tornare. » La bambina del parco diventa una psicotica irrecuperabile quando, nonostante ogni sforzo, non riesce più a " farsi tornare " nell'esistenza e rimane laggiù nel niente. Di essa è rimasto soltanto un nome che non risponde. Non si tratta di un caso isolato. Le analisi psicologiche e psichiatriche registrano un gran numero di casi, nei quali il malato è convinto di " non esserci più ", come la bambina del parco, o di non essere mai stato ( sin dall'infanzia, i geni­ tori " lo trattavano come se non ci fosse " ), o di non essere se stesso, ma un'altra persona, o una cosa - pietra, fuoco, legno, suppellettile. Anche nei casi in cui il malato si identifica ad altro (per­ sona o oggetto ), egli ha ridotto se stesso a un niente. Agli inizi del secolo, Pierre Janet ha in­ dividuato la caratteristica delle nevrosi nella per­ dita della fonction du réel e poco dopo Freud scriveva che « il nevrotico si distoglie dalla real­ tà perché la trova - nel suo insieme o in una sua parte - insopportabile. Il caso limite di questo allontanamento dalla realtà ci è offerto da alcune forme di psicosi allucinatoria, nelle quali deve venir negato proprio l'episodio che ha provocato la malattia mentale . Ma effettivamente ogni ne­ vrotico fa altrettanto con un pezzetto della real­ tà » . " Distogliersi " dalla realtà, " allontanarsene " " negarla " significa appunto ritenere un niente se stessi o una parte di se stessi o una parte del mon­ do esterno. Negli ultimi decenni la crescente importanza della psicoanalisi è stata anche accompagnata dal-

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la tendenza a scoprire l'origine delle malattie men­ tali in qualcosa di più profondo delle pulsioni sessuali e del meccanismo dell'inconscio freudia­ ni. A proposito di un caso tipico di agorafobia di una giovane signora, che si crederebbe di poter spiegare con i parametri interpretativi della psi­ coanalisi, Laing rileva che l'aspetto sessuale del problema è una conseguenza dell'aspetto " esisten­ ziale " : le fantasie inconsce della malata (incesto) non spiegano l'angoscia che essa prova quando si trova fuori di casa (essa dice che per strada « non s 'incontra mai qualcuno che ti riconosca ; nessuno sa chi sei ; nessuno si cura di te » ; e quando capita di sentirsi male « a nessuno importa un bel niente » confessa cioè che si trova ridot­ ta ad essere un niente). Le fantasie inconsce di incesto, scrive Laing, sono « una difesa contro la paura di essere sola », « uno sforzo non già per ottenere la soddisfazione, ma anzitutto per cer­ care la sicurezza antologica. Per lei la sessua­ lità era come un appiglio al quale aggrapparsi. Non era frigida, poteva trovare soddisfazione fi­ sica nell'orgasmo se in quel momento si sentiva sicura nel senso antologico primario » . Il centro della vita di questi malati non è il loro rapporto con la libido, ma la loro " insicurezza antologica " . Per la bambina, il silenzio del parco è pauroso perché è una minaccia estrema alla sua esistenza. È così insicura del proprio esistere che il parco di sera acquista per lei il senso di una minaccia estrema. Per difendere la propria esistenza, la bambina si riduce a un niente (perché essendo ta­ -

le, nulla e nessuno possono minacdarla). Anche la giovane signora è cosl insicura della propria esi­ stenza che lo sguardo indifferente dei passanti la .286

riducono a un niente, come la bambina si sente annientare dallo sguardo silenzioso del parco. In questa prospettiva, la contrapposizione tra­ dizionale tra il mondo dei sani ( dei " normali " ) e il mondo dei folli e degli anormali tende a scom­ parire. Perché, da un lato l'insicurezza antologica non può essere considerata un " errore " rispetto alla " sicurezza antologica ", ossia all'atteggiamento di chi si sente esistente e ben distinto dalle altre persone e dal mondo circostante ; dall'altro lato, nella " insicurezza antologica " dello schizofrenico si rispecchia nel modo più adeguato e più lucido ciò che l'uomo è effettivamente divenuto nella realtà storica contemporanea. Al fondamento del grande lavoro analitico di Marx c'è la persuasio­ ne che nella società capitalistica l'uomo è diven­ tato una cosa. La parola " cosa " è usata qui da Marx in contrapposizione al concetto di persona, di soggettività vivente. L'uomo è diventato una cosa perché non è più altro che un ingranaggio della macchina economico-produttiva. Facendolo diventare una cosa i l sistema sociale dominante an­ nienta pertanto 1 'uomo (cioè lo considera e lo trat­ ta come un niente) . Ed è questo stesso sistema sociale a considerare pazza la bambina del parco che annienta se stessa (cioè si considera un nien­ te ) e che quindi rispecchia e riproduce in se stes­ sa il tratto fondamentale della società che la con­ danna. Sì, fino a questo ordine di considerazioni oggi molto di moda - può giungere la " psichia­ tria esistenziale " e tutti gli sfruttamenti che in sede psicologica sono stati effettuati dell'analisi marxiana della società capitalistica. Ma questi ri­ sultati sottintendono che la denuncia della follia

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del mondo " normale " in cui viviamo sia riuscita, essa, a sottrarsi a questa follia. Sottintende cioè che il pensiero che critica !'" alienazione " della società capitalistica non sia un atteggiamento che, a sua volta, conduce all'annientamento dell'uomo. Ma che valore ha questo sottinteso? Per Marx il capitalismo annienta l'uomo per­ ché lo riduce a cosa. Ciò non significa che l'uomo non sia un qualcosa e che sia uomo soltanto se è un niente : all'opposto , è proprio perché l'uma­ nità dell'uomo è qualcosa di specifico che essa può trovarsi annientata nell'alienazione capitali­ stica che la riduce a " semplice cosa " , ossia a un qualcosa di meccanico e di impersonale . Ma oltre a questo significato depotenziato della parola " co­ sa " (intesa cioè come " semplice cosa " ) , ce n'è un altro più ampio - di cui si è parlato nelle pa­ gine precedenti - che indica appunto ogni cosa, e quindi anche l'uomo; e che è presente anche ne] discorso di Marx quando egli vuole indicare ciò che vi è di comune ali 'uomo e alle " semplici " co­ se. Per tutta la nostra cultura questo più ampio significato - che è stato portato alla luce una vol­ ta per tutte dal pensiero greco - è indiscutibile e del tutto evidente . Nessuno - nemmeno coloro che accusano la società dei " normali " di essere affetta da quella stessa pazzia che essa combatte negli " anormali " - nessuno sospetta che proprio in questo significato assolutamente indiscutibile ed evidente della " cosa " abbia a celarsi il senso autentico e l'origine della follia estrema che ormai domina sulla terra e ha ridotto a un niente tutte le cose. Nessuno sospetta, infine, che il mondo del­ la follia psichica rispecchia ed esprime, in modo rigorosamente fedele, la follia estrema, cioè il 288

pensiero essenziale in cui si muove l'intera civiltà dell'Occidente, e quindi l'intera civiltà terrestre (visto che ormai, la civiltà occidentale domina su tutta la terra). Qual è il pensiero essenziale dell'Occidente? Pensiero essenziale di un'epoca storica è quello che guida tutte le opere e le azioni che in tale epoca vengono compiute. Ma come può un pen­ siero avere la forza di raccogliere presso di sé, per guidarla, l'infinita ricchezza di eventi che co­ stituiscono la vita e il contenuto di un'epoca sto­ rica? Può farlo, solo se in esso viene pensato ciò che gli eventi, per quanto diversi, hanno di identico. Ebbene, qual è il pensiero essenziale dell'Oc­ cidente? Se anche qui vogliamo tentare di formu­ lar subito una risposta, possiamo dire che è il pensiero che ha finito con l'esser presente in tut­ to ciò che la civiltà occidentale pensa, e che dun­ que ha finito col guidare l'intera storia della ter­ ra. Da che sono guidati oggi i popoli della terra? Ci sembra proprio così inutile saperlo ? Sì, alla cultura occidentale sembra proprio inutile saper­ lo. Ma non potrebbe darsi che questo atteggia­ mento della nostra cultura fosse esso stesso una conseguenza inevitabilmente determinata dalla forza che oggi guida la terra? Ancora: viviamo in un tempo dove quasi tutti credono di avvertire la differenza tra l'essenziale e il superfluo, la finzione, l'accademia culturale. La gente crede di avere l'acqua alla gola e avverte con insofferenza la vacuità e l'inutilità di tutto ciò che non serve a ridurre il livello dell'acqua. E non è allora inutile accademia domandarsi da che sono guidati oggi i popoli della terra? Non ci so-

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no problemi più immediati e concreti da risolve­ re? Ma, daccapo, questo atteggiamento concreto e disperato della gente, questa insofferenza acuta per le teorie e i verbalismi non potrebbero essere essi stessi una conseguenza inevitabilmente de­ terminata dalla forza che ormai guida la nostra storia? Vogliamo chiudere gli occhi per non ve­ dere dove siamo ? Noi viviamo pur sempre tra le " cose " . Qual­ che secolo prima di Cristo, il pensiero greco ha portato alla luce una volta per tutte il senso che la parola " cosa " ha per tu tti noi e, ormai, per tutti i popoli della terra. Anche Cristo viene al mondo all'interno di questo senso, e all'interno di questo senso egli vive, predica, muore. Un poco alla volta, tutti i grandi eventi della civiltà occi­ dentale si radunano presso il senso greco della " cosa " : la fìlosofìa, il cristianesimo, le strutture politiche, giuridiche, economiche, le leggi morali, l'arte, le lotte di classe, la scienza moderna, la formazione delle lingue nazionali, le rivoluzioni della borghesia e del proletariato, lo scontro tra capitalismo e socialismo, le scienze storico-socia­ li e le stesse critiche più radicali e più disparate rivolte alla cultura greca, l'ateismo e l'anticristia­ nesimo, la società dei consumi, gli stessi movi­ menti di contestazione della società del benessere e della civiltà tecnologica. Su tutta la terra domi­ na ormai il senso che i Greci hanno assegnato al­ la "cosa " , e quindi questo senso guida, determina e configura tutte le opere e le azioni che oggi ven­ gono compiute dagli uomini e dalle società. Esso è il pensiero essenziale dell'Occidente. Se ogni evento si compie ormai sotto la sua guida, è ine­ vitabile che esso ci appaia come il più ovvio di 290

tutti i pensieri, come il più " naturale " e indiscu­ tibile. Ascoltiamolo. Le cose sono. Ossia una cosa è ciò di cui si può dire : " è " . Un abete è; un artigiano è; un ta­ volo è; una città è; la guerra è; la gioia è. Ognu­ no di essi è una cosa, appunto perché è. Ma non basta. Ognuno di essi, anche, non è. Prima di spuntare, l'abete non era, e, quando il taglialegna lo abbatte e lo fa a pezzi, non è più. E cosl l'ar­ tigiano, il tavolo, la città, la guerra, la gioia: pri­ ma di nascere, o di essere prodotti, costruiti, o prima di accadere non erano; e non sono più quando muoiono, vanno distrutti, cessano. Una cosa è ciò che " è " ( quando è ) e che insieme " non è " ( quando ancora non è e quando non è più). Appunto per questo - già si è visto - una cosa è un esser disponibile all'essere e al non essere . Ed è appunto per questa disponibiltà che le cose na­ scono e muoiono. Anzi, questa disponibilità espri­ me il senso stesso del loro nascere e morire . I Greci hanno chiamato 6n ( ens, ente) la " cosa ", così pensata. E Dio? Non è forse Dio un ente eterno, che non nasce e non muore ? Non è questo il concet­ to fondamentale di Dio che, elaborato dalla filo­ sofia greca, è stato poi raccolto dal cristianesimo? E come si può dire, allora, che Dio sia qualcosa di disponibile all'essere e al non essere? Questa osservazione non è falsa. Tuttavia, quando la teo­ logia greco-cristiana afferma che Dio è eterno, lo afferma non già perché considera che Dio è un ente, ma perché concepisce Dio come un certo ente, che è eterno per le sue caratteristiche del tutto peculiari e non già per il fatto di essere un ente. Se di Dio essa guarda semplicemente il suo

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essere un ente, anche Dio si presenta come qual­ cosa che è disponibile all'essere e al non essere, che nasce e che muore. Di ogni cosa, dunque, se si considera semplicemente il suo essere un ente, si deve dire - secondo il pensiero occidentale che è una disponibilità all'essere e al non essere. Ma, poi, chi crede più in Dio? Le cose che l'Oc­ cidente riconosce come esistenti sono le cose che abbiamo sotto gli occhi, le quali tutte mostrano appunto di essere e di non essere, di nascere e di morire, cioè di uscire dal nulla, di indugiare un poco nell'essere, e di ritornare nel nulla. Che cosa c'è di più ovvio, di più " naturale " e indiscutibile di tutto questo? Eppure si è det­ to sopra che il mondo della follia psichica, dal qua­ le tutte le persone e le società " normali " si sen­ tono cosl estranee, è il rispecchiamento e l'espres­ sione più fedele del pensiero essenziale in cui si muove l'Occidente . Si è detto cioè che il mondo della follia è rispecchiamento fedele di ciò che a tutti sembra il più ovvio, il più naturale, il più indiscutibile dei pensieri: quello che abbiamo chiama to il senso greco della " cosa " . Ma come ci si può arrischiare ad un'afferma­ zione di questo genere? Non è proprio questa af­ fermazione ad essere una follia? E, poi, da chi è pronunziata questa affermazione? non è forse pro­ nunziata da un individuo, da uno come tutti gli altri, da un professore di filosofia? Perché per­ dere ancora del tempo con queste cose? non è forse meglio ascoltare gli intellettuali che lavora­ no per l 'emancipazione della classe operaia, o per l'incremento del capitale, o per la salvezza del­ l'anima - tutte... cose più concrete? L'esistenza delle nevrosi determina vaste ri292

percussioni nella configurazione degli ordinamen­ ti sociali e nel comportamento degli individui psi­ chicamente normali. Ma quale diventerebbe l'am­ piezza di quelle ripercussioni, se si riuscisse a scoprire che la nientificazione delle cose - l'esser persuasi che esse siano un niente e il viverle co­ me un niente - non è circoscritta, nella storia del­ l'uomo, alle nevrosi individuali e non è nemmeno riducibile all'ambito in relazione al quale la psi­ cologia effettua le sue diagnosi e predispone le terapie? Che senso avrebbe il mondo in cui vivia­ mo se la nientificazione delle cose non fosse sem­ plicemente la caratteristica delle nevrosi, ma co­ stituisse l'essenza dominatrice e il pensiero es­ senziale di un'intera epoca storica, l'orizzonte al­ l'interno del quale si sviluppa la totalità storica di ciò che chiamiamo civiltà occidentale?

5. NrcHILI SMO Nel libro primo del Capitale, Marx parla della « condizione naturale eterna della vita umana » . Co­ me condizione eterna è « indipendente » dai modi specifici in cui storicamente l'uomo vive, e quindi « è comune egualmente a tutte le forme di socie­ tà della vita umana », alle forme precapitalistiche, come a quelle della società capitalistica e comuni­ sta. Questa « condizione eterna » è il lavoro uma­ no come « lavoro utile », cioè come lavoro che produce le cose indispensabili alla vita dell'uomo : il cibo, l'abitazione, il vestiario, gli strumenti da lavoro. Da un lato il lavoro così inteso è l'« atti­ vità produttiva » che conferisce « esistenza » alle cose che servono all'qomo; dall'altro lato questa

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attività è « condizione d'esistenza dell'uomo » , perché l'uomo non può vivere se non mangia, non si ripara dall'inclemenza del tempo, non si difende con le sue armi. Ma per Marx « il procedimento dell'uomo nella sua produzione può essere soltanto quello stesso della natura: cioè semplice cambiamento delle forme dei materiali » . Ciò vuoi dire che il lavoro, che è condizione dell'esistenza dell'uomo e delle cose di cui egli necessita, non è « creato­ re » , ma « trasformatore » . Se da un prodotto del lavoro umano - per esempio una casa - si de­ trae tutto ciò che è effetto del lavoro, « rimane sempre un substrato materiale, che è dato per na­ tura, senza contributo dell'uomo » : rimangono il suolo, le pietre, l'argilla, il legno. Il lavoro uma­ no non « crea » questi materiali, ma « cambia » la loro forma e li unifica in un certo modo « con­ forme allo scopo » che l'uomo si prefigge quando, appunto, decide di costruirsi una casa. In tutte queste considerazioni di Marx il nostro comune modo di pensare si trova completamente a proprio agio. Non solo, ma queste stesse consi­ derazioni si possono ritrovare in forma pressoché identica risalendo molto indietro nella storia della cultura occidentale. Sono presenti in Platone e in Aristotele e compaiono sin dagli inizi della cultura cristiana. Per quest'ultima, infatti, solo Dio è crea­ tore della natura ; e il lavoro dell'uomo si limita a trasformarla. Per la cultura cristiana, il torto dei Greci - che dunque è insieme il torto del marxi­ smo - non consiste nel ritenere che l'uomo sia tra­ sformatore dei materiali che gli sono dati per natu­ ra, ma nell'ignorare che al di sopra dell'attività tra­ sformatrice (alla quale i Greci riportano anche l'a29 4

zione divina nel mondo ) esiste l'attività creatrice del " vero Dio " . I Greci, si dice, ignorano il con­ cetto di " creazione " . Così come lo ignora Marx. Ma che cosa accade quando l'uomo si costrui­ sce una casa? Marx scrive che « la terra esiste già senza il contributo dell'uomo » : suolo, pietre, ar­ gilla, legno esistono già, indipendentemente dal la­ voro umano. Tuttavia il lavoro dà a questi mate­ riali una nuova forma: li trasforma e li unisce in modo tale da produrre una casa. Questa nuova for­ ma dei materiali, in cui consiste la casa costruita, a differenza della terra esiste solamente in virtù del lavoro umano. Senza questo lavoro non esiste­ rebbe. Senza questo lavoro la forma nuova - cioè la casa in quanto casa (la casa, considerata come unità dei materiali preesistenti) sarebbe un nien­ te. Dire che qualcosa non esiste significa dire in­ fatti che, nella misura in cui non esiste, è un nien­ te. È vero che, nella misura in cui la casa è compo­ sta da materiali preesistenti, l'assenza del lavoro non determina l'inesistenza, ossia la nientità di quei materiali, ma se si considera la nuova forma che essi vengono ad acquistare allorché il lavoro li uni­ fica in quella unità che chiamiamo casa, allora si de­ ve dire - e Marx in effetti viene a dire - che senza il lavoro umano, questa forma nuova non esistereb­ be, ossia la casa, come tale, rimarrebbe un niente. Se il lavoro umano "produce " - per esempio una casa -, è impossibile che tutto ciò che costitui­ sce il prodotto sia preesistente: se oltre alle pietre, al legno, all'argilla, se oltre al progetto che l'uomo ha in mente prima di costruire la casa preesistesse anche la nuova forma che i materiali assumono nel­ la casa costruita, il lavoro umano non produrrebbe nulla. Se produce, è necessario che qualcosa del pro-

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dotto - almeno la " forma nuova " - sia stato un niente prima di essere prodotto e che il lavoro pro­ duttivo · sia la condizione che conduce il prodotto dal non-essere all'essere. Ancora nel libro primo del Capitale Marx scri­ ve che il lavoro « evoca le cose dal regno dei mor­ ti », cioè dal regno del niente. Questa evocazione è espressa nel modo più rigoroso nel Convito di Platone: « Ogni causa che faccia passare una qual­ siasi cosa dal niente all'essere è produzione [ poie­ sis 1, cosicché sono produzioni anche i lavori che vengono compiuti nell'ambito di ogni tecnica, e quindi anche tutti i lavoratori [ demiourgoi 1 sono produttori » . La parola greca demiourg6s, che viene solitamente tradotta col termine demiurgo è com­ posta dalle parole démios ( aggettivazione di démos, popolo, pubblico) e érgon (lavoro, opera ). Demiour­ g6s è colui che rende pubblico, popolare, ogget­ tivo il proprio lavoro ; e per Marx il lavoratore è appunto l'oggettivarsi dell'uomo, cioè l'uomo rea­ le e concreto che si esprime e si realizza nelle pro­ pne opere. Il lavoratore evoca le cose dal regno del nien­ te, mediante una produzione tecnica. Per Pla­ tone la " teénica divina " (th eia téchne) produce facendo passare dal niente all'essere i materiali naturali che esistono " senza il contributo dell'uo­ mo " - e svolge quindi la funzione che Marx at­ tribuisce alla natura. La " tecnica umana " (anthro­ pine téchne) produce trasformando i materiali preesistenti e cioè facendo passare dal niente al­ l'essere la nuova forma che essi vengono ad assu­ mere. La storia dell'Occidente è la storia della tec­ nica. Per la cultura greco-cristiana Dio è il tecnico supremo ; per la cultura moderna il tecnico supre-

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mo - che ormai progetta la produzione e la di­ struzione della totalità delle cose è l'Uomo. Ma in entrambi i casi le cose sono sottoposte a una dominazione illimitata che decide la loro appar­ tenenza al regno dei morti o al regno dei vivi. Nonostante l'arretratezza delle possibilità tecno­ logiche del mondo antico, la teologia occidentale possiede sin dall'inizio tutti i tratti essenziali del­ la civiltà della tecnica; e nonostante il rifiuto più radicale di Dio, operato da questa civiltà, la tec­ nica contemporanea mantiene il carattere teologi­ co delle origini. Nell'essenza tecnica di Dio e nell'essenza teo­ logica della tecnica il nichilismo ( dal latino nihil, niente) trova la sua espressione più radicale. Le cose - la terra, il cielo, le stelle, le piante, gli uomini, le case - sono un niente? Gli abitato­ ri dell'Occidente sono convinti che non valga nemmeno la pena di rispondere a questa doman­ da. Ma proporsi di strappare o di restituire le cose al regno del niente non significa pensare che le cose siano un niente? e non significa viverle come un niente? E il nichilismo non è appunto questo pensare e questo vivere? La ci­ viltà in cui viviamo è incapace di tenersi dinanzi il senso autentico di queste domande . Non inten­ de distrarsi dalla vertigine della produzione e del­ la distruzione . Da questa vertigine è completamen­ te presa la cultura di moda, proprio quando criti­ ca la " civiltà della tecnica " e la " produzione " , sen­ za sospettare che cosa si nasconda nella tecnica e nel produrre. -

Le pagine scritte fino a questo punto hanno contratto un debito, la cui estinzione è opportuno

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non differire ulteriormente. Esse stanno richia­ mando un pensiero fondamentale, che unifica tutti gli argomenti di volta in volta accostati in questo libro. Eccolo: la storia della nostra civiità è la storia della follia estrema. Si badi : non " di una " , ma " della " follia estrema. Si può usare anche la parola " alienazione " e dire che la storia della no­ stra civiltà è la storia dell'alienazione essenziale. Certo, il significato concreto e il valore di queste affermazioni non potrà mai essere ridotto alla di­ mensione in cui questo libro intende mantenersi. Il pensiero ha il difetto di essere difficile. Tutta­ via, alcuni dei maggiori equivoci possono venire chiariti o almeno ridotti anche in questa sede. Di­ cendo innanzitutto che quell'identificazione tra storia della nostra civiltà e storia dell'alienazione essenziale non ha nulla a che vedere con espres­ sioni simili, presenti nella nostra cultura e persi­ no divenute di moda. Nulla a che vedere. Appun­ to perché il fondamento di tutta la cultura con­ temporanea, il luogo dove essa abita ( e in cui è cresciuta l'intera civiltà occidentale) è il modo in cui i Greci hanno pensato e vissuto l'" esser cosa " delle cose, ossia il senso da essi assegnato alla " co­ sa " ; mentre è proprio questo senso che nelle pa­ gine di questo libro vien posto come la follia estrema e l'alienazione essenziale della nostra sto­ ria. Ma con quale diritto si può avanzare un'affer­ mazione così grave e smisurata, un'affermazione che - identificando la follia estrema con tutto ciò che noi siamo abituati a considerare come quanto vi è di più prezioso, nobile, insostituibile, valido nell'esistenza dell'uomo - corre il rischio ben rea­ le di apparire proprio essa come estrema follia e 293

irresponsabilità? Il non avere ancora indicato in quale direzione sia rintracciabile la risposta a que­ sta domanda, costituisce il debito che queste pa­ gine hanno contratto verso il lettore. Qui, non si tratta tuttavia di rispondere a quella domanda - la risposta esige un tipo di colloquio diverso da quello che in questa sede può essere avviato -: si tratta invece di indicare in quale direzione, appun­ to, ci si debba volgere per intravedere il luogo abitato dalla risposta. Ognuno di noi è convinto di avere un passa­ to . Orbene, qualcosa del passato rimane ancora. Ad esempio ne rimangono le conseguenze, gli ef­ fetti, gli strascichi, i rimpianti. E rimane ciò che è conservato nella memoria. Ma, del passato, rimane tutto? Che accadrebbe se rimanesse tutto? Questo : che non sarebbe passato nulla. Rimangono le co­ se che non passano. Se tutto il passato rimanesse, non sarebbe passato nemmeno un sospiro, tutto sarebbe qui presente. Ma noi siamo convinti che le cose passano e dunque che qualcosa del passato non rimane. An­ che se conseguenze, effetti, strascichi, rimpianti del passato rimangono, anche se rimane ciò che vien conservato nella memoria, tuttavia per noi è inevitabile che qualcosa del passato non rimanga. Che cosa non rimane? Sono sentimenti, vi­ sioni, sensazioni, pensieri, corpi, colori, suoni, fi­ gure. Silvia è passata: « Ahi, come, l Come pas­ sata sei . . ! ». Che cosa non è rimasto di Silvia? Non è rimasto « Quel tempo della tua vita mor­ tale, l Quando beltà splendea l Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi » . Questo " tempo " , tuttavia, .

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è ben lontano dall'essere un niente; è riempito dallo splendore di una giovane vita e ne trabocca. Il tempo di Silvia ha un significato che a nessuno viene in mente di identificare al significato espres­ so dalla parola " niente " . Ma questo non-niente traboccante di vita non è rimasto : Silvia è passata. Questa è la convinzione del poeta. Ed è anche la convinzione di tutti noi, che ci lasciamo indietro il nostro passato. Ed è convinzione nostra e del poeta (e di ogni poeta dell'Occidente), perché è la convinzione fondamentale in cui cresce la sto­ ria della nostra civiltà. Ciò che del passato non rimane è un non-nien­ te : ad esempio, è il non-niente traboccante della giovane vita di Silvia. Cioè è di un non-niente che noi diciamo : « È passato, non è rimasto » . Ossia è di un ente che noi diciamo questo. E proprio perché lo diciamo di un ente, noi possiamo rim­ piangere che esso sia passato e non sia rimasto. Se lo dicessimo di un niente, non avremmo niente da rimpiangere. " Non è rimasto " . Che significato ha questa espressione? Ancora una volta, il significato di que­ sta espressione è antico come la nostra civiltà. Per tutti noi , abitatori dell'Occidente, dire che qual­ cosa del passato non è rimasto significa che " non esiste più " , ossia " è divenuto un niente " , e quin­ di significa che, ormai, è un niente. Noi parliamo dell'essere e del niente nel modo in cui, una volta per tutte, ne ha parlato l'ontologia greca. È in questo parlarne che emerge quel senso della " co­ s a " , all'interno del quale cresce la storia dell'Oc­ cidente. Gli abitatori dell'Occidente sono dunque con­ vinti: l) che qualcosa del passato non rimane; 2 )

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che il qualcosa che non rimane è un non-niente (e infatti anche il linguaggio non dice " un niente non rimane ", ma dice " qualcosa non rimane " ) ; 3 ) che il non rimanere è u n diventare u n niente. L'Occidente è la persuasione che qualcosa, passan­ do, diventa un niente. Diventare un niente signi­ fica che, a un certo punto, si è niente. La persua­ sione che qualcosa diventa un niente è la persua­ sione che il non-niente è niente, ossia è la persua­ sione che l'ente è niente. E " ente " non è un ter­ mine astratto, ma nomina appunto quei sentimen­ ti, visioni, sensazioni, pensieri, corpi, figure, co­ lori, suoni, eventi, situazioni, di cui gli abitatori dell'Occidente dicono : " sono passati ; non sono rimasti " . E, dicendo questo, dicono " sono - essi che non sono un niente - un niente " . La persuasione che l'ente sia niente è il nichi­ lismo. Il nichilismo è la follia estrema, l'alienazio­ ne essenziale in cui cresce la storia dell'Occidente . L'estrema follia è la persuasione che le cose ( os­ sia i non-niente) nascono e muoiono, sono pro­ dotte e distrutte, fabbricate e consumate, create e annientate. " Dio " , la " natura " , la " prassi uma­ na ", la " tecnica " sono l'espressione di questa fol­ lia estrema: essi infatti sono pensati come le for­ ze che conducono le cose al di fuori del niente e le riconducono nel niente. Essi sono le forme della poiesis. È all'interno di questa follia che anche il cristianesimo e, poi, il marxismo hanno preso significato. Ecco dunque il punto : di qualcosa (un'om­ bra, un dio) diciamo che nasce e muore? ossia che è prodotto, fabbricato, creato e che è distrutto, consumato, annientato? Ebbene, questo significa che tale qualcosa, prima di nascere e dopo il suo

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morire non esiste; cioè è niente : questo significa che l'ente è niente. L'Occidente pensa e vive le cose come un niente : non si limita a teorizzare la nientità delle cose, ma vive la nientità delle cose. Il nichilismo non è più un semplice modo di pensare astratto, una filosofia che rimane nella mente di qualche uomo; ma è divenuto la stoffa della nostra esistenza, l'atmosfera in cui respiriamo, la vena dove scorre il nostro sangue. Dicendo che esso è la follia estre­ ma e l'alienazione essenziale, non si intende at­ tribuire alla parole " follia " e " alienazione" un senso psichiatrico o psicoanalitico, ma un senso abissalmente più radicale. Più radicale ancora di ciò che la coscienza cristiana chiama " peccato ori­ ginale " e la coscienza marxista chiama " alienazio­ ne economica " . Il peccato originale e l'alienazio­ ne economica non sono la vera alienazione, ma i mi ti dell'alienazione (circondati da infiniti altri miti ). La vera alienazione è l'alienazione della ve­ rità. Ma che sanno i miti della verità? Ma se il nichilismo come alienazione essenzia­ le dell'Occidente è qualcosa di infinitamente più radicale della alienazione in senso psicologico-men­ tale, non si deve dunque dire che nella follia psi­ chica - dove il malato mentale tratta le cose, cioè gli enti, come un niente - diventa esplicito il nichi­ lismo, ossia ciò che agli abitatori dell'Occidente appare come il supremamente evidente e il supre­ mamente " normale " - cioè il senso greco della " cosa " ?

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6 . LA

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RIMOZIO:-.IE

»

Cosa diremmo di un uomo che abbracciando la sua donna e avendo vista udito tatto in condi­ zioni visibilmente normali fosse convinto non solo di non avere una donna, ma di non aver niente tra le braccia e fosse dunque convinto che il suo non è un abbracciare e che le sue stesse braccia sono un niente ? Diremmo tutti che è un folle. Se poi costui fosse convinto che non solo la sua donna, ma anche il suo corpo e i suoi sentimenti e la ca­ sa in cui vive, il cielo, gli alberi , il sole e tutte le cose fossero un niente, allora più che rabbrividire per questo vertice di follia, incominceremmo a so­ spettare della verosimiglianza del caso e saremmo piuttosto inclini a ritenere che questa totale nien­ tificazione sia in realtà una menzogna, un trucco. La follia avrebbe raggiunto un'intensità tale da far­ ci dubitare della veridicità dei sintomi, sulla cui base dovremmo essere condotti al riconoscimento dell'esistenza di una così sconfinata aberrazione. Il dubbio o il sospetto di trovarci di fronte ad una simulazione diventerebbe certezza se ci assi­ curassero che non solo un individuo umano, ma moltissimi altri e anzi tutti gli uomini che sono vissuti e tuttora vivono nella nostra civiltà vivono con la persuasione che tutte le cose del mondo siano un niente e si comportano conformemente a questa persuasione. Saremmo tutti d'accordo nel dichiarare che chi pretende convincerci dell'esi­ stenza di questa follia estrema e totale è proprio lui l'estremamente e il totalmente folle. Ma la tesi di fondo che queste pagine inten­ dono in vari modi portare alla luce è che la sto­ ria dell'Occidente è la storia del nichilismo, ossia 303

dell'atteggiamento ave di tutte le cose si è appun­ to persuasi che siano un niente e ave tutte sono vissute come un niente. Storia del nichilismo signi­ fica progressiva dominazione di questo atteggia­ mento in tutti gli aspetti della civiltà e trionfo di esso nel modo in cui oggi la civiltà si realizza, ossia nella civiltà della tecnica . Storia del nichilismo si­ gnifica che l'orizzonte in cui crescono i popoli, le lo­ ro istituzioni politiche ed economiche, il cristianesi­ mo e le sue ripercussioni sull'esistenza, la scienza moderna e la tecnica, l'arte e la filosofia - tale oriz­ zonte avvolge in una estrema e totale follia tutto ciò in cui ravvisiamo i supremi valori della nostra esistenza. E allora sembra proprio inevitabile che sia quella tesi di fondo (e tutti gli scritti che inten­ dono delucidarla) a dover essere considerata, pro­ prio essa, come una forma estrema e inguaribile di follia. D'altronde è capitato che fossero in mol­ ti a convincersi e a rimanere tuttora convinti che il gran porco fosse proprio Freud, lui che preten­ deva di trovare . le peggiori porcherie nel fondo dell'animo di ogni uomo. Anche sua moglie si sa­ rebbe lasciata prendere da questo sospetto, se pe­ raltro non avesse dovuto constatare l'estrema se­ rietà scientifica con la quale il marito stabiliva i suoi rapporti con i pazienti . È comunque la psicoanalisi ad avere esplici­ tamente introdotto nel campo delle scienze il con­ cetto che il tratto fondamentale delle nevrosi (o psiconevrosi) non solo si trova alla base del com­ portamento di ogni individuo psicologicamente normale, ma sta alla base dell'intero sviluppo del­ la civiltà umana. Intendo riferirmi al concetto di " rimozione " . Molti di noi sono in grado di ren304

dersi conto che quando qualcosa riesce imbaraz­ zante, spiacevole, penoso, insopportabile, esso vie­ ne messo da parte, allontanato per quanto è pos­ sibile, sottratto alle cure che prestiamo alle cose che ci stanno a cuore. Non ci riesce quasi mai è vero - di annientarlo realmente ; tuttavia vivia­ mo come se esso, che tuttavia continua ad esiste­ re, non esistesse. È questo uno dei modi in cui il singolo riesce a godere ancora un po' in un mon­ do così traboccante di dolori nostri e altrui. La " rimozione " è appunto questo trattar le cose come se non esistessero. E !"' inconscio " è il luogo in cui vengono ricacciate tutte quelle situa­ zioni ed eventi dai quali ci si vuole disfare. (Si badi che la realtà può diventare insoppor­ tabile, e trovarsi quindi annientata nella nevrosi, solo in quanto essa è conosciuta: l'ignoto, come tale, non può diventare insopportabile ; sl che so­ no le cose reali conosciute a trovarsi allucinatoria­ mente annientate. Solo in quanto il non-niente sta dinanzi come non-niente, esso, nella nevrosi, può essere pensato e vissuto come un niente . Per la psicoanalisi, nella nevrosi il non-niente rimane occultato e trattenuto nell"' inconscio " - e questo occultamento è appunto la " rimozione " -, men­ tre nella vita cosciente non affiora niente, appun­ to, di esso . ) Dal punto di vista psicoanalitico, non solo non esiste individuo incivilito che non abbia represso nell'inconscio ciò che non sopporta di aver dinan­ zi agli occhi (si tratta da ultimo del desiderio pul­ sionale dell'incesto, del cannibalismo e dell'omi­ cidio), ma tutte le grandi istituzioni sociali sono l'effetto della rimozione. Soprattutto la religione. Nell'orda primordiale, i fratelli dapprima uccido-

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no il padre, che dominava incontrastato ed era padrone delle femmine; ma poi subentra il rimor­ so, il parricidio viene sepolto nell'inconscio e la dimenticanza dell'intollerabile viene suggellata tra­ sformando il padre in dio. Se si tiene presente che la religione era intesa da Freud come la forma fondamentale di aggrega­ zione sociale, l'ipotesi psicoanalitica viene a so­ stenere che l'evento determinante dell'intera evo­ luzione sociale e individuale è oggetto del tenta­ tivo di trattarlo come un niente : l'uomo tratta come un niente i propri impulsi più originari e le situazioni determinanti della propria vita ad essi collegate : annienta le potenze indomabili che gui­ dano la sua vita e ne costituiscono il significato . Non si vuoi dire qui che questo tentativo riesca (e Freud ha determinatamente indicato le forme e le procedure dell'insuccesso ) : si vuoi dire che nell'ipotesi psicoanalitica l'intera civiltà è la risul­ tante della volontà di annientare l'evento decisivo della storia umana. Nella nevrosi individuale, ove il malato nientifica ciò che gli riesce insopporta­ bile, gli altri membri del gruppo cui il malato ap­ partiene sanno ciò che egli nientifica ; nella nevrosi collettiva e dunque, per Freud, nella religione, l'intero gruppo sociale ignora invece ciò che vie­ ne da esso nientificato : ma società e individuo annientano entrambi il decisivo. Se la suprema follia dell'Occidente è la nien­ tificazione delle cose - e la psicoanalisi, come l'in­ tera cultura occidentale, è ben lontana dal ren­ dersene conto - l'ipotesi psicoanalitica può tutta­ via servire a far nascere il sospetto che la supre­ ma follia , come atteggiamento fondamentale del­ l'umanità occidentale, non sia l'invenzione di un 306

discorso folle, ma la realtà in cui tutti ci muovia­ mo e che per noi è diventata la forma suprema di evidenza. L'Occidente pensa e vive tutte le cose come se fossero un niente; ma in un senso infini­ tamente più radicale di quello che si verifica nella " rimozione " psicoanalitica. E può far questo, per­ ché l"' inconscio " ove si produce la nien tificazio­ ne di tutte le cose è infinitamente più profondo e irraggiungibile dell'inconscio psicoanalitico. Se nella nevrosi diventa esplicito il tratto es­ senziale che domina - nascosto, implicito - l'in­ tero comportamento psicologicamente normale del­ la civiltà dell'Occidente, la psicoanalisi cura i sin­ tomi di una malattia che affetta il guaritore in mo­ do tanto più inguaribile quanto più egli ignora di esserne affetto. E il guaritore non è semplicemen­ te la psicoanalisi, ma la strutturazione scientifica della sua logica, ossia la logica della scienza mo­ derna, che attraverso il dominio tecnologico delle cose guida ormai tutti i popoli della terra. L'alienazione essenziale dell'Occidente opera nascosta in un sottosuolo infinitamente più pro­ fondo dell"' inconscio ", raggiunto dalla psicoana­ lisi, perché ciò che nella nevrosi viene rimosso e occultato nell"' inconscio " è quella non-nientità insopportabile degli eventi e delle cose, che tutti gli individui " sani " sono completamente disposti a riconoscere ( e a sopportare); e viene invece alla superficie della coscienza, tradotta quindi nel lin­ guaggio e nel comportamento, quella nientità del­ le cose e degli eventi, che tutti gli individui " sa­ ni" sono altrettanto completamente disposti a ri­ fiutare. Il comportamento nevrotico porta cioè alla luce quanto viene rifiutato senza incertezze dal comportamento " normale " ( non siamo tutti

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noi ben convinti che le cose e gli eventi del mon­ do, sin tanto che esistono, non sono un niente ? e non è invece il nevrotico colui che non accetta che esista o sia esistito qualcosa che invece esiste o è esistito per davvero ? ). Nell'alienazione essen­ ziale dell'Occidente accade invece l'opposto, ap­ punto perché si tratta dell'alienazione che domi­ na e guida gli individui psicologicamente " sani " e i comportamenti psicologicamente " normali " . Cioè l'alienazione essenziale nasconde nel sotto­ suolo più inesplorato e trattiene nell'inespresso e nel non testimoniato la persuasione che le cose e gli eventi siano un niente; e lascia invece venire alla luce della consapevolezza, testimoniata dal linguaggio, la persuasione che le cose e gli eventi non sono un niente. E in questa persuasione si identifica il comportamento psicologicamente " nor­ male " dell'individuo. Nella nevrosi, dunque, la follia è scoperta e il senso della realtà è latente; nell'alienazione essenziale dell'Occidente la follia è latente e il senso della realtà è scoperto. Il sottosuolo ove, nell'alienazione essenziale, si nasconde la follia è infinitamente più profondo (ossia la profondità è qualitativamente diversa) dell"' inconscio " che la psicoanalisi riesce a r::­ giungere, perché in quel sottosuolo si nasconde la follia che domina la stessa logica della psicoana­ lisi e della scienza moderna. E il " senso della real­ tà " (la fonction du réel) che nel comportamento " normale" dell'uomo occidentale è scoperto, e nel­ la nevrosi è latente, è infinitamente diverso dalla verità dell'essere delle cose} ossia dalla dimensio­ ne - completamente dimenticata dalla cultura oc­ cidentale - che, sola, consente di scoprire l'alie308

nazione essenziale dell'Occidente e di porre la sto­ ria dell'Occidente come storia del nichilismo. La verità dell'essere delle cose è l'oltrepassa­ mento del nichilismo : in essa le cose non ven­ gono separate dall'essere per essere affidate al niente, bensì a tutte conviene la natura del sole, la cui esistenza continua a brillare anche quando a sera si sottrae allo sguardo. A tutte le cose con­ viene questa natura, e non soltanto agli dèi. Ciò vuoi dire che tutto - le cose piccole come le gran­ di - è eterno e che la " storia " è la vicenda del sorgere e del tramonto del tutto solare (che inclu­ de la stessa notte del nichilismo ). Contrariamen­ te a quanto siamo convinti da più di duemila anni, gli dèi sono invidiosi : tentano di tenere per sé la natura del sole e di lasciare alle cose la nascita e la morte, l'uscire e il ritornare nel niente. La ci­ viltà della tecnica è figlia dell'invidia degli dèi. Alla base della civiltà della tecnica si trova infatti il progetto scientifico-tecnologico della produzio­ ne e distruzione di tutte le cose; e alla base di questo progetto si trova la persuasione che le co­ se possono essere fatte uscire e ritornare nel nul­ la. Quando la cosa (o qualche suo aspetto) era un niente, non era ancora prodotta; e quando sarà un niente sarà andata distrutta. Si tratta di capire che affermare : " quando la cosa era un niente " o : " quando la cosa sarà u n niente " è come afferma­ re: " quando il cerchio era una quadrato " o : " quan­ do il cerchio sarà un quadrato " . Ma il non capir questo non è un semplice errore, che possa venir corretto da una adeguata dottrina, bensì è l'alie­ nazione più radicale e più ignota in cm possa trovarsi gettata l'essenza dell'uomo. Ma chi vuoi perdere il tempo con questi di309

scorsi ? La cultura di moda promuove altri inte­ ressi. Meglio usare il proprio tempo per elimina­ re i disagi concreti e a portata di mano in cui si trova l'uomo. Le nevrosi, ad esempio. 7 . A L DI S OTTO DELL ' OPPOS IZIONE DI « PRA S S I » E « IDEOLOGIA »

Tempo fa è stata trasmessa sul " Terzo Pro­ gramma " una conversazione di V . Verra, dedica­ ta al mio libro Essenza del nichilismo (ed. Pai­ deia, 1 972). Questo libro forma lo sfondo al qua­ le si riferiscono e sul quale si appoggiano, in mo­ do implicito ma costante, le considerazioni svilup­ pate nel presente volume. Nella conversazione di Verra sono indicate anche le " perplessità " che un libro come Essenza del nichilismo può suscitare. Si raccolgono tutte in una, fondamentale: è pos­ sibile sostenere - come appunto avverrebbe, se­ condo Verra, in quel libro - che la storia « non faccia altro che esplicare e ricalcare un modello logico » ? Possiamo spiegarci i motivi di questa perplessità di fondo, richiamando il tema princi­ pale che abbiamo accostato : l'alienazione dell'Oc­ cidente. Il lettore sa già che la parola " Occidente " non è qui usata come connotazione geografica o etnologica. L'Occidente è innanzitutto un modo di vivere e di pensare dell'uomo. Viene alla luce in Grecia, qualche secolo prima di Cristo, e si diffonde poi in Europa e nel Nuovo Continente e in Asia, e oggi domina su tutta la terra. La pa­ rola " Occidente " indica dunque la civiltà occi­ dentale . Ma che cos'è la civiltà occidentale? In che consiste quel modo di vivere e di pensare che,

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muovendo dalla Grecia precnsuana, ha finito col dominare tutta la terra? L'abbiamo ormai più vol­ te nominato e abbiamo indicato anche la sua dif­ ferenza radicale dalle immagini alterate che l'Oc­ cidente forma di se medesimo . Esso è il nichili­ smo, cioè la persuasione che le cose gli uomini, gli animali, le piante, il cielo, la terra - sono nien­ te. Noi viviamo all'interno di questa persuasione. Tutti gli abitanti dell'Occidente vivono in questo modo . È chiaro, innanzitutto, che, proprio in quan­ to protagonista della storia dell'Occidente, il ni­ chilismo è qualcosa di unico, qualcosa che perma­ ne identico nella Grecia precristiana, nel Medio­ evo e nel Rinascimento, nelle società capitalisti­ che e nel comunismo sovietico e cinese. Identico nell'infinito differenziarsi e nell'infinita ricchezza dello sviluppo storico. Anche se ci si ferma a questo punto, vi sono già qui elementi bastanti per spiegare l'insorgere di quella perplessità attorno alla quale ruota la con­ versazione di Verra: come è possibile che la storia « non faccia altro che esplicare e ricalcare un mo­ dello logico »? E quindi : come è possibile « pas­ sare direttamente da un'alternativa logico-metafi­ sica ad una diagnosi storico-culturale, che dovreb­ be essere anche esaustiva ed esclusiva di fronte all'intero decorso storico? » E quindi : come può il « tema astratto » dell'essere e del niente essere in grado di « comprendere lo sviluppo concreto della civiltà »? Verra chiama " modello logico " il senso del­ l'essere e chiama " tema astratto " la riflessione sul senso dell'essere. In questo suo linguaggio è chia­ ramente avvertibile la presenza del tipo di critica che, a partire dal suo fondatore, il marxismo ha -

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costantemente rivolto all'interpretazione idealisti­ ca e soprattutto hegeliana della storia. Secondo Marx, Hegel ha rovesciato il rapporto naturale che sussiste tra le idee e lo sviluppo storico con­ creto : invece di porre le idee degli uomini come prodotto dello sviluppo storico (cioè come l 'ef­ fetto che tale sviluppo produce nelle coscienze), Hegel ha posto lo sviluppo storico come prodot­ to delle idee, cioè come l'effetto che i principi ideali producono nel divenire della realtà sensi­ bile. Per Marx è il modo in cui l'uomo agisce che determina il modo in cui egli pensa; e non vice, . . versa. L aziOne de11'uomo - la " prassi " - e' 1'l " concreto " ; le idee che ne derivano sono l'" astratto " : quando non è una distorsione, il loro contenuto è infatti un impoverimento e una semplificazione della complessità e ricchezza della realtà storica. Dal punto di vista marxista, un discorso come quello sviluppato in Essenza del nichilismo appa­ re inevitabilmente come una forma di " idealismo " . E anzi come una forma esasperata, perché men­ tre nell'idealismo hegeliano i rapporti tra le idee formano una trama ampia e articolata - l"' Idea " è un sistema - in quel discorso, invece, l'" idea " che guida la storia occidentale è unicamente la persuasione che l'ente sia niente. È quindi del tutto naturale che la presenza del motivo " marxi­ s t a " nelle osservazioni di Verra lo conduca ad as­ serire che mentre nell'interpretazione hegeliana della storia vi è un'« articolazione molto maggio­ re » e « ricchezza di figure e di determinazioni sto­ riche », viceversa in Essenza del nichilismo l'« al­ ternativa è molto scarna, è portata all'osso ». Da un lato domina infatti la persuasione che l'ente è niente ( questo è " il sentiero della Notte " lungo il 3 12

quale cammina la storia dell'Occidente); dall'al­ tro, ancora attende di essere testimoniata la per­ suasione che l'ente non è niente e che quindi l'en­ te, ogni ente, è eterno (questo è " il sentiero del Giorno ", ancora in attesa che i popoli vi si inoltri­ no). Ma ciò che Verra chiama " portare ali'osso " non è forse un portare all'essenziale? Il nichilismo avvolge l'Occidente, come l'at­ mosfera inquinata avvolge una città. Se l'inquina­ mento è estremo, tutta la vita della città è amma­ lata, tutte le cose, viventi e non viventi, sono infette e corrotte. Ma ciò non significa che nella città non esista altro che l'inquinamento : gli uo­ mini, gli alberi, gli animali, le case, le strade so­ no avvolti dall'inquinamento, ma essi non sono l'inquinamento o una forma particolare di esso. L'inquinamento determina certamente reazioni di­ verse e specifiche nei vari individui (e, in questo senso in ogni individuo si realizza una forma par­ ticolare di inquinamento ), ma ciò non significa che ogni individuo consista in una foma parti­ colare di inquinamento e che tutto ciò che egli è e compie non sia altro che un " esplicare " e un " ricalcare " l 'inquinamento dell'aria. La disfun­ zione dell'apparato respiratorio di un abitante del­ la città è sì un " esplicare " e un " ricalcare " l'in­ quinamento atmosferico generale, ma l'apparato respiratorio e le braccia, le gambe, il corpo di ta­ le abitante non sono, essi , come tali, un " esplica­ re " e un " ricalcare " l'inquinamento generale. La malattia affetta e domina l'intero organismo, ma lo affetta e lo domina, proprio in quanto l'orga­ nismo non è, come tale, la malattia. Se non ci fos­ se altro che la malattia, non ci sarebbe nemmeno la malattia: perché essa possa esistere occorre il 313

malato; e il malato non si identifica alla malattia, ma è ciò che esso è, ad esempio un uomo, un ani­ male, una pianta. Il nichilismo è la malattia mortale dell'Occi­ dente, ma, appunto, domina l'Occidente come l'atmosfera inquinata domina la vita della città : tutto ciò che cresce all'interno del nichilismo è malato, ma non tutto ciò che è malato coincide con la malattia. Il nichilismo è l"' essenza " del­ l'Occidente, nel senso che è il luogo (l'atmosfe­ ra) ove cresce la nostra civiltà, non nel senso che esso sia, come crede Verra, il " modello logico " che la nostra civiltà non farebbe altro che " espli­ care " e " ricalcare " . La ricchezza concreta di fat­ ti , di significati e di eventi che formano la storia dell'Occidente è avvolta dal nichilismo, ma non si riduce ad esso. E l'affermazione che essa è co­ sì avvolta, ed è interamente avvolta, non inten­ de essere, come crede Verra, « esaustiva ed esclu­ siva di fronte all'intero decorso storico >> ; così come, con l'affermazione che tutto ciò che gli abi­ tanti della città inquinata compiono lo compiono da malati, non si intende aver esaurito tutto ciò che è possibile sapere sulla loro vita ( anche se, certamente, si intende escludere ogni discorso che ignori o che neghi l'esistenza dell'inquinamen­ to dell'atmosfera), bensì si intende aprire Io spa­ zio entro cui potrà essere validamente condotto il discorso concreto sulle loro condizioni di salute . L'apertura di questo spazio è l'" osso ", senza di cui ogni carne è irreale. E tuttavia, affinché la diagnosi del modo spe­ cifico e concreto in cui i viventi e le cose della cit­ tà sono ammalati e corrotti non finisca su una stra­ da sbagliata, è necessario sapere che l'i ntera vita 314

della città cresce in un'atmosfera inquinata. Sapen­ do questo, non si esaurisce il discorso sulla vita concreta della città e sulle forme specifiche della sua malattia, ma all'opposto si apre lo spazio all'in­ terno del quale soltanto il discorso concreto su quella vita può essere validamente sviluppato. La città può guarire solo se non si limita a conside­ rare le forme specifiche della sua malattia, ma pren­ de coscienza che le sue malattie particolari sono determinate dall'inquinamento generale dell'atmo­ sfera e che quindi è innanzitutto da quest'ultimo che ci si deve liberare. Dire che il nichilismo è l"' essenza " dell'Occi­ dente (ma anche Verra non discute il modo in cui questa tesi viene fondata nei miei scritti, cioè non discute la cosa più importante) non signifi­ ca, dunque, che il nichilismo è l"' universale " di cui ogni fatto della storia occidentale sia " indi­ viduazione " , ma significa che il nichilismo è l'e­ vento dominante che guida (e non " costituisce " ! ) la crescita di tutti gli altri eventi della nostra civiltà. In modo analogo, l'inquinamento dell'at­ mosfera non è l"' universale " che si " individua " negli oggetti che costituiscono la vita della città, ma è l'evento dominante in cui tutta questa vita si svolge e da cui essa è " in ultima istanza " deter­ minata. L'albero è l'universale di cui l'abete è indivi­ duazione. Ed essere abete è certamente un " espli­ care e ricalcare " l'esser albero . Ma la cattedrale della città non è " individuazione " dell'inquinamen­ to atmosferico, come invece l'abete è individuazio­ ne dell'albero. E tuttavia i marmi, le guglie, le pa­ reti, le statue della cattedrale sono completamente immersi nell'atmosfera malata e la loro malattia è

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- essa sì - un aspetto particolare e specifico della malattia generale dell'atmosfera, ne è cioè un"' in­ dividuazione " . In questo modo si apre certamen­ te il problema di stabilire che cosa, nella storia oc­ cidentale, non sia altro che un'" individuazione " del nichilismo e che cosa invece, pur essendone affetto, possiede un contenuto e una consistenza autono­ mi. Ad esempio, il tramonto del nichilismo è la fine del cristianesimo - il suo non aver più nulla da dire - oppure c'è nel cristianesimo qualcosa che sopravvive a quel tramonto, qualcosa, dunque, che non consiste in una " individuazione " del nichili­ smo? Se, rispetto alla storia concreta dell'Occidente, il nichilismo non è dunque, come invece Verra sup­ pone, un " modello logico " , cioè un " universale " che viene " esplicato e ricalcato " dalle sue " indivi­ duazioni " , dal punto di vista marxista, tuttavia, l'affermazione che il nichilismo è l 'essenza dell'Oc­ cidente continua ad apparire come una tesi " idea­ listica " e cioè come l'affermazione che non la " pras­ si ", cioè l'attività concreta degli uomini che vi­ vono in società, produce e guida le idee (ossia il modo in cui la " prassi " si riflette nella coscien­ za), bensì le idee, e anzi quell'unica idea in cui consiste il nichilismo produce e guida la pras­ si. Una volta chiarito cioè che la concretezza storica dell'Occidente non consiste nella persua­ sione nichilista, ma è da questa guidata ed av­ volta, rimane da chiarire il rapporto tra que­ sta affermazione e la tesi marxista che la storia del­ l'Occidente, come ogni storia, è guidata ed avvolta non dal modo in cui l'uomo pensa, ma dal modo in cui l'uomo agisce. Per il marxista infatti, il ni­ chilismo (posto che esista) è un'ideologia e quindi 316

l'affermazione che il nichilismo guida la storia del­ l'Occidente è falsa, già per il motivo che essa po­ ne un'ideologia come principio direttivo della sto­ ria. È una tesi " idealistica " . Le ideologie sono cioè il riflesso più o meno diretto del modo in cui gli uomini agiscono. Gli uomini agiscono, in quanto, innanzitutto, modificano la natura in cui vivono . Questo processo di modificazione della natura è il " lavoro " . È la " forma sociale determinata " del la­ voro (cioè il modo in cui si " lavora ", ad esempio, nelle società schiaviste, o nella società feudale, o in quella capitalistica - tre diverse forme di lavoro) che " in ultima istanza " determina le ideologie, os­ sia il modo in cui l'uomo, in una certa epoca stori­ ca, pensa la realtà. È il modo in cui l'uomo si rea­ lizza a determinare il modo in cui egli concepisce la realtà. È perché la realtà è in un certo modo che la si pensa con certe caratteristiche, e non vi­ ceversa. Primato della prassi, cioè della realtà. Tuttavia, per Marx, il lavoro, come tale, si di­ stingue dalle sue forme sociali determinate ; ha cioè una struttura che è comune a tutte le sue diverse forme sociali. All'inizio della terza sezione del li­ bro primo del Capitale, si dice che i « momenti sem­ plici » del lavoro, i momenti cioè del lavoro in quanto distinto dalla sua forma sociale determi­ nata, sono l'« attività conforme allo scopo », l'« og­ getto del lavoro » e i « mezzi di lavoro ». Il lavo­ ro di cui qui si parla, cioè, anche se distinto dalle sue forme sociali non riguarda « le prime forme di lavoro, di tipo animalesco e istintivo », ma riguar­ da il lavoro considerato « nella forma nella quale esso appartiene all'uomo » . E allora è chiaro che, per quanto riguarda il primo dei summenzionati " momenti semplici " del lavoro (l"' attività confar317

me allo scopo " ) Marx può scrivere : « Ciò che fìn dal principio distingue il peggiore architetto dal­ l'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la cel­ letta nella sua testa prima di costruirla in cera ». Sl che « alla fìne del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente » . Il lavoratore, pertanto, « realizza il proprio scopo, che egli conosce » . La celletta che si trova nella testa dell'architetto peggiore è ap­ punto lo scopo che il lavoro dell'architetto realiz­ za « nell'elemento naturale » e tale scopo è la « leg­ ge » che « determina il modo del suo [ cioè dell' ar­ chitetto ] agire », cioè determina il lavoro. Per que­ sto, il lavoro è « attività conforme allo scopo ». Dunque non c'è lavoro se non c'è " idea " ( '' sco­ po " ) e " conoscenza " dell'idea, ossia " presenza idea­ le " . Tutto questo era già stato detto da Aristotele e da Platone, e anche prima. Ma qui vogliamo os­ servare che questa " presenza ideale ", questa " co­ noscenza " , che appartiene al primo " momento sem­ plice del lavoro " , per Marx non ha nulla a che ve­ dere con l'ideologia : l 'ideologia è un riflesso e un prodotto della forma sociale in cui il lavoro si rea­ lizza; invece l'" idea" e la " presenza ideale ", in quanto " momento semplice " del lavoro, è condizio­ ne necessaria di questo, è qualcosa senza di cui il lavoro più elementare non esisterebbe. Un'osservazione analoga va fatta a proposito del secondo dei tre " momenti semplici " del lavo­ ro e cioè a proposito dell'" oggetto del lavoro " . Marx scrive che « la terra è l'oggetto generale del lavoro umano ». Ogni lavoro non fa che « scioglie­ re » le cose « dal loro nesso immediato con la ter­ ra » . Il pescatore scioglie il pesce dal suo nesso 318

immediato con l'acqua, il taglialegna scioglie l'al­ bero dal suo nesso immediato con la foresta e il mi­ natore scioglie il minerale dal nesso immediato con la sua vena. Orbene, se il lavoro è " attivi­ tà conforme allo scopo " , la "conoscenza " del­ lo scopo richiede la "conoscenza " dell'" ogget­ to generale " del lavoro, cioè la conoscenza del­ la terra ; richiede che i " nessi immediati " del­ la terra siano conosciuti nel loro essere in at­ tesa di venir disciolti dal lavoro umano. Pro­ prio perché il lavoro intende realizzare lo scopo intende cioè sciogliere i " nessi immediati " -, il lavoro richiede la conoscenza, l'apparire, il mani­ festarsi della terra, ossia della dimensione in cui si vuole realizzare lo scopo. La presenza della terra è richiesta dalla " presenza ideale " dello scopo. Eb­ bene, anche qui, la conoscenza dell"' oggetto gene­ rale del lavoro " - la presenza della terra - non ha nulla a che vedere, per Marx, con la conoscenza di tipo ideologico. Senza la presenza della terra, il la­ voro sarebbe infatti - secondo la stessa prospet­ tiva marxiana - impossibile. Ed ecco il rilievo fondamentale che intendiamo qui avanzare. Marx ha spinto a fondo, e in modo grandioso, lo smascheramento delle ideologie : es­ se sono il modo di pensare della classe dominante e ne riflettono gli interessi; non sono uno sguardo disinteressato sulle cose, una conoscenza del loro ordine naturale. Ma Marx ha considerato i " mo­ menti semplici del lavoro " come qualcosa di " na­ turale " e di insospettabile. Come struttura dei suoi " momenti semplici " , il lavoro è « condizione na­ turale eterna della vita dell'uomo » e « comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana » . Cioè Marx non sospetta neppure che

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queste " condizioni naturali eterne " possano esse­ re il risultato di una mistificazione ideologica tanto più radicale e potente quanto più si nasconde sotto le vesti di una " condizione naturale eterna" della vita umana - la quale condizione viene riconosciu­ ta come " naturale " proprio da chi si è adoperato nel modo più efficace a mostrare come le cosiddette " condizioni naturali eterne " non siano altro che forme storiche di esistenza, imposte e mantenute in vita dalle classi dominanti. Marx non sospetta neppure - e non certo per incapacità soggettiva che la " presenza della terra " possa essere essa stes­ sa un prodotto storico e che gli stessi " momenti semplici del lavoro " possano essere storicamente determinati. Ma è appunto in questo sottosuolo essenziale che scende la tesi di fondo di queste pagine. La tesi che il nichilismo è l'" essenza " dell'Occidente non solleva una semplice ideologia al rango di prin­ cipio motore della storia; e non si lascia quindi sorprendere alle spalle dallo smascheramento mar­ xiano delle ideologie. Quella tesi scende nel sotto­ suolo essenziale - al di sotto quindi della stessa op­ posizione tra idealismo e materialismo storico perché vede nel nichilismo la dimensione che non si limita a guidare ed avvolgere ciò che Marx chia­ ma " ideologie " , ma guida ed avvolge il senso stesso di ciò che Marx chiama " momenti sempli­ ci del lavoro " e quindi il modo stesso in cui l'uomo dell'Occidente " lavora " . Quella tesi scen­ de nel sottosuolo essenziale dell'Occidente, per­ ché mostra che il senso dei " momenti sempli­ ci " del lavoro non è, come pensa Marx, una " con­ dizione naturale ed eterna della vita umana " , ma è esso stesso determinato da u n modo di

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pensare le cose, che sorge ad un certo punto della storia dell'uomo e stabilisce il senso stesso del la­ voro e il modo in cui l'uomo lavora. Questo " mo­ do di pensare " è il nichilismo, l'alienazione estre­ ma che guida la storia dell'Occidente. L'ideolo­ gia estrema - l'alienazione estrema - si anni­ da proprio in quel modo di concepire il " lavo­ ro " - comune ai Greci e a Marx e a tutta la civil­ tà occidentale, - che invece per Marx è il terreno si­ curo, sottratto ad ogni mistificazione. Il lavo­ ro implica per Marx la " conoscenza " delle " cose " (Dinge) della terra. Ma siamo proprio sicuri che il senso dell a parola "cosa ", e quindi della parola " lavoro " , non ci serbi alcuna sorpresa? E se il sen­ so della parola " cosa " determina il senso del " la­ voro " ( il senso della " prassi " ), e cioè il modo in cui di fatto l 'uomo lavora, non dovremo dire che la mutazione del senso della " cosa " determina il mu­ tamento del senso dei " momenti semplici del la­ voro " , o addirittura la loro scomparsa, e quindi la mutazione più radicale del modo in cui l'uomo vi­ ve ? E se l'Occidente cresce all'interno di un unico senso della " cosa " , non dovremo dire che nell'ol­ trepassamento di questo unico senso dominante consiste la rivoluzione essenziale infinitamente più radicale di quella che il marxismo propone ( e infinitamente più radicale di ogni " rivoluzione inte­ riore " ) ? -

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Capitolo settimo LA

CADUTA DEGLI IMMUTABILI

l.

PERSUA SORI OCCULTI E DIFENSORI DELL'UOMO

Nonostante la crisi economica, gli intellettuali trovano ancora il modo di criticare la pubblicità te­ levisiva, che spinge all'acquisto dei prodotti recla­ mizzati. Da quando è apparso il vecchio libro di Vance Packard su I persuasori occulti, i program­ mi pubblicitari, soprattutto televisivi, sono dive­ nuti uno dei bersagli preferiti dagli intellettuali. O, meglio, da un certo tipo di intellettuali, quelli che si battono per la difesa della " dignità dell'uo­ mo " . Dall'altra parte, infatti, c'è un diverso tipo di intellettuali - psicologi, sociologi, psichiatri, inge­ gneri sociali, un esercito, ormai - che invece si battono per l'aumento delle vendite, mediante l'a­ nalisi delle motivazioni che spingono la gente ad acquistare un determinato prodotto e mediante la predisposizione di tecniche pubblicitarie che tengo­ no conto di tali motivazioni. Sembra, ad esempio (questi esempi sono ormai dei luoghi comuni), che gli uomini acquistino automobili potenti, e quindi pericolose, perché hanno bisogno di dimostrare a se stessi e agli altri di essere virili. Ma gli intellet­ tuali che servono il capitale, in linea di principio non studiano il rapporto tra insicurezza e simbolo di potenza virile con l'intento di eliminare un'ano325

malia psichica, bensì con l'intento meno altruista di escogitare modelli pubblicitari che, facendo le­ va su tale anomalia, spingano chi ne è affetto ad acquistare una certa marca di automobili piuttosto che un'altra. Lo psichiatra di questo tipo non stu­ dia cioè il malato mentale per guarirlo ( e la folla è più o meno una folla di malati mentali), ma per accertare quali immagini la pubblicità debba ap­ prontare per convincere il malato mentale ad ac­ quistare un determinato prodotto. E non c'è nem­ meno interesse a sfruttare i risultati dell'indagi­ ne per guarire le malattie della folla, perché la guarigione creerebbe un nuovo tipo di consuma­ tori e quindi obbligherebbe l'industria a cam­ biare ancora più velocemente prodotti, impianti e tecniche pubblicitarie. Inoltre, lo sketch pubblicitario presenta nel mo­ do più realistico un mondo dove chi consuma i prodotti reclamizzati gode di un particolare pre­ stigio sociale. Le tecniche dell'immagine hanno rag­ giunto un così alto grado di perfezione che, almeno per la massa del pubblico, la rappresentazione di quel mondo allontana da sé ogni carattere di fin­ zione e si presenta come lo specchio fedele di una situazione reale che con estrema difficoltà il desti­ natario dello sketch può evitare di considerare co­ me il modello cui adeguare il proprio comporta­ mento. In questo modo, il capitale riesce a spac­ ciare il proprio interesse come interesse del con­ sumatore e il pubblico viene abituato un poco alla volta a non reagire più criticamente all'immagine del mondo che gli viene proposta. L'immagine per­ suade. Quando si è persuasi, non si è soltanto per­ suasi di qualcosa, ma si è anche convinti di non subire una costrizione che obblighi al consenso. 326

L'opera di persuasione che annulla le capacità cri­ tiche di coloro ai quali viene rivolta è quindi una " manipolazione " dell'uomo, tanto più efficace quan­ to meno è scoperta. I " persuasori occulti " sono ap­ punto coloro che avvalendosi delle tecniche pub­ blicitarie rendono credibile alle masse un'immagine falsa del mondo. Il libro di Packard terminava con queste parole : « Il sopruso più grave che molti manipolatori commettono è il tentativo di insinuar­ si nell'intimità della mente umana. È questo dirit­ to all'intimità della mente che abbiamo il dovere di difendere » . Eppure Packard e tutti i difensori della " di­ gnità dell'uomo " ( dell'" intimità della mente " , del­ l"' interiorità della coscienza " ) hanno torto. La lo­ gica della pubblicità televisiva è superiore alla lo­ gica degli intellettuali contestatori. È vero che la difesa dell'uomo e della sua dignità appartiene alla tradizione culturale dell'Occidente. Ma lo svilup­ po della civiltà occidentale è insieme progressiva consapevolezza che tutto ciò che si presenta come "verità definitiva " o " verità incontrovertibile " è mito o prevaricazione; e cioè nemmeno la morale è una verità definitiva : nemmeno quella morale che difende l 'uomo e la sua dignità ; nemmeno quella che proibisce ai " manipolatori " di " insinuarsi nel­ l'intimità della mente umana " . La cultura di cui si nutrono gli intelletuali che prendono posizione cri­ tica nei confronti della persuasione occulta e delle tecniche pubblicitarie ha ormai portato a termine la distruzione di ogni fondamento su cui si regge ogni norma morale e ogni " umanesimo ". Nell'orizzonte della civiltà occidentale, ogni altra forma di cultu­ ra che voglia difendere i valori religiosi e morali della tradizione è destinata a soccombere. Gli in-

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tellettuali che ne sono portatori sono dei sopravvis­ suti. Ma sono dei sopravvissuti (anche se la morte reale del loro mondo è più recente) anche quegli inteliettuali " moderni " , " progressisti ", " aperti" , " di sinistra " , che neiia loro critica alia persuasio­ ne occulta mostrano di rimanere pur sempre attac­ cati a quei " valori " tradizionali ( '' diritto ali'inti­ mità della mente " , " interiorità delia coscienza " ) che la cultura essenziale deli'Occidente h a defini­ tivamente distrutto.

All'interno della cultura essenziale dell'Occi­ dente di una cultura cioè che ha portato al tra­ -

monto, e inevitabilmente, ogni " verità definitiva " l 'unico senso che la parola " verità " può avere è la capacità di dominio, la potenza, il successo, e quindi la capacità di persuadere le masse. Un'imma­ gine del mondo è " vera " solo se riesce a far sl che le masse se ne convincano, ed è " falsa " se non possiede questa capacità. Per questo motivo l'im­ magine del mondo proposta dalla pubblicità tele­ visiva è " vera " . Le parole " libertà ", " eguaglianza " , " fraternità " sono divenute " vere " perché la classe sociale che si era convinta di esse è riuscita a preva­ lere sulia nobiltà feudale e suli'assolutismo monar­ chico . Anche la " verità " dell'amore cristiano con­ siste nelia sua capacità di persuasione e di dominio. La cultura essenziale deli'Occidente distrugge la propria tradizione (e la cultura tradizionale la difesa dei valori morali e religiosi - non solo non può evitare la propria distruzione, ma è, pro­ prio essa, l'origine e il fondamento delia propria distruzione). In questa situazione, la critica degli inteliettuali alie tecniche pubblicitarie è faiiita in partenza. Le tecniche pubblicitarie sanno fare quel­ Io che gli inteliettuali non sanno fare : sanno con328

vincere le masse. Gli intellettuali difensori dell'uo­ mo hanno torto perché sono impotenti. Essi cre­ dono ancora, in contrasto con la cultura essenziale che li alimenta, nei miti della " dignità umana ", del­ l'" interiorità " e dell"' inviolabilità " delia coscien­ za. Che sono miti, proprio in questo non riescono ad avere potenza ; mentre quegli intellettuali cre­ dono ancora che il contenuto di questi miti abbia " valore " indipendentemente dalla loro potenza. Si tratta dello stesso equivoco in cui si trovano gli intellettuali antifascisti, che rivendicano contro la pura logica delia forza una serie di " valori " che so­ no già stati travolti dalla stessa cultura essenziale sulla quale l'antifascismo ( e il fascismo) si appog­ gia. L'antifascismo si fonda cioè su una cultura che ha la sua espressione più rigorosa proprio in quel­ la logica della forza che l'antifascismo combatte. Agli amici marxisti che mi domandano da che parte sto rispondo: voi e i vostri avversari e, natu­ ralmente, io stesso stiamo tutti dalla stessa parte, la parte dove " il deserto cresce " . II deserto è la sto­ ria dell'Occidente . Ma lo sguardo che vede cresce­ re il deserto, lo sguardo non appartiene al deserto. Sta " dali'altra parte " . E in esso è riposta ogni pos­ sibilità di salvezza. Sino a che questo sguardo non viene testimoniato è inevitabile che i difensori del­ l'uomo siano dei falliti. Relitti che il deserto, cre­ scendo, lascia dietro di sé.

2. IL NUMERO DELLE TES TE La riforma della RAI-TV è stata una delle espres­ sioni più appariscenti della crisi delia DC. Per le masse, infatti i programmi radiotelevisivi coinci-

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dono ormai con la " cultura " , cioè con l'insieme dei contenuti che meritano di essere conosciuti, apprezzati e condivisi. E che certi contenuti piut­ tosto che altri abbiano dignità di fenomeni cultu­ rali è il potere a deciderlo. Sino a che la DC è riu­ scita a mantenere il monopolio del potere politico, i programmi radiotelevisivi hanno sostanzialmente rappresentato ciò che la DC consentiva fosse rico­ nosciuto come " cultura ". Era quindi inevitabile che l'avanzata delle forze laiche determinasse la crisi della " cultura " italiana, cioè la riforma dell'orga­ nizzazione dei programmi televisivi . È una costan­ te della storia umana: è ascoltato chi ha il potere. Il prestare ascolto è dare importanza a ciò che si ascolta, è appunto riconoscerne il carattere " cultu­ rale " . Ciò che dicono le classi dominate, i deboli, i vinti non ha importanza, non ha rilevanza " cul­ turale " . Quando i deboli diventano forti ( a spese dei vecchi padroni), allora nasce una nuova cultu­ ra. (La cultura moderna può nascere perché la bor­ ghesia, che ne è portatrice, riesce a sopprimere la struttura di potere feudale . Alla corte di Luigi XIV le opinioni e i discorsi delle donne acquistano un credito e un'efficacia prima sconosciuti, perché a corte, dove nessuno lavora, il peso economico del­ la donna è uguale a quello dell'uomo che, per giun­ ta, rispetto a un potentato prevalentemente etero­ sessuale non può competere con le grazie femmi­ nili. La credibilità dei movimenti femministi at­ tuali presuppone l'emancipazione economica della donna, come nella famiglia moderna i figli si fan­ no sempre più " ascoltare " - i loro discorsi acqui­ stano cioè sempre più un carattere " culturale " nella misura in cui essi, sempre più precocemente, si rendono economicamente indipendenti dai ge.3} 0

nitori. Il capofamiglia conserva la sua " autorità " solo in quelle fasce sociali più " arretrate " , dove la famiglia dipende ancora economicamente da lui. Sono cose note.) Ebbene, che i programmi televisivi ora abbiano dato vita a due o più " culture " significa, analoga­ mente, che certi raggruppamenti politici soprattutto di sinistra sono riusciti a liberarsi dal condiziona­ mento determinante della DC. Naturalmente tutto questo non è sfuggito alle minoranze politiche, so­ prattuto di destra, che hanno visto così ridotta a zero la credibilità della loro "cultura " . Oggi è "cultura " - e quindi stile di vita, punto di riferi­ mento di condotta politica, autorità che toglie dal­ l'incertezza e ispira fiducia - ciò che è credibile agli occhi delle masse. Ma ciò che è così credibile è ormai il programma radiotelevisivo. Ormai, in Italia, la DC lo gestisce insieme a forze politiche prevalentemente orientate a sinistra. Poiché nella gestione monopolistica della DC la voce della destra poteva trovare ancora certe condizioni di sopravvi­ venza, diventa chiaro l'ostruzionismo " selvaggio " che a suo tempo il MSI ha operato in Parlamento per impedire l'approvazione della riforma, e diven­ ta chiara la campagna che, come si è visto (capitolo terzo, 6 ), tale movimento politico ha tentato di condurre per salvare in qualche modo la credibilità culturale della destra. Ci si spiega anche la reazio­ ne dei liberali, che continuano a rivendicare il con­ cetto tradizionale del giornalista che " ricerca la ve­ rità " anche facendo violenza alle proprie convinzio­ ni politiche e ai propri interessi di parte : il vec­ chio mito dell"' oggettività " dell'informazione, che il progressivo razionalizzarsi della cultura occiden­ tale ha tolto di mezzo. La cultura moderna si è re331

sa conto che, persino sul piano della ricerca scien­ tifica di tipo fisico-matematico, la " verità " e " og­ gettività " sono espressioni di un " interesse ", che dunque è sempre interesse di parte. Il significato originario del verbo latino interesse è " venirsi a trovare tra " " stare in mezzo evitando i luoghi cir­ costanti " ; e quindi significa " distinguersi " , " dif­ ferire ", " starsene in una certa parte piuttosto che da un'altra " . La pretesa che un giornalista raggiun­ ga la " verità " e l"' oggettività " indipendentemente dai suoi interessi, e quindi la pretesa di un'infor­ mazione radiotelevisiva disinteressata e oggettiva sono dunque un mito. Appunto perché, nella pro­ spettiva raggiunta dalla nostra cultura, la " verità " e l"' oggettività " san divenute un mito. Anche Luigi Einaudi (visto che sto parlando dei liberali) ne era persuaso. Nella quarta dispen­ sa delle Prediche inutili scrive appunto che il con­ cetto di sovranità popolare, intesa come sovranità della maggioranza, è un " mito " . Per Einaudi è cioè un mito il concetto fondamentale della demo­ crazia e del liberalismo tradizionale. Questo « mi­ to » scrive Einaudi « ha un nemico; e san coloro i quali reputano di aver scoperta la verità e riten­ gono dover attuarla ». Con bella chiarezza egli scrive : « Per fermo esso [ cioè il mito della sovra­ nità della maggioranza ] non è logicamente dimo­ strabile ; potendo invece sembrare evidente (è evi­ dente quel principio il quale si impone senza uo­ po di dimostrazione, per l'assurdità del contrario) che debba prevalere l'opinione di chi sa sopra quel­ la dell'ignorante, del buono sopra il cattivo, del­ l'intelligente sopra lo stupido. Chi distinguerà però gli uni dagli altri? Come impedire che i furbi cat­ tivi ed ignoranti non prevalgano sui buoni e sui 33 2

sapienti ? Altra via non c'è fuor del contar le te­ ste, che è metodo, per esperienze anche recenti, mi­ gliore del farle rompere dai più forti decisi a con­ quistare o tenere il potere » . Senonché, daccapo, chi ci dice che il ritenere " metodo migliore " con­ tar le teste piuttosto che romperne qualcuna non sia il discorso di un furbo cattivo e ignorante? Nel­ la logica di Einaudi (che rispecchia la direzione fondamentale della cultura moderna) quel metodo non è " migliore " perché abbia una sua " evidenza " , un suo intrinseco valore d i verità, ma perché ha avuto più forza di altri metodi, perché li ha ridotti al silenzio ( rompendo anche delle teste), perché la sua prepotenza ha superato le altre prepotenze. Ap­ punto per questo è un mito. « Il mito )> aggiun­ ge Einaudi « dura in Inghilterra dal 1 68 9 e non pare destinato a venir meno tanto presto. » Do­ po la sua eclissi durante il fascismo, questo « mi­ to risorto nel 1 94 5 dura ancora e durerà fino a quando gli Italiani, fatta la triste esperienza con­ traria [cioè l'esperienza del " mito " fascista: an­ che Mussolini in un suo discorso esaltava il suo " mito ", il mito della nazione ] , rimangano per­ suasi che nessun altro mito può sopravanzar quel­ lo, tuttoché razionalmente non dimostrabile, del contar le teste. )> La forza di questo " mito " , " ra­ zionalmente non dimostrabile " , cioè irrazionale, consiste dunque nel fatto, nel puro fatto che un numero sempre maggiore di individui si è mostra­ to persuaso del contenuto irrazionale di questo mito. Un mito è " migliore " perché ha più seguaci. È allora inevitabile che il numero, cioè la for­ za dei seguaci, determini l'importanza e la qualità dei " mi ti " che si divideranno lo schermo televisi­ vo e l'audizione radiofonica. In questa logica, le 333

teste che, al conteggio, risultano più numerose hanno il diritto di stabilire che cosa è " cultura " e che cosa non lo è . La riforma che prevede la spartizione dello schermo televisivo in proporzio­ ne alla forza numerica dei partiti è cioè del tutto coerente a questa logica . Se si vuoi chiamare " fa­ scismo " la logica della forza, si deve dire allora che il fascismo è il figlio legittimo della democrazia e della cultura antifascista che la alimenta. Un figlio che ora è più forte, ora è più debole della madre. E che quindi, a seconda del caso, diventa qualcosa di " migliore " o di " peggiore " della madre. 3. LA RAGIONE DELL ' ARANCIA MECCANICA Un viandante che tenta di fermare una va­ langa da lui stesso provocata. Impegna tutte le sue forze, ma viene travolto. Egli (cioè il suo passato) è il responsabile della sua fine. Questo viandante è l'immagine della cultura che oggi ten­ ta di " salvare l 'uomo " , la sua " libertà " e " digni­ tà " ; un tentativo compiuto dal cristianesimo, con­ tro la mondanizzazione della vita umana, dal mar­ xismo, contro la disumanizzazione prodotta dal­ lo sfruttamento capitalistico, e da ogni forma di cultura laica " umanistica " o " spiritualistica " . Lo psicologo americano B.F. Skinner, una delle figure più significative della cultura contem­ poranea, ha scritto recentemente un libro intito­ lato Beyond Freedom and Dignity. In un suo ar­ ticolo su « La Stampa », quando era in program­ mazione il film di Stanley Kubrick, L'arancia mec­ canica, A . Passerin d'Entrèves proponeva di tra­ durre cosl quel titolo : « Come superare la liber3 34

tà e la dignità dell'uomo ». Passerin d'Entrèves è un cattolico liberale. La sua cultura di fondo è cioè rappresentata dal viandante che provoca la valanga e tenta invano di trattenerla. La cultura di fondo di B.F. Skinner è invece la valanga che ha ormai raggiunto una forza inarrestabile . L'an­ tiumanesimo, chiaramente espresso in un libro come quello di Skinner, travolge l'umanesimo cattolico, marxista, borghese. Ma ne è insieme conseguenza inevitabile, cosl come la valanga è inevitabile conseguenza dei passi incauti del vian­ dante. Per Skinner - che non è solo un teorico, ma anche sperimentatore di grande rilievo - la tec­ nica è in grado di trasformare l 'uomo oltre ogni limite immaginabile. L'alienazione dell'uomo non consiste nell'ambiente prodotto dalla civiltà del­ la tecnica, ma nelle remare che i concetti di " di­ gnità dell'uomo " , " libertà " , " valore della perso­ na umana " , infrappongono all'adattamento del­ l'uomo a quell'ambiente. In sostanza si tratta della tesi direttamente contraria a quella di Mar­ cuse. Per Marcuse o per un cattolico liberale l'uomo è intoccabile e si deve quindi modificare il suo ambiente quando esso, a causa dell'orga­ nizzazione tecnologica dell 'esistenza, ha subito una vertiginosa trasformazione diventando inabitabi­ le. Per Skinner invece si può evitare la catastrofe cui condurrà questo squilibrio tra uomo e am­ biente, solo operando una vertiginosa trasforma­ zione dell'uomo ancora legato ai vecchi miti del­ la sua " dignità ", " libertà ", " autonomia " , " perso­ nalità " . Passerin d'Entrèves vede con acutezza il rap­ porto tra le tesi di Skinner e quelle dell'Arancia 335

meccanica. Nel film, una società ormai terrorizza­ ta dall'intensificarsi dei fenomeni di violenza, si propone l'adozione di un metodo di condiziona­ mento dei riflessi e lo sperimenta su un criminale superviolento riducendo quest'ultimo ad uno sta­ to di completo addomesticamento, che, ad esem­ pio, gli impedisce di reagire alle provocazioni sessuali di una donna nuda e che gli fa leccare le scarpe di chi lo prende a calci. Ma non si tratta di un metodo fantascienti­ fico. (Nemmeno il terrore crescente della società per la violenza incontrollata appartiene alla fan­ tascienza : lo confermano le proposte più recenti e quelle meno recenti di Fanfani per il manteni­ mento dell'ordine pubblico. ) Già nel 1 95 6 al Con­ gresso nazionale di elettronica di Chicago, appar­ ve chiaramente come le tecniche di " biocontrol­ lo " siano in grado di controllare la vita mentale, i processi percettivi, le emozioni, la " coscienza ", insomma, dell 'individuo, provocando in lui le se­ rie di convinzioni di cui la centrale di controllo in­ tende dotare tale individuo. Nelle fasi più anti­ che della storia umana i gruppi sociali organizza­ ti si difendevano dalla violenza dei dissidenti me­ diante la loro eliminazione fisica. Poi, un poco al­ la volta, si è fatto strada il principio dell"' educa­ zione " e della " persuasione" dei dissenzienti (an­ che perché si è esperimentato che, con l'aumento della popolazione, l'eliminazione fisica di grandi masse umane diventava troppo complicata). La società riesce cioè a portare all'interno della co­ scienza la repressione che, in un primo tempo, essa, come forza fisica, operava dall'esterno sul­ l'individuo. I dissenzienti si adeguano cosl alla società costi tui t a in forza della " loro " coscienza 336

e della " loro " persuasione - che tuttavia non so­ no affatto "loro ", perché sono il risultato interio­ rizzato di una coercizione millenaria. Nietzsche e Freud hanno chiarito parecchie cose in propo­ sito. Nel frattempo, la cultura occidentale ha finito con l'accorgersi che ogni sua " verità " è un mito : ciò che conta è la potenza, e quindi - in un con­ testo sociale che tende ad evitare l'eliminazione fisica dei dissidenti - ciò che conta non è dire al­ la gente la " verità ", ma è la capacità di persua­ derla. Per i cristiani la persuasione è la fede e la fede è un dono dello Spirito Santo. Un dono che è diventato sempre più raro. Le tecniche di " bio­ controllo " mostrano di avere la possibilità di es­ sere più generose nei loro doni. E soprattutto più efficaci delle stesse tecniche della pubblicità televisiva, che sinora sono riuscite a conquistarsi il ruolo, rispetto alla " coscienza interiore " delle masse, di sostituto dello Spirito Santo. V. Pac­ kard ha richiamato l'attenzione su un passo della rivista . Al di là della consapevolez­ za che lo stesso Popper possiede del proprio di­ scorso, questo vuoi dire : la società perfetta del marxismo " filosofico " non può essere il nostro scopo, cioè non ci riguarda, perché anche tutte le generazioni del futuro sono destinate all'annien­ tamento, ali"' estinzione " nel niente che raggiun­ ge ogni essere storico. E se l'ultimo futuro è il niente in cui ogni generazione si estingue, questo niente non può essere la regola, il fine al quale com­ misurare il presente dell'umanità. Il marxismo fini­ sce col negare questo carattere fondamentale della condizione " storica " dell'uomo, perché intende la società giusta del futuro come un immutabile con cui la generazione presente avrà pur sempre a che fare; ossia come una dimensione che, da un lato, pretende di evitare l'inevitabile annientamento del presente (cioè la sua destinazione all ' oblio di -

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tutto ), e, dall'altro, pretende di imporre al pre­ sente la regola del suo sviluppo, e quindi gli im­ pedisce di svilupparsi. Come il cristianesimo, anche il marxismo cre­ de nella " storia " ; cammina cioè lungo la strada aperta dalla metafisica greca - la strada della fol­ lia essenziale. Ma, come il cristianesimo, vuole fermarsi a metà strada, cioè vuole tenere ancora in vita degli immutabili. La coerenza della follia impone che si vada avanti. La civiltà della tecnica è il risultato di questa coerenza. Ed è insieme la civiltà della " decisione " , perché solo in quanto si è persuasi di vivere nella " storia " si deve esclu­ dere ogni soluzione " globale " del problema socia­ le; e solo in quanto tale soluzione è esclusa è pos­ sibile " decidere " . La storia del nichilismo è la sto­ ria della decisione (che include la storia dell'indeci­ sione, giacché l'indecisione non è l'alternativa al mondo della decisione, ma è la semplice incapacità di decidere, che mantiene pur sempre la decisione come proprio metro e criterio). 8. LA MONTAGNA E IL VIANDANTE ( E ALTRO) In uno dei suoi ultimi scritti Kierkegaard par­ la di « un viandante che ha dovuto fermarsi ai pie­ di di una montagna enorme, impossibile a scalar­ si ». I suoi desideri, aspirazioni , brame, la sua anima si sono già portati al di là, sull'altro ver­ sante; « manca soltanto che lui vada dietro » . Ora il viandante ha raggiunto la settantina : « la montagna sta ancora davanti a lui immutata, im­ possibile a scalarsi. Supponiamo che egli possa avere altri settant'anni : la montagna si erge an369

cara davanti a lui immutabile, inaccessibile » . Al­ lora, forse, egli cambia: le sue brame, i suoi desi­ deri, le sue aspirazioni muoiono e « una genera­ zione posteriore lo trova ora seduto, mutato, ai piedi del monte, il quale sta immutabile, inacces­ sibile. Supponiamo che siano trascorsi 1 .000 an­ ni : egli, il mutato, è morto da molto tempo, di lui è rimasta soltanto la leggenda, e poi è rima­ sta la montagna che sta immutata, inaccessibile » . Kierkegaard scrive queste righe nel 1 85 1 , in uno degli Scritti edificanti) intitolato L'immuta­ bilità di Dio. La montagna inaccessibile e immu­ tabile, infatti, è Dio. Sarà una delle ultime volte che un grande pensatore intende Dio come l'im­ mutabile e l'eterno, in contrapposizione alla mu­ tabilità e volubilità del mondo. Una delle ultime apparizioni del modo in cui la tradizione greco­ cristiana ha pensato Dio. Questo pensiero dell'immutabilità di Dio, scri­ ve Kierkegaard, « mette spavento, è un continuo timore e tremore », perché quando le volontà di due individui si scontrano, ognuno può attendere (ore, giorni , anni, tutta una vita) che l'altro si pieghi, ma quando ci si scontra con la volontà im­ mutabile di Dio ci si trova allora nei panni del viandante che si è imbattuto nella montagna inac­ cessibile; e il timore e tremore di quel viandante può diventare, in Kafka, l'attesa dell'agrimenso­ re K. di fronte al Castello. Ma l'immutabilità di " Dio " appartiene ormai al passato. Anzi, ogni dio, cioè ogni immutabile, appartiene al passato. " Dio è morto " . È accadu­ to questo : il viandante non è morto ai piedi della montagna, ma ha perseverato nel suo sforzo : si è accorto che l'inaccessibilità della montagna era 370

soltanto apparente ed ha quindi trovato il modo di valicarla. Di una montagna invalicabile è ri­ masta soltanto la leggenda. L'agrimensore K. è riuscito a entrare nel Castello e a misurarlo. Il viandante che diventa capace di aprirsi un varco nella montagna e quindi è in grado di realizzare tutti i suoi progetti è l"' uomo " della civiltà della tecnica (ossia la volontà di potenza che trova la propria espressione più radicale in questa civiltà), che ormai è divenuta l'erede dell'onnipotenza di Dio e quindi si dispone a dare agli uomini quella " felicità " tangibile che il vecchio Dio di Gesù aveva continuamente differito. La critica della società dei consumi costituisce ormai uno degli aspetti più vistosi della cultura contemporanea - anche se la condanna del con­ sumismo è divenuta una moda e già nelle scuole medie i bambini imparano a parlare di " alienazio­ ne " . Tuttavia, se si vuoi capire qualcosa del " con­ sumismo " è innanzitutto necessario capire che cosa significa " consumo " . Il consumismo è infat­ ti un'ipertrofia del consumo. Può esistere solo se esiste il consumo, cosl come solo se esiste la fa­ me può prodursi il cannibalismo e solo se esiste la scienza fisico-matematica può scoppiare un con­ flitto atomico. Nella civiltà occidentale " consu­ mare una cosa " ( del cibo, una vi t a) significa ormai ridurla a un niente e questo annientamento delle cose presuppone che una " cosa " sia ciò che, do­ po essere uscita dal niente e avere indugiato nel­ l'esistenza, può ritornare nel niente. Proprio per questo, " essere una cosa " (cioè essere disponi­ bile al niente) significa essere un consumabile che si consuma per consunzione interna o per ope-

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ra di altre cose. I critici della società dei consu­ mi sostengono che, nel consumismo, ogni realtà ( anche l'uomo e la sua dignità) è divenuta ormai un bene di consumo. Senonché la persuasione che la realtà sia bene di consumo, o sia qualcosa di destinato al consumo, è l'atteggiamento più antico e fondamentale della storia dell'Occidente. Il consumismo della società dei consumi si fonda sull'atteggiamento originario dell'Occidente e ne è anzi una delle espressioni più rigorose. Ma su quell'atteggiamento si fondano anche tutte le cri­ tiche che, da ogni parte, vengono rivolte alla so­ cietà dei consumi, e per le quali il consumarsi della realtà, il suo nascere e perire, è fuori discus­ sione. I critici del consumismo si rivolgono quin­ di contro il fondamento stesso della loro critica; mentre il consumismo porta alla coerenza estre­ ma l'atteggiamento fondamentale al cui interno si muovono tutti i critici della società dei con­ sumi. In quanto ci si mantiene all'interno della per­ suasione che la realtà sia un consumarsi, non può esistere alcuna ragione che valga a proibire che anche l'uomo abbia ad essere consumato. Perché gli uomini non debbono essere consumati, come vengono consumati i corpi inorganici e gli orga­ nismi? Perché certi uomini (ad esempio gli schia­ vi, gli operai) non devono essere consumati da altri uomini ( i potenti, i padroni)? Si tenta di ri­ spondere, introducendo il concetto di " dignità umana " o di " valore della persona " , eccetera. Questa risposta significa che, certo, anche l'uomo è un consumarsi - il tempo lo consuma -, ma " non si deve " intervenire in questo consumarsi " naturale " degli uomini, violandolo, e trasfor37 2

mandolo in un consumare gli uomini da parte di certi altri uomini consumatori. Ma, tentando que­ sta risposta, si viene a sostenere che nell'uomo esiste qualcosa di inviolabile; e " inviolabile " può significare o che nell'uomo è presente una " parte incorruttibile " , qualcosa che è impossibile consu­ mare, - come nella teologia cristiana Dio è invio­ labile perché incorruttibile -, oppure che, pur essendo tutto consumabile ciò che esiste nell'uo­ mo, tuttavia la " coscienza morale " proibisce di consumare l'uomo. Senonché, anche questa " co­ scienza ", come quella parte incorruttibile che esi­ sterebbe nell'uomo, è concepita come qualcosa di eterno, tale cioè che contrasta con l'atteggiamento fondamentale dell'Occidente e che quindi la ci­ viltà occidentale ha finito con l'allontanare defini­ tivamente da sé. Il marxismo si è liberato di Dio e di ogni parte incorruttibile dell'uomo ; ma la " coscienza morale " , su cui i critici neomarxisti della società dei consumi fondano la " dignità umana " , è ancora uno dei vecchi dèi inèorrutti­ bili, uno dei vecchi " eterni " , destinati quindi ad essere travolti dalla persuasione che la realtà tut­ ta è un consumarsi, ossia è tempo, storia, diveni­ re. Anche la " coscienza morale " si consuma e la "dignità umana " che essa tenta di salvare rimane soltanto l'espressione della paura di essere usati e consumati da altri uomini. Nietzsche, che rima­ ne profondamente fedele al senso greco della " co­ sa ", affermava appunto che la morale è l'arma dei deboli. La " felicità " che la civiltà della tec­ nica può dare agli uomini è l'organizzazione del­ la possibilità di consumare tutto, ossia della pos­ sibilità di liberarsi di tutto : organizzazione della liberazione da ogni immutabile. 373

Ancora un esempio. La " libertà di stampa" dapprima liberazione dalla censura imposta dal è potere politico-religioso, poi è liberazione da quel­ l'altro tipo di censura che è determinata dall'or­ ganizzazione capitalistica della stampa. In entram­ bi i casi la censura riduce la diversità delle paro­ le ad un'unica parola pubblica dominante, che in un primo momento è la parola della Chiesa, in cui si inseriscono i messaggi rivolti ai sudditi dal potere politico, e in seguito è la parola-merce venduta dal capitale alle masse, e che nella sua apparente varietà non fa che rispecchiare e ali­ mentare quell'unico fatto che è la mentalità me­ dia della massa. Le parole che non si adeguano all'unica parola dominante non possono diven­ tare pubbliche. L'unicità della parola dominante è insieme la sua immobilità. Ferma, per millenni, la parola della Chiesa, che sino alle soglie del mondo mo­ derno è l'unica parola pubblica rivolta in Europa alle moltitudini. La Chiesa comunica ai fedeli la " Parola di Dio " , cioè il senso essenziale della vita, e l'essenziale non può mutare, è immutabile. Ri­ spetto alla " Parola " , le " notizie " del mondo che giungono al popolo hanno un valore del tutto su­ bordinato, non sono mai in grado di mettere in questione la " Parola " ; anzi, è alla luce di questa che sono interpretate e giudicate. Per quanto por­ tentose, le notizie che ad esempio i fogli volanti del xv secolo comunicano al popolo non conten­ gono mai una " novità " rispetto alla Parola im­ mutabile. C'è persino la tendenza a redigere la notizia in forma di canzonetta o di racconto ro­ manzato, che la confina nel regno del fantastico e dell'irreale, togliendole ogni pretesa di confron-

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tarsi con la " Parola " immutabile. Le parole che giungono dal mondo non contengono alcuna no­ vità, perché ormai la " buona novella" è già stata annunciata alle genti. Il significato illuministico della libertà di stampa è la liberazione delle pa­ role (che danno al pubblico notizia del mondo) dalla " Parola " pubblica immutabile che le rende impossibili come parole nuove. Ferma intende restare anche la parola-merce. Il cambiamento imprevisto del gusto degli acqui­ renti è dannoso per il capitale, che dunque si met­ te in condizione di anticipare e prestabilire le va­ riazioni del gusto, dando l'apparenza di cambia­ mento è ciò che è soltanto una rotazione precal­ colata dei tipi di merce. ( La moda è appunto il cambiamento indotto, precalcolato, e quindi ap­ parente. ) Anche la parola-merce è una parola im­ mobile, che impedisce ad ogni altra parola di di­ ventare pubblica, cosl come ogni merce che do­ mina il mercato impedisce il consumo di ogni altro prodotto. La " libertà di stampa " , intesa come libera­ zione delle parole pubbliche dall'unica e millena­ ria " Parola " immutabile, mostra dunque un fon­ damentale tratto comune con la "libertà di stam­ pa " , intesa come liberazione delle parole rivolte al pubblico, dall'unica parola immutabile in cui la stampa commerciale rispecchia la piscologia media degli acquirenti potenziali. Questo tratto comune è la liberazione della novità storica, co­ municata dalla stampa, da ciò che immobilizza la conoscenza e rende impossibile la comunicazione di qualcosa di nuovo. Tutto questo significa che la "libertà di stampa " e, in generale, di espres­ sione pubblica è un aspetto del processo gigan-

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teseo in cui la civiltà occidentale va liberandosi da tutto ciò che è immobile e che immobilizza : l'ordinamento tribale, il tempo ciclico, dio, l'or­ dinamento della natura, il padrone, le parole di dio e del padrone, le leggi dell'economia feudale e di quella capitalistica, la morale, la parola pub­ blica dominante della Chiesa o dello Stato asso­ luto, la parola-merce. Gli immutabili sono gli dèi dell'Occidente. Ma gli immutabili sono innanzitutto i figli della paura. L"' uomo " apre gli occhi sulla terra e il suo sguardo è subito pieno di terrore. Tutto è terro­ rizzante, perché tutto è imprevisto. E quindi tutto è insicuro. L'incubo. Ciò che terrorizza è cioè la vicenda stessa del mondo, il divenire dell'univer­ so, dove dall'ombra più insondabile emerge la novità sconvolgente degli eventi. Se vuole soprav­ vivere, l'uomo deve controllare il mondo in cui si trova, deve cioè difendersi dall'abisso dell'im­ previsto. Ecco allora che l'abisso deve avere un fondo, gli eventi un ordine, il cambiamento una regola; l'accecante novità degli eventi deve poter essere guardata dall'occhio tranquillo e preveg­ gente di un dio. Sulla vertigine del cambiamento e della novità viene così gettata una rete che con­ sente di dominare e di prevedere l'irruzione degli eventi. La rete è ferma e contiene e immobilizza l'eruzione dell'imprevisto. Gli immutabili consen­ tono di sopravvivere al terrore . L'uomo trova ri­ paro in essi - negli dèi che egli stesso ha prodotto. Ma un poco alla volta il terrorizzante diventa seducente. A partire dalla civiltà greca, il mondo suscita sempre meno terrore e sempre più stu­ pore e meraviglia e incomincia a far dubitare l'uo376

mo dei suoi dèi, vecchi e nuovi. Diventa cioè ine­ vitabile che il divenire del mondo - l 'imprevisto, che l'uomo si è illuso di dominare chiudendosi nell'incantesimo degli dèi - rompa la rete degli immutabili, che l'uomo distrugga gli dèi da lui evocati e si liberi dall 'incantesimo. Nella civiltà occidentale questo processo di liberazione dagli immutabili raggiunge il suo ac­ me. L'uomo esce dal riparo degli dèi, allo sco­ perto, e per la prima volta dopo il primordiale sguardo terrorizzante subito sepolto nell'incante­ simo, guarda direttamente, col proprio occhio, lo spettacolo delle cose: è in questo sguardo deci­ sivo per la storia dell'Occidente, che egli " vede " (è convinto di vedere) le cose come un uscire e un ritornare nel niente. Nella civiltà occidentale acquista così una forza prima sconosciuta la con­ vinzione che il divenire del mondo, l'innovazione delle cose, intesa come il loro uscire e ritornare nel niente, cioè come " storia " , sia l"' evidenza originaria " , ciò da cui non si può prescindere. At­ traverso una essenziale trasformazione dell'esser-uo­ mo il terrore del divenire è sostituito dal rico­ noscimento del divenire. Il terrorizzante porta a compimento la sua opera di seduzione. È appun­ to l'" evidenza " dell'innovarsi del mondo - l"' evi­ denza " del fatto che il mondo è nuovo ad ogni passo, perché ad ogni passo esce dal niente - che nel modo più perentorio spinge un poco alla vol­ ta, lungo un faticoso cammino, alla distruzione degli immutabili. Ogni immutabile, infatti, concentra in sé l'in­ tero senso del mondo, costringe tutte le cose, in una volta sola e una volta per sempre, a fare i conti con esso, e il conto cui le cose sono sottopo377

ste è il soffocamento di ciò che in esse vi è di ir­ riducibile ad ogni conto, è il soffocamento cioè della loro novità assoluta, dovuta appunto al loro provenire dal niente. Se ad esempio esiste il " Dio , del cristianesimo - questo modello di ogni im­ mutabile -, può sopraggiungere nel mondo qual­ cosa che sia una vera, assoluta novità, irriducibile al conto che " Dio" fa di esso ? Se esiste l"' Essere Perfetto " , " Onnisciente ", " Onnipotente " , può es­ sere il mondo una sorpresa assoluta per lui? può essere il mondo quella novità assoluta, che gli deriva dal suo essere stato un niente? E se nel mondo non ci può essere nulla che sorprenda il dio, il mondo non può contenere alcuna novità, giacché la novità è il sorprendente per definizio­ ne. Nell'incantesimo, l 'eruzione dell'imprevisto è soffocata, spenta, annientata. Ma, appunto, nell'incantesimo : nel sogno in cui l'uomo, per sopravvivere, si mantiene. Ma poi­ ché l"' evidenza originaria " dell'Occidente si identi­ fica sempre più decisamente all'innovarsi del mon­ do, al suo esser la sorpresa continua di ciò che esce dal niente, è inevitabile che l'incantesimo degli im­ mutabili sia rotto, che cioè l'Occidente si liberi da ogni dio che rende impossibile la sorpresa del nien­ te, e quindi da ogni dio che gli stessi abitatori del­ l 'Occidente hanno evocato dal proprio terrore e cioè dalla propria volontà di dominio. È inevita­ bile che il viandante riesca a valicare la montagna. Per la cultura occidentale, questo processo di liberazione degli dèi ha un carattere positivo e coin­ cide con ciò che di volta in volta viene considerato come il " bene ", il " progresso ", la " giustizia ", il " valore " , la civiltà , . 378

Ma è proprio così ? Questa domanda non in­ tende alludere alla possibilità che il " bene " e la " giustizia " consistano nel restare schiavi degli dèi, nel rimanere avvolti dal loro incantesimo, ma al­

lude a ciò che e l'incantesimo e la liberazione dall'in­ cantesimo hanno finito con l'avere in comune. Dap­

prima, la novità del mondo - l'eruzione dell'im­ previsto - getta l'uomo nel terrore e quindi nell'in­ cantesimo degli immutabili. Poi l'Occidente trova la forza di guardare in faccia il sopraggiungere del­ la novità e si libera, attraverso un lungo travaglio, dall'incantesimo degli immutabili e dei divini. Ma

ciò che getta nel terrore e nelle braccia degli dèi

( e che si prolunga, oltre l'esistenza primitiva, per tutta la storia dell'Occidente), e ciò che spinge alla

liberazione degli dèi non hanno forse finito con l'esser lo stesso? A partire dalla civiltà greca, ciò

che ha la forza di evocare e di distruggere gli dèi non è cioè in entrambi i casi quello che si crede indiscutibilmente " evidente " , cioè lo spettacolo del­ l 'uscire e del ritornare nel niente - la " storia " ? E non è questo spettacolo " evidente " lo spettacolo che sta dinanzi agli occhi della follia essenziale? Non si deve dire, dunque, che la montagna e il viandante ( si arresti di fronte ad essa, o la vinca e la travalichi) hanno lo stesso cuore - il cuore della follia ? Può essere, allora, il nostro, oltre che il tempo della pienezza della follia, anche il tempo nel qua­ le incomincia ad apparire - non più che un cenno, da lontano - il luogo che già da sempre si apre al di fuori della follia essenziale dell'Occidente.

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NOTIZIA

Emanuele Severino è nato a Brescia nel 1929. Conse­ guita a ventun anni la libera docenza in filosofia teoretica, è stato dal 1963 al 1 970 professore ordinario di filosofia all'Università Cattolica di Milano. Dal 1970 regge la cat­ tedra di filosofia teoretica dell'Università di Venezia, dove è anche direttore dell'Istituto di Studi filosofici. Dopo i volumi La coscienza ( 1 948), Note sul proble­ maticismo italiano ( 1950), Heidegger e la metafisica ( 1 950), nel 1958 pubblica l'indagine su La struttura originaria, cui fan seguito Per un rinnovamento nell'interpretazione della filosofia fichtiana ( 1960), Studi di filosofia della prassi ( 1 962), Il sentiero del Giorno ( 1967 ), Essenza del nichilismo ( 1972), Gli abitatori del tempo ( 1978).

INDICE

Introduzione l. TERRORI SMO

l . Il terrorismo e la situazione internazionale 2 . I condizionamenti della situazione politica italiana 3. Terrorismo, intellettuali e potere I I . IL S IGNIFICATO DELLA VIOLENZA

l . Violenza e fede 2. 3. 4. 5. 6. 7.

I confini della violenza

La medicina come la malattia I l « valore » della forza Crisi dell'autorità della Chiesa « Armonia » di ragione e fede La scienza e il paradiso

5 19 21 48 62 71 73 78 83 89 93 97 l 00

III. MARXI SMO, S CIENZA, TECNICA

105

l . Solgenitsin e il tenente Zotov

1 07 111 1 16 121 136

2 . Apparenza e realtà del marxismo 3 . Tecnologia e marxismo 4. Sociologia e marxismo 5 . Individuo e società

6. Alla conquista degli intellettuali 7 . Complicità della filosofia? lV. I L

«

COMPROMES SO S TORICO )>

l . Comunismo e socialdemocrazia

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

« Preoccupazioni )> di Berlinguer Ambiguità del PCI Distensione e tentazione Per uscire dall'utopia Altri equivoci per il capitale Il pericolo di una vittoria « Laburisti )> e « conservatori )>

V. LE CONTRADDIZIONI DEL CRI S TIANESIMO l . Coerenza della Chiesa

2. 3. 4. 5. 6.

Dilemma della Chiesa L'inconscio degli antidivorzisti Offerta e riconciliazione Il giudizio finale « Verità umana )>

141 151 1 57 159 163 172 178 1 83 1 92 200 204 213 215 221 227 23 7 241 256

VI. IL S ENSO DELLA CIVILTÀ DELLA TECNICA

l . La metafisica e la storia dell'Occi-

2. 3. 4. 5. 6. 7.

dente La « cosa » e il trionfo della metafisica Il sentimento e il dominio del tempo Il segreto della follia Nichilismo La « rimozione )> Al di sotto dell'opposizione di « prassi » e « ideologia )>

261 263 270 279 283 293 303 31O

VII. LA CADUTA DEGLI IMMUTABILI

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l. Persuasori occulti e difensori del2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

l'uomo Il numero delle teste La ragione dell'arancia meccanica L'amore per l'uomo Il mito della libertà Decidere - « decaedere » Dal comunismo al neocapitalismo La montagna e il viandante (e altro)

325 329 334 340 3 5O 354 358 369

Nella stessa collana

Hans Urs von Balthasar Punti fermi Saggio introduttivo di Battista Mondin Georges Bernanos Lo spirito europeo e il mondo delle macchine Introduzione di Alfredo Catta­ biani

Jean Daniélou La cultura tradita dagli intellettuali Jean Daniélou La fede cristiana e l'uomo d'oggi Jean Daniélou La nostra Chiesa

Louis Bouyer Religiosi e preti contro Dio

Vigo Auguste Demant La morale sessuale cristiana Nota di Rodolfo Quadrclli

Augustin Cochin Meccanica della Rivoluzione Introduzione di Mario Marcolla

Mircea Eliade Mito e realtà

Ananda K. Coomaraswamy I nduismo e buddismo

Mircea Eliade Il mito dell'eterno ritorno

Ananda K. Coomaraswamy Sapienza orientale e cultura oc­ cidentale

Cornelio Fabro La svolta antropologica di Karl Rahner

Sergio Cotta Quale Resistenza?

Cornelio Fabro L'avventura della teologia pro­ gressista

Jean Daniélou Contestazioni contestabili

Carlo Falconi Ritrattazioni

Fausto Gianfranceschi Il sistema della menzogna e la degradazione del piacere Abraham Joshua Heschel Chi è l'uomo? Max Horkheimer Rivoluzione o libertà? Saggio introduttivo di Quirino Principe Je an Josi poYici La scienza oscurantista Péter Kende La crisi della società produtti­ vistica Marcel Lefèbvre Un vescovo parla Claude Lévi-Strauss Primith·i e civilizzati Introduzione di Alfredo Catta­ biani Virgilio Lilli La quinta stagione Angelo J\Iagliano Esame di coscienza di un demo­ cratico Introduzione di Augusto Del Noce Vittorio Mathieu Perché punire? (Il collasso della giustizia pe­ nale) Molnar, Domenach, Del Noce Il vicolo cieco della sinistra

Gianfranco Morra Marxismo e religione Gianfranco Morra La cultura cattolica e il nichilismo contemporaneo Malcom Muggeridge Cristo riscoperto Orsola Nemi I cristiani dimezzati Giacomo Noventa Storia di una eresia Saggio introduttim di Rodolfo Quadrelli J\Iarcos Pallis Il loto e la croce Armando Plebe Filosofia della reazione Armando Plebe Quel che non ha capito Carlo Marx Giuseppe Prezzolini Cristo e/ o Machiavelli (Arsaggi sopra il pessimismo cristiano di sant'Agostino e il pessimismo naturalistico di Ma­ chiavelli) Introduzione di Quirino Prin­ cipe Giuseppe Prezzolini Manifesto dei consen·atori Quirino Principe Vita e morte della scuola

Quirino Principe Manuale di idee per la scuola

Jean Servier L'uomo e l'Invisibile

Rodolfo Quadrelli Il Paese umiliato

Ugo Spirito - Augusto Del Noce Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?

Rbdolfo Quad�elli Il senso del presente Quadrelli, Principe, Quinzio, Plebe I potenti della letteratura Alfred Sauvy L'economia diabolica (Disoccupazione e inflazione) Hans Sedlrnayr Perdita del centro (Le arti figurative dei secoli XIX e XX come sintomo e sim­ bolo di un'epoca)

Williarn I. Thornpson All'orlo della storia Introduzione' di Elérnire Zolla Ernmanuel Todd Il crollo finale (Saggio sulla decomposizione della sfera sovietica) Alfredo Todisco Breviario di ecologia (Premio Versilia Ecologia 1974)

Giuseppe Serrnonti Il crepuscolo dello scientismo (Critica della scienza pura e delle sue impurità)

Eric Voegelin Il mito del mondo nuovo (Saggi sui movimenti rivoluzio­ nari del nostro tempo) Introduzione di Mario Mar­ colla

Giuseppe Serrnonti La mela di Adamo e la mela di Newton

Sirnone Weil La Grecia e le intuizioni pre­ cristiane

Finito di stampare nel mese di gennaio 1979 dalla Milanostampa - Farigliano (Cuneo) Editore: Rusconi Libri S.p.A., via Oldofredi 23, 20124 Milano