417 85 49MB
Italian Pages 720 [776] Year 1997
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GIULIO EINAUDI EDITORE
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Letteratura italiana
4
Letteratura italiana Direzione: Alberto Asor Rosa
I Il letterato e le istituzioni II Produzione e consumo III Le forme del testo
I. Teoria e poesia II. La prosa IV L’interpretazione Vv
Le questioni VI Letteratura, musica, teatro, arti figurative VII
Storia e geografia della letteratura italiana I. Dalle origini all'Ottocento VIII
Storia e geografia della letteratura italiana II. Ottocento e Novecento IX Indici
Redazione dell’opera: Roberto Antonelli, Angelo Cicchetti. Collaborano alla redazione Graziella Girardello, Enrica Melossi, Roberto Stancati.
Letteratura italiana Volume quarto L’interpretazione
Giulio Einaudi editore
Copyright © 1985 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino ISBN 88-06-55178-7
Indice
L’interpretazione ALBERTO
P-3
ASOR ROSA
Metodo e non metodo (nella critica letteraria) Concetti, tecniche e categorie dell’interpretazione letteraria CESARE
SEGRE
Testo letterario, interpretazione, storia: linee concettuali e categorie critiche 2I
1.
23 25 27 29 35 39 39 40 42 45 45 47
48 50 52
56 DI 58
La comunicazione
sibi 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 1.6.
zI
2.
Schema della comunicazione
L'autore Il lettore Autore implicito e lettore implicito Le persone o voci Il punto di vista
Il testo 2.1. Preliminari 2.2. La linguistica testuale 2.3. Isotopia ‘2.4. Il testo letterario 2.5. Le funzioni linguistiche 2.6. Tipi di testo 2.7. Coerenza del testo 2.8. Macrotesto 2.9. La struttura 2.10. I livelli 2.11. Espressione e contenuto 2.12. Connotazione e denotazione 2.13. Espressione e contenuto in letteratura
VIII
Indice
p. 59
2.14: La sostanza dell’espressione
60
2.15. Uso iconico della sostanza
63 64 66 67 68
2.16. Anagrammi o paragrammi 207% La sostanza acustica 2101 I discorsi alternativi 2.19. Le ipostasi nella metrica 2.20. Metrica e discorso
70
2:21, La forma dell’espressione: lo stile
72
2.22. Scelta e deviazione stilistica
74 74 75
25230 Le varietà linguistiche 224% Socioletti e registri 2.25. Ideologemi, formazioni ideologiche, scritture 2IZO, Le varietà del linguaggio letterario
76
227: Definizione globale dello stile
78
2728, L’avantesto
83 87
2.29. Intertestualità
9I
I contenuti testuali 3.1. I livelli del significato 3.2. Il contenuto di eventi
9I
3.3.
La parafrasi
92
3.4. 3.5. 3.6. 3.7. 3.8. 3.9. 3.10. 3.11. 3.12. 3.13. 3.14.
La scala di generalizzazione I motivi Intreccio e fabula Le funzioni narrative Narratologia Narrazione, descrizione, motivazioni Narratologia e realtà Narratologia e punto di vista La plurivocità Plurivocità e punto di vista La messa in forma del racconto
87
94 96 97 100 109 IIO 113 113 116 117
120
Storicizzazione 4.1. Comunicazione e storia 4.2. Cultura e storia 4.3. Storiografia letteraria
I2I
4.4.
Livelli dei testi e della cultura
124 128
4.5. 4.6.
Cultura e modelli. L’automodello Cultura e testi
134
4.7.
Storia e modelli
135
4.8.
Storia e tipologia
118 118 119
N
Indice
ROBERTO
ANTONELLI
Interpretazione e critica del testo DP.I4I I4I 142
1.
Tradizione e interpretazione cate Testo, valore, interpretazione TDI Critica del testo e tradizione T:3: Carne e spirito: interpretazione e allegoria I.4. «Rinascita» e testo ES Testo e trasmissione 1.6. Testo filologico e contesto culturale
2.
Interpretazione e testo 20E: Dal testo ai testi 23. Letteratura e scienze: comparatismo, testi, testo 2°3i La gerarchia della tradizione 2.4. Stemmatica ed errori comuni: sviluppo di un metodo? 2.5: Germania e Italia: filologia «scientifica» e tradizione nazionale
143 144 145 146 147 147 149 150 152 154 160 160 163 167 170 171
3. Il Testo e la Crisi 3, 3522 3:33.4. 3-5. 3.6.
173 175
3.7. 3.8. 3.9.
178 179 18I
4.
18I 182
184 185 188
189 190 193 195
207 2II 218
Filologia e critica: Barbi vs Croce
La difesa del Testo 4zt: Confronto con Bédier? 4.2. Controdeduzioni statistiche 4.3. Statistica e modo di produzione 4.4. Contaminazione di lettore e «contaminazione» d’autote 435: Tradizione «quiescente» e tradizione «attiva» 46. Il «circolo vizioso» Ag Dai principî ai problemi: anatomia dell’errore 4.8. Serie e sistema. La diffrazione 4.9. L’archetipo e i piani alti dello stemma
4.10. Contaminazione antica e moderna 4.11. Testo e successo. Tradizione «alta» e tradizione «popolare » 4.12. Filologia « materiale »
197 20I DIET
Nietzsche vs Wilamowitz: vita e storia Il caso Italia: Croce vs la scuola storica «Silva portentosa»: gli alberi bifidi e la crisi del «lachmannismo» Il problema Bédier «Neutralità» della recensio e metodo «scientifico » Dall’Autore ai testi Alle origini della moderna tradizione filologica italiana: Barbi vs Quentin e Bédier Archetipo e Originale
5.
Il testo e la Massa 5.1. Tradizione, interpretazione e Metodo: la filologia della Crisi 5.24 Testo, processo, sistema
IX
Indice 5.3. 5.4. 5.5.
p. 228
233 239
Testo e Scienza: descrizione e interpretazione La «nuova scienza» e le implicazioni ecdotiche Bipolarismo ermeneutico: il riconoscimento del conflitto
PIETER DE MEIJER La questione dei generi 245 258
266 267 271
1. Mortee risurrezione dei generi? 2. Generiletterari e generi non letterari 3. I generi letterari nella teoria e nella storia 3.1. Mezzi espressivi ed estensione testuale
Ù
3.2. Modi enunciativi 3.3. 3.4.
275 280
Modi semantici Funzioni sociali
ARMANDO PETRUCCI 283
La scrittura del testo Storia e storicismo nella tradizione critica italiana DANTE DELLA TERZA
3II
Le Storie della letteratura italiana: premesse erudite e verifiche ideologiche DANTE
331
DELLA TERZA
Francesco De Sanctis: gli itinerari della «Storia» RENÉ WELLEK La teoria letteraria e la critica di Benedetto Croce
351
1.
La teoria letteraria 1.1. Ilcritico-filosofo 1.2. L'estetica della forma 1.3. «Homo nascitur poeta» 1.4. Arte e tecnica letteraria 1.5. Arte e universalità
2.
La teoria della critica 2.1. Critica e arte 2.2. Valutazione e caratterizzazione
35I
358 359 361
363 363 364 365 368
371 374
2.3. Contro le «teorie letterarie» 2.4. 2.5. 2.6.
Monumento non documento Poesia e non poesia La critica e le intenzionalità del poeta
Indice
p. 376 376 377
3.
Letteratura e civilizzazione 3.1. Letteratura e istituzioni 3.2. Progresso e decadenza
381 386
3.3.
391 391 394 40I
I seguaci di Croce 4.1. Croce critico «dittatore»? 4.2. Luigi Russo
405
XI
La pratica della critica
3.4. Critica e tipi psicologici
4.3. Mario Fubini 4.4. Francesco Flora
La questione del metodo EMILIO
GARRONI
Estetica e critica letteraria 415 418 430 445
Estetica e discipline letterarie Che cos’è la letteratura? Che cos’è un'estetica filosofica? OIL Conclusioni e aperture IENE IGNAZIO
BALDELLI
e UGO VIGNUZZI
Filologia, linguistica, stilistica 451 452 454 456
458 459 462
463
469 472 477 479 488
Premessa Filologia, linguistica, stilistica: Giuseppe De Robertis, Gianfranco Contini L’impegno filologico e linguistico, come inerente alla critica stilistica Lo «specifico» filologico-linguistico-stilistico nella individuazione dei dati TORNERAI «materiali » L’intera cultura linguistica che verticalmente e orizzontalmente afferisce al testo esaminato Metrica come assetto dei diversi gradi della composizione poetica Assetto grafico e interpuntorio del testo, centrale alla «lettura» dell’opera Spe sn Ulme Rana, SIA ne Mi, Fili
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ALBERTO
ASOR ROSA
Metodo e non metodo (nella critica letteraria)
Ogni opera di riflessione teorica s’inserisce, al suo apparire, in un orizzonte storicamente determinato e fa i conti, quand’anche non lo voglia, con tutte le suggestioni e tutti gli impulsi che la materia affrontata spontaneamente suscita. Questa regola generale sembra ancor più vera per un volume come questo, quarto della Letteratura italiana, il quale si misura con l’arduo problema dell’«interpretazione» e si sforza di mettere un certo ordine, innanzitutto espositivo, nella travagliata « questione del metodo». In questo caso, infatti, l’orizzonte storico, di cui parlavamo, può essere perfettamente determinato, ha un prima e un poi con i quali misurarsi, un inizio e una fine ben individuabili (per quanto si possa parlare di un principio e di una fine rigorosamente determinati a proposito di processi come quelli che la critica letteraria tratta). Questo basta già di per sé a giustificare il particolare carattere della maggior parte dei discorsi presenti in questo volume, che è, al tempo stesso, di proposta critica, operativa, e di bilancio storico, di ana-
lisi e rendiconto del;quadro dei risultati raggiunti. Essi stanno, per cost dire, tra una frontiera e l’altra; non solo dispongono, di fronte al lettore, l’insieme, il ricco insieme, degli strumenti dei quali può avvalersi non solo il critico professionista ma un qualsiasi lettore attento di testi letterari; ma anche misurano lo spazio intercorso (spazio storico, spazio concettuale, spazio epistemologico) all’interno di esperienze, che a loro volta, e di volta in volta, si sono misurate e sono passate attraverso altri spazi storici, concettuali, epistemologici. Ma, per tornare al discorso di partenza, io direi che la fondazione della questione del metodo nasce, all’interno della cultura occidentale, con la nascita, appunto, del Metodo: sia che questo riguardi il problema epistemologico dell’interpretazione del testo e la possibilità stessa, conseguentemente, di una conoscenza sistematica della letteratura; sia che questo riguardi gli aspetti materiali del testo stesso e la identificazione della sua insopprimibile fisicità, come oggetto contraddistinto da caratteri determinati, sempre più distinguibili da quelli di altri oggetti culturali e sempre più definito nella sua identità corporea, fatta di segni, pagine, scritture, rilegature, volumi, collezioni, stampatori, editori. Non credo sia casuale che tutto ciò avvenga, in un breve spazio di pochi decenni, e in una sorprendente contiguità spaziale, geografico-culturale, quella della Francia della metà del xvI secolo, in cui il frutto delle filologie e delle
6
Alberto Asor Rosa
esperienze scientifiche straniere (in particolare, quelle dell’Umanesimo e della «Nuova Scienza» italiani) si sistematizza in proposte acuminate di nuove metodologie e nuove maniere di pensare, che nella loro eventuale astrattezza trovavano, se mai, un argomento di più per persuadere, per uscire vincitrici dal confronto con pit attardate e pesanti forme d’investigazione (tra cui, pet esempio, la retorica, la quale conosce di conseguenza un’eclissi, forse immeritata, ma destinata a durare a lungo). Qui è la vera cesura, il vero salto di qualità (comunque lo si voglia giudicare a distanza di più di tre sevoli). Pensiamo, in particolare, a nomi come quelli di René Descartes e Jean Mabillon. Non dimentichiamo che il Discours de la Méthode porta già nel titolo la precisazione: Pour bien conduire sa raison, et chercher la vérité dans les sciences; e che la metodologia proposta in quel prezioso libretto non consiste, essenzialmente, che nella sistematizzazione del «buon senso», di cui la maggior parte degli uomini secondo Descartes è spontaneamente dotata. La critica della cultura del proprio tempo, contraddistinta da frammentazione, disordine e dall’assenza di qualsiasi principio unificante, porta inevitabilmente alla ricerca di un principio unico del sapere. Le quattro regole del metodo cartesiano, per quanto dedotte essenzialmente da alcune fondamentali procedure matematiche, possono essere, infatti, applicate utilmente a qualsiasi terreno di indagine. La ricerca della verità, dunque, che costituisce di per sé l’obiettivo dell’analista, qualunque sia la materia alla quale egli si applica, non può fare a meno di un principio filosofico; e questo principio filosofico («Io penso, dunque sono»), a chi lo guarda bene, si rivela né più né meno che l’affermazione di una soggettività creatrice, che tende a ricondurre anche l’oggetto nell’ambito delle procedure analitiche rese possibili dalla particolare struttura conoscitiva, propria della mente dell’osservatore (che è, e non può non essere in questo caso, un essere umano). La fondamentale rivoluzione paleografica e diplomatica, resa possibile dall’erudizione di Mabillon e dalla straordinaria operosità dei padri Maurini, prolungata per più di un secolo, procede anch'essa, più di quanto non sembri, lungo la grande corrente del razionalismo francese del xvir secolo. I De re diplomatica libri sex (1681), mentre contribuiscono alla fondazione del concetto di «dato certo», di genealogia e cronologia delle opere, come condizione preliminare e irrinunciabile della loro storia, introducono nel lavoro del filologo e sempre più sistematizzano gli aspetti critici, razionali e perciò problematici, dibattimentali, dell'operazione solo apparentemente materiale della ricostruzione del testo. Non apparirà perciò né singolare né sorprendente che, nei secoli successivi, la grande critica letteraria europea sia dominata da due tendenze apparentemente contrapposte, in realtà confluenti nell’ottenere il medesimo effetto: da una parte, quella che consiste nella ricerca sempre più materiale, sempre più rigorosa ed inconfutabile, dell’esattezza del testo esaminato e di tutti i particolari concernenti la sua effettiva collocazione storica; dall’altra quella che consiste nella proliferazione crescente dei criteri possibili d’interpretazione, ciascuno dei quali, però, dichiara e presume d’essere l’unico a possedere
Metodo e non metodo (nella critica letteraria)
7
la chiave della «verità» dell’oggetto esaminato. Anche il primo caso, tuttavia, rientra, come abbiamo già accennato, nella sfera crescente di un pensiero razionalistico e problematico, che moltiplica i propri oggetti con gli strumenti sempre più sofisticati delle rispettive professionalità, delle quali si compone: basterebbe pensare alle straordinarie evoluzioni, anche recenti, delle attitudini e degli interessi paleografici, per rendersi conto di come tali processi non siano riconducibili esclusivamente ad un incremento, che peraltro esiste, degli strumenti positivi d’indagine. I «tormenti della filologia» non sono estranei, ma fanno parte, anche concettualmente, di questa storia del problematicismo e, insieme, di questa costante tensione alla verità, propria della critica letteraria degli ultimi tre secoli. Da un punto di vista generale, dunque, non dovrebbero esserci ostacoli a concepire le vicende della critica e delle teorie letterarie nell’età moderna come un caso speciale (ma strettamente concatenato con tutto il resto) del discorso scientifico contemporaneo: ne vedremo più avanti alcune conseguenze.
Da un punto di vista più particolare bisognerebbe segnalare il fatto che, nell’evoluzione delle metodologie letterarie, dopo la svolta poc'anzi descritta, si verificano almeno due grandi inserimenti, di natura assai diversa, ma non tale, tuttavia, da modificare il quadro sintetico dei problemi di fondo già accennati: quello rappresentato dallo storicismo dialettico d’origine hegeliana (con tutti i suoi addentellati diretti e indiretti, ivi compreso il positivismo evoluzionistico e il marxismo); e quello rappresentato dal formalismo neopositivistico e strutturalistico, e poi semiologico (dal Circolo di Mosca alla Scuola di Praga fino ai giorni nostri). I due poli contrapposti della storia e della struttura amplificano e ramificano ulteriormente le tensioni esistenti nel campo della riflessione teorico-letteraria: basti pensare ad una questione come quella della storiografia letteraria, la quale da questa contrapposizione esce ad un certo punto quasi distrutta come nozione legittimamente praticabile, per rendersi conto di quali profonde questioni epistemologiche siano state investite e messe in causa da riassetti anche parziali del sapere letterario, come quelli cui si è finora accennato. Se poi si guarda all’esperienza ancor più particolare dell’Italia, si può vedere come lo schema proposto sia destinato a funzionare anche per una ricostruzione storica della nostra critica. L'iter ifalicum di Mabillon, e il suo incontro con Benedetto Bacchini, maestro e protettore di Ludovico Antonio Muratori, fondatore dei nostri studi storici, innescano un processo di azioni e reazioni, che può dirsi oggi sufficientemente chiaro nelle sue interne dinamiche '. D’altra parte, Muratori non poteva dirsi insensibile neanche al fasci1 Cfr. A. MoMIGLIANO, I discepoli italiani del Mabillon (1958), in Terzo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1966 (ora in Sui fondamenti della storia antica, Torino 1984, pp. 252-70). Cfr. anche 1n., « Bacchini, Benedetto», in Dizionario biografico degli Italiani, V, Roma 1963, pp. 22-29. Cfr. inoltre: E. RAIMONDI, La formzazione culturale del Muratori: il magistero del Bacchini, in AA.vv., Atti del Convegno internazionale di studi muratoriani, Modena 1972, I. L. A. Muratori e la cultura contemporanea, Firenze 1975, pp. 3-23 (ora anche in Scienza e letteratura, Tortino 1978, pp. 55-84). Importanti osservazioni sull’emergenza e sui caratteri del «paradigma erudito » nella cultura storica e storico-letteraria italiana in A. BIONDI, Tempi e forme della
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Alberto Asor Rosa
no del razionalismo cartesiano, reso in lui peraltro cauto e perfettamente accettabile dal rapporto con una tradizione religiosa a sua volta cautamente razionalistica e cautamente scientista (i Gesuiti del Seicento, intendo, ben diversi da quelli, tutti sulla difensiva, del tardo Settecento e dell’Ottocento). Gerolamo Tiraboschi, gesuita, successore del Muratori nella carica di prefetto della Biblioteca Estense, che era stata ancor prima del padre Bacchini, riproduce nella Storia della letteratura italiana (1772-81) sia i criteri dell’accertamento delle fonti e dei dati, che erano stati propri della tradizione maurina e bollandista, sia i criteri di organizzazione del discorso storico, che erano stati propri del Muratori (non senza prestare attenzione, forse, alle voci provenienti dalla vicina Francia, come, ad esempio, quella del Bayle). Il rapporto della critica ottocentesca italiana, compreso Francesco De Sanctis, con queste fondazioni del discorso critico e storico-letterario, è noto, e in questo volume trova una nuova e più precisa illustrazione. Gli effetti di questa tradizione si avvertono in Italia fin nel Novecento inoltrato, e noi non abbiamo mancato di far risaltare i nessi, che si manifestano, anche in maniera vistosa, fra i diversi elementi e fattori componenti tale quadro. Solo nel secondo dopoguerra la situazione italiana si fa analoga a quella di altre nazioni europee (in particolare, la Francia, che resta il grande serbatoio delle sperimentazioni teorico-letterarie italiane, anche se, da un certo momento in poi, con consistenti apporti di area anglosassone e tedesca). Ed è il secondo dopoguerra che vede l’affermazione prepotente della « questione del metodo» come cardine stesso dell’agire letterario: non solo, infatti, in quest’ultima fase l’affinamento e la moltiplicazione delle metodologie d’indagine pervengono a determinare una situazione in cui il metodo stesso diventa a sua volta terreno d’indagine e di contestazione critica (assai più, talvolta, del testo letterario, ridotto a puro pretesto); ma anche si assiste ad una, sia pure temporanea, rifioritura di scientismo positivista, nel senso precisamente che una concezione dell’analisi letteraria come «scienza» vigorosamente s’afferma e prende piede, in molte versioni diverse e talvolta contrapposte (dal sociologismo marxista, ad esempio, al formalismo strutturalista).
Ma quest’ultimo periodo rappresenta al tempo stesso l’amplificazione e l’apoteosi (finale, forse?) di un «senso riposto», che costituisce la chiave interpretativa fondamentale di #0 il periodo esaminato. Non v’è dubbio che, durante i tre secoli in questione, coerentemente con le tendenze epistemologiche e scientifiche dominanti, il problema dell’accertamento della «verità del testo» domina sovrano il campo della teoria e della critica letteraria: e il dibattito metodologico si svolge, appunto, intorno all’arduo quesito di quale sia lo strumento capace di captare e/o riprodurre meglio tale «verità». Potremmo intitolare questo lunghissimo capitolo di storia della cultura letteraria europea: «le illusioni della scienza». storiografia, in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana, III/2. Le forme del testo. La prosa, Torino 1984, pp. 1093-99.
Metodo e non metodo (nella critica letteraria)
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Oggi, al contrario, dell’immensa mole di tentativi esperiti alla ricerca della «verità del testo», ci colpisce, più che le singole varianti di tale verità, l’estrema ricchezza di materiali epistemologici derivati da tali sperimentazioni: e cioè, quasi come effetto paradossale di una preterintenzionale ricaduta di elementi soggettivi sul testo, subentrata al posto di quella fredda disamina oggettiva degli elementi che lo compongono, l’accrescimento della nozione e delle pratiche del letterario indotto per vie traverse, mediante la moltiplica zione dei discorsi critici. Vista retrospettivamente, dunque, la vicenda del metodo, in Europa soprattutto, ma anche in Italia, a partire, almeno, come abbiamo detto, da una certa fase, ci si presenta come una lunga, insistente, appassionata tensione alla produzione di «codici interpretativi», che sono spesso, però, anche « procedure di formalizzazione» (e dunque di «legalizzazione») del fatto letterario, il quale, mentre viene «conosciuto», viene al tempo stesso fatto rientrare e sistemato in una determinata orbita storico-culturale e talvolta, in certi casi, perfino ideologica e politica. Forse questo nesso non è stato avvertito tradizionalmente come sarebbe stato opportuno, e vale perciò la pena di spendervi due parole. Io non avtei dubbi sul fatto che i metodi critico-letterari si presentino, appunto, come tipici «codici interpretativi» del testo/contesto letterario. Se l’affermazione non è infondata, ne derivano due conseguenze. La prima è che tali codici non fanno altro (non possono far altro) che tradurre la «verità del testo» in un «linguaggio altro», perché questa è esattamente la loro funzione. L’assoluta fedeltà al testo consiste nella sua mera riproduzione diplomatica (se pure). Essi, quindi, come svelano la «verità del testo», cosi la falsificano: poiché ogni «traduzione» è e non può non essere una «falsificazione». Le due cose stanno insieme benissimo, nonostante le apparenze. Se, infatti, non ci fosse falsificazione, non ci sarebbe neanche il tentativo del disvelamento; d’altra parte, il tentativo di disvelamento porta come conseguenza necessaria — lo abbiamo già detto — la falsificazione. Se mi si obiettasse che questo intreccio di «rivelazione» e «falsificazione» caratterizza praticamente ogni applicazione del metodo scientifico, non rifiuterei tale generalizzazione. La seconda conseguenza è che tali «codici» non sono meno degli «strumenti interpretativo-scientifici» che delle «categorie storico-culturali». Sarei lieto se qualcuno mi indicasse un metodo non contraddistinto da questa doppia valenza. In attesa di qualche illuminazione su questo punto, osserverei che questa doppia valenza mette sempre il critico letterario in una posizione difficile e ambigua di fronte al testo: egli, infatti, vuole conoscerlo; ma, al tempo stesso, si sforza più o meno consapevolmente di «collocarlo» all’interno del proprio «sistema». Anzi, più esattamente, proprio in quanto lo conosce in quel certo modo, non può fare a meno di «sistemarlo» nel proprio «sistema». Se in quel testo c'è qualche cosa di difficilmente «sistemabile», il critico letterario non esita spesso a ricorrere ad amputazioni e rimozioni. Egli, infatti — senza bisogno di pensare a operazioni troppo brutali —, non può vedere niente di più di ciò che il suo metodo (la sua «traduzione ») gli fa vedere: il
IO
Alberto Asor Rosa
resto è come se non ci fosse. La conoscenza del testo si accompagna, dunque, oltre che alla «falsificazione», anche alla «rimozione ».. Il fatto che un processo di conoscenza s’accompagni inevitabilmente ad effetti di «falsificazione» e di «rimozione», non dovrebbe ormai scandalizzare più nessuno. Il fatto che i metodi, oltre che «codici interpretativi» di natura scientifica, esprimano anche opzioni storico-culturali e ideologiche, non dovrebbe servire a mettere in discussione la loro validità ermeneutica: la quale, per l'appunto, di questi due diversi ma concomitanti aspetti e funzioni esattamente si compone. Oltre tutto, anche gli oggetti che essi studiano non sono mai meri «oggetti scientifici» (ammesso ve ne siano): ma sono «oggetti
storico-culturali», composti di elementi diversi, diversamente combinati fra loro (elementi diversi, legati da relazioni diverse, in dosi diverse, intendo dire: sèmi, fonemi, regole retoriche, materiali linguistici, attributi formali, pregiudizi ideologici, scelte etiche, ecc.). Un codice, cioè un «sistema di traduzione», non è mai del tutto indifferente alla natura degli oggetti che deve tradurre (cioè, al «sistema altro», che deve sforzarsi di restituire nel proprio linguaggio): se lo fosse, non ne capirebbe niente. Ciò è tanto vero che ci sono metodi nati a stretto contatto, quasi ispirati, per cosi dire, dal rapporto con determinati fenomeni letterari: è difficile immaginare la nascita del marxismo di Gyòrgy Lukfcs senza la presenza del «realismo» moderno; e altri che, nascendo già in una situazione non più di unilaterale ma anche di reciproca «traduzione», hanno stimolato la produzione letteraria contemporanea a muoversi in una determinata direzione: è noto che il formalismo russo ha agito fin dall’inizio su questo doppio versante, critico/attistico. Il testo letterario è dunque un tipico «oggetto non-morto» dell’analisi scientifica: per quante volte esso cambia aspetto in conseguenza del cambiamento del metodo, ce ne sono almeno altrettante in cui esso cambia il metodo in conseguenza del suo continuo «rivelarsi-diverso» all’osservatore. È in casi del genere che lo studioso di letteratura inteso come «critico» è tentato di passare a quei terreni apparentemente più solidi e certi dell’indagine, che si raccolgono sotto il seducente nome di «filologia»: ed in effetti, anche tra i nostri amici, se ne conoscono alcuni dotati d’eccellenti attitudini critiche e storiche, che hanno fatto questo gran passaggio per amore di certezza, ossia, in ultima analisi, di verità. Ma, come già accennavamo, anche la certezza filologica si presta a molte attenuazioni problematiche: anzi, per più versi, si potrebbe dire che essa è precisamente il terreno privilegiato della «congettura», ovvero, per dirla cartesianamente, del «dubbio metodico». Un critico italiano, Lanfranco Caretti, che ha felicemente contaminato nella sua produzione filologia e critica, scriveva anni or sono che il «processo congetturale... è in fondo l’atto di maggiore responsabilità dell’operazione filologica» °. E «processo congetturale » è definizione appropriatissima per un’attività ? L. CARETTI, Filologia e critica (1952), in Filologia e critica. Studi di letteratura italiana, Milano-Napoli 1955, p. 12. Il saggio, cui facciamo riferimento, è dedicato «alla memoria di G. Pasquali». In questo modo risaliamo direttamente all’autore della fondamentale Storia della tradizione e critica del testo, la cui influenza sulla critica italiana, nel senso di cui Caretti si fa autorevo-
Metodo e non metodo (nella critica letteraria)
II
d'indagine scientifica, che fa della costante revisione e rimessa in discussione dei risultati raggiunti il proprio criterio metodico fondamentale, se non addirittura unico. Del resto, sul terreno del «processo congetturale», filologia e critica finiscono per incontrarsi come due segmenti dello stesso procedimento scientifico (come ancora il Caretti segnalava a proposito dell’uso da fare delle «varianti d’autore», in rapporto ad una «concezione dinamica dell’opera d’arte» ®: e le «varianti d’autore» sono state effettivamente, nella tradizione critica italiana, uno dei più bei cavalli di battaglia di quanti hanno individuato in un’analisi strettamente «testuale» lo strumento più adeguato dell’operazione interpretativa). Considerazioni non molto diverse si potrebbero fare a proposito del rapporto tra analisi linguistica — un’altro strumento al tempo stesso «certo» e «congetturale » — e interpretazione critica. Queste ultime osservazioni, per quanto sparse, ci consentono di riprendere e chiarire un altro punto, che, come abbiamo già detto altre volte, ci sta molto a cuore. Il testo letterario, che affrontiamo con i nostri personali strumenti d’analisi, non ci si presenta mai come una superficie liscia, cera vergine, sulla quale noi andiamo ad imprimere per la prima volta la nostra impronta. Il testo letterario si colloca da sé in uno spazio tridimensionale, in una dimensione stereoscopica. Infatti, esso è come un campo arato da innumerevoli altre precedenti interpretazioni: in lui noi leggiamo sempre non solo ciò che è, ma anche ciò che altri hanno voluto che fosse. Ci riferiamo a quel fenomeno, del resto assai ben noto, per cui la moltiplicazione e il confronto dei metodi, e la stessa ostinata fatica dei filologi a realizzare una fisionomia sempre più precisa del loro oggetto, contribuiscono alla costruzione dell’immensa piramide della tradizione: la quale, a sua volta, man mano che s’innalza, spinge verso l’alto i valori, li trasforma e li deforma, li mette in relazioni sempre diverse con l’insieme dello straripante universo letterario. E, anche in questo caso, «falsificazioni» e «rimozioni» contano non meno delle « interpretazioni » e delle «versioni » a costituire il mobile campo, dentro il quale l’oggetto letterario continuamente si sposta e si ri-colloca. Quel che vogliamo dire è che il metodo non agisce mai a partire da un ipotetico «grado zero della scrittura», ma ha a che fare, sempre, con il labirintico intrico di relazioni, corrispondenze, trasformazioni, traslazioni, che la grande macchina della tradizione presenta come un tutto oggettivo, come un individuo proteiforme, dotato di autonomia e di una propria individualità. Il fatto che si tratti di un’illusione ottica, poiché noi sappiamo che essa è invece il frutto d’una lunga e complessa, e talvolta consapevole, costruzione, non significa le interprete, non è certo trascurabile. Vale la pena di rammentare che Pasquali fa continuamente appello alla «prudenza» come ad una delle virti migliori del critico-filologo: ora, la «prudenza » è esattamente il tratto etico-psicologico, che meglio si connette ad una situazione come quella riassunta nella formula di « processo congetturale ». 3 Ibid., pp. 17-25. Converrà rammentare che lo stesso Caretti si è cimentato in una delle più ammirevoli imprese della italiana «critica degli scartafacci», pubblicando I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni con le due edizioni a fronte del 1825-27 e del 1840 (cfr. A. MANZONI, I Promessi Sposi, a cura di L. Caretti, II. I Promessi Sposi nelle due edizioni del 1840 e del 1825-27 rafrontate tra loro. Storia della colonna infame, Torino 1971). Ma cfr., in questo stesso volume, A. PETRUCCI, La scrittura del testo, pp. 283-308.
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che, in pratica, essa non finisca per agire effettivamente come un tutto oggettivo, dotato di autonomia e di una propria individualità. Accade sovente che noi crediamo di leggere un testo, e leggiamo invece il «canone», che quel testo si è costruito nel tempo o che altri hanno costruito intorno a lui. Il rapporto del critico con il testo, poiché fra i due s’interpone il «canone» — e anche qui si vorrebbe capire come questo possa non esser considerato inevitabile —, è sempre agonistico, conflittuale, non diversamente da quello che con il canone intrattiene lo scrittore, l’artista, quando crea (sicché il tratto caratteristico dell’operazione critica ben riuscita è «mettere fuori equilibrio» il canone: anche se questa innovazione, questa messa fuori d’equilibrio del canone, costruiscono anch’esse canone, imprimono un altro solco della tradizione). Ma tutto questo, che abbiamo cercato finora di descrivere, appare oggi inscritto all’interno di una parabola, della quale noi abbiamo il privilegio (o la sfortuna) di cogliere forse la curvatura finale. Si direbbe, infatti, che, a tre se-
coli di distanza dalla sua genesi, il prolungato e proliferante esercizio del « dubbio metodico» come strumento pet «ricercare la verità nelle scienze» abbia prodotto i suoi anticorpi e abbia finito per generare il «dubbio del metodo». La fenomenologia, dentro cui questo fenomeno si è presentato, è assai vasta, e investe né più né meno che alcune caratteristiche fondamentali del nostro sistema culturale. Non potendo affrontare il discorso per esteso, ci limitiamo a segnalare alcune coincidenze. Qualunque sia il giudizio che si voglia pronunciare intorno alla correttezza delle teorie di Paul Feyerabend, non c’è ombra di dubbio che esse abbiano un valore sintomatico difficilmente sottovalutabile. La parte seconda (Principales règles de la méthode), del Discours de la Méthode, inizia con l’esposizione delle ragioni che rendono evidente la necessità di un principio unico del sapere. È anche significativo — proprio per il carattere artistico, immaginoso, che la formulazione assume — che Descartes avvalori la fondatezza della sua affermazione, sostenendo che le città costruite da un solo ingegnere risultano molto più belle e proporzionate di quelle affidate alle cure di molti. Con un parallelismo, che lascia sospettare un’esplicita presa di posizione nei confronti del pensatore francese, fondatore di una teoria sistematica del metodo come via per arrivare alla verità, Feyerabend scrive: L’idea di un metodo che contenga principi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida nell’attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene messa a confronto con i risultati della ricerca storica. Troviamo infatti che non c’è una singola norma, per quanto plausibile e per quanto saldamente radicata nell’epistemologia, che non sia stata violata in qualche circostanza. Diviene evidente anche che tali violazioni non sono eventi accidentali, che non sono il risultato di un sapere insufficiente o di disattenzioni che avrebbero potuto essere evitate. Al contrario, vediamo che tali violazioni sono necessarie per il progresso scientifico... ‘. * P. K. FEYERABEND, Against Method: (trad. it. Milano 19847, p. 21).
Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge,
1975
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E altrove: Per coloro che non vogliono ignorare il ricco materiale fornito dalla storia, e che non si propongono di impoverirlo per compiacere ai loro istinti più bassi, alla loro brama di sicurezza intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell’«obiettività», della «verità», diventerà chiaro che c’è ur solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene".
In questa maniera, persino il «falsificazionismo » popperiano, che sarebbe bastato da solo a mettere in crisi molte delle certezze, di cui i diversi metodi della critica letteraria si sono fatti portatori anche nel corso degli ultimi decenni, viene spiazzato: il principio del:«caso per caso» e la totale arbitrarietà nell’uso delle «leggi» ripropongono una versione creativa, artistica, della stessa attività scientifica °. Noteremo appena, quasi fra parentesi, che, accanto alla riproposizione di un concetto di conoscenza come «arte», Feyerabend — e la cosa è tanto singolare quanto significativa — reintroduce il concetto di «verifica sul piano storico»: solo la storia, infatti, è in grado di misurare sia i percorsi sia i risultati della ricerca scientifica, solo in base a «ciò che è realmente accaduto», possiamo formulare ipotesi su «ciò che è probabile che accada». Come questo consenta di parlare ancora di «progresso scientifico», dal momento che ogni metro di misura è infranto, è difficile dire. Certo è che Feyerabend dimostra di discendere pit dallo « psicologismo » di Ernst Mach che non dalla logica matematica di Ludwig Wittgenstein, in cui il «dubbio del metodo» conserva sempre una tonalità altamente problematica *. Ma, comunque sia, la de-motivazione totale degli effetti terapeutici del metodo, ove fosse trasferita, dal terreno delle scienze fisiche, cui Feyerabend più frequentemente l’applica, a quello delle discipline umanistiche, produrrebbe una rivoluzione anti-scientista dagli effetti forse ancor più grandi. Su questo ritorneremo; ma intanto voglio osservare che, almeno in parte, questa rivoluzione c’è stata, almeno dal punto di vista del potenziale teorico dispiegato, se non degli effetti conseguiti. Non può essere un caso, non può essere una coincidenza che, quando Jacques Derrida si mette a discutere l’interpretazione data da Foucault della genesi e della storia della follia, il nome che viene tirato in ballo fra i due sia ancora una volta quello di Descartes — la 5 Ibid.,p.25. 0 Che ID., Scienza come arte, introduzione di M. Pera e replica di P. K. Feyerabend, RomaBari 1984). ? Cfr. E. MAcH, Erkenntnis und Irrtum. Skizzen zur Psychologie der Forschung, 1905 (trad. it. Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca, Torino 1982, particolarmente i capitoli Coroscenza ed errore, pp. 107-23; Sensazione, intuizione, fantasia, pp. 142-60; Deduzione e induzione dal punto di vista psicologico, pp. 297-313). 8 «Con la parola “certo” esprimiamo la convinzione completa, l’assenza d’ogni dubbio, e con essa cerchiamo di convincere il nostro interlocutore. Questa è certezza soggettiva. Ma quando una cosa è oggettivamente certa? — Quando non è possibile un errore. Ma che genere di possibilità è mai questa? L’errore non dev'essere escluso logicamente?» (L. WITTGENSTEIN, On Certainty, 1969 (trad. it. Torino 1978, p. 33). Sarà un caso, ma anche Wittgenstein, quando si tratta di analizzare i concetti connessi con quelli di «certo» e «vero», riparte come Descartes dal «senso comune»
(cfr.
il saggio introduttivo di A. carGANI, Scienza, filosofia e senso comune, particolarmente alle pp. x-XIV).
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questione evocata sia ancora, in buona sostanza, quella del metodo”. La conclusione, cui in quella sede Derrida perviene (siamo nel 1963), è degna di essere riletta per intero: .
.
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Agli altri titoli di riconoscenza per Foucault aggiungerò dunque anche quello di avermi spinto con il suo libro monumentale a intuire più profondamente che in una lettura ingenua delle Meditazioni, fino a che punto l’atto filosofico non può non essere cartesiano nella sua essenza e nel suo progetto, non può non essere nell’eredità cartesiana se per cartesiano si intende, come intendeva certamente Descartes stesso, voler essere cartesiano. Vale a dire, come ho cercato almeno di dimostrare, voler-dire-l’iperbole-demoniaca a partire dalla quale il pensiero si annuncia a se stesso, spaventa se stesso e si rassicura al suo vertice contro l’annientamento o il naufragio nella follia e nella morte. A/ vertice di se stesso, l’iperbole, l’apertura assoluta, il dispendio antieconomico è sempre ripreso e sorpreso in una econorzia. Il rapporto tra la ragione, la follia e la morte è una economia, una struttura di « differanza» di cui bisogna rispettare l’irriducibile originalità. Questo voler-dire-l’iperbole-demoniaca non è un volere tra gli altri; non è un volere che potrebbe essere occasionalmente ed eventualmente completato dal dire, come da un oggetto, dal complemento oggetto di una soggettività volontaria. Questo voler dire, che non è neppure l’antagonista del silenzio, bensî la sua condizione, è la profondità originaria di ogni volere in generale. A nessun volontarismo, d’altra parte, sarebbe possibile afferrare questo volere, perché esso è anche, come finitezza e come storia, una passione iniziale. Conserva in sé la traccia di una violenza. Scrive se stesso più che non dica se stesso, si economizza. L’economia di questa scrittura è un rapporto regolato tra l’eccellente e la totalità ecceduta: la «differanza» dell’eccesso assoluto !°.
Conclusione, ma conclusione provvisoria. È stato giustamente osservato che, in questa disputa, Foucault e Derrida « si accusano a vicenda di essere Descartes» ". Ma importante per noi risulta soprattutto osservare che Derrida, pur riconoscendo che il metodo cartesiano comporta un rinserramento del pensiero in se stesso contro il pericolo del naufragio nella follia e nella morte, tuttavia ammette che l’atto filosofico in sé, cioè l’assunzione di 41 metodo, anzi, l’assunzione del metodo, «non può non essere cartesiano nella sua essenza e nel suo progetto». Tuttavia, una volta posta questa definizione, pet cui l’applicazione rigorosa di un metodo (del Metodo) comporta necessariamente un atto di violenza, ossia la registrazione del «rapporto regolato tra l’eccedente e la totalità ecceduta: la differanza dell’eccesso assoluto», la via è aperta al tentativo di mettersi «fuori» 0 ai «margini» dell’universo del Metodo (cioè, fuori o ai margini di ogni universo che pretenda sapersi in forma sostanzialmente univoca, per andare da qui a li, avendo consapevolezza di cosa si cerca e perché). Fuori, dove? Questo è più difficile dirlo. Secondo le più recenti definizioni di Derrida, « decostruire era anche un atteggiamento strutturalista... Ma era ané ? Cfr. J. DERRIDA, Cogito et bistoîre de la folie (1963), in L’écriture et la différence, 1967 (trad. it. Torino 1971, pp. 39-79). 1° Ibid., pp. 77-78. !! Cfr. p. caRROLL, Filosofia e storia: la problematica (del) «fuori», in «Nuova Corrente», n. 84 (1981), p. 61.
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che un atteggiamento antistrutturalista...» '. Infatti, «l’apparenza negativa è tanto più difficile da cancellare in quanto, nel lavoro della decostruzione, ho dovuto, come faccio qui, moltiplicare le avvertenze, e in definitiva scartare tutti i concetti filosofici della tradizione pur riaffermando la necessità di ricorrere a essi, quantomeno sotto cancellatura» !. «Comunque, e nonostante le apparenze, la decostruzione non è né una analisi né una critica...» !*. «Biso-
gnerebbe anche precisare che la decostruzione non è neanche un atto o una operazione» ”. «La decostruzione ha luogo, è un evento che non aspetta la deliberazione, la coscienza o l’organizzazione del soggetto, né della modernità. Si decostruisce...» '*. In definitiva: «Che cosa non è la decostruzione? tutto! Che cos’è la decostruzione? nulla!» !. Il tentativo di sottrarsi alla schiavità della catena del metodo non è, come si vede, privo d’ostacoli. Alla fin fine, gli è d’ostacolo il fatto stesso d’organizzare il pensiero in parole: qualsiasi «definizione», infatti, anche la più minimale, non è che un «rassicurarsi» al proprio vertice «contro l’annientamento o il naufragio nella follia e nella morte». Se si parla, e soprattutto se si scrive, la violenza è comunque esercitata: fra tutto e nulla può non esserci nessuna «differenza»; ma, poiché l’abbiamo «detto», la differenza è «parlata», essa torna ad essere operante nei limiti ristretti, che il vincolo della nostra condizione ci (le) pone. Questa ribellione contro la parola e la legge, come strumenti fondamentali di una «comunicazione» che non vuole rinunciare al metodo, c’era già stata nella cultura letteraria europea del passato, e in una situazione non molto dissimile da quella nella quale la più recente si giustifica e si colloca. «Quelli che dipendono da noi restano liberi. Noi non ci basiamo su nessuna teoria»; «Io sono contro tutti i sistemi, l’unico sistema accettabile è quello di non seguirne, sistematicamente, nessuno...»: sono parole di Tristan Tzara". Infatti: «Dadà non significa nulla» !; e «Tutto è Dadà» °°. Il riferimento è tutt’altro che irriverente, ammesso che possano esistere riferimenti irriverenti per un «decostruzionista» o per un «anarchico della scienza». Del resto, Feyerabend dichiara apertamente — e io avrei preso molto di più sul serio questa autodefinizione, se fossi stato uno dei suoi interpreti — di preferire d’esser chiamato «dadaista» che «anarchico», perché «un dadaista è pronto a iniziare esperimenti gioiosi anche in quegli ambienti da cui il cambiamento e la sperimentazione sembrano intrinsecamente esclusi (pet esempio: le funzioni base della lingua)». Ma, a parte questi riferimenti 12 J. DERRIDA, Lettera a un amico giapponese, in « Alfabeta», VI (1985), 70, p. 23. 13 4 5 16 17
Ibid. Ibid. Ibid. Ibid. Ibid.
18 [r. rzARA], Manifeste Dada 1918 (1918), in Sept manifestes dada. Lampisteries, 1924 (trad. it. Manifesti del dadaismo e Lampisterie, prefazione di S. Volta, Torino 1964, pp. 35 € 39). ° Ibid.,p. 34. ay 20 [r. TZARA], Dada manifeste sur l'amour faible et l’amour amer (1921), ibid., p. 55.
21 P. K. FEYERABEND, Aga?nst Method cit., trad. it. p. 19, nota 1.
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espliciti, resta il fatto, di fondamentale importanza, che Dadà aveva già totalmente e definitivamente capito che ogni «definizione» porta in una gabbia, perché la logica è una gabbia, e una gabbia il linguaggio. Scartare una definizione con un’altra, «cancellare» invece di scrivere, è un esercizio purificatorio, che apre altre e diverse possibilità rispetto a quelle passate, ma non sottrae alla dura constatazione che cancellare una definizione significa emettere una definizione. Quando Tzara, qualche anno più tardi (1947), affermava: «È certo che la tabula rasa di cui noi facevamo il principio direttivo della nostra attività non aveva altro valore che in quanto un’altra cosa doveva succederle» 2, questa non era l’esplicitazione retrospettiva di una presunta azione liberatoria condotta fin dall’inizio consapevolmente sotto la maschera della decostruzione totale: era la confessione di un fallimento: un inevitabile fallimento. Ma il termine fallimento, poi, non è per niente esatto. Dobbiamo piuttosto parlare della scoperta di un «limite», probabilmente invalicabile. Ma, in genere, la scoperta di un «limite» coincide con la scoperta di un «mondo nuovo»: in questo caso, con la inesauribile e pure invalicabile ricchezza del «linguaggio umano» (anche quando è linguaggio piegato alla ferrea regola d’un metodo).
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Tornando nel campo pit circoscritto delle fenomenologie e metodologie letterarie, osserveremo che l’ultimo periodo appare contraddistinto da una sempre più accentuata sfiducia nelle «illusioni della scienza»: anche l’epistemologia letteraria conosce, in parallelo ai problemi dell’epistemologia scientifica e filosofica, un declino tanto rapido quanto impressionante delle certezze. Accantoniamo le vicende del «decostruzionismo» americano, che non cono-
sciamo bene, ma di cui, comunque, la manifestazione più significativa ci sembre resti il pensiero del francese Derrida ”, e usiamo come esempio l’evoluzione dei convincimenti d’un personaggio almeno altrettanto notevole nel campo dell’« analisi letteraria», come Tzvetan Todorov. Affrontando esplicitamente il tentativo di definire «la nozione di letteratura», nella prefazione ad una delle sue ultime raccolte di scritti, attraverso una serie di passaggi svolti sempre molto elegantemente, Todorov arriva alla seguente conclusione: Il risultato di questo percorso può sembrare negativo: consiste nel negare la legittimità di una nozione strutturale di «letteratura», nel contestare l’esistenza di un «discorso letterario» omogeneo. Che la nozione funzionale sia legittima o no, la nozione strutturale non lo è. Ma il risultato è negativo solo in apparenza, perché al posto della sola letteratura appaiono ora numerosi tipi di discorso che meritano, allo stesso titolo, la nostra attenzione *.
Dunque: l’unica nozione generale di letteratura accettabile — se mai ce n'è una — è quella «funzionale», ossia «un’entità di letteratura» che «funzioÈ Citato in s. VOLTA, Prefazione a [T. ZARA], Manifesti del dadaismo cit., p. 25. ® Sugli ultimi orientamenti della critica americana cfr. l’utile e recentissimo P. CARRAVETTA e P. SPEDICATO (a cura di), Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Milano 1984. Cfr. inoltre r. cESERANI, Nuove strategie rappresentative: la scuola di Berkeley, in « Belfagor», XXXIX (1984), 6, pp. 665-85. 2 1. topoROV, Les genres du discours, Patis 1978, p. 25.
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na al livello delle relazioni intersoggettive e sociali» ”; i «punti di vista funzionale e strutturale devono essere strettamente distinti» ‘; tutti i tentativi di dare una definizione strutturale della letteratura sono falliti; è possibile invece distinguere e classificare «tipi» diversi di «discorso», che possono essere definiti, ciascuno per sé, letterari ”.. Non a caso, in questo di Todorov, come in molti altri discorsi di critici e teorici contemporanei, alla scomparsa dell’«illusione scientista» fa seguito immediatamente la ricomparsa della «classificazione retorica». Si torna a parlare, infatti, di «generi»: e, giustamente, la «questione dei generi» tende a prendere quasi totalmente il posto della « questione del metodo » (dopo quasi tre secoli), e assume valenza e caratteristiche di « questione teorica generale», non solo intorno alle forme concrete, ma anche alla natura, alla «forma», della letteratura ?. Non potrebbe esserci una ritirata più in regola di questa. Qui, alla definizione scientifica, strutturale, del letterario, si sostituisce l’invito a scoprire il letterario dove c’è, nelle forme in cui si presenta, in base all’«orizzonte d’attesa», che di volta in volta lo determina. Tutta la tematica dell’«orizzonte d’attesa» mi sembra connessa, del resto, a questa spinta a ritrovare il «letterario» al di fuori, in fondo, del testo, che pure, di volta in volta, viene definito (continua a esser definito) come tale. Vien voglia di chiedersi come si possano identificare le «letterature» senza avere un’idea, per quanto generica ed approssimativa, di «letteratura», e come possa formarsi un orizzonte d’attesa», o una corrente di ricezione all’interno del pubblico, in grado di determinare il carattere «letterario» di un testo, senza che in quell’«orizzonte d’attesa», all’interno di quel pubblico, non circoli già (sia pure in attesa d’essere modifi cata) una «certa idea» di «letteratura». > Ibid., D..14. 26 Ibid. 21 Posizioni non dissimili hanno espresso recentemente, facendo riferimento alla categoria del «ri-uso», mediata da Heinrich Lausberg (non a caso formulata anch’essa in un ambito di stretta riflessione retorica), Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo: «Il problema non è più tanto di individuare ciò che fa di un testo un testo letterario, perché questo è impossibile, e le teorie letterarie contemporanee non hanno fatto, al riguardo, che accumulare contraddizioni su contraddizioni, ma di capire piuttosto come funziona un testo letterario» (F. BRIOSCHI e C. DI GIROLAMO, Elezzenti di teoria letteraria, Milano 1984, p. 67). Anche qui, nonostante la nitidezza del discorso, non si capisce come
si possa individuare un «testo letterario» — per capire come funziona — se non si ha
una qualche idea di ciò che serve per definire quel testo «letterario». Giustissimo che «la nozione di letteratura varia... da epoca a epoca e da cultura a cultura», e che è dunque necessario « studiare le forme che il letterario di volta in volta assume, e di individuare le modalità del riconoscimento di certi testi come letterari e le procedure del loro trattamento nella società» (ibid., p. 69). Se però bastasse aver chiara la nozione di letteratura, che di volta in volta, nei diversi periodi storici, si è affermata, per costruire (ad esempio) una storiografia letteraria, e non intervenisseto in tale operazione i paradigmi collocati nella testa del critico, e in particolare la sua nozione di «letteratura», non si capirebbe perché le storie della letteratura italiana di Gerolamo Tiraboschi e di Francesco De Sanctis siano risultate cosî diverse, pur disponendo di « materiali documentari » non molto dissimili. 2 Sulla «questione dei generi», oltre che il contributo di P. DE MEIJER, La questione dei generi, in questo stesso volume, pp. 245-82, cfr. il paragrafo conclusivo, Rinascita della retorica?, del saggio di A. BATTISTINI e E. RAIMONDI, Retoriche e poetiche dominanti, in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana cit., IIl/x. Le forme del testo. Teoria e poesia, Torino 1984, pp. 329-39.
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Torniamo alle origini del nostro discorso. Si sfugge difficilmente all’impressione che le «disillusioni della scienza» siano sofferte in maniera ingenua soprattutto da parte di coloro che hanno seriamente creduto in passato che il «metodo» servisse veramente a «cercare» e a «trovare» «la verità nelle scienze»: aver scoperto che, giustamente, quella «verità» era o molte verità o un’approssimazione di «verità», o, per dirla con Tzara, quella «verità», ma anche il suo «contrario», ha indotto come una situazione di crisi, e il ripiegamento, 0 verso un empirismo e pragmatismo francamente dichiarati, o verso un «riduzionismo» dell’indagine, che tende a frammentizzare la «nozione» in molte «nozioni» parallele e contigue, e a lasciare che queste, accostate spontaneamente l’una all’altra, riproducano un quadro come risultante d’un mosaico. Dadà, se non Heidegger, dovrebbe averci insegnato qualcosa. Il metodo non è nient'altro che ur4 delle infinite possibilità di traducibilità del linguaggio letterario in «linguaggio altro»; applicando il metodo, non facciamo che mettere in movimento un processo d’illimitata trasmutazione e transvalutazione dei segni e dei sensi — processo che s’arresta, fisicamente, ad un certo punto, solo perché le nostre forze e quelle di tutti gli altri non sono sufficienti a portarlo fino all’estremo confine dell’orizzonte (anche quando all’inizio non compiamo che una minima operazione filologica). La «verità» sta nel fatto che riusciamo ad organizzare in un «senso» il nostro discorso intorno al testo, lottando contro la crisi che ci porta, non alla dissoluzione dei linguaggi, ma direttamente all’afasia. Ma, d’altra parte, la «macchina» di questo processo si mette in movimento soltanto se operiamo una «fondazione», per quanto provvisoria e precaria del nostro discorso: una «fondazione » — sarebbe bene rammentarlo — che può e deve essere anche estetica, oltre che linguistico-retorica. Senza «fondazione», nessun «discorso»: oppure, tanti discorsi separati — sempre più privi di senso. Perciò, mentre lo scientismo ci fa sorridere, ci sembra che il tramonto irreversibile della lunga fase storica contraddistinta dal predominio delle «illusioni della scienza», non metta in causa il concetto di «ricerca scientifica» anche nell’ambito dei fenomeni letterari: è possibile conoscere la letteratura, a patto che si rinunci a considerarla un oggetto finito e conoscibile una volta per tutte.
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Testo letterario, interpretazione, storia:
linee concettuali e categorie critiche *
1.
La comunicazione.
1.1. Schema della comunicazione.
L’assioma che sorregge queste pagine è il seguente: la letteratura è una forma di comunicazione. (Si potrebbe dire, in senso pit lato: l’arte è una for-
ma di comunicazione; ma qui non importa). La finalità comunicativa è già implicita nell’atto stesso di destinare una propria composizione scritta od orale a un pubblico dai limiti imprevedibili: il destizatore è convinto di poter essere compreso e desidera esserlo. Si noti che comunicazione ha un valore molto più ampio che informazione: l’informazione, puramente fattuale, può esser tradotta in simboli e, a fortiori, in altra lingua, senza residui; la comu-
nicazione comprende anche elementi non informativi che, per il fatto stesso di esser comunicati, si configurano come nozioni. La comunicazione letteraria si realizza come qualunque altra comunicazione. Scrive Jakobson: Il y2ittente invia tin messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto (il «referente», secondo un’altra terminologia abbastanza ambigua), contesto che possa essere afferrato
dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario (o, in altri termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il * In queste pagine utilizzo liberamente due miei lavori: Segni, sistemi e modelli culturali nelV’interpretazione del testo letterario, in M. DUFRENNE e D. FORMAGGIO (a cura di), Trattato di estetica, 2 voll., Milano 1981, II, pp. 157-79, e Teatro e romanzo, Torino 1984. In qualche paragrafo tocco problemi già trattati in altri precedenti studi, ma sempre in prospettiva e con presentazioni diverse. 1 R. JAKOBSON, Essais de linguistique générale, 1963 (trad. it. Milano 1966, p. 185). Sono poi state presentate analisi della comunicazione che distinguono i vari elementi costitutivi del contesto (tempo, luogo), del messaggio (tra cui le presupposizioni sulla conoscenza e capacità del ricevente), ecc., ed elementi pragmatici come l’intenzione dell’emittente e i rapporti sociali col ricevente (D. WUNDERLICH, Pragzzatik, Sprechsituation, Deixis, in «Zeitschrift fir Literaturwissenschaft und Linguistik», I (1971), 1-2, pp. 153-90). Inoltre, E. GÙLICH e W. RAIBLE, Linguistische Textmodelle, Miinchen 1977, pp. 21-26, R. ESCARPIT, Théorie générale de l’information et de la communication, 1976 (trad. it. Roma 1979, pp. 30-35). Ma l’analisi in sei elementi è la più funzionale. Si veda poi l’esposizione dello schema comunicativo in u. ECO, Trattato di semiotica generale, Milano 1975, pp. 49-53. Interessante la visione conflittiva del rapporto emittente-ricevente (in letteratura) in J. FETTERLEY, The Resisting Reader: A Feminist Approach to American Fiction, Bloomington Ind. - London 1978.
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Concetti, tecniche e categorie mittente e il destinatario, che consenta loro di stabilire e di mantenere la comu-
nicazione. Questi diversi fattori insopprimibili della comunicazione possono essere rappresentati schematicamente come segue:
verbale
CONTESTO MESSAGGIO MIITENTE==--=-=e-ee=eeseeeeeoc CONTATTO
DESTINATARIO x
CODICE
Partendo da questo schema si possono definire le peculiarità della comunicazione letteraria; ciò che faremo mediante un confronto con la comunicazione dialogica quotidiana, che rappresenta l’uso primario del linguaggio a scopo comunicativo. Prima e fondamentale osservazione è che mittente e destinatario, nella comunicazione letteraria, non sono compresenti, anzi in genere appartengono a tempi diversi. Invece che con la triade mittente-messaggio-destinatario, è come se la comunicazione letteraria operasse su due diadi: mittente-messaggio e messaggio-destinatario. Ne deriva: che la comunicazione è a senso unico;
che non è possibile, come nella conversazione, né il controllo della comprensione del destinatario (feedback *) né l’aggiustamento della comunicazione in rapporto con le sue reazioni. Di conseguenza, anche il contatto è piuttosto labile: intanto esso riguarda solo la diade messaggio-destinatario, inoltre esso è completamente affidato all’interesse del destinatario per il messaggio; il mittente, assente o non più in vita, ha al massimo la possibilità di concentrare nel messaggio incentivi alla fruizione. Altre difficoltà vengono dal fatto che il contesto a cui il mittente si riferisce è ignoto o incompletamente noto al destinatario: fatto previsto dal mittente, che cerca di inglobare nel messaggio il massimo possibile di riferimenti al contesto, insomma introietta il contesto nel messaggio. Si aggiunga la mancanza dei mezzi di espressione paralinguistici: intonazione, gestualità, ecc.: «Molti dei tratti che differenziano lo stile scritto da quello parlato possono essere fatti risalire al bisogno, nello sctivere, di compensare la perdita di elementi soprasegmentali e individuali del discorso» °. Non minori difficoltà produce la differenza di codice tra mittente e destinatario: già il codice linguistico — e tanto pit col crescere della distanza temporale — è solo parzialmente condiviso dalle due parti; ma i codici in gioco sono tutti i codici culturali, e lî le falle nell’informazione del destinatario possono esser gravi.
Di fronte a queste difficoltà di comunicazione, di cui si vedranno avanti alcuni rimedi, vi sono anche vantaggi rispetto alla comunicazione dialogica. Mentre il controllo filologico permette di verificare la genuinità del messag2 Il termine, nella teoria dell’informazione, indica la possibilità, per il destinatario, di inviare informazioni verso l’emittente allo scopo di mettere meglio a punto l’emissione. 3 A. MARTINET, A Functional View of Language, 1962 (trad. it. Bologna 1965, p. 173). I tratti soprasegmentali, o prosodici, sono i tipi d’intonazione, la durata, ecc., insomma tutte le caratteristiche foniche che interessano segmenti più lunghi di un ‘fonema.
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gio (e compensa la mancanza di feedback), la possibilità di rileggere (0 riascoltare) consente una comprensione più approfondita: la reiterazione delle letture — normale per il critico — produce una totale assimilazione del messaggio. Vengono cosî superati anche i vuoti di attenzione, le distrazioni durante la fruizione, ecc. E sono possibili verifiche su altre fonti d’informazione, dello stesso mittente o di altri, cosî da ricostruire, almeno in parte, l’«enciclopedia» (cioè l’assieme di conoscenze) e le implicazioni del messaggio. Si badi però alla differenza tra comunicazione orale del messaggio (canto o recitazione pubblica; lettura ad alta voce in cerchie ristrette) e fruizione per via di lettura. La fruizione auricolare è condizionata dal canale (lo speaker): avviene nei tempi voluti da lui, e fornisce un testo già interpretato (musica, tratti soprasegmentali, gestualità, ecc.). Essa non ammette controlli, né ritor-
ni su parti precedenti del testo, e perciò coinvolge le lacune dell’attenzione. Ciò vale, nel medioevo, per gran parte della produzione di tipo popolare; vale ancora oggi per testi teatrali rappresentati, per film, teleromanzi, ecc. 1.2. L’autore.
1.2.1. Ilmittente del messaggio viene di solito chiamato autore. In altri tempi ha avuto corso una critica che otientava la fruizione dei testi letterari verso una specie di empatia tra lettore e autore: il messaggio diventava il tramite, sia pur necessario, attraverso il quale il destinatario riusciva a raggiungere i sentimenti del mittente, per riviverli. Questo indirizzo si fondava su una concezione del fare letterario che implicava una incredibile immediatezza tra sentimento ispiratore e realizzazione letteraria: come se il fare letteratura servisse a dare sfogo a sentimenti, e come se le reazioni personali presenti nell’opera non trovassero espressione grazie a complicati, lenti filtri formali. È parso all’inizio che la critica psicoanalitica recuperasse in qualche modo la vecchia impostazione, anche se cercando negli autori, invece che sentimenti e passioni, complessi e pulsioni. Ma i rappresentanti più scaltriti di questa corrente di pensiero hanno subito fatto constare che complessi e pulsioni venivano da loro studiati, nella sfera letteraria, per le loro emergenze formali nei testi, insomma come elementi strutturali; o meglio ancora, che l’inconscio
si esprime come un linguaggio, e che non v’è prodotto linguistico indenne dal lavoro dell’inconscio. Il luogo di questo lavoro è il linguaggio, più che l’autore.
1.2.2. L’autore è tuttavia elemento imprescindibile della comunicazione letteraria, in quanto mittente del messaggio. Egli è l’artefice e il garante della funzione comunicativa dell’opera ‘. La natura di messaggio che ha il testo letterario è determinata dal fatto che l’autore, per farsi mittente, si è posto in un particolare rapporto con il o i destinatari: un rapporto di tipo culturale nei suoi contenuti, pragmatico nella sua finalità (l'emissione del messaggio * Cfr. c. sEGRE, I segri e la critica, Torino 1969, pp. 89-92.
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muta lo stato di fatto). Essenziale per questo rapporto è la confluenza di codici in un enunciato linguistico, l’opera. Intesa in questo senso, la parola autore viene a significare, esattamente come nel medioevo (ricordo le Derivationes di Uguccione, letteralmente riprodotte da Dante in Convivio, IV, VI, 3-5), più ancora che scrittore, « promotore», «garante», e insomma «autorità» (che infatti è termine etimologicamente connesso). L’autore produce una nuova costruzione linguistica, e ne
garantisce la possibilità (e la pregnanza) comunicativa.
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1.2.3. Anche se con varietà di prestigio, nella letteratura colta il nome dell’autore è in genere tramandato. Molti autori, anzi, cercano di garantire la conservazione del proprio nome mediante firme interne: ricordo l’autocitazione di Bono Giamboni alla fine del Libro de’ Vizî e delle Virtudi, cosî come Dante si nomina in Purg., XXX, 55. Di solito, sono l’incipit, ed eventualmente l’explicit, dei manoscritti a riportare il nome dell’autore, che poi nel frontespizio delle stampe precede o segue il titolo dell’opera. Solo per motivi prudenziali qualche opera venne pubblicata anonima. Nella letteratura a tradizione orale l'anonimato è. molto più frequente. A parte il caso estremo dei canti popolari, che davvero «vivono di variazioni», sicché nessuno pensa a ricordare le persone (in genere non professionisti) che li hanno foggiati la prima volta, bisogna pensare che anche per opere di maggior rilievo l’impegno del primo estensore venisse considerato in genere, persino dagli interessati, immeritevole di notorietà. Sono spesso anonime le chansons de geste francovenete (come già quelle francesi), i cantari in
ottave del Tre e Quattrocento, ecc. Indubbio il rapporto tra esecuzione orale e anonimato: mentre nella letteratura colta è il destinatario a cercare l’opera, magari per la fama dell’autore, qui è l’opera che cerca i destinatari, il pubblico, nelle piazze dove i canterini (che solo qualche volta saranno anche stati gli autori) facevano merce della loro recitazione o del loro canto. E vi dev’essere anche rapporto tra analfabetismo (quello di gran parte degli ascoltatori) e anonimato: difficile comprendere il concetto di autore pet chi non ha varcato la soglia della scrittura. Alcune opere letterarie, dalla Comedia alla Gerusalemme liberata, hanno anche goduto di una notevole memorizzazione, e hanno avuto diffusione popolare, ma non uscendo che eccezionalmente dalle coordinate della produzione colta. Tipico l’aneddoto che il Sacchetti (Il Trecentonovelle, CXIV), ri-
prendendolo da Diogene Laerzio (come già don Juan Manuel, che ne fa protagonista un trovatore) °, attribuisce a Dante, irritato perché un fabbro, battendo sull’incudine,
«cantava il Dante [cioè la Corzzzedia] come si canta uno can-
tare [cioè una composizione
ad esecuzione
orale] e tramestava i versi suoi,
smozzicando e appiccando». Dante si sarebbe messo furiosamente a gettare per via gli strumenti del fabbro, martello tenaglie bilance, e al fabbro che si lamentava per lo scompiglio delle sue masserizie, avrebbe risposto: «Se tu > Cfr. L. DI FRANCIA, Franco Sacchetti novelliere, Pisa 1902, p. 130.
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non vuogli che io guasti le cose tue, non guastare le mie», e poi, più chiaramente: «Tu canti il libro e non lo di’ com’io lo feci; io non ho altr’arte, e tu me la guasti». Per le composizioni anonime, nessuno aveva motivo di reclamare perché esse non venivano cantate com'erano state scritte. Il fabbro, prosegue Sacchetti, da allora in avanti «se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancelotto e lasciò stare il Dante», cioè si limitò a testi tradizionalmente anonimi. 1.3. Il lettore. 1.3.1.
L’autore ha spesso un dedicatario esplicito (che può identificarsi
col committente) e un lettore prediletto (una musa reale o immaginaria). Il
primo, proprio per la natura cortigiana, opportunistica della scelta; il secondo, proprio perché l’autore proietta su di lui le proprie aspirazioni comunicative, non possono identificarsi col destinatario. In uno studio storico della letteratura, non ci si può nemmeno concentrare sui destinatari ideali, gruppi di persone legate all’autore da comunanza di concezioni letterarie (poniamo la cerchia degli stilnovisti, o quella dei romantici lombardi, ecc.): essi si pongono infatti sul segmento di comunicazione quasi dialogica che è ancora controllato dal mittente, e in cui la compresenza temporale e spaziale si configura in certo modo come collaborazione. Il lettore al quale dobbiamo riferirci, perché statisticamente corrisponda agli infiniti (o almeno non numerabili) lettori di un’opera letteraria attraver-
so il tempo, non ha con l’autore altri legami che la curiosità, la simpatia, l’attrazione, senza le quali non si accosterebbe all’opera. Questo lettore si trova tra due poli: la comprensione e la variazione. Egli può cercare di comprendere i significati che l’opera sprigiona, o abbandonarsi ad associazioni fantastiche e sviluppi liberi. Parlo di poli perché non c’è lettura che possa emarginare la libertà dell’immaginazione (feconda spesso di proposte interpretative), né lettura che possa reprimere totalmente il dettato del testo.
Questo dilemma è stato esasperato da certa critica degli anni ’60, che insisteva sulla lettura come continuazione della scrittura (espressioni l’una e l’altra di un unico soggetto, il linguaggio), sulla proliferazione di significati che, non immobilizzabile né ordinabile, permetterebbe al massimo, al critico, di
citare le parti di un testo, mentre qualunque suo discorso entrerebbe nella corrente di un discorso infinito. Senza insistere in una discussione forse ormai superflua, dirò solo che lo schema comunicativo permette di rendersi conto delle possibilità e dei limiti della comunicazione letteraria, mantenendo comunque ferma la realtà dell’emittente e dei riceventi °. 1.3.2. Il lettore che tende verso il polo della comprensione si atteggia nello stesso modo del critico; il secondo si differenzia dal primo solo per la si$ Una discussione più ampia in c. sEGRE, Serzioztica filologica, Torino 1979, pp. 18-21.
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Concetti, tecniche e categorie
stematicità della sua applicazione, per la consapevolezza metodologica, per l’eventuale impegno a comunicare a sua volta, a voce o per iscritto, le operazioni compiute sul testo. Una lettura totalmente «spensierata» sarebbe solo possibile se il lettore restasse sordo ai significati; in caso contrario (cioè sempre) è inevitabile il confronto tra sistemi, quello del testo e quello del lettore, di cui consiste sostanzialmente l’atto critico. Poco fortunata in Italia, la parola ermeneutica potrebbe convergere, o persino diventare sinonimo di critica. L’ermeneutica, cosî come si è sviluppa-
ta al servizio del testo biblico o giuridico, mira all’esattezza dell’interpretazione, letterale e globale. La gamma di pratiche propria della critica è certo più ampia e diversamente sintonizzata e motivata di quella dell’ermeneutica; ciò non toglie che entrambe non mirino ad altro che alla comprensione più piena del testo. La differenza sostanziale sta nell’oggetto: il testo letterario, rispetto a quello religioso o giuridico, è più ricco, o meglio, interessa un maggior numero di codici”. L’ermeneutica qui auspicata sarebbe indubbiamente un’attività semiotica. Il testo si presenta al lettore come un insieme di segni grafici. Questi segni hanno un significato denotativo, di carattere linguistico; e contemporaneamente costituiscono, in varie combinazioni, dei segni complessi, ancora con
un loro significato; ulteriori potenzialità significative sono sprigionate dalla connotazione (cfr. $ 2.12). In ogni caso, tutti i significati sono affidati a segni; e in particolare a segni omogenei tra di loro, segni linguistici. L’ermeneutica potrebbe essere la semiotica del testo letterario. 1.3.3. Mentre l’autore è il garante della costituzione semiotica del testo, il lettore è il garante della sua azione semiotica. I significanti infatti resterebbero nel testo, tracce nere sul bianco della pagina, se le successive letture non rinnovassero la loro funzione segnica, cioè la loro capacità di indicare significati. I significati testuali escono dalla loro potenzialità, divengono significati in atto, solo durante la, e grazie alla, lettura (da cui poi possono entrare nel sistema culturale). Ogni lettura di testo non contemporaneo è dunque una lettura plurima, perché il lettore riattualizza significati che in parte sono già entrati nella cultura, e nella sua cultura, attraverso le letture precedenti. Il testo costituisce insomma un diaframma segnico: prima di esso sta l'impegno dell’emittente, di tradurre significati in segni letterari; dopo di esso l’impegno del destinatario, di recuperare i significati racchiusi nei segni. ? Per la definizione e la diffusione dell’ermeneutica letteraria, specie in Germania, ma anche negli Stati Uniti, rinvio a p. szonpI, Einfiibrung in die literarische Hermeneutik, 1975 (trad. it. Introduzione all’ermeneutica letteraria, Parma 1979). Cfr. pure H. G. GADAMER, Wabrbeit und Me: thode. Grundziige einer philosophischen Hermeneutik, 1965° (trad. it. Verità e metodo, Milano 1972); P. RICEUR, Le conflit des interprétations. Essai d’herméneutigue, 1969 (trad. it. Milano 1977); E. D. HIRSCH JR, Validity in Interpretation, 1967 (trad. it. Teoria dell’interpretazione e critica letteraria, Bologna 1973); I»., The Aims of Interpretation, 1976 (trad. it. Come si interpreta un testo, Roma 1978); s. J. SCHMIDT (a cura di), Interpretation, numero monografico di «Poetics», XII (1983), 1-2; E. HOLENSTEIN, Linguistik, Semiotik, Hermeneutik, Frankfurt am Main 1967; H. R. Jauss, Asthetische Erfabrung und literarische Hermeneutik I, Frankfurt am Main 1984.
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Sr
La seconda operazione è meglio nota, perché qualunque lettore la può sperimentare; in più, essa realizza strategie che si possono programmare e migliorare, di contro al procedere asistematico, e in gran parte misterioso, dell’emittente. È lecito supporre che i due procedimenti siano speculari: una «simulazione» della lettura individua probabilmente gli stessi elementi investiti dalla produzione, ma in ordine inverso. In ogni caso i modelli testuali della critica sono in generale modelli di lettura.
1.4. Autore implicito e lettore implicito. 1.4.1. Difficile, a quanto risulta, immobilizzare e definire sia l’autore, sia il lettore. Il primo non presenta grande interesse per il fruitore del testo; talora è sconosciuto, o ne abbiamo notizie sommarie ; quasi mai ne sappiamo quello che vorremmo. Il secondo non è una persona precisa, ma un’astrazione. Si è invece formulata recentemente l’ipotesi che nei testi narrativi (ma non si vede perché solo in quelli) si possano individuare tratti precisi non dell’autore storico, ma dell’autore come si rivela nell'opera; un autore depurato dei suoi tratti reali, e caratterizzato da quelli che l’opera postula. Nello stesso modo può essere caratterizzato esattamente il tipo di lettore che l’opera implica, e dal quale poi i lettori reali differiscono poco o tanto. Il primo viene chiamato autore implicito, il secondo lettore implicito *. 1.4.2. Grazie a questa escogitazione, il circuito comunicativo, che nella comunicazione letteraria è spezzato in due tronconi, emittente-messaggio e messaggio-destinatatio, viene reintegrato all’interno dell’opera. Possiamo chiamare l’autore implicito destinatore, perché egli rappresenta quella parte, o quella sublimazione, dell’autore reale, che ha foggiato il messaggio allo scopo di comunicarlo; analogamente il lettore implicito può essere definito il vero destinatario, proprio per le sue differenze dai lettori reali’. Abbiamo dunque: 8 La teoria dell’autore implicito è di w. c. BooTH, The Rbetoric of Fiction, Chicago-London 1961; ed. aggiornata 19837. Cfr pure B. ROMBERG, Studies in the Narrative Technique of the FirstPerson Novel, Stockholm 1962; J. RoussET, La prima persona nel romanzo. Abbozzo di una tipologia, in «Strumenti critici», VI (1972), 19, pp. 259-74; N. TAMIR, Personal narrative and its linguistic foundation, in «PTL. A Journal for Descriptive Poetics and Theory of Literature», I (1976), 3, PD. 403-29; W. KRYSINSKI, The narrator as a sayer of the author, in « Strumenti critici», XI (1977), 32-33, PD. 44-89; S. CHATMAN, Story and Discourse. Narrative Structure in Fiction and Film, 1978, cap. IV (trad. it. Parma 1981); M. PAGNINI, Pragratica della letteratura, Palermo 1980, pp. 20-22. Si vedano poi le riflessioni di u. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano 1979, pp. 50-66. Sul lettore implicito cfr. w. 1sER, Der implizite Leser, 1972 (trad. ingl. The Implied Reader, Baltimore-London 1974); 1n., Der Akt des Lesens. Theorie isthetischer Wirkung, 1976 (trad. ingl. The Act of Reading: A Theory of Aesthetic Response, Baltimore 1978); S. R. SULEIMAN e I. CROSMAN (a cura di), The Reader in the Text. Essays on Audience and Interpretation, Princeton N.J. 1980. ? Un’esposizione più ampia in w. MIGNOLO, Elezzentos para una teorta del texto literario, Barcelona 1978, pp. 146-50.
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Concetti, tecniche e categorie AUTORE
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Quasi tutte le affermazioni della critica tradizionale sull’autore si riferivano propriamente all’autore implicito: è a lui che si attagliano in pieno i tratti definibili sulla base del testo, e che possono esser appartenuti solo temporaneamente, o mai, all’autore reale. È lui che permane entro coordinate precisa-
bili a partire dal testo, mentre l’autore reale continua a divenire, a trasformarsi.
L’autore implicito, o destinatore, è inevitabilmente presente in ogni testo letterario. Ma spesso l’autore reale cerca di permanere in qualche modo nel testo, in figura di narratore, e quasi testimone diretto o indiretto dei fatti”. Anche questo narratore, che dice io e rivela spesso una personalità morale, reazioni individuali, idiosincrasie, è stato spesso confuso con l’autore reale;
del quale è invece una stilizzazione volontaria e spesso, di proposito, infedele. Persino quando si riscontrino corrispondenze fra i tratti personali del narratore e quelli dell’autore reale come ricostruibile da affermazioni più dirette (lettere, diari, ecc.), i due vanno distinti rigorosamente, per la stilizzazione, e magari idealizzazione, accennata, e perché il narratore è esente da sviluppi temporali, fissato come qualunque personaggio alle pagine del libro. Va infine ricordata la frequente invenzione di un narratore fittizio, esplicitamente diverso dall’autore, a cui si finge che risalga la narrazione. Chiarificazioni possono venire, a questo proposito, dalla coppia enunciato/enunciazione, messa particolarmente in valore da Benveniste ". L’enunciazione «è l’atto stesso di produrre un enunciato e non il testo dell’enunciato che è nostro oggetto». Nell’enunciazione vi è l'assunzione della lingua da parte del locutore in rapporto con un «altro» a cui l'enunciazione è diretta. Si ha dunque «un’accentuazione della relazione discorsiva col partzer», dato che #0 viene a indicare il soggetto dell’enunciazione, # il destinatario. Insieme, si attualizzano le prospettive temporali (il presente è il tempo dell’enunciazione, i passati e il futuro lo sono in rapporto con questo tempo) e i segni ostensivi o deittici (questo, qui, ecc.) ". Il testo letterario è un enunciato (prodotto), che mantiene le tracce dell’enunciazione (atto) là dove il soggetto che vi parla (il narratore) è sosia o portavoce del soggetto dell’enunciazione (l’autore in quanto locutore); egli è pet1° In simmetria con il narratore, la critica ha indicato (Prince) un rarratario, o destinatario della narrazione. Il narratario non è il lettore generico, ma il tipo di lettore implicato dalla figura e dall’atteggiamento del narratore. Per la necessità, o quasi, della mediazione di un natratore cfr. ibid., pp. 230-31.
1! Cfr. E. BENVENISTE, L’appareil formel de l’énonciation (1970), in Problèmes de linguistique générale, II, Paris 1974, pp. 79-88, da cui le citazioni; cfr. anche 0. DUCROT, « Enunciazione», in Enciclopedia, V, Torino 1978, pp. 495-522. 12 Si chiamano deittici quegli elementi linguistici che si riferiscono alla situazione, al momento o al soggetto dell’enunciazione: principalmente i pronomi personali, i dimostrativi, gli avverbi di luogo e tempo.
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ciò i0, e i deittici e i tempi sono da interpretare in rapporto con lui. In tutti gli altri casi, gli enunciati rinviano alle enunciazioni attribuite ai personaggi (se sono loro che parlano) o a quelle di colui (narratore fittizio) il cui punto di vista, o magari anche la cui persona (se il narratore si rivela), mediano i con-
tenuti della narrazione. 1.5. Le persone o voci. 1.5.1. Il circuito della comunicazione costituisce una cellula sociale minima: due esseri che comunicano grazie alla conoscenza di uno stesso codice, e altri esseri (momentaneamente) estranei al circuito, i quali possono essere
oggetti della comunicazione stessa. Adottando le persone del verbo, l’emittente è 10, il destinatario è Tu, l’oggetto della comunicazione è EGLI. Mentre nella comunicazione quotidiana i due interlocutori sono alternativamente 10 e TU, a seconda di quale sta parlando e quale ascoltando, s’è già visto che nella comunicazione letteraria i ruoli dell'emittente e del destinatario sono immutabili. Designando con EGLI l’oggetto della comunicazione, 10 dà vita a una diegesi, a una narrazione. La narrazione è un fenomeno semiotico piuttosto com-
plesso: utilizzando il linguaggio, l’uomo descrive gesti e situazioni, ed enuncia anche, in forma diretta, il contenuto di discorsi. Esiste certamente una corz-
petenza" narrativa, grazie alla quale il destinatario comprende, dal discorso dell’emittente, di quali precisi gesti e situazioni egli stia parlando, e quali siano stati i discorsi della persona oggetto della comunicazione. Il mittente ha però anche un’altra possibilità, quella di ripetere i discorsi del personaggio-oggetto, e quelli dei suoi interlocutori, magari imitandone la voce e le inflessioni; egli può anche ripeterne i movimenti e i gesti. In questo caso non ha bisogno di verbalizzare fatti non verbali, se non per bocca degli attori. Abbiamo in questo caso una mimesi, una imitazione. I termini diegesi e mimesi sono tratti da Aristotele ", che con essi indica il procedere dell’epopea e quello della tragedia. Molto più generalmente, si può dire che mimesi equivale a teatro o rappresentazione analoga, diegesi a narrazione. Va subito aggiunto che già Aristotele segnalava una forma mista di diegesi e mimesi, quella in cui una narrazione accoglie discorsi in prima persona, pronunziati 0 analoghi a quelli pronunziati dai personaggi. Ciò accade quasi sempre sia nella narrazione privata di fatti privati, sia nelle fiabe, novelle e romanzi. 1.5.2. Partendo di qui, si potrebbe articolare una teoria dei generi letterari, ma non è nostro intento. È il caso piuttosto di abbozzare una tipologia della comunicazione letteraria, anteriore alle specificazioni chei generi ne coLE9Ù fr linguistica generativa, la competenza (ingi. corzpetence)è il sistema di regole grammaticali interiorizzato dal parlante; esso gli permette di comprendere, e formulare, un numero infinito di frasi nella lingua da lui usata.
4 Cfr. ARISTOTELE, Poetica, 1460b-1462b.
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Concetti, tecniche e categorie
stituiscono. Il ricorso alle persone del verbo ha naturalmente dei precedenti. Jakobson per esempio, già rifacendosi a E. S. Dallas, scrive a proposito dei generi: Se riportiamo questo problema alla semplice formula grammaticale, possiamo dire che per la lirica il punto di partenza e il tema conduttore è sempre la prima persona del presente, mentre per l’epica è la terza persona del passato. Qualunque sia l’oggetto della narrazione lirica, esso costituisce sempre e soltanto un elemento secondario, accessorio, uno sfondo per la prima persona: e se si tratta del passato, il passato lirico presuppone un soggetto che ricordi. Viceversa, nell’epica il presente viene decisamente rinviato al passato, e anche se l’io del narratore trova espressione, esso è soltanto uno dei personaggi: questo io oggettivato compare come una varietà della terza persona, il poeta si osserva per cosî dire di traverso; in definitiva, l’io può qui essere messo in evidenza come punto di ripresa, ma anche in tal caso questo punto non viene mai a coincidere con l’oggetto ripreso. In altre parole, il poeta come «argomento della lirica, che in prima persona si rivolge al mondo» resta profondamente estraneo all’epica ”.
Osservazioni utili per il nesso persona-tempo: solo all’Io è lecito alludere al presente, perché EGLI, cioè l’oggetto della narrazione, per il fatto stesso di essere narrato entra immediatamente nel passato (e infatti il presente di certe narrazioni è, inevitabilmente, un «presente storico»: i fatti narrati sono già avvenuti, anche se li si narra come se fossero in corso) (cfr. $ 1.6.3). Ma questi veloci cenni di Jakobson non entrano in pieno nel nostro discorso. Non vi si tiene conto che ogni persona verbale lo è in rapporto con le altre persone: in rapporto a chi si dice Io, o si è designati come EGLI? Torniamo dunque al circuito comunicativo. Al suo interno, Io può solo appartenere a frasi rivolte dall’emittente al destinatario, o a frasi attribuite a terzi fatti oggetto di una narrazione in forma mimetica. Mentre i personaggi-oggetto operano in un circuito comunicativo analogo a quello comune (i due interlocutori alternano le loto voci; ma naturalmente pronunziano battute preparate dall’emittente), emittente e destinatario non possono scambiarsi le parti. 1.5.3. Il ricorso ad 10 e TU mimetici individua già un ampio sottoinsieme di testi letterari. Fra essi hanno la parte dominante i testi teatrali, costituiti esclusivamente di discorsi e gesti. Non ci soffermeremo sugli altri codici in gioco (vestiario, scenografia, musica, ecc.), perché appartengono a una fase posteriore al testo. Basti ricordare alcune deroghe alla mimesi: 4) le didascalie, originariamente scarne, limitate a indicazioni per la messinscena, si fanno talora descrittive o anche narrative. Secondo i casi,
esse privilegiano una fruizione mediante lettura, oppure vogliono guidare la messinscena, anche per gli effetti di suggestione; Dà R. JAKoBSOoN, Randbemerkungen zur Prosa des Dichters Pasternak (1935) (trad. it. Note marginali sulla prosa del poeta Pasternak, in Poetica e poesia. Questioni di teoria e analisi testuali, Torino 1985, pp. 59-60).
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si
5) l’uso di un attore che pronunzia il Prologo. Il Prologo si esprime generalmente in modo diegetico, e talora enuncia opinioni dell’autore. Non per nulla l’Ariosto, che fa molto uso del procedimento (La Cassaria, 1 Suppositi, Il Negromante, Lena), amava recitare il Prologo di persona; c) il coro. Introdotto nella tragedia greca, riappare nel teatro moderno (per esempio nel Carzzagnola e nell’Adelchi del Manzoni); esso esprime un’opinione, al di sopra di quelle degli attori, che coincide più o meno pienamente con quella dell’emittente; d) gli 4 parte e i monologhi. In essi l’10 mimetico comunica al destinatario cose che devono restare celate ai vari ru mimetici. Con questo procedimento si scopre una parte della finzione, facendo slittare la comunicazione testuale dal livello mimetico al livello emittente-destinatario, ma lasciando che la «fuga di notizie» venga operata da una persona (un attore) del livello mimetico "°. Importa avvertire che questo tipo di comunicazione comprende anche testi non teatrali. Il caso più evidente è quello del romanzo epistolare, in cui, quando è allo stato puro, i due o pit interlocutori scambiano, invece che battute, lettere, ma sempre prescindendo da qualunque tipo di comunicazione tra emittente e destinatario. Storia e pensieri vengono esposti dagli interessati. 1.5.4. L’ambito si allarga ulteriormente se teniamo conto dei testi in cui non c’è alternanza di parlanti, ma c’è comunque un discorso attribuito a un 10 completamente diverso da quello dell'emittente; un 10 con cui l’emittente prova a identificarsi come fa con i personaggi teatrali. Si potrebbero raggruppare qui tutte le forme monologiche, per esempio: a) testi teatrali di tipo monologico: le due Orazioni del Ruzzante, forse l’Erbolato dell’Ariosto; b) composizioni poetico-narrative in forma monologica; esempi insuperabili quelli portiani, dai Desgrazzi de Giovannin Bongee a La Ninetta del Verzee; c) composizioni poetiche non attribuibili a un personaggio preciso, ma insomma a un tipo che viene definito dalla tonalità stessa della composizione. L’elenco potrebbe essere lunghissimo, e comprendere quasi tutta la poesia «burlesca», da Rustico e Cecco Angiolieri sino al Belli. I vecchi biografi faticavano a far collimare, o a distinguere, i tratti dell'emittente e quelli del personaggio implicato da questi testi; non tenevano conto di questa mediazione mimetica, che permette all’emittente di fingersi un altro, di parlare con la voce di un altro (se poi con parziale adesione, è da vedere caso pet caso). 16 Cfr. c. SEGRE, Teatro e romanzo cit., p. 11.
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Concetti, tecniche e categorie
1.5.5. Lo scambio dialogico 10-TU non è possibile in forma pura: altrimenti dovrebbe escludere le terze persone assenti e il passato, quando 10 e TU non dialogavano ancora, e anzi si trovavano in altre situazioni dialogiche. Ecco allora inserirsi, nei loro discorsi, delle aree dedicate ad EGLI, per esem-
pio quando in un testo teatrale un attore narra a un altro quello che ha fatto (passato) un terzo (EGLI). Abbiamo dunque uno schema
IO
EGLI
TU
Resta ferma, in questo caso, la natura mimetica del dialogo. Vi sono poi ragioni strutturali per cui parti diegetiche possono esset sovrapposte o saldate con quelle mimetiche. Nelle Ultizze lettere di Jacopo Ortis Lorenzo, dedicatario di gran parte delle lettere, interviene per narrare al lettore alcune fasi, specie le ultime, della vicenda di Jacopo, e per riportare alcune sue lettere a Teresa e al padre. 1.5.6.
Abbiamo visto sinora dei casi di comunicazione dialogica simulata
(10-TU) e dei casi di dialogo zero, in cui cioè esiste solo 10, in vari modi mo-
nologante. I due procedimenti hanno in comune il fatto che l’emittente dà vita a un personaggio, e gli attribuisce discorsi coerenti con la personalità che gli ha attribuito. Dialoghi e monologhi si svolgono alla presenza (teatro) e in funzione della lettura (testo non teatrale) del vero Tu, il destinatario dell’o-
pera. L'importante è che questo TU si trova su un piano diverso, non può partecipare al dialogo né interloquire nel monologo; viene soltanto interpellato quando si sospende la finzione (per esempio nell’invito ad applaudire alla fine della commedia); o può intervenire interrompendola (come fa don Chisciotte durante lo spettacolo di burattini: II, xxvI). Caratterizza appunto la diegesi il fatto che essa ha come destinatario immediato il lettore (o ascoltatore); non si dà sfasamento tra il piano dell’10-TU emittente-ricevente, e quello dell’10(-TU) persona diversa dall’autore. La diegesi, nelle forme più semplici (fiabe e racconti popolari; relazioni su fatti), non ha bisogno di evidenziare la persona del narratore: il narratore è postulato dalla narrazione, può rimanere impersonale. Ciò accade in molte novelle, da quelle del Novellino a quelle di Verga e D'Annunzio; e accade in molti romanzi. 1.5.7. Gli scrittori devono aver avvertito, dietro all’impersonalità di questi narratori, una sorta di inumanità; certo, essi hanno spesso sentito il bisogno di riattivare almeno simbolicamente il circuito della comunicazione, reso inafferrabile dalla lontananza dell’emittente, dalla semplice potenzialità del destinatario. Le varie soluzioni si riportano tutte alla decisione di personalizzare la voce del narratore.
Segre
Testo letterario, interpretazione, storia
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La prima soluzione a questo problema può consistere nell’attribuire al narratore, oltre che la conduzione della diegesi, anche interventi metacomunicativi, di commento sulla diegesi stessa. Il narratore è insomma il mediatore tra il mondo della finzione e il destinatario. Stanzel parla a questo proposito di auktoriale Erz4blsituation", Booth di narratore non rappresentato "* La personalizzazione del narratore si realizza tra due polarità: insistenza sul TU, cioè sulle allocuzioni al destinatario, oppure sull’1o, sull’individualità del narratore, che si impone anche come giudice o interprete di fatti e comportamenti. Esempio principe i Promessi sposi del Manzoni ”. Una seconda soluzione consiste nel far narrare la vicenda a un personaggio secondario che, avendo assistito o essendo venuto a conoscenza dei fatti,
li narra al destinatario. Questo narratore si esprime in prima persona (Stanzel parla di Ich Erzablsituation, Friedman di Io come testimone”, Booth di narratore rappresentato), ma non necessariamente:
la sua testimonianza può
anche esser fatta in terza persona. Solo parzialmente affine (Stanzel e Booth la trattano con la precedente, ma Friedman la distingue, chiamandola Io come protagonista) è quella in cui il narratore non è un personaggio secondario, ma il protagonista della vicenda. La differenza tra le due soluzioni sta nel fatto che l’îo festizzone può svolgere la stessa mediazione tra eventi e destinatario che si riscontra con la prima soluzione; viceversa l’io protagonista s’identifica con la vicenda, dalla quale può solo avere quel tanto di distacco che è permesso dalla distanza temporale tra i fatti e la loro narrazione. I tipi in cui il narratore è persona diversa dall’autore si avvicinano alquanto a quelli mimetici: il narratore viene immaginato con tratti peculiari, diversi da quelli dell’autore, e l’autore deve atteggiare la narrazione che gli attribuisce in armonia con questi tratti. Prevalgono però le dissimiglianze: 1) il narratore espone eventi che gli sono estranei, o si sono svolti in precedenza; più che esprimere se stesso in rapporto con un’azione, rammemora e deposita
i ricordi; la sua funzione è dunque diegetica, non mimetica; 2) il narratore non si rivolge a un interlocutore, magari silente, posto sul suo stesso piano, quello della finzione, ma bensi al destinatario dell’opera”. 1.5.8. Naturalmente la diegesi pura è impossibile: spesso la narrazione riporta discorsi pronunziati dai personaggi. Fondamentale è però il fatto che 7 Cfr. F. K. STANZEL, Die typischen Erzihlsituationen im Roman, Wien-Stuttgart 1955; ID., Typische Formen des Romans, Gittingen 1964; m., Theorie des Erzihlens, Gòttingen 1979. 18 Cfr. w. c. BOOTH, The Rbetoric of Fiction cit. 1° Cfr. v. sPINAZZOLA, «I Promessi Sposi»: l’io narrante e il suo doppio, in AA.vv., Studi di lingua e letteratura lombarda offerti a M. Vitale, Pisa 1983, II, pp. 841-60; H. GROSSER, Osservazioni sulla tecnica narrativa e sullo stile nei «Promessi Sposi», in «Giornale stotico della letteratura italiana», CLVIII (1981), 503, pp. 409-40.
20 Cfr. N. FRIEDMAN, Point of view in fiction: the development of a critical concept, in
«PMLA», LXX (1965), pp. 1160-84. 21 Una limpida descrizione dei tipi di romanzi è dovuta a-R. BOURNEUF e R. OUELLET, L’urivers du roman, 1972 (trad. it. Torino 1976).
34
Concetti, tecniche e categorie
in questo gruppo di testi l’1o-ru dei personaggi è inserito all’interno di un EGLI diegetico, a differenza dai tipi mimetici in cui è l’1o-TU che, eventualmente, può contenere degli EGLI. Abbiamo insomma questa formula per la comunicazione letteraria mimetica: IO emittente : 10 personaggio
EGLI narrato
: TU personaggio
vw
TU destinatario
mentre per tutti i casi di narrazione mediata la formula generale sarebbe questa: IO emittente
IO narratore o personaggio
EGLI personaggio
ro/TU
TU destinatario
Dove noto subito che penso di poter usare EGLI anche per il narratore protagonista, dato che nel momento della narrazione è diverso e distaccato da ciò che era al momento dei fatti: 10 gli compete dunque in quanto narratore, EGLI in quanto oggetto della narrazione. Tipico di questa formula è che mentre l’autore, in base a quanto più volte detto, non ha contatto col destinatario, il narratore questo contatto lo intrattiene, come indica la freccia che dall’interno della prima cornice giunge al TU destinatario che ne è fuori. Le cornici indicano: la prima lo spazio metanarrativo e fatico ? del narratore, la seconda lo spazio degli eventi narrati, la terza lo spazio dei dialoghi riprodotti mimeticamente. La formula può moltiplicare le cornici al suo interno. Infatti qualunque personaggio narrato può a sua volta farsi narratore di altre vicende, riportare mimeticamente dialoghi dei personaggi da lui narrati, far narrare a sua volta altre vicende dai suoi personaggi, e cosî via all’infinito. È una tecnica usata volentieri dall’Ariosto nel Furioso, e poi imitata più volte, per esempio da Cervantes. Con questo procedimento lo spazio e il tempo narrativo si moltiplicano al loro interno. Un ultimo tipo di comunicazione è quello che Vygotskij chiama «linguaggio interiore», e Lotman «autocomunicazione»
o comunicazione
10-10. In
questo tipo di comunicazione l’emittente «trasmettendo a se stesso... riorienta interiormente la propria essenza, giacché l’essenza della personalità può 2 Foòtici sono i procedimenti che mirano a mantenere il contatto fra emittente e ricevente. Jakobson parla di una funzione fàtica (cfr. $ 2.5).
Segre
Testo letterario, interpretazione, storia
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venir trattata come un assortimento individuale di codici socialmente significativi, e qui, nel processo dell’atto comunicativo, tale assortimento cambia» °°. Il destinatario, che è l’emittente stesso, conosce già il messaggio; comunicandolo a se stesso cerca di elevarne il rango, introducendovi nuovi codici, e lo rende in qualche modo nuovo. I codici impiegati sono di carattere formale, primo fra tutti il ritmo. «Tra il messaggio originario e il codice secondario sorge una tensione che porta a interpretare gli elementi semantici del testo come se fossero inclusi in una costruzione sintattica complementare e ricevessero da questa interconnessione
nuovi significati (relazionali)» ”.
L’esposizione di Lotman punta a una migliore definizione della funzione poetica. Ma se si tien conto che la funzione poetica domina nella lirica, e che consapevolmente Lotman prende appunto molti esempi dalla lirica, possiamo considerare la comunicazione 1o-10 peculiare della lirica. Però, con una rettifica: che con la lirica si inserisce in una comunicazione 10-TU, emittentedestinatario una comunicazione di tipo 10-10, una autocomunicazione. Cost:
10 IO—>I0 Ù
TU
Abbiamo in qualche modo una mimesi della comunicazione 10-10, in cui l’10 comunicato, come l’autore implicito di una narrazione, è l'emittente depura-
to e sublimato; anche, l'emittente nella sua pubblicizzazione del privato, nella definizione del transeunte. é
1.6. Il punto di vista. 1.6.1. L’espressione punto di vista è stata tecnicizzata in ambito critico da osservazioni di Henry James”, sulla necessità per il romanziere di dare l’illusione di un processo reale, inquadrando via via i fatti'nella coscienza dell’uno o dell’altro personaggio, ed evitando la neutralità del cosiddetto «narratore onnisciente», propria della narrazione classica e in particolare dell’epopea. Le asserzioni di James sono però un programma di poetica più che uno 2 JU. M. LOTMAN, O dvuch modeljach kommunicacii v sisteme kul'tury (1973) (trad. it. I due modelli della comunicazione nel sistema della cultura, in JU. M. LOTMAN e B. A. USPENSKIJ, Tipologia della cultura, a cura di R. Faccani e M. Marzaduri, Milano 1975, p. 114). 2 Ibid.; p. 123. Sviluppa e completa questa impostazione J. I. LEVIN, Lirika s kKommunikativnoj toCki zrenija (1973) (trad. it. La poesia lirica sotto il profilo della comunicazione, in c. PREVIGNANO (a cura di), La semziotica nei Paesi slavi, Milano 1979, pp. 426-42), che segnala, in filigrana dietro la comunicazione 10-10 dell’autore, quella del destinatario «partecipe», e classifica i vari tipi di 10 e di Tu in gioco nella poesia. Invece che di autocomunicazione, Levin parla di «comunicazione intratestuale ». 2 Cfr. H. JAMES, The Art of the Novel, 1947 (trad. it. in Le prefazioni, a cura di A. Lombardo, Venezia 1956). Si tratta di prefazioni scritte tra il 1907 e il 1909. Per un’esposizione elementare cfr. R. SCHOLES e R. KELLOGG, The Nature of Narrative, 1966 (trad. it. Bologna 1970, cap. VII).
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Concetti, tecniche e categorie
schema interpretativo, e i critici che hanno cercato di applicarle hanno spesso confuso fatti eterogenei. Sono stati messi a carico del punto di vista, per esempio, i fenomeni di persona studiati nel precedente paragrafo. Genette ” distingue a ragione tra le due domande a cui implicitamente si tenta di rispondere con lo studio del punto di vista. La prima è la seguente: «Qual è il personaggio il cui punto di vista orienta la prospettiva narrativa? » La seconda è la seguente: «Chi è il narratore? » Abbiamo visto che, rispondendo alla seconda domanda, si può fare un uso abbastanza preciso delle persore (che Genette chiama vocî).
Non solo persone e prospettive non coincidono, ma anzi con le loro alterne convergenze dànno origine a una combinatoria basilare riassunta in questa tabella”: AVVENIMENTI ANALIZZATI
AVVENIMENTI
DALL’ INTERNO
DALL’ ESTERNO
Narratore presente come personaggio nell’azione
I) L’eroe racconta la sua storia
2) Un testimone racconta la storia dell’eroe
Narratore assente
4)
come personaggio dall'azione
OSSERVATI
3)
L’autore analista
‘L’autore racconta
o onnisciente
la storia dall’esterno
racconta la storia
Si può parlare di punto di vista a proposito dell’opposizione (1), (4) /(2), (3); mentre si ha a che fare con la voce (0 persona) nell’opposizione (1), (2) /(4),
(3). La tabella si presta alle seguenti specificazioni interne: (1) narratore presente come personaggio nella storia (orzodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico); (2) narratore presente come personag-
gio nella storia (omzodiegetico) che però analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico); (4) narratore assente come personaggio dalla storia (ezerodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico); (3) narratore assente come personaggio dalla storia (eterodiegetico) che analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico). Esempi per (1) l’Adolphe, pet (2) Watson che racconta Sherlock Holmes, per (3) Agatha Christie che racconta Hercule Poirot, per (4) Arance. Alla domanda «Qual è il personaggio il cui punto di vista orienta la pro% Cfr. G. GENETTE, Figures III, 1972 (trad. it. Tortino 1976, p. 233). Sul punto di vista in generale cfr. N. FRIEDMAN, Point of view cit.; 3. LINTvELT, Essai de typologie narrative. Le «point de vue». Tbhéorie et analyse, Paris 1981; s. voLPE, L'occhio del narratore. Problemi del punto di vista, Palermo 1984; €. SEGRE, Teatro e romanzo cit., pp. 85-101. 21 G. GENETTE, Figures III cit., trad. it. p. 234.
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spettiva narrativa? », Genette risponde ricorrendo all’uso figurato di una categoria verbale, quella del 77040. Come il verbo, attraverso la categoria del modo, esprime in forma assertiva, interrogativa, ottativa, ecc. la cosa di cui si tratta e i diversi punti di vista di cui si considera l’esistenza e l’azione, cosi il modo narrativo indica la misura maggiore o minore (quantità e tipo di particolari) e il punto di vista da cui si narra una vicenda. Riporto la definizione di Genette, anche per le due nuove categorie da lui introdotte, distanza e prospettiva: la «rappresentazione»,
o più esattamente l’informazione narrativa, ha i suoi
gradi; il racconto può fornire al lettore maggiori o minori particolari, e in maniera più o meno diretta, e sembrare cosî (per riprendere una metafora spaziale corrente e pratica, a condizione di non prenderla alla lettera) a più o meno grande distanza da quel che esso racconta; può anche scegliere di dosare l’informazione che esso fornisce, non più servendosi di questa specie di filtro uniforme, ma a seconda delle capacità di conoscenza di questa o quella parte beneficiaria della storia (personaggio o gruppo di personaggi), di cui adotterà (o fingerà d’adottare) quello che generalmente è chiamato la «visione» o il «punto di vista», dando allora l’impressione di adottare una prospettiva di un tipo o di un altro nei confronti della storia (per continuare la metafora spaziale). « Distanza» e «prospettiva», provvisoriamente chiamate e definite cosî, sono le due modalità essenziali della regolazione dell’informazione narrativa *.
Il mantenimento anche da parte di Genette, e anzi la moltiplicazione di metafore ottiche (si deve aggiungere, vedremo, focalizzazione), è un indizio della natura non esattamente delimitabile di questi fenomeni, pure di estrema importanza. Più avanti ($ 3.12-13) si dirà come l’analisi dello stile permetta di stringere meglio l’argomento. Per ora restiamo in un ambito molto generale. si 1.6.2. La distanza può essere parzialmente ordinata sulla linea che va tra mimesi e diegesi, tra completezza e assenza di particolati. A un estremo il discorso diretto, riportato in forma mimetica, all’altro il discorso narrativizzato, cioè riassunto e introdotto da un verbur dicendi, o anche privo del ri-
ferimento alla natura discorsiva del suo contenuto. In mezzo il discorso indi. retto, preceduto da verbum dicendi e che. Il tipo diegetico (secondo citato) e quello indiretto (terzo) portano sempre come conseguenza (anche se non teoricamente necessaria) una maggiore sommarietà, magari una sintesi concentratissima.
Che la gamma sia condizionata, piuttosto che da necessità sintattiche, da consuetudini e convenzioni stilistiche, lo indica l’eccezione importante del discorso indiretto libero, in cui il contenuto di discorsi e pensieri non è introdotto da segni espliciti, ed è anzi gestito dal narratore, sia pure in modo tale 2 Ibid., pp. 208-9. In ambito di pragmatica del discorso, fuoco e prospettiva possono identificarsi con le restrizioni fattuali, cognitive, comunicative, ecc., imposte alla formulazione dei discorsi
dai soggetti e dalle situazioni: cfr. T. A. VAN DIJK, Text and Context; Explorations in the Semantics and Pragmatics of Discourse, 1977 (trad. it. Bologna 1980, pp. 334-38).
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Concetti, tecniche e categorie
da render chiaro che non si tratta di pensieri suoi, ma del personaggio di cui si i sta occupando ”. Anche più difficile definire il concetto di prospettiva narrativa. Quello che è certo è che essa riguarda il rapporto tra la quantità di informazione attribuita a singoli personaggi e quella che il narratore riserva per sé. Con energica semplificazione, Todotov ”° indica tre formule base: Narratore > Personaggio (il narratore mostra di sapere, dice di pit di quanto dice o sa ognuno dei personaggi); Narratore = Personaggio (il narratore sa e dice solo quanto di volta in volta sanno i personaggi); Narratore < Personaggio (il narratore sa e dice meno dei personaggi). Più articolato lo schema di Genette”: a focalizzazione zero fissa racconto ! a focalizzazione interna } variabile multipla a focalizzazione esterna
Con focalizzazione (Brooks e Warren ® parlavano di focus of narration) Genette indica il luogo (la persona) nella cui prospettiva (nel cui campo di visione) la narrazione è condotta. Avrà dunque focalizzazione zero la narrazione (quella dell’epica classica, per esempio) in cui non si assume mai la prospettiva dei personaggi; sono invece a focalizzazione interna le narrazioni dove il fenomeno si riscontra. La focalizzazione interna può esser fissa, quando tutto è visto da un solo personaggio (per esempio The Ambassadors o What Maisie Knew di Henry James); variabile, quando più d’un personaggio, secondo gli episodi, diventa di volta in volta «focale» (per esempio Madame Bovary 29 Per una descrizione generale cfr. A. NEUBERT, Die Stilformen der «erlebten Rede» im neueren englischen Roman, Halle-Saale 1957; e poi D. conn, Transparent Minds. Narrative Modes for Presenting Consciousness în Fiction, Princeton N.J. 1978; A. BANFIELD, Narrative style and the grammar of direct and indirect speech, in «Foundations of Language», X (1973), pp. 1-39; ID., The formal coherence of represented speech and thought, in «PTL. A Journal for Descriptive Poetics and Theory of Literature», III (1978), 2, pp. 289-314; ID., Urnspeakable Sentences. Narration and Representation in the Language of Fiction, Boston 1982; B. McHALE, Free indirect discourse: a survey of recent accounts, in «PTL. A Journal for Descriptive Poetics and Theory of Literature», III (1978), 2, pp. 249-87. La migliore definizione semiotica di stile diretto, diretto libero, indiretto libero, misto, è di L. DoLEZEL, Vers la stylistique structurale, in «Travaux linguistiques de Prague», I (1966), pp. 257-66. Per l’Italia cfr. G. HeRCZEG, Lo stile indiretto libero in italiano, Firenze 1963; B. GARAVELLI MORTARA, Stile indiretto libero în dissoluzione?, in AA.vv., Linguistica e filologia. Omaggio a Benvenuto Terracini, a cura di C. Segre, Milano 1968, pp. 131-48; E. CANE, I/ discorso indiretto libero nella narrativa italiana del Novecento, Roma 1969. Ma l’opera più esauriente è ora quella di B. GARAVELLI MORTARA, La parola d'altri. Prospettive di analisi del discorso diretto, indiretto e indiretto libero in italiano, Palermo 1985.
5 Cfr. t. toporov, Les catégories du récit littéraire, 1966 (trad. it. in AA.vv., L'analisi del racconto, Milano 1969, pp. 227-70, in particolare alle pp. 254-56). ° Cfr. G. GENETTE, Figures III cit., trad. it. p. 237. Uno sviluppo interessante in J. LINTVELT, SO de typologie de l’énonciation écrite, in «Cahiers roumains d’études littéraires», I (1977), pp. 62-80. * Cfr. C. BROOKS e R. P. WARREN, Understanding Fiction, New Yotk 1938, 19674. Cfr. poi, per la focalizzazione, m. BAL, Narration et focalisation, in «Poétique», VIII (1977), 29, pb. 107-27; Ip., Narratologie (Essai sur la signification narrative dans quatre romans modernes), Utrecht 1984. Si veda pure la discussione sviluppata da 6. ceneTTE, Nouveau discours du récit, Paris 1983.
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di Flaubert); multipla, quando lo stesso avvenimento è visto successivamen-
te con gli occhi di più personaggi (The Ring and the Book di R. Browning; romanzi epistolari). Si parlerà poi di focalizzazione esterna, quando i personaggi agiscono davanti al narratore senza che egli mostri mai di conoscerne pensieri e sentimenti (racconti di Hemingway, romanzi di Dashiell Hammett). Da notare che la focalizzazione può essere progressiva; spesso i narratori presentano i loro personaggi dall’esterno, e poi lentamente si accostano alla loro individualità, penetrano nei loro pensieri e sentimenti. 1.6.3. È molto importante, nello studio di questi problemi, l’uso dei tempi verbali”. Weinrich per esempio distingue tra tempi narrativi (imperfetto, passato remoto, trapassato prossimo e condizionali) e tempi commentativi (presente, passato prossimo e futuro), il cui alternarsi lungo il testo distingue le parti più schiettamente diegetiche e quelle di commento (0 metacomunicazione) e di descrizione; anche in rapporto con le persone verbali, dato che 10 (o TU) gestisce in genere i tempi commentativi, mentre EGLI domina in quelli narrativi (cfr. $ 1.5.2). Tra i molti impieghi critici di queste osservazioni sull’opposizione tra i due tipi di verbi, ne segnalo qui due: 1) la distribuzione di questi verbi nel testo segue norme abbastanza costanti, e perciò collabora sia alla coerenza del testo, sia alla segnalazione del suo inizio e della sua fine *; 2) l’alternanza dei tipi di verbi contribuisce all’istituzione dei piani narrativi (per esempio il prizzo piano e lo sfondo), e perciò è un elemento costitutivo della prospettiva del racconto: i vari atteggiamenti dello scrittore verso la materia narrata hanno uno dei loro tramiti fondamentali nella scelta dei tempi. a
Voll testo:
2.1. Preliminari.
Parola di uso amplissimo, ma vago, testo assume un valore particolare nell’analisi letteraria. Nell’uso comune, testo, che deriva dal lat. TEXTUS ‘tessuto’, sviluppa una metafora in cui le parole che costituiscono un’opera sono viste, dati i legami che le congiungono, come un tessuto '. Questa metafora, 3 Cfr. per esempio Gc. MiLLER, Die Bedeutung der Zeit in der Erziblkunst (1947), in Morphologische Poetik. Gesammelte Aufsitze, Tibingen 1968, pp. 247-68; E. LAMMERT, Bauformen des Erziblens, Stuttgart 1970‘; H. STAMMERJOHANN, Strukturen der Rede. Beobachtungen an der Umgangssprache von Florenz, in «Studi di filologia italiana», XXVIII (1970), pp. 295-397; H. WEINRICH, Tempus. Besprochene und erziblte Welt, 1964 (trad. it. Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Bologna 1978); W.J. M. BRONZWAER, Tense in the Novel. An Investigation of Some Potentialities of Linguistic Criticism, Groningen 1970. Cfr. pure il cap. xIx di E. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, I, 1966 (trad. it. Milano 1971). * Cfr. per esempio le analisi di novelle di Boccaccio, Pirandello, Buzzati, ecc. in H. WEINRICH, Tempus cit., cap. v. Cfr. oltre, $ 2.6. 1 Cfr. c. cORNI, La metafora di testo, in «Strumenti critici», XIII (1979), 38, pp. 18-32.
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Concetti, tecniche e categorie
che anticipa le osservazioni sulla coerenza del testo, allude in particolare al contenuto del testo, a ciò che sta scritto in un’opera. Applicata, come si fece nel medioevo, ai testi forniti di una particolare autorità (la Bibbia, il Vangelo; oppure testi giuridici), la metafora enfatizzava la genuinità del testo nella sua lettera, contrapponendolo da un lato a trascrizioni non esatte (il testo è
allora la trascrizione completa e fededegna), dall’altro alle chiose e glosse che eventualmente lo illustrano. In tutti questi significati il testo è visto come uno scritto, anche se può esser trasmesso oralmente; e proprio per questo la parola ha anche potuto indicare il materiale scritto da cui il testo è trasmesso: sicché testo può indicare il manoscritto o il volume a stampa di una data opera. Se consideriamo i segni grafici (lettere, interpunzione, ecc.) come significanti di suoni, pause, ecc., e riflettiamo sul fatto che questi segni possono es-
sere trascritti più volte e in vari modi (per esempio con grafia e caratteri diversi), restandone immutato il valore, possiamo concludere che il testo è l’inva-
riante, la successione di valori, rispetto alle variabili dei caratteri, della scrittura, ecc. Possiamo anche parlare di significati, se si precisa che si allude a significati grafici, quelli della serie di lettere e segni d’interpunzione che costituiscono il testo”. Il testo è dunque una successione fissa di significati grafici. Questi significati grafici sono poi portatori di significati semantici, come vedremo subito; ma occorre insistere in partenza su questa costituzione originaria. Occorre insistervi, perché le ricchissime, praticamente infinite implicazioni
di un testo, quelle che richiamano lettori ai testi anche per secoli e millenni, sono tutte racchiuse nella letteralità dei significati grafici. Di qui l’importanza della filologia, che s'impegna nella conservazione il più possibile esatta di questi significati. Il fatto che la sopravvivenza dei testi implichi inevitabili guasti nella loro trasmissione deve sollecitare ancor più lo sforzo di tutelarne la genuinità.
2.2. La linguistica testuale. Una recente corrente linguistica, la linguistica testuale, ha proposto una diversa definizione di testo ?. Il testo è visto come un grande enunciato (o 2 Illuminante M. M. BACHTIN, Problema teksta (1976) (trad. it. Il problema del testo, in v. v. IVANOV, J. KRISTEVA e altri, Michail Bachtin. Semiotica, teoria della letteratura e marxismo, Bari
1977; PP. 197-229).
3 Per una prima informazione cfr. w. u. pRESSLER, Einfubrung in die Textlinguistik, 1972 (trad. it. Introduzione alla linguistica del testo, Roma 1974); M.-E. CONTE (a cura di), La linguistica testuale, Milano 1977; R.-A. DE BEAUGRANDE e W. U. DRESSLER, Einfiibrung in die Textlinguistik, 1981 (trad. it. Introduzione alla linguistica del testo, Bologna 1984). Il lavoro più attento alle implicazioni letterarie della linguistica testuale è T. A. vAN DIJK, Sozze Aspecis of Text Grammars. A Study in Theoretical Linguistics and Poetics, The Hague - Paris 1972 (poi elaborato e rifatto col titolo Textwissenschaft. Eine interdisziplinire Einfiibrung, Tibingen 1980), da confrontare con G. GENOT, Problèmes de calcul du récit, Paris 1980. Interventi critici (oltre a c. SEGRE, Serziotica filologica cit., pp. 23-37): J. S. PETOFI (a cura di), Text vs Sentence. Basic Questions of Text Linguistics, Hamburg 1979, AA.vv., Del testo. Seminario interdisciplinare sulla costituzione del testo,
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Testo letterario, interpretazione, storia
4I
enunciato complesso), orale o scritto ‘. Ciò che interessa i linguisti testuali è il fatto che le nostre conoscenze sintattiche, sufficienti per spiegare la conformazione di singole proposizioni o periodi, non sono in grado di spiegare perché una certa successione di periodi costituisca un enunciato coerente, e un’altra non lo costituisca. La linguistica testuale cerca di individuare le regole (che nell’assieme costituiscono la nostta «competenza testuale») in base alle quali noi siamo in grado di costituire enunciati coerenti, e di giudicare la coerenza degli enunciati che ci vengono proposti da altri °. Non occorre qui fare la storia di queste ricerche, le quali si riconducono all'osservazione di Hjelmslev, secondo cui il sistema linguistico può essere individuato solo partendo dai processi, cioè dai testi in cui esso si è realizzato e si realizza, e ai tentativi di discourse analysis di Z. Harris, cioè l’individuazione di regolarità di carattere transfrastico, in quanto operanti oltre i limiti delle frasi. Può invece essere utile indicare i tipi di procedimenti linguistici su cui la linguistica testuale si basa °. Molti linguisti impiegano concetti di carattere descrittivo, talora tratti dalla retorica, che in effetti aveva già anticipato osservazioni sui nessi tra periodi. Il caso principale è quello dell’anafora, che in linguistica testuale viene indicata non solo dove c’è ripresa della stessa parola, ma quando la stessa persona od oggetto viene indicata con pronomi: «La contessa arrivò alle cinque; essa entrò come un turbine. La cameriera prese la sua pelliccia e la introdusse in salotto. Gli altri ospiti fe vennero incontro». Affine la ricorrenza: «Ho visto un’auto. L’auto era blu»; più ampio il concetto di coreferenza, cioè comunanza di referente per più parole, che non comprende solo l’anafora, ma anche la catafora, cioè l’anticipo delle forme sostitutive rispetto al sostantivo proprio («Quando Giorgio lo incontrò, pareva in buona salute. Invece Carlo covava una malattia»), e l’uso di sinonimi (« Pietro ha visto una moto. Il veicolo brillava al sole») e parafrasi (« Vive presso di me, a casa. Sotto il z7Î0 tetto»).
I fenomeni indicati possono anche esser definiti, su un piano logico invece che linguistico, come casi di inclusione e implicazione. In questo modo si acquisiscono nuovi procedimenti interfrastici, come il ricorso a classi e loro componenti: «Luigi ha visto molti veicoli. Uno era una moto, ur secondo una bicicletta. Tutti gli 4/tri erano automobili ». Nell’ambito di questo impianto di analisi hanno acquistato nuovo vigore le «analisi funzionali» del cèco Mathesius”,secondo il quale ogni enunciato Napoli 1979; AA.vv., Linguistica testuale. Atti del XV Congresso internazionale di studi. Genova Santa Margherita Ligure 8-10 maggio 1981, a cura di L. Còveri, Roma 1984. 4 Ho già esposto, in Sezziotica filologica cit., p. 23, le mie riserve sull’uso, per altro generalizzato, di testo anche per gli enunciati orali; forse sarebbe stato meglio adottare, con Harris, il termine discorso. 5 Precisa i valori del termine coererza M.-E. CONTE, Coerenza testuale, in «Lingua e stile»,
XV (1980), 1, pp. 135-54.
6 I problemi erano già stati impostati lucidamente da Rr. INGARDEN, Das literarische Kunstwerk, 1931 (trad. it. Feromenologia dell’opera letteraria, Milano 1968, pp. 258-80). ? Cfr. v. MATHESIUS, Or Linguistic Characterology with Illustrations from Modern English,
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Concetti, tecniche e categorie
conterrebbe in genere un tezza (in inglese fopic), cioè una parte che si riferisce a enti e fatti già esposti in precedenza nel testo, e un rbezza (in inglese corzment), che contiene le informazioni nuove a fornire le quali si destina l’enun-
ciato. Il discorso, o testo, può dunque esser visto, d’accordo con gli attuali rappresentanti della Scuola di Praga, come una fenomenologia delle alternanze possibili tra temi e rhemi. Per esempio: progressione lineare, in cui il rhema di una frase diventa il tema della successiva («Incontrai un collega. Egli mi salutò»); mantenimento del tema («Il mio collega si chiama John. Egli è un ottimo studioso. I suoi lavori sono pieni di humour»); progressione per riquadri, col rhema scisso in più temi (« Incontrammo due soldati. Il primo... Il secondo... »)
Molto pit esteso, ma meno facilmente schematizzabile, il fenomeno della contiguità lessicale o semantica, costituito dalla ricorrenza delle stesse parole o di parole appartenenti allo stesso campo lessicale, oppure di tratti semantici presenti nei termini usati in un enunciato. Nel primo caso è possibile immediatamente un’analisi autonoma del testo, nel secondo si deve ricorrere
a un metalinguaggio che conduca alla stessa base sinonimi, omonimi e costruzioni equivalenti, nel terzo caso deve intervenire il giudizio di tipo semantico. Per esempio, in un testo di questo genere: «Stavo guidando sull’autostrada quando improvvisamente il yzotore cominciò a fare uno strano rumore. Fermai la macchina e quando aprii il tappo vidi che il radiatore stava bollendo», prima ancora che si sia nominata la macchina, la parola autostrada introduce nella sfera semantica dell’automobile, cui pertengono pure le parole guidardo, motore, radiatore, ecc. 2.3. Isotopia.
Può intervenire qui il concetto di isofopia, introdotto in linguistica da Greimas: esso indica «l’iteratività lungo una catena sintagmatica di classemi [= unità minime di significazione contestuali] che assicurano al discorso-enun-
ciato la sua omogeneità» *. Greimas elenca vari tipi di isotopia, quella grammaticale, con ricorrenza di categorie, quella semantica, che «rende possibile la lettura uniforme del discorso, quale risulta dalle letture parziali degli enunciati che lo costituiscono», quella attoriale, che coincide con l’anafora, ecc.; ed estende il concetto a ogni ricorrenza di categorie semiche. In prima istanza, può convenire di attenersi al valore originario del termine. Anche perché esso giustifica il peso che può assumere l’isotopia come elemento rivelatore pet la lettura: «Dal punto di vista dell’enunciatario [= destinatario dell’enuninJy. VAGHE (a cura di), A Prague School Reader in Linguistics, Bloomington Ind. - London 1964, PP. 39-07.
* La definizione è tratta da A. J. GREIMAS e J. courtÉs, Sérziotigue. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Paris 1979, pp. 197-99. Ma per le prime definizioni cfr. A. J. GREIMAS, Sér2antique structurale, 1966 (trad. it. Milano 1969, cap. VI); F. RASTIER, Systématique des isotopies, in A. J. GREIMAS (a cura di), Essais de sémiotique poétique, Paris 1972, pp. 80-105. La bibliografia più recente è discussa in P. PUGLIATTI e R. ZACCHI, Terribilia meditans. La coerenza del monologo interiore in «Ulysses», Bologna 1983.
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ciazione], l’isotopia costituisce una griglia di lettura che rende omogenea la superficie del testo, dato che permette di toglierne le ambiguità». Darò qualche esempio di isotopia partendo da un noto sonetto del Foscolo, A Zacinto": Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar da cui vergine nacque Venere, e fea quell’isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde l’inclito verso di colui che l’acque 00N Hi wWwWN ai Xu 0
cantò fatali, ed il diverso esiglio,
per cui bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. Tu non altro che il canto avrai del figlio HW HHH a noi prescrisse \WwWUN Ho o materna mia terra: 14 il fato illacrimata sepoltura.
Una prima isotopia, di carattere geografico, presenta le due isole (Zacinto 3, Itaca 11; isole 5) con indicazioni relative al contatto mare-terra (sponde 1,
onde 3, mar 4, acque 8 — anche illacrimata 14; terra 13, petrosa 11; specchi 3). L’isotopia equorea è fondamentale, tanto da riempire tutte le rime della quartina, in cui si reiterano gli elementi -onde, -acque; essa coinvolge, attraverso il riferimento alla fertilità, alla maternità, insomma alla vita, termini
come fanciulletto 2, nacque 4, feconde 5, figlio 12, materna 13. Avviene poi un incrocio tra l’isotopia della vita e quella della morte (sepoltura 14; simmetrico a giacque 2, riposo infantile denominato con termine comune per il riposo finale). Il ciclo nascita-morte incrocia quello del ritorno (diverso esiglio
9, toccherò 1, baciò 11), dominato dal fato (fatali 9, fato 14) che (isotopia di negazioni) ne annulla la possibilità per il poeta (Né più wai 1; non altro che 12; illacrimata 14).
Dopo aver avvertito che quelle indicate sono solo alcune delle isotopie individuabili nel sonetto, devo rilevare che la ricchezza d’isotopie e la complessità della loro connessione è una conseguenza della concentrazione concettuale propria della poesia. È cosî che si verifica la particolare compattezza del testo poetico. Con i procedimenti indicati, e con altri più complessi, ma analoghi, la linguistica testuale cerca d’individuare le proprietà che rendono un testo coerente. Si noti che un testo, specialmente se orale (conversazione; ed è questo l’ìmbito più battuto dalla linguistica testuale), viene estratto dal continuum degli enunciati di cui consiste la vita sociale: ogni dialogo è stato preceduto e ; ; ? A. J. GREIMAS € J. COURTÉS, Sérziotique cit., p. 199. 10 Uso, semplificando molto, l'articolo di M. PAGNINI, II sonetto [A Zacinto]. Saggio teorico e critico sulla polivalenza funzionale dell’opera poetica, in «Strumenti critici», VIII (1974), 23,
pp. 41-64.
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sarà seguito da altri, può essersi spezzato per motivi esterni o per cambio di argomento, ecc. Insomma la coerenza è un fatto interno, rispetto agli elementi inclusi nel testo, ed esterno, rispetto a tutto ciò che, nel conzinuuze delle
enunciazioni, costituisce altri testi. Notiamo ancora che i testi orali sono fortemente connessi con la situazione: gl’interlocutori possono dare per noto ciò che appartiene chiaramente alla situazione, possono alludervi senza nominarlo, possono integrare il discorso con gesti (un cenno col dito può far le veci di un pronome), ricorrono a tratti soprasegmentali (intonazione, ecc.), e cosî via. Insomma il legame testo-con-
testo è indissolubile, e ciò impone una grande attenzione ai fatti pragmatici. 2.4. Il testo letterario. Le ultime osservazioni ci aiutano a caratterizzare le proprietà del testo letterario. Per esempio la sua più facile delimitazione, suggerita o esplicitamente indicata nella trascrizione o stampa; l’indeterminazione di contesto, dato che l'emittente ignora per lo più le condizioni in cui il testo sarà letto; la mancanza di tratti soprasegmentali, che eventualmente il lettore integra (specie se legge ad alta voce), ma di sua iniziativa. Se le ricerche moderne di linguistica testuale hanno messo a punto problemi e avviato soluzioni, va anche detto che l’estensione del termine resto a
tutti gli enunciati orali e scritti costringe a ridefinire ciò che, nell’uso, è già chiaro. Forse non inutilmente; ciò non toglie che, d’ora innanzi, la parola festo indicherà in queste pagine solo il testo letterario. Ciò che caratterizza il testo letterario è che esso istituisce una comunicazione sui generis. Emittente e destinatario non si trovano «faccia a faccia» nemmeno in senso figurato, e si può dire (cfr. $ 1.1) che la comunicazione si
svolge in due segmenti: emittente-messaggio (senza sapere chi sarà il destinatario reale); messaggio-destinatario (ignorando il contesto preciso di emittenza, e talora l’emittente stesso, per le opere anonime). I casi in cui l’opera ha un dedicatario preciso, o è stata scritta espressamente per una persona o
per un gruppo, non mutano la fenomenologia generale, dato che l’opera può sempre continuare ad esser letta, anche dopo la fruizione prevista e desiderata. Le conseguenze principali di una comunicazione siffatta sono: a) l'emittente deve introiettare il contesto nel messaggio, facendo in modo che il messaggio, inglobando i riferimenti necessari alla situazione di emittenza, sia praticamente autonomo. Se si vorrà spiegare la genesi
di un’opera sarà utile, quando possibile, la ricostruzione del contesto; ma l’opera ormai da questo contesto può prescindere, salvo per quanto essa stessa ne conservi; 6) non è possibile feedback, cioè il destinatario non può chiedere chiarimenti all’emittente, influenzare il seguito della sua emissione; anche perché l’emittente, una volta perfezionato il messaggio, è di fronte ad esso nella stessa situazione di qualsiasi destinatario;
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c) il testo permane in una sorta di potenzialità dopo l'emissione e prima della ricezione: ridotto a quella serie di segni grafici che costituisce il supporto dei suoi significati. I significati, che in una conversazione si sviluppano quasi contemporaneamente nell’emissione e ricezione del messaggio, divengono operanti solo nel corso delle successive letture. D'altra parte il destinatario può controllare e approfondire la comprensione del messaggio, interrompendo la lettura per meditare, rileggendo, confrontando parti diverse del testo, ecc. (ciò vale in maniera ri-
dotta per l’esecuzione orale; però il destinatario può assistere a più esecuzioni, ossia recepire due o più volte la totalità o parti del messaggio).
2.5. Le funzioni linguistiche. Queste tre caratteristiche motivano decisamente la particolare elaborazione linguistica dei testi letterari. È in questo senso che diventa indiscutibile l’esistenza e l’operatività di quella che Jakobson chiama la «funzione poetica» (la quale caratterizza il testo letterario, anche se non ne è esclusiva). La funzione poetica, com'è noto, consiste nell’orientarsi della lingua verso il messaggio per se stesso, invece che, poniamo, verso il mittente (su cui si con-
centra la funzione emotiva) o il destinatario (funzione conativa)". Importante notare, contro ogni impostazione idealistica, il prevalere nel testo letterario della funzione poetica su quella emotiva. È dunque concentrandosi sul messaggio che l’emittente tutela una comunicazione che, sezionata come s’è visto, rischierebbe di diventare impossibile. Questo impegno dell’emittente sul messaggio implica, d’altra parte, unità e coerenza nel messaggio stesso. A differenza che nel discorso comune, l’emittente non è soggetto a compresenza e successione di stimoli all’espressione, ma al contrario sviluppa un suo discorso interiore, entro confini in gran parte da lui scelti. Perciò il lettore e il critico possono verificare se il messaggio abbia anche coerenza artistica, ma hanno già in partenza nozione dell’individualità del testo, che è un dato di partenza. 2.6. Tipi di testo. Il lettore è messo in condizione di «misurare» autonomia e ampiezza del testo dall’uso combinato di elementi materiali (esistenza di uno o più volumi numerati; titolo, testo e firma, o spazio bianco, o cambio di corpo, nelle pub-
blicazioni in rivista) e formali. Questi ultimi, che appartengono a tradizioni già consolidate e generalmente note, rientrano in gran parte nella teorica dei 1! V’è poi una funzione referenziale, orientata sul contesto, una wetalinguistica, orientata sul codice, ed una fàtica, relativa al contatto. Cfr. r. JAKOBSON, Essais de linguistique générale cit., trad. it. pp. 185-90. Si è provato ad arricchire l’elenco jakobsoniano delle funzioni, ma a costo di obliterare la corrispondenza tra funzioni e costituenti della comunicazione, e rischiando di confondere le funzioni con le caratteristiche dei generi letterari (per esempio proponendo una funzione litica, una drammatica e cosî via) o con le tecniche (funzione narrativa, descrittiva, registica): cfr. per esempio M. PAGNINI, Pragmatica cit., pp. 26-33.
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generi e sottogeneri. Una persona colta è in grado, in una data società, di prevedere che tipo di testo gli sarà offerto come romanzo, novella, poema cavalleresco, raccolta di liriche, ecc., e viceversa di riconoscere, a prima vista o dopo una semplice scorsa, un romanzo, una novella, un poema cavalleresco, una raccolta di liriche. Anche le anomalie sono tali rispetto all’uso dominante, e perciò individuabili e catalogabili. Questo in prima approssimazione. Ma la scelta di un genere o sottogenere è stata determinante, al momento dell’emissione, per la forma del messaggio, e perciò anche per la sua coerenza. Come è sempre stato noto agli scrittori, ma come la critica incomincia appena a verificare, ci sono connessioni stret-
tissime tra scelta dell’argomento, del genere, dei mezzi stilistici e linguistici ”. La coerenza del testo è proprio la forma di questa connessione. Si deve piuttosto ricordare che esistono generi più o meno chiusi: dalla matematica esattezza di un sonetto allo schema della canzone, che già può avere numero e tipo variabile di stanze, alla latitudine di raggruppamento delle ottave di un cantare o d’un poema. Si vede subito che chiusura e apertura sono anche contenutistiche: il sonetto, tradizionalmente, esaurisce una situazione (salvo che nelle «corone di sonetti»); un poema, o ancor più un romanzo, possono abbracciare un'infinità di situazioni. Di qui la maggior necessità di segni di demarcazione: un componimento breve non richiede explicit o la parola FINE, usati invece spesso per composizioni più ampie e senza limiti visibili. E sono persino stati studiati i modi, in ogni epoca abbastanza codificati, di trattare l’inizio e la conclusione delle composizioni, siano poetiche o narrative: nel complesso, essi mostrano la cura di presentare e, rispettivamente,
concludere il mondo immaginario istituito nel testo stesso, già indicando in partenza il tipo di sviluppo che è lecito attendersi, e viceversa sottolineando, sul finire, la tonalità con cui si vuole che sia rimeditato tutto lo sviluppo testuale. Ovvia, per esempio, in opere narrative, la definizione immediata delle coordinate spazio-temporali, anche in senso descrittivo (e qui ha una parte notevole la prospettiva dei tempi verbali: cfr. $ 1.6.3); oppure la presentazione del personaggio o dell'ambiente. Altrettanto nota la concentrazione concettuale della fine della poesia, talora favorita anche da una zise er relief imposta dalla diversa concatenazione delle rime. Procedimenti non lontani dall’aprirsi e dal chiudersi di un sipario ”. Cfr. x. W. HEMPFER, Gattungstheorie, Minchen 1973; M. CORTI, Principi della comunicazione letteraria, Milano 1976, cap. V; C. SEGRE, «Generi», in Erciclopedia, VI, Torino 1979, pp. 564585. Un esempio di omologia tra codici simbolici, codici formali e lingua è illustrato da M. CORTI, Il codice bucolico e l’« Arcadia» di Iacobo Sannazaro (1968), in Metodi e fantasmi, Milano 1969, pp. 281-304.
1° Cfr. N. MILLER (a cura di), Romanantinge. Versuch zu einer Poetik des Romans, Berlin 1965; B. HERRNSTEIN SMITH, Poetic Closure. A Study of How Poems End, Chicago-London 1968; In., Or the Margins of Discourse. The Relation of Literature to Language, Chicago-London 1978; PH. HAMon, Clausules, in «Poétique», VI (1975), 24, pp. 495-526; E. W. sam, Beginnings: Intention and Method, Baltimore-London 1975; v. coLETTI, Dall'inizio alla fine: percorso didattico attraverso il romanzo, in «Otto-Novecento», IV (1980), pp. 175-96, nonché w. MIGNOLO, E/emzentos cit., pp. 246-47. Per l’analisi comunicativa dei titoli cfr. per esempio L. H. Hok, Pour une sémiotique du
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2.7. Coerenza del testo. Tutto questo per mostrare che le esigenze di coerenza, evidenti nel discorso comune, sono diverse, più sottili e meno rigide nel testo letterario. Noterò da un lato che il testo letterario può essere apparentemente incoerente (una prosa futurista, una poesia surrealista, uno streazz of consciousness) “; la sua unità, oltre che sui caratteri esterni indicati, si sorregge su un enuncia-
to performativo " del tipo: «Occorre interpretare queste frasi sconnesse come i pensieri di X nella situazione y». Noterò dall’altro che un testo letterario è spesso una somma coerente di diverse coerenze. Si prenda per esempio il criterio della coreferenza (cfr. $ 2.2). In un episodio di romanzo tale esigenza è certo rispettata: ogni personaggio nuovo viene subito «situato» rispetto ai
già noti, sicché persone e cose vengono a trovarsi tutte in relazione, mediante pronominalizzazioni, anafore, ecc. Ma gli episodi successivi possono istitui-
re differenti aree di coreferenza, che a un certo punto verranno unificate dalla rivelazione di rapporti, non necessariamente indicati in partenza, o non ancora sussistenti, tra i personaggi delle varie aree. Il caso più tipico di questa somma coerente di coerenze diverse è il testo teatrale, che in ogni scena simula una situazione di discorso analoga a quelle reali, ma che nell’assieme del testo realizza una somma programmata (e coerente ad altro livello) di situazioni diverse. Basti, a mostrarlo meglio, il fatto
che tra una scena e l’altra può intervenire un cambiamento di contesto (personaggi, localizzazione e tempo diversi), con netto cambiamento nell’uso dei deittici: questi, questa, quegli, quello, ecc. rinviano a un sistema di referenti diverso ‘. Un ultimo esempio: in un testo narrativo ci saranno facilmente isotopie presenti solo incerte sezioni (si pensi ai motivi), accanto a isotopie di
grande scala che congiungeranno l’assieme delle sezioni. Può esser utile, a scopo nomenclativo, indicare i principali tipi di coerenza che nel testo letterario coesistono (ma spesso s’integrano, restando talora meno evidenti quelli di carattere formale, mentre di solito persiste la coerenza del senso: che tra l’altro è sempre recuperabile pur che ci si porti a un adeguato livello di globalità). DoleZel‘, per esempio, indica quattro livelli di coetitre, Urbino 1973; E. CASADEI, Contributi per una teoria del titolo. Le novelle di Federico Tozzi, in «Lingua e stile», XV (1980), 1, pp. 3-25; M. DI FAZIO ALBERTI, I/ titolo e la funzione paraletteraria, Torino 1984. 4 Lo stream of consciousness 0 «flusso di coscienza » è il tentativo di rappresentare l’incoerenza tematica e le libere associazioni del pensiero di un personaggio monologante,
imitando con una
sintassi poco razionale i procedimenti dell’inconscio. Tipico il monologo di Molly Bloom nell’Ul/ysses di Joyce. 5 Si chiama enunciato performativo un enunciato che impone (o propone) un certo tipo di comportamento (di interpretazione, nel nostro caso). 16 Cfr. per esempio J. HONZL, The Hierarchy of Dramatic Devices, in L. MATEJKA e I. R. TITUNIK (a cura di), Serziotics of Art: Prague School Contributions, Cambridge Mass. 1976, pp. 118-27, nonché le analisi raccolte in A. CANZIANI e altri, Comze comunica il teatro: dal testo alla scena, Milano 1978.
I? Cfr. L. poLEZEL, Narrative semantics, in of Literature», I (1976), 1, pp. 129-51.
«PTL. A Journal for Descriptive Poetics and Theoty
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renza, due semantici (cioè pertinenti al significato globale) e due relativi alla testura, cioè alla superficie del discorso: a) b) c) d)
coerenza coerenza coerenza coerenza
semantica semantica discorsiva discorsiva
a lunga portata; a breve portata; a lunga portata; a breve portata.
Dove le espressioni lunga portata (long-range) e breve portata (short-range) si riferiscono a connessioni a distanza, perciò strutturanti, o invece a connessioni immediate, tra singole parti del testo. La conclusione mi pare debba essere questa: le coerenze segnalate dalla linguistica testuale non hanno, nel testo letterario, una semplice funzione connettiva e distintiva, ma si stratificano in gerarchie che costituiscono, del testo, le strutture. Il problema della struttura si sostituisce cosî a quello dell’unità e della coerenza, e prepara i materiali per la scoperta dell’altra e più complessa coerenza che è quella artistica. 2.8. Macrotesto.
L’unità del testo risale all’atto dell’emissione: l’incontro fra la volontà dell’emittente e il riconoscimento del ricevente è permesso dalla comunanza delle convenzioni letterarie. Vi sono però dei casi in cui testi con totale o parziale autonomia vengono raggruppati in un testo più ampio, un macrotesto.
Il problema teorico ha anche corrispondenza pratica, per esempio nei tre casi seguenti (l’esemplificazione potrebbe essere dilatata): 1) Composizioni liriche poi inserite dall’autore in opere prosastiche, o combinate secondo un disegno complessivo in un «canzoniere». Esempio tipico del primo caso la Vita nuova di Dante, dedicata a commentare letteralmente, e a illustrare in forma narrativa la genesi di composizioni poetiche. Per il secondo caso divenne presto paradigmatico il canzoniere del Petrarca. Ma si potrebbero aggiungere tutte le raccolte in volume di poesie scritte e diffuse isolatamente, e poi riunite dal poeta o secondo uno schema in qualche modo biografico (si giunge alla Vita d’un uomo di Ungaretti) o secondo affinità contenutistiche, tematiche, ecc. 2) Novelle pubblicate sparsamente, poi raccolte da un autore secondo un disegno preciso, e magari inquadrate in una cornice ‘’, come nei modelli indiani antichi (Pa#icatantra, Il libro dei sette savi, ecc.) e come nel Decameron
(in cui la cornice narrativa, con la finzione dei giovani che in campagna cercano rifugio dalla peste, serve anche per classificare tematicamente, con le sedi Sul procedimento della «cornice» sono sempre suggestive le pagine di v. B. SKLOvSsKiJ, O teorii prozy, 1925 (trad. it. Teoria della prosa, Torino 1976, pp. 66-99). Cfr. anche J. HAMBUECHEN POTTER, Five Frames for the “Decameron”. Communication and Social Systems in the Cornice, Princeton N.J. 1982.
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rate narrative dedicate a dieci gruppi di dieci novelle, le cento novelle contenute nell’opera). 3) Lettere private, poi raccolte in epistolario dall’autore, secondo epoche, destinatari, argomenti, ecc. Si pensi alle raccolte epistolari del Petrarca. Il comportamento degli autori nei riguardi di queste opere a mutato statuto (composizioni autonome divenute parte di una composizione più ampia)
serve a individuare le forze unificanti dei testi e dei macrotesti. Si verifica insomma che da un lato si tende a rendere più omogenei i testi in funzione del nuovo impiego (eliminando in ognuno di essi particolarità che potrebbero produrre squilibri e dissonanze nell’assieme, e viceversa operando una unificazione o armonizzazione formale), dall’altro si potenziano nella struttura complessiva le forze di coesione (uso di rubriche e altri mezzi classificatori che insistono sulla conferita unità; valorizzazione dei testi iniziali e finali e, in complesso, disposizione secondo una calcolata parabola). L’effetto forse più interessante è l’eliminazione delle ripetizioni, che ha la sua piena realizzazione nei casi in cui alcuni dei testi accolti vengono considerati anticipazione o commento dei temi sviluppati in altri, con tutti gli sfoltimenti che questa chiarificazione reciproca implica. Sono insomma considerati, già dagli autori: 1) il coordinamento fra i testi raccolti”; 2) l'istituzione di rapporti con l’assieme; 3) l'istituzione di rapporti tra singoli testi entro l’ordine di successione attuato ”. La coerenza del testo va considerata entro una progressione in cui la fase posteriore assimila l’anteriore. Ogni testo cioè mantiene in genere autonomia e coesione interne, ma è poi compreso in una autonomia e in una coesione più vaste. Il rapporto proporzionale tra i due tipi di coesione può variare, a seconda che la struttura del macrotesto sia più o meno rigida. Questa gerarchia di autonomie sussiste anche per i testi convenzionali, dato che un solo dialogo può contenere pit testi debitamente demarcati, o che più dialoghi possono co1? Per esempio Gli idilli difficili (1958) di Calvino rivela nei dieci racconti di Marcovaldo una combinatoria di invarianti organizzate secondo una progressione contenutistica precisa; ciò che non si può dire per Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1966), dove i dieci racconti sono portati a venti, ma viene meno l’unità e compattezza tematica. Cfr. Mm. CORTI, Testi o macrotesto? I racconti di Marcovaldo di I. Calvino (1975), in Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Torino 1978, pp. 185-200. 20 Cfr. c. SEGRE, Sistema e strutture nelle «Soledades» di A. Machado, in I segni e la critica cit., pp. 95-134; In., I sonetti dell’aura, in AA.vv., Lectura Petrarce III, 1983, Firenze 1984. Insiste invece sulla linea narrativa 6. GENOT, Strutture narrative della poesia lirica, in « Paragone. Letteratura», XVIII (1967), 212, pp. 35-52. J. GENINASCA, Les Chimères de Nerval, Paris 1973, vede un canzoniere come una frase di cui i singoli componimenti sarebbero le parole. M. SANTAGATA, Dal sonetto al canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un genere, Padova 1979, attua un confronto sistematico tra poesie del canzoniere petrarchesco, alla ricerca di 4) connessioni di trasformazione; 4) connessioni di equivalenza, tenendo conto di rapporti attinenti sia alla sfera dell’espressione, sia a quella del contenuto. s. LONGHI, I/ tutto e le parti nel sistema di un canzoniere, in «Strumenti
critici», XIII (1979), 39-40, pp. 265-300, segue gli sviluppi «narrativi» di tre linee
tematiche dominanti nelle Rizze di Giovanni Della Casa. Cfr. anche z. c. MInc, Struttura compositiva del ciclo di A. Blok «Sneznaja maska», in JU. M. LOTMAN e B. A. USPENSKIJ (a cura di), Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell’URSS, edizione italiana a cura di C. Strada Janoviè, Torino 1973, pp. 251-317, che individua l’unità del ciclo nei campi del «paesaggio », dello «stato dell’io », dell’amore-passione, del « quadro del mondo » e dei riferimenti biografici.
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stituire, per la loro continuità, un solo mactotesto. Va solo detto che, come per il testo isolato, l'impegno elaborativo dell’autore evidenzia e calibra gli elementi congiuntivi e quelli separativi. 2.9. La struttura. 2.9.1. Di struttura si è sempre parlato, applicando una trasparente metafora tratta dalla scienza delle costruzioni. Potremmo prendere come definizione quella dei dizionari: la struttura è «il complesso organico degli elementi di cui una cosa è formata, della loro disposizione e dei loro rapporti» (Passerini Tosi). In letteratura, si potrà chiamare struttura uno schema metrico o
strofico, la distribuzione della materia in canti o capitoli, ecc. Queste strutture vengono spesso curate dagli autori. Si pensi alla Corzzzedia: tre cantiche di trentatre canti, più uno iniziale che porta la somma a cento; o al Decarzeron, pure di cento novelle, distribuite in decadi (come le Decbe di Livio). Si pensi ai poemi, volentieri distribuiti in dodici canti, sul modello dell’ Aezeis (così il Teseida del Boccaccio); o all'importanza del numero 9 (tanti i capitoli della Fiammetta); o dei numeri 5, 10 e multipli (5 i libri del Filocolo del Boccaccio, 50 i canti dell’Azzorosa visione del Boccaccio, 20 i canti della Gerusalemme liberata, ecc.). È pure un fatto di struttura la divisione di commedie e tragedie in atti e scene, in numero quasi sempre fisso. Ed è ancora un fatto di struttura la distribuzione di parti prosastiche e parti in versi (o composizioni liriche) nelle opere come la Vita nuova di Dante, la Commedia delle ninfe fiorentine del Boccaccio, l’Arcadia del Sannazzaro, ecc. In queste strutture, subito visibili, l’autore esprime la sua volontà di ordine comunicandola al lettore. È pure una struttura quella degli schemi metrici: tanto più ricca di simmetrie, parallelismi e opposizioni quanto più complesso lo schema. Se si prende la forma del sonetto, vi si riscontra un complesso di possibilità astratte che, proprie della sua struttura, verranno poi variamente utilizzate dagli autori di sonetti: Il sonetto ha lo stesso numero di strofe di una tetrade di quartine; in entrambi i casi tre opposizioni binarie sono alla base della coniugatio stantiarum [assemblaggio delle strofe] e ci permettono di prevedere tre tipi analoghi di corrispondenze nella struttura interna, particolarmente in quella grammaticale, delle quattro strofe. Entrambe le strofe dispari (1, 111) si riveleranno diverse rispetto alle due strofe pari e ognuna di queste coppie tenderà a mostrare corrispondenze grammaticali interne. Entrambe le strofe esterne (1, 1v) presenteran-
no probabilmente tratti comuni diversi da quelle caratteristiche grammaticali che unificano le due strofe interne. Infine le due strofe iniziali (1, 1) probabil-
mente differiranno nella struttura grammaticale dalle due strofe finali (111, Iv), che possiamo suppotre congiunte da spiccate analogie. Cosî una poesia tetrastrofica rivela tre serie virtuali di corrispondenze fra le strofe lontane: 1) dispari (I, III), 2) pari (II, IV), 3) esterne (1, Iv); e analogamente tre serie di corri-
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spondenze fra le strofe contigue: 1) iniziali (1, 11), 2) finali (111, Iv), 3) interne (11, III). D'altro lato il sonetto mostra differenze sostanziali rispetto a una poesia di quattro quartine. In quest’ultima tutte le strofe hanno una simmetria reciproca e i tre tipi citati di corrispondenze possono essere estesi ai rapporti interni dei quattro versi nel microcosmo di ciascuna strofa. Il sonetto, invece, combina un identico numero di versi all’interno delle due coppie di strofe, iniziale e finale, con una differenza numerica fra di esse. Un’ingegnosa unione di simmetria e asimmetria, e particolarmente di strutture binarie e ternarie nella connessione delle strofe, hanno garantito il duraturo successo e la diffusione del modello del sonetto italiano ”.
2.9.2. Maoggi di solito per struttura s’intende qualcosa di più riposto, e più importante. Si potrebbe accettare questa definizione molto ampia: «La struttura è l’assieme delle relazioni latenti tra le parti di un oggetto». In un testo letterario, nel quale tutta l’attenzione è posta al messaggio, si può dire. che non esistano elementi che non entrino nell’assieme delle relazioni. Compito del critico è individuare le relazioni e gli elementi determinanti per la caratterizzazione del testo. La differenza tra le due concezioni, esterna e interna, di struttura è stata
vista grazie allo sviluppo delle concezioni strutturalistiche, ma era già stata intuita da tempo. Ecco pet esempio il Foscolo (segnalato da Orelli): Quella osservazione delle intarsiature di Galileo, ch’io stimo più di molte teorie rettoriche, mi fece germinare nella mente un’idea che se non fosse nuova per avventura, riescirà nuovamente e chiaramente a quanto io credo spiegata. Ed è che tanto in prosa, guanto in versi lo scrittore deve esattamente osservare il Disegno del pensiero; né io intendo il disegno generale dell’opera che altri chiamerà architettura, o economia, o franciosamente piazo, bensi il disegno d’ogni pensiero partitamente prima considerata ogni parola con l’altra e per conseguenza ogni idea destata da ogni parola, e poi ogni gruppo di minime idee, con le altre vicine; e poi tutto il pensiero prodotto dalle idee riunite; e quindi il periodo, e un periodo con l’altro; in guisa che ne risulti una progressione di membri e di suoni, sf che ogni membro non abbia né più né meno idee, né più né meno (...) d’idee del bisogno, e il tutto abbia una varietà di suoni, di tinte, e di passaggi di luce e di chiaroscuro, che non è infine del conto se non quell’incantesimo che produce l’armonia, quell’arte che è sî difficile nell’architettura, che costitui21 R. JAKOBSON e P. VALESIO, Vocabulorum constructio in Dante’s sonnet “Se vedi li occhi miei” (1966) (trad. it. in R. JAKOBSON, Poetica e poesta cit., p. 302). Tutte le analisi dedicate da Jakobson a sonetti partono dalle possibilità offerte da questo schema. Cfr., nel volume citato, i capitoli su Dante (pp. 299-318), Du Bellay (pp. 319-55), Shakespeare (pp. 356-77) e Baudelaire (pp. 401-19); e per altri tipi di testi brevi, quelli su Martin Codax (pp. 293-98), Pessoa (pp. 463-83), ecc. Si rifanno in varia misura ai precedenti jakobsoniani F. orLANDO, Baudelaire e la sera, in « Paragone. Letteratura», XVII (1966), 196, pp. 44-73; s. AGOSTI, I{ cigno di Mallarmé, Roma 1969; 1n., Il testo poetico. Teoria e pratiche d’analisi, Milano 1972; M. PAGNINI, Critica della funzionalità, Torino 1970; J. GENINASCA, Analyse siructurale des «Chimères» de Nerval, Neuchîtel 1971; A. SERPIERI, I sonetti dell’immortalità. Il problema dell’arte e della nominazione in Shakespeare, Milano 1975; ecc.
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Concetti, tecniche e categorie sce la perfezione della pittura, e delle arti belle, e che la Natura ha con sf divina potenza sparse sovra le cose dell’universo °.
È molto redditizia la coppia sistema-struttura, in cui la struttura è una delle realizzazioni possibili, e quella realizzatasi di fatto, tra le possibilità offerte da un dato sistema. In effetti, quando nelle altre scienze si parla di struttura, lo si fa secondo una concezione dinamica, come indica la definizione di Piaget: à In prima approssimazione, una struttura è un sistema di trasformazioni, che comporta delle leggi in quanto sistema (in opposizione alle proprietà degli elementi) e che si conserva o si arricchisce grazie al gioco stesso delle sue trasformazioni, senza che queste conducano fuori dalle sue frontiere o facciano appello a elementi esterni. In breve, una struttura comprende cosî questi tre caratteri: totalità, trasformazioni e autoregolazione. In seconda approssimazione — e tenendo presente che può trattarsi sia di una fase molto posteriore, sia di una fase immediatamente successiva alla scoperta della struttura — questa struttura deve poter dar luogo a una formalizzazione. Solamente, bisogna comprendere che, mentre la struttura è indipendente dal teorico, tale formalizzazione è opera sua, e può tradursi immediatamente in equazioni logico-matematiche o passare attraverso la mediazione di un modello cibernetico ”..
Questo dinamismo precede l’opera letteraria, è insito nella sua elaborazione; e può anche seguirla, in caso di rifacimenti, nuove redazioni, ecc. Ma nel testo il dinamismo è rappreso: rimane la totalità, sono rapprese le trasformazioni e l’autoregolazione. Con la coppia sistema-struttura si coglie tanto il momento dinamico, quanto quello statico e (provvisoriamente) definitivo. Presa un’opera come un tutto, considereremo come sistema l’insieme dei suoi elementi e dei loro rapporti a prescindere dall’uso particolare che nel testo ne viene fatto, e come struttura lo stesso insieme considerato nei rapporti latenti che ai suoi elementi conferisce la disposizione loro imposta nel testo. 2.10. I livelli.
2.10.1. Quando parliamo di elementi del testo, possiamo alludere tanto a elementi del significante, quanto ad elementi del significato. Va ribadito che i secondi sono impliciti, e come sviluppati, dai primi. Qualunque analisi del testo deve dunque avere il punto di partenza nel fatto che il testo è costituito da una successione di significanti grafici o mzonemi, formati da gruppi di gr4-
femi”. È questa successione, immutabile se si prescinde dai guasti della tradizione, che sviluppa poi, nell’atto della lettura, i significati.
2 u. FoscoLo, Opere, edizione nazionale, III. Esperimenti di traduzione dell'Iliade, a cura di G. Barbarisi, Firenze 1961, t. I, pp. 232-33. 2 J. PIAGET, Le structuralisme, 1968? (trad. it. Milano 1968, p. 39). Ma tutte le riflessioni da me esposte hanno la base nel cap. iti del mio Serziotica, storia e cultura, Padova 1977. i % Il grafema è l’unità grafica minima, corrispondente a una lettera dell’alfabeto; esso non corrisponde in tutto al fonera, o unità fonica minima, essendovi fonemi rappresentati da più grafe-
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Ma se, con Saussure, vien fatto di trattare il testo (alla pari con i segni linguistici) come una costruzione a due livelli, significante e significato, può anche riuscir utile considerare ulteriori stratificazioni per entrambi i livelli, tenendo conto della varietà di analisi attuabile sia su quello significante (analisi fonologica o morfologica o lessicale, ecc.) sia su quello significato (significati verbali o frastici o transfrastici, ecc.). Uno dei promotori di questa sistemazione è Ingarden, che considera l’opera letteraria come una formazione a più strati: La struttura essenziale dell’opera letteraria sta a nostro avviso in ciò, che essa è una formazione costituita da più strati eterogenei. I singoli strati si distinguono tra di loro: 1) per il yzateriale caratteristico ad ognuno di essi, e queste caratteristiche proprie dànno luogo a particolari proprietà di ognuno degli strati; 2) per la funzione che ciascuno d’essi ha, tanto rispetto agli altri, quanto nell’intero edificio dell’opera. Nonostante la diversità del materiale dei singoli strati, l’opera letteraria non costituisce un insieme estrinseco di elementi casualmente giustapposti, ma un edificio organico, la cui unità si basa direttamente sulla qualità propria dei singoli strati. Fra di questi infatti ce n’è uno privilegiato, quello delle unità di senso, che forma la trama strutturale dell’opera intera in quanto che, per sua essenza, richiede tutti gli altri strati e già di per sé ne determina alcuni, in modo tale che questi abbiano in esso il loro fondamento d’essere e dipendano, quanto al loro contenuto, dalle sue qualità. Perciò, in quanto elementi dell’opera letteraria, questi strati sono inseparabili da quello centrale ”.
Tutta l’opera maggiore di Ingarden è ordinata secondo questi strati, che a suo avviso compongono l’opera letteraria: quelli delle formazioni linguistiche vocali, delle unità di significato, delle oggettività raffigurate, degli aspetti schematizzati. È chiaro che l’impianto husserliano di Ingarden affronta principalmente le modalità della percezione e della raffigurazione, attività mentali che precedono quelle testuali; pertanto, solo i primi due degli strati da lui evidenziati rientrerebbero in un’analisi come quella che stiamo descrivendo. Va piuttosto sottolineato: 1) che i quattro strati si susseguono nell’ordine inverso a quello della produzione dell’oggetto letterario, e perciò partendo dall’oggetto stesso; 2) che Ingarden attribuisce al secondo strato una funzione strutturante; gli altri sono dunque da considerare in rapporto con esso. Insomma l’ordine degli strati non è affatto casuale, anzi corrisponde a momenti dell’attività raffigurante. Solo nella percezione l’apporto degli strati si rivela in forma di polifonia. La posizione particolare attribuita allo strato delle unità di significato rientra in una concezione razionale (non razionalistica) dell’opera letteraria, che, a differenza da altre opere d’arte, «non può mai essere una formazione completamente irrazionale, come sarebbe possibile in altri generi d’opere artistiche, mi (in ciò, il fonema /È/ è rappresentato da ci; in che, il fonema /k/ è rappresentato da ch) e grafemi che rappresentano più fonemi (i tonica in inglese rappresenta i fonemi /a/ e /j/). Il zzonema è l’unità significativa minima: radice, prefisso o suffisso, desinenza, ecc. 25 R, INGARDEN, Das literarische Kunstwerk cit., trad. it. pp. 57-58.
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soprattutto nella musica». Insomma, «persino in un’opera d’arte letteraria, dove tutto è atmosfera e sentimento, il momento della “ratio” è sempre pre-
sente, anche se si lascia percepire solo confusamente»
”.
2.10.2. Questa suddivisione ideale dell’opera letteraria in strati o, come si è poi detto più frequentemente, in livelli, è stata accolta da studiosi delle più varie tendenze. Si sono indicati e si indicano questi livelli: «fonologico, morfologico, lessicale, sintattico, enunciativo, semantico, simbolico » ”; ma la lista è aperta: si parla anche di livelli metrico e prosodico, ecc. La distinzione in livelli non si rifà in genere a una particolare dottrina. In termini saussuriani o hjelmsleviani, i livelli fonologico, morfologico, lessicale e sintattico appattengono al discorso, i livelli enunciativo, semantico, simbolico appartengono ai contenuti del discorso. Si avrebbe molta difficoltà a spazializzare l’immagine, perché, prendendo per esempio il discorso, imorfemi non sussistono indipendentemente, ma solo uniti ai lessemi, e gli uni e gli altri sono formati, ed esclusivamente, di fonemi, mentre la loro unione costituisce i sintagmi. Insomma questi quattro cosiddetti livelli costituiscono un solo piano, quello significante. L'immagine dei livelli, alquanto inappropriata, ha invece qualche giustificazione per i livelli del contenuto (enunciativo, semantico, simbolico), data la gerarchizzazione dei significati in una visione di tipo connotativo. Occorre dunque desemantizzare il termine livello, che, beninteso, rende ottimi servizi come casellario pet una iniziale tassonomia. Purtroppo non lo si può nemmeno sostituire con quello, illustrato, di isotopia, perché quest’ultimo è già il risultato di un vaglio dei materiali incasellati: in base a omogeneità di carattere sèmico ”. I livelli restano invece classi di carattere grammaticale (fonemi, morfemi, ecc.) o sèmico; entro queste classi si possono individuare isotopie, in cui si riflettono già le forze di organizzazione concettuale. 2.10.3. La convergenza tra i due termini, livello e isotopia, non è priva di insegnamenti. La classificazione dei materiali per livelli dovrebbe precedere l’interpretazione (e individuare isotopie è già un atto nettamente interpretativo). Ma nemmeno lo sguardo dell’osservatore più neutro può trattenersi dal seguire, anche inconsciamente, un’ipotesi di interpretazione. La lettura stes-
sa, nelle sue forme più ingenue o edonistiche, è già impegno interpretativo, perché la trasformazione che essa opera dei significanti in segni risulta da uno scontro tra codici di emissione e codici di ricezione, da una scelta tra valoti possibili dei segni che non può limitarsi strettamente alla denotazione. Il pericolo che sovrasta l’operazione classificatoria è proprio quello oppo26 Ibid., p. 365. Cfr. Mm. PAGNINI, La critica letteraria come integrazione dei livelli dell’opera, in AA.vv., Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Padova 1970, I, pp. 87-102. 2 Termine introdotto da Buyssens, e poi accolto con valore un po’ diverso da Greimas, sèmz4 indica le unità minime di significato.
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sto: di raccogliere materiali già in funzione di un’ipotesi di lavoro prima che l’esame sia stato cosf ampio da autorizzarne la formulazione. Una delle lezioni dello strutturalismo, e delle prime analisi strutturalistiche, può proprio essere questa: attenzione a non lasciarsi sfuggire nessun elemento di un insieme, ritenendolo magari secondario o non pertinente alla comprensione globale. La pertinenza potrà semmai apparire solo al termine. Nel sonetto A Zacinto del Foscolo (cfr. $ 2.3), il livello sintattico potrà esser definito cosî: tre periodi, di cui uno di undici versi, gli altri due, uniti con due punti, contenuti in tre versi. Le proposizioni principali sono al futuro (prime due) e perfetto (ultima); le subordinate sono tutte al perfetto, tranne specchi (v. 3). Il primo periodo inizia con la principale, cui le secondarie si collegano con nessi relativi (ove, che, da cui, onde, colui che, per cui); una volta le secondarie sono a coppia, unite dalla congiunzione e. Gli altri due periodi non hanno subordinate. Ecc. ecc. Che cosa poi si possa dedurre da questa disposizione in sede interpretativa, si può vedere in un saggio già
citato”. La diffida a cotrere troppo precipitosamente verso la pertinenza può esser facilmente giustificata rammentando che il testo letterario è fondato sulla connotazione, cioè sull’uso di semiotiche denotative che, subordinate e funzionalizzate ad altre, divengono connotative (cfr. $ 2.12). La presenza di nessi relativi nel sonetto ora citato, per esempio, comprende anche la presenza di quell’orde che, sintatticamente senza rilievo (se non come elemento della catena subordinante), entra però nel gioco delle rime in -onde e delle suggestioni acquatiche (oltre a istituite una rima interna al v. 6); di colui che contribuisce a moltiplicare nel v. 8 il nesso K-L, pure in inclito e in l’acque, ecc.: disseminazione,
secopdo Pagnini, delle articolazioni consonantiche di /’ac-
que, parola chiave. Nell’Infrito di Leopardi occorre partire da un censimento dei deittici questo e quello, ben otto, pet poter notare il valore affettivo che ha questo, unito a elementi del paesaggio familiare (vv. 1, 2, 9, 10), in confronto con l’apertura spaziale di quello (vv. 5, 9); o la differenza tra serie di questo (vv. 1, 2,9; 10) e contrapposizioni questo/quello (vv. 9, 10); 0, grande invenzione della poesia, il ribaltamento che unisce ai termini dell’infinità spaziale, nei vv. 13 € 15, non pit quello ma questo. D'altro canto al v. 9 questo entra in una costruzione fonosimbolica: il fruscio delle piante è anche «significato» dall’abbondanzadi dentali e di r, e soprattutto dall’allitterazione «stormir...
queste» ”. 29 Cfr. M. PAGNINI, I/ sonetto [A Zacinto] cit., da cui anche le osservazioni che seguono. 30 C'è stata una veta corsa a interpretare L'infinito con metodi strutturali e semiotici. Cito solo ad esempio M. FABRIS, Analisi strutturale dell’«Infinito» leopardiano, in «La ricerca», 15 marzo 1970, DD. 1-7; G. E. SANSONE, La struttura ritmica dell’«Infinito», in «Forum italicum», IV (1970), PD. 703-9; A. MARCHESE, Analisi strutturale dell’«Infinito» (1974), in Introduzione alla semiotica della letteratura, Tortino 1981, pp. 215-49.
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2.11. Espressione e contenuto. Per il rapporto tra significanti e significati nel discorso, è ancora utile la descrizione data da Hjelmslev ”. Si tratta di un modello a quattro piani: forma sostanza forma
dell’espressione
del contenuto
sostanza
Questo modello è di stampo saussuriano (espressione = significante; contenuto = significato), specie nell’insistenza sull’inscindibilità di espressione e contenuto (non esiste un contenuto precedente la forma, e rivestibile con varie forme). Ma precisa utilmente la natura del segno linguistico. Espressione e contenuto sono funtivi della funzione segnica: «È grazie alla forma del contenuto e alla forma dell’espressione, e solo grazie ad esse, che esistono la sostanza del contenuto e la sostanza dell’espressione rispettivamente, le quali si possono cogliere per il proiettarsi della forma sulla materia, come una rete che proietti la sua ombra su una superficie indivisa» *. Poiché, data una manifestazione, la forma ne costituisce la costante e il contenuto la variabile, è chiaro che la funzione segnica è costituita dalla solidarietà della forma dell’espressione e di quella del contenuto. Per illustrare, con Hjelmslev, la quadripartizione, prendiamo il caso di un colore, il rosso. La sostanza del contenuto è costituita da una classe di vibra-
zioni appartenenti al continuum dello spettro cromatico; è solo mediante la forma del contenuto che la lingua italiana seleziona entro il continuurz la classe di vibrazioni che si designano con la parola rosso. A sua volta la parola rosso, che si realizza con una materia fonica o grafica variabile (diversità di accento e di intensità, varietà di caratteri tipografici, ecc.), costituisce una struttura formale precisa, quella dell’unione dei fonemi /r/, /o chiusa/, /s gemina-
ta/, Jo]. In un testo, la quadripartizione si presenta come una sovrapposizione di linee o di piani. Ma se forma e sostanza sono inscindibili, e se i segni che ne risultano segmentano la realtà diversamente secondo le lingue, ci dev’essere un punto di convergenza anteriore all’attività formale che è la lingua, ci dev'essere un fattore comune definibile «dal suo aver funzione rispetto al principio strutturale della lingua e a tutti i fattori che rendono le lingue diverse l’una dall’altra» *. Questo è, secondo Hjelmslev, la zzateria, cioè il senso, il pensiero. Le 3 Cfr. L. HJ]ELMSLEV, Prolegomena to a Theory of Language, 19612; 1° ed. danese 1943 (trad. it. I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino 1968, pp. 52-65).
® Ibid.,p. 62. 3 Ibid., p. 55.
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bi:
frasi I do not know (inglese), je ne sais pas (francese), jeg véd det ikke (danese), en tiedé (finlandese), raluvara (eschimese), corrispondono più o meno al concetto «non so», ma lo dicono articolando diversamente la materia: sono o non sono espressi, e in ordine diverso, soggetto e oggetto;
il verbo può avere
aspetti e modi diversi (in eschimese la traduzione letterale darebbe «non-sapiente-sono-io-ciò»), ecc. Questo concetto di materia è fondamentale per spiegare le possibilità di traduzione e transcodificazione. È anche utile rilevare che l’analisi di Hjelmslev è proposta per parole o, al massimo, sintagmi. Se si supera il confine della frase vien meno la connessione indissolubile dei piani dell’espressione e del contenuto. Pet contro, blocchi discorsivi ampi, o persino l’assieme del discorso, possono rientrare nella fenomenologia della connotazione. 2.12. Connotazione e denotazione.
Il termine connotazione si contrappone a denotazione perché designa qualche conoscenza supplementare rispetto a quella puramente informativa e codificata dalla denotazione. Una qualunque parola, per esempio, oltre a denotare un oggetto, un’azione, ecc., suscita anche concetti relativi all’uso dell’oggetto, o all’ambiente in cui la parola è usata di norma, ecc. Il termine è stato definito più esattamente da molti linguisti, in contrasto tra loro *. Qui ci rifacciamo alla definizione di Hjelmslev: «Una semiotica connotativa è... una semiotica che non è una lingua, una semiotica il cui piano di espressione è costituito dal piano del contenuto o dal piano dell’espressione di una semiotica denotativa. Una semiotica connotativa è dunque una semiotica un cui piano (e precisamente quello dell’espressione) è una semiotica» ”. Senza discutere estesamente le implicazioni di questa dottrina, basta rilevare qui due fatti decisivi: 1) la descrizione della semiotica connotativa appare del tutto identica a una descrizione del funzionamento del testo letterario. Nessuno crede che tale testo riduca le sue possibilità comunicative ai significati denotati, cioè al valore letterale delle frasi che lo compongono. Il surplus di comunicazione è prodotto appunto dal fatto che i piani dell’espressione e del contenuto dei sintagmi vengono elevati a un piano dell’espressione di cui essi, uniti come sono, formano il piano del contenuto: 2) questo gioco di piani, che possono gerarchizzarsi all’infinito moltiplicando la quadripartizione prima descritta, ci porta al di fuori dell’analisi puramente linguistica del testo; ci rivela che il testo, nella linearità 3 Sul concetto di connotazione in linguistica, da Bloomfield e Hjelmslev a oggi, cfr. C. KERBRAT-ORECCHIONI, La connotation, Lyon 1977; B. GARZA CUARON, La connotacibn; problemas del significado, México 1978. 5 L. HJELMSLEV; Prolegomena cit., trad. it. p. 127.
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del suo aspetto di prodotto linguistico, comprime uno spessore e una pluralità di piani che è di ordine semiotico. Per questo Hjelmslev non parla di connotazione, ma di semiotica connotativa. 2.13. Espressione e contenuto in letteratura. È difficile resistere alla tentazione di usare la quadripartizione hjelmsleviana per l’analisi del testo letterario, la cui complessità e polivalenza è evidente a tutti, comunque la definiscano *. Incominciò uno studioso della stessa scuola di Copenhagen, Sorensen ”, proponendo di considerare la lingua come sostanza dell’espressione, lo stile come forma dell’espressione, le idee, i sentimenti e le visioni come sostanza del contenuto, e infine i temi, la composizione e i generi come forma del contenuto. Si tratta di un impiego suggestivo dello schema di Hjelmslev; ma non molto di più che un casellario per osservazioni di vario ambito. Vengono infatti meno gli stretti nessi e il bifrontismo postulati da Hjelmslev: il quale non si proponeva che di spiegare il binomio significante/significato. Alquanto più stringente nella sua funzionalità lo schema proposto da Greimas *, che biforca espressione e contenuto a seconda del loro riferirsi a singoli sintagmi o ad enunciati più ampi. Avremmo dunque:
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Lo stesso Greimas è cosciente dei limiti del suo schema, dato che aggiunge: «È evidente che sono possibili e anche prevedibili suddivisioni all’interno dei livelli descritti e una classificazione più raffinata degli schemi poetici, in quanto esse si fondano sui principî ben noti dell’analisi linguistica in costituenti immediati». Insomma, anche questo è un casellario, nient’altro. # Uno dei primi a valotizzare in ambito letterario lo schema di Hjelmslev è stato R. BARTHES, Eléments de sémiologie, 1964 (trad. it. Torino 1966, cap. IV). Cfr. H. soRENSEN, Studier i Baudelaires poesi, Kobenhavn 1955, pp. 18-21. Era rimasto più vicino a Hjelmslev s. JOHANSEN, La notion de signe dans la glossématigue et dans l’esthétique, in « Travaux du Cercle linguistique de Copenhague», V (1949), pp. 288-303: egli attribuiva per esempio la rima alla sostanza dell’espressione, il ritmo alla forma; alla sostanza del contenuto la denotazione, alla forma del contenuto l’uso dei tempi, le scelte sintattiche (asindeto, paratassi, ecc.). Ma il proprio dell’invenzione letteraria restava relegato fra le «idiosincrasie materiali e intellettuali dell’autore»; fra le sue « preferenze per certi argomenti o per certi problemi intellettuali» (ibid., p. 301); cosa che si verifica pure per Trabant, citato oltre (cfr. per esempio cap. III, D, f). * Cfr. A. J. ereIMas, Modelli semiologici, Urbino 1967, Dp. 122-23.
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L’obiezione si dovrebbe fare pit pesante per Zumthor ”, che a proposito di Charles d’Orléans e del linguaggio dell’allegoria pone: sostanza dell’espressione: le personificazioni come soggetti; forma dell’espressione: le metafore come azioni; sostanza del contenuto: l’universo «ideologico »; forma del contenuto: l’irradiazione delle metafore. Tutti gli enti censiti da Zumthor sono di ordine semantico, parlare di sostanza e forma è almeno azzardato. Un maggiore sforzo teorico nei confronti della quadripartizione viene compiuto da Trabant ‘, che v’inserisce tutta la sua semiologia dell’opera letteraria. Egli considera sostanza dell’espressione del segno estetico la lingua, e forma dell’espressione il testo; discute a lungo sulla sostanza e la forma del contenuto, ma non propone per essi una concretizzazione precisa. Fatto sta che i
contenuti si sistemano su vari piani connotativi, e che il senso, al di là della denotazione, può essere individuato su sezioni del testo di varia ampiezza, e diversamente parafrasabili. La quadripartizione di Hjelmslev, insomma, funziona solo per la lingua e per la denotazione che essa veicola; non per quell’oggetto semiotico e plurisenso che è il testo letterario. Se consideriamo i contenuti testuali prescindendo dal contenuto linguistico nella sua inseparabilità dall’espressione (cosî come il significato è inseparabile dal significante), il nostro oggetto è più vicino a quello che Hjelmslev chiama materia che a quello che chiama contenuto (cfr. $ 2.11). È una eterogeneità (anche una eteronomia) sostanziale, che da tempo si cerca di precisare contrapponendo significato a significazione e a senso. La critica non può
prescindere da significazione e senso, altrimenti poco si discosterebbe da una interpretazione letterale; ma non deve ignorare la difficoltà, trattando significazione e senso alla stregua dei significati linguisticamente accertabili ‘. È per questo che, nei paragrafi seguenti, si parlerà soltanto della sostanza e forma dell’espressione, che si riferiscono propriamente al piano del significante. Ai contenuti o significati testuali, che esorbitano invincibilmente dall’aspetto linguistico del discorso, sarà dedicato tutto il paragrafo 3, d’impianto non hjelmsleviano, perché Hjelmslev non offre suggerimenti per lo studio della materia e del senso. 2.14. La sostanza dell’espressione. Perché la quadripartizione di Hjelmslev risulti euristicamente utile, occotre dunque riportarsi al testo nel suo aspetto immediato di prodotto linguisti3 Cfr. p. zumTHOR, Charles d'Orléans e le langage de l’allégorie (1969), in Langue, texte, énigme, Paris 1975, p. 198. 4° Cfr. J. TRABANT, Zur Semiologie des literarischen Kunstwerks. Glossematik und Literaturtheorie, Munchen 1970. 4 Nella contrapposizione polemica tra una semiologia della comunicazione (di stampo saussuriano) e una della significazione (cfr. G. MOUNIN, Introduction è la sémiologie, Patis 1970, pp. 1115 e 189-97; L. J. PRIETO, Etudes de linguistique et de sémiologie générales, Genève-Paris 1975, PD. 125-4I1; J.-M. KLINKENBERG, Comunication et signification: l’unité de la sémiologie, in AA.VV., A Semiotic Landscape. Proceedings of the First Congress of the TASS, Milan, June 1974, a cura di S. Chatman, U. Eco e J.-M. Klinkenbetg, The Hague - Paris - New York 1979, pp. 288-94), sbaglia»
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co; occorre dare alla parola significato (che equivale al contenuto di Hjelmslev) il valore che essa ha in linguistica, in corrispondenza con la funzione linguistica dei sigrificanti (cui corrisponde l’espressione). Partiamo dall’espressione. La sostanza è interessata in tutti gli effetti valorizzabili attraverso lettura ad alta voce. Il gioco sulle coloriture vocaliche, sugli effetti sonori di consonanti e gruppi, previsto per certi testi, agisce più modestamente, ed è senz’altro meno avvertibile, alla lettura silenziosa. Altre volte si può giocare sulla forma o sul tipo o meglio ancora sul raggruppamento dei caratteri, facendo leva su un’altra sostanza, quella grafica. La critica recente ritorna sempre più intensamente su questi procedimenti sinora ab-
bandonati ai dilettanti; essa insiste non tanto sugli effetti o sui simbolismi di singoli suoni o gruppi, quanto sulla loro connessione, eventualmente in concomitanza con significazioni espresse ad altro livello. Un testo scritto può dunque essere valorizzato sia negli aspetti visivi, sia in quelli acustici ottenibili alla lettura. Queste due possibilità (coesistenti)
rientrano nelle categorie, rispettivamente, dello spazio e del tempo. La prima ha una delle sue realizzazioni preferenziali nelle icone ‘, che enfatizzano rassomiglianze formali, la seconda nei simboli, che suggeriscono rassomiglianze concettuali. Questa osservazione di Jakobson potrebbe offrite una prima classificazione dei fenomeni relativi alla sostanza della forma. 2.15. Uso iconico della sostanza. 2.15.1 Laformadicerte lettere è stata spesso valorizzata come icona. Si vedano per esempio queste osservazioni sull’utilizzazione del grafema o da parte di Dante: Di Inf. I 66-7, «qual che tu sii, od ombra od omo certo! | Rispuosemi: Non omo, omo già fui...», Getto dice bene che ‘traduce in un’emozione fonica un’emozione visiva’. Ora, a me sembra di capire e veder meglio quel che accade se rammento Purg. XXIII 31-33, dove la /o/ assurge a grafema indubitabilmente iconico: «Parean l’occhiaie anella sanza gemme: | chi nel viso de li uomini legge “omo” |ben avria quivi conosciuta l’emme». Dal bersaglio all’arco, secondo l’esortazione di Singleton; e allora il tanto discusso fioco appare senz’altro pertinente (si adocchi il lungi riferito a Ragione nel Fiore); e tanto più precisamente suggestivo riuscirà Inf. V 68, «e più di mille | ombre mostrommi e nominommi a dito» *.
Quanto all’iconismo di parti più ampie del discorso (parole e sintagmi), sarebbero da estendere osservazioni come quelle di Jakobson: vano tanto quelli che pretendevano di trattare con i consueti schemi linguistici i problemi della significazione, quanto quelli che volevano escludere la significazione dal campo semiotico. 4 Icona, nella concezione di Peirce, è un segno che presenta qualche rassomiglianza o affinità formale con l’oggetto che deve denotare. . 5 Cfr. r. JAKOBSON, Le langage en relation avec les autres systèmes de communication (1968), in Essais de linguistique générale, II. Rapports internes et externes du langage, Paris 1973, p. 96. 4 G. ORELLI, Accertamenti verbali, Milano 1978, p. 15.
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Se la catena dei verbi veni, vidi, vici ci informa dell’ordine delle azioni di Cesa-
re, è innanzi e soprattutto perché la sequenza dei perfetti coordinati è utilizzata per riprodurre la successione degli avvenimenti riferiti. L'ordine temporale dei processi di enunciazione tende a riflettere l’ordine dei processi di enunciato, che si tratti sia di un ordine nella durata sia di un ordine secondo il rango. Una sequenza quale «Il Presidente e il Ministro presero parte alla riunione» è molto più comune della sequenza contraria, in quanto la scelta del termine posto per primo nella frase riflette la differenza di rango ufficiale tra i personaggi *.
Si può anche parlare, con Peirce, di diagrammi, cioè di icone di relazioni intelligibili (appunto come nei diagrammi le curve statistiche iconizzano l’avvento o la diminuzione di certe quantità). Tra gli esempi elementari citati da Jakobson stanno i gradi di comparazione (spesso il grado maggiore è indicato con parola più lunga: altus-altior-altissimus; alto-altissimo; high-bigher) o le desinenze verbali (quelle del plurale sono in genere più lunghe di quelle del singolare: azzo-4amiamo; jaime - nous aimons)*.
2.15.2. Ma poi è immenso il campo di possibilità aperto tra la fisicità ‘delle lettere e dei blocchi di scrittura da un lato, e i significati portati da queste lettere e blocchi di scrittura, sia che li si consideri nella loro materialità, sia che si tenga conto dei valori segnici loro conferiti. Ricordo soltanto, come casi limite che però si possono ripresentare in qualunque tipo di scrittura, i calligrammi e i carzzina figurata”. I calligrammi, inventati in periodo alessandrino e più volte messi in circolazione, da Francesco Colonna e Rabelais fino ad Apollinaire, utilizzano l'opposizione scritto (scuro) /non scritto (chiaro) nella pagina, per ottenere figure (silbouettes) che di solito alludono al tema dominante della composizione, quasi a mo’ di titolo. Ecco per esempio la descrizione di La cravate et la montre di Apollinaire: Grumi di parole rappresentano le ore, dapprima con formule brevi che man mano si allungano (ed è anche questo un modo figurativo di rappresentare un concetto, il crescere numerico delle ore; o forse anche un fenomeno acustico, il battere sempre più prolungato delle ore tardive). Intorno al quadrante, a destra, è disposta una frase, la quale, come farebbe un tracciato di matita, rappresenta in modo rudimentale la prospettiva della cassa dell’orologio... ‘*.
Molto più complessi i carina figurata, di cui fu massimo artefice Rabano Mauro. Senza entrare in troppi particolari, e attenendoci solo ai fatti più vistosi, noteremo che nei carzzina figurata continua certo l’uso della scrittura a formare un disegno complessivo (lettere, croci, figure umane si staccano dalla 4 Rr. JaKoBSON, Quest for the essence of language (1966) (trad. it. in E. BENVENISTE e altri, I problemi attuali della linguistica, Milano 1968, pp. 27-45). 4 Ibid., pp. 36-37. : 4 Cfr. P. ZUMTHOR, Carzzina figurata (1969), in Langue, texte, énigme cit., pp. 25-35; G. POZzi, Gli artifici figurali del linguaggio poetico e l’iconismo, in «Strumenti critici», X (1976), 31, pp. 349-83; In., La parola dipinta, Milano 1981; n., Poesia per gioco. Prontuario di figure artificiose, Bologna 1984. 4 1In., Gli artifici figurali cit., p. 364.
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pagina grazie a diversità o intensità di colore), ma che le lettere vengono pure utilizzate nella loro funzione segnica, però moltiplicata. All’interno del discorso complessivo si formano infatti altri discorsi ben delimitabili, che sviluppano possibilità di collegamento geometrico delle lettere, a partire dal tipo più noto e semplice dell’acrostico (quando lettere con analoga posizione in versi successivi — la posizione iniziale è certo favorita — costituiscono altre parole, o versi, ecc.) ‘’. Dunque le lettere vengono utilizzate contemporaneamente 4) come tratti di un disegno figurativo; 5) come segni della catena discorsiva; c) come segni di altre catene discorsive le quali incrociano o trapungono quelle di base. 2.15.3. Ed è sempre possibile, e frequente, un uso iconico di parti del testo, anche se, in casi diversi da quelli elencati, l’iconismo è reso visibile soltanto dalla sua concomitanza con il significato. Magnifico l’esempio di Quinto Ennio, che spezza il cervello anche linguisticamente (cere comzzinuit brum, invece di cerebrum comminuit), per visualizzare il fatto narrato. Tutto un
verso, con la disposizione delle parole o/e le simmetrie verbali, può imitare, iconicamente, ciò di cui parla. Per esempio, «quando Parini dice i nascenti del sol raggi rifrange, con la doppia allitterazione sembra perfino rendere l’uguaglianza dell’angolo d’incidenza e dell’angolo di rifrazione » °. Nella poesia Dalla spiaggia di Pascoli (in Myricae), il sesto verso, «là dove azzurra è l’acqua come l’aria», con la « di azzurra in mezzo alle altre vocali tra cui domina la /a/, con la presenza iniziale, centrale e finale (per l’accento) della sillaba /4, e perciò l’insistenza sulla liquida /1/, offre un aralogon del riflettersi dell’azzurro dell’aria nell’acqua, della liquidità dell’acqua nell’aria. Poco dopo, il dodicesimo verso, «due barche îr panna ir mezzo all’infinito», con l’insistenza su 27, e in particolare ir #2ezzo (che ha un particolare valore nella cosmologia pascoliana), permette di affermare che «se in infinito echeggia o confluisce ir fondo in fondo [del terzo verso], în mezzo va sottolineato come sintagma tipicamente pascoliano: l’ “essere al centro” di spazi interminati reca certo più vertigine che gioia; ma si è soprattutto risospinti verso quell’unità primordiale che dicevo, verso il grembo materno » *. Persino molte delle figure retoriche hanno natura iconica: la ripresa nella stessa sede di una parola o sintagma (anafora, epifora, comzplexio, ecc.) figura anche la loro persistenza e insistenza nel discorso; l’antitesi contrappone spazialmente due membri che sono anche contrapposti concettualmente, ecc. Questi aspetti iconici delle figure retoriche hanno funzione interpretativa o rafforzativa rispetto al loro valore concettuale. Abbiamo insomma un raddoppiamento, o un sovraccarico, di segni. 4 Uno dei pit grandi acrostici della nostra letteratura è nell’Arzorosa visione del Boccaccio: tutte le iniziali delle terzine del poema formano tre sonetti, due caudati e uno rinterzato e caudato, con la «firma». ° 6. ORELLI, Accertamenti verbali cit., p. 108; di qui gli altri esempi di questo paragrafo, a
T4O.
Sbid.P.t42:
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2.16. Anagrammi o patagrammi. Un altro uso delle lettere o dei suoni, che prescinde dalla loro appartenen-
za a monemi, e perciò rompe i legami di doppia articolazione ”, è quello che Saussure ha descritto sotto l’etichetta di paragramzzza o anagramma”. Si tratta di zemzi verbali rinvenibili in versi o brani prosastici di autori classici e moderni: questi temi risultano dal collegamento di lettere o fonemi appartenenti a un enunciato, prescindendo dai monemi a cui in prima istanza appartengono. Ecco per esempio che la parola bystérie, che chiude un verso del Vieux saltimbanque di Baudelaire, è già preannunziata anagrammaticamente nella parte del verso che precede: «Je sentis ma gorge serrée par la main TeRrIble de l’hystérie». Analogamente Saussure trovava il nome Aphrodite nel tessuto verbale dei primi versi del De rerum natura, o i nomi Philippus, Leonora e Politianus nell’epitaffio polizianeo di fra Filippo Lippi (che fu amante di una Leonora Buti). Secondo Saussure, l’autore sarebbe partito, ogni volta, da un tema ver-
bale, e avrebbe costruito i suoi versi o Ie sue frasi con parole tali da ripresentarlo, secondo norme individuabili, all’interno della successione di lettere (0
suoni) che li compongono. Saussure sospettava che una qualche tradizione, forse segreta, avesse tramandato quest’uso affine a quello dei crittogrammi. Studiosi recenti” riportano invece questi paragrammi a ossessioni incon-
sce, che si realizzano magari attraverso la signoria della lingua sull’autore, mettendo in atto un gioco enunciazione-lingua, lettura-scrittura, linearità-tabularità (perché i paragrammi violano la linearità del linguaggio, e istituiscono una rete intratestuale che ne incrocia, magati arricchendoli o contraddicendoli, i significati denotativi). Si creerebbe cosî, «al di sopra o al di sotto del piano semantico una sorta di “testo” non-significativo, volto a realizzare, attra-
verso modalità sublinguistiche di significazione, la forma o le forme di un comunicare trans-contestuale» ”. Segnalo come esempio l’individuazione dell’anagramma Silvia nel verbo salivi che chiude la prima strofa di A Silvia: l’invocazione alla donna cara inizia dunque col suo nome, e termina col suo nome anagrammato “. Oppure l’impiego, da parte del Pascoli, delle parole zistero 5 Nella dottrina medievale de mz0dis significandi si distingueva tra una articulatio prima e una secunda; Martinet ha poi parlato analogamente di double articulation. Le enunciazioni linguistiche si articolano in unità significative, dotate di senso, le cui unità minime sono i monemi (cfr. $ 2.10.1); ma questa prima articolazione è realizzata mediante un’altra, costituita dai fozemzi, privi di significato ma con funzione distintiva, nel senso che il cambiamento di un fonema muta il significato di un monema (casa VS cosa VS rasa VS cara, e cosi via).
5 Cfr. J. STAROBINSKI, Les mots sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand de Saussure,
1971 (trad. it. Genova 1982). Cfr. p. wunpERLI, Ferdinand de Saussure und die Anagramme. Linguistik und Literatur, Tibingen 1972; A. L. JOHNSON, L’anagrammatismo in poesia: premesse teoriche, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie III, VI (1976), 2, pp. 679-717. La massima estensione del metodo, con ricorso al calcolo permutativo, è rappresentata da G. sASS0, Le strutture anagrammatiche
della poesia, Milano
5 Cfr. J. KRISTEVA, Zmpetwtx. Recherches 1978, pp. 144-70); S. AGOSTI, I/ testo poetico cit. 5. Tbidx\p:\107: % Ibid., pp. 39-40.
1982.
pour une sémanalyse,
1969 (trad. it. Milano
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e fremito accanto a morte, che vi è contenuta anagrammaticamente, o là dove la morte, non nominata, è l’idea che domina”. Ciò che imbarazza in questa ipotesi non è tanto il dubbio sulla volontarietà dell'operazione, che comunque si potrebbe addossare all’inconscio *, quanto la difficoltà di escludere risultati puramente statistici delle combinazioni tra le poche lettere dell’alfabeto. Ciò che non deve far scartare l’ipotesi, ma indurre alla raccolta più ricca possibile di controprove ogni volta che la si avanzi. Per questo può riuscire più accattivante il concetto, affine, di disseminazione, che indica la presenza di frammenti fonici o grafematici di una parola che, di solito presente anche in modo esplicito, tematizza una parte del testo. Ecco le riflessioni di Orelli: Se l’artificio sa di sale, come potrò attribuirlo alla mera «orchestrazione», sottraendolo a una profonda, «realistica» motivazione espressiva? È forse sulla sola allitterazione di /s/ che si fonda la pregnanza della notissima terzina «Tu
proverai sf come sa di sale |lo pane altrui, e come è duro calle |lo scendere e ’1 salir per l’altrui scale», Par. XVII 58-60? Versi «salati» mediante una ripresa fonematica progressiva, s(f) - s4 - sale (cosî legato a pare) e salir, per cui entra
cosi duramente (quasi epentesi di sale) la /c/ di scale; ma sale non torna poi in calle e in altrui quel che basta? ”. |
Nello stesso modo, Agosti ‘ riscontra nella ricordata prima strofa di A Silvia un’insistenza sulla /t/ del pronome di seconda persona #4, che soddisferebbe per disseminazione la «libido vocativa» caratterizzante l’inizio della poesia. Lo stesso #4 sarebbe disseminato in uno xezior di Montale ®. 2.17. La sostanza acustica.
I fenomeni testuali di ordine acustico investono problemi di simbolismo fonico, di sinestesia, ecc., trascurati in genere dalla linguistica, ma ora in corso di rivalutazione ©. Qui tocchiamo proprio la fisicità di suoni e di reazioni psichiche, e siamo portati a considerare, d’accordo col Crazilo di Platone, la naturalezza (pbysis) della lingua, di solito considerata nella sua arbitrarietà (besis). In genere i rilievi di ordine acustico appaiono più motivati e meglio percepibili quando hanno corrispondenza dalla parte dei significati. Per esempio, la /u/ viene frequentemente associata con le impressioni di buio. Ma il suo uso ci interessa e colpisce in rapporto con i significati convogliati, come in 5 Cfr. G. ORELLI, Accertamenti verbali cit., pp. 134-36. 5 Molto equilibrata la posizione di r. JaKoBSON, Sublizzinal Verbal Patterning in Poetry (1970) (trad. it. in Poetica e poesia cit., pp. 376-85). 5 G. ORELLI, Accertamenti verbali cit., p. 25. © Cfr. s. AGOSTI, I/ testo poetico cit., p. 207. 61 Ibid. ® Cfr. per esempio s. ULLMANN, The Principles of Semantics, 1957 (trad. it. Tortino 1977); R. JAKOBSON e L. R. WAUGH, The Sound Shape ot Language, 1979 (trad. it. La forma fonica della lingua, Milano 1984, cap. Iv). Cfr. inoltre P. DoMBI ERZSÉBET, Syraestesia and poetry, in « Poetics », n. II (1974), pp. 23-44 (con bibliografia). Un’elegante applicazione in G. GENETTE, Figures II. Essais, 1969 (trad. it. Torino 1972, pp. 71-91).
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queste osservazioni su I/ transito di Pascoli (Prizzi poemetti), e poi su due versi di Dante: L’idea di tenebra prevale nei vv. 8-9, preparando l’ingresso di rotte 13. Sono due emistichi tutti giocati su parallele /u/ toniche: sfuma nel buio [8]
spunta una luce [9] Cosicché luce esprime anche la propria assenza, come in Dante: «e vegno in parte ove non è che luca» che rabbuia la fine di If. IV, e, lî vicino, Inf. V 28, «Io venni in loco d’ogni luce muto |che mugghia...» ‘.
È altrettanto comune la connessione tra le sibilanti e ciò che riguarda ogni fruscio o immagine di velocità, come in «Corda non pinse mai da sé saetta | che sî corresse via per l’aere snella» (Irf., VIII, 13-14) o in «rizzossi in su le staffe, e ’l brando striscia, |che lo facea fischiar come una biscia» (Pulci, I/
Morgante, V, 59, 7-8). E ancora va ricordata la forte rilevanza fonica dell’allitterazione “, che anzi è istituzionale nella poesia anglosassone e in altre. Procedimenti che trovano la loro pit ricca valorizzazione in quella che viene chiamata onomatopea, o anche armonia imitativa o metafora articolatoria (e che comunque ha natura iconica, date le sue rassomiglianze col referente).
Per la quale si può ripetere il richiamo alla necessaria corrispondenza, nel discorso più che nelle singole parole, tra suono e senso: Grammont bene osservava che la suggestione di suono resterebbe inoperante se non fosse ad un tempo suggestione di senso, se il referente della parola non orientasse il valore semantico dato al suono. Dal Crazilo a Leibniz, da Grammont a Jespersen s’è ripetutamente osservato che /r/ non è indifferente al significato, e che sottolinea specialmente il movimento. Ma ciò non emerge in modo palese se non in cénfigurazioni letterarie (cito, tra mille, questo verso: «Come una freccia, il prato ampio radea |radea bassa la rondine») °.
Tra i molti esempi (in base ai quali si dovrebbe disegnare una storia letteraria di questi procedimenti, indicandone la frequenza secondo epoche e autori, in rapporto con la sensibilità e il gusto del tempo) riportiamo questo di Pascoli: Da un immloto] fragor di carriaggi ferrei, moventi verso l’infin[ifo] tra schiocchi ac[uzi] e frem[iti] selvaggi...
(M[yricae] Ultizzo sogno 1-3).
rinviando al commento di Beccaria ‘. La corrispondenza col senso è una garanzia contro generalizzazioni dilet6 G. ORELLI, Accertamenti verbali cit., p. 153; la successiva citazione dantesca è a p. 25. 6 Cfr., anche per i rapporti con retorica e metrica, P. vALESIO, Strutture dell’allitterazione. Grammatica, retorica e folklore verbale, Bologna 1967. 6 G. L. BECCARIA, L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi. Dante, Pascoli, D'Annunzio, Torino 1975, p. 75. (Il verso citato è di G. CAMERANA, Ramzmento il borgo sulla via montana, in Bozzetti, vv. 4-5). 6 Ibid., p. 203. Sulla musicalità, in senso proprio, della poesia del Pascoli cfr. M. PAGNINI, I/ testo poetico e la musicalità, in «Linguistica e letteratura», II (1977), 2, pp. 203-21.
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tantistiche o impressionistiche. Ma certo gli spogli sistematici compiuti su au-
tori come Dante o Pascoli mostrano che l’impiego di strutture foniche interessanti versi o gruppi di versi va molto al di là di un impegno imitativo, permette di cogliere messaggi formali non relazionati meccanicamente con la denotazione, voci che integrano o modulano in modo particolare ciò che il testo «dice»: L’invenzione linguistica, l’artificio di un linguaggio composto di tensioni atte a produrre artificiali armonie non grazie all’adeguatezza mimetica, alla diretta riproduzione della natura, ma alla composizione di un tutto arbitrario, costitui scono altrettante tensioni per avvicinare l’inafferrabile, l’indecifrabile, l’inconscio. Non riproduzione della natura, non linguaggio comunicazione dunque, ma messaggi formali che dalla natura vogliono sfuggire, eluderne le apparenze e la materialità ”. 2.18. I discorsi alternativi.
È indispensabile rilevare che in quasi tutti gli esempi fatti si sono estrapolati elementi dalla linea del discorso e li si è collegati. In altre parole si è usciti dalla cosiddetta linearità del linguaggio (per cui i fonemi, combinati in monemi, si succedono nel tempo della pronunzia o nello spazio della scrittura, senza mai sovrapporsi) e si sono costituiti discorsi alternativi, che congiun-
gono gli elementi ricavati dal discorso. Questa operazione vien fatta mentalmente, e spesso inconsapevolmente, dall’ascoltatore, ma è molto più agevole per il lettore, che può ritornare più volte su una stessa sezione di testo, e in-
dividuare sempre più elementi connessi, sempre più discorsi alternativi *. Va notato che tutti questi discorsi sono di tipo asintattico, solo sintattico essendo il discorso portante. Ciò che si sforza di renderli sintattici è la nostra operazione connettiva, il nostro metadiscorso °. Di solito i discorsi alternativi rinforzano e precisano il discorso portante,
o lo rinviano a quel discorso del senso in cui si rivela la linea dianoetica del messaggio. Ma possono pure sviluppare un discorso altro, o persino un antidiscorso (la cui presenza richiede conferme piuttosto probanti, come qualunque ipotesi di lavoro che si fondi su un’asserita contraddizione). Se questo antidiscorso esiste, esso dipenderà, piuttosto che dalle astute insinuazioni di un autore che prudenzialmente si attiene a una lettera meno compromettente, da istanze del represso, del rimosso personale o collettivo, magari dalla tensione verso orizzonti appena intuiti. i di G. L. BECCARIA, L'autonomia del significante cit., p. 202. L’analisi più sistematica delle funzioni foniche in un poeta è forse quella di m. PICCHIO sIMONELLI, Figure foniche dal Petrarca ai petrarchisti, Firenze 1978. 6 Il lettore può anche fruire delle condizioni di reattività fonica dell’ascoltatore, leggendo ad ; alta voce o articolando mentalmente. ___® Cfr. c. sere, Serziotica filologica cit., p. 42, dove è segnalata l’affinità tra queste connessioni e tutte le operazioni di «ristrutturazione mentale » (individuazione di isotopie, temi e motivi; riordino dell’intreccio in fabula e classificazione delle funzioni; ecc.) in cui consiste la critica del testo letterario.
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2.19. Le ipostasi nella metrica. Hanno una parte notevole in questa descrizione di possibilità la prosodia, la ritmica, la metrica, dato il loro complesso apporto alla significazione. Non è decisivo, anche se va ricordato, il fatto che un ritmo o una forma metrica possano avere una funzione suggestiva, affine a quella dei giochi fonici. È invece da sottolineare che, esaminati in modo autonomo, gli schemi metricoritmici costituiscono codici forti, simili a quelli musicali per la mancanza di un significato protocollabile, verbalizzabile. Tecnicamente, è da sottolineare la loro natura ipostatica ”°, cioè il loro utilizzare in modi acconci proprietà dei monemi che costituiscono il discorso: accenti, pause, lunghezza delle parole. Appunto qui il loro primo valore significativo: essi formano uno «schema vuoto» in cui i monemi vengono ordinati. Questo schema vuoto 1) presenta alternative, 11) presenta costrizioni. Tra alternative e costrizioni il fluire del discorso viene enfatizzato e sottolineato, con effetti d’attesa/sorpresa, mono-
tonia /rottura della monotonia. S’intuisce cosî, grazie a questi segni di rincalzo”, una forma rigorosa di dialettica tra detto e dicibile, modo di additare la definitiva scelta dei segni del discorso e i rapporti intradiscorsivi, di richiamo o di opposizione, tra le sue parti non attigue.
Si prenda per esempio un testo in terzine di endecasillabi. Sappiamo che tutti i versi avranno l’ultimo accento sulla 10° sillaba; non sappiamo, ogni volta che lo schema introduce una nuova rima, se il verso corrispondente avrà 10, II 0 12 sillabe. Sappiamo pure che gli accenti principali saranno, in maggioranza, di 4° e di 6°, ma non sappiamo in quali versi li troveremo, né in quali troveremo gli altrf tipi meno comuni di disposizione degli accenti. Infine, non sappiamo se vi saranno, a variare la densità del verso, dieresi, sineresi, dialefi o sinalefi. Cosî per lo schema metrico. In un sonetto all’italiana, è sicuro che avremo 14 endecasillabi (a meno che non sia caudato o rinterzato), divisi in due
quartine e due terzine. Ma sapremo come sono incatenate le rime delle quartine solo dopo il 3° verso, e quelle delle terzine solo dopo il 5°. Le rime ossitone o proparossitone saranno ancor più rare che con altri schemi, ma non potremo prevederne la presenza. Naturalmente non si sa mai, sino al termine della lettura, come saranno realizzati sintatticamente i versi, a parte il distacco, prevalente ma non obbligatorio, fra quartine e terzine. I metri e i loro raggruppamenti costituiscono dunque una matrice astratta, in parte con opzioni interne, in parte obbligativa. Il discorso linguistico viene formulato in modo da combaciare con questa matrice e da riempire le valenze libere. La metrica costituisce insomma un «sistema convenzionale di © È p. cuIraUuD, Les fonctions secondaires du langage, in A. MARTINET (a cura di), Le langage, Paris 1968, p. 469, che afferma: «La poesia è un’ipostasi della forma significante che essa deve sottrarre alla selettività e alla transitività». © Cfr. c. SEGRE, Serziotica filologica cit., p. 43.
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organizzazione ma importanza nati con quelli to complessivo
del sistema di suoni» ”. Entro questo sistema, ha grandissiil ritmo, che regola la successione degli accenti liberi, combiobbligatori, in modo da dare ai versi un particolare andamen(che, con allusione agli schemi classici, vien chiamato giam-
bico, anapestico, ecc.). Come scrive acutamente Brik, «il movimento ritmi-
co è anteriore al verso; non è il ritmo che può essere compreso in base al verso, ma, all’opposto, quest’ultimo in base al primo» ”. È Si noti pure che il ritmo è avvertibile solo all’esecuzione acustica, anche se mentale “. Esso ci porta ancora una volta nell’ambito dei fenomeni fonici, che ad esso si adeguano e che in esso si ritrovano potenziati. 2.20.
Metrica e discorso.
Tra andamento metrico e discorso si sviluppa una collaborazione particolare: l'andamento metrico fornisce uno schema di attuazione al discorso verbale, e perciò in partenza lo condiziona; d’altra parte il poeta trae da questo condizionamento incentivi per rendere più efficace il discorso verbale. In un certo senso la metrica è utilizzata dal poeta come un repertorio di norme per la zzise en relief diverse da quelle dell’uso ”. In pratica, la metrica si trova a fronteggiare la sintassi e le eventuali norme d’intonazione; chi ne fa uso può, con infinite varianti, cercar di valorizzare sintassi e intonazione con i ritmi della metrica, o viceversa realizzare con
l’alternanza del loro contrasto e della loro coincidenza una serie inesauribile di possibilità espressive. Forza relazionante diversa dalla sintassi e dall’intonazione, la metrica modifica i nessi creati da questi due elementi; essa si pone dunque come un nuovo elemento costitutivo della semantica della parole: dopo aver orientato la scelta dei segni, agisce ad accentuare o a modificare il significato dei segni stessi. Si sa, per esempio, l’importanza degli accenti principali del verso nella valorizzazione di vocali, di consonanti o di gruppi; o il diverso effetto che può avere lo spezzettamento del discorso in parole brevi, corrispondenti ai « piedi» o alle loro parti (arsi e tesi), oppure in parole lunghe, che abbracciano 7 B. V. TOMASEVSKIJ, Problema stichotvornogo jazyka (Sul verso, 1929), in T. TODOROV (a cura di), Théorie de la littérature, 1965 (trad. it. I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Torino 1968, p. 190); cfr. poi la trattazione sistematica in B. V. TOMASEVSKI, Teorija literatury. Poetika, 1928 (trad. it. Teoria della letteratura, Milano 1978, pp. 109-76). 3 o. BRIK, Ritz i sintaksis (Materialy k izuceniju stichotvornoj reti) (Ritmo e sintassi (Materiali per uno studio del discorso in versi)), in T. topoROv (a cura di), Théorie de la littérature cit., trad. it. p. 154. Una sistemazione moderna e avveduta dei problemi del ritmo è quella di Pp. Mm. BERTINETTO, Ritzz0 e modelli ritmici. Analisi computazionale delle funzioni periodiche nella versificazione dantesca, Torino 1973. Cfr. poi c. pi GIROLAMO, Teoria e prassi della versificazione, Bologna 1976; P. G. BELTRAMI, Prospettive della metrica, in «Lingua e stile», XV (1980), 2, pp. 281300; ID., Metrica, poetica, metrica dantesca, Pisa 1981; e, per tutti i problemi metrici, l’antologia di R. CREMANTE e M. PAZZAGLIA (a cura di), La metrica, Bologna 1972. COTE RIEVi TOMASEVSKIJ, Problema stichotvornogo jazyka cit., trad. it. p. 192. * Fondamentali per la metrica, oltre agli studi indicati nelle note precedenti, JU. N. TYNJANOV, Problema stichotvornogo jazyka, 1924 (trad. it. Il problema del linguaggio poetico, Milano 1968); V. ZIRMUNSKIJ,Vvedenie v metriku. Teorija sticha, 1925 (trad. ingl. Introduction to Metrics, ’s-Gravenhage 1966); s. CHATMAN, A Theory of Meter, London - The Hague - Paris 1965.
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vari piedi; o l’effetto dello iato, sostenuto e rafforzato dal ritmo, e cosî via. Tutti fatti inscrivibili, più o meno chiaramente, nell’iconismo. Sono note ai poeti e ai lettori, prima che ai critici, le possibilità offerte dall’enjambement, di fondere andamenti metrici e andamenti sintattici diversi, con effetti vari ma sempre efficaci: vi sono autori che si caratterizzano, anche, per l’ampio uso del procedimento (proverbiale il Della Casa), e altri che hanno meditato durante tutta la loro attività sui rapporti sintassi-verso, anche arrivando a conclusioni diverse secondo i momenti della loro carriera ”°. Nelle Thèses del ’29 veniva formulato chiaramente un espediente per lo studio della metrica poi risultato molto redditizio, l’analisi del parallelismo (già segnalato da G. M. Hopkins): Il parallelismo delle strutture foniche realizzato dal ritmo del verso, dalla rima, ecc., costituisce uno dei procedimenti più efficaci per attualizzare i diversi piani linguistici. Mettere a fronte le une con le altre, sul piano artistico, strutture foniche reciprocamente simili, fa risaltare le concordanze e le differenze delle strutture sintattiche, morfologiche e semantiche 7.
Valorizzare i parallelismi già presenti nel testo, con i loto effetti di rassomiglianza/dissimiglianza (fra le strutture ritmiche o fra quelle foniche e sintattiche ritmicamente analoghe) e corrispondenza/contrapposizione (fra le strutture ritmiche e quelle foniche e sintattiche), è un’applicazione di tipo contrastivo rivelatrice. Tanto più che rassomiglianza e dissimiglianza, corrispondenza e contrapposizione sono presenti, tutte, a seconda delle possibili e più o meno minute segmentazioni operabili sul testo ”°. La rima, che per lungo tempo e in molte culture ha segnato la barriera (e la lieve pausa) tra un verso e l’altro, è uno dei principali punti di convergenza del fonico, del semantico e del ritmico. Non solo per l’alternanza tra una rima e l’altra, con la loro diversa costituzione, ma anche per la serialità di rime identiche, la quale sottolinea, mediante l’uguaglianza fonica, la similarità o non similarità grammaticale (verbo con verbo o verbo con sostantivo, pet esempio), l’affinità o meno di ambito semantico o di tonalità stilistica”. Qua7% Alludo all’Ariosto, che nel primo Furioso forza la sintassi a continue rotture con mentre nell’ultimo mira a una loro armonizzazione: cfr. c. SEGRE, Esperienze ariostesche, pp. 38-39. Per il contrasto tra discorso sintattico e discorso metrico in Ungaretti, cfr. G. mantique du discontinu dans L’ Allegria d’Ungaretti, Paris 1972, pp. 103-44 e 183-200. pale lavoro teorico sull’erjazbement è A. quILIS, Estructura del encabalgamiento en espafiola, Madrid 1964. Ma cfr. anche G. TAVANI, Verso e frase nella poesia di Cernuda, di letteratura spagnola»,
la metrica, Pisa 1966, GENOT, SéIl princila métrica in «Studi
1966, pp. 71-126.
© na.vv., Thèses presentées au Premier Congrès des Philologues Slaves, 1929 (trad. it. Napoli
1979, D. 49).
Tegle:
i
# Cfr. per esempio s. R. LEVIN, Linguistic Structures in Poetry, The Hague 1962; R. JAKOBson, Grammatical parallelism and its russian facet (1966) (trad. it. in Poetica e poesia cit., pp. 256300); JU. M. LOTMAN, Struktura chudozestvennogo teksta, 1970 (trad. it. La struttura del testo poetico, Milano 1972, pp. 146-65); G. GENOT, Sémantique du discontinu cit., passim. Per un’utilizzazione del parallelismo anche nello studio della prosa cfr. s. AGOSTI, Tecniche della rappresentazione verbale in Flaubert, in «Strumenti critici», XII (1978), 35, pp. 31-58, in redazione più ampia nel volume Tecriche della rappresentazione verbale in Flaubert, Milano 1981, capp. 1-11. : 7 Anche per rinvii bibliografici, cfr. G. L. BECCARIA, L'autonomia del significante cit., pp. 27 Sgg.; P. M. BERTINETTO, Echi del suono ed echi del senso, in «Parole e metodi», I (1972), 3, pp. 47-57.
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Concetti, tecniche e categoriè
le concentrazione di significati e di effetti connotativi si possa verificare nella rima, era già stato indicato dal Parodi, per la Commedia”. Non occorre ripetere quanto già detto (cfr. $ 2.14) sulla sovrapposizione di elementi di sostanza dell’espressione e di senso, come risultato ottimale (di natura connotativa) dell’eccellenza dei procedimenti. Ma anche qui va ricordata l’esistenza di effetti puramente fonico-ritmici, affiorare di strutture che, dotate di costituzione autonoma, possono essere convogliate al potenziamento
di un senso ". Astrazioni ritmiche e timbriche la cui potenzialità, nel co-testo, richiama o anticipa il senso put non estrinsecandolo. 2.21. La forma dell’espressione: lo stile. 2.21.1. Nonv'è dubbio che il discorso linguistico del testo, formato com'è di monemi, cioè di unità lessicali e morfologiche della prima articolazione (cfr. $ 2.16), costituisca la forma dell’espressione in senso hjelmsleviano (cfr. $ 2.11): essendo sostanza dell’espressione la realizzazione fisica (fonica o
grafica) dello stesso discorso. I monemi sono segni linguistici: appartengono cioè a quell’assieme coerente di segni usato nel discorso articolato verbale, le cui norme e il cui uso sono studiati dalla linguistica. È però sempre stato evidente che il testo formalmente più impegnato, e in particolare il testo letterario, o usa particolari categorie di segni linguistici (linguaggio letterario; oppure: linguaggio epico, linguaggio lirico, ecc.), o usa in modo particolare i segni linguistici. Perciò, mentre non c’è dubbio che i monemi impiegati nei testi letterari pertengano totalmente alla lingua, si è cercato di definire le particolarità della loro scelta o della loro connessione che caratterizzano ogni testo letterario, con una perentorietà che coincide di solito con la maestria dello scrittore.
I valori fondamentali della parola stile sono due: 1) l’assieme dei tratti formali che caratterizzano (nel complesso o in un momento particolare) il modo di esprimersi di una persona, o il modo di scrivere di un autore, o il modo in cui è scritta una sua opera: 2) l’assieme dei tratti formali che caratterizzano un gruppo di opere, costituito su basi tipologiche o storiche. Ci si soffermerà all’inizio sul primo significato, rinviando per l’altro al paragrafo 2.25. Va solo ricordato che il secondo significato è, storicamente, il primo: nel mondo classico si parlava già di stilus atticus, stilus asianus, mentre lo stile individuale, scarsamente studiato, era piuttosto oggetto di suggerimenti di carattere normativo, o considerato un repertorio di procedimenti retorici. 2.21.2. L'analisi dello stile è stata svolta nel Novecento secondo due direttrici, che si possono sintetizzare nei nomi di Bally e Marouzeau la prima, di Vossler e Spitzer la seconda. Per Bally, la stilistica «studia il valore affetLIA Griso (C PARODI, La rima e î vocaboli in rima nella Divina Commedia (1896), in Lingua e letteratura, a cura di G. Folena, Venezia 1957, II, pp. 203-84. 8! Cfr. G. CONTINI, Un’interpretazione di Dante (1965), in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Tortino 1970, pp. 369-405.
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tivo dei fatti del linguaggio organizzato, e l’azione reciproca dei fatti espressivi che concorrono a formare il sistema dei mezzi d’espressione d’una lingua»; «la stilistica studia dunque i fatti d’espressione del linguaggio organizzato dal punto di vista del loro contenuto affettivo; cioè l’espressione dei fatti della sensibilità da parte del linguaggio e l’azione dei fatti di linguaggio sulla sensibilità» * Secondo Bally (che si muove in un quadro saussuriano), la lazgue possiede delle risorse espressive, delle opzioni, compresenti nella coscienza del parlante, il quale secondo le situazioni della sua sensibilità sceglie ogni volta la variante che meglio le corrisponde: col che viene decisamente arricchito, forse anche trasformato, il concetto saussuriano di «rapporti associativi» (e anche quello di sistema)". Le risorse espressive della langue * si ordinano per Bally secondo una gamma che va dal «modo di espressione intellettuale», i cui termini possono fungere da «identificatori», ai sinonimi di carattere affettivo, legati alle nozioni di valore, d’intensità, di bellezza. L’espressività fa leva sia su «effetti naturali», sia su «effetti per evocazione»; cioè su elementi marcati e su elementi che, non marcati entro il gruppo linguistico di provenienza, lo divengono se introdotti in diverso contesto. L’indagine che, in rapporto con la teorizzazione, Bally svolse sul lessico e sulla sintassi francese, consiste in un censimento ragionato di sinonimi con diverso valore tonale. Nella ricerca di Bally, che resta rigorosamente nel campo della langue, gli stati d’animo sono presi in esame come mere possibilità, ordinabili in sistema a fianco, e in corrispondenza, col sistema delle possibilità linguistiche. Bally pone dunque le basi per una psicostilistica, che potrebbe rivendicare (tenendo anche conto dell’effetto sui destinatari) estensioni sociostilistiche, puntate ver-
so gli «effetti per evocazione», da studiare anche nella prospettiva dei destinatari.
Jules Marouzeau ” portò poi la ricerca sui testi letterari, ponendosi, invece che nella prospettiva della langue, in cui si tratta d’individuare repertori di sinonimi, in quella dell’utente, a cui ciò che interessa è la scelta tra i sinonimi e la sua motivazione; tra gli utenti, il più consapevole e scaltro è certo lo scrittore, che prende continuamente decisioni di ordine stilistico. Ma nell’analisi letteraria avrebbe avuto un seguito molto maggiore il metodo di Leo Spitzer (piuttosto preconizzato che attuato da Karl Vossler). Questi pochi cenni non faranno giustizia né alla vastità dell'impianto spitzeriano né alla serie di assestamenti e approfondimenti riscontrabile nella sua 8 cH. BALLY, Traité de stylistique frangaise, Heidelberg 1909, 1921”, pp. 1 e 16. 8 F. DE SAUSSURE, Cours de linguistique générale, 1916 (trad. it. Bari 1970°, pp. 149 sgg.), distingue tra rapporti sintagmatici, che collegano le parole nella linearità del discorso, e rapporti associativi, che al di fuori del discorso collegano ogni parola con tutte quelle che hanno qualcosa in comune con essa (etimologia, significato, desinenza, ecc.). Dopo Saussure, si è cominciato a chiamare i rapporti del secondo tipo paradigmatici invece che associativi. 8 Ricordo che per Saussure la lazgue si distingue dalla parole come «ciò che è sociale da ciò che è individuale; ciò che è essenziale da ciò che è accessorio e più o meno accidentale» (ibîd.,
p. 23).
85 Cfr. J. MAROUZEAU, Traité de stylistique latine, Paris 1946; m., Précis de stylistique fran-
caise, Paris 1941, 1946°.
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Concetti, tecniche e categorie
attività di storico dello stile; daremo solo qualche cenno sui procedimenti più caratteristici, e assimilati sotto l’etichetta di «metodo di L. Spitzer». Spitzer parte dal postulato che «a qualsiasi emozione, ossia a qualsiasi allontanamento dal nostro stato psichico normale, corrisponde, nel campo espressivo, un allontanamento dall’uso linguistico normale; e, viceversa... un allontanamen-
to dal linguaggio usuale è indizio di uno stato psichico inconsueto» *. Si tratta dunque di cogliere queste deviazioni dall’uso linguistico normale, viste come spie della condizione d’animo dello scrittore. (Notiamo tra parentesi che il concetto di ‘deviazione’, gr. tpéroc, lat. iropus, è già presente nella retorica classica, che però non collegava le ‘deviazioni’ con stati d’animo, né le usava per la caratterizzazione degli autori). Citeremo come esempi di questo modo di procedere i saggi” su Ch.-L. Philippe, in cui l’abbondanza di locuzioni e congiunzioni causali (è cause de, parce que, car) e il loro uso «improprio» permette d’individuare la presenza di una «motivazione pseudo-oggettiva», specchio della rassegnazione ironica e fatalistica colta negli sventurati personaggi e fatta propria dall’autore; o quello su Péguy, la cui esperienza bergsoniana sarebbe denunciata dalla preferenza per parole come mystique e politique, per composti con dé- e in-, dalle parentesi che spesso aprono prospettive all’infinito, dalla decimazione delle virgole, ecc.; o quello che individua negli scritti del pacifista Barbusse l’ossessiva presenza di immagini di sangue con forte impronta sessuale. Ci sono ben più che presentimenti strutturalistici (enfatizzati negli ultimi anni da Spitzer) ‘* in questa concezione per la quale i particolari possono esser compresi solo per mezzo dell’insieme, l’insieme per mezzo dei particolari; e se è ormai datato il vedere la mente di un autore come «una specie di sistema solare nella cui orbita viene attratta ogni sorta di cose: lingua, motivazione intreccio non sono che satelliti di questo ente» *, e soprattutto il potre al centro di questo sistema l’ètimo spirituale, cioè «la radice psicologica di vari tratti di stile individuale in uno scrittore» ”, si deve aggiungere che la descrizione resterebbe valida solo che all’autore si sostituisse il testo, ai riferimenti psicologici quelli alla tensione formale. 2.22. Scelta e deviazione stilistica.
2.22.1. Lestilistiche di Bally e Spitzer sono diverse e quasi complementari: la prima è una stilistica della lingua, la seconda una stilistica dell’opera 6 L. sPITZER, Zur sprachlichen Interpretation von Wortkunstwerken
(1928) (trad. it. L’inter-
pretazione linguistica delle opere letterarie, in Critica stilistica e semantica storica, Bari 1966”, p. 46).
Cfr. 1n., Pseudoobjektive Motivierung bei Charles-Louis Philippe, in Stilstudien, II. Stilsprachen, Miinchen 1928, pp. 166-207; In., Lo stile di Charles Péguy (1927), in Marcel Proust e alD saggi di letteratura francese moderna, Torino 1959, pp. 82-130; In., Studien zu Henri Barbusse, onn 1920. % Cfr. per esempio 1n., L’Aspasia di Leopardi (1963), in Studi italiani, Milano 1976, pp. 251-92; e, per affermazioni teoriche, 1., Les études de style et les différents pays, in AA.vv., Langue et littérature. Actes du VIII° Congrès de la Fédération Internationale des Langues et Littératures Modernes, Patis 1961, pp. 23-39. n È eo) Linguistics and Literary History (1948) (trad. it. in Critica stilistica cit., p. 88). IGONDIROSI
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letteraria. Bally parla di scelte offerte al parlante dalla lingua, Spitzer di deviazioni dall’uso normale attuate nell’opera. Il concetto di scelta è sommario, ma accettabile. È sommario, perché la lingua non è un sistema unitario, ma si raggruppa in sottosistemi, relativi alle varietà d’impiego sociale e culturale della lingua: le scelte vengono operate o all’interno dei sottosistemi, quando fatti propri dal parlante, o al di sopra, quando (e in questo caso si tratta pet forza di scrittori) il parlante (lo scrivente) tiene conto dei gruppi di scelte offerti dai vari sottosistemi, insomma trae «effetti naturali» dagli «effetti per evocazione ». Maggiori riserve può suscitare il concetto di deviazione. Anzitutto: devia-
zione da che cosa? Spitzer pare alludere alla langue, certo fa scarsi riferimenti alla mediazione del linguaggio letterario, e anzi delle sue numerose sottospecie. Lo stesso si può dire degli strutturalisti praghesi, che fanno anzi delle «deviazioni dallo standard» un criterio descrittivo basilare (poi, di stile, si occuparono poco). Ma anche una volta riconosciute e censite le varietà linguistiche, come si può sapere quale fosse il ventaglio di scelte presente allo scrittore, e l’espressione «media» da cui avrebbe deviato? La riserva più grave è però un’altra. Se lo stile di un autore è individuato dal sistema delle deviazioni, dobbiamo considerare il resto del testo come privo di caratteri stilistici? Allora il testo sarebbe una specie di supporto neutro per gli elementi sintomatici, soli ad avere valore stilistico”. Oppure siamo noi a ricorrere alle deviazioni, come a sintomi particolarmente vistosi, incontestabili, fermo restando che l’impegno stilistico deve esser presente, anche se meno rilevato, in tutta l’opera? Circa di questo tenore la risposta di Terracini, che al concetto di deviazione sostituisce quello di punto distinto (dunque un concetto non comparativo): i punti distinti sarebbero, in un’opera, le trac-
ce esplicite e dirette del valore simbolico di cui tutto il complesso testuale è portatore, sarebbero i luoghi privilegiati del «processo per cui il simbolo si articola nella parola» ”. 2.22.2. Lascia irrisolti questi problemi la stilometria, sviluppatasi, grazie al diffondersi degli elaboratori elettronici, a fianco dei preziosissimi spogli, concordanze, ecc. che essi permettono di approntare. Per esempio non permette grandi deduzioni la possibilità di misurare l’«indice di ricchezza» di un’opera (rapporto tra il numero di vocaboli usati e il numero di parole contenute nel testo). La formula proposta da P. Guiraud ® è la seguente: R(icchezza) =
V(ocaboli) VN(umero di parole)
9 Pare l’opinione di M. RIFFATERRE, Essais de stylistique structurale, Paris 1971. 92 B. A. TERRACINI, Analisi stilistica. Teoria, storia, problemi, Milano 1966, 1975”, cap. I. 9 Cfr. p. cuIrauD, Les caractères statistiques du vocabulaîre, Paris 1954, pp. 52-55; L. ROsieLLo, Analisi statistica della funzione poetica nella poesia montaliana, in Struttura, uso e funzione della lingua, Firenze 1965, cap. IV.
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È pure possibile misurare lo scarto tra il rango che hanno le singole parole in un testo e quello che spetterebbe loro in un «lessico medio». Ma, a parte la contestabilità del concetto di lessico medio (a seconda del corpus da cui è tratto, può rivelarsi diversissimo; e ancora non ha rapporti con il «lessico medio» dell’autore), resta il dubbio — già nei ricercatori — tra valorizzare le parole a pit alta frequenza assoluta (le parole-temza) e relativa (le parolechiave) o quelle a basso indice di frequenza, in base all’assioma che un messaggio è tanto pit informativo quanto meno prevedibile. 2.23. Le varietà linguistiche. Il sistema delle possibilità espressive della lingua costituisce una stratificazione storica e sociale: le scelte che ogni scrittore attua lo localizzano esattamente nei riguardi della storia e delle varietà sociologiche della lingua”. La stilistica italiana ha subito battuto questa strada, individuando in area letteraria quelle stratificazioni che, con diverse finalità, vennero poi affrontate
dalla sociolinguistica. La fisionomia di un autore veniva definita all’interno
della dialettica di conservazione e innovazione, di cui vive la lingua (Terracini), o nel suo rapporto con le tradizioni stilistiche (Devoto). «Lo stile, — scrive Devoto, — ci propone un rapporto. È il risultato del dialogo fra noi e le istituzioni linguistiche di cui ci serviamo, nelle quali lo scrittore lascia un’impronta, ma dalle quali anche è, nella sua opera, condizionato» ”. Dal punto di vista teorico, bisogna considerare la lingua in una data sezione sincronica come un sistema di sistemi. Al centro la struttura della lingua, dalla fonetica al lessico; ogni campo semantico poi si arricchisce o si struttura diversamente in relazione con i particolari gruppi di parlanti, in quanto esponenti di attività e specializzazioni (minore, ma non trascurabile, la variabilità morfo-sintattica, minima quella fonetica); attorno vi sono poi i socioletti (varietà di carattere sociale), con loro irrigidimenti, attenuazioni, ecc.
delle norme della lingua. Si possono dunque individuare varie polarizzazioni del sistema della lingua. Qui si accenna alle principali. 2.24. Socioletti e registri. Si tratta della serie di varietà linguistiche («linguistic diatypes») relative (socioletti) agli ambienti sociali cui appartengono i parlanti e alle condizioni in cui si realizza l’enunciazione (registri: si va dall’aulico e dal colto al familiare e al popolare). I socioletti non sono rigidi, data la circolazione e i contatti tra gli strati sociali; e la classificazione dei registri risulta ancora più labile (presenta forti oscillazioni anche nelle categorie proposte dagli studiosi)
2?
% La migliore sintesi dei problemi teorici della stilistica è N. E. ENQvIST, Linguistic Stylistics, The Hague - Paris 1973. * g. pEvoTO, Nuovi studi di stilistica, Firenze 1962, p. 185. Cfr. pure n., Studi di stilistica, Firenze 1950 e Itinerario stilistico, Firenze 1975, che riordina gli scritti precedenti. Si veda pure la prefazione di G. A. Papini all’ultimo volume.
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resta il fatto che socioletti e registri frammentano il sistema delle scelte in sottoinsiemi che solo parzialmente si sovrappongono. In pit, esistono parole ed espressioni caratteristiche di una sola varietà linguistica, che vengono a costituire «marche stilistiche» della varietà stessa, anche quando ad essa si attinge solo parzialmente. Per il parlante comune, la cui posizione sociale è già definita e a cui il contesto suggerisce già il tipo di registro da adottare, la scelta stilistica è ridotta in partenza alle opzioni offerte dal suo socioletto e, al loro interno, a quelle autorizzate dal registro adottato. Diverso, per le possibilità di contaminazione, il comportamento dello scrittore, che se in linea di principio opera entro i confini del registro letterario, spesso si autorizza a saccheggiare tutte le altre varietà e gli altri registri della lingua”. &
2.25. Ideologemi, formazioni ideologiche, scritture. Ogni concezione del mondo, e ognuna delle ideologie che congiurano a istituire nuove concezioni del mondo, implica particolari usi linguistici, e «marche stilistiche»: chiamate da Bachtin, in questa prospettiva, ideologemi”.1I valori semantici delle parole sono selezionati non solo dalla loro concatenazione in enunciati, ma anche dall’appartenenza degli enunciati a una data «formazione discorsiva», sottospecie delle «formazioni ideologiche». Cosî, per esempio, nel medioevo la «formazione ideologica religiosa» sarebbe stata la forma dell’ideologia dominante; come formazioni discorsive connesse si potrebbero citare la predica di campagna, il sermone dell’alto clero ai grandi della nobiltà, e cosî via: la formazione ideologica, e poi le varie formazioni discorsive, attuerebbero particolari selezioni e orientamenti entro ‘un sistema concettuale di base ”. Facendo un discorso analogo (anche se con fini diversi), Barthes aveva introdotto il termine écriture, che contrapponeva a stile perché questo sarebbe di ordine biologico, istintivo, quella prodotto di un’intenzione, atto di solidarietà storica. L’écriture di Barthes è insomma «il
rapporto tra la creazione e la società, il linguaggio letterario trasformato dalla sua destinazione sociale, la forma colta nella sua intenzione umana e legata cosî alle grandi crisi della Storia» ”. % Ho provato ad applicare i modelli della sociolinguistica nel capitolo La tradizione macaronica da Folengo a Gadda (e oltre), in Semiotica filologica cit., pp. 169-83 (con bibliografia; si aggiunga ora R. A. Hunson, Sociolinguistics, 1980 (trad. it. Bologna 1980)). 9î Cfr. M. M. BACHTIN, Voprosy literatury i estetiki, 1975 (trad. it. Estetica e romanzo, Totino 1979, passim). Il concetto di ideologemza è poi stato sviluppato da P. N. MEDVEDEV, Formal'nyj metod v literaturovedenii. Krititeskoe vvedenie v sociologiteskuju poetiku, 1928 (trad. it. Il metodo formale nella scienza della letteratura, introduzione critica al metodo sociologico, Bari 1978) e, in Occidente, da J. KRISTEVA, Emnuewwrtwxn cit., trad. it. pp. 56-57; m., Le texte du roman, La Haye - Paris 1970. Per il pensiero di Bachtin in rapporto con quello di Medvedev e VoloSinov, cfr. t. toporov, Mikhail Bakbtine, le principe dialogique, suivi de Ecrits du Cercle de Bakbhtine, Paris 1981. 2 Cfr. Mm. P£cHEUX, Analyse du discours, langue et idéologies, in «Langage», n. 37 (1975), p. 7-20. PP: 5; R. BARTHES, Le degré zéro de l’écriture, 1953 (trad. it. in Il grado zero della scrittura seguito da Nuovi saggi critici, Torino 1982, p. 12).
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2.26. Le varietà del linguaggio letterario.
Sono le più studiate, anche perché in antico rientravano in una normativa precisa. Già la retorica classica aveva notato l’esistenza di livelli più o meno nobili dello stile, e anzi aveva abbozzato una specie di sociologizzazione di questi livelli, in base a corrispondenze costanti tra argomento, stile, rango dei personaggi (paradigmi dei tre livelli principali, umile, medio e sublime, erano le tre opere principali di Virgilio, le Bucolica, le Georgica e l’Aeneis). Solo col romanticismo si cominciò a contestare la codificazione linguistica e stilistica operata, a partire dal medioevo, e con la punta massima nel Rinascimento, sui generi letterari. Ogni genere e sottogenere non implicava sol-
tanto l’uso di particolari versi o schemi strofici, ma anche limitazioni nell’uso del lessico, persino scelte fonetiche. La gamma lessicale legittima per un poema cavalleresco non coincideva con quella, molto più ristretta, riservata alla lirica amorosa; e all’autore teatrale si concedeva ciò che non era concesso agli altri scrittori. Questi sforzi di codificazione erano tanto più ardui dato che lo sviluppo del linguaggio letterario avveniva in travagliato rapporto con le vicende di lingua e dialetto, di livelli culturali e prestigi regionali. Realizzando se stesso attraverso lo stile, uno scrittore non veniva dunque a situarsi di fronte a una lingua comune, ma in relazione al dinamismo di tensioni e tendenze. È per questo che le ricerche di storia della lingua e quelle di stilistica sono venute sempre più a convergere; e alle scelte puntuali, additate da Spitzer, si sono sostituiti spesso blocchi di scelte, cioè parole ed espressioni che, insieme, rinviano a dati livelli linguistici. Anche in questo ambito si è provato a usare il termine registro, come «re-
te di relazioni prestabilite fra elementi propri di diversi livelli di formalizzazione, come pure fra i livelli stessi» ‘°. All’interno del linguaggio di un’opera, si individuano infatti vari sottolinguaggi codificati in rapporto con le sue tonalità; questi registri sono d’altra parte abbastanza tradizionali per essere riscontrabili in un certo numero di opere e collegarle, sempre in rapporto con i contenuti.
2.27. Definizione globale dello stile. Una definizione globale dello stile di un’opera non può non rifarsi alle famose T'hèses di Praga del 1929, le quali affermano: «L’opera poetica è una struttura funzionale, e i vari elementi non possono essere compresi al di fuori della loro connessione con l’insieme» ': l’opera letteraria è vista insomma, con Saussure, come una struttura in cui «tout se tient». Quanto poi all’ele1° p, zumtHOR, Langue et techniques poétiques è l’époque romane (x1°-x11° siècles), 1963 (trad. it. Bologna 1973, p. 155); per un’esposizione generale, e altri tentativi di definizione, cfr. C. SEGRE, Le strutture e il tempo cit., pp. 32-33 € 109-I5. 1% A4A.vv., Tbèses cit., trad. it. p. 47.
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Testo letterario, interpretazione, storia
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mento strutturante, ecco quest’altra affermazione, in cui è già în nuce la definizione jakobsoniana della «funzione poetica»: «Il principio organizzatore dell’arte, in funzione del quale essa si distingue dalle altre strutture semiologiche, è che l’intenzione viene diretta non sul significato ma sul segno stesso» Precisa ancora meglio un pensiero del tutto coerente Jakobson (che infatti partecipò alla stesura delle Thèses), affermando che «la funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione a quello della combinazione» ‘’. Insomma, mentre il discorso comune opera, per ogni elemento linguistico, una scelta tra i possibili equivalenti offerti dalla lingua (asse della selezione), il testo letterario tiene anche conto, in queste scelte, delle rela-
zioni sintagmatiche (asse della combinazione), curando gli effetti di ricorrenza, correlazione, contrapposizione. La rete di questi effetti interessa ogni elemento del testo, che appunto perciò costituisce una «struttura funzionale» !*. Può restare qualche dubbio sulla natura un po’ nominalistica di questa funzione poetica, e sulla difficoltà di misurare la «quantità» della sua presenza nei testi (infatti Jakobson ritiene, a ragione, che gli effetti della funzione poetica si possono far sentire anche in testi non letterari, e che viceversa testi letterari possono esserne poveri). Ma di fronte a questi dubbi, che si potranno attenuare approfondendo l’indagine, sta la vittoriosa rivendicazione della globalità dello stile: non limitato ad elementi o a costruzioni isolate, ma risultato di un impegno formale che investe ogni parte del testo. Sicché le definizioni ora citate si rivelano come esattamente agli antipodi rispetto a quelle fondate sulla scelta o sulle deviazioni. In quei casi si insiste sui singoli elementi, rapportati alla argue o alle tradizioni linguistiche specifiche; il singolo tratto di stile si caratterizza entro, e in relazione con, la tradizione. Il paradigma è visto anche come una concrezione storica. Nelle definizioni strutturalistiche invece ciò che importa è il sintagma (l’asse della combinazione); il valore di ogni elemento del testo dipende dai suoi rapporti con gli altri elementi, e non c’è parte del testo che non interagisca con tutte le altre. Solo la maggior evidenza, o per cosî dire indizialità di elementi e connessioni può suggerire al critico di insistere su essi invece che su altri, su tutti gli altri. La definizione globale, che va poi concretata di volta in volta specificando per ogni testo il tipo di elementi interessati e il tipo di connessioni esistenti, è l’unica a salvare l’unità e l’individualità del testo, che le varie stilistiche sbriciolavano o settorializzavano, immergendone poi i componenti in un flusso storico che ne va considerato soltanto il fornitore. Si dovrà dire allora che con l’avvento dello strutturalismo non si può più parlare di critica stilistica, ma di stilistica storica e descrittiva come premessa per lo studio globale del testo, per la sua interpretazione che è, si vedrà meglio dopo, di carattere semiotico. 102 Ibid., pp. 51-53. si: : : 103 R. JAKOBSON, Essaîs de linguistique générale cit., trad. it. p. 192. 1% Cfr. per esempio JU. M. LOTMAN, Struktura cit., trad. it. capp. V-VII.
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Concetti, tecniche e categorie 2.28. L’avantesto.
2.28.1.
Il testo è il risultato di uno sviluppo, di cui ci sono sottratte
molte, talora tutte le fasi. I meccanismi mentali che sovrintendono alle con-
nessioni di concetti e immagini, poi di parole e ritmi, sino alla realizzazione linguistica, e metrica, ci sfuggono in gran parte, come probabilmente sfuggono agli scrittori stessi, che qualche volta si sono sforzati di darcene notizia. Quello che invece possiamo dominare è lo sviluppo della fase scritta, quando possediamo abbozzi e prime copie, o quando l’opera è stata proposta successivamente in varie redazioni. L’assieme dei materiali precedenti la stesura definitiva è chiamato da qualcuno avantesto !° Sarà utile qualche precisazione. Ogni abbozzo o prima copia è, dal punto di vista linguistico, un testo, con la sua coerenza. Anche se si allineano tutti i testi anteriori di un’opera in ordine cronologico non si ottiene una diacronia, ma una serie di sincronie successive. Quando un manoscritto sia stato ritoccato più volte in tempi diversi, sarebbe corretto considerarlo come una so-
vrapposizione di sincronie, e di testi. Perciò, se il concetto di avantesto ambisse a indicare la produttività letteraria o poetica in opera, si sarebbe destinati a grandi delusioni. È invece sicuro che, considerando ogni testo come un sistema, i testi successivi possono appatire come l’effetto di spinte presenti in quelli precedenti, mentre a loro volta contengono spinte di cui i testi successivi saranno il risultato. In questo modo l’analisi della storia redazionale e delle varianti ci fa conoscere parzialmente il dinamismo presente nell’attività creativa. 2.28.2. La critica delle varianti ha appunto avuto tra noi una parte notevole nell’istituzione di una critica strutturale '*, perché le varianti impongono l’uso combinato di due ottiche: una sincronica, che coglie il sistema di relazioni da cui ogni stadio del testo è organizzato; una diacronica, la quale, precisati i vari stadi successivi assunti da ogni parte del testo e dal testo stesso, individua le spinte che hanno favorito quei movimenti. Risultò presto evidente che i mutamenti hanno di rado lo scopo di migliorare localmente il testo, mentre pit spesso costituiscono mosse di una strategia complessiva, che interessa i rapporti strutturali tra suoi elementi connessi.
Si assiste insomma, studiando le varianti, a spostamenti del sistema del testo: assestamenti che interessano progressivamente insiemi relazionati di lezioni e di varianti. Le varianti ci permettono perciò di valutare i materiali 1° Cfr. J. BELLEMIN-NOEL, Le texte et l’avant-texte, Paris 1972. Cfr. pure Mm. coRTI, Principi cit., pp. 98-106; B. BASILE, Verso una dinamica letteraria: testo e avantesto, in «Lingua e stile»,
XIV (1979), 2-3, pp. 395-410.
Cfr. p’A. s. AVALLE, L'analisi letteraria în Italia. Formalismo, strutturalismo, semiologia, Milano-Napoli 1970; M. CORTI e c. SEGRE (a cura di), I zzetodi attuali della critica in Italia, Torino 1970, pp. 332-33; cfr. inoltre c. SEGRE, Sezziotica, storia e cultura cit., pp. 69-70, e 1n., Da structuralisme à la sémiologie en Italie, in A. HELBO (a cura di), Le champ sémiologique. Perspectives internationales, Bruxelles 1979. Per un impianto diverso, ma convergente, cfr. J. LEvY, Gezeri e ricezione dell’opera d’arte, in «Strumenti critici», V (1971), 14, pp. 39-66.
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del testo in base non solo ai loro attuali rapporti reciproci, ma anche ai cambiamenti minimi di questi rapporti; ci permettono, sorprendendo lo scrittore al lavoro, di sapere a quali effetti mirava, dove poneva l’accento, quali ideali stilistici cercava di realizzare. Mentre nello studio del testo definitivo si confronta la sua lingua con quella letteraria dell’epoca, il suo codice figurativo con gli stereotipi diffusi al suo tempo, ecc., le varianti permettono rilievi più microscopici, confronti tra fasi del suo stesso idioletto, tra attuazioni di uno stesso stereotipo.
Quanto alle varianti in senso proprio, basta scorrere con l’aiuto di Contini quelle del canto leopardiano A Silvia. Si nota per esempio che in 15-6 gli studi miei dolci (variante lunghi) si fanno leggiadri, le carte si stabilizzano in sudate, abbandonando la variante dilette. È un vero drenaggio di elementi soggettivi, operato dall’inserzione dei nuovi versi 17-18 (Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte), la cui mansione non si limita dunque a introdurre metricamente una coppia simmetrica e una terza rima nel periodo strofico, ma anche raccoglie entro un inciso la reazione più propriamente soggettiva !”. O ancora: In 33 Ur: cordoglio (variante Sempre un dolor) mi preme diventa Un affetto so108 lo quando, e perché, s’inserisce 35, E tornami a doler di mia sventura".
Questa solidarietà fra lezioni e correzioni sussiste anche a distanza: la scomparsa di sovvienti 1 è legata alla presenza di sovviemmi 32; la opposta opzione si verifica per vago avvenir 12, variante abbandonata dolce, e per speranza mia dolce 50, variante abbandonata v4g4, mentre dolci e vaghi figurano insieme fra le varianti abbandonate di 4 (con molli, riferito a occhi). È un caso tipico di distribuzione, anche se nel complesso risulti confermata la maggior leopardianità di v4go 109.
Altro esempio daremo dalla Notte del Parini. I vv. 21-23 presentavano a questo modo il «sospettoso adultero»: ... lento col cappel su le ciglia e tutto avvolto nel mantel se ne gfa con l’armi ascose. Una correzione trasforma cosî l’ultimo verso: entro al manto sen gfa con l’armi ascose. 107 6. CONTINI, Implicazioni leopardiane (1947), in Varianti e altra linguistica cit., p. 44. Il volume accoglie i principali studi continiani sulle varianti (Petrarca, Manzoni, Leopardi, Mallarmé, Proust). Il contributo di Contini costituisce una discussione con altro, notevolissimo, di G. DE ROBERTIS, Sull’autografo del canto «A Silvia» (1946), in Primi studi manzoniani e altre cose, Firenze 1949, pp. 150-68.
È
18 G. CONTINI, Implicazioni leopardiane cit., p. 45. 19 Ibid., p. 48. Sulle varianti leopardiane cfr. poi P. BIGONGIARI, Leopardi, Firenze 1976; E. PEruzziI, Studi leopardiani, I. La sera del di di festa, Firenze 1979.
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Concetti, tecniche e categotie
Isella rileva «un plusvalore di letterarietà e un tono classicamente pit sostenuto nel passaggio dal saltellante ritmo anapestico al più grave movimento spondaico-dattilico » !; ma avverte soprattutto che la correzione è in rapporto con un’altra ai vv. 25-29: e fama è ancor che pallide fantasime lungo le mura da i deserti tetti spargean lungo acutissimo lamento, cui di lontan per entro al vasto buio i cani rispondevano ululando;
\
di cui il penultimo poi mutato cosf: cui di lontano per lo vasto buio,
dove per entro al trova adeguato compenso in per lo, dato che l’uso di lo in luogo di #/ (e cosî di li invece di i) dopo per (si pensi ai fossili per lo più, per lo meno rimasti nella lingua d’oggi) è si conforme alle abitudini dei nostri poeti antichi e alla regola degli antichi grammatici, ma... è del tutto eccezionale nel Parini... e viene pertanto ad assumere una precisa connotazione stilistica: non particolarità grammaticale, ma preziosità letteraria, un arcaismo da gran decoro !!.
Le due correzioni attuano dunque precise tendenze del sistema stilistico pariniano; ma la prima, cronologicamente posteriore, ha trovato via libera solo quando fu eliminato l’eztro del v. 28: due entro, ai vv. 23 e 28, avrebbero costituito un’insistenza fastidiosa. Lo studio delle varianti è particolarmente suggestivo quando un testo sostanzialmente già rifinito viene progressivamente limato dall’autore. L’analisi può partire dai manoscritti, come in questi casi; ma può anche fondarsi sulle stampe, quando siano state licenziate più edizioni (redazioni) successive, ognuna considerata, al momento, «definitiva». Sono note a tutti le tre redazioni dell’Orlando Furioso, i cui materiali di confronto sono già selezionati nell’apparato dell’edizione critica "; o le due dei Prozzessi sposi, visivamente sincronizzate in un’edizione moderna "*.
110 p. ISELLA, L'officina della « Notte», in L'officina della «Notte» e altri studi pariniani, Milano-Napoli 1968, p. 46. Si possono inquadrare le varianti nell’assieme dell’elaborazione del Giorno, grazie all’edizione critica curata da D. Isella, Milano-Napoli 1969, II, pp. 109-10. il p, ISELLA, L'officina della «Notte» cit., pp. 47-48. 112 Cfr. L. ARIOSTO, Orlando furioso, a cura di S. Debenedetti e C. Segre, Bologna 1960. Esempi di ricerche sulle varianti dei tre Furiosi, oltre a c. sEGRE, Storia interna dell’Orlando furioso (1961), in Esperienze ariostesche cit., pp. 29-41: E. BIGI, Appunti sulla lingua e sulla metrica del «Furioso», in «Giornale storico della letteratura italiana», CKXXVIII (1961), pp. 249-63; E. TUROLLA, Dittologia e enjambement nell’elaborazione dell’« Orlando Furioso», in «Lettere italiane», X (1958), Pb. 1-20; A. M. CARINI, L’iferazione aggettivale nell’« Orlando Furioso», in «Convivium»,
XXXI (1963), pp. 19-34. 153 Cfr. A. MANZONI, I promessi sposi, a cura di R. Folli, Milano 1877-79; e, con lo stesso criterio, l’edizione curata da L. Caretti, Torino 1971.
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2.28.3. Masi può risalire più indietro. Abbiamo l’autografo completo di una stesura anteriore, e completamente diversa, dei Promessi sposi, il Fermo e Lucia"; e abbiamo i primi abbozzi di canti aggiunti dall’Ariosto all’ultimo Furioso". La storia complicata, persino drammatica delle edizioni della Gerusalemme liberata, che si conclude con un rifacimento quale La Gerusalemme conquistata, ha un primo avvio con un altro poema sullo stesso argomento, Del Gierusalemme. Si potrebbe dare un elenco molto più ricco; ma gli esempi fatti bastano per indicare la diversità di approccio che simili materiali esigono. Non più, o solo qualche volta, un raffronto minuto di variazioni rispetto a un testo sostanzialmente stabile, ma confronti tra blocchi contenutistici, con eliminazioni, spostamenti, mutamenti di accento. Abbiamo insom-
ma varianti tra ampie unità di contenuto, in cui eventualmente sia già avvertibile qualche permanenza (e affinamento) verbale. Un altro esempio, quello della poesia Sezaztica di Ungaretti !“, ci aiuta a superare il preconcetto «evoluzionistico» secondo cui le varie redazioni di un testo vedrebbero il progressivo precisarsi e affinarsi di un’idea iniziale. Al contrario la nostra poesia, che nel 1949 è poco pit che uno scherzo basato su un gruppo di parole esotiche (brasiliane e portoghesi), nel 1952 diventa una lirica tutta ungarettiana; le immagini brasiliane sono mediate da ricordi d’Africa, in una sintesi di memorie personali. Il gioco lessicale della prima redazione, modestamente descrittivo, nella seconda è investito da una animazione paesistica, la quale include «l’io autobiografico e il recupero della individuale
esperienza dell’autore»
'; infine nella terza entra nella «mentalizzazione del-
l’esperienza», e «il poeta non più sotto maschera, Ungaretti ortonimo, si vol-
ge stilisticamente all'auto-recupero e il modello diviene la sua poesia» "*. Il primo testo era poco meno che improvvisato per una utilizzazione occasio-
nale; gli altri rivelano gli approfondimenti promossi dalla destinazione a sedi più «nobili», e soprattutto da una prolungata riflessione. I termini relativi al caucciti e ai suoi impieghi erano venuti fuori, semplicemente, perché la rivista 114 Alcuni studi sulla storia interna: E. RAIMONDI, Il rorzanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi Sposi», Torino 1974; D. DE ROBERTIS, L’antifavola dei «Promessi sposi» (1973) e Le primizie del romanzo (1973), in Carte d’identità, Milano 1974, pp. 315-40 € 341-71; D. DELCORNO BRANCA, Strutture narrative e scansione in capitoli tra «Fermo e Lucia» e «Promessi Sposi», in «Lettere italiane», XXXII (1980), 3, pp. 314-50; G. ORELLI, Quel ramo del lago di Como. Lettura manzoniana, Bellinzona 1982; L. ToscHI, Si dia un padre a Lucia. Studio sugli autografi manzoniani, Padova 1983; P. GIBELLINI, L’Adda ha buona voce. Studi di letteratura lombarda dal Sette al Novecento, Roma 1984, pp. 175-208. 15 Per un’analisi cfr. s. DEBENEDETTI (a cura di), I frammenti autografi dell’Orlando Furioso, Torino 1937, Introduzione; G. contINI, Come lavorava l’Ariosto (1937), in Esercizî di lettura, Tori-
no 1974, PP. 232-4I.
‘
116 Cfr. G. UNGARETTI, Sezzantica, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano 1971°, p. 269.
1? L. sTEGAGNO PIccHIO, «Semantica» di Ungaretti (Varianti: testo e contesto), in AA.VV.,
Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, a cura di W. Binni e altri, II, Roma 1975, p. 1022. Sulle varianti di Ungaretti si ricorda il lavoro pionieristico di G. DE ROBERTIS, Sulla formazione della poesia di Ungaretti (1945), in G. UNGARETTI, Vita d’un uomo. Tutte le poesie cit., PP. 405-2I.
118 I. STEGAGNO PICCHIO, «Semzantica» di Ungaretti cit., p. 1022.
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Concetti, tecniche e categorie
ospitante era la « Pirelli»; poi, a partire da questi, Ungaretti aveva recuperato la sua esperienza brasiliana e, infine, la sua infanzia africana. Non, dunque, un’idea iniziale, ma un’idea finale sotto la suggestione di parole. In casi privilegiati si può dominare tutto l’arco dell’elaborazione, dai primi appunti, o da stesure servili, sino all’ultima veste: gli abbozzi in prosa delle tragedie alfieriane, le novelle di Pirandello poi trasformate in drammi. Si può partire da una parola o da un pensiero, da una rima o da un sistema strofico. Esemplare per la completezza della documentazione I/ gelsomzino notturno di Pascoli. Dai primi abbozzi in prosa o in versi seguiamo un diagramma tutt’altro che uniforme, in cui cambiano da un lato le insistenze concettuali e l'orientamento, dall’altro i ritmi e le spie lessicali; in cui i modelli esterni, Virgilio, D'Annunzio, ecc., svolgono un ruolo variamente imperioso, e si pre-
cisano contatti e differenze con altre poesie pascoliane di argomento analogo". Per D’Annunzio, la scoperta dei Taccwini ha permesso di ricostruire la vicenda di versi e intere composizioni dal caso, e dall’impressionismo, di os-
servazioni e sensazioni, alla costruzione poetica entro le Landi" Pur sfuggendoci molti momenti, quelli mentali, dell’elaborazione di un testo, certo il possesso di tutte o gran parte delle fasi dell’elaborazione scritta, dagli abbozzi alla prima forma compiuta ai ritocchi più minuti, ci mette a disposizione una massa di materiali che si può definire avantesto. Il concetto, tuttavia, non sfugge a certa materialistica ingenuità. Perché la maturazione di un’opera avviene all’interno di quella dell’autore stesso, e appare nell’insieme della sua attività coeva, con interferenze tra un testo e l’altro, o tra diversi momenti di correzione di testi diversi scaglionati nel tempo. Si dovrebbe insomma chiamare avantesto tutta l’opera d’un autore sino al momento dato; ma con scarso vantaggio terminologico.
In più, questa fervida intertestualità (cfr. $ 2.29) co di una generale intertestualità, dati gl’influssi tra no (lavoro comune, suggestioni attraverso il tempo). in armonia con l’impianto testuale di queste pagine,
d’autore vive nell’intriautori contemporanei e Questo per concludere, che mentre il testo ha
una sua precisa delimitazione, è cosi, è, la sua preistoria si distingue, ma non
si distacca completamente dal fluire delle attività di produzione testuale. 152 Mi rifaccio alla bellissima analisi di N. EBANI, I/ «Gelsomino notturno» nelle carte pascoliane, in AA.vv., Studi di filologia e di letteratura italiana offerti a Carlo Dionisotti, Milano-Napoli 1973, PD. 453-501. Cfr. anche, della stessa autrice, «Il ciocco» di Pascoli (edizione critica), in « Studi di filologia italiana», XLI (1983), pp. 295-433. Altro esempio interessante quello degli sviluppi redazionali dell’Adone: cfr. G. POZzi, Metamorfosi di Adone, in «Strumenti critici», V (1971),
16, PD. 334-56.
}
12° Cfr. per esempio A. rossI, Protocolli sperimentali per la critica (II), in «Paragone. Letteratuta», XVIII (1967), 210, pp. 45-74; D. ISELLA, Nota a G. D'ANNUNZIO, Dal taccuino inedito dell’Alcyone, in «Strumenti critici», VI (1972), 18, pp. 170-73; C. MARTIGNONI, Genesi di una «favilla»: elaborazione incrociata dei taccuini, in «Paragone. Letteratura», XXVI (1975), 308, pp. 46-73; F. GAVAZZENI, Le sinopie di « Alcyone», Milano-Napoli 1980. Si veda pure, naturalmente, G. D'ANNUNZIO, Taccuini, a cura di E. Bianchetti e R. Forcella, Milano 1965; I., Altri taccuini, a cura di E. Bianchetti, Milano 1976. 5
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2.29. Intertestualità. Bachtin ritiene che la plurivocità (cfr. $ 3.12) sia fenomeno peculiare del romanzo; certo nel romanzo essa ha più libertà di esplicarsi. V’è però un fenomeno parzialmente affine, che, possibile in qualunque testo letterario, caratterizza per la raffinatezza delle sue applicazioni il testo poetico. Si tratta dell’intertestualità. Questo termine d’introduzione recente sembra coprire con un'etichetta nuova fatti notissimi come la reminiscenza, l’utilizzazione (espli-
cita o camuffata, ironica o allusiva) di fonti, la citazione '*. La novità del ter-
mine, comunque, fa uscire il fenomeno dall’ambito erudito '?. Invece di accettarne tutti i possibili usi (lo sviluppo della lingua letteraria, in particolare, può esser visto come un caso macroscopico dello scambio continuo tra i testi, dunque come intertestualità), preferiamo usare il termine per i casi ben individuabili di presenza di testi anteriori in un dato testo. L’intertestualità appare allora come il corrispettivo in ambito letterario della plurivocità propria della lingua: a) come nella plurivocità si rivelano elementi che pertengono a una varietà di socioletti e orientamenti ideologici, cosî con l’intertestualità traspaiono le linee di filiazione culturale al termine delle quali il testo si pone: quasi tratti caratteristici di una volontaria ereditarietà; mentre la plurivocità attinge ai registri, ai linguaggi di gfuppo, ecc. (cfr. $ 2.2324), l’intertestualità attinge alle varietà del linguaggio letterario e agli stili individuali; b) col trasparire dell’intertestualità, il testo esce dal suo isolamento di messaggio, e $i presenta come parte di un discorso sviluppato attraverso i testi, come dialogicità le cui battute sono i testi, o parti di testi, emessi dagli scrittori; c) mediante l’intertestualità la lingua di un testo assume in parte come suo componente la lingua di un testo precedente; avviene lo stesso per il codice semantico e per i vari sottocodici della letterarietà. Il modo 121 Cfr. per questi problemi H. MEYER, Das Zitat in der Erziblkunst. Zur Geschichte und Poetik des européischen Romans, 1961 (trad. ingl. The Poetics of Quotation in the European Novel, Princeton N.J. 1968); z. BEN PORAT, The poetics of literary allusion, in «PTL. A Journal for Descriptive Poetics and Theory of Literature», I (1976), 1, pp. 105-28. Cfr. anche G. wIENOLD, Das Konzept der Textverarbeitung und die Semiotik der Literatur, in «Zeitschrift fur Literaturwissenschaft und Linguistik», VII (1977), pp. 46-54; A. COMPAGNON, La seconde main, ou le travail de la citation, Paris 1979. Del resto, ogni testo è già, in qualche modo, la parodia di opere precedenti, come avevano visto i formalisti russi. Per una storia e una tipologia della parodia si può vedere G. GENETTE, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris 1982. 122 Nella Kristeva, che ha dato diffusione al termine, i valori sono ancora più ampi: si tratterebbe di tutti gli «incroci» di codici presenti nel testo (cfr. per esempio J. KRISTEVA, Enperwtixn cit., partendo dall’indice, trad. it. p. 333. La definizione che si propone qui ha corrispondenza alle pp. 209-11). Interessante A. J. GREIMAS e J. COURTÉS, Sériotique cit., p. 194, pet i rilievi sull’imprecisione e l’eccessiva ampiezza di accezioni del termine. Cfr. poi, per un impianto metodico, A. PoPovIè, Text a metatext (1973) (trad. it. Testo e metatesto (Tipologia dei rapporti intertestuali come oggetto delle ricerche della scienza della letteratura), in C. PREVIGNANO (a cura di), La serziotica nei Paesi slavi cit., pp. 521-45); C. SEGRE, Teatro e romanzo cit., cap. VII.
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Concetti, tecniche e categorie
di uso, o il co-testo '* d’impiego, fa valere i diritti del codice assimilante; ma è notevole che il codice assimilato si ritrovi in qualche misura all’interno del codice assimilante, cioè che una fase storica anteriore sia inglobata in quella posteriore. L’«orientamento sul messaggio», proprio della funzione poetica, si fa complesso nelle zone dell’intertestualità: perché gli elementi di riporto realizzano un compromesso tra il loro orientamento di partenza e quello di arrivo.
Se prendiamo per esempio i primi due versi dell’Orlando Furioso, nella redazione del 1516 e in quella del 1532, Di donne e cavallier li antiqui amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto... Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto
(era): (I, 1, 1-2)
possiamo benissimo analizzare e giudicare la rispettiva forma sintattica, e misurare la «sintetica tonalità espressiva» che vi è cercata '*. Tuttavia ci dice molto una considerazione intertestuale, che ci è resa possibile dalla diligenza dei commentatori ‘°. Ecco i principali riferimenti: 1) «Arma virumque cano»
(Virgilio, Aex., I, 1);
2) «Però diversamente il mio verziero | de amore e de battaglie ho già piantato» (Boiardo, Inz., 1. III, V, 2, 1-2);
3) «le donne e” cavalier, li affanni e li agi |che ne ’nvogliava amore e cortesia» (Dante, Purg., XIV, 109-10); 4) «d’arme e d’amore» (Mamzbriano, I, 5,7);
5) «Armes, Amours, Dames, Chevaleries» (E. Deschamps, Balades de moralitez, CXXIII, 1). Il primo emistichio, con donne e cavallier, e la serie amori... cortesie, deriva dai due versi di Dante: pit fedelmente anzi nell’ultima redazione, che elimina la specificazione prolettica (Di...) Ma si tratta, più che di derivazione, di sintonizzazione: nel Purgatorio, chi parla è Guido del Duca, e rievoca i bei tempi di signorili raffinatezze finiti insieme con i magnanimi da lui rimpianti. I due versi sono la sigla di un mondo ideale, affine a quello che l’Ariosto inventa (anch’egli in polemica col presente). L’accostamento armi-amori, chiasticamente affine alla coppia donne-cavalieri, è suggerito dal Boiardo («de amore e de battaglie»), ma, per la forma, si avvicina di più al Deschamps e al Marzbriano (il Deschamps ha la coppia cn Coniata da J. S. Petofi, la parola co-festo indica il contesto verbale a cui una parola o un enunciato appartiene. Scopo del neologismo è di evitare confusioni con il contesto situazionale. psc. Cfr. B. A. TERRACINI, Lingua libera e libertà linguistica. Introduzione alla linguistica storica, Torino 1963, pp. 27-28.
i
da DO qui i commenti di A. Romizi (Milano 1900), R. Ceserani (Torino 1962), C. Segre (Mi-
ano 1964). 16 e. DESCHAMPS, Balades de moralitez, CXIII, in (Euvres complètes, I, Paris 1878, p. 243.
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donne-cavalleria). Si tratta di una coppia lessicale che richiama concetti chiave del mondo cortese, ma che nel Boiardo assume una pregnanza particolare, assimilata dall’Ariosto: la confluenza di materia carolingia (epica) e arturiana (amorosa); si tratta, in Boiardo e nell’Ariosto, di un’enunciazione programmatica, non per nulla nel prologo (Ariosto) e in un inizio di canto con propositi definitori (Boiardo). Qui l’intertestualità vuol anche suggerire il rapporto d’integrazione tra i due poemi, adombrato dall’Ariosto. La rete intertestuale è ben fitta, se si pensa che Ariosto, rifacendosi direttamente a Dante e Boiardo, attua un accoppiamento già voluto da Boiardo. Ecco che, in un altro inizio di canto, e di libro, Boiardo scrive: Cosî nel tempo che virti fioria ne li antiqui segnori e cavallieri, con noi stava allegrezza e cortesia, e poi fuggirno per strani sentieri
(Hay)
Ai versi citati di Dante, questi non alludono solo con l’emistichio «allegrezza e cortesia» (cfr.
«amore e cortesia») e col riferimento ai «cavallieri», ma con
l’identità tematica della nostalgia per i bei tempi andati. L’Ariosto ripresenta in qualche modo questi stessi versi del Boiardo, non solo utilizzando (nella prima redazione) aztiqui in vicinanza di cavallier, ma echeggiando, nel seguito della sua, vari nessi di questa protasi: Cosî nel tempo che virtà fioria cfr. che furo al tempo che passaro i Mori dove odireti...
(Pars
ea)
t
... le contese che fece Orlando alor che amore il prese cfr. Dirò d’Orlando...
che per azz0r venne in furore e matto
(Inn.,1.II,I,3,6-8)
(Fur., I; 2, 1-3);
Voi odireti la inclita prodezza che ebbe Rugiero, il terzo paladino cfr. Voi sentirete fra i più degni eroi ii
Niathlal Pa
dat Vela
Coi
ai e
Telo
de Lal co
ricordar quel Ruggier... L’alto valore e’ chiari gesti suoi vi farò udir
(Inn.,1.II,I,4, 1-4)
e
(Fur, 1, 4;1-6).
Era infine di prammatica la formula virgiliana con cano = io canto; ma è interessante che ad 4r7z4 corrispondesse solo approssimativamente, nella prima redazione, audaci imprese, mentre nell’ultima abbiamo proprio l’armze.
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Concetti, tecniche e categorie
Perciò l’accostamento armi-amori va considerato effetto di due spinte convergenti, realizzatesi attraverso due diverse intertestualità ””. Questo è un caso microscopico. Ma la lingua e lo stile di ogni composizione poetica sono, nel loro complesso, il risultato di una fitta intertestualità; che si differenzia da fatti analoghi dei testi parlati e prosastici per la consapevolezza, e spesso l’allusività, con cui essa è messa in atto. Ogni poeta, scri-
vendo, dialoga con la schiera di altri poeti di cui è in qualche modo il successore, oltre che il superatore: si pensi al Leopardi, anche per là sua capacità di cancellare le suture, di evitare i dislivelli tra i materiali utilizzati. Ma il Leopardi ci offre anche esempi di un’altra intertestualità, quella che tiguarda il disegno complessivo di una composizione. La sua giovanile canzone All’Italia (Canti, I) presenta reminiscenze numerosissime, da Simonide a Pindaro, da Virgilio a Orazio, da Testi a Monti; ma si comprende soltanto
nel suo affiancarsi e contrapporsi alla canzone Italia mia del Petrarca (Rirze, CXXVIII): per l’identica natura di apostrofe a un’Italia personificata, e vista nella sua decadenza; per la stessa descrizione dei suoi mali, e lo stesso rammarico per le divisioni e le lotte intestine dei suoi figli; per la contrapposizione tra lo squallore attuale e la gloria antica; per l’invocazione a un’imminente riscossa ‘°. È tradizionale il confronto fra le due canzoni, in realtà diversissime anche nell’ispirazione (alla riflessione severa ma pacata del Petrarca si contrappone l’impotente eroismo fantastico del Leopardi); ma il confronto si fa più efficace e meglio orientato se si vedono le affermazioni del Leopardi come un dialogo, secondo i casi concorde o discorde, del secondo autore implicito col primo, e se perciò s’interpretano i mutamenti nelle riprese letterali come, per cosî dire, correzioni degli enunciati del predecessore. Questa intertestualità fra opere è fenomeno frequente, specie in autori moderni (al suo limite c’è la parodia o il rifacimento, ma non occorre sof-
fermarsi su prodotti di troppo facile interpretazione). Si sa che l'Ulysses di Joyce — come annuncia il titolo — aggancia personaggi e vicende contempora-
nei a uno schema omerico; e trae incrementi di senso da questo parallelismo. Recentemente, la commedia Rosencrantz and Guildenstern are Dead, di Tom Stoppard, mette in atto una storia resa assurda dal fatto che i personaggi rivivono episodi del Harzlet di Shakespeare ignorandone — a differenza dagli spettatori — particolari e conclusioni. In questo caso si assiste a un caso di parassitismo concettuale, dato che il senso della vicenda è solo sviluppato dall’integrazione della commedia col dramma shakespeariano‘. Per l’invenzione di una balena che divora l’eroe, e che ha nel ventre un 1? Possono essere utilizzate anche come analisi globale di un’ampia intertestualità le pp. 69 sgg. di G. pozzi, La rosa in mano al professore, Fribourg 1974. 128 La rassomiglianza compositiva è meno forte con la canzone Spirto gentil (Rime, LIII); ciò non toglie che riprese e rassomiglianze siano altrettanto, o forse più fitte.
2 Cfr. p. GULLÎ PUGLIATTI, Per un'indagine sulla convenzione nel testo drammatico, in «Strumenti critici», XIII (1979), 39-40, pp. 428-47.
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variegato paese infernale, si può seguire !° una trafila che va dalla Storia vera di Luciano ai Cinque canti dell’Ariosto (IV) al Pinocchio di Collodi (XXXV); ma i due autori italiani si possono interpretare compiutamente solo valorizzando l’intertestualità con la storia biblica di Giona, e con i simboli che ad essa ineriscono (morte e resurrezione; peccato e pentimento). E Le città invisibili di Calvino implicano l’esistenza del Milione di Marco Polo, in cui il rapporto tra Marco e Kublai è spiegato nel suo sviluppo e nei suoi caratteri. 3.
I contenuti testuali.
3.1. I livelli del significato. 3.1.1. Siè visto (cfr. $ 2.11-13) che la quadripartizione hjelmsleviana in forma e sostanza dell’espressione e del contenuto è applicabile, a rigore, soltanto agli enunciati linguistici. Essa resta fruibile all’analisi letteraria per ciò che riguarda l’espressione, dato che questa si realizza completamente al livello del discorso, insomma della testura verbale, mentre non lo è per i contenuti, dato che la teorica di Hjelmslev interessa soltanto i contenuti propri della lingua. Perciò i contenuti testuali, cioè i contenuti comunicati dal testo nella sua natura non già di prodotto linguistico, ma di prodotto semiotico che usa un veicolo linguistico, richiedono altri metodi di analisi, di più deli-
cata messa a punto dato che in questo caso i significati non sono solo quelli denotati dai significanti linguistici, ma sono tutti quelli che risultano sia dal sopravvenire degli effetti di connotazione, sia dalle integrazioni e generalizzazioni che si sviluppano nel corso della decifrazione globale del messaggio. Diremo qui qualcosa sui tipi di analisi proposti per i significati testuali. Indicheròi due casi che si possono porte uno alla minima, l’altro alla massima distanza dalla semiotica denotativa del livello esplicito di discorso: il significato semantico e quello dianoetico . Il significato semantico è quello dei singoli termini o sintagmi. I migliori commenti hanno sempre cercato di precisare il valore che assume ogni parola di valore dubbio (1) in rapporto con la frase (2) in rapporto con l’idioletto ° dell’autore. La delucidazione contestuale è stata approfondita dalla linguistica moderna, che ha mostrato le selezioni e le messe a punto subite dalla potenzialità significativa di ogni parola. La parola, che è un fascio di significati (potenzialità) nel dizionario, ne assume uno, e uno solo (a parte i casi
di ambiguità) una volta unita alle altre parole del testo. Il ricorso all’idioletto è stato regolarmente operato sin dagli inizi della filologia (usus scribendi). 130 Cfr. A. H. GILBERT,
The sea-monster
in Ariosto’s
“Cinque Canti”, in «Italica», XXXIII
(1956), pp. 260-63.
1 Chiamo significato dianoetico il nesso discorsivo tra le idee ispiratrici di un’opera. Si tratta di un termine aristotelico ripreso recentemente da N. Frye. ? L’idioletto è la varietà personale di una data lingua, la configurazione assunta da un sistema linguistico nell’uso di una persona (nel nostro caso di un autore).
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Concetti, tecniche e categorie
Ma il riferimento all’idioletto non è sufficiente, perché dietro ai significati denotati vi sono, anche più importanti per la poesia, quelli connotati. La parola volo, per esempio, è denotativamente chiarissima, ma svela le sue connotazioni solo se la si riporta al sistema figurativo montaliano. E ciò è possibile se lo spoglio lessicale viene confrontato con quello del corrispondente campo semantico (parole come penna, ali, piume, ecc. integrano l’area del
«volare»): prima base per un’interpretazione tematica *. Il campo semantico, infatti, s’inscrive all’interno di un campo tematico, che prepara le connessioni simboliche attribuibili ai significati. Sono più netti i movimenti dal campo lessicale a quello semantico, perché guidati dal continuo controllo sugli enunciati; più avventurosi quanto più affascinanti quelli verso il campo tematico, perché già legati a una concezione, immaginativa e interpretativa, d’assieme, e perché, a differenza dai precedenti, non falsificabili. Sono infatti possibili due o più rappresentazioni tematiche di un’opera; talora, persino conciliabili. In questa strofa di D'Annunzio (Lungo l’Affrico nella sera di giugno dopo la pioggia, in Alcyone): Nascente Luna, in cielo esigua come il sopracciglio de la giovinetta e la midolla de la nova canna,
sf che il più lieve ramo ti nasconde e l’occhio mio, se ti smarrisce, a pena ti ritrova, pel sogno che l’appanna, Luna, il rio che s’avvalla senza parola erboso anche ti vide; e per ogni fil d’erba ti sorride, solo a te sola,
Agosti‘ individua due catene di significanti in opposizione: «umano» (sopracciglio, occhio, sogno, smarrisce, vide, *sorride) e «vegetale» (mzidolla de la nova canna, ramo, *appanna, erboso, fil d’erba), con sorride e appanna che partecipano delle due serie. Un secondo asse semantico, riconducibile al campo «cosmicità», oppone «circolarità» (Luna, sopracciglio, occhio, sogno) a «linearità» (canna, ramo, rio, fil d'erba). Infine, il seme «liquidità» interesserebbe occhio, rio e, «in quanto si tratta di “liquidità”, per cosî dire, attiva», appanna e sorride. Le osservazioni sono poi integrate in una descrizio-
ne del resto della poesia, che sarebbe elaborata sui semi «liquidità» (strofa 1), «cosmicità», «liquidità» (strofa 11, quella riportata sopra), «eroticità» (stro-
fa 111).
Senza entrare nel merito, va segnalato come i raggruppamenti costituiscano ipotesi, tanto più attendibili quanto più fittamente confrontate col resto dell’opera. Altri raggruppamenti, a priori non scartabili, si potrebbero pro-
porre. Per esempio «celeste» (Luna, cielo, Luna) e «terreno» (canna, ramo,
? Cfr. D'A. S. AVALLE, «Gli orecchini» di Montale (1965), in Tre saggi su Montale, Torino
1970, PP. II-90.
* Cfr. s. AGOSTI, Il testo poetico cit., pp. 79-84.
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rio, fil d'erba), reso autorevole dal fatto che la lirica inizia nominando i due termini contrapposti («Grazia del ciel, come soavemente | ti miri nella zerra»), e termina col secondo («Tutta la ferra», ecc.): in armonia con l’ambiguo «stilnovismo» del componimento, pure ravvisabile nell’ambito intermedio tra «celeste» e «terreno», quello del «sogno». Oppure «nitido» e «confuso» (rispettivamente ritrova e nasconde, smarrisce, appanna), alternanza cui corrispondono, nelle altre strofe, accenni a movimenti e alternative (zere e bianche, notte e alba, vespro e notte, forse... forse..., ecc.). 3.1.2. Anche ardua l’individuazione dei concetti fondamentali, determinanti: insomma dei nuclei dianoetici. Pit facile, e più convincente, quando questi affiorino al livello del discorso, fornendo dei vettori stilistici”. Nella VII giornata del Decamzeron® sono in opera due triangoli concettuali, i cui vertici si corrispondono e contrappongono puntualmente: © parsimonia — © debito matrimoniale — © orazioni; © piaceri della gola — @ piaceri della carne — © false orazioni od orazioni burlesche. Il secondo triangolo è additato dallo stesso Boccaccio, quando scrive: «A grande agio e con molto piacere cenò e albergò con la donna; ed ella, standogli in braccio, la notte gl’insegnò da sei delle /aude di suo marito» (VII, 1, 9). L'opposizione tra gli elementi dei due triangoli è resa evidente, oltre che dal doppio significato attribuito nel brano a laude, dai commi 12-13, dove i «grossi capponi», le « molte uova fresche» e il «buon fiasco di vino» preparati per Federigo contrastano con il «poco di carne salata» fatto lessare per il marito Gianni. E mentre molti brani ravvivano il giocoso slittamento dalle orazioni vere all’uso scherzoso o metaforicamente osceno, la correlazione tra piaceri della gola e della carne è sottolineata Col curioso esercizio commutativo della doppia conclusione: 4) Federigo perde la notte d’amore ma si consola cenando «a grande agio » (30); 5) Federigo «andatosene, senza albergo e senza cena era la notte rimaso» (32). Moltiplicando osservazioni di questo genere si potrebbero illustrare minutamente il naturalismo e l’edonismo del Boccaccio. Si è persino tentato di formalizzare le operazioni attraverso le quali il lettore risale dal sistema dei procedimenti espressivi, insomma dei motivi, al sistema delle opposizioni semantiche (o dianoetiche), sino ad individuare il «mondo poetico» dell’autore”. Si tratta di una generalizzazione e unificazione, i cui momenti possono essere ben precisati e allineati. Ma c’è chi ha cercato di giungere ancora più in alto, verso una «semantica fondamentale — diversa dalla semantica della manifestazione linguistica » *, verso strutture elementari della significazione che fornirebbero un modello 5 Vettori stilistici sono quei tratti di stile (generalmente patole ed espressioni) che palesano più esplicitamente e direttamente caratteri e idee dominanti nel testo. 6 Cfr. c. seGRE, Le strutture e il tempo cit., pp. 132-33. ? Cfr. J. x. $CEGLOV e A. K. ZoLKOvSKIJ, K ponjatii «tema» i « poeticeskij mir» (1975) (trad. it. I concetti di «tema» e di «mondo poetico», in C. PREVIGNANO (a cura di), La semiotica nei Paesi slavi cit., pp. 392-425). 8 A. J. GREIMAS, Du sens; essais sémiotiques, 1970 (trad. it. Milano 1974, p. 170). Cfr. anche A. J. GREIMAS € J. COURTÉS, Sérziotique cit., s. v. «Carré sémiotique», pp. 29-33.
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semiotico pertinente, atto a dar conto delle prime articolazioni del senso all’interno di un micro-universo semantico. Ognuna di queste strutture deve essere concepita come lo sviluppo logico di una categoria semica binaria, del tipo bianco vs nero, i cui termini stanno, tra loro, in relazione di contrarietà, mentre ciascuno di essi, contemporaneamente, è suscettibile di proiettare un nuovo termine quale proprio contraddittorio; i termini contraddittori possono, a loro volta, stipulare una relazione di presupposizione nei riguardi del termine contrario opposto ?. p
Queste strutture possono insomma essere rappresentate col quadrato di Psello o di Apuleio, risuscitato da Greimas col nome di «quadrato semiologico » (in alto i contrari, in basso, con posizioni scambiate, i contraddittori). La facilità con cui questi quadrati sono dilagati nei lavori di allievi ed epigoni, moltiplica le prove della scarsa connessione tra uno schema logico, indiscutibile ma astratto, e il mondo semantico realizzato nell’opera: con raggruppamenti e collegamenti, squilibri e ipertrofie, che lo rendono incomparabile con una classificazione ragionata a priori.
Quanto alla facilità, che è spesso ovvietà, si veda come dalla frase iniziale di Deux amis di Maupassant («Paris était bloqué, affamé et ràlant») sia stato tratto il «quadrato»: «dire di qualcuno che è moribondo, equivale a riconoscere che il suo stato si definisce come quello di /non morte/, cosî come lo stato di vivente è quello di /vita/, stati precari, è vero, dato che essi tendono verso i loro contraddittorii, quelli di /morte/ e di /non vita/» !. Le forzature, irreparabili, appaiono invece in un altro «quadrato», quello che a vif4 vs morte e non morte VS non vita sovrappone, rispettivamente, il sole e MontValérien, l’acqua e il cielo, sulla base di un avventuroso simbolismo che è difficile riversare dalle prime frasi al resto del racconto ". Va anche detto che, se si vuol proprio giungere a un universale logico, il quadrato di Apuleio è stato perfezionato nell’esagono di Blanché, che sostituisce alle coppie di contrari e contraddittori delle triadi contenenti pure un termine medio: L’importanza dell’operazione di Blanché si segnala non soltanto per la maggior versatilità dell’esagono logico rispetto al quadrato di Apuleio, in quanto permette un maggior numero di operazioni, ma specialmente perché una tale struttura, una volta svincolata dalla funzione di verità, si rende disponibile per la strutturazione, in pratica, di qualsiasi campo concettuale, e riveste perciò una grande utilità operazionale per la semiotica ".
Ma ci sarebbe da affrontare (e non lo si è ancora fatto) la grossa questione dell’eventuale, non però necessaria strutturazione logica del «mondo poetico». Le idee-chiave realizzano più probabilmente un binarismo di sf-n0, o di contrari, che non conformazioni più complesse, per esempio a quattro; d’al? A. J. GREIMAS, Du sens cit., trad. it. p.171. xA i cr La sémiotique du texte: exercices pratiques, Paris 1976, p. 24. id., p. 61.
1° G. sIiNIcROPI, La diegesi e î suoi elementi, in «Strumenti critici», XI (1977), 34; PD. 49I-92.
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tro canto si può benissimo verificare l’esistenza di uno schema esagonale. Abbracciare una tesi univoca può spingere alla forzatura degli elementi individuabili in uno schema fissato in precedenza; mentre il rispetto per l’organizzazione semantica del testo suggerisce la massima disponibilità ai risultati raggiungibili. L'operatore semiotico ha il diritto di attribuire autorità, e invariabilità, a schemi di ordine logico; ma il critico semiologico preferirà sempre i risultati comprovabili con l’analisi del testo, e accetterà l’esistenza non solo di «mondi poetici», ma anche di «logiche poetiche» diverse. 3.2. Il contenuto di eventi. Nell’analisi del contenuto di testi narrativi, è subito apparsa la natura tutta particolare di eventi e azioni; eventi e azioni costituiscono in buona parte la coerenza del testo narrativo, non solo perché si staccano con particolare rilievo dal continuum del testo, ma perché sono individuabili (anche sul modello della realtà) in base a concetti della nostra esperienza, come i rapporti di successione e di causalità. Per questo l’analisi della narrazione (che ha come oggetti principali eventi e azioni) ha assunto un ruolo fondamentale nello studio dei contenuti testuali. Ma anche nell’analisi di eventi (e azioni) appare subito: 1) che gli eventi possono essere ipodenotati, quando vengono comunicati sia mediante inferenze (deduzioni tratte da indizi, sparsi nel testo, di essi eventi), sia mediante
implicazioni e presupposizioni, anche rispetto alle convenzioni letterarie; 2) che gli eventi possono essere iperdenotati, quando un evento è comunicato come un grappolo di eventi, che solo un’operazione razionalizzante, e semplificante, può ridufre a un unico termine denotativo (si può denotare un omicidio senza usare il termine né suoi sinonimi, ma scomponendo l’evento negli atti costitutivi). È a questo momento che la parafrasi, anche con la sua inevitabile approssimatività, diventa il principale strumento per rivelare l’individuazione di contenuti testuali ipo- o iperdenotati. 3.3. La parafrasi. Abbiamo visto ($ 2.11) che, in termini hjelmsleviani, il contenuto di una frase è il suo significato: cioè.il significato risultante dalla successione di parole che la compongono. Abbiamo anche visto che le stesse frasi, in quanto appartenenti a un co-testo più ampio, possono spesso significare altro o più di quanto la loro lettera non implichi. Precisazioni, deviazioni e aumenti di significato possono dipendere da cause di carattere co-testuale o extra-co-testuale. Ricordando ancora una volta che il co-testo sostituisce per i testi letterari la cornice esplicativa e sintonizzante offerta per i testi parlati dal contesto, è chiaro che qualunque frase del testo si avvantaggia della somma d’informazioni che il testo ha fornito in precedenza: è una rete di riferimenti che permette di disambiguare tutto quanto nella frase potrebbe avere due o più
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Concetti, tecniche e categorie
significati. Anche la logica, extra-co-testuale, delle presupposizioni e delle implicazioni, si concreta nel co-testo in aree di presupposizione e implicazione ben precise ". Sono poi schiettamente extra-co-testuali tutti i chiarimenti, o almeno le riduzioni di possibilità alternative, forniti sia da quelle conoscenze di carattere generale, ed epocale, che sono perciò valide anche per il testo (il loro assieme viene ora chiamato metaforicamente l’«enciclopedia»), sia da conoscenze più specifiche, di, tipo letterario, che complessivamente costituistono le leggi interne ai testi e in particolare ai generi letterari di una data epoca, e perciò producono una specie di «orizzonte di attesa». Un esempio elementare può esser fornito dalle due grandi reticenze della letteratura italiana. Quando Francesca dichiara: «quel giorno pit non vi leggemmo avante» (Ixf., V, 138); o quando nella storia di Gertrude è detto: «La sventurata rispose» (Prozzessi sposi, x1), nessuno ha mai creduto che il valore delle frasi stia soltanto nell’interruzione della lettura da parte di Paolo e Francesca, nell’accettazione del dialogo con Egidio da parte di Gertrude: che pure è il loro incontestabile ed esclusivo significato linguistico. Che si annunci, in entrambi i casi, l’inizio di un rapporto erotico risulta (lampante) dalla concomitanza di osservazioni testuali (posizione terminale, di discorso o di blocco narrativo, e su una linea tematica che segue gli sviluppi di un’attrazione, non le performanze di lettura o i turni dialogici; sventurata inoltre implica già un giudizio) ed extratestuali (allusione al romanzo di Lancialotto e alla funzione del personaggio Galeotto; schema narrativo della monaca vittima delle tentazioni; ecc.). Queste osservazioni bastano per mostrare che la parafrasi, vietata per il contenuto linguistico di una frase, specie se in un testo letterario (ogni sostituzione di parola o spostamento produce sconcerto nei valori significativi), diventa strumento forse indispensabile per descrivere i contenuti testuali. Nei due esempi fatti il contenuto può solo essere indicato con una parafrasi che enunci anche ciò che la reticenza ha taciuto; pena l’incomprensibilità della storia. Non è poi inutile precisare che la parafrasi non è il contenuto del segmento testuale corrispondente, ma è una verbalizzazione d’un contenuto sèmico non verbale. Sono infatti sempre possibili più parafrasi, valutabili col metro dell’approssimazione ma mai dell’equivalenza: esattamente come ci possono essere traduzioni più o meno fedeli, ma nessuna traduzione può sostituirsi al testo tradotto. 3.4. La scala di generalizzazione. Il contenuto può essere parafrasato su varie scale di grandezza. La parafrasi più ampia è quella che corrisponde al contenuto di una frase; la parafrasi . È Su questa tematica, molto studiata nella linguistica contemporanea, cfr. almeno 0. DUCROT, Dire et ne pas dire. Principes de sémantique linguistique, 1972 (trad. it. Roma 1979); ID., « Presupposizione e allusione», in Enciclopedia, X, Tortino 1980, pp. 1083-107.
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più concisa è quella che corrisponde al contenuto di tutta l’opera. In tutti i casi relativi ad ampiezze maggiori alla frase, la parafrasi è anche riassunto. Le parafrasi di scala intermedia non sono possibili su qualunque sezione dell’opera, ma solo su sezioni unitarie, evidenziabili mediante segmentazione del testo.
Come ricorda Sklovskij, Tolstoi affermava che per spiegare che cosa avesse voluto dire con Vojra i mir [Guerra e pace], avrebbe dovuto riscrivere tale e
quale Guerra e pace “. Ogni riassunto, necessariamente, elimina parti, magari consistenti, del contenuto. Gli elementi depositati nel riassunto devono essere quelli pertinenti a un certo programma di analisi. Occorre esser consapevoli di questa inevitabile limitazione, provvidenziale ai fini dimostrativi; ma non c’è motivo di stupirsene. Anche il critico d’arte compie analoga e più grave pertinentizzazione, non solo indicando nella sua descrizione gli elementi e i nessi di elementi su cui si fonda, ma traducendo il linguaggio figurativo in linguaggio verbale, magari con l’ambizione di trovarne un sia pur pallido equivalente. I riassunti individuano insomma nel testo letterario isotopie e strutture. Qualcuno parla di strutture profonde del testo ”. Espressione che sarebbe accettabile e suggestiva se non producesse vari equivoci: 4) sembra richiamare le strutture profonde della sintassi generativa, che sono ogni volta uniche e biunivoche; 4) sembra implicare leggi per la generazione delle strutture di superficie a partire da quelle profonde, ciò che per il testo letterario non può darsi; c) sembra escludere, e comunque non esplicita, la pluralità di connessioni entro il testo, e perciò la possibilità di individuarne in molti modi concorrenti le strutture, anche per i medesimi segmenti “. Sebbene il problema della parafrasi non sia ancora approfondito a sufficienza, qualcuno ha cercato di indicare le avvertenze che possono rendere una parafrasi quanto più «onesta» possibile ‘”. Ma anche le operazioni da attuare rendono evidente che comunque la parafrasi è già un atto d’interpretazione, 14 Cfr. v. B. SKLOVSKIJ, O teorti prozy cit., trad. it. p. 71. 15 *T. A. VAN DIJK, Soze Aspects of Text Grammars cit., I, 3, e Text and Context cit., chiama macrostruttura
(come M. Bierwisch)
il discorso, anzi metadiscorso,
che sintetizza il contenuto
di un
testo narrativo (cap. v). Notevole l’osservazione (anche verificabile sperimentalmente) secondo cui queste macrostrutture costituiscono il residuo d’informazione immagazzinato nella memoria: esse dunque organizzano l’informazione mnestica. Le macrostrutture progressivamente individuate ci permettono insomma di comprendere e distribuire ogni ulteriore informazione sull’argomento. Dello stesso autore cfr. poi Macrostructures. An Interdisciplinary Study of Global Structures in Discourse, Interaction and Cognition, Hillsdale N.J. 1980. Le analisi di azioni e funzioni di cui parleremo sono dunque un perfezionamento di procedimenti propri della lettura. 16 Per esempio J. KRISTEVA, Enpetwtwx) cit., trad. it. pp. 228-29, parla di fenotesto e genotesto, rispettivamente per il testo in senso proprio, superficie significante, e per la struttura significata, profonda; il secondo «genera » il primo, in senso chomskiano. Le due parole sono costruite sul modello di fezotipo e genotipo, termini passati dalla biologia alla linguistica generativa di Saumjan.
Ù Cfr. w. 0. HENDRICKS, Essays on Semiolinguistics and Verbal Art, The Hague - Paris 1973;
E. AGRICOLA, Text, Textaktanten, Informationskern, in F. DANES e D. VIEHWEGER (a cura di), Probleme der Textgrammatik, II, Berlin 1977, pp. 11-32; D. LEEMAN (a cura di), La paraphrase, numero monografico di «Langages», VIII (1973), 29; R. MARTIN, Inférence, antonymie et paraphbrase. Eléments pour une théorie sémantique, Paris 1976.
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Concetti, tecniche e categorie
dato che implica, come detto, la comprensione e l’assimilazione del precedente co-testo. V’è chi ha cercato di sintetizzare non verbalmente i contenuti (o almeno
quelli narrativi) *. Ma se le formule sono apparentemente meno compromesse che le parole (sempre fornite d’un alone connotativo), esse d’altra parte forzano nella rigidità di un significato dato realtà che sono sempre composite e complesse, e che perciò risultano falsate dall’apparente impassibilità della formula. ) Considerare queste delle difficoltà, equivarrebbe a considerare comunque possibile la definizione univoca dei contenuti testuali. Se invece ci si rende conto che questi contenuti sono il risultato di un incontro tra sistemi di codici, quello del testo e quello dei riceventi, allora l'impegno, e gli avvedimenti, per il massimo della comprensione saranno riferiti allo sforzo per la decodifica, mai definitiva perché le strutture testuali continuano a sprigionare significati col mutare dei sistemi semiotici collettivi. 3.5. I motivi.
L’assieme dei contenuti può esser diviso in vari sottoinsiemi: abbiamo contenuti fattuali (avvenimenti e azioni), descrizioni, analisi psicologiche, ecc. Sono abbastanza chiare le ragioni per cui il primo sottoinsieme è stato oggetto di studio più intenso e più proficuo ‘’. Un fatto, per dirla con Machado, «es algo | perfectamente serio». Tra i fatti, poi, hanno spicco nei testi narrativi quelli che costituiscono delle azioni, e il cui succedersi e connettersi costituisce l’intreccio. Ora, a differenza da descrizioni psicologiche o ambientali, i fatti si succedono 4) secondo temporalità (invece una descrizione può essere iniziata da qualunque punto); 2) spesso anche secondo una netta causalità, che è temporalità necessitata, irreversibile. Non per nulla le azioni narrate sono persino descrivibili con la logica della «teoria dell’azione» (cfr.
$ 3.10).
Dal continuum dell’esperienza — le azioni si stagliano più nettamente, tà. Gli studiosi dell'Ottocento, e in parola motivo per indicare un’unità skij: Con il termine motiv
e anche un testo espone un’esperienza — e permettono di esser censite con faciliparticolare gli etnografi, hanno usato la minima di narrazione. Scrive Veselov-
(motivo), intendo la più semplice unità narrativa, che,
sotto forma di immagine, rispondeva alle svariate richieste dell’intelletto pri18 Per esempio T. toporov, Gramzzzaire du Décaméron, La Haye - Paris 1969, rappresenta con lettere maiuscole gli agenti e gli attributi, con minuscole corsive le azioni verbali, ecc. Ma verbi e attributi sono indicati con termini scelti dallo stesso Todorov (le azioni, per esempio, sarebbeto solo tre: modifier, pécher, punir; ed è il critico a distribuite tutti i verbi usati nel testo sotto queste categorie); dunque le formule non fanno che tradutre parafrasi del critico, e ratificare una sua classificazione molto personale. 1° È diverso comunque insistere sugli avvenimenti (eventi) o sulle azioni: queste sono opera umana e volontaria, quelli possono anche essere processi naturali e non voluti. La differenza tra i due è analoga a quella tra segno motivato e segno arbitrario.
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mitivo e dell’osservazione quotidiana. Data Ia somiglianza o addirittura l’uguaglianza delle forme di vita e dei processi psicologici ai primi stadi dell’evoluzione sociale, motivi di tal genere potevano formarsi autonomamente e, allo stesso tempo, presentare tratti simili ”°. Ogni azione ha necessariamente un agente, un paziente, uno scopo, ecc., i qua-
li non fanno che ricalcare la struttura della frase (per dir meglio: è la frase che ricalca lo schema di un’azione). Cosî, vari autori hanno rappresentato con terminologia più o meno nettamente grammaticale i costituenti indispensabili di un motivo: Burke, oltre che di scere, parla di act ed agent, nonché di coagent, counter agent, purpose e agency (e attitude); Pike di actor, goal, action, causer, place, instrument, enabler, time, beneficiary; mentre Mele-
tinskij suggerisce di analizzare il motivo per mezzo del modello di frase di Fillmore (agent, object, place, time, instrument, source, goal, experiencer)”. I motivi presentano questa struttura sintattica basica perché sono residui di un’esperienza atavica. Essi rappresentano infatti l’attuazione di «schemi di rappresentabilità» ?, di quelle forme insomma con cui l’uomo, animale linguistico, ha appreso a tradurre i fatti in parole, l’organizzazione degli avvenimenti in organizzazione sintattica; e a selezionare dalle sue percezioni quelle pertinenti all’avvenimento di cui si sta occupando. Questi schemi costituiscono degli stereotipi di ordine significante. Nel loro insieme, essi vengono a istituire la strumentazione semiotica a cui lo scrittore ricorre nell’atto di dar forma alle sue invenzioni. Alcuni di questi schemi di rappresentabilità riflettono con particolare nitidezza le elaborazioni dell’inconscio collettivo. Schemi di situazioni tipiche sono impiegati dai parlanti per evocare o designare il ripresentarsi di queste situazioni. In mano agli scrittori, racchiudono valori simbolici che essi possono accentuare ulteriormente o trasformare. I motivi archetipi, e molti altri di consistenza forse meno venerabile ma ricorrenti nella produzione discorsiva, perché tipici o perché concretizzano desideri e paure generali, costituiscono un repertorio tematico a cui attingo-
no tutti i narratori, da quelli anonimi e plurimi di fiabe e miti a quelli meglio individuati e più ambiziosi della letteratura. Motivi archetipi, motivi tradizionali e motivi dell’esperienza comune (che in ogni modo risalgono a schemi di rappresentabilità) costituiscono i moduli con cui si costruisce qualunque struttura narrativa. Rassomigliandoli, anche 20 A. N. VESELOVSKIJ, Istoriceskaja poetika, 1940 (trad. it. parziale Poetica storica, Roma 1981, . 290). side Ch. K. BURKE, A Grammar of Motives, Berkeley - Los Angeles 1969, pp. xv sgg., 443-44; K. L. PIKE, Language in Relation to a Unified Theory of the Structure of the Human Behavior, The Hague - Paris 1971°, pp. 674-78; E. M. MELETINSKI, Principes sémantiques d’un nouvel Index des motifs et des sujets, in «Cahiers de Littérature Orale», n. 2 (1977), pp. 15-24. 2 Ne ho parlato in Serziotica, storia e cultura cit., pp. 29-31. Cfr. con quanto dice Veselovskij del motivo: «Con il termine 70#7v intendo una formula che, ai primordi della società umana, rispondeva agli interrogativi che la natura poneva dovunque all’uomo, oppure una formula che fissava quelle impressioni particolarmente vive, desunte dalla realtà, che apparivano importanti o si ripetevano » (A. N. VESELOVSKIJ, IstoriCeskaja poetika cit., trad. it. p. 283; corsivo mio).
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Concetti, tecniche e categorie
in base a quanto si è detto, a frasi tipo, la struttura narrativa sarà il discorso formato da queste frasi. Un discorso che dev'essere coerente, come ogni discorso ”. 23
3.6. Intreccio e fabula. I formalisti russi, impiegando il concetto di motivo per la scomposizione dei testi narrativi, hanno fornito un metodo efficace per l’individuazione del contenuto e per la segmentazione del testo. Scrive TomaSevskij: «Mediante questa scomposizione dell’opera in patti tematiche, giungiamo infine alle parti non scomponibili, alle divisioni più minute del materiale verbale. “Venne la sera”, “Raskol’nikov uccise la vecchia”, “L’eroe mori”, “Giunse una lettera” e cosî via. Il tema di una parte indivisibile dell’opera si chiama motivo» ”. Perché questa segmentazione non resti inerte, muta, occorre soffermarsi sui nessi tra le unità individuate. Essi vengono alla superficie mediante il confronto tra altre due strutture valorizzate dai formalisti, l'intreccio e la fabula. Dice ancora TomaSevskij: « Associandosi fra loro, i motivi formano i nessi tematici dell’opera. Da questo punto di vista, la fabula è un insieme di motivi nel loro logico rapporto causale-temporale, mentre l’intreccio è l’insieme degli stessi motivi nella successione e nel rapporto in cui sono presentati nell’opera» °°. Nella fabula, dunque, si parafrasa il contenuto narrativo osservando quell’ordine causale-temporale che spesso nel testo è violato; l’intreccio, viceversa, parafrasa il contenuto mantenendo l’ordine delle unità presente nel testo. È noto che i formalisti hanno compiuto un eccellente lavoro usando la coppia intreccio/fabula: sia Sklovskij, particolarmente attento ai problemi di «montaggio» (siamo negli anni migliori di Ejzen$tejn, e i formalisti ebbero rapporti intensi con l’ambiente cinematografico), sia TomaSevskij, affascina-
to dalla tipologia degli intrecci e delle fabulae. Sklovskij, con molta immaginazione visiva, ha segnalato costruzioni «a gradini», «ad anello», «ad infilzamento»; ha individuato procedimenti costanti, come il «ritardamento»; ha illustrato i vari modi di connettere novelle in raccolte; ha commentato complessivamente, nei loro processi costruttivi, opere come il Dorn Quijote (con attenzione ai racconti inseriti) e il Tristramz Shandy. La narrativa ha sempre fatto uso di recuperi analettici” (per sezioni tem2 Va notato un certo «sovraccarico» imposto al termine motivo. Esso può indicare: 1) Schemi di rappresentabilità, cioè archetipi di azioni, abbastanza vicini a: 2) Elementi narrativi minimi ricorrenti in narrazioni popolari o letterarie. Ma indica anche:
3) Un segmento
significante o signi-
ficato ricorrente in un dato testo (Leitzzotiv). Il significato: 4) Azione determinante nell’intreccio di una narrazione, introdotto dai formalisti (e ripreso, anche nella variante m0tiverza, da Doledel, Dundes, ecc.) aumenta pericolosamente la polisemia; meglio dunque sostituirlo con azione, o avvenimento, o evento (cfr. $ 3.8.6), oppute con funzione (cfr. $ 3.7.3), quando esso costituisca un’invariante del modello narrativo. È n pen, Teorija literatury cit., trad. it. p. 185. id. % G. GENETTE, Figures III cit., trad. it. pp. 83 sgg., chiama analessi la posticipazione di un avvenimento della fabula nell’intreccio (0, secondo la sua terminologia, della storia nel racconto); fenomeno simmetrico è la prolessi, in cui si ha anticipazione.
Segre
Testo letterario, interpretazione, storia
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porali anteriori alla narrazione di base), di inserti narrativi (il Furioso è anche per questo un precedente del Quijote), di intrecci multipli e intersecantisi (esempio principe il Furioso, ma anche l’Innamorato e in generale i poemi cavallereschi) ‘’, di dislocazioni della fabula. I formalisti ci hanno insegnato a motivare le infrazioni all’ordine «naturale», a studiare il modo in cui sono attuati i passaggi tra unità narrative appartenenti a tempi diversi, a spiegare
la funzione di accostamenti e alternanze. Integrazioni preziose son poi venute dalle ricerche sul tempo. V’è anzitutto il rapporto tra erzéblte Zeit ed Erzéblzeit, tempo della storia narrata e tempo della narrazione *; poi, nel trattamento del contenuto, vi sono gli indugi, le ellissi, gli slittamenti, da mettere in rapporto con il peso dei fatti rispetto all’intreccio. Tutto questo è possibile solo sulla base di quella segmentazione di unità di contenuto corrispondente all’individuazione dei motivi. 3.7. Le funzioni narrative. 3.7.1. Dire che i motivi sono le azioni che costituiscono l’intreccio non è molto chiarificatore. In qualunque narrazione, di azioni e avvenimenti ce ne sono innumerevoli, e la loro importanza per la determinazione dell’intreccio varia a seconda dell’ampiezza con la quale si considera l’intreccio stesso ”. Il capitolo 1 dei Promessi sposi contiene questa azione: «Don Rodrigo vieta a don Abbondio di celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia»; ma l’analisi potrebbe essere più particolareggiata: «Due bravi inviati da don Rodrigo comunicano a don Abbondio il divieto di celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia»; o ancora: «Il 7 novembre 1628 don Abbondio torna verso casa Incontra due bravi. Essi sono inviati da don Rodrigo e gli comunicano il divieto di celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia, con oscure minacce. Don
Abbondio torna a casa affranto e si confida con Perpetua. Perpetua gli consiglia di scrivere all’arcivescovo, ma don Abbondio rifiuta il consiglio». Ognuno degli elementi aggiunti nelle parafrasi più ampie entra in una rete di presenze individuali determinanti e di causalità (i bravi; Perpetua), e anche le modalità possono esser decisive (le oscure minacce, i consigli), come i preannunci d’un intervento che poi ci sarà, ma diversamente causato (l’arciveSCOVo).
3.7.2.
soluzione:
TomaSevskij aveva visto il problema e ne aveva abbozzato una
I motivi di un’opera possono essere eterogenei. Basta parafrasare la fabula di un’opera per capire immediatamente che cosa si può elizzinare senza danneggiare la coerenza del racconto, e che cosa invece non si può omettere senza di27 I francesi parlano a questo proposito di entrelacement. 2 Cfr. da ultimo 6. GENETTE, Figures III cit., trad. it. pp. 262-74; L. M. o'ToOLE, Dimensions of semiotic space in narration, in « Poetics Today», I (1980), 4, pp. 135-49; G. ZORAN, Towards a theory of space în narrative, ibid., V (1984), 2, PP. 309-35.
% Cfr. L. poLeZEL, Towards a Structural Theory of Content in Prose Fiction, in s. CHATMAN (a
cura di), Literary Style: A Symposium, London - New York 1971, pp. 95-110.
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Concetti, tecniche e categorie struggere il nesso causale fra gli avvenimenti. I motivi non omissibili si dicono legati, quelli che si possono eliminare senza danneggiare l’integrità del rapporto causale-temporale degli avvenimenti, si dicono invece liberi ?°.
Più avanti, TomaSevskij distingue ancora tra motivi dirazzici (che modificano la situazione) e motivi statici (che non la modificano), avvertendo che vi sono motivi statici ma legati, nel senso che la loro introduzione nel racconto può non avere conseguenze immediate nella vicenda, ma diventare determinante in un altro punto di essa ”. Sulla scia di Toma$evskij, Barthes distingue tra funzioni e indizi (che non rinviano «ad un atto complementare e successivo ma ad un concetto più o meno diffuso, ma necessario al senso della storia: indizi caratteriali che riguardano i personaggi, informazioni relative alle loro identità, notazioni d’“atmosfere”, ecc.»); e anche tra le funzioni istituisce una gerarchia di importanza: mentre quelle cardizali (o nuclei) costituiscono delle vere cerniere del racconto, le catalisi «non fanno che “colmare” lo spazio narrativo che separa le funzioni-cerniera » ”. L’inconveniente delle analisi di Toma$evskij e Barthes sta nel loro essere a due sole dimensioni; quasi che si tratti di mettere in evidenza, nel testo,
le parti di più robusta causalità, e di sfumare in modo vario le altre”. In verità, il testo come discorso è tutto indiziale: le azioni principali spesso risultano da un complesso di azioni secondarie, o persino sono implicate, non nominate. La causalità può essere enucleata soltanto attraverso le parafrasi, ma esse sintetizzano il contenuto ad altezze maggiori o minori, a seconda che si voglia cogliere la grana fina o le grandi linee del testo. Nella grana fina c’è un rapporto di consequenzialità fra l’uscita di don Abbondio e l’incontro coi bravi, c'è continuità tra questa e varie altre loro imprese nel romanzo, c’è contrapposizione tra il rifiuto a invocare l’arcivescovo e i successivi interventi dell’arcivescovo stesso, anche su don Abbondio. Nelle grandi linee, l’analisi più sintetica sopra proposta è sufficiente. 3.7.3. Chi impiantò con rigore lo studio dei motivi fu uno studioso abbastanza vicino ai formalisti, e cioè Propp (anche se con finalità non letterarie, ma etnografiche: individuare criteri sicuri per la classificazione delle fiabe). Egli introduce un nuovo termine, funzione, definendolo cosî: «Per furzione intendiamo l’operato d’un personaggio determinato dal punto di vista 30 B. V. TOMASEVSKIJ, Teorija literatury cit., trad. it. pp. 185-86. Slo: dpir87: * R. BARTHES, Introduction è l’analyse des récits (1966) (trad. it. in AA.vv., L’analisi del racconto, Milano 1969, pp. 18-19). La diversa importanza funzionale delle zone di un racconto è anche segnalata dalla scelta dei tempi: pet i tempi del prizzo piano e dello sfondo cfr. H. WEINRICH, Tempus cit., trad. it. p. 129. 3 Va detto d’altra parte che l’individuazione dei motivi è un momento solo della complessa strategia di TomaSevskij di fronte alla narrazione, di cui tiene anche presenti i personaggi e i loro rapporti, il tempo, la tematica, ecc. Con un procedimento di passaggio dall’empiria alla formalizzazione di cui offre esempio, già nel 1922, A. A. REFORMATSKIJ, Opyt analiza novellistiteskoj kompozicii, 1922 (trad. it. Saggio d’analisi della composizione novellistica, in «Strumenti critici»,
VII (1973), 21-22, pp. 224-43).
Segre
Testo letterario, interpretazione, storia
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del suo significato per lo svolgimento della vicenda» *. Le funzioni sono dunque i motivi visti in rapporto con lo svolgimento della vicenda. Scopo di Propp è d’individuare le invarianti dietro le variabili, di raggruppare assieme azioni che, diverse in varie fiabe, vi svolgono però la stessa funzione. La funzionalità di Propp non è dunque una funzionalità puntuale, riscontrata nel testo, ma una funzionalità generale valida per gruppi di testi a struttura analoga. Col suo sforzo imponente di unificazione, Propp è giunto a censire un numero ristretto di funzioni (31) valide per classificare tutte le azioni presenti nel suo corpus di cento fiabe di magia; corrispondentemente, e conseguentemente, ha scoperto una struttura costante in tutte le fiabe esaminate,
che dunque si differenziano prevalentemente per il tipo di azioni da cui ogni motivo è rappresentato, oltre che, eventualmente, per l’eliminazione di alcune funzioni o per l’innesto di gruppi di funzioni diversamente realizzate (essi costituiscono dei mzovimenti in più). Si deve anche notare che Propp ha tenuto presenti sia il problema dei rapporti tra motivi e intreccio, sia la possibilità di giungere a un grado di astrazione più elevato di quello delle funzioni. Quanto all’intreccio, scrive: «Tutti i predicati ci dàìnno la composizione della favola, tutti i sogge?ti, i complementi e le altre parti della frase determinano l’intreccio narrativo» ”. Dove, ricorrendo al nucleo sintattico (sopra illustrato) dei motivi, si afferma
che i predicati (cioè le azioni) dìnno la composizione della fiaba, insomma la struttura, mentre i soggetti e i complementi riguardano l’intreccio. Formula non troppo esatta, perché quelli che possono cambiare non sono i soggetti (per esempio l’antagonista invece che l’eroe), ma i loro tratti e nomi (l’antagonista può essere il diavolo o un drago o un orco o un nemico). Ma è comunque da notare che Pròpp non fa mai distinzione, a differenza dai formalisti letterari del tempo, tra fabula e intreccio, come si può capire, riflettendo che nelle fiabe non vi sono mai slittamenti cronologici o altri tipi di montaggio. Che poi la catena delle funzioni non rappresenti il tipo più semplice, irriducibile di scomposizione, è ben chiaro a Propp: Da un punto di vista morfologico possiamo definire favola qualsiasi sviluppo da un danneggiamento o da una mancanza attraverso funzioni intermedie fino a un matrimonio o ad altre funzioni impiegate a mo’ di scioglimento. A volte servono da funzioni finali la ricompensa, la rimozione del danno o della mancanza, il salvataggio dall’inseguimento ecc. Questo sviluppo è stato da noi chiamato movimento *.
Questi cenni bastano per mostrare: 1) che Propp non si proponeva di fornire strumenti di analisi letteraria, e lo dichiarò esplicitamente: tipica l’eliminazione della coppia intreccio/fabula, già apparsa cosî redditizia per i critici; 2) che l’elenco delle funzioni è valido, ed è soltanto valido, per le cento fiabe esaminate: la complementarità delle operazioni attuate per unificare i 3 v. Ja. PROPP, Morfologija skazki, 1928 (trad. it. Morfologia della fiaba, Tortino 1966, p. 27). Sulbid:prizrà % Ibid., p. 98.
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Concetti, tecniche e categorie
motivi in funzioni e la segmentazione di tutte le fiabe del corpus permette di inferire che un corpus diverso avrebbe portato a classificazioni poco o tanto differenti; 3) che il «significato per lo svolgimento della vicenda» non poneva dubbi per Propp, in base a quanto detto a 2), ma che Propp stesso riconosceva l’esistenza di altri livelli di astrazione. Idealmente, le ricerche su intreccio e fabula si muovono su livelli sovrapposti (pfi in alto l’intreccio, data la sua maggiore articolazione e specificazione; in basso la fabula, più sommaria e semplificata) che occupano una fascia intermedia tra il livello di superficie, quello linguistico (discorso) e il più profondo, quello del modello narrativo costituito di funzioni. Cosî, facendo convergere e razionalizzando i risultati ottenuti da Sklovskij, TomaSevskij e Propp, si può proporre” un modello complessivo a quattro livelli: I. II. ii. Iv.
Discorso Intreccio. Fabula. Modello narrativo.
Questo modello, già applicato e collaudato, ha anche il vantaggio pratico di rappresentare visibilmente la scala di generalizzazione (cfr. $ 3.4) a cui possono esser commisurati i dati delle analisi, e perciò di situare immediatamente le ricerche di carattere narratologico. Per le applicazioni storiografiche, si veda più avanti ($ 4.4). 3.8. Narratologia *. 3.8.1. Il metodo applicato da Propp è valido all’interno di un sistema di dati e di un preciso programma di analisi. Era naturalmente fortissima la tentazione di applicarlo ad altri testi e tipi di testi narrativi, di promuoverlo a schema generale della narrazione. Tentazione che avrebbe dovuto essere rifiutata: non solo il corpus di Propp è molto limitato, ma è composto di racconti oggettivamente simili, sicché la facilità di ridurli a uno schema unitario non deve ingannare sulla possibilità reale di giungere a un modello generale di tutte le narrazioni. L'impegno speculativo speso in questi sforzi di validazione generale del metodo di Propp è servito tuttavia a mettere in luce esigenze che dovranno in qualche modo essere soddisfatte ”. Segnaliamo ad esempio le istanze logiche enunciate da Lévi-Strauss ‘: tra le funzioni sussistono rapporti di trasformazione (il divieto è trasformazione negativa dell’ordine), possibilità di unificazione (partenza e ritorno sono i due 3 c. SEGRE, Le strutture e il tempo cit., pp. 13 sgg. À p. 15, nota 34, sono elencate altre proposte di rappresentazione dei livelli narrativi. 3 Il termine è stato coniato da Todorov, per designare lo studio funzionale delle narrazioni. 3 Un’analisi critica più ampia in c. sEGRE, Le strutture e il tempo cit., cap. 1. Si veda anche l’esposizione di T. A. VAN DIJK, Sorze Aspects of Text Grammars cit., II, vi. 4° Cfr. c. LÉvi-strauss, La struttura e la forma, nell’edizione italiana di v. JA. PROPP, Morfologija cit., pp. 163-99.
Segre
Testo letterario, interpretazione; storia
IOI
estremi di una funzione sola, separazione), e cosi via. Su questa base Greimas ha ridotto la lista di Propp da 31 a 20 funzioni ‘“. Sempre Lévi-Strauss ha segnalato la scomponibilità dei termini che designano le funzioni in elementi sèmici più semplici: ciò permetterebbe di collegare tra loro funzioni che contengono dei sèmi in comune, e perciò di ordinare idealmente la serie di funzioni riscontrate in un racconto non solo orizzontalmente, in un nesso paradigmatico, ma anche verticalmente (mettendo in corrispondenza funzioni con sèmi comuni), in un nesso sintagmatico.
Ci si deve insomma rendere conto che Propp non ha chiuso il problema, ma lo ha solo, e magistralmente, posto. Le estrapolazioni delle analisi proppiane ad altri testi, e in particolare a testi letterari, sarebbero da rifiutare per la loro inadeguatezza, già indicata da Propp stesso; ma lo sono anche per un motivo più grave: che assumono i termini con cui Propp designa le funzioni senza tener conto dei personaggi che soli, secondo Propp, possono esser sog-
getti dei predicati indicati con quei termini. Per esempio: investigazione equivale, per Propp, a «l’antagonista tenta una ricognizione»; mediazione equivale a «la sciagura o mancanza è resa nota; ci si rivolge all’eroe con una preghiera o un ordine, lo si manda o lo si lascia andare » ‘*. Se applichiamo, come hanno fatto spesso improvvidi proppiani, investigazione ad atti compiuti da persone diverse dall’antagonista, o #zediazione ad atti che non riguardino l’eroe, tutto il sistema di Propp crolla. È infatti un sistema in cui praticamente esiste un solo soggetto, l’eroe, e un antisoggetto, l’antagonista, che accapar-
rano gran parte delle azioni possibili: ben diversamente, tra l’altro, da quanto accade nella narrativa letteraria. 3.8.2. Pare durfque evidente che si potranno delineare altri elenchi chiusi di funzioni solo in rapporto con un corpus dato e con l’individuazione di una arci-trama, riscontrabile in tutti i componenti il corpus. D'altra parte, ai fini dell’analisi letteraria questa massima scarnificazione è meno produttiva che non analisi più vicine alla superficie del discorso, insomma all’intreccio e alla fabula. Importante è soprattutto decidere in partenza a che livello compiere l’analisi, cosa che invece non viene mai fatta. Esiste, come ho sottoli41 Cfr. A. J. GREIMAS, Sémantique structurale cit., trad. it. pp. 192-203. 4 v. JA. PROPP, Morfologija cit., trad. it. pp. 34, 42. 43 Si basa su un corpus preciso E. DORFMAN, The Narreme in the Medieval Romance Epic. An Introduction to Narrative Structure, Manchester 1969, che chiama narrezzi le unità narrative individuate. Si tratta però di episodi complessi ricorrenti nel suo corpus (l’insulto, il tradimento, l’atto eroico, ecc.), non individuati con criteri funzionali, ma solo come segmenti contenutistici. Lo stesso si può dire per M. FANTUZZI, Meccanismi narrativi nel romanzo barocco, Padova 1975, che, appunto per questo impianto descrittivo, è un utile repertorio tematico del romanzo barocco (in particolare di G. F. Biondi e G. Brusoni). Due sfere, amore e rapporti buono-cattivo, contengono le varie fasi e tipi possibili (per esempio il repertorio di impedimenti alla riuscita dell’unione amorosa). Pit prossimo agli schemi di Bremond è M. rRoMANO, La scacchiera e il labirinto. Struttura e sociologia del romanzo barocco, in «Sigma», nuova serie, X (1977), 3, pp. 13-72. Interessantissimo il tentativo di individuare e gerarchizzare le varianti di un dato tema poetico entro un corpus di poesie tematicamente affini, con «alberi» di possibilità alternative: A. GARCIA BERRIO, Una tipologia testuale di sonetti amorosi nella tradizione classica spagnola, in «Lingua e stile», XV (1980), 3,
PP. 451-78.
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Concetti, tecniche e categorie
neato ($ 3.3), una scala di generalizzazione su cui si pongono gli studi sinora fatti e tutti quelli avvenire: la necessità di tener conto di questa scala nelle analisi «al di sopra» dell’intreccio risulta già da quanto osservato qui sul primo capitolo dei Promessi sposi; la possibilità di applicarla anche «al di sotto» del livello delle funzioni è già avvertita, si è visto, da Propp. Tra gli esempi di massima generalizzazione segnalo quello di Labov e Waletzky *, in 5 punti (Orientation, Complication, Evaluation, Resolution,
Coda), puramente formale perché aperto a qualunque contenuto semantico; e quello di Bremond ‘ che, arieggiando la frase citata di Propp, passa da un miglioramento da ottenere a processi di miglioramento a miglioramento ottenuto o non ottenuto; oppure da un peggioramento prevedibile a processi di peggioramento a peggioramento prodotto o evitato: qui il contenuto seman-
tico resta ancora non nominato, ma si indica il segno positivo o negativo dei valori in gioco. È poi da vedere se tutte e tre le fasi indicate da Bremond siano effettivamente realizzate, o se qualcuna non resti implicita. L’elemento semantico ha grande importanza nell’impiego descrittivo della scala di generalizzazione. Quando Propp unificava sotto un solo termine azioni diverse, non era guidato da motivi semantici, ma dal tipo di funzionalità: azioni diversissime potevano stare sotto la stessa etichetta per l’identità della funzione compiuta: era dunque il paradigma narrativo a condizionare la designazione delle funzioni. Ma se si vuole designare un’azione in termini generali, senza però richiamarsi a un corpus, il problema semantico, di carattere estensionale, s'impone: si tratta di trovare un lessico minimo di sostantivi che comprendano il massimo possibile di (o magari tutte le) azioni narra4 Cfr. W. LABOV e J. WALETZKY, Narrative Analysis: Oral Versions of Personal Experience, in J. HELM (a cura di), Essays în the Verbal and Visual Arts, Seattle-London 1973”, pp. 12-44. Il rapporto in atto fra queste parti è rappresentabile con questo schema:
Pattendo dalla freccia della contemporaneità, s'incontra prima l’oriertation, cioè l’assieme di notizie d’inquadramento (luogo, tempo, situazione, ecc.), poi la comzplication, assieme di eventi che mutano la situazione iniziale; l’evaluation rivela, al culmine del racconto, l’atteggiamento del narratore verso la narrazione, sottolineando le unità narrative determinanti, ed è in genere seguita dalla resolution; la coda segna lo stacco dei fatti narrati dalla contemporaneità, e perciò nel disegno ritorna alla freccia. Elemento costitutivo è dunque la complication (con cui l’orientation si può fondere), connessa di norma con l’evaluation; viene sentito come completo un racconto se ha anche la resolution. Abbiamo insomma una costruzione che può essere più o meno complessa. 4 Cfr. c. BREMOND, La logique des possibles narratifs (1966) (trad. it. in AA.vv., L'analisi del racconto cit., pp. 97-122). È invece completamente asemantico il modello proposto da G. PRINCE, A Grammar of Stories: An Introduction, The Hague - Paris 1973, che permette sî di sintetizzare (con formule logiche, ma secondo un modello generativo) qualunque fabula o intreccio, però senza denominare le azioni e gli eventi. Cfr. pure m., Aspects of a grammar of narrative, in « Poetics Today», I (1980), 3, pp. 49-63; 1n., Narratology. The Form and Functioning o Narrative, 1982 (trad. it. Parma 1984). Un’altra notevole sistemazione generale propone 6. GENOT, Grammaire et récit. Essai de linguistique textuelle, Nanterre 1984.
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bili, e che le indichino allo stesso livello di astrazione. Ciò che è reso arduo dalla diversa‘abbondanza di suddivisioni dei campi lessicali di qualunque lingua naturale, e dalle connotazioni che si sono storicamente depositate su ognuno dei termini. 3.8.3. Mostreremo questi problemi, e quelli dell’analisi dell’intreccio, confrontando tre diverse analisi della novella di Andreuccio (Decazeron, II, 5). Avverto solo che quasi tutte le analisi narratologiche restano al livello dell’intreccio o della fabula, anche quando si rifanno a Propp, e anche quando usano la terminologia di Propp; vi mancano infatti le due condizioni che giustificherebbero il richiamo a un «modello narrativo»: il corpus e l’arcifabula. Analizzando la novella col metodo di Propp, non si è riusciti a ottenere che questo schema: (situazione iniziale: nome e condizione del protagonista 3); allontanamento: Andreuccio si reca a Napoli 3; divieto: non si dovrebbe mostrare il proprio 4 Utilizzo con qualche modifica, per le analisi alla Propp e alla Todorov, l’elegante esercizio attuato da A. ROSSI, La combinatoria decameroniana: Andreuccio, in «Strumenti critici», VII (1973), 20, DD. I-5I. Elenco alcuni lavori, non citati nelle altre note, di analisi della narrazione su autori italiani. Moltissimi gli studi narratologici su novelle del Decameron, elencati in G. BoccACCIO, Decameron, a cura di C. Segre, Milano 1984, pp. 18-19. Su Boccaccio e su altri novellieri cfr. pure M. OLSEN, Les transformations du triangle érotique, Kobenhavn 1976; 1n., Amore, virtù e potere nella novellistica rinascimentale. Argomentazione narrativa e ricezione letteraria, Napoli 1984. Sui Reali di Francia: A. pAsquALINO, Per un'analisi morfologica della letteratura cavalleresca: I Reali di Francia, in «Uomo e cultura», III (1970), pp. 76-194. Sul Furioso: L. PAMPALONI, Per una analisi narrativa del «Furioso», in «Belfagor», XXVI (1971), pp. 133-50; P. ORVIETO, Differenze «retoriche» fra il « Morgante»
e il «Furioso».
(Per un’interpretazione
narratologica del «Furioso»),
in c. SEGRE (a cura di), Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione, Milano 1976, pp. 157-73; C. P. BRAND, L’entrelacement nell l’« Orlando Furioso», in «Giornale storico della letteratura italiana», CLIV (1977), PD. 509-32; G. DALLA PALMA, Le strutture narrative dell’« Orlando Furioso», Firenze 1984. Sull’Adone del Marino: G. POZZI, Guida alla lettura, nell'edizione da lui curata di G. MARINO, Tutte le opere, II. L’Adone, Milano 1976, t. II, pp. 11-140. Su Manzoni: F. FIDO, Per una descrizione dei «Promessi Sposi»: il sistema dei personaggi, in «Strumenti critici», VIII (1974), 25, PD. 345-51; B. TRAVI, commento ad A. MANZONI, I promessi sposi, Milano 1981. Su Collodi: c. GENOT, Analyse structurelle de « Pinocchio», Firenze 1970. Su Verga: A. LANCI, I Malavoglia. Analisi del racconto, in «Trimestre», V (1971), pp. 357-408; G. BALDI, Ideologia e tecnica narrativa in «Rosso Malpelo», in «Lettere italiane», XXV (1973), 4, pp. 507-30; R. LUPERINI, Verga e le strutture narrative del verismo. Saggio su «Rosso Malpelo», Padova 1976; A. MARCHESE, Le retamorfosi del racconto (con un riscontro verghiano) (1980), in Introduzione alla semiotica della letteratura cit., pp. 251-77; G. DALLA PALMA, Per Verga e D'Annunzio: modelli narrativi e lettura delle fonti in «Rosso Malpelo» e «Dalfino», in «Strumenti critici», XVI (1982 [ma 1984]), 49, PD. 221-45; A. L. LEPSCHY, Narrativa e teatro fra due secoli. Verga, Invernizio, Svevo, Pirandello, Firenze 1984. Su Svevo: M. LAVAGETTO, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Torino 1975; T. DE LAURETIS, La sintassi del desiderio. Struttura e forme del romanzo sveviano, Ravenna 1976. Su Tozzi: A. Rossi, Modelli e scrittura di un romanzo tozziano: Il Podere, Padova 1972. Su Pirandello: A. MARCHESE, Il fu Mattia Pascal. Anatomia d’un romanzo (1974), in Introduzione alla semiotica della letteratura cit., pp. 307-37. Su Gadda: A. cECccARONI, Per una lettura del « Pasticciaccio» di C. E. Gadda, in «Lingua e stile», V (1970), 1, pp. 57-85. Su Vittorini: F. BIANCONI BERNARDI, Parola e mito in «Conversazione in Sicilia», ibid., I (1966), 2, pp. 161-90; E. CASTELLI, Elio Vittorini y las tres versiones de su novela « Le donne di Messina», in AA.vv., Actas de la semana de Cultura italiana, Mendoza 1972, pp. 189-227. Su Elsa Morante: 6. rIccI, L'isola di Arturo. Dalla storia al mito, in «Nuovi Argomenti», nuova serie, n. 62 (1979), pp. 237-75; ID., Tra Eros e Thanatos: storia di un mito mancato, in «Strumenti critici», XIII (1979), 38, pp. 126-68. Sulla letteratura popolare e poliziesca cfr. u. Eco, Il Superuomo di massa. Studi sul romanzo popolare, Milano 1976; I. CROTTI, La «detection» della scrittura. Modello poliziesco ed attualizzazioni allotropiche nel romanzo del novecento, Padova 1982.
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Concetti, tecniche e categorie denaro 3; infrazione: Andreuccio mostra il suo denaro 3; investigazione: madonna Fiordaliso s’informa su Andreuccio 7; delazione: madonna Fiordaliso apprende queste informazioni 8; frazello: madonna Fiordaliso cerca d’ingannare Andreuccio 9; connivenza: Andreuccio cade nell’inganno 14; danneggiamento: Andreuccio viene derubato da madonna Fiordaliso; marchiatura: Andreuccio è insozzato dalle feci 38; ritorno del protagonista: Andreuccio rientra in albergo 55; prima funzione del donatore: i ladri propongono la spartizione dell’anello del vescovo 63; persecuzione: Andreuccio è abbandonato nel pozzo 68; salvataggio: Andreuccio trasformato in apparizione diabolica 69; prizza funzione del donatore: come sopra 70; reazione dell’eroe e conseguimento del mezzo magico: Andreuccio s’impossessa dell’anello e inganna i ladri; persecuzione: Andreuccio è rinchiuso nell’arca 78; salvataggio: Andreuccio esce e sembra 100 000 diavoli al prete e ai complici 83; ritorzo: Andreuccio torna a Napoli 85.
Di Propp, in realtà, rimangono solo i nomi delle funzioni. Ma l’ordine delle funzioni è violato (la marchiatura non può precedere la funzione donatore; la persecuzione deve seguire la rimozione della mancanza e il ritorno dell’eroe, e precedere il compito difficile: tutte funzioni che qui‘:mancano) e la loro designazione assai debole: mostrare il denaro è un’imprudenza, non l’infrazione di un divieto; l’anello non è un mezzo magico; è forzata la designazione della caduta nel cesso come marchiatura; vengono chiamati persecuzione prima un atto d’egoismo, poi una vendetta. Non si scorge l’arci-fabula di Propp, e viene gravemente deformato il racconto del Boccaccio, di cui sfuggono i tratti determinanti. 3.8.4.
Seguendo Todorov, si otterrebbe qualcosa di questo genere:
XA+Y-B=(X-A)ott.Y=> Ya=> X(YC)+Yb+Y-C3 X-A+ (XA) ott. X+(XA > Xb) cond. Z+X- A' > Xa” > XA'+ (XcZ) ott. X3
ZcX > X- A+ XA > Xa” > XA' + Xa,
dove i simboli in gioco sono X= Andreuccio; Y = Fiordaliso; Z= i due ladri; A = ricco; A' = salvo; B = felice; C = sorella; a = modificare; b = rubare; c= punire; ott. = ottativo; cond. = condizionale; X (...) = falsa visione per X; + successione; > implicazione; — negazione. Ne risulta una serie di successioni (+) e implicazioni (>), quasi indifferenziata dato che le azioni possibili son solo tre (modificare, rubare, punire), e i risultati possono solo essere il mantenimento o la perdita di quattro condizioni (ricco, salvo, felice, fornito di sorella). In complesso lo schema di Todorov è più duttile di quello pseudo-proppiano; e ha il vantaggio di tener conto delle modalità (ottativo, ecc.); infine è aperto all’indicazione degli attributi. Per contro, riduce in modo arbitrario le possibilità semantiche dei verbi, e riporta ogni criterio di valutazione all’opposizione troppo vaga positivo-negativo. Cosî la storia si riduce a una successione poco significante in cui rubare, seguito o no da purire, alterna con
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l’ampia classe dei mutamenti di situazione. In breve, ciò che Todorov guadagna nell’indicazione dei valori lo perde nella descrizione delle azioni. 3.8.5. E veniamo a Bremond. Con ogni probabilità, egli vedrebbe nella nostra novella tre fasi: stato iniziale — stato modificato — restaurazione dello stato iniziale. In sostanza, avremmo un processo di peggioramento (perdita
dei 500 fiorini), seguito da un processo di miglioramento (conquista dell’anello da 500 fiorini) che riporta Andreuccio allo stato iniziale. Entro la terza fase, s'inseriscono due processi di peggioramento (abbandono nel pozzo; abbandono nell’arca) che però non si compiono. Nel suo ultimo modello ‘’, Bremond tiene anche conto della posizione attiva o passiva dei personaggi. Avremo allora, nella prima sequenza, madonna Fiordaliso che si presenta come agente miglioratore ad Andreuccio paziente; nella seconda, la donna si rivela agente frustratore e peggioratore; nella terza, agente è Andreuccio, spinto da consiglieri (i due ladri) a intraprendere un processo di miglioramento (con-
quista dell’anello); i consiglieri si fanno ostruttori e peggioratori abbandonando due volte Andreuccio in difficoltà (cioè in vista di un inatteso peggioramento).
Il modello di Bremond è da un lato più duttile (l’analisi qui abbozzata aderisce sufficientemente al racconto boccacciano), dall’altro più armonico, anche per la possibilità di conciliare analisi a vario livello (qui, quella in tre fasi e l’altra che suddivide l’ultima fase). Anche notevole in Bremond la tabulazione finale, che per ogni fase del racconto individua, oltre al processo, che sarebbe la funzione vera e propria, l’agente e il paziente del processo stesso, nonché la sintassi dei processi (successione, simultaneità, causalità, implicazione), la loro fase (eventualità, attualizzazione, effettività) e la volizione
da parte dell’agente. Quanto al nostro problema, la scala di generalizzazione, balza all’occhio
la contraddizione tra i personaggi, nominati come nei testi, dunque nella loro individualità, e le funzioni, tenute a un altissimo grado di astrattezza. Ci tro-
viamo in un universo dove i risultati di tutte le azioni rientrano in due grandi categorie, miglioramento e peggioramento, e i personaggi non possono es-
sere che agenti o pazienti. Nella nostra novella, che pure non fa appello a troppo grandi sottigliezze, non si possono distinguere i diversi tipi di miglioramento desiderati da Andreuccio e Fiordaliso: soddisfacimento sessuale e possesso di denaro; né si può tener conto del fatto che il miglioramento di Andreuccio sarebbe stato senza danno per la donna, se consenziente, mentre quello della donna implica la spoliazione di Andreuccio. Difficile registrare la concomitanza dei due desideri; peggio per la concomitanza in uno stesso personaggio, come quando i ladroni, dapprima rziglioratori, si trasformano in potenziali peggioratori, per paura nel caso del pozzo, per vendetta in quello dell’arca. La tabulazione di Bremond potrebbe registrare il cambiamento, ma spezzettando troppo l’azione e rendendola incomprensibile. 47 Cfr. c. BREMOND, Logigue du récit, 1973 (trad. it. Milano 1977).
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3.8.6. La strada aperta da Bremond è comunque la pit agevole per ulteriori progressi nella formalizzazione; mentre appare impraticabile per uno studio dell’intreccio e della fabul4, nei quali occorre che gli oggetti di desiderio (denaro, potere, accoppiamento, ecc.) e le azioni vengano nominati. Anche quando si miri alla massima semplificazione della trama (accettando da Propp e Bremond le indicazioni sulla possibilità di tracciare schemi compositivi più e meno sommari), per lo studio della letteratura saràì.sempre più proficuo mantenere l’esplicitezza degli oggetti e delle azioni, anche se con termini della massima estensione. Lo schema base del romanzo alessandrino sarà dunque: promessa di matrimonio + traversie ritardatrici (= ostacoli da eliminare -> eliminazione degli ostacoli + ostacoli eliminati) + matrimonio, piuttosto che miglioramento da ottenere + processo di miglioramento (ostacoli da eliminare > eliminazione degli ostacoli+ ostacoli ‘eliminati) + miglioramento ottenuto;
nel secondo schema entrerebbe più di metà della narrativa esistente, senza vantaggi conoscitivi, mentre nel primo si può cogliere un filone preciso, che comprende, tra l’altro, la storia di Ruggiero e Bradamante nel Furioso e la vicenda dei Promessi sposi. La produttività di schematizzazioni di questo genere è già attestata da numerose ricerche, sia per individuare fonti precise, sia per cogliere la persistenza di strutture narrative archetipe, sia per illustrare le trasformazioni apportate a un tema nel suo riutilizzo. Cito come esempi lo studio di Ruffinatto su una «catena» teatrale che congiunge Cervantes a Lope de Vega e questo a quello; o quanto ho già osservato altrove su rassomiglianze e differenze tra Eliduc di Maria di Francia e Ille et Galeron di Gautier d’Arras ‘*, o sulle riprese di Lope de Vega dal Novellino e dal Boccaccio, o sulle fonti delle novelle del Boccaccio. Anche più suggestive le ricerche su archetipi narrativi: lo schema dell’Alexandreis di Gautier de Chatillon nel canto di Ulisse della Comzzedia (Inf., XXVI) e il tema dell’età dell’oro da Virgilio e Ovidio a Dante; la persistenza del modello delle vite e passioni di sante nella Justine di Sade ‘, e cosî via. Pure attraente la proposta di vedere nell’immersione di Andreuccio nel poz4 Cfr. A. RUFFINATTO, Funzioni e variabili in una catena teatrale. Cervantes e Lope de Vega, Torino 1971; c. sEGRE, Le strutture e il tempo cit., capp. 1 e Iv; 1n., Seziotica filologica cit. > cap. VII. ‘° Cfr. D'A. S. AVALLE, L’ultimo viaggio di Ulisse, in «Studi danteschi», XLIII (1966), pp. 35-68; In., Modelli semiologici nella Commedia di Dante, Milano 1975; 1n., Da Santa Uliva a Justine, in A. N. VESELOVSKIJ e D.-A.-F. DE SADE, La fanciulla perseguitata, a cura di D’A. S. Avalle, Milano 1977, pp. 7-33.
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zo un simbolo di purificazione, e in tutta la sua vicenda una storia di ini-
ziazione *.
Ciò che va sempre tenuto presente è che la denominazione degli elementi da considerare e l’individuazione di rapporti è momento essenziale dell’atto critico, e perciò può, deve avvenire al livello di generalità e di aderenza di volta in volta più opportuno (utilissima, anzi, la scelta di più di un livello per momenti diversi dell’analisi). Come dice acutamente Lotman: Nel testo l'avvenimento è il trasferimento del personaggio oltre i confini del campo semantico. Da ciò deriva che neanche una descrizione di qualche fatto o di qualche azione nei loro rapporti col denotato reale o col sistema semantico della lingua naturale, può essere definito avvenimento o non avvenimento, prima che sia risolta la questione del suo posto nel campo semantico-strutturale secondario, definibile dal tipo di cultura. Ma questa non è ancora una soluzione definitiva: entro i limiti di uno stesso schema culturale, lo stesso episodio può diventare o no avvenimento, a seconda dei diversi livelli strutturali ai quali si trova. Ma per il fatto che si verificano sia un ordinamento semantico generale del testo sia ordinamenti locali, ognuno dei quali ha un proprio limite concettuale, l'avvenimento si può realizzare come successione di avvenimenti appartenenti a piani particolari, dalla catena di avvenimenti si ha l’intreccio. In questo senso quello che a livello del testo culturale costituisce un avvenimento, in un altro testo reale può diventare l’intreccio, cioè la stessa sequenza invariata di avvenimenti può essere sviluppata in una serie di intrecci a diversi livelli. Presentando a livello superiore un elemento dell’intreccio, si può variare la quantità di anelli della catena in dipendenza dal livello di sviluppo del testo ”.
È un brano importantissimo. Anzitutto per la definizione dell’4vvenizzento (azione, nella terminologia adottata qui). Richiamandosi al campo semantico, Lotman enfatizzà il fatto che le azioni narrative sono avvenimenti solo perché fanno parte di un testo, con i suoi campi semantici; e sono avvenimenti solo in relazione con i campi semantici stessi. Di qui la conseguenza che non conta l’importanza «reale» dell’azione, per farne un avvenimento, ma le sue conseguenze sui movimenti di uno o più personaggi tra l’uno e l’altro campo semantico. Naturalmente Lotman vede i campi semantici di un’opera come un modello del mondo: modello immobile, sinché non interviene l’intreccio, che è «l’elemento rivoluzionario» rispetto al quadro del mondo; pertanto «il movimento dell’intreccio, cioè l’avverizzento, è il superamento del limite proibito sostenuto dalla struttura senza intreccio. Lo spostamento dell’eroe all’interno dello spazio a lui assegnato non costituisce un avvenimento» ”. Lotman rinunzia dunque alle connessioni fondate sulla rassomiglianza tra le azioni narrate e quelle reali e i loro nessi (cfr. $ 3.10); insiste invece su connessioni basate su rapporti semantici, e tali da mettere in crisi, o da confermare, il modello del mondo. Poiché d’altro canto i campi semantici sono fortemente stratificati, lo stesso episodio va considerato avvenimento 5° Cfr. A. rossI, La combinatoria cit. 51 JU. M. LOTMAN, Struktura cit., trad. it. p. 276.
5 Ibid., p. 281.
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(azione) in rapporto con un dato livello semantico-strutturale, mentre può esser considerato solo come componente di un avvenimento più ampio, in rapporto con un livello più alto. Si può dunque individuare in un testo narrativo un intreccio le cui azioni sono a loro volta interpretabili come un completo intreccio, e cosî via, con un progressivo diramarsi di rapporti sintagmatici a forma di albero capovolto. È allora lecito, anzi necessario formulare e attuare più programmi di segmentazione, cosî da cogliere i nodi dell’azione a pit livelli, che di norma s’integrano. Ciò non significa che esistano più causalità: significa che il tipo di causalità in azione nel testo letterario è diverso da quello delle scienze naturali. Già Barthes notava che nelle narrazioni si generalizza una specie di post hoc ergo propter hoc: molte volte una successione di eventi viene interpretata causalmente per il nostro istinto (condiviso e sfruttato dallo scrittore) a spiegare ciò che a rigore non è spiegabile. Inoltre, nei fatti umani si presentano spesso: 4) causalità di natura psicologica, dunque non da evento a evento, ma da pensiero a evento; 2) causalità plurime, ben note agli scrittori esperti. Infine, va ricordato che nell’analisi narratologica i moventi o non vengono presi in considerazione, o vengono necessariamente semplificati. È abbastanza per spiegare perché in uno stesso testo si possono indicare plausibilmente più catene di eventi. 3.8.7. Ma si sarebbe anche dovuto riflettere sulla diversa combinazione di eventi nell’intreccio e nella fabula. Spesso, se certi fatti vengono resi noti al lettore molto più tardi del loro realizzarsi, è perché anche nella realtà dell’invenzione essi erano ignoti ai protagonisti e i loro effetti rimasero sotterranei, o agirono in ritardo: insomma un post hoc ignorato impedi l’azione di un propter hoc. E spesso è la necessità di concludere un racconto in un certo modo che produce un determinato allineamento di eventi dalla consequenzialità tutt'altro che rigorosa. In generale, c’è da meditare sulle riflessioni del Culler, a proposito della priorità delle «domande di significazione » rispetto alla trama, e della struttura tematica rispetto a quella dei contenuti, sicché la fabula potrebbe esser considerata «non come la realtà riferita dal discorso ma come il suo prodotto». In complesso, secondo Culler, «si potrebbe dimostrare che ogni testo narrativo opera in conformità a questa doppia logica, presentando il suo plot come una sequenza di eventi anteriori e indipendenti dalla prospettiva conferita a questi eventi, e nello stesso tempo suggerendo mediante le sue implicite pretese alla significanza che questi eventi sono giustificati dalla loro appropriatezza a una struttura tematica» ”. La conclusione dev'essere che la fabula non va letta solamente nella sua linearità (l'andamento da sinistra a destra è un diagramma 5 J. cuLLER, Fabula and sjuzhet in the analysis of narrative, in «Poetics Today», I (1980), 3, p. 32. Affini le osservazioni di M. RIFFATERRE, La production du texte, Paris 1979, pp. 153-62: la struttura tematica può prevalere su quella narrativa. Ma il privilegio dato all’azione è di carattere logico più che artistico (cfr. $ 3.10).
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della successione temporale), ma anche in senso retrogrado, dato che nell’invenzione cause ed effetti coesistono, e non è raro che l’effetto determini la causa. Il modello narrativo è insomma un modello acronico: si è visto che ogni schema sintagmatico può essere spezzato e incolonnato verticalmente, per affinità semiche (cfr. $ 3.8.1); che in ogni elemento del sintagma si può vedere la condensazione di un intero sintagma a misure più ridotte (cfr. $ 3.7.2.); ora, infine, che il sintagma va letto, oltre che da sinistra a destra, da destra verso sinistra. Tutto questo ci porta alla dialettica tra una realtà fittizia, messa in forma dall’autore, e i procedimenti di presentazione di questa stessa realtà. Ed è proprio pet rendersi conto di questa dialettica che può giovare la considerazione degli eventi come se fossero soggetti alle leggi della realtà. Allora fabula e intreccio saranno il modo più spoglio, e dichiaratamente sommario, di rappresentare eventi che in realtà il testo ci presenta con complessità, sfumature e sagge reticenze, imitando il modo mai totalmente limpido del nostro esperire i fatti della vita (cfr. $ 3.13). 3.9. Narrazione, descrizione, motivazioni. La coerenza narrativa è dunque affidata, in buona parte, al concatenarsi delle azioni. Altra cosa la coerenza dei comportamenti di cui le azioni fanno parte: perché in questo caso sono in gioco da un lato una eventuale verisimiglianza psicologica, dall’altro, e più importante, l'impegno dello scrittore a motivare comportamenti che sono spesso anomali (se non, in sé, poco verisi-
mili), dato che le narrazioni hanno spesso per oggetto l’inconsueto, il madornale, l’inatteso. a Si tratta di problemi tutt'altro che urgenti per Propp, data la mancanza o la embrionalità di psicologia nei personaggi di fiaba, ma che furono sentiti e variamente affrontati da coloro che cercarono di applicare analisi narratologiche a testi letterari. Todorov e Bremond, per esempio, tengono conto del sistema di valori vigenti entro il testo, e del tipo di volontà investito dai personaggi nell’azione (cfr. $ 3.8.4-5). Ciò di cui non sempre ci si rende conto, è che già nel modo in cui un’azione è denominata al momento dell’analisi, essa viene connotata in un senso valorativo, che è per lo più quello del mondo realizzato nel testo, ma non senza partecipazione da parte dell’analista (azioni come ingannare, tradire, derubare ecc. sono già marcate secondo la morale generale, e nostra, ma con conseguenze imbarazzanti quando queste azioni sia-
no per qualche motivo giustificate e persino approvate dalle particolati situazioni descritte o dal tipo di testo). Non c’è dubbio che le motivazioni, generali e particolari, dirette e indirette, causanti e condizionanti, saranno molto più ardue da formalizzare che non le azioni. Ma si può tentare di arrivare a formalizzazioni che di esse non siano ignare. E si è già tentato. In pratica si tratta di far convergere analisi come quelle descritte al paragrafo 3.1, con analisi come quelle descritte a 3.7:8.
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Ricorderò almeno i tentativi esperiti in ambito greimasiano, in particolare da Rastier, che analizza in un sistema di opposizioni quelli che chiama «contenuti investiti», cioè l’assieme dei valori sociali e individuali nel cui quadro s'inseriscono le azioni dei personaggi, e mostra la correlazione tra i valori-riconosciuti e le attitudini mediante le quali si cerca di realizzarli o di avversarli ”. E ricorderò sul versante della fiaba l’impegno di Meletinskij a portare nell’analisi delle funzioni opposizioni relative alla condotta collettiva o individuale, corretta o scorretta (nella valutazione culturale) delle azioni, e altre opposizioni di carattere semantico, specialmente topologico ”. Meno grave il problema della descrizione, dato che essa non ha responsabilità decisive nell’organizzazione del narrato, ma altrettanto difficile, anche per la mancanza di una griglia pseudo-oggettiva, come quella che collega eventi e azioni, o comportamentale, come quella delle motivazioni. La descrizione, anzi, mette in atto una temporalizzazione arbitraria, quando elementi compresenti vengono passati in rassegna con un ordine che è affidato alla scelta dello scrittore (sia pure parzialmente convenzionale: andamenti lineari dall’alto al basso, da sinistra a destra, da vicino a lontano, ecc., o viceversa; andamenti circolari, ellittici, ecc.). Le poche prove esistenti promettono risultati interessanti”. 3.10. Narratologia e realtà. Lo sforzo d’individuare gli eventi e le azioni si è esplicato nei vari modi qui accennati, alla ricerca di un rigore formale che dovrebbe rivelare senza incertezze le strutture della narrazione. Ma poiché la narrazione è, prevalentemente, narrazione di eventi, si può anche tentare l’uso della realtà come misura, o conferma, dei contenuti narrati: alla catena degli eventi narrati (reali o immaginari, ma sempre simili al reale) è certo omologa (in modi da precisare) quella della narrazione. Questo progetto costituisce solo in apparenza una valorizzazione del referente (che la linguistica tende a escludere dalla sua considerazione): perché % Cfr. F. RASTIER, Les miveaux d’ambiguité des structures narratives, in «Semiotica», IV (1971), 4, pp. 289-342; In., Idéologie et théorie des signes, La Haye - Paris 1972. ® Cfr. E. M. MELETINSKIJ, L’étude structurale et typologique du conte, in appendice a v. JA. pRoPP, Morfologija cit. (trad. franc. Morphologie du conte, Paris 1970°, pp. 201-54); E. M. MELETINSKIJ, S. JU. NEKLJUDOV, E. S. NOVIK e D. M. SEGAL, Problemy strukturnogo opisanija voltebnoj skazki, 1969, pp. 86-135 (trad. it. Problemi di descrizione strutturale della fiaba di magia, in La struttura della fiaba, Sellerio, Palermo 1977). % Cfr. per esempio PH. HAMON, Qu’est-ce qu’une description? (1972) (trad. it. in Serziologia lessico leggibilità del testo narrativo, Parma 1977, pp. 53-83); m., Introduction è l’analyse du descriptif, Paris 1981; M. LIBORIO, Problèmes théoriques de la description, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Studi nederlandesi, studi nordici», XXI (1978), pp. 315-33; J. M. BLANCHARD, T'he eye of the beholder: on the semiotic status of paranarratives, in «Semiotica», XXII (1978), 3-4, pp. 235-68; J. GARVEY, Characterisation in narrative, in « Poetics », VII (1978), 1, pp. 68-78; AA.vv., IL paradosso descrittivo. Atti del V Congresso italiano di studi scandinavi, numero monografico di «Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Studi nederlandesi, studi nordici», XXIII (1980); J. KrrTAY (a cura di), Towards a Theory of Description, numero monografico di « Yale French Studies», n. 61 (1981).
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il termine di confronto non è la realtà, sul cui statuto si continua a discutere, ma il nostro modo di sezionarla e nominarla, che è già operazione linguistica e tematica (cfr. $ 3.4). Nel narrare, si ricorre necessariamente agli stessi stereotipi con i quali percepiamo, interpretiamo e diciamo gli avvenimenti quotidiani. La «teoria dell’azione», particolarmente sviluppata da George Henrik von Wright ”, cerca appunto di definire (usando griglie logiche) i tipi di eventi possibili, le azioni umane e le loro connessioni, i fini e i risultati individuabili: insomma proprio quei dati che i narratologi hanno indicato come elementi portanti della narrazione, collegandoli con i medesimi nessi temporali e causali che l’uomo attribuisce alla realtà. Recentemente trasferita nell’ambito narratologico *, la teoria lega i concetti di evento e di stato (l’evento è un cambiamento da uno stato all’altro in
un dato momento) e distingue l’evento-processo dall’evento-azione (con soggetto umano). Coniugata con le varie logiche modali, la teoria dell’azione propone precise classificazioni per lo studio delle funzioni narrative. In un sistema aletico, si avranno espressioni di possibilità, impossibilità e necessità; in
un sistema deontico, di permissione, proibizione ed obbligo; in uno assiologico, di bontà, cattiveria e indifferenza; in uno epistemzico, di conoscenza, ignoranza e credenza, e cosî via. I nessi tra funzioni, che già Lévi-Strauss e
Greimas avevano affrontato con un vaglio di ordine logico, possono essere in parte riordinati: «proibizione»-«violazione»-«punizione» sono funzioni di natura deontica; «mancanza» - «liquidazione della mancanza» sono funzioni assiologiche; «ricognizione dell’eroe» è epistemica, e cosi via. I riferimenti al reale (alle nostre descrizioni della realtà) erano del resto
risultati inevitabili per la comprensione di un qualunque testo: ci si riferisca all’«enciclopedia», cioè alla somma di conoscenze di ogni genere che rendono comprensibile un testo, o alle implicazioni logiche di qualunque asserto. Il nostro esprimerci è sempre molto ellittico, perché sappiamo che i nostri enunciati verranno facilmente interpretati dai destinatari attraverso un’immediata integrazione di tutte le implicazioni. Queste implicazioni si integrano con legami che non sono soltanto di contiguità, ma anche di carattere operativo. Enunciati attinenti a una qualunque azione sono subito riferiti, nella loro sommarietà o ellitticità, ai piani d’azione con cui verrebbe realizzata nel reale l’azione corrispondente ”. Se ho parlato di una visita a qualcuno in una città lontana, i miei accenni al viaggio, ai mezzi di comunicazione
(treno, aereo, macchina), alle azioni preparatorie
5 Cfr. c. H. von WRIGHT, Norm and Action, London 1963; In., The Logic of Action. A Sketch, in N. RESCHER (a cura di), The Logic of Decision and Action, Pittsburgh 1967, pp. 121-36; m., An Essay in Deontic Logic and the General Theory of Action, Amsterdam 1968. 5 Cfr. T. A. VAN DIJK, Philosophy of action and theory of narrative, in «Poetics», V (1976), 4, pp. 287-338; In., Text and Context cit., cap. VI; L. DOLEZEL, Narrative semantics, in «PTL. A Joutnal for Descriptive Poetics and Theory of Literature», I (1976), 1, pp. 129-51.
5° Cfr. G. A. MILLER, E. GALANTER € K. H. PRIBRAM, Plans and the Structure of Bebaviour, 1960
(trad. it. Milano 1973).
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Concetti, tecniche e categorie
(prenotazione, acquisto di biglietti, andata alla stazione, ecc.) e cosî via saranno riportati dal destinatario al pigro d'azione, e facilmente compresi °°. È anche risultata redditizia la teoria dei «mondi possibili» . Sono note a tutti le leggi e le proprietà che regolano l’andamento (empiricamente percepibile) del mondo e gli oggetti che vi si trovano. Se l’autore di un testo si adegua a queste leggi e proprietà, presentando oggetti del repertorio noto, egli dà vita a un mondo possibile che deve sottostare completamente ad esse. In altri casi, lo scrittore può mettere in essere un mondo inècui esistono oggetti diversi da quelli reali, e in cui alcune di queste leggi e proprietà non sono valide, e ne vigono altre: romanzo nero, racconto fantastico, fantascienza, ecc. La definizione delle regole vigenti in un dato mondo (letterario) tocca direttamente non solo l’assieme di «attese» del destinatario, ma soprattutto i nessi causali delle azioni, perciò la struttura dell’intreccio e della fabula ©; e insieme, naturalmente, il sistema delle implicazioni e presupposizioni. Dal punto di vista logico, poi, si è a lungo discusso se si possa parlare di vero e di falso a proposito dei personaggi letterari, mai esistiti, e delle loro azioni. Col criterio dei «mondi possibili» si può distinguere tra invenzioni che mantengono lo stato di cose del mondo reale, e invenzioni che lo modificano (e cosî si potrebbe riprendere la discussione sul concetto di mimesi). Ma esistono anche verità letterarie, l'opposizione vero-falso è applicabile pure alle narrazioni. Esiste per esempio un «patto» in base al quale il lettore accetta per vere le affermazioni del narratore, mentre sottopone a giudizio quelle dei personaggi. Si attribuisce insomma al narratore onnisciente l’«autorità di autenticazione » ©“; che è minore nel caso del narratore-personaggio o del narratore-protagonista, i quali talora esplicitano i limiti delle loro possibilità di informazione. Dolezel ripercorre cosî la tipologia dell’emittente (cfr. $ 1. 4-5), illustrando la varia posizione dei testi rispetto ai valori di verità, e in particolare la fortuna novecentesca di testi volutamente privati di qualunque «autorità di autenticazione » *. © Cfr. T. A. VAN DIJK, Text and Context cit., trad. it. pp. 342-44. 9 Cfr. J. K. HINTIKKA, Or the Logic of Perception (1969) (trad. it. in F. RAVAZZOLI (a cura di), Universali linguistici, Milano 1979, pp. 244-80). © Applicazioni dei mondi possibili alla critica: TH. G. pAvEL, “Possible worlds” in literary semantics, in «Journal of Aesthetics and Art Criticism», XXXIV (1975), 2, pp. 165-76; D. CHATeAUX, La sémantique du récit, in «Semiotica», XVIII (1976), 3, pp. 201-16; L. poLEZEL, Narrative Worlds, in L. MATEJKA (a cura di), Sound, Sign and Meaning, Ann Arbor Mich. 1976, pp. 542553; L. VAINA, La théorie des mondes possibles dans l’étude des textes. Baudelaire lecteur de Bruegel, in «Revue Roumaine de Linguistique», XXI (1976), pp. 35-48; In., Les mondes possibles du texte, in «Vs», n. 17 (1977), pp. 3-11; u. Eco, Lector in fabula cit., cap. VI; J. HEINTZ, Reference and inference în fiction, in «Poetics», VIII (1979), 1-2, pp. 85-99; L. DOLEZEL, Extersional and intensional narrative worlds, ibid., pp. 193-211; ID., Truth and authenticity in narrative, in «Poetics Today», I (1980), 3, pp. 7-25; TH. G. PAVEL, Narrative Domains, ibid., 4, pp. 105-14. Cfr. pure il n. 19-20 (1978) di «Vs», su Sezziotica testuale: mondi possibili e narratività. © L. poLEZEL, Truth and authenticity cit., p. 11. # Cfr. 1n., Narrative Modes in Czech Literature, Toronto 1973; e Truth and autbenticity cit.
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Testo letterario, interpretazione, storia
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3.11. Narratologia e punto di vista. Lo sforzo dei critici, di cogliere il rigore delle connessioni tra gli eventi, si scontra con le difficoltà appena osservate, tutte riportabili al fatto che lo scrittore non può riferire in modo anodino vicende che ha inventato, impegnandovi la sua sensibilità e la sua concezione della vita. Dipende pure da questo fatto la serie di procedimenti che vanno sotto l’etichetta di punto di vista (cfr. $ 1.6). Il punto di vista riguarda il modo di presentare i fatti, insomma l’angolatura secondo cui è rivelato ognuno degli eventi che costituiscono l’intreccio. L’intreccio collega dunque verticalmente eventi che vengono presentati a distanza diversa e con prospettiva diversa. La composizione di un’opera narrativa dipende dal variabile equilibrio tra i modi di presentare (punti di vista) e le cose presentate (intreccio).
3.12. La plurivocità. È concetto introdotto da Bachtin, e considerato applicabile solo, o prevalentemente, al romanzo. Anche Bachtin ha sott'occhio la stratificazione in-
terna della lingua in dialetti sociali, gerghi professionali e di gruppo, correnti e mode letterarie, parole d’ordine ideologico-politiche. Egli avverte che molte parole e forme conservano le armoniche contestuali che le collegano a un ambiente, a una professione, a una concezione del mondo, e fungono pertanto da ideologemi. La compresenza di espressioni e parole di vario ambito fa sî che le differenze di opinioni che noi di solito cerchiamo negli autori convivano già nella lingua in una specie di polifonia, o di dialogo. La lingua è, secondo Bachtin, una «6pinione pluridiscorsiva sul mondo» “. Bachtin riporta queste osservazioni all’ambito della stilistica, rinfacciando ai rappresentanti di questa disciplina di avere considerato i testi affrontati come unitari, di aver perciò tentato di definire «lo stile di X», o almeno «lo stile dell’opera y dello scrittore X». Al contrario, in qualunque testo (narrativo) esistono varie unità stilistico-compositive: da un lato la narrazione gestita direttamente dallo scrittore (per la quale si può parlare del suo stile); dall’altro i discorsi stilisticamente individualizzati dei protagonisti; in mezzo la varia stilizzazione del discorso orale (quando vi sia un narratore-intermediario), i modi semiletterari di narrazione (diari, lettere), le varie forme del discorso letterario (ragionamenti morali, filosofici, scientifici, ecc.). Ognuna
di queste unità ha un suo stile, o suoi stili propri, sottoinsieme dello stile complessivo; lo stile dell’autore, o almeno dell’autore senza mentite spoglie, non è che uno di questi sottoinsiemi “. Basterebbe questo per rinnovare sensibilmente le ricerche sullo stile, pottando l’attenzione a registri e strati sociali all’interno del testo, come parti della sua programmazione strutturale. Ma la pluridiscorsività è fatto molto 65 M. M. BACHTIN,; Voprosy literatury i estetiki cit., trad. it. p. 101. «#Tbid: piro.
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Concetti, tecniche e categorie
più complesso, non viene certo dominata solo osservando nel testo la distribuzione delle voci: È vero che anche nel romanzo la pluridiscorsività è sempre personificata, incarnata in figure individuali di persone con discordanze e contraddizioni individualizzate. Ma qui queste contraddizioni delle volontà e delle intelligenze individuali sono immerse nella pluridiscorsività sociale e sono reinterpretate da essa. Le contraddizioni degli individui qui sono soltanto le creste dell’onda che si alzano dall’oceano della pluridiscorsività sociale, oceano che ribolle e imperiosamente li rende contraddittori e satura le loro parole e coscienze della propria pluridiscorsività fondamentale °°.
Lo scrittore non può, e non deve, disciplinare lo scorrere di questa plurivocità, elemento costitutivo della lingua in cui egli e i suoi personaggi vivono. Le unità stilistico-compositive attuano una cernita, una centrifugazione, ma
non annullando le forze pluridiscorsive che la lingua continua a sprigionare. Bachtin fu portato ad approfondire questa impostazione dallo studio su Dostoevskij. C’era un’apparente contraddizione tra un romanziere polifonico, come Dostoevskij, che però fa scarso ricorso alle varietà linguistiche, e romanzieri monologici come Tolstoj e Leskov, che invece esibiscono una grande varietà linguistica. Diventa allora fondamentale il concetto di «angolo dialogico», da intendere come posizione ideologico-morale, non necessariamente correlata a tecniche linguistiche; o quello di « posizione semantica», a cui stili di linguaggio e socioletti sono sussunti. Angolo dialogico e posizione semantica permettono di individuare le varietà dello stile anche quando esse non si realizzino tramite varietà del linguaggio *. ‘Questi concetti rientrano in una più ampia riflessione. Lo scrittore non si limita certo a regolare le varie correnti linguistiche convogliate nel suo testo, non aderisce passivamente alle posizioni ideologiche rappresentate. La sua parola, che è orientata direttamente sugli oggetti quando si esprime in prima persona (è, per dirla con Bachtin, oggettuale), è, oltre che orientata sugli 0ggetti, oggetto dell’orientamento dell’autore quando chi parla sono i personaggi. Infine vi è una parola in cui convivono due intenzioni, quella dell’autore e quella del personaggio, che possono coincidere o divaricarsi, restando idealmente sfasate; oppure in cui la parola antagonista, unica espressa, rinvia però implicitamente all’altra. Con le ultime precisazioni riportate avanzano due concetti basilari nella teoria di Bachtin, quelli di stilizzazione e parodia. Nella stilizzazione l’intenzione dell’autore si serve della parola altrui in direzione delle sue stesse intenzioni; nella parodia la parola altrui è pervasa da un’intenzione direttamente opposta. Insomma, «le voci non sono soltanto particolareggiate, distanziate, ma anche ostilmente contrapposte» ’. Vi sono poi casi in cui il discorso altrui, non citato, appare indirettamente in quello dell’autore, che ne tiene conto e polemizza con esso in maniera implicita. SILA pi 1333 $ Cfr. m., Problemy poetiki Dostoevskogo, Torino 1968, pp. 236-39). ©AIbid> paz5o
1963 (trad. it. Dostoevskij. Poetica e stilistica,
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Testo letterario, interpretazione, stotia
ILS
I vari tipi individuati da Bachtin riguardano perciò il rapporto soggettooggetto, che secondo i casi viene gestito scopertamente dall’autore, oppure demandato a mediatori fittizi (narratori e personaggi), oppure significato pet caricatura, per antifrasi, per ipercaratterizzazione, nelle modalità della parodia, della polemica inespressa, della stilizzazione. Più che di rapporto con la materia narrativa, si tratta di rapporto col mondo rappresentato. L’assieme delle possibilità di realizzazione di questo intersecarsi di voci (dell’autore, dei narratori e dei personaggi) e di questo sovrapporsi o divaricarsi di intenzioni, che materializza i rapporti di sdoppiamento e convergenza o divergenza tra l’autore e i mediatori da lui ideati, è riassunto in questa tabella delle possibilità di discorso ”°: 1. La parola diretta, immediatamente indirizzata sul suo oggetto, come espressione dell’ultima istanza semantica di chi parla. mi. La parola oggettiva (parola del personaggio raffigurato). 1) Con prevalere di determinatezza socialmente tipica. Diversi gradi di oggettività. 2) Con prevalere di determinatezza individualmente caratterologica. mi. Parola con orientamento sulla parola estranea (parola a due voci). 1) Parola a due voci monodirezionale. a) Stilizzazione. b) Racconto del narratore. c) Parola non obiettiva del
personaggio portatore (parziale) delle intenzioni dell’autore.
Diminuendo l’oggettività tendono alla fusione delle voci, cioè alla parola del primo tipo.
d) Ich-ErzAKlung.
2) Parola a due voci multidirezionale. 4) Parodia con tutte le sue
sfumature. b) Racconto parodistico. c) Ich-Erzahlung parodistica. d) Parola del personaggio raffigurato parodisticamente. e) Qualsiasi trasmissione della parola estranea con variazione di accento. 3) Tipo attivo (parola estranea riflessa). a) Polemica interna nascosta.
L) Autobiografia e confessione colorita polemicamente.
c) Qualsiasi parola che tenga d) ata
i
: e) Dialogo nascosto. ® Ibid., pp. 258 sgg.
is
Diminuendo l’oggettività e l’attivizzazione della intenzione estranea si dialogizzano internamente e tendono alla divisione in due parole (due voci) del primo tipo.
La parola estranea agisce dall’esterno; sono possibili le
forme più varie di rapporto
reciproco con la parola
estranea e diversi gradi della
sua influenza deformante. ua influenza
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Concetti, tecniche e categorie
3.13. Plurivocità e punto di vista. La teoria di Bachtin porta contributi decisivi sia agli studi stilistici, sia a quelli sul punto di vista (espressione usata anche da lui, in frasi sintomatiche: «Allo stilizzatore importa l’insieme dei procedimenti del discorso altrui, appunto come espressione di un particolare punto di vista. Egli lavora con un punto di vista altrui»; «La maniera verbale altrui è utilizzata dall’autore come punto di vista»)". Ma non ci si deve illudere che la distribuzione dei discorsi tra le varie voci coincida con la distribuzione di registri, varietà stilistico-linguistiche, ideologemi. Ricordiamo infatti che la pluridiscorsività è un dato di partenza, non è una costruzione di ambito letterario: lo scrittore stesso partecipa, in quanto parlante una lingua, della sua pluridiscorsività costituzionale. Inoltre, il punto di vista non si realizza soltanto attraverso l’istituzione di persone e modi, ma è il risultato di continui cambiamenti di focalizzazione che l’autore opera attraverso il testo, per motivi di solito individuabili, ma non preventivabili. Una riprova, anche se fuori programma, la dànno le ricerche di Uspenskij
sul punto di vista, ampliamento ed esplicitazione di quelle di Bachtin”.
Uspenskij passa in rassegna, esemplificando, tutti i valori possibili del concetto, sul piano ideologico, fraseologico, spazio-temporale, psicologico, concludendo con rilievi sull’interrelazione dei punti di vista relativi ai vari livelli dell’opera e sugli aspetti costruttivi e pragmatici. Egli si propone d’individuare, anche nel discorso autoriale, i vari gradi di partecipazione rispetto ai fatti narrati, indipendentemente dalla voce. Si tratta di un’accezione di punto di vista che potrebbe esser definita di «conformità o disformità», da non confondere con l’adesione ideologica. È infatti possibile una conformità (narrativa) senza adesione, e una disformità con adesione. In Uspenskij giungiamo insomma alla massima atomizzazione del punto di vista. Tipica la serie di sottotitoli del suo volume (La non corrispondenza del punto di vista ideologico e degli altri; La non corrispondenza del punto di vista spazio-temporale e degli altri); e tipico l’asserto, pur incontestabile, che «l’intero testo narrativo può essere diviso successivamente in un aggregato di microtesti sempre più ridotti, ognuno delimitato dall’alternanza di posizioni autoriali esterne e in-
terne» ®.
Parrebbe di dover concludere con la confusione. Si deve invece concludere con la complicazione, una complicazione teoricamente razionalizzabile e perciò stimolante. All’origine del punto di vista e della plurivocità c’è l’impossibilità per uno scrittore di riferire in modo anodino invenzioni che impegnano la sua sensibilità e la sua concezione della vita. Il mondo di cui egli parla, anche se fantastico, dev’essere presentato come se fosse reale: oggetto di un’e© Ibid., pp. 246 e 247. _ 2? Cfr. B. A. uSPENSKIJ, Poetika kompozicii chudotestvennogo teksta i tipologija kompozicionnoj formy, 1970 (trad. ingl. A Poetics of Composition, Berkeley - Los Angeles - London 1973). 3 Ibid., pp. 153-54.
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sperienza diretta o indiretta. Per questo egli si concretizza come narratore, oppure dà forma a un personaggio-narratore o a un protagonista-natratore, 0 ri-
corre all’espediente del manoscritto ritrovato (e l’esperienza è allora delegata all’autore del manoscritto). Anche se l’autore si attribuisce in partenza gli attributi dell’onniscienza e dell’imparzialità testimoniale, egli non può far a meno di avvicinarsi di volta in volta ai personaggi, limitando con ciò stesso la sua visuale all’orizzonte in cui i personaggi si muovono. Nascono cosi le due categorie della persona (o voce) e del modo. Tra le quali sussiste una differenza decisiva: la persona, relativa al rapporto scrittore-narrazione, è grammaticalmente disciplinata (uso dei pronomi e dei deittici) e può perciò diramarsi in modi anche complessi: per esempio un personaggio può narrare di un altro personaggio che può narrare di un terzo, all’infinito. Viceversa il modo, relativo al rapporto scrittore - materia narrata, può non essere segnato da marche grammaticali, e si realizza con movimenti che dislocano i limiti dell’orizzonte: la sua individuazione è più delicata, e non del tutto incontrovertibile. Detto questo sulla direzione dell’intersoggettività, bisogna anche tener conto della direzione inversa, quella del soggettivismo. Il mondo fantasticato è opera di un solo soggetto, che certo ama confrontarsi con esso, ma non dimentica mai di esserne il demiurgo. Nasce cosî una persistente dialettica, di convergenza-distanziamento rispetto ai personaggi: al demiurgo può piacere di lasciarli muovere e parlare come se fossero creature autonome, ma più spesso egli vorrà segnalare la sua adesione o il suo dissenso. La polifonia individuata da Bachtin è il diagramma dei confronti e degli attriti tra le concezioni dell’autore, quelle attribuite ai personaggi e quelle delle varie formazioni culturali. È insomma ir gioco la posizione ideologica, relativa ai rapporti scrittore-senso. 3.14. La messa in forma del racconto. Giunti a questa conclusione, possiamo riprendere e concludere quanto osservato sul punto di vista e sull’intreccio. La confusione che ha regnato negli studi sul punto di vista, e che Genette ha già energicamente ridotto, dipende dal fatto che questo termine troppo suggestivo è stato applicato a fenomeni di varia natura. Un’ulteriore chiarificazione può venire dalla constatazione che persona, modo e posizione ideologica appartengono a tre momenti, idealmente successivi, della messa in forma del testo narrativo. In un modello molto circostanziato della produzione del testo, ci troviamo nello spazio che congiunge intreccio e discorso. L'intreccio è passibile di realizzazione mimetica, diegetica, mista (con tutte le varietà possibili); nel discorso, viceversa, tutto è ormai assestato, definitivo. Realizzando l’intreccio in discorso, vanno prima sistemati i canali attraverso i quali si vuole che la storia venga comunicata al lettore (persone); poi, in un più minuzioso censimento dei contenuti narrativi, viene scelto, punto
per punto (e più o meno nettamente), l'orizzonte percettivo entro il quale essi
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Concetti, tecniche e categorie
saranno situati (modi); è infine consustanziale all’elaborazione linguistica la
varietà di posizioni ideologiche assunta dallo scrittore. Tra persone e modi non c’è parallelismo, ma combinazione (un personaggio-narratore può, per esempio, assumere orizzonti percettivi propri di altri personaggi di cui parla); a loro volta le posizioni ideologiche, che hanno un tramite per ufficializzarsi, e cioè le persone (si pensi alla stilizzazione e alla parodia segnalate da Bachtin), si rivelano però in ogni parte del testo, attraverso le sfasature anche minime tra la posizione dell’io e quella degli altri cui l’io ha dato vita; sfasature linguistiche che non traspaiono soltanto nei discorsi riferiti, ma nel modo stesso di rappresentare narrativamente gli orizzonti percettivi dei personaggi.
I momenti della messa in forma sono idealmente successivi nel lavoro dello scrittore; per il destinatario, essi propongono un modello di lettura reale. Impiegando il modello, si può risalire dai rilievi linguistici alla distribuzione del materiale semiotico secondo le istanze della narrazione (persone) o secondo la varietà dei punti di osservazione adottati (modi); percorsi ad andamento verticale (dal discorso all’intreccio) od orizzontale (tra le zone di estrin-
secazione dell’intreccio), che esplorano le corrispondenze tra forma e contenuto (anzi, contenuti), tra linguistico e semiotico, sviluppando tra le due cop-
pie una immaginaria intercapedine in cui si presenta come serie di processi quello che è una finale e indissociabile unità. 4.
Storicizzazione.
4.1. Comunicazione e storia. Inserendo il testo in un atto di comunicazione, si evidenziano automaticamente i suoi legami con la cultura e si rivendica una prospettiva storica. L’emittente infatti trae i codici che impiega, e le sue stesse motivazioni, dal contesto culturale in cui è inserito; e il ricevente ricorre ai codici che ha a disposizione per interpretare il testo. Dietro quello dell’interpretazione stanno dunque i grossi problemi dell’incontro fra due culture, e della possibilità per una cultura di comprenderne (e assimilarne) una precedente. I sistemi di significazione sono istituiti all’interno di una cultura e ne fanno parte integrante. I processi storici, come nota Uspenskij, sono processi comunicativi; essi coincidono con le risposte del destinatario sociale alle informazioni nuove offerte dalla cultura '. Piti che condannare una lettura che consideri il testo in sé, mettendo tra parentesi il contesto, si deve constatare che essa è impossibile. La natura apparentemente chiusa e autonoma del testo è immediatamente trascesa nella lettura, che è anche interpretazione. Solo la lettura attiva il circuito comunicativo istituito dall'emittente ma completato e perciò funzionan. 1 Cfr.., Historia sub specie semioticae (1974) (trad. it. in c. PREVIGNANO (a cura di), La se-
miotica nei Paesi slavi cit., pp. 463-71).
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Testo letterario, interpretazione, storia
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te esclusivamente quando l’altro polo della comunicazione, il ricevente, accetta il collegamento. La linea emittente-ricevente individua l’arco storico superato dalla capacità comunicativa del testo. Il testo, in realtà, copre un arco molto più vasto, che ingloba pure la quantità di storia confluita nel testo all’atto della composizione. Il ciclo analisi-sintesi-analisi-sintesi rappresenta con la sua semplicità le fasi principali della vita comunicativa del testo °. L’emittente compie un’analisi della realtà da lui esperita (e comprendente tutti gli elementi di continuità storica); la sintetizza nel testo, ricorrendo ai codici epocali a sua disposizione; il ricevente analizza il testo, ricorrendo ai propri codici epocali, e ne compie una sintesi interpretativa. La storia sembra dunque rivelarsi sotto due aspetti principali: come contenuto storico, e come storicità dei codici. A un’analisi più attenta i due aspetti risultano più omogenei, dato che nel testo non importa tanto il dato o la rievocazione storica, quanto l’«universo immaginario», per dirla con Goldmann, cioè una storicità interiorizzata e strutturata come sistema. Questo
«universo immaginario» ha statuto di modello, e costituisce uno schema per il funzionamento dei codici. È questo, almeno in linea teorica, il modo più corretto di porre il problema della storicizzazione. Le molte altre storicizzazioni possibili (più volte messe in atto) considerano in genere i contenuti storici, o la storicità degli emittenti e dei riceventi: ciò che è ben lecito, purché si precisi che, in tal caso, il testo letterario serve soltanto come documento per una ricostruzione che gli rimane eterogenea, irrelata com’è con la sua natura di messaggio unitario. /, 4.2. Cultura e storia. Restano invece più attuali gli sforzi per collegare il testo al suo contesto culturale: il testo appartiene alla cultura nel momento dell’emissione, continua ad appartenerle durante le successive ricezioni, è, anche nella sua confortmazione, omogeneo ed omologo agli altri fenomeni della cultura di appartenenza. Mentre con i fatti storici possono sussistere rapporti, anche se non immediati, di causa ed effetto, con quelli culturali v’è parallelismo e movimento concorde. L’influenza, spesso anzi l'impatto, delle forze storiche (prevalentemente economiche) è molto più intensamente determinante sull’insieme del sistema culturale che sui singoli testi. È perciò l’analisi della cultura che può mediare tra lo studio storico e quello dei testi: la cultura è contemporaneamente complesso di comportamenti umani (e perciò appartiene alla sfera del pratico) e complesso organizzato di sistemi di espressione (e perciò appartiene alla sfera della comunicazione). 2 Cfr. il cap. 11 della parte I di c. sEGRE, I segni e la critica cit., ; 3 Cfr. L. GOLDMANN, La création culturelle dans la société moderne, Paris 1971.
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Concetti, tecniche e categorie
4.3. Storiografia letteraria.
Dunque, possibilità piena, anzi necessità, di storicizzare i testi letterari. Molto diverso il problema della storia letteraria, la cui impossibilità costituzionale è stata asserita più volte. Anche senza ritornare ad affrontarlo, è utile ricordare che il testo letterario è una struttura semiotica rigorosamente legata da rapporti di tipo connotativo. Seguire perciò gli sviluppi di qualunque elemento del testo, sia esso pertinente all’espressione o al contenuto, significa scompaginarne idealmente la struttura. La sincronia insomma non si oppone soltanto, come nella lingua, alla diacronia, ma interessa oggetti (come le strutture significanti) eterogenei rispetto alla diacronia, che riguarda i codici e i segni nei loro sviluppi, a prescindere dalle strutture in cui sono stati usati e da cui è stato moltiplicato il loro potere di significazione. Ponendo il problema in altro modo, si è cercato di separare gli elementi propri della testualità, o meglio ancora della letterarietà ‘, dagli altri, più impregnati di vissuto, che la letteratura impiega come materiali; con la convinzione di poter cogliere lo sviluppo storico di ciò che è peculiare della letteratura. Il progetto cercava di mettere tra parentesi le fitte connessioni che, a vari livelli, legano gli sviluppi della società, della letteratura come istituzione e delle singole opere letterarie. Di questo progetto rimane solo valida l’istanza di subordinare qualunque prospettiva alla costituzione peculiare del testo letterario, mentre l’accento posto sui condizionamenti storici (colti nella biografia degli scrittori o nella situazione della società letteraria o nelle possibilità e modalità di diffusione o nell’efficacia pragmatica) evoca problemi importantissimi, ma estranei a quelli della critica letteraria. Se la concezione comunicativa dell’arte evidenzia l’inevitabilità della considerazione storica, è ora la concezione semiotica della cultura che aiuta a su| perate determinismi ingenui e sociologismi primitivi. Vedremo subito ($ 4.5) le definizioni della cultura date dai semiologi sovietici, e avvicinabili a quelle di etnologi e antropologi occidentali: per esempio M. Mauss?. Qualunque di queste definizioni si accolga, restano saldi certi assiomi: la cultura è informazione (deposito non ereditario delle informazioni possedute dalla memoria d’una collettività; meccanismo per la produzione di nuova informazione); la cultura ha come strumento principale la lingua, che non è solo il mezzo più perfezionato per comunicare informazione, ma costituisce anche una specie di casellario in cui depositare la massa d’informazioni, l’enciclopedia, di una collettività. Di conseguenza, la realtà si rivela soltanto, alla coscienza collettiva, attraverso segni, stereotipi, archetipi, cioè attraverso quel linguaggio della co4 Sul programma dei formalisti di tracciare una storia della letterarietà (liferaturzost’), cfr. v. ERLICH, Russian Formalism, 1954, 1964? (trad. it. Milano 1966, pp. 185 sgg.). Per la teoria, M. MARGHESCOU, Le concept de littérarité. Essai sur les possibilités théoriques d’une science de la littérature, La Haye - Paris 1974. 5 Una sintesi bibliografica aggiornata: 1. PORTIS WINNER e TH. G. WINNER, The sezziotics of cultural texts, in «Semiotica», XVIII (1976), 2, pp. 101-56. Una comoda antologia: P. ROSSI (a cura di), Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, Tortino 1970.
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Testo letterario, interpretazione, storia
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noscenza senza il quale le percezioni non resterebbero altro che un fluire indistinguibile. Altro assioma è questo: i testi, e i testi letterari in particolare, sono tra i principali fornitori della cultura. Ecco allora che i rapporti tra i vari confluenti della letteratura, quelli appartenenti al reale e quelli più specifici, risultano trasferiti al di là del filtro stereotipizzante della segnicità, e da esso resi omogenei e combinabili. È cosî che rientrano in causa i condizionamenti storici appena espunti: almeno nella misura in cui la cultura li riconosce ed è disposta a esprimerli. E questa visione culturale aiuta anche a evitare l’ardua separazione tra condizionamenti subiti dall’emittente o dal suo gruppo e condizionamenti ratificati dalle istituzioni linguistiche e letterarie. Meglio, infatti, distinguere tra condizionamenti di data remota o recente, e perciò tra gradi di stereotipizzazione, ferma restando la natura biunivoca dell’azione tra scrittore e cultura. Lo scrittore «riconosce» la sua esperienza con i mezzi della propria cultura, la cultura assimila l’esperienza fatta dallo scrittore. 4.4. Livelli dei testi e della cultura. 4.4.1. La cultura può esser vista come un insieme di ambiti o sfere, ciascuna ordinata in sistema. Ogni sua conformazione sincronica riflette lo stato della società che la esprime in due modi: il primo è la gerarchizzazione dei sistemi; il secondo è la tendenza di ognuno dei sistemi componenti ad atteggiarsi omologamente ai rapporti che individuano la società corrispondente. Si richiamano al primo dei due modi i tentativi abbozzati da Tynjanov ‘ di collegare i vari ambiti o sfere (che egli chiamava «serie »), e d’individuare in una data società la « serie» dominante (in modo analogo, Tynjanov spiegava le trasformazioni dei generi letterari con l’assunzione della leadership da parte dell’uno o dell’altro genere) ”. Si riferisce invece al secondo modo la concezione bachtiniana (cfr. $ 2.25) della lingua come monade in cui si ritrovano, codificati, i livelli socioculturali e le varianti ideologiche («ideologemi» sono le parole portatrici di marche ideologiche). Un modo d’inserire il testo nel contesto può essere appunto la connessione di ogni suo livello con i corrispondenti livelli della cultura, soprattutto notando, in entrambi, la dialettica di forze innovative e conservative, e il vario grado e velocità di sviluppo. Se per esempio si prendono i quattro livelli individuabili in una narrazione (Discorso, Intreccio, Fabula e Modello narrativo; cfr. $ 3.7.3), è possibile farli corrispondere a livelli corrispondenti del contesto culturale (Lingua, comprese retorica e metrica; Tecniche dell’esposizione; Materiali antropologici; Concetti-chiave e logica dell’azione) *. Il collegamento dei quattro livelli mette in luce il meccanismo dei rap6 Cfr. Ju. N. TYNJANOV, Archaisty î novatory, 1929 (trad. it. Avanguardia e tradizione, Bati
1968, pp. 45-60).
? Ibid., pp. 23-44. 8 Rinvio al cap. II di c. SEGRE, Sezziotica, storia e cultura cit.
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porti di emittente e ricevente nel loro muovere dal contesto culturale al testo e viceversa. In questa figura Testo
Contesto culturale
Ricevente
;
ì
1. Discorso
1. Lingua (comprese retorica, metrica, ecc.)
2. Intrigo
2. Tecniche dell’esposizione
3. Fabula
3. Materiali antropologici
4. Modello narrativo
»
4. Concetti-chiave e logica dell’azione Emittente
l’emittente, in quanto inserito nel contesto, attua la sua produzione inventiva passando dalla zona 4 alla zona 1 del contesto culturale e trova poi i significati e i significanti letterari da immettere nei punti corrispondenti del testo. A sua volta il ricevente, il lettore, svolge la sua analisi a partire dal testo e procedendo nell’ordine opposto (da 1 a 4); in questo modo si mette in contatto con i punti corrispondenti del contesto letterario. È ricca d’implicazioni storiografiche la seguente osservazione: i quattro tagli in cui ho frazionato il contesto hanno un grado di mobilità e di complessità crescenti. Uno stesso sistema concettuale e logico si realizza attraverso
molteplici temi, miti, stereotipi, i quali a loro volta possono esprimersi con una gran varietà di modi di narrazione; sino a giungere alla lingua, cosî sensibile alle correnti culturali e alle mode, cosî infinitamente plasmabile da istituirsi in tanti «idioletti» quanti sono i parlanti. Perciò, passando alla colonna del testo, vi sarà un gran numero di esem-
plari riportabili attraverso il tempo allo stesso modello narrativo, e fabule uguali o composte dagli stessi elementi si realizzeranno, secondo le epoche, attraverso intrecci diversi. Tanto più ricco poi il gioco di persistenza e mutamenti se si schematizzano funzioni e rapporti fra personaggi in due serie diverse, come mi pare consigliabile: avremo allora funzioni uguali prodotte da rapporti differenti fra personaggi, e funzioni diverse prodotte da rapporti uguali. Si potrà cosî fondare una tipologia storica circostanziata. La storia della narrativa sarà costituita dalla storia dei «tipi» che con velocità decrescente via via che si passa dalla sezione 1 alla sezione 4 cadono in desuetudine o vengono introdotti, in rapporto con l’assieme dei «tipi» esistenti in una data fase sincronica, e con ripercussioni sempre meno immediate, ma con ripercussioni
comunque, dalle sezioni 1 a 2, 2 a 3, 3 a 4. L’assieme dei «tipi» costituisce un sistema, con la sua stratificazione, di cui si possono descrivere e forse anche spiegare le trasformazioni. Da un punto di vista dinamico, si potrà cercare di spiegare desuetudine e nascita dei vari «tipi», entro la dialettica di codificazione e innovazione dei
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codici, ma in rapporto con la diversa vitalità dei livelli culturali secondo le epoche. Perché lo scrittore, attraverso il contesto culturale e utilizzando i materiali semiotici offertigli, può giungere non solo a innovare all’interno di un «tipo», ma a innovare il «tipo»
stesso.
Il modello riportato sopra è naturalmente una semplificazione, persino se ci si limita alla narrativa. Ma i modi di estrinsecazione letteraria sono numerosi, anche a restare nell’elenco costituito dai generi letterari. Ogni genere può essere sezionato secondo livelli diversi, che intrattengono rapporti diversi con i medesimi o con altri strati della cultura’. Se ora si tiene conto della compresenza e concorrenza dei generi in un periodo letterario, risulta che i criteri di storicizzazione abbozzati si fanno molto più numerosi e vari, perché rapporti non vi sono soltanto tra livelli del testo e livelli del contesto, o entro il sistema dei livelli, ma anche tra i vari generi, con il loro diverso modo di potsi in contatto col contesto. S’intravede dunque un modello tridimensionale che dovrebbe innestare sull’asse della temporalità i rapporti testo-contesto e quelli testo - sistema dei generi. 4.4.2. Concludendo con un accenno ai generi un paragrafo iniziato dal sezionamento in livelli del testo e della cultura, si ribadisce inevitabilmente la connessione di tutti gli elementi contenutistici e formali del testo, secondo il modello di produzione/fruizione sottostante a tutte queste pagine. Nel ricordarne velocemente i tratti, entro questa prospettiva, si può partire dalla lingua, che è costituita da vari sottoinsiemi, risultato sia della compresenza di fasi diacroniche differenti, sia della sua differenziazione geografica (varianti regionali), sociale (varietà di livello secondo gli ambienti o secondo i rapporti di superiorità/inferiorità tra parlanti), funzionale (linguaggi speciali di mestieri e ambiti di ricerca). Nella stesura di qualsiasi testo viene subito attuata una scelta preliminare tra queste offerte della lingua. Ma alla scelta linguistica se ne connette una più ampia, che investe i modi e persino i contenuti dell’esposizione. Questa scelta, che riguarda i tipi di testi, è organizzata in gran parte, nell’ambito letterario, dalle poetiche, tacitamente in vigore anche in epoche antiaristoteliche. Una volta deciso l’argomento, lo scrittore è fortemente condizionato a trattarlo con un dato stile, in un dato genere letterario, ecc. Cosî un testo, col suo complesso organismo, realizza una stretta connessione tra grandi, minori e minimi elementi del contenuto, e forme dell’espressione linguistica, stilistica, eventualmente tecnico-narrativa. La «telescopizzazione» è agevolata da un «programma»: tale la funzione dei procedimenti pet la messa in testo in cui consistono le poetiche e, in genere, le tipologie im? Ha dato per esempio utili suggerimenti per il sezionamento del testo poetico G. POZZI, Codici, stereotipi, topoi e fonti letterarie, in AA.vv., Intorno al «codice». Atti del III Convegno della Associazione Italiana di Studi Semiotici, Pavia 26-27 settembre 1975, Firenze 1976, p. 41.
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plicite dei testi !. Ma questa connessione tra elementi linguistici e contenutistici è omologa a quella che esiste nei depositi della cultura, dove il sistema modellizzante primario, linguistico, fa da supporto ai sistemi modellizzanti secondari (cfr. $ 4.6.1-2). È cosî che si scorgono meglio le linee che congiungono un testo con la cultura di cui esso è espressione. Tra i sottoinsiemi del sistema linguistico hanno una posizione particolare le écritures", conformate non già a tipi di contenuti, ma a tipi di ideologie, e perciò collegate, se non direttamente a formazioni sociali, almeno a precise interpretazioni dell’antagonismo tra tali formazioni. È un caso evidente della forza di condensazione che possono avere, anche entro la lingua, la tensione e la progettazione sociale. La lingua del resto rispecchia le linee della sociosfera in cui ci muoviamo (cfr. $$ 4.5.1 e 4.6.5). Importanti sono poi le interazioni tra ideologie e poetiche, tra écritures e stili: esse sono le tracce pi consistenti e significative del sovrapporsi del culturale all’economico-sociale, anche grazie al connettivo, o alla mediazione, di una zona foggiata culturalmente come immagine dell’economico-sociale. Riflessioni di questo genere permettono di progettare uno studio della letteratura che superi i rozzi sociologismi e sappia cogliere la dialettica tra i modelli, il combinarsi di sistemi semiotici più o meno direttamente conformi al sistema economico, l'impegno della letteratura a proporre modelli nuovi (a specchio di mutamenti o crisi dell’ordine sociale), perciò anche a incidere sui sistemi vigenti. La definizione dei modelli non avviene negli spazi dell’astrazione, anzi è la lenta conquista di territori della realtà in movimento, i quali solo grazie a una visione segnica possono entrare nell’orizzonte della comprensione. 4.5. Cultura e modelli. L’automodello. 4.5.1. Nell’ultimo decennio, grazie in particolare ai lavori dei semiologi sovietici, si è potuto affrontare il problema di una definizione della cultura in rapporto con la comunicazione e, in particolare, con la comunicazione letteraria ”. Possiamo partire da questa definizione: Da un punto di vista semiotico, la cultura può essere considerata come una gerarchia di sistemi semiotici particolari, come una somma di testi cui è collegato un insieme di funzioni, ovvero come un congegno che genera questi testi. Con1° Su generi e poetiche come forme di selezione preliminare dei materiali, cfr. K. w. HEMPFER, Gattungstheorie cit.; M. CORTI, Principi cit., cap. Vv, e C. SEGRE, «Generi» cit., e «Poetica», in Enciclopedia, X, Torino 1980, pp. 818-38. Cfr. anche Mm. coRTI, I generi letterari in prospettiva semiologica, in «Strumenti critici», VI (1972), 17, pp. 1-18. ICirsRe BARTHES, Le degré zéro de l’écriture cit., trad. it. pp. 41-45. 1° Una buona sintesi in M. PAGNINI, Pragmatica cit., pp. 34-46. Le tesi dei culturologi sovietici sono state discusse (tra gli altri) da s. z6rxtewskv, Quelques problèmes de sémiotigue de la culture chez les auteurs est-européens, in AA.vv., A Semiotic Landscape cit., pp. 204-20; Im., Wiedza o kulturze literackiej. Glowne pojecia, 1980 (trad. it. La cultura letteraria. Semiotica e letteraturologia, Bologna 1982); c. sEGRE, Serziotica, storia e cultura cit., cap. 1; 1n., Culture et texte dans la pensée de Jurii Lotman, in M. HALLE, L. MATEJKA, K. POMORSKA e B. A. USPENSKIJ (a cura di), Semiosis. Semiotics and the History of Culture, Ann Arbor Mich. 1984, pp. 3-15; s. MICELI, Ir nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, Palermo 1982.
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siderando una collettività come un individuo costruito in modo più complesso, la cultura può essere interpretata, in analogia con il meccanismo individuale della memoria, come un congegno collettivo per conservare ed elaborare informa-
zione*
Pit che evidente il fatto che la cultura consti di un assieme di sistemi (antro-
pologico, etnico, politico, filosofico, letterario, ecc.); con termine formalistico, si può parlare di «sistema di sistemi». Ciò che importa di più, ai fini del funzionamento, ma anche dell’interpretazione della cultura, è il fatto che questi sistemi, in quanto elementi della convivenza sociale, e perciò della comunicazione, siano dei codici. Infatti, «occorre sottolineare che già il rapporto con il segno e la segnicità rappresenta una delle caratteristiche fondamentali della cultura» “ I sistemi, e i codici, sono interagenti. Basta pensare al codice-lingua, che
è ora il veicolo, ora l’interpretante principale degli altri codici. Cosî nella cultura può esser visto in opera un permanente bilinguismo, o plurilinguismo; anzi, per il funzionamento della cultura e, corrispondentemente, per giustificare la necessità di una applicazione nello studio della cultura di metodi complessi, ha importanza fondamentale il fatto che un singolo sistema semiotico isolato, pet quanto perfettamente organizzato, non può costituire una cultura: a questo scopo il meccanismo minimo richiesto è costituito da una coppia di sistemi semiotici correlati. Un testo in lingua naturale e un disegno rappresentano il sistema più comune formato da due lingue, costituente il meccanismo della cultura !
Lotman, con Uspenskij, precisa anzi che le due «lingue» devono trovarsi in uno stato di intraducibilità reciproca: ciò che spiega, come si vedrà avanti, la necessità di un meccanismo metaculturale per stabilire l'equivalenza relativa dei testi nelle due lingue' La priorità della lingua naturale tra i codici culturali è evidente: la lingua è, di tutti i codici in gioco, il più «potente» e duttile. Il sistema della cultura viene costruito come un sistema concentrico, al centro del quale sono disposte le strutture più evidenti e coerenti (le più strutturali, per cosî dire). Pi vicino alla periferia, si collocano formazioni dalla strutturalità non evidente o non dimostrata, ma che, essendo incluse in situazioni segnico-comunicative generali, funzionano come strutture. Nella cultura umana tali parastrutture [Kvazistruk-
tury] occupano, evidentemente, un posto assai importante ! 13 v. v. IVANOV e altri, Tezisy k semiotiteskomu izuceniju kul'tur (v primenenii k slavjanskim tekstam) (1973) (trad. it. Tesi per un'analisi semiotica delle culture in applicazione ai testi slavi,Ja C. PREVIGNANO (a cura di), La sezziotica nei Paesi slavi cit., p. 209). a 1°, M. LOTMAN € B. A. USPENSKIJ, O semiotiteskom mechanizme kul'tury (1971) (trad. it. I/ meccanismo semiotico della cultura, in Tipologia cit., p. 48). 5 v. V. IVANOV e altri, Tezisy cit., trad. it. p. 211. 16 Cfr. JU. M. LOTMAN e B. A. USPENSKIJ, Postscriptum alle tesi collettive sulla semiotica della cultura, in c. PREVIGNANO (a cura di), La serziotica nei Paesi slavi cit., p. 221. Gli ultimi lavori culturologici di Lotman tradotti in italiano sono contenuti in Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della.cultura, a cuta di S. Salvestroni, Bari 1980. 7 JU. M. LOTMAN eB. A. USPENSKIJ, O sezziotiteskom mechanizme cit., trad. it. p. 43.
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La semiotica della cultura si propone dunque come la disciplina in grado di penetrare in questo sistema concentrico e di coglierne le corrispondenze e i nessi, come la «scienza della correlazione funzionale dei diversi sistemi se-
gnici» !; altre discipline continueranno naturalmente a esaminare in modo autonomo particolarità e funzionamento di ogni singolo sistema. La cultura è, rispetto alla funzione sociale e comunicativa dei vari sistemi, onnicomprensiva. È essa che dà senso al mondo dato che il mondo, prima di esser nominato, descritto, interpretato, non è che caos: il senso atei mondo è
il nostro discorso del mondo, e il discorso del mondo è possibile solo entro una collettività: Il meccanismo della cultura è un congegno [ustrojstvo] che trasforma la sfera esterna in quella interna: la disorganizzazione in organizzazione, i profani in iniziati, i peccatori in giusti, l’entropia in informazione. In forza del fatto che la cultura non vive soltanto grazie all’opposizione tra sfera interna ed esterna, ma anche grazie al passaggio da un ambito all’altro, essa non si limita a lottare con il «caos» esterno, ma allo stesso tempo ne ha bisogno, non solo lo annienta, ma costantemente lo crea. Uno dei legami della cultura con la civiltà (e il «caos») sta nel fatto che la cultura si priva ininterrottamente, a favore del suo antipodo, di taluni particolari elementi da essa «esauriti» [otrabotannije] che si trasformano in cliché e funzionano nella non cultura. Si realizza cosî nella stessa cultura un aumento di entropia a spese del massimo di organizzazione !
Si può cosî affermare che la cultura è l’ambito dell’organizzazione (informazione) nella società umana, di contro alla disorganizzazione (entropia): putché si aggiunga che ciò vale soltanto «dall’interno» della cultura, dato che è la cultura stessa a decidere ciò che si può e ciò che non si può considerare organizzato. E fra ordine e caos, ogni cultura ha suoi criteri distintivi, sue di-
verse decisioni. Comunque, «la cultura è un generatore di strutturalità; è cosî che essa crea intorno all’uomo una sociosfera che, allo stesso modo della bio-
sfera, rende possibile la vita, non organica, ovviamente, ma di relazione» °° 4.5.2. In questo intervento sul caos la cultura ha bisogno di direttive: senza un criterio, nemmeno ad essa sarebbe lecito decretare sull’organizzazione del mondo. Interviene qui il concetto di autorzodello, pottemmo dire dell’immagine che di se stessa concepisce e formula una cultura: Il meccanismo fondamentale che conferisce unità ai diversi livelli e sottosistemi della cultura è rappresentato dal modello che la cultura ha di se stessa, dal mito che in una determinata fase la cultura si forma di se stessa. Tale mito si manifesta nella creazione di autocaratterizzazioni [avtocharakteristiki] (si vedano, ad esempio, i metatesti del tipo dell’Ar? poétique di Boileau, un fatto tipico dell’ epoca del Classicismo — cfr. anche i trattati normativi del Classicismo 18 v. v. IVANOV ealtri, Tezisy cit., trad. it. p. 194. 1ao bid, D. 195. O TUE M. LOTMAN e B. A. USPENSKIJ, O sezziotiteskom mechanizme cit., trad. it. p. 42.
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russo), che regolano attivamente la costruzione delle culture nella loro globa-
lità ?.
Il concetto di automodello è essenziale a questa concezione: esso enfatizza le volontà e le iniziative, senza le quali il sistema della cultura sarebbe, e apparirebbe, statico, tautologico e sterile. L’automodello (un concetto concomitante con quello di testo della cultura, di cui si dirà avanti) opera, forse, co-
me un polarizzatore delle tendenze implicite nel sistema: esso fa sf che queste tendenze si volgano verso un solo esito, o verso esiti affini. Comunque, l’auto-
modello rivendica la consapevolezza, l’autonomo impegno programmatico: La differenza essenziale tra l’evoluzione culturale e l’evoluzione naturale sta nel ruolo attivo delle autodescrizioni, nell’influenza esercitata sull'oggetto dalle rappresentazioni dello stesso. Questa influenza potrebbe, in senso lato, essere definita come il fattore soggettivo dell’evoluzione della cultura. Dato che allo stesso portatore della cultura questa si presenta come un sistema di valori, è proprio questo fattore soggettivo a determinare l’aspetto assiologico della cultura ”.
Abbiamo visto come la cultura si caratterizzi nei confronti del mondo, cioè dell’esperienza, e delle rappresentazioni che se ne fa. Ma la cultura si caratterizza soprattutto nei riguardi delle altre culture, poiché ogni cultura è naturalmente antagonistica e potenzialmente egemone (non potrebbe nemmeno non esserlo una cultura che si ponesse come conciliazione e armonizzazione delle altre: perché essa si sentirebbe immediatamente superiore a tutte queste). Sono ormai noti gli schemi della contrapposizione tra una cultura data e le altre, formulati (e disegnati, specialmente da Lotman) ” come coppie oppositive NOI - GLI ALTRI (i rappresentanti una cultura e quelli delle altre), INTERNO-ESTERNO (ciò che è esterno e ciò che è interno al sistema culturale), QUESTO-QUELLO (ciò che è vicino e ciò che è lontano rispetto ai membri di
una cultura). Questi schemi sono duttili e atti a realizzazioni più complicate. Per esempio con NOI - GLI ALTRI è possibile indicare, anche graficamente, il senso di centralità o di perifericità che hanno i rappresentanti di una cultura; con ESTERNO-INTERNO si rappresentano, fra l’altro, i rapporti col soprannaturale intrattenuti da superstizioni e religioni; e anche l’eventuale enucleazione, entro il soprannaturale, di agenti benefici e malefici, oppure di agenti intermedi tra l’elemento terreno e quello soprannaturale. Infine, la coppia NOI - GLI ALTRI permette numerose applicazioni in qualunque caso di dualità x
o di alterità
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21 v. v. IVANOV e altri, Tezisy cit., trad. it. p. 219. 22 JU. M. LOTMAN € B. A. USPENSKIJ, Postscriptum cit., p. 223. 2 Cfr. ad esempio JU. M. LOTMAN, O metajazyke tipologiceskich opisanij kul'tury (1969) (trad. it. Il metalinguaggio delle descrizioni tipologiche della cultura, in JU. M. LOTMAN e B. A. USPENSKIJ, Tipologia cit., pp. 145-81). 2 Nell’articolo « Poetica» cit., l'opposizione mi è servita per sintetizzare il progressivo coinvolgimento in ambito letterario di precedenti alterità come «gli stranieri», «i lavoratori», l’inconscio.
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Questi schemi sono di natura topologica, dato che rappresentano spazialmente situazioni mentali. Essi potrebbero rivendicare i loro diritti epistemologici invocando le categorie kantiane di tempo e spazio, soprattutto la seconda; con l’aiuto della quale si formalizzano situazioni che già nella realtà hanno attinenze spaziali. Trovo però anche più interessante il fatto che nel fissare questi modelli generalissimi la metalingua dei modelli si rifaccia a schemi primitivi, in qualche modo mitologici, come sembrano aver intravisto gli ideatori stessi dei modelli, a giudicare da affermazioni di questo genere: La scelta di una metalingua discreta di tratti distintivi del tipo: alto-basso, sinistra-destra, scuro-chiaro, nero-bianco, per la descrizione di testi continui, come quelli pittorici e cinematografici, di per sé può essere considerata una manifestazione di tendenze arcaicizzanti, che sovrappongono al testo continuo della lingua-oggetto categorie metalinguistiche più tipiche dei sistemi arcaici a classificazione simbolica binaria (quali sono i sistemi mitologici e rituali). Ma non si può escludere che, in qualità di archetipi, i tratti di questo tipo siano conservati anche nella creazione e nella percezione di testi continui ?.
Sarebbe da sviluppare qui una discussione sullo statuto semiotico dei modelli. Una volta notato che essi non sono di carattere linguistico, perché o visivi, o con uso prelinguistico e metaforizzato dell’elemento linguistico, si potrebbe proseguire con una disamina del concetto di metalinguaggio ”, e in particolare di metalinguaggio culturale: insistendo, per esempio, sul fatto che non è possibile uscire dal punto di vista di una cultura particolare, per affrontare i problemi della cultura in genere, mantenendo invece, della cultura di partenza, la lingua. Infine ci sarebbe da dibattere il problema se, a differenza della lingua, la semiotica, sia del testo sia della cultura, non possa postulare l’esistenza di significati prelinguistici, di cui i vari linguaggi sarebbero soltanto la verbalizzazione ”. È un problema a cui i semiologi sovietici dànno un contributo preterintenzionale, quando fanno leva sulla traducibilità tra i linguaggi interni a una cultura: la traducibilità tra il linguaggio pittorico e gli altri non è realizzabile per mezzo della lingua, anche se essa può collaborare utilmente. 4.6. Cultura e testi. 4.6.1. In ogni caso, questi modelli possono rappresentare tratti primigenî di una cultura, sia che li si deduca da una considerazione complessiva, sia da singoli testi. Dobbiamo dunque parlare qui del rapporto testo-cultura, centrale nella semiotica sovietica. Le soluzioni abbozzate sono due: il testo può 5 v: v. IVANOV e altri, Tezisy cit., trad. it. p. 201. Cfr. anche E. M. MELETINSKIJ, S. JU. NEKLJUDOV, E. S. NOVIK e D. M. SEGAL, Problemy cit. x 2% Il metalinguaggio è, propriamente, l’uso del linguaggio per parlate del linguaggio stesso (Jakobson individua una funzione metalinguistica, cfr. $ 2.5). Cfr. ora A. GIACALONE RAMAT e T. KEMENY (a cura di), Linguaggi letterari e metalinguaggi critici, Firenze 1985. " Cfr. il mio Linguistica e semiotica, in c. SEGRE (a cura di), La linguistica, oggi, Milano 1982,
PP. 129-47.
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essere sintomatico di una cultura, sua sintesi e momento della sua autocoscienza; oppure la cultura stessa può esser vista come una somma di testi, se non come un solo testo complessivo. Per la prima soluzione si deve partire dal concetto di sistezza modellizzante: «Per sistema modellizzante intendiamo l’insieme strutturato degli elementi e delle regole; tale sistema si trova in rapporti di analogia con il complesso degli oggetti sul piano della conoscenza, della presa di coscienza e dell’attività normativa. Perciò un sistema modellizzante può essere considerato come una lingua» ”. Una volta avvertito che si deve intendere per modello «tutto quanto riproduce l’oggetto ai fini del processo conoscitivo», e che il sistema modellizzante primario è la lingua, è chiaro che gli altri sistemi modellizzanti sono i vari sistemi culturali, in particolare l’arte, intesa come riproduzione verbale del mondo, come aralogon del mondo. Codificazione e decodificazione sono le traduzioni della realtà in lingua, o le deduzioni dalla lingua della realtà riferita. Il testo, nella misura in cui riproduce la realtà, usa la lingua della cultura, e perciò viene chiamato testo della cultura: Definendo la cultura come una lingua secondaria, introduciamo il concetto di «testo della cultura», il testo in tale lingua secondaria. Dato che qualsiasi lingua naturale rientra nella lingua della cultura, sorge il problema della correlazione del testo in lingua naturale con il testo verbale della cultura. Sono qui possibili le seguenti correlazioni: A) Il testo in lingua naturale non è un testo della cultura considerata. Tali sono, ad esempio, per le culture orientate alla scrittura, tutti i testi il cui funzionamento sociale sottintende una forma orale. Tutte le espressioni alle quali la cultura considerata non attribuisce valore e significato (ad esempio, nen le conserva), dal suo punto di vista, non sono testi. B) Un testo in una certa lingua secondaria è contemporaneamente un testo in una lingua naturale. Cosî una poesia di Puskin è al tempo stesso un testo in lingua russa. c) Il testo verbale della cultura non è un testo in quella data lingua naturale. Esso può essere in tal caso un testo in un’altra lingua naturale (la preghiera in latino per uno slavo) o, ancora, il risultato di un processo di trasformazione anomala di qualche livello della lingua naturale (si veda, ad esempio, il funzionamento dei testi di questo tipo nella creazione infantile) ?.
L’eventualità base è evidentemente B; con A si segnala l’autocensura culturale, in seguito alla quale espressioni estranee ai suoi indirizzi e ai suoi canali preferenziali vengono considerate (all’interno di una cultura) non esistenti;
con C, infine, la non obbligatoria una cultura può considerare sua del latino vale, o valeva, anche sottolineato il fatto che i «testi
coincidenza tra lingua naturale e secondaria: espressione anche testi in altra lingua (il caso per tutti i paesi cattolici). In complesso, va della cultura» costituiscono soltanto un sot-
28 JU. M. LOTMAN, Tezisy k probleme «Iskusstvo v riadu modelirujuStich sistem» (1967) (trad. it. Tesi sull’« Arte come sistema secondario di modellizzazione», in JU. M. LOTMAN e B. A. USPENS- KIJ, Sezziotica e cultura, a cura di D. Ferrari Bravo, Milano-Napoli 1975, p. 4). 2 v. v. IVANOV e altri, Tezisy cit., trad. it. pp. 203-4.
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toinsieme di tutti i testi emessi all’interno di una cultura. Considero importantissima una precisazione di Lotman: «Proprietà obbligatoria di un testo della cultura è la sua universalità: il quadro del mondo è correlato con tutto il mondo e, in linea di principio, ingloba #40. Domandarsi che cosa ci sia fuori di tale quadro è, dal punto di vista di una data cultura, altrettanto assurdo che porsi lo stesso quesito in rapporto all’intero universo» *. Il quadro del mondo non può infatti essere più o meno informativo, è questione di rapporti interni uguali anche col variare degli elementi impiegatî per descriverlo. Ogni testo della cultura, a questo riguardo, è una monade che rispecchia il modello della cultura stessa. 4.6.2. Questa connessione tra la cultura, in quanto matrice di un modello del mondo, e testi, in quanto possibili fornitori di modelli del mondo, costituisce un asserto che va poi minutamente dimostrato. Le formulazioni dei semiologi sovietici sono abbastanza duttili per poter ammettere (anche se essi non ne parlano) che oltre a una gerarchia funzionale, in cui il ruolo preminente tocca senza scampo alla lingua, e alla gerarchia di prestigio, per cui esistono epoche dominate dai codici verbali scritti od ‘orali, dal codice musicale, ecc., debba anche esser considerata una gerarchia pragmatica: essa descriverebbe per esempio (cfr. $ 4.4.2) l'influsso delle poetiche e delle écritures sull’ideazione di modelli del mondo, e delle ideologie sulla loro concezione *. È un campo aperto alla considerazione della pragmatica della cultura: muovendosi nel suo interno, si eviterebbe di privilegiare l’aspetto «descrizione della realtà» rispetto a quello di «intervento sulla realtà». Ciò non porterebbe al di fuori della teoria dei modelli, dato che nulla è più familiare dei modelli a qualunque ideologia (i modelli possono anche prendere l’apparenza di miti, e tali sono tutte le ideologie). Va anche rilevato, e ciò apre altre, differenti possibilità di sviluppo a queste ricerche, che «modelli del mondo» e «teoria dei mondi possibili» non hanno in comune soltanto la parola zz0ndo (cfr. $ 3.10). Le condizioni a cui deve sottostare un’invenzione letteraria coincidono con i parametri del mondo modellizzato nella corrispondente cultura. Si possono allora considerare gli allargamenti o le infrazioni rispetto ai mondi definibili «possibili» come conferme per assurdo o, invece, come proposte e aspirazioni a mondi diversi. Cosi la logica può fungere da criterio di misura di potenzialità innovative. I rapporti tra il sistema modellizzante della cultura e l’opera d’arte singola paiono abbastanza chiari: se la cultura è assimilabile a una lingua, l’opera d’arte equivarrà a un atto di parole; se il sistema modellizzante culturale ha una costituzione di tipo semantico e paradigmatico, l’opera d’arte ha una costituzione primariamente sintattica e sintagmatica. Analogamente al modo di funzionare della coppia lingua/parole, si può ritenere che i modelli del mondo proposti in un singolo testo siano la realizzazione (una delle tante poss; JU. M. LOTMAN, O metajazyke cit., trad. it. p. 150. i 31 Questa è la proposta avanzata in C. SEGRE, Sezziotica, storia e cultura cit., pp. 7-24.
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sibili) di un modello del mondo presente come possibilità nella cultura; e che ogni modello del mondo realizzato in un testo venga poi assimilato all’interno della cultura arricchendo o mutando il suo modello del mondo potenziale. 4.6.3. Ai fini della critica letteraria, può essere determinante e produttivo verificare la corrispondenza tra la struttura del testo e il modello del mondo ivi proposto. Se è valida la concezione di un modello del mondo immanente in un «testo della cultura», devono essere indagati i rapporti, certo stretti e regolati, tra il modello e le forze strutturanti il testo. Lo stesso Lotman © ha già fornito indicazioni preziose, quando ha ripreso il problema delle unità minime narrative usando come metro il quadro del mondo in cui queste unità si inseriscono. Definire per esempio le azioni (o avvenimenti) come passaggi di un personaggio da un campo semantico a un altro, o qualificare come «rivoluzionario» un intreccio da cui il quadro del mondo risulti modificato, rispetto a un altro che lo lascia indenne, significa abbozzare le prime linee di quell’interrelazione fra struttura e modello del mondo che qui si postula. 4.6.4. In ogni caso, la cultura può essere considerata come un «serbatoio d’informazione» delle collettività umane, e l’attività culturale quotidiana consiste nel «tradurre un certo settore della realtà in una delle lingue della cultura, trasformarlo in un testo, cioè in un’informazione codificata in un certo modo, introdurre questa informazione nella memoria collettiva» *. Ma oltre che deposito d’informazione, la cultura è un «meccanismo che crea un insieme di testi» *, ed è a mio avviso su questa linea, caratterizzata da un rapporto potenzialità/realizzazione, che le teorie dei semiologi sovietici possono dare i migliori risultati. Ecco le affermazioni più nette sull'argomento: Da un punto di vista semiotico, la cultura può essere considerata come una gerarchia di sistemi semiotici particolari, come una somma di testi cui è collegato un insieme di funzioni, ovvero come un congegno che genera questi testi. Considerando una collettività come un individuo costruito in modo più complesso, la cultura può essere interpretata, in analogia con il meccanismo individuale della memoria, come un congegno collettivo per conservare ed elaborare informazione. La struttura semiotica della cultura e la struttura semiotica della memoria rappresentano fenomeni funzionalmente omogenei, situati a livelli diversi. Questa tesi non è in contraddizione con il dinamismo della cultura: dato che essa rappresenta in linea di principio una fissazione [fiksacija] di esperienza passata, essa può svolgere anche la funzione di programma e di istruzione per costruire nuovi testi”.
Ma queste stesse affermazioni contengono accenni a un diverso approccio al problema, là dove parlano di «una somma di testi cui è collegato un insieme di funzioni». Concepire la cultura come una somma di testi è una propo3 Cfr. JU. M. LOTMAN, Struktura cit., trad. it. pp. 281 sgg. 33 JU. M. LOTMAN € B. A. USPENSKIJ, O serziotiteskom mechanizme cit., trad. it. p. 11. * Ibid., p. 50.
35 v. V. IVANOV e altri, Tezisy cit., trad. it. p. 209.
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sta avanzata da varie parti: citeremo almeno Foucault. La proposta pare una conseguenza della posizione primaria, anzi costitutiva, attribuita ai testi come anello di congiunzione tra la semiotica letteraria e quella della cultura. Essa invita a un’estensione del concetto di testo: si può dunque considerare come testo «qualsiasi veicolo di un significato globale (“testuale”), sia esso un rito, un’opera d’arte figurativa, oppure una composizione musicale » *. Ma anche la natura del testo, in questa prospettiva, andrebbe considerata diversamente da come la si considera di solito, incluse le presenti pagine. 4.6.5. Il testo, in quanto elemento primo e unità di base della cultura, andrebbe considerato nei suoi confronti come un blocco inanalizzabile. Non più successione, e combinazione, di segni (linguistici), perciò di elementi discreti, il testo per la cultura sarebbe un segno globale, dotato di tratti distintivi, ma non segmentabile in unità di rango inferiore. È in atto qui la distinzione discreto/continuo, e il testo, a seconda della prospettiva scelta, potrebbe esser visto sia come somma di elementi discreti, sia come unità continua. Non solo: ma si dovrebbe poter considerare come testo un insieme di testi per qualche aspetto omologhi: «Uno stesso messaggio può presentarsi come testo, come parte di un testo o come insieme di testi. Cosî le Povesti Belkina [Novelle di Belkin] di Puòkin possono venire considerate come un testo globale, come un insieme di testi o ancora come parte di un unico testo, “la novella russa degli anni trenta del secolo scorso” » * In questa memoria collettiva che è la cultura, avremmo dei testi come input, dei testi come output *; ma mentre è facile comprendere la concretizzazione di testi in output, è molto meno facile immaginare che l’input di testi si realizzi anche in forma di stratificazione di testi. L'esperienza della memoria individuale è molto diversa: tranne nei pochi casi di memorizzazione testuale, la memoria conserva, in un ordine ragionato, elementi contenutistici e formali, non testi completi. La memoria collettiva è un’astrazione, ma non pare consigliabile di configurarla diversa, se non per capienza, dalla memoria individuale. Con ogni probabilità, nel termine memoria collettiva coesistono due immagini: una riguarda il riconoscimento e la conservazione dei testi come patrimonio della comunità, l’altro la loro azione modellizzante nelle coscienze. È solo nel primo caso che si può parlare di conservazione integrale di testi; ma ricordando quanto segnalato prima (cfr. $ 4.1), che i testi sono soltanto una registrazione di segni grafici, sinché non vengano sottoposti a lettura. Se viceversa vogliamo alludere alla presenza attiva e allo stimolo continuo dei testi, dobbiamo pensare che la loro presenza nelle memorie sia del tipo selettivo e classificatorio che si è detto. Molto più valida, e passibile di sviluppi, l’idea che nei confronti della cultura i testi non si presentino come combinazione di segni discreti, ma come 3 Ibid., p. 199. 3 Ibid. * Cfr. c. sEGRE, Sezziotica, storia e cultura cit., pp. 19-22.
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elementi continui: infatti la cultura non assimila quella precisa sintagmatica di segni (significanti e significati) in cui il testo, come prodotto linguistico, consiste, ma piuttosto una sintesi dei suoi contenuti, o meglio, dei contenuti che la cultura vi ha sino allora individuato o creduto di individuare. Tant'è vero che la cultura può assimilare contemporaneamente linguaggi e codici diversi, che presi nei loro elementi discreti sarebbero inconciliabili. Anche qui serve il confronto con le modalità dell’assimilazione individuale. Sia l’analisi di un singolo testo, sia il confronto fra più testi (per esempio, per attenerci a un caso indicato dai nostri semiologi, «la novella russa degli anni trenta del secolo scorso»), i vari procedimenti di scomposizione (individuazione di motivi e temi, delineazione dei campi semantici, scoperta delle isotopie, ecc.) sono compiuti mediante un metalinguaggio che permette di superare la naturale eterogeneità e incomunicabilità dei testi. In questa operazione la successione di elementi discreti (linguistici) del testo viene trascesa perché si parte già dai risultati della comprensione, di natura continua e con tratti distintivi. D'altra parte gli elementi individuati, per poter essere incasellati nella memoria, debbono essere ritradotti in lingua — lingua usata con funzione metalinguistica, perciò lingua altra rispetto a quella naturale dei testi. Ed è dopo questa conversione, da lingua a metalingua, che si può formare il sistema concentrico, con la lingua (come sistema) al centro e gli altri sistemi attorno, partendo dai più sino ai meno strutturati, di cui parlano Lotman e Uspenskij. Per questo abbiamo dichiarato preferibile vedere la cultura come sintesi di testi, e produttrice di testi, che come somma di testi. Probabilmente la migliore definizione del funzionamento della cultura proposta da Lotman e Uspenskij è la seguente: .
4
.
.
.
Il meccanismo semiotico della cultura creato dall’umanità è organizzato in maniera sostanzialmente diversa da quella dei sistemi non semiotici: vengono adottati principi strutturali opposti e alternativi. I loro rapporti, la disposizione di questi o quegli elementi nel campo strutturale che si viene formando, creano l'ordinamento strutturale che permette di fare del sistema il mezzo di conservazione dell’informazione. È inoltre essenziale, tuttavia, che siano realmente assegnate non queste o quelle determinate alternative, il cui numero sarebbe sempre finito e — per un dato sistema — costante, ma il principio stesso dell’alternatività, in base al quale tutte le concrete opposizioni di una data struttura rappresentano solo le interpretazioni a un determinato livello. Di conseguenza, qualsiasi coppia di elementi, di ordinamenti locali, di strutture particolari o generali, oppure di sistemi semiotici interi, assume valore di alternativa e forma un campo strutturale che può venir colmato dall’informazione ”.
Definizione ricchissima perché distingue elementi, rapporti e informazioni, e implica la possibilità di collegare in modo diverso i medesimi elementi, istituendo una varietà di rapporti molto più ampia di quella degli elementi in
gioco. Ciò permette di descrivere le stratificazioni interne di una cultura (che
non è mai, né può essere uniforme) in base al mutare di rapporti tra gli ele39 JU. M. LOTMAN € B. A. USPENSKIJ, O sezziotiteskom mechanizme cit., trad. it. pp. 66-67.
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menti 0, com’è ovvio, alla partecipazione di più o meno elementi nel quadro strutturale. Si potrebbero inserire qui, completando la descrizione, le ideologie, le quali istituiscono delle polarizzazioni fra gli elementi del sistema, perciò ne orientano, o anche ne dislocano, le opposizioni. Anzi, l’eterogeneità
fra il sistema concettuale, di natura semantica, e il sistema delle conoscenze fattuali (storiche, scientifiche, ecc.) si supera ora avvertendo la capacità delle ideologie di classificare e sceverare le conoscenze nelle griglie delle loro idee-cardine. Ò 4.7. Storia e modelli. Da quanto detto sin qui risultano la duttilità e la mobilità della cultura che, essendo la sintesi dell’esperienza di una collettività, profitta continuamente dei risultati di ogni esperienza. Questa mutabilità può esser vista entro un’alternanza tra due tendenze contrapposte: Nella connessione di livelli e sottosistemi diversi in quel tutt'uno semiotico che è la «cultura», operano due meccanismi tra loro contrari: A) La tendenza alla varietà, ossia all'aumento dei linguaggi semiotici diversamente organizzati, il «poliglottismo» della cultura; B) La tendenza all’uniformità, ossia la tendenza della cultura a interpretare
se stessa o le altre culture come linguaggi unitari, rigorosamente organizzati”.
A parte queste tendenze antinomiche, vi sono antinomie più specifiche in azione entro la cultura, non diverse da quelle riscontrabili in una lingua naturale. Le principali attengono alle dimensioni spaziale e temporale: si tratta delle antinomie nazionale/straniero e modernof/antico. La seconda costituisce una sorta di diacronia nella sincronia: ogni fase sincronica della cultura contiene insomma elementi di fasi precedenti e anticipazioni di fasi successive, esattamente come accade nelle lingue, anche per la compresenza di giovani, adulti e anziani. Di qui la possibilità di sviluppi non bruschi. La prima antinomia convoglia nell’ambito di una cultura elementi provenienti da culture diverse, e lontane. La policulturalità che ne risulta arricchisce le scelte di stili di vita e comportamenti, estende l’area di possibilità dei programmi di azione, promuove l’esperienza del «diverso» in seno alla stessa comunità. Ma il dinamismo di una cultura è prodotto soprattutto dal suo orientamento, cioè dalla posizione dominante conferita ad uno o ad altro sistema semiotico, che grazie a questa dominanza pervade o assimila gli altri sistemi semiotici compresenti. Cosî ci possono essere culture orientate alla scrittura (al testo) o alla lingua parlata, alla parola o al disegno ‘. L’attribuzione della dominanza a un sistema semiotico, determinante per costituire l’unità di una cultura, è la conseguenza più netta della formulazione di un automodello: è infatti grazie al sistema o ai sistemi dominanti che «si costruisce il sistema 4° v. v. IvANOV e altri, Tezisy cit., trad. it. p. 218. Ri 0:d pizzo.
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unificato che deve servire da codice per l’autoconoscenza e l’autodecifrazione dei testi» della cultura data ‘. L’impulso alla trasformazione è dunque insito nei sistemi culturali; e ciò permette osservazioni proficue ai fini della tipologia delle culture e della storicizzazione. In termini generali, le trasformazioni di una cultura possono esser viste come risultato di quel confronto ordine/caos che abbiamo già indicato costitutivo di ogni cultura. Se dal punto di vista dell’osservatore interno la cultura, come organizzazione e informazione, si contrappone al caos come entropia e indicibilità, dal punto di vista dell’osservatore esterno la cultura non viene a rappresentare un meccanismo immobile, bilanciato in una dimensione sincronica, bensf un congegno dicotomico il cui «funzionamento » si attuerà come invasione dell’ordine nella sfera del non ordinato, e come con-
trapposta irruzione del non ordinato nell’area dell’organizzazione. In momenti diversi dello sviluppo storico può dominare l’una o l’altra tendenza. L’acquisizione alla sfera della cultura di testi provenienti dall’esterno risulta essere talvolta uno stimolo potente di sviluppo culturale ‘*.
Si potrebbe abbozzare una storia delle civiltà seguendo il vario modo in cui esse si sono rappresentati ordine e caos, e le alterne vicende di un caos ora defenestrato ora irrompente, ora paventato ora vagheggiato. 4.8. Storia e tipologia. 4.8.1. Anche per la tipologia delle culture la semiotica dei modelli culturali ha avanzato proposte convincenti. Segnalo ad esempio la differenza tra culture che si orientano sulla «posizione del parlante» e altre che si orientano su quella dell’ascoltatore (diciamo dell’emittente e del ricevente). Nel secondo tipo di cultura i concetti di massima chiarezza e di massima validità coincidono, i testi cercano di essere spontanei, non convenzionali, e si attri-
buisce il massimo apprezzamento alla prosa, all’annalistica, al giornalismo. La cultura del primo tipo ha invece tendenze esoteriche, preferisce i testi chiusi, poco accessibili e incomprensibili, valorizza la poesia, la profezia, magari anche i linguaggi segreti. Nella cultura orientata sul parlante, l’uditorio si modellizza a immagine dell’emittente del testo, nell’altra è l'emittente che costruisce se stesso ad immagine dell’uditorio ‘. Le opposizioni Rinascimentobarocco, classicismo-romanticismo, sono tra le attuazioni storiografiche più evidenti di questa polarità. Altra distinzione efficace è quella tra culture orientate sull’espressione e altre dirette sul contenuto: le prime si rappresentano come un sistema di testi, le altre come un sistema di regole, le prime si volgarizzano attraverso manuali formati come meccanismi generativi, le altre attraverso catechismi e cre42 Cfr. JU. M. LOTMAN € B. A. USPENSKIJ, O serziotiteskom mechanizme cit., trad. it. p. 72. 4 v. Vv. IVANOV e altri, Tezisy cit., trad. it. p. 197.
4 Ibid., pp. 201-2.
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stomazie. Vengono proposti come esempi il classicismo e il realismo europeo. In quello, i modelli teorici erano pensati come eterni e anteriori alla creazione reale, il giudizio sui testi coincideva con la misura della loro conformità alle regole, e il detentore delle regole, o il formulatore dei giudizi, hanno la massima autorità. In questo, i testi artistici assolvono direttamente la loro funzione, senza la necessità di essere mediati dal metalinguaggio della teoria; il teorico elabora le sue generalizzazioni a partire dai testi, e spesso è una persona sola con lo scrittore ‘. Le culture orientate sul contenuto hanno la vocazione del proselitismo, e considerano come una riserva di caccia lo spazio della non-cultura; quelle orientate sull’espressione tendono invece a chiudersi in se stesse, ad alzare barricate contro tutto ciò che si oppone loro, a identificare non-cultura e anticultura: esempi la Cina medievale e la Russia di Ivan il Terribile‘. Assai brillante la distinzione tra culture che attuano una comunicazione del tipo 10-EGLI, oppure del tipo 10-10. I due tipi di comunicazione possono essere definiti cost: In un caso, abbiamo a che fare con un’informazione data in anticipo, che viene trasferita da un uomo all’altro, e con un codice che rimane costante nell’ambito dell’intero atto comunicativo. Nell’altro, invece, si tratta di un aumento dell’informazione, di una sua trasformazione e riformulazione secondo altre categorie; inoltre, non vengono introdotti nuovi messaggi, ma nuovi codici, mentre il destinatario e il mittente coincidono. In questo processo autocomunicativo ha luogo anche una riorganizzazione della personalità, e a ciò si connette una gamma assai vasta di funzioni culturali, dal senso della propria individualità, necessario all'uomo in determinati tipi di cultura, all’autoidentificazione e all’autopsicoterapia ‘.
L’arte, a detta di Lotman, si vale di entrambi i sistemi di comunicazione, anzi oscilla nel campo della loro reciproca tensione strutturale. Effetti estetici si producono a partire dal momento in cui il codice incomincia a essere usato come messaggio, e il messaggio come codice, perché il testo passa da un sistema di comunicazione a un altro, pur conservando un legame con entrambi‘. Ora si può dare il caso che una cultura si orienti piuttosto sull’autocomunicazione oppure sulla comunicazione dominante nel sistema delle lingue naturali. Nel primo caso si potrà avere una notevole attività spirituale, una tendenza alla «poeticità» (riduzione delle parole a indici, tendenza alla crittografia, indebolimento dei nessi semantici e sottolineatura di quelli sintagmatici), e per contro uno scarso dinamismo. Invece, le culture orientate sul messaggio tendono a dilatare illimitatamente il numero dei testi e comportano un rapido aumento delle conoscenze; esse hanno un carattere più mobile e dinamico. Esempio la cultura europea dell’Ottocento ‘. ».DE JU. M. LOTMAN e B. A. USPENSKIJ, O sezziotiteskom mechanizme cit., trad. it. pp. 51-52. 14., D. 57.
4 Ju. M. LOTMAN, O dvuch modeljach cit., trad. it. p. 125. 48 È; Ibid., p. 129. CAlbidaNpMazz:
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4.8.2. Degli scritti sinora noti, uno di Lotman ” presenta il tentativo più ampio di applicare alla storia della cultura russa un’interpretazione tipologica (che, con qualche ritocco, potrebbe valere anche per il resto dell'Europa). Lotman parte da una matrice basata sulla prevalenza o sulla scarsa importanza, rispettivamente, dei valori paradigmatici, che Lotman chiama semantici (rapporti di sostituzione tra segni) e sintagmatici (rapporti di combinazione tra segni). Secondo questa figura: II. (Significato sintagmatico)
30
PiYIL(3)
I(+) II (+)
paradigmatico) (Significato I.
Le quattro possibilità s’interpreterebberto cosî: 1) il codice culturale costituisce solo l’organizzazione semantica; 2) il codice culturale costituisce solo l’organizzazione sintagmatica; 3) il codice culturale è orientato verso la negazione di entrambi i tipi di organizzazione, cioè verso la negazione del carattere segnico; 4) il codice ctlturale costituisce la sintesi di entrambi i tipi di organizzazione. Il primo tipo, definito semantico o simbolico, è quello proprio del medioevo. Il mondo vi è immaginato come parola, e la creazione come formazione di un segno. Tutti i segni rinviano in qualche modo a un significato unico, perciò non importano i loro rapporti reciproci, ma semmai gli approfondimenti di significato realizzati in ogni segno. Anzi, la parte è omeomorfa al tutto, dato che può fungerne da simbolo. Nel modello medievale del mondo v’è dunque una bipartizione: fenomeni aventi significato, e fenomeni della vita pratica, privi di significato. Da cui la situazione contraddittoria di escludere il biologico e il quotidiano dai valori, e di dar valore a fatti impalpabili, ma fortemente simbolici. Il quotidiano può esser recuperato solo trasformandosi in rituale; l’individuo non ha diritti in quanto tale, ma in quanto membro di un gruppo. Il paradigma semantico è costruito su grandi opposizioni (cielo-terra, eternità-tempo, bene-peccato, ecc.) da cui le varie serie semantiche sono deducibili senza residui. Naturalmente il tempo è espunto dal quadro del mondo, e 50 Cfr. JU. M. LOTMAN, I/ problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del xx secolo, in JU. M. LOTMAN e B. A. USPENSKIJ, Ricerche semiotiche cit., pp. 40-63.
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l’inizio non è completato dalla fine, ma è argomento di eternità: di qui la ricerca di antenati per le stirpi e i popoli. Definito sintagmatico, il secondo tipo sarebbe rappresentato dalle concezioni chiesastico-teocratiche e assolutistiche dei secoli xvi-xvII, e poi dallo «stato regolare» di Pietro I. Ora si respinge il significato simbolico degli avvenimenti e dei fenomeni, e tutto viene portato sul piano chiesastico o statuale. Si valutano soprattutto le cognizioni utili, e il buon senso è il principale criterio di realtà. Le parti (per esempio l’individuo) nòn sono più viste come omologhe al tutto, ma come frazioni che il tutto organizza. É in questo quadro che si sviluppano gli ideali democratici. Con netta differenza rispetto al tipo semantico, gli oggetti culturali vengono posti su un asse temporale, e nel movimento si vede in genere un perfezionamento; nell’opposizione vecchio-nuovo, il primo termine è visto come negativo, il secondo positivo. Nasce il concetto di progresso: che però, inteso come sottomissione alla Chiesa o allo Stato o come ampliamento delle conoscenze scientifiche, porta ad una nuova semantizzazione, di carattere burocratico.
Si può definire aparadigmatica e asintagmatica una cultura come l’illuminismo, con la sua rivendicazione delle cose e degli oggetti contro i segni, e soprattutto le parole, della realtà biologica e antropologica contro l’organizzazione sociale. Prende quota l’antitesi naturale-innaturale, dove l’elemento positivo è il primo; si scopre l’arbitrarietà del rapporto significante-significato. Infine, tutta l’attenzione è prestata all’individuo (magari solitario come
Robinson), mentre i grandi raggruppamenti umani sono visti solo come degli agglomerati. Con l’imporsi della società borghese, si fa viva l’aspirazione a concepire un modello del mondo che lo presenti provvisto di senso e di unità. Si sviluppano storicismo e dialettica, con l’aiuto dei quali «l’idea del mondo come una successione di fatti reali, che sono l’espressione del moto profondo dello spirito, conferiva a tutti gli avvenimenti un duplice senso: semantico, in quanto rapporto tra le manifestazioni fisiche della vita e il loro senso occulto, e sintagmatico, in quanto rapporto tra esse e la totalità storica» ”. Il mondo appare insomma strutturato come la lingua, con piano del contenuto e piano dell’espressione, mentre ci si sforza, ma non sempre con successo, di inserire nel sistema i fatti che gli sono estranei. Di qui i conati di evasione da questo tipo, ai quali tuttora si assiste.
4.8.3. Almeno in parte, i modelli di tipologia storica di Lotman potrebbero essere applicati anche alla nostra cultura; l'impegno in questa applicazione sarebbe certamente produttivo. Del resto, già vi sono utilizzazioni descrittive e storiografiche dei modelli lotmaniani per vari ambiti storici”. Van5 Ibid., p. 59. se Cito come esempi K. M. BoKLUND, Or the spatial and cultural characteristics of courtly romance, in «Semiotica», XX (1977), 1-2, pp. 1-37; I»., Socio-sémiotique du roman courtois, ibid., XXI (1977), 3-4, pb. 227-56; c. AcutIs, La leggenda degli infanti di Lara. Due forme epiche nel
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no segnalati in particolare due contributi di Maria Corti ”, sulla cultura medievale e sul modello triadico, di origine indeuropea, che viene conservato dai predicatori sino al secolo xrI, entro una concezione dell’ordine come gerarchia, e della gerarchia come sacralizzazione del mondo, che ha il suo stereotipo nel Corpus Areopagiticum dello Pseudo-Dionigi: per esempio Alano di Lilla divide la società in oratores, bellatores e laboratores, e ritrova lo stesso schema piramidale in ogni cellula sociale (parrocchia, monastero, vescovado, ecc.) *, nonché nelle tre forze dell’anima. Dal punto di vista dell’auto-
rità epocale dei modelli, sono importanti due ordini di osservazioni: sullo scontro tra il modello e la realtà sociale del secolo xIII; sull’esistenza di un antimodello. i Quanto al primo punto, la Corti studia i vari tipi di adeguazione del modello alla realtà emergente dalla civiltà borghese e mercantile: moltiplicazione delle sottoclassi dei laboratores (Onorio d’Autun); naufragio degli ordines, con la loro sistemazione gerarchica nel mare degli st4f4s, specialmente professionali (Giacomo di Vitry); proposta di un nuovo e più complesso modello piramidale, comprendente tutti gli st44s (Umberto di Romans). Nel secondo punto vengono illustrate le tesi bachtiniane sul comico e sul carnevalesco °, nel senso che la cultura popolare, emarginata, si crea nel medioevo un antimodello che è speculare a quello accolto dalla cultura dominante, perché capovolge l’ordinamento topologico delle opposizioni, privilegiando il basso contro l’alto, il corpo contro lo spirito, la follia contro la saggezza, come si vede benissimo nel Diglogus Salomonis et Marcolphi, non per nulla imitato nei secoli, dal Bertoldo di G. C. Croce al Sancio di Cervantes ”*.
Operazione, comunque, di carattere colto, da parte di una cerchia di intellettuali che vogliono «fompere un ideale di perfezione organizzativa o, per lo medioevo occidentale, Torino 1978; A. PIOLETTI, La condanna del lavoro. Gli «ordines» nei romanzi di Chrétien de Troyes, in «Le forme e la storia», I (1980), 1-2, pp. 71-109. Si confronti con lo studio della letteratura brasiliana sul ritmo di coppie oppositive via via dominanti e interagenti: L. STEGAGNO PICCHIO, Opposizioni binarie in letteratura: il caso della letteratura brasiliana, nella raccolta, da lei curata, Letteratura popolare brasiliana e tradizione europea, Roma 1978, pp. 15-35. Per uno studio dei sistemi letterari in contatto cfr. 1. EVEN-ZOHAR, Papers in Historical Poetics, Tel Aviv 1978. 5 Cfr. Mm. coRTI, Modelli e antimodelli nella cultura medievale, in «Strumenti critici», XII (1978), 35, pp. 3-30; ID., Ideologia e strutture semiotiche nei «Sermones ad status» del secolo XII, in Il viaggio testuale cit., pp. 221-42. 5 Il modello ternario continua ad essere proposto sino ad oggi: cfr. per esempio A. JOLLES, Einfache Formen. Legende, Sage, Mythe, Ritsel, Spruch, Kasus, Memorabile, Mirchen, Witz, 1930 (trad. franc. Forzzes simples, Paris 1972, pp. 18-25), che indica come principali attività umane il coltivare, il fabbricare e l’interpretare, cui corrispondono il contadino, l’artigiano e il sacerdote. Per il trifunzionalismo di Duby (che deriva a sua volta da Dumézil), e gli schemi ternari, indipendenti ma affini, di Lotman, cfr. M. L. MENEGHETTI, Les modèles culturels: ante rem, in re, post rem?, in M. HALLE, L. MATEJKA, K. POMORSKA e B. A. USPENSKI (a cura di), Sezziosis cit., pp. 77-91. 5 Cfr. M. M. BACHTIN, Tvorcestvo Fransua Rable i narodnaja kul'tura srednevekov'ja i Renessansa, 1965 (trad. it. L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino 1979). 5 Cfr. p. CAMPORESI, La maschera di Bertoldo. G. C. Croce e la letteratura carnevalesca, Torino 1976; e l’introduzione al volume da lui curato G. c. crocE, Le sottilissime astuzie di Bertoldo. Le piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino. Col «Dialogus Salomonis et Marcolphi» e il suo primo volgarizzamento a stampa, Torino 1978; con le rettifiche di F. BRUNI, Modelli în contrasto e modelli settoriali nella cultura medievale, in «Strumenti critici», XIV (1980), 41, pp. 1-59.
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Concetti, tecniche e categorie
meno... demistificarlo presentandocelo rovesciato» ”. Ciò che vale per quasi tutti i tentativi medievali di proporre antimodelli, data l'impossibilità, per gli emarginati del medioevo, di elaborare una propria cultura, e persino di « prendere la parola». 5 m. coRTI, Modelli e antimodelli cit., p. 28.
ROBERTO
ANTONELLI
Interpretazione e critica del testo
1.
Tradizionee
interpretazione.
1.1. Testo, valore, interpretazione. Se volessimo rispondere nei termini apparentemente più «oggettivi» alla domanda «cos’è un testo? » potremmo tranquillamente dire che il testo è una successione di segni linguistici. La definizione avrebbe il vantaggio di comprendere oltre ai testi scritti anche «testi» orali e di prestarsi ottimamente a descrivere le condizioni di una vita letteraria contemporanea che sembra recuperare al suo interno, in forme sempre più massicce, generi non scritti e funzioni non legate alla letteratura prenovecentesca. Si avrebbe anche il vantaggio di ricalcare di fatto la definizione che di testo (< fextus) dava già in età tar-
do-antica il grande retore Quintiliano, presso il quale troviamo attestato per la prima volta il termine nel suo senso figurato (« Verba eadem qua compositione vel in textu iungantur vel fine claudantur») '. L’«oggettività» e la «scientificità» dell’approccio avrebbero però le gambe corte: appena volessimo definire i limiti, l’unità ovverd l’individualità di un testo dovremmo immediatamente riconoscere che «è fondamentale l’apporto dell’osservatore » °: i limiti del testo sono fissati dal fruitore del testo. L’intero sistema culturale di un’epoca o di un paese è visto da taluni semiologi contemporanei È (ma non solo: si pensi per il medioevo al rapporto Libro/Natura) come un unico grande testo la cui analisi è passibile di diverse demarcazioni, a seconda del «punto di vista» ‘. 1 M. F. QUINTILIANO, Institutio oratoria, IX, 4, 13 («Le stesse parole vengono unite nel corso o alla fine del periodo »). Sull’uso di texts nel medioevo e in età umanistica, cfr. s. RIZZO, Il lessico filologico degli umanisti, Roma 1973, pp. 9-11; considerazioni di portata generale sulla base di una attenta rassegna diacronica, anche di testi italiani, in G. GORNI, La metafora di testo, in «Strumenti critici», XIII (1979), 38, pp. 18-32. ? c. sEGRE, La natura del testo, in Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino 1979, D. 24. 3 Cfr. JU. M. LOTMAN € B. A. USPENSKIJ, O sezziotiteskom mechanizme kul'tury (1971) (trad. it. Il meccanismo semiotico della cultura, in Semiotica e cultura, a cura di D. Ferrari Bravo, MilanoNapoli 1975, pp. 59-95); In. (a cura di), Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell’URSS, edizione italiana a cura di C. Strada Janoviè, Torino 1973 e la relativa discussione in C. SEGRE, «Testo», in Enciclopedia, XIV, Torino 1981, pp. 288-90, e D’A. S. AVALLE, Il problema della cultura nella filologia e linguistica russe del x1x e xx secolo, nel volume, da lui curato, La cwltura nella tradizione russa del xIx e xx secolo, numero monografico di «Strumenti critici», XIV
(1980), 42-43, PP. 515-56.
4 O meglio, del «filtro», secondo un’immagine usata da c. sEGRE; Critica e strutturalismo (1965), in I segni e la critica. Fra strutturalismo e semiologia, Torino 1969, p. 17.
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Concetti, tecniche e categorie
L’introduzione del « fruitore», lettore o studioso che sia, implica la storia, ovvero, se si preferisce, la « politica», in quanto ogni storia è storia contemporanea e ripropone già îr limzine la contraddizione organica ad ogni disciplina storica: l’osservatore — come ha chiarito gran parte dell’ermeneutica ottocentesca e novecentesca — è al tempo stesso soggetto e oggetto di osservazione storica e
dunque il testo è sf una «successione di segni linguistici» ma limiti, senso e «valore» della successione e dei segni sono già problema interpretativo e quindi eminentemente dialettico. 1.2. Critica del testo e tradizione.
AI giorno d’oggi vengono stampati ogni anno, nella sola Italia, migliaia di libri: la quantità delle pubblicazioni è tale da avere sconvolto qualitativamente e radicalmente i termini stessi della fruizione e (conseguentemente?) della produzione letteraria. Se estendiamo — come ci sembra giusto — il concetto di «testo letterario» anche a fenomeni cineradiotelevisivi e cibernetici lo sconvolgimento della struttura (non più certo «testo») culturale apparirà ancora più evidente e diverso dal passato pur recente. Ammesso che sia possibile una «com-prensione» nel senso tradizionale, ogni operazione cui si voglia assegnare un « senso» dovrà necessariamente passare attraverso una selezione, durissima.
Corpus-pattimonio, tradizione, interpretazione, riconoscimento di un «valore», selezione, critica del testo: la necessità e linearità del processo (e del suo significato) è palese già nel Museo di Alessandria (fondato intorno al 280 a. C.), il primo grande e mitico luogo in cui conservazione e critica del testo sono associati. Lf il corpus (se è vera la notizia tramandata da Eusebio, secon-
do cui nella biblioteca erano contenuti nel ITI secolo 200 000 0 490 000 volumi °) tendeva a coincidere con l’intera collezione della letteratura greca: la critica del testo si esercitava su un valore globalmente riconosciuto, il problema era «solo» quello di assicurare i migliori «testi» possibili e di identificare la «purezza» del patrimonio, eliminando gli elementi spuri (&detsiv, ddetNnOtE), al fine di una maggiore «autorità». I dotti bibliotecari e poeti alessandrini istituirono regole di comportamento, di edizione e di commento per cui sono ancora famosi. Il prestigio del Museo fu tale che le sue edizioni soppiantarono nella circolazione libraria la massima parte delle altre. I testi greci in un certo senso divennero proprietà, dal punto di vista testuale e quindi interpretativo, del Museo. 5 Cfr. L. D. REYNOLDS e N. 6. WiLson, Scribes and Scholars: A Guide to the Transmission of Greek and Latin Literature, 1974° (trad. it. Copisti e filologi. La tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni, Padova 1974, p. 7); al volume di Reynolds e Wilson siamo largamente ricorsi per alcune delle questioni affrontate in questi primi paragrafi.
Antonelli
1.3. Carnee
Interpretazione e critica del testo
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spirito: interpretazione e allegoria.
AI passaggio decisivo per la costituzione della tradizione occidentale, a cavallo fra n e Iv secolo d. C., problema del testo, della sua «veridicità» e autorevolezza e questione interpretativa corrono ancora paralleli. San Girolamo è consapevole delle varietà innumerevoli di varianti al Nuovo Testamento e delle diverse letture «regionali» del Vecchio: la Bibbia rappresenta la Parola di Dio, ma nel tempo si sono infiltrati nel testo errori che è dovere del critico correggere °. Come già per il testo omerico, stabilire il testo «autentico» non era però più sufficiente per consentire una fruizione integrale e non pericolosa del testo biblico: storicità del Vecchio e del Nuovo Testamento e loro attualità quale principali punti di riferimento nel presente venivano spesso a collidere. Critica della lettera e sua re-interpretazione oltre se stessa, in ciò che « dice » di «altro» (kA\.0v &yopevewv, da cui «allegoria») rispetto al puro significato
grammaticale e storico, si costituiscono in questo momento fondativo come i due poli di un movimento dialettico che stabilisce per secoli il comportamento ermeneutico, se non altro nei capisaldi teoretici. Il testo biblico possiede un senso letterale (il «corpo») e un senso allegorico (lo «spirito»), o meglio, «tipologico»; nell’interpretazione ortodossa sono entrambi veri e garantiscono insieme il rispetto della tradizione (l’adesione al «testo» e il rispetto della sua « Verità») e la sua innovazione (il suo ri-uso in mutate condizioni religiose, morali, culturali, in una parola, «storiche»). Sarà naturalmente molto diverso da autore ad autore e da età in età il valore relativo attribuito a ciascun senso e la sua articolazione interna’, ma interpretazione e critica del testo trovano un equilibrio dinamico di mirabile efficacia. In quanto parola di Dio la Bibbia imponeva preliminarmente la soluzione del problema testuale: non poteva darsi un’interpretazione che negasse veridicità alla lettera del testo. Ma il cristianesimo occidentale più o meno nel momento in cui si trova a fare i conti con la propria tradizione è costretto anche a porsi il problema dei rapporti con la grande tradizione culturale della società romana: quella pagana. Ad una fase di rifiuto totale subentra una strategia di . inglobamento ed egemonizzazione: il metodo interpretativo utilizzabile è di nuovo quello allegorico ma privato della necessità, tutta cristiana e biblica, di una verità del senso letterale (a norma del resto del comportamento già tenuto da studiosi e filologi pagani). Il ri-uso dei testi classici mediante nuove interpretazioni che ne moralizzano il senso letterale o comunque ne estraggono i valori più idonei alla cultura cristiana *,corrisponde dunque alle condizioni culturali complessive di un’epo6 Sulla filologia di san Girolamo (incredibilmente assente dal citato volume di Reynolds e Wilson) cfr. x. x. HuLLEY, Principles of textual criticism known to St. Jerome, in « Harvard Studies in Classical Philology», LV (1944), pp. 87-109 (in particolare p. 88); e E. ARNS, La technique du livre d’après Saint Jér6me, Paris 1953, in particolare pp. 179 sgg. 7 Su storia e senso dell’interpretazione allegorica nel medioevo cfr. l’eccellente H. DE LUBAC, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’écriture, 1959 (trad. it. Roma 1962). 8 Canonico il rimando almeno a sant'Agostino, De doctrina christiana, II, xL, 60, letto e com-
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Concetti, tecniche e categorie
ca, ma fonda al tempo stesso una forma mentale e un modo di approccio al testo ancora oggi ritenuto l’unico praticabile presso talune correnti ermeneutiche: il testo quale valore da riconoscere, o strumento da utilizzare (il che per certi aspetti è lo stesso), mediante un’interpretazione che ne riattualizzi il significato, al di là della sua storicità «letterale». In fin dei conti è possibile sostenere che l’idea stessa di «tradizione» quale «forma» mentale tipica della cultura occidentale nasce in misura compiuta nel momento in cui la cultura cristiana è costretta a confrontarsi con una cultura diversa, a porsi dunque il problema di una «selezione» fra i materiali e conseguentemente e primariamente quello della loro «interpretazione », al di là dello stesso assetto testuale (e critico) delle opere. 1.4. «Rinascita»
e testo.
In altri passaggi decisivi della cultura medievale, problema del testo biblico, recupero dei classici ed interpretazione del testo vanno insieme. Alcuino revisiona il testo biblico quale dono più appropriato per Carlomagno ed è anche l’ispiratore della riforma culturale carolina e l’organizzatore della Biblioteca Palatina, che divenne presto un centro attivissimo di riproduzione e di diffusione dei classici, rinnovando i modi del rapporto fra cultura medievale e cultura pagana. L’elaborazione di un nuovo tipo di scrittura, la «minuscola carolina», a cui tenterà di rifarsi Petrarca per sostituire la «gotica», ritenuta barbara, è lo strumento eccezionale di una gigantesca riacquisizione, traslitterazione e fruizione della cultura classica: la gran parte degli archetipi ’ cui risale la tradizione dei classici a noi pervenuti è appunto di età carolina. AI di fuori di questo rinnovato rapporto con la tradizione riuscirebbe incomprensibile l’attività di un Lupo di Ferrières (ca. 805-62), quale ricercatore e collazionatore di manoscritti, o dell’altro grande revisionatore carolino del testo biblico, Teodolfo d'Orléans (morto nell’821), che nell’edizione della Vulgata «adombrava i moderni metodi editoriali, usando sigle nei margini per distinguere le fonti delle sue varianti » '° Il fatto che il contributo metodologico medievale più rilevante, sul piano della critica testuale, dopo san Girolamo, appartenga al xI1 secolo, e cioè all’altra grande «Rinascenza» medievale, conferma il nesso fra tradizione, intermentato fittamente per tutto il medioevo e ancora in età moderna; per alcuni testi al riguardo essenziali cfr. R. ANTONELLI (a cura di), Le origini, in A. ASOR ROSA (a cura di), Storia e Antologia della letteratura italiana, I, Firenze 1973, pp. 1-39, e, per un inquadramento complessivo della questione, A. RONCAGLIA, Le origini, in E. CECCHI e N. SAPEGNO (a cura di), Storia della letteratura italiana, 1. Le origini e il Duecento, Milano 1965, pp. 3-269. ? Oggi per «archetipo » si intende il codice perduto, già non privo di errori, da cui è derivata la tradizione a noi pervenuta. Per le prime attestazioni del termine in età umanistica e moderna cfr. S. TIMPANARO, La genesi del metodo del Lachmann, Padova 1981 ?, pp. 7-9, 57-58 e nota 21, 65 e nota 8; per una breve descrizione dei diversi usi cfr. D'’A. s. AVALLE, Principî di critica testuale, Padova 1972, pp. 87-88. lo L. D. REYNOLDS e N. G. wILSON, Scribes and Scholars cit., trad. it. p. 105; per l’uso di sigle per indicare i codici in età umanistica cfr. s. RIZZO, Il lessico filologico cit., pp. 156, 164, 168, 177 e 301 sgg.; per l’età moderna cfr. s. TIMPANARO, La genesi cit., pp. 24-25, nota 16.
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Interpretazione e critica del testo
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pretazione e critica del testo. Ad un autore su cui negli ultimi anni è stata giustamente attirata l’attenzione, Nicola Maniacutia, cisterciense romano, si deve infatti quel che con qualche esagerazione (ma non molto lontana dal vero) potremmo definire il primo manuale di critica del testo, il Libellus de corruptione et correptione psalmorum et aliarum quarundam scripturarum " La colloca-
zione romana di Nicola, apparentemente decentrato rispetto ai grandi centri francesi, ed inglesi soprattutto, protagonisti della «Rinascita del x11 secolo» non deve ingannare: «Una Curia, capace di convocare come interlocutori o collaboratori uomini come Ugo di S. Vittore tra il 1130 e il 1140, 0, verso il 1148, Pietro Lombardo,... suppone una collocazione storica in un contesto culturalmente omogeneo ed aperto a tal genere di contatti» ‘. Del resto, sottolinea l’editore del Libellus, Nicola appare «assertore fiducioso e geloso delle possibilità e delle prerogative della ragione » ‘’,fino a contestare «come erronee letture ed opinioni anche inveterate. Molti incisi riportano cosî il sapore e gli accenti della polemica che i suoi atteggiamenti provocavano nell’ambiente romano, echi urbani della più generale disputa contemporanea tra antigui e moderni»". E in realtà riuscirebbe difficile, al di là di eccessive sottolineature, collocare il Libellus al di fuori del momento in cui non solo si recuperano gli auctores con nuova attenzione testuale e stilistica, ma li si guarda anche per la prima volta come parte (certo fondamentale) di una tradizione cui è ormai indissociabile l’idea di uno sviluppo, del progresso ”. 1.5. Testo e trasmissione. Sono ben noti alcuni passi in cui Petrarca lamenta la sorte dei testi lasciati fra le mani di scribi cattivi: solo la Sacra Scrittura fra tante rovine e danni sta ferma, mentre le più nobili delle altre scritture periscono e già per grande parte sono perite: sono confusi gli esemplari e gli esempi, cioè le Scritture da cui si traggono e quello che se ne trae ”. C'è una responsabilità individuale, degli autori che non si curano delle corruzioni dalle quali le loro opere sono sfigurate: accettano le conseguenze nefaste di una divisione del lavoro che è la causa del dissesto e va quindi assolutamente rifiutata; c’è una responsabilità collettiva, per la sottovalutazione dei grandi danni che produce l’alterazione del testo 1! L’edizione in v. PERI, «Correctores immo corruptores». Un saggio di critica testuale nella Roma del x11 secolo, in «Italia medioevale e umanistica», XX (1977), pp. 19-125 (il testo alle pp. 88-125); allo stesso Peri si debbono altri due precedenti interventi su Nicola Maniacutia (cfr. In., Notizia su Nicola Maniacutia autore ecclesiastico romano del x11 secolo, in « Aevum», XXXVI (1962), pp. 534-38; e Nicola Maniacutia: un testimone della filologia romana del x11 secolo, ibid., XLI
(1967), pp. 67-90).
:
Ip., «Correctores immo corruptores » cit., pp. 86-87. 13 Ibid., p.85. 44 Ibid. 15 Cfr. R. ANTONELLI (a cura di), Le origini cit., pp. 34-39. 16 Cfr. E. PETRARCA, De remediis utriusque fortune (dialogo De librorum copia), in Opera quae extant omnia..., Baset-1581, pp. 42-43; è difficile dire se l’opinione del Petrarca rispetto alla Bibbia fosse frutto di una distorsione informativa (la lezione del testo biblico pit usato, quello dell’Università deParigi, era infatti cattiva ma quasi canonica) o fosse pura prudenza. r. ibid.
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Concetti, tecniche e categorie
(«Il danno delle scritture voi lo mettete fra le minime cose; e sono alcuni che l’annoverano fra guadagni! ») !*. Coscienza di essere un Auctor, controllo del testo nell’intero ciclo”, trasmissione compresa, e coscienza del problemza testuale e dei guasti che la copia manuale affidata a copisti prezzolati portava con sé, sono dunque collegati in una logica fortemente unitaria, che si estende anche alla riproduzione dei classici, ai quali Petrarca applica (si pensi alla tradizione di Livio °°) le stesse cure riservate alla propria ”. Anche dal punto di vista più immediàtamente « materiale» della costituzione del testo, Petrarca rifiuta la prassi precedente (quella scolastica e tomistica ”) e punta alla costituzione di una nuova tradizione, al cui centro sono posti Auczor e Testo, non la loro astrazione logica. Sarebbe forse eccessivo identificare la specificità e novità dell’Umanesimo nella filologia: è certo però che l’instaurazione di una nuova gerarchia delle Arti che scalzasse la Filosofia dal ruolo di scienza sovrana passava — innanzitutto per Petrarca — attraverso un nuovo e diverso rapporto col testo. 1.6. Testo filologico e contesto culturale. AI di là del caso davvero straordinario di Poliziano, un autore-filologo che per taluni aspetti anticipa atteggiamenti e metodi della filologia moderna ”, è ancora oggi in discussione quanto e come il primo Umanesimo innovi realmente dal punto di vista metodologico il tipo di approccio al testo che è riscontrabile in talune zone e operatori medievali di più alta coscienza. Non v’è dubbio che in molti casi l'edizione umanistica ha confuso più che chiarito le situazioni; si ha peraltro la sensazione che spesso il giudizio sull’attività ecdotica * umani18 Ibid., nel testo abbiamo usato il volgarizzamento di 1n., De’ rimedii dell'una e dell'altra fortuna..., volgarizzati nel buon secolo della lingua per Giovanni Dassaminiato monaco deglli Angeli, libro I, Bologna 1867, cap. xLII (Dell’abondanzia de’ libri, pp. 204-10; la citazione è a p. 208). 1 Cfr. ora l’importante relazione di A. PETRUCCI, Scrivere il testo, letta al convegno La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro (Lecce 22-26 ottobre 1984), ora in corso di stampa negli Atti. 2° Cfr. il volume complessivo di G. BILLANOVICH, La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo, IJr. Tradizione e fortuna di Livio tra Medioevo e Umanesimo, Padova 1981, e i precedenti saggi dello stesso Billanovich sull’argomento, segnalati nella Premessa bibliografica, ibid., PD. XIII-XVII. 21 Non inganni l’affermazione dello stesso Petrarca, riportata in s. RIZZO, I/ lessico filologico cit., p. 229, in cui sarà da identificare più un vezzo che una reale convinzione, contraddetta com’è da altri passi su argomento affine e dal complesso delle convinzioni petrarchesche. 2 Cfr. rR. ANTONELLI, L'Ordine domenicano e la letteratura nell'Italia pretridentina, in A. ASOR RosA (a cura di), Letteratura italiana, I. Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, pp. 681-728 (in particolare pp. 715-21); e c. BOLOGNA, L'Ordine francescano e la letteratura nell'Italia pretridentina, ibid., pp. 729-97. Sulla filologia biblica nell’alto medioevo cfr. J. GRIBOMONT, Cornscierce philologique chez les scribes du haut moyen dge, in AA.vv., La Bibbia nell’alto medioevo (Settimane di studio del Centro di studi sull’alto medioevo, X, Spoleto 26 aprile - 2 maggio 1962), Spoleto 1963, pp. 601-29; un rapido schizzo della storia del testo biblico (e dei relativi approcci filologici) in H. QUENTIN, Essais de critique textuelle (Ecdotique), Paris 1926, pp. 13-20. SICH soprattutto A. POLIZIANO, Miscellaneorum centuria secunda, a cura di V. Branca e M. Pastore Stocchi, Firenze 1972 (editio minor, Firenze 1978, pp. 3-68); s. RIZZO, Il lessico filologico cit., in particolare PP. 72-74, 161-64, 234 S8g., 248 sgg., 260-63, 288 sgg.; s. TIMPANARO, La genesi cit., PP. 4-10 e passim; nonché v. BRANCA, Poliziano e l’umanesimo della parola, Torino 1983. . .% L’uso del termine «ecdotica » ad indicare la « parte della critica relativa all’edizione dei testi » risale a dom H. QUENTIN, Essais de critique textuelle cit., p.9.
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stica sia pronunziato all’interno di un’ottica lachmanniana e post-lachmanniana, più che nel rispetto delle circostanze storiche in cui gli umanisti si trovarono ad operare. Certo l’emzendatio ope codicum e ope ingenii” era nota già dall’antichità (meno nota e frequente invece la coscienza che taluni umanisti avevano riguardo ai rapporti genealogici fra i codici e alla necessità quindi di conoscerne anche la storia °°); quella che però è certamente nuova è la coscienza complessiva (e generalizzata) dell’esistenza di un problezza ecdotico e della necessità quindi che sul testo si operasse secondo un’ars critica. Dalla coscienza del problema ad un’impostazione «scientificamente» matura di una soluzione il passo sarà ancora lungo (e comporterà anche molti arretramenti): sarà soprattutto necessario che accanto all’esigenza della costituzione di una tradizione « nazionale » si affianchi in modo sempre più stringente (ma non necessariamente consapevole) la « necessità » di un rapporto fra metodologie scientifiche e metodologie testuali. È abbastanza impressionante notare la corrispondenza che esiste, dal Cinquecento al Settecento, su un piano europeo (nella filologia olandese, francese, inglese e infine in quella tedesca, dopo il caso italiano, particolare ma a questi pienamente assimilabile), fra sviluppo economico (e industriale), crescita culturale, tradizione «nazionale» e rapporto con la tradizione classica: quindi con i problemi metodologici di una critica testuale che coinvolgerà pienamente, con la Riforma e la reazione cattolica, la questione dello stesso testo biblico. La condizione per il ri-uso del testo è ora che il testo sia affidabile e conforme alla volontà dell’ Autore-emittente: l’ermeneutica settecentesca potrà anche arrivare alle geniali, ma isolate e probabilmente poco comprese, intuizioni di un Chladenius, con la (ri)proposizione di un ruolo attivo del lettore ”, ma la prima condizione di ogni lettura rimane l’accertamenté della lettera del testo; l’interpretazione polisemica appare più una necessità oggettiva del testo in quanto tale che una volontà sovrapposta, come nell’interpretazione allegorica, al pensiero dell’autore. 2.
Interpretazionee
testo.
2.1. Daltestoai testi.
L’invenzione della stampa porta una moltiplicazione delle edizioni dei classici: sul carattere casuale con cui venivano spesso scelti i manoscritti utilizzati
per le edizioni a stampa è stato già scritto molto. Alle stampe quattro e cinque25 Emendatio ope codicum («correzione in base ai codici») si ha quando per la correzione di guasti del testo il filologo si avvale della testimonianza dei codici tramandati; ezzendatio ope ingenii (o divinatio: «correzione in base all’ingegno», «divinazione ») si ha quando i guasti sono corretti tramite congetture dell’interprete moderno. 26 Cfr. s. TIMPANARO, La genesi cit., p. 6. 27 Su Chladenius e la sua Einleitung zur richtigen Auslegung verniinfftiger Reden und Schrifften (Leipzig 1742) cfr. p. szonpi, Einfiibrung in die literarische Hermeneutik, 1975 (trad. it. Introduzione all’ermeneutica letteraria, Parma 1979).
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Concetti, tecniche e categorie
centesche (pur con un testo in genere cosî casualmente fissato) venne presto di fatto conferita una grande autorità '. Lo stesso fenomeno si verifica con la Bibbia, con notevoli conseguenze, specie in ambito protestante, ove la Scrittura svolge un ruolo centrale nella vita religiosa e sociale: prendere atto della innumerevole varietà di lezioni concorrenti e tentare di darne una ragione, modificando ove necessario il testo dell’edizione vulgata, era quindi questione complessa che poteva implicare conseguenze pericolose per ifilologi troppo audaci. Tutto ciò spiega le difficoltà e la lentezza con cui si arrivò ad affrontare la revisione del textus receptus del Nuovo Testamento greco ma spiega anche le ragioni per le quali la moderna critica del testo nasca proprio all’interno della filologia biblica e di qui si estenda rapidamente alla filologia classica e alle filologie nazionali °. È stato ormai chiarito che il metodo stemmatico non è in realtà dovuto alla sola persona, K. Lachmann, cui viene comunemente ascritto: il primo impulso venne proprio dalla filologia biblica e prima o contemporaneamente al Lachmann vi furono molti altri filologi classici che operarono nella stessa direzione?. A Lachmann spetta però il merito di aver formulato alcuni principî fondamentali del nuovo metodo nel modo pit esplicito e polemico, tanto da richiamare quasi esclusivamente su di sé l’attenzione degli operatori. Delle due operazioni fondamentali nelle quali si bipartisce oggi la critica del testo, recexsio (accertamento di ciò che deve o può valere come tramandato) ed emzendatio (correzione dei luoghi corrotti), quella totalmente o quasi nuova è la prima. Nel Sette e Ottocento progressivamente si afferma la convinzione che a base dell’edizione occorra porre la descrizione e il confronto sistematico dell’intera tradizione manoscritta, cercando di determinare i rapporti di parentela fra i codici, in modo da disporre di un criterio pit sicuro per la scelta fra le varianti: stabiliti i rapporti fra imanoscritti raggruppabili in famiglie, dal confronto tra le famiglie si poteva decidere in merito alle singole lezioni. Con F. A. Wolf il principio della comparazione fra i manoscritti e la critica delle edizioni vulgate (secondo quanto enunciato ma non praticato da J. A. Bengele J. J. Wettstein nell’ambito della filologia neotestamentaria) viene perfezionato e applicato ai testi classici: occorre guardare all’intero stato della tradizione manoscritta, non solo ai luoghi sospetti, ed agire in base alle risultanze della comparazione. Con il primo quindicennio dell’Ottocento è ormai enunciata l’esigenza di raggruppare i manoscritti « per classes et familias» (eliminando anche i codici derivati da altri a noi conservati) e l’opportunità di conoscere la storia del testo e dei suoi testimoni per giungere a una comprensione reale della tradizione. 1 Cfr. s. TIMPANARO, La genesi cit., pp. 17 Sgg. 2 Cfr. ibid. 3 Per la ricostruzione dei precedenti del metodo lachmanniano e gli stessi sviluppi del metodo nel Lachmann e nei filologi a lui contemporanei è fondamentale il citato volume di Timpanaro, in particolare alle pp. 17-80, cui faremo spesso riferimento. La storia dei metodi filologici, in buona parte ancora da completare, malgrado l’accurato lavoro del Timpanaro, si dimostra sempre più determinante per comprendere anche i problemi metodologici tuttora aperti della critica testuale.
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2.2. Letteratura e scienze: compatatismo, testi, testo.
Il principio alla base della nuova filologia ottocentesca è quello comparativo, mutuato dall’ambito delle scienze naturali. Recersio sembra voler dire essenzialmente anche per K. Lachmann comparazione fra i manoscritti e accertamento dei loro rapporti reciproci. Una famosa frase del Lachmann, assunta come emblematica del suo metodo e ancor oggi citata a scopo polemico, sottolinea il ruolo centrale della comparazione descrittiva, «oggettivamente» e «neutralmente» scientifica‘, nella nuova metodologia: «recensere sine interpretatione et debemus et possumus»; un completo ribaltamento rispetto alla centralità svolta sino all'Ottocento dall’emzendatio, e quindi dall’interpretatio. Comunemente si tende a proiettare l’affermazione del Lachmann sulla concezione odierna della recersio e quindi sulla distinzione (fondamentale) tra variante ed errore, sottolineandone conseguentemente l’assurdità. Ora, se è fuori di dubbio che qualsiasi operazione pur semplicemente descrittiva non può prescindere da un minimo di interpretazione del testo offerto dai manoscritti, sembra però di poter sostenere che l’affermazione apparentemente arrogante e cieca del Lachmann” vada riferita ad una situazione e a una pratica specifica, diversa da quella odierna. Da una parte, è indubbia la polemica verso qualunque forma di interpretazione tesa all’individuazione del guasto e del suo risanamento prima che si siano stabiliti i rapporti fra imanoscritti; dall’altra però i rapporti fra i manoscritti, al di là di alcuni evidenti guasti per cosî dire « esterni» ° (meglio che «meccanici», ma certo anche «esterno» è termine inadegua-
to), sono determinati, per forza di principio prima che per l’evidenza della pratica, dalla comunanza in «lezioni caratteristiche». Non si cercano cioè preliminarmente e sistematicamente, come avverrà successivamente, gli «errori»:
tra stemmatica e metodo degli errori sembra esservi ancora una distanza che l’attenzione innegabile ai guasti «esterni» e al loro significato per i rapporti fra i manoscritti non colma integralmente. 4 Metterà poi in parallelo sviluppo del metodo « genealogico » in filologia e sviluppo industriale (distinguendo fra Germania, Inghilterra e Francia) H. KANTOROwICZ, Einfubrung in die Textkritik. Systematische Darstellung der textkritischen Grundsitze fir Philologen und Juristen, Leipzig 1921, p. 21 (ristampata in 1n., Rechtshistorische Schriften, Karlsruhe 1970, pp. 33-80). Sui rapporti fra il costituirsi nella critica testuale di un linguaggio metaforico a base antropomorfica derivato dalla storia naturale e la storia stessa della filologia, cfr. D'A. S. AVALLE, L'immagine della trasmissione manoscritta nella critica testuale, appendice 3 di La letteratura medievale in lingua d’oc nella sua tradizione manoscritta, Torino 1961, pp. 183-96. 5 Ridimensiona la portata di tale posizione P. F. GANZ, Lachmann as an Editor of Middle High German Texts, in P. F. GANZ e W. SCHROEDER (a cura di), Probleme mittelalterlicher Ùberlieferung und Textkritik. Oxforder Colloguium 1966, Berlin 1968, di cui si veda soprattutto, ma non solo p. 29: «Senza dubbio egli ha scritto: Recersere... sine interpretatione et possumus et debemus, ma questa formulazione dev'essere vista nel contesto proprio della philologia sacra, la prefazione alla sua edizione del Nuovo Testamento. Malgrado le regole meccaniche da lui proposte per il Nibelungenlied, la sua pratica più recente era assai più pragmatica, prudente e perfino scettica... Dopo tutto, proprio lui ha dimostrato che le tradizioni del Nibelungenlied, dell’Iwein, Walther e Wolfram erano tutti casi particolari ». 6 Si veda a riprova quanto sia scheletrica, fin quasi all’inesistenza, la trattazione dell’errore nei manuali di o. stAEHLIN, Editionstechnik, Leipzig 1909, p. 17, e di H. KANTOROWICZ, Einfibrung cit., pp. 16-17.
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Se ciò è vero, si comprende forse meglio come Lachmann potesse pensare di «recensere sine interpretatione»; per stabilire i rapporti fra i codici” non era necessario scegliere fra lezione buona e cattiva (e anzi probabilmente Lachmann avrebbe rifiutato come soggettivistica una prospettiva del genere); bastava porre in parallelo e a confronto la varia lectio, raggruppando quindi in modo conseguente e coerente i manoscritti relatori (come del resto avverrà
fino ai giorni nostri in larghe zone della critica testuale, sia di ambito lachmanniano che antilachmanniano).
Il metodo «lachmanniano» non coincide insomma con un metodo stemmatico basato sugli «errori comuni». In quanto metodo stemmatico è però alla base di un principio fondamentale, ancora oggi praticato: stabiliti i rapporti «verticali» fra i codici, la bontà delle rispettive lezioni è determinata «meccanicamente», da principî di logica formale. Ridotto al caso più elementare, due famiglie di manoscritti (come quelle, poniamo, orientale e occidentale, che Lachmann distinse nella tradizione del Nuovo Testamento) il comportamento dell’editore sarà cosî stabilito: Ogni lezione comune a entrambe le famiglie, sia che si tratti dell’unica lezione attestata, sia che più lezioni si ritrovino nell’una e nell’altra famiglia, dimostra di essere diffusa e merita di essere accolta nel testo: pari autorità hanno per me la lezione di una famiglia e quella contrapposta dell’altra famiglia; da eliminare (anche se forse si tratta dell’unica vera) è una lezione attestata solo da una parte
di una delle due famiglie *.
Comprensibile, all’epoca, che i due criteri più importanti di critica interna alla varia lectio utilizzati dalla filologia precedente, e cioè la preferenza per le varianti rispettose dell’usus scribendi’ dell'autore e per quelle più difficili (lectio difficilior"°), meno banali, sia vista dal Lachmann con particolare sospetto in quanto di uso troppo soggettivo. Solo la critica più recente (G. Contini) ne ha tentato un recupero sistematico (cfr. $ 4.8), proprio al fine di risolvere pericolose aporie del metodo lachmanniano. 2.3. La gerarchia della tradizione. La rappresentazione grafica dei rapporti fra i codici mediante uno sterzzza (codicum), ad opera dello Zumpt, esprime oltre che un metodo di lavoro anche l'ambizione di seguire i procedimenti e ottenere i risultati raggiunti da ? Operazione in cui peraltro Lachmann rivela, significativamente, contraddizioni e confusioni: cfr. s. TIMPANARO, La genesi cit., pp. 69-76. ® K. LACHMANN, Rechenschaft tiber L. Ausgabe des Neuen Testaments (1830), in Kleinere Schriften zur classischen Philologie, a cura di J. Vahlen, Berlin 1876, II, p. 257 (nel testo ci siamo valsi della traduzione di s. tiMmPANARO, La genesi cit., p. 44, da tenere ben presente anche per il commento a questo aspetto specifico).
? «Ogni epoca come ogni scuola letteraria ed anche ogni scrittore presentano caratteristiche proprie dal punto di vista della lingua e dello stile. Il complesso di tali caratteristiche viene generalmente indicato con il termine di “usus scribendi” » (D’A. s. AVALLE, Principî cit., pp. 118-19). !0 «Per “lectio difficilior” si intende una lezione attestata (o una congettura) che si distingua da tutte le altre lezioni attestate (o da tutte le altre congetture) per una sua intrinseca maggiore difficoltà o rarità dal punto di vista morfologico, semantico e, in genere, lessicale» (ibid., p. 117).
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Interpretazione e critica del testo
I5I
altri settori scientifici. Si osservi, al di là del problema relativo all’effettiva utilizzazione completa di tutte le potenzialità implicite nell’innovazione, il progressivo raffinarsi della rappresentazione, dal primo stemma dello Zumpt " Cod. antiquus deperditus e «—1——-—. __*+-* Nann. Fabric. Par. 7774 A s. Regius (Metell.)
(coll. Havn.)
libr. Il et III. Lag. 42 pr. m. in illis libr. Par. A
libr. IV et V
Cod. Vatican. rescriptus
Erfurt.
Par. B Lag. 29
Par. platee Cuiac. Guelf. 2 Leid (Memmiani Lamb.)
Guelf. 1
vulgares
a quello usato dal Ritschl nei prolegomeni a Tommaso Magistro ‘ (limitato ai «piani bassi», senza precisare i rapporti tra i capostipiti perduti)
NADAT\
5
A
allo stemma infine con cui lo stesso Ritschl, in modo analogo a quello oggi praticato, riassumeva i risultati raggiunti nella recersio di Dionigi di Alicar-
didricsreah
Chisianus
Parisinus
Urbinas
Venetus
1! Cfr. s. TIMPANARO, La genesi cit., p. 51 (il primo stemma in assoluto sembra veramente da attribuire a Carl Johan Schlyter, 1827, in un settore scientifico, quello degli antichi testi giuridici svedesi, molto lontano dalla filologia classica: cfr. ibid., pp. 51-52). valelbid., 53% 13 Ibid., p. 55. Si noti, con lo stesso Timpanaro, l’ostilità di Lachmann agli stemmi (ibid., D. 56).
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Concetti, tecniche e categorie
Non v'è dubbio, come verificabile per altri aspetti metodologici della critica testuale (ma non solo), che il sapere filologico proceda per taluni aspetti, pur situandosi nel-tempo, per accumulazione progressiva di cognizioni. Con Lachmann e la grande filologia tedesca dell'Ottocento il tentativo di fondare una critica del testo (o «ecdotica» !) su basi scientifiche «moderne», il più possibile vicine al metodo delle scienze naturali, raggiunge dal punto di vista ideologico il suo punto più alto e colloca la filologia, anche nella coscienza dei contemporanei, al vertice del sistema delle scienze umàne. 2.4. Stemmatica ed errori comuni: sviluppo di un metodo? Che un errore comune potesse dimostrare la parentela di due manoscritti era principio noto già in età umanistica (dove anzi con Erasmo, sulla base appunto di corfuttele comuni, si era arrivati a ipotizzare la discendenza di un’intera serie di manoscritti da un unico esemplare, l’« archetipo»). È invece pit difficile individuare il momento preciso e i modi con cui nella recensio si è iniziato a distinguere sistematicamente tra varianti ed errori, uti-
lizzando le sole lezioni erronee per stabilire i rapporti fra i codici. Secondo il Timpanaro già nel Madvig (dal 1830) è rilevabile «la convinzione che solo la coincidenza in lacune e gravi corruttele, non in lezioni giuste, e nemmeno in innovazioni che possono derivare da contaminazione o poligenesi, dimostra la derivazione di più testimoni da un solo capostipite » ”. Secondo dom J. Froger ‘ (seguito da D’A. S. Avalle ") il vero e proprio metodo degli errori comuni sarebbe stato utilizzato per la prima volta dai romanisti Gustav Gròber (1869) e Gaston Paris (1872), senza peraltro che fosse formulato in modo molto chiaro il principio informatore. Sarebbe stato addirittura P. Lejay che, a partire dal 1888 e per lunghi anni, avrebbe affermato con precisione e decisione la necessità di basarsi, per la recersio, sugli errori e soltanto su essi: « Perché una variante abbia valore probatorio, occorre che sia incontestabilmente un’innovazione, ovvero quasi sempre un errore, occorre che la correzione non sia troppo evidente e che non dipenda da una teoria ortografica» ". È evidente l’importanza della questione in ordine alla teoria ecdotica e alla discussione sorta intorno al metodo «lachmanniano» (nozione sempre più 14 Per il termine cfr. $ 1.6, nota 24. 15 s. TIMPANARO, La genesi cit., p. 57, nota 20; pur collegata all’individuazione dell’archetipo, la constatazione è forse estendibile su un piano più generale. Il problema del rapporto fra determinazione dello stemma e modi poco chiari usati per stabilire le relazioni fra i codici in Lachmann è presente già a H. QUENTIN, Essazs de critique textuelle cit., p. 35.
16 Cfr. J. FROGER, La critique des textes et son automatisation, Paris 1968, 7 Cfr. DA. S. AVALLE, La critica testuale, in H. R. JAUSS e E. KOHLER (a romanischen Literaturen des Mittelalters, I. Généralités, Heidelberg 1972, R. MARICHAL, La critique des textes, in CH. SAMARAN (a cura di), L’histoire
p. 42. cura di), Grundriss der pp. 538-58; più cauto et ses méthodes, Paris
1962, p. 1276.
1° p. LEJAY, Introduction all'edizione da lui curata di o. oRAZIO FLACCO, Satires, in Euvres, a cura di F. Plessis e P. Lejay, Paris 1913 (ristampa anastatica Hildesheim 1966), p. cxIv.
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Interpretazione e critica del testo
153
problematica, come si vede: quasi un’astrazione prodottasi per accumulazioni successive). Restano molte indagini ancora da compiere, e non di scarso rilievo, posto che è più o meno negli anni in cui P. Lejay sente il bisogno di sottolineare cosî fortemente la rilevanza dei soli errori ai fini della recensio, che J. Bédier esprime i suoi primi pesanti dubbi sulla validità dell’intero metodo «lachmanniano»: certamente però la cronologia proposta da J. Froger è troppo bassa e occorrerà risalire di diversi anni all’indietro (almeno per la scuola tedesca). In realtà anche per il maestro del Bédier, G. Paris, i principî metodologici, per quanto in astratto relativamente chiari '’,dovevano esser ancora fluidi nella pratica: la recersio della splendida edizione del Saint Alexis, una appunto delle prime applicazioni del nuovo metodo in ambito romanzo ”° (e «volgare», se si escludono le prove dello stesso Lachmann sul Nibelungenlied, Canzone dei Nibelunghi), sembra basata su una pratica «mista»; distinzione dei manoscritti in gruppi mediante opposizione di lezioni caratteristiche (e assenza di un vero e proprio stemma), ma utilizzazione di una teoria degli errori atta a spiegare le lezioni incoerenti con il raggruppamento prescelto. Anche in filologia provenzale la preferenza per una recersio affidata a criteri «esterni» rispetto all’esame interno delle lezioni ”, per quanto giustificabile possa essere da un punto di vista pratico, sembra applicare su un terreno particolare (l’edizione di antologie liriche) criteri il più possibile «meccanici». Una vera e propria teoria dell’errore (per quanto la nozione di errore sia ben nota e utilizzata in singoli casi) sembra quasi sempre assente, o generica e mal utilizzata. Anche U. A. Canello, il primo filologo italiano che si sia cimentato nell’edizione critica di un trovatore condotta secondo un metodo conscio dei risultati della «scuola/berlinese » “, fra i criteri «di cui è dato servirsi per classare i codici d’Arnaldo Daniello» pone significativamente all’ultimo posto la comunanza di errori (« 6. ed ultimo. Errori di lezione e varie lezioni improbabili in comune» ‘’), preceduto dal posto occupato da Arnaut in quanto autore nei codici, dalle false attribuzioni, dall’ordine occupato dalle poesie nei mano19 Cfr. c. PARIS (a cura di), La vie de saint Alexis, Paris 1872, pp. 7-14. 20 Nella coscienza dello stesso G. Paris, che dava notizia dell’opuscolo sul Fierabras, apparso poco prima del Saint Alexis ed edito da Gustav Gròber (ibid., p. 8 e nota). Su G. Gròber e il Fierabras, anche per ciò che riguarda l’applicazione della metodologia «lachmanniana» in ambito romanzo, cfr. L. FORMISANO, Alle origini del lachmannismo romanzo. Gustav Grober e la redazione occitanica del Fierabras, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie III, IX (1979), 1, pp. 247-301 (in particolare pp. 250-58). 21 Cfr. la dura recensione di K. Bartsch (in « Zeitschrift fiir romanische Philologie », III (1879), pp. 409-27) all’edizione di Bertran de Born curata da A. Stimming (Bartsch peraltro fu uno dei primi studiosi ad applicare in filologia provenzale, con l’edizione di Peire Vidal, criteri latamente assimilabili a quelli lachmanniani). 2 U. A. CANELLO (a cura di), La vita e le opere del trovatore Arnaldo Daniello, Halle 1883, p. gr: «In vista appunto delle difficoltà generali e di queste speciali [scilicet contaminazione della tradizione a causa dell’oscurità di Arnaldo], ci siamo astenuti dal tentare per ogni poesia la costruzione d’un albero genealogico dei rispettivi codici come usa fare la scuola berlinese... Noi procurammo invece... di presentare allo studioso con molta chiarezza lo stato della questione critica per ogni singolo verso; e insieme le tendenze e i caratteri speciali d’ogni codice e d’ogni gruppo di codici ». 2 Ibid.,p.82.
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Concetti, tecniche e categorie
scritti, dall’ordine delle strofe nei singoli codici, dall’identità di lacune o di versi soprannumerari ‘. 2.5. Germania e Italia: filologia «scientifica» e tradizione nazionale. Due anni dopo l’occupazione di Roma da parte delle truppe italiane, esce la «Rivista di filologia romanza» diretta da Ernesto Monaci”: la coscienza dell’arretratezza metodologica rispetto ad altri paesi europei, e innanzitutto alla Germania, è vivissima: Il rimedio s’avrà se, ad esempio di altre nazioni, riformeremo sovra basi più salde l’insegnamento; massime coll’avvalorarlo della filologia comparata; la quale indirizzando gl’intelletti alle fonti del vero sapere, varrà potentemente a ritemprarli di vita e di gagliardia novella... [In Germania è sorta] una falange di dotti... là Società e Accademie, il cui scopo precipuo è la ricerca e la pubblicazione dei documenti più importanti che si riferiscano alle lingue e alle letterature nostre, di quei tesori che noi teniamo, pasto per tarli, a marcire nelle biblioteche %.
Anche tedesco e, la rivista all’origine
la Francia, dopo ildisastro del ’70, si è messa al passo sull’esempio ricorda lo stesso Monaci, nella presentazione del primo numero del«Romania» la rottura colla propria tradizione è stata riconosciuta delle sciagure recenti:
Noi abbiamo la ferma convinzione che la rottura troppo brusca e troppo radicale della Francia col suo passato, la mancanza di conoscenza delle nostre veritiere tradizioni, l’indifferenza generalizzata del nostro paese nei riguardi della sua storia intellettuale
e morale, debbano essere annoverate fra le cause che ci
hanno condotto al disastro ”.
Come in Francia anche in Italia il modello è la moderna scienza filologica tedesca, il suo metodo *. Le poche eccezioni, fra cui Ascoli e Comparetti, non modificano il quadro d’insieme: lo stesso «Giornale storico della letteratura italiana» se guarda ad una tradizione specificamente nazionale, appare perfettamente inserito in un programma in cui pubblicazione dei documenti e dei testi, accertamento dei dati, vaglio critico del materiale debbono precedere le sintesi « più o meno geniali » ? (e il riferimento a De Sanctis e alla sua lettera% Ibid., pp. 81-82; sul Canello cfr. L. RENZI, Napoleone Caix e Ugo Angelo Canello, in G. GRANA (a cura di), Letteratura italiana. I critici, Milano 1969, pp. 603-16. 2 Su Monaci cfr. r. M. RUGGIERI, Erzesto Monaci, ibid., pp. 575-94. 2 E. MONACI, Proerrio, in « Rivista di filologia romanza», I (1872), pp. 5-6. 2? Ibid., p. 6, citando a sua volta da «Romania». Sui riflessi della guerra franco-prussiana nella filologia romanza, cfr. c. DIONISOTTI, A year's work in the Seventies. The presidential address of the Modern Humanities Research Association delivered at University College, in «The Modern Language Review», LXKVII (1972), pp. xIX-XXVIII. 2 Sulla questione cfr. da ultimo A. LA PENNA, L'influenza della filologia classica tedesca sulla filologia classica italiana dall’unificazione d’Italia alla prima guerra mondiale, in Mm. BOLLACK e H. WISMANN (a cura di), Philologie und Hermeneutik im 19. Jabrbundert, Gòttingen 1983, II, PD. 232-72.
I( paNiGRAF, F. NOVATI € R. RENIER, Programma del «Giornale storico della letteratura italiana», 1883), p. 2.
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Interpretazione e critica del testo
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tura è forse perfino troppo evidente). L’adeguamento alla filologia leader in Europa (quella inglese era troppo sottovalutata) è lento ma sicuro anche in campo più propriamente testuale: tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento molte e ottime edizioni diplomatiche, alcune edizioni critiche esemplari, le prime opere del genio italiano, Dante, sono pubblicate in edizione nazionale *. Quando nel 1906 uno dei maestri della generazione, P. Rajna *, preparerà una sintesi essenziale dei principî della critica testuale, il risultato è di una tale limpidezza da sopravanzare spesso anche la comune coscienza filologica, non solo italiana, e da riuscire ancora oggi perfettamente rappresentativa del metodo «lachmanniano», almeno fino a quando P. Maas con il rigore « geometrico » dispiegato nel suo manualetto non approfondirà ulteriormente l’analisi delle categorie metodologiche impiegate nella critica testuale di tipo stem-
matico.
2.5.1. Il testo critico. L’esposizione del Rajna potrà dunque valere sia sul piano storico che su quello descrittivo: La differenza tra l’età nostra e la passata sta nel rigore del metodo. Si è sostituita la logica inflessibile e la precisione scientifica ad un procedere intuitivo; la macchina alla mano libera. Cosî avviene che possan fornire un lavoro soddisfacente anche artefici mediocri. Badiam bene tuttavia. Non per ciò divien superfluo l’ingegno... Ma come si procede? Come si deve procedere? Per averne chiara l’idea, principiamo dal rappresentarci al pensiero, in qual modo le opere si trasmettano e divulghino, e da che sia costituita quella che si suol chiamare « tradizione diplomatica». L’autore scrive. Modernamente il manoscritto, o nell’originale, o in una copia più nitida che ne è tratta direttamente, si converte in composizione tipografica, di cui l’autore rivede egli stesso le bozze. La stampa acquista pertanto va30 Cfr. almeno F. EGIDI, S. SATTA, G. B. FESTA € G. CICCONE (a cura di), Il libro de varie romanze volgare, cod. vat. 3793, Roma 1902-908, veramente esemplare per acume e precisione, laddove sono più infide le precedenti edizioni degli altri due grandi canzonieri duecenteschi: A. BARTOLI e T. CASINI (a cura di), I/ canzoniere Palatino 418 della Biblioteca Nazionale di Firenze, Bologna 1881; T. CASINI (a cura di), Il canzoniere Laurenziano Rediano 9, Bologna 1900 (migliore della precedente); pessima la più antica fra tali edizioni dedicate ai codici poetici due- e trecenteschi: E. MOLTENI e E. MONACI, I/ canzoniere chigiano L.VIII.305, Bologna 1877. E inoltre, sempre dedicate agli antichi canzonieri: M. PELAEZ, Rizze antiche italiane secondo la lezione del cod. Vat. 3214 e del cod. casanatense d.v. 5, Bologna 1905. Di Dante: Mm. casELLA, Sei canti della Divina Commedia (Inf. I-VI) riprodotti diplomaticamente secondo il codice Landiano, Piacenza 1912; di Petrarca: E. MODIGLIANI, Il Canzoniere di F. Petrarca riprodotto letteralmente dal cod. Vaticano lat. 3195, Roma 1904 (ottima). Fra le edizioni critiche basti citare P. RAJNA (a cura di), Il trattato «De vulgari eloquentia», Firenze 1896, della Società dantesca italiana e, sempre per la Società dantesca italiana, D. ALIGHIERI, Vita Nuova, a cura di M. Barbi, Firenze 1907, divenuta un classico del genere (e poi rivista dallo stesso Barbi nel 1932). Un caso a parte è costituito invece dalla precoce edizione interpretativa del Vaticano latino 3793: A. D'ANCONA e D. COMPARETTI (a cura di), Le antiche rime volgari secondo la lezione del Codice Vaticano 3793, 5 voll., Bologna 1875-88; sul Comparetti e sulla sua particolare posizione «italiana» cfr. G. PASQUALI, Domenico Comparetti (1927), in Pagine stravaganti, Firenze 1968, I, pp. 3-25; I., Il «Virgilio nel Medio Evo» del Comparetti (1937), ibid., II, pp. 119-32; cfr. inoltre s. TIMPANARO, Dorzenico Comparetti, in G. GRANA (a cura di), Letteratura italiana. I critici cit., pp. 491-503; sul D’Ancona, A. cioTTI, Alessandro D'Ancona, ibid., pp. 381-402. 31 Sul Rajna cfr., da ultimo, r. M. RUGGIERI, Pio Rajna, ibid., pp. 543-64 e relativa bibliografia alle pp. 571 sgg.
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Concetti, tecniche e categorie lore di autografo; e alla critica non resta oramai altro ufficio, che di correggere gli errori materiali che possono esser sfuggiti e che non siano stati segnalati. Cosî non si può dire che sia sempre avvenuto fin da quando la stampa fu inventata. L’uso suo andò diffondendosi solo gradatamente e con disuguale velocità; sicché per del tempo accadde che non poche opere si propagassero ancora manoscritte, analogamente a quel che prima seguiva, avanti di essere impresse. Ma soprattutto per ciò che fu composto precedentemente le cose si complicano. S Certo anche per le età anteriori può darsi che ci siano pervenuti gli autografi. Il caso nondimeno è relativamente raro. Dall’autografo furono in generale ricavate una o più copie; da queste ne derivarono altre. Talora la procreazione riusci meravigliosamente prolifica; altre volte fu poco feconda; come segue nelle famiglie. E se presentano aspetto di varietà infinita gli alberi genealogici propriamente detti, non potrebb’essere diversamente di quelli che ci dessero in modo completo le stirpi delle opere della penna. L’infinitamente vario non si raffigura. Si può bensi esemplificare; ed io metto qui alcuni schemi — procedendo dal semplice al meno semplice — che la fantasia di chi legge non durerà fatica a moltiplicare e a complicare viepiù. Gl’individui, che nelle genealogie umane sono rappresentati da nomi, qui appaiono quali lettere; e insieme colle lettere avremo a nostra disposizione gruppi di lettere; insieme coll’alfabeto maiuscolo il minuscolo; coll’alfabeto latino l’alfabeto greco. I,
DI
3:
A
A
A
B
[es]
A
B
|
D
e
e
F
Poniamoci ora a riflettere. Quando si possieda l’autografo A, tutte le sue emanazioni diventano superflue. Totalmente superflue non verranno ad essere solo se nell’autografo si fosser prodotti dei guasti, che ce ne tolgano o ne corrompano qualche parte; che è come dire, là dove l’autografo ci viene pur sempre a mancare. Ma similmente diventa superflua ogni discendenza secondaria,
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Interpretazione e critica del testo
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di cui s’abbiano i rispettivi progenitori. Nella figura 3* B rende inutile Dj C rende inutili E, F, G, H; nella 4° a nulla servono G e H di fronte a C, a nulla K, M, N, L, O, di fronte all’unico E. i Qui si suppone tuttavia già noto ciò che nella realtà può essere stabilito solo con un’osservazione attentissima e con sottili ragionamenti. Il fatto stesso dell’autografia non è davvero agevole da accertare come s’immaginerebbe;... Ma ciò è senza paragone il meno. Se la tradizione ci stesse davanti tutta intera, se di ogni opera noi possedessimo tutti gli esemplari, il problema da risolvere sarebbe molto spesso assai lungo e intricato, ma ammetterebbe quasi sempre una soluzione pressoché sicura. Il guaio si è che la condizione non si dà mai, nonché per le opere dell’antichità (quante generazioni avanti che li s’arrivi a quelle rappresentate dai codici nostri!), neppure per le medievali. Sicché negli schemi, non solo al posto degli A, ossia degli autografi, ma anche a quello dei B, dei C, e cosi via, sono da porre degli x, y, ossia delle incognite. Ed equazioni a molte incognite diventano per tal modo generalmente i problemi. Premesso ciò, ritorniamo agli schemi. Ripresento qui il primo e il secondo, sostituendo con x ciò che solo può esservi d’incognito in essi: l’originale. I: x
23 Li B
Cc
B
Comune ad entrambi l’essere state eseguite sull’originale le copie che possediamo; una sola nel primo caso, due nel secondo. In quello il compito si riduce a cercare x in B; compito non troppo arduo, se la trascrizione è stata intenzionalmente fedele; il che, in cospetto dell’autografo, conosciuto per tale, generalmente suol essere. Comunque, bisogna mettersi dietro le spalle del trascrittore, spiarlo in ogni suo atto, osservarne le abitudini, penetrarne le attitudini e le tendenze. È attento, o sbadato? ignorante, dotto, o saccente? Dannosa la sbadataggine; ma peggiore la saccenteria, che altera colla presunzione di correggere, e di cui gli effetti più difficilmente si scorgono. Quanto all’ignoranza, è tra i vizi il meno pernicioso, come quello che invece si manifesta ingenuamente per ciò che è, e attraverso alle alterazioni balorde lascia trasparire il vero. Questo che qui dico è da aver ben presente dappertutto. Lo avremo per il secondo èchema; e ne riceveremo efficace aiuto a giudicare mano mano, quale fra le due lezioni — di B, o C — abbia da preferirsi là dove c’è dissenso. Quando B e C s’accordano, sarà di norma da argomentarne che non diversamente leggesse x. Dico «di norma»; perché non è da escludere in assoluto che una stessa alterazione potesse, sotto l’azione di un medesimo impulso, per convenienza di condizioni, ed anche per caso, prodursi indipendentemente pi che una volta. Tornerà qui opportuna una parola intorno alla «lectio difficilior», che vien tante volte in discorso. Tra una lezione trasparente, ed una che dà da pensare, non spettano alla prima le presunzioni maggiori di genuinità. Essa il più delle volte trae origine da quella saccenteria, da quella pretesa di correggere ciò che non s’è saputo capire, di cui dicevo dianzi. Talora non si tratterà di saccenteria vera e propria, bensi di amor di chiarezza: più tenue allora la colpa; non mi-
gliori gli effetti.
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Concetti, tecniche e categorie Ma come mai nello schema 2 siam noi arrivati alla premessa fondamentale che B e C emanino indipendentemente da x? Ché, dati i tre termini, in tesi astratta essi potrebbero disporsi in altre due maniere; potrebbe C provenire da B, oppure B da C, sicché s’avesse
B
O_—o—x
Bisogna dunque che questi atteggiamenti siano resultati da escludere. Posto che B e C fossero datati, o anche solo che appartenessero ad età manifestamente diverse, una delle due disposizioni rimarrebbe subito eliminata per ciò stesso: la paternità richiede come condizione indispensabile l’anteriorità. Ma tale non vogliamo che sia il caso nostro. E allora tutto si deve conseguire col confronto dei testi. In B vi sono errori che non appaiono in C, e sono di tal natura (significantissime le lacune), che dal trascrittore di C non potevano esser corretti congetturalmente: C non proviene dunque da B, o almeno non proviene da esso soltanto. Alla sua volta C sproposita dove B è nel vero: neppure la derivazione di B da C è pertanto ammissibile. Ed eccoci cosî ridotti a riconoscere l’indipendenza reciproca dei due manoscritti. Sugli errori, sulle lacune ci si fonda, piuttosto che sulla preferenza che paia da concedere ad una lezione a paragone di un’altra, pur essendo entrambe ammissibili. Il «paia» basta a dirne il perché. Introduciamo incognite nello schema terzo, chiedendo aiuto, per simboleggiarle, all’alfabeto greco, poiché x e y non bastano:
B
]
CLN G
H
Ci troviamo in possesso di cinque codici, fra i quali D è venuto ad apparire copia, immediata o mediata, di B. Lo metteremo dunque in disparte, e alle sue varianti non concederemo luogo alcuno nell’apparato critico, che gli esperti si studiano di semplificare quanto più sia possibile, mentre gl’inesperti lo ingombrano di roba inutile. Gli altri quattro codici sono resultati indipendenti. Insieme coll’indipendenza sono resultate tuttavia particolarità, tali da non permettere che ci si fermasse ad una rappresentazione, quale sarebbe questa: x
ia
B
E
e
G
n
H
G ed H sono legati da convenienze speciali, che li distaccano da B ed E. Biso-
gna quindi che ad essi si assegni un ascendente loro proprio; e sarà 9. Ma poi accade altresi che E concordi non poche volte con G ed H, sepatandosi invece da B. Anche alla triade dovrà dunque attribuirsi un ascendente comune perdu-
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Interpretazione e critica del testo
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to, che chiameremo y. Messi questi fondamenti, ci daremo a stabilire il testo. B avrà da solo altrettanto peso quanto E, G, H presi insieme, dacché i tre equivalgono all’unico y; e similmente E peserà quanto G accoppiato con H. Quando poi con B concordi E, dissentendo G ed H, o concotdino G ed H, dissentendo E, la lezione che esso reca vorrà essere ammessa senz’altro, poiché sarà stata al modo medesimo la lezione di y, e conseguentemente, in forza dell’accordo di B ed y, quella di x. Mostrata la via, lascio che esercitazioni analoghe si facciano sullo schema quarto, più complesso, e sopra quegli altri che a ciascuno piaccia di immaginare. Devo peraltro spiegare cosa io abbia lf inteso collocando cosî in basso F, nel tempo stesso che lo faccio emanare indipendentemente da B, non altrimenti che C, D, E. Esso è un codice più recente, nonché di C, D, E, di tutta la loro progenie. Eppure la sua voce avrà la stessa autorità che quella di C, D, E, e se al posto di E poniamo un x, varrà al pari di tutta stirpe che ne discenda. L’antichità costituisce pertanto un forte indizio, non una prova assoluta, in favore di un manoscritto, potendo una trascrizione essere eseguita sopra un esemplare vecchio di secoli... Si danno — e sono comunissime — complicazioni, a cui non ho ancora accennato. Gran bella cosa sarebbe se, attraverso a canali e serbatoi, le acque scorressero separatamente fino in fondo, ramificandosi bensî, ma senza più mescolarsi! Pur troppo invece le mescolanze sono frequentissime. Per limitarmi al caso più ovvio, il possessore di un codice lo confronta con un altro, e ne trae lezioni,
che, chiaramente discernibili per le diversità grafiche là dove furono riportate in origine, non si lasciano più distinguere materialmente in una copia. Potrà seguire a questo modo che lo schema terzo diventi
si DE
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drircani
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Colla linea punteggiata si vuol significare che il contributo portato da Da G è d’ordine secondario. Secondario tuttavia quanto si voglia, esso avrà pur sempre per effetto non lievi imbarazzi. E dalle mescolanze fra le varie tradizioni nasce una delle maggiori difficoltà, ed una causa di gravi incertezze, e però anche divergenze di opinioni, nella costituzione degli alberi genealogici. Nei miei schemi hanno figurato, o avuto l’aria di figurare, solo dei codici. Le antiche stampe non richiederanno un lungo ragionamento. Se furono condotte su manoscritti che possediamo, questi le priveranno di ogni valore diplomatico. Se le fonti son perdute, o rimangono nascoste, le stampe ne prenderanno il luogo, salvo nondimeno il dovere di usare maggiore cautela, per il motivo che gli editori sogliono essere più «personali» dei trascrittori. Mediante l’applicazione del metodo di cui ho cercato di dare un’idea, e che, foggiato soprattutto dai cultori delle discipline classiche, dalle loro officine è stato trasportato, e diventa di uso sempre pi frequente, nelle altre, si procura di arrivare alla restituzione di un capostipite, da poter essere tanto l’autografo, quanto un suo discendente. Posto il secondo caso, che nel dominio lette-
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Concetti, tecniche e categorie
rario classico non patisce eccezioni, rimane poi ancora il lavoro più delicato. } Alla critica diplomatica subentra la critica congetturale;... Qualche errore, bisognoso d’esser corretto congetturalmente, potrà essersi prodotto, per inavvertenza, anche nell’autografo. E del resto non si creda che un autografo, non già da ricostruire, ma che stia anche proprio sotto gli occhi, esima l’editore da ogni pensiero. Da ogni pensiero esso esime soltanto il fotografo e famiglia, e — non in modo assoluto tuttavia — l’autore di riproduzioni «diplomatiche». Ché altrimenti rimane sempre da compiere un lavoro di adattamento a nuovi usi e bisogni, fecondo esso pure di dubbi: s’ha da trasformare e arricchire l’interpunzione, s'ha da accrescere di qualche lettera l’alfabeto, è da regolare diversamente l’uso delle maiuscole e minuscole, sono da sciogliere le abbreviazioni. Né tutto ciò vorrà esser fatto con identici criteri in qualsivoglia caso. Sicché l’ufficio dell’editore non si riduce davvero ad un’arte meccanica, neppure quando il compito si presenta nelle condizioni più semplici e pit favorevoli *.
Non «meccanica» e certo «arte», ma neppure affidata all’arbitrio dell’interprete: fine dell’edizione critica è ricostruire il testo secondo la «volontà dell’autore».
interpretatio (judicium, inevitabilmente), analisi dei manoscritti quali autonomi documenti storici (posi-
zioni pre-lachmanniane e bédieriane);:2) esame delle varianti e primi «stemmi» + rilievo descrittivo e analitico delle convergenze e divergenze (metodo quentiniano e tassonomico ma anche forte opzione statistica, probabilistica); 3) valutazione eventuale dell’orientamento, specie nelle catene finali > metodo degli errori comuni («lachmanniano»)? Il calcolatore non può restituire, variamente e analiticamente elaborato e composto, che quello che gli si dà: non è da meravigliarsi dunque che si riscoprano, almeno in questa generazione di computer, le grandi opzioni metodologiche già note. Entro tali limiti però la scomposizione e la « decostruzione» del testo possono arrivare a livelli fino ad oggi impraticabili e rendere accessibili le strutture profonde non solo di un testo ma di un intero sistema letterario: la critica del testo in prospettiva non potrà non essere informatica, ma nel contempo non potrà non riproporre la bipolarità fondamentale dell’atto ermeneutico, stretta fra la storicità e la soggettività dell’inzerpretatio e il probabilismo di un’indagine scientifica verso il Testo e il Sistema. Anche il Testo letterario trattato con la macchina pet essere «compreso» deve necessariamente essere scomposto e ricomposto, tipologizzato per cate-
gorie informative, «decostruito»: deve dunque essere reso sempre più omogeneo ai molteplici «testi» che formano l’universo comunicativo, rinunziare 105 Tbid., pp. 398 e 402. 16 È il presupposto da cui muove D'A. s. AVALLE, A/ servizio del Vocabolario cit., e m., Programma per un omofonario cit. nell’approntamento del testo e delle concordanze per il «tesoro della lingua italiana delle origini», già ricordato.
10? G. P. ZARRI, Il metodo per la «recensio» cit., p. 163.
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Concetti, tecniche e categorie
ad essere «Testo» per assumere il ruolo di « discorso » e rompere ogni rapporto con l'Autore, ma nel «va-e-vieni tra sistema e processo» '* la scomposizione e la rottura del nesso Testo-Autore può risultare provvisoria e comportare ritorni, anche grandi e inattesi '”. Dipenderà, come nell’ecdotica e nella critica precomputerizzata, dalle domande dell’operatore e dalla sua posizione nell’universo comunicativo, non da quella della macchina, di per sé neutrale. È lo stesso percorso seguito dal Testo in tutta la sua storia ermeneutica ed ecdotica, collocato fin dalle origini (cfr. $$ 1.1 e 1.2) fra nulla, Archivio e Tradizione, fra canone e ri-uso, fra «testo come successione di segni linguistici» e lettura rigenerativa dell’utente. Tra il grande artigianato del critico-filologo ovvero dell'operatore computerizzato (la nuova figura «creativa» dell’universo comunicativo) e l’« impero» del lettore/fruitore "° si pone la molteplicità dei testi e dei metodi, la pluralità e la frammentazione delle letture, l'impossibilità, ormai, di un’auctoritas e di un Canone stabile e consensuale, di un «punto di vista» o di un «filtro» unico che fissi i « Valori» della produzione e dell’interpretazione ". Proprio per questo le nuove gerarchie dei Testi (e dei generi) !° e delle letture si producono in una instabilità complessiva, in un continuum mobilissimo e spesso effimero, i cui giochi sono infine storici, non sono fissati cioè immediatamente solo dal singolo metodo (e dalla singola lettura) ma anche dalle mutevoli dislocazioni del potere nel triangolo Autore-Testo-Lettore" e dalla coscienza («come vi si sta dentro») con cui si assume il proprio 198 Sul senso di questo rapporto in relazione alla prospettiva semiologica di Lotman e Uspenskij e filosofica di Foucault, cfr. c. SEGRE, « Testo » cit., pp. 288-90. 19 Oltre alla ri-definizione e ri-costruzione delle strutture e delle funzioni degli elementi del testo è possibile che in taluni casi (in genere testi non brevi) siano desumibili indizi probanti su questioni particolari molto discusse e controverse, prime fra tutte quelle attributive, quindi relative proprio al rapporto Testo-Autore. 110 Cfr. 1. caLvINO, A/ diavolo gli intellettuali, conversazione con Maria Luigia Pace, in « Panorama», 30 luglio 1979, p. 83: «L'imperatore è il pubblico. Io a un certo rapporto col pubblico ho sempre creduto. Un rapporto da inventare ogni volta. E il libro che ho scritto ora [scilicet Se una notte d'inverno un viaggiatore], che è un libro dell’attesa da parte del lettore, parte appunto da questa considerazione. Di questo pubblico faccio parte anch’io di fronte alla letteratura in generale». 1! La descrizione e «dimostrazione» forse più intelligente e bella di questa situazione (al di là delle statistiche, pur parlanti, sulla produzione libraria e dei tentativi di fissare «i cento libri più belli» per il pubblico-massa) è di nuovo in Italo Calvino, nell’intero capitolo primo di Se una notte d'inverno un viaggiatore (Torino 1979), dove la conclusione (p. 9) assume addirittura il camzbiamzento come nuova cifra stilistica dell’Auctor: «Ecco dunque ora sei pronto ad attaccare le prime righe della prima pagina. Ti prepari a riconoscere l’inconfondibile accento dell’autore. No. Non lo riconosci affatto. Ma, a pensarci bene, chi ha mai detto che questo autore ha un accento inconfondibile? Anzi, si sa che è un autore che cambia molto da libro a libro. E proprio in questi cambiamenti si riconosce che è lui. Qui però sembra che non c’entri proprio niente con tutto il resto che ha scritto, almeno a quanto tu ricordi. È una delusione? Vediamo. Magari in principio provi un po’ di disorientamento, come quando ti si presenta una persona che dal nome tu identificavi con una certa faccia, e cerchi di far collimare i lineamenti che vedi con quelli che ricordi, e non va. Ma poi prosegui e t’accorgi che il libro si fa leggere comunque, indipendentemente da quel che t’aspettavi dall’autore, è il libro in sé che t’incuriosisce, anzi a pensarci bene preferisci che sia cosî, trovarti di fronte a qualcosa che ancora non sai bene cos'è ». 152 Che non passano probabilmente più g/l’interzo della letteratura (almeno quelle fondamentali) ma tra letteratura e altri generi di massa citconvicini (fumetti, cinema, Tv, videocassette, ecc.). 155 Un ruolo ancora fondativo nella gerarchia dei Testi e nell’individuazione dei « Classici» è svolto dall’istituzione scolastica e dalle edizioni e dai commenti che vi si consumano, al di là spesso di qualsiasi rapporto coerente con la critica contemporanea. Scontato ovviamente il riferimento al-
Antonelli
Interpretazione e critica del testo
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ruolo nel circolo ermeneutico: compreso, al limite estremo, il « Silenzio», certo («Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soptattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve conìpiere un finissimo attento lavoro e non raggiungere nulla se non lo raggiunge /ezto» ") ma compreso anche, perché comunque ineludibile, all’altro estremo, il «conflitto delle interpretazioni», la definizione del loro campo, delle loro norme e dei loro effetti, il loro rapporto complessivo col sistema culturale (e storico-politico). In «mezzo», a identificare la semplicità apparente e la complessità reale della situazione, la tensione di una concezione della filologia quale modalità interpretativa, valida sia per i testi «alti» che per la pratica comunicativa quotidiana: «une discipline générale de travail, une habitude intellectuelle, un esprit... la volonté d’observer avant d’imaginer, d’observer avant de raisonner, d’observer avant de construire... le parti pris de vérifier tout le vérifiable, de chercher toujours plus de vérité...» !'. l’industria culturale, anche libraria, e agli effetti che induce nella produzione, oltre che nella fruizione dei testi (per alcuni aspetti relativi al solo problema ecdotico, cfr. A. BALDUINO, Scrittori del Novecento e quesiti di critica testuale, in «Studi novecenteschi », I (1972), pp. 103-23). Tra le infinite varianti e i molteplici problemi critici che può determinare l’industria culturale nel triangolo Autore-Testo-Lettore merita particolare attenzione il non-riconoscimento dell’autore da parte della stessa industria culturale (cfr., al di là del clamore scandalistico, il caso di Doris Lessing, autrice di best-seller americana, le cui opere sono state pubblicate se firmate da lei, rifiutate se proposte sotto altro nome (Jane Somers)): ovvero l’instabilità del canone non porta all’obliterazione dell’auctoritas ma addirittura per taluni aspetti la promuove, sottomettendola peraltro ad una logica estranea al nesso Autore-Testo. 14 F. NIETZSCHE, Morgenrote, Gedanken tiber moralische Vorurteile, 1881 (trad. it. Aurora e scelta di frammenti postumi, Milano 1971, p. 10; e ancora, di seguito: «Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria he mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del “lavoro”, intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol “sbrigare” immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo: per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati... Miei pazienti amici, questo libro si augura soltanto perfetti lettori e filologi: imparate a leggermi bene! »). 155 J. BÉDIER, Etudes critiques, Paris 1903, p. IX.
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DE MEIJER
La questione dei generi
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risurrezione dei generi?
I generi, se non si trovano proprio al centro delle varie teorie e pratiche letterarie del Novecento, ne costituiscono però un elemento tutt’altro che trascurabile. L’«infortunio», che secondo Benedetto Croce «accadde loro» in Italia all’inizio del secolo, e dal quale non si sarebbero «rialzati » ',cioè la loro condanna filosofica nell’ Estetica?, ne ha indubbiamente menomato per un certo periodo la forza operativa, in Italia e altrove, almeno stando a quanto afferma Wellek®, ma col passare degli anni esso acquistò sempre di pit il significa to di un incidente passeggero: anche in Italia i generi si sono «rialzati», e non soltanto, a quanto pare, come spettri o come quelle «vuote fantasime» che erano per il Croce dell’Estezica!. Per la verità va detto che già all’interno della riflessione estetica e critica dello stesso Croce gli «pseudoconcetti» che sarebbero i generi si rialzano con una certa tenacia. Non a torto lo studioso tedesco Klaus W. Hempfer, la cui Gattungstheorie contiene fra l’altro una rigorosa analisi della concezione crociana dei generi, ha 6sservato come Croce viene a imbattersi in una contraddizione quando afferma che «ogni vera opera d’arte ha violato un genere stabilito» °,poiché, se i generi non esistono, non si vede bene come un’opera possa violarli °. Che in sede di critica militante poi Croce non volesse rinunziare a un giudizio basato su concetti «generici», lo dimostra lo stesso volume di Pagine sparse in cui venne ripubblicato il pezzo contenente l’accenno all’«infortunio» accaduto ai generi in Italia: a poche pagine di distanza si trova una nota polemica contro un critico che aveva osato considerare tragici i drammi 1 «I “generi letterari” si sono riuniti a congresso in Lione sulla fine del maggio scorso, la qual cosa non avrebbero osato fare in Italia, perché qui accadde loro, una quarantina di anni fa, un infortunio da cui non si sono più rialzati» (B. croce, I « generi letterari» a congresso, in Pagine sparse, 1943; Bari 1960°, III, p. 70). ? Cfr. B. CROCE, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 1902; Bati 1965", da cui sono tratte le citazioni. * Il quale in un saggio del 1956 scrive che la condanna crociana dei generi fu addirittura « quasi universalmente convincente» (r. WELLEK, The Concept 2, Evolution in Literary History (1956), in Concepts of Criticism, New Haven Conn. -London 1964, D. 46). «Affascinati, infine, da questa idea dei generi, si sono visti storici della letteratura e dell’arte pretendere di fare la storia non delle singole ed effettive opere letterarie e artistiche, ma di quelle vuote fantasime che sono i loro generi, e ritrarre, invece dell’evoluzione dello spirito artistico, l'evoluzione dei generi» (B. CROCE, Estetica cit., D. 43). 3 Ibid., p. 42. 6 Cfr. K. W. HEMPFER, Gattungstheorie, Miinchen 1973, p. 48.
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Concetti, tecniche e categorie
di Luigi Pirandello, caratteristica inaccettabile per Croce proprio in base a una concezione ben precisa del genere tragico, «giacché la tragicità ha a sua necessaria condizione la credenza nella responsabilità morale e nell’identità personale, cose che Pirandello disconosce e nega» ”. Qui chiaramente non ci troviamo di fronte a quella classificazione «alla buona» e approssimativa dei generi che lo stesso Croce riteneva legittima per aggruppamenti pratici; qui ci troviamo di fronte a una affermazione che ha tutta l’aria di una di quelle leggi scientifiche che egli riteneva invece impossibili nel regno dell’estetica*. I generi non si rialzano però soltanto attraverso le crepe del sistema crociano ma vi occupano anche un posto regolare: espulsi dalla sfera dell’estetica, essi sono ammessi in quella della storia culturale e sociale e morale’. E anche se questa ammissione non ha avuto nella critica italiana effetti paragonabili agli effetti dell’espulsione, insieme alle crepe del sistema essa ha reso l’«infortunio» meno grave di quanto il filosofo napoletano nei suoi momenti polemici non volesse far credere. In Italia e fuori d’Italia la condanna crociana della dottrina dei generi ebbe una certa fortuna, ma non impedî il persistere di discorsi sui generi ai vari livelli della teoria e della critica letteraria. «L'idea di Cròce che nega l’esistenza dei generi non ha lasciato la più piccola traccia nella scienza estetica», affermò un Ortega y Gasset nel 1925 !. E sarà un’affermazione non meno unilaterale di quella di Wellek, di segno opposto, a cui si è accennato sopra, ma la si può considerare rappresentativa per la resistenza che le idee crociane incontrarono. Infatti si potrebbe riempire una piccola antologia di esplicite dichiarazioni di disaccordo in proposito, da Ernst Robert Curtius " a Jorge Luis Borges ‘, e da ? 8. cROCE, Il Pirandello e la critica, in Pagine sparse cit., D. 95. ® «Chi poi discorre di tragedie, commedie, drammi, romanzi, quadri di genere, quadri di battaglie, paesaggi, marine, poemi, poemetti, liriche e cosî via, tanto pet farsi intendere accennando alla buona e approssimativamente ad alcuni gruppi di opere sui quali vuole, per una ragione o per un’altra, richiamare l’attenzione, certo non dice nulla di scientificamente erroneo, perché egli adopera vocaboli e frasi, non stabilisce definizioni e leggi. L’errore si ha solamente quando al vocabolo si dia peso di distinzione scientifica» (8. cROCE, Estetica cit., pp. 43-44). Precisiamo che il Croce dell’Estetica esamina concetti come «tragico», «comico», «sublime », ecc. non nel quadro della sua polemica contro i generi letterari ma in quello della polemica contro i «concetti pseudoestetici » (ibid., pp. 96-102). Per il nostro discorso ciò non fa differenza, poiché anche della sua polemica contro i concetti pseudoestetici Croce si era vietato affermazioni del tipo usato contro la tragicità del testo di Pirandello: «Sublime (o comico, tragico, umoristico, ecc.) è tutto ciò che è stato, o sarà chiamato cosf da coloro che hanno adoperato, o adopereranno, queste parole » (ibid., pp. 99-100). ? Cfr. in., La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, 1936; Bari 1963‘, in particolare il paragrafo intitolato L’irrigidimento dei generi letterari e la loro dissoluzione, pp. 181-94, e le postille, pp. 352-56. 10 J. ORTEGA Y GASSET, Ideas sobre la novela, 1925 (trad. it. Sul romanzo, Milano 1983, p. 27). !! Il quale si limita a un eloquente punto esclamativo: «I generi (che Croce costretto dal suo sistema filosofico dichiara irreali!)...» (E. R. curTIUS, Europdische Literatur und lateinisches Mittelalter, 1948; Bern-Miinchen 1961, p. 25). 12 In una conversazione sul racconto poliziesco Borges si riferisce all’Estetica di Croce, «alla sua stupenda Estetica», per discutere il «piccolo problema » dell’esistenza dei generi letterari e conclude: « Pensare significa generalizzare e abbiamo bisogno di questi utili archetipi platonici per affermare qualcosa. Allora, perché non affermare che esistono i generi letterari? » (J. L. BoRGES, Borges, oral: el libro, la immortalidad, Emanuel Swedenborg, el cuento policial, el tiempo, 1979 (trad. it. Oral, Roma 1981, p. 49)). Per la posizione di Borges sul problema dei generi va tenuta presente anche un’altra sua affermazione che, almeno nella sua prima parte, lo dimostra più vicino alla posizione crociana: «I generi non sono altro che comodità storiche 0 etichette, e non sappiamo neppure
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La questione dei generi
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Klaus W. Hempfer" allo studioso americano Paul Hernadi, il quale contro Croce afferma addirittura che «ogni pezzo di critica letteraria comporta qualche considerazione del genere » " Questo disaccordo però non sta a significare una chiara concezione, comune ai vari studiosi, di ciò che sono i generi letterari. Non è probabile, per esempio, che un Botges o uno Hempfer accetterebbero la similitudine biologica da cui parte Ortega y Gasset per contraddire Croce: «Ogni opera letteraria appartiene a un genere, come ogni animale a una specie » . La concezione dei ge-
neri come perfettamente analoghi a quelli della classificazione di organismi vegetali o animali, per quanto possa riaffiorare spesso in vari discorsi critici attraverso metafore e similitudini «spontanee», ha perduto ormai il potere persuasivo che esercitava nel positivismo e che culminò nelle lezioni di Ferdinand Brunetière L’évolution des genres dans l’histoire de la littérature. Ma fra il nulla estetico di Croce e l’esistenza naturale di Brunetière i generi non si mostrano subito in un ubi consistam incontestato nelle teorie della letteratura. Il riconoscere che i generi in qualche modo esistono, non implica ancora una risposta immediata e univoca alle domande: «che cosa sono? » e «in che modo esistono? » Le incertezze cominciano col termine «genere» stesso. A che cosa si riferisce precisamente questo termine? E si riferisce alla stessa cosa a cui si riferiscono il termine francese gere, che si ritrova anche nell’uso inglese, e il termine tedesco Gattung "? Quest'ultima domanda non va formulata per soddisfare una semplice curiosità di compatatistica, ma riguarda il nucleo stesso della problematica. Quando ci si pone un problema di tipo «generico», ci si trova infatti da una parte di fronte a un problema che trascende l’ambiente nazionale — a voler studiare la tragedia, mettiamo, non ci si può limitare all’Italia, o alla Francia o alla Grecia antica — e dall’altra si è costretti a rendersi
conto di come le soluzioni del problema, sia sul versante della produzione sia su quello della ricezione e della sistemazione critica, fanno parte di situazioni comunicative che differiscono da un paese all’altro. Cosî nella cultura italiana postcrociana, dove pure non sono mancati contributi importanti sulla problematica dei generi — pensiamo ai saggi di Fubini, di Anceschi, di Maria Corti e di Segre " —, il termine «genere» è rimasto generico (senza virgolette) e recon certezza se l’universo è un esemplare di letteratura fantastica o di realismo». Il passo, che proviene dal Prélogo di Borges a s. DABOVE, La muerte y su traje, Buenos Aires 1961, è citato da R. CAMPRA, che lo traduce a conclusione del suo saggio I/ fantastico: una isotopia della trasgressione, in « Strumenti critici», XV (1981), 45, p. 228. 13 Cfr. K. W. HEMPFER, Gattungstheorie cit., passim. 14 P. HERNADI, Entertaining commitments: a reception theory of literary genres, in «Poetics»,
X (1981), 2-3, p. 195.
15 J. ORTEGA Y GASSET, Ideas sobre la novela cit., trad. it. p. 27. 16 Cfr. F. BRUNETIÈRE, L’évolution des genres dans l’histoire de la littérature, 1890 (trad. it. Parma 1980). 17 Che in tedesco sia possibile anche il termine Gerre, lo dimostra l’antologia di fotmalisti russi di Ju. STRIEDTER (a cura di), Russischer Formalismus, Miinchen 1971, dove il termine russo Zanr viene tradotto sempre con Gerre. In una nota a p. x il curatore giustifica tale traduzione osservando come i formalisti, per generi z0r intendono le Gattungen epica, lirica, drammatica. 4 Cfr. M. FUBINI, Genesi e storia dei generi letterari (1948), in Critica e poesia, Bari 1956, pp.
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Concetti, tecniche e categorie
lativo, in quanto può riferirsi all’epica, alla drammatica e alla lirica, ma anche al romanzo, al sonetto, alla tragedia, ecc., mentre altrove si verificano tentativi più o meno riusciti di delimitare il significato del termine, contrapponendolo ad altri termini usati per fenomeni «generici». Il tentativo più rigoroso in questa direzione è senza dubbio quello della Gattungstheorie di Klaus W. Hempfer a cui abbiamo già accennato. In questo studio l’autore esamina e discute non solo le teorie crociane ma tutte le teorie sui generi di qualche rilevanza che a partire dalla fine dell’Ottocento sono state proposte in Europa e negli Stati Uniti. Che fra queste teorie quelle formulate da critici tedeschi occupino un posto di notevole rilievo sembra dovuto non tanto ad una unilateralità nazionale dell’autore tedesco, il quale si rivela invece lontano da ogni pregiudizio di questo tipo, quanto al fatto che effettivamente nella cultura tedesca del Novecento la riflessione sui generi, ispirandosi naturalmente agli esempi ottocenteschi e soprattutto a Goethe, si è sviluppata più che altrove. Benché tutt’altro che tenero verso la maggior parte di questa riflessione, Hempfer può non di meno essere considerato come un suo rappresentante, che, criticando e approfondendo, la costringe a rendersi conto delle sue aporie e delle sue contraddittorietà e le mostra nuove soluzioni. Fra queste soluzioni si trova anche la proposta per una terminologia che c’interessa qui. In un sistema basato da una parte sul concetto di «situazione locutoria » (Sprechsituation), in cui si stabilisce un preciso rapporto fra locutore e uditore e dall’altra sul concetto di struttura di Jean Piaget, Hempfer distingue quattro concetti fondamentali: Schreibweise (termine non molto felice, per la verità, che si potrebbe tradurre come «modo di scrivere»), «tipo», «genere» e «sottogenere» ”. Per «modi di scrivere» bisogna intendere costanti a-storiche come il narrativo, il drammatico e il satirico, per generi le realizzazioni storiche di questi «modi di scrivere» come la satira in versi, il romanzo, l’epopea, e per sottogeneri forme come il romanzo picaresco, ecc. Il «tipo» è concetto di ordine diverso e sta a indicare le possibilità dei «modi di scrivere» che trascendono i singoli momenti storici. Per esempio: la narrazione condotta da un io narrante è un «tipo» del «modo di scrivere» natrativo. Oltre a questi termini legati da una concezione dinamica di struttura Hempfer distingue ancora Sammelbegriffe, « concetti d’insieme» come «l’epica», «la lirica», classificazioni di comodo, che servono, per esempio, per parlare della «lirica del Settecento». Il tentativo di creare ordine nella confusione terminologica intorno ai generi ha portato quindi lo studioso tedesco a una delimitazione rigorosa del significato del termine «genere», che r0r può pit significare epica o lirica, 143-311; L. ANCESCHI, Dei generi letterari (1956), in Progetto di una sistematica dell’arte, Milano 1962, pp. 65-73; M. CORTI, Generi letterari e codificazioni, in Principi della comunicazione letteraria, Milano 1976, pp. 149-81; C. SEGRE, Le strutture narrative e la storia (1975), in Semiotica, storia e cultura, Padova 1977, pp. 25-37, e l’articolo «Generi», in Enciclopedia, VI, Torino 1979, pp. 564585. Ma per gli ultimi due autori va tenuto presente che la riflessione sui generi ritorna di frequente nei loro studi. !° K. W. HEMPFER, Gattungstheorie cit., pp. 26-29 e passim.
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ecc., e, in concomitanza, alla distinzione e alla denominazione di altri fenomeni «generici». Ora un andamento simile caratterizza anche altri studi che di recente hanno affrontato questa problematica. Cosî in Francia Gérard Genette risale alle origini della questione dei generi, a Platone e ad Aristotele, per sottolineare che presso questi filosofi antichi un criterio fondamentale per la distinzione di vari tipi di testo è reperibile in un concetto, per cui egli propone di accettare la traduzione «modo» (mode), basato sulla situazione enunciativa: o parla il poeta o parlano soltanto i personaggi ”°. Questi «modi», il modo narrativo e il modo drammatico, non vanno confusi con «tipi ideali» o «naturali», termini di cui si può fare a meno, e non vanno identificati con i tre generi o « arcigeneri », lirica, epopea, dramma ”. I generi sono per Genette «classi empiriche stabilite dall’osservazione dei dati storici» ” e il loro rapporto con i modi è complesso ma non riducibile a una « semplice inclusione» dei generi nei modi ‘’. Benché Genette in prima istanza non fosse al corrente della Gattungstheorie di Hempfer, apparsa quattro anni prima”, la convergenza fra le due teorie è notevole: la base trovata nella situazione locutoria o enunciativa, la distinzione dei modi, il rifiuto di generi naturali o ideali al di fuori della storia, e la distinzione di concetti d’insieme, come li chiama Hempfer, o «archigeneri», come li chiama Genette (con pericolosa tendenza verso il suggerimento di una loro primordialità storica o teorica che viene invece esplicitamente respinta). Non sono però trascurabili le differenze, che Genette, accortosi dell’esistenza della teoria di Hempfer, nella seconda versione del suo saggio non manca di sottolineare. I «modi di scrivere» di Hempfer non corrispondono che in parte ai «modi» di Genette, in quanto lo studioso tedesco considera «modi di scrivere» non solo il modo narrativo e il modo drammaticozma anche il modo satirico, che evidentemente non può essere riportato alla situazione enunciativa e che per Genette è di ordine tematico ”. Questa critica è solo in parte giusta, perché trascura il fatto che Hemp20 Cfr. G. GENETTE, Genres, «types», modes, in «Poétique», VIII (1977), 32, p. 394. Per il termine mode Genette si basa sulla traduzione francese della Poetica di Aristotele: cfr. ARISTOTELE, Poétique, a cura di J. Hardy, Paris 19759. Precisiamo che Hardy traduce il greco dg con zz0de d’imitation (p. 327). Va inoltre precisato che Genette segue l’interpretazione di Hardy là dove questo attribuisce all’Aristotele dell’inizio del Im capitolo della Poetica una riduzione dei tre «modi » di Platone (o parla soltanto il poeta, o parlano e il poeta e i personaggi, o parlano soltanto i personaggi) ai
due «modi » citati nel testo. Questa interpretazione è però discutibile: altri grecisti traducono il passo in modo tale che anche Aristotele risulta distinguere tre modi senza allontanarsi da Platone. Cfr. la recente traduzione olandese di J. M. BREMER, Aristoteles’ “Poetica”, in M. BAL (a cura di), Liferaire genres en bun gebruik, Muiderberg 1981, p. 36. 21 Cfr. G. GENETTE, Genres, «types», modes cit., passim e in particolare alle pp. 419-21. 2 Ibid., p. 419. 2 Ibid., p. 421. Nell’edizione in volume, che è una versione leggermente rielaborata e allargata del saggio pubblicato in « Poétique », Genette sottolinea il fatto che egli ha negato l’esistenza di un rapporto di «semplice inclusione » per precisare ora che si tratta di «doppia inclusione» o « intersezione» fra «generi» e «modi» (cfr. G. GENETTE, Introduction è l’architexte, Paris 1979, p. 77; trad. it. Parma 1981, p. 61).
2 Come risulta da un’aggiunta all’edizione in volume: cfr. ibid., trad. it. pp. 62-65. 2 Ibid., trad. it. pp. 63-64. Non è esatta però l’affermazione di Genette che Hempfer cita soltanto il «modo» satirico oltre al «modo» narrativo e al «modo» drammatico. Benché lo studioso tedesco non fornisca z0/ti altri esempi, egli cita anche il «comico » e il «grottesco » come esempi di Schreibweisen (cfr. K. w. HEMPFER, Gattungstheorie cit., p. 163).
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fer colloca il modo drammatico e il modo narrativo a un livello più profondo di quello dove colloca «modi di scrivere» come il comico e il satitico ”, ma ci si può chiedere effettivamente se la differenza di livello non sia cosî fondamentale che avrebbe dovuto costringere lo studioso tedesco a una denominazione diversa. D’altra parte bisogna riconoscere che nel distinguere «modi di scrivere» secondari come il comico, ecc. Hempfer individua un fenomeno generico che trascende le concrete realizzazioni storiche e che appare anche nella teoria di Genette ma con un altro nome, spia di una conceziòne ben diversa: per lo studioso francese si tratta di «alcune grandi categorie tematiche» da considerarsi «transhistoriques» ”. La convergenza fra le due teorie si verifica invece di nuovo, anche se non sul piano della terminologia, per i «tipi» di Hempfer, che anche Genette è disposto a riconoscere come realizzazioni specifiche dei suoi modi, non legate necessariamente a determinati periodi storici, e per cui propone la denominazione di «sottomodi » (s04s-7z0des) per metterne in rilievo il livello gerarchicamente inferiore rispetto ai modi ”*. Se ora spostiamo lo sguardo all’area culturale anglosassone le cose si complicano ulteriormente e non solo a causa delle proposte personalissime che contiene l’Az4t0r2y of Criticism di Northrop Frye ”. Benché questo libro proponga una teoria della letteratura che è sostanzialmente tipologica e benché abbia stimolato senza dubbio un rinnovamento dell’interesse per studi tipologici negli Stati Uniti, e non soltanto negli Stati Uniti, si può pensare che il carattere personale delle proposte e la loro contraddittorietà interna ’° ostacoleranno una loro efficacia durevole nella terminologia «generica». Quando Genette osserva che nell’Azat0r2y of Criticism si chiamano «modi» quelli che di solito vengono considerati generi e «generi» invece quelli che egli ha proposto di chiamare «modi», la terminologia proposta dal critico francese pare più aderente all’uso tradizionale e nello stesso tempo più convincente. Ma anche a voler prescindere dall’ Ar4072y di Frye e a voler considerare una proposta recente che rimane anch'essa più vicina all’uso tradizionale, cioè % Ibid. In generale va detto che Genette giudica il libro di Hempfer con una certa frettolosità: lo include senz'altro fra i tentativi di una teoria dei generi che sono fondamentalmente viziati da una «tassonomia inclusiva e gerarchica» (G. GENETTE, Introduction è l’architexte cit., trad. it. p. 62). A noi sembra che in Hempfer la tendenza alla «gerarchizzazione » venga riequilibrata dalla consapevolezza dell’estrema varietà delle stratificazioni possibili nelle singole opere. Si veda l’esempio del teatro epico come caso di intersezione di «modi di scrivere» primari (K. w. HEMPFER, Gattungstheorie cit., p. 225). G. GENETTE, Introduction è l’architexte cit., trad. it. p. 64. % Ibid., p. 63. © Cfr. N. FRYE, Anatomy of Criticism. Four Essays, 1957 (trad. it. Torino 1972°). 5° Le contraddittorietà e le ambiguità delle classificazioni di Frye sono state rilevate da vari critici fra cui r. topoROv, Introduction è la littérature fantastigue, 1970 (trad. it. La letteratura fantastica, Milano 19835, pp. 12 sgg.); P. HERNADI, Beyond Genre. New Directions in Literary Classification, Ithaca N.Y. - London 1972, pp. 76-80, 156 e 159-60; C. SEGRE, « Generi » cit. p. 575. G. GENETTE, Introduction è l’architexte cit., trad. it. p. 85. Stranamente Genette elenca qui fra quelli che «ordinariamente si chiamano generi » non solo il mito e il romance, ma anche mimésis e «ironia». Si noti comunque che Genette non cita che una delle interpretazioni possibili del termine «genere» in Frye. P. HERNADI, Beyond Genre cit., p. 131 ha osservato che nell’ Aratomy e negli scritti minori di Frye il termine viene applicato ora a convenzioni specifiche di strutture d’intreccio ota a caratteristiche generali di strutture verbali.
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lo studio Kinds of Literature di Alastair Fowler ”, iproblemi terminologici non si risolvono più facilmente. Senza conoscere i saggi di Hempfer e di Genette, o per lo meno senza citarli *, anche Fowler propone una teoria dei generi e dei «modi», come risulta già dal sottotitolo del libro: Ar Introduction to the Theory of Genres and Modes. Ma i «suoi» genres e i «suoi» #0des non corrispondono né alle Gazturgen e alle Schreibweisen di Hempfer né ai genres e ai modes di Genette. Il termine gerres come lo adopera Fowler è un termine globale che indica sia i generi quali si manifestano storicamente, i kinds del titolo, sia i «modi», che costituiscono selezioni o astrazioni dai generi storici,
come il modo pastorale, il modo satirico, il modo tragico, ecc., sia i «tipi costruttivi» (constructional types), che sono procedure puramente formali o compositive come per esempio l’incorniciamento di una serie di novelle, sia infine subgenres, sottogeneri, che possiedono le stesse caratteristiche del kind corrispondente, e in più un contenuto più specifico *. Come si vede, il sistema di Fowler è più vicino a quello di Hempfer che non a quello di Genette, ma non coincide affatto con il primo. In particolare il ruolo fondamentale che lo studioso tedesco attribuisce alla situazione locutoria per distinguere il narrativo e il drammatico come «modi di scrivere» primari rispetto a «modi di scrivere» come il modo satirico o tragico, non ha un equivalente nella teoria di Fowler, il quale nega esplicitamente un posto privilegiato a quello che egli chiama un representational mode, un «modo di rappresentare » ®. La confusione terminologica illustrata qui dal confronto di alcune teorie recenti non cessa quando dal piano elevato delle definizioni generali si scende a quello leggermente più concreto delle denominazioni di singole categorie o a quello molto più concreto dei singoli generi storici. Fowler, che dei critici finora citati è colui ehe rimane più vicino al materiale empirico, osserva che c’è stata troppo poca discussione intorno alla terminologia dei generi * e da 32 Cfr. A. FOWLER, Kinds of Literature. An Introduction to the Theory of Genres and Modes, Oxford 1982. 3 Nella prefazione Fowler dichiara che l’oggetto specifico della sua indagine è, tranne qualche eccezione, la letteratura inglese. E pur dichiarandosi d’accordo con le obiezioni dei comparatisti contro studi sui generi su base nazionale, egli giustifica la sua scelta adducendo le grandi differenze fra gli ordini dei generi nei vari paesi, senza peraltro abbandonare pretese più generali: «La natura “generica” della letteratura forse è tale che una letteratura estesa può stare come un esemplare della letteratura stessa» (ibid., p. vi). Se questa idea dovesse essere considerata sbagliata, Fowler sarebbe disposto ad accettare il titolo Kinds of English Literature. E solo se la sua opera fosse una storia della critica, essa avrebbe dovuto riservare maggiore spazio, a parere dell’autore, a teorici «continentali » quali «Brunetière e Luk4cs, i formalisti russi, a Hans Robert Jauss e forse anche agli strutturalisti francesi» (ibid.). Senza negare minimamente le complicazioni e la complessità di una teoria dei generi non limitata a una sola letteratura nazionale, e senza sottovalutare la portata e la grande importanza dello studio di Fowler, che pet quanto riguarda l’esemplificazione concreta ha un raggio d’azione davvero impressionante, si rimane però un po’ perplessi davanti alle sue giustificazioni teoriche in sede di prefazione: come se l’aver limitato il campo d’indagine alla letteratura di lingua inglese dovesse comportare automaticamente la scelta di strumenti d’indagine di lingua inglese. La giustificazione suona ancora meno convincente se si tiene presente che il riferimento ad altre letterature e a studi «continentali» sui generi è cosî frequente nel libro da non poter essere considerato una semplice eccezione. 3 Si vedano le varie definizioni ibid., pp. 55-56. 8 Ibid., pp. 236 sgg. 36 Ibid.,p.135.
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parte sua dedica un intero capitolo alle «etichette generiche», in cui esamina brevemente le «variazioni regionali» e le «variazioni generali» ”. Per le prime l’autore ricorre all’analogia con i nomi dei colori che spesso non possono tradursi letteralmente da una lingua all’altra in quanto le varie culture vedono lo spettro dei colori attraverso griglie diverse * e fra gli esempi cita termini come novel, fiction, romance, narrative”. E in realtà il carattere problematico di quasi tutti questi termini salta subito all’occhio del lettore abituato alla terminologia italiana. Al livello pit alto il termine fiction può magari tradursi più o meno approssimativamente ‘ con «narrativa», ma indica chiaramente un modo diverso di tagliare le «fette» nell’insieme dei testi letterari e non letterari. Si può pensare che la frequenza con cui nella critica anglosassone si presentano riflessioni sulla finzionalità sia da riportare almeno in parte allo stimolo inerente al termine stesso di fiction *. E allo stesso livello: siamo proprio sicuri che la traduzione letterale del termine italiano « poesia» nelle varie lingue europee non dia mai luogo ad equivoci? Quando Genette richiamandosi a Stuart Mill, a Poe e a Baudelaire, constata con una certa insistenza che nell’epoca moderna il concetto di poesia è venuto a coincidere con il concetto di poesia lirica ‘, ciò può far sorridere il lettore italiano educato da Croce, ma la constatazione e il sorriso non sono che spie delle diversità culturali che sussistono sotto termini apparentemente equivalenti. Al livello dei generi storici un esempio eloquente delle differenze terminologiche fra varie culture è fotnito dal termine romance. Nella letteratura dell’area culturale anglosassone questo termine si oppone al zovel per una maggiore libertà inventiva e fantastica, opposizione cosî fondamentale da giustificare tutt’una serie di studi sul romance e da farne una pietra angolare non solo nel sistema di Frye * ma anche in quello in cui Robert Scholes cerca di cogliere l’evoluzione del romanzo *. Ma, come è noto, il termine non ha un equivalente italiano (o francese) ?
3 Ibid., pp. 130-48. * Ibid.,p.133. ® Ibid., p.134. 4° Cfr., a questo proposito, la nota di Umberto Eco alla sua traduzione di un atticolo di J. R. SEARLE, T'he logical status of fictional discourse (1975) (trad. it. in «Vs», n. 14 (1975), p. 149): «La fiction non è coestensiva alla narrativa perché (1) esistono anche narrazioni di eventi reali e (2) Searle in questo articolo la vede in atto anche in opere di poesia; equivale a “opera di fantasia”, ma
il termine è troppo compromesso
nel contesto filosofico italiano »..
4! Che però il dibattito sulla finzionalità possa nascere anche al di lo dimostra la teoria letteraria tedesca, dove esso si è acceso soprattutt fuori dell’area anglosassone o intorno allo studio di K. HAMBURGER, Die Logik der Dichtung, Stuttgart 1957. A partire dalla seconda edizione del libro l’autrice ha inserito alcune pagine in cui fra l’altro osserva che l’uso inglese di fiction per il romanzo e non per il dramma ha aumentato l’imprecisione del concetto e delle sue applicazioni. Citiamo dalla quarta edizione, Frankfurt am Main - Berlin - Wien 1980, p. 57. Per un’altra voce autorevole nel dibattito cfr. 6. GABRIEL, Fiktion und Wabrbheit. Eine semantisch e Theorie der Literatur, Stuttgart Bad Cannstatt 1975. Per un contributo italiano sulla questione cfr. c. SEGRE, «Finzione», in Exciclopedia, VI, Torino 1979, pp. 208-22. 4° G. GENETTE, Introduction è l'architexte cit., trad. it. p. sI. 4 E non solo nell’Anatomy of Criticism. Cit. il sottotitolo di una pubblicazione pit recente: N. FRYE, The Secular Scripture. A Study of the Structure of Romance, 1976 (trad. it. Bologna 1978). ._ % Cfr. x. scHoLes, Les modes de la fiction, in «Poétique», VIII (1977), 32, PP. 507-14. Si tratta di una versione francese di un estratto di Toward a Structural ist Poetics of Fiction (1974), in Structuralism in Literature, New Haven Conn. - London 1974, pp. 129-38. Si noti che Scholes considera il romance un modo... Per un’applicazione del concetto di romance al romanzo americano contempo-
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sicché l'opposizione non si verifica nella critica letteraria italiana e vengono definiti «romanzi» quelli che in inglese si chiamano romances, dall’antico romanzo greco al romanzo medievale e oltre, al romanzo batocco. Più importanti ancora di queste variazioni culturali sono le variazioni storiche nella denominazione di fenomeni generici. Le etichette e i generi cambiano, conclude ancora Fowler, «anche se non necessariamente di pari passo» © e per illustrare le trasformazioni della nomenclatura aveva citato i casi dell’elegia, dell’epigramma, dell’ecloga e del romance ‘“. Ma forse il caso più interessante è costituito proprio dal termine «poesia», poiché le diverse consapevolezze nazionali di fronte a questo termine vanno collocate naturalmente sullo sfondo comune dell’eredità classica in cui il concetto di poesia copriva un’area ben più vasta della poesia lirica, se non coincideva addirittura con ciò che oggi chiameremmo letteratura d’immaginazione, o se non escludeva pro-
prio la poesia lirica ‘.
I fenomeni «generici» sono quindi lontani dal presentarsi in una veste terminologica sempre identica. Né si tratta soltanto di una problematica puramente terminologica: abbiamo avuto modo di notare come le differenze terminologiche a volte esprimano concezioni diverse di ciò che dovrebbe essere fondamentale in una teoria dei generi. Ma d’altra parte .va anche riconosciuto che altre volte si tratta soltanto di un problema terminologico. Che un critico chiami «modo» ciò che un altro chiama «genere» e viceversa, è un fatto che può dar fastidio, ma che è meno importante del fatto che tutt’e due ritengono opportuna una distinzione fra «modi» e «generi». E che le «etichette» come denominazioni dei generi risultino non meno dei generi stessi suscettibili di modificazioni storiche, non significa che esse sfuggano ad ogni tentativo di sistemazione teorica; è fin troppo evidente che una teoria dei generi dovrà anche rendere conto e delle trasformazioni storiche dei generi e dei discorsi sui generi.
Pensiamo insomma che non è impossibile indicare nelle soluzioni che dà la critica moderna al problema dei generi un orientamento comune, un accordo minimo globale almeno per quanto riguarda la direzione in cui vanno cercate le soluzioni. Un primo aspetto di questo orientamento è la distinzione fra i generi quali si manifestano storicamente, che perfino Croce riteneva oggetti degni d’indagine, e gli elementi costitutivi di questi generi. Fra questi elementi si riconoscono da una parte modi che riguardano l’esposizione, l’enunciazione o la presentazione del contenuto (i zz0des di Genette, i «modi di scriraneo cfr. anche 1n., The Nature of Romance, in Fabulation and Metafiction, Urbana Ill. - Chicago London 1979, pp. 21-45. 4 A. FOWLER, Kinds of Literature cit., p. 148. 4 Ibid., pp. 136-42. 4 Sull’esclusione della lirica dalla poesia nella Poetica di Aristotele insiste particolarmente K. HAMBURGER, Die Logik cit., pp. 17-21, dove il richiamo ad Aristotele serve da punto di partenza per l’elaborazione di una distinzione fondamentale fra il genere finzionale o mimetico, che comprende la finzione epica e la finzione drammatica, e la finzione filmica da una parte, e il genere lirico dall’altra. Sul rovesciamento del concetto moderno di poesia rispetto a quello di Aristotele cfr. anche G. GENETte, Introduction à l’architexte cit., trad. it. p. 51, che aggiunge un breve commento: «Un capovolgimento cosî radicale forse non è indice di una vera emancipazione ».
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vere» primari di Hempfer, i «modi di rappresentare» di Fowler) e dall’altra modi che riguardano il contenuto (le «categorie tematiche» di Genette, i
«modi di scrivere» secondari di Hempfer e certi altri zzodes di Fowler). Per
questi due «modi» diversi proponiamo, in maniera del tutto provvisoria, i termini «modi enunciativi» e «modi semantici». In ambedue questi modi si possono distinguere suddivisioni, cosi come nei generi storici si possono distinguere sottogeneri. Sono evidenti soprattutto i vari tipi del modo enunciativo narrativo, i sous-modes di Genette, che si possono chiamare, con Hempfer, tipi, sempre in maniera del tutto provvisoria. I modi enunciativi, certi tipi e certi modi semantici (il comico, il tragico, il satirico, ecc.) sono co-
stanti a-storiche nel senso che possono manifestarsi in generi di epoche lontanissime l’una dall’altra. Oltre ai modi interviene nella costituzione di un genere ancora un terzo elemento, il «mezzo» con cui si realizza la mimesi secondo Aristotele, la «determinazione formale» per Genette *: la lingua, co-
me poesia o come prosa. Un genere storico si lascia allora descrivere come
l’intersezione delle manifestazioni concrete di un modo enunciativo, un modo semantico e una scelta linguistica, intersezione nella quale possono però verificarsi varie sovvrapposizioni modali e linguistiche: nel teatro epico per esempio si sovrappongono il modo narrativo e il modo drammatico. Ma bastano questi tre elementi a rendere conto in modo soddisfacente dei vari generi? Qui l’accordo minimo che abbiamo pensato di poter individuare non regge più: Fowler, che nel suo empirismo storico è refrattario al rigore sistematico a cui aspirano un Hempfer e un Genette, è lontano dal considerare soddisfacente un’impostazione che cerchi di limitare il più possibile e di geratchizzare o di strutturare comunque gli elementi costitutivi e propone invece un «repertorio generico», una lista non gerarchizzata di quindici tratti caratteristici per cui si possono distinguere generi e/o sottogeneri ‘’, lista in cui si trovano anche gli elementi selezionati qui sopra per l'orientamento comune e che l’autore stesso non ritiene completa. Ora, se ha ragione Fowler nell'affermare che per rendere conto dei generi e dei sottogeneri storici ci vuole una scala molto larga di caratteristiche e se è convincente anche la sua osservazione che forse per la maggior parte i tratti caratteristici di un genere funzionano inconsapevolmente fino al momento dell’infrazione “, ciò non vuol dire che non si debba cercare di individuare una struttura fra questi tratti caratteristici. E ci sembra che quasi tutti i tratti di Fowler si lascino collocare fra i due modi e la scelta linguistica. Quasi tutti, ma non tutti: elementi come la struttura esterna e la lunghezza da una patte e l’occasione sociale dall’altra, che Fowler individua giustamente come tratti distintivi dei generi, non si possono inserire nel nostro sistema. Per quanto riguarda la lunghezza e la struttura esterna ciò non sembra molto grave, poiché questi elementi possono essere messi sullo stesso livello del mezzo linguistico in quanto si tratta di fe4 Ibid., pp. 65-66. ®° n. FoWLER, Kinds of Literature cit., pp. 60-73.
50 Ibid., p. 60.
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nomeni immediatamente percepibili dall’orecchio e/o dall’occhio, fenomeni della superficie del testo, ma per l’occasione sociale un accostamento a uno dei nostri tre elementi non è possibile. Si tratta infatti della funzione sociale del testo, che indubbiamente contribuisce alla sua determinazione «generica», spesso inconsapevolmente per chi si trova all’interno di un sistema sociale, spesso consapevolmente per chi lo considera dall’esterno, per esempio da una distanza storica. Ci sembra anzi che Fowler, collocando questo fattore sotto il termine «occasione» ‘, ne sottovaluti l’importanza e che per questo aspetto sia meglio ispirarsi a una lista, essa sf strutturata, che è stata stesa per un gruppo limitato e che riserva una sezione intera per «la sede nella vita» (Sitz im Leben) del genere: il panorama dei piccoli generi esemplari medievali proposto da Hans Robert Jauss *. Per quanto in alcuni suoi aspetti questo panorama possa sembrare discutibile e per quanto le restrizioni inerenti alla scelta di discorsi esemplari non lo rendano di certo rappresentativo rispetto all'insieme dei testi letterari, la pertinenza di un tratto «sede nella vita», traducibile come funzione sociale ”’, ci pare innegabile: l’«occasione» in questa prospettiva non è che un momento evidente della funzione sociale. Il dar rilievo a questa funzione implica una certa selettività da parte nostra nell’individuare un orientamento comune nelle indagini sui generi, ma non si tratta che di una accentuazione maggiore o di una esplicitazione di un elemento inerente a una concezione dei generi che è invece comune a molti critici, la concezione, cioè, secondo la quale i generi vanno studiati non come analogie di oggetti fisici” ma come schemi comunicativi, o come sistemi di norme comunicative o come codici supplementari nel quadro di una situazione comunicativa che comprende il mittente, il messaggio ma anche il ricevente. Per citare Fowler, certamente non sospetto di simpatie semiotiche: «Questo libro ha esposto l’idea che [il genere] è un sistema di comunicazione,
per l’uso degli autori quando scrivono e dei lettori e dei critici nella lettura e nell’interpretazione » ”. In questa prospettiva si collocano anche i più importanti contributi italiani allo studio dei generi, quelli di Maria Corti e di Cesare Segre. Maria 5 Ibid., p. 67. Fowler osserva che i cambiamenti nella funzione sociale della letteratura hanno diminuito l’importanza dell’« occasione » come criterio di distinzione fra i generi, il che è senza dubbio vero ma un po’ poco rispetto alla rilevanza della funzione sociale dei generi.
5 Cfr. H. R. JauSS, Alteritàt und Modernitàt der mittelalterlichen Literatur, introduzione alla raccolta di saggi Alteritàt und Modernitit der mittelalterlichen Literatur. Gesammelte Aufsitze 1956-76, Miinchen 1977, appendice a p. 47. 5 Traduzione che modifica alquanto l’impostazione del panorama di Jauss in vista di un suo allargamento a generi non medievali e non esemplari. Va precisato infatti che nel panorama la sezione «sede nella vita» comprende tre settori: il mz0dus recipiendi, il modello di comportamento suggerito dal. genere e la funzione sociale (ideologica). L’espressione Sitz ir2 Leben proviene dallo studio dei generi letterari nella Bibbia, come risulta dal saggio dello stesso autore, Theorie der Gattungen und Literatur des Mittelalters (1972), ibid., p. 50. Il saggio contiene anche un elenco di criteri distintivi per generi narrativi della letteratura medievale applicati all’epos, al romanzo ed alla novella.
5 Per una critica recente dell’ontologizzazione dei generi cfr. J.-M. SCHAEFFER, Du texte au genre. Notes sur la problématique générique, in « Poétique », XIV (1983), 53, pp. 3-18, e nell’ambito italiano M. CORTI, Geweri letterari cit. e C. SEGRE, « Generi » cit. 55 A. FOWLER, Kinds of Literature cit., p. 256.
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Corti è stata la prima in Italia a portare lo studio dei generi in una prospettiva esplicitamente semiotica in vari saggi, ma soprattutto nel capitolo intitolato Generi letterari e codificazioni di un libro il cui titolo è altrettanto significativo: Principi della comunicazione letteraria. In questo capitolo l’autrice intende dare non tanto una teoria dei generi quanto un approccio storico-semiologico ad alcuni generi storici, i quali vi risultano come sistemi di comunicazione letteraria codificati da una stretta interdipendenza del piano tematico e del piano formale”. A prescindere dal fatto che sul piano formale non vengono distinti il mezzo linguistico e il modo enunciativo, questa impostazione si allinea bene con le proposte teoriche che siamo venuti esaminando. Un approccio non troppo dissimile si trova nell’articolo «Generi» che Cesare Segre ha scritto per l’Exciclopedia Einaudi. Dopo aver passato rapidamente in rassegna alcune recenti teorie dei generi ”, insistendo molto sulla natura di « prodotti storici » che hanno i generi *, e spiegando il loro carattere con il carattere peculiare della comunicazione letteraria («comunicazione a due tempi, senza feedback») ”, Segre definisce il genere letterario come «un particolare tipo di rapporto tra le varie particolarità formali e gli elementi contenutistici». Questo « particolare tipo di rapporto» si regge soltanto in alcuni periodi e «in minima parte» su codificazioni esplicite, di solito invece su «norme di coesione» non rigide ‘. Benché citi fra le varie particolarità formali anche «tecniche stilistiche», «tecniche discorsive» e «tecniche espositive», Segre non chiarisce interamente il loro statuto, sicché è difficile identificare una delle ultime due con i modi enunciativi. Che però una almeno parziale identificazione fra «tecniche espositive» e questi modi sia legittima, lo dimostra un saggio precedente, in cui Segre cerca di far vedere i rapporti fra i vari livelli del testo narrativo (discorso, intrigo, fabula, modello narrativo) e il contesto culturale, 0, come suona il titolo del saggio, fra Le strutture narrative e la storia. Di fronte alla colonna dei quattro livelli o «tagli» del testo narrativo l’autore mette in una tabella la colonna di quattro livelli del contesto culturale, sicché al discorso 5 Cfr. M. coRTI, Geweri letterari cit., p. 157. 5 €. SEGRE, «Generi» cit., pp. 574-80. Assenti all’appello però gli studi di Hempfer e di Genette. Assenza che colpisce soprattutto in quanto il giudizio di Segre sui vari tentativi di ridefinire le categorie generiche non è molto positivo: scartate le proposte di Jakobson, di Frye, di Jolles, di Stender-Petersen, si salva, con qualche riserva, solo la proposta di P. HERNADI, Beyond Genre cit. e Literary theory: a compass:for critics, in «Critical Inquiry», III (1976), 117, pp. 369-86. Malgrado le sue sottigliezze e le numerose osservazioni valide, il sistema di Hernadi non ci sembra molto convincente, in particolare in quanto trascura interamente il livello della lingua e in quanto sovrappone dall’inizio alla distinzione di modi enunciativi le categorie di azione e di «visione », la seconda delle quali ha un significato ora letterale ora metaforico. Queste categorie hanno senza dubbio una rilevanza per le distinzioni «generiche» ma non vanno sovrapposte subito ai modi enunciativi. Il diagramma di Hernadi che Segre traduce e riproduce (c. SEGRE, « Generi » cit., p. 579) ci sembra troppo complicato per un primo schema e troppo semplice per uno schema che voglia presentare almeno le tendenze fondamentali operanti nella costituzione dei generi.
% Ibid., p. 581.
59 Ibid. 6 Ibid., p. 582. 6! Ibid., p. 584.
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corrisponde la lingua, che comprende anche la retorica e la metrica, all’intrigo corrispondono le tecniche dell’esposizione, alla fabula i materiali antropologici e al modello narrativo i concetti chiave e la logica dell’azione ‘’. I generi costituiscono allora colonne intermedie fra quelle del testo e del contesto culturale, «istituzioni» che si reggono su «sottocodici» rispetto ai codici del contesto culturale. Preselezioni stabilite, potremmo dire, per la selezione che un testo opera nella cultura in cui viene prodotto. Ora per illustrare come possono essere fatte le colonne intermedie, Segre dà come esempio di tecniche dell’esposizione proprio la diversità fra un testo narrativo e un testo teatrale“, dove solo un «e cosî via», suggerendo altre possibilità di esemplificazione allo stesso livello, impedisce la totale identificazione fra le «tecniche dell’esposizione» e i modi enunciativi. Nella sua pubblicazione più recente l’autore presenta comunque narrazione e teatro come «due tipi di comunicazione letteraria» “, anche se fra un capitolo e l’altro del libro si verifica qualche ambiguità intorno alla collocazione del «modo di enunciazione»: al livello del «discorso» o a quello dell’«intreccio » “. Se quindi i primi tre livelli delle colonne intermedie del sistema di Segre non possono considerarsi semplicemente una versione personale dei tre elementi costitutivi dei generi individuati da altri teorici, il suo approccio è senza troppe difficoltà collocabile nell’orientamento comune delle varie teorie «generiche» degli ultimi anni. Si dirà forse che questo orientamento comune si basa su concetti cosî globali che rischia di perdere ogni efficacia, e che è impossibile conciliare la posizione dello storico e quella del teorico, 0, secondo
la formulazione di Segre, la posizione di chi mira «a una descrizione empirica dei generi secondo il loro sviluppo attraverso il tempo» e la posizione di chi cerca di «definire ex novo, con criteri coerenti, delle categorie tali da esaurire tutto l’assieme della produzione letteraria» . Ma a noi sembra che solo la combinazione di queste due problematiche possa portare a una visione più soddisfacente dei generi letterari e che allo stato attuale degli studi non è op6 Ip., Le strutture narrative cit., p. 34.
6 Ibid., p. 36. 5 Cfr. il sottotitolo di 1n., Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino 1984. 6 Nel primo capitolo, cercando le differenze fra teatro e narrazione ai quattro livelli della sua «colonna» e non trovandole ai livelli della fabula e del modello narrativo, Segre afferma: «È sugli altri due livelli, intrigo e discorso, che si sviluppano le differenze. Se nel discorso si attua la scelta del modo di enunciazione (diegetico o mimetico), è già nel maneggio dell’intrigo che le istanze teatrali s'impongono » (ibi4., p. 7). Nel secondo capitolo ci pare di dover individuare una posizione diversa. Partendo di nuovo dai quattro tagli del testo narrativo e dal confronto fra lo schema della comunicazione narrativa e quello della comunicazione teatrale, l’autore introduce il concetto di «* ope-
ratori” che intervengono nella realizzazione teatrale di una fabula» (ibid., p. 17), il che vuol dire dunque al livello dell’intreccio: «Si può ritenere che la fabula si realizzi come intreccio con l’intervento di un cospicuo numeto di “operatori”: alludo appena a quelli che ne attualizzano il contenuto in rapporto con la situazione storica, il gusto, le finalità ecc. Sottolineo invece l’intervento, a un certo punto, di due degli operatori a cui ho alluso: l’operatore prospettico, che stabilisce la voce e le modalità di esposizione, e, quando la prospettiva scelta sia quella della mimesi, l’operatore scenico, che stabilisce le aree di rappresentabilità e di dicibilità... Possiamo dunque affermare che la “teatralità” è in azione al livello dell’intreccio» (ibi4., p. 18). Sarà chiaro che a trovarci d’accordo è la seconda delle riflessioni di Segre. 6 Ip., «Generi» cit., p. 572.
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portuno aspirare a sistemazioni più o meno ingegnose ma occorre tornare a
riflettere sulle coordinate più elementari delle distinzioni «generiche». Di fronte all’orientamento comune sorge però un’altra domanda, che riguarda la sua specificità nell’affrontare testi letterari. La scelta linguistica, il modo enunciativo e il modo semantico, ecco tre criteri, si potrebbe obiettare,
che serviranno magari a distinguere generi letterari, ma anche generi non letterari e come distinguere allora l’insieme dei testi letterari da altri tipi di testo? La domanda, per quanto ovvia, è tutt'altro che illegittima e bisogna quindi cercare di darle una risposta prima di affrontare l’esame dei criteri distintivi. Se no, i generi letterari non risulteranno forse più le «vuote fantasime» schernite da Croce, ma presenteranno l’inconveniente di essere difficilmente riconoscibili fra i tanti tipi della comunicazione linguistica. 2.
Generiletterari e generi non letterari.
Qualsiasi comunicazione linguistica ricorrente tende a stabilirsi in certi tipi determinati da scelte costanti di mezzi espressivi e formali, di modi enunciativi e di modi semantici: l’articolo di fondo di un giornale, la cronaca sportiva, il motto di spirito, la conversazione quotidiana, un’annunzio pubblicitario, il dibattito parlamentare, l’intervista, sono solo alcuni dei numerosissimi esempi possibili di tipi di testo stabilizzati, di generi nel senso vero della parola, anche se non letterari. A differenza dei generi letterari, questi generi, con termine improprio talvolta indicati come generi «naturali», sono stati relativamente poco studiati, almeno fino a qualche anno fa, fino a quando, cioè, la sociolinguistica e la teoria degli atti linguistici hanno attirato l’attenzione sull’uso della lingua in generale e quindi sulle convenzioni di quest’uso al di fuori delle istituzioni letterarie'. Ma dove sta la differenza fra i due? Una prima risposta ovvia potrebbe indicarla al livello dei mezzi espressivi e formali: i generi non letterari non sarebbero soggetti alle costrizioni formali che sono caratteristiche dei generi letterari. La risposta è valida però solo fino a un certo punto. Se prendiamo il caso della massima costrizione formale, quello del verso, è senza dubbio vero che essa è reperibile in molti generi letterari e quasi mai nel discorso «naturale». Ma non mancano eccezioni nei discorsi pubblicitari e negli slogan: non a caso Jakobson ha illustrato la sua concezione della funzione poetica del linguaggio con lo slogan «I like 1 Guidata dai risultati della sociolinguistica e dalla teoria degli atti linguistici, Mary Louise Pratt critica giustamente le varie affermazioni sul linguaggio poetico come deviazione dal linguaggio normale e sulla specificità di certa narrativa letteraria, che non si basano sullo studio del linguaggio nella vita quotidiana e di ciò che l’autrice chiama « narrativa naturale ». Da parte sua la Pratt propone un approccio alla letteratura basato sulla teoria degli atti linguistici che «rende possibile e anzi richiede la descrizione e la definizione della letteratura negli stessi termini usati per tutti gli altri tipi di discorso» (M. L. PRATT, Toward a Speech Act Theory of Literary Discourse, Bloomington Ind. London 1977, p. 88). Come è noto, la necessità di studiare tutti i generi del discorso era una delle idee fondamentali dell’attività teorica di Bachtin. Cfr. ora il frammento di un libro rimasto incompiuto, in cui l’autore voleva concentrarsi interamente sull’argomento, in M. M. BACHTIN, Estetika slovesnogo tvortestva, 1979 (trad. franc. Esthétigque de la création verbale, Paris 1984, pp. 263-308).
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Ike». E soprattutto: le costrizioni formali nella loro versione più forte non sono caratteristiche della letteratura in generale, ma solo di alcuni generi, e sia pure importanti. Il romanzo, la novella, gran parte della letteratura teatrale moderna, per questo aspetto non si distinguono dai generi «naturali». A considerare una costrizione formale un po’ meno forte, la prosa elaborata in uno stile di qualsiasi tipo, personale o istituzionale, è chiaro che neanch’essa può servire da fattore rigorosamente discriminante. Il discorso giuridico, pet esempio, il discorso religioso, o, almeno nel passato, il discorso storiografico, sono caratterizzati da una prosa che per la qualità dell’elaborazione si trova allo stesso livello della prosa letteraria. Del resto su questo piano i manuali di retorica non distinguono fra generi letterari e generi retorici. Si dirà che le storie della letteratura sono lî a dimostrare che effettivamente almeno nella presentazione di certi periodi, questi generi sono considerati letteratura e che quindi l’elaborazione formale della prosa fornisce un criterio distintivo. Ma ciò è vero solo in parte. Se generi simili del passato trovano posto nelle storie letterarie, non è soltanto l’elaborazione formale della prosa a cui devono tale onore. Se non sbagliamo, leggi, arringhe o litanie, tutte forme elaboratissime, si cercherebbero invano nelle storie o nelle antologie letterarie. Le costrizioni formali sul piano dei mezzi espressivi, in altre parole, se hanno un indubbio valore distintivo, non bastano da sole a delimitare il campo dei generi letterari. Quanto ai modi enunciativi, prima di considerarne l’efficacia discriminante bisogna fare alcune distinzioni. Infatti i rz0des di Genette e i «modi di scrivere» di Hempfer, i «modi di rappresentare» di Fowler, nella misura in cui si oppongono come «narrativo» e
«drammatico», si oppongono già in manie-
ra alquanto complessa, poiché non si riferiscono soltanto all’esposizione verbale e alla rappresentazione fisica (mimica, gestuale e verbale), ma anche a monologo e dialogo, mentre implicano ambedue un’azione al livello dei modi semantici. È chiaro che nessuno di questi rapporti è strettamente necessario: un testo può essere monologico o dialogico (termine che per abbreviazione può coprire anche « polilogico ») senza essere nel secondo caso destinato alla rappresentazione scenica, e senza escludere tale rappresentazione nel primo, e cosi né monologo né dialogo implicano necessariamente come contenuto un’azione °. La distinzione puramente enunciativa è evidentemente quella fra esposizione monologica e esposizione dialogica, che può, ma non deve, aver per oggetto un’azione. Ora sarà inutile osservare che su questo piano non si trovano in prima istanza criteri distintivi fra generi letterari e generi non let2 Un tentativo di districare il groviglio di fattori implicati nella distinzione «epos, dramma, lirica», è quello di J. Petersen: «Epos: narrazione (Bericht) monologica di una situazione. Lirica: rappresentazione monologica di una situazione. Dramma:
rappresentazione dialogica di un’azione »,
citato sia da K. w. HEMPFER, Gattungstheorie cit., p. 159, sia da G. GENETTE, Introduction è l’architexte cit., trad. it. pp. 43-47. Su queste distinzioni Petersen si basa poi per rappresentarle in un triangolo, che costituisce il punto di partenza per la costruzione di un circolo che dovrebbe contenere tutti i generi, non esclusa, anzi collocata al centro, la Urdichtung. Se questi sviluppi non sono affatto convincenti, le prime distinzioni mantengono però almeno una parziale validità, proprio in quanto fanno vedere i fattori in gioco. Che nemmeno la distribuzione dei fattori sui tre «generi» sia interamente convincente, è un altro discorso su cui torneremo nel seguito.
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terari: un processo verbale è un genere monologico che può magari aver ispirato un autore per il titolo di un testo letterario °, ma che appartiene di per sé alla comunicazione sociale non letteraria e per un testo dialogico si pensa im-
mediatamente alla forma che negil ultimi anni fiorisce nei giornali e in altri media: l’intervista, che può sembrare una versione «naturale» del dialogo umanistico‘. Se nell’enunciazione si considera l’aspetto che si determina in base a un contenuto globale e per cui essa si distingue come narrativa, per esempio, da una enunciazione descrittiva o persuasiva, probabilmente grazie a segnali precisi alla superficie del testo °, si deve constatare che questo fattore è anch’esso comune a generi letterari e generi «naturali». Ci troviamo qui anzi nell’ambito dove di solito si cerca di fondare una tipologia dei discorsi in generale. Se consideriamo «narrare» e «descrivere» e «persuadere» come risposte alla domanda che cosa si può fare nel parlare, possiamo vedere nelle prime due attività delle varianti dell’atto illocutivo assertivo e nel secondo una variante dell’atto illocutivo direttivo. Ci riferiamo qui alle distinzioni formulate da John Searle, il quale distingue inoltre ancora l’atto illocutivo «espressivo», l’atto illocutivo «impegnativo» e l’atto illocutivo «dichiarativo» °. Ci si potrebbe riferire anche alle sei funzioni linguistiche di Jakobson”, dove narrare e descrivere sarebbero collocabili sotto la funzione referenziale e persuadere sotto la funzione imperativa ", ma anche queste attività di pet sé sono comuni alla comunicazione linguistica naturale e alla comunicazione letteraria. Non entriamo qui nel merito di questi due approcci, che nel confronto dimostrano che a voler fondare una tipologia dei testi letterari su una tipologia elementare del discorso, si trova sf una base, ma una base che è ancora in via di assesta3 Ci riferiamo ovviamente ai Processi verbali che Federico De Roberto pubblicò nel 1890. Per De Roberto il processo verbale rappresentava la forma perfetta dell’«impersonalità»: « Processo verbale, nell’uso comune — i puristi ripudiano questa espressione — significa una relazione semplice, rapida e fedele di un avvenimento, svolgentesi sotto gli occhi di uno spettatore disinteressato. Processi verbali io intitolo delle novelle, che sono la nuda e impersonale trascrizione di piccole comme. die e di piccoli drammi colti sul vivo» (F. DE ROBERTO, Processi verbali, Palermo 1976, p. 3). 4 Da scartare comunque l’idea di un’origine dell’intervista nel genere del dialogo letterario. Cfr. PH. LEJEUNE, Je est un autre. L’autobiographie, de la littérature aux medias, Paris 1 980, bp. 105: «Ai suoi inizi l’intervista non ha nessun rapporto con il genere del dialogo letterario o filosofico, che più tardi potrà qualche volta sfiorare ».. 5 Diciamo «probabilmente» perché scarseggiano studi che cerchino di cogliere la narratività o la descrittività, ecc. alla superficie del testo. Per la natratività si può rimandare a E. GULICH, Ansétze zu einer Kommunikationsorientierten Erzibltextanalyse (am Beispiel) miindlicher und schriftlicher Erzibltexte, in w. HAUBRICHS (a cura di), Erziblforschung, I, Gòttingen 1976, pp. 224-56. Per il descrittivo cfr. PH. HAMON, Introduction è l’analyse du décriptif, Paris 1981, che dedica anche un paragrafo (pp. 65-72) ai «segnali del descrittivo» alla superficie del testo. ° Cfr. J. R. sEARLE, A Taxonomy of Ilocutionary Acts (1975), in Expression and Meaning, Cambridge - London - New York - Melbourne 1979, PD. 1-29 (trad. it. Per una tassonomia degli atti illocutori, in Mm. sBISÀ (a cura di), Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, Milano 1978, pp. 168-98. Precisiamo che non seguiamo la terminologia di questa traduzione, in cui gli assertives di Searle, per esempio, figurano come « rappresentat ivi »). ? Cfr. r. JaKoBSON, C/osing Statements: Linguistics and Poetics, in TH. A. SEBEOK (a cura di), Style in Language, Cambridge Mass. 19665, pp. 350-77. ® Cfr. ibid., p. 357, dove Jakobson vede nella poesia epica una forte partecipazio ne della funzione referenziale e nella poesia che si rivolge a un «tu» una forte partecipazio ne della funzione imperativa, fermo restando che domina in ambedue i casi la funzione poetica.
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mento. Ciò che importa notare per ora è il vasto terreno comune fra tipologia letteraria e tipologia del testo in generale”. Una differenza fondamentale fra la tipologia di Jakobson e quella di Searle va invece rilevata perché riguarda direttamente il nostro problema. Mentre tra le funzioni linguistiche di Jakobson si trova una funzione poetica, fra gli atti illocutivi di Searle manca un atto illocutivo poetico. Come è noto la funzione poetica jakobsoniana è caratterizzata dal fatto che l’attenzione si rivolge al messaggio stesso, ma in pratica questa funzione viene reperita sempre al livello linguistico del testo, attraverso parallelismi e ripetizioni del tipo «I like Ike», a cui abbiamo accennato. Searle invece, occupandosi se non di poesia, del carattere di «finzione» di molte opere letterarie, colloca questa finzionalità proprio al livello dell’enunciazione. Secondo questa concezione il natrare e il descrivere o il persuadere «finzionale» comportano la sospensione delle regole verticali che normalmente governano il rapporto fra le parole e il mondo, sospensione che avviene grazie a «regole orizzontali» che permettono all’autore di far mostra di eseguire un atto illocutivo senza eseguirlo effettivamente. «Non vi sono proprietà testuali, — afferma Searle, — siano esse sintattiche o semantiche, che possono identificare un testo come opera di finzione» ”. Ecco quindi la «finzionalità» collocata al livello dell’enunciazione e garantita da convenzioni orizzontali che sono tali perché basate su un «contratto» che intercorre fra autore e lettore. La soluzione ci sembra convincente, ma non comporta evidentemente una distinzione completa fra generi letterari e generi « naturali»: come sottolinea lo stesso Searle, la letteratura non coincide con l’insieme di opere di finzione e all’interno delle stesse opere di finzioni non ogni discorso è da considerarsi finzionale ‘. Al livello dell’enunciazione potremo quindi al massimo distinguere alcuni generi letterari da generi non letterari, sempre che conosciamo le convenzioni orizzontali su cui si basa la «finzionalità »! La soluzione proposta da Searle comporta che di fronte alle realizzazioni concrete dei modi narrativi la distinzione fra i generi storiografici, la storia di un paese o di un periodo, la biografia, l'autobiografia, le memorie, da una parte, e generi come il romanzo e il racconto breve dall’altra, non può basarsi su proprietà testuali, ma solo su «convenzioni orizzontali», che rimangono da identificare ma che riguarderanno l’intenzione dell’autore e il suo contratto col lettore. Lo storico e il biografico potrebbero quindi disporre degli stessi modi narrativi di cui dispone il romanziere. La tesi è in netto contrasto con la ? Per un primo approccio alla tipologia del testo in generale cfr. E. GULICH e W. RAIBLE, Text sorten. Differenzierungskriterien aus linguistischer Sicht, Frankfurt am Main 1972, in patticolare l’intervento di w.-D. STEMPEL, Gibt es Textsorten?, alle pp. 175-82. Partendo dalla constatazione che «non si dà discorso che non sia “generico” » (ibid., p. 175), e dall’asserzione che «ciò che si chiama “genere” o “tipo di testo” riunisce in sé una serie di singoli componenti di ordine diverso, quasi nessuno dei quali può essere considerato specifico, cioè non intercambiabile e limitato a un unico genere» (ibid., p. 176), Stempel indica come primo compito pet una tipologia generale dei testi lo studio dei componenti che variamente combinati costituiscono tipi di testo (2i4.). Un approccio analogo, dunque, a quello che qui si propone per i generi letterari. 10 J. r. SEARLE, The logical status cit., trad. it. p. 155. 1! Ibid., pp. 149-150 e 161.
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tesi di Kite Hamburger, per cui la «finzione epica» sarebbe reperibile in una proprietà testuale come il discorso indiretto libero ‘“, ma pare pit convincente. Basta uno sguardo ad opere storiografiche, per esempio alla Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 di Federico Chabod, per constatare che il narratore storico può ricorrere al discorso indiretto libero '. Il fatto che nell’insieme le tecniche narrative di romanzi e racconti brevi sembrino più varie e più raffinate di quelle riscontrabili nella storiografia narrativa, sarebbe da spiegare allora con una diversa tradizione e non con ragioni intrinseche. A sostegno della posizione di Searle nel campo dell’autobiografia si può comunque citare uno studio recente su questo genere di Philippe Lejeune, il quale fonda le sue distinzioni «generiche» proprio sul «patto» fra autore e lettore ". La distinzione fra generi storiografici e generi finzionali non coincide con la distinzione fra generi « naturali» e generi letterari, come dimostrano le storie della letteratura che di solito non escludono la storiografia, le cronache, ecc. Va notato però che nelle storie della letteratura generi simili — si pensi ancora al trattato scientifico — perdono quota, per cosî dire, a misura che ci si avvicina all’epoca moderna, come se a mano a mano si allontanassero dalla letteratura ° per entrare interamente nel campo dei generi «naturali» o scientifici, di cui già comunque facevano parte. Ed è sotto quest’ultimo aspetto che li abbiamo considerati qui, scegliendo di proposito un esempio di storiografia moderna. A non voler accettare questa scelta si dovrebbe dire che si tratta di una distinzione che si colloca interamente all’interno dei generi letterari, posizione che non ci pare difendibile fino in fondo. Tornando ora all’opposizione globale fra «narrativo» e «drammatico» dobbiamo ancora esaminare la possibilità che nel suo terzo aspetto, esposizione verbale vs rappresentazione fisica, sia reperibile un criterio per distinguere generi letterari e generi non letterari. È ovvio che non sarà l’esposizione verbale a far distinguere i generi letterari dagli altri. Ma non si può pensare che la rappresentazione fisica, di un’azione o di una situazione, basti di per sé a 12 K. HAMBURGER, Die Logik cit., pp. 80-85. Che però il discorso indiretto libero sia reperibile anche nella narrativa «naturale», lo afferma, in polemica con la Hamburger, M. L. PRATT, Toward a Speech Act Theory cit., p. 67, nota. 15 Bisognerebbe studiare tutte le tecniche espositive con cui Chabod crea nel senso bachtiniano, dove il natratore storico s’immedesima quasi interament un «discorso ibrido » e con i suoi personaggi. Ci limitiamo ad un unico esempio, dove il discorso indiretto libero è « coperto» da una nota dello studioso: «Pit d’uno, invece, se n’artovellava, già disposto a desiderare, assai prima del dannunzianesimo, il “lavacro degli eroi, il tiepido fumante bagno di sangue”, come l’unico mezzo per far grande davvero un paese che usciva da secoli di schiavitù. Ci voleva una grande vittoria...» (F. cHaBoD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, 1951; Bari tima frase esprima un pensiero non dello storico, ma di un personaggio 1962?, pp. 13-14). Che l’ul, lo chiarisce la nota: « Che questo fosse il desiderio di Vittorio Emanuele II, non si può dubitare» (ibid., p. I4). 14 Cfr. PH. LEJEUNE, Le pacte autobiographique, Paris 1975. 1 Come è noto, Gianfranco Contini rivendica da tempo per gli scrittori «in funzione d’altro»; per i «galileiani », un posto di rilievo nella storia della letteratura italiana del Novecento. Commentando questa posizione, Pupino afferma che essa implica «una riforma fondamentale dei canoni storiografici, che, abolendo la gerarchia umanistica degli scrittori professionali, estende il dominio della letteratura a territori vergini e insomma a forme non istituziona lizzate » (A. R. PUPINO, Il sistezza dialettico di Gianfranco Contini, Milano-Napoli 1978, p. 120). Ci sembra però che già l’applicare al Novecento gli stessi «canoni storiografici » che si adoperano per il Cinquecento, mettiamo, o per il Seicento, comporterebbe maggiore attenzione agli scrittori «in funzione d’altro ».
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isolare bene il genere teatrale da ogni genere non letterario? La risposta deve essere negativa: in ogni società, anche nella nostra cosî secolarizzata, sono esistiti ed esistono riti, generi di comunicazione rituale, che sono caratterizzati
dalla rappresentazione fisica di un’azione e che non vengono contati fra i generi letterari. La messa della Chiesa cattolica fornisce un esempio eloquente di questo genere di comunicazione. Ma a proposito della rappresentazione fisica, della «gestualità mimicofonica» ‘ che caratterizza il modo teatrale, si potrebbe formulare un’altra domanda che tenderebbe a farlo uscire dai ranghi dei generi letterari non verso la comunicazione pratica, ma verso altri tipi di comunicazione artistica: « Il teatro non è letteratura», suona un’affermazione rigorosa di Marcello Pagnini”. Anche in questo caso però devono far testo le storie della letteratura, che non escludono i generi teatrali: per il loro aspetto verbale questi generi fanno parte della letteratura ", benché per altri aspetti facciano parte delle arti visive o della musica (come nel caso dei libretti d’opera). Si può anzi pensare che nel loro evidente manifestarsi come sospensione della comunicazione diretta, con vari mezzi, di fronte a un pubblico presente che accetta il «contratto», i generi teatrali rendano esplicito un tratto che caratterizza implicitamente molti altri generi letterari. Lo stesso Pagnini che separa cosî radicalmente letteratura e teatro, non è insensibile al fascino di una teoria che traduce questo tratto comune in una derivazione storica: «Non è impossibile... che ogni genere letterario derivi dal teatro primitivo» ‘’. A prescindere da una simile ipotesi storica, si può affermare che non è soltanto al livello superficiale dell’aspetto verbale che si accomunano letteratura e teatro, ma anche a un livello «generico» più profondo: se il tragico, per esempio, concetto piuttosto centrale in ogni discorso sui generi letterari, si trova anche al di fuori della realizzazione nel modo teatrale, è lî che ha avuto indubbiamente un posto privilegiato. Se dunque al livello dei mezzi espressivi e a quello dei modi enunciativi i generi letterari si distinguono solo in parte dai generi non letterari, la situazione non è molto diversa al livello dei modi semantici. È vero che nel riferimento al mondo certi generi letterari rivelano subito una loro specificità, in quanto possono riferirsi a mondi fantastici, lontani dal mondo dell’esperienza quotidiana, ma anche se non si vuole identificare tali generi con la letteratura fantastica quale la concepisce Todorov ”, anche se al fantastico si dà un signi16 È questa qualità sincretica, infatti, a costituire, secondo una recente analisi semiotica, «il nocciolo essenziale della teatralità» (P. RAFFA, Serziologia delle arti visive, Bologna 1976, p. 140). 17 M. PAGNINI, Pragmatica della letteratura, Palermo 1980, p. 87. 18 Si noti che per Searle lo statuto « finzionale» del testo drammatico è assai diverso da quello del testo narrativo: nel teatro sono i personaggi a far finta di formulare asserzioni, ecc., non l’autore. Nel testo l’autore dà una serie di istruzioni su «come eseguire la commedia » (7. R. SEARLE, The logical status cit., trad. it. p. 158). ? M. PAGNINI, Pragmatica cit., p. 22. 20 Cfr. t. toporov, Introduction è la littérature fantastigque cit. L'autore definisce il fantastico come l’esitazione di un essere che non conosce che le leggi naturali di fronte a un avvenimento che ha un’apparenza sovrannaturale (trad. it. p. 28), e lo distingue dallo «strano», che rimane nell’ambito delle leggi naturali, e dal «meraviglioso » che trascende quest'ambito senza preoccupazione di verosimiglianza esterna.
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ficato che non esclude ciò che per lo studioso francese è il «meraviglioso», presente, per esempio, in molta narrativa epica, è chiaro che esso caratterizza solo alcuni generi letterari, non tutti. Anche nella prima configurazione del mondo evocato, dove si distinguono contenuti come azione, situazione, personaggi, luoghi, tempi, idee, o compottamenti da adottare, troviamo sia generi letterari sia generi non letterari: accanto alla cronaca giornalistica, la novella, accanto al manuale di geografia la relazione letteraria di viaggio, accanto al trattato scientifico puro il trattato scientifico letterario, e accanto al discorso politico che incita alla guerra la poesia che incita alla guerra. E non importa che qui valga il criterio a cui si è già accennato a proposito della storiografia, secondo il quale più un genere si allontana nel tempo più tende a passare nel campo dei generi letterari, perché si tratta soltanto di rilevare che il contenuto generale non fornisce un criterio rigoroso per distinguere fra generi letterari e generi non letterari. Non molto diversamente stanno le cose al livello tematico, l’ultimo livello astratto, cioè, prima del contenuto concreto ”. Qui ritroviamo i temi fantastici che sono il dominio esclusivo della letteratura, e accanto ad essi ne troviamo
molti altri che se vengono considerati temi tipicamente letterari, in quanto ritornano con insistenza in vari generi letterari di tutti i tempi, non sono però
esclusivamente letterari: accanto alla poesia d’amore si trova la lettera d’amore che difficilmente può considerarsi in blocco come un genere letterario, e accanto ai vari generi letterari che coprono la vasta tematica dell’esperienza individuale si trovano generi non letterari che coprono la stessa tematica, dal referto giudiziario alla confessione, e dal memoriale al protocollo dello psichiatra. Che l’esperienza individuale degli altri ci sia accessibile soprattutto attraverso i vari generi letterari non sembra dovuto tanto al loro contenuto quanto al fatto che gli altri generi di solito sono meno accessibili. L’ultimo fattore fondamentale per la distinzione dei generi, la funzione sociale, se è più degli altri fattori adatta a fornire un criterio decisivo per distinguere i generi letterari dagli altri, non è però nemmeno esso interamente decisivo. Si è visto come per chiarire il carattere di finzione di molte opere letterarie può servire il concetto pragmatico di «contratto»: autore e lettore sono d’accordo nel sospendere alcune regole della comunicazione diretta e pratica. E si è osservato anche come per i generi teatrali tale contratto si materializza, per cosî dire, concretamente nella situazione del pubblico in un teatro ”. Ora, 2! Come sempre negli studi letterari, si pone anche qui un problema di terminologia. Precisiamo quindi che adoperiamo il termine «tema» in un senso generale, non conforme alle proposte di alcuni studi recenti che riservano il termine «motivo» per contenuti astratti come il patto col diavolo, ecc. e il termine «tema» per contenuti concreti, come Faust, ecc. Cfr. E. FRENZEL, Motive der Weliliteratur. Ein Lexikon Dichtungsgeschichtlicher Lingsschnitte, Stuttgart 1976 e R. TROUSSON, Ur problème de littérature comparée: les études de thèmes. Essai de méthodologie, Paris 1965. Secondo lo studioso tedesco Rainer Warning «il modello del teatro può valere in generale come paradigma della situazione in cui si costituisce il discorso finzionale» (R. WARNING, Der inszenierte Diskurs. Bemerkungen zur pragmatische Relation der Fiktion, in D. HENRICH e W. ISER (a cura di), Funktionen des Fiktiven, Miinchen 1983, p. 193). Per una versione francese, leggermente diversa, dello stesso saggio cfr. Pour une pragmatigue du discours fictionnel, in «Poétique», X (1979),
39, PD. 321-37.
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potrebbe nascere l’idea che il «contratto finzionale » valga non solo) per i generi drammatici e narrativi, ma anche per i generi lirici. Le affermazioni, le descrizioni, le esortazioni liriche funzionerebbero allora secondo lo stesso contratto, che permette all’autore di «fingere» di affermare, ecc. Questa idea
non è senza una sua plausibilità: è chiaro che l’io lirico non è da identificare senz’altro con l’io empirico dell’autore, cosî come l’io narrante di un romanzo non coincide con l’autore, e che, per esempio, le esortazioni in una lirica non hanno di solito lo stesso valore di esortazioni pratiche. Esisterebbe insomma una situazione comunicativa specifica valida per tutti i generi letterari. E per far rientrare generi restii a tale sistemazione, si potrebbe, per cost dire, « falsare» il contratto e far decidere il lettore o i lettori se stabilire un contratto finzionale con generi che da parte dell’autore non lo prevedevano: il trattato pratico letto come «letteratura». Ma benché una soluzione simile presenti il vantaggio del rigore, essa non sembra accettabile senza limitare in modo alquanto forzato il concetto di letteratura. Non mancano affermazioni, descrizioni ed esortazioni liriche che verrebbero interpretate in modo sbagliato se fossero considerate soltanto come «finzioni» o rappresentazioni di affermazioni. E anche se fosse cosî, un genere letterario come il saggio basterebbe a incrinare seriamente la certezza di chi volesse definire i generi letterari in base al «contratto finzionale». Le considerazioni esposte fino a questo punto portano alla conclusione che lo studio dei generi letterari si può sviluppare pienamente solo nel quadro dello studio dei tipi di testo in generale. Questa conclusione è vicina, ma non identica, a quella a cui giunge Todorov in un saggio sul concetto di letteratura, in cui, partendo dalla constatazione che esiste un’entità «letteratura » che funziona nella società, come materia d’insegnamento, ecc., esamina quelle che egli chiama le due definizioni strutturali della letteratura; la letteratura come «finzione» e la letteratura come linguaggio sistematico autotelico, per trovarle tutt’e due insufficienti, nella misura in cui coprono la narrativa l’una e la poesia l’altra, ma non la letteratura intera”. Considerando poi il problema nel quadro di una più generale tipologia dei discorsi Todorov formula l’ipotesi che dal punto di vista strutturale «ogni tipo di discorso abitualmente qualificato come letterario ha dei “parenti ” non letterari che gli sono più vicini di ogni altro tipo di discorso “letterario” »”. In questa prospettiva viene respinta l’idea dell’esistenza di un «discorso letterario» omogeneo e si sollecita l’individuazione di «un campo di studi coerente... dove la poetica cederà il suo posto alla teoria del discorso e all’analisi dei suoi generi» ”. A noi non sembra che la necessità di portare lo studio dei generi letterari nell’ambito dello studio dei tipi di discorso in generale debba comportare l'abbandono della poetica. Pur non configurandosi come un gruppo omogeneo e pur avvicinandosi e «imparentandosi» da tutti i lati ad altri tipi di discorso, i generi letterari costituisco% Cfr. t. toporov, La notion de littérature, in Les genres du discours, Paris 1978, pp. 13-26. 4 Ibid:p.\25.
2 Ibid+:p,26.
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no un «aggregato » “, che o per la scelta dei mezzi espressivi o per la scelta dei modi enunciativi e semantici o per una funzione sociale o per varie combinazioni di questi elementi è ancora abbastanza riconoscibile per mantenere l’idea di un loro studio specifico. 3.
I generi letterari nella teoria e nella storia.
Se si considera il funzionamento dei mezzi espressivi, dei modi enunciativi e semantici nella distinzione dei generi letterari, si constata che da una parte essi risultano da combinazioni temporaneamente stabili di questi fattori, ma che dall’altra le trasformazioni storiche nascono dalla trasferibilità se non di tutti, di quasi tutti i singoli fattori in combinazioni sempre diverse. È questa duplice realtà che occorre continuamente tener presente nello studio dei generi letterari, e non solo per ragioni teoriche, ma anche per ragioni storiche: esiste la stabilità, l’adeguazione al modello corrente come criterio per la creazione e per la ricezione, ma esiste anche l’instabilità, laddove dalla parte della creazione si trovano scrittori che consapevolmente trasferiscono un elemento di un genere a un altro genere e dalla parte della ricezione si trovano critici che in opere di un determinato genere individuano uno o più elementi di un altro genere ‘. Conviene tenere ben distinti il piano della riflessione teorica e quello della descrizione storica, anche se in realtà naturalmente l’una si misura all’altra e viceversa. La riflessione teorica riguarda le combinazioni possibili fra i vari elementi, sia dello stesso livello sia di diversi livelli ’, e anche le loro incompatibilità, mentre la descrizione storica riguarda le combinazioni programmate e realizzate e le incompatibilità dichiarate nella precettistica e nelle poetiche. Spesso la riflessione teorica sbocca in una «mappa», pit o meno raffinata, dei generi esistenti e esistiti, in cui fra le coordinate delle possibilità teoriche si collocano le combinazioni realizzate, ma vista la straordinaria varietà delle possibilità di ogni coordinata tali mappe per ora non possono non risultare grossolane semplificazioni, che invitano subito all’individuazione di lacune e di incoerenze °,mentre non possono rendere conto della trasferibilità delle carat2 «La letteratura non deve affatto essere considerata come una classe, ma come un aggregato » (A. FoWLER, Kinds of Literature cit., p. 3). ! Per il posto dei generi nelle retoriche e nelle poetiche storiche rimandiamo una volta pet tutte a A. BATTISTINI € E. RAIMONDI, Rezoriche e poetiche dominanti, in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana, III/r. Le forme del testo. Teoria e poesia, Torino 1984, pp. 5-339. 2 Gérard Genette propone un calcolo preciso delle possibili combinazioni in una griglia di tipo aristotelico, dove 7 classi tematiche moltiplicate per p classi modali darebbero nel prodotto rp il numero di tutti i generi possibili (6. GENETTE, Introduction è l’architexte cit., trad. it. p. 65), e poi, aggiungendo subito che ci vorrebbe un terzo parametro per la scelta fra prosa e poesia, propone come modello provvisorio «un volume a tre dimensioni», una specie di «cubo trasparente» (i2id.), ma saggiamente si rifiuta di entrare nel gioco della visualizzazione dei modelli. 3 Fowler dedica un paragrafo intitolato «contro le mappe» alle incongruenze di alcune mappe proposte nella critica più recente, in particolare a quelle della mappa di Hernadi (A. FOWLER, Kirds of Literature cit., pp. 246-51).
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teristiche da un genere stabilito all’altro. Di qui, come si è visto, la tendenza attuale, più proficua, ci sembra, al rifiuto di pretese «cartografiche » totalizzanti e alla riflessione sulle coordinate stesse. 3.1. Mezzi espressivi ed estensione testuale. Di queste coordinate la scelta dei mezzi espressivi e delle forme esterne ha ricevuto relativamente scarsa attenzione nelle varie teorie sui generi, probabilmente perché una determinata scelta nelle sue manifestazioni concrete risulta compatibile con tanti modi enunciativi e semantici da non portare apparentemente a distinzioni veramente significative. Eppure la differenza fra poesia e prosa è piuttosto fondamentale anche nel discorso sui generi ‘,non solo in quanto la costrizione formale dei versi differenzia molti generi letterari da quasi tutti i generi non letterari, ma anche perché fra i generi letterari contribuisce quasi sempre a una sia pure ovvia distinzione «generica». Inoltre a volte la forma metrica più o meno costante basta a distinguere un genere o un sottogenere. Cosi accanto ai pochi generi che sono indifferenti rispetto alla scelta fra poesia e prosa, come il dramma per esempio, ne abbiamo molti che implicano una scelta fra versi e prosa: mentre per il romanzo, la novella, il trattato, ecc. il mezzo espressivo è la prosa, per l’epopea, la romanza, la ballata, l’inno, il mezzo espressivo è la poesia.
La combinabilità della forma poetica è però tale che sono reperibili varianti in versi dei generi per cui abbiamo indicato la prosa come la scelta espressiva normale: il romanzo in versi si trova nel medioevo, ma anche nell’epoca moderna in Evgenij Onegin e di recente nella Camera da letto di Attilio Bertolucci. La novella in versi è un genere corrente nel Settecento e nel primo Ottocento e il trattato in versi è conosciuto come poema o poemetto didascalico nel Cinquecento. Si può constatare che la poesia nel senso formale, pur nella sua grande disponibilità «generica», negli ultimi due secoli si è staccata da quasi tutti i generi per cedere il posto alla prosa, ma l’esempio di un recente romanzo in versi dimostra che può riguadagnare terreno proprio sul campo del genere prosastico per eccellenza. Dove invece la costrizione formale del verso è rimasta relativamente costante, senza scosse troppo grandi, è in quell’insieme di forme poetiche brevi che si suole chiamare «lirica». E nella costanza di questo legame insieme all’incostanza degli altri legami sta senza dubbio una delle ragioni per cui è nata la tendenza a identificare poesia e lirica. Ma se per poesia litica s'intende poesia che esprime uno stato d’animo soggettivo, è chiaro che «lirico» indica un modo enunciativo, il cui legame con la costrizione formale può essere storicamente costante senza perciò essere logicamente necessario, come del resto dimo4 «Il fatto è che in genere ogni testo è concepito 4b iritio entro la polarità prosa/poesia e che in identici termini si ripresenta alla complice attesa del lettore» (A. MENICHETTI, Problemi della metrica, in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana, III/r cit., p. 356).
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stra l’esistenza della prosa lirica. In realtà basta uno sguardo alla «struttura della lirica moderna»? per accorgersi che si tratta di una denominazione di comodo per un insieme estremamente vario di testi di cui molti hanno in comune un grande rigore formale, la «musica» o l’«alchimia» della parola, ma che certamente non sono tutti riducibili al modo enunciativo, «espressione di uno stato d’animo» soggettivo ‘, 0, a voler cercare la liricità piuttosto al livello dei modi semantici, a un solo tipo di contenuto. Né le cose stanno diversamente per altri periodi, sicché si può concludere che la costanza del legame fra costrizione formale e «lirica», se indica una combinazione costante di costrizione formale e brevità del testo, non indica sempre un legame con un determinato modo enunciativo o semantico. Questo stato di cose si può illustrare bene con una forma metrica come il sonetto il cui statuto «generico» è alquanto incerto: genere, come lo presenta Fowler *,o «forma fissa» come vorrebbe certa critica francese alla cui posizione si mostra vicino un Hempfer°? Di solito lo si presenta come una «composizione lirica » '’, come un sottogenere dunque di un genere che sarebbe «la lirica», o comunque come una forma associata con il modo lirico. Ma se molti sonetti corrispondono a questo modello, molti altri esprimono un modo enunciativo o semantico diverso: basti l’esempio del sonetto di Fucini che in forma dialogata rappresenta la creazione di un sonetto ". Nella prospettiva adottata qui il sonetto sarebbe quindi una forma metrica che solo in determinate combinazioni si costituisce in generi, come il sonetto lirico e poi petrarchesco, ecc., il sonetto satirico e magari il sonetto narrativo '", Un discorso analogo si può fare per altre forme metriche come il madrigale, lo stotnello, lo strambotto, 5 Ci riferiamo al noto saggio di H. FRIEDRICH, Die Struktur der modernen Lyrik. Von Baudelaire bis zur Gegenwart, 1956 (trad. it. La struttura della lirica moderna, Milano 1975°). ° Fowler osserva che nella poesia moderna molti generi sono «caduti» nella lirica, ma che per la maggior parte le poesie brevi del nostro tempo appartengono a sottogeneri ben definiti. La difficoltà consisterebbe nel fatto che questi sottogeneri, molto numerosi, non sono etichettati, non vengono perlo più riconosciuti e sono difficili a descriversi (cfr. A. FowLER, Kinds of Literature cit.,
D. 44).
* Hempfer, che parte dai modi enunciativi per individuare delle «strutture profonde universali», è del parere che non si può parlare del lirico come di una struttura profonda universale, perché sul piano enunciativo per il modo lirico non si troverebbe una opposizione equivalente a quella tra narrativo vs drammatico. A voler basare una tipologia letteraria sulla tipologia degli atti linguistici o delle funzioni del linguaggio secondo Jakobson, si potrebbe però riportare il lirico all’atto espressivo o alla funzione espressiva. Ha ragione comunque Hempfer quando afferma che nemmeno nel romanticismo ciò che si chiama «lirica» coincide sempre con testi che esprimono uno stato d’animo soggettivo (cfr. K. w. HEMPFER, Gattungstheorie cit., pp. 148-49). * Cfr. a. FowLER, Kinds of Literature cit., passim. ? Cfr. x. w. HEMPFER, Gattungstheorie cit., pp. 147, 106 e 2 59. Nell’ambito italiano domina >» come è noto, la tendenza a considerare il sonetto una forma metrica. !° Cosî per esempio N. ZINGARELLI, Il nuovo Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana, Bologna 1983, p. 1838, s. 2. ._ 1 Per questo e molti altri esempi della varietà del sonetto cfr. 6. GETTO e E. SANGUINETI (a cura di), Il sonetto. Cinquecento sonetti dal Duecento al Novecento, Milano 1957, D. 497 e passizz. 7 12 Per la poesia delle origini Gorni osserva che «il sonetto è il contenente più disponibile ai vati generi di poesia, è paradossalmente il tipo metrico più rigoroso nella morfologia e pit eclettico nella sostanza» (G. GORNI, Le forme primarie del testo poetico, in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana, IIl/r cit., p. 473).
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la canzone, ecc., anche se di solito esse sono caratterizzate da un più forte legame tradizionale con determinati modi enunciativi e semantici. Benché il carattere della costrizione formale del mezzo espressivo possa far pensare che, se una fotma precisa risulta combinabile con varie manifestazioni agli altri livelli «generici», non dovrebbe però essere trasferibile sullo stesso piano, la storia delle forme metriche dimostra invece il contrario: versi e schemi metrici variamente combinati o isolati producono nuove forme sotto forme moderne apparentemente lontane da schemi metrici tradizionali, a volte, invece, si ritrovano proprio questi schemi ". In questa prospettiva il verso libero può essere visto come una trasposizione della prosa nella poesia. Ma il fenomeno più interessante è senza dubbio la presenza di versi tradizionali in testi di prosa moderna, non come citazioni ma perfettamente inseriti nell’andamento del periodo "“: quasi a dimostrare come la memoria « generica » può funzionare anche a questo livello al di fuori dei generi stabiliti. Oltre alla distinzione prosa/poesia si trova sul piano dei mezzi espressivi ancora un’altra distinzione rilevante per la teoria e la storia dei generi: quella fra i vari stili. Teorie classiche e medievali associavano direttamente stile alto, stile medio e stile umile con certi modi semantici in modo da «produrre» una classificazione precisa dei generi. E benché queste teorie non siano valide in assoluto, la loro validità trascende però quella di un semplice programma storico di ricezione e produzione letteraria di un’epoca del passato, in quanto colgono comunque un importante momento costitutivo dei generi. Tenendo pre-
sente una maggiore varietà di modi semantici, questo momento rimane importante anche in una teoria moderna dei generi e non solo dei generi letterari. Scarseggiano, è vero, studi sugli stili «generici» soprattutto per le forme moderne ", sicché anche studi brillanti come quelli di Bachtin sullo stile del romanzo, che oppongono il polistilismo di questo genere al monostilismo della poesia ‘, sono da considerarsi per ora più che altro inviti a esaminare più da vicino il fenomeno, ma d’altra parte nella pratica della critica letteraria ci si basa spesso sul presupposto implicito dell’esistenza del legame fra stile e genere, in quanto uno dei procedimenti più comuni è proprio l’individuazione dello stile di un determinato genere in un testo di un altro genere. Cosi in romanzi e racconti brevi risulta reperibile uno stile epico, o uno stile elegiaco o uno stile cronachistico, ecc. E cosî un critico come Gianfranco Contini, certa13 Un esempio significativo si trova in D'A. Ss. AVALLE, L'analisi letteraria in Italia. Formalismo, strutturalismo, semiologia, Milano 1970, pp. 97-101, dove si mostra come sotto la «struttura più scopertamente epigrafica» di A Liuba che parte di Montale, è reperibile la forma metrica della ballata. 14 Cfr. a questo proposito G. L. BECCARIA, Ritzz0 e melodia nella prosa italiana. Studi e ricerche sulla prosa d’arte, Firenze 1964. 1 Fowler indica due rapporti fondamentali fra stile e generi: nelle scelte lessicali e nella variazione delle proporzioni delle figure retoriche. Rilevando come purtroppo nell'Ottocento importanti innovazioni stilistiche coincidevano col declino dell’insegnamento della retorica, egli afferma giustamente che ciò non significa che lo stile non avrebbe più una sua funzione «generica» (A. FOWLER, Kinds of Literature cit., pp. 71-72). 16 Cfr. M. M. BACHTIN, Voprosy literatury i estetiki, 1975 (trad. it. Estetica e romanzo, Torino
1979, PP. 83-108).
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mente non sospetto di una fede esagerata nella pertinenza di criteri « generici», trova nella poesia di Pascoli «una poesia gnomica, epigrammatica» ”. Ci si potrebbe chiedere se lo stile sia veramente collocabile sul piano della superficie del testo, poiché per l’individuazione di questo piano abbiamo adottato il criterio della percettibilità pura e collochiamo sullo stesso piano scelte formali come lunghezza e brevità e strutture esterne. Ci sembra però che lo stile caratterizzato dal ritmo, dall'andamento della frase, dalle scelte lessicali si dia effettivamente in prima istanza alla percezione uditiva e/o visiva, anche se questa può essere facilitata, nel caso delle scelte lessicali per esempio, dalla possibilità di attribuire un senso alle parole. A voler distinguere i tipi testuali in base alla percettibilità dei tratti caratterizzanti '* si può quindi stabilire una gradazione da facile a difficile: dalla percezione immediata delle forme esterne, del canto e della rappresentazione fisica, alla percezione della differenza fra poesia e prosa e finalmente a quella delle differenze stilistiche. In una teoria elaborata dei generi tutti questi fattori andrebbero esaminati in modo particolareggiato, sempre nelle combinazioni temporaneamente stabili e nelle varie trasposizioni, e per l’epoca moderna si presenterebbero forme come il radiodramma, il teledramma, la sceneggiatura, ecc.; ma in questo nostro rapido panorama ci limitiamo ai fenomeni che si offrono alla percezione del lettore e in questo caso quindi alla forma esterna, alla distinzione tra forme lunghe e forme brevi. Per quanto ovvia, o forse perché ovvia, questa distinzione non viene sempre accettata come teoricamente valida. Secondo l’Essai de poétigue médiévale di Paul Zumthor, per esempio, che è un tentativo di classificare i testi letterari medievali con criteri omogenei, l’opposizione testo breve vs testo lungo avrebbe « poco senso in teoria» ‘’. Lo stesso Zumthor riconosce però immediatamente un valore pratico in tale opposizione se combinata con altri fattori *, il che vuol dire un riconoscimento di un valore teorico, sia pure secondario: all’interno di una categoria l’opposizione serve a distinguere tipi diversi. Su questa posizione troviamo anche il Tynjanov del saggio Vopros o literaturnoj evoljucii che considerava l’estensione del testo un trat! 6. conTINI, Il linguaggio di Pascoli (1958), in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1970, p. 232. Nello stesso saggio, a proposito della scomparsa dei generi «inventati dalla retorica classica», Contini afferma: «Esistono comunque delle istituzioni letterarie, legate a una palese omogeneità esterna d’ispirazione; esistono dei toni» (ibid., pp. 228-29). Il concetto di «tono» ha una notevole importanza nella critica di Contini. Si veda per esempio come nella Postilla vossleriana (1947) parlando di un rapporto fra uno schema metrico o culturale e «una determinata coscienza tonale», egli non esclude che uno schema simile « possa diventare termine d’una ricerca concretamente orientata» e dà l’esempio del serventese che può «immanere » alla Divina Commedia (ibid., p. 648). 18 Su un criterio analogo si basa anche la teoria dei genres di Northrop Frye, che distingue una
presentazione orale a un ascoltatore, una presentazione
scritta a un lettore, una presentazione can-
tata e una rappresentazione fisica di fronte a uno spettatore (cfr. N. FRYE, Anatomy of Criticism cit., trad. it. pp. 327 sgg.). Per quanto l’elaborazione di queste distinzioni, la loro combinazione diretta con l’epos, la fiction, la lirica e il dramma e l’isolamento terminologico dei gerres dai zz0des possano essere discutibili, il criterio di per sé è senza dubbio valido. 1° P. ZUMTHOR, Essai de poétigue médiévale, Paris 1972, p. 163 (trad. it. Serziologia e poetica Milano 1973). medievale,
2° Ibid
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to «generico» secondario ”, a differenza del Tynjanov del saggio su O literaturnom fakte, che vede invece in brevità e lunghezza concetti energetici ”. Ora, se si vede nei generi stabiliti il risultato di combinazioni e interazioni complesse fra vari fattori, non ha molto senso distinguere in astratto, per tutti i generi, tra fattori primari e fattori secondari, ma è chiaro che l’opposizione breve/lungo, pur essendo necessariamente relativa, è sempre pertinente, che si tratti di forme poetiche o di forme prosastiche, di forme narrative o di forme drammatiche. Infatti è difficile immaginarsi la definizione di un genere stabilito che non renda in qualche modo conto dell’estensione del testo: il bozzetto, l’idillio, il poema epico, la novella, il romanzo, il madrigale, il frammento, non sono che alcuni esempi dei tanti generi che non si potrebbero definire, o anche solo descrivere, senza menzionare questo fattore ”, mentre per forme come l’aforisma e l’epigramma la brevità costituisce senza dubbio uno dei più importanti tratti costitutivi ‘*. E anche a prescindere dalle teorie romantiche sulla possibile durata della tensione poetica si può constatare che la poesia lirica nel senso ristretto della parola (e non solo quindi nel senso largo a cui si accennava qui sopra) conta fra le sue caratteristiche la brevità. Il carattere stesso dell’opposizione breve vs lungo fa sî che il trasferimento di un elemento « generico » di questo tipo può svolgersi solo in una direzione: le forme brevi sono trasferibili nelle forme lunghe, e non viceversa. Ma questa possibilità risulta ampiamente sfruttata, non solo in quel ricettacolo di altri generi che è il romanzo ma anche nel poema cavalleresco: si pensi alle «novelle» inserite nell’Orlando Furioso. In generale, del resto, le forme brevi tendono ad inserirsi in unità più grandi che a loro volta formano generi: la novella s’inserisce in una cornice, la breve poesia in un canzoniere o in un ciclo. é
3.2. Modi enunciativi. Come si è visto sopra, i modi enunciativi sono determinati dalle scelte tra forma monologica e forma dialogica, dal contenuto globale e dalla scelta fra esposizione verbale e rappresentazione fisica. In uno studio dei generi che intenda limitarsi all’esame delle realizzazioni testuali, il primo problema è allora quello della reperibilità di tratti distintivi che al livello puramente testuale potrebbero distinguere i testi teatrali da altri tipi di testo. Secondo Alessandro 21 Cfr. gu. N. TYNJANOV, Vopros o literaturnoj evoljucii (Sull’evoluzione letteraria, 1927), in Archaisty i novatory, 1929 (trad. it. Avanguardia e tradizione, Bari 1968, p. 51). 2 Cfr. 1., O literaturnom fakte (Il fatto letterario, 1924), ibid., pp. 24-25. 2 Il che non vuol dire che il fattore figuri sempre in definizioni che si vogliono rigorose. Esso manca per esempio nella definizione pur cosî rigorosa che Lejeune dà dell’autobiografia (cfr. PH. LEJeUNE, Le pacte autobiographique cit., p. 14). L’autore esamina poi soltanto autobiografie lunghe, sicché si potrebbe forse aggiungere alla definizione l’elemento «di una certa estensione ». Ma naturalmente il menzionare il fattore può anche ridursi all'osservazione che per un determinato genere esso ammette le due scelte. In un altro libro Lejeune si riferisce infatti anche ad autobiografie brevi. Cfr. 1n., Je est un autre cit. % A. FOWLER, Kinds of Literature cit., p. 63 distingue forme lunghe, forme medie e forme brevi. Ma ci sembra preferibile una distinzione binaria, che all’interno dei due gruppi ammette ulteriori distinzioni binarie. IO
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Serpieri tali tratti sarebbero effettivamente reperibili nell’importanza delle espressioni deittiche e performative che caratterizzerebbe i testi teatrali rispetto a testi narrativi e poetici °°. Se per questo aspetto il linguaggio teatrale si avvicina piuttosto al linguaggio della comunicazione quotidiana, a differenza di questo esso incorporerebbe nel testo, semantizzandola, la dimensione indicata. L’ipotesi è interessante e merita un lavoro sistematico di verifica volto non solo a conferme ricavate dall’esame di testi teatrali ma anche ad eventuali smentite, da cercare in testi narrativi e lirici’. E non siamo poi cost sicuri che tali smentite non verranno fuori: se l’ipotesi pare abbastanza plausibile per quanto riguarda la distinzione fra testi teatrali e testi narrativi, nel confronto con testi lirici essa non sembra subito convincente: non è davvero difficile trovare poesie liriche — basti il solo esempio dell’Infinito di Leopardi — che corrispon-
dono in pieno alla caratterizzazione del linguaggio teatrale secondo Serpieri ”.
È quindi probabile che l’ipotesi dovrà essere modificata nel senso che la fre quenza o la presenza di espressioni deittiche e performative con cui il parlante si riferisce alla situazione enunciativa in cui si trova, fornisce un criterio importante per distinguere tipi testuali, ma non un criterio assoluto per isolare i testi teatrali da tutti gli altri tipi di testo. Come al solito nella teoria dei generi, bisogna guardarsi dal voler attribuire assoluto valore discriminante ad un uni. co criterio. Accanto a questo criterio basato sul carattere più o meno performativo e deittico dell’enunciazione sarà comunque da mantenere il criterio della distinzione fra monologo e dialogo, che solo in parte coincide con l’altro: se di solito un dialogo, teatrale o no, sarà caratterizzato dalla frequenza di riferimenti alla situazione enunciativa del parlante, il monologo può a volte essere caratterizzato allo stesso modo e a volte nel modo opposto. L’opposizione monologo/dialogo fornisce quindi anch'essa un criterio solo relativamente valido per distinguere i testi teatrali da tutti gli altri, ma rimane ciò nonostante un im-
portante criterio «generico».
In teoria il modo enunciativo monologico e il modo enunciativo dialogico non sono necessariamente legati a determinati contenuti globali come azioni, idee, situazioni o stati d’animo, che si presentino nella forma della rapprese ntazione «mimico-fonica» o in quella dell’esposizione verbale: è possibile una rappresentazione monologica di una situazione ed è possibile una nartazio ne dialogica, cosî come sono possibili un'esposizione dialogica di idee e un’espressione dialogica di uno stato d’animo. Ma la realizzazione storica di queste possibilità si è svolta per ciascuna di esse secondo linee diverse. La rappresentazione teatrale si è associata al dialogo e all’azione in modo tale da rendere tra2 Come 2 Prove
Cfr. A. SERPIERI, Ipotesi teorica di segmentazione del testo teatrale, in A. CANZIANI e altri, comunica il teatro: dal testo alla scena, Milano 1978, pp. 11-54. Per un confronto di questo tipo fra un testo drammatico e un testo natrativo cfr. T. KEMENY, di segmentazione del testo drammatico. Prova-confronto su un testo narrativo, ibid., pp. 7080. 7 K. W. HEMPFER, Gattungstheorie cit., p. 149 rimanda a un saggio in cui ha cercato di descrivere il modo lirico proprio in base alle espressioni deittiche e performative: 1n., Tendenz und Astetik. Studien zur franzòsischen Verssatire des 18. Jabrbunde rts, Miinchen 1972.
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scurabili le forme puramente monologiche ” e forse inesistente una forma statica”; la narrazione è prevalentemente monologica, in quanto l’istanza narrativa è quasi sempre affidata ad unico mediatore ”; l’esposizione di idee ammette la scelta fra il genere del trattato monologico e il genere del dialogo *; e l’espressione di uno stato d’animo ammette anch'essa la scelta fra monologo e dialogo *, ma senza istituzionalizzarla in una distinzione « generica» e con una chiara preferenza per il monologo. L’opposizione monologo/dialogo riguarda la mediazione: il lettore riceve il messaggio mediato da una voce, che quindi «controlla» interamente il contenuto, o da più voci, concordanti o discordanti. A questo livello il trasferi-
mento da un modo all’altro si realizza quindi nell’introduzione di una voce do-
minante nel dialogo e nell’introduzione massiccia del dialogo in un discorso in ultima istanza dominato da una voce unica. Sul versante dialogico tale fenomeno si può osservare per esempio nel teatro epico e nel dialogo quattrocentesco che di solito viene introdotto da una voce narrante *, ma dove diventa veramente preponderante è nella parte narrativa del versante monologico. A tal punto che nella tripartizione classica di discorsi condotti dal solo narratore, discorsi condotti soltanto dai personaggi e discorsi misti, l’arte epica viene collocata fra questi ultimi. Parlare di «trasferimento » in questo caso ha quindi un senso prevalentemente teorico, ma non mancano trasferimenti storici: stando alla teoria del romanzo di Bachtin il dialogo socratico ha una funzione importante nello sviluppo della forma romanzesca *, il romanzo epistolare in certe sue manifestazioni riprende i moduli del dialogo scritto e, come è noto, nella seconda metà dell’Ottocento la narrativa si avvicina assai al modo drammatico riducendo la diegesi a vantaggio della mimesi *. Questi fenomeni però, senza dubbio di grande rileyanza tipologica, rimangono per lo pit nell’ambito del discorso teorico e critico e, tranne nel caso del romanzo epistolare, non hanno portato a nuove distinzioni «generiche». 2 Le quali però sono presenti fin dalle origini: si pensi ai testi dei giullari destinati alla rappresentazione in pubblico. Cfr. a questo proposito E. FAccIOLI (a cura di), Il teatro italiano, I/r. Dalle origini al Quattrocento, Torino 1975.
2 Raffa, per esempio, ritiene l’azione essenziale per la teatralità: «Senza azione non si dà teatralità. I mezzi fisici del medium... non hanno altra ragion d’essere che l’azione di cui sono portatori» (P. RAFFA, Serziologia cit., p. 137). 3 Con alcune eccezioni, naturalmente. Si pensi a Fontamara di Silone dove la narrazione è affidata a più voci o all’Ultimza cartuccia di Zena, dove manca addirittura il narratore e la storia si presenta interamente tramite il dialogo dei personaggi. 31 Cfr. a questo proposito M. L. ALTIERI BIAGI, Forzze della comunicazione scientifica, in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana, III/2. Le forme del testo. La prosa, Torino 1984, pp. 891-947 e M. S. SAPEGNO, Il trattato politico e utopico, ibid., pp. 949-1010. 32 Per la lirica moderna si può pensare a una litica come Le stagioni di Giuseppe Ungaretti.
3 Cfr. n. MARSH, The Quattrocento Dialogue. Classical Tradition and Humanist Innovation,
Cambridge Mass. - London 1980, p. 69, dove il dialogo del Quattrocento viene distinto tra l’altro dal dialogo classico proprio per l’introduzione di un narratore che partecipa alla conversazione. # Cfr. M. M. BACHTIN, Problemy poetiki Dostoevskogo, 1963 (trad. it. Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino 1968, pp. 143 Sg£.). 3 Come è noto al rapporto fra diegesi e mimesi nella narrativa è dedicata gran parte della produzione narratologica. Per uno studio della tensione concreta fra narratività e teatralità alla fine dell’Ottocento in Italia cfr. r. BIGAZZI, Narrativa e teatro nell’età del romanzo, in «Filologia e critica»,
IM (1978), 2-3, pp. 328-51.
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Se considerata sotto l’aspetto della mediazione la distinzione fra modo natrativo e modo drammatico risulta dunque pertinente, essa non lo è, come si è visto, sotto l’aspetto del contenuto globale: «narrativo» e «drammatico» si riferiscono tutt'e due a un’azione, a una storia. Per questo aspetto quindi i due modi si distinguono dai modi descrittivi, espressivi o lirici, assertivi o didascalici e persuasivi che si riferiscono rispettivamente a situazioni, a stati d’animo, a idee o ad azioni da intraprendere. E come il modo narrativo e il modo drammatico si manifestano in generi stabiliti come la novella o ilromanzo e la tragedia o la commedia, cosi gli altri modi si manifestano in generi quali, per esempio, le descrizioni rinascimentali di paesi e città *, la lirica romantica, la trattatistica o la saggistica e le prediche. Ma anche qui vale la regola del trasferimento e della sovrapposizione dei modi da un genere all’altro: bastino gli esempi della favola, dell’exemzplum, del romzan è thèse e del romanzo lirico. Esempi che possono anche servire a ricordare quanto è complessa la realtà storica rispetto alla purezza di un concetto teorico come «trasferimento », perché la nascita della novella può essere vista come una liberazione del modo natrativo dalla combinazione medievale con il modo persuasivo o didascalico ”, e nell’evoluzione del romanzo si può cogliere un processo analogo, solo che esso si complica con l’adozione del modo espressivo nel romanzo lirico e con il ritorno del modo persuasivo nel rozza è thèse*. Dove invece i vari modi si manifestano tutti, è nella poesia breve: proprio al livello dei modi enunciativi si rivela l’arbitrarietà dell’identificazione della poesia breve con la lirica intesa come espressione di uno stato d’animo. Dalle origini ad oggi nella poesia breve possiamo trovare accanto alla litica pura la narrazione, la descrizione, l'affermazione e la persuasione, tutte in forme abbastanza pure, anche se non distinte da denominazioni « generiche». Uno dei compiti più interessanti di uno studio «generico» della poesia breve sarebbe appunto l’individuazione precisa dei suoi modi enunciativi che possono variare non solo da un’epoca all’altra, ma anche all’interno dell’opera di un singolo autore e all’interno di una singola raccolta. Fra la rilevanza tipologica dei modi enunciativi nella teoria e la pratica storica delle distinzioni «generiche» si osserva quindi spesso un certo scarto: non sempre le distinzioni tipologiche teoricamente possibili hanno portato all’individuazione storica di generi o sottogeneri. Ciò si verifica pet imodi enunciativi in generale, e ancora di più per le loro possibilità di articolazione del testo concreto, per i «tipi», i «sottomodi», o le «tecniche dell’esposizione». Nei testi narrativi questa tecnica si manifesta in ciò che Segre chiama «intreccio» o «intrigo», concetto che comprende anche le scelte della prospettiva da parte del 5 È vero però che il modo descrittivo di solito non si realizza in generi interamente dominati da esso. Cfr. a questo proposito PH. HAMON, Introduction è l’analyse du descriptif cit., pp. 10-11. # Per un’analisi particolareggiata di questo processo cfr. H. J. NEUSCHAFER, Boccaccio und der Beginn der Novelle, Strukturen der Kurzerziblung auf der Schwelle zwischen Mittelalter und Neuzeit, Minchen 1969. . ® Negli ultimi anni si nota una certa rivalutazione del romanzo che dichiara più o meno espliRio i suoi intenti persuasivi: cfr. s. R. SULEIMAN, Le roman è thèse ou l’autorité fictive, Paris 1983.
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narratore e che è uno strumento prezioso per distinzioni tipologiche, ma non per rendere conto di distinzioni « generiche » correnti. In questa sede non cercheremo quindi di affrontare questa problematica, ma non possiamo non sottolinearne l’importanza, anche per un confronto più preciso fra le varie realizzazioni dei modi nei generi stabiliti. Gli studi di Segre su teatro e romanzo che propongono un confronto simile ”, andrebbero allargati a confronti con generi il cui contenuto globale non è una fabula e per cui quindi il termine «intreccio» a questo livello non è adeguato. Non c’è dubbio però che nella poesia breve, nella misura in cui essa non è narrativa ‘, è individuabile qualche cosa di analogo all’intreccio, che forse con un richiamo alla retorica si potrebbe chiamare la disposizione e che si manifesta nella poesia moderna per esempio in procedimenti come la simultaneità e l’analogia per libera associazione. Che procedimenti simili possano poi essere trasferiti anche a opere narrative, è fatto che invita ancora di più a studiarli in un vasto quadro tipologico. 3.3. Modi semantici. I modi semantici costituiscono le prime specificazioni dei contenuti globali: una storia comincia a delinearsi in un andamento da positivo a negativo o viceversa, e una situazione riceve una prima caratterizzazione nella scelta di uno spazio, di personaggi e di oggetti, uno stato d’animo si specifica in gioia, dolore, amore, ecc., le azioni da intraprendere e le idee si specificano rispetto a contesti di maggiore o minore portata, come l’uomo nel mondo in generale o l’uomo nella società. Si tratta veramente di prime specificazioni, di schemi ancora abbastanza vaghi, che non dicono gran che intorno al contenuto concreto di un singolo testo, ma che bastano per una prima determinazione «generica», sicché spesso i generi vengono semplicemente identificati con i modi semantici. Infatti, se i vari modi semantici possono incontrarsi in proporzioni diverse in molti generi, è la dominanza di uno di essi che basta, insieme ai fattori esaminati nei due paragrafi precedenti, a determinare un genere: la tragedia, l’epopea, la commedia, la fiaba, il romanzo, la poesia didascalica, l’elegia (in un senso non puramente metrico), l’inno, il trattato, il saggio, la predica. Questi esempi rappresentano generi che, se non sono certamente a-storici,
non sono però collocabili in un solo periodo storico e si estendono invece sulla durata lunga o la durata media della storia della letteratura: sono proprio le «vuote fantasime» di Croce e le «astrazioni di astrazioni», e le «ombre di ombre» condannate da Mario Fubini, perché «incapaci nella loro generalità a indicare alcuna tradizione stilistica» che sarebbe «l’ufficio proprio dei gene3 Cfr. c. SEGRE, Teatro e romanzo cit. Per uno studio del testo teatrale che individua nell’assenza e nella presenza della mediazione la differenza fondamentale fra teatro e narrativa e che cerca di mostrare sistematicamente come il teatro risolve il problema dell’assenza di un mediatore cfr. mM. PFISTER, Das Drama. Theorie und Analyse, Munchen 1977. 40 Si tenga presente che nel passato la narratività di molta poesia litica non faceva problema: i raffinati « narratologi » del Cinquecento esemplificano le loro teorie anche con la poesia lirica di Petrarca. Cfr. E. BIAGINI, Racconto e teoria del romanzo, Torino 1983, p. 8.
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ri letterari» “. Ora, è vero che il carattere astratto dei modi semantici li dispone ad ulteriori specificazioni, in cui si realizzano generi come il poemetto didascalico del Settecento o la commedia borghese dell'Ottocento, o il romanzo storico dell’Ottocento, generi che Fubini considerava invece legittimi oggetti di studio. Ed è vero anche che studi limitati a generi della breve durata possono dare ottimi risultati, come dimostra per esempio l’analisi del genere bucolico e del genere rusticano-nenciano di Maria Corti ‘*. Ma rimane necessaria anche la riflessione sui modi semantici nella prospettiva della durata lunga. Perché se la differenza fra un dramma e un romanzo o fra un romanzo e una lirica può determinarsi in prima istanza al livello enunciativo, essa chiaramente non si esaurisce a questo livello e richiede ulteriori determinazioni al livello dei modi semantici, anche se proprio intorno ad essi si sono accese spesso le polemiche contro i generi. Come è noto, nella storia delle teorie dei generi da Aristotele a Northrop Frye non sono mancati tentativi di formulare queste determinazioni, che spesso hanno assunto carattere prescrittivo. Tendenza che si può considerare come la forma estrema del rischio che, come si è visto, corrono tutte le teorie dei generi, quello, cioè, di attribuire validità generale a un elemento che risulta avere invece una validità limitata. Ma ciò non significa ancora che non esistano elementi generalmente validi o che la direzione della ricerca sia radicalmente sbagliata; significa solo che in quel ridurre la complessità dei fenomeni, in cui consiste ogni tentativo di sistemazione, si ha la tendenza a fermatsi troppo presto proprio di fronte a un fenomeno complicatissimo. Le complicazioni non sono però uguali per tutti i generi elencati sopra. Non sembra impossibile, per esempio, descrivere in maniera adeguata i modi semantici dominanti in generi come l’inno o l’elegia, o anche il trattato e il saggio”. In generale le complicazioni sono particolarmente grandi in generi che hanno una storia come contenuto globale e che offrono come in un concentrato tutti i problemi degli altri generi con qualche problema in più “. E sono proprio questi generi che di solito si trovano al centro della riflessione teorica ; la tragedia, l’epopea, il romanzo. Diremo ora che questa riflessione è sempre destinata a fallire, poiché i contenuti sono infiniti ‘? Si può rispondere che non tutto nei contenuti è genericamente rilevante e che se i contenuti sono infiniti, non lo sono forse i modi di organizzare i contenuti. La risposta è prudente, ma 4! M. FUBINI, Genesi e storia dei generi letterari cit., p. 171. Pet «tradizione stilistica» Fubini intende una continuità non solo di scelte espressive ma anche di temi e soggetti. ‘2 Cfr. M. coRTI, Generi letterari cit., pp. 161-69. 4 Per una rapida esplorazione della problematica di alcuni di questi generi cfr. 0. KNOERRICH (a cura di), Formen der Literatur, Stuttgart 1981. Per la letteratura italiana manca purtroppo una introduzione simile. 4 Alludiamo all’affermazione di Eco, secondo cui «un testo narrativo presenta tutti i problemi di qualsiasi altro tipo di testo, oltre a qualcuno in più» (u. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano 1979, D. 69). 4 Come afferma M. FUBINI, Genesi e storia dei generi letterari cit., p. 150. Il saggio di Fubini mantiene tuttora una sua validità come «sfida» perché pur nel proporre uno studio limitato dei generi, formula con chiarezza la «tentazione crociana» a cui rischia di cedere chiunque si occupi di generi letterari.
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può ricevere qualche conforto dal fatto difficilmente negabile che vari discorsi teorici pur senza cogliere l’«essenza» della tragedia o del romanzo, sono riusciti però a cogliere qualche elemento fondamentale. Nel quadro delle prime specificazioni dei modi semantici la problematica può assumersi nei termini seguenti: per ogni elemento del mondo letterario evocato, personaggi, tempo, luogo, azione, vanno individuate le possibilità fondamentali. Questo è in fondo già l’approccio di Aristotele, questo è ancora l’approccio di Frye e questo è anche l’approccio di Jauss. Senza esaminare in uno studio comparativo le soluzioni proposte da queste e da altre teorie — compito che pure un giorno andrebbe affrontato — e senza approfondire il discorso sui modi lirici, persuasivi e affermativi, che a questo livello sembrano meno problematici, indicheremo qui rapidamente le principali distinzioni «generiche» che riguardano la storia. Per quanto riguarda i personaggi agenti un primo criterio è fornito dal loro essere superiori, inferiori o uguali ai comuni mortali. Per questo aspetto le distinzioni quasi-aristoteliche di Frye mantengono una loro validità, a prescindere dalla terminologia e con la precisazione che la superiorità e l’inferiorità possono riferirsi non solo al potere d’agire dei personaggi, ma anche alle loro qualità morali e al loro stato sociale ‘. È in base a questo criterio infatti che si distinguono per esempio i personaggi della tragedia e dell’epopea, della commedia, e del romanzo, della fiaba, della leggenda e della favola‘. Un criterio secondario deriva allora dalla fissazione di ruoli sociali o tratti caratteriali come nel re della tragedia, dell’epopea ‘ e della fiaba, negli animali della favola, o nei giovani amanti della commedia. Nello spazio letterario, inteso come l’insieme dei luoghi, degli oggetti e degli ambienti evocati *, l'elemento « genericamente» rilevante può trovarsi in una localizzazione più o meno precisa, reale o fantastica, come nei generi pastorali, nell’idillio, o nel racconto campagnolo, o nella fantascienza, ma più importante sembra la distinzione fra lo spazio limitato che caratterizza i generi drammatici e lo spazio illimitato che, se non caratterizza tutti i generi narrativi, ne costituisce però una possibilità fondamentale, sfruttata nell’epopea, nel romanzo, nella fiaba e nel racconto breve. Negli studi dei semiotici russi si dimostra poi come la divisione dello spazio può risultare un elemento caratteristico di certi generi ”, sicché ci si può chiedere se un’analisi precisa della rap46 Cfr. N. FRYE, Anatomy of Criticism cit., trad. it. pp. 45-46. 41 Cfr. anche le distinzioni proposte da H. r. Jauss, Alteritit und Modernitàt cit., appendice a p. 46 e nel saggio Theorie der Gattungen cit., p. 116. 48 Secondo uno studio recente il confronto fra re ed eroe sarebbe addirittura un elemento costitutivo senza il quale l’epos sarebbe inconcepibile: cfr. w. T. H. Jackson, The Hero and the King. An Epitheme, New York 1982. 4 Per questo modo di concepire lo spazio letterario cfr. JU. M. LOTMAN, Struktura chudozestvennogo teksta, 1970 (trad. it. La struttura del testo poetico, Milano 1972, pp. 261-88). 50 Cfr. s. gu. NEKLJUDOV, I/ sisterza spaziale nell’intreccio della bylina russa, in JU. M. LOTMAN e B. A. USPENSKIJ (a cura di), Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell’Urss, ed. italiana a cura di C. Strada Janoviè, Torino 1973, pp. 107-24; E. M. MELETINSKIJ, S. JU. NEKLJUDOV, E. S. NOVIK e D. M. SEGAL, Problemy strukturnogo opisanija volfebnoj skazki (1969), pp. 86-135 (trad.it. Problemi di descrizione strutturale della fiaba, in La struttura della fiaba, Palermo 1977).
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presentazione dello spazio in vari generi non possa rivelare che questo elemento è sempre fondamentale, ma per ora questa non può essere che una ipotesi. La quale non è interamente priva di conferme del resto: si pensi ai « cronotopi» che secondo Bachtin caratterizzerebbero il romanzo *. Piti dello spazio il tempo è stato oggetto di tentativi di sistemazione teotica dei generi. In due tabelle divertenti Genette fa vedere come da vari studiosi passato, presente e futuro sono stati accoppiati con i generi epici, lirici e drammatici: per ogni tempo si verificano proprio tutti gli accoppiamenti possibili! Ma l’assurdità di questo risultato non dimostra ancora che un accoppiamento simile sia di per sé assurdo, o che non possa essere proposto per un sin-
golo genere. Lo stesso Genette non manca di rilevare che accanto alle divergenze messe a nudo dalle sue tabelle si notano anche le convergenze significative sulla combinazione dell’epica con il passato e della litica col presente ”. Infatti queste combinazioni sembrano abbastanza stabili e se è valida l’ipotesi di Serpieri sulla frequenza di espressioni deittiche in testi drammatici vi si potrebbe aggiungere la combinazione presente - generi drammatici. Solo che bisogna distinguere in tutti i casi fra il tempo dell’enunciazione e il tempo a cui si riferisce l’enunciato: il presente di una poesia lirica e del dramma è il tempo dell’enunciazione, mentre il passato dell’epos è il tempo dell’enunciato *. Nel quadro dei modi semantici, che è quello che c’interessa qui, il discorso andrebbe quindi alquanto sfumato, per non escludere il legame col passato nel dramma e nella lirica, ma che la combinazione dell’epos col passato sia un fatto «genericamente» distintivo, pare ormai incontestabile. Su questo tratto, precisato come evocazione del passato assoluto da una distanza epica, si basa anche la teoria del romanzo di Bachtin: il romanzo si distinguerebbe dall’epos (e in generale dai generi letterari «alti») in quanto «è in contatto con l’elemento dell’incompiuto presente» ”, avvicinandosi cosî a tutti i generi comici e bassi e anzi storicamente costituendosi tra l’altro nell’assorbire questi generi. Il rapporto col tempo e con una determinata concezione del tempo è insomma nella teoria bachtiniana un criterio «generico» fondamentale. E anche se ci vottà ancora un lungo lavoro di verifica, si può pensare che il contributo dello studioso russo per questo aspetto risulterà decisivo. I problemi più grandi nel tentativo di individuare le possibilità fondamentali dei modi semantici s’incontrano nell’affrontare l’andamento della storia. Le teorie narratologiche moderne ispirate alla M orfologija skazki (Morfolo gia della fiaba) di Propp, hanno cercato di elaborare modelli del racconto in quanto storia, allontanandosi dal genere preciso di cui si era occupato lo studioso russo, e sono arrivati cosî a dei risultati che rimangono elementari e che abbiamo riassunto qui sopra parlando di un andamento da positivo a negativo o vi3! Cfr. M. M. BACHTIN, Voprosy literatury cit., trad. it. pp. 231-405. °° Cfr. 6. GENETTE, Introduction è l’architexte cit., trad. it. pp. 39-40. PAR'bidi Npt40) * Questa distinzione è proposta anche da Genette, ibid. % M. M. BACHTIN, Voprosy literatury cit., trad. it. p. 468.
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ceversa. In termini derivati dalla semiotica di Greimas, che rappresenta qui l’approccio più rigoroso: un soggetto che si trova in congiunzione o disgiunzione con un oggetto di valore viene a trovarsi nella posizione opposta, grazie ad un’azione propria o di un altro soggetto “. In una storia concreta questo andamento, che Greimas chiama un «programma narrativo» si scontra di solito con un «programma narrativo» contrario”. Pur nella sua elementarità uno schema simile è già abbastanza complicato e rende conto di una grande varietà di storie possibili a seconda della situazione iniziale, di congiunzione o di disgiunzione, e dei valori investiti, che Greimas distingue in valori modali divisi secondo le modalità del volere, del dovere, del potere e del sapere, e valori descrittivi a loro volta divisi in oggettivi, dell’ordine dell’avere, e soggettivi, dell’ordine dell’essere *. È subito evidente che lo schema permette di distinguere la storia della commedia da quella della tragedia in base alla diversità dell’andamento da disgiunzione a congiunzione e da congiunzione a disgiunzione e in base ai valori in gioco. Il problema è naturalmente la specificazione di questi valori ma le distinzioni di Greimas possono contribuire a individuarli e la distanza fra lo schema astratto e la problematica dei generi storici non è tale da scoraggiare subito chi volesse tentare il passaggio. Che la differenza fra generi come la fiaba e la leggenda e la novella o fra l’epopea e il romanzo al livello della storia sia da cercare nei valori raggiunti o perduti e nella specificità dei conflitti fra soggetti orientati verso valori opposti, sembra ad ogni modo abbastanza sicuro”. Ma naturalmente esistono anche romanzi che con qualche legittimazione si possono chiamare epici, o fiabeschi, o tragici, o comici, ed esistono poemi eroicomici e tragicommedie. Infatti, forse ancora più che agli altri livelli « ge- nerici», al livello dei modi semantici vale la regola della trasferibilità. Questa può manifestarsi in varie forme: nell’inserzione di un genere in un altro genere, come la «novella» nel poema cavalleresco dell’Ariosto, in una miscela tale che nessuno dei due modi può essere considerato dominante, in una «forma ibrida», per usare il termine di Fowler ‘, come la tragicommedia, o nella presenza di uno o più elementi caratteristici di un determinato modo in un testo che fa parte di un genere dominato da un altro modo, come quando Moravia negli Indifferenti cerca di scrivere una tragedia nella forma di un romanzo, o come quando Montale presenta i suoi Mottetti come un «romanzetto». Quest’ultimo esempio dimostra come anche il «romanzesco» può trasferirsi in altri generi, ma è chiaro che negli ultimi due secoli è stato soprattutto il romanzo 56 Cfr. A. J. GREIMAS e J. courtés, Sérziotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Paris 1979, D. 297. ST Ibid., p. 284. 58 Ibid., pp. 414-15. 3 pp: 59 Per le differenze tra leggenda, fiaba e novella cfr. H. R. JAuSS, Alteritàt und Modernitùt cit., appendice a p. 46. Per le differenze a questo livello fra epos e romanzo rimangono sempre fondamentali le note distinzioni hegeliane che hanno ispirato il giovane Luk4cs, ma che continuano ad ispirare uno studioso come Jauss per le sue distinzioni fra epos, romanzo e novella nella letteratura medievale: cfr. in., Theorie der Gattungen cit., pp. 115-16. 6 Cfr. A. FOWLER, Kinds of Literature cit., p. 183.
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ad adottare le «modulazioni» “ di molti altri generi, letterari e non letterari. Per modi semantici come il comico e il tragico il rapporto con il genere che storicamente hanno dominato si è sciolto a tal punto che ci si può chiedere se esista ancora. Un legame, per quanto tenue, si può forse indicare nella conflittualità che questi due concetti implicano, dall’esito positivo nel caso del comico e negativo nel caso del tragico: come un lontano ricordo dei conflitti fra i valori quali si manifestano nelle forme teatrali. Pi tenue ancora è il legame per il modo satirico, perché il genere in cui esso domina è fit dalle sue origini una miscela multiforme e, se non è difficile indicare forme storiche che si chiamano «satire», queste forme mostrano una varietà che supera quella della tragedia e della commedia. Il modo satirico, anzi, non solo può introdursi come una «modulazione » in parti di opere dominate da altri modi semantici, ma può insinuarsi dappertutto e, come un modo comico di secondo grado dominando il modo dominante, invitare a scoprire la verità dietro i valori apparentemente proposti. Cosî il modo satirico può trovarsi in parti del romanzo, o anche coprirlo interamente, come può coprire interamente il poemetto didascalico ®. Nel suo carattere proteiforme e quasi inafferrabile la satira e il modo satirico presentano in forma estrema la complessità dello studio dei modi semantici nell’interazione con gli altri fattori che determinano un genere. Ma pur offrendo nel suo essere di secondo grado una complicazione in più rispetto agli altri modi, esso costituisce forse il miglior punto di partenza per uno studio dei generi e dei modi, proprio in quanto adottandoli tutti, dai modi lirici e didascalici ai modi narrativi e drammatici, ne rivela spesso gli elementi caratteristici°. 3.4. Funzioni sociali. Che fra i generi quali si realizzano nella storia e la società in cui vengono prodotti e recepiti esista un rapporto di condizionamento, è affermazione forse anche troppo ovvia. Anche a non voler ricorrere alla metafora di vita e morte, non si può non notare come in determinate società si producono generi che dopo la scomparsa di queste società non si producono più. Del resto lo stesso concetto di genere implica un condizionamento sociale proprio in quanto implica la ripetizione, la ripresa di elementi che rispondono ad un’esigenza sociale. E la descrizione di un genere non può quindi fare a meno di menzionare la società o il gruppo sociale all’interno del quale originariamente veniva prodotto e di indicare l’esigenza sociale a cui doveva rispondere. Ma se il primo com61 È anche questo un termine di Fowler, che lo adopera non solo per il livello dei modi semantici, ma anche per quello delle scelte espressive (ibi4., pp. 191-212). 6 Per una introduzione alla satira e al modo satirico cfr. A. BRILLI, Introduzione alla raccolta CIA da lui curata, La Satira. Storia, tecniche e ideologie della rappresentazione, Bari 1979, pp. 7-62. 6 Non a caso la riflessione sulla satira occupa un punto centrale in alcune teorie moderne dei generi: in quella di Frye e di Bachtin ma anche in quella di Hempfer che per la sua esemplificazione ricorre spesso al «modo di scrivere » satirico e fra i cui saggi si ttova anche uno studio sulla satira in versi nella letteratura francese del Settecento.
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pito è relativamente semplice, il secondo a volte è assai arduo e non è stato affrontato in modo sistematico per l’insieme della problematica « generica». Per i generi dominati da un modo assertivo « puro», non modificato cioè da un contratto finzionale, l’individuazione dell’esigenza sociale non è problematica. Si tratta di un bisogno cognitivo che si specifica in vari campi di interesse pubblico, come la scienza, la politica, o la conoscenza di un paese. E un discorso analogo si può fare per i generi dominati dai modi persuasivi nella misura in cui si rivolgono a gruppi sociali concreti. Si tratta in ambedue i casi di esigenze facilmente identificabili, come può illustrare la sezione dedicata alle «funzioni della prosa» di questa Letteratura italiana, e come può illustrare anche la tabella proposta da Jauss per i tratti distintivi dei piccoli generi esemplari del medioevo, a cui si è accennato sopra © Un discorso non sostanzialmente diverso si può ancora fare per i generi del passato che oggi si considerano dominati da un contratto finzionale ma che per i contemporanei si sottraevano a un simile contratto. Cosî Jauss nel confrontare i generi medievali dell’epopea, del romanzo e della novella, può attribuire in modo convincente all’epopea medievale la funzione di «trasmissione della tradizione storica per i non-lettori in cui la storia nazionale viene trasferita in un passato ideale... ed elevato a un sistema mitico-epico di spiegazione del mondo » “. E plausibile sembra ancora la sua attribuzione al romanzo medievale di una funzione di iniziazione alla vita cortese e alla novella di una funzione di invito alla riflessione sulle norme morali della vita quotidiana’. Ma a questo punto si affacciano già i primi problemi. Per distinguere epopea, romanzo e novella sul piano sociale, dove distingue l’aspetto del grado di realtà, il 20dus recipiendi e la vera e propria funzione sociale, Jauss propone dei criteri oppositivi che sono per ciascuno di questi aspetti rispettivamente «res gesta (historia) vs res ficta vs argumentum qui fieri potuit», «ammirazione e commozione vs intrattenimento e indottrinamento vs stupefazione e riflessione» e «intrepretazione della Storia vs iniziazione vs conversazione (formazione del giudizio)» £. Si può essere d’accordo sul procedimento senza nascondere qualche perplessità intorno ai criteri. L'opposizione res ficta vs argumentum qui fieri potuit non sembra molto forte, per esempio, e non interamente adeguata alla novella. E «l’intrattenimento» non sarebbe una categoria adatta anche alla novella? Il primo problema si può risolvere collocando i due generi sotto il contratto finzionale, ma il secondo si pone per tutti i generi in cui interviene un contratto simile. E se per molti generi del passato esso viene annullato, per cost dire, in seconda istanza, da un senso allegorico o morale che li riporta nell’ambito dell’asserzione e/o della persuasione «pura», per altri generi il problema sussiste perché tale «annullamento » non avviene. Il che vuol dire: per 5 6 6 ©
Cfr. A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana, III/2 cit., pp. 853 sgg. Cfr., in questo stesso paragrafo, le note 47 e 59. H. R. JAUSS, Theorie der Gattungen cit., p. 336. Ibid., pp. 337-38.
6 Ibid id.
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alcuni generi del passato, come la novella o il romanzo, e per molti generi moderni non esclusi i generi lirici che si possono considerare come retti da un contratto finzionale. Diremo allora che la funzione sociale di questi generi si esaurisca nell’«intrattenimento» o nel piacere estetico autonomo che evidentemente costituisce un bisogno sociale? La risposta a questa domanda non può essere che affermativa‘, ma non fornisce un criterio per introdurre distinzioni «generiche» all’interno di questo vasto raggruppamento. Ora ci sembra chevon tutte le riserve che si possono avanzare per le applicazioni concrete dei criteri di Jauss, la direzione in cui vanno cercate le distinzioni «generiche» basate sul funzionamento sociale sia però quella indicata dallo studioso tedesco, il quale del resto s’ispira chiaramente ai criteri adoperati da Aristotele per gli effetti sul pubblico della tragedia”. Partendo dalla differenza fra i modi semantici e i generi quali si manifestano storicamente, si potrebbe cercare di individuare da una parte le ragioni psicosociali di modi della lunga durata come il comico, il tragico, il satirico, il lirico e dall’altra il rapporto fra i valori proposti di vari generi e i valori dominanti in un ceto sociale più o meno vasto. Non mancano studi ispirati alla psicanalisi che affrontano la problematica dei modi semantici, come non mancano studi sociologici sul rapporto fra i valori proposti o negati in un determinato genere e la società in cui viene prodotto. Ma molto lavoro rimane ancora da fare, soprattutto sul piano del confronto preciso fra i vari generi sia diacronicamente sia sincronicamente, confronto dal quale non potranno essere esclusi, evidentemente, i generi non letterari. Solo uno studio comparativo, infatti, potrà rendere conto in modo adeguato della funzione specifica di certi generi letterari e del loro persistere attraverso i secoli. Il modello che comincia a delinearsi sul piano astratto su cui abbiamo dovuto tenerlo promette certamente di diventare molto più complicato di tutte le varie mappe dei generi che finora sono state proposte. Ma non si vede bene come si possano evitare queste complicazioni, se il modello deve veramente rendere conto dei generi e nelle loro possibilità fondamentali e nelle loro trasformazioni storiche. E poco importa se anche il modello pit complicato risulterà ancora approssimativo rispetto alla realtà concreta: per questo aspetto i
generi letterari non si distinguono da qualsiasi altro oggetto di indagine scientifica. Ciò che conta invece è una maggiore chiarezza intorno a schemi con cui comunque dobbiamo lavorare. © Secondo Asor Rosa l’idea di «una letteratura come funzione di bisogni sociali» sarebbe una «ipotesi da sviluppare». L’autore formula tale ipotesi commentando il progetto neoavanguardistico di rinnovamento totale della letteratura e osserva come il piacere estetico in quanto piacere risponde a un «bisogno oggi molto diffuso » (A. AsoR ROSA, La cultura, in R. ROMANO € C. VIVANTI (a cura di), Storia d’Italia, IV/2. Dall’Unità a oggi, Torino 1975, p. 1647). Questa ipotesi sarebbe da sviluppare anche per la letteratura del passato. E non è detto che quell’aura letteraria che secondo Asor Rosa «nella neoavanguardia persiste tenacissima», carattetizzi anche tutti i generi letterari del passato. °° A simili criteri s’ispira anche Paul Hernadi per tracciare una delle sue mappe in cui ai vari «generi» corrispondono vari tipi di reazione come ammirazione, indignazione, pietà, shrill (per la tragedia!), ecc. (cfr. P. HERNADI, Entertaining commitments cit., pp. 199 e 207). Ci si immagina facilmente un lettore che provi tutte queste reazioni di fronte alla mappa stessa, che pure potrebbe forse servire da punto di partenza per un discorso un po’ più raffinato dal punto di vista psicologico.
ARMANDO PETRUCCI La scrittura del testo
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I. Scrivere è un verbo con significati assai diversi; e la pratica dello scrivere può assumere connotazioni tra loro fortemente differenziate sia in una prospettiva sincronica che in una diacronica. In effetti tra lo scrivere per copiare, cioè per far leggere altri, e lo scrivere per comporre, cioè per fissare il proprio pensiero, per rileggere ed eventualmente per correggere, esistono, e sono sempre esistite, differenze di fondo, quali ne corrono fra attività di opposta natura. In verità comporre, dictare un testo non ha sempre voluto dire scriverlo; fra un testo ed il suo autore è però sempre intercorso un «rapporto di scrittura», ora più, ora meno intenso, ora più, ora meno mediato, che ha
visto in alcune epoche o in alcuni casi gli autori partecipare poco o nulla alla materiale «scrittura» delle proprie opere; in altre, invece, condurre in parallelo l’opera di elaborazione e quella di stesura manuale dei propri testi. Questa raccolta di immagini si presenta, e appare, come una pura e semplice silloge di autografi; e ovviamente, come ogni lettore può vedere, in realtà lo è. Ma è anche, 9 almeno aspira ad essere, qualcosa di più e di diverso: un’indagine visiva sul «rapporto di scrittura», quale lo si è definito più sopra, e sulle sue modificazioni nel tempo, in Italia dal secolo xIv fino ad oggi: attraversando vicende decisive per la trasmissione della cultura scritta e plurime rivoluzioni nei mezzi e negli strumenti mediante cui quella che definiamo letteratura italiana si è materialmente diffusa ed è giunta sino a noi. D’altra parte è senz’altro vero che le modificazioni insorte via via nel «rapporto di scrittura» sono state determinate non soltanto dai mutamenti delle tecniche di scrittura e di produzione del libro, ma anche, se non soprattutto, dalle modificazioni della figura stessa dell’autore e perciò del rapporto fra autore e pubblico, dal diverso orientamento delle teorie letterarie e perciò del rapporto fra autore e testo, dal senso e dal significato che lo scrivere e il produrre testi hanno via via assunto in una determinata società, in un determinato ambiente. Cosicché un’indagine sul «rapporto di scrittura» potrebbe non risolversi soltanto in una suggestiva carrellata di autografi più o meno curiosi e più o meno illustri, ma costituire anche o piuttosto uno stimolo a ripensare o a vedere sotto nuova luce certi momenti e certi nodi della nostra storia letteraria, in cui il mutamento dei testi più fortemente è stato condizionato ora dal rapporto diretto e ripetuto con gli autori, ora dalla visione ideologica dello scrivere che ciascuna società si è di volta in volta data.
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2. Il grado di partecipazione diretta dell’autore all'opera materiale di scrittura del proprio testo non è stato, dunque, sempre identico nel tempo; esso, infatti, ha subito variazioni assai nette, ognuna delle quali ha fortemente segnato le vicende della composizione, della diffusione e della trasmissione delle singole opere; e ciò sia in epoche in cui il libro era manoscritto, sia in quelle successive caratterizzate dall’uso della stampa a caratteri mobili, sia, infine, come vedremo, anche in età contemporanea. S In età classica l’autore usava di solito scrivere di propria mano soltanto un primo abbozzo del testo, vergato su materiale destinato alla immediata obliterazione, cioè su tavolette cerate; quindi il testo veniva trasmesso ai segretari copisti per via di dettatura, ricorretto a volte per mano dell’autore, a volte per suo intervento indiretto, sull’esemplare originale, e quindi affidato ai copisti che avrebbero provveduto alla sua riproduzione in più esemplari. Nell’intero processo di produzione e di riproduzione del testo la partecipazione manuale dell’autore era dunque minima, e soprattutto non ne rimaneva traccia, né memoria, se non in casi eccezionali '.
La pratica della composizione per dettato si estese.e si precisò meglio nell’età tardoantica e in quella altomedievale, in cui l’uso delle tavolette cerate continuò ad essere abituale sia a livello scolastico che a livello di scrittura quotidiana. Essa anzi per secoli rimase prevalente rispetto a quella dell’autografia, pur usata da alcuni Padri della Chiesa, come san Girolamo, in circostanze particolari °. Diversi fattori hanno contribuito, fra x1 e x111 secolo, a modificare una tale situazione. Innanzitutto la diffusione graduale, ma progressiva, di un sempre più ricco ed articolato alfabetismo di laici nelle città più progredite e popolate d’Italia e d'Europa; l’affermarsi della carta come materia scrittoria più economica e di pit facile uso rispetto alla pergamena; la suggestione del modello di totale autografia proposto dai notai, grandi protagonisti della civiltà dello scritto nella società comunale; e infine la pratica di paziente e gelosa autoscrittura propria degli annalisti e dei cronisti ecclesiastici, legati alla suggestione dell’autenticità della testimonianza scritta, e perciò stesso della scrittura di chi era incaricato ex officio di vergarla: archivista, notaio, cancelliere, cronista
che fosse.
Pit o meno presto la pratica dell’autografia investi la composizione dei testi letterari in lingua volgare; quando e come esattamente ciò sia avvenuto in Italia la prima, o le prime volte, non lo sappiamo; anche perché le testimonianze autentiche — e sicure — di autografia letteraria giunte sino a noi sono 1 A proposito del problema della presunta autografia di alcuni rotoli ercolanesi contenenti opere di Filodemo di Gadara, si veda quanto ha scritto recentemente 6. cAVALLO, Libri scritture scribi a Ercolano. Introduzione allo studio dei materiali greci, Napoli 1983, pp. 26-27. peo 2 È d’obbligo il rimando alla trattazione di E. ARNS, La technique du livre d’après Saint Jér6me, aris 1953. i; Per questa tematica cfr. A. PETRUCCI, Minuta, autografo, libro d’autore, in Il libro e il testo,
Urbino 1985, pp. 397-414.
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relativamente tarde. Ma in un mondo in cui, in pieno Duecento, i laici scrivevano documenti in latino, lettere in latino e in volgare, tenevano libri di conto e registri, redigevano libri di ricordanze, il comporre testi in lingue volgari dovette trasformarsi naturalmente da pratica orale a pratica scritta; e tale rimase, radicandosi nel tempo e nelle abitudini, accanto e quasi in contrapposizione alle più illustri pratiche dello scrivere e del comporre in latino. In particolare nel periodo più antico della letteratura italiana si collocano alcune esperienze di autografia che hanno profondamente inciso, come paradigma e modello, sullo sviluppo degli studi critici italiani dell’ultimo cinquantennio. 3. Nell’ormai lontano 1937 il venticinquenne Gianfranco Contini indicava lucidamente in un saggio rimasto celebre sugli autografi ariosteschi il senso delle ricerche e degli studi critici sugli autografi letterari: «Che significato hanno, per il critico, — egli si domandava, — i manoscritti corretti dagli autori? » E, dopo aver osservato che «vi sono essenzialmente due modi di considerare un’opera di poesia», uno «statico» e perciò descrittivo; e uno, al contrario, «dinamico», concludeva che proprio in una prospettiva dinamica dell’opera poetica acquista tutto il suo valore lo studio «delle redazioni successive e delle varianti d’autore» e delle «vere e proprie “correzioni”, cioè la rinuncia a elementi frammentariamente validi per altri organicamente validi, l’espunzione di quelli e l’inserzione di questi» '. Tre anni prima Giorgio Pasquali aveva pubblicato la prima edizione della sua Storia della tradizione e critica del testo°,in cui il problema della variantistica d’autore era stato posto e illuminato insieme; nel 1943 lo stesso Contini pubblicava un saggio sulle correzioni del Petrarca volgare considerato esemplare ’. Negli anni a cavallo della conflagrazione mondiale nasceva in tal modo la filologia «degli scartafacci»; una specializzazione caratterizzante della filologia italiana di questo secolo, che è ancora ben viva oggi sia sul piano degli studi di metodo, sia su quello della pratica ecdotica; e che Lanfranco Caretti in qualche modo sistematizzava programmaticamente in modo assai chiaro in una sua prolusione pavese del 1952: Il processo da perseguire non è... quello di una forzata e illegittima unificazione, ma, al contrario, quello di una assidua distinzione e caratterizzazione delle varie fasi del lavoro elaborativo... Nel caso... di testi la cui tradizione testimonia con certezza varianti d’autore dobbiamo partire da un’altra ipotesi di lavoro, e cioè che nulla è da rifiutare e che nostro compito non è già quello di distinguere il sano e il corrotto, ma quello piuttosto di identificare le varie fasi dell’elabora-
1 6. CONTINI, Corze lavorava l’Ariosto (1937), in Esercizî di lettura. Sopra autori contemporanei con un'appendice su testi non contemporanei, Torino 1974, pp. 233-34. 2 Cfr. G. PASQUALI, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934; nata da una recensione alla Textkritik di Paul Maas (Leipzig-Berlin 1927), edita in «Gnomon», V (1929), pp. 498521, fu riedita a Firenze nel 1952; ibid., pp. 395-465, il famoso capitolo Edizioni originali e varianti di autore. 3 Cfr. 6. conTInI, Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare (1943), in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1970, pp. 5-31.
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zione stilistica, di fissare il profilo delle varie stesure, di stabilire — sin dove è possibile — i rapporti fra le stesure stesse ‘.
Per assolvere a tali ardui e complessi compiti di indagine, la filologia « degli scartafacci» si munî di strumenti più sofisticati che per il passato, e in particolare del doppio apparato (definito «sincronico» per le varianti di tradizione e «diacronico» per quelle proprie delle diverse recensioni d’autore), capace di rendere visivamente il «movimento» del testo e nello stesso tempo di distinguere immediatamente quello che aveva contribuito a formate il testo d’autore da quello che successivamente aveva contribuito a deformare il testo tràdito. Ma in tal modo, inevitabilmente, la filologia si trasformava in analisi stilistico-formale e in critica letteraria, obbedendo, in qualche misura, alle tendenze e agli orientamenti delle poetiche e della critica, appunto, del momento; secondo un rapporto vivacissimo e mobile che sarebbe già ora assai interessante indagare nelle sue varie fasi, dagli anni ’30 e ’40 sino ad oggi. Comunque fosse, è certo che la filologia «degli scartafacci» rappresentò e rappresenta un rinnovato e importante movimento di attenzione agli autografi letterari, recensiti, indagati, sceverati come mai prima; a volte con attenzioni e compiacimenti quasi maniacali. Le conseguenze di tale moto di interesse furono assai importanti in campo critico, perché formarono un nuovo metodo di indagine testuale e portarono alla fattura di edizioni critiche di raffinata cura e di notevole novità. Ma non servirono ad affrontare i problemi posti appunto alla nuova filologia degli autografi dagli autografi stessi, nella loro materiale difformità, nella loro straordinaria variazione nel tempo, nella loro presenza o assenza nei secoli della storia culturale europea; non servirono a impostare e a risolvere, insomma, i problemi, o il problema, del «rapporto di scrittura» fra l’autore e il proprio testo, che pure il nuovo movimento critico aveva avuto in qualche misura il merito di porre.
4. Comporre non ha sempre e soltanto significato scrivere; ma scrivere non ha sempre significato anche riscrivere. È appunto la pratica della riscrittura, nata addosso e cresciuta sopra l’altra dell’autoscrittura, che ha dato spessore e dinamicità alla storia interna dei testi, che ne ha costituito fisicamente nel tempo la vicenda visibile, che ha condotto alla pluralità delle recensioni testuali e indotto da una parte l’autore alla loro stratificata e plurima conservazione e dall’altra il filologo al loro reciproco confronto e al loro razionale ordinamento seriale. Si è già accennato al processo secondo il quale in un determinato periodo del medioevo si è cominciata a realizzare fittamente la pratica dell’autoscrittura; ma quando e come da essa si è poi passati a quella, più complessa e innovativa della riscrittura? In quale posizione tale evento si pone rispetto agli sviluppi della vicenda letteraria italiana? Per rispondere a tali quesiti sarà utile porsene immediatamente altri. Per esempio come lo scrittore tardomedievale 4 L. CARETTI, Filologia e critica (1952), in Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, To-
rino 1976, pp. 476-77.
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pensava alla genesi di un suo proprio testo e alla sua storia; attraverso quali pratiche le realizzava concretamente sul suo scrittoio; quanto era consapevole del valore e dell’importanza delle eventuali novità in esse via via introdotte; e cosi via. A questo proposito può risultare utile il confronto fra le abitudini e le realizzazioni scrittorie di due intellettuali italiani del periodo, di ambedue i quali ci sono rimasti autografi estesi e significativi: Tommaso d'Aquino e Francesco da Barberino. Tommaso è il rappresentante simbolico di una cultura, quale quella scolastico-universitaria, che molto contribuf a modernizzare le pratiche scrittorie e il rapporto con il libro del pubblico colto dell'Europa del tempo. La sua personale esperienza grafica 'fu, entro certi limiti, eccezionale, ma anche assai rappresentativa di un periodo e di un ambiente, in cui si poteva passare o no dal comporre per dettato al comporre per autoscrittura, a seconda delle personali tendenze culturali dei singoli autori e anche a seconda delle circostanze accidentali che ne condizionavano l’operare. Da giovane Tommaso scriveva di propria mano, privo com’era di una struttura al suo servizio; più tardi, inglobato in una realtà comunitaria di cui era prestigioso esponente, ebbe sempre a disposizione uno o pit segretari, cui di continuo poteva dettare, secondo l’ispirazione del momento, a volte anche nottetempo°; nel suo caso dunque, l’autoscrittura era occasionale, all’interno di un sistema in cui una ri-
gida divisione del lavoro intellettuale poneva a disposizione del dotto una o più mani scriventi altrui. Forse egli scriveva appunti e abbozzi su tavolette cerate, come dimostrerebbe l’aspetto dissociato ed inelegante della sua scrittura È; ma certo è che, quando scriveva di suo pugno, egli non dimostrava alcuna preoccupazione formale, non si proponeva e non proponeva alcun modello librario innovativo. Egli si mosse sempre e sempre scrisse all’interno di una tradizione consolidata, di cui condivideva le norme e i tempi stessi di scansione del lavoro intellettuale, senza porsi mai in contrapposizione con essa e con il suo principale prodotto scritto: il libro scolastico, fermamente caratterizzato da determinati tipi di scrittura, impaginazione, articolazione del testo, che sono quelli stessi delle sue opere, da lui stesso assunti, riconosciuti, ripetuti. A fronte di Tommaso d’Aquino, Francesco da Barberino appare personaggio tutt’affatto diverso. Laico invece che religioso, notaio e giudice anziché professore, intellettuale isolato e non membro di una comunità, Francesco agiva, componeva, scriveva fuori del rigido recinto della produzione libraria ufficiale e universitaria. Di lui ci restano due codici dei Documenti d'Amore, l’uno costituito da una redazione provvisoria e non completa (Biblioteca Apostolica Vaticana, Barberiniano latino 4077), l’altro dalla redazione definitiva dell’ope1 Per la quale cfr. A. DONDAINE, Secrétaires de Saint Thomas, Roma 1956; e anche ToMMASO p'AquINO, Codices manuscripti operum..., 1. Autographa et Bibliothecae A-F, Roma 1967. 2 Per quanto riguarda l’episodio della dettatura notturna, cfr. A. DONDAINE, Secrétaires de Saint Thomas cit., p. 17. 3 Cfr. A. R. NATALE, Inintelligibilis littera, in Ricerche paleografiche in carte lombarde dalla seconda metà del Mille al Millecento, Milano 1961, pp. 71-75.
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ra (Barberiniano latino 4076), ambedue parzialmente autografi ‘. Nel primo codice l’autore ha tracciato anche, con notevole abilità, gli abbozzi delle miniature, che poi nell’altro e definitivo manoscritto un miniatore professionista ha tradotto in forme canoniche. In un punto del commento in latino disposto nei margini a incorniciare il testo poetico volgare Francesco dichiara esplicitamente di avere personalmente scritto e riscritto il testo tre o quattro volte: e ambedue i codici, sia nelle parti autografe, sia nelle altre, recano la testimonianza di una puntuale opera di correzione, durata ininterrottamente anche nell’esemplare cosiddetto definitivo con la tecnica lenta e precisa dell’erasione e della riscrittura, propria degli scribi coevi. Per la prima volta ° con questi due codici siamo di fronte alla testimonianza difetta ed estesa di un’operazione di autoscrittura e di riscrittura (e di revisione correttiva) di un’opera letteraria appartenente alla tradizione italiana. Ma essa si colloca in un contesto e in una prospettiva completamente diversi da quelli propri all’operosità scrittoria di Tommaso. Della prassi compositiva di Francesco non fanno più parte né il dettato, né l’uso estemporaneo delle tavolette cerate; ad esse infatti, secondo le abitudini dei notai contemporanei suoi colleghi, egli aveva, con tutta probabilità, sostituito la carta. D'altra parte nello scrivere sia la redazione provvisoria, sia l’altra, definitiva, Francesco adopera non già la sua personale scrittura professionale, caratterizzata dal ductus corsivo, ma una scrittura posata di tipo librario, fortemente formale; l’autoscrittura con lui si formalizza, l’autore scrive, sul piano strettamente tecnico, come uno scriba, e in effetti agli scribi si alterna. E ciò è in funzione di una particolare visione del libro, di un preciso progetto di rinnovamento del modello librario che Francesco persegue in contrapposizione con il mondo ufficiale della produzione contemporanea; un progetto secondo il quale avrebbe dovuto essere l’autore stesso a costruire il modello del libro adatto al suo testo, illustrazioni comprese, e a scriverlo almeno in parte di proprio pugno, sia per controllarne la fattura materiale, sia per imprimervi un marchio di autenticità indiscutibile; anche in questo, dunque, comportandosi in modo opposto a quello proprio a Tommaso. In realtà il progetto di rinnovamento della prassi libraria perseguito da Francesco da Barberino faceva parte di un più vasto e complesso moto di estraneazione e di reazione nei riguardi della cultura universitaria contemporanea e dei suoi prodotti comune a numerosi intellettuali italiani dell’epoca; moto che investiva in particolare il sistema di produzione artigianale del libro, basato su una meccanica e veloce riproduzione del testo e su una rigida divisione del lavoro di fattura del libro, e di cui Petrarca, come si sa e si vedrà, si sarebbe più tardi fatto interprete eloquente. All’interno di questo moto la prassi 4 Su di essi cfr. F. EGIDI, Le miniature dei codici Barberini dei «Documenti d’Amore», in «L'Arte», V (1902), pp. 1-20 e 78-9 5, con riproduzioni; In., Prefazione a FRANCESCO DA BARBERINO, I Documenti d’Amore... secondo i manoscritti originali, a cuta di F. Egidi, IV, Roma 1927, PD. xvi-xxvI. Cfr. anche A. PETRUCCI, Minuta cit. ° Ritengo infatti non provata e non probabile la parziale autografia del canzoniere di Nicolò de’ Rossi (Vaticano Barberiniano latino 3953), per il quale cfr. F. BRUGNOLO, I/ canzoniere di Nicolò de’ Rossi, I. Introduzione, testo e glossario, Padova 1974, pp. XLVII-XLIX.
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autografica, già ampiamente diffusa, ttovava una sua propria giustificazione ed una sua precisa funzione; ma essa fu resa allora possibile e fu rafforzata dall’irrompere sul mercato italiano della nuova e meno costosa materia scrittoria, la carta, immediatamente diffusasi attraverso le pratiche private e documentarie di scrittura, molto più fitte e più numerose nel Trecento che non nei secoli precedenti. In realtà la rivoluzione culturale promossa dalla carta non si verificò, come si usa ancora ripetere, nel corso del Quattrocento in funzione della stampa e di un pit diffuso bisogno di lettura, ma piuttosto fra Duecento e Trecento e in funzione di un più diffuso e urgente bisogno di scrittura, espresso, a diversi livelli sociali, da nuovi ceti di alfabeti e di acculturati laici, liberi di scrivere, al di là di ogni condizionamento sociale, ciò che loro serviva o piaceva; e perciò liberi non soltanto di copiare, ma anche di comporre, di scrivere e di riscrivere. AI centro di questo periodo si colloca l’esperienza compositiva e scrittoria di Dante, che è molto meno isolata, da un punto di vista tecnico, di quanto non possa apparire ove si consideri soltanto la grandezza del personaggio intellettuale. Di Dante, com’è noto, non possediamo autografi; ma la sua è la tipica figura del nuovo intellettuale libero da legami religiosi o corporativi, obbligato per circostanze e per scelta alla solitudine individuale e perciò all’autoscrittura, impavido e ripetuto scrittore e riscrittore di se stesso, chiuso in una
dimensione tutta libresca della sua attività letteraria bilingue °; vicino, in questo, e nella polemica contro la cultura ufficiale in lingua latina, al contemporaneo Francesco da Barberino e ad altri letterati laici della realtà urbana centrosettentrionale italiana. 5. La vicenda letteraria di Francesco Petrarca offre al contrario in modo emblematico la testimonianza di una lunga, documentata e complessa pratica di autoscrittura, anch’essa svoltasi per scelta fuori di ogni costrizione istituzionale. Petrarca, com’è noto, sviluppò soprattutto nell’età matura e in vecchiaia una vera e propria religione dello scrivere e scrisse e riscrisse di suo proprio pugno molte delle sue opere '. Ma per lui l’autoscrittura rappresentò lo strumento primario ed essenziale di una complessa strategia scrittoria e libraria, che mirava al rinnovamento radicale sia delle tipologie grafiche in uso al suo tempo, sia della stessa forma-libro; quanto egli sia riuscito nel duplice intento che si era proposto non riguarda il discorso che si va facendo qui; ed è stato già accennato altrove ”. Qui interessa piuttosto indagare come le pratiche dell’autoscrittura si siano con lui sviluppate, intensificate e organizzate in funzione appunto di tale progetto, e secondo quali modelli e procedimenti ciò sia avvenuto; e se questa estrema esperienza di comporre scrivendo e riscrivendo 6 Cfr. E. R. curTIUS, Europdaische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern 1948, pp. 327-34. 1 Cfr. A. PETRUCCI, La scrittura di Francesco Petrarca, Città del Vaticano 1967; I., Libro e scrittura in Francesco Petrarca, in Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento. Guida storica e critica, Bari 1979, pp. 3-20. ? Cfr. m., Il libro manoscritto, in A. AsoR ROSA (a cura di), Letteratura italiana, II. Produzione e consumo, Torino 1983, pp. 515-17.
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abbia rappresentato allora l’inizio di nuovi modi espressivi e compositivi o piuttosto, magari, la fine di altri appartenenti ad epoche precedenti. Nell’ambito della produzione petrarchesca in lingua latina la vicenda dell’elaborazione testuale del Bucolicum carmen rappresenta un esempio limite della funzionalità dell’autoscrittura rispetto ad un progetto espressivo di lunga durata. Di esso possediamo un codice interamente autografo, completato dal Petrarca nel 1357 e quindi arricchito di aggiunte più o meno estese e di numerose correzioni a più riprese fra il 1357 e il 1364. Qui non soltanto il testo, ma il libro che lo contiene è considerato un vero e proprio work in progress, in quanto in esso materialmente si vengono disponendo le additiones magnae e su di esso, con precisa puntigliosità, il Petrarca erade e corregge in più punti parole singole o espressioni complesse, con tecniche da scriba più che da autore’. Ma l’operazione di autoscrittura più complessa e più ostinatamente lunga della sua vita il Petrarca la compî intorno ai Rerum vulgarium fragmenta, di cui ci ha lasciato plurime testimonianze scalate nel tempo, da quelle giovanili del 1336-37 sino a quelle più vicine alla morte. Ci è dunque concesso — come di rado negli annali della nostra letteratura — di seguire la lenta e progressiva costruzione di un evento compositivo ficcando l’occhio all’interno stesso delle sue strutture in movimento, scoprendo i meccanismi del loro farsi, potendo ricostruire i momenti e le fasi del processo, gli arresti e le riprese dell’opera, le caratteristiche di ogni fatto espressivo, che si risolve ogni volta in un visibile fatto scrittorio. E questo attraverso testimonianze scritte fra loro assai diverse non soltanto per epoca, ma per natura; in quanto nell’ambito della produzione provvisoria su carta si va dai primi, frettolosi abbozzi alle trascrizio ni ordinate di deposito, per finire con il vero e proprio codice d’autore in pergamena, vergato in parte da uno scriba di fiducia, in parte dal medesimo poeta. Molto diversi appaiono, a seconda della natura degli scritti, l'aspetto grafico, l'impaginazione, l’uso degli spazi, della punteggiatura, delle maiuscole . Negli abbozzi e nelle minute la scrittura appare frenetica nella estrema corsività, mentre l’organizzazione testuale nella pagina è fluida per irregolari tà e per mancanza di sicure corrispondenze; l’opera di riscrittura, di correzione, di intervento è veloce e imperiosa, scandita da depennature profonde, da sostituzioni continue e multiple, da a volte ambigui segni di richiamo, da sbatrature di annullamento oblique e ripetute. Nelle trascrizioni ordinate (le «raccolte di riferimento» del Wilkins) l’impaginazione è regolare, l’uso delle maiuscole rispettato, ma la tipologia grafica è pur sempre quella corsiva della minuscola cancelleresca, ora pit ora meno rapida, ora più ora meno controlla ta; anche qui gli interventi correttivi sono presenti, sia pure in minor numero;
anche qui, come in tutto l’archivio cartaceo del Petrarca, è presente in frequenti, rapide note marginali e interlineari la registrazione del discorso critico e anali-
$ 3 Cfr. per questo N. MANN, The making of Petrarch’s Bucolicum Carmen. A contribution to the bistory of the text, in «Italia medioevale e umanistica », XX (1977), pp. 127-82; In., Aneddoti d’una perfettibilità perpetua: il Petrarca autocritico, in «La Cultura», XIX (1981), I, pp. 37-51.
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tico che l’autore, usando il registro linguistico colto, cioè il latino, veniva intanto conducendo con se stesso, commentando le proprie scelte stilistiche, segnando i tempi del proprio lavoro e le distanze fra le varie fasi compositive, annotando i diversi momenti della trasmissione dei testi. Del tutto diverso l’aspetto del codice d’autore, il Vaticano latino 3195; qui siamo di fronte non a fogli cartacei sciolti, ma a un libro in pergamena, a un’opera finita che dava e doveva dare un’impressione di conclusività. Ebbene anche su di essa l’autore torna con accanimento a correggere, cambiare, spostare e aggiungere; a
riscrivere, insomma; ma non può più farlo con le tecniche proprie all’autografia di composizione, perché il libro oppone ad esse la sua propria dignità e rigidità di opera finita e definita; cosicché è costretto ad adoperare l’altra e opposta tecnica, propria degli scribi librari, della rasura e della paziente ricopertura del già scritto, e lo fa, come dimostra la pagina riprodotta, sino all’ultimo, sino, praticamente alla morte ‘. L’esperimento compositivo del Petrarca ci è stato, per un seguito di circostanze favorevoli, conservato, almeno parzialmente; ed esso è sempre apparso un prodotto di assoluta e irripetibile singolarità. Ma in realtà dietro le pratiche compositive, ripetute sino allo sttemo, del letterato poeta si collocavano esempi e abitudini di altre categorie intellettuali coeve: come è stato rilevato di recente, se la correzione per rasura è propria degli scribi professionisti, la composizione in corsiva su registri cartacei con noterelle marginali di ordinamento e di riferimento è propria dei notai italiani del Due e Trecento; come loro è anche la pratica della «lineatura», cioè dell’annullamento con tratti obliqui incrociati o paralleli dei testi riscritti altrove °. Petrarca, insomma, non era soltanto figlio e nipote di notai, ma prodotto diretto della cultura scritta del suo tempo, innovatore sî, ma anche erede di una tradizione e di una tecnica di cui conosceva e usava tutte le regole. Anche il Boccaccio era un intellettuale estraneo alle istituzioni culturali; in possesso di una cultura mercantile e volgare e del suo strumento grafico, la corsiva mercantesca, egli scrisse molto, prima sotto l’influenza di maestri diversi, quindi, dal 1350 in poi, sotto quella determinante del Petrarca, ma dimostrando, rispetto a quella di quest’ultimo, una coscienza scrittoria e libraria molto meno avvertita. Di lui possediamo numerosi autografi, dalle note e copie personali del giovanile zibaldone laurenziano e di quello magliabechiano, ai «libri d’autore» in pergamena di alcune sue copie, sino al notissimo autografo tardo del Decameron berlinese®. Padrone di differenti tipologie 4 Dei due codici esistono riproduzioni integrali in facsimile: Mm. PORENA (a cura di), Il codice Vaticano latino 3196, autografo del Petrarca, Roma 1941; F. PETRARCA, L'originale del Canzoniere..., codice Vaticano latino 3195, Milano 1905. Del primo esiste anche una moderna edizione diplomatico-critica: A. ROMANÒ, Il Codice degli Abbozzi (Vat. Lat. 3196) di Francesco Petrarca, Roma 1955. 5 Cfr. A. PETRUCCI, Minuta cit. 6 Per la scrittura e gli autografi boccacciani cfr. A. c. DE LA MARE, The Handwriting ot Italian Humanists, I, Oxford 1973, pp. 17-29; e soprattutto Mostra di manoscritti, documenti e edizioni: VI Centenario della morte di Giovanni Boccaccio (Firenze, Biblioteca medicea laurenziana, 22 maggio - 31 agosto 1975), I. Manoscritti e documenti; Certaldo 1975; altra bibliografia in A. PETRUCCI, Il libro manoscritto cit., p. 514; in particolare per il Decazzeron Hamiltoniano cfr. ibid., p. 515.
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grafiche, abile e inventivo scrittore di semigotica, Boccaccio eseguf la copia del suo libro più famoso con animo in parte di scriba disattento, in parte di autore manipolatore del proprio testo; onde, qua e là, incorse in varianti di penna che tradiscono varianti espressive, cui, in seconda lettura, egli contrappose nei margini, senza saper scegliere, la lezione originaria”. In questo codice, di grande formato, col testo fittamente disposto su due colonne, è stato visto il tentativo di nobilitare il libro volgare imponendogli il modello del libro «da banco» universitario-scolastico*:un tentativo fallito perché rivolto non già all’avvenire, come il progetto di rinnovamento grafico-librario caro al Petrarca, ma al passato. 6. L’avvenire era rappresentato, da questo punto di vista, dalla « brigata di giovani arroganti» ' che nella Firenze a cavallo fra xIv e xv secolo modificò sostanzialmente i moduli della scrittura e del libro, restaurando modelli di età romanica attraverso un’ostinata operazione di diretto impegno manuale. Ma il «rapporto di scrittura» fra autore e testo risent! solo indirettamente di tale nuovo atteggiamento, comune, fra l’altro, soltanto a una ristretta élite di intellettuali umanisti. Soprattutto fuori di Firenze le raffinate liserzlae all’antica di Guarino, di Biondo Flavio, di Ciriaco d’Ancona, di Felice Feliciano ? rappresentarono per un breve arco di decenni anche l’espressione di un impegno autografico che conferiva a quelle minuscole corsiveggianti, a quei grecismi grafici, a quelle capitali all’antica un valore direttamente simbolico del contenuto testuale. Ma ciò di regola non avvenne. A Firenze e nei luoghi di cultura dominati dal modello fiorentino la norma divenne presto quella della separazione fra scrittura personale, corsiva dell’uso, e scrittura del libro, eseguita sempre più meccanicamente secondo paradigmi formali stabiliti per imitazione, e affidata sempre di pit, come uno o due secoli prima, alla pratica riproduttiva degli scribi di professione. Ma se questo avveniva all’interno della cultura umanistica, altri tipi di comportamento si realizzavano in zone culturali diversamente strutturate e legate ancora alla tradizione trecentesca. Lo stesso Leon Battista Alberti costruî, intorno al 1438, il manoscritto della prima redazione del trattato Della famiglia su fascicoli cattacei fatti vergare in corsive d’uso a quattro copisti diversi, per poi costellarlo di aggiunte, integrazio ni, correzioni brevi e lunghe eseguite con tecniche ora rapide, ora accurate, e in una mercan. ® Cosî, recentemente, A. m. COSTANTINI, Correzioni autografe dell’Hamilton 90. Una proposta, in AA.VV., Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, II. Boccaccio e dintorni, Firenze 1983, pp. 69-77. ; ie * Cfr. A. PETRUCCI, Il libro manoscritto cit., pp. 514-16. 1 Si tratta di una felice definizione di E. H. GoMBRIC H, From the Revival of Letters to the Reform of Arts. Nicolò Niccoli and Filippo Brunelleschi, in AA.VV., Essays în the History of Art: Presented to Rudolf Wittkower, a cura di D. Fraser e altri, London 1967, p. 82. 2 Cfr.E. CASAMASSIMA, Literulae latinae, in s. CAROTI e s. ZAMPONI, Lo scrittoio di Bartolomeo Fonzio umanista fiorentino, Milano 1974, pp. Ix-xxxIII . Per il Feliciano ultimamente cfr. r. AVESANI, Verona nel Quattrocento. La Civiltà delle Lettere, in AA.vv., Verona e il suo territorio, IV/2, Verona 1984, PD. 113-44.
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tesca usuale ®. Non molto dissimile nei tisultati, ma singolare nel meccanismo produttivo, è il processo attraverso il quale Enea Silvio Piccolomini compose negli anni del pontificato il testo dei suoi Comzzentarii, di cui nel manoscritto cartaceo di prima redazione (il Vaticano Reginense 1995) è dato di seguire le fasi di formazione ‘. Poiché il pontefice, avvalendosi di un segretario d’eccezione, Agostino Patrizi, dettò, com’è esplicitamente dichiarato, buona parte del testo, rivedendolo poi minutamente con correzioni, aggiunte, riordini, e ne scrisse di sua propria mano una lunga parte; alternando cost alla rapida corsiva dei copisti e del segretario la sua schiacciata e larga scrittura usuale, che qua e là rivela l’originaria natura mercantesca; strano contrappasso per chi nel 1454 aveva dichiarato, in polemica appunto con le corsive «popolari», di avere appreso e perciò di volere usare esclusivamente, «latinas litteras» e non «uncinos mercatorios » °. Ma nel papa umanista il «rapporto di scrittura» era con ogni evidenza condizionato da troppi elementi di irripetibile particolarità. In altri letterati operanti nella seconda metà del secolo è dato di cogliere forse con maggiore chiarezza i termini di una prassi compositiva che ormai cominciava ad avere (sia pure in modo implicito ed indiretto) come referente finale del processo testuale non più il«libro d’autore» o i codici di copia, ma la riproduzione meccanica in molti esemplari identici procurata dalla stampa a caratteri mobili. A un tale tipo di condizionamento sembra sfuggire l’autografo polizianesco dei secondi Miscellanea, il quale rappresenta al vivo l’atto compositivo di un testo che sotto la mano del grande filologo si trasforma, si precisa, si dispone articolandosi nell’ordito disordinato della pagina. Mentre nel codice dei Tymuli del Pontano gli interventi correttivi continui e insistiti confermano il giudizio del medesimg poeta, che cioè «le cose de ingenio hanno bisogno de multa et longa limatione» ‘; eppure, anche se attraverso la trama fitta delle riscritture, quel codice mantiene l’aspetto e la struttura di un «libro». Se non è più, e non potrebbe più essere, un «libro d’autore», esso non è infatti un disordinato cumulo di fogli, e non è neppure l’esemplare da inviare in tipografia; rimane, sotto le mani dell’autore, il suo codice-archivio. 7. Ancora liberi da un rapporto esclusivo e cogente con la stampa a caratteri mobili appaiono nel nuovo secolo sia Machiavelli, sia Guicciardini; indubbiamente per le ragioni particolari che condizionarono, per l’uno e per 3 Il codice è sommariamente descritto in L. B. ALBERTI, Della pittura, a cura di L. Mallé, Firenze 1950, bp. 119, e in 1n., Opere volgari, a cura di C. Grayson, I. I libri della Famiglia..., Bari 1960, pp. 367-68.
4 La migliore descrizione del codice in r. CESERANI, Rassegna, in « Giornale storico della letteratura italiana», CXLI (1964), p. 273. Cfr. ora anche E. S. PICCOLOMINI, Corzzzentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt, a cura di A. Van Heck, Città del Vaticano 1984. 5 Citato in s. RIZZO, I/ lessico filologico degli umanisti, Roma 1973, p. 143. 6 Cfr. A. POLIZIANO, Miscellaneorum centuria secunda, edizione critica a cura di V. Branca e M. Pastore Stocchi, 4 voll., Firenze 1972 (poi anche in editio minor, in volume unico, Firenze 1978). ? Citato in G. PONTANO, Carzzina: ecloghe, elegie, liriche, a cura di J. Oeschger, Bari 1948, p. 459; una descrizione del codice in B. soLpATI, Introduzione bibliografica al volume, da lui curato, G. PONTANO, Carmina, Firenze 1902, pp. XXVI-VIII.
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l’altro, il rapporto con la nuova tecnica di riproduzione e di diffusione del libro. In particolare per Guicciardini questo problema praticamente non si poneva; i suoi Ricordi furono scritti, riscritti, rifatti senza prevederne non solo la stampa, ma neppure la diffusione manoscritta, concepiti com’erano quale espressione strettamente privata di un’ideologia a consumo familiare, secondo antiche tradizioni fiorentine e borghesi ‘. Ma è proprio dopo gli anni ’20 e ’30 del secolo che la diffusione del nuovo mezzo, meccanico, di scrittura, la nascita del libro moderna e di una moderna industria libraria finirono per modificare profondamente il «rapporto di scrittura».
Innanzitutto proprio sul piano scrittorio, tecnico-grafico; poiché l’autore dall’autografia del libro nella sua interezza passò all’autografia del solo testo. Il «libro d’autore», infatti, simbolo e messaggio in sé, in quanto opera materiale della mano del poeta-letterato, non ebbe più ragion d’essere. L’autore scriveva, e riscriveva, su fogli, in fascicoli, e senza alcuno sforzo di formalità; di regola, altri, e non lui, copisti, segretari, vergavano l’esemplare di tipografia, che egli poteva eventualmente correggere; altri, non lui (naturalmente) trasponevano il testo con il nuovo sistema dei caratteri mobili; altri, non lui, ne disponevano l’aspetto, l'impaginazione, il frontespizio, il carattere, le illustrazioni; spesso anche altri, e non lui, si rivolgevano al pubblico nelle premesse o al committente pagante nelle dediche. Una volta entrato il manoscritto in tipografia, il «rapporto di scrittura» dunque si interrompeva, perché altri gestivano in prima persona il testo, con piena responsabilità e, a volte, pieno arbitrio; cui l’autore poteva reagire ristabilendo quel rapporto, in modo indiretto e non sempre efficace, soltanto con l’intervento manuale sulle bozze; il che in alcuni casi peraltro, ove il rapporto di forze fosse a suo favore, si traduceva in una prevaricazione in senso inverso, dell’autore sui padroni del processo meccanico, editori e tipografi. Ma in realtà la nuova caratterizzazione del «rapporto di scrittura» finî per influire direttamente anche sulle sue articolazioni interne e sui suoi tempi di sviluppo. Giustamente Amedeo Quondam ha osservato che la stampa ha modificato, accelerandola, «la velocità di scrittura e di riscrittura», mettendo cosf in questione «l’istituto classicistico del labor limzae»?. Essa, soprattutto, ha modificato i ritmi del processo compositivo, imponendogli le cesure obbligate costituite dalle edizioni, di cui raramente l’autore poteva stabilire in anticipo e regolare quindi le scansioni. A volte peraltro, l’autore letterato e gentiluomo, sganciato da una dipendenza personale dal sistema editoriale, poteva ristabilire il suo potere di modificazione del testo in una successione lenta e regolare di esemplari manoscritti. È il caso del Castiglione, che rinnovò più volte le stesure del suo Cortegiano, affidandole a più copisti, e rivedendole pun1 Per gli autografi cfr. r. sPONGANO, Per l’edizione critica dei « Ricordi » (1948), in F. GUICCIARDINI, Ricordi, edizione critica a cura di R. Spongano, Firenze 1951, p. XVI, nota 1; e, per un giudizio, ibid., p.Ix. 3 ? a. quonDaM, La letteratura in tipografia, in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana, II cità piszi.
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tualmente ogni volta; e che ricorse infine anche ai buoni uffici di un revisore linguistico amico, sostituendo in qualche misura un suo personale meccanismo di controllo a quello esterno della redazione editoriale. Proprio intorno ai modi e ai tempi di svolgimento del « rapporto di scrittura» si apriva dunque in pieno Cinquecento un conflitto di fondo fra letterati ed editori, che vedeva i primi impegnati nella difesa dell’antico privilegio di assoluto controllo del processo di composizione; e i secondi intenti ad assumerne invece direttamente il governo e a stabilirne perciò secondo proprie esigenze le scadenze, le misure, gli operatori medesimi, attraverso l’ingresso itresponsabile nel processo stesso del proprio personale redazionale. Si trattò di un conflitto destinato a durare a lungo e che vide quasi sempre prevalere, sui realizzatori del processo espressivo (i letterati-autori) gli altri, arbitri del processo produttivo e commerciale (gli editori); e che contò illustri vittime e perfino tragici episodi di violenza, di condizionamento, di prevaricazione. A parte si colloca il caso dell’Ariosto e della lunga elaborazione del Furioso, direttamente e personalmente controllata dal poeta, che rivide fittamente
le edizioni del 1516 e del 1521 prima di arrivare a quella definitiva, del 1532, secondo un processo appoggiato di volta in volta alle stampe, anziché da esse contrastato; perché sui loro margini «et di sopra et di sotto et dalle bande et tra mezzo» egli apportò di volta in volta profonde modificazioni, mentre su fogli a parte, prima dell’ultima edizione, veniva preparando le ottave aggiunte, attraverso un contrastato e lungo processo di essenzializzazione stilistica, in una totale libertà, anche grafica, della scrittura e della riscrittura ‘. 8. Testimone evidente di una interpretazione drammatica del «rapporto di scrittura», in qualche misura reso dall’isolamento stesso dell’autore indipendente dal condizionamento della stampa, pur presente in prospettiva, è il manoscritto autografo della Conquistata di Torquato Tasso '. Il confronto fra questo e i frammenti della Liberata, di tanto anteriori’, rivela un clamoroso
degrado delle capacità di controllo del processo compositivo e di quello scrittorio da parte del poeta. Nel manoscritto napoletano il Tasso si dimostra realmente incapace di dominare l’impulso grafico, non solo e non tanto per la frequenza dei «luoghi doppi», cioè delle doppie lezioni, lasciati irrisolti *, quanto per la caoticità della scrittura, la violenza degli interventi correttivi, la frenesia delle riscritture elaborative, i depennamenti e i ritocchi inconsulti o su3 Cfr. c. GHINASSI, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», in «Studi di filologia italiana», XXV (1967), pp. 155-96; e B. CASTIGLIONE, La seconda redazione del « Cortegiano », a cura di G. Ghinassi, Firenze 1968. 4 Cfr. s. DEBENEDETTI (a cura di), I frammenti autografi dell’Orlando Furioso, Torino 1937; G. CONTINI, Come lavorava l’Ariosto cit. 1 Per il quale cfr. soprattutto A. oLDcoRrN, The Textual Problems of Tasso's “Gerusalemme Conquistata”, Ravenna 1976, pp. 18-22. 2 Cfr. una riproduzione in E. BONORA, Torquato Tasso, in E. CECCHI e N. SAPEGNO (a cura di), Storia della letteratura italiana, IV. Il Cinquecento, Milano 1966, p. 762 (a confronto con altra dal ms della Conquistata). 3 Cfr. a. oLncorNn, The Textual Problems cit., p. 35. Ibid., a p. 21, un’efficace descrizione dell’opera di autoscrittura; e ancora, a pp. 99-179, una diffusa analisi dell’incerta e oscillante ortografia.
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perflui. Qui «il rapporto di scrittura» autografo si risolve in una vera e propria debdcle espressiva, la scrittura e la riscrittura esasperate si rovesciano in una disperata impotentia scribendi, che sarebbe stata risolta soltanto da un intervento esterno, quello, appunto, dell’Ingegneri, che avrebbe allestito l’esemplare per l’edizione del 1593 ‘. Nel grande secolo del libro barocco, nel Seicento, il libro a stampa europeo seppe rinnovare formati e aspetto, struttura e articolazione, illustrazione e, in parte almeno, caratteri. Soprattutto importanti appaiono le innovazioni allora introdotte non tanto nel libro letterario, quanto in quello appartenente a settori fino ad allora marginali delle produzione editoriale, ma destinati a guadagnare gradualmente spazio e importanza: la cultura musicale, quella artisticoarcheologica, quella teatrale, quella scientifica. Qui, per esigenze particolari di esposizione e di comprensione, occorreva di volta in volta disegnare la mappa della singola edizione, studiare i rapporti fra antiporta e frontespizio, fra illustrazioni a piena pagina, vignette e testo, fra parti incise e parti tipografiche”. In questo gioco complesso accanto all’editore, al tipografo, all’incisore riprese, almeno in alcuni momenti ed episodi, spazio e responsabilità l’autore, il quale soltanto, nei casi più complicati, poteva guidare l’opera di strutturazione del prodotto, riconoscere i punti di incrocio fra le varie componenti, mantenere l’equilibrio generale fra i vari elementi. Ciò accadde, con ogni evidenza, pet Galileo, il quale preparava i manoscritti delle sue opere con i disegni inseriti esattamente al loro posto, prevedendone disposizioni e misure in un preciso, didascalico rapporto con il testo. Eppure proprio su di un’opera di Galileo, Il Saggiatore, edito a Roma dall'Accademia dei Lincei nel 1623, si esercitò in modo pesante l’intervento del potere editoriale e del cieco arbitrio tipografico, col risultato di stravolgere e corrompere il testo in più punti, contro la volontà dell’autore e fuori di ogni suo potere di intervento. La cura della stampa, affidata dal linceo Virginio Cesarini a Tommaso Stigliani, si risolse in notevoli interventi correttivi, non controllati da alcuno e totalmente arbitrari, a cui il tipografo aggiunse di suo molti svarioni; Galileo in una sua Nota di errori, fatta stampare a Firenze e da aggiungersi agli esemplari ormai impressi, contò ben duecentonove errori; altri ne enumerò in esemplari da lui postillati a mano. Ma gli editori, cioè i colleghi lincei, pur dolendosi dell’incidente, non inserirono nei volumi pronti l’elenco di errata corrige procurato dall’autore, bensi un altro, più contenuto, di sole centotrentasei voci, allestito dal Cesarini, che evidentemente aveva dovuto tener conto delle sdegnate proteste del censore Stigliani, il quale rivendicava l’opportunità e la correttezza del proprio intervento ‘. 4 Cfr. ibid., pp. 9-13. 5 Si vedano alcune osservazioni sull’argomento in A. PETRUCCI, La scrittura fra ideologia e rappresentazione, in F. ZERI (a cura di), Storia dell’arte italiana: IX/r. Grafica e immagine, Torino
1980, PP. 49-54. ° La vicenda galileiana è narrata da A. Favato nell’avvertimento al volume VI di 6. caLILEI, Le Opere, edizione nazionale a cura di A. Favaro e I. Del Lungo, Firenze 1896, pp. 13-18; ma si vedano anche le numerose lettere scambiate a questo proposito fra Galileo ed altri Lincei romani nel corso del 1623, ibid., XIII, Firenze 1903, pp. 110, III, 113, 115, 117, 121, 126, 129.
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Nella prima metà del Settecento si svolse la triste, affannosa, ininterrotta vicenda del processo compositivo della Scienza nuova di Giambattista Vico, che si trascinò dai primi anni ’20 sino all’edizione ultima del 1744. Si tratta di un evento talmente prolungato nel tempo e talmente frammentato nelle sue plurime manifestazioni, che è praticamente impossibile documentarlo visivamente in modo integrale: alcune delle fasi, infatti, sono andate disperse o distrutte. La furia compositiva del Vico si esercitò contemporaneamente sulle stampe, con aggiunte e correzioni, e sui manoscritti, con stesure sostitutive o
aggiuntive. Importanti, e significativi, appaiono in questa vicenda soprattutto gli interventi sulle stampe e gli avvertimenti al tipografo che precedono le fitte, accurate stesure manoscritte; in quanto documentano un rapporto ne-
vrotico e irreale con la produzione editoriale moderna, un rifiuto radicale delle scansioni definitive rappresentate di volta in volta dalle edizioni, che il Vico superava non appena uscite alla luce per inseguire di nuovo il proprio testo, riscriverlo, a mano, ancora una volta, rincorrendo anche i singoli esemplari per correggervi a penna o con cedoline a stampa ora questo ora quel passo. E d’altra parte che il suo rapporto con la tipografia fosse negativo e infelice lo dimostrano le misere edizioni della sua opera maggiore, stampate in formato piccolo, con cattivi e minuti caratteri e carta di pessima qualità, la sua in-
capacità a trovare credito e denaro, l'impossibilità di procurarsi un mecenate. Se quello del Vico era un «rapporto di scrittura» bloccato e nello stesso tempo infinitamente prolungato dall’impatto con la stampa, continuamente agognata e continuamente rifiutata, quello, invece, di Giuseppe Parini incontrò difficoltà di estrinsecazione interne al processo compositivo stesso, che impedivano o ritardavano enormemente lo sbocco naturale della divulgazione pubblica. La prevaricazione che la stampa, con il suo inesorabile processo meccanico di riproduzione e con la temibile (e agognata insieme) diffusione in migliaia di esemplari, esercita naturalmente sul testo letterario, e su quello poetico in particolare, fu sentita vivamente come violenza, e perciò rifiutata, da molti, o almeno da alcuni scrittori: fra questi era certamente il Parini. Il cui processo compositivo, soprattutto intorno alle opere poetiche maggiori, le Odi e Il Giorno, praticamente non ebbe mai fine; e, a parte gli episodi giovanili per il poema e l’edizione incompleta del 1791 per le Odi, non trovò mai conclusioni riconosciute e rese pubbliche, e anzi rifuggi per natura dalla costrizione editoriale, preferendo la via lenta, nascosta e sicura della riproduzio-
ne manoscritta, ora autografa, e distinta da un evidente e specchiato ordine impaginativo, ora di segretario °. Giustamente, a proposito di questo singolare moto a ritroso, che dalla stampa tornava al manoscritto, l’Isella ha osservato: «In un periodo cosî lungo, culturalmente mobilissimo, il perfectumz, cioè quanto aveva già fatto e addirittura consegnato alle stampe, gli veniva di conî Cfr. B. cRoCE, Bibliografia vichiana, accresciuta e rielaborata da F. Nicolini, I, Napoli 1947, pp. 34-52; e anche A. VARVARO, Per l'edizione critica della «Scienza Nuova», in «Bollettino del Centro di studi vichiani », III (1973), pp. 5-66. 8 Cfr. L. caRETTI, Nota sul testo del «Giorno» del Parini, in «Studi di filologia italiana», IX
(1951), pp. 175-82.
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tinuo retrocesso ad irfectum, la fabbrica parzialmente innalzata gli si scomponeva in magazzino di materiali semilavorati usufruibili per un’altra fabbrica, uguale e sostanzialmente diversa». Nel corso del qual moto l’autografia riprendeva, a dispetto della stampa, una prevalenza di dominio e ristabiliva i suoi ininterrotti e indisturbati ritmi nell’alternanza pendolare della scrittura e della riscrittura. 9. L’età napoleonica e la successiva età della Restaurazione assistettero in Italia ad un graduale spostamento verso la Lombardia e in particolare verso Milano dell’attività editoriale e tipografica e delle aspettative dei letterati. Ciò avvenne nell’arco di due o al massimo tre decenni, in concomitanza con grandi rivolgimenti politici e con un notevole sviluppo dell’alfabetismo urbano e rurale; ma soprattutto in concomitanza con l’affermazione di nuovi e più moderni sistemi di stampa e di illustrazione del libro (la litografia) e con un più razionale organizzarsi della produzione editoriale in senso capitalistico '. Tutto ciò non poté non incidere sui rapporti fra editori e autori e in particolare anche su un diverso atteggiarsi del «rapporto di scrittura» dei singoli autori con i loro testi, più direttamente segnato dalle nuove e imperiose necessità dell’industria editoriale e, sull’altro versante, dalle urgenze economiche dello stesso letterato pubblicista. Da questo punto di vista Ugo Foscolo era assai più moderno del Parini, da cui pure non molti anni lo separavano. Letterato professionista (anche quando la sua professione ufficiale era altra), giornalista, corrispondente di riviste, egli in effetti ebbe le mani sporche d’inchiostro tipografico come pochi altri autori del suo tempo. Eppure l’autografia giocò nel suo processo di composizione un ruolo di grandissima importanza, che le carte conservate rivelano forse soltanto in parte. Già occorre distinguere fra le sue composizioni letterarie più occasionali, e perciò rapidamente consegnate alle stampe, e le altre, più gelosamente riservate al lento e graduale ritmo di accrescimento della personale manualità. Certo è che quest'uomo, trascinato da un ritmo di vita — e di produzione testuale — frenetico, seppe purtuttavia produrre indefessamente un enorme tesoro letterario sovrapponendo plurime recensioni autografe di ciascuno scritto. Negli anni dell’esilio particolari cure, e un estenuante lavoro elaborativo, furono da lui dedicati alla costruzione del poema Le Grazie ? e alla traduzione di Omero; a proposito della quale egli stesso rivelava come alle spalle del primo testo scritto di pugno ci fosse una lunga e tenace lavorazione «senza penna»: «Friggo, rifriggo, smacero, tormento in mille modi ogni verso fra me; poi li copio» ‘,cioè li fissava su carta, salvo poi a tornarvi sopra con correzioni, ) ? D. ISELLA, Introduzione all’edizione critica, da lui curata, di G. PARINI, I{ Giorzo, Milano-Napoli 1969, p. XVII. ! Cfr. su questo fenomeno m. BERENGO, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino 1980, pp. 1-8. ? Cfr. F. PAGLIAI, Prima redazione (fiorentina) dell’« Inno alle Grazie» di Ugo Foscolo, in «Studi di filologia italiana», XIX (1961), pp. 95-442. ? u. FoscoLo, Epistolario, VI. (1° aprile 1815 - 7 settembre 1816), a cura di G. Gambarin e F. Tropeano, in Opere, edizione nazionale, XIX, Firenze 1966, pp. 254-55.
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aggiunte, ripensamenti, di cui in particolare i fogli delle Grazie sono ricchissimi. Anche Leopardi inseguî più volte nel corso della sua vita il mito della nuova professione, del legame organico con l’industria editoriale, dello scrivere per stampare; ma gli riusci piuttosto l’inverso, di stampare, cioè, per scrivere e per riscrivere. Poiché in lui l’autografia, eccessiva e gratuita in età giovanissima, si alternò poi alle stampe, le quali vennero spesso a costituire il supporto per ulteriori interventi autografi di limatura e di aggiustamento dei testi già editi. D’altro canto in lui non pareva esserci opposizione totale fra scrittura a mano e scrittura a stampa, tanto i suoi autografi sono ordinati, lineari, chiaramente impaginati in una corsiva inclinata di esemplare controllo ‘; il che era — del resto — uso e costume diffuso in una società profondamente burocratizzata quale quella del primo Ottocento. Chi seppe, invece, almeno a proposito dell’opera sua maggiore, I promessi sposi, rovesciare il rapporto consueto, che vedeva l’autore dipendere in tutto e per tutto nei tempi e nei modi del suo lavoro di scrittura dal suo datore di lavoro, dall’editore cioè, fu appunto l’Alessandro Manzoni maturo e sicuro — al di là delle sue proprie nevrosi — leader della cultura letteraria lombarda dell’epoca. Nel lento e complesso processo di composizione del romanzo già la prima stesura autografa, del 1821-24, è scritta su una sola colonna, per lasciare, razionalmente e ordinatamente, spazio alle revisioni e ai ripensamenti; sfociati poi nella stesura del testo che, dopo il passaggio attraverso la fatica di un copista, fu quello della prima edizione del 1827. Questa, peraltro, servi di base alla grande revisione del 1827-28 e poi di nuovo del 1838-40, che portò all’edizione, famosissima, del 1840, pubblicata a dispense in più anni fra il 1840 e il 1842; a proposito della quale l’autore, divenuto editore di se stesso, riprese tutti i suoi diritti di arbitro dell’opera sua e coordinò l’azione del tipografo con quella degli illustratori in modo mirabile, creando, a distanza di secoli dai primi esempi, un nuovo caso di «libro d’autore», caratterizzato anche
dal prolungato ed estenuante intervento correttivo perseguito accanitamente sulle bozze e fino sui fogli di stampa tirati. Più o meno nei medesimi decenni degli episodi appena illustrati, ma in circostanze e con prospettive tutt’affatto diverse, si svolsero a Milano e a Roma le vicende letterarie di due burocrati minori dell’Italia contemporanea, Carlo Porta e Giuseppe Gioachino Belli. Il Porta, chiuso in un breve cerchio di conoscenze e di affetti, rimase sempre alieno da un rapporto diretto con la stampa e convogliò la sua attività compositiva in alcuni quaderni autografi, il primo dei quali, scritto fra il 1814 e il 1815, era denominato «solenne» e destinato al figlio Giuseppe; ma su di esso il poeta continuò ad affettuare correzioni e 4 Come appare evidente scorrendo i facsimili degli autografi in G. LEOPARDI, Canti, edizione critica e autografi a cura di D. De Robertis, Milano 1984; cfr. anche p. DE ROBERTIS, La data dei Canti leopardiani, in «La Bibliofilia», LXX (1968), pp. 143-64. 5 Per la lunga storia del romanzo manzoniano cfr. M. PARENTI, Manzoni editore. Storia di una celebre impresa manzoniana, Bergamo 1946; e soprattutto L. CARETTI, Rorzanzo di un romanzo (1971), in Antichi e moderni cit., pp. 251-70.
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mutamenti di non poco conto, lasciando invece all’amico ed editore Francesco Cherubini la gestione, variamente censoria, dell’editio princeps del 1817°.
Nella Roma pontificia il Belli non pensò mai all’edizione dei suoi sonetti; ché anzi, com’è noto, prima della morte una coerente volontà autocensoria lo spingeva alla distruzione totale dell’intera sua produzione in dialetto. Cosicché il suo processo compositivo si svolse interamente in un solitario rapporto autografico con foglietti più o meno di scarto ove egli, con la sua ordinata corsiva burocratica, veniva costruendo, con abilità retorica sorprendente, i suoi sapientissimi componimenti su elenchi di parole, appunti di idee, griglie di rime, ritornandovi sopra spesso in un vivace processo di smontamento e di riscrittura apparentemente fine a se stesso”. to. Il secondo Ottocento letterario fu dominato, in Italia — e forse non soltanto in Italia —, dalla figura del «professore» della nuova università statale unitaria '; una figura eminentemente borghese, socialmente rassicurante, moderatamente reazionaria, con alcune connotazioni di status e di costume ripetute e caratterizzanti: la grande biblioteca privata, lo studio austero, lo stuolo degli assistenti e degli allievi, i rapporti privilegiati con gli editori del settore o della zona. Se un letterato non era professore (anche liceale), aspirava almeno a diventarlo, come, nel Cinquecento, aveva aspirato a diventare chierico, sia per raggiungere l’agiatezza economica e un certo prestigio sociale, sia per
entrare nei meccanismi del potere culturale (e politico). Onde, dal nostro punto di vista, la scrittura dei professori e le loro abitudini grafiche eminentemente burocratiche divennero la scrittura e le abitudini grafiche dei letterati e dei poeti italiani. Per alcuni decenni, in Italia, la poesia e la letteratura si scrissero secondo pratiche grafiche proprie di una prefettura, sulla stessa carta e con la medesima impaginazione di un rapporto d’ufficio. Il che, del resto, rappresentava appunto il simbolo di un esercizio di potere, effettivo o sperato, che si manifestava in campo accademico e aspirava ad esercitarsi anche in campo più latamente culturale e in particolare editoriale. In effetti con gli anni ’80 del secolo scorso cominciò in Italia la scalata dei professori-letterati alle case editrici e insieme il loro rapporto conflittuale con esse, che rappresentò una fase nuova e diversa del «rapporto di scrittura», in alcuni casi almeno dominato dall’autore, trasformatosi — come Giosue Carducci — in manager editoriale di se stesso e della sua figura letteraria. Nel frattempo, mentre Carducci e Pascoli diffondevano le immagini rassi6 Cfr. D. ISELLA, Introduzione all’edizione critica, da lui cutata, di c. PORTA, Le Poesie, I, Firenze 1955, DD. VII-XX (sui manoscritti del poeta); pp. xx-xxx nell’introduzione all’editio princeps a cura del Cherubini (Milano 1817). ? Sul modo di costruire lentamente i propri sonetti caratteristico del poeta romano, cfr. ora le acute osservazione di R. MEROLLA, I/ laboratorio di Belli, Roma 1984, in particolare le pp. 76-88. ! Per un quadro complessivo della cultura italiana nel periodo postunitario cfr. A. ASOR ROSA, La cultura, in R. ROMANO e C. VIVANTI (a cura di), Storia d’Italia, IV/2. Dall’Unità a oggi, Torino 1975, Pp. 821-999; in particolare utili alcune osservazioni di 6. RAGONE, La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e dei modelli nell'editoria italiana (1845-1925), in A. ASOR ROSA (a cura di), Lefteratura italiana, Il cit., pp. 739-42.
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curanti della loro ordinata attività compositiva, svolta al riparo delle mura domestiche, distribuita, come quella del Pascoli, su più tavoli, non soltanto le tecniche tipografiche, ma anche quelle della scrittura a mano si modificavano nel senso di favorire la massima uniformità dello scritto garantita da mezzi prodotti industrialmente e perciò tendenzialmente identici fra loro. Primo passo era stato la sostituzione del pennino metallico alla penna di volatile, avvenuta già nei primi decenni del secolo; secondo passo fu l’introduzione nell’uso dagli anni ’80 in poi della penna stilografica con pennino fisso; e il tutto fu accompagnato dalla modificazione della carta, non più prodotta a base di stracci, ma di cellulosa, e da quella degli inchiostri, non pit fatti su base di sali metallici, ma di componenti chimici diversi. Nello stesso tempo, come ha rilevato Giovanni Ragone, in Italia il passaggio a una «cultura “industriale” » è segnato dall’aumento nettissimo dei titoli pubblicati, che passava dai 4243 del 1863 agli 8000 circa del 1898 fino agli r1 000 circa del 1914”, e dalla formazione di un nuovo pubblico di consumo, più vasto, più omogeneo e più europeo di quello preunitario. E nel 1914 un letterato attentissimo alle trasformazioni del mondo delle lettere come Renato Serra segnalava il nuovo sviluppo dell’industria editoriale italiana, che dava di che vivere a migliaia di intellettuali’. Analoghe, anzi più sviluppate situazioni di trasformazione in senso industriale della produzione culturale, provocavano per reazione nel medesimo periodo in altri paesi europei, e segnatamente in Gran Bretagna, un forte moto di rivalutazione della scrittura manuale e dei suoi valori estetici, e contem-
poraneamente del valore del «libro autografo d’autore» come paradigma e modello della produzione libraria e della lettura. Si tratta di un movimento legato in Inghilterra alle figure di William Morris e di Edward Johnston, che portò alla rinascita di una vera e propria educazione calligrafica in senso rinascimentale nei paesi anglosassoni, ancora oggi viva e attiva. Anche in Italia una reazione in questo senso ci fu; ma fu sporadica e non organizzata, ed ebbe spesso esiti individuali di tipo moderato e reazionario ‘. L'unico letterato che seppe cogliere qualcosa di questo moto internazionale, e del gusto artistico liberty che lo accompagnò, fu il più europeo e nello stesso tempo il più spregiudicatamente «industriale» di tutti icontemporanei colleghi italiani: Gabriele D’Annunzio. I suoi rapporti con gli editori, con i tipografi, con gli illustratori delle sue opere appartengono alla storia del gusto letterario italiano del primo Novecento; ma ancora più importante appare essere il ruolo di grande rilievo che D'Annunzio, quasi a chiudere la stagione dello scrivere «burocratico», volle dare all’autografia e alle sue potenzialità estetiche. La sua grande scrittura, fortemente personalizzata, enfatica, ricca di elementi ornamentali, le sue manie per le carte e per gli inchiostri di qualità, entrarono nella mitologia del letterato e nutrirono i sogni e le innocenti masturbazioni testuali di migliaia di let2 Ibid., pp. 718-21 e 750. 3 Cfr. r. SERRA, Le lettere, Ancona 1914, pp. 9-18. 4 Cfr. ancora G. RAGONE, La letteratura e il consumo cit., pp. 762-63. TI
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terati di provincia. Ma non per questo D’Annunzio, che pure godeva di un altissimo potere contrattuale, seppe o volle far prevalere un suo progetto di nuova creatività grafica nel quotidiano rapporto con l’industria editoriale; poiché questo rapporto rimase in lui sostanzialmente economico, con l’unica garanzia di un comunque alto livello esecutivo sul piano tecnico *. tI. Il caso D'Annunzio dimostrò che, anche se sostanziata da un reale interesse grafico-librario, nella costrizione di un rapporto fondato su presupposti economici l’esperienza dell’autore non poteva influenzare in modo sostanziale gli orientamenti dell’industria libraria. La scrittura tipografica e il libro industriale, infatti, potevano essere modificati soltanto da un rinnovamento su base estetica della scrittura manuale e, contemporaneamente, da una nuova valorizzazione del processo di autosctittura, che si svolgessero al di fuori degli schemi lineari e funzionali della scrittura burocratica propria ai letterati del secondo Ottocento. Tutto ciò si verificò anche in Italia, sia pure con qualche ritardo rispetto alle altre culture europee e nordamericane, con il futurismo, che sperimentalmente confermò (come già aveva fatto, sia pure in modi diversi, il liberty) che la scrittura in sé poteva riacquistare un suo proprio e assoluto valore espressivo sul piano figurale, come puro complesso di segni; quindi che di questo valore espressivo premessa essenziale era la rottura dello schema lineare dello scritto; e infine che tali innovazioni, proprie e naturali nella scrittura manuale, potevano essere trasferite anche in quella tipografica, e cambiare con ciò la faccia stessa del libro. La scrittura in libertà, le tavole parolibere, l’uso di caratteri diversi e di più inchiostri colorati nella medesima pagina e altre innovazioni tecniche proprie del movimento futurista modificarono profondamente la cultura grafica italiana del primo Novecento, sia nel campo della produzione libraria, sia in quel. lo della produzione periodica e della cartellonistica. Ma tutte queste novità significarono anche che almeno nei settori di avanguardia della cultura letteraria italiana, per un breve periodo e per circostanziati episodi, la scrittura manuale riprese una certa egemonia estetica rispetto a quella tipografica; e ciò ebbe qualche conseguenza anche sui meccanismi novecenteschi del « rapporto di scrittura», rafforzando, soprattutto in campo poetico, la pratica e il gusto dell’autoscrittura. E tutto ciò accadeva proprio mentre sul tavolo di lavoro dell’intellettuale comparivano e si diffondevano rapidamente, per suggestione anglosassone e giornalistica, le macchine per scrivere. La macchina per scrivere da un lato semplificò e rese più facile e rapido il processo compositivo; dall’altro ne meccanizzò, uniformò e appiatti almeno alcune fasi, quelle, soprattutto, finali, dell’allestimento dell’esemplare per la stampa, spesso delegate all’opera anonima e puramente tecnica del dattilograÈ Sulla scrittura e sul libro dannunziani nell’ambito della grafica liberty italiana, cfr. alcune osservazioni in A. PETRUCCI, La scrittura fra ideologia e rappresentazione cit., pp. 85-87. 1 Per questo cfr. ibid., pp. 88-91.
La scrittura del testo
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fo. A volte, addirittura (e qui la suggestione giornalistica fu prevalente) essa si sostituf completamente alla scrittura manuale, in tutte le fasi della composizione, venendo a costituire una nuova e meccanica forma di autografia, e con ciò un nuovo aspetto e una nuova fase del «rapporto di scrittura». L’autoscrittura manuale rimaneva comunque essenziale nella vicenda compositiva di alcuni fra i maggiori letterati italiani del Novecento. Ciò avvenne sia in una interpretazione lineare e geometrica del fatto scrittorio, con aggiustamenti e spostamenti di blocchi o parti di testo, come in Gadda”, sia, invece, in modo tutt’affatto opposto, di caotica occupazione dello spazio scrittorio, come in Ungaretti.
Il «rapporto di scrittura» vissuto da Ungaretti nella lunga pratica di perenne elaborazione di un unico testo poetico, risentî, sul piano grafico, della rottura della linearità propria del futurismo. La sua geometria compositiva è erratica, i suoi testi si dispongono sul foglio per aggregazione stellare. Il contatto diretto con la materia scrittoria appare in lui elemento essenziale del processo compositivo, in quanto lo spazio scrittorio si configura di per sé come luogo dell’espressione poetica. In esso, infatti, attraverso disposizioni « esplose» apparentemente causali di motivi, di frasi, di spunti, a volte di parole, il flusso poetico prende materialmente corpo, materialmente si aggrega e si dispiega; ma può essere dissolto e ricomposto altrove, attraverso l’ininterrotta opera ricostruttrice della mano scrivente”. Più complesso forse, e nello stesso tempo più fermamente controllato, era il rapporto di scrittura in Montale, ove autoscrittura manuale e autoscrittura meccanica usavano alternarsi. Il suo processo compositivo si sviluppava su fo-
gli di recupero, su carta di infima qualità, per poi aggregarsi in quaderni di copie in pulito, su cui la volontà correttiva tornava a farsi viva, come sui dattiloscritti, anch’essi gradualmente postillati e stravolti da a volte radicali interventi correttivi. Il tutto restava comunque segnato da un tono complessivo di ritrosia e di modestia grafiche, che rendeva sempre discreta l’azione della penna e appena visibile, in alcuni casi, il rameggio sottile della minuta scrittura sui bordi ‘.
12. Grande sostenitore della pratica manuale nel processo espressivo è stato, per tutta la sua lunghissima attività letteraria, il rondiano Riccardo Bacchelli, che aveva alle spalle le esperienze neoclassiche della rivista color mat2 Sulle strategie scrittorie del quale una relazione (relativa in particolare al processo compositivo della Cognizione del dolore) è stata tenuta da E. Manzotti nel corso di un convegno su Gadda svoltosi presso il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Roma I «La Sapienza» fra il 25 e il 27 ottobre del 1984. 3 Per la meccanica del processo elaborativo ungarettiano cfr. le appropriate analisi di p. DE ROBERTIS, Per l’edizione critica del « Dolore» di Giuseppe Ungaretti, in «Studi di filologia italiana», XXXVIII (1980), pp. 309-23 (in particolare alle pp. 309-10); e anche le osservazioni di c. MAGGI ROmano, Introduzione all’edizione critica, da lui curata, di G. UNGARETTI, L’Allegria, Milano 1982, DD. XI, XX. 4 Un’esatta analisi degli autografi montaliani e della loro tipologia in M. CORTI e M. A. GRIGNANI o cura reiAutografi di Montale. Fondo dell’Università di Pavia, Torino 1976, pp. 43-77 (catalogo escrittivo).
306
Atmando Petrucci
tone, il suo gusto per le impaginazioni rigorose. E d’altra parte nella società letteraria italiana del secondo quarto del Novecento venne via via crescendo il gusto — e il culto — per gli autografi letterari, e perciò da parte dei professionisti stessi l’uso delle copie buone e bene scritte da donare agli amici e ai critici e da far circolare prima e dopo la pubblicazione. Ne è testimonianza — una fra le tante — l’album contenente la riproduzione in facsimile degli autografi di quarantatre poesie di altrettanti poeti italiani di questo secolo, viventi e no, da Cesare Pascarella a Mario Luzi, curato e presentato nel 1947 da Enrico Falqui‘; secondo il quale la raccolta non avrebbe dovuto consistere in « esemplari di calligrafia», ma piuttosto nella « documentazione viva di una voce e di uno stile, che comunemente si è soliti riconoscere nel travestimento e nel distacco
tipografico » °. Ma ciò è vero soltanto in minima parte, perché in quasi tutti i casi si tratta di copie definitive e ben curate, testimonianze dunque non del travaglio creativo di ciascuno degli scriventi, ma piuttosto di un gusto, o meglio di una moda, quella appunto della ripetizione e circolazione letteraria degli autografi poetici che pure ha rappresentato e rappresenta (?) qualcosa nel panorama culturale italiano del secolo. i Alla moda letteraria, infatti, si è oggi aggiunta o forse addirittura sostituita la filologia, per via di quei nessi piti o meno segreti che legano fra loro i due settori culturali, e che, come si diceva sopra, andrebbero meglio indagati in una prospettiva storica, anche se di storia vicina. E in alcuni, o forse molti, luoghi della penisola istituzioni pubbliche (biblioteche, università) provvedono a costituire fondi di autografi letterari contemporanei a imitazione di quello, ormai celebre, fondato anni fa presso l’Università di Pavia da Maria Corti *, e di cui ci siamo avvalsi nel costruire questa nostra ideale galleria autografica. Nella ricca articolazione delle fasi manoscritte e nella costituzione delle «raccolte di riferimento» Montale ripeteva, inconsapevolmente, un paradigma compositivo antico, quello petrarchesco; ma la sua discrezione grafica e la modestia del suo apparato scrittorio costituirono una novità, indicarono, se non m’inganno, un’inversione di tendenza.
Almeno in alcuni casi, o settori, dell’attività letteraria, l’autografia infatti, dal dopoguerra in poi, si riconobbe anche in pratiche sommesse, si manifestò
anche attraverso materie e strumenti modesti, se non addirittura poveri; si ha
quasi l'impressione che l’artigianato della parola venisse in tal modo lentamente riconoscendo e ricostruendo in modi nuovi i suoi percorsi e i suoi processi produttivi; gli spogli autografi di Pasolini, i poveri quaderni di Beppe Fenoglio sarebbero in tale prospettiva un sintomo e una prova di tale novità e dei rifiuti che la sostanziano. Ma altri e più profondi rivolgimenti vengono oggi a stravolgere il «rapporto di scrittura», dominato ormai dagli impulsi elettronici. Dopo il computer nulla sarà più come prima, nel campo del libro e della scrittura manuale. Lettori e scrittori debbono saperlo. 1 Cfr. E. FALQUI (a cura di), Autografi di alcuni poeti italiani contemporanei, Roma 1947. 2 Ibid.,p.2n.n. * Per il quale cfr. ora G. FERRETTI, M. A. GRIGNANI e M. P. MUSATTI (a cura di), Fondo manoscritti di autori contemporanei [dell \Università di Pavia. Catalogo, Torino 1982.
La scrittura del testo
307
13. Inuna sua noterella di diario del 1960 Gianandrea Gavazzeni si interrogava cosî sul mutare delle pratiche scrittorie contemporanee: Si osserva la disagevole trasformazione delle penne da scrivere? Toccò a Bacchelli, fedele al vecchio e illustre pennino, lamentarne la scomparsa, al punto da indurlo a farne incetta e scorta durevole per una lunga vita. Ora anche le stilografiche mutano? Introvabili le Waterman, propizie alla scrittura dolce, spianata, fluida e all’inchiostrazione. Sono in uso pennini aguzzi, secchi; influenti
sui nervi e dunque sull’attitudine di chi scrive. Non soltanto: dilagano le cosiddette «biro» come stadio di ultimo disagio alla serenità scritturale. Persino i ragazzi alle scuole vengono addestrati con codesti aggeggi. Potrà ancora uscirne lo stimolo alla ricerca stilistica, al linguaggio meditato? E dopo questa, quale altra mala fantasia fabbricatrice concellerà del tutto l’istintivo desiderio di scrittura? !.
Oggi la «mala fantasia fabbricatrice» paventata dal colto musicista e musicologo bergamasco si è realizzata: l’uso del personal computer per l’attività compositiva di giornalisti, di letterati, perfino di poeti è una realtà sempre più largamente diffusa e costituisce una modificazione radicale del tradizionale «rapporto di scrittura» fra autore e testo. Non tanto perché al processo manuale si è sostituito quello degli impulsi elettronici: già la dattilografia, infatti, aveva sostituito un fatto meccanico alla scrittura manuale; e neppure perché alla carta si è sostituito, almeno in prima stesura, lo schermo, perché la macchina stessa è in grado di offrire un testo scritto su carta; ma piuttosto perché nella composizione del testo elettronico e nel successivo procedimento di correzione si perde la possibilità di conservare le lezioni modificate e le recensioni precedenti all’ultima scritta; perché, insomma, il testo, tradotto implacabilmente e impeccabilmente dalla macchina in un’unica dimensione, perde di spessore e di memoria; e cosî, per pura e semplice assenza di oggetto, perde anche ogni possibilità di intervento la «filologia degli scartafacci». Onde, secondo il naturale legame che si rilevava prima, finisce per modificarsi non soltanto la pratica letteraria della riscrittura, ma anche la prospettiva critica che ad essa si è per qualche tempo accompagnata. Ma è vero anche che le nuove tecnologie sembrano aver reintrodotto nel gioco della creazione del testo e della sua fissazione per iscritto il ruolo preminente dell’autore. Mercé esse, infatti, l’autore, eliminata la mediazione tipografica, diviene di nuovo scrittore e impaginatore del proprio testo, che può agevolmente manipolare, modificare, ristrutturare, al di là di ogni condizionamento esterno di natura tecnica o produttiva. Attraverso il controllo e l’uso diretto dei procedimenti fotocompositivi egli potrebbe, almeno in teoria, di nuovo elaborare direttamente il suo libro secondo i suoi progetti e il suo gusto, tagliare insomma e costruire il suo proprio «libro d’autore» nelle forme, nei modi, secondo il modello che volesse far giungere direttamente fra le mani del pubblico. 1 G. GAVAZZENI, Carta da musica, Milano 1968, p. 71.
308
La scrittura del testo
Tutto ciò è naturalmente possibile, ma soltanto in una prospettiva puramente tecnologica, perciò profondamente irreale. Lascia infatti dubbiosi la constatazione che nel frattempo il potere reale (economico e politico) degli elaboratori di testi non è aumentato, ma semmai diminuito; cosicché è facile prevedere che la apparente libertà di tastiera e di composizione non potrà estrinsecarsi oltre certi limiti e che essa troverà sempre molti ostacoli lungo il suo cammino. Che il «rapporto di scrittura», insomma, resterà anche in futuro inevitabilmente sottoposto alle leggi del profitto altrui e del mercato; e che il potere di censura troverà, o ha già trovato, un’altra strozzatura del circuito produttivo e/o distributivo ove insediarsi con forze intatte: al di qua o al di là delle tastiere e degli schermi apparentemente resi liberi da una «innocente » e «neutrale» rivoluzione tecnologica.
Da Francesco da Barberino a Eugenio Montale
Nota alle illustrazioni.
La scelta delle testimonianze qui di seguito riprodotte avrebbe potuto essere, naturalmente, almeno in parte diversa. Essa in effetti è stata determinata sia dalla adattabilità, per varie ragioni, degli esempi prescelti alla presentazione in questa sede, sia dal fatto che essi rappresentano tutti fasi significative nelle vicende alterne del «rapporto di scrittura» che ha legato nel tempo e lega tuttora gli autori ai propri testi; inoltre esigenze tecniche di riproducibilità e leggibilità e condizionamenti esterni hanno ulteriormente ridotto la scelta. Si è volutamente rinunciato alla possibilità di esibire anche la trascrizione dei testi riprodotti, che avrebbe enormemente appesantito l'inserto, preferendo, per citare un’espressione recente e felice di Domenico De Robertis, lasciare «la documentazione manoscritta alla sua semplice e insieme fervida evidenza » !. Le didascalie si limitano a fornire l’identificazione della testimonianza, una sua breve illustrazione e il richiamo al brano di testo riprodotto in una edizione critica o autorevole recente, per permetterne a chiunque la lettura. AND,
1 D. DE ROBERTIS, Introduzione a G. LEOPARDI, Canti, edizione critica e autografi, a cura di D. De Robertis, Milano 1984, p. xxIv.
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Barb. lat. 4077, Cc. 357.
È la stesura provvisoria e parzialmente autografa del testo poetico italiano corredata dal medesimo autore di disegni colorati destinati a costituire il modello per le miniature dell’esemplare definitivo. Sul testo Francesco è intervenuto eradendo e riscrivendo tre versi. Cfr. Francesco da Barberino, I Documenti d'Amore... secondo i manoscritti originali, a cura di F. Egidi, II, Roma 1912, pp. 154-59.
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4. Francesco Petrarca, Sonetti CLIX, CLVI, CLI, CL del Canzoniere. stolica Vaticana, ms Vat. lat. 3196, c. 5v.
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Città del Vaticano, Biblioteca Apo-
Trascrizione autografa provvisoria di un gruppo di sonetti con data 9 aprile 1359 nella facciata non riprodotta e con data 8 ottobre 1359 in questa. I sonetti di questa facciata furono progressivamente copiati in tre tempi: prima il CLIX, quindi il CLVI (a c. 3v del medesimo manoscritto ne esiste una seconda redazione), infine, insieme, gli altri due. In momenti diversi il Petrarca li sottopose tutti ad un’attenta opera di revisione, con sostituzioni di parti, depennamenti e riscritture interlineari e marginali, prima di trascriverli in altra raccolta (cfr. le note tr(anscriptum) a fianco del primo e in testa al terzo e al quarto sonetto). Cfr. A. Romanò, I/ Codice degli Abbozzi (Vat. Lat. 3196) di Francesco Petrarca, Roma
1955, PP. 79-80, 105-13.
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5. Francesco Petrarca, Sonetti CCXLIV, CCXLV, CCXLVI Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Vat. lat. 3195, Cc. 477.
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del Canzoniere.
Città del Vaticano,
Si tratta di una pagina del cosiddetto «originale» del Canzoniere scritto in parte dal copista e allievo del Petrarca Giovanni Malpaghini fra il 1366 e il 1367 e completato quindi dal poeta; questa facciata fu dal Petrarca scritta a più riprese fra il 1373 e il 1374, anno della morte. Com'è evidente, il poeta interviene più volte e decisamente sulla pagina già scritta con rasure, correzioni, rifacimenti, riscritture integrali, come nel caso del terzo sonetto, vergato su altro completamente eraso. Cfr. F. Petrarca, I/- Canzoniere... riprodotto letteralmente dal cod. Vat. Lat. 3195, a cuta di E. Modigliani, Roma 1904, p. 109.
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6. Francesco Petrarca, Trionfo dell’Eternità, vv. 1-39. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana ms Vat. lat. 3196, c. 197.
Nel gennaio del 1374, otmai prossimo alla morte (che lo colse il 18 luglio), il poeta inizia su questo foglio cartaceo la stesura dell’«ultimus cantus» del suo poema, come specifica l’annotazione cronologica apposta nel margine superiore: «1374 dominico ante cenam 25 ianuarii, ultimus cantus». Ricca di correzioni, di depennamenti, di spostamenti, di annotazioni («attende in eo» ripetuta due volte), la pagina restituisce il travaglio compositivo del poeta settantenne, nella prima delineazione scritta del testo. Cfr. A. Romanò, Il Codice degli Abbozzi (Vat. Lat. 3196) di Francesco Petrarca, Roma
1955, PP. 273-87.
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7. Giovanni Boccaccio, Decameron, II giornata, nov. VIII. Berlino, Deutsche Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, ms Hamilton 90, c. 277.
In questa pagina del tardo autografo berlinese è dato di individuare alcune delle caratteristiche della prassi scrittoria del Boccaccio: l’allineamento incerto e la fittezza delle righe, la toccatura di giallo delle maiuscole, e soprattutto la variante apposta con tratto sottile, a penna rovesciata, nel margine esterno («fuggendo ») in contrapposizione con la lezione del testo («fuggito»), peraltro non depennata. Cfr. G. Boccaccio, Il Decameron, a cura di A. Rossi, Bologna 1977, pp. 126-28.
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Giovanni Boccaccio, Decameron, VII giornata, nov. IX. Berlino, Deutsche Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, ms Hamilton 90, c. 80v.
Nella fitta trama della pagina autografa, appena mossa dalle toccature delle maiuscole e dai numerosi segni di punteggiatura, spiccano nei margini le due correzioni apposte in tempi diversi: la prima (« pit») nella colonna di sinistra con la medesima tecnica di scrittura del testo, di cui costituisce un immediato completamento; la seconda («queste»), eseguita a penna rovesciata in un secorìdo tempo, rappresenta invece una variante rispetto al «nostre » del testo. Cfr. G. Boccaccio, Il Decameron, a cura di A. Rossi, Bologna 1977, pp. 397-99.
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Leon Battista Alberti, I libri della famiglia, inizio del libro I. Firenze, Biblioteca Nazionale
Centrale,
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In questo codice, eseguito per lui da quattro copisti, l’Alberti è intervenuto con una continua e minuta opera di correzione, revisione, integrazione ed ampliamento, che si è svolta nel tempo mediante depennamenti, aggiunte marginali ed interlineari, riscritture su rasura, oltre ad aggiunte maggiori e minori disposte ordinatamente nei margini. Cfr. L. B. Alberti, Opere volgari, I. I libri della Famiglia. Cena Familiaris. Villa, a cura di C. Grayson, Bari 1960, pp. 13-14.
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Biblioteca della Fondazione
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Si tratta del manoscritto interamente autografo della seconda «centuria» di osservazioni e dissertazioni filologiche elaborata dal Poliziano fra il 1493 e il 1494 e lasciata interrotta a metà citca per la morte. Le cc. 90-11 contengono l’elaborazione veloce ed insieme lucidissima di una trattazione sull’esistenza, sulle testimonianze e sul significato della parola greca synderesis. La scrittura corrente e nervosa, i depennamenti insistiti, le fitte correzioni interlineari rivelano appieno il graduale formarsi di una riflessione sulle parole e sugli autori che va ben al di là del dato puramente lessicale. Cfr. A. Poliziano, Miscellaneorum centuria secunda, edizione critica a cura di V. Branca e M. Pastore Stocchi, Firenze 1972, III, pp. 20-21; IV, pp. 13-14.
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Giovanni Pontano, Tuzzzli. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Vat. lat. 2842, c. 36r.
In questo manoscritto autografo delle sue poesie funerarie il Pontano è intervenuto con decisione estrema, anche se in tempi diversi, ora eradendo, ora ripassando, ora aggiungendo e inserendo, ora depennando; la pagina tormentata dai ripensamenti dell’autore mantiene nonostante tutto il suo primitivo elegante equilibrio compositivo. Cfr. G. Pontano, Carzzina: ecloghe, elegie, liriche, a cura di J. Oeschger, Bari 1948, p. 255,
VV. 3-24.
12.
Baldassarre Castiglione, I/ Cortegiano. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Vat. lat.
8204, c. 18r.
Si tratta del codice che conserva una copia di lavoro della prima elaborazione, posteriore alla preliminare stesura autografa degli abbozzi di casa Castiglione; è opera di amanuense, ma con frequenti interventi autografi dell’autore su fogli aggiunti (come questo), con cot- . rezioni e ripensamenti. Cfr. B. Castiglione; I/ libro del cortegiano, a cura di V. Cian, Firenze 1947‘, p. 19.
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Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano.
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Vat. lat.
8205, Cc. 42r.
È questo un codice opera di pit copisti contenente la stesura integrale dell’opera, con alcuni interventi marginali aggiuntivi e correttivi sia di mano dell’autore (come in questa pagina), sia di mani altrui. Cfr. B. Castiglione, La seconda redazione del « Cortegiano », a cura di G. Ghinassi, Firenze
1968, p. 44.
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14. Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Vat. lat. 8206, c. CLI 7.
A quattro amanuensi il Castiglione affidò il compito di ricopiare in pulito il ms Vat. lat. 8205; ma anche su questa copia egli intervenne con una nuova opera di revisione, sia pure limitata, comprendente depennamenti, piccole integrazioni, ritocchi formali. Cfr. B. Castiglione, La seconda redazione del « Cortegiano », a cura di G. Ghinassi, Firenze 1968, pp. 123-24.
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«tangibili veloci.
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opaco; perfpicui eni. qua fiumi ;.o illuminarfi? io (e così
fopra | farger fiaccola fiaccola) ofa. i cofa. : experimentum experimentis . cocludéteméte concludente nota noto . «dice dico fuoghi: ; funghi .» partes parte volaciffimi voraciflimi cupi capi ‘exuerit ‘. “exuerint
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querelam
falfa iuftam — querelarum
Gl’altri errori ( & in particolare nel virgolare , epunteggiare ) che fono molti,
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Galileo Galilei, Il Saggiatore,
Roma
Centrale, Pal. C. 6.2.13, c. finale n. n. v.
1623, Nota di errori agg. in fine. Firenze, Biblioteca Nazionale
Anche la Nota di errori compilata dall’autore era imperfetta; e lo stesso Galileo procurò di completarla nei limiti del possibile in alcuni esemplari con la sua ordinata scrittura.
*
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POETICA
Fazio: egli Arcadi,eì Frigj vi vanno per tare to tempo. vagabondi , finchè fi ripararono finale mente all’ Afilo di Romolo . Come da dresdia,. terramediterranea di Grecia, pafforò, che per
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sartira non fanno: cola fa mare, ne valicarono: tento. tratto, € penetrano in mezzo del Lazio; quando 4nco:Marzie, terzo Re dopo Romo!>, fu primo, [email protected] Colonia quat
tempò, che rali Tradizioni barbara s’ eran°g4lter ate, e finalmente corrotte, equal Enea , o commene Trojani divenne. Fonda». tore della Romana: Gentef. E. peri due,dorie diverfe , una de” Greci,.che per lo Mon» do fecero tanto rumore. della. Guerra di.Trojas,
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l’altra de’ Romani di vantare famofifi ma Mraniera,: origine, i Greci v’intrifero, ei Romani vi riceurt
fini! Mano:
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Tralid®© Critica fopra gli Serittori troppo fcieperata che da tali principî incomincia, a giudi-
“> Ma: pute., come più volte abbiam detto ‘ peruna delle Degnità foprapofte 5 quete Tradiavere’ de’ Wovettero da i zioni: Folgari è 1 ha conaudi pubbliti motivi diwerità } |
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diverfe . Certamenti
@mero non: ha dato loro l’ occafione di ral car
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Enea il ritruova avervi. fondato un potente regno s talchè dovette ménarvi una Colonia Erod:
tanto tem polffibnisrione Nazione . Che perte ferva
dunque ? Bifogna dire”, che aleuna Città Greca altre,
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Saffe itata mel lido del Lazio, comé tante del vene furono, e duraron’ appreffo ne? lidi Legge mar Tinsenggila qual Città innanzi della vittorie delle eroico diritto delle x1s. Tavoleper barbare fuffe ftara demo! ita, ei vinti ricevuti in 36 n nalità di Socj Eroici MA
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23. Giambattista Vico, De’ principj d’una scienza nuova, Napoli 1730, pp. 350-51. Napoli, Biblioteca Nazionale, XIII, H, 58 (esemplare con correzioni e aggiunte autografe).
Fra il Natale del 1729 e il marzo del 1730 il Vico riscrisse interamente la cosiddetta Scienza nuova seconda, che fu stampata a Napoli fra il luglio e il dicembre del 1730 stesso. Ma immediatamente l’irrequieto filosofo riprese a correggere ed ampliare il testo, adoperando più esemplari a stampa come minute; in questa copia i margini sono costellati di integrazioni, ripensamenti, mutamenti anche minuti, testimoni di un travaglio che confluirà poi nelle Correzioni terminate nell’agosto del 1731.
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1820). Napoli,
Lo stesso Leopardi in testa a questa pagina iniziale riassume la storia della canzone e ne fornisce le date essenziali. Ma sulla prima edizione ritorna decisamente, non soltanto con correzioni e varianti di rilievo, bensf anche con note esplicative, evidentemente in preparazione dell’edizione Canzoni del conte Giacomo Leopardi, che sarebbe uscita nel 1824 a Bologna. Cfr. G. Leopardi, Canti, edizione critica e autografi, a cura diD.De Robertis, Milano 1984, | I,pp. 29-30; II, p. or.
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Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’ Asia, vv. 11-31. Napoli, Biblioteca Nazionale, Autografi Leopardiani, XIII, 25, p. 2.
L’elaborazione poetica del Leopardi era lenta e progressiva; qui, al termine di un lungo processo durato dall’ottobre del 1829 all’aprile del 1830, siamo di fronte ad un momento di riflessione e di ritocco puntuale rispetto ad un testo già completo e trascritto in pulito, su cui il poeta interviene con ordinate correzioni interlineari o con varianti alternative disposte nel margine e non risolte, rispetto alle quali soltanto l’edizione del 1831 fornirà la scelta definitiva.
Cfr. G. Leopardi, Car, edizione critica e autografi, a cura di D. De Robertis, Milano 1984, I, pp. 181-82; II,p. 434.
30. Alessandro Manzoni, Ferzzo e Lucia, cap. 1. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Sala Manzoniana, Vetrina XI, 1, c. 9r.
Ecco la pagina d’apertura del primo abbozzo del più noto romanzo della letteratura italiana, ordinatamente iniziato su fogli scritti soltanto a metà, secondo il coevo uso burocratico, e preceduto dalla data: «24 aprile 1821»; ma poi vivacemente corretto e trasformato da successivi interventi, che dànno il via ad una lunga vicenda di mutazioni durata più di vent’anni. i Cfr. A. Manzoni, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, I, Firenze 1973, p. 247.
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31. Alessandro Manzoni, niana, B.III.1,c.7r.
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Gli Sposi promessi, cap: 1. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Sala Manzo-
Fra il marzo del 1824 ed il 1827 il Manzoni riscrisse praticamente il testo del romanzo, che poi nell’edizione procurata a Milano da V. Ferrario nel 1827 recò il titolo di Promessi Sposi. Anche in questa seconda minuta la scrittura è ferma e ordinata, l’opera di correzione meditata e sicura. . Cfr. A. Manzoni, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, I, Firenze 1973, p. 619.
I PROMESSI SPOSI.
CAPITOLO
PRIMO.
Il i)
‘uel' ramo del lago di Como, che volge a mez-
\/zogiorno, tra due catene ‘non interrotte di za monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso ‘e figura di fiume, tra un promontorio a destra; e un'ampia costiera dall'altra parte; ie il ponte, che ivi congiunge le due rive. I . SE par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e Adda
rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian P acqua distendersi e rallentarsi
in muovi golfi
e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende
appoggiata
a due monti
-
contigui, l uno -detto di san 2
32. Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi. Storia milanese del secolo xvit, Milano 1840, p. 5. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Sala Manzoniana, VI.8B (esemplate con correzioni autografe).
La grande edizione del 1840-42, curata dal Manzoni*medesimo nei minimi particolari e da lui progettata e finanziata, fu seguita passo passo e corretta dall’autore con ossessivo scrupolo fino sui fogli tirati.
CAPITOLO
9
I
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra
1
due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a viene
seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, riviera di rincontro
tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il ricomincia
punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar lasciano
poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian allentarsi
l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. riviera
La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende ro
appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san |Martino, Resegone
l’altro, con woce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talchè non è chi, al primo vederlo, purchè sia di fronte, come per dai bastioni
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esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, con quel semplice indizio ——
non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma tratto
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più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendfo -
3
dirompe
lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in
33.
del Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di L. Caretti, II. I Promessi Sposi nelle due edizioni
1840 e del 1825-27 raffrontate tra loro, Torino
1971, p. 9.
Ecco, in un prodotto tipico della italiana «filologia degli scartafacci », il confronto fra le due edizioni del capolavoro manzoniano: la prima del 1827 (detta « ventisettana »)e l’altra, definitiva, del 1840 (detta «quarantana»); il testo in corpo maggiore è quello di quest’ultima; dell’altra sono date, in corpo minore, soltanto le varianti.?
34.
Giuseppe Gioachino Belli, Sonetto 2195. Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, ms V.E.688, c. 1198v.
Nella complicata trama di costruzione progressiva del testo poetico, propria del Belli, un abbozzo come questo si pone quasi all’inizio del processo creativo. Qui, infatti, il poeta dispone geometricamente sulla scacchiera limitata del foglietto occasional e lo ziale (0, se si vuole, la prima ispirazione) del sonetto, che sarà poi riempito schema essene concluso nelle sue patti ancora vuote.
Cfr. G. G. Belli, I sozetti, a cura di G. Vigolo, Verona 1952, III, pp. 2933-34.
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Nella minuta, disposta autonomamente su un proprio foglietto, il testo del sonetto precedente si completa e si arricchisce di multipli interventi e di correzioni interlineari; la data (23 gennaio 1847) certifica la conclusione del processo creativo e la collocazione definitiva del pezzo ormai finito nella serie aperta del grande poema belliano. Cfr. G. G. Belli, I sozetti, a cura di G. Vigolo, Verona 1952, IMKpi2933:
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Sotto la penna larga del poeta decadente, scrittura e riscrittura si fondono in un unico disegno grafico reso armonioso dall’inclinazione corsiva, dall’uniformità del modulo, dalla nera sottolineatura dei depennamenti e dei ripassi ; la pagina si trasforma in un luogo autonomo di ricerca estetica. Cfr. G. D'Annunzio, Versi d'amore e di gloria, a cura di E. Bianchetti, II. Laudi, Verona 1968, p. 830.
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37. Carlo Emilio Gadda, La Madonna contemporanei, Gadda [A], p. 1.
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dei filosofi, cap. IV. Pavia, Università, Fondo
manoscritti di autori
Nella stesura iniziale del testo (1928) la scrittura limpida, sottile e rigidamente lineare di Gadda si complica di correzioni, di aggiunte interlineari, di fitte cancellature e soprattutto di spostamenti ad incastro che tendono a destabilizzare la struttura del discorso, a riproporne in modi nuovi l’architettura. Cfr. C. E. Gadda, La Madonna dei filosofi, Torino 1963, pp. 116-17.
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EMILIO GARRONI Estetica e critica letteraria
1.
Esteticae
discipline letterarie.
L’estetica corre un duplice rischio nei confronti di altre discipline affini, o ritenute tali, per esempio proprio la storia-critica-teoria letteraria. (D’ora in poi, per brevità, « discipline letterarie», con un’espressione volutamente vaga,
per sottolinearne la notevole latitudine di statuto). Rischia di passare da una parte per una disciplina saccente, che presume di somministrare dall’alto criteri e metodi alle discipline letterarie, e dall’altra per una disciplina superflua, che ripete, generalizzando e anche inventando, ciò che quelle vivono ir concreto sul campo. L’estetica deve naturalmente guardarsi dai due errori congiunti. Non spetta ad essa impartire ad altre discipline istruzioni per l’uso e ancor meno principî costitutivi. Né fa buona figura, come purtroppo è capitato non infrequentemente, nel presentarsi quale vuota speculazione. Ma allora che cosa le resta da dire e in generale e in riferimento a ciò di cui si occupano per esempio le discipline letterarie? Le quali — siano esse più descrittive o più fortemente teoriche, come rispettivamente nel caso della tradizione sociologica o storicistica e in quello della moderna «teoria della letteratura» — sono in ogni caso più ricche, più corpose, più empiriche, in quanto connesse, per cosf dire, con «oggetti veri e propri»: fatti, eventi, opere o testi. Scomparirebbe, forse? Se sf, niente di male, visto che non ha nulla da dire in proprio.
Ma per altro verso di che cosa, di quali oggetti veri e propri si occuperebbero le discipline letterarie, in senso stotiografico, critico e/o teorico? Ammesso e anche concesso che l’estetica non abbia un suo definito territorio di conoscenze, è difficile pensare che non tocchi a qualcuno, si chiami o no ufficialmente «estetico», un compito di riflessione su quei veri e propri oggetti.
Costui non può essere 4 rigore lo stesso cultore di discipline letterarie in senso stretto, ir quanto si occupa di quegli oggetti. O meglio: può esserlo di fatto, ma în quanto si occupa nello stesso tempo, riflettendo, di altri oggetti. Con una convenzione immediatamente comprensibile, approssimativamente mutuata dalla logica: non di testi letterari, denotati dall’espressione testi letterari, ma di questi stessi testi letterari (in corsivo), designati dal nome «testi letterari» (tra virgolette) di quell’espressione. Vedremo che l’analogia con la teoria logica è plausibile fino a un certo punto. Ma per il momento, a meno di precisazioni ulteriori, essa è provvisoriamente adeguata ad esprimere una di-
416
La questione del metodo
stinzione intuitiva e non facilmente eliminabile sotto ogni profilo tra «teoria»
e«metateoria».
Non si tratta affatto di una insignificante pseudosottigliezza tra logica e speculativa. La differenza tra gli uni e gli altri è in prima istanza addirittura evidente. I primi, cui si riferisce l’espressione testi letterari, sono, diciamo, poesie, racconti, drammi, o che altro ancora, da leggere, contestualizzare storicamente, interpretare, valutare, e cosî via. I secondi invece sono semplicemente l’espressione che li denota ed è a sua volta denotatada un nome: qualcosa come un «concetto», da analizzare, restando all’analogia logica, e intensionalmente ed estensionalmente. Intensionalmente: nelle proprietà che l’espressione, usata dalle discipline letterarie e denotata da quel nome, attribuisce a certe cose, o insomma nel suo significato. Estensionalmente: nelle cose cui la stessa espressione, denotata da quel nome, attribuisce certe proprietà. Una differenza dunque che presuppone, sî, una connessione, ma che è pur sempre una differenza netta. L’analogia può essere estesa. Come è noto, le scienze (nel senso ampio del termine: come pratiche storiografiche, critiche, teoriche, volte alla conoscen-
za quale che sia di qualcosa, che appartiene al mondo degli oggetti empiricamente esperibili) fanno uso delle espressioni semantiche vero/falso o, se si
vuole, bello/brutto e altre analoghe, ma non le tematizzano, non possono te-
matizzarle come «vero»/« falso», «bello»/«brutto », e via dicendo, nel senso che i loro nomi non appartengono propriamente al linguaggio delle scienze. Può tematizzarli, sempre in questo modo provvisorio di esprimersi, solo un metalinguaggio appropriato rispetto al linguaggio-oggetto, che è proprio della scienza. In quello, non in questo, ricorre propriamente il termine «vero», «bello», ecc. e la sua definizione. Tarski, cui ci si è ovviamente riferiti finora,
lo ha messo bene in luce nei riguardi dei linguaggi formalizzati o formalizzabili, per i quali valgono in senso stretto le considerazioni accennate. Ed è chiaro che abbiamo a che fare, qui, con linguaggi non formalizzati, né forma-
lizzabili, nonostante le molte illusioni che certa teoria della letteratura, di
ascendenza strutturalista e trasformazionalista, ha nutrito al proposito. Tuttavia, con la dovuta cautela e a meno di considerazioni che non trovano più spazio in una teoria logica, sembra che i risultati delle sue ormai classiche ricerche possano essere estesi, sotto questo profilo, a tutti i linguaggi scientifici, o più genericamente conoscitivi, se questi sono davvero tali in qualche modo e non si confondono con il semplice, « universalistico », «linguaggio quotidiano». À questa condizione non sarà forse possibile serzpre una chiara, esplicita, rigorosa determinazione e del linguaggio-oggetto e del corrispondente metalinguaggio, ma — parafrasando Tarski — deve poter essere possibile una loro qualche distinzione rispetto a un linguaggio-oggetto e a un metalinguaggio, «la cui struttura sia stata esattamente determinat a e che assomigli il più possibile» a quelli'. Insomma: una qualche distinzione tra un versante 1 Cfr. A. TARSKI, The semantic conception of truth (1944), in L. LINSKY (a cura di), Semzantics
Garroni
Estetica e critica letteraria
417
linguistico-oggettuale e un versante metalinguistico. Altrimenti, certo, il pro-
blema di una distinta riflessione estetica non sussisterebbe più, ma non sussisterebbe neppure una qualsiasi disciplina letteraria. Questa non sarebbe altro che puro e semplice linguaggio quotidiano, universalistico, vago, tale da convogliare senza dubbio un vissuto, ma non tale da contribuire a una genuina conoscenza: qualcosa di non suscettibile di discussione, di critica, di sviluppo, o quanto meno di mutamento motivato, e di almeno parziale cumulazione. (Non foss’altro una cumulazione negativa, che presuppone necessariamente anche le conoscenze che pure esclude, con le quali non è positivamente cumulabile e perfino confrontabile). Linguaggio quotidiano e vissuto non richiedono (forse) necessariamente una riflessione sugli oggetti che vengono di volta in volta scelti e determinati (per esempio i testi letterari, in quanto letterari), ma solo perché sono di volta in volta ciò che sono, come tutti i fatti del-
la vita. Non si pone per essi a rigore, sempre seguendo Tarski, né un problema di coerenza, né un problema di antinomicità strutturale. In realtà la «letteratura», senza di cui non esisterebbe alcuna disciplina letteraria, è nozione vaghissima, carica di almeno potenziali contraddizioni,
proprio come molte altre parole del linguaggio quotidiano. E tuttavia sarebbe del tutto insoddisfacente relegarla senza scampo nella sfera del linguaggio quotidiano e del vissuto, come se fosse soltazto una nozione grezza, confusa, eterogenea, pragmatica, di cui ognuno fa l’uso che vuole, secondo le proprie inclinazioni e quelle del proprio contesto culturale. C'è, ci deve essere in essa un'istanza di definizione, magari a un livello minimo, tale da giustificare almeno le pretese conoscitive, come tali innegabili e tali da richiedere di essere comprese, delle discipline letterarie. A essere troppo rigorosi, si finisce con il liquidare come linguaggio quotidiano e vissuto, di per sé inspiegabili, ogni esperienza, ogni conoscenza non (presuntivamente) rigorosa, letteraria e no,
ogni linguaggio non formalizzabile, e quindi, paradossalmente, anche ogni linguaggio realmente formalizzato. Infatti come potrebbe nascere una scienza in senso stretto e un linguaggio formalizzato, senza un nesso con una scienza o
conoscenza in senso ampio e un linguaggio non più semplicemente quotidiano e non ancora formalizzabile? Il culto del rigore — inammissibile, se ci si rende conto che un «rigore» è possibile a certe condizioni restrittive — porta a privilegiare come conoscenze genuine certe conoscenze, che sono piuttosto,
pur nella loro indubbia rilevanza, «isole» molto particolari, e non «modelli» esemplari del conoscere in genere. Ma il problema plausibile che si pone alla riflessione non è senz’altro quello di pervenire a una esatta e definitiva definizione di «letteratura», per sgombrare finalmente il campo di tutti gli equivoci che avrebbero impacciato finora le discipline letterarie. È precisamente a questo punto che la teoria logica diviene inadeguata, dato che essa richiederebbe una definizione esplicita, al livello del metalinguaggio, dei termini semantici adoperati («vero»/«falso», and the Philosophy of Language, 1952, 1969? (trad. it. Milano 1969). Il passo riportato è a p. 38 della trad. it., dove ci si riferisce però al «linguaggio quotidiano».
418
La questione del metodo.
«bello»/«brutto»...) o quanto meno una loro assunzione come veri e propri termini primitivi («letteratura», «poesia»...) Il problema è al contrario di rendersi conto delle difficoltà che ogni tentativo di definizione comporta, per tentare di comprendere come l’istanza di definizione, contenuta nella nozione di «letteratura», possa configurarsi altrimenti, in forma non definitoria, quale istanza che giustifichi l'identità della nozione e le sue differenze non «universalisticamente», non al modo del mero linguaggio quotidiano. Se un compito del genere è perseguibile, questo è proprio il compito tipico di un’estetica né saccente, né superflua. 2.
Che cos'è la letteratura?
Non si vuol dire che le discipline letterarie sarebbero condannate a brancolare nel buio, se un’estetica non desse loro in anticipo una guida sicura. Qui
è in questione un rapporto non tra istituti disciplinari, se esistono come tali, ma tra livelli di ricerca e di riflessione. Di fatto, quei problemi metateorici, i cultori di discipline letterarie possono anche praticarli correttamente, oltre che porli esplicitamente in una genuina riflessione. In ogni caso la loro sensibilità, l’acume, il coraggio e insieme la cautela intellettuale può metterli in grado di disegnare intorno a sé uno spazio teorico, tale da supporre almeno una buona metateoria implicita. Ma è certo d’altra parte che un’esplicita metateoria non ha propriamente il suo luogo in quello spazio. E ciò può comportare alcune conseguenze. Càpita cosî che di solito, al di qua di una riflessione metateorica adeguata, le discipline letterarie si pensino come possibili solo se esiste una «letteratura», vale a dire una classe di tutti e soli i testi letterari, complementare alla classe non vuota di tutti e soli i testi non letterari. E una classe è tale, solo se essa è definibile mediante un esplicito criterio di appartenenza dei suoi membri. Questa è però la condizione presupposta ideale. In pratica essa non può non essere pit debole. Cioè: che semplicemente esista un corpus di testi, abbastanza chiaramente riconoscibili come letterari, non troppo aperto e non continuamente suscettibile di aggiunte, sottrazioni, rima-
neggiamenti formali, tale insomma da ammettere anche casi dubbi, intermedi o misti, o insomma eccezioni percepibili proprio come eccezioni, che in ogni caso non mettano in dubbio la solidità di quel corpus. Ma esiste un corpus del
genere?
La critica letteraria può anche, almeno in parte, prescindere da tale condizione e da altre preoccupazioni di statuto, ma nel senso che può di fatto interessarsi via via proprio a ciò che via via di fatto la interessa. Questo è un diritto che non può essere negato a nessuno. (Sulla base del quale anche studiosi assai più austeri si prendono al momento opportuno molte libertà). Ma si tratterà allora di una critica che si autogiustifica, sî, per il fatto stesso di esistere, ma che è anche, come dire?, una critica molto, troppo puntuale e occasionale. Essa stessa lo riconoscerà volentieri, precludendosi nello stesso tempo uno sguardo più ampio sugli oggetti che pure la occupano. Può darsi che
Garroni
Estetica e critica letteraria
419
in alcuni casi la sua apparente angustia sia un segno della sua consapevolezza delle difficoltà interne di una disciplina letteraria non puntuale e non occasionale. Una storia letteraria in forma di collezione di saggi critici monografici può appunto nascere, come nel caso di Croce, sulla base di una riflessione tutt’altro che puntuale e occasionale. Ma è probabile che più frequentemente essa si rinchiuda nella propria autogiustificazione, nella propria puntualità e occasionalità saggistica, nell’essere una critica «militante», passivamente a ricasco di una cultura in atto, che essa vive, anche originalmente, e su cui però non riflette. Chi milita non discute di solito gli imperativi superiori che lo guidano. Da quella condizione non può prescindere invece una teoria e neppure una vera e propria storia, apparentemente più innocua, della letteratura. E di fatto le storie letterarie presuppongono precisamente la possibilità e l’esistenza di una «letteratura», sia pure con una flessibilità e quasi un opportunismo, che dà loro almeno l’illusione di districarsi bene o male negli innumerevoli casi non ovvi o meno ovvi.
Il loro punto di partenza è di regola, naturalmente, la letteratura «in senso stretto», quella che altrove vien detta, nello stesso tempo con maggiore ingenuità e correttezza, «creativa» e istituzionalizzata come tale anche in sede didattica. In sostanza: quell’insieme di testi che, pur connessi con un4 notevole tradizione antica, dipendono innanzi tutto dalle moderne istituzioni letterarie, in quanto queste sarebbero capaci di delimitare una provincia specifica e largamente autonoma, la provincia letteraria appunto, della cultura linguistica. Tutto ciò ha a che fare senza dubbio con un'idea di letteratura che, oltre ad essere propriamente «creativa», può esser detta con espressioni restrittive «poesia», «letteratura d’invenzione» (fictior) o con espressione pit
generale e comprensiva «letteratura di fantasia»: qualcosa che ha a che fare, pare, con l’«arte», quale che sia il significato non vago di questa parola '. Ma quel punto di partenza sarebbe ancora troppo indeterminato, affidato o a criteri troppo soggettivi e intuitivi o ad attriti del gusto troppo sordi, se esso non ricevesse, nel senso già detto, una qualche specificazione materiale. Gli stessi Wellek e Warren, cui si deve una discussione fortemente problematica della «letteratura», di cui ricercano tuttavia l’«essenza», non si nascondono infine che «il centro dell’arte letteraria va trovato, ovviamente, nei generi
tradizionali della lirica, dell’epica e del dramma». Sono i medesimi criteri cui si è ispirato un autore come De Sanctis, pur cosî attento ai rapporti reciproci tra letteratura e vita civile e politica, tra cultura nel senso più ampio e letteratura nel senso pit specifico. All’inizio del capitolo intitolato La nuova scienza della sua Storia della letteratura italiana si afferma, si, l'esigenza di ri-
costruire il «mondo nuovo» della «coscienza» moderna, con il quale si doveva in ogni caso fare i conti, per «accettarlo» o «combatterlo» in forza di una «fede». Ma la conclusione è pur sempre questa: che «bisognava ad ogni costo 1 Cfr. R. WELLEK e A. WARREN, Theory of Literature, 1942, 1956? (trad. it. Bologna 1956, pp.
9, 17 Sg2.).
2albido piragi
420
La questione del metodo.
avere una fede, lottare, poetare, vivere, morire per quella» *. Poetare, appunto, come ciò che è proprio dell’arte letteraria e che deve trovare un suo «centro», di cui si occupa istituzionalmente lo storico della letteratura. La Storia di De Sanctis, nonostante tutto, è tagliata proprio cosî, su ciò che è «ovviamente» «il centro dell’arte letteraria», e con concessioni che hanno l’unico scopo di correlarla a ciò che letterario non è. Questa fiducia materiale in un «centro» può successivamente venire meno. A metà degli anni ’60, nell’Ixtroduzione alla monumentale Storia della letteratura italiana, diretta da Emi-
lio Cecchi e Natalino Sapegno, quest’ultimo non esitava a riconoscere che era da tempo cresciuta «una disposizione di scetticismo che investe non solo la possibilità di una storiografia letteraria, intesa come narrazione organica di una serie di fatti abbastanza omogenei, ma della critica stessa che non si limiti al mero disegno di una reazione soggettiva e pretenda a dignità di scienza» ‘. Quest’opinione, maturata su una sorta di storicismo integrale, tipico di un aspetto notevole della cultura italiana degli anni ’50, ha riscontri importanti e
variamente motivati: un notissimo testo di Jauss, per esempio, comincia pro-
prio cosî: «Ai nostri giorni la storia letteraria è sempre più caduta in discredito, né certo senza ragione» ‘. Essa non tiene conto, forse volutamente, del fatto che proprio allora si stava aprendo un periodo di rilancio della «teoria della letteratura», con connessa e opinabile scientificizzazione della critica. Sta ferma, per molti versi non a torto, alla «disposizione di scetticismo». E tuttavia, ancora una volta, il presupposto della possibilità di una storia letteraria, pur polifonica e aperta a orientamenti diversi, viene indicato nel «valore autonomo della poesia» °. L'espressione è però ambigua: o essa ha un significato che non interferisce con la possibilità della letteratura in senso istituzionale e della sua storia, e quindi non ne è un presupposto né necessario né sufficiente; oppure ha, sî, un significato che rende appunto possibile e letteratura e storia della letteratura, per quanto aperta e spregiudicata questa sia, ma allora non può non comportare, come di fatto avviene, l’assunzione di un qualche «centro dell’arte letteraria» in senso istituzionale. Ciò di cui Sapegno, che cita espressamente Wellek e Warren al proposito, è pienamente consapevole ‘. Una vera e propria storia della letteratura dovrebbe infatti trovare la sua (ardua) collocazione tra storie letterarie che sono «storie della civiltà» e storie letterarie che sono «collezioni di saggi critici», cioè tra qualcosa «che non è storia dell’arte» e qualcosa «che non è storiz dell’arte» *. Ma, nel mezzo, non possono esserci appunto che prodotti istituzionali tipici, belli o brutti che siano. 3 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana (1871), a cura di N. Gallo, in Opere, a cuta di C. Muscetta, VIII-IX, Torino 1971, p. 739. 4 N. SAPEGNO, Introduzione, in E. CECCHI e N. SAPEGNO (a cura di), Storia della letteratura italiana, I. Le origini e il Duecento, Milano 1965, D. VII. ° H. R. JaUSs, Literaturgeschichte als Provokation der Literaturw issenschaft, 1967 (trad. it. Perché la storia della letteratura?, Napoli 1969, p. 9). ° N. sAPEGNO, Introduzione cit., p. IX. ? Cfr. ibid., p.x. ° R. WELLEK e A. WARREN, Theory of Literature cit., trad. it. p. 353.
Garroni
Estetica e critica letteraria
421
Dal punto di vista di una teoria della letteratura, questi prodotti dovrebbero essere riconoscibili per un certo loro carattere distintivo, né puramente storico-fattuale, né soltanto critico-valutativo. È ciò che il giovane Jakobson chiamò precisamente «letterarietà». «L’oggetto della scienza della letteratura non è la letteratura, ma la letterarietà, vale a dire ciò che fa di un’opera data un’opera letteraria»°.Tale «letterarietà» vuol essere, com’è noto, non un’ipostasi verbalistica, ma una nozione che designa i procedimenti esplicitabili, che stanno alla base della specifica organizzazione del testo letterario e che permetterebbero inoltre alle storie letterarie di abbandonare il comportamento grossolano e indifferenziante seguito fino ad allora, simile al comportamento di quei poliziotti che, volendo arrestare qualcuno, «prendessero a caso tutto ciò che si trova nella casa, e anche quelli che passano per la strada» ". Ma, se si pensa all’ambiente dei formalisti russi, cui allora Jakobson partecipava, è evidente che si dovrebbe parlare piuttosto di «poeticità» che non di «letterarietà». L’inclinazione a privilegiare quei particolari testi letterari che sono i testi poetici è presente in tutti quegli studiosi, e in particolare nel più fine e profondo: in Jurij Tynjanov e nel suo Problema stichotvornogo jazyka". Ancora una volta è in gioco un «centro», nel senso già chiarito, senza di cui la stessa scienza della letteratura non potrebbe esistere. Tale «centro» viene assunto in primo luogo, e su di esso l’analisi si articola, come sarà ribadito dalle Thèses del ’29 del Circolo linguistico di Praga, in «lingua poetica», «lingua di comunicazione» e «linguaggio poetico», come atto di parole, che scatta creativamente sull’opposizione della prima e della seconda ". Proprio in questo testo si distingue nettamente tra «poetico» e «letterario», quest’ultimo caratterizzando piuttosto il fenomeno dell’« intellettualizzazione della lingua» in opposizione al cosiddetto «linguaggio popolare» !. Cosî, fino a tardi contributi dello stesso Jakobson, si tenderà a risolvere la «letterarietà» in «poeticità», che verrà determinata nel quadro di una teoria funzionale del linguaggio come «funzione poetica » “. E, per quanto ci si sforzi di mostrare che tale funzione, in quanto dominante, caratterizza non soltanto la poesia (i testi
poetici) in senso stretto, è evidente che proprio la poesia è largamente privilegiata. Non a caso, fin dagli anni ’20, alla poetica o teoria della poesia veniva affiancata una «teoria della prosa» (Sklovskij, Toma$evskij ‘). E la prosa ha, si, la medesima funzione «estraniante», « deautomatizzante»
rispetto al « lin-
guaggio pratico» o «di comunicazione», ma anche basi tecniche affatto diver? R. JAKOBSON, Fragments de « La nouvelle poésie russe». Esquisse première: Vélimir Kblebnikov (1921), in Questions de poétique, Paris 1973, p.15. 10 Ibid. x , 1! Ju. N. TYNJaNOV, Problema stichotvornogo jazyka, 1924 (trad. it. Il problema del linguaggio poetico, Milano 1968). . É 12 Cfr. AA.vv., Thèses presentées au Premier Congrès des Philologues Slaves, 1929 (trad. it.
Napoli 1979, pp. 44 sg8.).
BIb:dP4L È Rina Dai 14 Cfr. r. JakoBsoN, Linguistics and Poetics (1958), in Essais de linguistique générale, 1963 (trad. it. Milano 1966, pp. 181-218). ; " ; ! Cfr. v. B. $KLovsKIJ, O zeorii prozy, 1925 (trad. it. Teoria della prosa, Torino 1976); B. V. TOMASEVSKIJ, Teorija literatury. Poetika, 1928 (trad. it. Teoria della letteratura, Milano 1978). 16
422
La questione del metodo .
se. Cosî che il «letterario» in senso ampio — quello di cui si occupano, per intenderci, le discipline letterarie — risulta dall’addizione di caratteristiche formali diverse, in quanto ricostruite a partire da un materiale letterario storico già percepito come tale. E percepito, per di più, come già eterogeneo.
Ma c'è di più. Quelle teorie della poesia e della prosa non solo nascono da materiali precostituiti, già percepiti come letterari e già scelti come significativi in tal senso, e quindi da materiali letterari istituzionali. Non solo cioè hanno dei limiti, come in fondo tutte le teorie. Ma, per il modo in cui nascono, ieri od oggi, sono per certi versi anche cattive teorie. Più precisamen-
te: non solo teorie ad hoc, valide per la collezione di fatti presi in considerazione, ma anche pseudoteorie, estese arbitrariamente al di là di quei limiti, fino al letterario in genere. Il loro scopo iniziale, apparentemente saggio, era di liberarsi dagli impacci definitori e speculativi delle varie estetiche, in particolare delle cosiddette «estetiche dall’alto», e di puntare con spirito positivo e scientifico alla «concretezza» dei fatti letterari “. Ma la concretezza era in realtà condizionata da una scelta, che presupponeva una sorta di pre-teoria non saputa. Essa era anzi, in primo luogo, una contingente e determinatissima
esperienza di poesia, e subordinatamente di prosa, dove i procedimenti messi in luce dalla teoria vengono appunto utilizzati in modo dominante e specifico in vista di una caratteristica polisemicità: la polisemicità della poesia moderna, segnatamente d’avanguardia ”. E proprio l’analisi di quell’esperienza veniva promossa a teoria generale o teoria vera e propria, in modi pit fini, meditati e mediati, come in Tynjanov e in Jakobson, o in modo brusco e disinvolto, come spesso in Sklovskij. Cosî che la teoria risultava intrinsecamente inadeguata a dar conto davvero di fenomeni letterati rilevanti, sotto un profilo istituzionale più duttile, per esempio della poesia filosofica o politica, da Lucrezio a Campanella, da Dante allo stesso Majakovskij. Ancor più inadeguata, sotto il profilo di una teoria della prosa, nei riguardi del romanzo, e in particolare del romanzo filosofico o del romanzo-saggio, da Voltaire al Flaubert di Bouvard et Pécuchet, allo stesso Sterne del Tristram Shandy, tanto amato e involontariamente minimizzato da Sklovskij, al Dostoevskij di Zapiski iz podpolja (Memorie dal sottosuolo, 1864), autore non a caso ignorato perché palesemente scomodo. (Ma si guardi per contrasto a Bachtin, lettore di Dostoevskij appunto e critico acutissimo dei formalisti in nome di una non repressa estetica filosofica '). Erano state scelte precisamente certe istituzioni letterarie, nuovissime e non ancora istituzionali in modo evidente, un certo «centro dell’arte letteraria», in rapporto al quale era stato costruito il paradigma di fondo, unificante le due teorie: l’opposizione tra «linguaggio di comunicazione » e «linguaggio [letterario-]poetico » in senso ampio. Nella sua im16 Cfr. 8. M. EJCHENBAUM, Teorija «formal'nogo metoda» (La teoria del «metodo formale », 1925), in T. TODOROV (a cura di), Théorie de la littérature, 1965 (trad. it. I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Tortino 1968, pp. 29-72; cfr. in particolare p. 33). ! Cfr. 1. AMBROGIO, Formalismo e avanguardia in Russia, Roma 1968. dr SI Cfr. M. M. BACHTIN, Problemy poetiki Dostoevskogo, 1963 (trad. it. Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino 1968); m., Voprosy literatury i estetiki, 1975 (trad. it. Estetica e romanzo, Torino 1979: si veda in particolare il primo saggio).
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mediatezza e sostanziale materialità e staticità, implicitamente classificatoria, tale paradigma non era che un sintomo di una cultura in atto e di istituzioni letterarie in formazione. Esso poté anche essere purificato dalle scorie materiali più evidenti e inteso soprattutto in senso differenziale e dinamico, funzionale e non classificatorio, come appunto in Tynjanov, Jakobson e sistematicamente nei praghesi. Ma non poté mai liberarsi del tutto delle caratteristiche della sua genesi. In realtà, almeno al di fuori di quella determinata esperienza poetica, esso non era e non è per niente evidente. I comuni parlanti non usano affatto un linguaggio cosî «automatico», come risulterà poi sempre più chiaramente a Jakobson in particolare e come invece era talvolta incline a credere Sklovskij. Ed è anzi probabile che ciò che chiamiamo «poesia», comunque questa debba essere definita o compresa, sia in generale qualcosa che non tanto si oppone agli automatismi quotidiani, per essere cosî individuata differenzialmente, ma che piuttosto prosegue e sviluppa il comune linguaggio lungo linee interne, e lo specializza, per cosî dire, in un aspetto che già gli è proprio, magari fino all’(apparente) rottura e allo scandalo (linguistico) delle avanguardie. C'è da domandarsi se non avesse ragione Croce, quando — sia pure nel quadro di una riflessione e di un linguaggio, in cui per molti versi non ci si ritrova completamente — si rifiutava di distinguere la « complessa intuizione di un canto amotoso di Giacomo Leopardi» da una «dichiarazione di amore quale esce a ogni momento dalle labbra di migliaia di uomini ordinari» ”. È dubbio che un canto leopardiano sia în questo senso una specializzazione di una dichiarazione d’amore. Ma è lecito sospettare che la presunta assoluta «banalità» della conversazione quotidiana sia più un’impervia invenzione letteraria, che un fatto in cui c’imbattiamo tutti i giorni: presupposto di una classificazione primaria di fatti letterari e fatti non letterari. Insomma: quel «centro dell’arte letteraria» viene assunto, ma non propriamente pensato dalle storie letterarie. Ma esso viene assunto e non davvero pensato anche dalla scienza della letteratura, comprese le sue formulazioni più recenti, meno evidentemente legate a un’esperienza artistica in atto. Anche la scienza o teoria della letteratura rinvia a fatti storici dati, e in definitiva a istituzioni letterarie più o meno forti, esattamente come una storia letteraria, e, al contrario di quest’ultima, manca inoltre di quella flessibilità che consente, se non di evitare le difficoltà di una disciplina letteraria in genere, almeno di smussarle con uno spirito di adattamento che alle teorie, in quanto teorie ad hoc, è forse precluso per definizione. I metodi della polizia, ipotizzata da Jakobson, sono senza dubbio deplorevoli. Ma anche le polizie che arrestano, in casi evidenti di associazione a delinquere, uno e un solo sospettato, non il peggiore, o magari proprio un innocente, non sono per questo da lodare. Ciò non vuol dire che da questo tipo di ricerche non siano venuti anche contributi notevoli e utilizzabili con profitto. Sta il fatto però che, sotto il profilo dello statuto di una disciplina letteraria, in quanto questa si sforzi di definire o chiarire passabilmente il proprio oggetto, gli avanzamenti sono stati minimi o nul1° B. cROCE, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 1902; Bari 1965", p. 16.
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li. La letterarietà, come è stato più volte notato anche con un eccesso di severità polemica”, può essere raffinata quanto si vuole in senso funzionalistico, non definitorio di una classe statica di fatti letterari, ma tradirà sempre le proprie origini fattuali, o teorico-fattuali, e quindi in definitiva una almeno implicita concezione istituzionale, contingente e classificatoria. Cosî quel punto di partenza delle storie letterarie resta tale: un punto di partenza istituzionale, legato a certe istituzioni moderne, contingente, non
facilmente universalizzabile e ricco di potenziali paradossi e contraddizioni. E infatti, per una storia letteraria ragionevolmente flessibile, che non voglia andare a parare in veri e propri non-sensi, è solfazto un punto di partenza. Non ci si può occupare ragionevolmente del «centro dell’arte letteraria» — sia pure puntando più alla «poesia» in senso ampio o all’«arte», che alle istituzioni come tali — senza vedere che quel centro è inestricabilmente connesso, senza evidenti linee di sutura, con una sterminata « periferia», che non fa semplicemente da sfondo, al modo di una generica e non letteraria «storia della civiltà», ma è per più versi specificamente omogenea al centro stesso. Anzi, in certi casi, se si tien d’occhio una non convenzionale, non puramente istituzionale idea di «poesia-arte», càpita che proprio la periferia paia centro, e proprio il centro periferia. Non dico il diario di Pavese o le Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, ma la Storia di fra Michele minorita o il diario maniacale del Pontormo possono apparire, per cosî dire, letterariamente più rilevanti, promotori ideali di una cultura letteraria più viva 0, se si vuole, più «belli» di una canzone neo-neopetrarchesca o di una tragedia neo-neosenechiana. Ma, anche a prescindere da queste considerazioni più specifiche, che problematizzano ulteriormente lo statuto delle discipline letterarie, è in ogni caso inevitabile che su quel punto di partenza si innesti prima o poi, in modo più o meno rapido, un processo spontaneo di aggregazione. Che insomma si aggiungano ai testi letterari, già considerati «primari», altri testi «secondari», che ammettono intersezioni importanti con province culturali letterarie e non, linguistiche e non, anche soltanto in virtà della mediazione di comuni
regole formative. Si pensi innanzi tutto, per esempio, alle regole retoriche. Ed è noto che la retorica nasce con i Greci per soddisfare non tanto le esigenze della letterarietà come tale, quanto e in primo luogo le esigenze pratiche e conoscitive della persuasione e della decisione, come ben sapeva appunto l’Aristotele della Retorica. Al quale non sfuggivano nello stesso tempo neppure le connessioni strettissime di arte retorica e arte poetica, e proprio in riferimento alla comune e centrale nozione di «verosimiglianza», con cui hanno a che fare e il discorso del poeta e il discorso dell’oratore, 0 dell’argomentatore in genere, intorno a questioni che concernono l’opinione, non la necessità delle cose che sono cosî come sono, ma la possibilità delle cose che possono stare anche altrimenti: l'innocenza di un imputato, la migliore decisione da prendere o l’organizzazione della trama di una tragedia. Dunque: non più soltanto lirica, epica e dramma, con racconto e romanzo, ° Cfr. per esempio c. DI GIROLAMO, Critica della letterarietà, Milano 1978.
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ma anche biografie, epistolari, orazioni, prediche, resoconti di viaggi, relazioni diplomatiche, scritti scientifici, cronache, storie, e cosi via, 4 condizione che essi siano appunto «letterariamente rilevanti » (e/o che essi non siano per altro verso troppo numerosi e recenti). È immediatamente chiaro quanto poco sia
chiara, al di fuori di date istituzioni letterarie, in qualche modo codificate e implicanti una potenziale presunzione di «valore», la nozione di «rilevanza letteraria». Essa ha, sî, il merito di allargare, oltre quel «centro» ovvio, la definizione di letteratura, mettendo in crisi una definizione troppo angusta, materiale e in certi casi palesemente inadeguata, e di volgersi quindi anche ma non tanto alle capacità espressive dei testi, quanto e soprattutto alla loro relazione con contesti non esclusivamente letterari o non letterari affatto, più che
a un’esterna, accademica conformità a modelli passati in giudicato. Ma è altrettanto indubbio che tale ragionevole liberalizzazione della letteratura, anche se operata di solito con un comprensibile eccesso di cautela, inaugura un processo di dilatazione non più arginabile. Solo appunto la cautela — comprensibile, si è detto, ma teoricamente immotivata — può rallentarlo e impedire
che la storia della letteratura si trasformi senz’altro nella storia di tutti i testi possibili, letterari e no, e anche di ciò che qui si potrebbe chiamare sbrigativamente «quasi-testi» e addirittura «non-testi». Ma la stessa cautela, guidata infine da un’idea di «poesia-arte», può divenire inoperante di contro alla logica interna della liberalizzazione. Le definizioni che seguono sono intenzionalmente non rigorose. Se potessero esserlo, le discipline letterarie non avrebbero difficoltà nel sapere con certezza di che cosa debbono occuparsi e di che cosa no. Per « quasi-testi» s’intendono dunque quei testi essenzialmente frammentari, che fanno parte integrante in realtà di una più ampia e dominante interazione pragmatica e che non solo non godono di alcuna prevista autonomia letteraria, ma addirittura non possono essere intesi correttamente se non in un contesto non letterario
e in funzione di modelli non letterari: testimonianze giurate, atti notori, contratti commerciali, scritte sui muri. Si potrebbe obiettare che tutti i testi, anche i più convenzionalmente letterari, non sono a rigore interpretabili se non anche in riferimento ad altro, per esempio anche soltanto un’interazione pragmatica (il costituirsi di una classe di letterati rispetto a una certa classe di committenti o al «pubblico» moderno in genere) che rende operante un’istituzione letteraria. C’è però grado e grado di autonomia e di dipendenza dei testi rispetto ai loro contesti. Un testo letterario è tale, perché s’inscrive innanzi tutto in un contesto letterario, che s’inscrive a sua volta in un contesto non letterario. Ma una testimonianza o un atto notorio s’inscrivono innanzi
tutto in un contesto giuridico, che prevede sue proprie norme linguistiche, incomprensibili a chi non partecipi a quello. In ogni caso è proprio la non-rigorosità della distinzione a far si che talvolta le storie letterarie si occupino anche di quasi-testi, per esempio quando hanno a che fare con le origini di letterature moderne o con letterature antiche che scarseggiano di testi «ovviamente» letterari. Di solito, è vero, se ne dimenticano, non appena hanno a disposizione materiali più abbondanti. Ma ciò vuol dire forse che la liberalità
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in questi casi è determinata soltanto dalla penuria? Pare proprio di no. Se s'intende coltivare una disciplina letteraria in senso stretto, basterebbe in ogni caso limitarsi ai soli veri e propri testi letterari e cominciare solo da essi. La Storia di De Sanctis comincia appunto con un capitolo intitolato I Siciliani. Ma la già citata Storia diretta da Cecchi e Sapegno dedica invece molto spazio (per fortuna del lettore, in definitiva) alle origini anche solo linguistiche della letteratura italiana. Non si può dire che sia intervenuto un ribaltamento completo dei criteri. Immediatamente pare che sia accaduto solo questo: che ci si occupa soprattutto lî, nei primi capitoli, di testi non ovviamente letterari e anche di quasi-testi, perché c’è penuria di testi letterari e i testi non letterari e i quasi-testi sono almeno non-recenti, con l’evidente proposito di illuminare il problema oscuro delle origini e della genesi dei posteriori testi letterari. Senza dubbio, le cose stanno anche cosî. E tuttavia è difficile sfuggire all’impressione che quel proposito costituisca anche un’occasione facilitante, al fine di riconoscere somiglianze fra testi ovviamente letterari, testi non ovviamente letterari e quasi-testi di varia natura, legati tra loro da quelle « somiglianze di famiglia», di cui parlava Wittgenstein” a proposito di significati (nel nostro caso i significati dell’espressione «testi letterari...») Tali somiglianze vengono, sî, sostanzialmente dimenticate, quando i testi letterari divengono cosî numerosi, in epoca recente, da consentire allo storico di rinchiu-
dersi nel loro orizzonte: là egli ha dunque trovato la terra promessa, e vi si muove agevolmente. Ma ciò sembra confermare, a uno sguardo più attento, che gli altri testi e quasi-testi erano già stati aggiunti, non solo per far comprendere geneticamente e differenzialmente il testo letterario vero e proprio. Se cosî fosse, i riferimenti ad essi non si diraderebbero, ma piuttosto si infittirebbero, via via che la loro produzione e diffusione si fa più variata, più massiccia e sempre più influente sulla stessa letteratura in senso stretto. Le cose stanno dunque in modo un po’ più complicato: per un verso, è vero, si tende a riconoscere letterarietà solo a certi testi, in quanto riportabili a un «centro», ma per altro vetso si è inclini, sotto la pressione di circostanze di fatto, a liberalizzare i criteri del riconoscimento, quando appunto un «centro» ovvio è carente o non esiste affatto. Cosî che il processo di trasformazione, infine, è stato già innescato. Un analogo fenomeno è rilevabile anche nel caso dei cosiddetti «nontesti»: un’espressione di comodo, che non implica in alcun modo un qualche giudizio limitativo. Per «non-testi» s'intendono qui quei «testi profondi», come tali non esistenti o non manifestabili, esistenti e manifestati solo da varianti-testi orali, nessuno dei quali li rappresenta adeguatamente: miti, fiabe, ma anche, se guardiamo alle letterature antiche, non-testi di vario tipo, la cui manifestazione scritta non è che un’emergenza tarda, periferica o parziale rispetto a una tradizione e pratica orale portante, di cui i documenti sono soltanto tracce o equivalenti non esaurienti, una sorta di compromesso tra cul2 Cfr. L. WITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen, 1953 (trad. it. Ricerche filosofiche, Torino 1967), $ 67.
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tura orale e cultura scritta e quindi, per ciò stesso e come tali, addirittura fuorvianti. In altre parole: non andrebbero letti come testi autonomi, ma piuttosto decifrati, per risalire dai testi scritti ai testi orali e ai non-testi, genuini portatori di significato °°. Una storia della letteratura, sotto questo profilo, è costretta a un mutamento radicale di metodi. E, quali che siano i risul-
tati cui essa può pervenire, certo è che la nozione rassicurante di «centro dell’arte letteraria», fondata su istituzioni letterarie essenzialmente scritte, si fa sempre più diafana e meno rassicurante. La questione si complica ulteriormente, se poi ci si domanda a quale tipo di produzione culturale appartengono e i testi letterari da una parte e certi non-testi, che più gli assomigliano, dall’altra: se rispettivamente a quello proprio delle classi colte e a quello che è o vien detto «popolare», o ad entrambi, o propriamente nell’un caso e nell’altro a uno dei due con successive estensioni, omologazioni, accomodamenti, mascheramenti nella forma dell’altro. Almeno dal Romanticismo in poi lo storico della letteratura non ignora la questione. Qui ci si deve accontentare di poche indicazioni sommarie. Questi testi «popolari», che lo storico della letteratura e anche il letterato tendono naturalmente a far propri, sono e non sono letterari, sotto il profilo del loro punto di partenza. Sono forse degni di considerazione sotto il profilo espressivo o della rilevanza letteraria in senso amplissimo, pur nella loro parziale estraneità a certi modelli e istituzioni letterarie dominanti. Ma quando, per chi, in quale loro manifestazione, se è lecito isolarne una come rappresentante di un non-testo? Per certi aspetti asso-
migliano di più, per cost dire, alle scritte sui muri, cioè ai quasi-testi, che non ai poemi. Per altri aspetti hanno anche rapporti notevoli con i testi letterari veri e propri, in almeno un duplice senso: che questi ultimi non sarebbero talvolta pienamente“comprensibili senza quelli (forse perfino nel caso della Commedia di Dante, con tutti i suoi «eroi», «antagonisti», «aiutanti», « partenze», «prove», «ritorni», nella terminologia di Propp ”), e viceversa, e che quelli vengono in altri casi rifunzionalizzati come letterari, proprio perché «ingenui», e addirittura fissati, scritti in una forma letteraria, che insieme li conserva e li distrugge. Si è costretti insomma a scoprire, ache se si vuole tener ferma una qualche esigenza di letterarietà, che non solo la classe dei testi letterari non è definibile senza la classe complementare dei testi non letterari, compresi i quasitesti e i non-testi, ma che addirittura c’è una via vai continuo tra l’una e l’altra. Fra gli altri, lo ha compreso con grande lucidità proprio un estetico, Jan Mukartovsky *, che ha generalizzato la nozione di «funzione poetica » in «funzione estetica», funzionalizzandola all’estremo, quale pura funzione, percepibile di volta in volta, secondo i vari contesti storico-culturali, come dominante o accessoria. È in gioco qui non tanto un elemento fisso a livello di produzione, che lo storico deve inequivocabilmente e sempre osservare e riconoscere, 2 Cfr. B. GENTILI, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Bari 1984. ; 2 Cfr. v. JA. PROPP, Morfologija skazki, 1928 (trad. it. Morfologia della fiaba, Torino 1966). 2 Cfr. J. mugakovsKY, Studie z estetiky, 1966 (trad. it. Il significato dell’estetica, Torino 1973).
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ma piuttosto, a livello di fruizione o almeno di interazione produzione-fruizione, un continuo processo di funzionalizzazione, defunzionalizzazione, rifun-
zionalizzazione, e cosî via. A questo punto, qual è in definitiva il compito del cultore delle discipline letterarie e di storiografia letteraria in particolare? Fare forse la storia di tutti questi complicati processi, senza pit poter partire da un «centro» stabilmente «ovvio»? Non solo l’impresa rischierebbe di divenire sterminata e disperata, ma essa supporrtebbe per di più un dato di fatto incontrovertibile: che tutte le culture funzionalizzano e defunzionalizzano esteticamente mello stesso senso in cui noi concepiamo oggi tali operazioni. Il che non è affatto in tutti i sensi incontrovertibile. In sostanza un’estetica funzionale sembra aver attinto l’estremo limite, forse il più fine, delle teorie della letteratura, in quanto suppongono una distinzione primaria fra testi letterari e testi non letterari, vale a dire a funzione estetica dominante o subordinata, sulla base di una concreta, determinata esperienza poetico-letteraria. In questo senso lo storico della letteratura sarebbe soltanto un testimone del proprio tempo, anzi di una specifica cultura del proprio tempo. E, se se ne rende conto, cessa anche di essere un testimone e diviene piuttosto un sintomo, privo di qualsiasi capacità conoscitiva. La situazione è paradossale. Nello stesso momento, e proprio perché se ne rende conto, non è e non può essere un mero sintomo. Lo è, per cosî dire, malgrado se stesso, con la consapevolezza che, al di qua della sua funzione sintomatica, c’è in lui una sorta di teoria vuota, condannata a restare indeterminata e inesprimibile. Inoltre, anche se volesse eroicamente, autopunitivamente ridursi a sintomo, neanche potrebbe farlo di fatto, oggi, in tempi che hanno ormai perduto la distinzione ovvia fra testi letterari e testi non letterari. Come si regolerà allora nel suo
compito? La questione, come si è già accennato, è apparentemente semplice. La «letteratura» è una nozione (a condizioni date) culturalmente determinata
nel suo nucleo, ma ha confini incerti, cosî da non poter rifiutarsi di espandersi sull’intero universo dei testi, scritti e non scritti, compresi i cosiddetti quasitesti e non-testi. Non resta che proporsi, come obiettivo ragionevole, lo studio di tutto questo eterogeneo materiale linguistico, senza alcuna discriminazione accademica. Di fatto è stata giustamente rivendicata — anche, ma non soltanto sotto un profilo didattico — un’idea di storia letteraria totalmente liberalizzata, tale da riguardare tutte le testimonianze delle capacità e dei modi di esprimersi linguisticamente, senza distinzioni veteroscolastiche tra lingua e dialetti, tra scritto e orale, tra usi colti e usi popolari, tra letteratura e non-letteratura, che non siano semplicemente distinzioni fattuali, non categoriali o di valore, non normative, ma adeguatamente descrittive nell’ampio ventaglio di determinazioni dell’uso effettivo (De Mauro, Gensini ”). La proposta è liberatoria, e la scuola italiana per fortuna comincia a rendersene conto. Ma per i Ni: Cfr. r. ne MAURO, Storia linguistica dell’Italia unita, 1963; nuova ed. Bari 1983; In., Scuola e linguaggio, Roma 1977; s. GENSINI, Elementi di storia linguistica italiana, Bergamo 1982.
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cultori di discipline letterarie può restare, e resta, qualche riserva non ingiustificata. Essi si rendono conto, dal loto punto di vista, che la storia letteraria è destinata con ciò a scomparire e a cedere il passo a una storia della lingua e delle manifestazioni linguistiche. Niente di male anche questa volta, se davvero le discipline letterarie, in quanto distinte dalle discipline linguistiche, non avessero nulla di specifico e di diverso da dire in proprio. Ma forse l’esigenza della diversità e della specificità non può essere senz’altro accantonata o affidata alle sole cure dello specialista che si occupa di linguaggio in genere. Un sonetto di Petrarca e una sentenza di un pretore, un racconto di Gadda e un volantino sindacale sono senza dubbio, tutti, documenti linguistici, della cui aderenza all’uso, nella sua vitalità, plasticità, tendenza alla standardizzazione, e cosî via, è opportuno che si rendano conto scolari, insegnanti e citta-
dini. Ma una storia della lingua e delle manifestazioni linguistiche, come tale, non è in grado di distinguerli gli uni dagli altri, se non sotto un profilo strettamente linguistico o, al massimo, genericamente espressivo. Non si vuole
fare qui un’eccezione per i soli testi letterari, come se essi possedessero una dignità sconosciuta ad altri testi. In fondo anche la sentenza di un pretore non può essere interpretata e analizzata sufficientemente, se non sullo sfondo di una teoria, una storia e una cultura giuridiche, buone o cattive che siano. E allo storico della lingua non si può chiedere di sapere tutto e di trattare di tutto, ripetendo e ingigantendo le difficoltà delle discipline letterarie su un altro versante. Qualcosa del genere deve poter accadere anche per i testi letterari, se per caso tali testi, e altri oggetti assimilabili, per esempio i primi o magari anche i secondi, contengono, ir zz0do esemplare e quindi conoscitivamente rilevante, anche se non, definitoriamente e classificatoriamente, rigoroso, un aspetto del linguaggio o un modo di rapportarsi alle cose, assente o troppo debole in altri testi, o oggetti analoghi. Certo, le nuove concezioni liberatorie hanno il merito grandissimo di aver spazzato via una quantità di mediocri pregiudizi normativi, istituzionali-accademici e di classe, o piuttosto di averli recuperati nel loro vero statuto fattuale. Ciò può contribuire anche a una migliore comprensione delle questioni che occupano, tra continui compromessi, i cultori delle discipline letterarie. Il rischio è che, rifiutando il compromesso e scegliendo il rigore, non si senta poi il bisogno di aggiungere altro, come se tutte le esigenze di uno studio della cultura linguistica fossero già soddisfatte dall’analisi degli usi linguistici, nella loro mera fenomenologia linguistica, perdendo in linea di principio la possibilità di soddisfare anche una innegabile, se innegabile, esigenza di distinzione non meramente linguistica. Tale perdita non è affatto implicita nell’idea di storia della letteratura in quanto storia della lingua e delle manifestazioni linguistiche, né nella nozione di «uso», che le sta a fondamento. Il problema è ancora aperto. Il compito di un’estetica né saccente né superflua è di formularlo, se possibile, nel modo migliore.
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3.
Che cos'è un'estetica filosofica?
Il passaggio a una riflessione estetica è però tutt’altro che ovvio. Anche lo statuto di un’estetica, in quanto si suppone che sia chiamata a chiarire le difficoltà delle discipline letterarie, è a sua volta pieno di difficoltà. Anzi tanto più lo è, quanto più sono problematiche quelle discipline che in ogni caso hanno a che fare, se non con un oggetto ben definito, almetòo con oggetti, in senso materiale, veri e propri. Sarà arduo comprendere di che cosa queste debbono occuparsi, e come, ma nessuno metterà in dubbio che esse si occupano di qualcosa, comunque questo qualcosa si costituisca e venga studiato. Ma con
che cosa ha a che fare una riflessione estetica, se il suo oggetto presunto, e non solo nel caso in questione, sfugge da tutte le parti? Certo, non può essere in senso stretto una metateoria rispetto a una o più teorie chiaramente definite o definibili. L’analogia «teoria/metateoria», «linguaggio-oggetto/metalinguaggio », introdotta all’inizio, era significativa, anch’essa, solo come punto di partenza provvisorio, in quanto si assumevano le discipline letterarie come date, e quasi come invito a cogliere e a non dimenticare una differenza. Ma è ormai divenuta insufficiente e perfino analogicamente troppo debole. Metateoria di che, infatti, e in che senso? Forse nel senso di una riflessione, che definisce ciò che le discipline letterarie semplicemente impiegano? Ma che cosa impiegano queste ultime? Oppure nel senso di una conoscenza superiore, che dà a priori istruzioni a conoscenze inferiori, bisognose di aiuto esterno, o che generalizza a posteriori, in forma presuntivamente rigorosa, ciò che queste suggeriscono soltanto, via via, nella loro pratica teorico-empirica? L’idea stessa di una conoscenza del genere è inaccettabile. Chi, in forza di che, con quale diritto può presumere di stabilire in anticipo oggetti, compiti e strategie di altri, che hanno a che fare con oggetti reali dati, o di ridurre poi in sistema compiuto e definitivo, se la parola «rigore» ha un senso, ciò che ha il suo senso proprio in una pratica teorico-empirica determinata ed esposta a tutti gli inevitabili rischi e incidenti di percorso di una ricerca sul campo? Anche a livello di discorso comune — in cui deve sempre essere possibile far intendere almeno pragmaticamente e approssimativamente ciò che si sta facendo, da specialisti, in un campo qualsiasi del sapere — l’estetico troverebbe gravi difficoltà nel tentativo di spiegarsi. Che cosa, come rispondere alla domanda «Che cos'è una riflessione estetica? » o «Che cos'è l’estetica? » Forse, se egli insegna în un istituto di filosofia, che l’estetica è precisamente quella parte speciale della filosofia generale, il cui oggetto sarebbe per caso l’arte tale e quale, o il bello, l’espressione, il sentimento o, peggio, l’«estetico» (das Asthetische, la cosa, non la persona) in genere? Che invece, considerata la fama non buona che in certi ambienti circonda la filosofia, l'estetica è piuttosto una scienza — o parte di una scienza, o intersezione di scienze — che si occuperebbe dell’uso, della funzione, dell’aspetto estetico dei segni verbali e non verbali, della percezione, dei processi di adattamento e di simbolizzazione, o dei comportamenti sociali? Che, data la ricorrenza di certi esempi o re-
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ferenti nel discorso dell’estetico, essa è una sorta di teoria-metodologia delle discipline artistico-letterarie, o addirittura una disciplina del genere, ma con l’accento posto sulle questioni teoriche e di metodo? Oppure che l’estetica non sarebbe altro che la disciplina che si occupa delle idee estetiche fiorite fino ad oggi, o di ciò che hanno detto o possono dire prossimamente gli estetici e tutti coloro che si aggirano e si dànno da fare nei dintorni? Molte di queste risposte, peraltro abbastanza consuete e neppure del tutto false, sono ad evidenza delle pure e semplici petizioni di principio e dei circoli non virtuosi. In altri casi fanno ricorso a nozioni oggi di uso abbastanza comune, ma altrettanto oscure, che risultano da successivi e non sempre coerenti slittamenti di significato, stratificazioni e generalizzazioni dubbie. L’«arte» per esempio, e non solo alle origini della «téchre» o dell’«ars», è una parola che si riferisce a un ordine di fatti assai più esteso: è un «sapere», come ricorda Heidegger ', o «un sapere più un’abilità», come precisa Kant”, riferito al comportamento culturale-produttivo in genere, dal comporre poesia al pilotare una barca, al guidare un esercito, al fabbricare scarpe. Fino a ieri, si può dire, poteva avere una specifica accezione estetica solo nel sintagma «arte bella». Ma la «bellezza» a sua volta definisce l’estetico solo in associazione con altre qualificazioni, connesse e non mai completamente integrabili con quella (come nel caso classico del «sublime», che forma con il «bello» solo un’unità di coppia: «bello e sublime» *), o addirittura con qualificazioni negative (il «brutto», esteticamente rilevante, e non solo come disvalore, in Rosenkranz ‘). È del resto noto che una pura e semplice attribuzione di bellezza sarebbe quanto mai inappropriata, anche soltanto a livello di critica artistico-letteraria, in una quantità di casi esteticamente notevoli, per esempio in quasi tutti i casi che s’inscrivono in un gusto non classicista, e in particolare nell’arte moderna e contemporanea, che ha addirittura messo in crisi, oltre al-
l’aggettivo, anche il sostantivo «arte». La «poesia», altro termine spesso impiegato come quasi-primitivo, segue il medesimo destino: o designa certi fatti particolari (i testi verbali «con metro») o è una specie di metafora d’incerta applicazione, proprio come l’«arte». Ma ammettiamo pure che molte di queste difficoltà siano in sostanza inessenziali, se non a livello vuotamente definitorio, e che ciò che conta sia il significato attuale, positivo delle parole. Ammettiamo inoltre, per ciò stesso, che l’estetica non sia una riflessione né superiore né separata, e che essa tenda invece a confondersi con altre discipline determinate rispetto a oggetti dati, quali che essi siano, ma in quanto soprattutto rivolte a oggetti o aspetti di 1 Cfr. Holzwege, 2 Cfr. 3 Cfr. Beautiful, Erhabenen 4 Cfr.
gna 1984).
m. HEIDEGGER, Der Ursprung des Kunstwerkes (L’origine dell’opera d’arte, 1935-36), in 1950; ed. riv. 1960 (trad. it. Sentieri interrotti, Firenze 1968, p. 44). 1. KANT, Kritik der Urteilskraft, 1790 (trad. it. Critica del Giudizio, Bari 1970", $ 43). E. BURKE, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and 1757 (trad. it. Milano 1945); I. KANT, Beobachtungen tiber das Geftihl des Schonen und (1764), in Werke in zebn Binden, VIII, Darmstadt 1975. J. K. F. ROSENKRANZ, Asthetik des Hîsslichen, 1853 (trad. it. L'estetica del brutto, Bolo-
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oggetti, tra quelli, che possono essere detti artistico-letterari o in ogni caso estetici: «linguistica», «semiotica», «psicologia della percezione», « psicoanalisi», «sociologia», «storiografia», ecc. ecc. Ebbene, nonostante tutto, l’estetico — come risulta già da quegli abbozzi di risposte ed è attestato da problemi e usi linguistici ricorrenti nell’area dell’estetica in senso ampio — non può non vedere che l’estetica, se esiste, è e 707 è tutto questo; che è, sf, in un certo senso, questo ed è però anche qualcosa d’altro; che anzi proprio il questo, che l’estetica per un verso è e che essa condivide con altri tipi d’indagine, si presenta in essa e per essa come qualcosa di diverso. Infatti, non c’è dubbio, una differenza tra «versante metalinguistico» e «versante linguistico-oggettuale», in qualche modo e al di qua di una distinzione formale tra « metalinguaggio» e «linguaggio-oggetto», va futtavia sempre mantenuta. L’estetico,
se si occupa di qualcosa, sicuramente non si occupa di opere d’arte o testi letterari, sebbene tra i suoi referenti più o meno prossimi ci siano anche cose che chiamiamo «opere d’arte» e «testi letterari». Ma allora l’estetica, in questa sua oscillazione interna, sembra precisamen-
te oscillare tra riflessione filosofica, ancora non determinata se non nella sua
«diversità», e indagini teorico-empiriche di vario tipo, per esempio proprio le cosiddette discipline letterarie. Qualcuno, ottimista, potrebbe trovare la cosa ottima. Proprio qui, nell’area dell’estetico, assisteremmo al trionfo dell’interdisciplinarità, che ancor oggi pare a molti segno di vitalità cooperativa e di produttività scientifica. Ma intanto la conseguenza più evidente è che l’estetica viene di fatto ancora una volta riclassificata come «filosofia speciale»: «filosofia dell’arte» o qualcosa del genere. E non è affatto chiaro che cosa sia una filosofia speciale. Essa assomma in definitiva una doppia difficoltà: di essere «filosofia» e di essere per di pit «speciale», quasi in concorrenza con altre discipline e altri tipi d’indagine più empirici. Soprattutto non è chiaro quindi proprio nel caso dell’estetica, che non può giurare affatto sull’esistenza di un’universale «esperienza estetica», per tutte le culture di ogni tempo e luogo, al contrario di ciò che può supporre ragionevolmente, per esempio, l’etica o la filosofia morale. Questa sarà possibile oppure no, capace di comprensione oppure no, rispetto ai problemi etici, ma non c'è dubbio che, se esiste una società, li sorge un dover-essere, un obbligo o un divieto, quale che sia il loro significato, la loro genesi, le loro motivazioni, e comunque questi possano o debbano essere studiati. Anche se inesistente o vuota, come disciplina volta al conoscere o al comprendere, un'etica ha in ogni caso un suo 0ggetto universale e necessario. Ma l’oggetto dell’estetica potrebbe al contrario essere un semplice fatto, non solo contingente, ma anche abbastanza recente. Non a caso, come è noto, l’estetica nasce, almeno istituzionalmente, tardi, nel secolo XVIII, e proprio nel momento in cui si delinea, secondo l’espressione di Srila °, il «moderno sistema delle arti», dalla fenomenologia assai travagliata. In realtà proprio l’idea che l’estetica sia una sorta di metalinguaggio ri° Cfr. P. 0. KRISTELLER, The modern system of the arts (1951-52) (trad. it. Firenze 1977).
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spetto al linguaggio-oggetto delle discipline artistico-letterarie, alle idee .sull’arte, la poesia e la bellezza, alle poetiche e alle teorie (in senso rinascimentale) dell’arte, e agli stessi prodotti delle belle arti, è stata ed è l’origine delle sue più notevoli difficoltà, l’occasione facilitante, pet cui essa ha spesso sbiadito il proprio statuto riflessivo e ha manifestato la tendenza a trasformarsi in filosofiao teoria dell’arte (bella, e anche, si è visto, non-bella, ma pur sempre connessa in vari modi alla bellezza). Teoria, questa volta, in senso forte. Ma malauguratamente e inevitabilmente anche teoria ad hoc, non solo legata ai fatti concreti, scelti via via come propri referenti, ma anche straordinariamente generalizzante. Di qui una sorta di sua ambivalenza, esattamente simmetrica all’oscillazione del suo essere una filosofia speciale: testimonianza del proprio tempo, difficilmente distinguibile dalle testimonianze più concrete, offerte dalla stessa cultura artistica in atto, e anche esplicitazione delle ragioni presuntivamente universali e necessarie, per cui esisterebbero dappertutto e in ogni tempo testimonianze di un’esperienza estetica. Di qui la sua superfluità, dato che l’essenziale sta proprio nel testimoniato e nei testimoni più franchi e diretti, e anche la sua saccenteria, dato che il suo modo di conoscere o comprendere è cosi legato infine ai concreti fatti estetici, o supposti tali, da trasformarsi anche inintenzionalmente in un sistema di principî, di norme, di metodi e perfino di criteri di valutazione. Cosî che i suoi interpreti ritengono spesso opportuno studiarla più sotto il profilo testimoniale (l’«estetica del Romanticismo », l’«estetica dell’espressionismo », e cosî via), che non sotto quel-
lo della sua reale capacità di illuminare un aspetto dell’esperienza in genere. Queste circostanze spiegano in parte certe attuali tendenze dell’estetica: di divenire saggistica testimoniale-militante sui modi attuali o prevedibilmente prossimi dell’estetico o, rifiutando ogni cosiddetto dogmatismo dottrinario, di accogliere in sé tutti quei modi, quelli già testimoniati e quelli ancora solo possibili, nel quadro di una riflessione talmente aperta da risultare alla fine semplicemente nulla. È in linea di principio impossibile sciogliere tali ambiguità, ambivalenze e oscillazioni, finché non si esce dai confini, solo illusoriamente «ragionevoli», dell’estetica testimoniale-generalizzante, dell’estetica
come teoria ad hoc, dell’estetica come filosofia dell’arte o filosofia speciale in genere. Non sorprende quindi che i contributi decisivi alla riflessione estetica siano spesso venuti da pensatori e studiosi, che non possono essere definiti propriamente «estetici professionisti». Nel nostro secolo, per esempio, Wittgenstein, Heidegger, Dewey. Quest’ultimo, in quel bel libro che è Art as Experience (1934) °, si volse precisamente, avendo tuttavia in mente un referente «arte» molto determinato, all’esperienza stessa, in cui e per cui anche un’esperienza estetico-artistica è possibile e comprensibile come tale. Forse lo fece con un qualche eccesso, per cosî dire, di vitalismo. Ciò gli impedî non solo di vedere le consonanze profonde tra il suo pensiero e il pensiero del Kant della Kritik der Urteilskraft (Critica del Giudizio, 1790) che anzi egli fraintese af6 J. DeWEY, Art as Experience, 1934 (trad. it. Firenze 1951, 1967°).
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fatto, ma anche di sfruttare fino in fondo la produttività della sua tesi. Ma insomma Dewey, riportando l’arte a ciò che egli chiamava «esperienza reale», sosteneva appunto che tale esperienza, che pure dà conto della stessa, speciale esperienza artistica, può anche essere qualcosa che «al confronto» è «insignificante», e che, «proprio per la sua grande insignificanza, mette maggiormente in risalto ciò che è un’esperienza». Per esempio: «il pranzo in un ristorante di Parigi» o «quella tempesta che si è incontrata attraversando l’Atlantico»”. E coglieva cosî, in questo modo semplice e icastico, un punto essenziale: che ciò che è innanzi tutto in questione, in una riflessione estetica, è non un'esperienza estetica convenzionale e già costituita, un’esperienza
culturalmente e storicamente determinata, esibibile al limite in una collezione finita di oggetti artistici, ma proprio l’esperienza come tale, il senso stesso dell’esperienza, di cui quella è una sorta di specializzazione storico-empirica. «Esperienza reale», diceva Dewey. Meglio sarebbe dire, con Kant, «esperienza in genere», per mettere bene in evidenza il fatto che un’esperienza reale si presenta sempre come questa o quella esperienza concreta, e che una genuina riflessione sull’esperienza reale non può presentarsi che come una riflessione, all’interno dell’esperienza concreta, su ciò che la rende possibile, sul suo orizzonte, su quella sorta di «anticipazione dell’esperienza» che ci consente propriamente di avere e di parlare di questa o quella esperienza. Ma l’importanza del «non-professionismo», al fine di evitare le trappole tipiche di una filosofia dell’arte, non è affatto una novità recente. Se si guarda alla cosiddetta «nascita dell’estetica», pur senza dare troppo peso a questa espressione sommaria e cosî opinabile, si deve innanzi tutto riconoscere che l’estetica filosofica, nei suoi momenti più significativi, non nasce affatto come una teoria della poesia, della letteratura, delle belle arti o anche del bello come tale, non dunque come una teoria ad hoc, ristretta o generalizzante, ma piuttosto come una «filosofia generale» (espressione usata qui solo in opposizione a «filosofia speciale»), più precisamente come una filosofia della conoscenza, dell’esperienza o della cultura in genere, in quanto richiedente necessariamente al proprio interno anche una considerazione estetica. I tre nomi
canonici, e giustamente tali, di Vico, Baumgarten (Leibniz) e Kant costitui-
scono al riguardo, come ha sottolineato recentemente Hogrebe® in un senso molto vicino a quello delle presenti osservazioni, i tre riferimenti-chiave. Certo, molto di più di un Batteux, che andava ricercando un principio sotto cui unificare tutte le belle arti, o dello stesso Hume, che accettava, pur tra analisi finissime, l’equivalenza «bello-piacere», senza domandarsi come essa giocasse appunto all’interno dell’esperienza in genere. Il « piacere» è in realtà un fondamento ingannevole per l’estetica. Esso è sf qualcosa di universale e necessario. Ma, anche ammesso che sia inoltre geneticamente e originariamente omogeneo, è però certo che esso si specializza poi in motivazioni e di1 Ibid., p. 46. ® Cfr. w. HoGREBE, Die bistorische und systematische Bedeutung der Asthetik Kants, relazione presentata al convegno sullo Statuto dell’estetica (Istituto Banfi, Reggio Emilia 3-6 novembre 1982) e in corso di stampa negli atti del convegno stesso.
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namiche profondamente differenziate, di cui l’unità originaria non riesce più a dar conto. Lo stesso Kant, pur nei limiti della problematica dei suoi tempi, lo mise già in evidenza con argomentazioni che, mutate le cose che debbono essere mutate, sono perfettamente valide ancora oggi”. Con essi, sebbene proprio Baumgarten sia il responsabile della moderna accezione di «estetica», si costituisce non tanto una nuova disciplina filosofica, quanto un campo problematico estetico indisgiungibile dal problema stesso — genetico, fenomenologico o trascendentale — del conoscere, dell’esperire,
del significare: delle radici della razionalità, della sua storia interna, delle sue condizioni di possibilità. Ciò non esclude ovviamente che il loro interesse, come dimostrano gli stessi titoli di talune loro opere, nei riguardi della poesia, delle belle arti, del bello, del giudizio estetico fosse per altro verso molto forte ed esplicito. Ma il punto essenziale e delicato di una riflessione estetica sta non nell’accettare o nel rifiutare l’arte, per esempio, come uno dei suoi possibili referenti, ma nel costituirla o no come suo proprio oggetto formale specifico. In particolare si trattava non di aggiungere al conoscere e ad altre esperienze già istituzionalizzate, nella mappa generale del sapere, un’ulteriore provincia, fino ad allora sconosciuta o disconosciuta, ma di comprendere in primo luogo quella mappa solo potenziale del sapere in senso ampio (conoscenza, pensiero, esperienza, significazione...), e di mostrare che essa non sarebbe neppure pensabile senza una sua interna e preliminare dimensione estetica, che soltanto in seconda istanza, diciamo cosî, è in grado di gettare luce su una qualche cosiddetta esperienza artistica. «Preliminare», in che senso? Non semplicemente in senso storico-temporale, come per certi aspetti Vico può far supporre, senza essere tuttavia riducibile a questa interpretazione semplificatoria. Non semplicemente nel senso di una sorta di descrizione fenomenologica del conoscere, che via via sale per gradi dal confuso e oscuro al chiaro e distinto della conoscenza razionale, come potrebbe far sospettare talvolta Baumgarten, se non si desse il peso che merita alla nozione, ininterpretabile in senso debole, di perfectio. E neppure, e ancor meno, nel senso di un’esperienza preconoscitiva specializzata e autonoma, in quanto garantita da principî specifici, come Kant può far pensare solo ai suoi interpreti disattenti o inclini agli stereotipi di una lectio facilior. «Preliminare», invece, nel senso che non ci si può rappresentare una conoscenza o esperienza effettiva, quale
che sia, senza una precondizione che intellettuale o razionale non è e non può essere. Per dirla in breve, e restando più o meno a ridosso del modo di pensare di allora: conoscere significa maneggiare concetti e predisporre griglie entro cui i casi singoli troveranno il loro posto adeguato, non solo in senso esternamente classificatorio, ma secondo leggi esplicative; ma nessuna griglia è possibile, se innanzi tutto non si dànno i casi singoli, anzi un’esperienza che si va organizzando in vista della formazione e di casi singoli e di concetti; né essa sarebbe di alcuna utilità, se non fossimo in grado — e non sulla base di criteri ? Cfr. 1. KANT, Kritik der Urteilskraft cit., $ 3.
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intellettuali o di altre griglie, che innescherebbero un processo all’infinito — di applicarla ai casi singoli, anzi, prima ancora, di formarla in rapporto a un’esperienza in via di organizzazione. Quindi: i concetti, e la conoscenza stessa,
sarebbero vuoti se innanzi tutto, o nello stesso tempo, l’esperienza non si organizzasse secondo principî non-logici o non-conoscitivi o non-intellettuali (tutte espressioni quasi equivalenti in Kant), ma appunto estetici. Ora, che
significa qui «estetico», nella sua valenza non meramente negativa? Rifacciamoci a Kant in particolare. Non si può dunque parlare di esperienza in genere, se non come di qualcosa che ha le sue condizioni di possibilità in una capacità di organizzazione e di controllo intellettuale e, nello stesso tempo, in una capacità di elaborare le percezioni e di organizzarle esteticamente. Tale capacità non può consistere nel prendere e associare ciò che ci tisulta alla percezione, sulla base del fatto che semplicemente abbiamo percezioni. Ciò equivarrebbe in sostanza a un «muoverci a caso»: possibilità puramente pensabile, che Kant non esclude affatto come tale, allorché parla di esperienza come «aggregato», ma che per altro verso non possiamo ammettere, se semplicemente si dà un’esperienza effettiva, vera o non vera che sia, ma in ogni caso in qualche misura organizzata. Quella capacità allora deve supporre un qualche principio, estetico e non intellettuale, cioè soggettivo, non nel senso di completamente «arbitrario» e « privato», ma nel senso che esso, per se stesso, non determina nulla nell’oggetto, non ce lo fa propriamente conoscere. È infatti un principio per la conoscenza, non di conoscenza, come i principî intellettuali. È tuttavia un principio vero e proprio, un «princi-
pio trascendentale», in quanto deve essere necessariamente supposto prizza di
ogni esperienza determinata, se non per la «natura», per le «facoltà di conoscere» (immaginazione e intelletto). Vale a dire, come crede di poter dimostrare Kant, un «sentimento» come principio. E crede a ragione di poter dimostrarlo, perché tale principio #0 viene ricavato dal nostro desiderio di non essere chiusi nella nostra incertezza, e quando conosciamo empiricamente e quando proviamo un sentimento di piacere per una cosa bella; zo quindi dalla nostra invincibile riluttanza a riconoscere che la nostra esperienza può essere anche non oggettiva e non affidabile, e che in particolare il giudizio di gusto, non avendo alcuna intrinseca dignità intersoggettiva, non è che un mettere-in-comune un’approvazione, fondata su un piacere puramente soggettivo, come accade con il cosiddetto « piacevole»; 724 viene invece legittimato in prima istanza come ingrediente indispensabile della universale comunicabilità della conoscenza, che senza quel principio si ridurrebbe a un semplice «gioco di rappresentazioni» ". Si badi: comunicabilità, non validità della conoscenza, cioè in sostanza capacità di significare, non l’essere apoditticamente certi delle conoscenze che via via conseguiamo. Ed è a questo punto, non prima — come dimostra senza ombra di dubbio una lettura adeguata della Kritik der Urteilskraft, e in particolare della sua introduzione definitiva —, che il problema di un principio estetico incontra, per cosî dire, le questioni 10 Ibid., trad. it. p. 22.
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apparentemente solo specifiche del bello, dell’arte bella, del gusto, del giudizio estetico ". Quell’incontro tuttavia non è né occasionale, né privo di notevole portata critica. Per un verso infatti quel principio, senza di cui non è possibile un’esperienza in genere e non è quindi neppure pensabile ogni esperienza o conoscenza determinata e particolare, ha z0r la sua applicazione specifica ed esclusiva nella provincia separata della bellezza, 724 piuttosto solo la sua applicazione esemplare. Per altro verso proprio qui esso ha, nella terminologia kantiana, il suo proprio «dominio» e, quindi, una possibilità di legittimazione in senso stretto. Qui esso è un principio «costitutivo» — che funziona solo «regolativamente» nel «territorio» della conoscenza d’esperienza — e, come tale,
permette una vera e propria «critica» della facoltà di giudicare. L’uso costitutivo del principio nell’ambito della bellezza e del gusto non è in sostanza che la manifestazione tipica o «pura » della funzione del sentimento come sentimento comune, come originario con-senso, sulla cui base poi si può non solo consentire intellettualmente, ma anche dissentire: la garanzia puramente estetica che la nostra esperienza non è un «gioco di rappresentazioni ».+Che è un modo, questo, già ovvio per la gnoseologia empiristica, di accettare l’esperienza cosi com'è, o meglio come essa pare che si presenti attraverso esperienzepercezioni determinate, e quindi di non raccapezzarcisi, neanche nella confusione. Ma accettarla non significa semplicemente disattendere un’esigenza etico-speculativa, di dare alla facoltà del giudizio, fornita dei suoi bravi principî a priori, una patente di facoltà autentica. Significherebbe piuttosto disattendere l’esperienza come tale, cioè l’esigenza — questa, sî, insopprimibile — di formarla, costruirla, comunicarla e insomma, per quanto è possibile, orientarcisi e anche perdercisi. Ciò che Kant non ammette è non che si possa avere di fatto un’esperienza parziale, entro certi limiti incoerente e magari anche in parte disperante, e che l’ordine che in qualche modo intravvediamo non corrisponda affatto all’ordine oggettivo della natura, ma che si possa averla per aggiunzione meccanica di fatti via via esperiti, senza ipotesi anticipatrici, senza un «filo conduttore», senza un’anticipazione dell’esperienza in genere, resa possibile da un principio con un suo dominio. Ma c’è di più, come implicitamente si è già suggerito. Tale principio non giunge soltanto per colmare una lacuna: per rendere davvero possibile non solo la «natura» o la «conoscenza in genere», di cui sono già responsabili, pet Kant, i «principî dell’intelletto», ma anche la «natura» o la «conoscenza nella sua particolarità», se è possibile e per quanto è possibile nella sua più alta sistematicità. Questo è senza dubbio uno dei compiti espliciti e più evidenti di Kant. Ma esso comporta anche una trasformazione abbastanza radicale dell’intera macchina critica. In realtà il carattere preliminare, irriducibile all’intelletto, del principio estetico vuol dire anche che, prima di conoscerla e pro!! Per un orientamento più dettagliato su tali questioni, cfr. E. GARRONI, Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla «Critica del Giudizio», Roma 1976; ., Il senso e il paradosso, Bari (in corso di stampa).
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prio per poterla conoscere, noi siamo tutti immersi nella natura, cosî come essa ci appare via via nell’esperienza: e che solo a partire da quell’essere-immersi è poi pensabile una conoscenza. In altre parole: essere innanzi tutto consapevoli esteticamente — in un sentimento che non è di ciascuno di noi, in quanto singoli — della natura e del nostro starci-dentro modifica non marginalmente la primitiva pretesa kantiana di esaminare la possibilità della conoscenza in modo rigoroso e definitivo, e in qualche modo ancora dall’esterno: a partire dall’intuizione, per cui qualcosa può essere dato ai sensi, all’intelletto, che lo pone sotto concetti, passando attraverso la mediazione dello «schematismo » dell’immaginazione. Con la riflessione estetica della Kritik der Urteilskraft non solo nasce esplicitamente un nuovo schematismo — libero, senza concetti — come capacità di organizzazione precategoriale delle percezioni, ma addirittura sembra ridimensionarsi notevolmente la primitiva Estetica trascendentale della Kritik der reinen Vernuntt (Critica della ragion pura, 1781-87). Che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello spazio e del tempo non è insomma che wr aspetto della questione dell’intuizione e dell’immaginazione, non esauribili in termini di «forme» spazio-temporali rispetto a una «materia» sensibile. Il centro del problema, di fronte.a quell’aspetto, è ora la loro interna capacità organizzativa, affidata a un principio estetico che esprime una sorta di originaria adesione del soggetto all’esperienza. Certo, Kant non arriverà mai, completamente e in forma del tutto esplicita, a conclusioni cosî radicali. Ma la tendenza interna del suo pensiero tardo è orientata, in modo ben documentato, proprio in questo senso, come accadrà per esempio nella nozione apparentemente bizzarra di «fenomeno di fenomeno» del cosiddetto Opus postumum (1796-1804): segno evidente del nuovo atteggiamento critico, tale da comportare appunto un ridimensionamento dell’Estetica trascendentale. E, se si pensa che la problematica relativa all’intuizione, all’immaginazione e allo schematismo è in sostanza, per ammissione dello stesso Kant, una problematica del «significato» (dei concetti), si vede anche come, nell’arco dell'intero pensiero critico, si affermi via via, accanto e dentro la questione del significato, anche una questione che potremmo dire del «senso»: il «significato» essendo legato al modello di una unificazione intellettuale del molteplice sensibile, e il «senso» invece a un modello di unificazione estetica, tali per cui in linea di diritto il significato presuppone il senso, e non viceversa, anche se poi di fatto non ci sarà senso senza significato, e naturalmente viceversa. Insomma: nel principio estetico kantiano è annidata precisamente la questione di una (per noi) originaria istituzione del senso, come apertura al significare, in cui consiste quella più profonda «questione del linguaggio» che Kant, come gli è stato tante volte rimproverato a cominciar e dai contemporanei, non avrebbe mai tematizzato e affrontato. In questo senso il più «fedele» interprete di Kant sarebbe proprio l’antikantiano Hegel, la cui Asthetik (1817-29) ” deve essere letta non già come una sorta di « storia idea1° G. W. F. HEGEL, Asthetik, 1955 (trad. it. Estetica, Torino 1967).
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le» del bello artistico e delle arti, secondo una ormai vieta concezione della dialettica dell’Idea e dello Spirito, che configurerebbe l’estetica hegeliana come una datatissima e inadeguata «razionalizzazione », a cose fatte e sulla base di una cultura artistica storicamente determinata, di ciò che del bello e dell’arte si poteva pensare ai suoi tempi. Hegel in qualche modo ha fatto anche questo. Ma ha fatto di più e di meglio: e la sua estetica, a leggerla nei suoi luoghi teorici fondamentali, è piuttosto una «riflessione» (parola apparentemente strana, se riferita al critico delle «filosofie della riflessione») intorno al problema dell’istituzione del senso, di quella vocazione al significare, per cui è possibile esemplarmente anche l’arte, ma nello stesso tempo il linguaggio, la conoscenza, anzi la cultura in genere. Ma che fosse un critico delle filosofie della riflessione, non vuol dire altro che questo: che non è possibile o pensabile una riflessione separata e dall’esterno, e che ogni riflessione si svolge già da sempre all’interno dell’esperienza, i cui ultimi e definitivi confini non possiamo, senza contraddizione, disegnare e abbracciare. Non dunque un abbandono del compito critico, ma un suo approfondimento. È sul problema del senso che l’estetica moderna, nelle sue espressioni più significative, soprattutto non-professionistiche, si è incentrata. Si pensi di passaggio al caso dello stesso Croce, il cui pensiero si è tuttavia divulgato proprio nel senso di una sorta di filosofia dell’arte. In realtà si tratta invece di un’estetica «trascendentale» in senso ampio, anche se il termine non rientrava nella sua costellazione terminologica *. Il problema dell’arte fa tutt’uno, in lui, con il problema del linguaggio: è appena il caso di ricordare che la sua maggiore opera dedicata alla questione s’intitola Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), con una curiosa e fuorviante omonimia, per i
lettori più recenti, rispetto all’identica espressione saussuriana che diventerà poi dominante. L’arte non viene riportata in Croce sotto una teoria dell’arte, né il linguaggio sotto una teoria linguistica, ma l’arte-linguaggio viene posta innanzi tutto sotto la categoria trascendentale dell’intuizione-espressione, alla cui condizione il senso, e non ancora il significato, si istituisce, senza che con ciò venga in alcun modo definita una classe di oggetti, le «opere d’arte» o che altro. Né d’altra parte gli si può fare il torto, anche in assenza ipotetica di chiare indicazioni testuali, di fargli pensare il linguaggio e l’arte stessa, nel loro realizzarsi in opere, testi ed espressioni verbali, come qualcosa che non avrebbe a che fare con i significati, con i concetti empirici e con il pensiero in genere. La sua estetica è appunto una «scienza dell’espressione» trascendentale, e la sua linguistica è parimenti una «linguistica generale» trascendentale: una riflessione che mira a comprendere le condizioni universali e necessarie e dell’arte e del linguaggio, come loro primario, originario orizzonte estetico. Che poi l’istanza storicistica — che avrebbe dovuto spingerlo verso un approfondimento della possibilità di una riflessione filosofica ella storia stessa: ne è testimonianza 4 contrario la nota polemica che ci fu negli anni ’20 tra 13 Cfr. p. D'ANGELO, L'estetica di Benedetto Croce, Bari 1982.
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Croce “ e Carabellese ”, che gli proponeva l’urgenza di ciò che quest’ultimo chiamava « problema interno della filosofia» — abbia favorito invece un curioso sospetto nei riguardi della speculazione dei filosofi accademici e della loro «boria», e quindi lo slittamento del trascendentale sul concreto, con una sorta di sclerotizzazione della riflessione in teoria dell’arte, questo è l’altro aspetto del pensiero di Croce, messo in evidenza soprattutto da taluni suoi seguaci e interpreti. Il filosofo storicista e anticlassificatorio per eccellenza si trasformava, sf, in filosofo antistoricista e classificatorio. Ma l’esigenza originaria, come appare in particolare nella tarda e tormentata La poesia (1936), non veniva mai del tutto meno. Il problema del senso e il problema della filosofia (nel senso di un genitivo
oggettivo) sono in realtà strettamente legati, e cosi li ritroviamo precisamen-
te e in Heidegger e in Wittgenstein, se è vero che entrambi possono sorgere propriamente soltanto da un essere-immersi-innanzi-tutto-nel-mondo. (Altrimenti nascono piuttosto e soltanto il problema del significato e i problemi della filosofia, ma nel senso di un genitivo soggettivo). Nonostante le forti differenze, essi si accomunano nel percepire il fondamentale problema della filosofia, sempre di più (a partire da Sein und Zeit (Essere e tempo, 1927) e dal Tractatus logico-philosophicus, 1922) nell’unico modo ormai pensabile: come un problema fondamentale e paradossale ‘, proponibile-nella-sua-improponibilità, come una sorta di «riflessione verticale», come una ri-comprensione all'interno del già-compreso, come un pensare originario all’interno del contingente e dell’occasionale, o insomma come una filosofia trascendentale che non può negarsi od obliterarsi nelle determinatezze, senza riproporsi come cattiva filosofia non-pensata, e nello stesso tempo non può neppure trarsene fuori e guardarle come oggetti in ogni senso isolati e delimitati, cioè come una filosofia che mira innanzi tutto al senso in cui già da sempre stiamo, piuttosto che
ai significati che via via determiniamo. Ciò che si delinea, in tal modo, è non una filosofia dell’indicibile, come nella tradizione mistica, quanto una filoso-
fia essa stessa indicibile, che pure in qualche modo deve essere detta nel paradosso dell’unità di condizione e condizionato o nell’esperienza, da cui emerge, senza mai costituirsi in disciplina autonoma, specialistica e istituzionale. Ed è qui che cercheremo le ragioni più stringenti del pensare frammentario, per aforismi riluttanti a comporsi in sistema, di Wittgenstein, nonché del linguaggio allusivo, metaforizzante, ricco di etimologie arbitrarie e di neologismi sorprendenti, di Heidegger. La questione nodale è qui: nel problema della riflessione filosofica, in quanto sforzo di risalimento, all’interno e per mezzo di significati, al senso che li rende possibili, o alle condizioni dell’esperire-edel-significare, cioè al suo senso originario come anticipazione dell’esperiree-del-significare in genere. Si tratta non più quindi, come nelle classiche «filosofie della riflessione», di un problema che precede i problemi oggettivi della Ki Cfr. 8. croce, La filosofia come «inconcludenza sublime» (1921), in Ultimi saggi, Bari 1963}. si Cfr. P. CARABELLESE, Che cos'è la filosofia? (1921), in Che cos'è la filosofia? (L’ontologismo critico: primi saggi, II), Roma 19422. !6 Cfr. E. GARRONI, I paradossi dell’esperienza, in Enciclopedia, XV, Torino 1982.
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filosofia, ma di un problema interno della filosofia che fa corpo con quelli: un problema «vissuto» all’interno della riflessione filosofica, nella sua intrinseca, insopprimibile, addirittura fondante paradossalità. Anche in senso letterale: qualcosa che, aderendo strettamente alla determinatezza dell’« opinione», della d6xa, la rimette continuamente in gioco e in scacco, per coglierne — per quanto è possibile-e-impossibile — la determinazione interna originaria, nondossastica o antidossastica. Proprio in questo senso un’«estetica» genuina circola dappertutto, pervasivamente, nel pensiero di Wittgenstein e di Heidegger. Basterebbe pensare, per quanto riguarda il primo, alla sua continua revoca-riaffermazione della filosofia (in particolare nelle Philosophische Untersuchungen (Ricerche filosofiche, 1941-49)), al suo carattere non-conoscitivo di «ri-conoscimento», alla sua futilità (quasi qualcosa di destinato a sparire) e insieme necessità, alla definizione di concetto-classe come, per cosî dire, prodotto tardo rispetto alle «famiglie di significati», che lo rendono possibile, e infine all’idea stessa di significato come qualcosa di originario, legato al linguaggio-uso inteso come Urphinomen, e tale quindi da rimandare a ciò che qui è stato detto «senso» ”. Soltanto sotto questo profilo; non confondibile con un qualche pragmatismo o comportamentismo banali, s'intende in che senso per Wittgenstein il parlare e il significare siano, al pari di altri comportamenti propri dell’uomo e degli animali in genere, «forme di vita» !. Non si tratta infatti, serzplicemente, di ridurre il linguaggio a mero fenomeno osservabile e a un comportamento etologico (anche se in senso non banale le cose stanno proprio cost), visti dall’esterno da un osservatore distaccato e neutrale. Questo è un modo di pensare che sta esattamente agli antipodi del modo di pensare di Wittgenstein. Esso presuppone l’estrapolazione di un fenomeno determinato (l’osservazione di un fatto) dalla sua determinatezza già immersa nella vita e la sua totalizzazione in una filosofia sistematica e autonoma. Amzzzesso e non concesso che il singolo osservatore di un singolo fatto possa essere considerato un puro osservatore distaccato e neutrale, la stessa cosa non è în alcun modo neppure pensabile per chi riflette sull’osservare stesso, sull’avere-a-che-fare con oggetti in genere, per parlarne e anche conoscerli. Il linguaggio sarà pure una molteplicità eterogenea di «giochi linguistici», tra i quali esistono solo «somiglianze di famiglia», ma ciò non si esaurisce in una mera constatazione oggettiva e positiva, come se a parlarne fosse un osservatore esterno. Noi possiamo e dobbiamo în qualche modo parlarne, al contrario, proprio in quanto sono una famiglia di giochi linguistici, nella quale già stiamo, mediante un gioco linguistico (quello giocato per esempio nelle Philosophische Untersuchungen), che è e non è nello stesso tempo uno dei tanti giochi linguistici. Se soltanto non lo fosse, esso sarebbe un metalinguaggio che non sa in realtà di quale linguaggio-oggetto parlare. Ma se soltanto lo fosse, non potrebbe di nuovo parlare di giochi linguistici in genere. In esso si rivela piuttosto l’orizzonte di senso che I Cfr. L. WITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen cit., $$ 109, 126, 133, 67-68, 654. 18 Ibid., $ 23, passim.
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la filosofia paradossalmente" risale dall'interno ed entro cui riconosce sempre di nuovo tutti gli altri. Un tale orizzonte non è ad evidenza un orizzonte logico-intellettuale-conoscitivo, non è descrivibile nel suo intero contorno, in modo definitivo e tutto esplicito: è un essere-già-nella-vita, ed esige in primo luogo una dimensione estetica del significare o un’instaurazione di senso, che esprime la nostra capacità (estetica, appunto: proprio un «sentimento», come
voleva Kant, o la «situazione emotiva», la Befindlichkeit heideggeriana?) di sentirci-in-quanto-immersi. Non quindi un essere-gettati daun esterno impen-
sabile nella vita e nel mondo, entro cui ci sarebbe dato di vederci completamente, ogni volta che decidessimo di tornare provvisoriamente al di fuori: l’uomo non ha provenienza, ed è appunto già nella vita e nel mondo, dove deve darsi-da-fare, per rendersene conto, nell’unico modo a lui possibile, vedendosi e ri-vedendosi, conoscendosi e ri-conoscendosi continuamente e non mai completamente, come invece in qualche modo vediamo o ci illudiamo di vedere gli enti che ci circondano nella loro completa configurazione. Le poche riflessioni di «estetica» in senso convenzionale, che ci sono rimaste soprattut-
to attraverso gli appunti di suoi allievi, paiono dimostrare che a Wittgenstein non sfuggiva affatto la profonda analogia tra l’estetico che è in gioco nelle opere d’arte, nella loro produzione e fruizione, e il senso del linguaggio e di ogni altra esperienza ”.. . L’analogia tra il nucleo problematico che dà senso all’intero pensiero pragmatico-estetico di Wittgenstein e il pensiero centrale di Heidegger dovrebbe già essere apparso in tutta la sua evidenza. Ciò che si è detto di Wittgenstein, nel rispetto sostanziale dei testi, potrebbe essere ripetuto, quasi parola per parola, con minimi aggiustamenti, nei riguardi di Heidegger. Innanzi tutto il nesso strettissimo tra riflessione estetica e problema interno della filosofia, quale appare nell’analisi magistrale dell’essere-nel-mondo dell’Essetci e in particolare nella determinazione degli «esistenziali fondamentali che costituiscono l’essere del Ci, cioè dell’apertura dell’essere-nel-mondo» nella «situazione emotiva» (Befindlichkeit, che è anche più semplicemente il «trovarsi», e quindi il «sentirsi in situazione») e nella «comprensione» (Versteber)?. Insomma: comprendere e sentire, dove l’«e» indica una relazione di cooriginarietà. Non è neppure il caso di precisare che «situazione emotiva», che pure ha riscontri anche a livello psicologico, non ha di per sé niente di psicologico, né è qualcosa di «ontico», né è una delle «categorie» «che sono determinazioni d’essere degli enti non conformi all’Esserci», gli enti semplicemente-presenti o senza-mondo che l’Esserci «incontra». Essa è un «esistenziale» e appartiene a una considerazione «ontologica», pit originaria, rispetto a quella degli enti semplicemente-presenti, dell’Esserci, cioè di quell’ente che, per la sua costituzione, permette che anche s’incontrino enti semplicemente-presenti, che stanno nel mondo come l’acqua nel bicchiere o la chiave nella toppa. 1° SE Belief, 2"
Cfr. E. GARRONI, I paradossi dell'esperienza cit. Ciroti WITTGENSTEIN, Lectures and Conversations on Aestethics, Psychology and Religious 1966 (trad. it. Milano 1967). Cfr. M. HEIDEGGER, Sei und Zeit, 1927 (trad. it. Essere e tempo, Torino 1960, p. 259).
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Essa, precisa per di più Heidegger, si distingue essenzialmente dal «modo di accesso» all’ente semplicemente-presente, che per l’ontologia antica è il noeîn o il [6gos”, ed ha piuttosto una maggiore affinità con quel «luogo» più originario della verità, che è appunto non il /6gos, ma l’aisthesis?. Inoltre, già in Sein und Zeit, s'intravede una relazione significativa e non convenzionale, nel senso più volte additato, con i problemi convenzionali dell’estetica. A proposito di Befindlichkeit dice Heidegger che «la comunicazione delle possibilità esistenziali della situazione emotiva, cioè l'apertura dell’esistenza, può costituire il fine specifico del discorso “poetico” (der “dichtenden” Rede)»”. Le virgolette non sono casuali: per un verso esse indicano una presa di distanze nei confronti di un’estetica convenzionale, che elegga per esempio la poesia a proprio oggetto, e per altro verso esse sono anche una sorta di premonizione di sviluppi prossimi, già in gestazione, nel senso di un’integrazione sempre più stretta di, diciamo, filosofia in genere ed estetica. Solo che in Heidegger, soprattutto nel saggio fondamentale Der Ursprung des Kunstwerkes (L’origine dell’opera d’arte, 1935-36), oltre che pervasivamente in tutta l’opera successiva, viene appunto tematizzata esplicitamente, a differenza di Wittgenstein, un’estetica come filosofia, o una filosofia come
estetica. Questo non è forse, per comprensibili ragioni terminologiche, il modo di esprimersi letterale di Heidegger, ma è proprio ciò che egli dice in sostanza, se interpretato e riformulato adeguatamente e nel rispetto dei testi?. Il punto centrale, se appena si vogliono richiamare i tratti sommari e salienti della questione, è sempre nel concetto, continuamente insistito, di «verità» come «aletheia», «non-nascondimento». La verità è appunto «illuminazione» (Lichtung: più propriamente radura, nel senso francese clairière ‘zona priva di alberi, illuminata, in una foresta’), che suppone, per essere tale, un «nascondimento». Non è uno «scenario immobile, a sipario costantemente
sollevato» ”°. « Avviene» (geschieht), non è da sempre cosî com'è, al modo di un «ente» totalmente illuminato o tale da risiedere «in un qualche luogo iperuranio, al modo della semplice-presenza», per poi trasferirsi nell’ente ”. Essa «diviene-evento », e appartiene quindi alla sua essenza «ciò a cui diamo qui il nome di istituzione (Einrichtung)»”. Vale a dire: la verità non è, ma si isti-
tuisce, secondo modi diversi, per esempio come «interrogazione del pensiero» o come «porsi-in-opera della verità» (sich-ins-Werk-setzen der Wabrbeit), con riferimento a una condizione originaria non confondibile con la condizione o la definizione di una qualsiasi estetica ad hoc, ma tuttavia proprio estetica in senso trascendentale, e nello stesso tempo con un’allusione, 2 Ibid. 2 Ibid., p. 93. 2 Ibid., p. 262. 2 Cfr. E. GARRONI, I/ problema della specificità della poesia e dell’arte in «Der Ursprung des Kunstwerkes» di Heidegger, in «Storia dell’arte», n. 38-40 (Studi in onore di Cesare Brandi)
(1980), pp. 441-56.
:
2 Cfr. M. HEMEGGER, Der Ursprung des Kunstwerkes cit., trad. it. p. 39. 2 Ibid., p. 46. 28 Ibid.
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per cosî dire, «di secondo grado» proprio a quelle opere tipiche che sono le cosiddette opere d’arte. È interessante notare che proprio sulla questione dell’Einrichtung ci sono, in Heidegger, oscillazioni significative, che mettono in evidenza da una parte il carattere «trascendentale» della sua riflessione («originario», preferisce dire Heidegger, soprattutto dopo Sein und Zeit), e dall’altra parte il problema di un'estetica non convenzionale come problema di tutta la filosofia e, insieme, di una sua parte. In particolare il «porsi-in-opera della verità» ha una doppia valenza, manifestata appunto da oscillazioni e aggiustamenti, testimoniati più esplicitamente dal tardo Zusatz, aggiunto al saggio qui in discussione. Per un verso esso sembra essere soltanto uno dei modi dell’istituirsi della verità, per altro verso è piuttosto lo stesso istituirsi della verità, in accordo con il tono estetico fondamentale della verità come «fenomeno», come apparire o rivelarsi. La questione non è facilmente esplicitabile ed esponibile in modo definitivo, ma ron perché essa sia mal posta, 724 perché fondamentale, liminare e irrinunciabile, tale da presentarsi come uno di quei paradossi autentici e non banali, con cui la filosofia ha inevitabilmente a che fare e che anzi non deve illudersi di eliminare. La loro presunta eliminazione comporterebbe precisamente un ritorno alla metafisica realistica tradizionale, all’ontologia dell’ente semplicemente-presente, e una sconfessione del nuovo modo di porsi di un’esigenza critica come problema interno del riflettere. Il senso della questione non può tuttavia sfuggire: la verità si istituisce i ogni caso come lotta-
unità di
«mondo» (Welt) e «terra» (Erde):
determinazioni «intermedie»
che suppongono, ciascuna, una più originaria correlazione di «illuminazione» e «nascondimento» ”. Ed è in questa correlazione originaria che si giustifica l’unità di Einrichtung in generale e del suo modo specifico come «porsi-inopera». In ogni caso, cioè, si ha a che fare con una unità-differenza di illumi-
nazione e nascondimento, sia nel «pensare», o insomma nella filosofia, sia nel
«porre-in-opera-la-verità», in ciò che chiamiamo «opera» in modo tipico o
«opera d’arte», con un’accentuazione nel primo caso, per cosî dire, del mo-
mento dell’illuminazione e, nel secondo, del momento del nascondimento, e quindi della «terra», in cui il nascondimento è dominante. (Il che comporta anche letteralmente, in Heidegger, una messa in evidenza, un emergere della «materia»: problema tipico anche delle estetiche convenzionali). E infatti, come si legge in un passo assai aspro e sulle prime oscurissimo, «la lotta non è un tratto (Riss ‘tratto’, ‘strappo’, ‘lacerazione’) che spalanchi un baratro, ma è l’intimità di un convenirsi reciproco dei lottanti. Un tal tratto attrae i contendenti verso l’origine della loro unità, in base al comune fondamento. Esso è un disegno fondamentale (Grund-riss). Esso è il profilo (Auf-riss) che disegna i tratti fondamentali dell’illuminazione dell’ente. Questo tratto non permette che gli opposti si dilacerino separandosi, ma inserisce la contrapposizione di misura e limite in un unico contorno (Urz-riss)»®. Ma il porsi-in2 Ibid., p. 40.
® Ibid., pp. 47-48.
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opera della verità, il suo istituirsi in ente, è possibile «solo se ciò che deve essere prodotto, il tratto, si affida all’autochiudentesi che emerge nell’Aperto», cioè alla «terra» o alla dominanza del nascondimento *. Si tratta infine
di condizioni trascendentali che riguardano non solo l’arte, come oggetto o categoria di oggetti già costituiti, ma kantianamente l’esperienza in genere, che già prevedono due sensi di lettura, nel senso della dominanza dell’illuminazione e nel senso della dominanza del nascondimento. Dominanza che è tuttavia possibile solo in rapporto a un «comune fondamento», che Heidegger a un certo punto formula con esplicito paradosso come identità di «verità» e «non-verità» *. La dominanza del secondo tipo è ciò che può essere esperito in modo esemplare nel caso delle cosiddette «opere d’arte», di cui non rappresenta quindi una «definizione», o forse più precisamente in quegli enti-prodotti in cui scopriamo, ci accade di scoprire o anche c’interessa di scoprire, l'aspetto della dominanza del nascondimento, della terra, della materia, nonché in primo luogo del senso, che in essi tanto più si rivela, quanto più essi si fanno interni a se stessi ed emergono proprio come «autochiudentisi». Proprio là «il tratto deve ritirarsi nell’ostinato pesantore della pietra, nella sorda resistenza del legno, nell’intensa vampa dei colori», e cosî via, e proprio perché i metalli si facciano «lampeggianti e rilucenti», i colori «splendenti», i suoni «risuonanti», la parola «dicente» (die Metalle kommen zum Blitzen und Schimmern, die Farben zum Leuchten, der Ton zum Klingen, das Wort zum
Sagen)”. Nasce cosî la nozione di «figura» (Gestalt), che è precisamente la lotta stessa di mondo e terra «che viene condotta nel tratto» e «in tal modo ricondotta alla terra e qui fissata» *. Con ciò comincia a essere possibile comprendere l’essere-opera dell’opera, senza tuttavia distinguerla categorialmente, e ancor meno classificatoriamente, dal pensiero o dalla filosofia, dato che in
entrambi i casi c'è pur sempre lotta tra mondo e terra, correlazione tra illuminazione e nascondimento, o — con terminologia appena diversa da quella di Heidegger, che usa spesso espressioni analoghe — presupposizione reciproca di «esplicitezza» e «implicitezza», tra «significato» e «senso». È nell’implicitezza o nel senso che riconosceremo quella condizione estetica che è indisgiungibile dal pensiero, che rende possibile un’esperienza quale che sia e che ha per altro verso una esibizione esemplare nelle opere d’arte (nelle «grandi» opere d’arte, tiene a precisare Heidegger), in quanto esemplarmente portatrici di senso. 4.
Conclusioni e aperture.
Chi si aspettasse, da una riflessione estetica, conclusioni nel senso di «direttive» per le discipline letterarie, resterebbe assai deluso dal quadro proble31 Ibid., p. 48. 3 Ibid., p. 45.
3 Tb:dipoiati
% Ibid., p. 48.
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matico che si è appena tracciato sommariamente. Ma costui penserebbe, anche, all’estetica come a qualcosa che l’estetica non è e non deve essere. Avrebbe anche un’idea falsante di ciò che si chiama di solito e in modo equivoco «interdisciplinarità». Pit che un'illusione, è un vero e proprio errore di pigrizia, tale da favorire le ricerche di routine, pensare che una disciplina quale che sia possa dare qualcosa a un’altra, di cui questa avrebbe bisogno. E ciò perfino nei campi di ricerca più standardizzati. In realtà, quando qualcosa di simile accade, è vero piuttosto che si è costituito un nuovo, originale campo di ricerca, e che le discipline ad esso interessate si sono trasformate in un’unica disciplina. Ciò non significa che tra le tante indagini esistenti, in quanto distinte, ci sia completa dissociazione. Talvolta anzi i loro rapporti, interni a ciascuna, possono essere anche molto stretti, ma appunto nel senso che esse si presuppongono a vicenda. E il presupporsi a vicenda è cosa molto diversa dalla interdisciplinarità banale: la disciplina presupposta non dà propriamente contributi, ma, in quanto presupposta, è in qualche modo interna alla disciplina presupponente. Inoltre in tale presupporsi a vicenda, che rende possibile anche un rapporto esterzo, può capitare che l’una stimoli l’altra in direzioni cui dapprima non si era pensato. Cost che in particolare, se un cultore di discipline letterarie si aspettasse una specie di contributo, da mettere poi in pratica, egli non solo fraintenderebbe il senso dell’estetica e di una genuina, non banale interdisciplinarità, ma fraintenderebbe anche la ricerca che coltiva in proprio. Nel caso di una montante e generalizzata « disposizione di scetticismo», potrebbe essere tentato per esempio di collezionare «contributi» presi da ogni parte, un po” dalla sociologia, un po’ dalla linguistica, un po’ dalla psicoanalisi, e cosî via, mascherando o esaltando l’incertezza con la disponibilità e l’eclettismo. Che è qualcosa di negativo non per se stesso, ma per la sua sterilità. Ma, se invece ci si aspettano conclusioni nel senso di una «compr
ensione» — quale è possibile a una riflessione estetica, come tale non trasferibile immediatamente altrove —, allora forse non vi sarà delusione. Il quadro to, sarà senza dubbio discutibile in molti punti, e magari anche , qui offerda respingere in blocco. Ma, qualche conclusione, la offre effettivamente : tale da poter aspirare a concorrere alla formazione di un insieme di presup posti, sia pure non utilizzabili al modo di criteri, anche per le discipline letterarie. Almeno in questo senso: che esso in qualche misura esplicita o ricomprende ciò che quelle discipline in qualche modo sapevano già. Questo è del resto il destino, ma un destino non «reo», di ciò che chiamiamo « filosof ia», che è non di conoscere o comprendere il non-mai-compreso, ma di compre ndere o ricomprendere ciò che in un certo senso, come pensava Wittgenstein , e lo stesso Heidegger, è già sotto gli occhi di tutti. Ma una ri-comprensi one (una «tipetizione», una Wiederholung, nella terminologia del Heideg ger del Kant und das Problem der Metaphysik, 192 9 ') non è affatto, necess ariamente, una era ri3 ., Kant und das Problem der Metapbysik, 1973* (trad. it. Kant e il problema della metafisica, Bari 1981).
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petizione, una tautologia superflua. È un approfondimento, un vedere meglio ciò che già si vedeva, almeno in relazione allo sfondo culturale che non determina, ma preme su un’esigenza di comprensione. Le «conclusioni comprendenti», che possono forse interessare il cultore di discipline letterarie, sono in sostanza due. Innanzi tutto che non esiste la possibilità di una definizione rigorosa o quasi-rigorosa di «letteratura» (o di nozioni analoghe). Ir secondo luogo che è tuttavia legittima proprio una ricerca intorno a ciò che chiamiamo «letteratura». Anche questo è un piccolo paradosso. Le due conclusioni paiono escludersi a vicenda. In realtà esse possono integrarsi l’una con l’altra, se si tiene distinta, come si deve fare, la questione della legittimità dalle questioni di fatto. Che una definizione di letteratura comporti gravissime difficoltà era infine già noto, pur attraverso sempre riproposte pretese definitorie e accomodamenti diversi, anche a prescindere da una riflessione estetica. Lo si è visto per saggi e a grandi linee nel corso del secondo paragrafo. Tuttavia è anche vero che le discipline letterarie o si sono sfotzate in ogni caso di costruirne una più o meno accettabile, tra casi dubbi, intersezioni, zone di frontiera e zone d’ombra, anche integrando il punto di vista della produzione con quello della ricezione, o semplicemente hanno spinto sempre pit a fondo la « disposizione di scetticismo». Cosî si continua lo stesso a fare per esempio storie della letteratura od opere analoghe, via via allargando i loro confini, e di fatto moltiplicando le eccezioni. Al limite c'è semplicemente la minaccia della totalizzazione o dell’azzeramento, o insomma la conversione in altro. Ma anche quest’ultimo passo, dal punto di vista di un cultore di discipline letterarie, conserva infine ciò di cui si provoca l’azzeramento o la conversione: è il risultato ultimo e contraddittorio di un originario presupposto definitorio. Ma si è visto anche che una disciplina letteraria non è il «luogo » appropriato per una riflessione estetica, a meno che quella non si trasformi senz'altro in riflessione estetica, perdendo anche i caratteri di concretezza che la caratterizzano e gli dànno un senso. Qui può dunque intervenire un'estetica, non per spiegare finalmente come stanno le cose, ma per tentare di mettere in chiaro, per quanto è possibile e nei modi che gli sono propri, qualcosa che già stava, per cosî dire, «nell’aria». L'estetica, e proprio in riferimento a un’idea di letteratura cui si congiunge una qualche esteticità, può appunto mettere in chiaro che
non è neppure proponibile un’istanza definitoria quale che sia. Essa è sicuramente possibile in altri casi, se per esempio si pensa tradizionalmente alla «letteratura» come alla «classe di tutti i testi scritti». Ma che una definizione non sia possibile nel primo caso non significa che non si possa parlare di «letteratura» anche in quel senso. Infatti si è visto che per altro verso una «disposizione di scetticismo» radicalizzata conduce semplicemente alla fine di ogni disciplina letteraria, e che ciò non è tuttavia soddisfacente per i suoi cultori. Non soddisfacente, perché? Forse per ragioni puramente corporative? Bene, l’estetica può contribuire a far comprendere che si tratta di ragioni che stanno invece, diciamo cosî, « nel-
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le cose stesse». Una riflessione estetica, se esclude una definizione, non esclude affatto per ciò stesso una giustificazione trascendentale di ciò che oscura-
mente si pensa essere un’«esperienza estetica», «artistica», «poetica», « let-
teraria», e via dicendo. Vale a dire: può essere del tutto legittimo, come si è qui tentato di mostrare attraverso la discussione di taluni momenti salienti della riflessione estetica, distinguere in particolare fra testi e testi («letterari»
e «non-letterari»), azche se non si può dare alcuna loro classificazione — non si dice definitiva, ma almeno di volta in volta abbastanza coerente e senza trop-
pe eccezioni — in due classi complementari. Qualcosa del genere accade in Kant nei riguardi del problema dei giudizi estetici. Si può anche arrivare alla conclusione motivata che i giudizi estetici sono possibili e legittimi, e che quindi esistono anche di fatto, e tuttavia riconoscere che non c’è alcun criterio che permetta di decidere quando un giudizio o un apprezzamento sia davvero un giudizio estetico e quando no. Ci sono testi in cui è più forte per esempio il momento dell’«interrogazione del pensiero», per riprendere le espressioni di Heidegger, e testi in cui è più forte il momento del « porsi-in-opera della verità», anche se nessun segno esterno può indicare infallibilmente, come zeppure Jakobson pensava, quali siano i primi e quali i secondi. Cosî che può anche accadere, come appunto in Heidegger, che un testo « palesemente» poetico venga interpretato come un testo anche o soprattutto filosofico, e viceversa. Le questioni di legittimità possono parere sulle prime insignificanti a chi si trova a combattere con questioni fattuali, per le quali avrebbe disperatamente bisogno di orientamenti precisi. È facile comprendere le ragioni di un’insofferenza e le motivazioni di una «richiesta d’aiuto». Ma tutto ciò non deriva dalle inadempienze dell’estetica. Le ragioni, culturali e teoriche, sono alquanto più complicate, e ci coinvolgono tutti. D’altra parte le questioni di legittimità, per se stesse, non lasciano affatto il tempo che trovano. E intanto esse, se per caso risolte positivamente dall’estetica, comportano precisam ente che è possibile, che è legittimo, che ha un senso occuparsi di letteratur a, comunque poi uno se ne occupi. E che si lasci ai cultori di discipline letterarie l’intera responsabilità — che all’estetica non compete, pena il frainten dimento — di occuparsene rel z20do pit opportuno, non vuol dire abbandon arsi al mito dello specialismo. In queste pagine non si è mai delineata una qualche idea di «disciplina» in senso istituzionale, secondo una mappa del sapere già delineata in anticipo. AI contrario si è piuttosto messo in discussione il fatto che l’istituzione come tale potesse fondare una disciplina e una mappa di discipline. Ma insomma i problemi nascono pur sempre in 47 campo che li esprime e che essi nello stesso tempo costituiscono. Non esistono da nessuna parte puri problemi senza una costellazione di referenti cosî e così formati e organizzati, cioè senza un campo, senza una localizzazione. Lo specialis mo in un senso non convenzionale è nient’altro che lo sfotzo di comprendere o conoscere in un plesso di questioni interconnesse, originale e non estendibile a piacere. Qui, e solo qui, è possibile o ha senso un'assunzione di responsabilità, pur sempre a meno di un gioco complesso di presupposizioni, che rimandano dall'interno ad altri plessi e costellazioni di plessi. Nel caso in questione biso-
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gna avere a che fare innanzi tutto con i testi, più che con l’esteticità come tale o con una condizione estetica, per decidere come quei testi vadano scelti, letti, connessi, messi in prospettiva.
Naturalmente, se è vero che per ragioni non futili è oggi in crisi proprio un qualsiasi campo letterario, le considerazioni dell’estetico non sono di nessuna utilità pratica per lo studioso di letteratura. Questi sarà ancora costretto a fare spazio a ricerche che non sono evidentemente letterarie in senso convenzionale (storia della lingua, storia politico-economica, psicologia, antropologia, ecc.), a occuparsi anche di ciò che è convenzionalmente e istituzionalmente letterario (non foss’altro come sostrato e connettivo di ciò che egli percepisce come letterario in senso forte), a scegliere inoltre non senza angoscia i testi che per un verso o per l’altro gli paiono esteticamente rilevanti, cioè esemplari rispetto al loro «senso». Ma tutto ciò accadrà, se la comprensione estetica si sarà davvero rivelata un suo presupposto, con una trasformazione
interna e originale di cui appunto lui solo è in definitiva responsabile, e uno spostamento di prospettiva non insignificante. Ogni considerazione apparentemente esterna dovrà essere innanzi tutto riportata all’interno: come chiarimento di fatti interconnessi tra loro e con fatti di interesse letterario, che a loro volta chiariscono l'insieme di presupposizioni senza di cui non esiste nessuna disciplina specifica e originale. Ogni considerazione letteraria istituzionale dovrà tener conto precisamente di tale istituzionalità, in quanto è un aspetto di una tradizione senza di cui non esisterebbero, e positivamente e negativamente, testi letterari esemplari. Infine questi stessi testi esemplari non saranno scelti secondo un criterio definitorio o secondo il gusto soggettivo, ma proprio nel loro essere portatori innanzi tutto di senso: il che può voler dire «liriche», «poemi epici», «tragedie» o «commedie», ma anche testi di tutt'altro genere (storici, filosofici, autobiografici, e magari anche sentenze di pretori e volantini sindacali), se per caso If si esprime il «senso» di una cultura, di uno sforzo di comprensione, di un’espetienza personale, di una situazione etico-giuridica, di un’interazione sociale conflittuale, che si rivela in una sorta di risalimento implicito dei loro significati. Tutto ciò non significa abbandono al gioco arbitrario della soggettività. Esistono innumerevoli indizi osservabili che un testo è fatto proprio cosî o in altro modo, anche se nessuno di essi è decisivo: l’atto decisivo essendo quello dell’interpretazione, che riorganizza gli indizi e dà loro senso. Non potremo più contare per esempio su una storia letteraria in senso convenzionale e pa-
cifico, con tutti i fatti salienti messi in bell’ordine. Ma questo potrà essere piuttosto un vantaggio, se si conquisterà un’idea di storia multidimensionale, e non più semplicisticamente lineare. In ogni caso non avremo a che fare né con una pura «storia della civiltà», né con una pura «collezione di saggi critici». Avremo a che fare proprio con una «storia della letteratura» nell’unico senso plausibile dell’espressione. Certo, tutto ciò è più facile dirlo che tradurlo dal dire al fare. Ma le cose — qualsiasi cosa, anche una disciplina letteraria o una riflessione estetica — vanno inzanzi tutto fatte, anche nel dirle.
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IGNAZIO BALDELLI e UGO VIGNUZZI
Filologia, linguistica, stilistica*
1. Premessa. ... Donde nasce che uno che non sia Toscano non farà mai questa parte bene, perché se vorrà dire i motti della patria sua farà una veste rattoppata, facendo una compositione mezza Toscana et mezza forestiera; et qui si conoscerebbe che lingua egli havessi imparata, s’ella fussi comune o propria. Ma s'e non gli vorrà usare, non sappiendo quelli di Toscana, farà una cosa manca et che non harà la perfectione sua. Et a provar questo, io voglio che tu legga una Commedia fatta da uno degl’Ariosti di Ferrara; et vedrai una gentil compositione et uno stilo ornato et ordinato; vedrai un nodo bene accommodato et meglio sciolto; ma la vedrai priva di quei sali che ricerca una Commedia tale, non per altra cagione che per la detta: perché i motti Ferraresi non gli piacevano, et i Fiorentini non sapeva, talmente che gli lasciò stare. Usonne uno comune, et credo ancora fatto comune per via di Firenze, dicendo che un dottore da la berretta lunga pagherebbe una sua dama di doppioni. Usonne uno proprio, per il quale si vede quanto sta male mescolare il Ferrarese con il Toscano: ché, dicendo una di non voler parlare dove fussino orecchie che l’udissino, le fa rispondere che non parlassino dove i bigonzoni; et un gusto purgato sa quanto nel leggere et nell’udire dir bigonzoni è offeso. Et vedesi facilmente et in questo et in molti altri luoghi con quanta' difficultà egli mantiene il decoro di quella lingua ch'egli ha accattata!.
Il passo citato si incentra, come è evidente, in problemi linguistici e più propriamente in quello della fiorentinità della lingua; tuttavia viene qui riportato per le sue sottili e acute implicazioni stilistiche che di quel discorso linguistico non sono certo un sottoprodotto. Par proprio notevole cioè che un cosî fermo senso linguistico-stilistico nel giudicare della realtà di una commedia sia del Machiavelli che nel suo Dialogo * La prima parte di questo contributo, concordato complessivamente dai due autori, è di Ignazio Baldelli, la seconda di Ugo Vignuzzi. Le due parti sono diverse nella struttura e nei fini: la seconda parte ripercorre, documentando di continuo, lo svolgimento dei problemi in esponente; la prima vuole essere l’espressione di una posizione e di un punto di vista, per cui la documentazione ne è unilateralmente personalizzata. 1 0. CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli e il «Dialogo intorno alla nostra lingua», con un'edizione critica del testo, Firenze 1978, pp. 248-49 (tolgo l’integrazione fussino tra dove e i bigonzoni) (si veda anche N. MACHIAVELLI, Discorso intorno alla nostra lingua, a cura di P. Trovato, Padova 1982).
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La questione del metodo
«ci parla nella sua prosa con le sottili labbra serrate come lo si vede nei suoi ritratti», «con quel piglio» ° che solu è suo. Notevole anche perché di uno dei nostri scrittori più «contenutistici» e insieme più stilisticamente spregiudicati: e valga appena il ricordo di lettere assatanate come quella a Luigi Guicciardini dell’8 dicembre 1509 (oltretutto ricca di autoironia: «Io come peritoso che io sono...»), e insieme della qualità sintattica dell’avvio dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Nel passo citato del Dialogo il rilievo linguistico-stilistico si evidenzia proprio a contrasto della lode delle «strutture» (teatriche o no che siano) della commedia in esame. Voglio dire che forse nessuna delle grandi tradizioni letterarie europee appare cosî accanitamente sensibile alla lingua e allo stile come quella italiana (anche per le note vicende del suo svolgimento storico) con vari possibili sbocchi, in primis quello retorico della eccellenza della lingua, ma anche quello della convenientia dello stile al tema, cost essenziale nel pensiero linguistico di Dante. Convenientia che, in quanto caratterizzata dai contenuti delle opere e dalle persone degli scrittori, sottende tutte le sottili distinzioni metriche, les-
sicali, sintattiche e stilistiche che sono l’essenza del secondo trattato del De
vulgari eloquentia.
i
A questo punto è chiaro che il problema linguistico-stilistico morde nella realtà più piena dell’opera, e forse ne è lo specifico essenziale.
2.
Filologia, linguistica, stilistica: Giuseppe De Robertis, Gianfranco Contini.
Trapassiamo tempi ed età, anche se rischioso e probabilmente illegittimo: una delle battaglie più notevoli della critica della nuova università italiana dopo il Risorgimento ha come motivo fondamentale la coscienza della realtà filologica e linguistica, senza di cui il lavoro letterario appare essere lavoro in sostanza estrinseco. L’insofferenza di Carducci e dei carducciani esplode e si coagula avverso al «Giornale storico della letteratura italiana», il cui vero motore, il Renier, aveva osato dare l’edizione delle Rizze di Fazio degli Uberti con scarse conoscenze filologiche e nulle linguistiche. L’ampia e circostanziata introduzione storica sulla famiglia degli Uberti, su Fazio e sulla realtà Ì ? R. RIDOLFI, Nota sull’attribuzione del « Dialogo intorno alla nostra lingua », in «La Bibliofilia», LXXIII (1971), p. 242. Sull’attribuzione del Dialogo al Machiavelli non ho dubbi, nonostante la faticosa discussione che si è andata accumulando; mi accontenterò appena di rinviare a 1. BALDELLI, Il dialogo sulla lingua, in «Cultura e scuola », IX (1970), 33-34, Pb. 255-59; R. RIDOLFI, Nota cit.; F. CHIAPPELLI, Machiavelli e la «lingua fiorentina », Bologna 1974 e la relativa recensione di E Dionisotti in «Lingua nostra», XXXVI (1975), PP. 32-35; C. DIONISOTTI, Machiavelli e la lingua fiorentina, in Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavell i, Torino 1980, pp. 267-363; O. CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli cit.; m., Nuove riflessioni sul «Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua» di Niccolò Machiavelli, Roma 1981; P. TROVATO, Appunti sul «Discorso intorno alla nostra lingua» del Machiavelli, in «La Bibliofilia », LXXXIII (1981), pp. 25-69; e tralascio altre, pur opportune, Tisposte a M. MARTELLI, Una giarda fiorentina. Il « Dialogo della lingua» attribuito a Niccolò Machiavelli, Roma 1978, e In., Paralipomeni alla «Giarda»: venti tesi sul « Dialogo della lingua», in «Filologia e critica », IV (1979), 2-3, pp. 212-79.
Baldelli e Vignuzzi
Filologia, linguistica, stilistica
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politica e letteraria del tempo, piuttosto che medicare le mende filologico-linguistiche, le rendeva più scoperte: il testo, cosi malamente edito, appariva essere non più che un nobile punto di partenza. «Quello di cui mi pento è di aver trascurato troppo il testo nel quale ci sono veramente degli errori imperdonabili», confesserà il Renier '; e la confessione appare grave in quanto rivela l'incapacità o l'impossibilità di attingere la radice dell’«errore», cioè la marginalizzazione del testo, proprio nel momento in cui gli «errori» imperdonabili spingono al rammarico di aver «troppo» trascurato il testo... ”. Continuando a trapassare tempi ed età, la sintesi forse più istruttiva (ed anche estrema) che sia stata data del nodo stretto che avvince filologia, linguistica e stilistica è un saggio che porta in esponente assoluto appunto « Filologia», di G. Contini, dettato per quella specie di enciclopedia dei massimi problemi del nostro tempo che è l’Exciclopedia del Novecento®. Qui, dopo una rapida premessa sulla filologia nella storia della cultura, la complessa e ampia trattazione sulla critica testuale si corona appunto di un serrato discorso sulla critica stilistica e sulla grammatica della poesia: «Fin qui l’esegesi mira al testo come a suo punto d’arrivo. Se essa, per cost dire, si ribalta sul testo, questo diviene il punto di partenza di un’esegesi, se non postuma e aliena, certo meno vicina alla letteralità del testo, perciò esorbitante dall’ambito della filologia. Esistono tuttavia due tipi di ricerca che presuppongono in progressiva
vicinanza la lettera, la assumono come dato immutabile e in nessun modo varrebbero a modificarla... Il primo tipo di queste ricerche di frontiera si denomina col suo fondatore, L. Spitzer, “critica stilistica” (SH/kKritik), l’altro, egualmente col suo fondatore, R. Jakobson, “grammatica della poesia” (grarzmar of poetry). Entrambi operano su prelievi della lettera adottati come campioni fuori d’ogni critério 4 priori, e non agiscono come categorie 4 priori né em-
piricamente riadattabili (come quelle della descrizione linguistica) 4 priori» *. Se si tiene conto che tali intense posizioni critiche partono dall’operare di Contini già nei pieni anni ’30, ci si dovrà riferire anche al «richiamo ai testi», alla «lettura», al «saper leggere » e quindi alla descrizione dell’opera come ricerca della «sostanza dell’arte» di Giuseppe De Robertis. « Per di più», come è stato detto, «questa attenzione portata al fatto tecnico, all’organizzazione immanente dell’opera, è in effetti fenomeno ecumenico e risente del clima particolare della cultura postsimbolistica europea in una fase di avanzato sperimentalismo lessicale e sintattico oltre che di radicale rinnovamento dei mezzi
espressivi» ‘; e ciò nel senso che l’accento posto dai simbolisti e dai postsimbo1 R. RENIER, Lettera a Francesco Novati del 26 giugno 1883, riportata in M. CAPORALI, Rerier e Novati direttori del «Giornale storico» nella polemica con la scuola carducciana (1882-1885), in « Critica letteraria», XI (1983), p. 496. 2 Per tutta la vicenda, cfr. m. BERENGO, Le origini del «GSLI », in AA.vv., Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Padova 1970, II, pp. 3-26; e M. cAPORALI, Renier e Novati cit. 3 Cfr. 6. CONTINI, «Filologia», in Ewciclopedia del Novecento, II, Roma 1977, pp. 954-72. 4 Ibid., pp. 970-71. Su Spitzer, si veda l’esemplate J. STAROBINSKI, Leo Spitzer et la lecture stylistigque, introduzione a L. SPITZER, Etudes de style, Paris 1970. 5 DA. S. AVALLE, L'analisi letteraria in Italia. Formalismo, strutturalismo, semiologia, MilanoNapoli 1970, p. 16. 17
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La questione del metodo.
listi sui valori tecnico-formali della poesia, come ricerca della «parola», e insieme come sentimento del continuamente variabile, ha vigorosamente incoraggiato la critica stilistica. Pare infatti pertinente l’osservazione che la ricerca derobertisiana, anche se svoltasi dall’esempio di poeti-critici come Foscolo e Carducci, «si avvicina, assai più che al riconoscimento organico di reperti linguistici e filologici, alla tensione di Ungaretti verso la Terra Promessa di materia incortuttibile » °. La critica del «saper leggere» venne sostenuta dalla critica delle varianti e dai commenti al testo con testi dell’àutore: lo Zibaldone che commenta i Canti, le varianti che commentano A Silvia (e ci si riferiva a esempi quali l’edizione, ad opera del Carducci e di Severino Ferrari, delle Rime del Petrarca, commentate con le opere latine dello stesso Petrarca e già con le varianti del Canzoniere).
3.
L'impegno filologico e linguistico, come inerente alla critica stilistica.
Ciò nonostante la critica del «saper leggere», polemicamente vivacizzata in opposizione alla critica «a libro chiuso», poteva scadere nel ripetitivo! e nell’impressionistico, anche per il coerente rifiuto di ogni collocazione storica (sia pure storico-linguistica) del testo: ciò venne superato (conservando l’istanza fondamentale della ricerca dello «specifico» letterario) attraverso un forte impegno appunto filologico e linguistico. Del resto la letteratura italiana, sempre pit coscientemente indagata come plurilinguistica, abbisogna come nessun’altra, proprio per essere letta, di attenta passione linguistica e filologica: quel filologo, linguista e stilista appunto, che in una memorabile affermazione (anche se troppo spesso trascurata per più scoperte, e sia pure di altissimo livello, indagini geografico-letterarie) del 1942 parlava di imprese filologiche «simili alle operazioni dei critici d’arte quando attendono a restaurare le linee d’una scuola provinciale non ancora consacrata» ‘. Da questo punto innanzi la critica filologica, linguistica e stilistica si presenta con una mole di lavoro e di lavori concreti e faticati che hanno trascinato forse assai più di qualsiasi proposizione teorica. E va detto che lo svolgimento del nostro discorso, filologia e linguistica verso la critica stilistica, tende a sacrificare quanto non sia filologia, lingua e stile degli scrittori: proprio per questo, bisogna tener sempre presente che il lavoro di cui si diceva ha proceduto su tutto il fronte della lingua (sia pure privilegiando la lingua scritta, ma con forte presa sui dialetti), nella coscienza della complessità della lingua, e in particolare della lingua italiana, data la sua realtà regionale e inter6 A. NOFERI, Giuseppe De Robertis e l’oggetto poetico, in « Paragone. Letteratura », XIV (1963), 168, pp. 3-23; cfr. anche L. CARETTI (a cuta di), Giuseppe De Robertis, Firenze 1985. 1 Si pensi alla costante derobertisiana nella lettura di prosatori e di poeti che più mette conto indagare: il punto pit alto come risultato del lento e faticoso spogliarsi di una forma in partenza intricata e complessa. ? G. CONTINI, Introduzione ai narratori della Scapigliatura piemontese (1942-43), in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1970, D. 535.
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regionale. L’opera di scavo, di edizione, di sistematico esame di documenti singoli, di centri regionali di produzione letteraria, è stata complessa ed imponente ', e si pone anche come validazione di quanto appunto andremo dicendo. Ciò anche nel senso che l’opera letteraria, definita nel suo contesto linguistico spaziale, sperimentalmente saggiata nelle sue componenti linguisticoculturali, può riassumere cost una leggibilità stilisticamente più valida e reale. Un solo esempio in cui appunto un accertamento linguistico regional-dialettale «aggiunge» alla lettura dell’oggetto. Nel Cantico delle creature, sono propri del volgare di Francesco skappare, mentovare, enallumini*, termini decisivi di momenti essenziali del suo lodare:
la fisionomia mediana e umbra del testo ne viene ottimamente confermata, nel momento stesso in cui si precisa ed evidenzia il suo procedere strettamente, anzi simbioticamente, congiunto alla latinità scritturale. L'accertamento può fruttuosamente essere avvicinato ad una serie di altri rilievi stilistico-compositivi. La struttura del Cantico tende, nel suo insieme, ai procedimenti paralle-
listici propri di tanta parte della Scrittura (e in particolare di quei salmi e di quei cantici che erano, per cogenza liturgica, continuamente ripetuti e mandati a memoria), ricalcandone gli schemi anche nei particolari; ma insieme ci offre elementi essenziali retorico-compositivi lontani dai testi biblici (e lontani anche dagli scritti latini dello stesso Francesco, che si riferiscono a quei testi biblici): basti pensare alle imponenti (relativamente alla brevità del testo) serie
degli aggettivi che si riferiscono alle creature, basti avvertire gli attributi di frate e sora alle stesse in tutta la loro pregnanza ?. La complessa realtà compositiva del Cantico (nella chiara intenzionalità dell’iniziativa di assumere la
lingua nuova, proprio nel crepuscolo della vita, per dire qualcosa di essenziale) può allora rivelaretutto il suo alto spessore poetico. I pur presenti pericoli di frammentismo e di calligrafismo della critica stilistica possono essere cioè superati attraverso la filologia e la linguistica, nel senso più concretamente operativo: in sostanza lo «specifico » indagato attraverso tecniche di organica inerenza allo «specifico», appunto. La realtà e i valori formali indagati filologicamente e linguisticamente si arricchiscono della totalità verbale dei riferimenti delle opere dello stesso autore (e di quelli interni alle singole opere nel caso di più redazioni) e dei rapporti fra autore e autore. Come è stato ottimamente detto di una tal critica, «l’accertamento dei fatti di cultura, o “fonti”, e dei rapporti interni al sistema nella pratica di Contini..., ha... un suo ‘uso poetico e funzionale’, per cui in luogo di limitarsi 3 Se ne veda una sommaria indicazione, pet i testi più antichi, in 1. BALDELLI, Testi italiani antichi editi nel decennio 1952-1962, in «Cultura neolatina», XXIII (1963), pp. 5-17; e in L. SERIANNI, Testi italiani antichi editi nel quindicennio 1963-1978, in «Cultura e scuola», XVIII (1979), 69, pp. 16-28. Cfr. anche A. stussI (a cura di), Letteratura italiana e culture regionali, Bologna 1979. 4 Il secondo e il terzo termine erano stati giudicati come gallicismi: si veda la minuziosa dimostrazione della loro «assisanità» rispettivamente in 1. BALDELLI, Il Cantico di Francesco, in AA.VV., San Francesco nella ricerca storica degli ultimi ottanta anni, Todi 1971, pp. 89-90; In., Il «Cantico»: problemi di lingua e di stile, in AA.vv., Francesco d'Assisi e francescanesimo dal 1216 al 1226, Assisi 1977, pp. 86-87; F. MANCINI, Per ennallumini del «Cantico di frate sole», in «Lingua nostra», XLI (1980), pp. 41-42. 5 Anche per tutta questa parte cfr. 1. BALDELLI, Il «Cantico»: problemi di lingua e di stile cit.
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La questione del metodo .
all’accumulo positivistico dei realia, lo studioso ne promuove la cernita rigorosa (in sede di esegesi) come premessa ad una considerazione più propriamente letteraria della loro utilizzazione naturalmente 4 parte obiecti (in sede di lettura)». Allora le varianti di autore appaiono, nella loro dinamica, come «spostamenti in un sistema, e perciò involgono una moltitudine di nessi con gli altri elementi del sistema e con l’intera cultura linguistica del correttore» ‘. N 4.
Lo«specifico» filologico-linguistico-stilistico nella individuazione dei dati «materiali».
D'altra parte, partendo dallo «specifico» filologico-linguistico-stilistico si possono fruttuosamente individuare e graduare i dati «materiali» che si riferiscono all’opera e allo scrittore: il manoscritto e, in generale, il libro, le biblioteche, anche perché afferenti ai modi della trasmissione e alla memoria dell’opera e nell’opera; e cosî via discorrendo, fino a giungere ad indagini del tipo di quelle sui macchinismi della stampa dei Promessi sposi, che talora dànno la chiave della disposizione o della successione di certe correzioni '. Il centro del quadro tuttavia rimane anche una sola variante: ad esempio, un «popol disperso repente si desta», corretto in «volgo disperso repente si desta», nel secondo coro dell’Adelchi, con tutta l’altissima implicazione storica attribuita dal Manzoni ad una tale variante ?. Ma appare sottilmente rilevante, sul piano più propriamente stilistico, che «volgo disperso» (caduta la stanza terza «È il volgo gravato del nome latino... È il volgo che inerte, qual gregge predato») andrà, nella redazione definitiva, ad epigraficamente chiudere il coto: «Si posano insieme sui campi cruenti |d’un volgo disperso che nome non ha». Ma, sempre in riferimento ai dati «materiali», scendendo di grado in grado, indagato lo stato sociale ed economico dello scrittore, ad esempio del professor Giosue Carducci, sarà poi opportuno andare a vedere gli orari dei treni (e i prezzi dei biglietti) che purtuttavia stanno dietro agli incontri con la Lina e perciò hanno immediata attinenza con Alla stazione in una mattina d’autun. DA. S. AVALLE, L'analisi letteraria cit., pp. 43-44. G. CONTINI, Implicazioni leopardiane, in « Letteratura », IX (1947), 2, p. 102. ! Cfr. c. FAHY, Per la stampa dell'edizione definitiva dei «Promessi Sposi», in « Aevum», LVI
(1982), 3, PD. 377-94.
z Il problema appunto se gli Italiani sotto i Longobardi fossero un «popolo» nel senso, pet cosî dire, romantico (e già risorgimentale); e insieme la coscienza drammatica del «potere» che tormenta, e tormenterà sempre, il Manzoni. E ciò nelle lettere e specialmente nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica în Italia, con la convinzione della condizione servile della popolazione latina; mentre rapidamente gli appariva senza fondamento storico una presenza attiva del «popolo» latino. Nell’agosto del ’2r interrompe la scena iniziale del V atto, in cui Adelchi ripete, all’assemblea dei duchi raccolti in Pavia assediata, la proposta di affrancare i Latini, con la nota «scartare tutto e rifar l’atto in modo più conforme alla storia». ? Il punto di partenza registrava la chiusa: «si stringon le destre, si danno la fede, | che il donno, che il servo, che il nome restò».
Baldelli e Vignuzzi
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no? O magari appurare quale marca di barolo e poi di porto serviva a rafforzare la tranquillità dell’ottimo marito nei montani incontri con Annie? La notizia delle cui bevute veniva premurosamente inviata da Giosue alla cata moglie sempre a scopo tranquillizzante ‘. Si tratta appunto di gradi; ed anche i gradi del «materiale» hanno ovviamente un limite di discrezione; e portare, sia pure per ischerzo, la cosa al limite può essere istruttivo. Piuttosto, sempre traendo dalla vicenda di Giosue e di Annie, pare pertinente a fini critici appurare che l’«Orco umano» dell’Elegia del Monte Spluga è riflesso dell’epiteto che la «dolce fanciulla» dava appunto al «caro Orco». E ciò anche se si tratta di elemento tratto non dall’interno del testo: ma quale miglior commento alla bistrattata, forse un poco a torto *, Elegia, che la lettera inviata alla dolce amica due giorni dopo il congedo? E già il Pancrazi avvertiva: «quella [lettera] rientra, per più diretta via, nella poesia del Carducci» ‘; ma il Pancrazi era un «lettore» di testi. In realtà la critica filologico-linguistico-stilistica ben concede agli epistolari, come anche alle biografie ove condotte con la mira appunto alle opere dell’autore; e proprio in questi ultimi tempi si avverte la presenza nella nostra critica di notevolissimi esempi di biografie, o d’indagini biografiche, sensibili appunto a una tale prospettiva: basti citare appena la vita di Dante di Petrocchi (del quale filologo non so passarmi dal ricordare il saggio sul Natale del 1831), quella di Svevo di Ghidetti e quella di Ungaretti di Piccioni”. E poi, si sa, gli epistolari e i diari serbano talora sorprese di intere liriche che non possono essere sempre viste nell’ingranaggio della variantistica; e basti qui citare, tratto da una cartolina del 26 gennaio 1917, Cielo e mare. «M’illumino |d’immenso |con un breve |moto |di sguardo»: qui veramente si tratta di due «esecuzioni» assolutamente diverse, la prima fitta di relazioni avviate dal titolo, strette al titolo, la seconda cancellata di fisicità: Mattina. «M'illumino d’immenso»; nella prima è stato possibile anche un riscontro da Rimbaud". 4 Cfr. P. PANCRAZI, Un amoroso incontro della fine Ottocento. Lettere e ricordi di G. Carducci e A. Vivanti, Firenze 1951. Dalla lettera del 10 agosto 1893: «C'è anche sir John Chartres, mio amico, con bottiglie di Barolo e, presto, di Porto. Io mi diverto. Leggo e intendo Pindaro, ma non faccio altro». 5 Si noti il patetico della situazione: essere cioè l’E/egiz la penultima, se non l’ultima, lirica di Giosue. ° P. PANCRAZI, Un amoroso incontro cit., p. 62. «... Ti ricordano anche i luoghi. Su per le valli, le fate e le ninfe, dalle foreste, dai prati, dalle cascate, dalle cime vaporose, chiedevano: — Orco, che hai fatto di nostra sorella? L’hai tu divorata?...» (dalla lettera del 2 agosto 1898). 7 Cfr. L. PICCIONI, Vita di un poeta. Giuseppe Ungaretti, Milano 1970; E. GHIDETTI, Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino, Roma 1980; 6. PETROcCHI, Vita di Dante, Roma-Bari 1983; 1n., Il Natale del 1831 (1969), in Manzoni. Letteratura e vita, Milano 1971. Si veda, per altro, «Sigma», XVII (1984), n. 1-2, tutto dedicato alle biografie letterarie, col titolo Vendere le vite: la biografia letteraria, in cui prevale la tesi della (auto)biografia «prodotto bastardo e imperfetto quant’altri mai», tesi unilateralmente appoggiata a biografie letterarie veramente pessime. Qualcuno degli autori tuttavia riflette seriamente sulla biografia letteraria e insiste sugli epistolari; si ricordano le osservazioni di M. Lavagetto e l’acuta riflessione di L. Sozzi: «Siamo cosî a corto di ragioni storiche convincenti, che uno sguardo dentro la vita di protagonisti e comprimari chissà che non ci dia degli spiragli » (ibid., p. 89). * Cfr. P. BERTINI MALGARINI, Nota a «M'illumino d’immenso», in «Critica letteraria», X (1982), pp. 527-28. Per altri riscontri di simile pertinenza cfr. L. REBAY, Le origini della poesia di Giuseppe Ungaretti, Roma 1962.
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La questione del metodo
5.
L'intera cultura linguistica che verticalmente e orizzontalmente afferisce al testo esaminato.
Ecco, appunto, «l’intera cultura linguistica del correttore», cioè quella che si esprime anche nelle altre opere e nelle opere che verticalmente e orizzontalmente afferiscono al testo esaminato; anche come «memoria» !. E ciò ricor-
dando anche quanto diceva il Croce sui critici stilistici, che avevano aggregato «Giacomo Leopardi, un ben “contenutistico” poeta» e che cominciavano ad aggregarsi Francesco Petrarca, ma che «solo a Dante non hanno ancora osato di appressarsi, forse temendo il fiero di lui cipiglio» ‘: non è stata una buona profezia, dato che probabilmente i più notevoli risultati di essa critica sono su Dante. Se l’incubo delle ripetizioni, confessato da Flaubert, è coglibile anche in Petrarca e in Leopardi ‘; e se dall’incubo delle ripetizioni si può risalire a spostamenti a catena anche non necessariamente suggeriti da tale incubo, ma sempre in qualche maniera ad esso collegabili, ben altrimenti le cose funzionano in un’opera come la Commedia, in cui l’anafora, a tutti i livelli, è addirittura una delle grandi realtà compositive del testo. La realtà poetica di tutta l’opera dantesca è stata cioè il centro principale di una serie di indagini filologiche, linguistiche e stilistiche che, anche per l’incomparabile oggetto, hanno travalicato largamente ogni precedente prassi, pur operando robustamente sulla linea di quella‘. Cosî, indagini a tappeto sulle similitudini dantesche hanno accertato che la similitudine nella Corzzzedia va messa in relazione con il «classicismo» di Dante che raggiunge la sua piena espansione nella stagione del Convivio e del De vulgari: negli ultimi capitoli del quarto trattato del Convivio le similitudini tendono addirittura a invadere il discorso generale, superando la retorica dell’ornato. Ma nella Commedia la similitudine, pur svolgendosi in senso classico, acquisisce «necessità» contestuale piuttosto dalla «necessità» del discorso biblico-scritturale *. Anche in questo caso un solo esempio. La grande similitudine del villanello, con cui si apre il canto XXIV dell’Inferno, è stata variamente giudicata dalla critica; ma i giudizi concordano poi nel sentirla piuttosto esterna alla realtà infernale. Si parla di «grazioso quadretto campestre» (Porena), di « disposizione alquanto 1 In Contini, e nei più che a lui direttamente o indirettamente si sono ispirati, la critica «vetbale», la «memoria» operano in modo concretamente storico (anche se non infrequentemente semiologi di alta levatura abbiano sentito tale storicismo come un residuo di un metodo): le pagine intitolate L'influenza culturale di Benedetto Croce (1966), in G. CONTINI, Altri esercizî (1942-1971), Torino 1972, andranno forse meglio meditate. 2 B. cROcE, La « poesia pura» (1947), in Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia, Bari 1950, pp. 267-68. 3 Cfr. D'A. S. AVALLE, L'analisi letteraria cit3.p:75. È Anche su questo punto, decisiva è stata l’opera di Gianfranco Contini, di cui si vedano i saggi raccolti in Un'idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1976. 3 Va pur detto che non sono mancate, nell’indagine di famose similitudini della Commedia, ampie prevaricazioni, in quanto la similitudine è diventata più che oggetto di indagine, punto di partenza per una serie di riflessioni filosofico-morali (magari anche assai giuste) rispetto al sistema morale-penitenziale del poema dantesco.
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esterna e decorativa» (Sapegno), di «immagine... intrisa del senso di sollievo destato nel poeta, intento a descrivere la buia voragine infernale» (Maier); e
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ALBERTO ABRUZZESE Sociologia della letteratura
I.
Come definire l’oggetto.
Lo sforzo di concettualizzare, di definire, di «tenere» ! l'oggetto letterario si è sempre scontrato con l’impossibilità di reperire nella letteratura stessa una definizione globale di se medesima che non fosse semplicemente una «poetica». Proprio l'elemento basilare dell’evento letterario, il concretizzarsi di una scrittura in forme specifiche che tendono a distinguersi o vengono distinte dalle altre forme di scrittura, sfugge permanentemente ad una definizione, ad una rappresentazione. Persino nell’autore che scrive sulla sua stessa produzione esiste lo scarto tra la pratica della scrittura e la sua teorizzazione, la sua critica,
la sua valorizzazione. Alla radice del tentativo, e del fallimento, probabilmente vi è anche il pregiudizio che la costruzione di concetti e la costruzione di un testo letterario abbiano in comune «soprattutto» la scrittura. Si pensi alla «bella prosa critica». La forza di poter godere di un unico dispositivo per esprimersi si traduce in debolezza, in confusione classificatoria. Diversa è la storia, ad esempio, dei rapporti tra scultura”e sua concettualizzazione, poiché in tal caso le barriere linguistiche restano lampanti e invalicabili, facilitando altri piani del discorso sulle arti. Per converso non è un caso che l’unica fase storicamente armonica tra letteratura e sua concettualizzazione risulti essere quella in cui la scrittura ha vissuto il suo momento di massima forza come dispositivo tecnologico egemone su ogni altra forma di comunicazione e di rappresentazione: il primo Ottocento. Infatti, come si vedrà più avanti, l’esperienza romantica (la rottura con i dogmi neoclassici e l’individuazione della traducibilità delle tradizioni popolari in «letteratura moderna») è interpretabile solo con il potenziamento del1 Si preferisce questo termine rispetto al più esplicito «chiudere», poiché forse il problema che affrontiamo qui non viene interamente risolto dal superamento del perimetro « tradizionalistico » dell’opera con la prospettiva critico-progettuale definita dal termine «opera aperta», a suo tempo brillantemente coniato da Umberto Eco (Opera aperta, Milano 1962) e via via sviluppatosi sul concetto di competenza intertestuale del lettore-spettatore. ? Ragionando su una linea di autori che da Winckelmann arriva a Baudelaire, Focillon, Wélfflin, nel recensire Roberto Longhi, Ezio Raimondi scrive: «La critica d’arte figurativa è divenuta un’interlocutrice privilegiata della critica letteraria, spesso proponendole problemi e modalità di lettura che non possono essere ignorati soprattutto quando la ricognizione delle forme approda a una analisi culturale del gusto nelle sue componenti iconiche» (e. RAIMONDI, Tecziche della critica letteraria, 1967; ed. accresciuta Torino 1983, pp. 158-59).
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la stampa, vero e proprio compimento dell’incarnazione del verbo’. Si apri allora un ciclo di riflessioni critiche sulla scrittura quasi interamente in mano all’autore, al «vero» esperto dello scrivere come invenzione. Un ciclo, quasi interamente ottocentesco, che avrà una sua prima forte crisi nella divisione fra critica militante e critica accademica negli anni ’30-40 del secolo x1x‘, ma si concluderà soltanto nel periodo del naturalismo con la frattura tra arte e pubblico e la specializzazione del critico *. Si concluderà, cioè, con l’esplodere della civiltà dell'immagine e dello spettacolo. Da quel momento in poi l’accumularsi di teorie letterarie è inversamente proporzionale alla capacità-possibilità di definire con la scrittura i contorni dell’evento creativo ‘. Il concetto di letteratura ci è consegnato o dal senso comune o dalle diverse istituzioni del sapere, tra le quali solo alcune sono specializzate nel campo. Sostanzialmente si tratta di tre diversi punti di vista che solo in qualche caso convergono su un unico oggetto di analisi”. Anzi è meglio dire: solo in qualche specifico caso sono in grado di costruire un unico oggetto di analisi. Il primo punto di vista, quello del senso comune, è naturalmente il più diffuso ma anche il più impressionistico. Con questo non si vuole e non si può dire che tale punto di vista sia elementare o semplice: Se si riflette alle dinamiche che lo determinano sia diacronicamente che sincronicamente, cioè alla
spinta che i processi di socializzazione esercitano sulla sua crescita esponenziale (almeno nell’intero ciclo della società industriale), va detto che l’«im-
pressione» nasconde qui un costante aumento di complessità. O meglio: la semplificazione compiuta sulla scrittura letteraria (o sui suoi «derivati») si traduce in complessificazione delle sue traiettorie o dei soggetti che «tocca» e dei linguaggi (non verbali, e persino iconici) che coinvolge o in cui si coinvolge. Dunque, è sf un punto di vista impressionistico, ma vivo, garante del fatto che la letteratura ancora esiste ed opera nella vita di tutti i giorni. È sf superficiale, epidermico, ma la « pelle» ha una sua intensa capacità reattiva, una sua forte sensibilità. È si spontaneo, ma per ciò stesso assai vicino all’evento 3 Anche nell’ambito italiano questa consapevolezza epocale del ruolo ottocentesco della stampa appare evidente in una letteratura encomiastica di larga diffusione. Cfr., a puro titolo di esempio, G. B. MICHELETTI, Presagi scientifici sull’arte della stampa, L'Aquila 1814, pp. 5-6: «Or tra tutte le più famose scoperte, o riavvicinandoci ai primi giorni del Mondo, che non furono già cosi rozzi, come da taluni si crede, o dovute ai recenti progressi dello spirito umano, niuna ve n’ha né più strepitosa, né più utile, quanto quella dell’invenzione della stampa. Un’asserzione sî vaga, si generale, e sî ardita, sembra dovere essere sostenuta dal confronto, e dalle pruove, ed a ciò fare io non chiamo in ajuto che la sola, e nuda Istoria del Globo, maestra sicura, guida non ingannevole sia nell’erudirci, sia nell'’ammaestrarci ». * Cfr. r. weLLEK, A History of Modern Criticism, II. The Romantic Age, 1955 (trad. it. Bolo-
gna 1961, pp. 427-33). ? Cfr. L. L. scHùckinc, Soziologie der literarischen Geschmacksbildung, 1961, edizione integrata e arricchita rispetto alla prima del ’23 e a quella del ’31 (trad. it. Sociologia del gusto letterario, Milano 1968, in particolare le pp. 41-51). $ Abbiamo cercato di argomentare alcune di queste difficoltà in A. ABRUZZESE, Il letterato nell’era tecnologica, in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana, II. Produzione e consumo, Torino 1983, pp. 449-71. Pit in generale, oltre al già citato Schiicking, cfr. H. M. McLUHAN, The Mechanical Bride. Folklore of Industrial Man, 1951 (trad. it. Milano 1984). ? Cfr. . HALL, The Sociology of Literature, 1979 (trad. it. Bologna 1981, pp. 52-61).
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letterario in quanto tale, al cortocircuito della sua consumazione, dunque all’accensione del suo segreto. Il secondo punto di vista, quello in cui il giudizio non è superficiale e non è spontaneo, ma risulta fortemente motivato e consapevole, culturalmente attrezzato, socialmente recessario, è una forma di concettualizzazione molto pit rigorosa. La potremmo definire più o meno sistezzica, nel senso cioè che non solo intende essere sistematica, seguire cioè una teoria, un metodo, una convenzione codificata in regole, ma intende anche inserire il «sistema» letterario dentro il proprio sistema specifico (ad esempio quando l’indagine storica o quella economica o quella filosofica dànno un posto alla letteratura risistemandone, appunto, la materia in un perimetro disciplinare che non le appartiene, che ha altri interessi). Ciascuna istituzione del sapere riduce l’altra al suo servizio, se ne serve cioè per propri fini sia quando abbia un puro intento definitorio dell’universo dei saperi socialmente operanti, sia quando abbia intenti più marcatamente riordinatori, organizzativi, funzionali *.
Il terzo punto di vista è quello degli scrittori e dei critici, il più tecnico per gli uni e il più specifico per gli altri: due traiettorie non sempre, anzi assai poco coincidenti, di fatto, anche quando le tecniche abbiano avuto a disposizione rigorosi modelli scientifici o quando i metodi abbiano avuto davvero in possesso le tecniche. Comunque siamo qui al cuore del discorso che vogliamo affrontare poiché tale punto di vista si definisce non a partire da chi guarda ma a partire dall’oggetto guardato, il quale deve essere appunto soltanto la letteratura. Esso quindi riguarda tanto il critico letterario «germinato» dalla comunità dei letterati, quanto il filosofo, lo storico 0, infine, il sociologo, che intenda concettualizzare l’oggetto letterario in tutta la sua profondità e parzialità. Che intenda «laverarci sopra». Che cosa hanno in comune questi tre punti di vista cosî tra loro divergenti e spesso conflittuali? Senza dubbio, non la certezza cognitiva della letteratura, cioè in definitiva non l’oggetto vero e proprio. Come si è già accennato, essi sono diversi proprio perché costruiscono un diverso oggetto, che solo in particolari determinazioni storico-sociali ha trovato modo di coincidere con uno o tutti e due fra i tre oggetti rispettivamente prodotti dai punti di vista in questione. Solo una «cosa» hanno in comune ed è proprio l’estensione, o se si vuole la «debolezza», la nebulosità del concetto stesso come «appare» nell’esperienza quotidiana’. In comune hanno ciò che più si manifesta ma anche si nasconde: il contenuto dell’attività letteraria. Attività inconcepibile se divisa tra produzione e consumo di un testo, poiché la scrittura altro non è che la (creazione della) possibilità materiale della lettura. Ma tanto la prima quanto la seconda, tuttavia, rimandano ad altro, appunto all’oggetto letterario in 8 Su queste meccaniche di integrazione e manipolazione tra sistemi valutativi diversi cfr. F. CASsANO, La certezza infondata, Bari 1983. ? Per quanto riguarda la labilità del perimetro letterario provocata dalla traduzione dei suoi magazzini nei linguaggi del cinema e della televisione, cfr. A. ABRUZZESE e A. PISANTI, Cinezza e letteratura, in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana, II cit., pp. 807-36; A. ABRUZZESE e F. PINTO, La radiotelevisione, ibid., pp. 837-70.
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sé. In comune, dunque, i punti di vista hanno la difficoltà di centrare qualche cosa che pure sentono. Anche (o persino?) il punto di vista impressionistico, disomogeneo nel combinare convenzioni, emozioni, saperi ridotti o deformati, ma più libero nell’accettare il fatto di per se stesso, non raggiunge tuttavia che in determinate occasioni il centro del sentire letterario. Ed in ogni caso non ha gli strumenti per esprimerlo mediante la scrittura, per tentarne una teoria o un progetto. Fornisce interpretazioni intuitive e spinte emotivesma solitamente si aggira alla periferia (o dritto al «cuore») del testo letterario in tutta la sua pienezza. Possiede quel tanto o poco che sa cogliere ed è messo nella condizione di cogliere. Spesso gli altri due punti di vista indagano appunto su questi scarti, sulle aberrazioni o degenerazioni che ne conseguono. Ma, cosî facendo, non è detto che raggiungano ciò che dànno come perduto dal senso comune o negato dalla immediatezza e spontaneità irriflessiva del consumo. Eppure, ripetiamo, tutti e tre i tipi di «lettori» sentono la letteratura". Ma le istituzioni del sapere tendono a catalogare i fatti letterari non tanto sulla base delle relazioni effettive tra testo e pubblico, quanto piuttosto sulla base delle relazioni astratte tra una determinata concettualizzazione del linguaggio letterario ed il suo pubblico ideale. Su questo lavorio classificatorio si sono andate articolando e disarticolando tutte le forme di critica moderna del testo da quella stilistica a quella di tendenza sociologica. E non appaia strano includere in questa area anche le forme più sofisticate di critica idealistica, ad esempio quella crociana, o gli indirizzi stessi della semiologia e della psicanalisi. Tutti partono dal presupposto che il testo faccia ricorso ad una determinata enciclopedia del sapere e che questa si concretizzi o possa concretizzarsi nel pubblico dell’opera letteraria. La divergenza tra i diversi metodi si accende sui modi con cui questa enciclopedia viene concepita, viene resa accessibile al pubblico, viene descritta nel suo funzionamento. Nell’economia di un simile discorso, naturalmente non conta stabilire quarto l’interpretazione del testo presupponga o meno il suo pubblico reale. Persino nella prospettiva sociologica solo le ricerche empiriche tentano di individuare l’bic et nunc del pubblico, il suo spessore, le sue competenze, ma anche in questo caso è l’analisi del contenuto testuale a produrre la «campionatura » del pubblico. Molti altri contenuti vengono abbandonati per sempre. In altre parole possiamo dire che, se vogliamo tentare qui di tracciare le 210
1° Sul modo di concepire l’esistenza della letteratura, la sua zatura, solo nell’atto della lettura, seppure «comandata » dalla scrittura, è fondamentale il ricorso a J.-P. SARTRE, Qu'est-ce que la littérature? (1947-49) (trad. it. Milano 1960); cfr. A. ABRUZZESE, Introduzione al volume, da lui curato, Sociologia della letteratura, Roma 1977, pp. 82-90. 1! Nell’uso stesso del termine « sentire» rimandiamo all’intreccio che sin dall’inizio di una elaborazione moderna del fatto letterario si è venuto a stabilire con il linguaggio musicale. È significativo che questo linguaggio «sfuggisse» al rigore sistematico di Hegel e premesse sulla «fuga» romantica. Cfr. L. ZAGARI, Il santo nudo e la ruota del tempo: l’impasse dell’intellettuale nella fiaba di W. H. Wackenroder, in AA.vv., Sociologia della letteratura. Atti del primo Convegno nazionale (Gaeta, 2-4 ottobre 1974), a cura di F. Ferrara, M. Rak, A. Abruzzese e R. Runcini, Roma 1977, pp. 410-31. Si veda più in generale E. FUBINI, L'estetica musicale dal Settecento a oggi, Torino 1964. Su questa linea del discorso rimandiamo al $ 5, nota 37.
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linee fondamentali di un discorso sull’approccio sociologico alla letteratura, non possiamo sperare di risolverlo né con la supposizione di un primato della sociologia sulle altre discipline che si sono provate ad interpretare il testo; né con la rivendicazione della tradizione letteraria «pura» rispetto alla contaminazione di aree disciplinari invadenti; né infine con la rimozione del problema di fondo, che ogni critica del testo ha sempre davanti, problema pratico e teorico allo stesso tempo: il valore dell’opera letteraria, ciò che la fa valere. Ma sul problema del valore è bene intendersi. Si è detto di sfuggita che i tre tipi di acquisizione dei concetti di letteratura, le tre aree che la pensano come «forma» oltre che come «esperienza» ', sono state spesso in contrasto acuto tra loro. Lo sono tutt’oggi. E questi contrastati rapporti hanno a che vedere con il valore, ma in altra accezione da quella che noi vorremmo assumere qui come prioritaria. Vediamo lo scenario attuale. Anzi, atteniamoci al panorama italiano, certamente disomogeneo e lacunoso, ma altrettanto ricco da poter costituire un buon terreno di discussione. La rapidità delle trasformazioni sociali e tecnologiche ha destabilizzato sempre più la tradizione letteraria. Significativi indicatori di questa crisi del fare letterario sono stati i ricorrenti dibattiti sull’effimero, sul bestseller, sulla serialità, sul conflitto tra letterati e semiologi o so-
ciologi *’. Al cuore di queste polemiche vi è sempre, appunto, la rivendicazione, da parte degli scrittori e dei critici letterari, del valore dell’opera, del valore del testo. Ma, in tutti i casi elencati, la questione del valore è stata posta in modo assai riduttivo, come questione prescrittiva, nella costante preoccupazione di stabilire graduatorie di merito, di salvaguardare un «grado elevato» della scrittura letteraria (a partire dal quale, soltanto, si ritengono misurabili i livelli discendenti dell’esperienza letteraria: dal punto più alto della resa artistica sino ai margini più bassi della paraletteratura). Anche la valutazione di questi contrasti, del loro campo conflittuale, dipende da quale ottica guardiamo. Lo scenario è altamente contraddittorio. Una larghissima massa di pubblico si orienta su fasce basse di consumo letterario «diffuso», ma, al contempo, assistiamo ad organizzazioni settoriali di pubblici specializzati, più o meno stabili, orientati su prodotti che almeno convenzionalmente possono essere considerati alti (e che comunque come tali vengono legittimati dalle istituzioni). Al contempo, seppure su fronti metodologici fortemente distinti, le istituzioni della psicanalisi, della semiologia e della sociologia sembrano spesso muoversi con una tendenza all’unificazione del punto di vista del senso comune con quello dell’osservazione scientifica. Persino l’estetica tenta questa via ". 12 Nell’uso di questo termine, naturalmente è canonico il riferimento a w. piLtHEY, Das Erlebnis und die Dichtung, 1906 (trad. it. Esperienza vissuta e poesia, Milano 1974). 13 Per alcune di tali questioni cfr. r. NAPOLITANO (a cura di), Il caso italiano, Reggio Calabria 1981; AA.vv., Ai confini della serialità, Napoli 1984; L. RUSSO (a cura di), Letteratura tra consumo e ricerca, Bologna 1984. 4 Cfr., ad esempio, il lavoro intorno alla «Rivista di estetica», in particolare il n. 8, XXI (1981), dedicato alla tematica delle rovine. Cfr. anche Mm. PERNIOLA, Dopo Heidegger. Filosofia e organizzazione della cultura, Milano 1982.
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Ciò non toglie che prevalgono ancora forti impulsi a penalizzare i livelli bassi del consumo letterario o il consumo di livelli bassi della letteratura. E al centro di questa tendenza si muovono proprio i letterati, cioè il cuore stesso della letteratura non intende concedersi ad un possibile riaccorpamento dei tre punti di vista. La rivendicazione della specificità del giudizio letterario si muove in questa ottica.
L’istituzione della critica letteraria accoglie, con diffidenza, i contributi che vengono dall’esterno. Se li accoglie, tende a farli convergere sull’oggetto letterario che la tradizione nazionale ha precostituito. Esattamente come è avvenuto con l’integrazione tra interesse letterario e interessi storici, politici, ideologici, ecc., la tendenza è quella di accettare ulteriori integrazioni a patto che esse non siano una insidia per la gerarchia di valori su cui l’istituzione letteraria si fonda, su cui e grazie alla quale vive. La rivendicazione del valore della letteratura si rivela dunque come rivendicazione, molto più stretta, degli apparati letterari, come difesa della loro stabilità e continuità, come legittimazione del loro lavoro, del loro ruolo sociale. Non a caso uno dei punti «chiave» della rivendicazione del valore, nei letterati, ruota sulla tensione critica del prodotto (o delle analisi sul prodotto), sul rifiuto delle convenzioni sociali, sulla diversità rispetto al sistema. Questa funzione, infatti, non viene data come elemento che qualifichi una reale integrazione con la società, ma come mantenimento di una posizione, di un modello, di un «insieme» di poetiche, di pratiche letterarie, di metodi critici, che, cadendo, provocherebbero la dispersione dell’apparato. Oppure (il che è visto come pericolo ancora pit grave) provocherebbe una sua radicale ristrutturazione, con il conseguente eccidio di un gran numero di figure tradizionali del lavoro letterario. Meglio lasciar morire la letteratura che morire «di persona», pare dire il letterato. Ecco perché il ricorso ad altri metodi è, per l’istituzione letteraria, tanto pericoloso, quanto necessario ad arginare le aree di maggiore cedimento. Tra i diversi metodi, le presupposte specificità o diversità rispetto all’oggetto letterario dipendono in gran parte dal fatto che ciascuno di questi metodi tende a scontrarsi o emanciparsi o dominare rispetto agli altri. Gli stessi metodi letterari sono in questo gioco. Ma lo sono in modo più drammatico, accerchiati da una complessità sociale che, crescendo, fa crescere l’esigenza di nuovi strumenti ermeneutici. I diversi contributi metodologici (una volta che siano stati stemperati o neutralizzati i vari impulsi corporativi e deviato ogni rischio disgregatore) riguardano e consentono un aumento delle possibilità di accertamento, una riduzione di errori sul reperimento dei dati, un arricchimento di prospettive, una maggiore estensione di consensi. Su questi contributi ogni critica letteraria assennata comunque si basa, anche quando non li esplicita nella stesura del giudizio. Ogni indirizzo critico maturo ha già fatto questo nel passato: si pensi alle integrazioni fra letteratura e positivismo, fra stilistica e psicologia o estetismo idealistico e marxismo. Oggi la griglia disciplinare a disposizione dell’analisi letteraria è fortemen-
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te estesa. Vi è un volume complesso di metodologie che possono essere applicate ad uno o più segmenti del corpus letterario. I conflitti di cui abbiamo detto si accendono soprattutto sulla mobilità, sulla dinamica a volte progressiva a volte regressiva, del fronte che divide i metodi oramai interamente assimilati della convenzione letteraria e quelli di recente assunzione o impatto. In Italia, la sociologia è tra quei metodi, appunto, che potremmo dire appartenenti alla fascia esterna e turbolenta. La discussione si apre in una zona di frontiera per la letteratura ma anche per la sociologia. Se restiamo fermi al presupposto che ciascuna delle prospettive metodologiche (usate singolarmente o «raggruppate» in sistemi più complessi) è diversamente catalogabile a seconda dell’interesse da cui muove, possiamo tranquillamente sostenere che lo strumento sociologico è parizzenti utile e legittimo rispetto agli altri. La divergenza o la coincidenza dei risultati, a seconda dei metodi assunti, dipende evidentemente da fattori molteplici, non solo dalla coerenza o meno del metodo in questione, non solo dalla possibilità o meno della sua specifica applicazione, ma anche da interventi ideologici, appartenenze di ceto, meccanismi di controllo, rapporti di forza, ecc. Sta di fatto che la sociologia dell’autore, dei gruppi intellettuali, delle istituzioni, della produzione d’apparato, del mercato e del pubblico o la sociologia del testo, dei personaggi, degli archetipi e cosî via, valgono per quanto riescono a fornire sul piano dei dati e dell’interpretazione. L'indagine sociologica può confermare, rafforzare o anche correggere la ricerca storica o il pregiudizio estetico-ideologico. L’analisi del contenuto può dare maggiori argomentazioni al commento di un testo. Una campionatura del pubblico può darci qualche utile indicazione sulla sua circolazione, sul suo significato reale. Nessun primato della sociologia: aberrazioni, incoerenze o falsificazioni appartengono ad ogni metodo. Sono indirizzi utili di per se stessi, utili cioè sia per indagini che muovono da un interesse extraletterario sia per indagini prettamente letterarie. Ma anche quando lo strumento sociologico lavora nel più rigoroso perimetro letterario, per e nei suoi interessi, i semplici dati sui modi di produzione, sulla qualità del lavoro, sulla composizione del pubblico ci sembra che non tocchino che marginalmente il valore della letteratura. Toccano ed anzi sono spesso in grado di distruggere (o potrebbero) il valore «corporativo» che i letterati assegnano alla letteratura, valore che, come si è detto sopra, è ben altra cosa da ciò che qui ci deve preoccupare. Infatti l’esigenza di esprimere un valore soltanto in quanto indice della densità letteraria, graduatoria di gerarchie ideali e precostituite, in ultima analisi non può che risultare un’esigenza essa stessa extraletteraria. Il giudizio di valore viene costantemente usato per esigenze extratestuali, a fini politici. Tuttavia, il problema rivendicato dai letterati, rispetto ai sociologi o ai semiologi, per quanto spesso in forma «povera» e «tendenziosa», adombra la giusta volontà di riprodurre l’evento letterario, di salvarne la continuità creativa. Non solo, cioè, di stabilire come la letteratura si produce, come si consu-
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ma, in che forme funziona, ma anche il valore del suo perdurare nel tempo, del suo proiettarsi nel futuro, del suo bisogno e del suo soddisfacimento. La scomposizione e ricomposizione della «macchina» letteraria nei suoi vari segmenti attraverso tutti i metodi possibili e, magari, di volta in volta più adatti, non salvano il senso dell’azione letteraria, non costituiscono la dinamica dell’oggetto, non consentono la sua riorganizzazione, il suo superarsi, non determinano nuovi valori. Cioè, non aprono nuove strade ai rapporti tra domanda e offerta di letteratura. Non creano. La creatività resta «chiusa» nel segreto dell’autore, quando ne sia capace. Guardando piuttosto all’ambito italiano che ad altri, per certi aspetti almeno, pit fertili, possiamo dire che tutti e tre i punti di vista con cui si assume il fare letterario restano chiusi in questo segreto e quindi persino gli scrittori, quasi tutti, restano bloccati nel medesimo stallo della critica. Una critica che, pur continuamente prescrittiva, valutativa, normativa, non supera mai il «relativismo» delle conoscenze, non fa mai corpo con la letteratura per trasformarla, cioè appunto per valorizzarla nel senso più pieno e ricco del termine. E l’autore resta troppo spesso avvinto al cieco giudizio del critico !. Oggi, nel conflitto tra pubblico, saperi istituzionali e flusso letterario, sono in gioco l’emergenza potente di un immaginario collettivo tecnologicamente attrezzato ed una geografia del potere estremamente complessa, disarticolata, in trasformazione. La spirale delle innovazioni tecnologiche imprime ai linguaggi espressivi una sempre più forte necessità di essere traducibili per nuovi contesti sociali. Il problema è lo stesso affrontato a suo tempo in Europa dalla critica romantica: tradurre l’immaginazione popolate, le sue mitologie, per la pagina stampata del libro moderno. Allora, grazie ad una critica che coincideva con la produzione testuale, l'operazione riuscî. Ora, la separazione, in Italia particolarmente acuta, tra il consumo di letteratura diffusa e la produzione o critica della letteratura istituzionalmente legittimata, impedisce una operazione analoga ed altrettanto necessaria. E necessaria non per la cultura di massa soltanto, ché anzi questa appare in qualche misura la più garantita, almeno sul medio periodo, ma proprio per la letteratura di qualità, per rimettere in moto, cioè, dinamiche innovative capaci di rilanciare l’intero sistema della comunicazione letteraria. Scomposizione e ricomposizione dell’apparato letterario, dunque, quasi mai salvano l’azione letteraria. Cerchiamo dunque di vedere che cosa possa fare la sociologia per intervenire su questa mancanza. Credo sia evidente, a questo punto, che il ragionamento è estraneo ad ogni ingerenza tra un campo e l’altro del sapere, perché si propone di essere tutto dentro e per l’azione letteraria. 5 Come ultimo termometro del dibattito letterario si veda il Supplemento letterario. 4, in « Afabeta », VII (198 5), 69, PP. I-XXIV, dove si possono trovare anche le indicazioni degli scritti teorici e degli interventi apparsi in altri numeri della rivista sul tema «Il senso della letteratura ».
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2.
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Latradizione moderna.
2.1. Scrittura, letteratura, letterarietà.
Non è un caso che Wellek e Warren, nella loto Theory of Literature, e in particolare nel capitolo dedicato ai rapporti fra letteratura e società (rapporti che — a nostro modo di vedere in termini assai aberranti — sono generalmente individuati come quelli costitutivi dello sviluppo di una sociologia della letteratura), considerino allo stesso tempo fondamentale e deviante il contributo di Max Weber '. Fondamentale, per determinare le influenze della letteratura sulla evoluzione sociale (e viceversa), poiché alle sue radici (Max Scheler, Max Weber e Karl Mannheim) la sociologia della conoscenza è «ancor meno incline del marxismo e della psicanalisi ad isolare un solo fattore come l’unico fattore determinante di un mutamento» *. Ma deviante, se usato per individuare il rapporto fra contenuto e forma, poiché «come il marxismo, preoccupata di non giungere a una spiegazione irrazionalistica, la sociologia della conoscenza è incapace di dare un fondamento razionale all’estetica e quindi alla critica e alla valutazione ‘». Non a caso, cioè, questo approccio a Weber, da parte di due autorevoli storici e sistematizzatori delle istituzioni della critica letteraria, schiaccia l’interesse della sociologia sugli aspetti normativi della crtica e non su quelli innovativi, dunque creativi. Individua l’utilità della sociologia per ricercare le origini sociali della letteratura o la sua circolazione, ma abbandona all’ambito più «organicamente» letterario la «spiegazione» delle regole interne al testo, al suo funzionamento. Tali regole, secondo Wellek e Warren, rischierebbero di apparire «irrazionalistiche» nella «rivelazione» sociale che ne può dare la sociologia. Ma con questa argomentazione si sottovaluta anche il carattere specifico della sociologia weberiana, in cui la combinazione tra definizioni di realtà normative e definizioni di realtà cognitive è in grado di produrre determinati vettori rispetto ad altri, di suggerire scelte, di sprigionare vocazioni. Sono gli stessi Wellek e Warren a individuare la fruttuosità dell’insegnamento weberiano nel suo modo di trattare la religione ed è difficile trovare un approccio che più di questo, nell’analizzare l’etica del protestantesimo, abbia superato l’equilibrio normativo-cognitivo in un progetto creativo, in invenzione, in produttività sociale. Weber indica, dunque, la tradizione di una sociologia che interpreta le 1 Per il ruolo di Weber nei confronti dell’approccio letterario, si rimanda a M. BEER, La critica sociologica, in 0. CECCHI ed E. GHIDETTI (a cura di), Sette modi di fare critica, Roma 1983, pp. 133153; molto utile per l’individuazione del dibattito tra Weber e Eduard Meyer sul lavoro dello storico e nell’indicare una linea che porta a Lucien Febvre, Fernand Braudel, Jacques Le Goff, Emmanuel Le Roy Ladurie, con i suoi riflessi sulle ricerche italiane di autori come Alberto Tenenti, Carlo Ginzbutg, Piero Camporesi. 3 n WELLEK € A. WARREN, Theory of Literature, 1942 (trad. it. Bologna 1973, p. 143). bid.
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azioni sociali producendone la loro possibile dinamica, dando la teoria del loro sviluppo, stabilendone l’effettivo valore d’uso. Anzi è proprio merito di Max Weber «se i sociologi si sono resi conto dell’importanza di prestare attenzione al significato delle azioni sociali» ‘. Dunque anche della letteratura. Ma qual è il significato della letteratura in quanto azione sociale? Qui la domanda coincide evidentemente con quella più generale su quale sia il significato delle arti. Ma è importante rilevare proprio questa «coincidenza», questa generalizzazione dell’interrogativo, perché troppo spesso i sottointerrogativi strettamente legati alla scrittura letteraria, dati come prioritari o centrali, fanno deviare il discorso ben lontano dal suo « cuore». E, piuttosto che argomentare sul significato dell’azione artistica, si finisce per argomentare sui significati dei significanti che operano al servizio dell’azione stessa. Operazione anch’essa legittima ed anzi necessaria ma solo ad wr certo momento o în un certo modo. Momenti e modi, questi sî, forse di esclusivo ambito delle tecniche letterarie. Ma non delle modellistiche, scientifiche o teoriche che dir si voglia, atte a produrre letteratura, a dare valore a un testo. Se è vero che l’avvento storico delle discipline sociologiche ha costituito un arricchimento culturale e, dunque, una modificazione storica delle forme della comunicazione e della rappresentazione, la sociologia deve avere sicuramente un suo ruolo nella creatività artistica, una determinazione ulteriore delle sue possibilità di sviluppo. Ci pare che questo ruolo non possa che collocarsi nello scarto tra modelli letterati legati ad una società semplice, la civiltà industriale all’interno della quale si è sviluppato il nucleo di partenza delle teorie artistiche ancora oggi in uso, ed una società complessa, la civiltà postindustriale del presente. John Hall nella sua Sociology of Literature, là dove prende in esame le tradizioni teoriche, ricorre ad un passo significativo di Daniel Bell, anticipatore degli scenari postmoderni, in cui la cultura artistica viene intesa come risposta a problemi sempre ricorrenti seppure nella diversità dei sistemi espressivi determinati dall’espansione e dallo sviluppo dei poteri tecnologici di un determinato contesto sociale °. Ci sembra che questo punto di vista appartenga tanto al «senso comune» della fruizione artistica quanto alla maggior parte dei saperi istituzionali ed in particolare di quelli interessati direttamente al discorso letterario. Possiamo trovarci d’accordo su questo punto, seppure con qualche cautela (esiste un tempo antropologico-culturale ed un tempo storico e l’accumulo sul primo da parte del secondo non può essere irrilevante, anzi proprio lo sviluppo tecnologico, la contrazione se non la nullificazione del tempo che ne consegue, tendono a ridurre sempre pit lo scarto). Si tratta allora di vedere il ricorrere dei grandi temi della creazione artistica sugli snodi fondamentali del progresso tecnologico.
È Raymond Williams a fornirci uno schema di partenza. Nel suo Culture,
. * P. L. BERGER e _B. BERGER, Sociology. A Biographical Approach, 1972 (trad. it. Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana, Bologna 1977, b. 444). 3 Cfr. J. HALL, The Sociology of Literature cit., trad. it. pp. 36-37.
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troviamo l’esplicitazione di un’area speculativa, che forse solo nella tradizione di McLuhan ha avuto un suo centro di polarizzazione reale intorno al senso dello sviluppo tecnologico dell’immaginazione‘.Neppure il «materialismo» degli Hauser e dei Lukdcs è sfuggito alle sottovalutazioni di alcune differenze, costitutive dell’immaginario e relative alle disponibilità o meno di alcuni mezzi di espressione. Nel capitolo dedicato ai mezzi di produzione, infatti, Williams chiarisce che la scoperta e lo sviluppo dei mezzi materiali di produzione culturale costituisce un capitolo importante della storia umana, ma è di solito sottorappresentato, rispetto alla scoperta e allo sviluppo di quelle che più facilmente sono conside-
rate forme di produzione materiale; come il cibo, gli utensili, la casa e i servizi
pubblici. Anzi, una posizione ideologica comune distingue quest’ultima area come «materiale», in opposizione con quella «culturale» 0, molto più comunemente, quella «artistica» o quella «spirituale » ”.
E di conseguenza: Possiamo fare, innanzitutto, un’importante distinzione generale, che ha effetti sociali e sociologici continui, tra 4) quella classe di mezzi materiali che dipende completamente o principalmente da risorse fisiche intrinseche e costituite, e b) quell’altra classe che dipende completamente o principalmente dall’uso o dalla trasformazione di oggetti e di forze materiali non umane. Non si può scrivere una storia delle arti senza dare la giusta attenzione ad entrambi. Le arti della poesia orale, del canto e della danza sono chiari esempi del primo caso, mentre la pittura e la scultura lo sono del secondo... non è un semplice problema di stadi successivi *.
A questo punto, seppure con passaggi teorici che restano forse un poco deboli e soltanto intuitivi, Williams conferisce alla scrittura uno «status radicalmente diverso sin dall’inizio », poiché essa, «come tecnica culturale, dipende completamente da forme specializzate di addestramento, non solo (come è diventato comune in altre tecniche) per i produttori ma anche, e crucialmente, per i riceventi» ?. Dal nostro punto di vista, il discorso che Williams suggerisce ci interessa in modo particolare, perché viene incontro al problema dello scarto tra letteratura e letterarietà, su cui ogni metodo critico continua a scontrarsi, sia che voglia definire la pertinenza di determinati codici sia che voglia tracciare graduatorie di valori. La scrittura, elemento costitutivo della letteratura, viene individuata come la prima poderosa innovazione tecnologica della produzione collettiva di comunicazione e di rappresentazione. Il linguaggio letterario na6 Cfr. H. M. MCLUHAN, The Gutenberg Galaxy. The Making of Typographic Man, 1962 (trad. it. Roma 1976). ? R. WILLIAMS, Culture, 1981 (trad. it. Sociologia della cultura, Bologna 1983, p. 99). Si vedano anche le posizioni di H. LEFEBVRE, Le langage et la société, 1966 (trad. it. Firenze 1971), in particolare i capitoli I/ codice tridimensionale. Abbozzo di una teoria delle forme e La forma merce e il discorso (pp. 192-272). È R. WILLIAMS, Culture cit., trad. it. p. 100. ? Ibid., pp. 105-6.
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sce e trova le sue legittimazioni storiche all’interno di questa innovazione ed in relazione al suo sviluppo. La forza di espansione e di definizione di questa tecnica espressiva sarà per lungo tempo l’unica in grado di funzionare in modo ricco e complesso, dando il massimo di coesione non all’immaginario in tutta la sua dimensione (individuale e collettiva) ma alla sua autoconsapevolezza e alla possibilità della riproduzione e circolazione di questa autoconsapevolezza. Dentro a queste dinamiche nasce e si sviluppa quell’istituzione «legata» alla scrittura che chiamiamo invenzione letteraria e che in modo pit chiaro potremmo definire l’uso che l'immaginazione artistica fa della scrittura. Tali dinamiche di sviluppo della scrittura passarono da: a) una funzione di supporto e di registrazione, in società in cui la composizione e la tradizione orale erano ancora predominanti, attraverso 4) uno stadio in cui a questa funzione si unî la composizione scritta a scopo di rappresentazione orale, e c) un ulteriore stadio in cui la composizione era scritta solo per essere letta, fino a d) quello stadio successivo e molto comune in cui la maggior parte, se non tutta, la composizione era scritta per essere letta silenziosamente e che fu alla fine, per questa ragione, generalizzata come «letteratura» !°.
Come si vede, questo quadro evolutivo già dà una risposta alla componente meno «estetica», meno squisitamente artistica e di valore, del quesito sul dove si collochi il confine tra letteratura e letterarietà, poiché individua la letteratura propriamente detta nelle fasi in cui una comunità sociale fissa una forma particolarmente specializzata di scrittura, che chiama letteratura in senso stretto. E si vedrà che in Marxism and Literature Williams colloca nel periodo industriale il momento in cui il termine «letteratura» cessa di designare tutti i libri a stampa e assume «il significato esclusivo di letteratura creativa e immaginativa» ". Infatti, il decollo della società industriale conferisce alla scrittura un salto tecnologico clamoroso per la qualità e quantità dei risultati che l’innovazione delle macchine può ottenere. Un salto talmente forte da riproporre in modo radicale nella società moderna la sostanza originaria, quasi mitica, del suo con-
tenuto innovativo. L’industrializzazione della stampa produce, cioè, seguendo lo schema di Williams, la comunicazione e rappresentazione scritta di una larghissima porzione dei fatti sociali, una espansione decisiva della lettura; in altre parole, un’elevatissima traducibilità dei linguaggi non scritti în scrittura. È con questo stesso salto tecnologico che la creazione artistica si lega in modo prioritario alla scrittura. Ma per avere davanti l’intero quadro storico, all’interno del quale ora cercheremo di entrare più dettagliatamente, si tenga presente che, allo stesso tempo, cioè sempre grazie all’intensità dei processi di industrializzazione, cominciano a nascere altre innovazioni diverse dalla scrittu-
ra ma volte a soddisfare alcuni bisogni espressivi che la scrittura era in grado di esaudire solo in parte o solo sino ad un certo punto. La forza della scrittura 10 Ibid., pp. 106-7. 1! 5. HALL, The Sociology of Literature cit., trad. it. p. 54.
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si fondava sulla «riduzione» del suono, dell’immagine e del corpo alla pagina scritta-letta. In questa capacità riduttiva (cioè, non cancellazione di questi linguaggi ma anzi una loro traduzione su canali straordinariamente estesi) si fondava l’egemonia della scrittura e la scelta dell'immaginario artistico di confluire con forza epocale (si pensi al nesso da tutti riconosciuto tra risorse della borghesia e letteratura) nella scrittura letteraria e nei suoi apparati. Ma quando altre innovazioni come il cinema, la radio, e poi la televisione renderanno possibile la comunicazione e rappresentazione del suono, dell’immagine e del corpo con indici meno riduttivi ma altrettanto diffusivi della scrittura, allora le scelte dell'immaginario collettivo e individuale cominceranno a diversificarsi, pur muovendo (questo è molto importante per noi) dal grande corpo di una immaginazione letteraria, che grazie alla sua egemonia si era fatta tradizione quasi universale della creatività. A questo punto, ci sembra, possiamo spiegare assai pit specialisticamente, settorialmente, la differenza tra letteratura e letterarietà. Questa seconda rappresenta quanto della prima è andato socialmente riciclandosi nel suo tradursi in altri rzedia. E, di conseguenza, troviamo un’altra spiegazione, quella del progressivo scarto tra critica e immaginazione artistica, poiché la critica, necessariamente legata alla scrittura grazie alla capacità della scrittura di concettualizzare, resterà ancor pit fortemente legata alla tradizione della letteratura invece che alla ricchezza di un immaginario ancora profondamente letterario ma ormai attrezzatosi con una più estesa gamma di tecnologie. Questo processo si snoda dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri. Vediamone più in dettaglio alcuni passaggi. Su questi passaggi sono germinati alcuni indirizzi sociologici che ci riguardano pit o meno direttamente nel gioco spesso reciproco o alterno tra diversi «nuclei» dell’immaginazione e della creatività.
2.2. Arte e pubblico nell’estetica hegeliana. . Un primo snodo è costituito dalle correlazioni che possiamo stabilire fra la teoria estetica sulla morte dell’arte di Hegel, il concetto e la pratica di critica romantica, il rilancio della letteratura a stampa, di cui si è detto sopra, in quanto riproposizione «forte» del rapporto di traducibilità tra linguaggi orali e scrittura. Sono questioni che impregnano di sé il settore più autorevole della sociologia della cultura ma anche e significativamente lo strutturalismo e per più aspetti la critica simbolica, almeno nello spessore che le conferisce Ezio Raimondi. In altre parole, sono processi storici che influiranno, anche se in modo diverso, sia sul filone di una lettura e di una critica « positiva», sia sul filone che va al di là dei rapporti tra elementi testuali o dei rapporti fra testo e contesto; laddove il primo filone « riconosce come proprio fine quello di illuminare i fatti linguistici e culturali che costituiscono l’evidenza, l’individualità di un testo; mentre il secondo postula che un’opera letteraria contenga un senso nascosto o implicito e che tocchi alla strategia del lettore di portare alla
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luce questo significato profondo, immanente alla costruzione, alla forma inter-
na di un testo» ”. Nell’Asthetik hegeliana, troviamo allo stesso tempo il punto di coincidenza e di frattura tra autonomia assoluta del linguaggio artistico e determinazione storica del suo pubblico '. « Entrambe le cose, la quiete in sé e il rivolgersi allo spettatore, devono esserci nell’opera d’arte, ma i due lati devono trovarsi nel più puro equilibrio» ‘. In quanto l’opera è «per un pubblico che esige di trovare nell’oggetto artistico se stesso, secondo il proprio vero credere, sentire, rappresentare, e che esige di trovarsi in accordo con gli oggetti rappresentati» ‘, allora «per quanto l’opera d’arte possa formare un mondo in sé concordante e conchiuso, essa tuttavia, come oggetto reale, singolo, non è per sé, ma per noi, per un pubblico che guarda e gode l’opera d’arte». Coincidenza, dunque, nel modello «compiuto», «armonico», «equilibrato» dell’opera classica; ma, come sappiamo, frattura irreparabile nel modello tentato dall’esperienza romantica. Essa, secondo Hegel, fallisce il risultato dell’arte viva, in grado di rappresentare un «contenuto vero e intramontabile anche per l’attuale formazione culturale» ‘, e perviene ad un’arte morta, perché i romantici dividono l’unità della creazione estetica in due mondi: Un regno spirituale che è in sé perfetto, l’animo che si concilia in sé e piega la ripetizione, altrimenti rettilinea, del nascere, morire e risorgere del vero cerchio, al ritorno in sé, alla vita di araba fenice dello spirito; dall’altro lato il regno dell’esteriore come tale che, scioltosi dalla saldamente unificante connessione con lo spirito, diviene ora una realtà del tutto empirica, della cui forma l’anima non si cura !*.
La frattura tra interiorità ed esteriorità è alla radice di una dissoluzione irreversibile, che i romantici accendono nell’esperienza del «romanzesco » e del «fantastico», assolutizzazione della realtà o assolutizzazione dello spirituale. Ed è illuminante che per far comprendere il momento in cui «il principio della dissoluzione dell’ideale classico, lascia ora in effetti chiaramente comparire questa dissoluzione come dissoluzione » *, Hegel ricorra ad un esempio drammaturgico, ad una dimensione della scena, ad un linguaggio ibrido, lui cost attento a marcare le differenze estetiche tra un nesso espressivo e l’altro (significativa, infatti, la valutazione dei limiti della musica per le stesse ragioni che i romantici la valorizzano in confronto con la scrittura): L’artista perciò si comporta verso il contenuto, nell’insieme, quasi come un drammaturgo, che introduce ed espone personaggi diversi da lui, estranei... 1° critica 15 !4 15 16 7
E. RAIMONDI, La critica simbolica, in M. coRTI e c. SEGRE (a cura di), I metodi attuali della in Italia, Roma 1980, p. 61. Cfr. A. ABRUZZESE, Introduzione cit., pp. 36-49. G. W. F. HEGEL, Asthetik, 1955 (trad. it. Estetica, Milano 1963, p. 817). Ibid., pp. 323-24. Ibid.,p. 347. Ibid., p. 356.
18 Ibid.,p.696.
1 Ibid., pp. 781-82.
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egli si serve a questo riguardo della propria provvista di immagini, di maniere di configurare, di forme d’arte antecedenti, che, prese per sé, gli sono indifferenti e divengono importanti solo quando gli appaiono appunto le più idonee per questa o quella materia °°.
Il romanzesco come «sceneggiatura» del patrimonio classico svuotato del suo contenuto reale (in quanto forma compiuta, realizzata, dello spirito nel mondo), questa l’esperienza romantica per Hegel. E il discorso è condotto nei parametri stessi in cui la religione appare, nella civiltà moderna, semplice mondanizzazione dei valori religiosi, dunque nel cuore di un pensiero filosofico particolarmente produttivo nei confronti della futura tradizione sociologica, che di questi temi farà uno dei suoi assi portanti. Ma la materialità del pubblico, in Hegel, è tutta ideale. O meglio, ideale, cioè dettata dalla supremazia dello spitito come forza creatrice, è la mediazione che l’arte non romantica riuscirebbe a realizzare tra il pubblico come rispecchiamento totale dell’opera nel suo bic et nunc e i diversi pubblici che si concretizzano nel tempo e nello spazio. Tale mediazione è quel «terzo luogo » della pratica dell’arte che Hegel individua nella comunità ”, presenza non sensibile ma reale ricomposizione di ogni particolarità. Per cui anche quando l’opera d’arte prende in considerazione «solo la su4 nazione ed il suo presente» © tale contingente soggettività si realizza soltanto nell’oggettività dell’ideale, nel superamento estetico, appunto, di ogni connessione « particolare» con un determinato contesto, temporale o spaziale che sia. Al contrario, i romantici vissero la difficoltà storica, sociale, istituzionale (l’istituzione dell’autore e dell’apparato produttivo letterario) di eliminare il particolare. Proprio perché ebbero paura (il termine è dello stesso Hegel) «di accogliere in sé questa esistenza reale nella sua manchevolezza e determinatezza finita » °°. Non intesero, infatti, oltrepassare (anche questo è un termine desunto dal giudizio hegeliano) «la realtà comune vera e propria » ‘, ma intesero, molto più ambiziosamente, riformarla. Il quadro descritto dal filosofo «corrisponde» allo scenario praticato dallo scrittore. La «comunità spirituale» era concepita e forse poteva essere soltanto concepibile nei perimetri chiusi di una produzione artistica fortemente omogenea. Le basse dimensioni quantitative delle operazioni artistiche legittimavano il loro rilancio nella sfera dell’assoluto, del totale, dello spirituale, del nonsensibile e, quindi, davano ragione alla loro realtà. Ciò non è più praticabile quando quei perimetri si allargano vertiginosamente, cosicché il « pubblico della nazione e del presente » comincia a confondersi davvero con quella astra20 21 ria cfr. 22 2
Ibid., p. 797. Cfr. ibid., pp. 115-16. Come punto terminale dell’infrangersi di questa possibilità comunitaM. BLANCHOT, La communauté inavouable, 1983 (trad. it. Milano 1984). G. W. F. HEGEL, Asthetik cit., trad. it. p. 356. Ibid., p. 695.
2 Ibid.
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zione di comunità ideale a cui anche i romantici tendevano, parimenti convinti, come Hegel, della supremazia dello spirito come forza creatrice. Ecco quindi l’emergere di fortissime polarizzazioni sugli interessi nazionali, sul popolo come composizione del tessuto storico-sociale di quegli interessi, e sul pubblico come parte concreta del popolo e ad esso partecipe. E tutto questo sulla base di pressioni certamente dovute anche all’espansione della stampa. Il dissolversi dell’idea di pubblico, come rispecchiamento puro e semplice della forma artistica, rivela e produce un pubblico diviso tra conoscenza del mondo e fascinazione dello spirito. È proprio la «scoperta» dell’irriducibilità del primo al secondo che costituisce il concetto e la pratica della critica romantica, come è stata splendidamente descritta da Walter Benjamin”. Proprio la divisione tra mondo e spirito, esteriorità e interiorità diviene contenuto della critica del testo e della produzione letteraria, contenuto cioè della formulazione di nuovi modelli organizzativi del circuito scrittura-lettura. La creazione letteraria si misura ed opera su ciò che Hegel dava come sua negazione. Le polemiche tra classicisti e romantici, tra antichi e moderni, la problematica conseguente tra repetitio e innovatio tra Goethe e i romantici, la polarizzazione della ricerca romantica sulla musicalità della lirica, sulla possibilitàimpossibilità della tragedia, sulla traducibilità-intraducibilità della musica in letteratura, sull’eccesso della fantasia rispetto alla società, costituirono gli aspetti salienti del processo. Dentro allo stesso processo di assunzione della scrittura letteraria a produzione di immaginario capace di produrre lo sviluppo delle forme sociali, si colloca la volontà romantica di tradurre i vari «mondi» che la scrittura aveva tralasciato di rappresentare, che aveva occultato: soprattutto i racconti orali di una tradizione folklorica, di una magia «pagana» e «cristiana», comunque religiosa, e prossima a spegnersi. Il luogo, cioè, di mitologie ancora operanti nella memoria ma scarsamente nella scrittura e nella lettura. Gli archetipi delle favole popolari debbono farsi operanti nei racconti del presente, nel pubblico moderno, nella vita sociale della nazione. I romantici iniziano cosî nella loro scrittura testuale un processo di drammatizzazione letteraria della scena del mondo. Un processo che non a caso è filologicamente ed istituzionalmente riconoscibile sino al progetto wagneriano. Infatti la critica romantica, come aveva bene intuito Hegel, fonda una dimensione spettacolare già nella letteratura (e non è un caso che, quando Schiicking dovrà descrivere l’avvio di una dinamica «restringente» del successo della scrittura letteraria, ricorrerà alla presenza quantitativa e qualitativa del gusto teatrale). Ma quando lo sviluppo tecnologico lo renderà possibile, lo spettacolo si avvierà a contrarre lo spazio rea25 Cfr. w. BENJAMIN, Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik, 1920 (trad. it. Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Torino 1982, pp. 3-116). Su questo saggio e sul raggio vastissimo di temi artistici e teorici a cui fa riferimento, si veda il fondamentale contributo del suo traduttore italiano, c. coLarAcoMO, Archetipîi del concetto di critica in Benjamin, in La scena memorabile, numero monogtafico di «Calibano», n. 4 (1979), pp. 207-51. Si veda infine la ricca analisi filosofica compiuta da B. MORONCINI, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Napoli 1984.
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le della comunicazione letteraria, cioè quello individuato dai romantici, quello costitutivo dell’immaginario. Wagner tenterà allora di tenere insieme musica, teatro e letteratura, poco prima che scena, suono e scrittura disponessero di singoli mezzi espressivi e si avviassero quindi ad altro tipo di istituzionalizzazioni o di integrazioni ”. 2.3. Processi di metropolitanizzazione. Un altro snodo, strettamente ravvicinato a quello dell’esperienza romantica, è costituito dai processi di metropolitanizzazione e di macchinizzazione, impressi dallo sviluppo industriale alla vita quotidiana. Uscendo dalla esaltante «confusione» romantica, infatti, il pubblico letterario si scopre sempre pit diverso dalla «folla», da una entità cioè in cui non contano tanto gli elementi nazionali e le scansioni temporali, ma appunto la massa, cioè la consistenza, la sino ad allora sconosciuta presenza. La folla è il prodotto (e insieme la risorsa)
della produzione industriale, dell'avvento generalizzato delle macchine ”. Di questa nuova realtà, seppure in modi non sempre univoci ed anzi spesso divergenti, sembrano prendere coscienza quasi tutti i saperi tradizionali e, dalla conseguente crisi, prendere forza i saperi più organicamente legati ai processi di socializzazione della civiltà industriale, come la sociologia. Forse i romantici di Hegel furono all’avanguardia nel presentimento della folla e delle macchine, ma certamente le analisi protosociologiche di Alexis de Tocqueville sulla civiltà di massa americana sono grosso modo contemporanee alle analisi «stilistiche» di Edgar Allan Poe e alle sue innovazioni letterarie. In Classes laborieuses et classes dangereuses à Paris pendant la première moitié du x1x° siècleLouis Chevalier riesce a far funzionare in modo egregio storia, sociologia e analisi testuale per documentare il fitto intreccio di correlazioni dell’immaginario letterario di Hugo, Balzac e Sue con l’aumento dei conflitti urbani dovuti alla crescita del territorio parigino e al confluirvi massiccio di classi « pericolose » °°. Pericolose in ogni senso, legale e illegale, sociale ed espressivo. La pratica e l’immagine del delitto valgono tanto come indicatori del collasso della sicurezza della vita sociale, invasa dalla folla tumultuante della metropoli, quanto come indicatori della crisi dell’istituzione letteraria. Anche qui funziona assai bene la componente sociologica dell’interpretazione benjaminiana sui tre «passaggi» che andiamo individuando: invenzione artistica, riproducibilità dell’opera, proletarizzazione del lavoro. Relativamen26 Cfr. A. ABRUZZESE, Forme estetiche e società di massa, Padova 1973. 2 Cfr. A. MUCCHI FAINA, L'abbraccio della folla, Bologna 1983. La letteratura su questo tema a partire da Le Bon è vastissima e va dal s. FREUD di Massenpsychologie und Ich-Analyse, 1921 (trad. it. Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, IX, Torino 1977, pp. 257-330) ai saggi di Benjamin su Baudelaire, a J. oRTEGA Y GASSET, La rebelibn de las masas, 1930 (trad. it. Bologna 1962), sino al saggio di E. CANETTI, Masse und Machi, 1960 (trad. it. Massa e potere, Milano 1981), sino a confluire nella letteratura sociologica da Parsons a Riesman. 28 Cfr. L. CHEVALIER, Classes laborieuses et classes dangereuses à Paris pendant la première moitié du x1x° siècle, 1958 (trad. it. Bari 1976).
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te ad autori «chiave» come Baudelaire e Poe, cogliamo la fase in cui il primo di questi tre passaggi attraversa l’esperienza metropolitana come disordine fra la tradizione del pensiero (la conoscenza intellettuale delle cose) e l’intuizione di bisogni emergenti (relativi alla spinta di complessificazione ed al contempo di semplificazione dovuta all’aggregarsi della società in forme collettive, organizzate, attrezzate tecnicamente).
La tensione romantica di un Hélderlin (con tutto ciò che questa figura di letterato significò, direttamente o indirettamente, al di là dei confini nazionali ed anche al di là del campo letterario) si era chiusa nel «cerchio» spiritualista di Hegel. Il «giornalista» Poe coglie la dimensione psichica, se non la composizione sociale del suo pubblico, ricavandola da fattori materiali: si ricordino le pagine dedicate da Tocqueville al giornalismo, in cui, questi da politico e da storico, descrive la massa americana («I diversi ceti sono tutti mescolati e con-
fusi tra loro, il sapere, quanto il potere, sono frazionati all’infinito e, se mi è consentito dirlo, sparpagliati da tutte le parti»), il mutamento dei bisogni intellettuali («Mi rendo facilmente conto che, stando cost le cose, debbo aspettarmi di non trovare nella letteratura di un simile popolo che uno scarso numero di quelle rigorose convenzioni accettate, nei secoli aristocratici, dai lettori e dagli scrittori»), il legame stretto tra produzione letteraria e mercato («Il favore del pubblico»), il rapporto tra socializzazione industriale e le trasformazioni dell’immaginario («La democrazia non solo fa penetrare il gusto delle lettere nelle classi industriali, introduce anche una certa mentalità industriale in seno alla letteratura») ”. L'interesse della critica di Poe consiste per noi appunto nella capacità con cui riusci a saldare immaginazione letteraria e immaginazione sociale ai fini di una teoria artistica. Egli, cioè, ricompose, secondo il punto di vista della più rigorosa creatività, sia gli elementi propri dello spazio letterario convenzionale (come l’esigenza formale, l’attrezzatura retorica e stilistica, le fonti della tradizione colta, l’ingiunzione etico-spiritualistica del fare estetico), sia gli elementi spuri o assolutamente esterni a questo spazio, come la fortuna « mercantile» del romanzo d’appendice, lo spessore « nervoso» e «psicologico» del lettore moderno. Dunque le «scienze» che meglio sembravano allora descriverne le attitudini della mente e del corpo. Ed infine i conflitti stessi tra diversi saperi: la pregnanza sociale del delitto, la ridondanza emozionale dell’informazione giornalistica, i ritmi metropolitani, l’inattendibilità delle leggi di regolamentazione e controllo dei conflitti sociali *. Tale operazione innovativa trova in Poe altissime capacità di esemplificazione del processo pit globale con cui l’immaginario socialmente prodotto interviene sulle strutture letterarie per far si che si adeguino al mutamento dei meccanismi generali della comunicazione e della rappresentazione. Poe produce e controlla, nella scrittura, l'ingresso del lettore nella fabula. Fa questo con ? Cfr. CH.-A.-H. DE TOCQUEVILLE, De la démocratie en Amérique, 2 voll., 1835-40 (trad. it. in Scritti politici, II, Torino 1968, pp. 544-49). Cfr. la lettura di E. RAIMONDI, Tecziche della critica letteraria cit., pp.'31-37. 5° Cfr. A. ABRUZZESE, La Grande Scimmia, Roma 1979, pp. 55-90 e 122-39.
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una attenzione esasperata alla modernità del lettore e alla possibilità di esprimerne testualmente l’azione della lettura. Nella teoria critica della sua scrittura, non troviamo quella che sarà la difficoltà ermeneutica di conciliare l’approccio strutturalista sulle regole del racconto con l’approccio estetico volto a stabilirne il valore e con quello sociologico teso a rilevarne le correlazioni con il sistema sociale. Poe motiva su uno stesso livello gerzerativo (la risposta testuale a bisogni che sono 4/ di lè della letteratura) tanto la lirica quanto il racconto e persino la prima codificazione «forte» dei generi. Il fantastico e il poliziesco sono una risposta letteraria innovativa almeno nei confronti di due problemi che appartenevano l’uno al «senso comune» e l’altro ai diversi punti di vista del sapere socialmente istituzionalizzato; cioè, l’uno alla conformazione edonista, ludica, emotiva del pubblico moderno, e l’altro al conflitto tra capacità cognitive della tradizione intellettuale e opacità dei mutamenti sociali; mutamenti che, dal corpo della metropoli, si trasferivano sul corpo stesso dell’individuo. Quando Siegfried Kracauer farà sociologia del romanzo poliziesco il legame tra l’intuizione sociologica e l'immaginario poliziesco apparirà necessario. Non a caso Kracauer assegna alla sociologia, prima ancora della certezza di statuto conoscitivo teoreticamente scientifico, il carattere di necessità a partire dallo smarrirsi di un mondo coerente di segni: Quando il senso va perduto (in occidente dallo spegnersi del cattolicesimo), quando il credo determinato nella sua forma viene sentito sempre più come un dogma limitante, come un vincolo molesto per la ragione, va in pezzi il cosmo che il senso cementava ed il mondo si scinde nella molteplicità dell’esistente e nel soggetto che con tale molteplicità si confronta. Questo soggetto, un tempo incluso nella ridda delle forme che riempivano il mondo, emerge ora isolato nel caos quale unico detentore dello spirito e davanti al suo sguardo si aprono i segni incommensurabili della realtà *.
Ed allora persino «La concezione materialistica della storia si colloca in una singolare posizione intermedia dal punto di vista della teoria scientifica; essa è un miscuglio di storia, filosofia della storia e sociologia » *, e quest’ultima nasconde la sua ricchezza nel fatto che la sua materia «si sottrae ad un’elaborazione sistematica definitiva, giacché rappresenta un cattivo infinito» *. Una sequenza a partire dal cadavere: la ricostruzione dei frammenti, delle tracce; la riflessione sul «racconto» re-inventato, e l’indagine per verificarne il senso *. La divulgazione dei generi letterari a livello di massa si fa possibile a partire dalla loro formulazione nella teoria generativa di Poe, che per cosî dire 31 s. KRACAUER, Schriften 1, 1971 (trad. it. Saggi di sociologia critica, Bari 1974, pp. 7-8).
8 Ibid.,p.17.
3 Ibid., p.27. % Cfr. U. ECO € TH. A. SEBEOK (a cura di), Il segno dei tre, Milano 1983, in particolare il saggio di c. cinzsure, Spie. Radici di un paradigma indiziario, pp. 95-136, prima pubblicato in A. G. GARgaNI (a cura di), Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Torino
1979, PP. 57-106.
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«raccoglie» gli elementi sparsi e frantumati del senso letterario e del senso sociale, mettendo in gioco, accanto all’interesse artistico, una notevolissima attitudine sociologica, persino nel senso più delimitato di sociologia della letteratura (e di alcune sue sottosezioni come la sociologia del pubblico, della lettura, degli archetipi letterari, ecc.). Quando il dibattito critico-letterario tenderà ad assegnare soltanto alle ana-
lisi sui generi la possibilità di trovare correlazioni forti tra letteratura e società, verrà rimosso proprio il lavoro generativo, che li ha creati.nella forma moderna. Lavoro scoperto, formalizzato e riprodotto da Poe. Questa traiettoria non si era mossa nello scambio puro e semplice tra elementi sociali ed elementi letterari. Neppure nel gioco tra fascinazione metropolitana per il delitto (ottimamente ricostruita da Chevalier) e il romanzo gotico o il romanzo d’appendice (come nei casi espliciti, addirittura esplicativi, del Castle of Otranto di Walpole e di Monsieur Lecogq di Gaboriau, che portavano in nuce l’esperienza della detection”). Ma aveva determinato una vera e propria innovazione, un
dispositivo che faceva essere la letteratura evento di dimensioni diverse che nel passato. Cosi pure, quando si tenderà ad assegnare allo strutturalismo e alla semiologia una capacità di analisi che avrebbe funzionato in modo completo ed esauriente soltanto appoggiandosi al carattere fisso e ripetitivo dei generi, verrà rimossa proprio la natura del dispositivo in questione. Un dispositivo generato per variare nel tempo e soddisfare i mutamenti del consumo, cioè continuare ad essere circuito letterario a4#ivo. Verrà rimossa l’otigine stessa di questo attrezzo e cioè il fatto di risultare dalla estrema complessità del fatto letterario, al suo interno, e della letterarietà socialmente diffusa, al suo esterzo. Vale a dire che verrà sottovalutato (termine adatto proprio per le conseguenze che questa operazione avrà sul giudizio di valore) il punto di congiunzione, nel testo, ad onta della natura apparentemente semplice dei suoi elementi, tra linguaggi che non avrebbero potuto trovare altrove, sapere scientifico o letterario che fosse, un luogo altrettanto adatto per esprimersi congiuntamente. Restano altri due «passaggi» fondamentali: riproducibilità dell’opera e proletarizzazione del lavoro intellettuale. A causa loro il nesso tra pericolosità della massa e ricerca formale si fa molto più sostanziale oltre che intenso *. 5 Cfr. A. ABRUZZESE, La Grande Scimmia cit. # Lasciamo al capitolo che questo volume einaudiano dedica ai metodi della critica marxista l’analisi dei luoghi marziani che hanno funzionato da avvio di alcuni filoni della sociologia. Teniamo tuttavia a precisare che la linea francofortese non sarebbe pienamente comprensibile se non si facesse riferimento alle pagine che Marx dedica al denaro e che furono selezionate e raccolte poi di volta in volta nelle varie antologie degli scritti di Marx ed Engels a partire da quella sovietica del °33, con la prefazione di Lunadarskij, a quella di Liftic del ’37 sino a quelle italiane di Valentino Gerratana e di Carlo Salinari. In quest’ultima vi è una citazione dagli Okonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844 (Manoscritti economico-filosofici del 1844) di grande importanza per la tradizione francofortese che noi prendiamo in esame in queste pagine come tipica non solo di un ambito sociologico ma anche «strategico » nei confronti dei processi di mercificazione e di massificazione (più ancora che quelli di tecnologizzazione e proletarizzazione): «Il dezaro, in quanto mezzo e potere esterni e generali — non derivanti dall’uomo come uomo, né dalla società umana come società — di trasformare la rappresentazione in realtà e la realtà in semplice rappresentazione, trasforma ugualmente le reali forze sostanziali umane e naturali in rappresentazioni meramente
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L’apparire delle fabbriche nei «panorami» dell’armonia naturale, del paesaggio incontaminato dall’uomo, e delle «antiche » città, l'anomalia delle strutture in ferro, la diabolicità della macchina a vapore turbarono i criteri del bello ma tutto ciò era già pensato e scritto nella tradizione hegeliana ”. Tra la metà dell’Ottocento ed i primi del Novecento si consuma, invece, un progresso tecnologico che non era stato né pensato né scritto. Lo strutturarsi dei processi di metropolitanizzazione, in dispositivi meccanici che regolano e trasformano i rapporti spazio-temporali, le prospettive dello sguardo, il potere delle immagini, la vita quotidiana nel suo insieme, come si è già accennato, non solo provoca una sempre più radicale riorganizzazione degli apparati letterari e una diversificazione dei testi sempre più convinta. Ma fa crescere anche il bisogno di altri linguaggi in grado di comunicare e rappresentare sostazze che la letteratura poteva soddisfare solo in modi mediati, solo tradotte. È ancora Benjamin ad avere sottolineato i processi di spettacolarizzazione dell’Ottocento. Se Hegel si era servito del teatro per esemplificare la morte della invenzione letteraria, ecco ora davvero nascere la scena come negazione
tendenziale della scrittura *. E le dinamiche di spettacolarizzazione sono intimamente fondate sull’intensificarsi delle merci, sul moltiplicarsi dei mercati, sull’estendersi della produzione di fabbrica persino alla sfera artistica. L’accumulo di prodotti comporta la loro necessaria riorganizzazione in un universo visibile. Non basta l’aumento di quote collettive di lavoro intellettuale impiegate su fasce sempre pit larghe di produzione di oggetti d’«ambito» artistico (dal libro al mobile) e non basta il corrispettivo massificarsi del lavoro intellettuale del consumatore nell’esprimere le sue capacità di lettura del prodotto. Ci vuole anche uno scenario adeguato di correlazioni, di percorsi, di drammatizzazioni. Vi è l’esplodere di una straordinaria ricchezza sociale dietro alla progressiva frantumazione del gusto che negli anni ’20 verrà colta da Schiicking come dinamica inversamente proporzionale al progresso «iniziato» negli ultimi decenni del secolo xIx. E il crescere poderoso, quanto spesso sotterraneo, di quella ricchezza dovrà attendere risistemazioni concettuali ben più tarde di astratte e quindi in imzperfezioni e penose chimere; come d’altra parte, trasforma le imzperfezioni e chimere reali, le forze essenziali effettivamente impotenti, esistenti soltanto nell’immaginazione dell’individuo, in forze essenziali e poteri reali. Già solo per questa caratteristica esso è dunque il generale pervertimento delle individualità: che le rovescia nel loro contrario e alle loro qualità aggiunge qualità contraddittorie» (in K. MARX e F. ENGELS, Scritti sull’arte, a cura e con prefazione di C. Salinari, Bari 1967, p. 210). È questa una visione del potere corruttore del capitalismo che unifica spesso in un solo clima il pensiero negativo, il filone marxista e quello sociologico. Ad essi si oppone w. BENJAMIN, Der Autor als Produzent (1934) (trad. it. L'autore come produttore, in Avanguardia e rivoluzione, Torino 1977, pp. 199-217); questo saggio fornisce una possibile rilettura di Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936) (trad. it. in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Torino 1966, pp. 17-56). 8 Cfr. J. K. F. ROSENKRANZ, Asthetik des Hésslichen, 1853 (trad. it. Estetica del brutto, Bologna 1984). Si veda la presentazione di Remo Bodei (ibid., pp. 7-39), in cui si sottolinea la pregnanza sociale della crisi della bellezza artistica («Il problema del brutto è inscritto da Rosenkranz all’interno di un più ampio contesto, quello della patologia sociale», ibid., p. 20) in rapporto con i processi di industrializzazione. i ® Cfr. i saggi di Walter Benjamin raccolti nella edizione italiana Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino 1962, pp. 87-114. Su queste suggestioni benjaminiane si veda A. ABRUZZESE, Per un saggio su Albert Robida, in «Sociologia della letteratura », n. 0 (1977), pp. 57-71.
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quella di Schiicking per potere essere descritta, dovrà «arrivare» alla «sociodinamica della cultura» di Abraham Moles o al «sistema degli oggetti» di Baudrillard”. Eppure vi è un modo per comprendere ciò che andava accadendo nello svilupparsi di una spettacolarità sempre più tesa ad uscire dai recinti delle grandi esposizioni universali e ad investire di se stessa ogni territorio cosî come ogni testo. Lo si può fare ricorrendo al lavoro di «risistemazione» del patrimonio letterario «universale» compiuto da Georges Polti in unaserie di trattati elaborati nell’ultimo decennio dell’Ottocento, ai fini di fornire delle precise regole da usare nella creazione drammaturgica ‘. Un poderoso lavoro di scomposizione dei magazzini della scrittura sopravvissuti nel tempo e di ricomposizione in «situazioni drammaturgiche» di base. Dalla complessità dell’immaginario letterario accumulatosi nella tradizione alla semplicità di alcune componenti fondamentali della costruzione narrativa, del plot, del dramma. Queste componenti, nel loro numero, dipendono esattamente dalla codificazione di altrettante emozioni fondamentali per ogni uomo. Ciascuna situazione drammatica è il risultato di una esemplificazione che ricorre, con pari legittimazione degli ambiti prescelti e della loro comparazione, tanto ai testi letterari, quanto ai fatti storici, quanto a quelli della vita quotidiana ‘. Nel lavoro di Polti tornano per intero le questioni sollevate dal dibattito fra antichi e moderni sul rapporto fra repetizio e innovatio. I suoi manuali intendono fornire gli strumenti idonei alla capacità combinatoria con cui l’autore saprà tra loro collegare ed organizzare a fini espressivi — la scena teatrale — le varie situazioni drammatiche. Attraverso Polti, la ricerca «critica», che abbiamo descritta, seppure rapidamente, nell’esperienza romantica, si ricongiunge alla necessità di formalizzazione dell’industria culturale, al bisogno di «spazio drammaticamente strutturato», che la società dello spettacolo va sempre ® Cfr. A. MoLES, Sociodynamique de la culture, 1967 (trad. it. Bologna 1971); J. BAUDRILLARD, Le système des objets, 1968 (trad. it. Milano 1972) e il confluire di questo discorso in n., La société de consommation: ses mythes, ses structures, 1974 (trad. it. Bologna 1976). Una forte tendenza sistematica è riscontrabile negli ultimi lavori di E. MORIN, La Métbode, I. La nature de la nature, 1977 (trad. it. Milano 1983) e P. BoURDIEU, La distinction. Critique sociale du jugement, 1979 (trad. it. Bologna 1983), di cui si veda in modo particolare, alle pp. 481-502, il Post-scriptum: elementi per una critica «volgare » della critica « pura ».. ‘° Cfr. di 6. PoLTI, La Théorie des Tempéraments et leur pratique, Paris 1895; Notation des gestes, Paris 1892; Les trente-six Situations Dramatiques, Paris 1895; L’art d’inventer les personnages, Paris 1912. Polti, nell’elaborare l’arte della combinazione in alternativa a quella dell’immaginazione spontanea, aveva fatto ricorso al Carlo Gozzi delle Fiabe e ai colloqui tra Eckermann e Goethe, al filone della letteratura fantastica europea, secondo una linea creativa che gli pareva unitaria sui problemi tecnici dell’invenzione. Cfr. A. ABRUZZESE (a cura di), Introduzione allo studio delle teoriche cinematografiche americane (1910-1929), Venezia 1975. 4! Si badi bene che il lavoro di Polti assume uno straordinario valore se confrontato con alcune determinazioni culturali di peso fondamentale per la storia della critica come il pensiero storico di Jacob Burckhardt, gli studi morfologici di Vladimir Jakovlevié Propp, e le analisi sulla tradizione letteraria compiute da Ernst Robert Curtius con l’identificazione dei topoî: «Le strutture più ricche di significato sono i fopoi, ossia un corpus di situazioni e di immagini analogo a quello in uso nella topica antica, ma libero da ogni norma, in quanto solo la storia dei testi può determinarne i limiti a posteriori. Ciò che i fopoî circoscrivono, è la patte visibile, l’area diacronica di un’unica tradizione letteraria, la quale può dunque essere esplorata nella sua morfologia, nella trama di nessi che congiungono tra loro opere lontane » (E. RAIMONDI, Tecniche della critica letteraria cit., p. 21).
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pit rivendicando “. E il criterio di aggregazione dei materiali a fini espressivi, saldando la specificità letteraria alla sostanza metalinguistica, extraestetica, della vita vissuta, fornisce una risposta operativa non alla scrittura in sé (tanto meno a quella letteraria in senso stretto), ma alla necessità di rappresentare l'immaginario. Lo sforzo romantico di andare al di là del testo, trova qui la sua continuità nella scelta delle emozioni, il luogo reale in cui un linguaggio si fa espressivo, comunica, ba valore nell'essere consumato. Per Polti la scrit-
tura diviene la traccia ed insieme lo strumento per «sceneggiare» delle emozioni, dei consumi. Per dare un senso al mercato delle arti. Per esprimere come «genere drammatico» la spettacolarità della vita. L’indicazione di Polti è sulla scia della poetica di Poe, ma se ne è ormai distaccata. Polti di lî a poco servirà alla formulazione di base della manualistica hollywoodiana sulla sceneggiatura cinematografica. Poe, nonostante avesse costruito con straordinario anticipo nei suoi testi alcune pertinenze delle future forme di consumo di massa, compreso il cinema, sarà assunto come significativo in un contesto culturale che vorrà sempre mantenersi alto, pur giungendo a criticare più di un «monumento» della tradizione letteraria. Benjamin lo collega a Baudelaire per teorizzare la caduta dell’aura estetica, della religiosità sacrale dell’autore borghese. La riproducibilità dell’opera d’arte comporta questa dissoluzione, ulteriore a quella romantica: comporta la morte dell’autore ®. Ma il combinarsi in Benjamin di spiritualismo e sociologia porta a sviluppare la morte dell’autore ben lontano dalla determinazione sociale del lavoro di Polti. Lo porta o all’estremo conflitto tra intelletto e massa, praticato dalle avanguardie storiche, o alla valutazione politica di un lavoro intellettuale proletarizzato, grazie alla industrializzazione della cultura, legato non più idealmente, spiritualisticamente, alla classe operaia, ma nella sua stessa condizione; oggettivamente, dunque, nella sua stessa necessaria conflittualità con il sistema capitalista. L’intreccio tra marxismo, movimenti operai e scienze so-
ciali trova cosî in Benjamin uno dei suoi momenti più alti e significativi, in grado di condizionare sino ai giorni nostri vari filoni della sociologia della letteratura. L’analisi benjaminiana sul periodo che stiamo qui sintetizzando resta comunque quella più fruttuosa per cogliere il punto di divergenza progressiva tra linguaggi espressivi della cultura d’élite e linguaggi espressivi della cultura di massa. La non accettazione dell’esperienza romantica da parte di Hegel, infatti, aveva funzionato nel tempo. 4 Seguendo la traccia hegeliana di spettacolarizzazione della letteratura assume un particolare significato l’indagine compiuta da J. DUVIGNAUD, L’acteur. Esquisse d’une sociologie du comédien, 1965 (trad. it. Sociologia dell’attore, Milano 1977). 4 Cfr. lo sviluppo di questi temi nei capitoli che J. woLFF, The Social Production of Art, 1981 (trad. it. Sociologia delle arti, Bologna 1983, pp. 139-93) dedica alle «interpretazioni come ri-creazione», e all’«estetica della ricezione», prendendo in esame il campo ermeneutico di E. D. HIRSCH, Validity in Interpretation, 1967 (trad. it. Teoria dell’interpretazione e critica letteraria, Bologna 1973) e di H. G. GADAMER, Wabrbeit und Methode. Grundziige einer philosophischen Hermeneutik, 1960 (trad. it. Verità e metodo, Milano 1972) e arrivando a r. BARTHES, Mythologies, 1957 (trad. it. Miti d’oggi, Torino 1974) alla Kristeva e a Lacan. Si rimanda anche alle pagine conclusive di questo saggio.
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2.4. L’ossessione della struttura. La sociologia della cultura è carica di hegelismo, e anche in questo si manifesta il suo contatto con l’impianto conoscitivo del marxismo. In questo senso assume un particolare significato lo snodo ulteriore dei processi di massificazione e tecnologizzazione vissuto nei primi decenni del Novecento; quando, accanto alla scrittura, è ormai nato ed è andato sviluppandosi il linguaggio cinematografico, appunto r07 lingua, ma linguaggio, processo creativo materialmente, esplicitamente collettivo, soluzione comunicativa esclusivamente spettacolare e marcatamente emotiva. Questa fase genetica dell'industria culturale contemporanea fonda allo stesso tempo la produttività e le aberrazioni delle sociologie dei fatti espressivi, persino delle comunicazioni di massa. Aberrazioni, tanto rispetto alla so-
cietà quanto rispetto alla istituzione letteraria, alla sua comprensione. Il destino della cultura istituzionale ed in particolare della letteratura si lega a quello delle ideologie che incarnano i conflitti sociali, ma di cui alcuni sapeti forniscono una lettura parziale e tendenziosa, una scomposizione per «blocchi». Sarebbe qui estremamente difficile dare un orientamento sull’intreccio tra gli sviluppi della critica letteraria ed il panorama di un pensiero storico, politico, filosofico, sociologico, antropologico e psicanalitico attraversato dalle stesse ideologie che venivano vissute dalle istituzioni artistiche secondo meccaniche di volta in volta speculari o alternative o correttive. Del resto, alcune delle componenti ideologiche più fortemente presenti nello svilupparsi della cultura letteraria, sembrarono avere già una loro motivazione interna, prima che alcuni saperi esterni le rafforzassero e le legittimassero teoricamente. Ciò è dimostrato secondo noi dal modo in cui l’hegelismo di Lukcs appare sostanzialmente coerente sia nella sua prima versione, quando nei saggi Die Seele und die Formen (L’anima e le forme) e Die Theorie des Romans (Teoria del romanzo) riprende tanto la componente disgregatrice quanto quella progettuale dei romantici e del pensiero negativo, convergendo in ultimo nella valorizzazione del romanzo come superamento di una «armonia» ormai definitivamente tramontata; sia nella sua versione intermedia, quando il discorso critico di parte alto-borghese si confronta con l'emergere effettivo di una cultura che non gli appartiene; sia infine nella sua versione marxista, dopo Geschichte und Klassenbewusstsein (Storia e coscienza di classe), quando cioè il metodo della critica sociologica, pur avendo scelto il punto di vista della classe operaia, conferma la scelta del romanzo, marginalizzando l’esperienza lirica, la prosa del «frammento», cosî come i generi di massa. Questa sostanziale omogeneità fra crisi dell’istituzione letteraria, conflitto tra cultura d’élite e cultura di massa, eredità alto-borghese e ideologia marxista, ci pare essere dietro ai diversi filoni sociologici di indirizzo luk4csiano o francofortese, giacché queste, ormai, sono le «scuole» da chiamare in causa. E l'omogeneità è dovuta ad una spaccatura storica e sociale che la sovrasta: le dinamiche di mercato che spiegano l’operazione di Polti e la sua «occulta» for-
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tuna nei primi anni del Novecento abbandonano le dinamiche istituzionali; o meglio, queste abbandonano una visione complessiva e unitaria di cultura, l’esigenza «globale» di corrispondere all’immaginario di tutta la società. Possiamo trovare il punto focale di questo «passaggio» proprio nel momento mediano ed anche «pit equilibrato» della critica lukacsiana, laddove, prendendo in esame l’espressione cinematografica, l’autore la assegna alla stessa sfera «fantastica» in cui Hegel aveva confinato i romantici. Il cinema viene visto come divertimento. Il tono è ancora pacato, sicuro della indiscutibilità dei principî estetici su cui la differenza rispetto al teatro e alla scrittura viene legittimata. Ma il senso epocale della divergenza è ormai chiaro. Da un lato la cultura alta, sicura di poter dire tutto attraverso la scrittura ed il patrimonio letterario, dall’altro lato la cultura di massa, lo sviluppo di altri linguaggi «meccanici», destinati alla sfera metaletteraria, fondati sul consumo piuttosto che sulla forma, significativi socialmente ma non esteticamente. Ibridi e contaminati, anche quando siano affascinanti, cioè godano di quella stessa fantasmagoria che Benjamin aveva visto nella metropoli e nelle metci; anche quando siano potenti, cioè sfruttino affetti legati a quell’inconscio che la psicanalisi aveva ormai individuato come forma vitale di tipo generale e non partticolare della sola esperienza estetica. Il saggio di Lukf&cs a cui abbiamo fatto riferimento, Gedanken zu einer Asthetik des Kinos (Riflessioni per una estetica del cinema), apparve nel 1913 ‘. In questo periodo si colloca la coscienza storica di una frattura che non dispone più, in quegli anni, del sapere necessario a ricomporre l’esperienza artistica. La forza del pensiero sociologico era quella di tentare interpretazioni generali della realtà sociale e dei suoi mutamenti. Ma le sociologie applicate ai fatti culturali partivano dalla frattura stessa che quei fatti esibivano, germinando cost, a loro volta, due tipi di indirizzi, seppure discronici nella loro nascita e sviluppo; da un lato, la sociologia della cultura, in cui tradizione arti4 Cfr. e. LuKAcs, Gedanken zu einer Asthetik des Kinos (1913) (trad. it. Riflessioni per una estetica del cinema, in Scritti di sociologia della letteratura, Milano 1964, pp. 80-86). Di Lukf4cs si vedano in particolare i saggi che hanno costruito la categoria del tipico: Saggi sul realismo, Torino 1950, Schicksalswende. Beitrige zu einer neuen deutschen Ideologie, Berlin 1948; Karl Marx und Friedrich Engels als Literaturbistoriker, 1948 (trad. it. Il marxismo e la critica letteraria, Torino 1953); Balzac und der franzosische Realismus, 1952 (trad. it. Il realismo francese, in Saggi sul realismo cit., pp. 33-129); Beitrige zur Geschichte der Asthetik, 1954 (trad. it. Contributi alla storia dell'estetica, Milano 1957). Ed ancora: Der historische Roman, 1957 (trad. it. Il romanzo storico, Torino 1965); Il significato attuale del realismo critico, Torino 1957 (edizione originale, poi apparsa in tedesco con il titolo Wider den missverstandenen Realismus, Hamburg 1958). Pit interessanti i saggi che vengono prima di Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien ber marxistische Dialektik, 1923 (trad. it. Storia e coscienza di classe, Milano 1967); Die Seele und die Formen, 1911 (trad. it. L'anima e le forme, Milano 1963); Die Theorie des Romans. Ein geschichtsphilosophischer Versuch tiber die Formen der grossen Epîk, 1920 (trad. it. Teoria del romanzo, Milano 1962). Dopo Luk£cs si veda lo sviluppo della traccia marxista e sociologica in L. GOLDMANN, Pour une sociologie du roman, 1964 (trad. it. Milano 1967) che si intreccia con r. GIRARD, Mensonge romantique et vérité romanesque, 1961 (trad. it. Struttura e personaggi nel romanzo moderno, Milano 1965). Del resto ci troviamo in una vasta area di confluenze culturali e pluridisciplinari dalla ricerca francese; cfr. M. MERLEAU-PONTY, Les aventures de la dialectigue, Paris 1955 con la ricostruzione dei rapporti tra Weber e Lukfcs. Su Lukfcs e le sue implicazioni nei vari campi delle scienze sociali cfr. c. cases, Marxismo e neopositivismo, Torino 1958; T. PERLINI, Utopia e prospettiva in Gyòrgy Lukdcs, Bati 1968. 22
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stica e sociologia della conoscenza giocano insieme eludendo la particolarità di alcuni linguaggi; e dall’altro lato, la sociologia delle comunicazioni di massa, che accettano la loro «diversità» rispetto ad una teoria dell’arte. Negli stessi anni, per la precisione nel 1912, in campo non a caso figurativo, in quel campo del visibile, cioè dello spazio, di cui Polti aveva rivelato il sempre più forte processo di autoristrutturazione « drammatica», era apparso Ùber das Geistige in der Kunst (Lo spirituale nell’arte). Sempre rifacendosi alla «soggettività» romantica e teorizzando la divergenza tra opera e uso sociale dell’opera (individuata da Lukdcs nel «divertimento» del cinema), Kandinskij formulò il progetto dell'avanguardia. Negazione nietzschiana ed evangelismo tolstojano potevano coincidere in Kandinskij, tanto quanto nei romantici la teoria critica era nata proprio dal conflitto produttivo tra spirito e materia. Ùber das Geistige in der Kunst teorizzava, infatti, una pratica formale capace di contrapporre radicalmente l’interiorità degli interessi dell’arte alla esteriorità degli interessi sociali, ma questa negazione assoluta del pubblico da parte del genio, ultima determinazione storica di un lavoro intellettuale rigorosamente singolo, si dava nell’interesse generale, universale, dell’uomo ‘. Abbiamo individuato cosî due «poli». Da una parte, quello estremamente élitario dell’esperienza figurativa, che produsse l’astrattismo, l’espressionismo, il dadaismo ed il surrealismo. Esperienza che non a caso fu meno rilevante nel campo della scrittura, anzi la profanò proprio in quanto scrittura, costringendola ad immagine, frammento, titolazione; oppure affidandola soprattutto all’automatismo della poesia o utilizzandola, infine, come manifesto di azioni. Dall’altra parte, il polo estremamente massificato del cinema. In effetti la scrittura letteraria resta nel mezzo. Ed è soprattutto nella riflessione su se stessa, oppure sul mondo, che si lascia coinvolgere da tutti questi problemi. La ricchezza «finale » dei grandi autori come Proust e Musil è appunto quella di non # Per comprendere l’esortdio e la linea progettuale di v. v. KANDINSKIJ, Uber das Geistige in der Kunst, 1912 (trad. it. Lo spirituale nell’arte, Bari 1968) bisogna risalire a un preciso riferimento dell’estetica hegeliana in cui si dice che se il poeta è vero artista «può talvolta in certe circostanze entrare in conflitto con le rappresentazioni limitate e antiartistiche della sua epoca e della sua nazione; ma in tal caso la colpa di questo dissidio va riversata sul pubblico e non su di lui. Egli stesso non ha altro dovere se non quello di seguire la verità e il genio che lo spinge e a cui, se è nel giusto, non potrà (non) toccare la vittoria in ultima istanza, come sempre avviene quando si tratta della verità» (G. w. F. HEGEL, Asthetik cit., trad. it. pp. 1563-64). Ciò che in Hegel è dato come possibilità e incidente, in Kandinskij, proprio nel rispetto del «principio» hegeliano, è dato come necessità e programma. In una società in cui dominano i valori materiali l’evento autenticamente artistico si produce nella provocazione del rifiuto da parte del pubblico, solo questa negazione del consumo lo produce e lo mette in azione. Cfr. anche A. AsoR ROSA, « Avanguardia », in Enciclopedia, II, Torino 1977, PP. 195-231, e «Intellettuali», ibîd., VII, Torino 1979, pp. 801-27. L’avanguardia rilanciò il problema dell’innovazione, che è poi il luogo in cui creatività letteraria e immaginazione sociologica si possono e si sono incontrate o in cui, di volta in volta, l’una ha anticipato l’altra. Il percorso era iniziato con gli autori che Hegel aveva consegnato all’analisi di Rosenkranz. Cfr. 6. vaTtTIMO, La struttura delle rivoluzioni artistiche, in «Rivista di estetica», XXIII (1983), 14-15, pp. 3-16, con altri interventi di Filiberto Menna, Antimo Negri e Mario Perniola sull'argomento «tradizione e innovazione ». In qualche misura l’industria culturale dopo gli anni ’30 riprende alcune delle questioni lasciate «sospese» nell’esperienza individuale delle avanguardie. Si pensi ad esempio al tema strutturale del réfraîz dalla Philosophy of Composition di Poe e dalla citata Astbetik des Hisslichen di Rosenkranz, a TH. w. ADORNO e H. EISLER, Komposition fur den Film, 1947 (trad. it. La musica per film, Roma 1975) sino alle tecniche seriali televisive.
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chiudersi nell’avanguardia ed insieme di non essere insensibili alle sue domande e ai suoi fallimenti. È quella di sperimentare i limiti del romanzo non al di là della scrittura ma dentro alla riflessione di tipo saggistico. Essi riportano all’interno di una comunità letteraria ormai povera la ricchezza che vive all’esterno di essa. Producono il libro della loro stessa esperienza letteraria come esperienza storico-sociale, generale. Sono goethiani, non romantici. Abbiamo un illuminante esempio dei contorni espressivi in cui la scrittura si viene a trovare nel cuore della civiltà industriale, con Ortega y Gasset, perfettamente in regola come sociologo della civiltà di massa ed allo stesso tempo come letterato finissimo. Esprimendo la sua critica nei confronti della rigidità della cultura delle macchine, descrivendo i limiti del ricorso del cotpo agli attrezzi meccanici, prefigurò un andamento ameboide del sapere, una sua estrema disarticolazione e adattabilità a forme e funzioni sempre diverse ‘. Viene qui, seppure paradossalmente, enunciato già in epoca industriale, anzi nel processo di strutturazione che porta al culmine degli anni ’30, il criterio con cui si può tentare una periodizzazione capace di distinguere tra le forme ed i saperi della civiltà di massa propriamente detta e la civiltà presente, dalla schematicità del moderno alla destrutturazione del postmoderno. I valori della civiltà industriale classica sono ossessionati dalla struttura, dal potere delle strutture, siano esse quelle meccaniche o quelle sociali che fanno funzionare i sistemi, ed i corpi che li compongono, come macchine. Su queste strutture i diversi saperi tentano di organizzare la loro pertinenza conoscitiva, e la loro azione. La rigidità delle strutture sembra favorire la costruzione di apparati metodologici solidi e accertati, ma le dinamiche di queste strutture di volta in volta rivelano la fissità dei metodi, dei concetti elaborati. Anche la ricerca letteraria rivelò questa ossessione e questo disagio. L’eredità della componente più deterministica del marxismo si coniugò cosî con la rivendicazione della creatività artistica. Lucien Goldmann dimostra, ad esempio, tutto lo sforzo di formulare concetti intermedi, dinamici, elastici per individuare nell’evento letterario una «omologia» con le strutture socio-economiche, che non sia il «rispecchiamento» lukfcsiano, ed uno specifico formale che non sia né l’estetismo individualista delle avanguardie né il collettivismo reale della produzione di massa. Diversa la scelta di Horkheimer e Adorno a partire da Dialektik der Aufklirung (Dialettica dell'illuminismo). Qui il determinismo fra strutture eco-
nomiche e linguaggi espressivi funziona perfettamente ed unidirezionalmente, cioè dalla macchina, dalla fabbrica all’immaginario collettivo, solo per quanto riguarda la cultura di massa; mentre invece non viene fatto funzionare nel giudizio di valore per cui si privilegiano i linguaggi dell’avanguardia e la critica che tali linguaggi costituiscono nei confronti delle strutture del sistema‘. La 4 Cfr. J. ORTEGA Y GASSET, E/ Espectador 1916-1924 (trad. it. Lo spettatore, Milano 1984, pp.
53-56).
;
4 Cfr. nel campo specificamente letterario TH. w. ADORNO, Noten zur Literatur, 2 voll., 1958-61 (trad. it. Note per la letteratura, Torino 1979); pit in generale, oltre a M. HORKHEIMER e TH. W. aporno, Diglektik der Aufklirung. Philosophische Fragmente, 1967 (trad. it. Dialettica dell’illumi-
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teoria critica francofortese assume cosî un potere di sintesi delle diversità fra tradizione idealistica europea e pragmatismo americano ‘. Ricchissima di contributi provenienti dalla sociologia cosî come dall’estetica, costruisce un apparato metodologico estremamente sofisticato, in cui la ricchezza della cultura borghese serve da grimaldello per scoprire i significati riposti della cultura di massa e, allo stesso tempo, negarla. Il volume assai cospicuo di questa critica, almeno nei casi più autorevoli, finisce per essere contiguo alla grande produzione intellettuale degli scrittori come Mann, Proust, Musil. Anche i franco-
fortesi, cioè, sembrano riportare nei confini di un pubblico tradizionale, del pubblico della letteratura, un universo sociale ed espressivo estremamente pit ricco, un universo che viene dato in tutta la sua ricchezza. La competenza alla lettura, che i «romantici», di cui si è detto, richiedono a chi voglia accedere ai loro testi, è l’unica differenza che viene esibita e voluta rispetto alla circolazione dell'immaginario, alla sua attività. Essi cercano di tenere in un sol luogo e per un solo pubblico ciò che in altre forme e con altri circuiti appartiene a tutti i luoghi e a tutti i pubblici. Cosî pure i francofortesi riportano al giudizio di una élite intellettuale, meccanicamente sottratta ai processi di socializzazione, un universo simbolico che non li rappresenta, che li sovrasta e di cui essi possono esprimere la sostanza solo negandone il valore. Una ratio superiore conferisce loro questo diritto. La rivendicazione della libertà dell’intelletto, cioè di un lavoro intellettuale perfettamente autonomo dalle strutture socio-economiche, è la chiave per accedere ad un mondo che non gode di altrettanta libertà, eppure esiste. Come nella grande letteratura novecentesca, questa chiave è costituita da una forte competenza specifica, di ceto, sul linguaggio usato, spingendosi a settorializzarlo, a separarlo, a verticalizzarlo persino rispetto alle istituzioni, agli apparati, da cui deriva, letteratura o filosofia che siano. Come si può vedere, l’ossessione del rapporto fra struttura e sovrastruttura è connaturata al rapporto fra individuo e massa nelle meccaniche dell’indudustrializzazione. Ma è connaturata anche alla rigidità e unidirezionalità con cui questo rapporto è valutato; e quindi si aggira insoddisfatta ai margini estremi della razionalità, là dove la massa maggiormente si rivela come irrazionalità, energia insondabile, sapere illogico e deformante ‘. nismo, Torino 1966), cfr. H. MARcusE, Kultur und Gesellschaft, 1965 (trad. it. Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Torino 1969). Una illustrazione della sociologia adorniana in campo letterario la si può vedere in v. &mecaò, Knjitevno stvaralaStvo i provijest druStva, 1976 (trad. it. Creazione letteraria e consumo sociale, Napoli 1980). Per una analisi più generale della scuola francofortese cfr. G. E. RUSCONI, La teoria critica della società, Bologna 1968; cfr. anche R. CAMPA, Il tempo e l’immagine. L’epoca di Einstein, Madrid-Roma 1984, e G. MORRA (a cura di), Nichilismo e società, L’Aquila 1984. # Significativo lo sviluppo americano della radice francofortese negli studi di Lowenthal, di cui co in particolare L. LOWENTHAL, Literature, Popular Culture and Society, 1961 (trad. it. Napoli
1977).
# Del resto, dietro al rapporto conflittuale tra struttura e sovrastruttura, non è difficile scorgere la spaccatura originaria tra natura e storia, il senso moderno della corruzione dell’uomo a pattire dagli effetti che la società produce sulla sua sostanza miticamente intatta, in altri termini un pensiero già all’opera prima di Hegel e di Marx, come ha dimostrato 1. STAROBINSKI, La fransparence et l’obstacle, 1971 (trad. it. Bologna 1982). Cfr. anche m., Portrait de l’artiste en saltimbanque, 1983 (trad. it. Torino 1984).
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Ilcontenuto della scrittura.
3.1. Analisi letteraria e analisi sociale. Il passaggio dall’egemonia della scrittura come testo della comunicazione e della rappresentazione, alla funzionalizzazione della scrittura, come comando sull’organizzazione di altro tipo di testi divenuti rilevanti o egemoni nei meccanismi sociali della significazione, basta a mettere in crisi profondamente, come abbiamo visto, i metodi soltanto letterari del passato industriale. Ora che l’indagine letteraria chiede esplicitamente il soccorso della sociologia, seppure di una sociologia quasi sempre puramente strumentale, sussidiaria, appare ancora più evidente la necessità dell’immaginazione sociologica. Si tenga presente, ad esempio, il lavoro di un Alain Touraine sulla dimensione del presente, per una invenzione artistica che voglia reggere al mutamento radicale del sapere con l’ingresso nella dimensione postmoderna della società informatizzata. È uno snodo epocale, a cui abbiamo fatto riferimento parlando del desiderio di Ortega y Gasset di uscire dalla cultura meccanica. Del resto, questa necessità è già tutta interna agli anni in cui la grande letteratura pare atrofizzarsi rispetto alla ricchezza dei media, se è giusto dire che l’evoluzione della civiltà industriale verso quella postindustriale «è iniziata almeno a partire dalla fine degli anni cinquanta, che in Europa segnano la fine della ricostruzione», tenendo anche conto che la rapidità di questa evoluzione «varia in ogni paese, e nei paesi secondo i settori di attività» ‘. La resistenza che la massima parte delle istituzioni letterarie ha offerto al sapere sociologico, persino alle dorzande della sociologia e non solo ai suoi metodi o alle sue risposte, può spiegarci il sempre più profondo ritardo con cui la letteratura risponde allo sviluppo della società, alle effervescenze dei suoi mutamenti. Infatti la piccola cittadella letteraria non regge la disarticolazione di un territorio caratterizzato da discronie che non rendono agevoli i possibili quadri d’assieme ed in cui, anzi, «una parte delle descrizioni non può che essere congetturale » “. Per supplire al «precipitare» del tempo e dello spazio bisogna avere una grande «fantasia», ma questa può decollare solo grazie all’accumulo di quelle conoscenze che la sociologia ha indubbiamente contribuito adaprire. — La letteratura, a cui spetterebbe di diritto la rivendicazione della fantasia, mostra cosî una alterità rispetto al sociale che non è superamento della realtà, sua nuova costruzione, ma piuttosto incomprensione, ritardo conoscitivo. Ri-
tardo comprensibile, se si considera il suo legame storico con saperi tecnologicamente assai meno attrezzati rispetto a quelli del presente, ma tuttavia ritardo da eliminare se si vuole definire la possibilità di una teoria letteraria degna 1 J.-F. Lvorarp, La condition post-moderne. Rapport sur le savoir, 1979 (trad. it. Milano 1981,
D. 9).
2 Ibid.
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La questione del metodo.
di questo nome, capace di funzioni, in grado quindi di avere davvero un valore. Ma questa è una anticipazione del discorso conclusivo che ci proponiamo. Qui siamo ancora ai preliminari. Siamo cioè al punto in cui dobbiamo spiegarci cosa abbia da dire la sociologia sull’azione artistica e di conseguenza letteraria. Conveniamo sul fatto che il corpus storico dei metodi letterari si sia generato in assenza del sapere sociologico ma nella piena forza della comunicazione scritta e del senso tra potere e cultura letteraria. Ma quando la compattezza dell’istituzione letteraria subisce, con gli anni ’30, il suo colpo definitivo, la sociologia ha già «circondato» e «seguito» questa crisi, rivelando «mondi diversi» in parte accettati dalla letteratura di massa ma quasi mai intuiti sino in fondo dai «vertici» delle istituzioni letterarie. Una divergenza drammatica, se accettiamo l’ottica che stiamo qui seguendo: una formulazione della critica che non si limita all’interpretazione, poiché questa, comunque, non potendo che essere traduzione, spinge alla produzione di altro dal testo esaminato, cioè teorizza un progetto creativo. Ed è in questo progetto, ripetiamo, che deve collocarsi anche l’interesse sociologico. Torniamo alle pagine che Hall dedica alla cultura come ricorso di alcune sostanze di base dell’immaginazione umana: la morte, il dolore, la malattia, l’amore, e vi possiamo aggiungere il piacere, il gioco, la paura. Sono certamente sentimenti e passioni della vita quotidiana di ogni tempo e luogo ma anche di un determinato tempo e luogo (la contestualità di ogni emozione che rende il letterato generalissimo e particolarissimo al contempo, nella distanza dell’origine e nell’unicità del presente). Qui si tocca la sostanza reale del conflitto tra concezioni autonomistiche della letteratura e concezioni relativistiche, tra l’intuizione dell’eternità dell’arte e l’intuizione del suo permanente socializzarsi «al presente». Hall, in diversi punti dell’opera citata, fa ricorso a Richard Hoggart e a Raymond Williams per individuare le zone di compenetrazione o di attrito fra analisi letteraria ed analisi sociale. Riferendosi a Williams, mette in rilievo la mobilità del confine tra il concetto di letteratura come istituzione e il concetto di letteratura nell’esperienza quotidiana. Scrive Hall, facendo riferimento a Marxism and Literature: Williams inizia la sua discussione in modo assai proficuo, notando che il termine «letteratura» ha cambiato storicamente il suo significato. Quello che una volta era un termine che copriva tutti i libri a stampa venne ad assumere, secondo lui per l’opposizione etica alla rivoluzione industriale, il significato esclusivo di letteratura creativa e immaginativa *.
Riferendosi a Hoggart, Hall mette in rilievo i limiti dei metodi del marxismo e della sociologia, entrati a contatto con la zona di frontiera della letteratura, riconoscendo il reciproco «disaccordo» tra immaginazione letteraria e scienza sociale, là dove si ritenga che la scienza sociale riorganizzi i dettagli significativi della società in un modello teoretico e invece l’immaginazione lette3 1. HALL, The Sociology of Literature cit., trad. it. pp. 53-54.
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raria li ricomponga e li rinvii (appunto creazione e composizione dell’attività letteraria) nel flusso della «vita atipica» ‘. A Hall la posizione sembra giustamente debole in tutte e due le parti in causa e, per noi, come cercheremo di precisare più avanti, la debolezza sta nel sottrarre potenza «immaginativa » ad una teoria sociologica. Tuttavia resta invece forte il concetto di mobilità storica dei confini che designano l’area letteraria e ancor più la pertinenza di quest’ultima sui flussi della «vita atipica». Dunque, mobilità del «fronte» letterario e sua «differenza» rispetto al sociale. Costituzione di differenze che, pur non restandone convinto, Hall elenca e polarizza intorno alle relazioni « allusive» tra conoscenza artistica e sapere scientifico formulate da Althusser, ed intorno al concetto di testualità decentrata formulato da Macherey e da Fagleton, che « suona né pit né meno che come la tradizionale massima della critica letteraria... secondo cui l'ambiguità caratterizza l’opera letteraria» ’; per giungere, infine, alla specificità dell’indirizzo sociologico, in cui l’atipico letterario entra negli strumenti di comprensione della società in quanto esperienza particolarmente adatta ad esprimere il mutamento sociale e a comprenderlo: «Questo punto è stato riassunto da Duvignaud nella sua asserzione che l’arte è una «scommessa» sull’abilità che ha l’uomo di comprendere la sua società» °. La «vita atipica» della letteratura si sottopone cosî ad un esteso processo di significazione dei mutamenti che presiedono le strutture della società, ma anche quelle del testo. Hall sostiene che il concetto di intertestualità più rigorista ed autonomista (ad esempio, quello della Kristeva), opera grazie ad una «idea», ad una teoria «connettiva» in comune con la sociologia. Sono mutamenti che presiedono allo sviluppo storico delle convenzioni letterarie e sociali: Hall fa riferimento agli studi di Erich Auerbach, Lionel Trilling, Renato Poggioli, Leslie Fiedler ‘,compiuti seguendo lo schema dei rapporti di reciprocità tra letteratura e società. Contesti che spiegano la genesi delle forme estetiche: qui Hall pare sicuro del contributo della sociologia, come verifica delle risorse materiali che garantiscono la nascita delle opere, perché si limita a concepire lo strumento sociologico 4 lavoro sulla «comprensione delle forze sociali» *, piuttosto che sulle forme di per se stesse. E, proprio sulle rispettive concezioni del mutamento, in ultima istanza Hall basa la differenza tra analisi marxista ed analisi sociologica: Laddove il marxista vede il mondo moderno semplicemente nei termini del conflitto di classe, il sociologo preferisce insistere sul fatto che l’aumento di complessità, che è stato una conseguenza dell’industrializzazione, ha operato
4 Cfr. ibid., pp. 21-22. 5 Ibid., p. 35. Di Macherey, come in Wolff, è tenuto presente P. MACHEREY, Pour une théorie de la production littéraire, Paris 1968. 6 J. HALL, The Sociology of Literature cit., trad. it. p. 67. Cfr. J. DuvIGNnAUD, Sociologie de l’art, 1967 (trad. it. Bologna 1974). ? Cfr. . HALL, The Sociology of Literature cit., trad. it. p. 70. Cfr. r. PoGGIOLI, Teoria dell’arte d'avanguardia, Bologna 1962. 8 J. HALL, The Sociology of Literature cit., trad. it. p. 69.
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La questione del metodo un cambiamento della società significativo, anche a costo di dovere abbandonare il conflitto di classe ?.
«Vita atipica», dunque, non secondo una atipia fissa, buona una volta per sempre, ma commisurata e commisurabile al modificarsi delle tipologie sociali, dei modelli stessi del conflitto. Ma siamo ancora all’interno di un ragionamento che muove dal punto di vista dei metodi e rilegge la produzione letteraria o il testo a seconda che il modello interpretativo sia semplice o complesso. Ne resta fuori il valore dell’opera; ne restano fuori — si ricordi il riferimento da cui siamo partiti e da cui in larga misura è partito anche Hall, citando Daniel Bell — la ricorrenza dell’evento letterario, il suo dare corpo a sentimenti e passioni che infrangono le barriere del tempo e dello spazio; il suo essere sentita, seppure a diversi livelli, anche se non definita. In effetti restano «fuori» troppe cose, soprattutto se si conviene sul fatto che assai di rado i livelli raggiunti dal sentire la letteratura corrispondono a quelli della sua definizione, della sua descrizione. Resta fuori l’astoricità ed insieme storicità della letteratura, ma anche ciò che evade dalla letteratura alta e tuttavia vive, è sentita, anche se in zone periferiche o declassate. 3.2. Dare corpo alle mitologie.
Vi è una questione epistemologica assai importante a proposito dell’asto-
ricità del sentire letterario, e non a caso si colloca negli anni ?30 (cioè, come si
è visto, in uno snodo vitale e risolutivo del deflusso della tradizione letteraria sul volume complessivo dei linguaggi dell’industria culturale di massa). Lo troviamo, in una discussione, che ha a che vedere con la mitologia, con il rapporto già toccato in queste pagine tra antichi e moderni, con la religione (si pensi ancora a Weber): sono le chiose che Wittgenstein stese al Golden Bough di Frazer. In esse il pensiero filosofico funziona procedendo secondo le linee simboliche della creazione artistica !, azzerando la storia", immaginando forme di vita”. In esse appare destituita di fondamento la differenza tra scienza sociale e immaginazione artistica. Wittgenstein muove contro la «convinzione che le leggi scientifiche spieghino realmente i fenomeni naturali, che essi cioè li spoglino progressivamente di ogni aspetto incomprensibile e misterioso». Già ? Ibid., pp. 71-72. !° Cfr. J. BOUVERESSE, Wittgenstein antropologo, in appendice a L. WITTGENSTEIN, Berzerkungen iber Frazers «The Golden Bough » (1967, scritte fra il 1930 e il 1936) (trad. it. Note sul « Ramo d’oro » di Frazer, Milano 1975, p. 69). !! «Ciò che importa sono le “esperienze di pensiero” che possiamo fare sui dati, e non le transizioni e le trasformazioni che possiamo effettivamente osservare, sono cioè le connessioni concettuali e non i legami storici. E qualora considerazioni storiche abbiano un reale potere esplicativo all’interno di un determinato ambito, è sempre perché fanno emergere qualcosa di più che le connessioni empiriche esterne e le concatenazioni temporali » (ibid., p. 75). ? «Ora, una forma di vita è definita da un certo consenso, ma questo consenso, prima di tutto, è proprio un consenso nel modo di esistere e non nei modi di pensare. Una forma di vita, in ultima analisi, si fonda su certi modi di agire — e non di vedere — collettivi » (ibid., p. 81).
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all’epoca del Tractatus egli faceva notate, contro un siffatto punto di vista: «Alla base di tutta la concezione moderna del mondo sta l’illusione che le cosiddette leggi naturali siano la spiegazione dei fenomeni naturali» ”. Questa posizione portava alla demistificazione del potere delle scienze di per se stesse e ad una tendenza alla rappresentazione per simboli, alla descrizione, alla loro chiarificazione piuttosto che spiegazione, procedendo in base alle connessioni formali con cui, attraverso una serie coerente di anelli intermedi, si può arrivare ad una riorganizzazione «perspicua» dei materiali raccolti. Questa tendenza alla descrizione di relazioni simboliche spiega una delle aree di confluenza più ricche dei filoni del pensiero sociologico, psicologico e artistico, sino all’interazionismo di Erving Goffman ", essenziale per noi sul piano dell’innesto naturale che si può cogliere tra un’assunzione sociologica del fatto letterario ed una sociologia della vita quotidiana, dei «comportamenti » individuali e collettivi, sul piano di forme «descrivibili » ‘’ Nell’osservazione dei miti e nell’analisi della vocazione rituale dei nostri giochi linguistici Wittgenstein istituisce dunque un concetto di spiegazione, che sottrae sia alle scienze sociali sia all’immaginazione artistica la possibilità e l'ambizione reciproche di rivendicare tanto punti di vista totalizzanti quanto punti di vista parziali. A proposito dei giudizi espressi da Frazer, per interpretare i riti dell’antichità, giunge a dire: «Il principio che regola queste usanze è molto più universale di quel che dichiara Frazer ed è presente nella nostra anima» ". Presente nella rostra anima. Qui il pensiero di Wittgenstein si collega oggettivamente con uno dei punti di avvio che il pensiero negativo aveva dato al rapporto tra esteriorità sociale e interiorità individuale (rapporto centrale pet le dinamiche artistiche, tanto nella dimensione puramente estetica quanto relativamente ai processi di socializzazione dell’arte e, appunto, rilanciato tra gli anni ’10 e ?30 come «molla» del meccanismo produttivo delle avanguardie storiche ‘’). È collegabile, cioè, al ricomporsi, in un unico soggetto, del corpo dell’esteriorità sociale (della sua storia e delle sue rappresentazioni) e del corpo dell’interiorità, della volontà, del desiderio; ricomposizione operata a partire da Schopenhauer come apprendimento non-rappresentativo del corpo stesso dell’individuo. Linea di integrazione tra materialismo e spiritualismo che non a caso, nelle speculazioni filosofiche più attente ai nuovi linguaggi della comunicazione, come il cinema, porterà (si pensi a Maurice Merleau-Ponty) 13 Ibid., p. 67. ME fto O Behavior in Public Places. Notes on the Social Organization of Gatberings, 1963 (trad. it. Torino 1971). 15 Cfr. m. cIACCI (a cura di), Interazionismo simbolico, Bologna 1983; in particolare su Goffman cfr. P. P. GIGLIOLI, Self e interazione nella sociologia di E. Goffman, introduzione alla trad. it. di E. GOFFMAN, Interaction Ritual. Essay on the Face-to-Face Behavior (Modelli di interazione, 1967), Bologna 1971, pb. VII-XXXVII; M. WOLF, Sociologia della vita quotidiana, Roma 1979. 16 L. WITTGENSTEIN, Berzerkungen cit., trad. it. pp. 23-24.
17 Questo dispositivo (intorno al quale cfr. $ 2, nota 45), dopo gli anni ’30, viene assorbito dai poteri di comando e governo dell’industria culturale; cfr. A. ABRUZZESE, Verso una sociologia del lavoro intellettuale, Napoli 1979.
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La questione del metodo .
all’accorpamento della sostanza biologica con quelle psichica e spirituale dell’azione umana, senza più stabilire gerarchie di valore tra uno soltanto di questi «poteri» rispetto agli altri". Wittgenstein, nelle note a Frazer, sostiene esplicitamente che nel descrivere le mitologie bisognerebbe mantenerne la «profondità»: Se si ritiene ovvio che l’uomo si diletti della sua fantasia, si tenga presente che tale fantasia non è come una immagine dipinta o un modello plastico, ma una figurazione complessa composta da parti eterogenee: parole e immagini. Allora non si contrapporrà più l’operare con segni grafici o acustici all’operare con
«immagini rappresentative» degli eventi !.
Simboli ed «anima», dunque, intendendo per questa seconda quel luogo in cui, nell’ottica che a noi qui interessa, la letteratura realizza il suo ricorso ai sentimenti fondamentali dell’uomo, del corpo dell’uomo: contatto, nel senso di cortocircuito tra passioni e intelletto, che i processi di industrializzazione accesero con maggiore forza ed allo stesso tempo per lungo tempo occultarono. Gregory Bateson, in una breve conferenza intitolata Form, Substance and Difference, proprio avendo in mente come esperienza conoscitiva l’operare artistico, risale a Blake (« Una lacrima è una cosa intellettuale») e a Pascal («Il
cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce»), per sostenere che «è il tentativo di separare l’intelletto dall'emozione che è mostruoso, e... è altrettanto mostruoso (e pericoloso) tentare di separare la mente esterna da quella interna, o la mente dal corpo» ”°. Sempre si torna, come è facile intuire, alla produzione dei zzonstra della ricerca romantica rispetto ai zzonumzenta delle regole neoclassiche. Sempre si torna al senso di quel tentativo estremo: dare corpo alle mitologie, ai miti, attraverso le passioni, sede in cui il mito può ricorrere. «E da ultimo c’è la morte. È comprensibile che in una civiltà che separa la mente dal corpo, si debba o cercare di dimenticare la motte o costruire mitologie sulla sopravvivenza della morte trascendente » *. A molti queste considerazioni sembreranno portare il «centro» dell’esperienza letteraria assai lontano, assi «fuori» del centro della vita sociale e soprattutto di una sua conoscibilità. Non solo una vita estetica decentrata rispetto al flusso della storia, ma anche rispetto ai bisogni quotidiani. Il mito come fuga dalla realtà; il piacere del testo come «devianza sociale». Persino la prospettiva sociologica spesso ha ceduto alla convenzione, a cui abbiamo accennato sopra, secondo la quale un consumo letterario «basso», «triviale», « diffuso», risulterebbe evasivo. Hall, citando Williams, avverte: La lettura come genere di facile evasione è la condizione permanente di una grande quantità di scritti superficiali. Ma la domanda riguarda anche le circostanze in cui l’evasione diventa necessaria. Ritengo che ci siano alcune circo18 1? 2° 2
Cfr. M. MERLEAU-PONTY, I/ corpo vissuto, a cura di F. Fergnani, Milano 1979. L. WITTGENSTEIN, Berzerkungen cit., trad. it. p. 27. G. BATESON, Steps to an Ecology of Mind, 1972 (trad. it. Milano 1977, p. 482). Ibid., p. 483.
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stanze — pericoli di malattia, tensione, disturbi dovuti alla crescita, come nell’adolescenza, a un semplice affaticamento successivo al lavoro — che sono trascurati con troppa leggerezza nella condanna radicale della «lettura d’evasione » 7.
3.3. Mutamento sociale ed esperienza dei limiti.
È significativo che la rimozione del problema conoscitivo intorno allo scarto tra superficialità del testo e intensità del consumo si incrini nell’accezione di stati di particolare «disagio», cioè quando sembra meglio realizzarsi invece proprio il ricorso della letteratura ai sentimenti fondamentali dell’uomo, aggredito da insidie che sono di tutti i tempi ma che, tra l’altro, sembrano tipiche del presente (scompensi e conflitti dello sviluppo, «estensione» dell’infanzia, contaminazione fra tempo libero e lavoro, ecc.). Si realizza una curiosa sovrapposizione e confusione tra i due significati del termine sopravvivenza: essere al di sopra della vita quotidiana (andare in 4/0) e vivere grazie a ciò che non la rappresenta «realmente» o al massimo del suo «regime» (andare in basso). In comune, ancora una volta, le emozioni che vengono usate seppure in due direzioni cosî « distanti». In Sociology. A Biographical Approach di Peter L. e Brigitte Berger, vero e proprio manuale del sapere accumulatosi nello sviluppo della disciplina, troviamo un paragrafo sull’esperienza dei limiti, che si colloca nell’ultimo capitolo, intitolato Vecchiaia, malattia e morte. Viene dopo, non a caso, i capitoli che trattano la devianza e il mutamento sociale, due nuclei forti del pensiero sociologico ”. Il primo passa dalla linea Durkheim-Parsons-Merton, in cui la devianza è una necessità per l’organismo sociale sano, una zona di malattia, di trasgressione, di violenza patologicamente necessaria al sistema, alla linea Veblen-MillsGoffman, che arriva a cogliere, nella «negazione della realtà», operata da qualsiasi tipo di outsider, il punto più elevato di attrito fra diversi poteri e quindi diversi aggregati culturali e simbolici. Cosicché il gruppo più potente «stigmatizza» quello più debole (una linea che ha prodotto recentemente, ad esempio, l’analisi dei simboli delle subculture giovanili come realizzazione sociale di esperienze letterarie e artistiche delle avanguardie storiche). Si vanifica cosî la soglia rigida tra ciò che è civile e ciò che è crizzinale: la sociologia tende ad accettare progressivamente una tradizione creativa che risale a Coleridge e Sade. Il secondo muove dalla divergenza tra valori armonici, semplici, leggibili, della comunità preindustriale e valori organici, frantumati, parziali, della società industriale, rispettivamente difesi da Ferdinand Tonnies (Gerzeinschaft contro Gesellschaft) e da Durkheim (solidarietà organica contro solidarietà meccanica, pur a prezzo di una sempre maggiore anomia vissuta dall’individuo socialmente « diviso»). Arriva alla crucialità del punto di rottura tra civiltà in2 J. HALL, The Sociology of Literature cit., trad. it. p. 26. Soczology cit., trad. 367-442. Per ii riferimenti grafici 2. P. L. BERGER € B. BERGER, Socioli i d. it. it. pp. £ 67Per riferimenti bibliografici essenziali sui sociologi qui di seguito citati, oltre al testo dei Berger rimandiamo a L. GALLINO, Dizionario di sociologia, Torino 1978.
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La questione del metodo
dustriale e civiltà postindustriale: è la linea Matcuse-Bell-Touraine. Si spinge al dibattito sulle forme « possibili» della conoscenza e del controllo, in una società in cui il mutamento appare assai più complesso, secondo la linea Habermas-Luhmann-Luckmann (linee che in Italia si esprimono in autori come Ardigò, Rositi, Marramao). È evidente che il concetto di arte e la sua esperienza hanno attraversato assai spesso il pensiero sociologico applicato alla devianza e al mutamento. Ed in modi che non potevano risultare «semplici» come nelle primissime pagine di Comte. Infatti pur convenendo sul fatto che «ben lungi dall’essere degenerato, il genio estetico è divenuto più esteso, più vario e anche più completo di quanto non sia mai stato nell’antichità» *, convenendo, anche con Montesquieu, che lo sviluppo dell’arte è direttamente legato al perfezionamento delle tecniche industriali, Comte tuttavia concludeva in modo conservatore: Cosî privata necessariamente, durante la grande fase di transizione che studiamo, di ogni vera direzione filosofica e depauperata di ogni larga finalità sociale, l’arte moderna è stata animata essenzialmente solo dall’impulso fondamentale che spinge involontariamente a un’attività continua le più energiche facoltà del nostro intelletto: le organizzazioni eminentemente estetiche hanno da allora, come si dice oggi, coltivato l’arte per l’arte; o... non si sono proposte abitualmente altro fine se non di divertire il pubblico ”.
Molto più articolate naturalmente le analisi di Max Weber e di Karl Mannheim. Il primo dei due, pur dando il suo contributo maggiore nell’analisi dello scarto tra meccanismi carismatici e meccanismi di razionalizzazione, soffer-
mandosi in Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre (Il metodo delle scienze storico-sociali) anche sul rapporto tra storia dell’arte e sociologia dell’arte, tende a dividere il piano della ricerca empirica sulle tecniche del fare artistico dal giudizio di valore estetico; mentre il secondo, invece, in Ideologie und Utopie (Ideologia e utopia), indaga le trasformazioni «collettive» sulla base di determinazioni psicologiche come il panico e linguistiche come i simboli: immagini, segni, gesti, frasi, ecc. Questi dànno come finzione oggetti che i desideri utopici e repressi non possono soddisfare nella realtà del sistema di relazioni «stabilite»; ma sono capaci, attraverso queste finzioni, di produrre azioni ° . Il quadro «finale» che autori come i Berger assegnano alla produttività dell'indagine sociologica si allarga e restringe, allo stesso tempo, sull’esperienza dei limiti. E, con un esplicito riferimento alla filosofia di Karl Jaspers, i grandi temi della devianza e del mutamento vengono calati nelle zone d’ombra della vita quotidiana, fuori dei contorni certi delle istituzioni e dei movimenti, se A. COMTE, Cours de philosophie positive, 6 voll., 1830-42 (trad. it. Torino 1976, II, p. 282). Ibid. ci Cfr., di M. WEBER, Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, 1951? (trad. it. Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino 1967°), e, su di lui, M. BEER, La critica sociologica cit.; cfr., di K. MANNHEIM, Ideologie und Utopie, 1920 (trad. it. Ideologia e utopia, Bologna 1970) e si veda lo sviluppo della sociologia della conoscenza in A. 12z0, Il condizionamento sociale del pensiero, Torino 1980.
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delle «strutture chiare e sicure» ‘’, verso la vita notturna, verso l’esperienza della motte. La sociologia parla qui di morte nella realtà, ma è costretta a indagare le forme di un immaginario che occulta la morte con altri segni. La letteratura, soprattutto nella riflessione francese di derivazione nietzschiana, parla di morte nell’immaginazione, ma è costretta a indagare le forme sociali che occultano la creatività. Un campo di indagine in cui il punto di vista del senso comune e quelli del sapere istituzionale sembrano dover tendere ad una unificazione nella letteratura come esperienza della morte, del limzite estremzo. Siamo cioè gl di là del rilievo dato dalla sociologia all’aspetto istituzionale della letteratura (da Weber ad Escarpit), al di là del rilievo dato al legame tra linguaggio letterario e gusto, moda, mercato (da Veblen a Bourdieu). Siamo là dove letteratura e sociologia hanno in comune l’emozione più forte, la verità
della morte”. 4.
Orientamenti dellacritica.
4.1. Lo scenario italiano. Prima di passare a qualche riferimento specifico sulla sociologia della letteratura in Italia, sarà bene fissare alcuni punti particolari nella storia della nostra cultura nazionale in rapporto ai temi che nei precedenti paragrafi sono emersi con più forza: la folla, il divertimento, la crisi della civiltà letteraria. È anche un modo per prendere in esame, o quanto meno catalogare, contributi critici che, pur non potendo essere definiti sociologici, entrano nel merito di questo saggio, per la,loro vocazione alla rilevanza del rapporto fra letteratura e società. Questi punti toccano solo implicitamente le grandi questioni della critica letteraria nazionale. Lasciamo agli altri contributi di questa sezione i filoni della critica desanctisiana ', crociana e stilistica. Qui ci interessa il percorso che 27 P. L. BERGER € B. BERGER, Sociology cit., trad. it. p. 427. 28 Una ricca antologia del pensiero sociologico sulla morte la troviamo in A. CAVICCHIA SCALAMONTI (a cura di), Il « senso » della morte, Napoli 1984. Se ne evince, naturalmente, la relazione stretta del tema della morte con quello del #ezzpo; di fondamentale importanza per l’analisi delle strutture storiche e sociali dell’immaginario. Anche qui fruiamo di una vastissima bibliografia. Diamo due riferimenti atti a definire scenari e rimandi: G. MARRAMAO, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Roma 1983; K. POMIAN, L’ordre du temps, Paris 1984. Sui ritmi del tempo si è costruita e poi disgregata la letteratura «metropolitana»: cfr. AA.vv., Città e metropoli, Ferrara 1984. Si veda, per la rilevanza nuovamente assunta dal pensiero di Bergson, « Aut aut», nuova serie, n. 204 (1984); cfr. anche r. RoMANO (a cura di), Le frontiere del tempo, Milano 1981; G. AGAMBEN, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino 1982; A. LOMBARDO, Il testo e la sua performance ovvero per una critica imperfetta, in corso di pubblicazione. 1 Va comunque sottolineato il ruolo assunto da Francesco De Sanctis con la sua Sforza della letteratura italiana: «In fondo, la Storia desanctisiana rappresenta l'equivalente geniale, nella critica, della Feromenologia dello spirito dello Hegel, costruendo un’ “odissea” dialettica delle forme storiche di una letteratura attraverso le immagini tipiche della sua coscienza in cammino verso un realismo che poi è l’accesso alla modernità, alle soglie, si deve qui aggiungere, del processo che conduce all’industrializzazione, discontinua, dell’Italia unitaria» (e. RAnMoNDI, Tecniche della critica letteraria cit., p. 156).
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La questione del metodo
ci può portare alla formulazione più avanzata del rapporto tra invenzione letteraria e immaginazione sociologica. Proprio per questo, invece che iniziare in modo canonico con il saggio pubblicato da Giuseppe Pecchio nel 1832, Siro a qual punto le produzioni scientifiche e letterarie seguano le leggi economiche della produzione in generale, oppure seguire la linea egregiamente suggerita da Antonio Palermo, che da Carlo Tenca arriva sino ad Ojetti?, preferiamo aprire con due illuminanti citazioni di Scipio Sighele: Nella folla la suggestione avrà il massimo de’ suoi effetti e arriverà istantaneamente dalla forma a due alla forma epidemica, perché là — come dicemmo — l’unità di tempo e di luogo e l’immediatezza del contatto fra gli individui portano all’ultimo limite del possibile la velocità del contagio delle emozioni *; i lieviti di tutte le passioni saliranno dalla profondità della psiche; e come dalle reazioni chimiche fra vari corpi si hanno sostanze nuove e diverse, cosî dalle reazioni psicologiche fra vari sentimenti sorgeranno emozioni nuove e terribili, ignote fino allora all'anima umana‘.
Questa nuova consapevolezza rivela la partecipazione del contesto italiano al clima europeo dei processi di massificazione. Sighele è accostabile a Le Bon, alla funzione di quest’ultimo nel campo letterario, psicanalitico e sociologico ’. La consapevolezza dei linguaggi della folla è dentro alle poetiche letterarie più attente al problema di una riqualificazione del prodotto a partire dalle nuove dimensioni della stampa e delle caratteristiche del gusto. Sono tentativi di ristrutturazione che, relativamente alla situazione di mercato della scrittura a cui intendono rispondere, unificano esperienze assai diverse: dai progetti editoriali di Scarfoglio alla scrittura liberty di D’Annunzio, dalla letteratura di genere di Capuana all’appendice di Carolina Invernizio °. Consapevolmente o inconsapevolmente circolano anche in ambito italiano i grandi problemi dell’eredità romantica, divisasi nel conflitto tra pensiero nietzschiano e wagnerismo, il conflitto tra forma estetica e «saggio» ‘, la crisi più profonda della tradizione borghese?. Persino Carlo Levi, quando scriverà i saggi raccolti in Paura della libertà, è ancora dentro a questa origine del pensiero di massa in ? Cfr. A. PALERMO, Per una antologia della sociologia letteraria italiana, in AA.vv., Sociologia della letteratura cit., pp. 104-17. 3 s. SIGHELE, La folla delinquente, Torino 1981, p. 31. 4 Ibid., pp. 43-44. Come segno dei processi di industrializzazione in Italia, in stretto rapporto con la r24ss4, abbiamo anche la zzacchina, come in termini più complessivi di quanto sarà per î manifesti futuristi, viene interiorizzata da M. MorASSO, L’aspetto meccanico del mondo, Milano 1907. 3 Cfr. A. MUCCHI FAINA, L'abbraccio della folla cit., pp. 11-74, in cui si documenta la radice comune che Sighele e Le Bon hanno nell’Hippolyte Taine delle Origines de la France contemporaine, cioè il medesimo autore delle teorie sull’ambiente che costituiranno il nucleo positivista della tradizione sociologica in campo letterario. ° Cfr. G. RAGONE, La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e dei modelli nell'editoria italiana (1845-1925), in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana, II cit., pp. 686-772; A. ABRUZZESE e I. PANICO, Giornale e giornalismo, ibid., pp. 775-806. ? Cfr. c. FABRE, D'Annunzio esteta per l’informazione, Napoli 1981. ® Esemplare il saggio dedicato da Scipio Slataper ad Ibsen; cfr. A. ABRUZZESE, Svevo, Slataper e Michelstaedter: lo stile e il viaggio, Venezia 1979, in particolare le PD. 109-200. ? E il caso isolato di Carlo Michelstaedter; cfr. A. AsoR ROSA, La cultura, in R. ROMANO e C. VIVANTI (a cura di), Storia d’Italia, IV/2. Dall’Unità a oggi, Torino 1975, pp. 1284-90, anche per quanto riguarda Dino Campana.
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Italia, che è poi quella, non a caso, riapertasi con la ricerca antropologico-cul-
turale di Ernesto De Martino". Il secondo punto riguarda il divertimento, nella accezione lukacsiana che già abbiamo visto, cioè il divergere verso forme di consumo «evasivo » del letterario, una volta che sul corpo della letteratura sia intervenuta l’innovazione della riproducibilità tecnica ". La separazione tra scritture letterarie di massa o cinematograficamente tradotte e scrittura letteraria propriamente detta, trova con Giacomo Debenedetti (non a caso uno dei nostri più attenti studiosi delle forme del romanzo novecentesco) l’espressione più matura, nella consapevolezza con cui questi lavorò alla definizione del dispositivo della sceneggiatura cinematografica ". 1 Ma il nucleo più forte della riflessione nazionale sulla paraletteratura è quello compiuto da Gramsci sul romanzo d’appendice, proprio grazie alla qualità elevata del giudizio critico-politico: la letteratura di massa si rivela in forme d’apparato e di consumo che, attraverso tecniche testuali riconoscibili e fatti di mercato «apprezzabili», soddisfano bisogni che non possono essere esclusi dallo specialista interessato alla società e dal politico interessato a intervenire sui valori di un sistema, sulla sua vita reale. Ma l’elevata qualità dell’analisi e delle proposte che ne derivano sanzionano tuttavia le differenze di campo e per certi aspetti di metodo fra la tradizione letteraria (che costituisce d’altro canto il polo di maggiore interesse per Gramsci) e la cultura di massa. Linea che, rafforzata dall’esperienza neorealista, sarà strumentalizzata dalla cultura marxista ai fini di una rigida separazione tra il giudizio estetico, legittimo solo nell’ambito della scrittura di qualità, ed il giudizio pedagogico, l’unico valido per la paraletteratura ". Già nel «Politecnico» vittoriniano i punti sino a qui trattati nella loro genesi (dall’Ottocento sino agli anni ’30) trovano una rielaborazione intellettuale, che enfatizza la differenza tra linguaggi della cultura e linguaggi della società, anche quando sa cogliere l’interesse dell’industria culturale e delle avan1° Cfr. E. De MARTINO, Il mondo magico. Prolegomeni alla storia del magismo, Torino 1948; m., Sud e magia, Milano 1949; 1n., Magia e civiltà, Milano 1962. Cfr. ora Cc. GALLINI, La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell'Ottocento italiano, Milano 1983. 11 Cfr. A. ABRUZZESE € A. PISANTI, Cinema e letteratura cit. 12 Cfr. G. DEBENEDETTI, Al cinema, a cura di L. Micciché, Venezia 1983; vi sono raccolti saggi e atticoli scritti fra il °28 ed il ’38 di cui in particolare si veda Primzo punto: la sceneggiatura (1937), laddove Debenedetti mette in luce il rapporto tra sceneggiatura e vita quotidiana rifacendosi allo scarto qualitativo tra la ricchezza sociale dei film americani e la povertà tematica di quelli italiani: «C'è chi tira in ballo, a spiegazione del fenomeno americano, argomenti di natura sociologica. Ma non il fondo della nostra vita collettiva, come slancio, come ricchezza di impulsi religiosi e mistici, ha nulla da invidiare a quello della vita americana. Non che manchi al nostro mondo il sostrato getgrandi da minativo per le situazioni di film. Né è vero d’altronde che la nostra lingua, pregiudicata allue fatali monumenti letterarî, meno si presti alle articolazioni, snodature, prontezze e ripieghi sivi del “parlato” cinematografico. Si può, su un registro tutto nostro, e senza imprestarci il blend tutti i del “gusto americano”, ottenere un dialogo altrettanto vivo. Abbiamo a nostra disposizione movimenti che i dialetti immettono di continuo nella lingua; abbiamo la controprova che questa si lingua, in tutti i campi, serve perfettamente agli usi vivi di un popolo vivo. In Italia si lavora, o ama, si soffre, si gioisce, si spera parlando sempre in italiano; e in un italiano per nulla irrigidito impacciato da insaldature accademiche » (ibid., p. 122). 13 Cfr. A. ABRUZZESE, Gramsci contro il neorealismo, in Verso una sociologia del lavoro intellettuale cit., pp. 59-110.
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guardie: si pensi al ruolo svolto in futuro da un Vittorini (rilievo al rapporto tra letteratura e industria), da un Fortini (la scelta per la sperimentazione delle avanguardie), da un Corsini (tra i critici letterari successivamente più sedotti dall’indirizzo sociologico); ma si pensi anche alla formula che, secondo gli autori di quella rivista, legava circolarmente arte - verità - critica sociale. Il «Politecnico» segna allo stesso tempo il rilancio e la crisi definitiva della civiltà letteraria nazionale, il suo suddividersi in filoni tra loro disomogenei "*. Ciascun filone può essere individuato per l’emergervi di particolari attitudini, motivate a seconda dell’area o delle aree istituzionali prescelte come sede prioritaria del loro lavoro critico. All’interno di questi schieramenti, nell’ottica sociologica che qui ci interessa, assumono, in crescendo, un particolare significato l’attitudine accademica, quella industriale (cioè legata all’editoria), quella intellettuale e quella politica. Naturalmente, spesso, queste attitudini oscillano intorno all’asse della ricerca universitaria, alle sue diverse discipline, con una polarizzazione sugli insegnamenti di storia e critica della letteratura. Molto più limitato è l’ambito «militante» in senso stretto.
4.2. Attitudini alla letteratura.
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Esorbita dal nostro compito esaminare il rilievo che hanno assunto le ticerche letterarie di maggiore ambizione accademica quando il loro sguardo sia stato capace di andare molto al di là del testo e del semplice giudizio estetico, offrendo invece, attraverso l’analisi letteraria, veri e propri scenari sociali. Ad esempio Salvatore Battaglia, Natalino Sapegno, Carlo Dionisotti, Gianfranco Folena nell’ambito degli studi di storia della letteratura e della lingua italiana"; Mario Praz “, Angelo Maria Ripellino, Giovanni Macchia, Agostino Lombardo nell’ambito degli studi di letteratura straniera ”. Va notato, se mai, lo sforzo compiuto da alcuni di entrare più addentro alla tradizione francofortese e marxista europea: è il caso di Sanguineti che si accosta alla Torino di Gozzano come Benjamin si era accostato alla Parigi di Baudelaire". Oppure è il caso, abbastanza isolato, di un Vittorio Spinazzola 14 Cfr. il recente M. ZANCAN, I/ progetto « Politecnico », Venezia 1984. 15 Si veda la collocazione sociologica attribuita a Sapegno, Battaglia e Dionisotti da c. CASES, La critica sociologica, in M. CORTI e C. SEGRE (a cura di), I metodi attuali cit., pp. 19-31. 16 Fondamentale a partire da La carne la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930) il lavoro di questo saggista-collezionista di straordinaria capacità connettiva fra panorami letterari distanti nel tempo e nello spazio, fra attitudini artistiche di diversi campi semantici, fra compottamenti individuali e collettivi (mode, costumi, mercati d’arte, arredamento, artigianato, ecc.). Nel campo sociologico istituzionale questa ottica è assente o solo parzialmente accolta. Si veda comunque R. RUNCINI, Illusione e paura nel mondo borghese da Dickens a Orwell, Bari 1968. ! Tutti particolarmente inclini a trovare nel testo yotivi metatestuali, di gusto o epocali. Un posto tutto particolare e di grande merito va assegnato alla ricerca, di stampo conservatore forte spessore tematico, compiuta da Elémire Zolla. Cfr. E. zoLLA, Storia del fantasticare, ma di Milano 1964; In., Eclissi dell’intellettuale, Milano 1965°. Sulla stessa scia ci sembra di potere collocare, sia me con aing forzatura, Rosario Assunto (cfr., ad esempio, R. ASSUNTO, L'integrazione estetica, ano 1959).
!* Cfr. E. SANGUINETI, Tra liberty e crepuscolarismo, Milano 1961; m., Guido Gozzano. Inda-
gini e letture, Torino 1966.
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che, influenzato dalla sociologia italo-francese piti attenta ai fenomeni paraletterari, indaga sulle forme popolari della letteratura e del cinema’. È anche il caso di Giuseppe Petronio ” in rapporto con la sociologia della letteratura in Germania. Più da vicino ci tocca l’area di critica, militante o meno, nella produzione libraria *. E su due versanti fondamentali: gli scrittori che fanno critica e gli specialisti del mercato letterario. Ci serviamo soltanto di due esempi: Italo Calvino e Gian Carlo Ferretti. Nel primo caso, a nostro giudizio, siamo nella eccezione più produttiva di critica: tale autore, infatti, non consegna metodi di interpretazione del rapporto letteratura-società ma ne discute l’esperienza, la consapevolezza, il possibile o impossibile rilancio ”. Nel secondo caso, anche questo abbastanza isolato in Italia, si tenta di bilanciare la tradizione critico-letteraria con la conoscenza dei modi di produzione, dell’organizzazione d’apparato, del circuito di distribuzione e del mercato, in cui lo scrittore viene «materialisticamente» collocato insieme ai significati del suo testo. Posizione «scomodamente » indecisa tra pertinenza del giudizio estetico-ideologico e interesse sociologico, scarsamente accettata dalla corporazione letteraria, ma accolta con cautela, d’altra parte, dalle istituzioni sociologiche, che dal canto loro vi scorgono un eccessivo residuo letterario ”. 4.3. Attitudini intellettuali e politiche. Per attitudine intellettuale intendiamo la capacità dimostrata da alcuni nello spaziare al di là dei singoli metodi e delle istituzioni di provenienza o di appartenenza, per raggiungere conoscenze di vasto raggio e soprattutto per dare una risposta interpretativa alle sostanze emergenti nella società contempora-
nea. Umberto Eco ha interpretato egregiamente questo ruolo. E per più motivi. Innanzitutto, non si è limitato a formalizzare, sistematizzare un unico in-
dirizzo metodologico. Pur appartenendo al versante semiotico, ha spesso scelto l’integrazione dell’indagine sociologica. Si pensi al suo saggio su Eugene 19 Cfr. v. sPINAZZOLA, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Milano 1974, e soprattutto i saggi raccolti in La democrazia letteraria, Milano 1984. 20 Si vedano gli Atti dei Convegni tenuti a Trieste a cura dell’Istituto di Filologia moderna della Facoltà di Lettere e dell’Institut fiir Bildungswissenschaften dell’Università di Klagenfurt: « Trivialliteratur? », a cura di G. Petronio e U. Schulz-Buschhaus (1979); I canoni letterari. Storia e dinamica (1981); Critica e società di massa (1983); Livelli e linguaggi letterari nella società delle masse 1985).
* 2: È una larghissima area che muove da un Renato Serra o un Roberto Bazlen e arriva ad un Angelo Guglielmi (cfr. A. cueLIELMI, I/ piacere della letteratura, Milano 1981) o ad un Enzo Golino (cfr. E. GOLINO, Letteratura e classi sociali, Roma-Bari 1976). Cfr. anche G. F. vENÉ, Letteratura e capitalismo în Italia, Milano 1963; N. AJELLO, Lo scrittore e il potere, Bari 1974. 2 Cfr. 1. caLviNO, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino 1980, che raccoglie la straordinaria produzione saggistica di questo autore tra il ’55 e il ’78, unico grande esempio di stretta correlazione tra analisi dell'immaginario letterario e scrittura in Italia. 2 Cfr. c. c. FERRETTI, I/ mercato delle lettere. Industria culturale e lavoro critico in Italia dagli anni cinquanta a oggi, Torino 1979; In., Il best-seller all’italiana. Fortune e formule del romanzo «di qualità», Bari 1983.
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Sue: il socialismo e la consolazione, in cui la semiologia delle strutture narrative funziona insieme alla sociologia della letteratura: Il risultato sarà l’omzologia strutturale tra elementi del contesto formale dell’opera (dove per «forma» si intende anche la forma che assumono i cosiddetti «contenuti», i caratteri, le idee espresse dai personaggi, gli eventi in cui sono coinvolti) ed elementi del contesto storico-sociale *.
In secondo luogo, tale saggista si è parimenti interessato ai vertici dell’espressione letteraria ” e in pari tempo alla cultura di massa *, senza cadere in penalizzazioni tra i due livelli, anzi indicando la ricchezza di ciascuno. In terzo luogo ha dimostrato il rapporto vivo tra metodo critico e produzione testuale, capovolgendo il vettore che parte tradizionalmente dal testo e arriva alla sua scomposizione in regole. Eco, con Il rome della rosa, ha compiuto il percorso inverso, ha scritto un romanzo ”. E certo lo ha scritto producendo pubblico. Infine intendiamo per attitudine politica un ambito, in parte affine al precedente, ma al tempo stesso distinto per la particolare attenzione riservata ai rapporti di potere e alle dinamiche sociali. Lo abbiamo collocato a questo punto perché non intendiamo confonderlo con la tradizione ideologico-politica «volgare» di gran parte della critica letteraria nazionale. Tra i pochissimi esempi possibili di un livello maturo di integrazione tra linguaggi espressivi, primato intellettuale e conflittualità sociale, troviamo Alberto Asor Rosa. Ne abbiamo la riprova nel grande interesse che i risultati del suo lavoro conservano nel definire lo scenario o quanto meno uno scenario della nostra civiltà letteraria. È una ricostruzione che le indagini settoriali non ci hanno ancora fornito, neppure quelle sociologiche. Anche quando queste indagini sono andate pit a fondo sui metodi specifici dell’analisi testuale o sociologica, a nostro parere difficilmente possono rivendicare la coerenza di un discorso sul rapporto tra intellettuali e società come questo autore ha saputo definirlo da Scrittori e popolo a Thomas Mann o dell’ambiguità borghese, ai saggi raccolti in Intellettuali e classe operaia”, al volume sulla cultura scritto per la Storia d’Italia einaudiana. L’asse su cui, sin dall’inizio, si è andato sviluppando il lavoro asorrosiano, si potrebbe dire caratterizzato da una vera e propria vocazione weberiana. Del resto, egli è tra i pochi intellettuali italiani di destino accademico che si sono formati non solo dentro l’università. Anzi, l’attitudine anti-istituzionale e an% vu. ECO, Eugene Sue: il socialismo e la consolazione, in AA.vv., Sociologia della letteratura, Roma 1974, a p. 89. L’antologia contiene anche due interventi metodologici e storiografici di Lucien Goldmann e Jacques Leenhardt, che hanno avuto un certo peso nella fase di crescita dell’interesse sociologico in campo letterario nazionale. 2 Cfr. 1n., Le poetiche di Joyce, Milano 1982 (in parte già presente in Opera aperta cit.); cfr. anche 1n., Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano 1979. % Cfr. n., Apocalittici e integrati, Milano 1977, fra i tanti fondamentali da lui scritti sulle culture di consumo. 2 Cfr. 1n., Il nome della rosa, Milano 1980, e cfr. in particolare le Postille a «Il nome della rosa», Milano 1984. Cfr. A. ASOR ROSA, Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista în Italia, Roma 1965; ., Thomas Mann o dell’ambiguità borghese, Bari 1971; 1n., Intellettuali e classe operaia, Firenze 1973 di cui nella logica che qui ci interessa segnaliamo in modo particolare i saggi sul primo Lukfécs e sullo snodo costituito, nella storia di quest’ultimo autore, da Geschichte und Klassenbewusstsein.
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ti-ideologica rivelata in Scrittori e popolo non si spiega certo con la formazione storicista dovuta a Natalino Sapegno o a Carlo Muscetta, bensî con l’appartenenza di questo autore alla tradizione politica dei « Quaderni rossi» e di « Classe operaia» e al ristrettissimo gruppo intellettuale in cui, grazie alla rilettura dei classici del marxismo operata da Mario Tronti, era andata maturando la capacità, non certo tipica della cultura nazionale, di cogliere gli aspetti salienti dell’estendersi della fabbrica su tutta la società ”’. Proprio questa tendenza a contrapporsi alla tradizione del movimento operaio e alla tradizione quindi del marxismo, ritornando alle fonti marxiane e rimettendole in gioco al presente della conflittualità italiana degli anni ’60 e ’70, consente un uso critico dei diversi filoni del pensiero borghese e antiborghese. Luk4cs e, esplicitamente o implicitamente, gli autori della scuola di Francoforte vengono, cosî, assimilati, senza essere rigidamente assunti a metodo, anzi risultando ridimensionati rispetto al maturare di un discorso nazionalmente localizzato sull’anima e le forme della civiltà occidentale europea, sulle maggiori esperienze letterarie (con particolare attenzione alla crisi della cultura borghese e all’avventura delle avanguardie storiche), sulle logiche di aggregazione e disgregazione dei gruppi intellettuali nella loro dialettica con le forme del potere e i modelli di scontro sociale. Di volta in volta scegliendo il metodo più duttile e più storicamente organico all’oggetto dell’analisi ’, Asor Rosa ha fornito elementi di sociologia delle idee, degli autori, dei gruppi, delle ideologie e delle istituzioni, put tenendo questi elementi solo su due poli di interessi, dati specularmente come rilevanti: la letteratura e la società; ma pit strettamente: il mandato letterario e la società politica, la «professione» dell’intellettuale e il «governo» della vita nazionale *. i Indicando l’esperienza di Umberto Eco e di Alberto Asor Rosa, crediamo di aver tracciato i punti più avanzati raggiunti in Italia per tentare di comprendere i fatti letterari senza ricorrere specificamente ad una normativa metodologica di tipo sociologico. A nostro giudizio, tuttavia, la ricchezza di ambedue queste aree si lascia sfuggire l’occasione per una riflessione più attenta sulle forme del consumo, per il fatto stesso che l’una si appoggia su di un vasto e sofisticato apparato teorico, capace di interpretare tanto il testo letterario quanto i flussi della letterarietà ”, e l’altra si limita ad osservare la cultura d’élite, 2 Cfr. M. TRONTI, La fabbrica e la società (1962), in Operai e capitale, Torino 1977, pp. 39-59. 3° «A noi oggi, sembra indifferente usare il metodo stilistico o quello sociologico, quello storico o quello cosiddetto genetico-ideologico. Nel gioco che è, a questo livello, la critica letteraria, l’uno vale l’altro: può essere divertente, anzi, utilizzarli tutti, l’uno dopo l’altro, cosî come conviene» (A. AsoR ROSA, Scrittori e popolo cit., p. 11). Cosî si esprimeva Asor Rosa nel suo saggio degli anni ’60; il «divertimento » di cui allora si rivendicava la cozvenienza politica sembra oggi inglobato nel lavoro istituzionale della ricerca universitaria, nel suo interesse sociale; si vedano anche le pagine dedicate a Mosca e Pareto in 1n., La cultura cit., pp. 1000-98, nel capitolo intitolato Prizze manifestazioni di una società di massa. 3 Cfr. ibid. le pagine conclusive, ed ancora 1n., Lo stato democratico e î partiti politici, nel volume, da lui curato, Letteratura italiana, I. Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, pp. 549-643. * Cfr. u. Eco, Tipologia della ripetizione, in F. CASETTI (a cura di), L'immagine al plurale, Venezia 1984, pp. 19-35; cfr. anche 1n., Due ipotesi sulla morte dell’arte, in La definizione dell’arte, Milano 1968.
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anche se non soltanto quella artistica. Infatti l’una, la prima, pur avendone gli strumenti, non tenta che molto raramente l’avventura di ragionare sulle forme dell’immaginario collettivo in quanto capaci di contaminare radicalmente la scientificità dei metodi interpretativi, anche quelli semioticamente più asettici; e l’altra risulta ancora fortemente legata alla convinzione di dover assegnare allo spazio letterario tracciato dal testo di qualità il mandato dell’intellettuale e il valore dell’opera. 4.4. Stato della disciplina in Italia. Il fatto è che anche i tentativi di sociologia della letteratura compiuti in Italia con una aperta e voluta rivendicazione della specificità del metodo applicato, rimangono fortemente legati alla tradizione letteraria. Se ne discostano nella scelta degli oggetti d’analisi e degli strumenti settoriali che questi oggetti richiedono come più adatti, ma non nella griglia di valori offerta dalla civiltà delle lettere, dalla sua continzità. L'asse, che, dalle tradizioni della filologia (capace con Aurelio Roncaglia di assimilare il senso sociologico di un Auerbach), arriva sino alla critica strutturalistica di Cesare Segre, è in grado di riportare a sé ogni altro approccio, stilistico o sociologico che sia, da Gianfranco Contini a Carlo Salinari, da Giacomo Devoto a Giacomo Debenedetti, da Ezio Raimondi a D’Arco Silvio Avalle *. La strutturazione di quest’ultima tendenza risulta ben visibile nelle argomentazioni che Maria Corti, curando con Cesare Segre una antologia sui Metodi attuali della critica in Italia, ha scritto come premesse alle singole sezioni del volume, disposte del resto con una scansione che pare già di per se stessa significativa, liberandosi prizz4 del sociologico, del simbolico e dello psicanalitico ed affrontando poi, dalla stilistica alla semiologia, la pertinenza del testo letterario. Estremamente equilibrata nel distribuire meriti ed utilità a ciascun indirizzo (che giustamente viene ricomposto in una griglia orizzontale ricavata dall’oggetto su cui i metodi si esercitano: 1) nessi opera-ambiente; 2) autore; 3) rapporti autore-opera; 4) l’opera in sé; 5) legami tra opera e sistema letterario; 6) rapporto opera-lettore), Maria Corti manifesta una riserva esplicita non per le analisi sociologiche sulla utenza del prodotto letterario, ma per quella letteratura critica, d’origine francese (e sulla quale noi ci soffermeremo nelle conclusioni del nostro discorso), in cui «si tratta di portare in primo piano la funzione attiva del lettore, definire, secondo le parole di Philippe Sollers, uno spazio dove i fenomeni della scrittura e della lettura possano essere intesi come reciproci e simultanei» *. Nella riserva che Maria Corti esprime su questo versante dell’introspezione letteraria (certamente non accusabile del vizio di stabilire un rapporto de; 33 Si vedano la collocazione metodologica di questi autori e le relative indicazioni bibliografiche in M. CORTI € C. SEGRE (a cura di), I yzetodi attuali cit. # M. CORTI, Le vie del rinnovamento critico in Italia, ibid., p.12.
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terministico tra letteratura e società, e neppure di subordinazione dell’interesse per il testo e per la sua qualità ad altro tipo di interessi che non siano quelli estetici e di valore), possiamo cogliere una ben più determinata riserva per il pensiero sociologico nel suo insieme, per il carattere moderno (e soprattutto le sue esplicitazioni postmoderne) di questo pensiero, insomma per l’«immaginazione sociologica ». È giusto riconoscere che proprio nella filosofia e nella medievalistica non hanno funzionato quei tratti di estetismo o ideologismo che maggiormente hanno pesato nel rifiuto espresso dalla critica letteraria nei confronti della «scientificità» dei metodi sociologici. Le attente pagine che Maria Corti dedica all’«approccio sociologico» nei suoi Principi della comunicazione letteraria, e tutto il capitolo su «emittente e destinatario», ci dimostrano una forte sensibilità per le confluenze tra sistema letterario e «coscienza collettiva»: «Già i formalisti russi degli anni Trenta, sulla loro scia i semiologi... della scuola di Tartu hanno messo in luce come la società, nel suo rapporto con la letteratura, appaia un ricco fascio di direzioni socioculturali» *. Una sensibilità, dunque, volta a tener conto della contiguità tra «destinatario interno» e « destinatario esterno» dell’opera, per cui non a caso si ricorre al pensiero critico elaborato intorno alle arti figurative da Gombrich e alla medievalistica di Zumthor. Una capacità di connessione fra istituzione e suoi mutamenti «epocali», che la porta a segnalare la svolta di autori come Blanchot e Foucault; ma anche qui l’indirizzo sulla «morte dell’autore», sulla egemonia dell’immaginario sulla scrittura, sul testo, viene schiacciato in un uso sussidiario, in «indicatore» di interessi, che vengono meglio soddisfatti dall’attenzione alle modificazioni della lettura operata nella scuola di Escarpit. Il problema del conflitto tra immaginario collettivo e scrittura viene cosî falsato: «L’estraneità della massa alla cultura di livello elitario, la sua impossibilità a divenire destinataria del messaggio letterario, messe in luce dai lavori di Nicole Robine, sono dovute alla mancanza di una mitologia, di un sistema semiotico-ideologico che siano in comune fra le classi e addirittura i gruppi sociali» *. Nell’economia letteraria del discorso della Corti non interessa quel divario epocale che oggi si è venuto a creare tra le mitologie dell’espressione colta e le mitologie dell’immaginario collettivo, anzi le seconde appaiono una insidia per le prime e per la possibilità stessa di praticare i metodi dell’indagine letteraria: Il versante delle mode, mentre può offrire eccellente materiale al sociologo dei fatti culturali, non consente un concreto effettivo esame dello sviluppo indigeno di nuovi indirizzi critici in quanto gli è estraneo quel fecondo e lento processo dialettico, descritto da Sklovskij, la partita doppia del dare e dell’avere fra le varie scuole che tramontano e che sotgono, in cui solo si identifica il vero processo della cultura, e di conseguenza anche della critica”. 35 In., Principi della comunicazione letteraria, Milano 1976, p. 23. Cfr. J. MuKARovsKt, Studie z estetiky, 1966 (trad. it. Il significato dell’estetica, Torino 1973). 36 M. CORTI, Principi cit., p. 60.
# In., Le vie del rinnovamento cit., p.11.
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E quindi, il progressivo maturare e strutturarsi di nuovi indirizzi critici... deve svolgersi, per essere produttivo, abbastanza lentamente e proprio in questo senso si distingue dal processo delle mode, cui pertengono i caratteri di una rumorosa i velocità di sviluppo e di consumo *.
Dalle premesse, individuabili nel discorso di Maria Corti, possiamo intendere l’ambito in cui si sono mossi i sociologi della letteratura, spesso non soltanto quelli italiani. La loro caratterizzazione consiste nell’essere stati «germinati» dal campo degli interessi letterario-accademici. Dunque si sono sentiti legittimati ad indagare, con strumenti più idonei, alcuni aspetti istituzionali del fare letterario, come nel caso di Corsini”, e alcune zone paraletterarie *. O a tentare una ricomposizione della materia, un profilo metodologico come nel caso di Graziella Pagliano Ungari a cui si deve l’istituzionalizzarsi della disciplina nell’università italiana. È significativo, invece, che i sociologi della cultura provenienti da una formazione sociologica, da un interesse sociologico, si siano collocati nel campo della comunicazione di massa. Ed è per questo che, qui, non ne teniamo conto “: per quanto, giustamente, la letteratura venga da loro sussunta nel sistema globale dei processi culturali in una civiltà industria38 Ibid.,p.9. 3 Cfr. 6. corsini, L'istituzione letteraria, Napoli 1974; ha curato anche una antologia, Letteratura e sociologia, Bologna 1982, in cui vi sono interessanti riconoscimenti oltre a quelli più convenzionali: Auguste Comte, Emile Durkheim e Thorstein Veblen per quanto riguarda il capitolo dedicato ai precursori; Harry Levin, Malcolm Bradbury, Joan Rockwell, Pierre V. Zima per il capitolo sull’istituzione letteraria; Richard D. Altick e John A. Sutherland per le tematiche di circuito e di mercato; Robert Mandrou, Victor E. Neubutg, Jurij M. Lotman, Leslie Fiedler, John C. Cawelti, Nina Baym, Suzanne Ellery Greene per i rapporti tra letteratura popolare e società. Per quanto avaro nell’antologizzare autori italiani, essi sono presenti con Giuseppe Pecchio, Franco Ferrarotti, Maria Corti, Armando Petrucci, Giorgio Melchiori, Bruno Gentili. 4Cfr. M. RAK, Appunti sulla dinamica del sistema dell’informazione estetica: î generi della paraletteratura e la cultura di massa, introduzione alla trad. it. di AA.vv, Entretiens sur la paralittérature. Centre culturel international de Cerisy-La-Salle, 1-10 septembre 1967 (La paraletteratura. Il melodramma, il romanzo popolare, il fotoromanzo, il romanzo poliziesco, il fumetto, 1970), Napoli 1977, pp. 11-33. Si vedano anche gli autori considerati in G. PAGLIANO UNGARI, La paraletteratura, in G. MARIANI € M. PETRUCCIANI (diretta da), Letteratura italiana contemporanea, III, Roma 1982, pp. 739-57. Cfr. sul versante di confluenza-attrito tra sociologia e antropologia culturale A. SIGNORELLI (a cura di), Cultura popolare e cultura di massa, numero monografico di «La Ricerca Folklorica», VII (1983). 41 Cfr. m. LIvoLsI, Comunicazioni e cultura di massa, Milano 1970; G. STATERA, Società e comunicazioni di massa, Palermo 1972; G. P. PRANDSTRALLER, Arte come professione. Un'analisi sociologica della professione artistica nella società attuale, Padova 1974; F. ROSITI, Contraddizioni di cultura. Ideologie collettive e capitalismo avanzato, Bologna 1971; m., Informazione e complessità sociale. Critica delle politiche culturali in Italia, Bari 1978; 1n., Mercati di cultura. Politica e lottizzazione dei mass media in Italia, Bari 1982; 1n., I modi dell’argomentazione e l'opinione pubblica, Torino 1982; G. BECHELLONI, La macchina culturale in Italia. Saggi e ricerche sul potere culturale, Bologna 1974; 1n., Modelli di cultura e classe politica. L'industria culturale in Italia tra bisogni di conoscenza e ipotesi di riforma, Roma 1979. Anche in Italia particolare interesse assumono, comunque, soprattutto nel campo della ricerca sociologica, le metodologie dell’analisi del contenuto, giunte ad alti livelli di formalizzazione proprio nello slittamento dal campo scritturale a quello figurativo e audiovisivo: cfr. K. KRIPPENDORFF, Content Analysis. An Introduction to its Methodology, 1980 (trad. it. Torino 1983). Per le tematiche paraletterarie e per le culture dei consumi rimandiamo ad un successivo volume di questa opera, in un capitolo sui generi di massa che avrà forti nessi con la ricerca sociologica nel suo insieme e non solo con la critica socio-letteraria. Qui cfr. G. FERRARO, Strategie comunicative e codici di massa, Torino 1981, con la relativa bibliografia.
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le evoluta, quasi sempre i problemi, che ci interessano in questa sede, vengono lasciati da parte o risolti convenzionalmente. Cesare Cases ci pare avere tracciato comunque meglio di altri il confine, la demarcazione, tra critica sociologica e sociologia della letteratura, rivendicando la centralità del riferimento a Hegel per tutta la sociologia della cultura importata in Italia. Diviso tra il piano etico-poetico di Franco Fortini e la solidità storica e politica di Lukécs, Cases dimostra la convergenza della critica sociologica italiana su questioni di contenuto, la sua diffidenza per le teorie generali della letteratura, il suo «impegnarsi» sui problemi della circolazione e dell’uso delle ideologie. Anche delle forme, ma come veicolo di ideologie *. La sociologia della letteratura esibisce ormai un campo molto più esteso di interessi, sia sul versante teorico, sia sul versante della ricerca empirica. Graziella Pagliano Ungari nella sua antologia ne dispiega le forze sia per quanto riguarda le origini dell’interesse, sia per quanto riguarda le sue più recenti articolazioni; e al contempo va sperimentando l’analisi del contenuto, con una particolare attenzione alla produttività della disciplina nel campo della formazione letteraria e nel campo sociale delle istituzioni della lettura ‘. Ma allo stato attuale, il collegamento che qui preme di stabilire, tra immaginazione letteraria e immaginazione sociologica, sembra ancora difficoltoso. 5.
Zonedifrontiera.
5.1. Morte dell’autore. Torniamo quindi agli interrogativi con cui si è chiuso il primo paragrafo di questo nostro contributo. Torniamo a quella assenza di rigenerazione letteraria che ci pare di riconoscere nella speculare assenza di una teoria critica interna alla scrittura ma anche interna all’immaginario sociale. Questa volta l’area francese si presta ad un avvio dell’argomento. Fra gli autori operanti in questa area, come Gaston Bachelard ',Roland Barthes, Maurice Blanchot °,Jean Ca4 Cfr. c. cases, La critica sociologica cit. 4 Cfr. G. PAGLIANO UNGARI (a cura di), Sociologia della letteratura, Bologna 1972 con una vasta introduzione bibliograficamente assai ricca, ed il merito di inserire autori come Hugh D. Duncan, Arnold Hirsch, Pierre Macherey, Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Harald Weinrich, grazie ad una valutazione non restrittiva dell’approccio sociologico, mentre alcuni altri vengono inseriti sfuggendo ad una configurazione del campo che sia esclusivamente interna all’epoca industriale in senso stretto. Per la bibliografia italiana cfr. 1n., Per una storia della sociologia dell’arte e della letteratura in Italia (1945-1980), in «Sociologia della comunicazione», II (1983), 4, pp. 139-51; e cfr. anche m., L’immagine del partito nel romanzo francese tra Ottocento e Novecento, Napoli 1974. 1 Cfr. G. BACHELARD, La poétique de la réverie, 1960 (trad. it. Bari 1972). 2 «Il Barthes ha inteso come pochi altri la funzione moderna della retorica, nella sua capacità d’inventare forme e stereotipi, e ne ha ricavato uno strumento abilissimo per sondare i miti, i fantasmi, gli arabeschi ideologici dell'immaginario, cosi come essi circolano anche nella vita quotidiana. Quanto più si avvicina a un testo, tanto più ciò che lo affascina è la trama della sua scrittura, il sapore, che per lui è anche sapienza, della parola letteraria e delle sue finzioni. Ne nasce una sorta di avventura drammatica dell’intelligenza che scrive leggendo: e difatti Barthes è anche un interprete di Brecht, un uomo di teatro, con tutte le astuzie di chi sa stare in scena» (E. RAIMONDI, Tecziche della critica letteraria cit., p. 152). 3 «In un Blanchot, per esempio, i cui scrittori vanno da Sade a Kafka, da Holderlin a Mallar-
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zeneuve ‘, Roger Caillois?, Mircea Eliade ‘, Michel Foucault, Jacques Lacan, Claude Lévi-Strauss, Lucien Lévy-Bruhl, Jean-Frangois Lyotard, Bronistaw Malinowski, Marcel Mauss, Edgar Morin, tutti attenti alla rilevanza dei gesti rituali dell’uomo, alcuni appartengono alle scienze sociali e altri anche alla sociologia’. Il loro rilievo trova un riscontro nella straordinaria profondità con cui quasi tutti hanno saputo indagare il fatto letterario. In essi l’oggetto dell’analisi è divenuto ciò che nella tradizione delle istituzioni letterarie fa paura: un immaginario che cancella l’autore e la sua scrittura. «Spazi» rituali, di iniziazione e di morte, di gioco e di sacrificio, in cui il corpo si muove ben diversamente dalla teoria dei concetti, ben al di là della traccia fornita dalla scrittura. Ecco cioè un’area in cui immaginazione letteraria e immaginazione sociologica sembrano fare un unico discorso e ricongiungere in un medesimo spazio le mitologie del senso comune con la «coscienza di sé» del linguaggio letterario, l'indagine sui valori espressivi della collettività con quella sui valori testuali dell’opera. Qui non è la forza del metodo a tenere campi diversi dell’esperienza ma è l’accettazione di un unico campo di esperienza umana a violentare la diversità delle tradizioni epistemologiche, e a produrre appunto un comune sforzo di immaginazione, di creatività. In due saggi scritti tra il 66 e il ’69 Foucault *, sulla scorta di Blanchot, ci offre uno spaccato dell’evolversi moderno della letteratura, per noi di straordinaria utilità. In queste pagine Foucault lavora al di là della concettualizzazione del nesso autore-testo (come lo abbiamo visto operare nella tradizione letteraria), al di là della valutazione trascendentale e a priori della scrittura. mé, da Pascal a Char, si fondono insieme l’ermeneutica orfica di un Heidegger e l’analisi esistenziale di un Sartre, e si sviluppa una poetica dell’assenza e della negazione dove il linguaggio è la vita che porta la motte e si mantiene in essa, l’immagine designa ciò che non è una cosa, mentre la parola si fa voce del silenzio, vuoto interiore» (:0i4., p. 10). Cfr., di M. BLANCHOT, L’espace littéraire, 1955 (trad. it. Torino 1967); L’entretien infini, 1969 (trad. it. Torino 1977). 4 Cfr. J. CAZENEUVE, Sociologie du rite, 1971 (trad. it. Milano 1974). ° Cfr., di r. cAILLOIS, Le mythe et l'homme, Paris 1938; L’homme e le sacré, Paris 1939; L’incertitude qui vient des réves, 1956 (trad. it. Il deserto del sogno, Roma 1964); Au coeur du fantastique, Paris 1965. Come abbiamo cercato di dimostrare anche in questa sede, l’indagine sul fantastico è particolarmente fruttuosa non solo per l’identificazione della pregnanza sociologica dei generi letterari di massa, ma anche per la verifica ben più profonda dei punti di contatto tra scrittura e consumo: cfr. T. topoROV, Introduction è la littérature fantastigue, 1970 (trad. it. La letteratura fantastica, Milano 1977) e dello stesso autore si veda l’apertura all’interesse sociologico in La littérature comme fait et valeur (Entretien avec Paul Bénichou), in Critique de la critique, Paris 1984, pp. 145-77; nel campo italiano cfr. s. soLMI, Della favola, del viaggio e di altre cose, Milano-Napoli 1971, oltre al lavoro di Elémire Zolla. : ° Cfr., di m. ELIADE, Le mythe de l’éternel retour; archétypes et répétition, 1949 (trad. it. Milano 1975); Mythes, réves et mystères, 1957 (trad. it. Milano 1976). ? Persino la prospettiva semiologica di Greimas, alla ricerca di grammatiche discorsive oltre che narrative, è vastamente debitrice nei confronti degli studi di Gaston Bachelard, di Jean-Pierre Richard o di Georges Dumézil. Del resto Greimas ha lavorato su uno snodo teorico che ha vaste attinenze con gli snodi storici che noi abbiamo qui tenuto presente. Cfr. A. J. cretMas, Du sens II. Essais sémiotiques, 1983 (trad. it. Del senso 2. Narrativa, modalità, passioni, Milano 1985). Ed infine ci sembra particolarmente fruttuosa, per le sollecitazioni che offre in vista di una riunificazione del sapere attistico con quello delle scienze sociali e della ricerca scientifica, Mm. seRRES, Hermès V. Le passage du Nord-Quest, 1980 (trad. it. Passaggio a Nord-Ovest, Parma 1984). ® m. FoucaULT, La pensée du dehors (1966) e Qu'est-ce-qu'un auteur (1969) (trad. it. in Scritti letterari, Milano 1984, pp. 111-34 € 1-21.
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Insiste sulle «parentele», dopo la rottura dei moderni rispetto all’epica degli antichi, tra scrittura e morte; «La traccia dello scrittore sta solo nella singolarità della sua assenza; a lui spetta il ruolo del morto nel gioco della scrittura» ?. Ed infine supera la dicotomia «borghese» tra interiorità ed esteriorità: « Anzitutto possiamo dire che la scrittura oggi si è liberata dal tema dell’esperienza: essa si riferisce solo a se stessa senza tuttavia essere presa nella forma dell’interiorità; essa si identifica con la propria esteriorità spiegata » "°. Questo « pensiero del di fuori» instaura un punto di vista zzetaletterario in termini assolutamente diversi rispetto alla distinzione volgare fra testo e letteratura diffusa. È questa «riflessione», privata dell’autorità del «produttore», a costruire il quadro dinamico della cultura occidentale moderna: Non è avventato supporre che la prima incrinatura, attraverso cui il pensiero del di fuori si è fatto visibile a noi, sia stata paradossalmente proprio il monologo ripetitivo di Sade. All’epoca di Kant e di Hegel, nel momento in cui forse l’interiorizzazione della legge della storia e del mondo non fu mai cosî imperiosamente sentita come esigenza dalla coscienza occidentale, Sade lascia parlare soltanto, come legge senza legge del mondo, la nudità del desiderio. È nella stessa epoca che nella poesia di Hòlderlin si manifestava l’assenza scintillante degli dèi e si annunciava come una legge nuova l’obbligo di aspettare, probabilmente all’infinito, l’aiuto enigmatico che viene dalla «mancanza di Dio»... Ora è questa esperienza che appare nella seconda metà del xIx secolo e nel centro stesso del linguaggio, diventato, benché la nostra cultura cerchi sempre di riflettervisi come se esso detenesse il segreto della sua interiorità, lo scintillare stesso del di fuori !. Sono Nietzsche, Mallarmé, Artaud, Bataille, Klossowski. L’identificazione
precisa di sostanze come la «nudità del desiderio», l’«assenza del divino», il congedo del rapporto stretto significato-significante ‘, lo «sciogliersi» di ogni linguaggio discorsivo nella « violenza del corpo », lo spezzarsi della soggettività al suo interno e non soltanto sul fuori dell’esistenza, portano cosî Foucault a una definizione di letteratura assai più adatta ad essere îrvasa da una adeguata immaginazione sociologica: La letteratura non va considerata come il linguaggio che avvicina se stesso fino a raggiungere il punto della sua bruciante manifestazione, ma come il linguaggio che si pone il più lontano possibile da se stesso: e se, nella messa «fuori di sé», svela la propria assenza, questa improvvisa chiarezza rivela un distacco piuttosto che un ripiegamento, una dispersione piuttosto che un ritorno dei segni su se stessi. Il «soggetto» della letteratura (ciò che parla in essa e ciò di ? m., Qu'est-ce-qu’un auteur cit., p. 4.
0elbid pis: 11 p., La pensée du dehors cit., pp. 114-15. 12 Su questo si sono sviluppate in modo particolare le metodologie della critica simbolica e l’indirizzo psicanalitico; si pensi a Ezio Raimondi e Francesco Orlando. Alcune indicazioni metodologiche e storiografiche, utili alla rielaborazione sociologica le troviamo in H. wEINRICH, Metafore e menzogna: la serenità dell’arte, a cura di L. Ritter Santini, Bologna 1976 (con la traduzione di saggi scritti fra il ’58 e il ’76), e in M. MANNONI, La théorie comme fiction, Paris 1979 (trad. it. Milano 1980).
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La questione del metodo cui essa parla) non sarebbe tanto il linguaggio nella sua positività quanto il vuoto in cui esso trova il suo spazio quando si enuncia nella nudità dell’«io parlo» !.
È questo il nostro punto di arrivo, il luogo in cui riuscire ad unificare i diversi punti di vista da cui siamo partiti. Ora possiamo tentare di riassumere i materiali raccolti in uno schema operativo. Esistono delle funzioni generali del pensiero sociologico all’interno del quale la letteratura può e deve trovare una sua più o meno garantita collocazione. Quando Georges Gurvitch approntò il suo vasto Traité de sociologie, affidò a Georges Granai i problemi della sociologia del linguaggio, a Pierre Francastel quelli dell’arte, a René Bonnot quelli della musica, ad Albert Memmi quelli della letteratura e a Roger Bastide quelli sull’incrocio tra civiltà ed opere". I processi culturali entrano a far parte del punto di vista della sociologia sul mondo *. La letteratura può essere un indicatore da verificare altrimenti da se
stessa !°. Esistono poi funzioni sussidiarie che la sociologia può compiere a vantaggio dell’istituzione letteraria. Il punto di riferimento più rilevante, perché più aggregato, risulta il lavoro di Robert Escarpit, che, in una fase almeno del suo sviluppo, prima cioè di essere attratto dal sistema complessivo della comunicazione sociale, e della polarizzazione verso l'informatica, ha raccolto una vasta compagine di metodi investigativi, direttamente affidabili alla tradizione sociologica della ricerca di «dati socialmente significativi» o a tradizioni non ostili all’approccio sociologico dell’opera ‘’. Ma proprio la vocazione interdi13 M. FOUCAULT, La pensée du dehors cit., p. 113. 14 Cfr. G. GURVITCH, Traîté de sociologie, 1960 (trad. it. Milano 1967). 15 Cfr. L. caLLINO, «Sociologia della letteratura», in Dizionario di sociologia cit., p. 146: «In quanto forma d’analisi e di narrazione estensiva esplicita della dinamica delle relazioni sociali, condotta solitamente per mezzo del linguaggio ordinario — salvo i casi peraltro rari di avanzato sperimentalismo, e con l’ovvia eccezione dei testi poetici — il cui senso immediato chiunque può presumere di comprendere, la letteratura appare fornire una conoscenza della società e dei suoi tipi umani
assai più diretta, articolata e adeguata — cioè meno ambigua, in un campo di segni dove l’ambiguità è costitutiva di ogni oggetto — di qualsiasi altro tipo di produzione artistica. Essa propone cosi all’indagine sistematica una mole immensa di materiali sociologicamente rilevanti perché contenenti nozioni, descrizioni, interpretazioni di eventi personali e collettivi, che sono di per sé una forma di conoscenza empirica del sociale». Cfr. anche A. vitIELLO, Leggere i sociologi, Napoli 1983. 16 Non solo in quanto forma di conoscenza ma anche in quanto apparato produttivo, aggregato di specifici modelli di organizzazione del lavoro, insieme di dispositivi istituzionali, ideologici di controllo e di mercato, indicatore di status sociali, stratificazioni collettive di riproduzione e trasmissione del sapere, particolari funzioni leader, professionalità manageriali nel campo dell’editoria e del giornalismo. Cfr. ad esempio il tipo di interessi sviluppato in s. PICCONE STELLA, Intellettuali e capitale nella società italiana del dopoguerra, Bari 1972. Su alcuni di questi settori hanno lavorato anche profili professionali di origine non sociologica; a titolo di esempio, pet quanto riguarda il ceto degli intellettuali, cfr. M. IsNENGHI, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino 1979. ! Cfr. r. EScARPIT, Le Littéraire et le Sociale: éléments pour une sociologie de la littérature, 1970 (trad. it. Letteratura e società, Bologna 1972) per la vasta bibliografia e, tra gli altri, interventi di Jacques Dubois sulla critica letteraria di indirizzo sociologico, Charles Bonazis sulla scrittura delle opere e la «causalità sociologica», Henri Zalamansky sull’analisi del contenuto, Robert Estivals sul «circuito» tra creazione consumo e produzione intellettuale, Gilbert Mury sulla sociologia del pubblico letterario e il concetto di personalità di base, Nicole Robine sulla lettura. Cfr. anche, sempre di r. ESCARPIT, Sociologie de la littérature, 1958 (trad. it. Napoli 1970); Théorie générale de l’information et de la communication, 1976 (trad. it. Roma 1979).
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sciplinare di questo lavoro consente un forte dimensionamento dello strumento sociologico piuttosto in chiave tecnica. E, come abbiamo già suggerito, ci sembra che proprio questo tipo di indagine abbia maggiormente influito sugli orientamenti della sociologia della letteratura in Italia, nel suo emanciparsi dall’idealismo e dal marxismo. In terzo luogo, ma assai contiguo al precedente, esistono funzioni più matcatamente interpretative che soltanto la tradizione sociologica può fornire. La coniugazione dei grandi «capitoli» dell’analisi testuale, dell’autore, degli apparati e della lettura è alla base di ogni investigazione letteraria completa, ma quando il campo di studio è caratterizzato dai processi dell’industrializzazione, della socializzazione e della modernizzazione, ecco allora che il ricorso alla sociologia diviene indispensabile '. Si tratterà allora o di una semplice sensibilità per fenomeni che hanno costituito il nucleo genetico del pensiero sociologico, dunque per le testimonianze, se non sempre per le conoscenze che tale pensiero può fornire (quindi andando a quelle forme di sapere che, accanto ad altri, si vedono funzionare in autori come Benjamin o Duvignaud, per sintetizzare un raggio vastissimo di sollecitazioni tematiche assai disomogenee); oppure di una più accurata accettazione e discussione di interessi culturali che nel pensiero sociologico hanno trovato una forte legittimazione. Questi interessi, a nostro avviso, possono essere riassunti in uno schema
essenziale o almeno in un percorso ottimale, capace di non intaccare lo specifico letterario ma di esaltarlo, di metterlo in rilievo, facendo riemergere tutto ciò in cui è implicato. 5.2. Personalità e socializzazione. Il nucleo di una azione letteraria comporta un circuito produzione-consumo acceso da uno o più testi. Questo nucleo operativo si colloca all’interno di un sistema ”’. Nella definizione di sistema la tradizione sociologica risulta particolarmente «forte» proprio per la sua «corrispondenza » con la civiltà industriale. L’asse Saint-Simon, Comte, Spencer, giunge ad una identità semantica tra il concetto di sistema e la società industriale. È sull’energia sintetica di quest’asse che i confini tra sociologia della conoscenza e sociologia della cultura e persino dell’arte sono, all’origine, tra loro confusi. Ma, nei vari passaggi dal livello giuridico-istituzionale di Sorokin e struttural-funzionale di Parsons, la rigidità di questa tradizione «totalitaria» viene meno e le si contrappone una teoria generale dei sistemi. Dunque: vari sistemi, con diverse regole e norme, 18 È il caso del breve ma essenziale saggio, già più volte citato, di E. RAIMONDI, L’industrializzazione della critica letteraria, in Tecniche della critica letteraria cit., pp. 29-61, in cui il punto di vista letterario si trova a perlustrare un ambito esplicitamente ed inevitabilmente sociologico nei grandi temi dello sviluppo tecnologico, della massificazione, della civiltà metropolitana e dei mecmanismi di mercato. 1? Cfr. s. J. scaHMIDT, Empirische Literaturwissenschaft as Perspective, in T. A. VAN DIJK (a cura di), On the Future of Structural Poetics, numero speciale di « Poetics », n. 8 (1979), pp. 557-68 (trad. it. in s. J. SCHMIDT, La comunicazione letteraria, a cura di C. Marello, Milano 1983, pp. 35-55).
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diverse forme di governo e diverse dinamiche di trasformazione. Cosicché, se all’origine il rischio di una concezione ultrasocializzata dell’uomo ° riduceva o esaltava, spesso sullo stesso piano contenutistico e strutturale, le forme della cultura e quelle sociali, ora, pur non essendo risolto epistemologicamente il problema di una teoria generale che spieghi il rapporto tra conflitti e mutamento sociale, appare di più facile lettura la coerenza interna ai singoli sistemi ed alcuni dei essi con cui essi entrano in correlazione tra loro. In questo quadro l’azione letteraria trova una sua collocazione oggettiva; dunque verificabile, seppure con modalità assai relative, nel gioco tra sistemi di varia grandezza: quelli generali, oggi sempre meno «fissabili»; quelli teoricamente fondati sull’astrazione degli aspetti diversi della vita sociale, culturale, psicologica, ma entro certi limiti istituzionalmente riconoscibili in funzioni specifiche, settoriali. La letteratura è a sua volta un sistema che gioca con gli altri. Un’azione letteraria partecipa a questo gioco sociale e istituzionale. Caratteristica precipua dell’azione letteraria è, tuttavia, quella di essere un’azione personale, di rivendicare cioè tanto nella produzione che nel consumo, una elevata presenza di fattori soggettivi. Per quanto aggregabili in modelli astratti, a cui si conferisce una stabilità «di comodo», questi fattori (memoria, bisogni, affetti, esperienze, modalità cognitive e comportamentali, ecc.) riguardano tanto l’autore o gli autori di un’opera, quanto i suoi consumatori. Anzi, un cortocircuito reale tra scrittura e lettura lo si ha quando esiste una omogeneità sostanziale tra questi fattori. Quando, persino nella forma del conflitto e del rifiuto tra le «parti», accade un riconoscimento reciproco tra i fattori personali implicati nell’azione letteraria. Quest’investimento personale non è esclusivo dell’azione letteraria, anche se l'intensità che manifesta nel campo letterario può indurci a trasformare un dato quantitativo in qualitativo. Tutte le azioni sociali hanno questa stessa natura. La sociologia tocca questo problema nel concetto di personalità, che ha preso corpo proprio nel tentativo di non rendere meccanicistico il mondo delle correlazioni umane, una volta che si siano astratte alcune norme, tipologie, regole del comportamento. Una zona di confluenza (zona di frontiera e contaminazione tra psicologia analitica e scienze sociali) tra dati biologicopsicologici e determinazioni socio-economiche, dove è dato osservare i modi in cui la singola persona interagisce con i sistemi all’interno dei quali si trova. La personalità viene cosî valutata sia come variabile dipendente, cioè come risultato dei modelli socialmente egemoni, sia come variabile indipendente, cioè come fattore che interviene sulle azioni sociali, là dove il soggetto forza l’assunzione dei linguaggi normativi, delle regole, quindi le influenza, le interpreta, le traduce per sé, pur mascherandosi proprio grazie a queste regole. La tradizione letteraria ha fatto si che fosse irrigidito il preconcetto per cui alla personalità dello scrittore apparterrebbe il merito di essere variabile in. ,?° Per questi temi cfr. L. cAaLLINO, «Sociologia della conoscenza», «Sociologia dell’arte», « Sociologia della letteratura» cit., «Sociologia della moda», « Comunicazioni di massa», in Dizionario di sociologia cit.
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dipendente e al lettore il ruolo di offritsi come variabile dipendente. L’apporto della sociologia può rendere molto pit circolare l’ottica dell’osservazione sulla personalità individuale e collettiva. Solo a partire da questa circolarità, infatti, è possibile stabilire il grado innovativo che un’azione letteraria stabilisce rispetto alla precedente. Ma per far questo, per valutare cioè i livelli di variazione tra un insieme coerente di fattori legati alla personalità ed un altro insieme, in cui le norme precedenti non sono pit valide, bisogna ricorrere ad una misura. Questa misura, nel pensiero sociologico, è andata sempre più fondandosi sulla linea mobile dei processi di socializzazione. Quei processi, cioè, grazie ai quali l’individuo cresce entrando in contatto con una serie di organismi collettivi (dal dispositivo sociale della famiglia o del gruppo a sistemi pit estesi e organizzati), assumendone i linguaggi, differenziandosi ed integrandosi con il rifiutare o rafforzare determinati comportamenti piuttosto di altri. L’azione letteraria si trova dunque dentro un possibile racconto dei processi di socializzazione relativi ai soggetti che mette in campo. L’evolversi della personalità dell’autore si rapporta all’evolversi della personalità del lettore. Una volta rintracciati dati significativi per la personalità di ciascuna delle parti in questione (ad esempio: la biografia di un autore, i dispositivi che hanno formato il suo gruppo di appartenenza; la formazione di personalità dominanti, di modalità egemoni, negli apparati produttivi e distributivi a cui l’autore si affida o è affidato; i tipi di personalità che agiscono nei testi di questo autore; i tipi di personalità che si riescono ad individuare nelle stratificazioni del pubblico realmente toccato dai testi esaminati, e gli altri tipi di personalità egemoni o alternativi operanti nel pubblico complessivo «a lavoro» in questo stesso periodo; le personalità, infine, nei dispositivi di mediazione e controllo tra opera e società, come ad esempio la critica o la pubblicità o l’organizzazione della cultura o la censura, ecc.). Ci sono stati momenti della storia della civiltà occidentale, in cui si sono stabiliti una coerenza stretta, un legame forte, una omologia consapevole e preformata tra il racconto espresso dal testo letterario e il racconto dei processi di socializzazione. La fase pit significativa di una letteratura, in cui la socializzazione dell’autore non si occulta alla socializzazione del pubblico, è costituita dalla tradizione del romanzo. Ed è questa tradizione che ha voluto generalizzare la particolarità di analisi in cui la psicologia del personaggio faceva tutt’uno con la psicologia dell’autore e dei suoi tempi, le sue scelte sociali tutt’uno con l’orientamento ideologico dello scrittore e le ideologie del sistema (in termini dialettici, naturalmente) ”. Ma se si esce dall’asse del romanzo, il gioco tra i diversi ambiti della personalità ed i diversi processi di socializzazione non appare altrettanto semplificabile. Né le coincidenze né le differenze possono più funzionare come misu21 Si percorra un manuale riassuntivo della struttura del romanzo come ad esempio quello di R. BOURNEUF € R. OUELLET, L’univers du roman, 1972 (trad. it. Torino 1976) e sarà facile trovare le adeguate corrispondenze tra lo schema dell’indice (narrazione, punto di vista, spazio, tempo, personaggi, autore) e la pertinenza del sussidio sociologico su ciascuna di queste voci.
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La questione del metodo è
ra. La verifica dei meccanismi di socializzazione e dei dispositivi, che se ne sono fatti garanti (dalla famiglia alla metropoli), non basta più. I sistemi educativi, professionali, organizzativi che cooperano alla socializzazione dell’individuo emergono nel romanzo come racconto esplicito, come socializzazione rivelata. Ma nelle modalità standardizzate del racconto di massa, in cui la fabula torna a trionfare, o nelle modalità trasgressive della poesia, o della prosa che si nega al racconto, tutto torna a nascondersi, a farsi segreto, a stabilire ben diversi rapporti tra forme sociali e forme espressive. Ci vuole, allora, un notevole rafforzamento del bagaglio di strumenti offerto dalla definizione di «azione letteraria» in quanto personale e soggettiva. Se prima abbiamo visto funzionare i rapporti che dal soggetto spingono verso il collettivo o dal collettivo premono verso l’individuale, ora bisogna lavorare su altri vettori, meno deterministici, meno psicologici. Bisogna pensare a ciò che tali vettori attraversano, anzi a ciò che rende possibili questi movimenti tra esperienza e società.
Nel gioco tra personalità e socializzazione ” si chiudono le indagini che la sociologia può compiere sull’apparato di produzione e su quello di consumo del fatto letterario in ordine a sostanze dell’azione sociale quali l'ideologia, l’autorità, il controllo, il consenso, la dialettica movimenti-istituzioni, l’interagire tra classi, ceti e gruppi, i dispositivi come la famiglia, la composizione del pubblico, i modelli del comportamento, i bisogni, i consumi, le mode °. Sono indagini utili. Si spingono sino a consentire di valutare il significato sociale delle tecniche di volta in volta e di luogo in luogo usate dalla letteratura. Ma poggiando sui concetti di socializzazione e di mutamento sociale o meglio di modernizzazione, cosî come su quelli ancor più formalizzati di industrializzazione o di divisione o conflitto sociale, non si riesce ad andare oltre le correlazioni possibili. Se queste correlazioni sono dette nel testo oppure bisogna dirle «al posto» del testo, vuol dire che esso è comunque altrove e che è là che dobbiamo spostarci. 2 Cfr. E. RAIMONDI, Tecniche della critica letteraria cit., p. 34, in cui sulla scorta di Tocqueville si individua questo tema alla radice e nel destino dell’industrializzazione della letteratura: «A sua volta, l’uso degli astratti, cosi caratteristico dell’industrializzazione del linguaggio nella letteratura, si coniuga con una tendenza alla personificazione. Gli astratti infatti tendono tutti a personificarsi e diventano degli “individui” che prendono corpo via via nel linguaggio. Si capisce bene che non è il linguaggio della precisione, o della scienza, ma quello di un sistema di formule che consentono sempre significati diversi, in modo che il futuro — dice Tocqueville — resti aperto: e sarà poi il futuro, in molti casi, a precisare il senso aperto e polivalente di tali aggregati terminologici ». 2 Anche una analisi sociologica disinteressata al vissuto letterario ha il problema di indagare questi « mondi » al di là della loro apparenza istituzionale, della loro reificazione sociale; cfr. N. ELIAS, Famiglia, gruppo, stato, società, in « Prometeo», I (1983), 4, pp. 6-17. Si pensi agli studi sociologici sulla famiglia (ad esempio la ricerca diretta da s. s. AcquAVIVA su Mass media, famiglia e trastormazioni sociali, Firenze 1980), essi indagano su un dispositivo di cui bisogna comprendere accadimenti analoghi a quelli che motivano il legame stretto tra nucleo familiare e forme espressive come il melodramma, l’appendice, i generi di consumo, la telenovela ecc. In questo senso non meraviglia la distanza che la produzione colta, ai margini del mercato, dimostra nei confronti del vissuto quotidiano facendo più diretto riferimento alla tradizione letteraria, ai modelli in essa «abbandonati», modelli che spesso corrispondono soltanto a strati rigidi della società civile. Cfr. anche M. EVE, What is the social? On the methodological work of Norbert Elias, in «Quaderni di sociologia», XXX (1982), 1, pp. 22-48.
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Scriveva Bachtin nel ’24: La discordanza metodologica nel campo dello studio dell’arte può essere superata non mediante la creazione di un nuovo metodo, di ancora un altro metodo che partecipi alla lotta generale dei metodi, sfruttando a proprio modo la fattualità dell’arte ma soltanto mediante una fondazione filosofica sistematica del fatto e dell’originalità dell’arte nell’unità della cultura umana *.
E concludeva che lo studioso d’estetica deve diventare «geometra, fisico, anatomista, fisiologo, linguista, come deve fare, fino a un certo punto anche . ° . 25 . l'artista» °. Anche il sociologo, ma comunque l’artista: Vedere o sentire semplicemente qualcosa non significa ancora percepire la forma artistica; bisogna che ciò che è visto, sentito, pronunciato diventi l’espressione del nostro rapporto assiologico attivo, bisogna entrare da creatore in ciò che è visto, sentito, pronunciato, e cosi superare la materialità e la determinatezza extracreative della forma, la sua cosalità *. Lavorando sia sulle tecniche della creazione sia sulle determinazioni socia-
li dell’evento, o si resta ai modi in cui si porta a compimento la creazione attistica (nel nostro caso mediante la scrittura letteraria) o si resta ai modi in cui la scrittura, come materializzazione dell’opera, rimanda ad altrettante strutture materiali della società. È evidente che restano fuori le «architetture» in cui
e con cui la creazione artistica si muove ”. .3. 3 L’immaginazione sociologica.
La sociologia ha tuttavia molto da dire anche su queste architetture. Intanto ha da rivendicàre un contributo essenziale per quanto riguarda le modificazioni storiche delle strutture spazio-temporali entro le quali tali architetture possono essere corcepîte. A nostro modo di vedere vi è qui un punto di contatto assai produttivo tra pensiero marxiano e sociologia del lavoro, sociologia dei consumi. La definizione storico-teorica del mutamento quantitativoqualitativo tra lavoro concreto e lavoro astratto a partire dalla proletarizzazio2 M. BACHTIN, Problema soderzanija, materiala i formy v slovesnom chudozestvennom tvortestve (II problema del contenuto, del materiale e della forma nella creazione letteraria, 1924), in Voprosy literatury i estetiki, 1975 (trad. it. Estetica e romanzo, Totino 1979, p. 6) Dilbid+p,13. 2 [bid.,.D-53, 2 Il riferimento a queste pagine di Bachtin ci sembra oppottuno perché non sempre l’attuale pensiero semiotico o narratologico risulta altrettanto preoccupato di rintracciare le sostanze che sono dietro il materiale semantico con cui tali sostanze appaiono e circolano nel tempo e nello spazio. In altre parole: ci sembra che tutti i momenti alti della riflessione artistica abbiano riproposto il problema della differenza tra lingua e linguaggio, grammatica e simboli. Un unico asse speculativo congiunge la dialettica interiorità/esteriorità in Hegel, spiritualità/materialità nelle avanguardie, dentro/fuori nella critica «filosofica» francese; e persino l’estetica bensiana: « Fondamentale per il Bense è la distinzione fra il concetto di testo e quello di letteratura. Questo è ciò che “deve essere fatto”; quello, ciò che “viene fatto”. La letteratura possiede un carattere “ideale”, il testo un carattere “materiale”, e mentre la prima ferma uno stato della coscienza, il secondo fissa uno stato al di fuori della coscienza; cosicché, alla fine, si ha la stessa contrapposizione che sussiste sempre fra un’idea e una struttura, essendo un’idea dipendente dalla sua interpretazione e una struttura dalla sua percezione » (E. RAIMONDI, Tecniche della critica letteraria cit., p. 86).
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La questione del metodo.
ne del lavoro intellettuale (in conformità all’estendersi del modo di produzione della fabbrica su tutta la società, quindi anche sulla creazione intellettuale) ci sembra costituire la sostanza unificatrice tra opera e società. È una unificazione storica, socio-economicamente praticata e strutturata; non un’astrazione teo-
rica universalmente valida nel tempo e nello spazio. In ciascuna società industrialmente sviluppata vi è solo un momento particolare a partire dal quale il passaggio da lavoro concreto a lavoro astratto si fa generalizzato e «significativo» sia nella produzione che nel consumo ”. Ed è solo a\questo punto, nell’elevato potere di astrazione del consumo che (accanto a quei saperi, come l’antropologia culturale o la psicanalisi o la narratologia o il simbolismo, che indagano le strutture dell'immaginario nella loro dimensione mitica originaria, archetipica) possiamo trovare significante l’analisi che la sociologia va facendo delle « mitologie » dei consumi. La sociologia della moda, come generativa rispetto a quella dei consumi di massa, risulta in questo quadro un capitolo autorevole ” e ricco di risultati ermeneutici (si pensi soprattutto a Barthes) °°. Il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto non segna soltanto il trasformarsi di larghe porzioni del lavoro intellettuale singolo in lavoro collettivo, ma l’assorbimento anche del lavoro individuale dello scrittore o di quello altrettanto individuale del lettore nei ritmi di un unico lavoro sociale, generalizzato ma sofisticatamente diversificato, tecnologicamente attrezzato ma anche fortemente collegato mediante le tecnologie stesse, al corpo; e non solo quello della società (ché anzi nella sua fisiologia industriale esso si è disintegrato), ma anche a quello dell’individuo singolo, allo spazio che si definisce nei suoi stessi desideri. Il percorso hegeliano si è interamente capovolto: il discorso (i «discorsi» grazie ai quali l’immaginario si organizza in immagini sensibili, percepibili, materiali) non procede più circolarmente ed in equilibrio tra il per sé dell’opera d’arte e il per roi del consumo sociale, tra l’ir. sé e il fuori di sé. Non procede pi dal senso dell’interiorità verso e contro il senso dell’esteriorità, dall’organizzazione formale verso e contro l’organizzazione sociale. Procede invece radicalmente dal sensibile, dal materiale, verso e contro la rappresentazione artistica, che si è fatta resistente alla fragorosa irruenza dei simboli che sono direttamente operanti nella
società”.
Solo a questo punto ci sembra che la sociologia possa dare una risposta creativa alla produzione letteraria. Solo in questa determinata fase dei rappor2 Cfr. A. ABRUZZESE, Verso una sociologia del lavoro intellettuale cit. 2 Vi appaiono sin dall’inizio TH. veBLEN, The Theory of the Leisure Class, 1939 (trad. it. Torino 1964); W. SOMBART, Wirtschaft und Mode, Wiesbaden 1902. Per quanto riguarda l’Italia, si vedano alcuni riferimenti in A. ABRUZZESE, Il lusso, in 0. CALABRESE (a cura di), Italia moderna, II. 1900-1939. Dall’espansione alla seconda guerra mondiale, Milano 1983, pp. 467-89. °° Cfr. r. BARTHES, Systèrze de la Mode, 1967 (trad. it. Torino 1970). BLESI veda ad esempio il taglio che assumono indagini sui linguaggi giovanili metropolitani come quella di n. HEBDIGE, Subculture. The Meaning of Style, 1979 (trad. it. Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Genova 1983). Si veda anche l’attenzione sempre più rivolta alla mobilità delle pratiche discorsive in c. sIBONA (a cura di), Strategie di manipolazione. Semiotica, psicanalisi, antropologia, scienze delle comunicazioni, Ravenna 1981, con contributi, oltre a quello canonico di Jean Baudrillard, di Maurizio Grande, Patrizia Magli, Mario Perniola, Francesco Casetti ed altri.
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ti tra corpo e astrazioni sociali o determinazioni strutturali del sistema, infatti, la sociologia può venire in soccorso della creatività, con una legittimazione che le viene dal ron rimuovere ciò che altri saperi tendono a censurare. Crisi della razionalità”, pensiero postmoderno ”, accelerazioni tecnologiche * dischiudono alla sociologia un ruolo di emancipazione delle culture dei consumi rispetto a quelle, rigide, della produzione; delle culture del corpo rispetto a quelle «concettuali» *; delle culture di «breve periodo» rispetto a quelle istituzionali *; delle culture ritmiche rispetto a quelle armoniche o discorsive ”. Questa pregnanza sociologica non investe la lingua letteraria, almeno direttamente. Ma si cala — si genera — direttamente nell’immaginario collettivo. Riguarda, dunque, il bisogno di tradurre in linguaggi materiali questo immaginario, non riguarda direttamente i modi in cui tradurlo. Ma solo se esiste davvero la prima istanza, si profila la possibilità di governare la seconda. Solo attingendo alle mitologie diffuse del nostro tempo, si può pensare di darne una traduzione linguistica nella scrittura letteraria. Del resto, là dove la scrittura sociologica torna ad essere «specifica» e quindi distante dall’oggetto artistico, i dati raccolti dalla ricerca sociologica (indicatori sulle istituzioni, appa32 Cfr. A. GARGANI (a cura di), Crisi della ragione cit.; G. VATTIMO e P. A. ROVATTI (a cura di), Il pensiero debole, Milano 1983. 5 Cfr. J.-F. Lvorarp, La condition post-moderne cit. che rielabora una vasta bibliografia comprendente sia gli anticipatori dello scenario postindustriale, quali Alain Touraine e Daniel Bell, sia gli antesignani della svolta tecnologica rappresentata dalla telematica, ad esempio Simon Nora e Alain Minc con una forte commistione tra sapere filosofico, sociologico, artistico. Cfr. anche, sul significato dell’esperienza ameticana, l'antologia curata da P. CARRAVETTA e P. SPEDICATO, Postmzoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Milano 1984. Per lo sfondo sociologico del tema si veda infine D. DE MASI
(a cura di), L'avvento post-indusiriale, Milano
1985.
* Nel campo specifico della scrittura cfr. F. ROSITI (a cura di), Razionalità e tecnologie dell’informazione, Milano 1973; F. BARBANO, G. BARBIELLINI AMIDEI, P. COSCIA € C. MARLETTI, Nuove tecnologie: sociologia e informazione quotidiana, Milano 1982. 3 Cfr., nell’Exciclopedia einaudiana, gli articoli « Ascolto», « Corpo», «Immagine», « Immaginazione », «Immaginazione sociale». Cfr. anche A. ABRUZZESE, Fingere la metropoli, in AA.VV., Spettacolo e metropoli, Napoli 1981, pp. 71-77. 36 Cfr. F. ALBERONI, Movimento e istituzione, Bologna 1977; C. DonoLO, Mutamento o transizione? Politica e società nella crisi italiana, Bologna 1977; L. GALLINO, Effetti dissociativi dei processi associativi in una società altamente differenziata, in « Quaderni di sociologia», XXVIII (1979), 1, pp. 1-23; A. ARDIGÒ, Crisi di governabilità e mondi vitali, Bologna 1980; A. PIZZORNO, I soggetti del pluralismo. Classi, partiti, sindacati, Bologna 1980; A. MELUCCI, L'invenzione del presente, Bologna 1982.
# Per quanto ancora non ben delineato esiste un filone letterario ed uno sociologico che sin dalle prime analisi sull’emergere della civiltà metropolitana si rivolge al campo musicale piuttosto che a quello della comunicazione scritta o figurativa, individuando in questo campo un tipo di espressività particolarmente legato ai fezomzeni dell’interazione sociale. Cfr. P. PRATO, La fenomenologia della musica di Alfred Schitz, in «Rivista di estetica», n. 10 (1982), pp. 89-100. Si veda ancora Raimondi:
«Ridare al testo il suo valore attivo di enunciazione non implica soltanto di ese-
guirlo ma anche di sperimentarlo e intenderlo come un momento della prassi, il più vicino nella sua dimensione verbale al mondo del lavoro nella vita quotidiana, che è, come insegna Alfred Schùtz, l’archetipo della nostra esperienza della realtà» (E. RAIMONDI, Tecniche della critica letteraria cit., p. 142). Non si dimentichi che Schiitz è al centro della congiunzione felice tra sociologia e fenomenologia; cfr. A. scHùTz, Saggi sociologici, a cura di A. Izzo, Torino 1979. Il pensiero di Schiitz collocato tra Husserl, Weber e George Herbert Mead, viene ripreso da Peter L. Berger e Thomas Luckmann; cfr. A. ARDIGÒ, Crisi di governabilità cit.; cfr. anche P. L. BERGER e TH. LUCKMANN, The Social Construction ot Reality, 1966 (trad. it. Bologna 1983); M. MAFFESOLI, La conquéte du present, 1979 (trad. it. Roma 1983); N. LUAMANN, Macht, 1975 (trad. it. Potere e complessità sociale, Milano 1979); F. cresPI, Mediazione simbolica e società, Milano 1982; G. MORRA, Spirito europeo e sociologia comprendente, in « Selesociologia », n. 7 (1981), pp. I-XXXII. 23
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La questione del metodo
rati, movimenti, gruppi e piccoli gruppi, sulle ideologie, sulle mode, sul pubblico, sulle aspettative emergenti, sulla composizione sociale, sui conflitti, sui dispositivi di controllo, sui comportamenti, sugli «stili» di vita, sulle dinamiche di mercato, sulle manipolazioni pubblicitarie, sui modelli di governo di ciascuno di questi sistemi) possono anch'essi intervenire sulle scelte linguistiche, tecniche, specializzate, della creazione letteraria. Se la letteratura vuole continuare ad essere produzione di immaginario e non una sua piatta, statica,
rielaborazione, una sua riduzione, allora torna utile la tendenziale volontà di verificare i dati materiali su cui operare, volontà che la sociologia esprime in tecniche specializzate (con un vasto apporto delle scienze statistiche e degli elaboratori elettronici). Se la letteratura intende rientrare nel conflitto tra i diversi immaginari sociali che regolamentano e producono lo sviluppo di un sistema, allora il ricorso ad una selezione mirata dei materiali a disposizione (quali forme di lavoro intellettuale, quali tecnologie produttive, quali contesti di riferimento, quali strategie territoriali, quali bisogni, ecc.) si fa necessaria. L’anello spezzato tra creazione artistica, tecniche espressive della scrittura e immaginazione sociale si può allora ricomporre, assegnando alle operazioni dell’attività letteraria, ai dispositivi di cui si serve; una necessità che corrisponde a quella sociale.
ALBERTO ASOR ROSA Il marxismo e la critica letteraria
It.
Premessa.
Fra i molti metodi, generali e particolari, applicati ai problemi della teoria e della critica letteraria, quello marxista presenta indubbiamente una sua inconfondibile peculiarità. Esso è l’unico, infatti, che si è proposto esplicitamente d’inscrivere l’analisi e la valutazione critica e storiografica del testo letterario entro un orizzonte di trasformazione generale del mondo. In questa visione — che, beninteso, rappresenta a sua volta una delle tante interpretazioni possibili del marxismo stesso — il marxismo è, per dirla con le parole di uno dei massimi rappresentanti di tale tendenza, una «filosofia della storia», la quale, come «dottrina generale», «insegna quale via abbia percorsa l’umanità dal comunismo primitivo fino ad oggi e quale sia la prospettiva dell’evoluzione che ancora ci attende» '. Tra gli obiettivi che il critico letterario di orientamento marxista si è posto (sia pure in misura diversa e con differenti accentuazioni a seconda dei casi), c'è sempre stato il convincimento di poter operare, con gli strumenti specifici della propria professione, in accordo con una battaglia più complessiva di ordine non solo ideologico ma politico e sociale. La diffusione e la sistematizzazione delle procedure marxiste nel campo delle teorie e metodologie letterarie sono, dunque, andate di pari passo con la prevalenza crescente di una visione del marxismo come «concezione generale del mondo», chiave interpretativa universale, Nuova Scienza destinata, esattamente, a metter fine alle aporie e alle contraddizioni delle scienze borghesi precedenti e ad illuminare l’ascesa e l’infallibile trionfo finale della classe liberatrice per eccellenza: la classe operaia. Un elemento escatologico è presente fin dall’inizio in una posizione come questa. Ma esso non si potrebbe apprezzare e valutare giustamente, senza tener conto che questa «filosofia della storia», ben lungi dall’essere il prodotto meramente artificiale della mente di un piccolo gruppo di teorici, rifletteva e cercava a modo suo d’interpretare conflitti e lacerazioni reali, e processi rivoluzionari di portata mondiale. Anche la critica letteraria marxista, come, pit in generale, il marxismo, non s’accontentava di conoscere il mondo, voleva cambiarlo. La critica letteraria mar-
xista è una critica che sposa, nel senso letterale del termine, il senso e la direzione della critica marxista alla società borghese (sia pure in uno spazio de1 g. LuKAcs, Introduzione (1945) a Saggi sul realismo, Torino 19763, p. 12.
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La questione del metodo:
terminato di formazione e utilizzo degli strumenti di predominio ideologico e culturale della società borghese); si sente ed è parte di un tutto; è critica, sempre ed eminentemente, militante; è animata da pathos critico-rivoluzionario. Per quanto sia difficile oggi persino ricostruire il clima, dentro il quale una simile milizia teorico-critica fu possibile e a lungo praticata, bisogna fare uno sforzo per richiamare la complessità dei nessi sui quali l’intera esperienza si è fondata. In caso contrario, se ne ricaverebbe necessariamente una visione molto povera e riduttiva, e comunque infedele. È 2.
Tempie
occasioni della formazione di una critica letteraria marxista.
Abbiamo scritto che l’estensione alla critica letteraria di criteri e principî d’otigine marxista è connessa storicamente con un’interpretazione determina-
ta del marxismo stesso (quella appunto che tendeva a studiarlo e ad applicarlo come, contemporaneamente, una «concezione generale del mondo» e una «metodologia generale» dei fenomeni storico-sociali, e anche, in talune versioni, naturali). Aggiungiamo ora che tale estensione si verifica non immediatamente, agli albori stessi della teoria marxista, ma in una fase molto successiva, in pratica soprattutto dopo la prima guerra mondiale, e in stretta connessione, appunto, con il dibattito intorno a quella particolare visione della dottrina, che si disse allora del «marxismo ortodosso» *. In sostanza — anche se non è possibile qui richiamare se non le linee essenziali del problema — la ri-formulazione del marxismo come «concezione generale del mondo», catatteristica in Europa degli anni ’20 e poi, con sicurezza e oltranza ancora maggiori, degli anni ’30 e ’40, muove dall’esigenza di superare sia le posizioni del « revisionismo teorico», che erano state alla base delle esperienze delle socialdemocrazie nei decenni precedenti, sia le incrostazioni positivistiche ed evoluzionistiche, che si erano depositate, nel corso di tali esperienze, sulla sostanza autentica del marxismo. Non c’è insomma — ef pour cause — una teoria della letteratura e della critica letteraria nei testi dei padri fondatori del marxismo; essa è stata ricavata 4 posteriori mediante l’estrapolazione di brani direttamente o indirettamente significativi da tali testi (non a caso, la «forma» che tale operazione di risistemazione teorica assunse fu in varie occasioni quella dell’«antologia» di brani scelti con il criterio di fornire o i fondamenti della dottrina o taluni esempi concreti di una sua possibile applicazione) ”; e que1 m., Was ist orthodoxer Marxismus? (Che cosa è il marxismo ortodosso?, 1919), in Geschichte und Klassenbewusstsein, 1923 (trad. it. Storia e coscienza di classe, Milano 1967, pp. 1-33). Anche W. Benjamin, qualche anno pit tardi, rivendicava l’esigenza della diffusione del cosiddetto «marxismo ortodosso» nella recensione a un libro pedagogico di Edwin Hoernle: «In Germania oltre alla letteratura politica ed economica non c’è una letteratura marxista ortodossa. È questa la principale causa della sbalorditiva ignoranza degli intellettuali — quelli dî sinistra compresi — nelle cose marxiste» (W. BENJAMIN, Eine kommunistische Pidagogik (Una pedagogia comunista, 1929), in Gesammelte Schriften, III. Kritiken und Rezensionen, 1972; trad. it. Critiche e recensioni, To-
rino 1979, DP. 137-38). S di la nota bibliografica in 6. BoRGHELLO (a cura di), Letteratura e marxismo, Bologna 1974, pp. 216-17.
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sta estrapolazione è stata operata a sua volta in un contesto più complessivo, all’interno del quale il marxismo per intero veniva elevato a sistema. In altri termini, se si tengono d’occhio le date e le occasioni, non dovrebbe sfuggire il nesso che passa tra il manifestarsi di questi fenomeni e la comparsa sulla scena del mondo di un avvenimento epocale come la rivoluzione d’ottobre (anche, probabilmente, con qualche relazione tra questi mutamenti culturali e ideologici e l’affermazione, in campo marxista, del leninismo). Prima della prima guerra mondiale, il marxismo non ha nella critica letteraria manifestazioni altrettanto sistematiche e consistenti (e quelle che ci sono risultano per giunta intrecciate, come vedremo brevemente più avanti, con gli influssi di altre correnti e tendenze metodologiche e teoriche). Soltanto in seguito tale movimento si sistematizza ed ambisce a una rigorosa individuazione e precisazione dei principî. Salvo qualche rarissima eccezione, il marxismo nella critica letteraria è sempre l’espressione di un marxismo di sinistra, antirevisionistico e antisocialdemocratico, rivoluzionario oppure, se non precisamente rivoluzionario in senso politico, orientato con forza nel senso di una messa in discussione, di una contestazione della società capitalistico-borghese. Le differenze, destinate a manifestarsi tra le varie posizioni marxiste, saranno molte, ma su questo punto non vi è sostanzialmente disaccordo: bisogna recuperare la sostanza autentica del marxismo come ideologia dialettico-rivoluzionaria e come concezione della «totalità» del processo storico (che è, appunto, l’essenza del cosiddetto marxismo ortodosso); fra lotta delle classi e apparati ideologici (fra i quali si collocano, e non potrebbero non collocarsi, la letteratura e la critica letteraria) esiste un nesso strettissimo. é
3.
I testi dei «classici», ovvero le fonti della dottrina.
Poste queste premesse, si capisce che l’analisi delle posizioni dei primi teorici del marxismo — Karl Marx e Friedrich Engels — potrebbe esser condotta contemporaneamente in due direzioni: quella consistente nel cercare di capire ciò che essi hanno veramente detto; e quella consistente nel cercare di capire ciò che i loro interpreti pensavano che essi avessero veramente detto. Rinunziamo a battere la prima strada, se non, qua e là, per brevi cenni critici: essa ci porterebbe troppo lontano dal punto di partenza di questo nostro discorso, che vuol essere un tentativo d’interpretazione storica di una fenomenologia critica, cosî come essa si è realmente manifestata nel tempo. Nell’imboccare la seconda, desideriamo però tornare a precisare che la sua determinatezza è fondata ab origine da una serie di scelte interpretative motivate in maniera precisa da un certo modo di leggere i classici del marxismo. Senza questo «modo», nessuna determinatezza e, di conseguenza, nessuna fondazione: la critica letteraria marxista nasce esattamente nel momento in cui (e nella misura in cui) si legge il marxismo come un sistema. I testi di Marx e di Engels, ai quali si fa riferimento per questa opera di fondazione, sono di due tipi. I primi appartengono a quelle formulazioni
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La questione del metodo
teoriche generali, sparse nelle loro opere, che, senza avere alcuna specificità di discorso letterario, indicano in maniera concisa ed essenziale alcuni fondamenti della dottrina: potrebbero servire, ed in effetti sono serviti, a giustificare l'estensione del marxismo ad una quantità di altri campi disciplinari, da quello giuridico a quello artistico, da quello etico a quello economico. I secondi sono giudizi di carattere letterario diretto: episodici, generalmente, nell’opera dei due autori — si trovano, infatti, soprattutto in lettere, confessioni private, ecc. —, furono pronunziati all’origine senza nessuna pretesa di caricarli di un particolare valore al di là di quello, privato, di una confessione personale di gusti e vennero poi, dagli interpreti, collocati in un quadro coerente ed organico di motivi e di spunti. S’intende che la stessa scelta del primo tipo di testi corrisponde a una precisa logica selettiva: a parte quelle opere o quegli scritti di Marx, che non avrebbero potuto esser citati perché, al momento di cui parliamo, poco noti o del tutto inediti, come i giovanili Okororisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844 (Manoscritti economico-filosofici del 1844) o gli straordinari Grundrisse der Kritik der politischen Okonomie (Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica, 1857-58), all’interno del corpus marxiano vengono puntualmente privilegiati quei testi, nei quali il pensatore tedesco tenta, il più delle volte, di far emergere e mettere in chiaro la metodologia sottesa alla sua analisi del problema economico contemporaneo oppure, nello sforzo di controbattere le posizioni degli avversari anche all’interno del movimento operaio, egli procede ad una sistemazione pit esplicita e ordinata della propria stessa teoria. Non, perciò, Das Kapital (Il capitale), con la sua formidabile struttura logica ed epistemologica sottesa all’analisi dei fenomeni economici concreti, costituisce il punto di riferimento più utilizzato da questi marxisti ortodossi (i quali, se mai, nella loro ortodossia, mostrano una sorprendente mancanza d’interessi proprio pet il discorso matxiano del Kapital); bensi opere come Die deutsche Ideologie (L’ideologia tedesca), scritta in collaborazione con Engels verso il 1845, e restata inedita anch'essa fino all’inizio degli anni ’30) e soprattutto come Zur Kritik der politischen Okonomzie (Per la critica dell'economia politica), apparsa nel 1859, di cui è particolarmente notevole la Prefazione, e la Einleitung zur Kritik der politischen Òkonomie (Introduzione a «Per la critica dell'economia politica»), pubblicata postuma da Karl Kautsky nel 1903. Sono questi i testi fondamentali del discorso teorico marxista sulla critica e sulla teoria letteraria. In particolare, alcune pagine della Prefazione suddetta (che, non a caso, figurano in testa a pressoché tutte le scelte antologiche di testi marziani, alle quali abbiamo in precedenza accennato). Marx descrive il percorso da lui compiuto per arrivare, dalla giovinezza, a queste formulazioni teoriche della maturità. È estremamente importante (e forse di conseguenza non a sufficienza notato) che egli ci tenga a indicare un filo rosso che, partendo da Zur Kritik der hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione) apparsa nel 1844 sui « Deutsch-Fran-
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zésische Jahrbiicher» ', passa per la compilazione della Deutsche Ideologie in collaborazione con Engels nel 1845 a Bruxelles”, per arrivare fino alla Misère de la philosophie, scritto contro Proudhon del 1847, e alla dissertazione Lobnarbeit und Kapital (Lavoro salariato e capitale), uscita nel 1849. L’insieme di queste ricerche portò Marx (per dirla con le sue parole) «alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spitito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza, il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo xvIII, sotto il termine di “società civile”; e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica» ’. Forse si potrebbe osservare che la bella formulazione «l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica» non sta a significare, puramente e semplicemente, e soprattutto meccanicamente, che la «società civile» è determinata dalle leggi economiche (anche perché nel linguaggio marxiano il concetto di «economia politica» è assai più complesso di quello di «produzione economica»); ma, piuttosto, che nell’economia politica son da
cercare gli arcani della «società civile», e insieme la chiave capace d’inter-
pretarne e chiarirne la struttura. Non v’è dubbio, però, che l’interpretazione più divulgata e diffusa di proposizioni come queste fu l’altra, quella che insisteva sulla «determinazione» delle forme di coscienza da parte delle forme materiali della produzione, anche perché, proseguendo il suo discorso, Marx si esprimeva in maniera tale da lasciare adito, indubbiamente, a una lettura di questo genere: Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza‘.
È evidente che la stessa distinzione fra «struttura» e «sovrastruttura», assolutamente fondamentale per cogliere l’essenza del metodo marxista nella trattazione dei fenomeni storico-sociali e storico-culturali, potrebbe essere inte1 Cfr. c. M. BRAVO (a cura di), Annali franco-tedeschi di Arnold Ruge e Karl Marx, Milano
1965, DD. 125-45.
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è Cfr. K. MARX e F. ENGELS, Die deutsche Ideologie, 1845-46 (trad. it. L'ideologia tedesca, Roma 1958). 3 x. MARX, Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859 (trad. it. Per la critica dell’economia politica, Roma 1969, p. 4). 4* Ibid., p. 5.
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La questione del metodo
sa in più modi:
torneremo più avanti su questo punto, ma si pensi intanto
all'importanza dell’introduzione di un concetto come questo matxiano di «struttura», rispetto all'evoluzione delle «scienze umane» nell’ambito della cultura europea dalla metà dell'Ottocento fino ai nostri giorni. Anche in questo caso, però, prevale nelle interpretazioni la versione deterministica, cosî come risulta, del resto, da tutto un filone del pensiero marx-engelsiano, che forse ha nella Deutsche Ideologie la sua propria Bibbia: La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata alla attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, cosf come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico’.
E, per finire, quasi con le stesse parole di Zur Kritik der politischen Okonomie: «Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la
coscienza » ‘.
Di questo insieme di formulazioni ci limiteremo per ora a segnalare l’insistenza con cui i due giovani teorici mettono al centro della loro attenzione, più che il processo di «produzione economica» strettamente considerato, l’esistenza di «uomini reali, operanti», di «individui determinati», contrapposti alle sistemazioni puramente astratte della filosofia (e non solo di quella idealistica, se le formulazioni citate vanno lette nel contesto della critica da essi mossa a un maestro del materialismo filosofico, astratto, come Ludwig Feuerbach). La «coscienza», in questa visione, coincide con l’«essere cosciente», e «l’essere degli uomini» con «il processo reale della loro vita»: non direi che, in questo senso, tali formulazioni possano essere tacciate di banale determinismo o tanto meno di economicismo. Il senso inequivoco di esse potrebbe essere rintracciato, probabilmente, in una lettura attenta della giovanile critica marxiana al concetto hegeliano di un’«essenza umana» separata dal concreto rapporto di proprietà privata e dal concreto collocarsi dell’uomo determinato rispetto al lavoro”. Su questo punto torneremo più avanti. ua MARX e F. ENGELS, Die deutsche Ideologie cit., trad. it. pp. 22-23. 6 Ibid., p. 23. «Gre soprattutto i manoscritti [I/ lavoro alienato] (1844) e [Il rapporto della proprietà privata] (1844), in K. MARX, Opere filosofiche giovanili, Roma 1950, PD. 224-37 € 24I-47.
Asor Rosa
4.
Il marxismo e la critica letteraria
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Le preferenze letterarie del signor Marx e del signor Engels.
Senza ricorrere a particolari forzature, non è difficile stabilire delle relazioni tra queste posizioni teoriche e le singole preferenze letterarie e di gusto che Marx ed Engels, come due tranquilli intellettuali europei radicali della metà del secolo scorso, si scambiavano fra loro e con i loro corrispondenti. In un celebre brano dei ricordi di Paul Lafargue su Marx, si elencano i maestri ai quali egli era stato piri legato: Heine e Goethe, Eschilo e Shakespeare, Dante e Burns, Fielding e Scott, Cervantes e Balzac'!. Al contrario, Chateaubriand viene giudicato ripugnante ’,e Schiller costantemente posposto a Shakespeare *. Per quanto si tratti spesso di riferimenti solo episodici non v’è dubbio che una linea ne emerga: quella ispirata ad un solido gusto realista, che ama quegli autori e quelle opere in cui il riferimento, anche conoscitivo, a una determinata realtà politico-sociale è più diretto, e meno forti le intermediazioni idealistiche, molto presenti anch’esse nella cultura romantica europea. Poeti come Novalis e Holderlin, ad esempio, anche quando avessero nutrito simpatie rivoluzionarie, sono significativamente assenti.
Ad Engels invece si debbono anche in questo caso — come spesso accade all’interno del binomio Marx-Engels — tentativi di sistemazione più compiuti ed ambiziosi (ed anche, assai spesso, più schematici). In una famosa lettera ad una giovane autrice, Margaret Harkness, che gli aveva inviato il suo romanzo City Girl, Engels, pur apprezzando l’opera, le rimprovera di aver rappresentato la classe operaia inglese come una «massa passiva», mentre essa ha già manifestato capacità di ribellione e di lotta, che meritano anch'esse d’esser rappresentate‘.Non perciò, tuttavia, Engels rimprovera la Harkness di non aver scritto un «romanzo di tendenza» (concetto molto importante anch’esso, che, dalla pubblicistica tedesca di orientamento democratico-rivoluzionario, passerà a quella socialista e poi a quella comunista). Il fatto è che, scrive Engels, «realismo significa, secondo il mio modo di vedere, a parte la fedeltà nei particolari, riproduzione fedele di caratteri tipici in circostanze tipiche» °. Si tratta, com'è facile capire, di una formulazione estremamente importante: essa, infatti, introduce quel concetto di «tipicità», che è, sul pia1 Cfr. P. LAFARGUE, [Marx e la letteratura], in k. MARX e F. ENGELS, Uber Kunst und Literatur, 1948 (trad. it. Sull’arte e la letteratura, prefazione di V. Gerratana, Milano 1954, Appendice. Dai ricordi su Karl Marx, pp. 95-99). ? K. MARX, Lettera a Engels del 30 novembre 1873, ibid., pp. 93-94. 5 In una lettera a Lassalle del 19 aprile 1859: « Avresti... ovviamente dovuto shakespeareggiare di più mentre l’errore più grave di cui ti faccio carico è lo schillereggiare e cioè il trasformare gli individui in semplici portavoci dello spirito dell’epoca» (in K. MARX e F. ENGELS, Scritti sull’arte, a cura e con un'introduzione di C. Salinari, Bari 1967, p. 167). Osservazioni pressoché equivalenti, che rivelano l’esistenza di uno scambio d’idee assai profondo tra i due amici, in una lettera di Engels a Lassalle del 18 maggio 1859: «La zzî4 concezione del dramma... sta nel non dimenticare il reale per l’ideale, Shakespeare per Schiller» (ibid., p. 174). Un’esposizione sistematica delle preferenze letterarie di Marx nel corso della sua vita si può trovare in s. s. PRAWER, Karl Marx and World Literature, Oxford 1976 (trad. it. La biblioteca di Marx, Milano 1978). 4 Cfr. K. MARX e F. ENGELS, Scritti sull’arte cit., pp. 159-63. 5 Ibid., p. 160.
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no della rappresentazione artistica, l'equivalente di un’autentica conoscenza dialettica sul piano scientifico ed epistemologico più generale. In base ad un ragionamento di questo genere si giustifica il fatto apparentemente inspiegabile e contraddittorio, per cui a uno scrittore di convincimenti legittimisti e reazionari come Balzac si deve la massima affermazione del realismo nella prima metà del secolo x1x. Infatti, aggiunge Engels, «il realismo di cui io parlo può manifestarsi anche a dispetto delle idee dell’autore »°: la forza della rappresentazione artistica, infatti, quando, oltre ad esser grande, è anche onesta e disinteressata, supera gli ostacoli frapposti da un’ideologia sbagliata. È, né più né meno, una critica che si fonda sul principio del «nonostante»; e, per quanto essa introduca nel «modo di pensare» del critico letterario marxista un’aporia difficilmente sormontabile anche in futuro (in qual modo, infatti, l’«essere cosciente» dello scrittore potrebbe tollerare una contraddizione cosî stridente tra mondo artistico, immaginativo, e mondo ideologico?), essa serve ad Engels, e servi poi a molti critici marxisti, ad evitare un
disastroso appiattimento del giudizio critico sull’apprezzamento dell’ideologia dell’autore, appiattimento che resta comunque il pericolo latente di una posizione cosiffatta: i Che... Balzac sia stato costretto ad agire contro le simpatie di classe e i pregiudizi politici a lui propri, che abbia visto la necessità del tramonto dei suoi diletti nobili e li descriva come uomini che non meritavano alcuna sorte migliore; e che abbia visto i veri uomini dell’avvenire dove a quell’epoca, solamente, era dato trovarli; tutto questo io considero come uno dei maggiori trionfi del realismo e come uno dei tratti più grandiosi del vecchio Balzac”.
Nell’ultima parte della sua vita (del resto, anche la lettera alla Harkness è dell’’88), Engels si assunse spesso il compito, com’è noto, d’interprete e guardiano dell’ortodossia della dottrina e al tempo stesso si preoccupò che essa non si irrigidisse in applicazioni troppo schematiche, anche in conseguenza dell’influsso esercitato dalle correnti positivistiche ed evoluzionistiche. In una lettera a Conrad Schmidt del 5 agosto 1890 egli afferma: «Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che în ultimza istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’urico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda»".Questo concetto di «in ultima istanza» ritorna spesso ed ha anch’esso, come si può capire, un valore fondativo per gli sviluppi successivi della critica letteraria d'orientamento marxista, in quanto restituisce alla sovrastruttura quella che spesso sarà definita una «relativa autonomia»: «L’evoluzione politica, giuridica, filosofica, religiosa, letteraria, artistica, ecc., riposa sulla evoluzione economica. Ma esse reagiscono tutte, tanto l’una sul6 Ibid., p.161. 7 Ibid., p. 162. 8 Ibid., p. 63.
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l’altra, quanto sulla base economica. Non è che la situazione economica sia la sola causa attiva, e che tutto il resto non sia che effetto passivo. Esiste, al contrario, azione reciproca, sulla base della necessità economica, che în ultima istanza s'impone sempre» ?. Questa legge dell’«in ultima istanza» si combina all’interno della stessa metodologia di lettura, con un’altra legge assai importante, quella dei «lunghi periodi», anch’essa chiamata in causa per attenuare gli effetti di un rapporto eccessivamente diretto e deterministico fra struttura e sovrastruttura: «Quanto più il campo che noi indaghiamo si allontana da quello economico e si avvicina al campo ideologico puramente astratto, tanto più troveremo che esso nel suo sviluppo rivela elementi accidentali, tanto più la sua curva procede a zig-zag. Ma se lei traccerà l’asse mediano della curva, troverà che quanto più lungo è il periodo considerato e quanto più grande il campo trattato, tanto più questo asse corre in maniera approssimativamente parallela all’asse dello sviluppo economico» ”. Non è proprio un escamotage, ma un po’ gli assomiglia: infatti, sebbene la soluzione sia ingegnosa — si deve immaginare in concreto che quando le due assi si avvicinano molto, e ciò accade ovviamente nel «breve periodo», quella economica non basti più a spiegare imzzediatamente quella sovrastrutturale —, non ci fa capire molto del «meccanismo» che, effettivamente, mette in moto il processo di produzione artistica: il «nonostante» resta sospeso anche questa volta come questione irrisolta sul funzionamento concreto del rapporto struttura-sovrastruttura.
5.
Le principali linee di tendenza. CÀ
Tirando le somme di questa rapida rassegna di testi dei classici del matxismo, si può dire che essa consente d’individuare le principali tendenze lungo le quali i prosecutori svilupperanno la loro ricerca. È evidente, ad esempio, che il materialismo storico teorizzato da Zur Kritik der politischen Okonomie apre le porte contemporaneamente a due possibili opzioni: una vera e propria sociologia della letteratura, all’interno della quale i rapporti fra produzione letteraria e società saranno misurati di volta in volta con il metro del conflitto di classe o con quello, più raffinato, del discorso marxiano sulla merce e sul valore; e un tentativo di storicisrzo integrale, all’interno del quale tutti i diversi fattori dello sviluppo storico vengono visti ed esaminati nelle loro reciproche influenze e interazioni. «Sociologia della letteratura» e «storicismo integrale» rappresentano effettivamente due delle forme che, più frequentemente, hanno contraddistinto lo spirito e le tematiche della critica letteraria d’orientamento marxista (anche se sarebbe difficile ridurre l’esperienza della critica letteraria marxista ad una qualsiasi forma di sociologia della letteratura, per le ragioni che siamo venuti via via accennando). Ambedue queste opzioni hanno qualcosa a che fare — e non potrebbe es? Ibid., p. 69. 10 Ibid., pp. 69-70.
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sere diversamente, del resto — con quell’altra importante caratterizzazione, che il marxismo ha voluto dare cosî spesso di sé, come di una forma di rinnovato e più compiuto uzzazesizzo. Il recupero della più autentica e profonda sostanza umana dell’uomo, connesso con la lotta di liberazione del proletariato da una società fondata sulle classi, trova una sua puntuale verifica all’interno dei processi letterari ed artistici, che di quella lotta costituiscono un esempio altamente significativo. Si tratta dunque — questo dovrebbe esser chiaro — di una sociologia della letteratura e di uno storicismo integrale non neutri, non riducibili a meri apparati di conoscenza: la «lotta di tendenza» si verifica anche su questi terreni apparentemente distaccati, e la forza della «critica» non sta solo nel «conoscere», ma anche nel cogliere e nell’esprimere la «direzione» del processo storico (anche perché conoscere veramente non si può, se non vi si coglie la direzione già in atto, che modella e trasforma la materia). Un altro importantissimo problema, che scaturisce da una considerazione sistematica degli spunti teorici offerti dai classici del marxismo, è se sia possibile oppure no fondare una vera e propria «estetica marxista». La risposta, generalmente positiva, aggiunge un ulteriore elemento di problematicità al quadro finora tracciato. Non solo, infatti, i critici letterari marxisti dovevano fare i conti con la molteplicità delle questioni teoriche, che la dottrina, generalmente considerata, poneva loro; ma dovevano anche confrontarsi con una dimensione non solo metodologica ma estetologica e dunque filosofica, che, mentre arricchiva lo spazio della riflessione, tendeva a irrigidirne le categorie e i concetti fondamentali. L’identificazione di un’estetica del marxismo con un’«estetica del realismo» contribuirà a complicare ulteriormente le cose, come dimostra la storia dei rapporti conflittuali tra LukAcs e Brecht. Anche qui c’è un tratto peculiare della posizione marxista nel campo della riflessione letteraria: non sono molti i metodi critico-letterari del Novecento ad aver dietro di sé un’estetica, e ancor meno quelli che possono presumere d’abbracciare un campo cost vasto di relazioni ideologiche e culturali. Se le cose stanno cosî, non dovrebbe esser difficile individuare un sistema di relazioni e di parentele, che consenta anche di capire dove si collocano le zone di affinità e di sovrapposizione del marxismo critico-letterario con altre tendenze culturali europee contemporanee. Il marxismo nella critica letteraria occupa uno spazio che sta fra il positivismo scientista ed evoluzionista del secondo Ottocento e la grande eredità hegeliana, che percorre come un fiume sotterraneo tutta la storia della cultura europea dagli inizi del secolo XIX fino ai nostri giorni. E tra questi due grandi vicini, che, in forme molto diverse, ovviamente, tuttavia rispondono a un’analoga esigenza di totalizzazione socio-culturale, il marxismo oscilla, finendo spesso per confondersi o sovrapporsi o contaminarsi con uno dei due. In concreto, infatti, il marxismo nella critica letteraria ha spesso identificato il proprio discorso con quel. lo del sociologismo volgare: negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, è questo il fenomeno prevalente. Ma in altri casi è pre-
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valsa l’identificazione opposta: spesso è stato sufficiente che uno storicismo idealistico accettasse di assumere qualche elemento di attenzione sociologica per potersi definire marxista (in questo consiste praticamente quasi tutta la vicenda del marxismo nella critica letteraria italiana nel secondo dopoguerra). Diciamo subito che, in questo profilo schematico e necessariamente parziale, noi ci occuperemo soltanto di quelle posizioni che abbiano affrontato in maniera non episodica e compromissoria il problema dei rapporti con il marxismo.
6.
Tipicità e realismo: l’insegnamento di Gyòrgy Lukdes.
Mi sembra evidente da quanto finora abbiamo detto che, tra i problemi posti alla critica e alla teoria letteraria dalla riflessione marxista, uno spicca su tutti gli altri per importanza e decisività: quello dei rapporti fra struttura e sovrastruttura. Molte delle distinzioni sopravvenute da un certo momento in poi tra le diverse componenti della critica letteraria marxista derivano dai modi diversi con i quali tale problema è stato via via risolto, pur restando indiscusso il principio fondamentale, senza il quale sarebbe vano parlare di critica letteraria marxista, per cui fra struttura e sovrastruttura esiste necessariamente un rapporto e «in ultima istanza» i mutamenti della struttura risultano decisivi anche per i mutamenti della sovrastruttura. Ora, questo problema, pur essendo risolto in modo peculiare e inconfondibile dal marxismo, percorre tutto l’arco di storia culturale europea che va dalla metà del secolo xrx agli anni ‘20-30 del xx: mutatis mutandis, esso è presente anche nelle diverse forme di darwinismo sociale e nello stesso idealismo dialettico di Hegel (sicché una posizione come quella di Plechanov si giustifica in campo marxista essenzialmente come manifestazione dell’esigenza di conciliare le suggestioni dello scientismo contemporaneo con quelle del materialismo storico, e queste con quelle, sopravviventi, del ruolo attribuito alla soggettività nella storia '). Però, per altri versi, anche le filosofie dell’«esperienza vissuta» e la stessa esperienza della sociologia weberiana, cosî attenta alla presenza dei valori nella determinazione dei comportamenti umani, si ponevano il problema di spiegare i fenomeni culturali come una manifestazione del sociale, senza ricadere in forme opposte ed estreme di soggettivismo e di oggettivismo deterministico. La storia, complessa e articolata, di un pensatore come Gyòrgy Luké4cs può essere presa a modello di un percorso che tiene ben presenti i problemi sopra accennati. Maturato all’ombra di teorici e saggisti quali Simmel e Weber (ma l’influenza probabilmente decisiva negli anni giovanili fu quella di Dilthey), il giovane Luk4cs, nei saggi raccolti nel volume Die Seele und die 1 Cfr. c. v. PLECHANOV, Scritti di estetica, a cura e con un saggio introduttivo di G. Pacini, Roma 1972. Un autore fortemente legato alle impostazioni plechanoviane, e pure passato più avanti al
campo bolscevico, è Anatolij Lunadarskij, di cui si veda La rivoluzione proletaria e la cultura borghese, Milano 1972.
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Formen (L'anima e le forme, 1911), si propone il compito d’indagare da diverse angolazioni il problema dell’arte borghese nella fase suprema della sua affermazione e della sua «decadenza»: essa gli appare contraddistinta dall’anelito e insieme dall’impossibilità di far coincidere l'assoluto dello spirito con le manifestazioni concrete della produzione letteraria ed artistica. Questo anelito, e questa impossibilità, segnano ogni momento di questa lunga e faticosa vicenda, che consiste nel far uscire comunque dal caos spirituale un'immagine «formata»: Kierkegaard è l'emblema pit significativo di questo percorso‘. Già nella Theorie des Romans (Teoria del romanzo, scritta fra il ’14 e il °15, e pubblicata in volume nel ’20) sono visibili i segni d’un forte mutamento di prospettiva. Anche quest'opera appare fondata sulla «nostalgia» d’un tempo lontano, in cui tra l’assoluto dello spirito e le forme concrete,
materiali, del suo manifestarsi non esisteva contraddizione ma accordo. Giu-
stamente celebre è l’«attacco» del libro:
Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore delle stelle rischiara. Ogni cosa gli è nuova e tuttavia familiare, ignota come l’avventura e insieme certezza inalienabile. Il mondo è sconfinato e in pari tempo come la propria casa, perché il fuoco che arde nell’anima partecipa dell’essenza delle stelle: come la luce del fuoco, cosî il mondo è nettamente separato dall’io, epperò mai si fanno per sempre estranei l’uno all’altro. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce e nella luce si avvolge ogni fuoco. Cosî ogni atto dell’anima riceve un senso e giunge al compimento entro questa duplicità: esso è compiuto nel senso e compiuto per i sensi, è perfetto perché l’anima riposa in se stessa mentre muove all’azione; è perfetto, ancora, perché il suo agire si stacca da essa e, fattosi autonomo, perviene al proprio centro e si iscrive in un suo conchiuso ambito 3.
La stagione di questa felice identità fra «essere» e «forma» è la grande epica classica. Questa stagione è definitivamente tramontata dal momento in cui tra l’«essere» e la «forma» l’uomo ha insinuato l’elemento corrosivo e demolitore della riflessione. La «filosofia» è la forma specifica, che assume questa scissione: scissione fra «interno» ed «esterno», «io» e «mondo», «anima» e «azione». E però, questa che potrebbe ancora essere la conclusione di Die Seele und die Formen, della Theorie des Romans rappresenta soltanto il prologo, il semplice presupposto. Il resto del libro, dalla seconda pagina in poi, costituisce infatti un tentativo di dimostrare come il romanzo moderno, da Cervantes a Goethe a Tolstoj, rappresenti un’impresa volta non certo a sanare quella scissione — ciò che è per definizione impossibile — ma a rappre? Cfr. e. LugAcs, Das Zerschellen der Form am Leben: Sòren Kierkegaard und Regine Olsen (Quando la forma si frange sugli scogli dell’esistenza: Sòren Kierkergaard e Regina Olsen, 1909), in Die Seele und die Formen, x9x1 (trad. it. L'anima e le forme, Milano 1963, pp. 67-93). Per il punto di vista qui esposto, cfr. A. ASOR ROSA, L’anima, le forme (1968), in Intellettuali e classe operaia, Firenze 1973, PP. 271-314. Sulle medesime questioni, e pi in generale sull’opera e le problematiche di G. Lukdcs, cfr. ora c. cases, Su Lukdcs. Vicende di un’interpret azione, Tortino 1985. 3 6. LuKAcs, Die Theorie des Romans, 1920 (trad. it. Teoria del romanzo. Saggio storico-filosofico sulle forme della grande epica, introduzione di A. Asor Rosa, Roma 1972, p. 35).
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sentarla, a comprenderla entro la totalità (per quanto illusoria, immaginaria) di una rappresentazione artistica. Questo percorso è suggestivamente accennato anche dalla successione delle parti del discorso interne al libro, dove ad un capitolo dedicato a Le forme della grande epica in rapporto al contesto culturale globale a seconda che esso sia chiuso e aproblematico oppure aperto e problematico ne succede un secondo intitolato Per una tipologia della forma del romanzo. Dostoevskij è considerato fuori da questa tipologia: egli, infatti, in un senso o nell’altro, addita una soluzione che sta tutta al di là dell’esperienza del grande romanticismo europeo, qualunque sia il valore indicativo che essa appare destinata ad assumere per il futuro. Die Theorie des Romans rappresenta un passaggio di decisiva importanza nella storia intellettuale di Luk4cs. Io osserverei che, innanzi tutto, è di estrema importanza la sottolineatura di questo orizzonte della «nostalgia», dentro il quale si inscrive la ricerca di una totalità perduta: fin dall’inizio, cioè, la scoperta e la delineazione del futuro si configurano per Lukdcs, forse al di là delle sue stesse intenzioni esplicite e consapevoli, come ritrovamento di un mitico passato, in cui la scissione non s’era ancora manifestata.
Il secondo punto importante di questo passaggio è che la «forma» peculiare del superamento della scissione, sia pure solo potenziale in questa fase, è il romanzo. Fin dall’inizio, cioè, è presente in Luk4cs un’opzione teorica a favore di quel «genere» il quale, a partire da Hegel, viene considerato come la riproposizione della «grande epica» in condizioni di problematicità. La poesia lirica e il dramma, che erano stati ben presenti in Die Seele und die Formen, a partire dalla Theorie des Romans passano in seconda linea, sia pure per ragioni diverse e anche opposte fra loro: e ciò avrà un effetto assai rilevante sulla creazfone di un «gusto marxista» medio, orientato decisamente verso il racconto e il realismo. Un’opera come Geschichte und Klassenbewusstsein (Storia e coscienza di classe, 1923), che raccoglie i saggi in cui si condensano le motivazioni teoriche della conversione di Luk4cs al marxismo, è troppo complessa per poter essere anche sommariamente riassunta in funzione di questo profilo delle idee letterarie di questo teorico. Basterà qui ricordare che, nonostante le numerose sconfessioni successive dello stesso autore, essa resta comunque una tappa imprescindibile per comprendere (con le parole dello stesso Lukfcs) la sua «via al marxismo». Tale riscoperta del carattere totalizzante ed universale del marxismo va posta sotto il segno d’un recupero critico ma insieme massiccio del sistema di Hegel: «Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è il predominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità. La categoria della totalità, il dominio determinante ed onnilaterale dell’intero sulle parti è l’essenza del metodo che Marx ha assunto da Hegel riformulandolo in modo originale e ponendolo alla base di una scienza interamente nuova» ‘*. Questi 4 In., Rosa Luxemburg als Marxist (Rosa Luxemburg marxista, 1921), in Geschichte und Klassenbewusstsein cit., trad. it. p. 35.
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due punti — relazione al sistema hegeliano e suo superamento, e determinazione del marxismo come una teoria dialettica della totalità — non abbandoneranno mai più da questo momento in poi il pensatore ungherese. Un altro aspetto assai importante della riflessione lukdcsiana in Geschichte und Klassenbewusstsein riguarda la struttura reificata della coscienza di classe e l’«astrazione del lavoro umano che si oggettualizza nelle merci, sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo», in conseguenza dell’«universalità della forma di merce» ?. Questo suggerimento ritornerà, oltre che nel Lukécs maturo, anche o forse soprattutto nei pensatori della Scuola di Francoforte. Quando nel 1933, in seguito all’avvento del nazismo, Lukdcs è costretto ad abbandonare Berlino e a trasferirsi a Mosca, egli ha già fatto ammenda dei suoi peccati di «estremismo di sinistra» e di «soggettivismo idealistico» ed è pronto ad entrare in sintonia con gli orientamenti culturali dominanti in quel momento nell'Unione Sovietica. Questo costituirebbe di per sé un problema interpretativo di grande interesse: noi possiamo soltanto dire che, se è illecito stabilire una coincidenza fra stalinismo e lukAcsismo, una relazione fra i due fenomeni esiste, non riducibile alla pura e semplite abilità tattica del pensatore ungherese di evitare confronti troppo traumatici e schiaccianti con l’ortodossia marxista dominante. In questa fase, lo sforzo di Lukfcs di dare una sistemazione compiuta agli elementi estetici presenti nella teoria marxista raggiunge il massimo livello. La scoperta recente da parte sua degli Okoromisch-philosophische Manuskripte e la valorizzazione della marxiana Zur Kritik der politischen Okonomie spingono Luk4cs a dare una risposta intenzionalmente non sociologico-volgare e non-plechanoviana ai problemi dell’interpretazione e collocazione storiografica del testo letterario. In questo quadro, la ormai completa accettazione del materialismo dialettico conduce ad una concezione della conoscenza come rispecchiamento della realtà e questa a una concezione dell’arte come forma specifica del rispecchiamento, cioè a una teoria estetica del riflesso. Del resto, «la meta di pressoché tutti i grandi scrittori fu la riproduzione artistica della realtà; la fedeltà alla realtà, l’appassionato sforzo di restituirla nella sua totalità e integrità, furono per ogni grande scrittore (Shakespeare, Goethe, Balzac, Tolstoj) il vero criterio della grandezza letteraria» °. Sono cosî fondate, grosso modo, le categorie essenziali e le gerarchie di valori su cui il discorso lukfcsiano sarà destinato a proseguire anche negli anni successivi. Il «tipo» — secondo la definizione engelsiana già ricordata — costituisce la mediazione artistica peculiare fra astratto-generale e concretoparticolare: «Il tipo viene caratterizzato dal fatto che in esso convergono e 5 ., Die Verdinglichung und das Bewusstsein des Proletariats (La reificazione e la coscienza del proletariato), ibid., p. 113. ._ % 1n., Einftibrung in die dstbetischen Schriften von Marx und Engels (1953) (trad. it. Introduua: agli scritti di estetica di Marx ed Engels, in Il marxismo e la critica letteraria, Torino 19775, D. 42).
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si intrecciano in vivente, contraddittoria unità tutti i tratti salienti di quella unità dinamica in cui la vera letteratura rispecchia la vita». Il tipo è lontano tanto dalla naturalistica «media» quanto dall’estremismo soggettivistico di taluni settori dell’arte contemporanea: in ambedue i casi Lukécs, d’accordo con le indicazioni della politica staliniana, spezza una lancia contro la «decadenza» delle forme d’arte borghesi (come avrebbe fatto più sistematicamente, e su di un piano pit filosofico, nella Zerstòrung der Vernunft (La distruzione della ragione, 1955). Il tipo coincide dunque, di fatto, con l’affermazione del «realismo», che a sua volta tende a coincidere con il concetto di «grande arte», di arte riuscita. Il realismo, però, in questa visione, se è rappresentazione dell’oggettività, non è però mera oggettività. Luk4cs rifiuta il concetto di arte a tesi; ma sostiene che una rappresentazione fedele del reale non può non cogliere le «tendenze» che all’interno del reale stesso si manifestano. L’arte, perciò, può essere « partitica», anche restando fedele al reale, anzi, proprio perché resta fedele al reale. Sulla base di queste categorie — lo abbiamo già accennato — si determina anche una gerarchia di valori: tutti i grandi romanzieri borghesi dell’Ottocento entrano a farne parte, da Balzac a Stendhal, da Gogol’ a Tolstoj; già meno esemplare appare Flaubert, minato dal tarlo dell’estetismo decadente; resta decisamente fuori il fotografico Zola; Thomas Mann, invece, è l’unico dei narratori novecenteschi che meriti di entrare a pieno titolo in questo Olimpo. Un posto d’onore viene riservato a Goethe, in quanto emblema di questa capacità eccezionale di riflettere nell’arte l'umano. Questo è l’altro grande tratto caratteristico della posizione marxista di Lukdcs. Se la grande arte è autentico riflesso del reale, capace di coglierne e rappresentarne le tendehze in atto, non può esserci mai fra di essa e gli universali e perenni valori umani vera contraddizione. Senza aggiungere una virgola alla già sorprendente definizione di Engels, anche Luk4cs parla con ammirazione di «onestà», di «sete di verità», di «fanatismo di realtà» del grande scritto-
re e di vero e proprio «trionfo del realismo»; e aggiunge: « Grandezza attistica, realismo autentico e umanesimo sono indissolubilmente uniti. E il principio unificatore è proprio quello che si è detto: la preoccupazione dell’integrità dell’uomo» *. In questa maniera, Lukécs chiude il cerchio del suo ragionamento anche per quel cheriguarda la problematica dei generi. Non c’è grande realismo senza umanesimo, perché solo «la preoccupazione dell’integrità dell’uomo» consente allo scrittore di andare magari al di là della propria stessa ideologia e di guardare in profondità nel reale. Il romanzo è «il genere letterario dominante della civiltà borghese moderna » °. E, come la filosofia classica tedesca lascia in eredità le proprie strutture concettuali al marxismo, perché questo le metta in opera al servizio del proletariato, cosî il mondo letterario borghese lascia il ? Ibid., p. 46.
8 Ibid., p. 56. ° In., Introduzione cit., p. 11.
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La questione del metodo.
romanzo in eredità agli scrittori socialisti, perché ne facciano lo strumento di questa nuova e più profonda ed autentica visione del mondo. L’umanesimo culmina nell’umanesimo socialista, il realismo nel realismo socialista, secondo quella formulazione che dice: «L’eredità classica significa per l’estetica quell’arte sublime che ritrae interamente l’uomo, l’uomo totale nella totalità del mondo sociale » ‘°. 7.
Marxismo e stalinismo.
Come già abbiamo detto, non si può fare il torto a Gyòrgy Luk£cs, più volte criticato e sanzionato per le sue teorie, di considerare coincidente il suo pensiero con quello dello stalinismo. Non si può neanche, però, non cogliere gli elementi comuni delle due esperienze: forse, se si rinunziasse a ridurre anche lo stalinismo ad un’unica e appiattita dimensione, si potrebbe arrivare a considerare il luk4csismo — senza scandalo — come una delle varianti possibili dello stalinismo, una variante moderatamente progressista, senza dubbio colta ed intelligente, e seriamente umanistica dello stalinismo: 0, comunque, come una possibile versione del marxismo, che risulterebbe impensabile e incomprensibile senza il clima culturale staliniano circostante. Alcune coincidenze, comunque, colpiscono. Lukécs si rifugia a Mosca nel 1933, e vi dimora fino al 1945, lavorando a quell’insieme di saggi e di opere che poi, divulgati soprattutto dopo la guerra, gli daranno una fama internazionale: Der bistorische Roman (Il romanzo storico), Der junge Hegel (Il giovane Hegel), Goethe und seine Zeit (Goethe e il suo tempo), Thomas Mann, Balzac und der franzòsische Realismus (Balzac e il realismo francese), Der russische Realismus in der Weliliteratur (Il realismo
russo nella letteratura mondiale). Ma questi sono anche gli anni in cui a Mosca si preparano o si consolidano le strutture ideologiche dello stalinismo anche in campo letterario. Recentemente è stata attirata l’attenzione da parte di Vittorio Strada sull’importanza di una discussione svoltasi a Mosca tra il dicembre 1934 e il gennaio 1935 intorno ad una relazione letta da Gy6rgy Luk4cs alla Sezione di letteratura dell’Istituto di filosofia dell’Accademia comunista sul tema del romanzo. La relazione si concludeva con un appello alla nascita del romanzo realista socialista, destinato a superare i limiti del romanzo borghese. « Tuttavia, — aggiungeva, e in questo consiste anche in questa occasione la peculiarità
della posizione lukacsiana, — la crescente tendenza all’epicità non significa il rifiuto totale delle tradizioni del romanzo classico» '. È difficile dire quanto l’affermazione del passaggio prossimo ed auspicato alla fase del realismo socialiONT bidispixa: a 1 G. LUKACS, M. M. BACHTIN e altri, Problemi di teoria del romanzo. Metodologia letteraria e dialettica storica, a cura di V. Strada, Torino 19762, p. 16.
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sta fosse una maschera destinata a preservare la parte del discorso che stava più a cuore a Lukdcs, e cioè la difesa della tradizione romanzesca classica, e quanto corrispondesse invece ad una persuasione reale. Si può notare, intanto, che dal pubblico, già in quell’occasione, accanto ad alcuni interventi di apprezzamento, altri se ne erano levati a rivendicare un uso più massiccio e persuaso della categoria della «positività» socialista, da contrapporre polemicamente a quella della «decadenza» borghese. Il fatto è che solo alcuni mesi prima, fra il 17 agosto e il 1° settembre 1934, si era svolto a Mosca quel I Congresso degli scrittori sovietici che doveva segnare un orientamento irreversibile nella tendenza degli studi letterari ispirata all’ideologia dominante, e cioè lo stalinismo. Molto giustamente Vittorio Strada ha osservato che nella costruzione dello stalinismo in campo letterario, accanto alle iniziative degli alti burocrati della cultura (Radek, Bucharin e, soprattutto, Zdanov), «non mancarono gli intellettuali che anticiparono il modello dell’ordigno e, pur con ottime intenzioni, ambirono a farsi catturare » °. Esemplari in questo senso, all’interno del Convegno, gli interventi di Gor'kij ed Ehrenburg. Ma, ai fini del nostro discorso, possono bastare le esemplificazioni tratte dell’intervento realmente decisivo di Andrej A. Zdanov, il quale, in attesa di diventare il principale punto di riferimento ideologico dell’intero campo comunista intorno al 1948, in periodo di « guerra fredda», già nel 1934 pronunziava le più nitide formulazioni del materialismo dialettico in campo letterario. Per sintetizzare al massimo il senso di queste posizioni, si potrebbe dire che Zdanov è un Engels che abbia rinunziato alla teoria del «nonostante» e a tenere in considerazione la formula «in ultima istanza». Soppresse queste due ultime mediazioni, che erano servite un tempo da argine soprattutto alle irruzioni del sociologismo volgare, l’appiattimento della letteratura sull’ideologia (e di questa sulla politica) diventa totale, sia per ciò che riguarda le vestigia della tradizione borghese, sia per ciò che riguarda le promesse del socialismo venturo. Da una patte, infatti: L’attuale stato della letteratura borghese è tale che essa non può più creare grandi opere. La decadenza e il disfacimento della letteratura, frutto della decadenza e della putrefazione dell’ordinamento capitalistico, sono una caratteristica tipica della situazione attuale della cultura e della letteratura borghese. Sono finiti ormai per sempre i tempi in cui la letteratura borghese, rispecchiando le vittorie dell’ordinamento borghese sul feudalesimo, poteva creare le grandi opere artistiche del periodo del massimo splendore del capitalismo. Adesso assistiamo ad un continuo e progressivo immeschinimento dei temi e dei talenti, degli autori e dei personaggi’. 2 Vv. STRADA, Introduzione a G. LUKACS, M. M. BACHTIN e altri, Problemi di teoria del romanzo cit., D. XXXIV. 3 G. KRAISKI (a cura di), Rivoluzione e letteratura. Il dibattito al I Congresso degli scrittori sovietici, introduzione di V. Strada, Bari 1967, pp. 8-9. Su queste tematiche, e più in generale sull’impatto tra letteratura d’avanguardia rivoluzionaria e apparati ideologici dello stalinismo, cfr. A. ASOR ROSA, Majakovskij e la «letteratura sovietica» (1968), in Intellettuali e classe operaia cit.,
pp. 8-9.
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La questione del metodo Dall’altra: I successi della letteratura sovietica sono condizionati da quelli della costruzione del socialismo. La nostra letteratura è la più giovane del mondo, la più ricca sul piano ideale, la più progressista e la più rivoluzionaria. Non esiste e non è mai esistita una letteratura, tranne quella sovietica, che abbia saputo organizzare i lavoratori e gli sfruttati e spingerli alla lotta per l’abolizione definitiva di ogni e qualsiasi sfruttamento, di ogni oppressione degli schiavi salariati. Non esiste e non è mai esistita una letteratura che ponga‘a fondamento della propria tematica la vita della classe operaia e dei contadini e la loro lotta per il socialismo... Soltanto la letteratura sovietica, carne della carne e sangue del sangue della nostra costruzione socialista poteva diventare ed è diventata realmente una letteratura di questo tipo, progressiva, ricca di idee, rivoluzionaria ‘.
Nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere che queste formulazioni rappresentino un’applicazione fedele del principio marxista classico del rapporto fra struttura e sovrastruttura: se mai, è facile constatare che nel marxismo di Zdanov occupa un posto prevalente l’eredità di quel sociologismo volgare e deterministico che aveva avuto largo corso nel movimento operaio prima della prima guerra mondiale (e che del resto svolse un ruolo di rilievo, più in generale, nell’impianto concettuale dello stalinismo, anche attraverso la mediazione engelsiana). Tuttavia, la degenerazione Zdanoviana pone problemi rilevanti anche ad un’interpretazione autentica delle categorie classiche del pensiero marxiano: la facilità con cui viene inquinato e trasformato il principio materialistico-dialettico rivela la possibilità sempre presente di un’incomprensione di fondo, da parte marxista, delle dinamiche intellettuali e culturali. Il concetto di «autonomia relativa» della produzione artistica e letteraria, per quanto fondato sul buonsenso e messo a salvaguardia dell’indipendenza dello scrittore e del critico rispetto agli eccessi del determinismo sociologico e ideologico, non basta, probabilmente, a giustificare il concreto operare dell’artista e dello scrittore, e neanche quello, «in seconda istanza», del critico. Sulla percezione di questa difficoltà, altre «vie al marxismo» si disegnano. 8.
Marxismo e avanguardia.
Ha un rilievo notevole, intanto, il posto occupato dal marxismo nelle posizioni degli scrittori e degli artisti contemporanei. Mentre in Unione Sovietica l’adesione al marxismo, dopo il 1930, liquidata l'avventura futurista di Majakovskij e compagni, diventa generalmente sinonimo di «realismo socialista», nel resto dell’Europa essa continua ad intrecciarsi più frequentemente con il destino delle tendenze avanguardistiche. Per molti, infatti, la rottura dei sistemi linguistici e letterari tradizionali, spesso identificati con il trionfo della piatta mediocrità naturalistica, fa una cosa sola con la rottura dei sistemi sociali e politici borghesi, con i quali la letteratura filistea del positivismo in* G. KRAISRI (a cura di), Rivoluzione e letteratura cit., pp. 7-8.
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tratteneva a sua volta rapporti strettissimi. Del resto, già Majakovskij, nel 1918, aveva scritto che «la rivoluzione del contenuto socialismo-anarchia, è inconcepibile senza la rivoluzione della forma, futurismo» ‘. Naturalmente, la descrizione di queste vicende ci porterebbe assai lontano dal campo che stiamo trattando, quello della critica e della metodologia letteraria, per spostatci sulla storia della letteratura europea creativa, politicamente impegnata, durante questo stesso periodo. Qualche accenno, tuttavia, gioverà alla completezza del discorso d’insieme. André Breton, a nome del movimento surrealista, ha sempre insistito sulle affinità esistenti tra di esso e il marxismo, e ha individuato anche, piuttosto acutamente, una genealogia dei fenomeni ideologici, che porta alla comprensione più profonda delle ragioni le quali spiegano la necessità e l’inevitabilità della rottura complessiva del sistema culturale borghese. Il surrealismo, ad esempio, «presenta col materialismo storico almeno un’analogia di tendenza, quella di partire dal “colossale aborto” del sistema hegeliano» °. In un certo senso, Breton attribuisce anche al marxismo, al materialismo storico, la funzione di far «saltare» gli snodi e le valvole del complicato meccanismo della macchina di dominio dell’odiata borghesia, allo stesso modo che il movimento surrealista si proponeva di far «saltare» le funzioni ideologiche, linguistiche, artistiche e letterarie che a quel meccanismo corrispondono: Anche noi intendiamo metterci in una posizione di partenza tale che la filosofia sia per noi surclassata. Tutti coloro per cui la realtà non ha soltanto una importanza teorica ma è anche una questione di vita e di morte, saranno portati, penso, a richiamarsi appassionatamente, come ha voluto Feuerbach, a quella realtà: cosî noi siamo portati a dare, come diamo, un’adesione totale, senza riserve, al principio del materialismo storico, come lui a gettare in faccia al mondo intellettuale sbalordito l’idea che l’uomo è ciò che mangia e che una rivoluzione futura avrebbe maggiori probabilità di successo se il popolo avesse un’alimentazione migliore, ad esempio, piselli al posto delle patate.
Con enfasi appena accennata, e comunque con grande e sincero pathos, scriverà più avanti lo stesso Breton: «“Trasformare il mondo”, ha detto Marx, “cambiare la vita”, ha detto Rimbaud: per noi, queste due parole d’ordine fanno tutt'uno» ‘. Naturalmente, Breton e i suoi compagni si rendono conto che l’esperienza letteraria surrealista non potrà essere intesa îrzzzediatamente da quelle stesse masse, in funzione del cui destino pure essa viene compiuta. Qui c’è l’esplicita teorizzazione di una lunga fase di passaggio, nel corso della quale la lettera1 v. V. MAJAKOVSKIJ, Otkrytoe pis'mo rabotim (1918) (trad. it. Lettera aperta agli operai, in Opere, 1912-1921, a cura di I. Ambrogio, Roma 1958, p. 757). 2 A. BRETON, Second Manifeste du Surréalisme (1930), in Manifestes du Surréalisme, 1962 (trad. it. Torino 1966, p. 77). * Ibid Wpa70? 4 m., Positions politiques du Surréalisme (1935) (trad. it. ibid., p. 172). Si tratta dell’intervento che Breton aveva preparato per il Congresso internazionale per la difesa della cultura di Parigi, che egli non poté pronunziare alla tribuna per i dissidi violentissimi scoppiati fra lui ed esponenti importanti della delegazione sovietica (I. Ehrenburg).
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La questione del metodo
tura, anche quella ispirata ai principî rivoluzionari delle masse, non potrà parlare il linguaggio delle masse e le masse, a loro volta, non potranno produrre una propria letteratura. La tendenza, tuttavia, del movimento rivoluzionario, che comprende al suo interno anche i surrealisti, si muove in questa direzione, lottando per il superamento delle condizioni sia strutturali sia linguistiche dell’alienazione capitalistica. Il traguardo finale — molto teorizzato ed amato da un altro importante poeta surrealista, Paul Eluard — consiste nella possibilità della creazione di una poesia fatta da tutti e per tutti: «Se non abbiamo mai cessato di pretendere, con Lautréamont, che la poesia deve essere fatta da tutti, se è anzi questo l’aforisma che abbiamo voluto incidere tra tutti sul frontone dell’edificio surrealista, è evidente che esso implica per noi l’indispensabile contropartita che la poesia deve essere intesa da tutti» °. L’innegabile rappotto esistente tra le posizioni letterarie di Breton e quelle, politiche e ideologiche, del leader comunista sovietico sconfitto Lev Trockij, — in collaborazione con il quale scrisse nel 1938 in Messico il Manifesto Pour ur art révolutionnaire indépendant ° — caricò la posizione surrealista di valenze anche esageratamente militanti. Il concetto della «libertà artistica», che s’affianca e s’allea alla rivoluzione proletaria per la liberazione dell’umanità, piuttosto che sottometterlesi, lo contrapponeva infatti in maniera irrimediabile a qualsiasi manifestazione dello stalinismo. Per molti versi esso continuava ad apparire, agli occhi di molti comunisti ortodossi, l'ennesima manifestazione della decadenza dell’arte borghese (anche per la presenza, nella tematica del movimento, di una forte componente freudiana). Tutta diversa, anche se altrettanto periferica rispetto alla posizione marxista ortodossa, è la riflessione di Bertolt Brecht intorno ai problemi della letteratura e in particolare del teatro. In questo caso, infatti, nonostante la distan-
za dall’ortodossia dominante — o forse proprio per questo —, lo scrittore è più vicino alle formulazioni classiche del marxismo come teoria della lotta di classe e liberazione dell’uomo dall’alienazione mediante la presa del potere da parte del proletariato. Solo che Brecht, ben lontano dal ridurre l’invenzione letteraria a mero ricalco realistico (o naturalistico) di situazioni date, l’adopera se mai per intervenire su di essa a fini didascalico-politici, con un uso quanto mai vitale (in questo caso) dei principî della dialettica. È proprio perciò, in un certo senso, che egli sceglie la strada del teatro piuttosto che quella della narrativa e del romanzo: un palcoscenico, una vicenda drammatica, un conflitto tra personaggi sono strumenti molto più adeguati ad esprimere un’istanza di cambiamento e di trasformazione: «Il mondo d’oggi può essere espresso anche per mezzo del teatro, purché sia visto come un mondo trasformabile» ”. 5 Ibid., p.193. C: SE L. TROCKIJ, Letteratura arte libertà,
PP. 109-16.
a cura di L. Maitan e T. Sauvage, Milano 1958,
d B. BRECHT, Kann die beutige Welt durch Theater wiedergegeben werden? (E possibile ripro-
durre il mondo d ‘oggi per mezzo del teatro?, 1955), in Schriften zum Theater, 1964 (trad. it. Scritti teatrali, II, Torino 1975, p. 284).
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Per quanto neanche Brecht abbia mai pensato di esporre, ovviamente, una metodologia dell’interpretazione letteraria, dai suoi testi teorici si potrebbero ricavare interessanti suggestioni anche a questo fine. La condizione, infatti, perché l’ammaestramento politico scaturisca dialetticamente dalle strutture rappresentative del teatro è che esse non manifestino nessuna indulgenza nei confronti di quegli allettamenti fondati sulla verisimiglianza naturalistica e sulla suggestione psicologica. Testo e gesto devono essere «straniati», alla stessa maniera di ogni forma di comunicazione culturale, che abbia rinunziato alla collusione con le ideologie borghesi dominanti. Per questo Brecht parla di «teatro epico», mettendo insieme due cose — « rappresentazione drammatica» ed epos — che Hegel e tutti i suoi seguaci, compreso Lukfcs, avrebbero visto come assolutamente inconciliabili. In bocca a Brecht, che interpreta la vocazione politica della letteratura come l’effetto naturale della collocazione dello scrittore all’interno della lotta delle classi, an-
che formulazioni apparentemente sospette come quella secondo cui l’arte è sempre «partitica» assumono il valore autentico di una dichiarazione di poetica: «AI di sopra delle classi in lotta non ci può stare nessuno, poiché nessuno può stare al di sopra degli uomini. La società non ha un portavoce comune finché è divisa in classi che si combattono. Per l’arte, dunque, essere “apartitica” non significa altro che essere “del partito dominante” » *. Neanche è sottovalutabile il fatto che, mentre Brecht — che è anche grande poeta lirico e uomo di notevole intelligenza — inclina a concepire la prospettiva di un’arte non aliena da connotazioni apertamente didascaliche, la sua opera non sia per nulla toccata da quella vena di grigia pedagogia che anima tanta parte della produzione del realismo socialista. Al contrario, Brecht ha una percezione molto sensuale, molto vitale, del proprio lavoro di scrittore e non si stanca mai di sottolineare come nello stesso sforzo di liberazione delle masse, nella stessa fatica di costruzione del teatro, esistono elementi di gioia e di piacere, che si riconnettono a tendenze profonde dell’uomo: AI pari della trasformazione della natura, la trasformazione della società è un atto di liberazione; e sono le gioie della liberazione quelle che il teatro di un’era scientifica dovrebbe comunicare °. Lo stesso materialismo, da noi, è poco più di un’idea. Noi trasformiamo
le
gioie del sesso in doveri coniugali, assoggettiamo il godimento artistico all’istruzione, e per studio non intendiamo una lieta conoscenza, ma essere obbligati a strusciare col naso sulle cose. Il nostro «fare» non è un allegro affaccendarsi; e per attestare le nostre capacità non parliamo del piacere che ci ha procurato una cosa, ma del sudore che ci è costata '°. ® p., K/eines Organon fiir das Theater (Breviario di estetica teatrale, 1948), ibid., p. 175. ° Ibid., p.176 10 Ibid.;p.185.
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La questione del metodo 9.
Il marxismo negativo e la critica della mercificazione capitalistica.
Finora abbiamo parlato di autori i quali, sia pure in modi diversi, concepivano il marxismo come una «filosofia positiva della storia»: ossia, una spiegazione generale del mondo, che, a partire da certe premesse, si rivelava capace sia d’interpretare e conoscere il sociale sia d’indicare gli strumenti e le regole per trasformarlo. Un altro gruppo di teorici, filosofi, lettèrati, noti come la Scuola di Francoforte, concepisce il marxismo essenzialmente come una «filosofia negativa della storia», non tanto perché rifiuti gli strumenti e le regole, che il marxismo addita per la trasformazione del mondo, quanto perché mette piuttosto l’accento su quanto nel marxismo è diagnosi spietata, scientifica ricognizione e denuncia dei processi di reificazione obiettivamente prodotti dal sistema capitalistico anche sui fenomeni d’ordine culturale. Su questa base, che appare comune, le differenze tra i pensatori francofortesi sono grandi, anzi enormi, come risulterà dagli accenni successivi. In Max Horkheimer e Theodor W. Adorno — ed è ovvio che ci riferiamo in particolare ad un testo classico come Dialektik der Aufklirung (Dialettica dell'illuminismo, 1941) — la marxiana critica dell’ideologia (dagli Okozomisch-philosophische Manuskripte alla Deutsche Ideologie) viene utilizzata essenzialmente come strumento di disvelamento dei processi attraverso i quali un’opzione culturale e ideologica può trasformarsi — implicitamente ma chiaramente — in una «posizione di dominio» da parte della classe proprietaria. Parecchi anni più tardi, in Negative Dialektik (Dialettica negativa, 1959-66), Adorno spiega come nel blocco determinatosi all’interno del processo di trasformazione (la seconda parte del famoso enunciato marxiano: «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo» ') debba ricercarsi la ragione della riduzione della stessa filosofia — la quale aveva promesso la trasformazione senza riuscire a mantenere la promessa — a scienza particolare, destinata a sua volta ad essere oggetto di scambi all’interno del sistema culturale: La filosofia, che una volta sembrò superata, si mantiene in vita, perché è stato mancato il momento della sua realizzazione. Il giudizio sommario, che essa abbia semplicemente interpretato il mondo e per rassegnazione di fronte alla realtà sia diventata monca anche in sé, diventa disfattismo della ragione, dopo che è fallita la trasformazione del mondo. Essa non garantisce alcun punto, a partire dal quale si potrebbe concretamente accusare la teoria in quanto tale di essere anacronistica, cosa di cui ora come prima è sospetta. Nessuna teoria sfugge più al mercato: ognuna viene offerta come possibile tra le opinioni concorrenti, tutte possono essere scelte, e tutte assorbite ?. 1 Si tratta dell’undicesima delle These iiber Feuerbach (Tesi su Feuerbach) scritte da Karl Marx nella primavera del 1845 e pubblicate per la prima volta da Friedrich Engels nel 1888, in appendice al suo Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie (trad. it. Ludwig Feuerbarch e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Roma 1969”, p. 86). 3 DI aporno, Negative Dialektik, 1966 (trad. it. Dialettica negativa, Torino 1970, p. 3). id., p. 4.
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Ora, per tornare alla Dialektik der Aufklirung, si potrebbe dire che l’illuminismo costituisce, nel sistema dei due pensatori francofortesi, un’eloquente anticipazione di questi fenomeni culturali del tardo capitalismo, contraddistinti, come abbiamo visto, dalla continua inversione tra l’astratta positività della proposta e la concreta negatività delle procedure e dei risultati. L’illuminismo, infatti, ha quasi per definizione « perseguito da sempre l’obbiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni» ‘. «Ma, — proseguono gli autori, — la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura» °. Il fatto è che «gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano. L’illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli» °. Di conseguenza, «l’illuminismo è totalitario più di qualunque sistema» ”, e assai più soggetto al mito di quanto la sua critica del mito potrebbe lasciar pensare. In questa specie di rete a maglie molto strette, che finisce per diventare il rapporto di alienazione tra sistema economico-sociale capitalistico e apparati ideologici e culturali, l’opera d’arte, soprattutto quella musicale, rappresenta — nei casi più elevati del Novecento — sia la registrazione fedele del disagio sia la smagliatura di qualche punto di tale rapporto, ancora possibile, certo, ma a prezzo di una totale sovversione delle forme classiche dell’espressione. La tradizione dell’arte moderna, novecentesca, viene perciò totalmente recuperata, ma intesa come, per cosî dire, l'immensa manifestazione di una crisi, che corre a perdifiato verso l'inevitabile conclusione (raccogliendo, in questa maniera, alcuni elementi di apocalittismo presenti nel pensiero marxista successivo alla rivoluzione d’ottobre, per esempio nel giovane Lukdcs). D'altra parte, la forma concreta in cui questa crescente alienazione di qualsiasi produzione culturale si manifesta è l’«industria culturale», la quale è, al tempo stesso, il prodotto di una certa evoluzione economica del sistema capitalistico e l’ultima espressione dell’illuminismo in marcia. Nel saggio omonimo (Kulturindustrie, L'industria culturale), che porta come sottotitolo Aufklirung als Massenbetzug (Illuminismo come mistificazione di massa) ed è compreso, non a caso, nel volume Dialektik der Aufklirung, si sostiene che «il fatto di offrire al pubblico una gerarchia di qualità in serie serve solo alla quantificazione più completa» °. In questo processo di progressiva omologazione la cultura recita un ruolo sempre più preciso. Infatti, «a domare gli istinti rivoluzionari, come quelli barbarici, la cultura ha contribuito da sempre. La cultura industrializzata fa qualcosa di più. La condizione a cui si può tollerare la vita spietata è insegnata e inculcata da essa» ?. E l’arte seria, ridot4 M. HORKHEIMER e TH. W. ADORNO, Dialektik der Aufklirung. Philosophische Fragmente, 1947 (trad. DiAcne dell’illuminismo, Torino 1966, p. 11). bid. Ibid ®pY17: 7 Ibid., p. 33. STIb:d® \D"133% ? Ibid., p.164.
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La questione del metodo è
ta essa pure a merce, non può che piangere sull’errore commesso quando «si è negata a coloro cui il bisogno e la pressione dell’esistenza rendono la serietà una beffa, e che sono, di necessità, contenti quando possono trascorrere passivamente il tempo che non sono alla ruota» ”. Walter Benjamin dedica alcuni dei suoi saggi più belli (Uber cinige Motive bei Baudelaire, Zentralpark, Paris, die Hauptstadt des x1x. Jabrbunderts") all’analisi dei motivi per cui all’arte contemporanea è negato il privilegio di sentirsi al di sopra o a parte rispetto allo sviluppo di una civiltà di massa e di un conflitto di classe, che sempre più invade anche il terreno della cultura: Che questa sia la situazione, che, in altri termini, le condizioni per l’accoglienza di poesie liriche siano divenute più infauste, è provato, fra l’altro, da tre fatti. Anzitutto il lirico non è più considerato come il poeta in sé. Non è più il «vate», com’era ancora Lamartine; è entrato in un genere... Secondo fatto: un successo di massa di poesie liriche non ha più avuto luogo dopo Baudelaire... Ciò implica anche un terzo elemento: il pubblico è divenuto più freddo anche verso la poesia lirica che gli era già nota dal passato !.
Benjamin, però, non si limita alla denunzia apocalittica di questa «decadenza». Egli analizza con estrema finezza la nascita di processi che, in concreto, derivano alla poesia moderna da quella che, con il titolo di una composizione lirica dello stesso Baudelaire, chiama Perte d’auréole. Se, infatti, i mo-
tivi dell’analisi condotta sui testi baudelairiani e sul rapporto fra questi e la «folla parigina», «rendono problematica l’esistenza stessa della poesia lirica» “, Benjamin osserva che lo stesso Baudelaire «ha mostrato il prezzo a cui si acquista la sensazione della modernità: la dissoluzione dell’aura nell’ “esperienza” dello choc» ". Non solo. Benjamin è un intellettuale borghese, restato indipendente — cioè non iscritto a nessun partito — e pure diventato autenticamente comunista sotto l’influenza, soprattutto, di un’opera come Geschichte und Klassenbewusstsein di Lukfcs. Il suo catastrofismo, di origine giudaica, non gl’impedisce di cercare un rapporto con il marxismo: anche per lui il problema del «marxismo ortodosso» e del rapporto con l’insegnamento di Lenin è tutt’altro che fittizio, anzi, senza dubbio, lo è molto meno che per molti altri intellettuali irreggimentati sotto le bandiere del partito. «In Germania oltre alla letteratura politica ed economica non c’è una letteratura marxista ortodossa» ”. Di conseguenza, è più difficile superare «la scissione della prassi e della 10 Ibid., p. 146. !! Cfr. w. BENJAMIN, Uber einige Motive bei Baudelaire (Di alcuni motivi in Baudelaire, 1939), Zentralpark (Parco centrale, 1938-39), Paris, die Hauptstadt des xrx. Jahrbunderts (Parigi. La capitale del x1x secolo), in Schriften, 1955 (trad. it. in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino
1962, pp. 87-126, 127-39, 140-54). 12 13 4 5
In., Uber Ibid., p. Ibid., p. 1n., Eine
einige Motive bei Baudelaire cit., trad. it. pp. 87-88. 124. 126. kommunistische Pidagogik cit., trad. it. p. 137.
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teoria», che secondo Lenin costituisce «il tratto più odioso della vecchia società borghese» ‘: quella scissione, che invece in Unione Sovietica anche secondo Benjamin si va superando. D'altra parte, altrove troviamo questa affermazione, che non ha quasi bisogno di commento: «Il pensiero dialettico è l’organo del risveglio storico, poiché ogni epoca non solo sogna la successiva, ma sognando urge al risveglio » ". Nelle Geschichtsphilosophische Thesen (Tesi di filosofia della storia) — l’espressione senza dubbio più concentrata e matura del suo pensiero — Benjamin conduce una polemica implacabile contro il relativismo e l’accumulazione di materiali propri del Historismus (termine con cui, com'è noto, si deve intendere tuttavia una nozione abbastanza diversa da quella dell’italiano «storicismo»). Il richiamo al materialismo storico, checché se ne dica, qui è costante. Solo che in Benjamin, invece di avvalorare l’idea di un progresso indefinito nella continuità, patrimonio piuttosto della tradizione teorica socialdemocratica, esso non è che la teoria dei modi con cui, anche al livello della coscienza, si può (oltre che si deve) far saltare il continuum della storia: «La coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione » ‘*. La rottura con la tradizione, con il «patrimonio culturale», non potrebbe essere più completa. Di essa il materialista storico non può che essere un osservatore distaccato e fortemente critico, «poiché tutto il patrimonio culturale che egli abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non può pensare senza orrore » ! La lotta per la liberazione della parte oppressa dell’umanità non può dunque essere iscritta in un’operazione di progresso. Il progresso, infatti, come l’illuminismo per Adorno e Horkheimer, non è che la proiezione di un’allucinazione culturale, prodotta dalle classi dominanti. Chi crede nel progresso, non può credere nella rottura rivoluzionaria: C'è un quadro di Klee che s’intitola Angelus novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosî forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta ”°. Una posizione come questa doveva portare Benjamin ad avvertire e mani-
festare simpatia verso quelli tra i contemporanei i quali presentavano esempi 16 Ibid. 7 ., Paris, die Haupistadt cit., trad. it. p.154. 18 Ip., Geschichtsphilosophische Thesen (Tesi di filosofia della storia), in Schriften cit. (trad. it. in Angelus Novus cit., p. 80).
1? Ibid., p.75.
2 Ibid., pp. 76-77.
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La questione del metodo
di pratica poetica fortemente impegnata sul terreno dialettico e in direzione della rottura delle forme costituite: verso Brecht, ad esempio °°. Ma, proprio a partire dalla percezione profonda dei mutamenti intervenuti nella produzione culturale ed artistica contemporanea (dopo Baudelaire e Rimbaud, per intenderci), Benjamin giungeva ad avvertire in maniera straordinariamente anticipata e precoce l’influenza che le nuove tecnologie sarebbero state destinate ad avere sulla poesia e sull’arte. In Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (L’opera d’arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936) egli mostra con abbondanza d’argomenti che l’opera d’arte muta totalmente il suo statuto quando diventa tecnologicamente riproducibile, e non più soltanto l’autore, come già era accaduto con Baudelaire, perde la sua «aura», ma anche l’opera stessa, in quanto perde la sua «unicità». Benjamin osserva acutamente che anche il fascismo, prendendo atto in qualche modo dei mutamenti intervenuti nelle strutture di produzione dei fatti artistici, ha cercato di trarne profitto, mirando ad «una estetizzazione della vita politica». In maniera radicalmente diversa dagli altri francofortesi, Benjamin non ritiene però che questo processo di tecnologicizzazione costituisca in sé e per sé un fatto negativo. Al contrario, nelle possibilità dî estensione al vasto pubblico della fruizione letteraria ed artistica e nel superamento dei vecchi miti individualistici e soggettivistici dell’arte borghese, resi possibili dall’affermazione degli strumenti tecnologici, c'è una prospettiva nuova di rapporto fra creazione artistica e masse, che il materialismo storico può riempire anche di un contenuto direttamente politico. Alla «estetizzazione della politica», che il fascismo persegue, il comunismo risponde con la «politicizzazione dell’arte» ° . ro.
Il marxismo italiano.
Il marxismo italiano (come del resto quello francese) non ha prodotto nel campo della teoria e della critica letteraria nulla di paragonabile alle esperienze finora descritte (le quali — e non è un caso — si collocano tutte nello spazio geografico-culturale tra il Reno e gli Urali, dove, appunto, la diffusione di quel tipo di marxismo, a cui la problematica letteraria risulta più intrinseca, è praticamente predominante). Volendo escludere dalla nostra panoramica battaglie e scaramucce, caratteristiche della situazione italiana a partire dagli anni °60 in poi, i nomi veramente significativi restano due: Antonio Gramsci e Galvano Della Volpe. Per quanti sforzi si facciano, tuttavia, non si riesce a trovare nei Quaderni n Cfr. in., Kommentare zu Gedichten von Brecht (Commenti ad alcune liriche di Brecht, 1938- . 1939), in Schriften, 1955 (trad. it. parziale in L’opera d’arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Torino 1966, pp. 137-61). 2 ., Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936) (trad. it. L’opera d’arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, ibid., p. 46). 2 Ibid., p. 48.
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del carcere di Gramsci pagine veramente significative dal punto di vista (inteso nel senso stretto del termine) della critica letteraria. Si sa che un cardine della posizione gramsciana in questo campo è il «ritorno a De Sanctis» !. Tale ritorno, che si rifà del resto alla posizione complessiva di Gramsci, influenzata in maniera fortissima dalla tradizione dello storicismo idealistico italiano, trova però anch'esso una giustificazione in motivi di carattere ideologico e politico-culturale più che di pura metodologia letteraria: Un giudizio del De Sanctis: «Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede perché manca la cultura». Ma cosa significa «cultura» in questo caso? Si-
gnifica indubbiamente una coerente, unitaria e di diffusione nazionale «conce-
zione della vita e dell’uomo», una «religione laica», una filosofia che sia diventata appunto «cultura», cioè abbia generato un’etica, un modo di vivere, una
condotta civile e individuale ?.
Gramsci, cioè, pensa ad un modello di iniziativa culturale complessiva più che ad un criterio di lettura pura e semplice dei testi letterari. Del resto, coerentemente con l’impostazione del tutto antimetafisica e antidogmatica del suo pensiero, Gramsci non si è mai stancato di rifiutare la possibilità di un rapporto troppo stretto, deterministico, fra letteratura e società. Piuttosto, egli vede nella nascita di una nuova cultura la condizione per la nascita di una nuova arte: si rende però conto, al tempo stesso, che un’affermazione di tal genere ha più un valore di buon senso che non di scoperta teorica vera e propria: «Si può anche pensare che una critica della civiltà letteraria, una lotta per creare una nuova cultura sia artistica nel senso che dalla nuova cultura nascerà una nuova arte, ma ciò appare un sofisma» *. Se mai, egli appare interessato ad un tipo di critica letteraria in cui sia presente una forte «vita morale», il pathos e l’appassionamento derivanti dalla partecipazione ad una «lotta culturale», ad uno schieramento «militante»: Il tipo di critica letteraria propria della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci): essa deve fondere la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo ‘.
Come si può vedere, tuttavia, nelle posizioni di Gramsci non c’è molto di più di una giusta rivendicazione di un cotretto, non estrinseco rapporto tra contenuto (= cultura) ed espressione: la formula desanctisiana del rapporto 1 Cfr. A. GRAMSCI, Ritorno al De Sanctis (1934), in Quaderni del carcere, a cura di V. Gertatana, Torino 1975, pp. 2185-86.
? Ibid.
3 n., Arte e lotta per una nuova civiltà (1934), ibid., pp. 2187-88. Ma cfr. anche Arte e cultura (1934): «Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta per una “nuova cultura” e non per una “nuova arte” (in senso immediato) pare evidente. Forse non si può neanche dire, per essere esatti, che si lotta per un nuovo contenuto dell’arte, perché questo non può essere pensato astrattamente, separato dalla forma» (ibid, p. 2192). 4 m., Arte e lotta cit., p. 2188.
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La questione del metodo
tra le «forma» e la «cosa» è l’antecedente immediato di queste formulazioni. In una delle concrete analisi letterarie pi brillanti di Gramsci — l’interpretazione del canto X dell’Inferzo di Dante — egli usa con accortezza il concetto di «struttura», ma con un significato molto diverso da quello marxiano-ortodosso: infatti, per «struttura» egli intende qui né pit né meno che l’impianto concettuale e culturale della Corzzzedia, senza il quale anche la «poesia» diventa incomprensibile e non valutabile. Siamo di fronte ad una precisa posizione polemica nei confronti della famosa «distinzione» crociana: ma essa è motivata più da un richiamo a De Sanctis che non a Marx. Questo, naturalmente, non impedisce a Gramsci di pronunziare giudizi pungenti e precisi su singoli autori e questioni letterarie: le pagine dedicate ai concetti di «umiltà» e di «umili» in Manzoni e al confronto tra Foscolo e Manzoni, come «tipi» esemplari contrapposti del letterato italiano moderno, sono di grandissima intelligenza. La parte più originale ed autentica della riflessione gramsciana non riguarda però i problemi della letteratura e della metodologia critico-letteraria, ma quelli della formazione e dell’organizzazione degli intellettuali. È nota la posizione di Gramsci su questo punto, che possiamo cercare di riassumere mediante l’accostamento di queste citazioni: Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli dìnno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico...°. Ma ogni gruppo sociale «essenziale» emergendo alla storia dalla precedente struttura economica e come espressione di uno sviluppo (di questa struttura), ha trovato, almeno nella storia finora svoltasi, categorie intellettuali preesisten-
ti e che anzi apparivano come rappresentanti una continuità storica ininterrotta
anche dai più complicati e radicati mutamenti delle forme sociali e politiche... °. Tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò; ma non tutti gli
uomini hanno nella società la funzione di intellettuali ”.
Come si può vedere, Gramsci ha una percezione fortissima sia dell’importanza del ruolo degli intellettuali nell’organizzazione delle diverse funzioni sociali e politiche, sia dell’assoluta non meccanicità di tale rapporto (gli intellettuali possono sopravvivere all’estinzione delle loro classi e le nuove classi possono utilizzare per le loro funzioni i vecchi intellettuali), sia del rapporto esistente tra la funzione specifica svolta dai ceti intellettuali e la componente intellettuale presente in ogni ruolo sociale e in ogni tipo di attività umana. Sono indicazioni preziose per la costruzione di una moderna «sociologia degli intellettuali», e hanno una valenza che, indirettamente, può servire anche alla S m., Appunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla storia degli intellettuali (1932), in Quaderni del carcere cit., p. 1513. 6 Ibid.,p.1514. ? Ibid., p.1516.
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costruzione di uno schema di «storiografia letteraria». Infatti, se si dà per acquisito che anche gli scrittori costituiscono un «tipo» di intellettuali, si può utilizzare il concetto di intellettuale allo scopo di disegnare la mappa delle tensioni viventi e delle vere e proprie contraddizioni, che si manifestano nel passaggio tra una determinata situazione sociale e le grandi correnti culturali ed artistiche del periodo corrispondente: questo passaggio, ben lungi dal configurarsi come l’entrata in conflitto di «categorie» astratte, è mediato, rappresentato e vissuto dal formarsi, comporsi, scomporsi e ricomporsi di figure viventi, di quelle realtà antropologicamente e sociologicamente ben definibili, che sono i «gruppi intellettuali». Quanto all’origine di tali intuizioni, è assai difficile dire se Gramsci sia stato influenzato di più da un certo materialismo storico, nella sua versione leniniana (in particolare, per ciò che riguarda i modi di formazione della cosiddetta «egemonia», di cui, ovviamente, gli intellettuali rappresentano una componente particolarmente robusta), o dalla tradizione del cosiddetto «élitismo» italiano — quello dei Mosca, dei Pareto, dei Michels —, che molto aveva insistito sull’importanza decisiva e sulla genesi dei gruppi dirigenti sia intellettuali sia politici. Noi propenderemmo per la seconda ipotesi. Ma risolvere la questione in un senso o nell’altro non cambierebbe molto la sostanza del problema: e cioè che conferire alla storia degli intellettuali un’importanza cosî grande nella storia più complessiva di un paese o di una civiltà significa comunque mettere l’accento più su quella che marxianamente si definirebbe sovrastruttura che sulla base economica e produttiva, più sulla storia della cultura e della produzione d’idee che sull’origine di classe della cultura e della produzione di idee. Questo tratto avrà un influsso assolutamente decisivo nella determinazione dî quel tanto di critica e teoria letteraria italiana, che si definirà in qualche modo marxista. Assolutamente peculiare, e anche molto isolata, la posizione di Galvano Della Volpe in campo marxista. Tale peculiarità si deve probabilmente riconnettere con la singolarità dell’esperienza filosofica complessiva compiuta da tale personaggio prima e dopo la sua conversione al marxismo. Si potrebbe dire, intanto, che le sue radici filosofiche — e ciò, appunto, costituisce un tratto di diversità, almeno in campo marxista italiano — sono piuttosto kantiane che hegeliane *. In secondo luogo, il suo antiromanticismo e filoilluminismo costituiscono una costante del suo pensiero e precedono di gran lunga (e forse in qualche modo anche motivano) la sua successiva adesione al marxismo”. Infine, la sua frequentazione della Retorica aristotelica rappresenta un passaggio di fondamentale importanza per una ricerca intesa essenzialmente a superare il dualismo ricorrente in campo marxista tra forma e contenuto, essenza ed ap® Cfr. soprattutto G. DELLA VOLPE, Crisi dell'estetica romantica, Roma 1963 (si tratta della ristampa di un saggio del 1941). ? Cfr. soprattutto 1n., Umza4zesimo positivo e emancipazione marxista, Milano 1964 (il volume raccoglie studi del periodo 1945-48).
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La questione del metodo:
parenza. La ripresa dei principî della linguistica saussuriana, il tentativo di fondare un'estetica sulla semantica, la ripresa di taluni motivi della critica stilistica (soprattutto in quella versione che il nome di Auerbach può ben esemplificare) rappresentano altrettanti corollari di un’impostazione cosiffatta. La posizione di Della Volpe consiste dunque, essenzialmente, nel cercare di riunire in una sintesi sia la considerazione meramente estetica del fatto poetico sia la sua collocazione sociologica. Non ci si può stupire, perciò, di trovare nella sua opera maggiore affermazioni apparentemente contraddittorie come questa: « Più la poesia è autentica e grande e pit essa esige per esser gustata una sua messa-a-punto stilisticamente concreta, ossia sociologica, che
non ha niente a che fare né col metodo critico positivistico né con quello del “realismo” marxistico-volgare, che mantenendosi entrambi al di qua della poesia, restano anche, nella sostanza, al di qua della storia (non soltanto letteraria)» !
Qui si potrebbe dire, in un certo senso, che la parola-chiave di codesta formulazione dellavolpiana è quell’«ossia», che stabilisce un piano di equivalenza fra l’analisi stilistica concreta e quella sociologica, in quanto, nel contenuto reale, effettivo, dell’opera, e cioè nella sua corinotazione semantica, c’è
al tempo stesso la radice di ogni spiegazione stilistica e il precipitato di ogni rapporto dell’opera con la società circostante. Uno dei «luoghi» stilistici, in cui questa sintesi di valenze gnoseologiche e di dati espressivi si manifesta con maggior evidenza, è la «metafora» (si rammenti l’accenno alla frequentazione dellavolpiana del pensiero di Aristotele). A proposito di Vladimir Majakovskij, autore da Della Volpe attentamente studiato (e questa scelta rappresenta già di per sé un’indicazione preziosa), cosi egli argomenta: Non è difficile vedere come la maggior forza poetica di Majakovskij stia nell’uso geniale di nessi metaforici (e iperbolici) ai fini di una tipizzazione dei valori della società socialista in cui visse, dei suoi ideali e istituti e avvenimenti decisivi: il che non deve stupirci, se non altro per la suaccennata natura intellettuale (concreta) dei nessi metaforici in quanto nessi o unità di un molteplice o dissimile (le immagini) a pari titolo degli altri nessi o concetti (letterali) "!.
Il Della Volpe, dunque, insiste nel privilegiare, all’interno dell’analisi letteraria, quelle immagini-concetti che egli definisce anche «complessi logicointuitivi», i quali, rimandandoci inevitabilmente all’esperienza o storicità e quindi ad «un quid sociologico», rendono possibile «la fondazione materialistico-storica della poesia, la sola criticamente accettabile per il suo carattere scientifico, antidogmatico, antimetafisico». La peculiarità e specificità della poesia, rispetto ad altre forme di discorso come, ad esempio, quello scientifico, possono dunque essere colte solo attraverso l’analisi della sua «componente sezzantica (verbale) » ”. 10 Ip., Critica del gusto, Milano 1960, pp. 38-39. Llbrderpazae 2AlDIdi Sppi7r72:
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Sono enunciazioni, queste di Della Volpe, più brillanti che persuasive. In pratica, anch’esse portano a privilegiare l’impianto concettuale — il «semantico», per dirla con Della Volpe — sulle concrete dinamiche formali dell’opera di poesia, che certo non possono prescindere dal «senso», di cui sono portatrici, ma assai spesso lo determinano, invece di esserne determinate. È estre-
mamente significativo, a nostro modo di vedere, che, al dunque, anche Della Volpe sia costretto a misurarsi con il famoso problema del «nonostante», non avendo rinunziato a considerare l’arte un modo di conoscenza dialettica della realtà, e ci si misuri esattamente nello stesso modo in cui lo aveva fatto il
vecchio Engels nella lettera a Miss Harkness ". La conclusione è che Della Volpe propugna un’intelligente riduzione del concetto di «realismo» dal livello dell’Estetica a quello della Poetica, accorgendosi che non avrebbe potuto funzionare una battaglia, come quella che il comunismo propugnava, a favore dell’applicazione di questo principio, se esso fosse rimasto ancorato a un livello, per cosî dire, di verità generali; ma, compiuta questa riduzione, tutto il bagaglio dei rapporti tra contenuto di conoscenza, tendenziosità della rappresentazione e « grande poesia » si ripresentava intatto: La questione fondamentale... — intuita da Engels e da Lenin — sembra risolvibile... nel senso della necessaria presenza nell’opera poetica di idee o ideologie, senza aggettivi; o, ch’è lo stesso, nel senso ch’è la verità che conta anche nell’opera poetica: verità, sappiamo, che non urta anzi coincide con la fendenziosità — e relativa tipicità: da Dante a Maiakovski. Quanto si è detto non esclude — per quanto sembri paradossale — una Poetica (non una Estetica) del Realismo socialista: la implica anzi e per il principio che senza idee in genere (quindi anche le nostre) non c’è poesia e per il principio della tendenziosità ossia inevitabile determinatezza storica di ogni idea: di modo che — nel nostro tempo — non può esserci come ideale artistico pratico, da realizzare, che un realismo socialista, per il quale noi abbiamo il diritto di batterci e non la semplice pretesa proprio perché abbiamo dovuto riconoscere l’eguale diritto agli ideali artistici o poetiche del passato — in nome della verità sociologica e realistica della poesia in genere; riconosciuta in sede di Estetica ". E con ciò si torna, se non erro, al punto di partenza.
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Ilmarxismo anglosassone.
In un’esposizione più distesa e documentaria di quella che noi abbiamo tentato, meriterebbe un posto di maggior rilievo l’analisi della diffusione del marxismo critico-letterario nell’area culturale anglosassone. Questo però, obiettivamente, non tanto per la particolare originalità delle posizioni assunte, quanto per la singolarità d’un fenomeno che vede il trapiantarsi delle 13 In., Engels, Lenin e la Poetica del Realismo socialista, appendice a Critica del gusto cit., przmz: 14 Ibid., p. 218.
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istanze metodologiche del marxismo in un ambito culturale contraddistinto da caratteristiche assai diverse da quelle che altrove ne avevano favorito l’affermazione: privo del tutto com’era, ad esempio, di qualsiasi compiacenza nei confronti di quella tradizione hegeliana che ovunque — in Germania come in Italia, nei paesi della Mitteleuropa come in Francia e in Russia — aveva costituito il sostrato pressoché incontrastato della successiva sedimentazione marxista. Non a caso, uno degli ultimi rappresentanti di tale diffusione, Fredric Jameson, allievo americano di Marcuse, ha individuato un formidabile avversario del marxismo anche in campo letterario in «quel misto di liberalismo politico, empirismo e positivismo logico di cui è impastata la filosofia angloamericana e che è completamente ostile al tipo di pensiero qui delineato (la tradizione “dialettica” francese e tedesca)» !. Se mai, in casi del genere, interessante è osservare come, sotto la pressio-
ne di circostanze sociali, politiche e anche culturali particolarmente sfavorevoli, l'originario bagaglio di formulazioni marxiste si deformi e modifichi nello sforzo, non sempre consapevole, di tener conto delle possibili direzioni o influenze della realtà socio-culturale circostante. Se si tiene questo rilievo come punto di riferimento, si potrà arrivare a constatare che, pur in assenza di una vera e propria tradizione di pensiero, alcuni elementi di continuità e di distinzione si presentano. Per esempio, la mancanza di vistosi punti di riferimento esterni, nei processi politici e sociali di trasformazione, fa del marxismo critico-letterario anglosassone un fatto incomparabilmente più accademico (nel senso, anche strettamente, di «universitario »), che non nel resto dell’Europa. La sistematicità totalizzante, cosî caratteristica del pensiero di autori come Lukfcs o Adorno, si ritrova talvolta anche qui, ma sotto forma di tendenza a creare dei «sistemi» d’interpretazione socio-culturale ben completi in tutte le loro parti, secondo un modello che è pit positivistico che marxista-ortodosso. Le contaminazioni, infine, con la tradizione del pensiero anglosassone fanno emergere interessi e formule che sono, per l’appunto, dichiaratamente empiristici e che perciò i teorici marxisti tedeschi o italiani non avrebbero esitato a definire marxisti-volgari più che marxisti-ortodossi. Un libro particolarmente celebre in questo settore è Illusion and Reality *, scritto dal giovanissimo autore, l’inglese Christopher Caudwell, intorno alla metà degli anni ’30, e pubblicato solo dopo la seconda guerra mondiale nel °47. Caudwell, militante comunista, di quella specie singolarissima che contraddistingue l’intelligencija britannica durante questo periodo, era nel frattempo caduto combattendo nelle Brigate internazionali in Spagna, il 12 febbraio 1937, contro le truppe fasciste di Franco. Il suo libro è un tentativo di dare una compiuta teoria marxista dell’arte, e in particolare della poesia, dalle origini dell’esperienza umana fino allo scontro di classe all’interno del sistema capitalistico. Le due idee-guida delE F. JAMESON, Prefazione a Marxism and Form, 1971 (trad. it. Napoli 1975, p. 2). CH. CAUDWELL, Illusion and Reality. A Study of the Sources of Poetry, 1947 (trad. it. Torino
1950).
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l'impostazione di Caudwell sono che, da una parte, l’arte ha una radice inequivocabilmente sociale, dall’altra, «il mondo ideale del pensiero, o della ideologia», e quindi anche l’arte che ne fa parte, rappresentano «il riflesso del mondo reale nel cervello degli uomini», il quale riflesso «è sempre e necessariamente soltanto simbolico rispetto al mondo reale» *. Dentro questo quadro generale, che non rifiuta neanche le possibilità offerte da una buona descrizione «positiva» dei fenomeni letterari esaminati, Caudwell colloca l’applicazione delle categorie marxiane pit ovvie: per esempio, quella della « contraddizione», alla quale attribuisce un gran peso. L’arte, la letteratura, infatti, non sono che «un aspetto particolare della contraddizione che determina il movimento generale della società, di quella contraddizione cioè tra gli istinti e l’ambiente, di quella lotta incessante tra l’uomo e la natura che è appunto la vita» ‘. Questo fa si che l’arte provochi al tempo stesso un processo «rivoluzionario» e uno di «adattamento» °, e che essa, in una «società di classe»,
non possa non essere «un'arte di classe» °. Con formulazioni che in qualche modo richiamano curiosamente quelle di Antonio Gramsci, Caudwell si sforza di individuare le fondamenta di quello che, significativamente, egli definirà il processo più «evoluzionistico» che «rivoluzionario» ” della creazione artistica, utilizzando il concetto di «genotipo » e ancorando le trasformazioni della letteratura a quelle della «coscienza di classe»: L'artista... integrerà necessariamente la nuova esperienza e si farà interprete della coscienza di quel gruppo la cui esperienza assomiglia nel complesso a quella sua personale — della coscienza, insomma, della sua classe. E la sua sarà la classe che sola si dedica all’arte: la classe, cioè, al cui polo estremo si raccolgono la libertà e la consapevolezza della società, e che in ogni epoca costituisce la classe dirigente *.
È ovvio che, poste cosî le cose, anche Caudwell arrivi alla conclusione che, pur non potendosi anticipare frettolosamente le tappe del processo rivoluzionario, l’arte proletaria sarà di gran lunga superiore all’arte borghese: per quanto grande, infatti, quest’ultima è pur sempre «l’arte di un uomo il cui organismo è come tagliato in due» °, perché rappresentava gli ideali e gli interessi della sola classe dominante e non dell’umanità intera. «La poesia comunista sarà, invece, completa, in quanto l’uomo sarà consapevole della necessità propria, oltre che di quella della realtà esterna» ". L’afflato rivoluzionario di Caudwell, più utopistico che sistematico (altrettanto autentico, ma quanto diverso da quello dei suoi quasi coetanei come Brecht e Breton!), si appanna, ef pour cause, nei suoi più tardi continuatoti, 3 4 5 6 ? ® > 10
Ibid., Ibid., Ibid. Ibid., Ibid., Ibid., Ibid, Ibid.,
p. 188. p.257. p. 260. p. 258. pp. 260-61. p._355. p. 356.
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La questione del metodo
anche quando essi continuino ad essere contraddistinti da una vocazione politica precisa.
Fredric Jameson, formatosi negli Stati Uniti degli anni ’60, si sforza di portare ad un confronto e ad una sintesi tutte le principali tradizioni marxiste (o pseudomarzxiste) precedenti (in particolare Luk4cs, Goldmann, Adorno, Sartre); senza ignorare al tempo stesso l’esigenza di confrontare il marxismo con le ragioni di altre tradizioni metodologiche e di pensiero (per esempio, il formalismo e lo strutturalismo) ". L’effetto complessivo è alquanto eclettico, e non sembra in grado di uscire da un livello puramente teorico, per diventare un armamentario capace di mettere in piedi una concreta critica e storiografia letteraria. I punti di maggiore originalità di Jameson sono il tentativo di definire il concetto di ciò che egli chiama «forma interna» (un modo di riprendere e di applicare più dall’interno il fondamentale principio dialettico del rapporto tra forma e contenuto) e lo sforzo di meglio definire il campo della critica autenticamente marxista rispetto a quello sociologico (l’analisi marxista «differisce da un’analisi puramente sociologica, in quanto non descrive semplicemente il rapporto di dipendenza di una dottrina da una classe, ma anche il ruolo funzionale che tale dottrina detiene nella lotta di classe»). Di schietta discendenza francofortese, anzi marcusiana, è invece l’analisi del destino dell’opera d’arte in una società opulenta come quella tardo-capitalistica ”. In Raymond Williams, l’autore di Culture and Society", la fondazione teorica marxista degli studi di letteratura si trasforma in una specie di ordinata enciclopedia delle fondamentali posizioni in questo campo nell’opera Marxisr
and Literature". Per quanto, infatti, l’autore ponga questo suo testo al culmi-
ne di «un periodo di attivo sviluppo del marxismo» in Inghilterra, e indichi, anche sul piano personale, l’evoluzione compiutasi come il passaggio da una lunga fase di «populismo radicale » (nella quale fa rientrare sia il proprio Clture and Society, sia Illusion and Reality di Caudwell) ad un recupero autentico della «tradizione ortodossa», non riesce poi, nella logica della sua opera, ad andare molto al di là di un’esposizione brillante e sistematica dei classici del pensiero marxista in questo campo: Luk4cs e Goldmann per il capitolo Typification and Homology, Gramsci per il capitolo Hegemony, la prefazione di Marx a Zur Kritik der politischen Okonomie per il capitolo Base and Superstructure, e cosî via. !! Cfr. ad esempio il capitolo Marxismo e forma interna, in F. JAMESON, Marxism and Form cit., trad. it. pp. 444-61. 12 Ibid., p. 420. Anche altrove: «Pertanto, usando una ben nota terminologia, l’opera d’arte, o il fatto culturale, riflette certamente qualcosa, ma ciò che riflette non è, altrettanto certamente, la classe in sé come configurazione culturale autonoma, ma piuttosto la situazione della classe o, in poche parole, il conflitto di classe » (ibid., p. 422). 13 Ibid., pp. 236 sgg. 14 R. WILLIAMS, Culture and Society 1780-1950, 1961 (trad. it. Cultura e rivoluzione industriale. Inghilterra 1780-1950, Torino 1968). ° In., Marxism and Literature, Oxford 1977.
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La parte più autentica del pensiero di Williams resta quella relativa ad una possibile fondazione di una sociologia della cultura e ai rapporti che, inevitabilmente, si stabiliscono tra questa e una teoria della letteratura: «La teoria letteraria non può essere separata dalla teoria culturale, pur potendo essere distinta al suo interno. Questa è la sfida centrale di qualsiasi teoria sociale della cultura» ‘“. In questo modo, Williams sembra collocarsi con rinnovata precisione all’interno di un filone di studi anglosassoni sui condizionamenti sociali degli scrittori e della cultura, di cui costituiscono, ad esempio, un’altra testimonianza le opere di Richard Hoggart ”. 12.
Alcuneeredità.
L’esperienza storica del marxismo nel campo della teoria e della critica letteraria entra in una sua fase di declino, in tutta Europa e nel mondo, nel corso degli anni ’60. Ciò è dovuto, pit che all’affermazione di altre tendenze di natura diversa e persino opposta, come il formalismo e la semiologia, al nesso di profonda intrinsecità che il marxismo critico-letterario fin dalle sue origini aveva stabilito con l’evoluzione e il destino della dottrina marxista in generale: L’appannamento innegabile di quelle concezioni che interpretavano il marxismo come visione generale del mondo, «chiave» della storia, provocano inevitabilmente l’appannamento di una metodologia della teoria e della critica letteraria, la quale, nelle sue manifestazioni pit alte, non si era limitata a considerare la letteratura un oggetto da conoscere ed aveva ipotizzato che questa conoscenza, in cgerenza con altre, sarebbe stata destinata a trasformare il mondo. Il declino, altrettanto obiettivo, di una prospettiva di trasformazione rivoluzionaria della società capitalistica e la sempre più spenta e formulistica prosecuzione delle tematiche del «realismo socialista» nei paesi dell’Est comunista costituiscono altrettanti motivi di crisi dell'impianto metodologico del marxismo nel campo della critica letteraria. La lettura dei testi, infatti, se non si riduce ad una pura e semplice « scolastica» della dottrina originaria, comporta sempre per il marxismo ortodosso una proiezione-previsione verso l’incombente futuro. Se il futuro appare programmato dalle indefettibili leggi di sviluppo della società organizzata in classi, la prospettiva marxista si restringe, l’operazione interpretativa rientra nella normalità degli apparati ideologici e culturali del sistema (mentre qui si è sostenuto che la critica letteraria marxista è sempre critica letteraria, ma anche contemporaneamente qualcosa d’altro: militanza, scelta di campo, prospettiva rivoluzionaria, ecc.). 16 17 turale. tacolo,
Ibid., p.145. Cfr. ad esempio r. HoccarT, The Uses of Literacy, 1957 (trad. it. Proletariato e industria culAspetti di vita operaia inglese con particolare riferimento al mondo della stampa e dello spetRoma 1970).
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La questione del metodo
La prima vittima di questo processo di mutamento reale è la nozione di una critica letteraria marxista come parte coerente di una visione generale del mondo, proiezione di una dottrina totale, fedele rappresentante di un esercito di consimili militanti, schierati in ogni punto della mappa del sapere. La prima vittima, cioè, è l’idea della sistematicità e totalità del punto di vista marxista nel campo della letteratura e della metodologia letteraria (come, del resto, in ogni altro campo). Se il marxismo come espressione del punto di vista «pit totale» non riesce più a reggersi né logicamente né praticamente, questo però non significa
che la sua dissoluzione come sistema chiuso non abbia lasciato come eredità ai suoi interlocutori, avversari ed amici, alcuni problemi, alcuni interrogativi, che continuano ad aggirarsi come spettri nel dominio sempre più sofisticato e tecnologico della critica letteraria mondiale. Mi limiterò ad accennare a quelli che sembrano ancor oggi pit significativi. Non c’è dubbio, ad esempio, che il nesso «base-sovrastruttura» s’imponga come un terreno ineludibile ogni qualvolta ci si proponga una sia pur minima operazione storiografico-letteraria. Dato per scontato che non esiste nes“sun rapporto meccanico tra forme della produzione economica e forme della produzione culturale (e letteraria), ci si chiede in quale casella del discorso vada collocata l’indagine di quell’ingente (inesauribile) massa di «flussi relazionali» — dentro i quali c’è di tutto, dal reddito dello scrittore alle sue letture preferite, dalla conformazione dei suoi rapporti con la società allo sforzo di «caratterizzare » i testi in funzione d’una certa attesa del pubblico —, senza la cui comprensione si perde una percentuale molto elevata delle possibilità di comprensione del testo. A questo tipo di esigenza si è venuti incontro, formulando da più parti la nozione di «sistema»: e c’è da chiedersi, ad esempio, quanto nelle posizioni di Jurij Lotman e della Scuola di Tartu non si manifesti l’esigenza di comporre un’analisi formale dei vari fenomeni letterari e culturali con la spiegazione del loro radicamento entro realtà storico-sociali ben determinate. Il dogma marxista della «determinazione economica» potrebbe essere tranquillamente abbandonato, senza che con questo venisse posta in crisi l’idea marxista ancor più fondamentale della «relazione dialettica» tra fenomeni. Questa «relazione dialettica» tra fenomeni non è detto che debba tendere ad abbracciare, neanche ipoteticamente, l’intero universo dei rapporti sociali (e dunque culturali): come in ogni procedura di simulazione, può arrestarsi fino ad una descrizione parziale dei fenomeni stessi, ed essere continuamente rimessa in discussione man mano che l’accumulo degli elementi interpretativi e conoscitivi cambia il «modello» in precedenza costruito. In questo quadro «mobile» non si vede perché anche l’economico non debba trovare un suo posto. Mi rendo conto che una visione siffatta dei concetti di «sistema» e di «relazione dialettica» tra fenomeni, proprio per la loro maggiore latitudine rispetto alle originarie formule marxiane, tende a costituire, più che una gerarchia di funzioni e di valori (dall’economico al culturale, secondo una linea
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determinata e unidirezionale), un codice interpretativo dinamico a base ampiamente «antropologica» (dove i «valori» e le «funzioni» non sono dati a priori secondo una scala già nota e serzpre valida, ma continuamente si ricostituiscono e si differenziano în conseguenza delle loro reciproche relazioni). Ma che il marxismo sia in grado di dar luogo a un mutamento cosiffatto dello schema rigido originario, è un’esperienza già fatta in altri campi, prima che in quello della critica letteraria. Del resto, l’ulteriore approfondimento delle eredità problematiche del marxismo consente di apprezzare ancor di più la vastità del «campo di relazioni» che un testo letterario «mette in gioco». Nella meditazione marxiana sulle realtà produttive e sulle forme di coscienza proprie della società capitalistica, occupano un gran posto sia l’analisi del carattere di feticcio della merce sia l’analisi del «lavoro» come elemento fondativo e centrale di tale tipo di società. Il primo dato è stato il più sfruttato: da Geschichte und Klassenbewusstsein di Luké&cs a Negative Dialektik di Adorno. Esso si riconnetteva, infatti, alla denunzia del carattere alienante del capitalismo e, in maniera abbastanza immediata e logica, all’ipotesi del rovesciamento delle basi materiali e culturali di tale alienazione. Oggi, si potrebbe dire che esso riemerge in molte delle analisi che vengono compiute dei meccanismi culturali e d'informazione connessi con l’universo dei rzedia, conside-
rati quasi il prolungamento naturale di quell’organizzazione della produzione mercificata di cultura, che nell’assetto produttivo sociale del capitalismo ha il suo modello. Il secondo dato è rimasto più in ombra, anche perché oggetto di attenzione da parte di Marx, oltre che nella formidabile quarta sezione di Das Kapital, libro I, in opere restate pressoché sconosciute e inutilizzate fino a tempi relativamente recenti, come i già citati Grundrisse' e il capitolo VI inedito del libro I di Das Kapital*. Un utilizzo accorto delle principali indicazioni marxiane, — come, ad esempio, la distinzione tra «lavoro astratto» e «lavoro concreto», — può permettere ancora acquisizioni importanti pet ciò che riguarda la genesi concreta dell’«opera letteraria» soprattutto nell’ambito stotico della produzione capitalistica’, e non tanto nella sfera dei contenuti, come si potrebbe pensare, quanto, precisamente, delle scelte linguistiche e stilistiche. È possibile infatti dimostrare, ad esempio, che in certi ambiti avanguardistici il livello spinto di formalizzazione e persino astrazione del linguaggio ha direttamente a che fare con i processi di scomposizione e divisione del lavoro, caratteristici della società capitalistica, ai quali non risulta estraneo, anzi, neanche 1 K. MARX, Grundrisse der Kritik der politischen Òkonomie (Robentwurf), 1857-58 (trad. it. Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica (Grundrisse), Torino 1976). ? »., Das Kapital. Erstes Buch, Der Produktionsprozess des Kapitals. Sechstes Kapitel, Resultate des unmittelbaren Produktionsprozess (1863-66) (trad. it. Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito. Risultati del processo di produzione immediato, Firenze 1969). 3 A. ASOR ROSA, «Avanguardia», in Enciclopedia, II, Torino 1977, pb. 195-231; A. ABRUZZESE, Lavoro astratto e lavoro concreto nei processi di produzione artistica: Hollywood (1977), in Verso una sociologia del lavoro intellettuale, Napoli 1979, pp. 131-76).
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il lavoro dell’artista e del letterato. Lavorando sulle linee di sutura tra formazione dei processi linguistici e forme (determinate, precise) del lavoro letterario, si possono ottenere risultati sorprendenti. La marxiana «critica dell’ideologia», infine. Marx ha chiarito, in pagine destinate a restare, i nessi che corrono tra determinati processi materiali e la «falsa coscienza» che se ne crea ogni qualvolta, da parte della classe dominante, se ne restituisce un'immagine in termini ideologici e culturali (e letterari, aggiungeremo noi). Ora, il processo di accostamento al testo passa e non può non passare attraverso un momento di «critica dell’ideologia». Questa «critica dell’ideologia», del resto, si può chiamare in molti modi: anche «destrutturazione», a mio modo di vedere. Ora, noi pensiamo che sia marxista, anzi marxiano, assumere un punto di vista, per cui la totalità dell’oggetto da analizzare non è mai un dato posto una volta per tutte, ma piuttosto l’effetto d’un gioco di forze, in conseguenza del quale tale oggetto si presenta non solo per ciò che è ma anche per ciò che vuole apparire. Pur sapendo benissimo che ciò che l’oggetto vuole apparire è anche ciò che l’oggetto è, una distinzione come questa (sia pure assolutamente convenzionale e provvisoria) mette in movimento una dinamica di livelli interpretativi, di spinte e controspinte semantiche, che, attraverso processi di scomposizione e ricomposizione, svela nell’oggetto e mette a nudo tutte le possibili valenze di cui esso è ricco. L’ideologia, in questa visione, non è un «prima», cui segua poi il testo, ma è una
delle nervature fondamentali dell’oggetto stesso, e, al tempo stesso, per quanto possa apparire paradossale, il suo punto d’arrivo, una componente decisiva della sua facciata. «Critica dell’ideologia», in questa chiave, non è che la rivelazione, il portare a coscienza, di queste nervature fondamentali, senza le quali il testo, preso nella sua immediatezza e concretezza, è invece del tutto
astratto.
Se la s'intende in questa maniera — e cioè come un presupposto ineliminabile della «critica dell'ideologia» —, può tornare ad avere un senso limitato
ma preciso anche l’altra vexata quaestio marziana secondo cui non c'è opera-
zione culturale (e letteraria) che non sia espressione di classe, anzi, della «classe dominante». Infatti, come potrebbe non essere cosî, se le «nervature ideologiche» del testo (punto secondo) riconducono inevitabilmente ad un qualche «luogo» determinato all’interno di un «sistema» di «relazioni culturali» e, dunque, «sociali» (punto primo)? La condizione per cui questo percorso si chiarisca in tutte le sue parti è, ovviamente, che non si parli di «classe» in senso solo economico ma, in termini più generali, come quella determinata «struttura sociale», che, a certe condizioni, gestisce sostanzialmente il «potere», in tutte le sue implicazioni (potrebbe dunque essere una «struttura sociale» a base non immediatamente economica). Le differenze, rispetto alle precedenti formulazioni, sono non poche, com'è facile capire. Una, fondamentale, è che, rispetto al discorso dei maggiori teorici marxisti del passato — da Lukécs a Benjamin a Caudwell —, è venuta meno l’enfasi polemica, la tonalità rivoluzionaria, con cui fu un tempo pronunziata, ed essa corre il
Asor Rosa
Il matxismo e la critica letteraria
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rischio, ormai, di presentarsi come del tutto ovvia, come «un sofisma », per usare la parola di Gramsci. Ridotta a mero presupposto di una «sociologia della cultura» (e della letteratura), questa un tempo folgorante parola d’ordine sembra destinata ad iscriversi nel prontuario delle banalità, a cui nessuno fa pit caso. Ma, se ci si pensa un istante, la sua apparente neutralità non sembra ancora accettata del tutto tranquillamente, neanche nel campo cosî innocente
della critica letteraria.
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Indice dei nomi
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Abel, Karl, 584. Abruzzese, Alberto, 590 n, 591 n, 592 n, 602 n, 605 n, 606 n, 608 n, 609 n, 610 n, 621 n, 626 n, 627 n, 644 n, 645 n, 683 n.
Accolti, Bernardo, 344. Achillini, Claudio, 378. Acquaviva, Sabino S., 642 n. Acutis, Cesare, 138 n, 463 n, 537 n. Adorno, Theodor Wiesengrund, 614 n, 615 e n, 668 e n, 669, 671, 680, 683.
Agamben, Giorgio, 625 n. Agosti, Stefano, 51 n, 63 n, 64 e n, 69 n, 88 n, 499, 500 e n, 516 n, 582 n.
Agostino, Aurelio, santo, 143 n, 179 N. Agricola, Erhard, 93 n. Ajello, Nello, 629 n. Alano di Lilla, 139. Alberoni, Francesco, 645 n. Alberti, Giovan Battista, 182 n. Alberti, Leon Battista, 294, 295 n. Alcuino di York, 144.
Aldobrandino di Cambfo, 489 n.
Alfesibeo Cario, vedi Crescimbeni, Giovan Mario. Alfieri, Vittorio, 398, 400, 404. Algarotti, Francesco, 319, 320. Alighieri, Dante, 24, 25, 48, 50, 51 n, 60, 65, 66, 84, 85, 106, 155 e n, 165, 166, 174, 187
n, 189, 201 N, 204 N, 205 N, 209, 210 n, 226
n, 29I, 320, 338-42, 359, 364, 366, 369, 370,
372, 373, 390, 396, 398, 401, 410, 422, 427, 452,
457-62,
466 en,
467
D,. 469
n, 472,
476,
477, 479; 483 e n, 490 n, 510, 653, 674, 677.
Alonso, Dàmaso, 353 e n. Althusser, Louis, 619. Altick, Richard D., 634 n. Altieri Biagi, Maria Luisa, 273 n, 491. Ambrogio, Ignazio, 422 n, 665 n. Anactreonte, 319. Anceschi, Luciano, 247, 248 n. Andrés, Juan, 317 e n, 320, 332. Angiolieri, Cecco, 31. Annie, vedi Vivanti, Annie. Annio (Nanni) da Viterbo, 325. Antonelli, Roberto, 144 n, 145 n, 146 n, 187 n, 200 N. Antoni, Carlo, 355 n. Apollinaire, Guillaume (pseudonimo di Guillaume-Albert de Kostrowitsky), 61.
Appel, Carl, 187 n. Apuleio, 90. Ardigò, Achille, 645 n. Ardigò, Roberto, 624. Arese, Felice, 201 n. Argelati, Filippo, 322. Ariosto, Ludovico, 31, 34, 69 n, 80 n, 81, 84,
85, 87, 222 n, 279, 297, 313, 315, 322, 325, 328, 329, 341-47; 358, 364, 366, 367, 370, 377, 386-88, 409-II, 451, 472.
Aristotele, 29 e n, 249 e n, 253 n, 254, 276, 277,
282, 336, 369, 403, 424, 676.
Arnaut Daniel (Arnaldo Daniello), 153 e n. Arns, Evaristo, 143 n, 286 n. Artale, Giuseppe, 378. Artaud, Antonin, 637. Arteaga, Esteban, 317 n, 318-20. Ascoli, Graziadio Isaia, 154, 487 n. Asinio Pollione, Gaio, 313. Asor Rosa, Alberto, 8 n, 17 n, 144 n, 146 n, 227 n, 266 n, 267 n, 268 n, 273 n, 281 n, 282 n,
291 n, 296 n, 302 n, 463 n, 590 N, 591 n, 614,
626 n, 630 e n, 631 e n, 658 n, 663 n, 683 n.
Assunto, Rosario, 628 n. Auerbach, Erich, 214 e n, 215 e n, 216 n, 218 e n, 219 N, 221, 352, 619, 632, 676.
Avalle, D’Arco Silvio, 78 n, 88 n, 106 n, 141 N, 144 N, 149 N, 150 n, 152 e n, 184 e N, 185 n, 187 n, 189 e n, 192 n, 198 n, 199 N, 205 N,
209 n, 210 N, 214 N, 219 € N, 224 N, 226 n,
234 N, 235 € N, 239 N, 241 n, 269 N, 453 N,
456 n, 458 n, 474 n, 479 n, 485 e n, 486 € n, 497 N, 498 n, 499 €N, 502 N, 505 € N, 508 n,
510 N, SII N, 513 N, 520 N, 524 N, 525 n, 526
e n, 528-33, 535 e N, 537 n, 538 n, 541, 544 e n, 547 e n, 632.
Avesani, Rino, 294 n. Bacchelli, Riccardo, 305, 307. Bacchini, Benedetto, 7, 8. Bach, Johann Sebastian, 409, 469. Bachelard, Gaston, 570 e n, 635 e n, 636 e n. Bachofen, Johann Jakob, 383. Bachtin, Michail Michajlovié, 40 n, 75 e n, 83,
113-18, 139 N, 258 n, 269 e n, 273 e n, 278 e n, 280 n, 422 € n, SII, 586 e n, 643 e n, 662 n, 663 n.
Bacone, Francesco, 351, 388. Bal, Micke, 38 n, 249 n.
690
Indice dei nomi
Baldelli, Ignazio, 218 n, 451 n, 452 n, 455 N,
459 n, 460 n, 461 n, 462 n, 465 n, 466 n, 467 n, 472 e n, 480-82, 483 n, 490.
Baldi, Guido, 103 n. Balduino, Armando, 196 n, 199 n, 204 n, 234
n, 243 N, 479 n, 487 n, 489 n.
613, 628, 639, 648 n, 670-72, 684.
Bally, Charles, 70-73, 473 e n, 517 n, 518, 521 n. Balzac, Honoré de, 557, 569, 605, 653, 654, 660, 661.
Banfield, Ann, 38 n. Barbano, Filippo, 645 n. Barbarisi, Gennaro, 52 n. Barbera, Gaspero, 335. Bàrberi Squarotti, Giorgio, 345 n, 518, 526 n,
542 e n, 543 n.
Barbi, Michele, 155 n, 163 n, 166 n, 175-82, 185 n, 199 N, 20I, 202 N, 203 e n, 204 N, 2II, 222
e n, 234, 401, 462, 469-71, 488, 489.
Barbiellini Amidei, Gaspare, 645 n. Barbieri, Giovanni Maria, 199 n. Barbusse, Henri, 72, 214. Baretti, Giuseppe, 403. Bartas, Guillaume de Salluste, sieur du, 317. Bartels, Adolf, 366. Batthes, Roland, 58 n, 75 e n, 98 e n, 108, 124
n, 231 € n, 520, 522, 527 e n, 535, 611 n, 635 en, 644 e n.
Bartoli, Adolfo, 155 n. Bartsch, Karl, 153 n. Basile, Bruno, 78 n, 234. Basile, Giambattista, 378. Bassani, Giorgio, 482 n.
Bastide, Roger, 638. Bataille, Georges, 637. Bateson, Gregory, 622 e n. Battaglia, Salvatore, 628 e n. Batteux, Charles, 434. Battistini, Andrea, 17 n, 266 n. Baudelaire, Charles, 51 n, 63, 252, 378, 379, 589 n, 605 n, 606, 611, 628, 670, 672. Baudrillard, Jean, 610 e n, 644 n. Baumgarten, Alexander Gottlieb, 434, 435. Bayle, Pierre, 8. Baym, Nina, 634 n. Bazlen, Roberto, 629 n. Beach, Joseph Warren, 358. Beaugrande, Robert-Alain de, 40 n. Beccaria, Gian Luigi, 65 e n, 66 n, 69 n, 269 n,
459 N, 473 N, 474 N, 475 N, 479 N, 490, 499, 500 e n_ 502 n, 508 n, 521 n.
Bechelloni, Giovanni, 634 n. Bédier, Joseph, 153, 167 e n, 168 e n, 169 n, 170-79,
181-84,
187-95,
198-201,
Benedetto da Norcia, santo, 340 e n. Benevoli, Orazio, 409. Bengel, Johann Albrecht, 148. Benivieni, Girolamo, 323. Benjamin, Walter, 604 e n, 605 n, 609 e n, 611,
203,
222,
223, 225, 230, 233, 235-37, 240, 243, 486 n.
Beer, Marina, 597 n, 624 n. Beethoven, Ludwig van, 409. Bell, Daniel, 598, 620, 624, 645 n. Bellay, Joachim du, sI n. Bellemin-Noél, Jean, 78 n. Belli, Giuseppe Gioachino, 31, 301, 302. Belloni, Gino, 234 n. Beltrami, Pietro G., 68 n. Bembo, Pietro, 379, 492.
Ben Porat, Ziva, 83 n. Bense, Max, 643 n. Bentivoglio, Guido, 319. Benveniste, Emile, 28 e n, 39 n, 61 n, 517 n, 584 e n, 585 n.
x
Berardinelli, Alfonso, 524 n, 539 n. Berengo, Marino, 300 n, 453 n. Berger, Brigitte, 598 n, 623 e n, 624, 625 n. Berger, Peter L., 598 n, 623 e n, 624, 625 n, 645 n. Bergson, Henri-Louis, 167 e n, 353, 625 n. Bernart de Ventadorn, 187 n. Berni, Francesco, 465. Bernini, Gian Lorenzo, 409. Beroaldo, Filippo, il Vecchio, 323. Bertinetto, Pier Marco, 68 n, 69 n, 499 n, 500
n, 520 n, 524 N, 537 N, 542 € n, 545 n, 546 n.
Bertini Malgarini, Patrizia, 457 n. Bertolucci, Attilio, 267. Bertoni, Giulio, 476, 477 n, 489. Bertran de Born, 153 n. Bessi, Rossella, 198 n, 234 n. Bettarini, Rosanna, 489. Betti, Franco, 320 n. Bettinelli, Saverio, 320 e n. Biagini, Enza, 275 n. Bianchetti, Egidio, 82 n. Bianconi Bernardi, Franca, 103 n. Bierwisch, Manfred, 93 n. Bigazzi, Roberto, 273 n. Bigi, Emilio, 80 n. Bigongiari,
Piero, 79 n.
Billanovich, Giuseppe, 146 n, 208 n, 490, 491. Binni, Walter, 81 n, 311 n. Biondi, Albano, 7 n. Biondi, Giovan Francesco, roI n. Biondo, Flavio, 294. Blackmur, Richard Palmer, 352 e n. Blake, William, 622. Blanchard, J. M., r1o n. Blanché, Robert, 90. Blanchot, Maurice, 603 n, 633, 635 e n, 636 e n. Blecua, Alberto, 200 n. Bloom, Harold, 541 n. Bloomfield, Leonard, 57 n. Boccaccio, Giovanni, 39 n, 50, 62 n, 89, 103 n, 104,
106, 174,
184, 186, 187, 205 € n, 293,
294, 319, 322, 328, 329, 336, 366, 393, 398.
Bodei, Remo, 609 n. Bogatyrév, Pétr G., 513 e n, 538. Bohr, Niels Henrik David, 522 n. Boiardo, Matteo Maria, 84, 85, 343, 366, 387. Boileau-Despréaux, Nicolas, 126. Boklund, Karin M., 138 n. Bollack, Mayotte, 154 n. Bologna, Corrado, 146 n. Bonaparte, Marie, 560 e n, 573 e n. Bonaventura da Bagnorea, santo, 340 e n.
Indice dei nomi Bonazis, Charles, 638 n. Bonnot, René, 638. Booth, Wayne C., 27 n, 33 e n. Borchardt, Rudolf, 351 e n. Borges, Jorge Luis, 246 e n, 247 en. Borgese, Giuseppe "Antonio, 324 N, 392 € n, 406. Borghello, Giampaolo, 648 n. Borghi, tipografo, 333 n. Borsa, Matteo, 319, 320. Bosco, Umberto, 490. Bottiroli, Giovanni, 522 n. Bourdieu, Pierre, 610 n, 625. Bourget, Paul, 378. Bourneuf, Roland, 33 n, 641 n. Bouveresse, Jacques, 620 n. Bradbury, Malcolm, 634 n. Bradley, Andrew Cecil, 389, 391. Brambilla Ageno, Franca, 234 n. Branca, Vittore, 146 n, 207 n, 208 n, 234 n, 295
n, 345 n, 481 n, gore n, 524 N, 526 n.
Brand, C. P., 103 n. Brandes, Georg, 365, 366. Brandi, Cesare, 203 n. Brandolini, Aurelio, detto Lippo, 323. Brandolini, Raffaello, detto Lippo, il Giovane,
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Calogero, Guido, 404 e n. Calvino, Italo, 49 n, 87, 242 n, 541, 629 e n. Camerana, Giovanni, 65 n. Campa, Riccardo, 616 n. Campana, Dino, 626 n. Campanella, Tommaso, 347, 422. Camporesi, Piero, 139 n, 597 n. Campra, Rosalba, 247 n. Cane, Eleonora, 38 n. Canello, Ugo Angelo, 153 e n, 154 n. Canetti, Elias, 605 n. Canfora, Luciano, 191 n, 192 n. Canti, Cesare, 322, 325 e n, 326, 329, 333 € N,
334 e n, 336, 337 N, 342, 344.
Canziani, Alfonso, 47 n, 272 n. Caporali, Marta, 453
n.
Caprettini, Gian Paolo, 228, 483, 484, 513 N,
516 n, 529 n, 532 n, 543 N, 548 n.
Capriolo, Elia, 322. Capuana, Luigi, 626. Carabellese, Pantaleo, 440 e n. Carducci, Giosue, 302, 338, 380, 393, 402, 405,
452, 454, 456, 457 e n, 498, 673.
Caretti, Lanfranco, ro e n, II e n, 80 n, 177 N, 2II N, 219 N, 221 e N, 224 N, 225 N, 287, 288
n, 299 N, 301 n, 454 N, 472 N, 489.
Braudel, Fernand; 597 n. Bravo, Gian Mario, 651 n. Brayer, Edith, 468 n. Brecht, Bertolt, 656, 666 e n, 667, 672, 679. Bremer, Jan Maarten, 249 n. Bremond, Claude, 101 n, 102 e n, 105 € n, 106, 109, 586 n.
Bresciani, Antonio, 342 e n. Breton, André, 580 n, 665 e n, 666, 679. Brik, Osip, 68 e n.
Brilli, Attilio, 280 n. , Brioschi, Franco, 17 n, 540 n. Bronzwaer, W. J. M., 39 n. Brooks, Cleanth, 38 e n, 352 n. Browning, Robert, 39. Brugnolo, Furio, 290 n. Brunetière, Ferdinand, 247 e n, 251 N, 312 N, 364.
Bruni, Francesco, 139 n, 492. Bruno, Giordano, 347, 348, 368, 4II. Brusoni, Girolamo, roI n. Bubner, Rudiger, 509 n. Bucharin, Nikolaj Ivanoviè, 663. Buffon, Georges-Louis Leclerc, conte di, 212. Bihler, Karl, 505, 506 e n. Buonarroti, Michelangelo, 4II. Burckhardt, Jacob, 610 n. Burke, Edmund, 431 n. Burke, Kenneth, 95 e n. Burns, Robert, 653. Buti, Leonora, 63. Buttitta, Antonino, 513 n. Buyssens, Eric, 54 n.
Buzzati, Dino, 39 n. Caillois, Roger, 636 e n. Calabrese, Omar, 644 n. Calagrosso, Francesco, 473.
Carini, Anna Maria, 80 n. Carissimi, Giacomo, 409. Carlomagno, imperatore, 144, 315. Caroti, Stefano, 294 n. Carravetta, Peter, 16 n, 645 n. Carroll, David, 14 n. Casadei, Emanuela, 47 n. Casamassima, Emanuele, 210 n, 294 n. Casella, Mario, 155 n, 192 n. Cases, Cesare, 213 n, 214 N, 463 n, 525 n, 613 n, 628 n, 635 e n, 658 n.
Casetti, Francesco, 631 n, 644 n. Casini, Tommaso, 155 n. Cassano, Franco, 591 n. Castellani, Arrigo, 182-84, 186 n, 200 n, 209 N,
480, 484, 488-90.
Castellani Pollidori, Ornella, 451 n, 452 n. Castelli, Eugenio, 103 n. Castiglione, Baldassarre, 296, 297 n. Caterina da Siena, santa, 337. Catullo, Gaio Valerio, 189, 317. Caudwell, Christopher, 678-80, 684. Cavalcanti, Guido, 185 n, 338, 461. Cavallo, Guglielmo, 286 n. Cavicchia Scalamonti, Antonio, 625 n. Cawelti, John C., 634 n. Cazeneuve, Jean, "635, 636 n. Ceccaroni, "Arnaldo, 103 N. Cecchi, Emilio, 144 N, 420 € n, 426, 474 N, 481, 489 n.
Cecchi, Ottavio, 597 n. Cecco d’Ascoli (Érancesco Stabili, detto), 338. Ceccuti, Cosimo, 333 n. Cellini, Benvenuto, 4II. Cerisola, Pier Luigi, 499 n. Cervantes Saavedra, Miguel de, 34, 106, 139,
343, 653, 658.
Cesare, Gaio Giulio, 61, 313.
692
Indice dei nomi
Cesarini, Virginio, 298. Cesarotti, Melchiorre, 319, 320, 370. Ceserani, Remo, 16 n, 84 n, 295 n. Chabod, Federico, 262 e n. Char, René, 636 n. Chartres, John, 457 n. Chateaubriand, Frangois-Auguste-René de, 653. Chateaux, Dominique, 112 n. Chatman, Seymour, 27 n, 59 n, 68 n, 97 n. Cherubini, Francesco, 302 e n. Chevalier, Louis, 605 e n, 608. Chiabrera, Gabriello, 317, 319, 320, 344. Chiappelli, Fredi, 452 n. Chiarini, Giorgio, 189 n, 193 n, 226 n. Chladenius, Johann Martin, 147 e n. Chlebnikov, Velemir (pseudorizzo di Viktor Vladimirovié Chlebnikov), 495. Chtétien de Troyes, 188 n. Christie, Agatha, 36. Chuzziguera, José de, 409. Ciacci, Margherita, 621 n. Ciccone, Genuino, 155 n. Cicerone, Marco Tullio, 313, 325, 328, 351. Cino da Pistoia, 461. Cione, Edmondo, 331 n. Ciotti, Andrea, 155 n. Ciriaco d’Ancona, 294. Codax, Martin, 51 n. Cohen, Ralph, 311 n. Cohn, Dotrit, 38 n. Colaiacomo, Claudio, 604 n. Coleridge, Samuel Taylor, 389, 623. Coletti, Vittorio, 46 n, 499 n. Collazio, Pietro Apollonio, 323. Collingwood, Robin G., 352. Collodi, Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini), 87, 103 n.
Colombo, Cristoforo, 327, 341 e n. Colonna, Francesco, 61. Compagnon, Antoine, 83 n. Comparetti, Domenico, 154, 155 n, 164 e n. Comte, Auguste, 624 e n, 634 n, 639. Constant de Rebecque, Benjamin-Henri, 571. Conte, Gian Biagio, 539 n. Conte, Maria-Elisabeth, 40 n, 41 n. Conti, Alessandro, 203 n. Contini, Gianfranco, 70 n, 79 e n, 81 n, 150, 166 n, 167 e n, 174 n, 181 n, 182 n, 185 n,
190, I9I N, 192 N, 193 N, 194€ N, 195 € N, 199
n, 203 N, 2II N, 214 N, 219 N, 220 N, 222-32,
234 n, 262 n, 269, 270 n, 287 e n, 297 n, 399,
452, 453 € N, 454 N, 455, 456 n, 458 n, 459 n,
464 n, 474 N, 475 € n, 476 N, 477-79, 481,
486-9I1, 516 e n, 519 e n, 525 e n, 526 e Dj 528 e n, 529 e n, 533, 586 e n, 632.
Copernico, Nicola, 341 e n, 409. Corneille, Pierre, 364, 369, 385, 386. Cornelio, Tommaso, 316. Corno, Dario, 509 n, 512 n, 516 n, 523 n, 532
n, 539 N, 540 n.
Corsini, Gianfranco, 628, 634 e n. Cortese, Alessandro, 323. Corti, Maria, 46 n, 49 n, 78 n, 124 n, 139e n, 140 N, 200 N, 247, 248 n, 255 e n, 256 e n,
276 e n, 305 n, 306, 473 N, 474 N, 480 n, 483 e n, 484 n, 485, 490, 497 n, 498 n, 499
n, 501 n, 515 n, 524-26, 528 n, 530-32, 534 N,
535, 539, 541 e N, 547 € n, 548 n, 602 n, 628 n, 632-34.
Coscia, Pierangelo, 645 n. Costantini, Aldo Maria, 294 n. Costantini, Alessandro, 517 n. Costantino I, imperatore, detto il Grande, 325. Courtés, Joseph, 42 n, 43 n, 83 n, 89 n, 279 n. Coveri, Lorenzo, 41 n. + Cremante, Renzo, 68 n. Crescimbeni, Giovan Mario, 321 e n. Crespi, Franco, 645 n. Cristofori Piva, Carolina, 456. Croce, Benedetto, 163-67, 179-81, 211 n, 212,
215 € N, 219, 220, 222, 223, 245-47, 252, 253,
258, 275, 299 N, 316 n, 317 n, 327 n, 335 n,
351-412, 419, 423 € N, 439, 440 e n, 458 e n,
466 n, 471, 473 N, 474 n, 478, 479 N, 499, 517 N, 531, 673.
Croce, Giulio Cesare, 139 e n. Crosman, Inge, 27 n, 515 n. Crotti, Ilaria, 103 n. Culler, Jonathan, 108 e n. Curtius, Ernst Robert, 166 n, 214 n, 215 e n, 218 e n, 221, 246 e n, 291 n, 570€ n, éro n. Dabove, Santiago, 247 n. Dain, Alphonse, 186 n. Dalla Palma, Giuseppe, 103 n. Dallas, Eneas Sweetland, 30. D'Ancona Alessandro, 155 n, 355 n, 337 n, 377. Danes, Frantitek, 93 n. D'Angelo, Paolo, 439 n. D'Annunzio, Gabriele, 32, 82 e n, 88, 164, 303,
304, 334, 357, 368, 369, 377, 378, 380, 393, 397, 405, 406, 468, 472, 476, 626.
Dante, vedi Alighieri, Dante. Dardano, Maurizio, 489. D'Arrigo, Stefano, 482 n. Debenedetti, Giacomo, 627 e n, 632. Debenedetti, Santorre, 80 n, 81 n, 222 e n, 297 n, 471e n, 485 en.
Debussy, Claude-Achille, 469. De la Mare, Albinia Catherine, 293 n. De Lauretis, Teresa, 103 n. Delcorno Branca, Daniela, 81 n. Della Casa, Giovanni, 49 n, 69. Della Chiesa, Francesco Agostino, 322. Della Terza, Dante, 215 n, 336 n, 341 n, 345 N, 498 n.
Della Volpe, Galvano, 672, 675-77. Del Lungo, Isidoro, 298 n. De Lollis, Cesare, 471, 498. De Man, Paul, 515 e n. De Marinis, Marco, 543 n. De Martino, Ernesto, 627 e n. De Masi, Domenico, 645 n. De Mauro, Tullio, 428 e n, 470 n, 474 n, 476 e
n, 490, 546, 547 e n.
Dembowski, Peter F., 211 n. De Poerck, Guy, 468 n.
Indice dei nomi De Robertis, Domenico, 81 n, 187 n, 202 n, 203 n, 226 n, 301 n, 305 n, 489 e n. De Robertis, Giuseppe; 79 n, 81 n, 219, 223,
399, 452, 453, 464, 479 n, 498, 499, 525 N,
526, 529.
De Roberto, Federico, 260 n. Derrida, Jacques, 13, 14 e n, 15 n, 16, 351. De Sanctis, Francesco, 8, 17 n, 154, 322, 325
329, 331-49, 366, 377, 378, 386, 393, 394, 400, 40I, 419, 420 e n, 426, 463, 487 n, 625 n, 673, 674.
Descartes, René, 6, 12-14, Deschamps, Eustache, 84 Dessoir, Max, 353. De Vio, Tommaso, detto Devoto, Giacomo, 74 e n,
216, 355, 572 e n. e n. Gaetano, 465. l 402, 472, 473 N, 474-
476, 479, 491, 516 n, 518-20, 632. wey, John, 352 e n, 433 e n, 434.
Dewey, Melvil, 360. Deyck, Rika van, 468 n. Diderot, Denis, 556. Di Fazio Alberti, Margherita, 47 n. Di Francia, Letterio, 24 n. Di Giacomo, Salvatore, 393, 397. Di Girolamo, Costanzo, 17 n, 68 n, 424 n, 539 n. Dijk, Teun A. van, 37 n, 40 n, 93 n, 100 N, III n, 112 n, 639 n.
Dilthey, Wilhelm, 353, 382, 593 n, 657. Diogene Laerzio, 24. Dionigi di Alicarnasso, 151. Dionisotti, Carlo, 154 n, 311 n, 452 n, 471 en, 492 e n, 628en.
D’Ippolito, Gennaro, 539 n. Dolezel, Lubomir, 38 n, 47 e n, 96 n, 97 n, III n, 112 en. Dombi Erzsébet, P., 64 nf Domenichi, Lodovico, 465. Domenico di Guzmfn, santo, 340 n. Dominici, Giovanni, 337 n. Dondaine, Antoine, 289 n. Donolo, Carlo, 645 n. Dorfman, Eugene, ror n. D’Ors, Eugenio, 409. Dostoevskij, Fédor Michajloviè, 114, 422, 505,
560, 659.
Dowden, Edward, 391. Dressler, Wolfgang Ulrich, 40 n. Dubois, Jacques, 638 n. Du Bos, Jean-Baptiste, 312 e n, 314-16. Duby, Georges, 139 n. Ducrot, Oswald, 28 n, 92 n. Dufrenne, Mikel, 2r n. Dumézil, Georges, 139 n, 636 n. Duncan, Hugh D., 635 n. Dundes, Alan, 96 n. Durkheim, Emile, 623, 634 n. Duvignaud, Jean, 611 n, 619 e n, 639. Eagleton, Terry, 619. Ebani, Nadia, 82 n. Ebert, Adolf, 335. Eckermann, Johann Peter, 6ro n. Eco, Umberto, 21 n, 27 n, 59 n, 103 n, 112 n,
693
252 n, 276 n, 509 n, 512 n, 515 n, 534 e n, 535 € N, 537, 538 n, 544 e n, 545, 589 n, 607 n, 629-3I.
Egidi, Francesco, 155 n, 290 n. Ehrenburg, Il’ja Grigor'evié, 663, 665 n. Einaudi, Giulio, 485. Eisler, Hanns, 614 n. Ejchenbaum, Boris M., 422 n. Ejzenstein, Sergej Michajlovié, 96. Eliade, Mircea, 636 e n. Elias, Norbert, 642 n. Eliot, Thomas Stearns, 498. Elton, William R., 371 n. Eluard, Paul (pseudonimo di Eugène Grindel), 666. Emiliani-Giudici, Paolo, 322, 324 e n, 326-28,
333-36, 337 n.
Empson, William, 498, 584 e n. Engel’gardt, Boris Michajlovié, 353 e n. Engels, Friedrich, 555 n, 557 n, 569 e n, 577 608 n, 609 n, 649-51, 652 n, 653 e n, 654, 661, 663, 668 n, 677.
Ennio, Quinto, 62. Enqvist, Nils Erik, 74 n. Enzensberger, Hans Magnus, 463 n. Epicuro, 383, 384. Erasmo da Rotterdam, 152, 351. Erlich, Victor, 120 n. Escarpit, Robert, 21 n, 625, 633, 638 e n. Eschilo, 653. Esiodo, 195. Estivals, Robert, 638 n. Eusebio di Cesarea, 142. Evans, Arthur R. jr, 215 n. Eve, Michael, 642 n. Even-Zohar, Itamar, 139 n. Fabbri, Paolo, 534 n. Fabre, Giorgio, 626 n. Fabris, Marlena, 55 n. Faccani, Remo, 35 n, 540 n. Faccioli, Emilio, 273 n. Fahy, Conor, 456 n. Falqui, Enrico, 306 e n. Fantuzzi, Marco, ror n. Faral, Edmond, 184 n. Fasano, Pino, 464 n. Favaro, Antonio, 298 n. Favati, Guido, 185 n. Febvre, Lucien, 597 n. Federici, Renzo, 230. Feliciano, Felice, 294. Fenoglio, Beppe, 306. Fergnani, Franco, 622 n. Ferrara, Fernando, 592 n. Ferrari, Anna, 209 n, 210 n. Ferrari, Severino, 454. Ferrari Bravo, Donatella, 129 n, 141 n, 540 n. Ferraro, Guido, 509 n, 511 n, 524 n, 540 n, 634 n. Ferrarotti, Franco, 634 n. Ferretti, Giampiero, 306 n. Ferretti, Gian Carlo, 629 e n. Ferroni, Giulio, 336 n.
694
Indice dei nomi
Festa, Giovanni Battista, 155 n. Fetterley, Judith, 21 n. Feuerbach, Ludwig Andreas, 652, 665. Feuillerat, Albert, 223. Feyerabend, Paul K., 12 e n, 13.e n, 5e n. Fichte, Johann Gottlieb, 345. Fido, Franco, 103 n, 505 n. Fiedler, Leslie, 619, 634 n. Fielding, Henry, 653. Filelfo, Francesco, 323. Filicaia, Vincenzo da, 317, 319. Fillmore, Charles, 95. Filodemo di Gadara, 286 n. Flaubert, Gustave, 39, 422, 458, 661. Flora, Francesco, 392, 393 e n, 405-12. Focillon, Henri, 589. Fogazzaro, Antonio, 380, 397. Folena, Gianfranco, 70 n, 185 n, 204 N, 225 N, 466 n, 472 n, 480-82, 49I, 545 N, 628.
Folengo, Teofilo, 345 e n. Folli, Riccardo, 8o n. Fondane, Benjamin, 379. Forcella, Roberto, 82 n. Formaggio, Dino, 21 n. Formigari, Lia, 484 n. Formisano, Luciano, 153 Nn. Fortini, Franco (pseudonimo di Franco Lattes), 628, 635.
Foscarini, Matco, 321 e n.
Foscolo, Ugo, 51, 52 n, 55, 300 e n, 347, 370, 398, 402, 404, 410, 454, 674.
Foucault, Michel, 13, 14, 132, 242 n, 633, 635 n, 636 e n, 637, 638 n.
Fourquet, Jean, 183 e n. Fowler, Alastair, 251 e n, 253-55, 259, 266 n, 268 e n, 269 n, 271 n, 279 e n, 280 n.
Fraenkel, Hermann, 198 n, 234 n. Francastel, Pierre, 638. France, Anatole (pseudonimo di Frangois-Anatole "Thibault), 395. Francesco da Barberino, 187, 289-9I. Francesco d’Assisi, santo, 340 n, 393, 455. Franco Bahamonde, Francisco, 678. Fraser, Douglas, 294 n. Frazer, James G., 620-22. Frenzel, Elisabeth, 264 n. Frescobaldi, Dino, 338. Freud, Sigmund, 212, 412, 473, 549-87, 605 n. Friedman, Norman, 33 e n, 36 n. Friedrich, Hugo, 268 n, 499. Froger, Jacques, 152 e n, 153, 235 e n. Frugoni, Carlo Innocenzo, 319. Frye, Northrop, 87 n, 250 e n, 252 e n, 256 n, 270 n, 276, 277 e n, 280 n, 570e n.
Fubini, Fubini, 374, Fucini,
Enrico, 312 n, 592 n. Mario, 220, 247 n, 275, 276 e n, 312 n, 392, 393 € N, 40I-5, 412, 475, 480. Renato, 268.
Gaboriau, Emile, 608. Gabriel, Gottfried, 252 n. da Hans Georg, 26 n, 6rI n. a, Carlo Emilio, 103 n, 305 e n, 429, 492. Gadda Conti, Piero, 460 n.
Gaeta, Francesco, 380. Gaetano, vedi De Vio, Tommaso. Galanter, Fugene, III n. Galilei, Galileo, 51, 298 e n, 314, 318, 319, 347, 348, 409, 572 e n. Gallini, Clara, 627 n. Gallino, Luciano, 623 n, 638 n, 640 n, 645 n. Gallo, Niccolò, 420 N. Galton, Francis, 561. Gambarin, Giovanni, 300 n. Ganz, Peter F. , 149 N.\ Garavelli Mortara, Bice, vedi Mortara Garavelli, Bice. Garcia Berrio, Antonio, 101 n. Gargani, Aldo G., 13 n, 572 n, 607 n, 645 n. Gargiulo, Alfredo, 392 e n. Garroni, Emilio, 228 n, 437 N, 440 n, 442 N,
443 N, 498 n, 547 n.
arvey, James, 110 n. Garza Cuaròn, Beatriz, 57 n. Gatto, Cecilia, 513 n. Gautier d’Arras, 106. Gautier de Chatillon, 106. Gavazzeni, Franco, 82 n. Gavazzeni, Gianandrea, 307 e n. Genette, Gérard, 36-38, 64 n, 83 n, 96 n, 97 n, I17, 249-54, 256 n, 259 e n, 266 n, 278en, 517 N, 570 e n, 586 n. Geninasca, Jacques, 49 n, 51 n. Genot, Gérard, 40 n, 49 n, 69 n, 102 n, 103 n. Gensini, Stefano, 428 e n.
Gentile, Giovanni, 391, 392, 394, 395, 401, 47I.
Gentile, Salvatore, 492 n. Gentili, Bruno, 427 n, 634 n. George, Stefan, 357. Gercke, Alfred, 160 n, 191 n. Gerratana, Valentino, 608 n, 653 n, 673 n. Getto, Giovanni, 60, 268 n, 324 n. Ghidetti, Enrico, 457 e n, 597 n. Ghinassi, Ghino, 297 n, 465 n, 480, 488. Ghio, editore, 331 n. Giacalone Ramat, Anna, 128 n. Giacomo da Lentini, 187 n, 200 n, 338, 461. Giacomo di Vitry, 139. Giamboni, Bono, 24, 485 n. Gianni, Lapo, 338. Gibellini, Pietro, 81 n. Giglioli, Pier Paolo, 621 n. Gilbert, Allan H., 87 n. Gilliéron, Jules, 518. Gimma, Giacinto, 321. Ginguené, Pierre-Louis, 332. Ginzburg, Carlo, 597 n, 607 n. Giordano Orsini, Gian N., 352 e n. Giordi, Mossen, 317. Giovenale, Decimo Giunio, 313. Girard, René, 571 e n, 613 n. Girolamo, santo, 143 e n, 144, 286, 466 n. Giustinian, Leonardo, 337 n. Goethe, Johann Wolfgang von, 161, 248, 318 n,
351, 358, 359, 365, 367, 369, 374, 375, 377, 379, 382, 385, 387, 556, 557 n, 567, 604, 610 n, 653, 658, 660, 661.
Goffman, Erving, 621 e n, 623.
Indice dei nomi Gogol’, Nikolaj Vasil’eviè, 661. Goldin, Daniela, 545 n. Goldmann, Lucien, 119 e n, 613 n, 615, 630 n, 680.
Goldoni, Carlo, 344, 345, 348, 481 e n. Golino, Enzo, 629. Gombrich, Ernst H., 294 n, 559 n, 633. Gongalves, Elsa, 210 n. Géngora y Argote, Luis de, 378. Gor'kij, Maksim (pseudonimo di Aleksej Maksimovié Petkov), 663. Gorlier, Claudio, 498 n. Gorni, Guglielmo, 39 n, 141 n, 268 n. Goudimel, Claude, 469. Gozzano, Guido, 380, 628. Gozzi, Carlo, 348 e n, 610 n. Graf, Arturo, 154 n. Grammont, Maurice, 65. Gramsci, Antonio, 401, 627, 672-75, 679, 680, 685.
Grana, Gianni, 154 n, 155 n, 471 Nn. Granai, Georges, 638. Grande, Maurizio, 530 n, 644 n. Grayson, Cecil, 295 n. Greene, Suzanne Ellery, 634 n. Greg, Walter Wilson, 182 e n. Greimas, Algirdas Julien, 42 e n, 43 n, 54 n, 58 e n, 83 n, 89 n, soe n, ror e n, IIT, 279 e n, 636 n.
Gribomont, Jean, 146 n. Grignani, Maria Antonietta, 305 n, 306 n. Gròber, Gustav, 152, 153 n. Gronau, Klaus, 219 n. Grosser, Hermann, 33 n. Guarini, Battista, 344. Guarini, Guarino, 294.‘ Guasti, Cesare, 335. Guglielmi, Angelo, 629 n. Guglielminetti, Marziano, 538 n. Guicciardini, Francesco, 295, 296 e n. Guicciardini, Luigi, 452. Guido del Duca, 84. Guido Novello da Polenta, vedi Polenta, Guido Novello da. Guigoni, editore, 327, 335. Guinizzelli (o Guinicelli), Guido, 192 n, 338. Guiraud, Pierre, 67 n, 73 e n. Guittone d’Arezzo, 338, 341, 461. Giilich, Elisabeth, 21 n, 260 n, 261 n. Gulli Pugliatti, Paola, vedi Pugliatti, Paola. Gundolf, Friedrich (pseudonimo di F. Gundel-
finger), 365.
Gurvitch, Georges, 638 e n. Habermas, Jilrgen, 624. Hall, John, 590 n, 598 e n, 600 n, 618-20, 622, 623 n.
Halle, Morris, 124 n, 139 n. Hamann, Johann Georg, 478. Hambuechen Potter, Joy, 48 n. Hamburger, Kate, 252 n, 253 n, 262 e n. Hammett, Dashiell, 39. Hamon, Philippe, 46 n, 110 n, 260 n, 274 n.
695
Hansen-Liwe, Aage A., 353 n. Harari, Josué V., 515 n. Hardy, Joseph, 249 n. Harkness, Margaret, 653, 654, 677. Harris, Frank, 365. Harris, Zellig S., 41 e n. Harrison, James A., 371 n. Hatzfeld, Helmut A., 499. Haubrichs, Wolfgang, 260 n. Hauser, Arnold, 599. Havet, Louis, 195 n. Hebdige, Dick, 644 n. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 345 e n, 354,
385, 388, 389, 438 e n, 439, 478, 592 n, 60I-
606, 609, 611, 613, 614 n, 616 n, 625 n, 635,
637, 643 n, 651, 657, 659, 667.
Heidegger, Martin, 18, 226 e n, 227 n, 382, 431
e n, 433, 440-46, 448, 636 n.
Heilmann, Luigi, 528 n. Heine, Heinrich, 386, 557 n, 577 n, 578, 653. Heintz, John, 112 n. Helbo, André, 78 n, 539 n. Helm, June, 102 n. Hemingway, Ernest, 39. Hempfer, Klaus W., 46 n, 124 n, 245 e n, 247251, 254, 256 n, 259 e n, 268 e n, 272 n, 280
n. Hendricks, William O., 93 n. Henrich, Dieter, 264 n. Herbart, Johann Friedrich, 358. Herczeg, Giulio, 38 n. Hermann, Gottfried, 162. Hernadi, Paul, 247 e n, 250 n, 256 n, 266 n, 282 n.
Herrnstein Smith, Barbara, 46 n. Hintikka, Jaakko K., 112 n. Hirsch, Arnold, 635 n. Hirsch, Eric D., 26 n, 611 n. Hjelmslev, Louis, 41, 56-60, 87, 224, 503 e n, 544 e n. Hockett, Charles F., 521 n. Hoek, Leo H., 46 n. Hoernle, Edwin, 648 n. Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 573. Hoggart, Richard, 618, 681 e n. Hogrebe, Wolfram, 434 e n. Hoòlderlin, Friedrich, 364, 382, 383, 606, 635
n, 637, 653.
Holenstein, Elmar, 26 n. Holthusen, Hans Egon, 384. Honzl, Jindtich, 47 n. Hopkins, Gerard Manley, 69, 382. Horkheimer, Max, 615 e n, 668, 669 n, 671. Hudson, Richard A., 75 n. Hugo, Victor-Marie, 377, 378, 605. Huizinga, Johan, 218 n. Hulley, Karl K., 143 n. Humboldt, Wilhelm von, 353, 364. Hume, David, 434. Hunger, Herbert, 185 n, 234 n. Husserl, Edmund, 645 n. Ibsen, Henrik, 385, 564, 565, 577 e n, 626 n. Ineichen, Gustav, 185 n.
696
Indice dei nomi
Ingarden, Roman, 41 n, 53 e n. Ingegneri, Angelo, 298. Invernizio, Carolina, 626. Totti, Gianni, 572 n. Isella, Dante, 80 e n, 82 n, 225 n, 299, 300 n,
302 n, 485-87, 489, 490, 528 n.
Iser, Wolfgang, 27 n, 264 n, 515 n. Isnenghi, Mario, 163 n, 638 n. Ivan IV, granduca di Mosca e zar di Russia, detto il Terribile, 136. Ivanov, Vjateslav V. 40 n, 125 n, 126 n, 127 N, 128 n, 129 N, 13I N, 134 N, 135 N, 530 N. Izzo, Alberto, 624 n, 645 n. Jackson, William Thomas Hobdell, 277 n. Jacopone da Todi (Jacopo dei Benedetti, detto),
336, 337 € n.
Jakobson, Roman, 21 e n, 30 e n, 34 n, 45e n, SI n, 6oe n, 61 n, 64 N; 69n, 77 e n, 128 n, 229-32, 256 n, 258, 260 e n, 261, 268 n, 42I-
423, 448, 453, 460 n, 466 n, 469 n, 474€ N,
495 e n, 496 e n, 502 e n, 505 n, 506 e n, 507 e n, 508 n, 513 e n, 520, 521 e N, 522 N, 527€
n, 538, 539, 543 n, 580, 581 n, 586 n. James, Henry, 35 e n, 38, 573.
Jameson, Fredric, 678 e n, 680 e n. Jaspers, Karl, 624. Jauss, Hans Robert, 26 n, 152 n, 251 n, 255 € n, 277 e n, 279 n, 2g1r e n, 282, 3II Nn, 420 e n, 468 n, 486 n.
Jensen, Wilhelm, 553, 558, 564. Jespersen, Jens Otto Harry, 65. Johansen, Svend, 58 n. Johnson, Anthony L., 63 n. Johnson, Samuel, 403. Johnston, Edward, 303. Jolles, André, 139 n, 256 n. Joyce, James, 47 n, 86, 411. Juan Ruiz, arciprete di Hita, 189 e n. Jung, Carl Gustav, 568, 570 e n. Kafka, Franz, 635 n. Kandinskij, Vasilij Vasil’evié, 614 e n.
Kant, Immanuel, 384, 431 e n, 433-38, 442, 448, 637.
Kantorowicz, Hermann, 149 n, 19I n. Kautsky, Karl, 650. Kellogg, Robert, 35 n. Kemeny, Tomaso, 128 n, 272 n. Kerbrat-Orecchioni, Catherine, 57 n. Kerr, Alfred, 214. Kierkegaard, Soren Aabye, 384, 658. Kittay, Jeffrey, 11o n. Klages, Ludwig, 383. Klee, Paul, 671. Klein, Julius Leopold, 335. Kleist, Heinrich von, 385, 386. Klinkenberg, Jean-Marie, 59 n. Klossowski, Pierre, 637. Knoerrich, Otto, 276 n. Kohler, Erich, 152 n, 468 n, 486 n. Koller, Armin Hajman, 312 n. Kracauer, Siegfried, 607 e n. Kraiski, Giorgio, 663 n, 664 n.
Krippendorff, Klaus, 634 n. Kristeller, Paul Oskar, 432 en. Kristeva, Julia, 40 n, 63 n, 75 n, 83 n,93 n, 525 e n, 532, 6II n, 619.
Krysinski, Wladimir, 27 n. Kublai (Qubilay), 87. Labov, William, 102 e n. Labriola, Antonio, 167 n. Lacan, Jacques, 230, 552 € N, 554, 567 e n, 571 e n, 582 e n, 586 e n,II n, 636. Lachmann, Karl, 148-50, 151 n, 152 e n, 153, 162,170
176-78, 203 N.
Lafargue, Paul, 653 e n. Lake, Beryl, 371 n. Lamartine, ‘Alphonse- Marie-Louis Prat de, 670. Lameere, Jean, 353 e n. Limmert, Eberhard, 39 n, SISe n. Lampillas, Francisco Javier, 318 e n, 320. Lanci, Antonio, 103 n. La Penna, Antonio, 154 n. Lassalle, Ferdinand, 653 n. Lausberg, Heinrich, 17 n. Lautréamont, le Comte de (pseudonimo di Isidore Ducasse), 666. Lavagetto, Mario, 103 n, 457, 526 n. Le Bon, Gustave, 605 n, 626 e n. Leeman, Danielle, 93 n. Leenhardt, Jacques, 630 n. Lefebvre, Henri, 599 n. Le Goff, Jacques, 597 n. Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 65, 321, 351,
434.
Lejay, Paul, 152 e n, 153. Lejeune, Philippe, 260 n, 262 e n, 271 n. Lemaître, Jules, 364. Le Monnier, Felice, 333 e n, Lenin (Ul’ janov), Vladimir Tie sguar 671, 677. Leonardo da Vinci, 560, 567. Leone X (Giovanni de’ Medici), papa, 315. Leont’ev, Aleksandr Aleksandroviè, 507 n. Leopardi, Giacomo, 55, 79 n, 86, 272, 301 e n,
349, 370, 373, 384, 395, 399, 403, 404 € N, 410 e n, 4II, 423, 458, 464 € n, 483 n.
Lepschy, Anna Laura, 103 n. Le Roy Ladurie, Emmanuel, 597 n. Leskov, Nikolaj Seménoviè, 114. Lessing, Doris, 243 n. Lessing, Gotthold Ephraim, 361, 406. Leto, Pomponio, 325. Levi, Carlo, 626. Levin, Harry, 634 n. Levin, Jurij I., 35 n. Levin, Samuel R., 69 n. Lévi-Strauss, Claude, 100 e n, 101, III, 469 n,
527 e n, 533 n, 536, 636 n.
Levy, Jiti, 78 n. Lévy-Bruhl, Lucien, 636. Liborio, Mariantonia, 110 n. Lichatév, Dmitrij Sergeeviè, 236. Lichtenberg, Georg Christoph, 578. Lifsic, Michail, 608 n. Lina, vedi Cristofori Piva, Carolina. Lindley Cintra, Luis F., 210 n.
Indice dei nomi Linsky, Leonard, 416 n. Lintvelt, Jaap, 36 n, 38 n. Lippi, Filippo, detto fra Filippo, 63. Liruti, Gian Giuseppe, 321. Livio, Gigi, 543 n. Livio, Tito, 50, 146, 313. Livolsi, Marino, 634 n. Lombardo, Agostino, 35 n, 625 n, 628. Longhi, Roberto, 589 n. Longhi, Silvia, 49 n. Lope de Vega, vedi Vega Catpio, Félix Lope de. Lorenzo de’ Medici, signore di Firenze, detto il Magnifico, 323. Loschi, Antonio, 323. , Lotman, Jurij Michajlovié, 34, 35 e n, 49 n, 69 n, 77 n, 107 e n, 125€ n, 126 n, 127 e n, 129 n, 130 e n, 13I € n, 133 e n, 135 n, 136-38,
139 N, I4I N, 242 N, 277 N, 507 n, 508, 510
n, SII € N, 513 N, 533, 540 n, 586 e n, 634 n, 682.
Lowenthal, Leo, 616 n. Lubac, Henri de, 143 n. Lubrano, Giacomo, 378. Lucano, Marco Anneo, 313, 318. Luciano di Samosata, 87. Luùcking, Gustav, 198. Luckmann, Thomas, 624, 645 n. Lucrezio Caro, Tito, 241, 383, 384, 422. Ludwig, Otto, 390. Luhmann. Niklas, 624, 645 n.
Lukes, Gyòrgy, 10, 251 n, 279 n, 577 € n, 599, 612-14, 630 n, 631, 635, 647 n, 656-63, 667, 669, 670, 678, 680, 683, 684.
Lunatarskij, Anatolij Vasil’evit, 608 n, 657 n. Luperini, Romano,
103 n, 473 n.
Lupo Servato di Ferrières, 144 n. Lurija, Aleksandr Romanoviè, 507 n. Lutero, Martino, 329, 467 n. Luzi, Mario, 306. Lyotard, Jean-Frangois, 617 n, 636, 645 n. Maas, Paul, 155, 173 n, 177 n, 183 e n, 187 e n, I9I € n, 192 € n, 194 n, 197, 238, 287 n.
Mabillon, Jean, 6, 7. Macaulay, Thomas Babington, 333 n. Macchia, Giovanni, 628. Mach, Ernst, 13 e n. Machado, Antonio, 94, 464 n. Macherey, Pierre, 619 e n, 635 n. Machiavelli, Niccolò, 295, 319, 325, 329, 34I © n 345-47, 389, 393, 399, 4II, 451 € N, 452 N,
464.
MacLeish, Archibald, 498. Madvig, Johan Nicolai, 152. Maffei, Scipione, 321. Maffesoli, Michel, 645 n. Magalotti, Lorenzo, 317, 409. Maggini, Francesco, 471 n. Maggi Romano, Cristina, 305 n. Magli, Patrizia, 644 n. Magliabechi, Antonio, 321. Magnifico, vedi Lorenzo de’ Medici. Maier, Bruno, 459. Maitan, Livio, 666 n.
697
Majakovskij, Vladimir Vladimiroviè, 422, 495, 664, 665 e n, 676, 677. Maleviè, Kazimir, 495. Malinowski, Bronistaw, 636. Mallarmé, Stéphane, 79 n, 223, 378, 379; 382,
402, 469, 550, 573, 584, 635 n, 637.
Mallé, Luigi, 295 n. Mancini, Franco, 455. Mandrou, Robert, 634 n. Manfredi, Eustachio, 317. Mangoni, Luisa, 215 n. Mann, Nicholas, 292 n. Mann, Thomas, 468, 616, 661. Mannheim, Karl, 597, 624 e n. Mannoni, Maud, 637 n. Manuel, Juan, 24. Manzoni, Alessandro, 11 n, 31, 33, 79 n, 80 n,
103 N, 301, 335, 348 e n, 349 e n, 372, 373,
384, 393, 397, 402, 456 e n, 469 n, 487 n, 489 n, 492 n, 674.
Manzotti, Emilio, 305 n. Marcabruno, 187 n. Marchese, Angelo, 55 n, 103 n, 544 n. Marchetti, Alessandro, 319. Matcuse, Herbert, 616 n, 624, 678. Marello, Carla, 639 n. Marghescou, Mircea, 120 n. Matgoni,
Ivos, 580 n.
Maria di Francia, 106. Maria Stuarda, regina di Scozia, 368. Mariani, Franca, 499 n. Mariani, Gaetano, 471 n, 634 n. Marichal, Robert, 152 n, 171 n, 181 N, 190, I9I n, 196 e n, 203 n.
Marinari, Attilio, 349 n. Marinetti, Filippo Tommaso, 357, 406. Marino, Giambattista, 103 n, 313, 314, 317, 344, 378, 409. Marletti, Carlo, 645 n. Marouzeau, Jules, 70, 71 e n. Marramao, Giacomo, 624, 625 n. Marsh, David, 273 n. Martelli, Mario, 198 n, 234 n, 452 n. Marti, Mario, 485 n. Martignoni, Clelia, 82 n. Martin, Robert, 93 n. Martinet, André, 22 n, 63 n, 67 n. Marx, Heinrich Karl, 166 n, 555 e n, 557 e n,
558, 569 n, 577, 608 n, 609 n, 616 n, 649-51, 652 n, 653, 654, 659, 668 n, 674, 680, 683 e n, 684.
Marzaduri, Marzio, 35 n, 540 n. Marziale, Marco Valerio, 313, 318. Mateika, Ladislav, 47 n, 112 n, 124 n, 139 n. Mathesius, Vilem, 41 e n. Matte Blanco, Ignacio, 551 e n, 554, 555 D,
577, 587 e n.
Maupassant, Guy de, 90. Mauron, Charles, 560, 561 e n, 573, 574 n, 586. Mauss, Marcel, 120, 636. Mazzantini, Paolo, 474 n, 476 n. Mazzoni, Francesco, 489. Mazzoni, Guido, 160 n. Mazzuchelli, Giovanni Matia, 321.
698
Indice dei nomi
McHale, Brian, 38 n. McLuhan, Herbert Marshall, 590 n, 599 e n. Mead, George Herbert, 645 n. Medvedev, Pavel N., 75 n. Meijer, Pieter de, 17 n. Melchiori, Giorgio, 634 n. Meletinskij, Eleazar Moiseevié, 95 e n, 110 e n, 128 n, 277 n.
Melucci, Alberto, 645 n. Memmi, Albert, 638. Meneghetti, Maria Luisa, 139 n. Menéndez Pidal, Ramén, 203 n. Mengaldo, Pier Vincenzo, 185 n, 491, 527, 541 e n. Menichetti, Aldo, 267 n. Menna, Filiberto, 614 n. Menzini, Benedetto, 317. Mercati, Giovanni, 208 e n. Meriggi, Piero, 224 n. Merleau-Ponty, Maurice, 613 n, 621, 622 n. Merolla, Riccardo, 302 n. Merton, Robert K., 623.
Metastasio, Pietro, 319, 320, 345, 386, 393, 394,
4I0. Metzing, Dieter, 515 n. Meyer, Eduard, 597 n. Meyer, Herman, 83 n, 374 e n. Meyer, Richard Moritz, 366. Micciché, Lino, 627 n. Miceli, Silvana, 124 n, 513 n. Michault, Jean-Bernard, 317. Michelangelo, vedi Buonarroti, Michelangelo. Micheletti, Giovanni Battista, 590 n. Michels, Roberto, 675. Michelstaedter, Carlo, 626 n. Migliorini, Bruno, 472 e n, 473 n, 476, 480, 481, 482 n, 488, 490. Mignolo, Walter, 27 n, 28 n, 46 n. Mill, John Stuart, 252. Miller, George A., rrI n. Miller, Norbert, 46 n. Mills, C. Wright, 623. Minc, Alain, 645 n. Minc, Zarah Grigor'evna, 49 n. Mincu, Marin, 500 n. Minissi, Nullo, 479 n. Modigliani, Enrico, 155 n. Moles, Abraham, 610 e n. Molière (Jean-Baptiste Poquelin, detto), 567. Molteni, Enrico, 155 n. Momigliano, Arnaldo, 7 n. Monaci, Ernesto, 154 e n, 155 n, 201 n, 210 n. Montale, Eugenio, 64, 269 n, 279, 305, 306,
398, 502 n, 524 n.
Montefredini, Francesco, 332. Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di, 624. Monteverdi, Angelo, 476, 477 n, 489. Monti, Vincenzo, 86, 370. Moore, Edward, 466 e n. Moore, George, 384. Morano, Antonio, 331 e n, 334. Morante, Elsa, 103 n. Morasso, Mario, 626 n.
Moravia, Alberto (pseudonimo di Alberto Pincherle), 279. Morgenstern, Christian, 214. Morin, Edgar, 610 n, 636. Moroncini, Bruno, 604 n. Morra, Gianfranco, 616 n, 645 n. Morris, William, 303. Mortara Garavelli, Bice, 38 n, 473 n, 490, 500
n, 545 n.
Mosca, Gaetano, 631 n, 675. Mounin, Georges, 59 n, 504 N, 524 n. Mozart, Wolfgang Amadeus, 481 n. Mucchi Faina, Angelica, 605 n, 626.
Mukafovsky, Jan, 427 e n, 474, 497 n, 633 n.
Miller, Gunther, 39 n. Muratori, Ludovico Antonio, 7, 8, 320-22. Mury, Gilbert, 638 n. Musatti, Maria Pia, 306 n. Muscetta, Carlo, 335 n, 349 n, 420 n, 631. Musil, Robert, 614, 616.
Nannucci, Vincenzo, 335. Napolitano, Riccardo, 593 n. Natale, Alfio Rosario, 289 n. Negri, Antimo, 6î4 n. Nekljudov, Sergej Jur'eviè, 110 n, 128 n, 277 n. Nencioni, Giovanni, 200 n, 475, 479 e n, 489 n, 517 n, sI9en. Neubert, Albrecht, 38 n. Neuburg, Victor E., 634 n. Neumann, Friedrich, 468 n. Neuschîfer, Hans Jorg, 274 n. Nicastro, Luciano, 408. Niccolò V (Tommaso Parentucelli), papa, 325. Nicola Maniacutia, 145 e n.
Nicolini, Fausto, 299 n. Nida, Eugene A., 468 n. Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 160-63, 243 n,
378, 383, 576, 637.
Nisard, Désiré, 378. Noferi, Adelia, 454 n. Nora, Simon, 645 n. Norden, Edward, 191 n. Noulet, Emilie, 574 n. Novalis (pseudonimo di Friedrich Leopold von Hardenberg), 653. Novati, Francesco,
154 n, 453 n.
Novik, Elena Sergeevna, 110 n, 128 n, 277 n. Oeschger, Johannes, 295 n. Ojetti, Ugo, 626. Oldcorn, Anthony, 297 n. Olsen, Michel, 103 n.
Omero, 195, 300, 319, 342, 369, 372, 377, 466. Onorio Orazio Orchi, Orelli,
d’Autun, 139. Flacco, Quinto, 86, 152 n, 189, 313. Emanuele, 409. Giorgio, 51, 60 n, 62 n, 64 e n, 65 n, 81
n, 508 n.
Orlando, Francesco, 51 n, 562 n, 567 n, 572 n,
574 n, 578 n, 579 n, 585 n, 586 n, 637 n.
Orléans, Charles, duca d’, 59. Ortega y Gasset, José, 246 e n, 247 e n, 605 n, 615 e n, 617.
Indice dei nomi Orvieto, Paolo, 103 n. O’Toole, Lawrence M., 97 n. Quellet, Réal, 33 n, 641 n. Ovidio Nasone, Publio, 106, 189, 336. Pace, Maria Luigia, 242 n. Pacini, Gianlorenzo, 657 n. Paduano, Guido, 564 n. Pagliai, Francesco, 300 n. Pagliano Ungari, Graziella, 353 n, 634 e n, 635 e n.
Pagliaro, Antonino, 472, 473 n, 476 e n, 489,
491.
Pagnini, Marcello, 27 n, 43 n, 45 n, 51 n, 54 n,
55 e n, 65 n, 124 n, 263 e n, 496, 497 e n, 499
n, sor e n, 509 n, 535 € N, 539.
Painter, George D., 561 e n. Paioni, Pino, 539 n. Palermo, Antonio, 626 e n. Palermo, Francesco, 335. Palestrina, Giovanni Pierluigi da, 411. Pampaloni, Leonzio, 103 n. Pancrazi, Pietro, 457 e n.
Panico, Ilena, 626 n. Panormita (Antonio Beccadelli, detto il), 323. Panzini, Alfredo, 398. Papini, Gianni A., 74 n. Papini, Giovanni, 371 e n, 398, 406. Parenti, Marino, 301 n. Pareto, Vilfredo, 631 n, 675. Parini, Giuseppe, 62, 79, 80, 299, 300 e n, 319,
320, 346, 347, 405, 489 n.
Paris, Gaston, 152, 153 e n, 167-69, I9I e n. Parodi, Ernesto Giacomo, 70 e n, 222, 470, 471. Parsons, Talcott, 605 n, 623, 639. Pascal, Blaise, 622, 636#n. Pascarella, Cesare, 306. Pascoli, Giovanni, 62, 63, 65 e n, 66, 82, 270,
302, 303, 380, 397, 405, 406, 4II, 459, 460 n.
Pasolini, Pier Paolo, 306. Pasquali, Giorgio, 11 n, 155 n, 163 n, 168 n,
174, 177 € N, 179, 182, 193 N, 197, 203 N, 210,
2II N, 234, 236, 239, 287 e n, 472 € n, 480, 488, 489. Pasqualino, Antonio, 103 n, 513 n. Pasquini, Emilio, 491 n. Passerini Tosi, Carlo, 50. Pastore Stocchi, Manlio, 146 n, 295 n. Patrizi, Agostino, 295. Pautasso, Sergio, 498 n. Pavel, Thomas G., 112 n. Pavese, Cesare, 424, 489 n. Pazzaglia, Mario, 68 n. Pearce, Roy Harvey, 498 n. Pecchio, Giuseppe, 626, 634 n. Pécheux, Michel, 75 n. Péguy, Charles, 72, 214. Peirce, Charles Sanders, 60 n, 61, 502, 515 e n. Peire Vidal, 153 n, 187 n. Pelaez, Mario, 155 n. Pepe, Luigi, 539 n. Pera, Marcello, 13 n. Peri, Vittorio, 145 n. Perlini, Tito, 613 n.
699
Perniola, Mario, 593 n, 614 n, 644 n. Persio Flacco, Aulo, 313. Peruzzi, Emilio, 79 n. Pessoa, Fernando, 51 n. Petersen, Julius, 259 n. Petofi, Jinos S., 40 n, 84 n. Petrarca, Francesco, 48, 49, 79 n, 86, 144, 145 e n, 146 e n, 174,
181, 184, 187, 202,
209,
275 n, 287, 290-94, 313, 317, 319, 320; 340,
341, 347, 351, 366, 392, 398, 410, 429, 454, 458, 459, 461-63, 464 n.
Petrini, Domenico, 498, 499. Petrini, Mario, 342 n. Petrocchi, Giorgio, 204 e n, 457 478, 490 e n. Petronio, Giuseppe, 311 n, 629 e Petrucci, Armando, 11 n, 146 n, 290 N, 29I N, 293 n, 294 n,
e n, 477 e n, n. 207 n, 286 n, 298 n, 304 N,
634 n. Petrucciani, Mario, 471 n, 634 n.
Pfeiffer, Rudolf, 234 n. Pfister, Manfred, 275 n. Philippe, Charles-Louis, 72, 214. Piaget, Jean, 52 e n, 248. Picchio, Riccardo, 229 n. Picchio Simonelli, Maria, 66 n. Piccioni, Leone, 457 e n. Piccoli, Valentino, 331 n. Piccolomini, Enea Silvio, vedi Pio II, papa. Piccone Stella, Simonetta, 638 n. Pico della Mirandola, Giovanni, 329. Pierre-Quint, Léon, 223. Pietro I, imperatore di Russia, detto il Grande, 138.
Pietro Apostolo, santo, 340 n. Pietro Lombardo, 145. Pike, Kenneth L., 95 e n. Pindaro, 86, 319, 457 n. Pinto, Francesco, 591 n. Pio II (Enea Silvio Piccolomini), papa, 295 e n, 325. Pioletti, Antonio, 139 n. Pirandello, Luigi, 39 n, 82, 103 n, 246 e n, 380,
398, 406, 476, 479 N, 522.
Pisanti, Achille, 591 n, 627 n. Pizzorno, Alessandro, 645 n. Platina (Bartolomeo Sacchi, detto il), 325. Platone, 64, 249 e n. Plechanov, Georgij Valentinoviè, 657 e n. Plessis, Frangois, 152 n. Poe, Edgar Allan, 252, 371 e n, 372, 560, 561,
571, 573, 605-8, 611, 614 n.
Poggioli, Poincaré, Polenta, Poliziano
Renato, 619 e n. Jules-Henri, 167 n. Guido Novello da, 338. (Agnolo Ambrogini, deito il), 146 e
n, 185 n, 295 n, 323, 328, 329, 377, 464.
Polo, Marco, 87. Polti, Georges, 610-12, 614. Pomian, Krzysztof, 525 n, 625 n. Pomorska, Kryshyna, 124 n, 139 n, 495 n. Pomponazzi, Pietto, 329, 341 e n. Pontano, Giovanni (Gioviano), 295 e n, 323, 328.
700
Indice dei nomi
Pontico Virunio (Ludovico da Ponte, BISI Pontormo (Jacopo Carrucci, detto il), Popoviè, Anton, 83 n. Porciani, Ilaria, 333 n. Porena, Manfredi, 293 n, 458. Porta, Giuseppe, 301. Porta, Carlo, 301, 302 n. Portis Winner, Irene, 120 n. Potebnja, Aleksandr A., 353 e n, 497 Pound, Ezra Loomis, 498. Pozzi, Giovanni, 61 n, 82 n, 86 n, 103
detto), 424.
e n, SII. n, 123 n,
460 n, 49I, 528 n.
Prandstraller, Gian Paolo, 634 n. Prato, Paolo, 645 n. Pratolini, Vasco, 468. Pratt, Mary Louise, 258 n, 262 n. Prawer, Siegbert Saloman, 653 n. Praz, Mario, 375 n, 577 n, 628. Prevignano, Carlo, 35 n, 83 n, 89 n, 118 n, 125 n.
Pribram, Karl H., 111 n. Prieto, Luis J., 59 n. Prince, Gerald, 28 n, 102 n. Propp, Vladimir Jakovleviè, 98-104, 106, 109, IIO N, 278, 427 e N, 504 e n, 527, 528 n, 536 e n, 586 n, 6ro n.
Proudhon, Pierre-Joseph, 651. Proust, Marcel, 79 n, 214, 222, 223, 560 e n, 561 e n, 614, 616. Proverbio, Germano, 499 n. Psello, Michele, 90. Pseudo-Dionigi, 139. Puccini, Dario, 335 n, 349 n. Puccini, Giacomo, 460. Pugliatti, Paola, 42 n, 86 n. Pulci, Luigi, 65, 341, 366, 387. Pupino, Angelo R., 262 n. Puskin, Aleksandr Sergeeviè, 129, 132. Quadrio, Francesco Saverio, 321 e n. Quaglio, Antonio Enzo, 185 n, 491 n. Quentin, Henri, 146 n, 152 n, 171-73, 175, 176, 178, 179, 187, 189, 190, 195 e n, 196 e n, 240.
Quilis, Antonio, 69 n. Quinet, Edgar, 326, 336 e n, 341-43. Quintiliano, Marco Fabio, 141 e n, 328. Quondam, Amedeo, 296 e n. Rabano Mauro, 61. Rabelais, Frangois, 61, 214. Racine, Louis, 317. Radek, Karl Berngardoviè (pseudonimo di Karl Sobelsohn), 663. Raffa, Piero, 263 n, 273 n. Raffaello Sanzio, 315, 361. Ragone, Giovanni, 227 n, 302 n, 303 e n, 626 n. Raible, Wolfgang, 21 n, 261 n. Raimondi, Ezio, 7 n, 17 n, 81 n, 163 n, 167 n,
Rak, Michele, 592 n, 634 n. Raleigh, Walter, 391. Rannat, Paolo, 524 n. Ransom, John Crowe, 352 e n. Rastier, Francois, 42 n, 110 e n. Ravazzoli, Flavia, 112 n, 523 n. Ravel, Maurice, 469. Rebay, Luciano, 457 n. Redi, Francesco, 317. Reformatskij, Aleksandr A., 98 n. Rella, Franco, 529 n. ù Renart, Jean, 168 n, 169 n, 170. Renier, Rodolfo, 154 n, 452, 453 e n. Renzi, Lorenzo,
154 n.
Rescher, Nicholas, 111 n. Reynolds, Leighton D., 142 n, 143 n, 144 n, 208 n, 234 n.
Ricci, Graziella, 103 n. Ricci, Pier Giorgio, 491. Ricci, Piero, 513 n. Richard, Jean-Pierre, 570 e n, 636 n. Richards, Ivor Armstrong, 371 n, 498. Ricceur, Paul, 26 n, 509 e n. Ridolfi, Roberto, 452 n. Riesman, David, 605 n. Riffaterre, Michael; 73 n, 108 n. Rilke, Rainer Maria, 383, 384. Rimbaud, Jean-Arthur, 379, 457, 665, 672. Ripellino, Angelo Maria, 628. Ritschl, Friedrich Wilhelm, 151. Ritter Santini, Lea, 637 n. Riva, Luca, 323. Rizzo, Silvia; 141 n, 144 n, 146 n, 234 n, 295 n. Robertson, John G., 385. Robine, Nicole, 633, 638 n. Rockwell, Joan, 634 n. Rodin, Auguste, 383. Rohde, Edwin, 162 e n. Romagnoli, Ettore, 163 n. Romagnoli, Sergio, 333 n. Romains, Jules, 214. Romanò, Angelo, 293 n. Romano, Massimo, 101 n. Romano, Ruggiero, 282 n, 302 n, 492 n, 625 n, 626 n.
Romberg, Bertil, 27 n. Romizi, Augusto, 84 n. Roncaglia, Aurelio, 144 n, 172 n, 187 n, 193 n, 207 N, 210 n, 218 n, 234 n, 238, 239 e n, 466
n, 477 n, 489 e n, 632.
Rosenkranz, Johann Karl Friedrich, 431 e n, 609 n, 614 n.
Rosiello, Luigi, 73 n, 500 n, 50r n, 519 n, 520. Rositi, Franco, 624, 634. n, 645 n. Rossi, Aldo, 82 n, 103 n, 107 n, 527 e n, 529 n
542 e n, 543 n.
632, 635 n, 637 n, 639 n, 642 n, 643 n, 645 n.
Rossi, Nicolò de’, 290 n. Rossi, Pietro, 120 n. Rousseau, Jean-Jacques, 400, 561. Rousset, Jean, 27 n. Rovatti, Pier Aldo, 645 n. Riickert, Johann Michael Friedrich, 557 n.
I9I e n, 367.
Ruffini, Franco, 543 n.
171 N, 172 n, 266 n, 487 e n, 499 n, sisen, 542 n, 589 n, 601, 602 n, 606 n, 610 n, 625 n,
Rajna, Pio, 155 e n, 160 n, 164, 166, 171 n, 176 3
Ruffinatto, Aldo, 106 e n, 517 n, 539 n.
Indice dei nomi Ruggieri, Ruggero M., 154 n, 155 n. Ruggieri Apugliese, 184. Riumelin, 390. Runcini, Romolo, 592 n, 628 n. Rusconi, Gian Enrico, 616 n. Russi, Antonio, 324 n. Russo, Luigi, 219, 332 n, 392-402, 405, 412, 593 N.
Rustico di Filippo, 31, 338. Ruta, Maria Caterina, 513 n. Ruwet, Nicolas, 469 n. Ruzzante (Angelo Beolco, detto il), 31. Sabatini, Francesco, 489. Sabbadini, Remigio, 208. Sacchetti, Franco, 24, 25. Sade, Donatien-Alphonse-Frangois, detto marchese di, 106 e n, 623, 635 n, 637. Said, Edward W., 46 n. Sainte-Beuve, Charles-Augustin de, 353, 364, 560.
Saintsbury, George, 353, 364. Saint-Simon, Claude-Henri de Rouvroy, conte di, 639. Salinari, Carlo, 608 n, 609 n, 632, 653 n. Sallustio Crispo, Gaio, 313. Salvestroni, Simonetta, 125 n, 510 n. Salvioni, Carlo, 490. Samaran, Charles, 152 n. Samonà, Carmelo, 537 n. Sanga, Glauco, 513 n. Sanguineti, Edoardo, 268 n, 628 e n. Sannazzaro, Jacopo, 50, 313. Sansone, Giuseppe E., 55 n. Santagata, Marco, 49 n. Santoli, Vittorio, 202 n, 203 n, 471 n, 499 n. Sapegno, Maria Serena, 273 n, 351. Sapegno, Natalino, 144 n, 351 e n, 420 e n, 426,
459, 474 n, 481 n, 489 n, 628e n, 631.
Sartre, Jean-Paul, 509 n; 592 n, 635 n, 636 n, 680.
Sassi, Panfilo, 323. Sasso, Giampaolo, 63 n. Satta, Salvatore, 155 n. Saumjan, Sebastian K., 93 n. Saussure, Ferdinand de, 53, 63, 71 n, 76, 224, 228, 232, 473 € N, 502-5, 518, 524 e n, 581.
Sauvage, Tristan, 666 n. Savonarola, Girolamo, 324-26, 328, 329, 357, 393.
Sbisà, Marina, 260 n. Scaramuzza, Gabriele, 499 n. Scarfoglio, Edoardo, 626. Séeglov, Jurij K., 89 n. Schaeffer, Jean-Marie, 255 n. Scheler, Max, 597. Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 409. Schiaffini, Alfredo, 211 n, 213 n, 214 n, 220 e
n, 472, 473 N, 474 N, 476 € n, 480, 489.
Schiller, Johann Christoph Friedrich, 161, 314
e n, 382, 384, 385, 653 e n.
Schlegel, August Wilhelm von, 345, 366. Schlegel, Friedrich von, 345, 366. Schleiermacher, Friedrich Daniel Ernst, 213.
701
Schlyter, Carl Johan, 151 n. Schmidt, Conrad, 654. Schmidt, Siegfried J., 26 n, 639 n. Scholes, Robert, 35 n, 252 e n. Schopenhauer, Arthur, 383, 384, 621. Schroeder, Werner, 149 n. Schiicking, Levin L., 590 n, 604, 609, 610. Schulz-Buschlaus, U., 629 n. Schitz, Alfred, 645 n. Sciascia, Leonardo, 325. Scolarici, Emanuele, 333 n. Scott, Walter, 653. Searle, John R., 252 n, 260-62, 263 n. Sebeok, Thomas A., 260 n, 521 n, 607 n. Segal, Dmitrij Michajlovié, 110 n, 128 n, 277 n. Segre, Cesare, 23 n, 25 n, 31 n, 36 n, 38 n, 4on, 46 n, 49 n, 66 n, 67 n, 69 n, 76 n, 78 n, 80 n, 83 n, 84 n, 89 n, 100 n, 103 n, 106 n, II19 N,
I2I N, 124 N, 128 n, 130 n, 132 N, I4I N, 193 n, 197 N, 200 n, 222 n, 228 n, 231 e n, 232,
233 n, 234 n, 235 en, 242 N, 247, 248 n, 250
n, 252 N, 255-57, 274, 275 e n, 464 n, 465 n, 471 N, 474 n, 485 e n, 486 n, 487, 497 n, 498
N, 499 n, 517 528 n, 540 n,
N, 50I N, 502 N, 509 N, 520 n, 523 e n, 524 529 n, 530 n, 533 N, 54I, 543 € N, 545 n,
e n, 512 N, 515 n, 525 N, 527 N, 534 n, 539 € n, 547€ n, 548 n,
602 n, 628 n, 632 e n.
Sempere y Guarinos, Juan, 318 n. Seneca, Lucio Anneo, 313, 318. Serianni, Luca, 455 n, 489. Sermoneta, Josef B. (o Giuseppe), 467 n. Serpa, Franco; 162 n. Serpieri, Alessandro, 51 n, 272 e n, 278, 539, 568.
Serra, Renato, 163 n, 303 e n, 371, 398, 498, 629 n.
Serres, Michel, 636 n. Settembrini, Luigi, 325, 326, 327 N, 331-34,
337 n.
Sevigné, Marie de Rabutin-Chantal, marchesa di, 318. Shakespeare, William, 51 n, 86, 327, 339, 342,
364, 365, 367, 372, 386-9I, 409, 555 € N, 557 n, 565, 653 e n, 660.
Shannon, Claude E., 506 e n. Shepard, William P., 182 n. Sibona, Chiara, 644 n. Sicardi, Enrico, 181. Sighele, Scipio, 626 e n. Signorelli, Amalia, 634 n. Silesius, Angelus (Johann Scheffler), 378. Silone, Ignazio (pseudonimo di Secondo Tranquilli), 273 n. Simmel, Georg, 657. Simon, Herbert A., sor n. Simonide di Ceo, 86. Singleton, Charles S., 60. Sinicropi, Giovanni, 90 n. Sismondi, Jean-Charles-Léonard Simonde de, 336
n.
Sklovskij, Viktor B., 48 n, 93 e n, 96, 100, 353,
421-23, 496 n, 497 n, 633.
Slataper, Scipio, 626 n.
702
Indice dei nomi
Smeets, Jean R., 468 n. Soffici, Ardengo, 371.
Sofocle, 377, 564 n, 568, 569.
Sofonisba, 368. Soldati, Benedetto, 295 n. Sollers, Philippe, 632. Solmi, Sergio, 636 n. Sombart, Werner, 644 n. Somers, Jane, vedi Lessing, Doris. Sorel, Georges, 167 n. Sorensen, Hans, 58 e n. Sorokin, Pitirim, 639. Sozzi, Lionello, 457 n. Spedicato, Paolo, 16 n, 645 n. Spencer, Herbert, 639. Spengler, Oswald, 218 n. Spinazzola, Vittorio, 33 n, 628, 629 n. Spingarn, Joel E., 352 e n. Spirito, Lorenzo (detto Lorenzo Gualtieri), 465. Spitzer, Leo, 70-73, 167 n, 211-15, 216 n, 217-
221, 226, 227, 352 € N, 399, 402, 453 € N, 473
e n, 499, 542, 586 e n.
Spoerri, Theophil, 499. Spongano, Raffaele R., 296 n, 491 n. Staehlin, Otto, 149 n. Stammetjohann, Harro, 39 n. Stanislavskij, Konstantin Sergeeviè, 507. Stanzel, Franz K., 33 e n. Starobinski, Jean, 63 n, 208 n, 234 n, 453 n, 525, 526 n, 561 e n, 616 n.
Statera, Gianni, 634 n. Stazio, Publio Papinio, 313, 318. Stegagno Picchio, Luciana, 81 n, 139 n, 528 n. Stempel, Wolf-Dieter, 261 n, 353 n. Stender-Petersen, Adolf, 256 n. Stendhal (pseudozimo di Henri Beyle), 667. Stengel, Edmund, 199. Sterne, Laurence, 402, 422. Stigliani, Tommaso, 298. Stimming, Albert, 153 n. Stoppard, Tom, 86. Strada, Vittorio, 662 e n, 663 e n. Strada Janovié, Clara, 49 n, 141 n, 277 n, 540 n. Stravinskij, Igor” F., 469. Striedter, Jurij, 247 n. Strozzi, Giovan Battista, detto il Cieco o il Giovane, 323. Strozzi, Giovan Battista, il Vecchio, 323. Stussi, Alfredo, 234 n, 235 n, 455, 476 n, 478 n, 486 n, 487 n, 489 e n, 492 e n.
Sue, Fugène, 605. Suleiman, Susan Robin, 27 n, 274 n, 515 n. Sutherland, John A., 634 n. Svevo, Italo (pseudonimo di Ettore Schmitz),
Tasso, Torquato, 297, 313, 317, 319, 342, 344; 348, 367, 370, 378, 399, 410, 4II, 489 n.
Tavani, Giuseppe, 69 n, 210 n. Tenca, Carlo, 626. Tenenti, Alberto, 597 n. Teodolfo d’Orléans, 144. Terracini, Benvenuto Aaron, 73 e n, 74, 84 n, 472-76, 485, 516 e n, 518-23, 528 n.
Terracini, Lore, 538 n, 543 n. Testi, Fulvio, 86, 319. Thibaudet, Albert, 353, 379, 402. Thomas, Lucien-Paul, 378. Timpanaro, Sebastiano, 144 n, 146 n, 147 n, 148 n, 150 N, ISI N, 152 € n, 155 n, 182 n, 183 e n, 186 n, 187 n, 198 n, 204 n, 234 n, 472
n. Tiraboschi, Gerolamo, 8, 17 n, 311-25, 332. Titunik, Irwin R., 47 n. Tobler, Adolf, 194. Tocqueville, Charles-Alexis-Henri de, 605, 606 e n, 642 n.
Todorov, Tzvetan, 16 e n, 17, 38 e n, 68 n, 75 n, 94 n, 100 n, 103 n, 104, 105, 109, 250 N, 263 e n, 265 e n, 422 n, 496 e n, 571€ n, 578 n, 636 n.
Tolstoj, Lev NikolaeviÈ, 93, 114, 390, 4II, 658, 660, 661.
Tomasevskij, Boris Viktoroviè, 68 n, 96-98, 100, 421 € N, 497. Tommaso d’Aquino, santo, 289 e n, 290, 336, 340 e n, 461 n.
Tommaso Magistro, 151. T6nnies, Ferdinand, 623. Torraca, Francesco, 335 n. Torricelli, Evangelista, 314. Toschi, Luca, 81 n. Touraine, Alain, 617, 624, 645 n. Toynbee, Arnold Joseph, 215. Tozzi, Federigo, 103 n. Trabant, Jirgen, 58 n, 59 e n. Traina, Alfonso, 466 n. Travi, Biancamaria, 103 n. Tribraco, Gaspare, 323. Trilling, Lionel, 619. Trockij, Lev Davidoviè (pseudonimo di Lejba Bronitejn), 666 e n. Tronti, Mario, 631 e n. Tropeano, Francesco, 300 n. Trousson, Raymond, 264 n. Trovato, Paolo, 451 n, 452 n. Trubeckoj, Nikolaj Sergeeviè, 474, 496, 505, 506 n.
Szondi, Peter, 26 n, 147 n.
Trucchi, Francesco, 335. Turolla, Enrico, 80 n. Tynjanov, Jurij Nikolaeviè, 68 n, 121 e n, 270, 271 e n, 42I-23: Tzara, Tristan, 15 e n, 16 e n, 18.
Tacito, Publio Cornelio, 313. Taine, Hippolyte-Adolphe, 366, 388, 626 n. Tallgren, Oiva J., 199 n. Tamir, Nomi, 27 n. Tansillo, Luigi, 368. Tarski, Alfred, 416 e n, 417.
Uberti, famiglia, 452. Uberti, Fazio degli, 452. Ugo di San Vittore, 145. Uguccione da Lodi, 24. Ullmann, Stephen, 64 n, 517 n, 519 n, 520 e n, 521 e n.
103 N, 457.
Indice dei nomi Umberto di Romans, 139. Ungaretti, Giuseppe, 48, 81 e n, 82, 273 n, 305
e n, 454, 457, 464.
Urban, Wilbur M., 352. Uspenskij, Boris Andreevié, 35 n, 49 n, 116 e n, 118, 124 n, 125e n, 126 n, 127 n, 129 N,
13I n, 133 € N, 135 n, 136 n, 137 n, 139 n, I4I N, 242 N, 277 N, 540 n.
Vachek, Josef, 42 n. Vahlen, Johannes, 150 n. Vaina, Lucia, 112 n.
Valéry, Paul, 223, 353, 358, 359, 379, 380, 497.
703
Wagner, Wilhelm Richatd, 162, 163 n, 605. Waletzky, Joshua, 102 e n. Walpole, Horace, 608. Warning, Rainer, 264 n, 515 n. Warren, Austin, 38 e n, 375, 419 € n, 420€ n, 597 e n.
Wasiolek, Edward, 352 n. Waugh, Linda R., 64 n. Weaver, Warren, 506 e n. Weber, Max, 174, 597 e n, 598, 613 n, 620, 624
e n, 625, 645 n, 657.
Weinrich, Harald, 39 e n, 98 n, 487, 635 n, 637 n.
Valesio, Paolo, 51 n, 65 n, 527 n. Valla, Lorenzo, 325. Vandelli, Giuseppe, 466 n. Van Deusen, Marshall, 352 n. Van Heck, Adrian, 295 n. Vannetti, Clementino, 320. Varvaro, Alberto, 188 e n, 189, 198 n, 204 n,
Wellek, René, 245 e n, 246, 352 n, 353 n, 419 e n, 420 € N, 590 n, 597 e n. Wettsteint, Johann Jakob, 148. Wienold, Gotz, 83 n. Wilamowitz-Moellendorf, Ulrich von, 160-63. Wilkins, Ernst Hatch, 292. Williams, Raymond, 598-600, 618, 622, 680 e n,
Vattimo, Gianni, 614 n, 645 n. Veblen, Thorstein, 623, 625, 634 n, 644 n. Vega Carpio, Félix Lope de, 106. Vegio, Maffeo, 323. Vella, Giuseppe, 325. Velleio Patercolo, Gaio, 313. Vené, Gian Franco, 629 n. Venturi, Franco, 321 n.
Wilson, Edmund, 573 e n. Wilson, Nigel G., 142 n, 143 n, 144 n, 208 n,
299 N, 492.
Verga, Giovanni, 32, 103 n, 381, 382, 394, 397;
399, 400, 402, 4II.
Verlaine, Paul, 380. Verri, Pietro, 424. Veselovskij, Aleksandr Nikolaevié, 94, 95 n, 106 n, 496, 536 e n.
Vespucci, Amerigo, 341 n. Vico, Giambattista, 216, 217, 299, 316 e n, 348,
382, 402, 405, 434, 435, 554.
Viehweger, Dieter, 93 n.
Vignuzzi, Ugo, 218 n, 451 n, 471 n, 473 N, 474 n, 477 N, 482 n, 490 n, 491 n. Vigny, Alfred de, 394. Villemain, Abel-Frangois, 337. Vinogradov, Viktor Vladimiroviè, 353 e n. Virgilio Marone, Publio, 76, 82, 84, 86, 106,
313, 317, 328, 336, 410, 556.
Visconti, Luchino, 468. Vitale, Maurizio, 484, 490. Vitiello, Antonio, 638 n. Vittorini, Elio, 103 n, 628. Vittorio Emanuele II di Savoia, re d’Italia, 262 n.
Vivanti, Annie, 457. Vivanti, Corrado, 282 n, 302 n, 492 n, 626 n. Viviani, Vincenzo, 314. Volkelt, Johannes, 353 e n. Volosinov, Valentin Nikolaeviè, 75 n. Volpe, Sandro, 36 n. Volta, Sandro, 15 n, 16 n. Voltaire (Frangois-Marie Arouet, detto), 312 n,
351, 385, 390, 422, 481 e n.
Vossler, Karl, 70, 71, 167 n, 211 n, 212, 215, 352 e n, 381 e n, 473 e n.
Vygotskij, Lev S., 34, 507 n.
681.
234 N.
Wimsatt, William K., 352 e n.. Winckelmann, Johann Joachim, 161, 589 n. Winner, Thomas G., 120 n. Wismann, Heinz, 154 n. Wittgenstein, Ludwig, 13 e n, 426 e n, 433,
440-43, 446, 620-22.
Wolf, Friedrich August, 148. Wolf, Mauro, 621 n. Wolff, Janet, 611 n, 619 n. Wolfilin, Heinrich, 358, 589 n. Wright, George Henrik von, III e n. Wunderli, Peter, 63 n. Wunderlich, Dieter, 21 n. Zaccaria, Giuseppe, 538 n. Zacchi, Romana, 42 n. Zagari, Luciano, 592 n. Zalamansky, Henri, 638 n. Zamponi, Stefano, 294 n. Zancan, Marina, 628 n. Zanotti, Francesco Maria, 317. Zarri, Gian Piero, 240 n, 241 n. Zdanov, Andrej Aleksandroviè, 663, 664. Zena, Remigio, 273 n. Zeno, Apostolo, 321 e n. Zeri, Federico, 203 n, 298 n. Zima, Pierre V., 634 n. Zingarelli, Nicola, 268 n. Zirmunskij, Viktor, 68 n, 536 n. Zmegat, Viktor, 616 n. Zola, Emile, 345, 661. Zotkiewski, Stefan, 124 n. Zolkoskij, Aleksandr K., 89 n. Zolla, Elémire, 628, 636 n. Zoran, Gabriel, 97 n. Zumbini, Bonaventura, 332, 334. Zumpt, Carl Gottlob, 150, 151. Zumthor, Paul, 59 e n, 61 n, 76 n, 270 e n, 633. Zurlini, Valerio, 468.
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