Le sette cose fatali di Roma Antica


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Le sette cose fatali di Roma Antica

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Francesco Cancellieri

LE SETTE COSE FATALI DI ROMA ANTICA Prefazione di Vittorio de Pedys

IX\



© Copyright 2009 Libri del Graal

Via Santa Croce in Gerusalemme, 75 00185 Roma- fax 06 97 84 35 45 celi. 3495 307 307

Prefazione di Vittorio de Pedys

È inutile avvicinarsi ad una civiltà antica se prima non ci si spoglia della mentalità positivistica tipica dell'occidente d'oggi, nonché del concetto totalmente laico che si ha della dimensione religiosa. La incommensurabile ricchezza contenuta nello scrigno che i giganti del passato hanno creato è quasi completamente inaccessibile all'uomo "moderno". Un uomo che, come ben è stato notato già molti anni fa da Rutilio Sermonti, vive "nel clamore assordante che ci impone di credere che l 'umanità si sia sollevata, con un processo lineare, da un' alba di rozzezza ed ignoranza addirittura bestiale, per raggiungere lo stato di civiltà e di libertà che oggi la delizia. La strategia dis-umana della concezione moderna della vita è di ignorare del tutto le prove del contrario, circoscrivendole ad una insignificante minoranza di portatori difacies, e di espellere dalle scuole le "inutili" lingue morte, così che quasi nessuno oggi possa leggere un testo latino ed intravedere i segni solenni della tradizione ed i suoi valori". E ciò avviene nonostante ultimi disperati e meritori tentativi, come quelli di un Giovanni Gentile, per arrestare la marea montante della tecnicizzazione nelle scuole che oggi debbono essere sempre più "vicine al mondo del lavoro". La complessità attuale, che genera inquietudine, incertezza, malessere interiore, non è altro che la conseguenza della perdita del "centro". Il passato è immensamente diverso dall'oggi dal punto di vista qualitativo: con l'ottica moderna non riusciremo mai a comprenderlo. Ecco allora che avvicinarsi a Roma consiste nel difficile tentativo di abbeverarsi di nuovo alla fonte delle qualità migliori del genere umano. Roma va inquadrata in un contesto ben lontano da pretese puramente storicistiche, tipiche della mentalità di og-

gi: la storia di Roma è sacrale, il culto ed il simbolo ci raccontano, come già commentato da Plutarco, non di eventi che furono un giorno, o saranno quando sarà, ma che sono sempre, ovunque siano Uomini in grado di viverli ed incarnarli. In un dato momento storico, quando evidentemente le leggi di necessità lo richiedono, sorge Roma; e Roma divampa come un fuoco divino per il mondo, realizza una nuova pax de orum, s'innalza su vette vertiginose, protese come un ponte nel cielo. Nel 1812 l'erudito abate Francesco Cancellieri pubblicava uno studio dal titolo "Le sette cose fatali di Roma antica". L'aggettivo "fatale" del titolo non è affatto casuale, ma è propriamente da intendere in senso etimologico: le cose, cioè, che hanno contribuito a forgiare il destino immortale di Roma. Come il lettore vedrà, si tratta di uno studio accurato e ricchissimo delle fonti latine - Livio, Dionigi, Plutarco, Ovidio, Cicerone, Seneca, Lucano, Plauto, Floro, Servio ed altri- attraverso il quale vengono ricercati ed illustrati alcuni simboli sacri, espressione della potenza divina, cui viene dato il nome di pignora, plurale di pignus, cioè pegno, garanzia. Floro li definisce secreta quaedam imperii pignora, Livio conditum in penetra/i fatale imperi i pignus, Lucano pignus memorabile, Ovidio pignorafatalia, Plautofata, Virgilio fatorum arcana, ecc. garanzia dunque; garanzia di cosa? Nulla di meno che dell'eternità dell'impero romano. In perfetta aderenza con l'interpretazione più autentica del sentimento religioso dei Romani, si tratta quindi di un vero e proprio contratto tra Roma e gli dei con cui questi ultimi garantiscono ali 'Urbe l 'eternità dell 'imperium finché gli oggetti che costituiscono i simboli del destino vengano custoditi sul suolo consacrato dell'Urbe stessa e sia prestato loro il culto dovuto: pignora quae imperium Romanorum tenerent (Servio). Nell'accezione propria un segno, un oggetto è un simbolo vivente di aspetti sacrali della realtà, tramiti verso forze superiori di cui non sono che la manifestazione vivente. Questa concezione appare oggi a dir poco originale e certo assai lontana dall'idea di religio a cui siamo abituati, secondo cui essa dipenderebbe da principi propri, soprannaturali, non derivanti dali' organizzazione della società, bensì di essa ispiratori. Ma per i Romani era vero il contrario: la religione era piuttosto l'evoluzione dei principi- o meglio dei valori - che organizzavano la società naturale, di cui il soprannatu-

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rale, si perdoni l' ossimoro, era parte integrante e quindi importantissima. Tra questi valori i principali erano certamente, la virtus, lafides e la pietas. Sebbene la concezione dei simboli fatali rientri soprattutto nella pietas, sembra opportuno un cenno anche agli altri due, anche perché, parlando dei singoli pignora se ne ritroveranno le tracce. Noi ormai traduciamo virtus con virtù, l'opposto del vizio. Per i Romani, invece, virtus era la qualità fondamentale dell'essere umano (vir), capace cioè di coraggio per controllare se stesso e per accettare sempre la responsabilità delle proprie azioni, per quanto ciò potesse essere pesante; ne avremo prova più oltre parlando del "Palladio". Tale nobiltà di tratto i romani attribuivano a se stessi in pace ed in guerra e tale accezione ben fu compresa da molti dei grandi studiosi dell'antichità classica; ci viene di subito alla mente la canzone all'Italia del Petrarca ("vertù contra furor prenderà l'arme; e fia il combatter corto, chè l'antico valore ne l'italici cor non è ancor morto") . Qualità superiore e romana dell'uomo definito in latino vir, stessa radice di virtus, ben distinto dall'inferiore declinazione dell'homo: non è un caso che la lingua latina, da alcuni tradizionalisti considerata una lingua sacra, distingue con precisione le due accezioni della natura umana, una superiore e nobile, una inferiore e ferina. Quanto alla Fides, essa nulla aveva a che vedere con la fede intesa in senso moderno ed ancor meno nell'accezione dei monoteismi dominanti. La fides raffigurata in Campidoglio, colle primigenio di Roma, in un tempio accanto a quello di Giove Ottimo Massimo, significava il rispetto degli impegni presi e, più in generale, della parola data. E questo valeva sempre, in tutti i campi e senza eccezioni: all'interno della società nei rapporti economici e sociali e all'esterno anche nei confronti degli stranieri e addirittura dei nemici: il caso di Attilio Regolo che lascia Roma dove era in salvo e torna a farsi uccidere dai Cartaginesi, come aveva promesso di fare se non fosse riuscito ad ottenere la pace, è il più famoso di tanti possibili. Non a caso nei larari pubblici e nei castra permanenti delle legioni spesso fides trovava posto accanto ad honos. Efides è propriamente sotto la protezione di Giove, garante massimo dei patti, dei giuramenti, delle leggi, dei confini. E, infine, la pietas. Detto che anche in questo caso la traduzione con pietà sarebbe profondamente fuorviante ed incompleta al limite del falso, qui una definizione è complessa. Innanzi tutto essa rappresenta il rispetto dell'armonia del mondo, così di quello conosciuto e costituito da-

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gli essere umani e dai fenomeni naturali come pure di quello degli dei, dove agiscono forze superiori e parzialmente incontrollabili, chiamate divine. Un esempio delle prime è la famiglia (che per i romani era allargata ai servi, agli schiavi ed ai clientes) dove la pietas richiede ai figli di obbedire al padre (il paterfamilias) e di rispettarlo in conformità alla gerarchia naturale. Chi non rispetti l'ordine naturale delle cose è un monstrum, cioè un prodigio contro natura e diviene perciò sacer, cioè esecrando e potenzialmente destinato all'eliminazione. Il termine "sacro" nella sua accezione essenziale significa difatti "separato" ed il sakerdos è colui che crea il sacro. Basti ricordare che il comandamento sacer esto è già presente nelle arcaiche XXII tavole del 449 a.C., alla ottava legge. L'intero mondo di concezione romana, pubblica e privata, è accordato in armonia con le leggi eterne di natura e di conseguenza col mos maiorum. Per il romano ogni manifestazione umana, si tratti di normali attività della vita, anche le più umili, ovvero nell'accostarsi al divino, presuppone un'attenzione al rispetto dell'ordine micro e macrocosmico, di cui ciascun uomo libero è parte integrante. Ne è già prova la più antica iscrizione scoperta in latino arcaico, databile intorno al575 a.C., sul cippo trovato sotto il lapis niger nel Foro da parte del grande archeologo Giacomo Boni il IO gennaio del 1899, che descrive la prescrizione di pulizia rituale nell'avanzare del rex, preceduto dai suoi littori ed il divieto viene appunto sanzionato come sakors esed cioè sacer esto. Il fatto che si tratti di una rara iscrizione bustrofedica (cioè verticale ed alternativamente dal basso verso l'alto) costituisce chiaro segno della sua estrema arcaicità. Altrettanto preciso è il rapporto con il complesso pantheòn degli dei romani, ciascuno dei quali è proposto al successo o meno delle attività umane. Giove invierà la pioggia quando serve, e farà da garante ai patti, Cerere farà crescere il grano, Libero farà maturare l 'uva e fermentare il vino, Marte potrà favorire l'esercito e addirittura combattere a fianco dei Romani, o anche, su un altro piano, queste forze eviteranno i pericoli che ad ogni istante minacciano l'attività umana. Purché ... purché gli uomini rispettino l'armonia ed i reciproci ruoli: riconoscano cioè la funzione di queste forze e le onorino con i riti e i sacrifici necessari. È un concetto fondamentale: addirittura codificato nel mito di fondazione della stessa Urbe, laddove la caratteristica principale dell'eroe capostipite della grandezza di Roma, Enea, è di esser sempre definito pius, particolarmente in Virgilio, cantore su-

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premo dell' imperium. A proposito dei pignora tale concetto lo abbiamo chiamato contratto, definizione applicabile alla caratteristica generale della pietas ed al quale gli stessi dei non possono sfuggire essendo anch'essi parte contraente attiva, legata pertanto, come gli uomini, ad un preciso dovere. Ecco dunque una basilare differenza tra la religione romana ed i monoteismi insediatisi in Europa successivamente, di provenienza medio-orientale: il cives romano è tenuto al più preciso e minuzioso dovere di rispetto ed onore verso i suoi dei, ma ciò facendo, esercitando cioè la pietas, mantiene la sua parte del contratto e può perciò permettersi, ad esempio, di pregare gli dei in piedi, a testa alta, e senza bisogno di una classe di intermediari del sacro, come i preti delle religioni rivelate. Ogni pio uomo libero è sacerdote di sé stesso e, come pater familias, di tutta la sua famiglia, intesa come sopra descritto in maniera allargata. Egli entra in diretto contatto con le divinità secondo un preciso rituale ed un ancor più preciso calendario, quasi vincolandole ad esaudire le sue corrette richieste. È molto opportuno sottolineare che, a Roma, la religione è talmente integrata nel tessuto della società, che si tratta di un istituzione statale. Esiste una complessa classe sacerdotale, ma essa non ha nulla a che vedere con i riti privati o gentilizi ; ha invece funzioni esclusivamente pubbliche, di salus dello Stato. Ecco quindi che alle maggiori cariche religiose, vengono normalmente chiamati uomini di altissimo rango e specchiato passato al servizio della repubblica o dell'impero, per assolvere nel migliore dei modi una funzione statale fondamentale per l'equilibrio tra uomini e dei. Tutti i documenti sacerdotali romani giunti fino a noi descrivono come massimo bene da mantenere la pax de orum o pace degli dei. Forse meglio sarebbe chiamarla pace "con" gli dei, delicato equilibrio di forze che lo Stato ha il diritto e, attenzione, l'obbligo, di preservare a qualunque costo. Di qui, ad esempio, il ricollegamento con le situazioni di sacer che necessitano espiazione e lavacro spirituale. Uno degli aspetti della religione romana più lontani dalla moderna accezione di rapporto con la divinità, è proprio questa sorta di rapporto di pari dignità tra il vir ed i suoi dei, i quali, in presenza di azioni corrette e di rettitudine d'animo ed i propositi, sono tenuti a favorirne le richieste. Tutta la letteratura romana è ricca di episodi, accaduti nel corso dei secoli, tesi ad essere utilizzati come esempi di pietà o viceversa di empietà, nei quali gli dei decidono di intervenire a soccorso o a punizione degli atti degli uomini, ma esclu-

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sivamente come conseguenza diretta del loro retto agire ovvero delle loro mancanze di pietas. Vi è pertanto una fondamentale differenza ad esempio, con la pre-esistente religione greca, dove gli dei, pur caratterizzati iconicamente in maniera molto simile a quelli romani, hanno però un atteggiamento sostanzialmente indifferente alie vicissitudini degli uomini, ed intervengono sulla terra in base a capriccio o casualità. Tale "patto" è stato del tutto depotenziato nelle religioni rivelate, dove tra uomo e dio la distanza è incommensurabile e non ci si può che limitare ad impetrare delle "grazie", normalmente in ginocchio. Non è un caso che i legionari romano-italici fossero particolarmente religiosi e portassero le immagini degli dei nel carico del treno di bagagli perfino nei castra ambulanti eretti nel più profondo del territorio nemico; né è un caso che alcune di tali immagini divenissero insegne legionarie, come l'aquila di Giove scelta da Mario per avanzare alla testa e come simbolo massimo della legione. Anche nel campo militare mobile, il larario con le immagini degli dei veniva collocato accanto alla tenda del comandante, al centro dell'accampamento. Difatti la legione in marcia in territorio nemico considerava se stessa come una perfetta immagine di Roma in movimento. Momento cardine dell'opera di disfacimento della saldezza di Roma fu proprio il concetto della divisione fra i due poteri,quello regale e quello sacerdotale, imposto dalla nuova religione dominante, il cristianesimo. Quell'unità sacrale, da cui tutto discende, propria della Tradizione, e che vede al suo vertice il Re Pontefice, diviene opposizione interna al tessuto sociale. Col cristianesimo tutto il potere proviene da Dio, quindi l 'Imperatore, che è il semplice depositario del potere divino in terra, risulta automaticamente subordinato alla Chiesa, mediatrice fra cielo e terra. Tale concezione, come abbiamo visto, è inconciliabile con la visione romana delle cose. Finanche nel tardo impero, quando le forze rappresentanti la religione degli avi lottavano soccombendo al dilagare del cristianesimo, i massimi rappresentanti religiosi romani furono costernati alla notizia che l'imperatore cristiano Graziano nel 376 d.C. aveva rifiutato il titolo di pontefice massimo, in quanto intransigentemente aderente alla nuova religione. Per i "pagani" sia colti che il popolo minuto, ciò rappresentò un 'incomprensibile egravissima cesura che metteva a repentaglio la sopravvivenza stessa dell'impero. Per essi un potere regale staccato e, peggio ancora, subordinato all'autorità spirituale era addirittura inconcepibile e minava alla ba-

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se la pax de o rum. Tutto ciò che chiedevano i rappresentanti dell'antica religione era che l 'imperatore, quantunque cristiano, mantenesse in sé le due accezioni, assicurando attraverso la sua sacra persona il futuro armonioso dell'impero. Non avendo avuto seguito tale richiesta i "pagani", per cercare di mantenere nel miglior modo possibile la pax dearum, accondiscesero ad assegnare la carica di pontefice massimo ad uno degli uomini più pii e rispettati a Roma. È in tale contesto che si situa la disputa sulla collocazione dell'altare della Vittoria in Senato fra il pontefice Simmaco e l'imperatore, evento su cui ha scritto pagine interessanti Renato Del Ponte, cui si rimanda chi vuole approfondire l'episodio ed il contesto. La società romana si esprime dunque con la coscienza di una gerarchia naturale che richiede all'individuo virtus,fides, pietas e compone armonicamente i differenti gruppi sociali riconosciuti, subordinandone le istanze a quelle, superiori, degli dei e dello Stato. Le forze divine sono presenti ovunque: i Mani (cioè i "buoni"), ovvero gli antenati defunti nelle famiglie, i Lari degli individui nelle campagne, i Penati, custodi della casa, il Genio di ogni luogo importante, e su un livello statale, il Genio di Roma, il Genio del Senato e del popolo Romano: per tutti, riti di offerte e talora di sacrifici. L'universalità penetrante della pietas, custodiva le tradizioni e finiva per unificare l 'umanità; da qui la capacità romana di trovare un'intesa con tutti e addirittura, di concepire, per primi, uno jus gentium. Di qui anche l'incredibile tolleranza dei romani per tutti gli dei delle popolazioni conquistate ed in generale di tutte le etnie. La concezione di una sorta di anima romana universale è ad esempio, ben illustrata dalle pagine di Tacito o di Cesare i quali descrivono le oscure divinità aliene dei popoli con cui Roma è in lotta di conquista, ma con un evidente atteggiamento di riconduzione alle divinità romane; essi sembrano volerei dire che in fondo questi popoli adorano dei che possono apparire bizzarri ma che hanno ampi tratti in comune con i nostri. Tutta la secolare storia romana è permeata di inclusioni di divinità estere nel pantheòn romano, in perenne allargamento. Unica eccezione a questo secolare comportamento, perfettamente congruo con lo spirito romano, fu l'intransigente opposizione al monoteismo ebraico e poi cristiano, ma questo, visto finalmente in ottica interna, non è che la coerente risposta agli unici interlocutori che esplicitamente non intendevano far parte dello Stato; laddove la religione, per quanto al-

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largata, è un fatto totalmente compenetrato con l'organizzazione statale, non si può starne fuori. Rifiutare lo Stato è crimine inconcepibile per il Romano, che nel seno dello Stato nasce, vive, ad esso contribuisce e ne è parte indissolubilmente integrata ed integrante. È inutile ogn,i commento sulla distanza che separa l 'uomo moderno da quello antico romano nella concezione del rapporto con lo stato. Quindi ogni culto è a Roma accettabile e permesso, sotto l'occhio vigile dei massimi sacerdoti, che si assicurano semplicemente che esso non confligga mai con i superiori interessi dello Stato. Ecco dunque la meraviglia e la possibilità di trattare con gli dei con pari dignità anche se con obblighi maggiori, nella certezza che essi si comporteranno secondo fide s. Come si vede, la religione romana era soprattutto uno sviluppo della società, la quale, di conseguenza, non solo era con essa in armonia, ma ne era permeata fin nell'intimo. Cicerone, in un celebre passo del De republica, definisce il popolo romano inferiore ai greci per capacità artistica, ai galli per forza fisica, agli ispanici per numerosità, ai cartaginesi per furbizia, ma superiore a tutti per devozione religiosa e pietas. Di qui la sua grandezza. Di ciò, ciascuno dei sette simboli è un esempio. Approfondendo l 'analisi dei pegni va notato subito che tale concetto non è né esclusivo della città di Roma né i romani erano l 'unico popolo che custodiva il culto di oggetti fatali. Altre importanti città del ciclo greco avevano pegni; se ne menzionano dalle fonti con certezza ad Atene, a Tebe, a Tegea, a Chersoneso. Ancor più importante ai fini del nostro discorso è che Troia disponeva di un pegno fatale, una statua di Pallade, portata ad Ilio dal fondatore Dardano. Anche essa aveva il precipuo scopo di assicurare la fortuna della città ed in essa doveva essere custodita come pegno di accordo fra il popolo e la dea tutelante. Su questo punto torneremo più avanti. Il grande studioso delle religioni G. Dumezil fa notare che varie popolazioni di origine indoeuropea avevano contezza di oggetti leggendari ben definiti che costituivano pegno di patto fra uomini e dei, tipiche di quei popoli. Lo studioso svolge un'analisi comparata dello sviluppo della tripartizione funzionale degli indoeuropei per la quale è famoso, partendo addirittura dai parallelismi fra religione romana e indiana; si sofferma in particolare sulle caratteristiche divine dei re di Roma come rappresentanti delle tre categorie. Vi è indubbiamente una interessante coincidenza fra il numero dei re di Roma, e quello degli oggetti fatali; anche su questo punto torneremo in

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seguito, visto che le coincidenze sono ben più numerose di questa. Tornando alle popolazione indoeuropee studiate dal Dumezille fonti da lui ricercate segnalano che, in Irlanda, i primigenii abitatori dell'isola, i Tuatha De Danaan, veneravano il ricordo di quattro oggetti fatali cioè la pietra di Fai a Tara (sede ipotizzata del re e "centro" del mondo per i celti), la spada di Nuadu, la lancia di Lug, il calderone di Dagda. Lo stesso avveniva presso le popolazioni scandinave, che addirittura associavano alle tre funzioni tipiche il cinghiale d'oro del ricco Freyr, un magico anello del re/mago/sacerdote Odino, il martello Mjollnir di Thor. I Veda indù indicano il carro magico a tre ruote degli Ashvin, i due cavalli di Indra, la prodigiosa vacca di Brhaspati. Meno conosciuti, Dumezil segnala che presso gli sciti si veneravano tre o quattro talismani caduti dal cielo secondo Erodono: una coppa, un'ascia, un aratro (quante corrispondenze con altri cicli, incluso quello romano, qui si potrebbero tracciare!). Quindi non solo presso i romani ed i greci, ma, sembrerebbe, anche in molti altri stanziarrtenti di popoli indoeuropei, alcuni oggetti sorgevano misteriosamente come mezzi di espressione della potenza divina, divenendo simulacro del sacro legame di patto tra uomini e dei. È vero che moltissime religioni hanno sentito il bisogno di ricorrere a dei sostegni materiali per iconizzare il rapporto col sacro, ma solo quella romana ha il carattere quasi di un patto fra eguali. Il Cancellieri concentra il suo studio dei pignora su Servio il quale è tra l'altro, l 'unico autore che ne menziona ben sette. Servio parla di questi oggetti nel suo erudito commentario ali 'Eneide. Si tratta di uno studioso che suscita in noi particolare interesse in quanto tardo commentatore, vissuto ai tempi dell'ultima lotta fra paganesimo romano soccombente e cristianesimo che si affermava, ne li 'ultimo scorcio del IV secolo. Servio a Roma frequenta, quantunque più giovane, il circolo della massima espressione sapienziale de li' antica religione, rappresentata a Roma dalle famiglie di Vettio Agorio Pretestato, dei Simmaci, di Nirio Nicomaco Flaviano, cioè proprio quegli esponenti, pontefici in absentia imperatoris, che custodivano al massimo livello rituali, valori e culti dell'antica religione. La lotta fra le due religioni fu nel IV secolo particolarmente accesa e costellata di continui episodi di violenza e di intransigenza, segnata alla fine dali' editto dell'imperatore Graziano che nel 382 vietava ai pagani ogni forma di culto, chiudeva i templi e sot-

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traeva ad essi la sovvenzione statale al mantenimento, che era stata in vigore per oltre mille anni, tra la disperata costernazione dei pagani. Tali provvedimenti erano per loro privi di ogni senso, in quanto lo stato non poteva sopravvivere senza pax deorum, garanti della tuteia e conservazione dello stesso. Abolire la pubblicità dei culti era come infrangere quell'antico patto, e lo stato, senza la sua anima, sarebbe divenuto un'entità priva di riferimento superiore. Ciò nonostante Simmaco, sirivolse nell'orazione sulla statua della Vittoria all'imperatore in questo modo "noi richiediamo la pace. È giusto che sia considerato un unico essere, qualunque sia quello che ognuno venera. Guardiamo le medesime stelle, comune è il cielo, un medesimo universo ci racchiude: che importa con quale dottrina ciascuno ricerca la verità? Non si può giungere sino a così sublime segreto per mezzo di una sola via". Difficilmente queste parole possono essere tacciate di intolleranza. Ma non fu ascoltato. Servi o è anche amico personale di Macrobio, l'autore dei Saturnalia, mirabile rappresentazione della spiritualità dell'antica religione e dei suoi riti. In tale opera viene appunto rappresentato il cenacolo dei pagani romani riuniti a discutere di questione religiose e rituali, ultimo canto di una sapienza millenaria, irrimediabilmente condannata ali' oblio dalla religione monoteista dominante. Il milieu culturale lo rende quindi particolarmente adatto per commentare il poema sacro dell' imperium dei romani e l'epopea del suo fondatore, l'Eneide. Nel primo libro Virgilio pone, al verso 278-9, la celebre affermazione sul fato di Roma "his eRO nec metas rerum, nec tempora pono; imperium sine fine dedi". È proprio Servio a commentare che ciò va inteso come un patto fra Giove ed i Romani nel quale il padre degli dei concede a Roma il destino precipuo di dominare senza limiti di tempo e di spazio. Precisandone poi nel libro VI, ai versi 851-3, la portata e le modalità: "tu regere imperio populos romane memento, haec tibi erunt artes, pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos". Va peraltro segnalato che già Omero nell'Iliade, libro ventesimo, ai versi 297-8 descrive Enea anticipandone attributi di pietas ( ... sempre graditi doni offre agli dei ... ) che gli varranno la sopravvivenza allo scontro con Achille; tanto che Poseidone Enosìctono, fratello scontroso di Giove, preconizza impero eterno ai figli di Enea (''la forza di Enea regnerà sui Troiani e i figli dei figli e quelli che dopo verranno"). Da ciò emerge come Virgilio riprenda classicamente, e non certo per mera invenzione celebrativa, un concet-

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to già caro al cantore cieco (''davvero Enea caro ai numi immortali fu sempre"). Servio nei commentari sul passo precisa anche che, dopo lo sbarco di Enea sulle coste laziali, a Lavinio furono assegnati dagli dei tre anni di dominazione, ad Alba trecento, a Roma l'eternità. Il Cancellieri scava nelle fonti sforzandosi, pur con tutti i limiti di una mentalità di inizio '800, di scavare per far emergere storia e leggenda. La figura dell'abate Francesco Girolamo Cancellieri ( 1751-1826) è oggi quasi sconosciuta, ma alla sua epoca era in rapporti epistolari e personali con una grande quantità di uomini importanti dell'ambiente culturale romano ruotante intorno alla Chiesa; gentiluomini italiani ed esteri, laici e chierici. Studioso di chiara fama, fu definito dal celebre archeologo Rodolfo Lanciani "uno degli uomini più eruditi dell'età presente". Di lui si ricorda la vastissima produzione letteraria che ammonterebbe a ben 161 pubblicazioni, 79 lavori non pubblicati, 41 manoscritti. Gli argomenti trattati sono trasversali e vari: si va dalle classiche esposizioni chiesastiche (pur sempre condite con il gusto dell'erudizione) come la descrizione della sagrestia Vaticana, le funzioni della cappella pontificia o della settimana santa, le cerimonie di incoronazione dei pontefici, gli ornamenti del vestiario pontificio; a studi più squisitamente archeologici come quelli sul carcere Tulliano, su statue, campane, sulla basilica Vaticana, sulle cappelle pontificie, sugli oggetti romani descritti nel presente libro. Ma spaziò anche in ben altri e sorprendenti campi, rivelando una curiosità ben difficile da coniugare con l'immagine del classico bibliotecario dalla mentalità soffocantemente cattolica: difatti scrisse saggi sul tarantismo, sulle carte cinesi, sul pallone volante, sull'orologio italiano. Ed ancora studi su Metastasio e Dante e Cristoforo Colombo. Innumerevoli sono le sue epistole agli uomini di cultura del suo tempo. I suoi testi sono oggi custoditi, quantunque poco letti, nelle biblioteche specializzate di mezzo mondo, come l 'università di Oxford o la libreria del Congresso a Washington. In ogni caso ci pare che il suo punto fermo fu sempre l'amore per Roma, equesto basta per rendercelo vicino. Dei pegni in discorso si sono occupati in tempi progressivamente più recenti e con diversi approfondimenti studiosi come Di Cesarò, Evola, Baistrocchi, Polia, Consolato, ai cui studi si rimanda chi desideri approfondire il tema con altri contributi.

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Consideriamo specificatamente i pignora di Servio, eccone l'elenco: l) L'Ago della Madre degli Dei; 2) La Quadriga di Creta di Veio; 3) Le ceneri di Oreste; 4) lo scettro di Priamo; 5) Il Velo di Ilione; 6) Gli Ancili; 7) Il Palladio. Come si vede, si tratta di oggetti disparati che sembrano non avere alcuna connessione tra loro. Ma ciò è vero solo se li si considera esclusivamente per la loro natura materiale (sassi, statue, oggetti rituali o bellici, ect...) il che sarebbe feticistico o addirittura assurdo: sarebbe come se, oggi, considerassimo che il valore di un contratto consiste nella carta su cui è scritto e nell'inchiostro con cui è redatto, invece che nell'espressione della volontà che esso trasmette. Come sopra spiegato questo oggetti sono invece simboli che esprimono il segno tangibile della scelta divina di favorire a certe condizioni (il rispetto del culto e quindi della pietas) la società romana, quindi un ingresso del sacro nella sua storia. Procedendo ad un'analisi attenta dei singolipignora tale caratteristica generale che essi rappresentano appare con ancor maggiore evidenza. L'Ago della Madre degli Dei Diverse sono le opinioni sulla natura e forma del simulacro. Probabilmente una pietra nera di forma conica (acus, donde ago) o forse un ferro o una calamita o una cote. È possibile che fosse dunque un aerolito ferroso (in greco ferro si dice difatti sideros, cioè metallo delle stelle). Caduta dal cielo, dopo la distruzione di Troia fu trasportata a Pessinunte in Frigia. Al tempo di Annibale e delle ripetute sconfitte degli eserciti consolari da parte del condottiero cartaginese, i decemviri, sacris faciundis, consultarono i Libri Sibillini e l'oracolo di Apollo a Delfi e decretarono che la Madre degli dei doveva essere ricondotta a Roma per la sua salvezza, inviando ambasciatori adAttalo, re di Frigia. Fu ottenuta pacificamente dai Romani, cui la cedette l 'alleato re Attalo, di origine troiana, e questi dedicarono alla Madre un tempio sul Palatino. L'arrivo a Roma del simbolo tradì subito la sua sacralità: la nave che lo trasportava si arenò alla foce del Tevere e fu sbloccata solo dalla vestale Claudia Quinta la quale, per provare la sua innocenza da un 'accusa di empietà, la liberò trascinando la con il suo velo. La Madre fu ricevuta da P. Scipione Nasica, uomo e sacerdote integererrimo e trasportata nel tempio della Vittoria sul Palatino, come detto. Poiché si tratta dell'unico pegno dei sette che è di epoca sto-

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rica (204 a.C.) e non arcaica, la vicenda miracolosa colpisce particolarmente a prima vista; stupisce meno se si riflette su quanto esposto prima in merito alla funzione di salus publica ovverosia di salvezza nazionale assunta dalla religione presso i Romani, completamente compenetrata nello stato. La Madre degli Dei era Cibele e ad essa i Romani dedicarono un culto speciale comprendente feste dal 4 al l' 11 aprile, i Ludi Megalenses, che si concludevano con una processione ed una lavanda (lavatio) della statua della dea e dei paramenti sacri, per significare la purificazione e il rinnovamento della terra. Degno di nota, che i Romani consentissero anche la prosecuzione del rito di origine frigia in onore della dea con la festa della Grande Madre dal 22 al 27 marzo; in questo caso però i rituali non furono mai completamente accettati, tanto che i loro sacerdoti non furono mai considerati parte del sacerdozio romano; il motivo consiste nel fatto che nel rito frigio i sacerdoti, gli Arcigalli, si castravano, e tale pratica era considerata empia ed inaccettabile dai Romani (vedi sopra il concetto di sacer). Non deve stupire che una semplice pietra rappresentasse una dea così importante: le più arcaiche rappresentazioni romane di divinità erano aniconiche, cioè senza forma (anche Giove era rappresentato da una pietra e Vesta addirittura dal fuoco), lasciando all'intelligenza dell'uomo di capire (intelligere) ciò che il simbolo rappresentasse. Nel prudentissimo lessico pontificate romano le preghiere ad alcune divinità (ad esempio il Genio di Roma) venivano formulate invocando la divinita in maniera indeterminata sive mas, sive foemina, arrivando addirittura ad onoraria senza neppure esser certi del nome con la formula "con qualunque nome volessi farti invocare". Come nota lo stesso Cancellieri, alle semplici pietre, spesso quadrate, venivano "aggiunte le teste e le braccia", sviluppando una vera e propria statuaria. Una testimonianza storica attesta l 'esistenza del tempio e della statua ancora in epoca tarda con l'episodio di Serena, moglie cristiana del generale Stilicone che nel 393 d.C. asportò la collana della dea e venne maledetta da un anziana vestale. La stessa fonte riporta la successiva brutta fine di Serena, morta decapitata. La fascinazione della Madre degli dei è ancora testimoniata dallo splendido inno che ad essa levò il restauratore più fulgido dell'antica religione e degli antichi valori, l'Augusto Giuliano, nel breve e luminoso periodo in cui vestì la porpora imperiale.

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La Quadriga di Creta di Veio Questo simbolo è invece di origine italica. Secondo Plutarco, il re Tarquinio il Superbo ordinò agli artigiani etruschi di Veio o aè un artista (forse il Vulca dell'Apollo?) la costruzione di un carro in terracotta da collocare sulla trabeazione del tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio. Nel corso della cottura però, la terracotta, invece di contrarsi come d'uso, si gonfiò in proporzioni tali da rendere necessaria la distruzione del forno per estrarre la scultura. Il prodigio, interpretato come massima fonte di potere per chi possedesse la quadriga, indusse i Veienti a rifiutare la consegna ai Romani. Qualche giorno dopo, però, in una gara di corsa l 'auriga vincitore non riuscì a ricondurre i cavalli alle stalle: questi si lanciarono al galoppo portando il cocchio fino al Campidoglio, senza che altro potesse impedirlo. Il nuovo prodigio convinse i Veienti che la Quadriga andasse consegnata ai Romani. Il tempio fu inaugurato in epoca repubblicana dal console M. Orazio Pulvillo nel509 a.C.. La quadriga di creta fu poi sostituita nel296 a.C. da una di bronzo costruita dai fratelli Ogulnii. Interessante e meritoria di specifico approfondimento sarebbe la figura di questa famiglia di fabbri (già di per sé categoria "pregnante" di uomo), non solo apparentemente ispiratori della legge Ogulnia sull'accesso dei plebei al pontificato nel 300 a.C., ma possibili, se non probabili, autori della statua bronzea della lupa capitolina, oggi simbolo massimo di Roma e conservata ai Musei Capitolini. Di assoluto significato è l'episodio della costruzione del tempio di Giove O.M. sul Campidoglio, antico mons Saturnius e colle sacrale di Roma fin dalle origini, se non ancora prima. Narrano vari autori che durante gli scavi per la costruzione del tempio, tutti i sacelli degli dei precedentemente locati sul luogo di erezione del tempio al padre degli dei furono rimossi ed ex-augurati. Si rifiutarono di muoversi dallocus solo Juventas e Terminus, dio dei confini. Tale prodigio venne interpretato come segno inequivocabile di eternità del luogo (torna anche in mente il verso di Virgilio); Roma prestò sempre massima attenzione all'educazione della gioventù secondo il mos maiorum, ci piace pensare in ottemperanza al voto fatto da Juventas di non lasciare il luogo sacro di Roma. Quanto a Terminus non può esser casuale il suo rifiuto di lasciare il colle chiamato Campidoglio proprio perché, negli stessi scavi, fu rinvenuto un capo umano intatto (caput). I Romani provvidero quindi a costruire nel tetto del tempio di Giove O.M. un' apertu-

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ra in corrispondenza del sacello di Terminus, che fu inglobato nel tempio. È forse questo un esempio di axis mundi romano? In ogni caso il valore del pignus risulta quindi dai due prodigi e dalla sua collocazione nel Capitolium ribadendo il legame potere-luogo, cioè imperium Roma. La Quadriga, espressione del simbolismo solare indoeuropeo, guidata in questo caso da Giove, sarà un simbolo ripetuto costantemente nel trionfo dei generali romani vittoriosi, che percorrevano la via Sacra, per andare a rendere omaggio al suo tempio. Dove altro, se non sul colle capitolino, poteva il sommo Giove conferire l 'imperium ai governanti di Roma?

Le Ceneri di Oreste Secondo Servio, Ifigenìa, sorella di Oreste trasportò il simulacro di Diana, di cui era sacerdotessa, dalla Tauride ad Ariccia nel sacro bosco del nemus. Condusse con sé anche le ceneri del fratello che tumulò nel bosco. Secondo Igino "le ossa di Oreste furono trasportate da Ariccia a Roma e seppellite davanti al tempio di Saturno situato davanti al Clivo Capitolino a fianco del tempio della concordia". La storia di Oreste che, d'accordo con la sorella Elettra, uccide la madre Clitemnestra per vendicare il padre Agamennone che lei ha prima tradito e poi contribuito ad uccidere, è ben nota. Come è noto che per il matricidio Oreste fu a lungo perseguitato dalle Erinni (le Furie). Oreste era dunque un matricida e vieppiù greco, nemico cioè dei Troiani da cui i Romani rivendicarono la discendenza. Erodoto narra poi dell'episodio degli Spartani che per conquistare Tegea debbono impadronirsi delle ossa di Oreste, episodio confermato da Pausania. A cosa deve l'antichità tutto questo interesse per Oreste? Anche se le sue ceneri erano state il talismano prima di Tegea, poi di Sparta, infine di Ariccia, perché sceglierle come pegno fatale romano? Delle spiegazioni avanzate, del resto in termini dubitativi, nessuna appare del tutto convincente. Lo stesso Cancellieri non si esprime sulla vicenda. Visto l 'interesse dell'antichità è il caso di avanzare qualche ipotesi in merito alla rilevanza del caso di Oreste per i Romani. Una prima spiegazione viene proposta dal Bachofen nel suo classico studio sul matriarcato; egli vede nell'uccisione di Clitemnestra da parte di Oreste una sorta di trasposizione mitica della vittoria degli indoeuropei, portatori di civiltà apollinea e patriarcale sulle popolazioni precedenti di origine mediterranea e dalla civiltà matriarcale. Un se-

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condo modo di vedere l'episodio si inquadra nel fatto che fu in particolare al tempo del principato di Augusto che questo mito acquisì importanza. Viene quindi spontaneo pensare che la restaurazione augustea del mos maiorum si intreccia col caso di propaganda personale in cui si esalta il comportamento del vendicatore dell'uccisione a tradimentò del padre. Proprio come l 'immagine che Augusto ha sempre proiettato di sé per raccogliere il consenso dei Romani alla sua guerra personale contro i cesaricidi. Un'ultima ipotesi può avanzarsi rifacendosi al concetto di pietas più sopra illustrato, messo in connessione con la famiglia, definita quest'ultima come una gerarchia naturale con a capo il pater familias cui erano dovuti obbedienza e rispetto da parte dei figli. A Roma, società nettamente patriarcale, uccidere la madre era un delitto orrendo, ma uccidere un pater familias lo era ancora di più poiché questi possedeva l'imperium della famiglia; il primo delitto poteva forse essere espiato; il secondo no, andava punito con la morte. Uccidendo Clitemnestra, Oreste compie un dovere. Ma se è anche il figlio della vittima ha violato con ciò la gerarchia e va anch'egli punito. Come? Evidentemente la terribile persecuzione di Oreste da parte delle Erinni è considerata punizione adeguata; cosa su cui del resto è d'accordo anche Eschilo che alla fine trasforma le Erinni in Emmenidi, da Furie a Benevedenti. Per i Romani, dunque, Oreste sarebbe un caso di scuola della pietas, cioè di nuovo dell'armonia: Oreste è colpevole nei confronti della madre e paga di conseguenza: l'armonia è ristabilita; nello stesso tempo Oreste persegue la parricida, nel significato che la madre ha partecipato ali 'uccisione del pater familias per ristabilire l'armonia che questa ha violato. Lo Scettro di Priamo Lo scettro di Priamo, re di Troia ucciso da Pirro figlio di Achille venne portato in Italia da Enea e, a suo nome, offerto da Ilioneo a re Latino insieme ad altre preziose reliquie sottratte alla distruzione di Troia, quale pegno di pace e alleanza. I Troiani se ne privarono con dolore ma accettarono il grave sacrificio, in quanto indentificarono nelle terre di Latino, quelle originali di Dardano, loro fondatore e destinato dal Fato alla loro discendenza, riconoscendo la terra italica a loro destinata. Latino stesso lo accetterà perché l'oracolo gli ha predetto che un genero venuto da lontano (Enea) avrebbe glorificato sua figlia e la sua stirpe. Enea infatti sposerà la figlia di Latino e darà origine ai re di Alba . Se-

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condo Virgilio, Latino è il primo re del Lazio portatore di scettro e portatore altresì di una diadema a dodici raggi, simbolo del sole al quale dona l'immagine di somma regalità, quale sintesi di quella troiana e di quella latina. Il dono dello scettro di Priamo a Latino da parte di Enea suggella il patto tra latini e troiani che trasmette direttamente la regalità (saremmo tentati di dire l'imperium) da Troia ai fondatori di Roma, creando una catena ininterrotta di legittimità, concetto cui i Romani erano sensibilissimi. Difatti nella concezione superiore dello stato per i Romani non era possibile per nessuno esercitare un potere senza il conferimento di un imperium, cioè della formale legittimazione giuridica ad impegnare le risorse dello stato (monetarie, militari, giurisdizionali, ecc.). Ad esercitare l' imperium non poteva essere che un magistrato pubblico, correttamente eletto e designato. Non è un caso che lo stato di diritto sia nato sulle sponde del Tevere e che i concetti fondamentali del diritto romano siano tuttora alla base dei sistemi giuridici di tutto il mondo, oltre che ancora insegnati nelle università. Addirittura i Romani concepirono, come accennato sopra, un ius gentium,cioè il diritto naturale al rispetto dei popoli e fra i popoli. Primi fra tutti costituirono un consesso di magistrati, i fetiales, con esclusivo compito di stendere, esaminare, consultare, conservare e deliberare sui trattati di pace e vicinato fra i Romani e tutti gli altri popoli, soggetti o no. Si trattava in pratica di una curia responsabile dei rapporti di politica internazionale, tanto è vero che esisteva anche una minuziosa serie di prescrizioni per dichiarare la guerra ad un altro popolo, cosa che non poteva avvenire di sorpresa, ma solo dopo che il magistrato superiore deifetiales, il pater patratus, aveva formalmente avvertito il nemico delle conseguenze delle sue azioni che lo avrebbero trascinato in guerra con Roma. Tra i pegni che esaltano la continuità tra Troia e Roma (5 su 7) questo è il più solenne e significativo. Il Cancellieri non si esprime sulla veridicità o meno dell'episodio trattato. Il Velo di llione Il mito di Ilione, figlia maggiore di Priamo e sposa di Polinestore re di Tracia, se di esso effettivamente si tratta, è particolarmente articolato e complesso. Il mito è narrato da Servio e da Igino. Contrariamente al caso precedente, questo simbolo, anch'esso proveniente da Troia, è assai controverso sia nella natura che nel significato. Virgilio lo fa of-

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frire da Enea a Didone come il velo ricamato d'oro di Elena, che lo portò con sè a Troia; ma con il che si arriverebbe all'assurdità di avere come pegno dell'imperium romano, discendente da Troia come s'è visto~ un oggetto appartenente a chi proprio delle distruzione di Troia era stata la causa prima . La scelta del suo velo quale uno dei pignora appare, tra tutti le fonti latine, solo in Servio. Né è più chiara la ragione della scelta di un velo come tale, anche se, almeno nel caso di Ilione, la sua origine è Troiana. Nulla più che un'ipotesi è che l'oggetto si riferisca non tanto ad un valore di tipo regale, bensì di natura sacerdotale, considerando che il pater familias e anche le vestali sacrificavano col capo velato. Nel caso di questo pegno, il Cancellieri esprime apertamente il suo scetticismo in quanto, come noi, sostanzialmente incapace di offrire una interpretazione convincente del simbolo. Gli Ancili

L'ancile, insieme alla quadriga già descritta, è l'altro dei due pignora non connessi con Troia ma di origine Italica. Si tratta di uno scudo bilobato, cioè incurvato dai due lati, che Giove fa cadere dal cielo, su richiesta del re Numa, proprio vicino a lui e in presenza del popolo radunato. L'episodio è menzionato sia da Ovidio che da Plutarco. La forma dello scudo ricorda gli scudi cretesi e pre-ellenici e forse proto-italici; il curioso nome forse deriva da ambi-caedo, cioè inciso, scavato dai due lati lunghi. Interrogato l'oracolo, si ebbe la risposta che "il/ic fore summam imperii ubi illud essent'', cioè in sostanza l 'essenziale dell 'impero sarà lì dove è questo (ancile)". Di nuovo abbiamo qui chiaramente che l'oggetto, da conservarsi sul sacro suolo di Roma, ad esso lega eternità di dominio. Il re Numa incaricò il fabbro Mamurio Veturio di farne altri undici uguali, volendo evitare che il pegno divino vero potesse cadere in mani non autorizzate o potesse essere rubato. Sulla interessante figura di Mamurio (di nuovo un fabbro che però fabbrica scudi di pietra) conviene soffermarsi un attimo. Per compiere il lavoro egli non chiese compensi, ma solo che il suo nome venisse ricordato negli inni. A inizio marzo, durante la festa dei mamuralia, una rappresentazione di Mamurio veniva espulso dalla città, secondo uno schema che si ripropone nel regifugium, ovvero l'espulsione annuale del vecchio re. L'etimologia del nome tradisce che ritratta in realtà del vecchio Marte, il quale annualmente, viene eliminato e sostituito col nuovo. Sempre a

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marzo, il15, si celebrava la festa di Anna Perenna, nel cui simbolismo non è il caso di entrare in questo lavoro, ma che anch'essa è associata all'anno che si rinnova perennemente. Non a caso l'anno romano cominciava a marzo (stessa etimologia,ovviamente) e si sviluppava originariamente su dieci mesi, come chiaramente indicato dai nomi stessi dei mesi. Solo con Numa l'anno fu portato a dodici mesi ed iniziò successivamente con gennaio, mese dedicato a Giano, dio di ogni initia. Mamurio ottiene quindi un ciclo di dodici scudi (mesi?) e poi cede il passo al nuovo. Da non sottovalutare è poi il legame col dio Marte, dio delle genti italiche per eccellenza, istigatore dei numerosi ver sacrum ovvero migrazioni rituali che popolarono la penisola. Il legame degli anciii con Marte sarà chiarito qui di seguito. I dodici ancili furono posti da Numa sotto la protezione di Giove, Marte, Quirino. Come noto, questa è la originale triade capitolina, di "sapore" fortemente indoeuropeo secondo la tradizionale tripartizione dumeziliana che suddivide le società indoeuropee nelle classi dei re, dei guerrieri e dei produttori economici. Per custodirli Numa costituì un collegio di 12 sacerdoti scelti tra i giovani patrizi di Roma (con padre e madre viventi, cioè senza imperfezioni familiari) destinati a curarne il culto e che furono chiamati Salii Palatini per la loro sede sul colle "latino" del Palatino, nel tempio di Marte Gradivus, cioè bellicoso. Il suo successore Tullo Ostilio, in adempimento di un voto fatto durante la guerra ai Sabini, creò un ordine parallelo, sempre di 12 membri, che per la loro sede sul colle "sabino" del Quirinale, furono chiamati i Salii Collini o Agonales . Si porta di passaggio ali' attenzione del lettore la ricorrenza del numero 12 : dodici scudi, collegi di dodici giovani patrizi, mesi dell'anno, uccelli romulei, divinità maggiori invocate negli indigitamenta, saecla dell 'arcaico auspicio etrusco all'imperium di Roma. I due gruppi di Salii si divisero il culto degli ancili: i Palatini aprivano l 'anno romano a marzo inquadrando la stagione guerriera nel nome di Marte (festa dell' ancilia movere il 19 marzo) e la chiudevano religiosamente ad ottobre (ancilia conde re il 19 ottobre). I Collini aprivano a questo punto la stagione di pace che chiudevano al marzo successivo. Il simbolismo del procedimento è evidente se si ricorda che gli ancili sono sacri a Giove, Marte e Quirino. Essi garantiscono la protezione dell'intero ciclo annuale e sostengono quindi l' imperium con la forza delle armi protetti da Marte; assicurano la produzione dei beni necessari alla sopravvivenza di chi

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detiene l' imperium nel periodo di pace protetti da Quirino; combinano nel nome di Giove, che ne è la sintesi, forza e vittoria da una parte, agricoltura e prosperità dali' altra: il guerriero e l'agricoltore, guidati dal resacerdote. I due collegi sono pertanto chiaramente complementari a.i fini dell'equilibrio superiore; non a caso Numa Pompilio, re pacifico ed espressione della prima funzione di legislatore, crea i Salii di Mars Gradivus, segnalando il passaggio alla guerra, mentre Tullo Ostilio, re bellicoso e proveniente dalla seconda funzione, crea i Salii del Mars Tranquillus, cioè Quirino, segnalando il passaggio alla pace, ed in più, come detto i Salii sono in tutela lovis. Da un lato, quindi, si possono interpretare le figure dei primi quattro re di Roma come incarnazioni delle funzioni indoeuropee: Romolo e Numa incarnano la regalità e sacralità della prima funzione; Tullo la bellicosità guerriera della seconda ; Anco Marzio la produttività economica della terza. Molto accattivante è la perfetta simmetria che Dumezil individua fra i re di Roma e le divinità indù in un suo noto studio. Da un altro lato esiste una specificità tipicamente romana nella figura di Marte, che probabilmente deriva dalla sua natura di divinità delle genti italiche su tutta la penisola. Nella triade capitolina originale, Marte e Quirino sono due aspetti complementari della società stessa. Il Mars Tranquillus infatti monta la guardia ai campi, ai terreni ed al bestiame, favorendo il raccolto e vigilando sui confini e sui pericoli esterni, sviluppandosi in realtà come Quirino, dio sabino eponimo della stirpe dei Romani, che chiamavano se stessi Quirites quando non in guerra. Il Mars Gradivus è specularmene e complementarmente un Quirino armato che combatte col popolo Romano per assicurarne la vittoria. Il trittico Giove-Marte-Quirino era anche, in effetti, rappresentativo della società romana, incarnando quasi il patto, foedus, con il quale Romolo fondò Roma popolandola i delle tribù dei Titienses, Ramnes e Luceres. Si può osservare di passaggio che questa suddivisione sociale si estese e durò per tutto il medioevo nell'identica ripartizione: sacerdotes, bellantes, laboratores. Ma se nel medioevo la suddivisione era rigida e incomunicante, in Roma i due collegi dei Salii distinti ma comunicanti, con pari dignità e resi complementari da Giove appaiono una struttura ben più coesa. Quanto ali' etimologia i Salii, secondo Festo, erano così denominati a saliendo et saltando, cioè perché manifestavano attraverso processioni ed un'arcaica danza sacra che effettuavano davanti ai pontefici. Tale arcaica danza era basata su salti

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e passi detta redemptruar, perché, probabilmente era basata su un ritmo ternario delle battute dei piedi. Le danze erano accompagnate da canti, questi ultimi redatti in un linguaggio così arcaico da risultare quasi incomprensibile agli stessi Romani del tempo. Gli ancili venivano mostrati in tali circostanze professionali e venivano anche definiti arma annalia (Verrio Fiacco), confermandone la natura. Infine, terminata la liturgia, gli ancili venivano riportati nel tempio e custoditi. Poteva accadere però, che si scuotessero da soli (ancilia cum crepitu sua sponte mota) e questo era presagio di guerra. Il Palladio

Anche di questo pegno gli antichi non erano certissimi di cosa fosse con esattezza. Si trattava probabilmente di un simulacro di Pallade Atena (Minerva), raffigurata seduta ed armata di lancia, da cui, forse l'etimologia (P a/las, cioè scuotitrice della lancia). Secondo Dionigi l'oggetto fu portato in dote a Dardano da sua moglie Crisa, figlia di Pallade. Dardano, mitico fondatore di Troia, arrivò sul luogo di fondazione della città dopo un lungo peregrinare verso est. Egli partì originariamente dall'Italia e precisamente dall'antica Corito, cioè Cortona, città che è quindi da considerarsi luogo d'origine del capostipite primigenio. Non a caso i Troiani di Enea accettano di ri-stabilirsi in Italia, terra del vespero di origine. Da ciò anche il sentimento di un ritorno a casa tanto dei Troiani nella leggenda Virgiliana, quanto dei Romani stessi, fieri delle loro origini italiche ancestrali. Non è certo questa la sede per parlare del diffusissimo archetipo del ritorno alle origini, presente in tutte le culture ed in particolare in quelle di ispirazione tradizionale, certo è che l'approdo di Enea in Italia si inquadra perfettamente nel solco della tradizione primordiale. Da Cortona Dardano raggiunse prima l' Arcadia, poi la Samotracia, infine passò in Frigia, prima di decidere di fondare la nuova città sulle rive dell 'Ellesponto. Si narra che anche questo pegno sia caduto dal cielo a Troia mentre Dardano costruiva un tempio a Pallade, dentro il quale la statua scelse da sola il suo posto. Poiché Troia non sarebbe mai stata conquistata finché il pignus vi fosse rimasto, Ulisse e Diomede lo rubarono. Alcune fonti sostengono che Diomede, il quale pure dopo la guerra emigrò fra varie vicissitudini verso l'Italia, lo dette ad Enea ed al suo compagno Nute in Puglia. Una curiosità è che all'estremo lembo sud-est della Puglia e precisamente nel

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Salento, vi è un profondo e bellissimo fiordo, unico nel suo genere in Italia, che conduce fra due pareti di roccia a picco ad una piccola spiaggia che è ancor oggi chiamato "approdo di Enea", all'incirca in prossimità del percorso di mare più breve fra la penisola e la Grecia . Pochissimi chilometri più a sud, precisamente presso la cittadina costiera di Castro, alcuni recentissimi scavi archeologici, sembrerebbero (il condizionale qui è d'obbligo) aver rinvenuto il basamento di un arcaico tempio dedicato a Minerva. Enea dunque lo portò in Italia custodendolo gelosamente fra i suoi oggetti sacri. Le fonti sostengono che fu poi Numa a decidere di trasferirlo da Lavinio a Roma e, cosa ancor più sorprendente, secondo Servio, incaricò Mamurio Veturio di fame delle copie. Inutile insistere sull'evidente parallelismo con gli ancili, tanto nella figura del fabbricante, per la quale si rimanda a quanto sopra spiegato, quanto nel significato profondo di tutela della salus pubblica. Il vero talismano doveva a tutti i costi rimanere sul suolo sacro di Roma e mai esserne asportato, per garantire l'eternità del dominio dell' Urbs. Da qui tutte le precauzioni descritte. A Roma il Palladio fu collocato nei più intimi recessi del tempio di Vesta, e solo la più anziana delle Vestali, aveva il permesso di accedervi; neppure il Pontefice Massimo, nella cui tutela era posto il collegio delle Vestali poteva entrare nel più recondito recesso del tempio di Vesta, il penus che custodiva il pegno. La stessa etimologia ci aiuta a chiarire la intima sacralità dell'oggetto: penus significa luogo chiuso ed il più interno, da cui penetralia, penetrare e, soprattutto, Penati, divinità rappresentanti i numi degli antenati che hanno in custodia la casa ed il luogo. Per chi ci abbia seguito fin qui dovrebbe esser evidente perché tale oggetto fosse custodito nel tempio di Vesta. Vesta, custode della sacra fiamma attraverso le sue vestali, è garante di protezione per Roma, come lo era Pallade per Troia, ed il suo tempio, l'unico circolare a Roma, era considerato il luogo sacro dell' intero popolo romano. Il rispetto e la venerazione per Vesta e la sua fiamma erano tali che i Romani associavano la massima importanza al collegio delle Vestali e ad esse tributavano i massimi onori, tanto che giravano per la città sempre scortate da un littore e perfino i consoli, massima magistratura romana, cedevano loro il passo quando le incontravano in pubblico, abbassando, unico caso, anche i fasci littori. Come detto il Palladio fu riprodotto il 12 copie ma l'originale era riconoscibile dal fatto che era in grado di muovere gli occhi e la lancia. Nel 390

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a.C. il tempio di Vesta arse col resto del Foro incendiato dai Galli e il Palladio rischiò la distruzione: il Pontefice Massimo L.Metello accorse e, pur sapendo come gli fosse proibito entrare, si gettò tra le fiamme e trasse in salvo la statuetta: osannato dai cittadini, fu punito dagli dei con la perdita della vista che, però, pare riacquistasse più tardi. Alcuni versi di Ovidio raccontano lo straordinario esempio di virtus. Perdono! O luoghi sacri, io uomo entrai dove ali 'uomo è vietato. Se questo è un destino, su di me ricada il castigo: in cambio della mia vita, Roma sia assolta. Disse ed irruppe: la dea rapita assentì E fu salva ad opera del suo pontefice.

Questo è quanto, brevemente, si può dire al momento sui pegni come descritti da Servio. Servio è certamente l'autore che discute dell'argomento con maggior completezza e competenza. Ma la cosa straordinaria riguardo la città di Roma ed il suo patto con gli dei è che, nella mitologia latina, che come noto a Roma si storicizza in storia patria, esiste una non piccola serie di altri oggetti i quali possono essere tutti annoverati sotto l'egida di supporti di potenza divina, quasi come interpreti materiali di volontà di potenza superiore. In diverse fasi e circostanze della storia romana, tale potenza si materializza via via in espressioni concrete che, apertamente ovvero ne li 'inconscio collettivo del popolo romano, rappresentano lo spirito immortale immanente il destino della città. Un primo esempio è il "fico ruminale" di cui parlano tutte le leggende relative alla fondazione di Roma. Sotto tale albero primigenio, alle pendici del Palatino ed in non casuale prossimità con la grotta del Lupercale, si arenò la cesta contenente i gemelli divini Romolo e Remo. Il nome sembra derivare all'albero dal suo collegamento eponimo con l'antico nome etrusco della città, che potrebbe esser stato Rumon, ovvero città dell'ansa del fiume. Forse il nome più antico del Tevere era proprio Rumon (se non A/buia o Thyber) o forse con tale termine si indicava una curva, un'ansa del fiume, o addirittura, la mammella. È possibile, quantunque non certo, che il vocabolo sia traslato ai bovini, detti ruminanti anche in funzione della peculiare articolazione arcuata del loro stomaco, oppure dal lato erboso del colle dove gli armenti usano

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nutrirsi, ruminare. Alcune fonti riportano che l'albero fosse ritenuto talismano di immortalità per l'Urbe e che fosse foriero di immensa sciagura il suo disseccamento. Si narra che l'albero fu trasferito dall'augure Atto Navio dalla sua originale posizione ad una nuova, più centrale collocazione al centro del Foro, dove sarebbe vissuto per 830 anni. La cosa degna di meditazione è che questo albero tradizionale, alla cui fatale ombra giungono i fondatori dell' imperium, va ad aggiungersi ai tanti "alberi della vita" o "alberi cosmici" presenti in varie Tradizioni (si pensi al frassino Yggdrasill delle saghe scandinave, particolarmente legato al corrispondente di Giove, ossia Odino, ai cui rami fu impiccato e dove ricevette la capacità divinatoria delle rune o al principe Siddharta il quale sotto un albero di fico ottiene l'illuminazione). Albero di saggezza e nutrimento perenne (ruminus), dunque. È bene sottolinearne la solo apparente affinità con l'albero biblico della "conoscenza del bene e del male" situato nel paradiso terrestre, dove vi è la sostanziale differenza che il cibarsi dei suoi frutti reca con sé la dannazione terrestre e non la saggezza ali 'uomo. Altro oggetto carico di significati, in questo caso guerreschi, fu la "lancia di Marte", custodita nel sacrarium presso la Regia alla casa dei Salii Palatini, insieme con gli ancili. I comandanti e governanti della città visitavano la lancia nei momenti di pericolo militare attuale ma soprattutto prospettico e, scuotendo la lancia, pronunciavano la frase intimidatoria di rito "Vigilasne, Mars, vigila!". Se lancia si fosse mossa poi da sola, e se ne segnalano nelle fonti vari episodi, si aveva un chiaro avvertimento di guerra incipiente. Ecco un altro limpido esempio non solo di identificazione aniconica della divinità (Marte) con il suo oggetto (la lancia), ma soprattutto manifestazione evidente, che, all'interno della pax de orum, il magistrato in carica poteva legittimamente chiedere al dio guerriero romano di fare la sua parte nel patto, vigilando sull 'integrità e sulla salus esterna della città. "Illituo ritenuto di Romolo" rappresenta un altro oggetto sacro carico di significato per Roma, visto il suo legame col mitico fondatore della città. Come noto illituo era il bastone augurale ricurvo col quale il re, nella sua funzione anche di sacerdote massimo, suddivideva il cielo in quattro regioni allo scopo di prendere gli auspicia nell'atto di inaugurazione di uno spazio sacro, come un tempio. Alcune fonti ne parlano come se fosse custodito nel tempio di Marte Gradivo sul Palatino;

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si narra che dopo il sacco e l'incendio dei Galli, esso fu miracolosamente ritrovato intatto dal fuoco sotto un cumulo di cenere (definito Romuli "baculum" da Plutarco). Di nuovo tale oggetto venne sempre ritenuto, in virtù del detto legame con Romolo, talismano protettore della città. Degna di menzione è anche la figura della "lupa allattante", che fu costruita dai fabbri fratelli Ogulnii (curiosamente ancora loro, i primi plebei eletti edili curuli ... ) nel 295 a.C .. Lo studioso J. Bachofen interpreta la figura come un simbolo di imperium, citando la sua rappresentazione su tutta una serie di monete imperiali coniate da Augusto, Galliena, Probo, Filippo. Che ciò sia o meno, è indubbio che la lupa coi gemelli diventò velocemente il simbolo per eccellenza della città di Roma e non ha mai smesso di esser portatrice immediata di tale significato. Un altro sicuro simbolo del destino di dominazione attribuito in sorte a Roma dagli dei è rappresentato dalla "statua e dall'ara della Vittoria", che fu posta nella Curia da Augusto il 28 agosto del 29 a.C. come ex-voto per le sue vittoriose campagne. La statua rimase da allora collocata in Senato, tangibile segno di dominio di Roma sul mondo. Era costume che i patres, entrando in Senato, offrissero incenso o vino alla Vittoria e rendessero omaggio, non solo alla divinità trionfante dell'impero, ma anche alla dinastia regnante. La statua della Vittoria rappresentava certamente una Ve nus Victrix, oltre che una Ve nus Genitrix ed una Victoria Caesaris. Si tratta di tutte manifestazioni che avevano come scopo quello di associare la famiglia di Cesare, che riteneva esser discendente diretta della dea, alla predestinazione vittoriosa. Non a caso il grido di guerra delle legioni cesariane al momento della decisiva battaglia di Farsalo contro le truppe pompeiane fu Venus Victrix. Nel tardo impero, l'imperatore cristiano Graziano, come visto più sopra, su istigazione di papa Damaso e del vescovo di Milano Ambrogio, diede ordine di rimuovere la statua, suscitando l'immediata rivolta e sdegno delle ancor numerose forze pagane dell'impero, capitanate prima da Pretestato e poi da Simmaco. In ottica tradizionale, l'unica senza tempo, il concetto di laicità dello stato (a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio ciò che è di Dio) è una mostruosità inconcepibile. Qualcuno ha messo in relazione causa- effetto l'abbandono dei culti aviti e l'infrazione del patto con gli dei con il crollo dell'impero romano; certamente l'antica profezia etrusca si riferiva al passaggio di dodici

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saecla di dominazione, la cui scadenza cade non molto prima della data canonica del 476 d.C .. Forse più pregnante di tutti è la funzione del "fuoco sacro a Vesta" che ardeva ininterrottamente all'interno del tempio dedicato alla dea protettrice dell'intero popolo romano. Vesta, figlia di Saturno, primo re del Lazio insieme con Giano, dio di ogni principio, sovrintende alla,generazione metafisica, distinta dalla maternità materiale, favorita da Giunone. Vesta è in stretta connessione con i Penati e propizia una nascita e crescita al di sopra della sfera biologica, prendendo un'identità esclusivamente "romana", di interprete del mos maiorum, legando il destino di Roma al rispetto della tradizione. La cura attenta del fuoco da parte delle Vestali è proprio la espressione visibile della fedeltà. Così come in ogni casa romana presso il focolare si rendeva omaggio ai Penati della famiglia e si svolgevano i riti domestici, l'ara di Vesta rappresentava il focolare collettivo del popolo. La sua collocazione a fianco della Regia, al centro del Foro, testimonia proprio l'antica connessione fra poteri sacerdotale e regale, ed in più essa è il vero "centro" del mondo spirituale dei romani, il suo cuore sacro. Il fuoco non poteva esser mai spento in quanto rappresentava, con la sua affascinante simbologia visiva, la vitalità bruciante dello spirito romano che dalla terra si alzava in spire verso l'alto, tutto illuminando e permeando di sacralità. Le procedure per la custodia e manutenzione del focolare erano particolarmente precise e venivano svolte esclusivamente dalle vergini Vestali, che dalla dea stessa prendevano il nome e la missione fondamentale di custodia del popolo tutto, godendo di enorme rispetto da parte dell'intera popolazione. Solo una volta all'anno era possibile purificare, lustrare, lavare e rinnovellare il fuoco attraverso una ritualità minuziosa e prudente. Come già notato, in punto di religione, sia personale che statale, i romani adoperavano un atteggiamento di estrema circospezione e prudenza, proprio allo scopo di non venir meno al loro lato del contratto con gli dei, mantenendo il patto. La sacra fiamma di Vesta diventava allora l'affascinante rappresentazione mistica del genius populi romani e di esso condivideva il destino; d'altra parte in ogni cultura la fiamma è simbolo di sostanza spirituale. Anche qui alcuni studiosi hanno voluto rinvenire la perfetta appartenenza delle usanze romane al filone etnico indo-europeo, dove il culto del fuoco è assolutamente centrale presso i vedici, gli iranici, i dori, ecc.; inoltre, come presso queste stesse reli-

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gioni, il fuoco primario è allocato in un cerchio rotondo, mentre quelli secondari degli altri dei sono normalmente in forma quadrata. E, per chiudere, che dire del mistero del "nome occulto" di Roma? Anche qui, seppure in forme e modalità diverse, vi è sottostante un tema di incorruttibile eternità fintanto che tale nome non venisse rivelato ad orecchie profane o empie. In moltissime culture tradizionali si ritiene che il nome racchiuda l'anima, l'essenza stessa dell'ente nominato (omen-nomen). Di qui la grandissima importanza attribuita ai nomi e la meticolosa prudenza nell'utilizzarli. Forse un residuo dell'arcaica credenza che fosse possibile conquistare città e popoli espiantandone gli dei e convincendoli o costringendoli ad abbandonare la protezione del popolo sottoposto. Tale credenza doveva esser diffusa in tutte le piaghe italiche se ad essa veniva dedicata molta attenzione ancora in tempi repubblicani, con vari esempi di epoca storica riportati dalle fonti. A tal punto che era uno dei doveri del comandante supremo in caso di assedio di città nemica o prima di una battaglia, pronunciare una complessa formula di ex-auguratio, richiedendo alle divinità protettrici del nemico di abbandonarne il fianco, in cambio di onori ancor maggiori da ricevere a Roma. Il caso della guerra contro Veio è emblematico al riguardo, con l'evocatio e l' ex-auguratio di Giunone Regina. Il nome di Roma era quindi previsto che fosse accuratamente tenuto nascosto a chicchessia e conosciuto solo dai massimi livelli sacerdotali e magistratuali dello stato. È tramandato il caso esemplare di empietà di Valerio Sorano, tribuno della plebe che osò pronunciare il nome segreto e fu subito punito con la morte. Sul Campidoglio era ubicato uno scudo consacrato dedicato al Genio tutelare della città di Roma, di cui non si pronunciava il nome poiché non si sapeva nemmeno e fosse maschio o femmina. Alcuni studiosi avanzano dunque l'ipotesi che Roma ebbe addirittura tre nomi: uno palese, uno religioso ed uno occulto, da giammai pronunciare. In questo campo non si possono che formulare ragionamenti senza contro-prova, dato che il monito di segretezza sembra aver funzionato lungo i secoli. Si è ipotizzato varie alternative, da Saturnia, nome del più antico insediamento sul Campidoglio, a Pallanteum città del mitico re Evandro sul Palatino, a Valentia cioè città della forza giovane, a Amor, versione inversa di Roma in onore della dea Venere, protettrice del capostipite Enea, a Rhome, città fondata direttamente da Troiani con la fanciulla eponima, a Rumon, nome già incontrato sopra

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di derivazione etrusca per designare l'ansa del fiume o il Tevere stesso, o infine Flora, celebrata il 28 aprile, termine che avrebbe il vantaggio di ricollegarsi direttamente alla eterna capacità di rinnovarsi e sempre rinascere dell'Urbe stessa. Degna di estremo interesse è la chiusura dello studio del Caqcellieri, che si occupa di una disamina del temario e del settenario, corredata da parecchie note sulle fonti fomenti molteplici esempi ed applicazioni, umane e naturali, di questi numeri divini. Naturalmente troppi autori hanno scritto sulla potenza del numero tre, per tomarvi in questa sede. Forse più appropriato è spendere qualche parola invece sul numero sette, che sembra avere notevoli collegamenti, non solo con tutte le tradizioni, ma particolarmente vicino al ciclo romano. Innanzi tutto ciò è di assoluta evidenza riflettendo che l 'Urbe è la città dei sette colli e dei sette re. Le stesse discipline sportive vi venivano praticate dai giovani patrizi con declinazione settenaria: disci iactus, cursus, saltus, lucta, iaculatio, natatio ed equitatio. Al Circo Massimo gli aurighi delle fazioni dovevano compiere sette giri di corsa, con ogni "meta" rappresentata da un uovo o da un delfino. Roma è anche, successivamente, divenuta la città delle sette Chiese. Ed i giorni della setti-mana non sono che dediche a divinità romane: Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno, Sole. I sette pianeti. Così come ci sono sette stelle nelle costellazioni dell 'Orsa maggiore ed in quella minore e come ci sono sette colori primigenii in natura. Ma già prima di Roma nell'antica Grecia il se ttenario si presentava in varie forme: nelle meraviglie del mondo conosciuto, nella particolare avventura dei sette contro Tebe (tra l'altro forse riprodotta da un artista etrusco, magari Vulca stesso, sul frontone del tempio di Apollo a Veio, oggi parzialmente conservata al museo di Valle Giulia a Roma), nella composizione del flauto di Pan, veicolo di armonie musicali creatrici, tagliato da sette pezzi di canna decrescenti, alle note della scala musicale, cui tanta ossessiva attenzione dedicò Pitagora e la sua scuola, nelle sette corde della lira di Orfeo, nei suoi sette sapienti. E che dire della tradizione ebraica, dove nella Bibbia il numero ricorre nei giorni della creazione, nei sigilli del libro di Giovanni dell' Apocalisse, nei bracci della menorah. Ali' estremo est, sette sono i punti del corpo cui corrispondono canali di comunicazione dello spiritus mundi, i chakra della progressiva crescita spirituale; oppure tra gli ira-

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nici sono sette i gradi di iniziazione ai misteri di Mithra. Ciò non è stato perduto nemmeno nella scolastica medievale, laddove sette erano considerati i vizi capitali, così come sette le virtù cardinali e teologali e sette le discipline da studiare (trivio e quadrivio) per completare la propria istruzione. Ecco, la chiave del numero sette è proprio nel concetto di completare. Non a caso Dante completando la sua mistica ascesa verso Dio sale fino al "settimo cielo" e pressoché identico percorso compie Maometto allorché in sogno viene trasportato nei cieli di Gerusalemme. Questo numero rappresenta allora la congiunzione definitiva di umano e divino, evidentemente giammai in senso moderno, ossia evolutivo, bensì circolare. Per migliaia di anni gli uomini saggi della terra hanno riconosciuto, capito ed insegnato che il tempo non è lineare "progresso", ma al contrario, esso è circolare e qualitativo. Alcuni momenti sono diversi e più importanti degli altri, così come alcuni luoghi sono diversi dagli altri, carichi di potenze maggiori. Ecco allora che il passo settenario, unione di terra (quattro) e cielo (tre), dimostra la compiutezza perfetta di un ciclo, che solo da un altro ciclo può esser superato. Quanto sia lungo questo ciclo poco importa perché ad esso può succedeme solo uno qualitativamente differente ed il segreto del sette sta proprio nel manifestare apertamente il ritmo del mondo, sigillandone la completezza. Se non ci sono sette elementi il ciclo non è compiuto. Nulla dunque di più appropriato per la fondazione dell'unica città del mondo che ha dato il nome proprio ad un impero. Considerazioni conclusive Tanto in Servio quanto in Cancellieri è evidente il desiderio di accertare la connessione o meglio la continuità tra Troia e Roma: ben cinque dei sette pignora sono troiani. Questo serve a sottolineare la benevolenza degli dei nei confronti della nuova realtà romana. A impegnarsi per assicurare la fortuna di Roma non sono gli uomini ma addirittura gli dei. E poiché il pegno garantisce il mantenimento della parola data, esso rappresenta il rafforzamento dellafides, ad ulteriore dimostrazione che, come già accennato, la religione romana nasce dai valori della società reale e perciò la permea tutta. Anche la virtus abbiamo visto rappresentata con grande evidenza nel caso del Palladio. E cosa vogliono gli Dei in cambio? Solo il riconoscimento attraverso il culto ed infatti a ciascun pegno corrispondono riti e precisi sacrifi-

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ci. Gli dei romani infatti non impongono all'uomo comportamenti specifici; si contentano di essere riconosciuti e venerati; il comportamento umano è valutato in base ai valori della società e riguarda anche gli Dei che di essa sono parte integrante: il rapporto benevolenza degli Dei contro culto e riti costituisce l'armonia espressa dalla pietas. Da qui nasce il carattere sacro dell'imperium. Etimologicamente esso significa adoperarsi affinché qualcosa si compia e la capacità di farlo, cioè il potere che ne è il contenuto. Ne segue che chi lo detiene è il rex, pontifex, dux cioè sacerdote supremo, legislatore e capo di eserciti; la fusione tra religione, legge, forza fisica è completa ed è sorta sotto gli auspici di Giove Ottimo Massimo. Tutto ciò vale per il lungo periodo dell'epoca regia cui appartiene l'oggetto della nostra analisi, i pignora, cioè il tempo del mos maiorum. Successivamente, con la Repubblica e l 'Impero le cose cambiarono, prima di poco, poi di molto. Ed infine siamo noi, piccoli uomini dell'era volgare, portati "sulle spalle di giganti", alla disperata ricerca di un centro. Non molto possiamo fare nei tristi tempi moderni in cui gli dei ci hanno dato a vivere, ma come disse un maestro, "va fatto ciò che deve essere fatto". Ed il minimo che possiamo fare per tentare di sdebitarci con chi ci ha lasciato tali mirabili eredità è di studiare, custodire e trasmettere alle generazioni future i valori immortali che un giorno risorgeranno, facendo nostra la sobria massima romana : tradidi vobis quod accepi. Per questo è meritoria e degna di ogni lode l 'azione dell'editore, I libri del Graal, che oggi osa ristampare e diffondere un antico testo che indaga su valori senza tempo, come questo del Cancellieri. Ed il lontano Cancellieri, con rara sensibilità chiude il suo testo facendo accenno all'ultimo, meraviglioso, poema della romanità prisca e pagana, il De reditu di Claudio Rutilio Namaziano: di esso a noi piace menzionare la magnifica e struggente ultima invocazione a Roma definita regina pulcherrima mundi, genitrice di uomini e di dei. Il centro del mondo, per tutti noi romano-italici è sotto i nostri piedi, a ROMA. Roma, 21 aprile 2009

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AL CH. SJG. CAV.

ALBINO LUIGI MILLIN CONSERVATORE DELLE MEDAGLIE PIETRE INCISE E Afi!TICHITA'

NELLA IMPERlALE BIBLIOTECA DI PARIGI PROFESSORE DI ARCHEOLOGIA MEMBRO DELLA LEGIONE D'ONORE DELL'lSTITVTO E DELLE PIV' CELEBRI ACCADEMIE D' E VROPA

FRANCESCO CANCELJ.,IERI SoJP.a dire graziosamente l' ingegnosa madama Geoffrin (1), c be non hisogna far crescer f erba su la strada dell' amicizia (2) . Me more di questo avviso, dopo la vostra partenza, seguita ai 9 dello scorso marzo , io vi ho ac· compagnato col cuore in Napoli, nell'Abruzzo, nella Puglia , e fin nel fondo della Calabria , dove vi ba spinto , ad onta di ogni difficoltà e pericolo , l' ardente desiderio di visitare la magna Grecia, madre feconda di tante insigni scuole filosofiche , la patria invidiahile di tanti eroi , in cui le belle arti han fiorito fin da tempi più remoti , e dove la natura pre • .senta anche adesso il vago spettacolo de" più (f) V. i suoi elogi pubblicati ne11777. da M. d•..J.Ie,.# bett , da Thontal , e da Morelltt. (2} Io. Gatp. Klumi11s de amicitia eruclitorum. Arg. 1696.r 8. Cto"B'• Wernerus de amicitia cum absentibua conaervanda. Regiom. t 715. 8. lo. Martin. Prechilinus de patroni•, et amicis comparendis, et alendis. Vi t. 17~8. 8. La vea·a amici&itJ • ~be è il più dolce, e il più omosoneo -affetto di un animo ben formato , è tutto ciò, ebe di pii\

buono , e di più prezioso si trova io questa vita , e pult dirai una vena d' oro purisaima. 3

nri fenomeni , e la stessa sua popolazione un luminoso teatro di oggetti degni di osservazione. Di più vi ho scritto in ogni ordinario; e non contento di essermi impiegato nell' adem· pimento delle vostre moltiptici commissioni , per far eseguire le copie fedeli ed esatte delle iscrizioni di tutte le nostre chiese , e del museo Vaticano , e i disegni coloriti e a contorno de' più belli monumenti sacri e profani di questa città , cbe fin nelle stesse rovine spirano ancora la prisca a nativa l or maestà ( 1 ), mi sono occupato nella vostra assenza in questo lavoro, per dedicarlo all' illustre vostro nome. L' amore da voi dimostrato per tutto quel· lo, che riguarda le ro-mane antichità, mi assicura , che godrete di risalir meco alla culla , e ai primordi dell' antica Roma , e cl•e vi uran grate queste memorie , che vi presento d.elle sette co~e (atllli , alla di .cui c?nservaZione , al par1 delle altre tre di Troza , era attaccata la salute, e la gloria dell' eterna oìttà , che si ten.ea per certo e per infallibile, ~he dovesse avere una perpetua durata (2) , (i) Ioh. Guil. Berger de Romae veleris maieslate, io rui""'" ac vesai«iis adhuc spirante. V itemb. t727, et 1739. 4, et in etusdem Stromateo acad. P· 17. Roma è il teatro ~~ più aorprendenle, e più istrulliva antichità , che •n· cor reeitte agli urti del tempo , e4 ha -eluso il Cwoc1 dei

bar-bari.

(2) Sappìlllllo ia Quilltiliano, che i romani .sole.• n. dire! solana Romont elle tJrli.m: caetera. oppid" ,; ma d1 p•ù dal mtdesiati Rom.a cbiamavui urbs a.eterna , perch'= cred·a...i che il lluo iJRpei'O UGR dovesse mai aver fine. Scipionc praso Livio L. 2'8. dice, urbem auspiot~to , diis au,lo-

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rihiU , i11. tUiernuna etJ11tlila.m ; e Ti/Jerio pt"euo TMilo L. 3. o. 7. dichiara t remp. utern.cm e.Jse, com~ speao leggesi in..lmm. Marcellino. Nel medaglione di Adria.J&o nel museo 1'iepolo, ai legge URBS ROMA AETERNA; ed in una medaclia di Bmiliano presso Eckcl Catai. "· 11 ROMA AETEl\NA. 011idius. lu.lius Frominus. A11.soa. P· 91. ignota. a.eternae ne sini libi tempora Romae. Gruter. LXXVIII. CCCIX. 7. Constantin. Imp. Lib. Il Coa. tiL 16 leg. 1. Porcinarii urbis a.eternae. Symmach. L. 3. ep. 5!J. quid aeternae urbi in dies fru.gis accedat. Ai titoli dati agli imperatori, quello ancora si aggiunse di aeterni, dicendo lo stesso Symmacl,, E p. l V. ad Au.sonium 9"""' aeternorum principum iam signa comitarer. Sembrava , che la far· tuoa, dopo aver volato per tutto il mondo! valicaio il Tebro, ed esser entrata nel Palatino, ivi avesse da' suoi omeri deposte le ali , lasciati i talari de' piedi , e amon .. lata dall'infedele suo globo, per la versatile sua rota, vi si fos~e stabilmente fermata, per mai più partirne. Co,sì lo spiega Plutarco de fori. rom. Il. 317. Fortuna persis, tt asJyriis desertis, qrmm le11iter pervolasset Macedoniam, celeriterque ahiecisset .Ale:randrum, .AEgyptumque ; deinde Sy.,.iam peragrando regna distulisset; et saepe cnn.versa chartaginienses tulisset ; postqttam transrnisw · Ttberi cui Pala.tium. appropinquavit, alas deposuit, talari.a ezuit, ac infideli, et .,ersatili ilio globo misso facto , ita Rornam intral'it, ul mansura. ( Georg. Phil. Olea.rii Diss. de fortuna pop. rom. Lip. 171'3. 4. Ion. Pau[. Reinardt Diss. de sign.o Jortunae in cubiculo vetertlm imperatorum, eiufqzu tra1csmissione. Erlange 1745. 4.) Difaui i romani vedendo di già avverato ciò. che aveva preiletto Trogo Pompeo presso Giustino L. 3 c. 4., oriens romanorum imperiu114 , vetus graecorum, ac macedonum voralllrum, aveano sempre in mtmle il famoso vaticinio di Giove, che promise alla prole di Venere un impero eterno, riferito da OnNr·o Iliad. XX. 308., da Dionisio ant. rom. lib. 1. c. 53, e da Yirgilio nel li b. t dell' Eneide V. 278. His egli ft'C metas rerun& , n6c tempora pon.o. lmperium sine .fi1u J,tii. Servio ootb a questo passo. Metas ad terr1ts retulit , felll· pora aJ a.nnos. LtWinio eliam trienni11111, Alb11.e lre~~r st.,tuit : romanis tribuit adernitatem , quia s11bianzil, imperium sine ji11e dedi. Così Silio ftalico L. VII. parlando di E~tea. dice , Aie reg11.a , et nullae r-snu per saecMI• met4e: • lo llesso YirJilio L. ID. A•n. V. 97. Hic d0111141

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a difFerenza di tutte le altre ( 1 ). La premura di indagare Ja quantità di queste , dirò così venerabili reliquie gentilesche , tenute con la più scrupolosa religione, e con Ja più gelosa custodia , oltre le altre cose sacre Lanuvine trasferite a Roma, i caducei di bronzo e di ferro , e le due botticelle una vuota , e l' altra piena e suggellata (=z.), nel tempio di Vesta, mi ha indotto R consultare tutti i classici greci e latini , che sono la vera ed unica base di ogni sapere , ed a fare le più diligenti ricerche di .A1neae cunctis domlnahilur oris,. El nati natorum , et qui nascentur ah illis (Erh. Rcuschii exercitatio de reip. romanae ortusubAeneaadT.Livii lib.t.cap. 2.Aitor6i 1711.,2.) Su.lpicia Satyr. V. 55. Aut frustra uzori, mendazque àiespitcr olim, imp.erium si ne . .6oe dedi, di:risstJ probatur. Veggasi la nota eruditissima del mio particolare amico sig. anocato Carlo Fea al 25. del Ci&rmen Seculare nel T. l, della SIJII receote elabol'atissima edizione di Orar.io P· 81. 18,. 263. Stefano Guauo nelle sue letter~ 33. riferisce , clae Gio~ h.a,.c. Apostoli di Mont~ma1no avendp date a un pittore da rappresentar-e in lettere m•iuacote, in lode del suo duc11 di Monferrato H strddetto Emistichio , quegli dipinse imperium 1ine fide dedi ; 1e pur questo fu puro error del pittore , e non a.sluto e maliz.ioao suggerimento dell'Apostoli, che si dilellava di satire, • di scherzi, corneo nverte il Masr.ucchelli scriu: ital. T. Jl, 88t. (1) Cuncta. tau~en. sursum ~ol"ttntur, el alta · imperia. (2) Dionys. Antiq. Rom. L. J, c. 66. PlutM"C4. io Caruil· Jo C. 20. Opp. T. l. p. 139. Festus in Doliola., locus in 11rb11 tJOt:lllus , qui a invadentihus gatlis SmonilJus urlum ·, Mt7'4 in eoàen& loco Doliolis reposita {llerul&l; qua de caus• «Jdt:m loco ne despuere quiàen& alicui lieebt~t. arr. L. 4. 1. 1. c. 32. Li11. L. 5. c. 40. Sacra condita in Doliolis, .s~llo pro~imo a&li6us Flaminis Quirintdi•, uhi nune àespui rebit'o est, àifodere. Patwinius de virginibus veJtalib. io T. 1.. Thes. G.r:acvii 304. T. l. de aecretariis 199.

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ciascuna di esse, non ancora ben conosciute. Poichè ~ quantunque alcuni abbiano scritto incidentemente varie cose sopra di esse , pure .non mi è noto 1 che niuno finora abbia di proposito disteso un particolare trattato intorno alle me· desime, come pur certamente n1eritavano ( J.)., non potendosi forse trovare, per mio avviso, fra tutti gli antichi riti pagani, co' quali ben disse Tacito , che cum his maiores nostri reipuhlicae gloriam invexere, cose più curiose, e più belle di queste , la scienza delle quali, al par di qllel· la, che conteneva la forma de' riti e de' sacrifizi ne' famosi volumi delle sibille , forntava un religioso arcano , riserbato a pochissimi. Ma ciò non ostante , benchè creda di essere il primo a trattare questo pressochè intatto (2) argomento, non ho però la stolta presunzione di credere, di essere, neppure in questa piccolissima parte, Romana primus in historia , conoscer;t· do abbastanza l' impel'fezione del mio lavoro 1 (l) Ioh. Fred. Clzri,t. derelicfa,Jilerarnm in spa!iis quae· da m, praesertim quoad historiam. Lips. 1 J:55. 4. (2) È da dolersi, che il mio celebratissimo ahlì·eo signor cavalier Yincenz.o Monti abbia terminato l' erudilissime Dole alla .sua Dantesca Basvilliana, nel commentare il ycrIO del Canto III. P· 34. Allor conobbi elle fatale è Roma, con queste sole parole. ,A,lclze Te be, anc!ae Troia erli, fiO f~tali ; e il Palladio restituito d-a Diomede ad Ene:t, in IlaIla , rese fatale ancora J• aotica Rllm:t. Ma questi •••.•. Ah! percbè noa ne fu proseguita la stampa t eh~ rimase fatalmenle sospCfia? quanto avrebbe saputo aggiungere quel pellegrino ingegno, ad iUuatrazione di queslo argomento, assai più bene di me, cbe pur troppo ricouosco., e pubblicamenlc c:onCc:sso di essergli lonGo (Jrorimus ìntervalto!

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capace di molto maggiori abbellimenti 1 clte potrà poi ricevere da mano più esperta , eontentaudomi di averne per ora almeno promosN~ l'idea.

§. I. Dell~ Agq

della madre degli dei.

Mauro Servio Onorato grammatico latino , che fior} a' tempi di Teodosio e di Onorio, lasciò degli eruditi commentari sopra Virgilio, sommamente lodati da Macrobio, suo contemporaneo , cbe lo introdusse fra i personaggi de' suoi dialogi , intitolati satur11.ali ( r) , dandogli il glorioso titolo di massimo tra i dottori (2). I medesimi furono pubblicati la prima volta io Roma (3), ed in Firenze (4) nel rq7r, e poi molte altre ristampati, e specialmente da (1) Li.b, l. c. Il. Lib. VII. cap. Vll. cum not. vuior. Lipt. 177-1. p. 341. {2) Literatorum omraium. longe marinaw. Y. Hel. Putsclaii gramm. vele r. H•nov. 1605. 4. p. 1779, 18f5, et Mar. Yictorin.un& de ortographia apud PetJ". Sanctandr. 1584. 8. P· !i t. 250. (3) Ma11ri Servii Honorali gr•mm•lici in tria P'irgilii opera espositio iucipit. lo._B11pt. Aud(ffretli catalO(· Rom. ed i t. aaec. X V. Roma e 1 , 85. 4. p. 71. {4) M. S~t'flii Honorati commentar-ii in tria Yirgilii opera Bueo.lica, Georgica, et Aeneidem. Florent. 1471. V. Audiffredi apeciaaen editioa. italicar. aaec. XV. Romae 1794.

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4. P· 558.

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Filippo BeroalJi ( 1) , e dall'avvocato Pietro Daniello (2). AJcuni però han sospettato' che ce ne ilaao solamente rimasti i semplici estratti , e ebe le note , che corrono sotto il suo nome , siano una semplice compilazione di vari seo:rittori. Cornu'ftque siasi , egli è il solo autore, che al lih. VII. dell' Eneide al v. x88 (3) , ci abbia data l' interessante notizia delle sette cose fatali , custodite in Roma , da cui si faceva dipendere la stabile conservazione dell' impero . Queste sono enunciate nel modo seguente.

Septem fuerunt paria ~ quae imperium romanum tcnerent. Acus matris Deum ; Quadri'ga jictilis veiorum ; Cineres Orestis ; Sceptrum Priami; f7elum llionae; Palladium; Ancilia. Parleremo adunque pattitamente di ciascuna di esse. E per incominciar dalla prima, nella seconda guerra punica fu riferito da' decemviri (4) in senato , essersi scoperto dai libri sibillini (5) 1 consultati per le frequenti piog( 1) P,il. Beroaldi aunolationes \n commentario• Ser,ii Virgiliaoi commenlatoris. Florent. impr. Mi~thominus 1489 4. Eaedem annot11lione~. Phorcae sine typographo 1510. 4. (2) Commentarii di Sen~io sopra Pirgilio. '3) T. 111. cum nolis varior. Lugd. Batav. 1680. 8, (4). Aler. ab .Ale:randro L~ 5. e. 16. Geor. GCH~zii Diss. de Deceml'iraJu. lena e 1670. 4. lob. N i c. F11.nc:ìi Diu. dc DecemvirtJ.na a romania crea·ndllrum diversa ratione 1 in eiusd. diu. Acad. Lemgov. 1746. 9. p. 309. Car. Lud• Y-et//w,rdt historiae Decenwiratus quaedam a'TTOrf'TTaiiJ!.«1• t • Livìo, et Dio~tysio. Lipsiae 1736. · 4, Accademie di Benedello XIY. 1744. cie~ Deceml'iri 34. (5) Brasmi Sclamidii Sibyllina. I. de SaiJrllis ipsis. l 1.· cle libris SibyUifliS in seuore. 111. de librorrcm Sibyllimr

1....

9

di sassi ( 1) accadute, clte per liberare l, Italia dalle medesime , e dalle incursioni di Annibale, e de' cartaginesi, era necessario di far @e

1615. s. Ioh llt&l!'lii de sibylliois carminibus dispul. Franekerae 1682. Onuphr. Pan11inius de Sibyllis et carmi,.ibt..s sibyllinit. Mise. ltal. Erud. Gartdent. Roberti Parmae 1690. T. l. Ca· linc. Oudini Diss. de carminibus sibyllinis. in comro. de .tcriptor. Eccl. Lips. 1n2 fol. T. l. 142. Ferdinando C•lini sopra le Sibille, e i libri sibillini. Nell' append. alla

~• . qui •dhuc extant, auctoritate. Witemb.

•loria d.eUa· vi'a , e degli scritti del padre e dottor della çbiesa S • .Agosltno Bréscia 1776, e nel T. 11. della Diss. Ecel". di Fr. Anf. Zaccaria 1"80. le mie notizie della f.ta 4ii NatJe 124. (1) Geor. ~P· KirchmaiertlS .de Ostensis insolentibus aeriia WiUeb. 1679. 4. Iul. Caes. Bulengerus de prodigiis io GriUllii 'l'laes. V. 437 .llnt. An'f_tlm• Diss. sur ce, que le pagaoisme à publié de mcrveilleux, dans Ics mem. de l' acad. des inscr. VI. 59. Nic. Freret Re6esioos sur les prodiges rapportez dana Jes aooieoa ibid. 76. Ant. Yalli6nieri dé plu"ia lapidea. Ephem. Acad. Nat. Cur. Cena. 5 et 6 p. 195. A.bhé Racheley Observ. sur la nature de trois preteodues pierres lombée3, avec le toonerre. Mcm. de Pa· ria •· 1769. HisL p. 20. I. B. Biol ob11crv. sur les pierres metéoriques. Soc. Plailom. art. II. p. 129. Ho1111ard et Bour· »aon Obsen. sur les sabstan.ces minerales prelendues, tomhées du ciel , et nouvellement analysées , ibid. aon. 11. p. 153. Poisson Observ. sur les substaaces minerales, que l' on suppose IOfl\bées du ciel sur la terre, ib. an. Il. p.180 Oh.arl. Greville philos. Tra ns. V. 1803. p. 200. Dom. Troili ragionameat~ della caduta di un sasso ~all' aria , difeso in una . lettera apologetica. Mod. 1766. 8. Amhr. Soldani piogget~- di sa.ssi t:~elJa sera de' 6 giug.no 1794 in Lucicnano d'Asso nel Sa~e,se. Siena 1794. Dom. Tata MeIDoria sull:;a pioggia di pi,we., anenuta nella campagna Sanese, it dl ·16 giogoo 179.J Napoli 8. Accademie di BelJt:delhl, JUY. de' prodigi, e delle loro caaioai. Rom'l 1740 p. 68. Diziouario universale del Cha.m~er; P• 396 , ove si tratta di tutte le piogge, chiamate preteroaturali, di latte, carne , olil\'t ~-.nto, p«:$Ci , lana, fango, cenere, sassi, aangnc etc. Gott. Y1:1&defini i11dicia doctorum virorum de

v.

IO

trasportare in Roma da P~ssinnnte fr), città della Galazia ~ nel confine della Frigia , il causil naluralihu. plu'fite purpureat. Brus:eJiil et L ond: 13~5 loh. Tolaaài Ad.Widaemòn , sive Titus Li.flius. , a •·rner.. Ili tione vindicatus. Hagae Com. 1709. 8.

Christ. Guil. Bos.i

Schediasma • quo T. Livium supeutitiosae antiquitati diffidentem 1iiCit.. Lips. 1739. 4. &b. Cpb. Schwabii Vindiciae crellulitatis livii, cuius ob saepit,~t recensito prodi.gia insimt~lllur. Goett. 1775. 4.Ioh. Fid. Escltenbachii Diss. qua 6des Livii defenditur odversus loecheri , aliornmque obiectiones Lips. 17J3. 4 Ioh. Georg, CGr. Klotssche diss. de diligentia Lwii in enarrandis prodigiis recle aestiman.., da. Viteb. 1789. 4. diss. di un accademico Colombario i11 difesa di T. Lt'vio , che narra vari prodigi nella sua storia. Mem. della Società Colomb. t. 109. con altra diss. soprn il medesimo soggetto 112e (1) Quandocumque ho&tis tdienigena. terMJe ltaliae bd-

l~tm

intulisset, eum pelli ItaUa , 'llitu:ique posu. si mater Jdae" Pessinunte llomana advec/4 e~Jlt!t Liv. L. XXIX. Civitatem de ad"entu HannibaliJ .olicifarn. ndl\k. haec religio in"aslrat. Mi.si '8Unt or•tores ad At:falum, qui· l~ga.­ tos comiter accepios Pessinrmtem in Phr~iam dedu:Mt, ltf.· crumque !tis lapidem, quem Matrem n~,m esse ùu·tJlae dicebani, tradidit, el deportare llomam irusit. Oh re .AtJ· piiUio de bello .A.nnibal. 345 , così ne parla Ovidio Fut.

L. IV. v. 275. Carmini1 Eu&oici fatali a verba sacerdos In~picit; inspectum tale foisse ferunt. Mater abest ; matrem iubeo , romr~ne, t. l.ib. lY. Eleg. X\1. V. 51.

('~)

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Ma ciò, che è più degno di osservazione, da questa lapida, dedicata , per quanto sembrò al Ficoroni , da Claudia Sintich.e , si scopre il nome di questa nave , chiamata Salvia , es· sendone formato il voto da una pur di nome Salvia. Il Muratori non sa comprendere , perchè qui sia ripetuto il nome di Salvia ; ed il (~uasco apertamente contradice alF opinione del Ficoroni , in forza di quest' altra iscrizione , trovata nello stesso luogo , e dal medesimo antiquario regalata a monsig. Bianchini , che la fece trasportare n et museo Veronese della sua patria , o ve il Muratori ( 1) ha creduto , che sia stata trasferita , poco dopo la sua dedicazione. NAVISALVIAE • ET MATRI • DEVM • D D CLAVDIA • SINTI

Anehe dal Ficoroni , e dal Guasco si ripot·ta nello stesso modo , e vi si legge una sola volta il nome di Salvia , scorgendosi , che la sola Claudia Sintiche fu quella stessa, che la dedicò , e ne concepì il volo. Così in quest' altra iscrizione trovata pure in Roma , e ripor. tata d.al Muratori (.l) , l' autore del volo fu Q. Nunnio Telefo. MATRI

• DEVM

'ET • NAVI SAl.VU.E Q • NTNNIVS

TUELEPHVS • IU.G

COL • CVLTO • EIV&

'l'be!!. lnsrr• p. 1985 u. 6. {2) lbid. p. 98. n. 3.

(t) In

28

Da questa iscrizione il Muratori ricava una incognita deità, SOlteoendo, che, per essere unite le due voci , ne risulta la nuova dea Na· visalvia , la quale avrebbe creduto , che fosfie la stessa dea Cibele , perchè Telefo, maestro della colonia , o del collegio, s' intitola cultor eiu$ deae e non earum, se non ne fosse restato dissuaso dalla congiun~ione et. Peraltro questa particola connessiva potrebbe provare , che Cibele fosse chiamata madre degli dei, ed anche Navisalvia , o Salvatrice della nave , eh~ aveva recato in Roma da Pessinunte l' adorato suo simulacro , essendosi esteso il culto de' romani anche alla medesima, venerata non meno della nave d'Argo, dett'l l'ariete., che, dopo finita la navigazione di Giasone col fiore della greca gioventù, per la conquista del vello d' oro J fu da Minerva trasferita nel cielo (1 ). Certame n(1) Virgilio nel Lib. l. delle Georgiche enUtnera le divinità , alle quali facean voti i nocchieri , per averle propizie nelle loro navigazioni.

Votaque servati sol1.1ent in lillore nautae Glauco , et Panopeae, et Jnoo Melicerte. Anche Properaio nel Lib. 11. Eleg. 28. lno eiiam prima terris aetate Vti{Jata. est, Hanc missr implorat na1.1ila Leucothoen. Suppose adunque il Muratori, che uoa di queste dee sia stata venerata sotto il nome di Navisalvia, ovvero qualche dea particolare abbia uuto culto speciale io qualche tem· pio al lido del mare, a cui si raccomaudavaoo i naviganti, perchè facesse andar salve le loro navi. Ma a me sembra, se pur non erro , che essendosi ta·ovate in Roma tolle Je suddette is~:rizioni , la prima delle q•1ali è scolpita .sotto ii bassorilievo Capitolino di Cibele, si dehba credere, che il titolo di Navisalvia sia stato proprio soltanto di quella, che la condusse io questa città. Fed. Slrullzio ci ha data un~

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te in una iscrizione, accennata da monsig. Ma .. rini si nomina la Triere Salvia ( 1 ). Salvie an .. c ora furono chiamate le acque (2) pTesso le quali fu decollato s. Paolo_, neiJa massa , donata da s. Gregorio M. alla basilica Ostiense. Ma tornando all' iscrizione capitolina , il Ficoroni nella fiancata, e dietro la base, in vece dell" ago f.-tale, riconosciutovi dal Guasco, dice, che vi è scolpito un pedo pastorale , con due castagnette , o nacchere~ oltre il pileo fa·igio , e due tibie unite, una più lunga dell'altra , come ha ripetuto 1' eruditissimo professore di archeologia sig. Lorenzo Re, che ha riprodotto il rame, e l'iscrizione della stessa dea votiva (3 ). Sembra pertanto con buona pace del eh. Zoega, che non vi acconsente (4), mollo più verisiroile la congettura del Falconet , e dis. de navibus Atheniensium sacris. Vitemb. f 729. 4. L 0 ZrtibicMo ( Observatioues ex nummis anliquis s •C\"8e. W i t~ temb. 1745. parngr. VIII.) tratta de' dei tutelari delle navi, fra' quali annovera Diana Efesia , e delle loro immagini scolpite, o dipinle, siccome del luogo, ove solevansi col· Jocar nelle navi,. ponendosi ora nella poppa, ed ou nella prua, come rileviamo dall' EmiJtichio d1 Persi o, Sa t. VI. 30 ingerates de rntPfHJ dei .Lo stesso ha fatto Gio. Emma.nrtele Walcf,io de tleo Mt!lilenlium . .Art. XXYlll. 6 commemora.to. lenae 1752. pat·Rgr. Anche il p, Ca.JIO Innoceni~

xvru.

4n.saldi, de sacro et puhlico apud Ethnicos pictarum tabul.arum cuùu. Ven. 1753.4. p. 185, parla delle pillu~ re de' loro numi, che i gentili ponevano nelle navi.

(1) Anali 408. 6. (2) Mauam, quae aqua. ( sit) Salvia nzmcupaluf'. Mar· garini loscr. s. Paali P· IV. Galletti primic:ero della s. Sede. 100. luscr. Rom. T. I. P· V. (3) Srulrure Capitoline. Roma 1806. 4. P· 127. (4) Bassiril. Alhani T.

30

l. 92. t07.

la sua correzione del passo di Servio assai giusta , essendo analoga all' opinione de' sunnomiuati scrittori sopra la qualità di questo simu· )acro , ed anche favorita da ELio Lampridio in Heliog, c. 3. e 7, che, come notò il Casauhono , lo chiamò non già Matris Acum ma bensì Matris Typum. Poichè appunto è improbabile, che Servio, il quale era tanto attaccato ai termini rituali, nell'annoverare gli Erymata di Roma , abbia voluto incominciare con quello insolito di Acus , che si può supporre per errore , surrogato ne' codici , io luogo di quello di Cau,s. Si crede poi che questo sasso fosse formato a figura di cono, come con molte aul'orità eruditamente dimostra il commendatore Fra ncesco Vettori ( 1 ), essere per lo più stati scolpiti gli antichi simula cri ( 2) _, come quello di Elagabalo, descritto da Erodiano (3), ed anche quello di Cibele da lui illustrato , che nella parte opposta alla descritta lìgura di Matrona è rappresentato in forma conica. Fra le altre riporta quella di Aristotele (4), che narra trovarsi in Sipilo , monte della Frigia , una certa picciola pietra_, lunga, e di figura rotonda, la quale giovava per promuovere la pietà filiale , (1) Culto di Cibefe 69.

(2) Io. Gottlob Pfei6er Diu. de Lapidibus Deo poùis ac dedicatis. Lips. 1739. 4. (5) lo E!agabalo C. 2. (4) De 1\li•·abil. Mundi 1657. 8. edir. Jlenr. Steph. p. 1 ?13 Il Fahricio nella bibl. greca T. l. 145. P attribuisce a P a lefoto Ahideno amico di Aristotile.

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facendo riacquistare l' amore perduto de' suoi genitori , quantunque fra loro fossero state ama:rezze , e di~gusti gravissimi , a chiunque l' avesse trovata , e portata nel tempio di Cibele ( 1 ). E considerando la somi-glianza della forma del cono con Ja cilindrica , sogg-iunge, che tale appunto era anche la pietra Manale , così detta da Fesro, quod aquas manaret che conservavasi fuori di Roma , vicino alla porta Capena, presso il tempio di Marte )2), e che soleva portarsi in processione per le gran siccità , come spiegasi da Varrone (3), da Fulgenzio Planciade de prisco sermone, c da Adriano Turnebò ( 4).

§ IL Della quadriga di creta deJ veienti. Tarquinia Superbo (5) aveva fatto lavorare (f) Henr • .Aug. Zeibichii diss. tlc 'fnrt·c deum Sipylene es: •ntiquis mooumen tis er•.tta Viternb. 1797. 4 (2) L. Faw1o aot. di Roma. L. 1. c. 17. Alerand. ab .Aler. L. IV. c. 16 Panvin. Urbs. Romae. 99. (~) De vita P. R. L. 1. apud. Non. c. 25. n. 31. (4) Adversar. "J:. Il. c. 19. t 5) A~tdr. Hoii Syntagma de VIII. Romanorum regibus eorumque rebus geslis, observata tempoa·um ralione , in append. T. II. Hist. Univers. Duaci 1629 Col. 26 Edonis Neullusii ln(antia imperii rom. sub Vll. regibus. Amst. per loh. lanssonium 1657. 12. Mare.Zuer. Bo:rl1ornii de Romaaorum imperio, potissimum sub regihus , et consulibus DiS!I. poJiticae in eiu'!ld. Emblem. poJir. Amst. 1651. 12 p. 137. Io. Hem·. Boecleri diss. de Roma sub VII. regibus, in eiusd. diss. acad. Argent. 1710. 4. T. Il. 466. l.attrent. Pall~e disputatio de Tarquiniis adversus Livium cap. 46. in Li11io

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da un vasaio di Veio (1) una quadriga di creta, rappresentante il carro di Giove , per collocarla sopra il fastigio del suo tempio Capitolino. La medesima nel tempo della sua cottura si e1·a eccessivamente gonfiata ; onde conYenne rompere il fornello per cavarla dalla fornac~ I veienti riguardando questo prodigio , come un evi:. dente presagio della futura grandezza del popoJo, cbe sarebbe rimasto possessore di questo carro, ricusarono di cederlo ai romani , i quali dovettero impadronirsene con la forza , per giungere a situarlo nel luogo destinato. Tutto il fatto vie n narrato da Festo alla parola Ratumena (2), DraA4Rbtnehii Tom. VII. p~.150. Ya·r8ilio Mal11hri il Tarquinio Superbo. Ven. presso Andr. Baba 1652.12. et in eiusd. o pp. poli t. et hist. sub ti tulo Tyrannus in vita Tarqllim'i Superbi repraesentatus. Lugd. Bat. 1636. 12. Jofz. Godofr. Hauptmanni diss. de Tarquinii Superbi virtutibus politil'is in Act. Soc. Latin. Jenens. T. IV. 266. AlessiUidro .IJ.laz· zinelli il Genio di Rom" profana al tempo dei re. Mont~6ascone 1714. Col. Frane. A.lgarotti Ragionamenti sopra la rlurata de• regni de' re di Roma. Ven. 1746. 12. Polidacriàe diss. intorno l' an lire cronologia dei re di Roma. Nelle m.iscell. di varia letteratura. T. VJI., 1. PaUssot de Montènay hist. des rois dc Rom('. A' Paris 1753 Frane. 11tanc!Jini Opuscoli. Roma 1753. T. Il. g. P· 150. 170. (1) Plutarch. in Popl. op. T. l. p. 103. E Winc/,elman~& St. dell' arr.I:,20511.151. Morcelli de stylo inscr .. lat.17. (2) P. CC]Il. Jiatumenà porta a nomine eius appellata est, qui ludicro certamine quadrigis vietar, e/rusci generis iuvenis Yeiis, consternatis equis, ercussus, Bomae periit. qui equi Jerrmtur non tJnle constitisse, quam perPenirent in CaJJÌtolium, conspaclumque fictilium 'luadrigarum , quae erant infastigio laPis templi, qutufacitndas locaverurat romani veienti cuidam, artis flf!Klinu prudenti , quae '6ello suni reciperatae, quia in fornace atleo creverttnt, at erimi 1!&equirent; idque proditfiuna portendere "ideluttu,., in qua ci\•il4le eae fuis.5enl , omnium eam futllram pot•ntissimum.

2.*•

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da Plinio ( 1 ), da PJutarco ( 2 ), eda Solino (3). Così sappiamo da Erodoto (4), che essendo cresciuto nel forno più det doppio il pane, che la regina de' macedoni coceva col suo servo Per· dicca, ciò gli servl di preludio del regno , a cui fu poscia innalzato (5). Qual danno , che ora non si rinnovino sì vantaggiosi prodigi ! Giuseppe Lorenzi (6) lesse il passo di Servio in questo modo. A.cus matris deum ; Quadri-

ga fictilis ; Veientorum cineres ; Orestis sce· ptrum, sipe Priami; IUonei; Palladium; An· cilia. Onde avendolo malamente interpan(f) L. VIli. N. LXV. pag. 209. Maius augurium apud priscos, plebeiis circensibus, ezcusso auriga, in Capitolium cucurrisse oV.Jues , aedemque ter lustrasse. M aximum vero eodem perveni11e ab Yeii1 eum pa-lma , el c·orona , çffuso Ratumena , qui ibi vicer11t; llPUle /'(Jsfea nomen po,.tae est. Et 1\b. XXVlU. N. 18. T. lV. 558. lterum id accidi6Se tradunt , IJU14m in fa1fi{Jium delubri ( lovis O. M.) prepRra· tae!Jrtadrigas .fictiles in fornace crevissent. (~) In vita Pop/ic. P· 103. (5) C. 45. aliu 57. Jvi Salmasio ha notato leggersi in Pli.nio , ed io Festo, .Ratumenna ; ma in alcuni codici di Golino lrovasi scrilto .Rutimannam , io altri Raturm1.nnam , lalvoha ancora Ratumannwn. { 4) L. VIII: Yrania n. 1~7. P· 508. --· (5) ~~~ .J!apt. Crop/J,ii anti1uit. Macedooicae C. VII. T. VI. lenae hter. ~o. J..ac, B!auhoferi 168-7. 4. et in Thes. Gronovii de Perdicca. /lega P· 2865 Relneri Reinecii- familiae regnm Macedoniae. Lips. 1571. 4. Aegid. Lacarry series , et nn· mismata r.egum .Macedoniae, .cum eiusd. Hist. Rom. Claramont. '1671. 4 p. 199. Medaglie de' re di M11cedonia , nel Tesoro Bri~. di Nic. Fr. lltf,Ytrl· Londra t720 p, l. ~· 1.1. P· 9. Num1smata resum Macedooiae Io, Iac. Gessner1 Ta· guri 1738. fol. · · (6) Varia Sacra Geotilium io T. VII. Tbes. Gronovii 150.

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to (1), erroneamente attribui se t" al pontefice massimo l'uso di questa quadriga di creta, che mai non ebbe.

§. III. Delle ceneri di Oreste Oreste re di Micene, figliuolo di Agamen· none, e di Clitemnestra, vendicò la morte di suo padre, per suggerimento di sua sorella Elettra, nè risparmiar volle la propria madre, che era stata partecipe di quella morte. Qualche tempo dopo egli passò in Epiro , e trucidò Pirro a piè dell'altare, dove era per i&posare la principessa Et·mione, che tentò di rapire. Ma sempre agitato dalle furie ( ~), dopo il sno matri cidio, l'oracolo gli ordinò di andar nella Tau ride per purificarsi de' suoi delitti• Pertanto egli partl accompagl'lalo da Pilade, suo inlimo e fedele amico, che non volle mai ab· bandonarlo. Ma tosto cl1e vi furon giunti, fu. rono arrestati per ordine di Toante, re di quella provincia , per essere sacrificati. Pilade si offrì coraggiosamente di morire (3) in vece di (1) V. La sua vera lezione nella. p. 9. (2) Anloine B4nier dissertation sur l es furies da n Ics mem. ,}e l• acad. des lnscr. X., U. Jes fnries d' apres lea :poèles el les artistes anciens. par M. Boettiger, traù. de l' Allemand par M. Wincher Paris 1802. 8. Zoega Bassiril. Alh11ni T. I. t7 4.Millin Galer.• myth.ll. 26. Monum. an t. ioedlt. T.l. 147. (3) Petr. lul. StiJIU' de morte vicaria Jenu 1695. 8. Pau!. Cluist. Gilbertus de aupplieiis yicarii• Lips. 1713 . .f.

•r.

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Oreste , che era slalo condannato ad essère il primo; ma ciò gli fu negato. Mentre però Oreste stava per ricevere il colpo del coltello, la sua sorella Ifigenla sacerdotessa di Diana (1 ), lo riconobbe , e lo salvò, aiutandolo ad uccider Toante, e a prender la fuga. Qnindi Pi]ade sposò Ifigenia, e Oreste la sua diletta Ermione, di cui governò gli stati. Finalmente morì per una morsicatura di una vipera (:1) verso r anno 1144, avanti l' er:t cristiana. Narra Erodoto lib. I. c. 68 e 6g, che gli spartaoi non poterono rendersi padroni di Tegea , o ve era stato sepolto (3) , se non dopo aver tolte Je ossa di Oreste , ridotte in polvere, che servivano, per dir così, di talism.a(f) Pitture di Ercolano T. 1. Tav. ,12. Cabinel de Stosch P· 557. n. 203. Winchefmann monumenti ineJiti p. 200. notisie.s~lle antichitll di Roma pel 1786. Nov. num. 1. Zoega Bassml. T. li. Tav. 191. P· 9. Millin Mon. Ant.lned. T. I. 422. (2) Stephonus apud lo. Meursium de regno La• a !demoo. T. V. Thes. Gronov. 2231. Orestes a serpente morsus obiit io .Arca·iia·! loco, quem Orestium appellant. (3) Anonymus in Chron. Alexandr. Olymp. lV. Tege~ Orestis ossa juxta Oraculum ab Laraedemoniis inventa. Solin. C. V. Prise:orum autem morem testantur etiam Orestis suprema .. ctai,us ,ossa Olym. 59. Tegeae iove•ta a Spartanis oncu1o monitis didicimas implesse Joogitudinem cubitorum septem. Pausanias in Arcadiae 6ne. Quae ~ero via recta Thyream Tegea ducet "Yia, et in vicos regionis Thyreacidis dignum, quod .scribatur, h abel sepulcrum Orestis Agamennonis 61ii' es: quo addus:isse ossa virulll sl?arlanum {eccrunt Tegeatae. Nostra vero ftetate, sepulcrum e1us nou erat amplius intra muros. ~ursius de Arcont. Athen. io T. lV. 'l'bes. Gronovii P· 1176. Nic. Cral(ins de Rep. Lacaedemon. l" IV. io T. VI. Cronov. 2672. Orestis olaa: Tegaea suni allata e:~: oraculo.

v.

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no a quella città. Ciò si conferma da Pausa· nia lib. III. e. 3 , il quale attesta ( r ), che furo-no poi trasferite nella città di Sparta , e sepolte appresso il tempio delle Parche (!l), sog~iungendo, che neppur gli Ateniesi potea-ono rendersi padroni deJl' isola di Scyros, se non dopo di essersi impadroniti delle ossa di Teseo, in onor del quale fu eretto un magnifico tempio, di cui abbiamo di recente avuto )' inci· sione, e ]' illustrazione di tre nobili fammenti in alto rilievo dal eh. sig. Eduardo Dodwell (3), illustre erede della recondita dottrina del suo insigne bisavo Enrico (4)· Altri però dicono, che lugenla, la quale trasportò seco dal Cbersoneso il simulacro di Diana, che ripose nell'Ariccia (5), ivi ancora seppellisse le ceneri di Oreste, che dall'AricciA furono poi trasferite in Roma , e riposte (1) lo Laconicif Lrit"a6deanoniis étiaoa eat Parcarum fanurr, et iuxta id sepulcrum Orestis, Agamennonis 6.Jii. Nam e Tegaea deportata Oraculi i.ussu , Ore.nis oaa, eo Joco sepelierunt. (2) ..Lnt. Banier diss. sur les Parques, dans Jes mem. d es lnscr. T. XI. 21. Petr. Zornius de fabula Parcarum ex anriquitatibus Orientalibus, itemque ex Numis illustrata, in Mis~. nov. Lips. T. III. p. 1. 53. Mt#leo Bandello Canti XI, e le tre parche. lo Guienna nella città d' Ageu. 1545. 8. (3) Alcuni bassirilievi della Grecia descritti, e pubblicati in otto tavole Roma 1812 foJ. (4) 1\lemoir.s of Henry DodweiJ. Lood.1713. V. Sa vie, tlans les mem. de Niceron. T. I. 142. (5) Emmanuele L~tcidi Mem. Sror. dell'antichissimo municipio dell'Ariccia, e delle sue colonie Geu1:ano, • Nemi, Roma t796. 4. P· SO. 101.

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innanzi il tempio di Saturno , ove giunsero ad acquistare la stessa prerogativa del palladio Si sa poi da s. Giustino martire nell'epi· stola a Zena , che si usava di fare iJ giuoco ( 1) di uno , che rappresentasse la persona di Oreste , di statura gigantesca , facendolo camminare sopra de' trampani , con una faccia mo· struosa , ed un ventre pieno di stracci, o di paglia , che andasse gridando a gran voce, onde restusero spaventat.i i fanciulli ( 2), e l e persone semplici , e si desse spasso alle brigate. Qui clamore ingenti Orestis personam agens, terribilis et maximus, ab insipientibus esse putatur ob pedes ligneos, et ventrem facti-

tium, et vestem peregrinam, et faciem monstruosam.

S IV. Dello sr,ettro di Priamo. Questo re de' Troiani, figliuolo di Laome· donte , fu condotto nella Grecia con sua sorella Esione, dopo cl1e Ercole s' impadron i della città di Troia; ma fu in appresso riscattato; e perci~ detto Priamo, che in greco significa reden-to. Essendo ritornato, rifabbricò Ilio , e distese i confini del regno

v.

(1) De' Giocolari desii antichi, Menochio Stuore Cent.

162.

(2) loh. Christi Br11ggemann de Terriculis puerorum: Gottin. 1754. 4.

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di Troia, che divenne floridissimo Sl)tto il suo governo. Egli sposò Ecuba , figlia di Cisseo, re di Tracia , dalla quale ebbe 1 9 figi iuoli, e fra gli altri Paride, che rapì Elena. Questo rapimento, come ognun sa , fu la cagione della rovina di Troia , saccheggiata da· greci verso il 1240 avanti l' era cristiana. Qutndi Priamo, dopo di aver regnato 52 anni, e di aver veduto a perire tutti i suoi figliuoli pel ferro dei nemici, fu ucciso da Pin·o figlio di Achille, ai piedi di un altare , ove si era rifugiato. Giovenale (1) riflettendo all'infausto suo fine, dopo un sì lungo regno , disse , che non gli servi la sua vecchiezza~ che per aver tempo di veder tutto in rovina ed in fiamme.

Longa dies igitur quid contulit l omni~ vidit E versa, etjlammis Asiam,ferroque cadente m. A questo rischio chi dunque mai (2.) si cure(1) Sat, X. V. 265. P· 245. edit. Lugd. Bai. eum not. var. E però in altro luogo ci fa giustamente avvertire lo stesso poeta Sat. X. L. IV. v. 274., che niuno può chÌitmarai Celi· ce prima della sua morte. Et Croesum, quem vox iusti facunda Solonis Respicere ad longae iussit spatia ultima vitae. Così anche Ovidio dice •••• sed scilicet ultima semper Expectanda dies homini , dicique bealu.m .Ante obitum nemo , supremaque (unera debet, (2) Giova all'incontro più volle una morte più sollecita , come Cicerone iu Bruto c, 96. ben rilevò essere accaduto ad Ortensio. Fortunatus illius e:r:ilu$, qui ea ntm vidit , f{Uum jierent , quae prot~idit futura. Saepe enim inter no1 impen• dentes casus dt;flevimus, quum belli civilis causas ùt. privatorum cupiditatibus inclusas. paci~ sp1m a publico consilio esse e:Lclusam videremus. Sed illum vide/W' fdicitas ip.sius, qua semper est r~s11s, ab tis mise!"iis, quae consceutae sunt,

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rà più d' invecchiare? Peraltro Tiberio lo chiama felice ( 1), perchè era giunto a sopravvi~ yere a tutti i suoi ; benehè , come avverti il SabeJlico ) ciò non fosse vero , per esser man• cato, essendo ancora superstiti Ecuba, Eleno, Polidoro , Cassandra e Polissena. Il suo scettro fu tnsportato , e poi religiosamente conservato in Roma. Virgilio nel lib. VU. dell'Eneide v, ~46 , e .:~51 fa pre. sentare a Latino per parte di Enea lo scettro e il diadema di Priamo.

Hoc Priami.ge$tamen erat, quu:miura vocatis More daret populis , sceptrumque, sacerqae tiaras. morte vindicas1e. Cosi Tacito 44,6, et 454,5 , si rallecrò col suo AgrU:ola dell' oppoctunità dellà sua morte , dicendo, festi~&ate morti:r grande solaiium tulisse, et evasisse postrtt· mum illud tempus, qu() Dontitianus non iam per intervalltt , ac spiramenta temporum , sed continue , et velut UIIO ictu Remp. e3:h.ausit. (1) Svet. cum not. \'llrior. Trai. ad Rhen. 1690. T.1. 719 Felicem Priamum vocabat, quod superstes omni.um suoa·urtt extitisset. A n che Dione 58 p. ti38, A, oltre Suid4 conferma che Tìberio Priunum eub1•o beatum dixit • cuius interitus cum e::r.itio patriae, et regni lotias foisse\ coniunctus. Così S~rceca irt Troad. n.144.diee: Felix Priamus, dicite cunctae et n. 156. Felix PriamuJ, dicimus omnes, e 11. 161. FeJix Priamu', felix tJilisquis bello moriens , omnia sccum consumpta videt. Ma .pure non può negarai , che uno dei mllli , che amareggiano il piacere di una lunga ,,ita, è qt;etlo di vedersi mancare sotto gli occhi , uoa dopo l'altra le persone più care. Haec data poena, diu viventibus, ut renovata Semper elude , dt~mus multis in luclibus, i11que Petpetuo moerore , et nirra t•este sene.scant.

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Iliadumque labor vestes • • . • • . . • • . . . nec sceptra movent Priameia tantum.

s v. Del velo d' /lione. Questa fu la maggiore delle figliuole di Priamo , che )a diede in isposa a Polinne· store re di Tracia , da' quali nacque Deifilo. Priamo frattanto dettele in educazione Polido· ro suo fratello , eli' essa riguardò per suo figlio, c come fratello di Deitìfo , avendo facilmente ingannato il marito , cbe essendo ambedue bambini , non seppe distinguere uno dall' altro. Presa Troia , chiedendo i greci da Polinnestore , che uccidesse il figliuolo di Priamo, egli uccise suo figlio in vece di Polidoro. Questi essendo stato informato di tutto dalla ma .. dre , si unl con essa contro Polinnestore , e prima lo privo della vista., e poi della vita , come narrano Servio (1), ed Igino (:~). Virgilio (3) fa offerire a Didone da Enea lo scettro e il diadema di Priamo, la collana e la corona di questa principessa col velo di Elena (4). (1) Ad Aen. I. V. 6.)8.

(2) Fab. 109. 240. 245. (3) Aen. Lib. ). V. 653. (4) Coluthi Poema de npltt Helenae, cum Q. Calabro , apud Aldum, 8. in H. Stepbani poet'is greecis heroicis. Paris. 1566. Col. io Mich. Neandri operis aurei T. 11. Lips. 1577. 4. in I~ac. hctii corpore poetaru111 graee. Genn. 1606

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Praeterea sceptrum, /lione quod gesserat olim Maxima natorum Priami, colloque monile Baccatum , et duplicem gemmis, auroque corona m Ma come mai potè aver tempo Enea di prendere in Troia tutte queste cose durante l' incendio? Servio avrebbe forse equivocato nell'attribuire questo velo ad Ilione? Se questo poi fosse stato il velo di Elena , come mai poteva poi essere annoverato nel numero delle cose fatali, per la conservazione di Roma , venendo da una donna , che aveva prodotta la rovina di Troia ? Ma qual penna può mai registrare fol. cnm notis loh. a Lennep. Leovard. 1747. S. cum Eo1!;32. S., et ioter eius poemata. Frf, 1564. 4. in dissertationibus sacris. et· nrérarii argumenti, Valent. Ernur. Loescheri Yiteb.1724 4. P· 313. CollliO il rapimento di Elena volgarizzamento di A.M•.-·sa/vini Fir. 1765. 8. Epithalamium Helenes n Theocrilo, interprete Eoh. Heuo. Erphurd. 1534. 4. Gorgiae Leontini dc Helenae laudibus oratio, cum lsocratis, Alcidamanfis, el Aristidis orationibus. Vcn. apud Aldum 1513 fol. Petri la Seine Homeri N epeothes , seu de abolendo luctu. Lugd. 1624. 4, et in GronoY• 'fbes. An t. Graec. T. Xl, 1229. Petri Peliti Nepenthes Homeri, sive de Helenae medicamento, \uctum, animiqr1e omnem aegrilud•nem abolente, et aliia qnibusdum eadem facultate pt·aeditis diss. ad L. IV. Odyss. Trai. ad Rhen. 1689. S. Mich. Li/iental de Re lena Menelai , eiusqne amatori bus observatio, in eiusd. select. Hist. et Liter. omtin. Re~iom. 1719 8. 127. Ang. M. Riccii disses·talio, an quae de Hclena Homerus habet , sint fabulosa? in eiusd. diss. Homedcis Fior. 1741. 4. 1'. Il. 212. De Bur'igny n:lferencc des lraditions sur Helene, et anr la guerre de Troye, dans l' hist. de l' Acad. des Jnscr. T. XX-IX , 45. Le nozze di Pas·ide, ed Elena s·appreseniAie in un vaso anlico de.l museo di Tommaso Ienkilll. Roma Gio. Zampel 1775. fol. bllfiÌ Hesii descript1one Us·bis Norimbergae. i~

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quidquid historia?

Graecia mendax (1) audet in

Conviene pertanto ammettere col si~nor Falconet , cbe gli scoliasti ci ban conservato delle memorie assai curiose , come appunto son queste , tratte cLtgli antichi autori , l:he abbiamo perduto ; ma spesso alteratissime, o da loro stessi , o da' loro copisti. Poichè di fatti , malgrado il gran numero de' mss. di Servio , che si sono scoperti in differenti tem~ pi, i dotti non han potuto rimediare alla contusione , che si trova in molti passi di questo commentatore , come avverte Pietro Burman· no nella sua prefazione aU' edizione di Virgilio fatta in Amsterdam nel 1736. 4.

§ VI. Degli ancili. Nella serie delle coJe fatali di Roma rammentate da Servio , al numero sesto è annoverato il palladio , di cui più acconciamente parleremo nel seguente paragrafo ~ trattando ora del settimo ed ultimo pegno , che assicurava la perpetua durata del romano impero~ È noto ad ognuno , che , mentre regnava Numa Pompilio, si divulgò, che era caduto portentosamente dal cielo uno scudo , reciso dall' uno e l'altro lato , e perciò chiamato (1) luYenal.

Sat. X. V. 174.

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an cile ( 1) , coli' avviso degli aruspici ( 2), che l'impero romano si sarebbe conservato, fincl1~ ai sarebbe custodito in Roma. Pertanto l' ac· c:orto N uma (3) comand'Ò , che se n e fa c es· sero altri undici della stessa forma, fra i quali fosse mischiato il celeste , perchè da niuno potesse riconoscersi , e portarsi yia ( 4). Ne fu commesso il lavoro all' artefice 1\lamurio Vetorio (5) , il quale soltanto richiese in com.. (1) lo. Dan. Rami de ancilibus romauorum, eor~tm­ que cu~todibua Saliis nercitatio philologica. H11ufniae 1706 4. Io!a. Andr. Badeni diis. dc secreris quibusdam imperii Rornaui pigooribus, potissimurn 11ncilibus Viteb. 1739. 4. Mo~tifaucon.l\fonùm.ll. )3. IV. 47. 52. 59. V. 252. .4ldus Manutiu..r de p:tt·m:~, clypeo, scuto , pella, ancile, in eius quaesitis per epistolas, et in T bes. Sallengrii T. I. 817. Il Besuila Gio. Blllt. l'foceti seguendo lo stile depravato del suo tempo, intitolò un suo libro contro le pasquinate, coeJeste ancile, sin scutum veritatis. Pa1·is. 1653. Lyon 2664 Marini Anali 63, IV, 2421 596, 597. Miltin. Galer. MythoJ. T. l. p. 35. 151. (2) Dion.ysius Il. 130. Quum aruspices respondissent, illie fore Urhi! imperiuin , ubi illud fuisset , diligentia Namae, ne quaodoque ab hostibus posset auferri , molta ·similia facla suoi , et in tempio Martil' locata. _V. Simo1&a Paratti diss. sopra l' Antspicina T. 1. diss. Cot·too. 43. (3) Plutarel&. P· 68. De hac mira tradunt praedicuse resem ex. Eseria. ae, ~:1nuaia accepiise, esse ancile id ad ealutem Urbis misaum, .& aervii'Ddum cum Xl. aliis, quae pui figura , amplitudine , et forma facieoda erant , ne quis fur commode propter similitudiaem intervertere coeleate valeret. (4) Ser"'. A•n.· L. 188. Ne aliquando posset auferi; aut ab hoste cognosci, per Mamurium fabrum multa simj ... Jia fecerunt, cui et diem consecrarunt , quo peltam virgis feriunt ad artis similitudinem. (5) Festus, Mamurii VetUI·ii nomen frequenter in cantibus 1\omao,i frequentabant hac dc causa. Numa Pompilio

v.

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penso ( 1) , che i sacerdoti salii (2) cantassero il suo nome ne' loro inni (3}, allorchè giravano per la città con questi scudi , chiamati da un antica iscrizione (4), e da Verrio Flac· co, arma annalia (5), poichè ogni anno nel mese di marzo li portavano appesi al collo, saltando, e cantando, e massime ai 19, in cui facevano de"' salti (6) nel comizio, alla pre· regnante , e coelo cecidisse fertur ancile , idesl scutum breve, quod ideo sic appellatum est , quia ex utroqua latere e&·at recisum, ut summum, infimumque eius Jatus medio pateret : unaque edita vos est , omoium potentissimam fore civitatcm , quamdiu id in ea maosi~set. ltaque facta sunt eiusdem generis plnra , quibus id misceretur, ne internosci coeleste posset. Probatum est opui Mamurii f'eturii , qui praemii loco petiit , ut suum nomeit Salii intetcarmina canereot. (1) Ovidius Fast. 111. 389. Tunc sic Mamurius; me.JceJ mil1i glori.1. defu1· Nominaque e:rtremo carmine nostra sommt . .IItde sacerd!Jtes operi rromisfa vetusto Praemia persolvunt, Mamuriumque canunt. (2) Tob. Gutberlethi de Saliis Martis sacerdotibus apud romanos liber singularis, inter eiusd. oposcrJia P• 1. Franeker 1704. 8. et io loh. Poleni aupplem. Thes. V. 68!7-. Nich; lteich. disserlatio de Saliis. Hauniae 1737. 4. (3) Chpt. Lud. Crollii dissertatio de Saliaribus carmini· bus Viteb. 1732. 8 Brinon de Form. L. 1. c. 1820. Scaliger Ìn'Yarr. dal L. 82. 83. Cesaubon. in AlMn. L.VJ. c. 11. O'f'e tratta dell' u.ro di lodare in qttt'sli carmi gli eroi Tivi e morti tra greci e rommoi. Cio. Cristof. AmaduiiCi illustrazione di alcune antiche dipinture, esprintenti uo Epulo Saliare , troTate al L•tel'ano Roma 1783. Col. (4) Nardini Roma anlt 111. 1053. (5) Fastornm Ann. Romae reliquiae p. 21. (6) Mons. Foggini parlando di questi balti , illustra le antiche voci Saliari amptruare, e redamptuare, ab eo, quod S11 'ii cirC14m IJrlll deorllm sa/tationem illirent ' ter fMdt:

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senza de' pontefici , e del trihuno da' celeri. Al· lora dicevasi, che si movevano gli ancili. Questa cerimonia durava per trenta giorni , nell' ultimo de' quali celebravansi festa ~Hamura­ lia (1 ). Quindi nuovamente si riportavano ora nel tempio di Marte Quirino (2), ove si custodivano , presso al vico della stesso Mamurio , che vi aveva una statua di piombo , ove ora sta la chiesa di s. Susanna (3); ed ora nell'altro tempio di Marte Gradivo nel Palatino (4), dove ancora custodivasi l'antico lituo augurale, o pastorale di Borno lo (5), chiamato clava quatientes humum , quasi anzptriare o amptruare,

col~

l' u , iu vece dell'i, all' antica. (1) Monsignor Gaet. Marini Frati Arvali p. 605. (2) De Sacrario Martis Quirini in T. 1. de secrelariis etbnicor um p. 18. ('3) Acta s. Susannae apud Baron. an. 294. Surium XI. Aug. p. 99 , et Guil. Cuper. in T. II. Marlii Bolland. 631. (4) De Sacrario Jlft&rlis Gradivi in Patatina io T. ]. de

Secretariis P• 6f. (5) Yal. Mar. L. I. c. 8. Deusto Saliorum sacrario, nihil in eo praetcr lituum Romuli integrum repertum est. Plut. in vita Ronwli p. 31. In moliendo, et pursaudo loco reperiunt sub magno cumulo cineris P.omuli baclclum, quo uti ad auspicia solitus erat. Is al/era e;l:tremitate ill.jluus est, lituum vocant. lluius in coeli rt>gionibus de.rcribendis usus est auspicantibus , ad quod ille augurandi peritissimus i.Uum hahuerat. I. B. de la Courne de Saint Palay~ remarques sur la vie de Romulus, écrite par Plularque ~ dans J' hist. de J• acad. des loscr. T. IV .108 Fir.gilio Ma/vezzi il Romulo di nuovo ristampato, e corretto. Ven. 1635. 12. Rom;morum primo, imperiique conditore. Regiom. 1668. 4. Georg. Chriit. Gebaveri Romulus variis ob.servatiooibus illustratus Lips. 1719. 4. È nramente ridicola la

Crt~o:ione

addottA da Giacomo Lauro de Ant. Urb.

splend. P. II. p. 16 della sua c;ooservaziooe. Inventus est

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da V erri o Flacco ( 1) , che rimase illeso dal fuoco. Servi o a quell' emistichio di Virgilio A.en. VIII. v. 3. utique impulit arma , ci scuopre il costume , che , chi doveva intraprendere la cura della guerra , soleva entrare nel sacrario di Marte , ove prima scuoteva gli ancili , e poi l' asta del nume, dicendo Mar1

vigila.

.

..

Se poi talvolta accadeva , che glt anc~~~ s.pontaneamente si movessero (2), com~ pm d una volta intervenne , ciò riguardavas1 pe~ un prodigio , che presagiva una guerra imm~ nente, come insegnano Giulio Obsequente (3), e L. Floro (4)·

§ VJI. Del paltadio. Benchè così si chiamasse qualum1ue pie· ciolo simulacro di Pallade ~ pure per ecceJienza si attribuisce questo titoJo a quello, che , lituus incombustus , ac i11teger, a daemone quidem pra8 • servatus, ut ruifariam augttrattdi disciplin.an& , qttae impie lituo jìehat 7 romanis miseris suaderet. (1) Fast. an. Rom. cum ootis Foggini p. 33. Dopo la festa del Tubilustrio alli 23. dice LVTATIVS QVIDEM CLAVAM EAM AlT ESSE lN RVINA PALATII INCENSI A GALLIS REPERTAM QVA ROMVLVS VR-

BEM

INAVGVRAVERA~

(2) Bulengerus L. IV c. 63. de pl'odigiis, de hutis Martiis, et ancilibus motis, et io T. v. Thes. Grawii 514. (3) De prodigiis n. 104. · (4) Epit. li b. 68. Pitiscus in lexico A or. Rum.

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regnando Ho avo di Priamo , dicevasi , che fosse caduto dal cielo in Ilio , mente da Dardano vi si fabbricava il suo tempio , dove da se stesso si scelse iJ suo sito , entro cui si adattò. La qual cosa essendo sembrata mara· vigliosa , l'oracolo di Apollo , che ne fu con• sultato , rispose_, che quella città si sarebbe conservata , fiuchè quel prodigioso simttlacro fosse restato entro le sue mura. Pertanto essendosi saputo da Pirro , per mezzo del va te El e no , figliuolo di Priamo , che Troia non si sarebbe mai espugnata, finchè non ne ft-sse stato tolto anehe iJ palladio , ne fu dato l' inearico aù UJisse ( 1), ed a Diomede, aflìnchè per i cunicoli s' introducessero nella rocc·a , per rapire questo fatal simulacro. Avendo poi felicemente eseguito l' ardito loro progetto , di cui poscia entrambi si contrastaron la gloria , attribuendolo il primo alla sua destrezza _, ed il secondo al suo valore , nell' averlo tolto dalle mani della saeerdotessa Teana , moglie di An· tenore , ed avemlo spogliata la città del suo nume tutelare di Pallade, giunsero finalmente al loro intento (2 )• (1) Hemming Forelii diss. continens praecognita in Yilam Ulyxis Upsal. 501. 8. (2) Dictys Crerensis de bello Troiano libri VI. Dares Phrygius de excidio T1·oiae liber. Tlzomae Woplcensis ad'VersariA critica in Dictyn Cl'elensem, seu potius Q. Septi· minm. de bello Troiano in mise. observ. novis in atKtore.t 1741. T. II. p. 1. Io. lac. de Brincken programma della· rete Phrygio. Lunaeb •. 1736 • .C. Q. Calabri derelictorum ab Homero lib. XIV cum Thryphiodoro, et Colutho. Loedesge de Trvye, dans lrs mem. de l' Ac. des inscr. T. III. 7o. Ant. Banier diss. Sul' la clm·ée dc siege de Tt·nye, il>. T. IX. 42. et in mytholvg. expliquè par P hist. L. V. et VI. lsraelis l. Nisse/ii diss. de veritat_c excitlii 'froiani. contra Dioncm Clzry• 4ostomttm V psal. 1724. S. C or n. Sicl1en Senno arcRdemieus pro Troia capiR oppositus D. Cl1rys. m·111ioni Lugtl. Bat. 1727. Niccolò Capasso ragionnmento de!l• incendio e presa di Troia, nella miscell. di ''arie oper~lte Ven. 1744. 12. T. Vlll. 401 • .Aiphons. de Pignoles clll'onol. de l' l•i.st. sainte T. Il. 804. Nù:. Gedoyn Desnipt;on de deux t~tbre,ux de Polignofe, tirée de Pansanias. dans !es mf'm. de l'acad. des inscr. 'f, VI. Alns Popc d.,l campo di ba1111glia sotto Troia, Roberto 1Yood Compa•·azione ,JCIIo stat,J attuale della Troade collo stato d.:l tempo di O•ne•·o. Bt16COIIÙ'h De· suizioue delle rovine di Troia, nel '1'. Ili. della bibl. di

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mede· ad Enea ('), il quale, unilamenle al St. Leller. 8f8. Le Chi!w:llier voy11ge de la Troade, eu la· blcau de la plain cle 'L"l"oye datJS son érat actuel, Gotling, Madt·id , Paris 1799 , e in Alteuburg uud' Erfurt 1800. S ovc ~ srara aggiuu(a una lettera enuiitissirna del mio l'i-

spouabile amico sig. Gio. Dav. Ake1blad, sopra lo stato al• tuale di 'froia , da Jui molto più diligentemcute visitata due volte, dopo il Le Cheuliet• (1) Ogiu.lno con"'sce le medaglie con Enea, chiamato Penatigero da Ovit,1o Mctam. XV. 450, che porta Anchise sulle spali~ , col p:.Hadio nella destn, e col fanciullo lulsso sito, oltre una collegiata vi è stato un famo~o muua. siero puPe detto in Pallara, dato ai Cassinensi da Alcssanclt·o II, in vece del m•Jnastero di s. Croce in Gerusa. lemme. Qui vi nel 11 t 8 Gelasio II. fu crea lo pon tefìce , e nel 1352 fu la residenza del grande ah:tte di Monte Cassi,,o • detto per anlonom~sia 11 abate degli abati. Panvin. de VII. Ecci. 214. Ciaccon. p. 229. Aug. Lubin AbbAtioruln ltaliac brevis nntitia. Romae 1693. p. 240. 343. Crescimbeni 1st. d\ S. M. in C,•smedin, di s. Bastiano in Palla • dio 391. Il quadro dell'altare col martirio di s. Sebastia· no fra dne colonne di breccia iocuoata, è del Camassei. Di sopra all' altare il Ct·isle morto con molte 6gnre a fa·esco. è opera di buona mAniera. Le altre sono del cav. G.1!\liudi. Quelle uclla volta sono assai inferiori. Diell·o l' allare vi resta Ancora una piccola tribuna antica tutta dipinta con fi;;ure di santi~ di m•n:era barbara. (f) Albertinlll. d,. m:t·abil. Urbis Ltqtl. 1520. p. 19. l1t p&!ln~ dc f... to in Adv. Tnrnebi Opp. T. 11. 48. Cic. de Divin. 11. 1() Si e.n~flll nihil fìt exlra falum, nihil levad re divina potesf. Hnc senlit Homeru!, quum quefCdlem lovem inducit, quorl S~trpedoncm filium" morte contra falmn e•·ipere non pnt!lct. Hoc idem signilicat G•·aecus iHe in eaan senteniÌ:lm ver!lus. quod fure l'""lllurn est , id 1ummum exsnlwral luvcm V. Petr. fl'rid. Arpe lhealrum Fati, aive Noli li:~ Scriptomrn de ProvidenLÌR, Fu.:luna, el fato. 1\oterod. 1 i 16. 8. Slef. C:oYuso disco.•·sn ac(::ul. sopra il Fato, e la Forlun:~ T. XXIV. Op. Calog. 447. e Cl. Fea io '1'. l. edit.-Hoa-atii 215. (2) Lucnn. P-b.a•·sa •• L. IX v. 953. 961. (3) Frane. Barogii com.tnentnrius in focum Platonis obJcurissimum in p_.-incipio dialogi Vlll de Rep. ubi sea·mohabetur tic numero. geomeh·ico, de q•to pruverbium est , quod numero Pl:~tonis nihil ob•curius Uonon. 15.60. 8 M111~ ritii de Flisco Decas de f. V erli P· 65. (5) Frane. Menestricr in hisr. Keislcrus Ant. Sel. Sepf. et Celt. Reùtcsius CIYs. l. n.175 Gruterus XC:. n. 11. Fr. Sav. Qaadrio titoli d' onore• Petri Wùrslo"ii Farrag. Ar. ctoa, sive cogitationes dc Taciti Tanfana, et Sturlaci Tanfe, aliisque Danicam histi Millin slatucs de Thulerie peintures des va-

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ses T. 1. Gal. Mith. 11", 265'; ed· u" ell:ro vnso oltre il celebl'e del eh. Vivenzio p~o~bblicalo dd Tichsbein '1'. IV· ediz. di Fir. la essi le figure sono del più. antico stile. Ma in un2 Juceroa fra le pilture·dell' Ercolano questo IOJ"Sillto si vecle rap-p).•csentato ·in caricatura , esseado tlllli i personaggi ·-c_on la.· testa di porco Epeo·fabbrieatore del cavallo di Troia 64 se fosse Stato CIJOCO 1 " 66 li:pigramma d~ incerto autore sopra ·le mutazioni del, ('-individuo umano-di sette in selle anni , 86 Epulo Saliue , 4; Epuloni sette , loro collesio . , 84 Ercole 5S lascia l' arco e le frecce-a-Filottete 66 nuovo pianeta ,, 79 Erymata di Roma 3f , de' Tegeati ,, 71 Esc!Lilo sua tragedia de' selle all' assalto di Te.be , 8.2 Età necenaria per la que-stura , 18 Evocatio deorum, et sacrorum 49 V. Cast. Innoc. Ansaldi de diis multarum gentium Romam evocatis Brixiae 17 43. 8 Fabìa ves tale giustificata , 1i Falconet Camillo 24, 32, 42, 70 Faro (del) Tom1' di Bablionia ,_, 83 Fatali·cose~ _ . , 72 Fate Jre sito a lor dedicato • , 73 Fati di Roma.10 di Troia ~1 sito dedicato ai tre fati 14 detto ancor ne' tre fori ,, Fato scrittori sopra -di esso 62, 64 V. I. Siren;us de fato lib. IX. Ven. 1563 Baccio Bandini dell' essenza del fato , e. delle forze.·sue sopl'8 le cose del mondo, e sopra le opera&ioni degli uomioi Fior. 1578 Col. de fato et· fatali vitae termino in Pentade quu&tionum Gabr. Naudaei. Gen. Sam. Chovet 1647 PhiJosophor.um sententiae de fato , coJ.Iectae , et