Le ragioni dell'altro. La formazione intellettuale di Pasolini tra saggistica, letteratura e cinema 8880633074, 9788880633075

Qual è stata la lezione di Pasolini? L'autore di questa ricerca è convinto che la risposta a questa non semplice do

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Italian Pages 288 [285] Year 2001

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Le ragioni dell'altro. La formazione intellettuale di Pasolini tra saggistica, letteratura e cinema
 8880633074, 9788880633075

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5. Fabio Vighi Le ragioni dell’“altro”. La formazione intellettuale di Pasolini tra saggistica, letteratura e cinema

Temi e profili del Novecento Collana diretta da Luigi Fontanella della State University of New York at Stony Brooks

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Ai miei genitori

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Fabio Vighi

LE RAGIONI DELL’ALTRO La formazione intellettuale di Pasolini tra saggistica, letteratura e cinema

LONGO EDITORE RAVENNA

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Questo libro è stampato su carta «Palatina» Fabriano ISBN 88-8063-307-4 © Copyright 2001 A. Longo Editore snc Via P. Costa, 33 - 48100 Ravenna Tel. 0544.217026 Fax 0544.217554 e-mail: [email protected] www.longo-editore.it All rights reserved Printed in Italy

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Ringraziamenti Prima di tutto vorrei ringraziare il supervisore del dottorato di ricerca da cui è nato questo libro, Prof. Zygmunt Baranski, il cui costante incoraggiamento, accompagnato da preziosi suggerimenti critici e solerti indicazioni metodologiche, si è rivelato di fondamentale importanza. Successivamente i miei ringraziamenti vanno al Prof. Giulio Lepschy, per aver più volte sorvegliato lo svolgimento del lavoro critico, e al Dott. Guido Bonsaver, per avermi permesso di iniziare il dottorato.

Abbreviazioni Le opere di Pasolini sono citate con le seguenti abbreviazioni Alì - Alì dagli occhi azzurri Amado - Amado mio preceduto da Atti impuri Anto - Antologia della lirica pascoliana Best, I e II - Bestemmia. Tutte le poesie (2 voll.) Calderón - Calderón CI - Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare DD - Descrizioni di descrizioni EE - Empirismo eretico Dialoghi - I dialoghi FA - I film degli altri Turcs - I Turcs tal Friùl PM - Il portico della morte Sogno - Il sogno di una cosa Academiuta - L’Academiuta friulana e le sue riviste

DM - La divina mimesis BB - Le belle bandiere L, I - Lettere 1940-1954 L, II - Lettere 1955-1975 LL - Lettere luterane Setaccio - Pasolini e ‘Il Setaccio’ PP - Passione e ideologia Petrolio - Petrolio PDN - Poesia dialettale del Novecento Poesie - Poesie RV - Ragazzi di vita Romàns - Romàns RR, I e II Romanzi e racconti (2 voll.) SC - Scritti corsari Storie - Storie della città di Dio Teorema - Teorema Primule - Un paese di temporali e di primule VV - Una vita violenta

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INTRODUZIONE LE ORIGINI DEL PENSIERO DI PASOLINI

Per essere feconda la conoscenza si getta à fond perdu negli oggetti. La vertigine che ne deriva è un index veri. (Adorno, 1970, p. 30)

Difficile collocare criticamente la figura di Pier Paolo Pasolini intellettuale. La sua originalità di pensatore si manifesta lungo tutto l’arco di un’opera saggistica, giornalistica, letteraria e cinematografica che spesso trascende le accezioni correnti di tali definizioni, essendo informata da un’intenzione altamente soggettiva, unitaria e idiosincratica1. Mi pare vi siano pochi dubbi sul fatto che l’artista e l’intellettuale, in Pasolini, vivono un complicato e spesso enigmatico rapporto simbiotico. Di rado, però, la critica si è provata a penetrare compiutamente la natura del legame tra la poetica e il pensiero ideologico di un uomo di cultura le cui pubbliche esternazioni, come quelle di nessun altro in Italia, hanno dato scandalo. Credo a questo proposito che il giudizio sulla modernità, e dunque sull’attualità di Pasolini a più di venticinque anni dalla sua morte, debba partire dall’analisi di una costante imprescindibile della sua opera: il tentativo di recuperare la dimensione estetica all’ambito di un sapere sociologico e finanche politico2. Solo considerando la spesso intricata reciprocità di implicazioni artistiche e ideologiche, poetiche e socio-pedagogiche3, 1 Un’interpretazione estremamente aggiornata e scrupolosa del soggettivismo pasoliniano è stata di recente fornita da Gordon (1996). Precedentemente, Rinaldi (1982) aveva basato il suo studio monografico sul riconoscimento nell’opera di Pasolini di una soverchiante forza autoriale, pervasiva a tal punto da inficiare la progettualità ideologica. 2 Com’è noto, il rapporto tra estetica e politica è una preoccupazione centrale alla cultura occidentale di tutto il Novecento. In Italia tale preoccupazione divenne particolarmente urgente nell’immediato dopoguerra, con la pubblicazione dei Quaderni dal carcere di Gramsci (194753) e la traduzione di Georg Lukács (1950-56); fu negli anni ’40 e ’50, infatti, che si sviluppò il dibattito sul ‘realismo’ letterario nella sua connotazione socio-politica. K. Jewell (1992, pp. 122) inserisce i nomi di Pasolini e Mario Luzi tra quei pensatori (tra cui B. Croce, A. Gramsci, W. Benjamin e T. Adorno) che hanno più intensamente studiato la relazione tra poesia e storia, estetica e ideologia. A. L. de Castris (1993, pp. 23-61) offre un simile approccio interdisciplinare. 3 Mi pare ancora efficace, in questo senso, lo studio monografico di Enzo Golino (1985), dove la vocazione pedagogica di Pasolini è esaminata in relazione alla passione ideologica.

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Introduzione

credo sia possibile comprendere la lezione del Pasolini intellettuale. La presente ricerca si propone pertanto di districare i nodi di tali implicazioni, al fine di illustrare la storia della formazione intellettuale di Pasolini dalle prime produzioni critico-letterarie degli anni ’40 all’esordio registico del 1961; a proposito di questo esordio, il film Accattone verrà analizzato alla luce della saggistica sul linguaggio cinematografico vergata dall’autore intorno alla metà degli anni ’60, e successivamente raccolta nel volume Empirismo eretico (1972). La scelta di circoscrivere l’indagine ai primi anni ’60 nasce dalla convinzione che il periodo più fertilmente formativo della carriera pasoliniana sia culminato nell’ingresso in pianta stabile, tanto in qualità di regista e sceneggiatore quanto di teorico, nel mondo del cinema4. Tra i principali punti di riferimento teorici di questa ricerca vi sarà dunque l’analisi dell’interdipendenza tra le categorie dell’estetica e dell’etica, nella consapevolezza che questa interdipendenza assume una rilevanza straordinaria all’interno di qualsiasi discorso sulla modernità. In questo senso, credo basti sfogliare un qualunque testo di Pasolini, per comprendere come egli non abbia mai abbandonato la fede nella Poesia quale strumento conoscitivo. È attraverso la lente d’ingrandimento della Poesia che negli anni ’40 il giovane studente universitario comincia a prendere coscienza di sé in quanto soggetto storico, e sempre confidando nell’intuizione estetica può poi attaccare la struttura socioeconomica dell’Italia postbellica5. Sarebbe quindi ingenuo disconoscere l’in4 Come nota F. Fortini, uno dei più attenti e lucidi conoscitori di Pasolini, l’interesse puramente ideologico intorno all’opera dell’autore calò vistosamente a partire dal 1963-64, epoca in cui cominciava a imporsi la sua fama di personaggio ‘scandaloso’, «da cronache mondane» (Fortini, 1993, p. 208). Per quanto affermare ciò non significhi che Pasolini fosse divenuto «uno degli storici esempi di involuzione intellettuale e politica di cui nello scorso secolo la nostra letteratura e cultura sono state tanto ricche» (Fortini, 1993, p. 210), mi pare però che dopo i primi anni ’60 non si registrino decisivi sviluppi nella sua storia di intellettuale. L’articolata e apocalittica denuncia dei modi del neo-capitalismo e dell’omologazione borghese, come vedremo di dimostrare con la presente ricerca, era già profondamente implicita nelle precedenti progressioni del pensiero pasoliniano. 5 Nel tentativo di chiarire il rapporto tra poetica e ideologia, questa ricerca privilegerà necessariamente i testi critici su quelli letterari. In particolare, si farà riferimento al filone della pubblicistica di Pasolini, che copre tutto l’arco della sua carriera e offre essenziali documenti esegetici. Una sezione del primo capitolo prende in esame la saggistica del periodo 1942-43 ospitata dalle riviste bolognesi della gioventù fascista (GUF e GIL). Nel secondo capitolo si tratterà diffusamente degli scritti pasoliniani apparsi sugli «Stroligut», riviste friulane ideate dall’autore nella seconda metà degli anni ’40; particolarmente significativi sono gli scritti relativi alla questione dell’autonomia del Friuli. Per verificare poi gli sviluppi di queste prime posizioni, nel quarto capitolo si affronterà approfonditamente l’ingente produzione critica degli anni ’50, i cui esemplari più significativi sono da ricercarsi sulle pagine della rivista «Officina» (1955-59), di cui Pasolini fu co-artefice e principale animatore. Per concludere, il quarto e quinto capitolo dedicheranno ampio spazio sia agli articoli giornalistici apparsi su «Vie Nuove» (1960-65), che alla saggistica semiologica poi raccolta in Empirismo eretico. Questa incursione nella saggistica pasoliniana verrebbe idealmente conclusa dall’analisi dell’articolistica apparsa su «Tempo illustrato» (1968-70), e sul «Corriere della sera» (1973-75), che esce però dai limiti di questa ricerca. Per un’approfondita disamina della pubblicistica pasoliniana si veda Gordon (1996, pp. 23-74).

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Le origini del pensiero di Pasolini

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fluenza del poeta sull’intellettuale: ogni presa di posizione, ogni intervento su questioni d’interesse ideologico o direttamente politico, sembra infatti originarsi e trovare decisiva legittimazione nell’intelligenza poetica, nella sensibilità del letterato formatosi nell’Italia fascista degli anni ’30 e ’406. Incidentalmente, a proposito di intelligenza poetica, mi pare occorra meditare sulla bocciatura decretata dalla contemporaneità7. Come ha osservato recentemente Carla Benedetti, il rifiuto odierno della scrittura letteraria di Pasolini (in un’epoca in cui gli scontri tra le poetiche sono lontana memoria, e tutto, dai romanzi rosa allo splatter, diventa letteratura), suona alquanto sospetto, e sembra dovuto al fatto «che l’opera di Pasolini è in conflitto con l’idea di letteratura che è stata dominante in Italia negli ultimi decenni» (Benedetti, 1998, p. 11)8. Con queste premesse, il punto di partenza della nostra indagine sulla formazione intellettuale dell’autore non potrà che essere un esteso approfondimento della sua formazione artistico-letteraria9. Ci apparirà chiaro, allora, come tanto il primo critico quanto l’esordiente poeta scrivano seguendo un’ispirazione estetica che non esiteremmo a definire essenzialmente ‘romantica’. È soprattutto l’impostazione dei primi saggi critici a rivelarci infatti una concezione dell’arte come medium ‘sovradisciplinare’, luogo privilegiato della convergenza di poesia e morale, e dunque deputato alla determinazione e alla divulgazione dei più alti valori umani10.

6 Pasolini nasce essenzialmente come poeta. Se la sua attività di critico inizia nei primi anni ’40, si ha motivo di credere che abbia cominciato a scrivere versi già dalla fine degli anni ’20 (Pasolini, 1970; Duflot, 1993, p. 11; Halliday, 1992, p. 30). 7 Si veda il nutrito dossier pubblicato da «L’Espresso», a cura di R. Paris (1995), e E. Sanguineti (1995), dove, a vent’anni dalla morte di Pasolini, si sentenzia che quasi tutta la sua opera è da buttare. 8 C. Benedetti fa riferimento al paradigma letterario della ‘morte dell’autore’, nato con lo strutturalismo e propagatosi attraverso la semiotica e il decostruzionismo: «Ma in una letteratura così concepita, è evidente che non possa trovar posto un autore ingombrante come Pasolini, che si rifiuta di scomparire dietro al testo, dietro le maschere narrative e le rifrazioni d’identità, […]» (1998, pp. 11-12). 9 Mi pare che nonostante l’importanza nevralgica del primo periodo formativo, pochi studi abbiano finora cercato di mettere in comunicazione le nozioni estetiche di Pasolini con i suoi primi interventi a carattere ampiamente culturale. Tra i più significativi contributi menzionerei soprattutto Brevini (1981a e 1981b), Santato (1980) e, più recentemente, Ward (1995) e Gordon (1996). 10 L’articolistica bolognese (1942-43) offre chiare prove di questa concezione ‘romantica’ dell’arte. Si pensi soprattutto a alcuni passaggi dall’articolo «Filologia e morale»: «‘la vita è un dono dei pochi ai molti: di coloro che sanno e che hanno a coloro che non sanno e non hanno’: questa frase di Modigliani dovrebbe toccarci nel più profondo della nostra coscienza di intellettuali»; oppure: «educare; sarà questo forse il più alto – e umile – compito affidato alla nostra generazione» («Setaccio», pp. 169-70). Cfr. anche la lettera a L. Serra dell’agosto 1943, in cui Pasolini parla di «una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà» (L, I, p. 185).

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Introduzione

A proposito della fiducia pasoliniana nella parola poetica, si è spesso fatto il nome, specie negli ultimi anni, di Benedetto Croce (cfr. Baranski, 1990; Francese, 1999). La concezione estetica del filosofo abruzzese, si sa, influenzò più di una generazione di letterati italiani (e stranieri), e mi pare senz’altro inverosimile pensare che Pasolini sia scampato alla massiccia introduzione di ‘crocianesimo’ nella cultura italiana della prima metà del secolo. Parallelamente, però, non si può sottovalutare l’influenza di altre ‘fonti’ e altri ‘padri’. Più precisamente, in relazione al sostrato ‘romantico’ sopra indicato, nel corso dell’analisi esamineremo quale sia stato il peso del contatto del giovane Pasolini con la cultura europea di fine Ottocento e inizio Novecento; cultura che, gradualmente, veniva introdotta nel mondo ancora sostanzialmente autoctono delle patrie lettere. A questo riguardo, non mi pare inopportuno segnalare il taglio ‘modernista’ del piano di studi del Pasolini studente di Lettere all’ateneo di Bologna. Se da una parte, com’è noto, sono ‘folgoranti’ le lezioni di Roberto Longhi sulla storia dell’arte italiana11, dall’altra il ‘libretto universitario’ pasoliniano ci appare estesamente informato dalla volontà di esplorare, oltre a quella italiana, le letterature moderne inglesi, francesi e tedesche, delle cui introiezioni si trovano cruciali testimonianze nella tesi di laurea su Pascoli. Ancora più scarsi sono stati finora i riferimenti della critica all’orientamento filosofico di molti studi formativi di Pasolini, culminanti con l’iscrizione, nel 1946, a una seconda laurea in Filosofia. Per quanto questo specifico progetto non sia stato portato a termine, e per quanto poi, nel corso della sua maturazione intellettuale, Pasolini abbia sovente dimostrato una notevole insofferenza nei confronti della speculazione astratta, mi pare che il segnale non possa essere trascurato. Ritengo infatti assolutamente decisivo cercare di ricostruire la genesi teorica del discorso estetico-ideologico di Pasolini. Se un primo passo di questa ricostruzione consiste nel rinvenimento del debito con il romanticismo europeo, potremo poi osservare, con maggior penetrazione, che il tentativo pasoliniano di sviluppare una «ricerca etica come trascendente la ricerca estetica» (volontà espressa nel 1942, cfr. L, I, p. 136) maturi lungo un percorso riconducibile a una precisa zona filosofica: l’idealismo tedesco. È soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’40, scrivendo per gli «Stroligut» friulani, infatti, che Pasolini comincia a offrirci indicazioni piuttosto nette circa la sua concezione del rapporto tra arte e storia: lungi dall’aderire alle politiche culturali del PCI, il comunista Pasolini cita i Prolegomeni di Kant, e insieme allude a un’arte che possa dar voce alla speranza utopica della conciliazione tra soggetto e oggetto. Come già in Kant ma soprattutto in Schelling, il contributo

11 Ampio spazio alla discussione di questo argomento è dedicato da F. Galluzzi nel suo recente studio sul rapporto tra Pasolini e la pittura (1994, pp. 15-25). A ragione, Galluzzi sottolinea la vicinanza tra stile pittorico longhiano e stile letterario di Pasolini. Rimandiamo al primo capitolo per l’approfondimento di questo importante concetto.

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Le origini del pensiero di Pasolini

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dell’artista appare fortemente legato, secondo Pasolini, alla possibilità di far balenare l’immagine dell’identità tra ‘coscienza’ e ‘esistenza’, tra ‘cultura’ e ‘natura’12. Non a caso l’immagine dell’utopico, nelle prime prove poetiche e letterarie dell’autore, è suggerita attraverso la trattazione dei temi più cari agli idealisti tedeschi: quelli di natura, ingenuità, infanzia, innocenza. Se passiamo in una zona più contemporanea e insieme continuativa dell’esperienza romantico-idealista, potremo seguire la maturazione intellettuale dell’autore in relazione ai debiti da lui contratti con le correnti del decadentismo e dell’esistenzialismo. In entrambi i casi, l’orientamento ideologico rimane dipendente dall’intuizione artistica di ciò che abbiamo identificato come utopico, ossia l’identità di soggetto e oggetto. La differenza sostanziale è che autori moderni e ‘decadenti’ come Gide, Sartre e lo stesso Pascoli, trasferiscono le astratte speculazioni filosofiche su terreni più concreti e accessibili al Pasolini letterato, legittimando in direzione ‘esistenziale’, cioè riferibile all’hic et nunc dell’esperienza, il luogo dell’identico. Mi riferisco specificamente a uno dei termini più importanti per la ricostruzione della storia intellettuale di Pasolini: l’irrazionalità. Sensibile alle poetiche del decadentismo e dell’esistenzialismo, Pasolini poté assimilarne il dato culturalmente più rivoluzionario e originale: l’affermazione dell’irrazionalità come piena libertà dell’individuo; e, più specificamente, l’attribuzione di una fondante ipoteca conoscitiva all’esperienza del ‘corpo’. La produzione pasoliniana del periodo friulano, tanto artistica quanto saggistica, è dominata da una preoccupazione essenzialmente narcisistica che affonda le radici, mi pare, proprio nella sensibilità decadente, a sua volta strettamente connessa, attraverso il trait d’union dell’irrazionalità, alla matrice romantica dell’idealismo tedesco. L’assiduo riecheggiare, nel taglio intimistico e narcisistico delle prose e dei versi degli anni ’40, di un tono da grande tormentato cristiano (centrali sono i temi del ‘peccato’, della ‘colpa’, della ‘morte’, dell’‘angoscia’, dei ‘sensi’, ecc.) sembra confermare questa ipotesi. L’ipoteca ‘modernista’ della formazione pasoliniana ci consentirà inoltre di misurare la dimensione dell’influenza di Benedetto Croce. A prima vista, la centralità della riflessione sull’irrazionale nel mosaico critico-letterario allestito dal primo Pasolini sembrerebbe accomunare l’estetica crociana all’estetica del decadentismo, nel senso che entrambe si porrebbero come ostacolo ‘idealistico’ allo sviluppo di una concezione eteronoma dell’arte. In realtà, esiste una sostanziale e indubitabile differenza tra questi due concetti di estetica, che in linea di massima possiamo riassumere nel seguente modo: l’intuizionismo (irrazionalistico) decadente si differenzia dall’intuizionismo (irrazionalistico) crociano nel caratterizzarsi come esperienza dei ‘sensi’ piuttosto che dello ‘spi-

12 T.W. Adorno, tra i maggiori studiosi contemporanei dell’estetica dell’idealismo tedesco, afferma in proposito: «Le opere d’arte hanno questo di comune con la filosofia idealistica: esse collocano la conciliazione nell’identità col soggetto; in ciò veramente quella filosofia, come esplicitamente avviene in Shelling, ha l’arte a modello, non viceversa» (Adorno, 1977, p. 131).

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Introduzione

rito’, nel far leva cioè su una componente empirica e sensoriale. Nel corso della ricerca avremo occasione di constatare a più riprese come la riserva d’irrazionalità tipica dell’opera di Pasolini sia giustificata proprio dall’imperativo della verifica somatica. Quest’ultima considerazione ci conduce nel cuore di quello che è probabilmente il tema centrale dell’intera ricerca: l’analisi del rapporto tra l’ascendente irrazionale riconducibile al periodo friulano (fino al 1950) e la progettualità ideologica emergente nel periodo romano. Per quanto la contrapposizione di ‘irrazionalità’ e ‘razionalità’ sia un punto di riferimento imprescindibile per qualsiasi tipo di approccio critico all’opera di Pasolini, non esistono, che io sappia, tentativi di approfondimento esegetico sufficientemente esaustivi e coerenti. Perdipiù, la critica tende a trasporre l’interazione tra irrazionalità e concettualizzazione nella figura forse più rappresentativa del pensiero pasoliniano, la ‘contraddizione’, o ‘antitesi’13. Se da una parte questa operazione sembra ampiamente giustificata dall’evidente, fin quasi provocatoria ‘contraddittorietà’ di molti passi pasoliniani, dall’altra essa rischia di irrigidirsi in tautologia ermeneutica14, ostacolando così l’investigazione di un concetto che mi pare invece assuma una notevole rilevanza gnoseologica. Voglio dire che è troppo semplice liquidare la contraddizione di Pasolini come operazione mistificatoria e ideologicamente inconsistente, senza aver prima cercato di ricondurla alla propria matrice teorica. Obiettivo specifico di questa indagine critica sarà proprio cercare di ricomporre il percorso intellettuale di Pasolini attraverso l’individuazione e la verifica dei suoi rimandi teorici. La figura di Antonio Gramsci è in questo senso un fin troppo ovvio punto di riferimento. Il tema dell’influenza gramsciana su Pasolini è da sempre oggetto di accese dispute: chi si schiera per una sostanziale corrispondenza o adattabilità del discorso pasoliniano all’ideologia del pensatore sardo15, chi invece sospetta una riappropriazione in chiave sintomaticamente soggettiva e inte-

13 Da ricordare soprattutto l’interpretazione di F. Fortini, che nel saggio del 1959 «Le poesie italiane di questi anni» (la cui sezione su Pasolini è ora in Fortini, 1993, pp. 21-37, con il titolo «La contraddizione») rimarca la centralità dell’antitesi nell’ispirazione pasoliniana, riconducendola a «quella sottospecie dell’oxymoron, che l’antica retorica chiamava sineciosi, e con la quale si affermano, d’uno stesso concetto, due contrari». Fortini critica da sinistra il luogo pasoliniano, negandogli valore ideologico; ma allo stesso tempo gli concede una verità di tipo esistenziale e passionale, in quanto «sogno della espressione assoluta, della identità» (Fortini, 1959, pp. 21-3). Come si cerca di verificare in questa ricerca, proprio da quest’ultimo riconoscimento si può forse ripartire per interpretare la modernità di Pasolini. 14 Mi pare che, almeno a tratti, l’ampia monografia di R. Rinaldi corra questo rischio. Portando all’estremo la critica di Fortini, Rinaldi parla di contraddizione come «un modello astratto, quasi archetipico, non risolta ma ipostatizzata e congelata nella sua stessa figura» (1982, p. 188). 15 Citerei in particolare l’interessante capitolo di F. Ferri dal titolo «Un nuovo modo di essere gramsciani» (in Ferri, 1996, pp. 197-236), dove l’influenza di Gramsci viene giustapposta a quella di Contini. Si veda inoltre K. Jewell, 1992, pp. 23-50; Golino, 1985, pp. 14-19; Sillanpoa, 1981; Macciocchi, 1980b, pp. 26-31; Buci-Glucksmann, 1980.

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Le origini del pensiero di Pasolini

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ressata16. Stabilito che l’assimilazione dei principali testi gramsciani da parte di Pasolini avvenne dopo lo spostamento a Roma, cioè negli anni ’50 (cfr. Baranski, 1990), occorrerà valutare la reale consistenza dell’impatto di questi testi sul pensiero critico dell’autore. A questo scopo, viene quasi spontaneo pensare alla celebre raccolta poetica dal titolo Le ceneri di Gramsci, pubblicata nel 1957 e composta tra il 1952 e il 1956. Su questo testo si sono basati quasi tutti i critici desiderosi di sbrogliare l’ostica matassa del rapporto PasoliniGramsci. In realtà, mi pare che tra tutti i testi in cui l’autore fa riferimento a Gramsci, questo sia probabilmente quello meno indicato se si vuole entrare nel merito teorico-ideologico della questione. Da un punto di vista passionale, o meglio ancora psicologico-sentimentale, i poemetti succitati ci permettono certo di pervenire a una soluzione del problema; ma si tratta pur sempre di una soluzione fittizia, in quanto a sua volta problematica. Se quasi tutti i critici si trovano infatti d’accordo nel rinvenire nelle terzine di Pasolini un Gramsci ambiguamente ‘leopardiano’17, cioè interiorizzato in versione eroico-resistenziale18, in pochi si accorgono che, sul piano della interpretazione strettamente ideologica, l’approccio a Gramsci del Pasolini poeta ci appare tutto sommato piuttosto deludente. Sarà utile, evidentemente, soffermarsi su testi di natura più propriamente espositiva, dove, per via diretta o obliqua, l’autore fa riferimento alle teorie del filosofo sardo. Diremo subito che i testi in questione non sono molti. Tuttavia, le prime significative considerazioni emergeranno dall’analisi sistematica delle due introduzioni pasoliniane alle raccolte di poesia dialettale e popolare approntate nei primi anni ’50. Qui, a parte i riferimenti diretti al pensiero gramsciano (pochi) avremo modo di misurare la nozione pasoliniana di ‘popolare’ su quella di Gramsci, inaugurando un problema critico che verrà subito dopo ripreso sia nella discussione della saggistica militante della seconda metà degli anni ’50 (in particolare i testi di Passione e ideologia e il contributo alla rivista «Officina»), sia nell’analisi della vasta produzione letteraria del medesimo decennio (con particolare attenzione ai romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta). Attraverso e oltre la nozione di ‘popolare’, sarà essenziale chiedersi in che senso Pasolini abbia inteso ricollegarsi a Gramsci e al marxismo; e più in generale in che modo la sua opera, dai forti accenti ‘modernisti’, s’inserisca nell’ampio dibattito sul realismo esploso in Italia negli anni ’50. Alla base di questo discorso vi è una domanda, credo, quasi elementare: come si pone il pensiero di Pasolini nei confronti di un marxismo che vuole l’uomo interamente definito dalla struttura socio-economica in cui nasce, cioè dall’oggettività mediata

16 Si veda soprattutto Asor Rosa, 1969, p. 396-413; Rinaldi, 1982, p. 129; Santato, 1980, pp. 145-97; Nowell-Smith, 1977, pp. 7-8. 17 Celebre in particolare la definizione di Asor Rosa, che definisce il Gramsci di Pasolini «una Silvia marxistizzata» (1969, p. 397).

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Introduzione

dal lavoro? E più specificamente: come e quando il letterato prende coscienza del mondo oggettivo in cui vive e agisce? Rimandando ai singoli capitoli della ricerca per la discussione di questi temi, ciò che mi preme anticipare, già in questa sede proemiale, è un punto su cui la critica ha generalmente glissato: quello della problematica compatibilità di base tra la forma mentis di Pasolini e la critica marxiana, nella fattispecie gramsciana, della società. Il marxismo di Gramsci, anche per quanto concerne i problemi di estetica, riposa infatti su un approccio metodologico che, nella sua straordinaria intelligenza interdisciplinare e dunque nella sua capacità di rivitalizzare il marxismo ortodosso, rimane di natura rigorosamente razionalistica e storicistica; al contrario, la riflessione ideologica di Pasolini, scomposta e disorganica, non può assolutamente fare a meno di un elemento irrazionale che, a rigore, si costituisce come dato metastorico. Preme dunque sottolineare come la pasoliniana ‘scoperta di Marx’19 sia preceduta, accompagnata e seguita da una profonda elaborazione del tema dell’irrazionalità che, sebbene sviluppata attraverso diverse varianti terminologiche e sostenuta principalmente dall’ispirazione artistica, rimanda, credo, a una precisa sostanza teorica. Mi riferisco soprattutto all’uso di termini quali ‘mito’ e ‘sacro’. Esplosa nell’ultimo decennio (che qui non prendiamo direttamente in considerazione), la fascinazione esoterica (cosmogonica e teofanica) di Pasolini20, l’ossessiva ricerca di ambiti estetico-culturali irriducibili alla ragione storica, alla strumentalizzazione e dunque alla mercificazione, corrisponde a un dato teorico ampiamente verificabile sia nel periodo friulano che durante tutto l’arco degli anni ’50. Se dunque l’intero percorso intellettuale di Pasolini appare profondamente segnato dalla sua inalienabile dipendenza dal polo dell’irrazionalità, ciò che dev’essere indagato è se e come questa dipendenza venga assimilata, e quindi integrata, in un coerente approccio conoscitivo alla sfera del sociale. In questa indagine si concentrano gran parte delle difficoltà e insieme il fascino di un’operazione ermeneutica sul Pasolini intellettuale. Le difficoltà sono date dalla resistenza opposta dal discorso pasoliniano, che pur essendo fondamentalmente informato da istanze teoriche, assai raramente si presenta mediato da coerenti argomentazioni speculative 21. Anche laddove 18 Già Pasolini aveva parlato del suo Gramsci dei poemetti come l’intellettuale «ridotto a puro e eroico pensiero» (PI, p. 425). 19 Dal titolo di una celebre sezione (datata 1949) della raccolta poetica L’usignolo della chiesa cattolica (cfr. Best, I, pp. 407-13). 20 Fondamentale lo studio di Conti-Calabrese (1994), che si avvale di precisi riferimenti filosofici (tra cui Eliade, Heidegger, Bataille, la Scuola di Francoforte) per dimostrare che il senso del sacro, tradotto in ossessione poetica e disperata protesta socio-poltica, caratterizza fertilmente tutta la parabola creativa pasoliniana. 21 Già P.V. Mengaldo («Non si scopre nulla di nuovo ricordando che il limite culturale maggiore di Pasolini è consistito nella povertà della cultura e degli interessi propriamente filosofici», 1981, p. 154), e F. Fortini («La cultura storico-filosofica e quella politica gli restarono sempre estranee», 1993, p. 212), hanno sottolineato questa inibizione.

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Le origini del pensiero di Pasolini

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l’esposizione è chiara, le evidenti lacune, sovente coperte da una retorica che Fortini (1993, p. 36) paragona ai «filosofemi dei Sepolcri» di Foscolo, finiscono per ostacolare l’accesso al senso profondo cui l’enunciato aspira. Credo che una strada per ovviare a questa intrinseca difficoltà sia verificare la presenza di una diffusa urgenza utopica all’interno della dialettica pasoliniana tra irrazionalità e razionalità. Se pensiamo l’utopia come luogo teorico della conciliazione dei poli opposti della ragione e dell’irrazionale, o della cultura e della natura, potremo forse seguire con più agevolezza il discorso di Pasolini22. A partire dalla fine degli anni ’50, e poi per tutto il resto della sua carriera, la ricerca di Pasolini si stabilizzerà infatti come ossessiva individuazione e promozione di luoghi dell’alterità, la cui specifica rilevanza teorica consiste nella definizione della dimensione utopica. Con crescente autoconsapevolezza ideologica, sia la produzione critica che creativa dell’autore si articolano come ossessiva difesa di quei dati ‘reali’ (cioè riconducibili a coordinate antropologiche, o comunque storico-geografiche) attraverso cui si renda possibile «l’agnizione dell’altrove» (cfr. Anzoino, 1974, p. 2): la presa di coscienza, cioè, di una componente sacra e inalienabile che inerisce al concetto di realtà. Il punto di fuga utopico sembra emergere dunque laddove Pasolini comincia a esercitare una più sicura sorveglianza intellettuale sulle nozioni intercambiabili di ‘sacro’, ‘mito’, ‘irrazionale’. Obiettivo ultimo della nostra indagine critica sarà pertanto verificare la percorribilità dell’ipotesi utopica nel discorso intellettuale di Pasolini. Qualora questa ipotesi fosse accreditata, si aprirebbe la possibilità di iscrivere l’opera pasoliniana nel solco del ‘pensiero negativo’23, confermando quanto alcuni critici hanno solo debolmente suggerito24. Il contributo intellettuale di Pasolini verrebbe cioè identificato nella promozione delle categorie della negatività e della contraddittorietà come correttivi della falsa positività che caratterizza l’etica capitalistica. Il pensiero negativo, come teorizzato definitivamente da T. W. Adorno (1970), si inserisce nel

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Torniamo qui al legame con l’idealismo tedesco pre-hegeliano, che teorizzava la storia dell’umanità come processo di transizione tra i due limiti utopici dell’origine e della morte. L’armonia e l’identità coincidevano con i limiti utopici; la rottura e la dissociazione erano prerogativa della presenza dell’uomo nella storia. Nel corso della discussione critica avremo modo di notare come questa tesi si trovi anche alla base del pensiero di T.W. Adorno, che così diverrebbe privilegiato interlocutore di Pasolini. 23 L’essenziale contributo dell’utopia al pensiero negativo consiste nell’identificazione di un momento astorico in cui si realizzi la conciliazione tra soggetto (coscienza, cultura) e oggetto (natura). Il momento utopico assume un significato morale in quanto, legittimando la conciliazione solo nella dimensione astorica, si oppone alla reificazione della realtà storico-sociale. Com’è noto, tutti gli sforzi del Pasolini maturo si concentrano sulla critica della ragione strumentale del capitalismo moderno, in quanto produttrice di un sistema ontologico, cioè appunto reificato. Pasolini chiama questo fenomeno ‘omologazione’. 24 M.G. Stone (1991) ha proposto un parallelo tra Adorno e Pasolini nel nome di una comune «dialettica di disperazione e di fede», intendendo l’opera di Pasolini come luogo in cui si articola la dialettica negativa di Adorno. Simili considerazioni in Scalia (1978) e Conti-Calabrese (1994).

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Introduzione

filone marxista, recuperando però una componente utopico-irrazionale che mira a demistificare l’ipostatizzazione della ratio illuministica: l’ambito della ricerca culturale è infatti definito come percorso del non-identico (la ragione conoscitiva) verso l’identità (l’utopica riconciliazione). La differenza sostanziale dal marxismo tradizionale, e insieme dall’hegelismo, consiste nello spingere il momento del superamento della contraddizione in una dimensione utopica. La malinconica e vitale verità di tale percorso filosofico è la consapevolezza che l’identità si da solo come momento altro dalla ragione, essendo a essa irriducibile. Di qui l’importanza dell’estetica, che ha il potere di presentare in forma sintetica e sublimata la dialettica negativa tra l’utopia e la ragione speculativa; lungi dal promuovere l’armonia classica, l’arte contribuisce alla conoscenza nel riflettere la contraddittorietà dei fenomeni storico-razionali, e insieme nel suggerire il superamento di tale contraddittorietà come prospettiva utopica25. Chiamata in causa è dunque una rinnovata concezione di razionalità, che riconoscendo la propria sostanza costitutivamente negativa, non-identica, è implicitamente invitata a riscattarsi dalla falsa positività in cui è assoggettata dall’uso strumentale che fa di essa l’uomo moderno. Il riscatto avviene attraverso un incessante esercizio critico infinitamente tendente al limite utopico26. Al fine di verificare la corrispondenza del pensiero pasoliniano alla sensibilità filosofica qui brevemente compendiata, particolare attenzione verrà riservata all’ambito linguistico, da sempre al centro delle apprensioni dell’autore. Più specificamente, interrogheremo la valenza assegnata da Pasolini alla coordinata ‘stile’, vagliando l’ipotesi di un suo intrinseco e indiretto significato politico27.

25 Adorno definisce sinteticamente questa qualità essenziale dell’arte come ‘promesse du bonheur’, rifacendosi a un luogo di Stendhal: «Stendhal parlava di ‘promesse du bonheur’; il suo detto significa che l’arte ringrazia l’esistenza con l’accentuare quel che in essa preannuncia l’utopia. Ma tali preannunci diventano sempre di meno, l’esistenza è sempre più uguale semplicemente a se stessa. L’arte perciò può sempre meno esserle uguale. Poiché tutta la felicità provata per il sussistente e al suo interno è surrogato ed è falsa, per restare fedele alla promessa l’arte deve romperla» (Adorno, 1977, p. 520). 26 In Italia, il dibattito intorno alle tesi di Adorno, e della Scuola di Francoforte di cui era il più noto esponente, si accese negli anni ’70. Tra i più entusiasti sostenitori del marxismo adorniano troviamo soprattutto T. Perlini (1969; 1971), ma si veda anche F. Mussi (1974), E. Paci (1974) e il numero speciale della rivista «Utopia» (1972). 27 È stato P.V. Mengaldo (1981, p. 155-8), credo, il primo a accentuare con convinzione e acutezza l’importanza del nesso tra linguistica e marxismo nel Pasolini maturo. Più di recente, F. Ferri (1996) ha sviluppato questa intuizione sulla linea del gramsci-continismo dell’autore, che nel 1957 aveva dichiarato: «Considero (io praticamente non crociano) due i miei maestri: Gianfranco Contini e Gramsci» (Pasolini, 1957a). Si veda anche Ferretti, 1975; Caretti, 1960. Nel verificare l’intuizione di Mengaldo, che vede nello stile uno strumento attraverso cui Pasolini recupera «intelligentemente» (1981, p. 157) la dimensione irrazionale al marxismo, controlleremo la viabilità del parallelo tra l’estetica di Pasolini e quella di T.W. Adorno. Interessanti considerazioni, a proposito di questo parallelo, sono emerse nel recentissimo lavoro di C. Benedetti (cfr. 1998, pp. 19, 122, 144, 152).

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1. LA FORMAZIONE CULTURALE DI PASOLINI DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA

Che cosa avrebbero di piacevole per noi anche un semplice fiore, una sorgente, una pietra coperta di musco, il cinguettio degli uccelli, il ronzio delle api, ecc., per se stessi? Che cosa potrebbe dar loro una pretesa al nostro amore? Non sono questi oggetti, è un’idea da essi rappresentata che noi amiamo in loro […]. Essi sono ciò che noi fummo; essi sono ciò che noi torneremo a essere. Noi eravamo natura, come loro, e la nostra cultura ci deve ricondurre per le vie della ragione e della libertà alla natura. (F. Schiller, 1951, p. 369) Nulla esiste se non si misura col mistero: che testimonianza avremmo degli ‘eventi’ se non cantasse prima e dopo di loro un passero col suo canto lieve e severo? (P.P. Pasolini, Best, II, p. 1789)

In questo capitolo mi propongo di ricostruire e interpretare il rapporto di Pasolini con la cultura da lui voracemente assorbita nei primi vent’anni di vita e, inevitabilmente, con il fascismo storico, argomento ancora poco dibattuto dalla critica. La ricognizione sul periodo formativo dell’attività pasoliniana prenderà in esame principalmente testi quali l’epistolario, la prima articolistica, le prime poesie in italiano e la tesi di laurea. Credo, a questo proposito, che un approccio di tipo filologico, oggettivamente cosciente delle problematiche incorporate dalla ricerca, potrà agevolare l’approfondimento del pensiero pasoliniano al momento della sua formazione. Più precisamente, l’obiettivo sarà ricostruire la formazione intellettuale di Pasolini nel contesto delle varie correnti culturali presenti in Italia durante il ventennio fascista (cfr. Brevini, 1981b, pp. 29-44). Sin da giovanissimo, com’è noto, Pasolini fu assai vivace e operoso fruitore della cultura a lui contemporanea, perlopiù diviso tra la Bologna universitaria e i periodici soggiorni friulani, dove il contatto con il mondo rurale non attenuava l’intensità e la sistematicità del lavoro intellettuale. Come in Friuli scrive poesie, drammi, romanzi, fonda una rivista, riempie pagine e pagine di diari e s’improvvisa insegnante, così a Bologna egli studia e si laurea, scrive saggi, approfondisce la ricerca artistica perseguendo una poetica dai caratteri estremamente personali.

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Capitolo primo

Un elemento però è assente dalle preoccupazioni culturali del primo Pasolini: la politica. Come vedremo, fino al dopoguerra la sua coscienza si manterrà al di sopra, o comunque lontana, dal contatto diretto con i temi più urgenti della vita politica italiana. Il fascismo stesso, per quanto conosciuto fin dentro le sue istituzioni1, viene raramente chiamato in causa, mentre completamente ignorate sono le correnti culturali e le organizzazioni politiche ufficialmente avverse al regime. Indubbiamente, quello del rapporto tra Pasolini e il fascismo storico si pone come uno tra i problemi più stimolanti e meno investigati dalla critica. Nonostante le notevoli complessità che l’analisi di tale rapporto presenta, data soprattutto la reticenza del giovane Pasolini a esprimersi esplicitamente sull’argomento, cercheremo di far luce sulla natura di un adattamento apparentemente piuttosto acritico (cfr. Gordon, 1996, p. 24), durante il quale l’autore poté sviluppare la propria poetica. Specificamente in relazione al rapporto con la cultura fascista, si presenterà come cruciale problema ermeneutico esplorare la disposizione pasoliniana a inglobare nella propria produzione artistica e intellettuale una costante riflessione sul tema dell’irrazionalità. A questo proposito, la critica generalmente concorda nel riconoscere che le prime esperienze culturali di Pasolini si sono compiute all’ombra di una tormentata infanzia ideologica, nella misura in cui tanto la partecipazione a una cultura dominata dal verbo crociano, quanto la funzione di un istinto artistico suggestionato da poetiche di marca ermetica, avrebbero costretto il giovane letterato entro i limiti di un’ispirazione autosufficiente, in qualche modo osteggiante la presa di coscienza socio-politica. Se da una parte questa diffusa interpretazione pare ineccepibile, data la povertà di riferimenti ideologici rinvenibili nelle prime produzioni pasoliniane, dall’altra occorrerà vagliarla attentamente sulla nozione di ‘irrazionalità’ elaborata dall’autore. Questo perché sarebbe se non altro affrettato, prima di averne analizzato a fondo i contenuti specifici, considerare l’irrazionale nel primo Pasolini come riflesso immediato della tendenza estetizzante della cultura italiana del primo Novecento. Proprio a livello di contenuti, mi pare che una costante inequivocabile dei primi documenti pasoliniani sia l’inclinazione a innestare nel discorso intellettuale un termine utopico, corrispondente all’intuizione della conciliazione tra il pensiero soggettivo e l’esperienza oggettiva, ovvero fisico-sensoriale, della realtà: a causa di questa intuizione, il pensare la realtà sembra diventare, per questo Pasolini, inseparabile dal viverla, dall’esperirla concretamente. Non ci sorprenderemo, allora, di scoprire come nelle prove d’esordio il giovane intel-

1 Mi riferisco specificamente alla collaborazione pasoliniana alle riviste della gioventù fascista, che esamineremo nel dettaglio in questo capitolo. Di capitale importanza, a questo riguardo, il saggio di M. Ricci (1977), che ricostruisce gli anni (1942-43) dell’esperienza bolognese da lui vissuta a stretto contatto con Pasolini. Per un’analisi globale dei periodici giovanili del fascismo si veda Addis Saba (1973); Bertacchini (1980); Folin e Quaranta (1977); Lazzari (1979).

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La formazione culturale di Pasolini durante il ventennio fascista

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lettuale indugi su concetti di ‘civiltà’ e ‘storia’ costantemente misurati sul mito dell’origine dei tempi; ugualmente, non ci sorprenderemo di osservare come la nozione di ‘letteratura’, e più in generale di ‘arte’, risulti vincolata a un concetto tutto empirico di ‘esistenza’. Credo che proprio partendo dall’analisi di tali accostamenti, in merito ai quali gioverà valutare l’incidenza di particolari esperienze formative (come il contatto con la filosofia esistenzialista), potremo far luce sul significato della spesso deplorata irrazionalità pasoliniana, cercando di stabilire se una nozione come quella di ‘mito’, per esempio, debba considerarsi funzionale o contrastante lo sviluppo della coscienza ideologica dell’autore. Fondamentale sarà osservare come l’irrazionale si presenti, in queste prime prove, quale ingrediente essenziale per l’elaborazione di un ammonimento etico. Pasolini sembra pervenire all’ambito morale partendo da ciò che, per lui, solo la poesia può avvicinarsi a esprimere: il sentimento di ciò che evade dal limite spazio-temporale entro cui la ratio si situa; di un’alterità che, in quanto tale, smaschera l’insufficienza della conoscenza razionale, ponendola di fronte al suo bisogno storico di rinnovarsi. Di qui il carattere contraddittorio, ossimorico, eretico già proprio di questa prima produzione pasoliniana, che parte sempre, anche nel caricarsi di significati storici, da un dato freudianamente infantile e mitico (l’infanzia come «un necessario simbolo», «Il setaccio», p. 77). 1.1 La tradizione, l’antitradizione e il sacro Pasolini si formò negli anni in cui il dibattito intorno alla relazione tra l’estetica e l’ideologia, tra la letteratura e la politica, cominciava a assumere significati urgenti negli ambienti intellettuali italiani (cfr. Manacorda, 1976). Esaurita l’esperienza de «La Ronda» (1919-23), che aveva riproposto l’ideale dell’ordine letterario in opposizione al disordine futurista e vociano, negli anni ’30 si afferma la poesia ermetica, caratterizzata da una ricerca linguistica che antepone l’espressività analogica sui modi della comunicazione (cfr. Beccaria, 1996, p. 177). Collegandomi al suo rapporto sia con l’ermetismo che con la tradizione, cercherò qui di dimostrare come la prima poetica pasoliniana sviluppi una spiccata originalità, essendo informata da una distintiva tensione morale2. Se consideriamo la vexata quaestio dell’autonomia dell’arte, l’analisi del periodo formativo ci mostra un Pasolini che si sforza di mediare aspetti della classicità e della modernità, per muovere verso un concetto di eteronomia intimamente e originalmente plasmato dalla tensione verso il sacro. 2 Brevini (1981b, p. 30) sottoscrive questo punto: «Pasolini, come molti esordienti della sua generazione e senza che ciò implicasse alcuna consapevolezza ideologica, rifiutava le esperienze letterarie legate a una pura poetica della parola, a favore di quelle segnate da nuove inquietudini morali e esistenziali. A questa dimensione si collega la lettura di Ungaretti ‘uomo di pena’ più che maestro di stile […]».

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Capitolo primo

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1.1.1 Tra poesia e pittura Un modo proficuo di verificare lo sviluppo del problema estetico in Pasolini è quello di prendere in esame le prime esperienze universitarie. Tra i corsi studiati dall’autore all’Ateneo bolognese c’è quello di ‘Storia della letteratura italiana’ insegnato da Carlo Calcaterra (futuro relatore di tesi di laurea), severo docente che pretende uno studio pedissequo dei classici. Nonostante la lode ottenuta all’esame del 29 ottobre 1941 (cfr. Anto, pp. 238-9), il rapporto di Pasolini con le lettere classiche ci appare da subito piuttosto ambiguo. In una lettera del 1940 all’amico Franco Farolfi, per esempio, emerge una chiara inclinazione letteraria di tipo europeista e modernista, condita da un significativo accesso vitalistico che eleva lo sport a «pura consolazione»: Sono, ora, preso nel vortice di una nuova occupazione, l’esercitazione d’italiano: le Rime del Tasso dopo S. Anna: la bibliografia è immensa, sono ormai in totale quattro ore di lavoro in biblioteca, solo per annotare e guardare che libri vi siano intorno a questo argomento. È questo il classico lavoro universitario, fatto per puro senso di retorica e di erudizione, che io aborro e che stroncherò, con atto di coraggio, sul viso stesso al prof. Calcaterra, quando pronuncerò la mia relazione. Cosa può importare a me, che idolatro Cézanne, che sento forte Ungaretti, che coltivo Freud, di quelle migliaia di versi ingialliti ed afoni di un Tasso minore? Vado spesso a giocare a pallacanestro: sono schiappone, ma mi diverto molto. Lo sport è veramente la mia pura, continua, spontanea consolazione. Ora ho una voglia frenetica di andare a sciare: sogno le dolomiti, come una terra alta, sopra le nubi, solatia, risonante di grida e risa. (L, I, pp. 28-9)

Ulteriore conferma di questa inclinazione europeista e modernista viene poi dal piano di studi (Anto, p. ix), dove le lingue e letterature europee moderne (addirittura quattro: tedesco, inglese, spagnolo e francese) hanno decisamente la meglio sui corsi più tradizionali (non c’è traccia, ad esempio, dei celebri corsi di ‘Letteratura greca’ tenuti dal fascista Goffredo Coppola, protezionista al punto da chiedere un intervento poliziesco contro Dostoevskij)3. D’altra parte, Pasolini si era aperto alla cultura europea all’epoca del leggendario incontro con Rimbaud in seconda Liceo4, a cui avevano fatto seguito le importanti lettu-

3 Secondo la testimonianza di Giaime Pintor, Goffredo Coppola era un fiero assertore della politica fascista di protezionismo della cultura italiana, avendo chiesto «un provvedimento di polizia contro Dostoevskij» e considerando «traditore della patria e d’intesa col nemico chi si avventuri a tradurre il vecchio Charles Dickens» (cfr. Manacorda, 1976, p. 267). 4 La scoperta di Rimbaud, del 1938, significò a detta di Pasolini (cfr. Halliday, 1992, p. 32) il rifiuto della cultura accademica e conformistica degli anni del regime. Fu il poeta antifascista Antonio Rinaldi, supplente al Liceo Galvani di Bologna, a leggere in classe le poesie del francese; sul significato direttamente politico della lettura di Rimbaud, si possono però avanzare dubbi. In «Al lettore nuovo» (Poesie, p. 7), Pasolini dichiara di dovere proprio alla lettura di Rimbaud la nascita in lui di una coscienza antifascista; d’altra parte, l’amica Giovanna Bemporad, ebrea,

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La formazione culturale di Pasolini durante il ventennio fascista

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re di Dostoevskij, Shakespeare e Freud; inoltre, per restare in tema di modernità, sappiamo che nella biblioteca dell’autore non mancavano certo i poeti dell’ermetismo (cfr. Halliday, 1992, p. 31; Camon, 1973, p. 95; Serra, 1976; Schwartz, 1995, p. 204). La preferenza modernista è infine ammessa nell’estate del 1941, quando Pasolini sembra avere le idee ancora più chiare sull’imminente esame di «Storia della letteratura italiana»: Maledico ogni giorno quel cretino esame d’italiano, che mi riempie la testa con quei corsi monografici sul Tasso, Alfieri, ecc., che letti poco alla volta, bene, ma lette di seguito le loro ‘opera omnia’ fanno morire d’inedia. Fortuna, ho con me molti poeti moderni e moderni critici, e monografie d’arte, la cui consolazione non è poca [...]. (L, I, p. 78)

Mentre a Luciano Serra, nel medesimo periodo, confida: «Sono stomacato dai classici: quelli che leggo per conto mio e quelli per l’Università (Angiolieri, Belcari, Manzoni, Folgore, Tasso, Alfieri, ecc.). L’unico che non mi abbia stancato è il Petrarca, che è salito moltissimo nella mia valutazione» (L, I, p. 70). Con Petrarca, che stroncherà negli anni ’50, affiora dunque una prima eccezione; ma dopo alcuni giorni, rispondendo a un’accusa di ‘crepuscolarismo’ giuntagli da Serra,5 Pasolini sembra cambiare improvvisamente rotta, difendendo con fervore proprio i classici della letteratura italiana: «Mi sono completamente concesso ai classici: le meraviglie della Pentecoste e del 5 Maggio! Il Canzoniere di Petrarca! Le Tragedie dell’Alfieri! sono per me entusiasmanti. Ma soprattutto il Foscolo: è il mio autore, il mio maestro e duca» (L, I, pp. 81-3). In questo repentino mutamento d’umore, Pasolini sembra dunque contraddirsi: le lettere classiche, prima respinte, vengono ora esaltate. Una simile indecidibilità tra un ideale classico e uno moderno di letteratura risulta piuttosto evidente anche dalla lettura delle prime prove poetiche in lingua italiana6, incluse in pressoché ognuna delle lettere inviate agli amici nel corso del 1941 («Non ho mai scritto tanto, riempito tanti fogli di prove e riprove...», L, I, p. 48). Luciano Serra (1985b, pp. 2-5) ha riconosciuto in que-

assicura che solo a partire dal 1943 Pasolini cominciò a porsi criticamente nei confronti del fascismo (Siciliano, 1981, pp. 83-4; Barnabò Micheli, 1986). Al di là di questa incongruenza, mi pare importante notare che le prime poesie di Pasolini riprendono spesso tematiche centrali in Rimbaud. Santato (1980, p. 122) ha giustamente fatto notare che l’immagine del diavolo in molte delle prime poesie pasoliniane risale a Rimbaud, oltre che Baudelaire e Lautréamont. 5 È negli anni universitari che Pasolini crea, con i vecchi compagni del liceo Luciano Serra, Francesco Leonetti e Roberto Roversi, un vero e proprio sodalizio intellettuale (cfr. Serra, 1976, pp. ix-xxiv). 6 Sostenendo l’ipotesi di un doppio registro formale tra queste liriche in italiano e le contemporanee Poesie a Casarsa in friulano, Rinaldi (1982, p. 16) definisce la contraddizione addirittura esemplare, «un’aporia che pare costituzionale alla produzione pasoliniana», tale addirittura da avere in sé «qualcosa di scandaloso».

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ste liriche forti echi di autori tradizionali delle lettere italiane 7, ma simultaneamente ha parlato di un’originalità tematica da interpretarsi come vero e proprio atto di nascita poetico. Per gradi, senza dubbio, queste liriche cominceranno a proporre soluzioni formali diverse, abbandonando gli stilemi classicheggianti per assorbire le suggestioni della poesia ermetica, già sufficientemente discernibile in versi come «Il mio paese è di color smarrito» (L, I, p. 49), tradotto successivamente in friulano e inserito in Poesie a Casarsa (così come accadrà alla lirica «Acque di Casarsa», cfr. L, I, p. 55). Tuttavia è innegabile che nell’estate del 1941 la frequentazione dei classici rimane luogo di profonde riflessioni, come testimonia il progetto di una rivista che non sarà mai realizzata ma di cui rimane il nome significativo di Eredi. Proprio da questo primo, abortito progetto editoriale possiamo ricavare alcune importanti indicazioni inerenti al contrastato rapporto di Pasolini con i classici. Innanzitutto, il tono di molte lettere del periodo rivela il carattere pressoché iniziatico che Pasolini aveva conferito a un progetto coordinato attraverso fitti scambi di poesie e di commenti tra gli aspiranti co-redattori (cfr. L, I, pp. 41-68). La severa intransigenza di molte dichiarazioni di Pasolini sembra essere misura della sua ambizione letteraria, tanto autentica quanto il disinteresse simultaneamente dimostrato per gli sviluppi della politica fascista (cfr. L, I, p. 62). Per capire cos’era naufragato, in termini di poetica, con il progetto della rivista, occorre rifarsi al concetto di ‘tradizione’. Nelle parole di Serra, Eredi «doveva rappresentare la continuità della poesia classica filtrata dalla poesia moderna di Ungaretti, Montale, Sereni, ma non Quasimodo, che fu sempre, per Pasolini, qualcosa da respingere» (Serra, 1985a)8. Evidentemente si trattava, in sintonia con quanto Pasolini di lì a un anno teorizzerà nella sua prima pubblicistica, di documentare la presenza di un filo diretto tra la tradizione e le ultime generazioni di poeti italiani; un’operazione che senza dubbio nasconde un proposito diacronico, se recuperare la tradizione al presente significa già inserire la poesia nel continuum della storia. Proprio l’insistenza sull’interazione tra la tradizione e il moderno sembra allora allontanare significativamente la ricerca estetica di Pasolini dai canoni affermati e difesi da Benedetto Croce, il cui concetto di poesia si forgia nell’‘orto concluso’ di una classicità intesa come serena e disciplinata fusione di intuizione e espressione, assolutamente estranea a qualsiasi riferimento empirico, sia esso inteso in termini di ‘sensazione’ e di ‘percezione’, che di pratica utilità. Chiaramente, sarebbe ingenuo negare che Croce abbia rappresentato per il giovane Pasolini un solido punto di riferimento culturale. Allo stesso tempo, però,

7 Evidenti soprattutto i riecheggiamenti leopardiani, che anticipano fedelmente i temi più cari a Pasolini: «Dentro il mio pianto ed i supini errori / e le scomposte voci, sempre più sereno / a me stesso sarò, sempre più chiara / questa mia vita» (L, I, p. 55); «Seppi che l’ora non fugge e gli anni / sono sempre gli stessi sul viso che non muta / di questa gente in festa» (L, I, p. 89). 8 Sul progetto di Eredi si veda ancora L. Serra (1976), e F. Brevini (1981a).

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La formazione culturale di Pasolini durante il ventennio fascista

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preme sottolineare come qualsiasi letterato e intellettuale formatosi negli anni ’30 e ’40, indipendentemente dalla fede politica, sarebbe costretto a confessare il medesimo debito. Anzi, è ormai generalmente riconosciuto che l’influenza del filosofo abruzzese si sia estesa non solo su tutta la prima metà del secolo, ma anche su quelle generazioni di intellettuali che hanno lottato per introdurre il pensiero marxista in Italia nel periodo della ricostruzione postbellica. È bene ricordare che lo stesso Gramsci, i cui scritti dal carcere (pubblicati tra il 1947 e il 1951) contribuirono a rinnovare la cultura italiana del dopoguerra, non ha mai nascosto il debito del suo storicismo allo storicismo crociano9. E proprio dalla nozione di ‘storia’, e successivamente dal suo rapporto con quella di ‘poesia’, mi pare si debba partire per comprendere la natura e la dimensione del retaggio crociano in Pasolini. Non possiamo infatti prescindere dal fatto che l’estetica di Croce è, in connessione alla logica, l’etica e l’economia, parte integrante di un sistema filosofico che, nel suo insieme, si presenta essenzialmente come teoria e pratica storiografica. Voglio dire che, per quanto fuori dell’Italia l’impatto di Croce sia quasi esclusivamente limitato all’ambito estetico, la sua opera si fonda essenzialmente su una preoccupazione epistemologica che assume la Storia a costante punto di riferimento; di conseguenza, sarebbe limitativo fondare un parallelo Croce-Pasolini unicamente su coordinate estetiche. Se ci poniamo in una prospettiva epistemologica, allora, non possiamo esimerci dal riconoscere che l’idealismo di Croce si presenta innanzitutto come «storicismo assoluto», in quanto «è una diretta prosecuzione della filosofia hegeliana della storia, assunta come base di una fede religiosa nell’immanenza dello spirito del mondo» (Rossi, 1957, p. 342), particolarmente avversa a qualsiasi forma di trascendentalismo10. Viceversa, come vedremo meglio nell’analisi della articolistica del periodo 1942-43, Pasolini elabora una nozione di ‘storia’ che, lungi dall’essere ‘assoluta’, incorpora in sé una dimensione metastorica, cioè una determinante e antisistematica tensione verso il sacro. Per quanto dunque nelle prime produzioni Pasolini si dimostri crociano nel mantenere la sfera artistico-culturale al riparo da intrusioni politiche11, allo stesso tempo il suo discorso intellettuale recupera una dimensione che è sconosciuta e aliena al pensiero di Croce.

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Si veda la lettera a Tatiana del 17 agosto 1931 (Gramsci, 1968a, p. 466). Per un’esauriente analisi delle suggestioni crociane in Gramsci si vedano i capitoli XIII e XIV in Setta (1979, pp. 157-95) e, più recentemente, in Garin (1997, pp. 107-24). 10 Nel primo capitolo di Storia d’Europa del secolo decimonono (testo del 1932), intitolato «La religione della libertà», Croce espone la sua nozione hegeliana di storia come storia della libertà; nel secondo capitolo («Fedi religiose opposte») egli oppone il suo storicismo immanentistico al trascendentalismo cattolico e, di seguito, agli ideali «assolutistico, […] democratico e […] comunistico» (Croce, 1972, p. 39). 11 Peraltro, Brevini (1981b, p. 32) sostiene che il Pasolini dei primi anni ’40, come gran parte degli intellettuali piccolo-borghesi del tempo, aveva già superato le distinzioni crociane tra storia, poesia e politica.

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L’incidenza dell’ambito sacrale si può anche misurare sulla fascinazione pasoliniana per la pittura e, in generale, per l’arte. Innanzitutto, è inevitabile segnalare l’importanza del corso universitario di ‘Storia dell’arte’ tenuto da Roberto Longhi12 sul finire degli anni ’30 e frequentato entusiasticamente dal giovane Pasolini (cfr. DD, p. 251). È verosimilmente in seguito alla folgorazione longhiana13 che Pasolini sviluppa la sua passione per la pittura: nel 1940, in Friuli, fa da apprendista all’amico pittore sanvitese Federico De Rocco e nell’estate del 1941 dichiara di aver già dipinto «15 quadri, in cui sono migliorato immensamente» (L, I, p. 122). Più tardi, confermerà di avere avuto «una formazione di fondo pittorica» (Magrelli, 1977, p. 70). Per questi anni universitari, credo che il nome di Longhi debba subito essere accostato a quelli di Gianfranco Contini14 e Francesco Arcangeli. Se l’influenza del primo è più che nota, da non trascurare è anche il ruolo di Arcangeli, assistente di Longhi, che divenne presto buon amico di Pasolini (cfr. Serra, 1985b) e lo introdusse all’attività giornalistica sulla rivista «Architrave» (cfr. Ricci, 1977, p. 10; Trento, 1992). In particolare, come sottolinea F. Galluzzi (1994, p. 100), è attraverso la mediazione di Longhi, Contini e dello stesso Arcangeli che il giovane Pasolini comincia a maturare una «concezione sacrale della tecnica», attraverso cui l’esercizio artistico apre, in termini teorici, un contatto con il campo dell’irrazionale. Il tema della sacralità della tecnica era infatti già manifestamente implicito nelle teorizzazioni estetiche dei ‘maestri’ pasoliniani. Come ha sottolineato Renato Barilli (1976), Longhi e Arcangeli promuovevano in quegli anni uno stile pittorico in grado di consegnare al mondo fenomenico, alla natura, una valenza sacra e sensualistica; in modo analogo, la riflessione sul sacro lascia un segno anche nella critica di Contini che, ad esempio, nel saggio «Introduzione alle rime di Dante», del 1939, parla di tecnica come «cosa dell’ordine sacrale» (Contini, 1976, p. 6). Le nozioni chiave che Pasolini eredita, durante il periodo universitario, da questo intreccio di frequentazioni, sono quelle di ‘contaminazione’ (o ‘pa-

12 Pasolini inizialmente preparò una tesi di laurea di storia dell’arte con Longhi. I primi capitoli di questa tesi furono poi smarriti durante la fuga da Pisa (dove Pasolini frequentava un corso di Allievi Ufficiali per il servizio militare), seguita all’armistizio dell’8 settembre (cfr. Naldini, 1986, pp. lii-liii). 13 Per qualche ragguaglio sul metodo e stile di R. Longhi si veda Raimondi, 1990; Briganti, 1982, p. 37. 14 Contini dedicò importanti studi a Longhi (cfr. Contini, 1972). Pasolini riconobbe che proprio attraverso la sua assidua frequentazione di Contini, Longhi gli si rivelò come «vero maestro» (DD, p. 251). Pasolini cominciò molto presto a leggere i saggi di Contini; se ne ha prova nelle frequenti citazioni della prima articolistica, e nel carteggio tra i due (cominciato nel 1943, cfr. L, I, p. 166). In «Al lettore nuovo» (Poesie, p. 6), poi, Pasolini afferma che già in seconda liceo era entusiasta lettore di Longhi.

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stiche’)15 e ‘manierismo’, entrambe accepite in direzione modernista e espressionista (cfr. Galluzzi, 1994, pp. 97-102)16 e insieme funzionali all’intuizione dell’intima complicità tra l’arte e il sacro. Prima di analizzare l’utilizzo pasoliniano dei termini ‘contaminazione’ e ‘manierismo’, conviene osservare come il giovane critico si ponga nei confronti dell’arte moderna. Possiamo a questo proposito recuperare i pochi scritti sull’arte del 1943, comparsi sulla rivista «Il setaccio». In uno di essi, dal titolo «Commento a uno scritto del Bresson», Pasolini difende la pittura di modernisti italiani come Scipione, Mafai, Guttuso e Birolli, sottolineando il loro legame non solo con Van Gogh, ma anche con l’espressionista Kokoschka (cfr. «Il setaccio», p. 89). Altrove («Personalità di Gentilini», «Il setaccio», pp. 72-3; «Giustificazione per De Angelis», «Il setaccio», pp. 86-7), emerge piuttosto nettamente la propensione per un realismo pittorico abdicante da intellettualismi e da astrattismi (di Gentilini l’autore critica a più riprese il «cerebralismo», i «concettualismi» e, appunto, «l’intellettualismo», «Il setaccio», p. 73) e tendente a una semplicità, «ad una primitività e ad una freschezza» che, lungi dal farsi portavoce della retorica fascista, siano «cariche invece di una confusa e opaca malinconia» («Il setaccio», p. 87). Le simpatie del critico Pasolini vanno dunque a una pittura moderna che rappresenti la realtà in una dimensione tendenzialmente originaria e primitiva, a-concettuale: recuperando questa dimensione, infatti, la pittura può generare un sentimento di incertezza esistenziale. Non è un caso che la polemica del già citato articolo sul critico francese Bresson abbia come oggetto la rivalutazione di quei giovani pittori italiani che, comunicando un senso di «ricaduta» e di «crisi», si dimostrano «ben lontani da quell’aria di olimpica, lieta sicurezza» («Il setaccio», pp. 89-90) che invece sembra contraddistinguere i modernissimi francesi. Questo gusto estetico, fondato su una nozione di realismo intrisa di sacralità e insieme intimamente tormentata, viene riproposto in modo simile nella critica letteraria dello stesso periodo, come vedremo nel seguente sottocapitolo. Il recupero del sacro gioca un ruolo centrale anche nella determinazione pasoliniana dei concetti di ‘contaminazione’ e ‘manierismo’. Per il primo termine, tale recupero si può già cogliere in una delle prime Poesie a Casarsa,

15 L’amico pittore Giuseppe Zigaina ha fatto notare che lo stile del Pasolini disegnatore fu immediatamente dominato dal ‘pastiche’ (cfr. Zigaina, 1995). 16 Questa predisposizione pasoliniana porta a qualche discordanza con Arcangeli, che in quegli anni critica la radice malata dell’arte moderna in pittori quali Gauguin, Van Gogh, o, in Italia, Guttuso e Bartolini (cfr. Trento, 1992, in cui si riporta anche un interessante scambio epistolare tra Pasolini e Arcangeli del 1942). Tuttavia, dobbiamo supporre che fosse stato proprio Arcangeli, negli anni universitari, a guidare Pasolini nei meandri dell’arte contemporanea, data l’inavvicinabilità di Longhi. Perdipiù, il rapporto Pasolini-Arcangeli continuò nel tempo (cfr. L, I, pp. 146, 234, 236, 348, 355). D. Trento (1990, p. 94) ha notato una notevole somiglianza stilistica tra la prosa di Pasolini e gli scritti di Arcangeli.

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(«Per il ‘David’ di Manzù», Best, II, p. 1196), dove il David realizzato dallo scultore Giacomo Manzù nel 1938 trapassa, realizzando il ‘pastiche’, nello stereotipo letterario del fanciullo friulano, e viene quindi fissato in immagine mitico-erotica attraverso il riferimento alla macellazione di un toro. Galluzzi (1993) ha poi esaurientemente dimostrato, attraverso il raffronto di un articolo pasoliniano dal titolo «La luce e i pittori friulani» (Pasolini, 1947a), e uno stralcio da Amado mio, che quella della ‘contaminazione’ è una categoria utilizzata dall’autore come strumento di dilatazione semantica, diretta a una rappresentazione del reale più autentica, ovvero, secondo l’accezione di Pasolini, legata al sacro, all’ineffabile. Similmente, il termine ‘manierismo’, in quanto rielaborato da Pasolini attraverso Longhi, Contini e Arcangeli, sembra condurre direttamente a una sorta di sacralizzazione del reale più ‘basso’ e ‘umile’. Sul ‘manierismo’ di Pasolini si sono espressi in molti, tra cui Citati (1959), Fortini (1974), Vallora (1976), senza peraltro cogliere appieno quella che credo sia la sua fondamentale connotazione ideologica. Per prima cosa osserviamo come Pasolini stesso, nell’opera critica e creativa, abbia più volte riflettuto sulla parola ‘manierismo’, sovente ricordandolo in relazione al periodo universitario. Pensiamo per esempio ai versi del poema «La Guinea», datato 1962, in cui il poeta conferisce chiaramente al termine una riverberanza sacrale; egli definisce infatti «sacri / i più comuni, i più inutili, i più inermi / aspetti della vita: quattro case / di pietra di montagna, con gli interni / neri di sterile miseria [...]», aggiungendo subito appresso che una simile connotazione riconduce al «gusto / del dolce e grande manierismo / che tocca col suo capriccio dolcemente robusto / le radici della vita vivente: ed è realismo...» (Best, I, pp. 602-3). In modo sostanzialmente analogo, in un paragrafo del racconto «Rital e Raton», del 1965, troviamo un «come nei pittori manieristi» (RR, II, p. 872) che chiude la descrizione, in chiave tipicamente sacrale, di un ragazzo romano di borgata. Ora, questo connotato di sacralità caratterizzante l’accezione pasoliniana di manierismo, si è evidentemente formato durante l’apprendistato universitario, come suggeriscono alcuni tardi testi critici dell’autore. Recensendo il romanzo di Anna Banti dal titolo La camicia bruciata, Pasolini, nel 1973, ricollega la «scrittura manieristica della Banti» alla lezione pittorica di Longhi degli anni bolognesi, segnalando quindi come caratteristica dominante, e assolutamente positiva, di questo manierismo, la sua componente atemporale: «una preziosa fermezza, una immobilità e una doratura che bloccava lo scorrere del tempo» (DD, p. 124). Altrove, descrivendo la prosa di Bassani (come la Banti allievo di Longhi) ci dice che tale prosa non esisterebbe se non si coagulasse in quella sublime patina dei quadri che più amava Longhi [...]. Il mondo esterno, in tale patina, appare come levigato, brunito, allontanato, immerso in una immobile bruma o in una assorta luce, in cui tutto non può che essere assoluto. Tuttavia ogni cosa, fatto, persona, paesaggio che in tale prosa trovi la sia cristallizzante stilizzazione, viene assunta dal lettore come perfet-

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tamente reale. Il back-ground delle tavole di Bassani gronda di realtà, e di dolorosa, grandiosa realtà. (DD, pp. 347-8)

Qui il concetto di ‘cristallizzazione stilistica’ (su cui, come vedremo nel cap. 4, Pasolini tornerà verso la fine degli anni ’50, annotandolo da un saggio di Adorno), qualifica ancora in chiave sacrale, assoluta, il riferimento pasoliniano allo stile manieristico. Come già nei versi sopracitati da «La Guinea», Pasolini, attraverso la mediazione di Longhi, interpreta dunque originalmente (quasi stravolge) la nozione tradizionale di ‘manierismo’: il termine non è più inteso come sinonimo di finzione antinaturalistica, ma acquista un valore massimamente realistico, e ciò proprio, paradossalmente, attraverso la sua connotazione sacrale. Da ricordare, a questo proposito, che fu proprio la scuola longhiana a cominciare un’importante opera di revisione storiografica del termine ‘manierismo’17, per cui esso, nella parole di Arcangeli, assume un significato affine alla poetica della «tradizione passata attraverso il filtro della tradizione» che Pasolini veniva in quegli anni elaborando (cfr. «Il setaccio», p. 69): «[...] sento invece che i grandi manieristi furono anticlassici cresciuti all’ombra, per loro necessità, del classicismo [...]. Spiriti la cui inquietudine aveva bisogno di una prigione, di limiti da storcere, da esasperare; ma non da rinnegare e sovvertire mai [...]» (Arcangeli, 1946). L’inquietudine del manieristi verrà poi ribadita da Longhi stesso, nel saggio «Ricordo dei manieristi», del 1953; un saggio che Pasolini quasi sicuramente lesse mutuando da esso il titolo di un suo famoso poema, «Una disperata vitalità» (cfr. Best, I, p. 726). Longhi difende infatti il fenomeno culturale del manierismo in quanto caratterizzato da un elemento di protesta di tipo fondamentalmente esistenzialistico, in quanto cioè portavoce della «disperata ‘vitalità’ di una crisi, che, [...] non mancò di dar segni frequenti di insoddisfazione, alludendo così ad un probabile punto di rottura e, di lì, a un possibile ricominciamento» (Longhi, 1982, pp. 733-4). Queste ultime righe di Longhi sviluppano una nozione di ‘manierismo’ che credo abbia giocato un ruolo non trascurabile sulla formazione intellettuale di Pasolini, come del resto testimonia il suo interessamento alla pittura negli anni bolognesi. La riflessione sul manierismo, e in generale sull’arte pittorica, contribuiscono all’emergere, nell’orizzonte poetico-intellettuale dell’autore, di una concezione di ‘realismo’ che si fonda sul riconoscimento di una radice sacra, e dunque aconcettuale, agente a livello di esistenza ‘bassa’ e ‘umile’. Tale elemento sacrale agisce come elemento di rottura e di sospensione della concezione ontologica del senso, favorendo, nelle parole di Longhi, «un possibile ricominciamento», cioè una ripresa e ricostruzione del discorso ideologico. Attraverso la pittura,

17 Dopo una prima fase di ricerche incentrate soprattutto sul rapporto tra ‘manierismo’ e arte classica, verso la metà degli anni ’40 viene pubblicato uno studio di Giuliano Briganti che rappresenta a tutt’oggi un punto di riferimento critico fondamentale (cfr. Briganti, 1945).

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in definitiva, Pasolini comincia a intravedere la possibilità di aprire un discorso etico in relazione al recupero di un dato reale (cioè concretamente esperibile) che al contempo si articoli come pratica conoscitiva tra la ragione e il nonrazionale. 1.1.2a Carlo Alberto, Guido e il fascismo Fallito il progetto Eredi, Pasolini di lì a poco trasferisce la riflessione sul concetto di tradizione in alcuni articoli scritti durante il periodo bolognese per «Architrave»18 e «Il setaccio»19, i fogli del GUF (Gruppi Universitari Fascisti) e della GIL (Giovani Italiani del Littorio) che, sotto la tutela di Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione, fornivano a molti giovani intellettuali la possibilità di intervenire piuttosto liberamente su questioni di ampio respiro culturale. La dimensione politica, come vedremo, viene solo sfiorata da Pasolini, e la questione del suo rapporto con il fascismo rimane di difficile interpretazione. Generalmente si riconosce al primo Pasolini un antifascismo di tipo culturale, soprattutto in virtù di alcune tarde testimonianze in cui l’autore confessa una sua ingenua acquiescenza nella società fascista, a cui sarebbe subentrata, attraverso le prime letture, un più netto e cosciente rifiuto: Qualsiasi cosa scoprissi e amassi era allora tenuta sotto silenzio, o schiettamente messa al bando dai fascisti: Rimbaud, i poeti simbolisti, ermetici, i grandi autori drammatici… La mia reazione nei riguardi del fascismo si manifestò dunque attraverso una passione per tutta la cultura che esso passava sotto silenzio. (Duflot, 1993, p. 26) 18 «Architrave» visse tra il 1940 e il 1943, con numerosi cambiamenti nella direzione e nella redazione, pubblicando una serie di articoli dedicati soprattutto all’ermetismo e a questioni relative alla cultura universitaria. Il fondatore del foglio fu Roberto Mazzetti, un corporativista di sinistra di formazione bottaiana, la cui principale preoccupazione teorica era l’inserimento delle masse nelle strutture dello stato. Ma già nella primavera del 1942, a seguito della sconfitta in Libia e degli insuccessi dell’Asse, i collaboratori di «Architrave» (tra cui Ugo Betti, Enzo Biagi, Guido Aristarco, Oreste Macrí), per quanto di estrazione fascista, cominciano a pubblicare articoli in aperta opposizione a Mussolini e al fascismo di sinistra. 19 «Il setaccio» uscì in sei numeri dal novembre del 1942 al maggio del 1943. Pasolini faceva parte del comitato di redazione nelle vesti di vice-consulente, e collaborava con scritti critici e disegni; il direttore era il poeta Giovanni Falzone. Il destino della rivista, nelle parole di Luigi Martellini «s’identificava con la preoccupazione da parte del regime di assorbire certi fermenti culturali strumentalizzandone poi i contenuti. I risultati erano alquanto equivoci, poiché da un lato si esprimevano tendenze in opposizione al regime, le quali tendenze dall’altro non convincevano per le linee di comportamento portate avanti dallo stesso fascismo non necessariamente in conflitto con la tradizione del pensiero e della cultura liberale». Certamente risulta difficile, in questo contesto, parlare di vero e proprio antifascismo; tuttavia non vi sono dubbi che su «Il setaccio», in un periodo critico per il regime, compaiono limpide testimonianze «di insoddisfazione verso il potere istituzionale del fascismo» (Martellini, 1993, pp. 16-7). Per un’analisi più approfondita cfr. Ricci, 1977.

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Pensi a un giovane di 16-18 anni, nel fascismo imperante, che non aveva nessuna possibilità di diventare antifascista; privo di mezzi per uscire da quel circolo chiuso in cui era nato e cresciuto; a meno che non appartenesse a una famiglia di antifascisti, ma questo non era il mio caso. [...] Io ho percorso le due strade che sole potevano portarmi all’antifascismo: quella dell’ermetismo, cioè della scoperta della poesia ermetica e del decadentismo, ossia in fondo del buongusto (non si poteva essere fascisti per ragioni di gusto, anche se questo è un modo molto irrazionale e assurdo e a-ideologico di essere antifascisti), e, seconda, quella che mi portava a contatto col modo di vivere umile e cristiano dei contadini, nel paese di mia madre, modo che esprimeva una mentalità totalmente diversa dallo stile fascista. (Camon, 1973, pp. 95-6)

Mi pare che l’attendibilità di queste affermazioni debba essere vagliata molto attentamente. Cominciamo allora con l’osservare che Pasolini effettivamente nacque e crebbe nella società fascista20, e che la sua educazione dipese dal contatto con le istituzioni del regime. Gli impegni all’interno di GIL e GUF, la frequentazione della Casa del Soldato, la partecipazione ai littoriali 21, o anche l’obbligo di sostenere un esame universitario di ‘Cultura militare’ (cfr. Anto, p. 241; L, I, p. 67), sembrerebbero dunque giustificare ampiamente i suoi peraltro saltuari abbandoni all’enfatica retorica di regime, improntati sul mito della giovinezza, dello sport e della guerra (cfr. L, I, pp. 42, 67, e passim). Il binomio ‘sport-cultura’, esaltato dall’istituzione dei littoriali, costituiva senza dubbio un chiaro «riferimento ideo-mitologico» (Lazzari, 1979, p. 54) per la formazione del consenso tra i giovani studenti, costringendo l’ideale classico della mens sana in corpore sano nel mussoliniano ‘libro e moschetto’. È peraltro ipotizzabile che la sovrastruttura istituzionale-educativa dal fascismo non sempre fosse in grado di agire in profondità. In effetti, molti giovani intellettuali sfruttarono la natura astratta di un progetto come i littoriali per divulgare sentimenti coscientemente antifascisti, o comunque per esprimere posizioni eterodosse, per quanto sia impossibile trovare prove di ciò su una stampa che dalle leggi eccezionali del 1925 subiva un controllo politico sempre più asfissiante. Tra i non pochi testimoni, Vittorio Sereni, Giuliano Manacorda e Giaime Pintor hanno ricordato che i littoriali finirono per trasformarsi in un momento di confronto relativamente aperto tra i giovani intellettuali, favorendo in alcuni casi il corroborarsi di tendenze antifasciste (cfr. Lazzari, 1979, pp. 20 Il 1922, l’anno in cui nacque, è anche l’anno della marcia su Roma; il padre Carlo Alberto, com’è noto, era ufficiale fascista. 21 Nel 1941 Pasolini partecipa, classificandosi al primo posto, ai pre-littoriali di critica stilistica, ma con suo «grande livore» (L, I, p. 39) deve poi rinunciare ai littoriali di San Remo, sospesi per l’imminente mobilitazione bellica. I littoriali rappresentano perfettamente l’ampio progetto fascista di inquadramento e manipolazione degli studenti universitari. Al 1932 risale l’istituzione del littoriali dello sport, al 1934 quella di arte e cultura; dal 1935 essi furono aperti anche ai giovani non universitari iscritti ai Fasci Giovanili di Combattimento. Si trattava di vere e proprie Olimpiadi di sport e cultura che durarono fino al 1940, articolandosi secondo una scelta di discipline che si fece più composita di anno in anno.

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81-109). Per comprendere se Pasolini appartenesse o meno a questo gruppo d’intellettuali occorre valutare alcuni significativi documenti. Come primo approfondimento sulla relazione di Pasolini con il fascismo storico, viene quasi spontaneo pensare sia a Carlo Alberto Pasolini, il padre ufficiale fascista, che a Guido Pasolini, il fratello morto da partigiano22. Vorremmo infatti chiederci fino a che punto Pasolini fosse consapevole della dimensione politica rappresentata da queste due figure. Nel caso del padre, il discorso è evidentemente assai complesso. 23 Innanzitutto, non si registra, durante gli anni della guerra, alcuna dichiarazione epistolare che lasci intravedere l’ostilità pubblicamente espressa da Pasolini dopo la sua morte (e entrata ormai nella mitologia edipica del personaggio); piuttosto, Pasolini mostra apprensione per le sorti del padre in guerra (cfr. L, I, pp. 42, 45; «Il setaccio», p. 81) e gli dedica Poesie a Casarsa (cfr. Best, II, p. 1127), la sua prima raccolta di versi. Sul motivo di questa dedica Pasolini tornò nel «Poeta delle Ceneri», lungo poema autobiografico del 1966-67. Qui egli spiega che la dedica era stata apposta «per conformismo», aggiungendo che essa doveva suonare paradossale se quei versi erano stati scritti in un dialetto friulano che, in quanto appunto dialetto, il padre nazionalista disprezzava per partito preso (cfr. Best, II, pp. 2057-8); poco oltre, però, troviamo un significativo passaggio: Questo del fascismo è un alibi, con cui pure giustifico il mio odio, ingiusto, per quel povero uomo: e devo dire tuttavia ch’è un odio, orrendamente misto a compassione. Ora che ho immeritatamente quarantaquattro anni, circa l’età che lui aveva al tempo delle mie prime poesie, lo vedo fuori dalla mia storia, in una vicenda che mi è totalmente estranea, in cui io sono un colpevole eroe oggettivo. Perché devo ricordare che, col mio amore iniziale per mia madre, c’è stato un amore anche per lui: e dei sensi. (Best, II, p. 2059)

Qui emerge indubbiamente qualcosa di nuovo: Pasolini avrebbe scaricato sul padre, attraverso l’alibi del fascismo, un sentimento d’odio in realtà assai

22 Guido Pasolini alla fine del maggio 1944 si unisce alle formazioni partigiane della divisione Osoppo-Friuli che agivano nelle Alpi Carniche. Muore il 12 febbraio 1945 a Navacuzzi (Prepotto), una località in provincia di Udine, ucciso da partigiani italiani della Divisione Garibaldi passati sotto il comando dei partigiani sloveni che combattevano per annettere i territori friulani alla Slovenia di Tito. La notizia ufficiale della morte di Guido arriverà solo a guerra conclusa, alla fine di maggio dello stesso anno. 23 Gian Carlo Ferretti è stato il primo a approfondire il tema del ‘padre’ nell’opera di Pasolini, proponendo una lettura tematica in cui tutta l’opera viene divisa in un primo ‘periodo materno’ e un secondo (dal 1960) ‘periodo paterno’ (cfr. Ferretti, 1985).

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contraddittorio di cui solo ora acquista piena coscienza24. Tra i termini padre e fascismo s’insinuerebbe dunque una decisiva differenza semantica in grado di scardinare l’equivalenza tra ‘autorità paterna’ e ‘autorità fascista’. Approfondendo il discorso sul significato dell’immagine del ‘padre’, Robert Gordon (1996, pp. 161-83) ha confermato come essa, se si esclude il periodo friulano, ricorra sistematicamente nell’opera pasoliniana assumendo una chiara connotazione simbolica di ‘potere’, o appunto ‘autorità’. Se a questo punto, in conformità con il taglio di questa ricerca, risolviamo il nesso ‘padre’-‘autorità’ in chiave teoretica, tale nesso assurge evidentemente a simbolo di una pienezza ontologica insieme agognata e rifiutata da Pasolini; pienezza che dobbiamo solo trasporre nell’equivalente, e ugualmente contrastata, immagine della ‘tradizione’, per capire che essa occupa già dal periodo formativo un ruolo centrale nella sua formazione intellettuale. In questo senso, l’opposizione ‘tradizione’‘antitradizione’ si traspone senza soluzione di continuità nell’altrettanto fertile coppia oppositoria ‘padri’-‘figli’. Ma poiché, sulla base dei documenti, l’ipotesi della complicità tra questa precoce immagine, assai complessa, del padretradizione e quella del fascismo storico non sembra proponibile nel primo Pasolini, difficilmente ci è possibile ricondurre l’immagine che l’autore doveva avere del fascismo stesso a categoria simbolica e ontologica del ‘potere’. In altre parole, è probabile che negli anni in questione si verificasse uno scarto, piuttosto sospetto, tra una coscienza psicologico-culturale assai articolata e una coscienza politica pressoché inesistente, o comunque allo stato larvale: lo sviluppo intellettuale di Pasolini, evidentemente, non intendeva approfondirsi in direzione direttamente politica. Per quanto riguarda il rapporto con il fratello Guido, la situazione mi pare ugualmente densa di significati. Le dichiarazioni del Pasolini maturo, anche in questo caso, devono essere prese con circospezione. Se infatti non si può dubitare l’autenticità del dolore frequentemente espresso in memoria del fratello defunto, non è altrettanto facile comprendere che cosa la morte di Guido abbia per lui realmente rappresentato. Quando su «Vie Nuove», nel 1961, scrive di averlo «convinto all’antifascismo più acceso» (BB, p. 110), Pasolini omette, però, quello che invece mi pare traspaia da alcuni scambi epistolari dell’epoca, e cioè una sorta di disagio nel rapportarsi a chi aveva compiuto una scelta radicalmente diversa dalla sua. Guido stesso, da quel poco che conosciamo della sua corrispondenza, è il primo a fornirci qualche prova del ‘disagio’ del fratello. In una lettera del 5 maggio 1944, Guido comunica al padre prigioniero in Kenia di non poter, a differenza di un Pier Paolo che invece è «tranquillo a casa», tenersi estraneo alle vicende politiche, proseguendo così: «Pier Paolo fa il possibile per tenermi a freno ed in questa sua generosità (sono convinto che lo fa unicamente per evitare dispiaceri alla mamma) lo ammiro e sento di voler-

24 Una conferma di questa ritrattazione dell’ostilità verso il padre si trova in Duflot (cfr. 1993, pp. 8-10).

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gli molto bene, purtroppo molte volte mi lascio trascinare dalla passione» (L, I, pp. lv-lvi). Partito per le montagne alla fine di maggio, Guido scriverà ancora, questa volta alla madre: «Il mio pensiero torna per una strana fissazione a Pier Paolo; anche nei giorni passati ho pensato a lui intensamente… che cosa fa? Perché non mi scrive mai? Alle volte mi ossessiona l’idea che lui pensi a me con una certa amara ironia: ne rabbrividisco…» (L, I, p. lxii). C’è poi una lunga lettera datata 27 novembre 1944, in cui Guido ragguaglia dettagliatamente il fratello sulla situazione bellica al confine tra Friuli e Slovenia (quelli che saranno poi ricordati come ‘I fatti di Porzùs’), affinché egli possa contribuire alla causa con alcuni articoli o poesie per il nuovo giornale dei resistenti friulani. A parte l’importanza storica di questo documento, è da notare innanzitutto che qui Guido comunica con entusiasmo al fratello di aver aderito al Partito d’Azione includendo una copia del programma politico; subito dopo la morte di Guido, Pasolini scrive a Serra confidandogli che, «spinto da queste circostanze» (L, I, p. 201), si era anche lui iscritto al medesimo partito. Ma, soprattutto, occorre aggiungere che sia l’incipit che la conclusione della lettera confermano quanto dicevamo sul ‘disagio’ e la sostanziale ‘distanza’ tra i due fratelli: «quanto ti scriverò in questa lettera ti stupirà moltissimo. ‘Ma io non centro!’ dirai alla fine facendo uno sconsolato gesto con le mani…» (L, I, p. lxiii); «Naturalmente tutta questa tirata ti ha annoiato moltissimo ma è bene che tu sappia com’è la situazione, […]. Comprendo perfettamente che molto probabilmente tu non avrai né tempo né voglia di compilare gli articoli su accennati comunque se hai intenzione di farli: falli al più presto […]» (L, I, p. lxviii). A questo punto, indipendentemente dal fatto che Pasolini con ogni probabilità non esaudì la richiesta del fratello25, diventa fin troppo evidente come tra i due vi fossero chiare divergenze circa il problema della compromissione storico-politica. Se la passione di Guido, che pure ammirava l’intelligenza e l’attività letteraria del fratello26, è totalmente rivolta alla ‘storia’, Pasolini cerca coscientemente di non compromettersi con il fascismo e con gli eventi bellici27.

25 Sappiamo solo che prima della richiesta del fratello, Pasolini gli aveva inviato una poesia che, nelle parole di Guido, «ha interpretato straordinariamente il mio stato d’animo di certe giornate ventose raddolcite dal sole» (L, I, p. lxiii). Bandini (1978, p. 20) sostiene che quegli articoli non furono mai scritti da Pasolini. 26 L’atteggiamento di profonda ammirazione si legge facilmente nelle citate lettere di Guido, e viene confermato dallo stesso Pasolini (cfr. L, I, p. 201). 27 Pasolini racconta di aver cercato di convincere il fratello «a restarsene nascosto a Versuta, come poi ho fatto io per un anno» (L, I, p. 199). Nell’epistolario, i riferimenti storici si limitano a sfoghi piuttosto di maniera quali: «La guerra puzza di merda. Gli uomini sono così stomacati che si metterebbero a ridere, e direbbero ‘non vale!’ Ma aspettano, non so che cosa: che si stacchi il marcio. Marcio ce n’è poco, ma puzza come la merda. E io me ne vado a spasso per i campi vuoti, con qualche primoluccia qua e là […]. Solo, vado per i campi, e cammino cammino, dentro il Friuli vuoto e infinito. Tutto puzza di spari, tutto fa nausea, se si pensa che su questa terra cacano quei tali [i tedeschi]» (L, I, p. 190). In «Quello lì è il mio padrone», un elzeviro del 1947

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Nel 1946, in una lettera a Silvana Mauri, confesserà: «Nel ’44, cioè nel pieno della guerra io avevo finito col non credere più a nulla che non fosse l’hic et nunc del mio esistere, avevo finito coll’attribuire un’importanza immensamente più grande a una mia unghia che a qualsiasi altra entità che si trovasse fuori di me» (L, I, p. 263). In conclusione, sia il rapporto con il padre che quello con il fratello durante gli ultimi anni del ventennio sembrerebbero indicare inequivocabilmente una condizione di volontaria passività di Pasolini nei riguardi del fascismo e della storia. Passando ora alla prima articolistica pasoliniana, cercheremo di verificare se questa passività sia riscontrabile anche al livello della riflessione teorica. 1.1.2b L’articolistica: iscrizione dell’utopia L’esperienza giornalistica di Pasolini in seno alle riviste delle organizzazioni giovanili fasciste si svolge su due distinti ma comunicanti livelli. Si tratta di contributi di critica letteraria fondati su considerazioni di natura esclusivamente estetica, e di un minor numero di scritti che con Ricci (1977, p. 26) definiremmo di «carattere critico-ideologico», nei quali Pasolini affronta esplicitamente tematiche morali. La differenza, a un’analisi più ravvicinata, risulta essere sottile ma determinante, anticipando fedelmente lo schema dell’attività critica del primo Pasolini romano. Così come farà nei primi anni ’50, infatti, il Pasolini bolognese giunge a sviluppare una riflessione di carattere etico partendo da un punto d’osservazione tipicamente letterario. Ricci ha peraltro già evidenziato i maggiori limiti dei primi contributi del Pasolini intellettuale, sottolineando come tutti i giovani letterati che si muovevano intorno alle redazioni dei fogli fascisti fossero sì animati dal medesimo spirito anticonformista, ma insieme anche viziati da una quasi totale cecità di fronte alla portata storica degli eventi socio-politici in svolgimento attorno a loro; se dunque alla base c’era l’intuizione di un «disagio» che portava questi giovani a cercare «di uscire dalle strettoie della propaganda […] nell’illusione di poter modificare strutture e ruoli di una società chiusa, politicamente ottusa», l’operazione si attuava «ad un livello di protesta che raramente scalfiva l’ortodossia» (Ricci, 1977, p. 8). Confermando questa lettura, Brevini sostiene che proprio da questo disagio nasceva il «cosiddetto fascismo critico o di sinistra» (1981b, p. 31). (cfr. Primule, pp. 144-5), Pasolini ricorda come durante un bombardamento del 1944, quando «mio padre era in prigionia nel Kenia» e «mio fratello era sulle montagne coi Patrioti», la sua concezione degli eventi bellici fosse ingenua («ci pareva candidamente uno stato provvisorio, una svista del nostro millenario dio familiare») e finanche estetizzante («[…] i particolari di quel bombardamento hanno per me qualcosa di gioioso […] così lo stranissimo prolungarsi del mitragliamento […] quella nostra corsa ardente per la piazza vuota […]; la visione, dai gradini del campanile, delle volute di fumo massiccio originate, contro l’arido azzurro, da quegli scoppi che null’altro erano se non fiati di fuoco, spaventosi sbadigli che saettavano ventagli di fiamme […]»).

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Capitolo primo

I limiti che determinano il fallimento di una diretta apertura alla storia emergono con chiarezza dagli scritti critici di Pasolini. Anzi, proprio nell’assenza di una misura propriamente ‘politica’, questi scritti sembrerebbero mostrare il loro lato più clamorosamente crociano, se è vero che fin dopo la caduta del fascismo il filosofo aveva solennemente insistito nel tener separate le sfere della ‘cultura’ e della ‘politica’ (cfr. Setta, 1979, p. 157). Tuttavia, mi pare lecito sottolineare una serie di tensioni interne a questi scritti che, per quanto ancora operanti in latenza, scardinano il crocianesimo di Pasolini, anticipando le prese di posizioni ideologiche degli anni ’50. Se la storia è ancora un fantasma, e l’ideologia un problema coltivato in una dimensione aristocratica, bloccato nella presunzione di un ‘io’ ancora ampiamente autosufficiente, allo stesso tempo in queste prime prove saggistiche si sentono già alcuni motivi cruciali per comprendere il percorso ideologico a venire. Gli scritti di Pasolini di tipo tendenzialmente critico-ideologico sono cinque, quattro ospitati da «Il setaccio» e uno da «Architrave». Il primo a comparire su «Il setaccio» risale al novembre 1942 e porta il titolo di «I giovani, l’attesa». Questo articolo ci offre uno spaccato della sensibilità intellettuale del ventenne letterato, nel senso che da esso emana una permeante pulsione esistenzialistica fondata sul riconoscimento di una condizione di umile, sofferto, e ansioso disagio. La voce narrante, contravvenendo al mitologhema fascista della giovinezza, allude allo stato di crisi di una generazione che sente la propria mancanza di libertà28 ma non è in grado di opporvi rimedio: «Abbandonata senz’altro la facile pompa di una giovinezza intesa come gagliardia o fresca prepotenza, ci ritroveremo dispersi e umili, in mezzo alla folla che ci soverchia. […] muoviamo verso il futuro e apriamo le nostre voci, ma chiudendo gli occhi, abbandonandoci, come presaghi della vana fatica e della fine» («Il setaccio», p. 49). La sola àncora di salvezza diventa appunto la consapevolezza di una crisi («unica certezza in questo stato d’attesa è la nostra ansia che ci macera») che conduce a riporre le poche speranze in una ricerca e in un approfondimento interiore che «dovrà svolgersi in solitudine», e che avrà come unico punto di riferimento la «viva aderenza alla vita vera». Senza dubbio, ci troviamo qui di fronte a un Pasolini particolarmente disarmato dal punto di vista ideologico, ma anche consapevole della necessità di aderire a un sentimento di crisi che, assai significativamente, nasce da un rapporto contraddittorio e ambivalente con i ‘padri’: «prima di essere degni delle nostre speranze, dovremmo segreta-

28 Nazario Sauro Onofri (1949, p. 189) ha scritto: «Senza saperlo questi giovani cercavano la libertà. Soffocati dalla macchina burocratica del regime, essi sognavano un piccolo spazio privato per pensare e parlare in libertà. […] gli studenti soffrivano per la mancanza di libertà, anche se non tutti sapevano esattamente quello che desideravano o la causa di quel male oscuro che li turbava. Sia pure inconsapevolmente, la nuova generazione contestava quella vecchia. I figli contestavano i padri, ma sempre all’interno del sistema […]».

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mente patire in intensità tutte le distese esperienze di chi ci ha preceduto» («Il setaccio», pp. 49-51). Questa decisiva dichiarazione rimanda piuttosto chiaramente al topos cristiano dell’espiazione, non solo proponendoci una versione archetipica di un’immagine ricorrente nell’opera pasoliniana, ma soprattutto alludendo a quello che è forse il tema centrale in questa articolistica, il rapporto con la ‘tradizione’ e, più in generale, con il passato. Un passato che, per precisione, Pasolini intende in questi saggi sia come tempo della storia letteraria italiana29 che come tempo ‘poetico-filosofico’, cioè interiorizzato e fortemente adattato a un’esigenza di tipo epistemologico. In entrambi i casi, risulta chiaro come per il Pasolini intellettuale la comprensione del presente e del futuro dipendano dalla riflessione sul passato. Se prendiamo per esempio l’articolo «Ragionamento sul dolore civile», pubblicato su «Il setaccio» del dicembre 1942, ci accorgiamo che il tema della riflessione sul passato viene ulteriormente approfondito, chiarificandosi come ‘ricerca dell’origine’. Per prima cosa, Pasolini collega il «pensiero dell’infinito» a «una ferma nostalgia», a «un sogno che non muta», fissando questo luogo in un’indistinta discendenza agreste: «già il fiume, il bosco, il prato e la vigna che protessero l’infanzia delle nostre madri e di noi, sono fissati dietro i nostri passi […]. La vigna o il focolare sono l’infinito […]»; quindi, elabora l’immagine opposta del ‘deserto’ per definire il presente come luogo di una solitudine esistenziale che è sì arida, ma anche protetta da un saldo legame con «gli affettuosi simboli del passato», da cui si origina «un amore che da egoistico […] diviene civile». In sostanza, Pasolini concepisce l’apertura al mondo degli altri, ancora sentita in termini di puro pathos, come conseguenza di una ricerca condotta nell’intimità dell’io e fondata sul «pensiero dell’infinito», su quelle «spoglie dell’ignoto e dell’immenso» che hanno «nei secoli tratto gli uomini al moto» («Il setaccio», pp. 56-7). Nella posizione espressa dallo scrittore si riconosce dunque la stretta dipendenza tra una polarità utopica, intuita con gli strumenti della sensibilità poetica, e la prima urgenza di un senso storico-civile che, per quanto debole, ci appare già ben differenziato da quello promosso dalla retorica fascista: La nostra ricerca non ci si propone in un senso di avventura, di epopea o retorico progresso, che risuona amaramente al nostro orecchio, ma ridotta al solo pensiero, ci si presenta piuttosto come memoria che s’infutura nel dolore. E in questo siamo tutti di una stessa statura: manca l’eroe, che come un faro ci guidi costruendo gli eventi […] La storia si merita. Il premio è in diretta corrispondenza con la sofferenza del desiderio. («Il setaccio», p. 57)

29 Ma credo sia oltremodo limitativo vedervi «un gioco di riconferma pubblica dei padri ermetici», tale da assicurare a Pasolini «copertura, sicurezza per i propri esperimenti» (Rinaldi, 1982, p. 19).

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Capitolo primo

Chiudendo il proprio intervento, l’autore sembra confermare la sua proposta di un antiretorico concetto di ‘storia’ come processo di negatività, sconfinante in una dimensione originaria (le «antichissime origini», «Il setaccio», p. 58) che sembra farsi garante di positività solo in quanto termine astorico e, appunto, utopico. Se «Ragionamento sul dolore civile» è, tra quelli critico-ideologici, l’articolo più ricco di rimandi storico-culturali, altrettanto significativi risultano gli altri scritti rientranti in questa categoria, per quanto in essi emerga più manifestamente una preoccupazione di natura estetica. Di fondamentale importanza, a questo proposito, «Filologia e morale», ospitato da «Architrave» in quello stesso dicembre del 1942 in cui «Ragionamento sul dolore civile» appariva su «Il setaccio». Dietro il titolo, si rivela già abbozzata l’intenzione di ricongiungere fatto linguistico e fatto morale, poi approfondita nel testo: rimproverando a non meglio identificate ultime mode letterarie «un certo intransigente moralismo, che va tramutando molti giovani estetizzanti di ieri in tanti piccoli Savonarola», Pasolini suggerisce ai più giovani letterati italiani di «non farsi soverchiare dalla ricerca morale – che è sempre anteriore alla poesia – e a non reagire di conseguenza crudelmente e ciecamente alla ricerca linguistica e formale che ha caratterizzato la stagione letteraria che ci ha preceduti». Dopo aver fatto il nome di Contini, il cui metodo filologico viene definito il «più valido e imprescindibile», Pasolini si sofferma sui vari Ungaretti, Montale, Cardarelli, Cecchi, Quasimodo e Vittorini, dalle cui «scoperte verbali e sintattiche […] non si potrà in futuro prescindere […] anche se le eventuali opere future rivelino una più intensa e, direi, collettiva preparazione etica» (cfr. «Il setaccio», pp. 168-71). Ancor più significativo, poi, che questa aristocratica difesa del linguaggio poetico contro il rischio di ciò che l’autore definisce «contenutismo», avvenga all’interno di un progetto pedagogico («[…] i giovani dell’ultima generazione, […] usino le loro energie ad un’opera educativa che sola potrà dare ‘coscienza’ alle ‘opinioni comuni’, […] educare; sarà questo forse il più alto – e umile – compito affidato alla nostra generazione») a cui i giovani intellettuali italiani dovrebbero aderire attraverso un faticoso recupero del passato, culminante in quell’intuizione della sacralità dell’origine che, già al centro di «Ragionamento sul dolore civile», si esplicita ora come utopica riconciliazione di civiltà e natura: […] e se ora da molte parti si avverte una mancanza di una matura e alta civiltà che ci raccolga, noi, questa civiltà, la potremo ritrovare risalendo alle sue origini lontane e immutabili, per cui energie sempre nuove la rinnovano e la proteggono, come avviene nella natura. La potremo ritrovare chiudendoci a lungo in noi stessi, e muovendoci nello stretto cerchio che una vita familiare fatta densissima ci riserba, all’ombra del nostro focolare, sotto le ombre dei nostri orti, tra i gesti, che da secoli non mutano, degli uomini ingenui. («Il setaccio», p. 170)

Mi pare che il brano appena citato rimandi a un concetto di straordinaria importanza all’interno dell’opera pasoliniana, in quanto in esso, per quanto

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La formazione culturale di Pasolini durante il ventennio fascista

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confusamente, il nesso lingua-pedagogia-etica è elaborato in rapporto dialettico con la percezione di un punto di fuga utopico. Pasolini insiste cioè sulla necessità, per la civiltà moderna, di un confronto con quelle «origini lontane e immutabili», quei «gesti degli uomini ingenui», in cui si raccoglie l’urgenza utopica. Si tratta, credo, di un concetto fondamentale ai fini della comprensione del pensiero pasoliniano. Solo, infatti, una civiltà che sia consapevole della dimensione ‘altra’ da sé, suggerisce Pasolini, può aspirare a farsi «matura» e «alta»; solo dunque riconoscendo la propria costituzionale insufficienza la ragione dell’uomo moderno può divenire padrona di se stessa, e agire per il progresso nella storia. È precisamente per via di questo rapporto antitetico tra ragione e utopia che Pasolini liquida una letteratura strumentalmente chiusa intorno a questioni socio-politiche. Una posizione, questa, che è confermata con maggior perentorietà nello scritto «Ultimo discorso sugli intellettuali», del marzo 1943. Pasolini qui si oppone nettamente alla richiesta di diretto coinvolgimento politico dei letterati: «A me il rapporto ‘intellettuali e guerra’ non soltanto si presenta come inammissibile, non esistendo tra i due termini alcun ragionevole nesso, ma senz’altro, per noi intellettuali […] offensivo, e, vorrei aggiungere, nocivo per la nazione in guerra». Più precisamente, Pasolini rivendica il rispetto dell’autonomia del mestiere di letterato (creazione di poesia e fatica critica), distinguendolo senza dubbio da quello di propagandista («nessuno, onestamente, potrebbe pretendere da parte degli intellettuali un adeguamento alla guerra attraverso un’opera di propaganda», «Il setaccio», pp. 80-1). Ma che l’autonomia rivendicata sulla propaganda e sulla sfera politica non sia un distacco da turris eburnea, l’aristocratico rifugio letterario degli ermetici, e neppure il sobrio mestiere crociano, lo testimonia la lunga parentesi che conclude l’articolo, in cui Pasolini, mutando completamente tono, esprime il suo dolore per i destini ignoti del padre e del «più caro amico» (Ermes Parini), entrambi sottrattigli dalla guerra. A ben vedere, emerge qui un tratto saliente dell’estetica pasoliniana, un tratto che trapasserà nei futuri tentativi di codificazione di realismo poetico, poiché l’autore conferisce all’operazione letteraria un valore eteronomo, sebbene in modalità alternativa rispetto alla diretta compromissione socio-politica. Anzitutto, Pasolini suggerisce che, per poter accedere a una «posizione civile» («Il setaccio», p. 80), le nuove generazioni di intellettuali dovrebbero meditare sui valori umani che hanno informato tanto la loro esistenza quanto quella della comunità (di origine contadina) in cui sono cresciuti; anziché aderire a postulati politici fondati su varianti etiche, l’intellettuale è incoraggiato, come condizione fondamentale, a recuperare la riflessione su quel dato empirico-sensoriale, costitutivamente avulso alla concettualizzazione, che, come già evidenziato negli articoli fin qui esaminati, viene irrimediabilmente associato a un passato rurale. La guerra, fatto ‘storico-razionale’, viene infatti giustapposta alla sensazione, fatto ‘non-razionale’ e ‘pregrammaticale’:

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Capitolo primo

Il primo [il padre] son due anni che non lo vedo. Del secondo [l’amico Parini] non so più nulla, e passo le mie più tristi ore a immaginarlo, in Russia, ferito, disperso, prigioniero… E qui davanti ho lo sguardo doloroso di mia madre; e vorrei esprimere tutto questo, ma non è possibile: è troppo vivo, violento, doloroso… («Il setaccio», pp. 80-1)

Questa tendenza a recuperare all’ambito storico-sociale il dato del sensibile come alterità è dunque già da ora un riferimento inconfutabile del pensiero di Pasolini. Proprio in relazione a questa asistematica appercezione della ‘storia’, lo sguardo lanciato sul passato si connota di un senso mistico e insieme messianico che ricorda da vicino, sul piano della sensibilità intellettuale, il Walter Benjamin delle aforistiche Tesi di filosofia della storia (1995, pp. 75-86; scritte nel 1940). Come l’angelo di Benjamin teneva lo sguardo rivolto al passato e le spalle al futuro ignoto30, così la scrittura di Pasolini ripropone la necessità urgente e immediata di recuperare il senso dell’origine. La responsabilità verso il passato sembra consistere nella capacità di cogliere origini lontane e immutabili; che equivale, sostanzialmente, a confutare la concezione borghese della storia come infinita temporalità deterministico-consequenziale, opponendo a essa l’intuizione del tempo ‘immobile’, cristallizzato, dell’origine inconoscibile, e sopravvissuto al presente come ‘memoria storica’, sottratta al sapere dello Historismus. Si tratta di una critica dello storicismo che riaffiora, attraverso considerazioni relative al concetto di tradizione letteraria, in «Cultura italiana e cultura europea a Weimar», riedizione per «Il setaccio» (gennaio 1943) dell’omonimo articolo pubblicato qualche mese prima su «Architrave». L’articolo esprime anzitutto il rifiuto della retorica culturale tipica dei fascismi europei. Censurando la «tradizione ufficiale degli organi propagandistici», Pasolini scrive: La tradizione non è un obbligo, una strada, e neanche un sentimento o un amore: bisogna ormai intendere questo sentimento in senso antitradizionale, cioè di continua e infinita trasformazione [...] È del tutto antistorica, allora, quella tradizione ufficiale che, ora, in tutte le nazioni, si va esaltando da una malintesa propaganda, come unica risoluzione in arte dell’odierna condizione politica e sociale europea [...] Ed ecco la tradizione [...], eccola risolta nella migliore gioventù, e amata, come se fosse stata di nuovo, nuovamente vergine, intatta, interamente da scoprirsi e da godersi. Una tradizione passata attraverso il filtro dell’antitradizione, una tradizione studiata sui poeti nuovi. («Il setaccio», p. 69)

In Germania, a contatto con giovani intellettuali europei, Pasolini aveva avuto la conferma delle sue idee sul ritorno alla tradizione già esposte agli amici coinvolti nel progetto Eredi: come Betocchi, Sinisgalli e Penna rielaborano il

30 Mi riferisco all’aforisma 9 delle Tesi di Benjamin (1995, p. 80), in cui il pensatore tedesco commenta il quadro di Klee dal titolo Angelus Novus.

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La formazione culturale di Pasolini durante il ventennio fascista

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passato letterario italiano, così gli spagnoli, ad esempio, attraverso Garcia Lorca, Juan Ramón, Machado e Picasso risalgono a Calderón, Cervantes e Velasquez; diversamente, per i giovani tedeschi «il ‘ritorno alla tradizione’ avviene in un senso che si avvicina di più a quello che noi vorremmo abolire, data forse la maggior semplicità del popolo germanico, che accoglie con animo ligio tutto ciò che gli viene seriamente suggerito e dettato; ed ora par si contenti di vivere, culturalmente, nelle acque morte della propaganda». Ma se prescindiamo dall’ingenuo entusiasmo neo-umanistico di Pasolini, che assegna all’Italia «il retaggio del dominio culturale europeo», occorre soprattutto segnalare l’utilizzo della formula «tradizione passata attraverso il filtro dell’antitradizione» («Il setaccio», p. 70). Marco Bazzocchi e Ezio Raimondi (Anto, p. xii) hanno osservato che attraverso questa formula Pasolini sembra richiamarsi direttamente all’antistoricismo di Nietzsche (Pasolini farà esplicito riferimento alla concezione della ‘storia’ del filosofo tedesco in un articolo scritto per l’ultimo degli «Stroligut» a Casarsa, cfr. Academiuta, p. 8)31. Pur senza forzare la diretta influenza di Nietzsche, mi pare vi siano sufficienti elementi per sostenere che sul rifiuto della staticità «antistoricistica» della propaganda e sulla proposta di un’estetica dinamica e fertilmente agonistica nei confronti della tradizione, agisca l’intuizione di quella dimensione utopica che abbiamo visto essere al centro delle riflessioni critiche di Pasolini (cfr. anche Ponzi, 1997, pp. 32-3, dove all’interno di un esauriente discorso sulla modernità di Pasolini il luogo utopico viene considerato centrale anche alla prima articolistica). La presenza del dato sensoriale-utopico nelle elaborazioni critiche di Pasolini è confermata dagli scritti critici specificamente letterari. Confidando in un metodo ampiamente mutuato dall’analisi stilistica di Contini, puntualmente omaggiato, Pasolini compie alcuni scrupolosi ‘esercizi di lettura’ a cui non sono disgiunti significativi giudizi di valore. In «Per una morale pura di Ungaretti», per esempio, la predilezione per il poeta toscano si giustifica attraverso un’analisi tecnica tesa a rettificare il diffuso luogo esegetico dell’assoluta ‘purezza’ della parola ungarettiana. Applicando alla lirica «O notte» le sue teorie sul rapporto tra tradizione e poesia contemporanea, Pasolini suggerisce che la poesia di Ungaretti deve la sua grandezza a quel suo carattere rievocativo che da un lato è ben riconoscibile nella tradizione letteraria (Pasolini cita qui

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Com’è noto, Nietzsche sostiene che la storia può essere vista da un punto di vista monumentale, un punto di vista archeologico e un punto di vista critico. La prospettiva per lui auspicabile è quella critica, che consiste nel processare e infine condannare il passato, in quanto in esso si nasconde sempre l’imperfezione; ma condannarlo non in nome di un’astratta giustizia, quanto piuttosto in nome della ‘vita’, intesa nel suo aspetto di forza irrazionale, astorica e ineffabile. Formulando più avanti il concetto dell’amor fati e dell’eterno ritorno, Nietzsche muterà il suo punto vista, giungendo all’accettazione totale del passato. Ma per quanto ci riguarda, Pasolini pare rielaborare, nei suoi numerosi riferimenti alla tradizione, un importante topos del primo Nietzsche.

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Capitolo primo

Leopardi), e dall’altro trova una vera e propria legittimazione in quello che viene definito il suo «marchio della sofferenza poetica» («Il setaccio», p. 54), cioè nel rapporto che lega la parola del poeta a un’esperienza da lui vissuta, patita e rielaborata in prima persona. Inaugurando un approccio critico che riprenderà negli anni romani, Pasolini passa poi «da considerazioni quasi puramente tecniche» a «un’altra considerazione non propriamente estetica», aggiungendo di alludere «a un insegnamento che non dubiterò di chiamare morale». L’insegnamento etico della poesia ungarettiana viene ricondotto alla tradizionale saggezza classica, ma, insieme, definito «più sottile e profondo, appunto perché meno concreto e logico». Si tratta insomma di una lezione etica improntata sul recupero di coordinate tradizionali che vengono passate ‘attraverso il filtro’ di coordinate antitradizionali; quando per queste ultime s’intenda quella «illogicità di sogno» che conduce la poesia di Ungaretti «in una zona segreta che lascerò inesplorata perché attingibile solo da chi per la poesia abbia un interesse diretto […] una sensibile praticità» («Il setaccio», p. 55). Nell’articolo «‘Dino’ e ‘Biografia a Ebe’» (febbraio 1943), poi, commentando i due testi rispettivamente di Luzi e di Bilenchi, Pasolini torna sull’importanza dell’operazione della rievocazione, che secondo lui caratterizza la maniera narrativa della letteratura contemporanea differenziandola da quella della generazione precedente, che sarebbe fondata invece su un sereno e vigoroso entusiasmo di ricerca. Senza fornire precise spiegazioni, Pasolini si limita a segnalare che rispetto alla vecchia generazione dei vari Cecchi, Palazzeschi, Soffici, Bacchelli, ecc., nei più giovani narratori, per quanto permanga il medesimo interesse stilistico dei predecessori, al contempo «qualcosa è mutato dentro». Si tratta di «una profonda e ostile tristezza […] un accoramento chiuso e irresolubile, un rimpianto senza consolazione». Per Pasolini conta soprattutto che a questo mutato atteggiamento corrisponda una volontà di «rievocare» da lui definita, in corsivo, «sforzo di rappresentare quasi fisicamente gli avvenimenti perduti e tramontati nella vita» («Il setaccio», pp. 74-5). In sostanza, torniamo al punto centrale di tutta questa articolistica: la necessità di riesumare dal passato una dimensione utopica (qui identificabile nell’intuita conciliazione di fatto letterario e realtà fisico-sensoriale). Questo punto viene ribadito anche nello scritto di critica letteraria di gran lunga più significativo per comprendere i primi sviluppi del pensiero critico pasoliniano, ovvero il «Commento a un’antologia di ‘lirici nuovi’», in cui l’autore recensisce il celebre volume di Luciano Anceschi (intitolato appunto Lirici nuovi). I dubbi che Pasolini nutre verso questo testo, nonostante la stima palesata per il suo vergatore («uno tra i più preparati e appassionati intenditori della nostra poesia») sono innanzitutto dovuti all’eccessiva letterarietà del ‘gusto’ che vi fa capo: «[…] è un’antologia che ricompone le forme della nostra odierna poesia, proprio secondo quel suo aspetto letterario e distaccato dall’umano che è uno tra i suoi aspetti più appariscenti, ma, infine, più innocui e più criticamente trascurabili». Questa fondamentale debolezza si riflette, secondo Pasolini,

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nella scelta di quelle poesie di Ungaretti e di Penna che meglio si conformano al taglio ermetizzante e analogico dell’antologia (mentre non trovano posto i versi dei due poeti in cui emergono più autentici tratti delle loro poetiche, quali la ricerca morale e gli accenti di umana e cruda sofferenza); e una debolezza che ancor meglio si riflette nella scelta delle liriche del poco amato Quasimodo, che «può essere considerata come il comune denominatore di tutta l’antologia» («Il setaccio», pp. 84-5). Sulla base di queste considerazioni, mi pare evidente come il giovane critico non si limitasse affatto a un commento filologicamente obiettivo e disinteressato, ma andasse ricercando applicazioni eteronome attraverso cui codificare un preciso orientamento poetico. Ciò che risalta è soprattutto l’enfasi accordata a un realismo di tipo fisico e sensoriale, per cui la scrittura dev’essere in grado di ricomporre i dati ‘vivi’ di un passato da custodire. Questa enfasi si evidenzia con chiarezza in ciascuno degli scritti critico-letterari del periodo in questione, come «Fuoco lento», ricognizione rapida e sbrigativa sulle novità editoriali della poesia italiana. Dopo Ungaretti, qui si rivelano subito i nomi di altri tra i poeti più amati da Pasolini: Penna, Giotti e Ghiselli, per i quali vengono espressi lapidari ma significativi apprezzamenti. Per il «candore» della poesia di Penna il critico accenna a una «amoralità» che «non depone affatto in suo sfavore, se è tutta densa di precedenti sofferenze umane»; di Giotti esalta la fresca sensualità del dialetto; di Ghiselli, infine, ammira alcuni frammenti che gli ricordano Michelangelo «per questo urgere e gravare dell’umanità fisica e sofferente, che nel linguaggio non si disperde, né, in un certo senso, si purifica» («Il setaccio», p. 61). In tutti e tre i casi, Pasolini testimonia di prediligere una parola poetica icasticamente pregna di fisicità. Ma è necessario osservare come nei primi anni ’40, ancora alle prese con gli studi universitari, Pasolini arrivi a prediligere, tra gli autori italiani, quelli più vicini alla sensibilità romantico-decadente. Pascoli, innanzitutto, argomento di tesi di laurea. 1.2 Pasolini con Pascoli: dall’estetica all’etica In una lettera del marzo 1944 indirizzata a Carlo Calcaterra, recentemente ritrovata, Pasolini motiva la scelta della tesi su Pascoli da un punto di vista che è insieme filologico e morale. Indicando nella lettura di Pascoli sia «un valore di studio della tecnica della poesia», che «una specie di conciliazione dell’autonomia dell’arte (affermata con tanto ardore dalla critica moderna), con una sua moralità umana che non esclude un fine utilitario, o, comunque, quasi estraneo alla poesia», Pasolini anticipa importanti indicazioni critiche centrali alla propria tesi di laurea, e allo stesso tempo ritorna su quel dato etico che, come abbiamo visto, era già emerso negli scritti sui fogli fascisti. Quando poi ammette di essere legato a Pascoli «quasi da una fraternità umana», e di aspirare da tempo a «una scelta, che fosse tutta mia e il più possibile giustificata critica-

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mente, della poesia pascoliana» (Anto, p. 219), egli inevitabilmente attribuisce al proprio progetto un’enfasi altamente soggettiva. Leggendo la tesi, effettivamente, emergono sufficienti elementi per credere che attraverso l’analisi della lirica pascoliana, Pasolini abbia inteso approfondire una personale nozione di ‘poetica’ fondata su due accezioni interagenti e assai articolate di ‘ricerca stilistica’ e di ‘ricerca morale’. Tanto i curatori dell’edizione della tesi, Marco Bazzocchi e Ezio Raimondi (Anto, p. xvii), quanto, in un recente studio, Francesco Ferri (1996, pp. 25-58), sostengono che nel tentativo di sviluppare una propria concezione poetica, Pasolini muovesse dalla lettura di un celebre testo di Luciano Anceschi del 1936, dal titolo Autonomia ed eteronomia dell’arte. Ciò lo avrebbe incoraggiato a investigare il versante etico oltre a quello estetico, secondo un’intuizione che peraltro aveva già confidato a Luciano Serra nel luglio del 1942: «Volevo inventarmi un dualismo da contrapporre al monismo idealistico e all’intuizione crociana. Sono immaturo; ma il fatto ricerca etica come vicenda trascendente la ricerca estetica è un motivo che ritorna spesso nelle mie meditazioni» (L, I, p. 136). Mi pare a questo proposito che la riflessione etica di Pasolini segni senza dubbio una tappa importante nel processo di affrancamento dall’estetica crociana (cfr. Ferri, 1996, pp. 52-6), ma insieme riposi anche su basi teoriche parzialmente divergenti dalla proposta di Anceschi. L’originalità della poetica di Pasolini sembra concentrarsi nei contenuti specifici del concetto di eteronomia da lui avanzato. Tale concetto viene infatti investito da una forte enfasi sacrale, per cui la valenza etica della poesia è messa in relazione alla possibilità di cogliere un dato pre-razionale nella realtà empirica 32. Il tentativo di collegare ‘tensione etica’ e ‘senso del sacro’, mi sembra dunque il fattore unificante dello studio di Pasolini. Esso si ripresenta continuamente all’interno di un generale paradigma interpretativo che discrimina linguisticamente tra un Pascoli ‘classicheggiante’ e un Pascoli ‘moderno’. Come hanno osservato Bazzocchi e Raimondi (cfr. Anto, p. xxi), l’idea del doppio registro linguistico assurgerà negli anni ’50 a dato fisso della critica pasoliniana. Ma a parte questo, credo sia fondamentale sottolineare come l’opposizione tra ‘classico’ e ‘moderno’ rimandi direttamente allo sforzo pasoliniano, permeante tutto il periodo formativo, di pervenire all’elaborazione di una poetica riassumibile nella formula della ‘tradizione passata attraverso il filtro dell’antitradizione’. Tradizione e modernità si ripresentano infatti nella tesi di laurea come canoni attraverso cui progettare la nozione di eteronomia dell’arte. Oscillando tra la lingua moderna (coi suoi «modi vivi e volgari» e i «suoi 32 Possiamo cogliere un’anticipazione di ciò nella lettera a Calcaterra, precedentemente citata, dove Pasolini documenta la «moralità umana» di Pascoli attraverso la seguente citazione dallo stesso poeta: «Ricordo un punto sul quale si esercita la poesia: la infinita piccolezza nostra a confronto della infinita grandezza e moltitudine degli astri [...]. Tuttavia [...] quella spaventevole proporzione non è ancora entrata nella nostra coscienza [...]. Perché, se fosse entrata, se avesse pervaso il nostro essere cosciente, noi saremmo più buoni» (Anto, pp. 219-20).

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metri immediati asintattici, il suo romanticismo sentimentale») e «il culto e la nostalgia per la lingua italiana classica», Pascoli sarebbe giunto a una distintiva originalità che, se da una parte produce risultati assai modesti33, dall’altra apre prospettive straordinariamente attraenti. Se le caratteristiche del canone classico (tipico dei Conviviali) sono la distanza e il controllo su una parola poetica concreta e aulica, quelle del canone romantico-moderno (tipico delle Myricae) vengono identificate nel moto di oggettivazione di una parola che, «onde trasporre, e quindi purificare, l’interesse del tutto egoistico e interiore dei loro [dei romantici] pensieri umani […] si placa, diviene essa stessa oggetto» (cfr. Anto, pp. 31-7). Secondo Pasolini, non di rado Pascoli, pur correndo il rischio di scadere nel sentimentalismo, riesce a raggiungere il giusto equilibrio tra una tensione classicista e una modernista. Per quanto la natura e la sostanza di questo equilibrio non siano sempre fissati, da un punto di vista critico, con sufficiente chiarezza, il senso dell’operazione pasoliniana ci si rivela piuttosto agevolmente. Per esempio, echeggiando alcuni luoghi centrali della sua prima articolistica, Pasolini definisce la migliore lingua pascoliana con termini quali «‘esatta’, ‘umile’, ‘umana’, ‘cristiana’, ‘saggia’» (Anto, pp. 31-2), aggiungendo che il ripiegamento sulla secolare tradizione delle lettere italiane cui questa lingua da prova è pervaso da una sensibilità introspettiva e ansiosa, tutta incentrata sull’idea del mistero, che proviene direttamente dal simbolismo francese, e vibra tanto in Poe quanto nei laghisti inglesi (cfr. Anto, p. 51). È proprio una citazione da Wordsworth, «agevolmente riferibile al Pascoli», che definisce ulteriormente il significato del contatto tra tradizione e modernità: «adattare alle leggi metriche una scelta del linguaggio reale degli uomini in uno stato di vivida sensazione». Se Wordsworth è «il più eteronomo, il più ligio alla tradizione moralistica dell’arte, quindi più vicino al Pascoli di qualsiasi altro di quei poeti esteti», è perché in lui, assieme «a certo Novalis dei Frammenti, a certo Coleridge, a certe pagine della Defense of poetry», Pasolini ravvisa quella «lenta oggettivazione della scrittura», quella «oggettivazione del senso estetico» che si sente nel miglior Pascoli e che presiede alla presa di coscienza dell’atto poetico (cfr. Anto, pp. 52-7). Ciò su cui importa insistere è che Pasolini, nel difendere questa presa di coscienza attraverso l’oggettivazione del linguaggio poetico, approdi all’intuizione del nesso tra ‘parola’ e ‘realtà fisica’. Il sostantivo ‘oggettivazione’, infatti, viene utilizzato dal giovane laureando con riferimento alla teoria pascoliana del ‘particolare’: «un’immagine non sempre precisata» che «è sempre legata a qualcosa di abnorme, di insostenibile», e che è tale «da rappresentare senz’altro l’infinità dello stato umano». Ecco allora che «il particolare inaspettato che

33 Pasolini parla di incredibili e ingiustificabili «mediocrità» estetiche, come la ricerca di rime troppo facili e condiscendenti, e di una «nebulosità morale di cui un lettore sereno può consentitamente accusare il poeta» (Anto, pp. 35-6).

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tramuta il senso delle cose», interpretato da Pasolini come conciliazione inafferrabile, misteriosa, tra il verbo poetico e il mondo nella sua oggettiva dimensione sensibile, assume una specifica carica utopica, e insieme epifanica (cfr. Anto, pp. 60-1). Interessante poi come Pasolini rimproveri a Pascoli l’incapacità di possedere intellettualmente il significato teorico del ‘particolare’, e quindi il suo lasciarsi trascinare «verso una quasi fanciullesca ‘irresponsabilità’»; e ancora più interessante come, subito dopo, la critica dell’irresponsabilità intellettuale si sublimi nell’approvazione di una ricerca stilistica («un approfondimento del mezzo espressivo» per cui «la parola diviene un sicuro dato empirico») che comunque risulta parzialmente inibita dal retaggio classicheggiante e dalla superficialità del metodo (cfr. Anto, pp. 61-3)34. In sostanza, secondo Pasolini, Pascoli giungerebbe a oggettivare il suo linguaggio poetico senza però comprendere il potenziale innovatore della propria operazione. Se ora pensiamo al processo di oggettivazione che subì la poetica pasoliniana negli anni ’50, o quantomeno all’esplicita ricerca di comunicabilità e razionalità che la contraddistinse, non è difficile qui cogliere il carattere almeno parzialmente e implicitamente programmatico del discorso pasoliniano. Riconoscendo che con «l’aver scoperto un’immagine, un nesso originari […] la parola del Pascoli più vero, più che essere un mezzo di comunicabilità cogli uomini, è mezzo di conoscenza» (Anto, p. 62), Pasolini sembra insomma impegnato a delineare e chiarire a se stesso lo sviluppo della propria poetica. Tale ricerca porta infatti al riconoscimento e alla promozione di una dimensione atemporale e utopica, ma insieme perfettamente accessibile in quanto «dato sensibile». L’espressione poetica, scrive, è quella che aiuta il poeta a restare ancorato alla vita; è la sua estrema e unica certezza. E in questo suo pratico lavoro sul dato sensibile (colore e musica) delle sillabe, il poeta riconosce e distingue, in un’esperienza esclusiva, le varie maniere di esprimersi […]. E la fermezza, cioè la marmoreità del mezzo espressivo, è anche per i critici postcrociani la superstite certezza. (Anto, p. 189)35

Che il dato utopico fosse già centrale alla sensibilità pasoliniana lo si comprende facilmente quando, sottoscrivendo un’interpretazione di Novalis da parte di Tieck («Era in lui una disposizione tutta naturale nel riguardare le cose più naturali e più vicine quasi fossero un prodigio», Anto, pp. 62-3), Pasolini ac-

34 Se Pascoli spesso non riusciva a cogliere esemplarmente il nesso tra parola e realtà, ciò è perché la sua ricerca stilistica tendeva a rimanere qualcosa di ‘esterno’, non sviluppava «quella crisi che tramuta qualcosa di intimo nel senso delle sillabe» (Anto, p. 64). 35 Come già notato in riferimento a un saggio su Bassani (cfr. DD, pp. 147-8), anche qui, parlando di ‘fermezza’ e ‘marmoreità’ dell’espressione poetica, Pasolini sembra convinto che nello ‘stile’ si cristallizzi una dimensione assoluta (trascendente la determinazione storica) e insieme ineffabile, utopica.

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corda a Pascoli quella concezione sacrale della natura e della realtà che negli anni ’60 riferirà apertamente alla propria poetica. In definitiva, mi pare che nella tesi di laurea l’autore giunga a formulare una concezione assai elaborata dell’eteronomia dell’arte: il controllo della parola poetica sul significato, tipico della tradizione, è messo di fronte alla possibilità opposta, il dissolvimento del segno nella realtà empirica, indicato dalla poesia moderna. Non a caso, la superiorità di Pascoli nei confronti del romanticismo deteriore consiste in «un più intimo culto per la poesia tradizionale italiana; poi un assai più profondo, benché indeterminato senso del mistero» (Anto, p. 27); come non è un caso che, investigando l’area della modernità pascoliana, Pasolini chiami in causa uno dei suoi maggiori amori letterari: Niccolò Tommaseo36 che «non dimentica la tradizione, ma la studia in modo e in aspetti particolari […]» (Anto, p. 22). Per la sua convergenza sul concetto del ‘sacro’, rielaborato originalmente rispetto a quello della retorica fascista, la poetica di Pasolini manifesta un chiaro debito alla complessa tradizione letteraria romantico-decadente, il cui svolgimento, proprio in relazione a questa dimensione ‘sacrale’, non può, mi pare, essere sceverato da una precisa matrice filosofica, l’estetica dell’idealismo tedesco. Tuttavia, come anticipato, riesce difficile esaurire tale poetica in area neo-idealista, quando il legame con l’estetica di Croce è minato tanto da un metodo filologico debitore della critica stilistica quanto, in modo più sostanziale, dal concetto di eteronomia. Il punto di riferimento filosofico sembrerebbe scivolare, allora, verso l’estetica dei vari Schiller, Hölderlin e Novalis, quei pionieri dell’idealismo tedesco che Pasolini aveva conosciuto nel preparare l’esame universitario sul romanticismo tedesco (Anto, pp. ix e 238). Già la lettura dell’Iperione di Hölderlin, risalente all’agosto del 1940, può essere considerata esemplare nel definire i contenuti dell’avvicinamento pasoliniano al ‘sacro’37. Rivelatrice, a questo proposito, l’identificazione con l’eroe romantico che solo nel contatto con la natura, sede e interprete del divino, trova una ragione di vita: Sto leggendo un libro che mi appassiona, l’Iperione di Hölderlin; tocca dei problemi e un divenire di sentimenti e situazioni spirituali che sono per me una bruciante realtà; molte volte mi sembra di sentir parlare me stesso. (L, I, p.12).

36 Commentano Bazzocchi e Raimondi: «Pasolini ha certamente sottomano i Canti del popolo greco pubblicati da Einaudi nel 1943, e forse ha incontrato il Tommaseo nelle indagini del Calcaterra sul Gozzano; ma qui soprattutto sembra affacciarsi un processo quasi di identificazione con l’intellettuale dalmata che esplora aree linguistiche e culturali periferiche [...]» (Anto, p. XIX). 37 Di qualche mese prima l’altrettanto formativa lettura di La vita è un sogno di Calderón de la Barca che «sebbene inquinata talvolta fino all’ossessione di gongorismo è di una sorprendente modernità, mi ha stranamente colpito e ho scritto anche delle note intorno a un’eventuale regia di quest’opera» (L, I, p. 5). Com’è noto, Pasolini adatterà per il teatro l’opera dello spagnolo (cfr. Calderón).

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Ciò che più preme qui è soffermarsi sul «divenire di sentimenti e situazioni spirituali», che sembra rimandare direttamente a quell’idealismo asistematico e irrisolto di cui Iperione è emblema, e che si esplicita nel suo rapporto con la natura. Iperione idealizza l’Atene classica quale esempio di massimo equilibrio tra anarchia naturale e organizzazione sociale, criticando Sparta per essersi allontanata troppo dalla natura. Ai suoi occhi, il dominio della natura è sempre perverso in quanto causa di egoismo, disgregazione sociale, perdita d’identità; la sua dura requisitoria contro il popolo tedesco (che suona sorprendentemente simile a quella del Pasolini ‘corsaro’ contro il consumismo di massa) è incentrata proprio sull’assunto della sacralità della natura (cfr. Hölderlin, 1989, pp. 170-3). Altrettanto significativo come sia una tensione morale, fondata sull’intuizione dell’utopica conciliazione tra uomo e natura, a imporre all’eroe holderliniano di perseguire l’ideale della cultura (cfr. Hölderlin, 1989, p. 98). Sembra dunque esemplarmente incarnato in questa lettura il seme di un sapere pasoliniano che si propone di collegare la ricerca culturale all’intuizione dell’intima ‘sacralità’ della realtà oggettiva. Come nel romanzo holderliniano la conciliazione tra ‘cultura’ e ‘natura’ è rappresentata in funzione utopica, così le prime produzioni di Pasolini sembrano improntate alla definizione di un concetto di modernità che di questa condizione utopica non può fare a meno. Qualche settimana dopo aver letto Iperione, Pasolini scrive una poesia intitolata «Il flauto magico», che Attilio Bertolucci giudicherà «formalmente ingenuissima, ma così carica da risultare accecante di significato» (in Naldini, 1989, p. 29). Qui, se da una parte non è sbagliato indicare l’influenza «dell’adorato Foscolo neoclassico» (Rinaldi, 1982, p. 15), già ripreso nella tesi su Pascoli (Anto, pp. 9, 12, 26-8 e passim), dall’altra è lecito riconoscervi quel valore ‘morale’ del sacro che era il motivo centrale nel romanzo holderliniano. Il protagonista della leggenda rielaborata da Pasolini è infatti una vera e propria figurazione dionisiaca, dal cui flauto esce una misteriosa melodia che ammalia una selva di giovinetti. L’insegnamento del mistero in quanto alterità, qui intesa come «esaltazione della giovinezza violenta e sensuale» (L, I, p. 29), ossessione di felicità oggettiva, verificata nella carne, sembra essere il reale contenuto del messaggio pedagogico di Pasolini. Mi sembra a questo punto essenziale notare come, in relazione a questo marchio di alterità, la poetica di Pasolini fosse debitrice della civiltà decadente. Credo che il debito principale si possa rintracciare nel rifiuto del mito della ragione come guida spirituale, e l’introduzione dell’irrazionale quale cruciale contributo all’esperienza conoscitiva dell’individuo. In particolare, l’esigenza di un linguaggio poetico assolutamente nuovo e suggestivo, evidenziata tanto nel corso dell’analisi della lirica pascoliana quanto, pochi anni prima, nella raccolta Poesie a Casarsa (che prenderemo in esame nel seguente capitolo), dev’essere senz’altro messa in relazione al gusto decadente. Così come deve esserlo, d’altra parte, la fertilissima nozione di ‘sensualità’, se infatti il decadentismo privilegiava il corpo in quanto autentico strumento di comunicazione con l’assoluto.

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Peraltro, non vi sono dubbi che il decadentismo italiano ebbe un minore impatto rispetto a quello europeo (cfr. Praz, 1930; Binni, 1961, p. 41); Pasolini stesso, negli anni ’50, criticherà il carattere provinciale dell’esperienza nostrana. A limitare e viziare l’impatto del decadentismo, in Italia, contribuirono diversi fattori, tra cui tanto le programmatiche resistenze della scuola crociana, quanto l’evidente strumentalizzazione politico-culturale operata dal fascismo, che faceva leva su un irrazionalismo tanto ridondante quanto superficiale. Mi pare, a questo proposito, che Pasolini sia stato uno dei pochi letterati italiani su cui l’esperienza del decadentismo europeo abbia lasciato un segno profondo, acuitosi poi al contatto con la filosofia dell’esistenzialismo. Sottolineare il rapporto di continuità che lega decadentismo e esistenzialismo38 mi pare un ottimo modo di approfondire il percorso formativo di Pasolini. In una lettera della primavera del 1943, egli consiglia all’amico Franco Farolfi il libro L’Esistenzialismo, del filosofo Enzo Paci: «L’unica filosofia che io senta moltissimo vicino a me è l’esistenzialismo, con il suo poetico (e ancora vicinissimo a me) concetto di ‘angoscia’, e la sua identificazione esistenza-filosofia» (L, I, p. 171). Negli anni ’30 e ’40 Paci aveva contribuito, con Nicola Abbagnano, alla diffusione del pensiero esistenzialista in Italia, entrando sovente in polemica con Benedetto Croce (cfr. Paci, 1950a). Il testo menzionato da Pasolini (ora in Paci, 1988, pp. 16-43), aveva carattere divulgativo, e consisteva in una ricognizione delle forme e generali problematiche dell’esistenzialismo europeo e italiano, soffermandosi nell’ordine su Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger, Jaspers e Abbagnano (nella riedizione del 1988 è stato aggiunto un paragrafo finale su Sartre). Fondamentale osservare come Pasolini dovette conoscere Paci, e di conseguenza i filosofi dell’esistenzialismo, prima di vergare la tesi di laurea, che dunque con ogni probabilità risentì di quelle letture. Se consideriamo brevemente i temi principali toccati dall’esplorazione di Paci, ci riesce difficile non collegarli immediatamente a alcuni motivi ricorrenti nell’opera pasoliniana. Discettando su Kierkegaard, per esempio, Paci (1988, pp. 18-21) sottolinea la decisiva importanza epistemologica dell’esperienza del ‘peccato’ («il peccato è quindi l’inevitabile introduzione alla verità. […] L’uomo che scopre la propria ineliminabile condizione di peccatore scopre davvero se stesso»), centrale a una concezione ‘cristiana’ dell’esistenza come ‘angoscia’; particolarmente conforme alle prime considerazioni teoretiche di Pasolini sembra poi il paragrafo in cui Paci accenna al passaggio, in Kierkegaard, da

38 Penso a come Norberto Bobbio ha definito l’essenza di questo legame: «[…] all’idea del progresso inesorabile si sostituisce l’idea dell’inesorabile scacco; alla sicurezza di sé l’insecuritas come essenza dell’uomo, il quale non è più spinto dalla volontà razionale a superare la propria finitezza nel regno infinito della storia [...]. Il senso della colpa, che sembrava espulso dalla coscienza dell’uomo, ritorna ad affiorare. E il pensiero della morte soprattutto, che era stato ricacciato al di fuori dell’orizzonte dell’uomo tutto immortale nella successione ininterrotta delle opere, è posto di nuovo al centro del suo destino» (Bobbio, 1944, p. 57).

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una concezione estetica a una concezione etica dell’esistenza. Di Nietzsche l’autore evidenzia soprattutto l’antidogmatismo, e quella nozione di storicismo trascendente («[…] la storia non è mai factum, ma un al di là verso cui l’uomo tende disperatamente e che spezza ogni costruzione umana e ogni tradizione storica», Paci, 1988, p. 23) che Pasolini, come abbiamo già sottolineato, riprenderà in uno «Stroligut»; di Jaspers, riprende l’antitesi insanabile ragioneesistenza («L’esistenza è ciò che non è oggetto», Paci, 1988, p. 33) e la conseguente necessità della contraddizione. Ma è soprattutto nella discussione del concetto di ‘nulla’ in Heidegger che Paci ci rimanda a Pasolini. Confutando il postulato idealistico che esaurisce l’esistenza nel pensiero razionale, Heidegger afferma come atto decisivo per l’uomo il riconoscimento del nulla come ‘altro da sé’. Il fondamento dell’essere, secondo questa prospettiva, è la capacità di porsi di fronte al nulla, cioè di riconoscere quella dimensione altra, sacra, su cui già negli anni ’40 Pasolini comincia a riflettere. Il riconoscimento del nulla è essenziale per raggiungere una ‘libertà’ che si da dunque, in termini razionali, come contraddizione permanente, continuo superamento. La libertà, in quanto «movimento di andata e di ritorno dal nulla», è ineluttabilmente legata alla ‘morte’: «[…] la morte diventa in noi il libero fondamento della nostra esistenza, la morte diventa libertà per la morte»39; solo l’esistenza che riconosce la centralità della morte può dirsi autentica, cioè «libera passionalità» (cfr. Paci, 1988, pp. 29-30). Impossibile, a questo punto, non riconoscere come la connotazione esistenzialistica di termini quali ‘contraddizione’, ‘angoscia’, ‘libertà’, ‘morte’ e ‘esistenza’ torni pressoché immutata nell’opera di Pasolini. Già il tono di molti sfoghi epistolari del periodo in questione richiama direttamente le tematiche sopra indicate (cfr. L, I, 169-80 per una serie di confessioni agli amici Farolfi e Serra). E ancora più eloquenti, nel 1946, sono tanto l’articolo «In margine all’esistenzialismo» (Pasolini, 1946b), in cui l’autore conferma la sua inclinazione filosofica, quanto la scelta di iscriversi di nuovo all’Università di Bologna per una seconda laurea, in Filosofia appunto. Dal Friuli, infatti, Pasolini chiede a Silvana Mauri di inviargli tre testi filosofici (tra cui Introduzione all’esistenzialismo di Abbagnano, cfr. L, I, p. 265), mentre nel marzo del 1947 scrive alla stessa Mauri di aver «estorto» al prof. Battaglia una «bella» tesi dal titolo «I rapporti tra esistenzialismo e poetiche contemporanee» (L, I, p. 297). Indipendentemente dal mancato completamento della seconda laurea, mi pare che queste indicazioni siano sufficienti a confermare l’interesse di Pasolini per una corrente di pensiero come l’esistenzialismo, nei confronti della quale

39 Significativo come il luogo della «libertà per la morte», che tornerà in EE (p. 269), sia già centrale nelle prime lettere. In particolare, è proprio sull’equazione libertà-morte che Pasolini interpreta la tragica scomparsa del fratello Guido (cfr. L, I, pp. 197-201). Come nota Rinaldi (1982, p. 23) «il punto di vista per eccellenza» da cui sono scritte le prime lettere è proprio quello della ‘morte’.

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tutta la sua opera ha dimostrato decisive affinità. Nessuno tra i critici dell’opera di Pasolini, per quanto ne so, ha mai saputo riconoscere e misurare il peso fondamentale del pensiero esistenzialista sul processo formativo dell’autore. Partendo da questo riconoscimento, allora, non ci stupisce che proprio Enzo Paci, vent’anni dopo il periodo qui preso in esame, fornì una tra le più interessanti chiavi di lettura della poetica pasoliniana (cfr. Paci, 1961), su cui non mancheremo di tornare nel corso della ricerca.

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2. MYTHOS E LOGOS DEL DIALETTO FRIULANO (1942-49)

Poiché la lingua non è mai soltanto comunicazione del comunicabile, ma anche simbolo del non-comunicabile. (W. Benjamin, 1995, p. 69)

La critica è sempre stata incline a leggere il cosiddetto ‘periodo friulano’ di Pasolini sotto il segno della rinuncia alla storia e alla comunicazione (mythos), rimandando al ‘periodo romano’ per l’apertura al discorso ideologico (logos) sulla realtà socio-politica italiana. Per quanto non siano mancati, al di fuori di questa schematica interpretazione, tentativi di recuperare agli anni friulani la dimensione razionale (cfr. Brevini 1981b; Ferri, 1996; Santato, 1980; Ward, 1995), raramente si è cercato di approfondire, nell’opera dell’autore, la relazione tra la polarità del mito e quella della ragione. Per cercare di ricostruire il percorso intellettuale del Pasolini friulano, mi pare necessario, per prima cosa, sottolineare come i periodi trascorsi nella terra materna non vadano isolati, ma piuttosto integrati nell’analisi complessiva del ciclo formativo. Sarebbe inopportuno, per esempio, disarticolare la produzione bolognese (dall’articolistica alla tesi di laurea) dalla successiva riflessione sul dialetto friulano, poiché infatti questi momenti paiono cementati dalla medesima volontà di ricerca e di elaborazione speculativa. Analizzando i contributi dei primi anni ’40, legati all’esperienza universitaria, abbiamo notato come la ricerca pasoliniana fosse approdata a una fertile riflessione sulle categorie dell’estetica e dell’etica, sforzandosi, in particolare, di recuperare in chiave critica il nodo teorico dell’irrazionale. Mi pare allora che la sostanza di questa ricerca venga ripresa e sviluppata dalla produzione friulana, offrendosi principalmente nei termini di una riflessione linguistica. 2.1 Sulla dimensione mitica di «Poesie a Casarsa» La pubblicazione nel 1942 della prima raccolta di liriche, Poesie a Casarsa, è l’inevitabile punto di partenza per un’indagine critica che si fa più articolata attraversando le varie tappe della composita attività friulana di Pasolini: dalla

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Capitolo secondo

fondazione degli «Stroligut» e della ‘Academiuta de lenga furlana’ fino al dibattito politico-culturale intorno all’autonomia del Friuli; senza dimenticare le collaborazioni a fogli come «Libertà» (Udine) e «Il mattino del Popolo» (Venezia), e a riviste dialettali come «Ce Fastu?», «Il Tesaur» e «Lo Strolic furlan». Si è parlato spesso della dimensione mitica, assoluta1, del dialetto di Poesie a Casarsa, che verrebbe utilizzato in funzione antirealistica e astorica2. Alcune indicazioni le diede Pasolini stesso, retrospettivamente, parlando di «linguaggio poetico senza tempo, senza luogo» (Primule, p. 208), «linguaggio privato ed ermeneutico», «lessico turgido di vita inespressa, vergine, immediato e imprudente» (Pasolini, 1949a), «ambito di fisicità, ossia di intraducibilità» (Pasolini, 1948), «passione mistica» (Duflot, 1993, p. 11), e di segni «gloriosamente indecifrabili» (Poesie, p. 7). L’ipotesi del dialetto poetico come simbolo di una dimensione assoluta è poi sempre stata accreditata da Gianfranco Contini, che già nella famosa recensione di Poesie a Casarsa del 1943, dal titolo «Al limite della poesia dialettale», sottolineava la «posizione violentemente soggettiva» dell’autore, e insieme il suo «rimpianto narcissistico» (Contini, 1943, pp. 71-2); nel suo articolo del 1954 dal titolo «Dialetto e poesia in Italia», poi, lo stesso Contini approfondiva l’analisi riconducendo il dialetto di Pasolini alla matrice del decadentismo europeo, e di qui al Pascoli3: Il Pasolini che promuove un aggiornato felibrismo ‘di cà da l’aga’, che si esercita sottilmente in più varianti municipali, vuol certo adempiere all’ambizione dei grandi decadenti, di operare in una lingua inedita, ‘che più non si sa’4: è giusto citare un verso di Pascoli, principale portatore italiano di quest’ambizione europea e suo assiduo praticante nel versatile laboratorio. (Contini, 1954, p. 11)

La tesi della «lingua inedita», già riferibile alle poetiche dell’ermetismo, viene subito dopo approfondita da Contini come capacità di inventare «una

1 Particolarmente suggestiva l’analisi di Santato (1980, pp. 1-26), che discutendo la dimensione mitica di Poesie a Casarsa svolge rapidi ma suggestivi paralleli sul rapporto tra ‘mito’, ‘poesia’ e ‘storia’ nei vari Adorno, Barthes, Bataille, Blanchot, Derrida, Eliade, Foucault, Freud, Frye, Gide, Groddek, Klossowski, Lacan. 2 L’analisi glottologica di P. Rizzolatti ha rilevato in Poesie a Casarsa la presenza di diversi dialetti friulani, di area centrale piuttosto che occidentale e casarsese, il cui spregiudicato amalgama testimonia «l’indifferenza del poeta per ogni forma di realismo» (1990, p. 12). Il punto di partenza per questi componimenti, ricorda la Rizzolatti, devono essere considerati i Saggi ladini di G. I. Ascoli, e il Vocabolario dell’abate Pirona, di cui Pasolini stesso confessò l’influenza (Pasolini, 1949a). In sostanza, il dialetto di Poesie a Casarsa, come notò già Contini (1954), è pensato e costruito de lonh, in laboratorio, piuttosto freddamente. Pasolini, più tardi, lo ammetterà in modo esplicito (SC, p. 118). 3 Il parallelo con Pascoli è ripreso anche in Contini, 1968, p. 1025. 4 Cfr. Beccaria (1975, p. 151): «[…] è infatti tipica necessità di ogni decadentismo la tensione verso una lingua vergine, ‘inaudita’ […]». Per l’approfondimento di questo concetto nella prima poesia friulana di Pasolini si veda soprattutto Brevini, 1979, e ancora Contini, 1978, p. 151.

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nuova fisicità verbale, una materia di poesia nel senso più letterale e artigianale» (Contini, 1954, p. 12). Ecco allora che parlando di «fisicità verbale», Contini riconosce al dialetto poetico del giovane autore una funzione utopica, poiché vede in quei versi la tendenza del segno letterario a trasfigurarsi nell’oggetto nominato, assorbendone la prerogativa essenziale della fisicità. Credo allora che proprio da questa indicazione di Contini occorra partire per comprendere cosa significhi per l’autore-Narciso di Poesie a Casarsa annullarsi nella materia del proprio canto; voglio dire che nel creare la propria lingua poetica dialettale, Pasolini sembra voler affermare espressamente un’urgenza utopica. In questo senso il parallelo con l’ermetismo dev’essere precisato. Da un lato, non c’è dubbio che per la sua musicalità, per le violentazioni linguistiche operate dal poeta, per la sua forzata ‘diversità’, questo friulano almeno in parte inventato soddisfa la medesima brama di assoluto degli ermetici. Tuttavia, mi pare che in esso emerga anche una differenza sostanziale con la parola poetica dell’ermetismo. Se quest’ultima tende principalmente a una totalità metafisica e incorporea, il friulano di Poesie a Casarsa sembra piuttosto affermare la presenza di un assoluto fisico e tutto immanente, e ciò attraverso un’operazione linguistica che in termini teorici equivale al recupero dell’intimità mimetica tra la soggettività e il dato sensibile del mondo (cfr. Bandini, 1978, p. 10). Peraltro, diversamente da quanto sostiene Rinaldi5, il dato mitico che emerge dal dialetto delle prime poesie friulane di Pasolini sembrerebbe il risultato di un’operazione semi-cosciente, abbandono più istintivo che mediato al fascino del non-codificabile. Negli anni delle Poesie a Casarsa (1939-41), infatti, la poetica pasoliniana è ancora in fieri, contratta in una dimensione precaria e primitiva, per cui pare logico ascrivere la scelta della mimesi dialettale a un moto immediato e irriflesso piuttosto che a un calcolo dettato da una precisa strategia estetica. Ma ricondurre il dato mitico di Poesie a Casarsa a un’urgenza istintiva e fisiologica piuttosto che razionale, richiama un fondamento della teoria psicanalitica di Sigmund Freud, autore che Pasolini aveva letto negli anni universitari6. È noto infatti che Freud considera come base della vita psichica il principio

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Considerando Poesie a Casarsa un continuum narrativo, Rinaldi non ha torto nel riconoscervi un soggetto che «comincia a misurare la distanza che lo separa da quell’Eden appena abbandonato», e che quindi da sfogo a «un rimpianto senza appagamento» (Rinaldi, 1982, pp. 911). Ciò nonostante, quando poco più avanti il critico si chiede se «questa avventura del soggetto alla conquista dolorosa della propria presenza e della propria voce non si possa anche leggere su un piano secondario, [...] facendo in questo modo delle prime poesie pasoliniane esempi quasi perfetti di meta-poesia» (p. 14), mi pare egli forzi il discorso. Rinaldi sembra cioè attribuire al giovane Pasolini un dominio della propria poetica e una capacità organizzatrice del mezzo linguistico che, se pensiamo alle contemporanee prove in lingua italiana (cap. I), non credo egli potesse avere. 6 M. David (1966, pp. 556-7 e 562) esprime dubbi circa la lettura approfondita di Freud, sostenendo che nei primi anni ’40 non doveva circolare in Italia né l’opera completa in tedesco o in inglese, né le incomplete traduzioni francesi, né tantomeno i «rarissimi volumi in italiano […].

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del piacere, ovvero la tendenza dell’uomo a soddisfare la propria istintualità, mentre la ragione entra in gioco solo in un secondo tempo. In altre parole, l’Id anticipa l’Ego, che anzi si origina proprio nell’inconscio ed è in primo luogo, esso stesso, corpo. Applicando la medesima consequenzialità, Poesie a Casarsa si può definire poesia dell’Id, in cui il poeta-Narciso si annulla nell’oggetto senza sapere che proprio in virtù di questo abbandono egli potrà successivamente sviluppare una coscienza speculativa. La centralità del mito di Narciso nella poesia friulana è stata recentemente esplorata e confermata da un’indagine di Angela G. Meekins (1999), che parte proprio da Freud per dimostrare come l’immedesimazione del poeta nella natura friulana, ricorrente nei versi di Poesie a Casarsa7, sia funzionale alla successiva apertura razionale sulla realtà. Da un punto di vista teorico, il luogo della riconciliazione tra il soggetto poetico e il sensibile naturale è di fondamentale rilievo. Esso rappresenta, infatti, l’affermazione di quella dimensione non-razionale e ineffabile che proprio attraverso il mito di Narciso si traspone, sin da questo esordio, nell’immagine della ‘morte’. Il desiderio di annullamento del soggetto, centrale a tutta la raccolta, corrisponde dunque alla prima effettiva individuazione del topos dell’alterità, la funzione teorica su cui il Pasolini maturo fonderà, come vedremo di documentare nel corso della ricerca, il suo impegno ‘anti-borghese’. Franco Brevini (1981b) è stato tra i pochi critici a collegare l’amore istintivo per il dato irrazionale della realtà, nella prima raccolta, allo sviluppo della dimensione cognitiva8. Ma soprattutto credo debba essere tenuta presente un’osservazione di Santato (1980, pp. 12-3), che acutamente riconduce il mito friulano di Pasolini al concetto di ‘identità’ elaborato da Theodor W. Adorno, nel capitale Dialettica negativa, quale momento fondante del proprio discorso critico (cfr. soprattutto Adorno, 1970, p. 132).

Senza credere che abbia letto tutto Freud a vent’anni, si potrà ammettere che ne avrà divorato qualche saggio con profondo turbamento». 7 In quasi tutti i testi poetici della prima raccolta si possono rinvenire chiare prove di questa immedesimazione narcissica con la natura, e, in particolare, con l’acqua. Già «Dedica», che apre la raccolta, presenta l’immagine dello specchio naturale della fontana casarsese; ne «Il nini muàrt» il poeta s’identifica con il feto di una donna incinta che cammina lungo un fossato dove «’a crès l’àghe» («cresce l’acqua»), per poi dire: «Jo ti ricuàrdi, Narcìs, tu vèvis il colôr / de la sèra, quànt lis ciampànis / ’a sunin di muàrt» («Io ti ricordo, Narciso, tu avevi il colore della sera, quando le campane suonano a morto»); in «O me giovanetto!», lo specchio d’acqua si trova nel pozzo (cfr. Best, pp. 1191-5). 8 «È una poesia che vagheggia la natura innocente verso la quale [Pasolini] regredisce con la coscienza del cittadino stanco della storia. Ma questa scelta si carica in Pasolini di una profonda intenzione morale. Il rimpianto dell’innocenza perduta è uno dei segni che rendono chiara alla coscienza intellettuale del secondo Settecento (per tutti si veda Schiller) la crisi che si manifesta come separazione dell’uomo dalla natura. La critica pasoliniana ha lamentato il precoce atteggiamento da reduce con cui il giovane poeta guarda alla sua mitica terra. Ma proprio rapportandosi al Friuli come ad un paradiso perduto, rimpiangendo l’infanzia ad esso associata, Pasolini lamentava la separazione da ciò di cui il ‘paìs’ contadino era immagine: la natura, i sensi, l’irrazionale, l’ideale armonia interiore perduta con quegli anni memorabili» (Brevini, 1981b, p. 34).

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Sottolineata questa valenza teorica, è da scartare senza appello l’ipotesi che vuole la scelta del primo dialetto legata a un sentimento di esplicita solidarietà populistica. L’autore di Poesie a Casarsa non intende affatto la lingua poetica come apertura immediatamente comunicativa. Discutibile risulta però, in base a quanto si è detto, la lettura di Asor Rosa (1969, pp. 352-9), che, pur apprezzando lo stile di queste liriche, ne condanna l’assenza di sostanza cognitiva. 2.2 Dalle riviste friulane all’iscrizione al PCI: nasce uno scandaloso soggetto politico Seguire la nascita e lo sviluppo delle riviste friulane dirette da Pasolini a Casarsa tra l’aprile del 1944 e il giugno del 1947, significa osservare la progressiva maturazione intellettuale della riflessione dell’autore sul dialetto9. Già i cambiamenti dei titoli («Stroligut di cà da l’aga», «Il Stroligut», «Quaderno romanzo»), e insieme la fondazione di una scuola poetica (‘Academiuta de lengua furlana’), evidenziano esplicitamente la volontà di portare tale riflessione su un più vasto terreno linguistico-culturale10. Negli articoli, nei testi poetici e nelle traduzioni che riempiono le riviste, così come negli elzeviri scritti per altre testate, la ‘dialettalità’ continua a essere concepita essenzialmente come mito dell’origine dei tempi, condizione di assoluta alterità; ciò significa che l’intuizione dell’identità tra soggetto e oggetto, in quanto sostanza pre-logica e pre-grammaticale, originaria inseparatezza tra la coscienza e il mondo, rimane centrale11. Parallelamente, e per gradi, Pasolini sembra però acquistare

9 Nel 1949, Pasolini dirà che, con la fondazione delle riviste, «la poetica iniziale [di Pasolini] subiva delle modificazioni»; nei primi «Stroligut», «la necessità di un più diretto contatto con gli usi e la vita rurale […] e il bisogno di un’espressione più immediata», si rivelarono viziate da «una specie di nevrosi e di scadimento sentimentale causato in quasi tutti noi dalla guerra» (Pasolini, 1949a, p. 32). Mi pare che l’autocritica non debba essere presa troppo alla lettera, poiché sembra conformarsi alla tipica tendenza pasoliniana a ‘superare’, e quindi, almeno parzialmente, ‘abiurare’, dalle proprie precedenti posizioni. I primi «Stroligut» intendevano fondare la cosiddetta ‘poetica del felibrismo’, attraverso la quale doveva potersi esprimere un friulano «di cà da l’aga» (parlato a destra del fiume Tagliamento) contrapposto a quello ufficiale che trovava spazio nelle pagine dell’almanacco udinese Strolic furlan. 10 I fascicoli pubblicati furono cinque, con «tre intitolazioni diverse che indicano tre tempi e un progressivo allargarsi dell’orizzonte culturale e politico: i primi due, non numerati e intitolati «Stroligut. di cà da l’aga», datati aprile e agosto 1944, sono legati alla libera scuola di Casarsa e seguono la nascita corale del nuovo felibrismo friulano; i due successivi, battezzati semplicemente «Il Stroligut», portano i numeri 1 (agosto 1945) e 2 (aprile 1946), e sono successivi alla fondazione dell’«Academiuta di lenga furlana» (18 febbraio 1945); l’ultimo con la silloge dei poeti catalani, ha il titolo significativamente mutato di «Quaderno romanzo», ma continua la precedente numerazione col n. 3 (giugno 1947)» (Folena, 1994, p. 29). 11 Ne «Il coetaneo ideale e perfetto», Pasolini ricorda così l’ideale coetaneo contadino della sua adolescenza: «La vita dei sentimenti rampolla in lui in un friulano che è l’equivalente del sole, dell’asfalto, dei campi deserti, della piazza vibrante di colori» (Primule, p. 150). Questo

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coscienza e dominio del proprio mito, riconoscendogli un significato metaforico12. Il progetto della promozione del dialetto friulano a lingua, centrale all’articolistica, affonda le proprie radici teoriche precisamente nella contrapposizione di questa dimensione assoluta e pre-razionale alla ragione speculativa. Lo scontro porta a una ben precisa concezione di ‘razionalità’: poiché viene riconosciuta l’esistenza di un fattore altro, originario e inaccessibile in termini logici, la ragione non può che darsi come ‘processo di negatività’, ovvero come infinito superamento delle proprie conquiste. La storia dell’uomo, attraverso la lente d’ingrandimento della ‘Piccola Patria’ friulana, viene similmente a configurarsi come rottura dell’originaria unità, e quindi sviluppo dell’identità in differenza, dell’armonia in conflitto. Si tratta di un’appercezione assolutamente moderna del concetto di ‘razionalità’, che se può essere rinvenuta nelle formulazioni dell’idealismo tedesco, trova poi ampie conferme nella filosofia esistenzialista. Non è un caso che Pasolini fosse venuto a contatto con entrambe le correnti13. I lineamenti teorici essenziali di questo progetto si possono già rintracciare nel primo contributo pasoliniano alle riviste friulane, il saggio «Dialet, lenga e stil», in cui l’autore lamenta l’assenza, nella tradizione letteraria friulana, di scrittori o poeti in grado di elevare il dialetto alla dignità di lingua. L’epigrafe, dalla Difesa della poesia di P.B. Shelley, ribadisce subito la centralità del mito nell’elaborazione poetico-linguistica: «Nell’infanzia della società ogni autore è necessariamente un poeta, perché il linguaggio stesso è poesia». Come conferma la lettura dell’elaborato, il nesso ‘origine’-‘linguaggio’-‘poesia’ risulta cementato da una fertile valenza mitica. È partendo dalla metaforica mitizzazione del dialetto in quanto lingua magica, sacra, utopicamente sciolta nell’oggetto nominato («Nisun di vualtris al savarès scrivilu, chistu dialet, e squasi squasi, nencia lèsilu. Ma intant lui al è vif, e se vif!, ta li vustris bocis, tai lavris da li zovinutis, tai stomis dai fantas, e al suna alegramenti di bràida in bràida, di ciamp in ciamp»)14 che Pasolini guarda alla dimensione storico-diacronica. Se

tema è ripreso e elaborato in «Dopocena nostalgico» (Primule, pp. 152-4), «Di questo lontano Friuli» (Primule, pp. 218-21), «Ragioni del Friulano» (Primule, pp. 236-8), e diffusamente ne «I parlanti» (RR, II, pp. 163-96). 12 Descrivendo il passaggio dal dialetto di Poesie a Casarsa a quello dell’«Academiuta di lenga furlana», parlò di un idioma «da usarsi con la delicatezza di un’ininterrotta, assoluta metafora» (Primule, p. 212). 13 Si è già detto (cap. I) dei contatti con l’esistenzialismo e con l’idealismo tedesco; già nel 1941, per esempio, dice di aver letto «metà Fichte» (L, I, p. 71). Interessante come lo sviluppo della concezione mitica del dialetto si possa comparare, oltre al rapporto freudiano tra Ego e Id, alla contrapposizione fichtiana tra io e non-io, primo e secondo principio del sapere esposti nella celebre Dottrina della scienza. Come il mito nel dialetto di Pasolini, l’Assoluto fichtiano è insieme l’altro (il non-io), e la radice della coscienza speculativa (l’io), che proprio a causa dell’opposizione di ciò da cui si è originato, si può dare solo come infinita trascendenza di sé. 14 «Nessuno di voi vorrebbe scriverlo, questo dialetto, e quasi quasi neanche leggerlo. Ma

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i dialetti sono legati come da un cordone ombelicale a un’origine imbevuta di sostanza inaccessibile, le lingue, in quanto sistemi simbolici per la comunicazione, nascono proprio dai dialetti: […] il Talian na volta, tanciu sècui fa, al era encia lui doma che un dialet, favelat da la puora zent, […] mentri che i siors e i studias a parlavin e a scrivevin in latin. […] Ma eco c’a saltin four, in Toscana, scritòurs de poès c’a volin sfogà cun pì sinceritat e vivacitat i so afiès, e in maniera che ducius a ju capissin: e cussì a si metin a scrivi tal so dialèt toscan. In dialèt toscan Dante al scrif la so ‘Divina Comedia’, in dialèt toscan il Petrarca al scrif li so poesiis, e cisì chel dialèt un puc par volta al doventa lenga e al sostituis il Latin. (Pasolini, 1944a)15

Inserendo, con il benestare dell’Ascoli16, il dialetto friulano nell’antichissima tradizione latina («favelà Furlan a voul disi favelà Latin», Pasolini, 1944a), Pasolini traccia un percorso poetico-linguistico che procede dal mythos al logos. Costruire una tradizione letteraria in friulano significa infatti gettare un ponte tra l’inattingibile origine linguistica e la lingua in quanto sistema convenzionale di segni; ovvero mostrare come solo attraverso il recupero di un’estremità utopica la lingua in quanto fenomeno storico-diacronico ha ragione di essere. L’enfasi diacronica riemerge poi quando, nel maggio 194417, tra il primo e il secondo «Stroligut», Pasolini redige in dialetto casarsese il dramma storico I Turcs tal Friùl18, rievocando, con un occhio sulla storia presente (la Seconda Guerra Mondiale), l’invasione turca del 1499. L’evidente parallelo tra passato e presente acquista pregnanza di significato nel contrasto tra la storia (la guerra

intanto lui è vivo, e come è vivo! Nelle vostre bocche, nelle labbra dei giovani, negli stomaci dei ragazzi, e risuona allegramente di braida in braida, di campo in campo». 15 «[…] l’Italiano una volta, tanti secoli fa, era anche lui come un dialetto, parlato dalla povera gente, […] mentre i signori e gli studiosi parlavano e scrivevano in latino. […] Ma ecco che saltano fuori, in Toscana, poeti che vogliono sfogare con più sincerità e vivacità i loro affetti, e in modo che tutti li capiscano: e così si mettono a scrivere nel loro dialetto toscano. In dialetto toscano Dante scrive la sua ‘Divina Commedia’, in dialetto toscano il Petrarca scrive le sue poesie, così che il dialetto un po’ per volta diventa lingua e sostituisce il latino». 16 Graziadio Isaia Ascoli, studioso ebreo di Gorizia volutamente ignorato dalla cultura fascista, era stato il primo a sollevare la questione friulana, constatando l’affinità del friulano con il ladino grigionese e dolomitico, nonché per molti aspetti con il provenzale, e proponendo il ladino come gruppo linguistico autonomo al settimo posto della graduatoria delle lingue romanze. Il dibattito si accese nella seconda metà del secolo scorso, mentre in tempi più recenti il friulano divenne oggetto di profondi studi da parte di linguisti come Devoto, Battisti, Tagliavini, Salvi, ecc. Ora la polemica sembra definitivamente conclusa, con il riconoscimento del friulano come parlata romanza piuttosto coordinata all’italiano che ad esso subordinata, con un massimo di tratti eccentrici nella griglia italo-romanza. All’inizio degli anni ’40, Pasolini legge i Saggi ladini, il testo in cui Ascoli ricorda l’appartenenza del friulano al gruppo delle parlate originatesi da un contatto diretto con il latino. 17 La data è segnata sul manoscritto originale (cfr. Boccotti, 1980, p. 9). 18 Si tratta di un’opera postuma, uscita per la prima volta nel 1976. L’edizione del 1980 a cui facciamo qui riferimento, porta a fronte la traduzione in italiano.

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portata dalla discesa dei Turchi prima, e dei Tedeschi poi) e ciò che rimane fuori della storia, Casarsa come simbolo di un universo rurale immobile nei secoli, fedele a valori essenziali e naturali. Non è un caso che il dramma si concluda con un miracolo ‘naturale’, l’improvvisa tempesta che respinge l’avanzata turca. La metaforica condanna politica dell’invasione nazista procede dunque dalla difesa del mito rurale; detto diversamente, la consapevolezza del mito conduce Pasolini alla storia19. Ma nel dramma intervengono anche significativi elementi autobiografici su cui la critica, sorprendentemente, ha finora glissato. Il personaggio Meni Colús, fratello di Pauli, rifiuta la religiosa rassegnazione della comunità casarsese, e decide di combattere gli invasori. Parallelamente, proprio in quel maggio del 1944 in cui Pasolini scriveva il dramma, il fratello Guido partiva per unirsi alla resistenza partigiana. L’opposizione di Meni alla comunità casarsese, il suo proporsi come attivo soggetto storico, e infine la sua morte, il suo sacrificio, acquistano una forte rilevanza autobiografica. Non solo perché, descrivendo la morte di Meni, Pasolini preannuncia il sacrificio di Guido; ma soprattutto perché il rapporto fittizio tra i fratelli Pauli e Meni sembra ricalcare quello reale tra Pier Paolo e Guido, durante il periodo dell’affiliazione partigiana di quest’ultimo. Turcs tal Friúl conferma cioè quanto abbiamo precedentemente osservato: che, attraverso la scelta politica, Guido si era in qualche modo allontanato da Pier Paolo. Nel dramma, infatti, Meni-Guido sceglie di entrare nella storia per combattere i nemici, mentre Pauli-Pier Paolo ne rimane al di fuori, mettendo il proprio destino nelle mani di Dio; solo dopo la morte del fratello maturerà in lui un primo barlume di coscienza storico-politica. Il dialogo iniziale tra i due fratelli è particolarmente significativo nel riassumere la loro diversa posizione di fronte alla guerra. Mentre Pauli prega affinché il Signore fermi i Turchi, Meni ha altra opinione in merito, e lo schernisce così: «Altri che preà, altri che lamentasi. Da blestemà a sarès, fradi. Blestemà chista vita, blestemà il Signòur e blestemà te e dúcius chei ca stan cà come te a preà e a patì» (Turcs, p. 28)20. Il contrasto tra i due fratelli, nel corso del dramma, rimane netto e inequivocabile. Solo al termine, dopo la morte di Meni, Pauli potrà esclamare: «Ti vevis razòn, fradi. Ti eris zovin, ma ti eris vif; e jo i no mi ‘necuarzevi. […] Adès, i mi necuàrs da la to zoventút, adès ch’i viot il to cuàrp di muàrt. […] Ti vevis razòn, fradi, di blestemà il Signòur, di sacramentà la Verzin!» (Turcs, p. 110)21. Ora che il fratello è morto per la causa, Pauli sembra 19 Diversamente da questa interpretazione, Rinaldi (1982, pp. 30-1) considera l’apertura politica in Turcs tal Friúl una scelta opportunistica, palesemente contraddittoria rispetto alla poetica della non-comunicatività incarnata dal primo dialetto pasoliniano. 20 «Altro che pregare, altro che lamentarsi. Ci sarebbe da bestemmiare, fratello. Bestemmiare questa vita, bestemmiare il Signore e bestemmiare te e tutti quelli che stanno qui come te a pregare e a patire». 21 «Avevi ragione, fratello; tu eri giovane, ma eri vivo; e io non me ne accorgevo. […] Adesso, mi accorgo della tua gioventù, adesso che vedo il tuo corpo di morto. […] Avevi ragione, fratello, di bestemmiare il Signore, di sacramentare la Vergine!»

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ravvedersi, e anche lui (come fece Pier Paolo dopo la morte di Guido, iscrivendosi al Partito d’Azione) condanna l’atteggiamento remissivo della comunità casarsese. Tuttavia, il miracolo finale ristabilisce un’ambiguità di fondo, su cui si può misurare la dialettica pasoliniana tra mythos e logos. La salvezza giunge infatti dal cielo, e le parole conclusive del prete («Strezinsi ta l’ombrena da li nustris ciasis, cristiàns, cà, senza domandasi mai nuja, nuja ch’i sin, pognès tal grin dal Signòur. Amen», Turcs, p. 114)22 tornano a sigillare l’impronta del mito. Impronta che rimane determinante nel secondo «Stroligut», uscito nell’agosto del 1944. Come il primo, esso è rigorosamente redatto in casarsese. Nel testo «Prejera» (1944b), per esempio, Pasolini si richiama proprio al miracolo che aveva concluso Turcs tal Friúl, invocando, nel 1944 come nel 1499, l’intervento divino a salvare il paese dall’invasione straniera. Un passo avanti verso l’elaborazione critica del sostrato mitico caratteristico delle due plaquettes d’esordio, interviene con la pubblicazione del primo «Stroligut» postbellico, nell’agosto del 194523. La novità, qui, consiste nella presenza di alcuni testi redatti in italiano24. Una novità formale che testimonia, con il tentativo di coinvolgere un pubblico di lettori più composito (cfr. Rinaldi, 1982, pp. 34-5), la nascente volontà di apertura al polo opposto rispetto al mito dialettale: al dialogo, alla comunicazione, alla storia. Questo perché la tensione teorica sottostante il nuovo bipolarismo ‘friulano-italiano’ è una filiazione di quella che dall’inizio informa la coppia ‘dialetto-lingua’; essa si dispiega, cioè, attraverso la medesima interazione tra ‘utopia’ e ‘ragione’, ‘mito’ e ‘storia’, ‘incomunicabilità’ e ‘comunicazione’ (cfr. anche Santato, 1980, pp. 36-7)25. Questa tensione teorica accompagna il tentativo di promuovere una tradizione letteraria in friulano scritto, non vernacola, quindi alternativa alla linea del po-

22 «Stringiamoci all’ombra delle nostre case, cristiani, qui, senza domandarci mai nulla, nulla che siamo, raccolti nel grembo del Signore. Amen». 23 Con il nuovo titolo Il «Stroligut», esso porta all’occhiello una citazione da Carlo Cattaneo, che descrive i dialetti come «lingue assolute e indipendenti, quali furono nelle native condizioni del genere umano». Molte sembrano essere le affinità tra la sensibilità di Carlo Cattaneo e quella di questo Pasolini. Basti ricordare la tipica fusione, nell’opera di Cattaneo, tra un individualismo romantico di stampo vichiano e l’interesse sociologico; oppure la sua volontà di interrogare il passato (compreso quello primitivo) in funzione del presente. 24 L’enfasi bilinguistica di questo periodo è rispecchiata anche nei testi della raccolta Poesie (Best, II, pp. 1223-61; cfr. Santato, 1980, p. 59). Alcuni di questi testi verranno inseriti nella brevissima raccolta Diarii, dello stesso anno (Best, II, pp. 1263-75). Di vera e propria sperimentazione plurilinguistica bisogna parlare per il ciclo di dodici liriche dal titolo Las hosas de las lenguas romanas, scritte in laboratorio sulla base della lingua spagnola, ma ricchissime di imprestiti romanzi (friulano, francese, provenzale, italiano) e incentrate sul tema della morte (Best, II, pp. 1996-2008). 25 Da ricordare che già Poesie a Casarsa proponeva l’interazione bilinguistica tra dialetto e lingua, essendo le poesie in friulano corredate da una traduzione in italiano che, come dimostrano le continue correzioni apportate (cfr. L, I, p. 135) ambiva a un significato poetico autonomo.

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eta Pietro Zorutti e dei suoi seguaci26. Si tratta probabilmente del primo chiaro indicatore, nella carriera di Pasolini, di una preoccupazione fondatamente storicistica, la cui originalità e complessità consiste appunto nel suo costruirsi attraverso la mediazione di una coordinata utopica. L’immagine dell’«Eden linguistico» (Primule, p. 214), della dimensione assoluta perduta nell’origine dei tempi, diviene infatti centrale al progetto di storicizzazione linguistico-culturale: solo confrontandosi costantemente con questa immagine dell’assoluto, il divenire storico può essere dato. La chiave per comprendere la maturazione storicistica di questo terzo «Stroligut» sta probabilmente ancora nella figura del fratello Guido, deceduto qualche mese prima. Attribuendo a Guido un solenne monologo, struggente e allucinatorio, Pasolini significativamente riesuma il fratello defunto («Il martire ai vivi»). Il brano ha inizio con una frase sbalorditiva, in cui si può senz’altro riconoscere il connotato utopico riservato tanto al tema della giovinezza quanto, soprattutto, della morte: «Coscientemente ho cercato la morte dopo una breve giovinezza, che pure a me pare eterna, essendo l’unica, l’insostituibile che io avessi avuto in sorte» (L’Academiuta friulana e le sue riviste). In breve, Pasolini sublima e trasfigura la persona di Guido, interpretandone la morte in funzione della polarità utopica; in una lettera a Luciano Serra dello stesso periodo l’operazione è ancora più chiara: […] l’unico pensiero che mi conforta è che io non sono immortale; che Guido non ha fatto che precedermi generosamente di pochi anni in quel nulla verso il quale io mi avvio. […] Quell’infinito, quel nulla, quell’assoluto contrario ora hanno un aspetto domestico. […] Non è dunque così innaturale entrare in quella dimensione a noi così inconcepibile. […] Per questo posso dirti, Luciano, ch’egli si è scelto la morte, l’ha voluta; e fin dal primo giorno della nostra schiavitù. (L, I, p. 198)

Chiaramente, la morte del fratello non è affrontata in termini strettamente politici, ma, piuttosto, poetico-filosofici. Attraverso questa morte Pasolini può riproporre la simbologia dell’assoluto in quanto altro («non c’è confronto possibile fra tutto ciò che è di codesta vita e il silenzio terribile della morte», Academiuta) già fissatasi sul regresso linguistico27; più precisamente, la morte

26 Pietro Zorutti (1792-1867) era considerato il massimo esponente della poesia friulana. Pasolini ripetutamente attacca il provincialismo e la retorica sentimentale della tradizione dialettale a lui facente capo (cfr. Primule, pp. 103-6; 210-3; 214-7). La polemica con gli ‘zoruttiani’, in realtà, implicava una condanna del «perbenismo piccolo borghese della classe dirigente friulana» (Giacomini, 1990, p. 38). 27 La stessa immagine simbolica della morte di Guido verrà proposta su «Vie Nuove», quando Pasolini scriverà: «Che la sua morte sia avvenuta così, in una situazione complessa ed apparentemente difficile da giudicare, non mi dà nessuna esitazione. Mi conferma soltanto nella convinzione che nulla è semplice, nulla avviene senza complicazioni e sofferenze: e che quello che conta soprattutto è la lucidità critica che distrugge le parole e le convenzioni, e va a fondo nelle cose, dentro la loro segreta e inalienabile verità» (in BB, p. 110).

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diventa qui strumento per approfondire il rapporto tra l’assoluto e la vita in quanto ambito della relatività e della contingenza. Se l’interiorizzazione della morte conduce a una visione precaria dell’esistenza storica del soggetto, allora Pasolini, introducendo l’edizione dello «Stroligut» dell’aprile 1946, può interpretare la poesia dialettale non più solo come ‘mito’, ma anche come ‘pratica malinconica’: resteremo fedeli alla nostra poesia in lingua friulana: poesia malinconica, come è stato osservato. Ma la malinconia di questi versi è la fedeltà non retorica agli anni, che allora sembravano interminabili, in cui l’immaginazione era un esilio troppe volte vano. Dileguatosi l’uragano, l’Academiuta si è assunta un grande impegno con i morti. E si potrà rimproverarle la tristezza (l’incapacità ad un tradizionale riso vernacolo) come una colpa? (Pasolini, 1946a).

Questa seconda ed ultima edizione postbellica dello «Stroligut», che presenta più testi in italiano rispetto alla precedente28 sviluppa considerevolmente il tema cruciale della promozione del friulano a lingua. A dar manforte, viene ripubblicata la recensione continiana di Poesie a Casarsa, del 1943. In margine, Pasolini annota che il motivo di tale ripresa, più che i commenti sulla sua raccolta poetica, è lo «stringente discorso sulla preistoria e l’eventuale storia di una nostra letteratura»; discorso che un mese più tardi, presentando il proprio florilegio dalle pagine di «Libertà», definisce «l’ideale prefazione – e una sorgente inesauribile d’idee – per il nostro lavoro poetico in friulano. Con estremo nitore vi è indicato il limite tra dialetto e non dialetto; e a questo serrato discorso fanno quasi da sfondo gli spietati scorci dello squallido paesaggio della letteratura friulana» (Primule, pp. 205-6)29. Contini, insomma, avrebbe stimolato Pasolini a approfondire «la fase cosciente della sua estetica dialettale» (Ferri, 1996, p. 8), indicandogli la centralità del rapporto ‘dialetto’-‘lingua’. Che Pasolini fosse ormai pienamente cosciente della necessità di tale rapporto è evidente in molti testi del periodo in questione. In «Presentazione dell’ultimo «Stroligut»» egli spiega che l’antologia «si è assunta il preciso programma di innestare un friulano esautorato dai vernacoli nel tronco di una tradizione in lingua», sottolineando poi l’importanza delle traduzioni in friulano ivi ospitate (Primule, p. 203)30; qualche mese più tardi, chiarendo le ragioni della sua pole28 La dimensione mitica del dialetto rimane però altrettanto centrale, acquisendo connotati epico-religiosi. In «Volontà poetica ed evoluzione della lingua», testo in italiano, Pasolini ricorda la motivazione per l’epigrafe dell’«Academiuta» (Cristian plen di veca salut), descrivendo la complicità tra una tensione estetica che trasporta «al di là di dieci secoli, in un’epoca inconsumata della coscienza» e il messaggio della religione cristiana, che «albeggiava sull’Europa insieme al romanzo» (Primule, p. 208). 29 In questo «squallido paesaggio» rientrerebbero le attività della ‘Società filologica friulana’ e di riviste quali «Patrie dal Friûl» e «Ce Fastu?», il cui stile viene definito «dimesso, da dialetto, non da lingua» (Primule, p. 211). 30 Il concetto viene ribadito e sviluppato in «Dalla lingua al friulano». Per un’analisi delle traduzioni dei singoli animatori dell’«Academiuta» cfr. Ferri (1996, pp. 15-24).

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mica contro la tradizione zoruttiana, scrive che «bisogna indicare il Friulano come lingua virtuale, in cui è possibile ascoltare le sillabe ancora vergini, cioè piene della loro equivalenza al reale; bisogna innestare un tale Friulano nel più recente clima poetica europeo e italiano, proponendoci di inaugurare finalmente, in Friuli, una poesia ‘nazionale’» (Primule, pp. 215-6). La fitta elaborazione sul tema ‘dialetto’-‘lingua’ fa del 1946 un anno cruciale, il momento in cui Pasolini porta il suo ideale dialettale al centro di un dibattito che è prima linguistico-culturale, e quindi, più estesamente, politico: quello dell’autonomia del Friuli31. Sul problema del separatismo della regione le posizioni politiche erano svariate e complesse. Se la DC era favorevole, la sinistra in linea di massima si diceva contraria, considerando prematura l’indipendenza friulana perché insostenibile dal punto di vista economico32. Dalla lettura dei testi pasoliniani, la difesa dell’autonomismo emerge con caratteristiche assolutamente originali, presentando sempre, come costante riferimento teorico, il recupero strategico della coordinata mimetico/utopica. Il concetto di lingua «come il riassunto, lo specchio discretissimo dell’anima di un popolo» si rivela infatti alla base dell’adesione di Pasolini alla lotta per l’autonomia regionale friulana, come si può osservare nell’articolo del 1946 dal titolo «Che cos’è dunque il Friuli?»: […] costituendo tale regione ai confini con l’Austria e la Jugoslavia, i confini verrebbero rafforzati, non già debilitati. Non c’è infatti chi non veda che un Friuli etnicamente e linguisticamente più forte (se la sua dignità venisse riconosciuta e praticamente consacrata) sarebbe più solido, più friulano, e quindi più italiano, di un Friuli anonimo, vagante, privo di coscienza e corroso dal Veneto. [...] Come si vede, insomma, noi non facciamo che del separatismo dal Veneto, non già (il Cielo ci perdoni solo l’accenno) dall’Italia; e il decentramento non è da noi concepito come reazione ma come azione: azione che verrebbe a inserirsi nella più pura tradizione risorgimentale italiana, quella che perseguiva l’indipendenza e l’unità in nome della libertà. (Primule, pp. 251-2)

Di quasi tre mesi successiva è la polemica con il comunista udinese Pietro Pascoli, il cui programma contro l’autonomia tradirebbe «argomentazioni aprioristiche, non prive d’ingenuità» (Primule, p. 253). Per Pasolini, difesa della friulanità significa potenziamento della coscienza storica, possibilità di in-

31 Il tema politico, e lo schieramento pasoliniano a favore dell’autonomia friulana, erano stati anticipati nell’editoriale per «Il Stroligut» del 1945: «Insieme al nostro disinteressatissimo e deciso amore per l’Italia, dichiariamo subito apertamente la nostra tendenza ad una parziale, o piuttosto ideale, autonomia della Piccola Patria» (cfr. «Academiuta»). 32 A inizio 1947 Palmiro Togliatti rientrava in Italia dopo il lungo esilio nell’URSS, deciso a rafforzare la coesione interna del PCI in vista delle elezioni nazionali del 1948. Da quel momento, il partito si schierò compatto contro le autonomie regionali e a favore dell’unità linguistica e culturale del paese.

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staurare «una nuova mentalità capace di trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza» (Primule, p. 255), secondo quello che diverrà un refrain di molte sue future prese di posizione, poetiche e ideologiche (si veda la risposta polemica a Umberto Eco, in EE, pp. 277-84). Sin da questa sua prima, breve stagione politica, però, Pasolini si dimostra isolato. Le ragioni della sua difesa dell’autonomia regionale non sopravvivono alle ragioni di partito, poiché sono debitrici di una sensibilità che non rinuncia a cogliere nella storia un elemento mitico. Pasolini, prima ancora di iscriversi al PCI, si dichiara «comunista» (Pasolini, 1946c) e «di sinistra», fino a sostenere che «solo il Comunismo attualmente sia in grado di fornire una nuova cultura ‘vera’» (Primule, p. 255); ma, paradossalmente, la sua nozione di autonomismo si rivela incompatibile con la posizione ufficiale del partito. Nel gennaio del 194733, egli s’iscrive al Movimento Popolare Friulano per l’Autonomia Regionale (MPF)34, ma l’illusione di aver trovato un terreno fertile su cui far maturare le proprie idee ha vita breve; nel febbraio dell’anno successivo, infatti, presenta le dimissioni, dicendosi in conflitto con il tatticismo a sfondo nazionalistico e campanilistico del MPF, che sfrutterebbe l’ingenua passionalità e il sentimentalismo delle masse35. Nel frattempo, continuavano a crescere le sue simpatie per il comunismo; quasi certamente nell’autunno del 194736, Pasolini s’iscrive alla sezione del PCI di San Giovanni di Casarsa. Se da un lato questo frenetico accavallarsi di scelte e rinunce testimonia la volontà dell’autore di entrare nel mondo della responsabilità storica, dall’altro

33 Naldini (1986, p. xcv) sostiene che Pasolini firmò il manifesto della fondazione del movimento; Giacomini (1990, p. 41) sostiene che i fondatori erano stati Tiziano Tessitori e Gianfranco D’Aronco. 34 Su Il mattino del Popolo, nel 1948, ricorda che «tutto mi spingeva a compromettermi in un movimento che aveva per obiettivi un’autonomia amministrativa e una rivendicazione di dignità storiche e (soprattutto) linguistiche per il Friuli, che non solo rientravano nei miei slogan politici – si sa che il Partito d’Azione optava per le regioni – ma (soprattutto) nelle mie aspirazioni poetiche» (Primule, p. 263). 35 «Io tutto questo lo consideravo un mezzo: il braccio secolare, peccaminoso, cioè irrazionale fin che si vuole, postulato dal Razionale per giungere a una sistemazione logica. Per acquistare coscienza di sé il Friuli doveva partire dal sentimento incolto e indifferenziato. Come si vede mi appropriavo, nei miei scritti teoretici sull’autonomia, di un metodo dialettico che risuonava insistente nei miei orecchi di neo-marxista. Insomma io volevo dare alla questione un carattere antiprovinciale, antinazionalistico e tutto logico e funzionale, osservandolo dall’angolo visuale della Sinistra; e proprio non capivo come mai i comunisti e i socialisti fossero così sordi al problema [...]» (Primule, pp. 264-5). 36 Impossibile stabilire con assoluta precisione la data precisa dell’iscrizione, poiché in quegli anni gli archivi della Federazione di Udine non furono conservati. Fernando Mautino, allora responsabile della sezione stampa e propaganda della sezione di Udine, afferma che Pasolini cominciò a simpatizzare dall’estate del 1947, per poi iscriversi in ottobre; datazione che verrebbe confermata dal fatto che proprio a inizio ottobre Pasolini pubblica il suo primo articolo (Pasolini, 1947b) sul settimanale di partito «Lotta e lavoro», dopo aver lasciato «Libertà» nel settembre. La tessera fu poi ritirata a inizio 1949, come dimostra il timbro (cfr. Bandini, 1978, pp. 25-6).

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è già misura di un ‘impegno’ alquanto irrequieto e controverso. L’incompatibilità di una nozione di ‘autonomia’, fondata su argomenti poetico-filosofici, con le varie ‘ufficiali’ posizioni politiche, è un dato evidente. L’affiliazione del Pasolini autonomista in un partito come il PCI, antiautonomista, dev’essere poi considerato l’esempio più macroscopico di questa incompatibilità. Per comprendere cosa significasse per l’autore intervenire nell’arena politico-culturale friulana, bisogna allargare l’obiettivo su tutto un periodo di straordinarie lotte ideologiche, esasperate dall’incombenza delle elezioni del 1948. Amedeo Giacomini ha documentato accuratamente l’isolamento di Pasolini negli anni 1945-49, sia nel contesto della cultura friulana in lingua italiana, che in quella dialettale. Per quanto riguarda la cultura in lingua italiana, a Udine un gruppo di intellettuali riuniti nel Sindacato Artisti e Scrittori della CGIL, come i fratelli Cerroni, Dino Menichini e Tosco Nonini, erano «fautori di una poesia fortemente impegnata sul fronte politico, populistica nella sostanza e resistenziale» (Giacomini, 1990, p. 39); sin dall’inizio, costoro osteggiarono aspramente la produzione poetica di Pasolini (sia dialettale che in italiano), accusandolo di decadentismo e rimproverandogli la vecchia torre d’avorio ermetica37. Sul versante dialettale, oltre alla Società Filologica, e ai seguaci dello zoruttismo, agiva un gruppo di intellettuali e letterati che si riconoscevano nel MPF, il movimento per l’autonomia costituitosi per volontà dell’onorevole Tiziano Tessitori, il quale «aveva aggregato a sé tutti i patiti della friulanità» per cercare di creare «una base interclassista» in seno a «una classe democristiana nascente» (Giacomini, 1990, p. 41). Tra i membri di spicco del MPF c’era Gianfranco D’Aronco, studioso di letteratura friulana legato all’establishment democristiano e, dalla fine del 1947, in aperta polemica con la concezione di poetica dialettale di Pasolini38 (cfr. D’Aronco, 1947 e 1949). In breve, Pasolini viene avversato sia da destra che da sinistra, in quanto le sue posizioni ‘culturali’ reclamano un margine d’indipendenza dalle ragioni collettive, più o meno esplicitamente ‘politiche’. Sul «Quaderno romanzo» del giugno 1948, Pasolini pubblica un lungo saggio dal titolo programmatico «Il Friuli autonomo» (cfr. «Academiuta»), da cui possiamo attingere per approfondire il discorso sul suo isolamento. La difesa dell’autonomia del Friuli viene qui apertamente collegata, con un rapido ma sintomatico riferimento alla prefazione dei Prolegomeni di Kant, alla difesa dell’autonomia della poesia in quanto creatrice di lingua. Creare una lingua è di per sé un’operazione morale, in quanto significa recuperare la meta utopica dell’unità tra sentimento e espressione, senza la quale ogni progetto razionale è

37 Molti di questi intellettuali passarono poi alla rivista «Situazione», e da quella pagine, negli anni ’50, continuarono a stroncarlo (cfr. Giacomini, 1990, p. 40). 38 I rapporti tra Pasolini e D’Aronco, colleghi nell’MPF, si guastano, pur rimanendo nel limite della cordialità, a partire dall’estate 1947, a causa di divergenti posizioni sullo zoruttismo (cfr. L, I, pp. 310-2, e passim).

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vano. Già nel 1946, in un articolo escluso dalla raccolta postuma curata da Naldini, Pasolini aveva risposto alle accuse di disimpegno che gli giungevano da sinistra con un argomento essenzialmente filosofico, radicato nell’estetica dell’idealismo tedesco: L’arte è per sua natura un fatto sociale: e se mi si domandasse in che senso precisamente è sociale, risponderei subito che lo è in quanto mezzo di comunicazione: e il più alto e completo mezzo di comunicazione che ci sia dato usare. Quando il poeta, solo nella sua stanza, solo per una strada, si martorizza a cercare l’espressione esatta, unica, compie già senz’altro un profondissimo atto sociale […]. (Pasolini, 1946d)39

Significativo, tornando all’articolo «Il Friuli autonomo», che a simboleggiare la ricerca dell’espressione esatta e unica, indicante unità di sentimento e espressione, Pasolini faccia intervenire la figura del Diavolo, troppo spesso «escluso, addirittura ignorato» dagli «argomenti convincentissimi» dei «buoni insinceri». Nel difendere le ragioni della sua adesione all’autonomia friulana, Pasolini adduce che «come Dio si serve del Diavolo, così spesso la logica si serve del sentimento», aggiungendo poi, a mo’ di chiarimento, che «appartenere a una patria è natura, è sentimento, ma acquisterà validità solo nel caso che si muti in coscienza» («Academiuta»). La presenza del Diavolo a rappresentare simbolicamente una dimensione irrazionale da recuperare in termini etici e razionali, può allora aiutarci a comprendere la ricorrenza dei temi del ‘male’ e del ‘peccato’ nell’opera pasoliniana, a cominciare proprio dal periodo friulano40. Pasolini sembra insomma convinto che il male, in quanto emblema di ciò che sfugge alla ragione dell’uomo, possa agire simbolicamente sulla razionalità, costringendola a riconoscere il proprio limite epistemologico; per questo, un Friuli che sia «sul punto, ora, di passare dall’essere al dover essere», cioè di assumersi le proprie responsabilità storiche e civili, non deve «rifiutarsi alla sua imperfezione vitale», quella che Pasolini definisce «la sua naturalezza» («Academiuta»). Tra i suggestivi simbolismi attraverso cui Pasolini si sforza di chiarire la propria posizione, trovano spazio anche alcune istanze filosofiche mutuate dal già citato Esistenzialismo di Enzo Paci, dal quale Pasolini estrae un brano ove si discute Platone in merito alla sua concezione della funzione sociale dei guerrieri (Thùmos). Il ruolo del guerriero giustifica tanto l’elemento mitico-istintuale quanto quello razionale, riassumendo così efficacemente la posizione di Pasolini: «Il Thùmos, dunque [...] compie la sua funzione razionale non negandosi nelle

39 Una posizione pressoché identica verrà poi espressa in «Motivi vecchi e nuovi per una poesia friulana non dialettale», articolo del 1949 (cfr. Primule, pp. 239-42). 40 In particolare, i riferimenti analogici a Dio, al Diavolo, al peccato e anche al complesso di Edipo, diventano materia narrativa dei romanzi Atti impuri e Amado mio che Pasolini stava proprio in quel periodo scrivendo.

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sue qualità arazionali, ma facendo compiere a queste il loro compito, essenziale per l’ordine ideale di uno Stato perfetto» («Academiuta»). Da notare senz’altro come l’immagine del Thumos verrà trasposta, negli anni ’60, in quella delle Erinni (cfr. Dialoghi, pp. 17-9 e 117-20), conservando la medesima funzione strategica. La rivendicazione dell’autonomia friulana da parte di Pasolini, in conclusione, si conferma vincolata a una profonda riflessione teorica sul tema dell’irrazionalità che non viene recepita dai principali attori politici. Nonostante le fondamentali incompatibilità ideologiche, l’attività politica del Pasolini comunista fu da subito sollecita e appassionata41. Nel gennaio del 1948 si erano verificati gli incidenti di San Vito in relazione alla questione del ‘lodo de Gasperi’42: Pasolini scese in piazza, parlò ai manifestanti e cominciò a scrivere il romanzo Il sogno di una cosa, che avrà una gestazione particolarmente tormentata (uscirà solo nel 1962). La primavera del 1948, poi, vede Pasolini impegnato nella campagna per le elezioni nazionali. I discorsi, i manifesti murali43, i corsi di cultura marxista (cfr. Santato, 1980, p. 78) e le opere di reclutamento del giovane intellettuale crearono non pochi livori nelle comunità democristiane della zona. Le elezioni nazionali nell’aprile di quell’anno videro l’ampia vittoria della DC su tutto il territorio nazionale, e addirittura il trionfo

41 Bandini (1978, p. 24) sostiene che si tratti «dell’unico periodo della sia vita in cui il suo rapporto con il partito è irenico, totalizzante, fatto di quotidiana pratica di riunioni, assemblee e comizi.» In realtà, come abbiamo osservato, se la partecipazione pratica si svolge senza contrasti, da un punto di vista teorico le dissonanze erano macroscopiche. 42 Con questa locuzione si intende la decisione politica sostenuta dal gabinetto De Gasperi per cui, già dalla fine del 1945, ai mezzadri sarebbe andato il 55% dei proventi agricoli, mentre alla manodopera disoccupata veniva assicurata l’assunzione da parte degli agrari. I grandi proprietari terrieri si opposero in tutt’Italia a una manovra che definivano comunista. A San Vito, gli agrari promisero di assumere centoventi disoccupati, mentre la Camera del Lavoro avanzava la richiesta di un numero molto più alto, circa seicento braccianti. Le due parti non raggiunsero l’accordo, così il Tribunale di Udine decise che il lodo doveva essere applicato solo a un quinto della provincia, mentre per il resto (compreso San Vito) sarebbero stati assegnati lievi compensi. A questo punto i braccianti sanvitesi, sostenuti dal sindacato, decisero di scavalcare il Tribunale di Udine e conquistarsi individualmente il lodo. Il 28 gennaio 1948 si verificò il fatto più grave: un gruppo di dimostranti occupò la villa dell’amministrazione Rota, poco lontano da Casarsa, e finì per scontrarsi con le forze dell’ordine; in serata, dopo l’erezione di vere e proprie barricate, i contadini abbandonarono la villa-ostaggio, assicurati che l’amministrazione avrebbe aderito agli accordi mezzadrili già firmati da altre amministrazioni. Il piccolo incidente ebbe un’eco enorme, contribuendo a sollevare ulteriori proteste. 43 Era stato il segretario della sezione del PCI di San Giovanni, il pittore ‘Bepe’ Susanna, a offrire a Pasolini la possibilità di scrivere questi murali, da appendere nella loggia rinascimentale di fianco alla chiesa. Non sempre i testi di questi murali possono essere considerati stanche e generiche produzioni propagandistiche. Innanzitutto, l’anticlericalismo di cui si fanno promotori (giustificato dal dogmatismo di Pio XII, al culmine dell’intransigenza proprio nel 1949) lascia ampio spazio all’inquieta moralità cristiana dell’autore; secondariamente, molti testi, soprattutto quelli in dialetto, palesano uno stile tutt’altro che banale (in forma di apologo e parabola) nonché contenuti argutamente ironici. Per una conferma, si leggano i testi riprodotti in Betti (1978, pp. 73-95).

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in Veneto e in Friuli. Tuttavia, nonostante la pesante sconfitta, Pasolini rimase al suo piccolo pulpito di provincia, continuando a redigere murali. Il suo attivismo procede poi nel corso del 1949, e Pasolini diventa una figura di primo piano nel mondo socio-politico della regione. In febbraio partecipa al primo Congresso della Federazione Comunista di Pordenone, e in maggio il partito lo manda a Parigi per il Congresso Mondiale dei Partigiani della Pace. Sempre del 1949 è la pubblicazione (per le Edizioni dell’Academiuta) del libretto di poesie Dov’è la mia patria (cfr. Best, II, pp. 1311-49), arricchito da 13 disegni di Giuseppe Zigaina. Si tratta di 18 liriche dialettali facilmente riconoscibili quali immediato riflesso dell’avvicinamento pasoliniano alle problematiche sociali del mondo contadino friulano. Negli ultimi anni della sua permanenza friulana, Pasolini fa dunque una prima esperienza di lotta di classe e di militanza politica. In base a quanto abbiamo già osservato circa l’intima incongruenza ideologica tra Pasolini e partito, sembra lecito confermare dichiarazioni retrospettive dell’autore per cui l’adesione alla lotta contadina sarebbe stata determinata da un sentimento genericamente populista e, soprattutto, legato allo sviluppo della propria poetica (cfr. Duflot, 1993, p. 17). Aggiungerei a tutto ciò, come elemento determinante e unificatore, l’inclinazione verso l’eros contadino44. Non solo la multiforme attività letteraria che accompagna l’intervento pasoliniano nella storia, e che tra poco esamineremo da vicino, ma anche l’articolistica, la saggistica e l’epistolario45 di questo periodo fanno leva su un concetto di irrazionalità chiaramente radicato nell’esperienza fisico-sensuale del soggetto. Nei precedenti brani citati dall’articolo «Friuli autonomo», l’argomentazione politica è sostenuta proprio da una sottile rielaborazione dell’esperienza sensoriale. In una lettera a Silvana Mauri, datata marzo 1949 (L, I, pp. 352-4) Pasolini giustappone il suo «eros maniaco» a «l’individuo che ci ho costruito sopra», per chiedersi poi: «Possibile che il trovarsi fuori dalla pura funzionalità della natura non provochi, alla fine dei conti, che una nostalgia per la natura?» Trovarsi fuori dalla funzionalità della natura, continua, significa lavorare «in campo politico; come sai sono segretario della Sez. di San Giovanni, e ciò mi impegna molto, con conferenze, riunioni, giornali murali, congressi e polemiche coi preti della zona che mi calunniano dagli altari. Per me credere nel comunismo è una gran cosa». Pasolini sembra dunque calarsi con entusiasmo nel ruolo di attivista politico e d’intellettuale d’avanguardia, ma portando con sé la consapevolezza ‘scandalosa’ del suo viscerale attaccamento alla dimensione naturale e istintiva dell’esistenza46. Questo marchio utopico impresso sul suo 44 Si veda la tesi di Stefano Casi (1990b, p. 42), per cui la politicizzazione dell’Eros nell’opera di Pasolini presenta notevoli affinità con quella di Herbert Marcuse (cfr. Marcuse, 1956). 45 Il tema erotico è soverchiante nelle lettere del periodo 1948-49 (cfr. L, I, pp. 328-66). 46 Bandini (1978, p. 16) intuisce con acutezza che «Pasolini si impossessa della dialettica marxista per operare un ribaltamento clamoroso, servendosi del dato di natura per arrivare alla storia. […] Nella lingua-natura l’ideologia è già presente come fisicità […].»

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sentimento politico non può che contrastare con lo spirito del comunismo italiano postbellico, fondato essenzialmente sull’interpretazione tattica, demagogica e altamente deterministica della dottrina marxista. Abbiamo dunque motivo di credere che il comunismo di Pasolini nasca da un avvicinamento ingenuo, e forse salvifico, alla lotta di classe: Pasolini è con il PCI attraverso un populismo a base sensualistica, ma in realtà il suo impegno è già, in latenza, quello stoico e disperatamente vitale che segnerà l’attività dell’artista e dell’intellettuale postfriulano47. Sotto sotto, le contraddizioni, i punti di rottura tra l’ideologia poetica di Pasolini e l’ideologia del partito, erano tutti presenti dall’inizio; e non tardarono a acuirsi. Le circostanze relative all’espulsione di Pasolini dal PCI sono, com’è noto, legate ai cosiddetti ‘fatti di Ramuscello’, che portarono alla denuncia dell’intellettuale per ‘corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico’48. I motivi alla base dell’espulsione sono chiari e incontrovertibili, e mi pare riassumano con assoluta trasparenza l’intima incongruenza tra Pasolini e PCI. Il 29 ottobre 1949, all’indomani dell’annuncio pubblico dell’espulsione, Fernando Mautino, già eroe della Resistenza con il nome di battaglia ‘Carlino’, commenta dalle pagine de «l’Unità»49: Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre, di altrettanto decadenti poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese. (Mautino, 1949)

Se interpretiamo il brano, il provvedimento disciplinare risulta giustificato ideologicamente dal rifiuto di ciò che qualificava e contraddistingueva il nascente pensiero socio-politico di Pasolini, ovvero la sua enfasi sul dato sensoriale del reale. Ciò che il comunista Mautino, rifacendosi a un significativo parallelo

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Cfr. Siciliano (1978, p. 108): «Si potrà sostenere che la sua era un’illusione; e non è detto che egli non fosse persino consapevole della illusorietà di una fede simile: ma gli effetti della ragione, di questo è ormai convinto, non potevano prescindere dal cibo del sentimento. Questa intuizione lo salvò dalla banale ortodossia marxista, una volta per tutte». 48 Difficile stabilire con precisione come si svolsero i fatti. Secondo il resoconto di Naldini (1986, pp. cix-cx), la sera del 30 settembre, a Ramuscello, frazione di Cordovado dove era in corso la sagra di Santa Sabina, Pasolini si sarebbe appartato nei campi con quattro ragazzi di sua conoscenza per consumare rapporti erotici consistenti in una masturbazione collettiva. Il fatto sarebbe giunto all’orecchio di alcuni membri della Democrazia Cristiana che, data l’influenza di Pasolini, avrebbero colto la palla al balzo per screditarne l’immagine pubblica. Prima ci sarebbe stata una lettera anonima ai carabinieri della zona, quindi l’immediata diffusione della denuncia su tutta la stampa della regione. Pasolini stesso, subito dopo la denuncia, parlò di complotto politico e di «odium theologicum» dei democristiani nei suoi confronti (L, I, p. 368). Per ulteriori particolari si veda Schwartz (1995, pp. 342-55). 49 Per un approfondito esame del rapporto tra Pasolini e la stampa italiana cfr. De Mauro, 1978.

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con Gide, Sartre e il decadentismo, denuncia come «degenerazione borghese», era in realtà quel luogo utopico e a-concettuale che aveva contribuito in modo determinante alla formazione della coscienza sociale di Pasolini, e che infatti egli cercava di elaborare, come abbiamo visto, nei suoi scritti teorici sull’autonomia friulana. Non a caso, due giorni dopo l’articolo, Pasolini scrive a Mautino che «parlare di deviazione ideologica è una cretineria. Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico della parola» (L, I, p. 368). Come ultima e definitiva prova che la posizione culturale di Pasolini in seno al partito era sostanzialmente eccentrica, tutto sommato quella di un corpo estraneo nella pubblicistica comunista di quell’epoca, ricorderei l’intervento ‘mancato’ di Pasolini al Congresso di Pordenone, del marzo 1949 (l’intervento non fu pronunciato per mancanza di tempo, ma venne poi pubblicato sul bollettino del Congresso). Qui emerge un audace rifiuto della letteratura propagandistica di sinistra, simile a quello già emesso in «Poesia di destra e di sinistra»; come ripeterà a Roma, ma in altre circostanze, questa letteratura gli riesce lacunosa in quanto frutto di una cultura italiana che «è ancora ‘borghese’, poiché la società è borghese». Secondo Pasolini, il letterato intellettuale di sinistra deve rinunciare a intervenire in questioni direttamente politiche, e deve piuttosto compiere «quell’esame introspettivo, interiore, diaristico che è poi la ginnastica vitale dell’uomo di pensiero», purché «cerchi di essere, in questo suo lavoro, più oggettivo, e più, diciamo pure, cristiano: si collochi nella storia umana. Da principio questo suo storicismo non sarà magari fedele al marxismo-leninismo, presupporrà dell’idealismo, del cattolicesimo, dell’anarchia, dell’umanitarismo, ma anche della vita, della volontà di rinnovamento». In sostanza, concludeva Pasolini, il letterato doveva essere «un leale compagno in politica», ma «completamente libero di fare ciò che voleva in letteratura» (in Caldioli, 1985, p. 107)50. Per concludere, ciò che emerge dall’ultimo capitolo della vicenda friulana di Pasolini è ancora una volta l’inconciliabilità teorica tra il suo primo tentativo di elaborazione intellettuale e l’ideologia del comunismo italiano. Proprio il drammatico atto finale dell’esperienza friulana interrompe bruscamente il processo di ricerca socio-politica. 2.3 Primi esperimenti narrativi Abbiamo costatato come, anche in campo politico, la maturazione intellettuale di Pasolini appaia fortemente influenzata dalla maturazione della riflessione linguistica e, in generale, estetica. Le apprensioni di Pasolini sull’autonomia della regione ruotano essenzialmente intorno all’elaborazione di un dia-

50 Incisivo a questo proposito il commento di Enzo Siciliano sul brano citato, che vi ritrova «l’esperienza del decadentismo europeo, intesa positivamente come momento non ricusabile di una realistica visione dei problemi culturali» (1978, p. 114).

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Capitolo secondo

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letto poetico e alla definizione del suo ruolo in quanto ‘creatore di lingua’. In termini più strettamente teorici, poi, l’intero volgersi pasoliniano alla storia si vede caratterizzato dal permanere di quella categoria mitica e irrazionalistica che aveva fondato la poetica dell’autore; essa viene lentamente rielaborata in funzione strategica, per definire cioè il raggio d’azione e la competenza ideologica della ragione speculativa. Se questo percorso è rintracciabile nei principali testi teorici del primo Pasolini, vedremo ora se sia possibile osservarne il riflesso anche nella vasta produzione letteraria sbocciata nel periodo friulano. I numerosi esperimenti in prosa sono a questo proposito di fondamentale rilievo, in quanto già nella scelta formale suggeriscono la volontà dell’autore di intraprendere la strada di una più ampia comunicatività rispetto al versificare poetico (che peraltro rimane, parallelamente, in primo piano). È precisamente dal 1946 che Pasolini decide di intensificare i suoi esperimenti narrativi, nel tentativo di affrontare quello che lui stesso definisce uno straordinario bisogno di sincerità (cfr. L, I, pp. 264 e 321). Le prime prove intervengono tra l’estate del 1946 e l’autunno del 1947, quando Pasolini imbocca la via del romanzo diaristico rievocando avvenimenti della propria infanzia e adolescenza in un progetto inizialmente e provvisoriamente intitolato «Pagine involontarie», o «Casarsa» (cfr. RR, I, pp. 1655-7). Testimonianza di questo progetto si trova nei cosiddetti ‘quaderni rossi’, materiale autografo contenuto in cinque fitti quaderni conservati presso l’Archivio Pasolini di Casarsa, e finora pubblicato solo a stralci dai detentori dei diritti sugli inediti pasoliniani51. Dal corpus dei ‘quaderni rossi’ si staccarono immediatamente due proposte più concrete, i romanzi brevi Atti impuri e Amado mio (insieme al racconto «Douce»)52. Per quanto tra il 1947 e il 1950 l’autore dedichi notevole attenzione ai due romanzi, come testimoniano le diverse redazioni rinvenute53, essi saranno entrambi pubblicati postumi. Tra Friuli e Roma (nel periodo 1947-51), poi, Pasolini elabora altri ambiziosi progetti come il Romanzo del mare (cfr. RR, I, pp. 1676-81) che non verrà mai portato a termine, e Il sogno di una cosa, romanzo dalla stesura particolarmente tormentata che viene pubblicato nel 1962 ma dal quale si erano precedentemente staccati i racconti lunghi Romàns e Aspreno e Marcellina (entrambi scritti nel 1948-49), anch’essi pubblicati postumi (cfr. RR, II, pp. 1945-50). Diversa la sorte del ciclo I parlanti; steso in Friuli tra il 1947 e il 1948, questo originale amalgama di saggistica e diaristica esce su «Botteghe Oscure» nel 1951 (cfr. RR, pp. 1943-5), per venire poi ripubblicato postumo in appendice

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Già nell’agosto del 1947, a stesura appena completata, Pasolini manifestò la volontà di spedire il romanzo al premio ‘Libera Stampa’ di Lugano; in realtà, mandò poi la raccolta poetica Diarii (cfr. L, I, pp. 320-2). 52 Questo racconto è la trascrizione pressoché letterale del primo ‘quaderno rosso’ (per le notizie filologiche sul testo si veda RR, I, pp. 1661-2). 53 La tormentata gestazione di questi progetti è testimoniata in RR, I, pp. 1631-75.

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alla terza edizione (del 1979) di Ragazzi di vita. Altrettanto cospicua risulta poi la produzione friulana di racconti brevi, elzeviri e abbozzi vari, pubblicati su vari quotidiani e riviste (cfr. RR, I, pp.1287-382, e pp. 1727-33). La critica ha sempre sostenuto che alla base della florida produzione narrativa friulana agisce un prevaricante impulso autobiografico, che gradualmente e faticosamente Pasolini cerca di arginare al fine di aprire la sua scrittura al polo opposto, alla storia e al mondo degli altri. Nel contrapporre nettamente ‘soggettività’ e ‘oggettività’54, mi pare che la critica abbia mancato un punto assolutamente centrale. La ricerca introspettiva dell’autore, infatti, risulta spesso complementare, piuttosto che contrastante, alla sua volontà di oggettivazione, se solo però intendiamo quest’ultima non esclusivamente in senso immediatamente ‘socio-politico’55, ma soprattutto in senso ‘filosofico’, come ricerca di comunione-comunicazione con l’altro da sé. Dato l’oggetto come ‘alterità’ (simboleggiata, come vedremo, da una precisa nozione di ‘corpo’ e di ‘natura’), il soggetto di questi testi aspira costantemente a uscire da se stesso non tanto per negarsi, ma per conciliarsi con quanto gli è alieno, fondando in questo modo una prospettiva utopica. In direzione appunto utopica, la volontà di oggettivazione di questi testi si può riconoscere sia a un’analisi formale che contenutistica, nonostante i risultati ottenuti nell’uno e nell’altro caso siano discordanti. Se infatti le tematiche fondamentali della scrittura pasoliniana paiono ormai ben definite, incentrate sulla trattazione del ‘corpo’ come nodale topos poetico-ideologico, l’italiano in cui sono espresse non soddisfa ancora l’autore: rispetto alla ricerca linguistica dialettale, che ha trovato una giustificazione teorica, quella in lingua fatica a raggiungere l’oggettività ambita dall’autore. Nella «Prefazione» progettata per «Pagine involontarie», sottoposta allo scrutinio di Contini in una lettera dell’agosto 1947, Pasolini esprime chiaramente quali sono le difficoltà incontrate nella sua narrativa friulana: «Non ho trovato altra scrittura, per lasciare inferno l’inferno, che questa così apertamente diretta: quasi un documento, se l’abitudine a quello che si dice lo scriver bene non mi avesse quasi sempre, e sempre controvoglia, presa la mano» (L, I, p. 321). Oltre al carattere ‘scandalosamente’ confessionale e generalmente neo-decadente delle prime prove narrative, anche l’insoddisfazione dell’autore nei confronti della propria lingua letteraria mi pare debba essere considerata una causa decisiva per la loro mancata pubblicazione. A Roma, come vedremo nel capitolo successivo, Pasolini inizialmente rimarrà vincolato alla lingua e agli stilemi dei primi testi narrativi friulani, e troverà infine solo nel ritorno al dialetto (romano) la veste formale a lui più consona. 54 Rinaldi in particolare (1982, pp. 50-5) interpreta il percorso della narrativa friulana come ‘contrasto’ tra soggettività assoluta e oggettività coartata. 55 L’unico esempio di un simile tipo di oggettivazione si trova in «Un bugiardo dice la verità», abbozzo inedito delle cartelle del gabinetto Vieusseux in cui Pasolini fa parlare i prima persona un ventottenne farmacista democristiano (cfr. Siti, 1999b, p. xcix).

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Capitolo secondo

Se analizziamo le prose pasoliniane dal punto di vista tematico, non possiamo mancare la presenza assolutamente ridondante del dato fisico-corporale, che si afferma come autentico catalizzatore della ricerca poetica56. Il corpo del giovane contadino friulano, nella sue varie tipologie, torna di testo in testo a incarnare l’oggetto mitico verso cui si muove e intorno al quale si orchestra tutta la narrazione. Le figure degli adolescenti Gianni, Bruno e Nisiuti in Atti impuri, di Benito-Iasìs in Amado mio, di Cesare in Romàns, dei vari protagonisti dei racconti e degli elzeviri, e soprattutto le stupefacenti varianti antropologiche individuate ne I parlanti, testimoniano con sicurezza l’intenzione pasoliniana di assumere la specifica fenomenologia del ‘corpo’ dei giovani friulani a luogo privilegiato: in quanto mistero accessibile solo attraverso i sensi, in esso si accentua il dato naturale57, rimandante a quella dimensione irrazionale e mitica che Pasolini intende iscrivere nel concetto di ‘realtà’. Proprio quest’ultima intenzione mi pare decisiva: la presa di coscienza del mito porta Pasolini a riconoscere la prospettiva utopica quale elemento cardine del proprio pensiero58. Detto altrimenti, verso la metà degli anni ’40 l’autore matura un maggior controllo intellettuale sulla coordinata mitica, utilizzandola nei suoi testi come essenziale strumento teorico. Come prima osservazione a riguardo, mi pare risulti cospicua l’enfasi sull’atto sessuale, che troviamo in tutti gli elaborati del periodo e che possiamo senza esitazione ricondurre a una matrice autobiografica. Più precisamente, l’insistenza sul dato sessuale può essere proficuamente riallacciata alla perdita della verginità dell’autore. In uno stralcio dei ‘quaderni rossi’ pubblicato da Naldini (1989, pp. 79-80), e datato 1944, l’autore scrive: «Ero in piena crisi, imprigionato dalla crisi […]. Quella crisi era dovuta alla perdita della mia verginità»; per poi approfondire così: «[…] mi pare che essa [la verginità] non sia altro che la solitudine dell’adolescente, il narcisismo come fatto comune a tutti gli adolescenti. […] Nelle ore di impotenti desideri, nelle operazioni [spazio bianco] resta fissa un’immobile, imperturbata purezza. Io dunque avevo final-

56 Un importante corollario del tema del ‘corpo’ è il tema del ‘peccato’. Sin dagli scritti creativi ospitati da «Il setaccio» (cfr. «Le piaghe illuminate», in «Setaccio», pp. 77-9), Pasolini sviluppa il discorso tipicamente decadente dell’eticità del ‘male’, del peccato come condizione necessaria per accedere alla conoscenza (cfr. Santato, 1980, pp. 32-3). 57 Interessante come la correlazione panica tra gli adolescenti e i luoghi da loro abitati non si limiti al solo Friuli. Nel racconto «Foglie fuejs» Pasolini scrive: «Chi guardi infatti la distesa puzzolente di canapa, senza un albero, intorno a Ferrara […] non può non riconoscervi la sensualità particolare dei suoi abitanti. […] Il desiderio amoroso in quella parte del volto di un giovinotto emiliano (di una sensualità così prosciugata e soda) compare con la stessa naturalezza schiacciante dei campi» (Primule, p. 114). La caratteristica ‘friulanità’ che contraddistingue il mito pasoliniano sembrerebbe dunque incidentale, ovvero inserita in una dimensione mitica che trascende la particolarità del luogo. 58 Già nel 1946 scriverà sui ‘quaderni rossi’: «Nella mia vita non c’è più nulla di irrazionale [...]. Ascolto dentro di me un pensiero tutto intellettuale» (in Naldini, 1989, pp. 102-3).

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mente peccato, avevo subito quella perdita che è ‘impurità’: cominciavo a incallire». Qui, riconducendo la purezza a un’inesperienza narcisistica che protegge la sacralità del mondo, Pasolini suggerisce che la perdita di questa purezza equivale alla dissacrazione del mistero naturale, e conseguentemente all’ingresso nel mondo della perdita, della coscienza: «Ora che in parte ero passato al di là, ora che avevo gettato almeno uno sguardo dietro ai confini di quella bellezza e di quel mistero, la natura cominciava a regredire, a chiudersi nella sua pura funzionalità. […] Anche la bellezza umana (per me: greca) dei corpi dei ragazzi si era come naturalizzata […]». Il documento letterario più vicino alla matrice autobiografica dei ‘quaderni rossi’ è senz’altro Atti impuri, un testo «appena velato da schermi narrativi» (Golino, 1985, p. 98) in cui Pasolini rielabora in prima persona59 episodi della propria vita tra il 1943 al 1947. Se da una parte il taglio diaristico comporta la presenza ridondante della dimensione mitica, caratterizzata dal ricorrere dei temi della morte e della natura60, dall’altra si può riconoscere un certo distacco dell’autore dalla materia narrativa, tale da rendere plausibile un’interpretazione in chiave metaletteraria (cfr. Ward, 1994, p. 27; Rinaldi, 1990, p. 91). Per quanto infatti l’attrazione del soggetto (il racconto è scritto in prima persona, e il narratore, di nome Paolo, è facilmente identificabile con l’autore) per l’oggetto amato si manifesti perdipiù come ipnotica e inconsapevole idealizzazione, nelle ultime pagine del libro l’Io, al termine del viaggio nella memoria, ha maturato una coscienza che è innanzitutto sentimento di perdita («Ho venticinque anni, l’età in cui Gozzano disse addio alla giovinezza», Naldini, 1989, p. 110). Attraverso questa presa di coscienza, il mito diventa consapevolezza utopica; di metaletterarietà si potrà parlare, allora, solo a patto di riconoscere al raggiunto distacco dell’autore dal proprio materiale narrativo un valore fondante in termini teorici. Tale consapevolezza del ruolo utopico affidato al mito è rintracciabile anche nella produzione poetica in lingua, parallela a quella narrativa. Mi riferisco alle liriche di Dal diario61 (cfr. Santato, 1980, pp. 71-6), scritte tra il 1945 e il

59 Concetta d’Angeli, curatrice dell’edizione garzantiana di Atti impuri, afferma che l’unica redazione del dattiloscritto presenta notevole discontinuità nell’uso della prima e della terza persona (Amado, pp. 198-9), aggiungendo poi che la scelta di portare tutto il testo alla prima persona nasce dall’accertamento che è proprio questa «la forma più frequente» nel dattiloscritto. 60 Natura e morte sono già due termini affini nel definire la dimensione mitica del nontempo, dell’alterità. Si veda l’analisi di Golino, che nel comportamento dell’io narrante di Atti riconosce una «creaturale immersione nella natura» che «ha più del pagano che del cattolico, trasuda felicità ma vi alita lo spirito della morte» (1985, p. 107). 61 Si pensi a evidenti calchi rimbaudiani quali: «Ed io mi ritrovo ancora chino sui miei fogli? / Ah disperante immagine, ah certezza / di non essere altri che un apparso / alla luce... [...] io ne scrivo / sui fogli dove candida persiste / la mia invecchiata adolescenza... / Troppo esperto d’incanti!» (Best, II, pp. 1427-28); oppure, più avanti: «Grideremo / ancora in tempo Io non so più parlare? [...] la barca ebbra affonda [...] Io non voglio essere uomo» (Best, II, p. 1439).

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Capitolo secondo

1947, e alle sezioni de L’usignolo della chiesa cattolica risalenti allo stesso periodo62. Ne «Il pianto della rosa», ad esempio, sezione di quest’ultima raccolta completata nel 1946 (cfr. Naldini, 1989, p. 105), il tema della perdita della verginità sembra indicare simbolicamente, come in Atti impuri, l’intervento della ragione a scardinare il mito dell’autosufficienza narcisistica 63. Questa fondamentale presa di coscienza diventa sempre più evidente nei testi narrativi successivi a Atti impuri. Amado mio fa registrare un altro decisivo passo in avanti. Anzitutto, il testo si presenta come ricostruzione narrativa più mediata e sofisticata, anticipando future tecniche narrative (cfr. Rinaldi, 1990, p. 95). L’autore esercita qui un maggior controllo narrativo rispetto a Atti impuri, come si evidenzia dall’uso di una terza persona che liquida la forma diaristica e abbraccia definitivamente il genere romanzesco64; e quindi nel disinvolto dispiego di illustri fonti letterarie, dove possiamo ritrovare la predilezione pasoliniana per il pastiche65. 62 Pubblicata nel 1958, un anno dopo Le ceneri di Gramsci, la raccolta «occupa quasi interamente il tempo friulano seguendone l’evoluzione contenutistica e psicologica, tracciandoci il grafico dei passaggi biografici, delle esperienze esistenziali e della tensione linguistica» (Martellini, 1993, p. 40). Per quanto riguarda il passaggio dalla dimensione melica e metastorica a quella storica all’interno dell’Usignolo, cfr. Gordon (1996, pp. 114-7). È poi dimostrato che anche l’ultima sezione, «La scoperta di Marx», è stata scritta prima della fuga a Roma (cfr. Siti, 1981, pp. 155-7; Boyer, 1987, p. 98; Naldini, 1989, p. 136) nonostante il sospetto avanzato da Fernando Bandini che «le poesie dell’Usignolo siano state scritte dopo, e che gli anni indicati riflettano una artificiosa retrodatazione, riferita non tanto al tempo della loro composizione, ma a quello dell’esperienza cui si riferiscono» (Bandini, 1978, p. 38). 63 Così Martellini (1993, p. 42): «Ma è la sezione Il pianto della rosa, con le due sottosezioni La verginità e Il non credo, quella che contiene il nucleo principale dell’Usignolo e l’evoluzione del discorso poetico di Pasolini. [...] L’‘io’ del poeta risente della conflittualità, del rimorso, di un innocenza ormai impura». Anche Gordon (1996, p. 97): «Before 1947, L’usignolo is very close to the dialect work. Hence, the nascent tendency for self-examination in the section ‘Il pianto della rosa’ (1946) [...] remains cast in the language of the myth of Narcissus [...] Nevertheless, evidence of a present crisis, of subjectivity split through a doubling self-awareness fraught with death, closure and transgression, is rife». La limpida evidenza del peccato conduce alla disperata consapevolezza del sé, per cui il soggetto si sdoppia e l’immagine di Narciso arriva a confondersi con quella del Diavolo: «E incomincia il peccato: / prendi il ritratto in mano / di Radiguet, o a Gozzano / pensi accigliato. [...] Vai allo specchio e guardi / me, il Diavolo, ch’alza / nella lucida stanza / il noto capo e arde. [...] Quale coscienza! quale / arte nell’ingannarti! / Ti scegli ambo le parti / indi alzi le spalle. / Fanciullo, sei un mostro, / fai le cose in famiglia / coi rimorsi, e ti appigli / a remore astruse. / Ma lo sai (mi diverto) / lo sai e nondimeno / non ti poni alcun freno, / ogni varco t’è aperto» (Best, pp. 323-4). Fortini (1993, pp. 25-7) sostiene che il maledettismo di questi versi sia costruito, perdendo credibilità, su abili ma sin troppo sfacciati calchi dai vari Rimbaud, Verlaine e Nouveau, creando, insomma, «un libro di eccezionale attitudine mimetica» (Fortini, 1993, p. 162). 64 Tentativo già abbozzato, ma con minori esiti, nel racconto «Lo specchio inesistente» (Primule, pp. 116-9). 65 Tra i numerosi autori citati troviamo Gide, Goethe, Tommaseo, Dostoevskij, Kafka, Kavafis, Nievo, Sant’Agostino, Petrarca e Eliot. Come ha rimarcato Ward (1995, pp. 44-7), è più che probabile che Pasolini abbia inteso, nel compiere questa operazione di mise en abyme, puntellare i cardini della sua poetica. Attraverso il pastiche, l’autore può chiedere conferma delle sue scelte e intuizioni ai suoi autori, ai padri più amati.

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Ma soprattutto, il testo in questione si distingue da Atti impuri per la sua maggiore coerenza contenutistica, direi quasi per la sua impeccabile geometria interna. Costruito su quattro capitoli, il racconto è l’impietosa ricognizione, in una chiave autobiografica questa volta decantata da allusioni eccessivamente scoperte, della struggente passione d’amore di un giovane colto (Desiderio) per un adolescente friulano (Benito, poi ribattezzato Iasìs) 66, definito, «come il figlio della ballata di Goethe, [...] ‘puro ma senza molti scrupoli’, ‘fresco ma irreligioso’, ‘rozzo ma pieno di tenera fiducia’» (Amado, p. 151). Attraverso la contrapposizione tra l’alter ego dell’autore (Desiderio, lo studente borghese) e l’archetipica, misteriosa naturalezza del giovane partorito dal popolo (Iasìs), Amado mio risulta architettato intorno al medesimo conflitto teorico scopertamente rivelatosi in Atti impuri, quello tra la ragione e il sacro, la coscienza e l’istinto67. Con la fondamentale differenza che in questo racconto il punto di conciliazione tra i due termini, come sempre rappresentato nel sesso (l’epifanica rivelazione dell’atto impuro) è fatto slittare oltre la narrazione. Simbolicamente, ciò sembra indicare come i due attori antagonisti convergano attraverso la narrativa verso un ideale che la narrativa stessa, proprio perché divenuta operazione estetica pienamente autocosciente, luogo della distanza e della perdita piuttosto che della felice immersione mimetica, non può più sostenere. In questo senso, possiamo dire che lo straniamento della verità ne conserva intatto l’appello68. Per questo il momento decisivo del romanzo è il suo famoso finale (dove possiamo cogliere, inoltre, qualche anticipazione circa la futura svolta cinematografica di Pasolini): Dopocena andarono al cinema a vedere Gilda. [...] Poi si spensero le luci, ed ebbe inizio quello che avrebbe dovuto essere il più bel film visto da Desiderio. Davanti a Gilda qualcosa di stupendamente comune invase tutti gli spettatori. La musica di Amado mio devastava. [...] Anche quando Iasìs, abbracciato da Desiderio, gli posò il

66 Il nome dell’oggetto d’amore diviene «colto e leggendario» (Rinaldi, 1990, p. 93) come a enfatizzare la sperimentazione pasoliniana nella direzione di uno stile più alto, e insieme indicativo della regione letteraria a cui lo scrittore è debitore. 67 La prefazione, trovata tra gli inediti pasoliniani e pubblicata in chiusura all’edizione garzantiana, rende conto della centralità del dissidio coscienza-incoscienza come tensione morale: «Paolo e Desiderio combattono abbastanza contro il loro amore? È vero, fin che la passione li brucia, brucia con loro il loro peccato; ma al di qua della passione, dove c’è solo la sensualità, che cosa li giustifica? L’anormalità del loro amore è già una pena abbastanza grave, una ‘condanna a vita’, è vero; ma basta soffrire per redimersi?» (Amado, p. 195). 68 Cito a questo proposito un brano estremamente significativo dal racconto «Gli angeli distratti», già menzionato: «Ma certo il lettore si è accorto come io non osi confessare che in minima parte la mia debolezza [...]. Ma come esprimere l’inesprimibile? Esistono forse parole per comunicare un rapporto fra le bandierine e il cattolicesimo degli abitanti di San Giovanni, fra i colori dei muri affumicati e la radice dei capelli di un ragazzo di Runcis? Eppure questo rapporto esiste, è Amore» (in Primule, p. 125).

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Capitolo secondo

capo su una spalla, e in quell’atmosfera da orgia consumata al di là del tempo, prima della morte, il petto di Desiderio parve finalmente sciogliersi, fu una commozione alzata a un livello dove le lacrime si gelavano. Rita Hayworth con il suo immenso corpo, il suo sorriso e il suo seno di sorella e di prostituta – equivoca e angelica – stupida e misteriosa – con quel suo sguardo di miope freddo e tenero fino al languore – cantava dal profondo della sua America latina da dopoguerra, da romanzofiume, con un’inespressività divinamente carezzevole. [...] Rinunciatario ed arreso, col petto sciolto come cera dalle note e dalle parole della canzone, Desiderio accarezzava la testa del ragazzo appoggiata alla sua spalla, come si accarezza un fratello. E tra le lacrime, invece del lungo discorso che avrebbe dovuto annunciargli la sua decisione di rinunciare per sempre..., gli mormorò all’orecchio ‘Perdonami, Iasìs!’, ma Iasìs, a quelle impercettibili parole alitate da Desiderio, sorrise, distratto, e gli rispose: ‘Stasera.’ Fu come un urlo di gioia, un dolce cataclisma che facesse crollare il cinema e tutta Caorle. Mentre Gilda, intanto, contro il cielo, sul pubblico ansimante, con delicata libidine e furiosa pazienza si sfilava il guanto dal braccio. (Amado, pp. 190-2)

In questo finale si condensa la carica utopica di tutto il romanzo, che trasforma la scrittura stessa, la letteratura, in ‘desiderio’ di ciò che è altro da sé, ciò che è privo di concetto (la sessualità come archetipo della sacralità del reale). La medesima intenzione si rivela con altrettanta efficacia in un altro passaggio chiave del racconto, il momento in cui Desiderio fa il ritratto di Iasìs perché capisce di non avere alcuna possibilità di possederlo69. L’atmosfera che si respira in questa pagina richiama quella de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, in particolare per l’opposizione della figura dell’esteta a quella dell’efebo, con il conseguente intervento corruttore del primo sull’innocenza del secondo. Ma ciò che importa rilevare, anche in funzione del parallelo, è il valore simbolico del ritratto a Iasìs: esso ci attesta l’inadeguatezza della scrittura, cioè del Logos, a comprendere la verità del ‘corpo’, che rimane inesplicabilmente dominio dell’irrazionale (qui, appunto, i sensi). Desiderio ricorre all’arte perché capisce che quello è il modo più fruttuoso, e tuttavia inefficace, di avvicinarsi a esprimere ciò che non può essere espresso razionalmente. Amado mio ci dice, di nuovo rispetto alla produzione precedente, che l’opera d’arte rappresenta un fallimento e insieme una salvezza. Fallisce come operazione ontologica; salva in quanto esprimendo questo fallimento come infinito desiderio, dice la verità sulla condizione umana.

69 «‘Sai perché ti faccio il ritratto?’ aggiunse poi rivolto al ragazzo. ‘No’, rispose Benito (ma per quale ragione era così servizievole e felice?) ‘Perché non posso baciarti.’ Ma dopo un breve silenzio insistette: ‘Gli occhi e le labbra che sto disegnando... vorrei baciarli.’ ‘Bisogna vedere se io lo permetterei’ esclamò il ragazzo arrossendo come una giovinetta, ed ergendosi tutto [...]. ‘Ah, lo so che non me lo permetteresti,’ disse Desiderio, ‘ed è per questo che devo accontentarmi di ritrarti’» (Amado, p. 146). Interpretare questo episodio, piuttosto che nella sua ricchezza simbolica, solo come allusione autobiografica alle attività pittoriche di Pasolini, o citazione colta (Rinaldi, 1990, p. 92), mi sembra francamente riduttivo.

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E proprio l’indulgere dell’autore sullo iato tra la progettualità artistica e la radice ineffabile dell’esperienza, consegna al testo una dimensione etica: alla ragione de-ontologizzata rimane come unico gesto morale l’eterna rincorsa della conoscenza. Per questo, Desiderio, nella sua scandalosa ansia di trasparenza, nello stoico riconoscimento del proprio stato d’angoscia, ci appare già una trasposizione artistica dell’idolo cristico: «Non era la propria dignità che egli sacrificava per far vergognare di sé la consorteria degli uomini?» (Amado, p. 135). Il sacrificio della dignità e dei privilegi borghesi di Desiderio nasce dall’agnizione della radice irrazionale della realtà. Iasìs, come gli altri giovanetti che affiorano tra le pieghe della trama di Amado mio, è dall’inizio «pura lontananza, Ignoto per eccellenza», così che a Desiderio, folgorato da quanto evade la comprensione, non rimane che una «gola bruciata» (Amado, pp. 131-2), simbolo di brama inappagata. Data dunque la felicità come culminazione di un progetto utopico, il testo su cui si dispiega tale progetto diviene luogo di un conflitto dialettico infinito e irrisolto, da cui emerge un concetto di scrittura (e di razionalità) quale negatività che cerca ad infinitum di trasformarsi in positività. Con questo racconto, Pasolini sembra dunque raggiungere un potere di oggettivazione sul materiale narrativo equivalente a quello da lui raggiunto in sede di riflessione teorica. In realtà, proprio perché non conosciamo la data dell’ultima rielaborazione di Amado mio, sembrerebbe impossibile stabilire con assoluta certezza se tutto il testo sia stato scritto nel primo dopoguerra friulano, oppure se vi siano state aggiunte o rielaborazioni nel periodo romano. A giudicare dalla veste formale dell’opera, che come precedentemente osservato manifesta ancora una nervosa volontà di ricerca linguistica, si direbbe che, se ritocchi vi furono, non dovettero mutare di molto la stesura dell’originale, risalente almeno al 1947. Le ricerche filologiche di Concetta d’Angeli hanno confermato questa impressione70. Osservazione, quest’ultima, che ci consente di avvicinare il narratore lirico che canta dell’amore maledetto tra Desiderio e Iasìs, all’intellettuale che nell’autunno del 1947 andava inserendosi nel PCI e che discuteva dell’autonomia friulana, a ulteriore conferma della convivenza, in Pasolini, del dato estetico e di quello ideologico.

70 Come chiarisce Concetta d’Angeli, il materiale di Amado mio è stato ritrovato in tre cartelle, in cui si possono distinguere quattro diverse redazioni (A,B,C,D) tra cui anche un abbozzo (nell’esemplare B) di una seconda parte, «scritta certamente in anni successivi al trasferimento a Roma, come attestano gli espliciti riferimenti, che il testo contiene, al processo di Rina Fort e all’anno 1950; inoltre vi si trovano già tentativi di esperimenti linguistici in romanesco, che saranno attuati in Ragazzi di vita». Il testo pubblicato da Garzanti è quello relativo all’esemplare D, poiché esso rispetto agli altri «assume l’aspetto di un romanzo autosufficiente e che non ha bisogno di interventi ulteriori». Le correzioni che appaiono sulle pagine dattiloscritte di questo testo, continua d’Angeli, sono soprattutto «di carattere stilistico» e contengono «un intervento strutturale», la trasformazione dell’introduzione nel ‘capitolo I’ e il conseguente slittamento dei primi tre (cfr. Amado, pp. 201-3).

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Capitolo secondo

Un testo chiave per comprendere la complicità tra estetica e ideologia in Pasolini è I parlanti, sorta di saggio concepito nella forma di appunto diaristico che, anziché liquidare il mito (Rinaldi, 1981, p. 52) lo recupera strategicamente, promuovendolo a coordinata teorica. Nella sezione iniziale, intitolata «Gli adorati toponimi», l’autore, scrivendo in prima persona, suggerisce che la sua antica fascinazione per alcuni toponimi friulani è dovuta alla loro valenza mimetica, in quanto indicatori di una misteriosa identità tra ‘soggetto’ e ‘luogo’ («la fisionomia è parte del luogo, nel più fitto e massiccio dell’intraducibilità, che solo il nome ha il potere di estrarre alla luce», RR, p. 164). I successivi segmenti narrativi sviluppano il tema toponimico, orchestrando una suggestiva combinazione di osservazioni geografiche, linguistiche e fisionomiche. Ciascuna variante dialettale parlata nei paesi limitrofi a Casarsa viene riconosciuta nei tratti fisici dei rispettivi abitanti, cosicché Pasolini può ricondurre l’elemento linguistico alla sua matrice fisica, ‘intraducibile’ perché ineffabile. Il risultato di questa operazione consiste nello svelamento di una condizione utopica (Pasolini parla a proposito di «dimensioni dell’amore», RR, p. 164), per cui appunto l’aspetto linguistico-culturale si vede radicato in una matericità altra. In «Paesaggio del romanzo d’ambiente» si legge: Da Casarsa a San Floreano, due chilometri scarsi di distanza, si potrebbero fissare a voce almeno quattro sfumature diverse nel pronunciare una frase o una domanda: sfumature […] intraducibili, ma essenziali per poter seguire quel filo, quel genio locale – forse non più linguistico ma fisico e amoroso – che nella mia immaginazione prende la figura quasi di un prezioso ruscello inalveato nelle solitudini rocciose e dorate dei petti, delle gole o dei capelli di coloro che abitano lungo la strada da Casarsa a San Floreano. (RR, p. 181)

Qui il genius loci sopravvive nell’amalgama di lingua e materia che può solo essere identificato attraverso la classificazione toponimica. Il toponimo, allora, come più tardi certa terminologia della stilcritica, diviene ierofania, rivelazione linguistica del mistero («Rimane tuttavia un resto inesauribile di mistero, che si è cristallizzato nel nome: Casarsa», RR, p. 165). A questo punto l’autore prende a parlare di sé in terza persona, e nella sezione finale, intitolata «Dalla leggenda topografico-sentimentale del Friuli», può dirsi del tutto competente in materia topografica (cfr. RR, p. 185). Nomi come Valvasone, Malafiesta, Gruaro, Giais, sono ricondotti a immagini di archetipico splendore, mentre i ‘corpi’ e i ‘dialetti’ di ogni paese convergono a rappresentare un unico, pervasivo punto di fuga utopico. È in questo finale, però, che interviene un significativo mutamento di rotta, che ci consente di verificare il controllo esercitato da Pasolini sulla coordinata utopica. Rammentando il proprio primo incontro con la città di Pordenone, Pasolini scrive che quel toponimo «non mancava di incutergli una specie di intenso rispetto, quasi di panico, forse per l’apparenza accrescitiva del nome, certo per il livello di maggiore modernità e di maggiore progresso in cui l’opinione comune di tutta la zona lo collocava senza riserve». Il toponimo qui non è più ‘adorato’, cioè

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Mythos e Logos del dialetto friulano (1942-49)

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investito di sacralità, mitizzato, ma piuttosto resistito in quanto indicante un «luogo fornito di quelle cose utili che lui disprezzava» (RR, p. 188). Pordenone sembra dunque rappresentare un concetto di modernità urbana, che Pasolini intende criticare attraverso il recupero una connotazione utopica della spazialità. Considerazioni altrettanto rilevanti si possono fare per Romàns, racconto lungo scritto negli ultimi anni friulani e staccatosi nei primi anni ’5071 dal corpus de La meglio gioventù, il progetto di romanzo che uscirà solo nel 1962 con il titolo, da un passo di Marx citato da Franco Fortini (cfr. L, I, p. 499), di Il sogno di una cosa72. Il protagonista è un’altra figura dal forte sapore autobiografico, il prete-insegnante Don Paolo, diviso tra lo scrupolo religioso-pedagogico e il demone dei sensi73. Il suo dostoevskiano tormento interiore è altamente simbolico dell’opposizione tra Logos e Mythos che l’ultimo Pasolini friulano si sforzava di dominare. Per tutta la durata del racconto, Don Paolo è afflitto dalla consapevolezza di non essere più «in stato di grazia» (Romàns, p. 41), cioè di aver perso fiducia nella coerenza e attendibilità del metodo religioso e pedagogico da lui professato; parallelamente, matura in lui l’affezione al mistero del corpo, della presenza fisica dei suoi allievi. La graduale rinuncia al dogma religioso corrisponde dunque allo scontro con il sacro in quanto manifestazione fisico-sensoriale. Lentamente, Don Paolo si rende conto della sua controversa disposizione: È la simpatica canaglia che voglio ricondurre sulla retta via […]. Cesare, che è al di fuori di tutte le classificazioni, mi interessa forse più di tutti […]. Ma credo che l’interesse che provo per lui sia dovuto specialmente al fatto che egli è puro mistero, un mistero senza segreti. (Romàns, p. 43)

71 Da una lettera a Silvana Mauri del 1950 sappiamo che Pasolini pensa ancora Romàns come parte integrante del Sogno (cfr. L, I, p. 402). Nello stesso anno Pasolini pubblicò su «Il Mondo» il primo capitolo di quello che sarebbe diventato Romàns (cfr. Pasolini, 1950). 72 Dalle «Note e notizie sui testi» curate da W. Siti e S. De Laude (in RR, II, pp. 1933-41), sappiamo che solo verso la fine degli anni ’50, dopo insoddisfacenti operazioni di restauro durate tutto il decennio, Pasolini consegna al Sogno la sua fisionomia definitiva. Le prime tre stesure, definite dai curatori molto incerte e lacunose, sono conservate nell’‘Archivio Pasolini’ in tre cartelle datate rispettivamente 1948 (prima stesura), 1948 (seconda stesura) e 1948-50 (terza stesura). Considerata l’incompletezza di queste tre stesure ‘friulane’, sarebbe inappropriato analizzarle come parte integrante della formazione intellettuale di Pasolini prima del trasferimento a Roma. 73 Per la componente erotica della vocazione pedagogica di Pasolini si rimanda senz’altro alla monografia di E. Golino (1985) e allo studio di A. Zanzotto (1978). Com’è noto, nel 1944 Pasolini e la madre sfollarono a Versuta, nei pressi di Casarsa, dove insegnarono a una ventina di ragazzi della frazione di San Giovanni che non potevano frequentare la scuola locale a causa dei bombardamenti. Successivamente, dal 1947 al 1949 Pasolini insegna nella scuola statale di Valvasone. Tra il 1947 e il 1948 pubblica su «Il mattino del Popolo» quattro articoli di carattere didattico, ora raccolti in Primule (pp. 269-83).

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Capitolo secondo

L’attrazione per ciò che sfugge al campo del razionale diviene la scandalosa ossessione del sacerdote, sconvolgendo l’ordine logico in cui la sua dottrina religiosa era iscritta. Cesare, esattamente come lo straniero in Teorema, vent’anni dopo, è il mezzo attraverso cui il sacro si manifesta agli occhi di chi s’illudeva di possedere un’idea stabile della realtà. Il ruolo del sacro, del mito in quanto ‘alterità’, è qui già inteso in un senso profondamente morale, e in questa veste morale torna puntualmente negli scritti a sfondo socio-politico che Pasolini veniva contemporaneamente compilando. La riflessione di Don Paolo sulla pedagogia è a questo proposito rivelatrice. La «pedagogia veramente positiva» non appartiene per lui ne alla tradizione positivista della Montessori ne a quella idealista, poiché in entrambi i casi l’insegnamento viene ridotto a sistema, funzionalità troppo compatta e coerente, eliminando a torto «il mistero e l’incongruenza che sono in fondo le concrezioni della libertà» (Romàns, p. 44). Pasolini sta qui gettando le fondamenta per le sue future posizioni di intellettuale: per poter accedere a una razionalità veramente morale, l’uomo deve essere messo nella condizione di scorgere alle radici dell’esistenza, come moto fondante, l’unità rigida e impenetrabile del Mythos, dinnanzi al quale la ragione scopre in sé quei limiti che le vietano di fissarsi sul possesso di un’idea, su un’ideologia intesa come fede, e piuttosto la spingono senza soluzione di continuità verso un’incessante ricerca di verità. Esperire l’irrigidimento del mito come ‘altro da sé’, sembra dire qui Pasolini, diventa la condizione primaria per la liberazione della ragione dalla mitizzazione di se stessa. E infatti nel racconto l’ansia religiosa del protagonista arriva a trasfondersi in quella religione dei sensi così massicciamente radicata nella poetica di Pasolini: Apro ancora la Bibbia (ma non tanto a caso, perché scelgo le ultime pagine dove so che ci sono le lettere di San Paolo: voglio parole più umane) e leggo: ‘Ma il restare nella carne (è) necessario riguardo a voi. […] ‘Restare nella carne’: amare con la carne, evidentemente. Perché è necessario che io ami con la carne. (RR, p. 57)

Giunto a questo punto della sua crisi, Don Paolo può allora dire che forse «qualcosa può essere contemporaneamente, causa di perdizione e di salute» (RR, p. 58), intuendo la possibilità di trasporre l’irrazionale dei sensi su un piano utopico, interpretarlo e recuperarlo simbolicamente a una funzione intimamente morale. Per gradi, attraverso la narrazione diaristica, l’orrore di Don Paolo alla scoperta della propria debolezza diviene angoscia e insieme speranza: la crisi religiosa diviene iniziazione a una nuova religiosità, edificata sulla consapevolezza dell’imperfezione che attanaglia la condizione umana. Egli comincia così a guardare con più comprensione, quasi con dolcezza, al suo male (cfr. RR, pp. 72-5). La natura del mutamento avvenuto nello stato d’animo del protagonista, ci suggerisce che la presa di coscienza nei riguardi dell’eros come irrazionalità

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Mythos e Logos del dialetto friulano (1942-49)

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può ricoprire un ruolo morale. Al pensiero filosofico, l’eros si presenta come luogo dell’identità altra che distrugge l’ordine ideologico autoimposto dall’uomo, per offrire, attraverso l’immagine della conciliazione di soggetto e oggetto, una luce utopica che alimenta e legittima la continua lotta e la continua speranza della ragione speculativa. L’enfasi sull’impurità dell’atto sessuale, tema dominante dell’ispirazione pasoliniana, si trasforma così in atto filosofico e politico74. Romàns, infatti, sviluppa il tema politico in termini piuttosto espliciti. Lo scambio epistolare tra il prete e il comunista Renato ci offre la possibilità di verificare possibili modi di politicizzazione della dottrina cristiana (secondo un’intenzione che, in futuro, Pasolini avrà occasione di riaffermare). Da una parte, per via diretta, l’umanitarismo cristiano viene rielaborato in chiave comunista. Scrive Renato: Voi preti non capite quale missione abbiate, oggi, nel mondo. Come spiegarle che Cristo dicendo: conforta gli ammalati, sfama gli ammalati, ecc., per noi del nostro tempo, voleva dire: Fate delle riforme di struttura? Ma voi sembrate non credere nell’universalità della parola di Cristo e al suo valore eterno: se Dio si è fatto uomo, è entrato nel tempo, vuol dire che ha accettato la temporalità, cioè la storia. (RR, p. 88)

Dall’altra, per via indiretta, il messaggio di Cristo è interpretato come esperienza esistenziale dell’individuo, in quanto coscienza della negatività dell’esistenza. Scrive Don Paolo: L’imitazione di Cristo è un’esperienza che non si può saltare, e ogni uomo deve portarla a fondo da solo, ogni uomo deve digerire da solo la sua sofferenza… È una questione di intimità che si risolve in milioni di modi diversi. […] Crede di poter dare la pace agli uomini come un vestito nuovo? Questo non avverrà mai, perché in un modo o nell’altro, l’uomo deve, deve soffrire. (RR, p. 89)

Difficile stabilire con sicurezza quale delle due prospettive fosse quella abbracciata da Pasolini. Dato il taglio autobiografico, si potrebbe pensare che la posizione dell’autore sia espressa da Don Paolo; soprattutto, interpretare il messaggio di Cristo come necessità della sofferenza sembra una conseguenza della riflessione di Don Paolo sull’eros e quindi del discorso utopico che abbiamo qui cercato di estrapolare dal testo. D’altra parte, il messaggio implicito nelle parole di Renato sintetizza fedelmente la compromissione nel sociale del Pasolini degli anni ’50. Mi pare pertanto ragionevole affermare che la posizione ideologica espressa dell’autore in questo testo emerga dalla somma delle

74 Ciò conferma l’importanza della formazione decadente di Pasolini, non solo in direzione artistica ma più specificamente intellettuale.

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Capitolo secondo

posizioni dei due personaggi principali. La risultante è infatti una nozione di impegno dominata dal dato esistenzialistico, dalla necessità del momento della crisi. Come avremo modo di approfondire nei successivi capitoli, la partecipazione di Pasolini all’ampio dibattito ideologico degli anni ’50 è caratterizzata proprio dalla presenza della componente esistenzialistica.

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3. NARRATIVA E POESIA (1950-55)

Un uomo non può ridivenire bambino, o altrimenti diventa infantile. Ma l’ingenuità del bambino non lo rallegra forse, ed egli stesso non deve tendere a riprodurne a un livello più elevato la verità? Nella natura infantile il carattere proprio di ogni epoca non rivive forse nella sua verità naturale? (K. Marx, 1976, p. 37)

Fino al 1949, prima del trasferimento a Roma, la maturazione intellettuale di Pasolini era dipesa essenzialmente dall’apertura del mythos al logos, dallo sviluppo di una riflessione di tipo storicistico che non negava ma piuttosto interagiva con l’appercezione dell’assoluto. Il luogo dell’assoluto, rinvenibile in quello del mito, si era presentato inizialmente come prerogativa della riflessione poetica, per essere poi riabilitato dal Pasolini polemista quale elemento decisivo nella riflessione socio-politica (cfr. Santato, 1980, p. 69). Per quanto in modo spesso disorganico e, da un punto di vista metodologico, piuttosto approssimativo, il tentativo pasoliniano di amalgamare il dato politico a quello poetico, negli ultimi anni friulani, si rivelava sintomo di una posizione estremamente critica nei confronti delle ideologie degli istituti politici ufficiali. In particolare, anche laddove Pasolini si assumeva precise responsabilità in seno al PCI, le sue posizioni, se comprese nella loro più profonda pregnanza, apparivano ampiamente incongruenti rispetto alla linea perseguita dal partito. Trasferitosi nella capitale, Pasolini inizialmente abbandona la strada del diretto impegno politico. La scoperta di una Roma «sanguinante di assolute novità» (L, I, p. 411), rappresenta un’esperienza esistenziale che, se da una parte lo allontana dalla militanza degli ultimi anni casarsesi, dall’altra gli permette di approfondire la riflessione estetica del periodo friulano. Per quanto di carattere più vistosamente realistico, la prima produzione letteraria romana di Pasolini sembra infatti rimanere strettamente dipendente da una poetica fondata sull’elaborazione del concetto di alterità; questo significa che l’autore non rinuncia affatto al bagaglio culturale del periodo formativo, ma piuttosto rinnova l’enfasi sul mythos, per integrarlo con crescente cognizione di causa in una ricerca letteraria che nel frattempo si arricchisce di dati sociologici. Dai versi e dai racconti di questi primi anni romani emerge insomma una risoluta difesa della componente sacrale del reale, e di qui la critica a un ingranaggio sociale che tende sempre più voracemente a integrare l’altro

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Capitolo terzo

nelle sue sovrastrutture economiche. Questa prospettiva critica, articolata come dialettica irrisolta tra il sacro (o mito) e la ragione strumentale della borghesia capitalistica, si differenzia marcatamente dal tradizionale approccio marxista, che si rifiuta invece di pensare l’irrazionale come strumento critico. 3.1 I racconti romani Appena giunto nella capitale, Pasolini comincia immediatamente a scrivere bozzetti e raccontini d’ambiente romano. La critica, in generale, ha sempre trascurato questa prima produzione, considerandola perdipiù attività strumentale, imposta dalle precarie condizioni economiche dell’autore. L’assenza di un’analisi approfondita, peraltro, dev’essere almeno in parte imputata alle reticenze editoriali che hanno finora accompagnato la pubblicazione degli inediti pasoliniani (cfr. Baranski, 1999a)1. Pasolini stesso aveva approntato una summa di tali inediti, riunendo nel volume Alì dagli occhi azzurri dieci racconti romani risalenti al periodo 1950-55 (ben otto dei quali scritti nel biennio 1950-51). Tuttavia, questa operazione di cernita può essere oggi guardata con un certo sospetto, considerato che l’autore trasceglie i testi più vicini alla prosa sperimentale dei due romanzi romani (Ragazzi di vita e Una vita violenta) da lui scritti nella seconda parte del decennio. La nostra indagine su questo ancora poco conosciuto materiale narrativo verterà inizialmente su esemplari risalenti al 1950-51. Essi, una cinquantina in tutto, costituiscono il nucleo più nutrito della pubblicistica pasoliniana degli anni ’50. Seguendo l’indicazione filologica di Baranski (1999a) sarà utile suddividere questa produzione in due rami: da una parte 31 composizioni di carattere eminentemente narrativo; dall’altra 17 resoconti di natura ibrida, dalla critica letteraria al referto bozzettistico o impressionistico. Interessante notare come nella maggioranza questi scritti siano stati ospitati da giornali di centro-destra, o comunque filo-governativi2; mi pare che l’allontanamento di Pasolini dal PCI e soprattutto la maggiore accessibilità delle testate conservatrici possano essere considerate alla base di questa scelta (cfr. Baranski, 1999a, pp. 255-6). In conformità con l’obiettivo fondamentale della mia ricerca, attraverso l’indagine dei primi testi romani cercherò principalmente di stabilire come la poetica di questo Pasolini si rapporti a quella del periodo friulano. A questo proposito, i maggiori critici hanno sempre considerato il trasferimento romano alla stregua di un’esperienza brusca, traumatica, di violenta rottura con le esperien1 In assenza di una precisa strategia editoriale, molti racconti e articoli del primo periodo romano sono usciti postumi in svariati volumi (PM, Primule, Storie). Solo l’edizione completa delle opere pasoliniane, i cui primi volumi sono da poco usciti sul mercato, ha messo a disposizione un quadro più ampio degli scritti in questione. 2 La maggior parte sono pubblicati su «Il quotidiano», il giornale della curia romana, firmati con lo pseudonimo Paolo Amari (cfr. Baranski, 1999a, p. 274).

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Narrativa e poesia 1950-55

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ze letterarie e intellettuali del periodo precedente3. I primi dubbi su questo diffuso luogo critico vengono soprattutto dal fatto che siamo oggi a conoscenza di almeno nove racconti di ambientazione friulana pubblicati da Pasolini nel primo periodo romano4. Come osservazione generale sullo stile di questi racconti, mi soffermerei sulla centralità del dato sperimentale. Paradossalmente, l’abbassamento verso la realtà più umile del nuovo ambiente romano sembra dipendere ancora, piuttosto che dai canoni stilistici elaborati dal neorealismo, dalla frequentazione del decadentismo europeo5; oppure, da un espressionismo di tipo gaddiano6; o, in certi frangenti, dall’esperienza surrealistica 7, così poco fortunata in Italia. Sintomatico a questo proposito il racconto «Notte sull’ES», che comincia con un paragrafo redatto nello stile ‘piano’ tipico del neorealismo (cfr. Storie, p. 64) per poi orchestrare una complessa commistione di registri che testimonia del carattere sperimentale di queste prime prove. Tuttavia, Pasolini comincia presto a elaborare una lingua letteraria profondamente personale 8. Mi riferisco in specie a fenomeno del progressivo

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Molti studiosi hanno sostenuto la tesi del ‘trauma’, anche e soprattutto ideologico, causato dalla fuga a Roma (Ferretti, 1974, p. 203; Siciliano, 1981, pp. 182-5 e 197-211; Santato, 1980, pp. 145-6; Naldini, 1989, pp. 143-56). Il primo a confutare questa tesi sembra però l’autore stesso, che in una lettera a Silvana Mauri del febbraio 1950 scrive di «Roma – questa nuova Casarsa», esprimendo poi la volontà di continuare a vivere come in Friuli («Posso solo dirti che la vita ambigua – come tu dici bene – che io conducevo a Casarsa, continuerò a viverla qui a Roma […]. Ho intenzione di lavorare e di amare, l’una e l’altra cosa disperatamente», L, I, pp. 389-90). Da altre lettere dello stesso periodo, sembra poi evidente che il trauma sia di natura eminentemente economica (cfr. L, I, pp. 398, 407, 420, 422, 429). 4 Si tratta di «Avventura adriatica», «L’accelerato Venezia-Udine», «La rondinella del Pacher», «Era l’ora del vespro», «D’improvviso soffiò la Sarneghera», «La padroncna impaziente», «Acquerello funebre», «Apparizione dalla Svizzera», «Serate contadine». Dalla ricostruzione di Baranski (1999a, pp. 275-80) sappiamo che la maggior parte di questi testi corrispondono a estratti dal corpus del Sogno. 5 Villon, Bergson e Proust sono direttamente citati in «Squarci di notti romane» (cfr. Alì, rispettivamente alle pp. 21, 22, 30), racconto che apre, tra l’altro, con un’epigrafe da SainteBeuve. Villon riappare poi come protagonista di «Gas», in cui viene citato anche Gide (Alì, p. 51). Da un punto di vista tematico, i debiti alla letteratura decadente sono evidenti in tutte le prime prove, dove oltre ai calchi stilistici emerge una costante riflessione sui temi del male, del peccato, della perdizione. 6 Il racconto che rivela la più chiara impronta gaddiana è «Giubileo», sottotitolato non a caso «relitto di un romanzo umoristico». L’incidenza gaddiana è verificabile soprattutto, oltre che nel tono sovente umoristico, nel costante avvicendamento di un registro alto con uno basso. 7 Oltre a citare Rimbaud e Lautreamont, due noti precursori del surrealismo francese, Pasolini sperimenta una narrazione di tipo onirico, ipnotico e automatico nel racconto «Roma allucinante» e, a tratti, in «Da Monteverdi all’Altieri». 8 Si consideri a questo proposito il graduale passaggio dal registro stilistico friulano a quello romano messo in evidenza dall’analisi comparativa di Baranski (1999a, pp. 259-62) in relazione allo stesso brano utilizzato sia nell’articolo «Domenica al Collina Volpi», che nella prima versione de «Il Ferrobedò», che infine in RV.

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Capitolo terzo

accorpamento del dialetto romano, che possiamo considerare direttamente proporzionale al tempo necessario alle ricerche in loco: mentre nei primissimi racconti la competenza si limita a qualche fugace registrazione in discorso diretto, in esemplari come «Dal vero» (1953-54), e «Mignotta» (1954) notiamo già, oltre a un sicuro controllo dei lessemi dialettali, anche diversi esempi compiuti di discorso indiretto libero (cfr. Vallora, 1976, p. 159). Come in Friuli, peraltro, l’elaborazione dialettale si presenta come operazione estremamente articolata, in quanto dipendente da una nozione di realismo intrisa del sentimento del sacro. Poiché questa elaborazione viene affrontata più esplicitamente nella seconda metà del decennio, e soprattutto in funzione della stesura di Ragazzi di vita e Una vita violenta, rimandiamo a quel momento la sua analisi specifica. 3.1.1 I primi ragazzi Un elemento unificatore dei racconti dei primi anni ’50 è la figura dell’adolescente romano: la fantasia dello scrittore che scopre un mondo nuovo è stimolata dagli incontri erotici con i giovani popolani della capitale. Che questi incontri vi siano stati, è difficile dubitarlo. Ne danno testimonianza, oltre all’autore stesso9, coloro che lo hanno conosciuto più da vicino (cfr. Naldini, 1986, p. cix; Siciliano, 1979, pp. 162 e 168; Bellezza, 1995, pp. 139-57). Ma occorre subito specificare. Chi stimola la creatività di Pasolini è un tipo preciso di adolescente: il ragazzo interamente immerso nella vita di borgata, privato di ogni possibilità di riscatto economico-sociale, tagliato fuori dalla storia eppure straordinariamente ricco di vitalità esistenziale. È questo il prototipo intorno a cui si organizza la narrativa romana. Prototipo che, come vedremo di dimostrare, in realtà non costituisce affatto un’assoluta novità tematica ma emerge pressoché spontaneamente dal modello del giovane contadino friulano. 3.1.1a Il mito dell’incoscienza, del sesso, del peccato «Io, per me, vorrei sapere quali sono i congegni del suo cuore attraverso i quali Trastevere vive dentro di lui, informe, martellante, ozioso. [...] Per comunicare la topografia della sua vita, dovrebbe non farne parte: ma dove finisce Trastevere e dove comincia il ragazzo?» («Ragazzo e Trastevere», Storie, p. 6). Con questa domanda Pasolini esprime in modo esemplare la natura della sua fascinazione per il ragazzo di borgata, nel caso specifico un povero venditore di castagne. Si tratta di un adolescente quasi privo di autocoscienza, appendice

9 Le prime lettere al cugino Naldini (L, I, pp. 407, 429, 452 e passim) sono abbastanza esplicite, nonostante Pasolini temesse che potessero cadere nelle mani del padre (Carlo Alberto arriverà a Roma per ricongiungersi con la famiglia nel luglio del 1951).

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naturale dell’universo eccentrico delle borgate. Pasolini non nasconde lo stato d’indigenza del ragazzo, e neppure «il dolore» e «la pietà» che esso gli ispira; tuttavia, la povertà non è caratterizzata in direzione socio-politica. Piuttosto, il punto di vista di Pasolini è quello di chi ammira in estatica contemplazione un fenomeno straordinario e prodigioso, tra il naturale e il sovrumano, di ‘resistenza alla norma’ («egli si comprime tutto dentro un cerchio che nessuna formula magica potrà mai spezzare»), a giustificazione della paradigmatica conclusione: «la povertà e la bellezza sono una cosa sola» (Storie, pp. 6-8). In «Castagne e crisantemi», racconto del medesimo periodo, la situazione appena descritta si ripete pressoché identica. Alle prese con un giovane venditore di castagne, Pasolini scrive: «Dove terminava il ragazzo e dove cominciava l’odore dei suoi frutti? Erano uno dentro l’altro, solidi e vivi, una sola creatura»; chiudendo poi con una frase in cui l’equazione ‘povertà’-‘natura’-‘mistero’ rivela una forte connotazione utopica: «Ma quello che fra dieci, dodici, cento autunni resterà uguale, sarà l’odore dei crisantemi, delle castagne. Mistero fisso, mistero fossilizzato, garante d’immutabilità. La Specie potrà sempre ricercarvi il suo tempo perduto» (Storie, pp. 28-30)10. In «Operetta marina»11, esteso viaggio nella memoria volto al nostalgico recupero dei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza dell’autore, l’enfasi utopica sopra descritta si rinnova in una simile espressione affabulatrice: «non era umano sapere dove la ragazzetta sacilese avesse termine e cominciassero in lei i muri e l’aria del borgo» (RR, p. 394). Similmente costruiti intorno all’intuizione del momento utopico sono «Santino nel mare di Ostia» e «Terracina»12, dove, inoltre, interviene il tema della morte. In entrambi i racconti i protagonisti subiscono una fascinazione del tutto irrazionale, magica e ipnotica, per il mare, simbolo di una bellezza assoluta che insieme attrae e terrorizza l’uomo, balenandogli un’ambigua promessa di morte. Particolarmente efficaci le pagine di «Santino nel mare di Ostia». Qui troviamo passaggi densi di straordinaria forza simbolica, in grado di comunicare un’assai suggestiva impressione di solitudine esistenziale. Colpisce

10 A proposito del sapore utopico di questo passaggio, viene in mente il celebre aforisma di Karl Kraus riciclato da T. Adorno (1970, p. 139): «l’origine è la meta». Adorno spiega che il concetto di origine, inteso come luogo in cui la soggettività si concilia con l’oggetto, ovvero la materia, dovrebbe essere recuperato in quanto direzionalità utopica, obiettivo ultimo e tuttavia inconoscibile razionalmente del viaggio dell’uomo nella storia. 11 Per questo lungo racconto, parte dell’abortito progetto del «Romanzo sul mare», si veda la ricostruzione filologica di Naldini in Romàns (pp. 15-8) e di Siti (RR, II, pp. 1678-9). 12 Solo di recente, dopo molta confusione (cfr. Golino, 1995, p. 29; Naldini, 1989, p. 159), Siti (RR, II, pp. 1708-11) ha fatto chiarezza su questo racconto, osservando che è conservato nella cartella dell’‘Archivio Pasolini’ dal nome «Il Ferrobedò», insieme a altri materiali poi utilizzati per RV. Da «Terracina», inoltre, si sono staccati due segmenti intitolati rispettivamente «Notturno sul mare di Terracina» e «Dissolvenze sul mare del Circeo», entrambi pubblicati su Il Quotidiano nell’estate del 1951. Baranski (1999a, p. 272), sostiene che si tratta di due chiari esempi di ‘realismo’, indicando ne I malavoglia di Verga il loro esplicito intertesto.

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per esempio il parallelo tra le immagini del mare e del deserto, altro tipico luogo narrativo pasoliniano (cfr. Storie, p. 37). Per comprendere a fondo il simbolismo dell’immagine del mare, giova però ritornare su «Operetta marina». Qui la scrittura di Pasolini sconfina nel fantastico, in quanto elabora la metafora del mare come avventura estetico-erotica13 che ossessiona la fantasia del poeta sin dai tempi della scuola e delle prime letture (non a caso è «il selvaggio mare di Salgari o di Omero», Romàns, p. 124). La componente irrazionale implicita nel simbolismo marino si arricchisce di rimandi teorici allorché interviene il paragone con il Friuli materno: […] il blu delle onde, i giochi delle maree, i crinali della terraferma […]; è una visione che incarna in sé, succhia in un piacevole brivido la presenza ricettiva del corpo […]; con intorno il fondamentale vuoto dello spazio estetico, greco. Questa situazione che non può risolversi, avere una storia, era in me che mi abbandonavo ad essa, sempre uguale: una forza monotona che mi faceva girare intorno a me stesso. […] Avrebbero ragione […] i francesi a dire la Mare, e non il Mare… di chiamare con un nome materno la nostra origine […]; il mare ci invita a ritornare al principio di una storia, cioè non solo a essere sempre, beatamente, indifferenziatamente noi stessi, ma a essere anche quello che siamo stati. Di effetto in causa, dunque, nel pieno calore della vita… (Romàns, pp. 134-5)

Quest’ultimo invito a «ritornare al principio della storia», e insieme a «essere anche ciò che siamo stati», mi pare assuma un rilievo eccezionale nell’analisi del raffronto tra il pensiero del primo e del secondo Pasolini. Non solo, infatti, il tema era già presente negli scritti bolognesi; ma soprattutto scopriamo come l’autore, benché fuggito a Roma, sembri deciso a non recidere il cordone ombelicale che lo lega al mondo e alle idee della sua formazione; passare «di effetto in causa» significa proprio, per Pasolini, non rinunciare mai a ripiegare sul proprio passato, e mantenere vivo il legame con i luoghi e la cultura in cui si era forgiata la sua personalità. Come già in molti testi friulani, l’obiettivo profondo di questa scrittura rimane allora legittimare a livello di realtà una dimensione sacrale, idealmente situata in un’utopica origine dei tempi ma manifestantesi continuamente nell’esistenza più umile e vitale. In generale, i primi esempi di narrativa ‘romana’ confermano l’ipotesi del legame con il Friuli. L’ostinato riferimento alla spontaneità dei giovani popolani romani, alla loro placida incoscienza, rispecchia la volontà pasoliniana di testimoniare, qui come prima, il senso di profondo mistero che secondo lui inerisce al concetto di realtà. Se dunque la nuova realtà è la metropoli capitolina e papalina, la scrittura di Pasolini promuove, in essa, le medesime manifestazioni sacrali in-

13 Il racconto è informato da un maledettismo di stampo rimbaudiano, come conferma l’ampia epigrafe dalle Illuminazioni (cfr. Romàns, pp. 156-7); particolarmente interessante il finale in chiave masochistica (Romàns, p. 161).

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dividuate in Friuli: in entrambi i casi si tratta di verificare la presenza di una componente che, paradossalmente, è incodificabile dal segno scritto. Il legame Friuli-Roma è particolarmente evidente nei primi racconti che troviamo riuniti nel volume Alì dagli occhi azzurri. A dominare la pagina continuano a essere il sentimento dell’irrazionale, l’istinto, la convergenza dei temi della natura, della bellezza e della morte, che Pasolini aveva ereditato dal contatto con il decadentismo europeo. In «Squarci di notti romane», come anticipato, compaiono personaggi dai nomi fin troppo espliciti di Lautréamont, Villon e Proust14. Ne «Il biondomoro», breve testo sperimentale, il motivo conduttore è il ritmo, una musicalità iterata e ieratica che ricorda da vicino certa poesia friulana15. Altrettanto esplicitamente decadente è l’atmosfera di «Gas», dove un altro Villon diviene protagonista di un horror-thriller di borgata dai risvolti grotteschi. Nonostante la mascheratura surrealistica, il racconto rivela la presenza di forti elementi autobiografici: in primis il rapporto tra Pasolini e i ragazzi, che appare sospeso, come in Friuli, tra l’attrazione sensuale e la passione pedagogica16. Virgili è presentato come un delinquente recidivo, carcerato per reato contro l’infanzia proprio quando a Roma si discute un disegno di legge costituzionale per introdurre, come punizione per questo crimine, la pena di morte17. Villon, il protagonista, è invece un uomo dalla doppia identità, ambiguo, corrotto ma insieme impegnato nel sociale. Egli favorisce la fuga dal carcere di Virgili al fine di renderlo «libero di peccare ancora, che è poi la più grande aspirazione di tutti gli uomini, perché se tutti hanno paura della prigione, tutti però vogliono andare all’inferno» (p. 45). Poco dopo, però, riflette: «Appartenere […] alla categoria Virgili, porrebbe dunque degli obblighi, non sempre naturalmente compatibili col religioso desiderio di superiore Simpatia verso i propri pari, o compari: essere Virgili, o non essere Virgili, ecco il problema… […] Con un piede per parte, come vivere? La protesta, l’impresa nobile, l’engagement, escludevano, ormai, e così giustizia era fatta, la perdizione» (pp. 48-9).

14 Nomi che secondo Naldini, Pasolini dava anche a se stesso (cfr. L, I, p. cxv). 15 Si vedano le sezioni «L’usignolo» e «La chiesa» ne L’usignolo della chiesa cattolica (Best,

I, pp. 298-307). 16 Il tema dell’omofilia torna in «Giubileo», dove il protagonista (l’omonimo prof. Giubileo) è un omosessuale che adesca i ragazzi nei cinema; quella del cinema è una situazione narrativa che, già accennata in Amado, tornerà più volte nei testi pasoliniani (cfr. VV, pp. 302-11; Alì, pp. 130-1). 17 Difficile non collegare questa situazione narrativa alla cronaca della vita di Pasolini, che nel 1950 attendeva con trepidazione la convocazione in Friuli per il processo sui fatti di Ramuscello (cfr. L, I, p. 420). Il processo si tenne nel dicembre del 1950, e si concluse con il minimo della pena (tre mesi con la condizionale) per gli atti osceni, e il condono per la corruzione di minori poiché la querela era stata ritirata (cfr. L, I, pp. cxvii e 442); occorrerà attendere il 1952 per la sentenza definitiva: «assoluzione per insufficienza di prove anche per gli atti osceni in pubblico» (Naldini, 1986, p. cxxiv).

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Da questi ultimi esempi, mi pare che l’impronta decadentistica della scrittura pasoliniana, già centrale in Friuli, esca addirittura potenziata rispetto alle precedenti prove, in particolare per quanto concerne il ricorrere dei temi del peccato e della perdizione. Più precisamente, la poetica di Pasolini nel 1950-51 sembra rimanere intimamente legata all’elaborazione di tematiche tanto autobiografiche, quanto legate al sacro. 3.1.1b L’elogio della povertà Negli ultimi anni di permanenza in Friuli, Pasolini aveva esplorato la possibilità di inserire la riflessione sull’irrazionale della sua prima poesia dialettale nel contesto storico-sociale, giungendo all’apertura al ‘mondo degli altri’ attraverso una dialettica irrisolta tra ‘ragione’ e ‘mito’. Nell’immediato dopoguerra, aveva scelto di stare dalla parte dei braccianti nella lotta contro lo sfruttamento dei latifondisti, aderendo quindi, istintivamente, all’ideologia comunista. Per una breve stagione il poeta era sceso nell’arena politica, fino allo scandalo di Ramuscello. Un elemento di continuità tra l’esperienza ideologica friulana e i primi scritti romani è costituito dalla riflessione sulle classi subalterne; riflessione che Asor Rosa (1969, pp. 349-499) ha classificato come populismo sentimentale e di natura essenzialmente aristocratica. Per quanto riguarda il rapporto dell’intellettuale con le classi meno abbienti, mi pare che a Roma il punto di vista non muti, nella sostanza, rispetto all’elaborazione friulana. Innanzitutto, anche nei primi scritti romani Pasolini sembra ignorare la linea ideologica della sinistra italiana. Se avesse inteso impegnarsi ‘organicamente’, infatti, egli avrebbe probabilmente posto al centro della sua ricerca letteraria la classe operaia, piuttosto che un sottoproletariato ghettizzato ai margini della società civile, e quindi escluso da qualsiasi progettualità di lotta di classe. In questo senso, non mi pare esagerato affermare che le teorie di base del materialismo storico non abbiano alcuna incidenza sulla produzione letteraria di questo Pasolini. Evidentemente, il suo approccio si poneva un obiettivo diverso. Non nell’auspicio dell’affrancamento dalla povertà, ma proprio da una meditazione sul significato esistenziale e antropologico dell’‘essere poveri’, credo si debba partire per ricercare la valenza ideologica dell’operazione dello scrittore. Il fondamento da cui deve partire l’emancipazione dell’uomo moderno, sembrano suggerirci i racconti di Pasolini, non è l’integrazione sociale, il riscatto economico, o la partecipazione al potere, ma dev’essere ricercato nel cuore di una condizione apparentemente disperata; si tratta della vitalità, spontaneità, generosità, fantasia, espressività, umiltà che contraddistinguono l’esistenza, o meglio il sussistere ai limiti estremi della società, del sottoproletariato romano. In breve, si tratta della loro estraneità all’idea illuministica del progresso; un’idea fondata e sorretta da un razionalismo strumentale che Pasolini intuisce essere alienante dal concetto stesso di realtà, per lui caratterizzato dalla presenza di una matrice sacra e ineffabile.

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Il pensiero critico e poetico di Pasolini pare dunque prevedere l’emancipazione del popolo dallo sfruttamento e dall’emarginazione non attraverso un livellamento verso l’alto dei meno abbienti, ma attraverso un ripiegamento verso il basso, con conseguente crisi di coscienza e abbandono del privilegio del potere, da parte dell’uomo borghese. Si tratta, credo, di una vera e propria costante ideologica nel pensiero del Pasolini artista e intellettuale18, sulla quale non mancherò di tornare. Nella narrativa in esame, tale discorso si rende particolarmente manifesto in racconti quali «La bibita»19, «Il palombo» e «Terracina», quantunque sia poi implicita in pressoché tutti gli altri testi, e spesso fusa con il tema dell’incoscienza e del sesso cui ho appena accennato, o strettamente vincolata a quello dell’imborghesimento che analizzerò tra poco. «La bibita» rappresenta probabilmente l’esempio più chiaro, perché il motivo dell’imborghesimento vi ha pochissima incidenza (si tratta di uno dei primissimi racconti). Qui, Nando è un «ragazzino di dieci anni, magro, storcinatello, con un ciuffo biondo largo sulla faccina stenta, dove una grande bocca sorrideva senza posa», mentre il narratore è l’autore stesso, in prima persona, che si presenta nelle vesti di disoccupato senza una lira in tasca: «sono completamente al verde […] ‘Studio’ gli dissi, per semplificare le cose», (Storie, pp. 9-10). Come suggerisce già la ridondanza del sorriso, la condizione di povertà di Nando non è connotata negativamente. Al momento dell’incontro con il narratore, infatti, il ragazzo appare impegnato a volteggiare su un’altalena, allegro e distratto. Poi Nando, che pure possiede solo cento lire, decide di offrire una bibita al nuovo amico, più povero di lui, e quindi una seconda, dando fondo alle sue misere risorse. Dopo un ultimo giro in altalena, i due prendono congedo con la promessa di un nuovo incontro (che potrebbe richiamare il finale di Amado mio se non fosse per l’assoluta assenza di riferimenti erotici). «I milionari sono senza fantasia» (Storie, p.13), conclude poi Pasolini, suggellando così il suo elogio della povertà come privilegio esistenziale. Ne «Il palombo», Romolé è un Nando con qualche anno in più, come quest’ultimo contraddistinto da un «ciuffo biondo che gli arrivava fin quasi sul naso» (Storie, p. 14), trasteverino di provenienza e povero in canna. Il suo natu-

18 Si veda per esempio l’incipit di un articolo del 1974 intitolato «Ignazio Buttitta: ‘Io faccio il poeta’»: «Ormai da molto tempo andavo ripetendo di provare una grande nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere che la povertà fosse un male. Affermazioni reazionarie, che io tuttavia sapevo di fare da una estrema sinistra non ancora definita e non certo facilmente definibile. […] Dico povertà, non miseria. Son pronto a qualsiasi sacrificio personale, naturalmente. A compensarmi, basterà che sulla faccia della gente torni l’antico modo di sorridere; l’antico rispetto per gli altri che era rispetto per se stessi; la fierezza di essere ciò che la propria cultura povera insegnava a essere. Allora si potrà forse ricominciare tutto da capo…» (SC, p. 179). 19 Questo racconto verrà ridato alle stampe, in una veste marcatamente dialettale, e con il nuovo titolo di «Biciclettone», in Rinaldi e Sbrana (1960, pp. 153-63). In merito a questa versione cfr. O’Neill, 1969.

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rale anticonformismo si manifesta nella forma di prodigiosa fantasia picaresca che gli consente di rubare e rivendere un grosso pesce ormai quasi del tutto marcio. Stessa situazione picaresca nel più articolato «Terracina» (Storie, pp. 39-59), con i due giovani protagonisti che, grazie a un ingegnoso espediente, riescono a rimediare due biciclette per una gita al mare. Qui, poi, la nobilitazione dell’umile prosegue attraverso ampie digressioni sull’attività dei pescatori, la cui estraneità al mondo cittadino li preserva come chiare trasposizioni del tipo del contadino friulano. 3.1.1c Osservazioni sulla geografia del ragazzo Proprio quest’ultima considerazione ci porta a toccare un aspetto narrativo di fondamentale rilievo per comprendere la complessa dinamica del passaggio dalla poetica friulana a quella romana: la provenienza geografica dei protagonisti di queste prose; o, per usare una suggestiva espressione dell’autore, «la Geografia del ragazzo» (Alì, p. 17). Se analizziamo, seguendo l’ordine cronologico, i racconti scritti tra il 1950 e il 1955, notiamo che la lenta, graduale presa di coscienza della realtà sociale viene a coincidere con il progressivo allontanamento (che non significa ripudio) dal topos narrativo del giovane contadino. Come abbiamo visto, però, il significato simbolico incarnato dalle muse maschili friulane rimane pressoché inalterato nelle primissime rappresentazioni dei ragazzi romani, poiché i sottoproletari protagonisti dei raccontini del 1950-51 si possono agevolmente ricondurre al tipo astorico del contadino friulano. A un certo punto, tuttavia, le figure degli adolescenti romani cominciano a arricchirsi di connotazioni sociologiche assenti negli archetipi settentrionali. Questo è per la prima volta documentabile in tre racconti stesi a brevissima distanza l’uno dall’altro, precisamente «Notte sull’ES», «Studi sulla vita del Testaccio», e «Appunti per un poema popolare». Innanzitutto, è fondamentale osservare come questi testi si presentino nella forma di ‘referti’, o ‘appunti’, piuttosto che come pure invenzioni, anticipando in questo modo future strategie narrative dell’autore20. La scelta del nuovo taglio narrativo mi pare senz’altro decisiva nel testimoniare una più spiccata curiosità intellettuale dell’autore verso la realtà sociale alla base della sua scrittura. Proprio in virtù di questa scelta, alcune novità tematiche risultano più chiare al lettore. Possiamo notare, per esempio, che lo stereotipo del ragazzo puro perché chiuso in una inviolabile indifferenza al corso della storia rimane esclusivo patrimonio della figura del contadino, mentre i ragazzi romani che vivono

20 La forma dell’appunto, o del referto, sarà una caratteristica non trascurabile del cinema pasoliniano, per esempio. Si pensi a titoli quali La rabbia, Sopralluoghi in Palestina per il film Il Vangelo secondo Matteo, Appunti per un film sull’India, Appunti per un’ Orestiade africana, Le mura di Sana, Dodici dicembre.

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a contatto con la città diventano gradualmente canali per lo sviluppo di più penetranti osservazioni a sfondo sociologico. Si tratta di un trapasso lento ma inconfutabile, particolarmente importante perché segna il primo avvicinamento di Pasolini a problematiche legate allo sviluppo della società capitalistica italiana del dopoguerra. Questa nuovità tematica emerge per la prima volta nel racconto «Notte sull’ES» (Alì, pp. 64-79), dove i protagonisti vengono studiati con un occhio particolarmente sensibile al profilo storico-sociale delle loro esistenze. Questo mutamento di rotta è testimoniato dall’individuazione, nel ragazzo romano, di tre precise caratteristiche psicosomatiche: l’ironia, l’esibizionismo e la crudeltà. Pasolini non è più unicamente ossessionato dall’ingenuità e dall’innocente amoralità delle sue muse, in quanto scopre appunto la loro ironia (il trasteverino Rafele, a nove anni, viene definito «vecchio a ogni malandrinata, quasi già scettico e ironico»), il loro esibizionismo («il gesto di un pischello appoggiato allo stipite della porta di un barbiere, con le gambe incrociate […] il suo calore di vanità romana, in cui il segreto del sesso è conscio della propria freschezza, […] l’esibizionismo di un’intera popolazione: dalla scialletta intorcinata due volte intorno al collo alla coltellata») e la loro crudeltà (il «manifesto piacere di incrudelire, di mettersi in mostra, di fare i malandrini, senza innocenza, coscienti»). Il fenomeno stesso della delinquenza minorile viene già messo in relazione al progressivo imborghesimento, causato dalla frequentazione della vita cittadina: «A San Lorenzo la delinquenza ha un sapore trasteverino: ma più squallido. C’è intorno più vita borghese. Quindi più vizio»). In «Studi sulla vita del Testaccio» Pasolini potenzia ulteriormente il suo approccio sociologico. Si veda la descrizione dell’uscita in città di un gruppetto di giovani del Testaccio: Anche lì la loro convivenza pare di continuo per disgregarsi; si spargano qua e la ognuno con la sua fionda […]; se si radunano è per qualche battifondo (colpire un pezzo di carta appeso a un cespuglio) che li rende come pazzi, incoerenti. Ma in ogni fatto o impresa c’è un fondo d’ironia: niente dev’essere fatto sul serio, perciò ogni loro passione (quella di uccidere lucertole, pescare) scivola su un fondo ironico; che li rende ambigui, nemici; ciò fa parte della lenzaggine del quartiere, dove è necessario non essere diversi. Essi si oppongono sempre a vicenda la noia, la possibilità di poter fare a meno degli altri, la capacità immediata di poter cogliere gli altri in fallo di credulità, di fede, di impegno: di ingenuità. (Alì, p. 80)

Mi sembra evidente, in questo passaggio, la sostituzione dell’elemento epico-mitico, predominante nella caratterizzazione del ragazzo friulano, con l’elemento ironico, in cui si riflette la svolta verso l’attenzione a temi sociali 21. Il

21 Si veda come la stessa diagnosi del popolano influenzato dall’ideologia piccolo-borghese costituisca l’argomento principale della critica pasoliniana alla comicità di Alberto Sordi (FA, pp. 27-31).

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fatto e di eccezionale rilievo ai fini della ricerca intorno allo sviluppo del pensiero di Pasolini. Nel momento in cui l’autore si accorge che il comportamento degli adolescenti romani è dominato, per gran parte, da una visione ironica del mondo, egli ha già cominciato a distinguerli dall’ambiente sociale in cui vivono e da cui sono condizionati: è già riuscito, insomma, a intendere il loro mondo come struttura organizzata piuttosto che mera natura. Seguendo il ragionamento, possiamo allora ipotizzare che proprio la meticolosa attenzione antropologica dedicata da Pasolini al popolo romano (se non quell’urgenza eroticopedagogica che lo porta a calarsi in un universo a lui estraneo per privilegio di classe), determina una svolta decisiva nel suo pensiero. Se infatti registrare un fondo di ironia nella psicologia collettiva dei ragazzi romani doveva significare per prima cosa differenziarli dal modello friulano, più in profondità ciò implicava una ricerca delle cause alla base di questa delusoria differenziazione, con la scoperta dell’influenza ‘deformante’ della struttura sociale sul comportamento e sui desideri giovanili. Nei tre scritti citati, l’autore scopre che ironia, crudeltà e esibizionismo sono gli inconsci meccanismi di difesa del povero calato in una realtà di emarginazione sociale (cfr. anche Alì, p. 84). Si potrebbe osservare che le caratteristiche di questi poveri sono pur sempre l’istinto e l’inconsapevolezza, così com’era stato per i contadini friulani; tuttavia, la natura di questa inconsapevolezza e di questo istinto non è affatto la stessa. Dall’incoscienza mitica, agreste, incorrotta perché legata alla sacralità naturale, ai cicli dei raccolti e delle stagioni, siamo ora passati a un’incoscienza non più naturale, ma artificialmente ossidatasi, dentro la storia, come antidoto al destino sociale; un’incoscienza, insomma, viziata di cinismo e dunque negativa, consistente in un’ossificazione dello spirito che, solo un gradino più su, produce l’ansia piccolo-borghese (e, come dirà Pasolini più tardi, ‘fascista’)22 dell’uomo massificato. In «Appunti per un poema popolare» Pasolini quasi schematizza la sua analisi antropologico-geografica del popolano. Il racconto parte con una ricognizione su borgate quali Pietralata o Primavalle. Il mondo della borgata pare quasi un anello di congiunzione tra la campagna e i rioni del centro, a metà tra l’astoricità del mondo contadino-meridionale23 e il mondo cittadino-borghese. 22 Un tema centrale di SC (cfr. pp. 143-7, 226-31, 232-6) è l’esplicita associazione del fenomeno neo-capitalistico dell’omologazione a una nuova forma di fascismo, considerata più involutiva rispetto al fascismo storico. 23 Nel racconto in esame il borgataro Belli Capelli «non è molto romano. Ha qualcosa di meridionale» (Alì, p. 97). Come lui, il protagonista di «Dall’Altieri a Monteverde» ha «gli zigomi leggermente meridionali» (Storie, p. 33). Molti ragazzi del popolo in questi racconti provengono o dalla campagna laziale o da quella meridionale, evidenziando tanto la vicinanza al modello friulano quanto la sua progressiva corruzione dovuta al contatto con la città. In «Mignotta», Mario, che abita nel quartiere malfamato di Centocelle, «veniva dal monte Amiata, e era un po’ barbaro, come gli antichi toscani» (Alì, p. 120), mentre sua moglie Nannina proviene direttamente dall’entroterra campano, e impiega molto tempo per adattarsi alla realtà cittadina, finendo poi nel giro della prostituzione.

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Per quanto la figura del borgataro si avvicini a quella del contadino friulano, il contatto con la modernità cittadina minaccia continuamente di corromperlo, trasformando, come già negli «Studi sulla vita del Testaccio», la sua ingenuità naturale in ingenuità acquisita, meccanismo difensivo. Scrive Pasolini: «È cosciente del proprio ‘colore’; è indolente, sa di esserlo. Vuole esserlo. Si specchia in questa coscienza vicinissima alla natura: si esibisce. […] Bisogna ricordare che vive in quelle che vengono chiamate ‘casette’, case per sfruttati, […]. Ha un po’ i fenomeni nevrotici di chi vive in un campo di concentramento» (Alì, pp. 92-3)24. Mi pare importante, qui, soffermarsi sulla «coscienza vicinissima alla natura». Per quanto il ragazzo di borgata, rispetto al predecessore friulano, sembri offrire meno garanzie all’operazione poetica di Pasolini (fondata sul riconoscimento del dato irrazionale) tuttavia, nell’ambito della realtà romana immediatamente esperibile, egli rimane per l’autore il più fedele portavoce del sacro, e dunque la più pesante àncora di salvezza. Voglio dire che per quanto un gradino più coscienti dei prototipi friulani, i borgatari vengono scelti come rappresentanti dell’inviolabilità naturale dell’esistenza; sono essi, agli occhi di Pasolini, i meno corrotti dalla ragione borghese, e dunque i più adatti all’elaborazione di una strategia resistenziale basata sul riconoscimento della conciliazione utopica tra uomo e natura (cfr. anche Ward, 1995 e 1999). Quando poi, gradualmente, l’autore approfondisce la sua conoscenza della realtà cittadina, il binomio oppositivo ‘campagna’-‘città’ viene applicato anche alla lingua. Come già in «Castagne e crisantemi», Pasolini identifica un’importante differenza qualitativa tra l’idioma parlato da chi è a diretto contatto con la vita borghese, e chi invece ne è maggiormente libero, provenendo da una provincia rurale: Anche la violenza dell’allegria sta a dimostrare che quella del popolo romano non è vera salute. Il parlante non è mai inventore, la sua stupenda purezza (su cui si esercitano le nostalgie) sta nell’adattarsi alle poche dozzine di intonazioni del dialetto finché la propria voce sembri crearlo, e non semplicemente vibrarne. […] Il ragazzo e l’uomo del popolo si contemplano: a differenza di altre vite dialettali in cui tra il vivente e il tipo non c’è distacco, a Roma le figure del ‘dritto’, del ‘malandrino’, del ‘fijo de na mignotta’ ecc. sono oggetto di approssimazione, di adattamento. Il ragazzo recita la sua parte naturale, in dialetto (benché non riesca nemmeno a concepire un mondo la cui realtà corrisponda alla struttura di un dialetto che non sia quello). La sua epica, la sua incoscienza, la sua indifferenziazione da un gusto che non sia quello della città, del quartiere. (Alì, pp. 99-100)

Si tratta, evidentemente, di un brano chiarissimo. Attraverso l’osservazione linguistica, come già in Friuli, Pasolini compie un’analisi sociologica dai forti

24 Verso la fine degli anni ’50, in una serie di articoli ospitati principalmente da «Vie Nuove», Pasolini svilupperà l’analisi sociologica della borgata, associandola ripetutamente all’immagine del campo di concentramento (cfr. RR, I, pp. 1444-7, 1454-8, 1459-62, 1463-6).

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contenuti teorici: la mancanza di «vera salute» del popolo romano consiste nell’essersi adattato a una vita organizzata che tende a alienare l’uomo dalla sua matrice naturale. 3.1.1d Lo spettro piccolo-borghese Abbiamo osservato come la poetica della prima narrativa romana erediti i medesimi presupposti teorici di quella del tempo friulano; e come poi, in tre scritti del 1951 e 1952, emergano indicativi sviluppi tematici. Dopo aver descritto il sottoproletariato della capitale secondo uno schema ampiamente collaudato in Friuli, Pasolini comincia a aprire sul mondo borghese. Ma più precisamente egli si accorge di questo mondo, e comincia a farne la diagnosi sociologica, proprio quando ne riconosce la presenza corruttrice nell’adorato sottomondo popolare, il luogo «su cui si esercitano le nostalgie» (Alì, pp. 99100). È attraverso il popolo in quanto depositario dei valori più autentici che Pasolini riconosce l’inautenticità generale: più l’autentico è minacciato, più l’inautentico viene messo a fuoco e smascherato. Da questo momento in avanti, i racconti pasoliniani non potranno più fare a meno della dimensione sociologica: il denaro, il desiderio di possedere e di esibire secondo le mode, verranno efficacemente dipinti come le principali fonti di corruzione delle giovani generazioni sottoproletarie, il loro decisivo primo passo verso l’integrazione nell’etica omologante della borghesia. Già in una primissima prova come «Ragazzo e Trastevere» le «dieci lire guadagnate barando» minacciavano la purezza emotiva del giovane venditore di castagne, che rischiava di dissipare tutta la sua naturale carica vitale nella «lotta per l’esistenza» (Storie, p. 6). Ne «La passione del fusajaro», pubblicato qualche mese più tardi, l’intervento nella narrazione dei temi dell’avidità e del possesso si fa decisamente più esplicito. Il protagonista, soprannominato il Morbidone, è regolarmente inserito nel mondo del lavoro, a differenza di molti giovani delle precedenti prose. Questa discordanza di status ci appare immediatamente rappresentata in uno degli indicatori somatici preferiti da Pasolini, i capelli. Mentre il tipo del giovinetto friulano, angelico e tutto sommato asessuato, è contraddistinto dal colore biondo del ciuffo, qui la capigliatura mora («il ciuffo nero incollato sulla fronte», Storie, p. 17) interviene a significare l’ingresso del personaggio nel reticolo sociale, nella storia. La passione del Morbidone è un maglione color celeste che risplende nel mezzo di una vetrina, e che lui non può permettersi di acquistare. Pasolini coglie qui il tipico meccanismo psicologico su cui fa leva l’ideologia consumistica, per cui la mercificazione del sentimento stesso della ‘passione’ finisce per annichilire la vitalità del borgataro, che in questo racconto manca totalmente di fascino. Immaginandosi di poter mettere le mani sul desiderato capo d’abbigliamento, il Morbidone fantastica un suo futuro da campione di pugilato; la realtà, ben più austera, lo vuole invece malmenato dal padre, che gli rimprovera l’essere rincasato più

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tardi del lecito. A questo punto il ragazzo vorrebbe fuggire da casa, ribellarsi, costruirsi una nuova vita. Al contrario, decide infine di rimanere al proprio posto perché solo ubbidendo e rassegnandosi potrà mettere da parte i soldi necessari per l’acquisto dell’adorato maglione: un primo passo, neppure tanto simbolico, verso l’omologazione. In «Castagne e crisantemi» Pasolini è addirittura euclideo: da una parte l’incorrotto giovinetto di Chieti che vende castagne, «burinello», vale a dire di estrazione contadina; dall’altra la vecchia megera romana, venditrice di crisantemi, inaridita quanto «il suo vecchio romanesco» (Storie, pp. 28-9). Pasolini ci dice che il pensiero del denaro, l’assillante ricorrere della necessità del calcolo, finirà per traviare la purezza del ragazzo, rendendolo inesorabilmente avido quanto la vecchia. Il tema centrale è dunque la contrapposizione tra la purezza della campagna è la corruzione della città, tema che viene ripreso e approfondito nel 1954 con il racconto lungo intitolato «Mignotta» (Alì, pp. 111-33). Qui la burina Nannina, proveniente dalla campagna campana, si lascia sedurre dal sogno piccolo-borghese25, ma finisce poi a fare la prostituta di borgata. 3.2 Poesia friulana a Roma Il dato oggettivo su cui si fonda il nostro discorso critico è il riconoscimento che, appena giunto a Roma, Pasolini continua a scrivere, raccogliere e pubblicare versi in dialetto friulano, o comunque di argomento friulano. Anzi, nel corso del periodo 1950-55, si può dire che egli pubblichi quasi esclusivamente poesia friulana: Tal còur di un frut nel 1953, Dal Diario e La meglio gioventù nel 1954, mentre stenta a emergere il poeta più propriamente ‘romano’ (le Ceneri di Gramsci escono nel 1957, per quanto la parte iniziale sia composta nel periodo ora preso in esame). I versi friulani sopravvivono dunque abbondantemente al trasferimento romano, suggerendo l’ipotesi della continuità, piuttosto che del traumatico stacco, tra la poesia del primo e del secondo Pasolini. Si possono identificare diverse ragioni alla base di questo ritorno della fantasia al mondo friulano. In primis, ragioni pratiche quali le necessità finanziarie e di autopromozione, da cui il bisogno di consolidare quella piccola fama di poeta dialettale creata in Friuli. Secondariamente, credo sia impossibile sottovalutare la forte emotività che lega il Pasolini romano al ‘sentimento’ del paese materno26.

25 Si veda la descrizione del «delirio» consumistico di Nannina e del marito Mario: «Fu un giorno vissuto come in delirio, passarono tutti i negozi, a uno a uno, con mille giudiziosi ragionamenti, sudando di emozione davanti alle vetrine… Tornarono a Torpignattara verso sera, nel tranvetto carico fin sui tetti, completamente sfiniti e col portafoglio di Mario che piangeva. In compenso Mario indossava uno sfolgorante maglione a strisce rosse, turchine e nere, come un tappeto persiano, che gli era costato dieci sacchi» (Alì, p. 124). 26 Una testimonianza testuale diretta di questo forte rapporto emotivo viene dal primo

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Ma credo anche che le ragioni pratiche e nostalgico-sentimentali qui addotte valgano soprattutto per spiegare la pubblicazione delle prime due raccolte, Tal còur di un frut e Dal Diario, dove in effetti Pasolini recupera versi per la maggior parte già pubblicati o comunque vergati nel periodo friulano. In queste raccolte, l’autore sembra tornare alla poesia nostalgica e lirico-introspettiva precedente all’esperienza di Dov’è la mia patria. Diversamente, ne La meglio gioventù il recupero del mondo friulano risponde a una più meditata e matura strategia poetica, per cui gli antichi miti sono verificati da una più vigile coscienza storico-sociale e trasfusi in lucidi rimandi utopici. La meglio gioventù, dunque, sembra testimoniare un primo sviluppo nella direzione di una poesia inequivocabilmente densa di significati ideologici. Si vedano come primo esempio le tre poesie di Tal còur di un frut che Pasolini compose a Roma27. «I vecius savòurs» (Best, II, pp. 1392-3), come già nel titolo («I vecchi sapori»), è un breve componimento che ruota intorno al tema della nostalgia per il passato friulano, chiudendo poi con un simbolismo già tipico delle prime composizioni dialettali: la sublimazione della morte a luogo dell’altro («il còur mi art / dai vecius savòurs da la muart»)28. Nella successiva «Balada» (Best, II, pp. 1394-5), la nostalgia investe i tremiti della carne e, insieme, il dialetto friulano; il poeta grida il suo vivere « FÒUR DAL MOND, SÒUL TA L’UNIVIÈRS»29 per poi confessare di essere un che par vivi a ghi tocia tornà a sìnti tai so strac vues vecius sgrìsuj, e ta la bocia vecis peràulis, disperadis par una dopla passiòn: essi e essi stadi30.

Nella terza («Conzèit»), che chiude la raccolta, Pasolini annuncia lo stacco dal passato friulano («A par / il timp dal nustri amòur un mar / lustri e muàrt»31, quando è chiaro che questa intenzione è soffocata dal forte tono nostalgico che

epistolario romano, per buona parte dedicato a rinsaldare amicizie e interessi con l’ambiente friulano. A parte la preponderanza di lettere inviate al cugino Naldini, e, in minor numero, all’amico ex-allievo Tonuti Spagnol, si veda l’altrettanto nutrita corrispondenza con rappresentanti della cultura e della poesia friulana quali Franco de Gironcoli, Giuseppe Marchetti, Luigi Ciceri, Sergio Maldini, Biagio Marin, Gianfranco D’Aronco, Alan Brusini. 27 La raccolta esce con una lunga introduzione dedicata all’editore Luigi Ciceri (cfr. Best, p. 1413), in cui rende noto l’ordine cronologico dei componimenti. 28 «il cuore riarde / dei vecchi sapori della morte». 29 «fuori dal mondo, solo nell’universo». 30 «uno che per vivere deve sentire di nuovo nelle stanche ossa vecchi tremiti, e nella bocca vecchie parole, disperate per una doppia ragione: essere, e essere state». Si noti come questi versi ripristinino un concetto che il poeta aveva già enunciato, in termini molto simili, nel racconto «Operetta marina» (1951). 31 «Pare il tempo del nostro amore un mare lucente e morto».

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anima tutto il libretto. La nostalgia è innanzitutto nostalgia linguistica, a testimoniare come la fertile riflessione sul dialetto friulano si stia ormai trasfondendo in quella sul dialetto romano. A questo proposito, estremamente significativa la lettera scritta all’editore Ciceri, in cui Pasolini riprende la polemica contro chi, a suo dire, vuol fare del friulano lo strumento di false istanze morali e conservatrici. All’obiezione di Ciceri, che avanzava l’ipotesi di un’invenzione dialettale un po’ troppo arbitraria e soggettiva da parte di Pasolini, l’autore risponde che il compito del poeta non è quello di riprodurre l’istituzione linguistica così com’è (inventum), bensì di reinventarla continuamente (inventio), dopo averne interiorizzato la sintassi. Se così non fosse, aggiunge Pasolini, se la sintassi del poeta ricalcasse in tutto e per tutto quella dei parlanti, senza creare stilemi propri, egli offrirebbe una falsa ipostatizzazione della realtà, e finirebbe per compiere un’azione immorale «perché la storia insegna che le conservazioni sono sempre immorali, essendo contrarie alla vita che non è mai la stessa» (L, I, p. 528)32. La presenza della sostanza mitico-nostalgica alla base della raccolta in questione è registrata puntualmente sia dall’amico poeta e letterato Giacinto Spagnoletti (cfr. L, I, p. 577), che da Gianfranco Contini, il quale parla, mi pare con puntuale giustezza, di «euristica […] fisicamente linguistica» (L, I, pp. 616-7). La raccolta Dal Diario (Best, II, pp. 1915-41) esce nel maggio 1954 su esplicita iniziativa di Leonardo Sciascia, che in quel periodo dirigeva a Caltanissetta la rivista «Galleria», dove erano già apparsi alcuni versi di Pasolini 33. Le poesie di Dal Diario appartengono quasi tutte al periodo 1945-47, sebbene spesso, in calce, Pasolini specifichi di aver apportato modifiche34. Ciò che ap-

32 Questa idea si riaffaccia in una seconda lettera a Ciceri, di pochi giorni successiva; qui la lingua viene definita «un lungo fiume che scorre: la sua vita è un continuo morire, e la sua morte è un continuo ricrearsi» (L, I, p. 541). 33 Nel giugno del 1953 Sciascia aveva scritto a Pasolini per chiedergli di inaugurare (insieme a Tobino e Caproni, poi sostituiti da Roversi e Romanò) una serie di quaderni di poesia per le edizioni del cugino Salvatore Sciascia, intesi a accompagnare e approfondire i contenuti della rivista «Galleria». Il poema richiesto originariamente dallo scrittore siciliano è «L’Appennino», già uscito su «Paragone» nel dicembre 1952 (cfr. L, I, p. 583). Pasolini risponde che l’opera richiestagli è già stata letta e è addirittura in attesa di pubblicazione in America, nella traduzione di W. Weaver, chiedendo piuttosto di poter approfittare dell’occasione «per ‘liberarmi’ di cose che pesano nel mio passato...» (L, I, p. 610): una scelta di poesie, edite e inedite, per la maggior parte scritte in Friuli. Sciascia giudica le poesie «bellissime» (L, I, p. 637) e decide di pubblicarle, come farà una seconda volta (nel 1979) dopo la morte di Pasolini. 34 Esse vengono raggruppate in due sezioni dai titoli rispettivi di «Dal diario» e «Europa». La prima sezione contiene sedici brevi componimenti di cui quattro (tre con varianti di rilievo) estratti direttamente dai casarsesi «Diarii». La seconda sezione è invece composta da quattro poesie, di cui solo la prima era stata precedentemente pubblicata su rivista. Pare dunque evidente la volontà dell’autore di riunire sotto un’unica voce componimenti in lingua italiana che con ogni probabilità sarebbero andati dimenticati; e ciò proprio nello stesso anno di uscita di La meglio gioventù, che invece riuniva le poesie in friulano.

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pare maggiormente significativo è l’unità di contenuto e di tono del libriccino. L’intimismo delle prime sedici poesie è assoluto, nel senso che lo sguardo del poeta è interamente rivolto a sé, interamente dedicato all’osservazione del proprio io. Da rimarcare, dunque, il fatto che Pasolini decida di riproporre, nel pieno dei ‘neorealistici’ anni ’50, uno dei temi centrali della poetica friulana: la dolorosa presa di coscienza della propria solitudine esistenziale. Ciò è ampiamente testimoniato dall’assiduo ricorrere di immagini quali la solitudine35; il deserto prima «esteso [...] fino, / non oltre, l’orizzonte» (Best, II, p. 1419) poi «orribile, inesteso...» (Best, II, p. 1423); il grido come violento e angosciato richiamo alla vita36; il sensualismo37; l’angoscia nell’osservare l’indifferente purezza della natura 38; il «silenzio sidereo» (Best, II, p. 1427), le «tetre solitudini del corpo» (Best, II, p. 1434) nella propria stanza, sul proprio «letto impuro» (Best, II, p. 1430), «disordinato» (Best, II, p. 1432), e «marcio» (Best, II, p. 1434). La seconda sezione, composta da tre poesie inedite, e da una quarta pubblicata sulla rivista «L’approdo», sembrerebbe abbandonare l’intimo struggimento esistenziale della prima parte. Con il titolo di «Europa», essa si presenta infatti come una dolorosa meditazione sul continente straziato dalla Seconda Guerra Mondiale. Più precisamente, Pasolini osserva il divenire storico come conflitto tra il contingente e l’eterno, tra la guerra e il senso del mistero. Nel primo dei quattro componimenti troviamo subito riferimenti storici alla guerra («Autocarri che accelerano inquieti», «un canto d’Inglesi», «un treno» che «s’empie d’ombre»), mentre gli ultimi tre versi contrappongono all’urgenza degli eventi il dato inafferrabile dell’assoluto, rappresentato ancora una volta dal binomio di significanti ‘acqua-morte’: «Ma l’Oceano cieco s’accanisce / come sempre, sugli scogli inanimati, / e un candore di morte copre l’Alpi» (Best, II, p 1437). I restanti tre componimenti, come ricorda Pasolini stesso nella nota finale (cfr. Best, II, p. 1441), sono caratterizzati da alcune citazioni da Baudelaire e da Rimbaud, a confermarne l’impronta decadente. Si prenda per esempio questo passo della terza poesia, in cui esplode la funerea ansia d’infinito del poeta:

35 Cfr. versi come «cullo una solitudine mortale / nel mortale mattino» (Best, II, p. 1419); «E m’incammino solo. Da nascoste / solitudini intanto mi raggiunge / l’immota luna» (Best, II, p. 1423); «Ah, mia coscienza sola come il cielo» (Best, II, p. 1426). 36 «Tutto è muto. / Grida un fanciullo, sogno?, grida o canta, / grida nei muti campi, sono vivo, / grida un fanciullo» (Best, II, p. 1419); «Sento nascermi / dentro un grido (l’intera fanciullezza / mi riappare), un grido che mi annulli, / infine; e taccio ancora rassegnato» (Best, II, p. 1425); «un grido, anche di gioia, e sarei vinto» (Best, II, p. 1429). 37 «Tutto mi si avventa / col volo della rondine nei sensi» (Best, II, p. 1421); «Poi... se i sensi non errano, è un remoto / casto autocarro» (Best, II, p. 1427). 38 L’acqua è anche qui, come in PC, elemento che simboleggia l’immagine di un nulla insieme attraente e terrificante. Il poeta si tormenta a guardare l’acqua della fontana di Vinchiaredo (Best, II, p. 1422), si snerva ai bordi del fiume Livenza (Best, II, p. 1421), si sgomenta come «un naufrago» tra «oceani di rare / viole, di silenziose primule» (Best, II, p. 1431).

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La barca ebbra affonda... Tra crolli d’acque e immense lontananze, Io non voglio esser uomo. [...] Dio, rimuovi i nomi che da duemila anni mi distraggono dalla mia solitudine... (Best, II, p. 1439)

L’altra fondamentale pubblicazione di questa prima metà degli anni ’50 è La meglio gioventù. La raccolta si presenta come un composito amalgama di componimenti in dialetto friulano, alcuni già pubblicati su precedenti plaquettes o ospitate dalla stampa; altri, di numero pressoché equivalente, inediti. La loro disposizione in due volumi sembra confermare lo sviluppo ideologico che abbiamo precedentemente individuato per la poesia friulana (cfr. Santato, 1980, pp. 101-2). Nel primo volume riassaporiamo infatti la prima maniera friulana: le tematiche squisite e il lirismo assoluto del dialetto di Poesie a Casarsa (pur riproposti con notevoli varianti)39 e di Tal còur di un frut, con l’aggiunta di numerosi inediti sempre configurati nella dimensione del mito privato e dell’autosufficienza narcisistica. Nel secondo volume assistiamo invece alla rottura dell’idillio privato e all’apertura alla dimensione epico-sociale già sperimentata in Dov’è la mia patria. L’aspetto più pertinente alla nostra indagine è la presenza di poesie stese dopo la fuga a Roma. Mi riferisco in particolare a tre liriche dell’«Appendice» al primo volume, e alla seconda sezione del secondo, intitolata «Romancero» (mentre la sezione ad essa precedente, «Il testament coràn», raccoglie dieci testi di Dov’è la mia patria, due di Tal còur di un frut, e una significativa poesia pubblicata su «Galleria» nel maggio 1954, e quasi sicuramente composta a Roma)40. Delle poesie composte a Roma e inserite in La meglio gioventù, è stato detto che rappresentano un passo indietro rispetto alla cosiddetta ‘scoperta di Marx’, cioè all’apertura alla storia che sembrerebbe prendere forma nei versi pasoliniani dell’ultimo periodo friulano (cfr. Larivaille, 1985), oppure che hanno valore quasi esclusivamente in qualità di sperimentazioni metriche su un linguaggio

39 Oltre a varianti lessicali e stilistiche, Santato (1980, p. 103) nota che l’aspetto più clamoroso di questa seconda redazione consiste nel rifacimento fonico-morfologico del dialetto in funzione del casarsese istituzionale (friulano della destra del Tagliamento) piuttosto che di quel casarsese canonico (friulano della sinistra del Tagliamento) elevato per «violenza linguistica» a «linguaggio assoluto» (Best, I, p. 171). Già in queste novità possiamo anticipare l’apertura dell’ambito privato a quello sociale. 40 La poesia in questione è «Biel zuvinìn». Il suo metro di canzone epico-lirica la distingue nettamente dagli altri testi del «Testament coràn», assimilandola piuttosto alle poesie del «Romancero», scritte appunto nello stesso metro. «Biel zuvinìn» ha come tema la perdita della felicità e dell’innocenza da parte di un ragazzo dai «rissòs di oru» («riccetti d’oro», Best, p. 136) a causa della corruzione che il mondo del lavoro opera su di lui.

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ormai abbandonato (cfr. Santato, 1980, p. 110; Brevini, 1981, pp. 37-8). Certo, non vi sono dubbi che il tono di La meglio gioventù, anche nel suo aggiornamento romano, rimanga fortemente intimistico (cfr. Gordon, 1996, p. 94), con la narrazione poetica sempre ampiamente incentrata sulla storia individuale del poeta piuttosto che sulla storia in quanto realtà esterna; come è altrettanto vero che nel «Romancero» l’adozione del metro delle canzoni epico-liriche piemontesi (doppi settenari a rima baciata) deriva dallo studio dedicato da Pasolini, in preparazione alle sue fatiche filologiche dei primi anni romani (Poesia dialettale del Novecento e Canzoniere italiano), ai Canti popolari del Piemonte del Nigra. Tuttavia, queste osservazioni non mi sembrano sufficienti a sanzionare l’involuzione poetico-ideologica di queste liriche. L’intimismo e l’egocentrismo pasoliniani trovano una ragione di essere nel sostrato teorico che li alimenta, e che in queste prove romane non può essere facilmente liquidato, credo, come irrazionalismo tout court. Proprio nelle poesie friulane composte a Roma, Pasolini dimostra infatti di aver ormai riqualificato la propria vena romanticodecadente, che inizialmente era senz’altro prona all’autosufficienza, in una contrastata riflessione poetica coesivamente dominata dal sentimento dell’angoscia41. Ma soprattutto conta il fatto che il sentimento di angoscia comunicato da questi versi nel «Romancero» subisce una prima storicizzazione. Qui infatti Pasolini guarda alla storia moderna (dall’era napoleonica fino alla disfatta di Caporetto, rivissute attraverso immaginari sviluppi generazionali della famiglia materna, cfr. Best, I, pp. 143-61), tenendo sempre ben presente il punto di vista dell’assoluto e dell’eterno. Si tratta, non c’è dubbio, del vecchio conflitto pasoliniano tra ragione e sublimazione metastorica, tra tempo e non tempo, che abbiamo già individuato in Dal Diario. Tuttavia, questo conflitto ora non è piú qualificato dalla lamentosa fuga introspettiva del poeta, quanto dalla raggiunta consapevolezza dell’ineluttabile incompiutezza caratterizzante il rapporto uomostoria. Mi sembra significativo, a questo proposito, che le sofferte peripezie di tutti i protagonisti di questa saga poetica trovino origine in precise circostanze storiche piuttosto che in intimi struggimenti e astratti furori. Questo trasferimento del sentimento dell’angoscia da dato personale e privato a dato storico-universale, sebbene non del tutto nuovo nella produzione letteraria pasoliniana42, rappresenta un momento di fondamentale importanza per comprendere l’evoluzione del pensiero dell’autore. Esso si esemplifica perfettamente negli ultimi versi del componimento finale che dà il titolo alla raccolta, «La miej zoventùt». Qui Pasolini, mercè tre sintomatici ottativi, indica la necessità dell’aderenza alla realtà sociale in quanto riflesso del sentimento

41 Una conferma di questa intenzione viene dall’introduzione a PDN, redatta proprio nel primo periodo romano, in cui l’autore spiega l’irrazionalismo del suo regresso dialettale come protesta esistenzialistica volta a denunciare la stasi involutiva della lingua italiana (p. cxxvii). 42 A ragione, Brevini (1981, p. 37) nota che la proiezione su sfondo storico della tematica esistenziale privata era già stata tentata con Turcs.

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utopico del sacro; solo attraverso l’appercezione del sacro, cioè, l’uomo è in grado di accedere alla propria condizione nella storia: Vegnèit, trenos, ciamàit chis-ciu fantàs ch’a ciàntin cui su blusòns inglèis e li majetis blancis. Vegnèit, trenos, puartàit lontàn la zoventùt a sercià par il mond chel cha cà a è pierdùt. Puartàit, trenos, pal mond a no ridi mai pì chis-ciu legris fantàs paràs via dal paìs. (Best, I, p. 170)43

In questi versi non prevalgono il privato patimento per la perdita dell’innocenza o la nostalgica, narcissica riesumazione dell’infanzia contadina. Piuttosto emerge, qui come in tutta la sezione «Romancero», un elemento nuovo rispetto a gran parte dei testi friulani: il simbolo del viaggio come continua, inesausta ricerca di verità. Questo simbolo, che sarà centrale anche a Il sogno di una cosa44, sembra inaugurare una nuova posizione filosofica del poeta di fronte al mondo. Se il viaggio è ricerca di una verità che continuamente slitta nell’altrove, ciò significa che il poeta ha preso definitivamente coscienza della negatività del reale, ossia del carattere permanentemente spurio e incerto che segna l’operare umano nella storia. Si tratta di una conquista teorica che riemergerà puntualmente in futuro a caratterizzare l’anticonformismo ideologico di Pasolini, la sua tipica contraddittorietà; una conquista teorica che deriva direttamente dalla irrisolta contrapposizione dialettica tra la necessità di operare razionalmente nella storia, e il permanere dell’intimo legame con la sacralità del reale. 3.3 Poesia romana: continuità e sviluppo ideologico ne «L’Appennino» e nei primi poemi delle «Ceneri di Gramsci» «L’Appennino» è il primo poema compiuto del Pasolini romano. Scritto nel 1951, e pubblicato su «Paragone» nel dicembre del 1952, esso riflette molti motivi della prima prosa romana, a conferma di quanto si è detto circa gli sviluppi della poetica pasoliniana nella capitale. Innanzitutto, mi pare si tratti di un’opera ancora satura di suggestioni decadenti ma insieme tonificata da una tensione fortemente realistica, nel senso che Pasolini sembra innestare la di-

43 «Venite, treni, caricate questi giovani che cantano coi loro blusoni inglesi e le magliette bianche. Venite, treni, portate lontano la gioventù, a cercare per il mondo ciò che qui è perduto. Portate, treni, per il mondo, a non ridere mai più, questi allegri ragazzi scacciati dal paese!» 44 Il romanzo narra dell’emigrazione di alcuni giovani friulani nella Jugoslavia di Tito, in cerca di lavoro. Successivamente, delusi dall’esperienza in terra straniera, i protagonisti sono sopraffatti dalla nostalgia per il Friuli e tornano in Italia.

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mensione irrazionale sulla prospettiva storicistica, al fine di evidenziare la sostanza contraddittoria e spuria di quest’ultima; diversamente, Asor Rosa (1969, p. 378) crede che Pasolini ceda alla tentazione «di realizzare un discorso parenetico, a cui non sono estranee le suggestioni della letteratura civile e progressista, nata dall’antifascismo e dalla Resistenza» 45. Se consideriamo per esempio il leitmotiv delle «chiuse palpebre» (Best, I, p. 178) della statua di Ilaria Del Carretto, a Lucca, non possiamo ignorare come esso sia immediatamente collegabile alla simbologia erotico-mortuaria di tutto il decadentismo, e rimandante al luogo dell’assoluto. Nonostante il ricorso a tale simbologia decadente, però, «L’Appennino» non si esaurisce, come crede Rinaldi (1982, p. 114), in «una collana di figure-feticcio», in «un godimento ipnotico interrotto e rinnovato all’infinito». Piuttosto, diremmo che proprio in virtù dell’enfasi su una realtà altra (la fissità della statua, in questo caso), il poeta riconosce la condizione di precarietà del divenire storico, e in particolare della sua società e del suo tempo. Il sacro, insomma, sembra già svolgere un’efficace azione resistenziale contro la ragione pratica e strumentale che informa l’etica borghese. Se prendiamo i due temi complementari del ‘ragazzo’ e del ‘popolo’, onnipresenti nei testi pasoliniani, possiamo osservare come essi non rappresentino affatto «tutto un mondo di fantasmi» (Rinaldi, 1982, p. 114), una fuga dalla realtà nel miraggio del sempre uguale, ma piuttosto rimandino già a una coerente visione storico-sociale, diacronica. Se nei primi versi risalta ancora il modello mitizzato del fanciullo contadino, esso man mano si corrompe trapassando nella storia. Vi sono subito «voci di fanciulli / dai selciati di Pienza e Tarquinia» e «pesti giovinetti / impastati nel tufo» di un Orvieto «stretto sul colle sospeso / tra campi arati [...] illeso tra i secoli» (Best, I, p. 176), dove la stessa terminologia adottata («fanciulli» e «giovinetti») ci riconduce all’idillio friulano. Quindi, il modello di purezza comincia a trasporsi nel suo negativo, per cui il «mammoccio di Cassino» è nutrito da «un assassino / e una puttana», mentre i giovani dell’Italia centrale sono «caldi, ironici e sanguinari» (Best, I, pp. 178-9)46. La sezione VI del poema è poi quella in cui meglio si riflette il pensiero dell’autore: Un esercito accampato nell’attesa di farsi cristiano nella cristiana città, occupa una marcita distesa d’erba sozza nell’accesa campagna: scendere anch’egli dentro la borghese

45Asor Rosa poi aggiunge che il tentativo di Pasolini di adeguarsi alla poetica del suo tempo fallisce a causa della sua impronta «fortemente intellettualistica, cioè velleitaria» (Asor Rosa, 1969, p. 378). 46 Si ricordi come i caratteri dell’ironia e della crudeltà fossero emersi per la prima volta nel racconto del 1951 dal titolo «Studi sulla vita del Testaccio» (Alì, pp. 80-8).

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luce spera aspettando una umana abitazione, esso, sardo, o pugliese. (Best, I, p. 181)

In questi versi prende forma quanto abbiamo detto circa il rischio dell’imborghesimento che minaccia l’Italia agreste, all’alba della sua trasformazione in civiltà moderna; l’immagine è nitida, una massa contadina attratta dalla promessa di benessere della città, pronta a rinunciare a secoli di vita campestre per una «borghese luce» che già rimanda alle serrate requisitorie del Pasolini corsaro. Come isola di salvezza contro l’imborghesimento, poi, il Pasolini del 1951, come quello degli anni ’7047, ha già scelto Napoli, «nazione / nel ventre della nazione» e in generale il meridione, dove si perde l’Appennino, dove «tutto è preumano, e umanamente gioisce». Solo nel profondo sud, infatti, resistono «ragazzi romanzi» che «cantano nel cuore della specie / dei poveri rimasta sempre barbara / a tempi originari», chiusi nel misterioso «calore del sesso» (cfr. Best, I, pp. 182-4). In definitiva, ne «L’Appennino», come nei contemporanei racconti d’ambiente romano, troviamo la poetica di un autore che non rinnega affatto il tono e i contenuti della sua prima produzione friulana, ma li arricchisce, rendendoli più complessi ed eloquenti di riferimenti a carattere sociale. L’enfasi è sempre sul tempo assoluto della sacralità del reale, ma già contrapposta dialetticamente all’involuzione sociale individuata nel tempo storico. Con «Il canto popolare» registriamo un netto passo avanti nella direzione di un discorso poetico più narrativo che liricizzante, e soprattutto meglio sintonizzato su coordinate ideologiche. La struttura dialettica del discorso pasoliniano acquista coerenza e incisività, definendosi nel dualismo tra la consueta celebrazione della vitalità popolare e il dato sociologico. La vitalità del popolo è per il poeta da preservarsi in quanto espressione massima della sacralità del reale, in un momento storico in cui la modernità e il progresso minacciano di secolarizzare ogni sfera dell’umano. Se non ci sono dubbi circa la presenza, nel poema, di numerosi elementi narrativi concernenti la glorificazione dell’istinto popolare, è altrettanto vero che esso non si risolve in tale glorificazione ma rimanda a nitide determinazioni di carattere sociologico. In apertura abbiamo subito una situazione dialettica che contrappone la nuova, abbagliante modernità del «mille novecento / cinquanta due», alla naturale resistenza a tale modernità da parte di un giovane popolo che porta con sé il

47 Nell’articolo «Gli uomini colti e la cultura popolare» ospitato da «Tempo» nel febbraio del 1974, Pasolini scrive: «Il rovesciamento di prospettiva del napoletano che vede il mondo dall’interno del suo universo reale ma astorico, è uno scacco alla storia. Se così non fosse, il mondo napoletano popolare non avrebbe una tale vitalità e un tale prestigio da presentarsi addirittura come una tremenda alternativa […]. Anche l’epoca rivoluzionaria del consumismo – che ha stravolto e mutato alle radici i rapporti tra cultura centralistica del potere e culture popolari – non ha fatto che ‘isolare’ ancora di più l’universo popolare napoletano» (SC, p. 191).

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Capitolo terzo

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marchio dell’utopia, essendo visto dal poeta sia in funzione storica, che sub specie aeternitatis («gioventù / sempre nuove [...] a ripetere ingenuo quello che fu»). Nella stanza successiva, il discorso viene approfondito secondo un altro tipico rimando tematico del primo Pasolini romano: la contrapposizione tra provincia e capoluogo, tra società agreste e civiltà urbana (cfr. Best, I, p. 185). La vitalità del popolo è patrimonio del passato, e la sua funzione è ricordarci quei valori che il mondo moderno vuole trasformare e distruggere; tuttavia, Pasolini non si rifugia nevroticamente nel passato, bensì rimanda a quella «vita che è vita perché assunta / nella nostra ragione e costruita / per il nostro passaggio – e ora giunta / a essere altra, oltre il nostro accanito / difenderla» (Best, I, p. 186). Il discorso è chiaramente impostato su base dialettica, ma si tratta di una dialettica alternativa a quella del tradizionale enunciato marxista. I valori del passato convergono infatti sulla promozione di un elemento sacrale che, estraneo al marxismo, Pasolini vuole ora recuperare alla storia e alla ragione laica. Negli ultimi versi, non a caso, ritorna il monito che chiudeva La meglio gioventù, per cui l’uomo moderno è invitato a non dimenticare ciò che è altro da sé: E ormai, forse, altra scelta non ha che dare alla sua ansia di giustizia la forza della tua felicità, e alla luce di un tempo che inizia la luce di chi è ciò che non sa. (Best, I, p. 188)

Con il poemetto «Picasso» (1953) si conferma lo sforzo nella direzione di una poesia ideologica (cfr. Asor Rosa, 1969, pp. 392-4; Santato, 1980, p. 162; L, II, p. 396), ma sempre, secondo la mia interpretazione, in funzione alternativa al tradizionale discorso marxista. Come osservazione preliminare, mi sembra necessario osservare come, centrale alla funzione ‘critica’, continui a essere la nozione di ‘popolo’. Il popolo, infatti, con il suo apporto di inalienabile vitalità, diventa autentico depositario della speranza rivoluzionaria. La novità più significativa rispetto a «L’Appennino» e «Il canto popolare» sta nell’adozione di un tono apertamente polemico nei confronti della politica culturale del comunismo. Il medium del confronto polemico è nel caso in esame la pittura. L’occasione che determinò la stesura del poemetto fu infatti la mostra romana, tenutasi presso la Galleria Nazionale d’arte moderna di Valle Giulia, dedicata a Pablo Picasso e visitata da Pasolini nell’estate del 1953. Questa mostra, poi trasferita a Milano, fece da catalizzatore a un acceso dibattito di politica culturale tra gli intellettuali italiani di sinistra (cfr. De Micheli, 1953). Il dibattito si articolava sulla scelta del pittore catalano di aderire al comunismo abbracciandone l’estetica ufficiale. Diciamo subito che Pasolini condanna senza mezzi termini l’inquadramento politico di un’artista che in tempi non sospetti egli aveva indicato

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come modello maggiore per la pittura italiana di sinistra (Pasolini, 1949b): «l’errore di Picasso», infatti, sta nell’aver abbandonato il suo ruolo di guastatore anarchico e anticonformista in seno alla «classe che specchia» (Best, I, p. 195), cioè la borghesia, per abbracciare astrattamente, con la sua arte48, le ragioni politiche del proletariato. Così riassunta, la condanna della scelta di Picasso porta a una considerazione di fondamentale importanza per comprendere la posizione di Pasolini. Si tratta della conferma che la concezione della società del Pasolini artista è determinata e supportata da una sensibilità fortemente esistenzialistica, in cui il rapporto tra l’intellettuale e la storia viene elaborato ‘negativamente’, in quanto successione infinita di conquiste parziali perennemente destinate a essere superate. Poiché ciò che in termini filosofici definiremmo ‘positività’ è privilegio del sacro, la ragione non potrà mai dirsi ontologica e stabile, ma piuttosto instabile, consapevole del proprio limite costituzionale49. «Picasso» costituisce infatti un lucido esempio del rifiuto pasoliniano di accettare o produrre ideologie positive, alimentate cioè dall’ottimistica fiducia nella ratio. Piuttosto, nel dissenso dalla scelta programmatica di Picasso traspare una concezione del pensiero umano come tensione faticosa e frustrante verso una positività inafferrabile perché trascolorante nell’utopia. Solo recuperando al pensiero questa meta utopica, pertanto, si potrà recuperare il senso profondo dell’attività intellettuale dell’uomo. In questo senso devono essere interpretati versi ormai celebri quali La via d’uscita verso l’eterno non è in questo amore voluto e prematuro. Nel restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo, è da cercare la salvezza. Una società designata a perdersi è fatale che si perda: una persona mai. (Best, I, p. 196) 48 Il dipinto che decreta l’errore picassiano è il grande pannello intitolato Pace, una delle opere celebrate dalla sinistra come esempi del passaggio del pittore all’ideologia rivoluzionaria comunista. I versi di Pasolini in riferimento a questo dipinto, sono: «Ah, non è nel sentimento / del popolo questa sua spietata Pace, / quest’idillio di bianchi uranghi. Assente / è da qui il popolo: il cui brusio tace / in queste tele, in queste sale, quanto / fuori esplode felice per le placide / strade festive, [...]» (Best, I, p. 195). 49 Nel commentare un quadro di Picasso precedente alla sua conversione comunista, Pasolini applica proprio lo schema dualistico dell’irrazionale-razionale, che pochi anni dopo verrà codificato nel binomio passione-ideologia. Dall’analisi in poesia della tela emergono «l’abnorme del pensiero e il puro / della tecnica», il «lume di un’idea / degna di Velásquez» e «l’irrichiesta, pura, cieca passione, / cieca manualità, impudico gonfiore / dei sensi, e dei sensi, tersa noia» cui Goya «nella cadente Francia» cedeva «la sua violenza». Conclude il poeta: «Qui, a esprimersi, / sono pura angoscia e pura gioia» (Best, I, pp. 191-2).

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Pasolini non crede nella palingenesi sociale comunista perché non crede che l’intelletto umano sia capace di trovare la soluzione al problema del vivere. Anzi, quanto più la politica (in questo caso il Partito Comunista) sembra voler imporre una visione del mondo chiara e sistematica, esigendo poi che tale visione sia fedelmente rappresentata da un’arte altrettanto chiara e sistematica, tanto più in Pasolini si rafforza la vena esistenzialistica, con il suo apporto di angoscia e dubbio. Per Pasolini, insomma, il principio di realtà coincide con il principio d’insufficienza, mentre qualsiasi tentativo di sistemare il reale in termini puramente razionali conduce a un’astrazione latamente reazionaria, il dare «in un tempo inesistente» (Best, I, p. 195) del Picasso che abbraccia l’ortodossia sovietica. Questa posizione trova conferma nella distinzione che Pasolini opera tra ‘proletariato’ e ‘popolo’. In «Picasso» l’autore parla sempre e solo di «popolo», senza far mai riferimento alcuno al ‘proletariato’ inteso marxianamente come classe rivoluzionaria. Il popolo pasoliniano non è affatto il proletariato di cui si vuol fare portavoce Picasso, in quanto al primo non viene negata la dimensione sacrale, mentre il secondo è assolutamente calato nel tempo profano. Mentre proletariato è un termine immediatamente politico, il popolo di Pasolini, cioè il sottoproletariato di origine contadina, vive fuori dai libri di storia, e, in quanto emblema vivente di ciò che è altro dalla ragione strumentale, è identificato come ultima speranza rivoluzionaria in un mondo sempre più uniformato dall’utile borghese. Nel settembre del 1954 Pasolini pubblica su «Botteghe Oscure» il poema «Notte a Piazza di Spagna», poi inserito nelle Ceneri di Gramsci col titolo di «Comizio». Come in «Picasso», anche qui il poeta eleva a motivo ispiratore un fatto di cronaca, in questo caso un comizio fascista tenutosi nel centro di Roma. A questo punto del suo iter romano, è bene ripeterlo, la poesia di Pasolini risponde a una precisa esigenza: essa si cala nel proprio tempo, s’ispira a un evento reale e quindi intende storicizzarsi. In «Comizio», un primo riflesso di tale tensione storicizzante lo si ha nello stile, ovvero nel carattere fortemente narrativo delle terzine (cfr. Santato, 1980, p. 164); ma, soprattutto, mi pare siano i contenuti a indicare il livello di controllo intellettuale esercitato dal poeta sul tema prescelto. Non c’è dubbio che qui l’obiettivo polemico diretto sia il fascismo. La situazione reale vede il poeta sopraggiungere casualmente tra una «smorta folla» che assiste a un’adunanza fascista; preso dallo sconforto vorrebbe andarsene, ma invece, lacrimante, si sospinge «come / disincarnato in mezzo a questa fiera / di ombre» (Best, I, p. 199) per cercare di cogliere i contenuti della manifestazione; infine, riconosce nel viso di un «compagno» lì presente uno «sguardo fraterno», un «triste sguardo d’intesa» che gli richiama alla memoria la figura del fratello Guido morto da «oscuro partigiano» (Best, I, pp. 202-3), e con essa la luce e la purezza dell’ideale della Resistenza che il raduno fascista ora deturpa. Il poema sembrerebbe dunque presentare una situazione narrativa a tesi, programmatica nell’esaltare l’esempio edificante della Resistenza contro il ri-

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schio di una nuova involuzione fascista. Probabilmente, se l’intervento ideologico si riducesse a questo tutto sommato ingenuo schema oppositivo, avrebbe ragione Rinaldi (1982, pp. 118-21) nel sostenere che questi versi offrono solo una doppia, ingannevole mitizzazione: tanto del loro momento negativo (il comizio fascista), quanto di quello positivo (la figura del compagno), risolvendosi dunque nell’abile dissimulazione di un discorso ideologico. In realtà i versi di «Comizio», se a tratti rischiano di assolutizzare un po’ manicheisticamente il Bene e il Male della materia poetica, spesso penetrano in profondità, tornando poi in superficie arricchiti di autentico spirito critico50. È il caso della parte centrale del poema, praticamente ignorata dall’analisi di Rinaldi, da cui si può desumere una significativa interpretazione del fenomeno del fascismo. Inizialmente, Pasolini pare attribuire al tipo fascista quella vitalità che, nella sua poetica, è patrimonio esclusivo del popolo. In realtà, capiamo subito che la vitalità fascista è di segno opposto a quella popolare: […] E invece, scorta d’improvviso, in questa lieve piazza orientale, ecco la sua falange, folta, urlante – coi segni della razza che nel popolo è oscura allegria e in essa triste oscurità – che impazza cantando la salute. (Best, I, p. 200)

Nonostante sembri «cantare la salute» come quello del ragazzo del popolo, l’urlo del fascista è sintomo di malattia: esso viene infatti caratterizzato da Pasolini come reazione paranoica del borghese che abbraccia irrazionalmente una fede estremistica perché alienato dalla realtà, incapace di esercitare su di essa qualsiasi tipo di mediazione intellettuale: e qui urla soltanto la borghese impotenza a trascendere la specie, la confusione della fede che

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questo proposito si rivela acuta l’intuizione di Rinaldi che ravvisa l’influenza, a livello strutturale, dell’Inferno dantesco, per cui Pasolini/Dante si troverebbe all’improvviso «in mezzo a [...] una fiera di ombre» (l’inferno del comizio fascista) e finirebbe per trovare nel ‘compagno’Virgilio una fonte di conforto. Non credo però che questa intuizione possa sostenere la tesi dei fantasmi ideologici di Pasolini. Piuttosto, il parallelo con Dante dovrebbe essere letto proprio in chiave ideologica, come opposizione del sacro all’inferno borghese della ragion pratica; questa opposizione costituirà infatti la struttura profonda di altri testi pasoliniani ispirati a Dante, come Teorema o DM. Alternativamente, il parallelo potrebbe suggerire una lettura in chiave psicologica dell’episodio, con Dante/Pasolini che si trova di fronte a un peccato che sente anche suo, a un pur rimosso senso di colpa per il mancato attivismo antifascista della sua gioventù, riacutizzato dal confronto con l’eroismo del fratello caduto.

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l’esalta, e disperatamente cresce nell’uomo che non sa che luce ha in sé. (Best, I, pp. 200-1)

Una simile analisi della psicologia fascista verrà ripetuta a più riprese dal Pasolini maturo (cfr. L, II, 461-2; Vighi, 2001), e emergerà inoltre dalla lettura critica del romanzo Una vita violenta (cap. 5). Il tentativo di attribuire alla vitalità del popolo un valore ideologico diventa motivo conduttore ne «L’umile Italia», del 1954. La vitalità popolare è ancora, sin dai primissimi versi, l’elemento trainante. Ma non si tratta di un popolo indifferenziato o astratto, poiché Pasolini distingue nettamente tra le borgate della perifieria romana e i borghi del settentrione, utilizzando come discriminante l’immagine pascoliana della rondine, «umilissima voce / dell’umile Italia» (Best, I, p. 207). Il popolo delle borgate è sostanzialmente violento e corrotto, quello della campagna del nord innocente e puro. La distinzione, che pure da un punto di vista sociologico può senz’altro apparire troppo netta, è comunque di fondamentale importanza per comprendere la natura ideologica dell’operazione pasoliniana, che consiste nel denunciare il potere corruttore della civiltà moderna sul popolo di estrazione contadina.

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4. ATTIVITÀ CRITICA DEGLI ANNI ’50

Sono anni che mi batto affinché la poesia si liberi dalle poetiche, dalle ideologie irrazionalistiche; la poesia è un atto di profonda razionalità, e se non è tale è semplicemente una forma di poesia deteriore o dilettantistica... ma ho sempre ben chiaro che la razionalità non va confusa con la logica piatta, con la razionalità piatta di tipo borghese, ma che bisogna quindi allargare la nozione di razionalità, cioè includere nella razionalità quel tanto di irrazionale che è ineliminabile nell’uomo. Perché se eliminiamo dalla razionalità l’irrazionalità che è compresente, facciamo della razionalità qualcosa di anestetizzante, qualcosa di arido, di inutile, di astratto. Questa è la mia posizione riguardo la razionalità e l’irrazionalità della poesia. (P.P. Pasolini, in Magrelli, 1977, p. 80)

Insieme alla produzione di numerosi testi letterari, il periodo ‘romano’ di Pasolini si apre all’insegna di una fitta produzione critica, anch’essa continuativa dell’esperienza friulana. La saggistica in questione è effettivamente smisurata, coprendo un decennio di assidue indagini esegetiche principalmente incentrate sulla letteratura italiana del Novecento. Nell’affrontare quest’ampia produzione conviene, per prima cosa, evidenziare come la coscienza critica di Pasolini si sviluppi per gradi. Come avremo modo di verificare, tra i primi contributi critici degli anni ’50 e i più noti saggi di Passione e ideologia si apre un profondo scarto, sia in termini di metodo che di partecipazione emotiva e ideologica. A causa di questo scarto, mi pare sia semplicistico definire l’operazione critica pasoliniana, nel suo insieme, come «progetto totalizzante e definitivo» e per questo «mistificante» (Rinaldi, 1982, p. 181). Piuttosto, per cercare di comprendere le ragioni operanti lungo l’arco evolutivo degli scritti critici dell’autore, credo possa essere utile analizzare lo sviluppo di una tra le caratteristiche più rappresentative dell’approccio pasoliniano: il taglio storicistico, che emerge gradualmente e infine si manifesta con esplicite connotazioni ideologiche. Mi pare nondimeno importante insistere sul temperamento densamente soggettivo e militante che viene a assumere, specie nella seconda parte del decennio, la scrittura critica di Pasolini. Per quanto debitore dell’approccio filologico continiano, rigorosamente oggettivo, il Pasolini critico non è quasi mai super partes. Come vedremo, le sue indagini (anche quelle all’apparenza più disinteressate) ci conducono regolarmente alla problematicità che sottende con uni-

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Capitolo quarto

forme cogenza l’intera sua opera. Il disegno soggettivo che prende forma dentro ciascuno dei saggi pasoliniani richiede però, prima di essere scartato in quanto «autoriale» (Rinaldi, 1982, p. 181), un’attenta e meticolosa esplorazione delle sue componenti teoriche. 4.1 Metodo e contenuti della prima critica romana (1950-53) Solitamente, gli scritti di Passione e ideologia vengono letti come summa e insieme non plus ultra dell’attività critica di Pasolini negli anni ’50. Credo che in questo assunto vi sia un ampio fondo di verità, nel senso che il carattere esplicitamente programmatico di una raccolta che sintetizza, secondo scelte e emendamenti dell’autore (cfr. Segre, 1988, pp. xiv-xv), un decennio di incessante ricerca letteraria, non può che presentarsi come il momento conclusivo e più alto di tale ricerca. Tuttavia, questa premessa non ci autorizza a concludere che solo e esclusivamente in Passione e ideologia si debbano cercare, né tantomeno trovare, le ragioni teoriche alla base del pensiero critico dell’autore. Perché un conto è discutere lo schema ideologico di Passione e ideologia, un altro cercare di circoscrivere l’ambito teorico in cui tale schema affonda le radici1. Per approntare un’analisi accurata della critica pasoliniana degli anni ’50, dobbiamo allora innanzitutto considerare i numerosi testi critici del primissimo periodo romano, esclusi da Passione e ideologia. Nonostante la datazione 194858, i saggi di Passione e ideologia risalgono infatti per la maggior parte al periodo 1954-58, mentre pochissimi sono i testi redatti tra il 1948 e il 19532; fase, quest’ultima, che fu invece straordinariamente feconda per l’autore (cfr. PM, pp. 19-113). Sarà utile chiedersi perché Pasolini, al momento di stilare l’elenco dei testi di Passione e ideologia, abbia scartato in blocco, e senza grosse esitazioni3, le

1 A questo proposito, P.V. Mengaldo, tra i più acuti studiosi del Pasolini critico, ha osservato (1981, p. 154) che Pasolini rappresenta un caso rarissimo di intellettuale in cui acutissime soluzioni ideologiche si accompagnano a una singolare povertà di conoscenze filosofiche. Per quanto colga nel segno, questa osservazione dev’essere precisata. Mi pare cioè che si debba tenere in considerazione la dipendenza di tutta l’attività di Pasolini, creativa quanto critica, da una concezione di realismo implicante un linguaggio e una simbologia assolutamente concreti e espliciti, costitutivamente allergici a una speculazione che rimanga astratta. Ciò non significa che le posizioni di Pasolini siano prive di basi teoriche. Al contrario, l’originalità delle speculazioni pasoliniane consiste proprio nell’originarsi e cercare conferma nel dato esistenziale. Negli anni ’60, la teorizzazione del cinema come ‘lingua della realtà’ offrirà un esplicito esempio dell’amalgama di teoria e empiria tipico del pensiero dell’autore. 2 Si tratta di «Un poeta e Dio» (1948-51), PI, pp. 309-26; «Bassani» (1952), PI, pp. 363-7; «Un poeta in abruzzese» (1952), PI, pp. 264-8. 3 Segre, esaminando due indici dattiloscritti messigli a disposizione da Graziella Chiarcossi, cugina di Pasolini, afferma che «Pasolini non ebbe forti dubbi sui testi da includere o da scartare,

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Attività critica degli anni ’50

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prime prove. Già Cesare Segre si è provato a fornire chiarimenti4, omettendo però quella che credo debba essere considerata una motivazione almeno integrativa: il debito con l’ermetismo. Nel 1960 Pasolini doveva essere consapevole che la forte razionalizzazione di natura storicistica operante in Passione e ideologia prevedeva come necessario corollario la polemica con l’esperienza ermetica, in quanto rappresentante un’idea di letteratura evasiva, intimistica e, in una parola, irrazionalistica5. La presenza, in Passione e ideologia, di testi anche indirettamente debitori della sensibilità ermetica, avrebbe evidentemente minato gli equilibri e la coerenza del disegno complessivo della raccolta. Tuttavia, che il primo Pasolini romano fosse ancora legato all’ermetismo mi pare fatto indubitabile. Innanzitutto, è una questione di trascorsi. In Friuli, per sua stessa ammissione (cfr. Duflot, 1993, p. 12) Pasolini si era formato sui poeti dell’ermetismo, avendo divorato pagine su pagine di poesia e critica ermetica (cfr. anche Halliday, 1992, p. 32; Siciliano, 1978, pp. 57, 60; Rinaldi, 1982, pp. 19-22; Schwartz, 1995, p. 204); risulta difficile credere che tale bagaglio di frequentazioni non abbia lasciato il segno6. Dai testi scritti tra il 1950 e il 1953, poi, l’influenza dei critici di area ermetica emerge con chiarezza. Si vedano i riferimenti ai vari Anceschi (PM, pp. 31, 89, 105; PI, p. 311), Bo (PM, pp. 57-9, 99, 103; PI, pp. 91n, 133n, 319, 364), De Robertis (PM, pp. 46, 88, 98-9; PI, pp. 12-3), Macrí (PM, pp. 84, 104), Solmi (PM, pp. 31, 72) e il Seroni prima della conversione marxista (PM, pp. 10, 59), quasi sempre citati come fonti autorevoli e mai contraddetti. Gli interventi di Pasolini, dall’inizio ‘militanti’ piuttosto che ‘accademici’7, si conformano a una concezione della critica tipica della civiltà letteraria ermetica, qua-

se si prescinde da un gruppo di articoli su poeti dialettali che avrebbe dovuto seguire il grosso capitolo su La poesia popolare italiana [...]. Però era prevista l’inclusione di Una linea orfica [...] nonché, in una Appendice, de La reazione stilistica [...]». (Segre, 1988, p. xv) 4 Nella prefazione a PM, Segre (1988, pp. xv-xvii) individua due principali motivi: certa superficialità nel trattamento di autori importanti (Montale, Ungaretti e Penna), poi ripresi con maggiore discernimento; la diversità di impostazione teorica di base. 5 Sul punto della polemica con l’irrazionalismo ermetico la critica ha già vergato oceani di inchiostro, finendo spesso però per rendere forzosamente chiara e luminosa una posizione che intendeva in realtà mantenersi su una linea di sottile penombra, fatta sì di netti rifiuti, ma anche di significativi recuperi; di processi, a volte sommari, ma anche di assoluzioni. Vedremo tra poco la specificità di tale atteggiamento. 6 Parallelamente, mi pare significativo che tra gli autori recensiti nei primi anni romani nessuno rientri sotto il grande ombrello del neorealismo, la corrente che in quel periodo dominava la cultura di sinistra. 7 La critica ‘militante’, formatasi nella prima metà del Novecento, si differenzia notevolmente da quella accademica e crociana (legittimata dalla propria funzione all’interno delle università e operante attraverso vasti e eruditi studi monografici), in quanto tende «a fissare l’osservazione rapida e incisiva, la considerazione di gusto, la reazione emotiva al testo, mescolando giudizio e discorso di poetica con libertà sempre più marcata rispetto alle regole crociane» (Bárberi Squarotti, 1996, p. 929).

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Capitolo quarto

le «operazione essenziale anche all’interno dell’atto formativo, creativo, non come semplice fenomeno accademico o erudito» (Bàrberi Squarotti, 1968, p. 53)8. Inoltre, l’epistolario degli anni in questione ci rivela la corrispondenza di Pasolini con alcuni dei critici sopra citati: Spagnoletti (L, I, pp. 376-7, 379-80, e passim), Falqui (L, I, pp. 552-4, 557-9) Macrí (L, I, pp. 570-1), e Seroni (L, I, pp. 598-9, 621), letterati che, avendo parzialmente adattato le proprie posizioni alla prospettiva dell’eteronomia (cfr. Bàrberi Squarotti, 1968, pp. 62-3), esercitavano ancora una profonda influenza sulle lettere italiane del dopoguerra. Silenzio assoluto, invece, per quanto riguarda i più giovani e emergenti critici marxisti, da Salinari a Petronio a Trombatore, mentre Muscetta serve solo a Pasolini per arrivare a Gramsci, e unicamente nel lungo saggio sui dialettali (PI, pp. 20, 34n, 35, 90). Significativo osservare che la critica marxista verrà chiamata in causa da Pasolini solo nella seconda metà del decennio, e quasi sempre a scopo polemico. Le simpatie per la civiltà ermetica palesate da Pasolini in questi primi anni ’50, sembrerebbero dunque suggerire la sopravvivenza della concezione poetica degli anni friulani, secondo la quale attraverso la poesia era possibile accedere all’assoluto, a una dimensione extra-storica. Si tratterà di stabilire, come cercheremo di fare in questo capitolo, in che modo Pasolini abbia ereditato il postulato ermetico del legame tra la parola poetica e l’assoluto. Ma se è possibile supporre, nella sopravvivenza del legame con l’ermetismo, il mantenimento di un ideale di poesia quale esperienza disarticolata dalla contingenza storica, vedremo ora se e come sia possibile parlare, per questo primo Pasolini romano, anche di una parallela apertura alla storia, che finirebbe per contraddire, o almeno rettificare, il debito contratto con la poetica dell’ermetismo. Il presupposto decisivo per un approccio critico di tipo storicistico è infatti l’adozione di una prospettiva diacronica, per cui l’opera viene analizzata in quanto parte integrante di una precisa vicenda letteraria e culturale, anziché come fenomeno assoluto. Mi pare che un orientamento storicistico si possa individuare nella maggioranza dei primi scritti critici romani di Pasolini, il quale dimostra spesso di voler tracciare, attraverso lo studio della letteratura italiana contemporanea, una storia della cultura novecentesca. Se nelle primissime recensioni, mettiamo quella su Fracassi (PM, pp. 27-9) o su Penna (PM, pp. 31-4), entrambe del 1950, registriamo l’assenza totale di riferimenti diacronici, lo stesso non si può dire per le recensioni del 1951. Bertolucci, ad esempio, viene letto sullo sfondo del Novecento letterario e in relazione a Pascoli (PM, pp. 45-8), mentre Sbarbaro (PM, pp. 57-9) viene inserito nel centro linguistico, sulla scia di Leopardi. A questo riguardo, è fondamentale notare come l’intenzione diacronica non impedisca a Pasolini di introdurre una forte istanza irrazionalistica, che si caratterizza subito in funzione di una lettura critica fortemente soggettiva. Nei saggi

8 Bárberi Squarotti (cfr. 1968, p. 54) indica in Pasolini un classico esempio di questo tipo di critico che, proveniente dall’attività creativa, unisce riflessione critica e invenzione.

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Attività critica degli anni ’50

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su Bertolucci e Sbarbaro sopra citati, infatti, l’analisi rimanda a nozioni di ‘mito’ e di ‘sacralità’ che nel corso di questa ricerca abbiamo già avuto modo di considerare tipicamente pasoliniane: Bertolucci può indulgere nei «miti dell’infanzia e della vita provinciale» (PM, p. 45), mentre i versi di Sbarbaro, come sostengono Bo e Boine citati da Pasolini, pulsano «fuor della storia, fuor della tradizione» (PM, p. 59). L’insistenza sul dato irrazionale, tipicamente pasoliniana, ci consente allora di precisare la natura del retaggio dell’influenza ermetica. Come vedremo nel corso dell’analisi, l’assiduo ricorrere di riferimenti a una parola poetica sconfinante nel sacro e nell’utopico sembra suggerire che Pasolini abbia ereditato l’assoluto degli ermetici per adattarlo alla propria personale concezione critico-ideologica. Pasolini sembrerebbe cioè utilizzare il metodo storicistico per contrapporre a una visione diacronica, e fluida, della letteratura, quella destinazione sacrale, e cristallizzata, della parola letteraria, di cui avevamo già avuto ampie anticipazioni nella critica friulana. Significativamente, la convivenza di un approccio storicistico e di contenuti passionalmente improntati alla difesa del dato metastorico e nonconcettuale, rimarrà una caratteristica fondante di pressoché tutti i successivi scritti del periodo 1952-53, come vedremo tra poco nel dettaglio. Credo, allora, che proprio su questa magmatica convivenza di vecchie e nuove istanze metodologiche e contenutistiche occorra soffermarsi per comprendere la nascita e il significato del progetto esposto in Passione e ideologia. Da queste prime prove critiche degli anni ’50, cioè, sembrano emergere indicazioni imprescindibili per far luce sul fondamento teorico della critica di Pasolini. In particolare, l’analisi dei testi scritti nel 1953 ci consente di registrare lo sviluppo di un metodo estremamente soggettivo, e insieme illuminante circa la maturazione intellettuale dell’autore. 4.1.1 Prime indicazioni Siamo dunque partiti dall’ipotesi che nell’attività critica del periodo 1950-53 l’apertura alla storia di Pasolini sia caratterizzata dal permanere di una interna e direi congenita tensione irrazionalistica. Nei due seguenti sottocapitoli cercheremo di verificare questa ipotesi nei testi, con il proposito di delineare lo sviluppo del pensiero critico dell’autore tanto in termini contenutistici quanto metodologici. 4.1.1a L’Ungaretti di Pasolini e altri contenuti della critica 1950-53: Dio, Eros e crisi Per quanto riguarda i temi di fondo dei primi testi critici, emergono con nettezza un’appassionata aggressione dell’argomento religione nella poesia italiana novecentesca e il puntuale, si direbbe ossessivo rilevamento, negli autori recensiti, di caratteri psicologici e poetici indicanti un atteggiamento di

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angosciata o anarchica tensione verso un assoluto metastorico. Già Segre, introducendo PM, aveva posto l’accento su questi due fattori ricorrenti nella critica pasoliniana (religione e disperazione) esprimendosi poi con scetticismo sulla rilevanza del secondo: «Certo che, inseguendo nei suoi scritti non solo critici parole come disperazione e angoscia, si giungerebbe a capire Pasolini forse di più che discutendo le sue idee» (Segre, 1988, p. xxii). Affermazione che credo rischi di ridurre il tema dell’angoscia a un fatto esclusivamente psicologico, personale e in fondo patologico, negandogli un fondamento teorico; cioè vanificandone, o quantomeno banalizzandone, le potenzialità ideologiche. Viceversa, mi pare che una strada per interpretare la critica di Pasolini sia quella di mostrare l’interdipendenza delle due componenti sopracitate: l’attenzione al tema religioso e il trasporto esistenzialistico. La presenza del nesso religione-angoscia, che diventa vero e proprio criterio di lettura critica, si può facilmente rinvenire nelle prime interpretazioni pasoliniane della poesia di Ungaretti. Per cominciare, farei riferimento tanto al breve excursus «Insistenza della voce ‘Dio’ nella nuova poesia italiana», datato 1948-51 (PM, pp. 39-43), quanto al notevolmente più ampio e monografico «Un poeta e Dio», del 1953 (PI, pp. 309-26); per poi concludere con il saggio dal titolo «La nuova allegria di Ungaretti» (PM, pp. 65-9). I primi due scritti hanno come comune oggetto d’analisi la poesia di Ungaretti che va dalla prima raccolta Allegria di naufragi (1919) all’ultima dal titolo Il Dolore (1947) (sebbene lo scritto incluso in Passione e ideologia sia un’approfondita monografia, mentre il secondo una rapida panoramica non solo su Ungaretti ma anche su Morucchio, Dolci, Corsaro, Wenzel e altri poeti contemporanei). Essi si rivelano particolarmente interessanti per capire il pensiero critico di Pasolini, innanzitutto in quanto l’autore, attraverso i versi dell’amato Ungaretti, ci confida la propria concezione di ‘vera religiosità’. In «Insistenza della voce ‘Dio’ nella nuova poesia italiana», il critico distingue tra il «turbamento religioso» dell’Allegria di naufragi e il cattolicesimo del Dolore, prendendo subito le difese della prima posizione ungarettiana. Questo perché, nelle parole di Pasolini, la prima raccolta ci consegna un «Dio nel futuro, come una promessa ancora di essenzialità e di assoluto», tale cioè da stimolare, come si legge poco oltre a commento della poesia di Danilo Dolci, la «ricerca assillante del divino» (PM, pp. 40-1). Partendo da questo approccio indubbiamente ‘soggettivo’ e interessato di Pasolini, potremmo allora azzardare alcune osservazioni di natura teorica. Il Dio ‘vero’ cui fa riferimento il critico è chiaramente il Deus absconditus, che non può che esistere in forma di sostanza utopica9. Un Dio che diventa dunque sinonimo di sacralità assoluta, e che nel contesto del pensiero pasoliniano va sistemato sotto il polo dell’irrazionalità, in contrasto oppositivo con il moto storicistico e razionalizzante. 9 Mi pare si possa tentare qui il parallelo con il ‘Dio-Altro’ del messianismo benjaminiano (cfr. Benjamin, 1995, pp. 75-86).

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La minuziosa analisi della poesia ungarettiana nel saggio trasposto in Passione e ideologia, con cospicua iniezione di osservazioni stilistiche subito accreditate a Contini, conferma fermamente questa concezione eretica, se non proprio mistica, della spiritualità pasoliniana, per cui al Dio della confessione cattolica viene sostituita la negatività del ‘Dio-Altro’, paradossalmente conoscibile solo in quanto razionalmente inconoscibile e ineffabile. Occorre subito aggiungere, peraltro, che queste osservazioni sul sostrato teorico dello scritto pasoliniano su Ungaretti, non implicano necessariamente che l’autore ne avesse piena coscienza: questo Pasolini (il saggio, ricordiamo, è datato 1948-51, e dunque si presenta come ideale trait d’union tra il periodo friulano e quello romano) si dimostra sostanzialmente disinteressato a approfondimenti filosofici, preferendo passare ex abrupto da fertili intuizioni filologiche a latenti ma inequivocabili empiti autoreferenziali (si veda la discussione del nodo ‘colpaperdono’ in Ungaretti, PM, pp. 317-8, rimandante al clima morale dell’Usignolo della chiesa cattolica, in Best, pp. 282-413). Resta fermo che qui ci proponiamo unicamente di interpretare la valenza del potenziale teorico implicito nella critica pasoliniana. Il saggio su Ungaretti scelto per Passione e ideologia («Un poeta e Dio») apre con tre versi della lirica ungarettiana «Dannazione» («Chiuso tra cose mortali / anche il cielo stellato finirà / perché bramo Dio», PI, p. 309) risultato di due rifacimenti sulla prima stesura del 1916 («Chiuso tra cose mortali / (anche il gran cielo stellato finirà) / perché bramo Dio?) e inclusi nella successiva riedizione dell’Allegria di naufragi del 1931. Pasolini nota che nell’ultima riedizione dell’Allegria di naufragi, del 1942, Ungaretti ha recuperato la parentesi e, ciò che più conta, il punto di domanda della versione originale, riproponendo l’interrogativa al posto della causale attraverso una «resipiscenza» che non nasconde «una questione meramente filologica; al contrario, è l’intero problema religioso ungarettiano […] che viene investito» (PI, p. 311). Il critico spiega che dietro il punto di domanda originale si nasconde un Dio «ancora impersonale, nozione non ancora semanticamente violata che si identifica con il futuro ponendosi con puro moto musicale in contrasto con il presente. Il Dio dell’Allegria non è che il termine antitetico di ‘cose mortali’: tutta la lirica si riduce a questi due temi contrapposti ma immobili» (PI, p. 312). Più avanti Pasolini si soffermerà sulle antitesi ‘imperfezione-perfezione’, ‘umanodivino’, ‘inquietudine-eternità’ (cfr. PI, pp. 312-4), contrassegnando la matrice irrazionale dei secondi termini con un’espressione paradigmatica che non lascia dubbi circa il suo significato teorico: «futurus pro-praesente»; dunque un’immagine utopica («oltre la Todeslinie»)10 che agisce sulla vita dell’uomo «non come giudizio», cioè non come il Dio confessionale della tradizione cattolica, ma come immobile essenza («Dio è soltanto l’eterno»). 10 Interessante notare come il termine tedesco «Todeslinie» si riaffacci in un altro scritto del 1948 («Il coetaneo ideale e perfetto», Primule, p. 151), a designare la convergenza di ‘assoluto’ e ‘morte’.

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Passando all’analisi del Sentimento del tempo, il critico finisce per avvertire in questo Ungaretti, oltre all’atteggiamento inquieto che caratterizzava il rapporto col Deus absconditus dell’Allegria di naufragi, quel ‘ritorno alla fede’ che definirà la sua successiva poesia religiosa del Dolore; ed è proprio da questo punto dell’analisi in poi che Pasolini ci permette di capire quale sia la sua posizione ultima in merito all’immagine utopica di Dio fin qui elaborata: «S’intende che, fuor dalla poesia, la parte umanamente valida è la prima, cioè l’inquietudine, sia come peccato che come rimorso impotente e pretesa di Dio» (PI, p. 320); con l’aggiunta che «il suo ritorno – e tanto meglio per lui, per la sua umanità, per la sua poesia – è sempre in fondo illusorio» (PI, p. 323). L’inquietudine, se non proprio l’angoscia, rimarrebbe dunque il motivo fondante, anche laddove nascosto, della posizione morale-religiosa di Ungaretti. Nel saggio su Ungaretti del 1953, in cui Pasolini recensisce il testo Un grido e paesaggi, notiamo poi che il nesso ‘religiosità-angoscia’ viene facilmente trasposto nell’analogo nesso ‘sensualità-angoscia’, con la possibilità di porre i termini Dio e Eros sotto il comune denominatore teorico dell’irrazionale, e riscattare così Ungaretti dalla sua centralità nel Novecento italiano. Già nel saggio di Passione e ideologia l’autore aveva concluso: «Nel suo classicismo incide sempre un’istanza romantica, come un’istanza eretica incide sempre nel suo cattolicesimo» (PI, p. 326). «La nuova allegria di Ungaretti» ci mostra dunque un primo tentativo, ancora acerbo ma già sufficientemente trasparente e decodificabile, di chiarificazione ideologica dell’antitesi ‘razionale-irrazionale’. In consonanza con un breve accenno all’Allegria di naufragi comparso nella ricerca sui dialettali del 1952 (PDN, p. cxvi), il nuovo libro di Ungaretti viene qui situato in un preciso contesto storico, coincidente con il cuore di quell’ampia geografia poetico-religiosa del Novecento che Pasolini comincia a rifiutare piuttosto esplicitamente: quel centro linguistico-culturale, moralmente coordinato dalla tradizione cattolica, in cui operavano «La Ronda», «Solaria», «Letteratura», e tutta la tradizione ermetica. Secondo questa contestualizzazione, Ungaretti diviene «il poeta ufficiale (absit iniuria verbis) del nostro tempo, addirittura sulla linea carducciana» (PM, p. 66), cioè uno tra i massimi rappresentanti del periodo che il Pasolini del 1953 elegge ormai a idolo polemico della sua attività di critico letterario. Parrebbe dunque intervenire, nel discorso di Pasolini, una contraddizione in termini. Se infatti, da una parte, non si può fare a meno di registrare l’eredità ermetica operante nel Pasolini critico (nella costante riflessione sulle tematiche della religiosità e dell’assoluto); dall’altra, sappiamo che proprio in questo momento Pasolini comincia a polemizzare proprio con la poetica irrazionalistica e antistoricistica dell’ermetismo. In realtà, la contraddizione si spiega se distinguiamo tra l’irrazionalistico rifiuto della storia e della ragione che Pasolini addebita all’ermetismo e al Novecento, e il distintivo uso della categoria irrazionale che invece caratterizza la sua critica e, in generale, il suo pensiero. Nel primo caso, si tratta di vero e proprio ‘irrazionalismo’ (secondo il critico); nel secondo, di ‘irrazionalità’, in quanto dato da recuperare alla nozione di ‘reale’.

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Questa importante differenza dovrebbe risultare più chiara proseguendo nell’analisi della saggistica. Come precedentemente anticipato, la caratteristica più rilevante delle prime storicizzazioni pasoliniane sta nel loro presentare, proprio per il costante intervento della categoria dell’irrazionale, un carattere sperimentale e aperto, inconcluso. Prova di ciò è che il critico, pur proponendosi ampie operazioni di sintesi della letteratura italiana contemporanea, finisce regolarmente per soffermarsi su casi di poeti extravaganti, ‘reagenti’ rispetto al proprio tempo. Nel caso di Ungaretti, infatti, prima Pasolini dubita la validità assoluta della sua sistemazione nel Novecento ‘reazionario’, alludendo a «una pura collocazione schematica, esterna, […] schematica e un po’ stravagante» (PM, p. 66); quindi finisce col recuperare alla poesia del toscano caratteristiche che ne salvaguardano il carattere di violenta e sperimentale libertà tanto dallo schema storicistico da lui improntato, quanto dal conformismo delle poetiche del Novecento. Caratteristiche che si possono riassumere, tanto per quanto riguarda la psicologia che la poesia di Ungaretti, sotto il comune denominatore di quella ‘sensualità’ elevata da Pasolini a luogo utopico, cristallizzazione irrazionale da lui già sentita come salvifica in quanto corrosiva nei confronti del pericolo della fossilizzazione linguistica e morale: Dietro la ricerca linguistico-religiosa sempre così pura, così alta (forse nessun poeta come Ungaretti nutre una tanto incarnata fiducia nella poesia, nella letteratura), scorre la sua sensualità, espansa, accesissima: quella che ha dato i più deliziosi sintagmi dell’Allegria, le più lussuose sintassi del Sentimento, le più ardue metriche del Dolore. […] È proprio attraverso la sua violenza di sensazioni – sensualità di uomo dalla forte salute sessuale11 – che Ungaretti ignora tutti i pericoli che la reazione post-vociana, dovuta alla sua stessa poetica e a quella analoga della «Ronda», poteva porre sul suo cammino: e che fa sfociare nel cuore del Novecento minacciato dalla fossilizzazione ermetica, quella piena umana, quella disperazione, quella ingenua e alta capacità di impegnarsi e spendersi, che era stata della «Voce»: del periodo più bello del nostro tempo letterario […]. (PM, pp. 67-8)

In breve, sarebbe la presenza di una profonda traccia di sensualismo a farsi garante della sperimentazione linguistica e morale, religiosamente eretica, di Ungaretti. Il punto è di fondamentale importanza, perché qui possiamo forse risalire alla scaturigine del discorso critico di Pasolini. Le coordinate teoriche che agiscono in questa interpretazione di Ungaretti, a ben vedere, sono infatti le stesse che l’intellettuale adotterà per difendere la propria poetica dagli attacchi della critica marxista: nell’un caso come nell’altro, tanto cioè contro la fossilizzazione irrazionale e astorica individuata nel Novecento che contro l’iperrazionalismo asfittico colto nel prospettivismo comunista, Pasolini rivendicherà il suo sperimentalismo linguistico, morale e infine ideologico, innescato dal

11 La medesima definizione di Ungaretti sarà riproposta nel film-documentario Comizi d’amore (1965), quando lo stesso Ungaretti viene interrogato da Pasolini sul tema della sessualità.

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riconoscimento di un elemento irrazionale, nel senso di ‘altro’ dalla ragione, nel cuore del concetto di ‘realtà’. L’affiancamento del riflessivo «spendersi», così carico di echi irrazionali, a «impegnarsi», sembra suggerire una concezione della razionalità come funzione imprescindibile dal suo opposto, l’utopico annullamento del pensiero nella materia. La ricorrenza delle due coppie analoghe di valori ‘Dio-crisi’ e ‘Eros-crisi’, riscontrabile in tutti gli articoli scritti in questa prima fase romana, tanto nel periodo 1950-52 che nel 1953, rimanda proprio a un atteggiamento sperimentalistico in quanto ‘asistematico’, legittimato in termini teorici dalla consapevolezza dell’instabilità del senso. In «Voci nella città di Dio» (PM, pp. 53-5) l’anelito religioso di Danilo Dolci, ricco di «istanze a loro modo sociali e comunistiche», viene condiviso dal critico solo nella sua istanza più disperata, nel momento in cui suppone una «voragine» tra l’uomo e Dio. Ne «Gli appunti di Sandro Penna» (PM, pp. 31-4) la sensualità di base porta dritto alla «disperata ricerca d’uomo solo apparentemente o casualmente amorale», al punto che il nucleo di questa poesia è identificato proprio nella «disperazione»12. Il percorso si chiarifica ulteriormente nei saggi del 1953, a partire da quello su Toti Scialoja, dove Pasolini ripete, in modo pressoché identico, l’operazione di recupero attuata su Ungaretti. Il saggio apre infatti con l’individuazione di quella «sensualità» che salva il poeta dal conformismo squisito del Novecento: «biologico straboccare di sensualità informe, indifferenziata, colante su tutto come una splendida pece» che comporta sia «una specie di cecità di fronte al reale» sia «con quella cecità, una specie di eccesso di veggenza, di allucinata visività, non del reale, ma dei particolari del reale» (PM, p. 109). In «E dove andremo, Euridice?», l’autore si propone di fare il punto sulla poesia contemporanea di ispirazione religiosa. Già di per sé, il fatto che il critico mediti così assiduamente sulla valenza culturale di tematiche religiose ci da un’indicazione della sua lontananza dalle posizioni revisioniste della critica marxista; e tuttavia, riprendendo la prospettiva storicistica appena inaugurata, Pasolini dimostra qui di aderire a una concezione della letteratura piuttosto divergente dall’ancora feconda tradizione ermetica. Questo evidente ibridismo cui pare ambire la critica pasoliniana si manifesta dapprincipio, come negli scritti su Ungaretti, nell’aggressione del Novecento dal suo interno, attraverso cioè un’apologia dell’esperienza violentemente extraletteraria e antinovecentesca della rivista «La Voce» e, in particolare, dell’inquietudine religiosa e morale da essa propugnata. Come in Ungaretti era il timbro religioso (accanto a quello sensuale) della sua poesia e della sua ispirazione a determinare la rottura con l’ambiente letterario anodino cui apparteneva, così l’elemento salvifico viene qui riconosciuto all’interno di una linea di poesia religiosa dai crismi fortemen-

12 Stesso discorso anche per gli altri scritti del periodo, su Sciascia («Dittatura in fiaba», PM, pp. 23-5), Fracassi («Enrico Fracassi (1902-24): un Werther moderno», PM, pp. 27-9), Bertolucci («La capanna indiana», PM, pp. 45-8), Sbarbaro («Tema per Sbarbaro», PM, pp. 57-9).

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te esistenzialistici, necessitanti l’utilizzo di una lingua letteraria sperimentale (cfr. PM, p. 73). In «E dove andremo Euridice» è notevole il tentativo di trasferire la polemica col primo Novecento in una zona perfettamente contemporanea, interessante la poesia del dopoguerra nel suo complesso. L’analisi non è particolarmente approfondita, per la verità; tuttavia, Pasolini allarga lo sguardo sull’antologia dei Poeti nuovi curata da Ugo Fasolo e tenta una prima seria verifica di alcuni elementi connettivi delle poetiche del dopoguerra. In particolare, si sforza di chiarire le ragioni del ritardo di certa poesia a sfondo religioso come quella di Danilo Dolci, Davide Turoldo e Grazia Dore, considerati epigoni di un atteggiamento passivo e povero di forza razionale, tale da poter rientrare, anche dal punto di vista linguistico, solo al Novecento. Con questa osservazione Pasolini sembra voler distinguere, in modo non diverso da quanto farà nel saggio «Il neo-sperimentalismo», tra un tipo di disperazione passiva, mistica e ideologicamente anonima, e un secondo tipo di disperazione che produca una reazione razionale, un movimento costruttivo e non solo anarchicamente distruttivo. Si tratta in sostanza di un’apologia della crisi come necessario stimolo in primis alla autocoscienza, e poi alla conoscenza del mondo oggettivo13. Anche nel saggio dell’agosto 1953 sul Bassani de La passeggiata prima di cena si possono riconoscere ulteriori tentativi di storicizzazione. Secondo Pasolini, questo Bassani narratore del dopoguerra è maturato come scrittore in quanto ha optato per una razionalizzazione della sua poetica di origine novecentista, cioè per quella «passione chiarificatrice e storicistica» (PM, p. 99) a cui è rivolto lo sforzo di Pasolini stesso. Sono però gli ultimi paragrafi dello scritto quelli che ci interessano più da vicino, perché lì il critico s’interroga sul tipo di impegno possibile nella letteratura contemporanea, non ideologico «per chi non rientri nelle grandi file del cattolicesimo o del materialismo marxista, ossia per la grandissima parte degli scrittori italiani» (PM, p. 101). Pasolini astrae improvvisamente dall’oggetto dell’analisi (il testo di Bassani) per tracciare gli estremi di una posizione che per la prima volta sembra ambire a un vero e proprio disegno di sintesi. Infatti, dopo il rifiuto della letteratura neorealista in quanto vuota di contenuti e mero «gusto» della realtà (posizione confermata poi in PI, p. 284), il critico afferma che «l’unica soluzione per uno scrittore borghese, che non è più cattolico e che non può essere socialista […] è un violento anticonformismo, la cui disperazione trovi risarcimento nella consolatoria capacità espressiva, poetica. Oppure (o insieme), in un moralismo di specie empirica» (PM, p. 102). 13 Le ultime righe, a proposito della Dore, mi paiono in questo senso rivelatrici: «Certa frigidità quasimodiana da una parte, e certa facilità un po’ dilettantesca dall’altra sono indubbiamente prodotti […] dell’oscura aspirazione religiosa del suo tempo, che concepisce la religiosità come espiazione, mortificazione. Si vorrebbe (ma è un desiderio puramente sperimentale e antistorico) che la Dore amasse meno la Bibbia e più il Vangelo: ma purtroppo la squallida via ‘apocalittica’ che sta percorrendo lei, la percorriamo tutti» (PM, p. 75).

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È evidente poi come questa operazione di sintesi sia frutto di un’intuizione piuttosto che di una profonda riflessione teorica, esprimendosi essenzialmente come trasposizione diretta del sentimento della crisi da un piano individuale (suo e dell’opera di Bassani) a uno collettivo. D’altra parte, la soluzione stessa del «violento anticonformismo», dalle tinte anarchiche e irrazionali, risolto nella consolazione poetica di ermetica memoria, giustifica l’esclusione dell’articolo da Passione e ideologia; se fosse stato incluso nella raccolta, infatti, ne avrebbe insidiato l’intenzione programmatica, e specialmente la posizione presa da Pasolini in merito al neo-sperimentalismo apocalittico dei poeti della futura avanguardia, condannato nell’articolo omonimo scritto per «Officina», su cui torneremo tra poco. Lo stesso schema emerso nell’analisi di Bassani, viene alla luce in un’altra recensione dello stesso anno esclusa da Passione e ideologia e intitolata «Una vicenda neocrepuscolare» (PM, pp. 103-8), con oggetto la poesia dell’amico Spagnoletti. Pasolini torna qui a interrogarsi sul problema del ruolo dello scrittore nella società, giungendo a confermare quanto detto per Bassani: che, per chi voglia come Spagnoletti mantenersi equidistante dalle «fedi della nostra epoca, in uno stato di assoluta e laica indipendenza», sia necessario aderire a una posizione morale «violentemente polemica, non solo – e in fondo così castigatamente [in Spagnoletti] – in sede letteraria». Spagnoletti viene dunque bollato di neocrepuscolarismo in quanto il suo anticonformismo rimarrebbe a un livello di innocua e troppo flebile protesta. 4.1.1b Ragioni e resistenze stilistiche Abbiamo visto come il 1953 rappresenti un momento cruciale per lo sviluppo del pensiero critico di Pasolini, poiché il suo storicismo comincia a interagire con la categoria dell’irrazionalità. Tale interazione viene confermata dagli esiti della riflessione pasoliniana sul metodo della critica stilistica. Le recensioni del 1953 cominciano infatti a presentarsi con un singolare tratto distintivo, che poi diverrà costante in Passione e ideologia: il tentativo di amalgamare ‘storicismo’ e ‘stilistica’. Con questo non credo si debba intendere un’operazione di compromesso volta a salvaguardare entrambi gli approcci, ma un vera e propria aggressione ideologica della questione concernente il rapporto tra letteratura e realtà. Partiamo con qualche ragguaglio cronologico. Il primo punto di riferimento, quasi certamente, dev’essere considerato l’ormai celebre saggio di Contini dal titolo «Preliminari sulla lingua di Petrarca» (1951), in cui l’autore svolge una minuziosa analisi delle varianti della lingua poetica del Petrarca al fine di dimostrarne l’assenza di concretezza realistica e quindi condannarne la «supremazia dittatoria» (1970, p. 191), considerata deleteria per lo sviluppo della lingua italiana. È importante sottolineare come qui Contini non si limiti a osservazioni neutralmente e scientificamente filologiche, ma indichi le precise

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responsabilità storiche del Petrarca, la cui vena classicistica avrebbe inaugurato la separazione dell’intellettuale dal popolo. Come ha dimostrato Riccardo Monti (1985, p. 43) la lezione di questo Contini del 1951 ha un influsso diretto sulla ricerca pasoliniana, soprattutto per quanto riguarda «il concetto, sottolineato più volte dal filologo [Contini], di sperimentalismo linguistico», definizione da intendersi «come procedimento atto a spezzare i canoni retorici e aristocratici che imprigionano il registro letterario e perciò come strumento in grado di creare una necessaria sintonia tra l’intellettuale e la realtà circostante». Al di là di questa fondamentale acquisizione, lo scritto continiano doveva aprire definitivamente a Pasolini le porte della critica stilistica, costringendolo a interrogarsi sulla possibile validità e utilizzo del nuovo bagaglio di strumenti esegetici. Per quanto, come abbiamo visto, Contini fosse già presente nell’orizzonte culturale del Pasolini friulano, è in particolare nei saggi del 1953 (cfr. PM, pp. 69, 102, 106) che Pasolini comincia a citare massicciamente dai suoi testi, dopo averlo messo a tutela della ricerca sui dialettali del 1952. Il 1 gennaio 1953, ad esempio, «Il Mulino» ospita «Su un passo del ‘Giuseppe in Italia’» (PM, pp. 61-4), recensione del romanzo di Giuseppe Raimondi del 1949, in cui Pasolini ricorre a un brano del saggio di Contini (1950) sullo Zanolini dove viene esposto il concetto del ‘bilinguismo stilistico’. Sembra peraltro verosimile che attraverso Contini, recuperato in questi primi anni ’50, Pasolini sia venuto a conoscenza di altri autorevoli rappresentanti della critica stilistica, nonostante occorra attendere il 1954 per trovarne esplicite menzioni nella sua saggistica. Mi riferisco a Schiaffini, per esempio, il cui Momenti della storia della lingua italiana era uscito nel 1950 e che in quel periodo insegnava proprio a Roma l’omonimo corso ‘Storia della lingua italiana’; uno Schiaffini la cui opera aveva avuto notevole influenza su Contini stesso, e che Pasolini cita in un saggio del 1954 su Gadda (PI, pp. 274, 276, 278) puntualmente a fianco di Contini; uno Schiaffini che poi nello stesso 1954 preludiava la prima traduzione italiana dello Spitzer (1954). Occorre dunque fare anche il nome di Leo Spitzer, che peraltro Pasolini doveva avere già imparato a conoscere, prima della traduzione del 1954, in quanto sovente citato negli scritti di Contini. Dato allora come certo questo massiccio intervento della critica stilistica nell’orizzonte intellettuale di Pasolini, dobbiamo subito chiederci che uso abbia inteso fare l’autore del nuovo apparato metodologico. Se da un lato, come suggerisce Segre, è lecito ipotizzare che un’accresciuta attenzione ai problemi di linguistica possa essere servita alla causa della storicizzazione della letteratura, imponendo sempre più fitte operazioni diacroniche, dall’altra mi pare che dagli scritti in questione emergano sufficienti prove per ipotizzare, già nel 1953, anche un opposto utilizzo della categoria ‘stile’: non solo come strumento per operare nella storia, apportandovi conoscenza e ordine, ma soprattutto come vettore di astoricità, nuovo sintomatico esemplare nella già estesa tipologia dell’irrazionale pasoliniano. Intesa come rappresentante la polarità del sacro e

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del nonconcettuale, la categoria stile si opporrebbe così all’iniziale impulso storicistico, definendone rigorosamente il campo d’azione all’interno dell’antitesi razionale-irrazionale. In altri termini, lo schema storicistico di Pasolini comincia ad assumere reale significato ideologico solo quando il critico lo definisce in negativo, costringendolo a misurarsi con il proprio limite, ammonendogli la propria relatività. E lo stile, al pari della costante riflessione sui temi dell’eros e della religiosità precedentemente individuati, diventa portavoce di questo funzionale memento. Il saggio su Bassani del 1953 (PM, pp. 97-102) merita anche in questo senso un’attenta considerazione. Qui Pasolini afferma ciò che in quasi tutti gli altri saggi dello stesso anno aveva lasciato intendere, che cioè «una vera critica […] è anzitutto analisi stilistica e poi tutto il resto», a giustificare l’estrapolazione di alcune componenti della scrittura di Bassani da lui operata. L’entusiasmo nutrito per la nuova metodologia doveva però superarne la messa in atto, se è vero che a conti fatti l’esame stilistico, qui come altrove, viene condotto in misura parziale e comunque integrato in un sistema di riferimenti culturali e ideologici che rifiuta a priori la neutralità di base, scientifica e neopositivista, che contraddistingue la nuova tendenza. Pasolini utilizza cioè l’analisi stilistica in modo soggettivo, rendendola funzionale al proprio schema ideologico, mentre la disciplina stilistica aveva, fondamentalmente, pretese di oggettività. La stessa formula congiuntiva dell’«e poi», nell’esplicito corsivo, richiama senza dubbio la celebre nota esplicativa apposta nel 1960 a Passione e ideologia (cfr. PI, p. 429), dove Pasolini chiariva la natura del rapporto tra i due poli della ‘passione’, appunto, e della ‘ideologia’: se cioè sostituiamo a questi due poli i termini ‘stile’ e ‘tutto il resto’, possiamo forse già disporre di un primo abbozzo di modello teorico. Chiaramente, la preminenza data nel saggio su Bassani all’analisi stilistica, a discapito di quel ‘tutto il resto’ in cui si può solo intuire la polarità ideologica, comunque riduttivamente data, ne giustifica l’esclusione dalla raccolta programmatica del 1960. Ma è nelle ultime righe del saggio, definendo i dati stilistici in Bassani come «fertilmente irrazionali» (PM, p. 102), che Pasolini ci offre il più convincente anticipo di quell’intuizione che diverrà per lui davvero fertilissima sul finire del decennio, quando, nel corso della sua peraltro ambigua polemica con il prospettivismo lukacsiano adottato dalla critica marxista italiana, si schiererà con Adorno nella difesa di quelle «cristallizzazioni stilistiche» (Pasolini, 1959a) che resistono alla decodificazione razionale. Similmente, sia dal saggio sulla Manzini (PM, pp. 83-9) che da quello su Bartolini (PM, pp. 91-6), emerge una concezione ‘sacrale’ dello stile che comincia ad essere integrata nel disegno storicistico. Nel primo dei due saggi, dietro gli animali che popolano il libro della Manzini, Pasolini non vede «una tesi che dia loro un significato generale, su un ordine etico e di contenuto, ché sono invece pienamente unificati nell’ordine stilistico, e anzi quasi soltanto da esso», aggiungendo poi che attraverso l’unità stilistica l’autrice «lascia tutto com’è, cioè mistero» (PM, p. 83). La lettura della poesia di Bartolini gli riesce invece «come un ‘cursus’ da traduzio-

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ne: risolto in metriche in cui gli stilemi sono mal riducibili a una qualche formula definitoria, o perlomeno assai difficilmente ‘smontabili’ attraverso un’analisi che voglia tradurre in termini critici la loro ineffabilità» (PM, p. 91). In queste applicazioni, lo ‘stile’ sembrerebbe dunque recuperato da Pasolini in quanto via d’accesso all’irrazionale (allo stesso modo in cui lo sono, sul versante dei contenuti, i ‘sensi’ e il ‘divino’). 4.2 Le antologie di Pasolini Poesia dialettale del Novecento uscì nel dicembre del 1952, il Canzoniere italiano nel 1955, entrambi editi dal parmense Guanda14. Le due ricerche non hanno però solo l’editore in comune, ma si possono accostare per svariati motivi. Innanzitutto per la materia trattata, poi per l’approccio metodologico e infine, ciò che in questa sede maggiormente interessa, per il contributo ideologico. La scelta di una riflessione sul versante ‘basso’ della letteratura italiana, appunto quello dialettale e popolare, non si può certo dire una novità del Pasolini romano. Piuttosto, tale riflessione si riallaccia senza soluzione di continuità all’attività critico-letteraria del periodo friulano, quando il dialetto materno veniva non solo assunto a lingua poetica, ma soprattutto teorizzato come strumento di conoscenza realistica, in polemica con gli istituti socio-linguistici della borghesia friulana. Possiamo risalire al Friuli anche per motivare la scelta dell’approccio filologico comune ai due lavori. Senza dubbio, infatti, il modello di critica filologica dev’essere individuato nella figura di Gianfranco Contini, con cui Pasolini era entrato in contatto epistolare dal lontano 1943 (L, I, p. 166) e che da quel momento in poi aveva considerato una sorta di padre tutelare. Non stupisce, infatti, che nell’introduzione di Poesia dialettale del Novecento (rispettivamente pp. xxiv e lxxvii) Pasolini chiami direttamente in causa due saggi di Contini usciti su Paragone: i «Preliminari sulla lingua del Petrarca» (1951), e «Un paragrafo sconosciuto della storia dell’italiano letterario nell’ottocento» (1950), a proposito del bolognese Antonio Zanolini, al fine di sostanziare quel concetto di bilinguismo15 che per Pasolini costituisce il fonda-

14 Era stato il poeta Attilio Bertolucci, anche lui di Parma, a fare il nome di Pasolini all’editore presso cui lavorava come consulente. Bertolucci aveva annotato il nome di Pasolini dopo averne letto, sul numero del giugno 1951 di «Paragone», il racconto «Il ferrobedò». Anche il contatto Pasolini-Garzanti, che portò nel 1953 al contratto per Ragazzi di vita, è dovuto all’intercessione di Bertolucci (cfr. Schwartz, 1995, p. 380). 15 Cesare Segre (1985, p. viii) nota che, mentre in CI il concetto di bilinguismo adottato da Pasolini sarà quello di Devoto (il quale, nel suo Profilo di storia linguistica italiana, 1976, vi basa un’articolata descrizione del rapporto tra latino e volgare), in PDN l’accezione pasoliniana di bilinguismo è liberamente tratta dall’opposizione unilinguismo-plurilinguismo di Contini. Recentemente, F. Ferri (1996, pp. 127-42), seguendo un’intuizione di T. De Mauro (1992b, p. 274)

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mento metodologico dello studio sui dialettali e di quello successivo sulla poesia popolare. Da un punto di vista metodologico, pertanto, Contini si presenta come sicuro punto di riferimento per il giovane critico, anche per quanto riguarda l’introduzione dell’elemento sociologico sulla base erudita e antologica dei testi. Più precisamente, in merito al dato sociologico delle due ricerche (cfr. Segre, 1985, pp. vi-vii), Pasolini sembra elaborare una nozione di ‘realismo’ che, per quanto lo metta almeno nominalmente a contatto con la cultura del suo tempo (impegnata a riscoprire le culture particolari e a ridefinire i modi del proprio rapporto conoscitivo col reale), allo stesso tempo ci appare caratterizzata da un taglio teorico che non sempre si conforma alle esigenze culturali delle poetiche realiste post-belliche. Se prendiamo Poesia dialettale del Novecento, e cerchiamo di comprendere le ragioni culturali che portarono Pasolini ad accettare la proposta editoriale di Guanda, vedremo subito emergere, prima ancora di compiere un’analisi contenutistica del testo, questo lato disorganico dell’operazione dell’autore. Nell’antologia in questione, la ripresa del motivo dialettale s’innesta evidentemente nell’annosa querelle sul carattere non popolare della letteratura italiana, che a partire dall’immediato dopoguerra aveva portato gli operatori culturali nell’Italia liberata al rifiuto categorico del recente passato letterario (a partire dalla poetica ermetica) in quanto espressione di una concezione aulica e elitaria della letteratura. Lo sforzo dei nuovi mediatori del realismo era generalmente inteso a creare, sotto la spinta del verbo gramsciano appena scoperto, un ideale democratico di cultura, per cui la nuova produzione letteraria potesse divenire accessibile alla maggioranza della popolazione italiana. L’operazione di rinnovamento culturale fu caratterizzata da un entusiastico fervore pedagogico, a sua volta sostenuto dall’utilizzo di nuovi o più sofisticati strumenti di mediazione che accelerarono il processo della diffusione di massa dei prodotti culturali. L’aumentata ricettività dei prodotti letterari negli anni del dopoguerra può portarci a una prima, introduttiva riflessione in merito alla scelta pasoliniana di dedicarsi al filone dialettale. La scelta di impegnarsi in un lungo e impervio lavoro di ricerca filologica, peraltro in un periodo di straordinarie difficoltà materiali, trova una giustificazione tattica nell’aumentata richiesta editoriale di oggetti letterari inerenti alla cultura popolare. Il libro curato da Pasolini e Dell’Arco16, pubblicato da Guanda, sarebbe andato a colpo sicuro sul mercato,

ha cercato di dimostrare l’esistenza di un parallelo tra la contiguità Pasolini-Gramsci e la contiguità Pasolini-Contini, rinvenendo nell’influenza continiana la medesima spinta gramsciana a considerare il linguaggio come fatto socio-politico. 16 L’antologia porta in copertina prima il nome del dialettale romano Marco Dell’Arco e poi quello di Pasolini. In realtà, pare che l’affiancamento di Dell’Arco fosse puramente nominale, dovuto esclusivamente a precedenti impegni tra Guanda e il poeta romano. Pasolini considera ciò un sopruso (L, I, pp. 468-9, 509, 512, 530 e passim).

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tanto da presentarsi come esempio lampante di lungimiranza editoriale (da parte di Guanda) e opportunismo autopromozionale (da parte dei curatori). Pochi giorni dopo la pubblicazione, quando la casa editrice chiede a Pasolini una nuova collaborazione per la poesia popolare, è l’autore stesso ad ammettere l’enorme importanza, tanto per se stesso quanto per Guanda, dell’aspetto commerciale dell’operazione (L, I, p. 519). Tuttavia, sarebbe ingenuo rimandare il senso del progetto di Pasolini, specie per quanto riguarda la stesura delle due ampie introduzioni critiche, a un dato puramente strumentale. Sappiamo infatti che nella vivacissima attività editoriale del primo dopoguerra prevalgono nettamente testi di poesia e narrativa (soprattutto traduzioni straniere), mentre le opere critiche e di pensiero, più difficilmente accessibili, vengono inevitabilmente snobbate dal pubblico di massa e conseguentemente trascurate dagli editori della nascente industria culturale italiana (cfr. Bàrberi Squarotti, 1968, p. 8). In un simile contesto, dunque, Poesia dialettale del Novecento risulta effettivamente un prodotto ibrido e ambivalente, in quanto fonde un’ampia antologia di poesie sicuramente ‘popolari’, cioè a presa sicura sui lettori dei primi anni ’50 e conformi ai progetti sociologici in atto, con una ricerca erudita che, secondo l’acuta osservazione di Rinaldi (1982, p. 184), sembra rimandare «alla rigogliosa tradizione derobertisiana». Ecco allora emergere da questa riflessione introduttiva un tratto già significativo e quasi paradigmatico di molta produzione dell’autore: da un lato egli mira a promuovere se stesso seguendo le tendenze generali del gusto contemporaneo, e dall’altro riesce a rimanere fedele ai suoi specifici interessi culturali, spesso inconciliabili con quelli promossi dalla cultura ufficiale in cui si trova di volta in volta a operare. Se infatti è evidente che l’iniezione sociologica alla base dei due saggi conduce a una verifica eteronoma degli esiti della letteratura, cioè a quel superamento del metodo crociano agognato dalla critica del dopoguerra, credo tuttavia che tale caratteristica ‘impegnata’ non implichi né l’allineamento ai contemporanei schematismi della più politicizzata critica di sinistra, né la condivisione della posizione di Gramsci in qualità di critico e storico della letteratura. Se cioè è inevitabile rilevare la presenza di una forte componente sociologica nei due saggi, l’originalità del metodo pasoliniano va individuata nella ricerca di una strada alternativa a quella dell’unità metodologica che nel dopoguerra andava caratterizzando in termini socio-politici la critica marxista (inizialmente ispirata a Gramsci, poi sistematasi intorno a Lukács), dopo aver per lunghi anni caratterizzato la critica estetica di Benedetto Croce. Come ho anticipato nella precedente sezione sul periodo 1950-53, credo che per comprendere l’approccio di Pasolini all’attività di critico letterario sia indispensabile considerarne la natura diffusamente soggettiva e ‘interessata’, soprattutto per quanto concerne l’apporto di una inalienabile componente irrazionale che l’autore cerca di utilizzare come valore ermeneutico. Nel tentativo di comprendere l’originalità del metodo pasoliniano, sarà pertanto fondamentale valutare i modi, i tempi e soprattutto il grado di coerenza teorica caratteriz-

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zanti l’impiego di tale componente irrazionale. In questo senso, il confronto con Gramsci e Croce, non solo per quanto concerne la letteratura ‘popolare’, ma proprio in relazione alle rispettive valorizzazioni degli aspetti socio-politici e estetici della letteratura, si presenta particolarmente suggestivo. Un approfondimento del diffuso luogo che vuole il prevalere del dato estetico nella critica di Croce, e di quello socio-politico in quella di Gramsci, costituirà il punto di partenza e di chiusura del nostro esame dei due testi critici pasoliniani. 4.2.1 «Poesia dialettale del Novecento»: realismo e dialetto A prima vista, sembrerebbe logico supporre che la ricerca pasoliniana in Poesia dialettale del Novecento si fondi sulla contrapposizione del dialetto, in quanto lingua per definizione ‘popolare’, alla lingua italiana tout court, garante dello sviluppo storico della cultura borghese. Questa contrapposizione implica infatti che la letteratura dialettale, nel far uso dell’idioma parlato dal popolo, sia più ‘realistica’ dell’ufficiale letteratura in italiano, e dunque più vicina a istanze progressiste. Attraverso la nostra indagine vedremo invece come il critico diffidi della convenzionale equazione tra ‘letteratura dialettale’ e ‘realismo’, ridefinendola da un lato in una dimensione squisita e aristocratica, dall’altro in una dimensione sacrale e astorica; per finire poi, a livello contenutistico, per difenderne il potenziale di protesta esistenziale. Attraverso un simile approccio al dialetto letterario, Pasolini dimostra di recuperare posizioni teoriche elaborate durante il periodo friulano. La difesa dell’elemento aristocratico operante nei dialetti letterari trova un’esemplare codificazione nel saggio di Pasolini «La lingua della poesia», del 1956. In questo saggio viene illustrato un episodio aneddotico riguardante il dialettale triestino Virgilio Giotti, citato come modello dell’evasione colta del dialetto, verso l’alto piuttosto che verso il basso. Pare che il triestino parlasse quotidianamente la lingua italiana, al punto che, quando gli fu chiesto perché non facesse uso del dialetto, rispose: «Ma come, vuole che usi, per i rapporti d’ogni giorno, la lingua della poesia?» (PI, p. 243). L’aneddoto fornisce lo spunto per rivendicare la necessità di una più approfondita riflessione sulle ragioni ideologiche operanti dietro la nozione pasoliniana di dialetto letterario: una riflessione che indaghi oltre il luogo critico che vede nell’adozione letteraria del dialetto un’immediata garanzia di istanze oggettivamente realistiche. In Poesia dialettale del Novecento, Pasolini elabora infatti una teoria del dialetto letterario che si rivela funzionale a una personale nozione di realismo, alquanto distante dal realismo di tipo positivistico patrocinato dalla critica di sinistra negli anni ’50. Mentre infatti la cultura ufficiale provvede a diffondere l’esigenza, in tutti i settori dell’estetica, di un realismo piano, prosaico e pedagogico, convinta «che il mondo è proprio come appare» (Bàrberi Squarotti, 1968, p. 16), la ricerca realistica di Pasolini apre a un dialetto poetico che, proponendosi o come lingua squisita, o come lingua mirante a recuperare

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un’istanza mitica, si pone in un rapporto contrastante, se non addirittura polemico, con tale esigenza. Ciò che importerà vagliare, nella disamina della ricerca pasoliniana sui dialettali del Novecento, saranno proprio le implicazioni teoriche del rapporto ‘poesia-dialetto-realismo’. In sostanza, vedremo come Pasolini cerchi di utilizzare la propria personale concezione realistica del dialetto poetico come coordinata ideologica, affinché nell’accezione di un tale realismo si venga a raccogliere (e il discorso andrebbe qui allargato all’intero arco dell’attività pasoliniana) il senso di una protesta antiborghese conforme alla dichiarata militanza dell’autore. Più specificamente, la nostra indagine cercherà di dimostrare come al centro della elaborazione critica di una poetica dialettale agisca, parallelamente alla necessità dell’elemento squisito, la categoria del sacro. Per quest’ultimo punto, consideriamo per un momento la rilevanza del termine ‘poesia’, che con la pubblicazione di Poesia dialettale del Novecento assume un valore capitale nell’attività di Pasolini, riassumendo in sé tanto l’attività del versificatore, quanto quella del critico. La formula «lingua di poesia», come abbiamo visto, suggerisce il recupero aristocratico del dialetto letterario. Mi pare che l’originalità di questa formula pasoliniana stia tutta nella sua ambiguità semantica, cioè nella doppiezza di significati che essa racchiude. Da una parte, vi troviamo appunto il recupero di un concetto di ‘poesia’ squisita, tradizionalmente legata ai luoghi alti dello spirito; dall’altra, la valorizzazione di un realismo tutto fisico e istintivo, basso e finanche brutale, e proprio per questo ‘sacro’, poiché coincidente con la radice misteriosa e irrazionale della vita. Nel corso della nostra esegesi vedremo come proprio attraverso l’apertura della triade ‘poesia-dialetto-realismo’ a due categorie come lo ‘squisito’ e il ‘sacro’, Pasolini cerchi di teorizzare il punto cardinale della sua polemica antiborghese. 4.2.1a L’analisi: due forze vettoriali eversive In apertura di Poesia dialettale del Novecento, Pasolini riflette subito sul significato teorico implicito nell’uso poetico del dialetto, e di conseguenza approfondisce la questione del ‘realismo’ della letteratura dialettale; tale approfondimento lo mette in guardia da una pericolosa semplificazione: la sistematica identificazione del dialetto letterario con la lingua della realtà, o comunque con una lingua più autentica rispetto a quella istituzionale: «A parte la poesia anonima, a parte le preistorie [...] i dialetti posseggono una tradizione non meno colta, anti-popolare di quella in lingua» (PDN, p. xxiv). Fin dall’apertura del saggio, l’autore sottolinea che la poesia dialettale dev’essere generalmente accepita come antirealistica, e per questo può addirittura essere fissata in un parallelo diacronico con la poesia in lingua (cfr. PDN, p. xxv). Ciò a prima vista non può che stupire: che ruolo ideologico può ricoprire la poesia dialettale se essa viene caratterizzata come convenzione «anti-popolare»? Nel risponde-

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re a questo interrogativo Pasolini giunge a esaminare i rapporti reciproci di ‘poesia’, ‘realismo’ e ‘dialetto’. Se anche la poesia dialettale, in quanto genere, non promuove alcuna rottura o innovazione rispetto alla koinè letteraria, si possono comunque identificare al suo interno due tendenze latenti in grado di farlo. Mi riferisco a due specifiche forze vettoriali che, secondo l’analisi di Pasolini, spingono i migliori poeti dialettali ‘al di sotto’ o ‘al di sopra’ del rapporto convenzionale con il loro dialetto, rispettivamente al regresso nel parlante e alla creazione di poesia dialettale squisita. La poesia dialettale riesce dunque a promuovere un’azione eversiva solo se intesa in queste due particolari accezioni. La prima, quella che presuppone il regresso del poeta nel parlante popolare, emerge dalla ricerca di Pasolini come il momento più autenticamente rivoluzionario della letteratura dialettale degli ultimi due secoli. Essa appare dall’inizio una condizione potenzialmente implicita nei dialettali del sud d’Italia. L’autore, infatti, apre e dedica più di metà del suo lavoro a una meticolosa esplorazione delle possibilità del regresso nei poeti meridionali, identificando poi nella poesia ottocentesca del dialettale romano Giuseppe Gioacchino Belli la riuscita in senso assoluto. La seconda accezione, quella che vuole la creazione di una poesia dialettale di tipo squisito, in cosciente e aristocratica polemica con la lingua centralizzata, viene invece circoscritta, nella seconda parte del saggio, a prerogativa tipica dei dialettali del nord. Vedremo più avanti quali sono le motivazioni dietro una tale suddivisione. Pasolini identifica dunque in Belli il prototipo assoluto del dialettale che si cala nel parlante popolano: «solo in rarissimi casi il ritorno del poeta nell’anonimato del parlante ha ricostruito in sede poetica il mondo reale del parlante; anzi, l’unico caso è forse quello del Belli» (PDN, p. lxv). Fondamentale riconoscere come l’esaltazione del Belli venga immediatamente a coincidere con la difesa dell’inconscio popolare: i popolani da lui ritratti diventano simbolo di un microcosmo di umanità che non si lascia travolgere dalla fiumana della storia borghese, si rifiuta di piegarsi alle sue istituzioni, alla sua etica, e seguita a sopravvivere uguale a se stessa in una dimensione appunto astorica, nel senso di aliena al corso ufficiale della storia. Il popolo belliano, quei ‘parlanti’ di friulana memoria17, diventa insomma il punto di confluenza di molte tra le categorie concettuali predilette da Pasolini, a partire dal ‘sacro’ per finire col ‘tragico’ (PDN, p. lxx). La celebrazione del Belli, «miracolo unico nella letteratura italiana» (PDN, p. xviii), non è dunque filologicamente fine a se stessa ma si ricollega a quelle considerazioni di natura sociologica che l’autore trasporrà tanto nei suoi versi quanto nelle sue pagine di prosa; in altri termini, è parte integrante del suo progetto poetico-ideologico. Si legga come esempio il seguente passaggio, una delle pagine più ispirate dell’intero saggio: 17 Abbiamo già osservato come il testo friulano «I parlanti» (RR, II, pp. 163-96), del 1948, fosse investito da una profonda tensione verso il sacro e l’utopico.

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Ridotti i grandi periodi storici alla testimonianza di un rudero, di una strada, di un quartiere, la Roma vera – popolare – ricominciava (e ricomincia) daccapo, uguale e assolutamente nuova, nelle sue folle dialettali, le sue plebi faziose e servili, allegre e inaridite, interessate, come forse soltanto le napoletane, ai casi di una vita condotta capricciosamente e fantasiosamente, tutta all’esterno, in una disperata sete di allegra esibizione. Praticamente per molti secoli fuori da ogni coscienza sociale – plebe nell’accezione più completa della parola – è ancora fuori da ogni coscienza sociale, fuori dallo spirito del Risorgimento, che il Belli la trova. Questa plebe, in una città, che più delle altre città-stato italiane, tende a essere assolutamente unica, nel limite della sua fisionomia cittadina ossia dialettale, così violentemente colorita, e non tanto per essere centro della Chiesa Cattolica e della nazione italiana, quanto proprio per una specie di ironico rifiuto a esserlo – si presentava al Belli con le caratteristiche piene di un’esperienza storica in natura, nella più poetica incoscienza: un misto di scetticismo e di violenza nel mettersi in rapporto con la vita del proprio tempo, dalla più quotidiana alla più solenne. Da questa passionalità – sensuale e sgolata, quasi napoletana – sottesa a quel cinismo che è un prodotto dei compromessi secolari con un cattolicesimo seicentesco, di casa, nasce il sonetto belliano [...]. (PDN, pp. lxv-lxvi)

Si noterà che, a parte il trasporto descrittivo del critico, che qui si potrebbe forse dire derobertisiano, l’accorata difesa dell’inconscio popolare a cui giunge Pasolini poggia sulla consueta categoria del sacro. Tuttavia, tale difesa potrà senz’altro apparire troppo univoca. In effetti, un difetto della ricerca pasoliniana, che poi potrebbe già da ora essere allargato a difetto congenito del suo engagement, sta nel privilegiare lo studio appassionato e la passionale difesa di quella realtà considerata in via d’estinzione, sullo smascheramento delle forze storiche che minaccerebbero tale estinzione. Per questo motivo finiamo col non stupirci del taglio del saggio: l’enfasi filologica consente all’autore di dedicarsi senza risparmio a ciò che gli sta più a cuore, risparmiandogli invece tanto il confronto con le incrostazioni della civiltà borghese-capitalistica18, quanto l’approfondimento teorico della dialettica tra natura e cultura, tra istinto e ragione (tuttalpiù, il critico ci dice che la «grandiosa costruzione linguistica» del Belli «è nel tempo stesso una testimonianza politica», PDN, p. lxviii). Credo che un tale difetto sia giustificabile per un motivo essenziale. Perché la difesa delle classi popolari attraverso il recupero della categoria del ‘sacro’ (recupero rischiosissimo in tempo di censura antifascista) rappresenta un’intuizione teorica originalmente alternativa ai criteri della sociologia populista del dopoguerra. Sarà compito di questa ricerca evidenziare la rilevanza di tale intuizione all’interno dello sviluppo complessivo del pensiero pasoliniano. L’im-

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sono peraltro pochi frangenti in cui l’autore denuncia con convincente sdegno critico la consolidazione della borghesia al potere e il relativo abbandono della rappresentazione popolare nella poesia dialettale. È il caso, sempre limitandoci a Roma, della misura conformista dei versi di Trilussa e altri suoi contemporanei, «impegnati come sono a partecipare alla sistemazione ideologica della nuova classe dirigente di cui essi sono parte» (PDN, p. lxix).

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portanza conferita dall’autore al momento della regressione nel parlante, per cui la poesia dialettale si pone effettivamente come intervento linguisticamente, e dunque culturalmente, innovatore, è inoltre contrassegnata dall’individuazione di un’incrinatura spazio-temporale che attraversa tutto il saggio. In primo luogo, salta subito all’occhio come Pasolini divida coscientemente la poesia dialettale del sud da quella del nord Italia19, attribuendo alla prima una maggiore forza eversiva, coincidente appunto con il momento della regressione nel parlante; secondariamente, la stessa forza eversiva viene riconosciuta storicamente all’Ottocento, «cioè all’Eden della poesia dialettale» (PDN, p. lxxviii), mentre nel Novecento il poeta dialettale che voglia essere realmente innovatore, specie nel nord civilizzato, è costretto a cambiare rotta, sostituendo il momento della regressione nel parlante con quello della creazione di poesia squisita. Risalendo al nord e concentrandosi sulla produzione novecentesca, la ricerca di Pasolini registra infatti sempre meno regressioni sul tipo di quella del Belli. Prima di arrivare al Belli, spartiacque ideale, Pasolini aveva attentamente vagliato la produzione dei dialettali meridionali, cercando esempi di autentica vena realistica. Nella maggioranza dei casi, anche quando il poeta in esame, mettiamo un Di Giacomo, manifestava «una sostanziale inettitudine al realismo» (PDN, p. xxviii) dovuta a una troppo convenzionale coloritura sentimentalistica, il critico non mancava di apprezzare elementi positivi della sua poesia; positivi perché partecipanti al rafforzamento dell’equazione tra realismo e sacro, in opposizione al mondo borghese in cui tale poesia veniva prodotta. Tra gli aspetti migliori dei dialettali meridionali, Pasolini mette in evidenza la sensualità dei loro versi, che si riallaccia chiaramente al motivo conduttore dell’incoscienza popolare. Tra i napoletani, ad esempio, «Di Giacomo giunge all’espressione poetica quando resta dentro i limiti della sua natura: tutto assorbito nell’alone della sua sensualità in cui il mondo si faceva puro fervore, puro ardore, entusiasmo, felicità: e mai dunque oggetto di conoscenza e quindi di rappresentazione» (PDN, p. xxix); oppure Murolo eccelle in brevi poemi «completamente espansi in una calda descrizione, imbevuti di una sensualità diffusa, panica, [...]» (PDN, p. xxxiii); o ancora un Russo di cui Pasolini rifiuta le positivistiche istanze populiste per esaltare invece i momenti più potentemente

19 La netta divisione ‘nord-sud’ sembra testimoniare il carattere fortemente soggettivo della ricerca pasoliniana, confermando inoltre la tendenza dell’autore a teorizzare attraverso opposizioni inconciliabili (un polo irrazionale contro un polo razionale) piuttosto che dialetticamente armonizzabili. In questo senso, Pasolini sembra già da ora abbracciare le rivendicazioni degli anni ’70 in cui dichiarava esplicitamente di essere contro qualsiasi soluzione conciliatoria: «Da cosa nasce la ‘speranza’ quella della prassi marxista e quella della pragmatica borghese? Nasce da una comune matrice: Hegel. Io sono contro Hegel (esistenzialmente – empirismo eretico). Tesi? Antitesi? Sintesi? Mi sembra troppo comodo. La mia dialettica non è più ternaria ma binaria. Ci sono solo opposizioni, inconciliabili» (Magrelli, 1977, p. 99).

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espressivi del suo stile cronachistico20, arrivando a offrirci un primo anticipo di teorizzazione di realismo filmico21: nel «Russo più alto [...] i modi narrativi, spigliati e scanzonati e gesticolanti, subiscono la loro naturale trasformazione in modi semplicemente rappresentativi: inquadrature, cioè, o rapide sequenze, di un romanzo verista napoletano, corale, di sole masse» (PDN, p. xxxvii); o infine un Viviani, nella cui nozione di realismo «bisogna immettere tutte le impurità di una vita popolare che non conosce la poeticità che ha implicita22, nel suo già di per sé ritmico riversarsi e agitarsi per i fondaci, per i vicoli, intorno ai teatri; nel suo già staccato echeggiare di canti o di bestemmie, nel suo già assoluto appassionarsi, esibirsi fino ai più sanguinosi e turpi risultati della miseria» (PDN, p. xl). La medesima sensualità, implicante un realismo dell’inconsapevolezza e del mistero, viene parimenti sottolineata nel migliore dei siciliani, un Alessio Di Giovanni che «usa i modi realistici assolutamente fuori dalla chiarezza oggettiva e preordinata dalla cronaca [...] egli ne fa un pretesto per una rappresentazione di vita popolare ma lasciata nel suo mistero, irriducibile a una compartecipazione» (PDN, p. xlii). Nello spazio dedicato a Di Giovanni, Pasolini ribadisce perentoriamente che dietro la sua concezione di realismo applicata alla poesia dialettale agisce la capacità dei versi di comunicare la sensazione dell’enigmaticità magmatica che permane in ogni intervento razionale sul reale. È fin troppo evidente che il realismo dialettale di questo Pasolini critico non può assolutamente fare a meno dell’attributo ‘sacro’. Una conferma viene dall’indagine su due aree geografiche considerate marginali sia dal punto di vista storico-sociale che linguistico, la Sardegna e la Calabria, anche se qui l’organizzazione del discorso pasoliniano si fa leggermente più complessa. Nonostante per queste isole linguistiche ben valgano i consueti apprezzamenti sulla meridionale prossimità a una concezione sacra del reale («sapore della preistoria», «canoni millenari e quasi sacri della civiltà contadina o pastorale», PDN, p. l), proprio qui il critico ritorna sull’idea iniziale della poesia dialettale come genere convenzionale e dunque artificiale. La letteratura, compresa quella dialettale, di regioni come la Sardegna e la Calabria, viene definita accademica e borghese a causa di una generica vocazione 20 Interessante come Pasolini si rifaccia al Gramsci citato da Muscetta per affermare che il socialismo populista del Russo non è poi mutato molto rispetto a quello di un Pisacane e a quello della letteratura del cosiddetto secondo romanticismo italiano, tra il 1840 e il 1870. In sostanza Pasolini fa propria la critica di Gramsci al populismo di Pisacane trasferendola al Russo. Tuttavia, rifiutando il positivismo programmatico del Russo, Pasolini si trova poi impacciato a giustificare ideologicamente alcuni risultati della poesia del napoletano, e finisce nel vago adducendo che questa poesia possiede «tutte le migliori qualità di una vera ricerca» (PDN, p. xxxix). 21 Un altro riferimento alle possibilità realistiche del cinematografo emerge poco oltre dall’analisi della poesia del Viviani (PDN, p. xxxix). 22 Palese qui il parallelo con il celebre verso pasoliniano «la luce di chi è ciò che non sa» (Best, I, p. 188), ne «Il canto popolare», poema del 1952-53, composto nello stesso periodo di questa critica.

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umanistica del letterato meridionale, che si rifugia nelle lettere per evadere dalla corrotta atmosfera socio-politica in cui si trova da secoli impelagato23. Ma proprio nel momento in cui smaschera una vasta fetta di letteratura dialettale come ampiamente retorica, falsamente realistica, Pasolini cerca di individuare e promuovere casi marginali, eccezioni alla regola. Mi pare che qui, nella proposta del dualismo tra una netta maggioranza conformistica (falsa) e una esigua minoranza autentica (vera), si abbia conferma non solo di un presupposto teorico fondamentale per comprendere il saggio, ma soprattutto di un tratto tipico della forma mentis pasoliniana. L’ossessivo rilevamento dell’esistenza di una chiara linea di demarcazione tra la soverchiante inautenticità dell’universo borghese e il disarmato microcosmo dell’autentico sembra già da ora un punto fermo del pensiero pasoliniano. Il taglio filologico e apparentemente neutrale del saggio rivela allora la sua latente dimensione ‘impegnata’24. Così il molisano Cirese (PDN, pp. lviii-lix) o l’abruzzese Clemente (PDN, pp. lxi-lxiv) possono ergersi a baluardi di una grecità persa nel tempo e per miracolo sopravvissuta al moderno, una grecità che diviene ricettacolo di tutto ciò che l’uomo dei lumi ha ridicolizzato: il mito, i sentimenti dell’eterno e dell’assoluto, il misticismo, il sacro, ecc. Si tratta, come detto, di casi assolutamente isolati, sotterraneamente scampati al moto omologante della storia borghese e considerati dall’autore alla stregua di reperti archeologici da proteggere e promuovere con passione. Nonostante il tono più pacato e la maggiore pazienza analitica, la sostanza ideologica di questo Pasolini non mi sembra molto lontana da quella del provocante polemista dell’ultima stagione. Al centro del suo pensiero critico rimane la promozione di una nozione di realismo di marca anti-illuministica, in aperta polemica con la ratio borghese della modernità. Abbandonando il sud e concentrandosi sull’Italia settentrionale, il referto pasoliniano deve rassegnarsi a registrare l’ormai permanente e inattaccabile conformismo della poesia dialettale, divenuta nient’altro che lo specchio dei valori della classe dominante, incapace di rappresentare la realtà secondo una prospettiva autenticamente rivoluzionaria, cioè radicalmente altra da quella borghese. Al dialettale del nord dunque rimane, secondo la diagnosi pasoliniana, solo la coscienza della propria diversità linguistica. Poiché infatti il regresso nel parlante sarebbe un’operazione assurdamente anacronistica e ideologicamente svuotata di significato (gli strati popolari del nord si esprimono ormai in italiano), l’unica strada praticabile sembra quella della promozione del dialetto a genere letterario. Così troviamo il decadentismo un po’ provinciale del piemontese Pacòt, in cui «il distacco dalla poesia dialettale ‘popolare’ comincia a

23 Un ragionamento questo che vale anche per Puglia e Molise, dove prevale una schiera di letterati sentimentali e deamicisiani, boriosi «dicitori di circoli cittadini», produttori di «un amorfo sentimentalismo da ‘varietà’» (PDN, pp. lvi-lvii). 24 Rinaldi (1982, p. 183) parla a questo proposito di «fortissimo centralismo critico» e di «tendenza […] ad applicare lo stesso schema interpretativo indistintamente, ad ogni tipo di materiale», mancando di approfondire le implicazioni ideologiche dello schema pasoliniano.

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farsi cosciente, a essere una poetica» (PDN, p. lxxxix), ma soprattutto la poesia del ligure Firpo, che continua con più consapevolezza la polemica anti-popolare e conferisce al dialetto «una dignità pari a quella dell’italiano letterario» (PDN, p. xcii). E infine, a confermare l’agibilità di questa alternativa moderna e settentrionale al dialetto come regresso nel parlante popolare, vi sono le Poesie a Casarsa di Pasolini stesso, rappresentanti «quella che è forse la più tipica poetica dialettale contemporanea: il dialetto usato come un genere letterario» (PDN, p. cxxviii). 4.2.1b La componente esistenziale Mi pare che nella seconda parte del saggio, dedicata ai dialettali del nord, venga alla luce un tema che, se esula dalla riflessione sul dialetto inteso come strumento linguistico, ci conduce però nel cuore ideologico del rapporto pasoliniano con l’universo borghese. Appurato che al nord la felice mimesis col parlante non è più praticabile25, Pasolini rivolge la sua attenzione a quei poeti in grado di convogliare nei loro versi un tipo di protesta anti-borghese da esprimersi nei modi di un angst esistenziale: come se il disperato rifiuto della propria maschera borghese fosse l’ultima garanzia di impegno rimasta al dialettale settentrionale. La poesia del milanese Delio Tessa incarna alla perfezione questo stato di cose; essa si rivela a Pasolini tanto nervosamente espressionistica dal punto di vista dei contenuti, quanto formalmente legata all’accezione simbolista della parola poetica come dato assoluto ma tuttavia recuperato alla coscienza in funzione eversiva: «si guardi come le così dette parole-trauma siano scoperte nella loro funzione di deragliamento improvviso del pensiero». Indicativo che l’espressionismo del Tessa venga collegato da Pasolini, mercé il naturale ritardo della poesia dialettale sulla poesia in lingua, al «primo, ricchissimo Novecento italiano [...]: alla polemica anti-borghese della Voce, in cui, proprio come dati linguistici, trapassano i più vividi fermenti delle Scapigliature; alla violenza espressiva di uno Sbarbaro, di un Campana, di uno Jahier; alla coralità di un Rebora e così via». Indirettamente, il critico giunge a un significativo apprezzamento di una precisa zona della letteratura italiana di inizio secolo, adducendo come ragione ideologica la coscienza violentemente anti-borghese, in direzione esistenziale e espressionistica, del movimento vociano26, a sua volta collegato con la Scapigliatura di fine secolo. L’asse ideale Scapigliatura-«Voce» viene addirittura visto come «un’esperienza di impegno letterario come dopo 25 In almeno un paio di casi di dialettali del nord, per la verità, Pasolini giunge a parlare di un regresso nel parlante sul tipo di quello del Belli. Mi riferisco al rovigotto Palmieri (PDN, pp. cxvii-cxix) e all’eccezionale caso dell’illetterato friulano Argeo (PDN, pp. cxxvi-cxxvii). 26 Già in Friuli, l’attività de «La Voce» era considerata in termini di «rivolta letteraria» (Primule, p. 215).

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la guerra del ’15-18 non si è più assolutamente avuto in Italia» (PDN, pp. lxxxlxxxi). A parte Tessa e Guicciardi, secondo Pasolini i dialettali milanesi del Novecento non hanno avuto sufficiente coraggio, e «hanno ripiegato sempre sulle posizioni Parini-Porta, sul piano della saggezza, alquanto prosaica, se non addirittura pedestre, quasi che per essi le indicazioni di un Dossi, di un Lucini (e, perché no, in questi ultimi anni, di un Rebora) non avessero alcun valore». Da qui la polemica pasoliniana (dai contenuti molto simili a quelli dello scontro friulano con Zorutti e i suoi seguaci) con il contemporaneo centro dialettale milanese della Famiglia Meneghina e, più estesamente, con i poeti delle province lombarde, così asserviti alla cultura del benessere e del benpensare da non essere più in grado di osservare la realtà da una prospettiva ideologica altra da quella borghese (PDN, pp. lxxxvi-lxxxvii). Analogamente a quelli di Tessa, i versi del parmense Pezzani, tra i più ammirati da Pasolini, vengono considerati moderni27 in quanto capaci di produrre sensazioni di «inquietudine», «disperazione», «sgomento», «angoscia», «senso di morte», «irrazionale malessere», ecc. (PDN, pp. xcix-c). In modo del tutto simile viene connotata la poesia di Giotti (PDN, pp. cxi-cxv). L’ammirazione per il dialettale triestino porta dapprima il critico ad aprire una serie di significative parentesi esegetiche, dal parallelo con l’altrettanto amato Saba all’evoluzione da un primo Giotti vociano a un secondo non alieno dall’influenza delle riviste fiorentine «La Ronda» e «Solaria», fino a una descrizione analitica di alcuni brani poetici. Ma ciò che infine definisce il contenuto della poesia di Giotti presa in esame è ancora una spinta anticonformistica di matrice esistenziale: nella sua angoscia non c’è compiacenza o ripensamento da favola decadente, ma come un interno terrore, una nozione della morte, del disfacimento del mondo, delle care cose quotidiane, che ha quasi un remoto accento leopardiano; il Novecento letterario italiano non ha forse prodotto altre opere così piene di dolore; e se per Giotti si dovesse (anche per lui, dialettale) parlare di un ‘realismo’ come energia ‘naturale’ della sua lirica, significa che si dovrà parlare di realismo del dolore: del suo dolore così quotidiano, umano, poveramente inspiegabile dentro l’umile cronaca. (PDN, p. cxiv)

Rilevante come l’autore, definendo la protesta antiborghese di Giotti, non faccia riferimento a un dichiarato impegno politico. La questione della legittimità della commistione di queste due componenti diventa particolarmente ur-

27 L’autore torna qui sul tema centrale della diversità costituzionale tra poesia dialettale del sud e del nord d’Italia: «Pezzani appartiene in pieno alla fase ‘moderna’ delle letterature dialettali, se non a quella modernissima, essendo in lui l’uso del dialetto non più una finzione popolaresca (il regresso dentro lo spirito di un popolano), ma una finzione, abbiamo visto, piccolo-borghese: il ritorno a un mondo dialettale più ai margini della lingua che nel cuore del popolo» (PDN, p. c).

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gente nell’analisi della produzione poetica del romagnolo Antonio Guerra (cfr. PDN, pp. ciii-cv), la cui «troppo prossima polemica» diventa indice di una preoccupazione di tipo propagandistico. È convinzione di Pasolini che alla libera coscienza politica del Guerra «non corrisponde un’ugualmente libera coscienza estetica», secondo un refrain che ritroveremo qualche anno più tardi nella polemica officinesca contro l’ortodossia del Partito Comunista in materia di politica culturale. Qualche pagina addietro, scrutando il significato dei versi del piemontese Vivaldi, Pasolini era già sembrato, per quanto in modo elusivo, alquanto scettico circa la possibilità dell’impegno direttamente politico del letterato in generale, sebbene per il motivo opposto a quello individuato nel Guerra: il vizio della letterarietà, del banale convenzionalismo28. In realtà, la posizione di Pasolini sul tema dell’impegno è qui decisamente complessa, e non si presta a facili semplificazioni. Dopo le premesse, l’operazione del Guerra viene infatti giustificata per due motivi: da una parte, perché in essa emerge una compromissione diretta e brutale con l’argomento politico, che giustifica l’uso strumentale del dialetto da parte dei moderni (impossibilitati a utilizzare il mezzo come fine, cioè il dialetto come arma linguistica in sé); dall’altra, perché tale utilizzo strumentale del dialetto come lingua di mediazione socio-politica non significa affatto, nel Guerra, adesione aprioristica a un programma politico, ma a ben vedere finisce per sublimarsi in una dimensione disperatamente lirica, esistenzialmente destinata al «déraciner sur place, questo ripiegare su personali angosce da un mondo socialmente angosciato». Se Pasolini sembra inizialmente propenso a legittimare il diretto coinvolgimento politico, in realtà il suo discorso si articola in modo da confermare appieno le posizioni sul rapporto ‘arte-politica’ già espresse in Friuli, che ora si affinano in direzione esistenziale. Solo attraverso l’angoscia individuale, legittimata e come convalidata dall’esperienza vissuta in prima persona, fisicamente dall’individuo (Guerra, ci dice non a caso Pasolini, «aveva cominciato a scrivere il suo romagnolo in un campo di concentramento in Germania»; il che richiama latamente i primi difficili anni di Pasolini a Roma), è possibile comunicare realmente un’angoscia collettiva, storica; quando al contrario il messaggio poetico si fa portavoce diretto di istanze collettive, senza passare attraverso il vaglio dell’esperienza individuale, scontata in prima persona, esso appare svuo-

28 Scrive a proposito di Vivaldi: «La particolare retorica ‘politica’ di questi ultimi anni, da una già remota e romantica poesia della ‘resistenza’ agli ‘engagements’ in fieri ruotanti intorno all’ideologia comunista, trovano in Vivaldi un’inconsueta attendibilità di miti scarni e virili, anche se sempre un po’ letterari» (PDN, p. xcv). Dove il critico sembra voler mantenere una certa distanza filologica dall’argomento politico senza per questo nascondere una precisa insoddisfazione nei confronti della poetica neorealista, imputata di astrattezza e velleitarietà nell’approccio sociologico. La base di questa posizione è già rintracciabile in «Filologia e morale», un articolo scritto per Architrave nel dicembre del 1942 (cfr. «Setaccio», pp. 168-71) precedentemente citato.

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tato di significato. Seguendo questa interpretazione, il significato stesso dell’individualismo pasoliniano (dall’ossessiva autoreferenzialità poetica all’altrettanto ossessiva retorica del corpo e del sesso), così spesso e un po’ moralisticamente esaurito nell’ipotesi narcisistica, andrebbe rivalutato nelle sue istanze teoriche. Dopo aver evidenziato come la critica pasoliniana tenda a difendere una poesia dialettale che recuperi una lingua da una parte ‘squisita’ e dall’altra ‘sacra’, abbiamo ora osservato come, nei contenuti, l’autore arrivi a prediligere una poesia dialettale in grado di comunicare un sentimento di angoscia esistenziale. Mi pare dunque cruciale sottolineare come questa specifica produzione critica di Pasolini partecipi a un discorso intellettuale caratterizzato da una precisa svalutazione dell’ideologia borghese; teorizzando una specifica nozione di poesia dialettale, Pasolini sembra suggerire, per via obliqua, con le armi dell’estetica, i modi per una resistenza alla ratio e all’etica borghese. 4.2.2 Teorizzazione della poesia popolare Lo scarto più evidente tra Poesia dialettale del Novecento e il Canzoniere italiano dev’essere probabilmente individuato nel maggiore rigore storiografico del secondo sul primo, come testimonia il lungo capitolo introduttivo sottotitolato «Un secolo di studi sulla poesia popolare». Seguendo il suggerimento di Segre, notiamo che il Canzoniere italiano sa più «di lucerna» (Segre, 1985, p. viii), cioè evidenzia la volontà pasoliniana di misurarsi con gli storici e i teorici della poesia popolare, mentre le letture preparatorie per la Poesia dialettale del Novecento sono soprattutto quelle dei poeti recensiti, spesso amici e colleghi dell’autore. Prima di firmare il contratto con Guanda, Pasolini stesso, in una lettera a Spagnoletti, si mostrava un po’ spaventato dall’ampiezza della ricerca29; sta di fatto che poi, memore dell’esperienza con Dell’Arco, egli scartò l’ipotesi della collaborazione e portò a termine l’impresa da solo. Il problema teorico centrale nel saggio è l’individuazione dell’origine della poesia popolare, non solo in senso storico-geografico, ma principalmente in senso filosofico; scrive Pasolini: «Il problema è stavolta meglio che filologico, estetico e morale» (CI, p. xxxvii). I filologi sono pervenuti a due distinte posizioni teoriche che Pasolini intende contrastare: da una parte, la tesi romantica della nascita collettiva della poesia popolare, dall’altra la tesi idealistica della creazione individuale. Secondo il critico, il terreno su cui fiorisce la poesia popolare non può essere né la cultura popolare (fenomeno di massa) né la cultura borghese (fenomeno individualistico), bensì il momento del contatto tra le

29 «[…] perché dovrei farla insieme a uno specialista (per es. il prof. Toschi) data l’immensità della materia. Avrei invece quasi pronta e pateticamente desiderata l’Antologia del Pascoli» (L, I, p. 519).

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due culture, avvenuto in un’epoca storica in cui il popolo non aveva ancora preso coscienza del suo ruolo nella società e dunque non si poneva in contrasto dialettico con la classe al potere (cfr. CI, p. xxxix). La poesia popolare viene cioè definita come specifico prodotto storico del rapporto tra classe dominante e classe dominata, rapporto che, sottolinea marxianamente Pasolini, costituisce «l’indice dello stato e dell’evoluzione di una società nel suo complesso» (CI, p. xl). Per tutto il medioevo, nonostante la mancanza di prove reali, vi sarebbe stata «una abbondante produzione almeno di quella poesia popolare ‘bassa’ che abbiam detto folclorica», dal carattere psicologico-stilistico «extrastorico», tale da non poter che «esaurirsi in se stessa, essere un fenomeno chiuso di classi dominate» (CI, p. xlii). La produzione popolare medievale viene cioè caratterizzata come astorica e immobile, incapace di produrre innovazioni, «interessante meglio l’etnologo che il letterato» (CI, p. xlvi). Il punto di svolta coincide con l’avvento al potere, nel Due-Trecento, di una borghesia di origine autoctona, che prende il posto della classe aristocratica che aveva fino a quel punto presieduto ai conflitti tra Papato e Impero. Siamo, in sostanza, alla nascita della civiltà comunale, definita da Pasolini il «momento più alto della storia politica italiana», periodo in cui «‘borghese’ vale ancora ‘popolare’, essenzialmente, in quanto la nuova classe dirigente è in formazione e non si è scissa dal popolo da cui si sta producendo [...]. Ed è appunto nel ’300 e nel ’400 che può nascere la poesia popolare, quale ora la possediamo e la intendiamo, in quanto portata alla luce dalla coscienza estetica e letteraria della classe colta: e in quanto concepita dal popolo cantante per influsso di quella classe colta a lui così prossima» (CI, p. xliii). A prima vista, la tesi di Pasolini sembrerebbe coerentemente supportata da un approccio storicistico che, se da una parte non può non far pensare a Benedetto Croce (Pasolini, tra l’altro, condivide la tesi crociana del Trecento come «età per definizione popolare della letteratura italiana», CI, p. xliii), dall’altra documenta il tentativo di introdurre istanze marxiste, per cui una questione eminentemente estetica, cioè sovrastrutturale, viene dal critico subordinata all’analisi della struttura socio-economica (cfr. Baranski, 1990, pp. 147-50). La poesia popolare, cioè, in quanto genere poetico originale, nasce all’incirca nel Trecento perché è in quel secolo che si attua quella fusione tra borghesia e popolo che permette l’attribuzione di una coscienza estetica all’immobile produzione folclorica. Pasolini stesso conferma di aver allargato i suoi presupposti linguistici all’ambito sociologico: il lettore avrà osservato da sé come in queste annotazioni teoriche, sia implicita una nozione che nelle scienze linguistiche in questi ultimi anni, dopo la formulazione e l’uso che ne hanno fatto il Devoto e il Contini, si pone sempre più centrale: la nozione di ‘bilinguismo’ col corollario immediato che ogni lingua letteraria è una lingua speciale: velleitaria e affettiva. E il lettore avrà anche osservato come di questo ‘bilinguismo’ immanente e complesso noi abbiamo tenuta presente una accezione particolare, il ‘bilinguismo sociologico’, importandovi una passione non solamente linguistica [...]. (CI, p. xlv)

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Ma al di là della metodologia, conviene indagare a fondo la natura ideologica che contraddistingue l’operazione pasoliniana. La novità del saggio non sta tanto nell’aggressione sociologica del problema estetico (nel metodo), quanto nello spessore teorico alla base di tale aggressione (nell’ideologia). A questo proposito, credo che sotto l’apparenza dell’approccio storicistico alla questione della poesia popolare, emergano decisivi elementi irrazionalistici (risolti nel consueto recupero pasoliniano del concetto di ‘sacralità’), che finiscono per caratterizzare il pensiero dell’autore in chiave utopica. Il discorso critico si fonda sulla convinzione che i due poli essenziali dell’analisi, ‘borghesia’ e ‘popolo’, si facciano rispettivamente portavoce della categoria storica e di quella astorica. Come prima riflessione, notiamo che l’argomento trattato conduce il critico a interessarsi a un ‘popolo’ del tutto privo della moderna ‘coscienza di classe’, al contrario caratterizzato da «una mentalità di tipo arcaico, primordiale» (CI, p. xl) che lo esclude dunque dai movimenti della storia e relega la sua cultura a uno stato di cronica fissità. Si tratta di un’accezione di popolo fondata su quelle caratteristiche antropologiche dell’umano che fanno riferimento alla natura (istinto, incoscienza di sé, sensualità, ecc.) piuttosto che alla razionalità, e che Pasolini pone in diretto rapporto con la nascita della poesia popolare (cfr. CI, p. xlvi). Se interpretiamo, ciò significa che l’autore rivendica la presenza dell’elemento istintuale e astorico nel fatto culturale. Se poi passiamo dal fatto culturale in sé all’analisi più propriamente ideologica, ci accorgiamo che il discorso non cambia: il saggio, nonostante sia impostato in funzione dello storicismo materialista, finisce per rivendicare l’assoluta centralità dell’elemento irrazionale all’interno della tipica problematica marxiana del conflitto di classe. Ci è dato un individuo storico (il poeta popolare trecentesco) come rappresentante di una condizione sociale privilegiata in cui non esiste vera conflittualità tra popolo e borghesia; ma proprio nel concepire la mancanza di conflittualità di classe come conciliazione sociale tra l’elemento istintivo (popolare) e l’elemento razionale (borghese), il discorso di Pasolini trascende in una dimensione utopica incompatibile con il classico approccio marxista. Pasolini identifica nel Trecento il periodo «più alto della storia politica italiana», a ragione del fatto che «la nuova classe dirigente è in formazione e non si è scissa dal popolo da cui si sta producendo» (CI, p. xliii). Detto diversamente, nel Trecento non è ancora possibile distinguere in modo netto tra classe dominata e classe dominante, ovvero ci si avvicina a realizzare l’ipotesi marxiana della società senza classi. È significativo, però, come per Pasolini la società senza classi divenga oggetto di rimpianto e nostalgia per un’epoca passata, a cui è consegnata una luce utopica, piuttosto che risultante di lotte politiche proiettate nel futuro. Piuttosto che esito conclusivo del conflitto tra il popolo ‘illuminato’ e la borghesia, la palingenesi sociale viene situata all’alba dell’odissea civilizzatrice, in un lontano passato, mitizzato pour cause, in cui la ragione dell’uomo è ancora confusa nell’istinto, in cui cioè il soggetto socia-

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le è ancora parzialmente immerso in uno stato di naturale incoscienza. La presenza di un dato irrazionale-utopico emergente dal passato (centrale per la definizione pasoliniana dell’integrazione di ‘popolo’ e ‘borghesia’ nell’Italia comunale), caratterizza in modo del tutto idiosincratico e, diremmo, deviante, l’approccio materialista del saggio. Il carattere teorico dell’operazione pasoliniana si evidenzia poi nell’individuazione del poeta popolare trecentesco 30 quale modello assoluto della pacificazione tra ragione borghese e istintualità popolare. Questi viene infatti definito, attraverso una forzatura logica in cui ci si rivela la componente utopica del saggio, «insieme storicamente individuo, in quanto sia pur remotamente appartiene alla cultura in evoluzione, e astoricamente tipo in quanto appartiene di fatto alla cultura tradizionale e fissa» (CI, p. xli). Sovrapponendo ‘cultura in evoluzione’ e ‘cultura fissa’, Pasolini assegna al poeta trecentesco un ruolo assolutamente ‘ambiguo’; ne fa cioè una figura storica e mitica insieme, simbolo vivente dell’utopica conciliazione di coscienza e natura, di soggetto e oggetto: rappresentante, piuttosto che di una specifica ragione socio-politica, di una condizione indeterminabile, inaccessibile, perché coincidente con un luogo chimerico. Teorizzando la nascita della poesia popolare, Pasolini mira dunque a conciliare, attraverso l’utopia, quella che viene definita «infelice antitesi» (CI, p. xli), cioè l’opposizione tra la categoria storico-razionale e quella astorico-irrazionale; è assai significativo che, nel tener fermo al concetto di ‘sostanza’ quale determinazione reciproca dell’individuale e dell’universale, tale teorizzazione rinvii direttamente a una precisa regione filosofica che abbiamo già indicato come cruciale per la comprensione dello sviluppo intellettuale di Pasolini: l’idealismo tedesco. Il discorso dell’autore cede a un’urgenza di chiara derivazione idealistica precisamente nel creare un simbolo dell’assoluto, cioè della ricomposizione di coscienza e natura, soggetto e oggetto, io e non-io. Più precisamente, la forte caratterizzazione anti-razionalistica di questo assoluto circoscrive la forzatura ‘idealistica’ di Pasolini all’ambito dell’estetica idealista, conosciuta attraverso gli studi universitari. Che Pasolini ne fosse consapevole o meno, infatti, la sua operazione teorica rimanda a un luogo centrale nel pensiero del filosofo tedesco Friedrich Schelling (1775-1854). Questi, nel tentativo di definire l’assoluto in quanto identità di soggetto e oggetto, osserva che tale identità è raggiungibile solo attraverso un’intuizione intellettuale, la quale, per acquisire obiettività, deve divenire intuizione estetica. Schelling, contravvenendo a Hegel, ci dice in sostanza che la filosofia dell’arte, l’estetica, è l’organo primario della filosofia come tale, in quanto solo attraverso un’intuizione intellettuale direttamente dipendente dalla sensibilità estetica, il pensiero umano può co-

30 Si può pensare qui al parallelo Pasolini-Dante più volte congetturato dalla critica: Bárberi Squarotti (1978, pp. 181-206), Baranski (1986), Bertolini (1988), Gordon (1996, pp. 30, 79, 272-3), Vazzana (1993) hanno sottolineato l’importanza dell’influenza dantesca su Pasolini.

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gliere l’assoluto. Alla base della teorizzazione pasoliniana della poesia popolare troviamo proprio un’intuizione di tipo estetico, ovvero il luogo utopico, inconcepibile in termini logici, della conciliazione tra le sopracitate categorie storico-razionale e astorico-irrazionale. Come vedremo, tale intuizione ha una profonda incidenza anche sull’attività del Pasolini scrittore e cineasta. Essa mi pare determinante, per esempio, nel definire la doppia dimensionalità, politica e vitalistica, che caratterizza tanto la rappresentazione del sottoproletariato quanto la simbologia cristica. Ora, è precisamente la presenza di questa radice utopica a minare la coerenza storicistica del saggio. Se è chiaro che Pasolini intende affrontare da intellettuale ‘gramsciano’ il problema ideologico inerente la nascita della poesia popolare allo stesso tempo la sua accezione di ‘popolo’, investita com’è dal sentimento del sacro, finisce per inquinare il rigore materialistico del saggio. Come il popolo del Pasolini scrittore, così quello dell’intellettuale dimostra di avere sempre almeno un piede fuori dalla storia, in una zona ‘franca’ del reale, interdetta alla ragione. Questo popolo, allora, difficilmente potrà fare la lotta di classe, perché, elevato a simbolo di secolare indeterminatezza, non si può riconoscere quale forza dialettica agente a livello spazio-temporale, cioè sociopolitico. È qui che si rivela il presupposto insieme anti-hegeliano e anti-materialista del pensiero di Pasolini: la sua ideologia non è logocentrica, cioè non ammette l’equazione ‘storia-reale-razionale’ che contraddistingue il pensiero moderno, tanto nella sua sponda idealistica quanto materialistica. Piuttosto, si tratta di un pensiero che attribuisce al sacro, cioè a quanto ‘resiste’ alla razionalizzazione, una funzione centrale nella determinazione dei concetti di storia e di realtà. Non è difficile cogliere la sfumatura utopica di questa Weltanschauung pasoliniana, che quindi non sembra dipendere, nei suoi elementi teorici fondanti, né dall’idealismo di marca hegeliana, rappresentato in Italia da Benedetto Croce, né dal materialismo storico interpretato e ridefinito da Antonio Gramsci. Questo, lo ripetiamo, per una ragione fondamentale: perché Pasolini rifiuta il limite hegelo-marxista della storia quale totalità epistemologica, e propone invece il recupero di un discorso sull’irrazionale in quanto coordinata dialettica. Recupero che, se è riconducibile all’ambito dell’estetica idealista pre-hegeliana, sopravvive, in epoca contemporanea, tanto nel cuore di una corrente filosofico-letteraria come l’esistenzialismo (altrettanto fondamentale per la formazione intellettuale dell’autore), quanto nella teoria critica dei pensatori della ‘Scuola di Francoforte’. Come i francofortesi facevano ormai da tempo, e con ben altri strumenti filosofici a disposizione, dalla seconda metà degli anni ’50 Pasolini comincerà a imputare al marxismo contemporaneo, e più specificamente al Partito Comunista Italiano, una colpevole riluttanza alla riflessione sulla categoria dell’irrazionale; e proprio in questa sua posizione si può riconoscere il fondamento degli attacchi dell’autore alla società di massa.

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4.2.3 Confronto tra poesia dialettale e poesia popolare Credo che l’insistere di Pasolini, nell’ambito dell’indagine intorno alla poesia popolare, sulla centralità della commistione tra dimensione ‘storica’ e ‘astorica’, significhi sostanzialmente ribadire il punto cardine di Poesia dialettale del Novecento, cioè il regresso nel parlante da parte del poeta dialettale ideale (Belli per esempio). In entrambi i casi, vi è affermato un segno utopico, la cui funzione, all’interno del progetto critico, mi pare fondamentale. Vedremo ora come, nonostante la presenza nei due saggi del medesimo luogo utopico, la teorizzazione del ‘dialettale’ diverga significativamente da quella del ‘popolare’. Pasolini abbozza il primo confronto tra poesia popolare e poesia dialettale negli ultimi paragrafi del suo capitolo teorico del Canzoniere italiano, qui sopra ripercorso, allorché introduce un’importante precisazione circa la nascita della poesia popolare. Quando il contatto tra classe dominante e classe dominata avviene tramite l’abbassamento di un individuo o di un gruppo di individui della classe superiore (direzione discendente), si avrà una poesia di tipo ‘macaronico’ o ‘squisito’; quando invece il contatto avviene per iniziativa di un individuo o gruppo di individui della classe inferiore (direzione ascendente), si avrà la vera e propria poesia popolare: «un’acquisizione di dati culturali e stilistici proveniente dalla classe dominante e una loro assimilazione secondo una fenomenologia da studiarsi nell’ambito di una cultura inferiore e primitiva». Il dato interessante è che Pasolini inserisce sotto l’etichetta di poesia popolare ‘squisita’ «quasi tutte le poesie dialettali di ogni epoca letteraria» (CI, p. xlvi), trovando dunque un fondamento su cui distinguere il carattere ‘popolare’ della letteratura da quello ‘dialettale’. La distinzione viene poi chiarita a più riprese nella parte del saggio che studia la produzione poetica popolare per aree geografiche – nord, centro e sud. L’elemento differenziante il poeta popolare da quello dialettale è la sua fissità psicolinguistica 31. Nella sua operazione poetica, dominata da una stilizzazione verso il mito, per cui il mondo viene rappresentato «sotto forma di una fissità leggendaria o magica», non c’è posto per l’inventio, «non essendo in lui la fantasia liberata dalla coscienza». La semplicità psicolinguistica della poesia popolare, risultato di quell’eccezionale fenomeno di fusione tra classe dominata e classe dominante che ne ha causato la nascita, è invece assente non solo nella poesia d’arte in genere ma soprattutto nella poesia dialettale, che è un fenomeno tipico della cultura borghese (cfr. CI, pp. lxxiii-lxxvii). Il critico si sofferma poi estesamente sul confronto ideologico tra ‘popolare’ e ‘dialettale’ verso la fine del saggio, quando specifica come la poesia

31 «Non è reperibile nell’enorme corpus della poesia popolare un’invenzione scandalosa in senso linguistico, stilistico e metrico, e quindi psicologico» (CI, p. lxxiii). Pasolini cita in nota, per ribadire l’attendibilità del suo discorso, vari antropologi culturali nordamericani, tra cui F. Boas.

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dialettale moderna sia un fenomeno che nasce e muore in seno alla classe dominante: «Non si dà mai che un poeta dialettale sia poeta popolare, appartenendo egli ormai e soltanto alla cultura borghese: e, se con questa è in polemica, si tratta addirittura (eccettuato qualche caso modernissimo) di una polemica della borghesia conservatrice e tradizionalistica nei confronti della borghesia più avanzata [...]» (CI, p. ciii). Di seguito Pasolini aggiunge, riprendendo il tema centrale di Poesia dialettale del Novecento, che pochissime e incomprese sono state le eccezioni (Porta e Belli) per cui un dialettale è riuscito ad abolire ogni dato pregiudiziale della sua classe per immergersi nel popolo parlante, realizzando così quel contatto tipico della poesia popolare che ne costituisce il dato rivoluzionario. Soprattutto nel Novecento, «la poesia dialettale è sempre meglio la poesia di una élite culturale borghese, nella sua fase decadente e senza ideali socialistici» (CI, p. cv). In sostanza, dunque, nell’analisi della poesia popolare Pasolini conferma quanto avevamo osservato nel suo saggio sulla poesia dialettale: che il momento ideologicamente eversivo e realmente rivoluzionario di questi due generi affini consiste nella loro capacità di evocare la conciliazione utopica tra categoria storico-razionale e categoria irrazionale e sacra. Più specificamente, tornando sul tema della poesia dialettale, l’autore sembra voler ribadire ciò che nella sua prima ricerca non aveva espresso con altrettanta convinzione, cioè un giudizio alquanto pessimistico sulle possibilità d’impegno di un letterato dialettale moderno. L’appartenenza alla classe borghese del poeta dialettale pregiudica pesantemente la prospettiva di un suo effettivo intervento ideologico sul reale che non sia quello, rarissimo in epoca moderna, della totale immersione nella realtà psicologica del popolano. A livello teorico, la differenza tra Poesia dialettale del Novecento e Canzoniere italiano appare allora significativa. Nel saggio del 1952 Pasolini aveva innanzitutto segnalato il carattere anacronistico, per un dialettale contemporaneo, dell’operazione del regresso nel parlante, suggerendo piuttosto la possibilità alternativa di operare coscientemente su un dialetto inteso come lingua speciale, caratterizzando inoltre questa operazione in termini esistenzialistici, come disperato e necessario atto di protesta antiborghese. Nel Canzoniere italiano, viceversa, lo sforzo del critico pare esclusivamente indirizzato a recuperare proprio quella che in Poesia dialettale del Novecento era stata definita l’ormai inattuale, specie per il letterato del nord, scelta poeticoideologica: l’immersione nel parlante popolare e la rinuncia al proprio status borghese. Una considerazione diventa allora obbligatoria. Evidentemente, nel garantire al poeta dialettale una possibilità d’impegno, tanto in direzione esistenzialistica quanto ‘squisita’, il Pasolini romano del 1952 intendeva difendere (come in effetti accade a fine saggio) la propria concezione di dialetto maturata in Friuli: una lingua aristocratica, elitaria e soggettiva, piuttosto che concretamente parlata dal popolo. Diversamente, quando nel 1955 il critico si pone di nuovo il problema teorico del rapporto tra la lingua poetica e la lingua

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parlata dal popolo, egli sembra aderire in modo definitivo all’alternativa del regresso nel parlante, indicando in essa l’unica via percorribile dalla letteratura impegnata. È senz’altro interessante notare come tale convinzione teorica si sia poi trasposta, almeno parzialmente, nel canone stilistico-ideologico adottato per il romanzo Ragazzi di Vita, scritto non a caso contemporaneamente al Canzoniere italiano. L’enfasi sul regresso nel parlante è dunque indicativa, se non proprio di un cambiamento, almeno di una netta risoluzione nel pensiero di Pasolini, portando con sé un elemento di forte, per quanto ambigua, radicalità. Da un lato, Pasolini sembrerebbe spingere la nozione di ‘impegno’ in una zona di estrema e appunto radicale compromissione con la causa, per cui l’unico modo di difendere il popolo (un popolo inteso come ricettacolo di autenticità contro la ormai prossima omologazione degli anni ’60) diventa la fedele rappresentazione del popolo stesso, possibile solo attraverso la mimesi dello scrittore; alla base di una tale orientazione stilistica vi sarebbe un profondo pessimismo nei confronti della ragione storico-politica, pessimismo che porterebbe l’intellettuale alla scelta estrema del ‘gettare il proprio corpo nella mischia’ (secondo un ricorrente luogo pasoliniano), piuttosto che a confidare unicamente nella possibilità di una mediazione politica. Dall’altro lato si potrebbe ipotizzare, come è stato spesso fatto, la presenza, nell’operazione mimetica, di un motivo essenzialmente egoistico, implicante la dissimulata rinuncia all’impegno sociale; secondo tale interpretazione, la scelta di abbracciare incondizionatamente il popolo equivarrebbe alla creazione di un fantasma ideologico dietro cui soddisfare cinicamente i bisogni dell’io. In realtà, questa seconda interpretazione non coglie ciò che in questa sede abbiamo cercato di far emergere come elemento cruciale al discorso intellettuale di Pasolini: la dimensione utopica inerente alla teorizzazione del concetto di ‘popolare’. 4.2.4 Gramsci e Croce nelle due ricerche L’ipotesi di un’influenza gramsciana sulle due ampie ricerche pasoliniane è a prima vista più che plausibile, tenuto conto della generale popolarità goduta dal filosofo sardo nel dopoguerra e, soprattutto, alla luce delle numerose rivendicazioni postume di Pasolini circa il taglio gramsciano delle sue opere degli anni ’50. Rivendicazioni che sono state però ridimensionate da recenti studi (cfr. soprattutto Baranski, 1990, pp. 147-150, il quale dimostra che, almeno fino al 1955, non esistono prove concrete circa la reale conoscenza di Gramsci da parte di Pasolini). In effetti la presenza di Gramsci in Poesia dialettale del Novecento e nel Canzoniere italiano, pubblicati rispettivamente nel 1952 e nel 1955, varia sensibilmente. A una lettura comparata dei due saggi, sembrerebbe che, nei pochi anni che separano la loro pubblicazione, l’influenza del pensiero di Gramsci in materia di cultura popolare sia cresciuta visibilmente, benché, come vedremo

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di dimostrare, la posizione ultima di Pasolini finisca per essere incompatibile con quella gramsciana. Poesia dialettale del Novecento riserva un posto minimo al contributo ideologico gramsciano sullo studio della letteratura dialettale, se infatti Gramsci viene citato una sola volta e perdipiù come fonte indiretta. Come anticipato, Pasolini lo chiama in causa recuperandolo da una citazione del critico Carlo Muscetta, al fine di sostanziare la sua critica al populismo socialistico di Ferdinando Russo: come il Gramsci citato da Muscetta accusava di populismo l’ideologia di Carlo Pisacane, così Pasolini rimprovera al socialismo del Russo una generica indeterminatezza romantica che ne logora l’assunto realistico. Gramsci è dunque citato senza alcun riferimento testuale e in una veste alquanto generica di critico del populismo romantico: un po’ poco, evidentemente, per ipotizzare la sua effettiva influenza sulla ricerca pasoliniana. Decisamente più cospicua la presenza di Gramsci nel Canzoniere italiano, per quanto non necessariamente intesa a supportare le tesi dell’autore. Prima ancora di chiamare in causa il pensatore sardo, nell’excursus iniziale del saggio Pasolini si confronta con i maggiori teorici della poesia popolare, fino a considerare la posizione della critica marxista. Tuttavia, un confronto diretto non è possibile poiché in ambito marxista, scrive Pasolini, gli studi demopsicologici sono «tuttora allo stadio potenziale o (nella stampa di partito) intenzionale» (CI, p. xxvii). Di seguito, Pasolini prende le distanze dal critico marxista De Martino in quanto la sua nozione di poesia popolare approderebbe allo storicismo crociano. Questa presa di distanza, peraltro mai espressa in modo netto e perentorio ma sempre in qualche modo sospesa32, emerge a sorpresa anche dalla successiva valutazione del populismo di Gramsci. Per prima cosa, Pasolini chiarisce che la concezione di ‘popolare’ in Letteratura e vita nazionale è diversa da quella da lui intesa nel proprio saggio. L’analisi gramsciana si concentrerebbe sulla letteratura popolare di massa (romanzi d’appendice, melodramma italiano, ecc.), mentre la letteratura popolare considerata da Pasolini, quella cioè relegata ai margini se non fuori dal raggio d’azione dell’industria culturale, verrebbe solo sfiorata da Gramsci, e comunque trascurata in quanto «letteratura popolareggiante, non popolare» (CI, p. xxviii). Pasolini giustifica l’assenza quasi totale dell’elemento folcloristicopopolare dalla nutrita indagine gramsciana33 con la scarsa reperibilità di testi antologici di base quali quelli del Nigra, del D’Ancona, del Barbi ecc. Ciò che maggiormente sorprende è però il passaggio immediatamente successivo: 32 In De Martino, per esempio, Pasolini vede un marxismo «privo di nitore, ma anche di semplicismo, ideologico» (CI, pp. xxvii-xxviii). 33 A ragione, Baranski (1990, p. 149) nota che se Pasolini avesse letto Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce o Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, avrebbe trovato più concrete riflessioni gramsciane sul concetto di folclore, sempre peraltro concepito in modo antitetico al suo.

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Noi crediamo, comunque, che, se il Gramsci avesse meglio conosciuto il problema della poesia popolare nei suoi termini tradizionali e tecnici, avesse letto qualcosa di meglio del buon Rubieri, e avesse infine posseduto una più vasta e diretta cognizione dei testi popolari, non ne avrebbe poi tratto motivo di reale e profondo interesse. In funzione polemica rivoluzionaria, s’intende: poiché osservazioni storiche e oggettive avrebbe potuto schedarne a centinaia [...]. (CI, p. xxix)

Pasolini lamenta poi ancora «l’inopia di studi marxisti post-gramsciani sull’argomento», nonché il cattivo uso del folclore in generale fatto da poeti comunisti impegnati dal 1945 in poi (CI, p. xxix). Credo che quest’ultimo riferimento a Gramsci nel Canzoniere italiano sia fondamentale nel presentarci un Pasolini che prende le distanze dal presunto maestro non solo in merito alla nozione di poesia popolare, ma più precisamente alle accezioni di ‘popolo’ e di ‘cultura popolare’ in genere. Mentre Gramsci, specie formulando il concetto di ‘egemonia’, riflette sul ruolo consapevolmente rivoluzionario di un popolo attivamente inserito nella contemporanea storia politico-sociale, Pasolini sembra voler recuperare come arma rivoluzionaria «un popolo non moderno e, pur col suo ritardo, rientrante nella sfera ideologica della società ufficiale» (CI, p. xxix). Un popolo cioè scampato agli ultimi assestamenti della storia borghese, inconsciamente chiuso in un rapporto più ingenuo e meno politicamente mediato con la realtà. Di qui la consapevolezza che la propria concezione di poesia popolare, come emerge dal Canzoniere italiano, non può essere assimilata negli schematismi ideologici gramsciani. Nel saggio di Pasolini, sembrerebbe, l’opposizione all’evoluzione storica della borghesia non può che avvenire attraverso l’esaltazione di ciò che è stato miracolosamente risparmiato dalla storia stessa, di quel popolo ‘cantante’ rimasto identico a se stesso, magari ottusamente, in secoli di rapide mutazioni socio-economiche. È chiaro che concepito in funzione oppositiva, come elemento radicalmente, antropologicamente altro dall’umanità moderna, il popolo pasoliniano si mostra con quei caratteri di sacralità, incoscienza e, più generalmente, irrazionalità, che Gramsci non aveva assolutamente preso in considerazione. La presenza di Croce nel Canzoniere italiano è altrettanto inconfutabile di quella di Gramsci. Come sottolinea Segre (1985, p. vi), qui «Pasolini si situa esattamente nell’ambito postcrociano in cui operava», accettando di Croce soprattutto «il concetto di subalternità della poesia popolare» e «la biforcazione tra poesia popolare creata da poeti colti [...] e poesia popolare composta da individui o gruppi effettivamente popolari». Come per Gramsci Pasolini si era rifatto esplicitamente a Vita e letteratura nazionale, così per il filosofo abruzzese l’autore attinge, generosamente, da Poesia popolare e poesia dell’arte, testo del 1929. Credo che il recupero di Croce sia poi anche inevitabile per ragioni strettamente metodologiche, considerato che l’autore, nella fase introduttiva del saggio, si propone di delineare sinotticamente le varie teorie interpretative della

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poesia popolare. La riflessione filosofica di Croce, ci dice Pasolini, interviene a seguito dell’interpretazione romantica e di quella scientifica, due soluzioni che «non si superano dialetticamente, ma piuttosto si fondono, tanto da produrre poi delle caratteristiche romantico-filologiche permanenti e lentamente marcescenti nel corso successivo degli studi» (CI, p. xxiii). Proprio contrapponendolo alle precedenti interpretazioni romantico-filologiche, Pasolini inquadra lo studio crociano in ambito estetico e metastorico, schematizzando la critica di Croce all’uso strumentale del concetto di popolare fatto dai romantici: «Liberata comunque la nozione di poesia popolare dalle sovrastrutture di contenuto, e approntatala a uno studio autonomo e propriamente estetico, il Croce ne delinea la figura interna, metastorica. [...] Prima di tutto, è per lui necessario affermare l’unità della poesia: e non solo teoricamente, ma anche in concreto» (CI, p. xxv). Pasolini è insomma consapevole di come, secondo il metodo crociano, la distinzione tra poesia popolare e poesia d’arte tenda ad annullarsi nel nome del valore universale della poesia, considerata inutilizzabile a scopi pratici, ideologici o politici; in epoca romantica, al contrario, il termine popolare veniva ricollegato all’idea della natura, del primitivo e della spontaneità, al fine di contrastare il razionalismo illuminista e alimentare sentimenti nazionalistici. Già da queste prime considerazioni mi pare che la concezione crociana del popolare, nonostante alcune coincidenze di partenza, appaia piuttosto distante da quella di Pasolini. La ragione di fondo alla base della differenza è piuttosto evidente, e rivela una profonda frattura ideologica tra le posizioni dei due autori: Pasolini, contrariamente a Croce, opera una netta distinzione ideologica tra poesia popolare e poesia d’arte, basando tale distinzione sul rifiuto programmatico della nozione dell’autonomia della poesia dal contesto storicosociale. Questa differenza sostanziale emerge esplicitamente, nel Canzoniere italiano, da una serie di mirate obiezioni che Pasolini muove ad un passaggio di Poesia popolare e poesia d’arte in cui Croce, nel nome dell’unità della poesia, respinge ogni discriminazione tra genere popolare e genere d’arte. Secondo Pasolini, Croce sbaglia, perché astrae dal contesto storico-sociale, quando cerca di dimostrare l’inconsistenza di certe attribuzioni della poesia popolare come ‘impersonale’, ‘generale’, ‘tipica’, ‘atecnica’, ‘astorica’, ‘asintetica’. Sebbene ineccepibile dal punto di vista teorico, dice Pasolini, il ragionamento di Croce si rivela assai debole se esaminato alla luce dei «casi concreti», cioè delle espressioni poetiche contestualizzate nella loro specifica zona spazio-temporale. Contrariamente alla nozione crociana che vuole ogni espressione poetica «insieme personale e impersonale in quanto universalmente umana», Pasolini sostiene, per esempio, che la poesia popolare, se contestualizzata, giunga a inglobare una componente «universalmente ‘preumana’». Particolarmente significativa la difesa pasoliniana di attribuzioni della poesia popolare quali «atecnica» («la poesia popolare è sempre atecnica in quanto le manca libertà tecnica; è incapace d’innovazioni stilistiche»), e «astorica» («la poesia popolare è astorica nei confronti della storia qual è, non della storia in assoluto: cioè della storia come

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azione e passione delle classi dirigenti»); una difesa che pare intesa a contraddire lo storicismo assoluto di Croce (per cui «non si può dare altresì poesia senza tecnica; né si può fare poesia fuori dalla storia») attraverso l’introduzione di un elemento irrazionale (cfr. CI, pp. xxv-xxvi). Tuttavia, può risultare significativo evidenziare come Pasolini avanzi queste critiche a Croce solo nelle note a piè di pagina, mentre nel testo si limiti a riportare neutralmente alcuni passaggi di Poesia popolare e poesia d’arte. Credo che una simile osservazione, all’apparenza futile, riveli una fondamentale caratteristica dell’intera operazione pasoliniana. Come nel caso del suo approccio a Gramsci, Pasolini sembra ora interessato a dissimulare, o quantomeno a attenuare, il suo dissenso da Croce. Due fattori principali potrebbero essere operanti alla base di questa scelta. Da una parte, si può supporre che intervenga il già citato tatticismo di Pasolini. L’autore è consapevole dell’importanza strategica dei suoi scritti in funzione del proprio ingresso nel mondo letterario romano e nazionale, per cui sbilanciarsi apertamente, tanto a favore o contro il modello ideologico crociano (e ugualmente quello gramsciano), sarebbe probabilmente equivalso a tagliare definitivamente i ponti con una sezione significativa di questo mondo. Dall’altra, mi pare lecito ipotizzare che Pasolini nutrisse genuinamente parecchie riserve circa la sistemazione teorica della poesia popolare di Croce, e che, conseguentemente, intendesse salvaguardare, all’interno di questa sistemazione, la rilevanza consegnata da Croce al dato estetico piuttosto che l’intera sua dottrina. Intenzione, questa di Pasolini in merito a Croce, che si presenta come perfettamente speculare rispetto a quella che abbiamo riscontrato per Gramsci, laddove Pasolini salvaguardava la componente materialistica e eteronoma dell’interpretazione della poesia popolare, senza però condividere l’organicità del sistema gramsciano. Una giustificazione data da Pasolini a Spagnoletti circa le ragioni che lo avevano spinto ad accettare la proposta dell’editore Guanda per il Canzoniere italiano, per quanto sommaria, sembrerebbe confermare la natura irrisolta dell’atteggiamento dell’autore: «Non penso invece di rinunciare all’antologia della poesia popolare: anche perché ‘ideologicamente’ potrei mantenermi nel giusto mezzo» (L, I, p. 538). Allora l’espressione «giusto mezzo» rimanderebbe, certo troppo sbrigativamente, al senso profondo dell’operazione teorica pasoliniana, intesa a integrare la componente estetica, di provenienza idealistica, con l’apporto sociologico implicito nella dottrina marxista. Mi pare inevitabile e anzi necessario sottolineare la profondità dell’intuizione pasoliniana, qui applicata all’indagine sulla poesia popolare. Intuizione che, per quanto non sviluppata in una più confacente dimensione teorica, testimonia di una lettura problematica, e in fondo delusiva, tanto della sistemazione crociana quanto di quella gramsciana, entrambe votate a definire il significato di ‘popolare’ all’interno di sistemi ideologici autosufficienti e iper-razionali, incapaci cioè di sviluppare una riflessione propositiva sulla categoria dell’irrazionale. La trattazione di Croce e Gramsci in questo saggio, la natura e lo scopo dei riferimenti pasoliniani, sembrano indicativi di una complessiva riluttanza, da parte dell’autore, all’approfondi-

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mento del confronto tra i due pensatori. Pasolini sembra cioè soddisfatto di brevi accenni e fugaci, per quanto felici, sviluppi intuitivi. In ultima analisi, credo che le ragioni di questo atteggiamento interpretativo possano essere rinvenute in una combinazione di fattori determinanti, a cui si è già accennato: un oculato tatticismo finalizzato all’autopromozione, la consapevolezza dell’insufficienza dei propri strumenti filosofici, il taglio generalmente filologico e divulgativo, quindi non espressamente filosofico, dell’operazione saggistica. Rimane però, oltre questa congerie di supposizioni, la presenza di una fertile e singolare percezione teorica fondata sull’integrazione del dato estetico-irrazionale sulla base materialistica, che da ora in poi diventa parte integrante e tipica della storia intellettuale di Pasolini. 4.3 Sperimentalismo: impegno e «existenz» (1954-60) Riflettendo sul primo periodo dell’attività critica di Pasolini a Roma, abbiamo notato come il tentativo di storicizzare la letteratura italiana fosse contraddistinto dal permanere di un’istanza irrazionalistica. Il suo originale approccio, informato da una tensione verso la storia assai ibrida, sembrava precludergli tanto la strada della veneranda tradizione crociana, quanto l’avvicinamento al più recente ‘impegno’ filo-comunista. In entrambi i casi, infatti, si sarebbe resa necessaria a Pasolini quell’intransigenza storicistica che egli non sembrava poter garantire34. Piuttosto, i primi saggi romani mostravano chiari segni delle suggestioni stilcritiche, acquisizioni recenti che confermavano innanzitutto l’imprescindibile influenza continiana. Tuttavia, il metodo della nuova scuola veniva applicato dall’autore con notevole libertà, implicante in particolare l’iniezione di precise istanze sociologiche che agivano in direzione spesso contraria all’agnosticismo descrittivo degli stilisti35.

34 Mi pare fondamentale un recente studio di Silvano Peloso (1997), che inscrive la sensibilità letteraria pasoliniana in una tradizione ‘tragica’ facente capo a F. Nietzsche. Peloso osserva che una tradizione di questo tipo in Italia è stata «respinta dallo storicismo crociano prima, e da quello marxista poi in un ambito quasi patologico da esorcizzare o caso mai da sublimare», aggiungendo che «se un certo tenace storicismo, da noi più che in altri paesi, ha saputo contrastare l’assalto di impostazioni critiche che apertamente negano la storia, ciò non è avvenuto in conseguenza di un’originale vitalità metodologica in grado di valorizzare con ragioni diverse le ragioni dell’altro, quanto per un arroccamento spesso intransigente, che ha finito per precludere la piena comprensione di fenomeni storico-culturali e sociali estremamente complessi» (1997, p. 221). 35 Già M. David, nel 1966, aveva sottolineato: «è nell’uso della ‘critica stilistica’ che Pasolini mi pare aver mostrato meglio la qualità e l’originalità della propria posizione. [...] Naturalmente Pasolini sa bene che il pericolo della critica stilistica sia nella sua filosofia irrazionalistica e nel suo fondamentale agnosticismo, ma egli sa d’altra parte che la critica marxistica è grande solo quando rimane non specifica, generale, ideologica, mentre la critica stilistica è grande finché opera sul testo» (1966, p. 561).

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Rispetto ai primi scritti critici, poi, quelli del 1954, sempre più ricchi di riferimenti storico-culturali, cominciano a riflettere una maggiore coscienza ideologica (cfr. Curi, 1961, p. 69), come conferma il fatto che la militanza critica di Pasolini si trasferisce anche sul versante puramente creativo36. Nel corso della nostra analisi cercheremo di dimostrare come questa svolta coincida con l’intenzione dell’autore di approfondire il proprio metodo critico in merito alla collocazione del residuo di irrazionalismo sopra indicato. Crediamo che proprio l’elaborazione del concetto di ‘sperimentalismo’, ereditato, come ricorda Riccardo Monti (1985, p. 43), dal Contini dei «Preliminari sulla lingua del Petrarca» del 1951, rappresenti il risultato più cospicuo della riflessione pasoliniana sul rapporto tra l’irrazionale e il complesso di componenti logico-razionali operanti all’interno di un testo letterario. A questo proposito, mi pare singolare che i maggiori studiosi di Pasolini, da Bàrberi Squarotti a Rinaldi, da Asor Rosa a Ferretti, non abbiano mai seriamente considerato, nell’affrontare la nozione di sperimentalismo, questa prospettiva esegetica, preferendo piuttosto evidenziarne tanto una sostanziale povertà ideologica, quanto un’opportunistica funzionalità autopromozionale37. Occorre subito precisare, a parziale giustificazione della critica, che la nozione di sperimentalismo non viene elaborata da Pasolini attraverso una rigorosa riflessione di tipo filosofico, finalizzata all’autochiarificazione, ma piuttosto emerge quasi involontariamente, come disarticolata nozione poetico-ideologica, dal confronto che il critico ingaggia con la letteratura di volta in volta presa in esame. Nonostante il termine sia tra quelli più ricorrenti nella saggistica pasoliniana di questo periodo, l’autore non si sofferma mai a definirne precisamente il significato, lasciandolo piuttosto ‘aperto’, non di rado in funzione liberamente attributiva. Lo stesso si può affermare per l’uso di termini chiave come ‘storicismo’ e ‘anti-storicismo’, ‘storico’ e ‘astorico’. Probabilmente anche per questa mancanza di autodeterminazione, che fa tutt’uno con il carattere ‘passionale’ universalmente riconosciuto alla critica pasoliniana, l’importanza del concetto di ‘sperimentalismo’ è stata sovente sottovalutata. Date dunque queste premesse, la nostra si presenta, essenzialmente, come un’operazione di recupero. Cercando di individuare le coordinate teoriche attive dietro lo sperimentare promosso da Pasolini, ne misureremo la valenza profonda, restituendogli, eventualmente, il potenziale significato ideologico; in particolare, rimpolpando il discorso iniziato nei due precedenti sottocapitoli, ne verificheremo continuamente la pendenza gramsciana, legata all’intenzione pasoliniana di promuovere una letteratura ‘nazional-popolare’. Gramsci verrà

36 A questo proposito, molti studiosi hanno sostenuto che la critica pasoliniana coincide essenzialmente con l’illustrazione e l’affermazione di una poetica privata (cfr. Curi, 1961, pp. 578; Citati, 1959, pp. xvii-xviii; Santato, 1980, p. 197). 37 Cfr. anche l’interpretazione di A.L. de Castris (1993, pp. 30-7), che, acutamente, riallaccia lo sperimentalismo pasoliniano degli anni ’50 alle prime prove critiche del periodo friulano.

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chiamato in causa, innanzitutto, per la nozione di ‘intellettuale organico’, implicante una precisa posizione politica dell’intellettuale; quindi, valuteremo il rapporto Gramsci-Pasolini in merito alla più specifica e complessa questione della relazione tra la letteratura e l’ideologia comunista, questione che ci pare decisa dal ruolo destinato alla dimensione ‘estetica’. Il tentativo di recuperare l’intelligenza di Pasolini al sistema gramsciano, caratteristico di molta critica anche recente (cfr. soprattutto Ferri, 1996), credo implichi una forzatura teorica di base su cui discuteremo nel corso di questo capitolo: l’accostamento dello storicismo gramsciano alla contraddittoria tensione verso la storia di Pasolini38; una tensione, quest’ultima, che ci pare caratterizzata proprio da quel «residuo trascendentale»39 che Gramsci aveva inteso rimuovere senza appello, riconoscendosi debitore, nella fattispecie, nientedimeno che al pensiero di Benedetto Croce40. In relazione al rapporto Gramsci-Pasolini, l’ipotesi generale da cui partiremo è che nell’accezione pasoliniana di sperimentalismo si manifesti una concezione esistenzialistica dell’impegno letterario, la cui valenza politica e morale si esplica nella mediazione tra un razionalismo di aderenza storico-culturale e una componente irrazionale sopravvivente dal periodo friulano. Più precisamente, verrà valutata la possibilità di interpretare tale mediazione in chiave utopica, ipotizzando la presenza di una forte continuità tra la saggistica degli anni ’50 e quella dell’ultimo periodo. Il termine ‘utopia’ sarà dunque da intendere, come suggerito nell’introduzione di questa ricerca, in senso poetico e filosofico piuttosto che strettamente politico: esso indicherà il luogo teorico, tipicamente tardo-romantico e proto-idealistico, che definisce l’identità di sog38 Nel 1962, nel corso di un’intervista a «Filmcritica», Pasolini utilizza lo schema di una nota formula friulana (la tradizione passata attraverso il filo dell’antitradizione) adattandola al suo concetto di storia. Egli dimostra cioè di credere in uno storicismo passato attraverso il filo dell’antistoricismo: «Io credo profondamente nella ‘Storia’, agisco e mi muovo perché credo profondamente nella storia, però so benissimo che c’è un punto, un punto nel tempo, mettiamo fra trentamila anni, in cui i nostri problemi storici saranno vanificati da un cambiamento radicale, o dalla morte, dalla distruzione, non so… Se non avessi questo sentimento, non avrei nemmeno il sentimento della storia, cioè il mio sentimento della storia sarebbe un sentimento ottimistico, inutile, che non mi farebbe agire» (in Magrelli, 1977, p. 60). 39 Nelle Lettere dal carcere, Gramsci parla espressamente della sua filosofia della prassi come un sistema governato da «uno storicismo assoluto, liberato davvero, e non solo a parole, da ogni residuo trascendentale e teologico» (1968a, p. 619). 40 Com’è noto, le riflessioni filosofiche di Gramsci non possono fare a meno del dialogo con Croce. Se da un lato, costitutiva di questo dialogo, la critica all’idealismo e all’estetica pare indiscutibile, dall’altro non è neppure possibile ignorare alcune importanti concessioni. In una lettera del 1931, Gramsci ricorda che, insieme a «molti altri intellettuali del tempo […] partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l’uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuol dire. Questo punto mi pare anche oggi il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani, mi pare una conquista civile che non deve essere perduta […]» (1968a, p. 466). Nel 1917, Gramsci si era definito «tendenzialmente piuttosto crociano» (Gramsci, 1968b, p. 199).

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getto e oggetto come sostanza preistorica e originaria unità, il punto di fuga del ricongiungimento dell’essere con il divenire. 4.3.1 L’intellettuale per la “politicità” della letteratura: Gramsci e la radice utopica del pensiero critico di Pasolini Il primo saggio critico in cui il termine ‘sperimentalismo’ acquista spessore ideologico, in funzione di un’operazione di sintesi storicistica, è «Osservazioni sull’evoluzione del Novecento», del 1954. A livello ideologico, il problema centrale sollevato dall’autore in questo saggio è quello tipicamente gramsciano della lotta per una nuova cultura. Da Gramsci, Pasolini doveva aver appreso che una nuova arte, piuttosto che nascere per partenogenesi, non può che derivare da una nuova cultura, e che a sua volta una nuova cultura non è che l’estensione di una nuova prassi socio-economica («una nuova cultura non può essere altro che il prodotto di una nuova società», PI, p. 288); in questo senso, la critica letteraria svolgerebbe una funzione civile nel partecipare alla formazione prima culturale, e quindi artistica, del popolo. Ma se Pasolini intende il marxismo, la ‘filosofia della prassi’41, quale la nuova cultura per cui lottare, egli sembra però riconoscerne solo il carattere potenziale42; una potenzialità che perdipiù viene da lui legittimata solo come forza ‘distruttiva’ agente dall’esterno sulla coscienza borghese, piuttosto che forza ‘costruttiva’ agente dall’interno sulla coscienza delle classi subalterne: Oggi una nuova cultura, ossia una nuova interpretazione intera della realtà, esiste [...], in potenza, nel pensiero marxista; in potenza, ché l’attuazione è da prospettare nei giorni in cui il pensiero marxista sarà (se questo è il destino) prassi marxista nella storia di una nuova classe sociale organizzante la vita. Ma benché in forma potenziale, esiste, agisce, già oggi, se quel pensiero marxista determina, nei nostri paesi occidentali, una lotta politica e quindi una crisi nella società e nell’individuo: esiste dentro di noi, sia che vi aderiamo, sia che la neghiamo; e proprio in questo impotente aderirvi, e in questo impotente negarla. O che non possiamo o che non vogliamo (ma è la stessa cosa) essere comunisti, il trovarci posti di fronte a questa nuova, implicita, misura sociale e morale, a questa nuova configurazione del passato, a questa nuova prospettiva del futuro [...] agisce dentro di noi: di noi, dico, borghesi, rimasti tali con la violenza e l’inerzia di una psicologia determinata dalla storia. (PI, pp. 288-9) 41 È noto che Gramsci utilizza questa espressione per indicare sia il materialismo storico che la propria originale nozione di marxismo trapiantata nella tradizione dello storicismo italiano, il cui massimo rappresentante è Francesco De Sanctis. 42 L’epigrafe al saggio è emblematica nel sintetizzare l’atteggiamento dell’intellettuale nei confronti del comunismo: «‘Siamo ad una svolta. Forse ad un tramonto’. Da una dichiarazione di Togliatti in morte di De Gasperi». Pasolini vuole evidenziare il momento della crisi della vecchia cultura politica augurandosi insieme il trapasso a quella nuova. Leggendo poi l’articolo, si capisce che l’adesione dell’autore alla prassi comunista è tutta qui, in questa laconica epigrafe.

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Ciò che colpisce, in questo brano, è il carattere diffusamente ‘politico’ dell’intervento dell’autore, che sembra accantonare per un momento l’ambito ‘critico-letterario’ e ‘linguistico’. Ma proprio in questa dimensione ideologica (poi sempre più contaminata, in Passione e ideologia, dall’urgenza di una riflessione di tipo estetico), il rapporto con Gramsci (e, in generale, con il marxismo classico)43, ci appare subito incrinato. Innanzitutto, da una parte abbiamo il marxismo come potenzialità politica, mentre in Gramsci il marxismo è una realtà politica, implicante un intervento organico dell’intellettuale in tutti i campi dello scibile. In altre parole, Pasolini dimostra qui di non poter essere il tipo di ‘intellettuale organico’ concepito da Gramsci, precisamente perché il suo pensiero subisce il marxismo come forza estranea piuttosto che possederlo attivamente: nel giudicare il marxismo una potenzialità, Pasolini rifiuta di concepire il suo ruolo di intellettuale in modo gramscianamente funzionale alla lotta politica44. Più precisamente, nel brano appena citato Pasolini suggerisce che, senza il riconoscimento dello stato di crisi della società borghese italiana del dopoguerra, richiedente un profondo ripensamento delle sue istituzioni e dei suoi valori, ogni attivismo politico-culturale, attuato dall’interno dell’ideologia marxista, diventa volontaristico e quindi astratto e irreale. La distanza da Gramsci appare a questo punto incolmabile: per il pensatore sardo, infatti, la finalità rimane la

43 Donatella Marchi sostiene con acutezza che il significato della rivendicazione di marxismo in Pasolini consiste nel tentativo di rigenerare, sulla base teorica di uno storicismo tutt’altro che intransigente, la tradizione del marxismo classico che «ha sempre dato, tutto sommato, più noia che ansia alla borghesia (e non è la storia con il suo procedere che potrà mai mutarle il volto)» (Marchi, 1978, p. 77). 44 Bárberi Squarotti afferma, senza peraltro approfondirne i motivi teorici, che la posizione politica del Pasolini degli anni ’50 è «il capovolgimento della posizione del PCI nei confronti delle masse e degli intellettuali. [...] non l’intellettuale come organico alle masse in quanto portatore (con retorica abilità di convincimento e di seduzione) delle parole d’ordine del partito alle masse stesse [...] ma l’intellettuale che si fa effettiva parte del popolo in quanto ne condivide la vitalità e i desideri che da sempre gli sono caratteristici, al di fuori, e, anzi, contro, le pretese delle istituzioni di toglierli la brama di vita, di organizzarlo e di farlo, in questo modo, dipendente, se non succubo» (1984, p. 45). È universalmente riconosciuto che tra le più originali novità del pensiero gramsciano all’interno della tradizione marxista è l’aver individuato il problema del rapporto tra l’organizzazione della cultura e dell’ambito socio-politico. In particolare, Gramsci riflette sulla questione del consenso in relazione al potere, elaborando la nozione centrale di ‘egemonia’ proprio come capacità di promuovere un consenso. La funzione dell’intellettuale è dunque centrale a un progetto innanzitutto politico. Specificamente, l’intellettuale ‘organico’ al Partito Comunista ha il compito di organizzare il consenso delle masse al fine di garantire il potere politico ai ceti subalterni. La cultura di questo nuovo tipo d’intellettuale dev’essere strettamente legata alla tecnica e al lavoro industriale: «Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, ‘persuasore permanente’ perché non puro oratore [...]; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane ‘specialista’ e non si diventa ‘dirigente’ (specialista + politico)» (Gramsci, 1971, p. 18).

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prassi politica, e il riconoscimento della crisi non conta nulla senza una precisa risposta rivoluzionaria. È significativo ad esempio come, per il giovane Gramsci che scrive all’indomani della guerra 1915-18, il riconoscimento della crisi borghese-capitalistica deve portare, necessariamente, alla rivoluzione proletaria45. Ma allora come dev’essere inteso l’impegno sociale rivendicato da Pasolini, quando egli stesso dimostra, in un periodo pur improntato alla lotta ideologica, di contraddire lo storicismo ‘politico’ di Gramsci? Se nel concepire il marxismo come potenzialità il Pasolini intellettuale prende le distanze dal coinvolgimento con un pensiero esplicitamente politico, egli tuttavia non abbandona la prospettiva dell’impegno sociale; semplicemente la consegna, come farà in tutto Passione e ideologia, alla riflessione critico-letteraria. Occorre pertanto comprendere in cosa consista il suo contributo di letterato militante. Ecco allora che la questione del rapporto Pasolini-Gramsci sembra potersi riaprire: non più sul tema generale dell’intellettuale organico al partito, che abbiamo visto improponibile, ma su quello ben più specifico, e complesso, del rapporto tra letteratura e società. Vediamo innanzitutto come Pasolini concepisce, nel saggio «Osservazioni sull’evoluzione del Novecento», il suddetto rapporto: questa situazione in cui viviamo quotidianamente, di scelta non compiuta, di dramma irrisolto per ipocrisia o per debolezza, di falsa ‘distensione’, di scontento per tutto ciò che ha dato una sia pur inquieta pienezza alle generazioni che ci hanno preceduto, sembra sufficientemente drammatica perché possa produrre una nuova poesia. [...] una ‘nuova’ poesia che sia priva – anche nella tesi – della mistica del tradimento di classe, del messianesimo populista [...]: senza cioè l’ambigua fuga da se stesso che altro non può apparire – nel suo apriorismo ch’è autolesionismo – il passaggio di un borghese letterato al partito di una classe che, attraverso tremende difficoltà, si accinge, nell’atto di impossessarsi del mondo, a istituirlo di nuovo. (PI, p. 289)

45 Gramsci intuì immediatamente, sin dai suoi primi scritti, che la Grande Guerra aveva segnalato le enormi contraddizioni e la crisi generale della borghesia capitalistica internazionale. Già nell’articolo «Raccoglimento», pubblicato sul «Grido del popolo» il 14 ottobre 1916, egli parlava di una «crisi tremenda», al cospetto della quale si trattava «né più né meno, di rifare una civiltà. [...] È un ordinamento nuovo, una nuova fondazione del vivere civile, quella che urge dichiarare e attuare. E quale altra può essere, se non appunto quella che scaturisce spontaneamente e logicamente dai principi del Socialismo?» (ora in Gramsci, 1968b, pp. 21-2). Queste proposizioni ritornano puntualmente in tutti gli scritti del periodo. In «Uno sfacelo ed una genesi», pubblicato su «L’Ordine Nuovo» il 1° maggio 1919, Gramsci dichiara che «gli intimi dissidi e gli insanabili antagonismi, immanenti nella struttura economica della società capitalistica, sono clamorosamente affiorati alla superficie della storia, [...]. Una società, quella capitalistica, va in isfacelo, una rivoluzione, quella comunista, arriva a marce forzate» (ora in Gramsci, 1955, pp. 217-8). Ne «Il potere in Italia», su «Avanti!» dell’11 febbraio 1920 si legge che «esaurita e logorata la borghesia come classe dirigente [...] la classe operaia è ineluttabilmente chiamata dalla storia ad assumersi la responsabilità di classe dirigente» (Gramsci, 1955, pp. 78-9).

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Notiamo subito che il significato socio-politico affidato dal critico alla letteratura si coagula nella capacità dello scrittore di esprimere la crisi della realtà borghese-capitalistica italiana degli anni ’50, crisi da lui accreditata all’effetto dirompente esercitato su tale realtà dall’alternativa marxista. L’elemento centrale è senza dubbio la risonanza engagée accordata al fattore ‘crisi’. Scavando più a fondo, scopriamo che il motivo per cui Pasolini pensa l’impegno come registrazione della crisi borghese, piuttosto che come caldeggiamento prospettivistico del marxismo, deriva dalla sua personale nozione di ‘realismo’. Nelle «Osservazioni sull’evoluzione del Novecento», Pasolini conferma ciò che abbiamo evidenziato per la sua precedente saggistica romana: di volersi attenere a un concetto di realismo fondato sulla necessità della verifica empirica e sensoriale del dato, per cui è reale solo quanto può essere concretamente esperito dall’io nell’hic et nunc dell’esistenza. Questa conferma viene proprio a inizio saggio, quando l’autore riporta due brani tratti da «Bassani» e «Barolini, Soavi e altri» (due suoi lavori, rispettivamente del 1953 e del 1954, poi esclusi dalla raccolta) in cui la critica al neorealismo («non c’è un’idea della realtà, ma solamente un suo gusto», PI, p. 284)46 passa attraverso l’approvazione (nella fattispecie in Verga e Gadda) di «brani lancinanti di ‘realtà’ immediatissima, [...] poeticità la cui violenza espressiva travolge ogni forma di stabilità conoscitiva», a riprova che «l’atteggiamento di fronte alla realtà [...], non può che essere empirico» (PI, pp. 284-5). All’indomani dell’uscita di Passione e ideologia, il filosofo Enzo Paci fu tra i pochi, se non l’unico, a intuire l’importanza di questa concezione di realismo per il Pasolini critico e poeta: «fare della poesia è un complesso atto costitutivo che parte dalla mia stessa materialità e dal mio corpo e si inserisce nel divenire significativo della storia. Non esiste un mondo reale se questo mondo non è costituito, poniamo, dalla sensazione o dalla percezione [...] il significato delle forme poetiche è nella loro origine da un mondo nel quale io vivo sempre con tutto me stesso» (1961, pp. 15-6). È partendo da questo concetto di realtà che Pasolini può affermare che, per un letterato che voglia dirsi impegnato nel sociale, il momento storico consente solo di verificare, attraverso l’esperienza nel concreto-sensibile, lo stato di crisi della società, piuttosto che l’ancora congetturale messa in atto della dottrina marxista47. 46 La posizione sul neorealismo espressa in Passione e ideologia viene ribadita in un’intervista del 1960: «Io penso che l’unico realismo possibile oggi sia un realismo ideologico, di pensiero. Quello del neorealismo era il realismo della cronaca, visivo, immediato: era necessaria quindi una più completa impostazione critica e ideologica dei problemi sia politici che stilistici. È proprio quello che io ho tentato di fare» (1960a). 47 Non stupisce che Pasolini citi, in «Osservazioni sull’evoluzione del Novecento», la seguente dichiarazione di Luzi, in cui emerge un richiamo poetico-filosofico alla natura conciliatrice sicuramente estraneo al marxismo ufficiale: «Non nella realtà secondo la nozione che implica di essa il realismo, ma nella natura percepita con purezza, nella sua voce profonda e continua che informa i linguaggi degli uomini, risiede la possibilità di conciliare il dissenso tra il soggettivo e l’oggettivo, tra l’assoluto ideale e il concreto storico» (PI, p. 287).

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Possiamo dunque dedurre che la variante ‘esistenzialistica’ (enfasi sulla crisi) dell’engagement pasoliniano nasce da questa connotazione ‘esistenziale’ (enfasi sull’esperienza sensorio-corporale dell’io) fondante il suo concetto di realismo. Se infatti per Pasolini il momento della crisi dell’ideologia sembra rivendicare la precedenza sul momento della progettualità ideologica, ciò è dovuto alla componente ‘esistenziale’ del suo pensiero, per cui il soggetto pensante coglie nel reale la presenza di un dato a-razionale che mina costantemente il possesso dell’idea. La riflessione sul rapporto tra questo dato e la ragione ideologica rappresenta il leitmotiv diffuso, sovente ‘nascosto’ e dunque da interpretare, della critica letteraria pasoliniana degli anni ’50: non dunque l’ideologia come particolare concezione del mondo, ma il rapporto tra la razionalità in quanto valore ideologizzante, e l’irrazionalità in quanto dato empirico e, insieme, ineffabile. Negli anni ’70, dopo la morte di Pasolini, furono soprattutto Siciliano e Borgna a seguire la strada interpretativa inaugurata da Paci48. L’originalità della riflessione di Pasolini mi pare senz’altro degna di essere approfondita. Pur partendo da Gramsci nell’anteporre la dimensione socio-culturale a quella letteraria (intendendo la nascita di una nuova letteratura solo come conseguenza dello sviluppo di una nuova realtà sociale), Pasolini si distacca dal pensatore sardo per quanto riguarda la concezione della letteratura come atto politico. L’idea di una letteratura che si risolva sostanzialmente nell’espressione della crisi della coscienza borghese (pur intesa gramscianamente, come nuova «situazione [...] sufficientemente drammatica perché possa produrre una nuova poesia», PI, p. 289), non pare immediatamente integrabile al pensiero di Gramsci, per cui, al contrario, la finalità dello scrittore dev’essere la rappresentazione dei rapporti sociali del popolo. In realtà, trarre una simile conclusione a questo punto della nostra ricerca, sulla base del solo saggio fin qui analizzato, può risultare operazione semplicistica. Innanzitutto, Pasolini (soprattutto nelle vesti di romanziere e di cineasta) avrà modo di riconoscere e verificare la crisi della borghesia e dei suoi istituti per via indiretta, cioè proprio attraverso quell’avvicinamento al popolo predicato da Gramsci: «ciò che importa è che essa [la nuova letteratura] affondi le sue radici nell’humus della cultura popolare così come è, coi suoi gusti, le sue

48 Osserva E. Siciliano, sulla scia di Paci, che «è – credo – il dato ‘corporeo’, personale e fisico, posto come premessa a ogni discorso, che ha reso Pasolini un ospite scomodo nella nostra letteratura. Pur sfruttando tutte le mediazioni intellettuali possibili, quelle che gli offriva la sociologia come la psicanalisi, l’antropologia come la stilcritica, egli insisteva sulla necessaria riduzione esistenziale del giudizio, sul filtro affatto specifico, individuale cui ogni deduzione logica dev’essere sottoposta» (Siciliano, 1976, p. 40). Gianni Borgna, discutendo il cinema di Pasolini, ha poi ripreso e approfondito con acutezza l’intuizione di Siciliano, affermando che «Pasolini non rimane fermo a quel dato corporeo, non resta prigioniero di quella commistione, ma li usa conoscitivamente, li recupera criticamente, evitando, per ciò stesso, che la sua ‘ansia di realtà’, la sua intensa (e specialissima) esperienza esistenziale quotidiana finiscano con l’approdare ad una nuova forma di vitalismo e di irrazionalismo» (1978, p. 122).

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tendenze, ecc., col suo mondo morale e intellettuale, sia pure arretrato e convenzionale» (Pasolini, 1950, p. 6). Quindi, il tema dell’avvicinamento al popolo richiama, tanto nel pensiero di Gramsci quanto in quello di Pasolini, considerazioni di carattere estetico che si potranno chiarire solo analizzando la saggistica pasoliniana della seconda metà degli anni ’50, incentrata sul teorizzazione del rapporto stile-ideologia. Per ora, dunque, ci limitiamo a indicare la presenza di contraddizioni latenti nel rapporto Pasolini-Gramsci sul tema della ‘politicità’ della letteratura, rimandando all’ultima sezione del capitolo per un giudizio più esaustivo. Se nelle «Osservazioni sull’evoluzione del Novecento» emerge una sostanziale presa di distanza dal comunismo e, in generale, dalla dottrina marxista, nel nome di un pensiero ‘esistenziale’, lo stesso si può dire per una dichiarazione del 1955, specificamente in merito alla questione dell’impegno: Calvino dice che l’intellettuale, nella fattispecie il letterato, deve aver compiuto o compiere una scelta49. Noi diremmo invece che il dovere è porsi il problema di una scelta, e non è detto che tale problema possa avere una soluzione [...] Insomma quello che il letterato dovrebbe fare, sarebbe allargare senza fine il proprio orizzonte visivo, su tutti i campi, in tutti i sensi50, cercar di capire la propria storia, LA storia: come operazione preliminare, umana, morale. Indi, come operazione specificamente letteraria, insostituibile, esprimere tale sua esperienza coi suoi mezzi. Il Pci richiede una coincidenza di tale espressione con una necessità di lotta politica: e tale coincidenza è più che ammissibile, ma non esaurisce per intero il rapporto tra un individuo e la nazione, la storia, la religione. La libertà si manifesta forse soprattutto nella operazione del ‘capire’, e tale operazione non ha limiti. (Pasolini, 1955)

Si veda anche qui come alla base del rifiuto dell’impegno comunista vi sia un impasse di natura espressamente filosofica. Al lato pratico della questione, il «compiere una scelta», Pasolini antepone quello teorico, il «problema della scelta», uno dei topoi centrali del pensiero esistenzialista. E come il pensiero esistenzialista, opponendo alla ragione lo scacco delle possibilità e l’angoscia della libertà, non risolve tale problema teorico, così Pasolini mantiene un punto di vista aperto («non è detto che tale problema possa avere una soluzione»), mettendo la razionalità («l’operazione del capire») sulla strada di una ricerca infinita, illimitata, e dunque perennemente instabile. In questa sua determinazione a rimanere ‘aperto’, il discorso di Pasolini si dimostra difficilmente conciliabile con la prassi politica; esso si muove su una strada diversa da quella intrapresa (inizialmente) da Calvino e in generale dal comunismo italiano.

49 Si riferisce all’articolo che Calvino aveva pubblicato su «Paragone» col titolo «Il midollo del leone» (ora in Calvino, 1980, pp. 3-18). 50 Si noti come il senso di tale posizione coincida con il celebre ‘allargare il periscopio all’orizzonte’, per la prima volta apparso nel saggio del 1956 «La posizione» (ora in Ferretti, 1975, p. 248).

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Ma cerchiamo di approfondire. Per comprendere le ragioni determinanti la tendenza esistenzialistica del pensiero critico pasoliniano, conviene circoscrivere l’analisi a un ambito da sempre privilegiato dalla riflessione di Pasolini, quello della lingua. Sin dall’inizio, infatti, Pasolini parla soprattutto di ‘sperimentalismo linguistico’ (a ragione della sua recente maturazione filologica), anche se poi rimanderà l’approfondimento del rapporto ‘lingua-ideologia’ a fine decennio (investigheremo questo punto più avanti nel capitolo). Si ha prova di tale tendenza a confinare la sperimentazione all’ambito linguistico nell’unico altro scritto critico del 1954 che, dopo le «Osservazioni sull’evoluzione della lingua», tenta un giudizio di sintesi piuttosto che risolversi in scheda analitica: le «Implicazioni di una ‘Linea lombarda’», anch’esse inserite in Passione e ideologia. Mi pare, innanzitutto, che qui Pasolini tenga fede alle premesse delle «Osservazioni sull’evoluzione della lingua». Se là, come abbiamo visto, aveva esposto la sua posizione relativa alla necessità di un impegno legato innanzitutto al sentimento della crisi, in «Implicazioni di una ‘linea lombarda’» esprime il suo giudizio, in base a questo convincimento, su un gruppo di scrittori legati da una poetica in gran parte comune. Lo spunto gli viene da una raccolta curata da Luciano Anceschi, critico d’estrazione ermetica che Pasolini conosceva già in Friuli51, ma il saggio si rivela poi particolarmente interessante per alcuni spunti sulla poesia di Montale. La posizione di Pasolini è piuttosto chiara. Sereni, Erba e gli altri poeti della cosiddetta ‘linea lombarda’, così come il loro mentore Anceschi, finiscono per ricadere nell’atmosfera rinunciataria del Novecento, nel disimpegno ermetico, in quanto sono incapaci di dare concretezza di realismo alla loro espressionistica disperazione. Il loro vizio non è l’atteggiamento angosciato, ma l’eccessiva astrazione cerebrale di cui s’informa tale atteggiamento. Il critico finisce quindi per relegarli a un crepuscolarismo stilizzato e evasivo, in cui non vibra l’eco della realtà empiricamente vissuta, ma solo il lamento dell’intelletto. La scarsa simpatia per Montale si spiega nei medesimi termini, nonostante Pasolini tenga a precisare che i poeti della ‘linea lombarda’ compiono un ulteriore involuzione rispetto al ligure. La poesia di Montale viene vista come sim-

51 Ne «La posizione», del 1956, Pasolini ricorderà l’importanza fondamentale avuta proprio dall’Anceschi sulla sua formazione: «L’Estetica del Croce [...] in effetti fuoriusciva dal nostro mondo estetico, operando sulla nostra intelligenza, non sulla nostra coscienza: ed era letta in funzione dell’autonomia dell’arte e della poesia pura (è un fatto che più dell’Estetica ha contato allora per noi l’anceschiano Autonomia e ed eteronomia dell’arte!)» (ora in Ferretti, 1975, p. 243). Tuttavia, la critica portata a Anceschi nelle «Implicazioni di una ‘linea lombarda’» era già compresente nel saggio giovanile «Commento ad un’antologia di lirici nuovi», pubblicata su «Il Setaccio», dove Pasolini rimproverava a Anceschi l’aver eliminato proprio la dimensione esistenziale del fare poesia (cfr. Ricci, 1977, p. 77). Nelle «Implicazioni di una ‘linea lombarda’» questo motivo critico viene approfondito attraverso la coordinata ‘realismo’, che per il Pasolini degli anni ’50, a differenza di quello degli anni ’40, è esplicitamente definita nell’ambito del ‘concretosensibile’.

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bolica di un razionalismo di tipo settecentesco, troppo sordo all’urgenza della realtà empirico-sensoriale per poter rivendicare pregnanza d’impegno. Significativamente, la spia di questo limite è lo stile: «gli ingredienti lessicali cui ricorre, le forme empiriche di cui si riveste» (PI, p. 371). Similmente, nel saggio intitolato «Montale» del 1957, Pasolini insisterà sulla dilatazione montaliana (ma anche «tipica operazione pascoliana») dei dati sensibili e pratici, che vengono trasformati in oggetti dal valore metafisico, e dunque astratto, concludendo che «la ‘riduzione’ del mondo ai suoi oggetti non comporta, in Montale, oggettività: una qualsiasi forma razionale di conoscenza. Il suo razionalismo è estetico, non filosofico» (PI, p. 257). Nonostante il suo stoicismo morale, nonché lo sforzo di sintesi di alcune liriche della Bufera, il vizio individuato nei versi di Montale è quello dell’angoscia metafisica, che collima con la fuga, tipicamente novecentesca, nella squisitezza linguistica (cfr. PI, p. 258). Al di là della negatività del giudizio su Montale (la dose verrà rincarata negli anni ’70)52 importa per ora che esso sia motivato da ragioni linguistiche. E in merito a ragioni linguistiche si viene allora chiarendo ulteriormente il significato del ‘realismo’ alla base dello sperimentare pasoliniano. Un atteggiamento realistico che possa contribuire a una poetica sperimentale, contenente la crisi del soggetto borghese e potenzialmente il passaggio al marxismo, è possibile solo laddove lo scrittore riesca a comunicare attraverso il suo linguaggio l’autenticità di un contatto effettivo con la realtà sensibile e fenomenica; poiché, come scrive Paci commentando la ricerca di Pasolini: In quanto poeta io non sono né lo spirito né l’essere, né una parte dello spirito o dell’essere, ma sono l’uomo nella sua totalità [...] sono un corpo vivente (un Leib) che si muove nello spazio e nel tempo, con tutti i suoi organi di senso, e si muove tra le cose, tra e con gli altri corpi [...]; sono, infine, in questa concreta vita corporea e psichica, un uomo che con gli altri costituisce rapporti sociali, politici, culturali. [...] Ciò avviene non soltanto nella mia attività economica politica e giuridica: avviene in ogni atto della mia vita, a cominciare dalla mia vita sensibile e percettiva, dalla sua organizzazione negli organi di senso e in quell’organo di senso centrale che è il mio corpo, il mio Leib. (Paci, 1961, pp. 13-4)

Il punto è di capitale importanza, in quanto al centro di ogni posizione del Pasolini teorico dei linguaggi. Contrariamente ai marxisti degli anni ’50, e agli strutturalisti e semiologi degli anni ’6053, Pasolini afferma la necessità di una 52 Quando nel 1971 fu pubblicata la raccolta montaliana Satura, Pasolini ne scrisse su «Nuovi Argomenti» (1971, pp. 17-20), definendo la raccolta «un pamphlet antimarxista» il cui autore finisce per giustificare il potere borghese. Montale (1971) replicò in versi, definendo Pasolini, dalle colonne de «L’Espresso», con il nomignolo di Malvolio. Pasolini contrattaccò a sua volta in versi su «Nuovi Argomenti» nel 1972 (ora in Best, 1923-8). 53 Da ricordare soprattutto i termini della polemica con Umberto Eco espressi nel capitale saggio «Il codice dei codici» del 1967, in cui Pasolini parla di uno sperimentalismo che parta dal riconoscimento dell’esistenza di un Ur-codice linguistico, quello in cui la realtà esiste in quanto «percezione sensoriale» (EE, p. 279).

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lingua che non solo s’impegni a descrivere e eventualmente a ideologizzare la realtà, ma che in primo luogo cerchi di esprimerla nella sua sostanza pre-razionale e pre-grammaticale, una sostanza considerata parte integrante del divenire storico. Per Pasolini, in sostanza, un linguaggio ‘realistico’ deve poter indicare in sé la presenza di un saldo legame con la fisicità della materia se vuole evitare l’astrazione, cioè l’alienazione, da ciò che comunica. Si tratta evidentemente di un legame di natura mimetico-utopica, cioè inaccessibile al calcolo della ragione: la riconciliazione di soggetto e oggetto. Theodor W. Adorno, in Teoria estetica come in pressoché tutti i suoi scritti di simile argomento, affronta il tema dell’impegno e della politicità dell’arte relazionandolo proprio a questa riconciliazione: si tratta di percepire una «irruzione dell’obbiettività nella coscienza soggettiva», generante nel soggetto una «commozione che ha i colori della paura di venir schiacciati», ovvero una «scossa emotiva» («Erschütterung») corrispondente a un «ricordo della liquidazione dell’io, che a quella scossa si avvede della propria limitatezza e finitezza» (Adorno, 1977, pp. 408-9). Basandosi su una simile premessa teorica, Enzo Siciliano afferma che il contributo del pensiero pasoliniano dev’essere verificato partendo dal luogo della riconciliazione del soggetto con la materia: In Pasolini assistiamo ad una oggettivazione dell’io che avviene fuori di ogni prevedibile ontologia e attraverso una crudezza di termini a dir poco sconcertante. [...] Pasolini non ha mai temuto lo sconfinamento nel fisiologico [...]. Ebbene, quel che conta, a questo punto, non è esprimere consenso o ripulsa alle proposte di uno scrittore così fatto, ma considerare il peso e il profilo culturale dei contenuti di cui si fa teatro il suo io. (Siciliano, 1976, p. 41)

Mi pare che questo luogo utopico della riconciliazione tra soggetto e oggetto assuma un profondo valore teorico, e insieme politico, se inteso, anzitutto nel contesto letterario, quale elemento di una critica diretta a correggere l’iperrazionalismo dell’estetica marxista. Utilizzare un elemento utopico per l’elaborazione di un concetto di realismo artistico a sfondo storico-sociale può sembrare a priori contraddittorio solo se si aderisce all’equivalenza hegelo-marxiana tra ‘realtà’ e ‘razionalità’. Diversamente, come crediamo avvenga nel Pasolini critico, una letteratura che incorpori il segnale della conciliazione tra la lingua (fatto di ‘cultura’) e la materia (fatto di ‘natura’) diventa funzionale alla destabilizzazione di qualsiasi sistema ontologico, con il risultato che il concetto di realtà si autodefinisce come inesausta ricerca di significato. L’analisi linguistica conduce dunque Pasolini alla critica ideologica poiché gli offre la coordinata imprescindibile per lo sviluppo di un’idea del reale: gli consente cioè di soppesare il grado di aderenza realistica (nel senso di convergenza verso la dimensione sensoriale) raggiunto dalla lingua. L’applicazione di questa teoria si rende particolarmente manifesta in tutti gli studi monografici del periodo. Nei saggi su Caproni, Gadda, Saba e Leonetti,

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tutti del 1954 e inclusi in Passione e ideologia54, domina infatti un approccio linguistico che se da una parte sembrerebbe rimandare alla scientificità e oggettività della stilcritik, dall’altra comincia ad essere ideologizzato. Ne deriva che il giudizio di valore dipende dalla dissezione stilistico-psicologica: analizzare il dato linguistico significa sostanzialmente misurare il grado di aderenza alla realtà di un determinato autore, rinvenibile laddove l’autore spinga la lingua oltre la sua funzione di controllo della realtà nominata, verso la fusione con l’oggetto rappresentato. La poesia di Caproni, ad esempio, viene giudicata positivamente per il suo portato di autentica disperazione, vicina com’è al «decadentismo virile» de «La Voce», alle «disperazioni aperte, sconfinate di un Boine, di uno Sbarbaro, e di tutto il periodo di questi ottimi vociani, intenti a dare del proprio male di vivere un polemico e angosciato referto, mai delle soluzioni moralistiche» (PI, p. 370). Basta leggere il paragrafo d’apertura per comprendere che questo atteggiamento ideologico di Caproni viene da Pasolini riconosciuto nello stile: Gli attacchi di Caproni («Le carrette del latte ahi mentre il sole / sta per pungere i cani!...», «La terra come dolcemente geme...»: da 1944 e Le biciclette, proprio le prime due poesie delle Stanze della funicolare) stupiscono per la violenza con cui il poeta fa collimare con la linea necessariamente semplice del tono esclamativo, il suo complesso modo di trasposizione della realtà sulla pagina, quasi di conoscenza della realtà: tanto che risulta subito chiaro, fin dalle prime battute, come egli intenda senz’altro identificare la forza della propria possibilità comunicativa con una antica figura di ‘pathos’ implicita nel caldo impeto interiettivo. (PI, p. 367)

Nello stile di Caproni, in altre parole, si evidenzia la volontà di spingere l’istituto linguistico oltre i propri canonici confini della conoscenza e della comunicazione logica verso l’immersione nel magma materico: un «espressionismo» che «appaia psicologicamente violenza, quasi un ‘troppo’ sentimentale che esorbita con la sua massa oscura e pressante dalla massa metrica» (PI, p. 369). La poesia diventa un mezzo per comunicare il diritto a esistere di ciò che non è comunicabile se non attraverso i sensi, mentre l’instabilità razionale causata da questo ‘troppo’ diventa il paradigma dell’atteggiamento conoscitivo dello scrittore nei riguardi della realtà. È significativo che Pasolini, per descrivere la ‘tendenza a convergere’ di lingua e materia nello stile di Caproni adotti la netta espressione «trasposizione della realtà sulla pagina», dove la meccanicità («trasposizione») qui implicita nell’operazione linguistica di Caproni sembra anticipare la meccanicità implicita nell’azione della macchina da presa, il cui fondamentale vantaggio sulle altre forme di comunicazione sarebbe, secondo Pasolini, la capacità di riprodurre con maggior fedeltà (immagine e suono) il dato fenomenologico della realtà. Ne «La confusione degli stili», saggio del 54 Da sottolineare che, come nei testi critici del periodo 1950-53, anche in quelli del 1954 Pasolini non prenda in considerazione gli autori considerati ‘impegnati’ dalla critica di sinistra.

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1957, Pasolini parlerà esplicitamente degli stilemi di un cinema neorealista che pone «senza mediazioni i sensi di fronte all’oggetto materiale della rappresentazione» (PI, p. 299). In modo assai simile, l’analisi dei versi di Saba indica inconfutabilmente a Pasolini la presenza di un dolore vissuto in prima persona dal poeta perché nato dallo scontro con i dati empirici del reale (PI, p. 332). A Pasolini importa dunque la capacità poetica di rendere linguisticamente il carattere non-linguistico delle sensazioni: a rigore, il tentativo di comunicare l’incomunicabile. Il sostrato utopico che evidentemente ispira qui la militanza critica di Pasolini, consiste nell’ipotizzare la fusione delle due coordinate centrali a tutta la storia del pensiero occidentale, la ‘natura’ quale esteriorità meccanica e accidentale, e la ‘cultura’ quale coscienza. Ciò che Pasolini richiede, pertanto, è l’ampliamento della nozione di ‘linguaggio’, o, più in generale, di ‘cultura’, affinché tale nozione possa includere tutto ciò che canonicamente viene inteso come non-concettuale, o pre-razionale, o anti-culturale. Come vedremo nel capitolo conclusivo della nostra ricerca, la natura di tale operazione si chiarirà definitivamente negli anni ’60, quando verrà approfondita attraverso la teorizzazione del linguaggio cinematografico. Ciò che per ora conviene ribadire è come l’iniezione di pensiero utopico55, operante in direzione anti-razionalistica ma in realtà funzionale al recupero di una nozione aperta di ‘ragione’, costituisca negli anni ’50 il momento fondante dello sperimentalismo critico di Pasolini. 4.3.2 «Officina» e la battaglia per il realismo Il periodo in cui Pasolini si sforza maggiormente di dare alla sua concezione di sperimentalismo uno spessore ideologico è la seconda metà degli anni ’50. Nel 1955, con la pubblicazione di Ragazzi di vita e la fondazione di «Officina»56, l’autore, a trentatré anni, sta entrando nella stagione più fortunata della

55 Generalmente la critica non ha saputo riconoscere nel pensiero di Pasolini l’importanza strategica di questa dimensione utopica. Tra le eccezioni mi pare particolarmente interessante l’interpretazione di Gianni Borgna, il quale nel 1976 scrive che in Pasolini «la scelta della ‘utopia’ o del ‘mito’ è tutt’altro che riproposizione del motivo del buon selvaggio, è tutt’altro che tensione verso un ritorno allo stato di natura» in quanto contiene «una profonda carica rivoluzionaria [...] in chiave polemica, politica»; questa intuizione, corredata da richiami al Marcuse di Eros e civiltà e al saggio Marxismo e libertinismo di Robert Kalivoda, mi pare venga però forzata quando Borgna la trapianta nel pensiero gramsciano, deducendone la ‘organicità’ intellettuale di Pasolini (1976, p. 61). 56 Per un dettagliato resoconto sulla nascita del sodalizio cfr. Ferretti (1975, pp. 3-10). Gordon (1996, p. 40) sottolinea giustamente, dati i medesimi editori (Pasolini, Leonetti e Roversi), la continuità del progetto Eredi con quello di «Officina», sostenendo di seguito che quest’ultima cominciò a operare, opportunisticamente, nel momento in cui il dibattito culturale sul neorealismo e sulla nozione di impegno andava scemando. Se è indubbio che «Officina» operò, cronologicamente, in un periodo di transizione (nonostante di neorealismo e di impegno in Italia si con-

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sua carriera, che verrà inoltre contrassegnata dalla pubblicazione delle Ceneri di Gramsci nel 1957, del romanzo Una vita violenta nel 1959 e dalla raccolta critica Passione e ideologia nel 1960, oltreché dal suo ingresso nel mondo del cinema, prima come sceneggiatore, poi come autore. È in questo periodo che lo sperimentalismo diventa sempre più centrale ai pronunciamenti critico-ideologici di Pasolini, raggiungendo la massima teorizzazione nei due saggi officineschi intitolati «Il neo-sperimentalismo» (1956) e «La libertà stilistica» (1957), che tra breve esamineremo nel dettaglio. Ma a parte questi due scritti capitali, tutta la saggistica pasoliniana di questo periodo sembra prendere una direzione ben precisa, affiancando alle consuete analisi monografiche sempre più incisivi interventi a sfondo sociologico e storiografico. Pasolini afferma ormai di concepire la letteratura in senso ‘politico’, piuttosto che esclusivamente e limitatamente ‘letterario’ (cfr. L, II, pp. 162-3); concetto che venne ribadito, a proposito del ruolo di «Officina», nel 1965 (Camon, 1973, p. 97). E da un punto di vista ideologico, dunque, gli idoli polemici della saggistica pasoliniana sono ormai incontrovertibilmente ‘novecentismo’ e ‘neorealismo’, accomunati, nonostante i differenti obiettivi contenutistici, dalla medesima incapacità di rinnovare la letteratura italiana. Questa critica è già particolarmente urgente in saggi di sintesi quali «Novecento letterario» (del 1955, ora in PM, pp. 137-40), o «Letteratura italiana 1945-55» (del 1956, ora in PM, pp. 145-9), la cui esclusione da Passione e ideologia è probabilmente imputabile a una certa approssimazione in merito a temi specifici 57. Indubbiamente, le pagine della rivista «Officina» si presentano a Pasolini come un terreno ideale su cui sviluppare il proprio discorso in un momento cruciale per la sua carriera. Tuttavia, mi pare eccessivamente rigida la diagnosi di Rinaldi (1982, p. 190), che vede nella rivista un «luogo di potere» in cui Pasolini può esercitare «un soggettivismo assoluto». Condannare il soggettivismo di Pasolini in quanto tale (ammesso e non concesso che il progetto di autoaffermazione sia stato così totalizzante come Rinaldi sospetta)58 conduce a

tinuò a parlare per molto tempo), mi pare tuttavia opportuno insistere, in sede critica, sulla necessità di esplorare le ragioni teoriche operanti dietro il contributo di Pasolini alla rivista; contributo riassumibile nella ricerca di una via alternativa tanto alla prospettiva neorealista quanto a quella ermetica. 57 Nel caso di «Novecento letterario», la scelta di Falqui, critico ermetico, come obiettivo polemico, dovette forse parere a Pasolini, al momento della scelta dei testi da includere in Passione e ideologia, troppo facile e sbrigativa. Per quanto riguarda «Letteratura italiana», vi si trova una critica dell’esperienza vociana troppo uniforme, che dunque suona un po’ insincera, se è vero che Pasolini, in Passione e ideologia, porterà sempre «La Voce» a esempio di un raro momento di resistenza all’interno della globale involuzione novecentista; e se è vero, inoltre, che questa critica sembra atta soprattutto a spalleggiare la posizione antivociana di Romanò (ricordiamo che era stato proprio Pasolini a chiamare Romanò alla collaborazione con «Officina»). 58 Per quanto determinante, la presenza di Pasolini in seno alla rivista era controbilanciata da quella di altri sodali di sicuro peso intellettuale, come Roversi, Leonetti, Romanò, Scalia e Fortini. Bárberi Squarotti sostiene che in «Officina» vi fossero due ‘linee’: «quella continiana e gaddiana

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trascurare i contenuti di cui l’attività del soggetto si fa portavoce, con la tendenza a ridimensionarli proditoriamente dietro il motivo egoistico59. E quando Ferretti (1975, pp. 56-7), riprendendo una constatazione di Petrucciani (1969, p. 15), afferma che «Officina» segna «il passaggio da una poetica di tipo (neo)realistico, nel senso più ampio del termine, a una poetica fondata, a livello strutturale e metrico-stilistico e lessicale, sulla sperimentazione come innovazione», coglie sì il momento centrale dell’apporto pasoliniano, ma allo stesso tempo ne trascura la portata ideologica. La posizione di Ferretti, d’altra parte, è tipica di molta critica. Essa considera «l’alternativa sperimentale» (Ferretti, 1975, p. 50) della rivista una presa di posizione originale e interessante ma sostanzialmente poetica, più precisamente tecnico-linguistica, finendo anch’essa per negarle un’effettiva pregnanza ideologica. La carenza di fondo di tutta l’esperienza officinesca sarebbe il suo «carattere decisamente intermedio [...] tra militante (sempre in senso culturale e letterario) e neoaccademico» (Ferretti, 1975, p. 91; cfr. anche pp. 75-6)60. Il limite ‘accademico’ addebitato da Ferretti alla rivista coincide in fondo con il limite ideologico da lui individuato in Pasolini. Nonostante si attenga perdipiù a una certa neutralità di giudizio, Ferretti insinua spesso che lo sperimentalismo di Pasolini «dopo aver posto certe premesse di superamento e avere ottenuto interessanti risultati critici, finisce per risolversi in un’operazione cauta e senza scosse» (Ferretti, 1975, p. 23). Pasolini rimarrebbe cioè contraddittoriamente legato a un’idea di letteratura tipica del periodo che lui stesso si proponeva di superare, il Novecento con la sua evasione spirituale 61.

di Pasolini, e quella illuminista e orientata fra Cattaneo e De Sanctis di Romanò e Leonetti» (1984, p. 47). Inoltre giova osservare che, tra il 1955 e il 1959, arco di durata complessivo della rivista, sono relativamente pochi (5), per quanto importanti, i contributi critici di Pasolini. Nel primo numero (maggio 1955) esce il suo «Pascoli»; nel numero 5 (febbraio 1956) «Il neosperimentalismo»; nel numero 6 (aprile 1956) «La posizione»; nel numero 9-10 (giugno 1957) «La libertà stilistica»; infine nel secondo e ultimo numero della nuova serie, durata solo dal marzo-aprile al maggio-giugno 1959, Pasolini pubblica «Marxisants». 59 Sulla tesi del soggettivismo cfr. anche Gordon (1996, pp. 40-7) e Siti (1998, p. xli). 60 Carenze ideologiche circa la concezione del rapporto letteratura-società furono lamentate, per quanto in misure diverse, dagli stessi fautori della rivista, quindici anni dopo la sua fine (cfr. Ferretti, 1975, pp. 461-87); l’unico a non menzionare un difetto di questo tipo fu proprio Pasolini, che nel 1960 si lamentò piuttosto del distacco e delle incomprensioni che accompagnarono «Officina» (PM, pp. 174-6) e negli anni ’70 rimproverò alla rivista il «non aver saputo prevedere l’imminente neocapitalismo e la rinascita fascista» (Ferretti, 1975, p. 472). 61 In una dichiarazione in forma di articolo risalente ai primi anni ’70, dal titolo «Sotto due bandiere», Fortini condivide la critica di Ferretti: «sentivo in quelle scritture [di «Officina»] non solo una mescolanza di ideologismo e psicologismo che denunciava l’assenza di una posizione pratica, soggiacente a quella letteraria, abbastanza robusta o matura; e una tendenza a coprire tale deficienza con una scrittura critica muscolosa e vistosa che convogliava residui accademici, minuetti, cavillosità e distinzioni corporative; ma, soprattutto, una adesione professionale al ‘mondo della letteratura’, a quello stesso mondo della letteratura novecentesca che si intendeva contestare. [...] Pasolini [...] avrebbe finito per militare, di fatto, o almeno col frequentare voracemente,

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Per questo Ferretti (1975, pp. 36-40) non condivide la scelta di Pasolini di chiamare a collaborare con la rivista poeti di estrazione ermetica come Bertolucci, Luzi, Caproni e Penna, mentre giudica del tutto immotivata la presenza di una poesia di Erba (si tratta di «Super flumina», seguita da allegato, nel numero del giugno 1957) dopo che Pasolini, nel suo «Il neo-sperimentalismo» (febbraio 1956), lo «aveva opportunamente collocato tra i postermetici conservatori» (Ferretti, 1975, p. 40). Ciò che Ferretti, nella sua critica, non coglie, mi pare, è che l’antiposizionalismo di Pasolini (per alcuni versi riconducibile all’esperienza del «Politecnico»)62, polemico tanto con il novecentismo quanto con la politica culturale comunista, non è informato da uno «storicismo idealistico [...] al di qua di un’autentica presa di coscienza gramsciana e marxista» (Ferretti, 1975, p. 13), in quanto si fonda su una dialettica irrisolta tra la storia e l’irrazionalità che mira ad avere un valore ideologico in quanto tale. Che poi Pasolini non fosse del tutto consapevole della profondità e complessità del suo discorso, è innegabile. Una risposta a Calvino è a questo proposito significativa: «certi traumi della formazione letteraria sono difficilmente sanabili: quel che di ‘allusivamente ermetico’ che tu senti sussistere nella mia critica credo sia una caratteristica, per ora, fatale, che andrà solo lentamente estinguendosi» (L, II, pp., 173-4). Piuttosto che approfondire il discorso sul recupero delle coordinate ermetiche, Pasolini preferisce ridurre il tutto al ‘trauma personale’. Operazione che ripete, nella stessa lettera, per spiegare l’antitesi ‘razionaleirrazionale’ nelle Ceneri di Gramsci.

linguisti e linguistica, formalismo e strutture e semiologie, con sicura coerenza rispetto alle sue origini e ai suoi studi» (in Ferretti, 1975, pp. 464-5). Si sente qui, come d’altra parte in Ferretti, un forte fastidio ideologico nei confronti del progetto pasoliniano, che prevedeva il recupero sì, ma spesso in funzione eversiva e comunque del tutto personale, di coordinate appartenenti alla cultura del primo Novecento. In una lettera a Pasolini datata 5 aprile 1955 Fortini esprime forti dubbi, ad esempio, sull’inserimento di Gadda tra i collaboratori di «Officina», «non tanto per la sua qualità di scrittore [...] ma per il carattere, per gli armonici, direi, che evoca la sua prosa e il suo nome» (L, II, p. 51). Calvino stesso, nel marzo 1956, scrive a Pasolini, in riferimento al Canzoniere italiano da poco uscito, di «divertimento universitario continiano di origine tedesca» e di «allusività ermetica» (L, II, p. 176). 62 Com’è noto, il «Politecnico», rivista d’ispirazione marxista, era stato fondato da Elio Vittorini subito dopo la fine della guerra, e fu soppresso nel 1947, dopo aspre polemiche con il PCI documentate dagli scambi epistolari tra Vittorini stesso e Togliatti. Più volte Pasolini ha affermato di avere avuto, con «Politecnico», un rapporto solo indiretto (Halliday, 1992, pp. 36-7; Pasolini, 1958a), pur considerando l’apporto della rivista di Vittorini come «un periodo glorioso» della critica marxista, «benché non fosse marxista se non nelle intenzioni, nella passione» (Pasolini, 1960b). Nella cruciale polemica con Togliatti, Vittorini accenna al ruolo della letteratura della crisi, rimproverando a Croce il non averne capito la grandezza (cfr. Vittorini, 1947). Nonostante l’enfasi di Vittorini fosse primariamente sulla letteratura borghese europea e nord-americana, mi pare che il richiamo alla intrinseca rivoluzionarietà della crisi sia in comune con Pasolini, che però riconduce la questione al problema del ‘realismo’. Sottolineiamo inoltre un intervento di Angelo Romanò, in «Officina» del 1957, dove la tensione esistenzialistica evidenziata nell’idea di cultura in Vittorini (ricondotta all’idea di cultura di Pasolini) viene detta contraria a quella di Gramsci e, in generale, del marxismo (cfr. Ferretti, 1975, p. 314).

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Nonostante la scarsa propensione all’approfondimento teorico, l’intuizione che porta Pasolini a cercare una soluzione di critica impegnata alternativa allo storicismo imperante, mi pare rimarchevole. Urge infatti sottolineare che la battaglia per il realismo, giustamente definita da Mengaldo «il cavallo di Troia di tutta la cultura italiana di sinistra in quegli anni» (1981, p. 151), veniva esclusivamente combattuta sul terreno dello storicismo assoluto: nella convinzione, cioè, che solo attraverso una concezione assolutamente storicistica della poesia si potesse superare la nozione ermetica e novecentista di poesia come assoluto. La questione del realismo di Carlo Salinari, testo del 1958, cruciale per l’orientamento della politica culturale comunista in Italia, parla chiaramente della necessità di concepire il problema artistico nei termini di una «assoluta storicità»: La realtà, abbiamo visto, è un processo dialettico e quindi è storia. L’arte che la rispecchia – e rispecchiandola si inserisce come un elemento di quella dialettica – non può che essere storica, strettamente collegata al momento e alle condizioni in cui sorge. Non persuade, dunque, ogni tendenza a porre l’arte al di sopra o al di fuori della storia, ogni pretesa che essa colga e fissi valori eterni, momenti immutabili dello spirito umano. (Salinari, 1967, p. 28)

Non mi sembra azzardato affermare che Pasolini condivide la tendenza a storicizzare la letteratura, tant’è che tutta la sua critica degli anni ’50 ne è visibilmente improntata in quanto tentativo di interpretare l’evoluzione storicoculturale del paese. Tuttavia è necessario aggiungere che, funzionale alla svolta storicistica, permane in lui la necessità del recupero del dato extrastorico in quanto elemento partecipe del concetto di realtà/storia. Per questo i suoi scritti, specie quelli della seconda metà degli anni ’50, comunicano l’urgenza del superamento di ciò che gli doveva sembrare il limite teorico della cultura marxista in Italia, ortodossa o eterodossa che fosse: l’adesione a una concezione e rappresentazione della realtà (il famigerato ‘realismo’) incapace di uscire da schemi asfitticamente razionalistici. Nel 1956, la polemica con gli intellettuali comunisti sul tema del ‘prospettivismo’ rappresenta il momento più evidente di tale urgenza63.

63 La polemica fu alimentata dall’articolo officinesco «La posizione», in cui Pasolini critica il ‘prospettivismo’ culturale del PCI. L’organo culturale del partito, «Il contemporaneo», rispose con un articolo senza firma, negando la presenza di qualsiasi tipo di tatticismo, e controribattendo che con la sua accusa Pasolini mirava a coprire le proprie insufficienze teoriche e creative, dovute, fra l’altro, a una superficiale lettura di Lukács e degli operatori culturali del comunismo italiano. Il 1 marzo 1956, Calvino dimostrava solidarietà a Pasolini scrivendogli una lettera chiedendosi tra l’altro perché «quei bietoloni del Contemporaneo» non avessero dedicato attenzione alcuna al Canzoniere italiano uscito nel 1955. Calvino fu accontentato nel giugno dello stesso anno, quando sulla rivista uscì un articolo di Vann’Antò che metteva in risalto, senza mezzi termini, lo scarso rigore filologico dell’autore del Canzoniere italiano. In una «Lettera al Direttore», con allegato un articolo di risposta a Vann’Antò dal titolo «La poesia popolare», Pasolini

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Alla base di questo atteggiamento polemico di Pasolini, mi pare ci sia il fatto che in Salinari, così come in altri operatori culturali di fede comunista, emerge il rifiuto totale di concezioni estetico-letterarie che fuoriescano da quel rigido determinismo storicistico64 di cui dicevamo, a motivo di una fiducia inossidabile nella comunicabilità logica di ogni fenomeno reale 65. La battaglia per il realismo diventa dunque, in Pasolini, battaglia per la contraddizione intrinseca alla dialettica ‘razionale-irrazionale’ che definisce, senza esaurirlo, il concetto di realtà. La poesia realista deve rispecchiare questa contraddizione, piuttosto che eliminarla nel nome della ipostatizzazione della Storia. Mi pare che questa interpretazione trovi conforto nel già citato scritto di Enzo Paci; il seguente brano è riportato per esteso a motivo della sua importanza per la nostra discussione: Se alla poesia pura [concezione irrazionalistica della poesia] si contrappone una realtà sociale che dovrebbe condizionarla dall’esterno è perché si seguita a pensare

risponde a Salinari, direttore de «Il contemporaneo», denunciando una «organizzata operazione di scredito» nei suoi confronti, invitando i comunisti alla discussione e rinfacciando loro l’attacco indiretto «attraverso la filologia». La polemica continuerà con l’intervento pubblico di Calvino a difesa di Pasolini, sempre sulle pagine dell’organo comunista, una successiva risposta di Salinari, e soprattutto col poemetto di Pasolini «Una polemica in versi» (Best, I, pp. 264-72). I fatti del 1956 sono descritti in Naldini, 1989, pp. 185-90 e in Francese, 1994. La polemica PasoliniSalinari si trasferirà, nei primi anni ’60, sulle pagine di «Vie nuove», periodico comunista in cui entrambi tenevano una rubrica (cfr. BB, pp. 155-65; Salinari, 1961a e 1961b). 64 In una lettera datata 7 giugno 1956 a Antonello Trombadori (editore de «Il contemporaneo» insieme a Gaetano Trombatore e a Carlo Salinari), Pasolini specifica che la sua polemica era diretta esclusivamente contro Salinari e Trombatore, definiti «rigidi, incapaci a sentire, aprioristici. Insomma, handicappati da un moralismo da provinciali». Altri critici marxisti come Muscetta, Gallo, Cases e lo stesso Antonello Trombadori sarebbero invece più vicini a Pasolini perché il loro ‘prospettivismo’ «è più problematico e passibile di sviluppi» (L, I, p. 204). Joseph Francese (1994, pp. 22-39) ha indicato la presenza di una sospetta ambiguità da parte di Pasolini nel dialogo con gli intellettuali del PCI, concludendo che nonostante le polemiche pubbliche l’autore di Una vita violenta finì per seguire le indicazioni dei critici comunisti. Mi pare che al di là del sospetto dell’opportunismo a sfondo auto-promozionale (cfr. Bárberi Squarotti, 1984, p. 46), dipendente soprattutto dalla bontà o ostilità delle recensioni ricevute (Trombadori si era infatti dichiarato ‘a favore’ nel dibattito critico sui Ragazzi di vita, cfr. L, II, p. 113), l’atteggiamento generale di Pasolini nei confronti dei critici comunisti, in questo periodo, rimanga sostanzialmente polemico, sebbene aperto a un dialogo che nel decennio successivo verrà sempre più nettamente rifiutato. 65 Importante sottolineare come tutta «Officina», e non solo Pasolini, nutrissero forti sospetti verso il prospettivismo della politica culturale comunista. In una dichiarazione riportata in appendice al libro di Ferretti sulla rivista bolognese, Angelo Romanò ricorda che «‘Officina’ assumeva un atteggiamento critico nei confronti del partito comunista, in quegli anni appunto impegnato, attraverso il neorealismo, in un’applicazione italiana dello zdanovismo: bisogna dire che ‘Officina’ non considerò mai il neorealismo come un fatto degno della più piccola attenzione» (Ferretti, 1975, p. 474). Se è lecito supporre che il momento di massimo irrigidimento zdanoviano sia stato quello tra 1948 e 1953, sembra altrettanto vero, come testimonia d’altra parte il libro di Salinari, che l’impegno comunista fosse caratterizzato da una fede assoluta nella ragione storica e dal rifiuto di tutto ciò che non rientrasse nel suo ambito (cfr. Ferretti, 1968, p. 159 e passim; Bárberi Squarotti, 1968, p. 14 e passim).

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la poesia, appunto, come pura e assoluta. Sia la poesia che la vita sociale non sono state ricondotte alla vita precategoriale e strutturale nella quale si costituiscono: sono dunque obiettivazioni, valgono sul piano del discorso categoriale e non su quello concretamente storico. Proprio per questo poesia pura e poesia impura [concezione razionalistica della poesia] si negano e si sostengono a vicenda. L’affermazione della poesia pura provoca quella dell’alterità della poesia e l’alterità della poesia provoca la difesa della poesia pura. In quanto questa situazione dialettica viene concretamente scontata e vissuta diventa, a sua volta, autentica: la sua realtà concreta e il suo significato sono la realtà e il significato della contraddizione vissuta non più astrattamente ma nel dolore che di fatto rappresenta per tutta intera la vita dell’uomo, per tutto intero il suo rapporto con gli altri nella società e nella storia. Ci sembra questa la situazione che dà una tensione così alta e un valore così complesso all’opera di Pasolini. È un’opera che non vuol essere ‘dichiarativa’ ma vuol vivere il proprio significato senza occultare le contraddizioni, che vuol sperimentare in se stessa i propri limiti. Non accetta né la poesia ‘tautologica’ né l’alterità che le si può astrattamente contrapporre. Inserendosi nella contraddizione finisce per ricondurre la discussione teorica e ‘categoriale’ alla realtà vissuta che riacquista così una dimensione umana totale e un significato storico, intenzionale. Da questo punto di vista è proprio Sartre che ci può aiutare a comprendere Pasolini. Come Sartre Pasolini non crede ad una ‘coscienza pura’ gratuita che non passi attraverso la ‘fenomenologia della coscienza impura.’ (Paci, 1961, pp. 16-7)

È emblematico che proprio un filosofo abbia fornito quella che mi pare la più lucida interpretazione del fondamento ideologico agente nell’estetica pasoliniana; un filosofo esistenzialista, per giunta, che come abbiamo visto nella prima parte di questa ricerca aveva esercitato una influenza probabilmente determinante sul formarsi del pensiero critico di Pasolini. L’intervento di Paci, del 1961, avalla le premesse teoriche del realismo pasoliniano, che, in ambito officinesco, trovano le più convincenti formulazioni nei due saggi «Il neo-sperimentalismo» e «La libertà stilistica», riportati in chiusura di Passione e ideologia a sigillarne il significato complessivo. In essi, il termine ‘sperimentalismo’ viene a designare non più una prospettiva esclusivamente linguistica, ma anche ideologica, il cui obiettivo polemico si rivela essere, ormai inesorabilmente, la nozione di impegno abbracciata dalla sinistra italiana. Gli anni della stesura dei due saggi sono drammatici per la storia del marxismo mondiale e, nel caso specifico, del comunismo italiano. «Il neosperimentalismo» viene scritto nel febbraio del 1956, all’alba della divulgazione di quel rapporto Kruscev che, se da una parte infieriva un colpo mortale agli ottimistici ideali del socialismo sovietico, dall’altra ravvivava la speranza di un rinnovamento del mondo comunista. «La libertà stilistica» risale invece al giugno del 1957, non solo dopo il rapporto Kruscev, ma soprattutto dopo i fatti di Polonia e Ungheria, che avevano brutalmente deluso le speranze di rinascita comunista66. 66 Con il crollo del mito di Stalin veniva meno un caposaldo del comunismo italiano, che in questo modo palesava la sua dipendenza dall’Unione Sovietica. La situazione di crisi ideologica

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Durante la tempesta che si abbatté sul mondo della guerra fredda, delle strategie e delle alleanze politiche, Pasolini rimase fedele al suo ambito di competenza, quello dei rapporti tra letteratura e società. In questo senso, credo che la prospettiva del critico si sia mantenuta assolutamente in linea con le premesse teoriche che abbiamo individuato nelle sue prime elaborazioni dello sperimentalismo letterario. Il primo saggio che comincia a dar prova di ciò è «Il neosperimentalismo». La natura analitico-descrittiva che informa il saggio (Pasolini lo definisce «descrittivo» anziché «parenetico», PI, p. 419) emerge subito dalla limpidezza della sua struttura. Il critico prende in esame un filone piuttosto ampio della poesia italiana contemporanea, denominata appunto ‘neo-sperimentale’, per suddividerla in tre rami principali, ognuno con caratteristiche parzialmente distintive che tra breve analizzeremo nel dettaglio. Occorre subito dire però che, date queste premesse, sembrerebbe di trovarsi di fronte a una tipica operazione di critica stilistica, che antepone l’analisi alla sintesi, la neutralità di un ‘referto’ o di una ‘scheda’ (termini inflazionati negli scritti pasoliniani del periodo), al giudizio contenutistico. Non per niente Pasolini dice di partire dalla «descrizione puramente esterna di un testo neo-sperimentale (come tale intuito per ellissi, secondo l’operazione spitzeriana dello Zirkel im Verstehen)» (PI, p. 406). Effettivamente, per quanto riguarda i contenuti questo saggio si dimostra, in molte sue parti, più cauto e circostanziato rispetto a scritti di qualche anno precedenti, come le «Osservazioni sull’evoluzione del Novecento» e le «Implicazioni di una ‘linea lombarda’». In quegli scritti del 1954, come abbiamo visto, Pasolini aveva posto le basi del suo sperimentalismo, indicandone chiaramente la distanza tanto dalla tradizione novecentista quanto da quella engagée. Se ne «Il neo-sperimentalismo» questa chiarezza può sembrare venir meno, è perché viene meno tanto la distanza cronologica quanto la vena polemica tra il critico e la poesia analizzata. Sembra, infatti, che qui Pasolini prenda in esame quel settore della poesia contemporanea che egli giudica potenzialmente più adeguato a illustrare la nozione di sperimentalismo che andava elaborando67. A differenza tanto dei precedenti saggi militanti, a fondo di sintesi polemica, quanto del successivo «La libertà stilistica», atto di proclamazione dell’indipendenza ideologica del poeta, qui Pasolini intravede la possibilità di af-

fu poi almeno parzialmente sanata dall’intervento di Palmiro Togliatti, che si premurò sia di condannare nel rapporto Kruscev l’assenza di una coerente prospettiva storicistica, sia di rivendicare il diritto alle ‘vie nazionali al socialismo’, due modi diversi, ma entrambi tatticamente oculati, per cercare di recuperare credibilità al PCI. La crisi dell’ortodossia ideologica porta poi all’affermazione culturale tanto di una corrente di ‘marxismo critico’, quanto delle cosiddette scienze borghesi, tra cui il neopositivismo, la fenomenologia, la psicanalisi, la linguistica, l’antropologia. 67 Osserva, mi pare bene, Cataldi (1994, p. 149), che obiettivo di Pasolini era «costruire un tessuto, satellitare e contrastivo, per il proprio personale sperimentalismo». Cfr. anche Bárberi Squarotti, 1984, p. 47.

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fermare valori ideologici propositivi comuni a un gruppo di poeti contemporanei. Ipoteticamente, questi valori comuni possono essere quelli che abbiamo fin qui individuato nello sperimentalismo pasoliniano: innanzitutto, una poesia diffusamente esistenziale, cioè riflettente l’esperienza diretta, concreta e sensibile, del soggetto nel reale; quindi, tendenzialmente esistenzialista, cioè informata da un profondo pessimismo storico-razionale nel confronto con la realtà socio-politica. In realtà, un’attenta lettura del saggio testimonia sì della simpatia nutrita da Pasolini per molta poesia neo-sperimentale, ma soprattutto, che è ben più importante, ci dice della sua inequivocabile presa di distanza estetica e ideologica. La prima ramificazione della poesia neo-sperimentale è quella interessante «il neo-sperimentalismo ‘tout court’, di origine psicologica, o patologica, [...] decadentistico, o, meglio ancora, espressionistico» (PI, p. 407). Nonostante l’evidente benevolenza per i poeti fatti rientrare in questo raggruppamento, Pasolini individua nella loro disposizione poetica un difetto di natura ideologica, corrispondente all’eccedenza del dato irrazionalistico, non sufficientemente bilanciato dalla coscienza storico-conoscitiva. (Per la stessa ragione, ma in altre sedi, Pasolini criticava la disposizione poetica di un Pascoli68 o di un Gadda). Recensendo il giovane Massimo Ferretti69, ad esempio, il critico definisce i suoi versi come «i più intimamente gioiosi e vitali degli ultimi anni», ma mette subito dopo in guardia l’autore dal grave rischio «dell’assenteismo e del misticismo» (PI, p. 409), della deformazione del rapporto con la storia. Più avanti descrive con sincero trasporto le ingenue e generose avventure di vita, trasposte in poesia, di Beppino Goruppi, tutte segnate dal marchio maledetto dell’estetica passione (si vedano, incidentalmente, «i tuffi acrobatici sul Tevere» e la morte «in un incidente motociclistico», che saranno non marginali

68 Nell’omonimo saggio officinesco Pasolini sviluppa un punto della tesi di laurea, affermando che il limite di Pascoli sta nella sua assenza di coscienza socio-politica: la forza rivoluzionaria del suo stile non basta perché non acquista consapevolezza di crisi, rimane pura intuizione. Su questa posizione si può misurare una differenza sostanziale con la critica continiana che, pur nella concordanza delle premesse recentemente sottolineata da Roberto Antonelli (1997, pp. 24764), non fa leva con altrettanta nettezza sul limite ideologico in Pascoli. Sul rapporto PascoliPasolini, Asor Rosa sostiene che entrambi non superano il limite sopra indicato. Ma se non c’è dubbio che ‘superamento’ significa necessità di coscienza ideologica, occorre però cercar di comprendere di che tipo di coscienza ideologica si trattasse. Quando Asor Rosa scrive che «la possibilità di superamento del vizio pascoliano è individuata da Pasolini nella elaborazione di un atteggiamento ideologico autonomo e coerente» (1969, p. 383), cui poi non terrebbe fede, egli rischia di adoperare il termine ideologia in senso tautologico, evitando di indagarne a fondo il contenuto teorico. Se lo avesse fatto, avrebbe forse scoperto che per Pasolini il ‘superamento ideologico’ (nella critica a Pascoli come ad altri) partiva, come abbiamo cercato di dimostrare, dal riconoscimento della crisi del concetto tradizionale, ‘forte’, di ideologia, implicante il recupero e il riutilizzo del limite superato. 69 Pasolini stesso scopre il talento poetico di Massimo Ferretti. Piuttosto significativi gli scambi epistolari tra i due, da cui emerge la vocazione pedagogica di Pasolini (cfr. L, II, pp. 131, 136, 140, 144 e passim).

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luoghi narrativi del film Accattone); ma di seguito il critico istituisce subito un confronto tra l’irreversibile maledettismo di Goruppi e la più bilanciata tensione irrazionale nell’operetta autobiografica Antiporta dell’amico Leonetti (cfr. PI, pp. 410-1)70. Nel secondo ramo, che raggruppa i neo-sperimentali più nettamente influenzati dalle poetiche del novecentismo, Pasolini insiste con una fraseologia atta a delimitare negativamente in questi poeti l’ambito dell’irrazionale. Per Guglielmi e Giuliani, parla di «Angst esistenziale», «male allo stato puro», «fissazione», «disperazione cosciente ma non razionale», «asemanticità dichiaratamente psicologica ed erotica», «monadi non comunicanti», ecc. Rispetto al primo raggruppamento, qui la presa di distanza del critico sembra più netta. Per gli stilemi di Erba, ad esempio, Pasolini rievoca la «religione del dandysmo»71; mentre l’angst esistenziale e il male allo stato puro dei versi di Guglielmi e Giuliani, proprio perché non ripagati da un gesto razionale o da un’autentica volontà speculativa, finiscono infine per desublimarsi come «oscurità patetica o ironica» in cui «la vita interiore stagna, marcisce»; mentre «l’indipendentismo che ne deriva, precostituito, predicato, si risolve spesso in una specie di religione letteraria, implicante anzitutto la fede in un privilegio sociale e politico del poeta» (cfr. PI, pp. 412-4). L’ultimo ramo, infine, è riservato ai neo-sperimentali con pretese di impegno politico, caldeggiati dalla critica marxista. Si capisce subito che Pasolini ha poco tempo per questo tipo di poesia. Parla di «scandalo ‘protetto’, spalleggiato da un altro tipo di conformismo, d’ideologia collettiva»; di «côté messianico [...] in cui l’oscurità di provenienza variamente ermetica trova una lecita coincidenza con l’oscurità profetica, carbonara» dove ritorna il tema centrale in tutto Passione e ideologia della sostanziale equazione ermetismoneorealismo, nei termini di una mancata vocazione sperimentale e dunque innovativa. Si tratta insomma di «poeti apartitici, e politici solo genericamente, per un impegno genericamente – come da un decennio si usa dire – ‘umano’: poeti pensosi della sorte dei rapporti sociali, dell’Europa, ecc.» (PI, p. 415); sono perdipiù quei poeti meridionali che tendono ad amalgamare classicismo quasimodiano e sentimentalismo neorealistico (cfr. PI, p. 414), ottenendo un risultato che nell’articolo «La poesia e il Sud», del 1957, Pasolini definirà «fatalmente conformistico», chiedendosi poi: «Se la nuova poesia si limita a denunciare in falsetto le ovvie miserie dei pastori e dei contadini a che cosa serve? Ormai son cose che si sanno. Denunci, invece, quel proprio interno vizio conformistico: cambi tono, rinunci alle facili esaltazioni dell’inno e dell’oscura minaccia, dell’avvenirismo patetico, e cominci a ragionare» (PM, p. 161). 70 In una lettera datata 29 febbraio 1956 Pasolini rincuora i co-redattori di «Officina», e in particolare Leonetti, su un malinteso relativo al testo: «Curioso l’incidente: il massimo degli elogi che io potevo fare al nostro Leonetti è stato preso per una limitazione... Ma spero che si sia tutto ben chiarito» (L, II, p. 164). 71 Erba risponderà per lettera, piuttosto risentito (cfr. L, II, pp. 193-4).

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La discussione di questo terzo raggruppamento è particolarmente interessante in quanto Pasolini vi riprende e approfondisce la polemica con la critica d’ispirazione marxista: Lo sperimentalismo, con l’inquietudine, l’instabilità, l’isolazione ch’esso importa, non sembra essere visto con simpatia dai critici marxisti. Non vale che l’istituzione contro cui esso opera sia l’istituzione della cultura borghese. In fondo, il linguaggio nazional-popolare, così come in questi giorni lo si desume correntemente da Gramsci, è inteso soprattutto come linguaggio franco, di divulgazione, di organizzazione: e, dato il ‘tatticismo’ politico di questo periodo di lotta, non disturba i marxisti l’entrare in gara con i partiti borghesi nella diffusione ideologica, usando per comodità, e d’altra parte per necessità, la loro stessa arma: la lingua cioè elaborata strumentalmente e letterariamente dalla borghesia in questi ultimi decenni, centralismo fascista compreso. (PI, p. 414)

Se la polemica parte qui essenzialmente dalla sponda linguistica, essa risulta nondimeno significativa sul fronte ideologico72. Pasolini polemizza, in tempi non sospetti, cioè prima del rapporto Kruscev e dei fatti di Polonia e Ungheria, contro il tatticismo del comunismo contemporaneo che «desume correntemente da Gramsci» un’idea sbagliata di linguaggio nazional-popolare, per cui la lotta delle classi subalterne deve necessariamente essere combattuta con gli strumenti linguistici della classe al potere. In base a quanto abbiamo fin qui osservato sul significato conferito da Pasolini al linguaggio poetico, questa polemica non può stupirci: può solo confermare le nostre osservazioni. Per Pasolini, sappiamo, la lingua letteraria doveva poter inglobare, all’interno della sua funzione comunicativa, un significato utopico; anzi, proprio per via di questo significato utopico essa assumeva un valore socialmente eversivo. Evidentemente, questa concezione risultava inconciliabile con il tatticismo comunista. Ne deduciamo che per Pasolini la lotta di classe non può ridursi esclusivamente a un fatto di prassi ideologica, per cui tutti gli aspetti dell’umano vengono tatticamente ridotti a funzione di tale lotta. Proprio il riferimento alla sfera linguistica ci permette di comprendere la radicalità della posizione dell’autore. Egli ci lascia intendere che, affinché la lingua possa autenticamente concorrere alla battaglia politica essa dev’essere prima compresa nel suo significato culturale. In quanto fatto culturale, la lingua non è solo ‘linguaggio franco’, strumento di comunicazione, ma inevitabilmente partecipa della sacralità contro cui, come abbiamo visto, per Pasolini

72 La risonanza ideologica del fatto linguistico emerge anche da una critica epistolare di Pasolini all’amico Ottiero Ottieri, che gli aveva inviato le bozze del suo futuro romanzo Tempi stretti, chiedendogli suggerimenti: «Scegliendo una tesi, circoscritto il tuo interesse, hai fatalmente scelto anche nella sede stilistica, hai circoscritto anche la tua lingua» (L, II, p. 227). La lettera è datata 23 luglio 1956, di qualche mese successiva alla pubblicazione de «Il neosperimentalismo».

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ogni fatto culturale dev’essere misurato al fine di recuperarne la dimensione utopica. Ridurre ‘tatticamente’ la lingua a strumento di battaglia ideologica, a neutro conduttore di significati comunemente intesi e condivisi, significa allora rompere proditoriamente il cordone ombelicale che lega un fatto di cultura alla matrice misteriosa del reale, con il risultato dell’alienazione del fatto di cultura a pura razionalità strumentale. Da questa convinzione probabilmente deriva l’acre polemica che Pasolini condusse negli anni ’60 con la neo-avanguardia, per cui qualsiasi fatto linguistico assume una valenza direttamente ideologica. Nella radicalità di questa posizione Pasolini ci palesa la sua distanza da Gramsci anche sul terreno del rapporto tra arte e realtà sociale. Gramsci infatti, pur ammettendo l’esistenza, nell’opera d’arte, di una dimensione puramente estetica e inconoscibile razionalmente, si rifiuta di riconoscerle un valore ideologico (cfr. Gramsci, 1966, pp. 6-10; cfr. anche Scalia, 1959, p. 337). Eloquenti sono in questo senso alcune lettere. In una pagina inviata dal carcere alla moglie Giulia, relativa alla lettura che il figlio Delio deve fare di Dante, Gramsci scrive: «Io penso che una persona intelligente e moderna deve leggere [...] i classici in generale con un certo ‘distacco’, cioè solo per i loro valori estetici, mentre l’‘amore’ implica adesione al contenuto ideologico della poesia: si ‘ama’ il proprio poeta, si ‘ammira’ l’artista in generale. L’ammirazione estetica può essere accompagnata da un certo disprezzo ‘civile’, come nel caso di Marx per Goethe» (Gramsci, 1968a, p. 440). In una successiva lettera alla moglie confermerà: «Forse io ho distinto il godimento estetico e il giudizio positivo di bellezza artistica, cioè lo stato d’animo di entusiasmo, per l’opera d’arte come tale, dall’entusiasmo morale, cioè dalla compartecipazione al mondo ideologico dell’artista, distinzione che mi pare criticamente giusta e necessaria» (Gramsci, 1968a, p. 670). Ma credo sia semplicistico affermare, senza approfondire, che il pensiero di Pasolini si differenzia da quello di Gramsci perché accorda al fattore estetico una valenza politica. Essenzialmente, mi pare che la questione si ponga in questi termini: in Pasolini, la realtà che il linguaggio letterario ha il dovere di esprimere è una realtà legittimata dalla sostanza mitica del sensibile, percepibile attraverso i sensi: ciò che si da come radicalmente altro dalla ragione speculativa; in Gramsci, viceversa, non c’è assolutamente ombra di questa dimensione altra, poiché la sua filosofia risolve la realtà nella razionalità dialettica della storia. Appendice: i maestri in ombra del Novecento73 Pasolini conclude poi «Il neo-sperimentalismo» con un omaggio a tre poeti del Novecento, «il cui avanguardismo originario è passato di seconda e terza 73 Pasolini accenna per la prima volta a «un pezzo sui ‘Maestri minori del novecento’» in una lettera ai redattori di «Officina» datata 23 novembre 1956 (L, II, p. 248).

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mano all’ultima generazione» (PI, p. 415). Si tratta di Palazzeschi, Rebora e Sbarbaro, da lui amati per la propensione all’eccentricità sperimentale, ma anche criticati, come i loro successori neo-sperimentali, per una sorta di coatto rifiuto della dimensione storico-razionale. In realtà, Pasolini tende a giustificare meglio la tendenza al disimpegno e la tentazione a evadere dalla storia di questi ultimi rispetto a quella dei contemporanei, in quanto considera più difficile, per un poeta, abbracciare un’ideologia progressista in un momento di totale involuzione socio-politica come il primo Novecento fascista («l’involuzione di una società non poteva che produrre buio nel fondo delle anime», PI, p. 418), piuttosto che farlo nel dopoguerra. A proposito di questi tre poeti, nel 1957, l’anno successivo alla pubblicazione de «Il neo-sperimentalismo», Pasolini dedica un’approfondimento monografico sia a Rebora che a Sbarbaro, con due scritti che vengono poi inclusi in Passione e ideologia («I Canti dell’infermità di Rebora», pp. 326-8; e «Sbarbaro», pp. 328-31)74. Le aperture di questi due saggi sono interessanti perché Pasolini vi ripresenta, in forma riassuntiva, il suo punto di vista sul Novecento letterario. Egli denuncia, in particolare, il passaggio «dal vocianesimo, al rondismo e poi all’ermetismo [...] come costante tipica del Novecento [...] compromessa da una sua interna forma classicistica (dilatazione semantica, ipotassi, culto della Parola, ecc.), [...] prodotto di una società essenzialmente reazionaria, aristocratica, conformista» (PI, p. 326); ma allo stesso tempo reclama la necessità di un riesame della prima metà del secolo letterario che sostituisca «una partecipazione critica [...] con una valutazione oggettiva», cioè un rifiuto totale con un rifiuto parziale, che tenga conto della grandezza di figure come quelle di Rebora e Sbarbaro. Ecco allora emergere, dal conformismo epocale, «i marginali, i maestri in ombra, gli eteronomi» (PI, p. 329): Sbarbaro, Boine, Jahier, Campana, e Rebora appunto. Ma conviene esaminare, a questo punto, i criteri che conducono Pasolini a riscattare questi ultimi autori. Si salvano, ci dice il critico, perché «persistono [...] fuori della storia: della loro storia particolare, cronologica e letteraria, vogliamo dire, ma anche della storia, tout court» (PI, p. 329). Da una parte, sembra suggerire Pasolini, persistono perché resistono al conformismo del Novecento; dall’altra, perché tengono vivo un legame autentico con la dimensione metastorica. Quando è chiaro che è la seconda delle due condizioni a causare la prima. Tant’è che Pasolini procede poi al parziale recupero di Rebora e Sbarbaro proprio sulla base della loro riserva di metastoricità. Ciò è riconoscibile soprattutto nell’approccio a Rebora. Il critico loda la poesia religiosa di Rebora seguendo un ragionamento del tutto simile a quello applicato alla funzione ‘religione’ in Ungaretti: i momenti migliori sono quelli

74 L’interesse per Sbarbaro era già emerso, tra l’altro, nel saggio del 1951 «Tema per Sbarbaro», PM, pp. 57-9.

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in cui «la religiosità di Rebora era – al tempo dei suoi primi versi in cuore al tempo vociano – tutt’uno con la vita: i Canti anonimi sono stati il prodotto di questa panicità religiosa, e appunto perché veramente tale, veramente antidannunziana, anti-letteraria. Ma anche, proprio perché non ancora storicamente religiosa – ossia cattolica – pervasa di sensualità, di lirismo, di un sia pur libero spirito letterario» (PI, pp. 327-8). Pasolini utilizza anche qui, come appunto nel discorso su Ungaretti, il concetto di ‘religiosità’ in modo eretico, come sinonimo di ‘sacralità panica’. Quel divenire della religiosità un «tutt’uno con la vita» ci dice ancora una volta della radice utopica che informa il realismo pasoliniano. Alla base del recupero pasoliniano dei ‘maestri in ombra’ c’è dunque la concezione di una poesia che evade dalla propria letterarietà per spingersi non tanto verso la non-letterarietà del dominio socio-politico, ma verso la non-letterarietà di un ineffabile altro che resiste al possesso e alle abrasioni culturali. Un simile ideale di poesia, altrettanto intriso di eretica religiosità, si può recuperare, in modo davvero esemplare, nel saggio del 1956 dedicato da Pasolini a Attilio Bertolucci. Come per i ‘maestri in ombra’, la matrice sensuale-religiosa della sua poesia salva Bertolucci dal conformismo novecentista75. Qui Pasolini allude a uno ‘sperimentalismo’ in cui si esprime la necessità di integrare nella conoscenza la nozione del ‘sacro’, poiché «i luoghi bertolucciani – città, campagna e famiglia – sono poi sempre stati dati simbolici di un attacco alla vita e di un senso della morte, in cui ristagna l’eslege, fisica religiosità» (PI, p. 358). 4.3.3 Il rapporto stile-ideologia e il problema della lingua letteraria ‘nazionalpopolare’ Con la pubblicazione de «La libertà stilistica» su «Officina» del giugno 1957 Pasolini chiarisce ulteriormente il significato della sua ricerca sperimentale, definendola specificamente in funzione della coordinata ‘stile’76. In questo sottocapitolo cercheremo di dimostrare come, nel teorizzare il rapporto tra ‘stile’ e ‘ideologia’, Pasolini faccia uso della medesima coordinata utopica alla

75 Non ci sono dubbi che una tale disamina si riveli fortemente autoreferenziale, secondo una logica ormai ben riconoscibile. Si prenda come esempio e conferma un brano successivo, facilmente riconducibile a Pasolini stesso: «Alla cultura decadente e passivamente antifascista per cui non esisteva soluzione di continuità tra il soggetto e l’oggetto, e il mondo esterno veniva accepito come fenomeno da possedere poeticamente per privilegio di natura e di casta, si è sostituita una cultura che innanzi tutto richiede una coscienza delle determinazioni sociali e dei contrasti del mondo reale: subito smorzati, attutiti, addolciti nell’ultimo Bertolucci, ma non per questo meno presenti e attivi» (PI, p. 360). 76 Non è un caso che Fortini abbia letto questo saggio come «la dichiarazione ideologica più precisa dello sperimentalismo di Pasolini, i cui testi sono nelle Ceneri di Gramsci» (Fortini, 1993, p. 14).

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base della sua concezione del linguaggio letterario: la riconciliazione tra elemento culturale e elemento naturale. Come osservazione introduttiva, mi pare fondamentale notare la relazione di continuità tra i saggi «Il neo-sperimentalismo» e «La libertà stilistica». Osserviamo innanzitutto che, dal punto di vista editoriale, lo scritto «La libertà stilistica» introduceva sulle pagine di «Officina» la «Piccola antologia neosperimentale», sezione consistente in alcune poesie di Arbasino, Sanguineti, Pagliarani, Rondi, Diacono e Ferretti. In una lettera esplicativa ai co-redattori del sodalizio bolognese, Pasolini affermava di voler «separare questi testi dal resto della rivista, in modo da non crear equivoci: essi devono risultare solo dei documenti (anche se in qualche caso o in qualche passo già belli)» (L, II, p. 320). Già prima della pubblicazione, peraltro, Pasolini era stato esplicito a questo proposito, scrivendo a Fortini (2 giugno 1956), della contrapposizione «drammatica» tra «testi decadenti, squisiti, o comunque privi di problemi morali e politici» e le posizioni dei redattori della rivista (L, II, p. 202); riproponendo poi lo stesso discorso a Anceschi (cfr. L, II, p. 212). Anche nel saggio in questione Pasolini mira, proprio dalle primissime righe, a negare la concordanza tra la sua ricerca sperimentale e quella dei poeti da lui definiti neo-sperimentali: «il neo-sperimentalismo, come abbiamo tentato di dimostrare, tende semmai a essere epigono, non sovversivo, rispetto alla tradizione stilistica novecentesca» (PI, p. 419). Subito dopo aggiunge (cfr. PI, p. 420) che un’ipotesi di parentela poteva eventualmente essere avanzata, ma solo a livello descrittivo, per i poeti che aveva incluso nel primo ramo (Ferretti, Leonetti, ecc.). Questa presa di distanza dal neo-sperimentalismo verrà ribadita nella nota finale a Passione e ideologia, scritta nel 1960: «Io mi dichiarerei neo-sperimentale: ciò è falso, si leggano attentamente i due ultimi saggi [«Il neo-sperimentalismo» e «La libertà stilistica»], e si vedrà come dev’essere stato sciocco il primo lettore che ha pensato questo: e tutti coloro che ne hanno accettato la cantonata, come una fila di pecore» (PI, p. 429)77. È fondamentale osservare che al fine di illustrare le ragioni del suo dissenso dalla poetica neo-sperimentale, Pasolini parte da considerazioni di carattere stilistico, rivendicandone poi una valenza ideologica. I neo-sperimentali, infatti, nonostante le pretese di innovazione linguistica, vengono sostanzialmente liquidati da Pasolini come epigoni della tradizione stilistica novecentesca, una tradizione che il gruppo di «Officina» intendeva rinnovare78. Secondo Pasolini

77 Cfr. anche l’articolo contemporaneo a «La libertà stilistica» dal titolo «Un giovane poeta», dove l’autore, tratteggiando le caratteristiche di alcuni poeti emergenti, parla di un «neosperimentalismo (spesso di terz’ordine), in cui si fondono post-ermetismo e neo-realismo, implicanti rispettivamente un conformismo cattolico e un conformismo marxista» (PM, p. 163). 78 Questa critica fu raccolta soprattutto da uno dei poeti inclusi da Pasolini nell’antologia neo-sperimentale, Edoardo Sanguineti. Questi, che solo un anno prima aveva pubblicato la raccolta di versi neo-avanguardistici Laborintus (freddamente recensita da Pasolini, cfr. PM, p. 152), nel numero successivo di «Officina» (11 novembre 1957) reagì con il poemetto parodico «Una

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la libertà stilistica dei novecentisti, ermetici compresi, si articolava come forma di evasione spirituale piuttosto che come autentico strumento innovativo, appoggiando così, con una condotta di «passività sul fronte esterno» l’involuzione dell’ideologia borghese e l’avvento del fascismo storico. Alla base di questa posizione, che taccia di irresponsabilità storico-politica le poetiche del Novecento79, c’è un’intuizione teorica che leggiamo in nuce nel seguente passaggio: «Ma in quella libertà [dei poeti del Novecento] non c’era né scelta né sofferenza: ed era capace di far operare in una sola direzione, quella interiore: e in ciò la costrizione di quella libertà era rigorosa. [...] La storia non esisteva più: e il mondo interiore era in definitiva una prigione» (PI, pp. 421-2). Per quanto poi Pasolini non approfondisca il discorso in termini rigorosamente filosofici, la profondità dell’intuizione rimane: vincolando il termine ‘libertà’ a quelli di ‘scelta’ e ‘sofferenza’ Pasolini conferma la nostra ipotesi originaria, che vuole il suo engagement procedente da una sensibilità di chiara marca esistenzialistica; mentre l’equazione dedotta ‘libertà imposta’-‘prigionia’ lascia trasparire l’enorme spaccatura esistente tra la posizione del critico e la fiducia del comunismo italiano nella palingenesi sociale80. In un altro scritto del 1957, «Fine dell’engagement» (PI, pp. 398-400), l’autore ricorre proprio a quest’ultimo argomento per polemizzare contro la nozione ufficiale dell’impegno letterario, ritenendola fondata su una mitizzazione anti-storicistica della Resistenza. In definitiva, Pasolini allarga la sua polemica dall’area neo-sperimentale a quella novecentista e neorealista, utilizzando a suo sostegno il medesimo argomento teorico: l’incapacità, comune a tutte e tre le poetiche, di operare attraverso innovazioni stilistiche autenticamente eversive. Il conformismo stilistico dei poeti neo-sperimentali, dei novecentisti e dei neorealisti, sarebbe la ragione della loro sterilità ideologica. È un metodo, questo della procedenza lingua-cultura-ideologia, che indubbiamente caratterizza tutto l’iter dell’attività critica di Pasolini, e sul quale, quasi inutile ripeterlo, pesa enormemente l’auctoritas continiana (cfr. PI, p. 424). Tuttavia, credo che il nesso ‘innovazione stilistica’-‘ideologia’ possa essere inteso solo riconducendolo all’interno di quella dimensione esistenzialistica costituzionale a tutto il pensiero pasoliniano. L’originalità di Pasolini, lo abbia-

polemica in versi», prima ufficiale dichiarazione di guerra a Pasolini da parte della neo-avanguardia. La diatriba tra i due si protrarrà a lungo, a confermare le differenze ideologiche dei due modi della sperimentazione. La prima, dura e successivamente inalterata presa di posizione contro la neo-avanguardia da parte di Pasolini giunse però solo nel 1962 su «L’Espresso» («puro e semplice prodotto del neo-capitalismo», ora in Scalia, 1968, pp. 225-6), a dimostrazione che fino ad allora l’atteggiamento di Pasolini era stato di attesa e di, seppur dubbiosa, apertura (cfr. a proposito la critica moderata in Pasolini, 1960c). 79 Tra cui Pasolini include anche la propria produzione dialettale friulana (PI, p. 422). 80 Per condurci, inoltre, dritti al Pasolini degli anni ’60, censore del consumismo e della liberalizzazione, rivelando la presenza di coesione ideologica nel suo pensiero critico.

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mo già evidenziato, sta nel concepire il termine ideologia come ‘crisi e ricerca di ideologia’, come ‘tensione ideologizzante’, piuttosto che, come comunemente inteso, ‘coagulo autonomo di principi e idee’. Nel campo specifico del rapporto razionale-conoscitivo tra il letterato militante e il reale, la componente esistenzialistica diventa imprescindibile; al punto che, come si evince dal seguente passaggio de «La libertà stilistica», tale rapporto viene caratterizzato da un cronico principio d’insufficienza, per cui alla ragione, operante nell’istituto letterario, è negato il possesso ideologico a causa della sua costituzionale debolezza ontologica: Nello ‘sperimentare’ dunque, che riconosciamo nostro (a differenza dell’attuale neosperimentalismo)81, persiste un momento contraddittorio e negativo: ossia un atteggiamento indeciso, problematico e drammatico che coincide con quella indipendenza ideologica cui si accennava, che richiede un continuo, doloroso sforzo di mantenersi all’altezza di una realtà non posseduta ideologicamente, come può essere per un cattolico, un comunista o un liberale […]. La libertà di ricerca [...] è senza fine dolorosa, incerta, senza garanzie, angosciante. (PI, pp. 423-5)

Ma se qui si manifesta limpidamente la componente esistenzialistica del pensiero critico dell’autore, occorre, in virtù del nesso ‘innovazione stilistica’‘ideologia’ di cui dicevamo, rintracciarne le origini in relazione alla categoria ‘stile’. Qual è, in altre parole, il terreno da cui si origina quella fondamentale nozione di ‘innovazione stilistica’ che Pasolini colloca alla base della sua pervasiva ricerca ideologica? Chiaramente, la necessità della sperimentazione, che consiste in una continua, sofferta e contraddittoria eversione degli istituti stilistici, deriva dal fatto che, a rigore, la nozione di ‘libertà stilistica’ acquista per Pasolini un significato negativo: l’impossibilità per lo stile di costituirsi a valore autonomo e autosufficiente di una poetica o di una corrente letteraria, cioè di ipostatizzarsi. Tuttavia, l’analisi è passibile di ulteriore approfondimento. Mi pare innanzitutto che l’approccio di Pasolini alla stilistica non sia esclusivamente di tipo metodologico (si pensi ad esempio al metodo della ‘variantistica’ di Contini), ma anche, seppur intuitivamente, filosofico; nel senso che Pasolini non solo utilizza lo stile come strumento critico, ma soprattutto riflette su di esso in quanto ‘essenza’, valore indipendente dalla propria strumentalità esegetica. La «problematica morale» alla base del discorso pasoliniano «impone, dunque, esperimentazioni stilistiche di tipo radicalmente nuovo» (PI, p. 422), per cui il fine dello «spirito filologico» diventa quello di «abolire ogni forma di ‘posizionalismo’ […] facendo adattare senza pace ‘il periscopio all’orizzonte’ e non viceversa» (PI, pp. 424-5). In quanto anche oggetto di una riflessione di specie filosofica, allora, mi pare che lo stile in Pasolini agisca anche da spia per il riconoscimento di quel luogo teorico descritto nel precedente sottocapitolo: la riconciliazione di cultu81

Per un’ulteriore stoccata al neo-sperimentalismo cfr. Pasolini, 1960a.

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ra e natura. Credo infatti che la ragione profonda che determina, in Pasolini, il rifiuto della ipostatizzazione dello stile, e dunque la necessità di una continua sperimentazione, sia la medesima determinante il suo rifiuto della ipostatizzazione ideologica: l’intervento, nel suo pensiero, dell’istanza utopica. Come per l’ideologia, la verità sulla funzione dello stile sembra potersi rivelare a Pasolini solo nello spingere lo stile oltre se stesso, sia in quanto canone estetico che sociologico, fino ad attribuirgli una valenza utopica. In questo senso, le riflessioni di Pasolini sulla categoria ‘stile’ si presentano come diretta conseguenza delle riflessioni sulla più ampia categoria ‘lingua’, giacché lo stile ha a che fare con il linguaggio e ogni linguaggio è un vettore culturale. Seguendo il ragionamento, uno scrittore dovrebbe dunque avvalersi di scelte stilistiche attraverso le quali non solo si manifesti la sua posizione ideologica (soggettiva) sulla realtà (oggettiva)82, ma che possano anche costituirsi a memento della riconciliazione utopica tra ‘cultura’ (soggetto, lingua, ecc.) e ‘natura’ (oggetto, materia, ecc.). Anzi (e questo è il punto cruciale) è proprio questa seconda funzione a definire la prima: a determinare, cioè, in quanto misura a-razionale, dell’ordine sacrale, la necessità di una continua innovazione stilistica, specchio di una drammatica e instabile indipendenza ideologica83. Solo in quanto elemento linguistico che indichi anche di poter abbandonare il proprio privilegio culturale di controllo e manipolazione della realtà, per convergere verso l’impossibile (utopica) fusione con ciò che è altro da sé (la ‘sacra’ fisicità del reale rappresentato), lo stile sfugge alla logica perversa dell’auto-ipostatizzazione, obbligando alla continua sperimentazione84. Dobbiamo ancora una volta osservare che assai di rado Pasolini interviene nel merito prettamente ‘teorico’ della questione, confermando la propria allergia all’argomentazione astratta. Possiamo peraltro fare affidamento su due dichiarazioni della fine degli anni ’50, nella prima della quali l’autore riflette sul «rapporto di causa e effetto tra ideologia e stile» osservando che «l’innovazione ha percussioni profonde, fino nel cuore del semantema, e poiché il semantema è un dato collettivo e sociale, oltre che individuale e estetico, ogni innovazione linguistica non può non essere un’innovazione anche nell’istituto sociale». Qui

82 Attraverso la scelta della mimesi con la lingua del sottoproletariato romano, ad esempio, Ragazzi di vita e Una vita violenta testimonieranno la solidarietà dell’autore con questo gruppo sociale. 83 Ne «La libertà stilistica» si legge: «nessuna delle ideologie ‘ufficiali’ attraverso cui interpretare la ‘vita di relazione’, e magari metterla in rapporto con la vita interiore, ci possiede. È un’indipendenza che ci costa cara: come vorremmo, come usa dire, aver scelto» (PI, p. 423). 84 È un quadro, questo dell’interazione tra utopia e sperimentazione, che si offre, come vedremo nel prossimo capitolo, quale chiave di volta per comprendere il significato complessivo dell’attività creativa di Pasolini. Si pensi, come esempio forse più evidente di questa interazione, al film Teorema, in cui il personaggio dell’ospite si carica, per ammissione stessa di Pasolini, di senso utopico, e, venuto a contatto con la famiglia borghese, ne rompe il secolare conformismo costringendo i singoli membri alla sperimentazione, in modi diversi ma assolutamente espliciti, con la realtà.

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Pasolini conferma di credere nella valenza ideologica dell’innovazione stilistica, sebbene la domanda cruciale venga elusa: egli non ci dice infatti quale sia il meccanismo in grado di determinare l’innovazione. Poco oltre il critico aggiunge però un’osservazione assai significativa, allorché afferma di condividere una critica di Adorno a Lukács85: «Adorno parla benissimo di ‘cristallizzazioni stilistiche’86, che sopravvivono alla società e alla cultura che le ha generate». Qui è senz’altro rivelatrice l’adesione al concetto adorniano di ‘cristallizzazione stilistica’, teoricamente fondata sul recupero di un dato astorico (per quanto il carattere ellittico dell’affermazione ci suggerisce che Pasolini non doveva conoscere a fondo la teoria estetica del pensatore tedesco). Pasolini ribadisce di seguito che il superamento volontaristico di queste cristallizzazioni rappresenta «una forma un po’ folle di ascesi», e che quindi al poeta realista rimane «la contaminazione, la fusione – contraddittoria, drammatica – l’adattamento, l’esperimento» (cfr. Pasolini, 1959a). L’argomento verrà poi ripreso, con maggior trasparenza, nel 1960, quando l’autore, riflettendo sul concetto di ‘decadentismo’, punta il dito contro la critica marxista giudicandola insensibile nei confronti del «momento d’irrazionalità» nell’opera d’arte: Eppure qualcosa di quell’ebbrezza dionisiaco-intellettualistica, permane: tende a identificarsi con l’irrazionale tout court, ineliminabile da ogni concetto di poesia, dato che in ogni poesia, per quanto ridotto, non può che persistere un quantitativo di espressività irrelata, non definibile. Marx non ha preso in considerazione l’irrazionalismo: dico Marx per dire il marxismo. Neanche Lukács: per questo, alle volte, Adorno ha buon gioco con lui. (PM, p. 177)

Mi pare evidente che il «quantitativo di espressività irrelata» («ridotto», e dunque non escludente affatto la funzione comunicativa) rappresenta il momento in cui lo stile manifesta la sua «ebbrezza dionisiaco-intellettualistica», ovvero il suo marchio utopico. Ciò viene puntualmente confermato nello stesso anno, con alcune cruciali dichiarazioni: L’errore di Marx, o più precisamente dei teorici della estetica marxista (anche di Lukács), è quello di non aver preso in considerazione l’irrazionale. Si è rifiutato l’irrazionale come decadente. Ma esso è ineliminabile da ogni concetto di poesia, dato che in ogni poesia persiste necessariamente un quantitativo, seppure minimo,

85 Pasolini cita il saggio di Adorno dal titolo «La conciliazione forzata. Lukács e l’equivoco realista», uscito su «Tempo presente» (Adorno, 1959). 86 Il concetto di ‘cristallizzazione stilistica’, qui, è da intendersi in senso filosofico, come lo intende Adorno appunto, e quindi diversamente dall’attribuzione fatta da Pasolini alle poetiche del neorealismo e al novecentismo («cristallizzazioni sentimentali e stilistiche», PI, p. 399). La cristallizzazione di un’intera poetica, in quanto fenomeno storico, è altra cosa dalla cristallizzazione dello stile, in quanto luogo teorico.

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di espressività non definibile. I marxisti devono impostare e definire il problema dell’irrazionalità, evitando di far coincidere ogni irrazionalità con l’irrazionalità del decadentismo. […] La critica marxista, che raggiunge risultati soddisfacenti nella definizione generica di un’opera d’arte, è incapace di definire il momento individuale di essa, perché, rifiutandosi di ammettere la presenza nella poesia dell’irrazionalità, manca degli strumenti per definire e spiegare quell’irrazionalità coagulata in stile. Solo il metodo di Spitzer, cioè della critica stilistica, sebbene sia un prodotto del decadentismo, possiede la terminologia esatta a incasellare i dati irrazionali che, finché non si trovi uno strumento più congeniale al metodo marxista, altrimenti sfuggirebbero ad ogni esame. (Pasolini, 1960a)

Sul finire del decennio, Pasolini rivede dunque pubblicamente le sue posizioni ‘officinesche’ sul decadentismo, recuperando la dimensione utopico-irrazionale alla lingua letteraria. Significativo che questa rivalutazione avvenga in barba a Carlo Salinari e al suo testo revisionista, uscito proprio nel febbraio del 1960, dal titolo Miti e coscienza del decadentismo italiano. Pasolini scrive infatti che nell’ottica di Salinari «gli autori sono individuati perfettamente in quanto tipi, non in quanto autori», a causa della «rozza opinione che Salinari possiede dei dati linguistici: per una specie di allergia da dirigente, egli ha una aprioristica fiducia nei ‘significati’» (PM, p. 178). Diversamente da Salinari, Pasolini si dimostra libero da questo apriorismo, poiché per lui il linguaggio letterario incapsula, oltre al ‘significato’, fondatore di contenuti, anche la prospettiva della conciliazione tra il ‘segno’ e l’‘oggetto’ da esso indicato. Come dimostra la sua parallela produzione letteraria, e come dimostrerà la sua futura attività cinematografica, la linguistica di Pasolini non può fare a meno del sogno di far letteralmente ‘parlare le cose’. È precisamente per via di questa doppia valenza, utopica e logico-comunicativa, che Pasolini non rivendica, come faranno in molti negli anni ’60, la ‘politicità’ aprioristica dello stile in quanto esperienza estetica autosufficiente: l’accettazione aprioristica della politicità dello stile, come nel caso della neoavanguardia, significherà solo, per lui, l’abbandono di ogni stile e, insieme, di ogni progettualità ideologica. Al contrario, Pasolini rivendica la politicità di una specifica nozione di stile che, rivelando la presenza di una destinazione utopica (astorica) all’interno della ricerca linguistico-razionale (storica), comunichi l’assoluta necessità di questa ricerca. In questo modo il punto di vista di Pasolini non è lontano da quello di Adorno: Senza dare un giudizio, le opere d’arte indicano quasi col dito il proprio contenuto, senza che esso divenga discorsivo. La reazione spontanea di chi recepisce l’opera è mimesi dell’immediatezza di questo gesto. Tuttavia le opere non si esauriscono in esso. La posizione occupata da quel passo tramite il suo gesto soggiace, una volta integrata, alla critica, la quale decide se la potenza dell’‘è così e non in altro modo’, all’epifania della quale tali attimi hanno puntato, sia indice della loro specifica verità. L’esperienza piena, sfociante nel giudizio sull’opera la quale non esprime giudizio, esige che tale questione venga decisa e perciò esige il concetto. (Adorno, 1977, p. 408)

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Il dato mimetico e aconcettuale dell’opera d’arte diviene così funzionale a ciò che gli è canonicamente opposto, la conoscenza razionale: mantenendo ‘aperto’, e dunque costantemente in crisi e costantemente sperimentale, il giudizio, lo stile in quanto momento epifanico dell’arte assolve una funzione segretamente politica. Pasolini afferma insomma una posizione assolutamente radicale, prendendo definitivamente le distanze tanto dall’estetica comunista quanto da quella idealista87. Per riassumere il significato della radicalità della posizione di Pasolini, rimanderei a una lettera da lui inviata a Alberto Arbasino nel giugno del 1956, in cui è peraltro già perfettamente racchiuso il senso dell’ormai prossima polemica con la neo-avanguardia. Il problema che Pasolini individua nella poesia di Arbasino è insieme linguistico e ideologico: «la fiducia nel valore assoluto della citazione» (che sarà tipico della neo-avanguardia) è un aspetto di quella «illusione culturale» che fa dello stile uno strumento astratto, conquistato «senza sforzo linguistico»88. Per Pasolini, al contrario, «la parola richiede sempre di essere modificata, con terribile doglia», poiché in essa vive la memoria della sua conciliazione con la materia che non consente astrazioni: «Tutto questo deriva in Lei da una certa mancanza di concretezza, di fisicità espressiva. Lei è raramente plastico (se non quando ‘imita’ la plasticità) e la Sua lingua è fredda, chiara e, malgrado le abnormità, molto corrente» (L, II, p. 216). Nonostante il taglio dichiaratamente descrittivo («Non interveniamo pareneticamente. Non è questa la sede. Magari parziali o interessati, qui siamo descrittori», PI, p. 303) «La confusione degli stili», altro notevole saggio del 1957, rivela la medesima posizione sopraindicata circa il rapporto ‘stile’-‘ideologia’, per quanto sia necessario interpretare, piuttosto che registrare, le ragioni teoriche fondanti questa posizione. Alla base di tutto lo scritto, articolato, complesso e coordinato perlopiù da rilevamenti stilistici (stile alto o stile umile, paratassi o ipotassi, ecc.), risuona ossessivamente la medesima domanda, qui palesemente ispirata dall’ideale gramsciano del nazional-popolare: come deve agire uno scrittore che intenda rinnovare la lingua letteraria sulla base di «ragioni eteronome rispetto alla letteratura»? L’elenco delle possibili opzioni che ne consegue si rivela insoddisfacente al critico: né il recupero di una lingua media manzoniana, né l’adozione di una generica koinè strumentale, né l’allineamento alla tendenza neorealistica possono coincidere con la sua «ricerca

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Per quanto riguarda l’estetica comunista, si potrebbe pensare che tale presa di distanza sia una conseguenza diretta della crisi generale del marxismo, se non fosse però che le premesse teoriche della diversità della posizione di Pasolini fossero già compresenti, come abbiamo visto, sin dai saggi 1954, precedenti al rapporto Kruscev. 88 Aggiunge inoltre Pasolini in calce alla lettera: «Un collage delle proprie angosce standardizzate, rese riconoscibili e quasi trionfanti dal gergo. Lei si presenta estremamente fragile e maudit in privato – divorato dal più degradante dolore – ed estremamente duro e quasi sprezzante come facitore di testi» (L, II, p. 217; cfr. anche p. 223).

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per una produzione letteraria nazionale-popolare», in quanto tutte e tre sono il prodotto di una cultura borghese e provinciale, priva di una salda tradizione civile, che ha dato fenomeni reazionari come, politicamente, il fascismo, e, letterariamente, il ‘novecentismo’, e che allo stesso modo caratterizza ora anche il linguaggio neorealistico (cfr. PI, pp. 291-2)89. Ma giunto a questo punto l’autore si trova ancora una volta costretto a ‘fare i conti’ con Gramsci. L’ideale pasoliniano sembra infatti coincidere con quello gramsciano: creare una lingua letteraria nazionale-popolare, attraverso la quale instaurare un rapporto comunicativo e di scambio tra l’intellettuale di sinistra e le masse. Così, per giustificare il suo radicale rifiuto della ‘lingua della borghesia’ quale appena indicata, nelle sue tre varianti, Pasolini cerca inizialmente l’appoggio del filosofo sardo. Si tratta, per la verità, di due citazioni un po’ striminzite da Vita e letteratura nazional-popolare: «Forse si potrebbe trovare, che la grande massa della paccottiglia letteraria è dovuta ai burocrati», e «in Italia essa [la borghesia] non aveva avuto le premesse storiche che invece erano state in Francia» (PI, p. 292). Date queste due citazioni, mi pare che Gramsci sia davvero di poco conforto all’ideale pasoliniano di una lingua nazional-popolare alternativa alla koinè borghese. Da un lato, Pasolini rimane sul vago, ripiegando piuttosto forzatamente su un Gramsci possibilista: «Nell’accennare ai problemi linguistici, Gramsci non spiega quale dovrebbe essere la ricerca di uno scrittore che volesse calare in un’opera l’ideale nazionale-popolare: egli si mantiene su una posizione oggettiva, problematica, possibilistica»90; dall’altro lato egli ripara, in modo altrettanto vago, su un assioma gramsciano che, se sembra confermare la validità delle premesse (innovazione linguistica come atto politico), non garantisce però alcuna continuità ideologica circa la soluzione proposta: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi» (PI, pp. 292-3). Ne deduciamo, come in precedenza, che Pasolini procede da Gramsci per quanto concerne l’impostazione ideologica della questione (necessità del nazional-popolare e centralità del problema della lingua), ma inevitabilmente si allontana da lui in quanto a soluzione proposta. Se nelle parole di Pasolini, Gramsci viene definito ‘possibilista’ in merito al contenuto linguistico del nazional-popolare, sappiamo che in realtà il filosofo sardo non aveva mai preso in considerazione alternative come quella proposta da Pasolini, in quanto si auspicava la diffusione popolare di una lingua letteraria ‘media’, in grado di contribuire alla promozione di un italiano strumentale su cui convogliare istan-

89 Particolarmente significativi i modi della polemica con la Weltanschauung neorealista, a cui l’autore rimprovera il rifiuto della linea sperimentale e, conseguentemente, l’assenza del sentimento della crisi e della crisi ideologica (PI, p. 291). L’assenza di sperimentalismo stilistico si conferma sinonimo di inopia ideologica. 90 Questo brano verrà ripreso nel gennaio 1961 su «Vie Nuove», dove Pasolini conferma: «Gramsci non è mai normativo, lascia all’artista aperte tutte le strade, non pone dei moduli» (Dialoghi, p. 95).

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ze marxiste rivoluzionarie. Per Gramsci, insomma, il fine era sostanzialmente machiavellico, per cui anche la questione linguistica si poneva e si risolveva all’interno di una concezione assolutamente storicistica del mondo, dominata dalla dimensione politica. Diversamente, nonostante la svolta ideologica, il Pasolini degli anni ’50 rifiuta di considerare la lingua letteraria unicamente ‘strumento’, continuando a attribuirle anche quell’istanza marcatamente astorica91 evidentemente ereditata durante il periodo della formazione in Friuli92. Il saggio «La confusione degli stili» continua poi a investigare la possibilità di un linguaggio nazional-popolare nella letteratura italiana del ventesimo secolo. Pur sforzandosi di mantenere un atteggiamento rigorosamente descrittivo, il critico finisce ugualmente per polemizzare con quasi tutti gli istituti linguistico-letterari, da «La Voce» al neorealismo. Più specificamente, Pasolini mira a dimostrare il carattere «fittizio» di ogni presunto «allargamento linguistico in senso umile e popolano» della letteratura italiana. Nella prima metà del secolo, il «risultato più generale e perspicuo» consiste nella fissazione di tutta la lingua letteraria a una lingua di poesia «estremamente ristretta e come sclerotizzata rispetto all’area dell’esprimibile: dell’oggettivo, dello storico» (PI, p. 296). Come l’avanguardismo vociano, nonostante la lodevole intenzione progressiva contro un’idea della letteratura come privilegio, rischiava continuamente di codificare «un nuovo linguaggio tipicamente per élites, e niente affatto popolare», così il sermo humilis dell’altrettanto amato Pascoli «non era che una dilatazione dell’io, non un ingrandimento del mondo» (PI, pp. 294-5). Parallelamente all’allontanamento novecentista della letteratura dalla vita reale, l’antiretorica e l’eversione stilistica tentata dal neorealismo, «verso uno stile grosso modo nazionale-popolare» si è rivelata «una verbale prolessi», al punto che nel neorealismo sono rimaste evidenti concrezioni stilistiche di tipo aristocratico-crepuscolare (fenomeni evidenziati soprattutto «dall’approssimatività del discorso libero indiretto, dalla goffaggine del monologo interiore»), nonché «addirittura tracce rondiste ed ermetiche» (PI, pp. 299-300). Partendo dal meridionalismo neorealista di uno Sciascia e di uno Scotellaro, per giungere a Bassani, Calvino, Cassola, Rea, Fenoglio e altri

91 Cfr. la chiusura de «La libertà stilistica», in cui l’adesione alla «storia» è definita, insieme, come «amore fisico e sentimentale per i fenomeni del mondo, e amore intellettuale per il loro spirito» (PI, p. 147). 92 Nell’insistere sulla differenza tra il pensiero di Gramsci e quello di Pasolini, occorre ricordare, a rischio di cadere nell’ovvio, che i tempi storici erano mutati, e che le masse concepite rivoluzionariamente da Gramsci si erano ormai trasformate nelle masse del consumismo e dell’industria culturale. Vogliamo dire che le posizioni di Pasolini e Gramsci in merito al problema estetico devono essere misurate sulle specifiche situazioni storiche: devono essere innanzitutto contestualizzate. Giudicare l’orientamento ideologico in Pasolini sulla base di quello gramsciano può essere utile solo dopo aver operato questa contestualizzazione. Detto questo mi pare che, sullo sfondo dell’Italia della fine degli anni ’50, a modernizzazione avviata, la posizione di rifiuto categorico degli istituti linguistico-letterari della borghesia adottata da Pasolini acquisti almeno altrettanta validità teorica del tatticismo gramsciano tra le due guerre.

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ancora, il critico giunge a denunciare il fallimento di ogni tendenza contemporaneistica verso un’ideale di letteratura aperta al popolo93. Ma il motivo reale della critica a queste poetiche diventa chiaro solo verso la fine del saggio, quando Pasolini ripropone la medesima posizione di fondo individuata ne «La libertà stilistica», rivendicando la necessità di un atteggiamento radicalmente anti-borghese, in quanto provocato dalle scelte stilistiche dello scrittore. Accennando alla «spregiudicata modernità» della linea PaveseCalvino, per cui l’impegno dello scrittore borghese consiste nel tradire l’ideologia della propria classe pur mantenendone l’istituzione stilistica, Pasolini la paragona alla modernità di Mann secondo Lukács. Nonostante Pasolini affermi di non voler giudicare tale scelta, subito dopo egli la condanna, insistendo sulla necessità, per un autore impegnato, di operare non solo attraverso il tradimento di classe, ma anche attraverso eversioni stilistiche. Pasolini suggerisce anche qui che solo partendo dalla sperimentazione stilistica lo scrittore può contraddire la propria condizione borghese intervenendo autenticamente nel sociale: «Nei casi migliori – quelli caratterizzati per così dire da una sovrapposizione degli stili – tali contraddizioni entrano nella coscienza dell’autore: sono, anzi, la sua stessa dinamicità: la divisione è dolore, e il dolore è forza» (PI, p. 300). Tra gli scritti critici del periodo conclusivo del decennio, la prova forse più convincente della presenza di un’istanza utopica nella riflessione pasoliniana sullo stile si trova nello scritto «Principio di un engagement», sempre del 1957, in cui la poesia di Andrea Zanzotto è presa a esempio di un nuovo tipo di impegno, alternativo a quello ufficiale. Significativamente, tale possibilità nasce dall’oggettivazione del sentimento dell’assoluto (inteso come mimesi della lingua poetica nella fisicità del reale), ovvero dalla crisi che quel sentimento genera sulla presa di coscienza, da parte del poeta, dell’esistenza del mondo oggettivo, della realtà sociale. Come abbiamo precedentemente osservato, solo questa crisi può scatenare, per Pasolini, un progresso autentico. Zanzotto è un perfetto esempio di questa condizione. La sua classica operazione poetica, che «consisteva nel trascrivere la sua vita di marginale isolato [...] in una lingua che ne divenisse corpo, pura e fisica equivalenza», si è scontrata con «un nuovo tipo di cultura, o se si vuole, di ideologia culturale, nata proprio da quell’impegno che egli aveva sempre ignorato». Il risultato non può che essere la crisi di colui che era stato «il più felice epigono dell’ontologia letteraria ermetica»: «egli è in piena crisi» conferma Pasolini, in quanto la sua incosciente intuizione della felicità come utopica equivalenza di poesia e mondo

93 Pur apprezzando sovente la mescolanza di stili delle poetiche post-belliche, Pasolini rimane scettico circa i risultati ottenuti: da un Bassani, ad esempio, la cui politicità sarebbe notevolmente attenuata dalla tendenza psicologica dello scrittore «a presentare e giudicare un mondo visto sempre sotto la specie dell’eternità, e quindi lirico»; o da un Rea, la cui «tendenza mimetica verso il basso», pur rispondente a un’istanza socialistica, rimane «di genere naturalmente e tipicamente novecentesco: una forma di sveltita e furbesca prosa d’arte» (PI, pp. 301-3).

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Attività critica degli anni ’50

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contadino «comincia a oggettivarsi». Ma il processo di oggettivazione che ha luogo nella poetica di Zanzotto (e di Pasolini stesso, poiché a questo punto non ci è difficile riconoscere l’intrinseca autoreferenzialità del saggio) non porta affatto all’abbandono dell’intuizione utopica dell’assoluto; al contrario, porta proprio alla necessità di reiterare l’importanza strategica di questa intuizione («la sostanziale ineffabilità dell’io e del non io») in quanto portatrice di rottura, e quindi di superamento, nei confronti di ogni forma di stasi ideologica (cfr. PI, pp. 400-2). In conclusione a questo capitolo, e a mo’ di ponte con quello successivo, vorrei ricordare alcuni versi datati aprile 196094 in cui Pasolini conferma, polemicamente nei confronti di quella che considerava una generale involuzione stilistico-ideologica95, la natura della sua personale via al realismo tra ‘lingua’ e ‘ideologia’. Si noti come ‘lingua’ e ‘morte’ acquistino, per il recupero strategico di ‘ragione’ e ‘vita’, la medesima valenza utopica, all’interno di una ‘storia’ che ha in questa utopia i due punti di fuga dell’origine (i «primordi tenebrosi») e della futura conciliazione («quello che sarà e che ancora non è»): La morte non è ordine, superbi monopolisti della morte, il suo silenzio è una lingua troppo diversa perché voi possiate farvene forti: proprio intorno ad essa vortica la vita! E voi avete paura della vostra santa morte, del caos che implica: il vostro unilinguismo è una difesa! La Lingua è oscura non limpida – e la Ragione è limpida, non oscura! Il vostro Stato, la vostra Chiesa, vogliono il contrario, con la vostra intesa. Sono infiniti i dialetti, i gerghi, le pronunce, perché è infinita

94 95

Si tratta del poemetto «La reazione stilistica» (Best, I, pp. 569-77). Già il poemetto «In morte del realismo», (letto provocatoriamente la sera del 27 giugno 1960 al teatro ‘Open Gate’ di Roma in occasione della presentazione dei finalisti del ‘Premio Strega’, cfr. Bellonci, 1969, 55-6, Best, I, pp. 559-64), Pasolini aveva lamentato l’abbandono delle ragioni storico-ideologiche della letteratura contemporanea; abbandono evidenziatosi con la vittoria al ‘Premio Strega’ del romanzo di C. Cassola, La ragazza di Bube, con l’uscita de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, e con l’esordio dell’avanguardia. Intervistato da W. Pedullà nel 1960, peraltro, Pasolini sembra inizialmente attenuare i toni della polemica con Cassola, definendo La ragazza di Bube «un bel romanzo». Subito dopo, però, pungolato dall’intervistatore, aggiunge: «Egli [Cassola] ha l’obbligo di non star fuori dalla storia, ma di partecipare al suo farsi. Secondo me egli pecca di presunzione quando punta sull’irrazionalismo che dà all’autore quasi una patente di ineffabilità. […] Questo è stato il tipico errore degli ermetici, che Cassola non è riuscito a superare: come per gli ermetici, per Cassola l’assolutezza dello stile coincide con l’assolutezza in sé. Posizione cattolica, come si vede: ipostasi piccolo-borghese».

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Capitolo quarto

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la forma della vita: non bisogna tacerli, bisogna possederli: ma voi non li volete perché non volete la storia […] No, la storia che sarà non è come quella che è stata. Non consente giudizi, non consente ordini, è realtà irrealizzata. E la lingua, s’è frutto dei secoli contraddittori, contraddittoria – s’è frutto dei primordi tenebrosi – s’integra, nessuno lo scordi, con quello che sarà, e che ancora non è. E questo suo essere libero mistero, ricchezza infinita, ne spezza, ora, ogni raggiunto suo limite, ogni forma lecita. (Best, I, pp. 569-71)

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5. I ROMANZI ROMANI

Se la storia è concepita come lotta di classe, allora la prospettiva, la speranza dei comunisti implica, postula un momento di astoricità, per lo meno ideale. Al di là del futuro c’è un momento in cui la storia cessa e quindi c’è un momento di metastoricità, di astoricità, anche nel pensiero marxista. (P. P. Pasolini, 1964c, p. 80)

5.1 1955: lo scandalo «Ragazzi di vita» Con un’intuizione che mi pare solo parzialmente felice, a proposito della discussione critica sviluppatasi immediatamente dopo la pubblicazione di Ragazzi di vita (1955), Rinaldi (1982, p. 151) ha scritto: «Leggere le osservazioni dei critici significa osservare in provetta un tentativo di lettura che era fallito in partenza poiché impedito dal testo, bloccato già dal suo interno». Credo che per sviluppare in modo fruttuoso questa intuizione sia necessario, tanto in Ragazzi di vita quanto nel successivo Una vita violenta, uscito nel 1959, riconoscere la valenza comunicativa che l’ostinata resistenza al significato della scrittura di entrambi i testi incorpora, proprio come suo dato distintivo e essenziale. Ritengo questa ‘resistenza al significato’ un fatto assolutamente cruciale anche nell’offrirci un’anticipazione e una chiave di lettura delle posizioni teoriche espresse dal Pasolini autore di cinema e improvvisato semiologo negli anni ’60. Come vedremo di dimostrare, il marchio utopico-resistenziale impresso nella scrittura pasoliniana si manifesta sia a livello formale che contenutistico. Mi pare altresì che la critica non abbia mai riconosciuto, o seriamente considerato, la possibilità di una lettura in chiave utopica dei due romanzi romani, dimostrando in questo modo di non volersi misurare con le riflessioni teoriche che Pasolini veniva elaborando parallelamente alla stesura delle due opere. In questo senso le prime recensioni a Ragazzi di vita sono paradigmatiche. Tanto quelle positive che, soprattutto, quelle negative contribuirono al successo commerciale del romanzo piuttosto che alla sua interpretazione. In un’intervista del 1957, Pasolini disse: «Ragazzi di vita non ha avuto un’esistenza facile. A parte le vicende giudiziarie il mio libro è stato accolto con le più violente stroncature o con i più vivi e acuti elogi» (1957b)1. Leggendo oggi 1A

pochi giorni dall’uscita del libro, Pasolini scrive a Garzanti inviandogli «il primo pezzo

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le prime recensioni emerge immediatamente, al di là di giudizi di valore (di cui Pasolini registra una «spaventosa superficialità», L, II, p. 114), il carattere ‘scandalistico’ del successo editoriale di Ragazzi di vita. Successo che peraltro non fu immediato, se consideriamo che la prima tiratura voluta da Livio Garzanti, per quanto esaurita in un mese, fu assai modesta. La richiesta più cospicua giunse solo simultaneamente all’incremento delle discussioni salottiere2 intorno al carattere scabroso della materia trattata; discussioni che si moltiplicarono e ramificarono istericamente a partire dalla denuncia per pubblicazione oscena3 del 21 luglio 1955, undici giorni dopo l’elezione di Antonio Segni a primo ministro4. Le recensioni stesse dell’estate 1955, sia quelle a favore che quelle contro, non mancano mai di evidenziare la materia scandalistica del libro. A questo proposito, tanto l’editore Garzanti quanto Pasolini si mostrano del tutto consapevoli degli effetti salutari che anche le stroncature più nette e sdegnate possono avere sulle vendite. Scrive Pasolini a Garzanti, il 2 luglio 1955: «Ho letto

critico» su RV, una recensione di P. Dallamano (1955) definita «molto efficace, se non in senso strettamente critico, almeno in qualità d’invito alla lettura» (L, II, p. 72). Tre giorni più tardi (12 giugno 1955), Pasolini confida all’amico Farolfi che «la prima edizione è esaurita in 15 giorni, e ha avuto finora un ottimo successo di critica» (L, II, p. 75); nel luglio dello stesso anno scrive, sempre a Farolfi: «il mio libro mi ha dato grandissima soddisfazione (Bo, De Robertis, Contini, Fiore, Vigorelli, e molti altri minori) e qualche atroce – ma non tanto – amarezza (Cecchi, Cajumi, il comunista Salinari e in genere i fascisti)»; un mese più tardi Pasolini scrive all’editore Livio Garzanti: «Ha visto la miriade di articoli e articoletti su Ragazzi di vita? Io sono qui travolto dal torrente di ingiurie e di elogi» (L, II, p. 113). 2 In una lettera datata 21 giugno 1955, Francesco Leonetti comunica a Pasolini che un suo amico romano «mi riferisce della scorsa settimana che il libro era l’argomento di tutti i salotti e ritrovi frequentati da lui (non letterari; tra alta borghesia e aristocrazia) e che tutte le signorine di buona agiata famiglia, tra cui la sua ‘fidanzata’, lo avevano divorato; la definizione corrente: impressionante» (L, II, p. xix). 3 Fu la procura della Repubblica di Milano, dopo una segnalazione dell’ufficio ‘spettacoli e proprietà letteraria’ della presidenza del Consiglio, a denunciare il libro di Pasolini. La prima udienza si tenne nel gennaio del 1956, dopo che il libro era stato ritirato dalle edicole, ma fu aggiornata quando si scoprì che i giudici non conoscevano i contenuti del romanzo. Si ritornò in aula il 29 dicembre 1956, poi ancora nel maggio e, per l’ultima volta, il 4 luglio dello stesso anno, il giorno della consegna del ‘Premio Strega’. Le testimonianze in aula di letterati prestigiosi come Ungaretti e Carlo Bo, che difesero strenuamente i valori religiosi dell’opera, nonché le testimonianze scritte di altrettanto insigni uomini di lettere quali Contini, De Robertis e Schiaffini, convinsero i giudici non solo a assolvere sia autore che editore, ma addirittura a lodare «le pagine di autentico lirismo del libro» (Bandini, 1978, pp. 66-7). 4 Si tratta di un periodo delicato della vita politica italiana, in cui la sinistra comincia un’azione contrastiva nei confronti delle strutture quadripartitiche di governo nate con la guerra fredda in funzione anticomunista. Segni, che succede a Mario Scelba, è a capo del primo di una serie di governi di centro-destra intesi a smorzare l’azione della sinistra. F. Bandini (1978, p. 62) sostiene che l’intervento giudiziario contro RV rientri in una serie di «iniziative che partono dalle fasce più arretrate del potere democristiano e che individuano in Pasolini un possibile esempio – da indicare allo sdegno comune – di quale arte oscena si appresterebbe a far nascere un paese che andasse a sinistra», secondo una tattica che dunque richiamerebbe gli eventi friulani del 1949.

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I romanzi romani

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con dispiacere l’astioso e cattivo pezzetto di Cecchi […]. Ad ogni modo, lei cercava uno slogan, vero? Cecchi ne fornisce uno bellissimo (s’intende senza volerlo) e, mi pare, commercialmente efficiente: ‘Il Cuore in nero…’ che, con la firma di Emilio Cecchi, funzionerebbe a meraviglia» (L, II, p. 80). Garzanti gli risponde che «è la prima volta da quando Cecchi scrive sul ‘Corriere’ che un suo giudizio fa vendere un libro. Ringrazi appunto Cecchi per questo» (L, II, p. xii). E sicuramente vistosa dovette infatti apparire la stroncatura di un padre della letteratura italiana come appunto Emilio Cecchi (1955), che con la formula di «Cuore in nero» intende evidenziare, oltre alla «forte prevalenza del fondo letterario, intellettualistico ed estetizzante», soprattutto il continuo ricorrere al «grottesco», al «ripugnante» e al «turpiloquio», le qualità del libro che verosimilmente contribuirono maggiormente al suo succès de scandale. Ancora più indignata la recensione di Arrigo Cajumi (1955) dove i personaggi di Ragazzi di vita sono definiti «degli animali ignoranti e istintivi», per cui lo «pseudorealismo o naturalismo integrale» di Pasolini «finisce per non avere senso». Sono poi su questa stessa linea anche i critici comunisti, che sottolineano pesantemente l’inadeguatezza ideologica del libro indicandone le deleterie e patologiche componenti decadentistiche. Carlo Salinari (1955) riconosce subito un «gusto morboso dello sporco, dell’abbietto, dello scomposto e del torbido»; la sua diagnosi viene confermata prima da Adriano Seroni (1955) e Gaetano Trombatore (1955); poi, un anno più tardi, da Giovanni Berlinguer: «Tutto trasuda disprezzo e disamore per gli uomini, conoscenza superficiale e deformata della realtà, morboso compiacimento degli aspetti più torbidi di una verità complessa e multiforme» (1956). Si tratta di un atteggiamento che, se anche non uniforme5, rispecchia comunque una precisa posizione ideologica della critica di sinistra, nel periodo storico che segna il concludersi della stagione ‘impegnata’ e, più precisamente, l’esaurimento del mandato neorealista. Come conferma La questione del realismo di Salinari, verso la metà degli anni ’50 la formula ‘neo-realismo’ cede definitivamente il passo a quella di ‘realismo’; ovvero gli operatori culturali della sinistra abbandonano la «necessità della cronaca» (Salinari, 1958, p. 59), tipica dell’immediato dopoguerra, per promuovere una più ampia e approfondita disamina del rapporto tra ‘coscienza’ e ‘storia’. L’esempio più chiaro di tale volontà di superamento si può individuare nel dibattito, caratterizzato da una serie di riappropriazioni della lukacsiana ‘teoria del riflesso’, scatenatosi intorno al romanzo Metello di Vasco Pratolini, proprio nel 1955. In realtà, come testimoniano i giudizi negativi sul primo romanzo di Pasolini, questo desiderio di rinnovamento della cultura di sinistra rimane ancorato all’antica e serrata polemica con l’esperienza decadente, le cui suggestioni continuerebbero a esercitare un’influenza deleteria sugli scrittori contemporanei. Ma se prescindiamo

5 Nonostante la forte tensione programmatica, il verdetto della sinistra non fu unanime. È Pasolini stesso a darne testimonianza a Garzanti dell’agosto 1955 (cfr. L, II, pp. 113-4)

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Capitolo quinto

per un momento dai contenuti ideologici della polemica, non ci è difficile ipotizzare che la scandalizzata accoglienza critica riservata al romanzo pasoliniano abbia contribuito a stimolare l’interesse del pubblico, secondo un meccanismo molto simile a quello che qualche anno più tardi accompagnò l’uscita del film Accattone6. Oltre alle numerose stroncature piovute su Ragazzi di vita, vi furono poi non poche voci perplesse. Non del tutto convinto della riuscita del romanzo appare Oreste del Buono (1955) che dopo aver messo in rilievo i limiti del testo individua in esso una forte componente cinematografica; altrettanto scettico l’intervento di Anna Banti (1955), per cui il fondo intellettualistico del libro, «sadicamente dilettantesco», viene riscattato solo dai suoi passaggi di «immediatezza poetica» (cfr. anche L, II, p. 107 per la risposta di Pasolini). Più benevola, ma sostanzialmente sospesa, la recensione di Fortini (1955), che constata come l’apprezzabile sforzo sperimentale della scrittura pasoliniana approdi a una complessa ma essenzialmente riduttiva concezione di ‘popolo’, risolta in una «unica funzione degustativa»7. Tra i lettori più generosi, invece, scopriamo i critici della vecchia guardia, di formazione ermetica, con i quali Pasolini continua a coltivare ottimi rapporti. De Robertis (1955), per esempio, che Pasolini umilmente ringrazia quale «Autore […] che, praticamente, mi ha iniziato al gusto letterario» con «il Suo amore povero e affettuoso per la letteratura» (L, II, p. 93); Carlo Bo (poi testimone decisivo al processo contro il libro), il quale prima accenna a «inesperienze e incertezze», poi sottolinea come Pasolini si stacchi «dalla cosiddetta scuola dei neorealisti» per consegnarci «un’operazione sentita, profondamente soccorsa dall’intelligenza» (Bo, 1955); ma soprattutto Gianfranco Contini (1955), che in un intervento radiofonico8 redarguisce le mozioni critiche contro Ragaz-

6 Quando il 22 novembre 1961 il film aprì al pubblico, con uno speciale nullaosta della censura (la legge che vietava la visione ai minori di 18 anni entrò in vigore specificamente per Accattone, con un anno di anticipo rispetto a quanto programmato; fino a quel momento i film più scandalosi erano proibiti ai minori di sedici anni), Pasolini era ormai diventato il bersaglio preferito della stampa scandalistica, in merito soprattutto al processo per i ‘fatti di via Panico’, conclusosi quattro giorni prima con l’assoluzione di Pasolini (cfr. Betti, 1978, pp. 111-9), e alla denuncia del 19 novembre per i ‘fatti del Circeo’ (Betti, 1978, pp. 119-33). Si tratta di ciò che T. De Mauro ha definito una «persecutoria e lubrica insinuazione permanente (anche […] fotografica) di irregolarità sessuale, di omofilia, che dal 1960-61 in poi accompagna buona parte delle notizie su Pasolini» (De Mauro, 1978, p. 253). 7 A questo saggio Pasolini risponde con una lettera: «Hai ragione in moltissime cose: vorrei solo discutere con te la tua critica del concetto di ‘popolo’ che mi attribuisci […] questo di Ragazzi di vita non è popolo, ma sottoproletariato: a Bologna o a Milano è tutta un’altra cosa, e io non mi sognerei mai di rappresentarlo con tanta infida incoscienza: c’è una civiltà settentrionale ‘comunale’ e una civiltà centro meridionale papalina o bizantina o monarchica: lo sai bene» (L, II, p. 117). 8 Si tratta di «Dieci anni di letteratura ’45-’55», un intervento sulla letteratura italiana contemporanea composto su richiesta della RAI-Televisione e diffuso nella rubrica «Scrittori al microfono» la sera dell’8 agosto 1955.

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zi di vita («singolare che per esso nari ordinariamente indulgenti si siano credute in dovere di farsi tanto emunte»), parlando di una «imperterrita dichiarazione d’amore» dello scrittore verso il mondo delle borgate (cfr. anche L, II, pp. 121-2). Ancora positive, se non entusiaste, le recensioni di Giulio Cattaneo (1955), e di Giancarlo Vigorelli, acuto nel notare come la «morale ferina e subumana» indichi la presenza di un «altro mondo», rappresentato da quei «succhi vitali che possano essere trasferiti, per rinsanguarla, nella stessa sfera intellettuale» (1955). In virtù del formidabile interesse sensazionale e mondano suscitato dal libro di Pasolini al momento della sua uscita, potremmo dedurre che Ragazzi di vita sia stato concepito dal suo autore in funzione di un ambizioso progetto di autoaffermazione letteraria e, più ampiamente, pubblica, su cui avrebbe potuto senz’altro influire il desiderio di riscattare se stesso e la famiglia dalle precarie condizioni economiche (cfr. L, II, p.123). Ma nel formulare questa facile ipotesi, non possiamo dimenticare che il 1955 è anche l’anno del Canzoniere italiano e della fondazione di «Officina», momenti che attestano perentoriamente la ricchezza della proposta culturale pasoliniana. A parte il successo commerciale, sembra dunque più che opportuno investigare con attenzione le ragioni profonde alla base della scrittura di un romanzo che viene lentamente alla luce tra il 1950 e il 1955 (per le notizie filologiche cfr. Racconti e romanzi, I, pp. 1692707), simultaneamente all’ampia riflessione e produzione critica esaminata nel precedente capitolo. 5.2 Nel nome del sottoproletariato Sia in Ragazzi di vita che in Una vita violenta, l’indiscusso protagonista è il sottoproletariato. Pasolini ha sempre sostenuto che la sua maggior preoccupazione, nella stesura dei due romanzi che lo hanno portato alla ribalta nazionale, era testimoniare l’esistenza di una grande massa di emarginati sociali da sempre esclusa dalla letteratura ufficiale. Ma se dal punto di vista strettamente stilistico l’operazione del recupero del sottoproletariato è stata esaustivamente delucidata dall’autore (cfr. in particolare Pasolini, 1958b), il significato ideologico complessivo di tale operazione non è mai parso altrettanto chiaro. Credo però che sarebbe errato separare nettamente l’ambito stilistico da quello ideologico. Già nella nostra precedente analisi dell’attività critica del Pasolini romano abbiamo evidenziato come non si possa comprendere la posizione dell’autore prescindendo dalle sue scelte estetiche. Nel 1961 egli sostiene, confermando le sue posizioni degli anni ’50, che la dimensione formale dell’arte deve integrarsi e insieme collidere con quella politica per evidenziarne l’intima instabilità: l’ideologia di uno scrittore è la sua coscienza letteraria […] che provvede a fondere in modo stilisticamente irreversibile gli schemi della vera e propria ideologia politi-

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ca e gli schemi della ideologia estetica, che spesso hanno due storie non coincidenti. […] In altre parole, l’ideologia di uno scrittore è la sua ideologia politica […] ma calata in una coscienza in cui si dà il massimo del particolarismo individualistico, con tutte le sue sopravvivenze e contraddizioni storiche e concrete. La verifica di quello che succede in questo urto, in questa fusione, è la vera e propria ideologia di uno scrittore. (Dialoghi, pp. 194-5)

La profondità delle riflessioni stilistiche di Pasolini è stata recentemente ricordata anche da un linguista di prestigio come Tullio De Mauro, che non ha esitato a difenderne la «straordinaria lucidità teoretica» (De Mauro, 1992b, p. 267). Nel caso di Ragazzi di vita e Una vita violenta, infatti, l’analisi della scrittura pasoliniana in quanto problema linguistico sembra poterci condurre direttamente alla dimensione ideologica, come suggerisce d’altra parte l’esordio di un importante documento del 1958: Il fatto che leggendo frammenti e pagine da Una vita violenta si possa pensare di trovarsi di fronte a frammenti o pagine di Ragazzi di vita non è casuale: significa che il paradigma, lo spitzeriano periodo-campione, è lo stesso, e che quindi stilisticamente non c’è soluzione di continuità. E se non c’è trasformazione stilistica non ci sarà più neppure trasformazione interna, psicologica e ideologica. (Pasolini, 1958b, p. 209)

Sarà dunque essenziale analizzare le operazioni stilistiche alla base di Ragazzi di vita e Una vita violenta, per poi cercare di vagliarne lo spessore teorico. 5.2.1 Radicalità della regressione Per prima cosa, osserviamo come in entrambi i romanzi l’autore scelga di adottare «il più intimo spirito linguistico» (Pasolini, 1958b, p. 210) del sottoproletariato romano, per mettere in pratica quel «ritorno del poeta all’anonimato del parlante» (Passione e ideologia, p. 61) teorizzato nei primi anni ’50. Ciò comporta l’adozione di uno stile letterario contrassegnato dal ricorrere del ‘discorso libero indiretto’, per cui Pasolini narra le vicende calandosi nella psicologia e conseguentemente nell’universo linguistico-culturale dei ragazzi di borgata. Credo che il significato ultimo della regressione nel parlante sottoproletario possa essere inteso solo partendo da una prospettiva rigorosamente teorica. Intendo dire che la regressione nel parlante, responsabile di quell’appiattimento psicologico sovente lamentato dalla critica (cfr. Fortini, 1955; Ferretti, 1976a, pp. 229-50; Rinaldi, 1982, pp. 144-80; Serri, 1997) presuppone, da parte dell’autore, una riflessione di tipo filosofico. L’occultamento dello scrittore avviene infatti dietro una specifica nozione di popolo, corrispondente al giovane sottoproletariato maschile trascelto in una sua specifica determinazione psicologica, il suo vitalismo. La specificità di tale operazione regressiva, culminante appunto nel recupero del vitalismo sottoproletario, sembra rimandare a profon-

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de tensioni di tipo teorico piuttosto che risolversi nella piatta empiria del documentarismo; più precisamente, essa implica la necessità del recupero di una coordinata utopica intesa a valorizzare e promuovere ciò che si sottrae al ‘discorso’ razionale. All’interno di questa progettualità la riflessione sul ‘corpo’ torna a avere, come già in Friuli, un ruolo assolutamente centrale. Si tratta di una riflessione che implica in primis il recupero di Eros e Thanatos, «le esperienze profonde del sesso e della morte» in cui, come ricorda in un suo recente libro Jan Kott, rifacendosi a S. Freud e a G. Bataille9, «la separazione fra ‘io’ e ‘non-io’ scompare» (Kott, 1992, p. 16). Confermerà Pasolini: «Da Freud in poi, tutte le tendenze della psicoanalisi hanno concordemente individuato nel fatto erotico un elemento uguale e contrario (antagonistico)… Freud lo chiama Thanatos, l’istinto di morte. Così che la tendenza erotica trova un limite nell’istinto di morte» (Duflot, 1993, p. 73). Dobbiamo poi aggiungere che una simile accezione utopica dell’esserci in carne e ossa, della presenza fisica del sottoproletariato romano trova notevole spazio anche nella poesia che Pasolini viene componendo nella seconda metà degli anni ’50, in particolare quella pubblicata nella raccolta La religione del mio tempo (cfr. Best, I, pp. 414-593). Se consideriamo per esempio il lungo poema che dà il titolo al libro, non ci può sfuggire come sia inequivocabilmente il nesso ‘corpo-utopia’, rinsaldato dal sentimento panico della Natura10, a determinare l’esplosione di rabbia civile dei versi di Pasolini, il suo sdegno contro il conformismo del potere politico-religioso dell’Italia del boom (la «norma che vuole uguali», Best, I, p. 507). Assai significativo, ad esempio, che attraverso la contemplazione dei corpi di due ragazzi di borgata, «disadorni» e «ignorati» (Best, I, p. 489), «poveri, allegri cristi quattordicenni» (Best, I, p. 499), Pasolini operi un’abrasione delle categorie spazio-temporali («La vita è come se non fosse mai stata», Best, I, p. 490), che prima gli consente di riandare pieno di pathos alle «misteriose / mattine di Bologna o di Casarsa, / doloranti e

9 È più che probabile che Pasolini abbia recuperato tali luoghi attraverso la lettura di Freud, che, come abbiamo già avuto modo di costatare, ebbe notevole influenza sulla sua formazione. Interessante, in questa prospettiva freudiana, il parallelo tra l’opera pasoliniana e le teorizzazioni del filosofo e scrittore George Bataille, che ha a lungo investigato la complicità di sessualità e morte in quanto emblemi del sacro. Scrive di lui in un recente studio Carlo Pasi: «I divieti più comuni colpendo infatti sia la vita sessuale che la morte le inseriscono entrambe in una sfera ‘completamente altra’ che assume in tal modo un carattere sacro» (Pasi, 1998, p. 169). 10 Mi riferisco in particolare ai versi in cui Pasolini descrive un suo viaggio nelle borgate in compagnia di Fellini, conclusosi con l’arrivo sulla costa di Torvajanica e l’incontro epifanico con «la luce e la bianchezza immortale / del Dio», un misto di vento e «colonna salata ed estatica / di pulviscolo» alzatosi dal mare in burrasca. Poco oltre definito «estetico dio del mare, informe Forma, / mescolanza irrazionale di gioia e dolore» (Best, I, pp. 508-10), secondo un paradigma già esplorato (si pensi al progetto friulano del Romanzo del mare, RR, I, pp. 1676-81). Più avanti Pasolini parla di natura associandola all’idea della morte: «Non c’è più niente / oltre la natura – in cui del resto è effuso / solo il fascino della morte» (Best, I, p. 514).

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perfette come rose» (Best, I, p. 490), cioè di riesumare il «contadino mistero» (Best, I, p. 496) dove «la carne era senza freni» (Best, I, p. 492)11; e quindi gli suggerisce, per contrappunto, una violenta invettiva contro le moderne istituzioni dello Stato e della Chiesa, ree di imporre una fede borghese che cancella dall’esperienza umana, «per paura e aridità» (Best, I, p. 498), il senso del sacro (concetto, quest’ultimo, che anticipa ancora una volta gli attacchi all’omologazione degli anni ’60 e ’70). A prima vista, dunque, la forte significazione utopica della parola letteraria di Pasolini sembrerebbe produrre quanto di più lontano vi possa essere dall’estetica realista. Lo scrittore infatti abbandona le forme convenzionali di mediazione narrativa, vincolando il lettore a un mondo popolare che, specie nei romanzi, viene elevato a pura plasticità espressiva, e costretto così dentro il cerchio magico del ‘mito’. In realtà, una ricognizione sulle operazioni stilistiche compiute dal Pasolini narratore ci rivelerà che proprio questo aspetto ipnotico della sua scrittura è assolutamente funzionale al disegno ideologico che presiede e qualifica i due romanzi romani. 5.2.2 Osservazioni sull’attendibilità dei glossarietti Colpisce innanzitutto la scelta di inserire in coda ai due romanzi altrettanti nutriti vocabolarietti di romanesco-italiano. Una scelta che l’autore giudica superflua (RV, p. 245; Dialoghi, p. 9), data la trasparenza intuitiva dei termini dialettali e gergali usati12; ma una scelta che nondimeno offre ai filologi una stimolante prospettiva operativa. Sul glossario romanesco di Ragazzi di vita, come su quello di Una vita violenta, sono state avanzate molte ipotesi, non sempre supportate da studi sufficientemente rigorosi. Il primo spoglio sistematicamente filologico dei glossari pasoliniani si deve a Monique Jacqmain (1970), che giudica il romanesco di Pasolini un’operazione sostanzialmente erudita, basata soprattutto sul recupero del lessico letterario di G. G. Belli. Un decennio più tardi, Renzo Bruschi (1981), ignaro dello studio della Jacqmain, conclude invece che almeno un terzo del lessico pasoliniano deriva da aree dialettali umbre (per la precisione folignati e spoletine), ipotizzando inoltre la presenza di non pochi neologismi. Contrariamente ai risultati di queste prime ricerche, più recenti e completi spogli hanno assodato che il lessico di Pasolini è pressoché interamente basato sul romanesco parlato. C. Costa (1997) ha eseguito un’analisi meticolosa, sulla 11 Cfr. anche il passaggio in cui i ragazzi romani vengono paragonati ai ragazzi friulani («Anche loro disadorni, ignorati / […] rivedo con le larghe e dure / faccie contadine, l’occhio bruciante / […]», Best, I, p. 500), e quindi trasportati idealmente nella Russia proletaria, evidentemente a recuperare la scintilla utopica alle ragioni della lotta di classe (cfr. Best, I, p. 502 e passim). 12 Occorre precisare che molti termini gergali e dialettali non vengono riportati in glossario.

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base di trentatré opere lessicografiche e di sei differenziati parlanti, delle 368 voci che, sulle 475 totali dei due glossari pasoliniani (77,6 per cento), Jacqmain e Bruschi avevano considerato prive di corrispondenza nella tradizione romanesca. Una tale indagine ha portato Costa a concludere che in realtà solo il 20 per cento del lessico glossato da Pasolini resta senza riscontri romaneschi, ma che poi la maggior parte di questo 20 per cento non corrisponde a lemmi eruditi o di diversa derivazione geografica, bensì a un lessico assolutamente realistico, che Pasolini ha raccolto a Roma prima o durante la naturale selezione operata dal parlante romano. La conclusione di Costa è dunque che, nonostante un’esigua presenza di termini di origine letteraria, l’intervento linguistico di Pasolini, «riproducendo una realtà senza scartare nulla», equivale alla «rappresentazione iperrealistica di una lingua in atto fotografata senza filtri» (Costa, 1997, pp. 193-4). Per quanto Luca Serianni (1997, p. 11) ritenga che verificare l’attendibilità dialettale del romanesco pasoliniano non serva a molto, «perché la rielaborazione letteraria rende di per sé non attendibile lo spaccato dialettale offertoci da uno scrittore», mi pare invece che la conclusione di Costa possa tornare utile al nostro discorso sul Pasolini intellettuale. Dimostrare l’attendibilità del romanesco di Pasolini equivale in fondo a dimostrare il carattere ‘esistenziale’ della sua regressione: basata cioè, come attestò l’autore stesso (RV, pp. 210-1), su un’accanita ricerca compiuta in loco (precisamente nelle borgate della periferia orientale di Roma), di tipo opposto rispetto a quella compiuta sul dialetto friulano. Registrando e riproducendo su carta frammenti specifici della vita di borgata, Pasolini applica una «violenta e assoluta mimesi ambientale» che gli consente di scomparire, in quanto scrittore, dietro una «realtà ‘puramente visiva’ (e acustica, tattile, olfattiva)» (Pasolini, 1959b, p. 45). Mi pare che la povertà delle varianti sociolinguistiche, e dunque la deformazione del concetto di ‘popolare’ rimproverata da Gian Carlo Ferretti a Pasolini (che farebbe parlare, secondo moduli espressivi assai ripetitivi, solo una fascia assai ristretta della popolazione sottoproletaria) rappresenti proprio il carattere ‘violento’ di questa mimesi, nel senso di «operazione programmatica ‘vistosamente’ soggettiva» (Ferretti, 1976a, p. 229). L’intervento soggettivo di Pasolini, riconoscibile appunto nella rigida selezione di dati linguistici reali, è funzionale alla rappresentazione della mimesi in quanto non più solo strumento documentaristico13, ma soprattutto luogo teorico: alla volontà, cioè, di rappresentare lo specifico vitalismo del sottoproletariato quale espressione di un’urgenza utopica. Conseguentemente, occorre comprendere che il significato di questa soluzione mimetica non viene per nulla vanificato dalle «sapienti scelte registiche»

13 Del 3 dicembre 1960 questa dichiarazione scritta di Pasolini: «Con Ragazzi di vita e Una vita violenta – che molti idioti credono frutto di un superficiale documentarismo – io mi sono messo sulla linea di Verga, di Joyce e di Gadda: e questo mi è costato un tremendo sforzo linguistico: altro che immediatezza documentaria!» (Dialoghi, p. 69).

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(Serianni, 1997, p. 11) operate da Pasolini, a tavolino, sui frammenti lessicali raccolti col magnetofono14. Piuttosto, in quanto operazione dal profondo significato teorico, viene da esse potenziato. Fondamentale sottolineare, a questo proposito, che l’autore ha ripetutamente teorizzato la dipendenza del suo naturalismo mimetico dall’abilità dello scrittore, dalle sue accurate e ‘vistose’ manovre stilistiche (cfr. Pasolini, 1958b, p. 211; Pasolini, 1959b, p. 47; Camon, 1973, p. 107). Il potenziamento dei dati reali «in direzione allusiva ed evocativa» (Serianni, 1997, pp. 15-6), così come qualsiasi altro intervento stilistico dell’autore, è dunque chiaramente finalizzato a circoscrivere e irrobustire l’effetto mimetico. Ciò significa che, lungi dall’essere operazione documentaria alla maniera dei veristi (cfr. Pasolini, 1960a), cioè uniforme e totalmente strumentale a una logica narrativa interna, la mimesi pasoliniana ambisce al recupero di una dimensione utopica; un recupero che, beninteso, non intende assolutizzare tale dimensione, ma piuttosto rapportarla alla conoscenza razionale della realtà15. La logica di questo rapporto, che ora ci proponiamo di sviscerare, è quella che lega, ‘stilisticamente’ parlando, la mimesi alla contaminatio. 5.2.3 Una imperterrita dichiarazione d’amore: l’agnizione dell’altrove Assai sintomatico che Pasolini (1958b, p. 210) definisca la sua mimesi, citando Contini, «una imperterrita dichiarazione d’amore»; definizione che ritroveremo puntualmente anche nella teorizzazione del cinema come «lingua scritta della realtà» (cfr. EE, pp. 229-30). Si tratta di una di quelle asserzioni che sembrerebbero negare all’operazione pasoliniana una reale finalità ideologicoconoscitiva, in quanto scendere al livello dei reietti, degli esclusi dall’universo borghese per adottarne l’angolo visuale sul mondo, parrebbe operazione alimentata da un sentimento e una passione totalmente impulsivi. In realtà, il discorso è assai più complicato. Nel caso di Pasolini si tratta, è noto, di un sentimento d’amore tutt’altro che platonico, alimentato essenzialmente da una forte carica di vitalismo che garantisce la procedenza esistenziale del suo pensiero. Come contesta a Fortini (cfr. L, II, pp. 444-5; citato anche in Fortini, 1993, p. 115), l’intellettuale non può permettersi di giudicare il popolo in modo astratto,

14 Come Serianni, anche Mirella Serri (1997, p. 358), in un recente studio, ha visto in RV un abbandono della mimesi. 15 Questo concetto di mimesi mi pare corrisponda esattamente a quello così esposto da Adorno (1977 pp. 92-3): «Il perdurare della mimesi, l’affinità aconcettuale che ciò che è prodotto soggettivo ha col suo altro, con ciò che non è posto, fa dell’arte una configurazione della conoscenza e perciò a sua volta ‘razionale’. […] L’arte completa la conoscenza con ciò che da questa è escluso e in tal modo pregiudica di nuovo il carattere conoscitivo, l’univocità della conoscenza».

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seppure nel nome di una dottrina politica rivoluzionaria, ma deve prima di tutto venirne a contatto, conoscerne ‘gramscianamente’16 la vita fisica e psicologica. Ciò che importa è sottolineare come Pasolini torni a rivendicare la centralità del dato ‘fisico-corporale’ alla sua concezione di realismo, poiché questa rivendicazione, se tradotta, significa il recupero del sacro, e insieme la sua contrapposizione antitetica alla ragione ontologica. Dirà l’autore negli anni ’70: «Scrivere romanzi è significato per me vivere nella scrittura la situazione romanzesca dell’agnizione dell’altrove» (cfr. Anzoino, 1974, p. 2). Ecco allora che l’atto d’amore per il popolo in quanto entità storica, empiricamente conosciuta, corrisponde alla necessità morale e intellettuale di ricondurre la razionalità moderna al confronto-scontro con la radice ‘altra’, cioè sacra, del reale. Il sottoproletariato diventa il testimone vivente dell’esistenza e esperibilità del dato a-razionale, l’ideale esponente di una sacralità fisica (reale) intesa a desacralizzare la sacralità astratta (irreale) della ragione borghese. La strategia implicita nella regressione stilistica di Pasolini diventa evidente: obbligare la coscienza pacificata, attraverso il contatto con una narrativa assolutamente chiusa e autoreferenziale, a empatizzare con l’oggetto della narrazione e dunque prendere atto dell’esistenza dell’altro da sé, il luogo del ‘diverso’ in grado di mettere in crisi tale pacificazione. La nozione di mimesi si rivela allora centrale all’operazione sul sottoproletariato. Essa implica l’estremo abbassamento della lingua letteraria e insieme della psicologia borghese, fino al loro annichilimento nella sostanza fenomenica che caratterizza il comportamento psico-linguistico del parlante di borgata (cfr. Pasolini, 1957a). Si tratta di un’operazione attraverso la quale Pasolini intende ottenere un risultato radicalmente sorprendente: la trasformazione dell’espressione linguistica in atto assolutamente pragmatico, ‘materia’ e ‘corpo’ piuttosto che ‘idea’, da cui quel forte carattere di ‘straniamento’ individuato da Ward (1995, p. 63). In sostanza, la parola tende a abdicare dal ‘significato’ e dal ‘discorso’, vuole rinunciare a essere il simbolo che nomina e controlla l’oggetto, per diventare, in funzione della riappropriazione dell’impulso utopico, l’oggetto stesso. Ecco allora emergere prepotente il punto di fuga che Pasolini ci vuole indicare: la sua scrittura mira a trasformare la lingua letteraria in un «assoluto

16 Scrive Gramsci: «L’elemento popolare ‘sente’, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale ‘sa’, ma non sempre comprende e specialmente ‘sente’ […]. L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere), cioè che l’intellettuale possa esser tale […] senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica […]; il ‘sapere’ non si fa politica-storia senza questa passione cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione» (Gramsci, 1975, pp. 1505-6). Per quanto la prospettiva di Pasolini finisca per differenziarsi da quella gramsciana (principalmente nell’assegnare all’elemento popolare una valenza utopica), mi pare indubbio che il punto di partenza sia il medesimo.

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naturalismo» (1958b, p. 211) che cancelli la distanza tra il segno e il reale17. L’immersione parossistica nella concretezza del ‘significante’, nella fattispecie tutto ciò che rappresenta l’istinto vitalistico del sottoproletariato, consente alla lingua letteraria di Pasolini di abbattere il divieto e cogliere l’altro da sé, mettendo in luce, per contro, la falsa coerenza di qualsiasi distanza, di qualsiasi punto di vista privilegiato. Quella di Pasolini diventa dunque una scrittura ‘sacrificale’, che esprime principalmente il desiderio trasgressivo di negare se stessa, il proprio limite, per abbracciare l’altro. Il senso di questa operazione si può cogliere in un passo del saggio «Intervento sul discorso libero indiretto», del 1965: La cosa più odiosa e intollerabile, anche nel più innocente dei borghesi, è quella di non saper riconoscere altre esperienze vitali che la propria: e di ricondurre tutte le altre esperienze vitali a una sostanziale analogia con la propria. […] Uno scrittore borghese, anche nobile, anche alto, che non sappia riconoscere i caratteri estremi della diversità psicologica di un uomo dalle esperienze vitali diverse dalle sue […] compie un atto che è il primo passo verso forme di difesa dei privilegi e addirittura di razzismo: in tal senso egli non è più libero, ma appartiene deterministicamente alla sua classe: non c’è soluzione di continuità tra lui e un commissario di polizia o un boia dei lager. (EE, pp. 89-90).

Per evitare questa mistificazione, attraverso la mimesi l’autore propone dunque un’operazione non solo estrema, ma anche estremamente delicata, poiché dipendente da sottilissimi equilibri narrativi. Il rischio più macroscopico è che l’immersione naturalistica, se eccessivamente univoca e magmatica, finisca per annebbiare la comunicazione, soffocare l’intenzione strategica, il suo rimando culturale. L’analisi di Rinaldi si concentra su questo rischio. Secondo Rinaldi la retorica narrativa di Pasolini «mima e ripete» l’efficienza del sistema borghese, «e nel farlo vi si oppone: come un simile che rinnega un simile munendosi di senso negativo, come un rispecchiamento che funziona da rifiuto […] come alienazione che rinnega l’alienazione». Pur cogliendo esemplarmente la tensione simbolica centrale di Ragazzi di vita, il critico non va al fondo della questione. Prima egli dimostra che il mondo del sottoproletariato pasoliniano, interpretato «come un grande sistema di circolazione di merci», riproduce sostanzialmente l’ideologia borghese del capitale, cioè «l’occultamento del lavoro nella merce-feticcio, il culto del denaro come accumulo, la corsa allo scambio»; poi aggiunge che in realtà questa tesi può essere capovolta se osserviamo

17 Negando a Pasolini l’impiego di un accorgimento stilistico come il discorso libero indiretto, Renato Barilli, redattore de «Il Verri» e tra i critici della neoavanguardia più partecipi delle sorti del romanzo italiano postbellico, sostenne (cfr. Barilli, 1959) che la scrittura di RV e di VV implica il mantenimento di una netta distanza tra autore e materia narrata, attraverso la quale vengono rigorosamente riprodotte le strutture naturaliste (con particolare riferimento a Emile Zola).

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che in Ragazzi di vita «il circolo delle merci presenta dei punti di fuga, di dispersione, punti in cui la merce viene perduta, dissipata, distrutta» (cfr. Rinaldi, 1982, pp. 154-7). Per quanto individui con acutezza varie manifestazioni, in Ragazzi di vita, di questa coazione alla dissipazione, Rinaldi finisce per ignorarne il significato profondo. Si tratta in sostanza di tirare le somme: se è vero che la classica logica borghese del ‘lavoro-risparmio’ (e aggiungerei anche quella moderna del ‘lavoro-consumo’) si capovolge nel testo pasoliniano nella logica sottoproletaria del ‘furto-spreco’, mi sembra evidente che in quest’ultimo binomio si raccolga e concretizzi il rovesciamento utopico che l’autore intende opporre, antiteticamente e polemicamente, all’etica borghese. Munendosi di segno utopico, tale rovesciamento non è affatto uguale al suo contrario, ma indica la necessità del recupero di una prospettiva di realismo che rivaluti il legame ‘parola-corpo’, ‘idea-materia’, su quella di una troppo astratta ideologizzazione. Credo dunque che Pasolini sia consapevole del rischio che corre nel tagliare i ponti tradizionali con la retorica letteraria, per spingersi senza mediazioni verso l’oggetto amato. Credo infatti che la sua regressione, per quanto clamorosa, sia prima di tutto assolutamente necessaria alla radicalità implicita nel suo progetto narrativo, e poi conservi un fondo di auto-consapevolezza in grado di assicurarle un respiro autenticamente culturale. Vedremo ora come la coscienza dell’autore si manifesti tanto all’interno di Ragazzi di vita, che nel rapporto di questo primo romanzo con Una vita violenta. 5.3 Sulla dimensione utopica di «Ragazzi di vita» 5.3.1 Antitesi della forma: dalla «mimesi» alla «contaminatio» Sono numerosi i modi di attuazione della mimesi. Rinaldi ha parlato di una macrostruttura volutamente povera che vuole «umiliare la struttura romanzesca, tradizionalmente complessa e raffinata»; di una sintassi «estremamente semplificata»; di un dialogo caratterizzato da un «codice della esclamatività» che riduce la comunicazione a «una questione di acustica» (cfr. Rinaldi, 1982, pp. 160-2). Se queste si possono considerare soluzioni tecniche generali indubbiamente praticate da Pasolini, ve ne sono molte altre, più specifiche, che servono a tenere la lingua letteraria a un livello di assoluta icasticità. A parte il discorso libero indiretto, che qualifica pressoché ogni paragrafo del romanzo18, segnaliamo il ricorrere assiduo del turpiloquio, che nelle bozze era notevolmente più praticato e che Pasolini dovette con sua grande delusione limitare al minimo, sotto la pressione dell’editore Garzanti (cfr. la ricostruzione filologica

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Si legga lo scritto «Intervento sul discorso libero indiretto» (EE, pp. 81-103), con cui Pasolini offre un’ampia giustificazione teorica della sua scelta stilistica.

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di W. Siti e S. De Laude in RR, I, pp. 1701-7); il carattere plasticamente popolare delle moltissime similitudini (ne trascegliamo alcune: «guardò il Caciotta, che, per la giannetta, aveva la faccia bianca e viola come una cipolla», RV, p. 90; «s’accostarono alla donna ch’era piccola e grossa come un rotolo di còppa», RV, p. 99; «gli venne su una ondata di riso, che lo fece gorgogliare come un pentolone», RV, p. 234); il ricorrere del canto sulla bocca dei ragazzi di vita, manifestazione di una specie di sacra e atarassica indifferenza («Il Lenzetta per far vedere che lui non si meravigliava di niente e che la sua massima era: fatte sempre li c… tua, si mise a cantare», RV, p. 129; ma si vedano numerosi e più articolati esempi, pp. 103; 109; 154; 157; 167-8; 186; 211 e passim); la ricchezza dei particolari topografici (RV, p. 127); l’uso pittorico dei colori, in particolare le varie gradazioni di rosso; l’umorismo tipicamente romanesco, sarcastico e sfrontato (RV, pp. 13; 150-1). Tuttavia la lingua di Pasolini non è sempre protesa alla ricerca del proprio ‘grado zero’ (cfr. Barthes, 1960 e Benedetti, 1998, p. 38). Se per esempio paragoniamo l’inizio alle ultime due pagine di Ragazzi di vita non possiamo ignorare un notevole salto stilistico. Se l’esordio ci offre già esempi di discorso libero indiretto: «Il Riccetto […] pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare. […] aveva una gran prescia di tagliare» (RV, p. 7); la conclusione tende a eliminare completamente tale modulo stilistico, sostituendolo con un italiano letterario medio-alto, oggettivo e sufficientemente distaccato. Negli ultimi cinque paragrafi, per la precisione, quelli che narrano la morte di Genesio, Pasolini rinuncia del tutto alla sua immersione nel parlante. Riporto di seguito gli incipit di questi paragrafi: Genesio allora s’alzò all’impiedi, si stirò un pochetto, come non usava fare mai, e poi gridò […]. Stette fermo, in silenzio, a contare, poi guardò fisso l’acqua con gli occhi che gli ardevano sotto l’onda nera ancora tutta pettinata. ‘Daje, a Genè’, gli gridavano i fratellini da sotto il trampolino, che non capivano perché Genesio non venisse in avanti […]. Ma lui non riusciva a attraversare quella striscia che filava tutta piena di schiume, di segatura e di olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla del fiume. Il Riccetto, con le mani che gli tremavano, s’infilò in fretta i calzoni, che teneva sotto il braccio, senza più guardare verso la finestrella della fabbrica, e stette ancora un po’ lì fermo, senza sapere che fare. ‘Tajamo, è mejo’, disse tra sé il Riccetto che quasi piangeva anche lui, incamminandosi in fretta lungo il sentiero, verso la Tiburtina; andava anzi quasi di corsa, per arrivare prima dei due ragazzini. (RV, pp. 239-40)

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Il fatto narrativo è di capitale importanza nel darci la misura della consapevolezza stilistica dell’autore. Innanzitutto, stendendo i cinque paragrafi finali senza ricorrere al discorso indiretto libero, cioè narrando in un italiano scevro da contaminazioni gergali e dialettali, Pasolini stabilisce una distanza netta tra sé e la materia trattata, svelandoci l’artificiosità del suo pulsionale naturalismo. Si potrebbe a questo punto obiettare che il segnale linguistico lanciato da Pasolini nel finale sia troppo incerto e debole per potersi propagare sul resto del romanzo. In realtà, il ricorso a una lingua letteraria media è un’operazione che sin dall’inizio viene ripetuta con calcolata frequenza. Il discorso libero indiretto, principale veicolo della mimesi, non viene applicato uniformemente, perché se così fosse il lettore, paradossalmente, non si accorgerebbe della sua importanza linguistica, e l’intera operazione ne risulterebbe compromessa. Basta aprire a caso per accorgersi della peculiarità sperimentale di uno stile che ‘salta’ continuamente da un registro rasoterra a uno medio-alto, e viceversa19. L’obiettivo di tale manovra mi pare ovvio, e perfettamente in linea con quanto Pasolini veniva contemporaneamente maturando nei suoi scritti critici: ostacolare una lettura ‘fluida’ del romanzo, ovvero un’immersione indisturbata e ‘complice’ nei contenuti della narrazione. La ‘contaminatio’ tra una scrittura mimetica e una sostanzialmente convenzionale, applicata con monolitica ossessione, ci offre una traduzione stilistica del sistema teorico di Pasolini, rispecchiando l’antitesi tra utopia e coscienza pacificata, cioè denunciando la falsa riconciliazione, linguistica e storico-politica, operata dalla ratio borghese20. 5.3.2 Antitesi del contenuto: dall’utopia al battesimo borghese del sottoproletariato Da un punto di vista contenutistico, la contrapposizione antitetica che caratterizza lo stile pasoliniano si rispecchia nella tematica centrale del romanzo: l’opposizione vita-morte. Consideriamo, per esempio, la morte di Genesio, che chiude il romanzo, episodio riguardo al quale occorre subito fare alcune precisazioni. Per prima cosa, mi pare si tratti di una morte da intendersi, più che come semplice fatto narrativo, come simbolo di una condizione assoluta e, insieme, di una tensione metastorica. Quello della morte, dirà il Pasolini teorico del cinema (EE, pp. 240-1), è sempre un simbolismo ‘orfico’, poiché essa possiede un significato retroattivo che la lega indissolubilmente alla vita, ga-

19 Un esempio: «Dentro si sentivano i pianti delle donne. I maschi, invece, non davano segni d’esser commossi, e anzi, semmai, avevano, incarnata nei lineamenti di giovinottelli imberbi o di vecchi paraguli, una vaga espressione di divertimento. A Pietralata, per educazione, non c’era nessuno che provasse pietà per i vivi, figurarsi cosa c… provavano per i morti» (RV, p. 106). 20 Una conferma di questa operazione viene dalla discussione dell’italiano ‘tecnologico’ che Pasolini svilupperà in EE (cfr. soprattutto il saggio «Nuove questioni linguistiche», pp. 5-24). Cfr. anche De Mauro, 1999.

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rantendole un senso. Negli ultimi cinque paragrafi, potremmo desumere, Pasolini esegue il montaggio del suo romanzo, indicandoci che proprio da quella morte bisogna partire per comprendere il significato della narrazione. Ma vediamo cosa succede esattamente in questo finale. Il fatto centrale è la morte per affogamento di Genesio mentre cerca di attraversare il fiume a nuoto, evento che si svolge proprio sotto gli occhi di un Riccetto tanto abulico da risolvere di non intervenire in soccorso dell’amico. Viene subito a mente un brano analogo, a inizio romanzo, in cui il Riccetto si era istintivamente buttato a fiume per salvare una rondinella (cfr. RV, pp. 28-9); in realtà è il Riccetto stesso che, nel partecipare visivamente all’agonia di Genesio, ricorda questo fatto a se stesso e soprattutto al lettore (cfr. RV, p. 236). Possiamo forse cominciare a comprendere, allora, il significato simbolico assegnato a questa decisiva messa in atto della morte. L’autore sembra volerci dire che, a sette-otto anni di distanza dal tempo storico di inizio romanzo, tanto il Riccetto, quanto il narratore, sono riemersi alla vicenda con una ‘coscienza’: in un certo senso si tratta di un vero e proprio atto di nascita. Ma un atto di nascita contrassegnato da segno negativo, poiché qui, evidentemente, ‘coscienza’ equivale a viltà, soprattutto se paragoniamo la scena, come l’autore ci invita a fare, al nobile gesto del salvataggio della rondinella compiuto dal giovane e incosciente Riccetto delle prime pagine. Perché questo segno negativo? La maturazione del Riccetto è negativa perché rappresenta l’ingresso del personaggio nel mondo borghese, e così l’inizio di una sua caratterizzazione che Pasolini, fedele alla mimesi sottoproletaria, si rifiuta di esplorare. Tale battesimo borghese, nell’episodio in questione, è confermato dal comportamento generale del Riccetto che, per la prima volta nel romanzo, si mostra autoritario, supponente (cfr. RV, pp. 234-6), e soprattutto egoista nel pensare a se stesso in terza persona (fatto assolutamente unico nel romanzo, interpretabile forse come un primo segno di nevrosi borghese), come quando si autogiustifica il mancato intervento in aiuto di Genesio: «Io je vojo bbene ar Riccetto, sa!» (RV, p. 241). Possiamo dunque considerare questa rappresentazione della morte come misura di quella ‘colpa borghese’ che tanto peso ha avuto sul pensiero di Pasolini: osservando impietrito e colpevole l’affogamento dell’amico, il Riccetto vede il nuovo se stesso, cioè la morte come definitivo abbandono dell’anarchica innocenza sottoproletaria e ingresso nel mondo governato dalla ragione strumentale. A livello di contenuti, la resistenza pasoliniana all’universo orrendo della ragione borghese si presenta in forme diverse, ma tutte rientranti sotto la categoria del ‘sacro’. Il tema del sesso, ad esempio, spesso svolto al limite del grottesco (cfr. RV, pp. 46 e 91); oppure quello della violenza amorale, della gratuità del male21. L’episodio più rappresentativo di quest’ultimo tema è probabilmente la messa al rogo del Piattoletta (cfr. RV, pp. 173-5). 21 A proposito del ricorrere di temi legati al sesso e alla violenza, celebre il giudizio di Salinari, che rifiuta l’interpretazione simbolica per farne un caso di perversione (cfr. Salinari, 1958, p. 59).

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Connesso al tema del male, e sempre all’interno della simbologia del sacro, troviamo, come anticipato, il tema della morte, vera e propria ‘tappa fissa’ della narrazione. Alla critica è sempre sfuggito che, oltre a chiudere, il romanzo apre con un episodio di morte; come l’ultimo, questo episodio avviene in presenza del Riccetto, che però in questo caso, assai significativamente, sembra rifiutarsi di prenderne atto («Il Riccetto era scomparso, forse era riuscito fuori. La folla si era dispersa. Marcello tornò a scavalcare la donna morta e corse verso casa», RV, p. 11). La collezione di morti continua poi secondo diverse varianti: il suicidio di Amerigo (cfr. RV, p. 102), il passaggio di un feretro sotto gli occhi ‘filosofici’ del Lenzetta (cfr. RV, p. 111), l’incidente stradale che uccide un nugolo di ragazzi di vita dopo un furto di polli (cfr. RV, p. 203), il matricidio di Alduccio a cui si allude nel finale del penultimo capitolo (cfr. RV, p. 216), i propositi di parricidio avanzati dai tre fratelli Genesio, Borgo Antico e Mariuccio (cfr. RV, p. 224), fino alla conclusiva scomparsa di Genesio (cfr. RV, p. 240). Mi pare che nel trattamento della morte, la scrittura pasoliniana ambisca principalmente a assimilare un’istanza di sacralità, per quanto, a un livello di lettura forse più superficiale, essa intenda anche fornire un eloquente commento di protesta circa la disperata condizione socio-economica dei sottoproletari. La descrizione della morte di Amerigo (cfr. RV, pp. 102-3) è paradigmatica nel riunire entrambi i simbolismi; Pasolini la descrive con meticolosa precisione, dilatando con consumata abilità tecnica la rappresentazione narrativa al fine di aumentarne l’effetto di epicità, e donarle così una ricchezza allegorica del tutto autonoma. Al pervasivo simbolismo sacrale del testo fa da contrappunto l’inserzione di tematiche ‘affermative’, contraddistinte cioè dalla loro concreta percorribilità spazio-temporale. Esse interessano principalmente la vita del Riccetto in quanto ‘filo conduttore’ del romanzo. Mi riferisco in specie al tema del lavoro (cfr. RV, pp. 99-100), che viene abbinato, come accadrà in modo più esteso in Una vita violenta, al tema del fidanzamento (cfr. RV, pp. 138-40). Il Riccetto (a testimonianza del fatto che esiste in lui un processo evolutivo), arriva a contemplare l’etica del lavoro e della famiglia, che sancirebbe il suo ingresso a tutto tondo nel mondo della morale borghese. Si tratta di anticipazioni del messaggio incorporato nella morte di Genesio, e soprattutto della riflessione che dominerà Una vita violenta: l’integrazione del sottoproletariato nell’ordine borghese. È fondamentale notare come i luoghi ‘affermativi’ del romanzo siano rigorosamente connotati, in termini di contenuto, dal segno negativo. Il fidanzamento è visto come un dovere sociale (ricompensato dalla soddisfazione di una domenica al cinema) a cui è legata la necessità del lavoro: Il fidanzamento comportava una vita seria: e difatti il Riccetto – tutto contento di recitare quella parte di ragazzo serio, ch’era quella su cui al Bar della Pugnalata si facevano i commenti più solidi che gli davano più piacere – s’era messo a lavorare. Faceva l’aiutante d’un pesciarolo che aveva banco lì al mercatino della Maranella. E la domenica, sempre per esser del tutto fedele alla sua parte, rinunciava, mistica-

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mente, a andarsene a spasso col Lenzetta e gli altri, o a Centocelle o dentro Roma, e si portava al cinema la sua ragazza. (RV, p. 139)

L’amore di coppia è degradato e svilito, e a esso si contrappone il cameratismo maschile della vita di borgata: La sua ragazza, poi, non era quella che aveva vent’anni, […] ma la roscetta lenticchiosa e un po’ bruttarella, […]. Quando era con lei, e non paccava – e questo era raro, perché non erano mai proprio soli, ma non è che a nessuno dei due gliene dispiacesse molto – il Riccetto s’annoiava tanto che alle volte gli uscivano le madonne per davvero. Allora metteva una scusa qualsiasi per litigare, e finiva sempre per darle qualche ceffone. Non vedeva l’ora che venisse il momento d’andarsene, al Bar della Pugnalata, e ritrovare il Lenzetta e la banda dei paraguletti; ci si presentava con aria soddisfatta, naturalmente, come uno che ormai s’è sistemato, ha superato tutte le inquietudini e non ha più niente da aspettare dalla vita. Contemporaneamente, però, mica rinunciava, per fare il ragazzo serio, alle altre tentazioni e occupazioni d’un dritto fijo de na mignotta, come continuavano a essere gli altri. (RV, p. 139)

Mi pare fondamentale insistere sulla caratterizzazione assolutamente negativa conferita dall’autore a tutto ciò che implica movimento sociale da parte del sottoproletariato. Pasolini sembra infatti convinto che per il sottoproletariato l’alternativa dell’integrazione nell’ordine sociale sia da rifiutarsi senza indugi, mentre la possibilità della via comunista non è per ora nemmeno sfiorata. Una considerazione, quest’ultima, che può essere fertilmente approfondita attraverso l’analisi del secondo romanzo romano. In proposito, ritengo assolutamente decisivo sottolineare la relazione di continuità tra le due opere. Pasolini (cfr. 1958b, p. 209; 1959c; Dialoghi, pp. 2345) affermò ripetutamente di aver concepito Ragazzi di vita all’interno di una trilogia che doveva essere completata dalla stesura di Una vita violenta e dell’incompiuto Il Rio della grana (o La città di Dio), secondo un progetto narrativo piuttosto articolato che si sarebbe dovuto concludere con il ripristino del personaggio ‘forte’, tradizionale, al centro della narrativa, dopo che il Riccetto era stato «un filo conduttore un po’ astratto, un po’ flatus vocis, come tutti i personaggi-pretesto» (Pasolini, 1958b, p. 210). Alla luce di queste dichiarazioni occorrerà allora verificare la relazione di dipendenza di Una vita violenta da Ragazzi di vita, per considerare se la posizione poetico-ideologica di Pasolini, nel secondo romanzo, subisca significativi cambiamenti. 5.4 «Una vita violenta»: nuova politicità? La questione cruciale nell’analisi del secondo romanzo romano è sempre stata quella della sua presunta politicità. La critica ha considerato esplicitamente rappresentata tale politicità nel programmatico emendamento dell’anarchica e sperimentale sostanza di Ragazzi di vita, a cui si è visto corrispondere il

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graduale sviluppo di una tematica sociale culminante nell’iscrizione al PCI di Tommaso Puzzilli, il protagonista del romanzo. All’uscita di Una vita violenta, quasi tutti i critici d’ispirazione marxista credettero di riconoscere questo presunto emendamento (Salinari, 1959; Rago, 1959; Manacorda, 1959; Dal Sasso, 1959; Asor Rosa, 1959), per quanto non sempre giudicandolo con pieno favore. Pochi, tra gli altri, ipotizzarono una sostanziale corrispondenza con il precedente romanzo (Citati, 1959; Bo, 1959; Petrocchi, 1959), rifiutando l’interpretazione politica. A metà degli anni ’60, poi, Ferretti e Asor Rosa furono i primi a dedicare uno studio approfondito a Una vita violenta, giungendo a metterne in dubbio l’autenticità dell’ispirazione ‘politica’. Asor Rosa (1969, p. 426) parla di «un’operazione tutta intellettualistica e di ‘comodo’: la sua è un’origine ideologica nel senso più restrittivo ed umiliante del termine»; Ferretti (1976a, p. 302) vi riconosce una forzatura volontaristica comune a tutta la critica di sinistra degli anni ’50. Più recentemente, Francese (1994, pp. 2239) ha ripreso questa prospettiva confermandola come possibile conseguenza delle critiche lanciate da Salinari a Pasolini dalle pagine de «Il Contemporaneo» nel 1956. In parziale contrasto con queste interpretazioni, la mia ricerca si orienta a dimostrare che in Una vita violenta non vi sia traccia di alcun drastico e decisivo emendamento, né di alcuna volontaristica concessione al prospettivismo comunista. Piuttosto, mi pare che la validità del romanzo di Pasolini debba essere ricercata nel tentativo di sviluppare il progetto intrapreso con Ragazzi di vita, affrontando cioè la questione sociale del sottoproletariato secondo una prospettiva ideologica ‘aperta’, e dunque in larga misura alternativa alla politica culturale comunista. Intervistato da Duflot, nel 1969, Pasolini conferma che il suo «marxismo è stato da sempre critico nei confronti dei comunisti ufficiali, e specie nei confronti del PCI; ho sempre fatto parte di una minoranza situata fuori del partito sin dalla mia prima opera poetica, Le ceneri di Gramsci» (Duflot, 1993, p. 75). La posizione di Pasolini emerge chiaramente se cominciamo a osservare come la sua scrittura, con più maturi risultati che nel primo romanzo, oscilli incessantemente tra due specifiche coordinate teoriche: il polo della ragione strumentale del mondo borghese e quello della realtà istintuale del sottoproletariato. Ne deriva che il fondamento di Una vita violenta rimane l’antitesi irrisolta tra irrazionalità utopica e ratio borghese, con la differenza sostanziale, rispetto a Ragazzi di vita, che l’enfasi viene ora spostata sul secondo termine: non più sull’urgenza di promuovere l’intima inviolabilità dell’esistenza, ma sull’aberrazione della ragione che ignora l’esistenza del sacro. Mi pare che i motivi per cui la critica di sinistra non ha mai veramente penetrato la materia sociale dei romanzi romani di Pasolini siano da ricercarsi in un pregiudizio moralistico che impedisce di cogliere la dimensione profonda dell’opera, ovvero la contrapposizione tra la razionalità ipostatizzata dell’uomo civilizzato e l’eversiva istanza mimetico-utopica cui da voce e rilievo politico la classe sociale che vive ai margini della civiltà. Credo si tratti di una contrapposizione che arrivi a garantire una piena unitarietà tematica e ideolo-

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gica all’opera di Pasolini, rivelandosi centrale anche alla raccolta La religione del mio tempo22, quanto alle prime prove registiche. Se dunque per Una vita violenta si può parlare di un aumentato potenziale ‘politico’, occorre specificare che ciò avviene in quanto la posizione di Pasolini si rivela profondamente critica delle forze culturali, politiche e economiche agenti nella società italiana del dopoguerra. In particolare, contrariamente a quanto ha sempre creduto la pubblicistica di parte marxista, il romanzo tende segretamente a corrodere e demistificare il dogmatismo ideologico del PCI. Questa mia ipotesi sembrerebbe in partenza contraddetta da una dichiarazione di Pasolini, risalente al 1962 (cfr. Dialoghi, p. 261), che Ferretti (1976a, p. 302) utilizza per dimostrare la tesi del volontarismo: «Io ho voluto descrivere, con la massima fedeltà e precisione, una sezione del mondo: un mondo penoso, atroce, malgrado la solare vitalità che lo pervade. Un mondo che va modificato e superato. La strada per farlo è quella indicata in Una vita violenta, ossia la coscienza politica di classe. Ciò esclude qualsiasi nostalgia di esso […]». In verità, mi pare che questa dichiarazione non possa condurci alla tesi del filocomunismo. Innanzitutto, Ferretti tace sull’importante sezione che precede il brano riportato, in cui Pasolini dichiara: «non ha intenti parenetici, il mio romanzo! Né dal punto di vista morale né da quello linguistico! Come sarebbe ridicolo pensare […] che i miei personaggi presuppongono una imitazione pragmatica del loro modo di vita, così è ridicolo pensare che tale imitazione o adozione richiedano le mie parole» (Dialoghi, p. 261). Ma soprattutto, mi pare che l’aver suggerito, solo suggerito23, la strada della coscienza di classe, non neghi al libro una propria complessità teoretica, che si manifesta, in generale, nell’intima resistenza all’ortodossia marxista (cfr. soprattutto Ward, 1995, pp. 77-80). Il riconoscimento della necessità di una coscienza di classe attraverso la quale il sottoproletariato possa superare, in termini immediatamente pratici, le condizioni di bisogno materiale in cui si trova, può infatti coesistere senza frizioni con la complessità di disegno teorico sopraindividuata. Certo non possiamo dimenticare che Pasolini, negli anni in questione, specie attraverso la collaborazione con il periodico «Vie Nuove»24, non fece mai mistero del suo appoggio alla causa comunista (cfr. Dialoghi, p. 147; Pasolini, 1959c, 1962, 1963); ma ciò non ci autorizza a concludere che tanto la sua ricerca estetica quanto ideologica fossero perfettamente in linea con quelle del PCI.

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raccolta uscì nel maggio del 1961 (cfr. Best, I, pp. 415-593). Non sorprende che Asor Rosa critichi aspramente anche questa raccolta poetica (1961a); Pasolini, accennando proprio a questa recensione, parla di un «settarismo» che «rende disumani» (Dialoghi, p. 172). 23 In un’intervista del 1961 Pasolini sarà molto circospetto sulla presa di coscienza di Tommasino: «Ma in un momento storico e razionale non avvengono conversioni. […] Tommasino giunge a un ‘momento’ che dà alla sua vita una svolta, trasformandolo. Ma egli ricadrà» (Martini, 1961). 24 La rubrica «Dialoghi con Pasolini» durò dal 28 maggio 1960 al 30 settembre 1965, con varie interruzioni, tra cui la più lunga dal dicembre del 1962 all’ottobre 1964.

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Ciò che soprattutto smentisce le tesi della critica di sinistra, favorevole o sospettosa che sia, è l’analisi testuale. Voglio dire che all’interno di Una vita violenta non sussistono prove convincenti per giustificare il filocomunismo, né tantomeno un «volontarismo di partenza» che porti alla «elusione di una crisi che era giunta con Ragazzi di vita ad una fase assai acuta» (Ferretti, 1976a, p. 303). Piuttosto, le novità, che pure esistono, di Una vita violenta, devono essere misurate sulla base della sua tenace continuità con Ragazzi di vita. Un primo dato interessante scaturisce dal paragone tra le macrostrutture dei due romanzi. Come nella prima opera la quasi totale assenza di struttura narrativa sembrava rispecchiare fedelmente l’enfasi attribuita dall’autore al luogo dell’irrazionale, così nella seconda il ripristino di una tradizionale e coerente organizzazione cronologica degli eventi pare enfatizzare lo spostamento dell’obiettivo di Pasolini su un mondo governato dalla ragione strumentale. Dal mutamento di struttura, Ferretti deduce frettolosamente l’abbandono della problematica esistenziale del primo romanzo e l’adozione meccanica dell’ideologia marxista (cfr. Ferretti, 1976, p. 302); senza considerare neppure per un momento l’ipotesi di un marxismo corretto, o comunque contrassegnato dal recupero della riflessione sul dato non-concettuale. A questo proposito, mi pare che la scelta di una struttura narrativa tradizionale, posta sotto l’egida dell’ideologia marxista (Pasolini, 1959b), non elimini assolutamente l’incidenza del ricorso alla mimesi, di cui le accezioni pasoliniane di ‘realismo’ e di ‘oggettività’ non possono fare a meno: «Nei miei romanzi ho usato il dialetto, perché […] intendevo giungere – specialmente in Una vita violenta – alla realizzazione di una ‘oggettività integrale’, che comprendesse quel realismo di pensiero, quell’asse ideologico, e, insieme, la superficie espressiva, immediata, violentemente fisica» (Pasolini, 1960a). Prove della strutturazione di Una vita violenta su una posizione marxista sensibilmente riveduta dall’iniezione dell’istanza irrazionale, si possono rinvenire nell’analisi dei contenuti narrativi del romanzo. La novità rispetto a Ragazzi di vita consiste nell’inclusione di dati ‘oggettivamente politici’ (il neo-fascismo, il comunismo, la Democrazia Cristiana), che permettono all’autore di potenziare quella divaricazione tra significato e significante appena accennata in Ragazzi di vita25. Contrariamente a quanto ha

25 A questo proposito, mi pare si possa confermare la dichiarazione pasoliniana per cui non vi sarebbe soluzione di continuità tra la tecnica narrativa di RV e quella di VV. Se prendiamo «lo spitzeriano campione» (Pasolini, 1958b, p. 209), l’operazione di base pare effettivamente la medesima: una radicale regressione mimetica contaminata da costanti oscillazioni verso l’alto che, determinando un’intima incongruenza stilistica, una sorta di pervasivo shock formale, presiedono al carattere ‘sperimentale’ della scrittura. L’impressione è che questo metodo stilistico, già individuato per il primo romanzo, si perfezioni ulteriormente con VV: basta paragonare le aperture dei due romanzi per osservare che in VV il discorso libero indiretto viene applicato con maggiore frequenza e competenza linguistica, rendendo dunque ancora più efficaci gli stacchi verso lo stile alto; e, inoltre, che le soluzioni formali individuate per RV vengono sistematicamente ripetute nel secondo romanzo. In questo senso Rinaldi (1982, p. 170) parla, a proposito di VV, di un’efficienza retorica perfezionata rispetto a RV.

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ripetutamente sentenziato la critica, mi pare che la trattazione delle diversi fedi politiche coincida, nel testo pasoliniano, con la rappresentazione del medesimo tipo di conformismo, quello che in alcuni chiarissimi versi della «Religione del mio tempo» viene caratterizzato come «viltà»26, e conseguentemente legato a un’interpretazione socio-psicologica del ‘possesso’ 27. Approfondita a un livello teoretico, la posizione di Pasolini porta al medesimo contrasto tra vitalismo utopico e ragione strumentale individuata in Ragazzi di vita. In questo senso, la riproposta, nel secondo capitolo, di una situazione narrativa di Ragazzi di vita (la scorreria notturna dei ragazzi di borgata), assume già un significato ‘politico’. In apertura Pasolini sembra subito ricorrere, metaforicamente, a una penetrante anticipazione: «Era inverno, dicembre: ma faceva un caldo che si sudava, e la nebbia che copriva Pietralata e i campi attorno all’Aniene pareva il vapore di un bagno» (VV, p. 36). Si noterà che la stagione estiva, assoluta protagonista di Ragazzi di vita, è qui sostituita da un nebbioso dicembre che però è straordinariamente caldo. Dalla sua valenza meramente descrittiva, questa singolare commistione climatica sembra lievitare a simbolo del nuovo clima ideologico del romanzo, anticipandoci che esso segnerà una dipartita sì, ma solo parziale e in un certo senso superficiale, da Ragazzi di vita. Se proseguiamo nell’analisi, scopriamo che l’autore tiene fede al suo ammonimento. L’autore apre il capitolo creando quel tipico effetto di rallentamento ipnotico che era proprio di Ragazzi di vita, introducendovi poi subito un elemento disgregatore: ‘Che, hai visto Lello, a A’?’ chiese Tommasino a un certo Aldo che gli passava accanto. ‘E chi ’a vizto?’ fece quello con un gesto tanto di disgusto che gli venne da sputare. Poi si pentì d’aver fatto un po’ troppo il malandro e aggiunse ‘Starà a ballà.’ ‘Grazie ar ca…!’ fece Tommasino, e andò su per la strada: era la strada della scuola e della sala del Partito Comunista, dove la domenica ballavano. […] ‘Che, hai visto Lello, a Cazzitì?’ ci riocò con un altro, che chiacchierava vestito come fosse Agosto, e con l’umidità che gli faceva cadere i riccioletti fin sulle froce del naso. ‘None’, fece quello brusco, ma Tommasino però nemmeno lo stava a sentire, perché faceva quella domanda così, tanto per farla, per alzare un po’ di polvere: ce lo sapeva che quel fijo de ’na mignotta di Lello stava al danzo. La sala era in una casetta a un piano, dipinta di rosa, con tre finestrelle in fila, e una porta su un cortiletto lungo la strada. Una casetta come tutte quelle lì attorno, messe in file di dieci o dodici, tutte uguali, coi loro cortiletti zozzi sul davanti. Erano le case degli sfrattati, allineati lì in mezzo alla distesa dei lotti. Qua e là c’era qualche alberetto storcinato, senza mai una foglia, e qualche latrina di tavelloni. (VV, pp. 36-7) 26 «È quella viltà che fa l’uomo irreligioso. / […] Può renderlo feroce, qualche volta, / ma sempre lo rende prudente: / minaccia, giudica, ironizza, ascolta, / ma è sempre, interiormente, impaurito. / Non c’è nessuno che sfugga a questa paura. / Nessuno perciò è davvero amico o nemico» (Best, I, p. 511). 27 «E ogni possesso è uguale: dall’industria / al campicello, dalla nave al carretto. / Perciò è uguale in tutti la viltà: com’è alle grige origini o agli ultimi / grigi giorni di ogni civiltà» (Best, I, pp. 512-3).

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In questo brano, il lettore è costretto a prendere atto di una novità tematica rispetto a Ragazzi di vita: la presenza del Partito Comunista nella realtà sottoproletaria. Si tratta di una novità appena accennata, ma sufficiente per portarci a discordare con Rinaldi (1982, p. 170), che scrive: «Tutta la prima parte di Una vita violenta, è la ripetizione perfetta del vecchio romanzo, quasi un tentativo di riscriverlo». Successivamente, all’interno del medesimo capitolo, i riferimenti politici si moltiplicano, contribuendo a scrostare il mosaico del canone autoreferenziale. Prima Tommasino consacra goffamente la memoria di Mussolini (cfr. VV, p. 40); poi incontra alcuni amici fascisti, dall’autore immediatamente qualificati come borghesi (cfr. VV, pp. 43-7), e con loro compie un’azione di teppismo (cfr. VV, pp. 49-50); quindi in una pizzeria di Trastevere si scontra, sempre insieme agli amici, con un gruppo di giovani di fede comunista (cfr. VV, pp. 51-3). Quest’ultimo episodio sembra già particolarmente significativo nel negare qualsiasi ipotesi di fiancheggiamento propagandistico, o anche solo prospettivistico. Descrivendo la disputa verbale in pizzeria, Pasolini avrebbe potuto, se quella fosse stata la sua programmatica intenzione, trovare il modo di schierarsi, almeno allusivamente, con la parte comunista; diversamente, descrive la scena in termini ideologicamente del tutto neutrali. Semmai, nel corso della disputa emergono elementi che sembrerebbero svalutare l’ideologia comunista, come le frasi messe in bocca al fascista Ugo: «Noi, la tirannia, l’avemo potuta fa, ma a voialtri ancora nun ve riesce! […] Boia so’ stati i compagni tua, quelli dell’idea tua, ch’hanno ammazzato mi’ padre e mi’ fratello!» (VV, p. 52). Nella restante sezione del capitolo Pasolini descrive le gesta ‘brave’ di Tommasino e amici, che rubano una macchina; si ubriacano; rapinano due benzinai; ne rapiscono un terzo, che poi picchiano selvaggiamente e abbandonano in una fratta; si recano in un locale da ballo; inneggiano a Mussolini; e infine fuggono all’arrivo delle guardie notturne. Da ultimo, Lello e Tommasino si addormentano su una panchina dei giardini pubblici. Si tratta di una narrazione straordinariamente serrata, fatta di dialoghi rapidissimi e di battute sferzanti, tipiche del linguaggio ‘malandrino’ già padrone del precedente romanzo. Pasolini narra con assoluto trasporto questa nottata ‘dentro Roma’, ma allo stesso tempo non trascura di inserire riferimenti politici che dotano il comportamento di questi ragazzi di un aspetto inedito rispetto a quello dei protagonisti del precedente romanzo: il rifiuto violento, disperato, e almeno confusamente consapevole della società costituita 28. L’efferatezza e la prepotenza delle imprese dei giovani neo-fascisti acquista infatti un significato di protesta sociale rarissimo in Ragazzi di vita (presente in pochi episodi, come quello del suicidio di Amerigo, o del fidanzamento del Riccetto).

28 Si tratta di un rifiuto che, come ha notato Ferretti (1976a, p. 306), «trova nelle ‘nostalgie’ neofasciste la giustificazione ‘ideologica’ più primitiva, rozza, facile (l’unica possibile, a quel livello) delle sue gesta criminali».

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Tutta la narrazione di Una vita violenta è effettivamente caratterizzata, da un punto di vista contenutistico, dal ricorrere di considerazioni che possiamo considerare almeno latamente ‘politiche’, in quanto funzionali alla denuncia dell’ethos borghese. Gli esempi più macroscopici sono probabilmente le pagine che descrivono Tommasino nella sua relazione di fidanzamento con Irene; le sue simpatie clericali; e il suo desiderio di una vita più agiata in un quartiere borghese. Come in Ragazzi di vita, ad esempio, il rapporto di coppia in funzione piccolo-borghese porta prima alla frustrazione, più tardi al vero e proprio depotenziamento dell’atto sessuale. Nel primo caso, il cinema hollywoodiano diventa emblema della collettiva fuga dalla realtà del popolo, e agisce da sfondo ideale per il trattamento del tema dell’imborghesimento/frustrazione sessuale del protagonista (cfr. VV, pp. 100-4); assai significativo, tra l’altro, che il film proiettato sia il celebre colossal Quo vadis, tipica commercializzazione americana di storia romana. Ugualmente significativo il momento in cui, uscito di prigione, Tommasino rientra in seno alla propria famiglia, alla quale nel frattempo è stato assegnato un appartamento nuovo in un lotto dell’INA case, abitato da famiglie piccoloborghesi. La reazione di Tommaso nel vedere gruppi di «studentini figli di papà» che giocano al calcio balilla e al ping-pong, che si chiamano per cognome, e che masticano la gomma americana, è paradigmatica: ‘Me farebbe ricarcerà’, stava pensando, ‘pe’ sapè perché li pijano pe’ stronzi! Intanto, stronzi stronzi, eccheli llì! Nun pensano a niente, giocano, se divertono, se fanno le studentine, pzt! E c’hanno er papà che je passa ’a grana!’ ‘Questi me sa’, continuò a pensare, ‘che tra de loro nun se fanno cattiverie… E che, conoscheno la vita, questi? Eppure me ce vorrebbe mischià, in mezzo a loro! Mannaggia la morte, vorrebbe pure io esse stato ammaestrato così, esse bravo ragazzo come loro!’ (VV, p. 200)

Pasolini coglie esemplarmente la tentazione di Tommasino e, per estensione, del sottoproletariato; ma a tale tentazione conformistica l’autore continua a contrapporre il tema della sacralità dell’esistenza, della vita vissuta al di fuori del convenzionalismo sociale («E che, conoscheno la vita, questi?»). Nel capitolo successivo, «Primavera29 all’INA case», troviamo un Tommasino ormai decisamente imborghesito, addirittura simpatizzante per la DC («‘Parlo cor prete e me segno pure io ar partito democratico!’», VV, p. 220). Una situazione che, non a caso, coincide con la sua impotenza, la sua feroce gelosia nei confronti di Irene, e l’avanzare della tisi (cfr. VV, pp. 220-35).

29 Il termine «primavera» sembra assumere qui una valenza ironica, in quanto connota una situazione narrativa che indica l’opposto del simbolismo della fertilità a cui tale termine tradizionalmente rimanda.

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Tuttavia, per quanto l’innesto di questa dimensione critica nei confronti della società costituita sia massiccio e ben calibrato, non credo che esso pregiudichi la continuità di base tra Una vita violenta e Ragazzi di vita. Tale continuità si evidenzia nella comune sostanza teorica dei due libri, essendo confermata in Una vita violenta dal persistere dell’antitesi tra polarità mimetico-utopica e razionalismo strumentale. Nel denunciare «la scarsa penetrazione del nuovo impegno pasoliniano», cioè l’incapacità dell’autore di sviluppare il tema della critica anti-borghese nell’aspirazione genuina «ad una vita più civile ed umana», Ferretti (1976a, p. 308-10) dimostra di non cogliere la profonda incidenza critica dell’antitesi pasoliniana30. La carica anti-borghese contenuta in Una vita violenta, infatti, non è mai funzionale a un’ideologia filo-comunista, ma piuttosto rimanda a una riflessione ancora finalizzata, come in Ragazzi di vita, al recupero dell’utopico: quella ‘riflessione sull’irrazionale’ che, come abbiamo sottolineato nel precedente capitolo, Pasolini andava teorizzando sul finire del decennio. In questo senso, il secondo romanzo pasoliniano continua a convogliare e realizzare la propria politicità nello svelamento di un’inquietudine e tensione ideologica del tutto estranea alla linea del PCI. Ecco allora che il desiderio di cambiar vita di Tommasino risulta sostanzialmente frustrato. La maturazione del protagonista fallisce perché tutti i possibili valori che dovrebbero accompagnarla diventano, secondo l’autore, sintomi di un unico conformismo di fondo in cui il senso della sacralità della vita viene liquidato. Per questo motivo l’enfasi sul sacro rimane al centro della narrazione: l’introduzione di tematiche politiche non pregiudica affatto la centralità della rappresentazione in chiave vitalistica dei ‘ragazzi di vita’. Non stupisce, allora, che così tanto spazio narrativo sia dedicato a questa rappresentazione del vitalismo sottoproletario (il sesso, il turpiloquio, la morte, le canzoni 31, ecc.). Se prendiamo come esempio l’episodio del furto al pollaio del prete (cfr. VV, pp. 106-15), non possiamo mancare dall’osservare come l’azione si svolga in funzione dell’esuberanza plastica e viscerale, del tutto autoreferenziale, che anima i gesti e il dialogo dei tre protagonisti, Tommasino, il Zimmìo e il Zucabbo. Nonostante la scena apra introducendo elementi di denuncia sociale (la disperata necessità di rubare per consumare e, parallelamente, il topos anti-clericale), la conclusione riporta i tre protagonisti nell’Eden di un’istintiva e obliosa spensieratezza che ridimensiona la lettura direttamente politica del brano. Interessante notare ancora una volta l’elemento climatico: all’inizio «pioveva» e «c’era un silenzio che si sentiva solo cadere la pioggia» (VV, pp. 107-8); poco più oltre, «aveva smesso di piovere, in alto le nuvole s’erano staccate lasciando qua e là un tantinello di sereno» (VV, 112); e infine, in pieno orgasmo descritti-

30 Così come non la coglie Salinari (1959), che parla di chiara «proposta ideologica» orientata «verso il socialismo» ma avanzata con troppa «incertezza» e «timidezza». 31 Un intero capitolo è intitolato «Canzoni di vita» (cfr. VV, pp. 141-79).

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vo e ormai dimentichi dei dati di partenza, troviamo «un bel solicello che aveva sbaragliato le nuvole e brillava allegro sulle casette bianche della borgata» (VV, p. 115). Il contrasto climatico sole/pioggia, estensione di quello estate/inverno, diventa simbolo dell’antitesi pasoliniana tra utopia e ragione borghese, centrale al passaggio in questione32. I riferimenti più direttamente politici di Una vita violenta, con l’avvicinamento di Tommaso al Partito Comunista, sono rintracciabili nei capitoli finali. Innanzitutto, è fondamentale comprendere il modo in cui Pasolini intende caratterizzare questo avvicinamento. Un’attenta lettura degli episodi chiave ci conferma che esso è dettato dal bisogno istintivo del personaggio di partecipare a una fede comune. Il processo psicologico che avvicina Tommasino al fascismo, al clericalismo e infine al comunismo, è in sostanza il medesimo, essendo qualificato dall’adesione acritica a un coacervo di valori intesi a salvaguardare l’ego del personaggio. Che la scelta finale del comunismo venga considerata da Pasolini più auspicabile rispetto alle precedenti, mi pare poi indiscutibile, per quanto solo nell’episodio conclusivo, come vedremo, Tommasino dimostri al lettore di aver acquistato un briciolo di coscienza ideologica (cfr. Petrocchi, 1959). Tuttavia, occorre ribadire come la scrittura di Pasolini non si dimostri mai apologetica nei confronti della causa comunista. Esattamente a metà del capitolo intitolato «Che cercava Tommaso?» sta il celebre episodio dell’incontro del protagonista con la bandiera rossa, da molti considerato emblematico della ‘politicità’ del romanzo. Tommaso entra, solo, in una stanza del Forlanini adibita a sede dell’ULT, l’Unione del Lavoratori Tubercolotici: Dentro c’era solo il sole, festoso, che assorbiva tutto, sfarfallava su tutto. […] Nei cassetti c’erano dei libri, tutto pieno: libri vecchi, un po’ consumati e sporchi. Tommaso provò a leggere, un po’ qua, un po’ là. Non ci raccapezzava niente: erano libri che parlavano di politica, di fatti sociali, con delle parole difficili che non si capivano. Aprì un ultimo cassetto in fondo, e, tutta polverosa, raggomitolata, riciancicata, con la falce e il martello, c’era una bandiera rossa, nuova. Tommaso la tirò fuori per una punta, la guardò. In quel momento, a tutta spinta, riattaccò a suonare la campanella, quella dell’ospedale, forte, continua. Tommaso s’accostò alla finestra. Laggiù, in quel mare di luce, riconobbe il pezzo di giardino un po’ selvatico, la piccola fornace dove mettevano a fuoco la zozzeria infetta dell’ospedale, i fabbricati dell’ingresso secondario, la via che costeggiava il Forlanini, dove, poco prima, aveva visto il trasporto di quel ragazzo. ‘E se dovessi morì pure io?’ pensò. ‘Se dovessi da fà pure io qua’a fine?’ Con quel caldo, che si sudava, Tommaso si sentì tremare, come ingelito, come, intorno a lui, a un tratto, fosse tornato notte. (VV, pp. 257-8)

32 La dinamica di quest’antitesi si può riconoscere facilmente anche nella descrizione del sogno di Tommasino durante la prima notte del suo ricovero al Forlanini (cfr. VV, pp. 240-6).

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È questo il momento in cui si decide l’affiliazione comunista di Tommasino33. Se da una parte la bandiera rossa, e, per contro, l’astrusità dei libri, sembrerebbero rimandare a un retorico sentimentalismo di tipo populista, dall’altra l’immediata giustapposizione della ‘paura della morte’ può legittimamente suggerire che il motivo fondante del primo passo di Tommaso verso il partito sia la sua ansia conformistica, il suo disperato bisogno di aderire a un ideale comune al fine di esorcizzare la propria miseria esistenziale. Sarei dunque propenso a interpretare il passaggio, pur riconoscendone l’ambiguità, come una critica della mitizzazione del rapporto popolo-comunismo, piuttosto che come una sua populistica difesa. Nello svolgimento del capitolo, poi, Pasolini non inserisce alcun elemento che possa far pensare a un reale ravvedimento morale o ideologico di Tommasino. Il suo contributo alla causa è interamente motivato da una necessità d’inserimento e di autoaffermazione che, come già per i trascorsi fascisti, viene perlopiù codificata in senso astorico e assoluto. Nel momento in cui il comunista Guglielmi gli chiede di aiutarlo a distribuire alcuni volantini, per esempio, egli accetta perché esaltato dall’epicità dell’impresa, e non dal suo significato politico: «‘Come no?’ fece Tommaso. ‘A bellooo’, fece poi tra sé, ‘te ancora no lo conosci chi è er Puzzilli!’» (VV, p. 269); una frase che rende questo Tommaso psicologicamente molto simile a quello che cantava l’intrepidezza fascista (cfr. VV, p. 62). A fine capitolo, poi, Tommaso aiuta lo stesso Guglielmi e altri compagni a fuggire dal policlinico piantonato dalla polizia. Nel dirgli addio, Guglielmi lo ringrazia calorosamente, e corre via sotto i suoi occhi; ma l’attenzione di Tommaso, che segue quella fuga, è immediatamente catturata da un manipolo di tipici ‘pischelli’ pasoliniani, che «veniva giù verso la fermata, […] andandosene chissà dove». Il passaggio è cruciale nel definire la psicologia del protagonista, che viene ancorata saldamente a una funzione vitalistica piuttosto che ideologica: Coi grugni sporchi sotto i ciuffi, si tenevano abbracciati, parlando tutti smaniosi, senza guardare in faccia nessuno. Alcuni parlavano, parlavano, altri tacevano ridendo. E quelle faccette, sopra i collettini zozzi a colori, alla malandrina, erano l’immagine stessa della felicità: non guardavano niente, e andavano dritti verso dove dovevano andare, come un branco di caprette, furbi e senza pensieri. ‘Aaaah’, sospirò Tommaso, ’so stato ricco, e no l’ho saputo!’ (VV, p. 275)

Il carattere utopico della felicità intuita dal personaggio ha qui facilmente la meglio sul significato strettamente politico della sua impresa: per quanto abbia preso parte a un’azione dal forte sapore ideologico, la ricchezza autentica del

33 Più avanti nel capitolo, infatti, egli si schiererà attivamente con i membri dell’ULT che, a causa delle loro violente dimostrazioni, avevano causato l’intervento della polizia (cfr. VV, p. 263).

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Capitolo quinto

protagonista viene associata a quell’ineffabile sentimento d’incoscienza da lui ormai smarrito. La decisione di Tommaso di iscriversi al PCI, che segue all’episodio del Forlanini, è ancora dettata della necessità di salvaguardare istintivamente la coerenza dell’io, inserendolo in un ordine di valori esterni prestabilito e inalienabile. La coscienza di Tommaso, in altre parole, continua a essere bloccata, incapace di sviluppi. Ma ciò che a questo punto emerge con forza dalla narrazione è l’inadeguatezza del Partito Comunista, la sua incapacità di comprendere le reali esigenze del sottoproletariato e insieme di favorirne la crescita culturale. Il primo contatto di Tommaso con la sezione del PCI di Pietralata è infatti un’esperienza desolante: a parte la solita bandiera rossa e «il quadro di Baffone», l’accoglienza lascia molto a desiderare. L’unica presenza, se così si può dire, è quella di Cazzimperio, «quello che teneva l’osteria della sezione», che però si rivela subito, così come il nome stesso, un’entità truce e grottesca: «Dormiva in una seggioletta spagliata […]. La testa grigia come un teschio gli s’era rovesciata sopra la spalliera e si vedevano solo due denti che sporgevano dalla bocca nera, i baffi, e le froce del naso con le caccole e i peli» (VV, p. 277). Passando in un’altra stanza, poi, Tommaso chiede informazioni a un impiegato che, impegnato a appiccicare francobolli, lo degna a malapena di uno sguardo. Pasolini qui coglie magistralmente l’incongruenza tra partito e popolo: […] c’era solo uno, piegato sulla scrivania a appiccicare dei bolli su delle buste […]. Quello alzò gli occhi su di lui, lo squadrò un momento, e poi subito li riabbassò, riprendendo il lavoro. […] E quell’altro zitto a appiccicare i bolli: ne appiccicò altri due o tre, mentre Tommaso aspettava, non sapendo più che dire, un po’ confuso, sbattuto per l’emozione. […] Ma quell’altro era già di nuovo ripiegato sui suoi bolli […] ma quello nemmeno l’ascoltava, e passava la lingua sui bolli, ingrugnato e severo. (VV, p. 278)

Qui, la freddezza dell’impiegato comunista che insiste imperterrito e ottuso a attaccare francobolli, assurge a simbolo di un razionalismo politico divenuto irrazionale poiché sclerotizzatosi nell’entropia della funzione. Viceversa, la gramsciana ‘andata al popolo’, nell’interpretazione di Pasolini, comincia con l’adozione empatica del punto di vista della classe meno abbiente, piuttosto che con l’adozione di una dottrina giusta ma astratta, razionalistica al punto da ignorare le effettive condizioni esistenziali del popolo stesso34. Più precisamente, un marxismo che empatizzi con il popolo deve innanzitutto comprende-

34 Ne Le ceneri di Gramsci (Best, I, pp. 173-282), Pasolini sembra suggerire che il filosofo sardo abbia peccato proprio di astrazione razionalistica («Mi chiederai tu, morto disadorno / di abbandonare questa disperata / passione di essere nel mondo?», Best, I, p. 232), e intransigenza storicistica («Ma come io possiedo la storia, / essa mi possiede: ne sono illuminato: / ma a che serve la luce?», Best, I, pp. 228-9).

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re che il sottoproletariato è rimasto l’ultimo portavoce della sacralità e inalienabilità dell’esistenza. Fallito il primo tentativo d’iscriversi al partito, Tommasino ci riprova poco più avanti nel capitolo. Tuttavia, Pasolini interpone tra i due episodi quello piuttosto lungo del suicidio del Cagone (cfr. VV, pp. 280-6), molto simile, per la sua carica di angst, a quello di Amerigo in Ragazzi di vita. Mi pare evidente che la scelta di narrare questa morte disperata tra i due tentativi di iscrizione al PCI compiuti da Tommasino acquisti un valore decisivo: venuto a conoscenza del suicidio del Cagone, impiccatosi perché travolto dalla propria inopia, Tommaso si convince a riporre tutte le proprie speranze nel partito. L’iscrizione al PCI diventa dunque una pura questione di sopravvivenza, un tentativo disperato e istintivo di emergere dall’inferno della borgata contrassegnato dal medesimo automatismo psicologico che aveva determinato gli avvicinamenti all’MSI e alla DC. Portata all’estremo, questa interpretazione suggerisce che la vita di Tommaso, dietro la finzione dello svolgimento narrativo, è in realtà un moderno ‘déraciner sur place’, essendo segnata dalla coercizione al sempreuguale su cui si fonda l’etica borghese. Tanto più che Tommaso decide di iscriversi al PCI nonostante la sua seconda visita alla sede di Pietralata gli proponga un’immagine del partito tutt’altro che edificante. Prima scopre la corruzione di alcuni membri, che si spartiscono illecitamente i soldi del popolo35; poi riconosce uno di essi che anni addietro lo aveva sfruttato nel commercio di cocomeri (cfr. VV, p. 292); infine, assistendo a una riunione, identifica il segretario della sezione come un violento alcolizzato (cfr. VV, pp. 293-5). Tommasino non può che farsi una cattiva idea del partito (cfr. VV, pp. 295-6), ma il bisogno conformistico di divenirne parte ha la meglio sul suo scetticismo. Che la coscienza di Tommaso, dopo l’iscrizione, non maturi, mi pare un dato narrativo piuttosto chiaro; lo dimostra il lungo passo in cui Pasolini tratteggia la cinica determinazione del protagonista che, in un cinema romano, deruba e umilia un omosessuale (cfr. VV, pp. 302-11). Solo le pagine finali, quelle che descrivono l’impresa di Tommasino durante l’inondazione della borgata, sembrano suggerire la presenza di una larvale intenzione apologetica. In realtà, se esaminiamo da vicino il testo, ci accorgiamo che l’umanitarismo di Tommaso dipende strettamente da quella mitizzazione del gesto eroico e da quel desiderio di protagonismo che sin dalle prime pagine avevano caratterizzato la sua psicologia. Alla sfacciata indifferenza degli amici, Tommasino risponde con aria di sfida: «‘A stronzi’, fece Tommaso, parlando a schifìo, guardandoli in faccia, ‘perché, noi nun se potemo adoprà? Che,

35 «Di là stavano zitti: si spartivano lo sgaro, e ognuno taceva, guardando la stecca sua, la pancotta di piotte tartassate. ‘Ma che stanno a fa?’ pensava Tommaso, ‘Li bijetti? Quali bijetti? Sgobbano sopra li bijetti der ballo! Eh sì, è chiaro, i bijetti della riffa… Delli Fiorelli je li dà indietro, invece de buttalli… Hai capito, ’sti giudii, se inzuccano cinque sacchi peruno!’ […] ‘Li mortacci loro!’ pensò Tommaso, ‘qui se vendono pure la croce de Cristo!’» (VV, pp. 289-90).

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Capitolo quinto

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c’avete paura?’». Egli sembra dunque sospinto da un istintivo bisogno di autoaffermazione che lo porta a agire con sollecitudine ma prima di avere piena coscienza dell’azione stessa. Infatti, è solo dopo aver preso la decisione di avventurarsi nel nubifragio che il protagonista realizza l’enormità dell’impresa: «Fatti due passi, Tommasino già era zuppo fino all’ossa. ‘Ma indò vado, ma che sto a ffà?’ si diceva tra sé, ingrippato, mezzo scemo sotto quel diluvio» (VV, pp. 339-40). Più tardi, un gruppo di alluvionati viene portato in salvo alla sede del Partito Comunista. Qui, come già in precedenza, l’unico vero elemento positivo, in grado di lasciar supporre l’esistenza di un vincolo vitale tra il popolo e il comunismo, è la bandiera rossa: «Ma tutti piangevano, si sentivano spersi, assassinati. Solo in quel pannaccio rosso, tutto zuppo e ingozzito, che Tommaso ributtò lì a un cantone, in mezzo a quella calca di disgraziati, pareva briluccicare, ancora, un po’ di speranza» (VV, p. 349). La speranza sembra rimanere ancorata al riconoscimento di una traccia trascendentale (di cui è emblema il verbo «briluccicare»)36 che la pratica marxista ha eliminato 37. Per questo non credo che Pasolini abbia «paura della speranza e della coscienza», come scrisse Salinari (1959), ma che piuttosto intenda svelare il fallimento di ogni speranza imposta aprioristicamente. La descrizione della morte di Tommaso è ugualmente significativa nell’opporre il tema del vitalismo sottoproletario, figurazione del sacro, all’ideologia comunista, plasmata dalla ragione laica e strumentale. Gli amici comunisti, raccoltisi intorno al capezzale di Tommaso moribondo, se ne vanno, mentre gli amici di sempre, il Zucabbo e Lello, «restarono ancora un pochetto lì, senza decidersi a lasciarlo». E le ultime parole di Tommaso intendono proprio decretare, simbolicamente, la necessità della componente utopica: «Con gli occhi lucidi in quelle facce coatte, abbruciate dal sole e dalla fame, Lello e il Zucabbo stavano ancora lì, non si muovevano. ‘Ma annatevene!’ disse Tommaso. ‘Invece che stamme a fà compagnia a me, annate a rompeve le corna de fora, che oggi è domenica!’ Voltò la faccia da quell’altra parte, e non parlò più». Il legame di Tommaso con il sottoproletariato, sancito dall’enfasi su una ‘domenica’ che, come in Friuli, acquista una valenza mitica38, coincide qui con quello di

36 Ward

(1995, pp. 78-9) ha osservato acutamente che tale verbo viene usato, tanto in RV che in VV, per indicare il luogo dell’alterità (otherness), cioè il sacro, che caratterizza tanto la vita dei borgatari quanto il marxismo di Pasolini. 37 Interessante notare come questa significazione altra del «pannaccio rosso» venga ribadita nell’epigramma «Alla bandiera rossa», datato 1958-59 e incluso nella raccolta La religione del mio tempo. Qui Pasolini conferisce alla bandiera una connotazione umile, facendone quasi un simbolo di cristianità: «tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie, / ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli» (Best, I, p. 542). 38 Si pensi ai versi di Poesie a Casarsa (Best, II, p. 1198), poi ripresi ne La meglio gioventù: «Vuei a è Domènia / doman a si mòur, / vuei mi vistìs / di seda e di amòur» (Best, I, p. 18), («Oggi è Domenica, domani si muore, oggi mi vesto di seta e d’amore»).

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Pasolini. Un legame che viene ribadito proprio nelle ultimisisme righe: «Ma morire, s’era impuntato che doveva morire dentro il letto di casa sua: e difatti, il permesso di riportarcelo, glielo diedero facile, ormai. Era una bella giornata, dolce dolce, degli ultimi di settembre, col sole che splendeva nel cielo senza una macchia, e la gente che chiacchierava, che cantava, per le strade, nei caseggiati nuovi. Come Tommaso rifù nel suo lettino, gli sembrò quasi di stare un po’ meglio» (VV, pp. 352-3). Non è un caso che qui, a connotare una morte sublimata a luogo mitico, ritroviamo il sole e la canzone. In conclusione, mi pare che l’operazione dello «scrittore-filosofo» (Pasolini, 1959b) alla base dei due romanzi debba essere interpretata come critica e rifiuto dei modi di organizzazione socio-politica della moderna società italiana; un rifiuto che nasce e si sviluppa nell’impostazione teoretica, piuttosto che immediatamente ‘politica’, del problema sottoproletariato. Per quanto possa sembrare paradossale, l’enfasi dell’autore sulla concretezza realistica del mondo rappresentato conduce, piuttosto che a una soluzione politica, a una riflessione di natura filosofica, il cui presupposto fondamentale è la necessità della contraddizione. Per il Pasolini critico, lo abbiamo visto, la contraddizione è ciò che permette alla coscienza del soggetto intellettualmente attivo di mantenere un rapporto autentico, nel senso di non alienato, con il reale. Abbiamo poi dimostrato che l’elemento indispensabile, in quanto forza scatenante, a questa contraddizione, è l’esperienza del sacro, legata indissolubilmente a una rappresentazione classista (sottoproletariato) dell’istintualità del corpo e dell’esperienza fenomenica. Nell’elaborare una riflessione letteraria sul sottoproletariato, Pasolini ha ben presente questi due elementi fondamentali del suo pensiero critico. Tanto in Ragazzi di vita che in Una vita violenta, l’autore ci dice essenzialmente che quando il sottoproletariato sviluppa una coscienza è costretto a sacrificare il suo legame con la sacralità della vita: la sua coscienza viene cioè inevitabilmente plagiata da sistemi ideologici cronicamente incapaci di percepire l’altro da sé e quindi di mettersi in discussione. Neppure il marxismo, in quanto prassi politica, come d’altra parte testimoniano già gli scritti critici, offre a Pasolini garanzia alcuna. Nel momento dunque in cui il borgataro si vede costretto a rinnegare la componente mimetica del suo rapporto con il mondo, anche per diventare comunista, egli muore, cioè si riappropria della mimesi cambiandone il segno: la verità di questa morte consiste precisamente nel darsi come pienezza ‘a rovescio’, copia negativa della falsa assolutezza dell’universo borghese. Muore Tommasino, così come era morto Genesio e, simbolicamente attraverso Genesio, il Riccetto; come ha notato David Ward (1995, pp. 84-5), la morte di Tommaso e quella di Genesio si assomigliano in quanto sono entrambe simboliche della ‘cattiva’ coscienza dei due borgatari. Più a fondo, entrambe criticano la paralisi del mondo borghese sublimando tale paralisi a sostanza nondiscorsiva. Alla luce di queste interpretazioni, le alternative per il sottoproletariato pasoliniano sembrerebbero due: l’assenza di coscienza in condizioni di vita al

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Capitolo quinto

limite dell’umano e del verosimile (tema dominante in Ragazzi di vita), o la falsa coscienza e un parziale riscatto socio-economico (tema dominante in Una vita violenta). A questo punto del suo percorso di formazione intellettuale, Pasolini sembra scegliere entrambe le alternative, in quanto esse agiscono a due diversi livelli: la prima a livello artistico-filosofico, la seconda a livello di prassi politica. Da una parte, come abbiamo visto, Pasolini non fa mistero del suo supporto al Partito Comunista; dall’altra la sua opera rende continua testimonianza al mimetico, al potenziale insito nella decifrazione del sacro e dell’utopico in quanto costellazioni che puntellano l’esperienza sensibile dell’uomo nella storia. Gli equilibri e la logica di questa ambivalente posizione all’interno di Una vita violenta sono riassumibili in una dichiarazione dell’epoca: Tommaso Puzzilli, benché da un lato sia mosso da una pura vitalità, non capace di svolgimento morale e storico (e quindi alla fine del libro si ritrovi a fare le stesse cose, a ripetere gli stessi gesti che all’inizio), dall’altra parte, per quanto confusamente, disordinatamente, ha una sua ‘storia’, che lo attua attraverso una serie di esperienze il cui contraddirsi è esistenziale, è vero, ma è anche insieme, dialettico. (Pasolini, 1958c)

In realtà, come abbiamo appurato analizzando la sua attività di critico, Pasolini crede più alla contraddizione esistenziale, cioè esperita empiricamente, che in quella dialettica, confortata dalla coerenza della dottrina marxista: la prima è funzionale a un concetto di ideologia aperto e sperimentale; mentre la seconda si risolve, chiudendosi, nella sintesi hegeliana che ingloba l’altro. Possiamo dunque concludere che la contraddittorietà dialettica di Tommaso agisce esclusivamente a livello di necessità, superficialmente e quasi deterministicamente, a motivo della caratterizzazione negativa datagli da Pasolini. A livello profondo, invece, la politicità del romanzo continua a fiorire nei suoi rimandi estetici e teoretici, nella rappresentazione letteraria di un palpito mimetico contrapposto all’ipostasi della ragione amministrata che di quel palpito è la totalizzante estensione sociale.

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6. PER UN CINEMA ‘NAZIONAL-(IM)POPOLARE’: L’UTOPIA E IL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO

Noi non dovremmo mai accettare il linguaggio dei nostri nemici. (P.P. Pasolini, Petrolio, p. 88)

Credo che il modo corretto di avvicinarsi criticamente alla prima produzione cinematografica di Pasolini sia evidenziarne la stretta relazione di continuità con la produzione narrativa degli anni ’50. Una relazione di continuità specifica (romanzo-cinema) che mi pare riposi, però, sul più ampio e pervasivo mantenimento dell’impianto teorico caratterizzante tutta l’opera degli anni ’50, ancorata intorno al recupero della dimensione utopica. In questo senso, l’acuirsi del pessimismo pasoliniano, unanimemente rinvenuto dalla critica e verificabile tanto nella prima opera cinematografica quanto in una raccolta poetica come Poesia in forma di rosa (pubblicata nel 1964, ma concepita e scritta a partire dal 1961) sembra avere radici storico-sociali piuttosto che patologiche: Pasolini costatò che il processo di modernizzazione capitalistica del paese andava impietosamente sottraendogli i canali di quel discorso utopico attraverso cui, fino a quel punto, aveva potuto ‘impegnarsi’. Quando verso la fine degli anni ’50 egli si accorge che il mondo della borgata, finora mitizzato pour cause, veniva inglobato nell’espansione dell’urbe1, oltreché ideologicamente ‘integrato’ dal bombardamento di un’improvvisamente esplosa cultura di massa, l’alternativa Africa (e per esteso di tutti i luoghi altri), già ipotizzata nella Religione del mio tempo come estensione del mito Friuli-borgata, diventa l’unica possibilità di resistenza2. Con l’avvento del neo-capitalismo Pasolini può dire che la storia moderna collassa in una «Nuova Preistoria»3 che è l’altra faccia,

1 In articoli giornalistici quali «Il fronte della città» (RR, II, pp. 1454-8), «I campi di concentramento» (RR, pp. 1459-62), «I tuguri» (RR, pp. 1463-6), Pasolini ci dà una meticolosa descrizione delle borgate romane, registrando la loro graduale assimilazione nella periferia urbana. 2 Si prendano come esempi rappresentativi i poemi «La Guinea» e «Profezia», entrambi in Poesia in forma di rosa (Best, I, pp. 602-10; 693-9). 3 La celebre definizione appare per la prima volta alla fine del poema che dà il titolo a Poesia in forma di rosa (Best, I, p. 660) e, come nota Gordon (1996, p. 131), nel poema «Una disperata

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Capitolo sesto

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negativa perché appunto ‘storica’, cioè sanzionata e legittimata da un razionalismo funzionale e asfittico che si fa sempre più totalitario, del mito da lui costruito su luoghi quali il Friuli, la borgata romana, e ora il Terzo Mondo. 6.1 Continuità tra i romanzi romani e il primo cinema Com’è noto, il passaggio dalla letteratura al cinema fu graduale, protetto e garantito dalle numerose sceneggiature scritte prima dell’esordio alla regia e durante la stesura del secondo romanzo romano. Se all’inizio il mestiere di sceneggiatore consentiva a Pasolini di guadagnarsi di che vivere4, successivamente divenne, in modo del tutto originale, un canale autonomo di produzione letteraria. Nel 1965 Pasolini scriverà: «Il dato concreto del rapporto tra letteratura e cinema è la sceneggiatura. Non mi interessa però tanto osservare la funzione mediatrice della sceneggiatura […]. Quello che mi interessa della sceneggiatura è il momento in cui la sceneggiatura può essere considerata una ‘tecnica’ autonoma, un’opera integra e compiuta in se stessa» (EE, p. 188). Per il Pasolini semiologo la sceneggiatura diviene simbolica del perenne dinamismo che presiede alla sua nozione di ideologia; essa è infatti una struttura ibrida, un canone sospeso, un segno scritto costantemente proteso verso l’alterità di un inarrivabile noumeno. Secondo Pasolini, questa tensione è l’essenza stessa del concetto di «rivoluzione»: Che un individuo, in quanto autore, reagisca al sistema costruendone un altro, mi sembra semplice e naturale; così come gli uomini, in quanto autori di storia, reagiscono alla struttura sociale costruendone un’altra, attraverso la rivoluzione, ossia alla volontà di trasformare la struttura. […] parlo di ‘volontà rivoluzionaria’ sia nell’autore in quanto creatore di un sistema stilistico individuale che contraddice il sistema grammaticale e letterario-gergale vigente, sia negli uomini in quanto sovvertitori di sistemi politici. (EE, p. 195)

Una nozione di sceneggiatura, questa, che mi pare s’inquadri perfettamente nel coagulo esistenzialistico-marxista che abbiamo già visto caratterizzare il pensiero critico del primo Pasolini romano, reggendosi infatti sull’opposizione

vitalità» (Best, I, p. 730) Pasolini suggerisce che Una nuova preistoria, o semplicemente Preistoria, era uno dei titoli provvisori di Poesia in forma di rosa. 4 Prima di Accattone Pasolini aveva già lavorato a tredici sceneggiature diverse. Interrogato sul valore letterario di queste primi sceneggiature, Pasolini rispose che «erano i tempi delle vacche magre… Quando ho accettato la mia prima sceneggiatura, quella della Donna del fiume di Mario Soldati, morivo letteralmente di fame, da qualche parte nei dintorni di Ciampino, dove insegnavo per uno stipendio di miseria» (Duflot, 1993, p. 35). Altrove Pasolini confessa che sulla scelta di girare il suo primo film agiva «una specie di rabbioso capriccio», una «ripicca» (RR, II, p. 1554), nei confronti di quei registi e produttori per cui aveva lavorato come scenaggiatore senza poter esprimere pienamente la sua poetica.

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Per un cinema ‘nazional-(im)popolare’

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della storia come ‘desiderio’ (azione, ricerca, verifica) a un ‘assoluto ineffabile’ (i sensi, la morte). Ciò che conta è ancora una volta la presenza di una ‘contraddizione permanente’, derivata da ciò che Carla Benedetti (1998, p. 49) ha opportunamente chiamato «un coesistere dell’inconciliabile»: la presenza insuperabile della componente sacro-irrazionale che caratterizza «l’altro esito possibile del postmoderno, alternativo a quello ironico di cui Calvino è l’emblema» (Benedetti, 1998, p. 51). Occorrerà allora ripetere che in Pasolini il carattere etico dell’infinito ‘farsi’ della conoscenza è garantito proprio dal suo opposto, poiché infatti senza l’intuizione e la promozione del sacro in quanto altro dalla razionalità, il processo dinamico di ricerca diverrebbe a sua volta ipostasi, il ‘cattivo assoluto’ della ragione strumentale. Una conferma viene da un’intervista del 1964, in cui Pasolini approva con entusiasmo il dialogo corrente tra i marxisti italiani e Jean-Paul Sartre sul tema della morale, scorgendo in esso un «grandissimo fermento», una «apertura del marxismo verso certe forme esistenziali e quindi, in fondo irrazionali» che in precedenza il proponimento di «obiettivi immediati – la rivoluzione russa, la Spagna, la Resistenza, la guerra contro il fascismo» (in Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, 1977, p. 111) aveva potuto impedire. Una dichiarazione, questa, che inoltre dimostra quanto abbiamo precedentemente osservato a proposito dei romanzi romani: che se da una parte Pasolini appoggia il comunismo come alternativa politica per la risoluzione di questioni pratiche e immediate, dall’altra, attraverso la letteratura e il cinema, lotta per una interpretazione critica della dottrina marxista implicante la revisione dei postulati razionalistici su cui tale dottrina si fonda. Alla luce del concetto di sceneggiatura esposto da Pasolini, si chiarisce anche il motivo del passaggio dal romanzo al cinema, che l’autore sintetizzò con queste parole: «Il desiderio di esprimermi attraverso il cinema rientra nel mio bisogno di adottare una tecnica nuova, una tecnica che rinnovi» (Pasolini, 1961). Ma se è indubbio che il cinema abbia rappresentato per lui una «tecnica nuova», tale tecnica rimane comunque funzionale al corso progressivo della ‘vecchia’ ricerca ideologica. Ciò che infatti sembra stare più a cuore all’autore è compiere un decisivo passo in avanti verso l’ideale (irraggiungibile, altro) dell’unità di soggetto (cultura) e oggetto (natura), come emerge dalla seguente dichiarazione: Ho più volte ribadito che il passaggio dalla letteratura al cinema, per esempio, non è altro che un cambiamento di tecnica. Man mano però mi son messo a differenziare le tecniche letterarie e cinematografiche. Il linguaggio letterario usato dallo scrittore per scrivere una poesia o un romanzo, o un saggio, costituisce un sistema simbolico convenzionale: per di più, ogni linguaggio scritto o parlato è definito da una serie di limiti storici, geopolitici o, se preferisce, nazionali (regionali)… Il cinema, invece, è un sistema di segni non simbolici, di segni viventi, di segni-oggetti… Il linguaggio cinematografico non esprime quindi la realtà attraverso una serie di simboli linguistici, ma per mezzo della realtà stessa. Non è il linguaggio nazionale o regionale, bensì trans-nazionale […]. Credo di poter dire che scrivere delle poesie o dei romanzi fu per me il mezzo per esprimere il mio rifiuto di una certa realtà italiana […]. Ed

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è lì forse la vera tragedia di ogni poeta, di non raggiungere il mondo se non metaforicamente […]. Già il dialetto era per me il mezzo di un approccio più fisico ai contadini, alla terra, e nei romanzi ‘romani’ il dialetto popolare mi offriva lo stesso approccio concreto, per così dire materiale. Ora, ho scoperto molto presto che l’espressione cinematografica mi offriva, grazie alla sua analogia sul piano semiologico […] con la realtà stessa, la possibilità di raggiungere la vita in modo più completo. Di impossessarmene, di viverla mentre la ricreavo. Il cinema mi consente di mantenere il contatto con la realtà, un contatto fisico, carnale, direi addirittura sensuale. (Duflot, 1993, pp. 13-4)5

Se dunque tanto la letteratura quanto il cinema vengono concepiti dall’autore come forme d’espressione artistica rispondenti alle medesime sollecitazioni intellettuali (cfr. Pasolini, 1962a e 1964a; Martini, 1961), è però il cinema a garantire la maggiore aderenza tra ‘fatto culturale’ e ‘realtà fisica’. Se approfondiamo il discorso, scopriamo che ciò che la letteratura e il primo cinema di Pasolini hanno in comune è la consapevolezza dell’antagonismo di due precise forze sociali: il sottoproletariato e la piccola-borghesia. Il contrasto tra queste due forze non viene mai sviluppato appieno su un livello direttamente socio-politico, quanto piuttosto su un livello poetico e filosofico insieme («I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica», Dialoghi, p. 295). È Pasolini stesso, infatti, che nel 1964 rispondendo a uno studente durante un dibattito, dice che non bisogna dare né alla parola ‘politica’ né alla parola ‘poesia’ un significato corrente, comune, conformistico, bisogna recepire questi due termini, queste nozioni, in modo, diciamo così, molto largo, ampio, filosofico, non pratico nel senso spicciolo. Quando lei dice ‘politica’ e la lega alla poesia, spero non intenda una lotta politica pratica, […] ma la dice nel senso greco della parola. In tal caso non è possibile che un’esperienza politica sia disgiunta da una esperienza poetica. (in Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, 1977, p. 97)

Se nella narrativa romana la variante strettamente politica, come abbiamo precedentemente costatato, non raggiunge mai un ruolo centrale, ciò vale a maggior ragione per i primi film degli anni ’60, in particolare Accattone e Mamma Roma. Qui non troviamo mai riferimenti diretti a quel comunismo che molti critici avevano frettolosamente elevato a protagonista indiscusso di Una vita violenta. Come per i due romanzi romani, piuttosto, tanto per Accattone quanto per Mamma Roma si può individuare la presenza di una fondante tensione teorica tra utopia e ragione strumentale. Mentre in Accattone, come in Ragazzi di vita, l’enfasi cade sulla mitizzazione dell’istinto popolare, Mamma Roma e Una

5 Nel «Poeta delle Ceneri», datato 1966-67, Pasolini conferma che alla base del suo passaggio al cinema vi è una ragione ‘tecnica’ implicante una più profonda ragione ‘filosofica’: «Poiché il cinema non è solo un’esperienza linguistica, / ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica» (Best, II, p. 2067).

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vita violenta denunciano con più ampio respiro la natura corruttrice della ratio borghese. Ciò sembra confermato da Pasolini stesso, che più volte si è espresso sulla continuità tra i due romanzi e i due film, suggerendo proprio il parallelo Accattone-Ragazzi di vita e Mamma Roma-Una vita violenta6, e riconoscendo esplicitamente, pochi mesi prima di iniziare le riprese di Mamma Roma, che questo suo film sarebbe stato «la continuazione ideale di Accattone» (Pasolini, 1962a). Da aggiungere inoltre che tanto nel primo quanto nel secondo caso, la ricerca dell’autore rimane in equilibrio tra i due poli magnetici dell’ispirazione: come nella coppia Accattone-Ragazzi di vita emergono acuti spunti polemici contro la prospettiva dell’imborghesimento, così Mamma Roma e Una vita violenta rimangono puntellati da un’interna pulsione mitizzante di tipo endemico, che spesso rischia di avere il sopravvento sulla discorsività narrativa. Adottando un diverso punto di vista interpretativo, le prime due opere cinematografiche si possono certo anche leggere come dirette denuncie sociali. Tuttavia, se ci si limitasse a questa lettura, si perderebbe, credo, il senso più profondo dell’operazione. La caratteristica più appariscente dei due primi film, tanto da un punto di vista stilistico che tematico, è infatti la sacralizzazione, piuttosto che la denuncia, della condizione sottoproletaria, con tutto il suo carico di miseria e corruzione. Ciò che occorre approfondire criticamente mi pare sia proprio la valenza teorica di questa sacralizzazione che, pur con modi e risultati differenti, si presenta come costante punto di riferimento nello sviluppo intellettuale dell’autore. Il primo passo sarà esaminare come la componente sacrale s’innesti nel progetto pasoliniano del ‘rivolgersi al popolo’, secondo un’accezione di cinema concepita gramscianamente nel segno del ‘nazionalpopolare’. Mi pare innanzitutto che l’insistere del Pasolini dei primi anni ’60 su un concetto di sacralità che ha come sede privilegiata il ‘corpo’, non coincida, come sostiene Giuliano Manacorda (cfr. Manacorda, 1977) con la liquidazione della storia, ma al contrario agisca dentro la storia, aspirando a recuperarne un senso più autentico. 6.2 Il ‘popolare’ di Pasolini Poco prima di iniziare le riprese di Salò o le 120 giornate di Sodoma, il suo ultimo film, Pasolini poteva ancora dire: «Gli artisti devono fare, e i critici

6 Ecco alcune testimonianze dell’autore: «Accattone è molto più indietro di Tommasino. Il suo destino molto più tragico» (Pasolini, 1961); «Direi che tutto sommato rispetto a Una vita violenta, dal punto di vista ideologico-marxista, Accattone rappresenta un passo indietro» (Magrelli, 1977, p. 28); «considero Accattone, da un punto di vista ideologico, (artistico non lo so), un po’ un passo indietro, quindi un leggero ritorno verso Ragazzi di vita» (Magrelli, 1977, p. 32); «Mamma Roma in un certo senso somiglia molto di più al Tommaso Puzzilli di Una vita violenta che non ad Accattone. Infatti, Mamma Roma ha esplicitamente, in maniera sia pure rozza, primitiva, come può fare lei, una certa problematica morale che le si sviluppa per gradi» (Magrelli, 1977, p. 44).

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difendere, tutti i democratici appoggiare con una decisiva lotta, questa volta dal basso, opere estremistiche tali da riuscire inaccettabili anche alle più larghe vedute del nuovo potere» (Pasolini, 1976). Mi pare che questa dichiarazione, con la sua enfasi collettivistica e militante, riassuma efficacemente, per quanto rilasciata in un’epoca in cui l’autore aveva abbandonato qualsiasi prospettiva di palingenesi sociale (cfr. Duflot, 1993, p. 52), le ragioni alla base della caratterizzazione ‘nazional-popolare’ del primo cinema pasoliniano. Si tratta, evidentemente, di una caratterizzazione estremamente soggettiva, che stravolge nel profondo la prescrizione gramsciana: la lotta dal basso dovrebbe infatti conformarsi non tanto alla divulgazione di un’arte popolare dai valori affermativi, quanto a una strategia estremistica mirata innanzitutto alla difesa della libertà dell’artista. Già nel 1960 dalle colonne di «Vie Nuove», opponendosi alla censura cinematografica attraverso il suggerimento di un operaio fiorentino (piuttosto che abbracciando la proposta comunista dell’autonomia di produzione)7, Pasolini ipotizzava, con gusto del paradosso, «l’idea di uno sciopero nelle fabbriche ogni qual volta fosse minacciata la libertà d’espressione degli artisti», aggiungendo poi che «ci sarebbe la contropartita: gli intellettuali starebbero accanto agli operai in uno sciopero ogni qual volta questo fosse ritenuto necessario e opportuno. Dico accanto anche fisicamente, oltre che idealmente» (Dialoghi, p. 76)8. Il fondo ‘nazional-popolare’ del discorso, come si vede, è alimentato dalla necessità di una libertà artistica definita in senso assolutamente anticonformistico piuttosto che tipicamente gramsciano. Come era già emerso dai romanzi e dalla poesia degli anni ’50, anche per il cinema di Pasolini la richiesta della libertà artistica sembra finalizzata a una critica totale e permanente dello status quo. Si tratta, mi pare, di un’intransigente opposizione intellettuale che, al fondo, è intesa a destabilizzare il carattere ontologico della moderna concezione di razionalità, strumentale e empirica, riconducendola a un ruolo più agonistico, sofferto, costruito su continue sistemazioni e continui ripensamenti dell’idea posseduta. Questa concezione della ragione, dipendente dal recupero della categoria dell’altro, emerge regolarmente

7 Il brano di Pasolini riferisce di «un intervento importante sul problema della censura» fatto da Trombadori nel corso di una riunione al Circolo Gramsci, a Tiburtino IV, in cui si discuteva la questione gramsciana del rapporto «tra l’azione degli operai e quella degli intellettuali, il loro reciproco appoggio». La prima proposta del dirigente comunista chiamava direttamente in causa il cinema, e stabiliva la necessità di una produzione autonoma dei socialisti e dei comunisti. Pasolini però si opponeva ritenendo l’autonomia della produzione insufficiente se non affiancata dall’autonomia della distribuzione, abbinamento che giudicava «un po’ difficile da realizzare» (Dialoghi, p. 75-6). 8 Similmente, per la censura del film All’armi siam fascisti Pasolini parla di uno scandalo per cui si dovrebbe «scendere in piazza» a dimostrare (Dialoghi, p. 177).

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nella produzione cinematografica del periodo in questione. Non solo nei singoli film9, ma anche nei saggi critici10. Proprio riflettendo sulla nozione costitutivamente e intenzionalmente contraddittoria che Pasolini aveva della razionalità possiamo capire perché, nel difendere un tipo di cinema impopolare ed estremistico, l’autore riteneva che un’assoluta trasgressione al codice avrebbe finito col diventare innocua: Bisogna […] obbligare se stessi a non andare troppo avanti, interrompere lo slancio vittorioso verso il martirio; e ritornare continuamente indietro, sulla linea del fuoco; solo nell’attimo in cui si combatte, […] solo nell’attimo in cui si è a tu per tu con la regola da infrangere, […] si può sfiorare la rivelazione della verità, o della totalità, o insomma di qualcosa di concreto. (EE, p. 276)

La valenza ideologica dell’infrazione del codice dipende dalla capacità di tornare sull’attimo ineffabile in cui s’infrange la regola e nasce l’infrazione stessa, nel preciso momento in cui scatta la contraddizione. Proprio la capacità di sostenere il confronto con l’ambiguo, con ciò che è stato e che ancora non è, può aprire la porta del dialogo con gli altri (cfr. Duflot, 1993, pp. 50-1; Bertini, 1979, pp. 109-13). L’ambiguo, dunque, è direttamente dipendente dall’utopico. Il nesso si può verificare nella teorizzazione del ‘cinema di poesia’, con cui Pasolini attacca tanto la concezione tradizionale che moderna del linguaggio filmico. In linea con la diagnosi di Adorno (1979, pp. 77-87), il cinema in quanto mezzo di comunicazione di massa, dichiara Pasolini, tende «a costruire il proprio mito» (Duflot, 1993, p. 36), ovvero corre il rischio di annullare, inglobandolo, il potenziale liberatorio del dato altro (e dunque autenticamente mitico) compresente nel reale (cfr. EE, pp. 172-3). Pasolini denuncia in questo modo l’irrazionalismo di un mezzo di comunicazione che rifiuta di portare il dato irrazionale (barbarico, onirico, ecc.) del reale a livello della coscienza. Questo difetto non è solo del cinema del passato, ma anche di quello contemporaneo, poiché Pasolini è convinto che la svolta verso un cinema d’autore, estremamente poetico e sog-

9 Si prenda come esempio inequivocabile l’ultima produzione cinematografica: come Salò, primo episodio della progettata «Trilogia della morte», rappresenta una feroce e violenta analisi dell’universo borghese, così la precedente «Trilogia della vita» esalta una nozione di corporalità che scivola in una dimensione astorica, in cui appunto la carica di negatività viene totalmente assorbita. 10 Si può trovare un ottimo esempio di ciò nel saggio del 1970 «Il cinema impopolare» (EE, pp. 269-76). Qui Pasolini connota utopicamente la libertà di un autore come «attentato autolesionistico alla conservazione» (EE, p. 269) che necessita il recupero dell’immagine della morte e che si comunica allo spettatore in termini sado-masochistici: sadismo nei confronti dello spettatore «di serie B», che intende il cinema come naturale evasione; e masochismo nei confronti dello spettatore «di categoria A», che invece si mette sulla stesso piano dell’autore condividendo con lui «il piacere di soffrire, ‘sopportando’ il martirio di un’inquadratura innaturale come un piacere» (EE, p. 273).

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gettivo e trasgressivo, caratterizzante i primi anni ’60, ha condotto a sua volta a una forma di conformismo formalistico. Qui, l’autore si riallaccia al discorso affrontato nel saggio La libertà stilistica, paragonando il cinema d’autore alla prosa d’arte (cfr. EE, pp. 185-6). Procedendo poi a «un esame comparativo» del fenomeno ‘cinema di poesia’, cioè inserendolo «in una situazione culturale, sociale e politica più vasta», Pasolini può concludere che «la formazione di una tradizione di ‘lingua della poesia del cinema’, si pone come spia di una forte e generale ripresa del formalismo, quale produzione media e tipica dello sviluppo culturale del neocapitalismo», per cui, se da una parte si può dedurre che la «borghesia […], anche nel cinema, ridentifica se stessa con l’intera umanità, in un interclassismo irrazionalistico», dall’altra si ipotizza, con meno pessimismo, un «neocapitalismo che mette in discussione e modifica le proprie strutture, e che, nella fattispecie, riattribuisce ai poeti una funzione tardoumanistica: il mito e la coscienza tecnica della forma» (EE, 186-7). Questa convinzione era già emersa, peraltro, in una lettera a Luciano Anceschi, datata gennaio 1960 (cfr. L, II, pp. 467-9). Si tratta di una concezione conformistica dell’infrazione che ci consente di risalire alla polemica dell’autore con le avanguardie, prima fra tutte il ‘Gruppo 63’ (cfr. Duflot, 1993, p. 37). In base a queste premesse, sarà importante verificare come il primo cinema pasoliniano possa leggersi in un contesto di ‘impegno’ che preveda il recupero del luogo utopico sopra indicato. Se così realmente fosse, allora saremmo tentati, attraverso un raffronto con quanto osservato circa la produzione letteraria e saggistica dei secondi anni ’50, di proporre un’interpretazione unitaria del progetto ideologico di Pasolini nel periodo in questione. Per comprendere quali fossero le ragioni ideologiche di fondo operanti nel cinema pasoliniano, occorre concentrarsi sul concetto di ‘arte popolare’. Subito dopo la ‘prima’ di Accattone, l’autore giustificava così il suo passaggio al cinematografo: «Ho voluto inaugurare un dialogo più vasto, visto che un romanzo si rivolge oggi in Italia ottimisticamente, a centomila persone al massimo. Il cinema invece instaura un dialogo infinitamente più ampio […] più popolare» (Magrelli, 1977, pp. 24-5; cfr. anche Dialoghi, pp. 64 e 66-7). Il punto cruciale è tuttavia capire in che modo Pasolini intendesse dialogare con un pubblico più vasto. Se analizziamo le numerose dichiarazioni rilasciate nei primi anni ’60 ci accorgiamo che l’autore, nonostante l’intento ‘nazional-popolare’, rimane fedele alla concezione ‘estremistica’ dell’opera d’arte cui si è fatto riferimento all’inizio di questa sezione. Per quanto cioè egli sembri voler rivolgersi a larghi strati di pubblico, la sua posizione ci appare radicale e intransigente nel teorizzare un ‘cinema popolare’ assolutamente refrattario al ‘gusto popolare’. Nel corso di una discussione con il critico Nino Ferrero circa la popolarità del cinema di De Santis, ad esempio, Pasolini contraddice il suo interlocutore esponendo con chiarezza la seguente posizione: Vede, credo che il cinema popolare possa dirsi popolare soltanto se non cede niente a quello che si crede gusto popolare. Secondo me invece De Santis fa un cinema

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popolare che è popolaresco e populistico. Io mi sono occupato di poesia popolare, e poesia popolare si può dire in due sensi: poesia fatta dal popolo, che è la poesia veramente popolare e poesia fatta per il popolo. In quest’ultima, vi sono molti equivoci, evidentemente. Cioè, c’è l’equivoco romantico del popolaresco che è cosa da evitare risolutamente, perché non è di nessuna utilità, ma semplicemente attraverso esso si finisce per rifare il verso al popolo, cioè si fa un’opera demagogica, tutto sommato. Per me il difetto di De Santis è quello di concedere troppo a questa demagogia popolaresca: il suo film finisce col non essere popolare, col non essere educativo. Un’opera è educativa soltanto se urta, non se si immedesima, se pone una aprioristica simpatia con il pubblico; si deve rifuggire da qualsiasi forma spettacolare o demagogica. (Magrelli, 1977, pp. 37-8)

Il problema toccato qui da Pasolini è centrale all’ampio dibattito ideologico sull’impegno dell’artista che imperversò per tutti gli anni ’50 e ’60, e approda a una denuncia della neutralizzazione demagogica del concetto di popolare operata dall’allora nascente industria culturale. L’originalità del contributo pasoliniano (già intellettualmente maturo, come abbiamo appurato, all’epoca delle ricerche filologiche dei primi anni ’50), sembra consistere nel tentativo di conciliare il concetto di ‘popolare’ a un’estetica ‘antipopolare’: nel salvaguardare, cioè, i concetti di popolo e di collettività attribuendo però al medium artistico una funzionalità negativa, disgregante piuttosto che edificante. Secondo l’autore, le masse che affluiscono nei cinema dell’Italia del ‘boom’, gli anni del riformismo di centro-sinistra che Pasolini salutava con disincantato ottimismo11, dovrebbero essere ‘urtate’, provocate da un’immagine contraddittoria del reale attraverso la quale la falsa coerenza del sistema borghese, fondato su una concezione mistificante della razionalità, possa essere denunciata. Nonostante l’ottimismo idealistico apparentemente implicito, comprendiamo facilmente che l’accezione di popolo cui fa riferimento Pasolini non è quella già abbracciata dal progressismo gramsciano, né quella divulgata dalla sinistra nel dopoguerra12. La differenza sostanziale è che il popolo qui chiamato in causa non è una forza politica attiva all’interno di un progetto ideologico, ma sostanzialmente un’entità psicologica che deve e può solo essere educata al riconoscimento della contraddittorietà del reale. Qualsiasi altra speculazione, per l’au-

11

Scrisse la poesia «Nenni», pubblicata dall’«Avanti!» del 31 dicembre 1961 (cfr. Best, II, pp. 1717-20). Su Pasolini e il riformismo si veda anche Dialoghi, p. 282. 12 In un feroce articolo uscito a pochi mesi dalla prima di Accattone a Venezia, Asor Rosa, scrivendo sul carattere populista del cinema e della letteratura italiana, dimostra di concepire la politicità dell’arte solo in un senso strettamente funzionale, inscrivendo il trattamento del sottoproletariato dei vari Pasolini, Testori, Moravia, Visconti, ecc. «in un ambito rigorosamente decadente» (cfr. Asor Rosa, 1961b). Come è noto, queste convinzioni verranno quattro anni più tardi approfondite e in sostanza confermate nel testo Scrittori e popolo, dove a proposito del cinema di Pasolini si legge: «la produzione cinematografica […] ricalca senza grandi novità gli esperimenti narrativi» in quanto «avventura estetica la quale può essere definita nel suo complesso un fallimento» (Asor Rosa, 1969, p. 538).

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tore, diventa demagogia: «Tutte le strade sono sempre sbagliate, le strade indicate programmaticamente; i film che dovrebbero rispondere a delle definizioni sono sempre sbagliati» (Magrelli, p. 41). Il fatto poi che Pasolini si presenti come ‘autore’ nel senso tradizionale della parola (Halliday, 1992, p. 48; Duflot, 1993, p. 33), mi pare debba essere ricondotto proprio alla sua volontà di intervenire ideologicamente, di farsi portavoce di un messaggio ‘forte’: la piena autorità esercitata sul materiale filmico, pro-filmico e pre-filmico, accuratamente individuata da Gordon (1994, pp. 187263), non deve per forza di cose essere intesa come narcisistica ossessione autorappresentativa, ma piuttosto come modo di resistenza alla neutralità anodina che accompagna il proliferare dei prodotti culturali di massa. La concezione del ‘popolare’ che abbiamo qui delineato ritorna puntualmente nell’attività giornalistica intrapresa, proprio a partire dal 1960, con la rubrica «I dialoghi» sul settimanale filo-comunista «Vie Nuove». Anche qui, nonostante la componente soggettiva e autobiografica (cfr. Ferretti, 1977 e 1992; Gordon, 1996, pp. 47-54), ciò che emerge con prepotenza dalle risposte date ai lettori, perlopiù giovani comunisti, è la specificità del taglio ideologico. Voglio dire che la costante del dialogo pasoliniano non mi pare, come ha visto Ferretti, «una sorta di volontarismo pedagogico e ‘propagandistico’ e ottimistico» (Ferretti, 1977, p. 24)13, ma piuttosto il tentativo di educare la classe operaia, magari provocatoriamente, a una visione critica, mai stabile e ontologica, dell’esistenza (cfr. Golino, 1985, 223-9), nella consapevolezza che, sulla soglia degli anni ’60, l’Italia si ritrova «alle origini di quella che sarà probabilmente la più brutta epoca della storia dell’uomo: l’epoca dell’alienazione industriale. […] una strada orribile: il neo-capitalismo illuminato e socialdemocratico, in realtà più duro e feroce che mai» (Dialoghi, p. 256). Questa concezione del popolare emerge anche se pensiamo al rapporto che negli anni ’60 Pasolini aveva instaurato con «Vie Nuove» e, più in generale, con il comunismo italiano. Non si può disputare che l’autore avesse aderito senza patenti conflittualità, almeno all’inizio14, alla linea politico-culturale del settimanale; come non si può disputare, lo abbiamo già sottolineato, il suo appoggio pubblico al PCI («Lei mi chiede per chi voto: per il Pci: e non ho il

13 La posizione non cambia nella prefazione a Dialoghi (1992, p. xvi); cfr. anche Fortini (1993, pp. 195-6), per cui le tesi degli articoli di Pasolini sono «in sostanza, dei sottoprodotti.» 14 La bontà dei rapporti, ben riconoscibile nel taglio di molti articoli, si alterò dopo il novembre del 1961, quando Maria Antonietta Macciocchi, la direttrice che aveva promosso la rubrica, abbandonò la rivista. Fu sostituita prima da Giorgio Cingoli, poi, dal 7 febbraio 1963, da Paolo Bracaglia Morante. La Macciocchi (1980, pp. 329-30) ha messo in relazione il suo allontanamento dalla direzione (che le venne comunicato nel corso di una riunione con Gian Carlo Pajetta e Mario Alicata) con l’ostilità della redazione e di alcuni dirigenti comunisti nei confronti della rubrica di Pasolini. È Pasolini stesso a darci notizia dello scandalo che le sue risposte ai lettori vanno fomentando in altre sedi (Dialoghi, pp. 129-31, 132-4, 140-1), dove il suo nome viene invariabilmente associato a attributi quali «pornografo» e «untorello marxista».

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minimo dubbio», Dialoghi, p. 55). Tuttavia, mi pare che l’ipotesi della stretta militanza comunista si possa suffragare solo in merito a problematiche a immediata scadenza15. All’inizio degli anni ’60, per esempio, l’appoggio al comunismo dato dal Pasolini giornalista è ancora, come in Una vita violenta, dettato dalla necessità concreta di lottare contro un potere politico che proprio nel 1960 assunse, con il governo di destra di Tambroni, la sua forma più involutiva16. Esso però non corrisponde mai a una scelta normativa, ma si arricchisce invece di significativi elementi critici che portano continuamente Pasolini a polemizzare, dall’interno, con il conformismo e l’eccessivo moralismo della sinistra italiana17 o mondiale18. A maggior ragione la problematica dell’irrazionale, che Ferretti (1977, p. 24), a torto, crede programmaticamente espunta dal colloquio di Pasolini con il popolo comunista, rimane in realtà sempre viva e centrale, e proprio sin dai primissimi interventi19; così come centrale è già quel 15 A una lettrice di Piacenza che gli chiede come votare alle prossime elezioni, Pasolini dà la seguente risposta, ricordando la medesima richiesta fattagli da un disoccupato di Napoli: «Al disoccupato napoletano mi era facile rispondere: vota PCI, perché questo è il partito che farà il tuo interesse immediato: ti darà il lavoro, il pane, una vita civile. Per lei – per cui il lavoro, il pane, la vita civile sono ormai dati acquisiti da non mettersi neanche in discussione – il discorso è meno semplicistico» (BB, p. 80). 16 Nel marzo del 1960 Fernando Tambroni sostituì Antonio Segni a capo del governo, con una maggioranza ottenuta solo grazie ai voti di 24 deputati neo-fascisti. Il contributo fascista provocò violente proteste a Reggio Emilia e a Genova nel luglio del 1960, che costrinsero Tambroni a dare le dimissioni. 17 Già nel numero del 25 giugno 1960 Pasolini critica il moralismo dei dirigenti e degli organi comunisti, aggiungendo che «anche ‘Vie Nuove’ (diciamolo brutalmente) non scherza» (Dialoghi, p. 13). Si veda in particolare la polemica con Salinari nel novembre 1961 (Dialoghi, pp. 190-9). 18 Il 7 gennaio 1961 manifesta il suo appoggio alla rivoluzione cubana di Fidel Castro, ma aggiunge: «Io però non uso mai accontentarmi della prima interpretazione […]. Una cosa, se è schematica, non mi interessa neanche se è giusta. […] Solo dopo aver rischiato di non capire niente, si riuscirà davvero a capire qualcosa: e lo schema riuscirà a riempirsi. Voglio dire che lo schema vive solo se esorbita, se non è capace di contenere tutto, se qualcosa gli sfugge» (Dialoghi, p. 86). 19 Proprio nella prima risposta, del 18 giugno 1960 (cfr. Dialoghi, pp. 6-7), Pasolini parla della necessità di storicizzare gli elementi irrazionali dell’arte, secondo un refrain che tornerà con regolarità in tutti gli anni ’60; la settimana successiva scrive che «un’operazione irrazionalità, da parte dei marxisti, sarebbe auspicabile: essi, infatti, identificando l’irrazionalità con l’irrazionalità del decadentismo, la ignorano. Ma l’irrazionalità (in cui si iscrive il problema sessuale) è una categoria dell’animo umano: ed è quindi un problema sempre attuale e urgente» (Dialoghi, p. 13); il 9 luglio riprende lo stesso argomento nel pezzo dal titolo «Pasternak e l’irrazionalità» (Dialoghi, pp. 17-9), dove il contrasto tra l’irrazionalità e la ragione viene ricondotto a quello tra le Erinni (o Furie) e Atena nell’Orestiade di Eschilo: «Dopo l’intervento razionale di Atena, le Erinni – forze scatenate, arcaiche, istintive, della natura – sopravvivono: e sono dee, sono immortali. Non si possono eliminare, non si possono uccidere. Si devono trasformare, lasciando intatta la loro sostanziale irrazionalità: mutarle cioè da ‘Maledizioni’ in ‘Benedizioni’. I marxisti italiani non si sono posti, credo, questo problema: e neanche – a quello che mi risulta – quelli russi» (Dialoghi, p. 18; argomento ripreso a pp. 117-20 e 173-4). Tale posizione verrà poi ribadita nel film-documentario Appunti per un’orestiade africana, e nel quinto (cfr. Best, II, p. 1731) dei sette

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Capitolo sesto

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tentativo di storicizzare l’insegnamento evangelico (cfr. Dialoghi, pp. 80-3,1045, 110-1, 117-20, 132-4, 172-3, 203-7, 263-4 e passim) che maturerà esplicitamente nell’ultimo dei film cosiddetti ‘nazional-popolari’, Il vangelo secondo Matteo. Per quanto dunque l’autore cerchi di semplificare la sua scrittura al fine di rendersi il più possibile chiaro e comprensibile ai suoi interlocutori («voglio essere inteso in modo elementare», Dialoghi, p. 111), al fondo dei ‘dialoghi’ permane fortissimo il pungolo della contraddizione, determinata dal contrasto tra razionalismo socio-politico (cfr. Dialoghi, pp. 32-4) e la necessità della riflessione sull’irrazionale di cui abbiamo detto; tant’è che a inizio 1962 Pasolini può scrivere: Spesse volte ho invocato l’intervento dei miei amici critici, per impostare insieme la questione del rapporto tra l’irrazionale e il razionale in poesia. Ma nessuno ha mai accolto questo mio appello: hanno preferito intervenire contro i miei momenti di irrazionalità inerme e nuda, isolandoli dal contesto storico, di razionalità e di irrazionalità di cui un poeta e un uomo, in concreto, vivono. (Dialoghi, p. 229)

Vedremo ora di approfondire il significato di questa necessità, affrontando il complesso lavoro di ricerca teorica che accompagna e circoscrive l’attività pasoliniana di regista cinematografico. 6.3 Cinema, pansemiologia e ideologia La teorizzazione del cinema come ‘lingua scritta della realtà’, compiuta da Pasolini a metà anni ’60 in moderata polemica con Christian Metz20, ci offre gli strumenti migliori per misurare l’incidenza della coordinata utopica sulla sua produzione cinematografica. In generale, se si fa eccezione per il filosofo Gilles Deleuze (1983 e 1985), la critica si è dimostrata alquanto riluttante a riconoscere validità teoretica tanto alle complesse riflessioni del saggista quanto alla produzione dell’autore-regista. In questa sede, mi propongo di indagare la natura del rapporto tra il primo cinema e la saggistica di Pasolini, concentrandomi particolarmente sul suo film d’esordio, Accattone.

epigrammi con cui Pasolini rispose a un’indagine di «Nuovi Argomenti» (Pasolini, 1962b). Sul finire del 1959 Pasolini aveva cominciato a tradurre, per la compagnia del Teatro popolare italiano di Vittorio Gassman, l’Orestiade di Eschilo, che esordì al Teatro Greco di Siracusa il 19 maggio 1960. 20 Il semiologo francese sosteneva che il cinema può solo essere un linguaggio, e non una lingua, poiché non presenta la ‘doppia articolazione’ martinettiana. Pasolini dovette prendere contatto con le teorie di Metz nel 1966, alla seconda edizione del festival cinematografico di Pesaro (per la prima traduzione italiana del modello sintagmatico di Metz cfr. L’analisi del racconto, 1969, pp. 205-25).

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Mi pare che uno dei punti più intricati, stimolanti e significativi riguardanti il cinema pasoliniano rimanga il trattamento del problema teorico della ‘contraddizione’, attorno al quale il Pasolini saggista e narratore degli anni ’50 aveva costruito la sua militanza ideologica. Negli anni dello ‘zdanovismo italiano’, infatti, in Pasolini si faceva strada quel concetto di opera d’arte giocato sul rapporto dialettico tra ragione ideologizzante e impulso utopico-mimetico, che costituisce la base fondante della ben più articolata, ma ugualmente controversa, speculazione filosofica di T.W. Adorno. In un recente studio Patrick McGee (1997) ha suggerito che l’originalità del pensiero estetico di Adorno, da iscrivere ‘ereticamente’ all’interno del marxismo, sta nel recupero di una coordinata irrazionale che riscatti la ragione ipostatizzata della modernità a una razionalità autenticamente aperta e dunque etica. Nell’opera d’arte autentica, secondo Adorno, permane infatti una traccia dell’utopica riconciliazione tra soggetto e oggetto cui la ragione, onde evitare di sclerotizzarsi in mera strumentalità, dovrebbe tendere21. Similmente, tutta l’impervia operazione semiologica riunita nella sezione «Cinema» di Empirismo eretico converge, a ben vedere, sulla legittimazione al grado di ‘realtà’ di una dimensione percettiva ‘intraducibile’, per cui appunto il linguaggio cinematografico possa rivelare il suo momento ierofanico 22. Tuttavia, l’enfasi sulla sacralità non è finalizzata a se stessa, come credeva Umberto Eco23, ma conduce al recupero di un concetto ‘aperto’ di razionalità e di cultura

21 Scrive McGee (1997, p. 55), citando da Adorno (1984, p. 79): «Such a society [the capitalistic society] disavows the fact that rationality, ‘viewed as the sum total of all practical means,’ must have as its goal ‘something other than a means, hence a non-rational quality.’ While society disavows such a thought as irrational, art ‘represents truth in the twofold sense of preserving the image of an end smothered completely by rationality and of exposing the irrationality and absurdity of the status quo’». Si veda anche, a proposito, l’ottimo volume di studi sull’estetica di Adorno pubblicato di recente in lingua inglese a cura di T. Huhn and L. Zuidervaart (1997), dal titolo The Semblance of Subjectivity. Essays in Adorno’s Aesthetic Theory. 22 Cfr. il breve ma illuminante scritto «Il non verbale come altra verbalità», dove si legge: «l’uomo ha sempre dissociato la lingua scritto-parlata dalla Realtà. Nella lunga storia dei culti, ogni oggetto della realtà è stato sacralizzato: ciò non è successo mai alla lingua. La lingua non è mai apparsa come ierofania. […] Che io sappia, tutta la linguistica ‘scientifica’, fino allo strutturalismo compreso, col grande De Saussure ecc., nel definire il rapporto tra segno e significato, ha sempre ignorato il momento magico originario» (EE, pp. 263-4). 23 Umberto Eco (1968, pp. 150-60), così come altri semiologi di professione (Bettetini, 1973, pp. 8-9, 54-7; Garroni, 1968, pp. 14-7, 43-4; Heath, 1973, pp. 9-12), accusò Pasolini di «singolare ingenuità semiologica», aggiungendo che «la sua [di Pasolini] persuasione che i segni elementari del linguaggio cinematografico siano gli oggetti reali riprodotti sullo schermo […] contrasta con la più elementare finalità della semiologia, che è di ridurre eventualmente i fatti di natura a fenomeni di cultura, e non di ricondurre i fatti di cultura a fenomeni di natura» (Eco, 1968, p. 151). Pasolini rispose con il saggio Il codice dei codici (EE, pp. 277-84), insistendo che senza il riconoscimento della componente sacrale e a-razionale inerente al reale, non sarà possibile contribuire alla culturizzazione della natura. Pasolini sostanzialmente rimprovera a Eco quello che considera il tipico difetto dell’intellettuale borghese, cioè la paura dell’inconscio, di ciò che sfugge alla ragione: «Varie volte sembri pervenire all’analisi del più SOTTOSTANTE di tutti i codici. Si

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che Pasolini intende contrapporre al razionalismo asfittico che a suo avviso tutela l’entropia borghese e neocapitalistica. Questo recupero è reso possibile dalla individuazione di un punto di fuga utopico, in cui il contrasto oppositorio tra la dimensione sacrale della realtà e quella razionale della cultura viene meno. Ciò che importa è osservare come l’introduzione di un parametro utopico consente a Pasolini di spingere la semiologia oltre il proprio ruolo canonico (cfr. Deleuze, 1985, p. 42), che è quello di interpretare il mondo come insieme di segni distinti dagli inconoscibili significati-noumeni, al fine di conferire al dato non-razionale una funzione culturale: In realtà non c’è significato, perché anche il significato è un segno. […] Sì, questa quercia che ho davanti a me, non è il ‘significato’ del segno scritto-parlato ‘quercia’: no, questa quercia fisica qui davanti ai miei sensi, è essa stessa un segno: un segno non certo scritto-parlato, ma iconico-vivente o come altro si voglia definirlo. […] Il non verbale dunque, altro non è che un’altra verbalità: quella del Linguaggio della Realtà. (EE, p. 264)

Risulta evidente come l’autore, conciliando il significato (la fisicità indeterminabile della quercia) nel significante (il segno linguistico), intenda recuperare una dimensionalità fisica, tipica di ciò che si presenta all’uomo come oggettività «iconico-vivente», all’ambito culturale. Alla luce di quest’ultima osservazione, possiamo notare come l’obiettivo centrale della ricerca cinematografica dell’autore non sia affatto dissimile da quello della sua ricerca letteraria degli anni ’50, anch’essa consistente nel recupero della componente fisicosensoriale all’analisi linguistica del reale. L’irrazionalità viene infatti concepita come categoria assolutamente necessaria a qualsiasi progettualità conoscitiva, poiché Pasolini intuisce che solo attraverso la riabilitazione di una dimensione altra dal simbolismo linguistico, il linguaggio stesso può liberarsi dal giogo dell’operatività e della funzionalità logica cui è ridotto nel globale apparato produttivo che caratterizza la società moderna. Questa tesi compare per la prima volta espressa con sufficiente nitore nel lungo saggio «La lingua scritta della realtà», in cui Pasolini intende conferire un nuovo tipo di consapevolezza epistemologica alla funzione semiologica:

ha dunque l’impressione che il tuo libro sia scritto sul ciglio di un burrone. Oltre quel ciglio tu non ti sporgi. Lo sfiori e torni indietro, dopo avervi lanciato una distratta occhiata. Questo codice, il più SOTTOSTANTE di tutti, è quello che riguarda la percezione sensoriale» (EE, p. 279). La polemica ruota dunque, in nuce, intorno al problema del rapporto sensoriale tra l’uomo e la realtà, che per Pasolini esso dev’essere recuperato alla cultura. I «rapporti sensoriali» col mondo costituirebbero infatti «la nostra conoscenza psico-fisica della realtà naturale, che si attua secondo il più SOTTOSTANTE (ma ciò nondimeno INTERAGENTE) dei codici» (EE, p. 280). Il sacro, una volta riconosciuto dalla cultura come dato del reale, interagisce con la razionalità, costringendola a aprirsi a una continua ricerca di significato. Per un’approfondita e dettagliata analisi della teoria cinematografica di Pasolini si veda Wagstaff, 1999. Per un’interessante analisi della polemica Pasolini-Eco si veda Zigaina, 1993, pp. 75-89; De Lauretis (1980-1) e Ward (1995, pp. 120-2).

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Quello che occorre fare dunque, è la semiologia del linguaggio dell’azione o tout court della realtà. Ossia allargare talmente l’orizzonte della semiologia e della linguistica da perdere la testa al solo pensiero o da sorridere con ironia, come è giusto che gli addetti ai lavori facciano. Ma ho detto fin da principio che questa ricerca linguistica del cinema, mi importa, più che in se stessa, per le implicazioni filosofiche che richiede. (EE, p. 206)

Proprio da un’angolatura filosofica, allora, fare «la semiologia del linguaggio dell’azione o tout court della realtà» significa, paradossalmente, potenziare talmente la ricerca semiologica da arrivare a «perdere la testa», poiché l’analisi del reale, che a questo punto potremmo definire pansemiologia, non può esimersi dall’interpretare come segno anche l’ineffabile, il mistero escatologico in cui è radicato il concetto di realtà. Si riconoscerà l’analogia con l’immagine, coniata negli anni ’50, del periscopio che si adatta all’orizzonte, e non viceversa. L’irrazionale, il mistero, il sacro, fondamenta essenziali di ogni fenomeno reale, devono dunque diventare oggetto di analisi linguistica, cioè essere riscattati in quanto segni24. Diversamente, la semiologia finirà per offrire una nozione dimidiata del reale, senza contribuire alla sua culturizzazione (cfr. Duflot, 1993, p. 45). Giuliana Bruno (1991, pp. 29-42) ha giustamente osservato che il tentativo pasoliniano di recuperare un dato extra-linguistico alla semiologia non poteva giungere in un periodo peggiore, poiché proprio nella seconda metà degli anni ’60 i semiologi professionisti cercavano di conferire alla propria disciplina una dignità scientifica; mi pare superfluo aggiungere che ciò non pregiudica affatto l’effettivo valore della riflessione pasoliniana. Una riflessione che, come anticipato, ci appare radicata nel medesimo humus teorico che informa la saggistica letteraria degli anni ’50. L’indagine semiologica sul linguaggio cinematografico operata da Pasolini non implica altro che, infatti, quel viaggio a ritroso verso l’unità monadica del reale analogamente essenziale alla regressione nel parlante teorizzata per la lingua letteraria (cfr. EE, p. 202). Sulla difesa en poète della conciliazione terminale di immagine e realtà, agisce chiaramente il dato utopico che guida la ricerca pansemiologica di Pasolini. Non dobbiamo stupirci, allora, quando il critico procede a coniare il termine ‘cinèma’, per analogia con ‘fonèma’, al fine di indicare l’unità minima e indivisibile della realtà impressa, scolpita nell’immagine cinematografica. Caratteristica essenziale del ‘cinèma’ è allora la sua iconicità (cfr. anche Duflot, 1993, pp. 94-5), ovvero la sua intima resistenza al senso: «La caratteristica principe dei fonemi è l’intraducibilità: ossia la loro brutalità e indifferenza naturale. Anche un oggetto della realtà, in quanto cinèma, di per se stesso, è intraducibile, cioè un pezzo bruto di realtà» (EE, p. 203). A questo punto il senso dell’intera operazione non può sfuggire: senza l’agnizione di ciò che è intraducibile, iconicamente altro dall’ambito logico-razionale, ogni progetto 24 Significativo che riferendosi a Teorema Pasolini parli di un «rapporto ‘semiologico erotico’ tra il protagonista e i personaggi borghesi con cui viene a contatto» (Duflot, 1993, p. 81).

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ideologico rischia di diventare ontologico, ovvero di ipostatizzarsi a ‘seconda natura’25. Tutta la saggistica cinematografica di Empirismo eretico si può dunque leggere come una nervosa, passionale e idiosincratica operazione ‘filosofica’ (cfr. EE, pp. 250 e 257) finalizzata al ripristino culturale del conoscere sensoriale, e conseguentemente, del dato a-razionale. Da un punto di vista strettamente teorico, infatti, non esistono grosse varianti nei saggi che vanno dal 1965 al 1971; piuttosto, a livello empirico, è senza dubbio interessante osservare il modo in cui l’autore sviluppa la sua concezione del cinema come lingua scritta della realtà26. Innanzitutto, egli distingue il cinema dai singoli film, paragonando questa distinzione a quella classica, saussuriana, tra ‘langue’ e ‘parole’. Se il cinema è, come appunto la ‘langue’, un’astrazione che conosciamo solo attraverso i singoli film (‘paroles’), allora esso potrà essere considerato, «come nozione primordiale e archetipa, un continuo e infinito piano-sequenza» (EE, p. 229); viceversa, nei singoli film si dovrà evitare la fluidità analitica suggerita dal piano-sequenza per enfatizzare, attraverso un montaggio sintetico, i «vari aspetti della realtà (un viso, un paesaggio, un gesto, un oggetto), quasi fossero fermi e isolati nel fluire del tempo» (EE, p. 230). Semplificando, Pasolini vuole evidentemente dimostrare che la nozione di cinema è astratta e naturalistica, mentre quella di film è empirica, anti-naturalistica, e caratterizzata dal ritorno del ‘sacro’ (EE, p. 231). Partendo da queste premesse, fare o studiare un film significherà allora riesumare quell’alterità che il fluire del tempo (in specie il fluire desublimato della modernità) impedisce di cogliere. Con intuito analogico, Pasolini osserva che ciò equivale a mettersi davanti allo specchio e accorgersi della propria «presenza materiale e fisica. […] Ma in un modo nuovo e speciale, come se la realtà fosse stata scoperta attraverso la sua riproduzione, e certi suoi meccanismi espressivi fossero saltati fuori solo in questa nuova situazione ‘riflessa’. Il cinema infatti, riproducendo la realtà, ne evidenzia la sua espressività, che ci poteva essere sfuggita» (EE, p. 232). Il discorso dell’autore incide dunque ben oltre la specificità del cinematografo, mirando a trasformarsi in vera e propria trattazione filosofica, per quanto supportata dall’intuizione piuttosto che dal metodo. Le osservazioni sul piano-

25 Pasolini concluderà infatti il saggio con questa affermazione, che Conti-Calabrese (1994, p. 74) sospetta suggerita dalla lettura dei francofortesi: «Bisogna ideologizzare, bisogna deontologizzare. Le tecniche audiovisive sono gran parte ormai del nostro mondo, ossia del mondo del capitalismo tecnico che va avanti, e la cui tendenza è rendere le sue tecniche, appunto, aideologiche e ontologiche; renderle tacite e irrelate; renderle abitudini; renderle forme religiose» (EE, p. 226). 26 Si potrebbe a questo proposito adottare, per circoscrivere le varie fasi della teorizzazione pasoliniana, la parola ‘sperimentale’, considerato che Pasolini definisce i suoi saggi «molto contraddittori perché ognuno rappresenta un momento del mio pensiero, superato dal successivo» (EE, p. 232).

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sequenza, ad esempio, conducono dritto al cruciale nodo teoretico: «Ma essere è naturale? No, a me non sembra, anzi, a me sembra che sia portentoso, misterioso e, semmai assolutamente innaturale» (EE, p. 244). L’obiettivo palese è la critica di una concezione del reale fondata su presupposti positivistici, che s’iscrive nella più ampia critica della ratio delle società industriali avanzate in quanto responsabile della desublimazione e progressivo annichilimento della esperienza esistenziale dell’uomo. In questo senso, il pensiero di Pasolini sembra inserirsi nel quadro della cosiddetta ‘nuova sinistra’, che negli anni ’60, attraverso le maggiori università europee, cominciò a sviluppare una critica serrata delle democrazie occidentali, denunciandone il carattere repressivo 27. Tuttavia, reclamando spessore teoretico attraverso una discussione essenzialmente semiologica del cinema, il discorso pasoliniano si dimostra del tutto originale. Possiamo dunque confermare che l’enfasi sul sacro di Pasolini non conduce a una filosofia, o a una visione del mondo, irrazionalistica, ma piuttosto partecipa a un progetto di mediazione culturale della realtà (cfr. EE, pp. 235 e 280). Così come non è irrazionalistica, inoltre, l’operazione di Pasolini non sembra neppure direttamente pragmatica, in quanto non si collega alla prassi politica ma intende stimolare l’auto-coscienza dell’individuo (cfr. Duflot, 1993, p. 57). A questo proposito, non è difficile constatare come il primo Pasolini regista non ci parli mai di problematiche operaistiche28, ma limiti, clamorosamente per un intellettuale di sinistra, la sua zona d’interesse all’esistenza di un sottoproletariato concepita al di fuori della lotta di classe ed elevata piuttosto a coordinata esistenziale e teorica insieme. Attraverso un’operazione di specifica e consapevole sacralizzazione del sottoproletariato, Pasolini trasforma la sua esperienza esistenziale di tale realtà in dato filosofico, esprimendovi quell’urgenza utopica della riconciliazione tra pensiero e materia che caratterizza in profondità il suo discorso intellettuale. Che non vi sia una diretta e esplicita intenzionalità politica nel cinema di Pasolini, lo si può capire anche dall’analisi e finale presa di distanza dal fenomeno cinematografico del neorealismo (cfr. Magrelli, 1977, p. 26; Pasolini, 1964a). Nell’impossibilità di una lettura immediatamente politica, credo allora che il significato di un film come Accattone sia da ricercarsi non tanto nel trattamento del sottoproletariato in quanto funzione sociale, ma soprattutto in quanto essenza fisica, implicante il recupero della dimensione iconico-sacrale.

27 Nella seconda metà degli anni ’60 Pasolini paleserà ripetutamente la propria simpatia per questa corrente politico-ideologica (EE, pp. 252-3). Una testimonianza particolarmente limpida di questa simpatia si può leggere nella lettera scritta a Allen Ginsberg nell’ottobre 1967 (L, II, pp. 631-3). 28 Dirà negli anni ’70: «L’unico ambiente che non conosco fisicamente, per partecipazione diretta, per coazione, è l’ambiente operaio» (cfr. Anzoino, 1974, p. 2).

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6.4 La critica e il critico Se il sottoproletariato pasoliniano partecipa in modo determinante al recupero di un’istanza sacrale, nel corso degli anni ’60 l’autore conferisce a questo recupero un sempre più marcato accento ideologico, elevandolo a principale strumento critico nella sua crociata contro la nuova modernità italiana. Nel caso specifico del film Accattone, non solo i giornalisti dei rotocalchi e dei quotidiani, ma anche molti critici cinematografici («la cui preparazione culturale» denuncia Pasolini «è penosa», Dialoghi, p. 304), come era accaduto per quelli letterari negli anni ’50, si scagliarono immediatamente, spesso con l’unica arma del moralismo, sull’ambiguità dell’accostamento tra il sacro e l’ideologico. Si scrisse ad esempio di «pericolosità ideologica» nell’utilizzo di un approccio marxista contrastato dall’assenza di «una spinta verso l’incivilimento, verso il miglioramento, verso la conquista di un’autentica e libera umanità» (Dorigo, 1961); di un «determinismo cieco, spietato, senza speranza e senza uscita» che segnerebbe «la fine dei valori dell’uomo, della sua volontà, della sua ricchezza e delle sue tensioni al bene e alla verità» (Favero, 1961); o ancora di «varie limitazioni» riguardanti «il contenuto spirituale dell’opera, cioè l’autenticità di atteggiamento morale […] dell’autore nei confronti della materia trattata» (Cincotti e Ranieri, 1961); o di «un decadentismo inammissibile per un marxista dichiarato» (Castellani, 1962). Mi pare che il difetto comune a queste recensioni stia nell’ignorare che il «sentimento politico» dell’operazione artistica è essenzialmente concepito dall’autore non come «atto puramente pratico», ma come «pienezza che investe l’intero modo di essere e di pensare» (Pasolini, 1957a), e cioè come ampia e irrisolta problematicità29. Un personaggio come quello di Vittorio (detto Accattone), che si trascina penosamente tra le polverose baraccopoli romane, assume una forte rilevanza critica perché in lui la dimensione storico-esistenziale convive con quella utopica, perché la sua esistenza è insieme empiricamente data e razionalmente indeterminabile. La vera originalità di Pasolini, e insieme il motivo di scandalo, sem-

29 Cfr. a questo proposito l’intervento dal titolo «L’ambiguità» letto da Pasolini al convegno sul tema ‘arte e marxismo’ organizzato dalla Biennale nell’ottobre del 1974 (ora in Bertini, 1979, pp. 109-13), in cui si legge: «Ogni opera è ambigua. Ma lo dico non in difesa della sua unità; bensì in polemica con la sua unità. Ogni unità è infatti idealistica. […] L’ambiguità dell’arte non è dunque, malgrado le apparenza, un dato negativo in quanto irrazionalistico, e quindi decadentistico e borghese. L’ambiguità dell’arte è un dato positivo, in quanto presuppone nell’opera due momenti diversi, che la lacerano, e ne distruggono l’unità, essa sì irrazionalistica, e quindi, se vogliamo, decadentistica e borghese. […] I soliti moralisti tendono a vedere nell’ambiguità uno scontro tra passato (borghese e piccolo borghese, irrazionalistico e metastorico) e il presente (virilmente concepito come storia e lotta operaia). Cosa che riduce immediatamente un artista (che, nell’incertezza della sua scelta, è sempre colpevole) a capro espiatorio, oltre che a buffone. […] Non c’è niente di più distruttivo per l’arte che applicarvi il marxismo, o annetterla al marxismo. Come non c’è niente di più distruttivo che esercitarvi delle analisi psicanalitiche» (Bertini, 1979, pp. 109-11).

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bra consistere pertanto nell’aver assommato, in questo personaggio come un po’ ovunque nella sua opera, un elemento di denuncia sociale con un elemento metastorico. A testimonianza di ciò, nei mesi immediatamente successivi all’uscita del film, qualora interpellato sul carattere ideologico di Accattone, Pasolini non mancò dal menzionare ancora una volta, accanto al tema dello sfruttamento del sottoproletariato, la riflessione sul problema dell’irrazionalità (cfr. Magrelli, 1977, pp. 30-1). A due anni dalla morte dell’autore il critico Adelio Ferrero (1977, p. 26) produsse il primo studio sistematico del cinema pasoliniano, notando nel film d’esordio l’acuirsi di un momento di crisi ideologica, e dunque una «accresciuta pressione delle insorgenze irrazionalistiche» che avrebbe allontanato Pasolini dallo «spirito programmatico» (Ferrero, 1977, p. 30) del suo ultimo romanzo30. Diversamente, credo che, aldilà della presunta programmaticità della produzione narrativa, l’ispirazione e i risultati ideologici ottenuti prima con Accattone, poi con Mamma Roma, siano sostanzialmente complementari a quelli emersi dai romanzi romani, in virtù della medesima impostazione e soluzione teorica del problema sottoproletariato: se da una parte, in superficie, Pasolini sembra denunciare le disperate condizioni di vita del sottoproletariato, dall’altra, ben più profonda e decisiva, egli recupera il popolo come ambasciatore di una istanza sacrale31 che provochi la crisi della ragione borghese. Il violento e inconciliabile sentimento della crisi, postulato da Ferrero come originale contributo del cinema pasoliniano rispetto alle precedenti opere, mi pare in realtà una costante dell’ispirazione dell’autore, come d’altra parte conferma Pasolini stesso in una dichiarazione del 1964 (cfr. Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, 1977, p. 96). Attraverso gli anni cambiano piuttosto l’intensità e i modi d’espressione, ma non la sostanza teoretica incapsulata in questo concetto di ‘crisi’. La critica ha sovente individuato profonde fratture e decisive trasformazioni nel contributo ideologico dell’opera di Pasolini, precisamente perché non è stata in grado di ricondurre i risultati artistici e la militanza dell’autore ai propri capisaldi teorici. Operazione non semplice, specie in un periodo di affrettate politicizzazioni; ma anche operazione da cui, ora, con sguardo più disincantato, non possiamo più prescindere, se vogliamo autenticamente avvicinarci al senso dell’opera pasoliniana. Credo dunque che nel primo cinema di Pasolini, l’importo d’irrazionalità rimanga chiaramente funzionale a una precisa connotazione ideologico-culturale. Ma prima di approfondire l’analisi di Accattone, sarà utile osservare come

30 Questa interpretazione si inserisce in quello che è ormai diventato, credo, un luogo comune da sfatare: che gli anni ’50 abbiano rappresentato l’adesione di Pasolini all’ortodossia marxista, e che gli anni ’60, in concomitanza con la crisi delle ideologie, abbiano causato il riemergere del lato più acutamente esistenziale (cfr. anche Siciliano, 1978, p. 291). 31 In uno dei «dialoghi» Pasolini dice che i giovani sottoproletari «sono psicologicamente molto sani, in quanto sono vicini all’interezza naturale» (Dialoghi, p. 87).

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la riflessione di Pasolini sul rapporto tra ‘ragione critico-ideologica’ e ‘irrazionalità’ venga testimoniata con particolare limpidezza in ambito critico. Per quanto in modo saltuario, infatti, Pasolini condusse, a partire dagli anni ’50, anche l’attività di recensore cinematografico. Si è già accennato alla liquidazione di De Santis (cfr. Magrelli, 1977, pp. 37-8). Per quanto riguarda l’Antonioni de La notte, poi, Pasolini spiega, nel 1962, che il sentimento dell’angoscia di cui partecipa il film, per quanto sincero, non è funzionale alla sua sensibilità ideologica, perché troppo astratto e agnostico (cfr. Magrelli, 1977, p. 39)32; il giudizio su Rocco e i suoi fratelli, nella medesima intervista, sviluppa la stessa concezione di ‘impegno’: […] non è popolare […] perché da un lato è eccessivamente raffinato, c’è tutto quell’elemento decadentistico, irrazionale, formalistico da cui, un artista moderno non può prescindere, dall’altro concede al popolaresco. Cioè Visconti voleva fare un po’ il grande romanzo d’appendice nel senso popolaresco della parola, e quindi ci sono delle concessioni spettacolari e un po’ demagogiche; l’insieme forma un pastiche molto interessante artisticamente; è quindi un’opera molto compiuta in sé, ma non credo che sia questa la strada, ecco, almeno secondo me. (Magrelli, 1977, p. 40)33

Quest’ultimo intervento sul popolare nel film di Visconti esemplifica piuttosto chiaramente il tipo di lettura che Pasolini aveva fatto del ‘nazional-popolare’ gramsciano. Abbiamo già avuto modo di osservare, specie analizzando il Canzoniere italiano, come questa lettura fosse stata altamente idiosincratica. A maggior riprova, notiamo che in questo frangente Pasolini rimprovera a Visconti proprio una soluzione rigorosamente gramsciana: il tentativo di creare un’opera d’appendice d’argomento tipicamente italiano e qualitativamente efficace. Il carattere ideologico delle recensioni di Pasolini è poi testimoniato, sempre nella lunga intervista del 1962 cui stiamo facendo riferimento, da alcuni valutazioni su A bout de souffle34 di Godard e su L’année dernière à Marienbad di Resnais (cfr. Magrelli, 1977, p. 41). Peraltro, esiste tutta una serie di più articolati commenti recensori che confermano la specifica matrice ideologica dei giudizi critici dell’autore. Per maggior precisione, tra il 1959 e il 1960 Pasolini tenne una rubrica sul settimanale

32 In altre sedi, Pasolini avrà modo di ribadire il medesimo giudizio, cambiando però opinione quando si troverà a parlare de Il deserto rosso (cfr. FA, pp. 78-81). 33 Per una più elaborata analisi dello stesso film cfr. FA, pp. 69-70. 34 Pasolini parla di differenza «enorme» tra il portato anarchico di Vittorio in Accattone e del protagonista del film di Godard, in quanto quest’ultimo «è un personaggio borghese, incosciente e non dovrebbe esserlo», mentre « il mio personaggio è incosciente e cioè anarchico solo in quanto sottoproletariato» (Magrelli, 1977, p. 33). Per Pasolini, dunque, l’anarchia e l’incoscienza possono solo sussistere nel sottoproletariato, perché solo lì acquistano quella validità storica che giustifica e avvalora il discorso ideologico: cercare l’altro nel sottoprolatariato è per lui operazione storicamente giustificabile; nella borghesia, no.

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il Reporter35, esprimendosi a ruota libera sulle maggiori novità del cinema italiano e non. La caratteristica centrale di questa critica è identificabile nel suo fondarsi, nelle parole di Pasolini nel 1960, su «un intero sistema ideologico» che innanzitutto si prefigga il rifiuto categorico di valutare «un film come un’entità a sé, da delibare come prodotto assoluto del gusto, dell’ispirazione» (FA, p. 35); un’operazione quest’ultima, ripeterà in un altro articolo il critico, da rifiutarsi in quanto tipicamente crociana e borghese, nel senso che l’opera d’arte viene assunta a «dato unico, inimitabile e metastorico» (FA, p. 50). Per avere una conferma di come il «sistema ideologico» cui fa riferimento Pasolini sia fondato sull’opposizione di ‘razionalità’ e ‘sacro’, si veda il giudizio negativo sull’irrazionalismo populista di Pietro Germi, del quale Pasolini elogia solo alcune inquadrature di dati fisici, autenticamente popolari (cfr. FA, pp. 18-20); oppure si legga la recensione a L’ultima spiaggia di Stanley Kramer, in cui Pasolini utilizza il concetto di morte per accedere al sacro, secondo una logica che diverrà sempre più ricorrente nei suoi scritti 36; e infine si guardi all’impegnativo scritto su La dolce vita, in cui lo spunto polemico nasce essenzialmente da quello che Pasolini considera «il rifiuto alla razionalità e alla critica» (FA, p. 56) di Fellini, dovuto a un conformismo cattolico di ordine piccolo-borghese. 6.5 Teoria e pratica della morte: «Accattone» alla luce di «Empirismo eretico» Se nella letteratura degli anni ’50 la trattazione del tema della morte aveva avuto notevole spazio, nell’attività cinematografica degli anni ’60 essa diventa assolutamente cruciale. Mi pare infatti che il luogo della morte sia il riflesso

35 Come ha dimostrato T. Kezich (1996, pp. 8-10), il fatto che il settimanale venisse parzialmente finanziato da un deputato missino (l’onorevole Michelini), non impedì lo svolgimento di una linea generale alquanto indipendente, come testimonia la segnalazione, alla mostra di Venezia del 1960, di un film resistenziale come La lunga notte del ’43, o il supporto dato al Rocco e suoi fratelli dell’odiato (dalla destra) ‘conte rosso’ Luchino Visconti. Kezich sostiene inoltre che la decisione di Pasolini di collaborare con una rivista di destra rispondesse «al medesimo gusto di ficcarsi ‘in partibus infidelium’ che nel decennio successivo portò il ‘corsaro’, per più impegnativi certami, sulla prima pagina del ‘Corriere della Sera’ di Piero Ottone» (Kezich, 1996, p. 10). 36 Il film di Kramer, regista della sinistra hollywoodiana, che tratta della minaccia della guerra atomica descrivendo un’ipotetica fine del mondo nel futuro 1964, è secondo Pasolini privo di un’autentica problematica ideologica, in quanto «si appella, senza approfondire, alla ‘pazzia’ umana come causa della guerra» (FA, p. 25). La conclusione dell’autore è assai significativa: «È lecito dedurre che in questo film viene descritta la morte di chi non ha mai avuto vita: la fine di una società già finita; il passare dal non sapere di essere al non essere, da un nulla a un altro. E allora che significato straziante ha questa agonia collettiva senza dolore, quasi burocratica e troppo ben educata, laggiù, ai margini della civiltà britannica. L’intera umanità muore: e la sua morte è banale. Non riesco a immaginare nulla di più terribile» (FA, p. 26).

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condizionato, o il dato artistico sine qua non, del pensiero che sottende, consegnandogli unitarietà, alla teoria e alla pratica cinematografica di Pasolini (cfr. Gordon, 1996, pp. 214-5); esso infatti rimanda, nella trattazione dell’autore, al concetto filosofico cui abbiamo fin qui fatto riferimento: l’utopia in quanto limite costituzionale della razionalità. La morte nell’opera di Pasolini ci appare allora come il momento mimetico per eccellenza che, rielaborato dall’immaginazione artistica, rivela la sua urgenza utopica nel sottrarsi al discorso narrativo e riflettere, nella sostanza reificata che le è congenita, l’oppressione sociale che intende criticare. La continua messa in scena della morte, in Pasolini, ha dunque un significato profondamente critico. In quanto conciliazione negativa della soggettività con il suo mondo, la morte strappa il velo alla falsa conciliazione di quel mondo. In questo senso Accattone, il primo film di Pasolini, obbedisce alla medesima legge formale di fondo che informa Salò, esempio perfetto di arte negativa. È dunque attraverso la riappropriazione del potenziale mimetico-utopico insito nell’immagine ctonia che il Pasolini regista fonda la sua critica al neocapitalismo in quanto reificazione del sociale, e insieme la sua polemica con il marxismo ortodosso. Una testimonianza immediata e laconica di quest’ultima polemica mi pare già incisa in un breve scambio di battute nel film La ricotta, in cui alla domanda del giornalista «E che pensa della morte?», il regista, interpretato da Orson Welles, risponde: «Come marxista è un fatto che non considero» (cfr. RR, II, p. 844). 6.5.1 Teoria della morte Per prima cosa, sarà fondamentale notare come tutto il discorso sul cinema, raccolto nelle pagine di Empirismo eretico, ruoti puntualmente intorno al tema della morte. Tale tema emerge con particolare forza suggestiva in un celebre passo dello scritto «Osservazioni sul piano-sequenza», in cui il montaggio di un film viene definito come ‘operazione luttuosa’: Ma dal momento in cui interviene il montaggio, cioè quando si passa dal cinema al film (che sono dunque due cose molto diverse, come la ‘langue’ è diversa dalla ‘parole’), succede che il presente diventa passato […]. Allora qui devo dire che cosa io penso della morte (e lascio liberi i lettori di chiedersi, scettici, che cosa c’entri questo col cinema). […] L’uomo cioè si esprime soprattutto con la sua azione – non intesa in una mera accezione pragmatica – perché è con essa che codifica la realtà e incide nello spirito. Ma questa sua azione manca di unità, ossia di senso, finché essa non è compiuta. Finché Lenin viveva, il linguaggio della sua azione era ancora in parte indecifrabile, perché restava ancora possibile, e quindi modificabile da eventuali azioni future. Insomma, finché ha futuro, cioè un’incognita, l’uomo è inespresso. […] Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione […]. È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di

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senso37, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non definibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile (nell’ambito appunto di una Semiologia Generale). Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci. (EE, pp. 240-1).

Il passaggio contiene materiale illuminante per comprendere la riflessione di Pasolini sulla morte; si tratta evidentemente di una scrittura che supera la specificità del cinema e si colloca su un terreno fertilmente filosofico, assumendo, per precisione, un’esplicita valenza esistenzialistica. È impossibile, infatti, non cogliere come parlando del montaggio, Pasolini miri piuttosto a determinare il concetto di realtà. Il carattere tipicamente esistenzialistico del brano sta, innanzitutto, nella definizione dell’esperienza del vivere in termini di possibilità, per cui i rapporti dell’uomo con il mondo vengono immediatamente connotati come costitutivamente problematici e instabili; quindi, nella definizione della morte come possibilità assoluta che, opponendosi alla relatività della casistica esistenziale, getta su di essa una luce retroattiva in grado di recuperarne un senso preciso. L’impossibile (inesperibile) assolutezza della morte interagisce con la possibile (esperibile) relatività della vita, rendendola decifrabile. Ciò che conta, nell’intuizione pasoliniana, è proprio questo recupero dell’impossibile (del luogo altro per eccellenza e dunque utopico) in funzione di una maggiore leggibilità del possibile. Chiaramente, la vita dopo la morte rimarrà ambigua, come ambigui rimangono i film dopo il montaggio, ma si tratterà di un’ambiguità che, in quanto finita, non più modificabile dall’azione umana, potrà legittimare l’intervento della ragione a codificarne il senso. Una volta espressa l’intuizione, Pasolini, nei saggi successivi a «Osservazioni sul piano-sequenza», cerca di svilupparne il potenziale speculativo. Si veda ad esempio come lo scritto «Essere è naturale?» svolga la contrapposizione vita-morte come contrapposizione tra tempo e non tempo. Qui Pasolini, soffermandosi sul fenomeno avanguardistico americano del ‘New Cinema’, che provocatoriamente teorizza un naturalismo assoluto facendo corrispondere il film a un infinito piano-sequenza, sospetta che «gli autori del nuovo cinema non muoiono abbastanza dentro le loro opere», ovvero rimangono, per quanto con il lodevole intento di «inorridire lo spettatore sull’irrilevanza della sua realtà» (EE, p. 246), unilateralmente dentro il tempo, cioè imprigionati nella sua illusione38. Pasolini asserisce infatti che la nozione di realtà «è fondata su 37 Già nel 1961, dalle colonne di «Vie Nuove», Pasolini poteva dire che «la vita ha senso perché finisce» (Dialoghi, p. 170). 38 Altrove Pasolini sembra parlare del sentimento della morte come elemento cruciale per lo sviluppo della temporalità storica (cfr. Duflot, 1993, p. 64).

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un equivoco: il passare del tempo» (EE, p. 245), equivoco che può essere smascherato solo evidenziando come «la realtà non parla con altri che con se stessa» (EE, p. 238; cfr. anche p. 246: «non si sfugge alla realtà, perché essa parla con se stessa, e noi siamo nel suo cerchio»), cioè attraverso il recupero di una prospettiva mitica che denunci la ‘deliziosa’ illusione del nostro rapporto stabile e naturale con il reale: Il continuo della vita, nel momento della morte – ossia dopo l’operazione di montaggio – perde tutta l’infinità di tempi in cui vivendo ci crogiuoliamo, deliziandoci del perfetto corrispondere della nostra vita fisica – che ci porta alla consumazione – col passare del tempo: non c’è istante in cui tale corrispondenza non sia perfetta. Dopo la morte, tale continuità della vita non c’è più, ma c’è il suo senso. O essere immortali e inespressi o esprimersi e morire39. […] Il tempo non è quello della vita quando vive, ma della vita dopo la morte: come tale è reale, non è un’illusione e può benissimo essere quello della storia di un film. (EE, p. 247)

La realtà diventa dunque autentica, in quanto esperienza finita e immanente, solo quando la vita si spinge nella morte, cioè quando il soggetto rompe l’infinita indeterminatezza che accompagna il proprio autoporsi, e rientra nell’oggetto, testimoniando così la presenza di una destinazione utopica: altra in quanto implicante l’annientamento di quella distanza tra soggetto e oggetto che rende possibile la conoscenza. La libertà, l’indeterminatezza del vivere, non può che darsi, allora, come «libertà di scegliere la morte» (EE, p. 269), perché è solo attraverso la morte che l’uomo può dirsi compiutamente libero. Ciò significa, in definitiva, che la conoscenza stessa, storica e razionale, deve, se vuole essere veramente libera, fondarsi sul riconoscimento della sostanza a-razionale che supporta il concetto di realtà. Come infatti è il montaggio a fare del film un fatto storico e culturale, quindi interpretabile, allo stesso modo è la morte a rendere possibile quella ‘culturizzazione’ della vita che Pasolini, ribattendo le accuse di Eco, difendeva (cfr. EE, p. 284). Tale discorso viene ulteriormente approfondito nel saggio «I segni viventi e i poeti morti», in modo particolare quando l’autore si sofferma sul luogo dantesco della ‘lacrimetta’, che aveva posto a epigrafe di Accattone. Qui Pasolini intende recuperare la morte al marxismo, riprendendo il precedente esempio della vita di Lenin, ma questa volta riadattato alla figura di Stalin: Ammettete che Stalin vivesse ancora: il marxismo, che aveva fatto della sua figura un esempio pubblico pressoché assoluto, non resterebbe ancora sospeso e ambiguo

39 Nel saggio «I segni viventi e i poeti morti» Pasolini tornerà su questa frase, chiarendone il significato: «Ognuno di noi (volendo o non volendo) fa vivendo un’azione morale il cui senso è sospeso. Da ciò la ragione della morte. Se noi fossimo immortali saremmo immorali, perché il nostro esempio non avrebbe mai fine, quindi sarebbe indecifrabile, eternamente sospeso e ambiguo» (EE, p. 251).

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in una menzogna che solo con la fine di Stalin è stata smascherata? Nel caso di Stalin ci è voluto il XX Congresso (e non è affatto bastato). In un caso più umile, basta una ‘lacrimuccia’ (in ‘co’ del ponte presso Benevento’). Osserviamo questa lacrimuccia. Fino a quel punto l’uomo dal cui ciglio quella stenta e sublime lacrimuccia è gocciolata, era stato un peccatore: il suo era stato un esempio di (generico e cattolico) male. Quella lacrimuccia ha rovesciato la sua vita: ha gettato su essa, retrospettivamente, una luce completamente diversa […]. S’egli non fosse mai morto, mai ci sarebbe stata quella lacrimuccia e il linguaggio della sua azione umana, del suo essere uomo sulla terra, sarebbe stato un esempio inconcluso di male e basta. La mia idea della morte, dunque, malgrado quest’ultimo esempio dantesco, non è cattolica né idealistica. (EE, p. 251)

Pasolini chiarisce qui, mi pare con efficacia, come la lacrima della dedica di Accattone debba essere letta in relazione a una morte concepita come improvvisa e violentemente fisica manifestazione del sacro: una ‘morte’ che, in quanto emblema di alterità, riverbera sulla finitezza storico-temporale della vita, e non apre invece il passaggio a una preordinata eternità cattolica: […] la mia idea della morte, dunque, era una idea comportamentistica e morale: non guardava al dopo della morte, ma al prima: non all’al di là, ma alla vita. […] Credo che sia difficile essere più laici di così. E credo che fondare un’idea della vita su una morte così intesa, non abbia niente di contraddittorio al dichiararsi marxisti. O la filosofia ‘seconda’ del marxismo deve continuare a essere il vecchio positivismo, tanto simpatico e tanto ingiallito? (EE, p. 252)

A parte i saggi raccolti in Empirismo eretico, c’è una dichiarazione di Pasolini che non può mancare dal suscitare una profonda riflessione. Nel 1962, subito dopo aver completato Mamma Roma, egli affermava: «c’è dentro di me l’idea tragica che contraddice sempre tutto, l’idea della morte. L’unica cosa che dà una vera grandezza all’uomo è il fatto che muoia» (Magrelli, 1977, p. 59). Mi pare fondamentale, come primo rilievo, sottolineare l’accostamento tra la ‘morte’ e la ‘contraddizione’, poiché è proprio questo accostamento che ci può portare a comprendere le ragioni implicite nel recupero del luogo ctonio. Prove di questo accostamento si possono individuare, prima ancora che nel cinema, nella raccolta poetica la cui stesura occupa Pasolini per tutta la seconda metà degli anni ’50, La religione del mio tempo, e in particolare nella terza ed ultima sezione, intitolata «Poesie incivili». Qui infatti, l’immagine della morte agisce chiaramente da catalizzatore ideologico, poiché è da essa che Pasolini parte per giungere a affermare una ‘poetica della contraddizione’ carica di contenuti sociali. Nel già citato «La reazione stilistica», per esempio (cfr. Best, I, pp. 569-72); nel successivo poema «Al sole», dove il significato utopico implicito nell’immagine della morte viene trasferito, secondo un topos ricorrente in Pasolini, all’immagine del sole, che viene qui concepita in funzione ossimorica: «Nel tuo buio, sole, / si compie ancora una volta l’ingiustizia: / per essi, che son senza / vestiti e casa, per me, che soffro mistica / degradazione» (Best, I, p. 574); o ancora nell’esplicito «Frammento alla morte», dedicato a F. Fortini,

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dove il poeta imposta il dualismo ‘storia’-‘utopia’ come rapporto fertilmente interattivo, difendendo il momento ctonio come simbolo dell’alterità implicita e necessaria al progresso storico: «Vengo da te e torno a te, / […] ho camminato alla luce della storia, / ma, sempre, il mio essere fu eroico, / sotto il tuo dominio, intimo pensiero» (Best, I, p. 578); si tratta evidentemente di una difesa a oltranza del momento utopico del reale, tale da implicare, infine, la sua realizzazione topografica: «ah, il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo / sole dell’Africa che illumina il mondo. / Africa! Unica mia / alternativa…» (Best, I, p. 580). Come già per le borgate romane e prima ancora per il mondo contadino del Friuli, il recupero apparentemente mistificatorio dell’Africa come luogo insieme nella storia e fuori dalla storia, vita dentro la morte, testimonia dello sforzo pasoliniano di recuperare l’altrove all’immanenza, il sacro all’ordine profano del mondo moderno. Così come l’Africa, il glicine («desiderio di morte», Best, I, p. 591) dell’omonimo componimento riunisce in sé, nel suo «viola / che screzia i muri», il significato profondo della fascinazione sensualemortuaria di Pasolini: allargando «l’abisso tra corpo e storia» (Best, I, p. 589), la contemplazione del «misero glicine fiorito agli angoli di Monteverde» (Best, I, p. 587) conduce il poeta a uno stato di tremenda prostrazione che per quanto sembri vanificare ogni moto razionale («non può che ritornare / ogni storico atto irrazionale», Best, I, p. 588; «Ho perduto le forze; / non so più il senso della razionalità», Best, I, p. 591), è in realtà essa stessa, proprio in quanto disperata prostrazione, la misura della sua indignazione contro il mondo del «Nuovo Capitale» (Best, I, p. 591)40. Se poi passiamo al film Accattone, notiamo subito che la minaccia della morte è sin dalle primissime battute al centro della narrazione, tanto dal punto di vista formale che contenutistico41. Se n’è accorto, tra gli altri (cfr. Collet, 1962), uno dei critici più acuti di Pasolini, Lino Miccichè, il quale ha poi promosso questa centralità a costante anti-ideologica, «metastoricizzante» (Miccichè, 1976, p. 158) del cinema pasoliniano. Il difetto di questa posizione critica (cfr. anche Nowell-Smith, 1977; Greene, 1990, pp. 21-52) mi pare si annidi nell’ignorare l’enfasi strategica conferita da Pasolini al luogo tanatologico che, lungi dall’essere pura ossessione irrazionalistica, rimanda, come abbiamo visto analizzando la saggistica di Empirismo eretico, al recupero del luogo altro in quanto indispensabile a una nozione riscattata di razionalità.

40 Si veda rappresentato nei seguenti versi il passaggio dalla disperata irrazionalità evocata dal glicine nella prima parte del poema, alla feroce requisitoria a sfondo sociale contro il nuovo capitalismo italiano: «Altre mode, altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole» (Best, I, p. 591). 41 Si veda anche come siano incentrate su un «trionfante senso della morte» (Best, II, p. 1727), alcune poesie scritte nell’estate del 1961, durante o subito dopo le ultime riprese di Accattone (cfr. Best, pp. 1726-8).

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Da un punto di vista formale, la critica, confermando le già alquanto esplicite dichiarazioni dell’autore (Pasolini, 1964b), ha evidenziato come la tecnica cinematografica di Pasolini sia stata, a partire dal primo film, profondamente caratterizzata da una forte tensione sacro-mortuaria, che coinvolge tanto la messa in scena, quanto soprattutto la scelta delle inquadrature e in generale l’uso della macchina da presa. A questo proposito, tipici tratti stilistici del cinema pasoliniano sono le prolungate inquadrature frontali nella forte luce perpendicolare, i primi piani, le panoramiche lente, l’uso limitato del campo-controcampo, tutti segnali della preferenza data all’immagine statica e frammentaria sullo svolgimento lineare della narrativa (cfr. Gordon, 1996, p. 214; NowellSmith, 1977); un’immagine plastica e iconica che si rivela subito imparentata tanto agli affreschi di Piero della Francesca, Masaccio42, Giotto e Pontormo, quanto allo stile di Dreyer43. La fissazione dell’immagine cinematografica perseguita dallo stile pasoliniano richiama quel «ritorno del morto» che Roland Barthes (1980, pp. 23 e 121-2) ha visto rappresentato nell’immagine fotografica. Non a caso nel 1960, prima ancora dell’esordio cinematografico, Pasolini difende la «lezione di oggettività» del cinema contro la tendenza alla soggettività della letteratura, aggiungendo: «Non so cosa darei perché, semanticamente, la lingua italiana avesse la validità assoluta e omologante di un’immagine fotografata: in modo che il processo da semantema a stilema presupponesse un rapporto di assoluta strumentalità del primo» (L, II, p. 468). In una pagina autobiografica dello stesso anno, poi, egli scrive che tutti i personaggi del suo futuro film d’esordio «sono stati fissati in sfarzose fotografie, scelte e ordinate: un materiale frontale, ma ben altro che stereotipo, allineato a aspettare di muoversi, di vivere» (RR, I, p. 1555), mentre in un successivo abbozzo racconta come, dopo l’insuccesso con la ‘Federiz’ di Fellini e con l’‘Ajace’ di Cervi e Jacovoni, sarà l’amico regista Mauro Bolognini a convincere il produttore Alfredo Bini a finanziare Accattone, ma solo dopo aver visto, ammirato e portato via con sé l’«enorme pacco di fotografie del mio film» che arricchiva il progetto di sceneggiatura (RR, I, p. 1568). Altrettanto significativa e peculiare la scelta degli attori non professionisti, di estrazione sottoproletaria, protagonisti assoluti del primo film e largamente utilizzati anche in quelli successivi. A differenza dei neorealisti, Pasolini sce-

42 Siti (1999b, p. xxxv) sostiene che le citazioni da Masaccio sono il ricordo di «diapositive in bianco e nero» proiettate a Bologna da Longhi «durante un suo famoso corso». 43 Pasolini non ha mai nascosto l’influenza del maestro tedesco. Tonino delli Colli, l’operatore di quasi tutti i film di Pasolini, racconta come prima di cominciare a girare Accattone il regista lo aveva portato a vedere Giovanna d’Arco di Dreyer perché prendesse quelle immagini come modello (Bertini, 1979, p. 203). Cfr. anche RR, I, p. 1554, dove Pasolini confessa che negli anni bolognesi «i film di Charlot, di Dreyer, di Eisenstein hanno avuto, in sostanza, più influenza sul mio gusto e sul mio stile che il contemporaneo apprendistato letterario». Oltre a Dreyer, Pasolini ha citato come influenze Mizoguchi e Chaplin, poiché, come Dreyer, vedono il mondo da un punto di vista assoluto e sacrale (Halliday, 1992, p. 55).

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glie questi non-attori soprattutto perché possano documentare la realtà non tanto come determinazione socio-economica, ma in quanto enigma esistenziale; essi non devono dunque sparire dietro il ruolo consegnatogli dal copione, secondo la convenzione, ma piuttosto devono fare in modo che l’illusione dell’artificio narrativo, di cui sono parte, in qualche punto si franga, e che da quegl’interstizi si riveli l’autenticità connotata di sacro del loro corpo di sottoproletari. In quest’intenzione, che vuole un’arte automortificata e lacerata nella ricerca di un contatto con l’esistenza, si manifesta ancora una volta l’urgenza utopica del pensiero di Pasolini. Fondamentalmente basato sul recupero dell’utopico, poi, è anche il rapporto tra immagini e musica nel primo cinema pasoliniano. Come ha osservato Antonio Bertini, la sovrapposizione di Bach, Vivaldi, Mozart, Primrose o anche la Missa Luba congolese (ne Il vangelo secondo Matteo) a una materia narrativa perlopiù rozza e incolta (il mondo delle borgate, o dell’antichità contadina) crea «una dissonanza acustico-visiva che è carica di suggestioni» (Bertini, 1979, p. 64), e che conferma le teorie di Adorno e Eisler (1975) per cui la colonna sonora deve essere in grado di opporsi al realismo delle immagini per far emergere le nascoste contraddizioni. Ecco allora che attraverso la musica «Pasolini cambia segno alle immagini e le carica di ambiguità», attraverso ciò che si può definire un «accorto contrappunto sonoro» (Bertini, 1979, p. 65) del tutto simile alla contaminatio letteraria dei romanzi romani44. Ma occorre aggiungere che questa ambiguità si origina ancora una volta nell’intuizione di quel punto di fuga mimetico in cui il prodotto culturale si fonde con la matericità indistinta e indefinibile della ‘vita’. Pasolini ha espresso inequivocabilmente questa latente urgenza, distinguendo tra un’applicazione ‘orizzontale’ e una ‘verticale’ della musica da film. Nel primo caso, si ottiene, secondo un canone illustrativo piuttosto convenzionale, un potenziamento ritmico della linearità logica delle immagini («una linearità e una successività che si applica a un’altra linearità e successività»); nel secondo, ben più originale e significativo, la musica aggiunge valori che […] sono in realtà indefinibili, perché essi trascendono il cinema, e riconducono il cinema alla realtà, dove la fonte dei suoni ha appunto una profondità reale, e non illusoria come nello schermo. […] Il cinema è piatto, e la profondità in cui si perde, per esempio, una strada verso l’orizzonte, è illusoria. […] La fonte musicale – che non è individuabile sullo schermo – e nasce da un ‘altrove’ fisico per sua natura ‘profondo’ – sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita. (in Bertini, 1979, p. 115) 44 A proposito della musica di Accattone, Pasolini dichiarò: «Si tratta di un residuo della contaminazione linguistica che c’è nei romanzi […]. Questo aver contaminato una musica coltissima, raffinata come quella di Bach con queste immagini, corrisponde nei romanzi all’unire insieme il dialetto, il gergo della borgata, con un linguaggio letterario che per me è di derivazione proustiana o joissiana» (in Magrelli, 1977, p. 36).

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Si capisce allora, da questa dichiarazione, che il contrappunto, lo scarto, l’ambiguità nascono dalla sovrapposizione violenta e inconciliabile di un movimento trascendente, ‘verticale’, mitico, a una struttura inevitabilmente logico-razionale, ‘orizzontale’, come la trama del film. L’enfasi tecnica che abbiamo qui evidenziato nel primo cinema di Pasolini s’inserisce, è vero, in quella ripresa del formalismo neocapitalistico che Pasolini critica in Empirismo eretico (cfr. EE, p. 186) come tipica del cinema dei primi anni ’60. Tuttavia, come nota Ferrero (1977, p. 38), il formalismo pasoliniano sembra operare in direzione opposta rispetto a quello di un Godard, poiché in quest’ultimo la tecnica «dissacra il mondo stabilito» mentre in Pasolini essa «risacralizza un mondo che, dalla ‘marginalità’, sta già slittando nel passato e nel mito». Per quanto in realtà Pasolini, da pasticheur qual era, ricodifichi, con Accattone, alcuni modi stilistici dell’A bout de souffle godardiano45, rimane fuor di dubbio che al centro della sua riflessione vi sia, originalmente, il sacro. Un senso del sacro che, a detta dell’autore stesso, viene evocato e raggiunto non attraverso il potenziamento delle possibilità tecniche del linguaggio filmico (caratteristico, ad esempio, di un regista come Bertolucci), ma attraverso la sua semplificazione (cfr. Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, 1977, p. 117). Infatti il tecnicismo pasoliniano consiste in una rigida selezione di significanti cinematografici, in Empirismo eretico definiti filmsegni, che proprio in Accattone trova la sua espressione più rigorosa (Pasolini, 1964b). Come ha rilevato Antonio Bertini (1979, pp. 17-30), la specifica combinazione dei due prediletti obiettivi pasoliniani (obiettivi intermedi, il 50 e il 75) con l’uso di una luce che l’autore stesso definisce «‘sporca’, in controluce (con la Ferrania!), che scava le orbite degli occhi, le ombre sotto il naso e intorno alla bocca, con effetti di dilatazione e sgranatura delle immagini, quasi da controtipo, ecc.» (Pasolini, 1964b), finisce per contribuire sensibilmente alla sacralità dell’immagine, consegnandole una connotazione specificamente ‘funerea’. Se dunque, riassumendo, la sacralità tecnica del film, nelle parole di Pasolini, consiste nel «modo di vedere il mondo» (Pasolini, 1964b), occorrerà aggiunge-

45 Pasolini considera A bout de suffle stilisticamente perfetto, e solo per questo ne giustifica «la critica di una società fatta dall’interno della società stessa» (Dialoghi, p. 99). Le citazione più palesemente godardiane di Accattone si trovano nella parte conclusiva del film: non solo la scena della morte del protagonista, rifatta su quella di A bout de suffle, ma soprattutto l’inquadratura degli occhi del poliziotto che pedina Accattone. Naomi Greene (1990, pp. 47-8) ha suggerito che il cinema di Pasolini e quello di Godard condividono anche preoccupazioni più generali, in particolare la riflessione su culture del passato che, mentre in Godard sono evocate esplicitamente e provocatoriamente, in Pasolini intervengono sotto forma di più sottili contaminazioni, attraverso ad esempio la musica di Bach o le citazioni pittoriche; inoltre, per quanto in misura minore rispetto a Godard, il cinema pasoliniano conterrebbe una costante tensione autoreferenziale, circoscrivibile come ri-lettura del neorealismo. Una rilettura che in realtà mi pare sarebbe meglio identificata come vera e propria trasgressione: Joël Magny (1976, pp. 18-9) ha mostrato ad esempio come Pasolini abbia letteralmente ricreato il piano-sequenza dei neorealisti.

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re che in questa visione del mondo, altrove definita «mistica» (Duflot, 1993, p. 21), predomina un rapporto il più possibile semplice e irrelato, antimetaforico (cfr. Halliday, 1992, p. 50) tra realtà osservata e macchina da presa, semplice a tal punto da suggerire l’annullamento della distanza/differenza tra mezzo tecnico-culturale e oggetto reale. Così gli enigmatici, onirici frammenti della narrativa, incorniciati nei primi piani, nelle lente panoramiche, non svolgono alcuna funzione convenzionalmente logica nel continuum del film, ma provocano vibrazioni da corto circuito, effrazioni che fondano quella prospettiva utopica da leggersi in quanto tale, in quanto appunto altra. Pasolini vuole infatti invitare lo spettatore a riconoscere l’ambiguità come Reale, esistente in carne e ossa, e che solo nella sospensione del significato a cui obbliga viene recuperata alla cultura. Ciò significa che le scelte stilistiche del primo Pasolini regista sono motivate dal medesimo impulso ideologico che motivava qualche anno prima le scelte stilistiche del Pasolini romanziere: in entrambi i casi, alla base dell’operazione artistica vi è l’intuizione della riconciliazione mimetica di cultura e natura, di linguaggio e materia. Non è un caso che, da un punto di vista questa volta narrativo, i primi tre film, girati nella prima metà degli anni ’60 nel nome del ‘nazional-popolare’, Accattone, Mamma Roma e La ricotta, si chiudono con le morti dei personaggi centrali e ideologicamente più significativi: Vittorio, Ettore e Stracci. Credo che per questi film valga il commento di Pasolini a chi gli chiedeva quale fosse il rapporto tra le due storie del film Porcile, del 1969: «Le due storie sono unite dalla ‘morale’ del racconto: e cioè ubbidire o morire» (Duflot, 1993, p. 88). Il senso di sacralità, sia formale che funzionale al contenuto del film, evocato dalla morte appare cioè antitetico e necessario all’ordine profano ipostatizzato dall’uomo moderno. Se nei primi film tale sacralità si realizza principalmente in Thanatos, nella successiva produzione si arricchisce nelle immagini di Eros, del mito46, della barbarie (cfr. Duflot, 1993, pp. 78-88). Concentrandoci sul film d’esordio in quanto rappresentativo della serie ‘nazional-popolare’, vedremo ora in che modo il tema della morte ne informi il contenuto. 6.5.2 Pratica della morte Accattone comincia con un primo piano di Fulvio detto Scucchia, che nella sceneggiatura Pasolini descrive fedelmente con la «faccia bruciata […] due buchi sulle guance per la magrezza, e lo sguardo acquoso». Scucchia ha da poco trovato un’occupazione, e Alfredino, un amico, lo apostrofa così: «Anco-

46 Recentemente Ward (1995, pp. 126-7) riprendendo considerazioni di Andrea Zanzotto (1977) e del filosofo Gianni Vattimo (1989, p. 52), ha suggerito una lettura postmoderna del mito pasoliniano, non come espressione della nostalgia di una civiltà contadina sepolta nei secoli, ma come recupero di una prospettiva storicistica progressiva, aperta sul futuro.

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ra non sei morto? Eppure m’hanno detto che il lavoro l’ammazza la gente!»; Scucchia, non inquadrato, gli risponde: «È sempre ’na morte onorata», per aggiungere subito di seguito: «Me parete tutti usciti dall’obitorio!» (Alì, p. 249). Quindi entra in scena Accattone, e subito introduce il tema della sfida alla morte, dicendosi pronto a attraversare il fiume a stomaco pieno. Giorgio ‘il secco’ lo accusa d’ignoranza (cfr. Alì, p. 251), adducendo in difesa del proprio punto di vista argomentazioni scientifiche concernenti la circolazione sanguigna e l’apparato digerente. Accettando la scommessa di Accattone, gli amici lo portano a rimpinzarsi in riva al fiume, e alla provocazione di Giorgio, che gli intima: «Come lo vòi er trasporto funebre?», il protagonista risponde: «Co’ tutti gli amici dietro che ridono, e er primo che piagne paga da beve a tutti!», per aggiungere che l’iscrizione sulla tomba dovrà essere «Provare per credere!». Quindi lo vediamo eretto sul ponte, pronto a tuffarsi, ma non prima di aver urlato a chi sta di sotto: «vojo morì con tutto l’oro addosso, come i faraoni!». Tutto l’episodio inaugurale si sviluppa dunque intorno al tema della morte, cui Pasolini intende conferire diverse e contrastanti connotazioni: la morte di cui parla Scucchia è riscattata dal lavoro, quella di Giorgio il secco è chiosata, e dunque neutralizzata, dalla scienza, mentre quella di Accattone si erge a emblema di una sfida dal sapore mitico. Accattone è in sostanza l’unico a riconoscere la morte come manifestazione di un’alterità inattuabile, inconoscibile, mentre gli altri personaggi cercano piuttosto di esorcizzarla. L’immagine stessa del tuffo s’iscrive in questa tipizzazione (nell’antichità pagana esso simboleggiava proprio la sfida alla morte); un’immagine che viene ribadita nella seconda parte del film, quando, disperatamente ubriaco, Accattone griderà agli amici: «Chi se gioca tutto quello che se semo bevuto che me butto da ponte!» (Alì, p. 329), solo per essere salvato in extremis. Rispecchiandosi continuamente nella morte in quanto altro da sé, il personaggio di Vittorio (Accattone) assume nel film una funzione morale, differenziandosi sensibilmente da tutti gli altri, compresi quelli con cui pure divide la medesima condizione socio-economica47. Il riconoscimento e quindi il confronto con la dimensione sacro-mortuaria è infatti prerogativa del solo protagonista, mentre chi lo circonda rimane imprigionato in una condizione di autosufficienza, per cui appunto la morte in quanto taboo viene regolarmente rimossa. Significativo, a questo proposito, come, commentando il celebre Eros e civiltà di Herbert Marcuse, Pasolini abbia poi osservato che la «rassegnazione alla morte», cioè la neutralizzazione della sua carica di alterità tipica del-

47 A Stella, che lo chiama col suo nome di battesimo, egli risponde: «Nun me chiamà Vittorio, chiamame Accattone! De Vittorio ce n’è tanti, ma de Accattone ce sto solo io!» (Alì, p. 321). Dopo il tuffo e la traversata del fiume, con altrettanto orgoglio Accattone urlerà in faccia a Giorgio: «Ma lo sai chi è Accattone? Accattone nemmeno fiume se lo porta via!» (Alì, p. 254).

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Capitolo sesto

l’etica de-sacralizzante delle religioni classiche e di quella omologante del mondo moderno, «funga da tecnica di sottomissione al potere» (Duflot, 1993, pp. 65-6). La divisione capitalistica del lavoro, condizione essenziale della modernità, viene infatti rifiutata da Accattone («Le bestie lavorano!», Alì, p. 332) in quanto sintomo sociale di una morte organizzata, e quindi sottratta all’ordine dell’altro, che perdipiù viene direttamente associata al genocidio nazista (Alì, p. 350: «Ma che stamo a Buchenwald, qua?»). L’individuazione artistica di Accattone non coincide dunque perfettamente con quella del Riccetto, la cui esistenza si dipana inconsciamente all’interno del cerchio mitico-mortuario; né con quella di Tommasino, che invece, cercando di uscire da questo cerchio, ne rinnega regolarmente il potere liberatorio. Piuttosto, Accattone ci appare eroico, nella sua incoscienza di sottoproletario, nel vivere la morte come dolorosa differenza, senza rinnegarla né ipostatizzarla, e dunque fronteggiando il conseguente svelamento della contraddittoria instabilità del reale. Egli mette in gioco la propria identità nel tentativo supremo di consegnarci la prova dell’esistenza reale di quel quantum di irrelata presenza che sfugge alla ragione dell’individuo. Ciò che Moravia ha definito la «inconscia volontà suicida» (Moravia, 1961) di Accattone, è infatti l’asse portante del film. Sin dalle prime battute, Accattone ‘vive per la morte’: egli intende testimoniare, attraverso un percorso di sofferenza che si conclude nel sacrificio tragico, la presenza di una verità accecante, la rivelazione di un’incongruenza scandalosa perché ineffabile. È soprattutto scorrendo la sceneggiatura che si comprende agevolmente come il personaggio di Accattone sia definito attraverso un continuo rispecchiamento tanatologico; nel suo folgorante «Voglio morireee!», gridato nel vuoto del «solito baretto con le seggiolette sulla strada», dove «regnavano la solitudine, la pace, il sole» (Alì, pp. 271-2) si scatena la volontà di trasgredire l’autorità assoluta del ‘discorso’ in cui è calato in quanto personaggio reale; ‘voglio morire’ significa allora voglio conquistare il non-essere all’essere, l’estraneo alla norma, l’ambiguo alla luce della coscienza. Ciò che importa è che attraverso questo assurdo esercizio autodistruttivo si manifesti, allegoricamente, quell’agnizione dell’altrove su cui si fonda l’arte di Pasolini. Indubbiamente, rappresentando la figura di Accattone, Pasolini ha inteso operare su due diversi e complementari livelli: da una parte, più in superficie, ha denunciato l’indigenza e l’emarginazione del reietto come scandalo sociale; dall’altra, ha riscattato, attraverso il reietto, l’immagine del sacro come fondamentale strumento teoretico. Come già nei due romanzi romani, in definitiva, l’autore sembra, a una prima lettura, operare direttamente e unicamente a un livello storico-sociale, mentre in realtà il contenuto ideologico può essere individuato solo scavando in profondità. Accattone, infatti, non solo è un emarginato in quanto sottoproletario, ma è addirittura un corpo marginale nel microcosmo della borgata. Il tema della sacralità della morte si arricchisce di due elementi narrativi che abbiamo già indicato come centrali, sempre in funzione del sacro, nei ro-

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manzi pasoliniani: il sole48 e il riso49. La perpendicolarità del sole estivo e la violenza incontenibile della risata vengono codificate da Pasolini come icastiche e nel contempo reali manifestazioni dell’irrazionale. C’è nella sceneggiatura un episodio, poi decurtato nel film, in cui Stella chiede a Accattone di essere accompagnata al camposanto per rendere omaggio alla tomba del padre (Stella è una donna «bionda, grande, ma che sembrava una ragazzina», Alì, p. 285, che Accattone conosce per caso, e di cui s’innamora; ciononostante cercherà poi di convertirla alla ‘vita’). Una volta al cimitero, mentre Stella si mette alla ricerca della tomba del padre, Accattone si attarda per la debolezza, e viene subito descritto come «mezzo morto»; diversamente, gli amici che l’hanno accompagnato, Cipolla, Renato, lo Sceriffo e Pio, esibiscono quella esuberanza e vivacità linguistico-espressiva che è tipica dei ragazzi pasoliniani, e che qui, attraverso il motto ironico e sferzante, sembra dover esorcizzare l’atmosfera funebre. Intanto Accattone, «pallido come un morto», è ormai stravolto dalla fatica e trova solo più la forza per una battuta, che però suona tremendamente seria: Non ce la faceva più e si mise a sedere su una tomba50, dove c’era la fotografia di un certo Palombi Aldo. Accattone lesse quel nome e trovò ancora la forza di dire una battuta. ‘A Palombi, tirete un po’ più in là, famme un po’ de posto, che nun je la faccio più…’ Si sbragò sulla tomba, coi sudori freddi, sul punto di sturbarsi. (Alì, p. 306)

La scena, dagli ovvi rimandi simbolici, si svolge, come l’intero film, sotto un sole onnipresente e feroce che prima ‘introna’ e ‘avvampa’, poi viene definito «disperato» e infine riaccompagna la congrega verso Roma, in un contesto descrittivo da cui emerge limpidamente la connotazione irrazionalistica: «Salirono sulla macchina, e partirono, sotto il bel sole di tutti e di nessuno» (Alì, p. 309).

48 La sceneggiatura apre con questa immagine descrittiva: «Tutto bruciava. Il sole tenero della mattina di fine estate era come calce rovente» (Alì, p. 249). Poco oltre si può leggere: «Sfolgorava il potente sole di mezzogiorno» (Alì, p. 254); poi: «il sole infuriava» (Alì, p. 256); e ancora: «I due si mossero per la strada polverosa, fulminati dal sole» (Alì, p. 260). Ma la luce e il sole sono anche protagonisti della poesia pasoliniana. Così ad esempio in alcuni versi composti nel Natale del 1960: «Sono gli ultimi giorni dell’anno. Il benessere / accende, verso sera, in tutti gli uomini / una specie di follia: la smania inespressa / di essere più felici di quanto siano… […]. E tutta la capitale di questo povero paese / è un solo ansito di macchine, una corsa / angosciata verso le antiche spese / di Natale, come a una necessità risorta. / Potente luce di Luglio, ritorna, oscura / questo debole crepuscolo di pace, / che non è pace, questo conforto ch’è paura: / ridà parole al dolore che tace» (Dialoghi, pp. 92-3). 49 Le prime pagine della sceneggiatura enfatizzano continuamente il riso dei protagonisti: «E rise, sdentato […] rideva sempre come un pupazzo […] con lo sguardo ridente nel vuoto» (Alì, p. 249); «Risero tutti, sbudellandosi […] E tutti risero di nuovo» (Alì, p. 253). 50 Anche più avanti, quando aspetta Stella sul ciglio della strada, Accattone «stava seduto su una tomba» (Alì, p. 339). Nel film, la tomba è sostituita dal sellino di una motocicletta, che, dato l’incidente finale, rimanda comunque al tema della morte.

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Capitolo sesto

Che la narrazione, tanto filmica che letteraria, sia perlopiù funzionale al confronto tra Accattone e la morte, è un dato che si fa sempre più evidente con lo svilupparsi della trama. Dopo il secondo tentativo di tuffo, abortito, Accattone corre sulla riva del fiume per affondare «la faccia nella sabbia, nera e sporca, strusciandola rabbiosamente»; quando la rialza, essa è diventata «un mascherone nero» in cui non è rimasto «più niente di umano» (Alì, p. 331). Prendendo lentamente il sopravvento sulla disperata esistenza di Accattone, la morte effettivamente esegue un montaggio della vita di quest’ultimo, recuperandolo, coerentemente con le teorizzazioni di cui abbiamo detto, al grado di unico personaggio autenticamente vivo della narrazione. Non che gli altri siano dei semplici stereotipi; piuttosto, nessuno, al di fuori di Accattone, riesce a dirottare se stesso e il proprio agire oltre i confini dell’io, per recuperare attraverso l’ignoto una maggiore aderenza alla realtà. Un ulteriore sviluppo del tema mortuario coincide con il momento di massima tensione poetica e emotiva del film, la scena del sogno di Accattone, che Pasolini definisce epico e mitico, e dunque improponibile in chiave cattolica (cfr. Halliday, 1992, p. 61). Non è un caso che questo sogno, in cui Accattone è testimone della propria morte, giunga proprio al termine della prima giornata lavorativa, culminata in una rissa con gli amici. In questo senso, sognando la propria fine Accattone involontariamente estremizza la critica allo sfruttamento della classe operaia. Tuttavia, mi pare che l’episodio debba essere letto soprattutto a un livello più profondo, in cui si rivelerebbe tanto l’influenza di un allegorismo di tipo kafkiano, quanto, a livello contenutistico, il significato strategico attribuito in tutto il film al luogo della morte. Nel momento in cui gli amici danno a Accattone la notizia della propria morte, è chiaro che Pasolini, opponendo nel più lineare dei modi possibili la coscienza del suo protagonista al luogo altro per eccellenza, intende portare a compimento un progetto che, come abbiamo osservato, attraversa tutta l’opera. Senza mediazioni, il regista fa ciò che qualche anno più tardi avrebbe consigliato di fare a Umberto Eco, si sporge «sul ciglio di un burrone» (EE, p. 279), obbligandosi e obbligandoci a prendere coscienza dell’abisso, di ciò che non è, di ciò che si trova assolutamente al di fuori degli ambiti della conoscenza razionale: «Tu non puoi entrà!», grida infatti il guardiano del cimitero a Accattone, che vorrebbe seguire fino in fondo il proprio feretro. Ma aldilà del probabile riferimento a Kafka51, conta soprattutto ciò che accade subito dopo. Scrive Pasolini: «Il funerale entra e sparisce. Così Accattone resta solo, affannato, lungo il muretto. Si guarda intorno, accanito e ingenuo come un bambino, poi improvvisamente si arrampica sul muretto, lo scavalca, scende dall’altra parte» (Alì, pp. 354-5). Capiamo allora, in questo istante cruciale, che il divieto kafkiano viene superato, e che questo Accattone-Orfeo si

51 Mi riferisco al racconto «Davanti alla legge» (Kafka, 1991, pp. 224-5), poi integrato ne Il processo.

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spinge oltre il limite della morte intesa come assoluto inconoscibile. Anticipando nell’intuizione artistica ciò che chiarirà nei saggi teorici sul cinema, Pasolini recupera così la morte alla coscienza e alla ragione, sostenendo appunto che il suo portato di sacralità deve servire alla maturazione di una più autenticamente laica nozione di realtà. Entrato nel cimitero, Accattone s’imbatte nel suo becchino: ‘A sor maè, perché nun me la fate un pochetto più in là? Non lo vedete ch’è tutta scura qui, la tera?’ Il vecchietto, sempre paziente e benevolo, guarda più in là, e infatti, poco oltre la buca, si stende una vallata invasa da una luce radiosa, sconfinata, che svapora nell’azzurro di una estate ferma e profumata. ‘Fatemela più in là… poco poco… Per favore a sor maè…’ Il vecchietto, con un sospiro, lo guarda e sorride. ‘E va be’!’ E comincia a scavare un po’ più in là, nella luce della chiara vallata. (Alì, p. 355)

Come accadrà nella scena di Teorema in cui Emilia, la serva, si sotterra viva e piange lacrime di speranza, qui l’idea della morte, con la sacralità che essa implica, viene elaborata artisticamente in modo tale da poter essere interpretata come indispensabile alla vita. La volontà di Accattone di farsi seppellire nella vallata illuminata dal sole simboleggia la necessità di quel recupero strategico dell’irrazionale alla razionalità, che Pasolini da tempo ormai invocava. Un recupero che lungi dal tentare di rendere comprensibile e dunque desacralizzare o secolarizzare l’irrazionale, è inteso come riappropriazione cosciente di una zona d’ombra in cui la ragione è costretta a sospendere il giudizio. La morte reale, godardiana, di Accattone, che chiude il film mentre il Balilla si fa il segno della croce alla rovescia, non potrà allora che rappresentare «una sospensione di carattere esistenziale […] qualcosa che si potrebbe definire come l’astensione dal giudizio dinanzi al mistero dell’esistenza» (Duflot, 1993, p.133). Sul punto di morire Accattone esclama: «Ahhh, mo sto bbene!», ed è questa frase, che rivela un’agonia estatica, la ‘lagrimetta’ che lo salva. Nel sogno Accattone aveva assistito alla propria morte che tuttavia gli appariva ancora, sublimata dalla fantasia, come la morte di un altro; ora, disteso e sanguinante, irrimediabilmente ferito, egli sperimenta coscientemente la propria fine in quanto rovesciamento della vita, trapasso nella vertigine dell’altro, e si guadagna il paradiso proprio perché approva l’inabissamento. La sua estasi davanti alla morte è dunque ek-stasis, liberazione sacrificale dall’io e fusione in una zona di puro mistero. Attraverso questo sacrificio, attraverso l’utopico, il film condanna la falsa riconciliazione del sociale, poiché, come scrive Adorno: per l’arte l’utopia, ciò che ancora non è, è velata di nero, l’arte stessa resta, con tutta la mediazione attraverso cui passa, ricordo, ricordo del possibile contro il reale che ha soppresso il possibile; resta cioè qualcosa come il risarcimento immaginario di quella catastrofe che è la storia del mondo, resta la libertà che sotto la signoria della necessità non è divenuta reale e di cui è incerto se lo diverrà. (Adorno, 1977, p. 229)

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Capitolo sesto

L’analisi di Accattone mi ha portato alla conclusione dell’ultimo capitolo della mia ricerca. Per quanto l’unico film esaminato nel dettaglio sia stato appunto il lungometraggio d’esordio, del 1961, nel corso del capitolo ho inteso approfondire il tema del cinema pasoliniano nell’unico modo che mi è parso possibile: attraverso continui richiami alla riflessione teoretica sul linguaggio cinematografico che l’autore ha sviluppato nel corso di tutti gli anni ’60. Senza questi richiami, non credo mi sarebbe stato lecito tentare di porre le basi per un’interpretazione coerente dell’utilizzo fatto da Pasolini di quello strumento espressivo che per tutti gli anni ’60, e poi fino alla morte, egli prediligerà in modo assoluto. Oltre ai continui rimandi agli scritti teorici di Empirismo eretico, nel tentativo di affrontare il significato profondo dell’avvicinamento pasoliniano al mezzo cinematografico ho ritenuto indispensabile, da una parte, approfondire il concetto di ‘arte popolare’, già ampiamente trattato nei precedenti capitoli; dall’altra, segnalare l’aspetto, generalmente trascurato, delle recensioni cinematografiche scritte da Pasolini tra gli anni ’50 e ’60. Da qualsiasi angolatura la si affronti, mi pare che la riflessione dell’autore sul cinema dimostri di sostenersi sulle medesime basi teoriche, manifestando in questo modo una notevole continuità con la riflessione critico-letteraria degli anni ’50.

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CONCLUSIONE: AL DI LÀ DELLA POESIA

Tra le antinomie attuali è centrale la seguente: l’arte deve e vuole essere utopia e ciò con tanta maggiore decisione quanto più quel sistema di funzioni che è la realtà deforma l’utopia; però per non tradire l’utopia vendendola all’apparenza e alla consolazione non le è consentito essere utopia. Se l’utopia dell’arte si adempisse, ciò sarebbe la fine temporale dell’arte. (Adorno, 1977, p. 56) L’arte è la promessa della felicità: una promessa che non viene mantenuta. (Adorno, 1977, p. 229)

Introducendo questa ricerca si parlava della difficoltà di decodificare e contestualizzare il discorso intellettuale di Pasolini; un discorso che, strappato alla sua osmotica relazione con la poesia, avrebbe rischiato di collassare, di rivelarsi vuoto. Si suggeriva allora, come possibile pratica ermeneutica, la possibilità di verificare la reale dimensione e incidenza del pensiero ideologico pasoliniano attraverso l’analisi delle sue ‘infiltrazioni’ nelle confinanti regioni dell’estetica: valutare i debiti reciproci e le reciproche collusioni tra il sentire poetico e la passione dell’engagement avrebbe forse consentito di fare luce sulla formazione intellettuale dell’autore. Giunti al termine dell’indagine, mi pare si possa confermare l’utilità del metodo d’approccio. Cercando di testimoniare fin dentro l’opera creativa la nascita e lo sviluppo di una coscienza ideologica, è stato infatti possibile risalire al nervo centrale del ‘comunicare’ pasoliniano, del suo rapportarsi agli altri. Mi pare sia emerso con sufficiente chiarezza, cioè, che tutto il percorso formativo dell’intellettuale, negli anni ’40 e ’50, sia stato dominato dalla volontà, sempre più autoconsapevole, di inserire la dimensione dell’irrazionalità nella progettualità conoscitiva. Si potrebbe obiettare, a ragione, che almeno fino alla metà degli anni ’40, durante tutto il ventennio fascista, l’irrazionale abbia rappresentato un ostacolo allo sviluppo di un’autentica riflessione storico-sociale. In questo senso si presenta come esemplare, stagliato contro gli avvenimenti bellici, il rapporto ambiguo, sicuramente combattuto, con il fratello Guido partigiano, il quale rimarrà infatti una presenza fissa e spesso inquietante nella fantasia e nel pensiero intellettuale di Pasolini. Ma sarebbe una diagnosi affrettata, limitativa. Ciò che

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Conclusione

dobbiamo chiederci, piuttosto, è in che modo e attraverso quali suggestioni si sia affermata la riflessione sull’irrazionalità. L’analisi dei primi testi pasoliniani ci ha detto allora che al loro fondo agiva un’urgenza utopica, ereditata dall’assidua frequentazione di autori legati a esperienze culturali di respiro europeo, quali il decadentismo e l’esistenzialismo. La «Poesia con la P maiuscola» (Camon, 1973, p. 101) di cui parla Pasolini negli anni ’60 ricordando la propria formazione, implicava infatti, piuttosto che l’ipostatizzazione dell’estetica a discapito della storia, l’intenzione di andare oltre la Poesia stessa, verso una ‘realtà’ intesa esplicitamente in senso materiale, fisico e sensoriale. Scrivere sembrava offrire la possibilità di puntellare il sentimento dell’utopia inteso come conciliazione tra coscienza e incoscienza, cultura e materia, segno e significato. Sin dall’inizio Pasolini si accorge che la questione si presenta innanzitutto in termini linguistici. Come ‘dire’ l’irrazionale? Come rendere chiaro al pensiero ciò che mette in crisi il pensiero stesso? I primi testi mostrano già limpidi segnali di questa preoccupazione. Tanto la poesia friulana quanto l’articolistica bolognese del 1942-43 paiono informate dalla necessità, solo intuita piuttosto che teoricamente illustrata, di uscire dalla scrittura per dare nella materia, sia essa la fisictà dell’epos contadino o un’Origine mitica incastonata nella tradizione e paradossalmente resuscitabile attraverso i mezzi della poesia e della pittura moderne. La stessa nozione di ‘stile’, su cui Roberto Longhi e Gianfranco Contini, nel periodo universitario, hanno una fin troppo ovvia ipoteca, si presenta dall’inizio come vettore utopico, chiave per la ‘folgorante’ apertura all’altrove. Precisamente nel rivelare a Pasolini la presenza della dimensionalità utopica, gli ultimi anni del ventennio hanno un’importanza capitale per la formazione della sua fisionomia intellettuale. Se fino a quel punto l’atteggiamento di Pasolini verso la storia e, in particolare, il fascismo, era stato quasi completamente passivo, negli anni immediatamente successivi matura in lui una coscienza critica che si fonda sull’interiorizzazione dell’elemento irrazionaleutopico. In Friuli, dopo la morte di Guido (1945), Pasolini comincia infatti a approfondire, sulle riviste dell’«Academiuta», la natura della relazione tra arte e ideologia. Più che la celebrata ‘scoperta di Marx’, o l’iscrizione al PCI, o la posteriormente ostentata affiliazione gramsciana, conta proprio quella fascinazione utopica sviluppata durante la guerra. Durante tutto il corso della sua breve stagione politica, tra il 1947 e il 1949, Pasolini è infatti un corpo estraneo nelle file del comunismo italiano. La sua posizione sulla questione estetica, espressa in pochi ma trasparenti scritti, si dimostra profondamente incongruente rispetto alla linea indicata dagli operatori culturali del Partito Comunista. In termini teorici, la differenza consiste essenzialmente nel fatto che Pasolini situa l’utopia (il momento della conciliazione tra soggetto e oggetto, tra l’uomo e il mondo) insieme dentro e fuori dalla storia, come pulsione reale ma irriducibile all’ordine della ragione, come un’assenza di senso che però è verità empirica, fisicamente esperibile. Contravvenendo allo storicismo hegelo-marxista, Pasolini elimina il movimento della ‘sintesi’, intesa come pacificante conciliazione degli opposti, riducendo quello storicismo a dialettica inconclusa tra una

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Al di là della poesia

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ragione dolorosamente nel tempo, e una zona di puro mistero che al tempo è eterogenea. S’impone così la necessità di pensare la ‘contraddizione’ pasoliniana nei termini di una ‘dialetticità negativa’, irrisolta appunto, inconciliabile. In questo modo il pensiero di Pasolini si rivela da subito carico di un pessimismo storico le cui radici filosofiche vanno ricercate, come spesso si è ripetuto nel corso della ricerca, nell’ambito dell’idealismo tedesco. Credo che solo partendo da una siffatta contestualizzazione si possa recuperare al percorso di formazione intellettuale di Pasolini quel ‘senso’ che da più parti è stato finora impropriamente rivendicato, e spesso estorto. Si direbbe che Pasolini stesso abbia avuto delle profonde responsabilità su tali espropriazioni. La più pesante, tra queste responsabilità, può essere individuata nel suo aver costantemente demandato l’approfondimento intellettuale alla ricerca poetica piuttosto che a quella propriamente ideologica. Franco Fortini, in una lettera del giugno 1958, espose con chiarezza il capo d’accusa, insistendo affinché la complessa e contraddittoria verità dei versi pasoliniani fosse trasposta “in sede teorica e politica” (ora in Fortini, 1993, p. 98). Approssimazione nei riferimenti al marxismo, equivoci terminologici e sostanziali nel progettare programmi letterario-culturali, sono sicuramente diventate le ammonizioni più diffuse e condivise dalla critica. Tuttavia, mi pare innegabile, se pensiamo all’enorme attività critica svolta negli anni ’50, che Pasolini intese agire da intellettuale, oltre che da poeta. Anzi, a conferma di quanto si suggeriva introducendo questa ricerca, la sua produzione più propriamente ideologica si è rivelata tale proprio nel mantenere saldo il legame con l’attività creativa; e, più precisamente, con quella componente utopica che solo la parola poetico-letteraria, e poi poetico-cinematografica, gli permetteva di esprimere e di comunicare. Il carteggio con Fortini ci offre un tipico esempio della tensione intellettuale fondante l’impegno pasoliniano: «Io sono marxista come sei tu: solo io ho presente non solo nel mio pensiero, ma anche nella mia fantasia, l’enorme massa dei sottoproletari, da Roma in giù. […] No: invece tu, sordo, cieco, tappato in casa, con un’idea tutta ideologica degli operai e in genere del mondo, stai a fare il giudice di coloro che si spendono, e spendendosi, sbagliano, eccome sbagliano» (Fortini, 1993, p. 115). Qui si chiarisce, mi pare, il significato dell’errore, della contraddizione sovente rivendicata da Pasolini, tanto nei suoi saggi quanto nelle sue poesie. Sbagliare vuol dire spendersi, e spendersi significa recuperare al pensiero, in questo caso quello marxista, la propria meta inarrivabile, l’oggetto del pensare in quanto alterità. Solo nel recupero di questa dimensione altra da sé il pensiero acquista coscienza della propria insufficienza gnoseologica, e può dunque mirare a crescere, in una continua verifica e continuo superamento delle proprie sistemazioni logico-razionali. Tutta la produzione intellettuale di Pasolini negli anni ’50 mi pare qualificata da questo monito contro il pericolo dell’ontologizzazione. E in questo senso, come ho cercato di dimostrare negli ultimi due capitoli della ricerca, credo debbano essere compresi tanto i due romanzi romani (con particolare riferimento a Una vita violenta, generalmente interpretato come docu-

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Conclusione

mento filo-comunista), quanto la scelta di un nuovo mezzo di espressione quale il cinema. In ultima analisi, credo che a mezzo secolo di distanza si possa e si debba riconoscere la legittimità del contributo intellettuale pasoliniano, a partire dagli anni in cui si formò e elaborò. L’enfasi anti-ontologica e insieme aggressivamente, esistenzialmente raziocinante che lo informa non solo acquista valore rispetto alle ormai lontane dispute ‘tutte ideologiche’ degli anni ’50, ma soprattutto mantiene intatta la sua penetrante attualità in un’epoca come quella contemporanea dominata dall’entropia della ratio strumentale. Più specificamente, il Pasolini che ho inteso riscattare consegna un significativo ammonimento ideologico a un pensiero di sinistra che oggi ci appare quantomai afflitto da crisi d’identità. Si tratterebbe, secondo la mia lettura del radicale contributo pasoliniano, di sostituire al finalismo etico-morale dell’attuale progressismo laico un punto di fuga utopico, altro perché informato dal sentire del corpo e dal desiderio: da un materialismo, insomma, svincolato dalla soffocante sorveglianza della ragione etica e strumentale, e per questo in grado di stimolare, dialetticamente, l’autocoscienza e il pensiero critico. Come suggerisce Slavoj Žižek (2000), tra i piu audaci e stimolanti filosofi della sinistra contemporanea, l’unico atto autenticamente morale in grado di salvarci dal nuovo ordine del capitalismo globale, consiste nel riconoscere il fondamentale nucleo non-simbolico, radicalmente pulsionale e dunque dissociante, alienante, su cui si regge ogni processo di soggettivazione, ogni nostra configurazione del reale.

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Indici

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Indice dei nomi

Abbagnano, Nicola, 49-50 Addis Saba, Marina, 20n Adorno, Theodor Wiesengrund, 9, 13n, 17, 18n, 29, 54n, 56, 89n, 163, 183-4, 200n, 229, 250, 259 Alfieri, Vittorio, 23 Alicata, Mario, 232n Anceschi, Luciano, 42-3, 115, 161, 179, 230 Angiolieri, Cecco, 23 Antonelli, Roberto, 173n Antonioni, Michelangelo, 242 Anzoino, Tommaso, 17, 201, 239n Arbasino, Alberto, 179, 185 Arcangeli, Francesco, 26-9 Aristarco, Guido, 30n Ascoli, Graziadio Isaia, 59 Asor Rosa, Alberto, 15n, 57, 92, 106, 108, 153, 173n, 209, 210n, 231n Bacchelli, Riccardo, 42 Bach, Johann Sebastian, 250-51 Bandini, Fernando, 34n, 55, 65n, 68n, 69n, 76n, 192n Banti, Anna, 28, 194 Baranski, Zygmunt, 12, 15, 86, 87n, 89n, 141, 143n, 147, 148n Bárberi Squarotti, Giorgio, 115n, 116, 129-30, 143n, 153, 156n, 166n, 170n Barbi, Michele, 148 Barilli, Renato, 26, 202n Barnabò Micheli, Ivo, 23n

Barthes, Roland, 54n, 204, 249 Bartolini, Luigi, 27n, 126 Bassani, Giorgio, 28, 46n, 123-4, 126, 158, 187 Bataille, Georges, 16n, 54n, 197 Baudelaire, Charles, 23n, 102 Bazzocchi, Marco, 41, 43 Beccaria, Gian Luigi, 21, 54n Belcari, Feo, 23 Bellezza, Dario, 88 Belli, Giuseppe Gioacchino, 132-4, 1456, 198 Bemporad, Giuliana, 22n Benedetti, Carla, 11, 18n, 204, 225 Benjamin, Walter, 9n, 40, 118n Bergson, Henry, 87n Berlinguer, Giovanni, 193 Bertini, Antonio, 229, 240n, 249-51 Bertolucci, Bernardo, 251 Bertolucci, Attilio, 48, 116-7, 122n, 127n, 168, 178 Betocchi, Carlo, 40 Bettetini, Gianfranco, 235n Betti, Laura, 68n Betti, Ugo, 30n Biagi, Enzo, 30n Bilenchi, Romano, 42 Bini, Alfredo, 249 Binni, Walter, 49 Birolli, Renato, 27 Blanchot, Maurice, 54n Bo, Carlo, 115, 117, 192n, 193, 209

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280

Boas, Franz, 145 Bobbio, Norberto, 49n Boccotti, Giulio, 59n Boine, Giovanni, 117, 164, 177 Bolognini, Mauro, 249 Borgna, Gianni, 159, 165n, Bottai, Giovanni, 30 Bracaglia Morante, Paolo, 232n Brevini, Franco, 11n, 19, 21n, 24n, 25n, 53, 56, 104 Briganti, Giuliano, 29n Bruno, Giordana, 237 Bruschi, Renzo, 198-9 Buci-Glucksmann, Christine, 14n Cajumi, Arrigo, 192n, 193 Calcaterra, Carlo, 22, 43, 47n Calderón de la Barca, Pedro, 41, 47n Caldioli, Alberto, 71 Calvino, Italo, 160, 168, 170n, 187-8 Camon, Ferdinando, 23, 30, 166, 200, 260 Campana, Dino, 137, 177 Caproni, Giorgio, 101n, 163-4, 168 Cardarelli, Vincenzo, 38 Caretti, Lanfranco, 18n Casi, Stefano, 69n Cassola, Carlo, 187, 189n Castro, Fidel, 233n Cataldi, Pietro, 172n Cattaneo, Carlo, 61n, 167n Cattaneo, Giulio, 195 Cecchi, Emilio, 38, 42, 192n, 193 Cervantes Saavedra, Miguel de, 41 Cézanne, Paul, 22 Chaplin, Charlie, 249n Chiarcossi, Graziella, 114n Ciceri, Luigi, 101 Cingoli, Giorgio, 232n Cirese, Eugenio, 136 Citati, Pietro, 28, 153n, 209 Clemente, Vittorio, 136 Coleridge, Samuel Taylor, 45 Conti-Calabrese, Giuseppe, 16n, 17n, 238n Contini, Gianfranco, 14n, 18n, 26, 28, 41, 54-5, 73, 101, 119, 124-5, 127-8, 141, 192n, 193, 200, 260 Coppola, Goffredo, 22 Costa, Carlo, 198-9

Indice dei nomi

Croce, Benedetto, 9n, 12-13, 24-25, 47, 49, 129-30, 168n, 141, 144, 147-54, 161n Curi, Fausto, 153 D’Ancona, Alessandro, 148 D’Angeli, Concetta, 75n, 79 Dante Alighieri, 26, 111n D’Aronco, Gianfranco, 65n, 66 David, Michel, 55n, 152n De Angelis, Giulio, 27 De Castris, Leone, 9n, 153n De Gasperi, Alcide, 68, 155n De Laude, Silvia, 81n, 204 De Lauretis, Teresa, 236n Del Buono, Oreste, 194 Deleuze, Gilles, 234, 236 Dell’Arco, Marco, 128 Delli Colli, Tonino, 249n De Martino, Ernesto, 148 De Mauro, Tullio, 70n, 127n, 194n, 196, 205n De Micheli, Mario, 108 De Robertis, Giuseppe, 115, 192n, 193 De Rocco, Federico, 26 De Santis, Giuseppe, 230-31, 242 De Sanctis, Francesco, 155n, 167n Derrida, Jacques, 54n Devoto, Giacomo, 59n, 127n, 141 Diacono, Paolo, 179 Dickens, Charles, 22n Di Giacomo, Salvatore, 134 Di Giovanni, Alessio, 135 Dolci, Danilo, 118, 122-3 Dore, Grazia, 123 Dossi, Carlo, 138 Dostoevskij, Fëdor Michailovic, 22, 23, 76n Dreyer, Carl Theodor, 249 Duflot, Jean, 11n, 30, 33n, 69, 115, 224n, 226, 229-30, 232, 237, 239, 245n, 252, 254, 257 Eco, Umberto, 65, 162n, 235, 246, 256 Eisenstein, Sergei Michailovic, 249n Eliade, Mircea, 16n, 54n Eliot, Thomas Stearns, 76n Erba, Luciano, 161, 168, 174

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Indice dei nomi

Falqui, Enrico, 116, 166n Falzone, Giovanni, 30n Farolfi, Franco, 22, 50, 192n Fasolo, Ugo, 123 Fellini, Federico, 197n, 243, 249 Fenoglio, Beppe, 187 Ferrero, Adelio, 241, 251 Ferretti, Gian Carlo, 18n, 30n, 87n, 153, 161n, 165n, 167-8, 196, 199, 209-11, 213n, 215, 232-33 Ferretti, Massimo, 173, 179 Ferri, Francesco, 14n, 18n, 43, 53, 63, 127n, 154 Fichte, Johann Gottlieb, 58n Firpo, Luigi, 137 Folena, Gianfranco, 57n Folgore, Luciano, 23 Folin, Alberto, 20n Fortini, Franco, 10n, 14n, 16n, 17, 28, 76n, 81, 166n, 167n, 168n, 178n, 179, 194, 196, 200, 232n, 247, 261 Foscolo, Ugo, 17, 23, 48 Foucault, Michel, 54n Fracassi, Enrico, 116, 122n Francese, Joseph, 12, 170n, 209 Freud, Sigmund, 22-3, 54n, 55, 197 Frye, Northrop, 54n Gadda, Carlo Emilio, 125, 163, 168n, 173 Gallo, Niccolò, 170n Galluzzi, Francesco, 12n, 26-28 Garin, Eugenio, 25n Garroni, Emilio, 235n Garzanti, Livio, 191-3, 203 Gassmann, Vittorio, 234n Gaugin, Robert, 27n Gentilini, Franco, 27 Germi, Pietro, 243 Giacomini, Amedeo, 65n, 66 Gide, André, 13, 54n, 70-1, 76n, 87n Ginsberg, Allen, 239n Giotti, Virgilio, 43, 130, 138 Giotto, di Bondone, 249 Giuliani, Alfredo, 174 Godard, Jean-Luc, 242, 251 Goethe, Johann Wolfgang, 76n, 176 Golino, Enzo, 9n, 14n, 75, 81n, 89n, 232 Gordon, Robert, 9n, 10n, 11n, 20, 33, 76n,

281

104, 143n, 165n, 223n, 232, 244, 249 Goruppi, Beppino, 173-4 Goya, Francisco, 109n Gozzano, Guido, 47n Gramsci, Antonio, 9n 14-16, 18n, 25, 116, 128n, 129-30, 135n, 144, 147, 160, 168n, 175-6, 186-7, 201n Greene, Naomi, 248, 251n Groddek, Georg, 54n Guerra, Antonio, 139 Guglielmi, Angelo, 174 Guttuso, Renato, 27 Halliday, Jon, 11n, 22n, 23, 115, 168n, 232, 249n, 252 Hayworth, Rita, 78 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 134n Heidegger, Martin, 16n, 49-50 Hölderlin, Friedrich, 47-8 Jacqmain, Monique, 198-9 Jahier, Piero, 137, 177 Jaspers, Karl, 49-50 Jewell, Keala, 9n, 14n Kafka, Franz, 76n, 256 Kalivoda, Robert, 165n Kant, Immanuel, 12, 66 Kavafis, Constantinos, 76n Kezich, Tullio, 243n Kierkegaard, Sören Aabye, 49-50 Klee, Paul, 40n Klossowski, Pierre, 54n Kokoschka, Oskar, 27 Kott, Jan, 197 Kramer, Stanley, 243 Kraus, Karl, 89n Kruscev, Nikita, 171, 175, 185n Lacan, Jacques, 54n Larivaille, Paul, 103 Lautréamont, Comte de (Isidore Ducasse), 23n, 87n, 91 Lazzari, Giovanni, 20n, 30 Lenin, Vladimir Ilijc, 244, 246 Leonetti, Francesco, 23n, 165n, 163, 174, 179, 192n Leopardi, Giacomo, 42, 116

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282

Indice dei nomi

Longhi, Roberto, 12, 26-29, 260, 249n Lorca, Garcia, 41 Lucini, Gian Pietro, 138 Lukács, György, 9n, 129, 169n, 183, 188 Luzi, Mario, 9n, 42, 158, 168

Nievo, Ippolito, 76n Nigra, Costantino, 104, 148 Nonino, Tosco, 66 Novalis, Friedrich Leopold, 46-7 Nowell-Smith, Geoffrey, 15n, 248-49

Macciocchi, Maria Antonietta, 14n, 232n Macrí, Oreste, 30n, 115-6 Magny, Joël, 251n Magrelli, Enrico, 26, 113, 134n, 227n, 230, 232, 239, 241-42, 247 Manacorda, Giuliano, 21, 22n, 30, 209, 227 Mann, Thomas, 188 Manzini, Gianna, 126 Manzoni, Alessandro, 23 Manzù, Giacomo, 28 Marchi, Donatella, 156n Marcuse, Herbert, 69n, 165n, 253 Martellini, Luigi, 76n Marx, Karl, 16, 81, 85, 176, 183 Masaccio (Maso di Bartolomeo), 249 Mauri, Silvana, 35, 50, 69, 81n, 87n Mautino, Fernando, 65n, 70-1 Mazzetti, Roberto, 30n McGee, Patrick, 235 Meekins, Angela, 56 Mengaldo, Pier Vincenzo, 16n, 18n, 114n, 169 Menichini, Dino, 66 Metz, Christian, 234 Miccichè, Lino, 248 Michelangelo Buonarroti, 43 Mizoguchi, Kenji, 249n Modigliani, Amedeo, 11n Montale, Eugenio, 24, 38, 115n, 161-2 Montessori, Maria, 82 Monti, Riccardo, 125, 153 Moravia, Alberto, 231n, 254 Mozart, Wolfgang Amadeus, 250 Murolo, Ernesto, 134 Muscetta, Carlo, 116, 135n, 148, 170n Mussi, Fabio, 18n Mussolini, Benito, 30n, 213 Naldini, Nico, 26n, 48, 65n, 67, 70n, 746, 87n, 88n, 89n, 91n, 170n

Omero, 90 Onofri, Nazareno Sauro, 36n Ottone, Piero, 243n

Nietzsche, Friedrich, 41, 49-50, 152n

Paci, Enzo, 18n, 49-51, 67, 158, 162, 170 Pacot Pinin (Giuseppe Pacotto), 136 Pagliarani, Elio, 179 Pajetta, Gian Carlo, 232n Palazzeschi, Aldo, 42, 177 Parini, Ermes, 39 Paris, Roberto, 11n Pascoli, Giovanni, 13, 43-7, 54, 116, 173 Pascoli, Pietro, 64 Pasi, Carlo, 197n Pasolini, Carlo Alberto, 30-5, 88n Pasolini, Guido, 30-5, 50, 60-2, 110, 25060 Pavese, Cesare, 188 Peloso, Silvano, 152n Penna, Sandro, 40, 43, 115n, 116, 122, 168 Perlini, Tito, 18n Petrarca, Francesco, 23, 76n, 124, 127 Petrocchi, Giorgio, 216 Petronio, Giuseppe, 116 Petrucciani, Mario, 167n Pezzani, Renzo, 138 Picasso, Pablo, 41, 108-10 Piero della Francesca (Pietro Franceschi, detto), 249 Pisacane, Carlo, 135n, 148 Pintor, Giaime, 22n, 30 Platone, 67 Pontormo (Jacopo Carrucci, detto), 249 Ponzi, Maurizio, 41 Porta, Carlo, 138, 146 Pratolini, Vasco, 193 Praz, Mario, 49 Primrose, William, 250 Proust, Marcel, 87n, 91 Quaranta, Mario, 20n Quasimodo, Salvatore, 24, 38, 43

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Indice dei nomi

Raimondi, Ezio, 26n, 41, 43 Raimondi, Giuseppe, 125 Ramón, Juan, 41 Rea, Domenico, 187 Rebora, Clemente, 137-8, 177-8 Resnais, Alain, 242 Ricci, Marco, 20n, 30n, 35, 161n Rimbaud, Arthur, 22, 23n, 30, 76n, 87n, 102 Rinaldi, Antonio, 22n, 106, 111 Rinaldi, Rinaldo, 9n, 14n, 15n, 37n, 50n, 55, 61, 73n, 75-6, 77n, 80, 113-5, 129, 134n, 153, 166, 191, 196, 202-3, 211n, 212 Rizzolatti, Piera, 54n Romanò, Angelo, 101n, 166n, 167n, 168n Rondi, Gian Luigi, 179 Rossi, Paolo, 25 Roversi, Roberto, 23n, 101n, 165n, 166n Russo, Ferdinando, 134-5 Russo, Luigi, 148 Saba, Umberto, 138, 163, 165 Sainte-Beuve, Charles Augustin de, 87n Salgari, Emilio, 90 Salinari, Carlo, 116, 169-70, 184, 192n, 206n, 209, 215n, 220, 233 Salvi, Sergio, 59n Sanguineti, Edoardo, 11n, 179 San Paolo, 82 Sant’Agostino, 76n Santato, Guido, 11n, 15n, 23n, 53, 56, 61, 68, 74n, 75, 85, 87n, 103-4, 108, 110, 153n Sartre, Jean-Paul, 13, 49, 70-1, 171, 225 Sbarbaro, Camillo, 116-7, 122n, 137, 164, 177 Scalia, Gianni, 17n, 166n, 176, 180n Scelba, Mario, 192n Shelley, Percy Bysshe, 58 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 12, 13n, 143 Schiaffini, Alfredo, 125 Schiller, Friedrich, 19, 47, 56n Schwartz, Bart, 23, 70n, 115, 127n Scialoja, Toti, 122 Sciascia, Leonardo, 101, 122n, 187 Sciascia, Salvatore, 101

283

Scipione (Gino Bonichi), 27 Scotellaro, Rocco, 187 Segni, Antonio, 192, 233n Segre, Cesare, 114-5, 118, 125, 127n, 128, 140, 149 Sereni, Vittorio, 24, 30, 161 Serianni, Luca, 199-200 Seroni, Adriano, 115, 193 Serra, Luciano, 11n, 23-24, 26, 43, 50 Serri, Mirella, 196, 200n Setta, Sandro, 25n, 36 Siciliano, Enzo, 23n, 70n, 71n, 87n, 88, 115, 159, 163, 241n Sillanpoa, Wallace, 14n Sinisgalli, Leonardo, 40 Siti, Walter, 73n, 76n, 81n, 89n, , 204, 249n Soffici, Ardengo, 42 Soldati, Mario, 224n Solmi, Sergio, 115-6 Sordi, Alberto, 95n Spagnoletti, Giacinto, 116, 124, 140, 151 Spitzer, Leo, 125, 184 Stalin (Josif Vissarionovic Dzugašvili), 246-47 Stone, Mirto Golo, 17n Tagliavini, Carlo, 59n Tambroni, Fernando, 233 Tasso, Torquato, 22-23 Tessa, Delio, 137-8 Tessitori, Tiziano, 65n, 66 Testori, Giovanni, 231n Tieck, Ludwig, 46 Tobino, Mario, 101n Togliatti, Palmiro, 64n, 155n, 168n, 172n Tommaseo, Niccolò, 47, 76n Trento, Dario, 27n Trilussa (Carlo Alberto Salustri), 133n Trombadori, Antonello, 170n, 228n Trombatore, Gaetano, 116, 193 Turoldo, Davide, 123 Ungaretti, Giuseppe, 21n, 22, 24, 38, 413, 115n, 117-22, 177-8, 192n Vallora, Paolo, 28, 88 Van Gogh, Vincent, 27n Vann’Antò (Giovanni Antonio Di Giacomo), 169n

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284

Vazzana, Steno, 143n Velazquez, Diego, 41 Verga, Giovanni, 89n, 158 Verlaine, Paul-Marie, 76n Vigorelli, Giancarlo, 192n, 195 Villon, François, 87n, 91 Visconti, Luchino, 231n, 242-43 Vittorini, Elio, 38, 168n Vivaldi, Antonio, 250 Vivaldi, Cesare, 139 Viviani, Cesare, 135 Wagstaff, Chris, 236n

Indice dei nomi

Ward, David, 11n, 53, 75, 76n, 97, 201, 210, 220-21, 252n, 236n Weaver, William, 101n Welles, Orson, 244 Wilde, Oscar, 78 Wordsworth, William, 45 Zanolini, Antonio, 125, 127 Zanzotto, Andrea, 81n, 188-9, 252n Zigaina, Giuseppe, 27n, 69, 236n Zizek, Slavoj, 262 Zola, Emile, 202n Zorutti, Pietro, 62, 138

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Indice

Ringraziamenti Abbreviazioni Introduzione. Le origini del pensiero di Pasolini 1. La formazione culturale di Pasolini durante il ventennio fascista 1.1 La tradizione, l’antitradizione e il sacro 1.1.1 Tra poesia e pittura 1.1.2a Carlo Alberto, Guido e il fascismo 1.1.2b L’articolistica: iscrizione dell’utopia 1.2 Pasolini con Pascoli: dall’estetica all’etica

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2. Mythos e Logos del dialetto friulano (1942-49) 2.1 Sulla dimensione mitica di Poesie a Casarsa 2.2 Dalle riviste friulane all’iscrizione al PCI: nasce uno scandaloso soggetto politico 2.3 Primi esperimenti narrativi

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3. Narrativa e poesia (1950-55) 3.1 I racconti romani 3.1.1 I primi ragazzi 3.1.1a Il mito dell’incoscienza, del sesso, del peccato 3.1.1b L’elogio della povertà 3.1.1c Osservazioni sulla geografia del ragazzo 3.1.1.d Lo spettro piccolo-borghese 3.2 Poesia friulana a Roma 3.3 Poesia romana: continuità e sviluppo ideologico ne L’Appennino e nei primi poemi delle Ceneri di Gramsci

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4. Attività critica degli anni ’50 4.1 Metodo e contenuti della prima critica romana (1950-53) 4.1.1 Prime indicazioni

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Indice

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4.1.1a L’Ungaretti di Pasolini e altri contenuti della critica 1950-53: Dio, Eros e crisi 4.1.1b Ragioni e resistenze stilistiche 4.2 Le antologie di Pasolini 4.2.1 Poesia dialettale del Novecento: realismo e dialetto 4.2.1a L’analisi: due forze vettoriali eversive 4.2.1b La componente esistenziale 4.2.2 Teorizzazione della poesia popolare 4.2.3 Confronto tra poesia dialettale e poesia popolare 4.2.4 Gramsci e Croce nelle due ricerche 4.3 Sperimentalismo: impegno e existenz (1954-60) 4.3.1 L’intellettuale per la politicità della letteratura: Gramsci e la radice utopica del pensiero critico di Pasolini 4.3.2 «Officina» e la battaglia per il realismo Appendice: i maestri in ombra del Novecento 4.3.3 Il rapporto stile-ideologia e il problema della lingua letteraria ‘nazional-popolare’ 5. I romanzi romani 5.1 1955: lo scandalo Ragazzi di vita 5.2 Nel nome del sottoproletariato 5.2.1 Radicalità della regressione 5.2.2 Osservazioni sull’attendibilità del glossarietti 5.2.3 Una imperterrita dichiarazione d’amore: l’agnizione dell’altrove 5.3 Sulla dimensione utopica di Ragazzi di vita 5.3.1 Antitesi della forma: dalla mimesi alla contaminatio 5.3.2 Antitesi del contenuto: dall’utopia al battesimo borghese del sottoproletariato 5.4 Una vita violenta: nuova politicità?

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6. Per un cinema ‘nazional-(im)popolare’: l’utopia e il linguaggio cinematografico 6.1 Continuità tra i romanzi romani e il primo cinema 6.2 Il popolare di Pasolini 6.3 Cinema, pansemiologia e ideologia 6.4 La critica e il critico 6.5 Teoria e pratica della morte: Accattone alla luce di Empirismo eretico 6.5.1 Teoria della morte 6.5.2 Pratica della morte

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Conclusione. Al di là della poesia Bibliografia Indice dei nomi

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Finito di stampare nel mese di novembre 2001 per A. Longo Editore in Ravenna da Edit Faenza

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