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Italian Pages 204 Year 2005
BIBLIOTECA DI ANTROPOLOGIA MEDICA 6
Pino Schirripa Le poli iche della cura TERAPIE, POTERE E TRADIZIONE NEL GHANA CONTEMPORANEO
PINO SCHIRRIPA, dottore di ricer-
ca in scienze etnoantropologiche, è ricercatore a contratto presso il
Dipartimento di Studi Glottoantropologici e Discipline Musicali della ‘Università degli studi di Roma “La Sapienza” e insegna Etnologia pres-
so la Facoltà di Sociologia della stessa Università. E membro del Consiglio Direttivo della Società italiana di antropologia medica e del Comitato di redazione di “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica”. E stato visiting professor presso il Department of social studies of medicine della McGill University di Montreal. Da più di dieci anni svolge ricerche sul campo in Ghana e in Italia su temi di antropologia medica e antropologia religiosa ed è stato coordinatore scientifico di una ricerca europea sull'offerta terapeutica alle popolazioni immigrate. Ha pubblicato numerosi saggi in riviste italiane e straniere e il volume Profeti in città. Etnografia di quattro chiese indipendenti del Ghana (1992). Ha curato insieme a Pietro Vulpiani il volume L’ambulatorio del guaritore. Forme e pratiche del confronto tra biomedicina e medicine tradizionali in Africa e nelle Americhe (Argo, 2000).
Biblioteca di Antropologia Medica / 6 collana diretta da Tullio Seppilli
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Pino Schirripa
Le politiche della cura Terapie, potere e tradizione nel Ghana contemporaneo
Fondazione Angelo Celli per una Cultura della Salute
ARGO
© 2005 ARGO p.s.c.r.l. Corte dell’Idume, 6 - 73100 Lecce/Italia tel. 0832.241595 - fax 0832.303630
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Per Aurelia
Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a loro, determinate dai fatti e dalla
tradizione. La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch'essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d'ordine per la battaglia, i costumi,
per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste prese a prestito la nuova scena della storia. Karl Marx, I/ diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, 1852
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Indice Capitolo primo. L'altare di Larteh
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Capitolo secondo. Contesti 1: luoghi e tempi 1. Luoghi e tempi00 2. La costruzione dell’etnografia
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Capitolo terzo. Prospettive 1. Sistemi medici plurali 2. La “medicina tradizionale” in questione 3. L’ antropologia medica e le antropologie del mutamento in Africa
Capitolo quarto. Il campo di forze delle terapie 1. Terapeuti “tradizionali” 1.1. Le medicine tradizionali nel Ghana contemporaneo 1.1.1. Di cosa parliamo quando parliamo di kooko. Eziologie complesse e confini incerti 1.1.2. Fratture e doppi spirituali
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47 47 47 55 62
1.2. Akomfo e ninsinlima
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1.2.1. Gli dèi in corpo
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1.2.2. I sapienti della foresta
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1.3. Guaritori in transizione
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2. Profeti 2.1. Le chiese indipendenti in Africa 2.2. Lo spazio terapeutico delle chiese
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3. Biomedicina
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Capitolo quinto. Contesti 2: Politiche 1. “Con un po’ di fortuna”: la vita quotidiana in Ghana nell’epoca della grande ristrutturazione economica 1.1. Accra 1.2. Stregoneria e (im)moralità dello scambio
2. Politiche sanitarie globali e contesti locali
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91 91 91 95 100
3. Lo sviluppo della biomedicina in Ghana 4. Atteggiamenti verso la biomedicina nel Ghana postcoloniale 5. Il processo di professionalizzazione Capitolo sesto. Strategie 1. Il doppio gioco della legittimazione: governo e medicina tradizionale
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2. Il processo di schismogenesi
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3. Le politiche di legittimazione 4. La Ghana psychic and traditional healers association
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5. La Traditional services organization
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Capitolo settimo. Guaritori
1. La storia di Yao 2. Dr. Donkor detto Quick
3. 4. 5. 6. 7.
L’ambulatorio di Gyifei: un islamico terapeuta dei cristiani Kwaku Mensah, guaritore di follia La clinica tradizionale di Asamankese La Baseline laboratory clinic di Anthony Posizionarsi all’interno del campo delle terapie
Capitolo ottavo. Pazienti 1. Mami Polici 2. Nelson
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3. Kwame
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4. Percorsi di cura 5. La malattia come spazio politico
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Capitolo nono. Ritorno a Larteh
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Bibliografia
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Ringraziamenti
Questo libro nasce da un lavoro di campo che si è svolto nell’arco di nove anni. In questo lungo periodo sono molte le persone che, nel mio “essere lì” ed “essere qui”, mi sono state vicine, con cui ho potuto scambiare opinioni, affinare strumenti analitici e metodologici, e da cui ho appreso molte cose, sul piano scientifico e umano. È questa la sede per ricordare quanto grande, non solo in questo lavoro, sia il mio debito nei loro confronti.
Vorrei innanzitutto ringraziare Tullio Seppilli, cui mi lega da anni una profonda amicizia, e con cui il rapporto di collaborazione scientifica è più che mai vivo. Il continuo confronto sui miei temi di ricerca mi ha consentito di affinare e di inquadrare meglio problemi e prospettive analitiche. Non ultimo, grazie a lui e alle sue attente letture, questo, come altri miei testi, si sono
mondati di molte imperfezioni. Allo stesso modo sono sempre grato a Vittorio Lanternari, che non solo mi ha introdotto a questi temi, nei miei
primi approcci di ricerca, ma che mi è sempre stato vicino e che ha reso possibile, con il suo supporto, i miei primi soggiorni in Ghana. Vorrei anche ringraziare Mariano Pavanello, con cui ho condiviso diversi periodi di ricerca sul campo e con cui il rapporto di collaborazione scientifica e di ricerca è più che mai vivo. I suoi consigli, i suoi suggerimenti, nonché il suo costante incoraggiamento sono stati utilmente preziosi per meglio inquadrare le problematiche di ricerca e per affinare le metodiche. Tullio Seppilli, Mariano Pavanello, Alessandro Lupo e Alberto Sobrero hanno letto e commentato una prima versione di questo testo: grazie ai loro suggerimenti mi è stato possibile migliorarlo. Una ricerca di campo svolta nell’arco di quasi un decennio fa sì che, non solo grazie alla produzione di testi, possa aver luogo un costante confronto. Letture ed osservazioni sui testi da me prodotti in questo arco di tempo, così come feconde discussioni rese possibili da occasioni diverse, sono state per me utili e fruttuose. Voglio perciò ringraziare quanti, oltre chi ho già ricordato, in questi anni hanno discusso con me delle tematiche che qui affronto: Pietro Vulpiani, Renato Libanora, Roberto Malighetti, Fabio Dei, Vito Teti,
Piero Coppo, Adelina Talamonti, Bernardo Bernardi, Lelia Pisani, Pierluigi Valsecchi, Adriana Piga, Cristiano Martello, Gilles Bibeau, Allan Young, Birgit Meyer.
Naturalmente anche quanti mi sono stati vicini “lì” non possono essere dimenticati. Il mio pensiero va innanzitutto a chi non c’è più: Vincent Kwabena
Damuah, mio caro amico; Kodwo, guaritore nzema con cui ho condiviso momenti intensi, Thomas Moke Mieza e Atumo Amihyia, amici nzema;
Joseph Gazare Seini. Non potrò mai dimenticare i profeti, i guaritori e tutti gli altri con cui ho lavorato: è grazie a loro, alla ricchezza di quegli incontri, che la mia ricerca è stata possibile. Vorrei anche ringraziare Frempong, amico di ormai vecchia data, senza la cui collaborazione ed il prezioso aiuto non avrei potuto svolgere al meglio il mio lavoro, e George Busby, che spesso mi ha ospitato. Vorrei infine ringraziare il Ghana Museum and Monuments . Board per il supporto che mi ha sempre dato da quando svolgo ricerche in Ghana.
Infine, ma con tutto il cuore, voglio ringraziare Roberta e Aurelia per aver sopportato le mie frequenti assenze e le mie ingombranti presenze, specie in questo ultimo periodo di scrittura. Grazie per questo e per quello che non dico. In questi anni la riflessione sul mio lavoro ha dato esito a diversi saggi che, in parte e a volte smembrati in più capitoli, sono stati ripresi e approfonditi in questo testo. Sono tanti, e citarli qui forse appesantirebbe queste brevi pagine, per la loro menzione rimando alla bibliografia.
Capitolo primo L’altare di Larteh
Arrivo a Larteh di sera, dopo un viaggio abbastanza comodo da Accra, la capitale del Ghana, dove risiedo provvisoriamente e dove principalmente si svolge la mia ricerca. È un luogo particolare Larteh. Qui, negli anni ’60, l’antropologo David Brokensha (BROKENSHA D. 1966) incentrò la sua ricerca sul mutamento sociale. L'idea dello studioso ghanese era quella di analizzare i nuovi equilibri sociali e le dinamiche di mutamento in una piccola cittadina del Ghana postcoloniale. La cornice teorica di riferimento era naturalmente quella della modernizzazione, del cambiamento sociale indotto dal dominio coloniale e dall’introduzione dell'economia di mercato e dunque dalla crescente “occidentalizzazione” del Paese. C'è una seconda ragione per cui Larteh è molto conosciuta, e per i ghanesi è sicuramente la più importante: è la sede di un altare tradizionale, noto come Akonedi shrine, la cui principale sacerdotessa è Nana Oparebea!. Si tratta di una delle sacerdotesse tradizionali più importanti, e potenti, del Paese che per anni è stata la presidentessa della Ghana psychic and traditional healers association, l’associazione di guaritori tradizionali più importante, numericamente più consistente e maggiormante conosciuta del Ghana; fondata nel 1957 sotto gli auspici del primo presidente del Ghana indipendente: Kwame Nkruma. Era per incontrarla che mi ero recato lì. Non era la prima volta che compivo questo viaggio; qualche settimana prima non ero stato però molto fortunato: Nana Oparebea, così mi disse un’altra sacerdotessa che vive anch'essa in quell’altare, non era lì ma all’estero, precisamente negli Stati Uniti, dove era
stata invitata a tenere alcune conferenze sulla religione tradizionale africana. Fu quella sacerdotessa che mi consigliò di tornare in quei giorni; era infatti prevista la celebrazione annuale a Tigari, uno dei tanti dèi che possiedono Nana Oparebea?, e dunque questa non avrebbe potuto in alcun modo non essere presente. Avevo con me una lettera di Vincent Kwabena Damuah, mio caro amico ora scomparso, fondatore e leader di Afrikania, una chiesa indipendente del
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Le politiche della cura
Ghana che si richiama esplicitamente alla religione tradizionale e all’afrocentrismo3. Uomo molto conosciuto nel Ghana, la sua lettera doveva rap-
presentare per me un viatico che potesse facilitarmi l’accesso alla sacerdotessa e la disponesse benevolmente nei confronti miei e delle mie richieste. Al mio arrivo a Larteh, come spesso capita in Ghana, mi si fa incontro un giovane incuriosito dalla mia presenza. Mi domanda se sono lì per qualche questione d'affari. Quando gli spiego i reali motivi del mio viaggio mi guarda divertito: è inusuale per lui che un oburori, la parola twi che designa gli uomini bianchi, si interessi delle tradizioni del Ghana. Comunque si offre di accompagnarmi all’altare che non dista molto dalla stazione degli autobus dove ci trovavamo. È quasi l’imbrunire. AI nostro arrivo all’Akonedì strine rimango colpito dal forte odore dolciastro del sangue: un grande bue era stato appena sacrificato a Tigari e la sua carcassa sgozzata giaceva ancora sul terreno, mentre il san-
gue si stava spargendo tutto intorno. Subito ci si fa incontro una giovane sacerdotessa che indossa il costume tradizionale e che, saputo il motivo della nostra visita, congeda il mio accompagnatore e mi conduce da Nana Oparebea. Questa mi riceve, ascolta attenta il motivo della mia visita, e prende la lettera di Damuah e i doni che le avevo portato. Mi dice però che è tardi, ormai le attività dell’altare si stanno per concludere e mi invita a ritor-
nare l’indomani per assistere alle celebrazioni. La giovane sacerdotessa si offre di riaccompagnarmi fino al centro del paesino. Ha voglia di parlare con me e lungo la strada mi racconta la sua storia. Akus, questo è il nome con cui mi si presenta, non è ghanese. È americana, di Filadelfia. Le chiedo del suo nome di battesimo, ma infastidita mi dice che
da quando è stata posseduta per lei tutto è cambiato e il suo nome ora è Akus, poi inizia a raccontare. La sua storia ha inizio tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 in America. Erano gli anni della contestazione giovanile, del pacifismo e delle grandi lotte per l'uguaglianza razziale. Per lei, nera, tutto ciò significava un forte impegno per riscoprire le sue autentiche radici, che vedeva ben lontane da quell’America dominata dai bianchi. Erano gli anni in cui tra i neri di America si diffonde l’idea di una cultura afro-americana e in cui diventa sempre più esplicito — in alcuni circoli religiosi come i rastafariani, ma anche in fasce più ampie dei gruppi di contestazione — il richiamo all'Africa come terra madre di tutte le genti dalla pelle nera. Akus insiste molto sulla sua ricerca di una identità. Mi dice che in quegli anni rifletteva su come, no-
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nostante negli Stati Uniti fosse imperante la retorica del melting pot, non tutte le comunità avessero una ben chiara coscienza delle origini e delle loro radici. Ad esempio gli americani di origine italiana, irlandese o polacca avevano ben chiaro quali fossero le loro origini e custodivano gelosamente alcuni tratti delle loro tradizioni; ma questo non accadeva per i neri. Mi dice che sicuramente i suoi antenati dovevano essere africani portati nel nuovo continente come schiavi. Ma da dove venivano? In fondo l’unica prova delle sue origini africane è il colore della sua pelle, ma nessuno può dirle nulla sul luogo di origine dei suoi antenati. Continuando il suo racconto mi dice che, finita l’università, diventa inse-
gnante di cultura africana, frequenta i peace-corps, un’organizzazione impegnata nel volontariato internazionale, e un gruppo che si occupa di danze africane. Nel 1974 assieme ad altri membri di questo gruppo, tutti interessati alla danza e alla cultura africana, arriva in Ghana. L'idea del gruppo era quella di svolgere una piccola ricerca su alcune forme tradizionali di danza. «Non so perché abbiamo scelto il Ghana — mi dice —, io non sapevo di avere antenati qui, né sapevo nulla degli dèi tradizionali o di Nana Oparebea. Se siamo venuti in Ghana è forse per quel che sapevamo di Kwame Nkruma, che a quel tempo però era già morto». Qui il suo discorso assume un tono teleologico. L’arrivo in Ghana, traspare dalle sue parole, non è casuale, in fondo per lei si è trattato di rispondere alla chiamata degli dèi. Arrivati in Ghana, i membri del gruppo, che già avevano preso contatto dagli Stati Uniti con alcuni funzionari governativi, trovano un programma di attività culturali preparato appositamente per loro. Tra le altre cose, questo prevedeva una visita all’altare di Larteh. Durante la visita si compie un sacrificio e si suona; alcuni sacerdoti vengono posseduti e danzano. Per Akus non è una novità vedere individui posseduti dagli dèi: durante la sua giovinezza, a Filadelfia, aveva frequentato una chiesa pentecostale in cui, durante gli incontri di culto, diverse persone erano possedute dallo Spirito Santo. Ma se a Filadelfia era stata spettatrice delle altrui possessioni, a Larteh è lei stessa che,
durante le danze, viene posseduta. Lei sola, tra i diciotto del suo gruppo. La possessione diventa per lei un’esperienza centrale, che le fa capire come la sua ricerca di radici si sia finalmente conclusa. Torna in America con i suoi amici: ma, nonostante le resistenze dei suoi familiari, sarà un breve soggior-
no. Dopo qualche mese è di nuovo a Larteh, pronta per iniziare sotto la guida di Nana Oparebea il lungo addestramento che la porterà a diventare sacerdotessa tradizionale. Sono sette gli anni che trascorre a Larteh, e alla
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Le politiche della cura
fine subisce il rito iniziatico che la consacra come sacerdotessa. Una volta sacerdotessa, Akus lascia il Ghana e ritorna a Filadelfia, dove apre un altare
ai suoi dèi e officia come sacerdotessa e guaritrice. A suo dire sono molte le persone, e non solo di origine africana, che le si rivolgono, spesso per problemi di salute.
Akus non è l’unica americana che si può incontrare all’Akoredi shrine, ne ho incontrati tre o quattro che, anch'essi diventati sacerdoti tradizionali, opera-
no oggi negli Stati Uniti: come Akus. Avevano approfittato delle celebrazioni a Tigari per tornare da Nana Oparebea, per rincontrarla e per rinsaldare i contatti con il loro altare di origine. In Modernità in polvere, Appadurai narra di una visita che, assieme a sua moglie e a suo figlio, ha compiuto in un tempio indiano e che ha dato luogo a ciò che lui chiama «un paradosso transnazionale» (APPADURAI A. 2001
[1996]: 82). Scrive Appadurai: «Nel gennaio 1988 mia moglie (una donna statunitense bianca, storica dell'India) e io (un tamil della casta braminica, cresciuto a Bombay e diventato boro acaderzicus negli Stati Uniti) assieme a nostro figlio, tre membri della famiglia di mio fratello maggiore e un gruppo di suoi colleghi e collaboratori, decidemmo di visitare il tempio Meenaksi a Madurai, una delle principali mete di pellegrinaggio dell'India meridionale, dove mia moglie aveva fatto a più riprese ricerca nel corso dei vent'anni precedenti. Avevamo diverse ragioni per andare lì. [...] Per quanto mi riguarda ero lì per fare da ornamento alla cerchia di mio fratello, per aggiungere una vaga forza morale alle sue aspirazioni di un matrimonio felice per la figlia, per respirare di nuovo la città nella quale mia madre era cresciuta (c’ero stato già parecchie volte), per condividere l’eccitazione di mia moglie nel tornare a visitare una città e un tempio che costituiscono forse le aree più importanti della sua immaginazione e per andare a caccia di un cosmopolitismo schietto. Così entrammo nei quattordici acri del recinto del tempio come un gruppo di una
certa rilevanza, anche se uno tra i tanti, e fummo subito avvicinati da uno dei molti sacerdoti che vi officiano. Questi riconobbe mia moglie, che gli chiese dove fosse Thangam Bhattar, che era il sacerdote con il quale lei aveva lavorato più strettamente. La risposta fu: “Thangam Bhattar è a Houston”. Ci mettemmo un po’ ad afferrare, ma poi fu di colpo tutto chiaro. La comunità induista di Houston, come molte altre comunità di indiani asiatici negli Stati Uniti, aveva costruito un tempio induista, dedicato in questo caso a Meenaksi, la divinità che domina a Madurai. Thangam Bhattar si era fatto convincere ad andarci, lasciando in patria la sua famiglia. Vive una vita solitaria a Houston, fornendo la sua assistenza alla comunità indiana d'oltremare nella delicata politica di riproduzione culturale, probabilmente in cambio di un modesto guadagno» (APPADURAI A. 2001 [1996]: 81-82).
Il breve racconto autobiografico dell’antropologo indo-americano si inserisce in un ampio e denso discorso su ciò che egli chiama “etnorami”. Il concetto di etnorama, coniato da Appadurai, viene così definito:
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L'altare di Larteh
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«[...] quel panorama di persone che costituisce il mondo mutevole in cui viviamo: turisti, immigrati, rifugiati, esiliati, lavoratori ospiti, ed altri gruppi ed individui in movimento costituiscono un tratto essenziale del mondo e sembrano in grado di influenzare la politica delle (e tra le) nazioni ad un livello mai raggiunto prima. Ciò non significa che non ci siano comunità relativamente stabili e reti di parentela, amicizia, lavoro e tempo libero, così come di nascita, residenza e altre forme di affiliazio-
ne. Ma significa che la trama di queste stabilità è percorsa ovunque dall’ordito del movimento umano, quante più persone e gruppi affrontano la realtà di doversi muovere, o la voglia di volerlo fare» (APPADURAI A. 2001 [1996]: 53).
L’etnorama per Appadurai è una delle cinque dimensioni o prospettive (assieme ai mediorami, i tecnorami, i finanziorami e gli ideorami) attraverso cui è possibile osservare e studiare i flussi culturali globali. Il breve racconto di Appadurai che ho qui riportato mostra come il movimento, il flusso incessante di uomini e di idee tra le varie parti del pianeta sia un luogo centrale — oggi, ma forse non solo — per l’analisi antropologica. Ma ritorniamo brevemente a Larteh. Ero in Ghana per lavorare sulle medicine tradizionali: era questo l’interesse che mi spingeva a incontrare Nana Oparebea. La storia di Akus, apparentemente lontana dai miei interessi di ricerca, mi narrava di un incessante movimento. Un movimento che aveva
avuto origine secoli prima, con la tratta degli schiavi, e che nella sua storia personale si era concretizzato in un continuo passaggio tra Larteh e Filadelfia. Un passaggio materiale, ma anche di idee, di forme culturali e soprattutto di dèi tradizionali, che attraverso il suo corpo si spostavano da un continente all’altro fornendo occasioni di protezione e di cura; Tigari, Akonedi e altri dèi diventavano in tal modo presenze viventi a Filadelfia. La possessione da parte degli dèi tradizionali era stata per Akus l’occasione per dare un senso nuovo e definitivo alla sua ricerca di radici e di identità. Era l’ordito su cui aveva potuto ricostruire, per usare un’altra immagine cara ad Appadurai, la trama della sua «biografia immaginata»). Ma il movimento non riguardava solo Akus o gli altri afro-americani che incontrai a Larteh. Nana Oparebea stessa, con i suoi viaggi oltreoceano per
tenere conferenze, ne era parte integrante. Il suo sapere supera gli spazi del suo territorio e diventa parte del patrimonio culturale degli afro-americani. Alcuni di questi poi intraprendevano il viaggio per diventare, da sacerdoti posseduti, sapere incarnato delle forme religiose tradizionali akan. Di un mondo cioè apparentemente lontano dal loro mondo americano e a cui con
ogni probabilità non appartenevano nemmeno gli schiavi da cui reclamavano di discendere.
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Le politiche della cura
Non si tratta naturalmente di discettare, in maniera senza dubbio inutile e
improduttiva, sulla legittimità delle appartenenze culturali dichiarate, quanto invece di assumere come problema centrale, in tutta la sua portata epistemologica, il movimento narrato da queste storie. Quello che Akus e Nana Oparebea mi hanno insegnato a Larteh, è che non si può pensare di lavorare sulla medicina tradizionale senza pensare al contempo al movimento, ai continui passaggi di uomini e di idee, alle dinamiche sociali e culturali che ciò mette in opera, e alle dimensioni di potere che esso rimodella.
Note 1 Nana è il termine con cui nelle lingue akan si designano il padre e la madre della madre nonché i figli della figlia, ma viene usato di norma anche per indirizzarsi a persone anziane o molto importanti. 2 Come accade quasi sempre ai sacerdoti tradizionali, Nana Oparebea è posseduta da diversi dèi. Il principale è Akonedi, che dà anche il nome al luogo in cui vive e officia. Tigari è uno degli altri dèi. Si tratta di una divinità molto conosciuta in Ghana e temuta per la sua potenza. Non è di origine akan, ma viene dalla parte settentrionale del Paese, e il suo costume, che i sacerdoti indossano quando li possiede, ricorda quello delle genti del nord. Il suo arrivo nell’area akan, principalmente nella zona akwapim, si data intorno ai primi decenni del XX secolo, quando, in concomitanza con la diffusione delle piantagioni di cacao, il culto di Tigari si affermò come uno dei principali culti antistregonici (FIELD M.J. 1960). 3. Su Afrikania cfr. SCHIRRIPA P, 19924, 19926, 19954, 20004.
4 Il colloquio con Akus si è svolto il 7 agosto 1992; data la situazione non avevo con me, come invece mi accadeva di solito, il registratore. La ricostruzione del dialogo si basa dunque sui miei appunti stenografati durante l’incontro e su quanto poi ricostruito per iscritto la sera stessa, subito dopo che ho lasciato l’altare di Akonedi.
5 Nell’elaborare il suo concetto di immaginazione, Appadurai si ispira esplicitamente al noto testo di Anderson Comunità immaginate (ANDERSON B. 1996 [1983]). Per Appadurai l’immaginazione, soprattutto nel suo senso collettivo, «[...] può diventare l’impulso per l’azione. È l'immaginazione nelle sue forme collettive, che crea le idee di vicinato e di nazione, di economie morali e di regole ingiuste, di salari più elevati e di prospettive di lavoro allestero. L'immaginazione è oggi una palestra per l’azione, e non solo per la fuga» (APPADURAI A. 2001 [1996]: 22). In questo senso una “biografia immaginata”, non deve essere intesa come un qualcosa di posticcio, quanto invece come la ri-creazione della propria biografia a partire dalle proprie immagini del mondo, dai propri desideri e dalle azioni che da ciò nascono.
Capitolo secondo
Contesti 1: luoghi e tempi
1. Luoghi e tempi Per nove anni, dal 1989 al 1997, ho trascorso in Ghana periodi più o meno
lunghi — da uno a tre mesi — di ricerca sul campo. Per i primi sei anni la mia principale area di lavoro è stata Accra, la capitale. Lì, lavorando prima sulle chiese indipendenti e poi sulla professionalizzazione dei guaritori tradizionali, ho messo a fuoco il mio principale punto di analisi in quella lunga ricerca: l'offerta terapeutica variegata e le forme con cui essa si presenta in un Paese detto “in via di sviluppo”. In particolare, il modo in cui tale offerta si presenti in un campo di cura plurale, quali siano le dinamiche di relazione tra forme differenti di terapia, quali le strategie di legittimazione e di conquista di consensi e di utenti che ognuna di esse costruisce, quali infine i rapporti che ognuna intesse con il potere politico!. Cioè su quello che sinteticamente si può chiamare “politiche della cura”. Sebbene la mia ricerca si sia svolta principalmente ad Accra, nel corso degli anni ho avuto modo di lavorare anche in altri luoghi: Takoradi, Cape Coast e poi piccole cittadine, come Larteh e villaggi dell’area costiera akan e infine, per diversi mesi, nell’area dello nzema occidentale.
Di norma un antropologo, quando lavora sul campo, sceglie un luogo ben preciso e delimitato, sia esso una città o un gruppo di villaggi, per vivere e svolgere la sua ricerca. È quanto ho fatto per i primi due anni quando, lavorando sulle chiese spirituali, mi sono concentrato esclusivamente sul conte-
sto urbano di Accra. Poi, lavorando invece sull’offerta terapeutica e sui processi di riconoscimento della medicina tradizionale, ha fatto una scelta differente, quella cioè di utilizzare più punti di osservazione: da qui la necessità di muoversi anche in luoghi diversi da Accra. La ragioni di questa scelta risiedono proprio in ciò che mi ero proposto di indagare. Non era mia intenzione infatti approfondire la conoscenza di una particolare tradizione di cura, né tantomeno studiare in maniera specifica un
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Le politiche della cura
qualche sincretismo terapeutico urbano. Ovviamente sarebbe stata anche quella una scelta legittima, ma il mio interesse era quello di indagare, in un dato momento storico, quale fosse la produzione di discorsi e di pratiche che ruotavano intorno a ciò che veniva definita come medicina tradizionale, e più in generale intorno all’offerta terapeutica. Il momento era quello in cui il governo del Ghana guardava con estremo favore alle medicine tradizionali e si accingeva a varare una qualche forma di loro riconoscimento, previa la stipula di accordi con la associazioni di guaritori a la redazione di regolamenti. Non era una scelta isolata: al di là del favore con cui buona parte dei governi ghanesi ha guardato la medicina tradizionale, aveva un certo peso la svolta politica dell’Organizzazione mondiale della sanità varata nella conferenza di Alma Ata nel 1978 (SCHIRRIPA P. VULPIANI P. 2000), dove si era affermata la validità delle medicine tradizio-
nali e la necessità di favorire un loro sviluppo che permettesse di migliorare lo stato generale di salute delle popolazioni. Da allora ’OMS ha varato linee guida per i decisori politici e organizzato incontri, seminari e conferenze il cui tema di fondo era lo sviluppo delle medicine tradizionali all’interno di sistemi sanitari che integrassero tali medicine con la biomedicina. Molti governi dell’Africa, dell'Asia e dell'America latina hanno attivato politiche
che si intonano a queste linee guida; agenzie internazionali, governi occidentali e ONG hanno nel contempo sviluppato attività di cooperazione dedicate proprio allo sviluppo della medicina tradizionale. Si trattava dunque di capire come una dinamica globale in cui hanno giocato un grosso ruolo le agenzie internazionali e i governi nazionali si traducesse in un contesto locale. Nello stesso tempo andava analizzato come, grazie ai discorsi che si facevano sulla medicina tradizionale, venisse rinegoziato il ruolo del terapeuta tradizionale e il suo posto all’interno di un sistema di cura plurale. Per far ciò ho seguito la costruzione di discorsi e di pratiche. Ho dunque utilizzato testi scritti, sia pubblicazioni di vario tenore che dichiarazioni ufficiali, ma soprattutto ho incontrato molti dei protagonisti di quella scena: dal funzionario governativo responsabile dell'Unità di medicina tradizionale presso il Ministero della salute, ai presidenti di diverse asso-
ciazioni di guaritori tradizionali, a molti terapeuti, ai pazienti. Ho scelto dunque di costruire il percorso dell’indagine moltiplicando le prospettive da cui guardare il fenomeno (i tanti attori coinvolti a a diversi livelli e in differenti posizioni nel campo delle terapie) e nello stesso tempo dislocandola in siti molteplici. Ho seguito le piste di pratiche e discorsi, dilatando i luoghi dell'indagine dalla città a un’area molto più vasta: altre città, villaggi. Ciò si è
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Contesti 1: luoghi e tempi
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costruito poco a poco: dialogando con la gente, o magari assistendo a sedute terapeutiche, mi si accennava a cose e persone che si rivelavano probabilmente interessanti per la mia indagine. Si trattava di tracce che non potevo tralasciare, si trattava di seguire un percorso che si faceva man mano che si costruiva, attraverso gli incontri, la mia etnografia.
2. La costruzione dell’etnografia
Per quello che è il peculiare sviluppo del Ghana, in epoca coloniale e postcoloniale, segnato da forti migrazioni sia interne che di individui provenienti da altri paesi dell’Africa occidentale, le città, e soprattutto Accra — luogo principale della mia ricerca —, si presentano con un forte carattere multietnico). Naturalmente, lavorare in un contesto del genere, contrassegnato da un forte
multilinguismo, ha avuto degli effetti sull’organizzazione stessa della ricerca, se non altro per ciò che concerne l’utilizzo della lingua nel lavoro etnografico. Credo sia giusto soffermarsi su questo punto, che certamente non è di secondaria importanza nella costruzione stessa del dato etnografico. Va però sottolineato che molto spesso i ghanesi, se non altro quelli adulti e soprattutto quelli urbanizzati, parlano correntemente più di una lingua: quella del loro gruppo di origine, così come altre lingue locali e, spesso, l’inglese. Esistono però alcune lingue che, per la loro diffusione, sono veicolari. Innanzi tutto l’inglese: la lingua dei colonizzatori, e tuttora lingua ufficiale del paese, poi il twi e l’hausa. Il twi è la lingua parlata dagli Asante e dagli Akwapim, è dunque la lingua dell’antico e glorioso impero Asante precoloniale. Si tratta della più diffusa delle lingue di ceppo akan, cioè del gruppo linguistico-culturale maggiormente diffuso nel Ghana meridionale, e normalmente è compresa e parlata anche da individui di altre lingue akan, così come da persone di altri ceppi linguistici. Sicuramente è oggi la lingua locale più utilizzata ad Accra. È un dato importante: Accra, infatti, è una città che
originariamente era abitata da individui del gruppo ga, cioè un gruppo linguistico differente da quello akan; il fatto che oggi sia il twi la lingua veicolare della capitale, la dice lunga su come le dinamiche migratorie abbiano cambiato il volto della città. L’altra lingua veicolare è l’hausa, diffusa principalmente tra gli immigrati provenienti dalla parte settentrionale del paese. Si tratta comunque di una lingua che in genere ha un uso limitato solo a quan-
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ti provengono da quelle regioni. In effetti quando si incontrano un individuo proveniente dal nord del paese, mettiamo un Bassare, e un Ga probabil-
mente nei loro scambi linguistici useranno l’inglese o, nella maggior parte dei casi, il twi. Nel corso della mia ricerca ho lavorato principalmente con individui di gruppi akan, ma —- soprattutto ad Accra — ho avuto modo di avere contatti, in
alcuni casi anche molto intensi, con persone di altri gruppi: bassare, ewe, ga. Ciò naturalmente ha posto seri problemi rispetto all’utilizzo della lingua. Di norma un antropologo, quando intraprende una ricerca sul campo che si presume lunga e densa di contatti, tende a usare per quanto gli è possibile la lingua del luogo. Nel mio caso sorgeva il problema di decidere quale sarebbe stata la lingua locale da preferire; alla fine ho svolto il mio lavoro nelle due principali lingue veicolari: l’inglese e il twi. Ciò mi ha permesso di svolgere il mio lavoro con relativa facilità di comunicazione. Ma se, di norma, quando
parlavo inglese con individui anch’essi capaci di esprimersi bene in questa lingua, non avevo alcun bisogno di affidarmi all’aiuto di un interprete, questi era invece necessario quando le conversazioni si svolgevano in twi e naturalmente nei rari casi in cui il mio interlocutore non si esprimeva in nessuna di queste due lingue. Come è uso abbastanza frequente in quei casi cercavo di registrare le conversazioni, ogni qual volta ciò era possibile, per poi sbobinarle insieme all’interprete — sempre una persona di mia fiducia — e procedere ad una prima traduzione letterale e a una seconda lineare. In questo modo riuscivo a controllare abbastanza bene, anche aiutandomi con il voca-
bolario, il processo di traduzione. Forse è bene spendere alcune parole sull'uso degli interpreti. In effetti, come nota Pool (POOL R. 1993: 48 sgg.), il loro ruolo raramente viene adeguatamente messo in luce nelle etnografie; anzi talvolta l’etnografo tende a farli scomparire, come è ad esempio il caso di Crapanzano che, descrivendo i suoi dialoghi con Tuhami, dice che l'interprete, anche se presente, diventava invi-
sibile, lasciando sulla scena solo i due grandi protagonisti di quella ricostruzione etnografica: Tuhami e l’etnologo stesso (CRAPANZANO V. 1995 [1980]: 33-34). E dire che lo stesso Crapanzano in un altro testo aveva ironizzato non poco sulla improvvisa “invisibilità” della moglie di Clifford Geertz nel racconto che introduce un altro dei grandi testi della antropologia interpretati. va: quello sul combattimento dei galli a Bali (CRAPANZANO V. 1997 [1986]: 101-102). Si tratta, credo, di una invisibilità foriera di pericoli, poiché rende opaco un pezzo della costruzione del dato etnografico e dei suoi problemi. L'uso dell’interpete era per me indispensabile. Innanzi tutto ho cominciato a
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imparare il twi come spesso si fa con le lingue locali che gli antropologi incontrano: parlando con la gente. È dunque una conoscenza che è andata migliorando con l'aumentare della mia permanenza, ma che è sempre rimasta incompleta. Sicuramente mancava quel controllo della lingua capace di «decodificare correttamente una figura retorica» o di «decodificare la funzione retorica di ogni stereotipia verbale» di cui parla Amalia Signorelli discutendo di questioni di metodi rispetto alle ricerche demartiniane (SIGNORELLI A.1986: 11); e ancora quella capacità di comprendere i sottili scivolamenti di registro — ad esempio da quello descrittivo a quello ironico — o cogliere le funzioni di particolari iperboli. Inoltre, come gran parte delle lingue africane, il twi è una lingua tonale, ed è facile per l'orecchio europeo — poco aduso alle differenze, spesso leggère, tra toni alti e toni bassi — incor-
rere in equivoci: ricordo i divertenti aneddoti che Nigel Barley riporta sugli equivoci causati dal suo uso improprio dei toni del dowayo, una lingua camerunese (BARLEY N. 1991 [1983])4.
Ritenevo importante dunque che ci fosse con me un interprete capace, da un lato, di render chiare situazioni che per me potevano essere opache, dall’altro, che mi consentisse di migliorare sempre più il mio livello di comprensione, accompagnandomi nella scoperta di quella lingua. Ho avuto diversi interpeti. Quando lavoravo tra gli Nzema, ad esempio, Thomas Moke Mieza, da poco scomparso, mi ha spesso accompagnato — come ha fatto con molti antropologi italiani — e il suo ruolo è stato fondamentale. Negli anni precedenti spesso ho collaborato con Frempong, mio grande amico. Asante, ex prete cattolico che parla un ottimo inglese, Frempong è a sua volta un guaritore tradizionale5. Sicuramente le lunghe discussioni che ho avuto con lui sulle interpretazioni delle categorie nosologiche locali sono state spesso molto utili per la mia comprensione della medicina tradizionale akan, così come è stato utilissimo il suo lavoro continuo di traduzione. Certamente il dato etnografico si è costruito anche insieme a loro. Naturalmente la costruzione dell’etnografia è un qualcosa di molto complesso. Si fa attraverso l'osservazione, lo sguardo, come vuole l’etnografia classica, ma si fa soprattutto — come ormai si discute da due decenni — attraverso le continue negoziazioni, linguistiche e non solo, con i concreti protagonisti
che insieme all’antropologo danno vita a quell'esperienza unica dell'incontro di due storicità differenti (KILANI M. 1994). Nel’introduzione a Soigner au pluriel, Jean Benoist (BENOIST J. 1996: 6-7) paragona l’antropologo a un gatto: pare pigro e sonnolento, ma nel contempo è attento a tutto ciò che lo circonda, pronto a riconoscere dei precisi segni
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nei più lievi fremiti intorno a lui. Credo che questa immagine renda bene il senso del lavoro sul campo. Fatto dell'accumulo continuo e costante di cose piccole ma significative, esso non si riduce all’osservazione di precisi momenti (come ad esempio un rituale), né si conclude nel dialogo con specifici soggetti (sebbene questi rimangano fondamentali). Cose certo importanti, ma che assumono il loro pieno significato solo dentro quel continuo lavoro di costante attenzione, magari fluttuante e distratta, a ciò che ci circonda, a ciò
che succede intorno a noi (sia una visita di cortesia o l'ascolto casuale di una conversazione in un mercato o nella sala di attesa di un terapeuta) e che ci consente, per sedimentazione, di penetrare l’esperienza. Mi pare che la metafora del gatto possa bene accostarsi a come Leonardo Piasere definisce la perduzione: «Il concetto di perduzione o metodo perduttivo rimanda a un’acquisizione inconscia o conscia di schemi cognitivo-esperienziali che entrano in risonanza con schemi precedentemente già interiorizzati, acquisizione che avviene per accumuli, sovrapposizioni, combinazioni, salti ed esplosioni, tramite un’interazione continuata, ossia tramite
una co-esperienza prolungata in cui i processi di attenzione fluttuante e di empatia, di abduzione e di mimesi svolgono un ruolo fondamentale [...] Il termine, dall’aria un po’ troppo scientista per quello che vuole illustrare, etimologicamente vuol rimandare a un “capire attraverso una frequentazione”» (PIASERE L. 2002: 56)
Note 1 Complessivamente ho trascorso in Ghana otto periodi di ricerca: luglio-agosto 1989, dicembre 1989-febbraio 1990, dicembre 1991-gennaio 1992, luglio-settembre 1992, luglioagosto 1994, agosto-settembre 1995, settembre-ottobre 1996, giugno-luglio 1997. Durante i primi due ho lavorato principalmente, ma non esclusivamente, sulle chiese sincretiche e sulla loro attività terapeutica nel contesto urbano di Accra, argomento su cui ho scritto la mia tesi di dottorato e successivamente un libro (SCHIRRIPA P. 19924). Dal 1991 al 1994 il mio lavoro si è incentrato sulle dinamiche inerenti il riconoscimento ufficiale della medicina tradizionale, e ho lavorato soprattutto ad Accra, ma con brevi periodi anche a Cape Coast e Takoradi, entrambe città costiere di area akan, a Suhum e in diversi villaggi della Central Region e dell’Ashanti Region. Dunque buona parte della mia attività di ricerca si è svolta in contesti urbani, e soprattutto ad Accra. Nel 1995, 1996 e 1997 invece ho lavorato principalmente in territorio Nzema, anche se non sono mancati brevi periodi di ricerca a Takoradi e ad Accra. In quegli anni ho lavorato principalmente sulle concezioni nzema riguardo i processi di salute/malattia e sulla costruzione sociale della figura del guaritore. 2 Si è trattato di una negoziazione molto faticosa, che si è intrecciata con i complessi mutamenti politici e istituzionali che il paese ha conosciuto negli ultimi quindici anni, e che non si
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è ancora conclusa. Di fatto — nonostante nel 2000 sia stata approvata una legge che regolamenta la produzione e la vendita di farmaci erboristici tradizionali — l’intero processo legislativo che dovrebbe condurre a una chiara normativa sulla medicina tradizionale, necessaria per
il suo riconoscimento legale, è tuttora in corso. 3 Per quel che riguarda le dinamiche migratorie in Ghana cfr. CALDWELL J.C. (1967); GUGLER J. - FLANAGAN W.G. (1978); NABILA J.S. (1987); ADDAE-MENSAHJ. (1987). 4 L'antropologo inglese, con molta ironia, così racconta uno dei tanti equivoci ingenerati dal suo cattivo uso dei toni: «Anche la mia padronanza della lingua era un pericolo serio. Tra i Dowayo l’oscenità è sempre dietro l'angolo. Una lieve sfumatura del tono cambia la particella interrogativa, che si attacca alle frasi per farne delle domande, nella parolaccia più sporca della lingua dowayo, qualcosa di simile a ‘figa’. I Dowayo rimanevano sempre sconcertati quando li salutavo dicendo: “Il tuo cielo è sereno? figa”. Ma i miei problemi non riguardavano solo vagine interrogative; ne avevo anche per quel che riguardava l’alimentazione e gli accoppiamenti. Un giorno fui chiamato nella capanna del capo per essere presentato a un mago della pioggia. Si trattava di un contatto importantissimo per il quale stavo alle costole del capo da settimane. Chiacchierammo educatamente, più che altro scrutandoci a vicenda [...] Ero particolarmente ansioso di congedarmi, perché avevo acquistato della carne per la prima volta in un mese e ora si trovava abbandonata alle cure del mio assistente. Mi alzai in piedi e strinsi la mano a tutti educatamente. “Scusatemi”, dissi, “ho della carne sul fuoco”. Questo almeno è quanto volevo dire, ma a causa di un errore di tono avevo dichiarato a mio stupefatto uditorio: “Scusatemi, ho un amplesso con il fabbro”. La gente del villaggio in poco tempo diventò abilissima nel tradurre quello che dicevo in quello che volevo dire» (BARLEY N. 1991 [1983]: 62-63)
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Frempong ha una interessantissima biografia personale che ho riportato in SCHIRRIPA P.
19954.
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Capitolo terzo Prospettive
1. Sistemi medici plurali Della mia esperienza sul campo, questo testo, così come i tanti articoli che ho scritto in questi anni, vuole essere un’elaborazione. Si discuterà dunque delle
forme della cura in Ghana, cioè di quali siano le strategie dei differenti attori sociali in un contesto di “curare plurale”, per richiamare il titolo di un fortunato volume curato da Jean Benoist (BENOIST J. cur. 1996). È un argomento che può essere trattato da differenti prospettive di indagine. Ad esempio si può privilegiare, nella ricerca e nell’analisi, il punto di vista degli utenti: di come questi usino, nella loro ricerca di cura, le risorse a loro disposizione in un dato contesto sociale; o ancora ci si può concentrare sugli opera-
tori, o su una specifica categoria, e lavorare sulle eziologie, le ideologie della malattia, le pratiche di cura. Infine si può tentare, come si farà in questo caso, di lavorare sull'intero sistema di cura — intendendo con ciò la pluralità delle risorse terapeutiche, spesso tra loro concorrenti, presenti in una data società — e sui suoi attori, siano essi i terapeuti, i pazienti, o anche i programmatori delle politiche sanitarie, a livello locale o internazionale.
L'obiettivo di questo lavoro è dunque analizzare quale sia la posta in gioco della terapia nel Ghana contemporaneo. Capire come i pazienti, gli operatori terapeutici e altri attori sociali pongano in essere strategie complesse in vista di obiettivi che sarebbe errato ridurre solo alla guarigione o alla somministrazione di terapie. Allo stesso tempo occorrerà preliminarmente definire meglio quali siano le forze in campo e come queste si strutturino. I pazienti, gli operatori terapeutici — siano essi terapeuti “tradizionali”, profeti delle chiese indipendenti, medici di formazione occidentale o altro —, i programmatori delle politiche sanitarie e gli altri attori sociali formano un complesso campo di forze, entro cui ognuno occupa una specifica posizione. Si può definire tale campo come il campo delle terapie. Di esso non si può certo fornire una immagine statica. Le posizioni occupate
dai singoli attori sono di volta in volta negoziate e risultano dai complessi rap-
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porti che entro questo campo si strutturano. Rapporti di forza che riflettono più ampie relazioni sociali, forme egemoniche e strategie controegemoniche. È bene a questo punto precisare quale sia la posizione epistemologica entro la quale la mia ricerca e l’analisi che qui propongo si muovono. In questo lungo periodo di ricerca sul campo mi sono concentrato principalmente su ciò che solitamente viene chiamata “medicina tradizionale” e sull’offerta terapeutica delle chiese indipendenti. Mettere al centro dell’analisi un concetto che ha come suo aggettivo un termine vago e ambiguo come “tradizionale” richiede che vengano poste alcune questioni preliminari: cosa intendere per medicina tradizionale, come tale campo si struttura e in con-
trapposizione a cosa, e infine quale senso dare alle pratiche che solitamente riferiamo al tradizionale. È chiaro che tali questioni rimandano ad una sistemazione teorica più generale che si incentra sui rapporti fra tradizione e modernità e su come le antropologie, principalmente quelle africaniste, hanno affrontato tale rapporto. Di tutto ciò, che è ovviamente ineludibile, si parlerà nelle prossime pagine. È bene però, affinché quelle riflessioni risultino contestualizzate rispetto alla mia ricerca, discutere ora il concetto di sistema medico. «Il capezzale di un malato è il luogo straordinario di riunione di un insieme di personaggi: si è certi di vedere il medico e i suoi assistenti, ma allo stesso modo anche la famiglia, i parenti lontani, gli amici e, in modo meno visibile, altri individui che prestano il loro aiuto sotto forma di tisane, di preghiere o di esorcismi. Su questa scena angusta una società fa affluire degli attori che simbolizzano tutte le sue forze, dai poteri ufficiali della scienza fino agli echi torbidi di tradizioni magiche, passando per le relazioni di affetto, di interesse o di alleanze che percorrono le vie della parentela» (BENOISTJ. 1993: 11).
La citazione di Jean Benoist qui riportata illustra bene a mio avviso la complessità della scena di un sistema medico. Da un lato rendendo evidente quanti siano i personaggi che affollano la sua scena, dall’altro ricordandoci che ad esso ci si può accostare da due prospettive differenti: quella degli operatori e quella dei pazienti. Ma in tutti e due i casi bisognerà comunque fare i conti con forze e dinamiche sociali complessive. Negli studi di antropologia medica, specie negli ultimi decenni, si è riflettuto molto su tale concetto. In una recente riflessione su questi studi, condot-
ta insieme a César Ziniga Valle, scrivevamo che in prima approssimazione si
può definire il sistema medico come:
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«l'insieme delle rappresentazioni, dei saperi, delle pratiche e delle risorse, nonché le relazioni sociali, gli assetti organizzativi e normativi, le professionalità e le forme di tra-
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smissione delle competenze, che in un determinato contesto storico-sociale sono finalizzate a individuare, interpretare, prevenire e fronteggiare ciò che viene considerato come “malattia” o comunque compromissione di un “normale” stato di salute» (SCHIRRIPA P. - ZUNIGA VALLE C. 2000: 210).
Tale definizione, nella sua ampiezza, ci permette di definire come sistema
medico, qualunque insieme di concettualizzazioni e di pratiche, comunque sia esso organizzato, attraverso cui un dato gruppo umano pensa, previene e
fronteggia gli eventi che considera come patologici. Si tratta di un termine che ha avuto una certa fortuna nel campo degli studi di antropologia medica e, per quanto sia stato utilizzato in diverse accezioni, si possono comunque sinteticamente riportare le principali: «L'utilizzazione del termine “sistema medico” come concetto analitico specifico dell'ambito degli studi in antropologia medica appare connesso, in generale, a una serie di problematiche emergenti dalle ricerche sul funzionamento del sistema sanitario e delle medicine “altre” — sia in ambito occidentale, a proposito della compresenzacoesistenza di una pluralità di risorse di cura, che extraoccidentale, a proposito dei saperi medici locali, delle medicine tradizionali e del loro eventuale ruolo integrativo rispetto all'assistenza di base —. In particolare esso è stato utilizzato rispetto a due tematiche di rilevante importanza: (a) l'individuazione dei processi costitutivi di senso attraverso cui si organizzano l’insieme delle rappresentazioni e dei saperi relativi alla concettualizzazione del rapporto individuo/natura e alla concezione degli stati di malattia, e (4) l’identificazione degli elementi costitutivi delle differenti tipologie di pratiche mediche. Si è trattato, in sostanza, di analisi e di studi compiuti talora sugli aspetti di carattere cognitivo, oppure sugli aspetti operativi e interrelazionali quali componenti condizionali e determinanti di tali pratiche.» (SCHIRRIPA P. - ZUNIGA VALLE C. 2000: 211).
In quel breve saggio abbiamo delineato, sia pur in maniera sintetica, le principali accezioni del concetto di sistema medico che sono emerse nel dibattito antropologico, tentando di rendere conto non solo di come si sia costruito,
quanto invece di alcuni passaggi cruciali: il riconoscimento delle medicine indigene come insieme coerente di pratiche avvenuto nella prima metà del XX secolo, poi, negli anni più recenti, il rilievo di un maggiore carattere di fluidità e indeterminazione, tanto nelle eziologie che nelle tassonomie, di tali sistemi.
Infine, l’attenzione crescente che si è data a quei sistemi detti “plurali”, quei sistemi cioè in cui differenti pratiche terapeutiche coesistono. Nondimeno notavamo i problemi e le prospettive che il dibattito lasciava aperti: «Il concetto di sistema medico ha consentito di guardare alle tradizioni terapeutiche “altre” non già come un insieme giustapposto di pratiche erboristiche e manipolative — empiricamente rivelatesi più o meno efficaci — e di concezioni della malattia e interventi magici di più dubbio carattere operativo, ma invece come sistemi integrati e coerenti in cui la dimensione empirica discende, ed è fortemente correlata, ad un più
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vasto ordine di carattere simbolico e cognitivo. Di più tali sistemi, oltre a manifestare un buon grado di coerenza interna, operano non soltanto al livello della eziologia e della cura dello stato di malattia, ma si pongono su una dimensione più globale in cui anche la prevenzione della malattia ed il mantenimento dello stato di salute giocano un ruolo fondamentale (JANZEN J. 1978, 1979). Le ricerche degli ultimi due decenni hanno fortemente messo in discussione il carattere di coerenza interna dei sistemi medici, proponendo modelli di lettura ad un tempo più sfumati e complessi. Resta il problema di indagare più a fondo le situazioni creole, quelle in cui diversi sistemi coesistono, e nelle quali le pratiche terapeutiche si presentano sempre più con un carattere impuro, sincretico. Non sono solo gli attori sociali ad attraversare il crocicchio in diverse direzioni, per usare la metafora di Benoist, ma sono anche i terapeuti
a porsi all'incrocio tra diversi sistemi. Pluralità di pratiche, e dunque di logiche e di simboli, che si incontrano. Se tutto ciò consente un ampliamento del quadro teorico ed analitico, va ribadito che le indagini, a questo proposito, non possono eludere le stringenti questioni del costituirsi delle realtà creole come esiti di processi storici, indagando le dinamiche, le pratiche di resistenza e, dunque, i reali rapporti di potere tra gruppi determinati.» (SCHIRRIPA P. - ZUNIGA VALLE C. 2000: 219).
Dunque la pluralità di pratiche e di logiche, insomma ciò che si è convenuto chiamare sistemi medici plurali, rappresentano sicuramente uno dei campi problematici di indagine lasciati tuttora aperti. Del resto i sistemi medici tendono sempre più ad essere plurali, tanto nell’Occidente euro-americano che negli altri continenti. Occupandomi dell’analisi di un sistema plurale, e degli attori che a vario livello operano al suo interno, mi soffermerò nelle prossime pagine su alcuni nodi che l’analisi di tali sistemi propone. Sicuramente i due autori che vengono più spesso citati quando si discute del concetto di sistemi medici plurali sono Irwin Press e Arthur Kleinman. Per molti versi le loro posizioni — e spesso anche la stessa prospettiva di indagine — sono opposte, e ciò ha favorito una certa polarizzazione del dibattito intorno alle loro posizioni. Irwin Press propone una definizione precisa e molto ristretta di sistema medico: «un corpo integrato e interrelato di valori e pratiche intenzionali governato da un unico paradigma di significazione, identificazione, prevenzione e trattamento della malattia» (PRESS I. 1980: 47). La prospettiva di Press è quella della tassonomia. Per identificare un sistema medico occorre che sia chiaro il paradigma unitario cui ricondurre non solo l'insieme delle pratiche e dei valori che governano l’azione degli attori sociali, ma anche il modo di intepretare la malattia e di intervenire su di essa. È una prospettiva condivisa da diversi studiosi di lingua anglosassone; tra questi Yoder che, commentandola, scrive:
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Prospettive
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«Questa concezione del sistema medico contiene sia aspetti sociali che culturali. Gli aspetti culturali sono quelli concernenti l’ascrizione di un significato agli episodi di malattia (7//yess). Cioè, i sistemi medici servono a ordinare, classificare e spiegare la malattia. Sono comunque parte di una più larga realtà simbolica che è costruita culturalmente. Nella nostra società l’importanza degli aspetti culturali della malattia (i//ness) è stata oscurata dall’assunzione che tutti noi accettiamo il modello biomedico di malattia (disease) per come è definito dai medici. Gli aspetti sociali del sistema medico sono quelli che riguardano i ruoli e gli status dei partecipanti. I sistemi medici contengono assunzioni su chi siano le persone o i gruppi qualificati a fornire informazioni, prendere decisioni o prescrivere terapie» (YODER P. S. 1982; 9).!
È evidente in questo commento come l’attenzione di questi autori sia concentrata sulla tassonomia del sistema medico. Questo è definito nei suoi aspetti sociali e culturali; si pone l’attenzione soprattutto sulla sua coerenza interna, e principalmente su come i vari elementi (per esempio le eziologie e le pratiche terapeutiche) siano tra loro interrelati e derivino da comuni assunzioni di carattere più generale. Non è dunque strano che Press rifiuti il concetto di sistema medico plurale in favore di quello di configurazioni sanitarie plurali. Press sostiene che non si possa parlare di un sistema medico che contiene al suo interno dei sottosistemi (cioè ad esempio la biomedicina e una medicina tradizionale africana) che funzionino su differenti paradigmi culturali, poiché ciò contraddirrebbe quella coerenza interna che è insista al concetto stesso di sistema. Al contrario l’idea di configurazioni sanitarie plurali manterrebbe tale coerenza, poiché starebbe a significare la coesistenza di diversi sistemi medici (cioè di diversi paradigmi coerenti) all’interno di una data situazione sociale. Quel che rimane ai margini degli interessi tassonomici di Press sono le pratiche di intervento dei terapeuti — che purtroppo per lui sono spesso impure sincretiche e poco coerenti —, e i comportamenti di ricerca della salute, cioè le concrete azioni che i pazienti compiono per guarire e che li portano a muoversi
incessantemente tra le diverse risorse terapeutiche a loro disposizione. Sicuramente più attenta ai comportamenti dei pazienti è la posizione di Kleinman (KLEINMAN A. 1978, 1980). Partendo dalla sua ricerca sul campo a Taiwan, l'antropologo e psichiatra statunitense propone un modello tripartito che, a suo avviso, può essere utile anche come base per la comparazione transculturale dei sistemi medici intesi come sistemi culturali. Tale tripartizione prevede un settore popolare, che comprende l’insieme delle pratiche e delle credenze della comunità di cui un dato individuo fa parte; uno professionale, che comprende le pratiche di quanti svolgono un lavoro terapeutico in quanto rappresentanti di una medicina istituzionalizzata, sia essa la biomedicina o qualche altra forma terapeutica; uno folk, in cui vengono com-
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prese le pratiche di quanti svolgono un'attività terapeutica a partire da un
sapere che non è diffuso, ma che non godono di riconoscimenti istituzionali (KLEINMAN A. 1980). La proposta di Kleinman è ben lontana da quella di Press, individuando proprio nella pluralità di risorse una caratteristica dei sistemi medici. Come notavamo con Ziniga Valle: «Questi settori sono “arene” sociali in cui vengono esperite le malattie e si attuano le risposte per risolverle e allo stesso tempo costituiscono un terreno fertile per il rimescolamento e la sintesi dei saperi medici. In questo modello è fondamentale la conte-
stualizzazione sociale e culturale dei livelli locali in cui sono operativi i sistemi medici, in quanto i “modelli esplicativi” — ossia i saperi medici originali dei terapeuti, professionali e tradizionali, e quelli degli utenti-pazienti relativi all’eziologia, alle sintomatologie, alla fisiopatologia, al decorso e al trattamento delle malattie — sono culturalmente determinati.» (SCHIRRIPA P. - ZUNIGA VALLE C. 2000: 214)
Una simile attenzione alla pluralità di risorse terapeutiche si ritrova anche in Benoist (BENOISTJ. 1993, BENOIST J. cur. 1996). Nella sua pratica etnografica Benoist predilige i contesti creoli, cioè quelle società in cui diverse tradizioni — non solo terapeutiche — convivono una a fianco all’altra trovando momenti di sintesi creativa. In questi contesti egli insiste sull'unità strutturale del sistema medico che è visto come: « [...] uno spazio dove le piante si fanno simboli, gli dèi medicine, i rituali trattamenti e le promesse vaccini ... spazio dove anche la medicina moderna, l’assistenza sociale, la TAC e gli antibiotici hanno il loro spazio incontestato ... ma dove queste si adeguano a quelle venute dalla tradizione completandole» (BENOIST J. 1993: 148).
Un sistema medico plurale perché prodotto storico di storie particolari, ma soprattutto figlio di specifici rapporti sociali. Studiando le società creole, Benoist vuole interrogarsi direttamente sulle dinamiche, sociali e culturali, attraverso cui “il plurale prende forma”, in cui le stesse forme terapeutiche diventano sia strumenti di definizione dell’identità che luogo di scambio fra tradizioni differenti (BENOISTJ. cur. 1996). Qui diventa centrale la metafore dell’incrocio, del crocicchio, del luogo in cui tradizioni differenti si incontrano. Questi incroci sono continuamente attraversati da pazienti — che scel-
gono anche tradizioni di cura differenti dalla propria per arrivare alla guarigione dando così vita a un incessante movimento da una tradizione all’altra, poiché la pluralità di regole, di logiche e di pratiche terapeutiche, vengono attraversate dagli individui che nel loro percorso di cura si rivolgono a più risorse terapeutiche — ma anche dai terapeuti, diventando così luoghi in cui diverse tradizioni terapeutiche (tra cui va catalogata anche la biomedicina) si incontrano. Ciò da vita ad interessanti “incroci” di pratiche terapeutiche che rendono sempre più impure le singoli tradizioni.
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La dimensione del potere, nell'indagine sui sistemi medici, diventa centrale in Fassin, tanto da rimettere in discussione la stessa nozione di sistema medico (almeno nell’accezione tassonomica di Press): « [...]la nozione di sistema medico non può, da un punto di vista euristico, dar conto
di realtà complesse in cui convivono diverse tradizioni di cura. Partendo dalla sua ricerca sul campo in una danlieue di Dakar, Fassin (FASSIN D. 1992) mette in discussione un tentativo di classificazione dei sistemi medici basati sull’asse tradizionale/moderno, così come anche rende più sfumate le differenze tra i diversi sistemi medici, mettendo in luce come vi siano zone di convergenza e sincretismi. Partendo dal punto di vista degli attori sociali, in particolar modo dei terapeuti, egli sottolinea come in situazioni di pluralismo medico — marcate anche dai processi di legittimazione della medicina tradizionale — si assista ad una continua rinegoziazione del ruolo sociale dei terapeuti che li riposiziona continuamente su diversi livelli del campo complessivo dell’offerta terapeutica» (SCHIRRIPA P. - ZUNIGA VALLE C. 2000: 217-218)
Gli autori appena presi in considerazione accettano la sfida dell’analisi di un sistema medico plurale, sottolineando come il suo “farsi plurale” ci costringa a rendere conto delle dimensioni dei rapporti sociali e di potere. In questa prospettiva ad esempio Rance Lee, discutendo del sistema medico cinese, sottolinea i rapporti ineguali, ancorché complessi, che esistono all’interno di un sistema medico plurale, sostenendo che si debba parlare — nel suo caso particolare nel contesto cinese, ma naturalmente è un discorso che può essere applicato anche altrove — di una “superiorità strutturale” della biomedicina, dovuta al suo maggior potere economico e politico e al conseguente prestigio sociale. Di contro, e complementare a ciò, sarebbe il “potere funzio-
nale” delle medicine tradizionali, cioè la loro grande diffusione sul territorio e il loro utilizzo da parte di ampie fasce delle popolazioni (Lee R.P.L. 1982). Il sistema medico plurale comunque non è un insieme armonico: in esso trovano espressione conflitti che attraversano le società, così come al suo interno i
differenti attori sociali competono per le risorse e rinegoziano le loro posizioni. Prima di renedere conto di un’ultima posizione, è necessario fare una bre-
vissima digressione per introdurre il paradigma teorico della dipendenza. Tale teoria, che si è sviluppata principalmente sulle analisi dell’America latina e in opposizione alle teorie funzionaliste della modernizzazione, insiste sul fatto che il sottosviluppo politico ed economico dei paesi del “terzo mondo” e l’alta accumulazione di capitale da parte dei paesi più ricchi siano il risultato delle relazioni ineguali sviluppatesi storicamente, che hanno visto i secondi dominare sui primi. Partendo da queste premesse diversi autori hanno insistito sul concetto di articolazione dei modi di produzione}. L'idea di fondo è che nello sviluppo di una società i modi di produzione non si rim-
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piazzino l’un l’altro, quanto invece coesistano, sia pur in posizioni asimmetriche. Un nuovo modo di produzione può imporsi — può stabilire il suo predominio — mentre il vecchio modo di produzione si riproduce in una posizione subalterna. In altre parole il modo di produzione capitalista non ha distrutto i vecchi modi di produzione tradizionali: i due sistemi coesistono, benché l’uno sia egemonico e l’altro subalterno, determinando in tal modo uno sviluppo del sistema capitalistico ben diverso da quello che si è storicamente affermato in Occidente. In ogni caso, le relazioni di coesistenza non sono solo diseguali, ma sono anche relazioni di conflitto e lotta: nel suo riprodursi, il modo di produzione tradizionale tende a porre limiti e barriere alla
penetrazione capitalista. Alcuni autori ghanesi (QUAYE R. 1996, OWOAHENE-ACHEAMPONG S. 1998),
hanno tentato di leggere attraverso tale teoria il sistema medico ghanese. In maniera
fin troppo
meccanicistica
ambedue
gli autori, ma
soprattutto
Owoahene-Acheampong, hanno insistito sul fatto che la coesistenza dei modi di produzione si accompagna alla coesistenza di diverse concezioni generali del mondo che, tra le altre cose, danno vita a diversi sistemi di cura: quello biomedico e quello tradizionale. Questi due sistemi coesistono e competono. Non vi è dunque l’immagine di una medicina tradizionale destinata a soccombere con l’avanzare di nuovi assetti sociali, quanto piuttosto l’idea che anche nel campo delle terapie vengono posti limiti alla penetrazione del sistema dominante e messe in atto pratiche di resistenza. La tesi, ripeto, è fin troppo meccanicistica e non tiene conto di tutte le necessarie mediazioni analitiche che ci consentono di passare dal piano dei modi di produzione a quelle delle forme ideologiche e della produzione simbolica. Quel che è però interessante è che anche in questo caso il sistema medico, visto come l'insieme delle risorse di cura presenti in una data società in un preciso momento storico, è un luogo di competizione tra diversi soggetti che stanno in posizione asimmetrica, ed in cui i dominati mettono in campo pratiche di resistenza. Pur se da prospettive teoriche differenti, molti degli autori che ho citato sottolineano come un sistema medico plurale sia un luogo gerarchizzato di competizione tra attori sociali che stanno in posizione asimmetrica. Competizione che dà luogo, se seguiamo Fassin, a una continua rinegoziazione dei ruoli sociali. Credo che in questa prospettiva possa risultare utile il concetto di campo di Bourdieu. In diversi saggi il sociologo francese (ad es. BOURDIEU P. 19714,
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19715, 1995 [1994]) ha definito il campo come un sistema di relazioni che dipende ad ogni momento dai rapporti di forza esistenti al suo interno. È nel rapporto tra i diversi agenti che si generano il campo e i rapporti di forze che lo caratterizzano. Il campo, secondo Bourdieu, si presenta come dotato di
una struttura gerarchizzata che si articola sulla base di posizioni dominanti e dominate, che devono la loro posizione alla distribuzione di capitale (simbolico, sociale, ecc.). Il campo non è una struttura statica, ma invece un luogo di lotte per conservare e trasformare le posizioni e le relazioni al suo interno. Nei prossimi capitoli proporrò un’analisi del sistema medico ghanese visto come campo di forze.
2. La “medicina tradizionale” in questione Volendo render conto dei processi e delle dinamiche che investono oggi la medicina tradizionale, occorre preliminarmente interrogarsi su quale sia il
significato e quale il campo di pertinenza di questo termine. Di più, occorre chiarire come esso si sia costruito, e in opposizione a cosa. In effetti nella definizione di “medicina tradizionale” si sono abbracciati, di
volta in volta, pratiche e saperi affatto diversi. Sarebbe infatti più corretto parlare di “medicine” e di “saperi terapeutici”, dove l’uso del plurale servirebbe a meglio sottolineare l’estrema varietà di pratiche simboliche ed empiriche che caratterizzano le concezioni e le classificazioni delle malattie, i com-
portamenti atti al mantenimento della salute e le azioni di cura nelle diverse culture e, spesso, all’interno di ogni singola cultura. Il termine “medicina tradizionale”, per come esso è usato nei testi ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità, e non solo, tende a conglobare
pratiche e saperi perfino opposti tra loro nelle caratteristiche fondamentali. Ad esempio vi si comprendono saperi terapeutici che si basano su tradizioni scritte, come la medicina tradizionale cinese o quella ayurvedica, oltre ai saperi delle culture africane, oceaniane ecc., che fino a non molto tempo fa,
e per molti versi anche oggi, erano trasmessi oralmente. Non c’è bisogno di scomodare Goody per trarre qualche conclusione rispetto alla profonda differenza che caratterizza saperi che poggiano sulla sanzione di un corpus scritto e quelli che invece vengono trasmessi oralmente. Il carattere stesso della trasmissione orale permette infatti a questi ultimi di essere più fluidi, di avere confini incerti e soprattutto di essere soggetti a mutamenti e variazioni indi-
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viduali, spesso anche profondi, che risultano più difficili dove esista una codificazione scritta di riferimento. Se prendessimo come punto di riferimento per la classificazione dei saperi terapeutici proprio la dicotomia scrittura/oralità, saperi quali quelli della medicina cinese e ayurvedica si troverebbero sullo stesso lato della biomedicina ed opposti a quelli delle culture a trasmissione orale. Eppure essi sono stati spesso accomunati sotto l’etichetta di “medicina tradizionale”, ed è solo una ventina di anni fa che si sono sot-
tolineati gli elementi che li oppongono e li contraddistinguono (HAKIM M.S. 1982). In un suo articolo, Dozon (DOZON J.-P. 2000 [1987]) evidenzia il fatto che l’espressione “medicina tradizionale” deve essere vista come un contenitore che consente di riunire sotto la stessa etichetta pratiche e saperi eterogenei, che risultano pensabili unitariamente solo se visti come opposti alla biomedicina. In tal modo l’espressione “medicina tradizionale” tradisce una connotazione ideologica e simbolica dei saperi terapeutici non occidentali, nel senso che essi vengono opposti alla biomedicina in quanto considerati come un insieme di pratiche ancestrali spesso di carattere non razionale, impermeabili all’esperienza e poco disposte al mutamento*. Per converso la biomedicina viene caratterizzata come razionale, in perpetua evoluzione e soggetta ai criteri della
verificabilità e della falsificabilità. Accennerò solamente al fatto che una tale posizione risulta impropria e in senso rigoroso inaccettabile. Diversi autori sottolineano i caratteri di adattabilità e di plasmabilità propri dei saperi terapeutici non occidentali? (ad es. LANDY D. 1974; OPPONG A.C.K. 1989); allo stesso tempo da più parti vengono messi in luce gli aspetti simbolici, o comunque non riconducibili ad un atteggiamento logico-razionale, rintracciabili nella nostra biomedicina (LOCK M. - GORDON D. curr. 1988). Gli studi antropologici hanno spesso sottolineato come la biomedicina sia essa stessa un sistema culturale e che, al di là della sua pretesa di oggettivante naturalità, debba essere studiata appunto come sistema culturale (ad es. KLEINMAN
A. 1978, GOOD B. J. 1999 [1994]). Nota ad esempio Giovanni Pizza: «[...] Gli studi antropologici hanno elaborato un modello di “sistema culturale biomedico”, fondato su alcuni “assunti di base” che caratterizzerebbero l'ideologia scientifica della biomedicina: i principi epistemologici e gli stessi “fatti” scientifici su cui la biomedicina si fonda non sono considerati “naturali”, indiscutibili e non criticabili, ma sono esaminati come assunzioni ideologiche di cui è possibile ripercorrere la genesi e lo sviluppo storico-culturale» (PIZZA G. 2005: 128).
Proprio discutendo del testo di Gordon e Lock prima ricordato, Pizza aggiunge:
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«[...] Gli attributi di scientificità, razionalità e verità della biomedicina fanno riferi-
mento a una retorica identitaria, cioè a un discorso che intende fondare e legittimare un'ideologia occidentalista, connessa alla costruzione di una “identità”, di una “appartenenza” e di una “tradizione” strutturata su alcuni assunti filosofici: in primo
luogo, ad esempio, l'immagine del corpo separato dalla mente.
La dicotomia
corpo/mente si costituisce come generatrice di altre separazioni: razionale/irrazionale, materiale/simbolico, vero/falso, naturale/culturale e così via. Queste dicotomie
hanno la funzione di definire ideologicamente l’identità della biomedicina separandola da altri ambiti: la biomedicina, cioè, tende ad autorappresentarsi attraverso un’identificazione con la razionalità e la verità» (PIZZA G. 2005: 128)
Queste ultime considerazioni ci consentono di ritornare alle connotazioni ideologiche delle medicine tradizionali. In effetti tradizioni e pratiche così differenti tra loro possono essere messe insieme in uno stesso contenitore proprio perché connotate come “irrazionali”, “operanti su un piano simbolico”, “false” e così via, connotazioni in contrasto con quelle che si vogliono attribuire alla biomedicina, che viene vista infatti come come “razionale”,
“operante sul piano della materialità”, “vera” ecc. La connotazione ideologica implicita nell'espressione “medicina tradizionale” può essere vista — pur con valenze diverse da quelle cui facevo riferimento sopra — anche nella politica sanitaria e culturale dei governi africani. Infatti in questo caso l’uso dell’espressione “medicina tradizionale” si riferisce a quell'insieme di pratiche che rientrano in un più ampio bagaglio culturale proprio di ognuno dei popoli che abitano il continente. Difendere e legittimare l’uso della medicina tradizionale, così come oggi vanno facendo molti governi africani, può apparire senz’altro un atto meritorio e che si inse-
risce in una più generale politica di difesa e rivalutazione delle tradizioni culturali africane, ma esso risponde principalmente ad interessi politici e ideologici abbastanza evidenti. La legittimazione delle pratiche terapeutiche tradizionali assume un senso che travalica il solo ambito delle politiche sanitarie. Nelle pratiche di legittimazione e diffusione della medicina tradizionale, vi è infatti implicito il rimando alla volontà di una più ampia difesa delle identità culturali dei popoli africani che vengono presentate in questo caso come messe in crisi e disgregate durante il periodo coloniale e oggi ancor di più a causa del tumultuoso mutamento sociale e culturale. Tale difesa diventa un’arma ideologica capace di creare consenso politico. In questo contesto la rivalutazione della medicina tradizionale fa sì che essa venga connotata, sempre in contrasto con la biomedicina vista stavolta come medicina universalista, come “pura”, “autentica”, “propriamente africana”. Insomma, attra-
verso la rivalutazione della medicina tradizionale si fanno passare più ampi
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discorsi il cui immediato messaggio politico è quello della difesa della pura cultura africana e dell’orgoglio per i propri portati culturali, minacciati dall’occidentalizzazione. È evidente come ciò possa creare consenso politico. La medicina tradizionale si configura dunque, non solo come un insieme di pratiche terapeutiche, ma anche come un costrutto ideologico che, per i suoi tratti di “purezza culturale” e di richiamo alle “tradizioni originarie”, è atto a creare consenso e legittimazione.
La “tradizione” è stato un oggetto privilegiato delle analisi degli antropologi, che nelle loro etnografie, mi riferisco ovviamente a quelle classiche, hanno privilegiato la ricostruzione delle culture “tradizionali”, cioè di culture per come si supponeva esse esistessero prima del disgregante contatto con l'Occidente. Si tratta di una visione oggi ampiamente superata di cui il dibattito recente ha ben messo in luce i limiti euristici, e non solo. Proprio riflet-
tendo sulla “fase classica” della Missione etnologica italiana in Ghana, Mariano Pavanello si pone il problema di come tale “tradizione” si sia costruita nel lavoro etnografico: «L'etnografia prodotta da Grottanelli e dalla Missione etnologica italiana in Ghana aveva lo scopo di ricostruire la cultura nzema. E nel perseguire questo scopo, operava in base alle “norme classiche” di un’osservazione oggettivista. Una cultura nzema, come totalità definibile e distinta, è un oggetto abbastanza improbabile. Cosa osservavano allora i nostri predecessori ad Apollonia? Fatti, discorsi, comportamenti. La qualificazione della rappresentazione di un tale insieme di fenomeni come “cultura nzema” era semplicemente un modo di dare a ciò che si scriveva di quello che veniva osservato una forma credibile — ed accessibile — alla comunità scientifica occidentale. In tal modo, la “cultura nzema” aveva diritto di cittadinanza nel quadro della conoscenza antropologica. E così la “cultura nzema” poteva essere qualcosa di definito nel tempo e nello spazio, con una specifica fisionomia ed articolazione. Qualcosa che, pur avendo certamente una storia, veniva fatto emergere da un passato sconosciuto, come un'eredità più o meno immutata, appena in tempo prima del suo inevitabile sgretolamento, dovuto all’invadenza della modernizzazione. Si trattava, in una parola, di una
“cultura tradizionale”, e il compito dell’etnologo era percepito, in buona misura, come la ricerca dei tratti e degli elementi “tradizionali”, nel senso di preesistenti all’incontro con l’uomo bianco. Oppure, degli elementi in trasformazione sotto la pressione dell'Occidente. Chi decideva della natura “tradizionale” degli elementi era l’etnologo. Ma la nozione di tradizione veniva data per scontata, ed era realmente costruita sull'idea - piuttosto vaga — che in Occidente ne abbiamo noi. Nel caso specifico, “tra-
dizione” e “tradizionale” erano riferiti al passato precoloniale, e la presunta “tradizione” era presentata come un insieme necessariamente lacunoso, di pratiche in parte esotiche e in via di sparizione, come la stessa matrilinearità, o come le cerimonie di iniziazione delle ragazze puberi, o i culti asonww con il loro corredo di statuette e altari»
(PAVANELLO M. 2000: 176-177) Continuando il suo discorso, Mariano Pavanello discute in maniera feconda
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di come il recente dibattito antropologico, e non solo, abbia riconsiderato il problema della tradizione riferendosi a quanti, come Hobsbsawm e Ranger hanno insistito sul suo carattere costruito, inventato (HOBSBAWM E.J. RANGER T. curr. 1987 [1983]); o su chi, seguendo più o meno direttamente una tradizione cognitivista, abbia visto il problema nell’ottica del rapporto fra tradizione e memoria (BOYER P. 1990), o ancora riferendosi alle riflessioni di Carlo Severi sui meccanismi di trasmissione (SEVERI C. 1993). È chiaro dunque che riferendomi ad un termine quanto mai spinoso come quello di “medicina tradizionale” debba se non altro dar conto di come io lo voglia intendere. Ho già detto più sopra dei differenti connotati ideologici che esso può assumere nei contesti locali. È in quest'ottica che, nel mio lavoro, intenderò la “medicina tradizionale”. Voglio dire che essa non sarà indagata come insieme di pratiche che in qualche modo, e in una forma più o meno coerente, sono sopravvissute all’avanzare dell’occidentalizzazione. Né,
tantomeno, indagherò sulle forme di trasmissione di particolari pratiche terapeutiche che la tradizione antropologica ha inteso come “tradizionali”. La medicina tradizionale in Ghana è un qualcosa di magmatico, in continuo divenire e dai confini incerti. Ma essa oggi è soprattutto un costrutto ideologico che nella competizione entro il campo di forze delle terapie, ma anche in differenti e più ampi piani, rappresenta un capitale simbolico da utilizzare. È dunque in questa prospettiva, che potremmo definire latamente politica, che discuterò della
“medicina tradizionale”.
3. L’ antropologia medica e le antropologie del mutamento in Africa
L'analisi del mondo coloniale, così come più in particolare delle dinamiche socio-culturali proprie dell'incontro fra tradizioni terapeutiche diverse, non è certo un campo nuovo per l'antropologia africanista. Al contrario, si tratta di un campo vasto la cui storia è per molti versi ben conosciuta. Rimanendo nei limiti dell'argomento di questo saggio, vorrei soffermarmi a tratteggiare brevemente due prospettive che risultano più attinenti all’analisi che qui propongo. In primo luogo gli studi che hanno affrontato le dinamiche sincretiche nel contesto coloniale. In seguito, quegli studi che si sono occupati specificamente della diffusione della biomedicina nel periodo coloniale e dei suoi rapporti con il potere coloniale e con le medicine tradizionali. Per quel che riguarda gli studi di carattere più generale, c'è chi ha messo in
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luce principalmente i fenomeni di adattamento e di osmosi o scambio, e i fenomeni sincretici. Si tratta di un approccio che, nell’antropologia africanista, si è affermato fin dagli anni ’50 — con la scuola di Manchester e l’antro-
pologia dinamista — e il cui grande merito è stato quello di focalizzare le ricerche sul mutamento in atto in Africa e sui rapporti di potere, tra colonizzatori e colonizzati, che si venivano a instaurare®. Il grande merito di tale approccio è stato senza dubbio quello di fare i conti con la tradizione funzionalista, e con l’idea — che da tale scuola discendeva — delle società, allora dette tribali, come insiemi coerenti ed equilibrati, ben sintetizzata dalla meta-
fora struttural-funzionalista della società come organismo. Senza dubbio emerge una visione più complessa dei rapporti nel mondo coloniale, e viene costruita una immagine delle società indigene che cerca di render conto di conflitti e dinamiche endogene. Effettivamente però in tale prospettiva, tuttora operativa, si incontrano
approcci e sguardi differenti per tenore, metodi e orizzonti analitici. Pur concentrandosi infatti su quanto si è scritto in questi ultimi anni sui fenomeni sincretici, i diversi autori sembrano privilegiare prospettive differenti che, a mio avviso, sono legate a specifiche, e spesso contrastanti, visioni del mondo coloniale?. Da una parte vi è chi, nel solco della tradizione dinamista, ha saputo coniu-
gare una forte attenzione verso i sincretismi e le novità indotte dalla situazione di dominio coloniale con una forte consapevolezza della necessità di render conto della storicità delle società indigene e delle dinamiche sociali loro proprie. Un ottimo esempio a questo proposito ci viene da un volume di Dozon (DOZON J.-P. 1995) dedicato non al contesto terapeutico, ma a quello, per molti versi contiguo, delle religioni sincretiche. L'analisi dei profetismi della Costa d'Avorio è compiuta attraverso un’ampia prospettiva storica. Quello che emerge è una lettura del fenomeno che tiene conto dei complessi rapporti che nella società coloniale si intessevano tra profeti, popolazioni locali e potere coloniale. La tradizionale dicotomia tra potere coloniale e mondo indigeno sottomesso lascia il posto a immagini più composite di quella società. I profetismi nascono e si sviluppano in una situazione dinamica fungendo da strumento della lotta di classe interna al mondo indigeno e intessendo rapporti ambivalenti con il potere coloniale prima, e con il potere politico della Costa d'Avorio indipendente poi. Altri studi però, pur se incentrati anch'essi sull’analisi dei sincretismi, riposano su una diversa concezione dei rapporti di potere nelle società coloniali, in
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cui i soggetti colonizzati sono visti come oggetti pressoché inerti della dominazione economica e culturale occidentale. Poca attenzione è rivolta alle dinamiche sociali precedenti la conquista coloniale e, più in generale, ai complessi rapporti che si intessevano tra i diversi soggetti della società coloniale. Un tale approccio — specie nei contributi più recenti dedicati ai mutamenti nei sistemi terapeutici locali - sembra tenere poco in conto le dinamiche endogene di mutamento, concentrandosi principalmente sui mutamenti esogeni, dovuti all’impatto della conquista coloniale. Sembra insomma che l’antropologia africanista — quando analizza il mondo coloniale — tenda a schiacciare la storia su un “prima della colonizzazione”, in cui il mutamento e più in generale le dinamiche sociali sono in realtà poco presenti e in cui prevale una visione di tali società come società in equilibrio, e un “dopo la colonizzazione”, in
cui invece l’accento è posto sulle contraddizioni, i conflitti e imutamenti8. I rapporti entro il mondo coloniale — anche quando ciò non viene esplicitamente affermato — sono visti come “unidirezionali”. È solo il mondo indigeno ad essere messo in crisi dalla nuova situazione cui si deve adattare. In qualche modo l’attenzione verso gli elementi di mutamento è concentrata sul mondo indigeno, e gli stessi processi di sincretismo sono visti all’interno di un processo di “modernizzazione” che altro non è che un approssimarsi al modello occidentale.
Per quel che riguarda i sistemi sanitari locali, tale prospettiva evidenzia, da una parte, il loro disgregarsi e, dall’altra, l’incorporazione di elementi del modello biomedico occidentale. Anche il processo di professionalizzazione viene da taluni analizzato con questa griglia interpretativa (un esempio tra i tanti possibili: OPPONG A.C.K. 1989). Sono evidenti i limiti euristici di tale approccio che, non conferendo la giusta importanza alle dinamiche endogene delle società indigene, non riesce a restituire in maniera adeguata la complessità del mondo coloniale compromettendone così l’analisi. Tale approccio ha ricevuto le critiche diJean e John Comaroff (COMAROFF]. - COMAROFF J.L. 1993: XII-XIII) i quali hanno visto nell’idea della modernizzazione come un approssimarsi al modello occidentale, un residuo forte
dell’approccio evoluzionista. È innegabile che una tale idea tende a schiacciare le differenze locali, e soprattutto le tante declinazioni della modernità, entro un quadro di progressiva omogeneizzazione di dubbia utilità euristica. Condivisibili anche le critiche che John Comaroff (COMAROFF J.L. 1984), in una rassegna critica su alcuni approcci dell’antropologia africanista, muove rispetto al problema della storicità delle società indigene africane:
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«Non è soddisfacente rispondere a tale questione [sulla storicità delle società africane] situando la storicità dei sistemi africani nel contesto esogero, in relazione al quale essi si sono realizzati nel periodo coloniale. Tale soluzione — patrocinata principalmente, ma non solamente dalla grossolana teoria della dipendenza —, dava all'Africa la sua storia semplicemente nella misura in cui questa fosse sotto l’egida dell'Occidente: un’assurdità empirica. Di più, la considerazione dei sistemi indigeni come oggetti inerti della penetrazione capitalista mette in crisi la dialettica della loro interazione con il contesto globale» (COMAROFF J.L. 1984: 573).
Pur se tali critiche non riguardano direttamente gli studi incentrati sui siste- . mi sanitari, danno il senso di quali siano i limiti di operazioni euristiche quali quelle cui mi sono riferito finora. Fin qui ho brevemente illustrato gli studi incentrati principalmente sull’analisi dei sincretismi. Vi è una seconda prospettiva di analisi che si è principalmente concentrata, più che sui sincretismi, sulla diffusione della biomedici-
na nel continente africano. In tale prospettiva vengono riuniti due approcci tra loro profondamente diversi. Il primo, tutto sommato abbastanza semplicistico, si concentra sulla diffusione della biomedicina in una visione ingenuamente ottimistica, in cui a tale diffusione corrisponderebbe, in maniera quasi automatica, un avanzamento
nello stato di salute e benessere delle popolazioni?. Il secondo approccio, che si fa forte di una più complessa prospettiva storica, guarda alla biomedicina come ad uno degli apparati di potere e di controllo, sui corpi e sui territori, delle società capitalistiche!°. Dunque la sua diffusione nel continente africano viene analizzata entro una più vasta prospettiva in cui l’imporsi del sistema sanitario basato sulla biomedicina è visto come una parte fondamentale del disporsi dell'apparato di dominio e di controllo del mondo occidentale in Africa. Ciò che viene messo in risalto in questo caso è il ruolo che la biomedicina ha assolto nel contesto dell’espansione coloniale in un primo momento, e del suo consolidamento successivamente. A tale approccio si possono ascrivere studi quali quello di M. Vaughan (1991), J. Comaroff - J. L. Comaroff (1992),J.Comaroff (1993), A. Butchart (1997) e J.McCulloch (1995). In tali studi prevale una prospettiva di tipo foucaultiano, basata innanzitutto sul ruolo che la biomedicina ha assolto come dispositivo del biopotere. C'è da dire che comunque l’idea di trasferire l’ipotesi foucaultiana in Africa è criticata però da Vaughan e McCulloch, i quali insistono piuttosto sul fatto che in Africa l'ospedale e, più in generale, le istituzioni della biomedicina non hanno assolto la stessa funzione che in Occidente. Entrambi incentrano la
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loro posizione sulla diversa natura dello Stato per come si è storicamente sviluppato in Europa e del potere coloniale. McCulloch soprattutto insiste sul carattere prettamente repressivo e militare delle istituzioni coloniali, almeno fino agli anni i ’30, sostenendo che il quel periodo gli stati coloniali rispondevano più all’idea di stato repressivo di alcune analisi leniniste, che a quello di meccanismo di organizzazione del consenso e del potere che si può rintracciare invece nella concezione gramsciana. Certamente queste critiche hanno del vero, anche se non sono sufficienti a negare completamente l’ipotesi della biopolitica. Il loro punto debole è di non tenere abbastanza in conto l’evoluzione politica delle istituzioni coloniali. In un paragrafo discuterò proprio dello sviluppo della biomedicina in Ghana. In effetti appare evidente come vi siano stati diversi aggiustamenti, quando non veri e propri mutamenti, di prospettive e di strategie.
Se la concezione di istituzioni coloniali meramente repressive, viste quasi come apparati militari, ha un suo senso nella prima fase della colonizzazione, essa rivela i suoi limiti se ci si concentra su quanto è avvenuto più avan-
ti. Penso ad esempio al ruolo svolto dalla psichiatria coloniale, primo fra tutti da Carothers, così magistralmente indagato da McCulloch (MCCULLOCH J. 1995). Sarebbe riduttivo pensare al suo ruolo come parte di un dispositivo repressivo e di controllo poliziesco dei nativi. In realtà, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’30, le cose si fanno più complesse, e ci si pone apertamente il problema della gestione dei nativi che, d’altra parte, si intreccia con quello della loro “promozione” a cittadini dell'impero coloniale. Da questo punto di vista ancora McCulloch, nel saggio già citato, scrive pagine fondamentali analizzando uno dei testi fondanti dell’etnopsichiatria (per quanto si tratti per molti etnopsichiatri contemporanei di una filiazione imbarazzante!!), cioè The African mind in health and disease di Carothers (CAROTHERS J.C. 1953). McCulloch sottolinea come questo testo non sia solo il manifesto di una psichiatria differenzialista e razzista, che vuole trovare le ragioni della diversità (e dell’inferiorità) della mente africana nell’anatomia,
ad esempio il minor volume dei lobi frontali; nell'ambiente, cioè le precarie condizioni di vita imposte da un ambiente ostile; e in ultimo nel differente tipo di civiltà, da cui hanno origine quello stress e quello shock culturale indotti non da problemi sociali, quali l’inurbamento e la marginalizzazione economica delle popolazioni indigene, quanto invece dalla difficoltà di adattarsi culturalmente alla “modernità” occidentale. Il testo di Carothers dice tutto ciò, e così è stato spesso letto, ma in realtà si pone anche domande di
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tipo diverso. Prima fra tutte la questione se gli africani, per ciò che emergeva dall'analisi delle loro menti sane e malate, potessero diventare nel corso del tempo dei bravi sudditi di sua maestà britannica. Se cioè i “vizi” africani (quelli che oggi leggeremmo come forme diverse di resistenza all’autorità coloniale) potessero essere eradicati e sostituiti dai valori dell'Occidente capitalista. In breve, il testo di Carothers pone in forma chiara il problema della cittadinanza e delle sue condizioni, e al contempo è una riflessione su come esercitare non gli strumenti repressivi ma quelli dell’egemonia culturale. Il problema dunque non è più tanto quello del controllo poliziesco, quanto quello del consenso. I primi decenni del XX secolo sono il periodo in cui la politica sanitaria nell'Africa coloniale gradualmente muta. È il momento in cui giunge a termine la fase di forte separazione tra spazi dei colonizzati e spazi dei colonizzatori, come modo di contenere il “potenziale epidemico” dei neri, i cui corpi, visti come ricettacolo di disordine sociale e morale, erano
veicolo di malattie e infezioni. Emblema di ciò era la politica segregazionista che prevedeva la limitazione della frequentazione dei quartieri europei ai colonizzati (ADDAE S. 1997:33). Come si vedrà meglio più avanti, una tale politica lascia il passo a una idea di gestione più complessa dei territori, del loro utilizzo, della loro sistemazione igienica, e soprattutto del controllo e della disciplina dei corpi dei colonizzati. È qui che i concetti foucaultiani, come del resto quelli gramsciani, diventano centrali.
Note ! Sebbene ciò esuli da quanto si sta qui discutendo, è bene precisare il senso che termini quali #//ness e disease hanno assunto nel dibattito antropologico. La triade di termini inglesi illness/sickness/disease, è stata infatti usata nell’antropologia medica, principalmente di stampo anglosassone, per rifersi alle differenti prospettive con cui è possibile guardare il fenomeno malattia. Sebbene vi siano accezioni in parte diverse, e soprattutto un diverso peso che i differenti autori danno ai tre termini, si può in linea di massima dire che il termine #//ress si riferisce allo stato di malattia per come esso è percepito e vissuto dal paziente e da chi gli sta intorno, il termine sickness invece viene usato in riferimento alle determinanti macrosociali degli stati patologici e più in generale a ciò che si può definire come l’ambito sociale del riconoscimento dello stato patologico e della sua cura, infine disease indica lo sguardo biomedico, cioè lo stato di malattia nella sua organica oggettività. Il dibattito su tali termini e le loro accezioni è ampio; un buon resoconto, soprattutto per quel che riguarda il suo svolgimento nrell’antropologia medica nordamericana si trova in YOUNG A. 1982. Recentemente, Tullio
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Seppilli ha proposto una revisione critica e un affinamento di tale griglia «[...] il termine
malattia si riferisce ad almeno cinque “condizioni”, ognuna che si pone su di un differente piano e che sottolinea diversi processi di identificazione e risposta: (4) una malattia “oggettiva”, per come essa viene definita dalla medicina scientifica occidentale (disease), che può esse-
re soggettivamente percepita o meno come “disturbo”, o anche può essere considerata solo come un “rischio” nei confronti del quale possono essere poste in essere alcune procedure di
prevenzione; (5) la percezione soggettiva di una malattia in corso (;/less 1); (c) l’interpreta-
zione del paziente, basata sul suo universo culturale e sulle relative esperienze emozionali; (4//ness 2); (d) le reazioni sociali determinate dalla malattia e le sue conseguenze per lo status e il ruolo sociale del paziente (sickness); (e) la procedura diagnostico-terapeutica culturalmente predisposta in risposta a specifici casi e l'insieme delle aspettative, ruoli e procedure comportamentali in cui essa ha luogo (percorso terapeutico)» (SEPPILLI T. 2000: 40). 2. Cfr. COCKCROFT]. D. - FRANK A. G. - JOHNSON D. L. (curr.) 1972, UCHENDU V. C. (cur.) (1980). 3
Cfr. TAYLOR]J.C. (1983), van BINSBERGEN W., M. J. - GESCHIERE P. (curr.) (1985)
4. In realtà nessuna di queste caratteristiche si addice alle medicine indigene. Esse di norma presentano tratti di plasmabilità ed elasticità che consentono un forte grado di adattabilità anche di fronte a situazioni come quelle attuali, caratterizzate da mutamenti strutturali. Non bisogna neanche enfatizzare in maniera esclusiva l’aspetto simbolico, non razionale, di queste pratiche. Da più parti infatti si sottolinea come, accanto ad esso, trovino posto pratiche terapeutiche e soprattutto di mantenimento della salute (norme igieniche o di prevenzione) dettate da un atteggiamento empirico. Su questo tema, che esula dai limiti di questo saggio, cfr. JANZEN J. 1981 e la bibliografia inclusa. 5. Anchese spesso, come sottolinea Anyinam (ANYINAM C. 19872), si è troppo insistito, e in maniera troppo acritica, su caratteristiche quali la plasmabilità o l’adattabilità, anche da parte dell’Oms, favorendo prese di posizione ed atteggiamenti forieri di fraintendimenti. 6 Occorre sottolineare come anche in Italia, in quegli stessi anni, si ritrovano studi, specie in antropologia religiosa, che richiamano tale prospettiva e improntati ad una analisi dinamista dei sincretismi e più in generale delle società coloniali. Si vedano a questo proposito SEPPILLI T. 1953-54 e LANTERNARI V. 1960. Per una buona ricostruzione del dibattito su tali temi cfr. SEGRE E. 1977.
7? Vorrei precisare che in questa sede intendo occuparmi solo di come sono stati analizzati i rapporti entro il mondo coloniale e le dinamiche di acculturazione e sincretismo. Non farò dunque riferimento all’ampio e fertile dibattito che in questi anni si è sviluppato sui rapporti tra potere coloniale e la formazione del sapere antropologico (per una buona sintesi di tale dibattito cfr. tra gli altri STOCKING G. 1991, GOODY]J. 1995, APTER A. 1999). Allo stesso modo l’ampiezza della prospettiva che intendo evocare mi impedisce un’analisi per quanto breve dei vari contributi che, da Malinowski in poi (MALINOWSKI B. 1945) ci sono stati su tale tema. Si tratterebbe infatti di un lavoro che andrebbe ben oltre lo spazio e l'argomento di questo saggio. Mi limiterò pertanto a tratteggiare brevemente alcuni recenti lavori che più pertengono a quanto qui trattato. Per una buona analisi delle antropologie del mondo coloniale cfr. PELS P. 1997 e per uno sguardo più generale a come l’antropologia ha analizzato le dinamiche di
mutamento in Africa cfr. MOORE S. F. 2004 (1994). 8 Per una critica a tale modello, e più in particolare al concetto di “referente precoloniale” cfr. PALUMBO B. 1994.
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?. Per quel che riguarda il Ghana tale approccio è evidente in ADDAE S. 1997 e, per molti versi, in GALE T.S. 1995 e PATTERSON D.K. 1981.
10 È evidente quanto un tale approccio debba alle analisi di Foucault. Per una buona analisi degli usi di Foucault nelle etnografie mediche africaniste cfr. BUTCHARD A. 1997. Invece per una critica alla impossibilità di utilizzare l’ipotesi foucaultiana in Africa, nello specifico dei sistemi sanitari, cfr. VAUGHAN M, 1991 e MCCULLOCH J. 1995.
11 È quanto dice esplicitamente Roberto Beneduce quando nota come in genere si preferisca attribuire la prima definizione di etnopsichiatria a Georges Devereux, “dimenticando” che invece, più probabilmente, essa fu data proprio da Carothers. Questi comunque è fin troppo identificato con la psichiatria coloniale «[è] esplicitamente schierato dalla parte del dominio coloniale e troppo intriso dei pregiudizi razziali che ancora facevano da sfondo alla psichiatria di quegli anni [...] Chi vorrebbe un tale padre?» (BENEDUCE R. 1998: 20)
Capitolo quarto Il campo di forze delle terapie
1. Terapeuti “tradizionali”
1.1. Le medicine tradizionali nel Ghana contemporaneo Riflettere sulle trasformazioni della medicina tradizionale, presuppone che si faccia un quadro generale delle concezioni terapeutiche e dell’ideologia della malattia e della guarigione che si può oggi riscontrare in Ghana. Così come, volendo riflettere anche sulla figura e sul ruolo dei guaritori, è necessario tratteggiarne gli aspetti principali, pur se nella consapevolezza di quella fluidità di forme che caratterizza la medicina tradizionale. Oggi nel Ghana, come del resto nella gran parte delle società contemporanee, convivono — l’una di fianco all’altra — diverse tradizioni terapeutiche, ognuna con i propri sistemi di riferimento. Alcune hanno un'origine locale, altre - come ad esempio la biomedicina — sono state importate in seguito a complesse vicende storiche, altre infine sono frutto di continue contaminazioni e sincretismi fra le diverse tradizioni presenti. Come rendere conto, nella restituzione scritta della mia ricerca, di una tale
complessità? Il rischio maggiore è quello di tentare di fornire una sistematizzazione precisa che non dia a pieno il senso dei confini sfumati e fluidi fra una tradizione e l’altra, delle zone di interpenetrazione e di influenza reciproca. Infine vi è il rischio, quanto mai concreto, che una tale rappresentazione non riesca — se il suo obiettivo tende ad essere quello tassonomico della classificazione delle diverse concezioni — a dare il senso dei rapporti reciproci e delle linee di forza, delle pratiche egemoniche e di resistenza che tali rapporti hanno modellato. È un rischio che molti antropologi, che in questi anni si sono interessati alle medicine tradizionali africane, hanno notato con chiarezza. Penso ad esem-
pio a Fassin che — pur partendo da un'ottica specifica, ma comunque quanto mai centrale nell’analisi delle medicine africane, cioè quella della legittimazione del sapere terapeutico tradizionale da parte dei governi e delle grandi agenzie mondiali quali l'OMS — proprio sottolinea come possa essere limi-
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tante una prospettiva che si basi sulla rigida griglia tradizione/modernità: «Proponendosi di studiare le istituzioni terapeutiche in rapporto alla questione della legittimità bisogna tentare di dar conto della loro doppia dimensione: dialettica — i rapporti di potere tra l’autorità legale e l'autorità tradizionale, e la rinegoziazione permanente di questi rapporti tra gli attori — e storica — icambiamenti in corso che la classificazione in medicina moderna e medicina tradizionale, o qualsiasi altra tassonomia,
non permette di registrare —» (FASSIN D. 1992: 250).
Probabilmente l’illustrazione di figure concrete, inserite in precisi contesti storico-sociali, permetterà di dar conto di tutto ciò, ed è quello che farò nei prossimi capitoli. Credo però che, anche confrontandosi con le concezioni della malattia e dei processi di salute e malattia che la ricerca sul campo ha permesso di riscontrare, sia possibile dare il senso di tali complessità, a patto che si rinunci ad una rigida tassonomia per privilegiare un resoconto che dia maggior peso alle dinamiche di mutamento, di scambio e di aggiustamento. È difficile parlare della medicina tradizionale come di un corpus unico e strutturato di saperi e di pratiche. Innanzitutto, la pluralità di culture tradizionali presenti nel territorio ghanese fa sì che sia più giusto parlare di una pluralità di saperi medici tradizionali, anche se, nei loro principi costitutivi,
non sembra si possano rintracciare diversità di fondo tra le ideologie e le pratiche terapeutiche proprie di ogni gruppo. Voglio dire che la pluralità di saperi e di tradizioni terapeutiche non impedisce di poter ritrovare dei principi costitutivi, delle forme ideologiche e delle tecniche terapeutiche largamente condivise che permettono dunque di trattare il tema in maniera unitaria. Ciò anche in presenza di una pluralità di culture che comunque sono legate tra loro da un fitto reticolo di scambi e dialoghi che, come ci dicono gli storici, si dipana da secoli. Uno dei tratti comuni che permette di riunire diverse tradizioni terapeutiche è l’ideologia della malattia. È ormai un fatto accettato, negli studi sulle medicine tradizionali, che la concezione della malattia differisca in maniera sostan-
ziale da quella che si ritrova nella biomedicina. Che si faccia riferimento a sistemi governati da categorie “personalistiche”, nei quali cioè la malattia è dovuta a un intervento attivo di un agente umano (stregone, fattucchiere) o soprannaturale (spirito, dio, antenato); o governati invece da categorie “natu-
ralistiche”, nelle quali la malattia è imputata a un disequilibrio delle forze che regolano il corpo e l’universo (caldo/freddo, yîr/yang), per usare una non
troppo convincente dicotomia di Foster (FOSTER G.M. 1976)!. La malattia
presso gran parte dei popoli non occidentali non si presenta mai come un
evento fortuito; di più, essa è il segno di qualcosa d’altro, cioè di un incrinar-
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si di un ben più profondo equilibrio che trascende l'individuo e che investe la società o il cosmo. Per usare una felice espressione di Augé «i sistemi di interpretazione gestiti all’occasione da specialisti ma in linea di massima conosciuti, o quanto meno riconosciuti, da tutti fanno di ogni disordine biologico il
sintomo di un disordine sociale» (AUGÉ M. 1986 [1983]: 33). Tale concezione, per quel che riguarda lo specifico del Ghana, è stata già ampiamente descritta (LANTERNARI V. 1988, 1994; APPIAH-KUBI K. 1981). Lanternari soprattutto ha posto l’accento in più riprese su come non sia pos-
sibile scindere la malattia, evento concepito sempre in maniera causale e mai casuale, da un più vasto mondo dei valori, intesi come i concetti cardine su cui si poggia l’esistenza della società. La malattia anche per il noto studioso italiano non può dunque essere compresa al di fuori di questo più ampio contesto. Essa rimanda a qualcosa d’altro, ed è su ciò che gli specialisti interpellati dovranno intervenire. In breve, la spiegazione del male risiede, in molti casi, in precise cause di ordine “morale”, che il più delle volte coinvolgono la responsabilità della vittima o del suo parentado?. Essa è vista come l’effetto di una colpa dell’individuo o di un membro del suo gruppo parentale che ha infranto il giusto codice di comportamento sociale o ha omesso di tributare le offerte in onore degli antenati e degli spiriti (infrangendo così il corretto comportamento religioso). Altre cause dell’insorgere del male sono considerate uno stato di tensione nei rapporti sociali dell'individuo, o l’azione malefica di una strega o di un fattucchiere (si noterà come anche in questi casi si fa riferimento o a comportamenti antisociali, strega e fattucchiere, o ad una situazione di tensione
che può influire negativamente sull’equilibrio della comunità). Oltre ai fattucchieri e alle streghe, gli agenti che possono causare l’insorgere della malattia sono gli dèi e gli antenati; essi intervengono ogni qual volta sia violato l'ordine tradizionale. In altre parole ogni volta che viene trasgredita una norma di comportamento o infranto un tabu, puniscono il responsabile possedendolo e rendendolo in tal modo malato. Da questo punto di vista essi fungono da elementi che garantiscono il rispetto dei valori e dell'ordine da parte della comunità?. Di norma è compito del guaritore interpellato comprendere dove risieda la causa della malattia, cosa che egli farà attraverso la divinazione o interpellando gli dèi che lo possiedono. Il momento di individuazione della causa, che vede in genere presenti oltre al paziente alcuni membri del suo gruppo familiare, è fondamentale per il buon esito della terapia. Infatti non sco-
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prendo la causa profonda, cioè la colpa o l’attacco stregonico che sta alla base del disagio del paziente, ben poco risolutive saranno le cure. A volte la seduta divinatoria assume proprio l'andamento di un colloquio in cui il guaritore si informa di come si sia manifestata la malattia, di quali eventi siano
di recente avvenuti nella famiglia, di eventuali situazioni di tensione che potrebbero giustificare un attacco da parte di una strega o di un fattucchiere. L'esposizione minuziosa dei fatti, le risposte alle domande continue del guaritore, che ricevono via via conferma o smentita dal procedere della divinazione, permettono a poco a poco di isolare un evento, un fatto o molto più spesso un orizzonte di tensioni inespresse dentro il gruppo, che assume i contorni minacciosi di un attacco stregonico; a quel punto il terapeuta è
pronto per la sua interpretazione. La malattia è da imputarsi a questo o quest’altro evento. Lì inizierà il suo paziente lavoro di ricucitura di una comunicazione interrotta con gli antenati o di riappianamento di tensioni. Lavoro lungo e complesso che presenta molteplici fasi e che mai è uguale a se stesso. A volte sarà necessario sacrificare alcuni animali, fatto che può tradursi
anche in un costo molto elevato per la famiglia; altre, il paziente dovrà sottoporsi ad una serie di rituali atti a scacciare le influenze negative di un attacco stregonico. Ma nei casi più resistenti, molto spesso quelli dovuti a un dio che si ostina pervicacemente a molestare la sua vittima rendendola malata, si interverrà con rituali atti a esorcizzarlo, o più frequentemente volti a rappacificarlo con la sua vittima. In quest’ultimo caso essa inizierà una sua esperienza di convivenza con il dio, e i segni della malattia verranno letti allora
come segni di una vocazione, che la porterà ad intraprendere a sua volta la carriera di sacerdote-guaritore. Il cammino verso la guarigione è comunque sempre molto lungo e complesso. Si richiederanno diversi interventi da parte del guaritore. Del resto anch'egli nell’evolversi del caso potrà dare nuove interpretazioni, dirigere la cura verso nuove strade. Poiché la diagnosi, se pur tale nome può bastare a spiegare la seduta divinatoria, non è mai definitiva e «la malattia si svela nel corso della lotta con il terapeuta, che deve saperla stanare, smascherare, sop-
portare e vincere» (COPPO P. 1994; 42). Intraprendere la cura può significare per il paziente ripetute visite al comzpound del guaritore, molto più spesso soggiornare lì, sovente in compagnia di un familiare, fino a quando non si è decisamente intrapresa la strada della
guarigione. Il soggiorno è reso necessario dalla continuità di cure cui il paziente deve essere sottoposto, o anche dalla volontà del guaritore di controllare che il suo paziente esegua esattamente le sue istruzioni di cura.
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Istruzioni di cura che, a loro volta, non sono quasi mai le stesse. Ogni guaritore ha sue precipue tecniche, ed ogni patologia può richiedere forme differenti di intervento. Fin qui ho descritto la concezione tradizionale della malattia dei popoli akan come se essa fosse a tutt'oggi rimasta sostanzialmente immutata. L'uso del presente etnografico può aver certo rafforzato un’impressione di questo genere. In realtà, come per tutti gli aspetti di una cultura, si assiste nel campo della medicina a continue trasformazioni, per quel che riguarda la tecnica terapeutica ma anche per l'ideologia stessa della malattia. Quest'ultima poi è stata al centro di diversi aggiustamenti. La penetrazione della cultura occidentale, e l’affermarsi della medicina occidentale anche in Ghana, hanno
contribuito infatti a modificare profondamente la concezione della malattia. Alla tradizionale concezione dell’insorgere del male, se ne affianca oggi un’altra, mutuata dalla medicina occidentale, che considera la malattia come
effetto dell’azione di agenti patogeni affatto naturali. Le due concezioni convivono, definendo l’una l’ambito delle malattie “spirituali”, l’altra quello
delle malattie “naturali”. La classificazione delle malattie in spirituali e naturali è condivisa dagli operatori terapeutici tradizionali e taglia trasversalmente l’intero universo delle patologie. Essa non dipende infatti dalla sua tipologia, ma da un insieme di fattori quali la violenza dell’attacco, la sua durata, la sua resistenza ai farma-
ci occidentali e altro ancora. Tale classificazione definisce nel contempo gli ambiti di intervento dei differenti tipi di medicina. Quella occidentale può infatti curare con successo le malattie di tipo naturale, al contrario i terapeuti tradizionali rivendicano la loro capacità di intervenire beneficamente tanto nella malattie naturali che spirituali (FOsu G.B. 1981, SCHIRRIPA P. 1992: 177-190). È il terapeuta tradizionale che nel compiere la diagnosi deciderà se si trova di fronte ad una malattia di tipo naturale o spirituale. Naturalmente da tale decisione dipenderà lo svolgersi della cura. Non bisogna però sottovalutare il fatto che una prima valutazione, basata di norma sui criteri sopra esposti, viene già fatta nell’ambito familiare. Essa può essere di importanza decisiva, dato che dall’assegnare una malattia all’ordine del naturale o dello spirituale può dipendere il tipo di scelta di risorsa terapeutica cui rivolgersi, almeno in prima istanza. È il gruppo che compie dunque la prima diagnosi configurandosi così come gruppo di gestione della terapia' (JANZEN J.M. 1978). Vorrei sottolineare come il fatto che i guaritori usino nelle loro pratiche ele-
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menti di chiara derivazione biomedica, quale, ad esempio, deve essere considerata l’eziologia naturale, dimostra l'estrema flessibilità, plasmabilità e permeabilità della medicina tradizionale. Forse è proprio a ciò che si deve il fatto che, nonostante più d’uno da tempo suoni le campane a morto, essa sia tuttora vitale e, forse, addirittura in espansione. Di certo la concezione che le eziologie di diverse patologie possano risiedere nell’azione di batteri o di microrganismi di vario genere, è mutuata dalla medicina occidentale per come essa si è configurata dopo Pasteur. Ciò però non significa che una qualche forma di concezione naturale dell’eziologia della malattia non fosse presente anche precedentemente al diffondersi della biomedicina. Nel corso degli ultimi vent'anni, diversi autori hanno molto insistito sul fatto che, ad un attento studio dei sistemi medici indigeni, emergono atteggiamenti e pratiche profilattiche e curative che poco hanno a che fare con una concezione solo spirituale dell’eziologia del male. Ad esempio, Yoder critica fortemente quanti hanno enfatizzato i soli aspetti “soprannaturali”, e tra questi
prima di tutti Evans-Pritchard, poichè «la loro enfasi sulle credenze e le eziologie li ha condotti a trascurare altri aspetti cruciali dei sistemi medici, in particolare la nosologia, la profilassi e la scelta dell'esperto terapeutico da parte del paziente» (YODER P.S. 19824: 4)5. L'autore poi continua notando che «recenti ricerche, con un più ampio interesse verso le idee e le pratiche mediche in Africa, presentano un quadro piuttosto differente sia delle eziologie della malattia che della conoscenza medica in generale» (Yoder P.S. 19824: 13). È evidente che per Yoder, così come per altri antropologi, quel che è importante è allontanare quanto più possibile lo studio della medicina africana dall'ambito che per decenni abbiamo definito “magico-religioso” per collocarlo in uno spazio in cui la malattia e i suoi rimedi si trovano nell’ambito del naturale. Uno spazio insomma più vicino al concetto di biomedicina. Uno dei primi contributi che insistono sulla pluralità dei criteri eziologici africani è quello di Gillies (GILLIES E. 1976), in cui — sulla base del lavoro
etnografico nel villaggio di Ogori (Nigeria) compiuto dall’autrice — l’antropologa critica aspramente la prospettiva di Evans-Pritchard (EVANSPRITCHARD E.E. 1976 [1937]) e di altri, insistendo sul fatto che l’eziologia.
delle differenti categorie nosologiche varia da quella affatto naturale, per molti mali ritenuti come
parte del normale
ordine delle cose, a quelle
soprannaturali, come la stregoneria invocata nel caso di morti premature e inaspettate. Secondo l’autrice, così come per Yoder, l’insistere sulle eziologie
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soprannaturali ha condotto molti antropologi ad accettare, implicitamente, una fondamentale dicotomia tra la biomedicina e le medicine dette tradizionali, che proprio si basa sulle diverse eziologie: naturale l’una, soprannaturale le altre. Quel che si rischia, così facendo, è di perdere però la ricchezza semantica delle categorie nosologiche non occidentali: l’enfasi sulle eziologie naturalistiche nelle medicine africane sembra infatti, alla fine, avere come
esito il loro appiattimento sulla prospettiva — anch'essa naturalistica — della biomedicina. In ciò vedo due errori. Il primo è che ci sia una sorta di confusione categoriale. Le eziologie africane, così come quelle biomediche, sono parte di sistemi complessi, e a volte non coerenti; non basta pertanto sottolineare una comune eziologia naturalistica, contro la “grande divisione” tra eziologie naturalistiche e soprannaturali delle etnografie classiche, per intravedere una sorta di somiglianza. Come dirò anche nei prossimi paragrafi, nel sistema akan, come in altre medicine africane, l’eziologia naturalistica è parte di un più largo sistema di causazione di cui fanno parte anche le spiegazioni soprannaturali. È dunque lecito il dubbio che, chi insiste sulle eziologie naturalistiche nella medicina africana per trovare punti di contatto con il sistema biomedico, pecchi in fondo di superficialità. Non basta infatti reclamare con forza uno spazio per le eziologie naturali. La causazione naturale della biomedicina è comunque r0/to diversa da quella africana, perché diverse sono le prospettive di fondo e differenti gli approcci. Non tenere conto di ciò significa compiere una indebita e pericolosa riduzione. E qui veniamo al secondo errore. Yoder e gli altri rischiano di perdere per strada la ricchezza semantica delle eziologie africane, e più ancora delle categorie nosologiche. I tanti vocaboli africani che nelle etnografie, così come dagli stessi attori sociali, vengono tradotti con “medicina” hanno una ricchezza semantica e un campo di azione di gran lunga superiore a quello che il termine “medicina” ha nelle varie lingue occidentali. Nota a questo proposito Robert Pool: « [...] Quando un Wimbum usa il termine “medicina” si riferisce a uno spettro di
significati ben più ampio di quello che noi assoceremmo allo stesso termine. Ciò ha conseguenze sul tentativo di identificare e delineare un “sistema etnomedico” e sembrerebbe suggerire che è impossibile descrivere e analizzare tali sistemi partendo dalle assunzioni biomediche sulla natura della medicina» (POOL R. 1994: 14),
Riassumendo, non si può negare che, in molte etnografie, aspetti quali la profilassi ed il trattamento siano stati trascurati a favore di un discorso più incentrato sulle eziologie; così come occorre raccogliere l’invito di Bibeau (BIBEAU G. 1982) per una conoscenza più complessiva dei saperi terapeutici indigeni che tenga conto delle farmacopee, della psicopatologia e dell’anatomofisiologia locali. Ciò può sicuramente contribuire a dare un quadro più
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complesso della medicina tradizionale. Condivido il fatto chele eziologie spirituali non sono l’unica base su cui poggiano le conoscenze mediche tradizionali, non credo però che ciò ci debba far correre il rischio opposto di sopravvalutare profilassi e trattamenti a scapito degli aspetti simbolici, rischiando così di fare il classico errore di buttare il bambino con l’acqua sporca. Fuor di metafora, così facendo si rischia di appiattire la ricchezza di una concezione della malattia, riducendola alle sue forme considerate, spes-
so erroneamente, più vicine alle concezioni naturalistiche della biomedicina. Del resto, come dirò tra breve, non sempre vi è una rispondenza tra tipo di eziologia e tipo di cura, nel senso che non è affatto detto che ad un tipo di eziologia non spirituale non possa seguire una cura su forti basi simboliche. Ritorniamo però alle concezioni akan, dove sicuramente si possono ritrova-
re molti esempi di malattie la cui causa non è pensata come soprannaturale, o altre in cui non ci si perita proprio di cercare una possibile eziologia. Che esporsi al freddo faccia venire un’infreddatura è sicuramente vedere una causa naturale nell’insorgere di una malattia, per quanto insignificante; e certamente vi è un vasto ambito di piccoli malanni, infreddature, diarree ecc.,
che vengono immediatamente connessi a piccoli accidenti quotidiani che poco hanno a che fare con il mondo degli dèi. Ma non è certo a questo livello che si fanno i conti con la concezione della malattia. Piccoli malanni probabilmente nemmeno pensati come malattie in una società che, per sua fortuna, a differenza della nostra non ha conosciuto quell’intenso processo di
medicalizzazione che ci investe sempre più e che pretende di ordinare ogni atteggiamento della nostra vita sull'antinomia “comportamento che mantiene la salute/comportamento che produce malattia”. La concettualizzazione stessa della malattia, come del resto quella del dolore, è una variabile cultu-
rale. Fuori dall’Occidente il raffreddore, la diarrea e altro, saranno pur fastidiosi, ma esistono e tanto basta. Accidenti quotidiani per i quali non si deve per forza invocare una causa che giustifichi il loro apparire, e che del resto non richiedono quasi mai l'intervento di un terapeuta specializzato, essendo curabili con quei semplici elementi di farmacopea che sono un patrimonio culturale diffuso.
È una considerazione che si ritrova anche in altre monografie etnografiche. Penso ad esempio a quanto ha scritto di recente Robert Pool (POOL R. 1993) sui Limbum del Camerun. Non nascondendo anche una certa ironia per tutte le elaborate teorie sulle eziologie indigene che aveva ritrovato nelle letture preparatorie al viaggio, egli si accorge che in realtà, in molti casi i Limbum non si preoccupano affatto di sapere la causa dei loro più comuni
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disturbi. «La maggior parte della gente dice, pensa, di non sapere cosa causi la malattia, essa “giusto arriva”, o “viene da Dio”, “oppure non ha una causa”» (POOL R. 1993: 128). Non contento, discute di ciò con il suo inter-
prete, Lawrence, che è anche il suo maggior informatore; quando gli spiega che nella sua Olanda chiunque sarebbe in grado di dire le cause di un raffreddore o di un mal di schiena, il suo interlocutore scoppia in una sonora
risata, giudicando false e ridicole le possibili spiegazioni di quei piccoli disturbi che Pool andava adducendo. L’antropologo olandese così conclude: «Così per Lawrence questa apparente mancanza di conoscenza eziologica non era
affatto inusuale. Del resto egli trovava divertente l’idea di spiegazioni elaborate per disturbi semplici. Forse aveva ragione. Forse la nostra ossessione nel trovare elaborate spiegazioni causali per ognuno dei più piccoli disturbi, mentre nello stesso tempo si scrollano le spalle davanti a grandi disastri e a malattie fatali impreviste considerate come coincidenze, è una preoccupazione culture-bound» (POOL R. 1993: 129).
Vi è comunque, tra gli akan così come tra altre popolazioni africane, una buona porzione di malattie la cui causa non è ritenuta soprannaturale. Non basta però questo per invocare supposte somiglianze con la biomedicina. Tali eziologie fanno parte di un panorama complesso e multiforme, e si possono indagare solo in relazione con le altre categorie nosologiche la cui eziologia è invece soprannaturale. Nei due paragrafi che seguono discuterò appunto alcune eziologie naturali, proprio per dimostrare la loro complessità e la loro irriducibilità al nostro concetto di causazione naturale. 1.1.1. Di cosa parliamo quando parliamo di kooko. Eziologie complesse e confini incerti Indagare una categoria nosologica della medicina tradizionale del Ghana,
significa avvicinarsi a concetti multiformi, polisemici, che difficilmente possono essere costretti entro rigide classificazioni. In realtà questo non è un
dato che si riscontra solo nella medicina akan, anche nel suo testo già citato Pool dimostra bene come le categorie nosologiche dei Winbun siano molto indeterminate e tendano a sfumare l’una nell’altra. Insomma non si trovano confini netti che permettano di circoscrivere una determinata categoria nosologica come entità discreta, al contrario ognuna di queste categorie presenta zone d’ombra, elementi contraddittori e anche di sovrapposizione con
altre categorie. L’indeterminatezza dei significati nella costruzione delle nosologie dette “tradizionali” è un problema molto avvertito in antropologia medica. Spesso
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diversi guaritori danno contenuti diversi e differenti eziologie ad uno stesso costrutto nosologico. Ciò fa apparire l’universo nosologico come confuso, contraddittorio; probabilmente spesso ad essere contraddittori sono quei testi che tentano di risolvere il problema costringendo multiformi significati entro una cornice di senso coerente. La strada che segue Pool è tutt'altra. Quel che egli cerca di fare è di assumere l’indeterminatezza come fatto costitutivo di tali nosologie; il problema non sarà allora trovare una coerenza, magari in modelli inconsci, quanto invece seguire i mille rivoli e i tanti significati che ogni costrutto nosologico rivela. Non ricostituire un senso coerente dunque, ma accettare la sfida complessa della polisemicità dei costrutti locali. La prima volta che qualcuno mi parlò del kooko non diedi molta importan-
za a questa particolare classificazione patologica. Era il 1992 e mi trovavo ad Accra, a svolgere le mie ricerche. Come spesso mi accadeva, ero in compagnia di Frempong, che nel corso degli anni è diventato un mio caro amico. Frempong è un ex-prete cattolico che ha lasciato la chiesa entrando a far parte di un movimento religioso neo-tradizionale, quello già citato di Afrikania, ed è diventato sacerdote-guaritore tradizionale. Mi accompagnava spesso durante le mie ricerche, e — poiché parlava un ottimo inglese — spesso mi aiutava a tradurre le espressioni in twi o in pidgin english che venivano usate dai sacerdoti-guaritori con cui lavoravo. Quel giorno eravamo andati a trovare Gyifei, un guaritore molto rinomato
che viene dal nord del Paese, di religione islamica, che vive nella capitale da circa venti anni. Come spesso capitava, dopo aver assistito ad alcuni colloqui
con i suoi pazienti e ai relativi interventi terapeutici, ci fermammo a chiacchierare ed io ne approfittai per chiedere chiarimenti e spiegazioni su ciò che avevo visto e sulle sue classificazioni nosologiche con relative eziologie e terapie. Discorrendo, lui e Frempong accennarono al kooko, dicendomi che era una malattia molto diffusa e che, sebbene sulle prime non fosse grave, poteva avere, se non curata, delle conseguenze molto serie. Cercai di capire meglio in cosa consistesse e Frempong, chiudendo frettolosamente il discorso, mi disse che in inglese il kooko viene chiamato piles (emorroidi). Per
quanto precisarono subito che il kooko poteva avere manifestazioni diverse dalle emorroidi, non mi sembrò un tema molto interessante e quindi, quando i miei due amici cominciarono a parlare di altro, non ripresi il discorso. In seguito però qualcosa destò il mio interesse per il gooko. Ben due anni dopo quel soggiorno di ricerca mi trovavo ancora una volta in Ghana per continuare il mio lavoro e in diverse occasioni, e sempre in compagnia di
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Frempong, andai a trovare G. K. K. Bedemah, che allora era il presidente nazionale della più importante associazione di guaritori tradizionali del Ghana: la Ghana psychic and traditional healers association. Durante i nostri colloqui parlavamo a lungo delle malattie che sapeva curare. Un giorno, da uno di questi colloqui, emerse che era particolarmente specializzato nella cura della darze-bo, cioè il comportamento asociale, non sensato e fuori dal
comune che è dovuto a un non pieno controllo di sé: quello cioè che, con una certa approssimazione, potremmo tradurre come follia. Gli chiesi quali fossero le cause che potessero far scatenare la dazze-bo. Me ne elencò diverse e tra queste il kKooko. Questa informazione mi lasciò perplesso e chiesi chiarimenti: per quanto fossero fastidiose, che rapporto vi poteva mai essere tra le emorroidi e la follia? Bedemah si mise a ridere e mi spiegò che il kooko è qualcosa di estremamente più complesso e pericoloso delle emorroidi. Queste non sono che una delle più comuni manifestazioni di questa classificazione patologica. Il kooko è un qualcosa che si può sviluppare nel sangue e attraverso di esso vaga per tutto il corpo; se arriva al cervello può, fermandosi e ostruendo una vena, impedire al sangue di defluire propriamente. In tal modo il sangue fuoriesce e invade il cervello, ottenebrando la mente di un
individuo e costringendolo a comportarsi in maniera anormale. Questo per quel che riguarda la follia, ma in quell’occasione e nei giorni successivi, tornammo spesso a parlare del kooko e Bedemah aggiunse altri particolari alla sua spiegazione. Come già detto sopra il kKooko è una piccola impurità che “vaga” nel nostro corpo attraverso la circolazione sanguigna, quando si ferma può causare l’ostruzione della vena e la fuoriuscita del sangue. In ogni caso quando si ferma diventa visibile all’esterno, apparendo come una piccola protuberanza di colore rosso che se sfregata trasuda e diventa umida. Ci sono dei luoghi di elezione in cui tale protuberanza si manifesta. Il cervello, come già visto prima; l’ano — il luogo in cui è più frequente ritrovarla e che probabilmente spiega perché molto spesso la si è tradotta frettolosamente con “emorroidi” — in cui provoca per lo più dolori e perdite di sangue; gli occhi, dove se non curata può provocare la cecità; le orecchie, dove può causare la sordità; le pareti della vagina e l’utero, e in questo caso può essere la ragione della sterilità della donna che ne è affetta; il pene, provocando quella che Bedemah mi definì come una “debolezza sessuale” dell’uomo. Spesso però quest’ultimo effetto lo si può riscontrare anche quando non è il pene ad essere direttamente attaccato, basta che vi sia un forte accumulo di kooko nei fianchi o nel torso dell’uomo. Insomma queste informazioni mi restituivano un'immagine quanto mai com-
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plessa di questa categoria nosologica, sicuramente non facilmente traducibile nei termini della medicina occidentale. Decisi quindi di iniziare una breve indagine per approfondire, discutendo con diversi guaritori, le mie conoscenze di questa categoria. Come già Pool nel suo lavoro, anche io mi trovai di fronte a una indeterminazione di significati. È dunque lecito chiedersi: “di cosa parliamo quando parliamo di kooko?” Credo che anche in questo caso la risposta sia nell’accettare la sfida della polisemicità dei costrutti locali. Non cercare di ridurre la loro ricchezza entro le gabbie di una rigida definizione, ma seguire i mille rivoli delle interpretazioni e delle costruzioni che ogni terapeuta dà della malattia. Vi è un punto su cui pressoché tutti i sacerdoti-guaritori con cui ho parlato concordano: il kooko è una malattia di origine naturale. Non nel senso che la sua eziologia sia in qualche modo riconducibile alle concezioni biomediche, quanto invece per il fatto che, pur essendo una categoria nosologica tradizionale, la sua origine non risiede né in un attacco stregonico, né in un problema di relazioni sociali, né infine nell’azione punitiva o vendicativa di un dio o di un antenato. Più semplicemente il kooko, così come i raffreddori o
le diarree ricordate più sopra, c'è; è un qualcosa che esiste e che può colpire gli individui. A differenza dei raffreddori però il kooko può essere anche molto grave$, come si è visto più sopra.
Ma che cosa è esattamente il kooko? A volte è visto come un piccolo vermetto, più spesso come un’impurità che è difficile tentare di definire meglio. Secondo alcuni è presente nel corpo fin dalla nascita, per altri si origina nello stomaco in determinate fasi della nostra vita. Comunque sia visto, esso si origina o si moltiplica se ci si ciba in modo eccessivo di determinati alimenti molto ricchi di amido; è in questo caso che il kooko comincia a circolare per il corpo trasportato dal sangue. Il legame tra kooko e sangue è generalmente riconosciuto da tutti, ma in genere è limitato a due fatti. Innanzitutto il san-
gue è il vettore che permette al kooko di muoversi nel corpo. Questo infatti pur originandosi altrove, spesso si dice nello stomaco, arriva nel sangue e attraverso di esso si sposta nel corpo. Oltre che vettore il sangue è coinvolto, seppur indirettamente, nell’azione patologica del gooko. Nel corso del suo spostamento infatti questi può fermarsi in una vena, senza che sia chiaro però il meccanismo che sta dietro a ciò; a quel punto può succedere che il sangue, trovando ostruite le vene, fuoriesca, come nel caso su citato della fol-
lia provocata dal kooko, o ristagni dando vita a delle bolle che ad esempio
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sono particolarmente evidenti quando ciò accade nell’ano, ma che a volte si possono notare anche negli occhi o nelle orecchie. Queste bolle che spesso segnalano la presenza patologica del £gooko sono chiaramente visibili anche quando questo attacca le pareti della vagina. C'è da dire che sebbene quasi tutti i guaritori riconoscano che il kooko possa essere responsabile della infertilità, spesso questa è una possibilità solo teorica, poiché nei casi di infertilità quasi sempre si invocano altri tipi di cause quali ad esempio la stregoneria o, a volte, l'intervento di un dio o di un antenato, o infi-
ne problemi fisici. La relazione tra kooko e infertilità, per quanto essa rimanga una possibilità solo teorica, è da alcuni guaritori vista come indiretta. Infatti non sarebbe il kooko in sé a provocare l’infertilità nella donna, ma que-
sta sarebbe una conseguenza della presenza delle bolle nel condotto vaginale. Queste infatti bloccherebbero il flusso mestruale rendendo di fatto impossibile la fecondità; secondo altri guaritori invece la relazione tra bolle e infertilità sarebbe più debole. Di fatto il problema è che la presenza delle bolle fa sì che il rapporto sessuale sia per la donna estremamente doloroso, tanto da renderlo impossibile. In questo caso ovviamente non si dovrebbe parlare di sterilità, quanto invece di impossibilità di avere rapporti sessuali. Dunque il kooko è in qualche modo connesso con la sfera sessuale femminile. Ma se c’è un punto su cui tutti i guaritori con cui ho discusso erano d’accordo è che il kooko può minacciare seriamente la sessualità maschile. Il kooko si muove per il corpo e, se attacca direttamente il pene, si manifesterà, come già visto per altri organi, sotto forma di bolle. Le conseguenze per chi ne è affetto sono abbastanza serie, infatti il Kooko pregiudica fortemente l’attività sessuale. Pur se tutti i guaritori hanno precisato che il kooko non comporta l'impotenza, anche se alcuni di essi non hanno escluso del tutto tale possibilità, la sua azione fa sì che in qualche modo la capacità sessuale degli uomini venga infiacchita. La sessualità maschile viene minacciata dal kooko anche quando questo non attacca direttamente il pene, ma si insedia in un’altra parte del corpo, precisamente i fianchi e il torso. Molti guaritori sostengono che uno dei luoghi in cui il kooko si accumula maggiormente siano proprio i fianchi. Quando questo accumulo è imponente, esso avrà come principale conseguenza una diminuzione della capacità sessuale dell’uomo. Il kooko ai fianchi non è visibile dall’esterno, nel senso che in questo
caso non si formano sul corpo delle bolle e la sua presenza è segnalata solo da questo effetto. La sessualità maschile è minacciata, e spesso anche in forme più gravi, anche
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da altre malattie. Riferire brevemente di queste altre categorie nosologiche tradizionali ci permetterà di meglio intendere le specificità del kooko. Una prima categoria da prendere in considerazione è sakpu. Si tratta di una malattia che si trasmette attraverso i rapporti sessuali e che può attaccare sia
uomini che donne. Di norma negli uomini essa si manifesta principalmente con forti dolori al pene, che a volte può presentare delle piaghe purulente, specialmente durante la minzione. Nelle donne il sintomo più ricorrente è il dolore durante la minzione. Per quanto non sia corretto tradurre le categorie nosologiche di una data cultura in quelle biomediche — perché così facendo si opera una impropria riduzione e soprattutto si perde la ricchezza di riferimenti di quella data costruzione culturale e non si comprendono le sottili metafore sociali che stanno dietro le eziologie tradizionali — segnalo che spesso i guaritori si riferiscono a sakpu con il termine inglese di “gororrbea”. Babaso invece viene in genere tradotta con “sifilide”; ma c'è da dire che la
categoria nosologica tradizionale appare in questo caso molto più complessa della sua supposta traduzione biomedica. Babaso è una malattia che si può classificare come spirituale. Non la si contrae attraverso rapporti sessuali con chi ne è affetto, né tantomeno attraverso cause naturali. Essa può essere causata solo da un atto di fattucchieria. Di solito il meccanismo è semplice: un uomo che sospetta che sua moglie, o una delle sue mogli, sia adultera si reca da un fattucchiere e si fa confezionare da questi una particolare polvere con poteri sovrannaturali. Tornato a casa pone una striscia di polvere sulla porta di modo che la moglie, per entrare dentro l’abitazione, sia costretta a passarci sopra, attirando sul suo corpo — e probabilmente sui suoi genitali — i malefici influssi della mistura. Non appena la donna, così contagiata magicamente, avrà un rapporto sessuale con il suo amante, questi contrarrà la babaso. Malattia non solo molto pericolosa, ma i cui segni sono immediatamente evidenti, poiché il pene tende a riempirsi di piaghe. Ciò è importante poiché essendo nota a tutti l’eziologia della babaso, l'evidenza dei suoi segni significa che chi ne è affetto è immediatamente sottoposto alla riprovazione sociale per il suo comportamento. Vorrei far notare una cosa che probabilmente può rendere chiaro quale sia il meccanismo ideologico che sta dietro molte delle concezioni della malattia in quest'area. Il comportamento adultero non è da considerarsi come un affare privato tra marito e moglie. Esso invece, rompendo i legami di solidarietà e di alleanza tra due gruppi parentali che si sanzionano con il matrimonio, è un atto che mette in crisi le relazioni sociali. E dunque un segno di quel disordine sociale di cui, secondo Augé, la malattia è sempre indice. L'azione magica condotta dal marito non deve per-
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tanto essere considerata come un banale atto di vendetta. Esso invece è lo smascheramento di un preciso atto antisociale; non a caso ad esserne colpita non è la donna adultera, ma il suo partner: chi insomma si è intromesso,
minacciandone la solidità, in quell’unione che sancisce un'alleanza. La malattia che comunque è più temuta, per quel che attiene la sessualità maschile, è la kotewwti, l’impotenza (twi, lett.: kofe: pene, wwzî: morto). Pur se alcuni guaritori sostengono che a volte l'impotenza può avere delle cause naturali, essa è quasi sempre vista come una malattia di origine spirituale. Chi contrae la kotewuti di norma ha avuto un comportamento antisociale. Infatti la kotewuti è dovuta ad un’azione magica di vendetta. Due i casi più comuni: un uomo scopre che sua moglie compie adulterio e si vendica compiendo un'azione che rende impotente l'amante della donna, un caso simile a quello visto in precedenza; oppure un uomo maltratta sua moglie e questa — anziché divorziare (pratica abbastanza comune tra gli Akan) — si vendica magicamente rendendolo impotente. I tre casi qui considerati sono accomunati dal fatto che in essi la malattia viene ricondotta immediatamente alla trasgressione dei codici di comportamento o delle regole della comunità. In tutti i tre casi, infatti, la malattia è conseguenza di una sessualità eccessiva. Nel primo caso, sakpu è l’avvicinarsi a chi è affetto dal male a provocare il contagio; ma in ogni caso l’idea del contagio per via sessuale indica una trasmissione che avviene se si rompe il corretto codice di comportamento che vuole che ognuno abbia i rapporti sessuali entro il matrimonio; per la babaso e per la kotewuti il legame tra malattia e comportamento non corretto è evidente. L'adulterio, o il cattivo
comportamento verso il coniuge, sono la causa immediatamente riconosciuta dalla nosologia akan per l’insorgere di tali mali. Ben diverso è il caso del kooko. Qui infatti l’eziologia tende ad essere legata a problemi di altro tipo. Come si è visto, secondo alcuni guaritori, lo sviluppo del kooko è legato ad un’alimentazione troppo ricca di cibi amidacei, cosa questa abbastanza frequente in quest'area poiché i cibi amidacei rappresentano l'elemento base dell’alimentazione quotidiana; per altri invece il Kooko semplicemente c’è: è nello stomaco degli individui, si muove nel sangue e può provocare danni in diverse parti del corpo. La sua eziologia non è dunque legata ad una trasgressione. Anche gli effetti del kooko sono diversi da quelli appena descritti per le altre categorie nosologiche. Il kooko non provoca lesioni gravi, solo delle bolle che se curate spariscono. La sua minaccia alla sessualità maschile non sta nei
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segni sull’organo, ma nel fatto che, a dire dei guaritori, esso provoca una
“debolezza sessuale”. Non è semplice definire cosa sia la “debolezza sessuale” per i guaritori akan: per alcuni ciò significa un minore potere di eiaculazione — dunque una capacità più limitata di avere rapporti sessuali —, per altri significa una minore resistenza nel rapporto sessuale; per altri ancora infine una impossibilità di avere più rapporti sessuali in un tempo ravvicinato. In tutti i tre casi, comunque, mi pare che si possa dire che la minaccia sia da riferirsi ad una certa idea di virilità. Il Kooko assume senso se connesso alla virilità. Chi è affetto dal kooko avrà comunque una sua vita sessuale, ma la sua virilità sarà compromessa. Per quanto esso appaia però meno grave nelle sue
conseguenze della malattie viste sopra, esso è temuto per la sua imprevedibilità. Il Kooko non è conseguenza di un proprio comportamento contrario alle regole, esso c’è e a volte attacca qualcuno. La sua imprevedibilità è ciò
che lo rende temuto.
ì
1.1.2. Fratture e doppi spirituali Vi è poi un altro chiarimento necessario. Potrebbe infatti sembrare che all’interno delle terapie tradizionali, alle eziologie spirituali corrispondano cure basate principalmente su un’azione di carattere simbolico, mentre quelle per le quali non vi è, o comunque non è preponderante un’eziologia di tipo spirituale, siano invece basate su cure di carattere pratico-empirico. Mi voglio riferire ad un insieme di mali e malanni per i quali un eventuale tipo di eziologia spirituale risulta secondaria. Un esempio può essere quello della frattura alla gamba. Certo, può darsi che essa sia frutto dell’azione dello stregone, anche se normalmente uno stregone non si scomoda per così poco: probabilmente per essere interpretata in tal modo la frattura deve essere una tra diverse forme di male o di sfortuna che si accaniscono su di un individuo. È evidente che per gli Akan non si può sempre invocare quel principio ultimo di spiegazione del male che Evans-Pritchard sottolinea nella sua monografia sugli Azande (Evans-Pritchard E.E. 1976 [1937]). Nel senso che senza dubbio la malattia viene molto spesso spiegata in termini causali, ma come si è già detto vi è anche un ambito in cui semplicemente non vi è necessità di porsi il problema della causa. Le fratture alla gamba possono essere viste come un qualcosa per cui si può o meno invocare una causa ultima diversa
dalla meccanica dell’incidente che ha prodotto la frattura; dunque è spesso vista come uno dei tanti accidenti che costellano la vita degli individui. In
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ogni caso, le fratture vengono curate in un modo abbastanza particolare. In breve il guaritore compirà delle manipolazioni sull’arto allo scopo di ridurre la frattura, successivamente spalmerà sulla gamba un composto vegetale, che, a detta dei guaritori, favorisce il processo di saldatura dell’osso, e con stecche e bende provvederà ad immobilizzare l’arto stesso. Nello stesso tempo si prenderà una gallina faraona e gli si romperà una zampa, quella destra se l’uomo ha una frattura alla gamba destra, quella sinistra nel caso di frattura alla gamba sinistra. Al volatile sarà applicato un tipo di medicazione del tutto simile a quella fatta per l’uomo, dopodiché i due dovranno abitare nella stessa stanza, nutrirsi dello stesso cibo e ad ambedue si provvederà a rinnovare la medicazione con lo stesso intervallo di tempo. Questo completo trasferimento di qualità dall'uomo all’animale ha chiaramente lo scopo di fabbricare un doppio dell’uomo. Ciò per creare tra i due un’identità di destini. Così quando la faraona comincerà a stare in piedi e a camminare zoppicando, anche l’uomo potrà cominciare a farlo; ed infine, quando finalmente
l’osso del volatile sarà saldato, anche quello dell’uomo lo sarà. La faraona è il doppio spirituale che garantisce della possibilità di guarigione dell’uomo. Che si usi proprio una faraona è del resto molto significativo, visto che si tratta di un tipo di animale che, assieme alla colomba, molto spesso viene usato
nei sacrifici per garantire la comunicazione con l’alterità. Che essa sia un doppio spirituale dell’uomo è confermato dal fatto che, una volta avvenuta la guarigione, la faraona debba essere sacrificata e le sue carni consumate dall'individuo guarito che in tal modo riprende possesso delle sue qualità e non lascia pericolosamente in giro un doppio sul quale sarebbe possibile intervenire per compiere un maleficio nei suoi confronti. Benché dunque la frattura spesso non sia considerata come un qualcosa di origine spirituale, si interviene con una terapia che ha un preponderante aspetto simbolico, a conferma che l’eziologia, qualunque essa sia, non governa affatto il tipo di cura che verrà praticato.
1.2. Akomfo e ninsinlima Quanto esposto finora ci ha consentito di dare un quadro, per quanto sintetico, delle interpretazioni delle malattie e delle pratiche di cura che si possono far risalire a quel vasto universo che chiamiamo, sia pur convenzionalmente, “medicina tradizionale”.
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È un universo complesso e sicuramente non omogeneo. Tentare perciò una qualsivoglia tassonomia dei suoi operatori sarebbe impresa non tanto ardua, quanto scorretta da un punto di vista teorico. In effetti, così facendo si fini-
rebbe per costringere entro categorie determinate, una molteplicità di pratiche ed esperienze, riducendone così la complessità. Eppure una certa classificazione dei terapeuti, viene compiuta, tanto nei documenti ufficiali del governo, quanto nelle analisi degli antropologi, quanto infine nei discorsi che, a vario livello, vengono prodotti sulla medicina tradizionale.
Si tratta però di suddivisioni che, se prese in maniera rigida, rischiano veramente di non rendere conto della complessità e della ricchezza delle figure di terapeuti che oggi affollano il panorama del campo delle terapie, e soprattutto non riescono a dare conto di quell’insieme di figure che oggi, nella loro pratica terapeutica, mettono insieme tradizioni diverse creando sincretismi di indubbio interesse. Nel 1987 Anyinam pubblica un breve saggio (ANYINAM C. 19872) in cui si interroga sull’effettivo peso che oggi hanno, in Ghana, i terapeuti tradizionali. Lo stesso titolo del saggio (Traditional medical practice in contemporary Ghana: a dying or growing “profession”?) appare radicalmente provocatorio racchiudendo in sé la domanda se quella di guaritore tradizionale sia oggi una professione in crescita 0 se non si tratti invece di un’attività morente. Era
dunque facile immaginare che essa suscitasse risposte polemiche (AHIAKPOR J.C.W. 1989). A dire il vero la risposta di Ahiakpor contesta il metodo di raccolta dei dati che, a suo avviso, rende le conclusioni di Anyinam poco verosimili. I termini di questa polemica non sono di sostanziale interesse per quel che riguarda questo scritto. Se cito il saggio di Aniynam è solo perché egli pone comunque problemi che ci riguardano da vicino: l’appea! attuale della “professione” di guaritore tradizionale e, soprattutto, una riconsiderazione delle varie categorie di guaritori che oggi si possono isolare. In breve, nel suo saggio Anyinam intendeva discutere, partendo dal materiale di una sua ricerca sul campo svolta a Kumasi e nella regione Ashanti, l’ipotesi di Foster (FOSTER G.M. 1984) circa una minore capacità di attrazione della medicina tradizionale nei contesti detti “in via di modernizzazione”. Ne deriverebbe che sempre meno individui intraprenderebbero la carriera di guaritore e dunque non sarebbe possibile garantire un sufficiente ricambio generazionale. Tutto ciò farebbe supporre un declino della “professione” di terapeuta tradizionale. Una serie di studi regionali citati da Anyinam - quali Fahim (FAHIM H.M.
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1975) per l’Egitto, Ulin (ULIN P.R. 1975) per il Botswana, Oyebola (OvEBoLA D.D.O. 1980) per la Nigeria — sembrerebbero confermare il fatto che sempre meno giovani si sottopongono al #r4îr21g necessario per diventare terapeuta tradizionale, cosa che del resto appare evidente dall’alta età media dei terapeuti. L'ipotesi che Foster suggerisce discutendo questi studi7 è che man mano che la biomedicina diventa più accessibile, e che gli indivi-
dui partecipano in misura maggiore di programmi educativi basati sulla cultura occidentale, le pratiche terapeutiche tradizionali tenderebbero a scom-
parire. Per quel che riguarda l’ipotesi di Foster in particolare, Anyinam prende a esempio una serie di studi — quali Good e Kimani (GooD C.M. - KIMANI V.N. 1980) per il Kenya e Green e Makhubu (GREEN E.C. - MAKHUBU L. 1984) per lo Swaziland — che invece dimostrano al contrario come gli spazi per le pratiche terapeutiche tradizionali si stiano allargando, soprattutto nelle aree urbane. Ma quel che Anyinam giustamente sottolinea è il fatto che spesso gli studi sulla diffusione della medicina tradizionale non tengono nel giusto conto le nuove figure terapeutiche emergenti dei profeti delle chiese spirituali e di quelli che lui chiama “nuovi guaritori”, cioè quei guaritori che alla pratiche tradizionali ne affiancano di nuove in parte derivate dalla biomedicina. Le conclusioni cui giunge Anyinam non sono univoche. Egli sottolinea come da un lato il numero di medici tradizionali sia in diminuzione, cosa che lui
arguisce dalla non più verde età di gran parte di essi, anche se tanto in area urbana quanto in area rurale bisogna registrare un aumento di profeti delle chiese spirituali. Inoltre, il numero di erbalisti è in aumento nelle città, e ciò
a suo avviso è dovuto a un minore dispendio di energie e di costi di cui necessiterebbero le cure erboristiche rispetto a quelle di stampo biomedico. Quest'ultima affermazione lascia un po’ il tempo che trova, poiché in effetti
è tutto da dimostrare il minor dispendio di energie e di costi della medicina tradizionale. Basti pensare che molto spesso una cura richiede la presenza quasi costante del paziente nel compound del guaritore, o che è necessario ritornare più volte, ogni volta sottoponendosi ad estenuanti e lunghe attese. Inoltre, come sostiene del resto lo stesso Anyinam in un altro suo saggio (ANYINAM C. 19875), molto spesso le cure tradizionali richiedono investimenti in danaro non indifferenti. Come già accennavo, del resto, è l'insieme
dei dati usati che viene contestato. Ma quel che è interessante è la classificazione delle diverse categorie di tera-
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peuti tradizionali che il saggio propone: egli infatti, accanto agli erbalisti e ai fetish-priest, pone altre categorie delle quali una, quella dei cult-healers (in twi: abosomfo, sing.: obosomfo)8 in qualche modo può rientrare nell’alveo delle figure “tradizionali”, le altre, quelle di naturopata e di profeta, invece sono del tutto nuove. Vediamole in particolare. L’obosorzfo è in effetti una delle figure che assistono di solito l’okorzfo nello svolgimento delle sue attività; a volte esso però può anche lavorare in maniera autonoma, del resto il suo. nome indica chiaramente lo stretto legame che egli intesse con gli spiriti del pantheon tradizionale: obosormfo infatti può essere ricondotto alla radice ob0som, che significa dio, e dal suffisso fo che indica “persona” o “possessore” (CHRISTALLER J. G. 1881: 129); tale termine può dunque essere reso con “colui che è possessore di un dio”. Il naturopata invece sembrerebbe essere per Aniynam un individuo che esercita una professione terapeutica basandosi su di un sapere erbalistico che però può prescindere da quello tradizionale, inquadrato com'era in una più ampia cosmologia. L'ultima categoria è quella dei profeti delle chiese spirituali, già ampiamente studiati da ricercatori italiani (CERULLI E. 1963, 1973; LANTERNARI V. 1988; SCHIRRIPA P. 1992).
Mi chiedo se questo moltiplicarsi di figure non sia dovuto ad una difficoltà di inquadramento di un mondo, quello della medicina tradizionale, che si presenta non solo variegato ma in continua trasformazione ed in cui è sem-
pre possibile rilevare nuovi livelli di complessità. In realtà la medicina tradizionale è piena di zone d'ombra, di punti di contatto e di sincretismi. Del resto, come si dirà tra breve, la stessa divisione tra guaritori erbalisti e fetish-
priests non può avere assolutamente un carattere rigido. Meglio è dunque riferirsi alla medicina tradizionale come ad un continuum in cui trovano posto pratiche tra loro diverse, che si ispirano a principi comuni ma non per questo sempre riducibili ad un solo contenitore, ed in cui soprattutto possono convivere anche tradizioni terapeutiche diverse. Ciò significa rassegnarsi a non poter avere un quadro netto e definito delle pratiche terapeutiche tradizionali; occorre cioè abbandonare tassonomie sempre più improbabili e considerare come pratiche terapeutiche tradizionali quante abbiano tra loro “un'aria di famiglia”. Le figure cui si fa più spesso riferimento sono quelle del guaritore erbalista (in twi: rzr2sinli; pl.: ninsinlima) e quella del sacerdote ispirato (in twi: okomfo; pl. akomfo). Di solito si dice che il primo agisca terapeuticamente grazie ad una sua conoscenza della farmacopea tradizionale, mentre il secondo sotto l'ispirazione degli spiriti che lo possiedono. In realtà tale divisione è molto più sfumata: anche i rirsislimza partecipano in qualche modo del pote-
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re spirituale e hanno tutta una serie di contatti con l’aldilà, per contro gli akomfo molto spesso possiedono ragguardevoli conoscenze erbalistiche. L'unica differenza che si può fare è di grado, poiché gli a&0rzf0 vantano una maggior assiduità di contatti con l’alterità spirituale. Per quel che riguarda le pratiche terapeutiche, entrambi reclamano la capacità di curare ogni tipo di male, sia esso spirituale o naturale. Occorre dire che attualmente gli erbalisti godono di una maggiore popolarità, specie tra i convertiti al cristianesimo, in quanto essi sono considerati come detentori di un sapere tecnico tradizionale che poco ha a che fare con un mondo spirituale tradizionale visto come diabolico.
Non sempre è facile discriminare tra queste figure e le altre, molto spesso infatti degli akorzfo adottano tecniche di derivazione biomedica, o assumo-
no entro i loro paradigmi eziologici proposizioni e teorie che derivano tanto dal campo biomedico che da altre tradizioni terapeutiche. Occorre però dire che entro ciò che definiamo come medicina tradizionale si muovono anche altre figure terapeutiche che tentano vari tipi di raccordo tra questa e la medicina occidentale, o a volte con altri tipi di medicina orientale che stanno prendendo piede anche in Ghana. È difficile cercare di darne un quadro unitario. Si va infatti dal praticone che cerca di fare una sintesi tra rimedi erbalistici tradizionali, massaggi e agopuntura, ad una serie di piccoli istituti farmaceutici indipendenti che producono farmaci basati sui principi attivi contenuti nei prodotti vegetali dalla farmacopea tradizionale, rigettando però, come superstiziosi, tutti gli aspetti rituali e le credenze religiose che fondavano la medicina tradizionale. A queste figure bisogna affiancare un composito insieme di individui che rappresentano il lato “selvaggio” della medicina tradizionale. Intendo riferirmi ai piccoli venditori ambulanti di empiastri e rimedi erbalistici, agli indovini che frequentano le vie e le piazze delle città e dei villaggi. Si tratta in genere di persone che hanno ricevuto una qualche forma di istruzione, mai però completata, presso un terapeuta tradizionale, o che hanno una qualche conoscenza dei rimedi erbalistici grazie alla frequentazione di un parente o di un amico terapeuta. In genere essi sono guardati con sospetto dai guari-
tori tradizionali e definiti come ciarlatani. Benché di essi, per la loro marginalità che li pone ai confini dello scontro di poteri in atto, non verrà fatta esplicita menzione nel corso di questo contributo, non sarebbe possibile fornire un quadro completo della situazione della medicina tradizionale in Ghana, senza segnalarne la presenza. Essi, a mio avviso, non possono essere
visti come una zona residuale, di poco peso in un’analisi complessiva dello
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stato attuale della medicina tradizionale. Innanzitutto perché il loro numero fa supporre, ma su questo non possiedo al momento dati certi, che vi sia una porzione non indifferente di popolazione che vi si rivolge; inoltre fanno anche parte di quel più vasto contesto di pratiche terapeutiche cui si faceva riferimento più sopra. Nei due sottoparagrafi che seguono propongo una descrizione più dettagliata delle figura degli akorzfo e dei ninsinlima. Poi nel sottoparagrafo ancora seguente parlerò invece più diffusamente di quell’insieme di figure che in prima approssimazione potremmo definire di carattere sincretico e che sono
sempre più diffuse specie in ambito urbano. È bene precisare una cosa: la suddivisione che qui propongo ha un mero carattere espositivo; non vuole cioè in nessun modo rifarsi a una suddivisione tra due figure che più pertengono ad un ambito “tradizionale”, contro figure che sembrerebbero più “di transizione” verso il moderno. Come ho già chiaramente detto precedentemente, il presente lavoro non si muove in questo orizzonte teorico.
1.2.1. Gli dèi in corpo «Gli awozonle sono persone come noi, eccetto che si presentano in forma d’aria. Ereditai il mio dio da mia madre lo stesso giorno in cui ella morì. È un dio potente chiamato Nwiaa, e proviene dalla Costa d'Avorio. Mia madre era la sua sacerdotessa prima di me. Il giorno dopo la sua sepoltura mi trovavo già in uno stato di sconvolgimento e andai tutta sola nella foresta. I miei parenti e compaesani mi cercarono dappertutto, battendo i tamburi e gridando il mio nome, ma io non li udii. Mi trovarono dopo due settimane. A quel tempo non avevo ancora raggiunto l’età pubere. Il fratello di mio padre mi portò da un wzrszrli, il quale mi curò e guarii. Ma durante lo stesso anno corsi di nuovo nella foresta, senza sapere quello che facevo. La gente ricominciò a cercarmi e questa volta potevo vederli ma non avevo la forza di gridare per rispondere alle loro chiamate. Non sentivo né fame, né sonno, né sete, lo ricordo bene. Alla fine mi trovarono ancora una volta e mi riportarono in città» (GROTTANELLI V.L. 1978: 97).
Awozonle (sing. bozonle) è il termine con cui gli Nzema chiamano i loro dèi e che è equivalente al twi abosorz. Il racconto di Grottanelli qui riportato si riferisce a una narrativa molto diffusa tra i sacerdoti akan che dà conto della loro vocazione: okorzfo (0, nel caso degli Nzema, korzenle, pl. abomenle) non si diventa per propria scelta; è invece il dio che, possedendo la persona, rende esplicito il desiderio di renderla suo messaggero e mediatore tra gli uomini. Per usare una nota metafora akan è il dio che, innamorandosi di qualcuno, lo sceglie come suo sacerdote. In genere un uomo o una donna, poiché il sacerdozio è un'attività in cui non ci sono differenze di genere, non è posseduto da un solo dio; più dèi abitano la persona e durante le cerimo-
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nie rendono manifesta la loro presenza, a turno. Il rapporto tra una persona e i suoi dèi è estremamente complesso; se da una parte la possessione è la chiave di accesso verso il potere spirituale, dall’altro gli dèi impongono i loro voleri al sacerdote, attraverso tabu alimentari o sessuali o costringendolo a scelte esistenziali a volte complesse. Ho lavorato a lungo sul rapporto tra individuo e divinità, soprattutto tra gli Nzema, ma questo argomento esulerebbe dagli obiettivi di questo saggio?. Mi limiterò pertanto solo ad alcune notazioni. Ho accennato prima al fatto che è il dio che sceglie il suo medium umano. C'è da dire però che, in base alla mia esperienza di campo e ad alcuni dati riscontrabili in letteratura (SCHIRRIPA P. 1999), esiste una teoria akan della
proprietà del potere spirituale. Ogni dio, possedendo un individuo, intesse con lui un rapporto complesso in cui la “proprietà” della possessione è un elemento centrale. Alla morte del suo sacerdote, il dio dovrà possedere un individuo legato da particolari relazioni — quasi sempre di tipo parentale — con quest’ultimo. In pratica, ciò comporta che la “proprietà” della possessione segua precise regole di trasmissione. Si tratta di regole che sono ben presenti agli attori sociali, anche se apparentemente sembrano contraddire la retorica che vuole il dio libero di scegliere il suo sacerdote. Del resto quando ho costruito un primo abbozzo di modello della trasmissione del potere spirituale (SCHIRRIPA P. 19952) mi sono largamente basato proprio sugli stessi modelli elaborati dagli Nzema. Occorre però sottolineare che non si deve considerare quella strategia retorica cui prima facevo riferimento come un tentativo di mascherare o di mistificare una realtà connotata invece da rigide regole. Più semplicemente le due cose sono entrambe vere. Tutti sanno che nessuno può imporre la sua volon-
tà a un dio facendo sì che egli si innamori di un individuo piuttosto che di un altro; nello stesso tempo tutti sanno che un dio “posseduto” da un lignaggio possederà un individuo di quel lignaggio. Tra gli Nzema queste regole di trasmissione permettono di inserire ogni dio in una precisa categoria. Così avremo gli abusua awozonle (abusua: matrilignaggio), cioè quegli dèi che alla morte del proprio sacerdote individuano dentro la sua linea parentale il suo successore. In questo caso la proprietà della possessione si trasmette entro il lignaggio. Altre volte invece tale proprietà si trasmette di padre in figlio; gli dèi, chiamati papa awozonle (papa è l’allocutivo che designa il padre), alla morte del korzen/e individueranno il successore tra i suoi figli.
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È bene specificare che molto spesso un dio possiede diverse persone e in diversi lignaggi. A seconda del particolare tipo di trasmissione egli può essere considerato come un papa bozonle in un dato lignaggio e come abusua bozonle in un altro. Diverso da quelli descritti è il caso del 7z4azle bozonle. Con questo termine ci si riferisce a un dio che abita una terra che è proprietà della comunità di un dato villaggio (24arle: paese, territorio); altre volte al dio che abita proprio nel luogo in cui sorge il villaggio. In quest’ultimo caso egli è, di norma, primo abitatore del luogo, ben prima che questo venisse domesticizzato dagli uomini — come ci dicono spesso i miti di fondazione dei villaggi —. Proprio per tale ragione è in qualche modo in rapporto con l’intera comunità che abita il villaggio. La sua trasmissione non segue né le linee del gruppo parentale (come invece l’abusua bozonle), né quelle della trasmissione da padre in figlio (papa bozonle). Di norma egli può possedere ogni individuo. Preferirà individui che vivono nel villaggio, ma ciò non toglie che a volte possieda individui di altri villaggi. Una volta che un individuo venga posseduto da un maanle bozonle, dovrà intrattenere un particolare rapporto con il villaggio, presenziare all’annuale festival del dio e intervenire in ogni situazione critica della comunità. Inoltre per sua bocca il dio detterà regole alla comunità o renderà noti i suoi voleri. Ma soprattutto chi è posseduto da un raarle bozonle regolerà i rapporti tra questi e la comunità, facendo sì che il legame, oggi sempre più tenue, non si spezzi provocando l’ira e la vendetta del dio. Sganciato da una diretta trasmissione all’interno di un matrilignaggio o tra padre e figlio, il mzaanle bozonle è strettamente legato al suo territorio e alle genti che lo abitano. Più il bozorle è potente, più potrà agire per il beneficio dell’intera comunità. Insomma il maanle bozonle si connota per un rapporto privilegiato con l’intera comunità, in ciò contrapponendosi alle due categorie delineate più sopra e nelle quali il rapporto privilegiato era tra il dio e uno specifico lignaggio o tra il dio e un uomo e i suoi figli.
Vivere con gli dèi, essere cioè un sacerdote-guaritore che viene posseduto da una o, più spesso, diverse divinità rimanda ad un complesso reticolo di rapporti con la comunità; ad una gestione — non semplice da ridurre a modello
— della “proprietà” della possessione e dei suoi meccanismi ereditari; rimanda infine ad una precisa gestione dei proventi che si basa su ciò che con un’espressione non tanto forzata potremmo chiamare “il diritto di proprietà della possessione”10.Equilibri sociali, relazioni economiche, gestione del potere e
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della proprietà appaiono, nella figura del guaritore, come fortemente interconnesse. Quanto qui sto dicendo si riferisce in particolar modo a una specifica popolazione akan, cioè gli Nzema, ma per una serie di ragioni, tratte dalla letteratura etnografica di quest’area, credo che questo sia un modello che più in generale vale per gli Akan. A dire il vero la letteratura etnografica non ha dedicato molto spazio a questo argomento, è possibile tuttavia rintracciare alcuni somiglianze con quanto descritto per quel che riguarda gli Nzema. In effetti Rattray (RATTRAY R.S. 1927: 23) accenna al fatto che tra gli Asante gli 400507 possono essere associati al lignaggio, al clan o allo stato. Anche Christaller, in un’appendice del suo dizionario, sostiene che è possibile classificare gli 4605077 a seconda se appartengano allo Stato, alla città, al lignaggio o infine a un particolare okomfo: «Oman bosom: genio o demone di una città o un territorio, genio tutelare di un territorio o una comunità [...] abusua bosor: genio o demone familiare, spirito guardiano di una famiglia [...] okorzfo bosom demone del guaritore [medicine-man]» (CHRISTALLER J.G. 1881: 661, trad. mia).
Allo stesso modo — a proposito di un’altra popolazione akan del Ghana: gli Akwapim — Noel Smith sostiene che è possibile classificare gli abosorz a seconda se siano associati a un particolare luogo, o a un matrilignaggio, o infine se appartengano a un okorzfo: «Vi sono tre tipi principali di 4505077: quelli associati con una tribù o un luogo particolare come ad esempio il fiume Densu, Mpeni a Akropong o Bosompra a Abiriw, abosom della famiglia che appartengono a uno specifico abusua e gli akomfo abosom che di sono sono collocati in altari speciali nella foresta o in città» (SMITH N. 1972: 117).
Una volta che il dio si è manifestato nella persona, questa inizierà il lungo e complesso addestramento che gli permetterà di diventare un okorfo. Si rivolgerà a un sacerdote che lo prenderà come suo allievo; a quel punto per un certo numero di anni, che varia dai tre ai sette, vivrà nella sua casa e
apprenderà la difficile arte della guarigione!!. Dovrà sdebitarsi verso il suo maestro lavorando nei suoi campi, ma in quegli anni quest’ultimo lo inizierà al sapere erboristico, gli insegnerà come leggere — attraverso la divinazione e l'osservazione della persona — i segni sul corpo della malattia e come individuarne le cause; ma soprattutto gli permetterà di costruire la giusta relazione con gli dèi che abitano il suo corpo. La possessione, quando si manifesta per la prima volta, è incontrollata: un individuo, come visto nel racconto di
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Grottanelli, si comporta in modo poco usuale e le espressioni corporee della presenza del dio sono eclatanti. Un guaritore invece sa come controllare la presenza del dio; quando questi manifesta la sua presenza si muove in maniera armoniosa, indosserà i paraphernalia del dio e userà n.ovenze che richiamano la sua figura. Imparerà a danzare e a svolgere danzando le diverse figure che ogni dio richiede. La danza, soprattutto la bella danza, è un elemento importante in quanto è l’espressione visibile del buon rapporto che un okorfo ha con i suoi dèi. Infine apprenderà quali sono i suoi doveri verso i suoi dèi e a quali tabu — alimentari e comportamentali — dovrà sottoporsi. L'okomfo è la figura chiave del rapporto tra dèi e uomini, è lui che garantisce che la comunicazione tra loro sia ordinata e che ripristina le corrette relazioni. È senza dubbio la figura centrale per quel che riguarda il ripristino di condizioni di salute, e più latamente di esistenza, che si giudicano ottimali o
quantomeno soddisfacenti. Un individuo che abbia problemi gravi, sia esistenziali - come ad esempio una serie di rovesci nella sua attività lavorativa o nelle sue relazioni — sia di salute (malattie spesso gravi, aborti ripetuti, attacchi con mezzi sovrannaturali da parte di un fattucchiere o una strega) si rivolgerà a un okorfo per risolverli. Questi diagnosticherà la natura e l’eziologia del problema attraverso la divinazione per poi proporre il modo corretto di risoluzione. In genere occorrerà compiere sacrifici alle divinità e sottoporsi a complesse cure di carattere erboristico e manipolativo. Egli dunque nella cura opera su due livelli: quello della causa manifesta, cioè l’espressione visibile del problema (la malattia o le malattie nelle diverse forme in cui queste si manifestano), e quello della causa agente, cioè il guasto profondo che sta alla base del problema (l’infrazione di un tabu, l'offesa a un antenato o a un dio, l’attacco sovrannaturale di un fattucchiere o una strega). Le cure spesso sono spesso lunghe e prevedono interventi quotidiani da parte del terapeuta. Per tale motivo il compound dell’okomfo è attrezzato con un certo numero di stanze in cui è possibile ospitare il paziente ed eventualmente i familiari che lo accompagnano. Ciò ha indotto Lanternari a riferirsi a queste abitazioni con il nome di santuari-ospedali (LANTERNARI V. 1988).
1.2.2. I sapienti della foresta
Nel centro di Accra, tra palazzi fatiscenti ed altri che ancora inseguono le vestigia del tempo coloniale, vicino alla cattedrale metodista, si trova il ti72-
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ber market, dove da tutta la città muratori e carpentieri si recano per comprare quanto loro necessita. Se ci si inoltra in questo mercato tra i capanno-
ni che vendono travi ed altro materiale edile, ci si può trovare di fronte ad un luogo molto particolare. Improvvisamente i legni ed il materiale da costruzione lasciano il posto a banchetti, disposti entro il perimetro di un piccolo isolato, in cui ammassati alla rinfusa vengono offerti amuleti, coni di argilla, radici, rami e foglie, secchi e polverizzati o freschi, camaleonti essiccati e
parti di altri animali. Le forti sensazioni olfattive sono ciò che colpisce maggiormente chi vi si reca per la prima volta: il profumo avvolgente di piante e fiori e l’odore dolce e penetrante della carne in decomposizione dei pezzi di animali lasciati ad essiccare prevalgono nettamente sul turbinio di colori e sugli oggetti che fanno mostra di sé. È iljuju market, luogo in cui sono concentrati i venditori di quanto ha a che fare con la magia e la medicina tradizionale, ed in cui si recano quotidianamente gli akomfo e i ninsinlima di Accra, ma anche la gente comune, per acquistare quanto loro necessita per preparare empiastri vegetali, decotti o per procurarsi quanto serve per scon-
giuri, fatture e rituali di protezione. Confinato, nascosto dentro il grande mercato dei carpentieri, il juju market brulica di gente e di attività, non distinguendosi in ciò dai tanti mercati, dove
è in vendita altro tipo di merce, sparsi per la città. Ad ogni banco vi si trovano persone intente a spulciare la merce alla ricerca di un prodotto particolare, oppure impegnate a trattare sul prezzo di ciò che gli interessa. È questo uno dei luoghi in cui, nella capitale come negli altri mercati delle grandi città e dei villaggi del Ghana, chiunque possieda una conoscenza, seppur limitata, sui rimedi di cura tradizionali viene per acquistare quanto gli serve per confezionarli!?. Se per molti versi vi è una conoscenza diffusa, a livello familiare, dei proce-
dimenti erboristici che possono permettere di contrastare le malattie più comuni, almeno nelle loro forme non gravi, a possedere il sapere necessario sulle erbe che consentono di curare è una figura specifica, quello del ni7sirli. È lui infatti che, recandosi nella foresta, è in grado di saper scegliere quali piante sono di sicuro effetto terapeutico e su cosa. Se gli aomfo sono detentori di un sapere ispirato, quello dei ninsinlima deriva invece da una trasmissione affatto umana. Un rinsinli infatti diventerà tale dopo che, avendo frequentato un maestro, ha acquisito una grande competenza sulle proprietà terapeutiche di erbe, radici, cortecce, così come di parti di animali. Le sue conoscenze gli permetteranno di intervenire per risolvere
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diversi problemi di salute, e ciò implica naturalmente che nel corso del suo apprendistato un rirsizli imparerà anche a riconoscere i segni dei diversi malanni che affliggono gli individui. Riguardo alla vocazione vi è una distinzione fondamentale tra queste due figure. Se, come si è visto, un okorzfo per diventare tale ha bisogno di essere prescelto da un dio — sebbene all’interno di precise teorie sulla proprietà —, il rinsinli, proprio perché non ispirato, deve la sua vocazione a una sua precisa scelta. Di norma però si tratta di una attività che viene tramandata all’interno del gruppo familiare. Un individuo comincerà fin da bambino a familiarizzarsi con le erbe, accompagnando in foresta un membro anziano del suo gruppo domestico che svolge questa attività e aiutandolo a raccoglierle. In tal modo imparerà man mano a riconoscere quali piante possiedano particolari poteri terapeutici e vedrà come interagire con le divinità per raccoglierle senza far perdere loro il potere curativo. Ovviamente i rinsinlima condividono con gli akorzfo lo stesso sapere riguardo ai processi di salute e malattia, le eziologie e i segni che permettono di leggerli. Ciò che li differenzia è il fatto che nella loro azione i primi non fanno riferimento diretto alla divinità. È bene però precisare che non significa, come a volte sembrano credere alcuni ricercatori e operatori della biomedicina, che essi possano in qualche modo rappresentare una sorta di versante “laico” o empirico della medicina tradizionale. Un winsinli, quando è interpellato da un paziente, procederà alla diagnosi attraverso la lettura dei segni della malattia sul suo corpo, ma soprattutto chiedendo agli dèi — grazie a opportune tecniche divinatorie — che gli indichino quali siano le cause del male. E solo dopo che la divinazione gli avrà chiarito dove risiede la radice del problema che interverrà sul paziente con il suo sapere. Non è comunque la pratica diagnostica l’unico momento in cui un wirsinli entra in contatto con il mondo degli dèi: anche la raccolta delle erbe presuppone che sappia come trattare con gli dèi. Affinché una cura risulti efficace non basta infatti che il rinsinli sia in grado di interpretare bene i segni della malattia e soprattutto che sia capace di somministrare i giusti rimedi. Questi infatti resterebbero inerti, non sarebbero cioè in grado di contrastare l’azione del male, se
non fossero stati raccolti nel giusto modo. Non si tratta in questo caso di sapere solamente quando raccogliere, ad esempio, una determinata radice, ma soprattutto cozze: il potere delle piante, così come delle parti di animali usati nella pratica terapeutica, non è insito in esse, ma è connesso alle loro qualità soprannaturali. Qualità che inevitabilmente svanirebbero, qualora il
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ninsinli nel raccoglierle non rispettasse le giuste prescrizioni, ad esempio dimenticando di pregare per chiedere agli dèi il permesso di strappare la pianta.
Come già un okorrfo, egli può, nel caso in cui il problema sia di difficile risoluzione, invitare il paziente a restare presso il suo compound per il tempo necessario alla cura, e di norma ha delle stanze adibite all’ospitalità dei pazienti e di chi li accompagna. Altre volte invece si limiterà a prescrivere miscele erboristiche, empiastri o decotti che il paziente si somministrerà da sé. Come ho già accennato, nel contesto contemporaneo i rinsilzizza godono di un consenso abbastanza forte, sicuramente più vasto di quello degli akorfo. E che si tratta di una figura per molti aspetti più spendibile. Il processo di legittimazione della medicina tradizionale legata ai progetti di inserimento dei guaritori tradizionali nel sistema sanitario nazionale, di cui parlerò diffusamente nei prossimi capitoli, hanno fatto sì che si sia concentrata l’attenzione sui rinsilnima. Per i medici di formazione occidentale, ma anche per le grandi organizzazioni internazionali — prima fra tutte ’OMS — così come per il governo, è sicuramente complesso trattare con i saperi soprannaturali. Molto più semplice è invocare un sapere erboristico, ritenuto empirico e quindi più neutrale, quale base della medicina tradizionale (Green E. C. 1988). In ciò quanto accade in Ghana non si discosta da quello che avviene in altri Paesi. La stessa OMS, per riferirsi ai guaritori tradizionali africani mondandoli delle loro imbarazzanti incrostazioni sovrannaturali, ha inventa-
to il termine di “traditerapeuta” che dovrebbe riferirsi a un terapeuta tradizionale in grado di maneggiare i saperi erboristici e contro cui ha rivolto la sua ironia Dozon: «Il termine traditerapeuta [...] rappresenta di per sé un vero e proprio costrutto che non si riferisce ad alcuna competenza particolare, ma suggerisce una figura positiva di guaritore tradizionale spogliata di ogni elemento “magico-religioso”» (DOZON J.-P. 2000 [1987]: 47).
Del resto se si va a vedere l’esperienza cinese, cioè uno dei primi tentativi — oltretutto coronato da un certo successo — di inserire le figure terapeutiche tradizionali all’interno del sistema nazionale di cura, si nota come sia avve-
nuto lo stesso processo, cioè una depauperizzazione degli elementi di carattere religioso a vantaggio di quelli ritenuti più empirici (BIBEAU G. 2000 [1985]). Separare artificiosamente il sapere empirico dai suoi significati simbolici vorrebbe dire compiere un’operazione di snaturamento dell’intero complesso di conoscenze terapeutiche delle culture africane.
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Il caso del Congo, riportato da Gruénais e Mayala (GRUÉNAIS M.E. - MAYALA D. 1988), ben illustra il limite di alcuni tentativi di integrare biomedicina e medicina tradizionale. Per gli autori, nell'esperienza congolese è implicita l’idea che l'integrazione sia possibile a patto che si riesca a “sbarazzarsi” dell'efficacia simbolica della medicina tradizionale. Si può far risalire l’esordio dell’esperienza congolese al 1974 quando, sotto gli auspici del partito unico (PCT), nasce l’Unione Nazionale dei Guaritori Tradizionali Congolesi (UNTC).
Dalla sua fondazione al 1980, l'associazione ha una vita travagliata, soprattutto perché il partito e la Direzione centrale di medicina mettono l'accento solo sul lato empirico della medicina tradizionale. Ciò dipende, secondo gli autori, dal fatto che «in uno Stato che ha optato per il socialismo scientifico e che, di conseguenza, non può che favorire lo sviluppo scientifico della medicina tradizionale, è arduo accettare ufficialmente l’efficacia delle pratiche iniziatiche, divinatorie, rituali e religiose»
(GRUÉNAIS M.E. - MAYALA D. 1988: 53).
Sarebbe infatti come far propria una contraddizione profonda ed insanabile. Nel 1980 l’associazione si apre anche ai “parapsicologi”, parola che evidentemente il governo trovava più consona, rispetto al socialismo scientifico, dell’espressione “sacerdote tradizionale”; ma nello statuto definitivo dell’associazione approvato nel 1984, neppure di essi vi è più traccia. In questa battaglia contro gli aspetti simbolici della medicina tradizionale, il governo trova subito un alleato decisivo nei medici. Questi infatti sono disposti a collaborare con i terapeuti tradizionali a patto che si possa dimostrare la validità scientifica del loro intervento. La contraddizione tra l’ideologia del socialismo scientifico e l'accettazione degli aspetti simbolici della medicina tradizionale è dunque risolta «dall’attitudine scientista dello stato e del corpo medico: le pratiche qualificate come mistiche sono interdette o devono essere spiegate scientificamente. La medicina tradizionale si riduce così alla farmacopea» (GRUÉNAIS M.E. - MAYALA D. 1988: 61). I guaritori non accettarono questo tipo di.impostazione che mutilava il loro sapere di una parte essenziale. Molti di essi rifiutarono di aderire all’associazione, che finì per riunire solo dei guaritori giovani e con poca clientela per i quali la posta in gioco dell’adesione ad essa «sembra essere l’accesso ad una posizione di potere a livello di quartiere, rione o comune» (GRUÉNAIS M.E.
- MAVALA D. 1988: 59).
Anche nella mia esperienza diretta in Ghana, come ho avuto modo di scrivere altrove (SCHIRRIPA P. 1993), ho potuto constatare la volontà da parte di determinati gruppi di separare gli aspetti empirici da quelli simbolici del
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sapere terapeutico tradizionale; del resto diversi autori (GREEN E.C. 1988 e ANYINAM C. 19875 tra gli altri) sottolineano come molti medici di formazione occidentale in Africa siano ben disposti ad accettare il saper-fare empirico dei terapeuti tradizionali, ma si dimostrino molto più perplessi di fronte all'universo simbolico che sostanzia di senso tali pratiche!4. Insomma si potrebbe dire: “dateci i decotti e tenetevi gli spiriti”. C'è da chiedersi quanto sia tradizionale una medicina che tenda a separare l'ambito simbolico da quello empirico. Progetti ed azioni che vadano in questo senso più che legittimare, inventano un sapere tradizionale. Nel senso che concedono lo statuto di sapere autonomo e conchiuso, ancorché tradizionale, a pratiche che in realtà trovavano significato solo in un più vasto universo simbolico. 1.3. Guaritori in transizione
In effetti chi si trova a studiare oggi la medicina tradizionale, ha di fronte a sé un oggetto magmatico, sfuggente, di cui è difficile delineare i contorni. I processi innovativi che hanno caratterizzato la realtà ghanese di questo secolo, così come le dinamiche inculturative, hanno trasformato profondamente la medicina tradizionale.
È in questo quadro che si inseriscono delle figure che presentano caratteristiche differenti rispetto a quelle delineate più sopra. Innanzitutto vi sono quelli che normalmente vengono definiti, in specie dagli abitanti dei grandi centri urbani, come quackers. Si tratta di individui che
rivendicano una loro sapienza terapeutica ma che non sono iscritti ad alcuna associazione di terapeuti tradizionali, e non possiedono dunque la licenza ad operare che in genere queste rilasciano; sono per lo più persone che pur
essendo state chiamate da un dio, o più spesso avendo frequentato per un periodo uno o più rirsi/nima, per diversi motivi non hanno terminato il loro addestramento, quindi non possono definirsi okorzfo o ninsinli, ma che nem-
meno hanno una conoscenza adeguata dei saperi, delle pratiche e delle tecniche. Altre volte invece si tratta di individui che per diversi motivi sono venuti a contatto con terapeuti tradizionali, ispirati o erboristi, e che ne hanno ricavato una serie di nozioni — spesso disorganizzate — sulle cure. È quello che potremmo definire come il “lato selvaggio” della medicina tradizionale: individui che stanno ai margini di quelle pratiche e che tentano di utilizzare le loro conoscenze confezionando farmaci e amuleti, e vendendoli.
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Si possono incontrare agli angoli delle strade, ai margini dei mercati o più spesso alle stazioni degli autobus, confusi con la miriade di venditori che propongono acqua fresca in buste di nylon, bibite, frutta, cibo crudo e cotto, giornali, bibbie, libri di ogni genere, occhiali da sole e quanto altro è possibile. In genere salgono sugli autobus, intrattenendo i passeggeri durante attese spesso lunghe e tediose e, decantando i poteri terapeutici degli empiastri vegetali, delle creme e delle polveri che hanno confezionato, tentano di ven-. derli. Lo spettro di azione di tali prodotti, a detta dei loro venditori, è ovvia-
mente amplissimo e ciò naturalmente fa nascere diversi dubbi sulla loro efficacia. Si tratta comunque di figure presenti che non si possono non citare per lo spazio che occupano, benché questo risulti marginale rispetto all’organizzazione del sistema. Vi è poi quella serie di guaritori che nella loro pratica si rifà a più sistemi di riferimento. Oppong, in un suo saggio (OPPONG A.C.K. 1989), citava alcuni di essi definendoli “guaritori in transizione”. Si tratta di conciaossa che usano nella loro pratiche le radiografie per individuare la frattura e decidere come intervenire per la sua riduzione, o anche di terapeuti — spesso erboristi — che usano o lo stetoscopio o lo sfigmomanometro, assieme agli strumenti
diagnostici tradizionali, per individuare le patologie. L'idea di Oppong, chiaramente espressa del termine “in transizione” è che si tratti di figure che in qualche modo stanno traghettando la medicina tradizionale verso il moderno. È un tipo di approccio molto datato, informato della griglia interpretativa del social change. Anche io ho incontrato guaritori che usano di questi strumenti, di cui riferirò pù avanti, ma non credo che questa lettura sia cor-
retta. Il problema a mio avviso sta altrove e cioè nel forte significato simbolico di questi strumenti e nel senso che si può dare a questa appropriazione, ad un tempo un modo di incorporazione della modernità e uno strumento per appropriarsi dei simboli spendibili di un attore sociale che opera in maniera concorrenziale all’interno dello stesso campo di forze. Infine vanno citati gli “imprenditori”, cioè quella serie di piccole industrie, e ve ne sono diverse, che producono farmaci tradizionali sotto forma di pillole, sciroppi o creme; è facile trovarli in vendita nei banchetti dei mercati. A volte godono in qualche modo della supervisione del Centre for scientific research into plant medicine, altri invece sono prodotti in completa autonomia. Le confezioni ricalcano spesso quelle dei farmaci della biomedicina. Si tratta comunque di un’attività tuttora marginale che, con ogni probabilità, si vuole ispirare a quella fiorente industria di farmaci tradizionali della Cina, i cui prodotti sempre più spesso si affacciano anche in Ghana. Comunque per
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il momento i tali prodotti ghanesi di produzione industriale non godono di
ampio mercato e, nella mia esperienza, è raro che un guaritore proponga ai
suoi pazienti dei manufatti erboristici che non siano stati confezionati da lui o da persone di sua fiducia.
2. Profeti
2.1. Le chiese indipendenti in Africa Ne L'Afrique des guerisons Eric de Rosny (DE RosNyY E. 1992) descrive il campo terapeutico di Duala, e più in generale camerunese. In esso un posto
di rilievo viene assegnato alle chiese sincretiche. Eric de Rosny è un missionario gesuita che da più di vent'anni vive e lavora in Camerun. È sicuramente uno dei più grandi conoscitori della medicina tradizionale di diversi gruppi del Camerun e, soprattutto, delle terapie tradizionali che fioriscono nelle città e nei suoi immediati sobborghi, cui ha dedicato diversi saggi e un libro giustamente famoso (DE RosNY E. 1981). Nota De Rosny ne L'Afrique des guerisons che di norma quanti si siano occu-
pati di sistemi medici africani, e soprattutto quanti si siano occupati della pluralità di questi sistemi, non hanno dato lo giusto spazio al fenomeno, del resto crescente, delle chiese sincretiche. Aggiungerò che soprattutto i programmatori politici delle agenzie internazionali hanno negletto la funzione e l’azione terapeutica delle chiese. Quando si leggono i documenti ufficiali, si ha spesso la sensazione che per tali programmatori lo spazio terapeutico sia occupato da due soli grandi attori principali: la biomedicina e la medicina tradizionale. Ne deriva che nei programmi che vengono proposti ovviamente lo spazio di possibile azione di altri soggetti, come ad esempio i profeti delle chiese sincretiche, è quasi nullo. Certo diversa è la situazione se si guarda agli studi antropologici, dove in effetti il ruolo delle chiese sincretiche, anche come risorsa terapeutica, è stato
spesso messo in luce. Infatti, pur se gli antropologi che si sono occupati di sistemi medici africani‘ hanno negletto — o comunque non valorizzato in pieno — il ruolo delle chiese, è certo che da decenni la ricerca antropologica riflette su di esse!5. Il termine chiese sincretiche certo non rende giustizia della complessità dell’esperienza delle denominazioni indipendenti africane. La maggior parte di tali
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movimenti ha avuto origine nei primi anni di questo secolo, e molti dei profeti più conosciuti hanno portato avanti la loro predicazione tra gli anni ’10 e gli anni ’40. Esistono però documenti che testimoniano l’esistenza di movimenti religiosi a carattere sincretico nei secoli passati: un esempio è il movimento religioso di Donna Beatrice che ha avuto una intensa ma effimera esistenza nell’attuale Congo tra il 1704 e il 1706 (BALANDIER G. 1978: 262-274). L'esperienza delle chiese africane, almeno fino alla decolonizzazione è soprattutto una risposta culturalmente creativa alla progressiva penetrazione della predicazione missionaria e, parallelamente, della dominazione coloniale. Le chiese fornirono in quel contesto apparati simbolici complessi e polisemici che permisero di sviluppare discorsi critici verso il colonialismo, di immaginare un orizzonte “di libertà e di salvezza” per riprendere la celebre espressione di Lanternari (LANTERNARI V. 1960), e che spesso, come fu ad esempio il caso del Congo, furono anche la base per pratiche di resistenza. Visti come strumento di liberazione, o al più di opposizione sul piano religioso e ideologico alla cultura bianca, i nuovi movimenti religiosi dell’Africa nera avevano goduto di una notevole popolarità tra quegli antropologi che privilegiavano une lettura politica e, per usare un'espressione marxiana, “di
classe” dei fenomeni culturali. Nel periodo post-coloniale questo taglio analitico si è via via eclissato, lasciando spazio ad altri tipi di letture che, nel con-
tinuo espandersi di questi movimenti religiosi nelle nuove realtà urbane e rurali degli Stati africani indipendenti, privilegiavano principalmente l’indagine della dimensione terapeutica (per esempio: GILES L.L. 1987; HACKETT R.I. 1987; OOSTHUIZEN G. C. - EbWARDS S. D. - WESsELS W. H. - HEXHAM I. 1989) e della definizione dell’identità nei nuovi contesti postcoloniali!6, L'attenzione si è più rivolta all'analisi dello sviluppo urbano di questi movimenti, che si concentrava su una loro lettura come movimenti sincretici in
grado di svolgere una funzione adattiva, soprattutto in quei contesti urbani in cui si indebolivano le forme tradizionali di solidarietà (LANTERNARI V. 1988). Le stesse indagini, e altre ancora, si soffermavano sul nesso religione/terapia, sottolineando come questo fosse uno dei tratti salienti di queste chiese — del resto conosciute in letteratura come chiese di guarigione mediante preghiera —. Il nesso religione/terapia, già forte nelle religioni tradizionali, viene dunque riaffermato anche in queste chiese; diversi autori
però sottolineano come, anche in questo caso, le chiese rispondano a bisogni nuovi, dettati dai profondi mutamenti delle società indigene. Non solo si risponde a nuovi tipi di disagi e di patologie più legate agli ambienti urbani e alla marginalità, ma ancor di più si assiste a un mutamento profondo nel-
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l'ideologia della malattia: è il caso ad esempio del libro, giustamente molto noto, sul profeta avoriano Albert Atcho. In uno dei contributi più noti di quel testo, Zempléni sottolinea come le confessioni pubbliche dei pazienti di fronte al terapeuta e al profeta, mostrino come il paradigma dominante dell’ideologia della malattia si vada spostando da un meccanismo di tipo persecutorio (rintracciare cioè la colpa in una aggressione esterna, sia essa di origine umana o extraumana) ad uno invece più incentrato sulla colpa e dunque sulla responsabilità della vittima nello scatenarsi del suo male. Si tratta di una modificazione che va compresa all’interno delle più ampie trasformazioni degli assetti sociali, economici e politici della società avoriana. Mentre nelle società tradizionali, infatti, la malattia era un qualcosa che interessava
in primo luogo il gruppo parentale, e vi era dunque una gestione collettiva dell'evento, nelle società africane attuali la malattia sembra essere un fatto
più individuale, in linea con l'insorgere di una ideologia più individualista legata alla penetrazione dell'economia di mercato e del capitalismo (ZEMPLENI A. 1975). In questa prospettiva le chiese indipendenti, fornite di una ideologia della malattia in cui l'individuo è centrale nell'evento malattia e nella sua risoluzione, sembrano rispondere meglio alle mutate esigenze. In questi ultimi anni alcuni esempi dimostrano come l’attenzione verso la dimensione del politico stia tornando ad assumere una sua centralità. Mi riferisco ad esempio ai lavori di Jean e John Comaroff, ed in particolare a Jean Comaroff; in un suo volume (COMAROFF J. 1985) le Churches of Zion vengono analizzate principalmente come strumento che restituisce agli Tshidi dell’Africa del sud un senso della loro storia e della loro identità, ma che soprattutto permette loro di esprimere la protesta e la resistenza verso le società e le culture coloniali e post-coloniali. L'analisi dei fenomeni di resistenza e di protesta viene compiuta in una prospettiva storica che abbraccia diversi decenni della storia di quelle popolazioni e, soprattutto, tentando di superare la dicotomia tra prospettive locali e globali. Tutto ciò nella convinzione che «in Africa, come anche in altri luoghi del terzo mondo, la relazione tra ordini sociali locali e effetti del sistema mondiale mostra chiaramente l'inadeguatezza dei modelli sincronici che presuppongono la “perpetuazione” o la “riproduzione” di strutture socioculturali esistenti. Ma essi anche smentiscono le assunzioni dei modelli teleologici di trasformazione (sia di “modernizzazione” che di “dipendenza”) che si interrogano sulle questioni chiave circa la natura e la direzione dei processi storici. Sia i sistemi locali che globali sono ad un tempo sistematici e contraddittori, ed essi si impegnano tra loro in relazioni caratterizzate da simbiosi così come da lotta» (COMAROFF J. 1985: 3).
Le nuove chiese africane hanno rappresentato uno dei luoghi di mediazione
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dell'esperienza coloniale, e più in generale hanno saputo proporre mediazioni avanzate rispetto ad un quadro politico, sociale ed economico in rapido mutamento. È in questo modo che Dozon legge l’esperienza delle chiese harriste in Costa d'Avorio. Anche in questo caso l’analisi dei profetismi ècompiuta attraverso un’ampia prospettiva storica. Quello che emerge è una lettura del fenomeno che tiene conto dei complessi rapporti che nella società coloniale si intessevano tra profeti, popolazioni locali e potere coloniale. La tradizionale dicotomia tra potere coloniale e mondo indigeno sottomesso lascia il posto a immagini più composite di quella società. I profetismi nascono e si sviluppano in una situazione dinamica, fungendo da strumento della lotta di classe interna al mondo indigeno e intessendo rapporti ambivalenti con il potere coloniale prima, e con il potere politico della Costa d'Avorio indipendente poi. Dozon sottolinea come i profetismi siano dei prodotti religiosi della modernità, e come nella loro analisi le grandi partizioni, quale quella fra tradizione e modernità, si rivelino del tutto inefficaci. Così — quasi a marcare la sua differenziazione con una tradizione di studi che su questa partizione aveva costruito l’analisi delle chiese indipendenti — alla definizione di “chiese sincretiche” Dozon sembra preferire quella di “chiese sintetiche” che rinvia «a una capacità di sintesi, cioè a una disposizione a integrare dati nuovi e operare ai necessari riaggiustamenti [...] Meglio del qualificativo sincretico, troppo associato all’idea di semplice melange, il loro modo di procedere è meglio reso dal termine sintetico, per il doppio lavoro di interpretazione che porta alla creazione di nuove religioni» (DOZON J.-P. 1995: 11-12).
2.2. Lo spazio terapeutico delle chiese In Ghana il panorama delle nuove chiese indipendenti è quanto mai ricco e variegato, come del resto succede in gran parte degli Stati africani. Se nel 1968 Barret (BARRET D.B. 1968) aveva censito — in tutta l’area subsahariana — circa 6.000 chiese indipendenti, oggi questo numero è molto più alto. Per quel che riguarda Accra, nel 1986, un sociologo ghanese, Max Assimeng (AssiMENG M. 1986), propone un censimento delle denominazioni presenti che, per sua stessa ammissione, è certemente incompleto e lacunoso: sono comunque censite circa 500 diverse denominazioni. Alcune di esse sono oramai presenti sulla scena da diverso tempo, spesso più di cinquanta anni, come è il caso della W. W. Harris Twelve Apostles Church, o della Musama Disco Christo Church!7, e hanno un notevole numero di adepti e anche bran-
che nei paesi occidentali meta di emigrazione. Altre invece sono piccole
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comunità che spesso hanno una vita effimera. Costituite tutte da profeti, che rispondono così alla chiamata del dio cristiano che li invita ad adoperarsi per la salvezza terrena e ultraterrena, spesso nascono da scissioni interne, con un continuo processo di fissione e fusione. All’interno di questo panorama variegato si possono distinguere due grandi correnti. Da una parte le chiese dette spirituali, dall’altra le pentecostali. Le prime sono quelle che più si avvicinano al modello delle chiese etiopiste, zioniste ed harriste nate in epoca coloniale. In genere nascono da scissioni da altre chiese spirituali o da denominazioni storiche occidentali, solitamente di tipo protestante. Si tratta di chiese che hanno una origine locale e che non presentano legami con movimenti transnazionali. È difficile tentare di sintetizzare i principali temi del loro credo e della loro azione, proprio per l’estrema proliferazione e per il loro carattere poliedrico e multiforme. Si può comunque dire che esse predicano un cristianesimo rivisto in chiave africana. Nella loro predicazione è netta la rottura con il passato, e le divinità tradizionali, quantunque presenti, sono considerate alla stregua di demoni, che con la loro azione compromettono la salute e la salvezza degli esseri umani. Fenomeno per certi versi differente è quello delle chiese pentecostali. Queste nascono in Africa dalla predicazione missionaria delle denominazioni pentecostali d'America e d'Europa, cioè di quelle denominazioni che propugnano una esperienza di fede basata su un rapporto costante e diretto con la divinità, di cui i doni dello Spirito Santo (cioè i carismi, per come sono definiti da Paolo nella prima lettera ai corinzi) sono il segno. Le chiese pentecostali stanno acquistando uno spazio sempre maggiore in Ghana e, più in generale, nel continente africano. Punti centrali della loro predicazione sono, oltre
che l’appello per una fede vissuta in modo più intensamente partecipato e diretto, l’idea che la conversione sia una sorta di rinascita dell'individuo e
che questi, rinato in Cristo, ottenga da lui protezione contro i mali e salvezza. Per alcune chiese pentecostali poi tale protezione è anche il modo per ottenere, nella giusta maniera, gratificazioni più terrene: lavoro, sicurezza e
successo, insomma la riproposizione in chiave africana di quel “vangelo della ricchezza” fortemente diffuso tra le comunità pentecostali degli Stati Uniti, e che vede proprio nell’affidarsi al dio cristiano non solo la possibilità di essere difesi dalle forze del male, ma la concreta opportunità di arricchimento (GIFFORD P. 1990, 1994; MAXWELL D. 1998). Centrale nella predicazione pentecostale, sicuramente più che in quella delle chiese spirituali, è l’idea che la conversione rappresenti una rottura completa
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con il proprio passato, non solo individuale, ma anche culturale; c’è bisogno insomma di una completa rottura con la tradizione (MEYER B. 1998, 1999) che
si concreta con il rifiuto delle divinità tradizionali, anche in questo caso retrocesse al rango di demoni, ma anche di ogni pratica che ha a che fare con il mondo tradizionale. Anche il contatto con le terapie tradizionali è visto come fonte di possibile peccato, o almeno come un atteggiamento che — sottoponendo l'individuo a possibili influenze nefaste — può aprire la strada ai demoni. È il demonio, e più latamente il mondo delle forze occulte, la figura centrale anche nello spazio terapeutico. E ciò vale tanto per le chiese spirituali che per quelle pentecostali. La malattia, comunque essa si manifesti, è vista come
frutto dell’azione di Satana o del maleficio occulto di un essere umano malvagio. L'azione terapeutica consisterà dunque nell’allontanamento del demone. Può assumere sia le forme di un diretto esorcismo che quelle di un adorcismo cui seguirà un dialogo con il demone per chiedergli di non tormentare più la vittima. La concettualizzazione del demonio, o meglio delle attività occulte, è senza
dubbio uno degli aspetti più interessanti della predicazione di queste chiese. In effetti, attraverso un ampiamento del campo semantico di witchcraft!8 — che va a comprendere tanto la stregoneria, tanto la fattucchieria e ogni attività connessa con l’occulto — si punta l’attenzione non solo sul pericolo dell’occulto, quanto su quali siano gli obiettivi di tali pratiche. Si insiste insomma sul fatto che chi opera con l’occulto danneggia gli altri, non tanto per una sua connaturata malvagità — spesso inconsapevole — come le streghe azande di Evans-Pritchard o anche quelle akan!9, quanto invece in vista di uno scopo ben preciso: l'arricchimento illecito attraverso mezzi sovrannaturali — che persegue coscientemente e in vista del quale è disposto a danneggiare e uccidere altri esseri umani — (PARISH J. 1999, 2000). Nello spazio terapeutico l’azione contro l’occulto si svolge principalmente — e questo sia nelle chiese pentecostali che in quelle spirituali — attraverso le preghiere, con le quali gli operatori rituali (il profeta e i suoi assistenti) inviteranno le forze del bene (Cristo, lo Spirito Santo, a volte gli angeli) ad aiutarli nella battaglia contro i demoni. I corpi dei pazienti diventano in tal modo il teatro terreno di una battaglia metastorica tra le forze del bene e quelle del male. Le chiese condividono la classificazione delle patologie in naturali e spirituali a seconda di quale sia la loro causa. Come si diceva prima, tale classificazione taglia trasversalmente l’universo delle patologie e non è associabile a spe-
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cifiche forme di malattia. Le chiese rivendicano una capacità di intervenire con successo in entrambi i casi, mentre l’azione della biomedicina sarebbe
limitata alle sole malattie di origine naturale. Infine il lavoro dei guaritori tradizionali, benché potenzialmente efficace, è visto con sospetto, per l’intrinseco legame tra questi e l’occulto. Anche consultare un guaritore per curare una malattia di origine naturale potrebbe essere estremamente pericoloso, poiché rischierebbe di aprire la porta ai demoni con cui i guaritori lavorano. In tal modo gli operatori delle chiese spirituali e pentecostali, spesso peraltro in forte polemica tra loro, delineano un quadro chiaro di come essi si
situino all’interno del campo terapeutico e di quali siano le posizioni che assegnano agli altri attori sociali presenti sulla scena. Gli operatori di biomedicina sono visti come un elemento tutto sommato neutrale, portatori di un sapere meramente tecnico che può, e anche con un certo successo, intervenire in problemi che però siano limitati al solo campo naturale. Dal lato opposto si situano i guaritori tradizionali che, per i loro contatti con l’occulto, non possono che produrre conseguenze nefaste per chi li contatta.
3. Biomedicina Una notte del 1997, mentre ero a Beyin, capitale dello Nzema occidentale,
mi sentì male. Non era probabilmente nulla di serio: in genere “l’essere lì”, il campo, comporta diversi fastidi fisici. Per maggiore tranquillità il mattino seguente decisi di recarmi a un bealth-post che si trovava a un paio di chilometri di distanza, in un villaggio vicino. Gli hea/th-post sono la struttura minima dell’organizzazione sanitaria statale del Ghana: si tratta di piccoli ambulatori, spesso retti da personale non qualificato che ha svolto brevi corsi di primo soccorso e di assistenza sanitaria di base, in cui è possibile ricevere una prima diagnosi e cure per problemi non molto gravi. Data la presenza poco capillare sul territorio di ospedali e cliniche, è spesso lo strumento — nell’ambito delle strutture di tipo biomedico — più a portata di mano per chi ha necessità sanitarie. Vedendomi arrivare, il responsabile dell’hea/th-post si fece incontro per salutarmi. Forse notò nella mia espressione un velo di preoccupazione e così, dopo avermi dato il benvenuto, decise di sdrammatizzare la situazione dicendomi: «non ti preoccupare, tanto non potremo farti nulla di male: qui non
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abbiamo nessun farmaco». Grato della sua ironia, mi guardai intorno e vidi solo una serie di armadietti ed espositori assolutamente vuoti. Certo, si trattava di un posto di prizzary health care di una zona rurale e periferica del Paese, ma sicuramente quella della penuria di farmaci e di personale qualificato è ciò di cui la gran parte della popolazione rurale del Paese fa esperienza quotidianamente. La situazione sembrerebbe ben diversa in città dove abbondano le cliniche private e dove si trovano la maggior parte delle risorse sanitarie pubbliche. Parlerò successivamente dello sviluppo storico della biomedicina in Ghana,
qui vorrei solo proporre una serie di riflessioni legate alla situazione attuale, da un lato per mostrare nel modo più esaustivo quali siano — e come si situino — le forze che operano nel campo delle terapie; dall’altro per illustrare su quali risorse di cura possano contare gli utenti e su quale sia la loro effettiva disponibilità. Se ho iniziato con quella mia esperienza personale è perché mi aveva dato il senso concreto delle ineguaglianze di accesso alle risorse sanitarie. Per me,
ricco europeo, non era poi difficile accedere a una qualunque delle risorse sanitarie; lo stesso non si può dire per ampi strati della popolazione ghanese. Accennavo prima al fatto che le risorse di tipo biomedico siano più diffuse in ambito urbano. Nei documenti ufficiali dell'OMS, come in buona parte
della letteratura, si sottolinea che nei Paesi detti “in via di sviluppo” 1’80% della popolazione non ha facile accesso alle risorse di tipo biomedico, e che per gran parte si tratta di individui che risiedono in aree rurali. In genere i documenti ufficiali dell’OMs sottolineano questa disparità tra contesti urbani e rurali. È sicuramente vero e, nella sua evidenza, tale disparità è una esperienza quotidiana anche per il ricercatore. I cartelloni che pubblicizzano le cliniche private dimostrano come esse, così come gli ambulatori e gli ospedali pubblici, siano frequenti in città; ma lo stesso non si può dire delle aree rurali. Tale evidenza però sembra a volte oscurare altri tipi di ineguaglianze. È quanto sottolinea Charles Anyinam in un suo saggio: «Si deve comunque notare che la situazione favorevole nei centri urbani oscura la mancanza di risorse per alcuni segmenti di popolazione urbana. A Kumasi, per esempio, tutti gli ospedali e le cliniche esistenti sono concentrati all’interno di un diametro di dieci miglia dentro la città. Il solo servizio sanitario che si ritrova all’esterno di quest’area è quello di maternità. È un serio squilibrio nell’erogazione dei servizi sanitari nella città poiché il 50% della sua popolazione risiede nei sobborghi. L'offerta dei servizi sanitari privati, a Kumasi, segue lo stesso modello di distribuzione.» (ANYINAM C. 199125
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Vi è dunque una disparità intraurbana che bisogna prendere in considerazione. Anche se nella citazione qui riportata non appare chiaramente, tale disparità è soprattutto sociale, e tende a escludere dall’erogazione dei servi-
zi la parte più marginale della popolazione. Occorre sottolineare che la situa-
zione è ancora più grave se si pensa che la stessa disparità, soprattutto in
ambito urbano, si può constatare nella presenza di risorse sanitarie di tipo tradizionale. Anche esse infatti tendono a distribuirsi secondo lo stesso modello e dunque a concentrarsi nelle parti più ricche della città (ANYINAM C. 1991). Le zone periferiche e povere dunque subiscono una doppia carenza. E certamente questo è un dato che dovrebbe far riflettere di più i programmatori di politiche sanitarie.
Come si vedrà, la disparità nell’erogazione dei servizi è un vizio di origine nella creazione del servizio di assistenza sanitaria pubblica, almeno dai tempi della istituzione della colonia. In genere l’attenzione dei governi, prima coloniali e poi nazionali, è stata rivolta molto più verso la malattia che verso la salute della popolazione. Intendo dire che si è pensato meno a strategie preventive complessive, che avrebbero richiesto ad esempio interventi complessi a livello di sistemazione igienica e di creazione di strutture di prevenzione, e molto più a fronteggiare specifiche situazioni legate alla presenza di patologie. Si è puntato perciò invece che a politiche di prevenzione (poco visibili dal punto di vista politico), incentrate sulla igienizzazione del territorio (acqua potabile, fogne, ecc.) alla costruzione di ospedali e all'ampliamento di quelli già esistenti, o alla diffusione, possibilmente capillare, di posti di salute primaria (bea/th-post) che possano fornire assistenza sanitaria alla popolazione (TWUMASI 1981). Va detto però, come dimostra la mia esperienza riportata più sopra, che questi spesso non sono forniti di farmaci e il personale presenta una scarsa preparazione, trattandosi il più delle volte di operatori sanitari di villaggio, cioè di individui che fanno periodicamente corsi brevi di primo soccorso e di igiene. L'organizzazione del sistema di cura a carattere biomedico risulta abbastanza composita. Innanzituto esiste il sistema sanitario pubblico, organizzato, pianificato e finanziato dal governo. Le cure mediche sono erogate dagli ospedali, dai centri di salute, dalle cliniche, dagli bea/th-posts e dai centri materno-infantili. L’organizzazione dei servizi non è ottimale; spesso i materiali sono obsoleti, i farmaci scarsi e il personale insufficiente. Nelle aree rurali, poi, i servizi, specie le cliniche e gli ospedali, non solo sono scarsa-
mente diffusi, ma denotano spesso uno stato preoccupante di abbandono e inefficienza.
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Accanto al servizio pubblico esiste una rete di assistenza “quasi-governativa” che fornisce prestazioni a segmenti specifici della popolazione: ad esempio l’esercito, la polizia, gli impiegati di alcune grandi compagnie e industrie. Vi è poi una rete, abbastanza capillare nelle città, di servizi sanitari privati, spes-
so forniti da singoli medici. Si tratta di cliniche, ospedali di piccole dimensioni, farmacie. Tra i servizi privati, ma in una posizione diversa, bisogna
annoverare anche le prestazioni fornite dalle missioni religiose, in genere abbastanza presenti anche nelle aree rurali. Da un punto di vista finanziario le missioni godono di un qualche aiuto governativo. Questa l’organizzazione ufficiale della biomedicina. Bisogna però tener presente, anche in quersto caso, quello che ho chiamato, in relazione alla medicina tradizionale, il “lato selvagggio”. In questo caso non mi riferisco a individui poco qualificati che operano come medici, quanto invece a una serie di attività legate alle inefficienza del sistema. La principale di queste è la vendita illecita di farmaci. Si tratta di un fenomeno diffuso in tutto il continente africano, anche se forse è più eclatante nelle aree che furono colonizzate dalla Francia. In effetti le ex colonie hanno mantenuto per molti aspetti leggi e organizzazioni imposte dai colonizzatori. Per quel che riguarda la distribuzione dei farmaci vi è una differenza fondamentale tra le vecchie colonie francesi e quelle inglesi (FASSIN D. 1985, VAN DER GEEST S. 1987). In gran parte delle prime, infatti, vige un sistema di distribuzione dei farmaci statale, monopolistico e centralizzato. Ciò fa i conti non solo con forti inefficienze distributive, ma anche con una diffusa corruzione che fa sì che buona
parte dei farmaci si “perda” durante la catena distributiva, creando ovviamente una forte penuria di farmaci (FASSIN D. 1985). Nei Paesi che hanno erdeditato la legislazione anglosassone la situazione è in parte diversa, visto che la distribuzione dei farmaci non è centralizzata. I farmaci sono disponibili nelle farmacie e, per buona parte di essi, nei drug-store e non è così difficile fornirsene. Nonostante ciò però vi è comunque una certa penuria.
Il risultato è che sul mercato nero si trovano molti famaci, di cui però non è possibile garantire la corretta conservazione, e a volte nemmeno l’autentiticità. Inoltre chi vende farmaci spesso non ne conosce l’uso corretto e la giusta posologia. La stessa cosa vale per gli acquirenti, con il risultato che spesso tali acquisti non solo non portano a benifici, ma causano danni anche seri.
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Note ! Analoghe posizioni si ritrovano in MURDOCK G.P. - WILSON S.E - FREDERICK V. (1978). In realtà tale dicotomia appare poco utile in quanto, tentando di stabilire delle macrocategorie in cui possano trovar posto le differenti concezioni eziologiche, di fatto tende ad oscurare la complessità delle ideologie tradizionali della malattia; inoltre è ben difficile pensare forme terapeutiche governate da una soltanto di queste due logiche; spesso infatti entro le differenti concezioni della malattia (quando non l’eziologia di uno stesso “evento malattia”) sono governate allo stesso tempo da concezioni naturalistiche e personalitiche, rendendo con ciò tale distinzione euristicamente poco spendibile. Per una critica puntuale all'impostazione di Foster si veda tra gli altri Augé (AUGÉ M. 1986 [1983]). 2. Sulla logica della 3. Una tale funzione 1987 classifica come sovrannaturali come
causalità che giustifica l'insorgere del male cfr. anche LEWIS IM. 1972. potrebbe far rientrare il culto degli antenati in quei culti che LEWIS I.M. “culti centrali a carattere morale”, in cui prevale la funzione degli enti custodi e garanti del buon ordine della società.
4. Con questo termine Janzen fa riferimento al gruppo di persone, di norma gli individui socialmente più vicini al malato (gruppo domestico, vicini, capifamiglia o anziani del villaggio) i quali in modo formalizzato, o anche in maniera informale, si prendono carico della gestione della malattia fino alla sua risoluzione. In poche parole si tratta di quelle persone che hanno voce in capitolo nel decidere, attraverso una serie di prime considerazioni sulla natura e gravità del male, quale sia la strada idonea da seguire (ad esempio autocura domestica, invio dal guaritore, visita all'ospedale). Il gruppo non esaurisce la sua funzione con la prima decisione, ma continua ad essere presente e ad avere peso sulle continue decisione da intraprendere in un complesso percorso terapeutico. 5. Per qul che riguarda questo tipo di posizioni si vedano soprattutto i due libri collettanei LOUDONJ. (cur.) (1976) e YODERP. S. (cur.) (1982).
6 Non va però dimenticato che anche una patologia per noi, ricchi occidentali, tutto sommato banale come la diarrea infantile è ancora in questa parte del mondo, povero perché sfruttato, in molti casi letale.
7? Cfr. anche FOSTERG.M. - ANDERSON B. 1978. 8
Nella ortografia twi, come in quella di altre lingue di ceppo akan, i segni “0” e “e” corri-
spondono rispettivamente a “o” e “e” aperte.
9. Su questo argomento cfr. SCHIRRIPA P. 19955; 1998, 1999 e 2001.
10 Espressione per nulla forzata se penso alle diverse classificazioni di un dio — se ad esempio abusua bozonle o maanle bozonle — diversi attori possono dare o ancora a casi di sottrazione di un dio tra differenti abusua (cfr. SCHIRRIPA P. 1999). 11 Rattray descrive in manera mirabile il complesso addestramento di un okorzfo tra gli Asante (RATTRAY R.S. 1927: 38-47). 12 Un'analisi molto accurata dei mercati di Accra dove vengono venduti i prodotti grezzi usati dai terapeuti è compiuta da Renato Libanora. L’analisi dell’antropologo italiano, frutto di una ricerca sul campo, mette bene in luce quali siano i rapporti, spesso concorrenziali, tra i tera‘ peuti e le venditrici del mercato, contestualizzandoli all’interno del campo delle terapie. L’analisi è condotta tenendo nel debito conto, tanto le trasformazioni diacroniche del campo,
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quanto i nuovi equilibri dovuti alla mutata situazione sociale in seguito alla ristrutturazione economica (cfr. LIBANORA R. 1999 e 2003). 13 È ciò che Bibeau definisce la cherzical line (BIBEAU G. 1979). 14 Naturalmente maggiori perplessità e problemi ancor più grandi nascono nel momento in cui si vuole valutare, spesso con i metri propri del sapere scientifico occidentale, l'efficacia delle terapie tradizionale. Su questo tema rimando a Lionetti (LIONETTI R. 1993). Per quel che riguarda invece una più ampia rassegna sul dibattito intorno all’efficacia della medicina tradizionale si veda WALDRAM J.B. 2000. : cui tra esempi illustri alcuni escludiamo se — decenni 15 In effetti sembra che negli ultimi LANTERNARI V. 1988 — le ricerche dell’antropologia medica africanista abbiano tralasciato la funzione terapeutica delle chiese indipendenti. Ciò probabilmente è dovuto anche al fatto che, soprattutto nelle tradizioni di lingua anglosassone, l'affermarsi dell’antropologia medica come campo autonomo di studi abbia significato un progressivo allontanamento dall’interesse verso la sfera religiosa che invece aveva caratterizzato i primi studi sulle terapie “non occi-
dentali” (Evans PRITCHARD E.E. 1976 [1937], Rivers W.H. R. 1924). È quanto sottolinea Yoder nel già citato saggio sottolineando come se in quelle monografie «lo studio delle credenze e delle pratiche mediche era sussunto sotto le rubriche della magia, della fattucchieria e della religione» (YODER P.S. 1982: 2), le analisi attuali tendono invece ad enfatizzare altri aspetti dei campi terapeutici, come ad esempio le pratiche di prevenzione, le eziologie, gli interventi di cura. Per Yoder tutto ciò sembra essere estremamente positivo, resta da vedere quanto l’elisione degli aspetti più propriamente religiosi e soprattutto il misconoscimento delle funzioni anche terapeutiche di realtà come le chiese indipendenti, sia euristicamente un vantaggio.
16 Un esempio emblematico di come l’analisi di queste due dimensioni sia divenuta dominante si ritrova nei lavori di Lanternari. In effetti il libro forse più noto dell’antropologo italiano (LANTERNARI V. 1960) è incentrato sulla relazione, spesso conflittuale, tra nuovi movi-
menti religiosi e poteri coloniali. Lo stesso autore però, quando ha lavorato sul campo in Ghana, ha privilegiato l’analisi della dimensione terapeutica tralasciando completamente l’indagine dei rapporti tra chiese e potere (LANTERNARI V. 1988). Lo stesso autore in un altro saggio (LANTERNARI V. 1984) afferma che in queste chiese prevale una ideologia evasionista e che in esse non si può ritrovare nessuno spazio per il politico. In realtà anche in quelle chiese in cui prevale una ideologia evasionista è però possibile indagare diverse dimensioni del politico e le complesse relazioni che intercorrono tra queste e il potere (ASSIMENG M. 1989; POBEE J.S.
1976 e 1988; SCHIRRIPA P. 19924 e 19925). 17 Cfr. BAETA C.G, 1962.
18 Mi riferisco ovviamente alla nota distinzione tra witchcraft e sorcery compiuta da EvansPritchard nella sua analisi della stregoneria zande (EVANS-PRITCHARD E.E. 1976 [1937]). Per decenni una tale dicotomia è stata alla base delle successive analisi dei complessi ideologici della stregoneria in Africa e non solo. Negli ultimi anni comunque diversi studi (ad esempio GESCHIERE P. 1995, COMAROFF]. - COMAROFF J.L. curr. 1999, MOORE H.L. - SANDERS T. curr. 2001) tendono a sottolineare come, specie nelle aree urbane, tale dicotomia non sia più applicabile, poiché ci si trova di fronte ad un complesso mondo di pratiche e di discorsi il cui centro è proprio l’azione occulta volta al beneficio individuale, attraverso il danneggiamento di altri. A tutto ciò ci si riferisce con il termine witcheraft. 19 Cfr. ad esempio per quanto riguarda gli Nzema GROTTANELLI V.L. 1978.
Capitolo quinto Contesti 2: politiche
1. «Con un po’ di fortuna»: la vita quotidiana in Ghana nell'epoca della grande ristrutturazione economica
Come molti paesi africani, il Ghana nel corso degli ultimi venti anni ha conosciuto quelle grandi riforme economiche e del mercato, guidate dagli ingegneri politici del Fondo monetario internazionale, che vanno sotto il nome di grande ristrutturazione. Il volto del paese ne è uscito fortemente modificato, e se da una parte per diversi individui ciò ha significato l’ingresso in circuiti economici e commerciali di carattere globale, sicuramente essa ha comportato l’acuirsi di disparità economiche interne al paese, e l’affiorare di nuove forme di povertà. L'ingresso massiccio di merci nel paese, cui non ha corrisposto un adeguamento del potere di acquisto della gran parte della popolazione, ha comportato la nascita di nuovi bisogni e l’esasperazione della mercificazione dei rapporti sociali i cui riflessi sono evidenti nei comportamenti quotidiani. I due sottoparagrafi che seguono vogliono essere una esemplificazione di ciò. Il primo è dedicato ad Accra, luogo principale della mia ricerca, ma soprattutto principale città del Paese, il cui sviluppo, anche negli anni recenti, è fortemente connesso alle dinamiche sociali e agli aggiustamenti economici più generali della nazione. Il secondo invece tratterà essenzialmente della stregoneria che, come ormai molta antropologia africanista afferma con forza, non va certamente letta come un residuo ancestrale che va scomparendo, ma
invece come uno dei prodotti più interessanti e fertili — anche per la sua carica di critica sociale — delle modernità africane, e non solo. 1.1. Accra
Nel 1877 gli inglesi trasferirono la capitale della colonia della Costa d’Oro (l’attuale Ghana) da Cape Coast ad Accra, che fino ad allora era stato un cen-
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tro non molto grande ed abitato in prevalenza da pescatori Ga. Il trasferimento della capitale comportò un progressivo dilatarsi del piccolo centro verso i sobborghi vicini che vennero così assorbiti; nel frattempo si andavano creando i servizi e le infrastrutture necessarie all’apparato amministrativo della colonia che dovevano in breve disegnare il nuovo volto della città. Il processo di assorbimento dei vicini centri è tuttora in corso, e Accra nella sua espansione urbanistica continua a ingoiare i villaggi limitrofi. Dal punto di vista amministrativo, ciò ha comportato la nascita di una autorità metropolitana (Accra metropolitan authority), che governa il distretto della “Grande Accra”.
Fino al terzo decennio di questo secolo, assieme allo sviluppo delle infrastrutture amministrative si assistette ad un prosperare di attività commerciali che avevano il loro punto focale nell’attività del porto, allora il principale di tutta la colonia e centro di raccolta e di smistamento dei prodotti destinati all'esportazione, soprattutto del cacao e dell’olio di palma. La costruzione nel 1928 del porto di Takoradi, destinato a diventare in breve tempo il più importante del paese, segnò però la progressiva diminuzione del volume di affari di quello di Accra, con la conseguente contrazione di tutte le attività ad esso legate. Accra si venne così caratterizzando sempre più come una città
destinata ai servizi burocratici ed amministrativi; ancor oggi la gran parte dei suoi abitanti che possiede un lavoro stabile risulta impiegata in ministeri ed altri uffici (ACQUAH I. 1972). Nel frattempo Accra continuava a crescere grazie al flusso continuo di emigrati provenienti in parte dal nord della colonia, ma soprattutto dalle zone costiere occidentali ed orientali, abitate rispettivamente da Akan e da Ewe (CALDWELL J.C. 1967). Attirati dalle allettanti prospettive di facili guadagni, di un miglioramento delle proprie condizioni di vita e della possibilità di assumere uno stile di vita più consono a quello proposto dai modelli occidentali, prospettive che comunque andarono molto spesso deluse, essi costituirono un flusso continuo che, a partire dagli anni ’50, diventò una vera marea che contribuì in maniera fondamentale all’enorme accrescimento della popolazione della città, che si calcola abbia avuto, a partire da quegli anni, uno dei tassi di crescita più alti del continente (GUGLER]. - FLANAGAN W.G. 1978: 2 sgg.; BREESE G. 1972: 21-54 e 128 sgg.). Questa ingente immigrazione ha comportato una situazione di grande eterogeneità culturale ed etnica, la quale ha a sua volta contribuito a disgregare ancor di più gli assetti tradizionali della città.
Il processo di modernizzazione ha modificato profondamente l’assetto eco-
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nomico e sociale di Accra. Si è assistito infatti all'espansione del settore terziario, con un forte incremento delle attività impiegatizie, del piccolo commercio e di tutte le attività legate al trasporto urbano; nel contempo l’agricoltura e la pesca, che nel secolo scorso erano state le principali attività e fonti di sussistenza della città, hanno assunto un peso sempre minore nell’economia urbana, assorbendo una quantità sempre minore della forza lavoro disponibile. L'attività manifatturiera è rimasta ad un livello artigianale, mentre non si è sviluppata una attività industriale di grande respiro; il commercio infine è rimasto quasi esclusivamente votato al piccolo dettaglio mentre i grandi centri di distribuzione si sono concentrati in poche mani. La trasformazione economica ha portato all’affermarsi di élites urbane che controllano i grandi centri di distribuzione commerciale e i luoghi del potere politico, e che si configurano oramai come i gruppi egemoni del paese. L'espansione del terziario, in tutte le sue forme, ha portato da una parte alla
formazione di un ceto impiegatizio, di tipo piccolo borghese e mediamente istruito, che comprende i lavoratori dei ministeri e dei servizi (ospedali, polizia, posta); dall'altra alla nascita di un grosso settore informale formato per la maggior parte da ex-contadini inurbati in possesso di un'istruzione scarsa o nulla, e da donne; sono molto forti comunque anche le sacche di assoluta
marginalità, che danno alla città quel desolante e disperato panorama di individui senza dimora, senza prospettive e che vivono di carità, o di piccola criminalità, così tipico delle città del terzo mondo. La categoria sociologica di “settore informale” è oramai entrata a far parte del bagaglio concettuale degli studi antropologici e sociologici incentrati sulle aree urbane del terzo mondo!. L'ampliamento dell’economia di mercato e dei rapporti di produzione di tipo capitalista assume nei grandi centri dei paesi sottosviluppati una sua forma specifica. La mancanza di uno sviluppo industriale adeguato e soprattutto la dipendenza dalle industrie occidentali, le quali hanno imposto sul mercato i loro prodotti, hanno strangolato le possibili risorse imprenditoriali locali; ciò ha avuto come conseguenza — in luogo di un processo di formazione di un proletariato, simile a quello avvenuto in Occidente — l’emergere di una grande varietà di attività autonome su piccola e piccolissima scala di produzione di beni e servizi, di distribuzione e di vendita2. È a questo genere di microattività che ci si riferisce con la categoria di settore informale. Si tratta di una categoria composita, che
comprende al suo interno tanto i venditori al dettaglio dei mercati rionali, quanto i piccoli imprenditori che arrivano ad avere anche qualche operaio al loro servizio. Ciò che consente di unificare questo vasto ventaglio di attività
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entro un’unica categoria sociologica è il fatto che esse si svolgano tutte su piccola scala, il che dà luogo ad un’irregolarità di produzione e quindi ad una vendita asfittica, e soprattutto il fatto che nessuna di esse permette una stabilità di reddito o il consolidarsi di fortune individuali. Trattandosi di attività minute, spesso i redditi da esse ricavati consentono poco più che la semplice sussistenza e sono comunque soggetti ai capricci di un mercato quanto
mai instabile come quello dei paesi del terzo mondo. Ad Accra il numero di individui che traggono il loro sostentamento da attività comprese nel settore informale è in costante aumento dagli anni ’60; benché, trattandosi di un settore segnato dalla grande mutevolezza ed instabilità delle sue attività, sia molto difficile darne l’esatta dimensione?. Molto
forte è la presenza al suo interno delle donne che, impegnate soprattutto nella vendita minuta nei banchetti dei tantissimi mercati disseminati per la città, rappresentano senza dubbio la parte più esposta ai capricci ed alle vicissitudini del mercato. L'alta percentuale di divorzi e il gran numero di unioni non sanzionate legalmente, di solito instabili e di breve durata, fa sì
che molte di esse affidino a questo genere di attività tutte le possibilità di sostentamento per loro ed i loro figli. Ciò rende ancora più drammatica ed esposta la loro situazione, e spesso comporta l’insorgere di stati di stress psicologico molto gravi. Questo discorso può essere, in linea di massima, valido per tutti gli individui che siano impegnati in attività comprese nel settore informale. Le continue variazioni di reddito — che possono portare ad improvvisi arricchimenti 0, come accade molto più spesso, ad altrettanto repentine rovine — provocano in questi individui un continuo stato di malessere e di insicurezza che facilita l’affermarsi di stati di ansia e di stress psicologico, che a volte danno luogo a configurazioni patologiche di carattere psichiatrico. L’esasperata concorrenza che esiste, conseguenza dell’asfitticità del mercato, ed i continui sbalzi che facilitano accanto ad un poco frequente colpo di fortuna improvvisi e repentini impoverimenti, enfatizzano inoltre la conflittualità delle relazioni sociali; in questa situazione le accuse di stregoneria fioccano. Alberto Sobrero, in un testo dedicato alla antropologia urbana, offre una descrizione quanto mai vivida dei nuovi contesti urbani africani, e soprattutto di quella enorme folla di piccoli dettaglianti, legati alle alterne fortune quotidiane, che affollano il panorame dell'economia informale del continente: «In tutte le città africane l'economia prevalente sembra quella legata al piccolo commercio, al piccolo servizio, all’occasionale vendita della propria forza lavoro, al preca-
rio impiego ai margini della economia statale. A Lagos un giovane di vent'anni può aver
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fatto il cameriere, il meccanico, il poliziotto e al tempo stesso aver acquisito un qualche titolo di studio; una ragazza della stessa età può essere stata segretaria, gerente di un piccolo commercio, studentessa poliziotta, ma anche prostituta. E l’instabilità sociale ed economica diventa spesso instabilità esistenziale, precarietà del sistema dei valori, assenza di riferimenti e di progetti, un modo d'essere complessivo che tanto spesso si riscontra parlando con i ragazzi di Dakar o di Lagos e che solo forzatamente può essere assimilato a quello del nostro sottoproletariato urbano. I percorsi di vita si aggrappano alle occasioni di sopravvivenza che di volta in volta permettono di andare avanti e quest'ultime si incrociano nella maniera più strana» (SOBRERO A.M. 1992: 95-96).
Gran parte della popolazione di Accra è oggi composta da immigrati di prima o seconda generazione. Come si è detto, essi provengono principalmente dalle zone circonvicine e dalle coste, ma è presente anche una buona percentuale di immigrati originari dal nord del paese. Si tratta comunque di un’emigrazione dalle zone rurali e poco sviluppate tipica di tutta l'Africa occidentale (HANNA W.J. - HANNA J.L. 1971: 32 sgg.). Oggi Accra è una moderna capitale africana, che vive gli squilibri e le contraddizioni di tutti i grandi centri urbani di questo continente. I centri residenziali signorili si susseguono quasi senza soluzione di continuità con vere e proprie bidonvilles prive di acqua, luce e di ogni servizio; inefficienza e insufficienza dei servizi pubblici di ogni tipo, principalmente di quelli essenziali come quello medico-sanitario, rendono difficoltoso il vivere, e spesso anche il sopravvivere, per molti dei suoi abitanti. Nell’ultimo decennio inoltre la città, oltre alla continua espansione dei suoi confini, ha conosciuto un incremento notevole delle attività edilizie, che
hanno comportato il ridisegno di alcune parti del centro. L'impressione che si ricava girando nelle zone di nuova urbanizzazione o anche in molte di quelle centrali, è di un continuo riaggiustamento. Allo stesso tempo, le costruzioni mai finite — scheletri di sogni non realizzati — le strade di terra che durante la stagione delle piogge si riducono a pozzanghere circondate da fanghiglia, le baracche e le vecchie abitazioni — fatiscenti ma tuttora occupate — suggeriscono piuttosto l’idea di una perpetua incompletezza.
1.2. Stregoneria e (im)moralità dello scambio
Ancor prima di Stregoneria, Oracoli e magia tra gli Azande di EvansPritchard (Evans-Pritchard E.E. 1976 [1937]), e certamente in misura maggiore dopo la pubblicazione di quel testo, la stregoneria ha spesso rappresentato un luogo privilegiato di riflessione per le antropologie africaniste. Uno dei punti di vista privilegiati per leggere le società africane.
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Il testo di Evans-Pritchard sicuramente ha fatto giustizia delle facili letture che vedevano nella stregoneria un insieme di pratiche superstiziose, magari specchio di una mentalità pre-logica, imponendo alla comunità degli antropologi, e non solo, un livello di riflessione più complesso che tenesse in conto la sottesa razionalità di quelle pratiche, la loro natura di sistema e la logica sociale che le governa: «Rompendo con le convenzioni etnografiche precedenti, convenzioni secondo cui le idee magiche e mistiche erano presentate come un catalogo di credenze irrazionali e scollegate, egli evidenziò che esse non erano una quantità eterogenea di nozioni disparate ma piuttosto un insieme sistematico di idee sulla causalità sociale della sfortuna» (MOORE S.F. 2004 [1994]: 41).
I resoconti etnografici della prima parte del XX secolo, che si concentrarono principalmente sulla vita nei villaggi tradizionali tentando così di ricostruire le società indigene — in quanto sistemi sociali — per come erano
“prima” della dominazione occidentale, fornivano un quadro atemporale — fortemente contestato negli ultimi decenni (ad es. FABIAN J. 2000 [1983]) — in cui le dinamiche di mutamento connesse alla colonizzazione erano spinte ai margini dell’analisi. In quell’orizzonte conoscitivo le pratiche della stregoneria erano lette soprattutto nel loro aspetto di meccanismo di regolazione sociale teso al mantenimento dell’equilibrio: «Le accuse di stregoneria, le tensioni sociali e le fissioni da esse generate, quasi letteralmente, facevano la storia. Comunque, la focalizzazione sugli aspetti normativi e morali — visti come meccanismi per mantenere la stabilità della società — aveva come risultato l’enfasi sull’omeostasi: la stregoneria come valore di pressione, un mezzo per risolvere le tensioni in modo che il cambiamento non potesse aver luogo» (MOORE H.L. - SANDERS T. 2001: 8).
Questo è anche il paradigma entro cui vanno inserite le analisi di Vinigi Grottanelli sulla stregoneria nzema (GROTTANELLI V.L. 1976, 1978) Quando il principale interesse degli studiosi si spostò dai meccanismi di conservazione della coesione e dell’equilibrio sociali all’analisi delle dinamiche di mutamento, il modo in cui ci si accostava alla comprensione delle pratiche di stregoneria, e soprattutto dei culti antistregonici, mutò radicalmente. Ciò era accompagnato, e in parte provocato, dalla constatazione che i mutamenti sociali ed economici in atto nelle colonie africane non avevano scalfito le “credenze” riguardo la stregoneria. Anzi, in diverse situazioni, come ad esempio in quella porzione di Ghana investito fortemente dal mutamento economico e sociale indotto dalla introduzione della coltivazione intensiva del cacao e dal conseguente arrivo di manodopera immigrata dalle aree povere del paese (FIELD M.J. 1940, 1960), esse erano più che mai vive e in
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espansione. L'orizzonte ideologico e le pratiche relativi alla stregoneria non potevano pertanto essere confinate alla vita dei villaggi, considerate come un residuo ancestrale destinato ad affievolirsi. Studiosi come Margaret Field, Audry Richards (RICHARDS A. 1935) e altri rilevarono la forte connessione tra l’espandersi dei complessi di idee e pratiche relative alla stregoneria e i nuovi assetti sociali imposti dalla modernizzazione. La persistenza, e spesso la diffusione, di tali idee e pratiche era vista come il risultato dei disagi della
modernizzazione, come la risposta che il mondo indigeno forniva all’avanzare di un nuovo ordine sociale che lo aveva irrimediabilmente messo in crisi. Se dunque la stregoneria persisteva nei nuovi contesti sociali, era perché consentiva di rispondere all’insicurezza da questi generati, e più in generale era il sintomo del disordine e dell’instabilità prodotte dal rapido mutamento degli equilibri sociali e di potere.
Negli anni ’90 l’interesse degli antropologi per la stregoneria ha conosciuto un rinnovato vigore (ad esempio GESCHIERE P. 1995, COMAROFF ]. COMAROFF ].L. curr. 1999). Molto spesso gli studi sono stati condotti in aree urbane, luoghi in cui tali pratiche sembrano espandersi sempre di più. Ciò che nota Misty Bastian per le città nigeriane, ha senza dubbio valore per la maggior parte delle realtà metropolitane africane: «Le città e i loro satelliti suburbani hanno infatti rimpiazzato molte delle vecchie aree forestali della Nigeria meridionale [...]. La scomparsa degli alberi e del sottobosco non ha necessariamente significato, nell'immaginario dei [nigeriani] meridionali, la scomparsa di quelle entità spirituali che un tempo avevano fatto di quelle aree la loro casa. Invece di diventare disincantate, le città nigeriane hanno dato luogo a una magia moderna: le creature della foresta si reinventano come imprenditori [...], [trovando]
il modo migliore per prendere al laccio le loro antiche vittime: gli esseri umani»
(BASTIAN M.L. 2001:75)
Le analisi contemporanee sulla stregoneria rifiutano esplicitamente l’idea che la sua persistenza sia legata al “disagio della modernizzazione”. Quel che viene rifiutato è proprio il paradigma teorico della modernizzazione, l’idea che le società africane stiano compiendo un cammino dalla “tradizione” verso la “modernità”. Nell’introduzione a Modernity and its malcontents Jean e John Comaroff (COMAROFF ]J. - COMAROFF J.L. 1993) affermano che quella della modernizzazione sarebbe l’ultima grande narrazione dell'Occidente moderno. L'unica che ancora resiste. La grande narrazione, per come essa è intesa da Lyotard, è lo strumento che nell’Occidente moderno ha dato validazione politica e sociale al sapere. Le grandi narrazioni altro non sono che i grandi sistemi teorici, e retorici, (la realizzazione dello Spirito; l'eguaglianza di opportunità dei
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cittadini nella società di mercato; la società senza classi) che legittimavano le società o la critica di esse, e orientavano l’azione. Oggi i grandi sistemi sono
in crisi, non forniscono legittimità e validazione universali e non orientano le azioni. «L'avvio della condizione postmoderna coincide, quindi, con la sfiducia nei confronti delle metanarrazioni e con l'inaugurazione di un processo delegittimante. Il declino del narrativo e la crisi della dimensione legittimante, pensata come fondamento e narrazione onnicomprensiva risultano essere il dato di fatto, oltre che il tratto saliente,
della postmodernità.» (PATELLA G. 1990: 31)
Nella nostra epoca postmoderna il sapere onnicomprensivo e totalizzante dei grandi racconti ha ceduto il passo a saperi parziali, provvisori, locali. Eppure, ci dicono i Comaroff, la grande narrazione della modernizzazione resiste. Essa consiste in «una narrativa che sostituisce le relazioni proteiformi ed ineguali tra “noi” e gli “altri” nella storia del mondo, con una semplice, epica storia del passaggio dal selvaggio alla civiltà, dal mistico al mondano» (COMAROFF ]J. - COMAROFF J.L. 1993: XII). Il bersaglio polemico dei Comaroff è teleologia implicita al paradigma della modernizzazione, che legge proprio la modernizzazione come un progressivo avvicinarsi al modello occidentale. L'introduzione della società di mercato, e più in generale dei-valori dell'Occidente, comporterebbe un accostamento alla modernità per come essa, storicamente, si è configurata nell’Occidente euroamericano. Una tale visione è oggi messa in questione da quanti insistono sulla pluralità delle modernità (coniando il neologismo inglese di modernities). Assumere la molteplicità delle modernità (intese come esperienze storiche peculiari e non replicabili altrove) significa convenire sul fatto che esista una costruzione e ricostruzione di programmi culturali e assetti sociali molteplici, che non possono essere visti come un progressivo ridursi a un modello dominante. In tal senso la nozione di modernità multiple ha in sé implicito il rifiuto del paradigma della modernizzazione. In questo contesto teorico il modo di interpretare la stregoneria muta radicalmente: «Il punto sul quale gli studiosi che hanno lavorato in questi ultimi anni sulla stregoneria dissentono dai loro predecessori non è l’insistenza sul mutamento sociale, né la nozione che la stregoneria sia una risposta al mutamento sociale, quanto invece il fatto che essa operi in quanto parte e porzione della modernità in sé. In altre parole, gli studiosi contemporanei della stregoneria pongono le credenze e le pratiche occulte non solo come contigue alla modernità, ma come costitutive della modernità.» (MOORE H.L. - SANDERS T. 2001: 11-12)
La stregoneria dunque non è più vista come una risposta ai disagi della
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modernità, ma come parte costitutiva di quella peculiare esperienza storica che è la modernità per come essa si configura, in maniera plurale, nelle realtà africane. La stregoneria si mostra essere non un retaggio del passato e un sistema chiuso, quanto un idioma flessibile, un paradigma mutevole i cui contenuti possono variare e riconfigurarsi. È in tal senso che essa può, mutando i contesti, rimanere operativa. La stregoneria, più che una creden-
za, appare uno strumento di diagnosi sociale. Negli anni recenti Jane Parish ha lavorato a lungo sulla stregoneria e i culti antistregonici in Ghana (PARISH J. 1999, 2000, 2001). Anche lei sostiene che «[...] c'è una relazione tra le accuse di stregoneria e l’idioma del mercato, della produzione capitalistica e del consumo di beni materiali, che riflette l’impatto dell’espandersi del capitale globale sul mercato locale [...] Il conflitto tra due economie morali
è la figura chiave delle credenze nella stregoneria nel Ghana contemporaneo. La posta in gioco è il privilegio della socialità, le relazioni di produzione locali sovvertite e distorte dagli effetti alienanti della mercificazione globale. L’incorporazione dell’economia domestica nell'economia capitalista mondiale ha dato, comunque, agli individui nuovi tipi di informazione sul consumo e su come un cospicuo consumo possa influi-
re sulle relazioni personali e private.» (PARISH J. 2000: 487)
La stregoneria dunque, anche in questo contesto, appare consustanziale alle figure della modernità, come un operatore in grado di produrre discorsi sull'economia globale, sul conflitto tra due differenti regimi economici e, più in generale, di fornire un possibile giudizio sulla moralità dello scambio: «In queste circostanze, la paura e le accuse di stregoneria diventano un sintomo del modo in cui i valori attribuiti all’accumulazione capitalista e al possesso di beni materiali generano frizioni nell'economia morale locale. Le streghe sono quelle persone, spesso donne ma talvolta anche uomini, che esprimono invidia verso i parenti che da un punto di vista materiale stanno meglio» (PARISHJ. 2000: 488).
Dunque l’idioma della stregoneria rimanda immediatamente all’idioma del mercato e al conflitto tra due differenti regimi economici. La Parish ha lavorato prevalentemente negli altari tradizionali della regione del Brong-Ahafo nel Ghana centrale. Questi altari forniscono protezioni magiche contro la stregoneria, e sono frequentati spesso anche da giovani che provengono dalle vicine realtà urbane, quale ad esempio Kumasi, seconda città del Ghana. Si tratta per lo più di ragazzi che vivono vendendo oggetti agli angoli delle strade, o che lavorano come guidatori su taxi non di loro proprietà. Insomma di giovani che provengono dalle fila di quel settore informale che ho prima descritto. Vi sono però anche uomini di affari, impegnati in attività di import/export, desiderosi di mettersi al riparo delle nefaste conseguenze delle attività occulte di parenti e concorrenti. Si viene a richiedere protezione magica per difendere i propri affari, e la propria prosperità, dal rischio di una
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rovina economica legata all’azione di una qualche strega; nello stesso tempo si richiede una particolare azione magica che sia essa stessa volano di un miglioramento della propria condizione economica. Gli altari anti-stregonici diventano però anche l'occasione per produrre differenti discorsi sulla modernità e sulla tradizione: «Da un lato, gli altari antistregonici sono da molti percepiti come un mezzo attraverso cui le imprese individuali possono, per mezzo dei poteri magici “tradizionali”, scompaginare quelle relazioni sociali e morali stabilite che impediscono di accumulare e consumare merci in nuovi modi. Dall'altra parte, gli altari possono essere descritti, da chi li critica — come quanti vivono nelle grandi città cosmopolite — come parte della superstizione rurale africana, rappresentante di quel passato pagano da cui tentano di distanziarsi» (PARISH J. 2001: 119).
Gli altari tradizionali dunque servono tanto a spezzare le maglie della stessa “tradizione”, e dunque a favorire l'emergere di nuovi modelli di accumulazione e consumo, quanto anche a essere il bersaglio della critica “modernista” volta a liquidare il passato come mera superstizione. Uno degli oggetti che più è usato in questi altari come talismano antistregonico è la carta di credito, magari scaduta, ottenuta da tursisti e uomini di affari stranieri, e usata non per le transazioni ma come strumento magico: «La carta di credito, compendio della moderna economia globale, sarà per esempio trattata con erbe comprate dal sacerdote che le ha raccolte nella foresta, tradizionalmente il posto di residenza della maggior parte delle creature mitiche africane: i sasabonsam, mostri che somigliano a scimmie. Il potere dell'economia morale locale è immesso nel mercato globale. La carta di credito può essere tenuta addosso dalla persona per proteggersi contro gli attacchi delle streghe, poiché si pensa che queste possano essere confuse dal lavoro invisibile della carta. Questa garantisce protezione anche contro gli ufficiali di Stato corrotti e contro gli uomini di affari che cercano di manipolare il mercato “locale” per i loro interessi, tentando di far in modo che altri non possano raggiungere il successo negli affari» (PARISH J. 2001: 132)
2. Politiche sanitarie globali e contesti locali Nel 1978 ad Alma Ata, attuale capitale del Kazakistan, si tenne una impor-
tante assemblea mondiale dell’Organizzazione mondiale della sanità. In quella sede si votò un documento il cui valore voleva essere epocale, come del resto recitava chiaramente il titolo: Health for all by the year 20004. L'inizio del nuovo millennio doveva coincidere, nelle intenzioni degli estensori del documento, con una nuova fase della lotta contro le malattie il cui
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obiettivo sembrava essere, a giudicare dal titolo, l’eradicazione dei problemi
di salute più gravi che affliggono l'umanità. Il nuovo millennio è ormai iniziato e sappiamo che l’ambizione dell’OMS non ha avuto il supporto dei fatti. Guerre, carestie, sfruttamento continuano a minare la salute delle popolazioni; nell'ultimo quarto del secolo appena trascorso nuove malattie endemiche, a volte micidiali per la loro virulenza e contro cui spesso non ci sono cure adeguate, si sono affacciate sulle scena, mostrando quanto ancora sia
lontano — o meglio quanto ogni giorno sembri sempre più allontanarsi — l’obiettivo della “salute per tutti”. Del resto esso si scontra quotidianamente con una realtà in cui le disparità economiche e le possibilità di accesso alle risorse, comprese quelle sanitarie, si fanno sempre più evidenti. Il caso dell’Ams e delle sue possibilità di cura è, da questo punto di vista, emblematico. La sindrome da immunodeficienza acquisita può essere oggi, con
una certa probabilità di successo, contrastata con una cura farmacologica complessa e costosa. Il costo proibitivo della cura, se paragonato al reddito pro-capite di gran parte degli abitanti del “sud” del pianeta, rende difficile per molti la possibilità di usufruirne. I tentativi di molti governi democratici di questi paesi di produrre tali farmaci al di fuori delle leggi brevettuali è stato duramente contrastato dalle compagnie farmaceutiche multinazionali, che vedevano in ciò un attacco alle regole e ai principî del libero mercato (e, ovviamente, ai loro profitti). Fino ad oggi il tentativo delle industrie farmaceutiche è stato contrastato efficacemente, grazie anche al forte movimento di opinione che, su questo tema, si è creato a livello mondiale. Quello dell’AIDs può essere un ottimo esempio della disparità di accesso alle risorse terapeutiche; ma il suo (presunto) lieto fine, cioè la possibilità che si intravede che molti malati possano accedere alle cure a un prezzo relativamente più accessibile non deve trarre in inganno. Molte sono le malattie, spesso assolutamente curabili, che mettono a rischio la vita delle popolazioni del Sud del mondo; la diarrea e la pertosse, per quanto ai nostri occhi pos-
sono apparire come banali malanni, sono frequentemente causa di morte per i bambini di quei Paesi. La mancanza di farmaci, o il loro costo, così come la mancanza di infrastrutture sanitarie mette a rischio la vita di molte persone anche a fronte di patologie relativamente poco serie. È anche questo che si deve intendere come ineguaglianza di accesso alle risorse terapeutiche, ed è questo che annulla e fa diventare solo buoni propositi le ambizioni dell’Oms. In quel documento però vi era un paragrafo che è da considerarsi come assolutamente rivoluzionario rispetto a quelle che, fino a quel momento, erano
state le linee guida delle politiche dell'OMS nei Paesi in via di sviluppo. Mi
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riferisco alle parti del documento dedicate al ruolo dei guaritori e delle levatrici tradizionali, in cui si sottolineava come il loro ruolo potesse essere di
grande utilità per qual che riguarda la sanità di base. Proprio a commento di ciò, ha scritto Dennis M. Warren: «Gli operatori terapeutici e le levatrici tradizionali esistono nella maggior parte delle società. Essi sono parte integrante delle comunità locali, delle loro tradizioni e della loro cultura, e in molti luoghi continuano ad avere uno status sociale elevato, esercitando una influenza considerevole sulle pratiche sanitarie locali. Questi operatori terapeutici indigeni, con il supporto dei sistemi sanitari ufficiali, possono diventare alleati importanti nella organizzazione delle azioni dirette a migliorare la salute delle comunità. Alcune comunità possono selezionarli come operatori sanitari di base. Comunque sarebbe bene agire d’accordo con loro per pianificare la loro formazione e per esplorare le possibilità di un loro utilizzo nelle strutture sanitarie di base»
(WARREN D.M. ET AL. 1982: 1874).
In questo documento poi l’Oms definiva le medicine tradizionali come efficaci, diffuse sul territorio, disponibili per la popolazione e culturalmente compatibili (cfr. ANYINAM C. 19872). Si tratta di una decisa inversione di tendenza rispetto a quanto fatto precedentemente, dato che in fondo le linee guida sulle politiche sanitarie delle grandi organizzazioni internazionali avevano sostanzialmente privilegiato, nei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”, la creazione di infrastrutture sanitarie sul modello biomedico occidentale, e di
conseguenza la formazione e l’utilizzo di personale sanitario con un curriculum di studi basato sulla biomedicina. Tutto ciò era visto come una forma di aiuto allo sviluppo, all’interno di un rapporto distorto tra paesi donatori e riceventi. Come sottolinea Bernardi: «Sta di fatto che almeno nella prima decade ’60-’70 sarebbe più esatto parlare di imposizione degli aiuti e non di cooperazione. Il rapporto tra donatori e riceventi si svolge ai livelli superiori dei ministeri, mentre il coinvolgimento e la partecipazione delle popolazioni interessate vengono praticamente trascurate. Ci fu, all’epoca, chi affermò che la cooperazione offriva agli occidentali l’occasione di liberarsi dal senso di colpa dell’imperialismo. Un nonsenso: ciò che di fatto avvenne in quel primo decennio fu di altro ordine. A muovere i paesi e gli vrganismi donatori fu la consapevolezza dell’esclusivo possesso del sapere e delle competenze tecniche; di conseguenza, si ritenne superfluo coinvolgere le popolazioni per cui ogni progetto risultava un’imposizione d’imperio, ossia un atto di neocolonialismo» (BERNARDI B. 1998: 21).
A tale mutamento di prospettiva hanno concorso numerosi fattori, sia di ordine internazionale che nazionale. Innanzi tutto la disastrosa condizione in cui spesso versano gli ordinari servizi sanitari nel continente africano (HOURS B. 1985; FASSIN D. 1992), acuita dal fatto che essi sono quasi sempre concentrati nelle sole aree urbane mentre quelle rurali, dove tuttora vive la mag-
gior parte della popolazione in Africa come in altre parti del cosiddetto
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“Terzo mondo”, risultano spesso sprovviste dei servizi sanitari essenziali. C'è da aggiungere che lo stesso personale sanitario dei vari paesi africani è poco incline a svolgere la sua opera nelle aree rurali, a causa della scarsità di mezzi in cui è costretto a lavorare, ma anche perché la scelta di lavorare nelle aree rurali, mentre comporta disagi quotidiani di vario genere, non favorisce certo le prospettive di carriera e di guadagno (MACCORMACK CP. 1981: 423-424). Inoltre i sempre maggiori costi necessari per la costruzione delle infrastrutture e soprattutto la dipendenza tecnologica, anche in questo campo, dall’Occidente e la necessità di importare un buon numero di farmaci causano un indebitamento sempre più gravoso per i vari governi nazionali
(DESTEXHE A. 1987). A tali motivazioni ne vanno aggiunte altre di diverso ordine. I connotati ideologici prima delineati della medicina tradizionale hanno fatto sì che il supporto datole spesso rappresentasse un buon viatico per i leader politici. D'altronde anche in Occidente, in concomitanza con la crisi di legittimità che investe oggi a vari livelli la biomedicina, si è presa sempre più coscienza dell'importanza del preservare e sviluppare saperi terapeutici appartenenti ad altre tradizioni culturali.
Questi appena citati non sono che alcuni dei fattori che hanno favorito il radicale mutamento di atteggiamento nei confronti della medicina tradizionale. In tale processo le aspettative politiche dei “radicali” occidentali si sono trovate fianco a fianco con i cinici calcoli delle case farmaceutiche, con le convenienze politiche dei governi e dei burocrati africani e con le genuine aspettative di molti intellettuali africani. Con un po’ di ironia, comunque non eccessiva, Murray Last, nell’introduzione a un volume dedicato alla professionalizzazione della medicina africana, traccia così quella che chiama una composita coalizione: «I governi (uomini di partito, burocrati e militari) che hanno la necessità di tagliare le spese e di mantenere l’appoggio popolare; l'OMS (o una parte al suo interno) che spinge su questi governi con idee e pressioni internazionali; gli psichiatri intrigati in soluzioni ai problemi dei pazienti di culture differenti e i farmacologi alla ricerca di nuovi composti; gli idealisti che cercano di sviluppare una medicina veramente nazionale e gli scettici disgustati dalla professione medica, dalle sue rivendicazioni e dalle sue compagnie farmaceutiche; i radicali di varie convinzioni, che sostengono per esempio la campagna contro la città o i “popolani” contro la borghesia; oi realisti i quali sottolineano semplicemente che in effetti la “medicina di base” è già, di fatto, quasi per intero surrogata dalla medicina tradizionale e che in ogni caso vorrebbero veder riconosciute per il loro effettivo valore le conoscenze e le capacità indigene» (LAST M. 1986: 1).
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Il processo di riconoscimento della medicina tradizionale e di inserimento dei guaritori tradizionali nelle strutture sanitarie di base non è indolore, ma
procede tra difficoltà e arresti. In realtà, all’interno degli organismi internazionali così come entro i singoli Stati, vi sono molte forze che non vedono con favore il procedere di questi tentativi. Primi fra tutti i medici di formazione occidentale (GREEN E.C. 1988: 1126), i quali spesso giudicano la loro pratica incompatibile con quella dei guaritori, avocando per se stessi una dignità scientifica nel loro lavoro e nella ricerca, che viene da loro stessi negata ai guaritori tradizionali. Questi ultimi vengono insomma considerati dai medici di formazione occidentale, nella migliore delle ipotesi, come dei praticoni che non hanno alcuna preparazione dignitosa che possa loro permettere di operare terapeuticamente con una buona probabilità di successo. Non bisogna infine dimenticare che le difficoltà dei medici di formazione occidentale a collaborare con i terapeuti tradizionali nascono anche dalla volontà di mantenere, almeno a livello di riconoscimento ufficiale, l’esclusi-
vità nel campo delle terapie. La legittimazione ufficiale dei terapeuti significherebbe infatti per i medici di formazione occidentale l’ulteriore rafforzamento di un concorrente già temibile. Si affacciano dunque dietro tale atteggiamento motivazioni di potere e di carattere economico. Anche da parte dei guaritori tradizionali vi sono comunque molto spesso difficoltà ad accettare la collaborazione con i medici di formazione occidentale. Esse nella maggior parte dei casi nascono dal rifiuto del guaritore stesso di accettare il ruolo subalterno che gli si vuole imporre. In effetti in molti casi la sua figura viene vista come un surrogato di quella dell'infermiere, utile in quanto vi è una forte carenza di personale (BIBEAU G. 1979; MACCORMACK @GP4931)
Le difficoltà che questi processi incontrano (SCHIRRIPA P. - VULPIANI P. 2000) sono anche indice di quanto sia complesso tradurre le direttive internazionali all’interno di specifici contesti. L'OMS, pianificando le linee guida di intervento nei Paesi in via di sviluppo, ha previsto la possibilità di utilizzare nelle pratiche di medicina di base (primzary health care) i guaritori tradizionali. Ha proposto inoltre che questi seguissero un corso di base in igiene e primo soc-
corso, che consentisse loro di agire rispettando alcuni parametri di intervento che, a detta dei programmatori sanitari dell'OMS, non pregiudicassero la salute della popolazione. Si è spinta anche oltre, proponendo che nei singoli Paesi si procedesse a censimenti e inventari dei saperi terapeutici tradizionali in modo tale da poter redigere una sorta di registro delle terapie in uso
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che potesse servire da base per la creazione di centri per la formazione dei terapeuti tradizionali. In Ghana ogni guaritore trasmette il suo sapere al suo allievo, attraverso un rapporto diretto ed una pratica quotidiana che si prolunga negli anni. Inoltre un novizio, nel caso degli akorfo, è autorizzato ad apprendere in quanto scelto dagli dèi per essere posto al loro servizio. Il sapere di ogni guaritore nasce sotto una doppia tutela: quella del terapeuta che lo ha istruito e quella del dio che lo ha chiamato, e che nel corso degli anni lo assisterà, se è il caso, istruendolo durante la #r4zse sui modi di intervenire e di curare.
La diffusione dei saperi è assicurata dagli scambi di informazioni sulle tecniche terapeutiche e sui rimedi erbalistici, ma raramente sugli aspetti rituali, usati per particolari tipi di malattie, che i guaritori compiono nel corso dei meetings, nazionali o di zona, cui periodicamente le varie associazioni di guaritori (cfr. ultra) chiamano i loro aderenti. Si tratta però di una circolazione di informazioni entro gruppi ristretti, interessati a mantenere una esclusività
del proprio sapere. Nel campo delle terapie il potere si configura come insieme di saperi esclusivi, di cui partecipano poche persone e solo dopo un tirocinio più o meno lungo, più o meno difficoltoso. Il trasferimento di saperi dai guaritori a organismi nazionali al di fuori del loro controllo e la diffusione dei saperi attraverso una scuola significherebbe per i guaritori perdere l’egemonia sul sapere e sulla sua diffusione, perdere una fonte di potere. Queste qui accennate sono alcune delle difficoltà che maggiormente sono emerse dai tentativi di sviluppare localmente le linee guida dell’Oms. Le politiche globali che le grandi agenzie transnazionali propongono incontrano poi traduzioni nei contesti locali che li costringono a confrontarsi con realtà affatto diverse. È quanto ho potuto constatare in Ghana.
3. Lo sviluppo della biomedicina in Ghana In questo paragrafo mi occuperò principalmente di come la biomedicina si sia affermata in Ghana fino a diventare la forma terapeutica egemonica. Tale sviluppo sarà analizzato in relazione all’affermarsi del dominio coloniale. È del resto un dato acquisito che la biomedicina nel continente africano sia
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stato uno degli strumenti principali, come del resto anche la religione cristiana, dell’espansione del colonialismo. Come molte analisi storiche e antropologiche, in varie parti del continente, hanno dimostrato, gli imperialismi occidentali e l'affermazione delle loro istituzioni e giurisdizioni corrono paralleli alla diffusione della biomedicina. Vi è un topos, nella produzione di discorsi del potere coloniale, che sembra attraversare,
rimanendo
costante nei suoi contenuti, l’intero continente:
quello che Jean Comaroff sintetizza efficacemente come il “cuore malato dell’Africa”. L'Africa cuore oscuro del contagio. In Sud Africa, riporta Comaroff, i missionari prima e i funzionari coloniali poi rimandano l’immagine, comune anche in Africa occidentale, del continente nero come tomba
dell’uomo bianco, luogo di malattie e di contagi (per evitare i quali occorreva ridurre all'essenziale contatti con i nativi, e naturalmente evitare i contat-
ti con il sesso femminile), e luogo di disordine, corporeo e sociale, perché: «i selvaggi nativi erano la vera incarnazione dello sporco e del disordine, la loro afflizione morale tutt’una con la loro degradazione fisica e con il loro ‘pestifero’ ambiente» (COMAROFF J. 1993: 306). Lo stesso motivo si ripete nell’allora colonia della Costa d’Oro. Gale, in un saggio sulla situazione sanitaria della colonia (GALE T.S. 1995), cita diverse
fonti che sottolineano continuamente la precarietà delle condizioni igieniche e sanitarie. Le città inoltre erano piene di ogni genere di rifiuti le cui esalazioni mortifere colpirono così tanto l'immaginazione di F. Fritzgerald, giornalista dell’African Times, che nel 1871 ebbe a descrivere gli ufficiali di Cape Coast, allora capitale della colonia, come gente che «gusta il proprio brandy o lo champagne su di un mucchio di letame» (cit. in GALE T.S. 1995: 187). Questa immagine, seppur forte, introduce un nuovo tema in questa narrativa: la sporcizia e il disordine, il pericolo, non sono relegati solo al mondo indigeno, ma investono direttamente anche i luoghi in cui vivevano gli euro-
pei. Si tratta di una narrativa che percorre tutto il XIX secolo, e che certamente affonda le sue basi su alcuni dati di fatto. Nel XIX secolo la stampa divulgativa inglese vedeva la Costa d’Oro come la vera “tomba dell’uomo bianco”, usando un'espressione presa a prestito dai portoghesi che nei secoli precedenti avevano saggiato le durezze di quel territorio. Da una parte le malattie endemiche dell’area — malaria e febbre gialla prime fra tutte — da secoli decimavano la popolazione europea$; dall’altra ulteriori pericoli nascevano dalle pessime condizioni igieniche delle città della costa, dove era concentrata la popolazione di origine europea, in cui
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mancavano i servizi igienici essenziali e vi erano anche problemi per lo sti; 3 i “* vaggio dell’acqua potabile. Ciò favoriva l’insorgere di; ogni y specie1 di malattieinfettive?: «Fino al 1880 le città della costa del Ghana erano tristemente famose per la loro insalubrità [...]. In tutte vi erano lagune in cui si pascevano sciami di zanzare e che mandavano odori sgradevoli e pungenti. Non esistevano latrine pubbliche o private. Gli escrementi erano ovunque: nei vicoli che costeggiavano tra i caseggiati dei nativi, nei
sobborghi delle città, sulle spiagge. Allo stesso modo, irifiuti erano lasciati in qualunque luogo e in ogni ora e non vi era un servizio organizzato di raccolta e smaltimento. [...] Le strade delle città erano nient'altro che vicoli e sentieri tortuosi che attraversavano gruppi di capanne costruite senza alcuna regola [...] l’acqua da bere era abominevole» (ADDAE S. 1997: 87).
La triste fama della colonia era ben nota, attraverso i resoconti della stampa,
ai cittadini della madrepatria e ben pochi erano quelli che accettavano di trascorrervi periodi di lavoro. Chi era costretto ad andarci in genere lo faceva contro la sua volontà e cercava di restarci il meno possibile. Addae riporta il caso di un capitano di vascello cui fu ordinato, nel 1807, di salpare dell'Inghilterra alla volta di Cape Coast: «Considerando l’ordine alla stregua di una sentenza di morte, dettò le sue ultime volontà, invitò i suoi amici a una festa d’addio e confidò loro che non sarebbe mai tornato vivo da quel viaggio. In effetti così fu: il capitano morì pochi giorni dopo il suo
arrivo a Cape Coast in seguito a una breve malattia» (ADDAE S. 1997: 17).
Naturalmente anche il personale medico, compreso quello militare che forniva allora la quasi totalità dei medici della colonia, era poco incline a soggiornare a lungo in Costa d’Oro. Ciò comportava che il dipartimento di medicina fosse spesso a corto di personale; del resto — nonostante le autorità proponessero alte paghe — era raro che giovani medici decidessero di stabilirsi, seppur temporaneamente, nella colonia. Tutto ciò rendeva la situazione sanitaria
dei residenti europei estremamente precaria (PATTERSON D.K. 1981: 12-13). La popolazione indigena, invece, doveva contare pressoché esclusivamente sulle proprie risorse terapeutiche tradizionali8. Lo scarso personale medico della colonia, come detto quasi esclusivamente militare e concentrato negli ospedali militari che erano allora l’unica risorsa terapeutica di tipo biomedico disponibile, era quasi esclusivamente al servizio della popolazione di origine europea; i rari africani che si rivolgevano ai servizi ospedalieri erano sottoposti al pagamento di rette altissime, che di fatto rendevano nulle le possibilità di accesso per la quasi totalità della popolazione nativa. Decisamente carente era anche l’assistenza sanitaria fornita, alle popolazioni native, dalle missioni religiose:
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«In contrasto con l’intensa attività medica dei missionari in Nigeria, questa in Ghana era limitata quasi interamente a pochi dispensari e a cliniche dedicate alle cure pediatriche» (PATTERSON D.K. 1981: 15).
Tale situazione muta radicalmente secolo, grazie a una nuova politica tà coloniali. Come si vedrà questa ne della biomedicina, sui rapporti
nei decenni a cavallo tra il XIX e il XX sanitaria che viene impostata dalle autoriavrà conseguenze profonde sulla diffusiosociali tra europei e nativi, e imporrà infi-
ne una nuova narrativa.
Tra i fattori che hanno portato a tale mutamento vi è certamente il lento adeguamento alla politica sanitaria della madrepatria. In effetti in Gran Bretagna una serie di epidemie di colera, che dal 1823 avevano flagellato il Paese, avevano messo al centro dell’attenzione la necessità che il governo si
prendesse carico della salute della popolazione. Ciò andava di pari passo con l'affermarsi del concetto, allora rivoluzionario, che la malattia fosse preveni-
bile grazie ad una appropriata igiene urbana. Nel 1864 Pasteur aveva dimostrato la presenza di germi nell’atmosfera. Ciò dava maggior forza a tale teoria rivoluzionaria. L'idea che acque sudicie e rifiuti fossero il luogo di elezione per la riproduzione di germi dannosi per la salute diede nuovo vigore a un tipo di medicina preventiva basato sul controllo igienico del territorio e delle abitudini di chi lo abitava. Così in Gran Bretagna una serie di leggi promulgate tra il 1866 e il 1875 inaugurarono e rinforzarono il controllo igienico e sanitario sul territorio (GALE T.S. 1995: 186). Questa nuova politica fu gradualmente estesa dalla madrepatria alle colonie dell’India e poi a quelle africane. Un secondo fattore fondamentale nel determinare il mutamento della politica sanitaria della Costa d’Oro è connesso a più profondi cambiamenti nella stessa politica coloniale. Nella seconda metà del XIX secolo le colonie africane smettono definitivamente di essere un serbatoio di manodopera per il nuovo mondo. La fine della tratta degli schiavi coincide con un nuovo tipo di spoliazione dell’Africa, funzionale ad una nuova fase della rivoluzione
industriale europea: dalla sottrazione delle persone si passa all’espropriazione delle risorse naturali. Nello stesso tempo le colonie diventano un grande mercato per lo smercio dei prodotti della madrepatria. Ciò comporta un maggiore controllo diretto del territorio, la sottomissione dei regni locali, lo stabilimento di una più folta burocrazia coloniale e l'ampliamento della popolazione civile europea dedita ai commerci e all'estrazione di materie prime? (fig. 1). Occorreva però rendere questa zona d'Africa qualcosa di diverso dalla
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“tomba dell’ uomo bibianco fauna! : un luogo in in cui cui alla popolaziIone europea fosse assicurata la sopravvivenza. 8.000
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* Sono inciusi funzionari, comuni cittadini e missionari.
Nel 1878 ad Accra — che l’anno precedente era diventata la nuova capitale della colonia — viene inaugurato il primo ospedale civile, primo embrione di una nuova politica sanitaria. L'ospedale doveva coprire le esigenze terapeutiche di una popolazione europea in costante crescita, in cui però il tasso di mortalità rimaneva alto in maniera preoccupante. Tra il 1880 e il 1913 l’obiettivo del governo coloniale fu principalmente quello di salvaguardare e migliorare la salute degli europei, e le infrastrutture sanitarie venivano create soprattutto nelle zone maggiormente abitate da europei. Ciò naturalmente comportava una maggiore facilità di accesso per gli europei alle strutture sanitarie create dall’amministrazione coloniale: nel 1913 il rapporto tra letti
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ospedalieri e popolazione europea era di 1 a 70, mentre per la popolazione
africana era di 1 a 22.000 (ADDAE S. 1997: 26). Sempre nel 1878 viene emanata la prima legge della colonia che regola la sistemazione igienico-sanitaria delle città (GALE T.$. 1995: 191). Per costruire una nuova abitazione occorre un permesso delle autorità cittadine; le case fatiscenti, se non riparate, verranno demolite; vengono individuati luoghi
appropriati per depositare le immondizie e per procedere alla macellazione degli animali; si incoraggia la costruzione di latrine pubbliche ed infine vengono in buona misura regolamentate anche le abitudini igieniche individuali (ADDAE S. 1997: 87). Queste regole avevano come obiettivo primario quello di creare una nuova disciplina per i nativi, soprattutto per quelli che si erano spostati nelle città in cerca di lavoro, affollandone le periferie e i sobborghi. Nei decenni successivi comunque si estesero anche alle cittadine più piccole (GALE T.S. 1995: 191 sgg.) e, tramite leggi locali che ricadevano entro la Native Jurisdiction Ordinance — cioè un insieme di leggi la cui emanazione ed attuazione era compito dei capi locali —, anche ai villaggi!0. Lentamente si veniva a creare una nuova disciplina del corpo e della gestione dello spazio per gli africani. Del resto nella colonia della Costa d’Oro, così come anche nelle altre colonie inglesi dell’Africa (COMAROFF J. 1993: 320 sgg.), il “corpo del nero” era visto come luogo in cui si annidavano malattie facilmente trasmissibili, ed in cui l'emergere della malattia, del disordine bio-
logico, era segno — o meglio conseguenza - di disordini più profondi, di ordine sociale e morale. Il nero era malato perché poco incline a rispettare le corrette regole igieniche, e a causa della sua scarsa attitudine morale che rendeva “disordinate” le sue relazioni sociali e quelle con l’ambiente. Un ufficiale medico di stanza nel nord del Ghana scrive in quegli anni: «Bisogna comprendere che i nativi di questa regione sono per loro natura sporchi ed è solo
a prezzo di grandi difficoltà che li si può far lavare» (cit. in PATTERSON D.K. 1981: 19)!!. Occorre dunque costringerli a uniformarsi alle regole sociali e igieniche della società vittoriana; regole che disegnavano una nuova disciplina del corpo, del sé e delle relazioni: lavorare, dormire, mangiare, sputare,
fare l’amore, defecare e tutte le altre funzioni corporali erano regolate, almeno nella retorica corrente, in funzione del contrasto della diffusione delle malattie. Ma ben altri erano gli scopi. Quello che Jean Comaroff dice a proposito del Sud Africa può essere valido anche per la colonia della Costa d’Oro:
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«I discorsi [dei colonizzatori] sulla civilizzazione dell’Africa hanno aperto la via a pratiche che concernono l’igiene delle popolazioni nere — e al progetto di domare la forzalavoro nativa. Qui, come altrove nel mondo colonizzato, gli individui erano discipli-
nati e le comunità redistribuite nel nome del miglioramento delle condizioni igieniche e del controllo delle malattie. Poiché i neri erano diventati un elemento essenziale nel mondo industriale dei bianchi, la medicina era chiamata a regolare la loro inquietante presenza fisica» (COMAROFFJ. 1993: 306).
Se dunque fino al 1880, nella Costa d’Oro, era l’ambiente, il suo clima insopportabile, i suoi pestiferi miasmi a rendere quel territorio la “tomba dell’uomo bianco”, in seguito la minaccia si trasferì sulla cattiva gestione del territorio e sul disordine dei corpi e delle relazioni umane. Ma il controllo dei corpi e del territorio, inaugurato dalle leggi per il miglioramento igienico, fu solo il primo passo. Nel 1893 il governo della colonia, sempre in nome del miglioramento delle condizioni igieniche e, soprattutto, del miglioramento delle condizioni di vita della popolazione di origine europea emana una serie di provvedimenti affinché i bianchi abbandonino le città, oramai affollate di nativi giunti in cerca di lavoro e fortuna, e si trasferiscano in nuovi quartieri costruiti appositamente per loro e isolati dal resto della città. È il caso di Victoriaborg, un quartiere che viene costruito a metà strada tra la capitale, Accra, e l’antico insediamento danese di Christiansborg. In questi nuovi quartieri non è ammessa la presenza di neri; il personale domestico di servizio nelle case dei bianchi può circolarvi grazie a uno speciale permesso, ma non è concesso loro di dormirvi (ADDAE S. 1997: 33). Tale politica nasce dalla constatazione della difficoltà, se non della impossibilità, a imporre le regole igienico-sanitarie; in effetti la popolazione nera aveva messo in atto una serie di strategie di resistenza che rendevano di difficile applicazione tali regole. Ma c’è di più: la scoperta dei parassiti che provocano la malaria e la febbre gialla, e quella della zanzara come loro vettore, aveva definitivamente messo in crisi la teoria miasmatica come spiegazione eziologica di queste malattie. Il luogo della malattia si sposta dai miasmi prodotti dall'ambiente malsano ai corpi. Nelle città i neri erano tanti, e i loro corpi, pieni di plasmodi e germi, erano un ottimo serbatoio per le zanzare. Occorreva dunque segregare i bianchi, allontanarli dalla pericolosa contiguità con i neri (ADDAE S. 1997: 33. Questi provvedimenti servirono a ridurre la possibilità di contrarre malattie per i residenti di origine europea, ma non furono accompagnati da altri che puntavano a migliorare lo stato di salute della popolazione africana, che
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rimase precario. Va sottolineato inoltre che la maggiore mobilità della popolazione indigena, e il suo inurbamento, aveva favorito una crescente diffusione delle malattie infettive.
A questo proposito occorre fare una precisazione: il Ghana ha conosciuto sempre una relativa mobilità della sua popolazione. Fino al 1200 d.C. grazie soprattutto ai commercianti di origine mande; poi, dal 1400, con gli Hausa che commerciavano in noci di cola. I primi contatti con gli europei risalgono alla fine del XV secolo. Sicuramente da questo punto di vista il coloniali smo della fine del XIX secolo e della prima metà del XX non ha rappresentato una rottura con il passato, ma piuttosto l'accelerazione di alcuni processi. In questo periodo diversi fattori hanno favorito la mobilità, e di conseguenza la diffusione di alcune malattie, ad esempio la migliore rete stradale, l’introduzione della ferrovia e dei veicoli a motore per il trasporto pubblico. Inoltre l'immigrazione interna e l’urbanizzazione hanno significato la creazione di nuovi sobborghi sovraffollati, poveri e precari dal punto di vista igienico, che sono diventati luoghi di concentrazione di diverse malattie infettive. Queste poi, grazie al sistema di trasporti che era centrato sulle città, venivano diffuse in tutto il paese (PATTERSON D.K. 1981: 6)12. Quanto i moderni sistemi di comunicazione abbiano favorito la diffusione di
malattie infettive, lo si può osservare nel caso della pandemia di influenza che colpì il mondo intero nel biennio 1918-19 e che è di solito conosciuta come “spagnola”. La spagnola arrivò, è il caso di dirlo, in Ghana su di un battello americano — il S. S. Shona — che attraccò a Cape Coast il 31 agosto 1918, proveniente da Freetown in Sierra Leone. Lo stesso vascello poi, il 3 settembre, fece scalo ad Accra dove le autorità sanitarie, constatato che tutto
l'equipaggio risultava affetto dall’influenza, ne ordinarono la quarantena. La misura si rivelò del tutto tardiva e inefficace, poiché alcuni contatti tra l’equipaggio e cittadini aveva già dato origine al contagio, e ben presto l’epidemia si diffuse nella città (PATTERSON D.K. 1995: 206 sgg.). Le misure di quarantena vennero poi gradualmente allargate a tutta la colonia, ma in realtà furono poco efficaci. Il treno e gli altri mezzi moderni di circolazione, face-
vano spostare velocemente la gente dentro il Paese, in tal modo il contagio fu più veloce delle misure restrittive. Il virus dell’influenza fu isolato solamente nel 1933, dunque a quel tempo ben scarse erano le contromisure efficaci. Ciò significò di fatto che nel paese, come nel resto del mondo, il virus, quell’anno particolarmente pericoloso, causò non poche vittime. Di certo in Costa d’Oro la situazione non fu favo-
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rita dalla pessima organizzazione sanitaria, cosa del resto comune a tutte le colonie inglesi. Quel che vorrei sottolineare è che di fatto le misure preventive, quale l’isola-
mento che le autorità andavano prendendo per limitare i danni dell’epidemia, si dimostrarono inefficaci anche perché il virus viaggiava e si diffondeva sui moderni mezzi di comunicazione, primo fra tutti il treno (PATTERSON
D.K.1995, TsEy K. - SHORT S.D. 1995)13.
4. Atteggiamenti verso la biomedicina nel Ghana postcoloniale
Nel 1985 Bernard Hours scrive un piccolo libro dal titolo molto particolare: L’Etat sorcier (HOURS B. 1985). Oggetto del libro è la sanità pubblica in Camerun. L'autore descrive la vita quotidiana in tre dispensari e un ospedale. La scena che si presenta davanti al lettore è per molti versi simile a quelle che si possono trovare in Ghana e che ho in parte descritto nel par. 4.3. Lunghe file di persone in attesa davanti ad ambulatori e cliniche in cui è cronica la mancanza di personale e di mezzi. Vi è poi un’acuta descrizione dell'insieme dei gesti burocratici: i fogli da riempire, i rapporti da preparare e così via. L'autore si interroga sul senso di quel gesto e di altri: «Tra la preparazione delle garze, le mani che si lava dieci volte durante la mattinata, l’iscrizione sui registri, Pierre non evita poi molto l’impressione di una ossessi-
vità evidente» (HOURS B. 1985: 95). Distribuire farmaci, riempire documenti, preparare i malati per l’ospedalizzazione. Gesti a tutta prima comuni, ma che colpiscono, e non poco, in quei
contesti. Anche Fassin in Senegal, rimane colpito dalla peculiare atmosfera dell’incontro tra medico e paziente ripetendo parole già usate da Hours (FASSIN D. 1992). Stesse impressioni che ho avuto anche io osservando da vicino le visite negli ambulatori privati o gestiti da missionari. Sicuramente a favorire tale impressione è anche l’assenza di comunicazione tra medico e paziente. Spesso le visite sono completamente mute e in genere colpiscono l'osservatore occidentale per quanto siano brevi: a volte un paio di minuti sono sufficienti per l'osservazione, la diagnosi e la prescrizione. Il senso dei gesti, così come dell’insieme delle relazioni sociali che si intessono nello spazio, per quanto breve, dell’incontro clinico, non si esauriscono nel problema tecnico della cura, non fosse altro che per l’endemica mancan-
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za di mezzi di intervento cui ho fatto riferimento negli scorsi capitoli. Hours propone una lettura forte e provocatoria: se certamente i servizi sanitari di Paesi quali il Camerun — e aggiungerei il Ghana o il Senegal descritto da Fassin — svolgono male la loro funzione terapeutica, essi invece assolvono
bene ad un altra funzione: quella dello Stato, cioè di mostrare la presenza dello Stato e soprattutto, aggiunge Hours, di perpetuare la visione persecutiva della malattia. Quest'ultima affermazione lascia forse un po’ più dubbiosi, ma è bene riflettere sulla prima. Vi sarebbe insomma una certa continuità tra quanto descritto nello scorso paragrafo per quel che riguarda la sanità in periodo coloniale e quel che avviene oggi. Non solo ci troveremmo di fronte alle stesse diseguaglianze di distribuzione di risorse e alle croniche carenze di mezzi tecnici e di personale. In tutti e due i casi la biomedicina rappresenterebbe un mezzo per l’espansione della egemonia dello Stato, tanto coloniale che postcoloniale. Così come al tempo del dispiegarsi della potenza imperiale inglese, la biomedicina rimane un dispositivo che — disciplinando corpi, spazi e comportamenti — segue di pari passo l’imposizione dell’autorità dello Stato. Come hanno dimostrato, tra gli altri, Whyte e Van der Geest (WHYTE S. R.
- VAN DER GEEST S. 1994) il fascino e il successo della biomedicina non può essere connesso soltanto alla sua indubbia efficacia. Va sottolineato anche che, proponendosi programmaticamente come tecnica — separandosi cioè da ogni discorso sulle relazioni sociali, che diventa a quel punto un discorso esterno alla diagnosi e alla terapia, diversamente da quanto abbiamo visto accadere per le medicine tradizionali — essa si rappresenta come dispositivo neutrale, esterno alle dinamiche sociali e agli equilibri di potere. In un suo articolo, Bernard Bierlich (BIERLICH B. 2000), partendo dal con-
cetto foucaultiano di biopotere, discute dell’ambivalente atteggiamento dei Dagomba del Ghana settentrionale verso la biomedicina. Tra i Dagomba, come del resto già visto nello scorso paragrafo per la parte meridionale della colonia della Costa d’Oro, l’introduzione della biomedici-
na avviene all’interno di un contesto coloniale. Se da una parte diventa popolare attraverso i suoi innegabili successi terapeutici, dall’altra si impone in un
contesto segnato dalla coercizione e dall’oppressione. Come già in altre parti dell’Africa (VAUGHAN M. 1991), non è raro che l’azione dei medici si svolga con il supporto delle truppe militari. È il caso ad esempio delle campagne di vaccinazione contro il vaiolo, spesso rifiutate dalla popolazione e imposte loro con la forza delle armi. Bisogna dire che tale rifiuto aveva una sua moti-
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vazione oggettiva. Come riportato anche da Andrea Caprara (CAPRARA A. 2001), le alte temperature e le cattive condizioni di conservazione rendevano
spesso il vaccino inefficace o addirittura dannoso. Si crea dunque un atteggiamento ambivalente verso la biomedicina e, soprattutto, verso la sua forma terapeutica più popolare: la terapia iniettiva (VAN DER GEEST - WHYTE 1994: 150 sgg.), che per molti versi — non ultimo una somiglianza nelle tecniche di somministrazione — è associata alla inoculazione del vaccino.
La terapia iniettiva è vista come un mezzo terapeutico efficace, che “va veloce” e “cura bene”. Allo stesso tempo però, dice Bierlich, intere aree di patologia, quelle riferite al sovrannaturale, non possono essere messe in contatto con le iniezioni. Occorre fare una precisazione. Ho già detto più sopra che in Ghana esiste una chiara partizione tra malattie di origine naturale contro cui la biomedicina — ma non solo essa — può essere efficace e malattie di origine spirituale, contro cui la biomedicina non può far nulla. Non si tratterebbe, in questo caso, di cura inefficace perché solo naturale e dunque incapace di avere effetti sulle influenze sovrannaturali che sono la vera causa della malattia. Si tratta invece di una ambivalenza più profonda. Tra i Dagomba l’uso della terapia iniettiva in caso di malattia spirituale potrebbe avere effetti fatali, perché si andrebbero ad avvicinare, senza alcu-
na precauzione simbolica, due mondi — o meglio due modalità dell’esperienza di malattia — che devono rimanere separati. Se la biomedicina non può far nulla nei casi di malattie a eziologia spirituale è perché non ha i mezzi per intervenire in questi casi, cioè non dispone di un apparato in grado di scrutare e dialogare con il sovrannaturale. Ma se il suo intervento può essere pensato non solo inefficace, ma addirittura pernicioso, è per le relazioni che si
instaurano tra biomedicna e ambiti di esperienza della patologia lontani da essa. Dice Bierlich, rifacendosi ad un tipo di analisi abbastanza diffuso in
Africa rispetto agli atteggiamenti verso la biomedicina, che tale rifiuto, in
questo caso, va letto attraverso le vicende storiche della sua diffusione tra i Dagomba. Come accennato più sopra essa si è imposta anche attraverso pra-
tiche di oppressione e violenza. Negare la sua efficacia, altrimenti riconosciuta, in un ambito specifico — quello di certe malattie a eziologia spirituale — significa produrre una frattura in un’area in cui si esercita, attraverso un comportamento che discende dall’adesione a precisi modelli eziologici e di pratiche di cura, una critica e una resistenza all'ordine egemonico che si è
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imposto nel paese, e di cui la biomedicina è parte. In tal modo secondo l’autore si svela un’area di ambivalenza nell’atteggiamento verso la biomedicina che si può spiegare solo con la storia della sua imposizione nel Paese. .
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5. Il processo di professionalizzazione Il processo di professionalizzazione della medicina tradizionale africana è intimamente legato al problema del suo riconoscimento legale. Fino ad oggi infatti in gran parte dei paesi africani essa ha vissuto di uno statuto ambiguo. Benché di fatto fosse la principale, e spesso l’unica, risorsa terapeutica disponibile per gran parte della popolazione, specie nelle aree rurali, nella maggior parte dei Paesi non godeva di alcun tipo di riconoscimento legale, e veniva il più delle volte tollerata quando non esplicitamente perseguitata!4. Il mutamento di atteggiamento, e soprattutto il problema, finora non sempre risolto, del suo riconoscimento legale ha posto di fatto la medicina tradizionale in una nuova situazione. Il riconoscimento del suo valore terapeutico, nonostante sia avvenuto tra molte ambiguità testimoniate dalle difficoltà in cui versano molti dei progetti di integrazione tra terapie tradizionali e biomedicina (GREEN E.C. 1988), ha fatto sì che essa traesse da questa situazio-
ne una nuova fonte di legittimazione, non derivante più dalle comunità che vedono in essa una forma efficace di terapia, ma direttamente dalle istituzioni statali. Diversi i punti che il dibattito sviluppatosi intorno a tale processo, soprattutto sulle pagine di “Social Science and Medicine”, ha messo in luce. Un certo rilievo hanno assunto le questioni sollevate rispetto allo statuto dei terapeuti tradizionali, e quelle relative alla delimitazione del sapere medico tradizionale!5. Il dibattito però non ha mancato di sottolineare anche molti aspetti legati alla pratica concreta della costruzione di occasioni di collaborazione tra biomedicina e medicina africana, soffermandosi sulle difficoltà e
sulle implicazioni operative che il privilegio di particolari opzioni lascia presagire. Di una certa rilevanza per gli scopi del mio contributo è la discussione sul ruolo che le associazioni di guaritori possono avere nello svolgersi del processo di professionalizzazione. Tali associazioni si sono per lo più costituite negli ultimi anni, pur se non mancano diverse eccezioni che permettono di retrodatare tale fenomeno. Ad
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esempio in Ghana, come si vedrà più approfonditamente in seguito, la principale associazione di guaritori fu fondata sotto gli auspici del governo subito dopo l’indipendenza; Oyebola (D.D.O. OYEBOLA 1981) inoltre sottolinea come nell’area yoruba le associazioni di guaritori siano presenti sin dalla fine del secolo scorso. Tali associazioni possono assolvere a diverse funzioni, ma
il loro scopo principale è di essere una valida controparte all’azione governativa nel processo di legittimazione della medicina tradizionale. È proprio sul ruolo che esse possono avere in tale processo che si è sviluppato un certo dibattito in seguito al già citato contributo di Oyebola, il quale si esprimeva favorevolmente sul ruolo che potrebbero avere le associazioni nazionali di guaritori nel processo di professionalizzazione. A questo proposito, in contrasto con quanto affermato dallo studioso nigeriano, si segnala la posizione di Bibeau (BIBEAU G. 1981), che auspica non la formazione di associazioni a livello nazionale, viste come forme vuote con scarso potere di mobilitazione, quanto piuttosto la formazione di una pluralità di associazioni per ogni paese, ognuna con base regionale. Solo a questo livello infatti, secondo l’antropologo canadese, si può riuscire a garantire l'effettiva partecipazione dei guaritori ed un certo potere contrattuale delle associazioni stesse. Quale che sia la soluzione proposta, mi sembra importante sottolineare che esista un sostanziale accordo sul possibile potere contrattuale che tali associazioni possono avere nello svolgersi del processo di riconoscimento della medicina tradizionale. È implicita in ciò la consapevolezza che tale processo dipenda di fatto da una serie di negoziazioni che coinvolgono attori e istituzioni diversi ed in cui il bilanciamento dei poteri non è dato una volta per sempre ma si costituisce di volta in volta. Come si ponga, e soprattutto quali nuovi spazi problematici apra la questione della legittimazione, è cosa a cui diversi ricercatori hanno dato risposte molto differenti. Ad esempio, MacCormack (MACCORMACK C.P. 1981) analizza questo problema utilizzando la classica griglia weberiana. In breve la studiosa isola tre diverse forme di legittimazione: quella tradizionale, la cui validità è riposta sull’adesione ai costumi degli antenati; carismatica, che si appoggia al carisma personale e alle qualità straordinarie di un individuo; razionale o legale, che è sanzionata dal rispetto di regole stabilite legalmente. Per questa studiosa la medicina tradizionale si avvarrebbe di una forma tradizionale di legittimità, la biomedicina di quella razionale-legale, ed infine la legittimazione carismatica è lasciata ai profeti-guaritori delle chiese spirituali. Applicando questa griglia ai processi attuali ne verrebbe fuori che i guaritori tradizionali reclamino e perseguano l’obiettivo di ottenere un tipo
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Le politiche della cura
di legittimazione razionale-legale, dato che questa risulta oltretutto in una posizione predominante rispetto a quella tradizionale. Probabilmente la realtà è un po’ più complessa e questa classificazione rigidamente meccanicistica, oltre ad essere uno strumento euristico approssima-
tivo, male si adatta ad interpretare le situazioni concrete. Per esempio c’è da chiedersi come si possa definire la legittimazione tradizionale in un contesto
urbano, dove convivono ed interagiscono individui che appartengono a gruppi, per storia e cultura, affatto diversi e che possono accedere a differenti tipi di terapeuti o operatori. In effetti, e non solo in contesto urbano!$, i terapeuti tradizionali hanno una clientela che va ben oltre i confini del proprio gruppo di appartenenza; anzi spesso va anche oltre le appartenenze religiose: cito ad esempio il caso di cristiani o di islamici che si rivolgono a guaritori tradizionali!?. Il problema non è solamente l’esistenza di un pluralismo di tradizioni terapeutiche cui i pazienti attingono al di là del loro gruppo culturale di appartenenza, infatti la rigida divisione schematica proposta da MacCormack non tiene conto dei vari sincretismi e contaminazioni in atto tra saperi terapeutici diversi. Sotto quest’ultimo aspetto la legittimazione, più che riposare sull’aderenza ai dettami della tradizione da parte dell’operatore, si fonda sulla sua capacità di adattamento e di rinnovamento della propria pratica terapeutica.
Diversa da quella più sopra delineata è invece la posizione di Fassin, che se in un caso (FASSIN D. 1987) sembra sottolineare principalmente il fatto che la richiesta di legittimazione legale da parte dei guaritori sia da considerare soprattutto come un indicatore dell’attuale debolezza delle forme di legittimazione tradizionale, assume altrove posizioni più articolate (FASSIN D. FASSIN E. 1988; FASSIN D. 1992). Innanzitutto lo studioso francese sottolinea
la necessità di analizzare questo problema alla luce della dialettica tra sistemi medici diversi e in concorrenza tra loro, e all’interno delle dinamiche di
mutamento che attraversano le forme terapeutiche tradizionali e le società nel loro complesso. Una dinamica e una dialettica che non permettono l’applicazione di schemi rigidi. D'altronde è lo stesso gioco della legittimazione ad essere complesso: come Fassin mette bene in evidenza è difficile l’adozione dello schema weberiano in quanto nuove forme di legittimazione producono nuove autorità legittimanti, nel senso che una volta che si sia data legittimità ad una associazione di guaritori questa stessa diventerà a sua volta
autorità legittimante, nel momento in cui riconosce i suoi membri come indi-
vidui capaci e “autorizzati” a dispensare cure: la legittimazione tradizionale lascia in questo caso il passo ad una forma affatto moderna, ma comunque
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diversa da quella razionale-legale, poiché nasce dal crisma di legittimità attribuito a una pratica terapeutica in virtù del suo essere “tradizionale”. Inoltre è da tenere nel giusto conto il fatto che chi legittima qualcuno riceve da questa azione un ritorno di legittimità, e dunque le associazioni di guaritori si legittimano anche legittimando i loro aderenti come terapeuti. Allo stesso tempo, come già accennato, non si deve dimenticare che forme diverse di legittimazione, ad esempio quella tradizionale e quella legale, possono avere un peso ed una forza diversi per differenti attori sociali. Si tratta insomma di analizzare un gioco complesso che risponde a logiche e interessi differenziati: «Nel processo di riconoscimento ufficiale [della medicina tradizionale], noi dobbiamo essere consci delle ragioni obiettive e dei vantaggi di tutti i diversi attori — guaritori tradizionali, autorità scientifiche, burocrati di stato, organizzazioni internazionali che possono temporaneamente seguire la stessa direzione — benché perseguano logi-
che differenti» (FASSIN D. - FASSIN E. 1988: 356).
Le affermazioni di Didier e Eric Fassin vanno nello stesso senso di quanto suggerito da Bibeau nell’articolo prima citato: cioè la necessità di collocare l’analisi di tali fenomeni all’interno di un più ampio contesto. Del resto il problema dell’articolazione tra sistemi medici diversi ha insito un rimando tra diverse dimensioni — locale, nazionale e internazionale — che vanno tenute nel giusto conto. E allora, trattando della legittimazione legale dei guaritori tradizionali, è lecito chiedersi in quale contesto tale processo si situi e se esso non implichi, come suggerisce Fassin, anche un ritorno di legittimità per
chi si impegna per il suo riconoscimento.
Note 1 Cfr. ad esempio: SETHURAMAN S.V. (1976), MAZUMDAR D. (1976), PEATTIE L.R. (1980); per quello che riguarda particolarmente il Ghana cfr. HART K. 1973, TRAGER L. 1987, NINSIN