Le maschere della malinconia. John Ford tra Shakespeare e Hollywood 9788822050298, 8822050290

John Ford non è solo sinonimo di "vecchio West" e neppure è il tipico regista di Hollywood: è stato un grande

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Italian Pages 144 [146] Year 1994

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Le maschere della malinconia. John Ford tra Shakespeare e Hollywood
 9788822050298, 8822050290

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Fabio Troncarelli

Le maschere -. della malinconia John

Ford tra Shakespeare e Hollywood

In copertina: John Wayne in Sentieri selvaggi, Team, Roma.

© 1994 Edizioni Dedalo srl, Bari

Volume di pagine 144 con 39 illustrazioni b.n. carta Bulkymati, gr. 90 Finito di stampare nel gennaio 1994 dalla Dedalo litostampa srl in Bari

1956. Foto Agenzia

Fabio Troncarelli

Le maschere della malinconia John Ford tra Shakespeare e Hollywood

edizioni Dedalo

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Sacrificio d'amore

Tradire l’amicizia! Dove, dove nascondermi

perduto alla ragione... John

Ford,

Sacrificio

d’amore

[1, 2, vv.

90-91].

La più bella scena di John Ford non è stata mai girata. Ma è stata recitata lo stesso. Con enorme successo. Era il 1950, negli Stati Uniti infuriava la caccia alle streghe. La House Committee on Un-American Activities, fiancheggiata dall’F.B.I., si accaniva contro chiunque professasse idee politiche progressiste, bollate come «antiamericane» o «comuniste». Molte delle vittime dell'offensiva antidemocratica furono registi, attori, sceneggiatori di Hollywood, come Dalton Trumbo, Dashiell Hammett, Joseph Losey, Edward Dmytryk e perfino un personaggio illustre come Charles Chaplin. Vi furono delazioni, critiche violente, licenziamenti, arresti, ricatti

che travolsero Una delle vo di rovinare aveva rivolto

il mondo dello spettacolo. pagine penose di questi anni fu il tentatila carriera e l’esistenza di un regista che un atto d’accusa contro il divismo holly-

woodiano: Joseph L. Mankiewicz, autore del celebre Eva contro Eva (All about Eve), apparso sugli schermi

nel 1950. Il linciaggio di Mankiewicz era un ammonimento per tutti. Nel clima avvelenato di quegli anni schierarsi per l’accusato significava esporsi a una denuncia di complicità. Nel migliore dei casi, come avvenne 67

agli intellettuali che difesero invano i cosiddetti «Dieci di Hollywood» (che si rifiutavano di rispondere alle accuse invocando la Costituzione), si correva il rischio di vin-

cere una battaglia di principio e perdere clamorosamente la battaglia giuridica (i «Dieci» finirono in prigione). Fu in quest'occasione che Ford realizzò il suo capolavoro interpretando meravigliosamente la parte di se stesso. Per rievocare la vicenda nulla è più opportuno della testimonianza diretta di Mankiewicz: «Ero presidente dell’Associazione dei registi negli anni ‘50, durante l’epoca di McCarthy, e una parte dell’Associazione guidata da De Mille voleva rendere obbligatorio, per ogni membro, un giuramento di fedeltà. Io ero in Europa quando la cosa cominciò ma, non appena mi comunicarono cosa stava succedendo, avvertii che, come presidente, ero del

tutto contrario a un'iniziativa del genere. Beh, quasi subito cominciarono ad apparire dei brevi accenni a me nelle rubriche delle cronache mondane: “Non è un peccato per Joe Mankiewicz? Non sapevamo che fosse un rosso”. In quei giorni un’insinuazione del genere equivaleva in pratica a un fatto reale e provato. Beh, la faccen-

da si fece seria: cominciai a rendermi conto che la mia carriera era davvero in pericolo. Infine fu indetta una riunione dell’intera Associazione e io tornai in volo per prendervi parte. Tutti i membri vi parteciparono. Fu tremendo. Il gruppo di De Mille fece diversi interventi. Andarono avanti per quattro ore. E durante questo tempo io mi chiedevo, e sapevo che anche altri se lo stavano chiedendo, cosa ne pensasse John Ford. Lui era un po’ il “Grande Vecchio” dell’Associazione e la gente poteva essere

influenzata

dalle sue parole. Ma

lui sedette lì,

vicino al corridoio; portava un berretto da baseball e delle scarpe da ginnastica e non disse nulla. Poi, dopo che De Mille ebbe tenuto il suo roboante discorso, ci fu

un attimo di silenzio e Ford alzò la mano. C’era uno stenografo là che trascriveva tutto e ognuno doveva iden68

tificarsi, per il verbale. Allora Ford si alzò in piedi: “Mi

chiamo John Ford” disse, “Faccio western”. Elogiò i film

di De Mille e De Mille come regista. “Penso che non ci sia nessuno in questa stanza” disse “che sappia meglio di Cecil B. De Mille ciò che il pubblico americano vuole, e certamente lui sa come darglielo”. Poi fissò de Mille che era all’altro capo della sala, proprio di fronte a lui. “Ma tu non mi piaci, Cecil De Mille” disse. “E non mi piace quello che hai detto qui questa sera. Adesso suggerisco di dare a Joe un voto di fiducia e poi ce ne andiamo tutti a casa a dormire”. E questo è ciò che fecero»!. La testimonianza di Mankiewicz concorda quasi del tutto con quella di altri personaggi che parteciparono alla riunione e col verbale dello stenografo. Vale la pena, comunque, sottolineare qualche dettaglio in più che possiamo conoscere da altre fonti. Alla riunione, che si

tenne il 22 ottobre 1950 nel Beverly Hills Hotel di Los Angeles, erano presenti molti registi famosi che non erano certo d’accordo con De Mille, ma che non riuscirono

a contrastarlo, come Fritz Lang, Billy Wilder, Lewis Milestone, Frank Capra, Elia Kazan e George Stevens. Quest'ultimo attaccò frontalmente De Mille, ma fu messo a tacere dallo stesso De Mille, anche se il suo intervento venne applaudito da molti. Ford non si limitò solo a dire quello che Mankiewicz ricorda: aggiunse anche che Mankiewicz

era stato offeso, che De Mille e i suoi

amici dovevano dimettersi. E che bisognava andare a letto presto perché il giorno dopo ognuno doveva fare dei film. Inoltre, come si poteva immaginare, l’intervento fordiano fu una prova di consumata recitazione: Ford si alzò e si piantò davanti allo stenografo, faccia a faccia. Fece una lunga pausa dopo aver pronunciato la

! Citata in BOGDANOVICH,

I/ cinema

cit., pp. 28-29.

69

battuta provocatoria «Faccio western». Fece un’altra pausa dopo aver elogiato De Mille squadrandolo da capo a piedi come un verme. E fece altre pause, studiate ed efficaci, che sottolineavano i punti salienti del suo discorso. Poi si sedette e si accese la pipa?. Se il regista avesse potuto filmare la scena, avrebbe senza dubbio fatto coincidere ogni pausa con uno «stacco» ed un cambiamento di inquadratura. All’inizio c'è l’immagine di Ford che alza la mano. Poi c’è il faccia a faccia con l’attonito stenografo. Il primo piano sulla battuta «Mi chiamo John Ford. Faccio western». Il contro-

campo sulla faccia sempre più sbigottita dello stenografo. Il primo piano di Ford che elogia De Mille. Lo stacco e il primo piano della faccia compiaciuta e tronfia del regista che non ha ancora capito il veleno dell’argomento. Un’altra immagine di Ford in piedi, nel silenzio assoluto, che fissa il suo nemico e gli dice brutalmente,

col tono di John Wayne davanti al cattivo di turno: «Tu non mi piaci». La faccia di De Mille che incomincia a capire e a sudare. L'immagine dell’assemblea che freme. La fine del discorso e il primo piano della boccata piena di soddisfazione di chi non si preoccupa che della propria pipa. Sottolineare la dimensione «teatrale» dell’intervento di Ford e le sue implicite potenzialità cinematografiche non vuol dire, com’è ovvio, che si è trattato solo di una

recita per strappare l’applauso. La posta in gioco era alta ed il rischio notevole. Nonostante la stima e il rispetto che godeva, Ford avrebbe potuto egualmente essere attaccato e accusato di sovversione. Questo regista che agli occhi di molti intellettuali europei passa per militarista e conservatore aveva l’anima di un ribelle e un anar-

° GALLAGHER, John Ford cit., pp. 340-341; cit., pp. 166-167.

70

ANDERSON,

John Ford

chico: aveva aiutato i Repubblicani nella guerra di Spagna e appoggiato le lotte sindacali contro lo strapotere delle produzioni negli anni Trenta. Negli stessi anni in cui difese Mankiewicz si schierò pubblicamente contro il maccartismo e prese le difese anche di Frank Capra, sospettato di comunismo. Ce n’era abbastanza per suscitare ostilità nei suoi confronti, anche se nessuno poteva dimenticare che il regista (come abbiamo già ricordato)

era stato un coraggioso combattente nella seconda Guerra Mondiale, decorato per il valore dimostrato’. Ford fu senza dubbio onesto e coraggioso opponendosi a De Mille. Ma il coraggio da solo non sarebbe bastato, come non bastò a George Stevens nella riunione al Beverly Hills Hotel. È proprio grazie alla capacità «teatrale» di parlare nel modo giusto, al momento giusto, sfruttando i varchi offerti dall’avversario

(a cominciare

dalla stan-

chezza dopo ore di «roboanti discorsi») che Ford ottiene il successo. Vale la pena dunque soffermarsi sull’abilità del regista di stare in scena e mettere in scena sentimenti ed idee. Questo lato del carattere di Ford ha colpito alcuni dei suoi interlocutori più attenti, ma è stato invece spesso dimenticato o trascurato dalla grande maggioranza dei suoi critici ed estimatori. Come ha detto Orson Welles, egli era «un commediante».

Questa defini-

zione è stata ripresa da Peter Bogdanovich, che ha scritto: «Tutti i grandi registi sono prima di tutto grandi attori. E nessuno lo fu più di John Ford»*. È vero. Ford è stato un grande commediante. Da giovane aveva recitato a teatro e, come si è già detto, aveva subito l’influsso del fratello Francis, attore di teatro prima che di cinema. Molte delle opere di Ford sono tratte da testi teatrali come Viaggio senza fine da Eugene

i GALLAGHER, John Ford cit., pp. 340-341. * BOGDANOVICH, Il cinema cit., pp. 39-40 e 106.

TE

O'Neill;

Maria

di Scozia

(Mary of Scotland,

1936)

o

Uomini alla ventura (What price glory, 1952) da opere di Maxwell Anderson; L’aratro e le stelle (The plough and the stars, 1936) da Sean O’Casey; Mr. Roberts (id.,

1955) dall’omonima commedia di Joshua Logan e Thomas Heggen. Nonostante ciò la dimensione teatrale di Ford viene spesso sottovalutata. Lindsay Anderson, sostiene ad esempio che «non aveva avuto nessun rapporto col teatro»’. Gli fa eco Henry Fonda che lo definisce «un uomo senza background teatrale». Se si trascura il Ford commediante si finisce col trascurare la grande

Commedia Umana dei suoi film. E non si comprende più il significato profondo di molte delle sue invenzioni. A cominciare dalla magnifica rappresentazione allestita al Beverly Hills Hotel, a beneficio di un gruppo di uomini di spettacolo, ma idealmente rivolta a tutti gli uomini,

al grande pubblico del Theatrum mundi dove ognuno recita bene o male la parte che gli è stata assegnata.

Da dove nasce il gusto per la scena, il senso del dramma,

l’ispirazione di Ford?

Io credo che la grande

scena madre recitata a Los Angeles possa costituire il punto di partenza per un’indagine su molte altre scene madri delle opere fordiane: esse hanno dei modelli, degli archetipi che sorreggono l’istintivo istrionismo dell’autore indirizzandolo nel migliore dei modi. Il discorso di Ford contro De Mille ha infatti un illustre precedente: l’orazione di Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare. Come ricorderà chi conosce il famoso dramma, Anto-

nio si trova in una posizione molto difficile: l’assassinio di Cesare viene presentato al popolo come una dolorosa

° ANDERSON, ° Ibidem.

12

John Ford cit., p. 247.

necessità compiuta da rispettabili cittadini in nome della giustizia e nessuno ha il coraggio di protestare. Antonio gode di un prestigio minore di quello di Bruto e Cassio, per le sue origini plebee e per il suo carattere intemperante. Inoltre, può tenere la sua orazione funebre solo

grazie al permesso degli assassini di Cesare, che gli proibiscono di parlare liberamente e criticare il delitto commesso. Antonio deve stringere le mani degli assassini, se vuole sopravvivere e questo gesto è per lui una fonte di grave conflitto. In simili condizioni egli pronuncia il suo discorso. Messo con le spalle al muro, egli trasforma, con un

colpo di genio, la sua debolezza in forza. Non: attacca frontalmente i suoi nemici. Fa esattamente quello che gli chiedono. Si piega come una canna. Ma come una canna che si piega e non si spezza scatta all'improvviso in avanti sfruttando l’effetto della tensione. Infatti Antonio elogia di continuo i suoi avversari: ripete ossessivamente «Bruto è un uomo d’onore...». Ma accompagna queste parole con continue insinuazioni che, a poco a poco, vanificano l’elogio. Chi ascolta, comincia

a mettere un

punto interrogativo, inconsapevolmente, dopo la parola «onore»,

come

se Antonio

dicesse:

«Bruto è un uomo

d’onore?». Antonio ripete anche di non essere all’altezza dei suoi nemici: di essere un uomo alla buona, che non sa parlare bene come loro e non è neppure un modello di virtù come loro. Così facendo, sminuendosi, ottiene l’effetto di suscitare un’inconsapevole simpatia e una simmetrica antipatia per i «virtuosi» assassini che si fanno gloria del loro delitto in nome della loro fama di cittadini integerrimi. E tutti cominciano a chiedersi: «Ma saranno davvero così integerrimi degli assassini? Era necessario un simile delitto? Era proprio così cattivo Cesare?». L’astuto Antonio soffia sul fuoco: ricorda nobili azioni di Cesare che tutti ricordano e ogni volta i cittadini sentono più forte la fitta del rimorso.

Poi, da

73

ultimo, fa balenare davanti agli occhi della plebe il mi-

raggio del testamento di Cesare. Tutti sono eccitati. Ma Antonio non soddisfa immediatamente la loro curiosità. Dice che non deve leggere il testamento, fedele al patto coi congiurati che prevede una lode moderata del tiranno ucciso. La folla impazzisce. E a questo punto, prima di comunicare ai romani che Cesare li ha beneficiati con il suo denaro, prima di dire quello che tutti si aspettano, Antonio sferra il suo colpo mortale ai congiurati: mostra il mantello insanguinato di Cesare e con una metonimia

visiva fa balzare sulla scena attraverso il mantello trafitto il corpo trafitto di Cesare. È solo dopo questo grande effetto scenico, quando gli animi sono ormai infiammati,

che viene letto il testamento: così, con perfetta scelta di tempo, si fondono insieme il piacere di avere un beneficio ed il rimpianto per chi lo ha concesso. Ritardando fino all’ultimo la lettura, Antonio ha scatenato aspettative, desideri, sogni, immaginazione. Ha potenziato al massimo la soddisfazione egoistica per il dono ricevuto, che diventa molto più del denaro: il dono si carica del valore simbolico di un atto d’amore. Il risultato è che nessuno più crede a Bruto e Cassio e con un grido tutti si scagliano contro di loro, contro quelli che ormai sono

solo gli assassini del grande Cesare. Se si analizza con attenzione il discorso di Ford in difesa di Mankiewicz non si può fare a meno di notare che è costruito con la stessa struttura psicologica e retorica di quello di Shakespeare. Ford, che è nella condizione psicologica di Antonio, inizia presentandosi senza mezzi termini come un «plebeo». Affermando di essere un regista di western, egli si presenta implicitamente come un modesto artigiano di opere commerciali. Come ha scritto a questo riguardo il regista Douglas Sirk: «Fino a quel momento nessuno si era occupato di stabilire quale posto avesse il western nel cinema americano... L’osservazione di Ford provocò accese discussioni. Ci si 74

stupiva del fatto che il grande John Ford si fosse autodefinito in quei termini... Semmai ci si sarebbe aspettato che si presentasse come l’autore di Furore...»?. Se Ford si fosse presentato come l’autore del grande film tratto dal romanzo di Steinbeck, tutti avrebbero pensato: «Ecco un regista di sinistra...». Invece Ford fa come Marc'Antonio: vestito con la «tuta di lavoro», il berretto da baseball e le scarpe da ginnastica che portava sempre durante la lavorazione dei film come si vede in tante foto, Ford dichiara umilmente di essere un regista «alla buona», un uomo del popolo. E quest'uomo del popolo non può competere con chi è «uomo d’onore»: con un regista come De Mille. Come Antonio che elogia Bruto, Ford elogia De Mille per denigrarlo. Facciamo attenzione alle parole: «Io credo che nessuno come De Mille conosca ciò che il pubblico americano vuole. E da questo punto di vista l’ammiro...». De Mille suscita l’ammirazione. Come un fenomeno da baraccone. Non il rispetto. Sa solo ciò che il pubblico vuole. E obbedisce ossequiente al volere del pubblico. In sostanza è un guitto. Ma riceve lodi ed onori, come sempre accade ai demagoghi e agli istrioni. Come dire: «Se vi piace tanto la retorica roboante dei film come Via col vento state pure a sentire questo trombone! Ma se avete capito il valore di film come Ombre rosse (girato nello stesso anno di Via col vento), allora state a sentire me!». Indirettamente, Ford dice quello che dice Antonio: «Non sono un oratore come Bruto; bensì... un uomo semplice e fran-

co... Ma se io fossi Bruto e Bruto Antonio, allora vi sarebbe un Antonio che sommoverebbe gli animi vostri e porrebbe una lingua in ogni ferita di Cesare...» (atto Illasi

221-222,

7229231):

A questo punto Ford può sferrare il suo attacco:

? Citato in FERRINI, John Ford cit., p. 79.

T9

«Tu non mi piaci, Cecil B. De Mille. E non mi piace quello che ho sentito stasera...». Il discorso è ormai al suo vertice e potrebbe concludersi con una nobile frase ad effetto. Ma c’è ancora «il testamento di Cesare» da leggere che garantisce un beneficio a tutti i presenti. E Ford si riserva questa «lettura» alla fine. Dice infatti concludendo: «Andiamocene tutti a casa a dormire. Domani dobbiamo girare dei film». Come dire: «Il diritto alla libertà non è solo una questione di principio: è anche la base del nostro lavoro. Se rinunciamo alla libertà rinunceremo anche a lavorare e ad essere quello che siamo». In questo modo la battaglia ideale si collegava alla battaglia per la sopravvivenza. Ed era più facile avere il consenso di tutti coloro che si sentivano minacciati. Il discorso di Ford per impedire il linciaggio di Mankiewicz somiglia al discorso di Lincoln nel film dello stesso Ford Alba di gloria, per evitare il linciaggio dei fratelli Clay. E Ford, con la sua pipa e la sua sferzante ironia somiglia al giudice Priest, il protagonista di un altro suo film, /I/ giudice (Judge Priest, 1934), che con la

sua pipa e il suo astuto buonsenso mette nel sacco un «roboante» uomo politico che vorrebbe farsi una fama facendo condannare un malcapitato. Ford è stato sempre fedele a se stesso. Aveva imparato sui banchi di scuola l’amore per la democrazia e per la libertà attraverso l’infiammato insegnamento di un professore, che resterà sempre un modello, che si chiama-

va William Jack. Ed aveva imparato l’amore per il teatro lavorando come maschera e come comparsa, di sera, dopo la scuola, al teatro di Portland, meta obbligata dei più grandi attori dell’epoca. È per questa combinazione di passione per la libertà e per la recitazione, di ardore e di esibizionismo che era divenuto un leader dei compagni al liceo. Ma lo era anche prima, al ginnasio, quando, come ricorda nella sua biografia il nipote Dan Ford, suscitava l’entusiasmo della classe recitando le più famo76

se orazioni della letteratura, soprattutto recitando la orazione di Marco Antonio nel Giulio Cesare?.

° FoRD, Pappy cit., p. 8. Ricordiamo che il discorso di Antonio viene «citato» parodisticamente ne L'uomo che uccise Liberty Valance. Un politicante che si chiama significativamente Cassius (John Carradine)

attacca

il protagonista

Stoddard

(James

Stewart)

con

un

discorso retorico basato sul principio dell’«affermare negando», nel corso del quale si evocano le «mani sporche di sangue», di Stoddard.

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IV

Il cuore

infranto

(prima parte)

Vi sono alcuni la cui felice natura nuota, senza un affanno nella piena abbondanza; che, dopo aver mangiato a sazietà, si stendono a dormire... e in quel silenzio si godono nel sogno i piaceri più scelti... Ma sono sempre sogni. Io voglio invece una felicità cui partecipino i miei sensi, anche quando sono svegli una vera, sensibile felicità autentica, tanto più che sto vacillando in attesa del più tenue conforto, che m’allieti la vita... John

Ford, I! cuore

infranto [IV,

1, vv. 50-64].

L’influenza di Shakespeare è visibile in molte opere di Ford. Ben pochi critici se ne sono accorti, anche se vi è stato chi ha sottolineato occasionalmente delle consonanze casuali. Solo Jean Loup Bourget, autore di uno splendido volumetto sul regista, ha osato affermare nel 1990 che «la fascinazione per Amleto non ha risparmiato Ford», il quale merita il titolo di «Shakespeare américain»'. A mio parere il rapporto con Shakespeare è molto più profondo di quanto normalmente si pensi: non solo per la citazione di Amleto in Sfida infernale cui fa giustamente riferimento Bourget, ma anche e soprattutto

per l’imitazione consapevole di alcuni celebri testi shakespeariani. Ford ha ripreso i caratteri dei personaggi prin-

! BourgcET,

John Ford cit., pp.

110-115.

79

cipali, calati in nuove situazioni, o addirittura per certi versi l’intreccio di commedie e tragedie, riadattato e rie-

laborato, con un procedimento che gli era caratteristico, come sappiamo dalla testimonianza di Dudley Nichols?. Questo genere di operazione non è comunque stupefacente nell’ambito della tradizione teatrale e letteraria di lingua inglese: infatti vi sono stati numerosi rifacimenti di commedie e tragedie del Cigno di Stratford upon Avon nel corso dei secoli, come quelle famose di John Dryden (1631-1700), autore di un Troilo e Cressida, di

un’Isola incantata sagomata sulla Tempesta e di un’imitazione di Antonio e Cleopatra, che si chiama All for love (1677). Ma soprattutto vi è stata una grande voga shakespeariana tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento nell’ambito della narrativa, soprattutto nel «romanzo gotico»; autori come Horace Walpole, Ann Radcliffe,

George Walker e molti altri si sono dichiaratamente ispirati a Shakespeare per modellare caratteri emblematici, come il «cattivo», il villain rappresentato con la fosca

e sinistra grandezza di un Macbeth o di un Riccardo III, o la fanciulla nobile e pura, che somiglia a Ofelia e a Desdemona. Tali personaggi costituiscono degli archetipi per la narrativa popolare dell’Ottocento e si ritrovano in molti dei film giovanili di Ford come ad esempio The scrapper (1917), Bucking Broadway (1917), The last outlaw (1919),

The big punch (1921).

E interessante osservare che i romanzi gotici avevano un rapporto evidente col teatro e quindi un’implicita potenzialità di essere «messi in scena»: i personaggi erano raffigurati con i tratti degli attori più celebri del tempo e la stessa struttura narrativa era spesso fortemen? ANDERSON, John Ford cit., p. 268: «Il trucco prendere una storia e girarla in vari studios, con

consisteva nel titoli e attori

diversi. Ford mi raccontò che aveva girato dieci volte la stessa storia e che nessuno se n’era accorto».

80

te teatrale. Come ha scritto Mirella Billi, autrice di un

brillante saggio sull’argomento:

«Le apparizioni delle

eroine in scene che le vedono esibire, come su un palco-

scenico,

le loro emozioni...

sono

in relazione con la

struttura drammatica dei romanzi, divisi in scene, dove

il personaggio-attore si presenta a sostenere il suo ruolo, a recitare il suo pezzo, per poi scomparire lasciando il posto ad un altro, fino alla prossima scena che lo vede ancora protagonista... secondo un codice mimico e gestuale trasportato nel romanzo, senza apprezzabili variazioni dalla pratica della scena»?. L’influsso diretto e indiretto di Shakespeare è visibile anche nella creazione di grandi figure come il mostro di Frankestein di Mary Shelley. Quest’erede diretto del Satana di Milton (che aveva già influenzato The monk di Matthew Gregory Lewis) e del Riccardo III e del Calibano shakespeariani introduce nel mondo del romanzo gotico un’importante tematica: quella del conflitto tra l’uomo e la sua parte mostruosa, il suo «doppio». È tale dimensione che affascina gli autori del romanzo gotico della fine dell’Ottocento, tributari del decadentismo, come Robert Louis Stevenson o Herbert George

Wells in opere come Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde e L'isola del dottor Moreau. Questi autori, come

ha scritto David Punter, «si chiedono:

può perdere mente)

(individualmente,

e rimanere

sempre

socialmente,

uomini?»'.

Come

quanto si

nazionalShylock,

i Bili M., Dal teatro al romanzo: trasformazioni e trasmodalizzazione del dramma elisabettiano nella narrativa gotica inglese, in «Anglistica», XXVIII (1985), pp. 7-46, in partic. p. 35. Vedi anche della stessa autrice: Il gotico inglese. Il romanzo del terrore: 1764-1820, Bologna 1986, pp. 9-132. 4 PunTER D., Storia della letteratura del terrore, Roma 1980, p. 203. Su Mary Shelley e Frankenstein, si veda l’ottima introduzione di Saci M.P. a SHELLey M., Frankenstein, Milano 1989, pp. VILXXXIl (con bibliografia).

81

l'eroe maledetto in Il mercante di Venezia, l’uomo moderno si domanda angosciato se è ancora un uomo o se è già stato mutato in un mostro. John Ford scoprì il mondo affascinante e inquietante di Stevenson da bambino, durante una drammatica convalescenza per una malattia che l’aveva ridotto nelle condizioni di domandarsi se sopravvivendo sarebbe rimasto ancora un essere umano. Inchiodato a letto per molti mesi dalla difterite, come il piccolo protagonista di Com'era verde la mia valle, Ford fu aiutato e sostenuto

dalla sorella più grande, Maime, che lo curò e gli lesse i romanzi di Stevenson e le storie avventurose e fantasiose di Mark Twain. L’impressione di queste letture restò per sempre nel regista, che in tutte le sue opere mostra una spiccata predilezione per l’avventura e l’esotismo (si pensi a film come Uragano) e s’interroga di continuo sulla «doppia» natura dell’essere umano (valga per tutti i film sul «sosia» cattivo di un mite giornalista: Tutta la città ne parla). Ma altrettanto forte su Ford fu l’impressione di-

retta del teatro e dei grandi attori che venivano a Portland, di cui abbiamo già parlato nelle pagine precedenti: Carter De Haven, Sidney Toler, e il grande interprete shakespeariano John Barrymore?. Il teatro era una malattia di famiglia: come si è già detto, anche il fratello maggiore di Ford, Francis, fu contagiato dalla passione teatrale e recitò per diversi anni sui palcoscenici di New York, prima di spiccare il volo per Hollywood e divenire una star. È interessante notare che Francis girò un film nel 1925 (Matinee) trat-

to da un testo di Wallace Smith, che raccontava la storia di un attore che recita meravigliosamente Amleto, ma smarrisce la sua identità perché il successo gli dà alla

? FoRD, Pappy cit., pp.7

82

e 9.

testa. John Ford rifece lo stesso film nel 1927, col titolo

di Upstream°. Ambedue le opere sono oggi purtroppo perdute, ma è comunque significativa l’insistenza dei fratelli Ford su questa tematica. La scelta di Amleto come cavallo di battaglia dell’attore che non ha più la sua individualità appare quanto mai adeguata: l’opera di Shakespeare è una riflessione tragica sull’identità ed è lo specchio per eccellenza per un uomo, come il protagonista del romanzo di Smith e dei due film dei Ford, che perde se stesso. Si comprende, a questo punto, quale sia il motivo della «fascination pour Hamlet» di John Ford, a cui faceva riferimento il Bourget: l’incertezza di Amleto è un leit-motiv nei film di Ford nei quali il tema del conflitto con se stessi è più forte. In Sfida infernale il monologo «to be or not to be» è direttamente connesso alla vicenda. Come ha scritto Bourget: «Ponendo la questione dell’atteggiamento da assumere di fronte al male e ai rovesci della fortuna...» il monologo «riassume... l’alternativa che incarnano i due personaggi di Wyatt Earp e Doc Holliday»/; lo sceriffo nobile che riesce ad essere

se stesso e il bel tenebroso, il «maledetto» che ha perduto la sua identità ed è destinato all’annientamento. Anche in un altro film fordiano vi era originariamente una citazione dell’Am/eto con analoga funzione: nello splendido A/ba di gloria era stata girata una scena (tagliata arbitrariamente dalla produzione) nella quale il giovane Lincoln, povero e mal in arnese, si ferma davan-

ti alla locandina dell’Amleto e viene guardato con disprezzo da un grande attore ricco e famoso che esce dal teatro. L'incontro con l’attore avveniva dopo la struggente scena in cui il giovane Lincoln sceglieva (dopo una lunga esitazione e un «monologo» davanti alla tomba

° GALLAGHER, ? Bourget,

John Ford cit., pp. 36-37.

John Ford cit., p. 114.

85

della donna che aveva amato) di andare avanti nella sua

strada ad ogni costo. Anche in questo caso dunque la presenza di Amleto alludeva al conflitto tra l’essere e il non essere se stessi. E alla domanda di Stevenson e del bambino che lotta per sopravvivere: come si può conservare la propria identità quando, sottoposti alla durezza dell’esistenza, ci pare di non essere più uomini e sentiamo

più forte la violenza

di forze oscure,

senza

freno

dentro di noi?

Questo interrogativo si fa particolarmente acuto nelle ultime opere fordiane, nelle quali, non a caso, il rap-

porto con Shakespeare è più esplicito. Ci soffermeremo nell’analisi di questi film e delle loro radici shakespeariane, evocando, solo nello sfondo, analoghe reminiscenze

in altre pellicole e trascurando film importanti, la cui analisi ci porterebbe fuori strada. Ai nostri fini è sufficiente infatti mettere in luce un aspetto poco noto dell’ultimo tratto dell'avventura umana ed artistica del nostro autore, un momento di grande turbamento e riassestamento psicologico ed artistico in cui si ricapitola in modo nuovo tutto l’itinerario interiore fordiano. Il nostro punto di partenza è il 1953. Ford era all’apice della gloria. Aveva potuto finalmente realizzare un progetto, cui teneva molto, rimandato per lungo tempo: Un uomo tranquillo. Il successo di critica e di pubblico era stato immenso. Il regista ebbe l’Oscar e un’infinità di premi ed il film fu un record di incassi. Ma la festa fu guastata da qualcosa di impensabile. Herbert Yates, che aveva co-prodotto il film per la Republic insieme alla casa di produzione di Ford, la Argosy, mani-

polò i rendiconti e intascò gran parte dei profitti. Yates finì in tribunale e dopo un lungo processo fu costretto a restituire il denaro rubato e a pagare i danni. Ma per il vecchio veterano, che aveva cominciato a lavorare quan84

do il cinema americano era appena nato, l’offesa fu enorme e il danno irreparabile. Ford aveva subito un affronto impensabile nei suoi confronti perfino negli anni in cui era capo delle comparse e si faceva rispettare da ex-cowboys a forza di urla e bestemmie. Si era fatto largo di prepotenza guadagnandosi una stima e un rispetto non comuni per il figlio di un emigrato irlandese. Aveva vinto spesso gli scontri con i tirannici zar della produzione di Hollywood, ed anche quando era stato costretto alla resa aveva avuto l’onore delle armi. In guerra era stato un eroe ed aveva suscitato l’ammirazione del presidente Roosevelt per i suoi documentari. Perfino dalla tempesta del maccartismo era uscito a testa alta. Ed ora, un produttore di seconda categoria (perché tale era Yates) si permetteva di tentare una truffa, stupi-

da e impossibile da mascherare. In un altro momento la disavventura sarebbe apparsa per quello che era, uno spiacevole e squallido inconveniente. Ma in quel frangente l’episodio si caricò di tutt'altro significato. Ford aveva quasi sessant’anni e sentiva che il mondo intorno a lui era radicalmente cambiato. Il dopoguerra non aveva mantenuto le promesse dell’età di Roosevelt, né quelle per cui la guerra era stata combattuta. I giovani erano irrequieti e sbandati, selvaggi e sregolati, in preda all’ansia della Gioventù bruciata. La vecchia guardia di Hollywood era tramontata: quasi tutti i grandi produttori di una volta si erano ritirati o stavano per ritirarsi ed il sistema stesso di produzione si modificava, a favore di una direzione collegiale degli studios e della frammentazione in molte piccole produzioni indipendenti. Con la disintegrazione del vecchio mondo si disintegravano anche le «regole del gioco» della messa in scena. I soggetti erano brutali e violenti, adatti a Marlon Brando e James Dean: oppure sofisticati, intellettuali, fatti apposta per piacere a un pubblico più colto e problematico. In questo contesto l’affronto a 85

Ford era quasi un simbolo dell’arroganza dei tempi nuovi: della sconfitta del cinema di una volta di fronte all’incalzare della nuova generazione. Come se un simbolo solo non bastasse, altri eventi catastrofici contrassegnarono la vita del regista. Nel settembre del 1953 morì Francis Ford, che fino all’ultimo aveva recitato nei film di John, vivente incarnazione di

un passato glorioso che non tramonta e di un affetto familiare che resiste al tempo. Qualche mese prima, a giugno, John era stato operato di cataratta ed aveva rischiato di restare cieco, perdendo parzialmente l’uso di un occhio. L’operazione era avvenuta subito dopo l’esproprio della casa che la famiglia Ford aveva abitato dal

1920.

In poco

tempo

la vita affettiva,

familiare,

professionale di un uomo sulla via della vecchiaia era stata rivoluzionata. Le reazioni non tardarono. Ford girò dapprima un film amaro e bellissimo su un vecchio sulla via del tramonto

che assapora l’ultima vittoria (// sole

splende alto). Poi si gettò senza riflettere in film casuali e poco ispirati. Ebbe violenti litigi con alcuni dei suoi più fidati collaboratori. Il risultato fu il progressivo deterioramento della sua immagine professionale e la rottura con vecchi amici. Qualcuno come Merian Cooper, prezioso direttore di produzione, venne recuperato dopo qualche tempo, anche se le conseguenze della lite per la libertà di Ford (garantita dalla sua casa di produzione)

furono tragiche. Ma con gli altri ogni conciliazione divenne impossibile. Tale fu il caso di Henry Fonda, che non perdonò mai al regista di averlo preso a pugni per la rabbia durante la lavorazione di Mr. Roberts. La commedia di una astro nascente dell’intellighentsia di New York, Joshua Logan, fu un banco di prova terribile per Ford; a disagio di fronte alle esigenze e alle attese delle nuove generazioni, Ford non riuscì neppure a finire il film. Dopo settimane di conflitti e di ubriacature, ebbe un 86

travaso

di bile (malattia

quanto mai

simbolica)

e fu

costretto ad abbandonare il set*. In soli due anni l’uomo di successo all’apice della fama era divenuto un regista inaffidabile, un frustrato, un attaccabrighe, un ubriacone. E soprattutto un isolato, sopravvissuto a un mondo

scomparso per sempre. È in questo stato d’animo, alla rabbiosa ricerca di una rivincita, che il vecchio leone di Hollywood se ne tornò lontano da tutti nel luogo magico in cui aveva girato tanti capolavori: Monument Valley (in Arizona). In questa specie di «ombelico del mondo» (come ha detto Jean-Louis Leutrat)°, meditando la sera sulla Cadu-

ta dell'Impero romano di Edward’ Gibbon, Ford girò uno dei suoi più grandi film: Sentieri selvaggi. L’opera (giudicata addirittura la migliore del regista in un referendum tra i critici fordiani del 1977'°) riflette in modo straordinario il drammatico conflitto psicologico di quegli anni tra «l’uomo vecchio» che ha visto crollare intorno a sé ogni sicurezza come i romani dei tempi antichi e «l’uomo nuovo» che aspira confusamente a rinascere e non sa dove lo porterà la sua strada. La sceneggiatura era tratta da un curioso e prolisso romanzo a metà strada tra il West e Freud, The searchers

di Alan

LeMay!'!.

È la storia

di un

ragazzo,

Martin Pawley, che ha perso i genitori uccisi dai Comanches ed è ossessionato dal ricordo del trauma subito. Viene adottato da una famiglia che viene a sua volta

8 GALLAGHER, John Ford cit., pp. 345-346;

FoRD, Pappy cit., pp.

267-269.

° LeuTRAT, La prisonnière du desert cit., p. 57: «Monument Val ley partage avec la Connemara... le privilège d’ètre pour Ford l’omphalos, le centre du monde». !° John Ford cit., a cura di P. Rollet e N. Saada, p. 5. !! L’opera è stata pubblicata in italiano col titolo Sentieri selvaggi, Milano 1956.

87

sterminata dagli indiani, che prendono prigioniere le due figlie minori. Per molti anni il ragazzo va alla ricerca delle sorellastre, aiutato dallo zio adottivo, un uomo

duro e scontroso. Alla fine trova in vita solo la più piccola delle bambine, che nel frattempo è cresciuta ed è un’adolescente. Nella scena finale i due si riuniscono in un abbraccio che ha un forte connotato erotico e incestuoso: essi sono tutto ciò che sopravvive di un mondo di lutti e di rovine, quasi nuovi Adamo ed Eva da cui la razza umana può ricominciare.

Alle prese con questo soggetto che portava alla ribalta un personaggio alla Marlon Brando nel contesto del West, Ford s'impadronì della storia

e ne modificò molti

aspetti per adattarla alle sue esigenze. Il vero protagonista divenne lo zio adottivo che fu chiamato, con una scelta molto significativa, con il nome che nel romanzo

aveva il padre defunto di Martin, Ethan. Da questa innovazione ci rendiamo conto che anziché mettere in scena la storia di un ragazzo senza padre che cerca una sorella, Ford filmò la storia di un padre che cerca, insieme al

nipote-figlio, ciò che resta della sua famiglia. Di conseguenza Ford modificò anche la fine del film: mentre nel romanzo lo zio viene ucciso e la ragazza viene ritrovata dal fratellastro, nel film lo zio-padre ritrova la ragazza e la salva, come deve fare un vero padre nei confronti della figlia o un uomo affettuoso e nobile d’animo nei confronti di una fanciulla perseguitata. Ma il nobile cavaliere non è senza macchia e senza paura. È un uomo pieno di conflitti e di contraddizioni, lacerato e nevrotico più del giovane protagonista del romanzo. Ha combattuto tra i sudisti nella guerra di secessione ed è stato sconfitto. Ha vagato per anni al servizio di cause perse e forse si è messo addirittura contro la legge. È pieno di delusioni e di rancori. Non ha una

casa,

innamorato 88

né una

famiglia.

È stato

segretamente

della moglie del fratello e non

ha avuto

fortuna. Ed è prigioniero di un odio implacabile e di un profondo razzismo che lo porterebbero ad uccidere la bambina rapita dagli indiani e «contaminata» dalla lunga convivenza con loro. Insomma: è un eroe «negativo», un isolato, uno sconfitto, un frustrato, esattamente

com'era Ford in quegli anni. Ed esattamente come Ford, che in quegli anni ritrovò il conforto e l’affetto della figlia Barbara, per lungo tempo consegnata alle cure di governanti e collegi, alla fine della sua dolorosa ricerca questo personaggio melanconico e saturnino ritrova la fanciulla rapita e riesce a superare il suo odio razzista in nome dell’affetto per lei. Il film è dunque l’epopea del ritrovamento dei sentimenti e dell’identità familiare che sembrano perduti. E il personaggio di Ethan, sia pure con più marcate connotazioni negative, è simile a certe figure di banditi dal cuore nobile, che si riscattano nono-

stante le loro colpe, che pullulavano nei primi film di Ford, soprattutto quelli interpretati da Harry Carey. La presenza psicologica di Carey è accentuata dalla presenza fisica, tra gli attori, di Olive Carey, la vedova e Harry

Carey Jr., il figlio; e dall’imitazione della gestualità del vecchio amico di Ford, fatta deliberatamente dall’attore

protagonista, John Wayne". Ford cercava nel passato l’ispirazione per il presente. Non è strano che, nella sua ricerca di punti fermi per rispondere alla crisi di quegli anni, si sia rivolto, oltre che al ricordo dell’amico e dell’epoca d’oro del western, ai classici della letteratura che come il suo Gibbon, livre de chevet, additano all’umanità i suoi valori perenni. La

!? FoRD, Pappy cit., p. 273; GALLAGHER, John Ford cit., p. 338. Va sottolineato che oltre al rapporto tra The searchers e i vecchi westerns dell’epoca di Carey, esiste una relazione tra il film di Ford e The search di Fred Zinneman (1947). In quest’ultimo film si narra la storia di un bambino ebreo che viene separato dalla madre dai nazisti e dopo una lunga odissea viene ritrovato dalla donna.

89

storia di Sentieri selvaggi è stata infatti rielaborata e rimodellata a partire da un’opera di Shakespeare: Pericle, principe di Tiro. Il Pericle è una delle ultime composizioni shakespeariane, concepita all’epoca del Racconto d'inverno e di La

tempesta. Narra la storia di un principe costretto a fuggire e ad errare per il mare, perché ha scoperto un incesto. L’esule passa attraverso varie avventure e, a un certo punto, si sposa ed ha una figlia, che nasce su una nave e viene chiamata Marina. La madre muore dandola alla luce e Pericle è costretto ad. abbandonare il suo

corpo in mare. Sbarcato a Tarso, l’uomo lascia la figlia presso alcuni amici e cerca di tornare in patria per recuperare il suo regno. Passa del tempo e la bambina cresce, suscitando l’invidia della figlia della donna che la ospita, al punto che viene allontanata dalla casa per essere uccisa. Ed invece viene rapita dai pirati e venduta a Mitilene dove finisce in un bordello. La fanciulla è tanto abile da riuscire a non perdere la purezza e diviene famosa nella città per le sue doti di cantante e musicista. Passa ancora del tempo e un giorno Pericle, che ha riconquistato il regno e crede la figlia morta, viene portato dalla fanciulla. Oppresso dal dolore della perdita della figlia, Pericle è in preda alla malinconia, ma la ragazza, col suo canto melodioso, lo cura. Con grande stupo-

re, Pericle viene a sapere che si tratta proprio della figlia perduta che ormai è un’adolescente. Ma i miracoli non sono finiti: nella stessa città è ancora viva la moglie di Pericle, abbandonata in mare perché creduta morta e «risuscitata» dalle arti di un medico-mago. La famiglia si ricompone e Marina sposa il governatore della città, che aveva conosciuto al bordello convertendolo ad una vita virtuosa. Riducendo all’osso l’intreccio pieno di avventure romanzesche del Pericle, possiamo osservare che si tratta della storia di un uomo costretto ad errare da un avver90

so destino, che perde la figlia rapita dai pirati e cade in preda alla malinconia. Alla fine ritrova la figlia che avrà su di lui un potere «rigenerante», facendogli ritrovare se stesso. E evidente la somiglianza con il plot del film di Ford: il malinconico Ethan è costretto ad errare nel deserto come Pericle è costretto ad errare sul mare. In ambedue i casi sulle peregrinazioni c’è l’ombra di un incesto: Ethan è stato innamorato della moglie del fratello ed è partito un giorno senza un’apparente ragione, allontanando

così la tentazione

incestuosa;

Pericle ha

scoperto l’incesto tra un re e sua figlia ed è costretto a vagare senza ragione. Marina viene rapita dai pirati come Debbie, la nipote di Ethan, viene rapita dagli indiani. Dopo molte avventure Ethan e Debbie si ricongiungono

come

Pericle

e Marina;

e il ritrovamento

della

fanciulla ha un potere «taumaturgico» in ambedue i casi perché fa uscire i «melanconici» dalle loro ossessioni. L’unica differenza sul piano dell’intreccio tra le due storie è che in Ford c'è una venatura di maggior pessimismo: Ethan non ritrova l’amore perduto come Pericle e si allontana alla fine del film, forse per riprendere a vagare ancora. La somiglianza delle due trame è ancor più significativa ove si consideri che la sceneggiatura del film, come si è detto, si discosta in molti punti dal romanzo, intro-

ducendo scene e situazioni nuove. Sono proprio queste innovazioni a presentare punti di contatto col testo shakespeariano. Abbiamo già notato che il ritrovamento di Debbie da parte di Ethan, simile a quello di Marina da parte di Pericle, è un’innovazione fordiana. Ma anche il tema dell’allontanamento in rapporto all’incesto, come avviene nel Pericle, è una sottolineatura fordiana rispet-

to al romanzo. Infatti il film ci fa vedere che l’amore di Ethan era corrisposto e suggerisce che il pericolo di violare il talamo del fratello fosse pressante, mentre il Si

romanzo non parla affatto di questo e dice solo che lo zio era innamorato della cognata. Vi è poi una serie di dettagli che rinforzano i legami tra l’opera di Shakespeare e quella di Ford, che sono stati inseriti nella sceneggiatura e non sono presenti nel romanzo. Innanzi tutto vi è una coincidenza nella cronologia delle vicende. Nel romanzo sappiamo che lo zio si è allontanato da casa varie volte ed è sempre tornato indietro attratto dall'amore per la cognata; inoltre sappiamo che la ricerca di Debbie dura circa sei anni e mezzo!’. Nel film invece sappiamo sin dall’inizio che Ethan si è allontanato una sola volta da casa, all’inizio della guerra di secessione, nel 1861, e ritorna dopo sette anni. La ricerca di Debbie

dura altri sette anni, come

hanno notato Gallagher e Leutrat e come è evidente facendo attenzione alle diverse allusioni al passaggio del tempo nel corso della narrazione'*. In questo modo Ethan è stato costretto ad errare sette + sette = quattordici anni prima di ricongiungersi con Debbie, come Pericle che dice di essere stato lontano dalla figlia quattordici’anni (Afto Visco

3; Va75))

Un’analogia evidente tra Ethan e Pericle è il furor melancholicus che pervade ambedue e che li riduce quasi come animali, sporchi, irsuti e ossessionati dal trauma subito. '? LEMAY

A., Sentieri selvaggi, pp. 17-18; 240.

!* GALLAGHER, John Ford cit., p. 325; LEUTRAT, La prisonnière cit., pp. 5-6. Nel film vi sono vari accenni al passare del tempo. Il

primo «ritorno indietro» di Martin ed Ethan avviene dopo circa due anni, come si ricava dall’accenno che fa Ethan alla lettera scritta un anno prima, per comunicare la morte di un altro ragazzo che li accompagnava, a suo padre. In quest'occasione Martin dichiara il suo amore ad una ragazza, Laurie. Martin ed Ethan ripartono e quando tornano indietro, Laurie si lamenta di avere ricevuto da Martin una sola lettera in cinque anni. Dunque sono passati in tutto due + cinque = sette anni dal momento della prima partenza.

92

Un'altra analogia tra Pericle ed Ethan è costituita dalla «magia» delle loro armi. Pericle ritrova miracolosamente la sua armatura finita in fondo al mare e può combattere nel torneo in cui conquista sua moglie; Ethan

si presenta all’inizio del film col cappotto e la sciabola dell’esercito sudista'?, miracolosamente intatti a tre anni dalla fine della guerra. Un’ulteriore analogia che accomuna il film e il testo teatrale, contro il romanzo, è la «scena

della castità» nel bordello. Nel romanzo, a un certo punto, Martin finisce in una taverna piena di prostitute e va a letto con una di loro. Nel film invece il ragazzo rifiuta la compagnia della donna, così come il governatore di Mitilene, educato alla virtù dalla saggia Marina. Un altro importante punto di contatto è l'espediente della lettera a metà della narrazione. Nel Pericle, all’inizio del terzo atto, viene letta una lettera che serve a far

capire al pubblico che cosa è accaduto nel regno del principe errante e quali siano i sentimenti dei suoi sudditi. Grazie a questo artificio la vicenda può riprendere e Pericle, che si è appena sposato, decide di mettersi in mare per tornare a casa. Con la stessa tecnica narrativa, a metà del film, viene letta una lettera di Martin che raccon-

ta quello che è avvenuto e spiega la decisione di prolungare ancora la ricerca andando nel Nuovo Messico'°. Il ricorso allo Shakespeare

delle ultime opere, im-

merse nell’atmosfera avventurosa e fantasiosa del romance, assicura a Ford la garanzia che la vicenda, farragino-

sa e improbabile, del romanzo

venga contenuta entro

!5 I calzoni di Ethan sembrano piuttosto quelli della cavalleria nordista. La bizzarra divisa mescola il Sud e il Nord secondo un principio di riconciliazione tra le due componenti della storia degli Stati Uniti che c’è in tutti i film di Ford. ‘6 L’espediente della lettera ricorre in molte opere letterarie. Quello che accomuna il Pericle e Sentieri selvaggi è soprattutto la collocazione dell’artificio a metà della narrazione, con l’effetto di sospendere a metà il corso degli eventi.

95

una cornice artisticamente valida e drammaturgicamente sensata. Se Ford avesse imboccato la strada della rappresentazione realistica si sarebbe trovato ben presto a mal partito, dovendo mettere in scena sette anni di ricerche infruttuose e due personaggi forsennati e ombrosi, che parlano poco e pensano ancor meno. Grazie a Shakespeare, Ford percorre invece con serenità la strada dell’assoluta improbabilità: gli eventi che sul piano realistico risultano inverosimili (come è stato

notato talvolta dai critici'’) godono dello statuto privilegiato del «romanzesco» e del meraviglioso shakespeariano. In questa dimensione è possibile conservare la propria armatura e la propria divisa per anni e anni intatta, senza che nessuno si domandi se è ragionevole. Ed è possibile che esseri che vagano per anni senza compagnia rifiutino gli allettamenti della sessualità; o che scampino a mille peripezie senza che nulla cambi dentro di loro, l’odio implacabile come l’amore. In questo mo-

do il film, che pure è girato en plein air, con splendidi panorami, sembra un film da camera, coi fondali intercambiabili. Come ha osservato con grande finezza JeanLouis Leutrat, lo spazio aperto della magnifica Monument Valley, con le sue colline sempre uguali, finisce con l’essere una sorta di spazio chiuso e le colline sembrano un motivo simile all’ornato dell’arte egizia o alla decorazione simbolica dei tappeti navajo che compaiono spesso nel film'*. La vicenda narrata, così piena di colpi di scena, finisce con l’essere una sorta di dramma sacro in vari quadri, diviso in cinque atti, come ha intelligente-

mente osservato Tag Gallagher". È in questo clima simbolico

che l’opera assume

!" LeuTRAT, John Ford cit., pp. 16-18. !* Idem, pp. 54-55, e soprattutto le splendide osservazioni alle pp.

42-47.

'° GALLAGHER,

94

John Ford cit., p. 325.

tutta la profondità emotiva e il pathos che ci colpiscono con tanta forza. Non è solo la storia di un reduce dalla guerra di secessione che odia gli indiani e cerca rabbiosamente sua nipote. E la storia universale della ricerca di qualche cosa che l’uomo ha perduto: qualche cosa di profondo, che gli appartiene di diritto ma che è scomparso misteriosamente. Verso tale interpretazione ci orienta lo stesso Ford che ha voluto che il film fosse accompagnato da una canzone scritta da Stan Jones su sua commissione che dice: «Un uomo partirà in cerca della sua anima e del suo cuore e andrà in cerca della sua pace dove sa che la troverà... Ma dove, Dio mio, dove?» Grazie alla levità del romance, mutando l’acqua del mare nelle sabbie del deserto, Ford ci ha portato con lui nella ricerca di una Terra Promessa?°, che nessuno rie-

sce a trovare se non nell’attimo in cui smette di fare la guerra ai sentimenti più profondi. Il padre viene rigenerato dalla figlia che ha generato perché ad onta della sua melanconia riesce, come fa Pericle con Marina, ad inten-

dere la Musica misteriosa che viene dal suo canto: o come Ethan, sa ritrovare, dietro la «contaminazione»

e

la degradazione di un mondo che ci violenta, l’innocenza dell'infanzia perduta nell’uomo. Alla base del perpetuo errare di Pericle e di Ethan, c'è, naturalmente, il mito di Ulisse. Non a caso Ethan

volge le spalle alla sicurezza della casa in cui ha riportato Debbie e si avvia verso un incerto destino. Come Ulisse, le sue peregrinazioni non avranno mai fine ed il

ritorno al luogo d’origine non sarà definitivo. In un film successivo a Sentieri selvaggi, che si intitola Le ali delle 2° Significativi sono i nomi degli altri personaggi del film: Aaron e Mosé. Sulla loro interpretazione in rapporto alla Bibbia si veda LeuTRAT,

John

Ford

cit., pp. 37-38.

95

aquile, Ford

allude dichiaratamente

a questa

sorta di

maledizione che attanaglia i suoi eroi e in fondo lui stesso.

Nel film, che racconta

la storia di un

grande

amico di Ford, un vagabondo errante come Ethan, Spig Wead, compare un regista cinematografico che si chiama John Dodge interpretato da Ward Bond, che è un esplicito ritratto dello stesso Ford. Per sottolineare ancor più l'imitazione dell’autore del film, Bond indossa il cappello di Ford e tiene in mano la sua inseparabile pipa. Ad un certo punto, Bond mostra un libro all’amico e gli dice che ha recitato questa storia dovunque in America. Il libro è l'Odissea. In questo modo Ford ci suggerisce di aver interpretato la parte di Ulisse nella commedia della sua vita, dall'epoca in cui viveva a Portland nel Maine fino ad ora. E quindi, indirettamente, che le sue

peripezie non avranno mai fine come quelle di Ulisse. Ed infatti, nonostante la parziale e temporanea risoluzione dei conflitti interiori rappresentata dal «ritorno a casa» di Ethan e Debbie, il destino di Ford spingeva il regista e i suoi eroi sulla via del «viaggio senza fine» (per parafrasare il titolo di un celebre film fordiano degli anni quaranta).

Nelle opere successive a Le ali delle aquile l’autore ci mostra un'immagine sempre più angosciata e problematica di un universo di nomadi e di esuli, sottolineando con insistenza la difficoltà, se non addirittura l’impossibilità di risolvere i propri conflitti interiori. Parallelo a questo itinerario artistico è l’itinerario biografico: sempre più infelice, sempre più depresso, sempre più ubriaco, sempre più solo, Ford lascia dietro di sé l’immagine dolorosa di un uomo sconfitto, alla deriva, che contrasta

con la leggenda gloriosa della sua esistenza passata e della fama guadagnata in tutto il mondo. I più colpiti da questa degradazione personale furono parenti, amici, collaboratori stretti: dalle loro testimonianze emerge il disagio, la pena e la rabbia di chi vede crollare un idolo. 96

Questi

sentimenti,

comprensibili,

sfociano

a volte, in

qualcuno, nel tentativo di rifiutare la produzione degli ultimi anni di Ford, nata dalla degradazione, che rimette

violentemente in discussione lo stile e la tematica caratteristica del regista. Ma l’espediente della rimozione non funziona di fronte a film degni di tutto il nostro rispetto e pieni di inventiva: come ha giustamente osservato il critico Andrew

Sarris, gli ultimi film di Ford ricordano

le ultime opere di Rembrandt, in cui il pittore eliminò tutti i manierismi e non lasciò che la nuda espressione del proprio animo?'. Allo stesso modo, il vecchio regista lascia trasparire tutta la sua disperazione: il senso di sfiducia per il tramonto dei vecchi miti, il senso di sradicamento di chi non è riuscito a conquistare una identità stabile, il senso di sgomento di chi scopre l’altra faccia della medaglia di una storia personale e collettiva tragica e dolorosa. In questa temperie emotiva, in questa dimensione (per usare un’espressione di Bourget) da «epitaffio funebre»?? che si muta silenzioso in un accorato canto del cigno,

Ford

torna

al suo

amato

Shakespeare,

all’aedo

che conosce la tragedia delle vittime del tempo: i soldati caduti senza redenzione ed i re che non reggono il peso tragico della corona. Il primo testo cui fa riferimento è il Riccardo II, la storia di un’anima troppo nobile e sensibile per la violenza di questo mondo. La storia di un uomo che perde la sua identità pubblica perché non sa conciliarla con la sua identità più profonda. Il film in cui compare un riferimento al Riccardo II è Soldati

a cavallo

(The

horse

soldiers,

1959).

E la

storia di una pericolosa missione «dietro le linee» di un ?! L’apprezzamento di Sarris per le ultime opere di Ford è stato ben argomentato in uno studio approfondito: SARRIS A., The John Ford movie mistery, Bloomington 1976. 2° Bourget, John Ford cit., p. 13.

97

colonnello nordista, il colonnello Marlowe,

che si inol-

tra in territorio nemico per distruggere una stazione ferroviaria. L'impresa è particolarmente dolorosa per lui perché prima delle guerra faceva il costruttore di ferrovie. Il colonnello cerca con ogni sforzo di evitare lo scontro col nemico e di non mettere a repentaglio la vita dei suoi nemici. Ma fallisce. Lo scontro, terribile, avvie-

ne ed è una tragica carneficina. I nordisti ripiegano dopo aver distrutto la ferrovia e riescono a scamparla per un pelo, dopo aver combattuto ed ucciso senza un attimo di tregua. Incalzato dagli eventi, il colonnello Marlowe è costretto ad abbandonare Hannah, una ragazza del Sud di cui si è innamorato durante il viaggio. E fugge come se fosse inseguito dal demonio, mentre salta in aria dietro di lui un ponte che è stato minato per impedire ai sudisti di passare. Era la prima volta che nella lunga carriera Ford metteva in scena la guerra di secessione. In molti film aveva rappresentato i reduci sudisti e nordisti, dopo la guerra, come I/ giudice o Il sole splende alto (The sun shines bright, 1953), ma non

aveva mai raffigurato gli

orrori di questa guerra. Ed anzi aveva più volte invitato alla conciliazione degli animi, sull'esempio di Lincoln che ne I! prigioniero nell'isola degli squali (The prisoner of Shark Island, 1936) aveva invitato la banda a suona-

re l’inno dei sudisti il giorno della fine della guerra e della vittoria del Nord. Ora invece la conciliazione degli animi non è più possibile. La guerra balza davanti ai nostri occhi in tutta la sua feroce distruttività e suscita un sentimento di drammatico sbigottimento. Il protagonista del film è sotto choc per le distruzioni che è costretto a commettere,

violentando la sua natura di costrutto-

re. E si ubriaca, contro il mondo, un ufficiale della gli dà scampo e

pieno di rancore contro se stesso e in un modo che non è certo degno di cavalleria dell’Unione. La guerra non quando lo vediamo, alla fine, correre

98

come una vittima delle Erinni, mentre alle sue spalle tutto esplode, siamo feriti da una pietà e da un terrore che non riescono a tradursi in catarsi. In questa riedizione della tragedia greca in Louisiana non c’è redenzione. Il fosco eroe di questo film si chiama Marlowe, come il poeta inglese autore del dramma sulla dannazione di Faust. La scelta del nome non è casuale: nel romanzo di Harold Sinclair da cui è stata tratta la sceneggiatura si chiamava infatti Benjamin Grierson. La sfumatura di cupa grandezza elisabettiana del nome del protagonista è in sintonia con il riferimento al Riccardo II. Il testo di Shakespeare viene citato esplicitamente da un ufficiale che era attore nella vita civile (Atto II, sc. 3) e lo spirito

del dramma è presente in tutto il film. Come nel Riccardo II, in Soldati a cavallo c’è la crisi di un uomo che sognava per sé alti destini ed è incapace di controllare ciò che gli si scatena intorno. Sia Riccardo sia Marlowe sono incapaci di impedire i sanguinosi eccidi di una guerra civile, nonostante il tentativo di essere giusti e di non ricorrere all’arbitrio. All’inizio del dramma di Shakespeare vediamo il re che amministra la giustizia ed esilia i nobili che combattono tra loro, nell’esigenza di mantenere la pace. Allo stesso modo, Marlowe decide di intra-

prendere la sua missione in nome di un ideale umanitario per evitare maggiori lutti all’esercito. Nel corso del dramma la situazione precipita: Riccardo è costretto a confiscare i beni della famiglia York per finanziare le sue spedizioni contro i ribelli irlandesi: così si comporta da tiranno e provoca la ribellione anche in Inghilterra. Sconfitto dai ribelli e vittima di un complotto, sarà deposto. Nel film ci sono eventi simili: Marlowe, che confisca i beni delle famiglie sudiste, fini-

sce per comportarsi, sia pur involontariamente, da sadico devastatore della vita dei civili e col suo autoritarismo provoca la ribellione e un complotto dei suoi ufficiali; mentre l’ufficiale medico non esita a prenderlo a 99

pugni (come forse avrebbe desiderato fare Henry Fonda sul set di Mr. Roberts). Come Riccardo II, Marlowe ha

una crisi di identità: da civile era un costruttore di ferrovie, ma da soldato deve distruggere la linea ferrata. La contraddizione lo stritola; come il re egli potrebbe dire: «Con la mia sola persona recito la parte di diversi personaggi, ma nessuno contento della sua sorte.» (Atto V, SCESE

Il re deposto, profondamente disorientato per aver perduto la sua identità, è costretto a separarsi brutalmente da sua moglie; allo stesso modo Marlowe deve abban-

donare Hannah e fuggire. La rovina non risparmia neppure la ragazza. In una scena toccante, Hannah si guarda in uno specchio rotto che i soldati le hanno regalato con goffa gentilezza. E non si riconosce più. Come Riccardo II, che rompe lo specchio in cui si rifletteva il suo volto scavato

dalla sofferenza

(Atto IV, sc.

moltiplicato nei frammenti lo stesso dolore.

100

1) e vede

VII

cuore infranto

(seconda

parte)

Ben più che alle rovine della sua giovinezza l’infelice faceva pensare alle rovine di quelle rovine. John

Ford,

I! cuore

infranto

[II,

3, vv.

142-143].

Cedere alla disperazione non si addiceva al carattere combattivo di un irlandese. Ford cercò di reagire alla depressione. Diresse così un film vigorosamente antirazzista, I dannati e gli eroi (Sergeant Rutledge, 1960). Con ironico paradosso, il soldato negro protagonista del film aveva lo stesso cognome della donna amata da Abraham Lincoln. Oggetto dell’amore del regista sono gli emarginati, i falliti, gli sradicati. E tale è anche il protagonista del film successivo: un’opera ironica, amara, cinica e romantica, anch’essa profondamente antirazzista: Cavalcarono insieme. Lo sceriffo Guthrie McCabe è un lestofante che si è fatta una posizione, ma che conserva tutti i tratti caratteristici della sua vita passata di contrabbandiere e avventuriero. In fondo è una variante di un personaggio come Frank Skeffington. Ma ora tutto è cambiato e non sembra esserci scampo per i sentimenti di una volta. Nel film viene rappresentato il linciaggio di un giovane bianco, rapito dagli indiani e divenuto come loro. È la prima volta che Ford permette che una cosa simile accada in un suo film. I tempi della lotta all’ottusità degli yankees e all'ipocrisia del maccartismo sono ormai finiti. Eppure, 101

proprio nell’attimo in cui viene toccato il vertice della disperazione rinasce come per incanto una strampalata, estrosa, balzana vigoria che permette di reagire con uno stanco furore alla sfida di un mondo sempre più opaco. Alla fine della triste e dolorosa vicenda cui abbiamo assistito, impotenti come gli impotenti protagonisti, il cinico sceriffo, McCabe, parodistica versione del nobile Wyatt Earp, ha uno sprazzo di vitalità, dà un calcio a

tutto e se ne va via salvato dagli indiani, fine di Ombre rosse. consideriamo l’abisso

con la ragazza messicana che ha come Ringo insieme a Dallas alla Può sembrare poco: ma è molto se che ci si è spalancato davanti. Con

tutti i suoi capricci, il suo strambo scetticismo, la sua pigrizia, la sua corruzione, Guthrie McCabe ha ancora

un sussulto da eroe:

uno scatto degno del nome

che

porta, il nome del mitico comandante della Bibbia, Giu-

da Maccabeo, il leone di Israele. Non è un caso che una parte simile sia stata affidata a James Stewart. Magro e dinoccolato come Henry Fonda, ma col volto ormai segnato dalle rughe, l'allora cin-

quantaduenne Stewart, nonostante i suoi capelli grigi, aveva per il pubblico americano un profumo rooseveltiano. Tutti ricordavano il suo combattivo puntiglio nei panni del protagonista di La vita è meravigliosa di Frank Capra. Il timido e grintoso Stewart, dal fisico non certo di atleta, ha sempre voglia di battersi. A modo suo, coi suoi ritmi irregolari, con la sua trasandata noncuranza. Ma con una volontà d’acciaio. È l’uomo adatto per il vecchio Ford, il vecchio Toro avviato sul sentiero del

declino fisico e della vecchiaia, che ha ancora energie da spendere. E che non si arrende. Il sodalizio tra Ford e Stewart si rinnova nel film successivo, un altro capolavoro: L’uomo che uccise Liberty Valance. Anche questo film è mesto e desolato. Ford celebra le esequie del vecchio West e della sua tumultuosa vitalità con una melanconia funebre simile a 102

quella di L’ultimo urrà. I due film si richiamano,

oltre

che per il tono e per l'atmosfera, anche per l’uso antimoderno del bianco e nero, particolarmente adatto a valorizzare i giochi di ombre di scene prevalentemente notturne. Ford vuol mettere in scena la notte oscura dell’anima del mondo in cui ha creduto e della sua stessa anima. Eppure, al di là del messaggio evidente, si cela nell’opera una forza ambigua e segreta che contraddice in silenzio ciò che viene solennemente asserito. Ancora una volta, nell’ordito di tale impalpabile velo c’è l’ombra

del Cigno di Stratford. Il film riprende una tematica tipicamente fordiana, il sacrificio

di un

uomo

in favore

di un

altro, nella

chiave, anch'essa fordiana, dello scambio delle identità e dei destini individuali. Un uomo dal cuore nobile e dai modi bruschi, il prestante ed incolto Tom Doniphon (John Wayne), uccide il bandito Liberty Valance (Lee Marvin), spianando la strada alla carriera di un giovane avvocato,

Ransom

Stoddard

(James Stewart) che aveva

sfidato pubblicamente il bandito. Tutti credono infatti che Ransom abbia ucciso Valance e questo aiuta la sua ascesa sociale. Ransom riesce perfino a rubare a Tom la sua ragazza, Hallie. Dimenticato e solo, Tom porterà nella tomba il suo segreto: anche se Ransom, da vecchio,

confesserà

la verità alla stampa,

la notizia

non

verrà divulgata. Egli è ormai una leggenda vivente, è l’uomo che ha ucciso Liberty Valance. Non avrebbe senso disilludere tutti. Il mito vince sulla storia e l’illusione trionfa sulla verità. Proviamo pietà per la sorte di Doniphon. La vittoria del mito ci sembra crudele. E crudele ci sembra perfino Stoddard, che approfitta della generosità dell’amico. In fondo il vero eroe era Tom, incarnazione dello spirito del West, un uomo privo di cultura ma pieno di corag-

gio. La morte di Doniphon è la morte dell'età dei pionieri, cui succede l’età degli intrighi dei politicanti. 105

Ma le cose stanno veramente in questo modo? Molti critici hanno letto il film così, senza tuttavia esaurire la

complessità dell’opera. È senza dubbio vero che Ford, nel suo malinconico bilancio senile, sottolinea quanto costi la rinuncia alla vitalità della giovinezza: la rinuncia agli ideali e ai sentimenti degli uomini come Harry Carey o Francis Ford, i compagni di avventura che non ci sono più, rimpiazzati dal cinismo dei tempi moderni. Ma questa è solo una faccia della medaglia, la faccia più esibita e cosciente. Infatti è innegabile che contemporaneamente all’ostentato omaggio al tipo d’uomo incarnato da Tom Doniphon, il vecchio e seducente John Wayne, Ford provi una notevole simpatia anche per StoddardStewart, a dispetto di ogni apparenza. Parliamoci chiaro: se Liberty Valance viene ucciso il merito sul piano morale è solo di Stoddard. Questo giovanotto, povero in canna, goffo e incapace di far male a una mosca, ha il

coraggio di sfidare il terribile bandito, di rischiare la vita, di buttarsi avanti. Tutti gli altri, Doniphon compreso, sono abituati a girarsi dall’altra parte quando passa Valance. Stoddard, col suo slancio donchisciottesco, ha dunque il merito di rimettere in moto un meccanismo inceppato. La sua caparbietà di adolescente, che non vuole accettare le regole del gioco della violenza e pretende di ottenere giustizia su questa terra, somigliano allo slancio temerario verso il futuro del giovane Lincoln in Alba di gloria. Anche Lincoln, avvocato senz’ar-

te né parte, ha il coraggio di rischiare in nome di un ideale, nonostante sia povero, senza istruzione, timido e goffo fisicamente quanto Stoppard. Ford ha sottolineato vistosamente la parentela tra Stoddard e Lincoln. Infatti in molte scene di L'uomo che uccise Liberty Valance risuona la bella musica di Alfred Newman composta per Alba di gloria. In quest’ultimo film l’accompagnamento musicale caratterizzava con struggente dolcezza l’amore di Lincoln per Ann Rutled104

ge, la donna che morirà lasciando al futuro presidente una

ferita insanabile.

La ripresa

della stessa

musica,

ventitre anni dopo, non è casuale. Ford vuole stabilire

un parallelismo tra il vecchio film ed il nuovo. Ciò non è sfuggito a Peter Bogdanovich, che ha fatto notare l’affinità tra la nostalgia di Lincoln per Ann Rutledge e la nostalgia di Hallie (Vera Miles) per il suo primo amore Tom Doniphon!. Ma la musica di Newman fa da sottofondo anche a molti dialoghi tra Hallie e Stoddard, scandendo le varie

fasi del loro progressivo innamoramento, come avveniva tra Lincoln e Ann Rutledge. In questo modo Ford insinua che esiste anche un rapporto tra la coppia del primo film e la coppia del secondo,

nello stesso momento

in

cui afferma che esiste un rapporto tra l’amore perduto di Lincoln e l’amore perduto di Hallie. Il regista ha un atteggiamento di equidistanza tra Doniphon e Stoddard: in apparenza sembra voler elogiare l’eroe trascurato e misconosciuto, ma in realtà tesse un sottile elogio anche del suo deuteragonista. Non è fortuito infatti che in due occasioni Doniphon si comporti esattamente come Valance: la prima volta sostenendo che nel West non esiste la Legge e bisogna farsi giustizia da soli, provocando la reazione scandalizzata di Stoddard che dice: «E esattamente

quello che mi ha detto Valance»;

e la seconda

volta dicendo cinicamente di aver commesso un «omicidio volontario» sparando su Valance a sangue freddo. Anche se Doniphon ci è simpatico e se ha agito a fin di bene, resta egualmente il dubbio se non avrebbe fatto meglio ad affrontare apertamente il bandito e batterlo lealmente. D'altro canto, se tacitiamo un simile dubbio e soste-

niamo machiavellicamente che «il fine giustifica i mez-

' BOGDANOVICH,

Il cinema

cit., p. 39.

105

zi», restiamo egualmente impaniati in un altro dubbio,

che ci impedisce di provare una simpatia incondizionata per Doniphon a svantaggio di Stoddard. Infatti, nonostante l’apparenza, Ford ha volutamente lasciato in sospeso la questione principale del film: chi ha veramente ucciso Liberty Valance? Questa domanda può sembrare paradossale e insensata: non è forse vero che il messaggio esplicito dell’opera è che il bandito è stato ucciso da Doniphon e non da Stoddard come tutti credono? Eppure, a ben guardare, le cose non

stanno così.

Chiediamoci innanzi tutto: come sappiamo che l’autore dell'impresa è stato Doniphon? La risposta è: lo sappiamo dalla sua testimonianza, un flash-back che ci fa rivedere la scena del duello tra Stoddard e Valance da un’altra angolazione. La prima volta avevamo visto la sparatoria con la macchina da presa piazzata quasi alle spalle di Stoddard e ci era sembrato che Valance cadesse colpito dal colpo sparato dal maldestro Stoddard, che affrontava il bandito col grembiule da lavapiatti, senza

la minima esperienza. La seconda volta invece vediamo la scena di fianco e ci rendiamo conto che Valance viene colpito dal colpo sparato, nell’ombra, dal fucile di Doniphon, che aiuta Stoddard senza dirlo. In apparenza si direbbe che le cose sono andate così: sappiamo che Stoddard non sa sparare e per di più che è ferito al braccio destro da Valance; sappiamo che Doniphon è il miglior tiratore della regione. Neppure per un momento ci sfiora il dubbio che non abbia colpito il bersaglio, mentre Stoddard ha solo creduto di colpirlo. E tuttavia, se le cose stanno così, vi sono delle incongruenze sul piano della rappresentazione dei fatti. Nella prima scena noi vediamo che Valance è colpito immediatamente dopo lo sparo di Stoddard. Se fermiamo il film, alla moviola, vedremo che il bandito si piega mentre esce il fumo dalla pistola di Stoddard (fig. 36). Ma se analizziamo alla moviola la seconda scena notere106

mo che quando esce il fumo dalla pistola di Stoddard,

Valance è in piedi (fig. 37) e solo una frazione di secondo dopo, nel fotogramma successivo, si piega in due mentre esce il fumo dal fucile di Doniphon (fig. 38). L’impercettibile sfasatura tra le due scene è voluta. Le due scene, girate in tempi diversi”, sono state meticolosamente sincronizzate e nulla di ciò che accade è fortuito. L’asincronia tra la prima e la seconda versione ci fa capire che Valance è stato colpito da Doniphon e non da Stoddard.

E tuttavia, in questo modo, non vediamo

più ripetersi esattamente l’accaduto e perdiamo la possibilità di ricostruire oggettivamente l'episodio. Infatti dal nostro punto di vista di spettatori la prima scena è altrettanto credibile quanto la seconda. Se nella prima scena avessimo notato la stessa impercettibile asincronia della seconda, la versione di Doni-

phon spiegherebbe qualcosa che ci è rimasto oscuro e sarebbe convincente. Ma dal momento che la prima scena non desta alcun sospetto, perché mai ci sarebbe bisogno di una spiegazione supplementare? In sostanza noi crediamo alle parole di Doniphon solo perché siamo suggestionati dalla sua personalità e ci sembra più ragionevole che sia stato lui a uccidere il bandito. Ma chi ci dice che il suo colpo sia andato veramente a segno e invece il colpo di Stoddard sia andato a vuoto? Non ce lo dicono certo i sensi, poiché la prima scena è perfettamente plausibile quanto la seconda. Ciò non significa che Doniphon menta. Ma, come nel film Rashomon di Akira Kurosawa, nel quale i personaggi presentano versioni soggettive degli stessi fatti ed è impossibile capire quale sia la verità, anche in questo caso non possiamo stabilire quale sia la verità oggettiva. In fondo, chi ci ? Ciò è evidente osservando la diversa posizione del braccio sinistro di Stewart e la differenza nella caduta di Lee Marvin.

107

Fig. 36. Ransom Stoddard (James Stewart) spara e colpisce Liberty Valance (Lee Marvin) in L'uomo che uccise Liberty Valance.

Fig. 37. Ransom Stoddard (James Stewart) spara senza colpire Liberty Valance (Lee Marvin) che resta in piedi. Si tratta dello stesso evento rappresentato nella foto precedente, ma ripreso da un’altra angolazione nel film L'uomo che uccise Liberty Valance. A sinistra si vede Tom Doniphon (John Wayne) che punta il fucile.

108

Fig. 38. Tom Doniphon (John Wayne) spara e colpisce Liberty Valance (Lee Marvin). Il bandito cade solo dopo lo sparo del fucile di Doniphon.

vieta di pensare che Doniphon abbia creduto di colpire per primo Valance e ricordi la scena in modo distorto, mentre lo ha colpito solo per secondo, dopo che questi era già stato colpito da Stoddard, che ha azzeccato un colpo da maestro con la classica fortuna dei principianti? A riprova di tale sospetto e dell’intenzionalità con cui Ford lo insinua, senza

darlo a vedere, sta un’altra

considerazione. Se Stoddard non ha ucciso Valance, allora il colpo sparato dalla sua pistola dev'essere finito da qualche parte. Ora Valance sta davanti alla porta del saloon, con a fianco una lampada a destra e una finestra a sinistra.

È evidente

che,

se non

è stato

colpito,

la

pallottola non può essere finita a destra o a sinistra, perché tutto resta intatto: dunque essa deve essere finita alle sue spalle nel saloon, dopo averlo sfiorato. Ma tale 109

eventualità è difficile da credere. Infatti noi vediamo, poco dopo il duello, proprio l'interno del saloon e viene inquadrata più volte la parete corrispondente alla porta. Su tale lato ci sono delle scale, una sorta di mobile con bottiglie, delle finestrelle è una parete rivestita di carta da parati o di tessuto. Un colpo di pistola andato a vuoto in questa direzione avrebbe fatto danni visibili, © soprattutto avrebbe potuto colpire qualcuno nella folla di sfaccendati che si ammassano proprio su questo lato del saloon. L'impossibilità di determinare oggettivamente chi ha ucciso Valance, nonostante le apparenze, è un’abile trovata del regista che ci impedisce di scegliere tra Doniphon è Stoddard. Ha detto, a questo riguardo, lo stesso Ford a Bogdanovich: «Mi piacevano tutti e due... mi parevano entrambi due bei personaggi»*. L'equidistanza di Ford dai due personaggi ed il significato profondo di quest'opera ambigua si comprendono più agevolmente, ancora una volta, se sì fa riferimento a Shakespeare. La coppia Doniphon-Stoddard ha il suo equivalente in una celeberrima coppia di caratteri antitetici del teatro shakespeariano, che rappresenta lo stesso contrasto dei due eroi fordiani tra braccio è mente, destrezza e moralità, individualismo e senso della collettività: Falstaff ed Enrico V.

Come si ricorderà, l'astuto Falstatt fa da precettore al giovane principe destinato a diventare Enrico V, insegnandogli tutte le malefatte possibili, finché il principe cresce, diviene re e si sbarazza del suo antico maestro. Eliminando il suo ribaldo precettore il principe non ta che applicare fino in fondo i suoi insegnamenti, commettendo una ribalderia degna del maestro. Compiuto questo rito, è ormai padrone di sé: è proclama solennemen-

* BocpanovicÙ,

110

// cinema

cìt., p. 25.

te di voler seguire le vie della Legge e di farsi garante della Giustizia che aveva vilipeso fino a quel momento. In qualche modo questa situazione è affine a quella della coppia Doniphon-Stoddard: il primo fa da «maestro» al secondo, pretendendo di dargli lezioni di cinismo e di abiltà con la pistola; e il secondo, a poco a

poco, cresce, se la cava da solo e supera il maestro in spregiudicatezza, al punto da prendere il suo posto, a fianco della sua ex-ragazza. E interessante osservare che il motivo dello scambio dell’identità è presente anche nei rapporti tra Falstaff e il suo pupillo nell’Enrico IV. Shakespeare insiste più volte sul tema dello scambio di identità tra i due: emblematica in questo senso è la scena in cui Falstaff finge di aver ucciso il terribile Hotspur, il ribelle, nemi-

co della corona d’Inghilterra, che è invece stato ucciso proprio dal principe (Enrico IV, I, Atto V, sc. 4). Altret-

tanto significativo è che Shakespeare esprima una gamma di sentimenti tipici di Ford: il senso di smarrimento per gli scambi di ruolo e d’identità e la malinconia per il tramonto dell’età dell’irresponsabilità. Il drammaturgo si apre a queste dimensioni dell’animo nell’Enrico V, in cui sviluppa i temi del dramma precedente. Se è vero che Falstaff andava eliminato e che l’essere re comporta la necessità di abbandonare la vita scapestrata e senza pensieri della giovinezza,

è anche vero (ci dice Shake-

speare attraverso questo dramma) coscienza e dell’amoralità della doloroso. E che a volte, sotto il ha la responsabilità cambierebbe no con chi non

che il sacrificio dell’ingiovinezza può essere peso degli affanni, chi volentieri il suo desti-

ha lo stesso fardello, con chi neppure

immagina ciò ch'egli prova. Nell’Enrico V, il re medita sulle difficoltà del suo destino e chi gli sta intorno ricorda con nostalgia il vecchio Falstaff, morto in solitudine.

Il re si traveste da soldato semplice e si aggira nella notte tra le sue truppe litigando con i suoi stessi soldati, Tai

come farebbe un attaccabrighe privo di responsabilità. In fondo questi soldati, plebei, rozzi, coraggiosi, sono la

spina dorsale del regno, la ragione stessa dell’esistenza del re. Nessuno ricorda il loro sacrificio ed essi non capiscono i sacrifici che il re deve sopportare. Eppure, da questa reciproca incomprensione e dalla rete incrociata dei sacrifici

non

riconosciuti,

nasce

la storia

e la

gloria della nazione! Ford ha tenuto bene in mente l’ambivalenza dei sentimenti di Shakespeare nei confronti della coppia Falstaff-Enrico V al momento di girare L'uomo che uccise Liberty Valance. Non a caso l’Enrico V viene citato esplicitamente da uno dei personaggi del film, il simpatico Dutton Peabody, dal pomposo nome dickensiano. Ubriaco fradicio, come al solito, il direttore dell’oscuris-

simo giornale «Shinbone Star», sempre pronto a scagliarsi contro i mulini a vento e a combattere prepotenti e malfattori, recita il monologo di Enrico prima della battaglia finale con i suoi nemici, il celebre «monologo del giorno di San Crispino» (Atto IV, sc. 3) che invita tutti i

soldati a battersi con la più totale abnegazione, a dimenticare se stessi nel grande sacrificio comune per la patria. Un attimo dopo, Peabody sconterà il fio della sua ribellione da ubriaco: lo spietato Valance lo picchierà distruggendo la sede del suo giornale. Ma questo gesto squadristico ha il potere di scuotere Stoddard e di spingerlo sulla strada, goffo e ridicolo col suo grembiule da lavapiatti, dimentico di sé e pronto ad immolarsi come gli umili eroi del giorno di San Crispino. Difficilmente Ford ha girato una scena più eroica del commovente gettarsi allo sbaraglio dell’avvocaticchio povero e ridicolo che si ribella all’ingiustizia senz’altra compagnia che la sua paura. Come Shakespeare, Ford esprime il rimpianto per la giovinezza perduta attraverso la rappresentazione del sacrificio di sé nell’impetuoso, inesorabile, fiume del Tempo, nell’implacabile dispiegarSez

si della Storia. Il singolo paga il tributo dovuto al tragico dell’esistere e non si tira indietro, nonostante

il suo

dolore personale, dalla grandiosa vicenda del Dolore Universale. In fondo Stoddard non è tanto diverso da Doniphon: anch'egli è stato vittima della Leggenda, di un mito che lo sopravanza. Il suo unico desiderio è tornare nel paese dove è partito, ritrovare le sue radici, e fumare in pace la sua pipa, come ci viene suggerito dalle ultime immagini del film. È questo un tema che affiora sempre più nelle ultime opere fordiane: il desiderio di un'isola dove ritirarsi e ritrovare la pace perduta. Ed è proprio in un’isola in mezzo al Pacifico; Haleakaloa' che è ambientato il film girato successivamente: / tre della Croce del Sud (Donovan's reef, 1963). L’isola

ha un posto speciale nella simbologia e nella psicologia di Ford. Per comprenderlo bisogna tenere bene presente che l’Irlanda è un’isola e soprattutto che è un'isola irlandese Aran, da cui veniva la madre di Ford. È in onore della madre che lo yacht del regista, il luogo di rifugio per eccellenza, si chiamava Araner: l’abitante dell’isola di Aran.

* Il nome Haleakaloa è una contaminazione tra Haleakala, una località nelle Haway dove Ford passò molto tempo nel corso dei suoi viaggi e il suffisso hawaiano -/oa, che ricorre ad esempio nel saluto a-loa. Vi sono rapporti tra il microcosmo isolano di Uragano e quello di Haleakaloa: basti dire che il governatore dell’isola nel primo film si chiama DeLaage e nel secondo film c’è il marchese De Lage. Su questo genere di corrispondenze tra i due film si vedano le osservazioni di Bourget, John Ford cit., p. 49, che sottolinea giustamente che l'ambientazione nelle isole del Pacifico o nell’Irlanda di Un uomo tranquillo ha valore simbolico: «Sono luoghi il cui carattere “primitivo” permette l’espressione libera e simultanea delle forze della natura... e delle passioni umane, luoghi privilegiati della sessualità» (p. 49).

DIS

Isola significa dunque «madre», significa «casa», significa «patria», significa «paradiso perduto». Una costellazione ben presente a numerosi eroi fordiani, primo

fra tutti Sean Thorton di Un uomo tranquillo che torna ad Innisfree da dove proviene la sua famiglia. In realtà, Innisfree è un’isola sul lago omonimo nell’Irlanda del nord, vicino a Sligo: in suo onore Yeats scrisse una celebre poesia, nella quale l’isola di Innisfree diviene

sinonimo di Eden’. Sognando di ritirarsi in un'isola, Ford sogna di ritornare indietro nel tempo e ritrovare l'abbraccio materno. Questo desiderio, questa regressio ad uterum trova una legittimazione culturale, ancora una volta, grazie a Shakespeare, all’ultimo Shakespeare. I tre della Croce del Sud è infatti una commedia che, come

ha scritto Anderson,

presenta

una

trama:

«Non

meno fantastica di La tempesta o di Racconto d’inverno, di cui riecheggia in certa misura il tema del conflitto e dell’armonia riconquistata in un luogo romantico e idillico»°. A ben guardare, il film non si limita a «riecheggiare» il Racconto d'inverno ma ne riprende molti spunti, sia pur deformandoli in una chiave comica o riadattandoli ad un contesto capricciosamente bizzarro. Come in Il racconto d'inverno la vicenda inizia celebrando un'amicizia: nel testo shakespeariano si tratta di due re, Leonte e Polissene, nel film fordiano si tratta di due personaggi strambi ed esuberanti, che agli occhi della buona società risultano a dir poco stravaganti, Michael Patrick Guns Donovan e Aloysius Boats Gilhooley. I due si ritrovano ogni anno per celebrare il loro compleanno con una scazzottata e una bevuta. I loro nomi sono significativi: Donovan, interpretato da John Way-

° YEATS W.B., Quaranta poesie, Torino ° ANDERSON, John Ford cit., p. 185.

114

1983, pp. 5-6.

ne, si chiama come l’eccentrico Bill Donovan capo dell’organizzazione di spionaggio di cui fece parte Ford durante la guerra; Gilhooley (interpretato da Lee Marvin) si chiama Aloysius che era il secondo nome di Ford (a detta del regista, smentito dai registri parrocchiali); e

il suo cognome allude al suo carattere di combina guai (lett. festa-coda tra due macchine).

Ma il simbolismo non è finito qui. I due amici sono nati il 7 dicembre, il giorno dell’attacco giapponese a Pearl Harbor avvenuto il 7 dicembre 1941; la loro amici-

zia, come l’amicizia tra Ford e il vero Donovan, è nata con la guerra. Il compleanno è stato celebrato per ventidue anni: il che, se partiamo dal 7 dicembre del 1941, ci riporta all'anno in cui il film è uscito nelle sale, il

1962. Tuttavia i ventidue anni trascorsi hanno una sfumatura simbolica: in Il racconto d'inverno Shakespeare sottolinea per due volte (Atto I, sc. 2, v. 155; Atto III, sc. 3, v. 64) che l’età in cui un uomo comincia ad essere

veramente adulto ed esce dalla giovinezza è ventitre anni. I due amici entrano dunque nell’età adulta della loro amicizia. Tutto andrebbe per il meglio, se non intervenisse il fattore femminile. In Il racconto d'inverno è la gelosia del re Leonte per la moglie Ermione che lo acceca e gli fa odiare l’amico Polissene. Nel film fordiano è invece l’arrivo nell’isola di una ragazza che infrange il cameratismo maschile. Si tratta di Amelia Dedham figlia del dottor Dedham, compagno di sbornie e di stravizi dei due amici per la pelle. La ragazza è rimasta a Boston,

mentre il padre si è stabilito sull’isola ed ha avuto tre figli da un’affascinante indigena, Mamulani, nipote dell’ultimo principe ereditario delle isole polinesiane ed eroina nella guerra contro i giapponesi. Amelia è stata educata rigidamente ed ha la tipica mentalità dei puritani del New England. La sua famiglia è molto ricca e la ragazza viene a ritrovare il padre (che non vede da DL

ventidue anni) convinta che è indegno di ricevere l’eredità familiare e deve essere interdetto. Il problema è reso più grave dalla temporanea assenza di Dedham, che non può dare spiegazioni alla figlia. Donovan e Gilhooley imbastiscono una commedia: il primo si finge padre dei tre figli polinesiani del dottore e il secondo proprietario del bar di Donovan, per sviare l’attenzione della severa Amelia, in attesa del ritorno di Dedham. Inizia così un’indiavolata serie di equivoci, di baruffe e di tragicomiche disavventure che si concludono solo quando Dedham, ritornato nell’isola, trova il coraggio di dire la verità alla figlia. La ragazza, nel frattempo, si è innamorata del rude Donovan ed ha addolcito i suoi modi, stringendo amicizia con la sorellastra e imparando a rispettare la memoria della mitica Mamulani, un essere sovranamente tollerante e nobile con cui finisce con l’identificarsi, gettando alle ortiche la sua rigida e bigotta educazione. In chiave semiseria, Ford ripropone un tema che aveva già esplorato in L’uomo che uccise Liberty Valance: la sostituzione di un uomo al posto di un altro per cambiare il corso del destino. Avevamo già osservato la matrice shakespeariana di questo scambio di identità confrontando L'uomo che uccise Liberty Valance all’Enrico V. Ma anche in Il racconto d'inverno si può trovare un’analoga finzione, ordita dal fedele servo Camillo che, manovrando dietro le quinte, riesce a far riconciliare tutti i protagonisti. Un altro tratto in comune con I/ racconto d’inverno, è il motivo della «magica» resurrezione di Ermione, la

moglie perduta. Nel testo shakespeariano è una statua (opera del pittore Giulio Romano) che riprende vita: nel

film fordiano è quasi parodisticamente una slot-machine che è sempre stata rotta e magicamente si aggiusta alla fine, riversando un tesoro di monetine a terra. Ma prima

di questa variante burlesca della resurrezione di Ermio116

ne, Ford aveva messo in scena una specie di «riviviscenza» simbolica della regina Mamulani, attraverso un’intensa «presa di coscienza» da parte di Amelia, suggestionata dal suo ritratto. Questa scena ha un suo precedente in un’analoga «presa di coscienza» di un personaggio di fronte ad un ritratto, nel film // sole splende alto, com'è stato giusta-

mente

notato da Gallagher”. In questi due film Ford

sottolinea la «magia del ritratto» che, con l’evidenza di

un’allucinazione, sembra quasi ritornare in vita e parlare. In un film del 1918, Hell bent, il ritratto si animava

davvero: si trattava di un quadro di Frederic Remington, The misdeal, che prendeva vita all’inizio della nar-

razione*. Il motivo del «ritratto animato» aveva avuto un notevole successo nei romanzieri «gotici», come Ho-

race Walpole o William Henry Ireland’, ed aveva ispirato anche Edgar Allan Poe e Oscar Wilde. Ma esso derivava proprio da Shakespeare, da Il racconto d'inverno, che aveva avuto una grande fortuna tra i narratori di vicende «tenebrose» (al punto che James Norris Brewer aveva scritto nel 1799 un romanzo intitolato // racconto d’inverno).

Ford

ritornava

dunque

alla fonte genuina,

riscoprendo la magia del ritratto nel suo bizzarro film, che anche per altri versi era ispirato dalla stessa commedia di Shakespeare. Come il vecchio Shakespeare, il vecchio Ford sogna di ritrovare in una magica isola gli affetti perduti e riconciliare gli opposti: mettere d’accordo Boston con la Polinesia, gli amici con i nemici, i figli con i padri, la vita con la morte. Ma il sogno è destinato ad infrangersi. Gli ultimi due film fordiani, Il grande sentiero (Cheyenne autumn,

? GALLAGHER, John Ford cit., pp. 290-291. * Idem, p. 254n. ° BiLLI,

Dal

teatro

cit., p. 36.

bi}

1964) e Missione in Manciuria, sono desolati e privi di

speranza. La mitica regina delle isole, il simbolo della tolleranza, trova sulla sua strada la crudeltà stupida e bestiale degli uomini: come Thunga Khan, il bandito che uccide per sadismo, o come i bianchi che uccidono gli indiani solo per fare una bravata. Il mondo è spietato. Non dà scampo a chi cerca di sfuggire alle sue leggi. Come Palla di Sego, la dottoressa Cartwright deve sacrificare la sua dignità, deve umiliarsi per salvare individui

che a malapena capiscono il suo gesto. Non le resta che una rabbiosa e disperata protesta: uccidere chi le toglie spiritualmente la vita e con lo stesso gesto togliersi la vita anche materialmente. Le spinte pessimistiche, già presenti nelle opere precedenti, hanno dunque il sopravvento. Anche nella vita quotidiana il grande Ford è uno sconfitto. Non ha più successo presso il pubblico. Non riesce a far accettare dai produttori il suo ultimo film. Si ritira in disparte in solitudine, e trascorre pochi anni tristi prima della morte. Il suo ultimo messaggio è un grido soffocato, il lamento di Sansone prima di spegnersi con tutti i Filistei.

118

VI

Malinconia

d’amanti

Se con me puoi vegliare, dimenticare il cibo, abiurare pensieri di grandezza, calpestare il destino, sospirare un racconto doloroso di cose fatte tanti anni fa e fatte male e poi, quando sei stanco di sospirare, riassestare ciò che resta con occhi pieni di lacrime e con cuori che sanguinano a morte, allora sarai un compagno adatto, allora ci siederemo insieme, come amici sinceri che non si lasciano più. John Ford, Malinconia

d’amanti

[IV, 2, vv.

123-131].

La più romantica scena d’amore del cinema americano non contiene neppure un bacio. Anzi, non contiene alcuna allusione esplicita all'amore. E proprio per questo è la più romantica, la più intensa, la più struggente che sia mai stata girata. L'amore, com'è tipico della sua natura, è ineffabile. Misterioso, inspiegabile, fatale. Una

rivelazione del destino che si manifesta quando un giovane si schiude alla vita, una volta sola e per sempre. E questa la qualità dell'emozione che lega Abraham Lincoln (Henry Fonda) ed Ann Rutledge (Pauline Moore)

in Alba di gloria. Lincoln è uno spilungone timido e furbo; ha imparato a servirsi della sua riservatezza e della sua ritrosia come un’arma in un mondo di irruenti bestioni. Lui se Ji9

ne sta da parte, con un sorrisetto impacciato sulle labbra

e non esita a confessare i suoi difetti e a scherzare su se stesso e sugli altri. Così facendo, taglia l’erba sotto i piedi a tutti: sarà sempre questo ragazzone ingenuo ad avere l’ultima parola, a trovare l’espressione giusta, a mettere nel sacco l’avversario. Ma la sua forza è anche la sua debolezza. Lincoln è intelligente e riflette molto prima di agire. Ma esita nei momenti decisivi. Ha bisogno di tempo per capire gli altri e ancora di più per capire se stesso. È contorto, insicuro, vulnerabile, come si conviene alla sua età, ma

come non si conviene agli alti destini cui si sente chiamato. Ford ci rappresenta questa contraddizione psicologica mostrandoci Lincoln in una posizione contraddittoria sul piano fisico. Il giovane sta sdraiato con la testa in basso e i piedi in alto e in questo scomodo atteggiamento medita sul significato del Diritto. Ed ecco, compare Ann Rutledge. Il ragazzo torna coi piedi per terra e si libera delle sue contorsioni. I due cominciano a camminare. Tutto il loro straordinario colloquio, fatto di frasi senza apparente significato e di sottili schermaglie, ha un senso proprio perché i due camminano

senza meta, lungo il fiume che scintilla in

un giorno meraviglioso di primavera. E sembra la passeggiata di Adamo ed Eva, a zonzo nel Paradiso Terrestre. Ann conosce appena il ragazzo che le sta a fianco. Lo chiama «Mr. Lincoln». Ma un attimo dopo si fa coraggio e lo chiama «Abe». Come fa Abe a leggere con la testa in giù? «Il fatto è — risponde ironico Abe — che se sto in piedi la mia mente sta sdraiata. E se sto sdraiato, lei sta in piedi. Ammesso che abbia una mente...». Eccolo qui Abe: schiva con ironia e bonomia ogni allusione troppo personale. Ma Ann reagisce: «Lo sai che ce l’hai un cervello. E un cervello coi fiocchi!». Lusingato, Abe parla d’altro. E Ann torna all’attacco: «Tu pensi molto, vero?». Abe para l’affondo: «Ogni 120

tanto mi prude il cervello e me lo gratto...». Ma Ann non desiste: «Papà dice che hai una gran testa e che ci sai fare con la gente. Li fai ridere. Ma poi si ricordano quello che hai detto...». Forte dell'appoggio morale di papà, Ann ha colto nel segno. Non sta facendo lo stesso con lei quel giovanotto? Lincoln si schermisce. «Tuo padre è una gran brava persona... Ma quanto a me, mi pare di essere come il cavallo che quel Tale voleva vendere al mercato:

sano, robusto, senza infamia e sen-

za lode». Molto elegante. Ma Ann non ci casca. E tira fuori tutta la sua brutale e franca simpatia: «Ma va là,

che sei in gamba! E sei pure ambizioso». Abe è toccato: «Ambizioso io?». «Sì, proprio ambizioso. Sotto sotto lo sei, ma non lo vuoi ammettere». I due giovani continuano a passeggiare, come un attimo prima. Ma quella frase di Ann ha cambiato tutto. Ford è abilissimo: non sottolinea con enfasi, non interrompe la passeggiata naturale, spontanea dei due esseri innocenti che stanno rivelandosi l’uno all’altro senza rendersene conto. Però le parole di Ann colpiscono Abe al punto giusto. È vero. Nutre ambizioni sconfinate. Ma si sente inferiore ai suoi sogni. Ed ecco che il tono della voce

cambia

impercettibilmente.

Con

grande

bravura,

Fonda cambia inflessione e introduce una sfumatura di amarezza nelle sue parole. Continua a camminare, lascia passare Ann, abbassa gli occhi e sillaba meccanicamente e malinconicamente un ritornello che il giovane Lincoln si sarà ripetuto chissà quante volte: «Per fare qualunque cosa serve l’istruzione. Io non ho fatto neppure un anno di scuola in tutto...».

È questo il suo problema. La sua intelligenza fuori

dal comune non si è mai potuta sviluppare per colpa della sua povertà. Lincoln lo sa e se lo ripete con rassegnazione e rammarico. Ma forse la sua aria un po’ apatica e un po’ dolente è una difesa. Forse vorrebbe seguire i suoi impulsi istintivi e ha solo bisogno di una spinta (24

perché è senza forze, scoraggiato. Ann coglie al volo l'occasione ed esclama: «Ma tu hai imparato tutto da solo! Hai letto le poesie e Shakespeare... E adesso studierai il Diritto...».

Ciecamente,

follemente,

con

tutta la

disarmante ingenuità di un’adolescente innamorata dei propri sogni, Ann non ha dubbi su Abe. Ed è proprio questo che risveglia l’anima addormentata di Lincoln. Lei lo fa sentire migliore. Il giovane è folgorato. Questa Beatrice di provincia va dritta al cuore. Abe si ferma. La passeggiata è finita. Adamo ed Eva sono fuori dall’Eden. Ma non c’è nessun angelo con la spada di fuoco che liscacci. Sono usciti da soli. Il colloquio d’amore ha raggiunto il suo culmine. Le parole appassionate di Giulietta, il sacrificio di Violetta Valéry, l'ardente sdegno di Beatrice non sono nulla di fronte all’assoluta innocenza e all’assoluta incoscienza con cui Ann dichiara di credere in Abe. Per questa ragazza ingenua, cresciuta nella sonnolenta provincia americana, nulla è impossibile all'uomo che ha letto da

solo i poeti e Shakespeare. Passa un lungo attimo di silenzio. Un attimo che da solo vale più di tutti i più romantici baci scambiati sullo schermo. Mentre Abe guarda Ann, la ragazza interrompe il muto colloquio e dice: «Speravo che tu venissi in città al College quando io andrò alla scuola femminile e...». Le parole riportano la coppia unita dal silenzio al regno della frantumazione e della divisione. Dunque i due possono separarsi... La minaccia incombe. Lincoln deve scegliere. Ma nello stesso tempo si fa strada in lui un altro pensiero. Questa ragazza non è come le altre. Anche lei vuole studiare, a differenza delle giovani del paese. Lei

potrà sempre capirlo perché è diversa da tutti. Il silenzio cala di nuovo sui due giovani. Poi, il silenzio si squarcia e Abe sussurra, per la prima e l’ultima volta, quello che pensa di Ann: «Lo sai che sei molto carina». Stavolta è lui che ha colpito al cuore. Ann ha un sussulto. Non è 122

vero che è carina. Ford ha scelto con grande intelligenza un'attrice col volto da ragazza qualsiasi e non una star di Hollywood. Davanti al bellissimo Henry Fonda (bellissimo anche se pesantemente truccato per somigliare al brutto Lincoln), questa ragazza fa una magra figura. Eppure nessuno di noi lo pensa e tutti la vediamo trasfigurata con gli occhi dell’amore recitato con tanto pudore come se fosse la donna più bella del mondo. Con una strana espressione negli occhi, Ann mormora: «C’è tanta gente a cui non piacciono i capelli ross1...». Dietro a queste parole, lo sentiamo, c’è tutto un passato di delusioni e di esclusioni. I capelli rossi sono il segno di chi è diverso, di chi è strano, stravagante, capriccioso. Delle streghe. Delle ragazze che hanno grilli per la testa e non si accontentano di accudire il focolare. È questo che vuole il signor Lincoln? Solenne, e un po’ ridicolo, struggente e fatale come solo sanno essere i giovani che scelgono il proprio destino una volta per tutte, Lincoln pronuncia parole che hanno il sapore di un giuramento: «Io amo i capelli rossi». Ann è incredula. Sorride per la sorpresa, per la felicità. «Davvero Abe?».

Ed Abe, ancora

più solenne, come

se ci fosse

tutta la vita in gioco, esclama: «Io li adoro». Il dialogo è finito. Ann scompare senza parole, cantando tra sé e sé le parole dell’uomo che ha ammesso di adorarla adorando i suoi capelli. Abe, soffocando l’emozione, si avvicina al fiume e come faceva da ragazzo tira un sasso a fior d’acqua. Il fiume l’accoglie come una donna che accolga ad occhi chiusi un uomo tra le sue braccia. Ma il fiume muta. Con una dissolvenza lo vediamo pieno di ghiaccio. È passato del tempo. C'è la neve. Il freddo ci stringe il cuore. Ricompare Lincoln, infagottato e goffo, davanti al fiume così bello in primavera. Lì è stata sepolta Ann, morta, come un’eroina dell’Ottocento, giovanissima, «pria che l’erbe inaridisse il verno». Abe le porta dei fiori. Dei bucaneve miracolosamen125

te spuntati in mezzo a tanto gelo. E conversa con lei, come una volta, a bassa voce, dolcemente. È ancora lì,

come prima. Non sa che fare. Vorrebbe seguire il suo destino, ma ha il cuore oppresso dall’angoscia. Ora non c'è neppure più Ann che lo incita. Eppure, in nome di lei, cercherà di vincere i suoi dubbi. Prende in mano un ramo e dice: «Se cade verso di me resterò qui. Se cade verso di te, studierò Legge e farò la mia strada». Il bastone cade verso la tomba di Ann. E Lincoln sorride e dice: «Hai vinto tu». Poi, con la consueta ironia con cui non risparmia neppure se stesso, aggiunge: «Chissà se non sono stato io a spingere il ramo verso di te?» Così Lincoln entra nel mito. Come Ercole al bivio del cammino tra Virtù e Vizio, il grande uomo sceglie il suo futuro ma è in qualche modo scelto dal misterioso potere dell'amore. E l’amore è inciso per sempre nella ferita della sua anima. Ann è lì, nel fiume che si risve-

glia, nella corrente che lo porta via, nel ritmo stesso con cui pulsa la sua esistenza. Passerà molto tempo prima che Ford giri un’altra scena d’amore così intensa. Undici anni dopo Alba di gloria, il regista realizza Rio Bravo che racconta una storia d’amore tenera e delicata, incorniciata da una storia d’azione, piena di lotte, di cavalcate, di sparatorie. Stavolta i due innamorati sono un marito e una moglie,

anzi un ex-marito e un’ex-moglie: il colonnello Yorke, vecchio ufficiale dell’esercito, interpretato dal maturo John Wayne, e Kathleen Yorke, gentildonna del sud,

interpretata dalia bellissima Maureen O'Hara. I due si sono separati da quindici anni per colpa della guerra di secessione. Yorke ha distrutto la casa di sua moglie nel corso di un'azione di guerra e la donna non lo ha perdonato. Gli rimprovera di anteporre il dovere al matrimonio. Passano gli anni e all’improvviso i due si rincontrano: il loro figlio si è arruolato ed è stato spedito nel 124

forte dove comanda il padre. La madre segue il ragazzo per farlo ritornare indietro e ritrova il marito perduto.

L'incontro tra l’uomo e la donna è sconcertante, appassionato, timido, violento. Come il primo amore tra due adolescenti. L'uomo attempato e la donna matura non sono diversi dai due ragazzi che passeggiavano lungo il fiume Sangamon e parlavano di Diritto e di Shakespeare. I due si confrontano, sfogando nel conflitto aperto il conflitto interiore che li opprime. Sono legati anche se dicono di non testano.

esserlo;

si desiderano

anche

se si de-

Questa tensione tra uomo e donna ricorda quella che oppone Petruccio a Caterina in La bisbetica domata: anche in questo caso, come nella commedia di Shakespeare, i due antagonisti finiranno l’uno nelle braccia dell’altro. La prima volta, ciò avviene con un fulmineo

capovolgimento di fronte, quando John Wayne afferra con la forza felpata di una pantera la donna altera che lo tratta con sdegno e le dà un bacio pieno di riluttante passione. La donna non rifiuta questo tributo d’amore atteso per quindici anni. I due si riconcilieranno alla fine. L’effetto-shock del bacio timido e violento non dovette spiacere a Ford, che ripeté la scena con molto più impegno in un film che uscì tre anni dopo, Un uomo tranquillo. I protagonisti erano sempre John Wayne e Maureen O’Hara e l’intreccio mutatis mutandis riproponeva una situazione come quella precedente, con una «bisbetica» da domare e riconquistare nel quadro della generale riconquista, dopo molti anni, dei proprio passato. Un ex-pugile americano di origine irlandese torna in patria col proposito di ritrovare le proprie radici e la propria pace nella patria degli avi. L'uomo è travolto dal piccolo, bizzarro, bizzoso e affascinante microcosmo della cittadina irlandese che si chiama Innisfree come la celebre isoletta dove William Butler Yeats ha posto il 125

regno dell’Utopia. E s'innamora di una ragazza, Mary Kate Danaher, che lo ricambia. Tutto sembra filare per

il meglio, ma scoppia improvvisamente una tempesta per colpa del fratello di Kate. Solo alla fine di una sfilza di colpi di scena, di baruffe, di scazzottate, i due rissosi

protagonisti troveranno requie. Ma il felice scioglimento della vicenda è anticipato dalle scene dove l’amore si manifesta senza freni: soprattutto dal primo bacio tra i due, repentino ed esplosivo come il bacio di Rio Bravo,

mentre il vento spalanca porte e finestre della casa e cielo e terra sembrano

divampare,

giungessero un uomo

e una donna, ma un Dio e la

come

se non

si con-

stessa Natura. Dopo aver passato in rassegna

le più belle scene d’amore di John Ford è difficile che si possa pensare che il regista fosse insensibile alla forza di Eros. Eppure se si leggono certe testimonianze su di lui c'è da restare allibiti. Valga per tutte quella di Dudley Nichols, che ha realizzato molte sceneggiature con il regista e lo ha conosciuto bene: «La debolezza di Ford... sta nell’incapacità di riuscire ed evocare nei suoi attori le normali passioni esistenti tra un uomo

e una donna, l’amore e l’odio, il

lato oscuro di un amore passionale. Dovrei arguirne che non lo conosce, né lo capisce». Come esempio tipico dell’incompetenza e dell’inettitudine fordiana, Nichols sceglie il film Maria di Scozia: «Dove il film fallì completamente fu nel rapporto tra Mary e Bothwell... La colpa fu in parte degli attori; ma credo... che questa sia l'ulteriore manifestazione di una debolezza di Ford, cioè

la sua incapacità di trattare con partecipazione e penetrazione il rapporto uomo-donna». Nichols non è stato il solo a sottolineare la scarsa «penetrazione» di Ford nei confronti del rapporto tra

' Citato

126

in ANDERSON,

John Ford cit., p. 276.

uomo e donna. Molti pettegolezzi nei confronti del regista testimoniano, da diverse angolazioni, reazioni di diffi-

denza, di disagio nei confronti di Ford da parte dell’ambiente di Hollywood a proposito delle «normali passioni esistenti tra un uomo e una donna»?. Un’eco di tali atteggiamenti è percepibile anche nelle memorie di Katherine Hepburn, che fu protagonista proprio di quel Maria di Scozia in cui, secondo Nichols, Ford rivelava

al massimo la sua incomprensione per «l’amore passionale». L’attrice descrive Ford come un uomo interessante e affascinante, ma anche come un ubriacone arrogan-

te, che preferisce la compagnia maschile a quella femminile: «Non mi aveva mai interessato Maria Stuarda, la

ritenevo fondamentalmente un’oca: Avrei preferito fare un film su Elisabetta... Non ho mai capito come mai John Ford abbia voluto dirigere quel film. Ovviamente lui era un uomo molto interessante. Facemmo amicizia e abbiamo continuato a vederci di tanto in tanto... Girava sempre

con un gruppo

di uomini, molto “macho”,

che

faceva lavorare nei suoi film... Erano sei o sette giovanotti... tutti sopra il metro e ottanta. Uscivano in barca... e costeggiavano la costa della California e del Messico e si prendevano delle grandi sbornie. Poi tornavano e si rimettevano in sesto... Un uomo rude, amava gli amici, detestava i nemici, amava l’Irlanda, il cinema, amava i suoi successi, adorava i suoi fallimenti, odioso, testardo,

inflessibile, arrogante. E un grande amico. Ah! E un nemico pericoloso...»?. Mettiamoci d’accordo. Ma insomma questo Ford è il poeta tenero e delicato dell'amore che abbiamo conosciuto attraverso Alba di gloria o il «rude» e «macho» marinaro che si sbronza coi giovanotti alti un metro e ottan? GALLAGHER, John Ford cit., p. 381. 3 HePBURN K., Jo. Le storie della mia

vita,

Milano

1991,

pp.

98-99.

127

ta, lontano dalla nefasta influenza delle femmine?

An-

che in questo caso, a mio parere, siamo di fronte al contrasto tra la maschera e il volto che abbiamo esaminato nelle pagine precedenti. A mio parere Ford non era affatto un uomo che «non conosce» e «non capisce» l’amore passionale. E meno che mai un uomo che dimostra tale «incapacità» attraverso il film Maria di Scozia. Perché? Per il semplice motivo che durante la lavorazione di questo film Ford si innamorò follemente della Hepburn e venne dalla Hepburn follemente ricambiato. Come ha scritto a questo proposito Dan Ford: «Era ossessionato da Kate e trovò in lei un grado di pace interiore che non aveva mai conosciuto fino a quel momento»*. Amore... Ossessione... Felicità... Pace... Questi sentimenti ci interessano. La vita privata del regista illumina la sua produzione artistica. Ford si copre sempre con una maschera per non rivelare i suoi veri sentimenti. Ma tali sentimenti emergono con prepotenza nei suoi film. Si direbbe che i suoi amici partecipino al suo stesso gioco. È evidente che sia Nichols, sia la Hepburn mentono sapendo di mentire. Forse vogliono proteggere la privacy del regista. O forse hanno bisogno di una maschera anche loro. L’amore di Ford per la Hepburn traspare da molti dettagli disseminati nei film che abbiamo analizzato. I capelli rossi, per esempio. Ann Rutledge non aveva i capelli rossi?. Ma Katherine Hepburn sì. In omaggio alle sue chiome le protagoniste delle più affascinanti scene d'amore di Ford hanno i capelli rossi, come Pauline Moore che interpreta Ann Rutledge e come la rossa per eccellenza, Maureen O'Hara. Sempre in omaggio a Ka-

* FoRD, Pappy cit., p. 98. ° SANDBURG

128

C., Abraham

Lincoln,

New

York

1926,

p. 140.

therine Hepburn, la protagonista di Rio Bravo si chiama Kathleen e la protagonista di Un uomo tranquillo si chiama Kate. Kathleen ritrova il marito abbandonato dopo quindici anni: e quindici anni passano dall’incontro tra Ford e la Hepburn sul set di Maria di Scozia nel 1935 e la data in cui Rio Bravo viene proiettato per la

prima volta nel 1950.

|

Sia Kathleen, sia Kate hanno un carattere impossibile come la vera Katherine, che era: «testarda, presuntuo-

sa, appariscente, seducente...»°. La Hepburn era un’aristocratica, come

la moglie del capitano York;

e veniva

da «una famiglia dal sangue blu del New England, una tipica famiglia patrizia di pura razza anglosassone, una intellettuale e una snob...»7. Ma era anche una scavezzacollo come Kate Danaher, sempre pronta a gettarsi in ogni competizione sportiva e in ogni avventura. Un maschiaccio. E soprattutto, come Ann Rutledge, era una che non si faceva incantare dagli uomini che amava e sapeva smascherarli, prendendoli in giro o prendendo il mano la situazione: cosa che avvenne puntualmente durante il film Maria di Scozia, quando la Hepburn, che faceva il verso al regista e si burlava di lui, finì con il

girare da sola una scena che il regista le affidò volontariamente tirandosi da parte. Era proprio la sua indipendenza ad attrarre Ford, che permetteva a questa ragazza irritante di fare ciò che non avrebbe permesso a nessuno. Come Lincoln nei confronti di Ann Rutledge, il regista di successo poteva permettersi il lusso di abbandonare ogni difesa e abbandonarsi come un fanciullo nelle mani di qualcuno. Finalmente poteva essere vulnerabile. E togliersi la maschera. Ed era proprio questo che attirava Hepburn. Abitua-

© FoRD, Pappy cit., p. 98. ? Ibidem.

129

ta ad essere adorata da tutti senza fare nulla, ad essere

idolatrata come una regina senza meritarlo, aveva finalmente la sensazione di impegnarsi, di dedicarsi a qualcuno che aveva bisogno di lei. Lo stesso fenomeno avvenne, come ci confessa, con Spencer Tracy. E Spencer era, per sua ammissione, uno sradicato come John Ford®. La relazione con la Hepburn fu breve, ma molto importante per Ford, invischiato in un difficile rapporto matrimoniale. L’aspetto paradossale della vicenda è che la moglie di Ford, Mary McBride, aveva molti tratti in comune con la Hepburn: era un’aristocratica della Virginia, molto brillante nella vita mondana,

ma con un bel

caratterino che emergeva nelle frequenti liti col coniuge. Era stato un amore folle anche questo, come nel caso della Hepburn. E si era arenato dopo poco tempo, come quello con la Hepburn, di fronte alle difficoltà della vita quotidiana’. Nelle sue relazioni affettive, coniugali ed extraconiugali, Ford sembra prigioniero di una stessa rete. L'uomo dal grande futuro è, come Lincoln, vulnerabile e contraddittorio. Nella donna cerca un’intesa assoluta che gli permetta di superare le sue contraddizioni e soprattutto che gli permetta di esprimersi senza maschera, sinceramente.

Ma

quando

riesce a trovare

l’anima

gemella, dopo un momento di grande felicità, qualcosa di fatale si contrappone e separa i due amanti stretti da un nodo eterno. Ford ha avuto consapevolezza che le donne che aveva amato erano legate tra loro: non a caso in Rio Bravo la rossa Kathleen, così vicina alla rossa Katherine Hepburn, è un’aristocratica del Sud come Ma-

* GALLAGHER, John Ford cit., pp. 114. Ha affermato a questo riguardo la Hepburn: «Spencer e Sean erano molto differenti, ma erano simili nell’abilità di farsi devastare dal mondo».

° GALLAGHER,

150

John Ford cit., pp. 26-27, 41-44.

ry, che ha avuto la casa bruciata dai nordisti, come accadde davvero agli antenati di Mary. A modo suo, Ford ha anche avuto coscienza della sua responsabilità nelle difficoltà sentimentali della sua vita. La sua «confessione» è nel film Le ali delle aquile che Dan Ford ha definito «il più autobiografico film di Ford»!°. Il regista descrive il matrimonio dell’amico fraterno Wead e la moglie Minne: i due sono rappresentati come ragazzi che si amano in modo folle e stravagante, che vengono schiacciati dalle difficoltà e dalle tragedie dell’esistenza. Wead è il principale responsabile della crisi della coppia: individualista, forsennato, insofferente di ogni legame: «come Ethan Edwards e come John Ford era incapace di una vita familiare»''. Tuttavia anche il destino ha la sua parte, perché Wead resta paralizzato e il matrimonio già fragile non può che spezzarsi. Eppure, nel film come nella vita, la tempesta matrimoniale non riesce a spegnere del tutto l’atfetto. Minne e Wead restano legati nonostante tutto. Come John Ford e Mary McBride. Questa donna alle prese con un uomo inquieto e conflittuale, eccessivo, esasperato, esasperante, che viveva

continuamente

col piede sulla porta di

casa, ha lasciato una commovente testimonianza dell’amore ancora vivo in lei dopo più di cinquant'anni di un rapporto che a detta di alcuni era «molto meno di una relazione platonica». Forse sono solo parole, ma vale la pena comunque ricordarle. In fondo anche quelle di Ann Rutledge erano solo parole. Subito dopo la morte di Ford, la signora Ford ha detto: «Per me è l’uomo più grande che sia mai esistito al mondo. E penso che fosse grande proprio perché aveva un meraviglioso senso dell’umorismo: riusciva a farmi ridere. Ho

!'° FoRD, Pappy cit., p. 276. !! Idem, pp. VIIVII

13

visto tanta disperazione,

tanta infelicità. Non

so: c’era

qualcosa in lui... Certo non erano i suoi sguardi. Mi innamorai di lui. Oh, per una vita! Era come un sogno! Non cambierei un giorno della mia vita. Ciascuno è stato talmente perfetto! Nella mia stanza ho un grande ritratto di Jack, e la gente mi dice: “Perché ti ci siedi davanti e lo guardi?”. Perché ogni minuto era una risata, qualcosa di difficile da ottenere nella vita»'?.

'° Citato in GALLAGHER,

132

John Ford cit., p. 456.

VII

Perkin Warbeck

E ora volgi gli occhi ragazzo su te stesso e le tue azioni. Che tumulto per tutto il regno ha scatenato la follia di un giovane ambizioso che poi, senza fiato, ha inciampato coi suoi piedi arditi e si è spezzato il collo! — Ma non il cuore, perché il mio cuore mirerà in alto, finché l’ultima goccia di sangue non si geli nell'inverno perenne della morte. John Ford, Perkin

Warbeck

[V, 2, vv. 52-59].

Il lettore avrà notato che ogni capitolo di questo libro dedicato a John Ford è preceduto da una citazione di versi dell’altro celebre John Ford, il drammaturgo inglese della prima metà del XVII secolo. Attraverso questo gioco di specchi abbiamo voluto sottolineare una potenzialità latente nello pseudonimo del regista americano. Il rapporto con il drammaturgo inglese, invocato dal critico Jean Mitry! e negato da critici come Lindsay Anderson? è molto più forte di quanto la semplice omonimia faccia pensare. Il Ford del Seicento è, come il Ford del Novecento, l’erede di una tradizione che ha in Shake-

speare il suo culmine e che trova continua ispirazione nelle opere shakespeariane; ed è il cantore di sentimenti

che scaturiscono direttamente da quelli dei personaggi di

! MITRY J., John Ford, Paris 1965. ? ANDERSON, John Ford cit., p. 50.

155

Shakespeare, rispetto ai quali però rappresentano uno stadio più «moderno». I suoi eroi sono i figli di Amleto più che di Enrico V. Sono esseri smarriti, pieni di conflitti irrisolvibili,

perduti

dall’abiezione,

ma

riscattati

da

un’imprevedibile purezza d’animo, da un cuore nobile di adolescente, dall’abnegazione, dalla donazione totale. Se

c'è un tema tipico di John Ford il drammaturgo questo è il tema del sacrificio. E se c'è un tema tipico di John Ford il regista, questo è proprio il sacrificio. L’erede di una grande tradizione, rispetto alla quale si sente indegno e quasi orfano, il giovane che non riesce ad essere all'altezza di un passato mitico con cui continuamente si confronta, il ragazzo che è l’ultimo figlio di una famiglia troppo numerosa, prende sulle spalle il peso del suo de-

stino ed è pronto a dare la vita per il bene di altri. John Ford il regista ha accettato che il suo nome d’arte fosse simile a quello di John Ford il drammaturgo perché questo era il nome del cantore del sacrificio di eroi come

Perkin Warbeck,

figure romantiche di ribelli

destinati a una morte sicura ma pronti a sfidare il destino. A scanso di equivoci vorrei specificare che non voglio sostenere che John Ford il regista abbia scelto deliberatamente il suo pseudonimo pensando all’altro John Ford: sulle ragioni di tale scelta regna infatti molta confusione, alimentata da una serie di pseudo-confessioni dei fratelli Feeney-Ford ed è difficile stabilire come sono andate davvero le cose. Infatti Francis ha affermato di chiamarsi Ford in onore dell’automobile prodotta da Henry Ford; e John ha sostenuto che Francis si chiamava Ford perché aveva preso il posto di un attore con questo nome e aveva poi trasmesso, per via «ereditaria», lo pseudonimo anche a lui’. Si tratta ovviamente di balle: quando Francis comin-

? BOGDANOVICH,

154

I/ cinema cit., p. 44.

ciò la sua carriera, verso il 1900, Henry Ford non era

ancora il grande industriale che divenne dopo (la Ford Motor Company fu fondata nel 1903 e il primo modello di auto di successo fu solo il Model T del 1908). Quanto

al presunto attore che improvvisamente viene a mancare e offre il posto a Francis si tratta, mutatis mutandis, d’un

aneddoto della vita del grande attore inglese Edmund Kean. Quale che sia l’origine dello pseudonimo (e a mio parere può aver giocato un ruolo determinante Shakespeare, visto che Francis Ford è l’antagonista di Falstaff in Le allegre comari di Windsor) resta comunque il fatto

che aver accettato di chiamarsi per decenni con lo stesso nome di un grande artista del passato non può essere casuale. È questa un’altra delle innumerevoli maschere di John Ford: la maschera dell’altro Ford, il commedian-

te, così adatta per lui che recitava di continuo la commedia della sua esistenza.

La maschera

di un autore che

citando di continuo Shakespeare va oltre Shakespeare ed esalta la forza indomabile del «cuore»: «...perché il cuore mio mirerà in alto, finché l’ultima goccia di sangue non si geli nell’inverno perenne della morte [Perkin Warbeck;vatto, V,.sc..2, vv. 57-59].

Sono molti i film fordiani dedicati al sacrificio. Grandi eroi o uomini comuni si immolano per una causa, per lealtà, per amicizia, perché sopravvive in loro un brandello di umanità. Il prete protagonista di La croce di fuoco sacrifica la sua vita in nome di una degradata fede in Dio; la dottoressa Cartwright in Missione in Manciuria

sacrifica la sua vita in nome di una degradata fede negli uomini. In molti casi il sacrificio consiste semplicemente nel saper mettere da parte l’individualismo e l’egocentri-. smo, accettando le pesanti responsabilità del proprio ruolo. Lo sceriffo Wyatt Earp non è il più anziano della sua famiglia, ma è senza dubbio il migliore e si prende la responsabilità che gli tocca, senza tirarsi indietro. Sarà lui ad informare il padre che i suoi fratelli sono stati 135

assassinati. Lui a partire senza rimpianti, lasciando la donna che ama segretamente. Allo stesso modo altri eroi fordiani sanno chinare il capo al momento opportuno e bere l’amaro calice riservato dal fato. L’espressione più chiara e coerente di questa filosofia del sacrificio è senza dubbio / sacrificati (They were expendable, 1945). Doveva essere un film di propaganda, che eguagliasse il successo del best-seller dallo stesso titolo, apparso nel 1942, dedicato ai protagonisti della grande sconfitta statunitense nelle Filippine. Emergeva la figura di un eroe adatto a quel momento, il tenente John Bulkeley, che aveva salvato l’onore delle armi ame-

ricane con il suo coraggio, riuscendo ad imporre ad uno Stato Maggiore riluttante e conservatore la nuova tecnica della guerra con le motosiluranti, piccole ed agili, capaci di contrastare il massiccio sfoggio di potenza giapponese. L’America ritrovò la fiducia in se stessa identificandosi in personaggi come Bulkeley, in cui riviveva lo spirito individualistico dei pionieri, che non si arrendono mai e si battono da soli con ogni mezzo contro un mondo ostile dalle proporzioni immense. È più che naturale che si pensasse di fare un film da questo libro. Ed altrettanto naturale che Hollywood e lo Stato Maggiore pensassero a John Ford come regista. Ma Ford non ne voleva sapere. Impegnato nella guerra vera in prima linea, provava un estremo disagio a tornare in borghese, a perdere tempo con il mondo fatuo di attori e di illusioni che pure era la sua ragione di vivere. Inoltre si sentiva in imbarazzo a dover realizzare un film scopertamente propagandistico che doveva solo esaltare un eroe senza macchia e senza paura. Per più di un anno il regista riuscì a respingere le pressanti richieste di amici-e produttori, finché per una strana «combinazione» incontrò a Londra proprio il protagonista del libro, John Bulkeley, trasferito sul fronte occidentale. Per una «combinazione» ancora più strana, 156

Ford fu assegnato alla motosilurante di Bulkeley che si distinse in pericolose azioni di appoggio allo sbarco in Normandia. Le drammatiche ore passate insieme di fronte al pericolo e alla morte legarono i due uomini: Ford fu preso da una grande ammirazione per il suo comandante, un uomo

schivo e sobrio, addirittura infastidito

dal successo presso l’opinione pubblica. Lui aveva fatto solo il suo dovere. E non chiedeva niente. Il regista si convinse. Bulkeley meritava un film. Ad Hollywood tirarono un sospiro di sollievo. Ed anche allo Stato Maggiore. L'operazione Ford-Bulkeley era andata in porto*. I produttori e i generali sensibili alle necessità della propaganda si aspettavano, naturalmente, un film tronfio e retorico: un bel drammone ambientato nel Pacifico, con immancabile lieto fine che esaltasse la virtù bellica degli Stati Uniti. Ma Ford, come al solito, spiazzò tutti. E girò

un capolavoro ispirato a tutt’altri sentimenti. Il film è imperniato sul concetto di sacrificio. Bulkeley, con i suoi uomini, sono costretti dalle resistenze dei

loro superiori e dalle obiettive difficoltà belliche a tirarsi sempre indietro e svolgere funzioni ausiliarie. Essi assi‘stono quasi impotenti alla disfatta americana, nonostante il successo delle operazioni militari loro affidate. Alla fine, dopo essere stati privati delle motosiluranti, costretti a rinunciare alla loro identità di marinai e gettati sul bagnasciuga con un fucile in mano, sbandati in mezzo a sbandati, Bulkeley e il suo braccio destro debbono abbandonare i loro commilitoni. Tornano a casa perché finaimente lo Stato Maggiore si è accorto di loro e ha deciso di formare squadre di motosiluranti. Il trionfo di Bulkeley si vena così di amarezza: dovrà combattere la guerra facendo l’istruttore, abbandonando i suoi uomini al loro

destino. * Per tutta la vicenda si veda Forp D., Pappy cit., pp. 194-201.

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Amaro e malinconico, il film non si raccomanda dav-

vero come opera di propaganda. Ed invece esalta al massimo un tema fordiano che la guerra rendeva attuale: lo spirito di sacrificio. in una celebre sequenza questo atteggiamento viene espresso senza possibilità di equivoco. L'ammiraglio Blackwell, il superiore di Bulkeley (che nel film si chiama Brickley), dice al tenente che si rammari-

ca di essere sempre tenuto da parte: «Ascolti figliolo. Io e lei siamo dei professionisti. Se l’allenatore dice “Sacrificatevi”, noi ci sediamo in panchina e lasciamo che siano

gli altri a fare punti... Il nostro compito è fare questo

sacrificio...»). Realizzando questa celebrazione della donazione di sé, Ford piegava la materia bellica ai suoi fini e attraverso il ritratto dell’altruista e riservato Bulkeley ci offriva un altro eroe antieroico e antiretorico che si aggiunge alla galleria di splendidi protagonisti della storia dei suoi film, come il suo Lincoln.

Ma qual è la relazione tra il culto del sacrificio e la abnegazione sublime degli eroi fordiani e il sacrificio disperato e romantico dei ribelli destinati alla sconfitta come Perkin Warbeck dell’altro Ford? Il legame tra il sacrificio etico degli uni e il sacrificio fatale e ineluttabile degli altri è più forte di quanto si possa credere. Al di là dell'apparenza, al di là delle motivazioni razionali, la vocazione al sacrificio degli uni e degli altri nasce dalla sensazione profonda, disperata dell’impossibilità di uscire dalla prigione del proprio destino. È questo che ci colpisce più di ogni altra cosa vedendo film come / sacrificati, Furore o Sfida infernale. Abbiamo l’impressione di assistere a una tragedia greca, in cui l’eroe è schiacciato nella morsa di eventi predeterminati che non possono avere altro esito. L'uomo può ribellarsi. Ma ciò che avviene lo sovrasta. Da questo punto di vista ha ragione Jean-Loup Bourget a criticare le interpretazioni di chi sottolinea eccessivamente la grandezza epica degli eroi fordiani, come Bogdanovich, che enfatizza

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la «gloria» e l’apoteosi insita nella «sconfitta» dei protagonisti di eventi comunque memorabili. Per quanto simili sentimenti possano esserci, essi sono nettamente subor-

dinati al senso tragico delle vicende e alla struggente malinconia che ci prende mentre assistiamo a tali tragedie.

Gli eroi della tragedia greca portavano una maschera. E questa maschera rendeva riconoscibile il personaggio. Alla fine delle nostre riflessioni su Ford siamo ricondotti al punto di partenza. Ford è stato una persona grazie alla sua persona. Ha costruito la sua identità sulla base di una serie di schermi e di filtri che avvolgevano il nucleo più profondo e segreto della sua individualità. Di tutti questi strati, l’ultimo che abbiamo esaminato è certamente il più profondo, quello che aderisce come una pelle alla carne viva. Il culto del sacrificio e la rassegnazione-disperazione davanti al proprio destino sono i due lati della maschera fordiana che maggiormente aderisce al volto nascosto. Quella maschera che si incolla talmente al viso da non staccarsi più. Eppure anche questo è un travestimento. Che cosa ci sia dietro si può solo immaginare. O intuire se per un attimo qualcosa di ciò che è sepolto si rivela, come per incanto. Ford può parlare-quanto vuole di sacrificio. Quello che ci lascia ancora oggi senza parole in un film come I sacrificati è una scena di ballo, una meravigliosa, misteriosa, seducente, commovente scena

di ballo: una sublime «variazione sul tema» di questo straordinario artista che ci ha regalato le più belle scene di ballo della storia del cinema. Dopo giorni e giorni di bombardamenti e di distruzio© Bourget, John Ford cit., pp. 10-20.

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ni, dopo giorni e giorni di ansia e di fatica nell’ospedale da campo, le infermiere dell'ospedale di Corregidor decidono di andare a ballare. Le vediamo allontanarsi infagottate in tute militari che offendono la loro femminilità. Ma ecco, per miracolo, le donne soldato ridiventano don-

ne, con vestiti eleganti che frusciano davanti a chi guarda. A dire la verità guardare è impossibile. C’è l’oscuramento e tutto si svolge al buio. Eppure, costi quel che costi (al diavolo la guerra e la morte!), giovani e vecchi,

ragazzi e ragazze si lasciano andare al ritmo mesto, lento di un valzer che stordisce monotono e sentimentale. Tutti cantano sottovoce come se fossero dolcemente ubriachi, un coro appena stonato, all’inizio della serata in un bar, quando l’alcool ancora non ha fatto tutto l’effetto. Nell’ombra danzano le ombre. E in queste figure senza forma, scintillano gli occhi, lampeggia un sorriso improvviso, qua e là, come stelle che tremano, appare e scompare la tenerezza, la confidenza. In questa notte dove come brace i sensi si accendono e si smorzano, arriva timido e ruvido l’attore preferito di Ford, il maturo John Wayne che impersona Ryan, l’aiu-

tante di Bulkeley, scontroso e impetuoso. Un attimo prima quest'uomo, inchiodato all’ospedale da un'infezione, si era scagliato contro il ballo e le infermiere, sfogando il malumore per la sua malattia sulla ragazza che in segreto desidera e da cui in segreto è desiderato. Adesso, come per scusarsi, compare, ombra tra le ombre, e unisce il suo sorriso timido allo scintillio dei sorrisi di chi danza. La ragazza lo vede: lo scorge, lo riconosce anche nel buio e sorride di un sorriso più intenso, con gli occhi che si inondano di felicità (fig. 39). Il suo cavaliere le sussur-

ra qualcosa all’orecchio: è un buon amico del burbero ufficiale e ha capito che cosa sta per nascere tra lui e la ragazza. Si tira da parte. Ma il suo non è un sacrificio. È un

atto cavalleresco,

cortese,

leale, nobile,

gentile,

pieno di sensibilità, di delicatezza. Come l’umanità do140

Fig. 59. Donna

Reed

in / sacrificati di Bataan.

vrebbe essere tutta, per permettere agli uomini bruschi e vulnerabili e alle ragazze altere e sensibili d’incontrarsi,

di conoscersi, di amarsi. Come in un sogno i due cadono l’uno nelle braccia dell’altro. E danzano. Niente al mondo è più commovente di questa coppia, di questo omone grande e grosso che tiene con la delicatezza con cui si stringe un cristallo la mano della ragazza piccola e leggera. Che danza un po’ goffo, un po’ massiccio e pare una farfalla d’ardesia che si accoppia ad un’altra farfalla nell’aria e il volo dell’una e dell’altra diventa un altro volo, un solo volo.

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Ombre tra le ombre, le ombre scivolano nell’ombra calda, profumata, sonora. Quando la musica incantata finirà, si siederanno su un’amaca, sospese in aria. Le

teste si sfiorano e gli occhi aperti scrutano la luminosità del cielo. Le bombe illuminano in modo sinistro l’orizzonte. Sui visi protetti dall’oscurità indoviniamo l’angoscia. Ma gli occhi mesti che si intravedono si accendono lo stesso. Quella notte piena di stelle e di lampi ricorda le notti lontane della giovinezza, dell’infanzia, animate da bisbigli, da risa, dalla luce delle lucciole. Ecco, se Ford è stato veramente Ford, o meglio, se

Ford è stato veramente John Feeney, il ragazzo irlandese con l’anima troppo vulnerabile per poter essere esposta e costretta a uscire fuori di notte come un animale selvaggio, mai come in questo momento, in questo teatro delle ombre, si è rivelato a se stesso ed a noi, gettando la maschera.

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| principali film di John Ford

1917 1917 1917 1918 ISO 1919 1921 1923 1924 1926 1927 1928 1950 1931 1934 1934 1935 1955 1956 1936 1936 19577 1959 1939 1959 1940 1940 1941 1941 1945

Straight Shooting The scrapper Bucking Broadway Hell bent The last outlaw Marked Men The big punch Cameo Kirby (Ladro d'amore) The iron horse (I! cavallo d’acciaio) Bad Men (I tre furfanti) Upstream Four Sons Men without women (// sottomarino) Arrowsmith (Un popolo muore) The lost patrol (La pattuglia sperduta) Judge Priest (// giudice) The whole town's talking (Tutta la città ne parla) The informer (Il traditore) The prisoner of Shark Island (I! prigioniero dell’isola degli squali) The plough and the stars (L’aratro e le stelle) Mary of Scotland (Maria di Scozia) The Hurricane (Uragano) Stagecoach (Ombre rosse) Young Mr. Lincoln (A/ba di gloria) Drums along the Mohawk (La più grande avventura) The grapes of wrath (Furore) The long voyage home (Viaggio senza fine) Tobacco road (La via del tabacco) How green was my walley (Com'era verde la mia valle) They were expendable (/ sacrificati)

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1946 1947

My darling Clementine (Sfida infernale) The fugitive (La croce di fuoco)

1948 1948

Fort Apache (I! massacro di Fort Apache) Three godfathers (In nome di Dio)

1949 1950 1950 1950 1952 1952 1953 1955

She wore a yellow ribbon (I cavalieri del Nord Ovest) When Willie comes marching home (Bil! sei grande!)

1955 1956

Wagonmaster (La carovana dei Mormoni) Rio Grande (Rio Bravo) What price glory (Uomini alla ventura) The quiet man (Un uomo tranquillo) The sun shines bright (// sole splende alto) The long gray line (La lunga linea grigia) Mister Roberts (Mister Roberts) The searchers (Sentieri selvaggi)

1957 1957 1958

The wings of the eagles (Le ali delle aquile) The rising of the moon (Storie irlandesi) The last hurrah (L'ultimo urrà)

1959

Gideon’s

1959 1960 1961 1961 1962 1963 1964 1965 1965

The hcise soldiers (Soldati a cavallo) Sergeant Rutledge (/ dannati e gli eroi) Two rode together (Cavalcarono insieme) The man who shot Liberty Valance (L'uomo che uccise L.V.) How the West was won (La conquista del West) Donovan’ reef (I tre della Croce del Sud) Cheyenne autumn (I/ grande sentiero) Young Cassidy (I! magnifico irlandese)* Seven women (Missione in Manciuria)

day (24 ore a Scotland

Yard)

* Ford ha girato solo una decina di minuti del film ed è stato sostituito da Jack Cardiff, perché malato.

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L’autore

Il libro

Fabio Troncarelli è docente di Paleografia e Diplomatica all’Università di Viterbo. Borsista al

John Ford: basta pronunciare il nome e vengono in mente indiani, sparatorie, cavalcate selvagge. E grandi attori: John Wayne, Henry

Warburg Institute di Londra ed all’Ecole des Hautes Etudes di Parigi, ha insegnato a Roma e Firenze ed è stato visiting professor all’Università di York (Pennsylvania). Ha pubblicato testi a carattere letterario ed è autore di documentari televisivi e di numerose interviste a famosi

registi. Alterna la passione per il mondo medievale a quella per il Cinema: collabora infatti alla rivista «Quaderni medievali», ma anche a «Fiction» e «Cinema e Cinema».

Fonda, James Stewart... Ma John Ford non è solo sinonimo di «vecchio west». E neppure il tipico regista di Hollywood: grande. mestiere, senso dello spettacolo, divismo e oscar. No. Ford è stato. un grande artista, un grande poeta

in incognito, con la maschera a dell’uomo d’azione rude e sbrigativo, del regista-di casse. dell’artigiano senza pretese. Questa maschera nasconde una profonda cultura: una cultura teatrale nutrita di.Shakespeare ed una cultura pittorica nutrita*dei grandi artisti europei ed americani del secolo scorso. Il libro cerca di togliere la maschera al vecchio regista e rivela le sue fonti, i suoi sentimenti segreti. Chi era veramente Ford? Perché portava una maschera? Solo una lettura attenta ed appassionata dei suoi film e della sua biografia ci permette di rispondere a simili domande e di porci domande nuove che meritano ancora una risposta.

design: Mimmo Castellano

ISBN 88-220-5029-0

lire 25.000 (i.i.)

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