Le città dei monaci. Storia degli spazi che avvicinano a Dio. 9788816412927


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Table of contents :
PREFAZIONE
Capitolo primo
‘Desiderosi di deserto’:
i monaci dell’Oriente tardoantico
e l’invenzione dello spazio monastico
L’affermazione della Chiesa cristiana nella società romana fra iii e iv secolo: forza e contraddizioni di un grande successo
Cristiani che abbandonano il mondo? I primi monaci d’Oriente come elemento di ‘rottura dialogica’ in seno alla Chiesa
Il deserto monastico e la polemica ‘antiurbana’
Il deserto come luogo di una nuova cittadinanza
Il monachesimo comunitario come modello alternativo di urbanità: il cenobio e le sue leggi
Note
Capitolo secondo
Luoghi e funzioni
nei primi monasteri orientali
Atmosfere, persone e spazi dei monasteri orientali raccontati dai contemporanei
Produzione, lavoro e scambi commerciali presso i monaci dell’Oriente tardoantico: una sfida etica e organizzativa
Sacri ruderi: i resti materiali dei monasteri dell’Oriente tardoantico, i loro spazi e le loro funzioni
Note
Capitolo terzo
“Disonorevoli nascondigli”: le prime esperienze monastiche dell’Occidente
Eremitismo e ricerca del desertum nelle più antiche testimonianze occidentali
‘Separati in casa’: esperienze di monachesimo urbano e suburbano nell’Occidente tardoantico
Dove abitavano i primi monaci d’Occidente?
Un percorso verso la definizione dello spazio monastico e della funzione sociale dei monaci
Note
Capitolo quarto
La costruzione dell’identità:
persone, luoghi e funzioni dei monasteri secondo le più antiche Regole
d’Occidente (secoli v-vii)
Genesi e significato delle Regole monastiche occidentali: qualche osservazione introduttiva
Scoprire gli spazi dei monasteri e i loro abitanti attraverso i testi delle Regole
Limina monasterii: gli spazi di accesso, di accoglienza degli ospiti e per l’alloggio dei novizi
Infra claustrum. Le aree riservate ai monaci e la loro articolazione
Videte ne graventur corda vestra crapula (Lc 21, 34). Il consumo del cibo ed il suo significato
Labor manuum, lectio divina. I luoghi dello studio e del lavoro
Otiositas inimica est animæ (rb, xlviii). Il tempo e la suddivisione della giornata
Le Regole hanno costruito i monasteri?
Note
Capitolo quinto
La fede erige le sue città: i monasteri dell’alto medioevo (secoli vii-viii)
Pregare e predicare: le case dei monaci irlandesi e britannici
Custodi delle anime regie: monasteri e potere nel regno dei Franchi (600-750 circa)
Costruire e gestire monasteri nella Gallia merovingia
La pietà dei “figli di Satana”. Lo sviluppo dei monasteri nell’Italia longobarda
Progetti e cantieri monastici nell’Italia longobarda
Nelle terre dei Romani: monasteri dell’Italia bizantina (secoli vi-ix)
Una storia interrotta? Monachesimo e insediamenti monastici nel territorio iberico (v-viii secolo)
Note
Capitolo sesto
L’apogeo dei chiostri. Monaci e monasteri nella prima età carolingia (751-840)
Re, aristocratici e monasteri: rottura e continuità fra l’età merovingia e l’età carolingia
Monasteri regolati, monasteri immaginati, monasteri costruiti: la complessa realtà dei claustra nell’età carolingia
Edifici inutili? La scommessa di Ratgar, abate di Fulda (792-814)
Dilemmi e ambizioni di Benedetto di Aniane
Le “vie dei canti”: topografie monastiche e celebrazioni liturgiche
E pluribus unum. Le molte componenti del corpo unitario di un monastero carolingio
Il “convitato di pergamena” degli studi sui monasteri altomedievali: la Pianta di San Gallo
Note
Capitolo settimo
Il “futuro” della Pianta di San Gallo: proiezioni sull’identità dello spazio monastico fra ix e xii secolo
La Pianta di San Gallo versus l’architettura dei monasteri della piena età carolingia
Dai “monasteri” dell’alto Medioevo al “monastero” del pieno Medioevo: la nascita di un modello prevalente di pianificazione degli insediamenti monastici?
Il “caso Cluny”: paradigma o specchio di una nuova epoca?
Note
Capitolo ottavo
Conclusioni
Note
FONTI
BIBLIOGRAFIA
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Le città dei monaci. Storia degli spazi che avvicinano a Dio.
 9788816412927

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architettura

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Federico Marazzi

le città dei monaci Storia degli spazi che avvicinano a Dio

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© 2015 Editoriale Jaca Book SpA, Milano tutti i diritti riservati Prima edizione italiana gennaio 2015 Copertina e grafica Break Point / Jaca Book

La stampa di questo volume è stata cofinanziata dall’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli, attraverso i fondi del progetto prin cod. 2010H8WPKL «Storia ed archeologia globale dei paesaggi rurali in Italia fra Tardoantico e Medioevo. Sistemi integrati di fonti, metodi e tecnologie per uno sviluppo sostenibile»

Redazione e impaginazione Elisabetta Gioanola / Jaca Book ISBN 978-88-16-41292-7 Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520, fax 02/48193361 e-mail: [email protected]; www.jacabook.it

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Indice

Introduzione

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Capitolo primo ‘Desiderosi di deserto’: i monaci dell’Oriente tardoantico e l’invenzione dello spazio monastico

L’affermazione della Chiesa cristiana nella società romana fra iii e iv secolo: forza e contraddizioni di un grande successo Cristiani che abbandonano il mondo? I primi monaci d’Oriente come elemento di ‘rottura dialogica’ in seno alla Chiesa Il deserto monastico e la polemica ‘antiurbana’ Il deserto come luogo di una nuova cittadinanza Il monachesimo comunitario come modello alternativo di urbanità: il cenobio e le sue leggi Note

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Capitolo secondo Luoghi e funzioni nei primi monasteri orientali

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Atmosfere, persone e spazi dei monasteri orientali raccontati dai contemporanei Produzione, lavoro e scambi commerciali presso i monaci dell’Oriente tardoantico: una sfida etica e organizzativa Sacri ruderi: i resti materiali dei monasteri dell’Oriente tardoantico, i loro spazi e le loro funzioni Note

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Indice

Capitolo terzo “Disonorevoli nascondigli”: le prime esperienze monastiche dell’Occidente Eremitismo e ricerca del desertum nelle più antiche testimonianze occidentali ‘Separati in casa’: esperienze di monachesimo urbano e suburbano nell’Occidente tardoantico Dove abitavano i primi monaci d’Occidente? Un percorso verso la definizione dello spazio monastico e della funzione sociale dei monaci Note Capitolo quarto La costruzione dell’identità: persone, luoghi e funzioni dei monasteri secondo le più antiche Regole d’Occidente (secoli v-vii)

49 49 55 62 70 79

83

Genesi e significato delle Regole monastiche occidentali: qualche osservazione introduttiva Scoprire gli spazi dei monasteri e i loro abitanti attraverso i testi delle Regole Limina monasterii: gli spazi di accesso, di accoglienza degli ospiti e per l’alloggio dei novizi Infra claustrum. Le aree riservate ai monaci e la loro articolazione Videte ne graventur corda vestra crapula (Lc 21, 34). Il consumo del cibo e il suo significato Labor manuum, lectio divina. I luoghi dello studio e del lavoro Otiositas inimica est animæ (rb, xlviii). Il tempo e la suddivisione della giornata Le Regole hanno costruito i monasteri? Note

98 101 106 110 113

Capitolo quinto La fede erige le sue città: i monasteri dell’alto medioevo (secoli vii-viii)

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Pregare e predicare: le case dei monaci irlandesi e britannici Custodi delle anime regie: monasteri e potere nel regno dei Franchi (600-750 circa) Costruire e gestire monasteri nella Gallia merovingia La pietà dei “figli di Satana”. Lo sviluppo dei monasteri nell’Italia longobarda Progetti e cantieri monastici nell’Italia longobarda Nelle terre dei Romani: monasteri dell’Italia bizantina (secoli vi-ix) Una storia interrotta? Monachesimo e insediamenti monastici nel territorio iberico (v-viii secolo) Note

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Indice

Capitolo sesto L’apogeo dei chiostri. Monaci e monasteri nella prima età carolingia (751-840) Re, aristocratici e monasteri: rottura e continuità fra l’età merovingia e l’età carolingia Monasteri regolati, monasteri immaginati, monasteri costruiti: la complessa realtà dei claustra nell’età carolingia Edifici inutili? La scommessa di Ratgar, abate di Fulda (792-814) Dilemmi e ambizioni di Benedetto di Aniane Le “vie dei canti”: topografie monastiche e celebrazioni liturgiche E pluribus unum. Le molte componenti del corpo unitario di un monastero carolingio Il “convitato di pergamena” degli studi sui monasteri altomedievali: la Pianta di San Gallo Note

201 201 212 214 221 227 248 280 295

Capitolo settimo Il “futuro” della Pianta di San Gallo: proiezioni sull’identità dello spazio monastico fra ix e xii secolo

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La Pianta di San Gallo versus l’architettura dei monasteri della piena età carolingia Dai “monasteri” dell’alto Medioevo al “monastero” del pieno Medioevo: la nascita di un modello prevalente di pianificazione degli insediamenti monastici? Il “caso Cluny”: paradigma o specchio di una nuova epoca? Note

303

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Capitolo ottavo Conclusioni

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Note

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Fonti

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BIBLIOGRAFIA

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INDICE DEI NOMI

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INDICE DEI LUOGHI

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«Perché ti sei fatto monaco?» La risposta che mi viene spontanea è: «Non lo so». Non so perché mi sono fatto monaco, perché la ragione iniziale non è la stessa per cui sono rimasto. All’inizio, pensavo di poter salvare il mondo diventando monaco; e sono rimasto perché il monastero è diventato il luogo in cui ho scoperto il mio bisogno di essere salvato. Prima di poter offrire un rifugio, dovevo trovarlo. (Jamison 2008: 10) The concept of a monastery refers not so much to architecture as to a way of life (Díaz 2011: 120)

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introduZIONE

L’11 novembre 2012, ricorrenza di san Martino di Tours, nella chiesa abbaziale di San Vincenzo al Volturno ho partecipato ai funerali di madre Agnese Shaw, una delle monache venute nel 1989 dal Connecticut per rifondare la comunità benedettina presso uno dei monasteri più antichi e illustri dell’Occidente altomedievale. Quando mi sono avvicinato per porgere le mie condoglianze a madre Myriam, che di quella comunità è la guida, ella mi ha accolto con un grande e sereno sorriso nel quale non leggevo traccia del dolore per la perdita di una persona che pure era stata la sua principale ‘compagna di viaggio’ lungo i ventitré anni di permanenza tra le montagne del Molise. Non credo che dietro quel sorriso non ci fosse rimpianto, ma piuttosto la presa d’atto del compimento di un percorso, consapevolmente previsto e forse perfino atteso durante lo scorrere delle tante giornate scandite dalle ore della preghiera e del lavoro. Durante la cerimonia, madre Myriam e le altre monache nel presbiterio della chiesa, illuminato dalla luce del pomeriggio, hanno seguito silenziose e distanti lo svolgersi del rito funebre. Hanno ascoltato impassibili il ricordo della loro consorella. Nelle parole che sono state pronunciate, trovavo il riscontro di molte delle sensazioni che, in occasione delle mie tante visite, ho provato anch’io, accostandomi a quel monastero rinato alla fine del xx secolo nel nome e nel solco di una storia e di una tradizione antiche di secoli. Madre Agnese, come le altre monache della comunità, usciva di rado dall’abbazia. Per incontrarla e parlarle, si doveva andare presso di lei e gli incontri seguivano sempre un preciso rituale. Giunti davanti al cancello del monastero, si suonava il citofono e sembrava che nulla accadesse: passavano lunghi minuti, scanditi dal suono del vento e dal canto degli uccelli e, alla fine, le ante iniziavano ad aprirsi. Percorsa una ventina di metri, si entrava nell’androne del palazzo abbaziale e lì, nella bella stagione, trovavo madre Agnese e, a volte, le altre monache che, lasciate le loro incombenze, si fermavano volentieri a parlare con me. Quando il tempo era 3

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Le città dei monaci

meno clemente, si entrava in una saletta dove, di solito, c’era la possibilità di bere insieme un tè o un caffè caldo. Nel resto del monastero non sono mai entrato, ma questo non significava che l’ospitalità offerta fosse meno piena e cordiale. Semplicemente, per me che venivo ‘da fuori’ c’erano delle regole da rispettare e la prima di esse era quella di riconoscere che l’intersezione tra il mio mondo e quello della comunità poteva avvenire in quegli spazi interni al recinto monastico, ma comunque distinti rispetto a quelli in cui si svolge, nel silenzio e nell’ordine, la loro vita quotidiana. Mi ha sempre fatto un certo effetto il buon umore e la vitalità fisica e intellettuale di persone che hanno trascorso la gran parte della propria esistenza entro i confini dello stesso luogo, ma la mia sorpresa derivava probabilmente dal non saper cogliere appieno il significato del ‘passaggio’, non solo fisico, che le monache avevano compiuto varcando molti anni prima la soglia del monastero. L’ho capito forse definitivamente proprio il giorno del funerale di madre Agnese, quando chi l’ha ricordata ha detto che, durante la propria vita, il monaco si educa a convivere con lo spettro della propria fine e a considerarlo come l’ulteriore, logico passaggio che conclude quello dell’entrata in monastero. In effetti, pensandoci bene, una volta raggiunto l’obiettivo di esorcizzare la morte – guardando dritti al di là di essa –, ogni altra cosa che la vita può riservare appare meno capace di condizionarci e quindi, al contempo, osservabile con più tranquillità e pienezza. Avevo iniziato a rendermi meglio conto di questo tipo di prospettiva che la vita può offrire quando, il 18 agosto del 2011, mi era capitato di leggere un articolo di giornale su una monaca di clausura spagnola di 103 anni, suor Teresita (al secolo Valeriana Barajuén), che quel giorno era uscita dal monastero per la seconda volta in 84 anni per andare a incontrare papa Benedetto xvi, che aveva personalmente espresso il desiderio di parlare con lei in occasione del suo viaggio in Spagna. Intervistata da un giornalista che le chiedeva se fosse stata felice rimanendo sempre nel monastero per tanto tempo, suor Teresita rispose: «Certo che lo sono. Chi può passare 84 anni in un monastero senza essere felice? Diversamente finiresti per ammazzare chiunque». La cosa che mi aveva colpito ancora di più era che Valeriana-Teresita, per sua stessa ammissione, non era entrata nel chiostro in seguito a una folgorante vocazione, ma perché era stato suo padre – un contadino poverissimo – a spingerla a questo passo per farle sfuggire la miseria che la vita delle campagne riservava ai suoi abitanti nei Paesi Baschi degli anni ’30. Dunque, il suo incontro con la vita monastica e l’adattamento ad essa doveva essere avvenuto progressivamente, producendo però alla fine non rassegnazione, né i tormenti e le angosce della Gertrude manzoniana, ma la presa di coscienza di una dimensione in cui valesse la pena vivere. La storia di questa monaca spagnola, delle sue origini familiari e del suo percorso di vita in monastero, benché si sia svolta fra il xx e il xxi secolo, sembrava catapultata nel nostro presente direttamente dal Medioevo. Essa è infatti incredibilmente somigliante a quella di tanti fanciulli e fanciulle che in quei secoli venivano ‘offerti’ ai monasteri dai loro genitori, di nobile o umile origine, affinché in quei luoghi potessero condurre un’esistenza comunque diversa da quella che li avrebbe 4

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Introduzione

attesi rimanendo al di fuori, nel secolo, e cioè nel luogo in cui la vita degli uomini si sarebbe svolta e conclusa entro orizzonti puramente terreni. L’isolamento e l’alterità – o meglio: l’alterità in virtù dell’isolamento – sembrano insomma costituire il tratto caratterizzante dell’esperienza di vita monastica, oggi come mille e più anni fa. Ma dedicandomi per tanti anni allo scavo e allo studio dei resti materiali e delle testimonianze storiche di San Vincenzo al Volturno, mi rendo anche conto del fatto che questa dicotomia fra chiostro e secolo non poteva di per sé dare conto dell’insieme delle cose che il mondo monastico ha realizzato e in particolare delle opere materiali che segnano fisicamente la presenza di un qualsiasi monastero e ne plasmano il luogo in cui sorge. Essa è un principio che informa la realtà della vita monastica, avendolo fatto nel corso dei secoli in modo assai più fluido di come possano lasciar intendere i rigidi dettami, sia dei Padri egizi del iv secolo sia degli autori delle Regole monastiche occidentali del vi e del vii, che conclamano la necessità del desertum, ossia l’esigenza che questa vita si realizzi nella solitudine e nel distacco dalle dinamiche mondane. Che l’isolamento nel desertum fosse spesso più che altro un’aspirazione, appare chiaro quando ci si soffermi a constatare che la parte preponderante della documentazione scritta che sopravvive sui monasteri dell’alto Medioevo tratta di affari squisitamente mondani, come la gestione di aziende agrarie e i rapporti politici intrattenuti dagli abati con re e imperatori. E ciò è talmente vero che, per esempio, in ragione della visibilità di questi aspetti, per molti anni proprio i resti archeologici di San Vincenzo al Volturno sono stati prevalentemente studiati più come testimonianze sulla vita economica e lo sviluppo economico dell’Europa altomedievale, che non come espressione ‘pietrificata’ della realtà culturale e spirituale del monachesimo di allora. L’hortus conclusus dei chiostri medievali appare insomma come un luogo in grado di ‘inghiottire’ e rielaborare quello che il mondo esterno conteneva, valutandolo e ponendovisi in relazione, né più né meno di quanto era in grado di fare madre Agnese di San Vincenzo al Volturno quando intavolava con me conversazioni che potevano spaziare dalla storia alla vita familiare, alle condizioni per il recupero e la tutela dei resti archeologici dell’antica abbazia. Queste connessioni tra sfere esistenziali apparentemente separate da confini netti, che s’incarnano in storie, azioni, luoghi e oggetti, presumono un’interazione con il modo di concepire e poi realizzare la fattispecie materiale degli insediamenti monastici. Tenendo conto di tutto ciò, l’analisi dei loro resti e la loro interpretazione non può prescindere dalla considerazione che essi testimoniano inevitabilmente l’incontro fra l’ideale del monastero in quanto refugium di persone ‘elette’ (o selezionate per essere tali) e una realtà rappresentata da una pluralità di occasioni in cui il silenzio del chiostro è lambito dalle voci che provengono dall’esterno. Anzi, non va dimenticato che la corrente può essere anche di segno opposto, nel senso che le esperienze monastiche – per dare senso e soprattutto continuità alla propria esi5

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Le città dei monaci

stenza – dovevano anche organizzare un flusso d’informazioni su se stesse attraverso le quali il mondo al di fuori dei propri confini fosse in grado di capirne il ruolo e la funzione nella società. Tenendo conto di queste premesse, il fine di questo lavoro non è stato quello di tracciare una storia del monachesimo, né quello di delinearne una sull’architettura dei monasteri, argomenti sui quali esiste già una letteratura particolarmente abbondante. Bensì, prendendo le mosse anche da quanto gli studi su questi argomenti hanno prodotto, esso vuole piuttosto rappresentare un’occasione per riflettere su come sia stato concepito lo spazio dei monasteri, come sia stato realizzato e quindi utilizzato da coloro che vi abitavano o che svolgevano attività che li portavano a gravitare intorno ad esso. Negli ultimi due/tre decenni, anche in Italia, seguendo quanto era accaduto in precedenza in altri Paesi d’Europa, i siti di molti monasteri di età tardoantica e medievale hanno iniziato ad essere oggetto di studi e indagini di carattere archeologico. È però capitato spesso che queste ricerche abbiano evitato di porsi qualche necessaria domanda che andasse al di là del mero riconoscimento delle fasi di frequentazione dei siti indagati e delle loro componenti funzionali, dimenticando che questi insediamenti erano innanzitutto stati dei luoghi ‘pensati’ nei minimi dettagli per costituire lo scenario di un percorso esistenziale di natura del tutto particolare. Quello che ho cercato di costruire è quindi un tentativo di cucire insieme evidenze di natura anche molto diversa tra loro, per verificare se fosse possibile giungere al risultato di comprendere come gli organismi materialmente realizzati delle famiglie monastiche che hanno popolato il territorio dell’Europa fra iv e xii secolo avessero o meno dialogato con le idee fiorite in quei secoli sullo svolgimento della vita ascetica. È stato un viaggio appassionante, anche se in molte circostanze non è stato semplice cercare di mettere in relazione fonti diverse senza correre il rischio che tra loro s’istituisse un dialogo del tutto fittizio. Credo però che, alla fine, sia valsa la pena avventurarsi su questo percorso, se non altro perché è stata una buona occasione per riflettere meglio su tante esperienze condotte sul campo e nelle biblioteche, leggendo documenti e riportando alla luce resti materiali che del mondo monastico mi parlavano, ma forse non riuscendo veramente a darmi piena percezione della complessità e della ricchezza di ciò che osservavo. Come ogni monografia, questo lavoro è stato sì il frutto di un impegno individuale, ma certamente si è nutrito degli insegnamenti e dei consigli di molte persone che ho incontrato lungo il cammino del suo concepimento e della sua realizzazione. Sento perciò doveroso esprimere un sentito ringraziamento innanzitutto a Jaca Book, a Sante Bagnoli e Vera Minazzi per aver accettato il progetto di questo libro e averne voluto la pubblicazione. Ma il mio grazie va anche ai molti amici e colleghi che, a volte anche con una semplice parola o mettendomi a disposizione un proprio studio, mi hanno messo in condizione di superare un’impasse o di cogliere qualcosa 6

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Introduzione

che, per quanto fosse evidente, sfuggiva alla mia osservazione: D. Faustino Avagliano, Beat Brenk, Caroline Brett, Gian Pietro Brogiolo, Sébastien Bully, François Bougard, Gisella Cantino Wataghin, Cécile Caby, Alexandra Chavarría, Flavia De Rubeis, Eleonora Destefanis, Hendrik Dey, Daniele Ferraiuolo, Vincenzo Fiocchi Nicolai, Sveva Gai, Sauro Gelichi, Caroline Goodson, Michel Lauwers, Uwe Lobbedey, Sara Nardi, Massimo Oldoni, Isabelle Rosé, Marco Salvador, Christian Sapin, Julia Smith, Paolo Squatriti e Michele Vultaggio. Una riconoscenza particolare esprimo all’amica Francesca Dell’Acqua, che ha riletto pazientemente e criticamente tutto il testo, consentendo di migliorarlo significativamente in molte sue parti, e a Tobia e Gabriel Paolone, che mi hanno fornito un aiuto decisivo al momento del suo editing. Rivolgo poi un ringraziamento ad Alessia Frisetti, del Laboratorio di Archeologia Tardoantica e Medievale dell’Università Suor Orsola Benin­casa, che ha elaborato alcune tavole grafiche specificamente pensate per questa pubblicazione. Voglio infine indirizzare un particolare cenno di gratitudine a Pasquale Simonelli e all’Associazione Storica del Medio Volturno di Piedimonte Matese, che mi hanno concesso di scrivere questo libro nella tranquillità della loro biblioteca, evitando così che la quotidianità della mia famiglia fosse turbata da questa prolungata ‘invasione monastica’. In particolare alla pazienza e comprensione di mia moglie Raffaella devo profonda riconoscenza per aver sempre potuto trovare, grazie al suo aiuto, il tempo e la serenità necessarie a dedicarmi al lungo lavorìo che queste pagine hanno richiesto. Dedico queste pagine a mio padre e alla memoria di mia madre, che mi hanno dato tutto quello che è stato nelle loro possibilità affinché potessi realizzare pienamente il mio desiderio di studiare la storia e l’archeologia del Medioevo.

Nota editoriale Le citazioni letterali (tradotte in italiano) di passi di fonti e testi bibliografici sono state evidenziate ponendole in corpo tipografico distinto dal resto del testo o, qualora fossero particolarmente brevi, sono state riportate nel corpo del testo, ma racchiuse entro caporali (« »). Singole parole riprese da testi citati sono state inserite entro virgolette doppie (“ ”). Termini idiomatici o parole utilizzate in senso colloquiale sono state poste fra virgolette singole (‘ ’). Le parole in lingue diverse dall’italiano sono state rese in corsivo. In bibliografia le opere sono state citate nell’edizione effettivamente consultata. Ciò significa che, se un libro o un saggio, apparso originariamente in lingua straniera, è stato consultato nella traduzione italiana, nell’apparato bibliografico si troverà il riferimento solo a quest’ultima. 7

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Capitolo primo ‘Desiderosi di deserto’: i monaci dell’Oriente tardoantico e l’invenzione dello spazio monastico Et tout d’abord, le monastère doit être situé loin du commerce des hommes. Le moine, comme son nom l’indique, doit vivre dans la solitude (Dimier 1964: 36) L’asceta cristiano è un personaggio liminare per eccellenza. [Egli] si purifica dal quotidiano (conosciuto, domestico, previsto) e si trasporta in un mondo agli antipodi del mondo comune e delle leggi che lo definiscono (Kleinberg 2007: 136-137)

L’affermazione della Chiesa cristiana nella società romana fra iii e iv secolo: forza e contraddizioni di un grande successo Le città erano la spina dorsale dell’Impero romano. Fondate in seguito alla conquista di nuovi territori o ereditate (soprattutto in Oriente) dagli Stati via via soggiogati e assorbiti nella Res Publica, esse costituivano il perno dell’amministrazione civile e militare e il cuore della vita politica ed economica delle diverse province. Un’immagine sicuramente non lontana dalla realtà della struttura dello Stato romano è quella di una grande comunità di città – ciascuna con un territorio dipendente, federate in via subordinata a una città dominante, cioè Roma stessa. In conseguenza di ciò, i centri urbani furono i luoghi ove si concentrò una popolazione le cui attività prevalenti non erano quelle direttamente legate alla produzione agraria e pastorale, ma piuttosto quelle della produzione manufatturiera e dei servizi e quelle legate all’amministrazione e al governo. Ciò determinò la formazione di ceti che di tali attività si occupavano, il cui benessere materiale poteva anche derivare in buona parte dal possesso della terra e dallo sfruttamento delle sue risorse, ma che ambivano comunque a differenziare il proprio stile di vita da quello dei rustici. Nei primi due secoli dell’era volgare, la comparsa nelle città di ogni regione dell’Impero di spazi destinati allo svago, all’intrattenimento, al benessere personale e alla formazione intellettuale rappresenta la dimostrazione più eloquente dell’esistenza di uno ‘stile di vita’ urbano che, nonostante tutte le differenze esistenti con l’età contemporanea, avvertiamo come comparabile a quello dei nostri giorni. 9

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Le città dei monaci

Nella storia dell’area mediterranea considerata nel suo insieme, tutto ciò rappresentava un fenomeno assolutamente nuovo. In realtà, la percentuale della popolazione residente nelle città rimase sempre minoritaria rispetto al totale (come del resto è stato anche nell’Occidente sino alla metà del xx secolo), ma è tuttavia indubitabile che, tanto a livello locale quanto alla scala globale dell’Impero, le leve attraverso cui si governava la società del tempo erano in mano a persone che provenivano soprattutto dai ceti egemoni dei centri urbani (Cecconi 2009: 285-306). Ovviamente, non tutti coloro che abitavano nelle città godevano in pari misura dei vantaggi che esse potevano offrire e ciò sia a causa delle forti sperequazioni sociali esistenti nelle comunità urbane, sia per l’arretratezza tecnica che, in rapporto agli standard contemporanei, caratterizzò il mondo romano. Come è stato recentemente affermato (Stark 2010: 38), le città greco-romane erano piccole, sovraffollate, sudice all’inverosimile, disordinate, stracolme di stranieri e afflitte da frequenti catastrofi: incendi, epidemie, conquiste e terremoti.

Non per questo, però, vivervi era meno attraente. I disagi erano evidentemente ricompensati dalle molte opportunità offerte dalla contiguità con il potere e dalla possibilità di trovarsi in luoghi ove, in virtù della loro centralità politica, economica e amministrativa, informazioni e novità potevano giungere prima ed essere conosciute meglio. Abitare nelle città consentiva quindi di recepire, condividere ed elaborare in modo più immediato i fermenti del mondo contemporaneo. È un dato storico ormai chiaro che il Cristianesimo si diffuse proprio negli ambienti cittadini, partendo dalle popolose città del Mediterraneo orientale. Le mete della predicazione di Paolo di Tarso e i destinatari delle sue epistole delineano una geografia del primitivo proselitismo cristiano che trova sempre nei centri urbani il proprio ancoraggio sul territorio (Sánchez Bosch 1979). Non per niente, già in epoca tardoantica, il termine ‘pagano’ – cioè abitante dei pagi, vale a dire dei villaggi rurali – assume il significato di ‘non cristiano’. Il fedele della nuova religione, insomma, si identifica con l’abitante della città. Nel iii secolo d.C., quando le comunità cristiane iniziano ad acquisire una consistenza numerica di una certa rilevanza (soprattutto nelle città dell’Oriente, ma anche in alcuni centri occidentali come Roma, Cartagine e Lione), si sviluppa parallelamente al loro interno una struttura organizzativa e finanziaria che ha come obiettivo in primo luogo la gestione degli spazi del culto comunitario, dell’assistenza e della sepoltura degli adepti. Gestione di beni e strutture significa anche e soprattutto gestione di denaro. All’inizio del iii secolo la comunità cristiana di Roma fu investita da uno scandalo che vide protagonista Callisto, schiavo del potente Carpoforo, che aveva amministrato in modo piuttosto disinvolto una banca che avrebbe dovuto custodire le somme necessarie all’assistenza di vedove e orfani. Dopo diverse peripezie, Calli10

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sto riuscì a farsi scagionare dalle accuse e alla sua riabilitazione avrebbero concorso anche personaggi vicini all’imperatore, la qual cosa lascia intuire che la diffusione del Cristianesimo a Roma fosse ormai piuttosto significativa. Durante tutto il iii secolo, le fasi acute di conflitto fra i cristiani e le autorità dello Stato romano furono intervallate da periodi relativamente pacifici, cosa che permise alle comunità di crescere numericamente e di radicarsi all’interno del tessuto sociale urbano (Winkelmann 2004: 83-110). Al momento in cui Costantino e Licinio, nel 313, decisero di emanare l’editto di Milano che garantiva libertà di culto ai cristiani, si calcola che essi potessero rappresentare una percentuale pari a circa il 15% della popolazione complessiva dell’Impero (Stark 2010: 90). Tale percentuale doveva assumere ovviamente proporzioni più cospicue nelle città delle province orientali, da dove questa religione si era originariamente sviluppata. La differenza che il Cristianesimo presentava rispetto alle altre religioni diffuse nell’Impero stava soprattutto nella sua capacità di aver sviluppato due caratteristiche: la prima era quella di aver progressivamente consolidato una struttura gerarchica e organizzativa che, seppure ben lontana da quella piramidale e ‘romanocentrica’ della Chiesa cattolica di oggi, era tuttavia in grado di tenere insieme le diverse comunità e di far sì che esse si presentassero come cellule di un’entità unitaria; la seconda caratteristica è quella di aver saputo superare abbastanza rapidamente la dimensione prettamente settaria degli esordi, proponendosi come un credo aperto all’adesione delle componenti sociali ed etniche più diverse presenti nel territorio dell’Impero. Questa seconda peculiarità, peraltro, non si sviluppò a spese dell’identità del credo cristiano. Sebbene sia stato rilevato come il Cristianesimo del iii e del iv secolo abbia assorbito moltissimi elementi propri della cultura ‘alta’, del simbolismo del potere, della devozione popolare e del linguaggio figurativo propri del mondo classico, ‘pagano’, nondimeno non ha prodotto il risultato di incrinarne la compattezza dogmatica, determinando fenomeni di mero sincretismo rispetto a tradizioni e credenze con cui il proselitismo cristiano entrò via via in contatto. Questa ‘duttile monoliticità’ del Cristianesimo dovette certamente costituire uno dei fattori di valutazione per la maturazione della svolta che Costantino compì nel 313. La cessazione di rapporti conflittuali con la componente cristiana della popolazione dell’Impero portò rapidamente a una reciproca attenzione, se non a una vera e propria collateralità fra il potere imperiale e le gerarchie ecclesiastiche, in certo senso suggellata dalla presenza di Costantino al Concilio che si riunì a Nicea per definire e ufficializzare i fondamenti dogmatici e organizzativi della Chiesa cristiana (Suso Frank 2000: 134-135 e 172-175). Sebbene la capillare accettazione del Cristianesimo presso tutti gli ambienti e gli strati sociali dell’Impero si verifica non prima del v secolo, è un dato di fatto che la legislazione emanata durante il iv andò progressivamente, ma decisamente, in direzione della concessione alle Chiese di prerogative e sostegni sempre più ampi (Wipiszycka 2000: 126-128). Gli imperatori agirono nei loro confronti, sia pure 11

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con modalità diverse da sovrano a sovrano, continuando ad applicare il principio tradizionale secondo cui un rapporto di pace con la sfera del divino sarebbe stato garanzia della stabilità dello Stato, ma coltivandolo con l’attenzione che si sarebbe riservata al funzionamento di una parte dello Stato stesso (Barzanò 1996: 62-78). Questa situazione ebbe per effetto una crescita significativa della contiguità delle gerarchie ecclesiastiche con le strutture politico-amministrative dell’Impero. Basti pensare, ad esempio, alla deliberazione del Concilio di Nicea con cui si stabilì che i territori delle metropolie ecclesiastiche coincidessero con i confini delle province imperiali. Un’ulteriore conseguenza – percepibile già ai tempi di Costantino – fu quella del poderoso rafforzamento economico delle Chiese, consentito sia dalla favorevole legislazione e dalla munificenza degli stessi imperatori, sia dal concorso sempre più ampio di benefattori privati, che attivarono un flusso di donazioni di beni mobili e immobili. Tale rafforzamento fu reso d’altra parte necessario dal fatto che, a partire dalle città, le singole diocesi si trovarono a gestire patrimoni sempre più imponenti, costituiti principalmente dalle vecchie e nuove aree cimiteriali, dagli edifici di culto e dai loro annessi (battisteri, cappelle, sacrestie), ma anche da complessi residenziali per l’alloggio dei vescovi e del clero e da spazi per l’espletazione di servizi assistenziali e sanitari che costituirono, mano a mano, uno dei campi in cui la Chiesa operò con sempre maggiore capillarità ed efficacia (Remie Constable 2003). La ricchezza di molte sedi episcopali – soprattutto di quelle più importanti – crebbe così vertiginosamente durante il iv secolo, non senza suscitare critiche e provocare scandali. Alla fine del iv secolo, quando il potere imperiale aveva ormai dichiarato che la religione cristiana costituiva il credo ufficiale dello Stato romano, le diocesi delle più importanti città – come ad esempio Roma e Costantinopoli – erano detentrici di ricchezze tali da porle alla pari con quelle delle famiglie aristocratiche più in vista (Dagron 1991: 503-516; Marazzi 1998: 47-78; \ernic 2004; Lizzi Testa 2004: 93-104). Cristiani che abbandonano il mondo? I primi monaci d’Oriente come elemento di ‘rottura dialogica’ in seno alla Chiesa L’evoluzione del ruolo sociale e politico della Chiesa nel mondo tardoantico, e le sue implicazioni in ambito economico, non mancarono di provocare dibattiti e riflessioni all’interno della comunità dei credenti. Il trionfo garantito dalla svolta costantiniana comportò il prezzo di un’inevitabile mondanizzazione e vi fu chi vide in questa evoluzione un insopportabile allontanamento dai costumi della Chiesa ‘primitiva’, in grado di perseguire l’esempio del Cristo nella conduzione di un’esistenza improntata al rifiuto delle lusinghe del mondo e votata all’attesa del ricongiungimento con il Padre. 12

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Questo disagio, esistenziale e ideologico al contempo, fu sicuramente uno dei motivi principali alla base della nascita e del successo del fenomeno monastico (Moreno Martín 2011: 35-37). Ad essi non dovette essere estranea neppure la sensazione che il trionfo ‘mondano’ della Chiesa non avesse certamente determinato l’instaurarsi di una società più capace di lenire le enormi disuguaglianze economiche e sociali del tempo e di moderare la deriva autoritaria intrapresa dal potere statale e dai suoi apparati. L’idea che il mondo fosse un luogo dove era difficile attuare la giustizia, nonostante la vittoria in un certo senso politica in esso conseguita dalla Chiesa di Cristo, dovette indurre molti a disperare sulla possibilità di una sua positiva palingenesi. L’unica soluzione per vivere un’esistenza coerente con i precetti del Vangelo poteva perciò essere quella della fuga dal consesso sociale, rompendo i vincoli – anche affettivi – che in esso si generavano e tentare di prepararsi a entrare, nel modo migliore, nel mondo promesso da Cristo dopo la fine della vita terrena. Le persone che scelsero di abbandonare la propria comunità di origine e di ritirarsi nel ‘deserto’ per il perseguimento di un ideale di vita dedicato alla preghiera nell’isolamento (mon£zein), rinunciando ai beni terreni con l’obiettivo del perseguimento di una vita perfecta, furono detti monaci (monacÒi) (Judge 1977). Ciò che si voleva abbandonare, quindi, era il legame con il ‘secolo’ (sæculum, in latino; kÒsmoj, in greco), inteso come tutto ciò che vive nella dimensione effimera e peritura della materialità. La vita perfecta, specularmente, è l’esistenza che raggiunge il suo compimento già durante il transito terreno, attraverso la scelta dei beni imperituri dello spirito, perseguendo l’esempio del Cristo che visse per annunciare il Padre e nell’attesa di ricongiungersi a Lui dopo la morte corporea. Non stupisce, per le ragioni ricordate in precedenza, che le aree del­l’Oriente mediterraneo abbiano costituito la ‘culla’ di questo movimento che si espresse in maniera assai variegata. Le esperienze di vita ascetica cristiana che si affermarono in queste regioni (Egitto, Siria, Palestina, aree sud-orientali dell’Asia Minore) presentano tutte dei tratti comuni: l’abbandono dei beni materiali, la lotta contro i desideri carnali (soprattutto quelli sessuali e quelli legati al cibo) e la ricerca di una capacità di dominio dei sentimenti di antagonismo verso il prossimo. Il fine era il raggiungimento della grazia di un colloquio diretto con Dio, e il suo raggiungimento comportava un continuo esercizio (l’ascesi, appunto) teso a trasformare chi lo pratica in un essere già interamente volto alla vita vera, che sarebbe iniziata dopo la conclusione del transito terreno (Alciati 2013: 816-818). Il multiforme paesaggio dell’ascetismo cristiano, che inizia a prendere forma storica nei decenni a cavallo fra iii e iv secolo, non si nutre solo di suggestioni e riferimenti nati entro l’alveo della nuova religione, ma trova antecedenti in una lunga tradizione di spiritualità cresciuta sia nel mondo genericamente definito ‘pagano’, sia in quello giudaico (Scazzoso 1975: 294-313; Davies 1996: 253-257; Rubenson 1998; De Vogüé 2000: 97-106). Nel neoplatonismo del iii secolo si colgono accenti chiari sull’esigenza che il fi13

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losofo plasmi la sua personalità attraverso la rinuncia alle ricchezze, alla fama, agli onori mondani, al soddisfacimento del desiderio sessuale e a un’alimentazione smodata. Porfirio, in particolare, nel suo trattato sull’astinenza ricorda che l’esempio migliore da seguire per l’esercizio di queste virtù si trovava nei seguaci di Pitagora i quali, per sfuggire ogni tentazione, si allontanavano dalle città per cercare luoghi deserti o, se vi rimanevano, si stabilivano entro i sacri recinti dei santuari, ove potevano vivere liberi dal disturbo recato dalle faccende mondane (Dillon 1998). Similmente, un autore come Girolamo, impegnato nella promozione del monachesimo cristiano, non ha difficoltà ad ammettere che il costume della fuga mundi era già praticato presso alcuni philosophi pagani, come appunto i Pitagorici, al fine di perseguire la meditazione al riparo dalle passioni e dalle lusinghe del mondo (e della città in particolare): Spinti dunque da queste considerazioni, molti filosofi hanno abbandonato l’affollamento delle città e i giardini dei suburbi, con i loro terreni percorsi dalle acque, gli alberi frondosi, il cinguettio degli uccelli, lo specchio di una fontana, il mormorio di un ruscello e le mille dolcezze che catturano l’occhio e l’orecchio. Essi temevano che il lusso e l’abbondanza dei beni indebolissero la loro forza d’animo e ne sporcassero la purezza. […] Di fatto, i pitagorici, per evitare questa confusione, abitavano normalmente nella solitudine e nei luoghi deserti1.

Inoltre, come ricorda Richard Finn, esiste un vasto retroterra di tradizioni cultuali del mondo greco-romano, nell’ambito del quale «modalità specificamente definite di astinenza dal cibo e dal sesso erano funzionali alla definizione di spazi e tempi consacrati, a mediare un accesso entro – o stabilire una comunicazione con – il mondo sacro degli dei e per sancire l’esistenza di un ordine sociale in cui sesso e cibo trovavano il loro spazio nell’ambito della vita familiare ed urbana» (Finn 2009: 14). Ugualmente, le due sette ebraiche dei Terapeuti (in Egitto) e degli Esseni (in Palestina) sono descritte nella testimonianza di Filone di Alessandria come caratterizzate da una vita comunitaria che, per raggiungere attraverso la conoscenza della Legge e delle Scritture il proprio ideale di contemplazione divina, sceglievano programmaticamente di allontanarsi dall’ambiente cittadino visto come fonte di confusione materiale e morale, andando quindi a perseguire in luoghi isolati un’esistenza fatta di rinunce e astinenza. Osserva sempre Finn che Filone, nel descrivere i modelli organizzativi delle due sette, forse aveva in mente riferimenti tanto alla tradizione filosofica greca quanto a quella biblica, che voleva i Leviti destinati ad abitare città proprie, scevre da commistioni con chi non poneva al primo posto, nella propria esistenza, il servizio a Dio (Finn 2009: 38). I rotoli di Qumran, tra cui in particolare il cosiddetto Documento di Damasco, forniscono indicazioni sul fatto che i membri del gruppo costituiscono un’‘unità’ di persone alla ricerca della santità e della prossimità con Dio attraverso la purezza e l’astinenza 14

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dal cibo, il cui percorso, per essere coronato da successo, deve svolgersi in un luogo prescelto (il “Campo degli Israeliti”), separato dal resto della società e dalle sue contaminazioni2. L’idea del perseguimento di una vita di perfezione spirituale, anche nelle tradizioni mediterranee anteriori a quella del monachesimo cristiano, trovava dunque forte caratterizzazione nei concetti dell’allontanamento dalle sedi umane e nella definizione, in luoghi lontani o quanto meno separati da esse, di uno spazio ‘altro’, riservato a chi aveva intrapreso tale percorso e perciò non accessibile ad altri. Il deserto monastico e la polemica ‘antiurbana’ Nella letteratura cristiana tardoantica che tratta le tematiche della vita monastica, il concetto dell’abbandono del mondo si caratterizza quasi sempre come percorso di allontanamento dalla città, rappresentata come luogo-simbolo della sottomissione dell’uomo alle lusinghe della vita terrena. Accanto ad esso, e direi in posizione speculare, vi è il topos del raggiungimento, da parte di colui che lascia il mondo, di un luogo dalle caratteristiche completamente diverse. Esso si guadagna attraverso un processo di distacco, al contempo fisico e mentale, da quanto si è deciso di abbandonare (fama, onori, ricchezza, appagamento sessuale, piaceri del cibo), ed è quindi innanzitutto caratterizzato da un’assenza: è ciò che gli autori latini definiscono desertum, termine che contiene in sé tanto la nozione della carenza di qualcosa, quanto della libertà, dello scioglimento (de-serere) da questo qualcosa, rappresentato dalla vita anteriore da cui ci si è estraniati. Uno spazio nuovo e vuoto, quindi, che dovrà essere riempito con lo slancio spirituale di chi si avvia verso la nuova vita (Brown 1974: 74-88; Brown 1995b: 143-147; Alciati 2013: 819-820). L’opera di Giovanni Crisostomo (354-407) Contro i detrattori della vita monastica, scritta nella prima metà degli anni ’80 del iv secolo, illustra con chiarezza e in più circostanze la dicotomia fra l’ambiente urbano e l’appagante solitudine del deserto monastico, ricca di doni spirituali (Dattrino 1996: 22). Giovanni nota in particolare che non vi sarebbe bisogno di cercare un ‘altrove’ da parte del monaco, se le città da cui egli fugge fossero luoghi da cui potessero scomparire i mali derivanti dalla schiavitù dell’uomo nei confronti delle proprie debolezze, cosa che si riflette anche nelle regole che normano la vita sociale: Anch’io vorrei e frequentemente mi sono augurato che fosse eliminata la necessità dei monasteri: mi sono augurato che ottime leggi venissero in vigore nelle città, al punto che nessuno sentisse il bisogno di rifugiarsi nella solitudine. Ma poiché ormai tutto è stato travolto e le stesse città, dove pure esistono tribunali e leggi, sono piene di molte prevaricazioni e di ingiustizie, mentre invece la solitudine abbonda dei frutti che nascono dalla vera saggezza, ne segue che a buon diritto non dovrebbero essere incriminati 15

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Le città dei monaci da voi quanti si prodigano nel tirar fuori coloro che appunto intendono di essere liberati da quella turbinosa tempesta, per condurli nel porto della pace. I veri responsabili sono coloro che, rendendo ogni città impraticabile e avversa ad ogni vera saggezza, costringono quanti bramano salvarsi a cercare la solitudine3.

Crisostomo non è il primo a illustrare il concetto della antitesi fra vita cittadina e ascesi cristiana. Atanasio di Alessandria, nella biografia di Antonio scritta intorno al 3554, ricorda che il santo, volendo emulare l’esempio di altri che avevano già intrapreso il cammino della perfezione spirituale, cominciò anch’egli a soggiornare in luoghi che erano fuori città5.

iv

Rufino di Concordia, nel prologo delle sue Storie di Monaci, scritto alla fine del secolo (Trettel 1991: 19-25), ricorda analogamente che, fra i monaci egiziani, alcuni vivono nelle periferie delle città, altri in aperta campagna, la maggior parte (e forse i migliori) vivono da soli in un eremo6,

che si presenta tuttavia come una solitudine popolata da molti individui che hanno scelto un medesimo percorso di vita e che, quindi, si anima della comune condivisione di valori e comportamenti che caratterizzano i luoghi ove i gruppi di eremiti sono andati a stabilirsi. Il luogo deserto ove il monaco trova la propria sede è descritto spesso non solo come antitetico alla città, ma anche remoto e inaccessibile. Cassiano ricorda ad esempio, attraverso le parole dell’abate Abramo, che i monaci che abitavano nel deserto egiziano di Porfirione (a ovest del delta del Nilo) erano separati da tutte le città e dai villaggi abitati per una distanza di deserto più vasta del deserto di Scete, per cui, percorrendo in sette o otto giorni quella vastissima solitudine, a stento si raggiungono i recessi delle loro celle7.

Tuttavia, l’isolamento del monaco non necessariamente si realizza solo perché il luogo in cui egli si rifugia è collocato in posizione difficile da raggiungere, ma perché, ovunque esso si trovi, egli lo definisce e lo delimita come uno spazio precluso a chiunque. Un esempio riportato nella Storia di Monaci Siri o Storia Filotea, scritta da Teodoreto di Cirro fra il 443 e il 449 (Gallico 1995: 41-43), è in questo senso davvero molto eloquente. Parlando dell’eremita Linneo, che si era allontanato su un’altura «non troppo aspra né troppo scoscesa» prossima a un villaggio del territorio di Cirro, egli dice che qui è vissuto fino ad oggi senza una cella, né una tenda, né una capanna, ma circondato da un semplice recinto costruito con pietre e neppure tenuto assieme con fango. Ha una piccola porta sempre coperta con fango, che non apre mai agli altri che ven16

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‘Desiderosi di deserto’ gono; solo a me [scil. a Teodoreto, che era un chierico], quando giungo, permette di aprirla8.

In certo senso, ciò che il monaco costruisce intorno a sé è una sorta di pomerium, che ha la funzione di rendere visibile la diversità della dimensione entro cui egli ha scelto di vivere: un isolamento tangibile ed evidente e, al contempo, pur se fragile, invalicabile per gli altri proprio in ragione del distacco che egli, nello spirito, ha raggiunto rispetto alle cose del mondo. Naturalmente, in molti casi, ciò non impedisce al monaco di colloquiare con chi gli si avvicini per chiedergli consiglio e aiuto. Ma tale colloquio avviene spesso in modo indiretto (ad esempio il monaco non si mostra, ma la sua voce è udibile), oppure in momenti ben determinati ed eventualmente attraverso l’intermediazione di qualcuno che – come nel caso narrato da Teodoreto – all’eremita è particolarmente vicino. Il concetto della recinzione dello spazio entro cui il monaco (da solo o con altri) vive seclusus rispetto alle persone rimaste nel secolo avrà grande rilievo, come vedremo, nella caratterizzazione materiale degli insediamenti cenobitici. La scelta effettuata da Simeone lo Stilita, di cui pure Teodoreto parla diffusamente, di collocarsi in cima a una colonna, simboleggia in modo estremo l’isolamento del monaco proteso verso Dio e per questo irraggiungibile dagli altri uomini, anche se mai superbo e vanaglorioso nei loro confronti e comunque pronto a dialogare con loro9. Dei monaci, insomma, si doveva conoscere l’esistenza e poterne ammirare l’esempio, ma senza che questo portasse ad abbattere la distanza incolmabile esistente fra loro e il resto della società, costruitasi attraverso un lungo e complesso itinerario di prove e di sfide vinte nei confronti delle debolezze carnali e delle lusinghe mondane (Burrus 2011: 57). Naturalmente, la dipartita dal mondo e il distacco dal suo fragore non sempre riescono a essere una scelta definitiva e irrevocabile. Palladio porta in tal senso l’esempio di un certo Natanaele, il quale, dopo essersi allontanato dall’abitato per poter condurre vita solitaria, schernito dal demonio, credette di provare un senso di tedio per la sua prima cella; e quindi la lasciò e se ne costruì un’altra più vicina al villaggio. Orbene, terminata che egli ebbe la cella e incominciato ad abitarla, dopo tre o quattro mesi giunge di notte il demonio

invitando l’uomo a lasciare anche quella per trasferirsi in un’altra. A quel punto, egli, avendo compreso di essere stato schernito, se ne tornò nella prima cella. E per trentasette anni compiuti non ne oltrepassò la porta, seguitando a lottare contro il demonio10. 17

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L’episodio non solo è esemplare della difficoltà del perseverare nella scelta della separazione dal mondo, ma anche della necessità che, affinché essa sia assunta una volta per tutte, comporti la definizione di una soglia invalicabile tra il monaco e il mondo esterno. Questa esigenza è sviluppata al punto tale da impedire perfino al monaco di rientrare provvisoriamente ‘nella città’ per mostrare, attraverso il proprio comportamento, le qualità morali raggiunte attraverso l’ascesi. Esse dovevano rimanere un tesoro nascosto, di cui non ci si poteva in alcun modo gloriare11. Il deserto come luogo di una nuova cittadinanza La dipartita (anacoresi) del monaco dalla città non era solo considerata un atto di rifiuto verso ciò che ci si lasciava alle spalle, bensì soprattutto l’aprirsi di una nuova prospettiva di vita: quella della creazione di una dimensione ove si potesse dare un’altra possibilità a chi avesse voluto realizzare l’obiettivo di un’esistenza più giusta e conforme agli insegnamenti divini e, soprattutto, governata dal comune intendimento di abbandonare qualsiasi interesse per i beni terreni. Atanasio di Alessandria, parlando del luogo dove Antonio si era ritirato, seguito da altri che volevano imitarne l’esempio, afferma che le dimore degli anacoreti sui monti erano come tabernacoli pieni di cori divini: cantavano i salmi sperando nei beni futuri, compivano le opere di misericordia e praticavano il pudore e l’amore in armonia fra loro. Questo era veramente l’aspetto di quel luogo: come un paese solitario adatto al servizio di Dio e alla giustizia. Nessuno lì era trattato ingiustamente, né molestato da chi esigeva i tributi, ma c’era solo una moltitudine di persone che cercavano di vivere secondo Dio, ed in tutti c’era l’unico pensiero della virtù spirituale12.

Sempre Atanasio, in un altro, celebre passo della biografia di Antonio, afferma chiaramente che il mondo creato dalla santità di quest’ultimo e dal concorso di coloro che desideravano seguirne l’esempio costituiva una ‘città alternativa’ a quella degli uomini rimasti nel secolo: una città che, chiaramente, non piacque al maligno, che si sforzava di far fallire l’impegno del venerabile uomo: Ed il demonio non sopportando ciò, temendo che in poco tempo, con le pratiche ascetiche, avrebbe trasformato il deserto in una città, gli si appressò una notte con una moltitudine di demoni, e tanto lo percossero da lasciarlo senza sensi…13

La stessa similitudine è utilizzata da Palladio nella Storia Lausiaca a proposito del monaco-presbitero Elpidio di Cappadocia, il quale, ritiratosi a vivere nelle grotte presso Gerico, iniziò ad attrarre con il suo esempio una moltitudine di confratelli: 18

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‘Desiderosi di deserto’ Intorno a lui, come un re delle api in mezzo al suo piccolo reame, era venuta ad abitare la moltitudine dei confratelli (io stesso abitai con lui), e così egli trasformò la montagna in una città14.

Questo spazio ‘altro’, opposto alla città degli uomini e separato da essa, ma a sua volta scenario di una nuova e più giusta urbanitas, costituisce il solo ambiente dove il monaco può continuare ad essere veramente tale15. Avendo accettato di scendere dal suo eremitaggio per fare visita al governatore del territorio, Antonio, dopo aver brevemente conversato con i suoi interlocutori, si affrettava a tornare alla sua dimora. E alle parole dell’alto funzionario che lo pregava di trattenersi rispose con una sorta di parabola: I pesci vengono tolti dal mare. Se rimangono a lungo in secco, muoiono. Così gli eremiti, se restano tra di voi e rimangono a lungo con voi, si corrompono. Come i pesci si affrettano a ritornare in mare, così noi dobbiamo affrettarci a ritornare sul monte, per non dimenticare, indugiando, le cose che sono là dentro16.

La bramosia del ritorno al proprio spazio separato dal mondo degli uomini derivava dal fatto che esso rappresentava la dimensione che prefigurava il ritorno a Dio, alla città ultraterrena di cui il monaco si sentiva veramente abitante. Avvicinandosi la morte, Antonio appariva come se si avviasse da una città straniera verso la propria, parlava loro [cioè ai propri discepoli] pieno di gioia e di certezza e raccomandava di non cedere alle fatiche, di non scoraggiarsi negli esercizi spirituali, ma di vivere come se dovessero morire ogni giorno e, come ho già detto, di emulare i santi17.

Il topos dell’insofferenza del santo monaco verso l’ambiente inquieto e distraente della città, nella testimonianza di Cirillo di Scitopoli relativa al monaco Eutimio (figura di spicco del monachesimo palestinese della prima metà del v secolo), si spinge sino al rifiuto di recarvisi per incontrare l’imperatrice Eudocia. Narra Cirillo che la sovrana, avendo appreso che il grande Eutimio non sopportava di recarsi in città, si affrettò a far costruire una torre nel luogo più elevato di tutto il deserto orientale, ad una distanza di circa trenta stadi a sud della laura di Eutimio, desiderosa di godere là più frequentemente dei divini insegnamenti del santo18.

Che l’abbandono della città da parte del monaco, visto da chi vi rimaneva come la scelta di una vita sradicata ed errabonda, costituisse in realtà il trampolino ideale verso il raggiungimento della più stabile e serena dimora celeste lo dice con chiarezza anche Giovanni Crisostomo. Egli afferma che chi conduce la propria esistenza avvinto ai beni materiali, alla propria casa e al proprio letto è il vero fuggiasco, 19

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poiché si sottrae costantemente al confronto con l’inevitabile traguardo della morte. Al contrario, il monaco che sceglie il disprezzo di quei beni ha già conquistato il lasciapassare per il conseguimento della sua definitiva cittadinanza celeste19. Anche in ambiente siriaco, i profili biografici degli asceti di cui Teodoreto di Cirro racconta le gesta si aprono sempre con il percorso dell’abbandono di una vita urbana e dei beni e degli onori terreni che ne costituiscono quella che potremmo definire la cornice ambientale per affrontare la ricerca di luoghi isolati e remoti20. Ad esempio, Teodoreto racconta il ‘passaggio’ compiuto da Publio, cittadino di Zeugma che «discendeva da ceto senatoriale», il quale, pur se proveniente da una tale famiglia, si stabilì in una regione elevata, lontana dalla città non più di trenta stadi. Dopo aver costruito una piccola cella, vendette tutto ciò che aveva ricevuto dal padre, cioè casa, possedimenti, pascoli, vesti, arredi d’argento e di bronzo e qualunque altra cosa avesse oltre a ciò21.

La cittadinanza romana, secondo Teodoreto, cede quindi il passo a una nuova e più duratura appartenenza, che nega valore a ogni segno di distinzione sociale dell’individuo.

Il monachesimo comunitario come modello alternativo di urbanità: il cenobio e le sue leggi Durante la prima metà del iv secolo, la scelta di fuggire nel ‘deserto’ per incontrarvi Cristo dovette diventare, in alcune regioni dell’Oriente, un fenomeno capace di coinvolgere un numero di persone quantitativamente rilevante. I luoghi di eremitaggio scelti dai personaggi dotati di maggior carisma spirituale divennero presto ricercati da altri che speravano di poter emulare, con la vicinanza, le virtù spirituali di coloro che consideravano come i propri maestri. L’agglomerazione, nello stesso luogo, di più persone che condividevano il medesimo obiettivo esistenziale, generò rapidamente l’idea che la prossimità si potesse trasformare in una convivenza più strutturata. In altre parole, che si potesse costituire una vera e propria vita comune (koinÒj b…oj, in greco), preferibilmente sotto la guida di un ‘maestro’ al quale si riconoscevano virtù superiori e quindi la capacità di indicare, attraverso la definizione di precise norme comportamentali, come attuare nel modo migliore gli ideali e le speranze che avevano spinto all’adozione di scelte di vita così radicali. Questo tipo di declinazione della vita ascetica rappresentò anche una via affinché il mondo variegato e in qualche modo incontrollabile dell’eremitismo individuale e delle sue talora sconcertanti declinazioni esistenziali potesse essere ricon20

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dotto entro un alveo più definito e omogeneo (Kleinberg 2007: 156-165). Non a caso, l’idea di riunire dei monaci entro una comunità organizzata in modo prestabilito è frequentemente rappresentata dalle fonti come frutto di un’illuminazione divina che raggiunge un eremita, comandandogli di porre la sua esperienza e il suo carisma al servizio degli altri. L’Historia Lausiaca di Palladio racconta che, intorno alla metà del iv secolo, l’egiziano Pacomio fu visitato dall’apparizione di un angelo che gli disse: Tu hai raggiunto la perfezione: non c’è necessità che tu continui a rimanere seduto in solitudine nella tua grotta. Seguimi, va’ all’esterno e raduna i giovani monaci e vivi insieme a loro; e legifera per loro secondo le regole che ora io ti do22. Giovanni Cassiano era un uomo originario della Tracia che, alla fine del iv secolo, compì un lungo viaggio in Egitto à la recherche dei monaci più illustri che abitavano le solitudini dei deserti che si stendevano a est e a ovest del corso del Nilo e le isole emergenti fra i rami del delta del grande fiume. Alla fine del suo tour si trasferì in Provenza, dove si dedicò a raccogliere e riportare per iscritto, sotto forma di dialoghi, tutte le conversazioni avute con i personaggi incontrati nella sua permanenza in Oriente. L’abba Piamun, incontrato nelle paludi del delta del Nilo, si soffermò con lui a descrivergli quali fossero, a suo parere, le diverse tipologie di vita monastica che si potevano incontrare nella regione. Egli affermava che i monaci che vivevano in comunità, ossia i cenobiti, costituissero la più antica ‘specie’ di monaci, poiché discendevano da coloro che, già subito dopo la morte del Cristo, avevano saputo tenere viva la memoria dello stile di vita della primitiva comunità apostolica, abbandonando i loro beni individuali e mettendo in comune tutto ciò che possedevano23. Gli anacoreti avrebbero rappresentato – secondo Piamun – una ‘frangia’ di persone votate alla perfezione individuale, tra le quali si contavano certamente individui più dotati degli altri per forza d’animo e slancio mistico, ma anche molti personaggi ribelli e inquieti, incapaci quindi di sottoporsi alle prove di umiltà e alla disciplina che costituivano un connotato imprescindibile della vita comunitaria. Chiaramente, concludeva Piamun, l’elemento distintivo dell’esistenza del cenobita rispetto a quella dell’eremita consisteva proprio nel fatto che la sua vita è praticata secondo una Regola: Sebbene da parte di certuni siano normalmente e indifferentemente chiamati monasteri gli stessi cenobi, tuttavia esiste questa differenza: monastero è il nome che indica l’alloggio, quindi nulla più che il luogo, cioè l’abitazione dei monaci, mentre il cenobio indica il carattere e la disciplina di quella professione. Quindi il monastero potrebbe essere perfino l’abitazione di un solo monaco, il cenobio invece non può essere inteso se non dove si abbia una comunità tutta riunita di parecchi che abitano tutti insieme24.

La formazione d’insediamenti stabili entro cui si organizzano comunità di monaci, coordinate da un capo riconosciuto e dove per ciascun membro si stabiliscono precisi ruoli e funzioni, costituisce un’opportunità per incanalare il crescente 21

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Le città dei monaci

flusso di vocazioni alla vita monastica e rappresenta anche il momento in cui si definisce – da un punto di vista sia normativo sia materiale – lo spazio in cui queste persone vivono. Il cenobio, quindi, si configura come l’alternativa possibile alla polis per una convivenza associata, scevra dai disvalori e dagli stili di vita che caratterizzano il mondo di coloro che non hanno saputo rinunciare ai beni terreni. Un caso riportato nelle Storie di Monaci – opera scritta sul finire del iv secolo e attribuita, sebbene non concordemente, a Rufino di Concordia25 – mostra che, in linea di principio, poteva anche essere possibile riscattare la città degli uomini, rendendola simile al modello di vita comunitaria che i monaci realizzano associandosi nel comune progetto dell’ascesi. Ciò sarebbe potuto avvenire attraverso una vera e propria invasione della città da parte dei monaci sebbene essi, anche in un contesto di questo tipo, dovessero continuare a condurre un’esistenza appartata rispetto alle persone del secolo. Era questo il caso della città egiziana di Ossirinco, che pullula di monaci; e attorno ad essa – nelle vicinanze – ce ne sono moltissimi altri. Anche gli edifici pubblici (che una volta potevano essere dedicati a delle divinità), i templi dell’antico errore, erano diventati ormai abitazioni dei monaci. V’erano in quella città più monasteri che case private. La città – com’è noto – è grande, piena di gente; conta la bellezza di dodici chiese; lì si raduna la popolazione cristiana, mente i monaci se ne stanno nei loro romitori, dove pregano in edifici a ciò destinati. Ma i monaci sono dappertutto: se ne trovano accanto alle porte, nelle torrette di guardia: non c’è posto ove non vi sia un monaco. In ogni parte della città essi si trovano a salmodiare; giorno e notte essi elevano a Dio la loro voce e i loro inni. Si direbbe che, data questa presenza capillare di monaci, la città intera sia un’unica chiesa26.

Il modello rappresentato da Ossirinco, città ‘purificata’ dalla presenza dei monaci, testimonia dell’ambivalenza del rapporto esistente fra questi ultimi e l’ambiente urbano, dal quale rifuggire ma in cui, se possibile, rientrare per sradicarvi i cattivi costumi e ogni tipo di devianza religiosa. Le vicende biografiche della filosofa alessandrina Ipazia, vissuta tra la fine del iv e i primi decenni del v secolo, mostrano come gruppi di monaci invasati e fanatici potessero irrompere sulla scena cittadina – spesso con l’incoraggiamento delle stesse gerarchie ecclesiastiche – per colpirvi obiettivi ‘sensibili’, quale ad esempio il Serapeion, considerato la roccaforte della resistenza pagana alla definitiva cristianizzazione della città, ovvero per ridurre al silenzio la locale comunità ebraica27. Il problema doveva avere assunto una certa rilevanza in termini di ordine pubblico se, in una disposizione indirizzata nel 390 al prefetto del Pretorio per l’Oriente, Teodosio imponeva l’interdetto all’ingresso dei monaci nelle città, aggiungendo che essi dovevano rimanere confinati nei deserti e nelle ‘solitudini’ dove poteva opportunamente dispiegarsi la loro professio, intendendo con questo termine l’attuazione delle regole di una cittadinanza che non poteva sovrapporsi senza filtri a quella dei laici, ai cui bisogni spirituali avrebbe dovuto provvedere invece la Chiesa secolare (Zerbini 2005: 230-231)28. La norma fu parzialmente abrogata due anni 22

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‘Desiderosi di deserto’

dopo, ma le ragioni che l’avevano sollecitata non dovevano essere venute meno dato che, nel 459, sempre in Oriente, l’imperatore Leone i scriveva al prefetto del Pretorio per notificargli che era proibito ai monaci introdursi in edifici pubblici o comunque destinati al pubblico intrattenimento situati all’interno delle città, recando con sé croci e reliquie, evidentemente con l’intento di trasformare l’utilizzo profano di quei luoghi. È interessante il fatto che la disposizione imperiale faccia riferimento all’esigenza che siano indicati i vescovi come esclusivi interlocutori dei pubblici poteri per decidere dove e come collocare nelle città oggetti e simboli sacri, anche in considerazione del fatto che, come il testo sottolinea, non mancavano di certo chiese a sufficienza per garantire le esigenze del culto29. In sostanza, la legislazione tardoantica sembra prendere atto con piena consapevolezza del fatto che, se la Chiesa aveva optato in modo chiaro per una collaborazione con lo Stato, vi erano settori di essa, rappresentati soprattutto dal mondo monastico, che ritenevano ancora inattuata per buona parte la palingenesi cristiana della società del tempo. Questa componente integralista e militante della Chiesa si era polemicamente distaccata dalle sedi della vita associata, e in primo luogo dalle città, dandosi regole e stili di vita che riteneva più autenticamente aderenti alla parola di Cristo. Tuttavia, essa intendeva come proprio dovere influire sul mondo che aveva abbandonato, anche operando in esso azioni radicali e destabilizzanti che i pubblici poteri cercavano in tutti i modi di contrastare, chiamando il clero secolare a collaborare a tal fine. Peraltro, le fonti letterarie tardoantiche danno conto di diverse circostanze in cui gli stessi vescovi non si fecero scrupolo di avvalersi della collaborazione di monaci chiamati in città per perseguire l’abbattimento di propri avversari, magari sotto il pretesto che essi fossero sostenitori di posizioni eretiche, oppure semplicemente per contribuire all’eliminazione di resistenze alla piena e totale adesione al Cristianesimo di parte della popolazione (Lizzi 1987: 13-32; Brown 1995: 103-113). Fra ambienti monastici e gerarchia ecclesiastica, insomma, non vi era certo un fossato incolmabile, bensì numerose e articolate occasioni di interazione. Alcuni vescovi ritenevano che evocare i costumi di vita e le virtù dei monaci potesse conferire impulso all’opera di evangelizzazione delle città e quindi accrescere il controllo su di esse da parte dell’episcopato, nonché rafforzare il profilo morale del clero. Per questo motivo, durante il iv secolo, troviamo vescovi, come Atanasio ad Alessandria e Giovanni Crisostomo a Costantinopoli, che si fecero promotori e diffusori di biografie di santi monaci e altri, come Basilio a Cesarea di Cappadocia e, poco più tardi, Agostino a Ippona, che si impegnarono in prima persona per fondare comunità monastiche e scrissero testi pensati per fornire loro precisi riferimenti etici sul come condurre la vita ascetica e sul come organizzarsi per realizzarla praticamente (Scazzoso 1975: 286-294; Kannengieser 1998; Caner 2002: 158205; Sterk 2004: 13-34). Ad esempio, il già ricordato dossier biografico di Ipazia si conclude con la violenta eliminazione fisica della filosofa per mano di gruppi di monaci inurbati e uffi23

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Le città dei monaci

cialmente arruolati dal vescovo di Alessandria, Cirillo, nel corpo dei parabalani (cioè degli infermieri). La morte di Ipazia, peraltro, restò senza giustizia poiché, sebbene il governatore imperiale intendesse perseguirne gli autori, ne fu impedito dall’atteggiamento dell’imperatrice Pulcheria, sorella di Teodosio ii, la quale si diceva avesse essa stessa assunto posizioni religiose assai intransigenti e adottato uno stile di vita ascetico, a imitazione di quello dei monaci le cui azioni si sarebbero dovute punire. Ad Antiochia, nel 387, il vescovo Flaviano aveva invitato in città i monaci dei dintorni per ammonire gli inviati di Teodosio i, nonno di Pulcheria, a non punire la plebe cittadina che aveva abbattuto le statue imperiali per protestare contro la carestia. L’autorità guadagnata fermando le ritorsioni imperiali fece sì che essi, durante gli anni seguenti, con la complicità del governo imperiale, avessero mano libera per spadroneggiare in città e, più in generale, per agire contro i templi pagani della Siria. L’oratore antiocheno Libanio, un pagano, lesse in questa situazione una minaccia alla stessa sopravvivenza dell’ordine costituito e, maledicendo i monaci, li stigmatizzò descrivendoli come una tribù in abito nero, che mangia più degli elefanti […], dilaga per le campagne come un fiume in piena […] e saccheggiando i templi, saccheggia anche le proprietà30.

In effetti, per un uomo come Libanio – un individuo di città educato ai valori della cultura tradizionale – doveva apparire mostruoso che persone prive di istruzione, venute dalle campagne più remote e che probabilmente non sapevano neppure parlare il greco, potessero prendere possesso della scena politica e addirittura mediare i rapporti della città con il governo imperiale. Ma, come dice Peter Brown, «grazie al monachesimo, l’idea cristiana aveva allargato il suo campo d’azione nelle province orientali. Aveva accolto copti e siriaci come eroi della fede e, con l’aiuto di traduzioni, i vescovi delle città avevano incoraggiato i non greci a prendere un interesse vivo per i loro problemi teologici» (Brown 1974: 87). In altre parole, le ‘città dei monaci’ sorte nelle terre più marginali di quelle province avevano aiutato il Cristianesimo fiorito nelle città del sæculum a uscire dalle proprie mura e a propagarsi nel territorio. Tornando in ambito alessandrino, non si può dimenticare che era stato proprio un predecessore di Cirillo sulla sede episcopale della città (Atanasio) a redigere la biografia di Antonio e a propagarne il modello di asceta senza compromessi. In sostanza, se i monaci erano quelli che avevano abbandonato la città in polemica con la sua natura di luogo generatore di corruzione, il loro richiamo o la loro evocazione da parte dei vescovi poteva costituire, per questi ultimi, un modo per presentarsi come i campioni di una fede che sapeva rimanere autentica nonostante la prossimità con il potere, guadagnata dal tempo di Costantino in poi. Una fede che, nelle città, avrebbe quindi potuto parlare con autorevolezza ai poveri che, non per scelta ma per destino, vivevano come Cristo, da reietti ai margini della polis (Siniscalco 1983: 234; Brown 1995: 136). 24

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‘Desiderosi di deserto’

Se i monaci vedevano le città come il luogo da cui rifuggire o, eventualmente, da purificare radicalmente, è evidente che, specularmente, nel desertum monastico non poteva introdursi chi non avesse abbandonato, in modo netto e definitivo, il secolo e le sue abitudini. A maggior ragione, quando ci si trovi di fronte a una comunità di monaci che conducono un’esistenza comune secondo norme prestabilite, il luogo ove essi vivono non può essere violato da chi non ha compiuto la loro identica professio. Il principio dell’aderenza del monaco cenobita alla regola vigente nello spazio della comunità cui egli appartiene è precisato al punto da porre stretti limiti alla possibilità che, oltre ai laici, persino monaci di comunità differenti – e quindi soggetti a regole diverse – possano introdursi tra i confratelli del monastero in cui egli vive: Un ospite di un altro monastero che abbia un’altra regola non mangi e non beva assieme ai monaci e non entri nel monastero, a meno che non si trovi nel corso di un viaggio31.

Il medesimo concetto che associa l’appartenenza allo spazio distinto del monastero a una comunanza di costumi e a una condivisione di responsabilità è ripreso da Basilio di Cesarea che, alla fine del iv secolo, compila i testi normativi per i monasteri da lui fondati nell’Anatolia sud-orientale: Coloro che perseguono un fine identico trovano una quantità di vantaggi nel vivere insieme. In primo luogo, nessuno di noi può bastare a se stesso quanto ai bisogni materiali… Inoltre, tutti noi che siamo stati associati per vocazione entro un unico spazio, noi siamo un solo corpo che ha per testa il Cristo, e membra come siamo gli uni per gli altri, noi non entriamo nella costruzione d’un corpo unico nello Spirito Santo che attraverso la concordia… Il campo di battaglia, la via sicura verso il progresso, un esercizio continuo, la pratica assidua dei comandamenti del Signore, ecco cos’è anche una comunità di confratelli32.

Note 1 

ai, 2, 9. Il passo, secondo Y.M. Duval (2009), riecheggerebbe proprio posizioni del pensiero di Porfirio. 2 Un testo parzialmente recuperato all’interno dei rotoli di Qumran e parzialmente attraverso una tradizione manoscritta medievale (vedi Harrington 2004: 13-14). 3  ao, i, 7. 4  Mohrmann 1974: lxxvi. Il testo preso in considerazione è quello della vita latina di Antonio. 5  va, 3, 2-4. 6  hm, prologus. 7  conl, xxiv, 4. 8  hf, xxii, 3. 9  hf, xxvi.

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Le città dei monaci 10 

hl,

16, 2.

11 Chiarisce

ulteriormente il concetto della dicotomia interattiva fra spazio monastico e città Lorenzo Perrone, nella sua introduzione alle Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, quando dice: «Dalle profondità del deserto il beneficio della vita monastica ricade anche sulla città, in forza della sua stessa vocazione di solitudine e preghiera. Tuttavia, il monachesimo è attratto verso di essa anche in altri modi, al punto che talora l’orizzonte della città viene a sovrapporsi a quello del deserto, col rischio di smarrire le ragioni fondamentali della scelta eremitica e di introdurre in questo ambiente una dialettica che risente piuttosto del mondo da cui si è usciti» (Perrone 1990: 70). 12  va, 42, 2-4. 13  va, 8, 1. 14  hl, 48, 2. 15 Ricorda Rossi De Gasperis (1994: 248-269) che, nella testualità biblica, il topos del deserto è svolto soprattutto come rappresentazione dello stato di passaggio di Israele verso la conquista di una sede definitiva, centrata sulla edificazione di Gerusalemme, ispirata da Dio, luogo ove viene poi custodita la Sua legge. Il raggiungimento di luoghi ove edificare una nuova socialità, determinata dalla fuga mundi dei monaci alla ricerca di una piena attuazione della parola divina, non manca di riferimenti a questo concetto, che si materializzerà soprattutto – come vedremo più avanti – nella costruzione delle comunità cenobitiche. La fuga dalle città del secolo, immagini di Babilonia, non è insomma fine a se stessa, bensì mira alla costruzione di un percorso in direzione del ritorno a Gerusalemme. 16  va, 85, 3-4. 17  va, 89, 4. 18  ve, xxx. 19  ao, ii, 5. In alcune lettere indirizzate a monaci egizi nella metà del IV secolo, da parte di persone che chiedevano loro di pregare per la salvezza della propria anima, traspare la convinzione che le orazioni dei monaci sarebbero state più ascoltate dall’Onnipotente perché essi, avendo abbandonato i clamori e la vanagloria del mondo, avevano già conquistato la cittadinanza celeste (Tibiletti 1979: 120). 20  Sulle caratteristiche della figura dell’asceta nella letteratura cristiana siriaca si veda Griffith 1998. 21  hf, v, 1. 22  hl, 32, 1. 23  conl, xviii, 10. 24 Parere espresso a Giovanni Cassiano dall’abate egiziano Piamun, della comunità anacoretica della regione di Diolco, nel delta del Nilo (conl, xviii, 10). 25 Una parte della critica ritiene che si tratti della traduzione operata da Rufino su un testo anonimo originariamente scritto in greco (Fedalto 20052: 176). 26  hm, v. 27 Ronchey 2010: 31-51. Analoghi episodi di disordini cittadini fomentati da monaci sono ricordati, nel 387, anche nella metropoli siriaca di Antiochia (Barzanò 1996: 248, n. 57), città alla quale è indirizzato, nel 471, dall’imperatore Leone i, un analogo provvedimento d’interdetto d’ingresso ai monaci, considerati «pervertitori degli animi semplici del popolo con consigli che mirino alla sedizione ed al tumulto» (ci, 1, 3, 29). 28  cth, 16, 3, 1. 29  ci, 1, 3, 26. 30  lo, xxx, 9. 31  hl, 32, 5. 32  bgr, 6.

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Capitolo secondo Luoghi e funzioni nei primi monasteri orientali

Io non posso ricordarlo senza arrossire che gli anacoreti, sotto il pretesto dell’ospitalità e dell’accoglienza per gli stranieri, si sono messi a possedere nelle loro celle una coperta (Giovanni Cassiano, Conl., xix, 6)

Atmosfere, persone e spazi dei monasteri orientali raccontati dai contemporanei Visitando verso il 370 le inospitali lande della Tebaide egiziana, l’autore della Historia Monachorum (un occidentale identificato da molti studiosi con Rufino di Concordia), s’imbatté inaspettatamente nel monastero edificato dall’abate Isidoro. Alle severe sembianze dell’esterno faceva da pendant l’atmosfera di serena amenità dell’interno: un’oasi naturale, entro cui l’isolamento dei monaci dal mondo non era meno radicale rispetto a quello garantito dalle aspre rupi fra le quali si rifugiavano gli eremiti, ma dove era possibile contemplare ogni giorno i doni di Dio, accresciuti dal lavoro dei confratelli, e nutrire così con essi lo spirito e il corpo. Isidoro e i suoi monaci avevano ben scelto il loro angolo di deserto, per dimostrare che l’ascesi comunitaria poteva partorire un nuovo modello di societas umana, più giusta e in armonia con il creato e perciò più vicina a Dio. Il passo della Historia Monachorum che racconta la visita al monastero di Isidoro è forse la descrizione più precisa di un cenobio egiziano primitivo e vale la pena perciò leggerlo per intero: Nelle nostre successive scoperte, altro fortunato incontro: si era sempre nella Tebaide; il monastero che incontrammo – monastero celeberrimo – era quello del monaco Isidoro. In breve la descrizione: era attorniato da spazi molto ampi; lo rinserrava un muro di cinta. Si trattava di un monastero per uomini; a loro disposizione avevano discrete abitazioni. Dentro il recinto v’erano parecchi pozzi di buona acqua, giardini che potevano essere irrigati con poca fatica; c’erano piante di ogni specie; l’avresti detto un paradiso terrestre. Vi si trovava tutto quanto era necessario per la vita, a tutti gli usi, ed anche di più. Nessun monaco doveva avere delle ragioni per uscire fuori a cercare qualcosa che là mancasse; abbiamo detto che v’era di tutto. Un uomo, venerando di età, uno certo dei più degni, stava sempre alla porta a fare da guardiano. Il suo compito era quello di accogliere; ma si trattava di un’accoglienza tutta particolare: nessuno di quelli che vole27

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Le città dei monaci vano entrare poteva poi uscire; questa era la norma in vigore là. Se ad uno è parso bello entrare, sa che non ne uscirà mai più: legge inflessibile, norma inviolabile. Ma ciò che più suscita stupore è il fatto che coloro che vi son dentro non vi sono trattenuti da una legge inderogabile, ma dalla beatitudine che là entro si gode, e dalla perfezione cui si tende. Per la ragion detta, occorre aggiungere (per completezza) che il venerando custode poteva disporre lì presso l’uscio di una celletta ospitale, per accogliere gli avventizi, come potemmo fare ben presto esperienza. Non ci fu permesso entrare, com’è naturale, data la destinazione del monastero. Ma il vecchio ci raccontò quale fosse la beatitudine che là dentro si godeva. Ci raccontò: «Due soli uomini hanno la facoltà di entrare e uscire, per portar fuori i frutti del lavoro dei monaci, e per introdurre (quando del caso) ciò che là dentro non vi si trova. Tutti gli altri monaci se ne stanno in sacro silenzio, in tutta tranquillità, unicamente intenti alla preghiera, alle attività dello spirito, solamente preoccupati di crescere in santità»1.

Una rappresentazione simile è fornita da Cirillo di Scitopoli per il monastero costruito in Palestina poco oltre la metà del v secolo dal monaco Fido presso il luogo in cui era stato sepolto l’abba Eutimio: Fido prese dunque un ingegnere, una folla di operai e di materiali e scese alla laura. Edificò un cenobio, lo circondò di mura e lo fortificò. Dell’antica chiesa fece un refettorio, vi fabbricò sopra la nuova chiesa, costruì anche una torre altissima e bellissima e nello stesso tempo fece sì che la cappella funebre fosse situata nel mezzo del cenobio.

Il complesso monastico, oltre che cinto di mura, sfruttava un sito naturalmente in grado di garantire alla comunità che vi avrebbe abitato la necessaria separatezza, ma senza sottrarre agli occhi e al cuore dei monaci il dono della bellezza pura che Dio aveva profuso a piene mani: Cercherò di descrivere il luogo del cenobio, che è bello a vedersi a causa dell’eccellente livellamento del terreno, e propizio alla vita ascetica dei monaci per via del carattere ben temperato e moderato del clima. C’è dunque una piccolissima collina cinta a oriente e occidente da due minuscole vallette che vanno a congiungersi e si uniscono a mezzogiorno, Verso settentrione, un piano estremamente piacevole si spiega su circa tre stadi. A settentrione di questa piana, una forra cade a picco … È in questa pianura che s’innalza la torre e si erge la portineria del cenobio. Tutto questo luogo è improntato a dolcezza e assolutamente ammirabile poiché, come si è detto, gode di una temperatura media2.

La bellezza dei luoghi da sola però non basta. Perché i monaci possano davvero goderne, il sito in cui un monastero sorge deve poter produrre risorse sufficienti, affinché la vita della comunità non diventi impossibile. Sempre Cirillo, raccontando della laura fondata da Saba in Palestina nel terzo quarto del v secolo, ricorda che questi

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Luoghi e funzioni nei primi monasteri orientali vegliava a che [scil. i monaci] avessero all’interno tutto il necessario, perché non fossero obbligati, a causa delle loro esigenze, ad uscire verso il mondo coloro che volevano ritirarsi dai tumulti del secolo3.

Gli elementi di maggiore interesse che si evincono da questi testi sono rappresentati dall’evidente diversità ‘qualitativa’ dello spazio del cenobio rispetto ai luoghi in cui trovano rifugio gli eremiti. Quanto questi ultimi sono caratterizzati da condizioni ambientali di evidente e a volte quasi estrema durezza, contro le quali si misura la titanica e solitaria ascesa alla perfezione dell’atleta di Dio, tanto i cenobi spiccano per l’atmosfera quasi amena che vi si respira: qui si è sicuri di contare su risorse essenziali, come l’acqua, che permettono di creare spazi a giardino utilizzati anche come orti, in modo da garantire alla comunità l’autosufficienza alimentare; le abitazioni dei monaci, lungi dal configurarsi come spelonche o sepolcri o celle di minuscole dimensioni, sono definite discrete, sebbene non ne venga descritta l’organizzazione (se, ad esempio, fossero spazi collettivi o celle singole); infine, sono disponibili per tutti gli strumenti necessari per attendere alle attività quotidiane. Quest’ambiente rassicurante, sereno e funzionale è rigorosamente separato dal resto dello spazio circostante e, come abbiamo già visto parlando dei luoghi di ritiro degli eremiti, inaccessibile per chi non abbia compiuto l’irreversibile scelta dell’appartenenza o – potremmo dire – della cittadinanza alla comunità che abita questo eden dello spirito dal quale, come ricorda il passo di Cirillo di Scitopoli, sono bandite anche le infermità corporali e la morte giunge come un sereno e consapevole trapasso. Il confine fisico del muro di recinzione e lo snodo cruciale della soglia d’entrata – costantemente sorvegliata – costituiscono l’elemento indispensabile affinché gli equilibri interni non siano turbati dall’irruzione di elementi esterni e grazie al quale chi si trova entro le mura non abbia più ragione d’immischiarvisi. Per comprendere ancor meglio il senso dell’alterità dello spazio monastico rispetto all’esterno è interessante leggere un altro passo della già citata Vita di Eutimio in cui si narra di un uomo che, accolto nel monastero costruito sulla tomba dello stesso Eutimio, si era introdotto nottetempo nella cappella funeraria trafugando da essa «l’urna del padre taumaturgo». Servendosi di alcuni muli di proprietà dei monaci cercò di allontanarsi con la refurtiva, ma la mattina dopo fu trovato immobilizzato dal portinaio davanti alla porta del monastero. Richiesto dai monaci di spiegare quanto era successo, confessò: Ho camminato in lungo e in largo per circa trenta miglia e alla fine, totalmente affranto, non ho potuto varcare i confini del monastero4.

La legge di Dio, che governa il monastero, impedisce che un crimine giunga ad effetto, rendendo miracolosamente invalicabili i suoi confini per chi lo ha commesso, sino a che questi non compia piena ammenda per le proprie azioni. 29

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Le città dei monaci

La minuziosa descrizione dei confini dello spazio cenobitico occupa tutta la seconda parte del testo della Regola di Pacomio5. I limiti fra l’esterno e l’interno di esso sono costituiti al contempo da elementi fisici (muri, soglie, porte) e da barriere più immateriali che i monaci erigono fra sé e gli altri, ad esempio con il divieto di parlare con le persone del mondo esterno e perfino di guardarle o condividere con esse oggetti e cibo. Se un monaco, per qualche ragione, si fosse dovuto recare all’esterno del monastero, una volta rientrato fra le sue mura doveva assolutamente tacere con i confratelli su ciò che aveva visto. Quando i monaci erano obbligati a recarsi al di fuori del monastero per lavorare, dovevano incessantemente recitare fra sé passi delle Scritture, cosa che li aiutava a difendersi contro sguardi e parole lanciati da chi potesse incontrarsi all’esterno6. Naturalmente a nessuno era consentito andare nei campi o […] andare al di là delle mura del monastero senza aver prima richiesto – e ricevuto – il permesso del padre posto alla guida di esso7.

L’ingresso di un nuovo membro della comunità era scandito da un complesso succedersi di passaggi, atti a verificare l’adattabilità del soggetto alla nuova vita che intendeva intraprendere. Il primo gradino era costituito dall’attesa cui egli dovrà sottostare, rimanendo per un certo periodo «fuori della porta». In questo frattempo, egli dovrà apprendere il maggior numero possibile di preghiere e salmi; quindi, gli sarà chiesto che posto egli abbia occupato nel mondo esterno che si accinge a lasciare e, soprattutto, se egli sia disposto ad abbandonare beni materiali e legami familiari, questi ultimi considerati parimenti incompatibili con la vita monastica quanto lo è il desiderio di possesso delle ricchezze e degli onori terreni. Quindi, concluso l’esame sulla vita pregressa del candidato, lo si istruisce su quella che egli dovrà condurre nel monastero e sulle mansioni che sarà chiamato a espletare. Solo al compimento di questo iter, il candidato sarà sottoposto alla simbolica svestizione dai panni con cui era entrato nel cenobio, e all’abbigliamento con i nuovi abiti monastici8. In questo caso, si può dire, ‘l’abito fa il monaco’, nel senso che esso ricopre un corpo in cui alberga un’anima che si presume abbia già compiuto il passaggio da un mondo a un altro. È cruciale a questo proposito l’insistenza con cui la Regola si dilunga nella descrizione delle figure interne alla comunità cui è demandato il compito di agire come ‘filtri’ tra il mondo esterno e l’interno del monastero. Visitatori intenzionali o casuali, a meno che si tratti di chierici o altri monaci, sono destinati a rimanere in una parte dell’insediamento rigorosamente separata da quella frequentata dai monaci. Il portiere – la cui rilevanza era già apparsa nella descrizione del monastero di Isidoro – ha il compito di valutare non solo le persone, ma anche notizie (ad esempio se parenti dei monaci siano infermi o morti) e oggetti (ad esempio cibo spedito da parenti dei monaci) che giungono alla sua soglia e inoltrarli al capo della comunità, che valuterà come utilizzarli e procedere riguardo ad essi (De Vogüé 1975). 30

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Luoghi e funzioni nei primi monasteri orientali

Giovanni Cassiano afferma che l’accettazione nello spazio monastico rappresenta l’ingresso in un’accolita di eletti, che prima di altri godranno del premio della salvezza eterna: considera dunque che ormai fai parte dei pochi eletti ed evita di raffreddarti seguendo l’esempio della tiepidezza dei molti, ma vivi come i pochi, per meritarti di ritrovarti insieme ai pochi nel Regno9.

L’esigenza di un’organizzazione spaziale e, potremmo dire, ambientale della casa ove risiede la comunità, atta a garantire standard di vivibilità meno estremi rispetto a quelli dei rifugi eremitici, discende direttamente dalla necessità di permettere una convivenza agevole nel medesimo luogo tra molti individui e consentire lo svolgimento di attività produttive (artigianali e agricole), indispensabili alla sopravvivenza della comunità stessa. Il sostentamento materiale del monaco eremita (o di più monaci eremiti) in un determinato luogo è rappresentato in sede letteraria come frutto di un concorso di elementi dipendenti da una miscela di miracolosi interventi divini e di capacità del monaco di farsi bastare le risorse offerte dalla natura circostante e di svolgere in proprio attività lavorative, i cui prodotti vengono contraccambiati dal monaco stesso con il poco cibo necessario alla sua sopravvivenza. Di solito, si tratta di oggetti di semplice artigianato, come stuoie e cestini, la cui realizzazione riempie e accompagna il tempo delle lunghe giornate che l’eremita trascorre in solitudine. A volte possono comparire, sullo sfondo, atti di carità compiuti da soggetti che, motu proprio, si pongono il compito di assistere i monaci dal punto di vista alimentare. Nel caso di un insediamento di tipo cenobitico, ove vivano decine, se non centinaia di persone, questo problema può però essere risolto solo attraverso l’organizzazione di una solida base produttiva, il cui funzionamento è assicurato dagli stessi monaci e i cui frutti sono destinati alle necessità comunitarie e allo scambio con altri beni di prima necessità. Tutto ciò comporta che all’interno dello spazio monastico siano predisposti ambiti ove svolgere le attività destinate a garantire il raggiungimento di questi obiettivi (laboratori ed orti) e che, allo stesso tempo, nel corso della giornata siano previsti tempi, precisamente scanditi, dedicati al loro adempimento10. I testi normativi sull’organizzazione della vita comunitaria attribuiti a Pacomio (e che dovrebbero quindi datare a non oltre la metà del iv secolo) raccontano la struttura dello spazio cenobitico con accenti più tecnici rispetto a quelli che abbiamo potuto cogliere nel passo dello Pseudo-Rufino sul monastero di Isidoro, ma non se distanziano nella sostanza11. In essi, le riflessioni sulla dimensione separata dell’insediamento monastico rispetto al mondo circostante sono tradotte in precetti operativi, dai quali si trae la precisa consapevolezza della complessità materiale, organizzativa e dimensionale 31

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dei cenobi nati per volere dello stesso Pacomio o dei suoi principali collaboratori. Nel paragrafo 102 dei Præcepta, l’insediamento creato da Pacomio è definito come «monastero» nella traduzione latina realizzata da san Girolamo; il testo del medesimo passo, in lingua copta, usa però un termine traducibile in italiano come «villaggio» (Veilleux 1981: 189). Questa diversa ‘declinazione’ che le due lingue offrono sulla natura dell’insediamento creato da Pacomio ne illustra bene la natura ancipite: dal punto di vista dimensionale esso doveva veramente apparire comparabile a un villaggio; allo stesso tempo, però, era un luogo in cui si attuava una sorta di palingenesi degli insediamenti del secolo che i monaci avevano abbandonato, per abbracciare la loro nuova vita. E non è un caso che Pacomio utilizzi il termine koinwn…a per denominare la comunità dei monaci, termine con cui s’intende indicare non un generico insieme di persone, bensì un gruppo strutturato, unito da un patto di societas, i cui componenti compartecipano regole volte al bene comune: un’idea di vita religiosa associata, quindi, dal forte connotato per così dire civile, che sfida apertamente il modello della città secolare12. D’altra parte, il primo monastero fondato da Pacomio sorge all’interno del villaggio abbandonato di Tabennisi e lo rivendica in vita per il compimento di una nuova finalità13. Ritorna e si precisa quindi l’immagine del cenobio come ‘città rinnovata’, i cui abitanti replicano ruoli e mansioni della città secolare, ma senza riprodurne i vizi e le sperequazioni, e condividendo la comune responsabilità della coesistenza. Parlando dell’eremita Publio, il nobile cittadino di Zeugma già precedentemente ricordato che aveva abbandonato la città per ritirarsi «in una regione elevata a trenta stadi da essa», Teodoreto di Cirro narra che, essendo stato raggiunto da molte persone che volevano imitarlo nell’ascesi, su loro insistenza decise di trasformare questo gruppo in una vera e propria comunità e quindi, avendo radunato tutti, abbatté quelle piccole celle e fece una sola costruzione per coloro che si erano raccolti lì, e li pregò di vivere in comune e di esortarsi a vicenda … Diceva: «Prendendo così il necessario l’uno dall’altro, renderemo perfettissima la nostra virtù. Come nei mercati della città, uno è venditore di pane e uno di verdure; questo commercia in vestiti, quello produce calzature; cercando l’uno dall’altro ciò di cui si ha bisogno, si vive più agiatamente; quello che dà il mantello riceve in cambio i calzari; quello che compera le verdure vende il pane; allo stesso modo conviene che anche noi ci scambiamo vicendevolmente le preziose parti della virtù14.

Il testo della Regola di Pacomio e i capitoli ad essa aggiunti posteriormente, probabilmente scritti dal suo discepolo preferito Orsiesi, forniscono numerose indicazioni sulla presenza di strutture, ambienti e servizi necessari alla vita della comunità, presenti nel chiuso dell’area ad essa riservata: le celle individuali collocate all’interno di ‘case’ abitate da gruppi di monaci, il refettorio, le cucine con i locali annessi per la custodia dei cibi e la preparazione del pane, le stalle, i magazzini. Ma un elemento da mettere in particolare risalto è quello dell’assoluta centralità dello spazio destinato alla preghiera, che viene definito synaxis (sÚnaxij) e cioè 32

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«luogo della riunione»15. Anch’esso costituisce un luogo assolutamente privato ed è l’ultimo, in ordine di tempo, in cui una persona candidata a unirsi alla comunità può avere accesso, per congiungersi finalmente a tutti gli altri fratelli dopo aver superato tutte le prove ed essere stato abbigliato con la veste monastica, una volta dismessi i vestimenti con cui si era presentato alla porta del monastero. Fra coloro che provengono dal mondo esterno, solo chierici e monaci in visita possono essere ammessi a entrarvi. Questo aspetto è della massima importanza, poiché definisce una radicale differenziazione fra l’aula di preghiera esistente all’interno di un monastero e le chiese di altro tipo, aperte alla frequentazione dei fedeli. Cirillo di Scitopoli, raccontando della vita del monaco palestinese Saba, si sofferma con numerosi dettagli sulla struttura e i servizi necessari per organizzare nel modo più completo possibile la Grande Laura da lui fondata: il nostro nuovo Mosè [Cirillo si riferisce in questo modo a Saba] fece edificare ciò che mancava ancora alla sua illustre laura e ai santi monasteri che l’attorniano. Costruì dapprima un panificio e un’infermeria nella laura e, al di sopra, la grande chiesa della celebre Madre di Dio e sempre Vergine Maria, perché la Chiesa creata da Dio teneva troppo allo stretto la comunità che s’accresceva, e gli Armeni erano aumentati e si trovavano rinserrati nel piccolo oratorio. Tra le due chiese, fece un cortile centrale… fece anche scavare grandissime cisterne nella forra. [scil. Saba] fece passare allora gli Armeni dal piccolo oratorio alla chiesa creata da Dio, perché celebrassero la preghiera nella loro lingua16.

Il termine greco lavra o laura (laÚra) indica un tipo d’insediamento in cui i monaci trascorrevano in maniera comunitaria solo parte del loro tempo, ad esempio quando dovevano assistere ai servizi liturgici settimanali (Pincherle 1978: 227). La maggior parte della giornata era trascorsa in solitudine, nelle celle, pregando e lavorando. La laura era un luogo nel quale si poteva essere ammessi solo dopo aver stazionato per un certo periodo nei cenobi ‘satelliti’, avendo dimostrato doti spirituali sufficienti per poter affrontare la più dura ascesi che la parziale solitudine comportava17. Anche da questo passo si evince con chiarezza che lo spazio della preghiera, presente all’interno del complesso della laura, era riservato all’uso dei soli monaci. L’abate egizio Isacco di Scete precisava a Giovanni Cassiano che l’orazione è veramente efficace quando è rivolta nel segreto di un luogo chiuso e lontano da tutti i pensieri e le sollecitudini del mondo e quindi, possiamo aggiungere, anche dall’intromissione delle cure pastorali da prestare ai fedeli, alle quali avrebbe dovuto provvedere il clero secolare18. Parlando sempre con Cassiano, un altro abate egizio di nome Giovanni affermava che l’organizzazione del cenobio evitava al monaco di doversi occupare d’altro che dell’imitazione di Dio, sotto la guida dell’abate. Ciò anche perché la vita nel cenobio gli garantiva l’allontanamento dalla cura dei contatti con il mondo ester33

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no, cosa che invece, asseriva sempre Giovanni, finiva per intaccare la solitudine degli eremiti, costretti a gestire da soli sia il problema del proprio sostentamento quotidiano, sia quello dell’intrattenimento di quanti si recavano presso di loro per conversare19. Produzione, lavoro e scambi commerciali presso i monaci dell’Oriente tardoantico: una sfida etica e organizzativa La dimensione della vita cenobitica, quindi, permetteva – a patto che se ne rispettassero rigorosamente le regole – un perseguimento più integrale della vocazione monastica e, in particolare, della lode perpetua a Dio. Naturalmente – ed è questo un aspetto che si riproporrà sempre nella storia del monachesimo sia orientale sia occidentale – come e da chi dovessero essere sostenuti gli oneri necessari a organizzare la ‘vita perfetta’ di chi abitava in un cenobio è un problema che le considerazioni dell’abate Giovanni non affrontano né risolvono. La gestione economica dei monasteri nonché la realizzazione materiale e il mantenimento delle loro strutture costituivano problemi spinosi e di non facile risoluzione: essi determinavano la necessità di rapporti e contaminazioni con il mondo esterno e costituivano perciò un terreno di costanti possibili minacce nei confronti degli ideali di secessus e di abbandono dei beni materiali che la vita monastica implicava. Non era facile, infatti, mantenere sempre distinti i due ambiti quando la consistenza di una comunità monastica comportava la risoluzione quotidiana del problema della sua sopravvivenza o quando la fama della medesima la rendeva oggetto di attenzioni da parte della società circostante, con conseguente flusso di offerte di beni mobili e immobili. Il tema della sopravvivenza quotidiana di una comunità, e cioè dei suoi componenti e delle strutture del luogo in cui essa si era stabilita, s’intersecava strettamente con quello dell’impegno dei monaci in attività produttive. L’obiettivo ideale era ovviamente quello di poter raggiungere la totale autonomia (potremmo dire l’autarchia) rispetto al mondo esterno, organizzandosi in modo da procurarsi con il proprio lavoro tutto quanto fosse necessario per se stessi e per i propri confratelli senza dover ricorrere, anche in questo caso, a interazioni con l’esterno. Ma questa possibilità rimaneva relegata entro i confini dell’utopia, mentre la realtà imponeva che le comunità istituissero reti più o meno stabili di contatti con il mondo che le circondava, al fine di veicolare sul mercato i beni da esse prodotti, in cambio di quanto non fosse disponibile sul posto o che, per vari motivi, i monaci non fossero in grado di realizzare con le proprie forze e competenze. La coordinazione fra vita monastica, lavoro manuale e proiezione dei frutti di quest’ultimo sul mercato era questione assai complessa, sia sul piano concettuale sia, più prosaicamente, su quello eminentemente pratico. L’impegno del monaco 34

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nel lavoro manuale fu avvertito da subito come un aspetto essenziale affinché la vita ascetica potesse avere pieno compimento. Negli Apophthegmata Patrum Aegyptiorum, la celebre collezione di sentenze di monaci e monache egizi, risalente alla fine del iv secolo e rielaborata a più riprese nel corso della prima metà del v, si riporta un episodio che può ben essere scelto come paradigma del nesso quasi simbiotico stabilito sin dai primordi del monachesimo cristiano fra ascesi e lavoro manuale. A un anziano monaco che stava intrecciando una corda fu chiesto: «Che cosa bisogna fare per essere salvati?»; senza alzare lo sguardo dal suo lavoro, egli rispose, indicando l’attività che stava svolgendo: «Ecco, lo vedi!»20. Con le sue parole, l’uomo si riferiva evidentemente in primis all’atto in sé dignificante del ‘lavorare con le proprie mani’, apportatore di sereno equilibrio alla giornata del monaco in quanto in grado di allontanare lo spettro dell’accidia. Ma, molto probabilmente, egli faceva riferimento anche a un altro e non meno rilevante significato che il mondo monastico aveva attribuito all’attività lavorativa e alla produzione di beni che da essa poteva derivare, e cioè quello di fornire i mezzi per vivere a chi aveva deciso di sottrarsi al secolo e alle sue leggi i mezzi per permanere in tale scelta, senza dover ricorrere all’aiuto di nessuno, anche se offerto in spirito di carità. Per questi motivi, dunque, la pratica del lavoro manuale e la gestione dei suoi frutti costituiscono un ingrediente fondamentale affinché la vita monastica possa svolgersi in pienezza, armonia e concentrazione e, secondo il pensiero di molti autori di età tardoantica, pur richiedendo un impiego non indifferente di tempo ed energie, entrambe queste attività non sottraggono nulla alla qualità della vita monastica. In un passo della lettera inviata nel 411 al monaco Rustico di Tolosa, Girolamo raccomanda al suo interlocutore: Fai cesti con le canne o intreccia canestri con il vimini; zappa la terra e suddividi il tuo orto in piccoli riquadri uguali. E quando avrai piantato gli ortaggi e messo a dimora le piante, porta loro l’acqua con delle canalette […]. Innesta fusti infruttiferi con germogli, così che il tuo lavoro possa essere remunerato con i dolci pomi che ne otterrai. Costruisci anche alveari per le api, […] perché tu potrai apprendere da queste piccole creature come organizzare un monastero e come governare un regno. Intreccia corde per farne reti con cui catturare i pesci e copia libri. Che le tue mani possano guadagnarti il tuo vitto e la tua mente possa essere soddisfatta nella lettura, perché – come si recita nei Proverbi – «chiunque sia indolente è una preda dei desideri vani». Nei monasteri d’Egitto è regola che non venga ammesso nessuno che non sia disposto a lavorare e faticare, e ciò non solo per procurarsi il necessario per vivere, ma anche per la salvezza dell’anima, affinché essa non si perda in pericolose fantasie finendo, come Gerusalemme nelle sue prostituzioni, per allargare le gambe di fronte ad ogni passante21.

Pur rivolgendosi a un interlocutore occidentale, Girolamo si era pronunciato 35

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avendo in mente situazioni osservate in Oriente, che aveva potuto constatare di persona. La sua lettera, tuttavia, pur se caratterizzata da un tono decisamente apologetico, affronta in realtà problemi molto concreti, tra i quali emerge la centralità del tema dei rapporti fra condotta personale del monaco, organizzazione della sua comunità di appartenenza e della sua sussistenza e gestione delle risorse a tal fine necessarie. La questione rivestiva al contempo una valenza morale e pratica, nel senso che il lavoro garantiva sia la sopravvivenza, sia l’indipendenza di una comunità ascetica, sia infine teneva occupati i monaci nei momenti liberi dalla preghiera, evitando che nei loro cuori penetrasse l’accidia. Le parole di Girolamo, ma in effetti anche il breve passo degli Apophthegmata citato in precedenza, alludono però anche a un altro aspetto, strettamente legato alla produzione e al consumo di beni all’interno del monastero, e cioè quello della commercializzazione di articoli che, prodotti dai monaci, erano tuttavia destinati (interamente o in parte) a fruitori esterni. È evidente infatti che, per quanti se ne potessero consumare intra mœnia, soprattutto oggetti come cesti, canestri, corde e reti dovevano essere prodotti per un mercato esterno e quindi rappresentassero un piccolo surplus destinato a costituire merce di scambio per ottenere altri beni che i monaci per vari motivi non erano in grado di prodursi da soli. Il tema del lavoro e della produzione si lega quindi inestricabilmente con quello dello scambio e del commercio, aspetto che rappresenta senza dubbio un problema di natura più complessa, poiché la sua gestione imponeva ai monaci la sfida dei rapporti con l’esterno, per di più sottoposti a logiche di carattere mercantile (\ernic 2004). Infine, il coinvolgimento in attività agricole e artigianali comportava non solo che essi fossero a tal fine adeguatamente motivati e che il loro tempo fosse organizzato in modo razionale, ma prevedeva anche che all’interno del monastero vi fosse una altrettanto accorta organizzazione degli spazi in cui tali mansioni potessero essere svolte. Le parole di Girolamo rimandano perciò alla presenza di laboratori, orti e frutteti, magari accompagnati da aree in cui ricoverare animali da cortile. Basilio di Cesarea tratta tutte queste faccende al capitolo 38 della Grande Regola, nel terzo quarto del iv secolo. Similmente a quanto gli accade trattando altri argomenti, quale ad esempio quello del consumo del cibo, Basilio assume anche in questo caso un atteggiamento piuttosto pragmatico, affermando che l’opportunità di praticare all’interno di un monastero determinate attività piuttosto che altre dipende molto dal luogo in cui esso sorge e quindi dalla disponibilità delle risorse e dalle caratteristiche che esso offre. Tuttavia, egli ritiene che un criterio generale possa essere quello di 36

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Luoghi e funzioni nei primi monasteri orientali preferire quei mestieri che permettono di custodire la pace e la tranquillità della nostra vita, che non esigono traffici eccessivi per l’acquisto del materiale necessario, né troppa competizione per l’acquisto dei prodotti e che non favoriscono relazioni sconvenienti o dannose con uomini o con donne22.

Tra questi, egli accorda in primo luogo la sua preferenza a quelli legati alle attività agricole, perché sono i più autarchici, in quanto producono ciò che è assolutamente indispensabile alla vita della comunità; ma Basilio menziona anche diverse attività artigianali, quali la tessitura, la calzoleria, la muratura, la falegnameria e la lavorazione dei metalli. Esse sono espletate evidentemente innanzitutto in rapporto alle necessità interne del monastero, ma non è esclusa la loro proiezione verso l’esterno purché i monaci si dedichino a produzioni di beni di prima necessità e, al fine d’incrementare le vendite, non s’ingegnino ad assecondare i desideri delle mode e del mercato, cosa che evidentemente tradirebbe la loro filosofia di vita. Altrettanto, nell’organizzazione e nella conduzione di tutte le attività manuali da svolgersi all’interno del monastero, Basilio raccomanda (nello stesso capitolo della Grande Regola citato in precedenza) che esse «non procurino confusione e disordine, né da parte dei vicini, né da parte di quanti abitano nella stessa casa», intendendo ovviamente con questo termine il monastero medesimo. Quest’ultima notazione mi sembra del massimo interesse, poiché riterrei di poterla interpretare anche come un’allusione ai criteri secondo cui predisporre la dislocazione degli spazi destinati allo svolgimento di tali attività. Appare abbastanza intuitivo che la dislocazione di questi ultimi all’interno del perimetro monastico dovesse essere attuata in modo da tale da non interferire con quelli che ospitavano altre funzioni, in primo luogo quella della preghiera. L’accenno ai «vicini» del monastero, inoltre, potrebbe tanto alludere al fatto che costoro potessero annoverarsi fra gli acquirenti dei prodotti monastici, quanto alla possibilità che nel ‘vicinato’ del monastero venissero reclutati dei collaboratori esterni ai lavori che si svolgevano nei laboratori e nei terreni di pertinenza dei monaci, senza contare l’apporto delle maestranze necessarie al processo edificatorio vero e proprio degli insediamenti. L’impostazione prevista da Basilio trova alcune corrispondenze in ambiente egizio e specificamente nei testi attribuiti a Pacomio e al suo discepolo Orsiesi, databili più o meno un trentennio prima di quelli basiliani. Benché sia difficile dare credito assoluto alle cifre riportate dalle fonti che parlano di una comunità composta da diverse migliaia di monaci, tuttavia è credibile immaginare che il monastero di Tabennisi, insieme agli altri fondati nei dintorni da Pacomio e Orsiesi, costituisse una realtà piuttosto popolosa. Gli scritti attribuiti al fondatore e al suo discepolo riferiscono sovente del quotidiano impegno lavorativo dei monaci, ma ci parlano esplicitamente solo di due attività: quella relativa alla lavorazione delle fibre vegetali per la produzione di stuoie e quella del lavoro nei campi – posti all’esterno del monastero – e in orti e 37

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frutteti – collocati invece all’interno del suo perimetro. Se è molto probabile che, data la presunta dimensione delle comunità, la produzione agricola fosse per buona parte diretta a soddisfarne i bisogni alimentari, quella delle stuoie doveva invece essere soprattutto indirizzata al mercato esterno. Apparentemente, questa lavorazione non avveniva in veri e propri laboratori, bensì all’interno delle stesse ‘case’ entro cui i monaci, divisi in gruppi, risiedevano. La Historia Lausiaca di Palladio propone invece un quadro assai più complesso e, in definitiva, più attendibile riguardo alle attività produttive che si svolgevano all’interno della costellazione di monasteri fondati da Pacomio nell’area del Medio Nilo. Essa, come abbiamo già visto, risale alla fine del iv secolo e ritrae quindi la situazione organizzativa dei monasteri pacomiani un paio di generazioni dopo la morte del loro fondatore. Secondo questa fonte, nel monastero di Panopoli avrebbero vissuto a quel tempo trecento monaci, fra i quali si contavano diversi artigiani. In particolare, egli menziona l’esistenza di «quindici sarti, sette fabbri, quattro carpentieri, dodici cammellieri e quindici gualcherai»23. Mettendo per un attimo da parte i cammellieri, su cui tornerò fra un momento, le persone in grado di gestire un’attività tecnico-artigianale specializzata erano in tutto quarantuno, e cioè circa il 15% della popolazione complessiva che avrebbe composto la comunità del monastero di Panopoli. In realtà, il numero degli artigiani doveva essere più ampio, poiché poco dopo Palladio cita anche la presenza di falegnami, conciatori, calzolai, calligrafi e artigiani intenti a fabbricare canestri e panieri in fibre vegetali. Inoltre, nello stesso paragrafo, egli riferisce che vi erano monaci impegnati in lavori agricoli e di giardinaggio e nella panificazione24. Ma non basta: egli ricorda anche che, all’interno del monastero, si svolgeva un intenso allevamento di suini. Lo scopo di tale attività era sia di l’utilizzo di questi animali per l’eliminazione dei rifiuti alimentari, come pure la vendita delle loro carni sul mercato (prevalentemente quello locale e quello costituito dalle tribù nomadi dei Blemmi), e infine un modesto consumo interno, limitato alle parti meno pregiate degli animali, come le loro estremità, destinate soprattutto ai monaci vecchi e a quelli malati. La macellazione delle bestie era compito dei monaci i quali, oltre a dedicarsi alla panificazione, erano impegnati anche in altre attività di elaborazione di prodotti alimentari, come la preparazione di verdure in conserva, di formaggi bovini e il trattamento delle olive da tavola25. Parlando degli artigiani e del loro lavoro, Palladio ci fornisce anche un’altra preziosa indicazione, quando afferma che, «con quanto loro resta, mantengono i monasteri femminili e le prigioni». Questa notazione evidentemente rimanda al fatto che almeno parte dei prodotti realizzati dagli artigiani monastici – ma forse anche di quelli provenienti dal lavoro dei contadini – doveva essere indirizzata altrove, e cioè al mercato, similmente a quanto avveniva per la maggior parte di quanto si otteneva dalla macellazione dei suini. Forse si trattava anche di prodotti di una certa ricercatezza, la cui vendita doveva risultare remunerativa non solo in rapporto alle quantità, ma anche alla qualità 38

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di ciascuno di essi, se pensiamo ad esempio a quelli che dovevano essere i frutti del lavoro dei calligrafi. In ogni caso, è evidente che, se la produzione di stuoie e canestri poteva anche svolgersi negli spazi residenziali dei monasteri, quelle a più forte specializzazione e che richiedevano quindi attrezzature specifiche (come ad esempio la lavorazione dei metalli e la concia delle pelli) dovevano per forza essere sistemate in ambienti ad hoc e preferibilmente a una certa distanza dai luoghi in cui i monaci pregavano, dormivano e mangiavano. Un altro aspetto rilevante dell’organizzazione dei monasteri pacomiani, che si può leggere in filigrana nelle parole di Palladio, emerge dalle informazioni che egli fornisce in merito alla cospicua produzione agricola e zootecnica che ad essi faceva capo. Questa infatti doveva basarsi su una disponibilità significativa di beni fondiari, con un’organizzazione produttiva interna che certamente doveva coinvolgere innanzitutto le forze interne alle comunità, ma che non possiamo escludere si potesse anche avvalere di sistemi più imprenditoriali, simili ad esempio a quelli noti per lo stesso Egitto attraverso le informazioni fornite da archivi come quello degli Apioni. D’altra parte, proprio un documento proveniente da questo archivio, sebbene risalente a un’epoca più tarda, parla di invii di grano a monasteri del territorio di Ossirinco da parte dell’amministrazione di questa famiglia (Mazza 2001). Evidentemente, scambi di questo tipo presupponevano la capacità dei monasteri di fornire altri beni in cambio e, quindi, di essere in grado di inserirsi in modo adeguato all’interno delle dinamiche dei mercati locali, movimentando a tal fine beni e persone. In proposito, è evidente che il riferimento alla presenza di cammellieri presso il monastero di Panopoli, fornito da Palladio, e i riferimenti a barche e barcaioli al servizio di quello di Tabennisi riportati nei testi normativi di Pacomio e Orsiesi rimandano al fatto che i monasteri avessero cose da trasportare da e per il mondo che li circondava. Sempre Palladio ricorda ad esempio che il suo migliore amico all’interno della comunità di Tabennisi era un certo Aftonio, che vi era divenuto il secondo dell’abate, il quale essendo immune da ogni macchia, viene inviato ad Alessandria per vendere i prodotti dei monaci e comprare ciò di cui hanno bisogno26.

Forse a Basilio di Cesarea non sarebbe piaciuto troppo l’evidente spirito imprenditoriale manifestato da questi monasteri egizi, ma tuttavia appare chiaro lo sforzo di far condurre le attività commerciali, che si espandevano anche a raggio piuttosto ampio, da parte di persone ritenute in grado di svolgere il proprio compito con decoro e circospezione. D’altra parte, un conto era l’impegno per trovare le risorse atte a garantire un’adeguata gestione dei monasteri, altra cosa era (o comunque sarebbe dovuta essere) la ricaduta che la disponibilità di tali risorse avrebbe dovuto avere sullo stile di vita dei monaci.

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Sacri ruderi: i resti materiali dei monasteri dell’Oriente tardoantico, i loro spazi e le loro funzioni

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Sebbene dettagliati ed evocativi, i racconti delle fonti letterarie sono comunque il frutto di visioni soggettive. Soprattutto su un tema così fortemente influenzato da motivazioni di carattere ideologico come quello della definizione dei profili agiografici dei santi monaci, è possibile che determinati aspetti relativi ai luoghi e agli ambienti in cui essi vivevano siano stati adattati a beneficio dell’identità del personaggio che s’intendeva trattare. Per queste ragioni è importante un riscontro con i resti materiali dei numerosi insediamenti monastici di questo periodo indagati dagli archeologi, sopravvissuti fra Egitto, Siria e Palestina. In generale, ciò che è giunto sino a noi difficilmente rispecchia la primissima fase dell’espansione monastica, avvenuta durante il iv secolo. Tuttavia, non è infrequente che in molti siti sopravvivano elementi che consentono di comprendere la loro articolazione planimetrica e funzionale durante il v e il vi secolo. In effetti, il raffronto tra le indicazioni fornite dalle fonti scritte e la lettura dei resti materiali propone un quadro in cui le somiglianze sono maggiori delle differenze. Una delle aree che conserva tracce di maggiore antichità è quella che ospitò la comunità dei Kellia, a sud-ovest di Alessandria, ai margini della regione del Delta del Nilo. Questa immensa area archeologica, purtroppo in gran parte distrutta dall’avanzamento delle aree coltivate sulla riva sinistra del corso del fiume, costituisce parte di una vera e propria ‘regione monastica’. I primi monaci vi si stabilirono come eremiti, già durante la prima metà del iv secolo, andando a occupare al seguito dell’abba Ammone le terre della Nitria, abbastanza prossime al corso del Nilo. Successivamente, tra la fine dello stesso secolo e gli inizi del v, i monaci iniziarono a colonizzare un’area posta circa una ventina di chilometri più a sud, al confine fra steppa e deserto, che costituì il cuore dell’area dei Kellia. Quest’ultima divenne infine una tappa intermedia lungo un cammino che conduceva sino al cuore del deserto, nella valle del Wadi Natroun, quaranta chilometri ancora più a sud, dove si formò un’area di eremitaggi rupestri ancora più isolati, detta Scetè, dove ancora oggi sopravvivono alcuni importanti cenobi copti. L’area dei Kellia si sviluppò soprattutto fra vi e vii secolo, quando l’originaria organizzazione eremitica si trasformò progressivamente in una lavra. Il nome Kellia allude al fatto che l’insediamento era composto da decine e decine di piccoli eremitaggi autonomi, sorti l’uno accanto all’altro nell’assolata pianura stepposa. La cellula-base dell’insediamento, che ne costituisce presumibilmente la più antica tipologia architettonica, confacente a uno stile di vita sostanzialmente eremitico, è rappresentata da una struttura destinata a ospitare un monaco di solito assistito da un novizio. A partire dal pieno v secolo, si assiste però al sorgere di agglomerati più articolati che sembrano rappresentare un’evoluzione verso l’affermarsi di forme di vita comunitaria, adottate almeno da una parte dei monaci che vivevano in questa zona (Aravecchia 2001). 40

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In ogni caso, sia la cellula più semplicemente articolata, sia i complessi strutturati in maniera tale da ospitare al loro interno gruppi più numerosi rispondono ad alcuni criteri architettonici di base che rimangono costanti: il muro di recinzione che impedisce la visione dell’interno da chi si trovi al di fuori e viceversa; la corte su cui si aprono gli ambienti coperti; la suddivisione di questi ultimi in spazi per il riposo e la preghiera; una latrina collocata nel punto più lontano della corte rispetto agli ambienti dove il monaco e il suo collaboratore trascorrono la notte. Uno dei pochi ‘eremitaggi multipli’ presenti nell’area dei Kellia (il n. 39-40 del sito di Qouçour el Izelia) integralmente indagati, da collocarsi nel suo assetto definitivo tra la fine del vi e gli inizi del vii secolo, mostra alcune caratteristiche interessanti (Kellia 1989: 47-55). Avvicinandoci al complesso, ci saremmo trovati di fronte a una cinta di mura costruita in mattoni crudi e seccati al sole, delimitante un’area interna a pianta rettangolare, di circa 34 × 40 metri di lato. Varcato l’unico ingresso, si entrava in una corte quadrata e scoperta, su un lato della quale si trovava un pozzo con un lavatoio. Superata un’altra porta si accedeva a una corte più interna, sui lati della quale erano disposti gli ingressi ad alcune delle celle ed a spazi in cui erano ospitati diversi servizi (cucine, forni e un altro pozzo) necessari a garantire la produzione di beni alimentari di prima necessità, forse destinati ad un’utenza più vasta di coloro che abitavano stabilmente il complesso, da valutare in non più di una dozzina di persone. Accanto alla porta d’accesso alla corte interna era situata inoltre una stanza che doveva avere funzione di portineria. La chiesa non era immediatamente accessibile dalla corte, ma la separavano da essa due ambienti: uno con funzione di portico e l’altro di vestibolo, quest’ultimo affiancato dall’alloggio del monaco guardiano. La chiesa, quindi, era collocata nel punto più recondito del complesso. Il suo spazio era utilizzato per la preghiera, ma la navata fungeva anche da area per la consumazione dei pasti comuni, poiché sia il momento dell’orazione sia quello della refezione erano considerati come i momenti di massima espressione della vita comunitaria. Vi era anche un accesso secondario al complesso, posto nell’angolo nord-est del recinto, che dall’esterno immetteva in un’altra piccola corte dalla quale, poi, si potevano raggiungere i quartieri abitativi. La presenza della recinzione o comunque di elementi naturali atti a isolare l’insediamento monastico dall’esterno e la posizione appartata della chiesa rispetto all’ingresso costituiscono una costante della conformazione dei primi insediamenti cenobitici del Mediterraneo orientale, come accade ad esempio nei casi del grande monastero fiorito sul Monte Nebo, in Giordania, fra vi e viii secolo, e in quello siriano di Deir Turmanin, eretto tra la fine del v e l’inizio del vi secolo, la cui chiesa – circondata dagli edifici residenziali della comunità – si trova nel lato opposto dell’insediamento rispetto a quello riservato all’accoglienza dei visitatori (Tchalenko 1953: 176-177; Peña 1996: 108-116; Piccirillo 1998: 200-205; Piccirillo 2002: 81-106; Hamarneh 2003: 200-2008).

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Nel monastero di Apa Geremia a Saqqarah, in Egitto, la chiesa è letteralmente circoscritta dagli altri edifici, così come in quello di Euthymius. In quello di Bir-elQutt, in area palestinese, essa non solo è disposta tra le altre fabbriche, ma anche priva di un accesso frontale (Corbo 1958; Meimaris 1990; McKenzie 2007: 306312). Il medesimo posizionamento appartato della chiesa, la sua accessibilità attraverso percorsi diversi da quello dell’accesso frontale e mediati dal passaggio entro altri edifici, si riscontra quasi sempre nei complessi monastici di ambito egiziano (oltre ai già citati monasteri di San Bishoi e dei Siriani: i casi del monastero di Sant’Antonio, nel deserto arabico, e del monastero di San Simeone ad Assuan), anche se lo stato attuale degli edifici risale a ricostruzioni databili fra viii e x secolo. In ogni caso, considerando che tale schema organizzativo trova già riscontri di età tardoantica, questi esempi possono quanto meno essere considerati come prosecuzione di un’attitudine tradizionale rispetto alla fruibilità della chiesa, non rivolta a un pubblico esterno alla comunità (Capuani, Meinardus, Rutschowscaya 1999). Come si diceva, nei monasteri orientali d’età tardoantica l’ingresso appare spesso come una struttura complessa, nel senso che può essere caratterizzato dalla presenza di edifici monumentali, nonché dall’attiguità di ambienti destinati a ospitare il guardiano e gli eventuali visitatori. Così accade nel monastero palestinese di Martyrios, dove non solo l’entrata è presidiata dalla cella del portinaio, ma accanto a essa è edificato anche un intero quartiere destinato all’accoglienza dei visitatori, collocato però in una posizione nettamente distinta ed esterna rispetto al recinto murario che racchiude l’area destinata all’insediamento dei monaci (Hirschfeld 1992: 39-42). Anche nel complesso di Khirbet ed Deir, nel deserto palestinese, l’ingresso è custodito da un edificio posto a cavallo del recinto murario (Hirschfeld 1992: 171). In numerosi monasteri egiziani tale edificio assume l’aspetto di una torre. È il caso, ad esempio, di siti come quello dei monasteri di San Bishoi e di quello dei Siriani, nell’area della Scetè, di fondazione tardoantica, ma le cui fasi costruttive si estendono sino al x-xi secolo, obbligando quindi a valutarne con prudenza le modalità di sviluppo architettonico (Capuani, Meinardus, Rutschowscaya 1999: 67-77). Altro elemento che trova una precisa corrispondenza con quanto narrano le fonti è costituito dalla presenza di uno o più edifici turriti (oltre a quello che talora troviamo presso l’ingresso), variamente dislocati all’interno dell’area del recinto monastico. L’interpretazione funzionale di queste strutture è dibattuta, come pure lo è la loro datazione archeologica, e, come si è potuto vedere da alcuni accenni presenti nelle fonti scritte, esse potevano essere utilizzate sia come spazi per l’alloggio della comunità, sia come residenza per il suo capo, sia come luogo d’isolamento eremitico27. Quanto agli altri edifici, è spesso attestata la presenza di un ambiente adibito a refettorio, mentre gli alloggi dei monaci possono essere tanto costituiti da ambien42

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ti comunitari, e cioè veri e propri dormitori, quanto da raggruppamenti di celle individuali. L’obiettivo dell’autosufficienza della comunità rispetto all’esterno si rispecchia nella presenza di strutture per la preparazione dei pasti, per lo stoccaggio delle provviste e, in alcuni casi, di spazi destinati a orto e frutteto. Purtroppo, gli scavi archeologici offrono minori informazioni sulla conformazione dei settori dedicati alle attività artigianali, intendendo in tal senso non tanto quelle destinate alla lavorazione dei prodotti agricoli necessari al sostentamento della comunità, quanto i luoghi in cui si potevano svolgere lavorazioni destinate a produrre manufatti attraverso la cui vendita i monaci potevano trarre risorse per autofinanziarsi. Nel monastero di Martirio, presso Gerusalemme, è ad esempio evidente la netta separazione fisica che, seppur all’interno di un complesso di dimensioni abbastanza ridotte, fu attuata fra la zona residenziale e quella di servizio, ove trovavano posto stalle e magazzini (Magen, Talgam 1990; Magen 1993). Per quanto possibile, anche in insediamenti di piccole dimensioni, i casi orientali meglio indagati archeologicamente mostrano in genere una netta e del resto sensata separazione fra il plesso costituito dall’area residenziale e dalla chiesa e l’area in cui sono dislocati i locali deputati ad accogliere magazzini, torchi, stalle ed eventualmente anche piccoli atélier artigianali (Hamarneh 2003). Ma le soluzioni potevano anche essere di altro tipo. Nel monastero giordano del Monte Nebo, che peraltro probabilmente funzionava più come una lavra che come un cenobio vero e proprio, è stata ipotizzata una netta separazione fra l’area claustrale e le aree produttive che, a parte alcuni piccoli impianti per la produzione del vino e del pane, si è ritenuto dovessero trovarsi distaccate e localizzate soprattutto presso un villaggio dei dintorni (Piccirillo 1988). Gli insediamenti pacomiani non sono noti archeologicamente e pertanto non sono possibili raffronti diretti con le fonti scritte. Uno dei pochi siti ad essi paragonabili, per dimensioni e articolazione, può essere forse quello del grande monastero di San Geremia, a Saqqarah. Esso fu scavato agli inizi del xx secolo e quindi la sua lettura presenta qualche margine di incertezza. Tuttavia appare abbastanza chiara la netta distinzione fra il settore residenziale, che occupa il lato ovest del complesso, e quello destinato allo stoccaggio delle derrate, che si trovava nell’area più settentrionale, al di là del refettorio e, come è perfettamente logico, direttamente di fronte alle cucine. Un impianto oleario, infine, è stato rinvenuto a qualche decina di metri di distanza da questa zona, in direzione nord-est, ed è possibile immaginare che esso potesse far parte di un settore produttivo più vasto, comprendente la sede anche di altre attività (Quibell, Thompson 1912; Grossmann, Severin 1982). Un altro elemento spaziale che merita una specifica considerazione è quello rappresentato dalle aree aperte presenti all’interno dei recinti monastici. Il più delle volte – ma ci sono ovviamente delle eccezioni – sembra che esse non siano strutturate in modo architettonicamente definito, ma si presentino piuttosto come sem43

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plici spazi di risulta che agiscono come snodi d’intercomunicazione fra le costruzioni. Da un punto di vista funzionale, esse sembrano dividersi in due categorie, non sempre necessariamente compresenti nel medesimo insediamento: quelle direttamente connesse agli accessi ai complessi monastici e quelle ricavate nelle zone più interne e intime, eventualmente a loro volta collegate ad aree destinate ad attività di tipo agrario. Frequentemente, anche se non sempre, lo spazio aperto più interno è anche quello attraverso cui avviene l’accesso alla chiesa. In ogni caso, ambedue le tipologie sembrano rispondere a precisi riferimenti che è possibile cogliere nell’ambito delle fonti e cioè, da un lato, l’esigenza di gestire e filtrare il rapporto fra l’esterno e l’interno del recinto monastico e, dall’altro, la necessità di garantire il più possibile la riservatezza delle aree ad uso della comunità. La presenza dei diversi elementi funzionali archeologicamente riscontrabili all’interno degli insediamenti monastici orientali tardoantichi e la loro corrispondenza con quanto prescritto da testi normativi, riportato da descrizioni di visite compiute presso di essi o contenuto nelle biografie di santi monaci, non approda alla definizione di un modello architettonico rigidamente standardizzato (Brenk 2000; 2000b; 2004; 2008). Ogni insediamento, in effetti, rappresenta un caso a sé quanto alla disposizione degli edifici, alla loro reciproca connessione e alla loro qualità architettonica. Non è quindi possibile riscontrare l’applicazione di concetti formulati a priori né, tanto meno, una loro irradiazione a partire da un’area dominante verso altre. Tuttavia, è fuor di dubbio che esistano elementi di affinità tra i diversi insediamenti, e ciò si evidenzia nella misura in cui alcuni princìpi ispiratori del senso e delle finalità della vita monastica sono stati evidentemente oggetto di condivisione nelle regioni che, a partire dall’Egitto, hanno conosciuto via via il fiorire della vita ascetica e soprattutto di quella in vario modo associata entro comunità stabili. In questo senso, la concezione dello spazio monastico come luogo ‘altro’, rivendicato a una funzione di palingenesi spirituale rispetto alle dinamiche della vita del secolo e funzionale a costituire, per chi vi viva, una sorta di ‘anticamera’ all’esistenza vera – quella dopo la morte corporea –, non può non aver influito sulla definizione della morfologia materiale di questi insediamenti. E, in effetti, anche nei cosiddetti ‘monasteri di servizio’ – e cioè quelli costruiti per fornire alloggio a monaci che operavano in assistenza a grandi santuari di pellegrinaggio – si riscontra non solo che lo spazio residenziale della comunità monastica è separato in modo netto da quelli accessibili ai pellegrini e destinati alla loro accoglienza, ma anche che, all’interno di esso, vi può essere un’aula per la preghiera specificamente riservata ai monaci. È questo, ad esempio, il caso dei santuari di Qalaat Simaan e di Deir Simaan nella Siria settentrionale e quello dell’immenso complesso di Abu Mina nel Basso Egitto (Tchalenko 1953-1958, i: 273-276; Gross44

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mann 1986; Meinardus 20022: 168-179; Remie, Constable 2003: 30-32; McKenzie 2007: 288-295). La compresenza, all’interno di uno stesso territorio, di molteplici insediamenti monastici anche di una certa importanza, come avviene ad esempio soprattutto a partire dal v secolo lungo la valle del Nilo, nell’area del Delta o nei dintorni di Gerusalemme, non modifica il concetto di fondo che definisce da un punto di vista materiale la natura dello spazio entro cui si svolge la vita ascetica. Similmente a quanto avviene per insediamenti situati in aree più isolate – come ad esempio è il caso del monastero di Santa Caterina sul Sinai –, anche nelle aree a più alta densità insediativa monastica lo spazio in cui vive la comunità si caratterizza sempre per la rigorosa delimitazione dei suoi confini rispetto al mondo esterno (Galey 1985; Tsafrir 1993). In definitiva, sebbene il repertorio degli insediamenti monastici del­l’Oriente tardoantico indagati dagli archeologi non sia così vasto da consentire vere e proprie generalizzazioni, si può affermare che esiste un fil rouge tra come le fonti scritte raccontano e teorizzano lo spazio monastico e come esso materialmente si configuri. Benché non manchino anche esempi di insediamenti monastici all’interno delle città (Brenk 2008: 25), la stragrande maggioranza dei siti si trova tuttavia in ambito rurale, anche se non sempre necessariamente in luoghi inaccessibili o particolarmente inospitali. D’altra parte, anche le evidenze testuali mostrano con chiarezza che il topos del ‘deserto’ si materializza variamente dal punto di vista geografico, e ciò non solo in dipendenza dal tipo di percorso ascetico scelto: s’intende con ciò dire che tanto una fuga mundi di tipo eremitico quanto la fondazione di un cenobio può trovare la propria attuazione sia in prossimità di un centro abitato, sia in un sito fisicamente anche molto distante da esso. I monasteri, inoltre, possono anche divenire luoghi di pellegrinaggio e fungere – come è stato dimostrato per gli insediamenti posti lungo gli assi viari che convergono su Gerusalemme – da ‘punti di appoggio’ per i viandanti, senza però cessare di essere concepiti come organismi architettonici in grado di lasciar frangere sui loro confini il fragore del secolo (Voltaggio 2011). Quel che conta è, insomma, la proclamazione di una distinzione e di una separazione fra il luogo in cui vive il monaco e quello in cui vivono gli altri. Lo spazio dell’insediamento si delinea e si delimita conferendo al ‘segno’ della recinzione un valore semantico analogo a quello conferito alle mura nelle città tardoantiche, e cioè di linea di demarcazione tra lo spazio della legge e della civiltà e lo spazio dell’incertezza e del disordine (Cavallo 1989). Naturalmente, l’insediamento monastico si pone in alternativa anche rispetto alla città stessa, proponendo la possibilità di un diverso modo di ‘fare città’ in cui, banditi gli obiettivi del raggiungimento del potere terreno e le lotte, le sopraffazioni e le ingiustizie che ne derivano, le norme comportamentali che il singolo asceta s’impone o quelle che regolano la convivenza di una comunità sono tutte volte alla realizzazione della piena attenzio-

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ne alla legge divina, affinché ciascuno sia preparato all’esercizio della vera cittadinanza che è quella che, dopo la morte corporea, si acquisirà nella Gerusalemme celeste. Riconoscendo la difficoltà del trapasso dalla vita del secolo alla dimensione dell’ascesi, il momento dell’ammissione nello spazio monastico, nel caso delle comunità cenobitiche, è scandito da tappe precise. Esse stanno a indicare che la persona che avrà meritato pienamente l’appartenenza al nuovo stato spirituale è entrata a far parte di un’élite, il cui compito è anche quello di testimoniare, di fornire una pietra di paragone di valori e comportamenti per il resto della società. È per questo motivo che la città dei monaci, benché costituisca uno spazio alternativo e rigorosamente distinto da quello delle città secolari e inaccessibile ai più, non è però uno spazio invisibile. Essa non solo agisce su un piano generale come punto di riferimento spirituale, ma, soprattutto quando al proprio interno si affermino figure alle quali viene riconosciuto il carisma della santità, si può proporre anche come vero e proprio luogo di pellegrinaggio. La particolare identità urbana dello spazio monastico trasforma quindi la geografia del paesaggio rurale entro cui esso s’impianta, connotandolo qualitativamente in modo del tutto nuovo. In particolare, la tensione spirituale e l’engagement ideologico che il mondo monastico produce creano una dialettica paritaria fra mondo urbano e rurale, entro la quale anche i rappresentanti più alti delle istituzioni che del mondo urbano sono l’espressione, devono recarsi nelle campagne per poter conferire con i monaci presso cui cercano consiglio e assistenza28. Abbiamo ricordato il caso dell’imperatrice Eudocia, che, per incontrare il venerabile Eutimio «che odiava la città», fa costruire un luogo apposito nel desertum per potersi intrattenere con lui. Ma altrettanto esplicito è il caso del monaco Afraate, nativo dell’Osroene e stabilitosi nelle campagne intorno ad Antiochia nel terzo quarto del iv secolo, alla cui dimora fu condotto il cavallo prediletto dell’imperatore Valente affinché fosse guarito da una grave malattia29. Le esperienze monastiche maturate nell’Oriente tardoantico costituiscono il contesto di riferimento per quanto accadrà in Occidente a partire dalla fine del iv secolo ed è ben chiaro, scorrendo i testi normativi del monachesimo cenobitico occidentale apparsi fra v e vi secolo, quanto questi ultimi abbiano tratto ispirazione dagli autori orientali nella delineazione dei princìpi organizzativi della vita comunitaria e delle condizioni ambientali ottimali in cui essa si sarebbe dovuta praticare. Se però non è proponibile alcun automatismo che veda l’architettura monastica dell’Occidente (tanto meno quella successiva al Mille) come una sorta di clone di modelli orientali, è tuttavia fuor di dubbio che il concetto del «désert qui devint une cité» (Chitty), e cioè dello spazio non urbano che diviene tale grazie alla presenza dei monaci che in esso praticano la legge di Dio, è stato mediato verso l’Occidente da autori come Atanasio di Alessandria, Rufino, Girolamo, Cassiano. Qui 46

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esso conoscerà paradossale fortuna quando – venuto meno il quadro istituzionale e sociale del tardo Impero – la dialettica città-campagna sperimenterà equilibri del tutto nuovi. Ruralizzandosi la città, l’‘urbanesimo monastico’ delle campagne svolgerà allora un ruolo inedito: anziché porsi come antagonista al potere secolare, tenderà piuttosto a dialogare e a collaborare con esso. E la sua organizzazione intellettuale e operativa contribuirà in modo significativo a definire l’assetto economico e culturale dell’Europa altomedievale.

Note 1  2  3  4  5 

hm, xvii. ve, xliii. vs, xviii. ve, lix.

Questi temi sono trattati dal capitolo 49 in poi di tale testo. ppi, 59. 7  ppi, 84. 8 Palladio (hl, 32, 5) afferma che la fase di ‘noviziato’ nei monasteri pacomiani durava tre anni e che, in questo periodo, non è consentito al candidato di accedere alla parte più sacra del monastero, intendendo evidentemente con ciò l’aula di preghiera. Tutti i passaggi descritti dalla Regola di Pacomio sono ricordati in modo sostanzialmente identico anche da Giovanni Cassiano nei capp. 1-7 del iv libro delle ic. 9  ic, iv, 38. 10 Esula dalle finalità di questo contributo l’approfondimento su altri temi che si legano indissolubilmente a quello di ‘definizione’ e ‘identità’ dello spazio monastico, e cioè quelli della gestione dei beni materiali necessari alla vita di una comunità e della possibilità che essi, con il loro cattivo uso, divengano non più meri strumenti per il sostegno della vita ascetica, bensì altrettante occasioni di devianza rispetto ad essa. Su questo tema si può utilmente fare riferimento a Toneatto 2004: 53-83. 11 La tradizione dei testi pacomiani, che giungono in Occidente principalmente attraverso la traduzione latina fattane da Girolamo nei primissimi anni del v secolo, procede in diverse direzioni (Veilleux 1968; De Vogüé 1974). Come ricorda il Veilleux, la stessa originale stesura in saidico dei Præcepta, cioè del testo della Regola vera e propria, potrebbe aver ricevuto revisioni, aggiunte e modifiche, ad opera dei due principali discepoli di Pacomio, e cioè Teodoro e Orsiesi, il che comporterebbe il dover estendere la loro ‘fase formativa’ sino ai decenni finali del iv secolo. Nonostante questi problemi, il fatto che Girolamo avesse ricevuto il testo della Regola da un monastero pacomiano del Basso Egitto permette al Veillleux di affermare che essi possono essere comunque considerati «pachomians in at least the broad sense of the word» (Veilleux 1981: 10-11). 12 Vedi, a questo proposito le considerazioni di George Herring (Herring 2006: 78-79) sui “timori” accesi dal modello pacomiano presso l’episcopato alessandrino. 13  hl, 23, 1. La vpg (cap. 132) afferma che Pacomio si era ritirato non in una grotta, ma tra le rovine del villaggio abbandonato. 14  hf, v. 15 In realtà, il termine synaxis indica, letteralmente, il momento della celebrazione liturgica comune, ma, per traslato, lo si trova sovente utilizzato per indicare il luogo in cui essa viene celebrata. 16  vs, xxxii. 6 

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ricorda Chitty (Chitty 1980: 47-49), il termine greco lavra tradurrebbe quello arabo suq, non però nel senso di ‘mercato’, bensì di insieme di piccole botteghe aperte su una medesima via, il che renderebbe il concetto «des grottes ou cellules que bordent un sentier courant le long du versant d’un ravin» (ibid.: 49). In realtà, il termine appare solo in ambito palestinese, ma lo si è utilizzato anche in riferimento a contesti egiziani come quello dei Kellia. Sulle fondazioni palestinesi di Saba si veda anche Patrich 1993 e Hirschfeld 1998. 18  conl, i, ix, 35. 19  conl, iii, xix, 6. 20  apae, Ser. An., n 91. 21  he, cxxv, 11. 22  bgr, 38. 23  hl, xxxii, 9. 24  hl, xxxii, 12. 25  hl, xxxii, 10-11. 26  hl, xxxii, 8. 27 Vedi Brenk 2008: 33, che, riprendendo una posizione di Festugière (1963), ritiene che le torri abbiano avuto prevalentemente funzione abitativa. 28  È molto interessante, a tale proposito, l’affermazione di Wolf Liebeschuetz (Liebe­schuetz 2001: 70) secondo cui i monasteri dell’area orientale mediterranea tardoantica, la cui fioritura fu «largely independent from the magnates» (ossia non ebbe nella generosità delle élites urbane la sua maggior fonte di sostegno economico), condussero, con la loro capacità di creare un polo alternativo di riferimento, rispetto alle città, all’interno dei distretti rurali, «to a major political and cultural change, and a challenge to the age-long cultural and political monopoly of the towns». 29  hf, viii, 11.

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Capitolo terzo “Disonorevoli nascondigli”: le prime esperienze monastiche dell’Occidente Freme invano l’Avversario, come un lupo di fronte alle pecore protette entro l’ovile: il confine dell’eremo è come un muro invalicabile. Tiene lontani i nemici e, per evitare che quelli che sorvegliano la città facciano la guardia inutilmente, il pastore può contare pure su Cristo come difensore (Eucherio di Lione, Elogio della Solitudine, 38) Grotte ou cabane, la ‘cella’ de l’eremite ne l’assure au reste que d’un relatif isolement. Pour peu qu’un parfum de sainteté s’en exhale, il s’ensuit au voisinage l’occupation d’autres grottes ou la construction d’autres cabanes (Courtois 1957: 55)

Eremitismo e ricerca del desertum nelle più antiche testimonianze occidentali Claudio Rutilio Namaziano credeva fermamente che l’Impero fosse una creazione eterna e che servire Roma fosse il più grande degli onori. Era nato nella Gallia Narbonese, ma si sentiva romano quanto un nativo dell’Urbe. Si era infatti trasferito in Italia da ragazzo, al seguito del padre, e in anni difficilissimi per l’Impero d’Occidente aveva intrapreso la carriera di funzionario statale, tradizionale trampolino di lancio per giovani di buona famiglia che volevano fare strada nella società del tempo. Benché non avesse fatto pubblica professione di adesione alla fede cristiana, divenuta ormai il credo ufficiale e obbligatorio per i sudditi dell’Impero, il successo gli aveva arriso. Nel 414, solo quattro anni dopo il sacco compiuto dai Visigoti di Alarico, si trovò a ricoprire la difficile funzione di prefetto di Roma, ma nell’anno successivo dovette frettolosamente lasciare la città perché le proprietà familiari in Gallia rischiavano apparentemente di essere devastate dal passaggio dei Goti che si erano ritirati Oltralpe dopo la scorreria compiuta in Italia (Paschoud 1967: 156-168). Forse per mitigare la malinconia di dover lasciare Roma, Rutilio cantò in un breve poema (De Reditu Suo) il viaggio di ritorno nelle sue terre, in cui alterna la tristezza per l’abbandono in cui vedeva versare le città della costa tirrenica ad aneliti di speranza per il futuro dell’Impero. 49

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A un certo punto della sua navigazione, l’ex prefetto compì però un incontro che, più di altri, gli apparve come il segno di un disfacimento della cultura e dello spirito stesso del suo mondo, assai più pericoloso di quello causato dalle scorrerie dei barbari, perché generatosi all’interno della società romana. Quando è in vista della Corsica, Rutilio ricorda che, mentre avanziamo per mare, ci lasciamo indietro Capraia, un’isola mal tenuta e abitata da uomini che aborrono la luce del sole. Usando una parola greca, si fanno chiamare monaci, perché desiderano vivere da soli senza vedere nessuno. Hanno paura dei favori della fortuna, così come ne temono gli oltraggi: potrebbe un uomo, ragionevolmente, per sfuggire l’infelicità, vivere per sua scelta in essa? Che tipo di stupido fanatismo partorito da una mente distorta è quello di essere perfino incapaci di accettare i doni del destino per timore dei suoi rovesci? Non so se essi siano come prigionieri che domandano la punizione appropriata per le loro azioni, o se invece i loro cuori siano alimentati da bile nera, ma Omero considerava la presenza di una bile eccessiva come causa del tormento dell’anima di Bellerofonte, perché era stato in seguito alle ferite di un crudele dolore che gli uomini dicono che la sua gioventù aveva concepito l’odio per il genere umano1.

Più avanti, bordeggiando l’isola di Gorgona, Rutilio racconta il fato di un civis, presumibilmente di Pisa, che, a suo avviso, aveva celebrato il proprio funerale in vita, poiché, nonostante fosse di nobile stirpe, avesse ricchezze a sufficienza e fosse destinato ad un matrimonio pari al rango della sua nascita, era stato spinto dalla follia ad abbandonare gli uomini ed il mondo e ad intraprendere un superstizioso esilio relegandosi in un disonorevole nascondiglio credendo, povero disgraziato, che il divino possa essere nutrito nella rinuncia all’igiene e nel luridume; così egli è diventato verso il suo corpo un tiranno più crudele delle divinità che egli vuole offendere. Davvero, mi domando, questa setta non è meno potente delle droghe di Circe. Ai suoi tempi venivano trasformati i corpi degli uomini, ora questo accade alle loro menti2.

In sostanza, l’aristocratico gallo riteneva che il secessus dei monaci rifugiatisi nelle isole toscane fosse sostanzialmente da considerarsi un atto di viltà verso la vita e verso i doveri civici che essa imponeva, nonché un insulto ai favori che la fortuna poteva dispensare e di cui fare giusto uso. A maggior ragione, la scelta di una vita eremitica era da condannare senza appello in un momento in cui le civitates di pietra, trasmesse dai padri, e le istituzioni che le governavano erano minacciate nella loro stessa esistenza. La fuga dal mondo, anche se motivata da ideali spirituali – che peraltro Rutilio, da pagano qual era, non condivideva –, non poteva rappresentare per nessun motivo la risposta ai problemi del momento. Naturalmente, il punto di vista monastico è diametralmente opposto e parte dal presupposto che le leggi che governano la società degli uomini – e in particolare le città – siano improntate all’ingiustizia e al rifiuto di Dio e che colui che ricerca la 50

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“Disonorevoli nascondigli”: le prime esperienze monastiche dell’Occidente

solitudine lo fa anche per costruire l’opportunità di una società alternativa che, a buon bisogno, possa gettare luce riflessa su quella del secolo, per spronarlo a migliorarsi. Le isole sembrano svolgere la medesima funzione del deserto nelle preferenze dei primi monaci che, dalla seconda metà del iv secolo, iniziarono a comparire nelle regioni occidentali dell’Impero3 (Somma i.c.s.; Stesolle i.c.s.). Sulpicio Severo, un avvocato di Burdigala (l’odierna Bordeaux) vissuto fra il 360 e il 420 circa, era un uomo della buona società unitosi in matrimonio con una ricca ereditiera della zona. La morte prematura della moglie lo convinse ad abbracciare una vita di penitenza e castità, che condivise con altri aristocratici della zona. Benché la sua scelta esistenziale non si fosse tradotta nell’accettazione di uno stile di vita ascetico particolarmente rigido, elesse a modello esemplare di vita e santità la figura di Martino di Tours, l’uomo che, tra i primi monaci comparsi in Occidente, seppe incarnare forse più di chiunque l’ideale del monaco “senza compromessi”, ispirato agli archetipi provenienti dall’Oriente (Stancliffe 1983). Di questo personaggio Sulpicio ha lasciato una ricca biografia: Martino era un ex soldato romano di origine illirica convertitosi al cristianesimo in Gallia, dove era stato inviato a svolgere il proprio servizio. Quindi era divenuto monaco quasi per caso, poiché costretto a lasciare il clero di Poitiers, all’interno del quale era stato ordinato sacerdote, dal momento che in città prevaleva l’eresia ariana sostenuta dal figlio di Costantino, Costante ii. Dopo una tappa a Milano, si spostò quindi nell’attuale Liguria, dove si ritirò nell’isola denominata Gallinaria, in compagnia di un prete, uomo di grandi virtù. Qui per alquanto tempo si sostentò con le radici delle erbe4.

Trionfata di nuovo la fede cattolica nella sua Tours, Martino vi fece ritorno e, pur se contro la sua volontà, vi fu acclamato vescovo. Egli, infatti, si era ormai ‘abituato’ a vivere da monaco, libero quindi dalle faticose mediazioni con il sæculum che l’attività pastorale comportava. Alla fine fu costretto ad accettare la nomina, ma cercò di contemperare i doveri della carica con la perseverazione di una vita di preghiera e contemplazione. Come ogni buon monaco avrebbe fatto, decise quindi di continuare a vivere fuori città costruendosi un rifugio sulle rive della Loira, collocato in una posizione tale da potergli far avere la sensazione di trovarsi ancora nella remota isola della Liguria dove la sua vocazione all’ascesi si era formata e consolidata5. Sulpicio, che lì andava spesso a trovarlo, lo descrive abbastanza minuziosamente: questo luogo era così appartato e remoto, da non invidiare nulla alla solitudine di un deserto. Da una parte infatti era costeggiato dallo strapiombo rupestre di un alto monte, il corso del fiume Loira con una breve rientranza precludeva il resto del terreno; si po51

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Le città dei monaci teva accedere per una sola via, per di più oltremodo angusta. Egli stesso aveva una piccola cella contesta di legni6.

Come ricorda Gregorio Penco, sono numerose le testimonianze di presenze, soprattutto di tipo eremitico, che fra v e vi secolo abitano principalmente le isole dell’arcipelago toscano (Penco 1980). Purtroppo, le informazioni di parte cristiana su questo ambiente monastico insulare dipendono in buona parte da fonti agiografiche di cronologia incerta. In molti casi si tratta di personaggi cui è attribuita un’origine africana, migrati verso le isole in seguito alle persecuzioni contro i cattolici verificatesi dopo la conquista vandalica. Analogamente a com’è ben testimoniato nell’Oriente, anche nelle esperienze monastiche dell’Occidente tardoantico – e in particolare in quelle che maturano nell’apparentemente irraggiungibile mondo insulare – il dialogo che le comunità di monaci intessono con il sæculum è ben più fitto di quanto si potrebbe a prima vista immaginare. I monaci che fuggono verso le isole sono spesso protagonisti di ‘ritorni’ nella società, incisivi e dirompenti. Ad esempio, tra le figure che la tradizione tramanda spicca quella di Mamiliano (forse di origine siciliana), che, similmente a personaggi di ambito orientale, aveva sviluppato la sua esperienza eremitica all’insegna della ricerca di una sempre più radicale solitudine, spostandosi quindi di luogo in luogo. La sua peregrinatio che alla fine del v secolo lo aveva portato prima a Montecristo e poi a patrocinare comunità monastiche insediatesi in altre isole toscane, come l’isola del Giglio, trovò ammiratori presso molte città e sedi episcopali della costa tirrenica, da Centocelle (attuale Civitavecchia) a Populonia, e, sebbene questo aspetto necessiti ancora di essere ulteriormente approfondito, ciò sarebbe avvenuto anche in ragione della sua attività di predicatore presso le popolazioni della terraferma, come è ricordato circa un secolo più tardi da Gregorio Magno (Bianchi 2008: 190-192; Burattini 20022: 114-119). Il caso più eclatante di secessus monastico insulare d’Occidente, in grado di lasciare tracce profonde su tutta la società del proprio tempo, è però sicuramente rappresentato dall’insediamento sorto sull’isola di Lérins. Ancora oggi, a millecinquecento anni di distanza, questo lembo di terra coperto di macchia mediterranea che emerge dal mare poche miglia al largo di Cannes ospita una comunità di monaci cisterciensi insediatasi alla fine del xix secolo per ravvivare una tradizione risalente ai primissimi anni del v. Il suo primo fondatore, Onorato, mostra un profilo biografico del tutto diverso da quello di Martino di Tours. Egli sarebbe stato uno di quei giovani cristiani provenienti dalle buone famiglie della Gallia meridionale suggestionati dalla fama degli asceti d’Oriente. Dopo un viaggio compiuto in quelle regioni con il vecchio ‘maestro’ Caprasio, una volta rientrato in patria cercò un luogo che gli permettesse di imitare gli stili di vita dei monaci incontrati durante il suo tour spirituale. Insieme a Caprasio, nell’isolotto provenzale si sarebbero recati con lui anche altri ‘compagni’ desiderosi di sperimentare le durezze dell’asce52

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si monastica: Onorato, quindi, non avrebbe pensato di costituire un vero e proprio eremo, quanto piuttosto un luogo di ritiro spirituale collettivo. L’insularità del luogo ne suggellava il distacco dal mondo circostante e si proponeva perciò essa stessa come condizione per la creazione di un ‘mondo nuovo’, nel quale la parola di Cristo potesse essere applicata alla vita quotidiana senza interferenze esterne (Penco 1993; Guizard-Duchamp 2009: 194-196). Sin dagli inizi, però, il ritiro lerinese, benché descritto nella vita di Onorato come un luogo conforme a tutti i topoi della lontananza dai luoghi abitati e dell’inospitalità intesa come banco di prova della vocazione ascetica, intrattiene per volontà del suo stesso fondatore un continuo dialogo con la terraferma e in particolare con i rappresentanti della gerarchia episcopale (Brown 2014: 569-572). In tal senso, il riferimento di Onorato sul territorio è il vescovo della vicina città di Fréjus, Leonzio, che agisce anche da protettore e garante della vita monastica sull’isola e al quale è dedicato da Giovanni Cassiano il primo libro delle Conferenze ai monaci7. Lo stesso Onorato nel 426 abbandona la sua fondazione per essere chiamato «nel secolo» a ricoprire la cattedra vescovile di Arles, che a quel tempo era la città più importante della Gallia romana dato che Treviri, che aveva svolto questa funzione per tutto il iv secolo, si trovava in un’area in cui il controllo del territorio da parte del potere imperiale era ormai divenuto troppo debole (Labrousse 1995). Purtroppo, le fonti non rendono del tutto chiaro come fosse organizzata la comunità lerinese fra v e vi secolo, anche se è molto probabile che i suoi membri vi avessero costituito un agglomerato di tipo comunitario, avendo posto alla loro testa un abate e condividendo un indirizzo spirituale unitario, sancito dalla partecipazione collettiva ai servizi liturgici e all’assunzione dell’Eucaristia (Labrousse 2005). Tuttavia, un accenno presente in Eucherio di Lione lascia pensare che, sull’esempio dei Kellia egiziani, essi trascorressero almeno parte del loro tempo risiedendo in abitacoli individuali8. A Onorato è attribuita l’emanazione di regulæ e præcepta destinati a indirizzare il comportamento dei monaci. Anche se vi è qualche dubbio sul fatto che tali linee di condotta fossero state riunite in un vero e proprio testo normativo, è chiaro comunque che, sin dai suoi esordi, la comunità lerinese fu pensata – secondo le parole del secondo successore di Onorato, Fausto di Riez, nonché dello stesso Eucherio – come un luogo in cui, grazie alla separatezza che in esso si realizzava rispetto al mondo circostante, era possibile attuare l’armonica fusione tra l’esistenza di una legge e il gioioso adempimento di essa da parte dei monaci (Dessì, Lauwers 2009). Eucherio nel suo Elogio della Solitudine istituisce in modo chiaro il raffronto tra la vita condotta secondo la legge divina che i monaci possono raggiungere abbandonando il mondo degli uomini, e il cammino di Mosè e del suo popolo che, lasciandosi alle spalle l’Egitto e i suoi piaceri, compiendo il cammino attraverso il deserto aveva conseguito il dono dell’incontro con Dio. Parlando del significato simbolico dell’attraversamento del mar Rosso da parte di Israele, Eucherio non può non aver pensato al transito del braccio di mare che separava Lérins dalla costa gallica: 53

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Le città dei monaci Infatti, facendo rifluire le acque ha coperto di nuovo quello che aveva prosciugato; così Dio ha cancellato ogni via di comunicazione con il nemico e in mezzo ci ha messo tutta l’estensione del mare, penso per non far ritornare Israele dalla solitudine. Aveva aperto un passaggio fra le acque e poi, rimescolando le onde lo ha richiuso, per permettere l’andata ed impedire il ritorno a quelli che andavano in cerca del deserto. Quindi, quel popolo è stato gratificato da quella potenza benefica, perché aspirava alla solitudine9.

Eucherio prosegue quindi descrivendo i doni concessi dal Signore agli Ebrei durante la permanenza nel deserto, insistendo in particolare sul fatto che è lì che essi hanno ricevuto da Lui la vera legge e hanno potuto quindi vivere secondo la Sua volontà, per prepararsi all’approdo finale alla terra promessa. L’isolamento del monaco nel desertum, e cioè nel luogo separato e sciolto dagli obblighi verso il secolo, costituisce a suo avviso il necessario apprendistato per la conoscenza di una nuova legge e l’acquisizione di una nuova cittadinanza: La strada verso la terra patria passa sempre attraverso i luoghi solitari. Deve abitare una terra inospitale chi vuole vedere il Signore nella regione dei viventi: dovrà essere ospite della prima, se lotta per diventare cittadino della seconda10.

Tale concetto non è stato elaborato solo nell’ambiente di Lérins, poiché lo ritroviamo anche nelle Vitæ Patrum Iurensium, un testo scritto intorno alla metà del vi secolo per narrare le imprese dei monaci che si erano ritirati tra le foreste del Giura, nella Gallia orientale, dove si era affermato un altro importante focolare di vita monastica (Bully 2009). In esso, per definire lo status di associazione al regno celeste che il monaco può raggiungere attraverso la vita ascetica, è usato il termine giuridico di municipatum, mentre l’appartenenza alle istituzioni terrene non può essere più che una peregrinatio senza meta11. Tornando ad Eucherio, egli afferma che lo spazio in cui si svolge un’esistenza di questo tipo dovrà essere preservato nella sua alterità e reso irraggiungibile rispetto ai luoghi ove abitano gli uomini che non hanno ancora compiuto la scelta assoluta di Dio: In una casa spaziosa tutti gli oggetti preziosi sono conservati sotto chiave in un angolo appartato. Lo stesso discorso vale per la magnificenza dei luoghi santificati dalla solitudine: è protetta dagli ostacoli della natura ed è riposta nella terra del deserto come in una stanza sigillata, per evitare che la gente la sciupi a furia di frequentarla. E il Signore del mondo fa bene a mettere al sicuro questo ricco patrimonio in quella parte della casa terrena12.

È evidente l’assoluta incompatibilità fra tale posizione e quella espressa da Rutilio Namaziano, dato che quest’ultimo identificava nella fuga mundi dei monaci delle isole toscane proprio una rinuncia – in certo senso tacciabile di viltà – ai do54

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veri della cittadinanza, che per lui corrispondevano a quelli da adempiere nel quadro delle pur periclitanti istituzioni imperiali. Ma Eucherio prosegue la sua riflessione spostando il centro dell’attenzione dalla figura di Mosè a quella del Cristo che, avendo maturato la sua spiritualità nel deserto, rientra poi nel secolo per diffondervi il verbo della salvezza. E in effetti anche la comunità lerinese agì in modo analogo sulla società del tempo. La permanenza nel ‘deserto’ rappresentò per molti suoi membri – a partire dal fondatore Onorato, per finire con lo stesso Eucherio – un transito in attesa di un rientro nel sæculum, che diviene quindi la dimensione entro cui testimoniare e cercar di diffondere il rovesciamento di valori che l’esperienza dell’ascesi aveva nel frattempo insegnato loro (Markus 1991: 181-197). Pertanto appare chiaro che Lérins fungesse anche come luogo di formazione del clero sudgallico. È ben noto che diversi personaggi, divenuti in seguito titolari di cattedre vescovili in Provenza, Aquitania, Alvernia e in altre regioni della Gallia centrale e meridionale, avessero ricevuto la loro prima formazione nel celebre monastero provenzale (Heijmans, Pietri 2009)13. Due lettere di Gregorio Magno del 595 e del 600 testimoniano che la fama di Lérins, dopo gli splendori del v e dell’inizio del vi secolo, aveva conosciuto momenti di offuscamento14. Il concetto su cui il pontefice insiste in ambedue le missive è quello dell’esigenza di mantenere saldo il recinto che racchiude e tutela il gregge del Signore dall’irrompere del lupo demoniaco e dai danni che esso può infliggere alla virtù dei monaci. Il distacco fisico dell’isola dai luoghi del secolo, dunque, da solo non bastava a salvaguardare la sua capacità di generare un mondo rinnovato. ‘Separati in casa’: esperienze di monachesimo urbano e suburbano nell’Occidente tardoantico Poco prima della metà del iv secolo, l’esilio in Italia e in Gallia del patriarca di Alessandria d’Egitto Atanasio, autore della biografia di Antonio, aveva diffuso in alcune importanti città di quelle regioni, come Treviri, Aquileia e Roma, informazioni di prima mano sulle esperienze di vita anacoretica fiorite soprattutto in Egitto15. La conoscenza del mondo monastico orientale vi sarebbe stata qualche anno dopo veicolata anche dalle testimonianze di Rufino di Concordia e di san Girolamo. In particolare, quest’ultimo, nel corso del suo soggiorno romano avvenuto fra il 382 e il 384, ebbe modo, anche in virtù della posizione di rilievo occupata all’interno del clero cittadino, di stringere rapporti importanti con personaggi, soprattutto femminili, provenienti dagli ambienti aristocratici della città. Forte della conoscenza diretta del mondo monastico orientale, in particolare di quello siriaco, maturata nel corso del soggiorno in quelle regioni durante la seconda metà degli anni ’70, Girolamo ebbe la capacità di trasmettere un forte entusiasmo e un since55

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ro desiderio di emulazione nei confronti delle figure che egli aveva direttamente avvicinato in quelle circostanze. L’interesse suscitato da Girolamo negli ambienti dell’aristocrazia romana per i modelli di radicale rinuncia alle attrattive del sæculum, con particolare riferimento alle consuetudini sociali e comportamentali proprie di una vita cittadina vissuta ai massimi livelli di benessere e di ostentazione della ricchezza, è stato giudicato dalla critica storica come un riflesso delle incertezze e del malessere esistenziale serpeggianti nei ceti egemoni di fronte alle problematiche prospettive politiche della pars Occidentis dell’Impero nello scorcio finale del iv secolo (De Vogüé 2000: 4648; Musardo Talò 2006: 31-50). L’esito della diffusione della conoscenza delle esperienze ascetiche orientali negli ambienti romani sembra produrre, in effetti, due modalità principali di adesione ai modelli che esse proponevano e che talora possono anche concretizzarsi all’interno di momenti diversi della vita dei medesimi individui. Da un lato, sono ben documentati casi di personaggi che decidono il passo radicale del proprio trasferimento in Oriente (soprattutto in Palestina), per affrontare sul posto incognite e sviluppi della propria scelta di conversione. Altri, invece, preferiscono non abbandonare il proprio ambiente d’origine e scelgono quindi di trasformarlo per praticarvi l’ascesi. Abbiamo così testimonianza d’importanti esponenti dell’aristocrazia romana che decidono di condurre nella propria abitazione un’esistenza di preghiera e di meditazione (Lizzi Testa 2004: 115-120). L’ambiente in cui Girolamo avviò la sua opera di proselitismo non era però sempre del tutto favorevole ad accogliere le conversioni che egli incoraggiava. Come ha posto in evidenza Andrea Giardina (1988), le subitanee mutazioni di stili di vita e di comportamenti adottati da donne e uomini provenienti da famiglie assai in vista che sceglievano di intraprendere la vita ascetica, determinavano sconcerto e disorientamento, quando non radicale avversione, nell’opinione sia delle cerchie famigliari, sia dell’ambiente sociale da cui essi provenivano. Girolamo stesso narra che, intorno alla metà degli anni ’80 del iv secolo, la morte della giovane aristocratica romana Blesilla, avvenuta a soli venti anni d’età, probabilmente causata dagli eccessi delle privazioni cui si era sottoposta in seguito alla conversione, aveva suscitato scandalo e riprovazione. Al momento delle sue esequie, quando sua madre, sconvolta dal dolore, svenne e fu allontanata dal corteo funebre, si levarono dagli astanti parole di sdegno e qualcuno arrivò a dire: Quanto tempo dovrà trascorrere prima che la detestabile genia dei monaci sia allontanata dalla città, lapidata a morte o annegata?16

Girolamo si affretta a dire a Paola, la madre della defunta cui la lettera era indirizzata, che anche Cristo, ai suoi tempi, aveva dovuto subire il medesimo ostracismo e che quindi erano da mettere in conto reazioni come quelle, da parte di chi non poteva comprendere quale premio celeste avrebbe atteso la giovinetta morta. 56

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Tuttavia, non può sfuggire che questo passo (che richiama le osservazioni di Rutilio Namaziano riportate all’inizio di questo capitolo e quelle dell’antiocheno Libanio, ricordate al capitolo primo) pone in evidenza come la polemica antiurbana fiorita negli ambienti monastici trovasse, almeno presso i ceti cittadini di maggior prominenza sociale, interlocutori altrettanto decisi nel giudicare le scelte dell’ascetismo cristiano come distruttive nei confronti dell’armonia sociale. Di fronte a questi problemi, Girolamo oscilla fra posizioni diverse. Scrivendo l’elogio funebre di Marcella, una delle prime nobili romane ad aver abbracciato la vita ascetica, Girolamo nel 413 descrive la metamorfosi della nobildonna romana, di cui egli si riteneva evidentemente il principale ispiratore, determinata dalla scelta radicale, che lei insieme ad altri aveva compiuto, di abbandonare la vita precedente e, pur senza lasciare i luoghi in cui essa si era dipanata, condurre un’esistenza totalmente rinnovata al­l’insegna della consacrazione a Dio17. Per esaltare ancor più l’eccezionalità dell’esempio rappresentato da Marcella, Girolamo riprende il topos, frequentemente richiamato dagli autori orientali, dell’incompatibilità dell’ambiente cittadino con l’attuazione di propositi che prevedessero il totale rifiuto delle lusinghe della mondanità: In una città pettegola, ed ancor più era così nell’Urbe, la cui popolazione a quei tempi era costituita dal mondo intero e la vittoria nel campionato delle nefandezze [si otteneva] se calunniavi gli onesti e se insozzavi tutto quello che c’era di puro e di pulito, era difficile non tirarsi addosso le calunnie di qualche maldicente. […] Il mondo pagano per la prima volta restò confuso di fronte ad una simile donna, poiché a tutti finalmente fu manifesto che cos’era la vedovanza cristiana, che essa faceva risplendere con la sua rettitudine interiore e con il suo contegno. Le vedove pagane normalmente si dipingono il volto con il rossetto e con la cipria, vogliono spiccare nelle loro vesti di seta splendente, portare gemme rutilanti e collane d’oro intorno al collo, appendere alle orecchie perle preziosissime del mar Rosso e profumarsi di muschio; mostrano, insomma, la loro gioia per essersi liberate del dominio dei mariti e vanno in cerca di altri cui poter comandare senza dovervi essere sottoposte, come invece ha disposto Dio. […] La nostra vedova, invece, indossava vestiti atti solo a proteggerla dal freddo e non tagliati apposta per metterne in vista le forme. L’oro non lo poteva sopportare, tanto che si tolse dal dito anche l’anello; preferiva nasconderlo nel ventre dei poveri che custodirlo nei forzieri18.

Simile è il caso di un’altra celeberrima aristocratica romana votatasi alla vita ascetica, Melania la Giovane (385 ca.-439), appartenente alla generazione successiva a quella di Marcella (pic, ii, 1483-1490; Cooper 2010). Si racconta infatti che ella, una volta ottenuta dal padre l’autorizzazione alla rinuncia ad avere altri figli (i primi due erano morti in tenera età) e ad abbandonare il sæculum, lasciò con il marito la domus urbana per iniziare un ritiro spirituale al di fuori della città: Udirono [scil. Melania e il marito Piniano] queste parole [scil. del padre di Melania] con grande gioia. Immediatamente si sentirono liberi dalla paura: lasciarono la città e andarono nelle loro proprietà nella periferia, dove si dedicarono all’allenamento nella 57

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Le città dei monaci pratica delle loro virtù. Essi riconobbero chiaramente che era loro impossibile offrire a Dio una pura adorazione, senza rendersi nemici alla confusione della vita secolare19.

Tuttavia, l’attuazione della vita monastica nelle peculiari condizioni imposte dal contesto romano poteva anche operare il miracolo di trasformare la città, covo di maldicenze e frivolezze, in un luogo del tutto diverso. Rivolgendosi a Principia, destinataria dell’elogio funebre di Marcella, Girolamo afferma: Lunghi anni avete trascorso così; tanto che, grazie al vostro esempio e al comportamento di molte altre donne, abbiamo avuto la gioia di constatare che Roma era diventata un’altra Gerusalemme.

Girolamo sosteneva che la conversione alla vita ascetica dovesse costituire una permanente provocazione nei confronti della società romana, a suo avviso materialistica e gaudente nonostante la formale adesione al Cristianesimo anche di buona parte dei suoi ceti egemoni. La clamorosa conversione a vita monastica di Demetriade, figlia di Flavio Anicio Ermogeniano Olibrio (console nel 395, uno dei personaggi più potenti della città), gli sembrava la risposta più persuasiva in direzione di un rinnovamento culturale della società romana dopo il trauma del sacco subito dai Visigoti nel 41020. Sempre nel 414, Girolamo scrisse a Demetriade dicendole che la sua adesione alla vita monastica e l’abbandono di tutte le consuetudini mondane della vita cittadina avrebbero potuto, paradossalmente, riscattare a nuova dignità la stessa Roma, tramortita dal colpo ricevuto dai barbari. La gioia, quindi, della madre e della nonna di Demetriade nel vedere la giovane indirizzata verso la radicale scelta della verginità e dell’ascesi si sarebbe trasformata in un giubilo più generale: Vedono [scil. la madre e la nonna di Demetriade] nella sua decisione il compimento dei loro desideri e si rallegrano del fatto che questa vergine, con la sua consacrazione, accresce la nobiltà della sua già nobile famiglia. Essa aveva trovato il modo di tener alto il prestigio del loro albero genealogico e di alleviare il dolore per la città di Roma incenerita. […] Come da una radice feconda, molte vergini spuntarono a un tratto come tanti virgulti; tutta una schiera di domestiche e di clienti seguì l’esempio della loro protettrice e signora: in tutte le case andava dilagando il fervore per la professione di verginità; e, se su un piano umano la condizione delle candidate era disuguale, identico era il premio della castità. […] Ed allora l’Italia smise il lutto e persino le mura semidistrutte di Roma ripresero in parte il loro primitivo splendore. Si pensava che Dio fosse ormai diventato propizio a causa della conversione perfetta di quella figlia21.

Nonostante lo shock del sacco visigoto, Roma rimaneva però sempre Roma, con tutte le sue attrattive, che potevano cantare come sirene all’orecchio di donne ancora giovani, bene o male cresciute in mezzo alla jeunesse dorée dell’antica capitale imperiale. Il buon esempio era perciò più prudente darlo rimanendovi a debita 58

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distanza; per questo, rivolgendosi a Principia, fedele compagna e discepola di Marcella, Girolamo giudicava positivamente il fatto che, dopo la loro svolta esistenziale, le due donne avessero deciso di allontanarsi un po’ dal centro cittadino per praticare l’ascesi al riparo dalle tentazioni: Ho saputo che hai preso il mio posto nel farti subito sua compagna e che non ti sei staccata da lei nemmeno di un’unghia, come suol dirsi: abitavi nella stessa casa, nella stessa stanza, usavi il medesimo letto, perché fosse a tutti noto, in codesta illustre città, che tu avevi trovato una madre e lei una figlia. Il podere situato nella periferia di Roma vi serviva da monastero: avevate scelto la campagna per starvene come in un deserto22.

La ‘provocazione’ posta in atto da scelte come quelle di Demetriade, Marcella e Principia poteva essere tanto più efficace e capace di determinare consenso, in quanto proveniente da esponenti del ceto egemone, in grado di garantire anche per altri, attraverso i mezzi di cui disponeva, l’attuazione materiale di un progetto di vita che aveva bisogno di risorse per poter essere sostenuto nel tempo. Scrivendo sempre a Demetriade, Girolamo ridimensiona l’importanza della munificenza volta alla realizzazione di chiese sfarzose e, attraverso di lei, raccomanda invece ai nobili divenuti cristiani di volgersi al sostegno non solo dei poveri, ma soprattutto dei monasteri, poiché in essi si realizzava la più autentica lode di Dio: Altri costruiscano chiese, rivestano le pareti con lastre di marmo, innalzino colonne massicce, ne adornino i capitelli incapaci di godere del prezioso metallo di cui sono ricoperti, adornino i portoni d’avorio e d’argento e gli altari dorati di pietre preziose: non sarò io a biasimarli o a oppormi: «Ognuno segua liberamente la sua coscienza». È meglio questo che covare ricchezze messe in serbo! Ma il tuo [scil. di Demetriade] ideale è diverso: vestire Cristo nei poveri, visitarlo nei sofferenti, nutrirlo negli affamati, alloggiarlo nei senzatetto, e tutto questo farlo soprattutto verso i servi della fede: alimentare i monasteri delle vergini, prendersi cura dei servi di Dio e dei poveri in spirito che servono giorno e notte il Signore. Costoro, pur stando sulla terra, conducono una vita da angeli, non parlano d’altro se non di quanto ridonda a lode di Dio; quando hanno di che mangiare e di che vestirsi sono felici di queste ricchezze e non desiderano possedere altro; ammesso almeno che vogliano mantenersi fedeli alla loro vocazione, perché, in caso contrario, se desiderano altre cose in più, dimostreranno di essere indegni anche del necessario che hanno.

E concludeva questa sua riflessione specificando: Queste cose le ho dette, beninteso, ad una vergine che è ricca, ad una vergine della nobiltà23.

Il passo, nel suo insieme, è della massima importanza, ed è veramente un capolavoro di ‘equilibrismo testuale’. Ai senatori romani non si poteva chiedere troppo: già si era ottenuta (spesso con scarsa convinzione) la loro adesione al Cristianesi59

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mo. Non era perciò realistico pensare di impedire loro anche di costruire nuove chiese in città, magari caratterizzate da una certa ambizione architettonica, poiché ciò avrebbe garantito sicuramente una visibilità e un consenso notevoli presso la popolazione (Pietri 1997-1978). Allo stesso tempo, però, Girolamo non può esimersi dall’affermare che ciò in cui egli crede veramente è che il cambiamento di cui l’aristocrazia si sarebbe dovuta rendere protagonista consisteva nel sostenere una cristianizzazione meno esteriore dell’ambiente romano, nel quale essa continuava a essere forza protagonista. Si sarebbero perciò dovuti piuttosto aiutare i monaci – uomini o donne che fossero – il cui compito era quello di rivolgere incessantemente a Dio lodi e preghiere e che operavano per costruire un legame più saldo fra il mondo terreno e quello celeste. Vi è peraltro un nesso, nella prospettiva di Girolamo, fra l’opus Dei della preghiera e le opere di carità che i monaci possono compiere, impegnando le risorse che i loro benefattori vorranno concedere loro, magari divenendo essi stessi – come esemplifica la vita della stessa Demetriade – monaci e animatori di comunità monastiche (Marazzi i.c.s.). Questo concetto si evidenzia con ulteriore nettezza in un passaggio successivo della lunga lettera a Demetriade, in cui Girolamo la esorta a suddividere le proprie giornate, secondo il corso delle stagioni, in momenti di preghiera e di lavoro24. Tutte queste riflessioni sui princìpi e le finalità della vita monastica presenti nella parte conclusiva della lettera confluiscono in un’accorata raccomandazione al perseguimento della medesima entro una dimensione comunitaria25. Girolamo afferma infatti che solo in compagnia di altri si può realizzare una condizione di equilibrio (derivante anche dal reciproco controllo che i membri di una comunità esercitano tra loro), evitando che le personalità dei singoli deraglino cadendo nell’arroganza, nella superstizione o, peggio, nella follia vera e propria, determinata dall’applicazione a se stessi di una disciplina arbitraria e di privazioni insopportabili. Quello che Girolamo dice a Principia e a Demetriade riecheggia concetti che avranno grande importanza nello sviluppo delle esperienze monastiche occidentali, e che ritroveremo nei testi delle Regole elaborate in Occidente durante il v e la prima metà del vi secolo. I temi principali che egli affronta sono in sostanza quattro: la preferibilità della vita comunitaria per la realizzazione di un percorso equilibrato di ascesi individuale; il lavoro come necessità per la sopravvivenza materiale e per la gestione armonica della tensione mistica; l’esigenza del sostegno aristocratico (e possibilmente di una conduzione aristocratica) alle iniziative volte alla fondazione di comunità monastiche, al fine di garantire loro risorse economiche adeguate e capacità di esercitare un influsso reale sulla società; la possibilità che lo stile di vita dei consacrati, nonostante la necessaria separatezza della loro vita da quella delle altre persone, potesse costituire un esempio per tutti i cristiani. Mancano, nell’elaborazione di Girolamo, riflessioni esplicite su due aspetti che pure erano stati ben presenti nell’ambito del monachesimo orientale, ossia sul ruo60

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lo del capo della comunità e sull’esistenza di riferimenti normativi interni per l’organizzazione della vita della medesima, i cui princìpi fossero ispirati proprio dal loro leader spirituali. Ma queste problematiche erano comunque all’ordine del giorno – e già da qualche tempo – in ambito occidentale, poiché una trentina d’anni prima (nel 384) Agostino d’Ippona, nel suo De Moribus Ecclesiæ, dichiarava di aver visto a Milano una dimora di santi – e non pochi – ai quali presiedeva un anziano, un uomo di grande eccellenza e sapienza. A Roma, ho visto molti luoghi in cui vi era un personaggio eminente per la ponderatezza del suo carattere, per prudenza e per conoscenza delle cose divine, che presiedeva sul resto [scil. della comunità] che viveva con lui, in carità cristiana, santità e libertà. Essi non sono di peso l’uno per l’altro, ma, al modo degli Orientali e basandosi sull’autorità dell’Apostolo Paolo, si mantengono con [il lavoro] delle proprie mani26.

I connotati di queste esperienze italiane erano chiaramente ricalcati sui princìpi organizzativi del monachesimo orientale di cui Agostino richiama poco prima nello stesso testo in modo sintetico, ma estremamente efficace, le principali caratteristiche27. Esse consistevano nella capacità di vivere armonicamente in comunità sotto la guida di un “padre” di cui ciascun membro si sarebbe dovuto considerare “figlio”, pregando insieme e ascoltando insieme la lettura delle Scritture, osservando il silenzio perpetuo, sostenendosi con i frutti del proprio lavoro, rispettando regimi alimentari estremamente controllati e meramente sufficienti alla sopravvivenza dell’individuo e, infine, esercitando (sia pure in modo ‘indiretto’) la carità verso gli indigenti. Aspetto, quest’ultimo, che si doveva concretizzare cedendo loro tutto quanto fosse superfluo per i bisogni della comunità. L’esercizio della carità ‘indiretta’ è reso necessario in ragione dell’applicazione della prescrizione della separatezza, la cui pratica, come ribadisce Agostino, è essenziale per il perseguimento di una vera vita monastica, ma che non per questo deve ridursi a una ‘assenza’ nel quadro più ampio della comunità dei fedeli. Infatti, sebbene alcuni ritengano che essi [scil. i monaci] abbiano abbandonato le cose umane più di quanto non avrebbero dovuto, non si prende in considerazione il fatto che essi ci possono beneficiare con le loro menti attraverso l’esercizio della preghiera e con le loro vite mediante l’esempio [che offrono], sebbene non sia lecito vederli di persona28.

Riflessioni e puntualizzazioni come quelle espresse da Agostino e Girolamo non solo costituiscono un’evidenza importante riguardo all’evoluzione prodottasi fra tardo iv e v secolo nel monachesimo occidentale, mostrandone la capacità di assimilare i modelli orientali e di riflettere sulle varie forme possibili (individuali o comunitarie) di attuazione della vita ascetica, ma pongono l’accento sull’esigenza – meno evidenziata nei testi orientali – di collegare la stessa alle forze presenti all’in61

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terno della società, viste nel ruolo sia di destinatarie del proprio messaggio, sia di sostenitrici della sua realizzazione (Markus 1991: 157-177). Dove abitavano i primi monaci d’Occidente?

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Le parole di Girolamo dovevano aver trovato un qualche ascolto fra i ricchi romani convertiti al Cristianesimo. Accanto alle bellissime chiese destinate al culto dei fedeli, tra la fine del iv secolo e l’inizio del v a Roma nacque davvero anche un mecenatismo cristiano indirizzato al potenziamento delle presenze monastiche e che ne utilizzava gli effettivi e l’operatività per realizzare opere di carità (Giuntella 2000). Nel periodo compreso fra il sacco di Alarico (410) e lo scoppio della guerra greco-gotica (535), si hanno diverse attestazioni in città di fondazioni monastiche dovute sia ad aristocratici sia a pontefici, alcune delle quali destinate a coadiuvare il clero nella gestione del funzionamento dei grandi santuari cittadini e a svolgere funzioni di assistenza per i malati, gli indigenti e i pellegrini. Esponenti dell’aristocrazia cittadina fornirono capitali e terreni per la realizzazione di xenodochia fra Roma e Portus, e cioè d’istituzioni destinate a fornire ospitalità a viaggiatori e stranieri (Santangeli Valenzani 1996-1997; Meneghini, Santangeli Valenzani 2004, pp. 91-101). Queste attività sono ben attestate anche in ambito orientale, ad esempio a Costantinopoli, in stretta relazione con stabilimenti monastici (Dagron 1991: 516525); non è quindi da escludere che, anche a Roma, gli xenodochia potessero essere gestiti con il supporto di personale di condizione monastica. A Roma, i resti materiali di un insediamento monastico noto attraverso le fonti scritte sono stati individuati con sicurezza in un solo caso, quello del cosiddetto monasterium Boethianum; la sua fondazione, databile all’inizio del vi secolo, sarebbe da ascrivere alla famiglia dei Boethii, alla quale era appartenuto anche Anicio Manlio Severino Boezio, il celebre filosofo e ministro di Teodorico che il re goto fece giustiziare nel 525. Esso s’installò nel Campo Marzio, all’interno della cosiddetta “Area Sacra” di Largo Argentina. Ovviamente, la sua fondazione è posteriore alla messa fuori uso dei templi pagani; gli accessi che immettevano all’interno del recinto che delimita il complesso furono tutti murati tranne uno, rendendo così meglio controllabile l’ingresso all’area. Alcuni ambienti circostanti i templi A e B sarebbero stati destinati a fungere da cellæ per i monaci, mentre nell’angolo nordest del complesso si realizzò ex novo un edificio a pianta rettangolare che si presume sia stato utilizzato come refettorio; un edificio più piccolo, posto subito a sud di esso, avrebbe svolto la funzione di cellarium e l’area antistante ai due templi A e B sarebbe stata parzialmente trasformata in orto. Gli stessi due templi, infine, convertiti al culto cristiano, potrebbero già in questo periodo aver acquisito la funzione di oratoria per la comunità. Il monastero boeziano rappresenta un esempio importante di trasformazione di un’area sacra ‘pagana’, situata nel pieno centro della Roma classica, frutto dell’in62

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tervento di una famiglia che agli inizi del vi secolo era evidentemente in grado di disporre a proprio piacimento di uno spazio pubblico. I monasteri installati nelle dimore aristocratiche, di cui parlano Girolamo e Agostino, dovevano però essere diversi poiché si può immaginare che, in questi casi, la trasformazione investisse non tanto le strutture materiali, quanto piuttosto i costumi e i ritmi di vita che si conducevano all’interno delle domus i cui proprietari avevano deciso di abbracciare la vita monastica. Fonti diverse per natura e cronologia (e quindi da usare con una certa cautela) descrivono il monastero di Sant’Andrea ad clivum Scauri, fondato da Gregorio Magno sul Celio negli anni ’70 del vi secolo29. Esso fu installato in quella che originariamente era la domus della famiglia degli Anicii, di cui lo stesso pontefice sarebbe stato un esponente (Richards 1984: 41-44). Il complesso aveva ormai abbandonato la sua originaria funzione residenziale ed era stato in parte adattato per soddisfare i bisogni di una vera e propria comunità: vi dovevano essere tre oratori e una biblioteca, ma si era conservato un triclinium che probabilmente si utilizzava come refettorio30. L’entrata era provvista di un atrio con un ninfeo, presso il quale vi era una galleria sui cui muri erano riprodotti i ritratti di Gregorio e dei suoi genitori; presso di essa si trovavano anche una stalla per i cavalli e un cimitero. L’insieme di questi elementi compone un mosaico in cui, accanto a spazi chiaramente riferibili all’impianto tardoantico della domus patrizia (il triclinio, la biblioteca, l’atrio con il ninfeo, forse anche i locali per il ricovero dei cavalli e la stessa galleria), ve ne sono altri, come il cimitero e gli oratori, che devono essere interpretati come il risultato di modifiche rese necessarie dal nuovo utilizzo della struttura quale sede della comunità monastica. Purtroppo è impossibile stabilire il momento esatto in cui ciascuna di queste trasformazioni ebbe luogo. Anche la villa che gli Anicii possedevano al iii miglio della via Latina fu radicalmente trasformata per finalità di tipo religioso. In questo caso, però, l’intervento è più antico, perché è ricordato dal Liber Pontificalis della Chiesa romana all’interno della biografia di papa Leone i (440-461)31. Ne fu autrice la già ricordata Demetriade, la matrona amica di san Girolamo. Di ritorno dall’Africa, la giovane aristocratica avrebbe portato con sé delle reliquie di santo Stefano e per accoglierle avrebbe fatto trasformare la villa facendovi inserire una grande basilica a tre navate. Essa fu dotata di un fonte battesimale e questo spinge a ritenere che fosse utilizzata anche da preti che vi svolgevano il servizio pastorale. La presenza nell’edificio di reliquie del martire lo avrebbe reso anche luogo di pellegrinaggio, il che potrebbe aver comportato l’insediamento, all’interno delle strutture residenziali della villa, di una comunità monastica a servizio del santuario e a supporto del culto che vi si svolgeva32. A conti fatti, l’impatto più significativo del proselitismo compiuto da Girolamo fu quindi quello di coinvolgere i rappresentanti dell’aristocrazia non solo nella compartecipazione agli ideali ascetici, ma anche a farsene essi stessi promotori e finanziatori, emancipando quindi questo tipo di professione della fede cristiana dal­

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l’alone di dubbio – se non di vera e propria riprovazione – che su di esso frequentemente aveva gravato presso gli ambienti socialmente più elevati dell’età tardoantica (Marazzi i.c.s.). A volte gli stessi munifici aristocratici potevano essere non solo i fondatori di un santuario e gli istitutori di una comunità di monaci che vi prestassero servizio, ma perfino divenirne personalmente i custodi. Un caso in tal senso emblematico è quello verificatosi a cavallo fra iv e v secolo a Cimitile, presso Nola, nella piana alle spalle del Vesuvio, presso un santuario divenuto meta di intensi pellegri­naggi. Meropio Ponzio Anicio Paolino († 431) era un esponente dell’aristocrazia senatoria, originario di Bordeaux, conterraneo e amico di Sulpicio Severo. Aveva fatto carriera nell’amministrazione dello Stato e verso il 380 era diventato governatore della provincia della Campania. Fu condotto un giorno a visitare la tomba del martire Felice sepolto a Cimitile e la zona gli piacque così tanto che decise di acquistarvi dei terreni e di vivere lì anziché a Capua, che era il capoluogo della provincia. Felice era un santo che probabilmente aveva subìto il martirio al tempo di Diocleziano ed era molto venerato dalle popolazioni locali. La sua tomba era già oggetto di devozione e la fede popolare che la circondava avrebbe così profondamente suggestionato Paolino che, terminato il suo mandato di governatore e tornato in Aquitania, egli decise di farsi cristiano, anche su impulso della moglie Therasia, già fervente devota. Alla coppia nacque un figlio, che morì poco dopo. Questo terribile evento rese probabilmente ad ambedue insopportabile la permanenza a Bordeaux e li spinse a tornare in Italia, dove a Milano incontrarono sant’Ambrogio. Poco dopo decisero di dedicarsi a vita ascetica: i ricordi della permanenza in Campania di qualche anno prima li spinsero di nuovo a Nola e lì Paolino decise di trattenersi e di investire le cospicue risorse di cui disponeva per ingrandire il santuario di San Felice, edificando accanto ad esso due monasteri, uno maschile e uno femminile (Santaniello 1992: 15-31). Del santuario di Cimitile rimangono molti resti archeologici e Paolino ne parla diffusamente nel suo epistolario, per cui non è impossibile capire come egli vi fosse intervenuto per rendere particolarmente monumentale e sfarzosa la cornice architettonica che circondava la sepoltura di Felice (De la Portbarré-Viard 2003). In particolare, la cosiddetta basilica nova, fatta erigere proprio da Paolino nello spazio a settentrione della tomba del martire, si presentava come un edificio non solo di grandi dimensioni (oltre 40 metri di lunghezza per circa 23 di larghezza), ma soprattutto caratterizzato da finiture di qualità: undici coppie di colonne in marmo separavano la navata centrale dalle laterali, pavimentazioni e rivestimenti parietali in opus sectile ne decoravano le superfici e il catino absidale era abbellito da un mosaico (Lehmann 2003). Il linguaggio che questo edificio esprimeva è il medesimo dell’architettura cristiana contemporanea di maggior prestigio, ma esso mutuava materiali e forme espressive anche dagli spazi di rappresentanza di quelle domus urbane e di quelle villæ aristocratiche di cui Paolino stesso doveva essere stato proprietario e abitante, prima di scegliere la vita ascetica. 64

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Accanto all’area ‘pubblica’, accessibile ai pellegrini, Paolino fece edificare un quartiere riservato a sé e a un gruppo di persone che egli qualifica – come del resto fa per se stesso – come monaci, votati a prestare servizio presso il santuario. Purtroppo di questi edifici non sono emerse tracce archeologiche riconoscibili, ma qualche accenno sulla loro articolazione è presente nella lettera xxix dell’epistolario di Paolino, in cui egli riferisce della visita che, nell’anno 400, gli rese Melania senior di ritorno dalla Terra Santa. Melania era un altro personaggio della massima importanza nell’ambito di quella cerchia di esponenti di famiglie aristocratiche romane entrata in contatto con il mondo monastico anche attraverso la mediazione di Girolamo (pic, ii, 1480-1483). A tale scelta di vita ella aveva deciso di aderire anche a costo di recidere i legami con il proprio figlio, compiendo il passo di trasferirsi per un lungo periodo di tempo in Palestina. Quando tornò in Italia, sbarcata a Napoli, prima di dirigersi a Roma fece un detour per visitare Cimitile. Il suo arrivo fu un evento della massima risonanza. Melania fu accolta e accompagnata in pompa magna dai suoi pari e Paolino indugia volentieri nel sottolineare il contrasto fra la figura austera della santa matrona e il lusso ostentato dal corteggio che l’accompagnava. Ciò che a noi interessa, però, sono soprattutto alcune righe della lettera xxix, in cui Paolino descrive i luoghi, accanto al santuario, ove ebbe l’onore di ospitare la venerabile donna: In verità, la nostra povera casa che, al piano rialzato, si estende abbastanza in lungo con il cenacolo e un solo porticato che la divide dalle cellette per gli ospiti, quasi diventata più grande per grazia del Signore, offrì alloggio modesto, ma non insufficiente, non solo alle moltissime sante donne che erano con Melania, ma anche ai tanti ricchi che la scortavano. Inoltre, i cori dei ragazzi e delle fanciulle, che si svolgevano in questa casa, facevano risuonare le volte del vicino tempio del nostro padrone di casa, Felice33.

Quello che sembra di capire è che gli spazi in cui Paolino viveva – insieme ad altri monachi di cui più volte fa menzione nell’epistolario – dovevano essere adiacenti agli edifici di culto che erano sorti intorno alla tomba di Felice, ma rispetto ad essi assai diversi, nel senso di essere intonati a una maggiore sobrietà. La situazione ricorda quella già vista, ad esempio, nel monastero siriaco di Qalat Semaan, sorto in adiacenza alla grande chiesa cruciforme costruita intorno alla colonna su cui aveva trascorso la propria esistenza san Simeone lo Stilita. I monaci di Paolino non rifuggivano quindi del tutto il contatto con il sæculum, che interferiva nelle loro vite attraverso il flusso di pellegrini che veniva a visitare le spoglie del martire Felice. Tuttavia, questo contatto era filtrato attraverso la barriera eretta dalla scelta dei nuovi costumi di vita cui essi avevano aderito. Nella lettera xxii, datata al 399 e indirizzata all’amico Sulpicio Severo, Paolino ricorda infatti che era proprio lo stile di vita dei monaci, e cioè il loro apparire totalmente scevri da qualsiasi desiderio di apparenza esteriore, a selezionare quasi automaticamente coloro che ad essi si avvicinavano: la «onorevole spregevolezza» (honorabilis deprecabilitas) di persone abbigliate con vesti lacere e certamente non 65

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cosparse di profumi sarebbe bastata a tenere lontani quanti alla sostanza della conversazione con Dio preferissero l’apparenza dei beni terreni, la cui esibizione era già intaccata dal senso della loro mortalità: E siano pure disadorni [scil. i monaci] nel semplice ornamento della castità, decorosamente incolti nel loro aspetto ed onorevolmente spregevoli: disprezzando anche la naturale bellezza del corpo a vantaggio dell’ornamento interiore, essi a bella posta si deformano esteriormente per diventare decentemente ripugnanti nel volto, purché, onesti nel cuore, tendano alla perfezione della salvezza. L’aspetto, l’abito e l’odore di uomini siffatti provocano il disgusto in coloro [s’intendono coloro che perseguono i beni terreni] per i quali l’odore di morte si trasforma in odore di vita, per i quali è dolce ciò che è amaro, è turpe ciò che è casto, odioso ciò che è santo. Perciò noi giustamente rendiamo il contraccambio, in modo che il loro odore diventi per noi odore di morte, per non cessare di essere noi l’odore di Cristo. […] Se a questi uomini dà fastidio la nostra gola secca, anche noi detestiamo la rozzezza della loro. Se la nostra frugale aridità li infastidisce, anche la vorace ingordigia del loro ventre offende noi. Vengano dunque a farci visita, purché siano non ubriachi già al mattino, ma ancora digiuni la sera, non gonfi del vino del giorno precedente, ma vuoti anche di quello del giorno in corso; non follemente barcollanti della sbornia della lussuria, ma salutarmente indeboliti e sobriamente ebbri nelle veglie della virtù: barcollino non per la loro voracità, ma per i loro digiuni34.

Il destinatario di questa e di molte altre missive dell’epistolario paoliniano era, come si è detto, Sulpicio Severo. Diversamente da Paolino, Sulpicio non aveva lasciato la Gallia per l’Italia; come lui, aveva però seguito un analogo itinerario di conversione alla vita ascetica, scegliendo come luogo di ritiro spirituale la propria tenuta di Primuliacum, sita probabilmente nel territorio di Tolosa. Secondo una caustica definizione di Christine Mohrmann (1973: xiv), il ritiro ascetico di Sulpicio sarebbe stato una sorta di «caravanserraglio devoto», il cui stile di vita non sarebbe stato improntato tanto agli esempi di radicale rifiuto dei beni terreni, forniti da Martino di Tours e dalla sua cerchia – di cui pure Sulpicio era biografo e sostenitore –, quanto piuttosto a una rivisitazione, in senso cristiano, della pratica dell’otium letterario e intellettuale propria della tradizione aristocratica classica. In apertura del iii libro dei Dialogi, Sulpicio racconta di una pia conversazione avente per oggetto vita e miracoli di Martino che si sarebbe tenuta proprio nella villa-monastero di Primuliacum. Per udire i racconti di Sulpicio e dei suoi amici si era adunata sul posto una folla composta non solo di preti e monaci, ma anche di laici. A questi ultimi – poiché essi erano venuti ad ascoltare più per curiosità che per vero senso di pietà – non fu concesso di entrare nel luogo ove si svolgeva il devoto simposio, tranne che a due personaggi di alto rango, un consularis e un ex vicarius, dando così l’impressione che la dimora fosse da considerarsi più come un luogo di scambi intellettuali e di meditazione, che non come un vero e proprio monasterium reso inaccessibile a quanti non fossero a pieno titolo parte della comunità che vi risiedeva (Alciati 2011; Brown 2014: 572-574). 66

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A tal proposito, in un carme databile fra 389 e 394 e diretto al suo antico maestro Ausonio, Paolino, allora residente in Spagna, fa presente che vi è una distinzione fra il tipo di luoghi – prossimi alle città e gradevoli da abitare – in cui uno come lui percorreva i primi gradini della vita religiosa e i veri deserti, un tempo abitati dai filosofi e ora rifugio dei monaci, che egli considerava essere i veri eroi della fede e che avrebbe amato saper imitare35. Al milieu monastico di matrice ‘aristocratica’ e fortemente caratterizzato sotto il profilo dell’impegno intellettuale appartiene a pieno titolo la fondazione calabrese del Vivarium, sorta presso Squillace negli anni ’50 del vi secolo ad opera di Cassiodoro. Cassiodoro è spesso ricordato, insieme a Boezio, come uno degli Italiani che con più slancio cercarono di istituire un rapporto di collaborazione con gli Ostrogoti, padroni della penisola dal 493. Boezio, però, negli ultimi anni di vita di Teodorico fu accusato di aver partecipato a un complotto contro il monarca e finì giustiziato, insieme a molti dei principali esponenti del Senato di Roma. Cassiodoro, invece, forse perché la sua famiglia non aveva origini altrettanto illustri e quindi fu reputato meno compromesso con i nemici di Teodorico, sopravvisse alle ‘purghe’ del 524 e continuò a collaborare con i re goti sino al 538, quando l’Italia era già entrata nel tunnel della guerra contro i Bizantini, che l’avrebbe devastata per quasi vent’anni. Dopo che i Bizantini nel 540 ebbero riconquistato Ravenna, Cassiodoro, che allora aveva circa cinquantacinque anni, capì che era giunto il momento di abbandonare la vita pubblica. Nel 554 tornò definitivamente in Calabria, sua terra d’origine, dove decise di fondare, all’interno di una sua proprietà, un luogo di ritiro intellettuale e spirituale. L’idea-guida, come abbiamo visto nel caso di Sulpicio Severo, era quella di convertire in una prospettiva cristiana l’antica tradizione romana della ‘vita in villa’. La bellezza del paesaggio e l’isolamento da luoghi troppo frequentati avrebbero dovuto ispirare non solo la preghiera e la meditazione, ma anche lo studio, elemento centrale nella concezione cassiodoriana della vita consacrata a Dio (Cardini 2009: 119-150). Gli archeologi ritengono di aver identificato alcune strutture di questo complesso su un terrazzamento naturale a picco sul mar Ionio: vi sono stati rinvenuti i resti di una chiesa con abside trilobata, vasche per l’allevamento del pesce marino (da cui il nome della tenuta) ed elementi che potrebbero far pensare alla preesistenza in situ di una sorta di villa maritima, entro le cui mura si sarebbe insediata la comunità monastica (Bougard, Noyé 1986). Sono però le parole stesse del fondatore a permetterci di cogliere dettagli significativi di come il luogo apparisse e dell’atmosfera che vi regnava: Il luogo del monastero di Vivarium ci incoraggia a predisporre molte cose per i pellegrini e i bisognosi [che si possono trovare] nei giardini irrigati e nelle acque ricche di pesce del fiume Pellena che scorre nei pressi. La corrente non è né resa pericolosa da piene troppo forti né mai resa inconsistente da periodi di magra. Se diretta in modo accor67

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Le città dei monaci to può essere condotta ovunque sia necessario e fornisce acqua a sufficienza per giardini e mulini. […] Anche il mare si trova di fronte [scil. al monastero] e consente di catturare pesci che poi, quando serve, possono essere ristretti in vasche. […] Abbiamo anche costruito dei bagni per dare sollievo alle afflizioni del corpo. Acque limpide, utilizzate per bere e lavare, scorrono gradevolmente nelle terme. Così il vostro monastero è ricercato da coloro che vivono al di fuori di esso, più di quanto tu possa avere motivo di desiderare altri luoghi. Ma queste cose, come voi ben sapete, costituiscono i piaceri del mondo presente, non le speranze per il futuro di chi ha fede: i primi, infatti, passeranno, mentre gli altri dureranno senza fine. […] Ma se, come crediamo, la vita monastica nel monastero del Vivarium ti avrà appropriatamente allenato, con l’aiuto della grazia divina, e se alle vostre menti accade di desiderare qualcosa di più alto, potete recarvi nel gradevole ritiro di monte Castello, dove, con l’aiuto di Dio, potrete vivere gioiosamente come anacoreti. Quel luogo è separato [da tutto il resto] come un deserto, dato che è interamente racchiuso da antiche mura36.

L’idea del monastero come luogo edenico e scenario di una vita rinnovata nella beatitudine era già presente sia nella letteratura orientale, sia presso coloro che di essa si erano fatti tramiti in Occidente37. Ma anche nella Regola di Pacomio (come pure nell’ambiente dei Kellia egiziani) era già apparsa l’idea, qui rilanciata da Cassiodoro, che la vita comunitaria potesse costituire non la dimensione definitiva dell’ascesi, bensì un suo passaggio intermedio, da compiersi prima del trasferimento in un desertum più recondito ove il monaco che ne sentisse la necessità poteva trascorrere periodi di solitudine totale, facendo poi ritorno nel cœnobium. Altre informazioni sull’organizzazione della vita nel monastero di Cassiodoro e sui suoi spazi provengono dalla stessa opera da cui è tratto il passo citato poc’anzi, e cioè il De Institutione Divinarum Litterarum, concepito come una lunga digressione sul tipo di letture cui i monaci si sarebbero dovuti dedicare per corroborare la loro ascesi. Indirettamente, quindi, esso ci informa della presenza nel monastero calabrese di una biblioteca assai fornita di cui i monaci potevano fare uso e al cui arricchimento Cassiodoro stesso avrebbe contribuito in modo decisivo. Una biblioteca cui egli fa riferimento anche per raccomandare ai confratelli più simplices – e cioè quelli impegnati prevalentemente in attività pratiche, come la cura dei giardini e degli spazi coltivati e l’assistenza agli infermi – di servirsene, al fine di svolgere le loro mansioni nella maniera più consapevole possibile38. Gli accenni alla possibilità che i monaci fossero coinvolti in attività di assistenza nei confronti non solo dei propri confratelli, ma anche, più in generale, di persone bisognose esterne alla comunità potrebbe far pensare che esistessero spazi annessi a quelli claustrali (ma da essi distinti) nei quali tali attività potessero essere svolte, simili a quelli che abbiamo già visto, ad esempio, presso il cenobio palestinese di Martirio. Accanto a questi monasteri impiantati nelle ville dei loro aristocratici fondatori, che spesso vi si ritiravano per seguire la propria vocazione, ve ne dovevano essere molti altri abitati da monaci dai natali meno nobili. Il sito di uno di essi è stato individuato nel territorio di Alatri (Fentress et al., 2005). Esso fu sì costruito sul68

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le proprietà donate da un illustre senatore, ma questi, a quanto pare, si sarebbe limitato ad agire come patronus, senza mai entrare a far parte della comunità. Il personaggio in questione è Pietro Marcellino Felice Liberio, un contemporaneo di Cassiodoro, che aveva rivestito importanti incarichi politici sotto Odoacre e Teodorico (pic, ii, 1298-1301; plre, ii: 677-681). La sua permanenza in Provenza fra il 511 e il 534 come prefetto del pretorio per la Gallia lo aveva forse portato a contatto con gli ambienti monastici di quella regione, e in particolare con Cesario di Arles (470-543). Quest’ultimo, educato a Lérins, ne sarebbe poi uscito per divenire membro del clero della metropoli provenzale, occupandosi fra l’altro della fondazione e regolamentazione di alcuni monasteri esistenti nei dintorni della città della quale nel 502 sarebbe stato infine nominato vescovo (Klingshirn 1994: 1-16). Come si diceva, Liberio non avrebbe direttamente compartecipato alla gestione della comunità, incaricando di ciò il diacono Servando, un personaggio la cui esistenza s’interseca con quella di Benedetto da Norcia. Differentemente da come si pensava prima dell’inizio degli scavi, il monastero di Alatri, dedicato a san Sebastiano, non sorse negli spazi di una preesistente villa riadattata ai bisogni della comunità di monaci, ma sembrerebbe essere stato edificato ex novo secondo princìpi architettonici assai spartani e senza contemplare in alcun modo la presenza di spazi di natura aulica (triclini, sale di ricevimento), come in genere troviamo invece nelle villæ aristocratiche del iv-v secolo (Sfameni 2006: 75-112). Il sito scelto per la sua edificazione è un terrazzamento posto sul fianco di un monte che fronteggia la città di Alatri, in una posizione abbastanza scomoda da raggiungere. Un muro di cinta definiva il perimetro dell’insediamento, che appare a pianta grossolanamente trapezoidale, con i lati lunghi di circa 80 metri e quelli corti rispettivamente di circa 20 e 40 metri. Solo un varco posto nell’angolo nord-ovest permetteva l’accesso alle aree interne. Appena entrati, ci si sarebbe trovati in un cortile che sul lato orientale era in collegamento con un’altra area aperta che potrebbe aver avuto la funzione di orto e/o di cimitero. Sul lato opposto all’ingresso del medesimo cortile, si trovava un’altra parete in cui si apriva una porta che immetteva nell’area residenziale, che occupava la porzione sud-occidentale del complesso e si articolava in due plessi architettonici distanziati da uno spazio aperto. Il primo, nell’angolo sud-ovest, è costituito da un edificio a pianta rettangolare (m 15 × 8) e a due piani, che si ritiene abbia avuto la funzione di ospitare il dormitorio (al piano terreno) e il refettorio (al piano superiore); il secondo, collocato a metà del lato lungo meridionale del complesso, comprende una chiesa preceduta da un nartece, cui si addossano una cisterna e un altro ambiente dalle funzioni non precisate. La chiesa è un’aula a pianta quasi quadrata (m 12 × 14), suddivisa in tre navate da tre coppie di pilastri affrontati, ed è priva di abside. Nel suo angolo nord-est si apre un varco che immette in un piccolo ambiente ipogeo a pianta triconca, interpretato come una memoria funeraria venerata e possibilmente destinata a custodire delle reliquie. Sul lato ovest della chiesa è addossato un avancorpo a pianta rettangolare (m 6 × 14 circa) che, come l’edificio che ospita refettorio e dormitorio, era articolato su due livelli. Il piano terreno co69

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stituisce una sorta di nartece che si apre su un piccolo cortile, frapposto tra la chiesa e l’edificio adibito a dormitorio-refettorio. La semplice articolazione del complesso monastico di San Sebastiano di Alatri ripropone alcuni degli elementi tipici degli insediamenti monastici visti nell’Oriente mediterraneo e cioè la marcata separazione dall’esterno, ottenuta mediante l’erezione del muro di cinta, e l’ulteriore distinzione dell’area riservata alle funzioni più rilevanti della vita ascetica, vale a dire la preghiera, la refezione e il riposo. In particolare, il posizionamento della chiesa nell’angolo più recondito e meno accessibile del complesso ne suggerisce per essa e per la memoria sotterranea un utilizzo prevalentemente monastico. Nonostante la loro semplicità, gli edifici del monastero di Alatri erano tutt’altro che di bassa qualità. Sembra infatti che fossero stati costruiti interamente in pietra, cosa non comune nell’Italia impoverita del vi secolo, poiché implicava l’organizzazione di un cantiere complesso e costoso, che in questo caso fu probabilmente reso possibile dalle risorse messe a disposizione dal ricco senatore che aveva concesso ai monaci i terreni dove insediarsi. Dal punto di vista funzionale il San Sebastiano di Alatri è differente sia da Cimitile, sia dal supposto monastero di Demetriade sulla via Latina. In questi due casi ci troviamo di fronte a un santuario aperto alla pubblica devozione, a sussidio del quale opera un monastero, mentre quello di Alatri è un insediamento che nasce con l’esclusiva funzione di ospitare una comunità di monaci che coltiva il proprio ‘colloquio’ con Dio e con i suoi santi in una dimensione totalmente privata. Questo elemento è della massima rilevanza, poiché è rivelatore di un aspetto fondamentale e duraturo della devozione monastica e cioè quello della sua ‘autoreferenzialità’. La preghiera è la principale finalità della vita ascetica e il supporto mistico offerto ai monaci da memorie e reliquie di santi custodite presso l’oratorium non ne prevede necessariamente l’apertura a soggetti esterni alla comunità. Un percorso verso la definizione dello spazio monastico e della funzione sociale dei monaci Negli atti del concilio tenutosi nel 380 a Saragozza, in Spagna, troviamo un passo in cui i vescovi riuniti definiscono polemicamente monachi i chierici che rifiutano di partecipare agli uffici ecclesiastici come forma di protesta nei confronti della rilassatezza morale della Chiesa secolare (Marcos 2002: 263). Quest’affermazione, pur se proveniente da un contesto completamente diverso, ricorda in qualche modo gli accenti espressi dal pagano Rutilio Namaziano nei confronti degli eremiti che si erano segregati nelle isole dell’arcipelago toscano: i monaci sono delle persone che, in nome del perseguimento di una vita incorrotta, si sottraggono in realtà dal dare un contributo al miglioramento della società che li circonda. 70

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Sulpicio Severo, raccontando le gesta di Martino di Tours, aveva però dimostrato che le due personæ dell’asceta e del chierico secolare, sia pur faticosamente, potevano convivere e comporsi nel medesimo individuo (Jorge 2006; Dossey 2011). Sulpicio voleva accreditare l’idea che un rapporto tra i monaci e la plebs Dei, sebbene difficile, era non solo possibile, ma per certi versi anche inevitabile. Anche Lérins, l’altro grande focolare monastico della Gallia tardoantica, aveva mostrato intersezioni analoghe fra pratica ascetica e successivo impegno nel sæculum di alcuni dei suoi ‘cadetti’ più dotati. In certo senso speculare a queste ultime è la contemporanea sperimentazione promossa da Agostino fra Tagaste e Ippona (Brown 2014: 240-245). Agostino si era convertito al Cristianesimo durante il suo soggiorno a Milano, sotto l’influsso del vescovo Ambrogio. Qui, come a Roma, alla fine del iv secolo fioriva un intenso fervore d’iniziative volte alla creazione di comunità monastiche. Appena fuori della città, presso alcuni dei santuari dove si conservavano le spoglie dei martiri, gruppi di monaci collaboravano con i preti dedicandosi all’assistenza ai pellegrini e a servizi di piccola manutenzione. Su queste prime comunità sembra prevalere il coordinamento episcopale, mentre meno visibile appare il concorso offerto da soggetti di status laico e aristocratico, ben attestati invece nell’Urbe39. Tornato in Africa, prima di divenire sacerdote e quindi ricoprire il seggio episcopale di Ippona, Agostino avrebbe trascorso del tempo nella nativa Tagaste, ritirandosi insieme ad alcuni compagni presso una delle sue tenute familiari (dopo aver venduto tutti gli altri suoi beni) e dedicandosi a digiuni, preghiere ed opere buone, meditando giorno e notte sulla Legge del Si­ gnore40.

Successivamente, fu obbligato a furor di popolo ad abbandonare il suo buen retiro e ad accettare l’abito ecclesiastico. Secondo quanto narra il suo biografo Possidio, Agostino, trasferitosi a Ippona, presso la chiesa che gli era stata assegnata, decise di stabilire un monastero […] e lì iniziò a vivere con i servi di Dio secondo i costumi e le regole stabilite dai santi Apostoli. La regola principale di questa accolita era che nessuno dovesse possedere alcunché di proprio, ma che tutte le cose dovessero essere tenute in comune e distribuite a ciascuno a seconda delle sue necessità, come Agostino aveva già disposto che avvenisse dopo essere tornato nella sua casa nativa dai suoi viaggi oltremare41.

Similmente a quanto aveva fatto Martino, Agostino segue quindi inizialmente un percorso che prevede la conversione seguita da un ritiro ascetico-meditativo; diversa, però, è la soluzione che egli escogita per tenere insieme l’impegno pastorale e uno stile di vita in linea con quello degli anni trascorsi nelle campagne di Tagaste. Mentre il santo gallico sceglie di sdoppiare fisicamente la sede del monaste71

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ro da quella vescovile (ritenendo evidentemente incompatibili le due cose), Agostino, al contrario, è come se traslasse il ‘monastero’ di Tagaste dentro Ippona, decidendo di vivere secondo costumi di vita di tipo monastico lì dove svolge il proprio ministero pastorale e obbligando il proprio clero a fare altrettanto. L’assunzione dell’episcopato, avvenuta nel 395-396, non avrebbe interrotto l’impegno di Agostino in tal senso e lo avrebbe anzi condotto a una sua più rigorosa formulazione, che egli esprime attraverso alcuni scritti in cui espone in modo più dettagliato come dovessero essere organizzati i gruppi di persone che intendevano perseguire ideali di vita ascetica. Fra questi, il testo noto come Præceptum o Regula ad servos Dei costituisce l’esempio più antico di un genere letterario – quello delle regulæ monastiche – che durante il v e il vi secolo avrebbe conosciuto grande fortuna in Occidente. Esse erano concepite per definire da un punto di vista concettuale, morale e pratico i capisaldi reputati essenziali per il buon funzionamento di una comunità di persone votate alla ricerca di Dio nella rinuncia al mondo. I temi trattati dalla Regula agostiniana sono una summa, estremamente concisa, di tematiche già affrontate dai padri del monachesimo orientale, cui si aggiungono alcuni elementi apparentemente frutto di un’elaborazione originale di Agostino stesso. In essa si pone l’accento sui princìpi della conservazione del silenzio, della comunanza dei beni, della concordia, della continenza e dell’umiltà; ma soprattutto colpiscono alcune digressioni sulla regolamentazione del comportamento dei monaci in pubblico (che occupano buona parte del capitolo quarto), leggendo le quali si è autorizzati a supporre che l’autore si riferisse a un contesto in cui essi potevano frequentemente trovarsi al di fuori degli spazi in cui di solito abitavano. In particolare, si fa un cenno preciso alla necessità di adottare un contegno idoneo, da parte dei monaci, quando si trovino in chiesa od ovunque vi siano anche delle femmine42.

Evidentemente, il pensiero di Agostino richiama un ideale scenario di comunità le quali, più che rinserrarsi in luoghi inaccessibili, si erano stabilite “fra la gente” e che dovevano quindi confrontarsi giorno per giorno con tutte le insidie dell’ambiente circostante, forse anche in virtù del fatto che esse erano composte non sempre necessariamente da monaci veri e propri, ma potevano anche configurarsi quali gruppi di chierici che avrebbero dovuto vivere “come” dei monaci. A tal proposito, è interessante la distinzione che egli stabilisce fra i termini ecclesia e oratorium43. Quest’ultimo indica evidentemente il luogo deputato alla preghiera quotidiana della comunità, mentre la prima è da interpretarsi come spazio ecclesiale aperto ai laici, «ubi et fœminæ sunt», nel quale i monaci possono venirsi a trovare in circostanze specifiche. Altro aspetto interessante del testo agostiniano è l’uso del termine præpositus per indicare il ‘capo’ della comunità. Questo termine, infatti, nel linguaggio di molte delle Regulæ monastiche tardoantiche indica il secondo in 72

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grado nel monastero, dopo l’abate, la cui esistenza nel testo agostiniano non viene invece mai menzionata44. Al contrario, al cap. settimo, si afferma che al preposito si obbedisca come ad un padre […] affinché [scil. offendendo] lui non si offenda Dio; ma molto di più [scil. si obbedisca] al presbitero, che ha in carico la cura di tutti voi. Sarà compito particolare del preposito fare sì che tutte queste cose siano osservate e che, se qualcuna non sarà stata osservata, non vi si passi sopra con negligenza, ma si abbia cura di porvi rimedio e correzione. Nel far ciò, egli rimetterà al presbitero, che ha su di voi un’autorità maggiore, ciò che va oltre il limite del suo mandato e oltre le sue forze45.

Il riferimento al ruolo del presbyter, preminente su quello del præpositus, pone evidentemente un problema: se con questo termine, com’è lecito immaginare, s’intende un membro incardinato del clero secolare, è evidente che s’intende configurare uno status della comunità monastica direttamente e costantemente sottoposto all’autorità del vescovo. Si è visto che, in ambito sia romano sia gallico, durante il v secolo l’istituzione di monasteri con finalità di servizio presso i santuari urbani ovvero presso le istituzioni caritative e assistenziali aveva visto protagonisti papi e vescovi. Questo aspetto è trattato nel canone iv del concilio di Calcedonia, tenutosi a metà dello stesso secolo, con il quale si regolamenta lo sviluppo dei monasteri e le attività dei monaci, sottoponendo ambedue in modo chiaro al controllo vescovile: Coloro che con zelo e sincerità perseguono la vita monastica devono ricevere appropriato riconoscimento. Ma, dal momento che vi sono taluni che indossano l’abito monastico e si immischiano negli affari civili e in quelli delle Chiese e circolano indiscriminatamente nelle città e sono perfino coinvolti, per proprio conto, in fondazioni di monasteri, si è deciso che a nessuno sia consentito costruire o fondare un monastero o un oratorio contro il volere del vescovo del luogo. E [scil. si è deciso che] i monaci di ogni città e regione siano soggetti al vescovo, favoriscano la pace e la quiete e si dedichino solamente a digiuni e preghiere, rimanendo isolati nei loro luoghi. Non devono abbandonare i monasteri ed interferire o prendere parte in faccende ecclesiastiche o secolari, a meno che non siano assegnati a fare ciò dai locali vescovi in ragione di qualche urgente necessità. Nessuno schiavo sia accettato nei monasteri contro il volere del suo padrone. Abbiamo decretato che chiunque trasgredisca questa nostra decisione sia scomunicato, affinché non venga bestemmiato il nome di Dio. In ogni caso, sarà cura del locale vescovo esercitare cura ed attenzione verso i bisogni dei monasteri46.

L’orientamento calcedoniese in merito al rapporto fra vescovi e monasteri fu certamente recepito in Occidente poiché lo troviamo riecheggiato, ad esempio, nelle disposizioni di alcuni concili tenutisi in Gallia agli inizi del vi secolo. Nel primo di questi, tenutosi ad Agde nel 509, si afferma: 73

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Le città dei monaci nessuno si azzardi a fondare un nuovo monastero senza il permesso o l’approvazione del vescovo47.

In sostanza, l’orientamento che sembra progressivamente prevalere nella prassi e nella norma della Chiesa durante il v e il vi secolo è quello di riconoscere la peculiarità del percorso spirituale monastico e la condizione di separatezza che esso persegue rispetto al mondo secolare (e in particolare a quello urbano). Allo stesso tempo, si cercava di evitare di subire certi contraccolpi che lo sviluppo della religiosità monastica avrebbe potuto determinare nella gestione degli affari ecclesiastici (e soprattutto in quella dell’attività pastorale), scongiurando che i monasteri agissero come una sorta di ‘Chiesa parallela’ che pretendesse però d’immischiarsi nelle faccende di quella secolare. Ci si sforzò quindi affinché il controllo sulle fondazioni monastiche rimanesse nelle mani dei vescovi, che avrebbero perfino potuto impegnarsi – come dimostrano i casi di Agostino e Cesario di Arles – per definire essi stessi le modalità migliori di attuazione della vita ascetica, magari anche provando a ‘contaminare’ gli stili di vita del clero secolare con quelli che essa proponeva. Il punto era che gli atteggiamenti polemici del mondo monastico nei confronti della realtà cittadina, espressi dalle esperienze orientali e assorbiti anche in Occidente, non potevano rischiare di erodere il prestigio della Chiesa nei riguardi dei fedeli (e quindi il controllo che essa esercitava nei loro confronti), poiché questi ultimi, ancora nel v secolo, si concentravano principalmente nei centri urbani. Ciò era vero soprattutto quando i monaci non si limitavano ad attuare un’esistenza alternativa, silente e distaccata, rispetto al contesto secolare, ma – anche in ragione del coinvolgimento di soggetti socialmente rilevanti nella fondazione e promozione di monasteri – contribuivano a creare modelli di vita religiosa capaci di forte richiamo. In realtà, come si è visto, l’osmosi fra questi due ‘compartimenti’ del mondo cristiano era fortissima e il transito dall’uno all’altro caratterizzava il percorso esistenziale di molti personaggi di rilievo della Chiesa tardoantica, ma senza che ciò approdasse sempre a una composizione armonica delle due condizioni (Prinz 2004: 291-293). Tuttavia, se uno dei problemi è rappresentato dall’esigenza delle strutture ecclesiastiche secolari di definire il proprio rapporto con il mondo monastico, è altrettanto vero che, a propria volta, durante il v secolo all’interno di quest’ultimo maturò progressivamente una speculare tendenza in direzione di una più precisa definizione dei propri compiti e della propria identità. Se le esperienze che abbiamo visto fiorire in Occidente fra la seconda metà del iv e la prima metà del v secolo da un punto di vista spirituale e concettuale si erano esplicitamente formate su modelli trasmessi dall’Oriente, nei decenni successivi si assiste a un moto convergente, che coinvolge Italia, Gallia e Penisola iberica, diretto verso un’elaborazione originale di parametri e profili di configurazione della vita ascetica e della sua organizzazione. Durante il periodo compreso fra la metà 74

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del v secolo e la fine del successivo compare così un genere letterario nuovo per l’Occidente che si propone come scopo quello di definire, più o meno sistematicamente, princìpi etici e precetti pratici d’ausilio alla vita quotidiana delle comunità monastiche. Mi riferisco alle cosiddette “Regole”, che compongono un corpus di circa trenta testi spesso di non semplice datazione, ma di natura molto simile e spesso legati fra loro da intricati rapporti d’interdipendenza. Non vi è dubbio che essi mostrino evidenti derivazioni da modelli orientali, ma la loro redazione ex novo in Occidente rappresenta un momento decisivo di meditata e originale rielaborazione di quegli stessi modelli. Il risultato che essi producono è – se così si può dire – quello di ‘sdoganare’ psicologicamente il mondo monastico occidentale dalla dipendenza nei confronti dell’auctoritas dei padri orientali e quindi di produrre una sua prima fondazione identitaria. È interessante ricordare a tal proposito le riflessioni sulla corretta costituzione di un nuovo monastero espresse in apertura al testo di una delle Regulæ monastiche di origine ispanica, la cosiddetta Regula Communis. In questo passo si afferma che i costumi di vita monastica ed i criteri da adottare affinché un monastero possa effettivamente essere definito tale debbano essere da un lato quello del distacco dei cenobi dalle dirette ingerenze del clero secolare, ma, dall’altro, il fatto che le comunità monastiche diano prova di costituirsi secondo precisi princìpi e costumi di vita, della cui ortodossia si faccia comunque garante l’autorità vescovile, superando quindi i rischi dell’arbitrio e dell’improvvisazione. Primi fra tutti, sono evidenziati i problemi del corretto rapporto dei monaci con i beni materiali e della responsabilità dei fondatori e dei leader delle comunità. Alcuni, infatti, sono soliti, per timore dell’inferno, organizzare per se stessi dei monasteri nelle loro case e vivere, con la stabilità del giuramento, in comunità insieme con le mogli, i figli, i servi e i vicini; e nelle loro abitazioni, come abbiamo detto, consacrare chiese intitolandole al nome dei martiri e definirle, sotto tale nome, monasteri. Noi, però, non chiamiamo questi monasteri, ma perdizione dell’anima e rovina delle Chiese. […] Da ciò l’eresia di cui si è detto, secondo la quale ciascuno sceglie a suo arbitrio ciò che gli piace, ritenendo poi santo ciò che ha scelto e difendendolo con parole menzognere. […] E questo, in maniera assoluta, è il nostro desiderio e ciò che chiediamo alla vostra santità: vi comandiamo cioè di non frequentare assolutamente questi tali, né di imitarli, anche perché vivono secondo il loro arbitrio, senza volersi sottomettere ad alcun superiore48.

Il testo della Regula Communis è datato dalla maggior parte degli studiosi alla metà circa del vii secolo e sarebbe da attribuirsi a Fruttuoso, vescovo di Braga, particolarmente attivo nel promuovere la vita monastica. Tuttavia, secondo alcuni studi, esso costituirebbe in realtà la rielaborazione di contenuti risalenti alla fine del iv secolo. In effetti, a una datazione ‘alta’ dei contenuti dei passi sopra riportati potrebbe alludere il riferimento ai cenacoli monastici familiari, sorti spes75

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so, come si è visto, nei secoli della tarda antichità per impulso di aristocratici ricchi e dei quali questi ultimi mantenevano pienamente il controllo economico e proprietario49. La varietà delle declinazioni della vita monastica fiorita nelle regioni occidentali dell’Impero fra iv e v secolo si era materializzata entro insediamenti molto diversi tra loro e difficilmente riconducibili a ‘modelli’ e ‘tipi’. Tuttavia, alcuni elementi caratterizzanti possono essere posti in evidenza. Il topos della figura dell’aristocratico convertito agli ideali monastici che si ritira presso una sua tenuta extraurbana per perseguire gli ideali della vita ascetica presume una qualche coincidenza fra siti di villæ e di monasteri. Nelle regioni della pars Occidentis dell’Impero, però, non è stato sinora possibile riconoscere con certezza strutture attribuibili all’impianto di monasteri entro villæ ancora funzionanti. Così, ad esempio, appare nei territori della Gallia e dell’Italia e così è confermato anche da un recente excursus condotto sul territorio dell’Hispania tardoantica, dove, forse più che in qualsiasi altra area occidentale, sono stati censiti ed esplorati molti siti di grandi villæ tardoromane. In essi si è riscontrata in diversi casi la presenza di chiese, ma la loro apparizione sarebbe in genere piuttosto tardiva (prevalentemente durante il vi secolo) e si connota come momento di riuso di siti ormai in abbandono (Percival 1997; Chavarría 2004; Sfameni 2006: 255-283). Anche in Italia, l’unico caso archeologicamente riconoscibile di un complesso monastico rurale di datazione tardoantica – quello del monastero di San Sebastiano, presso Alatri – presenta uno sviluppo architettonico del tutto avulso da interferenze con preesistenti strutture riferibili a una villa. Ciò non significa porre in discussione la veridicità di quanto narrato dalle fonti scritte in merito alla scelta di alcuni aristocratici di condurre vita ascetica all’interno delle loro residenze di campagna, ma solo dire che o l’esplorazione archeologica non è stata sinora abbastanza fortunata, o che i segni delle eventuali trasformazioni materiali che questo cambiamento d’uso poteva determinare non sono tali da essere facilmente riconoscibili. Tuttavia, soprattutto i casi gallici presi in esame da John Percival mostrano che i siti di alcuni monasteri sicuramente attivi durante i secoli del pieno Medioevo non solo s’impostano sui resti di villæ frequentate sino all’età tardoantica inoltrata (v e anche vi secolo), ma ne rispettano significativamente la disposizione degli edifici. Passando all’ambito urbano, dal punto di vista delle evidenze materiali sono altrettanto inafferrabili le modalità di riconversione delle domus urbane in monasteri. A tal proposito sorge spontanea la domanda sul come potesse conciliarsi, da un punto di vista pratico, l’idea di un’esistenza votata alla rinuncia ai beni terreni con l’utilizzo di spazi e strutture il cui sfarzo era pensato per soddisfare esigenze diametralmente opposte. Sparsi accenni presenti in diverse fonti (soprattutto di origine gallica, e datati tutti entro il v secolo) mostrano che gli atteggiamenti degli aristocratici che si erano votati a vita ascetica potevano essere di molteplice natura: dallo smantellamento degli arredi e loro sostituzione con mobilio semplice e minima76

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le alla meno radicale adozione di un vestiario dimesso, senza però nulla modificare negli ambienti della villa; dal mantenimento della servitù alla sua manomissione e trasformazione in un gruppo di confratres invitati a condividere paritariamente il nuovo stile di vita dell’ex padrone (Alciati 2011). Meno stridente è che il principio della separatezza della vita ascetica potesse conciliarsi con la struttura di queste dimore, poiché, di per sé, esse erano state concepite per garantire ai loro proprietari la massima privacy e il loro accesso era governato da ‘filtri cerimoniali’ e diaframmi architettonici finalizzati a rendere l’incontro con la persona del dominus e con la sua cerchia familiare come un vero e proprio ‘evento scenico’. Del resto, è ormai ben chiaro come a sua volta, già a partire dal iv secolo, il clero secolare (ed in particolare i vescovi) avesse adottato stili di vita e cornici di rappresentanza direttamente mutuati, dal punto di vista della loro traduzione in spazi architettonici e funzionali, da quelli propri dell’aristocrazia laica e degli esponenti del potere imperiale (Baldini Lippolis 2005; Marano 2007 e 2010). L’unico esempio di monasterium urbano di cui siano state riconosciute con certezza le tracce materiali (il monasterium Boethianum installatosi nell’Area Sacra di Largo Argentina, a Roma) è rappresentato da una fondazione di probabile committenza aristocratica, che s’installa però non entro le strutture di una lussuosa domus, bensì in un’area pubblica con funzione religiosa e che non risulta abbia avuto alla propria guida un personaggio ascrivibile al milieu aristocratico. Sia il monastero di Alatri, sia quello di Roma sono accomunati dall’elemento della rigida separazione dello spazio monastico rispetto all’esterno, che si materializza attraverso l’edificazione di un muro di cinta che ha funzione di rendere l’uno invisibile per l’altro. Come nell’Oriente, anche in Occidente il luogo in cui i monaci risiedono sembra perciò qualificarsi innanzitutto per il proprio distacco fisico (ma dalla pregnante valenza psicologica) rispetto all’ambiente cui appartengono coloro che vivono nel secolo. Nel Vivarium cassiodoriano, il complesso posto presso la riva del mare comprende spazi destinati all’assistenza di viandanti e indigenti, anche se è da supporre che essi fossero comunque distinti dagli spazi dove vivevano lo stesso Cassiodoro e i suoi compagni. Un discorso leggermente diverso sembra doversi fare per i monasteri sorti presso santuari e luoghi di pellegrinaggio e che fungevano da strutture di servizio ai medesimi. In questi casi, la condizione di separatezza non sembra potersi attuare con la stessa radicalità, poiché il coinvolgimento dei monaci in faccende giornaliere che comportavano il contatto con altri individui era inevitabile. È abbastanza evidente che tale tipo di monasteri fosse quello che più di tutti riscuoteva sostegno da parte dei vescovi, che ne erano spesso direttamente promotori; e ciò sia per la funzione da essi svolta a diretto supporto delle attività della Chiesa secolare, sia – conseguentemente – per il fatto che comunità di questo tipo erano più direttamente controllabili e influenzabili. Al contrario, come si è visto, l’iniziativa privata volta al patrocinio di comunità monastiche, ovvero la loro spontanea agglomerazione sotto l’egida di un qualche personaggio dotato di particolare carisma spirituale, suscitava 77

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qualche riserva in più e il concilio di Calcedonia era intervenuto con decisione perché questo variegato universo fosse regolamentato in modo chiaro. I testi delle Regulæ monastiche prodotti all’interno di comunità attive nelle tre principali regioni dell’Occidente romano (Italia, Gallia e Penisola iberica) si sarebbero occupati in modo abbastanza sistematico di come dovesse essere strutturato lo spazio dei cenobi e di come i monaci dovessero vivere al suo interno. Questo aspetto sarà approfondito in particolare dai testi più ‘maturi’, redatti nel corso del vi secolo e – in Spagna – sino alla metà del successivo. Probabilmente, tale sollecitudine dovette derivare proprio dalla consapevolezza, progressivamente maturata, che la professione monastica non potesse caratterizzarsi più solo come scelta di pura opposizione alla Chiesa secolare, ma si dovesse trasformare in una proposta di vita religiosa dai connotati pienamente riconoscibili. La vita di Benedetto da Norcia rappresenta per molti aspetti il compimento di questo passaggio, scandito nelle diverse fasi entro cui – nell’arco di quasi un cinquantennio – si dipana la sua esperienza ascetica. I suoi esordi si collocano nel primo decennio del vi secolo, periodo in cui in Italia si consolidava il dominio di Teodorico e in cui iniziava a dispiegarsi l’azione politica del sovrano goto, caratterizzata da forti accenti celebrativi nei confronti della romanità e, soprattutto della sua civilitas urbana (La Rocca 1993; Fauvinet-Ranson 2006; Brogiolo 2007). Racconta Gregorio Magno che Benedetto era giunto a Roma adolescente, poco dopo il 500, per compiervi la sua istruzione; la decisione, maturata poco dopo, di intraprendere l’ascesi monastica sarebbe derivata proprio dalla sua insofferenza per i costumi immorali di cui egli aveva constatato la diffusione in città e soprattutto fra i suoi compagni di studi50. Si riproduce, alle soglie del definitivo tramonto del mondo romano, il topos già incontrato nelle biografie dei santi monaci dell’Oriente tardoantico della vocazione monastica maturata in opposizione agli usi e costumi della società urbana, vista come incompatibile rispetto alla possibilità di realizzare un’autentica sequela Christi. È possibile che la critica del giovane Benedetto nei confronti dello scenario romano fosse anche rivolta verso il clero cittadino (ma questo Gregorio forse non lo avrebbe mai potuto ammettere), dilaniato dalle dispute fra i papi Simmaco e Lorenzo e le fazioni cittadine che, sostenendo l’uno o l’altro, si contrapponevano fra loro (Pietri 1966; Zecchini 1980). Lasciata Roma per le aree del Lazio interno gravitanti intorno alla valle dell’Aniene, Benedetto intraprende un’esistenza vocata al più rigoroso eremitismo, la cui esemplarità rende però il giovane asceta rapidamente noto e venerato presso coloro che abitano nei dintorni del suo rifugio, siano essi pastori, chierici o anche altri monaci che già avevano ‘colonizzato’ quelle aree impervie dell’Appennino laziale. Anche in questo caso, la narrazione di Gregorio segue il canovaccio proprio di molte biografie di santi monaci orientali, enfatizzando l’aspetto della ‘invisibilità visibile’ dell’eremita che, quantunque asserragliato nel suo irraggiungibile nascondiglio, diviene il riferimento spirituale di molte persone, anche grazie a rivelazioni divine che ne rendono nota la presenza e le virtù. 78

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Come era avvenuto a Pacomio, anche Benedetto viene richiamato dalla sua solitudine per mettere le proprie virtù direttamente al servizio di altri monaci, al fine di praticare l’ascesi in forma cenobitica. Tuttavia, le sue prime esperienze di leadership comunitaria, praticate a Subiaco, sono costellate di insuccessi e di scontri con i confratelli (Salvatorelli 2007). Le frizioni scaturivano soprattutto dalle incoerenze comportamentali dei monaci nei confronti delle norme che essi stessi si erano dati per organizzare la vita nella propria comunità e dalle resistenze che essi opponevano a Benedetto; il quale, al contrario, operava affinché fra teoria e prassi della vita ascetica non s’insinuassero contraddizioni51. Il primo cenobio di cui Benedetto divenne abate esisteva antecedentemente al suo arrivo e Gregorio Magno afferma che la sua comunità viveva già secundum regulam, il cui contenuto Benedetto aveva accettato senza battere ciglio, incaricandosi semplicemente di fare in modo che i monaci ne rispettassero le prescrizioni. Il nesso fra vita cenobitica ed esistenza di testi destinati a regolamentarne l’organizzazione era quindi perfettamente chiaro al santo di Norcia; il che in qualche modo contribuisce a rendere meno sorprendente il fatto che Gregorio inserisca quasi con nonchalance la notizia relativa al fatto che Benedetto, una volta consolidata la comunità di Montecassino – dove si era infine trasferito – e giunto quasi al termine della sua esistenza terrena, avesse scritto la sua «Regola per i monaci, esemplare per la discrezione, brillante per la forma»52. Che i membri della sua comunità dovessero organizzare la propria vita sulla base di un testo partorito dalla sua penna, in quanto fondatore e leader della comunità medesima, doveva perciò apparirgli cosa naturale, alla luce delle esperienze che aveva maturato sin dalla giovinezza. Nelle Regole tardoantiche si distilla quindi il senso dell’esperienza ascetica che i loro redattori avevano personalmente vissuto, o di cui erano a conoscenza attraverso testimonianze di altri. E, certamente, nel comporsi di queste esperienze doveva rivestire un ruolo fondamentale la capacità di organizzare materialmente spazi e ambienti in cui le comunità avrebbero dovuto trascorrere la propria esistenza.

Note 1 

439-452. 519-526. 3 Ancora alla fine del vi secolo, al tempo di Gregorio Magno (590-604), molte isole del mare Tirreno risultano abitate da comunità monastiche: una tradizione che ormai aveva circa due secoli di vita. Il papa ne ricorda la presenza nell’Arcipelago Pontino (gre, i, 48 del giugno 591), a Montecristo e Gorgona (gre, i, 49 e 50, ancora giugno 591, v, 5 del settembre 594 e v, 17 del novembre del 594), a Capri (gre, 52, del luglio 591) e a Capraia (gre, v, 17 del novembre 594). Sulla ‘colonizzazione monastica’ delle isole del golfo di La Spezia, si veda Dadà 2012: 75-77 e 113-115. 4  vm, 6, 5. 2 

drs, drs,

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Le città dei monaci 5 Proprio

per il tipo d’insediamento monastico che Martino vi stabilì, la località avrebbe preso il nome di Locoteiacum (od. Ligugé), ovvero “luogo delle piccole capanne” (Heitz 1992). 6  vm, 10, 4. 7  conl, i, præf. 8  lh, 42. Eucherio fu un altro personaggio di spicco della comunità lerinese. Vi si ritirò al tempo di Onorato, insieme alla moglie e ai due figli (la presenza della moglie dovrebbe far ritenere che avessero deciso di soggiornare nell’isola attigua di Santa Margherita). Successivamente, sia lui che i figli tornarono al secolo, ricoprendo tutti e tre cariche vescovili: Eucherio a Lione e i due figli a Vence e a Ginevra. Un passo della vita di Onorato scritta da Ilario di Arles ricorda che egli aveva eretto una chiesa e degli habitacula per i monaci, ma non aiuta a capire se tali strutture siano da intendersi come strutture di residenza collettiva o celle separate e autonome (vh, xvii, 1). 9  lh, 10. 10  lh, 16. 11  vpj, 169. 12  lh, 28. 13  Friedrich Prinz (2004: 304-307) afferma che la vocazione di Lérins a costituire un centro di formazione spiritual-culturale, volto soprattutto al reclutamento di giovani dell’aristocrazia gallo-romana, avrebbe rappresentato una declinzione in senso cristiano della tradizione scolare classica e avrebbe espresso al meglio ciò che egli definisce «Illuminismo cristiano tardo-antico». 14  gre, vi, 54 e xi, 9. 15 Prinz (2004: 288) si spinge sino a ritenere che la biografia di Antonio scritta da Atanasio fosse «stata concepita sin dall’inizio come scritto di propaganda monastica per l’Occidente». 16  he, 39, 6. 17  he, 127. 18  he, 8. 19  mvg, 7. 20 Anicia Demetrias – questo era il suo nome completo – era figlia di Flavio Anicio Ermogeniano Olibrio, console nel 395, e di Anicia Giuliana (pic, i: 544-547). 21  he, cxxx, 6. 22  he, cxxvii, 8. 23  he, cxxx, 14. 24  he, cxxx, 15. 25  he, cxxx, 17-19. 26  me, i, 70. 27  me, i, 67. 28  me, i, 66. 29 Gli elementi per costruire la descrizione dell’articolazione del monastero gregoriano sul Celio (collazionati in Ermini Pani: 1981) provengono da scritti riferibili allo stesso pontefice (alcuni passi del iv libro dei Dialogi [dd] e alcune lettere del Registrum Epistolarum [gre]) e da fonti di tardo viii (lettere inviate dal papa Adriano i a Carlo Magno) e di tardo ix secolo (la Vita di Gregorio Magno scritta da Giovanni Diacono [vgm]). 30  Sono considerati parte del complesso gregoriano anche i resti dell’aula absidata detta Bibliotheca Agapeti, dal nome di papa Agapito i (535-536) (Giuliani, Pavolini 1999). 31  lp, i: 238. 32 Vedi De Francesco 2004: 90-95, con bibliografia di riferimento. Monasteri di servizio presso santuari suburbani sono sicuramente attestati anche a Ravenna durante la seconda metà del vi secolo (Novara 2003). 33  pe, xxix, 13. 34  pe, xxii, 2.

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“Disonorevoli nascondigli”: le prime esperienze monastiche dell’Occidente 35 PC, x. Vedi 36  idl, xxix.

la discussione di questo passo in Duval 1989: 180-181.

37 Ad

esempio, si veda nella lettera cxxvii di Girolamo l’affermazione: «considera la cella come un paradiso»; e, nella cosiddetta Regola di Macario, redatta a Lérins alla fine del v secolo: «Nessun legame familiare ti attiri al mondo, ma tutto il vostro amore rimanga all’interno del monastero. Considera il monastero come un paradiso e abbi fede che i tuoi fratelli saranno tuoi familiari per sempre» (rma, vi, 1-4). 38 Vedi, per es., idl, xxviii e xxxi. 39  Brown 20052: 122-127; Penco 19953: 38-41. Quest’ultimo ricorda come siano molti i casi (ad es. Vercelli, Novara, Piacenza, Vicenza, Verona, Cremona, Ravenna, Pavia, Torino e Tortona), oltre a quello milanese, di vescovi dell’Italia settentrionale che appaiono coinvolti in iniziative di promozione di comunità di asceti entro o nei dintorni delle città su cui essi esercitavano la giurisdizione spirituale. 40  pva, 3. 41  pva, 5. 42  ap, iv, 6. 43  ap, iv, 6 e ii, 2. 44 Ad esempio, in quella detta “del Maestro” (rm, 11), e in quelle di Benedetto (rb, 65), di Fruttuoso (rf, 3), di Isidoro (ri, 6 e 17) e di Amando (ra, 25). 45  ap, 7, 1 e 2. 46 ConcCal, iv. 47 ConcAg, xxvii. 48  rc, 1. 49  Sul contesto del monachesimo iberico nel vii secolo si tornerà più avanti, alle pp. 190-196. 50  dd, ii, prol. La vita e le opere di Benedetto sono note solo attraverso l’unica fonte rappresentata dal ii Libro dei Dialogi di Gregorio Magno, sulla cui attendibilità storica molto si è discusso (Pricoco 2005: li-lvii). 51 Vedi ad esempio dd, ii, 3 e 12. 52  dd, ii, 36.

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Capitolo quarto La costruzione dell’identità: persone, luoghi e funzioni dei monasteri secondo le più antiche Regole d’Occidente (secoli v-vii) Si può quindi affermare che non è obbedendo alla regola e all’abate che il monaco pratica l’obbedienza cristiana, ma è restando fedele allo spirito della regola, grazie alle indicazioni dell’abate, che egli obbedisce alla parola di Dio (Bianchi 2001: xi) The various monastic rules provide evidence of the development of a new sense of space and of a quite original effort to modify the physical framework of social life. In the transition from the texts concerning the earlier desert fathers to the cenobitic rules there seems to be a clear development, a progressive process of construction of represented space (Sennis 2007: 289)

Genesi e significato delle Regole monastiche occidentali: qualche osservazione introduttiva Intorno all’anno 450 si aprì una controversia fra l’abate di Lérins, Fausto, e il vescovo Teodoro di Fréjus (Forum Iulii), entro la cui giurisdizione ricadeva il monastero. Teodoro riteneva che la comunità, installatasi qualche decennio prima sulla piccola isola per opera di Onorato, fosse divenuta troppo indipendente dal controllo dell’ordinario diocesano, al punto che i suoi comportamenti richiedevano di essere sanzionati con la scomunica. Data l’importanza di Lérins, la questione aveva superato la scala strettamente locale e fu perciò sottoposta al vescovo di Arles, Ravennius, in quanto metropolita della regione. Alla fine del 451, questi convocò un concilio al quale parteciparono diversi vescovi (alcuni dei quali già monaci nella stessa Lérins), in occasione del quale si stabilirono alcuni importanti princìpi in merito alla definizione delle competenze di vescovo e abate nella gestione degli affari della comunità monastica. Al vescovo competente territorialmente furono attribuite le prerogative di ordinare i monaci ai quali s’intendessero conferire gli ordini sacerdotali, di confermare i neo83

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fiti, di somministrare il chrisma (cioè l’olio per le cresime), di autorizzare l’ingresso nel monastero di clerici peregrini e l’esercizio, da parte di questi ultimi, dell’ufficio sacerdotale al suo interno. D’altra parte, all’abate si garantiva piena autorità sui monaci di stato laico presenti all’interno della comunità monastica, dalla quale al vescovo non era consentito reclutare aspiranti chierici, se non con il permesso dell’abate stesso. E così concludeva il resoconto delle deliberazioni: E questo è pienamente confacente alla ragione ed alla religione, e cioè che i chierici guardino con la dovuta sottomissione all’ordinazione vescovile, mentre tutta la congregazione dei laici [scil. guardi] alla sola e libera autorità ordinativa e dispositiva dell’abate che si è eletta, facendo così in modo che, in tutto e per tutto, sia custodita la regola che da tempo è stata stabilita dal fondatore del medesimo monastero1.

La frase conclusiva del deliberato sinodale mette in luce il tema centrale del rapporto fra Chiesa secolare e comunità monastiche. Queste ultime sono sì soggette alla supervisione della prima per quanto concerne l’accreditamento dei propri membri rispetto all’ordinazione sacerdotale, ma rimangono del tutto autonome riguardo alla propria organizzazione interna, che riposa sulla lettera della Regola stabilita dal fondatore. Mentre, dunque, mura e porte, mari e montagne sono chiamati a vegliare sull’intangibilità della solitudine monastica, la Regola stabilisce per essa un confine meno palpabile, ma altrettanto decisivo: essa, infatti, è lo strumento tramite il quale, alla nuova cittadinanza che il monaco acquisisce varcando la soglia del monastero, si connettono norme precise, aderendo alle quali egli si distinguerà per sempre da coloro che sono rimasti nel sæculum (Cantarella 2003). Nel 451 a Lérins esisteva già un testo normativo di questo tipo, la cui origine si faceva risalire al momento stesso in cui il monastero era stato fondato. Gli storici sono concordi nel ritenere che proprio il v secolo abbia costituito il periodo in cui questo genere di documenti avrebbe iniziato a vedere la luce. Dei molti che sono stati prodotti a noi ne sono pervenuti circa trenta, provenienti inizialmente dalla Gallia meridionale, dalla Penisola iberica, dall’Italia centro-meridionale e, solo a partire dal tardo vi secolo, dall’Irlanda. Non sempre è stato possibile ricostruire con certezza l’esatta origine geografica di ciascuno di essi, né la loro esatta cronologia. Tuttavia, si ritiene che molti siano stati generati presso comunità che, come Lérins, Condat e Montecassino, erano sorte come iniziative autonome e svincolate da rapporti di diretta soggezione alle gerarchie ecclesiastiche. Anche quando i loro autori sono personaggi che hanno militato nella Chiesa secolare (ad esempio Cesario e Aureliano divenuti vescovi ad Arles, Fruttuoso a Braga e Isidoro a Siviglia), la loro biografia ci rivela comunque che, nel corso della loro esistenza, essi avevano compiuto esperienze di vita ascetica o, quanto meno, avevano avuto diretta familiarità con ambienti monastici. 84

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Ma che cosa è veramente una Regola monastica? A ben vedere, la vita del monaco dovrebbe semplicemente rispecchiare i precetti del Vangelo. Per oltre un secolo, le testimonianze sulle forme e lo sviluppo dell’ascesi monastica erano state affidate a testi narrativi, talora concepiti anche in forma di dialoghi in cui un monaco venerato per santità e carisma risponde a domande sulla propria vita ed esprime pareri su questioni etiche e comportamentali. Questi testi rispondevano proprio all’idea che i monaci dovessero essere semplicemente modelli di pratica evangelica, sia a beneficio di quanti intendessero seguire la loro strada, sia perché la società da cui erano fuggiti potesse trovare in essi un parametro di ciò che sarebbe dovuta essere, per un credente, la vera sequela Christi (Bianchi 2001: viii-ix). Le stesse cosiddette ‘Regole’ di Basilio di Cesarea, divenute poi il principale testo di riferimento per il monachesimo di ambito greco-bizantino, si articolano in realtà come delle interviste in cui Basilio fornisce il suo punto di vista su come il monaco debba regolarsi rispetto a una serie di temi di carattere etico e pratico, concernenti sia il suo percorso ascetico individuale, sia i suoi rapporti con coloro che eventualmente lo condividano con lui. E il corpus degli scritti di Pacomio, benché concepito come un vero e proprio vademecum per l’organizzazione e la gestione della comunità, a ben vedere non è propriamente una Regola, ma piuttosto «una raccolta di precetti, raccomandazioni, lettere, scritti da Pacomio e dai suoi primi successori» (Pricoco 2003: 86). I comandamenti del maestro egiziano restano comunque il modello principale delle Regole occidentali, per quanto concerne sia il loro schema compositivo, sia i loro contenuti. Il concetto di base che sembra accomunare tutti questi testi è che la vita ascetica, vissuta in comunità, ha bisogno di alcuni punti di riferimento in grado di canalizzare ed equilibrare le diversità individuali entro limiti che consentano di perseguire armonicamente, nelle evenienze del quotidiano, gli obiettivi per cui la scelta della fuga mundi è stata compiuta da ciascuno. In questo senso, il termine latino regula più che nel senso di norma coattiva deve essere inteso nel significato di parametro e cioè di misura dei retti comportamenti tenuti dai monaci. Spesso le idee e i principi esposti in questi testi prendono spunto direttamente dalle esperienze concretamente vissute dal fondatore di una comunità, e da difficoltà, errori e anche fallimenti che essa può aver condotto a sperimentare. Come ricordavo in precedenza, le Regulæ occidentali tardoantiche e dell’inizio dell’alto Medioevo giunte sino a noi molto probabilmente non comprendono tutta la produzione originariamente esistente di testi di questi tipo. Specularmente, non vi sono elementi per ritenere che tutti i monasteri si fossero dotati di una regula né, tanto meno, che fra quelle conosciute ve ne sia una che abbia esercitato una qualche forma di riconosciuto predominio nella variegata galassia delle comunità fiorite nelle diverse regioni dell’Occidente romano (e poi romano-barbarico) o in quelle, come l’Irlanda, che di esso non avevano mai fatto parte2. Ad esempio nel monastero di Condat, sorto nelle montagne del Giura alla fine 85

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del v secolo, si dice che si seguiva la Regola stabilita dall’abate Ogendus, non perché non si stimassero valide quelle di Basilio, di Pacomio (curiosamente ricordato come abate “siriaco”), dei padri di Lérins o di Cassiano, ma perché, pur leggendo quelle regole quotidianamente, è questa che noi ci siamo risoluti a seguire, poiché essa è stata introdotta in funzione del clima e delle esigenze del lavoro; noi la preferiamo senza dubbio a quelle degli Orientali poiché il temperamento dei Galli, meno capace di sopportare le privazioni, la può rispettare in modo più agevole ed efficace3.

Alla fine del capitolo precedente ricordavo che la comparsa di questi testi può essere interpretata come la risposta a un’esigenza, manifestatasi progressivamente, di definire ruoli e dinamiche organizzative all’interno delle comunità cenobitiche e che si poneva in rapporto dialettico con lo speculare processo attraverso cui le gerarchie della Chiesa secolare avevano cercato di stringere il variegato mondo monastico entro le maglie di un controllo più strutturato a sistematico. Gli storici del monachesimo hanno da tempo riflettuto sulla possibilità che i testi di alcune delle Regole occidentali tardoantiche fossero scaturiti da momenti consultivi, che avrebbero avuto luogo durante il v secolo, in occasione dei quali esponenti di diverse comunità monastiche si sarebbero riuniti per riflettere proprio sull’esigenza di conferire connotati più omogenei al movimento ascetico (Mundó 1959). Anche se questa ipotesi non è verificabile, è però evidente che i testi delle diverse Regulæ sono legati tra loro da un fil rouge costituito non solo dalla familiarità con il background delle tradizioni orientali, ma anche da una fondamentale similarità degli argomenti trattati, benché l’organizzazione e la successione della loro trattazione possa variare sensibilmente all’interno dei singoli testi. Ciò autorizza a credere che idee e princìpi siano stati oggetto di discussioni e scambi intellettuali fra le comunità e singoli esponenti delle stesse, sebbene ci sfugga per gran parte la maniera attraverso la quale tale dialogo possa concretamente essersi intessuto. La comparsa delle Regole è comunque il segno di un processo di consolidamento delle strutture gerarchiche e organizzative del mondo monastico, di precisazione della testimonianza di vita cristiana che esso era chiamato a rendere e quindi del modo in cui avrebbe dovuto interagire con la società. Non è difficile tracciare una sorta di ‘palinsesto logico’ dei temi principali trattati da questi testi, partendo da quello della struttura delle comunità e dei rapporti gerarchici presenti al loro interno, per giungere ai modi di scandire il tempo della giornata e alla gestione degli inevitabili contatti con il mondo esterno. La forza di una famiglia monastica si costruisce a partire dal ruolo che in essa rivestono la figura e le prerogative dell’abate, che ha la responsabilità assoluta della vita dei confratelli e si occupa della loro guida spirituale. Accanto a lui, un posto di rilievo è occupato da coloro, come gli anziani della comunità, che lo affiancano più 86

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da vicino e lo devono consigliare nel modo più opportuno o, come il preposito o priore, che devono provvedere all’organizzazione dei bisogni pratici dei confratelli. L’abate governa sui monaci come Cristo sugli Apostoli, quindi in forza di un’autorità assoluta e incontestabile, ma dovrà farlo con magnanimità e misericordia. Se l’abate comanda, i monaci dovranno perciò obbedirgli; essendo tutti ugualmente sottoposti alla sua autorità, essi dovranno anche rispettarsi e sopportarsi caritatevolmente tra loro. La comunità con le sue regole crea un mondo nuovo: similmente a quanto aveva detto Cristo agli Apostoli, chi entra in un monastero dovrà abbandonare ogni possesso personale e ogni legame avuto nella vita precedente. Una volta accettato nel monastero, esso diverrà per il monaco la sua nuova casa, ed egli condividerà con i fratelli tutti i beni esistenti al suo interno, ma non ne possederà nessuno personalmente e potrà farne uso solo entro condizioni e limiti ben precisi. In monastero si entra per distaccarsi dal mondo e prepararsi all’incontro finale con Dio: il viatico per raggiungere questo obiettivo è la preghiera, che accompagna l’intero arco della giornata e che costituisce l’unico flatus vocis che può rompere il silenzio, che deve altrimenti regnare sovrano tra i membri di una comunità (Bruce 2007: 33-37). La vita consacrata alla preghiera e al colloquio con Dio è un privilegio che i monaci devono potersi garantire con le proprie forze, cooperando affinché la comunità abbia il necessario per vivere: per questo è indispensabile che essi lavorino, riservando a questo scopo tempi precisi durante la giornata. Benché “morto al mondo”, il monaco rimane un essere vivente, con bisogni da soddisfare e debolezze da tenere rigorosamente sotto controllo: i pasti e il riposo, momenti essenziali perché il corpo avuto in dono da Dio possa essere mantenuto integro nelle sue funzioni, devono essere regolamentati con precisione affinché non si trasformino in occasioni di pericolosa indulgenza al piacere che ne può derivare o, peggio, in circostanze di convivialità e promiscuità dalle conseguenze devastanti per la disciplina collettiva della vita consacrata. Solo a malati ed anziani può essere concessa qualche deroga rispetto alle norme concernenti i tempi del mangiare, del dormire e del lavorare e ad essi si dovrà prestare assistenza con la massima carità, eventualmente aiutandoli a varcare la soglia della morte, nel momento stabilito da Dio, con tutta la dolcezza possibile. Per quanto le Regole possano istruire il monaco sulla corretta via da seguire, l’errore è però sempre dietro l’angolo ed esso deve essere punito dall’abate con rigore, ma non senza misericordia per l’umana debolezza, tenendo in conto che anche Cristo fu tentato dal demonio quando si era ritirato nel deserto in solitaria meditazione. L’attenzione al delicato gioco di equilibri che si determina all’interno di una comunità monastica produce l’effetto collaterale di richiamare prescrizioni molto dettagliate sulle modalità con cui debbano essere accolti coloro che si presentano alla soglia del monastero, o per esservi accettati come membri della comunità o semplicemente per chiedere aiuto e assistenza. Se poi queste persone risultano essere già provviste degli ordini sacerdotali, il loro contatto con la comunità dovrà essere gestito con la massima attenzione. Vale la pena ricordare, a questo proposito, che nei testi delle Regole vi è molta 87

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insistenza sul momento della monacazione, visto come spartiacque rispetto al ruolo che il postulante rivestiva nella società prima della sua conversione alla vita ascetica: che fosse stato in precedenza servo o aristocratico, a partire dal momento in cui è accolto a far parte di una comunità, egli sarebbe stato solo un monaco, uguale in tutto e per tutto ai confratelli. Anche i legami personali, familiari e amicali intrattenuti nella vita precedente sono cancellati, in nome dell’appartenenza a una dimensione esistenziale nuova, tutta proiettata verso l’assoluto divino, poiché Dio considera coloro che si convertono a Cristo come tutti di uno stesso genere. Non fa differenza, infatti, se qualcuno giunge al servizio di Dio da una condizione di bisogno o schiavitù, oppure da una vita ricca e di abbondanza. Molti, infatti, che venivano da una condizione popolana, brillando per le loro sublimi prove di virtù, hanno raggiunto una condizione più elevata di altri che erano nobili, passando così loro avanti per l’eccellenza delle loro virtù4.

Chi veste l’abito monastico lascia dunque definitivamente dietro di sé il proprio passato mondano; per questo, se si troverà a dover provvisoriamente lasciare le mura del cenobio, magari per svolgere un’incombenza affidatagli dall’abate, dovrà tenere un comportamento improntato alla più assoluta invisibilità, evitando di perdersi in chiacchiere con chicchessia, e soprattutto con persone dell’altro sesso. Scoprire gli spazi dei monasteri e i loro abitanti attraverso i testi delle Regole Gli autori delle Regulæ hanno sicuramente scritto avendo presente come sfondo ideale l’ambiente del monastero in cui operavano, che costituiva il luogo concreto della sperimentazione di successi e problemi della loro vita ascetica comunitaria. La lettura di questi testi, quindi, può aiutare a comprendere come fosse percepito lo spazio in cui la vita dei monaci si sarebbe dovuta svolgere, anche se sarebbe erroneo pensare ad esse in termini di documenti prescrittivi sul “come” un monastero dovesse essere materialmente costruito (Brenk 2000 e 2000b). L’unica testimonianza che, si può dire, costituisce eccezione alla regola è il capitolo introduttivo della cosiddetta Regula Isidori, redatta fra il 615 e il 619 e attribuita a Isidoro, vescovo di Siviglia e grande erudito del suo tempo. Esso costituisce una sorta di vero e proprio breve vademecum su come organizzare la struttura di un monastero e i suoi spazi, affinché le varie funzioni che vi si devono svolgere possano essere espletate nel migliore dei modi: Anzitutto, fratelli carissimi, il vostro monastero abbia grandissima cura per la clausura, in modo che gli edifici dei chiostri rendano palese la solidità di tale osservanza. Il nostro nemico, infatti, il diavolo, come leone ruggente va in giro con le fauci spalancate cercando chi di noi divorare. L’edificio del monastero, inoltre, avrà soltanto una porta, e poi 88

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La costruzione dell’identità una porta posteriore per andare all’orto. Quanto alla città, essa dev’essere molto lontana dal monastero, perché non accada che, qualora essa sia vicina, procuri l’affanno dei relativi pericoli e danneggi la reputazione del monastero. Le celle dei fratelli si trovino vicino alla chiesa, in modo che essi possano accorrere quanto prima all’ufficio. I locali dei malati invece siano lontani dalla chiesa [basilica nel testo] e dalle celle dei fratelli, in modo che i fratelli malati non siano disturbati da nessun genere di agitazione e da nessun rumore. La dispensa del monastero, poi, è bene che sia contigua al refettorio, cosicché in virtù di tale vicinanza i fratelli possano prestare servizio a tavola senza ritardi. L’orto, infine, deve essere assolutamente all’interno della cinta del monastero, perché, lavorando all’interno, i monaci non abbiano nessuna occasione per andare in giro fuori5.

È veramente impressionante la somiglianza fra alcuni importanti elementi del monastero ‘ideale’ descritto da Isidoro e la ricostruzione della fase più antica del monastero di San Sebastiano di Alatri, analizzata nel capitolo precedente. Un altro spunto interessante che si può cogliere dal passo isidoriano è la ripresa del topos della contrapposizione fra la vita monastica e l’ambiente cittadino. Benché il periodo di compilazione del testo si collochi nel vii secolo, epoca in cui il tenore materiale e la composizione sociale dell’ambiente urbano avevano subìto un declino rilevante rispetto alla situazione del iv e anche del v secolo, quest’ultimo è considerato ancora fonte di pericoli per la vita e i propositi del monaco e quindi si ritiene inconciliabile la prossimità degli uni con l’altro. È perciò contemplata la possibilità che il monastero in città possieda una cella (termine che in questo contesto sembrerebbe significare tanto un magazzino quanto una dépendance abitativa), ma si prescrive cha alla sua amministrazione venga deputato un fratello anziano e cioè una persona il cui equilibrio ed esperienza lo pongano maggiormente al riparo dalle tentazioni che l’ambiente circostante può produrre6. Gli elementi che compongono la topografia ideale del monastero immaginato da Isidoro ricorrono, insieme ad altri, nei testi di un po’ tutte le principali Regulæ redatte in Occidente fra v e vii secolo, ma in questi casi li troviamo però in genere sparsi nei diversi capitoli. In questa ‘topografia immaginaria’ tracciata dalle Regole si possono individuare alcune macro-aree: i confini del monastero; gli spazi ove si svolgono i momenti principali della vita comune (preghiera, refezione e riposo); gli spazi deputati al lavoro intellettuale e manuale. Alla dimensione spaziale se ne associa un’altra, altrettanto importante: la scansione del tempo fra le mura del chiostro. Limina monasterii: gli spazi di accesso, di accoglienza degli ospiti e per l’alloggio dei novizi There is no “closure” without an “entree”, no “entree” without a “porte”. The hermitage is not hermetically sealed; rather, its entrance is foregrounded, in its dual character as opening and obstacle, door and frame (Howie 2007: 53). 89

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I monaci d’Occidente avevano ben appreso dai loro confratelli orientali che l’accesso al monastero è uno snodo assai delicato per la vita della comunità. Già nei testi più antichi, di solito piuttosto succinti, si parla dell’esistenza della porta d’ingresso del monastero e del portinaio che la deve custodire, ove devono essere trattenuti coloro che chiedono di essere ammessi a far parte della comunità, in attesa che ne sia stata verificata l’idoneità7. Nei testi più tardi, il quadro si arricchisce di dettagli assai interessanti. Si ricorda che è necessario che tra i membri della comunità venga individuato uno janitor o un porta(ra)rius, cioè un portinaio, al quale deputare la cura dei claustra exteriora, e cioè gli spazi che esorbitano da quelli del claustrum vero e proprio, dove vivono i monaci. A questa persona (a volte può essere anche più di una) è assegnato un alloggio apposito – una specie di guardiola – collocato presso l’ingresso, che egli ha il compito di tenere pulito e illuminato. In alcuni testi si dice che al portiere è affidata la cura dei cani del monastero, cosa che fa pensare che gli animali fossero utilizzati per aiutarlo a fare buona guardia all’entrata8. Qui devono essere predisposti dei locali (habitacula) in cui accogliere gli ospiti per farli dormire, mangiare ed eventualmente pregare9. Ad esempio, parlando dell’accoglienza da riservare alle donne che si presentino all’uscio di un monastero maschile, la Regola di Tarnat dice: Se poi capita che, per loro devozione o per amore della vostra vita monastica, esse vengano al monastero, non sia loro concesso di oltrepassarne le porte interne, ma siano resi loro onore e una buona accoglienza nell’oratorio e nella casa dell’ospitalità.

Ma il filtraggio non è previsto solo se alle porte del monastero si presenti un visitatore di sesso diverso da quello dei membri della comunità, bensì è esteso a chiunque: Se dei forestieri arriveranno al monastero dopo la compieta, i fratelli della casa, a causa di quanto stabilisce la regola, diano loro ristoro servendoli in silenzio. E, lavati loro i piedi, fatta poi la conclusione [scil. delle preghiere] per proprio conto a bassa voce, li mandino anch’essi a dormire nei letti dei pellegrini. Chiuse immediatamente le porte, coricandosi essi pure nei loro giacigli, nel silenzio di quelle ore, cerchino il sonno10.

Si capisce bene la successione degli eventi descritti dal testo: accolti i pellegrini negli spazi a loro riservati e messili a riposare nel dormitorio annesso ai medesimi, i monaci devono poi ritrarsi nella clausura, serrandone le porte di accesso, per raggiungere il proprio dormitorio e rimanervi a riposare per le ore a tale scopo comandate. Rimanendo in ambito gallico, la Regola di Aureliano offre un dettaglio in più quando ricorda che

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La costruzione dell’identità a nessun laico, nobile o popolano che sia, si permetta di entrare nella basilica o nel monastero; ma se qualcuno, per devozione o per parentela, vorrà venire a visitarci, venga al parlatorio del monastero11.

È quindi rigorosamente vietato a quanti non appartengono alla comunità non solo tutto lo spazio in cui i monaci vivono, ma anche quello in cui pregano, ed è evidente che anche Aureliano intorno a questi edifici presupponesse l’esistenza di spazi satelliti, predisposti per l’accoglienza agli esterni. Il divieto d’ingresso agli spazi interni del monastero – o, meglio, una sua rigorosa regolamentazione – è esteso da Aureliano anche a personaggi che svolgano servizi importanti per la comunità, come ad esempio fabbri e muratori, a meno che vi fosse qualche necessità specifica che giustificasse una deroga, che comunque andava preventivamente valutata e autorizzata dall’abate. Lo stesso vale anche per la persona cui sia stata affidata la cura amministrativa del monastero, qualora questi non sia un membro della comunità, cosa che avveniva sovente presso le comunità femminili12. I confini invalicabili del monastero non si riconoscono solo nelle mura che lo recingono, ma sono costituiti anche da elementi più immateriali. Ad esempio, la stessa Regola seguita dai monaci non doveva essere divulgata agli estranei, perché essi avrebbero potuto non capirla, trovarla stravagante e farne perfino oggetto di scherno13. Fra gli ‘esterni’ che interferiscono con la vita di una comunità monastica vi è una categoria particolare, alla quale dedicare specifiche attenzioni: sono i postulanti, cioè coloro che si presentano alle porte del cenobio non per una semplice visita o per una casuale sosta nel corso di un viaggio, ma perché desiderano entrare per farvi parte in maniera permanente. Ovviamente, i postulanti costituiscono una risorsa d’importanza fondamentale, perché senza il loro apporto la comunità di un monastero non si sarebbe potuta alimentare con nuovi effettivi. Massima è però la cautela posta in atto per verificare le reali intenzioni di un nuovo arrivato. Fra monaci e postulanti s’instaura una sorta di gioco delle parti, in cui i primi devono mostrarsi sempre diffidenti e quasi ai limiti della sgarberia verso i secondi e questi, a loro volta, devono accettare con rassegnazione e pazienza la lunga anticamera e le prove fisiche e spirituali a cui vengono sottoposti, al fine di convincere i futuri confratelli della propria reale volontà di abbandonare il mondo ed entrare in comunità. Di solito, il luogo in cui si svolge questa sorta di esame preliminare è costituito dagli stessi quartieri esterni del monastero presso cui vengono ospitati i visitatori, ma a volte può capitare che, sempre all’interno di questa stessa area, ai postulanti siano riservati locali specifici, dove potranno anche dormire e mangiare14. Prima dell’ammissione definitiva alla comunità, al postulante può essere chiesto di partecipare alle attività lavorative svolte quotidianamente dai confratelli oppure di seguire veri e propri ‘corsi di formazione’, consistenti nell’apprendimento dell’esercizio alla preghiera ovvero in lezioni sulla vita e l’organizzazione della co91

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munità presso la quale desiderano aggregarsi. A volte il periodo di formazione può essere diviso in due fasi, delle quali la prima è quella in cui l’aspirante monaco esprime la sua volontà di unirsi alla comunità e la seconda è quella in cui, accertati i suoi buoni propositi, lo si introduce, in qualità di novizio, alla vita della comunità senza però che egli ne faccia ancora pienamente parte15. Novizi e visitatori (questi ultimi distinti fra persone di stato laico ed ecclesiastico ovvero monaci provenienti da altri monasteri) devono poter interagire con la comunità monastica e ciò innanzitutto perché i monaci devono sempre riconoscere in essi il Cristo, come esplicitamente afferma Benedetto in apertura del capitolo liii della sua Regola. Ma è altrettanto evidente che ciò non può in alcun modo far dimenticare che il Cristo che i monaci cercano è quello che incontreranno dopo la vita terrena. L’accoglienza del forestiero non può quindi determinare commistioni fra monaci e secolari e, per tale ragione, a questi ultimi non è consentito contaminare l’animo dei monaci con conversazioni, atti e ritmi di vita che recano con sé il pericolo di distrarli – se non di fuorviarli – dalla loro anachoresis. A tale proposito giova ricordare che le Regole sono particolarmente ricche di prescrizioni concernenti il contegno che i monaci devono tenere nelle circostanze in cui, per motivi di forza maggiore, siano costretti a uscire dalla loro casa e a recarsi all’esterno. Vengono fornite indicazioni su come i monaci debbano vestirsi in questi frangenti, su come, quando e che cosa mangiare, su come e con chi parlare, se e quando poter avere contatti con i propri familiari; soprattutto, però, viene quasi sempre prescritto che, per nessun motivo, chi si è recato fuori al momento del rientro racconti ciò che ha visto ai confratelli che sono rimasti in monastero. In alcuni casi è previsto che questi relazioni subito all’abate, il quale provvederà, con la sua benedizione, a mondare il monaco appena rincasato delle possibili influenze negative subìte durante la trasferta appena conclusa. Infra claustrum. Le aree riservate ai monaci e la loro articolazione Se dall’esterno un monastero appare come un luogo difficilmente accessibile, i suoi spazi interni sono invece solitamente rappresentati come luoghi che compongono un ambiente in cui la vita ascetica si possa svolgere serenamente, armonicamente e compiutamente. Il soddisfacimento delle esigenze dell’anima occupa il primo posto, ma anche quelle del corpo non possono essere dimenticate. Ecco, quindi, che più o meno tutti i testi si occupano di spendere qualche parola su che cosa debba essere predisposto per assicurare che ai monaci siano garantiti spazi idonei, oltre che per pregare, anche per mangiare, dormire, studiare e lavorare. Benedetto esprime questo concetto in maniera compiuta in un celebre passo del capitolo lxvi della sua Regola, in cui dice:

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La costruzione dell’identità Il monastero, poi, deve essere costruito, se è possibile, in modo che ci sia tutto il necessario: cioè l’acqua, il mulino, l’orto e dentro il monastero si esercitino tutti i diversi mestieri, perché i monaci non siano costretti ad andar girando fuori, cosa che non giova assolutamente alle loro anime.

Nelle altre Regulæ (se non in quella di Isidoro) non troveremo una descrizione così nitida e concisa della natura di hortus conclusus che lo spazio riservato ai monaci deve rappresentare. In genere, il pensiero dei “padri legislatori” su come rendere un monastero idoneo al perseguimento dell’ascesi comunitaria si riesce a cogliere scorrendo l’intero testo di ciascuna Regula. La sfida che essi avevano di fronte non era semplice, poiché si trattava di garantire, nel rispetto dei princìpi di sobrietà che dovevano presiedere allo svolgimento dell’esistenza monastica, tutto quel che poteva servire affinché i confratelli potessero costruirsi uno spazio in cui vivere insieme in armonia – spesso per tempi molto lunghi – svolgendo attività assai diversificate al suo interno. Sebbene tutte le Regole dedichino in genere notevole attenzione alle modalità di svolgimento della preghiera quotidiana, sorprende il fatto che si trovino pochissimi dettagli relativi alle caratteristiche che deve assumere il luogo in cui i monaci si riuniscono a questo scopo. Un elemento che ricorre con una certa omogeneità è costituito dal termine oratorium, che identifica il luogo in cui si svolge la preghiera comune (normalmente definita a sua volta con il termine synaxis, che abbiamo già visto utilizzato con lo stesso significato nei testi orientali). Se ripensiamo alle considerazioni fatte in precedenza sull’inaccessibilità del monastero per quanti non siano parte della comunità e al fatto che talora si sottolinei come tale requisito debba essere previsto in particolare per il luogo di svolgimento della preghiera, si comprenderà facilmente perché, in riferimento ad esso, non si trovi quasi mai utilizzato il termine ecclesia. Questo termine, infatti, richiama l’idea di un luogo in cui la comunità dei credenti può riunirsi nel suo insieme, in occasione della celebrazione della messa, per ascoltare la parola di Dio e per ricevere i sacramenti (Iogna-Prat 2006: 296-298). Nei monasteri, invece, ciò che conta è la preghiera quotidiana e continua che, in concentrazione assoluta e senza interferenze esterne, l’asceta deve rivolgere a Dio. Ecco quindi il perché della prevalenza del termine oratorium, che tanto indica la funzione predominante dell’aula di culto interna a un monastero, quanto il fatto che tale funzione è tutta pensata in ragione delle esigenze della comunità. È probabilmente in base a presupposti di questo tipo che, ad esempio, la Regola di Ferreolo proibisce esplicitamente che nella chiesa del monastero si possano battezzare dei bambini16, funzione a cui erano deputate, insieme alla somministrazione di tutti gli altri sacramenti, le chiese vescovili o le loro succursali (plebes) distribuite sul territorio. Proprio durante il vi secolo queste ultime si moltiplicarono nelle campagne dell’Occidente, a testimoniare il definitivo radicamento del Cri93

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stianesimo anche al di fuori dell’ambiente cittadino (Violante 1982: 963-1012; Chavarría Arnau 2009: 160-167; Ronzani 2009). Gregorio Magno, che in genere usa il termine oratorium per indicare i luoghi di culto interni ai monasteri, è a questo proposito ancora più esplicito: nell’agosto del 593 intima al vescovo di Taormina, in Sicilia, di far rimuovere al più presto un fonte battesimale presente nel monastero di Sant’Andrea super Mascalas, poiché la sua presenza crea disturbo (insolentia) alla vita dei monaci, evidentemente a causa della sua utilizzazione da parte di persone esterne alla comunità17. Nella medesima direzione va un passo delle Vitæ Patrum Iurensium in cui si dice che, al tempo di san Romano (quindi intorno alla metà del v secolo), l’oratorium del monastero di Condat era riservato alla secreta oratio dei monaci, mentre è ricordata la presenza di una basilica, posta a una certa distanza dal monastero, dove il santo stesso fu seppellito per permettere il pellegrinaggio alla sua tomba18. Un altro dettaglio che vale la pena notare è che il termine oratorium è sempre declinato al singolare, il che dovrebbe presupporre che all’interno dei monasteri fosse di norma previsto un solo spazio dedicato a questa funzione. L’oratorium è il luogo comunitario per eccellenza: abbondano i richiami a punizioni e reprimende riservate ai confratelli che, dopo aver udito il segnale sonoro che chiama alla sinassi, tardino a raggiungerlo ovvero che durante la preghiera si distraggano, si addormentino o, peggio, inducano altri alle chiacchiere e al riso. Altrettanto, non mancano puntualizzazioni sul posizionamento di ciascun membro della comunità al suo interno, in rapporto alla sua anzianità e alla sua funzione. L’esclusione di un monaco dall’accesso a questo ambiente costituisce una delle sanzioni più pesanti in cui egli possa incorrere, ed essa è normalmente comminata in conseguenza di colpe gravi19 o della reiterazione di colpe delle quali, pur essendo stato già redarguito, non si sia voluto emendare20. Vengono tuttavia talora concesse dispense per i monaci che, in ragione di specifici incarichi lavorativi, si trovino in aree del cenobio lontane dall’oratorio. In questi casi, infatti, la distanza obbligherebbe il monaco, udito il segnale di raccolta, a recarsi di corsa all’oratorio; ciò non solo lo indurrebbe a un contegno poco consono alla sua dignità, ma ne renderebbe il passo eccessivamente rumoroso, contravvenendo così alla regola del silenzio. Talora viene indicata in cinquanta passi la distanza massima superata la quale sarà consentito al monaco di rimanere al proprio posto, recitando in solitudine le preghiere previste per quel momento della giornata21. Lo spazio interno di un oratorio doveva essere occupato per buona parte dai sedili su cui i monaci prendevano posto durante le preghiere quotidiane. Solo un passo della Regola del Maestro fornisce il dettaglio che al suo interno si trovava un altare e che le sue pareti potevano essere decorate22. Più ricchi sono i dettagli relativi agli altri due ‘settori’ dello spazio monastico che coinvolgono la comunità nel suo insieme: quello del riposo e quello della refezione. 94

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Quanto al primo, i testi delle Regole si dividono quasi a metà fra due scelte: che i confratelli (eventualmente anche l’abate) dormano in locali comuni ovvero che a ciascuno sia assegnata una cella individuale. L’adozione di una o dell’altra di queste due soluzioni non sembra dipendere da fattori geografici o climatici. Lo testimonia il fatto che nelle Regulæ ascrivibili all’ambiente della Gallia centro-meridionale e dell’Italia sono contemplate ambedue le possibilità. In genere, se la scelta ricade sulla possibilità che i monaci dormano in celle singole si consente al monaco di tenerne chiusa la porta, ma mai a chiave23. Se il dormitorio invece è costituito da un unico camerone comune per tutti i monaci (o dalla variante in cui siano previsti più ambienti in cui trovano posto i giacigli per gruppi di monaci), eccezioni possono darsi per l’abate, cui è riservata una cella singola, e per i monaci malati, che vengono fatti ricoverare in un’apposita infermeria24. Non è difficile trovare raccomandazioni sull’illuminazione del dormitorio nelle ore notturne e sulla disposizione dei letti, che non dovranno mai essere messi troppo vicini tra loro, per evitare che l’oscurità favorisca comportamenti inappropriati, come il chiacchiericcio o, peggio, la possibilità di contatti fisici tra i monaci. Fruttuoso di Braga in proposito prescrive: tra i singoli letti deve esservi la distanza di un cubito [circa 50 cm] perché non avvenga che se i corpi sono vicini ciò sia di incentivo alla libidine. Nel buio nessuno parli con un altro, né dopo compieta nessun giovane si avvicini in alcun modo al letto di un altro. L’abate o il preposito ispezionino il letto di ciascuno due volte alla settimana e stiano attenti a vedere se vi sia qualcosa di superfluo o di nascosto25.

Peraltro, il rischio paventato non è necessariamente solo quello che tra i monaci si sviluppino relazioni omosessuali, ma anche quello dell’insorgere di desideri carnali tout-court, che possono manifestarsi sotto forma sia di fantasticherie a occhi aperti, sia di sogni e che possono anche essere causa di polluzioni notturne, cosa che viene richiamata con particolare preoccupazione, ad esempio, dai testi delle Regole spagnole di Isidoro e Fruttuoso. Il problema del controllo degli spazi destinati al riposo non trova motivazioni solo per le delicate implicazioni che esso intrattiene con la sfera del comportamento sessuale dei monaci. Il letto, infatti, costituisce il luogo più ‘personale’ di cui si può disporre in uno spazio, come quello del monastero, in cui di fatto si cerca di abolire ogni differenziazione fra gli individui. Si potrebbe quindi dare il caso che il monaco cerchi di costruire accanto ad esso una sorta di microcosmo personale, fatto di oggetti che egli consideri suoi propri. La cosa, ovviamente, è considerata esecrabile e pericolosa in quanto, tra gli eventuali oggetti di cui il monaco eventualmente si circonda, si potrebbero annidare richiami alla vita precedente e ai legami che egli vi intratteneva, ad esempio quelli evocati da lettere di familiari ed amici. L’organizzazione del dormitorio come spazio collettivo o individuale poteva 95

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anche non essere decisa una volta per tutte: era possibile che, nello stesso monastero, si passasse dall’utilizzo di celle separate all’adozione di un dormitorio comune. All’inizio del vi secolo, Eugendus, abate di Condat, decide, rifiutandosi di seguire su questo punto l’esempio degli archimandriti orientali, di fare cosa più utile sottomettendo i monaci alla vita comune. Dopo la distruzione delle piccole celle individuali, deliberò che tutti prendessero il loro riposo insieme con lui in un unico locale: coloro che già si riunivano in una sala comune per consumare insieme il pasto, volle che riposassero anche sotto un unico tetto, mantenendo però i letti separati. Come avveniva nell’oratorio, una luce avrebbe dovuto ardervi sempre per tutta la notte26.

La Regola di Paolo e Stefano, un testo presumibilmente italiano del vi secolo, offre la curiosa e inedita notazione della possibilità che, nella stagione estiva, i monaci dormano fuori del proprio letto, all’aria aperta, per custodire il cortile27.

Strettamente collegato a quelli appena affrontati è il tema dell’abbigliamento dei monaci. Si raccomanda che i monaci dormano vestiti sia per frapporre un’ulteriore barriera a qualsiasi contatto fisico, sia al fine di abolire qualsiasi differenziazione esteriore fra i componenti della comunità. Tutti i legislatori monastici si esprimono, da questo punto di vista, in maniera piuttosto chiara anche se non nel medesimo dettaglio. Si raccomanda perciò che ognuno porti lo stesso tipo di abito e talora si ricorda che non è consentito celare al di sotto di esso indumenti atti ad addolcire la ruvidezza del contatto del corpo con la stoffa con cui in genere si prescrive che venga confezionata la veste quotidiana. Per consentire il rispetto di basilari norme d’igiene, si permette a ciascun monaco di avere almeno un cambio d’abito (e talora anche di calzature). Sebbene quasi tutte le Regole non manchino di insistere sul fatto che i monaci devono dimostrare prontezza nello svegliarsi e nel levarsi dal giaciglio, anche quando ci si deve recare nell’oratorium per recitare le preghiere notturne, non sono in genere forniti dettagli sul rapporto spaziale che deve intercorrere fra questo luogo il dormitorium. È più quindi per induzione (l’esigenza che l’oratorium possa essere raggiunto rapidamente nella notte), e non per l’esplicita indicazione fornita dai testi, che si può ritenere che i due luoghi si trovassero di solito in reciproca prossimità. Il terzo “luogo principale” della vita comunitaria, dopo l’oratorio e il dormitorio, è costituito dal refettorio. Su come esso dovesse essere organizzato il punto di vista di tutti i testi delle Regulæ è assolutamente coincidente. Si deve trattare di uno spazio comune, presso cui, a orari prestabiliti, tutti i componenti della comunità devono recarsi per con96

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sumare i pasti rimanendo in silenzio, possibilmente ascoltando nel contempo letture recitate a turno da ciascun confratello, cosicché il tempo trascorso a nutrire il corpo non sia un momento di mero soddisfacimento di esigenze fisiche, ma possa a sua volta fornire occasione di alimento dell’anima, dato che essa, sopravvivendo al corpo, costituisce ciò di cui il monaco deve soprattutto preoccuparsi. Il concetto è ben focalizzato nella Regola di Ferreolo28, che riporta un passo di san Paolo (1 Cor 6, 13) in cui si afferma: Il cibo è per il ventre e il ventre è per i cibi, ma Dio distruggerà questo e quelli.

In alcuni dei testi più antichi, come ad esempio la Regula Orientalis e la Tertia Regula Patrum, di origine gallica, la preghiera e il pasto vengono addirittura trattati nello stesso capitolo, come fossero due facce della stessa medaglia, poiché in ambedue i momenti la comunità si ritrova riunita. Per questi motivi abbondano i divieti a che i monaci assumano cibo al di fuori del refettorio e degli orari prestabiliti, le reprimende per chi si presenti in ritardo ai pasti, le raccomandazioni al silenzio e alla compostezza del comportamento durante tali momenti e le conseguenti punizioni per chi trasgredisca queste regole. Eccezioni al rispetto degli orari sono previste in genere solo per gli addetti alla cucina e alla pulizia del refettorio: ad essi, per ovvie ragioni pratiche, viene concesso di mangiare a parte e comunque successivamente al pasto dei confratelli. Altrettanto cauto è l’atteggiamento dei legislatori di fronte alla possibilità che estranei partecipino alla mensa dei monaci; la cosa, se non è del tutto esclusa, è quanto meno normata sempre in modo molto preciso. Purtroppo, anche per quanto concerne lo spazio della refezione, mancano nei testi delle Regole indicazioni su come esso dovesse essere materialmente organizzato. L’unico accenno in proposito si trova nella Regola di Isidoro ove, oltre ad affermare che il refettorio deve essere unico, si dice che i monaci dovranno sedere in due per ogni tavolo29. Strettamente legato al tema del luogo della refezione è quello relativo agli spazi per la preparazione e la conservazione dei cibi, ovvero la cucina e la dispensa. In questo ambito appare spesso la figura del cellerarius, un confratello al quale è delegato il compito (talora accanto ad altre mansioni) di gestire la dispensa, fornire le vivande alla cucina e sovrintendere al buon funzionamento della medesima, pur non essendo egli stesso a preparare i cibi. Si tratta di un personaggio centrale nella vita del monastero, dalla cui rettitudine e dal cui equilibrio dipende il benessere di tutta la comunità. La più antica descrizione del suo profilo la troviamo nella Regula Orientalis, in cui si dice: Quanto al cellerario, egli abbia cura, mantenendo l’astinenza e la sobrietà, di conservare con diligenza e sobrietà e fedeltà le cose che sono state portate al monastero per il sostentamento dei fratelli […]. Provveda poi al vitto dei fratelli e lo consegni ai settima97

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Le città dei monaci nari. Per condire i cibi egli darà il necessario secondo la consuetudine della spesa quotidiana, senza prodigalità né avarizia, perché non accada che a causa del suo vizio vengano danneggiati i fratelli o subiscano qualche ingiustizia30.

Dal momento che nel passo si ricorda anche che al cellerarius è affidata la custodia dei recipienti in dotazione al monastero, è assai probabile che la conservazione e la distribuzione delle stoviglierie necessarie per la preparazione e il servizio dei cibi ricadessero nel novero dei suoi compiti31. Benedetto e il Maestro descrivono come una sorta di tutt’uno funzionale la cucina insieme alla dispensa, al forno e all’orto32. E Isidoro aggiunge che, al contrario delle attività agricole e dei lavori edili, da affidarsi a servi esterni alla comunità, il lavoro di cucina e quello nell’orto devono essere di pertinenza dei monaci. Questo fa pensare che, all’interno del monastero, la presenza di uno spazio in cui coltivare i prodotti della terra di consumo quotidiano fosse considerata cosa indispensabile33. Il servizio di cucina vero e proprio e quello di distribuzione dei cibi durante i pasti (nonché la pulizia dei locali a ciò deputati) non sono mai descritti come mansioni affidate permanentemente ad alcuni membri della comunità, ma sempre come attività alle quali devono attendere a turno tutti i confratelli, generalmente suddivisi in gruppi che prestano servizio ciascuno per una settimana. Dato che il lavoro in cucina occupava solo parte delle ore della giornata, ai fratelli di turno potevano essere assegnate anche altre mansioni ‘di fatica’, come la pulizia degli ambienti del monastero, tra cui le latrine, il lavaggio della biancheria, il taglio della legna e l’accensione e lo spegnimento delle lampade34. Il cellerario dovrà controllare che, al cambio del turno, i fratelli “in uscita” consegnino in stato di perfetto ordine e pulizia tutti gli utensili di cucina a quelli “in entrata”35. Videte ne graventur corda vestra crapula (Lc 21, 34). Il consumo del cibo e il suo significato La normativa sulla refezione dei monaci è accompagnata, in quasi tutte le Regulæ, da prescrizioni sulle specie di cibi di cui i monaci possono legittimamente nutrirsi e sul quando e come sia consentito mangiare (Boulc’h 1997). Nella tradizione vetero e neotestamentaria sono frequenti i riferimenti al cibo. Luoghi, tempi e modi della sua assunzione assumono nelle Sacre Scritture prospettive e significati diversi, ma quella che probabilmente più di frequente si ripropone è la riflessione sulla necessità che l’uomo, preoccupandosi di nutrire il corpo, non dimentichi di nutrire anche lo spirito e che, anzi, il nutrimento del corpo non diventi l’unico fine della vita. Ciò vuol dire che il cibo del corpo va assunto con moderazione, affinché non ingeneri la gozzoviglia, che è il consumo del cibo fine a se stesso, senza più alcun nesso con il soddisfacimento dei bisogni basilari dell’uomo. 98

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D’altra parte, il nutrimento è consumo dei prodotti della terra, ed essi, per quanto l’uomo si adoperi a lavorarla, sono comunque innanzitutto il frutto della grazia di Dio; il cibo e il sostentamento che l’uomo da esso trae rappresentano perciò altrettanti strumenti per il riconoscimento della Sua infinità bontà36. Il cibo, quindi, è metafora del nutrimento cui il credente deve attingere, che è contemporaneamente quello del corpo e quello dell’anima. A tal proposito, sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, non mancano i passi nei quali si chiarisce che nella vita non è previsto solo il nutrimento del corpo, bensì anche l’assunzione di quel particolare cibo dello spirito che è la parola di Dio. La sua mancanza può ingenerare una carestia ancora più grave di quella causata dalla penuria dell’alimentazione del corpo37. Il cibarsi, inoltre, è considerato con particolare attenzione nelle Scritture, non tanto come atto individuale, bensì nella sua dimensione collettiva. Mangiare insieme è segno dell’appartenenza a un’unica comunità; la condivisione di quell’atto sancisce un’alleanza e una comunità d’intenti, sia tra coloro che vi partecipano, sia tra essi e Dio38. In questo senso, nella tradizione neotestamentaria, i pasti in comune forniscono a più riprese occasione a Gesù per impartire insegnamenti39 e feste e banchetti sono spesso oggetto delle sue parabole40. La centralità di quest’aspetto emerge definitivamente nel momento in cui il Messia, nell’Ultima Cena, riunendo intorno a sé i discepoli, per mezzo del mistico pasto eucaristico sancisce l’unione fra Dio e la comunità dei suoi eletti, perpetuamente rinnovata con la celebrazione del sacrificio. L’Eucaristia, in altre parole, è la celebrazione del Dio vivente e presente, che avviene al momento della riunione dei fedeli a banchetto, il quale si offre ad essi per la loro redenzione. In ragione di questo ricco e complesso retroterra, nella vita monastica cenobitica – che è per eccellenza vita di comunità e di preghiera – il pasto collettivo e, più in generale, le norme relative all’assunzione del cibo assumono un rilievo particolare. Anche se il grado di approfondimento e di dettaglio con cui questi temi sono affrontati varia molto da una Regola all’altra, di solito troviamo sempre qualche riflessione sul significato e sul valore del cibo, e prescrizioni abbastanza precise su quali siano gli alimenti che possono far parte della dieta monastica. Come si è già visto, le Regole monastiche riprendono i riferimenti scritturali nel considerare l’assunzione del cibo non un fine in sé, ma solo un mezzo per il sostentamento del corpo. Non vi troveremo però mai espresse posizioni troppo radicali, che avallino pratiche di astensione dal cibo prolungata ed estrema. Un approccio del genere, infatti, se era possibile nell’ambito del monachesimo eremitico, diviene impraticabile e potenzialmente rischioso quando s’immagini di applicarlo a gruppi più o meno numerosi di persone che vivono nello stesso luogo. La vita nel cenobio, dove ciascuno ha sotto gli occhi il comportamento dell’altro, può invece essere il luogo migliore in cui gestire con misura il rapporto con il cibo, evitando sia che l’individuo cada nel vortice della “gastrimargia”, e cioè della furente dittatura della stomaco, sia 99

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che, posseduto da eccessi di zelo mistico, imponga a se stesso pratiche di mortificazione che possono condurre al deperimento e alla morte del corpo (Casagrande, Vecchio 2000: 127-129). Questo atteggiamento è già presente in Oriente, presso Basilio di Cesarea, che parte dal presupposto generale che non può essere individuato un criterio che definisca che cosa e quanto mangiare, valido per tutti i luoghi e per tutte le persone41. Egli afferma che ogni cibo commestibile è creato da Dio e quindi, in principio, è ugualmente degno di essere consumato. Può essere però indicata una norma di vita, che è quella del mangiare secondo l’effettivo fabbisogno del proprio corpo e non per compiacimento ovvero per pura golosità, poiché ciò significherebbe fare del proprio ventre un dio. Quindi, secondo Basilio, è indispensabile che nel monastero vi sia sempre qualcuno che si occupi di amministrare con equilibrio la distribuzione del cibo, onde evitare che l’arbitrio individuale porti al superamento della giusta misura (Toneatto 2004: 58-59)42. I legislatori occidentali in genere riprendono l’approccio di Basilio: il monaco quindi dovrà accettare quanto gli sarà stato dato ogni giorno, senza mugugnare e ringraziando Dio, che glielo ha donato per sfamarsi43. Come sintetizza l’irlandese Colombano, dobbiamo, dunque, digiunare tutti i giorni, così come tutti i giorni dobbiamo mangiare; e tuttavia, pur dovendo mangiare tutti i giorni, bisogna fare poche concessioni al corpo, e di lieve entità. Bisogna, dunque, sostenerci ogni giorno con il cibo perché ogni giorno bisogna progredire, ogni giorno pregare, ogni giorno lavorare, ogni giorno leggere44.

I temi della misura e dell’autocontrollo, trattati nell’ambito del comportamento a tavola, permeano vieppiù le prescrizioni fornite dalle diverse Regole sui tipi di cibi cui i monaci possono accostarsi e sulle quantità che ne possono assumere. Non tutte le Regole scendono nel medesimo dettaglio quanto alla descrizione dei cibi consentiti, ma il Leitmotiv che esse propongono è sostanzialmente uniforme e troverebbe d’accordo molti dietologi di oggi. Frutta, legumi e verdure (cotte o crude) la fanno da padroni, mentre è rigorosamente regolato il consumo della carne. Con poche eccezioni, sono messe al bando soprattutto le carni rosse, considerate veicolo di pulsioni sessuali, mentre più frequentemente è consentito il consumo di carni di volatile e di pesce (Montanari 1988: 66-70; Cirelli 2013). Anche uova, latte e formaggi sono permessi in modiche quantità e misure precise sono di solito fornite per il consumo del pane e dei condimenti, in primo luogo l’olio, che, nell’ambiente mediterraneo da cui provengono tutte le Regole tardoantiche, era di solito facilmente reperibile. Benedetto e il Maestro sono gli unici a prevedere eccezioni per quanto concerne il consumo delle carni rosse, poiché il primo ne concede la somministrazione agli anziani e agli ammalati, mentre il secondo la permette durante le festività maggiori e cioè fra Natale e l’Epifania e fra Pasqua e Pentecoste, con un’unica proibi100

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zione riguardante le carnes sanguinariæ, ossia non cotte, degli animali terrestri45. Gli altri autori oscillano fra la scelta di una dieta totalmente vegetariana, l’ammissione del consumo di pesce e, nei casi di maggiore permissività, anche di quello di pollame e volatili46. Quanto alle bevande, in quasi tutte le Regole si trova cenno al permesso di consumare vino in quantità moderata, bevendolo direttamente dai calici o intingendovi tozzi di pane; spesso troviamo limitazioni per i periodi dell’anno, come la Quaresima, in cui vige un regime alimentare più severo. L’ubriachezza del monaco è stigmatizzata con radicalità pari a quella espressa nei confronti della crapula alimentare, il che fa pensare che il problema dovesse avere una certa rilevanza; la cosa sembra confermata dalla considerazione di Benedetto che proibire il vino ai monaci è un’impresa impossibile e bisogna limitarsi a fare buona guardia su quanto se ne consumi47. In alcune Regole, come quella detta “del Maestro”, si pone attenzione anche al consumo dell’acqua, che va sorseggiata dai calici e non tracannata dalle anfore, poiché anche un eccesso d’acqua può inebriare i sensi con fantasmi che andranno poi a popolare i sogni e procurare nel corpo una serie di reazioni, come ad esempio l’accelerazione del sangue nelle vene, il freddo nelle midolla, l’appesantimento delle sopracciglia, il giramento di testa, il sonno negli occhi e gli starnuti dal naso.

Piuttosto che acqua o vino, vi si consiglia di assumere infusi caldi composti dall’acqua di cottura delle verdure o da acqua e aceto48 e, durante la Quaresima, da una miscela di acqua, sale e semi di cumino o di prezzemolo49. Se è importante definire che cosa si possa mangiare, altrettanto lo è stabilire gli orari dei pasti affinché nessuno trasgredisca l’obbligo di desinare insieme. In genere, l’anno si suddivide fra periodi di digiuno, in cui si serve un solo pasto, e periodi ‘normali’, in cui l’appuntamento al refettorio scocca due volte al giorno. Normalmente, le settimane d’Avvento e di Quaresima sono quelle in cui il regime alimentare è più stretto e il pasto è unico, mentre in estate, anche in ragione della maggiore durata della veglia, in genere si mangia un po’ di più e pertanto i pasti diventano due. Di solito (ma le consuetudini variano da Regola a Regola), quando sono previsti due pasti, si mangia in tarda mattinata e sul far della sera; quando il pasto è unico, lo si serve o a metà giornata o sul fare della sera50. In ogni caso, il desinare deve essere concluso quando cala la notte e i monaci devono recitare le ultime orazioni prima di andare a dormire. Labor manuum, lectio divina. I luoghi dello studio e del lavoro Non di sola preghiera può vivere il monaco. Per mangiare, una comunità deve poter contare su risorse sufficienti e, come già era stato posto in evidenza dai Padri 101

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orientali, anche quelli occidentali sottolineano l’importanza del lavoro manuale svolto dai monaci, finalizzato al sostegno materiale della comunità. Il lavoro del monaco non ha però solo motivazioni di tipo economico, bensì anche di carattere etico: quanto più i monaci sapranno garantirsi da soli condizioni di autonomia economica, tanto più potranno condurre in libertà la propria ascesi. Benedetto sintetizza efficacemente il concetto, affermando che, se le esigenze del luogo o la povertà richiedono che essi [scil. i monaci] si occupino personalmente di raccogliere le messi, non se ne affliggano, poiché sono veramente monaci, se vivono del lavoro delle proprie mani, come i nostri padri e gli apostoli. Tutto però sia fatto con misura, avendo riguardo per i deboli51.

Con ancora maggiore chiarezza e sottigliezza Giovanni Cassiano affronta il tema all’interno di un colloquio avuto, insieme al suo amico e sodale Germano, con un “abate” egizio di nome Abramo. Essi raccontano al venerabile interlocutore che la loro conversione monastica era stata agevolata dal fatto che avevano potuto fruire del sostegno dei propri genitori, i quali, animati da sincero fervore religioso e quindi fortemente convinti della giustezza della scelta intrapresa dai propri figli, avevano messo a loro disposizione una loro proprietà, caratterizzata dai requisiti della necessaria solitudo e dalla bellezza del luogo, ove insediarsi e con le cui risorse sostenersi. Nonostante il favore di queste condizioni, i due confidano ad Abramo di sentirsi inquieti e in qualche misura spiritualmente incompiuti. La risposta che ricevono è una netta presa di posizione sul fatto che i monaci non potranno considerarsi pienamente tali se, per il conseguimento dei fini della propria vita, dovranno contare sull’aiuto di qualcun altro che mette loro a disposizione le risorse necessarie: questa generosità comporterà inevitabilmente la contropartita di un vincolo di dipendenza nei confronti di chi l’ha dispensata, con il rischio ulteriore che ciò comporti per il monaco un residuo ancoraggio a dinamiche proprie dei rapporti sociali vigenti nel sæculum. E ciò è tanto più possibile qualora il benefattore sia una persona potente. Il lavoro del monaco, quindi, conclude Abramo, è necessario affinché, per ogni risorsa di cui egli dispone, non debba rivolgere grazie a nessuno se non al Padreterno52. È chiaro che le parole di Abramo riecheggiano situazioni che Cassiano doveva aver conosciuto personalmente in Gallia, come quelle determinate dal mecenatismo dei notabili laici e dalla pratica della fondazione di monasteri da parte dei vescovi; il patronato di questi ultimi, soprattutto, determinava forme di forte soggezione dei monaci, che finivano per essere utilizzati più che altro come forza lavoro a loro disposizione, a supporto delle esigenze dei santuari di pellegrinaggio o di istituti di pubblica carità e assistenza. Il quadro idillico di monasteri simili ad alveari di api operose, in grado di sfamarsi interamente con i piccoli lavori svolti dai monaci nelle ore libere dalla preghiera, poteva forse corrispondere realisticamente alla realtà di piccole comunità 102

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insediate entro strutture di semplice manutenzione. Quando però il numero dei confratelli cresceva e il monastero si trasformava in un complesso di dimensioni più cospicue, il budget necessario al suo mantenimento diventava oneroso e la questione si complicava. La Regola del Maestro raccomanda perciò ai monaci di contare sulla disponibilità di un proprio patrimonio di beni immobili che producano rendite durevoli, anche se riconosce in questo un potenziale rischio per i monaci, che, venendo coinvolti nella gestione di questioni giuridiche e amministrative, in liti e in diatribe di vario tipo con i contadini, avrebbero potuto veder seriamente posto a repentaglio l’equilibrio della propria esistenza. Per questa ragione egli aggiunge che sarebbe buona norma che i monaci evitino di occuparsi direttamente della gestione dei loro beni, dandoli in affitto e limitandosi a percepirne le rendite53. Se, com’è stato proposto da studi recenti (Diem 2011), la datazione di questo testo è da porsi agli inizi del vii secolo e la sua stesura è avvenuta nel neonato monastero di Bobbio, il riferimento al problema della gestione delle proprietà terriere potrebbe rappresentare il riflesso degli stretti rapporti dei monaci con i re longobardi, dai quali avevano ricevuto sostegno politico ed economico, quest’ultimo consistente soprattutto nella concessione di vaste estensioni di terra. Sicuramente, questo stato di cose non sarebbe piaciuto all’abate Abramo, intervistato da Cassiano agli inizi del v secolo; ma, come vedremo in seguito, la prossimità con il potere politico e il supporto materiale che esso era pronto ad offrire ai monaci costituì il contesto prevalente in cui, nell’alto Medioevo, i monasteri più importanti si sarebbero trovati a operare. In ogni caso, anche se il lavoro svolto personalmente dai monaci si poté rivelare, nel tempo, scarsamente remunerativo per il mantenimento delle comunità, la sua funzione educativa non fu però mai messa in discussione. Lavorare con le proprie mani e insieme agli altri insegnava la disciplina, la perseveranza e l’obbedienza e, con questa valenza, il lavoro fisico è accomunato allo studio54. Peraltro, il lavoro manuale serve a caricare il monaco di una positiva stanchezza, in modo che egli giunga alla fine della giornata in condizioni tali di spossatezza da addormentarsi subito «riposando con Cristo» ed evitando quindi tutti quei «tormenti notturni» costituiti da sogni e fantasticherie lascive55. Le Regole composte fra vi e vii secolo sono assai loquaci su quali debbano essere le attività lavorative da svolgersi entro il monastero e come vadano organizzati gli spazi ad esse dedicati. Probabilmente, ciò può anche essere dipeso dal fatto che la crescita del numero di coloro che intraprendevano la via della professione monastica rendeva disponibili, all’interno delle comunità, persone dal background molto variegato, che nella loro vita ‘precedente’ avevano esercitato diversi mestieri e che quindi potevano essere utili anche all’interno della famiglia monastica. Questo determinava la necessità di predisporre aree attrezzate per i lavori manuali, spesso descritte come celle, ma che in effetti dovevano avere piuttosto l’aspetto di piccole botteghe. L’accesso a questi spazi era interdetto ai monaci che non 103

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fossero direttamente impegnati nelle attività che vi si svolgevano56, forse anche perché era possibile che ad esse collaborassero anche lavoranti esterni, di stato libero o servile57. Qualcosa in più sul variegato mondo delle attività lavorative che si svolgevano intorno ai monasteri può essere dedotto dai dettagliati elenchi delle competenze che le Regole di Isidoro e del Maestro attribuiscono ad alcuni personaggi-chiave della gerarchia interna del monastero. In Isidoro troviamo quattro figure cui è assegnato il controllo di diverse, cruciali funzioni logistiche: il preposito, il sacrestano, il cellerario e il portinaio58. Di quest’ultimo, cui era assegnata la cura dei «locali esterni», abbiamo già parlato. Il preposito, invece, doveva occuparsi, oltre che della gestione degli affari generali del monastero, di sovrintendere all’amministrazione dei possedimenti, alla semina dei campi, alla piantagione e alla coltura delle vigne, alla vigilanza delle greggi, alla costruzione degli edifici e al lavoro di fabbri e carpentieri. Al sacrista sono delegati i compiti di occuparsi dell’oratorium e di dare il segnale dell’inizio degli Uffici divini, di gestire il vasellame liturgico e i ceri per l’illuminazione dell’oratorium stesso, nonché di tutti gli oggetti in metallo prezioso e vile custoditi nel monastero. La terza figura è quella del cellerario, che doveva occuparsi della dispensa, della cucina e di tutti gli utensili che vi si impiegavano. Esistono poi altri personaggi “minori”, cui sono deputati compiti più circoscritti, come il curatore del magazzino degli attrezzi, l’ortolano e il fornaio. Quest’ultimo, che è un laico, si occuperà però solo della cottura dei pani, poiché il loro impasto deve comunque essere compito dei monaci. La Regola del Maestro propone una struttura un po’ diversa, in cima alla quale troviamo (ovviamente alle dipendenze dell’abate) due prepositi, destinati a occuparsi dell’organizzazione dei gruppi (decaniæ) di monaci in cui è suddivisa la comunità59. Oltre al cellerario, di cui si è già parlato, la figura centrale per quanto concerne la gestione dei beni del monastero è quella del «guardiano degli utensili», che si occupa di custodire, in un unico ambiente, diversi oggetti all’interno di cassepanche o armadi: pelli, spugne, salviette da tavola e strofinacci; gli oggetti personali dell’abate; gli attrezzi che dovevano essere usati dalle diverse decaniæ di monaci per l’assolvimento dei loro lavori quotidiani; le cortine, i vela e gli ornamenti degli ambienti monastici (in primis, evidentemente, l’oratorio); tutti gli oggetti prodotti dai monaci e pronti per essere venduti; infine, libri, pergamene e carte del monastero. Il riferimento alla presenza di questi ultimi materiali ci porta ad aprire un inciso su uno degli aspetti considerati tradizionalmente di maggior rilievo rispetto alla funzione e potremmo dire quasi alla ‘missione’ dei monasteri: quello della promozione dello studio e della cultura in genere. In realtà il quadro che, sotto questo profilo, le Regulæ offrono è, al contempo, più delimitato e più sfumato. Già in quelle più antiche troviamo la raccomandazione che i monaci trascor104

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rano una parte della giornata nella lettura, considerata essa stessa una forma di lavoro, anche se non è fornito alcun dettaglio in merito ai testi da leggere. Quest’attività è posta tuttavia un po’ in subordine rispetto al lavoro manuale vero e proprio poiché si raccomanda che, in caso sopravvengano necessità più impellenti, il tempo per lo studio debba essere sacrificato per consentire il loro adempimento. Nei testi di datazione più tarda, però, alle attività intellettuali sono attribuiti tempi e spazi più precisi e rilevanti. Questo dato può essere probabilmente considerato come l’effetto di un duplice processo: da un lato, come un portato dello sviluppo organizzativo dei monasteri; dall’altro, come il riflesso di un cambiamento del loro status all’interno della società occidentale. Dopo la metà del vi secolo, insieme al naufragio della struttura politica del mondo tardoantico, al rapido declino economico e materiale delle città e alla conseguente scomparsa delle aristocrazie romane che ne costituivano il ceto egemone, si assiste anche a un drammatico regresso della diffusione della cultura scritta e alla scomparsa delle sedi tradizionalmente deputate alla formazione scolastica. Solo alcune diocesi, quelle più ricche e meglio organizzate, sono ancora in grado di gestire l’istruzione per il proprio clero e produrre libri necessari a questo scopo (Bischoff 1983; Fontaine 2005; Wood 2005). Questa trasformazione si produce con tempi e modalità diversi nelle diverse regioni dell’Occidente, ma con risultati alla fine abbastanza simili. I monasteri, quindi, si vengono a trovare in una situazione in certo senso paradossale, considerando il fatto che la loro prima comparsa rispondeva a un moto di rifiuto della vita e della cultura cittadina. Imponendo però ai loro adepti l’obbligo almeno di saper leggere, essi finiscono per rivestire, quasi inconsapevolmente, il ruolo di luoghi in cui la parola scritta ha maggiori possibilità di conservarsi e di essere riprodotta, almeno per l’uso quotidiano legato soprattutto alle esigenze della preghiera. Vediamo così che le Regole prescrivono che al loro interno siano predisposti spazi per la lettura e per la conservazione dei libri, affidati alla cura di personale espressamente a ciò deputato; inoltre, si prevede che, durante la giornata, ai monaci sia riservato del tempo solo per la lettura e lo studio, durante il quale potranno fare richiesta di consultare i libri conservati nell’armarium del monastero60. Ciò fa affermare categoricamente alla Regola di Ferreolo che a chiunque voglia rivendicare per sé il nome di monaco non è consentito non saper leggere61.

Ma quali libri leggevano i monaci di questo periodo? Nelle Regole gli accenni in proposito sono piuttosto scarni e, se è evidente che il primo posto è occupato dalle Sacre Scritture, solo pochi altri autori vengono esplicitamente menzionati, come gli Atti dei martiri, le Conferenze e le Istituzioni di Giovanni Cassiano, le Vite dei Padri orientali e la Regola di Basilio di Cappadocia, ricordati da Benedet105

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to62, mentre Isidoro vieta di leggere «i libri dei pagani e degli eretici»63. Considerando che un monaco difficilmente avrebbe potuto recarsi all’esterno del monastero per consultare opere di questo genere, si dovrebbe intendere che esse potessero essere conservate al suo interno, ma rigorosamente fuori della portata dei monaci, ed eventualmente accessibili solo all’abate (Cencetti 1983; Cavallo 1989b). In realtà i testi delle Regole d’Occidente contengono riferimenti e citazioni a molte più opere letterarie di quelle ricordate esplicitamente. Si tratta per lo più di testi cristiani, prevalentemente riferibili all’ambito della letteratura monastica di origine orientale. Il cenno di Isidoro alla possibilità che le biblioteche dei primi monasteri conservassero anche testi ‘pagani’ rimane così isolato, cosa che colpisce considerando quanti di essi siano stati copiati, nei secoli successivi, proprio all’interno degli scriptoria monastici64. Al capo della comunità alcune Regole attribuiscono il privilegio di poter dedicare allo studio e alla lettura molto più tempo di quello concesso ai normali monaci giacché, essendo il suo compito principale quello di ammaestrare gli altri, è evidente che la sua preparazione intellettuale sarà di giovamento a tutta la familia monastica65. In realtà molti monaci, benché autorizzati e anzi incoraggiati a trascorrere leggendo parte della loro giornata, dovevano apprendere buona parte del loro bagaglio di nozioni attraverso l’ascolto delle letture tenute quotidianamente nell’oratorio e nel refettorio e la ritenzione a memoria di molti testi recitati nel corso delle preghiere collettive. Otiositas inimica est animæ (rb, xlviii). Il tempo e la suddivisione della giornata Evagrio Pontico, vissuto nella seconda metà del iv secolo fra le comunità monastiche prima di Cappadocia e poi d’Egitto, descrive con parole intense il sentimento di smarrimento che può colpire il monaco quando viene meno la motivazione interiore che lo ha spinto ad abbracciare la vita ascetica e, conseguentemente, quando la sua mente perde la necessaria concentrazione al raggiungimento degli obiettivi che si era prefissata. Il sentimento che invade l’anima del monaco in questi momenti è denominato acedia. Questa parola significa letteralmente “assenza di dolore”, ma essa è da intendersi piuttosto come mancanza di moto interiore e, quindi, come una sorta di «torpore malinconico» (Moulin 1988: 196): Il demonio dell’accidia, denominato anche “demonio del mezzogiorno”, è il più gravoso di tutti i demoni: esso s’incolla al monaco verso l’ora quarta e ne assedia l’anima sino all’ora ottava. Dapprima quel demonio gli fa apparire il sole estremamente lento, se non addirittura immobile: gli sembra che il giorno abbia a durare fino a cinquanta ore! In più, esso lo induce a volgere continuamente gli occhi verso le sue piccole finestre, lo persuade ad uscire fuori dalla sua cella, a scrutare attentamente verso il sole per vedere quanto dista dall’ora nona, ma anche a guardare tutt’intorno per vedere se qualcuno dei 106

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La costruzione dell’identità fratelli si faccia vivo. E in più quel demonio gli ispira odio per quella sua dimora e per quella stessa vita e per il lavoro delle sue mani: gli fa pensare che ormai la carità tra i fratelli è venuta meno e che non c’è nessuno che possa dargli conforto. […] È allora che esso lo induce al desiderio di altri luoghi, nei quali sia possibile trovare facilmente quanto occorre al suo bisogno, e così esercitare un lavoro più facile e più profittevole. Esso gli insinua ancora come non sia possibile che in quel luogo egli trovi il modo di piacere al Signore: dovunque, insiste a dire, la Divinità può essere adorata. A tutto questo egli aggiunge pure il ricordo dei suoi familiari e della sua vita passata: gli lascia intravvedere una lunga durata della sua vita, ponendogli davanti agli occhi gli aggravi dell’ascesi. E così, come si usa dire, quel demonio mette in moto ogni espediente allo scopo di indurre il monaco ad abbandonare la cella e a lasciare il suo campo di lotta66.

La preoccupazione che traspare è che il tempo trascorso nel monastero, da operosa ascesi preparatoria al ritorno verso Dio, si trasformi in una sorta di ergastolo, vissuto con apatia e rassegnazione e magari con nostalgia verso quanto si è lasciato al di fuori di esso. Benedetto, in particolare, accoglie il messaggio di Evagrio e raccomanda che un anziano sorvegli sempre i monaci intenti alla lettura durante le ore centrali della giornata, poiché quelli sono il momento e il tipo di attività durante i quali il sentimento dell’accidia può più facilmente contaminare i loro cuori e contagiare più di una persona alla volta: se si nota che la concentrazione del monaco vacilla, egli raccomanda che gli si dia qualcosa di diverso da fare, purché non lo si abbandoni a se stesso in un ozio che rischia comunque di danneggiarne l’anima67. Benedetto inoltre sottolinea anche che il principio dell’obbedienza del monaco ai suoi superiori va utilizzato cum granu salis, tenendo presenti le inclinazioni di ciascuno e quindi valutando come a ognuno possa essere comandato di impiegare il proprio tempo nel modo migliore: infatti, quando a un confratello venga imposto «un lavoro o un mestiere inappropriato», si corre il pericolo che questi lo svolga controvoglia, maturando insofferenza verso la vita monastica nel suo insieme68. L’antidoto contro questi rischi è un’organizzazione della vita quotidiana entro tempi scanditi con precisione, in modo che nel corso della giornata non restino spazi vuoti. In questo modo, non solo l’esercizio dello spirito potrà essere coltivato in modo sistematico e fruttuoso, ma si eviterà che, nei momenti in cui la forza interiore può venire meno, l’anima sia pervasa dallo smarrimento e cada nell’accidia. I tempi della vita in monastero sono strettamente legati ai suoi spazi: ad ogni ora corrisponde la frequentazione di determinati ambienti e l’assolvimento di compiti specifici e questo serve anche a fare in modo che nessun componente della comunità possa plasmare in modo arbitrario e personalistico la propria giornata, creando confusione e perplessità nei confratelli. Tutte le Regole occidentali, quindi, sono piuttosto rigorose e dettagliate riguardo alla suddivisione della giornata del monaco, anche se non si deve dimenticare che, alla fine del mondo antico, il calcolo delle ore era piuttosto impreciso. La percezione del tempo fluttuava in rapporto allo scorrere delle stagioni e anche al luo107

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go geografico in cui ci si trovava. Questo spiega perché vi siano diversità anche marcate fra le usanze seguite dalle singole comunità monastiche. Tenendo presenti queste precauzioni, può però essere utile formulare uno schema sintetico di riferimento su come i vari momenti della giornata monastica si susseguano e, soprattutto, su come essi siano denominati nei testi delle Regole. Denominazione dell’orario nei testi delle Regole



Vigilie

Corrispondenza con le ore odierne Nel cuore della notte (subito dopo mezzanotte)

Prima

Sul fare del giorno (al risveglio degli uccelli o al canto del gallo) – circa le 4 del mattino Fra le 6 e le 7

Terza

Fra le 9 e le 10

Sesta

Verso le 11,30-12

Nona

Verso le 14,30-15

Mattutino

Dodicesima/vespri/lucernario Compieta

Verso le 17,30 (al tramonto) Dopo il calare del sole, subito prima del riposo

Il tema della suddivisione della giornata del monaco in quelle che potremmo definire come vere e proprie “fasce orarie” trova sviluppo progressivo, come si è visto anche per altri aspetti, mano a mano che dai testi più antichi si passi a quelli più recenti. La giornata del monaco era piuttosto intensa. Essa iniziava ben prima del sorgere del sole, con le preghiere recitate nel cuore della notte (vigiliæ) alle quali, dopo un breve intervallo, seguivano quelle del mattutino, normalmente svolte alle prime luci dell’alba. Queste orazioni antelucane hanno un alto valore simbolico: mentre le tenebre avvolgono il monastero, i monaci invocano il Signore perché dia loro sicurezza e conforto e, quando la luce del giorno appare, essi si levano per lodare la Sua grandezza e la Sua generosità. L’esercizio della preghiera notturna è senza dubbio la prova più dura che ogni giornata impone, sia d’inverno sia d’estate. In questi momenti il monaco doveva veramente mostrare a se stesso e agli altri la propria capacità di perseverare nella scelta di vivere per lodare Dio. Nel rigore della brutta stagione, levarsi dal giaciglio nel gelo di un dormitorio male illuminato costava fatica; d’estate, le ore senza sole sono brevi e il segnale della levata coglieva i monaci nel pieno del sonno. Spesso, raggiunto l’oratorio, altrettanto difficile era mantenere la concentrazione durante la preghiera. Non mancano perciò frequenti raccomandazioni affinché questi momenti siano vissuti in piena coscienza, senza lasciare che l’attenzione cali e ci si possa magari abbandonare a colpi di sonno. I monaci talora cercano di allontanarsi dall’oratorium con scuse futili o, peggio, vi rimangono nel corpo, ma assen108

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ti nella mente, divagando nei pensieri o intrattenendo conversazione con i confratelli che siedono accanto. Per evitare questi cali di attenzione, alcuni autori raccomandano che i monaci non restino con le mani in mano, e consiglia che si abbia cura, inoltre, di ovviare al fatto che se le mani restano oziose, i fratelli siano indotti al sonno. Per tale motivo, i lavori da compiere nelle vigilie saranno tali da non occupare la mente di colui che lavora, che non disturbino la sua facoltà di ascoltare e che, allo stesso tempo, possano respingere il torpore della sonnolenza69.

Ad esempio, può essere utile avere dei giunchi o dei fili di canapa da intrecciare, così che il movimento delle mani accompagni il ritmo delle orazioni e ne faciliti la recitazione70, senza disturbare gli altri e oltraggiare Dio con sbadigli, colpi di tosse, raschiandosi la gola o sputando per terra71. Se proprio non si riesce a stare al proprio posto e pregare, è meglio alzarsi, con il permesso del superiore, e allontanarsi per sgranchirsi le gambe per qualche minuto, piuttosto che dare agli altri il cattivo esempio con comportamenti inopportuni72. Nelle ore comprese fra le vigilie e il mattutino può essere concesso un breve riposo73, oppure è previsto che si debba leggere e meditare74, o ancora si può utilizzare questo intervallo per espletare i bisogni corporali75. La mattina vera e propria inizia all’ora prima, che scocca poco dopo il levar del sole e quindi fra le sei e le otto, a seconda della stagione. È questa la fase della giornata, che si protrae sino all’ora di pranzo, in cui si studia e si lavora, con un breve intervallo per la preghiera di terza76. Alcune Regole preferiscono dedicare queste ore interamente al lavoro, riservando alla lettura e alla meditazione l’intervallo del riposo dopo il pasto77. La refezione avviene all’ora sesta, ma nei periodi di digiuno può essere ritardata sino all’ora nona, poiché in questo periodo il cibo è servito solo una volta al giorno. Successivamente, e soprattutto in estate, ai monaci è consentito riposare, oppure leggere e meditare sino a nona, quando riprendono le attività, che si concludono a dodicesima, con la recita delle preghiere serali (vespro) e la consumazione del secondo pasto. Finita la cena, al calar della notte la giornata è compiuta e i monaci tornano in dormitorio dove, prima di prendere sonno, possono recitare ancora delle preghiere individuali78. Facendo un rapido calcolo ci si rende conto che, mediamente, almeno un terzo delle ventiquattro ore è dedicato al riposo, anche se distribuito in due tranche distinte, costituite una dal sonno notturno, che inizia subito dopo il calar del sole, l’altra dalla pausa postmeridiana. Le due pause si allungano e si accorciano in rapporto ai ritmi imposti dalle stagioni: in estate si dorme meno la notte, ma si può recuperare grazie a una siesta più prolungata a metà della giornata; d’inverno, ovviamente, accade il contrario. Quest’attenzione alla durata del riposo è essenziale per permettere che il tempo dell’attività sia proficuo e non vessato dalla stanchezza, 109

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che deve invece sopraggiungere al termine della giornata per consentire che il monaco prenda sonno subito. D’altra parte, la fatica quotidiana del monaco non si compone solo di attività manuali, ma anche di tempo dedicato alla lettura e soprattutto alla preghiera, che occupa a sua volta circa un terzo della giornata. Queste due attività, se non richiedono di per sé uno sforzo fisico evidente, necessitano comunque di assidua concentrazione per poter essere proficue e rappresentano quindi, in ogni caso, momenti di notevole dispendio di energie. Considerando anche che non tutte le Regole prevedono che, anche al di fuori dei tempi del digiuno, ai monaci siano serviti due pasti, si può concludere che la vita immaginata dai legislatori monastici dell’Occidente tardoantico per le comunità che essi avevano fondato fosse tutt’altro che agiata. Tuttavia, la sistematicità e la prevedibilità degli orari consentiva di dosare le energie in modo ragionevole, rendendo così possibile che il monaco ottemperasse all’obbligo di conservare in salute il proprio corpo, sino a che Dio non avesse deciso di richiamarne a sé l’anima. Le Regole hanno costruito i monasteri? L’esame sinottico condotto sulle principali Regole monastiche scritte nelle regioni dell’Occidente romano mediterraneo ha offerto molti spunti su come i loro autori ‘vedessero’ lo spazio dei monasteri, le attività che vi si dovevano svolgere, gli oggetti che dovevano servire a tale scopo e come tutti questi elementi dovessero interagire tra loro nell’arco della giornata. Si deve però ancora una volta ricordare che ciascuno di questi testi fa storia a sé, perché è scaturito dall’esperienza individuale del suo estensore per servire innanzitutto ai bisogni della comunità per la quale era stato redatto. Pertanto, si deve evitare di pensarli come riferimenti generali per la vita monastica fiorita in tutto l’Occidente nei secoli di passaggio fra antichità e Medioevo. Tuttavia, è chiaro che essi s’ispirano a princìpi comuni (in genere di derivazione orientale) ed è accertato che, sebbene non per tutti sia stato possibile precisarne l’esatta diffusione, essi hanno comunque in varia misura conosciuto una circolazione nei territori dell’Occidente cristiano, venendo adottati (anche più di uno simultaneamente) come riferimenti per la vita delle varie comunità. In molti casi, questi testi sono stati recuperati e collazionati in età carolingia, al momento in cui si cercò di dare una definizione omogenea dell’assetto organizzativo dei monasteri esistenti nei territori dell’Impero franco. Le Regole però non forniscono indicazioni su come organizzare l’insediamento di un monastero, né su dove, al suo interno, si dovessero distribuire gli edifici e neppure su come porre i medesimi fisicamente in connessione fra loro. Sicuramente, però, avendo per obiettivo quello di impartire precetti sul funzionamento ottimale di una comunità, esse possono essere utilizzate per comprendere quali spazi fossero necessari perché ciò avvenisse al meglio79. 110

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La costruzione dell’identità

In tal senso, mano a mano che dalle Regole più antiche si procede all’esame di quelle redatte fra vi e vii secolo, si riscontra una cura crescente nella descrizione di tutti questi aspetti; ciò è dovuto senz’altro alla maggiore lunghezza dei testi, ma sicuramente anche al fatto che essi sono approfonditi in maniera più meditata e sistematica. Peraltro, questo processo, che potremmo quasi definire di ‘maturazione’ della regolamentazione della vita cenobitica, sembra svolgersi in modo abbastanza armonico attraverso il tempo, nel senso che nei testi più recenti non si colgono elementi che, riprendendo i temi di quelli più antichi, ne contraddicano gli assunti. Vediamo così mantenersi nel tempo l’idea della centralità di quello che potremmo definire il ‘plesso principale’ di un monastero, costituito dai tre luoghi-chiave deputati alla preghiera, alla refezione (con annesse cucine e dispense) e al riposo. Altrettanto, rimane abbastanza costante nel tempo il concetto della necessità della delimitazione fisica del monastero rispetto all’esterno, per mezzo di mura di recinzione e di varchi di accesso ben sorvegliati (Bonnerue 1995; Destefanis 2011). L’esigenza di non venire meno ai doveri della carità cristiana impone però di predisporre aree contigue allo spazio riservato ai monaci, ma chiaramente separate da esso, ove ospitare viandanti e visitatori, nonché la necessità di tenere aperte le porte al reclutamento di nuovi adepti, cosa che prevede l’esistenza di ambienti ove alloggiare – per periodi e con modalità che ciascuna Regola interpreta con sfumature proprie – postulanti e novizi. Un altro elemento, trattato in modo embrionale nei testi di datazione più alta e che trova sovente uno svolgimento maggiormente accurato in quelli più recenti, è quello relativo all’individuazione di luoghi deputati alla lettura (e alla conservazione dei libri) e al lavoro manuale (e alla conservazione degli utensili). Quanto al primo aspetto, stupisce un po’ il constatare che, salvo in pochi casi, non si preveda la presenza di vere e proprie sale di lettura, ma si preferisca che i monaci, prendendo a prestito libri conservati entro armadi o in depositi, possano leggerli in altri luoghi, come le loro celle o, nel caso di monasteri dotati di dormitorio comune, presso il proprio letto. Altrettanto, potrebbe stupire l’estrema impalpabilità di riferimenti ad attività scrittorie, e in particolare alla produzione di libri. Questi ultimi vengono spesso ricordati come presenze indispensabili all’interno di un monastero, ma non si fa esplicito riferimento al fatto che possano essere i monaci stessi, con il proprio lavoro di copiatura, ad alimentarne la disponibilità per la comunità. Sulla seconda questione, invece, sembrano esservi due distinte scuole di pensiero. Da un lato, alcuni autori ritengono che le attività manuali debbano essere tutte svolte dai monaci entro i limiti del cenobio, vuoi in spazi di tipo collettivo, vuoi in piccole officine individuali; d’altra parte, però, non mancano accenni al fatto che il personale monastico possa essere aiutato da collaboratori (di stato libero o servile), il che potrebbe significare che, in tali casi, si pensasse a un’almeno parziale dislocazione degli allestimenti produttivi in settori esterni alla recinzione claustrale. 111

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Le città dei monaci

Infine, per quel che concerne i lavori agricoli, solo in alcune Regole più tarde si pongono dei limiti all’impegno diretto dei monaci, forse perché esse fanno riferimento a realtà in cui i monasteri disponevano ormai di patrimoni fondiari di una certa consistenza e non si voleva che i membri delle comunità fossero coinvolti direttamente nelle pastoie dell’amministrazione e dell’organizzazione del lavoro dei contadini. Per il resto, ai monaci è prospettato soprattutto l’impegno della coltivazione di piccoli appezzamenti ortivi da ricavarsi all’interno della recinzione del cenobio. L’immagine complessiva rimane abbastanza fedele ai princìpi enunciati dai primi autori che, durante il iv secolo, avevano riportato in Occidente le informazioni sulle esperienze maturate nelle regioni orientali del Mediterraneo: il cenobio deve essere un hortus conclusus, in cui chi entra per sua libera scelta deve sentirsi motivato a rimanervi per il resto dei propri giorni, essendo aiutato dall’abate e dai confratelli a trovarvi quotidianamente l’alimento alla propria vocazione, senza più avvertire il bisogno di guardare al di fuori dei suoi confini. Perché questo distacco netto con l’esterno, di natura innanzitutto emotiva, possa realizzarsi pienamente, la comunità per quanto possibile deve attrezzarsi affinché le sia garantita autosufficienza materiale o, quanto meno, per ridurre al massimo la necessità di dipendere dall’esterno per assicurarsi tutti i servizi di cui essa normalmente ha bisogno: cosa che giustifica l’insistenza sull’opportunità che i monaci si dedichino in prima persona ad attività lavorative. I dati che gli scavi archeologi hanno reso sino ad oggi disponibili dialogano in modo abbastanza armonico con le prescrizioni offerte dalle Regole, nel senso che in genere rivelano articolazioni planimetriche che comprendono spazi per lo svolgimento delle principali funzioni da esse contemplate. Come in Oriente, però, questo si traduce in realizzazioni materiali che tra loro presentano differenze notevoli. Sebbene sia da maneggiare con estrema cautela, questo dato, come vedremo meglio nei capitoli successivi, porterebbe ad escludere che i processi di edificazione seguissero schemi rigidamente prestabiliti. Spostandoci su un piano più generale, si può dire che le Regole siano espressione di un mondo monastico che non intende porsi in conflitto con la Chiesa e le sue gerarchie, ma che ha fortemente a cuore la definizione della propria identità e la salvaguardia della sua autonomia in campo spirituale e nella gestione del proprio quotidiano train de vie. Altrettanto, sembra esulare dall’orizzonte degli autori di questi testi l’eventualità che i monasteri possano sottostare all’influenza di patroni laici o comunque di poteri secolari. In realtà, passando dal terreno delle formulazioni normative a quello della vita concreta, durante l’alto Medioevo le interazioni con questi settori della società saranno intensissime e non necessariamente si svolgeranno a scapito della prosperità e dello sviluppo delle comunità cenobitiche. Anzi, proprio i personaggi di maggior rilievo culturale e carisma spirituale emersi dal mondo monastico s’impegneranno in prima persona per cercare presso re, aristocratici, papi e vescovi sostegno alle 112

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La costruzione dell’identità

proprie iniziative volte a fondare nuove abbazie o a potenziarne di già esistenti. Mezzi finanziari, terre su cui insediarsi e da cui trarre rendite, protezione politica e una legislazione favorevole saranno gli strumenti attivati da questa interazione, che non mancheranno di produrre influssi decisivi sul ruolo sociale dei monasteri e sulla loro struttura materiale, rendendoli una componente fondamentale del paesaggio dell’Europa altomedievale.

Note 1  2 

if, x.

Sui rapporti fra i testi delle diverse Regulæ occidentali composte fra v e vii secolo, e sulla possibilità che nei monasteri, in questo periodo, fossero contemporaneamente utilizzate più Regulæ o excerpta delle medesime, si veda Dunn 1990. 3  vpj, clxxiv.

  ri, iv, 4. Come si vedrà più avanti, questo dettato, dai contenuti davvero radicali, nel medioevo sarà tuttavia spesso disatteso: l’accesso alle comunità monastiche e soprattutto la loro guida risulterà molto frequentemente appannaggio dei ceti egemoni, in ragione del sostegno economico e politico da essi fornito nella fondazione dei monasteri. 5  ri, i, 1-6. 6  ri, xxi, 4. 4

7 Ad 8 

esempio, la Regula Quattuor Patrum e la Regula Orientalis.

rm, xcv.

ri, xxiii; rt, xxi, 2 e xxii, 2. La Regula Tarnatensis proverrebbe dal monastero di Tarnat, probabilmente da localizzarsi nella media valle del Rodano, e sarebbe stata redatta verso la fine del vi secolo. In alcune Regole si prevede che ai visitatori possa essere concesso entrare nell’oratorio dei monaci per pregarvi, ma a ore ben precise e comunque sotto la scorta di un monaco (rm, xxx, 13). 10 Il testo è tratto dalla Regola attribuita ad Eugippio (re, xviii, 18-20). Questi, proveniente dal Norico (attuale Austria) ormai caduto nelle mani dei barbari, visse in Italia a cavallo fra v e vi secolo e fu il fondatore del monastero napoletano del Castrum Lucullanum, corrispondente all’odierno Castel dell’Ovo. 11  ra, xiv. Aureliano fu vescovo di Arles intorno alla metà del vi secolo. 12  ra, xix. È possibile che, a questi personaggi, fosse riservato l’accesso al monastero dalla “porta di servizio”, della cui esistenza si accenna al cap. xxi, ove si parla delle mansioni di colui che detiene la responsabilità di gestire le chiavi di diversi ambienti. Sullo stesso tema si vedano anche rb (lvi, 1-2 e liii, 8 e 16-24) e rm (xxx, 26-27). 13  rm, xxiv, 20-21. La Regula Magistri è un testo tradizionalmente datato agli inizi del vi secolo e attribuito ad ambienti centro-italici, ma di cui recentemente si è avanzata una datazione agli inizi del vii. A metà circa del xx secolo si affermò l’idea che essa costituisse un testo elaborato in ambito centro-italico, durante la prima metà del vi secolo, e che potesse avere un rapporto di ascendenza diretta con quella di Benedetto, al punto che alcuni studiosi proposero anche che in essa si potesse riconoscere una sorta di ‘prima stesura’ della medesima, magari da attribuire al periodo in cui il santo soggiornò a Subiaco (Genestout 1940 e De Vogüé 1964). Più recentemente, la studiosa britannica Marilyn Dunn ha proposto invece una datazione del testo agli inizi del vii secolo e una sua connessione con l’ambiente del monastero di Bobbio, fondato da san Colombano (Dunn 1990 e 2001). 14  ra, i; rfe, v, 5; rf, ix e xx; rb, liii, 16; lvi. 15 Per i novizi la Regola di Benedetto prevede un quartiere apposito (rb, lviii, 5). 9 

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Le città dei monaci 16 

1. 56. 18  vpj, xiii e lxi. 19  rb, xxv, 1; ri, xvii e xviii. 20  ro, xxxii, 6 e rf xiv e xv. 21  È il caso ad esempio delle Regole italiane di Eugippio (re, xx) e del Maestro (rm, lv). Benedetto si limita (rb, l) a parlare di fratelli che «sono al lavoro molto lontano e non possono accorrere all’oratorio all’ora stabilita». 22  rm, liii, 60. 23  ro, vii-ix; re, xxxiv, 2. 24  rcæ, iii; ra, xxxiii; rf e xvi e xxxiii; rb, xxii, 2; rm, xxix; ri, xix; rf, i-ii. 25  rf, xvi, 2. Benedetto, al fine di evitare contatti fisici fra i giovani, ritiene opportuno che ai loro letti sia intervallato quello di un monaco anziano (rb, xxii, 3). 26  vpj, clxx. 27  rps, xi, 1. 28  rfe, xxxix, 18. 29  ri, ix, 2. 30  ro, xxv, 1-2 e 5-7. Sulle virtù che deve avere il responsabile della dispensa e sulla sua capacità di non dare ascolto ai capricci dei singoli monaci, ma di tenere sempre presente il bene comune della famiglia monastica, si esprime anche la Regola Tarnatense (x, 6). 31  Sul cellerarius si veda anche ra, vii, xxi e liii; re, ii; rb, xxxv; rm, xvi; ri, xxi. 32  rb, xlvi; rm, xcv, 27. 33  ri, vi, 7. Tuttavia, secondo l’opinione della Regula Tarnatense (rt, xii, 1-2), i frutti del lavoro dell’orto, al quale dovranno attendere tutti i fratelli in determinati momenti della giornata, non sono destinati necessariamente solo al consumo interno, ma possono fare parte di quei prodotti che, messi in vendita, contribuiranno al sostentamento della comunità. 34  rqp, iii, 22; ro, xxviii; rm, xix; rb, xxv. 35 Il lavaggio dei piedi dei confratelli da parte dei settimanari è previsto anche dalla Regola di Fruttuoso, ma solo al cambio del turno, in segno di umiltà (rf, vii). In una sola Regula – quella di Ferreo­ lo – è previsto che periodicamente, come “segno” del valore di servizio che la carica comporta, anche l’abate lavori in cucina (rfe, xxxviii, 1). 36  Sal 104, 14; 136, 25 e 147, 9; 2 Cor 9, 10. 37 Dt 8, 3; Lc, 4, 1-4; Mt, 6,25. 38 Gen 26, 28-30; 31, 43-54; Es 24, 9-11. 39  Mt 9, 10-13; Lc 7; 11, 37-52; 14, 1-24. 40  Mt 22, 1-10; Lc 14, 16-24; Mt 22, 11-13; Lc 15, 11-32. 41  bgr, 19. 42  bgr, 20. 43  rb, xxxix, 9 e xl, 9. 44 RCo, iii, 2-6. 45  rb, xxxix; rm, liii, 28-34. Peraltro, il Maestro impone per il resto dell’anno una dieta interamente vegetariana. 46  rcæ, xxiv; ra, li e lix, 5; vpj, lxvi; rf, iii; ri, ix, 4, 5 e 9. 47  rb, xl. Solo per i malati si stabilisce una quantità giornaliera precisa (xl, 3), corrispondente a circa un terzo di litro. Fruttuoso prescrive che un sestario di vino (circa mezzo litro) venga diviso fra quattro monaci (rf, iii). 48  rm, xxvii. 49  rm, liii, 1-10. 50  rqp, iii, 5; ra, lii; rfe, xxviii; rb, xli; ri, ix; rf, iii; rm, xviii. 17 

rfe, xv,

gre, iii,

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La costruzione dell’identità 51 

7-8. 1-2. 53  rm, lxxxvi. 54  rqp, iii, 8-20; srp, v, 23-28; trp, v; rcæ, xiv. 55  rma, viii. 56  rt, vii, 5; rfe, xvi, 2; rps, xxvi; re, ix; rb, lvii; rm, l, 31-33. 57  re, ix, 1; rfe, xxxvi. 58  ri, xxi, 1. 59  rm, xvii. 60  rt, vii, 1-2, rfe xxii, 1-2; ra, xxviii, 3, xxxiii e xlviii, 3; rb, xlviii; ri, viii. 61  rfe, xi, 1. 62  rb, lxxiii. 63  ri, viii, 3. 64  Solo la Regola di Eugippio (re, xix e xxxvi) menziona la presenza, all’interno del monastero, di monaci addetti alla scrittura. 65  rfe, xxx, ma anche ra, xlviii, 3. 66  pr, xii. 67  rb, xlviii, 17-18. 68  rb, xlviii, 24. 69  rt, vi. 70  ra, xxix. 71  rca, vi-vii. 72  ra, xxix. 73  ri, v; rf, ii. 74  rb, viii. 75  rb, viii. 76  ra, xxviii; rb, xlviii. 77  rt, ix. 78  ra, lvi, 55; ri, v. 79 Un passo poco evidenziato della biografia di Benedetto da Norcia scritta da Gregorio Magno (dd, ii, 22) lascia intravvedere la possibilità di un contatto concreto fra Regola ed effettiva realizzazione di un insediamento monastico. In esso si narra infatti di come Benedetto avesse inviato presso Terracina da Montecassino alcuni suoi monaci, affinché fondassero un monastero sulla proprietà di una «pia persona» che ne aveva fatto richiesta. Ai monaci Benedetto disse che li avrebbe poi raggiunti sul posto per indicare loro esattamente «dove […] costruire l’oratorio, dove il refettorio, dove la foresteria e gli altri locali che sono necessari». Non potendo poi materialmente recarsi dai monaci, Benedetto apparve loro in sogno «e con la massima precisione indicò, uno per uno, i posti dove si sarebbe dovuto costruire e cosa costruire». È evidente che, considerando il fatto che Benedetto scrisse la sua Regula proprio negli anni del suo soggiorno cassinese, questo passo rende più che probabile che egli, oltre che un modello funzionale, dovesse aver in mente anche un modello progettuale di natura architettonica riguardo la disposizione degli spazi monastici sul terreno. 52 

rb, xlviii,

conl, xxiv,

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Capitolo quinto La fede erige le sue città: i monasteri dell’alto medioevo (secoli vii-viii)

La società non divenne mai quell’«abbazia generalizzata» che certi teologi avevano prefigurato nel loro progetto di civitas terrena, modellata a somiglianza della Città celeste. Il fine del monachesimo era la perfezione, perché il Cielo era perfetto. Ma questa perfezione restava per definizione fuori portata: più la sua realizzazione sembrava vicina, più i suoi confini si spostavano (Mills 2002: 201)

Pregare e predicare: le case dei monaci irlandesi e britannici Nato poco dopo il 540 nella regione del Leinster, nel sud-est dell’Irlanda, Colombano, appena adolescente, aveva già maturato la decisione di consacrare la sua vita al Dio morto sulla croce cinque secoli prima nella lontana Gerusalemme, la cui fama aveva raggiunto l’isola neanche cento anni addietro. Il giovane era però pieno di dubbi e, benché si stesse impegnando per dotarsi di un’istruzione adeguata, probabilmente presso un monastero della sua regione natale, sentiva venir meno la giusta ispirazione per trovare ancora motivazioni sufficienti a continuare il proprio cammino spirituale. Vagando per le campagne, giunse un giorno presso un eremo nel quale viveva in segregazione ascetica una donna, ormai non più giovane, alla quale si rivolse per chiedere consiglio riguardo al proprio futuro. Le sue parole rivolte a Colombano furono piuttosto dure, anche se pronunciate con affetto: perché si tormentava, lui che era maschio e giovane? Lei che era donna e ormai anziana non aveva più molte carte da giocare e, ormai, sarebbe rimasta per sempre lì nel suo eremo. Ma a lui, Colombano, la vita poteva dischiudere ancora tutto e, se il posto in cui si trovava non gli offriva più gli stimoli necessari, non doveva fare altro che andarsene per mare, peregrinando verso terre più lontane. Con l’aiuto di Dio avrebbe infine trovato il luogo in cui avrebbe potuto dare piena soddisfazione alle proprie aspirazioni. La vecchia eremita congedò Colombano con queste parole, rimproverandolo però anche per l’audacia avuta nel presentarsi al suo cospetto, poiché aveva violato una regola fondamentale dello stile di vita monastico, secondo la quale le donne 117

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Le città dei monaci

consacrate dovevano rimanere drasticamente separate dagli uomini e ad essi invisibili1. Colombano prese alla lettera i consigli della veneranda asceta e, lasciata l’Irlanda, iniziò una vita di peregrinazioni che lo avrebbero condotto prima nel Galles, poi in Francia e infine in Italia, dove chiuse i suoi giorni nel 615. La sua peregrinatio durò per mezzo secolo, e in tutti i luoghi da essa attraversati (soprattutto in Francia e in Italia) lasciò dietro di sé un’eredità di nuove fondazioni monastiche che, come si vedrà nel prosieguo di questo capitolo, avrebbero rappresentato altrettanti capisaldi della vita spirituale dell’intero continente durante tutto l’alto Medioevo. Irlanda, Gran Bretagna, Francia e infine Italia: la vita di Colombano percorre tutti gli scenari principali di una nuova stagione del monachesimo cristiano, che, sebbene fiorito sul terreno delle tradizioni e dei princìpi di quello tardoantico, svilupperà esperienze e realizzazioni profondamente originali, espressioni di una fase storica molto lontana, ormai, da quella degli ultimi secoli dell’Impero romano. Il nuovo monachesimo “venuto dal nord” avrebbe prodotto una nuova generazione di cenobi destinata a modificare profondamente gli epicentri della vita ascetica dell’Europa occidentale. Dall’area mediterranea, dove fra i secoli v e vi si erano sviluppate tutte le principali esperienze ascetiche, il fermento delle nuove fondazioni si sposta, fra vii e viii secolo, verso quelle che costituiscono il cuore del regno dei Franchi, compreso fra l’attuale Francia del nord, i Paesi Bassi, il Belgio e la Germania renana, per poi ampliarsi, con il progredire delle conquiste franche verso est, alle regioni della Germania centro-settentrionale. Al tempo di Carlo Magno, e cioè tra la fine dell’viii e gli inizi del ix secolo, i monasteri europei più importanti si troveranno tutti entro questo perimetro geografico. Anche l’Italia darà un apporto importante alla nuova fase del monachesimo europeo, ma a partire da basi completamente diverse dal passato: saranno infatti i Longobardi, quando alla fine del vii secolo si sarà compiuto il processo di cristianizzazione delle loro aristocrazie, ad essere i promotori di una nuova ondata di fondazioni, che, nella massima parte dei casi, non avranno alcun rapporto di continuità con quelle esistenti prima della loro discesa nella penisola. Tutto questo rinnovamento, però, come simboleggia efficacemente la parabola di Colombano, ha il suo punto di partenza nelle isole britanniche e in particolare in Irlanda, la quale, in età classica e tardoantica, si era trovata nella posizione più remota e periferica rispetto all’ecumene romana, non essendo neppure mai entrata a fare parte dell’Impero. Ciò che stupisce nella vicenda irlandese non è tanto il fatto che la sua popolazione sia stata particolarmente ricettiva alla predicazione del Cristianesimo, quanto piuttosto che la cristianizzazione dell’isola abbia a sua volta prodotto, nel corso del vi secolo, almeno due generazioni di persone in grado di operare non solo in direzione del consolidamento delle strutture ecclesiastiche locali, ma anche di esprimere uno sforzo missionario di notevoli proporzioni. Esso fu diretto sia alla propagazione della nuova religione verso regioni ancora pagane, 118

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come la Scozia e l’Inghilterra settentrionale (Alcock 2003: 63-67), sia verso aree che, come la Francia del nord, mostravano ampie smagliature nella rete della cura d’anime soprattutto in ambito rurale. Il tramite di questo exploit del Cristianesimo irlandese, dentro e fuori i confini dell’isola, fu sicuramente il monachesimo. I più celebri apostoli della nuova religione nelle isole britanniche furono Germano di Auxerre in Inghilterra e Palladio e Patrizio in Irlanda tra il tardo v e gli inizi del vi secolo: essi avevano ricevuto la loro formazione in Gallia e recavano quindi con sé l’idea di un’organizzazione ecclesiastica in cui la componente monastica era chiamata a svolgere un ruolo fondamentale sia nella formazione culturale del clero, sia come “incubatore” dei suoi quadri dirigenti (Thompson 1985; Charles-Edwards 2000). Da ciò è nato un dibattito sulla possibilità che, in una terra in cui non era mai esistita una rete insediativa imperniata sulla presenza delle città, i centri monastici abbiano in qualche modo riunito in sé tanto le funzioni più tipicamente loro proprie di luoghi di ritiro spirituale, quanto quelle di supporto alla cura animarum. La sinergia fra i due ruoli sarebbe stata così stretta, che i capi di alcune delle maggiori comunità monastiche rivestirono anche la carica episcopale, tanto che l’appellativo con i quali li si definiva era biscop, ovvero bishop, vescovo (Iorio 2004: 5155). Un altro aspetto rilevante della diffusione del monachesimo in Irlanda, ma più in generale della primitiva cristianizzazione dell’isola, è rappresentato dal fatto che i promotori della nuova fede, tra cui lo stesso san Patrizio, operarono cercando innanzitutto il consenso e il sostegno dei leader dei piccoli regni (tuath) in cui essa era suddivisa, al fine di poter svolgere la propria predicazione in condizioni di maggiore sicurezza e anche per ricevere da loro il necessario supporto materiale, ivi compreso il permesso di potersi insediare sul territorio e costruirvi le prime chiese (Dunn 2001: 138-157; Stancliffe 2005: 402-407). Rapidamente, l’apostolato di Patrizio guadagnò alla propria causa anche esponenti delle aristocrazie locali, che divennero a loro volta promotori di iniziative volte alla diffusione della nuova religione, prime fra tutte la fondazione di chiese e di comunità di religiosi (Bitel 1990: 145-172; Charles-Edwards 2000). Il risultato di tutto ciò sarebbe stata la formazione di un monachesimo irlandese dai caratteri peculiari, non solo fortemente votato a una rigorosa vita ascetica, ma anche propenso a impegnarsi in attività di evangelizzazione e, soprattutto, a conferire alle comunità una posizione di assoluta paritarietà e di forte autonomia rispetto alla gerarchia ecclesiastica secolare (Shipley Duckett 1961: 62-120; Pacaut 1989: 53-56; Richter 2009). Questa interpretazione dei caratteri originari del monachesimo irlandese è stata di recente riletta in modo più sfumato, con una propensione a considerare meno totalizzante l’identificazione fra comunità monastiche e clero secolare o, comunque, la prevalenza delle prime sul secondo (Laing 2006: 207; Picard 2008). Sicuramente, però, è un dato di fatto che alcuni dei centri episcopali più importanti dell’isola – certamente già operativi nel vi secolo – come Armagh e Kildare, erano 119

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allo stesso tempo la sede di comunità monastiche che si occupavano anche della cura animarum (Stancliffe 2005). Altri monasteri, invece, non sembrano aver avuto alcuna interferenza con questo tipo di attività e si caratterizzano quindi come luoghi in cui vivevano comunità di persone dedite interamente all’ascesi: sono questi i casi estremi di eremitaggio su isole inospitali come Skellig Michael o Iona (di fondazione irlandese, sebbene costruito su una delle isole scozzesi più prossime all’Irlanda). Quale che sia stato nei singoli casi il rapporto tra la vita ascetica e l’eventuale coinvolgimento dei monaci nelle attività pastorali, la realtà materiale dei siti monastici irlandesi dell’alto Medioevo sembra rispecchiare in genere idee abbastanza precise e razionali in merito all’organizzazione dei propri spazi. La loro articolazione sul terreno appare come l’esito di una riflessione sul tema della gestione delle esigenze – tra loro potenzialmente conflittuali – di preservare, da un lato, l’isolamento dei luoghi ove la comunità monastica vive e prega e, dall’altro, di garantire un’ordinata interazione con il mondo esterno, dal quale i monaci dipendono per soddisfare le loro necessità materiali e in cui, come si è visto, frequentemente sono chiamati ad operare svolgendovi funzioni di tipo pastorale. Il monastero è un luogo riconoscibile innanzitutto per i segni che lo delimitano dallo spazio circostante. Il concetto, formulato già ai primordi del monachesimo orientale tardoantico, trova in ambito irlandese una definizione ancora più netta, dato che la maggior parte dei siti si presenta racchiusa da un perimetro: esso si materializza sotto forma di un recinto murario o di un vallo in pietra, eventualmente rafforzato dalla presenza di un fossato, entro cui sono racchiusi gli edifici in cui la comunità vive, la chiesa in cui prega, il sepolcro-memoria ove sono custoditi i resti mortali del fondatore o di un santo particolarmente venerato, ed eventualmente anche un edificio turrito (Herity 1995). Questo tipo di organizzazione dei complessi monastici è stato riscontrato anche nelle aree più settentrionali dell’Inghilterra e in Scozia, forse anche in ragione del fatto che, fra tardo vi e vii secolo, l’operato dei monachi peregrini fu assolutamente decisivo ai fini dell’evangelizzazione o della ri-cristianizzazione di questi territori (Stancliffe 2005b: 451-459; Cramp 2008; Carver 2008). Gli insediamenti più grandi – tra cui anche quelli che svolgono, come Kildare, funzione di centro di coordinamento pastorale del territorio – mostrano una topografia più complessa, articolata in più aree concentriche, di solito due o tre, delle quali le più interne sono circoscritte da veri e propri recinti, solitamente a pianta circolare, che le fonti designano con i termini latini di sæptum o circuitum e che gli archeologi hanno mostrato costituiti da terrapieni, palizzate o muri. Quella più esterna, invece, prende piuttosto l’aspetto di un pomerium, il cui perimetro è segnalato da cippi, croci o altri tipi di segnacoli e che le fonti talora indicano con il vocabolo celtico termon, che chiaramente deriva dalla parola latina terminus. A questo tipo di suddivisione corrisponde una precisa ripartizione funzionale delle varie aree: la zona più interna contiene l’edificio di culto principale, grandi croci 120

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commemorative in pietra ed eventualmente il luogo di sepoltura del fondatore con l’area sepolcrale della comunità; la zona intermedia è occupata dagli edifici residenziali dei monaci, come il dormitorio (suddiviso in cellæ singole o costituito da un locale comunitario), il refettorio e gli spazi destinati a conservare beni e provviste; in quella più esterna, infine, troviamo edifici con funzionalità decisamente più profane, come le attività artigianali, i luoghi per l’accoglienza di coloro che, in pericolo di vita, cercavano nei monasteri asilo e protezione e, infine, lo spazio che le fonti irlandesi denominano con il termine latino di platea monasterii (MacDonald 1984; Picard 2008; Dell’Acqua 2011). Quest’ultimo costituiva in certo senso il diaframma fra le parti più interne e quelle più periferiche del monastero, ove i laici erano autorizzati a entrare per assistere a cerimonie religiose e ricevere la benedizione dai monaci ed eventualmente presentarsi al loro cospetto per consegnare i frutti delle terre di loro pertinenza che essi coltivavano. Un capitolo (il quinto) del xliv libro della Collectio Canonum Hiberniensis, redatto nella prima metà dell’viii secolo, eleva al rango di norma scritta la strutturazione che i monasteri del tempo avevano realizzato sul terreno:

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Un luogo santo deve essere circondato da due o tre recinzioni. Nella più interna, nessuno è autorizzato ad accedere, ad eccezione degli uomini santi, il che significa che i laici e le donne non possono entrarvi, ma solo i chierici. L’ammissione agli spazi pubblici della seconda è permessa a coloro, fra la gente comune, la cui morale non sia troppo macchiata dal peccato. Nella terza, infine, il costume e la consuetudine ammettono che non sia vietato l’ingresso neppure ai laici macchiatisi di omicidio o di adulterio e alle prostitute. Per questi motivi la prima zona è definita “santissima”, la seconda “molto santa” e la terza “santa”2.

La ripartizione spaziale determinata dai diversi recinti demarca quindi livelli differenti di accessibilità all’insediamento monastico, mediando l’esigenza della separatezza della vita ascetica e della sfera sacrale intorno alla quale essa si svolge con quella del ruolo di riferimento spirituale ma anche economico che la comunità riveste nei confronti delle comunità circostanti3. Il concetto che appare ben chiaro è che la chiesa dove i monaci pregano (talora situata nei pressi della tomba del fondatore del monastero o di un personaggio venerato) costituisce un luogo inaccessibile a chi non appartiene alla comunità monastica. D’altra parte, sino almeno a tutto il ix secolo, le chiese rinvenute all’interno dei recinti monastici, siano esse costruite in legno o in pietra, sono di solito di dimensioni talmente ridotte da far ritenere impossibile che potessero essere utilizzate per tenervi messe pubbliche, ma che, piuttosto, avessero la funzione esclusiva di oratoria per la preghiera della comunità. Anche nei casi in cui i monasteri erano obbligati a interagire con il mondo esterno, l’isolamento dei monaci veniva comunque garantito dalle barriere fisiche e simboliche erette nei confronti di esso. D’altra parte molti dei siti che nelle isole britanniche furono scelti fra vi e vii secolo per edificarvi dei monasteri si trovano su

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isole (ad esempio Skellig Michael e Caher Island, in Irlanda; Iona e Birsay in Scozia; Lindisfarne in Inghilterra) o su promontori affacciati sul mare e difficilmente accessibili (Dun Hoghil in Irlanda; Casa Candida in Scozia; Bangor nel Galles). Ciò conferma la predilezione, ben sperimentata nell’Occidente tardoantico, verso la scelta di luoghi la cui morfologia fisica assecondasse la vocazione di chi intraprendeva la vita monastica a condurre un’esistenza al riparo dalle turbolenze del secolo. Un esempio concreto di questa duplice natura del monachesimo celtico, allo stesso tempo custode di un rigoroso ascetismo e promotore di un’intensa attività di evangelizzazione, si ha in un episodio della vita del monastero di Iona, che alla fine del vi secolo era uno dei centri più importanti dell’irraggiamento verso la Scozia del cenobitismo irlandese, divenendovi a sua volta fondatore di altre case monastiche. Alla morte del fondatore, Columba (o Colum Cille, in lingua celtica), avvenuta nel 597, i monaci di Iona temevano di vedere l’isola invasa dai fedeli, desiderosi di partecipare alle sue esequie. Ma Dio, ricorda Adomnán, biografo di Columba, risparmiò loro questa pur devota intromissione, scatenando il maltempo per molti giorni, così da scoraggiare quanti volevano intraprendere la navigazione per recarsi sul posto, lasciando quindi i monaci tranquilli a celebrare, nella loro consueta solitudine, il trapasso alla vita eterna del loro abate4. Nonostante ciò, le fonti irlandesi altomedievali descrivono spesso i monasteri alla stregua di ‘città’. In questa parte dell’arcipelago britannico (includendovi quindi anche la Scozia), mai entrata a far parte dell’Impero romano, le città intese come aggregati abitativi con precise caratteristiche urbane non erano mai esistite e quindi poteva facilmente essere attribuita una denominazione di questo tipo a insediamenti che concentravano al loro interno caratteristiche che si potevano immaginare proprie di un centro urbano: la densità abitativa; l’eccellenza e la stabilità della vita spirituale; la custodia e la promozione della conoscenza attraverso l’uso della scrittura; la concentrazione di saperi tecnico-pratici di alto livello necessari per la produzione di beni di qualità; la firmitas materiale dell’insediamento, che diviene punto di riferimento per tutto il territorio ad esso circostante, talora anche in relazione alla sua funzione di coordinamento della cura animarum della popolazione che vi abita. In altre parole, il monastero era una civitas perché era un luogo ove Cristo trionfava e che Cristo proteggeva e in cui si concentrava ciò che di meglio l’uomo sapeva produrre dal punto di vista spirituale, culturale e materiale (Moreno Martín 2007)5. L’idea che il monastero dovesse costituire un nuovo tipo di civitas, come si è visto, era ben presente fra i monaci orientali della tarda antichità; ma, in quel contesto, la costruzione di tale nuova realtà riposava sull’idea che essa dovesse rappresentarsi come altera e migliore rispetto alle città già esistenti e di cui si stigmatizzavano la struttura sociale e gli stili di vita. Nell’Irlanda e nella Scozia del vii secolo, però, mancava la controparte in rapporto alla quale istituire questo raffronto e il monastero, quindi, si proponeva come unica concreta declinazione del concetto di 122

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urbanitas. Questa formulazione concettuale, come vedremo, avrà un influsso molto rilevante anche sull’identità dei monasteri altomedievali del continente, visti non più solo come luogo di fuga dal mondo, ma anche e soprattutto come centri protetti dalla turbolenza del mondo esterno, in cui concentrare e custodire, per farne offerta a Dio, quanto di meglio il genere umano fosse in grado di realizzare con il lavoro della mente e delle mani. Custodi delle anime regie: monasteri e potere nel regno dei Franchi (600-750 circa) Alla metà del vi secolo, il regno dei Franchi controllava ormai tutto il territorio dell’attuale Francia, con l’eccezione di una piccola lingua di terra nel sud-ovest del paese e della Bretagna, e si estendeva anche stabilmente su buona parte dell’attuale Svizzera e su quella porzione della Germania odierna che si trova a occidente del fiume Reno. Tuttavia, oltre al fatto di essere sovente sottoposto a suddivisioni derivanti dalla contemporanea assegnazione a diversi esponenti della dinastia merovingia di porzioni del suo territorio, il regno mostrava al proprio interno diversificazioni di carattere più profondo e antico. Le aree affacciate sul Mediterraneo come la Provenza, quelle atlantiche più meridionali come l’Aquitania, quelle gravitanti sul corso del Rodano come la Borgogna meridionale, e quelle centrali a sud del corso della Loira erano più densamente urbanizzate e più profondamente latinizzate. Lo stesso controllo dei re franchi su territori come la Provenza e l’Aquitania nel vi secolo avveniva spesso attraverso rappresentanti il cui nome evoca una loro origine gallo-romana (Van Dam 2005: 216-217). Questo stato di cose non mancava di produrre conseguenze anche sul piano dell’organizzazione ecclesiastica. Nelle regioni centro-meridionali del regno, le diocesi, incardinate nelle sedi delle antiche città romane, erano molto più numerose che nel nord del paese, e ancora in questo periodo i vescovi che le governavano avevano per la maggior parte nomi non germanici. Al nord, invece, non solo la rete diocesana aveva maglie molto più larghe, ma, in conseguenza della più profonda ‘franchizzazione’ subita da queste aree, le sedi vi appaiono più precocemente occupate da personaggi caratterizzati da un’onomastica germanica. Inoltre, in esse – e soprattutto ai margini o all’esterno dei territori già romani – non mancavano ancora forti resistenze a una generalizzata accettazione del cristianesimo (Lebecq 1990: 99-100). La rigogliosa fioritura monastica gallica del v secolo e la sua ulteriore espansione nella prima metà del vi interessò quindi soprattutto le regioni meridionali e centrali e, nonostante la presenza di comunità autonome come Lérins, Condat (Giura) e la vicina Saint-Maurice d’Agaune (Val­lese), la maggior parte di esse si stabilì in ambito urbano e periurbano, grazie soprattutto a iniziative vescovili che, in diversi casi, avevano l’intendimento di utilizzarle in ausilio alla gestione dei principa123

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li luoghi di pellegrinaggio. I monasteri nati in questo periodo furono quindi principalmente espressione del dinamismo spirituale espresso dalle élite di quelle aree, costituite da famiglie di origine gallo-romana che riuscirono a perpetuare il proprio potere attraverso il controllo delle sedi vescovili dislocate all’interno delle città (Innes 2007: 290-297). Sino al tardo vi secolo l’interesse dei sovrani franchi nella promozione della vita ascetica fu invece molto limitato e una mappa ideale delle fondazioni monastiche mostrerebbe che la stragrande maggioranza di esse sorse lontano dai centri in cui abitualmente risiedevano i re merovingi – Parigi, Soissons, Reims, Orléans – e quindi fuori delle regioni settentrionali della Gallia, dove l’influsso franco era più forte. Questo quadro presenta comunque qualche eccezione. Nel 515, quando la Burgundia era ancora un regno indipendente, il re Sigismondo († 523) fondò presso la memoria dei cosiddetti Martiri Tebani, nell’alta valle del Rodano a monte del lago Lemano, il monastero di Saint-Maurice d’Agaune, con l’intento di istituirvi una comunità che pregasse perennemente per la salute della sua anima e che sarebbe dovuta rimanere indisturbata da intromissioni esterne (Rosenwein 2000 e 2001). È solo però alla metà del secolo che troviamo la prima fondazione direttamente promossa da un monarca franco. Si tratta del monastero della Vergine (poi della Santa Croce) sorto a Poitiers per opera della regina Radegonda (519 -587), moglie del re Clotario i (511-561). La fondazione di Radegonda riassume in sé elementi tradizionali del monachesimo gallico tardoantico e tratti di novità, che diverranno più consueti in seguito. Dislocata non lontano dall’area ove sorgeva la cattedrale della città, l’abbazia fu concepita come un luogo di raccolta e custodia di reliquie, atte a farne un centro di pellegrinaggio, tra cui frammenti della Croce di Cristo inviati dall’imperatore bizantino Giustino ii. Come racconta Gregorio di Tours, il monastero di Poitiers era stato dotato di un proprio oratorium. L’intromissione in esso da parte di persone esterne alla comunità, in seguito a dissidi scoppiati dopo la morte della regina-monaca, fu motivo di grave scandalo6. L’impresa di Radegonda fu celebrata da Venanzio Fortunato, un poeta originario di Valdobbiadene, formatosi tra Aquileia e Ravenna, che visitò la tomba di Martino a Tours e decise, dopo l’incontro con Radegonda, di dedicarsi alla vita religiosa. Divenne prete e, alla fine del secolo, vescovo della Chiesa di Poitiers. La regina aveva stabilito che il monastero, sottoposto direttamente alla protezione del re, sarebbe stato giuridicamente autonomo dall’autorità episcopale locale. Il vescovo del tempo, Meroveo, non poco irritato dall’atteggiamento di Radegonda, cercò di ostacolarvi la deposizione delle reliquie della Croce e rifiutò anche di partecipare alla cerimonia che ne celebrò l’ingresso nel monastero (Wood 1994: 136-139; Bührer-Thierry, Mériaux 2010: 228-235). Sebbene, dopo la morte della regina, la badessa in carica avesse cercato di ricomporre la frattura con il vescovo, lo status del monastero rimase in una posizione assai diversa da quella delle altre fondazioni costituite direttamente per volontà episcopale e quindi da essa fortemente condizionate. Ma una 124

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differenza si percepisce anche rispetto a quelli, come Lérins o Condat, frutto di autonome iniziative intraprese da persone votate alla vita ascetica, prive di legami con la gerarchia ecclesiastica secolare: essa è da cogliersi nel rapporto privilegiato che sia Santa Maria/Santa Croce di Poitiers, sia la stessa Agaune intrattengono con personaggi appartenenti alle famiglie regnanti, le quali introducono al loro interno stili di vita direttamente mutuati da quelli del milieu aristocratico. A Poitiers, ad esempio, dopo la morte di Radegonda, alcune nobildonne, anche di stirpe reale, che facevano parte della comunità avevano causato grande scandalo in città poiché erano state accusate di tenere all’interno del monastero servitori maschi ed eunuchi che si prendevano cura della loro persona, di giocare a dadi e di usare i sacri drappi dell’oratorio per farne vesti di lusso7. Al di là della novità in sé di essere state promosse da sovrani germanici, i tratti caratterizzanti di queste fondazioni (insieme a poche altre di analogo patronato, documentate entro il 580-590) sono quindi da individuarsi nel forte legame con un patronus laico di alto rango politico e, specularmente, nella volontà d’indipendenza dal controllo vescovile che esse rivendicavano. Ma, soprattutto, esse mostrano che anche nella parte più ‘franchizzata’ della Gallia esisteva un potenziale humus su cui gettare i semi per lo sviluppo di esperienze monastiche, che peraltro mostravano tratti originali rispetto a quelle sino allora prevalenti. Alla fine del vi secolo la monarchia merovingia viveva una fase assai travagliata. Per un quarantennio circa, tra la metà degli anni ’60 e il primo decennio del vii secolo, tre generazioni di regnanti combatterono tra loro quasi ininterrottamente una guerra feroce e, in molti momenti, apparentemente motivata solo da vendette e odi personali. In realtà, l’esito finale di questi scontri modificò profondamente e sotto diversi punti di vista l’assetto del regnum Francorum. Nel corso di quelle lotte apparve chiaro che le regioni settentrionali costituivano il vero centro politico del regno, mentre quelle meridionali (Aquitania e Provenza) rimasero rispetto ad esse in posizione marginale, anche se fortemente autonoma. Benché l’unità del regnum non fosse mai stata messa in discussione, le lotte dei decenni a cavallo fra vi e vii secolo portarono, nella sua parte settentrionale, alla formazione di tre distinte macro-aree: la Neustria, comprendente tutte le regioni del nord-ovest della Francia, dal Pas de Calais ai confini della Bretagna, era delimitata a sud dal corso della Loira e dallo spartiacque fra i bacini della Senna e della Mosa; l’Austrasia, entro cui ricadevano le aree più orientali della Francia, le valli della Mosa e della Mosella e la Renania; la Burgundia, che comprendeva, oltre alla Borgogna attuale, anche la regione di Orléans, la Savoia e il Giura. Ciascuna di esse ebbe a capo un proprio rex, sempre espresso dalla dinastia merovingia. In ciascuna di queste tre aree, le lunghe guerre portarono all’affermazione politica di un’aristocrazia (di matrice essenzialmente franca) fortemente legata al territorio e radicata nelle campagne, in grado di fornire ai re il necessario supporto politico e militare. Da tale ceto erano reclutati i componenti della gerarchia ecclesiastica e quelli di un’embrionale struttura burocratico-amministrativa, alla testa della quale, in ciascuno dei sub-regni, si 125

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trovava un maior domus e cioè un amministratore della casa reale. Un altro risultato di questi eventi fu il lento sbiadirsi, nel corso della prima metà del vii secolo, della visibilità di quella componente gallo-romana che, come abbiamo visto, aveva mantenuto per tutto il secolo precedente una sua precisa identità e significative posizioni di potere, soprattutto nell’ambito delle città e delle gerarchie episcopali. In conseguenza di ciò, già nel corso dell’ultimo quarto del vi secolo si notano una progressiva franchizzazione dell’episcopato e un più deciso coinvolgimento dei monarchi nel controllo delle sedi vescovili. In questo scenario di aspre lotte intestine, ma anche di profonda ristrutturazione e ridefinizione degli equilibri politici e sociali del regnum Francorum, a partire dagli ultimi anni del vi secolo s’innesta l’arrivo dall’Irlanda di un gruppo di tredici monachi peregrini, capeggiati da quello stesso Colombano che abbiamo incontrato all’inizio del capitolo. Sbarcato verso il 590 sulle coste occidentali della Neustria, fra Saint-Malo e il luogo in cui sarebbe stato fondato in seguito il celebre monastero di Mont Saint-Michel, egli ne attraversò tutto il territorio per giungere infine nella Borgogna nord-orientale, allora parte del regno di Gontrano (561592), uno dei tre figli di Clotario i le cui discordie avevano acceso la lunga guerra civile che travagliò il regno merovingio sino ai primi anni del vii secolo. L’affermazione di Colombano sul suolo franco ha del miracoloso, anche se la sua peregrinatio ad Galliam non costituì, in sé, una novità assoluta. Oggi, infatti, si è in grado di provare con sufficiente sicurezza che egli non fu il primo monaco celtico ad aver messo piede sul continente: già nei decenni precedenti vi erano stati altri sbarchi di gruppi di asceti provenienti dalla Cornovaglia, dal Galles e dalla stessa Irlanda. Molti di essi si erano stabiliti nell’attuale Bretagna (l’antica Armorica), area che, sin dal v secolo, aveva conosciuto una forte migrazione dalle isole britanniche in seguito alle invasioni germaniche da esse subite; alcuni di questi peregrini si erano però sparsi anche in regioni più direttamente sottoposte al controllo dei Merovingi (Riché 1981; Prinz 2004: 298-301; Fouracre 2005: 382-383). L’impatto dell’arrivo di Colombano determinò tuttavia sviluppi di portata diversa, che furono resi possibili da alcune sue peculiari idee sulla conduzione della vita monastica, oltre che dalla personalità indubbiamente carismatica di cui egli era dotato. In primo luogo, Colombano propugnava un monachesimo caratterizzato da un accentuato senso della disciplina e della coesione comunitaria, cosa che aveva come riflesso una decisa tutela della vita spirituale da qualsiasi intromissione esterna, in primis quella che poteva essere esercitata dai rappresentanti della gerarchia ecclesiastica secolare. In conseguenza di ciò Colombano, per fondare il monastero di Luxeuil, alla testa del quale rimase per circa vent’anni, scelse un’area rurale, ma non deserta, della Borgogna, rivolgendosi direttamente all’aristocratico franco che ne era il proprietario per ottenerne il sostegno e garantirsi la protezione del re, affinché la nuova comunità fosse dotata di mezzi sufficienti per sopravvivere e di una protezione politica adeguata che prevenisse la perdita di indipendenza (Bully 2009b). 126

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Il coinvolgimento diretto dei ceti aristocratici e degli stessi monarchi franchi nella promozione dei monasteri, attraverso l’installazione di questi ultimi sulle loro proprietà sparse nelle campagne, si dimostrò una scelta vincente e, potremmo dire, al passo con i tempi. La nobiltà franca del vii secolo, infatti, costituiva il vertice di una società ormai profondamente ruralizzata e i gruppi familiari che la costituivano dovevano trovare perfettamente plausibile l’idea di poter creare ex novo nelle campagne luoghi di eccellenza spirituale sui quali riversare investimenti materiali e attraverso cui promuovere la propria immagine (Prinz 1981; McKitterick 1983: 2122; Le Jan 2001). D’altra parte, come si è visto, Colombano era a sua volta esponente di una tradizione, come quella irlandese, in cui i monasteri, nati e cresciuti in una terra senza città, erano essi stessi divenuti snodi centrali nell’assetto del territorio. Un altro tratto caratterizzante del monachesimo ispirato da Colombano, che trovò positivo riscontro in terra gallica, fu quello di concepire la vita ascetica non solo come percorso di perfezione da svolgersi all’interno della comunità di appartenenza, ma anche come testimonianza esemplare di esistenza cristiana da proiettare sulla realtà circostante, sia verso quanti avevano già aderito alla fede ma non la praticavano più con lo zelo necessario, sia verso coloro che ad essa dovevano essere ancora guadagnati. In altre parole, la presenza di un monastero in un determinato territorio voleva costituire una provocazione permanente per chi vi abitava, tanto per l’esempio in sé di fede vissuta che i monaci proponevano, quanto perché essi potevano spendere una parte della loro esistenza per predicare Cristo nel mondo che li circondava. Questa caratterizzazione della professio monastica avrebbe attratto su Colombano consensi, ma anche molta avversione. La comunità di Luxeuil si arricchì rapidamente di elementi franchi, molti dei quali di nascita aristocratica, e fu a sua volta ispiratrice e madrina di altre fondazioni sorte nei territori della Neustria e dell’Austrasia e promosse da personaggi assai rilevanti sulla scena politica del tempo. Tra questi, ad esempio, Audechar e Aega, marito e moglie, grandi proprietari terrieri e sostenitori del re di Austrasia, Teodeberto ii (595-612). I loro figli, Audoino e Dado, sarebbero stati ciascuno il promotore di un importante monastero dell’Île-de-France, rispettivamente Rebais e Jouarre (Wood 1994: 150-152). Audoino, dopo aver ricoperto cariche importantissime a corte, divenne infine vescovo di Reims. Diversamente da lui, però, molti altri vescovi non avevano in grande simpatia la declinazione della vita monastica incarnata da Colombano, che, svincolandosi dalla loro autorità, cercava di costruire un regime di assoluta autonomia per le proprie fondazioni ricorrendo alla protezione diretta di re e nobili. Nonostante i numerosi sostenitori guadagnati alla propria causa, Colombano dovette quindi fronteggiare un’ostilità sempre crescente, alimentata soprattutto da parte dei vescovi di Austrasia, irritati di fronte al suo atteggiamento intransigente e risoluto, il che provocò alla fine la sua espulsione dal regno. Ciò avvenne quando egli giunse ad alienarsi anche il sostegno di Teodeberto ii, al quale aveva pubblicamente rimproverato di accompagnarsi a concubine anziché unirsi in regolare

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matrimonio con una moglie legittima. Il sovrano, allora, su istigazione della regina Brunechilde, moglie di suo nonno Sigeberto i ma ancora saldamente in controllo degli equilibri politici dell’Austrasia, decise di cacciare Colombano da Luxeuil e di obbligarlo all’esilio. In effetti, Colombano, prendendo spunto da quanto aveva certamente visto nella nativa Irlanda, concepiva il monastero come uno spazio di cui i monaci potevano disporre in modo assoluto, senza che altri potessero vantare diritti su di esso e, tanto meno, vi si potessero introdurre privi del consenso preventivo della comunità. Esso, nella sua visione, era metaforicamente costituito da diversi cerchi concentrici: il primo, inviolabile, era quello entro cui i monaci vivevano la loro esistenza separata dal mondo, in continua preghiera; il secondo, quello dove si concentravano le attività di natura pratica e profana necessarie alla vita quotidiana dei monaci e che richiedevano un certo grado di contatto con il mondo esterno; il terzo, infine, era costituito dallo spazio della mediazione con il sæculum, dove, in alcune circostanze precise e ben regolamentate, i monaci potevano mostrarsi al mondo e condividere la preghiera con i laici (De Jong 2001: 309). L’idea di spazio monastico concepita da Colombano è ben chiarita da Giona di Bobbio, suo biografo, quando racconta della spedizione condotta da re Teodeberto a Luxeuil, con tanto di truppe al seguito, per costringere l’abate a recedere dalle proprie critiche nei suoi confronti. Colombano si ribellò all’atto oltraggioso del re e si lamentò con lui, poiché [con il suo comportamento] si era allontanato dai costumi vigenti nel regno, secondo i quali non era consentito a tutti i cristiani l’accesso entro i recinti più segreti [del monastero].

E aggiunse che egli non era abituato a vedere che individui secolari potessero introdursi nei luoghi ove abitavano i servi di Dio e che [nel monastero] vi erano spazi opportunamente predisposti per accogliere l’arrivo di tutti gli ospiti8.

Il re fece notare a Colombano che, essendo lui che proteggeva e finanziava il monastero, se voleva che questo sostegno non cessasse gli avrebbe dovuto consentire di entrarvi come e quando voleva. Il ragionamento di Teodeberto, dal sapore minaccioso, non fece però mutare convinzione all’irlandese. Per lui, il monastero era il luogo costruito per coloro che vivevano sub regulari disciplina, e cioè sotto una legge diversa da quelli che abitavano al di fuori. Mescolare i primi con i secondi, anche se fra questi ultimi vi era il re in persona, significava macchiare e corrompere irrimediabilmente la vita dei monaci. Il sovrano avrebbe quindi anche potuto tenere per sé i suoi soldi, se in cambio di essi chiedeva che si sacrificasse l’essenza stessa dello status monastico. Tornati a Luxeuil una seconda volta, i soldati del re penetrarono infine nel monastero per prelevare Colombano, ma furono puniti da Dio con l’accecamento e 128

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presero a vagare al suo interno senza poter compiere la loro missione, mentre l’abate rimaneva loro invisibile e indisturbato, continuando a leggere seduto nell’area antistante alla chiesa. Il loro comandante, rimasto al di fuori del recinto e guardata la scena da un’apertura nel muro di recinzione, capì alla fine che era inutile insistere e richiamò all’esterno i suoi uomini9. Qualche tempo prima, quando lo scontro fra Colombano e la famiglia reale era solo agli inizi, Brunechilde e i suoi nipoti erano stati più prudenti: avevano imposto ai monaci di non varcare i limiti del monastero, impedendo al contempo a coloro che vivevano negli immediati dintorni e che dal monastero dipendevano di entrarvi per recare alla comunità quanto necessario alla sua sopravvivenza10. Nonostante l’aiuto divino, Colombano dovette alla fine piegarsi a lasciare Luxeuil e incamminarsi verso un lungo esilio, il cui approdo finale sarebbe stato l’Italia, dove, nel 614, con l’assenso del re longobardo Agilulfo e la protezione della di lui moglie Teodolinda, avrebbe fondato il monastero di Bobbio (negli Appennini tra Emilia e Liguria), morendovi un anno dopo. Il ripiego di Colombano, tuttavia, non comportò la dissoluzione del suo lascito. Quando era ancora in vita, nel 613, egli poté prendersi la soddisfazione di essere interpellato direttamente dal nuovo re dei Franchi, Clotario ii, su come ricostruire Luxeuil dopo le devastazioni patite in seguito alla sua cacciata11. Le sue parole ripresero di pari passo, anche in quella circostanza, l’idea di come un monastero dovesse funzionare e disporsi rispetto al mondo circostante. Il re avrebbe infatti dovuto provvedere a munire il monastero con ogni difesa, dotarlo di rendite annuali e definirne i confini su tutti i lati12.

Gli abati succedutisi alla testa di Luxeuil dopo la dipartita di Colombano non solo erano suoi discepoli, ma erano soprattutto espressione di un ‘lievito monastico’ sviluppatosi tra coloro che, nell’aristocrazia franca, condividevano i princìpi ispiratori della vita monastica propugnati dal fondatore. Durante il vii secolo vi fu un vero e proprio exploit di nuove fondazioni di monasteri, soprattutto nelle regioni settentrionali del regnum Francorum. Molti di essi ebbero un rapporto diretto con Luxeuil, nel senso che i loro fondatori talora avevano ricevuto la prima formazione proprio in quel monastero ovvero in altri cenobi di cui il santo irlandese era stato iniziatore o ispiratore. È questo, ad esempio, il caso di Wandregisil (Wandrille, in francese moderno), che prima di intraprendere la vita ascetica era stato un lato funzionario della corte di re Dagoberto i (629-639) e, successivamente, aveva maturato la sua prima esperienza monastica a Bobbio, per poi ritornare in Francia e ottenere dal re le terre di una valle solcata da un tributario del basso corso della Senna, il Fontenelle, e fondarvi un monastero. A poca distanza da questo sorse il monastero di Jumièges (Gemeticum), il cui promotore e primo abate fu Filiberto. Anch’egli aveva mosso i primi passi alla corte di Dagober129

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to, per poi decidere di farsi monaco a Luxeuil e di completare la sua formazione a Bobbio. Tornato in Gallia nel 654, si guadagnò il sostegno della regina Balthilde, moglie di re Clodoveo ii (639-657) e nuora di Dagoberto i, che gli concesse i terreni su cui installare il monastero. Similmente a com’era avvenuto a Lérins più di cento anni prima, sotto gli abati successori di Colombano, Eustasio e Waldeberto, Luxeuil non solo divenne un centro monastico di primaria importanza, ma assurse al ruolo di luogo di formazione di almeno due generazioni di protagonisti di quella nuova stagione del monachesimo gallico che, per la compresenza al suo interno della componente insulare e di quella autoctona, è stato giustamente definito “irofranco”. I fondatori delle nuove abbazie, come i già ricordati Filiberto e Wand­regisil, divengono anche i campioni di una nuova santità partorita dal seno del popolo franco e in particolare fiorita tra gli esponenti delle sue componenti egemoni, le cui gesta sono state tramandate dalle biografie scritte su di essi fra vii e ix secolo. L’interesse che re e aristocratici mostrarono nel fondare monasteri derivava non solo da un sincero entusiasmo verso forme di spiritualità di cui si avvertiva il vigore morale, ma anche dal fatto che un monachesimo che trovava il suo habitat nelle aree rurali e che rivendicava con forza, di fronte alle gerarchie della Chiesa secolare, l’autonomia delle comunità cui esso dava vita costituiva un’ottima opportunità d’investimento per i suoi promotori. Far nascere un monastero su queste premesse faceva sì che l’entourage del fondatore (i suoi familiari, i suoi patroni politici), che spesso forniva terre, beni e protezione alla nuova comunità, potesse mantenere con esso un rapporto privilegiato. Ciò in primo luogo permetteva che i patroni fossero considerati dai monaci come propri benefattori ed essere quindi costantemente raccomandati nelle quotidiane preghiere che essi elevavano a Dio. Inoltre, se necessario, il monastero poteva riservare loro o ai loro familiari l’accesso a un luogo in cui concludere serenamente la vita terrena, espiandone le colpe. Infine, chi beneficiava un monastero era in grado di esercitare su di esso un influsso più concreto, che poteva ad esempio tradursi nella possibilità di avere voce nella scelta dell’abate o della badessa, nel caso di una comunità femminile, e quindi di imprimere una direzione politico-culturale precisa sulla vita stessa della fondazione. Nei casi, poi, di monasteri sorti su terre concesse direttamente dai re e quindi appartenenti in origine al pubblico demanio, il possesso delle medesime da parte della comunità non si esercitava mai in condizioni giuridiche tali da cancellare completamente il dominium eminens su di esse goduto dal monarca e dai suoi successori; essi, quindi, in linea di principio sarebbero potuti rientrarne in possesso, qualora avessero ritenuto opportuno farlo per qualche grave motivo. In genere, però, decisioni così estreme non erano necessarie e i re erano ben contenti di veder crescere e prosperare, insieme alle comunità monastiche, i patrimoni fondiari loro assegnati affinché le prime potessero vivere delle rendite prodotte dal lavoro dei contadini ceduti ai monaci insieme ai patrimoni stessi. Divenendo proprietari terrieri, i monaci erano utili in maniera duplice: potevano liberarsi dell’incombenza di do130

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ver lavorare in prima persona e dedicare perciò le proprie energie interamente alla preghiera, ma potevano anche svolgere un’indiretta funzione di presidio del territorio nel quale si erano insediati. Questo è l’insieme di ragioni per cui, facendo seguito a primi esperimenti condotti già nel vi secolo, durante il vii si estese notevolmente la consuetudine di rendere i monasteri immuni dalle ingerenze delle istituzioni territoriali, tanto di quelle laiche (i rappresentanti locali del re) quanto di quelle ecclesiastiche (i vescovi) (Bührer-Thierry, Mériaux 2010: 242-244). Tali prerogative immunitarie si traducevano normalmente nell’acquisizione da parte dei monaci di diritti molto concreti. Tra questi, quello che una comunità potesse eleggere autonomamente il proprio abate senza che il vescovo della diocesi entro cui il monastero ricadeva avesse il potere di intromettersi, imponendo un proprio candidato; il diritto dell’abate di rivolgersi a un vescovo di suo gradimento – e non obbligatoriamente a quello competente per territorio – per far consacrare chiese e altari del proprio monastero e per far conferire gli ordini sacri a membri della propria comunità; la possibilità che l’abbazia godesse di regimi favorevoli sotto il profilo fiscale, con esenzioni dalle imposte sui patrimoni e dai dazi per la movimentazione delle merci che essi producevano, e che le fosse garantita l’immunità giudiziaria, e cioè che monaci e abati non potessero essere trascinati in giudizio davanti a tribunali secolari (Rosenwein 1999: 64-70). Le abbazie sorte nel regno merovingio durante il vii secolo e che arrivarono a godere di questo status privilegiato furono probabilmente una minoranza rispetto all’insieme di quelle esistenti. Per molte fu impossibile sfuggire al controllo più o meno stringente dei vescovi locali, che secondo la legge canonica avevano la prerogativa di sovrintendere alla vita spirituale delle comunità monastiche, e che non mancavano spesso di interpretare in modo più ampio tale mandato. I monasteri ‘immuni’ non rappresentarono quindi la totalità delle nuove fondazioni nate in questo periodo nei territori della Gallia centro-settentrionale, ma dal punto di vista politico ne costituirono certamente la porzione più rilevante, poiché furono quelli per i quali i fondatori ebbero il potere di negoziare le condizioni di sviluppo migliori. Può sembrare paradossale che un re accettasse e anzi si adoperasse affinché un’abbazia venisse posta in condizione di sfuggire al controllo delle strutture fiscali e giudiziarie che dal suo stesso potere dipendevano. Ma, in questi casi, ciò che interessava ai sovrani era stabilire un legame diretto e personale con la fondazione monastica, su cui egli avrebbe potuto continuare a influire attraverso la propria generosità e quindi in modo più informale, ma non meno efficace, riuscendo a pilotare le elezioni degli abati. In effetti, l’episodio di Colombano che si oppone al re, parandosi davanti a lui e ai suoi soldati per impedirgli (ma alla fine soccombendo) l’accesso alle aree più recondite e sacre di Luxeuil, deve essere considerato un evento eccezionale. E ciò sia perché normalmente i sovrani e gli aristocratici patroni dei monasteri riconoscevano senza problemi l’inviolabilità degli spazi dedicati alla vita consacrata, ma anche in ragione del fatto che fra l’abate (o la badessa) di un monastero merovingio e il proprio protettore si stabiliva in genere un rapporto 131

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di mutuo sostegno che derivava anche dalla comune appartenenza al medesimo milieu sociale. Colombano era stato in effetti il carismatico missionario venuto da lontano, in grado di individuare la formula per l’esercizio di una vita monastica più consona agli stili e alle prospettive di vita dell’aristocrazia franca di quanto ormai fosse il vecchio monachesimo di tradizione gallo-romana, imperniato soprattutto sulla sottomissione dei monaci ai vescovi e sulla dislocazione prevalentemente urbana o suburbana dei monasteri; ma lo sviluppo di questo suo esperimento poté avere buon esito perché furono gli esponenti dell’aristocrazia (e soprattutto della monarchia) franca a prenderne direttamente le redini (Rosenwein 1999: 74-96; Tabacco 2000: 23-28). Le condizioni stabilite dal già ricordato Audoino, con l’avallo di re Dagoberto, per l’accesso al monastero di Rebais dei rappresentanti della gerarchia ecclesiastica secolare chiariscono meglio di qualunque ragionamento teorico che cosa si intendesse per autonomia e inviolabilità dello spazio monastico. L’apparente paradosso sta nel fatto che il testo che elenca tali condizioni è contenuto in un privilegio emesso proprio da un vescovo, Burgundofaro, cui Audoino si rivolse perché si precisasse, sul piano ecclesiastico, quanto qualche anno prima era già stato garantito al monastero dal re relativamente all’autonomia concessa ai monaci nei confronti dei poteri civili. In realtà, questo documento dimostra che, nonostante le resistenze incontrate da Colombano presso alcuni vescovi, quando fu l’élite franca nel suo insieme a raccoglierne i princìpi, vi furono assai meno ostilità ad accettare l’idea che, per poter quietamente e pienamente perseguire i propri ideali di vita, le comunità monastiche dovessero essere tutelate da intromissioni esterne che potessero turbarne l’equilibrio spirituale, organizzativo ed economico. Così, Burgundofaro non sembra avere remore nell’affermare che, a meno di essere stati invitati dalla comunità o dall’abate, nessuno di noi [scil. il vescovo e i suoi chierici] può essere autorizzato a fare ingresso entro i recinti che separano il monastero dall’esterno. Ma se il vescovo viene da questi richiesto di farlo e quindi acceda [al monastero] al fine di dare il proprio sostegno alle loro preghiere o per essergli utile, ci si assicuri che egli se ne vada immediatamente dopo che i misteri divini sono stati celebrati e conclusi, senza domandare [ai monaci] alcun dono13.

Un paio di generazioni dopo Colombano questo quadro politico e giuridico aveva consentito che in Gallia fossero già sorte diverse decine di nuovi monasteri. A partire dagli inizi dell’viii secolo alcuni di essi andarono a popolare anche le regioni più orientali dei regnum Francorum, accompagnandone l’espansione verso est con un’opera di ‘presidio cristiano’ del territorio che forniva anche il proprio attivo contributo al processo di conversione delle popolazioni germaniche più periferiche, come i Sassoni e i Turingi, anche questa volta con l’apporto decisivo di monaci venuti dalle isole britanniche. In questo frangente, però, non si trattò più di Celti, come Colombano e i suoi discepoli, bensì di Anglosassoni, quali Willi132

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brord e Bonifacio-Winfrid, che dei loro predecessori condividevano tuttavia il medesimo ideale di vita e organizzazione monastica (Fouracre 2000: 126-128). Essi agirono in stretto raccordo con il papato e la loro idea era quella che la disciplina monastica dei missionari dovesse formare, nelle regioni in cui si andava ad operare, un clero in grado di intraprendere con zelo e competenza l’evangelizzazione delle popolazioni che stavano entrando nell’orbita franca. In quest’ottica, in modo non dissimile da quanto avevano fatto Colombano e i suoi discepoli nelle terre già cristiane del regno franco, i monasteri dovevano agire come centri d’irraggiamento della missione e di formazione del clero destinato a costituirvi le strutture della Chiesa secolare (Prinz 1991; Angenendt 1999). Specularmente al decollo del monachesimo cosiddetto “iro-franco” si assiste al declino di Lérins, monastero-simbolo dell’ascetismo gallico di prima generazione. Sull’abbazia provenzale, infatti, dopo la metà del vii secolo cala progressivamente il silenzio, cosa che fa pensare a un suo indebolimento spirituale e materiale (Labrousse 2005: 53-57). La cosa è probabilmente da collegarsi non solo alla crisi del monachesimo gallo-romano di fronte allo sviluppo di quello merovingio, ma anche al più generale arretramento economico e sociale della Provenza, determinato dalla caduta della sponda meridionale del Mediterraneo in mano araba (Loseby 2005: 625-638). Peraltro, la Luxeuil di Colombano avrebbe dovuto guardare proprio all’esperienza di Lérins, se avesse voluto cercare nel monachesimo autoctono della Gallia un modello di monastero capace di tutelare la propria autonomia dall’ingerenza della Chiesa secolare e di operare come luogo di formazione per generazioni di ecclesiastici destinati a imprimere il proprio segno sulla cristianità del tempo (Prinz 1983: 26-27; Brown 1995: 190-191). Costruire e gestire monasteri nella Gallia merovingia Ma come erano organizzati e, soprattutto, quale aspetto avevano i monasteri nati e sviluppati in Gallia a partire dall’età di Colombano? Vi è un ampio dibattito su quali fossero i loro costumi di vita. Colombano compose una propria Regula, che fu sicuramente seguita a Luxeuil, ma che già nei monasteri nati su suo diretto influsso conviveva, com’era d’uso, con altri testi di natura analoga. In particolare, sappiamo che fra i testi che in molti monasteri nord-gallici del vii secolo godevano di una certa considerazione vi era sicuramente quello scritto in Italia da Benedetto nel secolo precedente. La ricerca storica non ha maturato un’idea universalmente condivisa su come la Regula Benedicti fosse riuscita a penetrare e a diffondersi in terra di Francia (Prinz 1981; Dunn 2003). Il dato di fatto è, tuttavia, che sia la Regola di Colombano, sia quella di Benedetto (benché con accenti diversi, soprattutto sul piano dell’esercizio della disciplina) propugnavano il modello di un monachesimo cenobitico che individuava il proprio habitat in ambito rurale e appartato, in modo tale che ai monaci fosse consentita un’esistenza tranquilla e libera, in gra133

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do di godere quotidianamente della gioia del confronto con il creato e senza coinvolgimenti in attività diverse dalla preghiera e dall’esercizio della carità verso i bisognosi che, occasionalmente, si fossero presentati ad solium monasterii. Benedetto, inoltre, sosteneva con decisione l’idea che il monastero dovesse avere una sua “entropia funzionale”, e cioè che tutte le attività volte a soddisfare anche le necessità materiali e organizzative della comunità che lo abitava potessero trovare, entro i limiti dell’insediamento, un luogo in cui essere svolte. Partendo da queste premesse, i monasteri che, a partire dall’esperienza di Colombano in poi, iniziano a sorgere in un mondo ruralizzato come quello della Gallia centro-settentrionale del vii secolo incarnano un paradosso: da un lato, scegliendo di installarsi nelle campagne, essi realizzano alla lettera l’intento di un’esistenza dedita alla spiritualità e alla contemplazione di Dio, vissuta in una dimensione di isolamento rispetto alle dinamiche del sæculum; dall’altro, essendo venuta meno in questo contesto storico la centralità culturale e sociale del mondo urbano, i monasteri ricostituiscono di quel mondo una curiosa immagine riflessa. Essi, infatti, riuniscono al proprio interno persone che in genere sono provviste di una certa formazione intellettuale, realizzano un modus vivendi dettato da precise norme scritte e, in virtù del sostegno politico ed economico offerto loro dai ceti egemoni della società del tempo, si candidano a costituire snodi centrali dell’assetto dei territori entro cui sorgono. Il paradosso sta quindi nel fatto che un tipo di esperienza spirituale, nato come contraltare al coinvolgimento della Chiesa nelle dinamiche del secolo, spinto dalle vicende appena descritte, diviene altrettanto collaterale ai poteri temporali, quanto lo era stata la gerarchia episcopale nel iv secolo dopo la svolta costantiniana. Questo non significa che la peculiare dimensione ‘urbana’ assunta dai monasteri fioriti in Gallia dal vii secolo comporti il tradimento della loro vocazione originaria ad essere luoghi riservati ai pochi che avevano saputo scegliere e seguire Cristo, votandosi con disciplina e abnegazione alla Sua lode perpetua. L’episodio di Colombano che vuole respingere il re e i suoi armigeri fuori dei confini di Luxeuil mostra con chiarezza che il monastero resta uno spazio impenetrabile e ‘altro’ rispetto all’esterno, sulla cui soglia il santo può apparire per parlare a coloro che sono fuori, senza per questo mai acconsentire a un indiscriminato mélange dei due mondi, anche se del mondo e delle sue risorse ha imparato a servirsi per garantirsi stabilità e prosperità14. Le fondazioni nate sotto gli auspici di re e nobili furono infatti pensate, sin dai loro esordi, come vere e proprie cittadelle sacre15. Nella biografia del fondatore di Jumièges, Filiberto, vissuto nella seconda metà del vii secolo (il testo fu scritto però circa settanta-ottanta anni dopo la sua morte), il monastero è descritto come il castrum Dei nel quale vivono nel pianto coloro che sospirano per il desiderio del paradiso, i quali, gemendo [su questa terra] con occhi pieni di lacrime, saranno però coloro che [nell’altro mondo] non gemeranno tra le fiamme vendicatrici [dell’inferno]16.

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Poco dopo, l’autore della Vita Filiberti spiega con maggiore dettaglio come si articolasse questo «castello di Dio». Il passo è infarcito d’immagini poetiche ed è costruito con uno stile ampolloso e una sintassi traballante; la sua lettura è quindi piuttosto disagevole e la distanza temporale fra il momento in cui fu redatto e la situazione che descrive impone di considerarlo con una certa prudenza. Tuttavia, il racconto è così dettagliato da non potersi immaginare che sia stato inventato di sana pianta, e rappresenta perciò un riferimento di cui non si può fare a meno per provare a immaginare come dovesse apparire Jumièges nella seconda metà del vii secolo (James 1981; Manoury 1997; Le Maho 2003). Il biografo dice che il santo costruì un recinto murario turrito a pianta quadrata; in un punto situato lungo questo perimetro era stato collocato il plesso destinato all’accoglienza dei visitatori, che presumibilmente coincideva con l’accesso al monastero. Tali edifici tuttavia non appartenevano allo spazio monastico vero e proprio, poiché erano chiaramente distinti da ciò che si trovava introrsus (cioè «all’interno») e che costituiva l’alma domus in cui abitavano i monaci. In quest’ultima area si trovavano altre costruzioni, a destinazione sia sacra sia profana. Tra quelle con funzione cultuale, la principale era la chiesa dedicata alla Vergine, al cui interno trovavano spazio il tumulus di Filiberto e due altari dedicati uno a san Colombano e l’altro a san Giovanni. Intorno a questo edificio fioriva una serie di cappelle minori: sul suo lato settentrionale si elevavano quelle dedicate a san Dionigi e san Germano, mentre sul versante opposto sorgevano quelle dedicate a san Pietro e san Martino. A sud di queste ultime si trovava il settore del monastero in cui erano concentrati gli edifici con funzione profana. Questo passo del testo non è chiarissimo, ma quello che sembra di poter comprendere è che l’edificio principale fosse costituito da un fabbricato a pianta rettangolare, articolato su due piani. In quello superiore si trovava il dormitorio comunitario, entro il quale i letti dei monaci erano disposti in modo tale che ciascuno di essi si trovasse in corrispondenza di una finestra vetrata, consentendo loro di avere luce diretta sufficiente per leggere. Al piano terreno, invece, erano stati sistemati la dispensa e il refettorio. L’edificio faceva parte di una più ampia area claustrale, nella quale pare di capire vi fossero portici e fontane e presso la quale si trovava la cellula dove era vissuto Filiberto e che, dopo la sua morte, era stata in qualche modo monumentalizzata e trasformata in una sorta di memoria a lui dedicata. Gli edifici residenziali costituivano dunque un plesso che occupava la parte meridionale dell’area racchiusa dal recinto, ma non erano direttamente in contatto con la chiesa principale poiché, come si è visto, nel mezzo si trovavano le cappelle dedicate a san Pietro e san Martino. L’impressione generale che il testo produce è che il monastero di Jumièges – se gli edifici di cui esso parla furono costruiti tutti al tempo di Filiberto o anche poco dopo la sua scomparsa – fosse un luogo in cui era stata investita una quantità di risorse davvero ingente. Anche ammettendo che il monastero si fosse impiantato su un sito già abitato in età romana, riutilizzandone in parte le strutture, è evidente che gli edifici eccle-

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siastici e gli approntamenti per la vita comunitaria dei monaci dovettero essere realizzati ex novo e, stando alle parole dell’anonimo biografo, costruiti per buona parte in pietra e dotati di finiture di alto livello, come lascia immaginare la presenza di fontane e di finestre schermate da vetrate. Quest’ultimo elemento è attestato nello stesso periodo anche nel monastero britannico di Jarrow e dovrebbe aver comportato anche a Jumièges la presenza di officine per la lavorazione del vetro (Dell’Acqua 2003: 32-36)17. Un’impresa di questo tipo doveva presupporre un’abbondante disponibilità di risorse e manodopera da impiegare nel cantiere, la cui attività dovette protrarsi per molti anni. Si rendevano quindi necessaria tanto una base cospicua di rendite fondiarie, quanto un costante sostegno politico espresso al massimo livello, al fine di garantire continuità ai lavori intrapresi. Ed in effetti il ritrovamento di monete d’argento del tardo vii secolo coniate proprio a nome di Jumièges, e il fatto che nella vita di Filiberto si accenni all’esistenza di mercanti che lavoravano al servizio dell’abbazia, commerciando con l’Inghilterra, costituiscono elementi che lasciano pensare che il monastero dovette contare sin dall’inizio su risorse economiche che andavano ben oltre quanto necessario alla mera sussistenza dei monaci, attingendo a surplus produttivi notevoli generati dal suo patrimonio fondiario, tali da essere immessi sul mercato e garantire l’afflusso di beni e manodopera necessari alla gestione del cantiere e quindi alla manutenzione del complesso abbaziale (Le Maho 2001: 4-5). Alcuni interessanti raffronti con Jumièges si possono trovare nella vicenda delle prime fasi di vita del vicino monastero di Fontenelle, fondato nel 649 dal nobile Wandregisil nella valle del torrente affluente del basso corso della Senna che aveva dato il nome al monastero. Wandregisil era tornato nella Francia settentrionale con l’intento di fondarvi un monastero, dopo aver soggiornato in altre comunità, fra cui quella italiana di Bobbio. Il suo desiderio era quello di condurre una vita monastica priva di qualsiasi aiuto esterno; ma dovette fare i conti con il pio intento del maestro di palazzo di Neustria, Erchinoaldo, il quale, con il sostegno della regina Balthilde e del giovane re Clodoveo ii (639-657), acquistò un’ampia estensione di terreno (originariamente parte del fisco regio), comprendente la valle del Fontenelle, affinché vi s’insediasse la comunità di coloro che, insieme a Wandregisil, avevano abbracciato la vita ascetica. La vicenda si risolse con un accordo finale, mediante il quale Wandregisil ricomprò da Erchinoaldo i terreni su cui far sorgere l’abbazia18. Nella circostanza il santo fondatore sembra essersi comportato tenendo conto di due aspetti, ai suoi occhi probabilmente altrettanto importanti: da un lato – seguendo la lettera degli insegnamenti di Colombano – egli voleva forse evitare che s’instaurasse un legame di dipendenza troppo forte tra il monastero e il suo benefattore; dall’altro, è possibile che la volontà di riscattare i terreni fosse il frutto di una reazione d’orgoglio, dettata dalle sue origini familiari. Wandregisil, infatti, era probabilmente un membro della famiglia dei Pipinidi19, che in quel periodo stava iniziando la sua scalata ai vertici del potere nel regno di Austrasia e poteva perciò apparirgli disonorevole, come esponente di quella casata prima ancora 136

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che come monaco, doversi riconoscere debitore verso una consorteria aristocratica pari per nobiltà alla propria. Comunque siano andate veramente le cose, come già visto nel caso di Jumièges, ciò che la vicenda della nascita del monastero di Fontenelle ci riconferma è che operazioni di questo tipo mobilitavano interessi politici e risorse economiche di tutto rispetto. Risorse che furono profuse a piene mani anche per la costruzione degli edifici necessari alla comunità monastica. Vivo ancora Wandregisil, e quindi nel ventennio fra il 649 e il 668, furono costruite ben quattro chiese in onore, rispettivamente, di san Pietro, san Paolo, san Lorenzo e sant’Amanzio20. In particolare, quella dedicata a san Pietro era una basilica dotata di transetto e di dimensioni complessive notevoli. Inoltre, fu reso di nuovo efficiente un mulino già esistente sul fiume Fontenelle ma che, al momento dell’arrivo dei monaci, si trovava in condizione di parziale rovina. Com’era avvenuto a Jumièges, anche qui, contemporaneamente all’erezione delle chiese, fu avviata la costruzione degli edifici necessari ad accogliere la comunità (di cui purtroppo le fonti non ci descrivono la consistenza numerica); ed è interessante l’accenno al fatto che il materiale prevalentemente impiegato fosse la pietra21, cosa che era tutt’altro che scontata dato che all’epoca, soprattutto per gli edifici non destinati al culto, nel nord della Francia si utilizzava prevalentemente il legno (Chapelot, Fossier 1980: 79-138; Hamerow 2002). In quel frangente Wandregisil fu anche in grado di ottenere i mezzi necessari per organizzare una missione a Roma, capeggiata dal nipote Godo e finalizzata a raccogliere le reliquie da deporre nelle chiese di nuova costruzione. Un’allusione nella Vita dell’abate lascia intendere che queste frenetiche attività costruttive avessero ricevuto il sostegno anche di altri soggetti (multæ animæ sanctæ), oltre a quelli che vengono nominati esplicitamente. Insomma, se è vero che i monaci giunti a Fontenelle sotto la guida di Wandregisil dovettero lavorare sodo per svilupparvi la vita ascetica, è altrettanto certo che il luogo era tutt’altro che un desertum ostile, nel quale furono lasciati da soli ad affrontare le difficoltà che l’impresa riservava22. Nonostante ciò, la biografia del santo fondatore non manca di riproporre il topos di un ambiente selvaggio, infestato da belve e ladroni, con cui i monaci si sarebbero dovuti misurare facendo infine prevalere la propria capacità di redimerlo attraverso il proprio lavoro. Ma, nel testo, questa immagine precede una descrizione dell’ambiente della valle del Fontenelle che, senza troppo curarsi della contraddittorietà dell’effetto narrativo complessivo, insiste piuttosto sulla bellezza del luogo reso fertile dall’abbondanza delle acque, che, come nella valle del Nilo, venivano accresciute dall’apporto giornaliero dei reflussi delle acque della vicina Senna, generati dall’alternarsi delle maree, producendo benefiche inondazioni che giungevano a lambire il murum monasterii23. Questo, peraltro, è l’unico accenno presente nelle fonti in merito all’esistenza di una vera e propria recinzione a chiusura dell’area occupata dal monastero, mentre l’impressione complessiva è piuttosto che fosse la valletta in cui i monaci si erano insediati, racchiusa dai crinali delle colline che la fiancheggiavano, a costituire il pomerium dell’insediamento monastico 137

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nel suo insieme. Il murus, quindi, sarebbe eventualmente potuto essere non la sezione di una recinzione che, come a Jumièges, racchiudeva tutti gli edifici monastici, bensì una sorta di cancello d’ingresso all’area monastica in direzione della Senna, dove la valle del Fontenelle si apre su quella del grande fiume, forse anche con la funzione di regolamentare l’afflusso delle acque di marea. Se questa ipotesi fosse corretta, ci troveremmo di fronte a due tipi insediativi abbastanza ben distinguibili fra loro. Uno, descritto per Jumièges, caratterizzato da una disposizione degli edifici più compatta e tangibilmente distinta verso l’esterno da una recinzione continua. L’altro, presumibilmente realizzato a Fontenelle, in cui gli edifici sembrano disporsi sul terreno senza essere serrati da confini troppo netti, bensì da una delimitazione fisicamente più immateriale, costituita da elementi del paesaggio, magari rafforzati da opere dell’uomo (tratti di muro, cappelle) disposte a presidio degli snodi principali di accesso all’area abitata dai monaci. Simile alla situazione di Fontenelle è quella dell’abbazia di Grandval, nel Giura svizzero, la cui fondazione, avvenuta intorno al 640, fu finanziata dal duca d’Alsazia Godoino e posta sotto l’egida di Luxeuil, affinché v’inviasse proprie persone a impiantarvi la vita ascetica. Il sito del monastero coincide con l’intera Grandis Vallis concessa dal duca, presentata dal biografo del primo abate, Germano, come una piccola Shangri-La dal difficoltoso accesso (al punto che i monaci avrebbero dovuto lavorare sodo per rendere più agevole il passaggio attraverso la gola che permetteva di entrarvi), ma dotata di tutti gli incanti che madre natura poteva profondervi: terra fertile, acqua a volontà e un fiume in cui abbondavano i pesci. In questo spazio il biografo racconta che san Germano fece edificare tre chiese: una dedicata a san Maurizio, una a san Pietro e la terza a sant’Ursicino24. Un elemento che rende invece i tre monasteri assai simili fra loro e, allo stesso tempo, diversi da qualsiasi cosa si fosse vista prima, è rappresentato dalla presenza al loro interno di una pluralità di edifici di culto (Erlande-Brandenburg 2010: 87). Uno di essi sembra avere maggiore importanza rispetto agli altri (è chiaramente il caso della chiesa della Vergine a Jumièges e, forse, di quella di san Pietro a Fontenelle); esso potrebbe quindi essere identificato come quello utilizzato dalla comunità nel suo insieme per le quotidiane sessioni di preghiera. Ma gli altri a che cosa servivano? Nella Regola di Benedetto, che doveva essere ben conosciuta in ambedue i monasteri, si parla dell’esigenza che il monastero sia dotato di un oratorium, ma non si fa cenno alla possibilità che i luoghi di culto presenti al suo interno si possano moltiplicare. D’altra parte, questa possibilità non è presa in considerazione dalle altre Regulæ monastiche tardoantiche, ivi comprese quelle di origine gallica. La pluralità degli edifici di culto non appare neppure un elemento caratterizzante dei monasteri sorti in Irlanda durante la seconda metà del vi secolo, dove si riscontra piuttosto il fenomeno dell’uso di aree aperte, liminari rispetto ai complessi monastici veri e propri, usate per l’organizzazione di cerimonie religiose accessibili anche a quanti non facessero parte delle comunità monastiche. Ciò che appare nelle due abbazie del nord francese sembra quindi essere il frutto di un’elaborazio138

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ne originale prodottasi proprio nella stagione della grande fioritura monastica verificatasi nella generazione successiva a quella di Colombano. Quali potevano esserne i presupposti? Sicuramente, uno di essi può essere visto nell’idea che i monasteri (soprattutto quelli dotati di maggiori mezzi economici e di più solide protezioni politiche) dovessero costituire un nuovo tipo di città, destinato ad essere popolato da persone che erano in grado, meglio di altri, di parlare con Dio, e di farlo in favore e per conto di coloro che avevano il compito di reggere le cose terrene. Questo sacro colloquio poteva essere reso più scorrevole ed efficace se ad assistere le preghiere dei monaci erano chiamati i santi. A Fontenelle, in particolare, si chiede a quelli di Roma, urbs christiana per eccellenza, di essere fisicamente presenti – attraverso le proprie reliquie – accanto agli atleti di Dio impegnati nel loro quotidiano esercizio di preghiera. Come a Roma, i corpi santi devono poter abitare una dimora degna del loro rango celeste, e quindi per essi è prevista l’edificazione di un luogo di culto ad hoc, o quanto meno di altari loro dedicati all’interno di un medesimo edificio. Il monastero può così articolare al proprio interno una sorta di topografia sacra, le cui componenti potevano essere oggetto di specifica devozione durante il corso dell’anno, contribuendo quindi a una più vigorosa mediazione della preghiera dei monaci verso la sfera celeste. Oltre a quelle di tipo prettamente spirituale, alla moltiplicazione di chiese e cappelle potevano presiedere altre motivazioni di carattere più pratico. Innanzitutto, i nuovi monasteri raccolsero rapidamente comunità di dimensioni significative: era necessario predisporre un luogo per la sepoltura e per gli uffici funebri. Inoltre, i loro fondatori spesso acquisivano già in vita fama di santità, il che portava allo sviluppo di un intenso culto post mortem nei loro confronti: anche quest’aspetto andava gestito con oculatezza, incanalando la devozione popolare in luoghi che consentissero l’accesso dei pellegrini nel monastero senza che ciò vi producesse un viavai di estranei. Infine (ed è questo un aspetto direttamente collegato al precedente), le comunità sorte sull’onda dell’esperienza di Colombano ritenevano che l’assistenza spirituale alle popolazioni che vivevano nel proprio territorio fosse parte dei propri doveri: a tale scopo dovevano quindi essere deputati spazi specifici, in grado di consentire che l’attività pastorale potesse essere svolta senza interferenze con la preghiera dei monaci (Romanini 1987: 448). Questa complessa intersezione di funzioni – e quindi di percorsi e spazi – all’interno dei grandi monasteri merovingi è ben descritta nelle biografie dei fondatori di altri due importanti cenobi: quello di Moutier-la-Celle, presso Troyes, e quello sorto presso Nantes sulla Antrensis insula, lungo il basso corso della Loira. Il profilo dei fondatori, Frodoberto ed Ermelando, e il copione della loro azione, narrato dai biografi, è quello già visto in precedenza: di nobili natali, essi agiscono con l’assenso e il supporto di esponenti dei diversi rami della famiglia reale, dai quali, almeno nel caso di Moutier-la-Celle, ricevono anche i terreni su cui fondare il monastero. A Moutier i primi tempi sono piuttosto duri, ma presto arrivano le risorse sufficienti (anche attraverso la vendita di terreni di proprietà del fondatore) per co139

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struire edifici adeguati, fra cui una chiesa che rimpiazza l’oratorio originario, ormai insufficiente a ospitare la fiorente comunità monastica. Dopo la morte di Frodoberto iniziano però i problemi: la sua sepoltura, collocata nella chiesa del monastero, diventa un luogo presso cui i fedeli desiderano recarsi in pellegrinaggio. Per questo motivo i monaci, dopo alcuni anni, si adoperano per edificarne un’altra in cui trasferire il corpo del fondatore. Alla fine, il progetto della nuova chiesa non è realizzato e, dopo vari battibecchi con il vescovo di Troyes, si opta per l’esumazione del corpo da quella vecchia e per la sua esposizione ai devoti in una chiesa dedicata a san Michele situata al di fuori del monastero, sulla strada per Troyes. Dopo un certo periodo, il corpo è riportato nella chiesa interna al monastero e qui sepolto in una nuova arca, dove è reso visibile ai fedeli solo in alcune circostanze dell’anno. Il monastero, quindi, una volta fallito il progetto di costruire una nuova chiesa, rimane dotato di un unico luogo di culto, all’interno del quale sono però presenti più altari. Forse, dicendo ciò, il biografo di Frodoberto vuole farci capire che i monaci avevano comunque provveduto a dotarsi di diversi foci devozionali, senza impegnarsi in ulteriori e dispendiose imprese edificatorie25. La situazione del monastero costruito tra la fine del vii secolo e gli inizi dell’viii sulle due isolette fluviali di Antrum e Antriginum è descritta dal biografo del suo fondatore, Ermelando, con spunti ancora più interessanti. La comunità si era insediata nell’isola maggiore – quella di Antrum –, dove erano stati edificati una chiesa intitolata a san Pietro, utilizzata dai monaci per le orazioni quotidiane, e un piccolo oratorio dedicato a san Leodegario, posto presso l’ingresso del monastero, ma in posizione defilata rispetto ad esso. Questi luoghi di culto erano probabilmente racchiusi entro un recinto che conteneva anche altri edifici, come il refettorio, necessari alla vita quotidiana della comunità; en passant, il biografo ricorda che Ermelando aveva fatto costruire anche altre chiese nel monastero, ma non precisa né quante fossero, né a chi fossero dedicate26. Dopo la morte di Ermelando, il successore Adalfredo avrebbe edificato anche un’aula – probabilmente una sala di ricevimento –, che si caratterizzava per l’aspetto sfarzoso e che per questo motivo il biografo critica aspramente, ma che probabilmente fu ritenuta necessaria per evitare di accogliere gli ospiti di riguardo nel refettorio, come era avvenuto quando il fondatore era ancora vivo, in occasione della visita dei vescovi di Nantes e di Rennes27. Il secondo isolotto fungeva da ritiro più appartato per i monaci – e sicuramente Ermelando vi si recava periodicamente a questo scopo – ed era utilizzato in alcuni giorni della Quaresima, quando il monastero era aperto ai visitatori che venivano per portare offerte alla comunità. Anche qui si trovava un oratorio, dedicato a sant’Anniano28. Fuori del piccolo arcipelago fluviale, sulla terraferma, il monastero possedeva una domus presso cui risiedeva il personale amministrativo: questo si occupava della gestione del patrimonio fondiario di cui la comunità si era rapidamente dotata e senza le rendite del quale non sarebbe evidentemente stato possibile attuare il ricco programma edificatorio appena descritto29. Quando Ermelando morì, fu sepolto in un’altra chiesa dedicata a san Paolo; poco dopo, però, a segui140

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to di una rivelazione divina ricevuta in sogno da un monaco, si decise di riportarlo in San Pietro. Esumate le spoglie, se ne compì la traslazione da una chiesa all’altra con una processione – cui furono ammessi solo i confratelli – che si snodò lungo un itinerario che percorse tutti i claustra monasterii, effettuando una fermata davanti al refettorio perché, dice il biografo, il santo voleva che i monaci brindassero tutti insieme per la sua anima30. Il trasferimento della salma si era probabilmente reso necessario perché da parte degli abitanti dei dintorni proveniva una forte richiesta di vistare la tomba di Ermelando e la chiesa di San Pietro doveva forse trovarsi in una posizione più rapidamente accessibile rispetto all’entrata del complesso abbaziale. A molti infermi fu consentito di recarvisi per impetrare la propria guarigione, ma il biografo tiene a precisare che queste visite al sepolcro erano gestite con molta parsimonia: i malati erano accompagnati uno a uno presso la tomba del santo da un monaco e non era quindi consentito che folle di devoti sciamassero liberamente all’interno del monastero. L’ammissione controllata dei laici all’interno dello spazio monastico sembra costituire una prassi abbastanza comune, che i racconti delle gesta dei fondatori delle maggiori abbazie merovinge riferiscono soprattutto in relazione al desiderio dei devoti di avvicinarsi alle loro sepolture per riceverne aiuti miracolosi. Nella vita di Anstrude, badessa di Laon, si ricorda ad esempio che in alcune circostanze era consentito ai laici di assistere alle cerimonie che si svolgevano nella chiesa, ma a patto che rimanessero al di fuori di essa, davanti all’ingresso (pro fores); dopo la morte della badessa solo alle donne fu permesso di recarsi presso la cathedra posta all’interno della chiesa, su cui ella sedeva quando era in vita, per impetrare miracoli; le postulanti erano tuttavia accompagnate una a una sul posto e non era consentito loro di aggirarsi liberamente nel monastero31. L’accesso da parte di persone esterne alle comunità presso i corpi venerati degli abati defunti non era apparentemente possibile in tutte le abbazie, anche se filtrato nei modi che abbiamo appena visto. Nel monastero di Lobbes, nell’odierno Belgio sud-occidentale (un’altra delle fondazioni sorte nel regno merovingio intorno alla metà del vii secolo), la tomba del suo rifondatore Ursmaro è collocata in una chiesa posta nel luogo più inaccessibile del monastero, in cima alla collina che sovrastava l’insediamento cenobitico vero e proprio, e non sembra che vi fossero consentiti pellegrinaggi32. Vale la pena ripercorrere brevemente la storia degli esordi di questo che, anche nei secoli successivi, rimarrà uno dei monasteri più importanti di tutto il regno franco. Il suo primo fondatore, Landelino, era un uomo dalla forte vocazione eremitica che aveva creato nei boschi della regione dell’Hainaut una piccola comunità riunita intorno a un oratorio dedicato a san Martino. Dopo un certo periodo, si sparse la voce che la fonte presso cui l’oratorio si trovava avesse poteri miracolosi e questo determinò rapidamente un afflusso di devoti sul posto, tanto da spingere Landelino a ritirarsi a Lobbes, luogo più appartato costituito da un plateau roccioso di forma vagamente quadrangolare, circondato su due versanti dal corso del fiu141

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me Sambre e dominato su un altro lato da una collina più alta33. Ma il trasferimento della comunità sembra in realtà influenzato anche da fattori di più ampio respiro strategico e si collega all’entrata in scena di Ursmaro, successore di Landelino a capo della comunità. Ursmaro era un allievo di Amando, che, intorno al 650, era stato per un breve periodo vescovo di Maastricht. Soprattutto però, con il sostegno dei re merovingi e l’avallo ufficiale del papato, egli si era impegnato nella fondazione di diversi monasteri nel territorio dell’odierno Belgio (come Nivelles, Elnone e San Pietro di Gand), con l’intento di farne il luogo di formazione del clero che avrebbe dovuto evangelizzare quei territori. Pipino di Heristal, il maestro di palazzo d’Autrasia bisnonno di Carlo Magno, che con la vittoria di Tertry (687) era riuscito a mettere sotto il proprio controllo anche il regno di Neustria divenendo così l’uomo più potente del regno franco, probabilmente riconobbe in Ursmaro una persona che poteva contribuire a proseguire l’opera di Amando, agendo nel cuore delle aree dove si concentravano i maggiori interessi politici ed economici della sua famiglia (Wood 1994: 265; Bührer-Thierry, Mériaux 2010: 277-280). Consolidando ed estendendo l’evangelizzazione di quei territori che costituivano la frontiera del regno, anche attraverso l’opera di monasteri amici, si preparava la sua ulteriore espansione verso est. E in effetti, quasi allo scadere del vii secolo, la famiglia della moglie di Pipino fondò ad Echternach, nella valle della Mosella, non lontano da Treviri, un’altra abbazia (a capo della quale fu posto l’inglese Willibrord) che avrebbe costituito la base di partenza per le attività missionarie al di là del Reno. L’intervento di Pipino in favore di Lobbes cambiò rapidamente questo monastero, trasformandolo dal piccolo agglomerato di cellette, costituito da Landelino, nel tipo d’insediamento che abbiamo già visto, dotato di più chiese ed esteso su una vasta superficie. Il vincolo di fedeltà delle nuove comunità monastiche nei confronti dei loro potenti mentori e sostenitori era normalmente assai solido e profondo e, come abbiamo visto, il progressivo passaggio del testimone del potere dai re merovingi ai maestri di palazzo della famiglia dei Pipinidi non ne mutò natura e finalità. Il conflittuale rapporto con l’episcopato che aveva caratterizzato l’azione di Colombano non sembra riproporsi in modo evidente nei decenni successivi e ciò lascia pensare che l’idea che un monastero potesse costituire una realtà operante entro condizioni di significativa autonomia economica e giurisdizionale fosse stata sostanzialmente accettata da parte dei vescovi, che in alcuni casi – come ad esempio avviene con il vescovo di Rouen nei confronti dell’abbazia di Jumièges – non mancarono di fornire il loro sostegno alla nascita delle nuove comunità. Questo stato di cose diviene ancor meglio comprensibile se si considera che, nel corso della seconda metà del vii secolo, tanto gli abati quanto i vescovi provenivano ormai in misura preponderante dal medesimo milieu aristocratico franco, cosa che dovette certamente contribuire ad attenuare la distanza fra il mondo monastico e quello della Chiesa secolare, alla quale rimaneva comunque il primato del diritto di consacrare chiese e altari esistenti all’interno dei monasteri e di conferire gli ordini sacerdotali ai monaci34. 142

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Sebbene agli inizi dell’viii secolo i giorni di Colombano potessero apparire per certi aspetti ormai lontani, la sua eredità non si era però dispersa, né era stata indebolita dalla diffusione in Francia anche della Regola di Benedetto: il monaco era pur sempre colui (o colei) che aveva rinunciato al mondo e ai suoi legami, che abitava uno spazio – quello del monastero – governato dalla disciplina della vita regolare, nel quale ogni ora del giorno era dedicata solo al colloquio con Dio. Egli viveva ancora su questa terra, ma aveva già un piede nel regno dei beati. Il fatto stesso che esistessero creature che avevano avuto la forza di rinunciare al desiderio di beni e poteri, per ottenere i quali le persone rimaste nel secolo si battevano sino a darsi reciprocamente la morte, costituiva una riserva di speranza e un canale privilegiato di mediazione con il Dio giudice delle azioni degli uomini: luoghi e persone che componevano questo ambiente così particolare dovevano il più possibile essere conservati immuni da ogni contaminazione recata da intrusioni terrene. Come molti dei confratelli monaci sparsi per i quattro angoli del regnum Francorum, il successore di Ursmaro alla testa dell’abbazia di Lobbes, Ermino, sapeva che questi erano i capisaldi alla base dell’esistenza stessa dei monasteri, da difendere di fronte a chiunque. E così fece anche quando, un giorno, si presentò alla porta del suo monastero l’esercito di Carlo Martello, il figlio di quel Pipino di Heristal che, con il suo sostegno, aveva consentito ad Ursmaro di far diventare Lobbes un cenobio potente e rispettato. Il giovane magister palatii – l’uomo di fatto più potente del regno – voleva entrare nel monastero e vedere l’abate e per questo si era fatto precedere da cuochi e fornai e dai suoi soldati, affinché dessero notizia del suo arrivo e gli facessero preparare una degna accoglienza. Ma Ermino, di fronte a questa sorta di invasione, rifiutò di incontrare gli inviati di Carlo e rimase in preghiera nell’oratorio dedicato alla Vergine e ai santi Andrea e Giovanni Evangelista, costruito sulla collina che sovrastava il monastero e vaticinò che, nonostante le sue intenzioni, Dio avrebbe impedito a Carlo di visitare in quell’anno il monastero. E così avvenne: prima di giungere a Lobbes, Carlo Martello fu costretto da un’improvvisa urgenza a fare marcia indietro. Allora Ermino ordinò ai suoi monaci di dare ai soldati e agli altri uomini di Carlo tutto ciò che necessitava loro, poiché questo imponeva la carità verso i visitatori, ma senza aver capitolato di fronte alla pretesa di qualcuno, fosse stato anche il più potente degli uomini, che pretendeva di entrare in un monastero senza che l’abate glielo avesse consentito35. La circostanza è molto diversa da quella dello scontro avvenuto a Luxeuil circa cento anni prima fra Colombano e il re Teodeberto. In questo caso, Carlo Martello non era venuto a Lobbes con intenti ostili e anzi voleva rendere omaggio al monastero e al suo abate. Ciò, tuttavia, non cambiava la questione di principio: il sacro recinto di un monastero delimitava uno spazio speciale il cui accesso agli esterni poteva essere consentito solo a patto che la vita dei monaci non ne subisse turbamento alcuno. In effetti, quest’attenzione quasi ossessiva per la tutela del secessus dei monaci non deve stupire. Come abbiamo visto, essa non solo è chiaramente invocata già dai primi esponenti del monachesimo orientale tardoantico, ma richiama una con143

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cezione più profonda e antica dello spazio cultuale cristiano e, più in generale, delle religioni monoteiste. Nella religione tradizionale ellenistico-romana solo la cella ove il dio abita, posta all’interno del tempio, è un luogo recondito accessibile esclusivamente ai sacerdoti. Le cerimonie religiose, invece, si svolgono in genere in aree aperte dinanzi al tempio e tutti i membri della comunità sono autorizzati a parteciparvi. L’ecclesia dei cristiani è invece un luogo chiuso e delimitato, che accoglie solo chi ha superato con successo i riti di passaggio per essere ammesso all’interno della comunità, rendendolo accolito del Dio rivelato e potendo quindi godere della Sua præsentia e udirne le parole. Quanti desideravano far parte delle primitive comunità cristiane dovevano trascorrere un periodo di preparazione durante il quale era vietato partecipare ai misteri, che durava sino a quando non avessero ottenuto il battesimo (Destro, Pesce 1995: 28-30; Jossa 1997: 47-48; Suso Frank 2000: 139-140; Siniscalco 2009). Con la progressiva crescita, a partire dal iv secolo, del numero dei fedeli cristiani e la diffusione della prassi della somministrazione del battesimo ai neonati, il filtro della verifica preventiva delle condizioni di preparazione dell’aspirante all’adesione alla nuova fede venne progressivamente ad affievolirsi. Furono allora i monaci a rappresentare la fattispecie del credente che – pur essendo sprovvisto degli ordini sacerdotali – attraverso un percorso di formazione più profondo e una consapevole e radicale rinuncia al mondo, si colloca in una posizione di maggiore vicinanza a Dio, che lo distingue e lo separa anche dagli altri componenti della plebs Dei (Suso Frank 2000: 367-368). D’altra parte, è abbastanza evidente la similarità fra lo stazionamento ad limina dello spazio sacro, imposto ai catecumeni delle comunità precostantiniane, e lo svolgimento in aree separate del monastero del periodo di noviziato da parte di chi postulava l’accesso a una comunità monastica, previsto dalle Regole occidentali tardoantiche e ribadito nei commenti che ad esse (e soprattutto a quella di Benedetto) furono redatti in età carolingia. L’accesso al monastero corrisponde quindi al varcare le porte di un luogo in cui è già possibile godere un’anticipazione del paradiso, e pregare con i monaci significa partecipare a un dialogo con Dio il cui codice non può essere né capito da tutti né condiviso con tutti, ma può essere acquisito solo attraverso una lunga preparazione e un faticoso esercizio. Per queste ragioni, le porte di un cenobio e gli spazi in cui esso si articola non possono essere aperti a chiunque, fosse pure il re in persona o anche chi, con la sua pietas, abbia fornito ai monaci i mezzi materiali e le condizioni politiche affinché essi possano vivere serenamente il proprio transito in questo mondo. Il moto acceso alla fine del vi secolo dallo sbarco di Colombano in Gallia genera dunque uno sviluppo del monachesimo che presenta molti contorni di novità, percorrendo tutto il vii secolo e risultando ancora pienamente vitale all’inizio dell’viii. L’elemento che più colpisce, leggendo le biografie dei fondatori di alcuni importanti monasteri sorti in questo periodo, è senz’altro quello della loro conti144

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guità con gli esponenti del potere secolare, che permette alle nuove comunità di svilupparsi godendo di mezzi economici e di un sostegno politico che, rispetto a quanto visto per i secoli della tarda antichità, appare per molti versi inedito. Come si è già detto, le fonti scritte sembrano tratteggiare due tipi principali d’insediamento: quello caratterizzato da una struttura più compatta e i cui confini sono ben delimitati da muri e recinti – come avviene a Jumièges e Lobbes – e quello che si espande sul terreno in maniera più libera, profittando delle possibilità offerte dalla conformazione fisica del sito in cui la comunità si è stabilita – come accade nelle due valli in cui sorsero Fontenelle e Grandval o sull’isola di Antrum – protetto verso l’esterno da ben visibili confini naturali. Ambedue le varianti sono caratterizzate dalla presenza di un’articolata topografia di edifici sacri e profani, in molti casi costruiti in pietra, tra i quali svetta la pluralità di chiese dedicate al culto di numerosi santi, sia di origine locale, sia provenienti da terre e tempi più lontani, come è il caso di quelli di origine romana vissuti all’epoca delle persecuzioni. Tali luoghi di culto si legano in genere alla presenza di resti materiali dei santi ai quali sono dedicati, costituiti da reliquie o dai corpi integri dei fondatori dei cenobi o di altri personaggi considerati dalla comunità degni di particolare venerazione. Al contrario, come abbiamo visto, i monasteri di fondazione vescovile, prevalenti fra v e vi secolo, sorgevano in genere come realtà a supporto di santuari e luoghi di pellegrinaggio, sviluppatisi intorno ai martyria di santi particolarmente venerati e situati spesso in prossimità delle città36. Un esempio abbastanza chiaro in questo senso è quello della fondazione costituita da Paolino a Cimitile, presso la tomba di san Felice, i cui monaci abitavano in edifici posti a latere del santuario e vi si recavano quotidianamente per prestarvi la propria opera. Nei monasteri di età merovingia, invece, il rapporto fra monastero e sepolture e/o reliquie venerate si modifica radicalmente, nel senso che esse vengono inglobate all’interno dello spazio monastico per iniziativa della comunità e con la finalità di costituire, primariamente in favore di quest’ultima, presenze in grado di attrarre la protezione celeste anche operandovi miracoli37. Il fatto che da tali presenze potessero essere beneficiate anche persone esterne non era escluso, ma – a quanto sembra – ciò poteva accadere solo a patto che i monaci generosamente concedessero a costoro di essere ammessi entro il recinto monastico. In realtà, le comunità probabilmente non avevano interesse ad assumere atteggiamenti troppo rigidi rispetto alla possibilità che i loro monasteri divenissero anche luoghi di pellegrinaggio. Ciò per le ovvie ragioni che lo sviluppo della devozione popolare costituiva la cartina di tornasole della popolarità e del consenso goduti dai monasteri stessi tra le popolazioni del territorio circostante, e che tale devozione poteva attivare flussi di pie donazioni in loro favore. È tuttavia evidente che ci troviamo di fronte a un mutato atteggiamento, in virtù del quale i monaci non agiscono più come ausiliari di una devozione promossa e amministrata da altri soggetti, bensì generano essi stessi un proprio pantheon di figure venerabili e gestiscono autonomamente l’interesse che quelle erano in grado di suscitare. 145

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In questo panorama vi sono tuttavia alcune interessanti eccezioni. Nei dintorni di Parigi durante il vii secolo fiorirono due monasteri che possono essere inclusi a pieno titolo nel novero di quelli merovingi, ma che presentano particolarità rispetto ai casi visti sinora: quelli sorti rispettivamente presso le basiliche dedicate a san Vincenzo di Saragozza, nel suburbio occidentale di Parigi, e ai santi Dionigi, Rustico ed Eleuterio, qualche chilometro a nord della città, lungo il corso della Senna. Questi centri sono oggi noti rispettivamente con il nome di Saint-Germain-desPrès e di Saint-Denis. Ad essi deve essere aggiunto il monastero fondato presso la basilica fatta edificare negli anni ’60 del vi secolo sulla sepoltura di san Medardo, negli immediati dintorni di Soissons, a nord-est di Parigi, centro che in questo periodo rivestì per la monarchia merovingia un ruolo forse ancor più rilevante di quello della stessa Parigi. Innanzitutto, essi sono tutti connessi ad altrettanti importantissimi centri di pellegrinaggio sul cui sviluppo la famiglia reale franca pone un diretto suggello, eleggendoli siti privilegiati per la sepoltura dei propri membri. In secondo luogo, se è vero che tali monasteri sorgono nel vii secolo, l’origine delle chiese presso cui essi s’insediano precede il momento dello sbarco di Colombano in Gallia, collocandosi nel corso del vi secolo. Il primo fu scelto da re e regine come luogo d’inumazione dalla metà del vi sino, grosso modo, al terzo decennio del vii secolo38; il secondo ne avrebbe raccolto il testimone a partire da quel periodo, svolgendo la medesima funzione durante tutto il vii secolo e fu scelto a tal fine anche da parte dei primi re carolingi. Il santuario di san Medardo, infine, venne scelto come luogo di sepoltura di re Clotario i († 561), dopo Clodoveo probabilmente la figura più rilevante espressa dalla dinastia merovingia nel primo secolo del suo predominio sul regno dei Franchi. Anche il santuario di Medardo, come quelli dedicati a Vincenzo e a Dionigi, fu apparentemente dotato di personale di servizio e di assistenza ai pellegrini, il cui status e la cui organizzazione non erano però stricto sensu definibili come ‘monastici’ (Delanchy 1996: 44-45). La loro evoluzione in tal senso si verificò più tardi, nel pieno vii secolo. Veri e propri monasteri associati alle tre basiliche sarebbero infatti sorti (o furono riorganizzati) presso di esse fra il secondo e il terzo quarto del vii secolo, su impulso dei re Dagoberto i († 639) e Clodoveo ii (639-657) e della moglie di quest’ultimo, Baltilde († 680). La funzione dei monaci era anzitutto quella di prendersi cura delle sepolture reali e (soprattutto a Saint-Denis) di gestire il flusso del pellegrinaggio presso la memoria del santo. Le loro comunità svolgevano quindi un ruolo ‘ancillare’ in rapporto a queste due funzioni, ma, differentemente da quanto era accaduto ad altri monasteri sorti in Gallia fra v e vi secolo presso importanti basiliche martiriali, i loro patroni non furono dei vescovi, bensì i monarchi che li avevano scelti come propri mausolei familiari. Il loro status ricorda quindi piuttosto quello dell’abbazia di Saint-Maurice d’Agaune, fondata come monastero a servizio del sepolcro del re dei Burgundi, Sigismondo, e ai cui monaci era stato assegnato il compito principale di pregare per l’anima del sovrano, in vita e post mortem (Picard 1993: 74-76). Il patronato dei re franchi nei confronti delle due fonda146

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zioni sorte nei dintorni di Parigi e di quella di Soissons si espresse attraverso atti che le collocarono entro una dimensione giuridica ed economica assai simile a quella dei loro omologhi sorti nel regno durante il corso del vii secolo. Ad esse sono infatti concessi cospicui beni fondiari e – nel caso di Saint-Denis – anche il diritto di gestire una fiera annuale presso il monastero stesso, con il diritto di riscuotere le tasse che i mercanti che vi partecipavano in linea di principio sarebbero stati tenuti a versare al re39. La regina Baltilde, che abbiamo già visto all’opera come sostenitrice della fondazione di Fontenelle (ed anche dell’altro importante monastero di Corbie, vicino ad Amiens), riteneva che Saint-Denis, Saint-Germain/San Vincenzo e Saint-Médard avrebbero dovuto configurarsi come veri e propri monasteri, organizzati sotto una Regula, e ricevere per questo i privilegi ecclesiastici e le immunità secolari che caratterizzavano gli altri cenobi (Wood 1994: 193-194; Hen 1995: 54-55)40. Purtroppo non conosciamo quasi nulla di come questi monasteri si presentassero in età merovingia. Sappiamo solo che il suocero di Baltilde, re Dagoberto i, tramite il suo orafo di corte, Eligio, poi divenuto vescovo di Noyon e venerato come santo dopo la sua morte, era intervenuto generosamente per ingrandire la chiesa dedicata a Dionisio-Denis, risalente ad età tardoantica, e per abbellirla con una profusione di arredi realizzati in metalli preziosi41. Le indagini archeologiche hanno effettivamente rivelato una fase di ampliamento dell’edificio, intermedia fra quella tardoantica e le ricostruzioni avvenute in epoca carolingia. Essa potrebbe quindi essere associata proprio alle notizie sulle ricostruzioni ordinate da re Dagoberto e realizzate da Eligio; l’intenso utilizzo funerario della chiesa attestato dagli scavi è però da riferirsi prevalentemente alla fase anteriore alle ristrutturazioni del vii secolo, anche se le indagini sul campo hanno testimoniato che, già alla fine del vi, una regina merovingia (Aregonda, moglie di Clotario i, morta nel 580) aveva scelto questo luogo per la sua sepoltura (Heitz 1988 e 1993; Fleury, France-Lanord 1993; Wyss 1996). Come tutti questi esempi hanno mostrato, le imprese patrocinate dai sovrani merovingi durante il vii secolo e sostenute anche dall’entourage aristocratico che li affiancava nei regni di Neustria e Austrasia ci parlano di un impegno in grado di mobilitare risorse ingenti. Per costruire questi monasteri e le loro chiese c’era bisogno di ingenti somme di denaro e di grande quantità manodopera. La disponibilità di ambedue era fornita dai cospicui patrimoni fondiari e, talora, perfino dall’impegno di alcuni monasteri per piazzarne i prodotti sul mercato. Ma tutti i monasteri sviluppatisi nel regno merovingio durante il vii secolo rispondevano a queste caratteristiche? Probabilmente no, e comunque non tutti sembrano essere stati in grado di prosperare con la stessa rapidità sotto il profilo dimensionale e architettonico. Quando Colombano, intorno al 610, lasciò Luxeuil e intraprese la peregrinatio che lo avrebbe infine condotto in Italia, fece una tappa intermedia in un luogo chiamato Arbona, nell’area dell’odierna Svizzera nord-orientale non lontano da 147

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Zurigo, dove si trattenne per circa tre anni insieme ai discepoli che lo avevano seguito. Fra questi c’era Gallo, che dopo la partenza del maestro sarebbe rimasto sul posto per istituirvi un monastero, nel quale avrebbe concluso la sua vita terrena venerato come un santo, e che da lui avrebbe poi preso nome. La sua biografia racconta che al momento del suo arrivo sul posto c’era solo una piccola chiesa in rovina, vicino alla quale Colombano e gli altri monaci costruirono degli habitacula e impiantarono un orto e un frutteto. Per tutto il periodo in cui Gallo rimase in vita la struttura dell’insediamento non sembra avesse conosciuto sviluppi materiali particolarmente significativi e anche dopo la sua morte (avvenuta verso il 640) i monaci si sarebbero limitati a costruire una cappella funeraria dove deporre il suo corpo, edificandovi intorno delle cellulæ entro cui abitare42. Il linguaggio della fonte sembra alludere a strutture – tanto quelle ecclesiastiche, quanto quelle residenziali – modeste nelle dimensioni e probabilmente dimesse sotto il profilo materiale, che non risultano aver ricevuto ampliamenti di rilievo almeno sino alla metà dell’viii secolo. Come questi edifici potessero effettivamente apparire, ci aiutano a comprenderlo gli scavi condotti negli anni ’80 e ’90 del xx secolo presso il monastero di Hamage, posto anch’esso ai confini delle aree controllate dai Franchi, ma stavolta nelle regioni nord-orientali del regno, corrispondenti all’attuale Pas-deCalais francese. Anche Hamage sarebbe sorto sotto illustri auspici poiché la sua fondatrice, Gertrude, si ritiene fosse l’esponente di una famiglia della nobiltà d’Austrasia. Questa premessa non sarebbe tuttavia bastata a determinare sviluppi materiali particolarmente diversi da quelli che avremmo visto in un contemporaneo villaggio rurale del nord della Francia: delimitato da una palizzata, cui si affiancava verso l’esterno anche un fossato, lo spazio del monastero era riempito da capanne di legno e frasche che costituivano le cellulæ dove abitavano le monache e anche la sua chiesa era costruita in materiale deperibile. Intorno alla metà dell’viii secolo il monastero ricevette una ristrutturazione, con la costruzione di una chiesa in pietra, lunga poco più di quindici metri e dotata di finestre vetrate, affiancata da una piccola cappella dedicata a santa Eusebia, la badessa che prese il posto di Gertrude dopo la sua morte. Come sembra essere accaduto anche in altri monasteri (ad esempio a Jumièges), in questo stesso periodo le cellulæ indipendenti furono abolite in favore di un edificio residenziale comunitario, nel quale sarebbero state ricavate le celle per le singole monache. Nel suo insieme, Hamage appare come un organismo di piccole dimensioni (il lato del recinto interamente scavato non supera di molto i 50 metri di lunghezza), la cui comunità fra vii e viii secolo non dovette assumere mai una consistenza numerica particolarmente rilevante (Louis 1997, 1999 e 2004). Una situazione simile si è palesata attraverso le indagini condotte presso un altro monastero, quello dei Santi Ulrich e Afra, posto nelle aree più orientali del regno franco e sorto intorno alla metà del vii secolo circa un chilometro fuori Augusta, in Baviera, presso la tomba di santa Afra. A poca distanza da una piccolissima cappella in pietra, si sviluppò una serie di edifici in legno disposti a formare una 148

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sorta di quadrilatero gravitante su uno spazio centrale aperto che solo nell’viii secolo sarebbero progressivamente sostituiti da costruzioni in pietra (Dannheimer 1996). Molto probabilmente, monasteri come Hamage, Ss. Ulrich e Afra o San Gallo erano molto numerosi: analoghe ridotte dimensioni aveva ad esempio anche la già ricordata Echternach, oggi nel territorio lussemburghese, fondata da Willibrord come avamposto per la cristianizzazione delle regioni della Germania settentrionale (Krier, Wagner 1985). Ma è evidente che a noi è giunta soprattutto la memoria di quelle fondazioni la cui storia è stata nobilitata da personaggi che dispiegarono un’azione spirituale in grado di saldarsi con gli interessi e le prospettive di coloro che detenevano il potere nella Francia merovingia. Il caso di Lobbes è a questo proposito molto chiaro: la storia della comunità monastica fondata da Landelino nel mezzo di una foresta del Belgio e poi trasferitasi nella sua collocazione definitiva sulle rive della Sambre ci è nota probabilmente solo grazie al fatto che di essa successivamente s’interessò Pipino di Heristal. Senza il suo intervento, la comunità sarebbe rimasta nella sua sede originaria, proseguendo la propria vita di preghiera, stretta intorno all’oratoriolum dedicato a san Martino che i monaci avevano costruito con le proprie mani, e forse di essa avremmo saputo poco o nulla43. Questi monasteri caratterizzati da grande semplicità avrebbero continuato ad esistere anche successivamente. In età carolingia, quando i grandi centri monastici raggiunsero dimensioni e monumentalità sin allora sconosciuti (vedi cap. sesto) poteva ancora accadere, come successe ai confini con la Bretagna nel monastero di Redon, che i monaci costruissero i primi edifici destinati a ospitare la comunità recuperando il legname proveniente dallo smantellamento della casa di un nobile benefattore e trasportandolo essi stessi con carri sino al sito in cui avevano deciso di stabilirsi (Smith 2001: 361-363).

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La pietà dei “figli di Satana”. Lo sviluppo dei monasteri nell’Italia longobarda Al momento di varcare le Alpi Giulie, nel 568, il re dei Longobardi, Alboino, salì su un monte che sovrastava il passo attraverso il quale, alla testa del suo popolo si apprestava a invadere la pianura del Friuli. Di lì, racconta Paolo Diacono, egli «contemplò parte dell’Italia, quanto più lontano poté arrivare con lo sguardo»44. Per i Longobardi, l’Italia poteva rappresentare la ‘terra promessa’, il luogo ove concludere una migrazione secolare che, partita forse addirittura dalla Scandinavia meridionale, li avrebbe portati infine sulle sponde del Mediterraneo. Nel corso di questa lunga peregrinazione la stessa identità etnica dei Longobardi aveva avuto modo di conoscere una sua genesi e un suo progressivo consolidamento, permettendo a questo popolo di entrare nella penisola da guida di una confederazione di gentes di diversa origine: Gepidi, Bulgari, Sarmati, Pannonici, Svevi e nativi del Norico45. Ma il loro ingresso in Italia fu tutt’altro che pacifico. Storici di tre diverse pro149

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venienze – Procopio di Cesarea, bizantino; Gregorio di Tours, franco; Paolo Diacono, egli stesso longobardo – descrivono i Longobardi del vi secolo come un popolo abituato a un esercizio della violenza privo di mediazioni (Pohl 2000b; Cesaretti 2012; Lo Monaco 2012). Questo era forse l’unico modo per garantirsi la sopravvivenza in molti frangenti in cui la posta in gioco era superare gli ostacoli che mano a mano si frapponevano al proprio cammino e per non essere inghiottiti dalla storia, come era capitato a molti dei popoli ‘barbari’ comparsi nell’età delle migrazioni e, altrettanto rapidamente, scomparsi dopo anche una sola sconfitta militare. L’immagine che le fonti trasmettono è quella di una strategia di conquista del territorio italiano il cui principio ispiratore sarebbe stato quello di sottomettere le popolazioni italiche senza troppo curarsi – come invece avevano fatto ottanta anni prima gli Ostrogoti – di guadagnarne il sostegno e la collaborazione (Pohl 1997 e 2000: 149-179). D’altra parte bisognava stare bene in guardia, perché il nemico dei Longobardi in terra italica, l’Impero romano d’Oriente, disponeva di risorse economiche e di abilità diplomatica tali da fomentare trame che potevano infiltrarsi sin nella camera da letto del re e organizzarne l’eliminazione, come avvenne allo stesso Alboino, tradito dalla moglie e fatto assassinare nel 572 (Jarnut 1995: 32). Probabilmente in ragione della medesima diffidenza, anche le istituzioni ecclesiastiche non furono trattate con particolare rispetto nei primi anni. Di certo, non contribuiva positivamente in tal senso il fatto che i Longobardi avessero ben poca familiarità con il Cristianesimo e quindi, almeno inizialmente, non percepissero con chiarezza il ruolo sociale che le strutture della Chiesa secolare esercitavano ormai da secoli e l’importanza che avevano progressivamente acquisito nell’amministrazione delle città e del territorio italiano (Delogu 1980: 28-33). Tanto meno essi potevano interessarsi alle forme di vita religiosa, come quella monastica, la cui attuazione si basava su presupposti concettuali del tutto estranei alla loro cultura. Un aneddoto raccontato da Paolo Diacono, ripreso per intero da un passo della Historia Francorum di Gregorio di Tours, può forse aiutare a comprendere meglio questa difficoltà interpretativa dei primi Longobardi giunti in Italia nei confronti degli monaci e dei loro stili di vita46. Nei decenni seguenti il loro arrivo in Italia, Alboino e suoi successori dovettero gestire una situazione piuttosto turbolenta nelle aree di confine con il regno dei Franchi, poiché questi ultimi – anche grazie ai lauti finanziamenti concessi a questo scopo dai Bizantini – avevano a più riprese organizzato scorrerie armate nell’Italia del nord, nei cui confronti i Longobardi reagirono inviando a loro volta truppe in territorio franco. In una di queste circostanze, un loro reparto si trovò a transitare nel territorio di Nizza, dove abitava una piccola comunità di monaci guidata da un certo Hospitius, che viveva inclausus nel suo monastero, come un eremita. Costui era un uomo circondato da una fama di grande santità e che s’infliggeva continue punizioni corporali indossando il cilicio, nutrendosi solo di pane e datteri e mutando dieta solo durante la Quaresima, quando consumava radici di erbe egizie che i mercanti che operavano tra la Francia e l’Oriente gli portavano in dono47. Hospitius era dotato anche della capacità di pre150

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dire il futuro e, grazie a questi suoi poteri, annunciò in anticipo ai confratelli che presto il monastero sarebbe stato assalito dai Longobardi. Nei loro confronti egli ebbe parole durissime, tacciandoli di essere un popolo di rapinatori, ladri, omicidi e senza legge; ma, soprattutto, li accusava di non conoscere alcuna delle virtù cristiane, come la carità e la misericordia, e di non essere disposti a dare alle chiese alcun aiuto materiale. Per questo motivo, egli intimò ai confratelli di lasciare il monastero e di portare in salvo tutti i beni della comunità mentre lui, fedele ai suoi voti, sarebbe rimasto sul posto ad affrontare gli invasori, sicuro che non avrebbero potuto fargli del male. In effetti, quando i soldati giunsero sul posto ed entrarono nella torre dove Hospitius viveva in segregazione, vedendolo in catene e con le carni tormentate dal cilicio, non capirono assolutamente chi fosse e ritennero perciò di trovarsi di fronte a un delinquente imprigionato in quel luogo per scontare la propria condanna. Uno di essi ritenne di fare cosa opportuna sguainando la spada per decapitare l’anziano asceta, che riteneva essere un criminale (i Longobardi non erano forse così privi di senso della giustizia come Hospitius voleva far credere!); il suo gesto fu però bloccato dall’intervento divino, che paralizzò il braccio che brandiva l’arma e l’occasione fu propizia per mostrare a quei barbari quale fosse il carisma spirituale di un monaco e chi fosse il Dio a cui aveva dedicato la sua esistenza. Così avvenne che alcuni tra quanti avevano assistito al miracolo si convertirono, mentre l’uomo che aveva cercato di ucciderlo decise addirittura di rimanere con lui, intraprendendo a sua volta la vita monastica. L’assalto e la distruzione del monastero di Montecassino, avvenuti nello stesso periodo, sono assai probabilmente da interpretare come il risultato di un contatto tra invasori e invasi simile a quello avvenuto a Nizza. L’unica fonte disponibile sull’evento è purtroppo ancora una volta la Historia Langobardorum di Paolo Diacono48. Quest’opera fu scritta due secoli dopo gli eventi della fine del vi secolo e benché il suo autore fosse un longobardo, era però figlio di una temperie storica ormai completamente diversa: il suo popolo era stato sconfitto dai Franchi e, trascorso un periodo presso la corte di Carlo Magno, nel 786-787 egli era tornato in Italia andandosi a rifugiare proprio nel monastero di Montecassino. Paolo scrive per ricordare la storia dei propri antenati, ma da cristiano e monaco non può esimersi dal rilevare l’esecrabilità dei comportamenti che essi ebbero in quei primi anni verso la Chiesa e le sue istituzioni, che gli appaiono ostili e sacrileghi. Tra questi, spicca a suoi occhi l’assalto da essi compiuto nel 577 a Montecassino e la precipitosa fuga a Roma cui furono costretti i monaci che vi abitavano. In realtà questo episodio, visto all’interno del suo contesto narrativo, assume una connotazione leggermente diversa, in cui non appare così scontato l’intento di compiere un atto di mirata aggressione che avesse l’obiettivo di nuocere a un’istituzione cristiana. Nel iv libro della Historia Langobardorum, in cui Paolo Diacono riporta gli eventi dei decenni finali del vi e dei primi del successivo, appare chiaro che, ogni qualvolta i Longobardi di Benevento o di Spoleto si avvicinano a persone o luoghi rappresentativi del Cattolicesimo, il loro atteggiamento non è mai improntato a gratuita bru151

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talità, ma, in genere, a prudenza e anche a un certo realismo politico. Ad esempio, Arechi i, il duca di Benevento successore di Zotto, il responsabile dell’attacco a Montecassino, si mette a disposizione di papa Gregorio Magno affinché le possenti travi lignee destinate al restauro dei tetti delle basiliche romane potessero essere trasportate senza problemi a Roma dalla Calabria49. E, poco prima che avvenisse l’incursione contro l’abbazia cassinese, il duca di Spoleto Ariulfo dichiarò di essere stato aiutato in battaglia contro i Bizantini dal martire Savino, venerato nella città umbra, avendolo riconosciuto nelle pitture presenti all’interno della chiesa a lui dedicata, posta poco fuori della città: chiesa nella quale egli era entrato in visita tenendo un atteggiamento tutt’altro che ostile e irrispettoso50. Considerando questi episodi, i Longobardi beneventani potrebbero aver deciso di impadronirsi di Montecassino più per garantirsi il controllo di un varco strategico in direzione di Roma, che con l’intento d’infierire sacrilegamente contro una comunità di monaci cristiani. Probabilmente, a quell’epoca i Longobardi non trovavano significativa la rilevanza spirituale di un luogo come Montecassino e, nella circostanza, agirono nei suoi riguardi considerando il luogo semplicemente in funzione dell’esigenza di consolidare le proprie posizioni militari del basso Lazio. In ogni caso, anche se i Longobardi non ebbero intenzioni specificamente ostili contro le comunità monastiche, non mancano, oltre al caso dei monaci cassinesi riparati a Roma, anche altre notizie di monaci terrorizzati dal loro arrivo che scelgono di abbandonare le proprie sedi e rifugiarsi in luoghi più sicuri. È interessante ad esempio il caso di una comunità originariamente stanziata a Taureana, in Calabria, i cui membri nel 591 «a causa della presenza dei barbari» risultano «vagare per tutta la Sicilia, senza più avere un capo, né gestire la cura della [propria] anima, né sottostare alla disciplina delle proprie consuetudini», che papa Gregorio Magno raccomanda alle cure del vescovo di Messina, affinché trovi loro un’adeguata sistemazione51. Possiamo immaginare che, se questo era accaduto in una zona solo marginalmente toccata dalla presenza longobarda, quale fu la Calabria, altre aree dell’Italia possano aver sperimentato gli stessi problemi in modo anche più grave. Dopo due o tre generazioni – siamo all’inizio del vii secolo – avviene però un fatto nuovo. Nell’estate del 614 il re Agilulfo concede a Colombano, appena giunto in Italia dopo le difficili vicissitudini vissute nel regno dei Franchi, il sito di Bobbio, nella valle del Trebbia, insieme a una cospicua estensione di terre situate nei dintorni. Con i suoi compagni, Colombano s’insedia presso la chiesa di San Pietro, che, secondo un topos frequentemente presente nei racconti sulle fondazioni dei monasteri, aveva trovato diruta e abbandonata a causa del ritorno degli abitanti della zona a pratiche religiose pagane. I monaci rivendicano quindi la chiesa al culto cristiano e si stabiliscono nei suoi pressi52. Nel 625-626, morto ormai Colombano da un decennio, essi ricevono la visita della regina Teodolinda, vedova di Agilulfo, insieme al loro figlio Adaloaldo; questi, asceso al trono alla morte del padre, sotto l’influsso della madre aveva abbracciato la fede cattolica. I due monarchi prendono atto del positivo sviluppo della fondazione e confermano all’abate Ber152

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tulfo il possesso dei beni concessi da Agilulfo, che sarà ribadito ancora da re Rodoaldo nel 652 con un diploma che precisa anche le condizioni di autonomia di cui il monastero avrebbe dovuto godere nei confronti del vescovo territorialmente competente (quello di Piacenza), indicando piuttosto un suo legame preferenziale e diretto con i papi di Roma (Zironi 2004: 9-21). Già al tempo del primo successore di Colombano, Attala (615-627), dovevano essere visibili i primi frutti del progetto avviato dall’abate irlandese e l’insediamento doveva aver acquisito una certa articolazione (Destefanis 2002: 35-39). Purtroppo, le uniche informazioni a proposito ci giungono dalla biografia dello stesso Attala, poiché non è mai stato possibile indagare archeologicamente il sito in modo adeguato. Il complesso era delimitato da un recinto (sæpta), che probabilmente racchiudeva l’area sommitale della collina su cui sorge l’odierno abitato di Bobbio. Al suo interno, le frammentarie indicazioni del testo rammentano la presenza di una cellula in cui abitava l’abate, il che potrebbe far supporre che analoga sistemazione fosse prevista anche per gli altri monaci, in alternativa a un dormitorio comune. È anche fatta menzione di un laboratorio per la rilegatura dei libri – ospitato all’interno di un qualche tipo di edificio –, di stalle entro cui erano ricoverati animali da soma e carri e di laboratori per la lavorazione delle pelli necessarie per confezionare calzature. L’area della valle più prossima al monastero era sicuramente stata interessata in quegli stessi anni da interventi volti a irreggimentare le acque del torrente Bobbio e a costruirvi un mulino, che doveva essere impiegato per la macinatura delle granaglie ottenute dalle coltivazioni impiantate nella valle del Trebbia, di cui pure si fa menzione nella biografia di Attala. Come si vede, non ci troviamo di fronte a informazioni particolarmente eloquenti, e certamente esse sono del tutto insufficienti per comprendere esattamente la topografia dell’insediamento e la struttura architettonica dei suoi edifici. Tuttavia, ce n’è abbastanza per capire quali dovessero essere stati gli effetti del supporto economico offerto dal re: ad esempio, è chiaro che, per quanto la comunità monastica fosse cresciuta numericamente, senza il concorso di manodopera esterna difficilmente si sarebbe potuto eseguire lavori come quelli della canalizzazione del torrente e dell’approntamento di un mulino. Il mulino si trovava certamente al di fuori della recinzione, mentre è problematico capire quale fosse il posizionamento delle varie attività artigianali e delle stalle. In linea di principio, si potrebbe pensare che anche a Bobbio si fosse applicato il criterio della suddivisione dell’insediamento monastico in aree concentriche (già visto per i monasteri irlandesi e certamente tenuto in considerazione anche in quelli franchi), con quella più interna dedicata esclusivamente alla vita religiosa e comunitaria dei monaci, un’area intermedia appannaggio di attività profane alle quali la comunità partecipava direttamente, e un cerchio più esterno destinato a funzioni, come quella della gestione e del trattamento dei prodotti agricoli, nell’ambito delle quali i monaci potevano svolgere soprattutto una funzione di supervisione, ma che vedeva un impiego prevalente di forza lavoro reclutata fra gli abitanti della zona. Di certo, un recinto che delimitasse in maniera visibile lo 153

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spazio monastico da quello esterno era stato previsto sin dall’inizio, e in quest’area sicuramente doveva trovarsi l’oratorium dei monaci, di cui purtroppo la fonte non fornisce menzione, come pure non chiarisce se, accanto ad esso, esistessero altre chiese o cappelle. Il quadro dello status giuridico del monastero, così come è definito dagli interventi dei sovrani longobardi, e anche l’intelaiatura dei suoi riferimenti politico-istituzionali sono per molti versi assai simili a quelli che Colombano era riuscito a porre in essere per Luxeuil e che erano serviti da traccia per l’assetto giuridico iniziale di molte altre fondazioni sorte nel regno merovingio. Anche Bobbio ha come riferimento istituzionale privilegiato la monarchia, che fornisce protezione politica e risorse, queste ultime sotto forma di terre trasferite in uso al monastero, ma sulle quali il re mantiene comunque il dominium eminens, e cioè i diritti ultimi di proprietà (Gasparri 2011). Inoltre, la posizione geografica di Bobbio, sulla via che conduceva verso i possedimenti bizantini della Liguria e non lontano dal confine con essi, avrebbe fornito al re un altro buon motivo per appoggiare l’insediamento di Colombano e dei suoi, poiché la fondazione del monastero dimostrava che, nonostante la vicinanza a quella frontiera, il controllo longobardo su quelle terre era così saldo da permettere a una comunità di servi di Dio di vivervi liberi da ogni minaccia. In sostanza, come già abbiamo visto accadere Oltralpe, anche in Italia sembra prendere forma la possibilità che i sovrani individuino nelle comunità monastiche i partner ideali per l’esercizio di una pietas che li veda indiscussi e visibili protagonisti. Forse Colombano aveva saputo illustrare adeguatamente al re Agilulfo e alla regina Teodolinda, che aveva incontrato a Milano, quanto aveva realizzato Oltralpe e come, nonostante l’ostilità patita negli ultimi anni da parte del re Teodeberto e della regina madre Brunechilde, il monastero di Luxeuil avesse potuto prosperare recando al cospetto di Dio, attraverso le preghiere dei suoi monaci, il nome dei sovrani e ricevendone in cambio protezione e benedizioni. In Italia, tuttavia, il successo còlto da Colombano a Bobbio non fu seguito da una disseminazione monastica paragonabile a quella che si sarebbe verificata in Francia nei decenni successivi. Differentemente da quella franca, la monarchia longobarda non aveva abbracciato il Cattolicesimo, e analogo atteggiamento prevaleva presso la maggior parte degli esponenti dell’aristocrazia del regno. Quindi, per quanto potessero essere stati convincenti gli argomenti di Colombano sui vantaggi dell’alleanza con i monaci, all’inizio del vii secolo nell’Italia longobarda non vi erano le condizioni politiche e culturali perché si potesse verificare la rapida e diffusa fioritura di monasteri che si ebbe sotto l’egida dei sovrani merovingi. Per questo motivo, nel secondo e nel terzo quarto del vii secolo in area longobarda le menzioni di fondazioni monastiche sono scarse e incerte. Forse per opera della stessa Teodolinda fu stabilita una comunità monastica a servizio della basilica eretta a Monza in onore del Battista, presso il palazzo in cui la regina risiedeva (Bognetti 1948: 230). Una tradizione risalente all’età di Ludovico il Pio (814-840) at154

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tribuirebbe inoltre sempre a Teodolinda anche la fondazione del monastero di San Dalmazzo a Pedona, presso Cuneo53. Nell’ultimo trentennio del vii secolo si verifica però una svolta profonda, i cui effetti sono riscontrabili in tutte le aree del regno, compresi i territori dei più periferici ducati di Spoleto e Benevento. Nel 671 il re Grimoaldo (662-671) muore a causa di un’emorragia interna, poiché aveva deciso di andare a caccia nonostante fosse ancora debilitato a causa dei postumi di una flebotomia. Sebbene non si fosse manifestamente dichiarato cattolico, come invece aveva fatto il suo predecessore e suocero, Ariperto i (653-661), fu sepolto nella chiesa pavese di Sant’Ambrogio54, «che aveva fatto ricostruire o restaurare, segno che il rapporto col culto cattolico era ormai avvertito indispensabile anche da un re che non aveva particolari propensioni religiose» (Delogu 1980: 96). Prima di salire al trono, Grimoaldo era stato duca di Benevento, dove nel 662 non aveva esitato a ridiscendere per contrastare il tentativo dell’imperatore bizantino Costante ii di riprendere il controllo dell’Italia meridionale, ottenendo contro quest’ultimo successi decisivi. Benché la sua fedeltà alla causa dell’indipendenza del regno longobardo fosse al di là di ogni dubbio, egli, differentemente da alcuni dei predecessori, non avvertiva più che la diversità religiosa fra Longobardi (pagani o ariani) e Romani (cattolici) potesse costituire una discriminante decisiva per garantire la compattezza dei primi nei confronti dei secondi. Dopo cento anni dalla discesa in Italia, la separazione ‘nazionale’ fra Romani e Longobardi aveva ancora pienamente valore politico e giuridico, e questo stato di cose era ben rispecchiato dalle disposizioni inserite nell’Editto di Rotari, che si configura in tutto e per tutto come un corpus di leggi allestito fondamentalmente per regolare i rapporti fra i soli Longobardi (Delogu 1990: 131; Gasparri 1997: 145). Tuttavia, è legittimo chiedersi se tale separazione poggiasse ancora su una rigida base etnica. Per un verso, infatti, molte persone di origine romana, che avevano manifestato fedeltà ai re e accettazione delle costumanze longobarde, potevano essere ormai considerate longobarde a tutti gli effetti, indipendentemente da quali fossero le origini del loro sangue. D’altra parte i re già a partire dal tempo di Agilulfo, ma sempre di più nel corso del vii secolo, tesero a interpretare sempre più il proprio ruolo non solo come quello di capi di un’etnia, ma piuttosto in quanto signori dell’Italia e di tutte le persone e le istituzioni in essa presenti (Delogu 2011). In tale prospettiva, i sovrani si accorsero ben presto che il dialogo con la Chiesa cattolica costituiva un perno essenziale per la costruzione di un rapporto più solido e capillare con il territorio, e questo fu di sicuro uno dei motivi che spinsero verso l’esito dell’adesione della monarchia longobarda all’ortodossia romana. Dopo la morte di Grimoaldo, fu il suo successore e cognato Pertarito (671-688) a compiere il passo decisivo, proponendosi definitivamente come un monarca cattolico. Nel decennio compreso fra il 671 e il 680, con il sostegno diretto del re e in un clima di sostanziale collaborazione con il papato, si ripristinò completamente la funzionalità della rete delle sedi episcopali: tra esse quella di Milano, dove si ha in questo periodo la prima attestazione del ritorno del vescovo in città, 155

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dopo che le turbolenze seguite all’invasione ne avevano causato la fuga a Genova, allora ancora in mano bizantina. Ma la conversione ufficiale della monarchia longobarda poté avere successo perché, nonostante qualche resistenza protrattasi sino ai primi anni del regno di Cuniperto (688-700), era evidente che tale orientamento trovava ormai un consenso ampio nella società del regnum e in primo luogo nella sua élite. Ad esempio, la scomparsa progressiva, a partire dalla metà del vii secolo, di tombe con corredi ricchi di oggetti di enorme valore e la parallela apparizione di lasciti testamentari scritti (spesso in favore di chiese) effettuati da aristocratici, comprendenti talora anche gli stessi tipi di beni mobili prima collocati nelle tombe, è evidentemente un indizio dell’adesione a forme di commemorazione dei defunti influenzate dall’avvicinamento alle pratiche cristiane (La Rocca 1997). Nella medesima prospettiva va vista anche la contemporanea proliferazione d’iscrizioni funerarie commissionate da re e aristocratici longobardi, realizzate seguendo canoni grafici ed estetici decisamente riconducibili alla tradizione romana e destinate ad essere esposte all’interno delle chiese, ma soprattutto caratterizzate da testi che celebrano le virtù cristiane esibite dal defunto nel corso della sua vita (De Rubeis 2000). Questo processo di rimodellamento delle strategie di commemorazione e di autocelebrazione conduce ovviamente anche all’esito di vedere coinvolti gli esponenti dell’aristocrazia in azioni più impegnative, ma anche più imperiture, quale ad esempio quella della fondazione e dotazione di chiese e monasteri (Costambeys 2000: 82-83). In particolare, «le comunità monastiche si offrivano come ancora di salvezza religiosa, mezzo di acquietamento morale, garanzia di conservazione sociale per i possessori più trepidanti, mentre vescovi e abbaziati mantenevano aperte all’inquieta aristocrazia longobarda le vie della promozione individuale e parentale» (Tabacco 1990: 382). In sostanza, la creazione di un monastero, oltre a costituire un atto di pietas christiana in grado di rendere il suo autore di per sé benemerito nei confronti della società, poteva comportare altri vantaggi: da quello di costituire una soluzione in grado di fornire una destinazione proficua a parte del patrimonio fondiario del donatore, a quello di rendere il monastero luogo di convergenza di alleanze politiche e familiari attraverso la monacazione nella comunità di membri di lignaggi amici. Non ultimo, la specifica vocazione della vita monastica verso l’introiezione dei testi sacri e la meditazione su di essi poteva apparire, per gli aristocratici fondatori, anche come un’opportunità per indirizzare alcuni componenti delle proprie famiglie verso una formazione intellettuale e spirituale di cui, evidentemente, si iniziava ad apprezzare maggiormente l’importanza (Azzara 2002: 94-99; 2002b: 23-27). Per questi motivi, a partire dall’ultimo ventennio del vii secolo, in tutta l’Italia longobarda si assiste a un’ondata di fondazioni monastiche che continuerà a ritmo sostenuto sino alla vigilia della caduta del regno, avvenuta nel 774. Il modello che prevale è quello del monachesimo cenobitico, anche se è impossibile comprende156

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re con quali declinazioni esso fosse praticato nelle singole comunità. Recentemente è stato perfino posto in dubbio che la Regola di Benedetto sia stata davvero un prodotto autoctono del monachesimo italiano tardoantico, ipotizzando che la formulazione del suo testo sia piuttosto da ricondursi ad ambienti insulari e che il suo approdo in Italia sia stato mediato attraverso la Francia (Diem 2011). Tale ipotesi, di cui al momento è prematuro valutare il consenso, sta però a dimostrare che è davvero arduo capire quali realmente fossero – e se vi fossero in assoluto – le Regulæ prevalenti negli ambienti monastici italo-longobardi, anche tenendo conto dello iato temporale che esiste tra le comunità fiorite in Italia in età tardoantica e quelle sorte a partire dalla fine del vii secolo. Bobbio aveva potuto certamente costituire un centro d’irraggiamento e di propagazione delle esperienze transalpine, ma sarebbe fuorviante pensare che quest’unico monastero sia stato il solo cespite d’ispirazione per tutto l’articolato mondo del monachesimo fiorito nell’Italia longobarda (Penco 19953: 98-120). La dinamica della diffusione dei monasteri nei territori del regno presenta per molti aspetti similitudini notevoli con quanto già visto nei territori franchi. Com’era accaduto Oltralpe, i monarchi ebbero un ruolo protagonista nel promuovere le nuove fondazioni; accanto ad essi, troviamo in primo piano i loro rappresentanti sul territorio – i duchi –, tra i quali spiccano soprattutto quelli del Friuli, di Spoleto e di Benevento, che tradizionalmente godevano di una certa autonomia di azione rispetto al potere centrale. Il fatto che questi siano stati i soggetti più attivi, appare abbastanza ovvio, considerando che re e duchi erano anche i maggiori detentori di patrimoni fondiari e quindi coloro maggiormente in grado di fornire alle comunità i mezzi economici per prosperare nel tempo (De Jong, Ehrart 2000). Tuttavia, essi non sono gli unici promotori di fondazioni monastiche di cui le fonti ci tramandino l’esistenza. Accanto a loro, compaiono anche altri personaggi ‘minori’: chierici, ufficiali al servizio di duchi e re (gastaldi e sculdasci) ed altri individui che non detengono titolature particolari, ma che risultano comunque in possesso di fortune fondiarie sufficienti a dotare le comunità di terreni su cui insediarsi e di rendite con le quali vivere. Sponsores di questa levatura non erano né in condizione di istituire comunità particolarmente grandi, né di mettere a disposizione patrimoni comparabili a quelli mobilitati da re e duchi. Esse quindi hanno avuto raramente vita lunga e, non di rado, apprendiamo della loro esistenza nel momento in cui confluiscono nell’alveo dei patrimoni di fondazioni più grandi o, semplicemente, più fortunate. Sarebbe però errato sottovalutarne l’importanza, poiché esse non solo dimostrano la straordinaria diffusione e, potremmo dire, la trasversalità sociale dell’interesse a partecipare a un movimento di rinnovamento delle forme di devozione religiosa che percorre la società del regnum Langobardorum, ma illustrano anche la notevole diversità delle forze che operavano al suo interno. In realtà, si dovrebbe considerare anche l’esistenza di una terza via su cui s’incammina la nascita di nuovi insediamenti monastici: una strada che spesso s’inter157

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seca con le due appena viste, ma che comunque presenta una sua autonomia motivazionale. Mi riferisco ai monasteri che non nascono in seguito a un atto di pietas di un qualche potens del regno, ma che sorgono per volontà di personaggi che sembrano mossi esclusivamente dal desiderio di intraprendere personalmente un cammino di ascesi. È emblematico in questo senso il caso dell’abbazia di Farfa, situata nel territorio della Sabina, i cui esordi, negli ultimi anni del vii secolo, si legano alla decisione di un singolare personaggio – il monaco Tommaso di Morienna – di stabilirsi presso i resti di una villa romana in abbandono. Egli sarebbe stato originario della Savoia e intorno al 680, en route verso la Terrasanta, si sarebbe fermato fra le colline laziali in seguito a una miracolosa apparizione della Vergine che gli avrebbe indicato il luogo esatto in cui stabilirsi, insieme a dei compagni, per costituire una comunità di asceti presso un’antica chiesa in rovina. La storia della fondazione di Farfa si ricostruisce attraverso fonti molto più tarde, che datano quanto meno a partire dal pieno ix secolo, ma il suo ricchissimo dossier documentario testimonia che abati di origine transalpina furono alla sua testa per quasi tutto l’viii secolo, rendendo quindi più verosimile l’ipotesi che anche il fondatore avesse avuto i propri natali in quelle regioni (Leggio 2006). Farfa avrebbe quindi costituito una sorta di colonia italiana di monaci originari del regnum Francorum, il cui impianto fu forse un ‘effetto collaterale’ non solo del clima di stabilità politica e di maggiore apertura del regno longobardo verso l’esterno, ma anche del crescente interesse del mondo franco nei confronti di Roma e delle sue tradizioni religiose. In ogni caso, la nascita del monastero non passò inosservata presso i duchi longobardi di Spoleto, che controllavano anche quel lembo della Sabina affacciato sulla valle del Tevere. È verosimile che già intorno al 700 essi avessero stabilito una sorta di protezione sulla comunità, ed è stato ipotizzato che non fosse stata estranea a questa loro attenzione la valutazione della strategicità del sito in cui il monastero era sorto, a dominio della valle del Tevere, che costituiva il confine fra i territori longobardi e bizantini del Lazio. Si potrebbe dunque immaginare, da parte del duca Fa­ roaldo ii (703-724), un calcolo non dissimile – anche se forse effettuato ex post – da quello che un secolo prima aveva ispirato il sostegno dato dal re Agilulfo alla fondazione di Bobbio. Il monastero sabino non fu il solo frutto dell’attivismo di questa nuova generazione di pii asceti comparsi nei territori longobardi. Alla fine del vii secolo, nella parte più settentrionale del ducato di Benevento, la nascita e l’affermazione di San Vincenzo al Volturno seguirono più o meno lo stesso copione (Bertolini 1985; Marazzi 2010). In questo caso i fondatori furono un trio di giovani aristocratici beneventani che volevano farsi monaci in Francia, ma che furono invitati a tornare sui loro passi e a realizzare il proprio voto ascetico nella loro terra d’origine proprio dall’abate Tommaso di Farfa, nel cui monastero si erano imbattuti mentre procedevano verso nord. Benché le fonti sulle origini di San Vincenzo siano di affidabilità ancor più problematica di quelle farfensi, sembra tuttavia abbastanza certo che il duca di Benevento Gisulfo i (686-703) non fosse all’oscuro del fatto che i tre gio158

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vani erano stati reindirizzati a stabilirsi proprio ai confini dei suoi domini, in una località lambita dall’itinerario principale che collegava la stessa Benevento con Spoleto, quasi alla frontiera fra i due ducati. È perciò del tutto lecito credere, senza per questo mettere in dubbio la genuinità dello slancio spirituale dei fondatori, che motivazioni religiose e politiche abbiano agito di concerto anche in questa circostanza e che la località scelta, al di là della visione onirica che di essa avrebbe avuto Tommaso di Farfa, possa essere stata quanto meno gradita a Gisulfo di Benevento, se non proprio scelta su sua indicazione. Ciò appare tanto più plausibile, se si considera che l’intera alta valle del Volturno, dove i monaci andarono a insediarsi, costituiva un blocco di terre appartenenti proprio al fiscus del duca (Marazzi 2012). Anche la rinascita di Montecassino, avvenuta probabilmente subito dopo il 720, sembra essersi verificata entro un contesto analogo: il volenteroso slancio mistico di colui che ne fu il rifondatore raggiunse in poco tempo l’insperato successo di aggregarvi una comunità e persino di edificare per essa, ex novo, un monastero che la potesse ospitare. Stando a quanto narrano le fonti, nulla e nessuno, al di fuori del soccorso divino, sembra sia intervenuto per aiutarlo in questa impegnativa impresa. Ma la tela su cui si compone questo ritratto esemplare sembra sovrapporsi a una storia molto più complessa (Bertolini 1987). Vale la pena soffermarsi un momento a esaminarla più da vicino, data l’importanza di Montecassino nel quadro del monachesimo italiano ed europeo. Il personaggio che ebbe il compito di riorganizzare la comunità di Montecassino fu il bresciano Petronace. Di lui non si sa se fosse un longobardo e neppure si dice che fosse già un monaco, ma solo che era un «cittadino di Brescia spinto dall’amore divino». Il racconto più antico che lo riguarda è quello tramandato da Paolo Diacono, verso la fine dell’viii secolo55. Egli si sarebbe trovato pellegrino a Roma e lì, per motivi che Paolo non spiega, il papa Gregorio ii lo avrebbe esortato a recarsi a Cassino, presso il luogo in cui era sepolto il «beato padre Benedetto». Lì egli incontrò degli «uomini semplici» che vivevano come eremiti presso il sepolcro di Benedetto, fra le rovine del monastero distrutto dai Longobardi alla fine del vi secolo. Petronace, forse suggestionato dalla santità del luogo, si persuase a rimanere con loro; essi lo ricambiarono, eleggendolo proprio senior e dando così il via a una riorganizzazione della vita ascetica che richiamò molti monaci, tra i quali alcuni di origine nobiliare. Solo in un secondo tempo egli avrebbe assunto ufficialmente la carica di abate del monastero cassinese, e cioè quando questo si era definitivamente ricostituito come comunità cenobitica. Sempre secondo quanto afferma Paolo Diacono, fu in questa fase (probabilmente da collocarsi negli anni ’30 dell’viii secolo) che a Montecassino si sarebbe ripresa l’osservanza della Regula di Benedetto, per la conoscenza della quale il papa di allora, Zaccaria (741-752), avrebbe inviato a Petronace nientemeno che il codice vergato personalmente dal santo di Norcia. In questo stesso periodo, l’abate cassinese avrebbe anche atteso alla ricostruzione degli edifici monastici, portandoli allo stato in cui lo stesso Pao159

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lo li poteva ancora vedere alla fine dell’viii secolo, e cioè alla vigilia delle estese trasformazioni che interessarono il monastero nella piena età carolingia. Presa alla lettera, la storia narrata da Paolo Diacono chiaramente non sta in piedi. Che l’invio di Petronace a Montecassino potesse essere avvenuto in seguito a un’iniziativa estemporanea del papa appare abbastanza improbabile. Ed è ancora meno probabile che egli si fosse potuto muovere liberamente sul posto per almeno due decenni, radunando confratelli intorno a sé e raccogliendo da solo risorse sufficienti per allestire un cantiere che dovette essere abbastanza visibile e impegnativo. Cassino e il suo territorio ricadevano infatti all’interno di una fascia di frontiera fra Longobardi e Bizantini, che solo pochi anni prima era stata spostata verso nord, fino a Sora e Arpino, in seguito a un’azione condotta dal duca di Benevento Gisulfo i (lo stesso che aveva patrocinato la fondazione di San Vincenzo al Volturno), che in quell’occasione era arrivato a minacciare la stessa Roma. Tenendo conto di questo quadro d’insieme, è evidente che il racconto di Paolo omette dettagli che probabilmente hanno avuto un’importanza decisiva affinché la rinascita di Montecassino potesse verificarsi prima e consolidarsi poi. È perciò da immaginare un qualche tipo di intervento diretto del duca di Benevento, Romualdo ii (706731), che poteva aver trovato diverse buone ragioni per sostenere Petronace e i suoi seguaci56. La prima era sicuramente quella di rimanere nella scia di suo padre Gisulfo, proponendosi anch’egli come fondatore di centri monastici e di fare ciò, a sua volta, in un contesto politicamente ‘sensibile’ quale quello dei confini settentrionali del ducato, in direzione di Roma. La seconda ragione stava nel coinvolgimento del papa in tale impresa, in un momento in cui i pontefici erano impegnati in uno scontro durissimo con l’imperatore di Bisanzio, Leone iii (717-741), e dovevano, allo stesso tempo, iniziare a guardarsi dall’espansionismo del re longobardo Liutprando (711-744). L’intervento di Romualdo potrebbe anche spiegare perché il protagonista della rinascita di Montecassino sia stato proprio il bresciano Petronace: la seconda moglie del duca, infatti, era originaria di quella città, in quanto figlia del locale duca Gaidualdo, e si può quindi presumere che tale unione fosse stata il frutto di rapporti consolidati tra la famiglia ducale sannita e quella che controllava la città lombarda (Gasparri 1978: 55 e 92). Peraltro, la documentazione proveniente da San Vincenzo al Volturno (anche se non anteriore all’xi secolo) sembrerebbe rafforzare ulteriormente l’ipotesi del patrocinio beneventano sull’impresa di Petronace e dei suoi confratelli, poiché tramanda il racconto del decisivo apporto dei monaci vulturnensi – e in particolare dei tre fondatori – nella ricostruzione dell’abbazia laziale. Essi vi appaiono come i veri tutori della rinascente comunità cassinese, ed è probabile che questo compito fosse stato loro affidato dai duchi di Benevento, che, come abbiamo appena visto, esercitavano sul monastero molisano una tutela politica sin dai tempi della sua fondazione57. Questi esempi dimostrano che nell’Italia longobarda, anche se lo slancio di singoli personaggi verso la vita ascetica poté rivestire un ruolo non secondario nella 160

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nascita e nello sviluppo di comunità monastiche, l’affermazione e la stabilità nel tempo di queste ultime erano rese possibili soprattutto dal concorso di un sostegno politico, soprattutto se espresso dalle massime autorità del regno. Ciò è a tal punto vero che, pur se illustri, casi come quelli appena esaminati sembrano costituire l’eccezione più che la normalità, mentre ci si trova con maggiore frequenza di fronte a iniziative che, più che indirettamente assecondate o sponsorizzate, appaiono decisamente pensate e gestite in prima persona dai rappresentanti dei ceti egemoni. Tuttavia, come abbiamo visto accadere a San Vincenzo al Volturno, spesso è difficile separare il milieu degli asceti da quello degli aristocratici, nel senso che il medesimo ambiente – e perfino la stessa famiglia – poteva esprimere tanto la persona vocata alla vita ascetica, quanto quella che si occupa di offrire i mezzi materiali e le condizioni politiche affinché tale proposito si possa realizzare. È questo, ad esempio, il caso di Anselmo (725/730-802), fondatore prima del monastero di Fanano, nell’Appennino modenese, e poi di quello di Nonantola, nella bassa pianura a valle della stessa città emiliana. Anselmo, secondo quanto le fonti permettono di ricostruire, era doppiamente imparentato con stirpi regali longobarde. Per parte di madre, era legato alla famiglia di re Liutprando, mentre la sorella aveva sposato re Astolfo (749-756), ed egli stesso aveva probabilmente rivestito la carica ducale, presiedendo il territorio di Ceneda, in Veneto, o forse quello del Friuli (Pratesi 1961; Golinelli 2007). La sua conversione monastica avvenne in un momento imprecisato, ma presumibilmente già prima del 750, poiché fu proprio Astolfo, verso il 752, a persuaderlo a lanciarsi nell’impresa della fondazione di un nuovo monastero a Nonantola, facendogli abbandonare la comunità che precedentemente aveva fondato a Fanano. Il sito non fu scelto a caso, bensì in rapporto a una precisa strategia di controllo degli assi viari che ponevano in comunicazione l’Emilia e il Veneto longobardi con la Romagna bizantina, di cui il re in quegli anni stava portando a termine la conquista. La fondazione del monastero fu accompagnata dall’attribuzione ad esso di un cospicuo patrimonio fondiario che gli avrebbe permesso di diventare in breve tempo uno dei più ricchi d’Italia e, di conseguenza, anche uno dei più rilevanti dal punto di vista monumentale, come torneremo a vedere più avanti (Andreolli 2006; Gelichi, Librenti, 2004 e 2008). Alla metà dell’viii secolo, fra grandi e piccoli, i monasteri sorti in tutte le aree dell’Italia longobarda costituiscono un insieme cospicuo. Non è mai stato effettuato un censimento integrale dei monasteri su tutto il territorio dominato dai Longobardi prima del 774, ma un inventario redatto per quelli femminili della sola Italia settentrionale ne comprende circa 35 (Veronese 1987); un numero che, includendo anche le regioni centrali e meridionali della penisola e tutte le comunità maschili, potrebbe facilmente più che raddoppiare. Considerando che stiamo esaminando un arco di tempo inferiore al secolo (dal 680 circa al 774), si può parlare di un ritmo di una fondazione ogni anno. È chiaro che, come si è accennato, non tutti i monasteri costituivano realtà di uguale importanza e peso economico, politico e, soprattutto, spirituale e culturale. Anzi, è oggetto di discussione il significato esat161

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to da attribuire, di volta in volta, al termine monasterium utilizzato nelle fonti italiane di questo periodo: in alcuni casi esso sembra piuttosto riferirsi a chiese dipendenti da monasteri, ma a cui non necessariamente facevano capo comunità riunite sotto un’osservanza regolare, mentre in altri designa semplici luoghi di culto fondati da privati e destinati al solo utilizzo da parte del fondatore e della sua famiglia (Leclercq 1961: 10-26; Aebischer 1965; Conti 1965; Curradi 1987; Tilatti 2006: 338-341). L’espansione del monachesimo nell’Italia longobarda segue dunque un itinerario non dissimile da quello visto per la Francia merovingia, anche se nella penisola appare più netta la discontinuità con il retroterra delle esperienze di origine tardoantica, determinata essenzialmente dal tardivo ingresso in scena dei Longobardi e dalla loro iniziale estraneità al mondo della spiritualità cristiano-cattolica. Analoga, invece, è la dinamica che vede questo sviluppo guidato da scelte politiche e culturali maturate in seno alle classi dirigenti, che evidentemente attraverso un impegno personale nella loro fondazione ritengono di poter esercitare sui monasteri un patrocinio più diretto. In cambio, essi si aspettavano di ottenere da essi una particolare attenzione e, attraverso la quotidiana preghiera che i monaci elevavano a Dio, una sorta di viatico per la propria salvezza spirituale. Questo legame privilegiato era spesso rafforzato in virtù dello status di relativa autonomia attribuito a molte comunità monastiche rispetto alle gerarchie della Chiesa secolare; status che, nel caso di fondazioni dovute alla pietas di re e duchi, veniva accresciuto attraverso la concessione della protezione regia e, quindi, dell’immunità dall’intervento dei pubblici ufficiali nelle loro faccende interne e della libertà di eleggere il proprio abate (o badessa) senza l’interferenza di alcuno. È questo, ad esempio, il caso del monastero femminile del Salvatore, fondato a Brescia da Desiderio, ultimo re longobardo (756-774), quando era ancora duca di Tuscia. In suo favore, una volta cinta la corona, Desiderio si affrettò a concedere la defensio del sacrum palatium contro chiunque attentasse alla sua libertà e all’integrità dei suoi beni (Brogiolo 2000)58. Come giustamente annotava Gregorio Penco, di fronte a circostanze come questa, in cui un duca fondava un monastero con beni propri e poi, conquistato il trono, lo investiva della protezione sovrana, «non è agevole decidere del carattere privato o pubblico di [tali] fondazioni» (Penco 1983: 118). Allo stesso tempo, è evidente che esse testimoniano dell’importanza che si annetteva, sino ai più alti livelli della società longobarda, a iniziative di questo tipo, per l’attuazione delle quali non si esitò a modificare costumanze giuridiche profondamente radicate nella tradizione del popolo longobardo. Già al tempo di Liutprando, infatti, la legislazione emessa da questo sovrano, che ampliava e integrava il testo dell’Editto di Rotari, prese atto, come di una prassi ormai diffusa, dell’abitudine di destinare beni mobili e immobili in favore di fondazioni ecclesiastiche – e dei monasteri in particolare –, con la motivazione che tali azioni avrebbero contribuito alla salvezza dell’anima di chi le effettuava. In buona sostanza, attraverso l’emanazione di queste norme si autorizzava a derogare, esclusivamente nel caso che i destinatari dei lasciti fossero enti 162

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ecclesiastici, alla consuetudine presente nel diritto longobardo che consentiva la trasmissione ereditaria dei beni solo nell’ambito familiare (Azzara 2006: 67-72). Progetti e cantieri monastici nell’Italia longobarda La polarizzazione di fortune fondiarie crescenti nelle mani delle comunità monastiche comportava spesso cambiamenti drastici nei regimi di gestione delle aziende agrarie che ne facevano parte. I monaci, infatti, avevano bisogno che le terre fruttassero presto e al massimo, perché i redditi che se ne traevano non solo sarebbero dovuti servire al sostentamento di comunità che crescevano a ritmi sostenuti, reclutando decine di nuovi membri nel giro di pochi anni, ma avrebbero anche dovuto soddisfare l’aspirazione di coloro che avevano messo tali patrimoni nella disponibilità dei monaci a vedere nello splendore dei monasteri luoghi in grado di riflettere il prestigio del proprio nome. Era perciò obbligatorio che le comunità monastiche disponessero di risorse maggiori rispetto a quelle necessarie alla propria sopravvivenza, da destinare all’allestimento di cantieri complessi e costosi, nei quali far operare maestranze specializzate e impiegare materiali di pregio. Per conseguire questi obiettivi, agli abitanti delle proprietà monastiche erano sovente imposte condizioni e scadenze piuttosto dure per la corresponsione dei prodotti agricoli, in modo che il surplus da destinare al mercato potesse crescere e se ne potessero così reimpiegare i profitti per alimentare i cantieri e far sì che i monasteri raggiungessero la magnificenza voluta dai committenti e apparentemente condivisa senza troppi problemi dagli abati e dai loro confratelli. I contadini erano chiamati quindi a fornire la materia prima per la realizzazione di questi ambiziosi progetti, sia sotto forma di prodotti del lavoro agricolo sia, non di rado, anche di prestazione della propria opera al servizio delle esigenze dei monasteri. Tuttavia, soprattutto quando essi, prima che le terre su cui vivevano fossero cedute ai monasteri, erano stati per generazioni uomini vissuti liberamente su terre del fisco di re e duchi, il cambio di status non doveva apparire facilmente accettabile. E la documentazione conservata negli archivi di alcuni dei monasteri divenuti titolari di beni già pubblici racconta talora storie di ribellioni, anche violente, alle nuove imposizioni che i monaci pretendevano di stabilire nei loro confronti (Wickham 2005: 582-584). Raramente le proteste dei contadini riuscivano ad avere successo, poiché il blocco di interessi al quale essi cercavano di contrapporsi era troppo superiore alle loro forze. Come in Francia, anche in Italia i vertici dell’aristocrazia laica e i leader delle abbazie più importanti costituivano quasi sempre, dal punto di vista sociale, due facce della stessa medaglia. Era quindi piuttosto difficile che un re che avesse ceduto terre a un monastero affinché, attraverso il loro sfruttamento, esso potesse crescere in prestigio e potenza agisse poi convintamente per ostacolare il raggiungimento di questo obiettivo, pur di fronte a proteste legittime levate dai contadini che vi abitavano. D’altra parte, i monaci non dovevano trovare difficile gestire situazioni simili, né 163

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vedere le casse dell’abbazia divenire sempre più pingui, poiché quanto essi incameravano non era destinato al loro personale arricchimento, bensì alla realizzazione dell’antico sogno di costruire il luogo ideale ove poter elevare la lode a Dio. Esso ora poteva concretizzarsi entro una cornice di splendore materiale, frutto del riconoscimento che la società nel suo insieme, attraverso i suoi esponenti più importanti, tributava alla funzione mediatrice che i monaci svolgevano fra questo mondo e quello in cui tutti sarebbero dovuti giungere alla fine del percorso terreno. Mettere in luce questi meccanismi significa comprendere come sia stato possibile che monasteri sorti pochi anni prima apparissero, agli occhi di chi li visitava, già come degli insediamenti non solo complessi e articolati, ma anche caratterizzati da un profilo monumentale piuttosto spiccato, cosa che non sarebbe mai potuta avvenire senza la disponibilità di risorse pecuniarie e di forza lavoro rilevanti. Il monaco anglossassone Willibald, giunto a Montecassino intorno al 730, sin quasi da subito rivestì diversi ruoli di responsabilità all’interno della comunità: da quello di cubicularius ecclesiæ passò a quello di decanus e infine a quello di portararius. Quest’ultima mansione la esercitò, in successione, all’interno di due luoghi ben distinti che, tuttavia, costituivano parte integrante dell’insediamento cassinese nel suo insieme poiché sottostavano al regimen del medesimo abate: il «monastero che si trovava sull’eccelsa montagna» e «l’altro monastero che si trovava al di sotto [della montagna di cui sopra], presso il fiume Rapido»59. Negli anni ’30 dell’viii secolo – dunque, quasi a ridosso della ‘rinascita’ del monastero – Montecassino era già un insediamento composto da due nuclei: uno situato sull’«alta collina», e che non è difficile riconoscere in quello bombardato nell’ultima guerra, dove ancora oggi risiede la comunità benedettina, e l’altro a valle, in corrispondenza dell’attuale città di Cassino. Dal momento che in ambedue i luoghi era prevista la presenza di un portararius, si deve dedurre che ciascuno di essi costituiva una struttura ben delimitata dal punto di vista spaziale e – data la distanza che li separava – molto probabilmente completa nelle sue parti essenziali. Al loro interno doveva esservi perciò almeno una chiesa, per consentire ai monaci che vi vivevano di svolgere con pienezza la propria vita regularis. Riguardo al monastero posto sulla collina, sappiamo che, nell’viii secolo, di luoghi di culto ve n’erano sicuramente almeno due (Pantoni 1998: 53-54). Il monastero «a valle», invece, occupava una parte del nucleo urbano antico di Casinum, tra cui probabilmente anche l’area forense60. Questo precoce sviluppo architettonico dei monasteri sorti con il sostegno – più o meno esplicitamente manifestato – dei poteri secolari non fu prerogativa della sola Montecassino. Abbiamo già visto come l’appoggio dei re longobardi avesse permesso alla comunità di Bobbio di svilupparsi rapidamente nel corso del vii secolo e di essere in grado di intraprendere opere complesse e costose, come la deviazione di un corso d’acqua. Ma i casi analoghi sono molti altri. Nel 759, re Desiderio e la moglie Ansa trasferirono alla proprietà del monastero del Salvatore, che avevano fondato qualche 164

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anno prima all’interno della città di Brescia, i terreni su cui esso era stato fondato e vi nominarono come badessa la propria figlia Ansilperga. Il documento che riporta memoria di questa decisione descrive chiaramente che i due sovrani erano intervenuti direttamente per edificare tutti gli ambienti necessari alla vita della comunità: Ed innanzitutto [doniamo] tutti gli spazi claustrali [il testo usa il termine claustra] del monastero medesimo, con le chiese e i tutti i restanti edifici che noi vi abbiamo fatto costruire, nonché l’area stessa [del monastero] e tutte quelle ad essa contigue che della prima risultano essere pertinenze61.

Le indagini archeologiche dei recenti anni ’80 hanno fornito riscontri importanti a quanto descritto nella carta desideriana (Brogiolo 1992; Brogiolo et al. 1999). Il monastero, infatti, sorse in seguito a una drastica ristrutturazione di tutto il quadrante urbano di Brescia (quello nord-orientale) che gli era stato assegnato. L’area, che ancora in età tardoantica era occupata da un fitto tessuto di domus, in alcuni casi anche piuttosto ampie e ben rifinite, fra vi e vii secolo si era progressivamente trasformata in un quartiere ancora a vocazione residenziale, ma dal­ l’aspetto completamente mutato. Le abitazioni in pietra erano state via via smantellate, sepolte nel terreno e sostituite da capanne di legno di varie dimensioni, in genere parzialmente interrate rispetto al piano di calpestio e circondate talora da muretti e cortili. Al centro di quest’area, intorno alla metà del vii secolo sarebbe stata costruita anche una piccola chiesa in muratura. Al momento dell’impianto del monastero di tutto ciò fu fatta tabula rasa, per poi procedere all’edificazione ex novo di una sorta di vero e proprio compound, allineato sul decumano maggiore e su uno dei cardines superiori del reticolo viario della città romana. Lo spazio destinato ad accogliere la comunità monastica femminile affidata alla figlia di Desiderio venne quindi a trovarsi isolato dal resto del territorio cittadino e gli edifici che lo costituirono formarono una sorta di vera e propria ‘città nella città’. È stata anche avanzata l’ipotesi che almeno parte di questi edifici, insieme alla chiesa più antica, abbia potuto preesistere alla fondazione del monastero e aver costitui­ to il nucleo di una curtis regia o di un precedente insediamento monastico, sorti in quell’area nella fase finale del vii secolo (Brogiolo 2014: 17). Come che sia, la realizzazione delle costruzioni monastiche marca un distacco netto rispetto alle fasi precedenti, per la monumentalità dei volumi architettonici edificati, per la loro qualità costruttiva e per l’apparente unitarietà progettuale della loro pianificazione62. Lungo l’allineamento del decumano maggiore, a partire dall’angolo che esso formava con il cardo e in direzione della porta urbana, si disposero dei blocchi architettonici, contigui l’uno all’altro e disposti ciascuno intorno a un cortile centrale a pianta quadrangolare e circondati da edifici; nel secondo di questi cortili sarebbe stato ospitato il cimitero della comunità monastica. Almeno in alcuni casi, i fabbricati che componevano i diversi blocchi erano articolati su due piani, con il

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superiore affacciato verso la corte interna attraverso un loggiato costituito da una sequenza di grandi finestre trifore e il piano terreno animato da un portico, aperto sempre sulla corte mediante grandi arcate, collocate ciascuna in corrispondenza della trifora soprastante. In uno dei corpi di fabbrica sono stati anche rintracciati i resti di un ipocausto, il che farebbe pensare che il complesso fosse dotato di una terma privata. Al di là dell’area cimiteriale – e quindi in corrispondenza del secondo blocco di edifici – fu costruita la nuova chiesa abbaziale dedicata al Salvatore, che sostituiva quella sorta nel vii secolo63. Oltre ad alcune parti dei corpi di fabbrica descritti in precedenza, la chiesa è l’unico elemento del monastero desideriano che sia giunto sino a noi sostanzialmente intatto e rivela pienamente il livello di splendore cui i regali committenti intendevano attestare l’intera impresa. La chiesa si presenta con un impianto assolutamente classico: è articolata in tre navate, ciascuna conclusa da un’abside; al di sotto di quella centrale è ricavata una cripta a sala, pensata evidentemente per deporvi delle reliquie (Brogiolo, Ibsen, Gheroldi 2008; Brogiolo 2014b). Le navate sono separate da colonnati realizzati con materiale di spoglio di qualità elevatissima, fra cui si annoverano alcuni preziosi capitelli ‘a paniere’ di età giustinianea consonanti con quelli di Parenzo e di Ravenna, quest’ultima appena conquistata dal re Astolfo, il quale, come ricorda il documento prima citato, era stato colui che aveva originariamente offerto a Desiderio il terreno su cui edificare il monastero (Panazza 1962: 2022; Molandini 2014). Altrettanto raffinata era la decorazione interna della chiesa: le pareti erano completamente affrescate, mentre stucchi arricchiti da inserti vitrei abbellivano i sottarchi, le ghiere dei colonnati, quelle delle finestre e, molto probabilmente, anche altre parti dell’edificio; anche la decorazione scultorea in pietra era del massimo livello qualitativo, sebbene sia impossibile, dato che nessuno dei frammenti sopravvissuti si trova ancora nella sua posizione originaria, ricostruire esattamente come fossero collocati all’interno dell’edificio, suddividendone lo spazio per ospitarvi le diverse funzionalità liturgiche (Peroni 1962; Panazza 1992; Bertelli 2000 e 2000b; Lomartire 2010; Ibsen 2014 e 2014b; Leal 2014; Mitchell 2014; Tonne 2014). Un altro aspetto del massimo interesse per il San Salvatore è costituito dalla presenza di alcune sepolture all’interno della chiesa (Strafella 2014). La più importante di esse è una grande tomba ad arcosolio incassata nel muro perimetrale sud della basilica, più o meno a metà della sua lunghezza, tradizionalmente identificata come il sepolcro riservato alla moglie di re Desiderio64. Le altre tre, invece, sono tombe a cassa dipinte internamente e collocate al di sotto del pavimento della navata maggiore, alla stessa altezza in cui si trova il grande arcosolio. Anch’esse avrebbero probabilmente dovuto ospitare i resti mortali di altri congiunti del re, facendo così della chiesa monastica – come già abbiamo visto in quelle francesi di SaintGermain-des-Près a Parigi e di Saint-Denis – una sorta di mausoleo della famiglia reale, ove si sarebbero dovuti deporre anche i resti del sovrano, se l’infelice conclusione del suo regno non avesse deciso per lui un destino diverso. 166

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La chiesa si apre all’esterno mediante due ingressi: uno collocato sul lato meridionale, presso le absidi, che attraverso la grande area cimiteriale all’aperto conduce in direzione del corpo di fabbrica centrale del monastero; l’altro si trova invece al centro del muro di facciata e doveva immettere in un’area aperta (probabilmente un atrio), che si collegava a sua volta con il più occidentale dei blocchi di edifici monastici allineati sul decumano massimo della città, ma di cui non è certo il collegamento con il cardo più vicino, che distava una trentina di metri (Brogiolo 2014c). Il dato che risalta di più è tuttavia quello del posizionamento della chiesa all’interno del complesso monastico. Essa era infatti collocata nella posizione più remota rispetto agli assi stradali dai quali – in un punto che non è stato possibile determinare – si doveva accedere al monastero. Ovunque fosse collocato l’ingresso, quindi, per raggiungere l’edificio di culto era obbligatorio percorrere gli spazi interni del monastero; questo diaframma fra la chiesa e l’esterno doveva costituire un filtro molto difficile da superare, tenendo anche conto che la comunità che abitava l’abbazia era femminile, il che rendeva ancor più drastica la necessità della sua separatezza. Una chiesa pur così splendida, quindi, non era stata pensata per essere ammirata da molti, ma costituiva una sorta di gioiello nascosto, la cui valenza risiedeva piuttosto nell’essere il dono più prezioso che gli augusti committenti avevano offerto alla comunità monastica, sua quotidiana fruitrice, per riceverne in cambio continua attenzione per la sorte delle loro anime. In altre parole, Dio, vedendo donare un edificio di tale bellezza perché fungesse da oratorium per una comunità di vergini che Gli si erano per sempre consacrate, avrebbe gettato un occhio benevolo sugli autori di un atto di così grande pietà, aiutato in ciò dalle voci che ogni giorno si sarebbero levate verso di Lui per ricordargliene il nome, nonché dalla presenza delle sacre reliquie deposte nella cripta. Purtroppo le esplorazioni archeologiche non hanno permesso di verificare il dato contenuto nel privilegio di Desiderio del 759, secondo cui all’interno dei claustra doveva essere presente più di un edificio di culto, anche se la possibilità che così effettivamente fosse è del tutto plausibile. Riassumendo, il monastero bresciano del Salvatore, sia se interamente edificato ex novo sotto Desiderio, sia se erede di un preesistente complesso palaziale, mostra in modo chiaro la ratio che presiedeva alla realizzazione di interventi di questo tipo. Anche se edificato nel bel mezzo di una città, peraltro profondamente trasformata nella sua struttura rispetto al passato di età romana (Brogiolo 1993), un monastero rimaneva sempre e comunque un luogo radicalmente distinto rispetto allo spazio che lo circonda e sostanzialmente impenetrabile per chi non appartenesse alla comunità. Eccezioni dovevano ovviamente applicarsi innanzitutto nei confronti di coloro che del monastero stesso erano stati i promotori e i finanziatori – e cioè la famiglia regnante –, ma dobbiamo immaginare che una comunità costituitasi sotto simili auspici dovesse aver rapidamente accolto le rappresentanti di molte altre famiglie importanti, che non dovevano aver mancato di fornire, a loro volta, ulteriore e ampio sostegno politico e materiale al cenobio (Pasquali 1992). 167

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Casi come quello del monastero di Brescia non erano isolati, poiché la più significativa differenza che il panorama italiano presenta rispetto a quello francese è che molte importanti fondazioni sorsero in ambito urbano. Soprattutto la capitale del regno, Pavia, e quella del ducato più meridionale, Benevento, ospitarono sin dalla fine del vii secolo monasteri sorti per volontà di re e duchi, posti entro la cerchia delle mura o nell’immediato suburbio. Si trattava prevalentemente di luoghi destinati ad ospitare comunità femminili, che evidentemente potevano trovare in un contesto urbano o suburbano condizioni di maggiore protezione e di più agevole raggiungibilità da parte delle famiglie da cui le monache provenivano. Abbazie come Sant’Agata al Monte, Santa Maria Teodote e San Pietro in Ciel d’Oro, fondate rispettivamente dai re Pertarito, Cuniperto e Liutprando in Pavia, o quelle beneventane di San Pietro presso il fiume Sabato, di cui fu promotrice la duchessa Teodorada alla fine del vii secolo, e di Santa Sofia, creata dal duca Arechi ii negli anni ’50 dell’viii, erano sicuramente destinate – come quella del Salvatore di Brescia – ad ospitare candidate piuttosto ben selezionate dal punto di vista sociale e che probabilmente, nonostante la segregazione claustrale, non si voleva recidessero completamente i propri legami familiari. Soprattutto sui monasteri femminili, in Italia come anche in Francia, gravava sempre un controllo più diretto da parte delle famiglie dei loro fondatori e quindi, quando fossero re e duchi a ricoprire tale ruolo, la costituzione di monasteri di questo tipo nella città che è loro sede di residenza doveva apparire una scelta pienamente comprensibile (Penco 1979; Le Jan 2001; La Rocca 2006)65. Un altro caso italiano in tal senso emblematico quanto quello del San Salvatore/Santa Giulia di Brescia è rappresentato dal monasterium puellarum di Cividale del Friuli, sorto probabilmente poco dopo la metà dell’viii secolo all’interno del complesso della curtis regia, installatasi nell’angolo sud-orientale del recinto urbano. Il celeberrimo ‘tempietto’, che ne occupa la parte più recondita posta a strapiombo sul fiume Natisone, è considerato, seppur non unanimemente, come il possibile oratorium della comunità monastica che lo abitava (Brogiolo 2001; Casirani 2002; Codini 2002; Lusuardi Siena 2002; Thorp 2006). Re e duchi non furono gli unici protagonisti della disseminazione di nuovi monasteri all’interno delle città dell’Italia longobarda, verificatasi soprattutto durante la prima metà dell’viii secolo, poiché le fonti ci parlano di altre fondazioni sorte a Milano, Verona, Vicenza, Treviso, Lucca, Pistoia e Rieti anche ad opera di persone che non ricoprivano cariche istituzionali di così alto rango (Penco 1983: 107120). Purtroppo, la scarsità dei dati archeologici non permette, se non in minima parte, di cogliere con adeguata precisione gli aspetti architettonici di queste fondazioni urbane. In alcuni casi, come in quello del monastero beneventano di Santa Sofia, è sopravvissuta la chiesa, la cui raffinatezza e originalità progettuale dimostra, forse ancor più di quanto visto per il Salvatore di Brescia, l’alto livello dell’investimento attuato dal duca Arechi ii (Carella 2011: 35-55). Ma tutto quanto rimane del 168

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monastero vero e proprio risale a epoche assai più tarde, il che rende impossibile comprendere come esso si articolasse in età longobarda, né quali connessioni vi potessero essere – se effettivamente ve n’erano – con il vicino palatium dei duchi. Com’è stato ben dimostrato analizzando la topografia di Pavia in età longobarda, le molteplici fondazioni di monasteri da parte di re e regine incisero profondamente nella struttura della città, riducendo in modo considerevole la disponibilità di aree libere edificabili all’interno delle mura e soprattutto nelle zone più prossime al circuito murario, che, come si è visto nel caso del monastero bresciano del Salvatore, erano probabilmente ritenute le più consone per dislocarvi insediamenti di questo tipo, al fine di garantire loro maggior quiete e riservatezza. In mancanza di dati archeologici è difficile dire se l’installazione di questi monasteri sia avvenuta soppiantando un precedente tessuto insediativo altomedievale o se invece essa abbia costituito il primo momento di rioccupazione di queste aree, dopo gli abbandoni dell’età tardoantica. Nel caso pavese, alle fondazioni monastiche è attribuito il ruolo di aver avviato il processo di riurbanizzazione delle aree esterne alle mura e di quelle ad esse più prossime, utilizzando terreni che erano apparentemente tutti nella disponibilità diretta dei sovrani (Hudson 1987: 247-254). In ogni caso, le nuove fondazioni monastiche produssero un impatto certamente rilevante sullo skyline di molte città. L’iscrizione funeraria di Teodote, datata intorno al 735, parla del monastero di Santa Maria, di cui ella era stata badessa, affermando:

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nel mondo non esistono edifici pari ad esso per bellezza, con la sola eccezione del palazzo dei re66

ed è evidente che, considerato nel suo insieme, il gruppo dei monasteri sorti nella capitale longobarda fra il vii e l’viii secolo rappresenta un cospicuo monumentum alla auto-commemorazione delle sue classi dirigenti e alla loro capacità di rendere la città degna del ruolo politico che era chiamata a svolgere (Majocchi 2008: 2737). Sempre rimanendo a Pavia, una delle fondazioni che presenta la storia più interessante è quella del monastero detto ‘di Senatore’. Questi era un personaggio molto probabilmente di famiglia romana, dato che, oltre a lui, anche il padre e la sorella avevano nomi latini. Nel 714, insieme alla moglie Teodolinda, decise di fondare un monastero in città, affidandone la guida alla figlia e facendovi entrare anche sua sorella67. Ad ospitare la nuova comunità fu destinata una dimora che egli aveva ereditato dai propri genitori, situata in pieno centro cittadino, ad un passo dalla cattedrale (la cui sede era stata trasferita poco prima entro le mura urbane) e dal palatium reale. La trasformazione di una dimora aristocratica in monastero ricorda situazioni già viste in età tardoantica e rappresenta invece un caso piuttosto raro per il periodo longobardo. Il monastero è sopravvissuto per un periodo molto lungo, ma nulla si conserva della sua fase più antica; l’unico dato che sembrerebbe poter169

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si attribuire al suo impianto originario è il fatto che esso occupava l’area di due insulæ dell’antico reticolo viario cittadino, interrompendo così il percorso di uno dei cardines (Bullough 1966: 98; Peroni 1975: n. cat. 105). Questa caratteristica potrebbe però costituire, a sua volta, un elemento che la proprietà di Senatore aveva ereditato da epoche anteriori, dato che in epoca tardoantica non sono infrequenti casi di dimore aristocratiche che occupano spazi, come vie e piazze, originariamente a destinazione pubblica (Marazzi 2010b). Il riutilizzo a fini monastici di un complesso abitativo privato in piena età longobarda si configura però in modi ben diversi rispetto a quelli visti nel periodo compreso tra iv e vi secolo, quando il regime entro cui si sarebbe dovuta condurre la vita ascetica appare in genere abbastanza poco definito. Come recita la carta di fondazione fatta stendere da Senatore e dalla moglie, in questo caso ci troviamo di fronte alla creazione di una comunità per il cui funzionamento è espressamente prevista l’adozione di una vita ‘regolare’, e che avrebbe avuto bisogno di veder trasformati gli spazi dell’antica dimora in quelli del proprio claustrum, ove vivere in piena autonomia anche se sotto la supervisione del vescovo. L’impianto del monastero dovette quindi comportare interventi significativi di ristrutturazione della domus dei genitori di Senatore, quanto meno per ricavare gli ambienti per l’alloggio delle monache, per la refezione comunitaria e per l’esercizio quotidiano della preghiera. Nel monastero trovarono ricetto anche le spoglie mortali dei fondatori, per i quali fu probabilmente allestito un qualche tipo di spazio funerario commemorativo; da lì proviene infatti la celeberrima lastra tombale di Senatore, vero e proprio capolavoro di sincretismo stilistico che unisce tra loro elementi epigrafici di chiara derivazione tardoantica con motivi decorativi più propriamente altomedievali (Peroni 1975: 27-28). Se è lecito proporre paralleli con esempi di domus tardoantiche convertite ad usi ecclesiastici (Guidobaldi 1986 e 1999), è forse possibile ipotizzare che la sala di preghiera delle monache potesse essere stata ricavata riutilizzando una sala di ricevimento, spazio che normalmente si trovava nelle parti più interne di questo tipo di complessi residenziali; è possibile quindi che una collocazione appartata dell’oratorium fosse stata mantenuta anche quando la dimora di Senatore era stata adattata al nuovo uso, come del resto abbiamo visto accadere per la chiesa del monastero del Salvatore a Brescia. L’ipotesi potrebbe trovare ulteriore forza prendendo in considerazione una delle fondazioni monastiche femminili di età longobarda sorte a Milano, a ridosso del tratto settentrionale delle mura tardoromane. Si tratta del complesso di Santa Maria di Aurona, dal quale proviene una copiosa messe di pezzi scultorei altomedievali che costituisce una parte rilevante delle attuali collezioni di materiali di questo tipo presenti nei musei del Castello Sforzesco (Dianzani 1989). Le notizie sulla sua fondazione sono piuttosto confuse, ma vi sono elementi concreti per ritenere che essa possa essere avvenuta al tempo di Liutprando. Il complesso monastico è oggi completamente scomparso, vittima di demolizioni ottocentesche, ma una pianta del xvi secolo permette di comprendere alcuni dettagli importanti sulla sua articolazione medievale. Tra questi, la posizione in cui era 170

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stata collocata la chiesa: anche in questo caso essa si trovava sul lato opposto a quello dal quale si accedeva al monastero, caratterizzandosi così, ancora una volta, come uno spazio difficilmente raggiungibile per chi non facesse parte della comunità (De Capitani d’Arzago 1944). La presenza di grandi monasteri all’interno o ai margini degli insediamenti urbani costituisce dunque un elemento che distingue il panorama italiano di età longobarda da quello della Frankia merovingia. La loro istituzione sembra dipendere sempre dall’intervento di un patronus socialmente rilevante, non di rado identificabile con i detentori del potere sovrano (re, duchi) e i loro più stretti familiari. Le città, insomma, appaiono come i luoghi in cui il monachesimo si sviluppa a seguito di interventi pianificati a livello politico e non come esito di iniziative spontanee di persone in cerca di una fuga mundi motivata da ragioni squisitamente spirituali. I casi che abbiamo esaminato (ma altri si sarebbero potuti aggiungere) costituiscono l’esito di interventi pianificati con cura per l’edificazione di una sede che non solo fosse idonea, ma riflettesse il prestigio del patronus. Vediamo perciò dispiegarsi investimenti economicamente assai impegnativi per l’erezione di chiese imponenti e splendidamente decorate, all’interno delle quali trova spazio la celebrazione della fama del committente. Il caso del cenobio bresciano del Salvatore mostra che non solo la chiesa, ma tutto il claustrum fu realizzato senza badare a spese, impiegando per tutti gli edifici materiali, come pietre e mattoni, che in questo periodo erano riservati solo alle imprese architettoniche di maggior rilievo, quali ad esempio le residenze dei maggiorenti laici ed ecclesiastici. Anche se le tracce archeologiche non sono altrettanto eloquenti, non vi è motivo di credere che tutti gli altri interventi di analoga natura direttamente patrocinati dai sovrani longobardi avessero prodotto esiti diversi. In ogni caso, benché la maggiore densità abitativa delle città non consentisse ai monaci di essere circondati da quelle ‘solitudini’ che le campagne potevano più agevolmente offrire, la struttura che i monasteri urbani sembrano aver assunto doveva permettere alle comunità di godere di un isolamento altrettanto efficace rispetto al mondo esterno. La delimitazione fisica dei confini dei monasteri appare netta e gli spazi della preghiera sono collocati al loro interno in posizione tale da escludere il loro utilizzo ordinario da parte un pubblico secolare. Durante l’viii secolo, nelle principali città dell’Italia longobarda i valori della spiritualità monastica si erano perfettamente integrati con quelli che componevano le diverse sfaccettature dell’identità aristocratica, fornendo soprattutto alla sua componente femminile un veicolo potente e inedito per affermarsi in posizioni circondate del massimo rispetto (Musardo Talò 2006: 105-118). L’importanza degli impianti monastici sorti entro le città non deve ovviamente far dimenticare che la maggior parte delle fondazioni note si trovava però al di fuori di esse. Nelle campagne i complessi monastici avevano maggiore possibilità di svilupparsi senza sottostare a particolari costrizioni spaziali, e la misura in

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cui erano in grado di espandersi dipendeva sostanzialmente dalle risorse su cui potevano contare e dalla valutazione che gli abati elaboravano riguardo alle esigenze della propria comunità e al progetto di vita consacrata verso cui esse tendevano. Come ha dimostrato il caso di Montecassino, per quanto riguarda le fondazioni di maggior rilievo sviluppatesi durante la prima metà dell’viii secolo, è probabilmente il concetto in sé d’insediamento monastico a non poter essere ristretto entro schemi tipologici troppo rigidi. Pur considerando che quasi nulla conosciamo sui dettagli relativi alla dislocazione degli edifici, sia sacri sia profani, è però evidente che il monastero nel suo insieme si era articolato da subito su due nuclei ben distinti fra loro, ma che componevano un insieme unitario dal punto di vista sia giuridico sia funzionale. Il già ricordato monastero di Nonantola sembra essersi caratterizzato, nelle sue fasi iniziali, come un insediamento libero di espandersi su un’area vasta, ma interdetta alle interferenze esterne, sul cui effettivo utilizzo da parte dei monaci purtroppo non disponiamo di dati sufficientemente chiari. La presenza di una pieve dedicata a San Michele, fondata nella seconda metà del ix secolo dall’abate Teodorico e posta a circa 200 metri dalla chiesa abbaziale, potrebbe costituire il segno di un limite stabilito in direzione del nucleo centrale dell’insediamento, costituito dal castrum monastico (Gelichi, Librenti 2008: 241; Gelichi 2013). Collocata in quella posizione, la pieve avrebbe consentito ai monaci di offrire assistenza pastorale alle popolazioni che vivevano nei dintorni del monastero, evitando che fossero utilizzati gli spazi di preghiera riservati alla comunità68. Una situazione analoga si verificò forse anche nel monastero friulano di Sesto al Reghena, fondato intorno al 750 da tre esponenti di una famiglia della locale aristocrazia69. Quando nel 762 essi dovettero lasciare la terra natia, probabilmente in seguito a contrasti di natura politica con re Desiderio, stilarono una lunga carta di donazione che aveva per obiettivo quello di assicurare alla propria fondazione un futuro certo, sia dal punto di vista patrimoniale, sia da quello spirituale e organizzativo. Il dato più interessante che questo documento, di controversa e difficile lettura, offre riguardo alla realtà materiale del monastero, è rappresentato dal passo in cui si dice che esso era sorto sul sito di una curtis. Le strutture monastiche si sarebbero quindi sovrapposte a quelle del centro di gestione di una preesistente azienda agraria, di cui la comunità aveva rilevato tutte le pertinenze (Spinelli 1999). È ipotizzabile che il territorio della curtis – o quanto meno le terre in diretta dipendenza del suo nucleo centrale – avesse costituito quella che possiamo definire l’‘area di rispetto’ del monastero, come sembra fosse accaduto a Nonantola? Purtroppo la fonte non ci permette di affermarlo con sicurezza, ma che allo spazio che circondava i monasteri potesse essere conferita una particolare qualità giuridica ce lo dice in modo chiarissimo un documento del 749, proveniente dall’archivio dell’abbazia di Farfa. Rispondendo a una richiesta dell’abate Fulcoaldo, il duca Lupo di Spoleto emise in quell’anno un mandatum con il quale si disegnava, intor172

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no all’insediamento monastico vero e proprio, un perimetro i cui vertici erano costituiti da strade e chiese e la cui linea costituiva un limite invalicabile per le donne, cui era anche esplicitamente vietato di utilizzare il monastero per pregarvi70. È probabile che a tale scopo fossero state destinate le chiese poste lungo le strade che conducevano al monastero, le quali costituivano alcuni dei varchi di accesso a questa sorta di ‘sacro pomerio’, eretto per isolare i monaci di Farfa da pericolosi contatti con l’esterno (Migliario 1988: 33-71). Il mandatum del duca Lupo precisava quindi che cosa dovesse effettivamente intendersi per claustrum monastico, tracciando una prima linea di demarcazione rispetto al territorio circostante, destinata a fungere da filtro nei confronti delle intromissioni che potevano essere considerate più nocive per il regolare svolgimento della vita consacrata. Agli individui di sesso maschile era evidentemente consentito di inoltrarsi oltre questo limite, poiché per la comunità sarebbe stato impossibile fare completamente a meno dell’apporto di persone reclutate nel sæculum per l’espletamento di mansioni di vario tipo, come il trasporto di materiali e derrate e l’esecuzione di lavori all’interno dell’abbazia. Se fossimo in grado di sapere come il cenobio farfense appariva durante l’viii secolo potremmo forse individuare, dentro questo primo recinto, il percorso di un altro perimetro che individuava gli spazi in cui solo i monaci potevano circolare, salvo che circostanze eccezionali, come ad esempio la costruzione di un nuovo edificio, richiedessero la temporanea rottura dell’isolamento assoluto. Come vedremo nel cap. sesto, nel ix secolo questo spazio era chiaramente definito e non è fuori luogo immaginare che lo fosse stato sin dalle prime fasi di vita del monastero farfense. Montecassino, Nonantola, Sesto e Farfa ci hanno aiutato a raccogliere informazioni utili su come si configurasse il ‘perimetro esterno’ dei monasteri che sorsero nelle campagne dell’Italia longobarda. Non abbiamo però ancora affrontato il tema di come si articolasse il cuore dell’insediamento monastico. A questo proposito ci soccorre la documentazione di San Vincenzo al Volturno. La cronaca che ne racconta le vicende, benché risalente agli inizi del xii secolo, descrive dettagli molto precisi su alcuni aspetti relativi ai primi decenni di vita del monastero, che, anche sulla base di riscontri forniti dagli scavi archeologici, possono essere considerati degni di fede (Marazzi 2010c). Riccamente dotato di beni fondiari dal duca di Benevento sin dall’indomani della sua fondazione avvenuta intorno al 700, il monastero crebbe rapidamente e Paolo Diacono, che lo visitò negli anni ’70 dell’viii secolo, lo vide già «risplendere di una grande comunità di monaci»71. L’insediamento si sarebbe sviluppato riutilizzando quanto rimaneva di un borgo rurale di età tardoantica, all’interno del quale doveva già sorgere una cappella che probabilmente costituì il primo luogo di culto utilizzato dalla comunità. Ma già intorno al 720 l’abate Taso lo dotò di una nuova chiesa, il cui altare principale era dedicato alla Vergine: era un edificio a tre absidi, cosa che si deduce perché il cronista specifica che, al suo interno, erano stati elevati anche altri due altari in onore rispettivamente dei santi Benedetto e Pancrazio72. Non più di una quindicina di anni 173

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dopo, Ato, il successore di Taso, fece costruire un’altra chiesa dedicata a san Pietro, che sino alla fine del ix secolo ebbe funzione cimiteriale, ospitando le spoglie di monaci e abati73. Infine, poco dopo il 780, al tempo dell’abate Paolo comparve presso il fiume Volturno una terza chiesa, dedicata anch’essa alla Vergine e che, per essere distinta da quella già esistente, prese il nome di Santa Maria Minore. Il monastero vulturnense alla fine dell’viii secolo era dotato quindi di ben quattro chiese. Di queste, gli scavi, che hanno riportato alla luce oltre un ettaro della superficie complessiva del complesso monastico, hanno potuto identificare quella di Santa Maria Minore e, forse, i resti del sacello che i tre monaci fondatori avevano già trovato sul posto74. Delle altre non si sono ancora trovate le tracce ed è quindi da immaginare che non fossero sorte vicino a queste due. Tale dettaglio fa presumere che il complesso monastico in pochi decenni si fosse esteso a coprire un’area abbastanza vasta, anche se non necessariamente tutta interamente edificata. Se, quindi, gli ulteriori e grandiosi sviluppi che il monastero conobbe a partire dagli inizi del ix secolo lo avrebbero fatto apparire come una vera e propria ‘città monastica’, quanto realizzato dagli abati dell’epoca longobarda aveva conseguito il risultato di realizzare per lo meno un ‘villaggio monastico’ di dimensioni abbastanza ragguardevoli. Questa ipotesi è stata rafforzata dai risultati delle indagini più recenti, che hanno mostrato come già nei decenni conclusivi dell’viii secolo fosse stato avviato un progetto piuttosto ambizioso e razionale di ampliamento del monastero. Il sito dell’abbazia occupa un’area pianeggiante, di forma vagamente trapezoidale, di circa cento per cinquanta metri di lato, compresa tra il corso del Volturno e una piccola collina. Su questo pianoro si estendeva l’insediamento tardoromano, che i monaci avevano certamente riutilizzato al momento del loro arrivo e che occupava anche le prime pendici della collina retrostante. Nella porzione più settentrionale di quest’area fu costruita la chiesa identificata come Santa Maria Minore e, accanto ad essa, si impiantarono apparentemente il primo refettorio e la cucina (Hodges 1995: 156-157). Si era così definito un settore dedicato alla vita comunitaria ed è probabile che anche la chiesa di Santa Maria Maggiore, utilizzata per le orazioni collettive, potesse trovarsi nei dintorni, forse su uno dei primi terrazzamenti del colle. Le crescenti esigenze prodotte dalla continua crescita del monastero imposero però di organizzare un quartiere interamente dedicato alla produzione dei materiali necessari alla costruzione dei nuovi edifici, come tegole e mattoni, e all’approvvigionamento degli strumenti, quali ad esempio gli utensili in ferro, utilizzati dagli artigiani – monaci e laici – che operavano nel cantiere abbaziale svolgendovi mansioni di fabbri, carpentieri, decoratori e muratori. La pianificazione complessiva dell’insediamento previde che questo settore, interessato da attività del tutto profane, benché essenziali alla vita del monastero, fosse collocato a debita distanza da quello in cui i monaci si riunivano per le preghiere e i pasti quotidiani. Le strutture delle officine furono così localizzate in un’area posta circa cento metri più a sud, evitando quindi, allo stesso tempo, che persone estranee alla comunità interferissero con luoghi e ritmi della vita consacrata e che rumori e odo174

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ri sprigionati dalle attività artigianali ne infastidissero la tranquillità e il decoro (Marazzi 2008). Non vi sono tracce evidenti del fatto che l’abbazia di San Vincenzo fosse stata dotata di recinzioni, ma, come a Farfa, anche intorno a San Vincenzo al Volturno sembra fosse stato creato uno ‘spazio di rispetto’. Gli insediamenti censiti nella piana che circonda il monastero e nel tratto più alto della valle del Volturno, infatti, sembrano tutti essere sorti ex-novo a partire dal x secolo, il che farebbe pensare che, precedentemente, nel territorio più prossimo all’abbazia la popolazione residente fosse piuttosto diradata (Marazzi 2012). Ciò che emerge con chiarezza dall’esame di tutti questi esempi è che i monasteri che sorsero nelle campagne assunsero una configurazione planimetrica piuttosto libera. L’abbondanza di spazio su cui potevano contare, frutto delle cospicue donazioni terriere di cui fruirono di solito sin dal momento della loro fondazione, permetteva di edificare insediamenti complessi, che si espandevano in modo considerevole e secondo modalità diverse da caso a caso e comunque senza seguire schemi standardizzati (Brenk 2000 e 2000b). Ciò non significa che non esistessero dei criteri o, se vogliamo, dei princìpi organizzativi che, pur nella peculiarità di ogni singolo contesto, trovavano un’applicazione abbastanza sistematica. Come si è visto per i monasteri cittadini, anche in quelli sorti in ambito rurale si prestava la massima cura per la preservazione della riservatezza dello spazio in cui i monaci dovevano vivere e operare. Ciò avveniva però attraverso soluzioni diverse da quelle che i confini più ristretti imposti da recinti urbani imponevano. Nelle campagne questo spazio si poteva dilatare per formare quasi una zona a corona del plesso di edifici in cui viveva la comunità; la porzione occupata da questi ultimi costituiva quindi solo una parte, anche se certamente baricentrica, dell’insediamento nel suo insieme. I suoi confini più esterni erano apparentemente immateriali, ma, allo stesso tempo, resi particolarmente saldi dalla specifica caratterizzazione giuridica che alle terre monastiche era conferita e dalla forza che questa traeva dalla volontà politica di chi proteggeva l’esistenza stessa dei monasteri. Nell’viii secolo erano ancora di là da venire gli sviluppi di tipo signorile che i monasteri avrebbero esercitato sulle proprie terre nei secoli del pieno Medioevo, ma è comunque chiaro il fatto che, all’atto della loro costituzione, si accompagnava la volontà espressa da parte dei loro fondatori e patroni politici di garantirne stabilità e inviolabilità, così da consentirne il quieto vivere e il positivo sviluppo materiale e spirituale (Grossi 1957). Sia i monasteri irlandesi sia, soprattutto, le grandi fondazioni della Francia merovingia avevano espresso un’analoga concezione dello spazio monastico, disegnando sul terreno insediamenti complessi e articolati intorno a diversi nuclei funzionali, all’interno dei quali potevano anche sorgere molteplici luoghi di culto. Tutto ciò lascia immaginare che l’obiettivo fosse quello di realizzare l’idea, già presente nelle esperienze orientali tardoantiche, di considerare il monastero come un luogo destinato a replicare la configurazione di una città. Ma la differenza non se175

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condaria, rispetto a quelle già esistenti nel secolo, è che queste nuove città erano costruite con l’unico scopo di celebrare Dio, attraverso opere e preghiere (Romanini 1987: 425). Coloro che ne componevano la popolazione erano perciò persone che, per potervi esercitare il proprio diritto di cittadinanza, avevano scelto di rinchiudersi al loro interno evitando ogni possibile contatto con chi era rimasto coinvolto negli affari del mondo, affinché la totale concentrazione sull’opus Dei non avesse a subire alcuna interferenza. Ecco, quindi, che il microcosmo interno di un monastero è schermato da una serie di barriere e di filtri che, sotto forma di delimitazioni più o meno materialmente visibili, ne recingono e ne proteggono i confini (Destefanis 2011). Ci fornisce un’impressione precisa del significato di questa separazione dello spazio monastico rispetto all’esterno il fatto che esso, come testimoniano le fonti già a partire dal vii secolo, fosse considerato un luogo ottimale in cui chi deteneva il potere potesse relegare i propri oppositori e, specularmente, dove decidesse di rifugiarsi (o di autoesiliarsi) chi avesse subito rovesci politici, ma cercasse comunque di avere salva la vita (De Jong 2001). Evidentemente, l’idea che l’ingresso in una comunità monastica costituisse un passo irrevocabile d’accesso entro un ambiente che faceva dell’isolamento dall’esterno la propria regola doveva rappresentarsi con tale chiarezza da farne discendere la conseguenza che, una volta che qualcuno si fosse visto imposto o avesse liberamente scelto l’abito monastico, non sarebbe stato più in grado di tornare al mondo per rioccuparvi la posizione precedentemente detenuta. Parimenti, il fatto che tale ambiente fosse secretus rispetto al mondo e inviolabile in virtù della particolare sacralità che i suoi confini custodivano, poteva costituire un limite sufficiente perché essi non fossero oltrepassati da coloro che, coltivando desideri di vendetta, volessero mettere le mani su qualcuno che vi fosse entrato per cercarvi salvezza. Alla vigilia della conquista dell’Italia da parte dei Franchi i territori longobardi mostravano una fioritura numericamente e qualitativamente rilevante di fondazioni monastiche. Molte di esse non raggiunsero mai il rilievo spirituale, economico e politico che caratterizzò quelle sulle quali qui ci si è più a lungo soffermati. Nonostante queste differenze, è però chiaro che nella seconda metà dell’viii secolo la presenza dei monasteri costituiva un dato caratterizzante del panorama religioso di tutte le regioni entrate nell’orbita longobarda. Le fondazioni di cui abbiamo traccia documentaria costituiscono realtà sorte ex novo in questo periodo, nel senso che nessuna sembra aver conosciuto una continuità di vita fra il periodo anteriore e quello susseguente l’arrivo dei Longobardi in Italia. Anche luoghi come Montecassino o Farfa, che avevano visto impiantarsi presenze monastiche già nel vi secolo, erano poi ‘risorti’ alla vita ascetica dopo che essa aveva conosciuto un’interruzione di oltre un secolo. E le modalità stesse di queste ‘rinascite’ mostrano, come abbiamo visto, caratteristiche profondamente diverse rispetto alle esperienze più antiche. A Farfa non è neppure chiaro se nel vi secolo si fosse sviluppata una vita cenobitica vera e propria (Leggio 2006), mentre sui primordi della comunità di Montecassino e sull’opera e la figura dello stesso 176

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Benedetto pesano incertezze notevolissime (Arnaldi 2007). Tuttavia, anche prendendo interamente per buone le narrazioni sulle origini tardoantiche dei due monasteri è chiaro che essi, in quella fase, non godettero in alcun modo del sostegno dei vertici politici del tempo, cosa che invece caratterizzò la loro vicenda fra lo scorcio del vii e la prima metà dell’viii secolo, quando i duchi di Spoleto e Benevento intervennero fornendo il loro patrocinio politico ai primi abati e dotando le comunità di cospicui mezzi economici. Abbiamo visto che proprio il tratto rappresentato dalla mobilitazione dei membri dei ceti egemoni in favore della nascita e della crescita dei nuovi monasteri, e il legame diretto che essi mantengono con queste ultime, costituisce un connotato caratterizzante delle abbazie che sorgono nell’Italia longobarda. Questo dato, però, di per sé non rappresenterebbe in assoluto un elemento di novità. Anche in età tardoantica, infatti, non erano mancati numerosi esempi di aristocratici che avevano promosso la fondazione di comunità monastiche, magari entrando a loro volta a farvi parte. L’elemento nuovo, invece, è da vedersi piuttosto nel fatto che la partecipazione aristocratica sembra coniugarsi con progetti di vita monastica caratterizzati da una forte capacità organizzativa interna (la scelta di vivere secondo una Regola) e dalla ricerca di una condizione di autonomia giuridica e operativa (dai vescovi e dai rappresentanti locali del potere laico) entro cui i monasteri avrebbero dovuto sviluppare il proprio cammino. Nell’viii secolo la cornice entro cui tale autonomia s’inquadra è ancora piuttosto embrionale, ma è evidente l’attenzione che le carte di fondazione di molti monasteri dedicano nel sottolineare che nell’elezione dell’abate e nella gestione dei patrimoni fondiari le comunità avrebbero dovuto agire nella massima libertà, dimostrando però di essere all’altezza dei princìpi di moralità che ci si aspettava di veder posti in atto da persone consacrate a Dio. Anche in questo senso, sarebbe erroneo pensare che tutti i monasteri dell’Italia longobarda rispondessero in modo omogeneo a tali parametri. La realtà era probabilmente assai diversificata e, di certo, erano avvantaggiati i monasteri nati sotto l’egida di protettori potenti, i quali ben volentieri si adoperavano per tutelare le proprie fondazioni da intromissioni di soggetti terzi, in modo che potesse mantenersi intatto il rapporto privilegiato tra il fondatore e il suo entourage familiare da un lato e la comunità monastica dall’altro. Forse, le condizioni di autonomia in cui poterono svilupparsi i monasteri dell’Italia longobarda poterono trarre profitto anche dal fatto che le strutture della Chiesa secolare, pesantemente disarticolate dall’impatto dell’invasione longobarda, nel corso del vii secolo dovettero compiere a loro volta un lungo cammino di ricostruzione, con la progressiva riattivazione di molte sedi episcopali rimaste prive di titolare per diversi decenni. Tuttavia, i tratti distintivi del monachesimo longobardo richiamano situazioni già viste nella Gallia merovingia, a partire soprattutto dal momento in cui iniziò ad esercitare un ascendente indiscutibile la concezione della vita cenobitica di cui erano stati portatori i monaci irlandesi sbarcati sul continente. È forte perciò la tenta177

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zione di immaginare che esso abbia acquisito i caratteri che fonti scritte e archeologia tratteggiano in conseguenza dell’influsso esercitato dal capostipite monastero di Bobbio, fondato da Colombano, ma anche da altre presenze di matrice ‘irofranca’, come quella rappresentata dal monaco Frediano, attivo a Lucca alla fine del vi secolo (De Conno 1991: 101-103). Non va poi dimenticato che, tra la fine del vii e gli inizi dell’viii secolo, in alcuni dei principali monasteri dell’Italia centro-meridionale si registra una rilevante presenza di monaci venuti d’Oltralpe. A Farfa essa appare sin dalla rinascita del monastero, dato che il primo abate, Tommaso, sarebbe stato originario della Savoia; dopo di lui, tutti i successori in carica nell’viii secolo, con poche eccezioni, avrebbero a loro volta avuto i propri natali nel regno franco, fra l’Aquitania e la Savoia (Schuster 1921: 21-62). A Montecassino e a San Vincenzo al Volturno, l’ingresso di elementi alloctoni all’interno della comunità avviene in maniera più progressiva e senza che alcuno di essi raggiungesse la dignità abbaziale anteriormente alla caduta del regno longobardo. I Transalpini che entrarono a far parte delle comunità cassinese e vulturnense furono però talora personaggi di primissimo piano: a tal proposito basti ricordare la presenza a San Vincenzo al Volturno del teologo Ambrogio Autperto e, a Montecassino, quelle del già ricordato monaco anglosassone Willibald, che sarebbe poi divenuto stretto collaboratore di Bonifacio nella cristianizzazione della Germania, del bavarese Sturmi, altro importantissimo sodale di Bonifacio e futuro abate del monastero tedesco di Fulda, ai confini delle terre conquistate dai Franchi, e infine quella di Carlomanno, fratello di Pipino il Breve e zio di Carlo Magno, ritiratosi nel cenobio laziale nel 772 (Houben 1987). Sottolineare il dato di queste presenze non significa proporre un’improbabile ‘franchizzazione’ del fenomeno monastico dell’Italia longobarda, bensì semplicemente ammettere che esse abbiano potuto contribuire a far conoscere e apprezzare idee ed esperienze maturate nelle loro terre di origine presso i monaci italo-longobardi e i loro patroni. Nelle terre dei Romani: monasteri dell’Italia bizantina (secoli vi-ix) L’invasione longobarda dell’Italia, avvenuta nel 568, e le successive espansioni territoriali realizzate dai re di Pavia e dai duchi di Spoleto e Benevento non riuscirono a ottenere la totale sottomissione della penisola. I Bizantini conservarono sino alla metà circa dell’viii secolo il controllo di diverse aree, dalla costa veneta alla Romagna e alle Marche settentrionali, dal Lazio ad alcuni settori dell’Umbria, dalla regione napoletana alla Calabria, dalla Puglia meridionale alla Sicilia. Anche dopo la conquista di Ravenna, avvenuta nel 751 per mano del re Astolfo, tutte le enclave bizantine del centro-sud rimasero immuni dalla soggezione ai Longobardi, anche se in alcuni casi (come in quelli di Roma e Napoli) s’incamminarono più o meno rapidamente verso lo scioglimento dei 178

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propri legami di diretta dipendenza da Bisanzio (Ravegnani 2004: 135-144; Marazzi 2011b). Una parte consistente della penisola seguì quindi un percorso che, sul piano politico-istituzionale, si poneva in continuità con gli equilibri raggiunti all’indomani della riannessione all’Impero avvenuta in seguito alle guerre scatenate dall’imperatore Giustiniano contro i Goti e che avevano previsto il ripristino del funzionamento delle istituzioni statali tardoromane. In realtà, il ritorno allo status quo ante si rivelò ben presto, e per diverse ragioni, molto difficile: vent’anni di guerre avevano profondamente disarticolato la compagine sociale della penisola ed era divenuto quanto mai problematico trovare le persone e le risorse necessarie al ripristino del regolare funzionamento della burocrazia civile. In più, alla conquista non seguì una vera e propria pacificazione dell’Italia: al nord rimanevano sacche di resistenza dei Goti e lungo la frontiera nord-occidentale si verificavano continui sconfinamenti da parte dei Franchi; ma soprattutto, appena tredici anni dopo la conclusione delle ostilità con i Goti, alle frontiere orientali si affacciarono i Longobardi, che dilagarono rapidamente dalla Pianura Padana sino alla Campania. A tutto questo si aggiunga che i Bizantini, a partire dall’ultimo quarto del vi secolo, dovettero fronteggiare pericoli sempre più rilevanti lungo i confini danubiano e orientale, che minacciavano il cuore stesso dell’Impero, e che produssero alla fine il risultato della perdita dei Balcani e di tutte le regioni comprese tra la Siria e l’Egitto. Le aree italiane rimaste in mano all’Impero si trovarono così relegate in una posizione periferica e permanentemente instabile, per cui non solo non fu possibile ripristinarvi condizioni di vita civile paragonabili a quelle, pur non esaltanti, dei decenni anteriori alla guerra gotica, ma anzi si produsse una progressiva militarizzazione della società, determinata dall’esigenza di resistere alla costante minaccia rappresentata dalla presenza longobarda (Brown 1984). Date queste precarie condizioni generali, anche nelle aree non assoggettate ai ‘barbari’ il periodo tra lo scorcio finale del vi secolo e la prima metà del vii fu caratterizzato da un sensibile e generalizzato regresso materiale, tanto che le condizioni concrete di vita degli abitanti, sia delle regioni longobarde dell’Italia sia di quelle bizantine, per molti aspetti non dovevano differire tra loro in maniera significativa. Nonostante ciò, si possono cogliere alcune diversità tra le due aree. Per quel che qui ci interessa, la più rilevante tra esse è rappresentata dal destino toccato alle istituzioni ecclesiastiche. La rete delle sedi diocesane, infatti, non subì lacerazioni significative e, soprattutto nelle città principali, prime fra tutte Roma, Ravenna e Napoli, questo significò una sostanziale continuità delle forme organizzate della vita religiosa. Per quanto riguarda in particolare lo sviluppo della vita monastica, essa in questo periodo procede secondo le modalità già viste per l’età tardoantica, soprattutto in rapporto all’organizzazione delle comunità e ai rapporti che esse stabilivano con le gerarchie della Chiesa secolare75. 179

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Per quanto riguarda Ravenna, ad esempio, il periodo compreso tra la fine del vi e la metà dell’viii secolo offre, attraverso le testimonianze delle fonti scritte, diverse attestazioni di monasteria dislocati fra l’area urbana e il sobborgo di Classe. Analizzato caso per caso, il senso che in esse assume il termine monasterium oscilla però fra quello di semplice annesso di un edificio religioso di maggiore importanza, quello di edificio religioso di fondazione privata e di utilizzo ristretto alla cerchia del fondatore, e quello di luogo di residenza di piccoli gruppi di persone impegnate in attività assistenziali ovvero in mansioni di servizio presso le chiese urbane. In genere, in questi ultimi casi, che quanto meno configurano l’esistenza di una comunità, la persona che era incaricata del loro coordinamento riceveva sì la titolatura di abbas, ma era spesso un membro del clero secolare, mentre i loro componenti non risultano in genere denominati come monachi, ma erano definiti con termini più generici, quale ad esempio quello di deservientes. In altre occasioni, infine, si ha addirittura l’impressione che il termine monasterium potesse designare un luogo, più o meno organizzato in forma stabile, di residenza collettiva per chierici secolari (Morini 1992; Novara 2003). Roma presenta un quadro simile, anche se più articolato, forse in ragione della maggior ricchezza di fonti disponibili. Esse attestano che, fra vi e viii secolo, l’Urbe si popolò di diverse decine di insediamenti monastici, il cui numero fu in costante crescita, sino a raggiungere quasi le quaranta unità all’inizio dell’età carolingia (Ferrari 1957; Grégoire 1981). Tuttavia, come notava Guy Ferrari, di regola «i monasteri di Roma dovevano essere piuttosto piccoli, talora apparendo più come delle case di canonici al servizio delle basiliche, che vere e proprie comunità di monaci» (Ferrari 1957: xix). E in effetti la maggior parte di quelli censiti risulta costituita soprattutto da istituti destinati a fungere da supporto alla gestione delle basiliche suburbane e delle chiese titolari romane, in virtù della loro funzione di luoghi di pellegrinaggio, che anche molte chiese urbane andarono acquisendo fra tardo vii e ix secolo, mano a mano che dai cimiteri posti al di fuori delle mura vi furono traslate le reliquie dei santi cui esse erano dedicate (Milella 2008). I monasteri di questo tipo, attestati in taluni casi già in età tardoantica, sono ricordati nelle fonti in modo piuttosto intermittente, ma talora i pur laconici accenni di cui sono oggetto forniscono qualche spunto per capire qualcosa della loro organizzazione materiale (Ermini Pani 1981). Ad esempio, nel caso del monastero sorto verso il 720 nella Suburra presso la basilica di Sant’Agata dei Goti, la comunità si insediò all’interno di un preesistente edificio abitativo, che dovette subire interventi di ristrutturazione necessari a ricavarvi i cœnacula (probabilmente le celle) che avrebbero dovuto ospitare i monaci. Circa un secolo più tardi, anche presso la chiesa di Santa Maria in Trastevere fu compiuta un’operazione analoga, con l’edificazione di habitacula per i monaci posti in aree aperte e inutilizzate adiacenti alla basilica. Vi è anche qualche esempio di monasteri sorti presso aree funerarie suburbane di cui evidentemente era perdurata la frequentazione in età altomedievale. Uno di questi è stato identificato presso il cimitero di Sant’Ermete, sulla via Salaria, il cui princi180

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pale luogo di culto è costituito da una basilica ricavata nel sottosuolo, presso la tomba del martire. Nel terreno soprastante sono stati individuati i resti di una cappella in cui sopravvivono tracce di pitture, tra cui un’effigie di san Benedetto, databili al tardo viii secolo: la cosa ha fatto pensare che, quando papa Adriano i (772795) fece eseguire presso il cimitero dei lavori di restauro, fosse stata contestualmente istituita sul posto anche una piccola comunità di monaci, e che il sacello con le pitture fosse l’oratorio a loro riservato76. Durante il vii secolo sulla scena romana appare anche un altro tipo d’istituzione, operante entro il quadro organizzativo della Chiesa secolare, ma che si sarebbe caratterizzato per una stretta connessione con ambienti monastici: si tratta delle cosiddette diaconiæ, la cui prima menzione si trova nella biografia di papa Benedetto ii (684-685) inserita all’interno del Liber Pontificalis, testo che raccoglie tutte le vitæ dei pontefici romani sino alla fine del ix secolo77. La presenza di diaconie a Roma è attestata durante l’viii secolo e per buona parte del ix. Soprattutto durante l’vii secolo si registrano casi in cui la fondazione e la dotazione finanziaria di alcune di esse ha visto sicuramente il concorso di personaggi laici, che, con il consenso dei pontefici, ne hanno curato anche la gestione. Il loro compito consisteva nel fornire servizi assistenziali alla popolazione cittadina e, probabilmente, anche ai pellegrini che affluivano sempre più numerosi in città per visitare le tombe dei martiri. Come avveniva presso le basiliche, anche le diaconie avrebbero utilizzato personale monastico per lo svolgimento delle proprie funzioni. Presso ognuna di esse sarebbero esistiti locali per l’accoglienza e l’assistenza delle persone bisognose, una chiesa per il culto e locali per alloggiare il personale monastico di servizio (Falesiedi 1995: 83-115; Dey 2008). Come per i cosiddetti monasteri basilicali, anche per le diaconiæ si pone il problema dell’effettivo status dei monaci che vi operavano e vi sono dubbi perfino sul fatto che costoro potessero essere realmente considerati tali. Ma la funzione dei monasteri romani sembra essersi spinta oltre la sfera dei servizi di accoglienza e assistenza alle persone. Alla fine dell’viii secolo papa Adriano i (772-795) ricostruì un monastero, detto di San Lorenzo in Pallacinis, posto tra le rovine di edifici residenziali adiacenti al complesso del teatro di Balbo, nel Campo Marzio78. Le sue origini dovevano tuttavia risalire almeno al pieno vii secolo, poiché le indagini archeologiche condotte nell’adiacente esedra del giardino porticato che affiancava l’edificio del teatro hanno riportato alla luce una discarica di rifiuti, formatasi a due riprese tra la fine del vii secolo e il 730 circa, nella quale è stata rinvenuta un’incredibile varietà di materiali. Per molti di essi (ad esempio, finiture in metallo per l’abbigliamento e l’armamento individuale, oggetti in osso per la cura personale e piccola gioielleria) si è ritenuto che potessero essere riferibili a produzioni realizzate in laboratori artigianali attivi all’interno dello stesso monastero e che operassero su committenza pontificia (Manacorda 1995 e 2001; Giannichedda, Mannoni, Ricci 2001). La presenza monastica nell’Urbe altomedievale si sostanzia tuttavia anche di re181

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altà meno indefinibili dal punto di vista della struttura giuridica e della organizzazione della vita regolare. Le fonti riportano infatti diverse menzioni di monasteri che, senza alcun dubbio, erano sorti per perseguire la finalità di aggregare al proprio interno comunità dedite solo alla vita ascetica, senza che ad essa si sovrapponesse lo svolgimento di altre mansioni. Anch’essi operavano tuttavia in un quadro di stretta interazione con il papato, mostrando come in questi secoli a Roma non fosse neppure immaginabile il sorgere e lo svilupparsi di una comunità monastica senza il consenso della massima autorità religiosa cittadina e in autonomia da essa. In molti casi furono i papi stessi promotori e mecenati di questi pii sodalizi, preoccupandosi di assicurare loro la protezione da interferenze di altri soggetti che potessero minacciarne la vita regularis e la stabilità materiale, ma ciò avvenne spesso in un quadro di forte interazione anche con i ceti aristocratici urbani. Prima ancora di accedere al soglio pontificio (nel 590), Gregorio Magno aveva convertito la propria dimora familiare, posta sul colle Celio, in un monastero nel quale egli stesso si era ritirato per condurvi vita ascetica e che avrebbe continuato a sostenere anche dopo la sua elezione (Ermini Pani 1981: 35-39; Filetici, Palazzo, Pavolini 2003; Bartola 2007). Non è del tutto chiaro se sin dall’inizio esso fosse stato organizzato come una vera e propria comunità cenobitica, ma, come si è visto al cap. 3, a Roma vi era una lunga tradizione, presso gli esponenti delle categorie sociali più elevate, di partecipazione a iniziative volte a trasformare edifici già a uso residenziale in luoghi di ascesi (Giuntella 2007). La fondazione gregoriana si colloca certamente in questo solco, poiché lo stesso pontefice proveniva da una famiglia di antica nobiltà senatoria. Egli però impresse a questa tradizione tratti di novità, poiché la sua preoccupazione fu quella di garantire al suo monastero uno status ben riconoscibile fra le istituzioni religiose cittadine. Analoga attenzione il papa mostra nel 596 in occasione dell’istituzione di un monastero presso le terme di Agrippa, nel Campo Marzio, che si è recentemente voluto riconoscere in quello che avrebbe ospitato la comunità esule da Montecassino (rdim 2002: 84). Il papa è il regista indiscusso dell’insediamento di questa nuova cellula ascetica in città, che trova spazio in una domus cum horto, badando tuttavia a rendere ben chiara l’autonomia di cui l’abate avrebbe dovuto godere nella gestione della sua vita religiosa79. Anche successivamente, nell’viii e nel ix secolo, i papi provennero spesso dalle famiglie dell’élite cittadina, riorganizzatasi e ricompostasi nel corso del vii secolo all’interno dei ranghi dell’articolazione locale del potere bizantino (Marazzi 2001). Per questa ragione, alcuni monasteri sorti in questo periodo, pur se sotto l’egida di un pontefice, possono essere considerati a tutti gli effetti come fondazioni di tipo aristocratico, cui i patroni attribuirono, oltre che una sede in città, anche significative dotazioni di beni immobili (case e terre) situati entro e fuori le mura, appartenenti in origine sempre al loro patrimonio familiare. Il caso forse più interessante tra queste fondazioni che potremmo definire papali-aristocratiche è quello del monastero intitolato ai santi papi Stefano e Silve182

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stro. Esso nacque intorno al 760 per volere di papa Paolo i (757-767), fratello del predecessore sul soglio di Pietro, Stefano ii (752-757). Era situato nell’area della via Lata, che costituiva il tratto urbano della via Flaminia corrispondente all’attuale via del Corso, dove i due pontefici possedevano un imponente complesso residenziale, da tempo proprietà della loro famiglia. Fondando il monastero, il papa intendeva innanzitutto renderlo luogo di custodia delle reliquie dei due santi eponimi che, collocate in precedenza presso alcuni cimiteri suburbani, erano da lui state fatte trasferire entro le mura a causa della situazione di abbandono in cui quelli ormai versavano, aggravata dai danni inferti a diverse zone circostanti la città dall’assedio portato qualche anno prima dal re longobardo Astolfo. Il monastero ha avuto vita lunghissima e ciò deve essere dipeso dal fatto che, nonostante sia sorto sotto l’egida pontificia, non fu concepito come una mera struttura di supporto all’espletazione di altri servizi di tipo liturgico o assistenziale, bensì come una vera comunità monastica, dotata di un proprio abate e di un cospicuo patrimonio, di cui Paolo i decretò l’assoluta inviolabilità. Il pontefice le attribuì il compito di elevare incessantemente il canto di preghiera per l’anima del papa e «per l’accrescimento e la stabilità della res publica», e cioè per la conservazione della sovranità che i pontefici, proprio in quegli anni, stavano iniziando ad esercitare concretamente su Roma e sul suo territorio, subentrando ai Bizantini (Federici 1899). L’area ove la comunità si stabilì è ben nota, poiché la chiesa e il monastero di San Silvestro, benché profondamente trasformati, sono quelli che si affacciano sulla piazza omonima, nel pieno centro di Roma a pochi metri di distanza da piazza Colonna. Il documento di fondazione ricorda solo che il monastero, dotato di una nuova chiesa fatta costruire dal pontefice, s’installò nella casa che il papa aveva ricevuto in eredità dai genitori e nella quale egli stesso aveva visto la luce. Tuttavia, la vita di Paolo inserita nel Liber Pontificalis fornisce altri particolari sulla struttura del monastero. L’area del complesso, definita claustra monasterii, era delimitata da mura (mœnia); al suo interno, oltre alla basilica dedicata a Stefano e Silvestro, che il papa aveva fatto edificare senza badare a spese abbellendola con marmi e mosaici, fu costruito anche un oraculum, posto in superioribus monasterii, entro cui vennero collocate le reliquie dei due santi80. Le parole del biografo di Paolo lasciano quindi intravvedere uno spazio ben separato dall’ambiente esterno, all’interno del quale si trovavano almeno due luoghi di culto. Di essi, uno – la basilica dei Santi Stefano e Silvestro – era probabilmente utilizzato per servizi religiosi aperti al pubblico, mentre l’altro – l’oraculum – custodiva le reliquie e doveva costituire un ambiente di dimensioni più piccole rispetto alla basilica. Esso era riservato ai soli monaci e doveva essere stato ricavato in locali posti al primo piano della domus donata da Paolo i. Così farebbe infatti presumere l’espressione in superioribus monasterii e nella stessa direzione spingerebbero anche sia i numerosi accenni presenti nelle fonti romane altomedievali, sia alcuni importanti ritrovamenti archeologici effettuati nella città, che mostrano come le dimore degli esponenti dell’aristocrazia altomedievale, che i documenti definiscono con il termine di domus solaratæ, fosse183

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ro spesso caratterizzate dalla presenza di corpi di fabbrica disposti almeno su due livelli (Meneghini, Santangeli Valenzani 2004: 34-40). Un dato di sicuro interesse è quello relativo alla collocazione delle reliquie dei due santi pontefici cui il cenobio era dedicato: anziché nell’edificio più grande e prestigioso, esse furono ospitate nell’oratorio riservato ai monaci e perciò di norma inaccessibile a pellegrini e visitatori esterni. Ancora una volta, quindi, la presenza delle reliquie all’interno di un monastero non avrebbe avuto il valore di promuoverne la frequentazione come centro di pellegrinaggio, ma piuttosto quello di essere elemento mediatore fra la preghiera dei monaci e l’ascolto ad essa offerto dalle Potestà celesti. Purtroppo, la fonte non ci offre altri indizi per capire come la dimora della famiglia del papa fosse stata riadattata per accogliere la comunità dei monaci e per fornirli di tutti gli spazi necessari alla sua vita quotidiana, come il refettorio e il dormitorio. Certo, doveva trattarsi sicuramente di una sistemazione migliore rispetto a quella che, nel ix secolo, erano riusciti ad adattare i monaci del cenobio di San Basilio in Scala Mortuorum, ricavato nelle rovine del tempio di Marte Ultore, al foro di Augusto: una piccola struttura a pianta rettangolare, di 20 × 40 metri di lato. L’aspetto interessante che presenta la planimetria di questo monastero, ricostruita dagli archeologi, è quello della posizione del piccolo oratorio, situato a ridosso della cella del tempio e apparentemente accessibile solo dal piccolo cortile interno che la separava dal fabbricato, probabilmente articolato su due livelli, in cui erano ricavati i locali per la vita comunitaria e dove dovevano trovarsi gli unici accessi dall’esterno (Meneghini, Santangeli Valenzani 2004: 99-101). Tornando per un attimo al caso del monastero dei Santi Stefano e Silvestro de Capite, esso merita interesse anche perché la comunità che vi andò a risiedere sarebbe stata costituita da monaci di origine orientale e di lingua greca. Non fu questa l’unica fondazione romana abitata da persone provenienti dai territori del Mediterraneo orientale perché, tra la metà del vii e la metà del ix secolo, le fonti ne attestano quasi una quindicina distribuite nelle varie regiones della città, più una situata nel suburbio, lungo la via Laurentina, detta dei Santi Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias, (Sansterre 1988; Falla Castelfranchi 2000). L’origine geografica di queste comunità era assai variegata, così come furono fattori storici diversi a determinare l’arrivo e l’impianto a Roma di monaci grecofoni. Esse erano composte da individui provenienti dall’Armenia, dalla Cilicia, dall’Alta Mesopotamia, dalla Palestina e dalla stessa Costantinopoli. Sicuramente la migrazione dall’Oriente di queste persone, avvenuta a ondate successive, è da collegarsi ai maggiori sconvolgimenti politici e militari attraversati dall’Impero bizantino: dalle guerre persiane della prima metà del vii secolo alla conquista islamica delle province orientali, avvenuta negli anni ’40 e ’50 dello stesso secolo, alle diverse crisi di natura religiosa (come quelle monotelita e iconoclasta) che squassarono la Chiesa bizantina tra la fine del vii secolo e la prima metà del ix. Questi monasteri ‘orientali’ sembrano aver costituito il vero fulcro della vita ascetica della città. Anche se per la fondazione e la dotazione economica di molti di essi furono i pontefici a impegnarsi in pri184

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ma persona, ciò non sembra averne limitato l’attività nello stretto perimetro dello svolgimento di mere funzioni di supporto alle esigenze della Chiesa secolare. Al contrario, le comunità ellenofone di Roma hanno costituito presenze intellettuali rilevanti e fra viii e ix secolo sono stati frequenti i casi in cui loro membri sono stati utilizzati dai pontefici per riceverne consiglio e assistenza, sul piano diplomatico e teologico, nella gestione delle frequenti crisi apertesi con l’impero bizantino. Tra questi, spiccano i monaci del monastero di San Saba, fondato sul Piccolo Aventino nella seconda metà del vii secolo da esuli provenienti dalla Palestina, che furono coinvolti in delicate missioni diplomatiche a Costantinopoli durante il periodo della crisi iconoclasta. Il monastero di San Saba è anche uno dei pochi di cui si siano riconosciuti alcuni resti materiali, che hanno permesso di stabilire che la comunità si era insediata all’interno di una domus tardoantica. La sala di rappresentanza del complesso, a pianta basilicale, fu trasformata in una cappella utilizzata anche per seppellire i monaci defunti, le cui tombe, per mancanza di spazio all’interno dell’edificio, andarono a occupare pure uno spazio aperto adiacente. Il fatto che il monastero fosse detto delle Cellæ Novæ potrebbe far presupporre che gli ambienti per l’alloggio dei monaci fossero stati ricavati spezzettando in unità abitative di questo tipo i vani della domus, ma nessun dato archeologico permette purtroppo di avvalorare questa ipotesi; né, tanto meno, è possibile capire come l’aula basilicale, riccamente decorata con pitture di soggetto religioso, si collocasse rispetto alla planimetria generale del complesso monastico (Delle Rose 1986-1987). Come Ravenna e Roma – e forse con tratti di rassomiglianza soprattutto con la situazione romana – anche Napoli e Cagliari, fra vi e ix secolo, mostrano un analogo panorama di fondazioni aristocratiche di origine tardoantica, affiancate progressivamente sia da monasteri sorti per iniziativa vescovile, che agivano a supporto delle attività del clero secolare, sia da comunità di origine orientale (Salmieri 2003; Martorelli 2007). L’elemento che accomuna a lungo le metropoli dell’Italia bizantina è dunque senz’altro, ma non solo, il ruolo predominante dei vescovi nell’organizzazione e nel controllo dei monasteri e nel loro utilizzo come elemento di supporto alla funzionalità di istituzioni e luoghi di culto sotto il controllo della Chiesa secolare. Questo dato s’impone al punto che si fa fatica a distinguere, tra i monasteria di questa città, realtà in grado di esprimere una vita religiosa e spirituale compiuta e autonoma, cosa che, al contrario, sembra caratterizzare i monasteri abitati da comunità alloctone, quasi sempre di origine orientale. Anch’essi, com’è evidente soprattutto nel caso di Roma, sorsero e prosperarono nel quadro di una forte interazione con il potere vescovile, ma forse il fatto di costituire delle entità non direttamente integrate nei ranghi dell’organizzazione clericale diocesana, in virtù della propria composizione etnico-linguistica, permise loro di perseguire meglio le finalità proprie della vita ascetica. Peraltro, come dimostra bene il caso dei Santi Stefano e Silvestro de Capite, non va dimenticato che nella seconda metà dell’viii secolo, quando i legami politici che sottoponevano queste città all’Impero bizantino si erano spezzati o comunque ini-

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ziavano a indebolirsi, i vescovi continuarono sì ad agirvi come capi della locale diocesi, ma tesero ad ampliare la sfera del proprio potere su un terreno più propriamente politico, cercando di affermare la propria signoria sulla città e sul territorio. Ciò avviene compiutamente a Roma e a Ravenna e in parte anche a Napoli, dove in questo periodo si ha il caso di un duca della città che ne divenne anche vescovo. Questo significa che le fondazioni di monasteri promosse dai vescovi a partire dal tardo viii secolo devono essere analizzate non solo come parte del tradizionale attivismo di questi ultimi in tale ambito, bensì anche come azioni volte a promuovere, su un terreno più squisitamente politico, l’immagine della pietas propria e del lignaggio familiare cui essi appartenevano. In altre parole, la creazione di un monastero come quello romano di San Silvestro esprime, a tutti gli effetti, la volontà di riunire persone il cui scopo sarebbe dovuto essere quello di pregare per il fondatore e per la stabilità dell’ordine politico che egli rappresentava, potendosi avvalere, se necessario, della loro qualità spirituale e intellettuale per rafforzare anche la propria azione di governo. Analizzata in questa prospettiva, la situazione delle aree ex bizantine propone tratti concettuali di rassomiglianza con le politiche di promozione monastica viste presso i monarchi franchi e longobardi. Tuttavia, permangono anche numerose differenze: la principale è sicuramente quella rappresentata dall’assenza, a Roma come a Ravenna e a Napoli, di esperienze monastiche ricollegabili esplicitamente al retroterra spirituale e organizzativo espresso dalle Regulæ occidentali, e in particolare alla lettura che di esse aveva elaborato il monachesimo di origine insulare. Si dovrà attendere ancora del tempo – sino al x secolo – perché l’orizzonte di queste tre città si aprisse ad accogliere pienamente il contributo di una concezione della vita monastica, di cui la Regola di Benedetto riassumeva l’identità più compiuta, improntata a una forte coscienza di sé e dell’autonomia dei fini della vita ascetica. Il panorama monastico delle regioni bizantine dell’Italia non si esaurisce però solo nelle esperienze fiorite all’interno delle città. Soprattutto in aree come la Puglia meridionale, la Sicilia e la Calabria, più profondamente ellenizzate e più stabilmente legate al centro dell’Impero in virtù della loro maggiore vicinanza geografica (Marazzi 2011), la presenza di cellule di vita ascetica è diffusa su tutto il territorio, comprese quindi anche le aree rurali. Su queste realtà le fonti scritte non sono molto prodighe di informazioni, e ciò sia perché ci troviamo in linea generale di fronte a comunità di piccole dimensioni che hanno lasciato scarse tracce di sé nella documentazione, sia perché la fine del dominio bizantino ha comportato spesso la progressiva disarticolazione della rete delle strutture ecclesiastiche di lingua greca e, con essa, anche di buona parte della documentazione che la riguardava (Vitolo 1996). L’assenza di cronache e cartulari è però compensata, ma solo a partire dal ix secolo, da una buona quantità di fonti agiografiche, dalle quali si possono trarre informazioni interessanti sulla vita e l’organizzazione delle comunità monastiche presenti sul territorio (Borsari 1963; Cilento 2001). Accanto alle comunità cenobi186

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tiche vere e proprie, risulta ad esempio ben attestata la presenza di ‘laure’, i cui componenti dividevano la loro esistenza fra segregazione eremitica e momenti di vita comune, come ad esempio accadde presso le comunità calabresi del Merkourion, situate nella valle del fiume Lao, nella parte più settentrionale della Calabria (Gribomont 1987: 146-147). Durante le fasi più mature della presenza bizantina in Italia (x-xi secolo), i monasteri si svilupparono con modalità non dissimili da quelle viste nelle aree latine, nel senso che anche in questi contesti la committenza di personaggi appartenenti agli strati più alti della società locale (soprattutto funzionari di alto grado dell’amministrazione statale) rivestì un ruolo centrale nella loro fondazione e nello stabilimento per essi di una condizione di autonomia giuridica rispetto alle interferenze di soggetti esterni, in particolare del clero diocesano. Queste fondazioni di età più avanzata riuscirono a raggiungere una certa rilevanza economica e culturale e talune di esse sopravvissero anche dopo la conquista normanna del Meridione d’Italia. Peraltro, il monachesimo di matrice greca si espanse anche in aree geografiche esterne ai territori controllati dai Bizantini, come ad esempio è avvenuto nei settori più meridionali del principato longobardo di Salerno, fra Basilicata e Campania meridionale (Alaggio 2004; Marchionibus 2004). Il panorama si articola quindi fra insediamenti di diversa natura e dimensioni che, tuttavia, presentano simmetrie funzionali significative che derivano, ancora una volta, dall’esigenza di attuare pienamente il principio di base della segregazione dello spazio monastico rispetto a quello esterno. Nel Salento, l’insediamento dei Santi Cosma e Damiano delle Centoporte propone ad esempio il curioso esperimento, attuato presumibilmente durante l’viii secolo, della creazione di un recinto monastico all’interno delle rovine di una grande chiesa, datante al vi secolo (Arthur-Bruno, 2009). I muri perimetrali dell’edificio più antico e dei suoi annessi diventarono i confini del piccolo recinto monastico. Gli ingressi del nartece della chiesa del vi secolo furono tutti chiusi, ad eccezione di una porta laterale, trasformando così questo spazio in una sorta di area-filtro fra l’esterno e l’interno. Passando attraverso l’ingresso principale della chiesa, rimasto in funzione, si accedeva allo spazio della navata centrale, che era stato riadattato in modo da ospitare i locali in cui si svolgeva la vita della comunità. La metà della navata in direzione della facciata fu trasformata in un ambiente coperto a pianta quadrata che costituiva probabilmente un’area di uso polivalente, per la refezione, l’accoglienza degli ospiti e le attività quotidiane svolte dalla comunità. Attraversando un piccolo corridoio scoperto, da questo ambiente si usciva per accedere nella parte dell’antica basilica che si sviluppava in direzione dell’abside, di cui venne conservata la funzione cultuale, essendo stata destinata ad oratorium della piccola famiglia monastica. Le due navate laterali dell’edificio del vi secolo, alle quali si accedeva dal corridoio che separava la cappella dall’ambiente polifunzionale, furono utilizzate come piccoli spazi funerari e – forse – come ambienti con funzione di magazzini per il ricovero di utensili e di

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altri oggetti d’uso quotidiano. Non è chiaro dove potesse collocarsi il dormitorio. Forse, a questo scopo poté essere stato destinato un ambiente annesso alla navata nord della chiesa più antica, accessibile attraverso un ingresso praticato nel muro perimetrale. La distribuzione degli spazi di questo insediamento ricorda in modo impressionante quella dell’altrettanto piccolo monastero insediatosi a Roma tra le rovine del tempio di Marte Ultore, nel foro di Augusto. Pur se con dimensioni ridottissime, la planimetria del monastero salentino rispetta i parametri fondamentali di uno spazio concepito innanzitutto per tutelare la riservatezza della vita dei monaci e, soprattutto, dello spazio destinato alla preghiera. Quest’ultimo è infatti collocato in modo tale da poter essere raggiunto solo dopo aver attraversato i tre filtri rappresentati dalla porta d’ingresso al monastero, da quella che immetteva dal nartece nella sala ricavata nel tratto iniziale della navata e dall’intercapedine che separava quest’ultima dalla cappella. Troviamo la stessa impostazione spaziale in un altro monastero greco dell’Italia meridionale, quello di Santa Maria de Pactano, sorto durante il x secolo nel Cilento, che in quel periodo ricadeva nel territorio del principato longobardo di Salerno (Marchionibus 2004). Il complesso ha subìto diverse alterazioni rispetto al suo stato iniziale, ma gli elementi di base che ne caratterizzavano la planimetria originaria sono ancora ben leggibili. Un muro di cinta delimita un’area solo in parte edificata; gli edifici sono quasi tutti raggruppati nella parte più orientale che esso racchiude, mentre lo spazio rimanente è sgombro da costruzioni ed era probabilmente destinato a orto e frutteto. L’accesso originario al monastero avveniva attraverso un varco posto all’angolo sud-est del recinto, che immetteva in un vestibolo affiancato dal locale della portineria. Alle sue spalle sopravvive un altro ambiente, che potrebbe avere avuto funzione di hospitium per i visitatori. Questo accesso dà adito alle fabbriche monastiche, disposte a formare una struttura ad ‘U’ intorno a una corte, delimitata sul quarto lato da un muro che la separa dalla più vasta area aperta di cui si è parlato poc’anzi. La chiesa è situata sul lato opposto a quello in cui si trova l’ingresso al complesso monastico e ne costituisce il corpo di fabbrica settentrionale: sebbene profondamente alterata nel basso Medioevo, si ritiene che essa conservi l’impianto risalente all’età della fondazione. Essa era accessibile solo dall’interno del monastero (l’accesso frontale è bassomedievale e il suo collegamento con l’esterno è frutto di interventi di età contemporanea). La posizione di questa chiesa, dedicata alla Vergine, lascia ritenere che essa fosse destinata all’uso esclusivo dei monaci. Le altre due ali di fabbricati, entro cui si distribuivano gli ambienti residenziali della comunità, sono state profondamente alterate nel corso dei secoli ed è difficile quindi riconoscere esattamente come fossero dislocate le diverse aree funzionali. L’unico elemento che sembra certo è quello della posizione del refettorio, che si ritiene si trovasse nell’ala meridionale, opposta alla chiesa. All’angolo sud-occidentale del recinto si trova un’altra aula di culto, più piccola della chiesa riservata ai monaci; in questo caso, la porta di accesso all’edificio si 188

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trova nel muro di facciata e si apre direttamente verso l’esterno del monastero. È probabile che questa chiesa, costruita nell’xi secolo, fosse stata pensata per essere utilizzata dagli abitanti del territorio e, tra questi, in primo luogo da coloro che abitavano le proprietà che il monastero deteneva nei dintorni. In Sicilia, in epoca bizantina, le più recenti indagini hanno rilevato la diffusione, soprattutto in ambito rurale, di insediamenti monastici in genere di piccole dimensioni, spesso sorti sui resti di ville romane ormai in abbandono. Questa immagine sembra fornire un interessante riscontro ai dati che si colgono, ad esempio, nelle pagine dell’epistolario di Gregorio Magno, in cui si attestano numerosi casi di interventi del pontefice per definire e regolamentare lo status di nuclei monastici sorti per iniziativa di privati all’interno di loro proprietà agrarie (Arcifa-Prigent i.c.s.; Bonacini, Turco, Arcifa, 2012; Arcifa 2007). Anche nei monasteri di ambito bizantino i criteri organizzativi dello spazio sembrano dunque seguire princìpi non dissimili da quelli riscontrati per le abbazie fiorite nelle aree longobarde dell’Italia. Fondamentalmente, sia gli uni sia gli altri rispecchiano un quadro di riferimenti concettuali che rimanda direttamente alle idee maturate in età tardoantica in merito alla netta distinzione fra l’orizzonte di vita del monaco e quello di coloro che sono rimasti a vivere nel secolo. Questi princìpi di base generano, nel corso del tempo e nei diversi contesti geografici, soluzioni concrete assai variegate: in altre parole, i monasteri dei primi secoli del Medioevo, sebbene molto diversi fra loro per forma, dimensioni e distribuzione degli spazi e delle funzioni, tengono comunque conto di alcuni princìpi ispiratori, che mirano a distinguere e separare un spazio interno da uno esterno e a tutelare soprattutto la riservatezza dei luoghi in cui si svolge il ciclo della giornata monastica, e cioè quelli dedicati al riposo, alla refezione e soprattutto alla preghiera. Le chiese monastiche sono e restano degli oratoria, come giustamente li aveva definiti la Regola di Benedetto, e cioè aule destinate allo svolgimento della preghiera degli ‘atleti di Dio’; non, quindi, destinate ad accogliere le comunità dei fedeli che vivevano nei dintorni del monastero e a fornire loro il conforto della predicazione e dei sacramenti. Quando i monasteri iniziano a divenire entità dalle funzioni più complesse e di rilievo sociale più ampio (cosa che avviene in Francia tra la fine del vi e gli inizi del vii secolo e nell’Italia longobarda circa cento anni dopo), il coinvolgimento con le faccende del mondo diviene però ineludibile. Ciò dipese essenzialmente da due fattori: i monaci possedevano spesso patrimoni terrieri significativi della cui amministrazione si dovevano occupare in prima persona e su cui viveva una popolazione di rustici spesso assai numerosa; in secondo luogo, poiché i fondatori o alcuni leader carismatici dei monasteri raggiungevano spesso già in vita fama di santità, dopo la loro morte i loro sepolcri divenivano ambite mete di pellegrinaggio, attirando flussi di visitatori che erano spesso incoraggiati dall’azione di gruppi aristocratici che ai monasteri stessi erano legati da rapporti di devozione e di patrocinio politico. Tutti questi fattori costituiscono, allo stesso tempo, i segni del successo e della 189

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capacità di adattamento della spiritualità monastica alla società del tempo, ma anche potenziali elementi di contaminazione dei suoi princìpi e delle sue finalità. Ecco perché, progressivamente, la topografia dei monasteri si modifica e si arricchisce, proponendo una serie di ambiti intermedi che fungono da filtro fra i luoghi che la comunità ha scelto per isolarsi dal mondo e condurre la propria ascesi e il mondo stesso. Troviamo quindi gli spazi per lo svolgimento di attività artigianali e amministrative, che necessitano di contatti con la popolazione che vive all’esterno, ma anche la creazione di aule di culto, distinte dall’oratorium vero e proprio, ove i monaci forniscono assistenza spirituale alle popolazioni che gravitano intorno alle abbazie. I confini che separano i vari ambiti sono talora segnati da barriere fisiche ben visibili, ma non di rado essi assumono connotati più immateriali, che non per questo sono percepiti con minore chiarezza. Talora i due tipi di delimitazioni possono convivere e comporre, all’interno di un insediamento monastico, un’intricata maglia di percorsi lungo i quali esse agiscono come filtri progressivi fra mondi e orizzonti di vita che sono e devono rimanere distinti e separati. Il processo di elaborazione di questa complessità semantica, riflessa dalla conformazione architettonica e topografica dei luoghi, sembra giunto a maturazione alla metà dell’viii secolo. Il secolo che seguirà, trascorso sotto il segno del trionfo della dinastia di Pipino il Breve e di Carlo Magno, ne vedrà l’attuazione a una scala dimensionale sin allora mai raggiunta. In questo periodo, ci si avvicinerà più che in ogni altro a realizzare l’idea che un monastero possa davvero costituire, in terra, il luogo in cui nell’opera dell’uomo si produce un riflesso del paesaggio sublime che ogni credente spera di essere ammesso ad ammirare una volta lasciato questo mondo. Una storia interrotta? Monachesimo e insediamenti monastici nel territorio iberico (v-viii secolo) Il territorio della Penisola iberica scivolò progressivamente, fra la seconda metà del v e il vi secolo, nell’orbita della monarchia visigota. I Visigoti si erano stabiliti nella Gallia sud-occidentale già all’indomani della loro tumultuosa cavalcata che li aveva portati attraverso l’Italia e, nel 410, li aveva visti protagonisti della presa di Roma. Di lì avevano lentamente esteso il proprio dominio a sud dei Pirenei, profittando sia del vuoto lasciato dai Vandali, che nel 429 si erano spinti in Africa, sia del progressivo indebolimento del controllo politico dell’Impero su quelle regioni. Fra gli anni ’50 e gli anni ’70 del v secolo la loro influenza sulle terre iberiche crebbe progressivamente, anche se la spinta all’approfondimento della penetrazione in quelle regioni fu determinata soprattutto dall’esito infausto della guerra combattuta contro i Franchi all’inizio del vi secolo, che causò la perdita di quasi tutti i territori gallici. La penetrazione visigota non fu comunque uniforme in tutte le aree della penisola: alcune di esse, come quelle nord-occidentali, non entrarono mai pienamente a far parte del regno; altre, come le regioni più meridionali e quelle che 190

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affacciano sul Mediterraneo, conobbero probabilmente un impatto migratorio meno significativo rispetto alle zone centrali ove i Visigoti stabilirono, presso la città di Toledo, la propria capitale (García Moreno 1994; Ripoll, Velázquez 1997: 76101; Heather 2005: 189-222; Barbero, Loring 2005). Così come era avvenuto nel periodo della loro permanenza in Aquitania, anche al di là dei Pirenei la conquista visigota non produsse sconvolgimenti immediati e traumatici nel tessuto sociale e amministrativo della Hispania tardoromana. L’atteggiamento dei sovrani fu anzi quello di avvicinare progressivamente l’immagine e i segni del proprio potere a quelli propri della tradizione imperiale (Arce 2001). Inoltre, benché fossero di osservanza ariana, i nuovi conquistatori non assunsero – differentemente da quanto avevano fatto i Vandali in Africa e da quanto avrebbero fatto i Longobardi in Italia – posizioni ostili nei confronti della Chiesa cattolica e non interferirono in maniera significativa nelle sue dinamiche interne. Come si è già visto al cap. 3, il mondo cristiano della Penisola iberica aveva recepito già nel corso del v secolo i messaggi dell’ascetismo di origine orientale, molto probabilmente mediati soprattutto attraverso ambienti della Gallia meridionale (Mundó 1957). Anche nella Hispania sono attestati fenomeni di conversioni monastiche attuate da parte di esponenti dei ceti sociali più abbienti, che avrebbero prodotto la trasformazione delle loro residenze urbane e, soprattutto, di quelle rurali in luoghi di anacoresi. Similmente a quanto era avvenuto in Gallia e in Italia, anche qui è attestato l’interesse dell’episcopato locale nella promozione di comunità di monaci, insediate principalmente presso importanti santuari martiriali limitrofi ad alcune delle principali città, come Mérida, Saragozza, Girona e Tarragona (Moreno Martín 2011: 149-185). Tuttavia, differentemente da quanto nello stesso periodo era avvenuto in Gallia, nella Penisola iberica durante l’età tardoantica non sembrano essersi affermati centri d’importanza pari a Lérins o Condat, i quali, grazie al proprio prestigio intellettuale e spirituale, avevano contribuito alla formazione di molti personaggi che, successivamente a un periodo trascorso intra claustra, sarebbero poi tornati al sæculum per ricoprire incarichi di rilievo nelle gerarchie ecclesiastiche, non di rado accedendo al soglio episcopale di diverse sedi del sud e del centro della regione. Questo fenomeno aveva prodotto il duplice effetto di instillare, almeno in una parte del clero secolare, un interesse consapevole verso il significato e le finalità della vita ascetica e di stimolare in essa il desiderio d’intraprendere iniziative concrete per la sua promozione, adoperandosi per la fondazione di numerose comunità monastiche, anche se caratterizzate dal fatto di essere in genere legate da un rapporto di forte dipendenza dall’autorità episcopale (Mundó 1957; Marcos 2002). Per questi motivi, sebbene il quadro appaia per molti versi simile a quello gallico, risulta più difficile ricostruire nella Hispania tardoantica i presupposti e le motivazioni che spinsero alcuni vescovi a impegnarsi nella fondazione di monasteri, se non ipotizzando che lo abbiano fatto prendendo spunto proprio da quanto vedevano avvenire nelle non lontane regioni della Gallia meridionale. Allo stesso tem191

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po, nel panorama della regione non comparve alcuna figura che abbia esercitato un influsso paragonabile a quello di un Martino di Tours, di un Cassiano, di un Girolamo o di un Rufino, in grado di rappresentare, attraverso la propria vita o i propri scritti, un riferimento esemplare per chi volesse intraprendere la vita ascetica. Paolino di Nola trascorse in Hispania un periodo tutto sommato abbastanza breve della sua esistenza e per di più anteriore alla sua conversione al Cristianesimo, e pertanto non gli si può ascrivere un ruolo di particolare rilievo nello sviluppo avuto dal monachesimo in quei territori. L’unica personalità locale alla quale può essere ascritto lato sensu un contributo originale in questa direzione fu forse quella di Priscilliano, il chierico che alla fine del iv secolo guidò un movimento di dura protesta contro la mondanizzazione della Chiesa e che assunse posizioni radicali sul tema del possesso dei beni terreni da parte dei cristiani e, in particolare, degli esponenti delle istituzioni ecclesiastiche. Indubbiamente esso propugnava ideali e stili di vita che riprendevano molto da vicino quelli dell’ascetismo monastico vero e proprio, inclusa la preferenza manifestata per l’insediamento dei propri seguaci nelle aree rurali, viste come luoghi nei quali rifugiarsi per sfuggire all’influsso corruttivo esercitato dalla città. Tuttavia, va ricordato che il movimento di Priscilliano non intendeva attuare una fuga mundi assimilabile a quella intrapresa dai monaci, in quanto il suo primo intendimento era quello di agire per una palingenesi etica del clero e della comunità dei fedeli di Cristo nel suo insieme e non di separarsi da essa (Escribano Paño 2002). In ogni caso, l’attenzione dedicata dal clero ispanico ai costumi e alle modalità organizzative della vita monastica (ed alla sua regolamentazione) fu probabilmente accentuata proprio dalla dirompente comparsa del movimento priscillianista. Sono purtroppo scarse le evidenze archeologiche in grado di integrare con dati materiali chiari le indicazioni fornite dalle fonti scritte in merito all’esistenza di comunità ascetiche nella Penisola iberica durante l’età tardoantica. Come si è già visto nel capitolo terzo, appare ad esempio particolarmente difficile individuare quali trasformazioni possa aver determinato, nelle aree rurali, l’impianto di comunità monastiche all’interno di ville e fattorie. La conversione al cattolicesimo della monarchia visigota, avvenuta nel 589 al tempo di re Recaredo (586-601), fornì un nuovo importante interlocutore al monachesimo iberico. Il fatto che le fonti menzionino la fioritura, durante il vii secolo, di diverse comunità monastiche nella capitale del Regno – Toledo – e nei suoi dintorni costituisce probabilmente un’indiretta indicazione dell’impulso prodotto dalla conversione del re e dell’aristocrazia. Tuttavia, lo sviluppo che il monachesimo indubbiamente conobbe durante il vii secolo, definito, con una certa enfasi, il «secolo d’oro» dell’ascetismo iberico (Moreno Martín 2011), fu di natura abbastanza differente da quello prodottosi nella Gallia merovingia e più tardi nell’Italia longobarda. Risulta infatti meno evidente il coinvolgimento diretto dei sovrani nella fondazione e nel sostegno economico e politico dei monasteri e non sembrano comparire sulla scena realtà comparabili alle abbazie dotate di grandi patrimoni e 192

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di notevoli margini di autonomia giuridica, quali quelle che si svilupparono nel centro-nord della Francia a partire dalla prima metà del vii secolo. La strada scelta dai monarchi di Toledo sembra essere stata piuttosto quella di agire di concerto con l’episcopato per attuare, attraverso le disposizioni assunte dai concili della Chiesa locale – convocati con una certa regolarità durante tutto il vii secolo –, un’irregimentazione più definita dell’organizzazione e dello status delle comunità cenobitiche (Mundó 1957). Probabilmente non è un caso che il testo di due delle tre Regulæ monastiche composte nel Regno visigoto durante questo secolo sia sicuramente da attribuire alla penna di un vescovo (Isidoro di Siviglia e Fruttuoso di Braga) e che anche per la terza (la cosiddetta Regula Communis) possa essere ipotizzato un autore della medesima provenienza. Le tre Regole, nonostante le differenze che le caratterizzano, sono comunque state scritte tutte avendo in mente un’idea di vita cenobitica improntata alla coltivazione della vita contemplativa, da perseguirsi entro un contesto di deciso isolamento dal mondo esterno (Martinez Tejera 2007)81. Difficilmente, insomma, si potrebbe pensare che le comunità che gli autori di questi testi avevano in mente fossero solo delle congreghe riunite per svolgere attività di mero ausilio ai compiti propri del clero secolare diocesano, come l’assistenza ai malati e ai bisognosi o la gestione logistica dei santuari di pellegrinaggio. Questo dato spinge perciò a ritenere che nel territorio del Regno si fosse progressivamente formato un tessuto di insediamenti monastici in grado di attuare pienamente gli obiettivi propri della vita ascetica, nonostante il fatto che essi fossero direttamente subordinati all’autorità dei vescovi. Anche per questa epoca più avanzata, che comprende la parte finale del vi secolo e tutto il vii, non sono molti i siti archeologici che offrono riscontri puntuali all’idea di spazio monastico proposta dalle Regole coeve. Tuttavia, alcuni fra questi – sebbene cronologie e funzioni degli edifici che li compongono non abbiano sempre trovato concorde interpretazione fra gli archeologi – appaiono del massimo interesse: è il caso ad esempio dei siti di El Bovalar (presso Lérida), di Es Cap des Port (nell’isola di Minorca) e di Son Peretó (nell’isola di Maiorca), sicuramente attivi nel corso del vii secolo, in cui si evidenziano criteri comuni nell’organizzazione dell’insediamento. La chiesa, di piccole dimensioni (non supera mai i 15 metri di lunghezza), è disposta in modo da essere completamente inglobata tra altri edifici con funzione residenziale e agricola, ed è priva di accessi diretti dall’esterno. Questa caratteristica ha suggerito confronti abbastanza puntuali con insediamenti monastici mediorientali, soprattutto di ambito siriaco e palestinese. Tuttavia, attiguo all’aula di culto, in tutti e tre i casi è stato rinvenuto un ambiente con funzione battesimale, il che lascia presupporre che almeno in determinate circostanze la chiesa potesse essere resa utilizzabile anche a individui esterni alle comunità che abitavano i due complessi (se essi siano effettivamente da interpretare come monasteri) e che queste ultime fossero in qualche misura coinvolte in attività di cura d’anime (Martinez Tejera 2007; Gurt i Esparraguera 2007; Moreno Martín 2011). In realtà, il fatto che una comunità monastica potesse anche offrire di quando in quando servizi come

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quello del battesimo non è di per sé in contraddizione con la sostanza di una vita abitualmente condotta in condizioni di distacco dal mondo esterno. Ciò poteva avvenire soprattutto in considerazione del fatto che tutti e tre gli insediamenti presi in esame dovessero costituire il centro di un’azienda agraria di una qualche entità – come è testimoniato dal rivenimento delle strutture adibite allo stoccaggio e al trattamento dei prodotti agricoli – e che quindi intorno all’eventuale comunità insediata al loro interno doveva gravitare una popolazione di lavoranti della terra, cui probabilmente i monaci potevano fornire servizi di cura animarum. Un analogo orizzonte di contatti fra insediamento monastico e sfruttamento agrario del territorio è stato messo in evidenza nel caso del monastero di Santa María di Melque, situato non lontano da Toledo, sulla cui fase di fondazione si sono contrapposte ipotesi che oscillano tra il periodo immediatamente successivo al momento della conquista araba della penisola e l’epoca ancora pienamente visigota (Garen 1992; Caballero Zoreda 2007; Moreno Martín 2011: 267-283). Il complesso si articola in un ampio recinto di forma vagamente pentagonale al quale se ne addossa un altro a pianta rettangolare e copre un’area complessiva di circa 4.000 mq. Sembra che gli edifici si disponessero soprattutto a ridosso dei perimetrali che delimitano i due recinti e che la chiesa – a pianta cruciforme – si collocasse invece entro lo spazio aperto di quello più vasto, collegandosi agli edifici addossati al perimetrale ovest attraverso una sorta di corridoio. Il plesso architettonico vero e proprio era apparentemente circondato da un areale più vasto, che includeva settori destinati alle coltivazioni e, soprattutto, un sistema di adduzioni idriche che canalizzavano acqua al monastero da una serie di sorgenti presenti nelle vicinanze. Anche lo schema organizzativo di Melque sembra richiamare soluzioni adottate nell’Oriente mediterraneo tardoantico, che troveranno frequente attuazione anche nell’architettura dei monasteri della media età bizantina, come ad esempio accade nella celebre fondazione beota di Hosios Loukas, in cui le due chiese sono collocate al centro dello spazio delimitato dalla recinzione perimetrale dell’insediamento, alla quale si addossano tutti i principali edifici residenziali e funzionali (Mc Nally 2001; Liapis 2005). In questo caso il posizionamento delle due chiese suddivide il monastero in due aree distinte, delle quali quella posta alle spalle delle chiese stesse (e quindi esclusa dal diretto accesso ad esse) ospitava l’entrata principale e tutti gli edifici per l’accoglienza dei visitatori, il riparo degli animali e lo stoccaggio di attrezzi e derrate, mentre l’altra comprendeva le celle entro cui vivevano i monaci e il refettorio. Tornando all’insediamento di Melque, anche considerando che non è del tutto chiaro da quale lato avvenisse l’ingresso al complesso, non è attualmente possibile stabilire se alle due corti intorno alle quali esso si articola corrispondessero destinazioni fuzionali distinte, con quella più vasta, comprendente la chiesa, intorno alla quale si sarebbero potuti eventualmente disporre gli edifici destinati alla comunità, e quella più piccola, a pianta rettangolare, che avrebbe potuto avere invece il compito di includere gli spazi per l’accoglienza e per le altre funzioni di carattere più propriamente profano. 194

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Sicuramente nell’ambito della Hispania mozaraba ricadono i due insediamenti di Santa Lucía del Trampal, in Estremadura, e di Mesas de Villaverde, presso Malaga. Del primo si è interamente conservata la chiesa e pochi resti di edifici ad essa adiacenti sul lato settentrionale (Caballero Zoreda, Sáez Lara 1999). L’aspetto più interessante offerto dall’edificio ecclesiastico è l’assenza di un ingresso in facciata e la disposizione degli ingressi sui due fianchi, probabilmente in direzione di edifici pertinenti il complesso monastico, attualmente perduti. Colpiscono anche, pur all’interno di un edificio che misura in tutto neppure 20 metri di lunghezza, la netta separazione dello spazio delle navate da quello dell’area presbiteriale e la presenza di una serie di ambienti direttamente annessi alla chiesa di cui non è chiarissima la funzione, ma che potrebbero aver avuto, come si è visto nel caso di Cap des Port, la funzione di inglobare l’aula di culto direttamente all’interno delle fabbriche del monastero. Il caso di Mesas de Villaverde propone invece l’esempio di un piccolo monastero sviluppatosi presso una chiesa a carattere parzialmente ipogeo, all’interno del quale troviamo gli edifici monastici raccolti intorno a una corte centrale; l’aula di culto, priva anche questa volta di accesso frontale (in questo caso in ragione del fatto di prospettare su una scarpata), si trova sul lato sud della corte centrale, in posizione opposta al varco di ingresso alla corte stessa (Puertas Tricas 2000). Come lo erano stati quelli dell’epoca visigota, anche i monasteri sorti nella Penisola iberica durante il periodo successivo alla conquista araba, sia nelle aree poste sotto il dominio islamico, sia in quelle del nord rimaste in mano cristiana, sembrano caratterizzarsi per il fatto di essere complessi in genere di dimensioni abbastanza contenute. La cosa può spiegarsi, per quanto riguarda la fase anteriore alla conquista araba, con il fatto che i monarchi visigoti apparentemente non intervennero in maniera diretta nella sovvenzione delle comunità monastiche. Per quel che concerne il periodo successivo, è chiaro che nelle aree finite sotto controllo islamico sarebbe stato abbastanza difficile che si potessero produrre investimenti significativi a favore delle comunità di asceti cristiani, mentre in quelle controllate dai reguli delle aree galiziane e asturiane è molto probabile che l’entità di tali investimenti non potesse in alcun modo essere comparabile con quella messa in campo dai re franchi e longobardi. In ogni caso, la linea meno interventista seguita dai re visigoti durante il vii secolo rispetto ai loro omologhi di Francia e Italia nella fondazione e promozione dei monasteri, a vantaggio di una continuità del rapporto privilegiato che con essi intrattenevano gli esponenti della Chiesa secolare, sembra aver determinato, oltre che il loro mancato sviluppo architettonico nelle dimensioni riscontrate in altre aree dell’Europa occidentale cristianizzata, anche la perpetuazione di modalità organizzative del loro spazio che consenta puntuali e interessantissimi confronti – pur nella varietà delle soluzioni adottate – con siti di età pienamente tardoantica. In altre parole, i monasteri ispanici non sembrano coinvolti in quel processo, ben leggibile soprattutto in quelli della Gallia merovingia, in virtù del quale la struttura materia-

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le riflette la grandeur di una committenza di altissimo profilo politico e che, come abbiamo visto, produce anche sviluppi molto importanti dal punto di vista della concezione e dell’organizzazione del cerimoniale liturgico. Nella Penisola iberica, stando a quanto oggi l’archeologia consente di comprendere, l’architettura dei monasteri sembra essere l’espressione di un dialogo più diretto ed esclusivo con le esigenze proprie della vita delle comunità che li abitavano, di cui le Regulæ ispaniche costituiscono un momento di sintesi di particolare rilevanza (Díaz 2007).

Note 1  2 

vc, i,

3.

cch, xliv,

5. aspetto particolare della rilevanza economica dei monasteri irlandesi può essere riscontrato nella vita di santa Brigida (vissuta fra la seconda metà del v secolo e gli inizi del vi), scritta da Cogitosus (vsb, 35), nella quale è ricordato che il luogo era considerato così sicuro e inviolabile da essere utilizzato per custodirvi i tesori dei re. 4  vco, iii, 23. 5 Ad esempio, il passo già ricordato della vita di santa Brigida di Cogitosus (vsb, 35), parlando del monastero che ella edificò verso la fine del v secolo, afferma che il termine esatto per descriverlo era quello di città, «perché il fatto che tanta gente vi vivesse giustificava questo titolo» e perché il luogo attraeva molte persone per le attività che si svolgevano intorno ad esso. La data incerta di compilazione di questa fonte (oscillante fra il vii e il ix secolo) impone comunque una certa prudenza nell’accettare la descrizione come riferibile alla fase iniziale di vita dell’insediamento. 6  hfr, ix, 15-17. 7  hfr, ix, 16. 8  vc, i, 19. 9  vc, i, 20. 10  vc, i, 19. 11 Clotario ii (584-629) era lo zio di Teodeberto ii, il re che aveva espulso Colombano da Luxeuil; inizialmente re della sola Neustria, finì per avere la meglio sugli altri contendenti e divenire, dal 613, il dominatore di tutto il regno franco. 12  vc, i, 29. 13  pdgf, 275. 14  Si vedano le riflessioni sul concetto di ‘soglia’ dello spazio sacro elaborate in Howie 2007. 15 Le informazioni di cui possiamo avvalerci per conoscere meglio il mondo delle abbazie sorte nella Gallia merovingia ci giungono sostanzialmente dalle fonti scritte. Infatti, i principali monasteri sorti in questo periodo hanno avuto in genere una vita lunghissima, protrattasi anche oltre il Medioevo, subendo quindi ripetute e profonde trasformazioni materiali. Sfortunatamente, quindi, non esiste un luogo ove le strutture del vii secolo siano rimaste visibili in modo sufficientemente articolato da poter fornire verifiche a quanto ci raccontano i testi. 16  vf, 8. Il testo gioca sull’assonanza fra il verbo gemere e il nome latino di Jumièges, ossia Gemeticum. 17  Sulla presenza di vetrate a Jumièges vedi Dell’Acqua (2003: 111). La studiosa nota giustamente come la presenza di lussi insoliti, quali la presenza nel monastero di finiture di questo livello, ma an3 Un

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La fede erige le sue città che il fatto che il fondatore avesse piantato nei suoi pressi vigneti che producevano il celebre vino italico del Falerno, dipendessero dal fatto che, nonostante la vocazione ascetica, egli desiderasse circondarsi di ‘segni’ propri della sua aristocratica origine sociale, ma anche di mostrare quelli che – per i loro riferimenti all’antichità – lo facessero riconoscere come persona colta. 18  gaf, i, 8. 19  gaf, i, 1. 20  gaf, i, 7 e vw, 14. 21  gaf, i, 8; vw, 14. 22  Sul rapporto fra il topos del ‘deserto’ e le condizioni concrete d’insediamento nel territorio delle comunità monastiche in età merovingia, si veda Guizard-Duchamp 2009: 201-238. 23  gaf, i, 7. 24  vgg, 1-9. Il biografo ricorda che anche Germano, nativo di Treviri, proveniva da una famiglia che, benché di stirpe «latina» e non franca, era comunque fra quelle in città più vicine politicamente a re Dagoberto. 25  vfc, 13-33. 26  vea, 4-15. La presenza del recinto è suggerita tanto dalla menzione dei fores monasterii, presso cui si trovava l’oratorio di san Leodegario, quanto dall’uso della locuzione claustra monasterii, per indicare l’insieme degli edifici monastici. 27  vea, 13 e 15. 28  vea, 8 e 10. 29  vea, 11. 30  vea, 18. 31  val, 17. 32  vul, b. 33  vll, 6-7. 34 Ad esempio, un recente studio incentrato sulle città di Autun e di Auxerre ha dimostrato che la tradizione tardoantica della fondazione e della promozione di monasteri urbani e periurbani da parte dei vescovi trova prosecuzione anche nella piena età merovingia (Gaillard, Sapin 2012). 35  vel, 8. 36 Luce Pietri (1983) si spinge, con solidi argomenti, sino a ritenere che i cosiddetti ‘monasteri basilicali’ della Gallia del v e del vi secolo, sorti presso santuari particolarmente venerati, non costituissero in realtà vere e proprie comunità monastiche e che il titolo di abba basilicæ conferito ai personaggi incaricati della gestione dei santuari di pellegrinaggio non implicasse anche che, agli ordini di costoro, vi fosse una vera e propria comunità di monaci. Ciò, naturalmente, a meno di considerare come individui di status monastico i componenti dello staff che doveva necessariamente coadiuvare gli abbates nella laboriosa gestione dei complessi santuariali, come è ben attestato in casi orientali come quello egiziano di San Mena e quello siriaco di Qalat Simaan. 37  Si vedano in proposito le riflessioni di Francesca Sbardella sull’uso delle reliquie all’interno delle comunità monastiche sottoposte alla clausura. Benché tratte da esempi di età contemporanea, esse illustrano bene l’idea che le reliquie presenti in questo tipo di contesti servano in primo luogo per le necessità spirituali delle comunità che vi abitano (che l’autrice definisce uso «autoreferenziale» delle reliquie) e solo in rare e specifiche circostanze possano essere proposte alla vista e alla devozione dei fedeli (Sbardella 2007: 93-97). 38 Il monastero prende il nome attuale da quello del vescovo di Parigi, Germano, vissuto fra il 496 e il 576 e salito al soglio vescovile nel 555, poiché fu lui a consacrare la chiesa fatta erigere da re Childeberto per deporvi le reliquie di Vincenzo di Saragozza portate in Francia dopo una campagna militare condotta contro i Visigoti, e perché il suo corpo vi fu poi inumato nell’viii secolo, accendendo un culto che oscurò progressivamente quello per il santo spagnolo (Meyer 2012: 168-173). 39  gd, 35.

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vb,

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ven, i,

8-9. 32. 42  vgw, i, 6 e ii, 6-8. 43  vll, 7. 44  phl, ii, 8. 45  phl, ii, 26. 46  phl, iii, 1-2; hfr, vi, 6. 47 La dieta di Hospitius è un perfetto esempio di come, ancora verso la fine del vi secolo (siamo nella seconda metà degli anni ’80), i contatti della Francia con l’Oriente mediterraneo mostrassero una certa vitalità e fossero veicolo, oltre che di beni di consumo, anche di modelli di comportamento ascetico. 48  phl, iv, 17. 49  phl, iv, 19. 50  phl, iv, 16. 51  gre, i, 38. 52  vc, i, cdl, 30. 53  cdl, iii/1: 300. 54  phl, v, 33. 55  phl, vi, 40. 56  È possibile che Paolo Diacono, scrivendo ormai dopo la caduta in mano franca del regno longobardo, in una Montecassino che costituiva una pedina strategica della politica di Carlo Magno in Italia, abbia voluto di proposito passare sotto silenzio le origini beneventane della sua rina­ scita. 57  cv, i: 150-152. 58  cdl, iii/1: 208. 59  vwe, 5. 60  Sul problema del rapporto fra la città romana e il nucleo altomedievale di pianura del monastero cassinese, vedi anche al cap. sesto. 61  cdl, iii/1: 187-191. 62 Devo le informazioni relative alle più recenti interpretazioni degli edifici monastici di età longobarda del complesso del Salvatore alla cortesia di Gian Pietro Brogiolo, che qui ringrazio. 63  Sulla querelle relativa alla datazione del San Salvatore di Brescia e delle sue decorazioni pittoriche, dibattuta fra l’viii e il ix secolo, si veda, a partire dalla prima pubblicazione di Panazza (1962), Peroni 1983 e 1994; Brogiolo 1999 e 2000b; De Rubeis 1999. 64 La moglie di Desiderio nel 774 fu però da Carlo Magno presa prigioniera insieme al marito e finì i suoi giorni in Francia. La tomba, se era stata effettivamente preparata per lei, non poté quindi ospitarne i resti mortali. 65 Non risulta che i duchi di Spoleto abbiano provveduto a costituire fondazioni monastiche femminili nella loro capitale. Tuttavia, il duca Lupo (745-753) istituì a Rieti, presso le mura della città, un monastero di questo tipo dedicato a san Giorgio, sottoponendolo alla giurisdizione dell’abbazia di Farfa, di cui era stato, a sua volta, deciso sostenitore (cdl, iv/1: 34-38). 66 Peroni 1975, n. cat. 137. 67  cdl, i: 51-60. 68  È probabile che un’analoga funzione, rispetto all’insediamento monastico principale, fosse svolta dalla chiesa plebana di San Giovanni nei confronti dell’abbazia di Leno, fondata da re Desiderio nel territorio della pianura bresciana (Breda 2002: 244). 69  cdl, ii: 98-109. 70  cdl, iv/1: 21-23. 71  phl, vi, 40.

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cv, i:

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cv, i:

155. 162 e 375. 74  cv, i: 204. 75 Gettando un rapido sguardo sul corposo dossier costituito dall’epistolario di Gregorio Magno, si trovano ripetute menzioni degli interventi pontifici e vescovili sul funzionamento dei monasteri, miranti soprattutto a far sì che la vita religiosa e organizzativa delle comunità non sfuggisse mai al controllo episcopale, in ragione della sua stessa esperienza di vita ascetica praticata anteriormente all’accesso al pontificato, egli non mancò mai di ribadire il principio che le finalità di quest’ultima fossero autonome e distinte da quelle proprie della Chiesa secolare (Richards 1984: 376-381). 76  lp, i: 509. 77  lp, i: 364. 78  lp, i: 507. 79  gre, vi, 42. 80  lp, i: 464-465. 81 Vedi anche, a questo proposito, quanto discusso nel cap. quarto a proposito dei contenuti delle Regulæ di origine iberica.

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Capitolo sesto L’apogeo dei chiostri. Monaci e monasteri nella prima età carolingia (751-840)

À l’origine, l’enceinte du monastère bénédictin renfermait plusieurs sanctuaires: très souvent trois, comme à Corbie et à Jumièges, six comme a Saint-Vaast. Mais très vite, l’évolution se fait vers la réunion des autels dans un même grand édifice. Seules subsistent, isolées, des chapelles: à l’infirmerie, au cimetière, à la maison des hôtes, au logis de l’abbé (Eschapasse 1963: 14) Les moines reformateurs des ixe-xe siècles ont-ils repensé et réamenagé l’espace monastique? L’archéologue confronté a cette question tente de reconnaître, par la fouille et l’étude du bâti, des indices permettant d’apporter des réponses (Sapin 2013: 517)

Re, aristocratici e monasteri: rottura e continuità fra l’età merovingia e l’età carolingia Quando, nel 754, papa Stefano ii venne in Francia per consacrare come nuovo re dei Franchi il maestro di palazzo Pipino iii detto il Breve (741-768), figlio di Carlo Martello (714-741), il luogo scelto per la cerimonia di unzione che marcava l’ascesa al potere dei Carolingi e la fine della dinastia dei Merovingi, al potere da oltre duecentocinquanta anni, fu l’abbazia di Saint-Denis, situata alle porte di Parigi. Per quanto l’evento avesse rappresentato uno strappo con la storia e con l’identità stessa del regno, esso si svolse in un luogo che non si sarebbe potuto immaginare più legato al passato. L’abbazia di Saint-Denis era infatti da tempo il tempio prediletto dai sovrani merovingi per la propria sepoltura e aveva da essi ricevuto più volte dimostrazioni concrete di sostegno politico ed economico. La scelta di questo glorioso monastero per conferire consacrazione ufficiale all’avvento di una nuova dinastia, cresciuta però in seno al vecchio sistema di potere franco, avendone progressivamente occupato i centri di controllo, rappresenta vividamente come tale avvicendamento, pur costituendo un momento di svolta politica radicale rispetto al passato, si collocasse per molti versi in stretta continuità con esso. Sicuramente, un altro elemento di forte legame con il passato era rappresentato proprio dalla 201

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centralità che, nella visione politica di Pipino come già di suo padre Carlo Martello, rivestiva il rapporto del potere regio con il mondo ecclesiastico e in particolare con la sua componente monastica. Alcuni dei principali protagonisti nell’organizzazione del viaggio del papa Oltralpe erano stati proprio esponenti di questo mondo, come Fulrado, l’abate di Saint-Denis, e Crodegango, vescovo di Metz e fondatore dell’importante monastero di Gorze, sito nei pressi di questa città e riformatore della vita del suo clero secolare a imitazione di quella delle comunità monastiche (Rosenwein 1999: 121-124). Il nesso tra la famiglia dei Pipinidi-Carolingi e il mondo delle abbazie franche aveva tuttavia origini assai più antiche. Gli antenati di Pipino, infatti, erano stati perfetti rappresentanti di quell’aristocrazia franca che sin dalla metà del vii secolo, a imitazione di quanto facevano i re, si era attivamente impegnata nella fondazione e nella promozione di monasteri su cui la famiglia tendeva a conservare un patronato diretto, attraverso la scelta dei loro abati e badesse. Così era stato nel caso dei monasteri di Nivelles, Stavelot-Malmédy ed Echternach, situati nei territori degli attuali Belgio e Lussemburgo, dove la famiglia deteneva grandi proprietà (Claussen 2004: 32-33). E la strategia che Carlo Martello pose in atto a cavallo del 720 per garantirsi il controllo delle terre della Neustria, cioè dell’area compresa fra Parigi e il mare del Nord, si concretizzò, oltre che in iniziative militari e nella costruzione di una rete di alleanze politiche, anche nell’assicurarsi che alla testa delle principali abbazie di quel territorio (come Saint-Wandrille e Jumièges) fossero nominate persone a lui fedeli. Qualche anno più tardi, furono gli abati di Corbie e Saint-Denis ad essere scelti da Carlo Martello come inviati presso papa Gregorio iii (731-741) per discutere di un possibile intervento militare in Italia contro i Longobardi. Ancora, non va dimenticato che Carlomanno, il figlio di Carlo Martello che ne aveva ereditato il potere insieme al secondogenito Pipino iii, nel 746-747 prese in prima persona la strada della monacazione, recandosi in Italia dove fondò il monastero di San Silvestro sul Monte Soratte, presso Roma, per poi trasferirsi a Montecassino, dove terminò i suoi giorni qualche anno più tardi. In un monastero fu spedito l’ultimo re merovingio, Childerico iii, quando Pipino iii capì che era giunta l’ora di consolidare definitivamente la sua posizione, chiedendo e ottenendo la propria nomina a re ai magnati laici ed ecclesiastici del regno, con l’avallo del pontificato romano (McKitterick 1983: 29-36). Nei confronti di monaci e abbazie, insomma, la famiglia dei nuovi re esibisce un atteggiamento perfettamente in linea con quanto aveva caratterizzato l’azione dei loro predecessori e dei propri pari tra gli aristocratici dei regno, almeno a partire da un secolo prima del fatidico anno 754. Tuttavia, giudicare il passaggio di consegne fra le due dinastie regnanti solo in una prospettiva di continuità porterebbe ad un errore di sottovalutazione dell’impatto che esso avrebbe prodotto sul mondo monastico. L’avvento dei Carolingi, infatti, determinò nel giro di pochi decenni un’evolu202

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zione radicale del quadro maturato sin allora; e questi cambiamenti procedettero di pari passo con l’affermazione del regno dei Franchi come potenza egemone dell’Occidente europeo. Sintetizzando al massimo, si può dire che i successori di Carlo Martello, Pipino iii e suo figlio Carlo (768-814), inserirono il grande patrimonio di ricchezze, competenze intellettuali e forza spirituale che il monachesimo franco aveva espresso nei centocinquant’anni precedenti all’interno di un progetto di costruzione di un nuovo e più vasto sistema politico. Non costituiva una novità che il potere del re dei Franchi avesse una forte connotazione religiosa, cosa che permetteva loro di interessarsi attivamente delle questioni ecclesiastiche. I nuovi sovrani interpretarono tuttavia questa loro prerogativa in modo più ampio che nel passato. Nella loro prospettiva, la scommessa era quella di riorganizzare il funzionamento delle istituzioni religiose, concependole come vere e proprie diramazioni del potere regio in grado di supportarne l’opera di controllo dei territori ad esso sottoposti. Vescovati e abbazie, insomma, non potevano solo costituire presenze di cui il re si occupava di favorire l’esistenza e lo sviluppo, ma dovevano cooperare attivamente con lui per garantire l’ordinata gestione del regno. Un fattore che poté sicuramente giocare un ruolo importante in questa direzione fu l’intensificarsi dei rapporti con l’Italia, e in particolare con il papato, che aveva legittimato Pipino a guidare il popolo dei Franchi. Questo dato aveva avuto l’effetto di creare una diretta connessione del re con Roma, luogo per antonomasia fonte di autorità universale, sia sotto il profilo temporale sia sotto quello spirituale. Le figure degli imperatori che, da Costantino in poi, avevano promosso il processo di cristianizzazione dell’Impero fornivano l’esempio di come l’organizzazione della Chiesa potesse cooperare con il potere sovrano attraverso la puntuale attività legiferante e di indirizzo politico che quest’ultimo aveva continuativamente svolto in materia religiosa. A partire dagli anni ’60 dell’viii secolo vediamo quindi dispiegarsi una trama sempre più fitta di interventi legislativi volti ad esplicitare il punto di vista del re sulle questioni di carattere religioso, con l’obiettivo di ottenere che la Chiesa nel suo insieme e le sue diverse articolazioni adottassero linee di azione il più possibile unitarie e condivise. Per fare ciò Pipino e Carlo attivarono una serie di strumenti operativi che si espressero sia sotto forma di atti legislativi aventi valore generale, sia attraverso azioni di carattere più mirato, ma che riflettevano una visione unitaria e omogenea del tema della riforma delle istituzioni ecclesiastiche. Innanzitutto, sin da prima che Pipino iii fosse stato ufficialmente investito della potestà regia, e cioè quando era ancora magister palatii, prese avvio un’intensa produzione normativa che sarebbe stata caratterizzata dall’intento di porre sotto scrutinio tutte le istanze del mondo ecclesiastico, fornendo loro parametri organizzativi e comportamentali ben precisi. Il tratto evidente per l’insieme degli interventi compiuti in tale ambito da Pipino e dai suoi successori, almeno sino a tutta la pri203

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ma metà del ix secolo, fu la considerazione della materia ecclesiastica nel suo insieme come un ambito rispetto al quale il re poteva e doveva proporsi come la suprema istanza regolatrice. I re merovingi, sebbene non avessero mancato di intervenire sulla vita del clero, ad esempio stimolando l’attività sinodale delle diocesi del regno, non erano mai arrivati a esercitare il ruolo di legiferatori in questo ambito in prima persona e in maniera così sistematica. La posta in gioco era tanto quella del consolidamento del prestigio e dell’autorevolezza della potestà sovrana in un ambito che ormai permeava di sé la società del regno franco nel suo insieme, quanto l’esercizio del controllo su istituzioni che avevano anche accumulato patrimoni considerevoli e che si riteneva perciò che dovessero contribuire concretamente, con le proprie risorse, al perseguimento degli obiettivi politico-militari che la monarchia intendeva attuare. Ovviamente, la nostra attenzione si rivolgerà soprattutto ai provvedimenti indirizzati a monaci e monasteri, ma il Leitmotiv della progressiva costruzione di un coerente quadro normativo coinvolge in pari misura anche il clero secolare. Se mai, nei riguardi del mondo monastico, i Pipinidi-Carolingi svilupparono in modo più marcato e sistematico l’idea, che era stata già dei loro predecessori, che esso potesse rappresentare un ambito all’interno del quale individuare interlocutori privilegiati in grado di assistere l’azione di governo del re sotto il profilo spirituale. Per fare questo, però, era necessario che anche la galassia di esperienze e di stili di vita, che all’interno dei monasteri franchi si era sviluppata nel corso di più di un secolo, fosse spinta verso una condizione di maggiore omogeneità: si voleva cioè che la preghiera che i monaci levavano a Dio in favore del re parlasse ovunque con il medesimo linguaggio, ma anche che il sovrano, intervenendo su questa componente della società, sapesse di poter agire sulla totalità delle cellule che la componevano. Questo intento si evidenzia sin dai primissimi interventi di Pipino iii, che, come si è già ricordato, datano a prima ancora che egli cingesse la corona di re dei Franchi, dopo aver definitivamente spodestato l’ultimo re merovingio. Nel 744 comparve infatti il primo capitolare emanato su questa materia da Pipino, in qualità di dux et princeps Francorum, in cui egli affrontò una serie di questioni inerenti l’organizzazione religiosa del regno e che costituì l’esito di un concilio tenutosi a Soissons, al quale avevano partecipato gli ottimati del regno, di condizione sia laica sia ecclesiastica. Accanto alle disposizioni concernenti il clero secolare, ne troviamo alcune riguardanti monaci e monasteri: sono poche righe, ma che riassumono in modo esemplare le ragioni dell’interesse che il futuro re dedicava a questa categoria. A monaci e monache, riuniti nell’ordo monachorum, fu innanzitutto prescritto di vivere secondo «la santa Regola» e di farlo stabilmente nel monastero in cui ciascuno di loro aveva scelto di entrare. Di seguito, si prescrisse che ai monasteri fosse consentito di fruire liberamente delle rendite dei beni necessari al proprio sostentamento ma che, su quanto eccedesse tale quantità, fosse invece regolarmente riscossa la tassazione. Infine si sancì che gli abati non erano tenuti a partecipare direttamente alle attività militari, ma dovevano comunque invia204

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re al re gli uomini destinati a questo scopo, in proporzione al valore delle terre possedute dai propri monasteri1. In sostanza, il provvedimento stabiliva tre princìpi: i monasteri dovevano vivere tutti secondo un medesimo costume di vita e fruire dei mezzi necessari per vivere, ma, assicuratasi la loro disponibilità, erano tenuti a contribuire alle necessità fiscali e militari del regno, in rapporto all’insieme dei beni posseduti. L’autorità che emanava queste disposizioni si faceva evidentemente garante della loro applicazione, intervenendo quindi sia su materie squisitamente spirituali (la ‘regolarità’ della vita monastica e la stabilità della sua professione), sia in quegli ambiti in cui la presenza dei monasteri entrava in relazione con le necessità generali del regno, come ad esempio la riscossione delle tasse e la partecipazione dei sudditi alla leva militare. Quest’ultimo aspetto era considerato sotto una duplice prospettiva, determinata dal particolare percorso esistenziale di quanti avevano scelto di abbracciare la vita ascetica: essi sono visti come persone che, una volta entrate in comunità, avevano obblighi solo verso Dio e non potevano essere quindi coinvolte in faccende terrene come l’andare in guerra. Ma, allo stesso tempo, fatto salvo il loro sacrosanto diritto a vivere un’esistenza quieta, garantita dalla sicurezza delle rendite dei beni posseduti dal monastero che permettevano loro di non essere assillati dalle necessità primarie, essi rimanevano comunque sudditi del regno e tenuti perciò a contribuire alle sue necessità. Quale dovesse essere il costume di vita che i monaci dovevano seguire era già stato chiarito un anno prima dal fratello di Pipino, Carlomanno, il quale nel 743 aveva deliberato in materia sulla base delle decisioni prese in un sinodo da lui stesso presieduto e i cui lavori erano stati coordinati dall’influente missionario anglosassone Bonifacio2. In quella circostanza era stato stabilito che abati e monaci avevano accettato di adoperarsi per la restaurazione della norma della vita regolare del santo padre Benedetto.

L’indicazione ufficiale da parte del re di quale dovesse essere, per tutte le comunità esistenti nel regno, il testo di riferimento cui attenersi nella pratica della vita ascetica costituiva un evento di novità assoluta. Come si è rilevato in più occasioni, sino a quel momento il fatto che esistesse una pluralità di Regole e che le comunità scegliessero più o meno liberamente quale di esse seguire, aveva rappresentato una condizione che nessuno aveva ritenuto necessario mettere in discussione. Il cambiamento di rotta che i principes carolingi intrapresero in tal senso è la spia principale di una mutazione di mentalità sul come trattare la materia ecclesiastica in generale e, in particolare, sul come avviare un processo di reductio ad unum del variegato ambiente monastico presente nel regno dei Franchi. Puntare sull’obiettivo dell’adozione di un’unica regola di vita da parte di tutti i monasteri significava, in primo luogo, mirare ad esercitare un maggiore controllo su di essi. Quelli che si fossero adeguati con più scrupolo ai desiderata di chi deteneva il po205

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tere si sarebbero automaticamente trovati in una posizione di maggior favore nei loro confronti. Da quel momento in poi, e soprattutto da quando Pipino acquisì la dignità regia, gli interventi sul tema della disciplina e dell’organizzazione monastica sarebbero divenuti martellanti e sempre più dettagliati. Com’era già avvenuto in precedenza, fu il re stesso a guidare queste iniziative, convocando sinodi in cui il tema era trattato all’interno delle più generali tematiche che riguardavano la vita del clero. Il primo di questi si tenne nel 755, solo un anno dopo che Pipino aveva ricevuto l’unzione regia da parte del papa. L’assemblea fu convocata nel palazzo reale di Vernum, a nord-est di Parigi, dettaglio che evidenzia una volta di più come il sovrano intendesse porsi a capo del processo di riforma delle istituzioni religiose. Negli atti del sinodo vernense si affermava che i rappresentanti delle comunità monastiche, se invitati dai vescovi metropolitani, avrebbero dovuto obbligatoriamente partecipare ai futuri sinodi delle Chiese del regno convocati a scadenze regolari. Un lungo capitolo è poi dedicato alle badesse delle comunità femminili, alle quali fu vietato di uscire dai monasteri per qualsiasi ragione, a meno che fosse stato il re in persona a convocarle da qualche parte. Furono anche stabilite regole più strette sulla mobilità personale dei monaci: si proibì loro di recarsi in pellegrinaggio a Roma senza il consenso dell’abate della propria comunità e si riaffermò l’esigenza che ognuno di essi fosse stabilmente aggregato a una comunità. Infine, riprendendo temi già affrontati in precedenza, si ribadì che i monasteri avrebbero dovuto rendere conto delle proprie entrate, affinché si potesse stabilire in modo chiaro quanto effettivamente servisse loro. In particolare, i monasteri di fondazione regia sarebbero stati sottoposti al controllo del re, mentre quelli episcopali avrebbero fatto riferimento ai vescovi competenti per territorio3. Come si può vedere, le prescrizioni del sinodo vernense gettano luce su questioni della massima importanza. I monasteri non erano considerati tutti uguali tra loro, ma si dividevano in due categorie ben distinte: ve n’erano alcuni su cui era il sovrano in persona ad esercitare un controllo diretto e altri che dovevano invece sottostare alla giurisdizione vescovile. L’esistenza di una categoria di monasteri beneficiati da specifica attenzione da parte della monarchia era un dato di fatto che risaliva all’età merovingia. Tali fondazioni costituivano solo una piccola parte del totale dei monasteri esistenti nei territori del regno franco: un’élite cui i sovrani avevano concesso uno status giuridico particolarmente favorevole e un evidente sostegno politico ed economico che ne aveva consentito un notevole sviluppo materiale e culturale, grazie anche all’autonomia d’azione che il re garantiva loro nei confronti della Chiesa secolare. Il capitolare di Pipino sanciva in modo netto e ufficiale tale suddivisione e costituiva quindi il presupposto giuridico per l’attuazione di una serie di iniziative che egli stesso e i suoi successori avrebbero posto in essere nei confronti di singole comunità. Per i Carolingi, tuttavia, l’atto del qualificare un monastero come regalis non comportava solo la concessione sovrana dell’immunità dall’intromissione di sog206

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getti terzi nelle sue faccende interne, bensì anche l’istituzione di un vincolo più stretto, in base al quale i monaci e la loro casa erano dichiarati sotto la protezione del re. Questa protezione, che nei diplomi regi è definita con i termini tuitio, defensio o con la parola di origine germanica mundiburdium, affianca così alla tradizionale linea d’azione dei re merovingi – incentrata sulla cessione di diritti ai monasteri – una nuova e più attiva strategia, nell’ambito della quale il monarca assume la funzione di garante della loro quiete e incolumità, in cambio della fedeltà che gli abati gli assicurano a nome delle comunità loro affidate. La protezione regia inquadra quindi la condizione di privilegio di alcuni monasteri all’interno di un sistema in cui il monarca è, in ultima istanza, colui che ne tiene in mano il destino (Rosenwein 1999: 99-114). Gli atti del sinodo tenutosi a Vernum fanno luce anche su altri aspetti: il richiamo alla stabilità dei monaci all’interno delle comunità è elevato soprattutto in rapporto all’abitudine che alcuni di essi avrebbero avuto di recarsi a Roma senza il permesso dei loro superiori. Un riferimento così preciso è probabilmente il segno che questo costume doveva essere piuttosto diffuso. La Città Eterna costituiva un attrattore potentissimo per le comunità monastiche del regno franco, soprattutto perché rappresentava la meta privilegiata per chi desiderasse approvvigionarsi di reliquie di santi antichi e venerabili. I monasteri, infatti, aumentavano in numero e dimensioni e al loro interno parallelamente cresceva l’esigenza di tributare devozione al maggior numero possibile di santi, visti come mediatori della preghiera che da essi si levava verso Dio. Di qui, la corsa all’accaparramento di segni tangibili della loro presenza accanto ai monaci: frammenti dei loro corpi, ma anche oggetti ad essi appartenuti, una volta deposti negli altari eretti all’interno delle chiese diventano metafore di queste presenze e della loro compartecipazione alla preghiera stessa. La ricerca frenetica di questi sacri pegni aveva però innescato una concorrenza fra i monasteri e, soprattutto a Roma, aveva generato un vero commercio, alimentato anche da personaggi con pochi scrupoli che contrabbandavano per reliquie autentiche vere e proprie patacche, riscattate però nella loro dignità per il fatto stesso di provenire dalla città di Pietro e Paolo (Geary 1993: 61-72; Canetti 2002: 81-96). Probabilmente, quindi, il divieto ai monaci di recarsi a Roma senza aver ottenuto l’autorizzazione dei loro abati poteva aver trovato ragione nel desiderio di evitare che l’importazione di reliquie dall’Urbe avvenisse in maniera incontrollata. Connesso a quello appena discusso, vi è un altro tema trattato nel concilio del 755, vale a dire la proibizione alle badesse di recarsi al di fuori del monastero loro assegnato, a meno di aver ricevuto autorizzazione dal re e sempre per motivazioni ben precise. Questo punto è di particolare interesse poiché, oltre a sottolineare un’evidente differenza di genere quanto al comportamento imposto ai leader delle comunità (gli abati di sesso maschile, infatti, non sono toccati dal provvedimento), richiama ancora una volta il principio che la monaca (ma anche il monaco) deve condurre la loro esistenza all’interno dei limiti del claustrum e non mischiarsi alla gente del secolo. 207

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Giunto al potere nel 768 alla morte del padre, divenuto unico re dei Franchi nel 771 e poi nel 774 anche re dei Longobardi, Carlo Magno riprende, amplia e sistematizza ulteriormente la legislazione riguardante le questioni ecclesiastiche e, in particolare, quella concernente lo status e l’organizzazione dei monasteri. Il tema è trattato in particolare nella Admonitio Generalis, un lungo testo emanato il 23 marzo del 789 dal palazzo di Aquisgrana, nel quale il re affronta tutti i temi della vita delle istituzioni religiose presenti nel regno4. Nel preambolo al testo, Carlo presenta se stesso come «devoto difensore e coadiutore» della Chiesa. In realtà il ruolo che egli intende svolgere è ben più attivo e ingombrante: il documento, infatti, non solo scandaglia tutti gli aspetti della vita del clero e definisce nel dettaglio regole comportamentali e parametri organizzativi cui esso dovrà attenersi, ma attribuisce al re anche il potere di controllare se quanto stabilito dalla Admonitio sarà stato effettivamente messo in pratica e rispettato, e di corrigere coloro che non vi si saranno attenuti. Per la verità, all’interno del lungo testo le questioni direttamente concernenti il mondo dei monasteri non occupano un posto preminente, mentre è piuttosto l’organizzazione delle diocesi e del clero secolare a impegnare maggiormente le sollecitudini del re. L’argomento costituisce tuttavia l’oggetto di un secondo provvedimento, emanato nello stesso giorno sotto forma di editto, che si ritiene direttamente collegato alla Admonitio (Nelson 2001: 218). I passi del primo testo e gli approfondimenti del secondo sono fra loro in perfetta sintonia e mirano al medesimo intento: la vita monastica deve svolgersi nel rispetto di norme univoche per tutte le comunità. La Regola di Benedetto, che nell’editto è più volte evocata, deve fornire il quadro di riferimento per l’organizzazione della vita all’interno dei monasteri, mentre una legislazione ad hoc si occupa di definire il loro ruolo nella società del tempo e il rapporto con le istituzioni. In particolare (Admonitio, cap. 73), il re si preoccupa di ribadire che vi deve essere una precisa demarcazione fra lo stato monastico e quello laicale, per cui chiunque desideri entrare in una comunità monastica dovrà innanzitutto provare di esserne degno e di saper perseverare in un’esistenza condotta all’interno dei recinti claustrali. La vita e, soprattutto, la preghiera dei monaci dovranno quindi essere tutelate da ogni elemento d’ingerenza; ragione per cui si raccomanda che, se un monastero ospita la sepoltura di un santo (cosa che può richiamare visitatori provenienti dal mondo esterno) è bene che i membri della comunità abbiano a disposizione un oratorio distinto da quello in cui tale sepoltura è stata collocata, in modo da pregare in tranquillità e rimanendo separati dalla confusione che l’ingresso di estranei nel monastero può determinare (Editto, cap. 7). Questa norma è ripetuta nei deliberati del sinodo tenutosi a Francoforte nel 793, con la prescrizione che l’oratorio dei monaci dovrà sempre essere collocato intra claustra, e quindi in un’area inaccessibile a chiunque non faccia parte della comunità; ciò perché l’ufficio religioso dei monaci si deve svolgere con modi e tempi distinti da quelli cui partecipano i laici e, soprattutto, al riparo da qualsiasi interferenza5. 208

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Queste indicazioni sul rapporto fra l’oratorio in cui i monaci recitano le orazioni quotidiane e i luoghi in cui, all’interno dei monasteri, possono trovarsi tombe venerate costituiscono evidentemente la spia della tensione determinata dall’inevitabile ‘duplicità’ assunta dallo spazio delle abbazie. Il prestigio di queste ultime e quello dei santi, sempre più numerosi, i cui resti sono accolti al loro interno, agisce da calamita per il desiderio di prossimità al sacro presente nella società del tempo. I fedeli agognano di avvicinarsi alle abbazie e pregare presso di esse, ma queste non sono nate per essere dei centri di pellegrinaggio, bensì come rifugi scelti da uomini e donne animati dal desiderio di fuggire il mondo e trascorrere il loro tempo terreno in colloquio con Dio. Le decisioni prese nel 789 e nel 793 per tutelare la riservatezza della preghiera dei monaci mostrano che il problema aveva una sua precisa rilevanza. Le soluzioni al quesito che esso poneva, come vedremo più avanti, saranno fornite dalla concreta progettazione dei complessi monastici. Per tutto il restante periodo del regno di Carlo, il tema dello stile di vita che i monaci e le monache avrebbero dovuto rispettare all’interno dei monasteri e la stretta sorveglianza dei loro contatti con l’esterno sarebbe stato ancora affrontato in più occasioni. Il timore sotteso a queste numerose prese di posizione è chiaramente quello che il codice di norme comportamentali costituito dalla Regula di Benedetto – di cui è costantemente ribadita l’universale validità – non potesse bastare da solo a tenere a freno le forze che avrebbero potuto minarne il rispetto, rappresentate dalla cupidigia di potere e ricchezza, dall’insorgere dei desideri carnali e dal desiderio di dedicarsi ad attività ricreative come il gioco e la caccia: tutte cose che mettevano a repentaglio la vita dei chiostri, agendo tanto dall’interno quanto anche dall’esterno di essi. Il re avrebbe quindi dovuto far sentire il peso della propria autorità su tali questioni, affinché abati, monaci e vescovi (questi ultimi per quanto di propria competenza) sapessero sempre che il loro operato era sottoposto a scrutinio e, se necessario, a sanzione. Ancora verso la fine della sua vita, nell’811, Carlo indirizzava un capitolare a vescovi e abati, motivato soprattutto dall’esigenza di contrastare l’abitudine dei monaci ad allontanarsi dai monasteri e immischiarsi in faccende di carattere mondano, in particolare di quelle concernenti la gestione di beni che essi risultavano detenere ancora a titolo personale, laddove l’ingresso in monastero avrebbe dovuto comportare la completa rinuncia ad essi, preferibilmente in favore della comunità presso cui erano stati accolti. Nella medesima circostanza l’imperatore affrontava ancora una volta l’annoso problema del traffico delle reliquie, stigmatizzando che vi fossero religiosi che ne veicolavano il trasferimento da un luogo a un altro al fine di attrarre la devozione dei fedeli dove pareva loro più vantaggioso, traendone anche lucro personale6. D’altra parte, lo scrupolo di Carlo per il corretto comportamento dei monaci in merito alla gestione di beni mobili e immobili delle abbazie non aveva solo motivazioni riconducibili al rispetto del codice etico che l’abito monastico richiedeva. 209

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Come si è detto più volte, i monasteri erano divenuti da tempo veri e propri forzieri: le loro ricchezze erano finalizzate in primo luogo alla gestione delle necessità interne, ma il sovrano vi faceva affidamento perché, al momento opportuno, contribuissero alle spese per l’allestimento delle frequenti campagne militari e garantissero anche altri tipi di servitia, come ad esempio quello di offrirgli un’adeguata accoglienza quando egli, anche in tempo di pace, si spostava con il suo seguito attraverso i territori dell’Impero (Brühl 1968; Bernhardt 1987). Una sana e controllata gestione economica dei monasteri avrebbe quindi potuto garantire che in tali circostanze gli abati fossero in condizione di fornire agli eserciti gli uomini e i mezzi loro richiesti (Prinz 1994: 91-140). In una celebre lettera inviata poco dopo l’800 a Fulrado, abate di Saint-Quentin (e poi di Lobbes), Carlo elencava minuziosamente tutto quanto questi avrebbe dovuto predisporre a proprie spese per partecipare a una campagna militare di prossima effettuazione: dal numero degli armati al loro equipaggiamento, agli animali e ai carri, per finire con una lista dettagliata di tutti gli utensili e le provviste indispensabili a far fronte alle necessità che si sarebbero potute presentare durante le operazioni belliche7. Che la questione del contributo delle abbazie alle attività militari del regno fosse cosa della massima rilevanza lo illustra bene un documento emanato dal palazzo di Aquisgrana pochi anni dopo, nell’817, quando a Carlo era già succeduto il figlio Ludovico il Pio8. Intitolato Notificazione sul servizio dei monasteri, esso contiene una lista di monasteri distribuiti nei territori transalpini dell’Impero, suddivisi in tre gruppi secondo il contributo che ciascuno di essi avrebbe dovuto fornire al sovrano. Il primo di questi, costituito da quattordici monasteri, era quello chiamato all’impegno più gravoso, consistente nella corresponsione di dona et militia e cioè di donativi e di uomini atti al servizio armato; il secondo gruppo, in cui troviamo sedici fondazioni, doveva fornire solo donativi; per il terzo, infine, che è il più numeroso poiché ne comprende ben cinquantaquattro, si prevedeva un impegno limitato solo alla preghiera per la salute dell’imperatore e della sua famiglia. Mentre è chiaro che il servizio della militia presupponeva che gli abati inviassero al re reparti di armati o per lo meno che provvedessero alle spese necessarie al loro allestimento, i donativi potevano consistere tanto nel pagamento di somme di denaro, quanto nella fornitura delle salmerie: si trattava quindi di impegni onerosi, che imponevano agli abati di gestire con attenzione e con mano ferma il patrimonio delle abbazie. Anche l’obbligo di garantire la preghiera perpetua per il sovrano e la sua famiglia rappresentava qualcosa di più concreto e impegnativo di quanto si possa in prima battuta immaginare, poiché comportava di garantire l’espletazione quotidiana di officia religiosi e quindi sia la disponibilità di spazi in cui svolgerli, sia che essi fossero caratterizzati da un decoro che rispecchiasse la dignità di coloro in favore dei quali le orazioni venivano elevate. L’imposizione delle diverse tipologie di servitia che abbiamo appena visto derivava dal fatto che il sovrano riteneva di poter intervenire con ampia libertà nei confronti dei cenobi non solo in contraccambio della protezione politica e dei privilegi giuridici che aveva loro elargito, ma an210

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che perché buona parte delle terre che ne componevano il patrimonio fondiario, e magari i terreni su cui sorgevano gli stessi monasteri, appartenevano al demanio del regno ed erano giunte nella disponibilità dei monaci in seguito ad atti di generosità dei monarchi. Si deve perciò parlare di ‘disponibilità’ e non di ‘proprietà’ di questi beni, perché i monarchi in genere si guardavano bene dal compiere atti di vera e propria alienazione dei propri diritti eminenti su di essi in favore dei monasteri, ma si limitavano a trasferirne loro il possesso, potendolo in linea di principio revocare in qualsiasi momento. Perciò, quando Carlo e i suoi successori chiedevano, per sé e per il proprio seguito, ospitalità a un monastero ‘regio’, ovvero quando imponevano al suo abate di seguirli in guerra con tanto di truppe o di vettovagliare il proprio esercito, dal loro punto di vista non facevano altro che chiedere che quanto era stato concesso al monastero stesso producesse delle utilità anche per il concedente (Grossi 1957: 34)9. Per un monastero, rientrare nella lista di quelli ‘in servizio’ del monarca rappresentava quindi la certificazione dell’appartenenza all’élite del regno, ma, di conseguenza, anche l’assunzione di un train de vie dispendioso, pieno di responsabilità e non privo anche di qualche margine di rischio (Andenna 1993: 13-18). L’impegno del sovrano franco affinché la vasta costellazione di comunità monastiche che popolavano il territorio dell’Impero assumesse stili di vita il più possibile omogenei e fosse quindi più facilmente controllabile non si esaurì nella pur imponente produzione legislativa di cui si è sin qui dato conto. Questo coinvolgimento così articolato e profondo delle abbazie nella vita spirituale, economica e perfino militare dell’Impero comportava ad esempio che il sovrano desiderasse intervenire direttamente nella scelta di chi avrebbe dovuto dirigerle. Soprattutto nei casi di fondazioni sottoposte direttamente alla protezione regia, di frequente capitava che il re imponesse alle comunità abati esterni, talora ricorrendo perfino a personaggi di condizione laica. Il criterio di base era che alla testa di questi complessi organismi ci dovesse essere qualcuno che non solo desse garanzie di fedeltà al sovrano, ma che fosse anche in grado di comprendere, condividere e attuare il progetto complessivo di potenziamento d’istituzioni poste al servizio della gloria e dello sviluppo dell’Impero. Per questi motivi, non di rado avveniva che la stessa persona fosse posta al comando di più di un monastero. In questi casi, quindi, gli abati finivano per essere più dei supervisori con un marcato ruolo politico, oltre che dei patres delle proprie comunità, in grado di seguirne la vita giorno per giorno. Questa prossimità fra il potere sovrano e i monasteri, se andava certamente a incrementare l’importanza e il prestigio di questi ultimi non mancava però di suscitare risvolti problematici. Gli abati, soprattutto quelli posti a capo delle abbazie ‘regie’, si trovavano spesso a gestire un potere immenso che travalicava la sfera prettamente spirituale per entrare in quella economica e politica, determinando l’assunzione di stili di vita e la frequentazione di luoghi molto diversi da quelli consoni a un monaco. Questi abati erano spinti a uscire spesso dai monasteri e ad allontanarsene anche per lunghi periodi, magari per frequentare la corte e condivi211

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derne le abitudini, come ad esempio quella di partecipare a battute di caccia; non di rado poi, come si è visto, il contributo alle campagne militari comportava anche la loro diretta partecipazione alle azioni belliche. Considerata nel suo insieme, la politica seguita dai sovrani carolingi nei confronti del mondo monastico sembra così aver prodotto quasi una sorta di ‘schizofrenia comportamentale’: per un verso, essa puntava a razionalizzare la vita delle abbazie spingendole verso l’adozione di un’unica Regola e sorvegliando che i suoi precetti indicava fossero rigorosamente rispettati; d’altro lato, il ruolo che esse erano chiamate a svolgere nella società, ne determinava inevitabilmente il coinvolgimento in situazioni come quelle che ho appena descritto. Si chiedeva insomma, allo stesso tempo, alle abbazie di essere luoghi di rigore e di splendore, agli abati di essere custodi delle norme della vita monastica e di saper agire da protagonisti nel secolo: è evidente che questi equilibri non erano di certo di semplice attuazione. L’azione che forse produsse risultati più duraturi fu però quella di incoraggiare una riflessione approfondita all’interno degli ambienti monastici sui criteri organizzativi della vita cenobitica, avente per obiettivo quello dell’omologazione delle consuetudini e delle norme che la regolavano, tenendo come linea-guida il testo della Regola di Benedetto da Norcia. Monasteri regolati, monasteri immaginati, monasteri costruiti: la complessa realtà dei claustra nell’età carolingia Carlo non avrebbe fatto in tempo a vedere l’approdo del percorso al cui avvio tanto aveva contribuito. La sua tappa fondamentale fu raggiunta infatti subito dopo la morte di Carlo (avvenuta nell’814), quando la corona imperiale era passata nelle mani del figlio Ludovico. Fu infatti tra l’816 e l’817, nel corso di due sinodi celebrati ad Aquisgrana, che si discusse il tema dell’applicazione della Regola benedettina alla vita di tutti i monasteri dell’Impero, compiendo al contempo una riflessione critica su tale testo. Questa riflessione produsse la stesura di un commento al testo stesso, condiviso dalle principali comunità, la cui funzione sarebbe dovuta essere quella di evitare che il risultato della generale accettazione della Regola perdesse di efficacia in conseguenza del fatto che ciascuno l’avrebbe potuta interpretare come meglio credeva. L’appuntamento dei due sinodi e i deliberati che essi produssero furono il punto di arrivo di un cammino molto lungo. Sin dal tempo di Pipino iii la Regola di Benedetto aveva assunto un ruolo di primo piano; l’intendimento che essa fosse adottata come testo di riferimento per l’organizzazione della vita e della preghiera quotidiana di tutte le comunità presenti nel regno, e poi nell’Impero franco perseguiva l’obiettivo di far sì che queste ultime costituissero un tessuto omogeneo entro il quale l’azione del sovrano potesse dispiegarsi in modo incisivo. 212

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Ardo Smaragdus, il biografo dell’abate Benedetto di Aniane che, come vedremo più avanti, sarà il protagonista delle due assise, affermava a questo proposito che il maggiore risultato da esse conseguito fu che da tutti venne osservata un’unica Regola e tutti i monasteri furono così ricondotti ad una tale forma di unità, che i monaci sembrava fossero stati educati da un unico maestro in un unico luogo10.

In ogni caso, benché nei sette decenni trascorsi fra l’avvento al potere dei Carolingi e le deliberazioni dei sinodi di Aquisgrana si fosse molto parlato della Regola di Benedetto da Norcia, ciò non aveva impedito che all’interno dei singoli monasteri perdurasse ancora una grande varietà di declinazioni nell’organizzazione della vita monastica e che si fosse quindi ben lontani da quella unitarietà di comportamenti che il biografo di Benedetto di Aniane celebrava (Bonetti 1993). Con ciò non s’intende dire che passi in quella direzione non fossero stati fatti. Durante la seconda metà dell’viii secolo si erano affermate quelle che potremmo definire delle tendenze condivise su che cosa un monastero dovesse essere e rappresentare, e all’interno di esse si erano in vari modi incanalate le scelte compiute dalle singole abbazie. Per fare un esempio, era opinione diffusa che una comunità monastica potesse rafforzare l’efficacia della propria preghiera (e quindi della propria interlocuzione con Dio) se questa era recitata in compagnia dei santi, i cui resti materiali riposavano negli spazi consacrati del monastero (chiese e cappelle)11; ma le parole, i tempi e la durata dell’orazione, così come la scelta dei luoghi ove essa sarebbe dovuta avvenire, potevano variare fortemente da una comunità all’altra secondo il programma spirituale, i rapporti personali e il retroterra culturale che i leader di ciascuna comunità intrattenevano all’interno del più vasto scenario della società carolingia, nonché al ruolo che ogni monastero rivestiva rispetto alle tradizioni religiose del proprio territorio di appartenenza (Rabe 1995: 6-8). In altri termini, se la centralità della preghiera era per tutti un elemento indiscutibile, la sua attuazione liturgica poteva essere realizzata in forme molto diverse. E poiché la liturgia aveva come sua quinta scenica gli spazi dei monasteri, ciò significava che questi ultimi si plasmavano in rapporto alla prima, producendo quindi esiti anche molto differenti da luogo a luogo. Possiamo anzi aggiungere, a questo proposito, che la capacità di inventare forme complesse e suggestive di rappresentazione della preghiera costituisse quasi un terreno di competizione fra le diverse comunità, reso ancor più ricco di spunti dal crescente interesse per quanto si andava apprendendo sul modo in cui, a Roma, essa era fisicamente collegata ai luoghi in cui si veneravano le memorie dei santi. Come Roma era città ‘tutta santa’, rivendicata a questo ruolo dal sangue e dai corpi dei martiri presenti in ogni angolo del suo spazio, così i monasteri, che costituivano le città dei giusti in terra schermate dal male del mondo, potevano gareggiare fra loro per imitarla (Baldovin 1987; Doig 2008: 119-133). Citando le parole di Salomone, il cronista che racconta le vicende del monastero di Re213

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don, sorto nella prima metà del ix secolo al confine tra Bretagna e Normandia, ricorda che la possibilità che un monastero divenisse veramente una città in cui realizzare il sogno della perfetta attuazione della Legge di Dio in terra dipendeva dalla capacità della comunità che lo abitava di operare veramente come un ‘collettivo’, la cui forza scaturiva dalla disciplina e dalla mutua solidarietà che legava reciprocamente i suoi componenti, poiché il fratello che aiuta il fratello rende [il monastero] come una città forte e munitissima12.

In sintesi, la progressiva crescita di attenzione verso la Regula Benedicti che si rileva nella Frankia dell’viii secolo aveva aperto la possibilità che le comunità monastiche riconoscessero un riferimento comune per l’organizzazione della propria vita regularis; ma è ormai abbastanza chiaro che questo non significò né che in età carolingia il monachesimo fosse divenuto tout-court benedettino né, tanto meno, che si fosse creato un ordine benedettino che riunisse i monasteri tra loro in forma stabile e gerarchica. Ogni abbazia aveva ancora ampi margini di autonomia rispetto alle altre; ciò che legava reciprocamente almeno quelle più importanti era semmai la comune fedeltà al re (poi imperatore) e il fatto che ciascuna di esse costituiva lo snodo di una rete che cooperava con lui per il consolidamento di uno stato universale cristiano, che i monaci potevano contribuire a far crescere nel modo migliore con il favore di Dio, in ragione della loro capacità di colloquiare con Lui attraverso l’esercizio incessante della virtù e della preghiera. Tutto questo considerato, è facile comprendere come nei monasteri di età carolingia si generasse spesso una tensione fra l’intento di attuarvi il rigoroso rispetto dei precetti della Regula Benedicti, l’esigenza che spesso le comunità manifestavano di non abbandonare peculiari consuetudini nell’organizzazione della vita ascetica e infine la volontà di materializzare il proprio prestigio spirituale attraverso l’attuazione di ambiziosi programmi di ampliamento edilizio della sede in cui vivevano. Queste imprese, in particolare, se da un lato contribuivano non poco ad accrescere lo splendore esteriore di un monastero e la fama dell’abate che era stato il loro promotore, potevano però essere allo stesso tempo motivo di distrazione nel perseguimento degli ideali più autentici della vita consacrata. Edifici inutili? La scommessa di Ratgar, abate di Fulda (792-814) Tutte queste criticità – e i problemi che ne scaturivano – emergono in modo emblematico all’interno di una spinosa vicenda occorsa alla comunità dell’abbazia di Fulda, nell’attuale regione dell’Assia (Germania centrale), durante i primi anni del ix secolo. Questa fondazione era sorta poco prima del 750 sotto l’influsso di san Bonifacio e per opera del suo discepolo Sturmi, con l’intendimento di farne un presidio di spiritualità cristiana in territori la cui popolazione si era volta al Cristianesimo in tempi molto recenti. La sua nascita era direttamente legata al disegno 214

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della monarchia franca di rafforzare il proprio controllo su un’area strategica, posta a cuneo fra i territori dei Sassoni e dei Turingi (Pörtner 1967: 213-264; Martin 1989: 17-34). Per tutto il periodo compreso fra la sua fondazione e i primi anni del ix secolo, il patrimonio del monastero crebbe costantemente grazie a donazioni effettuate da personaggi che detenevano grandi proprietà fondiarie concentrate principalmente nei territori delle valli del Reno e del Meno. Intorno all’800, Fulda era divenuta un’abbazia ricchissima e potentissima e le connessioni che essa intratteneva con i gruppi aristocratici della Renania e dell’Assia si erano fortemente rafforzate. Uno dei suoi più importanti abati in carica nel ix secolo, Rabano Mauro (che fu anche tra i maggiori intellettuali europei della matura età carolingia), era ad esempio entrato nella comunità alla fine dell’viii secolo, offerto da suo padre, che in quegli stessi anni era stato uno dei nobili che maggiormente si erano distinti tra i benefattori dell’abbazia (Innes 2000: 65-68). Il principale protagonista dello sviluppo materiale e culturale di Fulda durante i primi anni del ix secolo fu l’abate Ratgar, alla testa del cenobio fra l’802 e l’817. Anch’egli è ricordato dalle fonti come un personaggio proveniente da ambienti nobiliari; numerosi documenti lo ritraggono al centro di una fitta rete di selezionati contatti e amicizie con l’élite dei territori compresi fra il Reno e il Meno, grazie ai quali il monastero riuscì ad attrarre su di sé un importante flusso di donazioni (Innes 2000: 23). Proprio lui sarebbe stato il protagonista degli eventi che avrebbero scosso Fulda nell’817. Un laconico accenno presente negli Annales Fuldenses nella parte conclusiva delle notizie relative a quell’anno annuncia che l’abate Ratgar del cenobio fuldense, accusato dai confratelli e imprigionato, venne deposto13.

La deposizione di un abate in seguito a un sollevamento generale della comunità che gli era stata affidata non era un evento frequente a quei tempi. Doveva essere accaduto qualcosa di veramente grave per giungere a tanto. Una fonte preziosa quanto piuttosto singolare, utile per capire quale fosse stata la causa della disgrazia di Ratgar, è rappresentata dal cosiddetto Libello di supplica sottoposto all’imperatore Carlo da parte dei monaci di Fulda. Il fatto che il libello fosse stato indirizzato a Carlo Magno ne data la redazione anteriormente alla sua morte, avvenuta nell’814. Secondo chi ne ha curato l’edizione, il testo sarebbe da datarsi in origine all’812, ma una seconda stesura sarebbe avvenuta nell’817 e avrebbe avuto per destinatario il nuovo imperatore, Ludovico il Pio. Il documento avrebbe trovato motivazione nella contrarietà dei monaci di Fulda verso la gestione troppo verticistica e autocratica della comunità da parte dell’abate (Semmler 1958 e 1963; McKitterick 1983: 117-118). I monaci, in particolare, lamentavano – senza mai nominarlo direttamente – che Ratgar avesse arbitrariamente sconvolto le consuetudini che la comunità seguiva sin dai tempi del suo fondatore Sturmi e che potevano considerarsi ispirate direttamente da san Bonifacio. Si fa, è vero, un riferimento al fatto che 215

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Sturmi avrebbe definito tali costumanze dopo aver dimorato per un anno a Montecassino, ma in realtà il testo della supplica pone in evidenza che molte delle richieste dei monaci – soprattutto quelle inerenti il vitto e il vestiario – differivano da quanto Benedetto di Aniane aveva fatto approvare ai sinodi di Aquisgrana sulla base della “corretta lettura” della Regola del suo omonimo di Norcia (Andenna 1993: 20)14. I monaci si lamentavano con l’imperatore anche perché, a loro avviso, nel monastero si era perduta la carità verso i deboli e i bisognosi; in particolare essi denunciavano che anziani e malati erano trattati senza riguardo per la loro precaria condizione fisica e che scarsa attenzione era riservata a pellegrini e visitatori, in particolare quando molti di essi affluivano al monastero per partecipare alle celebrazioni che vi si svolgevano in occasione della ricorrenza di san Bonifacio15. A queste mancanze facevano negativamente riscontro, sempre secondo i redattori del Libello, cattive abitudini che l’abate avrebbe evidentemente assecondato: la prima era quella di esonerare i monaci dal lavoro manuale necessario per il quotidiano funzionamento del monastero, affidandolo a laici e servi che lo avrebbero svolto con minore devozione e precisione, causando anche un eccessivo viavai di estranei all’interno dell’area claustrale16; in secondo luogo, essi ritenevano che l’abate avesse incoraggiato persone ad entrare a far parte della comunità in cambio della promessa di ottenere privilegi e rendite provenienti dall’ampio patrimonio abbaziale, omettendo di verificare preventivamente l’effettiva vocazione alla vita monastica di queste stesse persone, le quali, una volta entrate in monastero, avrebbero causato turbamento e divisione tra i monaci a causa del loro comportamento poco conforme alla vita ascetica17; inoltre, si stigmatizzava che beni e rendite del monastero fossero stati affidati a singoli membri della comunità, violando il precetto del collettivo godimento dei medesimi da parte di tutti i suoi appartenenti18; infine, si sottolineava il fatto che mansioni e incarichi fossero stati conferiti a singoli monaci in modo arbitrario, causando così liti e dissensi19. Ma il rimprovero più aspro mosso all’abate Ratgar era quello di essersi avventurato nella realizzazione di un programma megalomane di ampliamento edilizio del monastero, che aveva comportato la costruzione di edifici «enormi e superflui» i cui costi stavano mandando economicamente in rovina la comunità e la cui impegnativa realizzazione impediva ai monaci di dedicarsi alle altre mansioni di cui il monastero aveva bisogno, prima fra tutte quella del rispetto dei tempi e delle costumanze della preghiera20. Che cosa mirasse a ottenere questa serie di dure critiche rivolte dai monaci fuldensi al proprio abate – oltre ovviamente alla sua rimozione – lo dice chiaramente l’ultimo paragrafo del Libello: Ratgar non poteva gestire la comunità in maniera eccessivamente personalistica, mostrando disprezzo per le opinioni dei confratelli e discriminando coloro che dissentivano dal suo punto di vista21. Essi, insomma, pur non disconoscendo il ruolo di leader della comunità che all’abate era tradizionalmente assegnato, ritenevano che il suo carisma andasse esercitato più con la persuasione che con l’imposizione. Ratgar è dipinto dai suoi detrattori come un megalomane e un despota: probabilmente il suo modo di comportarsi era effettivamen216

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te risultato sgradito a molti, soprattutto perché egli doveva essere stato piuttosto determinato nel costruirsi una personale clientela di monaci e laici cui affidare la complessa macchina di un monastero grande e politicamente molto in vista. Il biografo del suo successore, l’abate Eigil, rimasto in carica fra l’817 e l’822, lo etichetta con il soprannome spregiativo di monoceros, e cioè rinoceronte, per metterne in risalto il temperamento ostinato e violento22. Tuttavia, una volta eliminata la sua ingombrante presenza, il programma che egli aveva concepito per accrescere lo splendore materiale del monastero di Fulda non dovette apparire così inopportuno, visto che nell’anno successivo alla sua deposizione, come ricordano gli stessi Annales Fuldenses, la grande chiesa dedicata al Salvatore, la cui costruzione Ratgar aveva avviato per farvi deporre le reliquie di san Bonifacio, venne completata e consacrata alla presenza dell’arcivescovo Haistulf di Magonza23. L’edificio fu adornato con profusione di materiali preziosi e fu dotato di due cripte poste a ciascuna delle estremità, ove furono deposte numerose reliquie, molte delle quali erano state fatte giungere direttamente da Roma24. Eigil non si limitò solo a completare le costruzioni già avviate dal predecessore, ma avviò di sua iniziativa anche l’edificazione di un’altra chiesa, dedicata a san Michele, posta presso il cimitero dei monaci25. L’edificio è ancora esistente nelle sue forme originali e si trova a poca distanza dalla chiesa abbaziale. La sua opera più cospicua fu però la costruzione ex novo del claustrum monasterii. In quale tipo di spazi e di edifici esso si articolasse e come gli uni e gli altri potessero essere posti in relazione fra loro la fonte non lo dice, né vi sono dati archeologici sufficientemente attendibili che aiutino a comprenderlo, ma è abbastanza chiaro che si dovette trattare di un cantiere di proporzioni notevoli, visto che esso riguardava l’area nella quale avrebbe dovuto vivere la numerosa comunità monastica26. Eigil, insomma, eletto per porre una diga alle ambiziose iniziative di Ratgar considerate parte fondamentale della sua discutibile condotta, in realtà procedette esattamente nel suo solco, mirando a rendere l’abbazia di Fulda ancora più grande e splendida di quanto fosse stata avviata ad essere durante il quindicennio precedente. Nell’attuare il programma descritto nella sua biografia egli era anche entrato in collisione con la raccomandazione che l’imperatore Ludovico il Pio gli aveva rivolto quando, nell’817, era intervenuto per sancire la deposizione di Ratgar e il suo subentro nella carica abbaziale27:

59, 59b

Padre, arresta la costruzione di edifici immensi e di opere non necessarie, che impongono fatiche alla servitù che vive al di fuori del monastero ed alla congregazione dei confratelli che vivono al suo interno e d’ora in poi procedi in questa direzione con moderazione.

La risposta a quest’apparente contraddizione (apparente, nel senso che è ben visibile!) la possiamo tuttavia trovare nel seguito stesso del discorso indirizzato dal sovrano al nuovo abate: 217

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Le città dei monaci Quanti costruiscono edifici per ricoverarvi le spoglie dei martiri [martyria, nel testo latino] e adornano le chiese fanno opere buone; ma nel momento in cui preservano anche un’altra cosa giusta agli occhi di Dio, e cioè se i poveri traggono vantaggio dai beni che essi detengono e se non fanno propri i beni degli altri usando loro violenza o in modo fraudolento, sappiate allora che in questo modo costruiscono per la gloria di Dio. […] E qual è l’utilità del far rifulgere le pareti di gemme e, allo stesso tempo, far morire Cristo tenendo i poveri nell’inedia?

Subito dopo (ed è forse la considerazione più interessante), Ludovico consiglia all’abate anche di non attribuire in maniera immoderata, e cioè compiendo valutazioni spericolate, i beni che sono dei poveri – e cioè le elemosine dei fedeli laici, da questi elargite per la salute della propria anima – a coloro che poveri non sono.

Secondo il punto di vista dell’imperatore, insomma, la realizzazione di programmi edilizi per rendere i monasteri sempre più grandiosi e splendidi non era in sé un fatto deprecabile, ma lo diveniva quando accadeva senza misura e le eccessive risorse investite in queste opere rendevano impossibile l’esercizio della carità che i monasteri, come ogni altra istituzione cristiana, erano tenuti ad esercitare verso i più deboli e quando tutto ciò innescava nella comunità tensioni insostenibili. In ogni caso, se le risorse e i beni di cui il monastero poteva disporre grazie alle donazioni ricevute dai propri benefattori erano stornate con moderazione per scopi diversi dal sostegno ai poveri, ciò non era necessariamente da condannare purché non avvenisse in maniera avventata. Il testo dell’allocuzione di Ludovico fu riportato per iscritto da un monaco di Fulda e quindi non sappiamo quanto fedelmente esso rispecchi le parole effettivamente pronunciate dal sovrano o quanto piuttosto non rifletta punti di vista interni alla comunità di Fulda, che, dopo essersi liberata di Ratgar, non pare avesse alcuna intenzione di abbandonarne i progetti volti a ingrandire il monastero. Comunque sia, essa ci appare come un capolavoro di equilibrismo retorico in cui si cerca di bilanciare istanze tra loro difficilmente conciliabili e che lasciano emergere ancora una volta quella che ho definito la ‘schizofrenia’ che affligge lo sviluppo tumultuoso del mondo monastico in età carolingia. Il monastero poteva e doveva crescere ed espandersi dal punto di vista materiale, perché ciò andava a onore di Dio e dei santi le cui reliquie erano state lì adunate e custodite, ma ciò doveva accadere in maniera ragionevole. L’abate doveva quindi agire con «discrezione, misura e carità», non dimenticando mai che ogni abbellimento esteriore doveva essere bilanciato dalla destinazione a beneficio dei bisognosi di una parte delle risorse di cui il monastero disponeva. Dopo aver conferito con l’imperatore, Eigil si recò a Magonza dall’arcivescovo Haistulf per comunicargli la propria elezione. Il biografo riporta anche il discorso che, nell’occasione, il presule gli rivolse e le sue parole costituiscono il perfetto 218

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completamento di quanto l’abate si era sentito dire poco prima dal sovrano. In breve, Haistulf raccomandò ad Eigil che venisse preservata l’unità e la concordia della comunità, sottolineando che l’abate aveva grandi responsabilità in tal senso, dovendo evitare discriminazioni sia in positivo sia in negativo nei confronti dei confratelli28. Il tema che emerge, quindi, non è tanto la riprovazione per quel che Ratgar aveva fatto, ma per come si era comportato. Egli aveva operato per la gloria del monastero, ma aveva compiuto tutto ciò nel modo sbagliato e cioè non riuscendo ad attuare le sue iniziative con il consenso dei confratelli. Una buona parte di essi era stata messa ai margini in favore di una cerchia di favoriti da lui prescelti, che comprendeva personaggi sia interni sia esterni alla comunità. A costoro, che agivano sotto il diretto controllo dell’abate, sarebbe stata demandata la gestione del patrimonio monastico e delle rendite che esso produceva, creando sospetti e scontento. La vita di Eigil, al contrario, ripete quasi ossessivamente che tutte le scelte da lui compiute nel corso dei cinque anni del suo abbaziato furono adottate sempre avendo preventivamente ottenuto l’appoggio della comunità e perfino accogliendone gli scrupolosi consilia. Purtroppo, come spesso accade agli sconfitti, Ratgar non è riuscito a consegnare alla storia la propria versione sui fatti che lo videro protagonista e quindi a noi non è possibile capire davvero quanto riprovevole fosse stata la sua condotta. Dopo la morte di Eigil, e quindi a distanza di soli cinque anni dalla deposizione di Ratgar, la carica abbaziale fu affidata al già ricordato Rabano Mauro29. Rabano non solo proveniva da una famiglia nobiliare che, come abbiamo visto, era stata attiva benefattrice di Fulda ai tempi sia di Ratgar, sia del suo predecessore Baigulf, ma doveva essere stato personalmente assai vicino a Ratgar, visto che gli aveva dedicato un’ode colma di ammirazione e gratitudine per averlo aiutato a formarsi negli studi e averlo incoraggiato a comporre le sue opere, impegnandosi anche nella loro revisione30. E se la crescita intellettuale di Rabano era dipesa dal sostegno che Ratgar gli aveva garantito, ciò vuol dire che al tempo in cui questi era stato l’abate di Fulda la biblioteca del monastero doveva essere sufficientemente fornita perché al giovane studioso e certamente anche ad altri che si trovavano nella sua stessa posizione fossero forniti gli strumenti per la propria formazione intellettuale31. Rabano fu anche l’autore delle dieci epigrafi metriche poste presso gli altari della grande chiesa abbaziale voluta da Ratgar32: dato il breve periodo trascorso fra la deposizione di quest’ultimo e il momento della consacrazione della chiesa stessa, è piuttosto probabile che egli, nel periodo finale del suo abbaziato, sia stato il committente anche di questi testi dedicatori. Questi dettagli ci obbligano a riflettere su alcuni aspetti della vicenda tutt’altro che irrilevanti: l’operato di Ratgar non era stato certo rigettato in blocco e la sua stessa “megalomania edilizia”, che aveva costituito uno dei capi d’accusa più espliciti a suo carico, aveva trovato perfetta continuità presso i successori33. I monaci che avevano protestato contro di lui prima presso Carlo Magno e poi presso Ludo219

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vico il Pio si erano lagnati per il fatto che egli aveva sconvolto la vita della comunità e l’aveva tiranneggiata perché tutti fossero mobilitati per realizzare le nuove costruzioni che egli aveva progettato, ma in realtà la prossimità di Fulda al potere regio – ciò che l’aveva progressivamente mutata da una semplice ‘famiglia monastica’ in una istituzione vera e propria34 – rendeva l’intrapresa di questo percorso una scelta quasi inevitabile. La costruzione di una nuova grande chiesa abbaziale coincideva con l’esigenza non semplicemente di far rispecchiare il favore regio nello splendore della nuova costruzione, ma soprattutto nella sua idoneità a poter ospitare in modo degno le reliquie di numerosi santi e a costituire il teatro per l’allestimento di cerimonie solenni e sfarzose. Tutte queste cose dovevano contribuire a rendere evidente che l’abbazia fosse davvero un luogo dove gli uomini e Dio potevano trovarsi più vicini che altrove (Raajimakers 2012: 90-91). Ma non va neppure dimenticato che, attraverso le proprie opere, gli abati dovevano parlare non solo ai regnanti, bensì anche ai numerosi aristocratici che con le loro donazioni e le oblazioni dei propri figli contribuivano in modo capillare alla crescita materiale del monastero e della sua comunità: le realizzazioni architettoniche (soprattutto la costruzione di chiese) costituivano il modo migliore per mostrare a tutte queste persone dove fossero finiti i soldi che essi avevano donato ai monaci. Ratgar, insomma, doveva essere stato sicuramente un personaggio dal carattere poco digeribile e dal comportamento tirannico, ma sarebbe sbagliato trarre da ciò la conclusione che le sue realizzazioni avessero rappresentato un’aberrazione rispetto agli obiettivi che un grande monastero regio dell’età carolingia come Fulda doveva comunque imporsi di raggiungere. Il testo noto come Statuta Murbacensia, scritto presumibilmente nell’abbazia alsaziana di Murbach a commento degli atti del primo sinodo di Aquisgrana, contiene una frase che permette di comprendere bene il dilemma che travagliava molti abati e comunità monastiche dell’età carolingia, divise fra il desiderio di tutelare intenti, princìpi e ritmi della vita ascetica e gli “obblighi collaterali” che i monasteri dovevano assolvere, derivanti dalla loro contiguità con il potere politico. L’abate Simperto, presumibile redattore di questo importante documento, commentando i capitoli del sinodo in cui si raccomandava agli abati e ai monaci di uscire il meno possibile dal monastero per occuparsi di questioni inerenti l’amministrazione delle proprietà, affermava che il problema non era solo rappresentato da quanto atteneva tale aspetto, ma anche dalle incombenze che scaturivano dagli «incarichi episcopali e da quelli relativi all’organizzazione del palazzo»; e, in modo abbastanza paradossale e inatteso, concludeva le sue riflessioni esclamando: Ci liberi Iddio un giorno dai doveri verso l’imperatore ai quali siamo soggetti, affinché ci sia finalmente permesso di occuparci in modo più completo delle attività spirituali35.

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Dilemmi e ambizioni di Benedetto di Aniane Il ruolo che i sovrani franchi avevano voluto attribuire ai monasteri sin dal vii secolo e che i Carolingi avevano voluto ulteriormente potenziare offriva, sì, grandi opportunità, ma imponeva di affrontare sfide e controllare tensioni che potevano condurre allo smarrimento della retta via dell’ascesi. Se la vediamo sotto questa luce, la vicenda di Ratgar, paradigmatica rappresentazione del dilemma su cui rifletteva Simperto, fa apparire questo personaggio come una figura più tragica che odiosa, travolta da una malaccorta gestione politica, prima ancora che economica, del progetto di potenziamento del monastero del quale era stato posto a capo. Quanto fosse complesso tra gli ultimi decenni dell’viii secolo e i primi del ix il problema dell’equilibrio fra la tendenza all’accrescimento dello splendore materiale dei monasteri e la preservazione dell’austerità dello stile di vita che al loro interno si doveva svolgere ce lo illustra bene la biografia di Benedetto, abate di Aniane (750 ca.-821). Questo personaggio può essere a buon diritto considerato una delle figure chiave del monachesimo occidentale dell’alto Medioevo. Afferma Marcel Pacaut (1989: 92) che «senza di lui, in effetti, nessuno potrebbe dire che cosa sarebbe avvenuto della vita monastica, se il monachesimo avrebbe avuto ancora possibilità di sopravvivere e se si sarebbe evoluto in direzione dell’uniformità». Anche se quest’asserzione può sembrare un po’ categorica, tuttavia è indubbio che l’abate di Aniane, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, quando il trono era occupato da Ludovico il Pio, svolse un ruolo rilevante affinché fosse accolto da un numero cospicuo di monasteri sparsi per l’Impero il principio che un’unica Regola, quella di Benedetto da Norcia, dovesse costituire il testo di riferimento per l’organizzazione della vita ascetica di tutte le comunità. Abbiamo già visto che i sinodi tenutisi nella capitale imperiale fra l’816 e l’817 furono l’occasione in cui si elaborò una rilettura della Regula Benedicti, redigendo una serie di postille interpretative ai suoi capitoli, che sarebbero dovute servire ad esplicitare il punto di vista dei partecipanti alle due assise riguardo alle materie che vi erano state trattate. L’impressione che i testi dei deliberati dei due sinodi producono è quella di un’interpretazione del testo di Benedetto da Norcia in senso decisamente rigoristico. La cosa risalta in particolare quando si guardi alle prescrizioni in materia di cibo e di vestiario e a quelle concernenti i rapporti dei monaci con il mondo esterno. Anche gli abati sono coinvolti in questo generale richiamo a costumi di vita austeri e nei loro confronti si esercita una decisa pressione affinché si adoperino concretamente per l’applicazione della Regola benedettina all’interno delle loro comunità, nelle direzioni che il sinodo indicava. Le due adunanze di Aquisgrana furono precedute e seguite da diverse altre occasioni di confronto sui temi che furono poi lì discussi, e in particolare su quello dell’uniformazione della vita regularis entro i parametri definiti dal testo di Benedetto da Norcia. Fu lo stesso abate di Aniane a stilare, proprio a ridosso della celebrazione dei 221

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due sinodi dell’816 e dell’817, la Concordia fra i testi delle Regulæ monastiche di origine tardoantica più diffuse all’interno dei territori franchi; ciò con tutta probabilità avvenne affinché la definizione della retta interpretazione del testo di Benedetto si producesse tenendo in conto, per quanto possibile, la pluralità delle fonti che avevano ispirato le variegate manifestazioni della vita monastica fiorite nelle regioni dell’Impero (De Jong 1995: 632-633). Nel perseguire lo sforzo di reductio ad unum della vita regolare dei monasteri, i problemi specifici con cui Benedetto di Aniane dovette confrontarsi più di frequente furono senz’altro quelli dell’uniformazione delle modalità di recitazione della preghiera e della gestione del rapporto fra comunità, abate e il mondo esterno; aspetto quest’ultimo che, come vedremo fra un attimo, può essere considerato come una sorta di corollario del primo. Nei monasteri carolingi, la tendenza a rendere la recitazione delle preghiere quotidiane un rituale che occupava spazi temporali sempre più lunghi (quando non continui, entro le ventiquattro ore della giornata) e l’inserimento delle preghiere stesse entro cerimoniali liturgici complessi costituivano inevitabili derivate dell’affermarsi della concezione dello spazio claustrale nel suo complesso come un luogo impregnato della presenza divina. Le sacre reliquie dei santi riposte negli altari delle chiese interne alle abbazie (ed in particolare in quella principale), che mediavano la preghiera rivolta dai monaci a Dio, andavano onorate tutti i giorni. Inoltre, le comunità delle diverse abbazie, che si legavano tra loro da vincoli di fratellanza, s’impegnavano a pregare quotidianamente le une per le altre e il tributo dell’orazione doveva essere corrisposto anche in favore delle autorità terrene (in primis i regnanti e i pontefici romani) e dei benefattori che ai singoli monasteri avevano offerto protezione e risorse. Soddisfare queste esigenze significava dover espandere significativamente il tempo delle orazioni rispetto a quanto previsto dalla Regula Benedicti e costituire comunità numerose, sufficientemente istruite nella conoscenza dei testi da recitare durante le celebrazioni e in cui vi fossero persone dotate di risorse intellettuali e di una formazione culturale di alto livello, in grado di concepire la complessa mise en scène che questi rituali richiedevano. Altrettanto, era inevitabile – ed è un tema sul quale ci siamo già soffermati – adoperarsi affinché lo scenario entro cui i monaci pregavano fosse adeguato all’onore di coloro per i quali, in terra e in cielo, la preghiera era elevata. Perché potessero ottenere questi risultati, agli abati servivano contatti politici di alto livello e un fidato réseau di collaboratori sia all’interno che all’esterno delle mura del chiostro. Di conseguenza essi – soprattutto quelli alla testa dei monasteri più importanti – dovevano per forza saper essere uomini ‘di mondo’ e dinamici amministratori del proprio patrimonio. Di fronte a tali sfide, immaginarli rinchiusi nel recinto del chiostro come asceti egiziani del iv secolo non solo era del tutto irrealistico, ma avrebbe potuto risultare addirittura dannoso per i monasteri a capo dei quali essi erano stati eletti. Visti in questa luce, i richiami all’austerità che i partecipanti ai sinodi di Aquisgrana lanciarono al mondo monastico sembrano a tutta prima incongrui e irreali222

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stici. Forse il modo più corretto per interpretarli deve essere quello di leggerli al contempo come moniti alla moderazione e all’equilibrio, affinché esperienze come quelle vissute in quegli anni dalla comunità di Fulda non si ripetessero ancora, e come espressione di una volontà di definire comunque una piattaforma unitaria di riferimento per il funzionamento delle comunità, a prescindere dai percorsi ambiziosi e avventurosi lungo i quali lo ‘spirito del tempo’ invitava abati e monasteri a incamminarsi. Le res gestæ di Benedetto di Aniane raccontano bene quanto fosse difficile compiere la quadratura del cerchio fra ideali e realtà. Del grande riformatore possediamo una biografia, scritta da Ardo Smaragdus, conterraneo e discepolo di Benedetto e suo confratello sia nel monastero di Aniane, nel sud-est della Francia, sia in quello tedesco di Inda, non lontano da Aquisgrana, dove l’imperatore Ludovico il Pio volle che Benedetto stesso si stabilisse intorno all’815, per essere a lui più vicino. Questo testo fornisce informazioni preziose riguardo a come questi due monasteri si fossero evoluti nel tempo, a mano a mano che crescevano la fama e l’influenza politica di Benedetto. Il monastero di Aniane era nato intorno al 750 su una proprietà della famiglia dello stesso Benedetto; Ardo descrive il primo insediamento stabilitosi intorno a una cappella dedicata a san Saturnino, ritraendolo come un luogo improntato alla massima semplicità in cui i monaci, sotto la guida del fondatore, praticavano un rigore ascetico assoluto36. Qualche anno dopo l’aumentato numero dei confratelli obbligò Benedetto ad optare per il loro trasferimento in un sito vicino e più spazioso. Qui egli fece edificare una nuova chiesa dedicata alla Vergine, realizzata ristrutturando le rovine di un edificio già esistente. Grazie alle maggiori risorse di cui la comunità ora poteva disporre, Benedetto fece costruire gli edifici per ospitarne i monaci imponendo tuttavia che, in segno di umiltà, le pareti non fossero decorate e che i tetti degli edifici fossero coperti con paglia e non con tegole «rosseggianti». L’abate pretese anche che i monaci s’impegnassero in prima persona in tutti i lavori manuali e che, di conseguenza, non fosse accettato l’aiuto di personale servile. Il vasellame sacro usato per le celebrazioni liturgiche era inizialmente di legno, poi di vetro e infine di stagno: una prima escalation da una semplicità totale verso una migliore consistenza materica di questi oggetti, che era tuttavia caratterizzata dal rifiuto di usare materiali preziosi37. Qualche anno dopo (il biografo indica l’anno 784), Benedetto avviò un progetto di riedificazione del cenobio. Ardo afferma che l’iniziativa aveva preso corpo «su ordine di Carlo Magno», con il sostegno di anonimi «duchi e conti». L’apparente facilità con cui Benedetto ottenne aiuto da Carlo (che molto probabilmente nella circostanza aveva potuto incontrare personalmente) va probabilmente ricercata sia nel fatto che egli proveniva da una famiglia nobile – il padre era stato conte di Maguelonne, sempre nel Sud della Francia –, sia per aver servito a corte sotto Pipino e poi, dopo la morte di quest’ultimo, per essersi schierato in favore di Carlo stesso al momento della sua successione al trono.

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L’intervento del re e dei nobili permise di imprimere al monastero un cambiamento totale cui Benedetto non solo non si oppose, ma del quale sembra anzi essere stato convinto promotore. Egli avviò la costruzione di «un’altra chiesa di proporzioni grandissime, in nome di Dio e del Salvatore nostro» (e cioè, come Ardo spiega poco più avanti, in nome della Trinità) e insieme ordinò la costruzione di nuovi chiostri «ornati di un gran numero di colonne marmoree situate sotto i portici». Inoltre, data la significativa crescita numerica della comunità, che avrebbe superato in quegli anni i trecento membri, Benedetto decise di far costruire una nuova dimora in grado di ospitare sino a mille persone, lunga cento cubiti (circa cinquanta metri) e larga venti (circa dieci metri), e in più altre celle disposte «in luoghi opportuni» all’interno del monastero; infine, la chiesa dedicata alla Vergine fu dotata di tre nuovi altari e, nell’area del cimitero, ne fu costruita ancora un’altra, nel nome del Battista38. A marcare la differenza fra le nuove costruzioni e quelle che le avevano precedute, Ardo ricorda che queste ultime non avevano più i tetti ricoperti di paglia, bensì di tegole. All’interno della grande chiesa dedicata alla Trinità, poi, era tutto un rifulgere di arredi per l’illuminazione (candelabri e lampade) e per le celebrazioni religiose (paramenti, drappi, calici e altri oggetti), prodotti con tessuti, pietre e metalli preziosi39. Non paia irriguardoso il paragone, ma come un moderno manager di una compagine sportiva che voglia ambire a concorrere con successo nelle competizioni più importanti, l’abate anianense, per fare fronte alla sfida che i cambiamenti in corso avevano comportato, agì con decisione ‘sul mercato’ per acquistare libri e per cooptare all’interno della comunità persone sufficientemente preparate nella grammatica e nella scienza biblica, affinché i suoi confratelli potessero essere educati nella lectio e nel canto dei testi e degli inni sacri, e perché le quotidiane celebrazioni liturgiche che la nuova grande chiesa era destinata ad ospitare si potessero svolgere in modo solenne, impeccabile e raffinato. Queste notazioni rivelano che il cambiamento del monastero di Aniane non fu solo e semplicemente di ordine dimensionale, ma fu anche caratterizzato dall’intenzionale sovvertimento dei canoni estetici in base ai quali i precedenti edifici erano stati realizzati e che dovevano rappresentare l’aderenza della comunità a uno stile di vita improntato alla sobrietà più assoluta. Il biografo non ha problemi a collegare la mutazione materiale del monastero di Aniane al fatto che il suo abate fosse entrato in prossimità del potere sovrano, ricordando in particolare che Benedetto, in virtù dell’apprezzamento che Carlo nutriva verso di lui, per tutti i monasteri, sia della Provenza che della Gothia e della Guascogna, era come una nutrice che alimenta e ristora e da tutti veniva amato come un padre, rispettato come un signore, venerato come un maestro40.

Ciò era accaduto proprio perché il sovrano gli aveva in qualche modo attribuito il ruolo di custode della retta applicazione della Regola di Benedetto da Norcia 224

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e di promotore della sua diffusione presso le altre comunità. In altre parole, la persona e l’opera di Benedetto di Aniane erano riconosciute come elemento centrale del progetto finalizzato alla riorganizzazione della disciplina della vita monastica, che Carlo stesso e suo padre avevano già più volte dichiarato di voler condurre a realizzazione. Al venerabile monaco furono perciò messi a disposizione mezzi economici, strumenti giuridici e garanzie politiche affinché la sua opera potesse dispiegarsi senza ostacoli. Il monastero di Aniane, come altri considerati dal sovrano d’importanza strategica, si vide elargire in quella circostanza l’immunità e la protezione regia e, come argent de poche, quaranta libbre d’argento, pari a 9.600 denarii: una somma assolutamente considerevole che, insieme ai beni fondiari (con le relative rendite) assegnati dal sovrano, aveva dovuto facilitare non poco a Benedetto il compito di portare a termine tutti i progetti architettonici che il suo biografo descrive. L’austero monaco che pochi anni prima aveva deciso di morire al mondo, rifiutando gli onori della vita a corte per praticare (sulle terre di famiglia) il più duro ascetismo, sembra perfettamente in grado – nel momento in cui la situazione glielo consente – di riannodare tutti i fili delle sue conoscenze altolocate per far mutare pelle in breve tempo al proprio monastero. Ardo si rende perfettamente conto della contraddittorietà di quanto era accaduto ad Aniane in quel periodo rispetto allo stile di vita che l’abate e la comunità avevano condotto negli anni precedenti e afferma, con sincerità disarmante, che il Padre Benedetto si era discostato un poco dal rigore della sua prima conversione, poiché aveva assunto un compito impossibile41,

ma, si affretta ad aggiungere, tutto questo non aveva modificato la sua volontà e il suo stile di vita improntato al massimo rigore, attraverso il quale dava esempio agli altri su come un monaco dovesse vivere anche se i suoi impegni lo obbligavano spesso ad allontanarsi dalla propria comunità. Ma qual era, esattamente, agli occhi di Ardo, la missione impossibile nella quale Benedetto aveva impegnato se stesso e i suoi monaci? Il problema con cui egli si doveva misurare era in realtà costituito da diverse componenti. Benedetto aveva affrontato sfide tutto sommato convenzionali per il monachesimo del suo tempo. La prima era quella di riuscire a conciliare gli ideali di rinuncia ai beni del mondo con l’esigenza di trovare e gestire le risorse necessarie per garantire la vita e la stabilità della propria comunità; l’altra era compiacere i nobili e i regali benefattori che al monastero avevano elargito beni e protezione politica costruendo edifici splendidi (soprattutto chiese) che ne rispecchiassero il prestigio e la volontà di mostrarsi desiderosi di onorare Dio. Gli abati, che quasi sempre (come del resto lo stesso Benedetto di Aniane) erano a loro volta degli aristocratici, assecondavano volentieri questa tendenza e anzi, come abbiamo visto nel caso di Ratgar e dei suoi successori, se ne facevano personalmente promotori. 225

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Ma, stando a quanto Ardo vuole far intendere, l’abate di Aniane aveva di fronte a sé un ulteriore problema: egli non solo si era proposto come attuatore di un ascetismo particolarmente rigido, ma aveva anche avuto da Dio la rivelazione che tale suo percorso esistenziale si sarebbe potuto mettere in pratica seguendo i precetti della Regola di Benedetto da Norcia e che quindi il suo compito sarebbe stato quello di persuadere gli altri di tale verità42. Per questa sua particolare vocazione, Benedetto di Aniane sarebbe stato individuato e sostenuto da re Carlo e, soprattutto, scelto dal di lui figlio Ludovico come strumento affinché tutti i monasteri dell’Impero si uniformassero a seguire e applicare nel modo più rigoroso la Regola dell’abate di Norcia43. La vera sfida impossibile a cui Ardo allude era quindi che Benedetto riuscisse ad attuare l’ideale di un monachesimo caratterizzato da rigore morale e sobrietà materiale, essendo stato incaricato di fare ciò dal vertice di quel sistema politico che aveva al contempo incoraggiato i monasteri a divenire istituzioni a sé fortemente connesse e contigue, e quindi le aveva spinte a evolversi, dal punto di vista materiale, nel segno della grandiosità e dell’opulenza. La questione appare ancora più complessa se si considera che tale evoluzione, a monte e in via ufficiale, era motivata da ragioni che di per sé in nulla stridevano con le finalità principali per cui un monastero esisteva: esso sarebbe dovuto essere un luogo ove si pregava il Signore incessantemente e con la massima devozione e nel quale si adunavano tutte le persone che avevano scelto di abbandonare la vita del mondo e di prepararsi per tempo a incontrare Dio dopo la morte. Costruirvi chiese e altri edifici sempre più grandi e belli significava semplicemente creare, in onore di Dio, luoghi degni della preghiera che Gli era rivolta da coloro che nell’ambito del genere umano avevano compiuto la scelta di vita che di più a Lui li avvicinava (Duby 1982: 31-32). D’altra parte, se i sovrani si aspettavano che i monasteri a loro direttamente fedeli tributassero a Dio omaggi così prestigiosi, ciò era perché essi stessi erano stati i primi a impegnarsi in tal senso. La chiesa abbaziale di Saint-Denis, che avendo accolto le spoglie di Carlo Martello e di Pipino III era divenuta in certo senso il tempio di famiglia della dinastia carolingia, era stata fatta ricostruire senza badare a spese fra il 768 e il 775 per volere dei figli di quest’ultimo, Carlo e Carlomanno (Wyss i.c.s.). Un testo conservato in un codice inviato verso l’830 dai monaci di Saint-Denis ai loro confratelli dell’abbazia di Reichenau, sul lago di Costanza, descrive con dovizia di particolari la nuova aula di culto voluta dai due sovrani, insistendo sulla grandiosità dell’edificio, ma soprattutto sulla profusione di materiali preziosi impiegati nelle decorazioni architettoniche, in particolare le centotré colonne in diversi tipi di pietra, e negli arredi liturgici di cui esso era stato dotato, fra cui s’imponevano per eccezionalità i rivestimenti in oro, argento e avorio utilizzati per rivestire alcune porte della chiesa, di cui purtroppo il testo non chiarisce l’esatta collocazione44. In considerazione di tutto ciò, quello che Ardo sembra volerci dire è che Benedetto – noblesse oblige – non poteva e non doveva sottrarsi a percorrere la strada 226

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che vedeva i monasteri divenire luoghi oggetto d’investimenti sempre più rilevanti e quindi destinati a trasformarsi in organismi complessi e grandiosi. Quello che però egli poteva – e certamente doveva – fare era testimoniare, con ancora maggiore eloquenza di comportamenti di quanto avesse fatto nel passato, che la cornice non mutava il quadro; vale a dire che i beni materiali erano da intendersi come un dono a Dio e ai suoi santi, che i monaci erano chiamati a custodire, ma la loro disponibilità non avrebbe dovuto cambiare in nulla lo stile di vita dei monaci stessi e la loro aderenza ai princìpi che avevano abbracciato abbandonando il secolo. Probabilmente è per questo che nei testi prodotti dalle discussioni avvenute nell’ambito dei sinodi di Aquisgrana non troviamo alcuna indicazione in merito alla forma del contenitore entro cui la vita monastica si svolge – e cioè lo spazio claustrale –, mentre tutto s’incentra sul comportamento dei monaci, con accenti assai forti posti sugli aspetti di esso più immediatamente percepibili e cioè quelli relativi al vestiario, al consumo del cibo e alla regolamentazione dei rapporti fra le comunità e il mondo esterno. Al monaco si ripete insomma che egli è e resta comunque un nullatenente rispetto ai beni terreni e che la moltiplicazione di questi ultimi all’interno dei monasteri ha valore solo se essi sono conservati intatti, venendo sottratti agli appetiti degli uomini. Questa è la ‘quadratura del cerchio’ che, secondo il suo biografo, la vita di Benedetto propone: più il suo monastero cresce e diviene materialmente splendido, più il sant’uomo si accosta ai vertici del potere, più la sua esistenza rimane caparbiamente ancorata a comportamenti di un rigore estremo. La descrizione che Ardo offre dell’incuria di Benedetto per il proprio aspetto fisico e per l’igiene personale e l’attenzione ossessiva per l’astinenza dal cibo rappresentano un plastico contrasto con il crescente splendore del monastero di Aniane. Gli abitanti dei monasteri devono quindi apparire come dei figuranti, individualmente indistinguibili, chiamati a comporre ogni giorno il coro delle lodi a Dio attraverso la recita della preghiera, cosa che costituisce il perno della loro stessa ragion d’essere, e i monasteri devono essere attrezzati perché questo servizio possa essere sempre svolto nel migliore dei modi, garantendo spazi per la venerazione di Dio e dei suoi santi45. L’esecuzione regolare della preghiera è quindi il centro di tutto e Ardo ci informa che Benedetto di Aniane, su incarico dell’imperatore, si era fortemente impegnato perché quest’attività si svolgesse tenendo ben presenti i dettami della Regola di Benedetto da Norcia46. Le “vie dei canti”: topografie monastiche e celebrazioni liturgiche In questa insistenza sui modi di recitare quotidianamente l’ufficio divino sembra di poter cogliere un ulteriore – seppur indiretto – riferimento a un altro aspetto centrale dello sviluppo materiale dei monasteri nell’età carolingia. Come ho già accennato, in questo periodo la recitazione della preghiera in am227

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bito monastico – e quindi della liturgia che l’accompagna e ne definisce la performance – si sviluppa e si modifica principalmente in rapporto all’emergere di due esigenze, fra loro connesse: il desiderio di imitare la liturgia romana e la volontà di accrescere la sacralità dello spazio claustrale, ospitando al proprio interno i resti corporei dei testimoni della fede, la cui presenza accompagna e amplifica il canto di lode che i monaci elevano quotidianamente a Dio. Si è molto discusso su che cosa abbia realmente significato questa imitatio Romæ nella liturgia attuata all’interno delle chiese carolinge, e cioè se e quale sia stato l’adattamento di queste ultime a forme e articolazioni del proprio spazio derivanti dall’adozione di costumanze che imitavano quelle dell’Urbe; di più, si è anche posta in questione l’esistenza stessa di una unitaria liturgia romana cui nel regno franco ci si sarebbe dovuti ispirare nella progettazione dello spazio delle chiese e nell’organizzazione delle celebrazioni liturgiche (vedi ad es. Heitz 1963: 87-102; Paxton 1990: 92-102; Lemaître 2001; Jacobsen 2008; Raijmakers 2012: 107-112). Un elemento macroscopicamente visibile nello sviluppo dei monasteri dell’Europa carolingia (e non solo di quelli d’Oltralpe) sicuramente però trasse ispirazione da quanto la scena romana contemporanea offriva: la sacralità di Roma non si esprimeva solo in quanto al suo interno sorgevano uno o più luoghi specificamente destinati alla devozione religiosa, bensì era data dal fatto che questi luoghi erano fra loro idealmente interconnessi: i templi dedicati ai singoli martiri (o ad episodi della loro vita, come nei casi di Pietro e Paolo) raccontavano insieme la storia di un sacrificio collettivo che era servito al trionfo della vera fede e simboleggiavano quindi la completa ‘presa di possesso’ che il Cristianesimo aveva attuato su tutto lo spazio della capitale imperiale (Baldovin 1987: 253-268; Fraschetti 1999: 270293). La cosiddetta liturgia stazionale, che a Roma come in altre città dell’Impero si sviluppa già in età tardoantica, è lo strumento attraverso cui questa interconnessione fra i diversi luoghi sacri diviene evidente. Le chiese della città erano visitate dal papa durante l’anno con cadenze calendarizzate in modo preciso e queste visite si svolgevano secondo solenni cerimoniali che prevedevano lo spostamento del vescovo e del clero – suddiviso nei suoi diversi ordines – dalla cattedrale verso di esse, con processioni che attraversavano lo spazio cittadino seguite e accompagnate dalla popolazione urbana (Carmassi 2001). Come ha efficacemente sintetizzato Dominique Iogna-Prat (2006: 183), nell’allestire questa liturgia mobile, i papi «s’impongono come i soli veri officianti e trattano le chiese della città come un’estensione o come una semplice replica della loro chiesa cattedrale». In altre parole, i nessi che si stabiliscono tra la cattedrale e le altre chiese, attraverso le celebrazioni che il papa compie itinerando dalla prima verso le altre e viceversa, sanciscono l’unitarietà del corpo sacro dell’insediamento urbano di Roma. Le maggiori festività presenti nel calendario liturgico – e in particolare quelle pasquali – rappresentavano per intensità e solennità il momento clou di questo tipo di celebrazioni. Esse costruivano all’interno dello spazio cittadino una rete immateriale, ma certamente ben percepita dai contemporanei, che connetteva reciprocamente le chie228

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se tra loro (ed i santi che vi erano venerati) e che soprattutto ne metteva in evidenza il legame con la chiesa principale (in questo caso la cattedrale); tali nessi – che con lo svolgersi delle processioni attraverso le strade della città divenivano espliciti e visibili – avvolgevano tutto lo spazio urbano, sacralizzandolo nella sua interezza. Guardando al modo in cui i maggiori monasteri dell’età carolingia si svilupparono in tutte le regioni dell’Impero, si può davvero pensare che l’idea di spazio sacro che la città di Roma rappresentava di fronte ai contemporanei avesse esercitato un’influenza rilevante; d’altra parte Roma, la sua storia, la sua topografia sacra e le sue chiese erano oggetto di un interesse vivissimo presso i personaggi più colti attivi nel regno franco, i quali traevano informazioni precise su questi temi dalla lettura del Liber Pontificalis della Chiesa romana, dai martirologi e dalle passiones dei santi i cui resti erano ancora tumulati nei cimiteri del suburbio o che proprio in quegli anni erano stati traslati nelle chiese urbane (Mc Kitterick 2009). Gli itineraria per la visita della città di Pietro e Paolo, redatti fra viii e ix secolo e custoditi negli archivi dei monasteri transalpini, costituiscono un’ulteriore appassionante testimonianza del fatto che essa era chiaramente percepita non solo come un “contenitore” di singoli edifici venerabili, bensì come un organismo unitario di cui questi stessi edifici costituivano le cellule (Santangeli Valenzani 2001; Del Lungo 2004). È perciò forse proprio sul terreno di questa ispirazione generale, nonché su quello del dettaglio delle costumanze liturgiche, che si possono trovare alcuni dei riscontri più pregnanti al desiderio d’imitazione del mos romanus che le fonti di questo periodo storico attribuiscono a molti protagonisti delle più grandi imprese di fondazione o ricostruzione di centri monastici avvenute nell’Europa franca47. In alcuni casi, il riscontro incrociato delle evidenze materiali e di quelle testuali permette di raggiungere un livello di dettaglio davvero impressionante nella comprensione di quanto strettamente gli spazi architettonici e le loro funzionalità liturgiche costituissero un nesso inscindibile di funzioni e significati. Centula: la turris eburnea del monachesimo carolingio Il primo di questi esempi è fornito dal monastero di Centula, sorto in età merovingia nella regione della Somme, a nord-est di Parigi, per opera di Richarius (Riquier, in francese). Questi era uno dei numerosi personaggi di estrazione nobiliare vissuti in quel periodo e che, votatosi a vita ascetica, per attuare la sua fuga mundi scelse di stabilirsi in un luogo sufficientemente appartato, la cui disponibilità gli era peraltro stata molto probabilmente concessa da re Dagoberto ii48. L’abbazia visse in posizione abbastanza defilata sino al 790, quando Carlo Magno vi nominò abate il genero Angilberto, che da tempo collaborava con lui a corte rivestendovi incarichi di notevole importanza. In particolare, egli era stato inviato spesso a Roma per compiervi delicate missioni politiche e aveva tenuto la reggenza dell’Italia durante la minorità del figlio di Carlo, Pipino (Villa 2003). Allievo di Alcuino di York e di Paolino di Aquileia, laico, Angilberto si mostrò sufficientemente competente 229

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da poter attendere al sacro incarico che il re gli aveva affidato; ma si rivelò soprattutto abbastanza dotato d’immaginazione e di ambizione da interpretare questa come un’opportunità per concepire e realizzare un progetto mirato a rendere Centula un luogo in cui celebrare Dio in una cornice di mistico splendore, adeguata a quanto ci si sarebbe aspettati da un membro della famiglia reale (Caroli 2005). Angilberto dispiegò la propria azione negli anni a cavallo tra la fine dell’viii e gli inizi del ix secolo (morì nell’814): un periodo relativamente breve, se si considera la grandiosità delle opere da lui promosse. Di esse ci parlano due fonti: la prima è un testo di cui fu autore egli stesso (la Institutio Angilberti abbatis de diversitate officiorum), che ci lascia intravvedere una serie di dettagli relativi alla struttura del monastero e soprattutto alle sue chiese che egli aveva rinnovato, apparentemente riedificandolo ex novo sul sito occupato dal vecchio complesso merovingio. Il breve scritto dell’abate di Centula non aveva lo scopo di descrivere come dovesse apparire il nuovo monastero, bensì di fornire una serie piuttosto meticolosa di prescrizioni su come organizzarvi le cerimonie religiose, con particolare attenzione per quelle previste in occasione delle festività maggiori. I riferimenti agli edifici e alla loro articolazione spaziale sono quindi funzionali a tale intendimento; ma forse per questo ci appaiono ancora più interessanti, poiché ci aiutano a comprendere meglio il fine per cui lo spazio delle chiese e di altri ambienti presenti nell’abbazia era stato pensato e progettato. La seconda fonte di cui disponiamo è una cronaca del xii secolo, il cosiddetto Chronicon Centulense, opera di Ariulfo, un monaco divenuto poi abate di un monastero in Belgio. Ariulfo dedica ampio spazio alle imprese edilizie di Angilberto e, al contrario di quest’ultimo, il suo fine è proprio quello di descrivere ed esaltare la grandiosità del programma architettonico che il grande abate carolingio aveva concepito e portato a realizzazione. Dal codice di questa cronaca (o meglio da alcune sue copie redatte nel xvi e nel xvii secolo) proviene una celeberrima veduta di come il monastero si sarebbe presentato al tempo di Angilberto. Le informazioni fornite dalle due fonti sono oggi affiancate dai dati provenienti da una serie di sondaggi archeologici compiuti in alcune aree del monastero con lo scopo di verificare le parole di Ariulfo e Angilberto, ma che tuttavia hanno risentito dei limiti imposti dalla sopravvivenza in situ delle ricostruzioni della chiesa e degli edifici claustrali avvenute in epoca tardomedievale (Bernard 2009). La narrazione di Angilberto si dispiega davanti ai nostri occhi come un film. Le sue parole dovevano servire a tracciare i percorsi processionali che i trecento monaci e i cento pueri che la comunità educava nella propria scuola avrebbero dovuto compiere nelle chiese e negli altri edifici. È però la veduta inserita nella cronaca di Ariulfo (le due versioni pervenuteci non divergono significativamente fra loro) a costituire il più utile punto di partenza per iniziare l’esame della struttura del monastero. Essa ritrae a volo d’uccello un complesso a pianta trapezoidale, articolato su tre poli architettonici. Lo sfondo è interamente occupato da una chiesa di grandi proporzioni e dalla complessa articolazione volumetrica, che una didascalia denomina «S. Richari230

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us», mentre sul lato destro vediamo un’altra chiesa, identificata con la dicitura «S. Benedictus», molto più piccola della prima e dalla semplice struttura ad aula mononave. In basso troviamo infine una terza chiesa, denominata «S. Maria», che si presenta come un edificio composto di due corpi giustapposti: quello anteriore è una struttura basilicale a tre navate, mentre il secondo è un volume cilindrico, evidentemente a pianta circolare. Tornando per un momento a focalizzare l’attenzione sulla chiesa intitolata a san Ricario, il fondatore del monastero, si può dire che essa fosse un edificio composto da elementi ben distinti fra loro. La sua parte centrale appare come una struttura basilicale a tre navate affiancata sui due lati da altrettanti corpi turriti, la cui superficie esterna è articolata da due file di finestre, sormontati da strutture circolari. Sui fianchi di entrambe queste strutture si addossa una coppia di torricelle cilindriche, mentre solo all’estremità di destra si nota anche il giustapporsi ad esse di un edificio più basso, che può essere interpretato come l’area absidale della chiesa (Cassanelli 2007). I due corpi turriti, apparentemente identici dall’esterno, erano però differenti all’interno dato che – come ci lascia intendere il testo di Angilberto – quello occidentale era articolato su due piani, di cui il superiore era raggiungibile attraverso delle scale a chiocciola poste all’interno delle torricelle che affiancavano l’edificio. Le tre chiese erano collegate fra loro da quattro stretti e lunghi bracci porticati, aperti da un loggiato a colonne verso l’interno, che delineano un’ampia area aperta che essi stessi e le tre chiese delimitano e racchiudono49. Uno dei tre bracci del portico si addossa alla grande chiesa ritratta sullo sfondo; gli altri tre, invece, rimangono liberi sul lato esterno, verso il quale sembrano presentarsi come un muro cieco e continuo, privo di qualsiasi apertura. Ad un primo colpo d’occhio, lo spazio racchiuso dalle ali porticate sembrerebbe corrispondere a una sorta di corte addossata alla grande chiesa di San Ricario; nella realtà, tuttavia, esso costituisce qualcosa di molto più articolato e imponente. Come le rilevazioni condotte sul terreno hanno permesso di stabilire, la distanze che separavano la chiesa di San Ricario da quelle di Santa Maria e di San Benedetto erano, rispettivamente, di circa trecento e duecentoquaranta metri, mentre era di circa cento quella che intercorreva fra Santa Maria e San Benedetto (Bernard 1982). Il perimetro totale dell’area racchiusa dalle ali porticate, se includiamo anche quella che si addossava alla chiesa di San Ricario, doveva superare quindi abbondantemente i settecento metri. Questo dato permette di comprendere alcune cose: innanzitutto che la scala del progetto concepito da Angilberto era, per gli standard della Francia e più in generale dell’Europa altomedievale, qualcosa di comparabile con le proporzioni di molte delle civitates fondate ex novo in questo stesso periodo, destinate ad ospitare residenze di re e vescovi o a fungere da presidi militari (vedi ad es. Marazzi 1994; Gai 2008; Recopolis 2008; Sot 2009; Brogiolo 2011: 123-132); in secondo luogo, le tre chiese rappresentavano altrettante ben distinte polarità all’interno di questo recinto, ma erano tuttavia componenti

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di un organismo unitario, serrato insieme dai percorsi porticati che le univano fisicamente. Le descrizioni del complesso monastico fornite dalle parole del cronista Ariulfo e dello stesso Angilberto ci permettono di comprendere ancora meglio che idea di monastero quest’ultimo avesse concepito. La grande chiesa che la veduta del monastero ritrae sullo sfondo era in realtà un tempio multiplo: al proprio interno conteneva quattordici altari (sei lungo l’allineamento della navata centrale e quattro rispettivamente lungo quello di ciascuna di quelle laterali)50. Un quindicesimo altare, dedicato al Salvatore, si trovava invece nell’ambiente posto al piano superiore del corpo turrito occidentale, che costituiva quindi una sorta di vera e propria ‘chiesa nella chiesa’ e che come tale è individuato dallo stesso Angilberto. Gli altari principali erano i due posti nella zona presbiteriale, dedicati l’uno a san Pietro e l’altro a san Ricario; ma anche gli altri erano regolarmente utilizzati e visitati dai monaci sia per dirvi messa, sia nel corso di complessi itinerari processionali che coinvolgevano tutto lo spazio della chiesa (Heitz 1980: 56-62). All’interno del grande tempio stazionavano in permanenza due cori di monaci: uno occupava la zona presbiteriale e l’altro l’ambiente posto al piano superiore del corpo occidentale, che si doveva evidentemente affacciare sulla navata centrale della chiesa sottostante, affinché un coro potesse ascoltarsi con l’altro. I canti sacri pervadevano quindi lo spazio della chiesa in maniera da produrre un suono che si potrebbe definire ‘stereofonico’. Nell’edificio si svolgeva la preghiera quotidiana dei monaci, ma ogni giorno, dopo il mattutino e dopo i vespri, alcuni di loro si dipartivano da esso per recarsi in processione presso le altre due chiese dedicate alla Vergine e a san Benedetto. Angilberto descrive minuziosamente l’itinerario che i monaci percorrevano in queste circostanze: si riunivano presso l’altare della Passione di Cristo, posto nella navata centrale, e quindi uscivano dalla chiesa attraversando il corpo turrito occidentale; di qui, attraverso una porta detta di San Gabriele, passavano per la sala dell’abate; percorrendo il lato occidentale del chiostro giungevano quindi presso la chiesa della Vergine, accedendovi evidentemente da un ingresso laterale che nella veduta del monastero rimane nascosto, ma che doveva aprirsi sul corridoio porticato che la collegava a quella maggiore51. Recitate le opportune orazioni, si muovevano lungo il lato opposto del chiostro raggiungendo la chiesa di San Benedetto, presso la quale effettuavano un’altra sosta di preghiera. Infine, proseguendo lungo il margine est del chiostro, i monaci tornavano alla chiesa principale nella quale rientravano, dopo aver salito una rampa di scale, attraverso la porta detta di San Maurizio che si apriva sulla navata sud, presso l’altare omonimo. Questa sorta di ricognizione quotidiana del claustrum avveniva esclusivamente da parte della comunità monastica, senza che soggetti esterni vi prendessero parte. Solo in occasione delle feste principali, presso alcuni snodi ben precisi del complesso monastico, i monaci incontravano coloro che abitavano all’esterno. Il giorno della domenica delle Palme, ad esempio, dopo aver celebrato vespro e notturni 232

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nella grande chiesa «dedicata a Ricario e al Salvatore» e aver tenuto la riunione del capitolo, essi si recavano presso la chiesa della Vergine (molto probabilmente seguendo l’itinerario già descritto in precedenza) dove celebravano l’ora terza. Poi, se il tempo era bello, dotati di «rami e palme», uscivano dalla porta anteriore della chiesa stessa che affacciava sull’esterno del monastero e percorrevano l’itinerario a ritroso, lungo la via monasterii che evidentemente correva sul lato esterno del muro di cinta del claustrum, rientrandovi infine attraverso la porta beati Archangeli Michælis, superata la quale si accedeva a un’area antistante la chiesa di Ricario e del Salvatore che la fonte denomina con il termine paradysus. Lungo questo percorso alla processione monastica si affiancava il populus, al quale era concesso di varcare la porta di San Michele e di partecipare alla preghiera recitata davanti alla porta centrale della grande chiesa, presso cui si trovava l’altare dedicato alla Natività. Di lì, i soli monaci ascendevano poi al sacello del Salvatore attraverso le scale a chiocciola interne alle torricelle e qui si fermavano per celebrare la messa. Se però la meteorologia fosse stata avversa, allora dalla chiesa di Santa Maria si sarebbe effettuato il consueto percorso a ritroso lungo il corridoio porticato che riportava alla chiesa maggiore, rientrandovi sempre attraverso la porta di San Maurizio52. La sera del Giovedì Santo tutte le celebrazioni si svolgevano nella chiesa della Vergine, che doveva quindi riempirsi completamente della turba monastica, senza lasciare spazio a persone esterne, non ammesse neppure ai riti del Venerdì, che però avevano luogo nella chiesa maggiore, ove i cori in azione in questa circostanza erano ben tre, dato che ve ne era uno in più dell’usuale, posizionato al centro della navata centrale, presso l’altare dedicato alla Croce53. Nel giorno di Pasqua (come anche in quello di Natale), Angilberto prevedeva che le celebrazioni principali si svolgessero nella chiesa del Salvatore. Ad esse erano ammessi anche viri et mulieres del populus, cui era concesso il privilegio di ricevere la comunione insieme ai monaci. Dato che la superficie calpestabile nella chiesa del Salvatore di sicuro non superava i 400 mq (Bernard 2009: 61-65) e che le scale a chiocciola che permettevano di accedervi dovevano essere piuttosto anguste, sembra difficile immaginare che l’accesso del populus a tali cerimonie potesse essere indiscriminato, tenendo conto che nella chiesa dovevano stazionare anche i monaci; probabilmente a prendere parte a queste celebrazioni doveva essere un gruppo selezionato di sæculares, anche se purtroppo Angilberto non ci fornisce dettagli al riguardo54. Particolarmente interessanti sono le prescrizioni relative alle celebrazioni liturgiche previste nel giorno dell’Ascensione e nei tre giorni che precedono questa festività55. In tali circostanze le processioni seguivano percorsi piuttosto articolati che coinvolgevano diversi settori del grande insediamento monastico, sui quali il testo fornisce dettagli importanti. La narrazione è un po’ lunga, ma vale la pena seguirla passo per passo, poiché si tratta di uno dei documenti più stupefacenti su come doveva apparire un grande monastero dell’età carolingia.

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Nel primo giorno dei tre precedenti l’Ascensione, le croci dei sette villaggi che attorniavano l’abbazia vengono condotte nel paradysus, davanti all’altare della Natività che, come abbiamo visto, si trovava al piano terreno del corpo occidentale della grande chiesa e che costituiva parte integrante dello ‘spazio sacro’ della medesima. Attraverso la porta di San Michele è poi fatto accedere all’interno dello stesso paradysus il populus, diviso in due gruppi – maschi e femmine –, allineati rispettivamente sul lato nord e sud di questo stesso spazio. La processione, organizzata secondo un rigido ordine gerarchico, aveva inizio una volta che i monaci insieme ai giovani delle scholæ fossero usciti dalla chiesa. Il corteo s’incamminava verso l’esterno, lasciando il paradysus attraverso la porta di San Michele. Uscivano per primi tre portatori di situlæ (secchielli) contenenti acqua benedetta e quindi altrettanti portatori di turiboli e d’incensieri (thymiamatæ), seguiti dai portatori delle sette croci del monastero, precedute da quella della chiesa del Salvatore, e dal portatore della capsa maior contenente le reliquie del Salvatore, affiancato a destra e a sinistra da tre sacerdoti che recavano ciascuno una capsa minor contenente altre reliquie. Dietro questo gruppo di testa si disponeva una sequenza di altri sette gruppi, ognuno composto di sette elementi («per rappresentare nel nostro operare la grazia settiforme dello Spirito Santo», come ricorda Angilberto), comprendenti diaconi, suddiaconi, accoliti, lettori, esorcisti e ostiari, e cioè i rappresentanti della famiglia monastica che avevano ricevuto i diversi gradi degli ordini sacerdotali. Per rafforzare questo significato simbolico della processione, anche tutti gli altri monaci della famiglia centulense si disponevano a seguire in gruppi di sette; ma questo loro allineamento, come sottolinea Angilberto non senza una certa civetteria, era necessario anche perché la moltitudine dei confratelli era tale che, se fossero stati fatti procedere in gruppi di due o tre, la processione sarebbe diventata lunga più di un miglio. Dopo i monaci incedeva la schola dei fanciulli laici recando con sé sette fiammelle, quindi, sempre disposti su righe di sette, i nobiles viri e i secolari che erano stati prescelti dal decano o dal preposito del monastero (probabilmente persone che avevano acquisito particolari benemerenze presso la comunità), poi le donne di rango più nobile. Di qui in poi, preceduti dalle sette croci dei villaggi che attorniavano il monastero, si schieravano quanti non appartenevano alla famiglia monastica né alla cerchia dei laici di più nobile origine o particolarmente benemerenti: per primi troviamo i fanciulli e le fanciulle istruiti dai monaci nel canto delle orazioni e quindi uomini e donne honorabiliores provenienti dalle comunità dei sette villaggi circostanti; seguiva il mixtus populus, insieme a vecchi e infermi che fossero comunque in grado di camminare a piedi; a chiudere la processione troviamo infine coloro che, non essendo in condizione di deambulare, erano trasportati su animali. Anche tutte queste persone erano ordinate nelle consuete righe composte di sette elementi. 234

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Il corteo percorreva un itinerario che, dopo aver lasciato l’area antistante la chiesa maggiore, procedeva lungo tutto il percorso della via publica, sino a raggiungere la porta meridionale di un recinto (murus) che evidentemente non è più quello che collegava le tre chiese e delimitava l’area interna ad esse, bensì uno più vasto che includeva sia la via publica, sia anche una serie di altri spazi ed edifici che i percorsi delle altre processioni di cui Angilberto ci ha lasciato memoria ci consentiranno di riconoscere e localizzare con maggior precisione. Una volta superata la porta, il corteo s’incamminava all’esterno, seguendo il perimetro della recinzione sino a raggiungere la porta opposta – quella settentrionale –, superata la quale rientrava nel perimetro del monastero procedendo di nuovo lungo la via publica e percorrendone il breve tratto che riconduceva infine tutti di fronte alla porta di San Michele, da cui la processione aveva avuto inizio. A questo punto i monaci rientravano nella grande chiesa, riponevano le croci e gli altri oggetti sacri nella parte di essa dedicata a san Ricario e poi salivano nella chiesa del Salvatore per assistere alla messa, insieme a coloro che «ogni giorno con noi seguono le croci»; il popolo, invece, non entrava nella chiesa e se ne ritornava a casa propria. Tutti gli spostamenti previsti da questa lunga processione erano scanditi non solo dalle tappe rappresentate dai luoghi che essa raggiungeva, ma anche e soprattutto dai canti intonati lungo la via, che erano stati concepiti da Angilberto come dei veri e propri pacemaker, nel senso che la durata di ognuno di essi doveva accompagnare il corteo esattamente da una statio all’altra del percorso. Nei due giorni successivi la processione si ripeteva coinvolgendo gli stessi partecipanti, seguendo però un itinerario diverso. Nel primo giorno tutti si riunivano davanti alla porta di San Michele e percorrevano tutta la via publica sino alla porta sud del recinto esterno del monastero, per poi recarsi a visitare le chiese site in due dei sette villaggi vicini e cioè San Martino in Villaris e Monte degli Angeli. Superato quest’ultimo, il corteo rientrava nel recinto abbaziale dalla porta nord e, percorso il breve tratto della via publica che lo separava dalla grande chiesa, si scioglieva nel paradysus davanti al suo ingresso. Il giorno dopo si effettuava il percorso inverso: usciti dalla porta nord si raggiungeva la chiesa del villaggio del Monte dei Martiri e quella di Angilbertivilla. Di lì, si rientrava in abbazia per la porta sud, ma stavolta, giunti davanti all’edificio che ospitava le officine dei fabbri e degli altri artigiani, si svoltava a destra per concludere infine l’itinerario presso la chiesa di Santa Maria, alla quale accedevano solo i monaci per assistere alla celebrazione della messa, mentre il forinsecus populus se ne tornava nei propri villaggi, nelle cui chiese avrebbe assistito alle funzioni religiose. A concludere questo periodo di celebrazioni vi era la processione del giorno dell’Ascensione. Essa coinvolgeva i soli monaci e si svolgeva tutta nella parte più interna del monastero: i confratelli vestivano i parati cerimoniali nella chiesa di San Benedetto, per poi spostarsi per medium monasterii sino alla porta di San Gabriele e di lì, entrati nella grande chiesa, salire all’aula del Salvatore. 235

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L’ultimo insieme di prescrizioni sull’organizzazione delle processioni da svolgersi all’interno dell’abbazia è quello che riguarda le circostanze in cui la comunità si sarebbe dovuta rivolgere a Dio per impetrarne l’aiuto di fronte a qualche situazione di particolare gravità (tribulatio). Non è chiaro chi fosse chiamato a partecipare a questi riti, ma a differenza di quelli previsti nel periodo delle feste maggiori non sembra che vi partecipassero direttamente anche persone esterne alla comunità monastica. Le processioni si sarebbero dovute svolgere in un arco di tre giorni, seguendo percorsi che si dipanavano tutti nella parte del monastero compresa fra il claustrum vero e proprio e il murus più esterno. I dettagli che in questi passaggi del suo testo Angilberto fornisce sono del massimo interesse, poiché aiutano a comprendere come fosse organizzata la topografia del monastero in quest’area intermedia56. In tutte e tre le giornate si partiva sempre dalla porta di San Michele, che apriva il paradysus in direzione della via publica. Nel primo giorno, lasciata la porta, il corteo s’incamminava lungo tale strada in direzione sud, ma non ne percorreva che un breve tratto poiché poco dopo svoltava a destra, attraversando una porta che immetteva in un’area detta Campus Baldiniacus, che dal nome dobbiamo immaginare come uno spazio aperto. Di qui, s’intraprendeva un cammino in linea retta (apparentemente parallelo, quindi, a quello della via publica) che attraversava il torrente Scardone per mezzo di un pons iuxta murum (da intendersi come il muro di recinzione esterna dell’insediamento monastico) e immetteva quindi in una platea, cui si accedeva attraverso l’ingresso occidentale di quest’ultima. A questo punto il testo non è chiarissimo, ma sembra che, muovendo dalla piazza, il corteo percorresse gli arcus occidentales (un portico che correva lungo il suo margine ovest?) per poi riprendere la via publica (questo riferimento non è dato in modo esplicito, ma sembra abbastanza logico) e tornare alla porta di San Michele. Nel secondo giorno, invece, il tragitto prevedeva che, usciti dalla porta di San Michele, i corteggianti percorressero la via publica in direzione sud, giungendo sino alla platea, di cui seguivano gli arcus orientales sino alla porta est della platea stessa che immetteva in un broilus, termine che designa uno spazio delimitato da un qualche tipo di recinzione. Di lì, essi procedevano a ritroso lungo un altro rectus iter che, attraverso una posterula, permetteva di raggiungere l’hortus fratruum e, di qui, la curticella domini abbatis. Il transito attraverso di essa permetteva a sua volta di raggiungere la sala abbatis, edificio che avevamo già incontrato nella descrizione del percorso seguito dalla processione che si svolgeva quotidianamente fra la grande chiesa e quella della Vergine57. Superato questo edificio, il corteo procedeva quindi per la porta di San Gabriele, donde giungeva di nuovo davanti alla grande chiesa. Salta immediatamente allo sguardo che le processioni da organizzarsi in queste giornate dovessero seguire itinerari in qualche misura speculari tra loro: nella prima giornata, infatti, si percorreva una serie di spazi posti ad est della via publica, e precisamente fra quest’ultima e il muro di recinzione esterna dell’insediamento mona236

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stico; nella seconda, invece, ci si addentrava fra spazi ed edifici situati tra la via suddetta e la parete che racchiudeva, sul lato orientale, l’area claustrale vera e propria. L’itinerario della processione del terzo giorno, prendendo le mosse sempre dal paradysus, percorreva a ritroso tutti gli ambienti attraversati il giorno prima, sino all’uscita dall’hortus fratruum. Usciti di qui, i partecipanti percorrevano uno spazio detto Campus Centulensis e quindi, passati attraverso il broilus e fiancheggiata una fons, varcavano una porta e s’immettevano nella via publica, nel tratto di essa più vicino alla porta sud del recinto esterno, sino a giungere di fronte alle officine dei fabbri; qui svoltavano per entrare nella chiesa di Santa Maria, ove la processione terminava con la celebrazione di una messa. Angilberto fornisce indicazioni molto più succinte riguardo alle altre festività del calendario liturgico (Pentecoste, Assunzione di Maria, dies natalis di san Ricario e dei santi Apostoli e Martiri58). Vale però la pena ricordare che nel giorno della festa di san Ricario, dopo una processione che sembra seguisse lo stesso itinerario predisposto per il secondo giorno delle tribulationes, ai partecipanti che concludevano il loro percorso nel paradysus antistante la chiesa maggiore era concesso di entrare nell’edificio per ascoltare la messa presso l’altare dedicato al fondatore del monastero. Questa sembra essere l’unica occasione, durante tutto il corso dell’anno, in cui la chiesa si apriva interamente ad accogliere altre persone che non fossero i soli membri della comunità monastica. L’ultimo capitolo del testo dell’Institutio si ricollega al primo, nel senso che descrive il circuitus che le orazioni dovevano svolgere quotidianamente, richiamando brevemente l’uso dello spostamento dei monaci fra le tre chiese del claustrum. Angilberto vi aggiunge però anche diversi dettagli sui percorsi processionali che i monaci seguivano all’interno della grande chiesa durante le diverse ore canoniche, alternandosi nelle orazioni presso gli altari in essa presenti. In virtù di questo suo utilizzo, l’edificio si presenta ai nostri occhi veramente come un santuario multiplo o, meglio, come una sorta di microcosmo della devozione cristiana. Come si diceva in precedenza, le meticolose prescrizioni di Angilberto per l’attuazione dei rituali processionali costituiscono una vera miniera d’informazioni per la comprensione degli spazi in cui si articolava il monastero di Centula all’inizio del ix secolo e dei loro significati e funzioni. Innanzitutto è chiara una cosa: il monastero era un complesso di vastissime proporzioni e, come dice il cronista Ariulfo, era costruito in modo che tutte le arti e tutte le attività produttive maggiormente necessarie potessero essere esercitate all’interno del suo ambito, così da rispettare le prescrizioni della Regola di Benedetto da Norcia59.

Per ottenere questo risultato, Angilberto aveva previsto di strutturare l’insediamento come una sorta di triplice cerchio concentrico. Il più interno era costituito dall’area delimitata dal recinto ai cui vertici si trovavano le tre chiese di San Rica237

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rio/del Salvatore, di Santa Maria e di San Benedetto, collegate fra loro dalle longaniæ porticate percorse dalle processioni quotidiane. Questo settore del monastero doveva evidentemente contenere anche tutti gli edifici profani necessari alla vita quotidiana della comunità (dormitorio, refettorio, cucine, dispensa), ma purtroppo la fonte non ci fornisce informazioni precise al riguardo e le aree indagate dagli scavi al di fuori delle chiese sono troppo limitate per consentire di comprendere la destinazione degli ambienti di cui sono state intercettate le tracce. Entro la cinta interna, alle spalle della chiesa, si doveva trovare anche il cimitero dei monaci, come testimoniano fonti del xvii secolo che ricordano la presenza in quest’area di numerose sepolture (Hubert 1957: 298). Il secondo cerchio, più ampio, era anch’esso delimitato da un muro di cinta; al suo interno si trovavano non solo le aree racchiuse dalle longaniæ, ma anche altri spazi a destinazione decisamente più profana. Il primo e il più importante era l’asse della via publica, che percorreva in linea retta da nord a sud tutta l’area del monastero e si apriva verso l’esterno tramite due porte (la septentrionalis e la meridionalis) presenti nel muro di cinta. Sul lato est della strada si aprivano gli accessi al paradysus della chiesa maggiore (tramite la porta di San Michele) e un percorso che conduceva alla chiesa della Vergine, mentre su quello ovest si trovava l’accesso al plesso delle officine «dei fabbri e degli altri artigiani», collocato nell’area più vicina alla porta meridionale. In prossimità del ponte che scavalcava il corso del torrente Scardone e a meridione di esso si apriva una platea, di cui non è possibile comprendere esattamente la planimetria, ma che era apparentemente circondata da portici. Angilberto non lo dice, ma è molto probabile che questo spazio contiguo alle officine monastiche in determinate circostanze fosse utilizzato anche come luogo di mercato. La piazza costituiva uno snodo attraverso il quale, utilizzando due varchi situati sui lati est e ovest, ci si poteva immettere nelle aree comprese, da un lato, tra la strada e il muro del claustrum e, dall’altro, tra la strada e il muro di recinzione più esterno. Sul lato est della piazza si trovava un altro slargo recintato, il broilus, di cui non è chiarita la funzione, ma che si può ipotizzare fosse destinato a fungere da luogo cerniera tra la piazza stessa e gli spazi in cui viveva la comunità: probabilmente esso era utilizzato come una sorta di corte di servizio per far sostare i carri e gli animali da sella e da soma usati sia per trasportare le merci al mercato, sia per condurre ospiti in visita al monastero. Dal broilus, infatti, tramite il giardino dei monaci (hortus) si poteva accedere direttamente alla curticella e alla sala dell’abate. Su questo lato si trovava anche un’altra area aperta – il Campus Centulensis –, la cui precisa destinazione funzionale ci sfugge completamente. Sul lato opposto della strada si trovava il quartiere delle officine, mentre al di là del corso del torrente Scardone vi era un altro campus, detto Baldiniacus, di cui pure ci è impossibile precisare la funzione. Sull’articolazione della zona del burgus dell’abbazia di Centula e sui suoi abitanti ci offre preziose informazioni un documento che si ritiene databile all’anno 831. Esso fu redatto dal monaco Eirico, su incarico dell’imperatore Ludovico il 238

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Pio, per fornire uno stato delle entrate di cui il monastero poteva disporre, imponendo censi sulle attività di coloro che vivevano nei suoi immediati dintorni e fornendo alle medesime persone una serie di servizi, soprattutto di carattere spirituale (Hubert 19812: 3; Redi 2010: 47-48)60. Questo documento costituisce in certo senso la versione sintetica dell’analisi assai più approfondita delle persone e delle attività che gravitavano intorno a un grande monastero carolingio che, come vedremo nel prossimo capitolo, del tipo di quella redatta una decina di anni prima nella vicina abbazia di Corbie dall’abate Wala. L’enumerazione di Eirico si apre dichiarando che «a Centula ci sono 2.500 case [mansiones] abitate da secolari e che ciascuna di esse corrisponde annualmente dodici denari, quattro polli e trenta uova». Tutte le mansiones avrebbero inoltre dovuto prestare all’abate e ai monaci la propria opera in ogni occasione in cui ciò fosse stato loro richiesto. Il documento prosegue menzionando la presenza di quattro mulini e del mercato (che quindi doveva svolgersi nella platea prima ricordata), dalle cui attività la comunità monastica traeva guadagni enormi, così come dall’amministrazione della cura delle anime (le cui decime erano versate ai monaci nel porticus Sancti Michælis) e dagli altri servizi religiosi che la comunità offriva ai secolari (come ad esempio la celebrazione dei matrimoni). Ma rendite importanti erano conferite anche dalle diverse categorie di artigiani che lavoravano presso il monastero. A ciascuna di esse (presumibilmente all’interno del quartiere loro assegnato) era assegnato un vicus, cioè una strada, all’interno del quale erano riuniti tutti gli artigiani specializzati in una specifica ars: fabbri, fabbricatori di scudi (scutarii), sellai, fornai, calzolai, macellai, fulloni, pellai e vinificatori61. L’ultima categoria di persone radunate presso uno specifico vicus menzionata nel breve di Eirico è quella dei 110 milites, ai quali era fatto obbligo di farsi sempre trovare dotati di armamento completo, comprendente un cavallo, uno scudo, una spada, una lancia e tutte le altre armi che fossero loro necessarie. Il terzo e più esterno cerchio che formava lo spazio monastico di Centula era quello costituito dalla corona dei quattro villaggi, con le loro rispettive chiese, raggiunti dalle processioni dell’Ascensione. Gli altri tre villaggi, i cui abitanti pure partecipavano alle processioni, non erano però da esse raggiunti; su questa differenza di trattamento fra le diverse comunità Angilberto non fornisce alcuna spiegazione. Alcuni dei centri nominati nell’Institutio sono ancora chiaramente individuabili nella topografia attuale degli immediati dintorni di Centula e intorno al sito dell’abbazia, entro una distanza di circa quattro-cinque chilometri, si può riconoscere una cintura di piccoli villaggi che probabilmente costituivano il limite di quello che potremmo definire ‘l’areale ampio’ del plesso monastico, ove risiedevano le comunità i cui abitanti erano alle dirette dipendenze dell’abbazia e di cui le chiese, utilizzate come stationes delle processioni, costituivano i segnacoli più visibili. È abbastanza intuitivo che agli spazi delimitati dai tre ‘cerchi’ corrispondevano anche diverse tipologie di abitanti. Se il cerchio più interno era quello riservato strettamente alla comunità dei monaci, nell’area inclusa entro la cinta esterna lavo239

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ravano (ma non sappiamo se vi abitassero anche) artigiani e serventi che collaboravano con la comunità. In questo settore erano anche stati predisposti spazi per le occasioni che costituivano momenti cruciali nella vita economica del monastero, come ad esempio la raccolta delle produzioni agricole provenienti dalle aziende di cui i monaci erano i possessori e la messa sul mercato di quanto eccedeva le loro necessità (Settia 1993; Verhulst 2004: 133-152; Mc Cormick 2008: 727-762). Al di fuori troviamo infine la corona delle comunità di villaggio, i cui abitanti dovevano lavorare per fornire direttamente ai monaci il necessario per i consumi quotidiani e che probabilmente erano anche chiamati a collaborare nei cantieri attivi nella costruzione e nella manutenzione degli edifici monastici62. Questi tre ‘settori’ del monastero centulense erano in connessione fra loro attraverso precisi percorsi e snodi, e al loro interno gravitavano categorie diverse di persone, ciascuna demandata all’assolvimento di specifiche funzioni, in base alle quali a ciascuna di esse era consentita una frequentazione più o meno ampia e libera dello spazio monastico: l’area del claustrum, ad esempio, sembra totalmente inibita a coloro che della comunità monastica non facevano parte e due luoghi ne costituivano i diaframmi di collegamento con l’esterno: il plesso costituito dal paradysus e dalla parte anteriore della chiesa maggiore63, e la sala abbatis. Il primo è il luogo cui fanno capo tutti i rituali processionali cui partecipano monaci e secolari: a questi ultimi è di norma impedito di inoltrarsi al di là dell’area aperta antistante la chiesa, tranne che in alcune specifiche circostanze in cui gruppi selezionati di laici potevano accedere al piano superiore della parte occidentale di quest’ultima, dedicato al Salvatore, e parteciparvi ai riti religiosi insieme ai monaci. La chiesa del Salvatore, insomma, si presentava come un vero e proprio spazio autonomo e diversamente funzionale rispetto all’area delle navate e al corpo turrito orientale, ove riposava il corpo di Richarius. Questa parte più interna – il vero e proprio sancta sanctorum del monastero – era destinata alle sole attività liturgiche dei monaci e gli spazi delle sue navate, occupati dai molteplici altari ricordati sia da Angilberto sia da Ariulfo, non erano disponibili per accogliere i fedeli in preghiera. Come ricorda Carol Heitz (1963: 24), Ariulfo denomina lo spazio delle navate della grande chiesa come vestibulum della turris ab oriente, e specifica che esso era separato da quest’ultima per mezzo di un cancellus, che ne schermava ulteriormente l’accessibilità64. Questi dettagli, apparentemente secondari, sono in realtà fondamentali per capire che la presenza del corpo del santo fondatore e delle altre, numerosissime reliquie che Angilberto aveva fatto traslare nelle tre chiese del monastero non aveva prodotto la conseguenza di trasformare l’abbazia in un luogo di pellegrinaggio aperto a chiunque; i ‘sacri pegni’ dei corpi venerati erano innanzitutto intesi come supporto alla preghiera dei monaci e chi non facesse parte della santa congrega avrebbe potuto rimirare solo dall’esterno lo splendido contenitore architettonico che li custodiva, per descrivere il quale Ariulfo spende parole di entusiasmo. L’altro punto di snodo fra l’interno e l’esterno del claustrum era la cosiddetta 240

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sala abbatis, posta al termine di un percorso che, passando per il giardino dei monaci e il broilum, proveniva dalla platea. Esso molto probabilmente fungeva da itinerario di accesso per coloro che si recavano all’abbazia non tanto per assistere alle cerimonie religiose, quanto per rendere visita all’abate o ad altri membri della comunità. Anche la chiesa di Santa Maria era provvista di un accesso volto all’esterno del claustrum, in direzione della via publica, che non sembra potesse essere varcato dai secolari. Infine, il fatto che i villaggi circonvicini fossero dotati di chiese proprie permetteva evidentemente di sollevare le tre presenti nel claustrum da ogni impegno diretto nella cura delle anime dei loro abitanti. Un modello in certa misura simile, ma con qualche variante, era quello riscontrabile presso l’abbazia di Fulda, nei dintorni della quale si trovavano i tre siti di Johannesberg, Frauenberg e Ugesberg/Petersberg, con al centro le chiese dedicate rispettivamente a san Giovanni, alla Vergine e a san Pietro. Essi erano strettamente connessi all’abbazia madre, tanto da poterne essere considerati quali veri e propri prolungamenti nel territorio circostante, come testimonia ad esempio il fatto che l’abate Rabano Mauro li usasse come residenze sussidiarie quando desiderava dedicarsi allo studio e isolarsi dalle incombenze derivanti dalla gestione del monastero. Il loro essere parte del corpo unico dell’abbazia di Fulda derivava pure dal fatto che anche qui, oltre che nelle chiese presenti nel cuore dell’abbazia, erano state deposte le reliquie dei santi che Rabano aveva fatto traslare dall’Urbe (Raijmakers 2012: 214-236). Celebrare Benedetto al tempo di Carlo Magno: Montecassino e la sua geografia sacra fra viii e ix secolo All’opposto geografico di Centula, all’interno della mappa dell’Impero franco, un’altra grande abbazia sviluppatasi altrettanto rapidamente dal punto di vista materiale tra la fine dell’viii e gli inizi del ix secolo ci offre informazioni preziose sulle proprie consuetudini liturgiche al tempo di Carlo Magno e quindi, indirettamente, sugli spazi che le ospitavano. È Montecassino, monastero fondato da Benedetto da Norcia e luogo considerato a quei tempi il centro di origine del monachesimo che Carlo voleva unificato nelle proprie costumanze organizzative e liturgiche. La natura e la cronologia delle fonti disponibili è pressoché identica a quella vista per Centula. Anche qui ne abbiamo una di età carolingia – il cosiddetto Ordo Casinensis ii, dictus Ordo Officii –, redatta con il fine di fornire istruzioni su come organizzare la liturgia delle principali festività e in particolare di quelle pasquali, che rappresentavano il vero e proprio culmen del ciclo annuale; abbiamo poi una cronaca del xii secolo, la Chronica Monasterii Casinensis, che ripercorre la storia del monastero dalle sue origini e che in un passaggio si sofferma a descrivere i riti pasquali che vi si celebravano, evidentemente avendo presenti proprio le prescrizioni indicate nell’Ordo. A queste due testimonianze principali se ne aggiungono altre due, rappresentate da altrettante lettere inviate dall’abate cassinese di origini 241

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franche Teodemaro (778-797) rispettivamente a Carlo Magno e al conte e vir gloriosus Teodorico, personaggio prossimo sia al sovrano sia a Benedetto di Aniane. Le tre fonti più antiche (l’Ordo e le due epistole) presentano tra loro qualche problema di comparazione, poiché la prima, benché si consideri redatta originariamente al tempo dello stesso Teodemaro, è stata sicuramente rivista in quello dell’abate Bertario (856-883), che nel testo appare esplicitamente menzionato. Anche la cronaca colloca la descrizione dei riti pasquali al tempo di Bertario, lasciando presumere che essa abbia a sua volta attinto le informazioni direttamente dall’Ordo. La discrasia cronologica che le due fonti presentano non è di poco conto, poiché il momento culminante dello sviluppo materiale di Montecassino in età franca si ebbe con l’abbaziato del successore di Teodemaro, il longobardo Gisulfo (797-817). Questi aveva promosso sia la ricostruzione di buona parte dell’acropoli su cui si trovava il sepolcro di Benedetto (e che chiameremo monastero “alto”), sia lo sviluppo monumentale del nucleo insediativo posto ai piedi della collina di Montecassino e che corrisponde all’area dell’attuale città di Cassino (e che chiameremo monastero “basso”), in particolare facendovi edificare una grande basilica in onore del Salvatore. L’abate Petronace, promotore della rinascita del cenobio cassinese negli anni ’30 dell’viii secolo, aveva patrocinato una serie di lavori presso i due oratori già esistenti sulla sommità del colle cassinese e la cui origine rimontava al tempo di Benedetto: la ricostruzione dell’oratorio di San Martino e il restauro di quello dedicato al Battista, nel quale si trovavano i sepolcri dello stesso Benedetto e della sorella Scolastica. Il nuovo San Martino doveva essere una chiesa a una navata, ma terminante con tre absidi, di cui le laterali erano intitolate alla Vergine e ai santi Faustino e Giovita. Al tempo di Petronace risale anche la chiesa di San Pietro, che fu eretta per volere dell’ex re dei Longobardi Ratchis, ritiratosi nell’abbazia a condurvi vita monastica nell’anno 749; anche questa chiesa si sarebbe trovata nel monastero “alto”, in prossimità di quella del Battista, la cui intitolazione mutò alla fine dell’viii secolo, quando fu dedicata a san Benedetto65. La rifondazione di Montecassino probabilmente comportò da subito anche la creazione di una sorta di succursale del monastero, situata ai piedi della collina su cui si era insediato san Benedetto nel vi secolo. Come abbiamo visto nel capitolo quinto, la biografia di Wilibald, monaco anglosassone che restò nel monastero per otto anni fra gli anni ’30 e ’40 dell’viii secolo, ricorda che già allora esistevano due monasteri cassinesi: quello “basso”, «quod infra stat iuxta amnem Raphitum», e l’alium monasterium, quello “alto”, «quod stat in monte». I monaci, avviando la formazione del nucleo del monastero “basso”, sicuramente non si trovarono a intervenire sul nulla: il sito scelto occupava infatti parte della città antica di Casinum e anzi ne riutilizzava presumibilmente il nucleo centrale, comprendente l’area forense (De Rossi 1980: 250-252; Coarelli 1984: 217-219). Sembra improbabile, pur di fronte al regresso demografico e materiale che la città aveva subìto nel passaggio fra l’antichità e il Medioevo, che l’insediamento fosse stato completamente abban242

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donato e che le sue strutture materiali non fossero più visibili né riutilizzabili. Altrettanto improbabile è che al suo interno non sorgesse già qualche edificio di culto cristiano, che potrebbe essere stato riutilizzato dai monaci nella primissima fase del nuovo impianto abbaziale. Questo dato di partenza potrebbe spiegare perché la prima costruzione di una chiesa promossa dai monaci nel sito di Casinum risalga solo agli anni ’70 dell’viii secolo, quando l’abate Poto vi fece edificare una cappella in onore di san Benedetto. Poto fu anche il fondatore di un monastero dedicato a san Michele, che sarebbe da localizzarsi al di fuori del nucleo “basso”, sulle prime balze della collina su cui sorge Montecassino. Il primo edificio di culto di una certa entità eretto ex novo in quest’area compare proprio al tempo dell’abate Teodemaro e si segnala per la sua particolarità architettonica. Si tratta della chiesa di Santa Maria delle Cinque Torri, purtroppo distrutta nel corso degli eventi dell’ultima guerra mondiale, ma fortunatamente ben documentata in precedenza: era un edificio a pianta mista basilicale-centrale, i cui quattro vertici erano sormontati da altrettanti piccoli tiburi, cui se ne aggiungeva un quinto al di sopra dello spazio centrale, dando così origine all’appellativo con cui la chiesa si trova denominata nelle fonti (Scaccia Scarafoni 1946; Pantoni 1975; Pistilli 2000). Al tempo del successore di Teodemaro, Gisulfo, ad essa si affiancò una basilica dedicata al Salvatore, che a sua volta sostituiva la chiesetta di San Benedetto, eretta solo pochi anni prima dall’abate Poto. Si trattava di un edificio a tre navate e tre absidi, di cui le laterali erano dedicate rispettivamente a san Martino e san Benedetto. Esso era lungo oltre 36 metri e fu riccamente decorato con il copioso impiego di marmi di pregio, la maggior parte dei quali molto probabilmente recuperati presso gli edifici in disuso della città romana. L’erezione della chiesa del Salvatore costituì l’episodio centrale di un programma di potenziamento del monastero “basso” che comprese anche la costruzione di un atrio a quadriportico nell’area antistante alla basilica, i cui colonnati erano affiancati alla base da canali in marmo lungo i quali scorreva continuativamente l’acqua. Nel braccio orientale del quadriportico (quello opposto alla chiesa) fu ricavata anche una cappella dedicata a san Michele e, al centro di esso (presumibilmente in corrispondenza con l’accesso che lo collegava con l’esterno), si costruì un campanile poggiante su otto colonne. Sui due lati della chiesa Gisulfo fece erigere una serie di costruzioni (officinæ) che dovevano servire all’utilitas sia sua propria, sia dei confratelli. Esse ospitavano i locali di abitazione dei monaci e spazi destinati ad accogliere gli uffici amministrativi del monastero, che già a quel tempo gestiva un patrimonio fondiario enorme (e in corso di rapido accrescimento), che spaziava dal Lazio alla Campania, dall’Abruzzo al Molise (Citarella-Willard 1983: 37-51; Pantoni 1987: 223). Il potenziamento del monastero “basso” richiese che preventivamente fosse portata a termine una serie di opere di bonifica e di difesa dei terreni che sorgevano a poca distanza dal corso del fiume Rapido: fu realizzata una gettata di terreno

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e macerie sull’area su cui si sarebbe dovuta costruire la basilica e venne edificato un recinto in pietra che racchiudeva tutto l’insieme di edifici, in modo da proteggerlo dalle esondazioni periodiche del fiume. Al tempo dell’abate Bertario questo insediamento fu cinto di mura vere e proprie, per timore che potesse essere assalito e depredato dai Saraceni che imperversavano nel Meridione italiano, cosa che poi effettivamente avvenne nell’883, quando lo stesso abate fu raggiunto e ucciso dai saccheggiatori all’interno della chiesa del Salvatore. In seguito a questo intervento, l’insediamento “basso” avrebbe assunto l’aspetto di una vera e propria civitas, che le fonti cassinesi chiamano con il pomposo nome di Eulogimenopolis, e cioè – in forma grecizzata – “la città di Benedetto”. Il suo fulcro era costituito quindi dalla chiesa del Salvatore, con l’atrio dedicato all’arcangelo Michele, e da quella attigua di Santa Maria delle Cinque Torri, intorno alle quali si disponevano gli edifici a destinazione profana che la Cronaca cassinese enumera brevemente. L’azione di Gisulfo poteva profittare di un momento assai favorevole per il monastero dal punto di vista economico e politico. L’abate non si limitò agli interventi compiuti nell’area dell’attuale Cassino, ma intervenne anche sul nucleo monastico originario, e cioè quello “alto”, posto sulla collina soprastante. Qui egli fece ricostruire interamente la chiesa del Battista, entro cui si trovava il sepolcro di san Benedetto e che a quest’ultimo da quel momento in poi sarebbe stata principalmente intitolata. Similmente a quella eretta a valle, anche la chiesa sul monte era un edificio a pianta basilicale e a tre navate, lungo fra i 30 e i 40 metri. Questa chiesa sopravvisse sino alle ricostruzioni effettuate alla fine dell’xi secolo dall’abate Desiderio e rappresentò quindi per tutto l’alto medioevo il luogo più sacro dell’intera abbazia (Carbonara 1979; Lucherini 2001). Al tempo dell’abate Bertario anche l’insediamento “alto” fu dotato di opere di difesa (mura e torri) che lo fecero apparire in modum castelli. La Cronaca di Montecassino descrive i due nuclei insediativi come realtà ben distinte fra loro e funzionalmente autonome, ciascuna con le proprie chiese e la propria comunità. In realtà, esse costituivano parti di un insieme retto da un solo abate, che non è improprio definire come un monastero “bicefalo”. È proprio il testo dell’Ordo Casinensis ii a fornirci la vivida rappresentazione dell’unitarietà dei due insediamenti, la quale si materializzava nell’incontro delle due comunità, che, seguendo precisi percorsi processionali, avveniva in occasione di alcune festività religiose maggiori e soprattutto di quelle pasquali66. Anche a Montecassino, come a Centula, nel periodo pasquale si metteva in scena una vera e propria liturgia di tipo stazionale, che coinvolgeva principalmente le tre chiese esistenti nel monastero “alto”, e cioè San Benedetto, San Pietro e San Martino; ma era soprattutto nel terzo giorno della settimana in Albis, quando monachis maior est festivitas, che il rituale diveniva molto più complesso, coinvolgendo ambedue i nuclei insediativi. In questa circostanza, dal monastero “alto” si muoveva la processione salmodiante dei monaci, che portavano con sé croci, ceri e le capsæ contenenti le reliquie; dal monastero “basso” usciva un’analoga processio244

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ne e le due si congiungevano ad Sanctum Petrum in Civitate, una chiesa diversa da quella omonima sita sulla sommità di Montecassino e che, con il nome attuale di chiesa del Crocifisso, è situata nella zona archeologica di Cassino, presso l’anfiteatro romano, al limite ovest dell’antica Casinum (Pantoni 1949 e 1962)67. Essa costituiva una sorta di statio intermedia fra i due nuclei monastici ed era il punto di arrivo, per chi provenisse dalla collina, della lunga discesa che conduceva all’insediamento “basso”. Di qui, recitate le orazioni, il gruppo si recava verso la Eulogimenopolis preceduto dai monaci che avevano ricevuto gli ordini sacerdotali. Entrato nella civitas (e cioè nel monastero “basso”), il corteo passava attraverso il forum negotiantium, dove s’intonava la litania il cui canto si concludeva alla basilica del Salvatore, arrestandosi infine nell’atrio dedicato all’arcangelo Michele, dove il gruppo rimaneva in attesa di essere raggiunto dall’abate. Qui iniziava un’altra processione, accompagnata dal suono delle campane, che attraversava l’atrio e si recava all’interno della chiesa. Finita la funzione, tutti entravano nel refettorio per il pranzo in comune, dopodiché l’adunata si scioglieva e i monaci che abitavano nel monastero “alto” ripercorrevano tutto l’itinerario a ritroso. L’epistola inviata dall’abate Teodemaro al comes Teodorico aggiunge al testo dell’Ordo un dettaglio interessante, relativo al fatto che quando le due processioni s’incontravano presso la chiesa di San Pietro, dove si trovava un locus spatiosus in grado di radunare tutti i convenuti, si aggiungevano anche coloro che provenivano dalle cellæ che il monastero possedeva nel territorio circostante68. Purtroppo non è dato sapere se, riferendosi a questi ulteriori partecipanti, Teodemaro considerasse solo i sacerdoti che officiavano nelle chiese delle cellæ dipendenti ovvero se nell’occasione fossero invitati anche gli abitanti di condizione secolare che vivevano presso di esse, ma non è da escludere che la sosta presso la chiesa di San Pietro, esterna sia al monastero “alto” sia a quello “basso” della Eulogimenopolis, potesse costituire il momento migliore per l’incontro fra i monaci e quanti, pur non facendo parte della comunità monastica, gravitavano comunque intorno ad essa. In conclusione, il testo dell’Ordo cassinese, anche se rispetto a quello centulense è meno ricco di informazioni, permette però d’inquadrare abbastanza bene la struttura di Montecassino in età carolingia e anche di cogliere alcune assonanze con il monastero pensato e realizzato da Angilberto nel Nord della Francia. La prima e la più evidente di queste è che – sebbene con una conformazione topografica completamente diversa da Centula – entrambi i monasteri si presentano ai nostri occhi come entità ‘dilatate’ sul territorio, di cui il luogo (o, in questo caso, i luoghi) in cui fisicamente i monaci vivono costituisce solo una componente. A Cassino, ai due insediamenti monastici posti sul colle e nel piano si aggiungono infatti altre chiese che, come abbiamo visto nel caso di quella di San Pietro in Civitate, fanno parte a tutti gli effetti di quello che possiamo definire il ‘tessuto connettivo’ dello spazio che i monaci rivendicano come proprio ed esclusivo. Peraltro, si deve considerare che il testo dell’Ordo non include la menzione di tutte le chiese sorte negli immediati dintorni dei due monasteri cassinesi e che definivano 245

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la topografia delle memorie sacre connesse alla storia della comunità, sin dalle sue più antiche origini. Tale funzione era ad esempio rivestita sicuramente anche da un altro piccolo edificio di culto, oggi scomparso, che si trovava anch’esso ai piedi della collina di Montecassino, ma dal lato opposto a quello della città di Casinum, e cioè su quello nord-occidentale lungo un percorso che dall’abbazia conduceva verso la via Casilina in direzione di Roma (Pantoni 1998b). Questa chiesa era stata costruita (probabilmente già nell’viii secolo) per ricordare il luogo in cui periodicamente s’incontravano Benedetto e sua sorella Scolastica, che viveva in un altro monastero dei dintorni. La sua planimetria, in forma di cella trichora, potrebbe confermarne la funzione commemorativa degli eventi di cui il luogo era stato teatro al tempo del fondatore di Montecassino (Luciano i.c.s.); inoltre, la sua collocazione lungo l’itinerario che avrebbe dovuto percorrere chi si fosse voluto recare a Montecassino provenendo da Roma potrebbe lasciar pensare che essa rappresentasse una sorta di segnacolo indicante l’accesso all’area che, lato sensu, si poteva considerare già parte del perimetro monastico. Questo areale ampio dell’insediamento monastico era forse a sua volta considerato parte di uno spazio ancora più vasto comprendente anche quello degli abitati immediatamente circostanti l’abbazia, la cui popolazione era invitata a prendere parte alla processione della tertia feria in Albis. Ma esso conteneva certamente al suo interno altri ambiti, più ristretti, corrispondenti ai due nuclei dei monasteri “alto” e “basso”, definiti fisicamente dai perimetri delle recinzioni che li delimitavano. Quest’ultimo si articolava al proprio interno in due zone di diversa pertinenza e significato, che il testo dell’Ordo ci permette di riconoscere molto bene. Come accadeva a Centula, la recinzione esterna conteneva infatti spazi che erano destinati a interazioni frequenti con il sæculum, quale ad esempio il foro dei “negoziatori”, che possiamo immaginare assimilabile alla platea del monastero francese; ma esso comprendeva anche il plesso a destinazione prettamente cultuale costituito dalla chiesa del Salvatore e da quella attigua di Santa Maria delle Cinque Torri. Anche se per l’viii e il ix secolo non vi sono evidenze chiarissime in questo senso, è però probabile che almeno in alcune circostanze la chiesa del Salvatore, posta al centro del monastero “basso”, potesse essere frequentata anche dai secolari e fungesse quindi da santuario destinato, oltre che alla liturgia monastica, anche a funzioni di tipo più propriamente pastorale. Purtroppo, però, ogni traccia archeologica relativa alla struttura e all’articolazione interna di questa chiesa è scomparsa a seguito delle distruzioni patite dalla città di Cassino nell’inverno fra il 1943 e il 1944 e alle frettolose ricostruzioni avvenute nell’immediato dopoguerra. Solo evidenze indirette e di datazione assai più tarda testimoniano della sua utilizzazione anche da parte di una utenza esterna alla comunità monastica: nella prima metà dell’xi secolo essa era già stata affidata dagli abati al clero secolare e nel xviii secolo al suo interno si trovava un fonte battesimale (Gattula 1733: 71-72 e tav. vii). Non è però possibile risalire più indietro nel tempo per capire quando tali funzioni fossero state istituite. 246

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Se il monastero “basso” è descritto solo in relazione alla liturgia della tertia feria in Albis (giorno che sembra rappresentare l’unico momento di effettiva interazione cerimoniale fra le comunità risiedenti nelle due sedi), per quello posto sulla cima della collina disponiamo di informazioni più copiose, riscontrabili nelle descrizioni dei riti celebrati nel corso della Settimana Santa. In nessuna di queste circostanze sono menzionate presenze esterne che affianchino i confratelli ed è interessante notare che la Chronica Sancti Benedicti Casinensis – un testo presumibilmente composto negli anni ’70 del ix secolo – descrive come un evento eccezionale la visita compiuta presso il monastero “alto” dall’imperatore Ludovico ii con la consorte Engelberga, al fine di suggellare la solennità dell’atto da loro compiuto di concedere importanti privilegi al monastero, deponendo i medesimi sulla tomba di Benedetto69. Un passo aggiunto alla fine del testo della stessa Chronica, in cui si narra brevemente dell’origine del cenobio cassinese, attribuisce un’ascesa al sacro colle anche a un duca longobardo di nome Gisulfo. Questo controverso frammento, che mescola fatti riferibili al primo con altri invece relativi al secondo duca di Benevento che portò questo nome, permetterebbe tuttavia di capire che sarebbe stato quest’ultimo a varcare la soglia del monastero “alto”, intorno al 744, insieme alla moglie Scauniperga. Il motivo della visita era ancora una volta quello della solenne deposizione di un atto sulla tomba di Benedetto, e in particolare di quello con cui egli aveva conferito ai monaci il possesso delle aree circostanti il monastero70. Una terza, augusta ascensio al monastero “alto” con visita alla tomba di Benedetto fu compiuta nel 787 da Carlo Magno in occasione della sua unica discesa nel Meridione71. Anche in questo caso il sovrano si era recato ad beatum patrem Benedictum per conferire solennità all’atto con cui aveva dichiarato il monastero cassinese sottoposto alla sua tuitio, concesso ai suoi monaci di eleggere liberamente il proprio abate e confermato tutte le sue proprietà nonché il dominio sui monasteri dipendenti di Santa Sofia di Benevento, di Santa Maria in Cingla, presso Alife, e di Santa Maria in Plumbariola, quest’ultimo sito non lontano dalla stessa Cassino72. Questi tre episodi tra loro analoghi costituiscono gli unici casi in cui, nell’arco di un secolo (dalla metà circa dell’viii sino alla metà del successivo), le fonti cronachistiche cassinesi menzionino l’accesso di qualcuno che non facesse parte della comunità monastica entro il recinto in cui si trovava la chiesa che custodiva le spoglie di Benedetto. Specularmente, sono completamente assenti riferimenti di qualsiasi tipo al fatto che la tomba del fondatore costituisse un luogo aperto alla devozione dei fedeli. In altre parole, come la parte della chiesa di Centula in cui era riposta la tomba di san Ricario, anche l’edificio di culto costruito per ospitare il sepolcro di Benedetto non sembra sia stato concepito come un santuario di pellegrinaggio, bensì piuttosto come lo scrigno destinato a custodire la reliquia più preziosa, simbolo dell’identità della comunità cassinese nel suo insieme. Questo luogo, quindi, era di norma riservato esclusivamente ai monaci perché vi potessero svolgere le loro orazioni nel silenzio e nella riservatezza più assoluti; strappi a questa regola potevano apparentemente essere fatti solo in favore di ospiti eccezionali ve247

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nuti a rendere visita a Benedetto per ragioni di rilevanza straordinaria, come quella di sancire, in forza dell’autorità di cui erano investiti, il proprio impegno a difendere e promuovere l’esistenza in vita del monastero da lui creato. In sostanza, quindi, i due monasteri cassinesi sembrano essersi strutturati per assolvere funzioni diverse anche se tra loro complementari: quello “basso” fungeva in certo senso da “prolungamento” di quello “alto” e agiva quindi come interfaccia della comunità verso l’esterno, ospitando entro la sua cinta anche spazi destinati a funzioni economiche e amministrative; il monastero “alto”, invece, rappresentava la clausura vera e propria, il luogo in cui si svolgeva la parte preponderante della vita spirituale dei monaci, al riparo dalle interferenze del mondo e governata interamente dai tempi e dalle consuetudini della preghiera quotidiana. Lo sdoppiamento dei due nuclei e delle loro funzioni – che in certo senso riecheggia l’antica dicotomia fra Casinum e la sua acropoli – trova riflesso nella maniera in cui essi sono denominati nelle fonti: civitas è quello in pianura, mentre castrum è quello sul colle. Termini che in qualche modo traducono in parole anche la diversa permeabilità dei due luoghi rispetto all’esterno. La distinzione fra le due ‘metà’ del monastero, accentuata dal distacco fisico dell’una dall’altra imposto dalla topografia del luogo, non deve però trarre in inganno rispetto all’unità che esse componevano e che il percorso liturgico seguito nel terzo giorno della settimana in Albis disegnava plasticamente sul terreno. E pluribus unum. Le molte componenti del corpo unitario di un monastero carolingio Se a Montecassino e a Centula sono le fonti scritte ad illustrarci la complessità strutturale e funzionale di un grande monastero dell’età carolingia, in altri due casi sono soprattutto i dati archeologici a consentirci di comprenderne aspetti importanti. Ancora una volta abbiamo di fronte un caso italiano e uno francese che, per casuale coincidenza, si trovano geograficamente non lontano dai due insediamenti su cui ci siamo sin qui soffermati: San Vincenzo al Volturno, in Molise, sul versante opposto delle montagne che delimitano a est la piana di Cassino, e Saint-Denis, situato ai margini settentrionali dell’odierna conurbazione parigina, ma che nell’alto Medioevo costituiva un centro ben distinto dalla capitale francese, presso la strada che conduceva proprio in direzione della Piccardia e della Somme, dove sorgeva Centula. San Vincenzo al Volturno Abbiamo già incontrato San Vincenzo al Volturno nel capitolo quinto, e abbiamo visto che, ancor prima che Carlo Magno portasse a compimento la conquista del 248

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regno longobardo, esso costituiva una delle realtà di maggiore importanza spirituale e politica nel panorama monastico italiano. Sulla storia di questa fondazione ci informano i dati emersi dagli scavi archeologici, il Chronicon Vulturnense, redatto come il suo omologo cassinese agli inizi del xii secolo, e, più sinteticamente, il lacerto di un’altra cronaca prodotta nel monastero nei decenni a cavallo fra il x e l’xi secolo e nota con il nome di Frammento Sabatini (Braga 2003). Le due fonti scritte forniscono preziosi elementi sulla cronologia e sugli autori delle costruzioni e ricostruzioni delle diverse chiese presenti all’interno del monastero tra l’epoca della sua fondazione e gli inizi del xii secolo, anche se purtroppo non contengono informazioni sulle consuetudini che un monastero così grande e importante doveva certamente aver elaborato in ambito liturgico. Almeno sin dagli anni ’80 dell’viii secolo, ma forse già a partire dal decennio precedente, era stato sicuramente avviato un programma di ampliamento dell’insediamento originario che aveva portato alla costruzione di un sistema di corridoi porticati che delimitavano al loro interno un’ampia area centrale, di forma grossolanamente trapezoidale (ca. 60/70 × 40/50 metri di lato), che occupava uno spazio pianeggiante compreso fra il corso del fiume Volturno e una collina retrostante, detta Colle della Torre. Lungo i lati esterni delle ali porticate si erano sviluppati dei plessi di edifici che – sebbene esplorati solo parzialmente – mostrano ciascuno una ben distinta destinazione. Il gruppo posto sul lato nord comprende due chiese, alcuni spazi probabilmente destinati all’accoglienza dei visitatori e il refettorio dei monaci; quello sul lato est – il meno esplorato – costeggiava il corso del fiume e ospitava le cucine e, attigui ad esse, probabilmente anche i magazzini per la conservazione delle derrate alimentari; quello sul lato sud/sud-ovest includeva l’area produttiva e artigianale del monastero; quello sul lato settentrionale, infine, comprendeva un’area a giardino animata da giochi d’acqua e due grandi ambienti che probabilmente fungevano da depositi. Non abbiamo un’idea precisa di come quest’area si collocasse in rapporto alla prima chiesa abbaziale del monastero, Santa Maria Maggiore, edificata intorno al 720, perché i suoi resti non sono stati mai identificati. Questa lacuna allo stato attuale rappresenta una delle maggiori difficoltà per una piena comprensione dell’articolazione che il monastero aveva raggiunto in età longobarda e per fornire una lettura del tutto convincente dei cambiamenti avvenuti nell’età carolingia. Quello che però sia le fonti scritte sia l’archeologia mostrano con chiarezza è che negli anni a cavallo fra l’viii e il ix secolo l’abate Giosuè (792-817) decise di intraprendere un’impresa simile a quella in cui, negli stessi anni, si erano accinti Ratgar a Fulda, Benedetto ad Aniane, Angilberto a Centula e Gisulfo a Montecassino: la costruzione di una nuova, grandiosa chiesa abbaziale, in questo caso dedicata al martire spagnolo Vincenzo di Saragozza, il cui culto era divenuto prevalente nel monastero almeno a partire dalla metà dell’viii secolo (Marazzi 2007 e 2010)73. Questa decisione comportò l’apertura di un cantiere di proporzioni notevoli e che ebbe lunga durata. La sua complessità non dipese solo dalle dimensioni dell’edifi-

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cio, bensì anche dalla posizione in cui si decise di erigerlo, determinata dalla preesistenza di altre costruzioni. Per elevare la nuova chiesa fu prescelto un pianoro posto a una quota di tre-cinque metri più in alto rispetto allo spazio delimitato dai corridoi porticati e a qualche decina di metri a sud-ovest rispetto ad essi, che costituiva il primo saliente del versante meridionale del Colle della Torre, il quale domina la parte centrale dell’insediamento. Esso presentava il vantaggio di consentire all’edificio di elevarsi su un rialzo naturale, cosa che gli avrebbe permesso di svettare su tutte le altre fabbriche del monastero e di essere visibile con molto anticipo a chi si avvicinasse ad esso lungo la strada che percorreva la valle del Volturno, che costituiva il principale asse di collegamento fra i ducati di Spoleto e di Benevento. Il pianoro, tuttavia, benché abbastanza spazioso, necessitò di alcune opere di adeguamento per ospitare la nuova basilica a tre navate, progettata per raggiungere una lunghezza di oltre sessanta metri, per quasi trenta di larghezza e ventuno di altezza; fu quindi necessario spianarne la parte più occidentale, dove si sarebbero elevate le absidi, e costruire un terrapieno alla sua estremità orientale, dove si sarebbe innalzata la facciata. Ma i problemi che la nuova costruzione poneva erano anche altri: la forma e la localizzazione del pianoro obbligavano non solo a collocarla in una posizione defilata rispetto agli edifici sottostanti e ai corridoi porticati che li univano, ma anche ad allinearla su un asse spostato di circa 15° verso nord rispetto ad essi. Inoltre, l’area immediatamente antistante alla facciata della chiesa era già occupata dal quartiere delle officine. Questa situazione costituiva sicuramente un vantaggio per il fatto di consentire al cantiere di essere facilmente rifornito con molti dei manufatti ad esso necessari (come ad esempio la carpenteria, i laterizi, le vetrate e probabilmente anche il vasellame liturgico), ma comportava anche un evidente conflitto fra le funzioni – quella cultuale e quella artigianale – che dovevano rispettivamente assolvere la chiesa e le officine. Questa situazione rese necessario studiare soluzioni per raccordare la chiesa agli edifici sottostanti, conservando al contempo la piena funzionalità delle officine ed evitando che queste ultime, con le loro attività, recassero disturbo alla preghiera. Il punto di snodo cruciale per la risoluzione di questi problemi era rappresentato dal vertice sud-occidentale del quadrilatero porticato. Di lì si fecero dipartire due percorsi: il primo procedeva in direzione ovest e, rasentando il muro settentrionale della nuova chiesa, saliva progressivamente sino alla sua quota pavimentale, terminando esattamente a metà della sua lunghezza, dove fu aperto un portale che immetteva nella navata nord; il secondo conduceva ai fabbricati delle officine. Quest’ultimo probabilmente esisteva già prima che s’iniziasse a costruire la nuova chiesa e nell’occasione fu solo riadattato. Sempre nell’angolo sud-occidentale del grande quadriportico si apriva anche un arco che immetteva in uno spiazzo che costituiva una sorta di corte di servizio per le officine. Questa soluzione iniziale distingueva i percorsi che conducevano alla chiesa da quelli che immettevano nelle officine, ma non li separava ancora completamente; essa fu escogitata quando la chiesa era ancora in costruzione o subito dopo e quindi tra la fine dell’viii secolo e il primo de250

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cennio del ix. In un momento successivo, tuttavia, si decise di frapporre un diaframma più netto tra le officine e il percorso che connetteva la grande chiesa al refettorio: il corridoio e l’arco che permettevano di recarsi direttamente nella zona delle officine furono soppressi con la costruzione di un muro continuo che costitui­ va una prosecuzione del perimetrale nord della chiesa. In questo modo, dall’interno del monastero le officine sarebbero state raggiungibili solo attraverso un ingresso posto nel braccio sud del grande quadrilatero porticato. L’ingresso aperto nel lato settentrionale della chiesa era sicuramente raggiungibile anche da una scala che scendeva lungo il fianco del Colle della Torre e che, forse, la metteva in comunicazione con il dormitorio, presumibilmente situata sull’angolo più favorevolmente esposto della collina per ricevere i raggi del sole74. A prescindere dalla difficoltà tecnica, l’edificazione e il posizionamento della nuova grande chiesa dedicata a san Vincenzo rappresentavano l’attuazione di un progetto di significato ben preciso, che si doveva riflettere nella sua effettiva destinazione d’uso. Ci sfuggono ancora numerosi aspetti dell’assetto topografico di San Vincenzo al Volturno, ma un dato che sembra certo è che il complesso che si trova sulla riva sinistra del fiume, dove sorse anche la chiesa fatta erigere dall’abate Giosuè, costituiva l’area in cui risiedeva la comunità monastica; qui, infatti, sono stati individuati alcuni edifici ad essa riservati, come ad esempio il refettorio. Per accedere a questa parte del monastero si doveva attraversare il fiume utilizzando pontili e passerelle lignee situati presso il gruppo di edifici sorti a nord del grande quadriportico. La chiesa maggiore era posizionata a circa cento metri di distanza da quest’area e, apparentemente, non aveva un collegamento diretto con l’accesso dal fiume. Per raggiungerla si doveva perciò attraversare una serie di spazi interni alla clausura monastica, ed è difficile quindi immaginare che un itinerario di questo tipo potesse essere abitualmente percorso da persone esterne alla comunità, a meno di non essere state esplicitamente autorizzate a farlo. Quello che le strutture riportate alla luce a San Vincenzo al Volturno ci mostrano potrebbe perciò costituire uno stimolante confronto con quanto le fonti cassinesi illustrano in merito all’accessibilità selettiva del monastero posto sulla cima della collina di Montecassino, e cioè che la chiesa maggiore non era stata concepita come un luogo di pellegrinaggio utilizzabile dai fedeli che volessero rendere omaggio alle reliquie di Vincenzo di Saragozza e degli altri santi, deposte nella cripta anulare costruita entro lo spazio della sua abside principale. Similmente a Montecassino, anche San Vincenzo al Volturno era stato probabilmente concepito come un monastero bipartito; ma, differentemente da quanto abbiamo visto accadere nell’abbazia laziale, il confine che separava le due parti dell’insediamento non era marcato dal dislivello che separava l’insediamento sorto in pianura da quello posto sulla collina soprastante. Era invece il corso del Volturno, allora molto più ampio di quanto sia oggi, a svolgere questa funzione di demarcazione. Le aree poste sulla riva destra del fiume non sono ancora state indagate sistematicamente, ma

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le ricognizioni di superficie e le indagini geofisiche che vi sono state condotte indicano chiaramente che erano state intensamente edificate nell’alto Medioevo (Bowes, Francis, Hodges 2006: 130-132). Come ricordavo a proposito della prima abbaziale dedicata alla Vergine, è sconosciuta la localizzazione anche di diverse altre chiese menzionate dalle fonti vulturnensi: fra queste, vale la pena soffermarsi per un momento su quella dedicata al Salvatore, la cui costruzione il Chronicon attribuisce all’abate Talarico (817-824), successore di Giosuè75. Alcuni indizi disseminati nella cronaca del xii secolo lasciano pensare che questa chiesa potesse essere stata edificata nei terreni a destra del Volturno, sulla sponda opposta a quella in cui sorse la basilica di San Vincenzo e quindi nell’area che abbiamo immaginato esterna alla parte del monastero in cui vivevano i monaci. Davanti ad essa vi era sicuramente un’area frequentabile, dove nell’xi secolo furono deposti i corpi dell’abate Ilario (1011-1045) e, forse, dello stesso Giosuè76. Questo dettaglio fa pensare che l’edificio fosse accessibile frontalmente e la collocazione delle tombe degli abati presso la sua entrata ricorda quella prescelta da Angilberto per il proprio sepolcro, che egli aveva fatto sistemare davanti all’entrata della chiesa, dedicata anch’essa al culto del Salvatore. Una coincidenza interessante è anche quella dell’identica dedica al Cristo delle chiese aperte alla frequentazione di persone esterne alla comunità, che abbiamo visto attestata a Centula e a Montecassino, ma anche in altri due casi di grande importanza – Fulda e Fontenelle –, dove a questo culto fu riservata la porzione occidentale della chiesa maggiore, a diretto contatto con il loro presumibile accesso dall’esterno (Caillet 2005: 68-69). Tutti questi dati potrebbero spingere a formulare l’ipotesi che anche a San Vincenzo al Volturno la chiesa del Salvatore avesse la funzione di tempio destinato alle celebrazioni religiose aperte anche alla frequentazione dei secolari. Tornando per un momento sulla riva sinistra del fiume, abbiamo visto che un altro problema posto dallo sviluppo del monastero all’inizio del ix secolo fu quello dell’isolamento della basilica di Giosuè dalle officine, che occupavano l’area immediatamente a sud di essa. Sino alla fine dell’viii secolo, il quartiere produttivo del monastero si trovava isolato rispetto alle aree più direttamente interessate dalla vita della comunità; ma con la costruzione della grande chiesa le due aree vennero a trovarsi a diretto contatto. Questo cambiamento rese obbligatoria la costruzione di una serie di barriere architettoniche in grado di separare l’una dalle altre. Al termine di questi lavori le officine rimanevano in connessione con il quadriportico solo attraverso un passaggio che si apriva sul suo lato meridionale e che quindi era debitamente distanziato dall’itinerario che collegava il refettorio alla basilica, che i monaci dovevano percorrere – nelle due direzioni – almeno quattro volte al giorno. Cercando di comporre un’immagine generale del monastero vulturnense in età carolingia attraverso l’unione di tutti gli elementi sin qui esaminati, sembra di poter cogliere una certa ratio nel modo in cui il suo sviluppo fu pianificato nei tumultuosi decenni compresi fra il 790 e l’830. 252

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Il grande spazio delimitato da quattro corridoi porticati, edificato forse già a partire dai precedenti anni ’80, divenne non tanto il cuore dell’area claustrale vera e propria (poiché comunque sui suoi lati meridionale e orientale si trovavano officine e magazzini) quanto piuttosto un’area di smistamento e d’interconnessione tra le diverse funzioni svolte dagli edifici posti sui suoi fianchi. La scala dimensionale di questo quadrilatero porticato permetteva tuttavia di tenere abbastanza ben distinti i percorsi legati allo svolgersi della vita regularis da quelli seguiti da coloro, monaci compresi, che attendevano alle attività organizzative e produttive che fervevano nel monastero. L’area riservata ai monaci doveva certamente comprendere anche parte del soprastante Colle della Torre, in cui presumibilmente si trovava il dormitorio. A nord di quest’area, di là del refettorio, era stato organizzato un settore adibito all’accoglienza degli ospiti di riguardo, arricchito dalla presenza di due piccole chiese; a meridione di essa, come abbiamo visto, si estendeva invece il quartiere delle officine, che certamente aveva anche un suo accesso autonomo dall’esterno. La prossimità fisica tra le officine e la chiesa maggiore appare come un elemento abbastanza anomalo, ma la ragione per cui tale situazione si determinò derivava molto probabilmente dall’inserimento ex post della chiesa di Giosuè all’interno di un progetto di sviluppo dell’insediamento monastico elaborato prima che quest’abate, di origine franca e a cui il Chronicon Vulturnense attribuisce addirittura una parentela con la moglie di Ludovico il Pio, decidesse di dotare il monastero di un tempio pari per grandezza e splendore a quelli che gli altri grandi monasteri carolingi andavano realizzando negli stessi decenni. Dall’altro lato del fiume, poi, doveva essere stata organizzata un’area all’interno della quale si potrebbe ipotizzare, oltre alla chiesa del Salvatore, anche la presenza di spazi a destinazione amministrativa e commerciale, come quelli che esistevano a Montecassino e a Centula.

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Saint-Denis Posto poco a nord di Parigi, il monastero sorto già in età merovingia intorno al santuario martiriale di Dyonisius conobbe una nuova fase di sviluppo sin dalla primissima età carolingia – e quindi subito dopo la metà dell’viii secolo – per il fatto di essere stato eletto da Pipino iii come proprio luogo di sepoltura. I lavori di ampliamento vi proseguirono però almeno sino alla fine degli anni ’60 del ix secolo, quando Carlo il Calvo, nipote di Carlo Magno e re dei Franchi occidentali, si fece nominare abate laico del monastero e ordinò che a sua protezione fosse costruito un recinto fortificato in legno e pietra contro la minaccia dei raid vichinghi77. Nell’anno 862 Carlo emanò in favore dell’abbazia un precetto il cui testo fornisce molte preziose informazioni in merito alla presenza di una serie di edifici annessi alla chiesa in cui era sepolto il martire. Quest’ultima era stata fatta ricostruire negli anni ’70 dell’viii secolo dall’abate Fulrado e aveva l’aspetto di una basilica a tre navate, con transetto e cripta anulare ricavata sotto l’unica abside, per poter consen253

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tire di raggiungere più agevolmente la tomba di Dyonisius-Denis (McKnight Crosby 1987: 51-87; Heitz 1988 e 1993). Il præceptum di Carlo il Calvo ricorda in particolare che nelle vicinanze della basilica esistevano un refettorio, un dormitorio, un guardaroba, una sala riscaldata, un edificio per ospitare i novizi, una cucina, bagni, officine, una panetteria e un magazzino per le derrate alimentari. L’elenco di questi edifici compone un quadro che, sulla scorta di quanto mostrato dai casi già esaminati, ci appare abbastanza consueto. Accanto a spazi sicuramente pertinenti al claustrum vero e proprio (refettorio, cucine, panetteria, dispensa e dormitorio), ne sono menzionati altri che potrebbero essere appartenuti anch’essi al medesimo settore del monastero, come la sala riscaldata e i balnea, che forniscono indizi sull’alto livello delle infrastrutture di cui il monastero era stato dotato e che fu reso possibile anche grazie alla presenza al suo interno di un fiumicello, il Croult, il cui corso lambiva il sito della basilica. Altre indicazioni, quali quelle inerenti la presenza di un edificio riservato ai novizi e un quartiere per le officine, lasciano presumere l’esistenza di aree edificate poste esternamente al claustrum, ancorché ad esso strettamente connesse, come è nel caso degli spazi destinati a ospitare i novizi. Le lunghe e scrupolose campagne di scavi che hanno interessato l’area urbana di Saint-Denis sono riuscite solo in minima parte a intercettare la presenza di edifici prossimi alla basilica e databili all’alto Medioevo; ciò è avvenuto sia a causa della presenza di un densissimo tessuto edilizio moderno, sia per la persistenza delle fabbriche monastiche sviluppatesi intorno alla chiesa nel basso Medioevo e anche oltre, il che ha costretto gli archeologi ad effettuare indagini solo in aree libere di risulta (Héron, Meyer, Wyss 1988; Saint-Denis 1996; Wyss 1996). È stato pertanto assai difficile collocare topograficamente gli edifici menzionati nel documento di Carlo il Calvo, ma altri sondaggi eseguiti a più riprese in un’area situata una cinquantina di metri a nord della basilica hanno permesso di capire che, lungo il ciglio di un dislivello nel terreno, in quest’area si era sviluppato un complesso di una certa rilevanza architettonica costituito da diversi corpi di fabbrica. Procedendo da ovest, nel primo di essi è stata riconosciuta un’aula a destinazione profana che gli archeologi, pur con qualche cautela, hanno ritenuto di interpretare come il palatium presso cui erano ospitati i sovrani in visita al monastero78. In effetti, la sua posizione lo pone in diretta connessione con la basilica o piuttosto con l’area ad essa antistante, sul lato opposto della quale si trovavano l’alloggio del tesoriere del monastero e la cappella palatina dedicata a san Cucuphas (o san Cougat), un martire catalano del iii secolo le cui reliquie erano state fatte giungere a Saint-Denis nell’viii secolo dal già ricordato abate Fulrado. Il palazzo e la cappella sembrano quindi comporre i lati a nord e a sud di una sorta di spazio privilegiato, liminare alla basilica, di cui quest’ultima costituiva il versante orientale, forse riservato proprio ai sovrani in visita. Purtroppo le indagini archeologiche non si sono potute inoltrare nella zona antistante la basilica ed è quindi impossibile formulare ipotesi certe sul254

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la sua organizzazione fra viii e ix secolo. Si può però ragionare su qualche dato indiretto. La navata centrale della basilica fatta costruire da Fulrado era apparentemente priva di un vero e proprio accesso frontale che la mettesse direttamente in comunicazione con l’esterno poiché il suo tratto finale, a ridosso della facciata, era stato occupato da una struttura interpretata come il mausoleo ospitante la sepoltura di Pipino iii; l’entrata alla chiesa doveva quindi avvenire attraverso degli ingressi posti al termine delle navate laterali. L’edificazione di questo supposto mausoleo si sarebbe inserita all’interno di una più ampia opera di monumentalizzazione dell’estremità occidentale della basilica, realizzata mediante la costruzione di una sorta di avancorpo enfatizzato da una coppia di torri in corrispondenza delle due navate laterali, che avrebbe dovuto filtrare l’accesso alla basilica dall’esterno. Una descriptio della basilica e dei suoi annessi, risalente al 799, afferma che in quest’area erano stati costruiti dei portici poggianti su ben 103 colonne (Jacobsen, Wyss 2002)79. La presenza del sepolcro regio nell’area d’accesso alla chiesa – e quindi in prossimità topografica con il supposto palatium – potrebbe far ipotizzare che questa sorta di platea e la stessa chiesa, in cui si trovavano già le sepolture di diversi sovrani merovingi, non fossero abitualmente aperte alla frequentazione dei secolari, con l’eccezione di alcune festività nelle quali, come ci informa sempre la descriptio, si accendevano simultaneamente tutte le 1.250 lampade presenti all’interno del tempio. In sostanza, questa zona aveva apparentemente assunto l’aspetto di una curtis monumentale e porticata che permetteva la connessione fra la chiesa e gli edifici adiacenti, destinati a residenza del sovrano. Essa si trovava al termine del percorso che, giungendo dalla porta ovest del recinto murario costruito intorno all’abbazia nella seconda metà del ix secolo, conduceva in linea retta alla chiesa; così posizionata, avrebbe potuto perciò costituire il punto di arrivo di una sorta di ‘itinerario trionfale’ riservato alle visite che i personaggi più importanti – i re in primo luogo – compivano presso il sepolcro di Dionysius. L’ipotesi dell’esistenza di un percorso di accesso di questo tipo, connesso all’idea che di esso fossero fruitori i visitatori di rango più elevato, è stata avanzata anche per l’abbazia tedesca di Lorsch, situata nella media valle del Reno. L’elemento che più di ogni altro ha contribuito a formularla è la presenza di un singolare edificio, giunto quasi intatto sino a noi, posto esattamente sull’asse della chiesa abbaziale ad una distanza da essa di circa 60 metri. Si tratta della celeberrima Torhalle, interpretata come un vero e proprio arco di trionfo, modellato sugli analoghi e numerosi monumenti di questo tipo costruiti in età romana (D’Onofrio 1976 e 1983: 55-84; Krautheimer 1993: 203-218; McClendon 2005: 92-104). Tornando a Saint-Denis, l’ipotesi che l’area antistante alla facciata della chiesa e il percorso rettilineo che permetteva di raggiungerla costituissero gli elementi di una sorta di itinerario riservato agli ospiti di riguardo potrebbe trovare ulteriore sostegno nel fatto che la struttura destinata alla receptio e all’assistenza dei pellegrini comuni – il cosiddetto Hôtel-Dieu, di cui è stata postulata l’origine altomedie-

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vale – si trova invece nei pressi della porta di sud-ovest e quindi lungo un itinerario di avvicinamento alla basilica ben distinto. Ovviamente questa ipotesi, pur suggestiva, non può che essere proposta come una delle soluzioni possibili agli interrogativi ancora aperti sulla topografia della Saint-Denis carolingia. Prima però di esaminare gli altri elementi noti per questo complesso monastico, varrà la pena confrontare per un momento il quadro che emerge dall’analisi dell’area compresa fra la chiesa abbaziale e il palazzo con quanto nello stesso torno di anni fu realizzato anche a Paderborn, nella Westfalia settentrionale, dove Carlo Magno aveva fatto costruire un palatium in cui nell’anno 799 incontrò papa Leone iii in fuga da Roma (Becher 1999). La dimora regia fu edificata insieme ad altre due fabbriche: una chiesa a sala, già in uso nel 777, rimpiazzata poi da una più grande aula basilicale consacrata nell’806 e destinata a fungere sia da cattedrale per la nuova diocesi istituita in questo territorio di frontiera, sia da sede per la celebrazione dei rituali solenni attivati in concomitanza con la presenza del sovrano; un monastero, già esistente anch’esso alla fine dell’viii secolo, la cui comunità avrebbe potuto a sua volta utilizzare la grande chiesa. In questo caso, grazie ai meticolosi scavi condotti sia nella chiesa, divenuta la cattedrale della città, sia nell’area occupata dalle strutture del palazzo e del monastero e che hanno potuto dispiegarsi con meno ostacoli di quanto avvenuto a Saint-Denis, l’icnografia dei singoli edifici come delle aree tra loro intermedie ci appare sufficientemente chiara (Lobbedey 1986; Gai 2002 e 2008). Il palazzo regio si situava a ridosso del recinto fortificato che difendeva tutto l’insediamento, sorto direttamente sopra le risorgive che alimentano il corso del fiume Pader; il corpo principale del palazzo, a pianta rettangolare – tutto sommato abbastanza simile, anche per dimensioni, alla struttura analogamente interpretata rinvenuta a Saint-Denis – e disposto parallelamente all’andamento delle mura, dovrebbe aver costituito la vera e propria aula regia; collegato ortogonalmente ad esso vi è un altro edificio con identica planimetria che occupa lo spazio residuo – circa una ventina di metri – fra l’aula stessa e le mura, che è stato interpretato come ambiente a funzione residenziale. La chiesa è stata edificata una ventina di metri a sud-est del palazzo e, nell’area a nord-est di essa, delimitata dalla ‘L’ formata dai due edifici appena descritti, si sarebbe sviluppato il complesso monastico, di non grandi dimensioni. Sul lato opposto, ad ovest della chiesa e a sud dell’aula regia, troviamo invece un’area aperta verso la quale si protendevano due avancorpi che aggettavano dall’edificio dell’aula stessa. Almeno sino agli anni ’30 del ix secolo quest’area costituì lo spazio dal quale si accedeva sia alla chiesa sia al palazzo ed essendo situata a poca distanza dal recinto delle mura urbane è possibile (anche se archeologicamente non dimostrato) che da essa potesse dipartirsi un percorso che conduceva a una porta e quindi all’esterno della città. Dopo l’836 la sua organizzazione mutò in conseguenza della trasformazione subìta dalla chiesa, alla cui estremità occidentale furono aggiunti un transetto e un’abside dotata di una cripta anulare destinata ad ospitare le reliquie di san Liborio. A questo punto, la chiesa per256

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se l’accesso in facciata e gli ingressi avvenivano dal lato nord del transetto (per chi proveniva dal palazzo), dal lato sud (per chi proveniva dall’area esterna al plesso palaziale) e, infine, dall’estremità est della navata settentrionale (per chi proveniva dal monastero attiguo). Dallo spazio aperto antistante non era quindi più possibile l’accesso diretto alla chiesa, ma la cosa era probabilmente divenuta superflua poiché, come abbiamo visto, la ristrutturazione dell’edificio era servita a separare bene gli itinerari che permettevano di entrarvi, ciascuno di essi riservato a un’utenza specifica. Purtroppo, dato lo scarso livello di conservazione delle strutture di età carolingia, i pur meticolosi scavi condotti all’interno della basilica non hanno permesso di comprendere come il suo spazio interno fosse stato articolato e suddiviso per ospitare le diverse funzioni di chiesa monastica, palatina ed episcopale che essa doveva simultaneamente assolvere. Solo a livello d’ipotesi si potrebbe supporre che lo sdoppiamento del coro corrispondesse a una distinzione funzionale delle due polarità dell’edificio, con l’estremità est, direttamente accessibile dal monastero, riservata ai membri della comunità e quella opposta aperta al servizio per la popolazione di stato secolare. Lo spazio compreso fra la basilica e il palazzo non aveva tuttavia smesso di svolgere la funzione per cui era stato inizialmente pensato, poiché continuava comunque a fungere da corte di servizio per quest’ultimo. Anzi, probabilmente le sue funzioni erano ora ancor più definite in tal senso, poiché il nuovo accesso alla chiesa attraverso il transetto sud permetteva – come del resto accade ancor oggi – che la popolazione che doveva recarsi ad assistere alle celebrazioni religiose percorresse un itinerario del tutto distinto da quello che interessava gli spazi più vicini al palazzo stesso. Questa distinzione d’itinerari propone un ulteriore spunto di confronto con l’organizzazione spaziale vista a Saint-Denis; ma è certamente interessante anche la disposizione del plesso monastico, che, sebbene nel sito francese si trovasse a sud della chiesa – e quindi in posizione speculare rispetto a quanto fu stabilito a Paderborn –, sembra comunque disposto in modo da essere completamente al riparo da interferenze con luoghi e funzioni diversi da quelli pertinenti la vita dei monaci. Pur con tutte le cautele che un’evidenza archeologica inevitabilmente frammentaria impone e senza dimenticare l’originaria diversità funzionale dei due insediamenti, sembra però lecito cogliere tratti comuni d’ispirazione fra l’organizzazione spaziale di Saint-Denis e quella di Paderborn. La compresenza di monastero e palazzo è quella più visibile, ma in ambedue i casi la chiesa maggiore funge da perno architettonico intorno al quale ruota la disposizione degli altri elementi funzionali e il palatium sembra aver condiviso con l’edificio di culto uno spazio aperto destinato – come abbiamo visto anche a Centula – ad ospitare assembramenti cerimoniali in occasione delle festività maggiori ed eventualmente anche per gestire l’accoglienza di visitatori illustri. Riportandoci ancora una volta a Saint-Denis, ricordavo prima che l’edificio interpretato come palatium regio non era isolato, ma costituiva il primo elemento di 257

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una serie di corpi di fabbrica che si succedevano l’uno dopo l’altro per circa ottanta metri, disposti su un allineamento ordinato grossolanamente su un asse estovest. Lungo a questo, oltre all’aula regia, vi erano due chiese – dedicate a san Pietro e a san Bartolomeo – la cui cronologia di fondazione non è del tutto chiara, ma che si suppone esistessero già in età carolingia. I tre edifici – il palazzo e le due chiesette – erano collegati fra loro da una sorta di corridoio che proseguiva ulteriormente verso ovest sotto l’attuale collegiale di San Paolo, la cui origine altomedievale non è però del tutto certa. Sebbene la disposizione degli edifici e il modo in cui sono interconnessi potrebbe farlo presumere, non vi sono elementi certi per ritenere che questo plesso di cappelle sussidiarie costituisse parte di una topografia processionale interna al monastero francese, così come è impossibile stabilire se un’analoga funzione avessero potuto rivestire anche alcune chiese esterne al recinto fortificato fatto erigere da Carlo il Calvo e collocate lungo i principali itinerari stradali di avvicinamento al monastero80. La lista degli edifici enumerati nel precetto di Carlo il Calvo dell’869, da cui si traggono molte delle informazioni sul monastero-santuario di Saint-Denis, comprende anche le officinæ, la panetteria (pistrinum) e i magazzini (cellarium): queste presenze, come abbiamo visto a Centula e a San Vincenzo al Volturno, erano tutt’altro che inconsuete all’interno di un grande monastero altomedievale e rispondevano al comandamento di Benedetto da Norcia che raccomandava alle comunità di essere il più possibile indipendenti dall’esterno nel garantirsi gli approvvigionamenti essenziali. Purtroppo, né le fonti scritte né le indagini archeologiche permettono di situare queste strutture nella topografia del grande monastero francese, ma è d’obbligo ricordare che la loro presenza presupponeva realtà organizzative complesse, al cui funzionamento erano dedicate energie notevoli e che coinvolgevano inevitabilmente anche numerosi soggetti esterni alle comunità monastiche, come già alcune delle Regulæ tardoantiche saggiamente avevano previsto. Corbie e Bobbio Sempre dalla Francia del Nord, e precisamente dal monastero di Corbie, situato immediatamente a est di Amiens (e quindi non lontano da Centula), proviene un documento preziosissimo che getta una luce nitida su come un grande monastero dell’età carolingia provvedesse a gestire le risorse del proprio patrimonio fondiario, su come le conservasse e le trasformasse e, infine, su come sviluppasse al proprio interno competenze tecniche e, potremmo dire, manageriali di alto livello in modo da fare fronte alle esigenze proprie di una comunità numerosa ed esposta in prima linea sullo scenario politico, culturale e spirituale del proprio tempo. Si tratta delle cosiddette Consuetudines Corbeienses, emanate dall’abate Adalardo (751822), cugino primo di Carlo Magno per parte di madre, che a partire dal 781 resse il monastero per un quarantennio. Un lungo regime, quindi, quantunque interrot258

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to in diverse occasioni, come nelle circostanze in cui Adalardo accompagnò il re a Paderborn nel 799, in occasione dell’incontro con papa Leone iii, e quando resse il regno d’Italia in nome dei re Bernardo e Pipino, tra la fine dell’viii e i primi anni del ix secolo. Quest’ultimo delicatissimo compito, che era stato affidato in precedenza ad Angilberto, chiarisce bene che Adalardo, coetaneo sia dell’abate centulese che dello stesso Carlo, apparteneva alla cerchia più ristretta ed esclusiva dei potentes del regno franco. Differentemente da Angilberto, però, Adalardo non era un laico e il suo ingresso nell’abbazia di Corbie, fondata a metà del vii secolo dai re merovingi, era avvenuto quando era ancora un adolescente. Egli fu allontanato dalla sua abbazia subito dopo la morte di Carlo, poiché Ludovico il Pio avrebbe preferito circondarsi di consiglieri diversi rispetto a quelli del padre, tra i quali scelse Benedetto di Aniane, che, in ragione di profonde divergenze rispetto agli obiettivi e alle modalità della riforma monastica, fu probabilmente uno dei più accesi detrattori di Adalardo presso il nuovo sovrano (Ganz 1990). Il reintegro a Corbie di quest’ultimo avvenne solo dopo la morte di Benedetto, nell’821, ed è proprio a quest’ultimo periodo della sua vita che risale la redazione delle Consuetudines (Verhulst-Semmler 1962; Semmler 1963). Come in un gioco di specchi fra due destini incrociati tra loro, la storia consegna per l’opera di Adalardo la parte che manca nel dossier di Angilberto – tutto incentrato sugli aspetti della vita liturgica – e che completa così sotto il profilo economico e organizzativo le nostre conoscenze su un grande monastero sviluppatosi nel cuore dell’Impero carolingio81. Anche le Consuetudines di Adalardo, così come la Institutio di Angilberto per Centula, non erano state pensate come una descrizione del monastero di Corbie, poiché l’obiettivo che si prefiggevano era piuttosto quello di fornire all’imperatore una sorta di resoconto sulla sua struttura amministrativa. Esse si occupano quindi soprattutto di questioni inerenti alla gestione del patrimonio fondiario monastico, delle mansioni di coloro che erano incaricati del suo funzionamento, delle rendite che esso generava e dell’accoglienza e dell’immagazzinamento delle produzioni agricole. È perciò una fonte indiretta e, diremmo, involontaria per la conoscenza della Corbie carolingia, ma non per questo meno preziosa (Foucher 2007). Il primo capitolo del documento si occupa dei provendarii, e cioè del personale che si trovava alle dirette dipendenze del monastero ricevendo da esso vitto e alloggio e che costituiva la forza-lavoro incaricata di assolvere tutte le mansioni tecnicopratiche di cui la comunità abbisognava quotidianamente (Doehaerd 1983: 117118)82. Questa categoria era composta da centocinquanta persone, tutte di sesso maschile, ma di status personale differente, dato che alcuni erano chierici, altri aspiranti tali (pulsantes), altri ancora dei poveri mantenuti a spese del monastero (matricularii) e altri infine dei semplici laici. Le mansioni affidate a queste persone variavano in rapporto alla loro condizione personale: i chierici e i pulsantes, ad esempio, erano adibiti alle necessitates interiores, e cioè ai compiti da svolgersi nella parte più interna del monastero, dove viveva la comunità, in modo da evitare che in quegli spazi si verificasse un 259

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andirivieni di laici, cosa che comprensibilmente veniva reputata inopportuna. In particolare, essi operavano nel cellarium, ossia la dispensa dei monaci, nella lavanderia in cui si lavavano i loro capi di vestiario, nella curticula (e cioè nel giardino) dell’abate e nell’infermeria monastica. Laici e matricularii prestavano invece la propria opera in luoghi meno riservati, ma pur sempre collocati all’interno del monastero. Essi erano divisi in tre gruppi o camaræ, che molto probabilmente corrispondevano a tre settori fisicamente distinti fra loro in cui era suddiviso lo spazio ove erano svolte attività manuali di vario tipo. La prima camara comprendeva un laboratorio di calzoleria, una fullonica (un’altra lavanderia, evidentemente distinta da quella in cui si lavavano i panni dei monaci) e la stalla dei cavalli; la seconda includeva l’officina dei fabbri e quelle degli orafi, degli armaioli, dei fabbricanti di pergamene, degli arrotini e dei fonditori; nella terza camara, infine, erano riuniti quanti lavoravano presso il cellarium (la dispensa posta presso l’alloggio del portiere, ove si sfamavano i visitatori e i questuanti) e l’infermeria e comprendeva anche i gararii (vocabolo che probabilmente indicava le persone incaricate di tagliare la legna), coloro che si occupavano di portare la legna al forno del pane e all’ingresso principale del monastero, i falegnami, i muratori, i medici e i serventi della casa vassallorum, e cioè l’alloggio delle persone legate al monastero da un rapporto di fedeltà personale e che operavano al suo servizio con mansioni varie83. Ciascuna delle tre camaræ raggruppava così funzioni tra loro ben distinte e per questo opportunamente insediate in spazi specifici. Il primo gruppo riuniva infatti quanti si occupavano del vestiario e delle bardature di persone e cavalli; il secondo comprendeva tutti gli artigiani specializzati nelle lavorazioni di specifici materiali; il terzo, infine, coloro che attendevano al funzionamento delle diverse parti del monastero e alla sua ordinaria manutenzione. A questo nutrito parterre di operatori che agivano infra monasterio se ne aggiungeva uno quanto meno altrettanto numeroso di persone impegnate extra monasterium, ma che svolgevano funzioni altrettanto essenziali per la sua sopravvivenza quotidiana. Si trattava del personale destinato a lavorare presso il mulino, le peschiere e i vivai dei pesci, il bestiame da stalla, le greggi, gli orti, i frutteti, i pozzi e le strutture per l’adduzione dell’acqua. All’enumerazione delle funzioni svolte dal personale posto alle dirette dipendenze dei monaci, che occupa il capitolo i delle Consuetudines, segue una lunga e dettagliatissima descrizione delle funzioni medesime. Da essa si evince che in realtà i provendarii costituivano solo una minima parte della forza-lavoro operante presso il monastero. Essi, in altre parole, rappresentavano una sorta di anello intermedio fra il livello apicale del grande organismo abbaziale, composto dalla comunità monastica (e, al suo interno, da coloro che vi detenevano cariche direttive e di coordinamento), e la popolazione che gravitava intorno all’abbazia e sulle sue terre viveva e lavorava. In sostanza, essi agivano come la longa manus utilizzata dai monaci nel disbrigo delle attività profane, delle quali ovviamente mantenevano la 260

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supervisione attraverso il controllo assiduo dell’efficienza delle stesse e la tenuta di una meticolosa contabilità delle rendite patrimoniali84. La rappresentazione delle attività operative che le Consuetudines Corbenienses descrivono rafforza ancora di più l’immagine dell’insediamento monastico come una realtà composta da diversi e concentrici settori funzionali, ciascuno distinto dall’altro, ma tutti parti di un insieme inscindibile. Coloro che erano addetti alle necessitates interiores agivano chiaramente all’interno della clausura vera e propria, ove la gran parte dei monaci conduceva un’esistenza dedita alla preghiera e allo studio al riparo dal tumulto del mondo – e la Corbie carolingia, con il suo prestigioso scriptorium, su scala europea era uno dei centri più importanti in tal senso. Il loro compito era anche quello di assistere sia chi doveva allontanarsi dal monastero fornendogli equipaggiamento e mezzi di locomozione, sia quanti erano stati autorizzati ad entrarvi, accogliendoli e provvedendo ad esempio a curarsi delle loro cavalcature e a ricoverarle. Gli artigiani specializzati che operavano nell’ambito della prima e della seconda camara fornivano invece i manufatti dei quali i monaci avevano bisogno per svolgere le attività cui si dedicavano in prima persona, come ad esempio le pagine di pergamena per gli amanuensi e i sacri vasellami per l’arredo liturgico delle chiese, ma anche oggetti destinati ad essere offerti in dono ad amici potenti e clientes di fiducia dell’abbazia. Essi trascorrevano la maggior parte del proprio tempo nelle loro officine, che, se dobbiamo prendere a riferimento quanto ci propongono le evidenze di Centula e di San Vincenzo al Volturno, dovevano trovarsi certamente al di fuori della clausura, in modo da non disturbare i monaci con i loro odori e rumori, ma abbastanza vicine ad essa per poter soddisfare in tempo reale tutte le comande che ne provenivano. I lavoranti raggruppati nella terza camara costituivano invece quella che potremmo definire la task force dei tuttofare, che operava, secondo necessità, in tutti i settori del monastero. Le Consuetudines forniscono dettagli molto precisi sulla produzione agricola proveniente dalle proprietà del monastero e sulle modalità di riscossione dei canoni che esso imponeva ai coltivatori. È interessante a questo proposito che Adalardo utilizzi il termine annona per indicare le corresponsioni in frumento e in altri tipi di cereali destinati alla produzione del pane, parte per il consumo della comunità e parte distribuito ai poveri che i monaci mantenevano a loro spese. Questo termine, infatti, è lo stesso che l’amministrazione imperiale tardoromana impiegava per denominare le esazioni, in natura o in denaro, i cui proventi dovevano servire al vettovagliamento degli eserciti e delle popolazioni urbane85. Ciò che però qui interessa di più approfondire non è tanto quali derrate e in che quantità fossero consegnate al monastero, quanto dove e nelle mani di chi ciò avvenisse. Il luogo che costituiva lo snodo centrale di tutto questo andirivieni di uomini, mezzi e prodotti era la porta monasterii; ad essa sovrintendeva il portararius, che rispondeva del proprio operato direttamente all’abate o al suo præpositus e che 261

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aveva alle proprie dipendenze una squadra di persone che gestivano l’ingresso dei carri per il trasporto delle derrate (costituite da prodotti sia animali sia vegetali), il loro parcheggio e la loro uscita. Egli doveva anche provvedere allo stoccaggio delle medesime e al loro smistamento presso le cucine e la panetteria, dove quotidianamente un’altra squadra di persone s’incaricava di preparare la refezione per la comunità. Il settore della porta era quindi un vero e proprio punto d’incontro tra il mondo esterno e l’interno dell’abbazia e ne gestiva in certo senso l’aspetto più delicato, poiché era qui che transitavano quei beni, in merci e in denaro liquido, dai quali allo stesso tempo la vita del monastero dipendeva, ma dal cui afflusso non doveva trarre ragioni di corruzione del proprio stile di vita. Le raccomandazioni di Adalardo affinché il personale che collaborava con il portararius fosse sempre pulito e vestito in modo decoroso lasciano intravvedere l’altra funzione fondamentale che la porta principale del monastero era chiamata a svolgere e cioè quella di accogliere i visitatori, tra i quali, in un luogo importante com’era Corbie, non mancavano certo personaggi di alto rilievo politico e sociale. Allo stesso portararius, in quanto monaco, era raccomandato di non andarsene in giro per le aziende e i villaggi a verificare sul posto l’entità dei raccolti e la quantificazione della parte restante al monastero, ma di servirsi a tal fine di personale laico e di responsabilizzare i capi dei villaggi affinché le partizioni fossero effettuate correttamente. Questo controllo a distanza era possibile perché negli archivi monastici si custodivano inventari assai dettagliati delle proprietà, che permettevano di sapere in anticipo quale fosse la produttività media di ciascuna di esse e quindi di verificare la correttezza delle quantità di prodotti agricoli e zootecnici che erano periodicamente conferiti all’abbazia. Sopravvivono diversi esemplari di questo tipo di documenti, detti polyptica o brevia. Essi provengono dagli archivi di monasteri più o meno importanti distribuiti un po’ in tutte le regioni dell’Impero franco e sono fonti di grande importanza per la storia economica non solo delle istituzioni che li produssero, ma più in generale di tutta l’Europa altomedievale (Montanari, Andreolli 1983: 115-128; Verhulst 2002: 37-41)86. Purtroppo, i polyptica di Corbie non ci sono pervenuti, ma dovevano certamente esistere poiché Adalardo mostra una conoscenza così dettagliata dei singoli prodotti e delle loro quantità che affluivano annualmente nei magazzini del monastero, da far presumere che le sue istruzioni si basassero su dati contabili altrettanto precisi reperibili negli uffici amministrativi. L’alimentazione dei monaci di Corbie non si componeva solo di quanto le aziende agricole inviavano all’abbazia; una parte la producevano essi stessi lavorando negli horti che circondavano l’insediamento. Abbiamo già visto che uno spazio di questo tipo esisteva a Centula, anche se non è del tutto chiaro se si trattasse di un giardino o di un orto vero e proprio. A Corbie di horti ve n’erano quattro, delimitati da siepi o da palizzate che probabilmente avevano anche la funzione di evitare contatti visivi fra i monaci e coloro che vivevano all’esterno, ed erano dislocati 262

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presso ognuno degli ingressi del monastero. Alla loro gestione sovrintendeva un monaco hortulanus, che, in accordo con i capi dei villaggi circostanti, aveva anche il compito di gestire l’utilizzo di lavoratori laici adibiti ad aiutare periodicamente i confratelli nell’espletazione di alcuni lavori più pesanti, come l’estirpazione delle erbe infestanti, la riparazione delle recinzioni e delle baracche e il trasporto dei prodotti nel monastero. Adalardo enumera minuziosamente tutti gli attrezzi che i monaci dovevano avere in dotazione per il lavoro negli orti e raccomanda all’hortulanus di rivolgersi sempre al camararius per il loro rimpiazzo o la loro manutenzione in caso si fossero danneggiati durante l’uso87. Tutti i generi alimentari, indipendentemente dalla provenienza, avevano il loro naturale punto di arrivo nella cucina, spazio in cui si lavorava quasi a ritmo continuo dovendo provvedere alla preparazione dei pasti quotidiani, sia per le decine di monaci che appartenevano alla comunità, sia per l’abate e i suoi eventuali ospiti, sia infine per il personale ausiliario che vi operava. All’organizzazione del lavoro nella cucina e al servizio nell’adiacente refettorio presiedeva il senior cellara­ rius, aiutato dallo iunior cellararius; quest’ultimo, se è consentita l’espressione, aveva principalmente la funzione di maître, dovendo supervisionare la distribuzione nel refettorio delle pietanze e delle bevande durante i pasti comunitari, controllando che ciascuno ricevesse la giusta razione e che quindi non sorgessero lamentele. Il senior, invece, si concentrava principalmente su quanto avveniva nella cucina e doveva controllare che la dispensa fosse sempre provvista di tutto il necessario. Ai suoi ordini stavano non solo i monaci impegnati a cucinare i pasti, divisi in squadre che operavano secondo turni settimanali, ma anche il personale laico che doveva aiutarli nella preparazione dei cibi. Quest’ultimo era adibito al lavaggio e al taglio di ortaggi e legumi, alla desquamazione del pesce e alla sua eviscerazione e al rifornimento del combustibile per forni e camini. Ai laici era tassativamente proibito di accedere alla cucina quando i monaci preparavano i pasti e perciò Adalardo prescriveva che essi lavorassero in un locale separato dalla cucina vera e propria, comunicante con quest’ultima attraverso una finestrella o un qualche altro tipo di apertura, in modo che cibi e legname potessero essere consegnati ai monaci, senza che i laici entrassero in contatto con i monaci e questi ultimi uscissero dalla cucina per recarsi dai primi88.

Gli spazi e l’atmosfera di una cucina monastica del ix secolo sono stati ben messi in luce dai ritrovamenti avvenuti a San Vincenzo al Volturno, dove si è potuto constatare che essa era direttamente in comunicazione con il refettorio, attraverso un ambiente che probabilmente fungeva da locale per il ricovero di stoviglie e tovagliati (Lange 2007; Marazzi 2007b; Carannante et al. 2008; Marazzi, Carannante 263

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2011). Nella cucina del monastero molisano erano stati predisposti due punti di cottura: in un lato dell’ambiente vi era un piano in mattoni e terra battuta ove si allestiva il fuoco che consentiva di far cuocere minestre e cibi simili, posti all’interno di pignatte sospese su corde attaccate a un’impalcatura di travi in legno; sul lato opposto era stata invece costruita una struttura in muratura, alla cui base vi erano degli incassi entro cui collocare le braci ardenti che servivano ad arroventare un piano di pietra o di mattoni soprastante su cui arrostire le carni e il pesce. Dietro a questa struttura fu sistemata un’antica mensa ponderaria in pietra, originariamente proveniente dal foro di qualche città romana dei dintorni, che i monaci dovevano utilizzare per calcolare le quantità esatte dei cibi da cuocere. Una serie di canalette e di botole permetteva di avere adduzioni d’acqua corrente per il loro lavaggio e per lo scarico dei rifiuti; al loro interno è stata recuperata una grande quantità di resti alimentari che hanno consentito di ricostruire minuziosamente la dieta dei monaci vulturnensi alla fine del ix secolo, che prevedeva un massiccio consumo di pesce (anche marino), pollame, uova, legumi e frutta. I tre personaggi che, rispettivamente, avevano la responsabilità dell’ingresso principale del monastero, degli orti e delle cucine erano figure cruciali all’interno della comunità poiché, più di altri, essi avevano occasione di trattare con persone che vivevano all’esterno. Per questo motivo, essi erano tra i primi responsabili di eventuali mancanze nell’isolamento che doveva schermare i monaci nei confronti di quanto accadeva al di fuori dell’abbazia. Ma non erano gli unici ad essere gravati da incarichi così delicati, poiché vi erano molte altre mansioni che richiedevano altrettanta saggezza ed equilibrio affinché la vita dei monaci scorresse nel rispetto di quanto la Regola prevedeva, consentendo alla maggior parte di loro di trascorrere la propria esistenza fra studio e preghiera. Sul complesso di questa ‘architettura gerarchica’ ci offre uno sguardo d’insieme il Breve Memorationis redatto dall’abate di Bobbio, Wala, una dozzina d’anni dopo che suo fratello Adalardo aveva presentato all’imperatore e ai monaci di Corbie il testo delle Consuetudines89. Anche Wala era stato monaco a Corbie, di cui era divenuto pure abate nell’826 prima di essere esiliato in Italia da Ludovico il Pio nell’830, per entrare a Bobbio, il monastero fondato da Colombano sugli Appennini emiliani. Nell’833 vi fu eletto abate, carica che detenne sino all’836, anno della sua morte (Polonio 1962). Il Breve, che si data quindi nel triennio compreso fra 833 e 836, si apre con un elenco di tre gruppi di proprietà fondiarie, le cui rendite alimentavano altrettante voci del bilancio generale dell’abbazia: il primo avrebbe dovuto fornire le risorse per il victus fratruum, ovvero i cibi necessari ai consumi della comunità; il secondo per la camara fratruum, che sosteneva le funzioni gestite dai camararii, comprendenti tutte le attività inerenti la manutenzione ordinaria del monastero; il terzo, infine, avrebbe dovuto produrre le rendite destinate a fare fronte alle ceteræ necessitates, ossia le voci di spesa che esulavano da quelle incluse nei primi due gruppi. Questa suddivisione rispecchia una precisa razionalità, poiché le risorse per l’alimentazione della comunità erano fornite dalle rendite delle 264

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proprietà poste infra valle, e cioè nella valle del Trebbia in cui si trova il monastero. Esse erano quindi le proprietà più vicine, che potevano essere controllate più direttamente, ma, soprattutto, che garantivano maggiore sicurezza nel rifornimento di quei generi senza i quali la vita stessa dei monaci sarebbe stata a rischio; le proprietà che sorreggevano le attività dirette dai camararii si trovavano entro un raggio geografico un po’ più ampio, mentre quelle destinate a sovvenire alle altre necessità erano distribuite entro aree ancor più distanti 90. Successivamente, il testo passa ad elencare i ministeria quæ infra monasterio agantur, e cioè le mansioni che dovevano essere attivate all’interno della comunità e chi dovesse esserne il responsabile, affinché al monastero fosse garantita una funzionalità completa. Le mansioni elencate corrispondevano ovviamente a luoghi ben precisi nei quali o per i quali le stesse dovevano essere espletate e quindi, come abbiamo già visto nel testo delle Consuetudines, anche il Breve costituisce una fonte indiretta per conoscere come fosse articolato il monastero di Bobbio dal punto di vista funzionale e spaziale. Il præpositus primus, che all’interno dell’abbazia agiva come vero e proprio vice-abate, aveva la responsabilità di sovrintendere al funzionamento della coltivazione dei campi, delle vigne e delle proprietà agrarie in genere (cellæ) situate all’interno della valle del Trebbia, ma anche alla cura degli edifici che vi sorgevano, del personale assegnato alle officine che producevano i laterizi, dei pastori che curavano il bestiame e dei cavalli (domati oppure no). A lui toccava anche seguire l’amministrazione delle curtes – e cioè delle aziende agrarie – esterne alla valle quæ ad stipendium pertinent. In questo caso, si trattava probabilmente di quelle le cui rendite fornivano le somme necessarie al mantenimento del clero che officiava le chiese dipendenti dall’abbazia. Il preposito poteva avvalersi di personale che lo coadiuvasse nell’esercizio delle diverse mansioni. In particolare, egli era affiancato da uno iunior, che coordinava l’attività degli operarii ad esclusione di coloro che erano addetti alle officinæ, che, come vedremo (e come avveniva anche a Corbie), erano supervisionati dal camararius. Dopo il preposito veniva il decanus, terza autorità dell’abbazia, che aveva la funzione di badare al corretto svolgimento della vita spirituale del monastero e aveva alle sue dipendenze i decani iuniores, i circatores – che erano coloro incaricati di “cercare” i monaci, e cioè di verificare che si trovassero sempre nei posti loro assegnati – e i lucernarii, cui era demandato di garantire l’illuminazione dei locali dell’abbazia in cui vivevano i monaci, per evitare che il buio incoraggiasse tra loro comportamenti non consoni. Abbiamo quindi il custos ecclesiæ, e cioè il monaco cui era affidata la responsabilità dell’illuminazione della chiesa e dei suoi ornamenti e la corretta segnalazione alla comunità delle horæ in cui ci si doveva riunire al suo interno per lo svolgimento della preghiera. Le sue giornate s’incrociavano sicuramente con quelle del cantor, che aveva il compito di organizzare il coro della comunità, cosa fondamentale per l’esecuzione corretta delle preghiere e delle liturgie quotidiane e di quelle previste nelle festività maggiori. 265

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Archivio e biblioteca avevano a loro volta specifici responsabili nelle persone del bibliothecarius e del custos chartarum. Come abbiamo già visto a Corbie, molto complesso e delicato era il ruolo del cellararius, cui toccava provvedere al rifornimento (tranne che per il pane e la frutta, per il quale vi erano due addetti specifici, i custodes panis e pomorum91) e al funzionamento della cucina e del refettorio; per quest’ultimo aspetto, anche qui egli era coadiuvato dallo iunior cellararius, al quale spettava anche occuparsi della stoviglieria. Il portarius gestiva l’arrivo in monastero delle derrate e del denaro proveniente dalle aziende agricole e doveva poi smistare ogni cosa presso i magazzini che avevano competenza per le diverse species. Ad esempio, l’annona – e cioè il grano e gli altri cereali – doveva andare presso il pistrinum (il forno), dove il custos panis avrebbe provveduto alla molitura (se questa non era già avvenuta all’esterno) e alla panificazione. Oltre che delle cose, il portarius doveva occuparsi anche delle persone che giungevano al monastero, annunciando all’abate l’arrivo degli hospites veri e propri e inviando invece i poveri e gli infermi che questuavano alle porte del monastero verso le strutture che se ne sarebbero prese cura. Le persone di status religioso che chiedevano accoglienza nel monastero, a meno che si trattasse di ospiti di alto rango, venivano anch’esse indirizzate dal portarius verso una struttura dedicata – l’hospitalis religiosorum – un edificio a due piani dotato di un refettorio al piano terreno e di una domus con un dormitorio al piano superiore. L’ultima categoria (ma non certo per importanza) di ‘funzionari’ monastici elencata da Wala è rappresentata dai responsabili delle attività produttive e artigianali. La maggior parte di esse ricadeva nell’orbita delle competenze dei camararii. Il primus si occupava della produzione (o dell’acquisto) dei vestiti per l’abbigliamento dei confratelli e della confezione di altri oggetti in tessuto o in cuoio (ad esempio: coperte e biancheria, guanti, copricapi, scarpe) di cui essi potevano aver bisogno; dai lui dipendevano quindi sarti e cuoiai, ma anche i calderari, che dovevano produrre il vasellame in rame e bronzo come calderoni, tinozze, bacili, acquamanili e tinozze. Il camararius abbatis, invece, aveva sotto il proprio controllo fabbri, armaioli, sellai, tornitori, lucidatori e fabbricatori di pergamene; inoltre, egli gestiva anche il magazzino degli attrezzi. A lui probabilmente toccava anche la supervisione delle officine dei bottai, dei mobilieri e delle squadre di muratori specializzati nella costruzione di «mulini, case e muri in genere». Muratori, lapicidi e falegnami generici, invece, erano coordinati dal magister carpentarius e costituivano evidentemente una sorta di squadra di pronto intervento per la manutenzione ordinaria degli edifici monastici e dei loro infissi. A questo proposito, ancora una volta è d’obbligo il riferimento a San Vincenzo al Volturno, dove l’estensione degli scavi ha permesso di comprendere pienamente tutta la complessità del sistema di produzione, lavorazione e messa in opera dei molteplici tipi di materiali da costruzione necessari per l’edificazione delle fabbriche monastiche: dai differenti tipi di pietra, inclusi i marmi antichi di spoglio, al la266

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terizio nelle sue diverse forme, all’argilla cruda, al legno e altri materiali di origine vegetale, al metallo per la carpenteria e le finiture, al vetro per le finestre (Gobbi 2007). Un panorama così variegato si riflette appieno nella diversità di figure professionali che sia il testo di Adalardo sia quello di Wala collegano alle attività della costruzione e della manutenzione degli edifici. Ritorno a Fontenelle e… a Farfa La complessità di un insediamento monastico dell’età carolingia non risiedeva dunque solo nelle elaborate pratiche liturgiche che vi si svolgevano e che ne plasmavano lo spazio o nella necessità di provvedere all’organizzazione di tutte le funzioni che, accanto a quelle propriamente religiose, permettevano a comunità anche piuttosto numerose di vivere e funzionare regolarmente. Essa si materializzava anche nel processo di edificazione delle sue varie parti, nella scelta e nella posa in opera dei materiali che servivano a sostenere e abbellire i suoi edifici, nella reciproca disposizione di questi ultimi, che, in rapporto alla topografia del luogo, poteva renderne più o meno agevoli le connessioni fisiche e funzionali. L’ambizione degli abati dell’età carolingia e i cospicui mezzi economici di cui essi spesso avevano potuto disporre portò in molti casi, come abbiamo visto in più occasioni, a rimodellare profondamente – se non a rivoluzionare totalmente – l’aspetto fisico di monasteri che avevano sulle loro spalle già più di un secolo di vita. Questo fu il caso anche dell’abbazia di Fontenelle, sulle cui origini ci siamo soffermati già al capitolo quinto, che era sorta in età merovingia nella valle di un affluente del basso corso della Senna, non lontano dalla città di Rouen. Fondata da Wandregisilus (Wandrille, in francese), quest’abbazia si era sviluppata su uno spazio piuttosto esteso e riparato dalle colline che racchiudevano la valle solcata dal fiumicello che le aveva dato il nome. Già in età merovingia il complesso monastico era cresciuto in modo piuttosto cospicuo, ospitando al suo interno ben quattro chiese, delle quali la più grande – dedicata a san Pietro – era una basilica di notevoli dimensioni dotata di transetto. Dal momento della fondazione erano però trascorsi molti decenni e gli edifici avevano evidentemente bisogno di restauri, se non di vere e proprie ricostruzioni; la favorevole contingenza economica della fine dell’viii secolo permise all’abate Gerwold (787-806) di intraprendere diversi lavori, tra cui il rifacimento, con l’impiego di tegole plumbee, del tetto delle chiese di San Pietro e di San Michele, la ricostruzione della caminata fratruum (ovvero di una sala munita di riscaldamento), il restauro delle cucine e l’edificazione ex novo del sacrarium ecclesiæ, ossia molto probabilmente la sacrestia della chiesa maggiore. Gerwold fu anche l’autore di doni cospicui alla chiesa maggiore dell’abbazia, consistenti sia in diversi libri, sia – soprattutto – in una serie di pezzi preziosi di vasellame liturgico e in paramenti sacri, realizzati anch’essi con tessuti di alto pregio92. Ma le opere fatte eseguire da 267

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Gerwold furono solo l’inizio di una campagna assai più consistente di ricostruzioni del complesso monastico promossa dal successore Ansegiso, che resse il monastero fra l’822 e l’832. Anche in questo caso, come in molti di quelli visti in precedenza, l’ampiezza degli interventi fu direttamente proporzionale alla rilevanza politica dell’abate che li volle attuare. Ansegiso, che aveva intrapreso la vita monastica proprio a Fontenelle, faceva parte della cerchia dei più stretti amici e collaboratori di Eginardo, il biografo di Carlo Magno. Quest’ultimo, tra i vari compiti che gli furono affidati dall’imperatore e da suo figlio Ludovico, ebbe anche la reggenza di Fontenelle, e fu in questa carica il predecessore dello stesso Ansegiso. Prima di esservi eletto abate, Ansegiso era già stato posto da Ludovico il Pio alla testa di Luxeuil, la prima fondazione di Colombano in terra franca, e fu a lui che l’imperatore si rivolse per la redazione dell’edizione ufficiale dei testi dei capitolari che suo padre ed egli stesso avevano emanato. Questa posizione politicamente privilegiata permise ad Ansegiso di disporre di condizioni e risorse sufficienti ad avviare un corposo programma di rinnovamento materiale del monastero, che completava e ampliava le opere attuate una ventina di anni prima da Gerwold. L’autore dei Gesta Abbatum Fontanellensium descrive, con un’accuratezza che risulta rara nelle fonti altomedievali, i lavori che Ansegiso fece eseguire e con il preciso intento di fornire al lettore un elenco sia delle opere attuate, sia della loro disposizione topografica, sia infine del modo in cui molti edifici furono costruiti e dei materiali impiegati93. Tali caratteristiche fanno di questo passo un riferimento fondamentale per la comprensione dell’insediamento di Fontenelle e ciò ancor di più in considerazione del fatto che il sito è stato interessato poco e niente da indagini archeologiche in grado di fornire dati materiali sulla sua facies carolingia, allo stato attuale totalmente obliterata dalle ricostruzioni di epoca bassomedievale e tardobarocca (Simon 1937; Laporte 1971). Dopo un lungo elenco di libri che l’abate procurò al monastero – indiretto indizio dell’importanza della sua biblioteca –, il biografo passa a enumerare edifici pubblici e privati che da lui [scil. Ansegiso] furono iniziati e portati a termine.

La suddivisione degli edifici in queste due categorie ci offre già un primo elemento di riflessione rispetto all’esistenza di un’area del monastero totalmente riservata alla comunità e un’altra nella quale erano ammesse anche persone estranee ad essa. La prima costruzione di cui si parla è il dormitorium fratruum nobilissimum. Esso era un edificio di duecento e otto piedi di lunghezza, ventisette di larghezza e sessantaquattro di altezza; i suoi muri furono costruiti con calce tenacissima e dalla forte capacità legante, sabbia rossastra e pietra tufacea fossile ad alta resistenza. All’interno era diviso in altezza da un solaio, il cui pavimento [del primo piano] era magnificamente decorato e che al di sopra aveva un soffitto ornato nobilissimamente con pitture. Il piano 268

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L’apogeo dei chiostri superiore dell’edificio aveva finestre in vetro e tutta la sua struttura, ad eccezione delle parti in muratura, era stata realizzata con legno di quercia di grande durevolezza e le tegole erano tutte tenute ferme da ganci in ferro. Inoltre, aveva travi a sostenere sia il soffitto sia il solaio.

Successivamente, il biografo passa a descrivere l’alia domus «che è detta refettorio»: L’edificio era stato diviso a metà da un muro, cosicché una parte fungesse da refettorio e l’altra da dispensa. Le sue dimensioni e il materiale con cui fu costruito erano gli stessi del dormitorio; Ansegiso ne fece decorare tanto i muri quanto il soffitto da Madalulfo, un egregio pittore che proveniva dalla chiesa di Cambrai.

A questi due edifici Ansegiso ne fece aggiungere un altro, detto domus maior, altrettanto egregio nelle fattezze quanto le erano gli altri due, ma che però rimase parzialmente incompleto poiché la morte dell’abate giunse prima che fosse terminato. Rivolto ad oriente, esso era prossimo al dormitorio e direttamente connesso con il refettorio; al suo interno aveva una camara e una caminata e altri ambienti che però non vengono enumerati nel dettaglio. Gli edifici del dormitorio, del refettorio e della domus maior (che il testo definisce i tria egregia tecta del monastero) costituivano quindi tre grandi corpi di fabbrica rettangolari prossimi l’uno all’altro94. In dettaglio, il dormitorio aveva un lato lungo volto a settentrione e l’altro a sud ed era direttamente connesso con la ecclesia maior di San Pietro; il refettorio, orientato come il dormitorio, era «quasi contiguo» sul lato sud all’abside della chiesa stessa. Il biografo di Ansegiso passa quindi a descrivere proprio l’edificio di culto, affermando che esso si trovava nella parte meridionale del monastero e aveva l’abside rivolta ad oriente. L’abate ordinò che fosse allungato verso occidente, aggiungendovi un corpo di fabbrica di trenta piedi in lunghezza per altrettanti in larghezza, nella parte superiore del quale fece costruire un cenacolo, che venne dedicato in onore del Signore Iddio e Salvatore nostro Gesù Cristo. Quest’opera rimase però incompiuta a causa della sua [scil. di Ansegiso] morte.

Ci troviamo evidentemente di fronte a qualcosa che, dal punto di vista architettonico (ma anche da quello cultuale) richiama il corpo turrito, diviso all’interno in due livelli, che a Centula Angilberto aveva dedicato al Salvatore e che al piano superiore ospitava proprio uno spazio destinato al Suo culto. Il biografo aggiunge che Ansegiso fece edificare, sempre nella basilica di San Pietro, sul culmine della sua torre, una piramide quadrangola alta trentacinque piedi, costruita con elementi lignei scolpiti; e ordinò che fosse coperta di piombo, stagno e rame dorato e su di esse fece porre tre croci. 269

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Analogamente, l’abate volle che anche l’abside fosse ricoperta di tegole plumbee, perché in precedenza l’insieme aveva presentato un aspetto troppo dimesso95. Le opere promosse da Ansegiso non si limitarono alla ricostruzione della chiesa e dei tre edifici già ricordati, ma compresero anche l’erezione di un’altra domus, anch’essa prossima all’abside del San Pietro, ma stavolta posizionata sul suo fianco settentrionale. Il biografo c’informa del fatto che l’abate volle che essa, con termine erudito di origine greca, si chiamasse bouleuterion. Questo edificio, come si precisa subito dopo, era anche detto conventus sive curia ed era stato concepito per dotare il monastero di una sala di riunione in cui i monaci potessero incontrarsi per discutere insieme le faccende di ordinaria amministrazione e dove l’abate potesse comunicare ai confratelli le proprie deliberazioni: al suo interno si trovava un pulpito, in modo che lo si potesse utilizzare anche per la recita quotidiana della lectio divina, il che farebbe pensare che esso potesse anche avere la funzione di oratorio. Qui Ansegiso volle anche che fosse collocata la sepoltura in cui i monaci avrebbero dovuto deporre le sue spoglie (monumentum nominis sui), una volta che egli avesse concluso la propria esistenza terrena. Davanti ai tre edifici del dormitorio, del refettorio e della domus maior fu costruito un portico dotato di sedili e coperto da una travatura lignea. A metà del portico, e cioè di fronte al dormitorio, Ansegiso fece erigere un altro fabbricato, la domus chartarum, che era il luogo di custodia dell’archivio del monastero. La domus librorum, vale a dire la biblioteca, fu costruita invece davanti al refettorio e – specifica il cronista – anche le tegole del suo tetto furono incardinate le une alle altre cum clavis ferreis. Il complesso dettagliatamente descritto dal cronista di Fontenelle era stato organizzato in maniera piuttosto razionale. I tre edifici maggiori erano allineati fra loro su assi ortogonali, andando così a delimitare uno spazio aperto, di forma che dobbiamo immaginare quadrata o rettangolare, di una sessantina di metri di lato. Lungo i suoi margini est, nord e sud correvano dei corridoi porticati su cui affacciavano sicuramente il dormitorio, la domus maior e il refettorio, ma che non sappiamo se sul quarto lato – quello occidentale – seguisse anche il profilo dell’abside e del transetto della chiesa. Questo corridoio, la cui parete interna era dotata in alcuni tratti di sedili in pietra, può essere immaginato molto simile a quelli rinvenuti negli scavi di San Vincenzo al Volturno. La disposizione complessiva degli edifici intorno a questa sorta di quadriportico trova raffronti interessanti nella contemporanea sistemazione degli edifici claustrali attuata sia a Fulda, secondo quanto racconta il biografo dell’abate Eigil (Fischer, Oswald 1968)96, sia nell’abbazia italiana di Farfa al tempo dell’abate Sicardo (830842) (McClendon 1987: figg. 13-15)97. In quest’ultimo caso, però, l’estensione dello spazio porticato costruito alle spalle della chiesa era molto più ridotta (ca. 20 × 23 metri di lato) rispetto a quella che i Gesta Abbatum Fontanellensium attribuiscono al volere di Ansegiso, ma si può immaginare che la sua fisionomia fosse la medesima. Sulla base del paragone con Fulda e Farfa si può ipotizzare che il porticato che 270

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fiancheggiava gli edifici e che si apriva sullo spazio centrale comprendesse anche a Fontenelle il braccio che correva alle spalle dell’abside. L’ampiezza notevole di questo spazio (che probabilmente occupava una superficie di circa 1.200 mq) permise di costruire al suo interno gli edifici che ospitavano la biblioteca e l’archivio e che a loro volta dovevano essere abbastanza grandi. Essi sorgevano al centro dei lati nord e sud e, data la natura affine delle funzioni che dovevano svolgere, è possibile che fossero intercomunicanti, dividendo così in due lo spazio aperto centrale. Nella parte nordoccidentale di quest’area – e quindi a ridosso della chiesa e del dormitorio – si doveva trovare anche l’edificio che i Gesta chiamano bouleuterion, anche se è impossibile proporre ipotesi ricostruttive certe rispetto alla sua esatta disposizione e tanto meno alla sua planimetria, a causa della totale mancanza di riscontri di tipo archeologico. La documentazione fontenellense permette di conoscere l’esistenza di numerose chiese situate al di fuori del plesso principale che costituiva l’area claustrale vera e propria. Esse sarebbero già esistite in epoca carolingia e la loro posizione – talora anche a una certa distanza dal nucleo centrale cresciuto intorno alla chiesa di San Pietro – starebbe a testimoniare la perduranza della conformazione che l’abbazia aveva assunto sin dall’età merovingia. Tutta la valle attraversata dal piccolo corso d’acqua costituiva perciò parte integrante dell’insediamento e le cappelle presenti al suo interno rappresentavano luoghi legati a specifiche memorie stratificate entro la storia della comunità, quali ad esempio ritiri ascetici scelti da personaggi venerabili: è questo il caso della chiesa trichora di San Saturnino, che è l’unico edificio di età altomedievale giunto più o meno intatto sino ad oggi. Essa si trova in cima al crinale che delimita la valle sul lato settentrionale e, al tempo dell’abate Gerwold (e cioè verso la fine dell’viii secolo), vi avrebbe vissuto in eremitaggio il prete Arduino (Le Maho, Pradié 2010). Purtroppo la funzione esatta svolta da queste chiese satelliti non è nota, ma possiamo immaginare che non fosse molto diversa da quella già vista nella non lontana Centula. Il testo dei Gesta, pur così preciso e prezioso su tanti dettagli delle costruzioni realizzate da Ansegiso, non ci consente neppure di capire quale fosse il livello di accessibilità della chiesa maggiore di San Pietro. Non sappiamo, cioè, se fosse riservata solo alla comunità e se il servizio parrocchiale fosse quindi svolto da quella dedicata a san Michele, che ancora oggi sopravvive con questa funzione a qualche centinaio di metri di distanza dal monastero vero e proprio, sia pure nella sua facies di età tardoromanica. Qualcosa di più preciso in questo senso ce la raccontano alcune fonti scritte relative all’abbazia di Farfa, situata nella valle del Tevere a una cinquantina di chilometri a nord di Roma, nel territorio dell’antica Sabina. Come abbiamo già visto al capitolo quinto, Farfa si era notevolmente sviluppata nel corso dell’viii secolo e in quell’epoca intorno ad essa era stata istituita un’area di rispetto i cui limiti costitui­ vano un confine invalicabile per le donne.

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Una fonte preziosa per capire come l’organizzazione spaziale di questo monastero si fosse evoluta nella piena età carolingia è la cosiddetta Destructio Monasterii Farfensis, attribuita all’abate Ugo (998-1039). Si tratta, quindi, di un testo risalente a circa due secoli dopo rispetto ai fatti di cui ci fornisce il resoconto (Costambeys 2007: 14), ma al tempo della sua redazione la maggior parte degli edifici che vi sono descritti non doveva ancora aver subito trasformazioni di particolare rilievo rispetto alla situazione del ix secolo. L’intento di Ugo era di celebrare la bellezza e lo splendore raggiunti dal suo monastero in quell’epoca lontana, prima di essere ignominiosamente profanato dai saccheggi subìti agli inizi del successivo, quando fu bersaglio d’incursioni da parte di bande di predoni che infestavano le campagne laziali, cui l’abate Pietro (890919) e i monaci, privi ormai della protezione imperiale, avevano inutilmente tentato di opporsi. Racconta la Destructio che nel ix secolo il monastero contava al proprio interno sei chiese. La maggiore di esse era intitolata alla Vergine, culto al quale era dedicato tutto il monastero. La fonte non dice esplicitamente che questa chiesa fosse riservata ai monaci, ma lo possiamo dedurre in ragione del fatto che, per le altre cinque, Ugo indica con precisione a quale utenza fossero destinate: la prima, intitolata a san Pietro, era in usu canonicorum, mentre due – di cui non è precisata l’intitolazione – erano ad uso dei monaci infermi e di quelli moribondi, e una quarta – che rimane anch’essa anonima – in palatio regali constructa erat e quindi era riservata all’uso dei visitatori più illustri, primi fra tutti i sovrani. Queste quattro chiese erano tutte interne al monastero, benché evidentemente posizionate in modo diverso: quella officiata dai canonici era probabilmente utilizzabile anche dai laici, ma solo da quelli di sesso maschile; alle donne, infatti, era riservata una sesta chiesa, dedicata anch’essa alla Vergine, che però si trovava al di fuori delle mura del monastero poiché, come specifica Ugo, nei tempi antichi a nessuna donna era consentito entrare all’interno delle mura del monastero98.

Per questa ragione, anche se una regina fosse venuta a Farfa per rendere visita ai monaci o a pregarvi, le sarebbe stato comunque interdetto varcare tale confine. In questi casi, era l’abate con un drappello di monaci a uscire dal monastero e a recarsi incontro all’illustre visitatrice, che presso quella chiesa avrebbe potuto essere ospitata e ricevere i necessari conforti spirituali. I laici maschi, come si è detto, erano autorizzati ad avvicinarsi di più al monastero, ma Ugo chiarisce che anche a loro era interdetto entrare nei quartieri in cui vivevano i monaci, poiché, come all’interno vi erano i chiostri predisposti per le esigenze dei monaci, così all’esterno vi erano gli spazi riservati ai laici99. 272

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Tutto il complesso monastico era poi cinto da un muro di difesa rafforzato da torri, la cui costruzione, similmente a Montecassino, fu intrapresa nel ix secolo avanzato a causa delle turbolente condizioni politiche dell’Italia di allora. Come a Centula, anche a Farfa il muro di cinta proteggeva ambedue le zone in cui il monastero era suddiviso e cioè quella più interna, riservata ai monaci, e quella più esterna in cui erano ammessi anche i laici. È presumibile quindi che esistesse un qualche tipo di demarcazione fra queste due aree, in merito al quale la fonte tuttavia non fornisce dettagli. In ambedue i settori esistevano dei corridoi voltati (arcus deambulatorii) che mettevano in comunicazione tra loro i diversi edifici. Essi erano tutti costruiti in pietra e le loro coperture erano in tegole fittili, con l’eccezione della chiesa maggiore che le aveva invece in piombo. Il pur breve resoconto fornito dall’abate farfense consente di comprendere che la presenza di più chiese traeva motivo, oltre che dall’esigenza di includere diversi culti all’interno del monastero, anche e soprattutto dalle diverse funzioni che ciascuna di esse era deputata ad assolvere. La chiesa maggiore, intitolata al culto della Vergine, anche a Farfa era riservata ai soli monaci, al punto tale che perfino i visitatori di rango regale erano indirizzati presso altre aule di culto, evidentemente per non disturbare il corso regolare della preghiera monastica. Il fatto che questo tempio fosse frequentabile solo dai membri della comunità non impedì che vi fossero state realizzate opere di particolare splendore, come ad esempio un ciborio interamente in onice che copriva l’altare maggiore; insieme a questo vero e proprio gioiello, la chiesa conteneva una moltitudine di arredi sacri, tra cui libri e paramenti, fabbricati tutti con profusione di materiali preziosi. Essi erano così numerosi che Ugo ritenne impossibile enumerarli uno a uno. Farfa testimonia una volta di più che, all’interno di un monastero altomedievale, lo splendore che adornava un luogo di culto non aveva necessariamente come prima ragion d’essere un’ostentazione di tipo mondano. Al contrario, esso era innanzitutto un dono segreto offerto a Dio, una sorta di richiamo all’Onnipotente affinché vedesse brillare più nitidamente la preghiera che i monaci quotidianamente Gli offrivano; analogamente, anche la presenza di reliquie all’interno della chiesa riservata ai monaci aveva soprattutto la funzione di accompagnare verso Dio l’elevarsi di questa preghiera. Un altro testo dalla controversa datazione, la cosiddetta Constructio Monasterii Farfensis, riferisce che l’abate Sicardo (830-842) avrebbe costruito un oratorio dedicato al Salvatore posto in contiguità con la chiesa abbaziale. Esso avrebbe costituito la settima chiesa presente nel monastero, ed era dotato di una cripta sotterranea nella quale l’abate avrebbe fatto riporre le reliquie dei santi Valentino e Ilario, provenienti dalla Tuscia, insieme a quelle dei martiri romani Alessandro e Felicita100. Questi sacri pegni servivano anch’essi ad accompagnare la preghiera dei monaci; s’immaginava che i santi ‘cantassero insieme’ ad essi le lodi al Signore e che il quieto riposo dei loro resti in urne e sarcofagi costituisse il segno più tangibile del 273

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gradimento che essi mostravano nel permanere in compagnia di persone la cui vita terrena era votata al perseguimento della santità (Canetti 2002: 77-96). Il crescente numero di monaci provvisti degli ordini sacerdotali, inoltre, fece sì che protettori e benefattori moltiplicassero le richieste alle abbazie di celebrare messe private in favore sia della propria anima, sia di quella dei loro antenati defunti (Treffort 1996: 95-98). Tali celebrazioni su commissione acquisivano ulteriore forza e significato (e potevano portare concreti vantaggi economici a un monastero) se i monaci potevano garantire a chi ne avesse fatto richiesta che esse si sarebbero svolte presso un altare al cui interno o presso il quale riposavano i resti corporei di un santo particolarmente venerato. Questi due motivi furono sicuramente tra i più rilevanti stimoli per la realizzazione di sacelli come quello che l’abate Sicardo aveva fatto erigere a Farfa; come vedremo nel capitolo settimo, essi produssero nel corso del ix secolo il risultato che all’interno delle chiese monastiche (e soprattutto nel loro sottosuolo) ci s’ingegnò per ricavare punti di devozione sussidiari (altari e cappelle) entro cui tumulare le reliquie di cui le abbazie riuscivano ad entrare in possesso101. Un’identità multiforme, ma riconoscibile Come già era avvenuto in alcuni monasteri italiani e francesi del vii e viii secolo, la disponibilità di vasti blocchi di terreno – in origine frutto di cessioni di beni da parte dei fondatori dei monasteri stessi o dei loro patroni politici – permise anche in età carolingia di concepire l’insediamento cenobitico come uno ‘spazio dilatato’ sul territorio, di cui il luogo in cui materialmente risiedeva la comunità costituiva ovviamente il ganglio centrale, ma non certo l’unico organo. Questo spazio era progressivamente filtrato rispetto al mondo esterno ed era delimitato rispetto ad esso, nelle sue diverse sezioni e componenti, da una serie di segni che erano tanto materiali (recinti, porte, muri, chiese – vedi in proposito Sennhauser 1996; Destefanis 2011), quanto immateriali. Questi ultimi si rendevano visibili soprattutto attraverso i percorsi delle celebrazioni liturgiche stazionali, che tracciavano itinerari precisi fra un luogo e l’altro e li univano infine tutti entro una ‘sacra ragnatela’ che aveva il suo centro nel luogo più venerabile, rappresentato in genere dalla chiesa principale dell’abbazia ove erano sepolti i resti materiali del fondatore ed erano custodite le reliquie più preziose. Anche in questo periodo rimase ben chiaro il concetto che non tutti avevano diritto ad essere ammessi ovunque all’interno di un monastero, in considerazione del fatto che colui (o colei) che si era monacato rimaneva sempre una persona separata dal mondo. Questo fattore agì potentemente nella disposizione degli spazi e delle loro interconnessioni, di cui era progressivamente selezionata l’accessibilità, sino ad annullarla quasi del tutto quando si giungeva nelle aree in cui si svolgeva il quotidiano dipanarsi della vita comunitaria, scandito da preghiera, riposo e refezione. Tale aspetto si coglie in modo evidente quando ci si soffermi ad analizzare l’uso 274

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dello spazio delle chiese abbaziali di questo periodo. Questi edifici apparentemente non sono dissimili da quelli (come le chiese cattedrali e parrocchiali) destinati ad accogliere a braccia aperte, negli spazi delle loro navate, le comunità dei fedeli ansiosi di assistere ai misteri divini, ma in realtà si rapportano allo spazio esterno più che altro attraverso le barriere che da esso lo separano, e arredano quello interno ingombrandolo e frazionandolo con altari e recinti in funzione delle celebrazioni quotidiane che i monaci vi devono svolgere. In questa percezione d’insieme dello spazio monastico e dei suoi edifici di culto risiede la qualità urbana che esso acquisisce e la sua pretesa di farsi imitatore del modello di città ‘tutta sacra’ rappresentato da Roma. Ovviamente, si tratta di un’imitazione che i monaci tendevano a proporre soprattutto come sublimazione del modello stesso. Roma era innanzitutto un luogo di pellegrinaggio, mentre l’esercizio di questa funzione all’interno di un monastero era questione assai più complessa, la cui risoluzione doveva fare i conti con le specifiche necessità del regolare svolgimento della vita ascetica. A garantire l’urbanitas dei monasteri contribuivano in modo decisivo anche altri fattori. Tra essi, l’alta qualità esecutiva dei volumi architettonici, attuata con il diffuso impiego di materiali non comuni nell’alto Medioevo quali la pietra e il laterizio, e quella altrettanto alta delle finiture e degli arredi che riempivano e decoravano gli edifici, per la cui produzione si utilizzavano tecniche e manifatture ad alta specializzazione (come quelle necessarie alla lavorazione del vetro e dei metalli) spesso attivate entro officine presenti all’interno degli stessi insediamenti monastici. I grandi patrimoni fondiari che i monasteri detenevano sotto diverse specie giuridiche e che gestivano con ragionieristica efficienza li rendevano luoghi in cui si accumulavano ricchezze enormi in merci e denaro liquido che consentivano di attuare gli interventi destinati ad ampliare, ricostruire e restaurare gli edifici monastici. Inoltre, attraverso il riposizionamento sul mercato delle eccedenze, i monasteri s’inserivano in circuiti commerciali anche a vasto raggio, che consentivano loro di approvvigionarsi di beni che non erano disponibili nelle immediate vicinanze. Questo spiega perché molti di essi fossero stati particolarmente attenti a garantirsi il controllo delle foci dei fiumi, degli specchi d’acqua costieri e di qualsiasi altro luogo utilizzabile come scalo marittimo o fluviale. Essi fungevano da snodi di scambi proiettati anche su lunghe e lunghissime distanze, come quelli che avvenivano lungo le rotte che percorrevano i grandi fiumi nord-europei e che mettevano in comunicazione le coste dei bacini marittimi più importanti, quali il mare del Nord e il Mediterraneo102. Infine, è quasi superfluo ricordare che tutti gli aspetti esteriori dello sviluppo degli insediamenti monastici non sarebbero stati concepibili senza considerare che essi erano i custodi di un patrimonio intellettuale che, pur se dominato dalla sua componente religiosa, includeva però conoscenze e saperi che spaziavano su campi molto più diversificati. 275

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L’excursus che abbiamo compiuto sino a questo punto ci ha dimostrato in modo chiaro che, se esisteva un’idea di quali spazi e funzioni i monasteri dovessero contenere, ciò non aveva portato all’esito dell’elaborazione di un modello standard per la loro progettazione. L’unica costante che si è riscontrata in quasi tutti i siti presi in considerazione è la loro ripartizione in tre zone: di esse, la più interna è l’area in cui risiede la comunità e comprende, oltre a tutti gli edifici con funzioni abitative, la chiesa maggiore ed eventualmente altri edifici di culto il cui uso è prevalentemente se non interamente riservato ai monaci; un’area intermedia, in cui sono concentrate le attività produttive e commerciali, gli spazi destinati all’ospitalità e in cui può essere presente una chiesa utilizzata per il servizio religioso offerto ai laici; un’area più vasta, che potremmo definire il suburbium del monastero, in cui troviamo altre chiese che possono essere incluse nel circuito delle stazioni liturgiche frequentate dai monaci in particolari occasioni, ma anche gli insediamenti abitati dai secolari che prestano abitualmente la loro opera nel monastero ed eventualmente, in posizioni particolarmente appartate, luoghi di eremitaggio, magari abitati nel passato da personaggi illustri nella storia del monastero, utilizzati da monaci che desiderassero trascorrere periodi di ascesi individuale103. Questo caso è ben attestato a Farfa, dove la montagna che sovrasta il monastero era disseminata di eremi nei quali si diceva avessero vissuto nel v secolo i monaci di origine orientale che per primi si erano ritirati in Sabina a condurre vita ascetica, e che talora furono abitati di nuovo nell’alto Medioevo da singoli membri della comunità. Troviamo soluzioni di questo tipo nel monastero della Novalesa, in Piemonte. Esso sorse presso l’attuale confine fra Italia e Francia, non lontano dal passo del Moncenisio, che costituiva allora uno dei principali transiti d’ingresso nella penisola, utilizzato sistematicamente dalle armate franche nelle guerre contro i Longobardi. Quest’abbazia fu fondata nel 726 da Abbo, un importante personaggio dell’aristocrazia tardomerovingia, e conobbe un’intensa fase di sviluppo materiale in età carolingia al tempo dell’abate Eldrado e cioè nel periodo compreso fra l’800 e l’830 (Sergi 2004). A Novalesa è stata infatti riscontrata la presenza di più edifici di culto, probabilmente funzionali anche allo svolgimento di percorsi processionali interni all’insediamento, non diversamente quindi da quanto visto a Centula e Montecassino (Crosetto 1982; Micheletto 1982; Cantino Wataghin 2004). Il Chronicon Novalicense, scritto all’inizio del xii secolo per commemorare le vicende del monastero in epoca altomedievale (Alessio 1982), fornisce diversi dettagli sulla sua struttura in epoca carolingia, nonché un’interessante e per certi versa inedita spiegazione del fatto che al suo interno vi fossero più chiese: Nei tempi antichi, quando alla Nuova Luce [con questo nome il cronista denomina il monastero] era ancor saldo il dominio e intatta la maestà abbaziale, era consuetudine dei suoi abati stare separati e lontani, nella chiesa del Salvatore, con molti dei monaci più anziani e venerabili, per mantenere incorrotta la vita esemplare da cui proveniva il loro prestigio e la loro autorità. Gli altri anziani, la cui moltitudine non poteva abitare 276

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L’apogeo dei chiostri in comune, vivevano in molte cellette sparse intorno alle chiese. Dalle loro capannucce, se non li impediva una grave infermità, uscivano ad ore stabilite per recarsi al capitolo e a mensa. Lo stuolo dei giovani confratelli, invece, veniva sorvegliato e tenuto ben chiuso entro le mura del monastero. Sorgeva l’abbazia in una valle ridente, densa di uomini e costellata di chiese e di luoghi per le orazioni a Dio, dove quell’esercito immenso di monaci si riuniva a pregare. Alcune chiese, poi, erano abitate dai monaci, a gruppi di sei o dodici, i quali tutti ricevevano cibo e vestito dal monastero […] Erano suddivisi in decurie e centurie, in modo tale che nove monaci fossero presieduti dal decimo e che il centesimo avesse, a sua volta, sotto di sé i dieci preposti alle decurie. Soli stavano dunque i monaci anziani e chiusi nelle loro celle remote l’una dall’altra fino al compimento dell’ora terza, com’era loro prescritto, ed ivi passavano il tempo intenti al canto degli inni e dei salmi o assorti nella preghiera. Nessuno si recava da altri, ad eccezione di quelli che abbiamo chiamato decani, in modo che, se qualcuno era tormentato da pensieri inquieti, servisse la loro parola a rinfrancarlo. Dopo l’ora terza si radunavano tutti per la vita comune. […] Si recitavano le scritture secondo la consuetudine. Terminata l’orazione, tutti si sedevano intorno a quello che chiamavano padre. Questi cominciava un sermone […] Dopo il sermone, l’assemblea si scioglieva e, quando veniva l’ora della refezione, ogni decuria col suo preposito si dirigeva alla mensa, dove, a turno, l’una serviva le altre per una settimana104.

Il cronista prosegue precisando che – come si è già visto per l’abbazia di Farfa – l’area del monastero era tassativamente interdetta alle donne; esse potevano giungere solo sino alla chiesa di Santa Maria, presso la quale era stata predisposta una domus ove veniva loro concessa ospitalità. Questo punto costituiva un confine anche fisico oltre il quale iniziava lo spazio monastico vero e proprio, la cui delimitazione era resa ancor più visibile dalla natura dei luoghi: Il luogo in cui sorgeva l’abbazia era circondato da baluardi naturali e poteva essere difesa dappertutto con modeste fortificazioni di pali o muri a secco o recinti. Infatti, da un lato la sovrasta una rupe altissima e scoscesa, sulla cui sommità stanno le chiese erette dagli antichi abati, dall’altro il monte Panario, impervio e coperto da fitti boschi, che si dice abbia sulla cima pascoli fertilissimi105.

Il passo lascia dunque intendere che la comunità era suddivisa al suo interno in due gruppi, il primo dei quali era composto dall’abate, dai monaci anziani a lui più vicini e da quelli più giovani e che viveva presso la chiesa del Salvatore, in epoca carolingia apparentemente più importante di quella dedicata ai santi Pietro e Andrea, divenuta in età romanica il luogo di culto di maggiore rilevanza. Nel ix secolo, però – come hanno rivelato gli scavi – ,essa aveva dimensioni assai più contenute (circa 19 metri di lunghezza) di quelle che avrebbe raggiunto nell’epoca successiva (circa 40 metri) ed è quindi probabile che la chiesa più importante fosse allora proprio quella del Salvatore106. Questo gruppo di persone abitava in spazi cui era interdetto l’accesso al fine di evitare che i contatti con l’esterno corrompessero la loro vita. Evidentemente, nell’area circostante la chiesa del Salvatore doveva es277

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sersi formato un nucleo residenziale che in epoca carolingia ospitava la parte più importante della comunità monastica. Gli scavi archeologici hanno dimostrato che, sin dalla fondazione dell’abbazia, diverse costruzioni erano sorte anche nell’area intorno alla chiesa dei Santi Pietro e Andrea e che queste, a cavallo fra viii e ix secolo, furono ristrutturate disponendosi lungo gli assi della chiesa stessa (Cantino Wataghin 2004: 49). La destinazione funzionale ipotizzata per questi ambienti è anch’essa di natura residenziale, ma ciò non è necessariamente in contraddizione con quanto la Cronaca descrive riguardo alla chiesa del Salvatore. Nulla infatti vieta di ipotizzare che, data la non grande distanza fra i due edifici (circa 50 metri), la residenza dell’abate e gli alloggi per i monaci o altri spazi comunitari fossero stati distribuiti presso entrambi. Oltre alle chiese del Salvatore e dei Santi Pietro e Andrea, nel nucleo centrale del monastero ricadevano altre due cappelle. Questo gruppo di edifici, sviluppatosi su un terrazzamento naturale accessibile solo dal lato nord, aveva confini fisici ben percepibili rispetto al territorio circostante, rendendo quindi superflua la realizzazione di un vero e proprio muro di cinta e permettendo di limitare la loro protezione a palizzate e muretti a secco. Nel punto in cui la strada di accesso al monastero raggiunge il limite di questo terrazzamento si trova ancor oggi la chiesa di Santa Maria, che secondo il cronista costituiva il punto di massimo avvicinamento consentito alle donne e presso la quale era stato costruito un fabbricato per ospitarle. Il passo della Cronaca indica però che l’insediamento di Novalesa si estendeva anche al di là di questi limiti. La comunità, infatti, era composta in parte anche da monaci di provata statura morale che conducevano una vita simile a quella delle laure dell’Oriente tardoantico. Costoro abitavano – da soli o in piccoli gruppi – presso chiese distribuite nel territorio circostante il monastero, conducendo una vita parzialmente autonoma dal gruppo principale che viveva insieme all’abate. Tali chiese si trovavano abbastanza vicine all’insediamento principale da consentire ai monaci insediati presso di esse di potersi quotidianamente recare presso gli altri confratelli per trascorrere almeno parte della giornata con loro. Queste cellule satelliti, se si trovavano al di fuori del compound abbaziale vero e proprio, ne costituivano però a tutti gli effetti il prolungamento, disegnando sul terreno quella sorta di spazio monastico allargato che abbiamo già visto realizzato in altri monasteri. Ci troviamo dunque di fronte a soluzioni fra loro diversissime e, si può dire, peculiari a ogni fondazione, ispirate dalla topografia e dalle condizioni ambientali dei luoghi in cui ciascuna comunità si stabilisce, dai mezzi economici disponibili, nonché dall’ambizione personale, dagli apparentamenti politici e dall’ispirazione estetica e spirituale dei loro leader. Capita così ad esempio che due monasteri, come quelli di San Gallo, nella Svizzera nord-orientale, e quello di Reichenau, appena entro il confine dell’attuale Germania, entrambi illustri e potenti, distanti pochi chilometri l’uno dall’altro e uniti in età carolingia da forti legami spirituali e culturali, in questo stesso perio278

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do fossero visibilmente diversi fra loro dal punto di vista architettonico e planimetrico. Il monastero di Reichenau era sorto nella prima metà dell’viii secolo su un’isola bassa e di forma allungata che affiora dalle acque del lago di Costanza. In questa fase più antica l’insediamento, situato a circa metà dell’isola e non lontano dalla sua sponda settentrionale, era costituito da una piccola chiesa in muratura affiancata da edifici in legno107. Nella seconda metà del secolo tutto il complesso – chiesa inclusa – fu interamente ricostruito, mantenendo tuttavia l’orientamento della fase precedente e non differenziandosi troppo da essa neppure dal punto di vista dimensionale. Una piccola chiesa a navata unica era affiancata sul lato nord da un plesso di edifici claustrali disposti in maniera ortogonale rispetto ad essa e gravitanti su un’area aperta centrale. Durante il primo decennio del ix secolo la chiesa fu ricostruita e ingrandita (raggiungendo ora circa 60 metri di lunghezza), conservando però sempre lo stesso rapporto con gli edifici claustrali ed essendo apparentemente accessibile solo attraverso di essi, cosa che rimarrà inalterata anche quando, tra il secondo e il terzo decennio del ix secolo, il monastero subirà ulteriori trasformazioni e ampliamenti. Benché la chiesa della piena età carolingia fosse un edificio di dimensioni non disprezzabili, il complesso – compresi quindi gli edifici claustrali di carattere profano – rimaneva comunque abbastanza compatto e probabilmente non superava i 3.000 mq di superficie complessiva, anche se è stato ipotizzato che, in direzione della riva del lago, si trovasse un quartiere di officine (Zettler 1988 e 1996). Anche a Reichenau l’insediamento monastico non si esauriva nel solo plesso in cui risiedeva il grosso della comunità. Come abbiamo visto pure a Lérins, l’intera isola era disseminata di cappelle e di eremi. Due di questi nuclei satelliti nei secoli successivi avrebbero generato altrettanti plessi claustrali veri e propri, che avrebbero preso il nome di Oberzell e Niederzell e cioè ‘monastero di sopra’ e ‘monastero di sotto’. Il primo occupò la porzione dell’isola più vicina alla terraferma, mentre il secondo si installò sulla punta opposta. La storia dello sviluppo materiale dell’abbazia di San Gallo nell’epoca carolingia è in certo senso speculare a quella di Reichenau: quanto quest’ultima ebbe uno sviluppo progressivo che portò al risultato finale di un complesso di dimensioni abbastanza contenute, tanto invece il monastero svizzero all’inizio del ix secolo (al tempo dell’abate Gozbert) divenne in pochi anni un complesso grandioso, soprattutto grazie alla costruzione al suo interno di una chiesa di dimensioni eccezionali, ove furono riposte le spoglie del fondatore (Sennhauser 2001 e 2002). Lunga circa 90 metri e larga circa 30, essa era uno degli edifici cristiani più grandi di tutta l’Europa carolingia; la sua lunghezza crebbe ulteriormente negli anni ’60 del ix secolo, quando le fu aggiunta la cappella dedicata a sant’Othmar, l’abate che aveva fatto rifiorire il cenobio agli inizi dell’viii secolo, edificio che era in realtà una vera e propria seconda chiesa, lunga più di 20 metri. Le due costruzioni si fronteggiavano attraverso un’area aperta – una sorta di nartece scoperto – che le separava l’una

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dall’altra. Non è chiaro come avvenisse l’accesso a queste due chiese dall’esterno, né se esso fosse stato effettivamente previsto. Purtroppo, non vi sono neppure dati archeologici sufficienti sulla disposizione e la natura delle fabbriche claustrali risalenti a questo stesso periodo, ma una ricostruzione basata sulla topografia dell’area e sulle fonti scritte ha permesso di comprendere che essi dovevano essersi sviluppati sul fianco meridionale della chiesa maggiore. Intorno a questo nucleo centrale sorse una costellazione di chiese minori, tra cui quella di San Pietro, collegata al grande cimitero monastico, che occupava una vasta area alle spalle della chiesa maggiore e che costituiva in certo senso un annesso al plesso architettonico principale (Zettler 1988: 73-81). Reichenau e San Gallo rappresentano quindi un tipo d’insediamento ispirato da criteri organizzativi analoghi, in cui un nucleo centrale sviluppa intorno a sé un irraggiamento di chiese satelliti che ne estende i confini su un territorio piuttosto esteso. Tra le due abbazie si riscontrano però differenze evidenti sia nelle diverse dimensioni e nelle architetture delle loro chiese abbaziali, sia nei differenti ritmi della crescita materiale dell’insediamento nel suo insieme. Ma va anche considerato che, essendo lo spazio effettivamente occupato dai due siti dilatato su un’estensione territoriale piuttosto vasta – l’intera isola, nel caso di Reichenau, e la valle in cui si era in origine rifugiato l’eremita irlandese, nel caso di San Gallo –, la topografia sacra di ciascuno di essi produceva sul terreno esiti assolutamente peculiari che, nel caso di San Gallo, si rifletteva sicuramente sulle costumanze liturgiche adottate nel monastero (Auf der Maur 2001). Il “convitato di pergamena” degli studi sui monasteri altomedievali: la Pianta di San Gallo Schema o progetto?

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Se il loro sviluppo materiale era stato per molti aspetti differente, le due comunità di San Gallo e di Reichenau – e in particolare i loro due abati, Gozbert (816-837) e Haito (806-823) – sicuramente intessevano fra loro un dibattito piuttosto serrato su come ai loro tempi dovesse essere concepita la costruzione di un monastero e come imprese di tal genere potessero fruttuosamente conciliarsi con il dibattito svoltosi ai sinodi di Aquisgrana dell’816 e dell’817. Ciò avveniva nello stesso periodo in cui esse attendevano alla ricostruzione, in forme e dimensioni diverse, delle rispettive chiese abbaziali (Davril-Palazzo 2002: 200-202). Il frutto più prezioso giunto sino a noi di questa discussione è uno dei documenti più singolari di tutto l’alto Medioevo europeo: si tratta di un collage di cinque fogli di pergamena, unito a comporre un’unica superficie di 112 × 77,5 centimetri, sui quali fu vergato in inchiostro rosso lo schema planimetrico di un monastero le cui singole componenti appaiono identificate e descritte da dettagliate didascalie tratteggiate in inchiostro nero (Schedl 2009). 280

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Questo eccezionale manufatto è noto universalmente come Pianta di San Gallo, sia perché è rimasto conservato sino ad oggi nella biblioteca dell’abbazia svizzera, ma anche perché proprio per il suo abate Gozbert esso era stato prodotto e a lui fu personalmente inviato da un personaggio il quale, benché non si firmi con nome e cognome, è stato da molti studiosi identificato con Haito di Reichenau. Dato che la compresenza di questi due personaggi alla testa delle rispettive abbazie si ha negli anni compresi fra l’816 e l’823, è molto probabile che la Pianta sia stata redatta proprio in questo periodo, anche se parte della critica ritiene che la sua datazione possa essere posticipata sino alla soglia degli anni ’30 del ix secolo, e cioè a ridosso del momento in cui Gozbert intraprese la ricostruzione dell’abbaziale di San Gallo108. Quale che sia la più corretta delle due ipotesi cronologiche, è comunque chiaro che la Pianta fu il frutto di un clima di riflessione sui problemi dell’organizzazione e della conduzione della vita ascetica, che aveva trovato nelle riunioni aquisgranesi un momento di rilevanza cruciale. Sulla lettura e l’interpretazione di questo documento e sulle finalità per cui fu redatto esiste una bibliografia sterminata, proliferata in misura esponenziale a partire dal momento in cui, poco più di trent’anni fa, fu pubblicato un suo dettagliato studio da parte dei due studiosi americani Walter Horn ed Ernest Born (1979)109. In tempi in cui le ricerche sull’archeologia monastica altomedievale erano molto meno avanzate di quanto lo siano oggi, l’opinione prevalente fra gli studiosi era che la Pianta rappresentasse lo schema planimetrico di un monastero effettivamente esistente o che, per lo meno, avesse avuto direttamente a che fare con le opere realizzate proprio a San Gallo dall’abate Gozbert. Il progresso degli studi ha però dimostrato che ambedue le ipotesi non hanno riscontro e attualmente si preferisce ritenere che questo documento costituisca piuttosto una sorta di piano ideale per un insediamento monastico, senza che esso abbia mai trovato una sua concreta e puntuale realizzazione110. In effetti, il testo della dedica con cui chi aveva ordinato la redazione della Pianta (Haito?) si rivolgeva al suo destinatario (Gozbert) dice esplicitamente che essa dovesse essere ritenuta nulla più che uno stimolo affinché quest’ultimo utilizzasse quel documento per aguzzare il proprio ingegno: A te, figlio mio dilettissimo Gozbert, io ho indirizzato questa copia, brevemente annotata, della disposizione degli edifici [scil. monastici] affinché tu potessi esercitare il tuo ingegno e riconoscere in ogni modo la mia devozione [scil. nei tuoi confronti] e spero per questo che tu non mi trovi negligente nell’appagare la tua buona volontà. Non pensare che io abbia elaborato questo [scil. disegno] perché pensi che tu abbia bisogno dei nostri insegnamenti, ma credi piuttosto che io l’ho vergato solo per l’amore di Dio e per lo zelo amichevole della nostra comune fratellanza, affinché tu solo potessi farne oggetto di scrutinio. Ti saluto in Cristo e ti prego di essere sempre memore di noi. Amen.

Il fatto che la Pianta non sia apparentemente da considerarsi riferibile a un 281

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complesso monastico realmente esistito non toglie nulla alla sua importanza, poiché gli elementi di cui essa si compone non presentano alcunché di irreale o di inconsueto rispetto a quanto, sulla base delle fonti scritte e dei dati archeologici, sappiamo esistesse davvero all’interno dei monasteri di epoca carolingia. Ciò che invece più colpisce, se la confrontiamo con quanto di quei monasteri conosciamo, è innanzitutto la ratio secondo la quale tali elementi nella Pianta sono organizzati e tra loro disposti sull’immaginario terreno su cui il complesso che essa rappresenta si sarebbe dovuto costruire. Ma colpisce anche l’entità della superficie complessiva che esso avrebbe dovuto coprire. Spicca la disposizione perfettamente ortogonale in cui tutti gli elementi sono tracciati sulla Pianta, andando a formare un grande rettangolo interamente occupato da edifici e da spazi aperti lungo 640 piedi e largo 480; tradotto in misure metriche, significa che l’insediamento avrebbe dovuto misurare 192 × 144 metri. Ciò presupporrebbe che il suo redattore immaginasse che gli edifici sarebbero dovuti sorgere entro uno spazio, perfettamente omogeneo, di oltre 27.000 mq. In teoria, premesse di questo tipo non erano impossibili da mettere in pratica. Molte città di fondazione romana, ad esempio, erano state tracciate secondo schemi di tal genere occupando superfici anche molto più ampie; ma non è assolutamente scontato che un monastero altomedievale, quantunque in grado di allestire una buona organizzazione logistica e di disporre di manodopera in quantità significativa, potesse attuare operazioni di ingegneria urbanistica così complesse a una scala così vasta. A Centula, ad esempio, un’area di estensione quasi identica era quella racchiusa dalle longaniæ che univano fra loro le tre chiese. Tuttavia, sebbene questo monastero – che, non dimentichiamo, aveva il sostegno diretto di Carlo Magno – si fosse impiantato in una zona sostanzialmente pianeggiante, i suoi progettisti, in conseguenza di alcuni condizionamenti dettati dalla morfologia del terreno, erano stati obbligati a disporne gli edifici in modo da formare uno spazio di forma vagamente trapezoidale, entro cui le chiese apparivano collocate su assi leggermente divergenti fra loro. Basterebbe già questa notazione per comprendere che hanno probabilmente ragione coloro che, prendendo alla lettera le parole dell’anonimo mittente della Pianta, ritengono che la cosa più esatta sia quella di interpretarla come uno schema sul quale l’abate Gozbert potesse riflettere, in linea teorica, su come organizzare la ricostruzione del proprio monastero. Ma, oltre a questo, vi è anche un altro spunto di riflessione che spinge nella stessa direzione: i circa 27.000 mq delimitati dalle chiese e dalle longaniæ di Centula comprendono solo l’area del claustrum vero e proprio, mentre tutte le zone destinate a giardini, orti, attività artigianali e commerciali sono al di fuori di essa e possiamo immaginare che occupassero una superficie quanto meno di uguali proporzioni, se non più vasta. Nella Pianta di San Gallo, invece, tutti i settori funzionali sono raggruppati entro un unico insieme. La cosa potrebbe anche essere plausibile presupponendo una razionale utilizzazione 282

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di tutti gli spazi disponibili e che il terreno non presentasse ostacoli di sorta. Tuttavia questa ipotesi si scontra ancora una volta con la difficoltà di immaginare una condizione di tal genere, soprattutto tenendo in conto che alcune attività produttive avevano sicuramente bisogno di un continuo approvvigionamento idrico e quindi difficilmente si sarebbero potute imbrigliare entro uno schema così rigido, senza tenere conto dei condizionamenti determinati dagli andamenti dei corsi d’acqua (Squatriti 2008). Queste incongruenze, che tali sarebbero se la Pianta fosse da considerarsi un vero e proprio progetto esecutivo, in realtà nulla tolgono alla capacità che questo documento ha di asserire dei princìpi molto precisi e, a loro modo, concreti sul come organizzare la costruzione di un monastero e gestirne il funzionamento (Zur Nieden 2008). D’altra parte, Gisella Cantino Wataghin, attingendo a una cospicua mole di fonti di età carolingia, ha dimostrato che all’interno delle comunità monastiche di quest’epoca (e soprattutto di quelle di maggiore importanza) erano frequentemente presenti persone che avevano competenze in campo architettonico e che conoscevano anche la tradizione dei trattati di età classica in materia (Cantino Wataghin 2010). Vista da questa prospettiva, la Pianta perde perciò molta della sua ‘eccezionalità’ e può senza problemi essere considerata come un tipo di elaborato tecnico che, sebbene di alta qualità, non doveva essere in sé sconosciuto alle pratiche dei magistri – anche di condizione monastica – che operavano nei cantieri delle grandi abbazie111. I claustra immaginati (e immaginari?) Sarà quindi bene esaminare un po’ più in dettaglio il contenuto della Pianta, per cercare di decodificarne il linguaggio e, con esso, il messaggio che essa vuole trasmettere. Come si diceva poc’anzi, il suo disegno dispone tutti gli edifici all’interno di una griglia di allineamento perfettamente ortogonale. Riprendendo il riferimento appena richiamato all’analoga forma di molte città di fondazione romana, si noterà subito che – differentemente da quelle – nel nostro caso manca la definizione di una delimitazione fisica all’insediamento, fosse essa un muro vero e proprio o anche una recinzione di tipo più leggero (Constable 2009: 207-209). L’assenza di un elemento di questo tipo non è da considerarsi in sé un fatto sorprendente, poiché abbiamo visto che le soluzioni adottate per definire i confini di un’abbazia potevano essere molteplici, comprendendo anche la possibilità di delimitazioni di tipo immateriale. Superati i confini, la disposizione degli edifici segue una logica ben precisa che suddivide l’insediamento nel suo insieme in aree funzionali distinte tra loro, ciascuna adibita a funzioni individuate e riconoscibili. L’area centrale include tutti gli spazi in cui si svolge la vita quotidiana della comunità: la chiesa, il refettorio, il dormitorio, la dispensa e i locali di servizio ad essi più direttamente collegati, come le cucine, i balnea, le latrine, la sala riscaldata.

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Tutti gli edifici principali che compongono questo settore – compresa la chiesa – sono imperniati su uno spazio quadrato, aperto al centro e fiancheggiato da quattro corridoi porticati (semitæ), che costituisce quindi l’area di disimpegno e d’intercomunicazione fra i diversi corpi di fabbrica, ma che è anche un luogo di sosta in cui i confratelli, sotto la guida dell’abate, avrebbero potuto riunirsi per le discussioni e le deliberazioni quotidiane. Questa sorta di corte – probabilmente abbellita da piante ornamentali e in mezzo alla quale era piantato un ginepro – costituisce in certo senso l’umbilicus di tutto il complesso monastico, poiché si trova esattamente al centro dello schema rappresentato nella Pianta. Gli edifici presenti in tale settore sono descritti con grande accuratezza dalle didascalie che ne accompagnano e ne riempiono gli spazi; da esse apprendiamo ad esempio che i tre grandi fabbricati del refettorio, della dispensa (cellarium) e del dormitorio erano a due piani. Nel fabbricato ospitante il dormitorio, quest’ultimo si trovava al livello superiore, mentre al piano terreno si trovava una sala riscaldata, collegata all’esterno a un camino per lo smaltimento dei fumi; in quello attiguo, il piano superiore era adibito a vestiarium, e cioè a guardaroba per gli abiti e la biancheria, mentre il refettorio vero e proprio era invece accessibile dal livello del patio quadrato. Nella vignetta del dormitorio è disegnata la posizione dei letti (un’ottantina in tutto), e nel lato corto di sinistra (nord) è anche segnalata la presenza di un’apertura (che doveva essere collegata a una scala) tramite la quale si poteva accedere direttamente nel transetto della chiesa per consentire ai monaci di recarvisi il più rapidamente e comodamente possibile, quando dovevano recitare le preghiere notturne. In quella che rappresenta il refettorio troviamo segnalata invece la disposizione delle panche e dei tavoli dove i monaci consumavano i pasti e, sulla parete opposta all’entrata, è indicato il posizionamento del pulpito dal quale il fratello a ciò incaricato recitava la lettura quotidiana dei testi sacri mentre gli altri mangiavano in silenzio. L’edificio del cellario, infine, è rappresentato ingombro di botti di diverse dimensioni, che, dato il loro peso, occupavano lo spazio del piano terreno; al primo piano, invece, si trovava il lardarium e cioè il deposito delle carni messe a seccare e a salare. Tra il refettorio e il cellario si trovava la cucina, entro il cui spazio è delineata la disposizione di forni e bancali per la cottura e la preparazione dei cibi. È davvero impressionante la somiglianza della forma e della sistemazione interna del refettorio e della cucina rappresentati nella Pianta con quella degli analoghi ambienti con omologa funzione rinvenuti negli scavi di San Vincenzo al Volturno. Tale somiglianza si riscontra anche attraverso alcuni dettagli, come ad esempio quello della presenza delle fornaces super arcum collocate nello spazio centrale delle cucine, che costituiscono esattamente il tipo di approntamento predisposto nella medesima posizione anche nelle cucine del monastero molisano. La cucina a sua volta – e per evidenti ragioni di comodità –, sul lato opposto al refettorio e al cellario, era direttamente connessa alla panetteria e al laboratorio per 284

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la preparazione della birra, bevanda che nei monasteri dell’Europa centro-settentrionale sostituiva abitualmente il vino sulla tavola dei monaci. Sul lato destro (sud) del dormitorio, un po’ discosti da quest’ultimo, ma connessi tramite brevi corridoi, stavano la latrina dei monaci e il balneum. L’abate non condivideva tutti questi spazi con gli altri monaci, ma gli era assegnata una residenza a parte, separata dal presbiterio della chiesa, con cui essa era posta in diretta comunicazione tramite un passaggio riservato. Egli poteva disporre di una vera e propria dimora, consistente in un edificio articolato su due livelli e dall’architettura piuttosto elaborata, isolata dalle costruzioni circostanti per mezzo di una siepe o di una palizzata. Il piano terreno di questo edificio, dove si trovava l’alloggio dell’abate, era circondato da portici abbelliti da arcate: il suo interno era suddiviso in un soggiorno e una camera da letto, entrambi dotati di camino, ed era anche provvisto di una ritirata privata, ricavata entro un annesso indipendente posto sul lato nord. Il primo piano era invece interamente destinato a fungere da soffitta. Ad ovest (e cioè più in alto, sulla Pianta) si elevava un altro edificio, leggermente più piccolo, in cui alloggiava il personale addetto alla persona dell’abate. Esso era dotato di una cucina e di una dispensa per la preparazione dei pasti che egli evidentemente in più occasioni consumava insieme agli ospiti di riguardo in visita al monastero. Come vedremo più avanti, il quartiere riservato a questi ultimi si trovava sullo stesso lato, separato dall’alloggio dell’abate solo dall’edificio della schola. Intorno a questo nucleo centrale si trova una serie di quartieri, ciascuno chiamato a svolgere funzioni specifiche. Il primo occupa la parte bassa a destra della Pianta, ed è delimitato dal camminamento che consentiva l’accesso all’atrio della chiesa per chi provenisse dall’esterno del monastero e, di lì, verso alcuni ambienti, sui quali ci soffermeremo più avanti, in cui poteva essere ammessa la presenza di estranei. Questo settore era riservato al ricovero degli animali (vacche, pecore, capre, maiali e infine giumente e puledri) e ad alloggio del personale addetto alla loro cura. Esso si compone di un gruppo di sei edifici piuttosto ampi, a pianta rettangolare e di dimensioni crescenti, procedendo da destra verso sinistra. Solo l’edificio che si trova in basso a sinistra aveva una funzione diversa, poiché era deputato ad ospitare il personale di guardia al monastero e la servitù che accompagnava gli ospiti di maggior riguardo. Al di sopra e a destra di questo blocco di costruzioni si trovava un altro edificio, articolato su due livelli, a pianta rettangolare piuttosto schiacciata. Al piano terreno vi erano rispettivamente le stalle dei buoi (sul lato destro) e dei cavalli (sul lato sinistro), mentre al centro si trovava un ambiente che fungeva da dormitorio per la servitù che se ne occupava; il piano superiore, invece, era interamente utilizzato come fienile. Se la parte bassa di destra era riservata agli animali, quella di sinistra era invece destinata all’accoglienza degli ospiti, distinti in diverse categorie corrispondenti al loro rango sociale e alle loro funzioni. 285

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Abbiamo visto che l’edificio più vicino al corridoio di accesso alla chiesa, sul lato destro, era adibito ad ospitare la servitù che si occupava degli animali, compresa quella al seguito degli ospiti di riguardo. A questi ultimi era assegnato invece un altro settore del monastero, che si sviluppava sul lato sinistro rispetto alla sua entrata e che si estendeva ad occupare buona parte dell’area disponibile lungo il fianco settentrionale della chiesa. In dettaglio, lo spazio a sinistra del corridoio d’entrata era occupato da un grande edificio a pianta rettangolare, articolato al suo interno in una serie di ambienti che affacciavano su un’aula centrale divisa in tre navate da colonnati. La didascalia esplicativa della funzione di questo edificio è stata purtroppo resa illeggibile da una riscrittura posteriore, ma l’ipotesi più plausibile è che esso servisse da foresteria per i componenti di condizione meno umile del seguito degli ospiti di riguardo, dato che, immediatamente al di sopra di esso, è collocata la residenza riservata a questi ultimi, insieme alle cucine e ai loro rispettivi annessi, come il forno per il pane e il laboratorio per la preparazione della birra. La foresteria per gli ospiti di riguardo è descritta nei minimi dettagli. Si entrava dal suo lato meridionale e ciò significava che, per raggiungerla, si doveva passare attraverso l’atrio ovest della chiesa (il cosiddetto paradysus), procedendo poi verso sinistra; varcata una porta, si entrava in un ambiente attiguo a quello occupato dall’ufficio del portarius, cui era evidentemente affidato il compito di porgere il benvenuto agli illustri visitatori. Una volta percorso questo vestibolo e attraversato uno spazio aperto, si giungeva finalmente alla mansio degli ospiti illustri. Superata la soglia, si accedeva a un disimpegno che lateralmente immetteva negli ambienti destinati ai servitori personali degli ospiti, mentre, procedendo in linea retta, permetteva di entrare in una grande stanza rettangolare di m 10 × 15, al centro della quale si trovava un grande focolare e che aveva sui quattro lati altrettanti gruppi di panche dove ci si poteva accomodare per mangiare e chiacchierare. A nord e a sud di questo ambiente si trovavano due grandi stanze da letto, ciascuna dotata di quattro letti (due più grandi e due più piccoli), di un camino e di una latrina aggettante verso l’esterno. Un’altra grande latrina esterna era collocata sul lato dell’edificio opposto (nord) a quello dell’entrata, preceduta da un ambiente per il ricovero dei cavalli. Se per gli ospiti più importanti era stata predisposta una struttura così raffinata, altrettanto non poteva dirsi per i locali che dovevano offrire ricetto ai pellegrini e ai poveri che chiedevano ospitalità ai monaci. Ad essi era riservato un edificio posto sul lato sud della chiesa, in posizione speculare a quello che abbiamo appena visitato, che si raggiungeva seguendo un percorso simile al precedente con la differenza che, una volta entrati nel paradisus, si doveva svoltare verso destra. Varcato un vestibolo identico a quello posto sul percorso degli ospiti di riguardo, si entrava in un altro spazio aperto al centro del quale si trovavano due edifici, uno destinato a ricovero e l’altro a cucina-panificio. Questo spazio aperto era completamente isolato sia rispetto al quartiere delle stalle, sia rispetto a quello delle officine; in 286

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direzione dell’area in cui vivevano i monaci, invece, esisteva un transito del quale ci occuperemo più avanti. Il ricovero era piuttosto spartano: entrati dal lato ovest, si percorreva un vestibolo affiancato dai locali dei servientes che assistevano gli utenti della struttura e si entrava in un locale centrale, in mezzo al quale vi era un bancone quadrato su cui era collocato il vasellame di ceramica necessario per bere e mangiare. Ai lati si trovavano due stanzoni adibiti a dormitorio; l’assenza al loro interno di qualsiasi vignetta indicante la presenza di letti o panche lascia pensare che si dormisse per terra, magari utilizzando pagliericci per rendere il riposo meno disagevole. Sul versante opposto all’entrata c’era un vestibolo dal quale si transitava nella cucina; esso era affiancato da due stanze, una con funzione di dispensa e l’altra definita semplicemente camara, che però sicuramente non era l’ufficio del præpositus pauperum, poiché questi era alloggiato in un locale addossato alla chiesa, in posizione speculare a quella già vista per il portarius. Accanto all’ufficio di quest’ultimo si trovava un ambiente stretto e lungo – anch’esso posto a ridosso del muro della chiesa – lungo le cui pareti erano disposte file continue di bancali di pietra. Questo luogo, adibito a parlatorio, aveva un’importanza cruciale nella topografia del monastero rappresentato nella Pianta, poiché costituiva l’unico snodo diretto fra le aree in cui vivevano i monaci e la parte più esterna del complesso, dove era ammesso l’ingresso dei visitatori, ed era quindi il solo luogo in cui poteva avvenire un contatto diretto fra i membri della comunità e le persone che vivevano nel sæculum. Rimanendo ancora per un momento nell’ambito degli spazi in cui il monastero interagiva direttamente con il mondo esterno, rimangono da ricordare due edifici: quello che l’estensore della Pianta colloca in posizione intermedia fra la residenza dell’abate e la foresteria per gli ospiti di riguardo e il gruppo di ambienti addossati al fianco nord della chiesa, tra l’ufficio del portarius e il transetto della chiesa stessa. Il primo ospitava la schola del monastero ed era articolato in una grande sala centrale, illuminata dall’alto da due lucernari, attorniata da dodici stanze più piccole (mansiuncula) in cui alloggiavano gli scolari. Anche questa costruzione era dotata di una latrina aggettante verso l’esterno sul lato nord. Dirimpetto – a ridosso della chiesa – si trovava l’ufficio del direttore della scuola (riscaldato da un grande focolare) attiguo al quale era il secretum, cioè il suo alloggio. La scuola del nostro immaginario monastero era un’istituzione aperta anche a persone esterne alla comunità, ma apparentemente destinata a un’utenza di élite. I giovani ammessi a frequentarla, che vi accedevano attraverso lo stesso vestibolo annesso alla navata nord della chiesa utilizzato dagli ospiti di riguardo, sono infatti definiti pulchra juventus: un’espressione che tradurremmo in italiano un po’ gergalmente come “la meglio gioventù” e che sembra alludere al fatto che gli scolari fossero selezionati nell’ambito dell’aristocrazia che con il monastero aveva più stretti contatti. Infine, immediatamente ad est dell’alloggio del maestro delle scuole, si trovava 287

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un’altra coppia di ambienti la cui funzione era quella di accogliere i monaci di altre comunità che venissero in visita al monastero e di fornire loro un letto. Questa categoria di ospiti era naturalmente quella che più di ogni altra poteva trovare aperte le porte del cenobio e per questo, sebbene non ne fosse prevista l’ospitalità nel dormitorio monastico, era stata loro assegnata una sistemazione comunque privilegiata. Gli ambienti loro riservati avevano infatti accesso diretto alla chiesa attraverso un ingresso che immetteva nel transetto nord e cioè – come vedremo – in quella parte di essa ove i monaci abitualmente sedevano per la celebrazione degli uffici quotidiani. Il quarto grande settore funzionale omogeneo individuabile all’interno del monastero occupa tutto il lato destro della Pianta, che corrispondeva alla parte più meridionale dell’intero insediamento. È questo il quartiere delle officine, che ambienta in un contesto tipicamente altomedievale la raccomandazione di Benedetto da Norcia di rendere il monastero il più possibile autonomo rispetto all’esterno nel soddisfare sia le proprie necessità di approvvigionamento, sia quelle relative alla manutenzione della sua complessa struttura materiale. Le officine comprendono ben sette blocchi di edifici. Il primo occupa lo spazio posto immediatamente ad est delle stalle per i buoi e i cavalli ed è costituito da tre moduli quadrati, di cui i primi due includono le officine dei bottai e dei tornitori del legno, mentre il terzo ospita il deposito delle materie prime per la produzione della birra. La dislocazione di queste due attività è perfettamente logica, posta com’è a breve distanza dal laboratorio per la preparazione della birra e dal cellarium, ingombro delle grandi botti utilizzate per conservarla. Altrettanto logico è che esse siano attigue anche alla panetteria, alle spalle della quale troviamo inoltre le tre costruzioni che ospitavano rispettivamente il luogo in cui il grano (denominato annona, come nel testo delle Consuetudines di Corbie) era messo a seccare in attesa di essere macinato e poi, ridotto in farina, conservato entro due piccoli silos. Accanto agli spazi per la lavorazione del grano, in direzione est, troviamo l’edificio più grande presente in quest’area del monastero. Esso è suddiviso al proprio interno in due aree separate fra loro da un corridoio e il suo accesso si trovava sul lato nord, quello rivolto in direzione della chiesa. Appena varcata la soglia, si entrava in un vestibolo che immetteva a sua volta in due grandi stanze che ricevevano la luce del giorno dall’alto, attraverso lucernai, essendo prive di affacci diretti sull’esterno. Esse costituivano la domus et officina camerarii e cioè l’ufficio di chi dirigeva le attività di tutti gli artigiani e che probabilmente utilizzava questi due ampi spazi anche per radunare, controllare e smistare i prodotti del loro lavoro. Dalla stanza di sinistra si accedeva ai laboratori dei calzolai, dei tornitori e dei politori e smerigliatori delle armi; da quella di destra, invece, si entrava nei locali utilizzati da sellai, cuoiai e fabbricatori di scudi. Utilizzando delle porte aperte nelle pareti sud delle due stanze del camerarius si oltrepassava un corridoio e, attraversato un vestibolo, si entrava in un secondo settore in cui, all’interno di tre ambienti separati tra loro, operavano i fabbricatori di 288

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panni, i fabbri ferrai e gli orefici. Attigue a questi tre laboratori erano altrettante stanzette, piuttosto anguste, ove trovavano alloggio gli artigiani. L’ultimo settore che componeva l’area delle officine era ospitato in un edificio anch’esso abbastanza grande e suddiviso al suo interno in maniera piuttosto inconsueta. Dall’ingresso, che avveniva sul lato ovest, si accedeva infatti in un ambiente a pianta cruciforme che, come recita la didascalia che ne occupa lo spazio, era «l’area in cui i chicchi di grano e la pula venivano trebbiati». Il resto del fabbricato era utilizzato come horreum, e cioè come magazzino per il grano che da qui era poi trasportato negli edifici retrostanti la panetteria, dove si provvedeva alla sua asciugatura e alla molitura. Procedendo ancora verso est, entriamo in un quinto quartiere, il solo all’interno di tutto il monastero nel quale gli spazi aperti prevalgono su quelli edificati: era questa la zona degli orti e degli spazi per l’allevamento degli animali da cortile. Immediatamente adiacente al granaio si trovava l’unico edificio, ove alloggiavano il giardiniere e i suoi aiutanti. Questa casa era suddivisa in diversi ambienti: al centro si trovava una grande sala, affiancata a sinistra dalla camera da letto del giardiniere (il solo ambiente provvisto di riscaldamento), a destra dal magazzino degli attrezzi agricoli e delle sementi e, sul lato opposto all’entrata, da un vestibolo da cui si poteva uscire verso l’orto oppure entrare negli alloggi dei serventi. L’orto è disegnato come un grande spazio rettangolare suddiviso al proprio interno in diciotto scomparti, ciascuno dedicato alla coltura di una singola specie vegetale. Sono elencati: cipolla, aglio, porro, erba cipollina, sedano, prezzemolo, coriandolo, cerfoglio (una sorta di prezzemolo dal gusto meno pungente), aneto, lattuga, senape, radicchio, bietola, pastinaca, cavolo, finocchio e papavero (quest’ultimo è menzionato per due volte, probabilmente in riferimento a due varietà diverse: Horn, Born, 1979, ii: 205). Sulla destra dell’orto – e cioè sul suo lato sud – si trovava l’area in cui erano allevati polli e oche. Questi due spazi sono rappresentati come strutture di forma circolare, e in mezzo a loro si trovava la casupola che forniva alloggio al personale che di questi animali si prendeva cura. Sul lato sinistro dell’orto – e cioè sul suo versante settentrionale – troviamo un appezzamento rettangolare abbastanza ampio (circa 28 × 45 metri di lato) che costituiva una sorta di area condivisa tra le funzioni di questo settore del monastero e di quello che lo affiancava a nord. Si trattava del cimitero, all’interno del quale era però prevista la presenza di alberi da frutto di diverse specie: melo, pero, prugno, sorbo, nespolo, lauro, castagno, fico, cotogno, pesco, nocciolo, mandorlo, gelso, noce. Al centro dell’area, entro un’aiuola, era piantata una croce, albero della vita per eccellenza nella visione cristiana, che arricchiva di ulteriore simbolismo la scelta di collocare nello stesso spazio le sepolture dei monaci e alberi fruttificanti. Come recita la didascalia che spiegava la funzione di questo settore, i rami degli alberi rappresentavano l’aspirazione al cielo delle anime dei defunti e i loro frutti il premio 289

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della vita eterna che essi agognavano a raggiungere, una volta conclusa un’esistenza terrena tutta votata alla preghiera. Il frutteto-cimitero, dicevamo, costituisce uno spazio condiviso con l’area del monastero che si trova alla sua sinistra (e cioè verso nord). È questo il sesto quartiere del monastero, destinato alla cura degli infermi e all’alloggio dei novizi. Compone questo settore un gruppo di sei lotti, dei quali cinque edificati e uno destinato alla coltivazione delle varietà botaniche di cui i medici dovevano servirsi per confezionare i preparati galenici. L’edificio più importante – il secondo per grandezza di tutta la Pianta, dopo la chiesa abbaziale – è l’alloggio dei novizi e dei malati. È progettato come una sorta di versione raddoppiata, ma su scala più piccola, della parte centrale del monastero, nel senso che su ambedue i lati di una chiesa – divisa in due parti a formare altrettante distinte aule di culto – troviamo due blocchi simmetrici di edifici, raggruppati intorno a un’area aperta centrale circondata da portici. Quello di destra era riservato ai novizi e affacciava direttamente sul cimitero, per ricordare agli aspiranti monaci che essi, una volta varcata la soglia del monastero, sarebbero stati come morti al mondo e avrebbero vissuto esclusivamente per l’ascesi, e cioè per esercitare lo spirito a prepararsi all’incontro con Dio, una volta lasciato il corpo terreno. I novizi sono suddivisi nelle due categorie dei pulsantes e degli oblati, e cioè coloro che si sono presentati spontaneamente al monastero per esservi accettati (letteralmente, che hanno ‘pulsato’ e cioè che hanno bussato alle sue porte) e quanti invece sono stati offerti (oblati) al monastero – in genere in età molto precoce – dalle loro famiglie. Intorno al patio quadrato abbiamo sul lato destro (sud) l’alloggio del magister e quello per i giovani infermi, ciascuno dotato di un focolare e di una latrina. Sul lato est (in alto) si trova il dormitorio comune, provvisto di una latrina più grande, e la sala riscaldata da un grande focolare dotato di sfiato dei fumi verso l’esterno; sul lato sinistro (nord) vi è l’accesso alla metà della chiesa riservata ai novizi e infine sul lato ovest (in basso) troviamo il refettorio e la dispensa. La metà del complesso destinata ad ospedale è organizzata in modo identico, con la sola differenza di una diversa destinazione delle singole stanze che prevede, sul lato sinistro (nord), accanto a quella del responsabile della struttura, un ambiente per il ricovero di coloro che versavano in condizioni più gravi. Anche questa parte del complesso aveva un accesso diretto alla piccola chiesa e in particolare alla sua metà ovest, la cui abside si trovava a diretto contatto con il muro esterno del paradisus orientale della chiesa maggiore. Ambedue le metà che componevano questa struttura erano dotate di una cucina e di un balneum ricavati all’interno di due piccoli fabbricati indipendenti, posti a qualche metro di distanza dal suo fianco orientale. Come ricordavo poc’anzi, gli ambienti a destinazione sanitaria comprendevano anche altri tre spazi, posti a nord dell’edificio principale, allineati lungo un asse estovest. Il primo dal basso era l’edificio per i salassi, presso cui si doveva anche for290

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nire il vitto sia a coloro che erano sottoposti a tale trattamento, sia più in generale a quanti stessero assumendo preparati medici. In questo ambiente, provvisto di una sua latrina, erano collocati ben quattro focolari ed erano disposte sei mensæ sulle quali venivano evidentemente distesi coloro ai quali erano attaccate le sanguisughe. Subito oltre questo edificio era la domus medicorum, in cui, intorno a un ambiente centrale che probabilmente fungeva da ambulatorio, vi erano tre altre stanze. Di queste, quella posta di fronte all’entrata era detta armarium ed era destinata a riporvi i pigmenta, cioè i preparati, che nell’antica terminologia farmacologica italiana erano chiamati ‘tinture’, ossia i galenici che i medici utilizzavano per curare gli ammalati. Gli altri due locali laterali, ciascuno dotato di un focolare e di una latrina privata, servivano come alloggio per i medici e – mi si perdoni l’anacronismo – come reparto di terapia intensiva per i malati che si trovavano in condizioni più critiche. L’ultimo elemento che componeva il nosocomio monastico era uno spazio aperto che occupava l’angolo all’estremità nord-est di tutto il complesso. Si trattava del cosiddetto “giardino dei semplici” e cioè lo spazio in cui erano coltivate le piante che costituivano gli ingredienti singoli (simplices) per la preparazione dei galenici (Bond 2004: 153-170; Marty-Dufaut 2006: 5-6). Sebbene questo lembo della pergamena della Pianta sia il più rovinato, si riesce a capire che al suo interno erano ricavate sedici aiuole, di cui otto lungo il perimetro del giardino stesso e altrettante disposte su due file all’interno dello spazio centrale. Le didascalie ci dicono che le specie coltivate erano la rosa gallica (contro le irritazioni della pelle), il giglio di sant’Antonio (per la preparazione di acque aromatiche), la santoreggia (molto simile al rosmarino, usata per l’apparato digerente), la menta romana (diuretica), la trigonella o fieno greco (con proprietà depurative del fegato e contro l’anemia), il rosmarino (ad esempio per le terapie antiepilettiche, contro i reumatismi, per impacchi su ferite e irritazioni e con funzione antireumatica), la menta piperita (per le affezioni respiratorie e contro il meteorismo), la salvia (antisettica), la ruta (antisettica, antidolorifica e antinfiammatoria), il giaggiolo (contro la diarrea e diuretico), la menta poleggia (digestiva), la menta acquatica (digestiva, antisettica e antispasmodica), il cumino (digestivo), il sedano di montagna (depurativo e diuretico), l’aneto (contro le infezioni dell’apparato digerente), il fagiolo occhionero o dolico (contro l’anemia). La metà circa delle specie presenti nel giardino della Pianta è inclusa anche da Walafrido Strabo (808-849), abate di Reichenau e precettore di Carlo il Calvo (figlio di Ludovico il Pio), nella sua opera De Cultura Hortorum, ove si esalta l’importanza per il monaco del lavoro agricolo specializzato nella coltivazione delle specie vegetali destinate alla cura delle malattie112. Nell’effettuare questo immaginario periplo del monastero rappresentato dalla Pianta di San Gallo abbiamo lambito più volte l’edificio più grande, che di tutto il complesso costituiva il cuore e in certo senso il simbolo: la chiesa abbaziale. Essa è 291

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collocata in una posizione leggermente decentrata a sinistra, ma l’imponenza delle sue dimensioni avrebbe dovuto renderla comunque in grado di spiccare su tutte le altre costruzioni. Come abbiamo già visto, a questo edificio erano addossate diverse strutture, che però dal punto di vista funzionale ricadevano per la maggior parte all’interno di altri quartieri del monastero. Ve ne sono invece alcune che possono essere considerate più direttamente collegate alle attività che si svolgevano nella chiesa. Esse sono posizionate nello spazio esterno, fra il transetto e l’abside della chiesa, e consistono in due edifici quadrati, abbastanza ampi (circa 15 metri di lato), sviluppati su due piani. Quello che si trova sul lato destro (sud) della chiesa è utilizzato al piano terreno come sacrestia e quello superiore come guardaroba per i paramenti sacri da indossare durante le funzioni. Al centro del locale al piano terreno è disegnata una grande mensa quadrata, che serviva come appoggio per il vasellame liturgico. Questo ambiente era attiguo a un altro, da esso leggermente distanziato, ma collegato tramite un corridoio, in cui si preparavano il pane e l’olio consacrati per le funzioni. L’edificio collocato sul lato opposto era invece quello che ospitava lo scriptorium al piano terreno e la biblioteca a quello superiore. Nello spazio della biblioteca sono disegnate le vignette che rappresentano gli scaffali su cui erano riposti i libri, mentre i muri perimetrali appaiono traforati da numerose finestre per consentire alla luce diurna di penetrarvi e illuminare le scrivanie dove lavoravano gli amanuensi. Esso era stato opportunamente immaginato in una posizione intermedia fra la chiesa e la residenza dell’abate. Alla prima, infatti, avrebbe dovuto fornire i libri utilizzati per il canto e la recita dei testi sacri durante le funzioni e dal secondo dipendeva tanto per la supervisione del suo lavoro, quanto anche per la decisione su quali libri fornire ai confratelli che ne facessero richiesta. La sacrestia e la biblioteca erano direttamente collegate alla chiesa attraverso dei passaggi che immettevano nel transetto, ma la biblioeca disponeva apparentemente anche di un accesso diretto alla zona presbiteriale, in modo che i pesanti libri utilizzati nelle cerimonie religiose potessero esservi trasportati più agevolmente. Dicevamo che la chiesa era l’edificio più grande di tutta l’abbazia: ad essa è stata attribuita una lunghezza di circa 110 metri (esclusi gli atri posti alle due estremità) per una larghezza di circa 30, che si amplia di altri 10 metri se si prende in considerazione l’area del transetto. Era a pianta basilicale, suddivisa in tre navate, con la centrale larga circa 15 metri e quelle laterali 7,5 metri ciascuna, separate tra loro da due file di otto colonne poggianti su basi quadrate. Entrambe le estremità terminavano con un’abside semicircolare di uguale profondità, mentre le navate laterali ne erano prive. La chiesa non aveva quindi accesso in facciata (una facciata vera e propria in realtà non esisteva) e i suoi ingressi – come abbiamo già visto parlando delle aree per l’accoglienza dei visitatori – si aprivano al termine delle due navate laterali. L’estremità orientale era organizzata in modo assai più monumentale di quella opposta. Dalla crociera del transetto si dipartivano due rampe di sette gradini che permettevano di raggiungere un presbiterio sopraelevato, al di sotto 292

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del quale era ricavata una cripta. A questo spazio sotterraneo si accedeva tramite altre due scale poste al termine delle navate laterali che introducevano in un corridoio voltato, a forma di ‘U’, dalla cui base si dipartiva un braccio rettilineo che conduceva sino al luogo in cui erano riposte le spoglie di san Gallo, posto esattamente al di sotto dell’altare maggiore, elevato nel presbiterio e dedicato allo stesso Gallo e alla Vergine. La visione del luogo in cui era sepolto il corpo del santo era possibile anche attraverso una finestrella che si apriva al termine di un breve andito interposto fra le due rampe di scale che salivano al presbiterio. La sistemazione dell’estremità opposta era molto meno complessa ed enfatica, poiché l’abside si sollevava dal piano della navata di soli tre gradini. L’interno della chiesa, ampio e solenne, era però tutt’altro che percepibile come uno spazio unitario. La Pianta, infatti, lo mostra frazionato da numerose recinzioni e altari, che interrompevano il percorso sia della navata centrale, sia di quelle laterali. Gli altari, distribuiti fra le navate, il transetto e i due presbiteri, erano ben diciassette e intorno ad ognuno di essi era stato creato uno spazio delimitato da transenne, così da rendere la grande chiesa come il contenitore di una serie di microchiese. In dettaglio, nell’area del presbiterio orientale, oltre a quello dedicato a san Gallo e alla Vergine, c’era l’altare di san Paolo, collocato nell’abside; ai piedi delle due scalinate si trovavano invece quelli intitolati a san Benedetto e san Colombano. Nel transetto erano posizionati quelli dei santi Filippo e Giacomo e di sant’Andrea, e lungo le navate laterali si trovavano quelli dei santi Stefano, Martino, Giovanni e Lucia con Cecilia (nella navata nord) e quelli dei santi Lorenzo, Maurizio, Sebastiano e Agata con Agnese (navata sud); infine, nella navata centrale si elevavano quelli dei santi Innocenti e della Santa Croce e, nel presbiterio occidentale, quello di san Pietro. Le varie recinzioni, sistemate in genere in corrispondenza delle colonne che scandivano lo spazio delle navate, formavano quindi diversi spazi nettamente distinti fra loro e intercomunicanti attraverso passaggi di larghezza variabile, ma in genere non molto ampi. Lo spazio principale era ovviamente quello imperniato sul presbiterio ed esteso ad occupare il primo terzo della navata centrale. Al suo interno, oltre agli altari dedicati a Paolo, alla Vergine e a Gallo, a Benedetto e a Colombano, si trovavano anche l’ambone e il lettorino, nonché una serie di panche sulle quali dovevano prendere posto i monaci. Separati dal presbiterio dai percorsi che conducevano agli accessi verso la cripta, troviamo in ciascuno dei due transetti un altro spazio recintato e definito, gravitante sull’altare posto al termine delle due navate laterali e leggermente sollevato rispetto al piano pavimentale da una breve rampa di tre gradini. Anche qui erano stati addossati dei bancali lungo tutto il perimetro dello spazio delimitato dalle recinzioni.

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La navata centrale era a sua volta suddivisa in due cappelle che avevano il loro centro devozionale negli altari della Croce e degli Innocenti. Accanto a quest’ultimo si trovava il fonte battesimale: un elemento, come vedremo più avanti, molto interessante per capire chi potessero essere gli utenti della chiesa. Un altro sacello era formato dall’area del presbiterio occidentale, dove si trovava l’altare di San Pietro; la sua recinzione si estendeva nella navata centrale ricavandovi una superficie sufficiente per adunarvi un coro. Anche nelle navate laterali, infine, l’area circostante ciascuno degli otto altari in esse presenti era delimitata da recinzioni, così da formare altrettanti spazi autonomi che fungevano da vere e proprie cappelle. Fatti i conti, l’interno della chiesa era frazionato in ben quattordici scomparti, ognuno dei quali poteva evidentemente essere utilizzato per celebrarvi delle messe, grazie alla presenza al suo interno di almeno un altare113. Immediatamente all’esterno delle due absidi, che concludevano la chiesa ad oriente e ad occidente, erano stati predisposti degli spazi i cui perimetri riprendevano l’andamento curvilineo delle absidi stesse. All’interno dell’esedra che incorniciava quella orientale era stato allestito un piccolo giardino. L’esedra occidentale era invece molto più affollata e le funzioni che il redattore della Pianta le aveva attribuito erano di rilevanza cruciale in rapporto sia alla chiesa, sia agli edifici che la fiancheggiavano sui due lati. Questo spazio era diviso in due metà da un colonnato formato da dieci pilastri: quella più esterna era coperta e serviva da camminamento per chi volesse entrare in chiesa o desiderasse raggiungere le aree per l’accoglienza degli ospiti, poste sui fianchi sud e nord della medesima. Quella più interna, invece, era lasciata scoperta, forse per permettere di rimirare da vicino la mole imponente della parte absidale del grande edificio di culto. Sui due lati del paradisus, leggermente distaccate da esso e collegate da corridoi che si dipartivano dal braccio porticato di quest’ultimo, si ergevano due torri a pianta cilindrica. Nell’attico di ciascuna di esse era stata ricavata una cappella, dedicata rispettivamente agli arcangeli Michele e Gabriele. Come abbiamo visto già a Centula, il culto degli arcangeli trovava spesso ricetto negli spazi liminari delle chiese e, in particolare, all’interno di strutture sopraelevate (nel monastero francese le cappelle degli arcangeli erano collocate all’interno delle torricelle che sovrastavano gli accessi al paradisus). La ragione di questa disposizione è da riconoscersi nel fatto che alle potestà angeliche era affidato il compito della custodia dell’inviolabile sacralità della chiesa da parte delle forze diaboliche e, quindi, il ‘pattugliamento’ ideale del suo ingresso, che costituiva il luogo più esposto dell’edificio, in cui il mondo esterno e l’interno del claustrum monastico venivano inevitabilmente a contatto fra loro (Dierkens 2002: 501-502). Nell’abbazia tedesca di Corvey, in Westfalia, il possente avancorpo occidentale del tardo ix secolo, che è ritenuto il termine di paragone ancora in vita più calzante rispetto a quello perduto di Centula, reca sulla faccia rivolta verso l’esterno (e che probabilmente a sua volta prospet294

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tava su una sorta di atrio) un’epigrafe dedicatoria all’arcangelo Michele nella quale egli è evocato come il custos della chiesa abbaziale e, con essa, di tutto il monastero (Lobbedey, Westphal 1998; Lobbedey 2001 e 2002; Gai 2010). Nella Pianta di San Gallo non era però previsto che la chiesa fosse preceduta da un avancorpo sul tipo di quello probabilmente edificato a Centula e Fontenelle e che è ancora visibile a Corvey, che si frapponeva metaforicamente, ma anche fisicamente, tra lo spazio della navata e del santuario e quello esterno. Qui era stata adottata la soluzione della controabside, che gli storici dell’architettura ritengono ispirata da esempi dell’architettura cristiana mediterranea, alla quale erano state affiancate le due torri dedicate agli arcangeli. Il risultato complessivo non era però dissimile, poiché la sua mole (fiancheggiata dalle due torri dedicate agli arcangeli) opponeva una barriera altrettanto visibile verso il mondo di fuori, che norme e percorsi per l’accesso alla chiesa si preoccupavano di far rispettare (Duval 2002; Caillet 2005: 72-74).

95

Note 1 

12. 11. 3  crf, i, 14. 4  crf, i, 22 e 23. 5  crf, i, 28, cap. 15. 6  crf, i, 72. 7  crf, i, 75. 8  crf, i, 171. 9 Opportunamente, Paolo Grossi sottolinea che, dal punto di vista concettuale, vi è una differenza fra l’imposizione dei servitia alle abbazie fondate da re (e imperatori) e dotate, dal punto di vista patrimoniale, con terre prevalentemente di origine demaniale e abbazie sorte per altre vie, alle quali il monarca aveva però offerto l’immunità e la propria protezione. Nel primo caso, la richiesta del servizio discendeva in primo luogo e direttamente dal diritto eminente di proprietà esercitato sovrano sui beni posseduti dal monastero; nel secondo caso, la concessione della protezione determinava l’instaurarsi di un rapporto di fedeltà del monastero verso il sovrano e da quello scaturiva l’obbligo dell’aiuto che a quest’ultimo andava fornito. 10  vba, 36. 11 Lo sviluppo, in età carolingia, dell’idea del ruolo di mediatori verso Dio, esercitato da parte dei santi, nei confronti della preghiera degli uomini – e in particolare di quella dei monaci – è sottolineato dalla proliferazione, in questo periodo, di martirologi e calendari liturgici, che collegano la memoria dei santi ai giorni deputati alla loro celebrazione. Attraverso questi testi viene resa esplicita l’esemplarità dell’esperienza esistenziale dei santi e, quindi, implicitamente la loro funzione di tramite ideale affinché nelle sfere celesti possano trovare ascolto le invocazioni dei fedeli. Jean-Loup Lemaître (2005: 60) definisce il ix secolo come l’«età d’oro dei martirologi» e ricorda fra i loro autori soprattutto personaggi di estrazione monastica e prevalentemente di ambito franco. 12  gsr, i, 2. 13  af, ad annum dcccxvii. 2 

crf, i, crf, i,

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Le città dei monaci 14 

10. 5, 13-14. 16  smf, 16. 17  smf, 7-8. 18  smf, 15. 19  smf, 11. 20  smf, 12. Negli stessi anni risulta che analoghe situazioni di malessere delle comunità verso i propri abati si sarebbero verificate anche a Reichenau e a San Gallo ed è stato ipotizzato che esse potessero essere state originate – come nel caso di Fulda – dalla troppo spiccata propensione degli abati stessi verso una gestione eccessivamente personalistica delle risorse economiche del monastero, in rapporto agli ambizioni programmi edilizi intrapresi (Berschin 1995). 21  smf, 20. 22  vem, v e vi. 23  af, ad annum dcccxviii. 24  vef, 16-17. 25  vef, 20. In merito alla fondazione della chiesa cimiteriale di San Michele da parte di Eigil si veda Ellger 1989. 26  vef, 22. 27  vef, 12. 28  vef, 13. 29  af, ad annum dcccxxii. 30  rmc, xiv. 31 Oltre che su Rabano Mauro, Ratgar avrebbe “investito” sulla formazione di altri giovani e talentuosi monaci della sua comunità, ai quali permise anche di recarsi presso alcuni importanti intellettuali dell’epoca, come Alcuino e Eginardo, per completare i propri studi (Raaijmakers 2012: 98-100). 32  rmc, xxxiii-xlii. 33  Si deve ricordare a tal proposito che Eigil, verso la fine della sua vita, si adoperò per far rientrare a Fulda Ratgar e ricucire così la spaccatura che la sua deposizione aveva causato nella comunità (vef, 25). Inoltre, il testo della vita di Rabano Mauro redatta da Rodolfo Scolastico (vrm) è costituito per buona parte dal racconto delle reliquie che l’abate fece giungere a Fulda da Roma e dalla descrizione della loro deposizione nell’abbazia e in una serie di monasteri e chiese dei dintorni, alcune delle quali costruite per l’occasione. Il testo configura così un “paesaggio” in cui il monastero principale costituisce il centro di un sistema di dipendenze distribuite sul territorio e che al suo interno ne espandono e riflettono la grandiosità materiale e il predominio politico. 34 L’efficace espressione è quella usata da Janneke Raajimakers (2012) per descrivere l’accelerazione dello sviluppo conosciuto dal monastero grazie alla protezione della monarchia franca, a partire dalla fine dell’viii secolo. 35  sm, 10. 36  vba, 3. 37  vba, 5. 38  vba, 17 e 22. 39  vba, 17. 40  vba, 19. 41  vba, 21. 42  vba, 2. 43  vba, 29. 44  dbd. 45  Si veda sul rapporto di interconnessione fra cura della celebrazione liturgica e attenzione al decus degli spazi che devono ospitarli quanto osservato, riguardo all’età carolingia, in Palazzo 2009. 46  vba, 38. 15 

smf, smf,

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L’apogeo dei chiostri 47 Vedi

Hen 2000 e 2011; Herren 2000. la storia di Centula anteriormente all’epoca carolingia è particolarmente preziosa la puntuale ricostruzione di Maurizia Vecchi (1982). 49 Le ali del portico sono definite da Angilberto con la parola longaniæ, termine che, con una certa sicurezza, dovrebbe potersi tradurre in italiano come “galleria coperta”. 50 Per allineamento della navata centrale s’intende tanto quello del corpo centrale della chiesa, a pianta basilicale, quanto il suo prolungamento all’interno dei corpi turriti eretti alle due estremità di esso. 51  cc, ii, 6; ia, i. 52  ia, vi. 53  ia, vii. 54  ia, viii. Il testo di Angilberto annota anche che nella giornata del Sabato Santo i monaci, dopo aver celebrato gli officia nella chiesa di San Ricario, devono «discendere alle fonti» per recitarvi una litania. Purtroppo non è chiaro a che cosa queste fontes corrispondessero. Il fatto che il testo dica che, provenendo dalla chiesa maggiore, per raggiungerle si dovesse discendere, unito al dato dell’esistenza di un dislivello fra la chiesa stessa e i corridoi porticati che, come abbiamo visto, era colmato dalla rampa che permetteva di accedere al portone di San Maurizio, potrebbe far pensare che esse si trovassero all’interno dell’area racchiusa tra le ali porticate. Un altro dettaglio che il passo fornisce sulla topografia del monastero è quello della presenza di un ambiente, denominato secretarium, che doveva essere prossimo al corpo turrito occidentale della grande chiesa: qui si recavano alcuni dei monaci per indossare gli abiti da cerimonia nell’intervallo fra l’andata alle fontes e le celebrazioni che si dovevano tenere subito dopo nel tempio del Salvatore. Infine, è possibile che il secretarium facesse parte di un gruppo di ambienti attigui alla già ricordata sala abbatis, o che addirittura coincidesse con essa. 55  ia, ix-x. 56  ia, xi. 57  È del massimo interesse il fatto che la sala abbatis sia menzionata come luogo connesso o coincidente con quello definito porta monasterii. Tornerò fra poco su questo dettaglio, ma per ora basti dire che l’accostamento che il testo propone fra le due cose lascia pensare che effettivamente la sala abbatis potesse avere la valenza di luogo di cerniera fra la clausura vera e propria e l’esterno, fungendo da luogo di ricevimento degli ospiti. 58  ia, xii-xv. 59  cc, ii, 3. 60  Herici descriptio censuum monasterii [scil. Centulensi], in D’Achery, Mabillon 1735: 99-100. 61 Ciascuna categoria doveva corrispondere ai monaci censi in natura, costituiti da servizi o prodotti derivanti dalle loro attività: ai fabbri toccava l’obbligo di fornire tutti i ferramenta necessari al monastero; gli scutarii dovevano produrre, confezionare e cucire le coperte in pelle (indumenta) per i libri; ai sellai toccava la cura delle sellature e dei finimenti dei cavalli utilizzati dall’abate e dai monaci; i fornai dovevano procurare cento pani a settimana; ai calzolai era chiesto di produrre scarpe per tutta la servitù del monastero e per il personale di cucina, mentre i macellai dovevano consegnare ogni anno quindici sestari di sego; i fulloni e i pellai dovevano rispettivamente produrre i panni di feltro e confezionare e cucire i manufatti in pelle necessari ai monaci; i vinificatori, infine, dovevano versare annualmente sedici sestari di vino e uno di olio. 62  Questo tipo di utilizzo della forza lavoro disponibile nell’ambito di comunità rurali direttamente dipendenti da un dominus ecclesiastico per lavori di carattere edilizio in epoca altomedievale è documentato in diverse circostanze: nel ix secolo, a Roma, si ha l’impiego da parte di papa Leone iv (847855) degli abitanti di aziende agricole di proprietà pontificia (le domuscultæ), distribuite a raggiera nella campagna romana, nei cantieri allestiti per l’edificazione delle mura destinate a proteggere il Vaticano; successivamente, a metà circa del x secolo, l’abate Aligerno di Montecassino utilizza i magistri fabricatores residenti nel territorio circostante l’abbazia per edificare le opere difensive di un castello eretto per difenderne i confini meridionali; nello scorcio conclusivo dell’xi secolo, infine, l’abate di 48 Per

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Le città dei monaci Farfa chiama gli abitanti dei villaggi più vicini all’abbazia a collaborare nella costruzione della nuova chiesa abbaziale che egli aveva voluto sulla cima della collina soprastante il monastero (Marazzi 1993: 263-264; 2011: 163-164; sull’argomento, vedi anche Stasolla 2010 e Cantino Wataghin 2010). 63 Nelle ricostruzioni avanzate dai diversi studiosi che si sono interessati delle strutture architettoniche dell’abbazia di Centula (e più in generale all’architettura carolingia), il paradysus è in genere rappresentato come un quadriportico a pianta rettangolare, sui cui tre lati si aprono le tre porte dedicate agli arcangeli, con chiari riferimenti, quindi, a precedenti analoghe strutture di età paleocristiana. Questa soluzione discende dalle proposte formulate prima da Effmann (1912) e poi confermate, anche se con varianti, da Bernard (1982 e 1989). In realtà, non vi è alcun dato archeologico incontestabile per avallare questa ipotesi, né la famosa veduta ripresa dalla cronaca di Ariulfo fornisce dettagli in merito alla planimetria del paradysus. Né aiutano di più i passaggi della cronaca dello stesso Ariulfo, che descrivono questo spazio come un’area chiusa da mura su cui si aprivano le tre porte dedicate agli arcangeli, ciascuna sormontata da una torretta, entro cui si trovava una cappella dedicata all’angelo eponimo della porta stessa (cc, ii, 5), ma non danno indicazioni sulla sua forma esatta, anche se ovviamente quella quadrangolare non può essere esclusa (Picard 1971; Guyon 2002). 64  cc, ii, 3. 65 Lo studio di sintesi del monaco-archeologo cassinese Angelo Pantoni (Pantoni 1987) riporta con esattezza tutti i riferimenti alle fonti (principalmente la Chronica Monasterii Casinensis) che forniscono i dettagli sulle iniziative edilizie degli abati cassinesi dell’viii e del ix secolo, rendendo quindi superflua la loro reiterazione in questa sede. 66  oc2, 9-19. 67 La chiesa sarebbe stata fatta costruire, intorno alla metà dell’viii secolo, da Scauniperga, moglie del duca di Benevento Gisulfo ii (cmc, i, 5). 68  tae, 9. 69  cscb, 4; cmc, i, 36. 70  cscb, 21. Il racconto della visita di Gisulfo è presente anche nella Cronaca del xii secolo (cmc, i, 5). 71  cmc, i, 12. 72 Il monastero di Santa Maria in Plumbariola, che costituiva in certo senso l’alter ego al femminile di Montecassino, era stato fondato poco dopo la metà dell’viii secolo dalla moglie del re longobardo Ratchis, che insieme alla propria figlia aveva seguito il marito sulla via della monacazione, dopo che quest’ultimo aveva abdicato in favore del fratello Astolfo. 73  cv, i: 220-221. 74  Si è accesa una lunga discussione sull’ipotesi che la grande chiesa fosse stata dotata di un atrio e di un accesso frontale già nel ix secolo. Gli archeologi inglesi insieme ai quali negli anni ’90 ho condotto le prime indagini sulla grande chiesa fatta costruire da Giosuè ritengono di sì e lo hanno recentemente ribadito (Hodges, Leppard, Mitchell 2012). Io che, fra il 2000 e il 2007, ho completato lo scavo dell’edificio e ho proseguito l’indagine delle aree ad esso circostanti (e quindi ho potuto disporre di dati ulteriori) ho dovuto invece modificare la mia opinione iniziale, che coincideva con quella dei colleghi inglesi (Hodges, Marazzi, Mitchell, Valente 1995) e rilevare che tale struttura è invece da datarsi al momento della ricostruzione della chiesa maggiore, alla fine del x secolo. Nel ix secolo, quindi, qualora l’ipotesi di edificare un atrio davanti alla chiesa fosse stata presa in considerazione, non fu però portata a compimento e la chiesa era sicuramente accessibile solo dall’ingresso sul lato nord, sebbene non possa essere esclusa anche la presenza di un’entrata sul fianco opposto, dove le indagini non si sono ancora interamente concluse (Marazzi 2006, 2008; Marazzi et al. 2002). Purtroppo, questa divergenza di opinioni ha creato una deplorevole confusione rispetto ad aspetti cruciali dell’identità architettonica del monastero vulturnense fra viii e xi secolo, che spero di dissipare definitivamente con la prossima edizione integrale dei dati delle più recenti campagne di scavo. 75  cv, i: 287.

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L’apogeo dei chiostri 76 Il

cronista dice che presso la chiesa del Salvatore (e precisamente «davanti ad essa») fu collocato un sarcofago per contenervi le spoglie dell’abate Ilario (cv, iii: 79), che poi, al momento della costruzione del nuovo monastero agli inizi del xii secolo, vennero nuovamente traslate in un (altro?) «grande sarcofago», forse situato all’interno della chiesa abbaziale che vi era stata appena innalzata, insieme a quelle dei predecessori Ambrogio Autperto e Giosuè (cv, i: 287). Se i resti corporei di Autperto provenivano sicuramente dalla chiesa di San Pietro, costruita nell’viii secolo e a lungo utilizzata come chiesa cimiteriale della comunità (cv, i: 162 e 335), non è certo se lì o presso la chiesa del Salvatore fossero stati inumati anche quelli di Giosuè, il cui originario luogo di sepoltura è però quasi certamente da escludersi che fosse stata la basilica maior intitolata a san Vincenzo, che egli aveva fatto costruire all’inizio del ix secolo (Marazzi 2014, cap. ii), poiché qui gli scavi non hanno rilevato tracce della presenza della sua tomba. 77  Sempre a protezione dei raid vichinghi, anche l’abbazia di Saint-Vaast presso Arras, nel Nord francese, fra 883 e 887, fu dotata di un recinto fortificato. L’insediamento monastico, sorto in età merovingia poco al di fuori della città romana di Nemetaucum-Artrebatum, comprendeva diverse chiese, oltre a quella in cui fu sepolto il santo eponimo, nonché una residenza regia, una foresteria e aree di mercato. L’abbazia finì per eclissare in età carolingia il sito della città antica, di fatto assumendone l’eredità e divenendo il nucleo poleogenetico dell’insediamento urbano bassomedievale (Vercauteren 1934: 188-191; Mériaux, Noizet 2013: 73-76). 78 L’ipotesi troverebbe conforto nel fatto che la struttura era alimentata da un acquedotto ad essa specificamente dedicato (Jacobsen, Wyss 1996; Wyss 2010). Relativamente al problema del rapporto, nella Francia del Nord, fra monasteri e residenze regie, si veda Renoux 2010. 79  dbd. 80  Si tratta delle chiese di Saint-Martin e Saint-Denis-de-l’Estrée, poste alla biforcazione fra la strada (Estrée, dal vocabolo latino strata) che proveniva da Parigi e la via che entrava nel recinto abbaziale attraverso la porta ovest; della chiesa di Saint-Marcel, situata lungo la via che, dipartendosi sempre dalla strata di Parigi, se ne distaccava però un po’ prima e raggiungeva il monastero attraverso la porta di sud-ovest; infine, della chiesa di Saint-Rémy, collocata sul lato opposto e cioè lungo la via che raggiungeva l’abbazia da est. 81 Vale ricordare che le lacune presenti nei testi di Angilberto sugli aspetti non inerenti le consuetudini liturgiche del monastero di Centula sono in parte colmate dal memoratorio del monaco Eirico, scritto negli anni ’30 del ix secolo. 82  cco, i. 83 Il termine vassallus può avere in questo periodo significati molto diversi e può tanto riferirsi a semplici servitori alle dirette dipendenze di un signore, anche di condizione personale non libera, quanto a persone di rango meno vile, legate al dominus da un giuramento di fedeltà personale, reclutate per svolgere funzioni anche di natura militare ed eventualmente ricompensate per il loro servizio tramite benefici di tipo stipendiario o patrimoniale. 84  cco, ii-viii. 85  cco, iii. È come se l’uso di questo termine costituisse un’eco della tendenza, maturata nello Stato tardoromano a partire dal v secolo, a trasferire agli enti ecclesiastici responsabilità crescenti nella gestione dei bisogni alimentari delle popolazioni (Durliat 1990), ma anche del fatto che questi medesimi enti, e quindi anche i monasteri, in età carolingia erano considerati in qualche modo parti integranti della compagine statale, come indica la cospicua legislazione emanata al riguardo delle materie che li concernevano. 86 Dall’Italia provengono, ad esempio, i polyptica dei monasteri di Bobbio e di Santa Giulia-San Salvatore di Brescia; dal Belgio quello di Lobbes; dalla Germania quello di Prüm; dalla Francia quello di San Vittore di Marsiglia, di Saint-Maur-des-Fossés, di Saint-Bertin e di Saint-Remi di Reims. Tutti questi documenti si datano all’interno del ix secolo. 87  cco, iv. 88  cco, v.

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Le città dei monaci 89 

bmw.

90 Nei

polittici dell’abbazia giunti sino a noi, datati rispettivamente agli anni 862 e 883, è mantenuta la distinzione fra i beni situati infra valle e quelli posti al di fuori di quest’area, sparsi fra Emilia, Liguria, Lombardia e Toscana; tutti insieme componevano un patrimonio immenso, ma, rispetto alla suddivisione delineata al tempo di Wala, nel documento più tardo si riscontra la variante che anche alcune proprietà poste in luoghi esterni alla valle del Trebbia contribuivano al victus del monastero, in quanto in grado di assicurargli produzioni specifiche, come ad esempio quelle ittiche (cui provvedevano le proprietà di Comacchio), che evidentemente non potevano aver luogo fra le montagne dell’Appennino (Castagnetti 1979). 91  Quest’ultimo può essere identificato con l’hortulanus, e cioè il giardiniere ricordato nel testo di Adalardo. 92  gaf, 16. 93  gaf, 17. 94 Duecento e otto piedi per ventisette per sessantaquattro equivalgono a poco più di sessantanove metri di lunghezza, per nove di larghezza per oltre ventuno di altezza. 95  Dalla lettura del testo non risulta chiaro se la torre di cui si parla si elevasse al di sopra del presbiterio della chiesa o svettasse sul corpo di fabbrica occidentale che Ansegiso aveva appena fatto innalzare. 96  vef, 22. 97 Nel monastero di Inden-Kornelimünster, presso Aquisgrana, dove Benedetto di Aniane si trasferì negli ultimi anni di vita per volere di Ludovico il Pio, il claustrum sembra essersi sviluppato secondo una planimetria simile a quella di Fontenelle e cioè su uno schema quadrilatero sui cui fianchi sorgevano edifici presumibilmente destinati a residenza dei monaci (Hugot 1968). Qui però si riscontra la significativa differenza del posizionamento di questa struttura di fronte alla chiesa e non alle sue spalle, cosa che ha spinto erroneamente alcuni studiosi a interpretarla come atrio della chiesa. 98  dmf: 29-30. 99  dmf: 30-31. 100 Il testo della Constructio (cmf) è datato tra la fine del ix e il xii secolo, e la critica più recente propende decisamente per questa datazione più tarda (Longo 2006); ma la notizia della costruzione dell’oratorio da esso riportata sarebbe presente anche in un manoscritto datato al ix secolo (Balzani 1903: 22). 101 Vedi ad esempio l’interessante “catalogo” redatto per la piccola abbazia svizzera di Pfäfers in Müller, Pfaff 1985. 102 Il tema del ruolo dei grandi monasteri nell’innesco della rinascita economica dell’Europa occidentale fra viii e ix secolo, soprattutto attraverso il loro coinvolgimento negli scambi commerciali a lunga distanza, è stato oggetto di numerosissimi approfondimenti. In particolare si veda: Lombard 1972; Citarella, Willard 1983; Devroey 1993; Settia 1993; Lebecq 1997: 67-78; Verhulst 2002; Marazzi 1996 e 2004; Bruand 2002; Mc Cormick 2008: 699-762; Augenti 2010: 55-106. 103 Recentissimamente questa struttura multipolare dell’insediamento monastico di età carolingia è stata constatata, attraverso l’esame contestuale di fonti scritte e dati archeologici, anche per l’abbazia di Corvey, in Westfalia (Untermann, i.c.s.). 104  cn, ii, 1. 105  cn, ii, 2. 106  Questo edificio possiede una sorta di avancorpo turrito, che sopravvive a tutt’oggi, per il quale è stato ipotizzato un uso residenziale simile a quello delle “torri” presenti nei monasteri orientali tardoantichi. Un uso simile è stato ipotizzato anche per una torre presente nell’area del monastero di Torba, appartenente alla cinta muraria di v-vi secolo che difendeva il soprastante insediamento di Castelseprio e che è stata riutilizzata dalla comunità monastica femminile che era insediata nell’area in epoca longobarda (Brogiolo-Gelichi 1996: 119-158). 107 L’insediamento più antico corrisponde attualmente a quello noto come Mittelzell, ossia ‘mo-

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L’apogeo dei chiostri nastero di mezzo’, poiché si trova in posizione intermedia fra quelli di Oberzell e Niederzell (vedi oltre). 108 Haito lascia la carica di abate di Reichenau nell’823, ma sopravvive ancora per tredici anni, morendo quindi più o meno contemporaneamente a Gozbert. Tuttavia, sembra abbastanza improbabile che, se il committente di questo documento fu effettivamente Haito, egli abbia potuto commissionarlo quando non ricopriva più la carica abbaziale ed era ritornato ad essere un semplice monaco, per di più versando in precarie condizioni di salute. 109 La bibliografia completa e aggiornata degli studi sulla Pianta di San Gallo, insieme a una serie di sussidi per la sua consultazione, è disponibile on-line nella sezione apposita del sito http://www. stgallplan.org/index.html. In presenza di questa risorsa, i rimandi bibliografici saranno qui limitati solo ai casi in cui saranno opportuni specifici richiami a singole ricerche. 110  È di recentissima apparizione un importante contributo di Hans Rudolf Sennhauser (2013), nel quale si discute la possibilità che la Pianta vada interpretata come un documento contenente due distinti livelli di lettura: il primo relativo alla disposizione planimetrica degli edifici, e il secondo riguardante gli appunti inerenti le misure dei medesimi, che lo studioso svizzero ritiene possa essere attribuito a una ‘revisione’ che il disegno avrebbe subito nella stessa San Gallo al momento della ricostruzione della chiesa abbaziale – sotto l’abate Gozbert – e che sembrerebbe avere rapporti diretti con l’edificio effettivamente realizzato. 111 Gisella Cantino Wataghin (2010: 97) definisce efficacemente la Pianta di San Gallo come un documento «esemplare del nesso fra riflessione teorica, intesa nel senso di elaborazione di un sistema organico di concetti, e prassi operativa». 112  dch, i-iii. 113  Sennhauser (2013) ritiene che, in realtà, all’interno del grande edificio basilicale fossero stati ricavati quattro spazi che egli considera delle vere e proprie ‘chiese’ autonome. Di queste, due erano riservate ai monaci e occupavano i due cori occidentale e orientale, erano imperniate sui due altari principali, dedicati rispettivamente a san Pietro e san Gallo. Le altre due, incentrate sugli altari della Croce e dei santi Giovanni Battista ed Evangelista, avrebbero occupato la parte centrale della navata principale e avrebbero costituito spazi aperti anche all’accesso dei laici, come dimostrerebbe la presenza del battistero all’interno di una di esse. L’ipotesi è ragionevole, ma, come si vedrà più avanti (pp. 303ss.), mi sembra difficile immaginare – data la ridotta capacità di ciascuno dei due spazi ecclesiastici centrali – che essi potessero fungere da luoghi in cui si svolgessero abitualmente riti cui i laici avessero libero accesso.

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Capitolo settimo Il “futuro” della Pianta di San Gallo: proiezioni sull’identità dello spazio monastico fra ix e xii secolo In senso morale, il chiostro rappresenta la contemplazione nella quale l’anima ripiega su se stessa, dove si nasconde dopo essersi separata dalla folla dei pensieri carnali e dove medita solo sui beni celesti. In questo chiostro ci sono quattro muri, che sono il disprezzo di sé, il disprezzo del mondo, l’amore del prossimo e l’amore di Dio (Rationale Divinorum Officiorum, i, 42-43) Où est la place du ‘peuple’ de la paroisse dans cette église, la place de ceux qui n’appartiennent ni au clergé ni au couvent? Il faut bein en convenir: cette place n’existait pas, il n’y avait pas de place pour les laïcs… Évidemment, il n’était pas prévu que les laïcs prennent part à la liturgie, et en effet les sources n’en disent rien (Haüssling 2002: 1741, a proposito della chiesa della Pianta di San Gallo)

La Pianta di San Gallo versus l’architettura dei monasteri della piena età carolingia I segni con cui sulla Pianta è tracciata la complessa articolazione interna della grande chiesa richiamano alla nostra memoria le descrizioni degli altari presenti nell’abbaziale di Centula offerte dall’Institutio di Angilberto e quelle dei percorsi processionali che intorno ad essi la comunità monastica svolgeva quasi quotidianamente. Quest’ultima era un edificio nel quale gli abitanti del mondo esterno potevano penetrare solo in rarissime occasioni e che celava il sepolcro di san Ricario come un talismano prezioso e segreto e non certo come una reliquia da offrire indiscriminatamente alla vista e alla devozione dei pellegrini. Alla luce di questo raffronto, è difficile immaginare anche la chiesa dell’ideale San Gallo come qualcosa di diverso da un edificio pensato innanzitutto per le esigenze della comunità monastica. È improbabile che si potesse consentire regolarmente l’accesso a folle di fedeli all’interno di uno spazio in cui le recinzioni che delimitavano i vari sacelli formavano con303

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tinui restringimenti, che avrebbero creato veri e propri imbuti per la circolazione. Essi invece erano perfettamente idonei al soddisfacimento delle esigenze cerimoniali e liturgiche dei monaci. Lo spazio, ampio e ben isolato, ricavato nell’area del presbiterio orientale, consentiva la recita delle preghiere quotidiane. La possibilità di allestire un doppio coro presso l’abside orientale avrebbe permesso performance canore suggestive, soprattutto in occasione delle festività più solenni, pari per magnificenza a quelle che Angilberto aveva voluto per la chiesa maggiore di Centula. Gli altari sussidiari, infine, oltre a garantire l’ideale collegamento mistico della comunità di San Gallo con i culti di maggiore rilevanza – tanto quelli di origine squisitamente monastica, quanto quelli di provenienza romana –, consentivano anche la possibilità di moltiplicare l’offerta di messe su commissione, rafforzando i legami del monastero con i propri referenti nel sæculum, i quali, con le proprie donazioni e l’offerta dei propri rampolli all’abbazia, le avrebbero garantito il perpetuarsi di un florido sviluppo. D’altra parte, la didascalia tracciata sulla Pianta di San Gallo in corrispondenza dell’ambiente posto alla destra del paradysus, che costituiva il vestibolo d’ingresso all’area destinata ad accogliere poveri e viandanti, chiarisce molto bene che non era la chiesa il primo luogo nel quale queste persone erano destinate ad essere ammesse: Di qui tutta la folla degli umili viene incanalata all’interno del monastero,

intendendo con ciò che a queste persone, una volta che avessero fatto ingresso nell’atrio, non era automaticamente consentito inoltrarsi nella chiesa. Come abbiamo visto avvenire già nei monasteri orientali della tarda antichità, esse erano sì accolte all’interno del monastero – in nome della carità che un monaco doveva offrire ai più deboli –, ma in uno spazio apposito che non avrebbe causato sgradevoli interferenze con la quiete intangibile dei luoghi in cui la comunità trascorreva il proprio tempo pregando Dio. L’edificio della chiesa era reso visitabile, pur se a certe condizioni, solo per coloro cui era accordata la qualifica di hospites del monastero: persone selezionate ed influenti, che vi giungevano accompagnate da seguiti di serventi e accoliti. Una didascalia tracciata nell’area del vestibolo che dal paradysus li avrebbe condotti verso i propri alloggi ricorda che, se lo avessero desiderato, essi avrebbero potuto accedere alla chiesa, purché lo avessero fatto quietamente2. Dobbiamo immaginare che si trattasse di gruppi ridotti di persone, alle quali si offriva lo stesso privilegio accordato agli alunni della schola interna al monastero, che peraltro si può immaginare appartenessero agli stessi ceti sociali da cui provenivano gli hospites. I testi che descrivono il trattamento riservato alle diverse categorie di persone esterne che potevano presentarsi alla soglia del monastero dicono dunque in modo ben chiaro quale fosse il livello di condivisione dei suoi spazi che i monaci erano disposti a offrire (De Jong 2000). 304

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Nella chiesa è però presente anche un battistero. Questo dato impone di porsi una domanda in più: esso era utilizzabile – magari in momenti specifici durante l’anno – da parte di persone di qualsiasi categoria sociale e magari anche da coloro che vivevano nei villaggi esistenti nei dintorni dell’abbazia? Oppure l’essere battezzati all’interno della chiesa di un importante monastero costituiva anch’esso un privilegio accordato solo a persone di rango assimilabile a quello degli hospites? È impossibile rispondere con certezza in base alle attuali conoscenze3. L’aula di culto era invece aperta per i religiosi di altri monasteri che fossero venuti in visita all’abbazia, per i quali era previsto un accesso privilegiato. Come abbiamo già visto, l’alloggio dei religiosi era posto infatti direttamente in comunicazione con il transetto nord e quindi, anche se a queste persone non era necessariamente consentito accomodarsi tra i monaci che sedevano nel coro principale, esse potevano comunque collocarsi in una posizione di notevole prossimità rispetto al cuore dell’edificio. Esaminata sotto questi aspetti, l’immaginaria chiesa raffigurata nella Pianta sembra tenere pienamente in considerazione tutte le esigenze e le problematiche, rispetto alle loro destinazioni d’uso, viste nei casi di edifici similari concretamente realizzati nelle diverse regioni dell’Europa carolingia4. Tuttavia, se si osserva la Pianta nel suo insieme, una differenza netta s’impone nel confronto tra l’ideale monastero che essa rappresenta e le realtà di quelli che abbiamo incontrato in precedenza, ed essa riguarda proprio il numero degli edifici con funzione di luogo di culto. Nella Pianta di San Gallo essi sono solo due: la chiesa maggiore e quella prevista ad uso dei novizi e dei malati (anche se suddivisa al suo interno in due aule autonome). Nell’abbazia di San Gallo ‘vera’, invece, come le fonti scritte e le indagini topografiche hanno rivelato, nel ix secolo ve n’erano molte di più, similmente a quanto abbiamo visto presso tutti i principali monasteri coevi. Indubbiamente, le dimensioni eccezionali previste per la chiesa raffigurata nella Pianta (comparabili solo a quelle delle chiese costruite a Fulda sotto Ratgar e da Angilberto a Centula) compensano la drastica contrazione del numero degli edifici di questo tipo; ma, se torniamo ancora una volta all’abbaziale di San Gallo effettivamente realizzata in età carolingia, noteremo che essa non era poi di molto più piccola. La costruzione di una chiesa maior di dimensioni cospicue non costituiva quindi necessariamente un’opzione alternativa alla presenza contemporanea di più chiese all’interno di un monastero, se usiamo questo termine nell’accezione dilatata che prende in considerazione tutto lo spazio che gravitava intorno al suo nucleo centrale. Un’altra discrasia che colpisce, confrontando la Pianta con gli altri monasteri carolingi, è quella che riguarda la posizione e le dimensioni del peristilio quadrato intorno al quale si dispongono tutti gli edifici – compresa la chiesa –, entro cui i monaci trascorrevano la maggior parte del proprio tempo. Purtroppo, sono veramente pochi i siti di questo periodo che abbiano restituito resti archeologici sicuramente riferibili a queste aree e ancora meno sono i casi in cui le fonti scritte for305

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niscono descrizioni abbastanza dettagliate da consentirci di capire come tali spazi fossero stati progettati; ma in base ai dati di cui disponiamo si può affermare che questa soluzione non era quella universalmente adottata nei monasteri sorti tra la fine dell’viii e gli inizi del ix secolo. A San Vincenzo al Volturno, ad esempio, troviamo sì un quadriportico intorno al quale gravitava una serie di edifici, ma le sue dimensioni erano più che doppie rispetto a quelle che troviamo nella Pianta di San Gallo ed era la funzione stessa di quest’area ad essere diversa, poiché nel monastero molisano non era previsto che vi si connettessero solo gli spazi riservati alla vita comunitaria dei monaci, bensì anche quelli destinati alle attività produttive. La chiesa, inoltre, non era direttamente accessibile da quest’area, ma la sua collocazione in una posizione leggermente defilata e a una quota superiore rispetto a quella dell’area racchiusa dai bracci porticati obbligò ad allestire complicati percorsi di raccordo perché la si potesse raggiungere. Piuttosto, la forma che tale spazio assume a San Vincenzo al Volturno richiama a prima vista quella osservata a Centula, di cui le vedute inserite nella Cronaca di Ariulfo ci restituiscono un’immagine. Ma le similitudini si fermano solo alla forma della sua planimetria, che in entrambi i casi assume un aspetto vagamente trapezoidale, e alla presenza delle ali porticate che la delimitano. A Centula, infatti, le longaniæ servivano in primo luogo a connettere fra loro tre chiese, cosa che a San Vincenzo non sembra essersi verificata, e l’area che esse racchiudono – quantunque assai estesa – avrebbe compreso solo spazi destinati alla clausura monastica. Altri casi ci mostrano però che in età carolingia sembra effettivamente aver preso corpo l’idea di raggruppare gli edifici principali destinati alla residenza della comunità monastica intorno a uno spazio di disimpegno di forma quadrata o rettangolare, ma esso non necessariamente si disponeva sempre a fianco della chiesa. A Fulda e a Farfa, ad esempio, l’area claustrale si sviluppava alle spalle dell’abside della chiesa maggiore, mentre a Fontenelle, pur se la sua posizione era probabilmente analoga, si scelse però di farvi affacciare anche altri edifici, come la biblioteca e l’archivio, che nella Pianta sono collocati altrove (Dey 2010: 313-316). Anche in altri due monasteri di piccole dimensioni, ma non secondari per importanza storica – quello tedesco di Inda-Kornelimünster, ultima dimora di Benedetto di Aniane, e quello di Sesto al Reghena, in Friuli –, fu adottata la soluzione del recinto a pianta quadrangolare. Apparentemente esso fu disposto in posizione esattamente speculare rispetto ai casi appena esaminati, e cioè di fronte alla chiesa. In queste due circostanze, quindi, per quanto la frammentarietà dei dati archeologici consente di comprendere, sarebbe stato il lato della facciata della chiesa ad essersi proiettato direttamente all’interno degli spazi claustrali (Hugot 1968; Menis 1999). In un altro cenobio svizzero, quello di Müstair (uno dei siti monastici meglio e più estensivamente scavati di tutta l’Europa altomedievale), situato nel cuore delle aree alpine dei Grigioni, troviamo uno schema ordinativo delle fabbriche claustrali che propone un’ulteriore variante. Questo monastero era sorto alla fine dell’viii 306

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secolo lungo un itinerario di strategica rilevanza nei collegamenti tra la Baviera e l’Italia e la sua fondazione sarebbe da collegarsi all’intervento diretto di Carlo Magno. Era di dimensioni abbastanza contenute e presentava una struttura compatta, a pianta rettangolare (110 × 60 metri di lato circa), allineata lungo assi perfettamente ortogonali su cui si dispongono i diversi edifici. I criteri progettuali che ne avrebbero ispirato la disposizione sembrerebbero quindi apparentemente affini a quelli su cui è impostata la Pianta di San Gallo, anche se tradotti a una scala notevolmente inferiore; ma, in realtà, la disposizione dei corpi di fabbrica è assai differente, pur se non priva di riferimenti concettuali comuni. L’accesso dall’esterno avveniva sul lato ovest e gli edifici erano disposti intorno a due aree aperte a pianta rettangolare, formando altrettanti e distinti blocchi architettonici. Il primo – di cui le indagini archeologiche hanno potuto esplorare solo il versante settentrionale – è stato interpretato come una sorta di area di servizio per la ricezione di merci, persone, animali e veicoli; gli edifici che si elevavano lungo i lati nord, ovest e sud della corte centrale erano presumibilmente utilizzati come magazzini, stalle e rimesse. Due ingressi che si aprivano nel suo lato occidentale permettevano di accedere a un secondo blocco di edifici, anch’esso imperniato su uno spazio aperto centrale che però, in questo caso, era cinto da portici. I resti di questi edifici hanno permesso agli archeologi di affermare che, su tutti e quattro i lati, essi originariamente si elevavano su due piani. Quest’area costituiva il cuore vero e proprio del monastero e vi trovavano posto gli spazi residenziali della comunità (lungo le ali sud ed est), una residenza per l’abate e gli ospiti di riguardo (sul lato nord) e una foresteria (sul lato ovest). La sovrabbondanza di spazi con funzione ricettiva troverebbe una sua ragion d’essere nella funzione di statio lungo l’itinerario transalpino che l’abbazia di Müstair era chiamata a svolgere, ivi compresa la possibilità di offrire ospitalità ai sovrani e al loro seguito (Sennahauser 2010b). L’unica chiesa presente nel monastero era collocata in corrispondenza dell’angolo nord-est del peristilio interno, e quindi rispetto ad esso in posizione leggermente defilata. Conservatasi in elevato, essa è un edificio basilicale suddiviso in tre navate, ciascuna terminante con un’abside, di dimensioni complessive abbastanza contenute: 25 × 20 metri), affiancato sui due lati lunghi da altrettante cappelle sussidiarie della stessa ampiezza delle navate secondarie e terminanti a loro volta con un’abside. La chiesa non aveva porte in facciata e quindi non era direttamente accessibile dai portici del cortile centrale; vi si poteva entrare solo dall’ala orientale degli edifici claustrali, il che ha fatto ritenere che proprio su questo lato – probabilmente al primo piano – dovesse collocarsi il dormitorio dei monaci. In sostanza, essa occupava il luogo più recondito di tutto il monastero e – come abbiamo già visto ad esempio nella Mittelzell di Reichenau – i diaframmi che la separavano dall’esterno erano ben più tangibili di quelli previsti per la grande chiesa della Pianta di San Gallo. Alle spalle dell’ala orientale degli edifici, raggiungibile attraverso un passaggio che si apriva circa a metà del portico interno, è stata individua-

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ta l’area cimiteriale del monastero, alla quale era connessa la cappella trichora della Santa Croce, articolata su due piani, che molto probabilmente fungeva da chiesa funeraria (Ruthishauser, Sennhauser, Sennhauser Girard 2003; Goll, Exner, Hirsch 2007: 11-82; Sennhauser 2008)5. La topografia degli edifici monastici di Müstair evidenzia quindi un’organizzazione e puntuali destinazioni funzionali che, al di là di assonanze generali, non coincidono pressoché in nulla con quelle viste nella Pianta di San Gallo. Un elemento di analogia – oltre a quello della disposizione ortogonale degli edifici e del loro raggruppamento in un plesso unitario e compatto – può però essere visto nel fatto che anche in questo caso non sia documentata la proliferazione di edifici di culto che caratterizzava all’epoca i monasteri più importanti. Lo schema planimetrico scelto dall’estensore della Pianta di San Gallo è attestato anche presso alcuni monasteri francesi rurali di piccole dimensioni – come Landevennec in Bretagna e Ganagobie in Provenza – e, probabilmente, anche in uno di maggiore importanza economica e culturale, sviluppatosi però in un’area fortemente prossima alle mura urbane, quale quello di San Germano ad Auxerre (Sapin 2000 e 2008; Gaillard, Sapin 2012). Ma esso troverebbe un riferimento di un certo rilievo nel caso, già incontrato, dell’abbazia di Lorsch, fondata nella media valle del Reno dal vescovo di Metz Crodegango, figura preminente nel dibattito accesosi nella prima età carolingia sulla conversione a stili di vita comunitari del clero secolare, assimilabili a quelli propri del mondo monastico. Nella fase più antica di questo insediamento, databile al terzo quarto dell’viii secolo, al tempo dell’abate Gundeland (fratello di Crodegango), la comunità avrebbe occupato il sito di una dimora rustica di età merovingia i cui edifici, a loro volta, si raggruppavano intorno ad un peristilio, alla maniera di una villa romana. I monaci avrebbero conservato questa disposizione degli edifici preesistenti, collocando su un lato del complesso una chiesa mononave con abside quadrata – molto simile quella della fase più antica della Mittelzell di Reichenau –, mentre gli altri due erano occupati da edifici in legno a pianta rettangolare allungata, identificati dagli archeologi come il dormitorio e la dispensa. Questo schema planimetrico sarebbe stato replicato dai monaci di Lorsch anche quando la comunità, qualche decennio più tardi, si spostò in un sito limitrofo, ricostruendo il monastero in pietra e con forme assai più monumentali, com’è testimoniato dalla presenza della Torhalle di cui si è parlato in precedenza (Behn 1934; Pörtner 1967: 401-426; Heitz 1980: 43-48). In realtà, le tracce archeo­ logiche evidenziate dagli scavi di Lorsch, data anche l’epoca del loro rinvenimento, non sono totalmente affidabili, ma è indubbio che anche altri ritrovamenti, come quelli effettuati – sempre in Germania – nel monastero sorto alla fine dell’viii secolo sull’isola del lago bavarese di Chiemsee, e in quello (della metà del ix secolo) di Freckenhorst, in Westfalia, indicano che, pur con diverse varianti, la soluzione della disposizione degli edifici claustrali intorno a un’area aperta quadrata o rettangolare, posta su un fianco della chiesa principale, fu tra le opzioni adottate nella progettazione di diversi monasteri, soprattutto di dimensioni piccole e medie 308

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(Dannheimer 1991 e 2010; Lobbedey 1996: 98-99)6. E la sovrapposizione quasi puntuale di un insediamento monastico risalente agli inizi dell’viii secolo sulla struttura di una villa rustica di età romana, articolata intorno a un peristilio centrale, sarebbe stata riscontrata a Pfälzel, sito indagato nei dintorni di Treviri (Krüger 2008: 13). Le riflessioni che abbiamo sin qui condotto ci spingono inevitabilmente a tentare qualche considerazione d’insieme sulle idee che possono aver ispirato l’ideatore di questo singolarissimo documento che denominiamo Pianta di San Gallo. Si sa da dove essa provenisse, ma anche pressappoco quando fosse stata spedita all’abate Gozbert. È stato oggetto di infinite speculazioni il perché proprio lui ne fosse stato il destinatario e quale fosse stato il vero intento di tale invio, che avvenne sicuramente in una fase di intense e ambiziose ricostruzioni che l’abate di San Gallo aveva intrapreso e che culminarono nell’edificazione di una delle più grandi chiese monastiche della cristianità occidentale. Ci si è domandato se l’esemplare che sopravvive nella biblioteca del monastero svizzero possa essere stato un unicum nel suo genere, ovvero se nell’Europa del tempo circolassero altri documenti identici o simili ad esso. Infine, si è inevitabilmente posto agli studiosi l’interrogativo se sia o meno legittimo collegare la Pianta al dibattito che aveva vivacemente animato il mondo monastico nei primi due decenni del ix secolo e che era culminato nelle iniziative promosse dalla monarchia carolingia e da Benedetto di Aniane, in direzione di una ‘normalizzazione’ (uso il termine nel suo senso più letterale) delle sue multiformi identità spirituali e modalità organizzative. Per cercare di dare una risposta sensata, si dovrebbe partire da ciò che la Pianta comunica in modo più evidente e immediato. Lasciando per un attimo da parte le riflessioni sull’effettiva realizzabilità del suo schema progettuale e dando quindi per acquisito che essa non sia da intendersi come un progetto esecutivo, è tuttavia evidente che la Pianta si propone l’obiettivo di rappresentare un monastero completo in tutte le sue parti, perfettamente idoneo a soddisfare tutte le esigenze dell’immaginaria comunità che lo avrebbe dovuto abitare e in grado di sintonizzarsi anche su quelle del contesto economico e sociale del suo tempo. Essa, ad esempio, tiene ben presenti le raccomandazioni generali che Benedetto da Norcia aveva espresso sulla necessità che nei monasteri fossero presenti persone abili nei lavori artigianali e che tali attività si svolgessero all’interno del suo perimetro7. Ma è chiaro che il loro dettato s’inserisce in un contesto storico e culturale, come quello carolingio, in cui ci si aspettava che un monastero fosse non solo perfettamente funzionale, ma anche splendido e quindi fornito di oggetti di pregio destinati a comporre un’adeguata dotazione di vasellame liturgico, di contenitori delle sacre reliquie e di arredo per la chiesa. Ecco quindi la presenza degli aurifices, che possiamo immaginare impegnati a lavorare anche per la realizzazione di oggetti da recare in dono a persone con cui l’abate riteneva opportuno mantenere rapporti di amicizia e alle quali potevano essere destinati anche i prodotti del lavoro degli scutarii e degli altri artigiani impegnati nella fabbricazione di armi.

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Analogamente, la Pianta rispetta sì il precetto benedettino dell’accoglienza degli ospiti8, dedicando a tal scopo ampi spazi, ma lo declina in un modo che rifletta sia il radicale classismo della società altomedievale, sia il fatto che i monasteri più importanti costituivano a pieno titolo elementi della sua componente aristocratica. A coloro che si presentavano alle porte dell’abbazia si proponevano infatti sistemazioni molto diverse a seconda dell’appartenenza sociale. Agli ospiti di maggior riguardo era riservata una domus equipaggiata in modo confortevole ed erano predisposti spazi adeguati per il seguito che li accompagnava, mentre le strutture messe a disposizione per i pellegrini e i poveri erano organizzate sì con razionalità, ma entro una cornice assai più spartana. Inoltre, l’alloggio degli ospiti illustri era situato a poca distanza da quello dell’abate, che a sua volta riflette lo status sociale che a quella carica si attribuiva. Benedetto di Norcia conferiva al capo della comunità poteri di governo pressoché assoluti e prevedeva che a lui fosse riconosciuta la possibilità di avere una mensa riservata in modo da poter ricevere gli ospiti ammessi nel monastero, senza però che queste presenze interferissero con il regolare svolgimento della vita della comunità9. Ma nella Pianta per l’abate era prevista una domus a due piani, accanto alla quale si trovava anche un alloggio per la servitù che si occupava specificamente della sua persona. Della dimora dell’abate sono tratteggiati dettagli architettonici – come il portico al piano terreno – che la fanno apparire come l’edificio profano meglio rifinito di tutto il monastero, dotato di tutti i comfort, tra cui un piccolo balneum privato posto in una struttura annessa. In buona sostanza, era considerato normale che il capo di una grande abbazia conducesse uno stile di vita, se non proprio sfarzoso, quanto meno più che decoroso e assimilabile sicuramente a quello di un aristocratico laico del tempo. Tutti questi dettagli ci dicono che lo schema progettuale sottoposto all’attenzione dell’abate Gozbert parlava un linguaggio concreto e proponeva soluzioni non in contrasto con la sensibilità e le esigenze di un personaggio del suo livello culturale e sociale. Queste constatazioni ci permettono di formulare qualche ipotesi anche su un altro aspetto che si è evidenziato in precedenza, e cioè quello della scelta di prevedere la presenza di un unico, grande edificio di culto e del collegamento ad esso dell’area residenziale della comunità, i cui spazi sono articolati intorno a un peristilio centrale. A fronte delle molteplici opzioni offerte dal panorama coevo, quella adottata nella Pianta sembra riflettere una linea di pensiero e una presa di posizione ben precise che, se non possono essere considerate stricto sensu un’emanazione delle discussioni avvenute nel corso dei sinodi di Aquisgrana (i cui documenti ufficiali nulla dicono su quale dovesse essere l’aspetto fisico di un monastero), ne riverberano tuttavia sicuramente le riflessioni relative al rigore al quale la vita monastica si sarebbe dovuta attenere. Per essere più chiari, la Pianta sembra dirci che, se nella costruzione di un grande monastero non sarebbe stato opportuno rinunciare a tradurne il prestigio spirituale nella monumentalità architettonica dei suoi edifi310

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ci, si poteva però adottare quanto meno la soluzione di limitare il moltiplicarsi delle chiese, che, fra tutte, erano sicuramente le costruzioni più costose. Un’unica grande chiesa, articolata al proprio interno in più foci devozionali, avrebbe potuto benissimo soddisfare l’esigenza di ospitare una varietà di culti sufficiente a garantire ai monaci un’adeguata forza alla preghiera da essi rivolta a Dio. Lo spazio interno della chiesa raffigurata nella Pianta – pur con tutte le differenze architettoniche che i due edifici presentano – appare assimilabile a quello immaginato da Angilberto per l’ecclesia maior di Centula; ma, al contrario di quanto avvenuto in quest’ultima, nella Pianta non è prevista la presenza di altre chiese, cosa che proiettava l’estensione complessiva del monastero francese su una scala enorme. Analogamente, anche la scelta di compattare l’area claustrale vera e propria accanto alla chiesa parla il linguaggio della razionalizzazione spaziale, consentendo di ottenere anche il risultato del suo isolamento complessivo dall’esterno. L’impressione generale è che la Pianta possa aver costituito un cortese suggerimento rivolto a Gozbert affinché egli riflettesse sulla possibilità di non rinunciare a costruire un monastero in grado di far bella figura di fronte a quelli più importanti del suo tempo, tenendo però presenti sin dall’inizio e con esattezza gli obiettivi da perseguire ed evitando così di aprire un cantiere interminabile e smisurato. Se un’interpretazione del genere è ammissibile, la sua ragion d’essere doveva trovarsi all’interno di una serie di riferimenti chiari sia a chi la Pianta l’aveva redatta, sia a chi l’aveva ricevuta. Ed essi potevano comprendere tanto un’eventuale, garbato confronto tra la forma ‘leggera’ assunta dal monastero di Reichenau nel primo quarto del ix secolo e l’idea che Gozbert poteva aver maturato di costruire invece un cenobio grandioso (il che rafforzerebbe l’ipotesi che il mittente sia stato veramente Haito); quanto il tenere in considerazione vicende come quella che aveva travolto Ratgar a Fulda qualche anno prima; quanto ancora trovare un punto d’incontro fra gli atteggiamenti rigoristi di coloro che ad Aquisgrana avevano voluto essere ‘più benedettini’ di Benedetto, emendandone la Regula in senso restrittivo, e gli abati che avevano impiantato nei loro monasteri i cantieri più grandiosi del loro tempo, investendovi somme immani e giocandosi sul loro positivo compimento il proprio prestigio terreno10. A fronte della posizione assunta da Horn e Born (e ripresa in tempi più recenti da Anselme Davril ed Eric Palazzo), che interpretavano la Pianta come un documento paradigmatico della concezione dello spazio monastico elaborata in età carolingia, negli ultimi decenni si è affermata una tendenza a interpretarla non come espressione diretta del dibattito che avrebbe avuto il proprio momento clou nei sinodi dell’816-817, ma piuttosto come il risultato di una conversatio privata fra il suo mittente (Haito) e il suo destinatario (Gozbert): la presenza in più punti di tracce di ripensamenti e correzioni costituirebbe in certo senso l’evidenza di questa discussione sviluppatasi intorno alla sua composizione (ad es. Zettler 1990; Jacobsen 1992, passim; Sullivan 1998; McClendon 2005: 165-170; Davril, Palazzo 2002: 200-205; Caillet 2009: 78-82; Constable 2009). Questa ipotesi riduttiva del 311

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valore della Pianta può essere condivisa senz’altro in senso letterale, visto che non vi è prova che la sua stesura abbia effettivamente proceduto dai deliberati dei sinodi di Aquisgrana o da altri documenti ufficiali dell’età carolingia, ma a farle da contrappeso vi sono però alcune considerazioni suggerite dal buon senso. Dai “monasteri” dell’alto Medioevo al “monastero” del pieno Medioevo: la nascita di un modello prevalente di pianificazione degli insediamenti monastici?

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È un fatto inoppugnabile che, a partire dal x secolo, la planimetria della parte centrale dei cenobi occidentali assuma un formato standard che rimarrà sostanzialmente invariato sino a tutto il pieno Medioevo, includendo anche le abbazie che furono espressione della straordinaria fioritura dell’Ordine Cisterciense, avvenuta fra xii e xiii secolo (vedi Untermann 1996; Brenk 2000 e la discussione svolta da più autori in Klein 2004). Anche l’osservatore più distratto può verificare che tale standard – sia pure con varianti di dettaglio – riprende in modo quasi puntuale quello delineato nella Pianta di San Gallo, incentrato sul plesso costituito da una chiesa affiancata da un peristilio intorno al quale si distribuiscono i locali della vita comunitaria. L’identificazione di questo schema planimetrico con gli spazi della clausura monastica è divenuta così profonda, che in tutte le maggiori lingue europee occidentali l’equivalente della parola latina claustrum può designare non solo il monastero nel suo insieme, ma anche e soprattutto l’area aperta e circondata da portici che di esso costituisce il cuore (Krüger 2008: 52-53)11. Constatare ciò non significa dire che la Pianta in sé e per sé abbia costituito il modello dei complessi monastici dei secoli successivi, bensì solo affermare che le idee che essa propugna in merito all’organizzazione del loro spazio centrale non possono essere confinate entro il ristretto circolo delle conversazioni intercorse fra due abati (sia pur illustri) dell’inizio del ix secolo, ma devono necessariamente essere considerate il riflesso di discussioni di portata più vasta in atto nel mondo monastico dell’epoca, delle quali però non sono rimaste tracce sufficientemente evidenti da permetterci di capirne pienamente l’ampiezza. Il dibattito sul valore paradigmatico della Pianta ricorda un po’ quello divampato intorno al ruolo preminente assunto, sempre in età carolingia, dalla Regula di Benedetto da Norcia. Nessuno oggi affermerebbe più in modo categorico che questo testo sia divenuto allora l’unico e solo riferimento per l’organizzazione della vita monastica europea, ma è indubbio che le riflessioni che intorno ad esso si svilupparono gli conferirono una rilevanza che, a partire dal secolo successivo, avrebbe prodotto il risultato di renderlo dominante rispetto ai molti altri della stessa natura che si erano stratificati nei secoli. Non dissimilmente, si può pensare che una certa idea dello spazio monastico che la Pianta riecheggia possa essere stata oggetto di discussioni che, nella lunga durata, portarono a preferirla per la sua raziona312

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lità ad altre soluzioni emerse fra le numerose sperimentazioni che l’architettura monastica aveva conosciuto a partire dalla tarda antichità e che avevano trovato nelle opportunità economiche, politiche e culturali dell’età carolingia terreno fertile per potersi esprimere attraverso sperimentazioni tra loro molto diverse. Altrettanta puntuale corrispondenza fra il modello della Pianta e le realizzazioni di epoca successiva non può essere invece riscontrata nella disposizione degli altri edifici che costituiscono il compound monastico. Anche per spiegare questa discrasia può però venire in soccorso il buon senso. Da questo punto di vista, infatti, la Pianta più che indicare uno schema riproducibile alla lettera suggerisce delle idee guida, la cui applicazione peraltro si riscontra abbastanza chiaramente nella maggioranza degli insediamenti per i quali l’archeologia o le fonti scritte forniscono indicazioni sufficientemente dettagliate. Mi riferisco alla distinzione dei diversi settori funzionali, alla creazione di snodi che permettano il loro reciproco intersecarsi – soprattutto in rapporto all’area in cui vivevano i monaci – causando le minori interferenze possibili, ma anche al tema della gestione dell’inevitabile intrusione dei secolari negli spazi sacri e profani che componevano il claustrum nel suo insieme. Se sotto diversi profili – almeno per quanto la nostra imperfetta prospettiva ci permette di capire – la Pianta di San Gallo affianca e quasi sembra anticipare tendenze e soluzioni che l’architettura monastica dell’Europa occidentale adotterà nel corso dell’età carolingia e anche oltre, vi è invece un aspetto in cui essa si dimostra abbastanza conservatrice e che invece, soprattutto nelle chiese d’Oltralpe, sarà sviluppato successivamente in modo piuttosto creativo. Mi riferisco al problema della distribuzione dei luoghi dedicati alla devozione, che, come abbiamo visto in diverse circostanze, produsse gli esiti – in genere concomitanti – della costruzione di più chiese nell’ambito di uno stesso monastero e della moltiplicazione degli altari all’interno della sua ecclesia maior. Non considerando le due aule destinate ai malati e ai novizi, che possiamo ritenere quasi delle cappelle di servizio, nella Pianta l’unico luogo deputato alla preghiera monastica era rappresentato dalla grande chiesa. Per consentire che al suo interno potesse trovare spazio una devozione indirizzata a Dio tramite la mediazione di Cristo, della Sua passione e dei testimoni della Sua parola, fu adottata la soluzione di moltiplicare gli altari, distribuendoli nelle diverse parti dell’edificio: dai due presbiteri alle navate, ai transetti. Il risultato – simile forse a quello conseguito da Angilberto nella chiesa di Centula – fu quello di frazionare il vasto volume dell’edificio, formandovi tante piccole cappelle, distinte e quasi autonome fra loro e probabilmente destinate ad essere percepite come un’unità mediante i percorsi che una liturgia di tipo stazionale instaurava fra ciascuna di esse. Nella chiesa era presente anche una cripta, che sulla Pianta appare disegnata come una variante della cosiddetta cripta anulare, tipologia comparsa a Roma alla fine del vi secolo, rilanciata dai papi nel corso dell’viii (con la costruzione di quella della chiesa di San Crisogono in Trastevere: Luciani, Settecasi 1996), in seguito all’avvio delle traslazioni intra mœnia delle ossa dei martiri originariamente sepol313

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te nei cimiteri extraurbani e di qui diffusasi nel resto d’Italia e in tutta Europa (Binding 1991; Guidobaldi 1994; Bozzoni, Carbonara 2002; Sapin 2009; Goodson 2010: 129-136). Mi sembra corretto definirla come una variante della cripta anulare vera e propria, perché è tracciata come una struttura ad ‘U’, costituita da due bracci rettilinei che, tramite altrettante rampe di scale, si dipartivano dal termine delle navate laterali per poi connettersi a 90° con un altro braccio che percorreva il sottosuolo del presbiterio nel senso della sua larghezza, per infine diramarsi in un corridoio cieco che conduceva al di sotto dell’altar maggiore, dove erano tumulare le spoglie di Gallo. La cripta anulare vera e propria, invece, normalmente si caratterizzava per la presenza di un corridoio curvilineo accessibile dalle navate laterali – come nella Pianta – che segue la curva dell’abside e che, in virtù di tale peculiare andamento, dà nome a questo tipo di struttura. La cripta dell’immaginaria chiesa di San Gallo era dunque un dispositivo molto semplice – apparentemente riprodotto in modo quasi identico nella basilica effettivamente fatta realizzare dall’abate Gozbert (Sennhauser 2001) – che aveva la sola funzione di consentire l’accesso al luogo in cui erano deposte le spoglie del fondatore. Agli spazi delle cripte fu tuttavia ben presto riconosciuto il ruolo di rappresentare qualcosa di più che un semplice mezzo di avvicinamento a una sepoltura venerata. Nel corso del ix secolo, infatti, ai percorsi di accesso e di transito al loro interno furono aggiunti ambienti per lo stazionamento in preghiera di piccoli gruppi di fedeli; e così all’unico focus devozionale che vi era inizialmente stato predisposto ne furono associati altri, dedicati alla memoria di santi di cui si era riusciti ad acquisire le reliquie. Precoci esempi di questo tipo di sviluppo si hanno in alcune chiese di Roma, come San Marco e Santa Prassede, nelle cui cripte, costruite fra l’820 e l’840, l’ambulacro longitudinale che conduceva sotto all’altar maggiore terminava in una vera e propria camara, all’interno della quale trovavano posto più punti di devozione. Nella cripta anulare costruita sotto l’abside principale della basilica maior di San Vincenzo al Volturno, una delle meglio conservate in Europa, l’ambulacro centrale termina in una stanza a pianta cruciforme. All’interno di quest’ultima, oltre allo spazio sotto la fenestella confessionis, ove presumibilmente era collocato un sarcofago contenente le reliquie del santo eponimo, furono ricavate anche altre quattro nicchie, affrontate a coppie, nelle pareti dei suoi bracci orizzontali. Le due poste accanto allo spazio centrale si levavano a circa m 1,30 dal pavimento ed erano decorate da figure a mezzobusto di santi martiri; davanti a ciascuna di esse era stato costruito anche un piccolo altare in muratura, all’interno del quale erano state probabilmente collocate delle reliquie. Quelle situate di fronte, sul lato opposto dell’ambiente, erano più spaziose e il loro piano si trovava poche decine di centimetri al di sopra del livello pavimentale; ognuna era decorata con il ritratto a mezzobusto di una figura in abito monastico, identificata in un caso con l’abate costruttore della basilica – Giosuè – e nell’altro con il suo successore, Talarico. All’interno di una di queste due ultime nicchie durante lo scavo sono stati trovati i resti di un’elegante urna marmorea di età imperiale, cer314

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tamente anch’essa destinata ad ospitare resti od oggetti venerati. Oltre a queste quattro, altre due nicchie erano state costruite nel corridoio anulare, immediatamente accanto alle rampe che immettevano nella cripta provenendo dalle navate laterali della chiesa; anch’esse erano state decorate con figure umane a mezzobusto, quantunque lo stato precario di conservazione delle pitture non consenta di precisarne esattamente il soggetto (Mitchell, Hodges 1996; Marazzi 2006b: 126129; Goodson 2008). La cripta della basilica maior vulturnense fu chiaramente concepita come un luogo destinato ad ospitare diversi resti corporei venerati e la sua camera centrale poteva anche consentire ad un piccolo gruppo di persone di stazionarvi per pregare. In verità, oltre a quella anulare, l’architettura del tardo viii secolo aveva sperimentato anche un altro tipo di cripta avente la medesima destinazione di luogo di conservazione e venerazione delle reliquie: si tratta di quella detta ‘a corridoio’, consistente in una sorta di piccola sala posta sotto il presbiterio, eventualmente divisa in tre brevi navate da colonnati che ne ripartivano lo spazio. Questo apprestamento è ben rappresentato dalla cripta costruita al di sotto del presbiterio del San Salvatore di Brescia (e che dunque si daterebbe al terzo quarto dell’viii secolo), e che trova confronti presso altre chiese della Langobardia settentrionale (Brogiolo, Ibsen, Gheroldi 2008). Tale genere di annesso sotterraneo, sebbene meno flessibile rispetto alla cripta anulare, presentava però il vantaggio di offrire al proprio interno maggior respiro e di consentire la possibilità di collocarvi con più facilità altari, urne e sarcofagi destinati a conservare le spoglie venerate. Ambedue i tipi di cripta – quella anulare e quella a corridoio – erano però condizionati dai rigidi confini costituiti dal muro perimetrale dell’abside e dallo spazio del presbiterio soprastante; non consentivano quindi ulteriori moltiplicazioni dei foci devozionali e, soprattutto, permettevano con molta difficoltà che presso ciascuno di essi si potesse ricavare uno spazio sufficientemente agevole, anche se piccolo, dove ci si potesse raccogliere in preghiera. Per questo motivo, nelle chiese monastiche del pieno e tardo ix secolo, principalmente nelle aree transalpine, furono sperimentati nuovi tipi di spazi ipogei con la finalità di espandere quelli offerti dalle due tipologie originarie – entrambe di origine indiscutibilmente italiana –, facendoli estendere oltre i confini dell’edificio soprastante. In qualche caso meno frequente, gli ambienti ipogei si diramano al di sotto dell’area delle navate, come è stato riscontrato ad esempio nella chiesa dell’abbazia di Eginardo a Steinbach e in quella di San Medardo a Soissons, ambedue databili al secondo quarto del ix secolo (Ludwig, Müller, Widdra Spiß 1996; Defente 1996: 312-323)12. Essi vanno a comporre delle vere e proprie chiese sussidiarie, all’interno delle quali sono ricavati cappelle e sacelli dedicati a singoli culti, permettendo così che ad essi fosse tributata un’adeguata venerazione anche mediante la celebrazione di messe, ovviamente in un’atmosfera più intima e riservata di quella possibile nella chiesa superiore (Davril, Palazzo 2002: 220-231; Sennhauser 2013: 534-541).

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Ai primi esperimenti, databili entro la prima metà del ix secolo (come quelli delle cappelle post absidam elevate alle spalle delle abbaziali di Saint-Denis – la cosiddetta cappella di Ilduino –, di Saint-Philibert-de-Grandlieu, di Werden e della prima fase della chiesa di Corvey), seguì fra gli anni ’50 e ’80 la costruzione di cappelle multiple a pianta basilicale, cruciforme o circolare, connesse fra loro da ambulacri e vestiboli, quali quelli identificati presso le chiese dei monasteri di Flavigny e Halbertstadt (Heitz 1980: 131-182; Barral i Altet 1997: 163-173; McClendon 2005: 174-183; Sapin i.c.s.). Le impeccabili analisi archeologiche condotte presso siti come Saint-Germain ad Auxerre e l’abbaziale di Corvey hanno dimostrato che le edificazioni di questi elaborati sacelli semi-ipogei avvennero per fasi successive, cosa che talora ne ha reso complessa l’esatta lettura architettonica (Sapin 2000: 181-302; Lobbedey 1977 e 1999). Nella chiesa della grande abbazia tedesca lo sviluppo delle strutture della cripta, avviato negli anni ’70 del ix secolo, si associò all’ingrandimento complessivo della chiesa e alla costruzione del suo monumentale avancorpo occidentale (Knapp 2008: 33-36; Lobbedey 2009). In questa stessa fase, nella chiesa di Corvey avvenne anche una riorganizzazione della disposizione degli altari al suo interno; essi furono distribuiti fra coro, navate e transetti nella maniera già vista a Centula e nella Pianta di San Gallo, cosa che impone prudenza nell’affermare troppo categoricamente che l’espansione degli spazi di culto nelle cripte avvenisse necessariamente a detrimento dell’utilizzo di quelli distribuiti all’interno dell’aula di culto vera e propria (Krüger 1977). Tuttavia, lo sviluppo di queste nuove soluzioni nell’organizzazione architettonica delle cripte induce a credere che delle riflessioni fossero in corso sull’utilizzo degli spazi delle chiese soprastanti. In effetti, se guardiamo a come l’architettura delle chiese monastiche evolve fra x e xi secolo, noteremo la tendenza a svilupparne in diversi modi la zona absidale, con l’ampliamento in profondità del coro/presbiterio e con la distribuzione intorno alla sua curva di corone di cappelle sussidiarie collegate fra loro da un deambulatorio. Talora questo processo comporta anche l’aggiunta di un secondo transetto, dotato a sua volta di cappelle. Questi mutamenti avrebbero consentito una razionalizzazione dello spazio della chiesa, che si sarebbe trovato diviso in tre parti fisicamente riunite all’interno dello stesso contenitore, ma funzionalmente indipendenti tra loro: le navate, destinate ad accogliere l’ecclesia dei fedeli; il coro, in cui i monaci potevano isolarsi per pregare; il deambulatorio, che, accessibile dalle navate laterali della chiesa, permetteva di raggiungere le cappelle che s’irradiano intorno all’abside, passando alle spalle del coro, e quindi di visitarne gli altari ed eventualmente assistere alle messe private celebrate presso di essi (Piva 2010). I complessi sforzi che le piante dei monasteri carolingi esprimono per incanalare verso chiese diverse i differenti utenti del servizio sacro, lasciando intonso per la sola frequentazione monastica lo spazio della chiesa principale, si risolvono nel ripensamento dell’organizzazione spaziale di quest’ultima, che diviene un edificio pienamente multifunzionale. 316

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In un articolo scritto negli anni ’50, lo storico dell’arte medievale Jean Hubert affermava che le mutazioni dell’architettura delle chiese monastiche fossero da collegarsi al fatto che lo spazio di questi edifici dovette progressivamente adeguarsi all’esigenza di gestire in un modo che potremmo definire più ‘flessibile’ il rapporto con il mondo esterno, e ciò in ragione di due fattori: il mondo monastico venne coinvolto più frequentemente che in passato in attività di tipo pastorale e avrebbe quindi maturato una maggiore disponibilità a rendere le proprie chiese aperte al pellegrinaggio, non dimenticando, al contempo, che ai fratelli in preghiera dovevano comunque essere garantiti spazio e tranquillità sufficienti per poter adempiere il proprio ufficio quotidiano (Hubert 1977)13. Come ogni sintesi basata su conoscenze profonde della materia trattata, anche quella di Hubert trova puntuale riscontro in molte evidenze offerte dal patrimonio architettonico delle chiese europee sorte o ristrutturate dal tardo x secolo in poi. Anche in una terra, come l’Italia meridionale, che risulta nettamente meno permeabile alle sperimentazioni architettoniche che caratterizzano l’edilizia ecclesiastica d’Oltralpe fra età carolingia e ottoniana, le ristrutturazioni avvenute nel monastero di San Vincenzo al Volturno nei decenni a cavallo fra il x e l’xi secolo rivelano che esse furono anche conseguenza di un ripensamento, nella direzione immaginata da Hubert, delle funzioni assegnate alla grande chiesa fatta costruire dall’abate Giosuè agli inizi del ix. Il monastero si restrinse intorno a questo edificio, apparentemente abbandonando buona parte del grande complesso costruito in età carolingia. Sul lato sud della chiesa fu edificato un peristilio a pianta quadrata, sui cui lati andarono a concentrarsi i principali spazi comunitari. Davanti alla chiesa si costruì un ampio atrio circondato da un quadriportico, i bracci del quale furono parzialmente utilizzati con funzioni funerarie. Esso era reso accessibile dal lato est tramite una rampa monumentale che permetteva di salire alla chiesa da una grande area aperta posta di fronte ad essa, probabilmente delimitata in direzione del fiume da una sorta di propileo porticato. Negli anni ’10 dell’xi secolo il braccio del quadriportico a ridosso della facciata fu reso più monumentale con la costruzione di un’alta torre campanaria addossata all’ingresso, affiancata da due torri più basse in corrispondenza delle navate laterali. All’interno, la basilica fu divisa in due parti da una transenna in muratura, posta poco oltre la metà della sua lunghezza: si andava così a distinguere un’area riservata ai monaci, in direzione del presbiterio e delle absidi, da quella in direzione della facciata, aperta ai fedeli che provenivano dall’esterno (Marazzi 2006 e 2008). Questi mutamenti rivelati dagli scavi archeologici hanno evidenziato diverse cose. Innanzitutto, la comunità monastica vulturnense, che allora era divisa tra l’antica sede presso le fonti del fiume Volturno e una nuova, sorta a Capua dopo la distruzione patita dal monastero a opera degli Arabi nell’881 (Marazzi 2007c e 2011), non aveva più le risorse per mantenere l’immenso complesso sviluppatosi in età carolingia: esso andava perciò riadattato alle esigenze e alle possibilità di una comunità più piccola e meno ricca. In secondo luogo, il rapporto fra il monastero e il territorio che lo circondava era

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mutato nel senso di una sua maggiore intensificazione: in quest’area i monaci avevano fondato numerosi villaggi, sui quali avevano stabilito un controllo di carattere signorile, ma che si esprimeva anche in campo spirituale, dato che gli abati vi esercitavano de facto la giurisdizione episcopale (Del Treppo 1968; Sennis 1996). Infine, l’elevazione del triturrium davanti alla facciata assunse il significato, nel contesto italiano al quale questo elemento architettonico – tipico dell’architettura chiesastica franco-tedesca – era totalmente estraneo, di una dichiarazione di adesione politico-ideologica al progetto di rilancio della presenza imperiale nel Sud Italia perseguito dai sovrani della casa di Sassonia. Per questo motivo, la sua diffusione nel Centro e nel Sud dell’Italia si riscontra anche nell’area d’influenza delle altre grandi abbazie (Montecassino, Farfa e Subiaco), che, come San Vincenzo, in questo periodo intesero riaffermare la loro appartenenza all’entourage delle abbazie sottoposte direttamente alla protezione imperiale, che nel periodo carolingio aveva assicurato loro successo e ricchezza (Betti 1999; D’Onofrio 2005; Enckell Julliard 2008: 50-57). In realtà, non solo nelle regioni italo-meridionali, ma un po’ in tutta l’Europa occidentale, intorno al Mille il problema principale dei grandi monasteri fioriti nel ix secolo era proprio quello di doversi adattare ai cambiamenti politici che erano nel frattempo sopravvenuti. Con la parziale esclusione dei territori tedesco-orientali, da cui proveniva proprio la nuova famiglia regnante degli Ottoni, tutto il resto del continente era ormai caratterizzato dall’eclissi dell’autorità imperiale e delle monarchie sovraregionali che le erano succedute, e dalla conseguente forte frammentazione del potere politico, che comportò la formazione di una miriade di signorie aristocratiche a carattere fortemente locale. I poteri universali, in realtà, non erano scomparsi, né era negata in linea di principio la loro auctoritas, ma l’effettività con cui essi erano in grado di regnare, e cioè di controllare realmente il territorio, si era fortemente affievolita (Sergi 1986; Tabacco 1986; Nelson 1999; Carocci 2006). Questo stato di cose non mancò di produrre mutamenti significativi nel mondo monastico. Per un verso, il moltiplicarsi dei centri di potere locali portò i lignaggi aristocratici che li rappresentavano a voler imitare i comportamenti dei sovrani dei secoli passati, facendosi promotori a loro volta della fondazione di monasteri legati alla propria famiglia e sottoposti alla propria protezione politica. Ciò produsse sostanzialmente due risultati: il primo fu che l’aumento del numero dei committenti determinò di conseguenza un’impennata di nuove fondazioni; il secondo, che i monasteri divennero mediamente più piccoli (per dimensioni e per numero dei componenti la comunità) rispetto ad esempio a quelli fondati da sovrani e dagli alti dignitari carolingi dell’viii-ix secolo, date le più ridotte disponibilità economiche di cui la nuova categoria di committenti era in grado di disporre e la più ristretta base territoriale su cui essa fondava il suo potere (Duby 1982: 3-54; Sergi 1994: 3-30; Milis 1997: 41-43; Milis 2002: 27-31). Sotto questo profilo, quanto avviene in Italia e in Francia a partire dalla seconda metà del x secolo, pur con tutte le differenze che i due contesti storici presen318

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tano, propone dinamiche simili a quelle viste già per l’età merovingia e longobarda, quando, accanto alle fondazioni regie, erano fioriti (soprattutto in Italia) anche piccoli monasteri promossi da esponenti di rango sociale meno prominente. È possibile che queste condizioni abbiano rappresentato uno dei fattori in grado di favorire nel tempo il successo di quella tipologia compatta di insediamento monastico (imperniata sul plesso cosiddetto ‘a quattro corpi’, costituito da chiesa e chiostro posto al suo fianco) che abbiamo visto presente, fra le molte, già nell’età carolingia e che fu resa paradigmatica dall’uso che ne fece la Pianta di San Gallo14? Una casistica amplissima di siti monastici distribuiti in tutta l’Europa occidentale, fondati fra x e xi secolo o ristrutturati in quest’epoca, indagati archeologicamente o ancora sufficientemente conservati in alzato, mostra che questo schema appare allora applicato in modo pressoché generalizzato ed esso si avvicinerà in modo ancor più accurato al modello della Pianta nelle creazioni architettonicamente più mature del xii secolo15. Per l’Italia dell’xi-xii secolo, particolarmente eloquenti quanto a riproposizione di questo schema-tipo di insediamento monastico standardizzato sono ad esempio i casi indagati di recente dei piccoli monasteri di Santa Maria di Tergu e della Saccargia, nella Sardegna settentrionale (Liscia 2007; Rovina, Dettori 2007) e di San Michele alla Verruca, nella Toscana settentrionale (Gelichi, Alberti, Bertoldi, Sbarra 2003; Gelichi, Alberti, Dadà 2005). Nei due casi sardi, in particolare, si nota la divisione dell’insediamento in due plessi ben distinti, l’uno destinato a residenza della comunità e l’altro riservato alle funzioni di carattere logistico e all’accoglienza dei visitatori16. Questo tipo di organizzazione degli spazi claustrali sembra essersi affermato anche nei territori ex bizantini della penisola, come hanno dimostrato gli scavi condotti a Ravenna presso il monastero di San Severo, situato ai margini dell’antica area urbana di Classe, ma che nell’alto Medioevo si trovava ormai in piena campagna. Gli edifici abitativi e funzionali (sala capitolare, refettorio, cucine) iniziano a disporsi sul fianco meridionale della basilica martiriale tardoantica già nei decenni a cavallo tra ix e x secolo, formando il tipico quadrilatero articolato intorno a un’area aperta centrale il cui sviluppo architettonico proseguirà sino a tutto il xiii secolo (Augenti 2012). Cercheranno di adeguarsi a tale schema organizzativo anche monasteri sorti in luoghi caratterizzati da una topografia particolarmente complessa, come quelli dedicati all’arcangelo Michele edificati sulle sommità di alture ripide e impervie, quali il Mont-Saint-Michel in Normandia e la Sacra di San Michele, presso Torino (Barrera 1994; Bély 2004; Barral i Altet 2007). Nei territori germanici, ove nel seno della famiglia dei duchi di Sassonia s’incarnò la rinascita del potere imperiale, si assiste al rilancio di un rapporto privilegiato fra autorità sovrana e mondo monastico, che riprende e sviluppa i percorsi elaborati già nell’età carolingia. Il sistema di potere attuato dai sovrani ottoniani si basava su una struttura statale assai leggera. I sovrani esercitavano il proprio potere soprattutto spostandosi fisicamente da un punto all’altro dei loro domini, e la presen-

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za sul territorio di monasteri legati alla corona da un rapporto di diretta fedeltà (che i sovrani ricompensano, ampliando e rafforzando il quadro di autonomia spirituale e giurisdizionale di cui molti di essi già godevano nel ix secolo) costituiva un riferimento di fondamentale importanza affinché in ogni regione essi potessero trovare ospitalità e supporto logistico degni del proprio rango (Bernhardt 1993). Lo sviluppo in area germanica di una nuova generazione di abbazie a committenza regia o aristocratica accese una stagione di grande fermento edilizio che portò all’elaborazione di modelli architettonici che riprendono – soprattutto nell’architettura delle chiese – l’eredità dell’età carolingia, sviluppando in particolare il tema del rapporto fra l’aula di culto e lo spazio esterno. In area tedesca, le chiese monastiche di questo periodo si caratterizzano ancora frequentemente per la presenza di un avancorpo monumentale che funge da filtro tra i due ambiti, ma sovente esso è preceduto in questa fase da un atrio a quadriportico che svolge il compito di ampliare l’area liminare in direzione dello spazio riservato ai monaci e alla loro preghiera (Imhof 2006). Sotto il profilo prettamente visuale, in questa fase l’avancorpo che precede la chiesa vera e propria non dismette ancora l’aspetto severo di barriera turrita che allo stesso tempo enfatizza e protegge la racchiusa sacralità dello spazio dell’aula di culto; ma, come si diceva, di esso si sottolinea soprattutto la funzione di raccolta e d’incanalamento di coloro che provengono dall’esterno, espressa in particolare dal fatto che, molto spesso, tali strutture costituiscono a loro volta una sorta di atrio interno dell’edificio, a partire dal quale – soprattutto quando la chiesa è dotata di due absidi contrapposte – si favorisce in particolare l’utilizzo da parte del pubblico degli spazi delle navate laterali17. Studi recenti hanno dimostrato che anche in Italia, oltre al caso già ricordato di San Vincenzo al Volturno, cui si deve affiancare quello dell’abbaziale di Montecassino, diviene frequente a partire dall’xi secolo che le chiese abbaziali siano dotate di uno spazio architettonicamente ben definito – in genere strutturato come un atrio a quadriportico o, più raramente, come un avancorpo – destinato a fungere da cerniera fra l’esterno e l’interno della chiesa monastica (Lomartire 2002 e i.c.s.). Le intuizioni espresse oltre trent’anni fa da Jean Hubert in merito all’evoluzione della morfologia architettonica delle chiese monastiche, a partire dal tardo x secolo in poi, hanno insomma trovato frequente conferma nei nuovi dati che la ricerca ha nel frattempo fatto emergere; come vedremo più avanti, esse hanno probabilmente contribuito a un inquadramento più preciso delle informazioni fornite dalle indagini archeologiche compiute sulla chiesa dell’abbazia di Cluny, snodo fondamentale del mondo monastico del pieno Medioevo. Queste evoluzioni dello spazio proprio dell’edificio di culto si accompagnano, anche nei monasteri tedeschi, a un ripensamento della struttura dello spazio claustrale vero e proprio nella stessa direzione seguita in altre aree, come la Francia e l’Italia, e cioè seguendo lo schema delineato nella Pianta di San Gallo (Untermann 1996; Zettler 2009). 320

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Ovviamente, il constatare l’esistenza di una forma largamente condivisa e riprodotta nella strutturazione della parte più interna dei monasteri non equivale ad affermare che tutte le loro componenti si disponessero sul terreno con altrettanta uniformità. Proprio in Germania, ad esempio, troviamo in alcuni casi adottata una variante che vede l’area claustrale disposta non a lato, bensì di fronte o alle spalle della chiesa principale, riproducendo così uno schema planimetrico che in età carolingia aveva ad esempio trovato applicazione nel monastero di Inden-Kornelimünster, fondato da Benedetto di Aniane in prossimità di Aquisgrana. Questo tipo di disposizione degli edifici, che troviamo soprattutto in alcuni siti di area renana (San Gereone di Colonia, Großkomburg presso Schwäbisch Hall e Heiligenberg presso Heidelberg), sembra privilegiare il rapporto fra la chiesa e la comunità che abita il monastero, obbligando chi provenisse dall’esterno ad accedere all’aula di culto attraverso ingressi posti lateralmente alla medesima (Untermann 1996; Ludwig, Marzolff 2008). In ogni caso, anche la disposizione più classica degli edifici claustrali sul fianco della chiesa si realizza attraverso un numero considerevole di varianti. Ciò è dimostrato ad esempio dall’ampia casistica offerta dai monasteri cisterciensi, che – anche in base agli indirizzi formulati da Bernardo di Clairvaux – riproducono in genere un modello insediativo ben definito. Ma le modalità con cui sono disposti sul terreno gli edifici che ne formano l’outer circle (le aree a destinazione produttiva e artigianale, quelle per la ricezione degli ospiti e a destinazione sanitaria, quelle per il ricovero dei prodotti agricoli e degli animali) variano significativamente in rapporto alla morfologia fisica e alle condizioni ambientali del sito, alle risorse e alla consistenza numerica della comunità e ai suoi indirizzi organizzativi (Mihalyi et al. 1993; Leroux-Dhuys 1998; Cassidy-Welch 2001)18. Ma il mondo monastico maturò anche dal proprio interno risposte originali alle condizioni imposte dal mutato quadro politico-istituzionale. Come abbiamo poc’anzi visto nel caso di San Vincenzo al Volturno, diversi monasteri che non avevano o non volevano avere un patronus locale di riferimento (o che desideravano liberarsene) si sforzarono di istituire nei territori ad essi più vicini, che costituivano sovente il cuore del loro patrimonio fondiario, poteri di tipo signorile, che cercarono di rafforzare affiancando al dominio temporale quello spirituale, tentando, talora con successo, di ottenere dai papi prerogative di carattere episcopale su tali nuclei fondiari e sulle persone che vi abitavano. Esempi di sperimentazioni di questo tipo, più o meno coronate da successo, si possono trovare in quasi tutti i contesti geografici dell’Europa occidentale: per limitarci a qualche caso dell’Italia centro-meridionale, oltre a San Vincenzo al Volturno, basterà ricordare Montecassino, Farfa, San Clemente a Casauria e Cava dei Tirreni (Toubert 1973 e 1976; Fabiani 1968-1980; Feller 1998; Loré 2008; ma vedi anche le considerazioni generali sul tema in Grossi 1957). La ricerca dell’autonomia spirituale, soprattutto nei confronti delle strutture episcopali diocesane, era già emersa a più riprese nei secoli precedenti, ma nella

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fase che stiamo ora considerando essa fu affrontata con maggiore sistematicità e con un affinamento degli strumenti giuridici che avrebbero dovuto facilitarne l’ottenimento. Primo fra tutti, il ricorso alla protezione pontificia, che doveva servire a garantire il riconoscimento della legittima esistenza di un monastero all’interno della Chiesa cattolica, evitando che di ciò si dovessero occupare i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica ad esso territorialmente più vicini, cosa che avrebbe potuto più facilmente implicare intromissioni nella vita di un cenobio, non solo di carattere spirituale, ma anche di natura più concreta e profana (Johrendt 2005). Ma già nello scorcio iniziale dell’xi secolo si registrano anche i primi fenomeni di raggruppamenti fra monasteri sotto l’egida di un cenobio e/o di un personaggio dotato di particolare carisma, in grado di proporre modelli di vita organizzativa e spirituale particolarmente convincenti. Essi avevano l’obiettivo di costruire stili comuni nella pratica della vita ascetica e di creare reti di solidarietà tra le comunità, anche al fine di conferire loro una maggiore capacità di reagire ai problemi che, come abbiamo appena visto, la scena politico-sociale del tempo poneva in modo pressante al mondo monastico. Le esperienze dell’xi secolo gettarono i semi che nel secolo successivo sarebbero sbocciati nello sviluppo di vere e proprie reti di comunità monastiche assai più solide, codificate e gerarchizzate, quale in primis quella generata dal monastero borgognone di Cîteaux e diramatasi in tutto il continente sotto l’egida di san Bernardo da Clairvaux. Il “caso Cluny”: paradigma o specchio di una nuova epoca? Ma il luogo in cui in modo più precoce presero corpo tutte queste istanze di autonomia spirituale, del rafforzamento di essa attraverso l’edificazione di una giurisdizione signorile e di volontà intenzionale d’irradiamento di uno specifico modello di organizzazione della vita ascetica fu senz’altro Cluny. Questo monastero era sorto agli inizi del x secolo, nel cuore della Borgogna, per iniziativa del duca di Aquitania e conte di Mâcon, Guglielmo iii, e da questi affidato a Bernone, già abate della comunità di Baume-les-Messieurs, nel Giura francese. Nella carta di fondazione il duca dichiarava di rinunciare a ogni diritto sulla nuova comunità, che sarebbe dovuta restare libera anche da ogni altra intromissione esterna e rimanere sottoposta, per il tramite del pontefice, solamente alla protezione degli apostoli Pietro e Paolo. Guglielmo era esponente di uno dei maggiori lignaggi dell’aristocrazia francese del suo tempo; il mondo da cui egli proveniva si era reso promotore – e avrebbe continuato a farlo per i due secoli a venire – della nascita di numerosi monasteri, molti dei quali si caratterizzavano per essere vere e proprie estensioni, nella sfera del sacro, del potere delle famiglie che li avevano fondati (Sergi 1986b). Per definire questo tipo di monasteri, la storiografia tedesca ha coniato il termine Eigenkloster, ovvero ‘monastero proprio’ o, più efficacemente, ‘monastero privato’. 322

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La decisione di Guglielmo di non esercitare un patronato diretto sulla nuova abbazia (né di riservarlo ad altri membri della propria famiglia) assumeva un tratto di novità e auspicava per essa il cammino di una vita spirituale imperniata sul progetto di una rivisitazione rigorosa della Regola di Benedetto, da attuarsi nel solco dell’esperienza riformatrice di Benedetto di Aniane e nell’attuazione di una pratica diuturna della preghiera (Pacaut 1986: 49-71; Iogna-Prat 20002: 35-40). Il prestigio spirituale guadagnato dagli abati in carica fra gli anni ’40 e la fine del x secolo – Oddone e Maiolo – produsse il duplice esito di una crescita imponente della comunità di Cluny e delle frequenti richieste, rivolte agli stessi abati, affinché intervenissero presso altri monasteri per riformarne la vita e la disciplina regolare secondo i costumi e l’organizzazione adottata dalla comunità borgognone. Queste richieste provenivano spesso dai re o dai rappresentanti dei lignaggi aristocratici nel cui territorio ricadevano i monasteri presso cui gli abati cluniacensi sarebbero dovuti intervenire. Poco dopo il 940, l’abate Maiolo fu chiamato per dedicarsi a questo compito perfino da chi a quel tempo dominava sulla città di Roma, il princeps Alberico, che desiderava che la vita spirituale dei principali monasteri della città fosse riorganizzata entro un quadro omogeneo di consuetudini spirituali (Arnaldi 1959). Durante la prima metà dell’xi secolo, quando alla guida del monastero si trovava l’abate Odilone (994-1049), l’affiliazione spirituale a Cluny di altri monasteri iniziò ad essere concepita in maniera più cogente: alle comunità che chiedevano di condividerne le costumanze fu imposto di divenire vere e proprie dipendenze del monastero borgognone prive di un proprio abate, sostituito da quello cluniacense. Nello stesso modo fu definito lo status dei monasteri direttamente generati da Cluny, che assumevano la denominazione di priorati e cioè di comunità rette da un prior, figura che – secondo quanto indica la Regola di Benedetto – agiva come una sorta di vice-abate, rappresentando in loco quello dell’abbazia fondatrice. Si venne a strutturare così una vera e propria Ecclesia Cluniacensis, «concepita come un insieme unificato intorno a Cluny e al suo abate, con un’integrazione definitiva della fondazione che viene riformata» (Iogna-Prat 20002: 63). Verso la fine dell’xi secolo, sotto l’abate Ugo di Semur (1049-1109), l’idea che Cluny e i monasteri da essa dipendenti formassero una vera e propria congregatio, gerarchicamente organizzata alle dipendenze di una casa madre, prese ulteriore consistenza nei testi che trattavano dell’organizzazione e delle costumanze dell’abbazia borgognone, in cui quest’ultima era definita il caput di un corpo di cui i monasteri affiliati componevano le membra. Alla fine del secolo, e precisamente nel 1096, papa Urbano ii (che era stato monaco e priore di Cluny) fornì alla congregatio cluniacense uno status giuridicamente riconosciuto, dichiarando che alle abbazie dipendenti da Cluny si estendevano tutti i privilegi d’immunità e autonomia di cui godeva la casa madre (Caby 2003; Lauwers 2013). In realtà, i presupposti concettuali che regolavano i rapporti fra l’abbazia borgognone e le sue dipendenze probabilmente non costituivano in assoluto un unicum nel panorama monastico 323

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europeo del tempo. Ad esempio, i testi dei privilegi di conferma dei beni, concessi fra la seconda metà del x e l’xi secolo dai papi ad alcuni importanti cenobi dell’Italia centro-meridionale come Farfa, Montecassino e San Vincenzo al Volturno, mostrano che da ciascuna di queste fondazioni dipendeva una galassia di comunità minori, talora di dimensioni non del tutto insignificanti. Su di esse il monastero dominante esercitava un controllo piuttosto serrato, che si concretizzava nella nomina del loro abate o, nel caso si trattasse di comunità femminili, imponendo presso di esse un prior di propria scelta che curava l’amministrazione del patrimonio del monastero dipendente. Talora non appare neppure del tutto certo che i monasteri dipendenti ospitassero stabilmente delle vere e proprie comunità autonome o se queste fossero semplicemente costituite da piccoli gruppi di monaci inviati dalla casa madre. Tuttavia, sembra che i monasteri dipendenti, a fronte degli evidenti limiti imposti alla propria autonomia gestionale e spirituale, condividessero alcuni importanti privilegi accordati da papi e imperatori al monastero dal quale dipendevano, non dissimili da quelli appena visti per le comunità affiliate a Cluny (Marazzi 2007d). Il sistema sviluppato dall’abbazia francese si differenziava però da questa e da altre analoghe situazioni perché si basava sul presupposto che l’affiliazione ad essa di altri monasteri avvenisse in primo luogo in ragione di una esplicita condivisione di comuni modalità organizzative della vita spirituale, a partire dalle costumanze liturgiche e di preghiera. Inoltre, il vincolo che legava a Cluny le comunità dipendenti aveva progressivamente acquisito una fattispecie ben più solida, che configurava l’istituzione di un’esplicita gerarchia fra la casa madre e i monasteri ad essa affiliati. Questo sistema, oltre a favorire il raggiungimento di una posizione di rilievo mai neppure sfiorata in precedenza da nessun’altra istituzione monastica della Chiesa occidentale, permetteva anche di attuare un altrettanto inedito controllo di tipo centralizzato sulle risorse di un patrimonio assai esteso e articolato. Muovendosi all’interno di una tradizione che affondava le sue origini sin nei tempi di san Colombano, gli abati cluniacensi dell’xi secolo avevano saputo individuare con grande sagacia gli interlocutori che, all’interno del sæculum, potevano contribuire a rafforzare l’espansione della rete di comunità affiliate alla propria. Essi si annoverarono in un primo momento soprattutto fra i componenti della grande aristocrazia francese e, in minore misura, in quelli dell’Italia settentrionale. Ma i successi più eclatanti furono colti soprattutto in aree dell’Europa dove il quadro politico era in forte trasformazione e dove era particolarmente viva la sollecitudine del papato affinché si radicasse sul territorio un monachesimo di sicura osservanza romana. Il regno normanno formatosi in Inghilterra dopo il 1066 e le monarchie cristiane della Penisola iberica, impegnate ad accrescere i propri domini a danno degli Stati islamici, si affidarono volentieri all’abate Ugo per riceverne l’aiuto necessario a rifondare un tessuto di insediamenti monastici destinati a soppiantare quelli già esistenti, legati alle tradizioni del Cristianesimo di matrice celtica (in Inghilterra) e 324

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mozarabe (in Spagna) (Iogna-Prat, Rosé, 2010). I sovrani di queste terre ricompensarono l’abate di Cluny con generosissimi sussidi in denaro che, uniti alle rendite del patrimonio che l’abbazia possedeva in Francia e da quelle che derivavano dai contributi offerti dalle abbazie affiliate, nello scorcio finale dell’xi secolo permisero di avviare un cantiere che ebbe l’obiettivo della completa ricostruzione dell’abbazia fatta erigere dall’abate Maiolo cento anni prima – già di cospicue proporzioni – e soprattutto di edificare al suo interno una chiesa che ambiva a essere il tempio più grande di tutta la cristianità occidentale. Purtroppo, però, di tutto quanto fu realizzato in questo periodo restano oggi pochissime tracce. Le strutture dell’abbazia di Cluny, soppressa al tempo della Rivoluzione, furono smantellate pezzo dopo pezzo all’inizio del xix secolo, dopo che il governo francese decise di cedere il monastero a privati affinché lo utilizzassero come cava di materiale da costruzione. In pochi anni, del cenobio borgognone – e in particolare della chiesa edificata dall’abate Ugo – non rimase in piedi quasi più nulla (Marguery-Melin 1985). La possibilità di conoscerne la morfologia materiale è perciò rimasta affidata essenzialmente alle indagini archeologiche e al sussidio che ad esse hanno potuto fornire vedute e raffigurazioni, risalenti però tutte all’età moderna e quindi utilizzabili solo in modo limitato per lo studio delle fasi medievali. Gli scavi furono iniziati negli anni ’30 del xx secolo e proseguiti sino agli anni ’50 dall’archeologo americano Kenneth John Conant. Altre indagini sono state condotte in tempi più recenti e, nonostante le difficoltà che il luogo presenta, a causa delle profonde modifiche subìte dal tessuto insediativo nel corso del xix secolo, il livello complessivo di conoscenza del sito del grande monastero è oggi sufficientemente dettagliato da permettere di esprimere valutazioni abbastanza precise sulla sua articolazione topografica (Conant 1968; Baud 2002; Sapin 2002; Baud 2003; Cluny 2004; Sapin, Baud, Didier, Père 2010; Stratford 2010; Baud, Sapin 2013). Sino all’ultimo quarto del x secolo l’abbazia, che già intorno al 950 aveva raggiunto un notevole prestigio spirituale, era apparentemente rimasta caratterizzata da un’estrema semplicità architettonica. In questa fase (che gli archeologi hanno denominato “Cluny i”), le proporzioni dell’insediamento sembrano infatti aver mantenuto dimensioni tutto sommato modeste. Sotto il profilo architettonico il vero salto di qualità sarebbe avvenuto non prima dell’epoca dell’abate Maiolo, al quale è attribuita la realizzazione di un monastero di grandi proporzioni, pari alla rilevanza che esso aveva ormai raggiunto in Francia e in Europa (la cosiddetta “Cluny ii”), attuato nella parte finale del suo lungo abbaziato e portato a compimento dal successore Odilone. Oltre ai resti materiali riportati alla luce dagli scavi condotti da Conant, aiuta a capire come il nuovo complesso fosse stato organizzato anche un testo del secondo quarto dell’xi secolo – la Descriptio Cluniacensis monasterii – inserito in una trattazione – il Liber Tramitis Odiloni Abbatis – concepita in forma di regolamen-

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to illustrante i costumi liturgici e le consuetudini organizzative della comunità, in rapporto agli spazi dell’abbazia nei quali si svolgeva quotidianamente la vita dei monaci. Il testo del Liber Tramitis è giunto sino a noi all’interno di un codice vergato intorno alla metà dell’xi secolo nell’abbazia di Farfa e per molto tempo si è ritenuto che le prescrizioni che esso contiene fossero state pensate proprio per il monastero laziale; solo in tempi relativamente recenti si è capito che esso era effettivamente stato elaborato a Cluny e che fu poi trasmesso e adattato presso gli altri monasteri che, come Farfa, avevano mostrato interesse a uniformare in varia misura la vita della propria comunità a quella del cenobio borgognone (Boynton 2006: 118121). In particolare, il capitolo di apertura del ii tomo del Liber Tramitis è dedicato proprio alla descrizione degli edifici che componevano il complesso cluniacense e costituisce quindi un riferimento preziosissimo per capire come esso fosse stato configurato in seguito ai lavori che vi erano stati condotti per volere di Maiolo prima e di Odilone poi19. Leggendo questo testo, si può facilmente capire quanto Conant se ne fosse servito nel delineare la sua planimetria interpretativa generale della fase del monastero riferibile all’attività edificatoria dei due abati. Di essa l’archeologo americano aveva certamente rinvenuto tracce materiali, ma queste non erano tali da permettergli di tracciare uno schema topografico sufficientemente preciso. Questo dato di partenza obbliga a considerare con una certa prudenza diversi dettagli della sua rappresentazione grafica di Cluny ii, anche se le indicazioni del Liber Tramitis, fornendo sia la lista dei singoli edifici esistenti all’interno del monastero, sia le dimensioni di ciascuno di essi, gli hanno fornito riferimenti sufficientemente affidabili (Piva 2002). Uno sguardo anche frettoloso alla planimetria di Cluny ii, ricostruita sulla base dei dati archeologici e delle informazioni del Liber Tramitis, produce l’effetto di trovarsi di fronte a qualcosa che, avendo in mente l’immagine della Pianta di San Gallo, appare indubbiamente molto familiare. Il cuore del monastero fatto costruire da Maiolo era costituito dal plesso formato dalla chiesa e dal chiostro che le si affiancava sul lato sud, intorno al quale si disponevano gli edifici abitati dai monaci. Quelli sull’ala orientale, disposti su due livelli, comprendevano al piano terreno la sala capitolare e altri due ambienti che il testo del Liber Tramitis denomina rispettivamente auditorium e camera: il primo aveva la funzione di spazio ove in determinate ore della giornata i monaci potevano incontrarsi e parlare fra loro, mentre il secondo era un locale polifunzionale utilizzabile per svolgervi piccole attività manuali (Untermann 1996: 251-255). Al di sopra di essi si trovava un unico grande ambiente con funzione di dormitorio. Il lato ovest era occupato da una saletta riscaldata (il calefactorium), cui seguiva il grande refettorio. Sul lato ovest troviamo infine la cucina dei monaci, alla quale era attigua quella per il personale laico del monastero, seguita dal cellarium e da un altro ambiente più piccolo, detto ælemosynarium. Quest’ultimo ambiente, a diretto contatto con l’area antistante la chiesa, era utilizzato come luogo ove si custodivano le elemosine da distribuire agli ospiti 326

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che si presentavano alle porte del monastero senza cavallo, vale a dire quelli che in ragione della loro povertà non si potevano permettere il lusso di possedere una cavalcatura. Com’è stato posto in evidenza da Christian Sapin (2002: 100), il testo non parla esplicitamente dell’esistenza di un chiostro, inteso come uno spazio a pianta quadrangolare aperto al centro e delimitato da gallerie porticate. La sua presenza è però evocata ripetutamente nel I tomo del Liber Tramitis, in base al quale se ne evince facilmente la prossimità tanto alla chiesa, quanto agli altri ambienti – come la sala capitolare e il refettorio – che su di esso dovevano affacciarsi. Inoltre, essa si può ragionevolmente postulare sia in base al modo in cui è descritta la sequenza degli edifici che abbiamo appena elencato, sia per il fatto che, nella successiva fase costruttiva della fine dell’xi secolo (la cosiddetta “Cluny iii”, della quale ci occuperemo più avanti) questo spazio fu effettivamente collocato in tale posizione e perciò si può pensare che ciò fosse avvenuto replicando quanto era già presente nella fase più antica (Stratford 2010). Se lo schema planimetrico generale sembra essere sostanzialmente simile a quello rappresentato nella Pianta di San Gallo, tuttavia non mancano delle differenze. Le più evidenti sono quelle che riguardano il piano terreno dell’ala est: a Cluny troviamo infatti la presenza di una sala capitolare – e cioè il luogo ove la comunità si riuniva sotto la guida dell’abate per discutere le questioni più rilevanti –, che nella Pianta non è prevista, dato che per le riunioni della comunità era destinato il braccio nord del chiostro, così come non vi sono rappresentati gli altri due locali denominati auditorium e camera, al posto dei quali si trova invece solo una grande sala riscaldata. Sempre sul lato est del chiostro, accanto alla sala del capitolo, si doveva presumibilmente trovare una cappella sussidiaria, dedicata alla Vergine. La specifica funzione di questo sacello non è chiarita dal Liber Tramitis, ma la sua posizione può far presumere che esso potesse essere utilizzato come luogo di raccoglimento per l’abate nei momenti che precedevano gli incontri nel capitolo con i confratelli. Peraltro, considerando il numero complessivo dei membri della comunità cluniacense, che nell’xi secolo superava il centinaio, era impossibile che tutti costoro potessero trovare posto simultaneamente nello spazio della sala capitolare, che superava di poco i 40 mq. Attigua all’ala est, sul lato meridionale degli edifici gravitanti intorno al chiostro, era stata collocata una grande latrina, dotata di 45 sellulæ sulle quali i monaci potevano sedere per espletare le proprie necessità corporali; ciascuna di esse era inserita all’interno di una sorta di gabbiotto di legno ed era illuminata da una finestra, in modo da garantire all’utente un minimo di riservatezza. Accanto alle latrine si trovava anche un balneum, articolato in 12 stanzette, all’interno di ciascuna delle quali era stata collocata una tinozza (dolium). Questi due fabbricati di servizio separavano il quartiere dei monaci da quello dei novizi, che costituiva già parte della cerchia esterna di edifici che circondavano la clausura vera e propria, an327

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che se dobbiamo immaginare che esso gravitasse piuttosto verso quest’ultima che verso altri edifici attigui, a destinazione prettamente profana. Il quartiere dei novizi era stato progettato come una sorta di monastero in miniatura. Il Liber Tramitis specifica infatti che la sua pianta era angulata in quadrimodis, ovvero era articolata in quattro ali di fabbricati disposti intorno a uno spazio centrale (da immaginare aperto, come doveva esserlo il chiostro principale dei monaci) che ospitavano rispettivamente uno spazio per la meditazione, un dormitorio, un refettorio e una latrina attigua a quella dei monaci. Differentemente da quanto visto nella Pianta di San Gallo, per gli aspiranti monaci non era stata predisposta una vera e propria cappella, ma solo un locale in cui potersi raccogliere in preghiera. Inoltre, nella Pianta questo settore era distinto in modo più marcato da quello in cui vivevano i monaci ed era posizionato in modo differente all’interno del monastero, e cioè nella zona alle spalle della chiesa principale, tra gli spazi riservati ai malati e il cimitero, benché in più diretta prossimità con la chiesa maggiore20. Alle spalle del refettorio e di fronte al quartiere dei novizi fu predisposto un ampio spazio per lo svolgimento di alcune attività artigianali, dei cui preziosi prodotti la comunità riteneva necessaria l’immediata disponibilità: troviamo così le officine degli orafi, degli incastonatori e dei vetrai. Questi ultimi, in particolare, dovevano essere stati chiamati a svolgere un carico di lavoro piuttosto intenso visto che, come ricorda a più riprese il testo del Liber Tramitis, ogni edificio del monastero – dalla chiesa fino a giungere alle latrine – era dotato di finestre vitreæ. Com’è stato dimostrato dai ritrovamenti di pannelli e telai per finestre effettuati presso gli scavi di San Vincenzo al Volturno, la realizzazione di questi manufatti richiedeva sia una notevole specializzazione, sia l’impiego delle materie prime necessarie per la produzione del vetro (e delle relative infrastrutture), e di quelle destinate alla costruzione dei telai e dei serramenti (Dell’Acqua 2003 e 2003b; Balcon-Berry, Perrot, Sapin 2009). Nella ricostruzione proposta da Conant, il lato interno del plesso delle officine si sarebbe dovuto affacciare su una grande corte intorno alla quale si disponevano anche altri edifici elencati nel Liber Tramitis: una domus, di cui non è esplicitamente indicata la funzione, ma che probabilmente doveva servire ad ospitare gli alloggi del personale addetto alle officine medesime, e il fabbricato che ospitava la panetteria. La collocazione su questo lato degli ambienti destinati alle attività produttive e artigianali rispecchia quasi alla lettera lo schema della Pianta di San Gallo, ma, differentemente da quanto visto in quel caso, a Cluny una parte di esse era stata localizzata anche in una zona situata sul lato opposto della chiesa maggiore e a quest’ultima direttamente adiacente. Qui, all’interno di un’apposita domus, furono sistemati i laboratori dei sartores et sutores, il cui lavoro si svolgeva direttamente agli ordini del camararius del monastero e che evidentemente operavano a ciclo continuo per produrre i tessuti necessari ad arredare non solo la chiesa e a vestire i monaci, ma anche, come dice esplicitamente il Liber Tramitis, il palazzo ove si accoglieva328

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no gli ospiti più importanti (quelli ricchi e potenti, che arrivavano a Cluny cum equitibus) e che perciò andavano accolti in modo appropriato fornendo loro, ad esempio, letti dotati di guanciali in seta. Non casualmente, forse, il laboratorio dei sarti si trovava proprio in prossimità di questi edifici, che, come nella Pianta di San Gallo, erano stati costruiti sul lato nord della chiesa maggiore in modo da garantire ai loro occupanti facile accesso ad essa. Soprattutto, questa posizione consentiva una netta separazione rispetto al luogo previsto per ricoverare i visitatori di condizione più umile: a questi ultimi era riservato un piccolo fabbricato, a diretto contatto con il varco d’ingresso al recinto interno del monastero, che costituiva una parte dello stesso blocco in cui erano state allestite anche le stalle per gli animali. Questa evidente disparità dei trattamenti riservati ad ospiti di diversa estrazione sociale era perfettamente in linea con la mentalità di una comunità, come quella cluniacense, formata a sua volta in prevalenza da aristocratici e quindi permeata degli ideali propri di questo ceto sociale. La storia di Cluny era nata e si era sviluppata nel solco del più assoluto rigorismo spirituale e l’aspirazione all’autonomia dai poteri locali, che l’abbazia borgognona aveva espresso sin dalle sue origini, testimoniava il desiderio dei monaci di condurre un’esistenza il più possibile scevra dai condizionamenti del sæculum. Com’era sempre accaduto sin dai primordi del movimento monastico, anche i monaci di Cluny non possedevano alcunché di proprio e la loro vita, una volta accolti nella comunità, era in tutto e per tutto una rinuncia al mondo. Ma il mondo bussava alle porte del monastero e i grandi abati del x e dell’xi secolo, per perseguire il disegno di fare di esso un faro della cristianità occidentale la cui luce potesse irradiarsi sulla vita di molte altre comunità, avevano dovuto costruire una fitta rete di alleanze con i potenti del secolo per ottenere da essi il sostegno politico e materiale necessario affinché la presenza dell’abbazia fosse accolta senza problemi sul territorio ed eventuali minacce che da esso potevano provenire alla sua tranquillitas fossero il più possibile arginate (Cantarella 1993: 136-148). Così, per tutelare la propria indipendenza, già al tempo dell’abate Oddone Cluny aveva iniziato a costruire una vera e propria signoria proiettata sul territorio che la circondava. Le popolazioni che vi abitavano fornivano al monastero clientele militari che prestavano servizio per la sua difesa contro i vicini, i quali, a partire dal vescovo di Mâcon e dalla locale feudalità, tentarono ripetutamente di insidiarne le proprietà e le libertà (Rosé 2008; Méhu 20102). Ciò spiega l’attenzione particolare riservata, nella pianificazione del monastero, all’accoglienza degli ospiti appartenenti al milieu sociale con cui Cluny doveva prioritariamente dialogare. Un’attenzione che era già ben viva presso i monasteri dell’età carolingia (e non solo attraverso la chiara dimostrazione di ciò fornita nella Pianta di San Gallo) e che affondava le sue radici sin dall’epoca merovingia, quando la fondazione di nuovi monasteri iniziò a divenire sempre più appannaggio d’iniziative promosse da re e aristocratici. 329

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Che a Cluny il rapporto con gli esponenti del laicato aristocratico avesse assunto un ruolo ancor più rilevante e oggetto di attenzioni di quanto fosse stato nel passato è dimostrato dal fatto che, presso la chiesa maggiore, non lontano da dove sorgeva la domus riservata agli ospiti di riguardo, fu creato uno spazio riservato per la loro sepoltura. Le intense relazioni che il monastero intratteneva con il mondo esterno non erano però in contraddizione con la vocazione della comunità a separare rigidamente gli spazi ad essa riservati da quelli accessibili ai sæculares. Oltre al fatto che gli edifici riservati ai monaci fossero rigorosamente confinati e reclusi rispetto anche alle costruzioni destinate all’ospitalità e alle attività artigianali, è soprattutto la forma della chiesa ad esprimere in modo chiaro l’intento della creazione di un filtro tra monaci e secolari. Come si è visto, la ricostruzione archeologica di Cluny ii presenta ampi margini d’incertezza. Per colmare questa lacuna si è ricorso al confronto con le chiese, benché di datazione leggermente posteriore, presenti in alcuni monasteri dipendenti da Cluny, quali quelle di Payerne e Romainmôtier (nell’odierna Svizzera francese), che si ritiene fossero state modellate in maniera assai somigliante a quella della casa madre (Sennhauser 1991; Krüger 2002c; Vergnolle 2010). Anche in questo caso aiutano a completare il quadro alcuni preziosi riferimenti presenti nel testo del Liber Tramitis. L’edificio, a pianta basilicale, era articolato su tre navate intersecate da un transetto sulle cui terminazioni s’innestava ortogonalmente una cappella per lato. Il presbiterio, assai profondo, era a sua volta suddiviso in tre navate, ciascuna conclusa da un’abside. L’impostazione generale dell’edificio riprende, sistematizza e amplifica tendenze che s’intravedevano già nel tardo periodo carolingio: dall’approfondimento del coro, destinato a creare un’area riservata ai monaci e separata dal resto della chiesa, alla moltiplicazione delle absidi, destinate a fungere da luoghi di ricovero delle reliquie e di devozione nei loro confronti. L’elemento più innovativo che la planimetria della chiesa presenta si riscontra però nella sua terminazione occidentale. Il Liber Tramitis offre una descrizione di quest’area tanto importante per capirne la funzione, quanto elusiva per ciò che concerne il suo effettivo aspetto: La galilea ha una lunghezza di sessantacinque piedi e due torri sono state costruite nella sua parte frontale e, al di sotto di esse, vi è un atrio ove sostano i laici, affinché non impediscano lo svolgimento della processione21.

Il passo descrive uno spazio abbastanza ampio (lungo un po’ più di trenta metri), addossato alla facciata della chiesa e reso monumentale nella parte frontale dalla presenza di due torri, definito come un “atrio”, termine che potrebbe far pensare ad esso come a uno spazio aperto. Conant, che evidentemente non era riuscito a farsi in merito un’opinione definitiva, optò per la salomonica decisione di rappresentare l’area antistante la chiesa per metà come un atrio vero e proprio e 330

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per metà come una sorta di avancorpo coperto. Tuttavia, anche in considerazione dei confronti con altre chiese storicamente collegabili a Cluny ii, attualmente prevale l’idea che ciò che il Liber definisce come “galilea” fosse uno spazio coperto suddiviso in tre navate e articolato su due piani, che costituiva in certo senso una sorta di ‘anticipazione’ della chiesa vera e propria (gli archeologi francesi usano per denominarla il termine antéglise), verso la quale esso si affacciava attraverso i portali d’accesso alle navate e le aperture praticate nella parete del livello superiore (Sapin 1990, 1990b e 2002b; Krüger 2002 e 2002b; Méhu 2002)22. Il nome che il testo cluniacense conferisce a questo elemento architettonico contribuisce a spiegare la funzione per cui esso era stato pensato. Nel Vangelo di Matteo, la regione palestinese della Galilea rappresenta il luogo in cui Cristo apparve dopo la morte ai suoi discepoli prefigurando loro la visione della beatitudine eterna cui anch’essi sarebbero stati associati una volta abbandonata la vita terrena. Attribuita allo spazio liminare della chiesa abbaziale, questa denominazione chiaramente allude alla condizione di coloro che, avendo il privilegio di assistere di lì alla liturgia processionale celebrata dai monaci e di scorgere lo splendore della chiesa, come gli apostoli davanti a Cristo risorto, potevano in certo senso godere l’anticipazione della beatitudine celeste alla quale già partecipavano i membri della comunità monastica. Peraltro, la liturgia che si svolgeva in questo settore della chiesa era incentrata proprio sulle commemorazioni dei defunti e sulle celebrazioni pasquali della resurrezione del Cristo, nell’ambito delle quali giocava un ruolo centrale il significato che questo evento aveva assunto nella prospettiva della salvazione dell’insieme del genere umano (Doig 2008: 158-161). Il sabato delle Palme, ad esempio, i monaci in processione uscivano dalla chiesa maggiore per recarsi all’esterno; in questa circostanza, la galilea costituiva il luogo in cui essi incontravano i laici che avrebbero accompagnato al di fuori il sacro corteo23. È evidente la somiglianza di quest’organizzazione e dell’uso degli spazi d’accesso alla chiesa cluniacense con quanto si era già attuato in alcuni importanti monasteri dell’età carolingia, primo fra tutti quello di Centula. Tuttavia, è altrettanto chiaro che la soluzione adottata a Cluny rappresenta un momento di evoluzione e di perfezionamento di quelle precedenti esperienze. La galilea è esplicitamente concepita come uno spazio intermedio fra il mondo della beatitudine monastica e il travaglio di quanto accade all’esterno e ha la funzione di consentire, sia pure in modo indiretto, la partecipazione diretta del laicato alla liturgia monastica (Caby 2012: 17)24. Questa partecipazione conosce però pur sempre dei limiti ben precisi e le occasioni che ad essa sono riservate non appaiono particolarmente incrementate rispetto a quanto avveniva nei secoli passati. Le costumanze liturgiche descritte dal Liber Tramitis rappresentano infatti un esercizio della preghiera, diuturno e impegnativo, praticato nella maggior parte dei giorni dell’anno all’interno dei limiti invalicabili dell’area più recondita del monastero, senza che altri siano ammessi a parteciparvi: la liturgia stazionale quotidiana si dipana fra la grande chiesa (che ne costituiva ovviamente lo scenario principale), la sala del capitolo, l’oratorio della Vergi331

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ne, il chiostro, il refettorio e l’infermeria25. Essa presenta a Cluny un’indubbia continuità con quella attuata nei grandi monasteri di viii e ix secolo, ma si svolge entro confini fisicamente assai più ristretti, determinati dalla struttura stessa dell’insediamento nel quale, similmente a quanto già visto nella Pianta di San Gallo, si è rinunciato alla proliferazione degli edifici di culto all’interno dell’area claustrale. Fra il tardo x e l’xi secolo erano però sorte alcune chiese all’esterno del recinto che delimitava gli edifici sacri e profani in cui vivevano i monaci (che spesso nelle fonti è definito come castellum). Esse svolgevano essenzialmente la funzione di cura d’anime della popolazione che viveva nel burgus che si era progressivamente sviluppato a fianco dell’abbazia e che, con essa, condividevano una serie d’importanti privilegi rispetto allo spazio esterno; tuttavia, in alcune occasioni erano coinvolte anch’esse nei meccanismi della liturgia monastica vera e propria26. La più antica fra queste chiese esterne era stata dedicata a san Maiolo ed era sorta probabilmente intorno al Mille, poco dopo la morte di questo abate. Essa è apparentemente la prima a costituire, già nell’xi secolo, il punto di arrivo di una processione che i monaci compivano uscendo dall’abbazia attraverso la galilea: ciò avveniva sicuramente il giorno in cui era festeggiata la memoria dello stesso Maiolo, l’11 di maggio, e forse anche (ma non è del tutto chiaro) in occasione delle feste maggiori del calendario liturgico27. Le altre due chiese del borgo – dedicate alla Vergine e a sant’Odone – non sarebbero state coinvolte nelle celebrazioni monastiche prima del xii secolo, vale a dire quando era già giunto a compimento il profondo rinnovamento materiale del monastero, culminato nella costruzione della nuova, immensa chiesa nota come Cluny iii. Una quarta chiesa o cappella, dedicata a sant’Odilone, rimase invece fuori dal perimetro del burgus e non sembra aver mai avuto funzioni di carattere parrocchiale (Walsh 2001; Méhu 2010: 201-230). Come abbiamo già visto in numerosi casi più antichi, anche a Cluny il perimetro monastico si estendeva a comprendere pienamente quest’area più esterna e l’elemento attraverso cui si materializzava questo processo d’inclusione era costituito dal legante simbolico rappresentato dai percorsi processionali, che univano in un unico corpo mistico i diversi luoghi sacri dell’insediamento monastico. Queste occasioni erano le uniche in cui i monaci comparivano al di fuori della clausura, insieme con quelle previste per l’accoglienza nel monastero di nuove reliquie o di visitatori particolarmente illustri, quali ad esempio re e vescovi28. Il rigoroso ordine processionale con cui i membri della comunità procedevano incontro a questi adventus costituiva lo schermo che, anche all’esterno dei quartieri loro abitualmente riservati, li manteneva separati e distanti dalle altre persone. La ricostruzione del monastero alla fine dell’xi secolo, avvenuta per impulso dell’abate Ugo di Semur, benché avesse proiettato su una scala sensibilmente maggiore le dimensioni del complesso monastico nel suo insieme, e soprattutto della sua ecclesia maior, non ne modifica però in maniera sostanziale l’assetto organizzativo e funzionale, qual era emerso al tempo di Maiolo e Odilone (Pacaut 1986: 267332

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306; Stratford 2010). In altre parole, giunta all’apice della sua parabola, Cluny celebra il proprio successo, ma lo fa perpetuando un’ideale di vita monastica che i testi e le tracce archeologiche della fase anteriore avevano già definito e che era ricco di riferimenti a spunti e modelli che affondavano le loro radici nel cuore dell’età carolingia. Ciò che Cluny – anche nella sua struttura materiale – aveva certamente contribuito a ideare e poi a consolidare era però un’idea nuova di organizzazione monastica: il fatto stesso che si possa parlare dell’esistenza di un’architettura ‘cluniacense’ dimostra che, dalle sperimentazioni che avevano caratterizzato il variegato panorama degli insediamenti monastici dei secoli anteriori era emerso un modello che, pur con alcune varianti, aveva saputo imporsi su tutti gli altri. La tendenza alla reiterazione di una modalità standardizzata e riconoscibile nella progettazione delle abbazie e nella dislocazione sul terreno dei loro diversi settori funzionali era ovviamente anche il riflesso di un’evoluzione più profonda, che procedeva in direzione dell’elaborazione di attitudini condivise e codificate nella concezione della vita monastica nel suo insieme. Nel caso di Cluny, come abbiamo visto, questo significò stabilire al contempo un dettagliato insieme di costumanze che fungesse da riferimento puntuale allo svolgimento della liturgia quotidiana e costruire un sistema gerarchicamente ordinato che permettesse al ‘modello’ che la casa madre a mano a mano attuava di essere condiviso e diffuso presso altre comunità (Penco 2003: 59-61). Allo stesso tempo, per sopravvivere in un mondo in cui la competizione per il controllo del territorio era particolarmente serrata, gli abati di Cluny in carica tra la fine del x secolo e tutto il corso del successivo prepararono, in modo assai accurato, gli strumenti indispensabili per costruire una rete di protezione intorno al monastero. Le maglie di questo sistema connettivo erano composte tanto da un fitto tessuto di alleanze politico-militari stabilite a livello locale, quanto da riconoscimenti e privilegi ottenuti da re, imperatori e papi, atti ad evidenziare come la dignità e la forza di Cluny non derivassero solo dalla sua capacità di sopravvivere tra gli altri poteri signorili presenti sul territorio, bensì anche dal fatto che essa intendeva levarsi a rappresentare un paradigma universale per tutti coloro che volessero perpetuare gli ideali della vita ascetica (Lamma 1961: 49-54). L’esperienza maturata nell’abbazia borgognona, insomma, pur mostrando evidenti legami di discendenza con le realtà materiali e ideali elaborate nella stagione del grande exploit monastico di età carolingia, le aggiornava e le adattava a un contesto politico e culturale profondamente mutato. Esso risentiva anche dei cambiamenti che si erano prodotti all’interno della Chiesa in direzione di una sempre più decisa rivendicazione dell’autonomia della sfera religiosa da un rapporto con i poteri temporali che spesso assumeva il volto di una subordinazione troppo accentuata nei loro confronti. L’accesso al soglio pontificio di Urbano ii, alla fine dell’xi secolo, rappresentò in certo senso l’approdo più alto del prestigio raggiunto da Cluny in seno alla Chiesa. 333

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All’inizio del xii secolo, la Cluny di pietra si presentava perciò come un grande monastero, la cui grandezza materiale rifletteva l’autorevolezza spirituale della comunità e dei suoi abati: la chiesa fatta costruire da Ugo di Semur, la cui lunghezza complessiva sfiorava i 190 metri, insieme alla basilica vaticana di Roma era di gran lunga il più grande edificio di culto di tutta la cristianità occidentale. Ma vi è un’evidente sproporzione fra la smisurata mole del grande tempio e l’insieme del compound monastico, come lo rappresenta una celebre planimetria dell’inizio del xviii secolo che riflette abbastanza da vicino la situazione bassomedievale. In essa è raffigurato un complesso a pianta vagamente rettangolare, di circa 400 × 500 metri di lato, le cui dimensioni però raddoppiano se si prende in considerazione anche il perimetro del villaggio cresciuto intorno all’abbazia vera e propria, raggiungendo così proporzioni che avvicinano l’insediamento cluniacense alle dimensioni dei maggiori monasteri dell’epoca carolingia (Baud 2002b). All’interno, come abbiamo visto, si distribuivano le diverse funzioni, sacre e profane, che rendevano Cluny un organismo in grado di assolvere tutti i compiti cui era chiamato, incluso quello di luogo di pellegrinaggio (Baud 2003: 165-177). Quest’ultimo aspetto, tuttavia, non finì mai per prevalere e l’abbazia non si trasformò in qualcosa di simile al San Pietro di Roma o al santuario di Santiago di Compostela. Essa, nella più autentica tradizione monastica, restò sempre e innanzitutto il luogo di ritiro spirituale di una comunità di eletti, il cui tempio era riservato essenzialmente alla recita della laus perennis rivolta a Dio. L’elaborazione dello spazio della galilea, anticamera della chiesa e foggiata essa stessa in guisa di chiesa, rappresenta lo sforzo d’invenzione più maturo per tentar di comporre, attraverso il linguaggio dell’architettura, la tensione che da sempre era rimasta irrisolta nella progettazione degli spazi monastici. Questa tensione si evidenziava nella contraddizione fra l’esigenza dell’isolamento dal mondo, avvertita da chi sceglieva la via dell’ascesi, e quella che la ‘città perfetta’ abitata dai monaci non dico aprisse interamente, ma quanto meno socchiudesse le sue porte verso l’esterno per offrire l’esempio di sé a chi continuava a vivere in una dimensione tutta mondana, pur avvertendo confusamente il bisogno di una maggiore prossimità con Dio (De Jong 2000). A questa sia pur prudente apertura Cluny non poteva rinunciare in toto, perché il suo prestigio nel mondo – e quindi la possibilità di trovarvi patroni politici e finanziatori – dipendeva da ciò che il mondo capiva di essa ed era perciò disposto a darle affinché il sogno della città perfetta s’incarnasse nello splendore dei suoi edifici. L’abbazia, giunta al suo zenit materiale all’inizio del xii secolo, rappresentava esplicitamente se stessa come una ‘Roma monastica’ (Guerreau 1998); ma, con maggiore aderenza alla realtà, si potrebbe dire che il risultato che l’opera degli abati da Maiolo a Ugo raggiunse fu piuttosto quello di realizzare una sorta di ‘Vaticano monastico’. L’aspirazione a reincarnare il simbolo della città dominatrice del mondo, resa santa da Pietro e Paolo, era già stata perseguita dai grandi abati costruttori dell’età carolingia e le loro realizzazioni – nella complessa e articolata to334

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pografia che i più grandi monasteri di quell’epoca avevano raggiunto – erano riuscite ad esprimere una dimensione davvero urbana. Cluny aveva scelto però di seguire il richiamo all’ordine rappresentato dal modello, compatto e razionale, proposto dalla Pianta di San Gallo e lo aveva dilatato sino al massimo grado che il modello stesso consentiva: di qui la sensazione di sproporzione che si avverte fra la mole gigantesca della chiesa e l’insieme dell’insediamento. In certo senso, Cluny si limitò a essere semplicemente un grande monastero, quantunque caratterizzato da una forte vocazione a rappresentarsi come una ianua cœli, e cioè una maestosa porta aperta verso la città celeste che lasciava intravvedere, al di là di sé, lo splendore della Gerusalemme eterna (Cantarella 2003: 813). Le abbazie dipendenti da Cluny – le cui chiese riecheggiavano il linguaggio architettonico della sua maior ecclesia – avrebbero riproposto gli stessi messaggi, sia pur declinandoli in proporzioni meno monumentali. I monasteri cisterciensi, la cui diffusione raggiunse l’apice tra la seconda metà del xii secolo e la prima metà del successivo, avrebbero sostanzialmente replicato lo schema planimetrico e funzionale portato a perfezione da Cluny. Ma lo avrebbero fatto con la non trascurabile differenza di parlare un linguaggio formale totalmente differente, caratterizzato da un’architettura che proponeva un percorso di avvicinamento all’assoluto, tutto giocato sulla sottrazione delle suggestioni di più immediato impatto visivo e sulla presentazione della grandezza di Dio attraverso la perfezione dell’essenziale (Penco 1994; Pressouyre 1999). La scelta di tornare ‘nel deserto’, che i monaci bianchi adottarono con polemica veemenza nei confronti di un monachesimo che appariva ai loro occhi troppo concentrato sull’esteriore celebrazione di se stesso, costituì in certo senso una chiusura del cerchio apertosi nella Francia del vii secolo, quando sul mondo dei monasteri aveva iniziato a proiettarsi l’attenzione di re e aristocratici. Il ‘deserto’ che cercavano i monaci di Cîteaux non era in sé un luogo diverso dalle campagne ove le abbazie erano sorte a migliaia da quasi cinquecento anni, ma era quello dell’abbandono simbolico di una consuetudine che legava il successo della vista ascetica alla simbiosi che le comunità riu­scivano a istituire con patroni secolari i quali, anche mossi dalle motivazioni più nobili, garantivano ad esse successo e protezione, a prezzo però di veder specchiata negli edifici in cui esse si stabilivano la magnificenza del loro potere terreno. I Cisterciensi – che pure per larga parte reclutarono i loro adepti in seno all’aristocrazia – ritenevano invece che tale nesso andasse scisso e che i monaci dovessero basare il successo del loro percorso ascetico esclusivamente sulle proprie forze. Essi dovevano puntare quindi sulla capacità di costruire una forte connessione fra le comunità, che fosse in grado di produrre, oltre a un legame di solidarietà fra ciascuna di esse, anche e soprattutto una forte identità di gruppo. Ciò avrebbe dovuto consentire alle abbazie sorte su impulso della comunità madre (Cîteaux, in latino Cistercium) e delle sue prime quattro filiazioni (La Ferté, Pontigny, Clairvaux e Morimond) di rimanere il più possibile unite ed essere quindi meno soggette al bisogno di dipendere da forze esterne, che avrebbero potuto interferire sull’autenti335

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ca attuazione dei princìpi della vita regularis, ispirata in primo luogo dal testo di Benedetto da Norcia (Milis 2002: 42-46; Picasso 2006). I primi monaci radunatisi a Cîteaux negli anni ’90 dell’xi secolo avevano costruito il loro rifugio ascetico quasi come un eremitaggio condiviso, un luogo in cui la fuga mundi potesse attuarsi in maniera radicale e dove la vita potesse trascorrere entro una cornice di perfetta integrazione tra la meditazione e l’attività manuale. Nella seconda metà del xii secolo, grazie all’impulso fornito da Bernardo di Clairvaux, le abbazie cisterciensi si erano ormai diffuse in ogni parte dell’Europa e la loro struttura materiale si era definita secondo un modello organizzativo di cui si ritiene che Bernardo stesso fosse stato un decisivo ispiratore. Anche in questa fase di trionfo, gli elementi che le caratterizzavano in modo preminente rimasero soprattutto l’attenzione alla funzionalità delle strutture preposte alla gestione della produzione agricola e delle risorse idriche, e l’organizzazione dei quartieri destinati ai monaci come uno spazio assai compatto e poco permeabile dall’esterno (Leroux-Dhuys 1998: 37-83). Un dettaglio che non sempre è stato posto nella dovuta evidenza, ma che fornisce un elemento d’importante valutazione in rapporto a quest’ultimo argomento, è quello dell’effettiva utilizzazione dello spazio interno delle chiese cisterciensi. Ai fratres conversi, che collaboravano con i monaci nel­l’espletazione delle attività manuali più pesanti, era destinata l’ala occidentale degli edifici prospicienti il chiostro ed essa era in genere separata da quest’ultimo da una sorta di corridoio, in modo che l’isolamento di coloro che componevano la comunità monastica vera e propria fosse il più completo possibile29. Questo corridoio terminava in direzione della chiesa con una porta che immetteva al suo interno, consentendo così ai conversi di recarvisi per la preghiera senza interferire con i percorsi dei monaci. All’interno della chiesa i due gruppi rimanevano separati: ai primi era riservata la parte della navata centrale più vicina al presbiterio, mentre i secondi si accomodavano in quella più prossima alla facciata. Com’è stato dimostrato ad esempio nel caso dell’abbazia laziale di Fossanova, i settori riservati ai monaci e ai conversi erano schermati da paratie, a ridosso delle quali si ponevano gli stalli su cui sia gli uni sia gli altri si accomodavano per la recita delle preghiere (De Rossi, 2002: 40-49; fig. 37). Quest’organizzazione spaziale faceva sì che la chiesa fosse quasi interamente occupata dai membri della comunità, rendendola quindi scarsamente accessibile ad altre persone. L’architettura delle chiese delle abbazie cisterciensi – tranne che in alcuni casi, frutto in genere di trasformazioni non anteriori al pieno xiii secolo – prevedeva abitualmente un’articolazione dell’area presbiteriale priva di deambulatori posti in diretta continuità con il percorso delle navate laterali. Questo significa che il presbiterio e le attigue cappelle sussidiarie, che spesso si aprivano sul fianco est del transetto, erano destinati a un utilizzo prevalentemente riservato ai monaci, escludendone così la frequentazione da parte di eventuali visitatori esterni. Con l’eccezione delle abbazie che costituirono le case madri dell’Ordine, il tipo 336

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di monastero concepito dai Cisterciensi e da essi diffuso in tutte le regioni europee era caratterizzato da dimensioni non particolarmente ragguardevoli. Ciò che contava non era tanto la monumentalità, quanto la razionalità e la funzionalità dell’insediamento nel suo insieme. Il monastero doveva servire ai monaci, con l’aiuto dei conversi, per poter compiere l’opus Dei in modo efficiente e in condizioni ottimali d’isolamento e di quiete. Nel xii secolo, l’Europa attraversava un periodo di grande sviluppo economico e culturale: le città stavano tornando a costituire i centri propulsori della produzione e nuovi ceti sociali, che avevano costruito le proprie fortune sulle attività legate al commercio e alla manifattura, si candidavano a un protagonismo politico che avrebbe generato sperimentazioni di inedite forme di governo degli insediamenti urbani e una rinnovata proiezione dell’egemonia di questi ultimi sul territorio. La scelta dei Cisterciensi di puntare a un radicamento delle proprie comunità nelle aree rurali e, in particolare, in quelle più marginali ebbe forse proprio il significato di una risposta ai tumultuosi cambiamenti che si verificavano nella società circostante: i monasteri dovevano tornare ad essere luoghi sottratti tanto alla crescente pressione delle città sulla campagna, quanto alle contese che le aristocrazie rurali ingaggiavano per il controllo del territorio. I siti in cui le comunità cisterciensi si andavano a stabilire dovevano avere le qualità per proporsi allo stesso tempo come claustrum et heremus: essere cioè rifugi in cui gruppi di persone cercavano di attuare comunitariamente la perfezione della vita cristiana nell’isolamento e nella rinuncia a qualsiasi rappresentazione altisonante e trionfalistica del mistero divino che mirasse ad attrarre e suggestionare l’immaginazione di coloro che, rimasti a vivere nel secolo, fossero di quando in quando ammessi alle sue soglie. Cluny aveva invece tenacemente perseguito questo obiettivo, esaltando l’immagine stessa dei monaci che, nello splendore del loro monastero, dovevano apparire come creature già trasmigrate verso la contemplazione della beatitudine celeste (Duby 1982: 67-83). In realtà già da qualche decennio è stato dimostrato che l’architettura cisterciense fra tardo xii e xiii secolo proiettò – soprattutto in Italia e Francia – un’influenza tutt’altro che secondaria su diversi cantieri urbani (Cadei 1978; Guidoni 1978; Romanini 1978; Davis 2004). L’edificazione in città di chiese o edifici profani (anche di carattere militare) sotto la direzione di magistri provenienti da comunità monastiche che avevano fatto della radicale separazione dal mondo la propria principale norma di vita potrebbe apparire come la più grande delle contraddizioni. Tuttavia, a parte il fatto non secondario che le maestranze cisterciensi erano in grado di offrire capacità progettuali ed esecutive della massima qualità, il loro apporto favoriva anche la diffusione di uno stile architettonico caratterizzato da rigore e sobrietà: era come se la fuga mundi dei monaci e la loro capacità di elaborare forme e stili per gli edifici che ne riflettevano i princìpi arrivasse a operare esemplarmente nel vivo del secolo. In certo senso, anche questa era una dimostrazione del fatto che la grande parabola dell’avventura monastica stava giungendo al suo compimento. In un mondo ormai mutato rispetto ai secoli dell’alto Medioevo, i 337

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monasteri non potevano più ambire a manifestarsi come delle civitates alteræ, materializzatesi in terra per ispirazione della Divinità, in grado di rivaleggiare in grandezza e splendore con le città degli uomini, ma potevano solo cercare di produrre un qualche influsso sull’organizzazione e l’immagine di queste ultime. Com’era già avvenuto nell’Oriente tardoantico, Cîteaux e gli altri monasteri che essa aveva fondato si presentavano come i luoghi del rifiuto del secolo e del secessus da esso. Nei suoi confronti avrebbero però potuto irradiare un esempio silenzioso su come fosse possibile, lasciando il mondo, acquisire un’altra cittadinanza di valore più assoluto e duraturo rispetto a quella offerta dall’appartenenza ai sodalizi umani e in primo luogo da quelli che si andavano costituendo all’interno dell’effervescente mondo delle città.

Note 1 Il passo è riportato nella traduzione dal tedesco di H.R. Sennhauser. 2 La

didascalia tracciata nello spazio del vestibolo recita: templi tecta subire. Heitz (1963: 31, 39, 47) ricorda che in diverse chiese monastiche carolinge erano presenti dei fonti battesimali (ad esempio: a Centula, Corvey e Werden), ed essi erano collocati in genere negli avancorpi che precedevano l’aula di culto vera e propria. A Centula essi si trovavano presumibilmente al piano terreno della chiesa occidentale del Salvatore ed erano benedetti e utilizzati in occasione delle cerimonie del Sabato Santo e della Pasqua, ma purtroppo non viene chiarito a chi fosse concesso di battezzarvi i propri figli (Heitz 1963: 98-99). La posizione del fons nella chiesa della Pianta, dove manca un avancorpo vero e proprio, corrisponde in effetti a quella adottata nelle altre chiese, poiché si situa nel punto di essa più prossimo all’entrata, subito dopo il coro occidentale. Recentemente Sennhauser (2013: 542), riprendendo le riflessioni in merito di Häussling (2002), pur ammettendo che la presenza del fonte all’interno della chiesa postula evidentemente l’accesso dei laici, accetta che la celebrazione dei battesimi dovesse costituire un evento eccezionale, che personalmente ritengo costituisse un privilegio riservato a persone di alto rango sociale. 4  È interessante notare che la chiesa effettivamente edificata a San Gallo al tempo di Gozbert, di cui gli scavi archeologici hanno riportato alla luce porzioni significative, sembra fosse stata concepita come uno spazio nettamente diviso in due parti, di cui quella occidentale, ripartita in tre navate, connessa con gli accessi alla cripta che si trovava sotto il presbiterio, e quella orientale comprendente un grande coro e tre vani absidali a terminazione rettilinea. È stato ipotizzato che quest’ultima sezione fosse quella riservata ai monaci. 5 Un’analoga disposizione degli edifici sacri – in questo caso tre – rispetto all’area del ‘chiostro’ sembra ipotizzabile anche nell’altra importante abbazia di Disentis, sempre nei Grigioni (Sennhauser 2010: fig. 13). 6 Una planimetria datata fra gli anni ’60 e ’80 del xvi secolo restituisce con grande dettaglio la disposizione degli edifici che costituivano il plesso principale del monastero di San Medardo, presso Soissons, sicuramente oggetto di estesi interventi di ricostruzione nel corso del terzo quarto del ix secolo. La chiesa abbaziale conservava a quell’epoca ancora le fattezze acquisite in epoca carolingia, ma è difficile capire quanto la disposizione degli altri edifici del complesso monastico fosse stata modificata nei secoli successivi. In ogni caso, l’immagine cinquecentesca è del massimo interesse poiché rappresenta l’evoluzione di un complesso carolingio in direzione di una disposizione delle diverse aree 3 Carol

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Il “futuro” della pianta di San Gallo funzionali che rispecchia assai da vicino i criteri scelti dal redattore della Pianta di San Gallo. Inoltre, una veduta a volo d’uccello della stessa abbazia, anteriore al 1567, permette di conoscere l’articolazione delle aree più esterne dell’insediamento monastico, che costituiva una vera e propria “città satellite” rispetto al vicino nucleo urbano di Soissons e che potrebbe costituire un interessante riferimento per integrare ciò che la Pianta del monastero svizzero omette di includere. Benché le proporzioni e la stessa disposizione degli edifici appaiano alterate dal tipo di prospettiva scelta dal pittore, la loro trasposizione sul reticolo catastale attuale permette di comprendere con chiarezza che la cinta che delimitava l’area del plesso monastico principale – al cui centro si trovavano gli edifici del claustrum vero e proprio – era a sua volta racchiusa da un secondo giro di mura entro cui erano situate sia aree destinate ad uso agricolo (giardini, orti e frutteti), sia gli edifici del burgus monastico, tra i quali la chiesa di San Lorenzo, destinata al servizio pastorale di coloro che lo abitavano. Sul lato meridionale, dove si trovava l’accesso principale al monastero in direzione della città, la seconda cinta era preceduta da un altro, più piccolo recinto – a sua volta aperto a meridione da un portale turrito –, all’interno del quale si trovava la “fattoria” di San Medardo, che potrebbe forse aver servito da luogo di accettazione e primo stoccaggio delle derrate provenienti dall’esterno (Defente 1996: 278293). 7  rb, lvii e lxvi. 8  rb, liii. 9  rb, ii e lvi. L’ampio dibattito che si è recentemente svolto sul tema dei cosiddetti “Klosterpfalzen” e cioè dei quartieri presenti all’interno dei monasteri deputati all’accoglienza di ospiti di alto riguardo (e in primo luogo dei monarchi con il loro seguito), mostra la rilevanza del rapporto fra mondo monastico e le massime espressioni del potere secolare. La difficoltà che si è talora ravvisata, all’interno di tale discussione, perfino nello stabilire – in molti casi – se i palatia o le domus previsti per questa funzione fossero degli annessi del monastero o, al contrario, avessero condizionato la scelta del luogo per la fondazione di questi ultimi, la dice lunga sulla profondità dell’intreccio fra queste due componenti. In ogni caso, la dislocazione topografica (laddove la si è potuta definire) di tali domus e palatia all’interno degli insediamenti monastici, lascia intuire che, per chi ne poteva fruire, molte delle barriere che separavano lo spazio claustrale dal mondo esterno venivano fortemente attenuate (vedi in particolare gli interventi di C. Ehlers, A. Renoux e S. Scholtz in Sennhauser – a c. di – 2010). 10 Per una disamina complessiva dell’evoluzione dell’architettura ecclesiastica nei territori dell’Impero in rapporto alle idee di “riforma monastica” di Benedetto di Aniane e sull’influsso che esse avrebbero prodotto nella scelta di costruire, all’interno dei monasteri, chiese di dimensioni tendenzialmente contenute, vedi Jacobsen 1990. 11 Un curioso documento datato all’xi secolo e ascrivibile a un monastero situato nell’area della Francia centro-settentrionale, noto come Horologium stellare monasticum (hsm), descrive l’osservazione degli astri dall’interno di un monastero. Esso ha il fine di stabilire la tempistica delle orazioni notturne in rapporto alle ore in cui, nelle diverse stagioni, le stelle apparivano nel cielo soprastante gli edifici monastici. La maniera in cui il testo pone questi ultimi (chiesa, refettorio e dormitorio) in reciproco rapporto indica senza ombra di dubbio che essi erano disposti intorno a un’area aperta centrale e che, rispetto ad essa, occupavano la posizione che normalmente troviamo nelle abbazie del pieno Medioevo, con la chiesa sul lato nord, il capitolo (e il soprastante dormitorio) sul lato est e il refettorio su quello meridionale. 12 La storia costruttiva della elaborata cripta dell’abbaziale di San Medardo è assai complessa. La sua planimetria presenta un lungo corridoio trasversale, che percorre l’intera larghezza della chiesa soprastante, lungo il quale si aprono sette cappelle sul lato orientale e quattro sul lato occidentale, alcune delle quali certamente destinate a uso funerario. L’impianto di questo spazio ipogeo si data contemporaneamente alla ricostruzione dell’antica abbaziale merovingia, avvenuta al tempo dell’abate Ilduino, cugino di Ludovico il Pio, in carica fra l’819 e l’830 circa, ma una serie di interventi datati al pieno Medioevo ne avrebbe alterato parzialmente la planimetria originaria, soprattutto con la modifica delle ultime due cappelle meridionali.

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Le città dei monaci 13 L’articolo

fu ripubblicato in una miscellanea di scritti apparsa alla fine degli anni ’70 del xx secolo. grande interesse sono le riflessioni di Beat Brenk sul tema dell’evoluzione dell’organizzazione planimetrica degli insediamenti monastici e dell’affermazione della cosiddetta ‘struttura a quattro corpi’. Lo studioso ritiene che essa, lungi dal costituire sic et simpliciter l’esito dell’applicazione di prescrizioni presenti nei testi delle Regulæ, costituirebbe la soluzione più idonea alle esigenze poste dal regime della clausura, e cioè della secessio della vita monastica rispetto all’esterno, e la sua finale affermazione deriverebbe dal progressivo ed empirico passaggio che conduce nel tempo dall’attuazione di «un’architettura ad hoc», che rispondeva in modo pragmatico a tale esigenza, verso la messa in atto di una vera e propria «architettura progettuale monastica» (Brenk 2005: 172). 15  Sarebbe impossibile fornire una lista di riferimenti bibliografici che possa ambire a rappresentare adeguatamente gli esempi più rilevanti in tal senso. Si vedano perciò le riflessioni generali sul tema in Brooke 1974; Romanini 1989; Righetti Tosti-Croce 1991; Greene 1992: 1-31; Pistilli, Legler, Jacobsen 1993; Thompson 2001: 31-62. 16  Merita un cenno la particolare disposizione degli edifici rilevata nel monastero pugliese della SS. Trinità sul Gargano, sviluppatosi fra xi e xii secolo, nel quale l’area claustrale vera e propria (comprendente dormitorio, latrine, cucine e refettorio) sorge alle spalle della chiesa e si articola intorno ad un’area aperta, non porticata, completamente inaccessibile dall’esterno. Sul chiostro edificato sul lato sud della chiesa, invece, si affacciano ambienti di cui è stata ipotizzata una destinazione a infermeria, a residenza dell’abate e a sala capitolare. Quest’ultima, posta – come ci si aspetterebbe – sul lato orientale del chiostro, costituisce l’ambiente cerniera fra la zona più esterna del monastero e il quartiere in cui abitavano i monaci (Fulloni 2006). 17 Un caso particolarissimo è quello rappresentato dall’abbazia catalana di Sant Miquel de Cuixà, ove, grazie a una serie di lavori promossi nella prima metà dell’xi secolo dall’abate Oliba, l’area dell’atrio fu organizzata come una vera e propria ‘contro-chiesa’. Articolata su due livelli (di cui uno sotterraneo e l’altro posto alla stessa quota della chiesa), all’estremità orientale ospitava una sorta di cappella a pianta circolare, dedicata alla Natività (anch’essa articolata su due piani), che ripropone quindi la tradizione della localizzazione dei culti incentrati sulla figura del Cristo nato e risorto negli spazi liminari alla chiesa, per consentire una più diretta partecipazione ai culti da parte dei laici (Davril-Palazzo 2002: 212-214). Lo spazio dell’atrio si pone quindi in diretta relazione con le navate laterali della chiesa, che immettono nel transetto e si prolungano in un corridoio-deambulatorio che procede alle spalle dell’abside. Sia nel transetto sia in questo corridoio si aprono absidi e cappelle, destinate ad accogliere reliquie di santi (Boto 2007). Quest’originale disposizione probabilmente permetteva di riservare all’uso monastico lo spazio della nave centrale e, al contempo, di creare un percorso per la visita della chiesa e delle sue reliquie da parte dei pellegrini. 18  Si vedano in particolare i casi di alcuni monasteri cisterciensi di cui si è ben conservato l’insieme di tutte le componenti dell’insediamento, come quelli di Fontenay e Le Thoronet in Francia (André 2003; Esquieu, Eggert, Mansuy 2006) o quello di Fossanova in Italia (De Rossi 2002). 19  lt, ii, 1. 20 A Cluny, il settore destinato alla cura degli infermi si trovava alle spalle della chiesa maggiore ed era ospitato in un grande edificio nel quale si trovavano, oltre alle corsie con i letti, anche ambienti per il personale di servizio. Di nuovo il modello della Pianta di San Gallo è riproposto in maniera puntuale. 21  lt, ii, 1. 22 Oltre a quelli svizzeri di Payerne e Romainmôtier, poc’anzi ricordati, si annoverano anche altri siti geograficamente ancor più vicini all’abbazia madre, come il Saint-Germain di Auxerre, il SaintPhilibert di Tournus e l’abbaziale di Paray-le-Monial, monasteri che a Cluny si legarono spiritualmente o furono da essa fondati tra la fine del x e la prima metà dell’xi secolo. 23  lt, i, 53. Purtroppo, differentemente da quanto avviene nei testi di età carolingia relativi all’abbazia di Centula, non è descritto il percorso seguito dalla processione all’esterno del recinto monastico. 14 Di

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Il “futuro” della pianta di San Gallo 24 Nella

galilea si trovava anche un passaggio che immetteva direttamente nei claustra in cui abitavano i monaci e che era costantemente sorvegliato dal fratello che svolgeva il delicato compito di portararius del monastero (lt, ii, 43). 25 L’ammissione dei laici all’interno dell’ecclesia maior dell’abbazia è apparentemente prevista, nel testo del Liber Tramitis, solo in occasione delle celebrazioni della Pasqua (lt, i, 57) e nei casi in cui si dovevano recitare preghiere (clamores) volte a scongiurare l’abbattersi sul monastero di calamità o di minacce (lt, ii, 37). Similmente a quanto era indicato nella Pianta di San Gallo, anche a Cluny era eccezionalmente concesso agli ospiti di maggior riguardo di entrare nella chiesa. Ciò poteva avvenire a patto che di queste persone fosse accertata la maturitas, e comunque sempre sotto stretta sorveglianza del portararius, il quale li precedeva con la propria lanterna (lt, ii, 43). Questo dettaglio lascia pensare che queste ‘visite guidate’ avvenissero quando la chiesa era immersa nel buio, e cioè nei momenti in cui non vi si svolgevano celebrazioni. Sulla visione cluniacense dei limiti all’accessibilità ai laici dello spazio della chiesa si veda Lauwers 2005: 101-104. 26 La disposizione delle chiese adibite principalmente ai servitia di tipo pastorale poteva essere risolta anche attraverso soluzioni diverse da quelle viste a Cluny, ma funzionalmente altrettanto efficaci. Ad esempio, nella grande abbazia inglese di Bury St. Edmunds, fiorita a partire dal pieno xii secolo, le chiese sussidiarie dell’abbaziale erano state disposte ai margini del recinto che delimitava l’area del monastero vero e proprio, ma la loro facciata si apriva verso l’esterno (Gransden 2007). 27  lt, i, 66. 28  lt, ii, 29-31. 29 L’ala dei conversi era anche di solito quella in diretto contatto con il recinto più esterno del monastero, nell’ambito del quale erano concentrati gli spazi per l’accoglienza e la produzione. Fra i moltissimi casi che si potrebbero citare in tal senso, oltre a quello di Fossanova, discusso più avanti, vale la pena ricordare quello dell’abbazia abruzzese dei Santi Vito e Salvo, recentemente ricostruito sulla base di precise indagini archeologiche (Faustoferri, Aquilano 2010).

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Capitolo ottavo Conclusioni Ciò da cui fuggivo […] si sta abbattendo sul mio rifugio. Penso a quei frati benedettini costretti a trasformarsi in guide turistiche – dei religiosi che erano venuti a chiudere la loro fede in un chiostro che si ritrovano a spiegare la Regola di san Benedetto a una folla indifferente (Tesson 2012: 41) Dall’alto del pulpito di pietra sul muro del refettorio senza tetto [dell’abbazia] di Fountains si può guardare giù verso una moltitudine di fantasmi a capo chino. Ma è difficile afferrare l’esperienza e l’atmosfera della vita quotidiana in un chiostro medievale. I documenti possono evocare per noi gli atti esteriori della vita quotidiana monastica. Ma la sua profondità, alla fine, ci sfugge (Lawrence 1993: 154)

Il percorso che, partendo dalla prima metà del iv per giungere alle soglie del xiii secolo, ci ha portati a seguire l’evoluzione del modo di teorizzare, descrivere e strutturare lo spazio monastico guardando simultaneamente alle fonti scritte e alle evidenze materiali ha permesso di definire alcune linee portanti di questo processo. Nei primi due secoli (il iv e il v) le riflessioni che si svolsero negli ambienti monastici delle province orientali dell’Impero romano s’incentrarono soprattutto su quali connotati dovessero distinguere il luogo in cui si ritirava a vivere il monaco – da solo o in quanto componente di una comunità – rispetto a quelli in cui erano rimasti tutti gli altri, ivi compresi i membri del clero che, con i cambiamenti seguiti all’Editto costantiniano del 313, si erano trovati sempre più coinvolti nella gestione di affari mondani. La scelta esistenziale compiuta dal monaco permeava delle sue qualità il luogo in cui egli si era insediato, rendendolo quasi una finestra attraverso la quale rimirare con più nitidezza che da altrove la magnificenza della gloria di Dio, stabilire con Lui un colloquio più diretto e prepararsi quindi con maggiore intensità al ricongiungimento che sarebbe avvenuto dopo la morte del corpo terreno. Ma questa finestra si poteva aprire solo per chi avesse compiuto senza ripensamenti la scelta dell’abbandono delle cose del mondo, e per questo lo spazio in cui viveva il mona343

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co era precluso a chi rimaneva in esse coinvolto, trasformandosi in una clausura dalla quale egli non voleva e non poteva neppure più allontanarsi, pena la perdita della condizione di prossimità a Dio che aveva inteso raggiungere. Esso è un luogo ‘altro’, in cui non vigono più le leggi stabilite dagli uomini per governare il secolo e che, per la natura stessa di coloro che le hanno promulgate, non garantiscono la vera pace e giustizia fra le persone. Soprattutto le città, in cui vivevano assiepate migliaia di individui di ambo i sessi e dove si concentravano più che altrove ricchezza, potere e corruzione morale, costituivano i luoghi nei confronti dei quali i monaci intendevano marcare con più decisione l’irreversibilità del proprio distacco. L’apparizione del monachesimo cenobitico nel corso del iv secolo portò all’elaborazione del concetto che i luoghi in cui si stabilivano le comunità ascetiche potevano essere considerati, per i princìpi morali e gli stili di vita che ne contraddistinguevano gli abitanti, la rappresentazione di ciò che le città degli uomini avrebbero potuto essere, se in esse si fosse compiutamente attuata e rispettata la legge di Dio. I cenobi erano quindi ciò che, in terra, vi poteva essere di più vicino alla città celeste che le anime dei salvati avrebbero raggiunto dopo la morte. L’armonia che vi regnava si rifletteva nella serena bellezza che acquisiva il loro aspetto materiale, ove i più semplici doni di Dio (le piante, i fiori, l’acqua) risaltavano e si offrivano allo sguardo dei monaci come oggetti di contemplazione. L’estraniazione dal mondo (xenite…a) che il monaco raggiungeva rifugiandosi nell’anacoresi, diveniva cittadinanza (polite…a) di un nuovo tipo di società che, sulla terra, anticipava e preconizzava quella dei beati che si sarebbero assisi al cospetto di Dio, una volta concluso il transito terreno. La rappresentazione del monastero come città portò anche ad una riflessione sulla definizione dei suoi confini: come le mura distinguevano e proteggevano le città dall’esterno e dai suoi pericoli, così doveva esistere una tangibile separazione dello spazio del monastero dal mundus al di fuori di esso. Già nell’Oriente tardoantico sovente essa assunse la forma fisica di una cinta muraria, che serrava gli spazi interni e li rendeva invisibili dal di fuori. Contestualmente, le fonti scritte testimoniano che un argomento oggetto di attenti approfondimenti fu quello della definizione delle modalità di accesso alla clausura monastica e dei percorsi attraverso cui esse si attuavano. Il tema è trattato con il massimo scrupolo, poiché dalla corretta gestione di questo transito dipendeva la possibilità che i monaci – da soli o in comunità – potessero rimanere incolumi da contatti incontrollati con il mondo esterno, che potevano sconvolgere la quiete spirituale nella quale doveva attuarsi l’ascesi. Minore dettaglio sembra essere stato dedicato, in questa fase storica, al tema dell’articolazione interna dello spazio monastico. Non che nelle fonti scritte manchino esempi di descrizione dei monasteri e degli edifici che li componevano; ma la questione non sembra aver assunto una particolare rilevanza nei testi in cui si discute dei princìpi organizzativi della vita monastica, con la parziale eccezione della Regola redatta dall’egiziano Pacomio poco dopo la metà del iv secolo. 344

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Conclusioni

I dati archeologici propongono molti esempi di insediamenti complessi e funzionalmente assai articolati, dall’analisi dei quali – pur nella grande varietà delle soluzioni adottate – emerge l’attenzione posta da chi ne promosse la costruzione su alcuni aspetti ritenuti indispensabili affinché le comunità che vi abitavano potessero avere a portata di mano tutto il necessario per soddisfare le esigenze della vita quotidiana. Tra questi, spicca certamente quello dell’organizzazione dello spazio per la preghiera, la dislocazione del quale è curata in rapporto soprattutto all’esigenza che ad esso avessero accesso principalmente, se non esclusivamente, i monaci. Le conquiste raggiunte dal movimento monastico nell’Oriente si trasmisero alle regioni occidentali dell’Impero a partire dalla fine del iv secolo. Molti dei temi discussi ed elaborati in Egitto, Siria e Palestina sulle modalità di organizzazione degli insediamenti monastici approdarono presso le comunità cristiane d’Italia, Gallia, Africa e Hispania e vi furono assimilati in maniera pressoché integrale. Tra questi, una posizione di primo piano è occupata sicuramente da quello relativo alla separatezza dello spazio monastico rispetto all’esterno. Ma altri argomenti furono recepiti e trattati in maniera originale, come ad esempio quello dell’uso delle comunità monastiche a supporto di una serie di servizi che, stricto sensu, riguardavano la sfera di attività della Chiesa secolare, tra cui l’assistenza da offrire a poveri e pellegrini presso i grandi santuari martiriali sorti nei pressi delle città. La questione era già stata affrontata in Oriente, dove comunità di monaci operavano all’interno d’importanti centri di pellegrinaggio, quale quello di san Simeone lo Stilita in Siria e quello di san Mena in Egitto; ma in Occidente (e soprattutto in Gallia e in Italia), l’attivismo dei vescovi nell’istituzione di comunità monastiche presso le basiliche suburbane sorte in prossimità di sepolcri venerati si sviluppò con assai maggiore sistematicità. È facile immaginare che la vita di questi monasteri fosse imperniata più sul servizio alle chiese cui essi erano aggregati che sul perseguimento dell’anacoresi e della preghiera. L’interventismo dei vescovi nella vita dei monasteri si sarebbe manifestato per tutto il Medioevo in diverse forme, ma quello che si attuava in casi come questi costituiva una vera e propria sovrapposizione alle finalità proprie della vita monastica di compiti ausiliari alle competenze della Chiesa secolare. Fra v e vi secolo in Occidente germinarono anche i primi esperimenti di coinvolgimento di esponenti del ceto aristocratico nella fondazione e nella promozione di monasteri. In alcuni casi, questi personaggi s’impegnarono in prima persona nella creazione di comunità monastiche, delle quali essi stessi intesero fare parte spesso come loro leader; in altri, si limitarono a svolgervi un ruolo di patronato, fornendo terreni e risorse affinché i monaci potessero essere messi nelle condizioni migliori per attuare il proprio progetto di vita ascetica. Dalle fonti scritte s’intuisce che spesso dimore urbane o di campagna furono convertite in residenze per le comunità monastiche, anche se le indagini archeologiche non riescono ancora a fornire un quadro preciso delle trasformazioni architettoniche e funzionali determinate dai cambiamenti che tali nuove destinazioni d’uso potevano imprimere all’architettura di edifici originariamente progettati come abitazioni di lusso. 345

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In ogni caso, sia i monasteri ‘vescovili’, sia quelli ‘aristocratici’, si caratterizzavano per una forte dipendenza dalla volontà del fondatore e dalle finalità che questi aveva stabilito, lasciando minori spazi allo sviluppo di progetti di vita ascetica che muovessero da istanze e princìpi di carattere precipuamente spirituale. Forse è anche per questi motivi che, fra v e vi secolo, si sviluppò in Occidente (soprattutto fra Italia, Gallia e Iberia) una cospicua produzione letteraria che, prendendo spunto da alcuni riferimenti di origine orientale (in primo luogo dai testi di Pacomio e Basilio), elaborò una profonda e articolata riflessione sui presupposti morali, comportamentali e organizzativi che avrebbero dovuto presiedere al funzionamento di una comunità di monaci. Questi testi, che sono abitualmente conosciuti come “Regole monastiche”, sono riconducibili ad autori di diversa provenienza e formazione: alcuni di essi furono dei vescovi, come Cesario e Aureliano di Arles, Ferreolo di Uzès, Fruttuoso di Braga e Isidoro di Siviglia; ma Benedetto da Norcia e altri autori, sulla cui identificazione non sono state raggiunte dagli studiosi opinioni concordi, furono invece personaggi provenienti direttamente dal mondo monastico. Il fatto che alcuni degli autori di questi testi fossero vescovi testimonia che molti di essi consideravano con attenzione le specificità della vita monastica e furono attivi nel promuoverne lo sviluppo organizzativo e spirituale, indipendentemente dalle possibilità di utilizzarne il contributo per le necessità delle proprie diocesi. D’altra parte, il fatto che due dei principali centri monastici della Gallia tardoantica – quello sorto nell’isola provenzale di Lérins agli inizi del v secolo e quello di Condat, sviluppatosi nelle montagne del Giura nella seconda metà dello stesso secolo – avessero fornito numerosi titolari alle diocesi situate sulla parte centro-meridionale della regione è prova delle forti interazioni che esistevano tra la Chiesa secolare e le comunità ascetiche. I testi delle Regole forniscono informazioni molto utili per comprendere quali punti di vista fossero maturati in Occidente sul tema dell’organizzazione dei monasteri e, di conseguenza, degli spazi nei quali i monaci avrebbero dovuto trascorrere la propria esistenza. Pur tenendo conto della diversità delle loro origini geografiche e cronologiche e della peculiare articolazione interna di ciascuno di essi, presentano numerosi elementi di convergenza, sia nella comune condivisione dell’idea – ripresa dalla tradizione orientale – che il monastero dovesse offrire ai suoi abitanti un rifugio fisicamente separato dal mondo circostante, sia riguardo al fatto che al loro interno fosse predisposta una serie di spazi funzionali allo svolgimento delle principali attività che occupavano le giornate delle comunità (dalla preghiera alle attività lavorative, alla refezione, al riposo). Studi recenti hanno opportunamente sottolineato che sarebbe errato desumere dalle indicazioni delle Regulæ tardoantiche modelli per l’organizzazione architettonica degli insediamenti monastici: esse forniscono indicazioni riguardo a una serie di esigenze da tenere presenti e, possibilmente, soddisfare al fine di ottenere il risultato di un monastero funzionale e idoneo allo svolgimento di una vita comunitaria armonica e serena. Ma non vi troveremo alcun esplicito dettame su come gli 346

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Conclusioni

edifici debbano essere disposti sul terreno e in quale connessione tra di loro, anche se indizi indiretti mostrano che un dialogo fra norme e progettazione architettonica doveva probabilmente esistere. Inoltre, tali testi hanno esercitato nei secoli a venire un’influenza potentissima e mai messa in discussione sul modo di concepire l’organizzazione materiale di un monastero: è difficile trovare, dall’alto Medioevo in poi, un insediamento monastico di una qualche consistenza che non includa al proprio interno spazi destinati ad ospitare tutte le funzioni che le Regulæ (e in particolare quella di Benedetto, che fra tutte fu quella che godette di maggiore fortuna) enumerano e consigliano di predisporre. Nel passaggio all’alto Medioevo si dissolse la centralità sociale ed economica che gli insediamenti urbani avevano detenuto in quasi tutti i territori dell’Occidente romano nel corso dei secoli dell’antichità classica. Le città in genere non scomparvero, ma restarono in vita soprattutto con funzioni di presidi militari e di luoghi di residenza dei rappresentanti del potere (e, tra questi ultimi, in primo luogo dei vescovi). Aristocratici e sovrani risiedevano spesso nelle campagne, dove si concentrava la base economica del loro potere, costituita da cospicui patrimoni fondiari dai quali essi traevano le risorse per mantenere le clientele militari necessarie a puntellarne la preminenza politica. Forse è in ragione di questi mutamenti che, a partire dal vii secolo, inizia a riscuotere significativo successo un modello di insediamento monastico che univa elementi fortemente connaturati nelle tradizioni originarie del monachesimo tardoromano ad altri indubbiamente innovativi. Tra i primi, troviamo la preferenza per la campagna come milieu ideale in cui una comunità monastica poteva perseguire il proprio progetto di vita e la considerazione che quest’ultimo, per poter essere pienamente attuato, dovesse potersi svolgere in una condizione di relativa autonomia dalle interferenze delle gerarchie della Chiesa secolare. Tra le novità può essere annoverata la convinzione che tale sviluppo avrebbe potuto trarre efficaci giovamenti da un legame saldo con gli esponenti più eminenti del laicato (in primo luogo coloro che detenevano il potere sovrano), in grado di offrire alle comunità sostegno economico e protezione politica in cambio dell’intercessione che i monaci, con le loro preghiere, avrebbero compiuto presso Dio in favore della loro anima. A vantaggio dei loro patroni laici i monaci avrebbero potuto impegnarsi anche per svolgere un altro prezioso servizio, e cioè quello di cooperare all’evangelizzazione delle popolazioni rurali e di quelle che, soprattutto nel regno dei Franchi, venivano progressivamente attratte nell’orbita della monarchia merovingia. Non stupisce che una concezione di questo tipo del monachesimo e dei monasteri fosse stata importata nell’Europa continentale dalle isole britanniche, e in particolare dall’Irlanda. Qui, infatti, le missioni evangelizzatrici erano state condotte da monaci e il loro successo era stato assicurato dall’intuizione che i primi missionari avevano avuto di coinvolgere nel proprio progetto innanzitutto i capi delle comunità locali in cui si articolava l’assetto politico dell’isola. Comunità che, è bene 347

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ricordarlo, vivevano in piccoli villaggi, tra i quali era assente qualsiasi tipo di insediamento che, dal punto di vista amministrativo, sociale ed economico, fosse paragonabile alle città sorte sul continente in età romana. In questo contesto i monasteri divennero quindi dei central places, e cioè centri egemoni (in primo luogo sotto il profilo spirituale e culturale) al pari degli insediamenti in cui abitavano i capi politici che si spartivano il territorio dell’isola. I monaci irlandesi si proposero quindi come gli attuatori di un monachesimo che fosse forza pienamente coinvolta nella cristianizzazione della società, ma che non per questo rinunciava a considerare compito prioritario quello della conduzione di una vita ascetica conforme ai modelli maturati nell’Oriente e nell’Occidente tardoantichi. Questa nuova e, per certi versi, contraddittoria sfida fu affrontata utilizzando diversi strumenti: una concezione estremamente rigorosa della disciplina monastica, una più diffusa ammissibilità dell’ordinazione sacerdotale per i monaci e la delineazione di un’idea organizzativa dello spazio monastico che prevedesse la creazione di diversi settori funzionali, in grado di permettere il contatto e l’interazione con il mondo esterno anche per lo svolgimento delle attività pastorali, preservando però al contempo l’inaccessibilità delle aree riservate alla vita comunitaria dei monaci e, in particolare, all’esercizio della preghiera. Tali concetti, che sono ben leggibili nella struttura dei principali cenobi sorti in Irlanda, Scozia e Galles fra vi e vii secolo, furono applicati anche alle nuove fondazioni che, proprio per impulso dei monaci insulari, iniziarono a sorgere nel regno franco con il sostegno di monarchi e aristocratici, puntando a divenire snodi centrali di una rete di relazioni politiche, spirituali, culturali ed economiche che, sulla scorta delle esperienze maturate in ambito insulare, s’inserirono nel territorio bypassando la mediazione dei centri urbani. Le maggiori risorse economiche di cui le comunità poterono disporre in questo contesto e la tradizione che voleva i monasteri coinvolti anche nella custodia delle memorie dei santi innestarono su questo canovaccio alcuni elementi di ulteriore novità. Innanzitutto, già nella seconda metà del vii secolo, in Francia iniziarono ad apparire complessi monastici caratterizzati da una monumentalità e da dimensioni inedite nelle esperienze dei secoli precedenti. Un tratto caratteristico di questi nuovi insediamenti sarebbe stato ad esempio quello di ospitare più chiese al proprio interno, ciascuna destinata a svolgere funzioni diverse: fornire ai monaci uno spazio per la preghiera, ospitare degnamente reliquie e memorie di santi venerati dalla comunità, organizzare un luogo nel quale o presso il quale seppellire i defunti e, infine, assicurare la cura d’anime alle popolazioni che vivevano nel territorio circostante il monastero e che, sempre più spesso, ad esso fornivano la forza-lavoro necessaria per metterne a frutto le proprietà fondiarie. Questa concezione dell’insediamento monastico attecchì anche nell’Italia longobarda, sia attraverso la diretta mediazione di esperienze di origine insulare (Bobbio), sia mediante una loro originale rielaborazione avvenuta in ambito franco. Per tutti questi motivi, l’epoca merovingia si può considerare un momento di 348

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Conclusioni

decisivo mutamento del ruolo dei monasteri nel territorio. Se alle campagne fu restituita centralità come ambito preferenziale per il loro impianto, è pur vero che il ridimensionamento delle città in questa fase storica rese i più grandi fra essi degli insediamenti che, anche grazie all’entità degli investimenti di cui furono oggetto, apparvero a loro volta capaci di esprimere una ‘qualità urbana’. Questo cambiamento fu reso possibile dal costituirsi di una sinergia fra monachesimo e aristocrazia, e produsse il paradosso di trasformare un movimento spirituale nato sul presupposto del rifiuto di ogni commistione dell’uomo di Dio con i poteri terreni in un interlocutore privilegiato di questi ultimi. Ma è chiaro che tale paradosso deve essere valutato nel contesto specifico dei secoli iniziali dell’alto Medioevo: il monaco, che aveva come fine primario della sua esistenza quello di coltivare la conoscenza e la meditazione della parola di Dio, rappresentava un patrimonio inestimabile di competenze non solo spirituali, ma anche pratiche (la capacità di decrittare e riprodurre la parola scritta) di cui pochi conservavano il controllo. Per questo motivo, il mondo monastico fu, si può dire, cooptato a collaborare con quanti ricoprivano posizioni di vertice nella società del tempo e iniziò ad essere da essi promosso e sostenuto come una sorta di ‘chiesa parallela’ rispetto alle gerarchie episcopali, in virtù delle particolarissime prestazioni che poteva fornire. Gli atti promulgati prima dai sovrani merovingi e poi, in Italia, da quelli longobardi per conferire ai monasteri che essi stessi fondavano margini di autonomia operativa e d’indipendenza spirituale rappresentano meglio di ogni altra cosa il senso del legame fra i rappresentanti del potere terreno e le persone che, più di tutte le altre, sembravano poter costituire un ponte verso il mondo ultraterreno. I monaci, che avevano rinunciato a tutto in questa vita, potevano essere i migliori ministri per garantire ai propri protettori un transito sicuro delle loro anime verso l’aldilà. La scommessa era rischiosa, perché comportava il determinarsi di una condizione in cui i monaci, che individualmente non dovevano possedere nulla, avrebbero potuto chiedere (o si sarebbero visti concedere) tutto il possibile per i loro monasteri, affinché assolvessero degnamente il nuovo compito al quale la storia li chiamava. Nell’età carolingia la posizione dei monasteri nella società non cambiò. Anzi, man mano che il dominio franco si estese a controllare quasi tutta l’Europa cristiana, essa acquisì ulteriore rilevanza strategica. I monasteri furono considerati dai sovrani come un prezioso punto di riferimento nei territori sottoposti al proprio potere: ad essi fu affidato il ruolo di far riecheggiare ovunque il loro nome, e lo splendore che ora li ammantava avrebbe dovuto riverberare quello dell’autorità che li proteggeva e la pietas christiana che essa mostrava nel sostenerli. Affinché questo meccanismo funzionasse nel miglior modo possibile, Pipino, il figlio Carlo Magno e il nipote Ludovico il Pio (coadiuvati da consiglieri che, non di rado, erano a loro volta dei monaci) esercitarono una continua e sempre più sistematica azione per far sì che gli stili di vita e le modalità di funzionamento dei monasteri divenissero il più possibile omogenei all’interno di tutti i territori del regno franco (trasformatosi in Impero dall’anno 800). A tal fine, la Regola di Bene349

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detto da Norcia fu considerata lo strumento migliore da proporre come parametro di riferimento alle diverse comunità. Nei decenni a cavallo fra l’viii e il ix secolo iniziò ad evidenziarsi la prevalenza di quello che può essere chiamato un monachesimo di tipo “benedettino”; ma sarebbe un errore pensare che a ciò corrispondesse la costituzione di un “ordine” benedettino, che peraltro, in quanto tale, nel Medioevo non è mai esistito. Nell’età carolingia ogni monastero costituiva un’entità spiritualmente e organizzativamente autonoma e l’unico legame che poteva far dipendere un monastero da un altro era quello determinato dall’appartenenza patrimoniale. La volontà della monarchia di riportare in vita simboli e riti di Roma, madre di tutta la cristianità occidentale, sebbene non abbia forse mai prodotto in alcuna chiesa d’Oltralpe imitazioni ad litteram delle costumanze liturgiche in voga nell’antica capitale dell’Impero, suscitò comunque un rinnovato e diffuso interesse per una più accurata organizzazione della coreografia che doveva accompagnare le cerimonie religiose. I monasteri (soprattutto i più grandi), che gareggiavano per ospitare all’interno delle loro chiese i sacri resti dei santi provenienti dalla Città Eterna, spesso per affiancarli a quelli dei propri fondatori o di altri personaggi locali oggetto di venerazione, furono anche tra i principali protagonisti dello sviluppo di elaborate liturgie che avevano per obiettivo quello di far apparire i propri spazi come teatri della glorificazione del sacro e del divino. La preghiera monastica cessava di essere solo recitazione compiuta negli oratoria delle abbazie e diveniva sostanza di un canto che, per mezzo di fastose e solenni processioni, si diffondeva attraverso tutto lo spazio della clausura e, in speciali occasioni, ne varcava i confini per mostrare al mondo quali vette di bellezza avesse raggiunto la lode che i monaci rivolgevano quotidianamente a Dio. Scriptoria, biblioteche e archivi che sorgevano all’interno delle abbazie avevano il compito di preservare, adattare (se necessario) e trasmettere nel tempo a venire l’identità della comunità, che si componeva di un inestricabile intreccio di fatti terreni e di colloqui con la sfera del divino. Questi monasteri enormi ed economicamente potentissimi, intorno al cui perimetro gravitavano le vite e il lavoro di centinaia di sæculares impiegati come contadini, serventi, artigiani e anche con funzioni militari, dovevano trovare un compromesso praticabile fra l’esigenza dell’isolamento e quella del colloquio e dell’interazione con il mondo esterno1. Nonostante gli sforzi compiuti per omologare gli stili di vita delle diverse comunità, lo spirito di emulazione e l’ambizione che animavano gli abati produssero la conseguenza che ogni monastero evolvesse, dal punto di vista materiale, come un’opera a sé. Sebbene si possano trovare alcuni tratti analoghi d’ispirazione nell’organizzazione e nella distribuzione degli edifici sacri e profani, derivanti in primis dai riferimenti offerti dai testi delle Regole (e soprattutto da quella di Benedetto), sarebbe un’impresa destinata all’insuccesso quella di ricondurre tutto ciò entro un qualsiasi tipo di schema progettuale che avesse il valore di riferimento comune. 350

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Conclusioni

In questa fase, le abbazie – soprattutto le principali – si espandevano sul terreno assumendo conformazioni planimetriche grandiose e variegate, avendo come unico limite quello delle disponibilità economiche su cui ogni abate poteva fare affidamento. La loro dimensione, la qualità architettonica dei loro edifici, l’eccellenza spirituale, culturale e tecnologica che custodivano al proprio interno rendeva questi luoghi a tutti gli effetti paragonabili a delle città, al pari di come civitas poteva rappresentarsi, in quei secoli, il palatium di un re, del papa o di un grande vescovo (Jacobsen 1999; Luchterandt 1999; Polci 2002; Schutz 2004: 323-368). Il linguaggio con cui si esprimeva nell’età di Carlo Magno l’architettura monastica era insomma in primo luogo quello del potere: un potere ben radicato nelle sfere terrene, tuttavia intriso di una sacralità che, soprattutto attraverso la solenne tranquillità entro cui si racchiudeva la vita regularis, rifletteva la serenità e la maestà del potere celeste. Questo linguaggio affondava le proprie radici in una tradizione che aveva definito i propri codici espressivi nella tarda antichità, quando era stata elaborata l’immagine di un potere irraggiungibile per i suoi subjecti (perché direttamente connesso alla divinità) e imperscrutabile nei suoi meccanismi decisionali (perché dal dialogo con la divinità traeva per essi ispirazione). Asserragliati nei loro palatia, gli imperatori si mostravano ai sudditi solo in specifiche circostanze regolate da rigidi cerimoniali, come in occasione delle udienze che si svolgevano all’interno delle aule di ricevimento o in occasione dei cortei trionfali che attraversavano le vie delle capitali. Sempre fisicamente inavvicinabili, scortati da guardie e accoliti, la loro presenza incombeva sui ‘comuni mortali’ e allo stesso tempo sfuggiva loro. Nell’età carolingia parte dei rituali di corte tardoromani era stata rispolverata e adattata – probabilmente attraverso la mediazione bizantina – a fungere da cornice celebrativa della sacralità di cui il potere universale dei sovrani franchi si ammantava (McCormick 1986: 362-383; McCormick 1999). Sarebbe difficile non vedere riverberi di queste costumanze nelle liturgie attraverso le quali il Deus absconditus, con cui gli eletti che componevano le comunità monastiche carolinge dialogavano ogni giorno, si mostrava periodicamente ai fedeli: queste occasioni erano come lampi di luce che regalavano ai non-monaci una momentanea prossimità con la sfera del divino, il cui splendore rimaneva però in genere confinato entro le mura invalicabili dei claustra. Visto sotto il profilo del prestigio politico, sociale ed economico raggiunto e sotto quello delle opere che questa condizione consentì di realizzare, il periodo carolingio può essere davvero considerato il momento dell’apogeo dei chiostri. Quello di Teodulfo, consigliere di Carlo Magno e vescovo di Orléans, divenuto nell’802 anche abate del prestigioso monastero di Fleury (che dal vii secolo vantava la custodia dei resti corporali di Benedetto da Norcia), rappresenta il caso emblematico di un committente che promosse tanto il potenziamento della propria abbazia, quanto la costruzione di un complesso residenziale di pregio i cui splendori dovevano riecheggiare quelli di una grande villa tardoantica. A Germignydes-Près, poco lontano da Orléans, egli fece edificare una villa dotata di sale di ri351

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cevimento, riccamente decorate con pitture a soggetto profano, e di un oratorio a pianta quadrilobata, la cui architettura richiama modelli di ascendenza paleocristiana e che costituisce oggi forse l’unico caso sopravvissuto di un edificio di culto sorto a servizio della dimora di un esponente dell’aristocrazia carolingia (Heber, Suffrin, Sapin 2004). In alcuni casi, le imprese edilizie promosse da abati che pure disponevano di notevoli risorse economiche e di appoggi politici ai più alti livelli si rivelarono però troppo ambiziose per essere portate integralmente a compimento. In alcuni settori del mondo monastico di allora s’iniziò ad avvertire un qualche disagio rispetto alle derive che un’eccessiva attenzione verso aspetti puramente materiali ed esteriori della vita ascetica poteva determinare. La gloria terrena delle abbazie, è vero, voleva essere specchio di quella divina; ma in essa poteva rischiare di annacquarsi il lineare rigore della vita dei monaci. Per alcuni anni, tra la fine del regno di Carlo Magno e l’inizio di quello di Ludovico il Pio, si discusse animatamente intorno al significato della Regola di Benedetto da Norcia e al contributo che essa avrebbe potuto dare per conferire alle popolazioni delle abbazie codici comportamentali che le mettessero al riparo da pericolosi disorientamenti. Ne scaturì la convinzione che si doveva lavorare soprattutto sull’incremento della disciplina nella vita regolare: imbevuto degli adeguati insegnamenti, ogni monaco avrebbe anche potuto vivere nel monastero più splendido, e qualsiasi abate si sarebbe anche potuto dedicare alle imprese più grandiose, senza per questo perdere la consapevolezza che tutto ciò costituiva niente più che una ‘cornice’ dell’essenza della vita ascetica: qualcosa in cui si poteva essere immersi, ma di cui non si aveva possesso alcuno e che serviva esclusivamente al raggiungimento del fine di donare a Dio le opere più belle che i Suoi figli fossero stati in grado di realizzare. Opportunamente educato e disciplinato, il monaco non sarebbe stato corrotto dallo splendore delle cose materiali, ma anzi ne sarebbe stato il miglior custode, perché non vi avrebbe proiettato ambizioni di possesso o di successo personale. Il testo di Benedetto andava perciò interpretato in modo da non lasciare dubbi sul fatto che vi si potessero trovare ‘scappatoie’ al rispetto di questi presupposti; e così avvenne nel corso dei sinodi tenutisi ad Aquisgrana fra l’816 e l’817, sotto la guida di un altro Benedetto, abate di Aniane, che Ludovico il Pio aveva voluto al proprio fianco, preferendolo ad altri leader di grandi monasteri dell’Impero che erano stati particolarmente vicini a suo padre Carlo, poiché ne aveva apprezzato proprio la capacità di non perdere di vista la centralità del tema dell’etica della vita monastica. Alla stessa fase temporale e, forse, allo stesso ambiente in cui si produssero le riflessioni condotte nei sinodi di Aquisgrana (anche se in merito a questo ultimo aspetto le opinioni degli studiosi non sono del tutto convergenti) appartiene un documento unico per la storia dell’architettura altomedievale: la cosiddetta Pianta di San Gallo. 352

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Conclusioni

Essa rappresenta probabilmente un piano progettuale, più di tipo ideale che destinato a una concreta applicazione, su come si sarebbe dovuto articolare sul terreno un monastero destinato ad accogliere una comunità numerosa. Qualunque sia stata la sua effettiva relazione con i sinodi dell’816-817, il nitido e in certo senso paradigmatico schema che esso propone sembra recepire in qualche modo lo spirito delle discussioni che si svolsero in quelle circostanze sui temi del rapporto fra disciplina monastica e beni terreni e di quelli delle comunità con il mondo esterno, nonché sul problema delle gerarchie e delle funzioni che regolavano la vita interna delle comunità stesse. La Pianta propone il modello di un grande monastero che, senza rinunciare alla legittima pretesa (soprattutto per quanto concerne la chiesa) di veder rappresentato il proprio prestigio spirituale da strutture architettoniche monumentali, la materializza però attraverso un organismo che rinuncia a un’espansione tentacolare e teoricamente moltiplicabile ad libitum sul terreno. In particolare, esso configura una rigorosa suddivisione del complesso monastico, avente per obiettivo quello di gestire le diverse funzioni cui la comunità avrebbe dovuto fare fronte, producendo il minimo delle sovrapposizioni e delle interferenze fra gli spazi destinati a ciascuna di esse. La Pianta di San Gallo, insomma, sembra prendere atto dell’inevitabilità delle interazioni che nel ix secolo connettevano un grande monastero al mondo esterno, ma cerca di organizzarle in modo da far sì che esse non travolgano l’equilibrio che deve essere innanzitutto garantito alla vita della comunità. Benché, dal canto suo, la Pianta di San Gallo non fece direttamente – né diffusamente – ‘scuola’ nell’architettura monastica del periodo ad essa contemporaneo, è fuor di dubbio che la sua formulazione assorbiva e rielaborava molti dei temi progettuali che vi si sarebbero ritrovati nei secoli a venire. Il più rilevante tra essi è sicuramente quello dell’aver proposto una soluzione al tema del rapporto fra chiesa e spazi residenziali della comunità monastica che, assolutamente non prevalente in età carolingia, avrebbe però trovato sistematica applicazione nelle abbazie dei secoli successivi. Mi riferisco allo schema che vede raggruppati i fabbricati residenziali intorno a uno spazio aperto a pianta quadrangolare e li connette, suo tramite, a un fianco dell’edificio chiesastico principale. Questo schema divenne così diffuso nell’architettura monastica del pieno Medioevo che, oggi, con la parola “chiostro” (e con i suoi omologhi nelle principali lingue europee) si designa tanto un insediamento monastico nel suo insieme, quanto proprio questa sorta di peristilio quadrangolare intorno al quale si raggruppano gli edifici strettamente riservati ai monaci. Ma non va dimenticato che la Pianta presenta altri tratti destinati a riscuotere futura fortuna: la rinuncia alla moltiplicazione del numero delle chiese e il raggruppamento di diversi foci devozionali entro lo spazio di un’unica grande aula di culto; la nitida definizione di tre aree funzionali che compongono il “cerchio esterno” dell’insediamento monastico (le aree produttive e dello stoccaggio dei prodotti agricoli, quelle per l’accoglienza degli ospi353

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ti, quelle per l’assistenza sanitaria), entro cui erano riunite tutte le principali ragioni di interazione che il claustrum poteva avere con il mondo al di fuori dei suoi confini. Non siamo in condizione di sapere esattamente perché proprio questo modello si sia imposto su altre possibili soluzioni, ma il dato di fatto è che esso sembra essere apparso il più idoneo a trasporre in spazio e materia un’idea condivisa della vita monastica comunitaria e dell’organizzazione dei suoi tempi e delle sue esigenze, all’interno della quale il testo della Regola di Benedetto aveva progressivamente assunto il ruolo di riferimento principale. Dire ciò, ovviamente, non significa affermare che la Pianta di San Gallo in quanto tale sia stata il documento a cui il monachesimo europeo postcarolingio ha guardato per pianificare la progettazione delle proprie abbazie (non sappiamo nemmeno se essa sia stata un unicum o se siano esistiti e siano mai circolati altri documenti analoghi), ma semplicemente constatare che molti dei concetti che essa illustra ebbero buone e concrete ragioni per affermarsi2. Fra tardo x e inizi dell’xi secolo, l’abbazia di Cluny rappresenta nel modo più compiuto lo schema organizzativo delineato dalla Pianta e, forse, anche più aderente alle ambizioni monumentali del tipo d’insediamento che essa intendeva rappresentare. Paradossalmente, però, tale modello troverà occasione di più o meno puntuale replica, soprattutto in monasteri di dimensioni assai più ridotte, che costituiranno la schiacciante maggioranza di quelli sorti dopo la fine dell’età carolingia. Esso si troverà quindi perfettamente adattabile a un mondo che era completamente cambiato rispetto a quello del ix secolo, nel quale le abbazie in genere non detenevano più disponibilità economiche paragonabili a quelle delle grandi fondazioni fiorite duecento anni prima sotto l’ombrello protettivo di un’unica autorità sovrana universale. La razionalità dei princìpi che la Pianta di San Gallo aveva rappresentato, forse ispirata dal dibattito sviluppatosi intorno ai deliberati dei sinodi di Aquisgrana, si era evoluta in una razionalità imposta dai fatti. La storia dello spazio monastico non si conclude di certo nel xii secolo. Ma in questo periodo era sicuramente giunto a compimento un itinerario di lunga durata. Lungo il suo corso, intorno all’idea (o alle idee) di come dovesse essere condotta e organizzata la vita ascetica, era stata prodotta una variegata elaborazione di forme materiali che avevano utilizzato spunti propri di linguaggi architettonici che con essa, in origine, non avevano nulla a che fare. Ma a partire dal xii secolo il monachesimo occidentale conobbe cambiamenti profondi, determinati dalla comparsa di nuove forme di vita regularis, alcune delle quali destinate a riscuotere enorme successo, che avrebbero rapidamente messo in crisi la indiscussa centralità sino a quel momento goduta dalla tradizione cenobitica di ascendenza tardoantica, agglomeratasi a partire dal xi secolo intorno alla prevalenza della sua declinazione “benedettina”. Ma tale eredità avrebbe espresso ancora la sua possente vitalità, anche attraverso la citazione del linguaggio e delle idee insiti nella struttura delle forme insedia354

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Conclusioni

tive che aveva elaborato nei secoli. Esperienze di vita regolare sorte fra xi e xiii secolo, quali ad esempio quelle realizzate da Certosini, Agostiniani e Francescani, pur presentando differenze evidenti con la tradizione cenobitica più classica, trassero dalla conformazione dei monasteri che essa aveva costruito elementi rilevanti di suggestione per la progettazione dei propri insediamenti. Nel caso degli insediamenti degli Ordini predicatori e mendicanti, ad esempio, accanto a una concezione completamente nuova dello spazio della chiesa, concepito come un luogo interamente aperto all’accesso dei fedeli, permase pienamente legata all’eredità del passato l’idea che fossero preclusi agli estranei i luoghi in cui abitavano le comunità, che si qualificavano quindi ancora pienamente come clausuræ3. Ma questa è veramente “un’altra storia”, che interseca i suoi percorsi con quelli di un’Europa che, nel declinare del Medioevo, si aprì a trasformazioni culturali, economiche, politiche e sociali profondissime e che meriterebbe per questo una narrazione che, pur non avulsa dall’eredità del passato, segua però un suo sviluppo autonomo e originale.

Note 1 In

un interessante studio sulla comunità di San Gallo in età altomedievale, il monastero viene definito come una total institution, ovvero come uno di quei luoghi in cui un gruppo di individui, separati dal resto della società per un periodo di tempo significativo, conducono insieme una vita confinata entro un preciso spazio fisico e normata da regole precise (Jezierski 2010: 14). 2  Sulla natura di “prototipo” o di “copia” di un documento ufficiale, attribuita di volta in volta alla Pianta di San Gallo da parte dei diversi studiosi che se ne sono occupati, si vedano le acute riflessioni di Adalbert de Vogüé (1987). 3 Vedi a questo proposito la minuziosa analisi dell’uso degli spazi nell’insediamento agostiniano di Saint-Jean-des-Vignes, a Soissons, condotta da Bonde e Maines (2004). Un’acuta riflessione generale – benché basata soprattutto su evidenze britanniche – sull’evoluzione del layout del benedictine plan nelle fondazioni create dai nuovi Ordini sorti nel tardo Medioevo in Greene 1992: 1-31 e Brooke 2006: 117-198.

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FONTI1

= Annales Fuldenses sive annales regni Francorum orientalis ab Einhardo, Ruodolfo, Meginhardo fuldensibus […] conscripti (a c. di G.H. Pertz-F. Kurze, Hannoveræ 1891 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Germanicarum in usum Scholarum, 7]). AI = Hieronymus, Adversum Iovinianum (PL, XXIII, coll. 221-351). AO = Johannes Chrysostomus, Adversus oppositores monasticæ vitæ (Giovanni Crisostomo, Contro i detrattori della vita monastica, traduzione, introduzione e note a c. di L. Dattrino, Roma 1996 [Collana di Testi Patristici, dir. A. Quacquarelli, 130]). AP = Aurelius Augustinus, Præceptum (Regola di Agostino, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 13-25). APAE = Apophthegmata Patrum Ægyptiorum (Detti inediti dei Padri del Deserto, a c. di L. Cremaschi, Bose 1986). BGR = Basilius Cæsariensis, Regulæ fusius tractatæ (Grandes Règles, in Saint Basile, Les Règles Monastiques, a c. di L. Lèbe, introduzione di O. Rousseau, Maredsous 1969, pp. 43-151). BMW = Wala abbas Bobiensis, Breve memorationis (in Codice Diplomatico del monastero di S. Colombano di Bobbio fino all’anno MCCVIII, a c. di C. Cipolla, 2 voll., I, Roma 1918 [Fonti per la Storia d’Italia, 52], pp. 136-141). CC = Hariulfus Aldenburgensis abbas, Chronicon Centulense (ou Chronique de l’abbaye de Saint-Riquier. Chronicon Centulense, a c. di F. Lot, Paris 1894). CCH = Collectio Canonum Hiberniensis (Die Irische Kanonensammlung, a c. di H. Wasserschleben, Leipzig 1885). CCo = Adalhardus abbas Corbeiensis, Statuta antiqua abbatiæ S. Petri Corbeiensis quæ monachis suis præscripsit sanctus Adalhardus abbas (The Customs of Corbie – Consuetudines Corbeienses, a c. di Ch. W. Jones, in Horn W., Born E., 1979, The Plan of St. Gall: A Study of the Architecture and Economy of, and Life in a Paradigmatic Carolingian Monastery, 3 voll., Berkeley-Los Angeles-London [California Studies in the History of Art, 19], III, pp. 93-126. AF

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Sono indicate tra parentesi le edizioni consultate di ciascuna fonte. Il titolo della fonte è ripetuto quando l’edizione lo riporta con delle variazioni rispetto all’originale.

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Le città dei monaci CDL = Codice Diplomatico Longobardo, a c. di L. Schiaparelli, C. Brühl, H. Zielinski, 5 voll.,

Roma 1929-2001 (Fonti per la Storia d’Italia, 62-66). = Codex Iustinianus (Corpus Iuris Civilis, a c. di P. Krüger, II, Dublin-Zürich, 197015). CMC = Chronica Monasterii Casinensis (a c. di H. Hoffmann, Hannover 1984 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores, 34]). CMF = Constructio monasterii Farfensis (a c. di U. Balzani, in Il Chronicon Farfense di Gregorio di Catino, a c. di U. Balzani, 2 voll., I, Roma 1903 [Fonti per la Storia d’Italia, 33], pp. 1-23). CN = Chronicon Novalicense (Cronaca di Novalesa, a c. di G.C. Alessio, Torino 1982). ConcAg = Concilium Agathense anno 506 (Concilium Agathense a. 506, in Concilia Galliæ a. 314-506, a c. di A. Munier, Turnhout 1963 [Corpus Christianorum, Series Latina, 148], pp. 192-228). ConcCal = Concilium Calcedoniense (Concilium Calcedoniense, a c. di E. Schwartz [Acta Conciliorum Œcomenicorum, Series I, tomus II, vol. 2.1, Versiones particulares, Berolini-Lipsiæ 1936]). CONL = Iohannes Cassianus, Conlationes (Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci, traduzione, introduzione e note di L. Dattrino, 2 voll., Roma 2000 [Collana di Testi Patristici, dir. A. Quacquarelli, 155-156]). CRF = Capitularia regum Francorum (a c. di A. Boretius-V. Krause, 2 voll., Hannoveræ 18831897 [Monumenta Germaniæ Historica, Legum Sectio II]). CSCB = Chronica Sancti Benedicti Casinensis (a c. di G. Waitz, Hannoveræ 1878 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum sæc. VI-IX], pp. 467-488). CTh = Codex Theodosianus (Theodosiani Libri XVI cum Constitutionibus Sirmondianis, a c. di Th. Mommsen, P.M. Meyer, Berolini 1905). CV = Iohannes monachus, Chronicon Vulturnense (Il Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, ed. V. Federici, 4 voll., Roma 1925, 1938 e 1940 [Fonti per la Storia d’Italia, 58-60 e Prefazione]). DBD = A. J. Stoclet, La «descriptio basilicæ Sancti Dyonisii». Premiers commentaires, «Journal des Savants», 1980 1/2, pp. 103-117. DCH = Walafridus Strabo, De cultura hortuorum (Wahlafrid Strabo. De Cultura hortuorum. Über den Gartenbau, a c. di O. Schönberger, Stuttgart 2002). DD = Gregorius I Magnus papa, Dialogorum de vita et miraculis patrum Italicorum libri quattuor (Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli, a c. di S. Pricoco, M. Simonetti, 2 voll., Milano 2005 [Fondazione Lorenzo Valla – Scrittori greci e latini]). DMF = Destructio monasterii Farfensis edita a domno Hugone abbate (a c. di U. Balzani, in Il Chronicon Farfense di Gregorio di Catino, a c. di U. Balzani, 2 voll., I, Roma 1903 [Fonti per la Storia d’Italia, 33], pp. 25-52). DRS = Rutilius Claudius Namatianus, Carmen de reditu suo (Rutilius Claudius Namatianus: De reditu suo sive Iter Gallicum, a c. di E. Doblhofer, 2 voll., Heidelberg 1972-1977). GAF = Gesta abbatum Fontanellensium (a c. di S. Löwenfeld, Hannoveræ 1886 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Germanicarum in usum Scholarum, 28]). GD = Gesta Dagoberti I regis Francorum (Vitæ sanctorum generis regii. Gesta Dagoberti I regis Francorum, a c. di B. Krusch, in Fredegarii et aliorum chronica. Vitæ sanctorum [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, I], pp. 396-425). CI

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Fonti = Gregorius I Magnus papa, Epistulæ ex registro (Gregorii I papæ Registrum Epistolarum, a c. di P. Ewald, L.M. Hartmann, 2 voll., Berolini 1887-1891 [Monumenta Germaniæ Historica, Epistolæ, 1-2]). GSR = Gesta Sanctorum Rotonensium (The Monks of Redon. Gesta Sanctorum Rotonensium and Vita Conuuoinis, a c. di C. Brett, Woodbridge 1989 [Studies in Celtic History, 10]). HE = Hyeronimus, Epistulæ I-CLIV (a c. di I. Hilberg e M. Kamptner, 3 voll., Wien 19101918-1996 [Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 54, 55, 56 1/2]). HF = Theodoretus Cyrus, Historia Filothea (Teodoreto di Cirro, Storia di monaci siri, traduzione, introduzione e note di A.Gallico, Roma 1995 [Collana di Testi Patristici, dir. A.Quacquarelli, 119]). HFr = Gregorius Turonensis episcopus, Historiæ Francorum libri X (Gregorii episcopi Turonensis Libri Historiarum X, a c. di B. Krusch, W. Levison, Hannoveræ 1951 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, I/1]). HL = Palladius “Latinus”, Historiæ Lausiacæ versio Latina (Palladio, La storia lausiaca, a c. di C. Mohrmann, testo critico e commento di G.J.M. Bartelink, Milano 1974 [Fondazione Lorenzo Valla – Scrittori greci e latini]). HM = Tyrannius Rufinus presbyter Aquileiensis, Historia Monachorum seu Vitarum Patrum (Rufino di Concordia, Storia di monaci, traduzione, introduzione e note a c. di G. Trettel, Roma 1991 [Collana di Testi Patristici, dir. A. Quacquarelli, 91]). HSM = Horologium stellare monasticum (a c. di G. Constable, Siegburg 1975 [Corpus Consuetudinum Monasticarum, V], pp. 1-18). IA = Institutio Angilberti abbatis de diversitate officiorum (a c. di K. Hallinger-M. WegenerH. Frank, in Initia consuetudinis benedictinæ [consuetudines sæculi octavi et noni], a c. di K. Hallinger, Siegburg 1963 [Corpus Consuetudinum Monasticarum, I], pp. 283-303). IC = Iohannes Cassianus, De Institutione cœnobiorum et de octo principalium vitiorum remediis libri XII (Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche, a c. di L. D’Ayala Valva, introduzione di A. De Vogüé, Comunità di Bose 2007). IDL = Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus, De institutione divinarum litterarum (PL, LXX, coll. 1105-1150). IF = Concilium Arelatense I. In causa Fausti abbatis (Concilium Arelatense I, in Concilia Galliæ a. 314-506, a c. di A. Munier, Turnhout 1963 [Corpus Christianorum, Series Latina, 148], pp. 114-125). LH = Eucherius Lugudunensis Episcopus, De laude heremi ad Hilarium Lerinensem (Eucherio di Lione, Elogio della solitudine e rinuncia al mondo, traduzione, introduzione e note a c. di M. Spinelli, Roma 1997 [Collana di Testi Patristici, dir. A. Quacquarelli, 139]). LO = Libanius, Orationes (Libanius, Selected Orations, II, a c. di A.F. Norman, Cambridge [Mass.], [Loeb Classical Library, 451]). LP = Liber Pontificalis (Le Liber Pontificalis. Texte, introduction et commentaire, a c. di L. Duchesne, C. Vogel, 3 volumi, Paris 1884-1957). LT = Liber tramitis ævi Odilonis abbatis (a c. di P. Dinter, Siegburg 1980 [Corpus Consuetudinum Monasticarum, 10]). ME = Aurelius Augustinus, De moribus Ecclesiæ catholicæ et de moribus Manichæorum (PL, xxxii, coll. 1309-1378). GRE

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Le città dei monaci MVG = Vita Melaniæ Iunioris (D. Gorce, Vie de Sainte Mélanie. Texte grec, introduction, tra-

duction, et notes, Paris, 1962 [Sources chrétiennes, 90]). OC2 = Ordo Casinensis II, dictus Ordo Officii (a c. di T. Leccisotti, in Initia consuetudinis be-

nedictinæ [consuetudines sæculi octavi et noni], a c. di K. Hallinger, Siegburg 1963 [Corpus Consuetudinum Monasticarum, I], pp. 105-123). PC = Meropius Pontius Anicius Paulinus Nolanus episcopus, Carmina XXXIII (PL, LXI, coll. 437-708). pdgf = Diplomata, Chartæ, Epistolæ, Leges ad res Gallo-Francicas spectiantia, a c. di J.M. Pardessus, 2 voll., Parisiis 1843-1849. PE = Meropius Pontius Anicius Paulinus Nolanus episcopus, Epistulæ L (Paolino di Nola, Le lettere, a c. di G. Santaniello, 2 voll., Marigliano 1992). PHL = Paulus Winfridus Diaconus, Historia Langobardorum (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a c. di L. Capo, Milano 1992 [Fondazione Lorenzo Valla – Scrittori greci e latini]). PPI = Pachomius, Præcepta et Instituta (Pachomian Koinonia, a c. di A. Veilleux, II, Pachomian Chronicles and Rules, Kalamazoo 1981 [Cistercian Studies Series, 46], pp. 141196). PR = Evagrius Ponticus, Praktikòs (Evagrio Pontico, Trattato pratico sulla vita monastica, traduzione, introduzione e note di L. Dattrino, 2 voll., Roma 1992 [Collana di Testi Patristici, dir. A. Quacquarelli, 100]). PVA = Possidius episcopus Calamensis Afri, Vita Augustini (Vita di Agostino, in Vita di Cipriano, vita di Ambrogio, vita di Agostino, a c. di C. Mohrmann, testo critico e commento di A.A.R. Bastiaensen, Milano 1975, pp. 124-241 [Fondazione Lorenzo Valla – Scrittori greci e latini]). RA = Aurelianus episcopus Arelatensis, Regula ad monachos (Regola di Aureliano, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 105-130). RB = Benedictus Nursinus, Regula cum commentariis (Regola di Benedetto, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 193-264). RC = Regula Communis (Regola Comune, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 361-394). RCÆ = Cæsarius episcopus Arelatensis, in Regula ad monachos (Regola di Cesario ai monaci, Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 91-104). RCo = Columbanus abbas, Regula monachorum (Regola di Colombano ai monaci, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 287-303). RDO = Guillelmus Durantis, Rationale Divinorum Officiorum (a c. di A. Davril-T.M. Thibodeau, 3 voll., Turnhout 1995-2000 [Corpus Christianorum – Continuatio Medievalis, 140]). RE = Regula “Eugippii” (Eugippius, Regula, a c. di A. De Vogüé, F. Villegas, Wien 1976 [Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 87]). RF = Fructuosus Bracarensis episcopus, Regula monachorum (Regola di Fruttuoso, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 337-360. RFe = Ferreolus Uceticensis episcopus, Regula ad Monachos (Regola di Ferréol, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 155-192). RI = Isidorus episcopus Hispalensis, Regula monachorum (Regola di Isidoro, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 305-336). 360

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Fonti = Magister (auctor incertus cognomento Magister), Regula ad monachos (La Règle du Maître, a c. di A. De Vogüé, 3 voll., Paris 1964-1965 [Sources Chrétiennes, 105-107]). RMa = Regula Macarii (Regola di Macario, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 49-60). RMC = Beati Rabani Mauri Fuldensis abbatis et Moguntini archiepiscopi carmina (PL, CXII, coll. 1583-1650). RO = Regula Orientalis (Regola Orientale, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 61-80). RPS = De SS. Pauli et Stephani abbatum regula ad monachos (Regola di Paolo e Stefano, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 265-286). rqp = Regula quattuor patrum (Regola dei Quattro Padri, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 29-40). RT = Regula monasterii Tarnatensis (Regola Tarnatense, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 131-154). SM = Actuum præliminarium synodi primæ Aquisgranensis commentiationes sive Statuta Murbacensia (a c. di J. Semmler, in Initia consuetudinis benedictinæ [consuetudines sæculi octavi et noni], a c. di K. Hallinger, Siegburg 1963 [Corpus Consuetudinum Monasticarum, I], pp. 440-450). SMF = Supplex libellus monachorum Fuldensium Carolo imperatori porrectus (a c. di J. Semmler, in Initia consuetudinis benedictinæ [consuetudines sæculi octavi et noni], a c. di K. Hallinger, Siegburg 1963 [Corpus Consuetudinum Monasticarum, I], pp. 320-327). SRP = Secunda regula patrum (Seconda regola dei Padri, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 41-48). TAE = Theodomari abbatis casinensis epistula ad Theodoricum gloriosum (a c. di J. WinandyK. Hallinger, in Initia consuetudinis benedictinæ [consuetudines sæculi octavi et noni], a c. di K. Hallinger, Siegburg 1963 [Corpus Consuetudinum Monasticarum, I], pp. 125136). TRP = Tertia regula patrum (Terza regola dei Padri, in Regole monastiche d’Occidente, a c. di E. Bianchi, Torino 2001, pp. 81-90). VA = S. Athanasius, Vita Beati Antonii abbatis, interprete Evagrio presbytero antiocheno (Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, a c. di C. Mohrmann, testo critico e commento di G.J.M. Bartelink, Milano 1974 [Fondazione Lorenzo Valla – Scrittori greci e latini]). VAL = Vita Anstrudis abbatissæ Laudunensis (a c. di B. Krusch-W. Levison, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, IV, Hannoveræ et Lipsiæ 1913 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, VI], pp. 64-78). VB = Vita Sanctæ Balthildis (a c. di B. Krusch, in Fredegarii et aliorum chronica. Vitæ sanctorum [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, I], pp. 475508). VBA = Ardo Smaragdus, Vita Benedicti abbatis Anianensis et Indensis (a c. di G. Waitz, Hannoveræ 1887, Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores, XV/1, pp. 198-220). VC = Ionas abbas Bobiensis, Liber I de vita sancti ac beatissimi Columbani abbatis et confessoris (Vita Columbani abbatis, a c. di B. Krusch, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, II, Hannoveræ et Lipsiæ 1902 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, IV], pp. 61-156). RM

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Le città dei monaci VCo

= Adomnanus monachus Ionensis, Vita S. Columbæ (Adamnani Vita S. Columbæ, a c. di J.T. Fowler, Oxford 1894). VE = Cyrillus Scithopolitanus, Vita Euthimii (Cirillo di Scitopoli, Vita di Eutimio, in Cirillo di Scitopoli. Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, introduzione di L. Perrone, trad. a c. di R. Baldelli e L. Mortari, note a c. di L. Mortari, Abbazia di Praglia 1990 [Scritti Monastici, 15], pp. 97-191). VEA = Donatus, Vita Ermelandi abbatis Antrensis (a c. di B. Krusch-W. Levison, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, III, Hannoveræ et Lipsiæ 1910 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, V], pp. 674-710). VEF = Sancti Eigilis abbatis Fuldensis vita auctore Candido monacho Fuldensi (PL, CV, coll. 381-402). VEL = Anso, Vitæ Ursmari et Erminonis episcoporum et abbatum Lobbiensium (Vita Erminonis, a c. di B. Krusch, W. Levison, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, IV, Hannoveræ et Lipsiæ 1913 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, VI], pp. 461-470). VEM = Sancti Eigilis abbatis Fuldensis vita metrica auctore Candido monacho Fuldensi (PL, CV, coll. 401-422). VEN = Audoinus Rotomagensis episcopus (?), Vita Eligii episcopi Noviomagensis (Vita Eligii episcopi Noviomagensis. Vitæ libri duo, a c. di B. Krusch, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, II, Hannoveræ et Lipsiæ 1902 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, IV], pp. 663-741). VF = Vita Filiberti abbatis Gemeticensis et Hariensis (a c. di B. Krusch-W. Levison, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, III, Hannoveræ et Lipsiæ 1910 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, V], pp. 583-604). VFC = Adso abbas Dervensis, Vita Frodoberti abbatis Cellensis (Vita Frodoberti abbatis Cellensis auctore Adsone, in a c. di B. Krusch, W. Levison, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, III, Hannoveræ et Lipsiæ 1910 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, V], pp. 67-88). VGG = Vita Germani abbatis Grandivallensis auctore Bobolenus presbyter (a c. di B. KruschW. Levison, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, III, Hannoveræ et Lipsiæ 1910 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, V], pp. 25-40). VGM = Sancti Gregorii Magni vita, a Joanne Diacono scripta libris quattuor (PL, LXXV, coll. 59-242). VGW = Wettinus, Vita Galli confessoris (Vita Galli confessoris triplex. Vita auctore Wettino, a c. di B. Krusch, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, II, Hannoveræ et Lipsiæ 1902 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, IV], pp. 256-280). VH = Sermo de vita Sancti Honorati Arelatensis episcopus (Hilaire d’Arles, Vie de saint Honorat, a c. di M.D. Valentin, Paris 1977 [Sources Chrétiennes, 235]). VLL = Vita Landelini abbatis Lobbiensis et Crispiniensis (a c. di B. Krusch-W. Levison, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, IV, Hannoveræ et Lipsiæ 1913 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, VI], pp. 433-444). VM = Sulpicius Severus, De Vita Sancti Martini (Vita di Martino, in Vita di Martino, vita di Ilarione, in memoria di Paola, a c. di C. Mohrmann, testo critico e commento a c. di 362

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Fonti A.A.R. Bastiaensen, J.W. Smit, Milano 1977 [Fondazione Lorenzo Valla – Scrittori greci e latini], pp. 245-290). VPG = Sancti Pachomii Vitæ Græcæ (a c. di F. Halkin, «Subsidia Hagiographica», 19, Bruxelles 1932, pp. 97-165). VPJ = Vitæ Patrum Jurensium (Vies des Pères du Jura a c. di F. Martine, Paris 2004 [Sources Chrétiennes, 142]). VRM = Beati Rabani Mauri vita auctore Rudolfo Scholastico (PL, CVII, coll. 39-68). VS = Cyrillus Scithopolitanus, Vita Sabæ (Cirillo di Scitopoli, Vita di Saba, in Cirillo di Scitopoli. Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, introduzione di L. Perrone, trad. a c. di R. Baldelli e L. Mortari, note a c. di L. Mortari, Abbazia di Praglia 1990 [Scritti Monastici, 15], pp. 193-324). VSB = Cogitosus Historicus, Vita Sanctæ Brigidæ (PL, LXXII, coll. 775-790; trad. ingl. Cogitosus’s Life of St. Brigid the Virgin, a c. di L. De Paor, in St. Patrick’s World, Dublin, pp. 207-224). VUL = Anso, Vitæ Ursmari et Erminonis episcoporum et abbatum Lobbiensium (Vita Ursmari, a c. di B. Krusch, W. Levison, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, IV, Hannoveræ et Lipsiæ 1913 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, VI], pp. 453-461). VW = Vita Wandregisili abbatis Fontanellensis (a c. di B. Krusch-W. Levison, in Passiones Vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, III, Hannoveræ et Lipsiæ 1910 [Monumenta Germaniæ Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, V], pp. 1-24). VWE = Vita Wilibaldi episcopi Eichstetensis (Hugerburc di Eidenheim, Vita Wilibaldi episcopi Eichstetensis. Il vescovo Wilibald e la monaca Hugeburc: la scrittura a quattro mani di un’esperienza odeporica dell’viii secolo, a c. di M. Iadanza, Firenze 2011 [Per verba. Testi mediolatini con traduzioni, 28]).

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INDICE DEI NOMI I nomi degli autori moderni, evidenziati in maiuscoletto, sono stati riportati nel presente indice solo nei casi in cui siano citati nel testo e non in rapporto ai loro rimandi bibliografici.

Abbo, fondatore di Novalesa, 276 Abramo, abate egizio, 16, 102 Adalardo, abate di Corbie, 258, 259, 262264, 267 Adaloaldo, re dei Longobardi, 152 Adomnàn, biografo di Columba, 122 Adriano I, Papa, 181 Afra, santa di Augusta, 148 Afraate, monaco dell’Osroene, 46 Aftonio, monaco egizio, 39 Agapito I, papa, 80n Agilulfo, re dei Longobardi, 129, 152, 153, 155, 158 Agostino, santo e vescovo di Ippona, 23, 61, 63, 71, 72, 74 Alarico, re dei Visigoti, 49, 62 Alberico, princeps di Roma, 323 Alboino, re dei Longobardi, 149, 150 Alcuino di York, monaco e letterato dell’età di Carlo Magno, 229, 296n Aligerno, abate di Montecassino, 297n Amando, vescovo di Maastricht, 142 Ambrogio, santo e vescovo di Milano, 64, 71 Ambrogio Autperto, abate di San Vincenzo al Volturno, 178, 298n Ammone, abate egizio, 40 Angilberto, abate di Centula, 229-240, 249, 259, 269, 296n, 299n, 303-305, 313 Anicia Demetrias, vedi Demetriade

Anicia Giuliana, madre di Demetriade, 80n Anicii, famiglia romana, 63 Ansa, regina dei Longobardi, 164 Ansegiso, abate di Fontenelle, 268-271, 300n Anselmo, abate di Nonantola, 161 Ansilperga, badessa di San Salvatore di Brescia, 165 Anstrude, badessa di Laon, 141 Antonio, monaco e santo, 16, 18, 19, 24, 25n, 55, 80n Apioni, famiglia egizia, 39 Ardo Smaragdus, biografo di Benedetto di Aniane, 213, 223-227 Arduino, prete e monaco di Fontenelle, 271 Arechi I, duca di Benevento, 152 Arechi II, duca e principe di Benevento, 168 Aregonda, regina dei Franchi, 147 Arga, aristocratica franca, 127 Ariperto II re dei Longobardi, 155 Ariulfo, duca di Spoleto, 152 Ariulfo, monaco cronista di Centula, 231, 237, 240, 298n Astolfo, re dei Longobardi, 161, 166, 178, 183 Atanasio, patriarca di Alessandria, 16, 18, 23, 24, 46, 55, 80n

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Indice dei nomi

Ato, abate di San Vincenzo al Volturno, 173 Attala, abate di Bobbio, 153 Audechar, aristocratico franco, 127 Audoino, aristocratico e monaco franco, 127, 132 Aureliano, vescovo di Arles, 84, 91, 346 Ausonio, retore della Gallia, 66 Balthilde, regina dei Franchi, 130, 136, 146, 147 Basilio, monaco e vescovo di Cesarea, 23, 25, 36, 37, 39, 85, 86, 100 Benedetto da Norcia, 69, 78, 79, 81n, 92, 98, 100, 102, 105, 107, 115n, 133, 134, 159, 176, 205, 221, 222, 242, 246-248, 258, 309-311, 346, 351 Benedetto II, Papa, 181 Benedetto, abate di Aniane, 213, 216, 221227, 242, 249, 259, 300n, 309, 321, 323, 339n, 352 Bernardo, re d’Italia, 259 Bernardo, abate di Clairvaux, 321, 322, 336 Bernone, abate di Cluny, 321 Bertario, abate di Montecassino, 242, 244 Bertoldo, abate di Bobbio, 152 Blesilla, aristocratica romana, 56 Boethii, famiglia romana, 62 Boezio, Anicio Manlio Severino, aristocratico romano, 62, 67 Bonifacio, monaco anglosassone e missionario, 133, 178, 205, 214-217 Born E., 281, 311 Brenk B, 48n, 339n Brigida, monaca e santa irlandese, 196n Brogiolo G.P., 198n Brown P., 24 Brunechilde, regina dei Franchi, 128, 129, 154 Burgundofaro, vescovo franco, 132 Callisto, papa, 10 Cantino Wataghin G., 283, 301n Caprasio, monaco di Lérins, 52

Carlo II il Calvo, re dei Franchi occidentali e imperatore, 253, 254, 258, 291 Carlo Magno, re dei Franchi e imperatore, 118, 142, 151, 178, 190, 198n, 203, 208212, 215, 219, 223-226, 229, 241, 242, 247, 248, 253, 256, 258, 259, 268, 282, 307, 349, 351, 352 Carlomanno, fratello di Pipino III, 178, 202, 205 Carlomanno, re dei Franchi, fratello di Carlo Magno, 226 Carlo Martello, maestro di palazzo di Austrasia, 143, 144, 201-203, 226 Carolingi, stirpe regia franca, 201, 202, 204, 206, 213 Carpoforo, padrone di Callisto, 10 Cassiano, Giovanni, 16, 21, 26n, 31, 33, 46, 47n, 53, 86, 102, 103, 191 Cassiodoro, aristocratico romano-calabrese e monaco, 67, 68, 77 Cesario, monaco di Lérins e vescovo di Arles, 69, 74, 84, 346 Childeberto, re dei Franchi, 197n Childerico III, re dei Franchi, 202 Chitty D.J., 48n Cirillo, patriarca di Alessandria, 23, 24 Cirillo di Scitopoli, 19, 28, 29, 33 Clodoveo I, re dei Franchi, 146 Clodoveo II, re dei Franchi, 130, 136, 146 Clotario I, re dei Franchi, 124, 126, 146, 147 Clotario II, re dei Franchi, 129, 196n Cogito sud, biografo di santa Brigida d’Irlanda, 196n Colombano, monaco irlandese e abate di Luxeuil e Bobbio, 100, 113n, 117, 118, 126-129, 131-134, 139, 142-144, 147, 148, 152-154, 177, 196n, 264, 268, 324 Columba, monaco irlandese, 122 Conant K.J., 325, 326, 330 Costante II, imperatore, 51, 155 Costantino I, imperatore, 11, 12, 24, 51, 203 Crodegango, vescovo di Metz, 202, 308 Cuniperto, re dei Longobardi, 156, 168

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Dado, aristocratico e monaco franco, 127 Dagoberto I, re dei Franchi, 129, 130, 132, 146, 147, 197n Dagoberto II, re dei Franchi, 229 Davril A., 311 Demetriade, aristocratica e monaca romana, 58-60, 80n Desiderio, re dei Longobardi, 162, 164167, 172, 198n Desiderio, abate di Montecassino, 244 De Vogüé A., 355n Dionigi (Dionysius), santo e martire di Parigi, 146, 147, 254, 255 Diocleziano, imperatore, 64 Dunn M., 113n Eginardo, biografo di Carlo Magno, 296n, 315 Ehlers C., 339 Eigil, abate di Fulda, 217-219, 270, 296n Eirico, monaco di Centula, 238, 239 Eldrado, abate di Novalesa, 276 Eligio, vescovo di Noyon e orafo, 147 Elpidio di Cappadocia, monaco palestinese, 18 Engelberga, imperatrice franca, 247 Erchinoaldo, maestro di palazzo di Austrasia, 136 Ermelando, fondatore del monastero di Moutier-la-Celle, 139, 140, 141 Ermino, abate di Lobbes, 143 Esseni, setta degli, 14 Eucherio, vescovo di Lione, 53, 54, 55, 79n, 80n Eudocia, imperatrice, 19, 46 Eugendus, abate di Condat: vedi Ogendus Eugippio, monaco e abate del Norico e di Napoli, 113n Eusebia, badessa di Hamage, 148 Eustasio, abate di Luxeuil, 130 Eutimio, monaco e abate palestinese, 19, 28, 29, 46 Evagrio Pontico, monaco di Cappadocia e d’Egitto, 106, 107

Faroaldo II, duca di Spoleto, 158 Fausto, vescovo di Riez, 53 Fausto, abate di Lérins, 83 Felice, santo, 64, 65 Ferrari G., 180 Ferreolo, vescovo di Uzes, 346 Festugière A.J., 48n Fido, monaco palestinese, 28 Filiberto, aristocratico e monaco franco, fondatore di Jumièges, 129, 130, 134136 Filone di Alessandria, 14 Finn, R., 14 Flaviano, vescovo di Antiochia, 24 Flavio Anicio Ermogeniano Olibrio, console e aristocratico romano, 58, 80n Freudiano, monaco irlandese vissuto a Lucca, 178 Frodoberto, fondatore del monastero di Moutier-la-Celle, 139, 140 Fruttuoso, vescovo di Braga, 75, 84, 95, 193, 346 Fulcoaldo, abate di Farfa, 172 Fulrado, abate di Saint-Denis, 202, 253-255 Fulrado, abate di Saint-Quentin, 210 Gaidualdo, duca di Brescia, 160 Gallo, discepolo di Colombano e santo, 148, 293 Germano, monaco e amico di Cassiano, 102 Germano di Auxerre, monaco missionario in Irlanda, 119, 196n Germano, abate di Grandval, 138 Germano, vescovo di Parigi, 197n Gertrude, fondatrice dell’abbazia di Hamage, 148 Gerwold, abate di Fontenelle, 267, 268, 271 Giardina A., 56 Giona di Bobbio, biografo di Colombano, 128 Giosuè, abate di San Vincenzo al Volturno, 249, 251-253, 298n, 299n, 314, 317 Giovanni, abate egizio, 33, 34

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Indice dei nomi

Giovanni Cassiano, vedi Cassiano, Giovanni Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli, 15, 16, 19, 23 Giovanni Diacono, biografo di Gregorio Magno, 80n Girolamo, santo, 14, 32, 35, 36, 46, 47n, 5563, 80n, 191 Gisulfo I, duca di Benevento, 158-160 Gisulfo II, duca di Benevento, 247, 298n Gisulfo, abate di Montecassino, 242-244, 249 Giustiniano I, imperatore, 179 Giustino II, imperatore, 124 Godoino, duca di Alsazia, 138 Gontrano, re dei Franchi, 124 Gozbert, abate di San Gallo, 279-282, 300n, 301n, 309-311, 314, 338n Gregorio I Magno, papa, 52, 55, 63, 78, 79, 81n, 94, 115n, 152, 182, 189, 198n Gregorio II, Papa, 159 Gregorio III, Papa, 202 Gregorio di Tours, storico dei Franchi, 150 Grimoaldo, re dei Longobardi, 155 Grossi P., 295 Guglielmo III, duca di Aquitania, 322, 323 Gundeland, abate di Lorsch, 308 Haistulf, arcivescovo di Magonza, 217-219 Haito, abate di Reichenau, 280, 281, 300n, 311 Häussling A.A., 338n Heitz C., 240, 338n Herring G., 47n Horn W., 281, 311 Hospitius, monaco di Nizza, 150, 151, 197n Hubert J., 316, 317, 320 Ilario di Arles, biografo di Onorato di Lérins, 80n Ilario, abate di San Vincenzo al Volturno, 252, 298n Ilduino, abate di San Medardo di Soissons, 339n

Iogna-Prat D., 228 Ipazia, filosofa di Alessandria, 23, 24 Isacco di Scete, abate egizio, 33 Isidoro, abate egizio, 27, 30, 31 Isidoro, vescovo di Siviglia, 84, 88, 89, 193, 346 Landelino, fondatore dell’abbazia di Lobbes, 141, 142 Lemaître J.L., 295 Leone I, imperatore, 23, 26n Leone I, papa, 63 Leone III, Imperatore, 160 Leone III, Papa, 256, 259 Leone IV, papa, 297n Leonzio, vescovo di Fréjus, 53 Libanio, retore di Antiochia, 24, 57 Liberio: vedi Pietro Marcellino Felice Liberio Licinio, imperatore, 11 Liebeschuetz W., 48n Linneo, eremita siriaco, 16 Liutprando, re dei Longobardi, 160, 162, 168 Lorenzo, antipapa, 78 Ludovico il Pio, imperatore, 154, 210, 212, 215, 217, 218, 220, 221, 223, 226, 238, 253, 259, 264, 268, 291, 300n, 339n, 349, 352 Ludovico II, imperatore, 247 Lupo, duca di Spoleto, 172, 198n Maiolo, abate di Cluny, 323, 325, 326, 331, 334 Mamiliano, monaco della Tuscia, 52 Marcella, aristocratica e monaca romana, 57, 58, 59 Martino, santo monaco e vescovo di Tours, 51, 52, 66, 70, 71, 79n, 124, 191 Medardo, santo e martire di Soissons, 146 Melania la Giovane, aristocratica e monaca romana, 57 Melania senior, aristocratica e monaca romana, 64, 65 Mena, monaco e santo egizio, 345

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Meropio Ponzio Anicio Paolino: vedi Paolino di Nola Meroveo, vescovo di Tours, 124 Merovingi, stirpe regia franca, 126, 201 Natanaele, monaco egizio, 17 Oddone, abate di Cluny, 323, 329 Odilone, abate di Cluny, 323, 325, 326, 331 Odoacre, patrizio d’Italia, 68 Ogendus, abate di Condat, 86, 96 Olbia, abate di San Miquel de Cuxa, 340n Olibrio, Flavio Anicio Ermogeniano: vedi Flavio Anicio Ermogeniano Olibrio Onorato, fondatore e abate di Lérins, 52, 53, 55, 79n, 80n, 83 Orsiesi, abate egizio, 32, 37, 39, 47n Ottoni, stirpe imperiale sassone, 318 Pacaut M., 221 Pacomio, abate egizio, 21, 31, 32, 37, 38, 39, 47n, 68, 78, 85, 86, 344, 346 Palazzo E., 311 Palladio, monaco e vescovo, 17, 18, 21, 38, 39, 47n Palladio, monaco missionario in Irlanda, 119 Pantoni A., 298n Paola, aristocratica romana, 56 Paolino di Aquileia, letterato dell’età di Carlo Magno, 229 Paolino di Nola, 64-66, 145, 191 Paolo, abate di San Vincenzo al Volturno, 174 Paolo Diacono, storico longobardo, 149, 150, 151, 159, 160, 173, 198n Paolo I, Papa, 182, 183 Patrizio, monaco missionario in Irlanda, 119 Penco G., 52, 162 Percival J., 76 Perrone L., 26n Pertarito, re dei Longobardi, 168 Petronace, abate di Montecassino, 159, 160, 242

Piamun, abate egizio, 21, 26n Pietri L., 197n Pietro, abate di Farfa, 272 Pietro Marcellino Felice Liberio, aristocratico romano, 68, 69 Piniano, aristocratico romano, marito di Melania la Giovane, 57 Pipinidi, stirpe aristocratica e poi regia franca, 136, 142, 202, 204 Pipino di Heristal, maestro di palazzo di Austrasia, 142, 143, 149 Pipino III il Breve, maestro di palazzo di Austrasia, 178, 190, 201-206, 212, 223, 226, 255, 349 Pipino, re d’Italia, 229 Pitagora, matematico e filosofo, 14 Pitagorici, setta dei, 14 Porfirio, filosofo, 14, 25n Poto, abate di Montecassino, 243 Principia, aristocratica romana, 58-60 Prinz F., 80n Priscilliano, chierico iberico, 192 Procopio di Cesarea, storico bizantino, 150 Pseudo-Rufino, 31 Publio, monaco di Zeugma, 20, 32 Pulcheria, imperatrice, 24 Rabano Mauro, abate di Fulda, 215, 219, 241, 291n Radegonda, regina dei Franchi, 124, 125 Raajimakers J., 296n Ratchis, re dei Longobardi, 242 Ratgar, abate di Fulda, 214-221, 225, 249, 296n, 305, 311 Ravennius, vescovo di Arles, 83 Recaredo, re dei Visigoti, 192 Renoux A., 339 Ricario (Ricarius, Riquier), monaco e santo, fondatore dell’abbazia di Centula, 229, 237, 240, 247 Rodoaldo, re dei Longobardi, 153 Rodolfo Scolastico, biografo di Rabano Mauro, 296 Romano, santo e abate di Condat, 94 Romualdo II, duca di Benevento, 160

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Indice dei nomi

Rotari, re dei Longobardi, 155 Rufino di Concordia, 16, 22, 26n, 27, 46, 55, 191 Rustico di Tolosa, monaco, 35 Rutilio Namaziano, 49, 50, 54, 57, 70 Saba, abate palestinese, 28, 33, 48n Sapin Ch., 327 Savino, santo martire di Spoleto, 152 Sbardella F., 197n Scauniperga, duchessa di Benevento, 247, 298n Scholtz S., 339 Scolastica, monaca e santa, sorella di Benedetto da Norcia, 242, 246 Senatore, aristocratico pavese dell’VIII sec., 169, 170 Sennhauser H.R., 301n, 338n Servando, diacono e monaco, 69 Sicardo, abate di Farfa, 270, 273, 274 Sigeberto I, re dei Franchi, 128 Sigismondo, re dei Burgundi, 124, 146 Simeone lo Stilita, santo, 17, 345 Simmaco, papa, 78 Simperto, abate di Murbach, 220, 221 Stefano, santo, 63 Stefano II, Papa, 182, 201 Sturmi, abate di Fulda, 178, 214-216 Sulpicio Severo, 51, 65-67, 70 Talarico, abate di San Vincenzo al Volturno, 252, 314 Taso, abate di San Vincenzo al Volturno, 173 Teodeberto II, re dei Franchi, 127, 128, 143, 154, 196n Teodemaro, abate di Montecassino, 242, 243, 245 Teodolinda, regina dei Longobardi, 129, 152, 154, 155 Teodolinda, aristocratica pavese dell’VIII sec., 169 Teodorada, duchessa di Benevento, 158

Teodoreto di Cirro, 16, 17, 20, 32 Teodorico, re degli Ostrogoti, 62, 67, 68, 78 Teodorico, abate di Nonantola, 172 Teodorico, conte franco, 245 Teodoro, monaco egizio, 47n Teodoro, vescovo di Fréjus, 83 Teodosio I, imperatore, 22, 24 Teodosio II, imperatore, 24 Teodote, badessa del monastero di S. Maria in Pavia, 169 Teodulfo, vescovo di Orleans, 351 Terapeuti, setta dei, 14 Therasia, moglie di Paolino di Nola, 64 Tommaso di Morienna, abate di Farfa, 158, 159, 178 Ugo, abate di Farfa, 272, 273, 334 Ugo di Semur, abate di Cluny, 323, 324, 331 Urbano II, Papa, 323, 333 Ursmaro, abate di Lobbes, 141, 142 Valente, imperatore, 46 Veilleux A., 47n Venanzio Fortunato, poeta, 124 Vincenzo, diacono e martire di Saragozza, 146, 197n, 249, 251 Wala, abate di Corbie e di Bobbio, 239, 264, 266, 267, 299n Walafrido Strabo, abate di Reichenau, 291 Waldeberto, abate di Luxeuil, 130 Wandregisil (Wandrille), aristocratico e monaco franco, fondatore di Fontenelle, 129, 130, 135, 137, 267 Willibald, monaco cassinese, 164, 178, 242 Willibrord, monaco anglosassone e missionario, 132, 149 Zaccaria, papa, 159 Zotto, duca di Benevento, 152

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Indice dei luoghi I nomi dei luoghi esteri sono stati tradotti in italiano quando ve ne fosse nella nostra lingua una lezione abitualmente utilizzata. Nei casi in cui questa non esistesse ovvero fosse desueta o poco usata, sono stati lasciati nella lingua originale. Quando le località menzionate corrispondano a sedi di monasteri, ciò è stato sempre specificato. I monasteri che ricadono all’interno o nell’immediata prossimità di centri urbani sono stati posti sotto il nome di quest’ultimo.

Abruzzo, 243 Abu Mina, monastero e santuario di, 44, 197n Africa, 63, 71, 190, 191, 345 Agde, 73 Alatri, 68, 69, 77 S. Sebastiano, monastero di, 69, 70, 76, 77 Alessandria, 23, 40, 55 Alife, 247 Alvernia, 55 Amiens, 258 Anatolia, 25 Aniane, monastero di, 223-227, 249 San Giovanni Battista, chiesa di, 224 San Saturnino, cappella di, 223 Trinità, chiesa della, 224 Vergine, chiesa della, 223, 224 Aniene, valle dell’, 78 Antiochia, 24, 26n, 46 Antrum e Antriginum, monastero di, 140, 145 San Leodegario, oratorio di, 140, 197n San Paolo, chiesa di, 140 San Pietro, chiesa di, 140, 141 Sant’Anniano, oratorio di, 140 Apa Geremia, monastero di, Egitto, 42, 43 Aquileia, 55, 124 Aquisgrana, 208, 212, 213, 216, 221-223, 227, 311, 321, 352

Aquitania, 55, 123, 124, 178, 190, 322 Arles, 53, 84, 346 Armagh, monastero di, 119 Armenia, 184 Arras, 299n Assia, 214 Augusta, 148 SS. Ulrich e Afra, monastero dei, 148, 149 Austrasia, 124, 127, 128, 147, 148 Autun, 197n Auxerre, 197n, 307 San Germano, monastero di, 307, 316, 340n Bangor, monastero di, 122 Basilicata, 187 Baume-les-Messieurs, monastero di, 322 Baviera, 148, 307 Belgio, 118, 141, 142, 202, 230, 299n Benevento, 151, 152, 155, 157-160, 168, 173, 177, 178, 247 San Pietro sul Sabato, monastero di, 168 Santa Sofia, monastero di, 168, 247 Bir-el-Qutt, monastero di, 42 Birsay, monastero di, 122 Bisanzio, 178 Bobbio, monastero di, 103, 129, 130, 136, 152-154, 157, 158, 164, 177, 264, 265, 299n, 348

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Indice dei luoghi

San Pietro, chiesa di, 152 spazi residenziali e produttivi, 264, 265 Bordeaux, 51, 64 Borgogna/Burgundia, 123-126, 322 Braga, 84, 346 Brescia, 162, 165, 299n Salvatore, monastero e basilica del, 162, 164-168, 170, 171, 198n, 299n Bretagna, 123, 124, 126, 148, 214, 307 Bury St. Edmunds, monastero di, 341n Caher Island, monastero di, 122 Calabria, 66, 152, 178, 186, 187 Calcedonia, 73, 77 Campania, 64, 179, 187, 243 Cannes, 52 Cappadocia, 106 Capraia, isola di, 50, 79n Capri, 79n Capua, 64, 317 Cartagine, 10 Casa Candida, monastero di, 122 Casilina, via, 246 Cassino, 159, 164, 242-246, 248 Cava dei Tirreni, monastero di, 321 Ceneda, 161 Centula, monastero di, 229-231, 237, 239, 241, 244-249, 252, 253, 257-259, 261, 262, 269, 273, 282, 294, 295, 296n, 298n, 299n, 303-306, 311, 313, 316, 331, 338n atrio e sue porte, 232-236, 238, 239, 298n burgus dell’abbazia (e suoi edifici), 234236, 238, 240 claustrum e corridoi porticati (longaniae), 232, 233, 237, 240, 282, 297n, 306 San Benedetto, chiesa di, 231, 232, 235, 238 San Ricario e San Salvatore, chiesa di, 231-233, 235-238, 240, 297n, 303, 305, 311, 313, 338n Santa Maria, chiesa di, 231, 233, 235238, 241

villaggi circostanti, 235, 239 Cesarea di Cappadocia, 23 Chiemsee, monastero di, 308 Cilento, 188 Cilicia, 184 Cimitile, 63-65, 70, 145 Cîteaux/Cistercium, monastero di, 322, 335, 336, 338 Civitavecchia, 52 Cividale del Friuli, 168 Monasterium Puellarum, 168 Cluny, monastero di, 320, 322-325, 328330, 332-335, 337, 340n, 341n, 354 burgus dell’abbazia, 332 Cluny I, chiesa di, 325 Cluny II, chiesa di, 325, 326, 330, 331 Cluny III, chiesa di, 327, 332 San Maiolo, chiesa di, 332 Santa Maria, chiesa di, 332 Sant’Odilone, chiesa di, 332 spazi residenziali, 326-328, 331 spazi per attività produttive, 328, 329 Vergine, cappella della, 327, 331 Colonia, 321 San Gereone, monastero di, 321 Condat, monastero di, 84, 85, 96, 123, 191, 346 Corbie, monastero di, 202, 239, 258, 259, 262, 265, 266, 288 spazi produttivi e residenziali, 260-264, 266, 267 Cornovaglia, 126 Corsica, 50 Corvey, monastero di, 294, 295, 316, 338n Costantinopoli, 12, 184, 185 Costanza, lago di, 226 Cremona, 81n Deir Semaan, santuario e monastero di, 44 Deir Turmanin, 41 Disentis, monastero di, 338n Dun Hoghill, monastero di, 122 Echternach, monastero di, 142, 149, 202 Egitto, 13, 14, 40, 53, 55, 106, 179, 345

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El Bovalar, monastero di, 193 Elnone, monastero di, 141 Emilia, 129, 161, 299n Es Cap des Port, monastero di, 193, 195 Estremadura, 194 Euthymius, monastero di, 42 Fanano, monastero di, 161 Farfa, monastero di, 158, 172, 173, 175, 176, 270-274, 277, 297n, 306, 318, 321, 324, 326 spazi residenziali, 272 palatium regale, 272 Salvatore, oratorio del, 273 San Pietro, chiesa di, 272 Vergine, chiesa della, 272, 273 Fleury, monastero di, 351 Fontenay, monastero di, 340n Fontenelle, monastero di, 136-139, 145, 202, 252, 267-269, 271, 295, 306 edifici residenziali, 268-271 Sant’Amanzio, chiesa di, 137 San Lorenzo, chiesa di, 137 San Michele, chiesa di, 267 San Paolo, chiesa di, 137 San Pietro, chiesa di, 137, 138, 267, 269, 270, 271 San Saturnino, cappella di, 271 Fossanova, monastero di, 336, 340n, 341n Francia, 118, 119, 123, 124, 133, 136, 137, 143, 148, 154, 157, 162, 192, 195, 197n, 214, 223, 245, 258, 276, 299n, 318, 320, 335, 337, 340n, 348 Francoforte, 208 Frauenberg, presso Fulda, 241 Freckenhorst, monastero di, 308 Fréjus, 53, 83 Friuli, 149, 157, 161 Fulda, monastero di, 178, 214, 215, 217220, 223, 241, 249, 252, 270, 296n, 305, 306, 311 biblioteca del monastero, 219 chiesa abbaziale, 217, 305 claustrum monasterii, 217 San Michele, chiesa di, 217

Galles, 117, 121, 126, 348 Gallia, 49, 51, 53-55, 66, 69, 73, 74, 76, 77, 95, 102, 119, 124, 131-134, 144, 146, 177, 190-192, 195,197n, 345, 346 Gallia Narbonese, 49 Ganagobie, monastero di, 308 Gerico, 18 Germania, 118, 123, 178, 214, 278, 299n, 308, 321 Germigny-des-Prés, 351 Gerusalemme, 26n, 45, 46, 57, 117, 335 Giglio, isola del, 52 Ginevra, 80 lago di, 124 Giordania, 41 Girona, 191 Giulie, Alpi, 149 Giura, foreste e monti del, 53, 85, 123, 125, 138, 322, 346 Gorgona, isola di, 50, 79n Gorze, monastero di, 202 Gran Bretagna, 118 Grande Laura, monastero della, 33 Grandval, monastero di, 138, 145 San Maurizio, chiesa di, 138 San Pietro, chiesa di, 138 Sant’Ursicino, chiesa di, 138 Grigioni, 306, 338n Großkomburg, monastero di, 321 Hainaut, 141 Hamage, monastero di, 148, 149 Heidelberg, 321 Heiligenberg, monastero di, 321 Hispania, 76, 190, 191, 194, 345 Hosios Loukas, monastero di, 194 Île-de-France, 127 Inda (Inden)-Kornelimünster, monastero di, 223, 306, 321 Inghilterra, 119-121, 136 Iona, monastero di, 120, 121 Ippona, 23, 71 Irlanda, 84, 85, 117-121, 126-128, 347, 348 Isidoro, monastero di, 27, 28

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Indice dei luoghi

Israele, 53 Italia, 49, 55, 57, 64, 66, 74, 76-78, 84, 95, 118, 129, 149, 150, 154-157, 161, 162, 168, 171, 173, 176-179, 185-192, 195, 202, 259, 273, 276, 299n, 307, 317, 318, 320, 324, 337, 340n, 345, 346 Jarrow, monastero di, 136 Johannesberg, presso Fulda, 241 Jouarre, monastero di, 127 Jumièges, monastero di, 129, 134-138, 142, 145, 148, 196n, 202 San Colombano, chiesa di, 135 San Dionigi, chiesa di, 135 San Germano, chiesa di, 135 San Giovanni, chiesa di, 135 San Martino, chiesa di, 135 San Pietro, chiesa di, 135 tumulus di Filiberto, 135 Vergine, chiesa della, 135, 138 Kellia, 40, 41, 48n, 53, 68 Khirbet ed Deir, monastero di, 42 Kildare, monastero di, 119, 120 La Ferté, monastero di, 335 Landevennec, monastero di, 308 Lao, fiume, 187 Laon, 141 La Spezia, golfo di, 79n Lazio, 78, 152, 158, 178, 243 Leinster, 117 Leno, monastero di, 198n pieve di San Giovanni, 198n Lerida, 193 Lérins, isola e monastero di, 52-55, 69, 80n, 83, 84, 123, 130, 133, 191, 279, 346 isola di S. Margherita, 79n Le Thoronet, monastero di, 340n Ligugé, monastero di, 79n Liguria, 51, 129, 299n Lindisfarne, monastero di, 122 Lione, 10, 80n Lobbes, monastero di, 141-143, 145, 149, 299n

Vergine, Sant’Andrea e San Giovanni Ev., oratorio di, 143 San Martino presso L., oratorio di, 143, 149 Loira, valle e corso della, 51, 139 Lombardia, 299n Lorsch, monastero di, 255, 307 Torhalle, 255 Lucca, 168, 178 Lussemburgo, 202 Luxeuil, monastero di, 126-129, 131, 133, 138, 143, 147, 154, 196n, 268 Maastricht, 142 Mâcon, 322, 329 Magonza, 218 Maiorca, 193 Malaga, 193 Marche, 178 Martiri Tebani, memoria dei, 124 Martirio, monastero di, 43 Mediterraneo, mare, 275 Meno, fiume e valle del, 215 Merkourion, 187 Merida, 191 Mesas de Villaverde, monastero di, 194, 195 Mesopotamia, 184 Metz, 202, 308 Messina, 152 Milano, 51, 64, 71, 154, 155, 168, 170 Castello Sforzesco, musei di, 170 Santa Maria di Aurona, monastero di, 170 Minorca, 193 Molise, 243, 248 Moncenisio, 276 Montecassino, 79, 84, 113n, 151, 152, 159, 160, 164, 172, 173, 176, 178, 182, 198n, 202, 216, 241, 242, 244-249, 251-253, 273, 297n, 298n, 318, 320, 321, 324 Eulogimenopolis, 244, 245 Salvatore, chiesa del, 242, 243, 245, 246 San Benedetto, cappella di, 243 San Benedetto, chiesa di (già del Battista), 244

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San Giovanni Battista, chiesa/oratorio di, 242, 244 San Martino, chiesa di, 242, 244 San Michele, cappella di, 243-245 San Pietro, chiesa di, 242, 244 San Pietro in Civitate, chiesa di, 245 Santa Maria delle Cinque Torri, chiesa di, 243, 244, 246 Santa Scolastica o “dell’Incontro”, cappella di, 246 sepolcro di san Benedetto, 159, 242, 244, 247 Montecristo, isola di, 52, 79n Monte Nebo, monastero di, 41, 43 Mont Saint-Michel, monastero di, 126 Monza, 154 San Giovanni Battista, basilica di, 154 Morimond, monastero di, 335 Mosa, valle della, 124 Mosella, valle della, 124, 142 Moutier-la-Celle, monastero di, 139 San Michele, chiesa di, 140 Murbach, monastero di, 220 Müstair, monastero di, 306-308 chiesa abbaziale, 307 Santa Croce, cappella della, 307 Nantes, 139, 140 Napoli, 65, 178, 179, 185, 186 Castrum Lucullanum, 113n Natisone, fiume, 168 Nemetaucum, 299n Neustria, 124, 126, 127, 136, 142, 147, 202 Nicea, 11 Nilo, delta del; corso del, 16, 21, 26n, 38, 40, 45, 137 Nitria , 40 Nivelles, monastero di, 142, 202 Nizza, 150, 151 Nola, 63 Nonantola, monastero di, 161, 172, 173 San Michele, pieve di, 172 Norcia, 79 Nord, mare del, 202, 275 Norico, 113n

Normandia, 214, 319 Novalesa, monastero della, 276-278 Salvatore, chiesa del, 276-278 Santa Maria, chiesa di, 277, 278 Santi Pietro e Andrea, 277, 278 spazi residenziali, 277, 278 Novara, 81n Orléans, 124, 125, 351 Osroene, 46 Ossirinco, 22 Pader, fiume, 256 Paderborn, 256, 257, 259 palazzo e aula regia, 256, 257 basilica cattedrale, 256, 257 Paesi Bassi, 118 Palestina, 13, 14, 28, 40, 56, 65, 184, 185, 345 Panopoli, 38, 39 Paray-le-Monial, monastero di, 340n Parenzo, 166 Parigi, 124, 146, 147, 197n, 201, 202, 206, 229, 253 Saint-Germain-des-Pres, monastero di, 146, 147, 166 San Vincenzo di Saragozza, basilica di, 146, 147 Pas de Calais, 124, 148 Pavia, 81n, 155, 168, 169, 178 San Pietro in Ciel d’Oro, monastero di, 168 Sant’Agata al Monte, monastero di, 168 Sant’Ambrogio, chiesa di, 155 Santa Maria Teodote, monastero di, 168, 169 Senatore, monastero di, 169, 170 Payerne, monastero di, 330, 340n Penisola Iberica, 74, 77, 195, 324, 346 Petersberg, presso Fulda, 241 Pfälzel, monastero di, 309 Piacenza, 81n, 153 Pianta di San Gallo, 280-295, 299n, 304313, 316, 319, 320, 326-329, 332, 335, 339n, 340n, 352-354

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alloggi per i medici, 291 alloggi per i monaci visitatori, 288 alloggi e chiesa per i novizi e i malati, 290, 305 balnea e latrine, 283, 285 biblioteca e scriptorium, 292 chiesa, 284, 286, 292-295, 303, 305, 314 chiostro, dormitorio, refettorio, cellario, 283, 284, 319 cimitero, 289, 290 cucine, 283, 284 giardino dei semplici, 291, 292 officine e laboratori, 288, 289, 329 orto e frutteto, 289, 290 paradisus, 294 parlatorio, 287 residenza dell’abate, 285, 310 sacrestia, 292 schola, 287 spazi di accoglienza per gli ospiti di riguardo, 285, 286, 310 spazi per l’accoglienza degli ospiti non di riguardo, 286, 287, 310 spazi per il ricovero degli animali, 285 torri dei SS. Michele e Gabriele, 294295 Pianura Padana, 178 Piemonte, 276 Pirenei, 190 Pisa, 50 Pistoia, 168 Poitiers, 51, 124 Santa Croce e Santa Maria, monastero della, 124 Pontigny, monastero di, 335 Pontino, arcipelago, 79n Populonia, 52 Porfirione, deserto di, Egitto, 16 Portus, 62 Primuliacum, monastero di, 66 Provenza, 21, 55, 68, 123, 124, 133, 307 Prüm, monastero di, 299n Puglia, 178, 186

Qalat Simaan, santuario e monastero di, Siria, 44, 197n Rapido, fiume, 164, 242, 243 Ravenna, 67, 80n, 81n, 124, 166, 178, 179, 185, 186, 319 San Severo, monastero di, 319 Rebais, monastero di, 127, 132 Redon, monastero di, 149 Reichenau, monastero di, 226, 278-281, 291, 296n, 307, 308, 311 Reims, 124, 299n Saint-Remi, monastero di, 299n Renania, 124 Rennes, 140 Reno, fiume e valle del, 123, 215, 255 Rieti, 168, 198n San Giorgio, monastero di, 198n Rodano, valle del, 113n, 123, 124 Roma, 10, 11, 12, 49, 55, 57, 58, 62, 65, 67, 71, 77, 78, 139, 151-153, 158, 160, 178186, 188, 190, 202, 203, 207, 228, 229, 241, 246, 271, 275, 296n, 297n, 313, 314, 323, 334, 350 Campo Marzio, 181, 182 Cellae Novae, monastero delle, 185 domus degli Anici, sul Celio, 63 foro di Augusto, 184, 188 monasterium Boethianum, 62 Piccolo Aventino, 185 San Basilio in Scala Mortuorum, monastero di, 184 San Crisogono, chiesa di, 313 San Lorenzo in Pallacinis, monastero di, 181 San Marco, chiesa di, 314 San Pietro, basilica di, 334 San Saba, monastero di, 185 Sant’Agata dei Goti, basilica di, 180 Sant’Andrea ad Clivum Scauri, monastero di, 63, 80n Santa Maria in Trastevere, chiesa di, 180 Santa Prassede, chiesa di, 314 Sant’Ermete, cimitero e basilica sotterranea di, 180

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Santi Stefano e Silvestro de Capite, monastero dei, 182-186 Santi Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias, monastero di, 184 Suburra, 180 teatro di Balbo, 181 tempio di Marte Ultore, 184, 188 terme di Agrippa, 182 Vaticano, 334 via del Corso, 183 via Flaminia, 183 via Laurentina, 184 Romagna, 161, 178 Romainmôtier, monastero di, 330, 340n Rosso, mare, 53, 57 Rouen, 142, 267 Sabina, 158, 271 Sacra di San Michele, monastero di, 319 Saint-Bertin, monastero di, 299n Saint-Denis, monastero di, 146, 147, 166, 201, 202, 226, 248, 253, 255-258, 299n, 316 Hôtel-Dieu, 255 mausoleo di Pipino III, 254 palatium, 254, 257 recinto fortificato, 253 Saint-Denis de l’Estrée, chiesa di, 299n Saint-Martin, chiesa di, 299n Saint-Rémy, 299n San Bartolomeo, chiesa di, 258 San Paolo, chiesa di, 258 San Pietro, chiesa di, 258 SS. Dionigi, Rustico ed Eleuterio, basilica dei, 146, 254, 256, 257, 316 spazi produttivi e residenziali, 258 Saint-Malo, 126 Saint-Maur-des-Fossés, monastero di, 299n Saint-Maurice d’Agaune, monastero di, 123, 124, 146 Saint-Philibert-de-Grandlieu, monastero di, 316 Saint-Philibert de Tournus, monastero di, 340n Saint-Quentin, monastero di, 210

Saint Wandrille, monastero di, vedi Fontenelle Salerno, 187, 188 Sambre, fiume, 142 San Bishoi, monastero di, 42 San Clemente a Casauria, monastero di, 321 San Gallo, monastero di, 147, 148, 278-281, 296n, 299n, 305, 311, 355 chiesa maggiore di Gozbert, 279, 281, 299n, 305, 311, 338n San Pietro, chiesa di, 280 Sant’Othmar, cappella di, 279 San Mena, vedi Abu Mina San Michele alla Verruca, monastero di, 319 San Miquel de Cuxà, monastero di, 340n San Pietro di Gand, monastero di, 142 San Silvestro sul monte Soratte, monastero di, 202 San Simeone, monastero di, 42 Sant’Antonio, monastero di, 42 Santa Caterina sul Sinai, monastero di, 45 Santa Lucia del Trampal, monastero di, 194 Santa Maria de Pactano, monastero di, 188 Vergine, chiesa della, 188 Santa Maria di Melque, monastero di, 194 Santa Maria di Tergu, monastero di, 319 Santa Maria in Cingla, monastero di, 247 Santa Maria in Plumbariola, monastero di, 247, 298n Santiago di Compostela, 334 Santi Cosma e Damiano delle Centoporte, monastero dei, 187 San Vincenzo al Volturno, monastero di, 158, 160, 161, 173, 175, 178, 248, 258, 261, 263, 266, 270, 284, 298n, 306, 314, 317, 318, 320, 321, 324, 328 Basilica Maggiore di San Vincenzo, 250252, 299n, 314, 315, 317 Colle della Torre, 249-251, 253 corridoi porticati, 250, 251, 253, 270, 306 cucine, 263-264, 284

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Indice dei luoghi



dormitorio, 253 officine monastiche, 250, 253 refettorio, 251, 284 Salvatore, chiesa del, 252, 253, 298n, 299n San Pietro, chiesa di, 173, 299n Santa Maria Maggiore, chiesa di, 173, 174, 249, 252 Santa Maria Minore, chiesa di, 173, 174 San Vittore di Marsiglia, monastero di, 299n Saragozza, 70, 191 Sardegna, 319 Sassonia, 318, 319 Savoia, 125, 158, 178 Scandinavia, 149 Scete, deserto di, 42 Scozia, 119-121, 348 Senna, valle della, 124, 129, 136-138, 267 Sesto al Reghena, monastero di, 172, 173, 306 Sicilia, 152, 178, 186, 189 Siria, 13, 24, 40, 179, 345 Siriani, monastero dei, 42 Siviglia, 84, 88, 346 Skellig Michael, monastero di, 120, 121 Soissons, 124, 146, 147, 315, 339n, 355 San Medardo, monastero di (e suoi edifici), 146, 147, 315, 338n, 339n Saint-Jean-des-Vignes, monastero di, 355 Somme, regione della, 229 Son Peretò, monastero di, 193 Spagna, 66, 70, 78, 325 Spoleto, 151, 155, 157-159, 172, 177, 178, 198n Squillace, 66 SS. Trinità di Saccargia, monastero di, 319 SS. Trinità sul Gargano, monastero della, 340n SS. Vito e Salvo, monastero di, 341n Stavelot-Malmédy, monastero di, 202 Steinbach, monastero di, 315 Subiaco, monastero di 78, 113n, 318 Svizzera, 123, 147, 278, 330

Tabennisi, 32, 37, 39 Tagaste, 71 Taormina, 94 S. Andrea super Mascalas, monastero di, 94 Tarnat, monastero di, 113n Tarragona, 191 Taureana, comunità monastica di, 152 Tebaide, 27 Terracina, 115n Terrasanta, 158 Tertry, 142 Tevere, valle del, 158, 271 Tirreno, mare, 79 Toledo, 190, 192, 194 Tolosa, 66 Torino, 81n, 319 Tortona, 81n Toscana, 299n, 319 Trebbia, valle del, 152, 153, 265, 299n Treviri, 53, 55, 142, 196n, 309 Troyes, 139, 140 Tours, 51, 124 Treviso, 168 Tuscia, 162, 273 Umbria, 178 Uzès, 346 Vallese, 123 Vence, 80 Vercelli, 81n Vernum, palazzo di, 206, 207 Verona, 81n, 168 Vicenza, 81n, 168 Vivarium, monastero di, 66, 68, 77 Volturno, fiume e valle del, 159, 174, 175, 250, 251, 317 Wadi Natroun, 40 Werden, monastero di, 316 Westfalia, 256, 294, 308 Zeugma, 20, 32

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Dal catalogo Jaca Book Architettura B. Agosti, Collezionismo e archeologia cristiana nel Seicento. Federico Borromeo e il Medioevo artistico tra Roma e Milano, 1996 M. Andaloro, S. Romano (a cura di), Arte e iconografia a Roma. Da Costantino a Cola di Rienzo, 2000, 20072 M.G. Balzarini, R. Cassanelli (a cura di), Fare storia dell’arte. Studi offerti a Liana Castel­ franchi, 2000 I. Bargna, Arte africana, 2003 X. Barral i Altet, Contro l’arte romanica? Saggio su un passato reinventato, 2009 J. Baschet, Iconografia medievale, 2014 M. Baxandall, Giotto e gli umanisti, 1994, 20072 T. Bella, La basilica di Sant’Ambrogio a Milano. L’opera inedita di Fernand de Dartein, 2013 L. Bellosi, Come un prato fiorito. Studi sull’arte tardogotica, 2000 C. Brandi, Tra Medioevo e Rinascimento. Scritti sull’arte da Giotto a Jacopo della Quercia, a cura di M. Andaloro, 2006 L. Bressan, Maria nella devozione e nella pittura dell’Islam, 2011 M. Carboni, L’ornamentale. Tra arte e decorazione, 2001 —, L’occhio e la pagina. Tra immagine e parola, 2002 —, Cesare Brandi. Teoria e esperienza del­l’arte, 2004 —, La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti, 2007 C. Carriero, Il consumo della Pop Art. Esibizione dell’oggetto e crisi dell’oggettivazione, 2003 L. Castelfranchi Vegas, L’arte medioevale in Italia e nell’Occidente europeo, 1993, 20066 —, L’arte del Quattrocento in Italia e in Europa, 1996 —, L’arte ottoniana intorno al Mille, 2002 —, Le mobili frontiere dell’arte. Tra Medioevo e Rinascimento, 2012

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M. Delahoutre, Lo spirito dell’arte indiana, 1994 M. Della Valle, Costantinopoli e il suo Impero. Arte, architettura, urbanistica nel millennio bizantino, 2007 A. Delle Foglie, La cappella Caracciolo del Sole a San Giovanni a Carbonara, 2011 C. Dionisotti, Appunti su arte e letteratura, 1995 E. Fogliadini, Il volto di Cristo. Gli Acheropiti del Salvatore nella tradizione dell’Oriente cristiano, 2011 E. Fogliadini, L’immagine negata. Il concilio di Hieria e la formalizzazione ecclesiale dell’iconoclasmo, 2013 E. Fogliadini, L’invenzione dell’immagine sacra. La legittimazione ufficiale dell’icona al secondo concilio di Nicea, 2015 A. Grabar, Le vie dell’iconografia cristiana. Anti­ chità e Medioevo, 1983, 20114 (nuova ed. a cura di M. Della Valle) —, Le origini dell’estetica medievale, 2001, 20113 M.A. Holly, Panofsky e i fondamentali della storia dell’arte, 1991 E. Kitzinger, Alle origini dell’arte bizantina. Correnti stilistiche nel mondo mediterraneo dal iii al vii secolo, a cura di M. Andaloro e P. Cesaretti, 2005, 20102 G. Ladner, Il simbolismo paleocristiano. Dio, Cosmo, Uomo, 2008 S. Langé, G. Pacciarotti, Barocco alpino, 1994 J. Lindasy Opie, Nel mondo delle icone. Dall’India a Bisanzio, 2014 H. Lottman, Amedeo Modigliani, principe di Montparnasse, 2007 T. Mathews, Scontro di dei. Una reinterpretazione dell’arte paleocristiana, con un saggio di E. Russo, 2005 M.-J. Mondzain, Immagine, icona, economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo, 2006 A. Negri (a cura di), Arte e artisti nella modernità, 2000, 20073 C. Nenci (a cura di), Le Memorie di Giuseppe Bossi. Diario di un artista nella Milano napoleonica, 2004

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G. Panza, Ricordi di un collezionista, 2006, 20103 B.V. Pentcheva, Icone e potere. La Madre di Dio a Bisanzio, 2010 H.W. Pfeiffer s.j., La Sistina svelata. Iconografia di un capolavoro, 2010 P. Piva (a cura di), L’arte medievale nel contesto (300-1300). Funzioni, iconografia, tecniche, 2006, 20072 — (a cura di), Pittura murale del Medioevo lombardo. Ricerche iconografiche (secoli xi-xiii), 2006 Procopio di Cesarea, Santa Sofia di Costanti­ nopoli. Un tempio di luce (De Aedificiis i 1,178), a cura di P. Cesaretti e M.L. Fobelli, 2011 M. Sartor, Arte latinoamericana contemporanea dal 1825 ai giorni nostri, 2003 G. Sauron, Il grande affresco della villa dei Misteri a Pompei, 2010 G. Sauron, Augusto e Virgilio. La rivoluzione artistica dell’Occidente e l’ara Pacis, 2013 F. Scirea, Pittura ornamentale del Medioevo lombardo. Atlante (secoli viii-xiii), 2012 J. Shearman, Arte e spettatore nel Rinascimento italiano. «Only connect...», 1995, 20082 J. Soldini, Alberto Giacometti. La somiglianza introvabile, 1998 F. Sricchia Santoro, L’arte del Cinquecento in Italia e in Europa, 1998 F. Tamisari, F. Di Blasio (a cura di), La sfida dell’arte indigena australiana, 2007 S.B. Tosatti, Trattati medievali di tecniche artistiche, 2007, 20092 M. Toti, La preghiera e l’immagine. L’esicasmo tardobizantino (XIII-XIV secolo): temi antropologici, storico-comparativi e simbolici, 2012 H. Toubert, Un’arte orientata. Riforma gregoriana e iconografia, 2001 L. Uspenskij, V. Losskij, Il senso delle icone, 2007 R. Van Straten, Introduzione all’iconografia, 2009 T. Velmans, La visione dell’invisibile. L’im­ma­gine bizantina o la trasfigurazione del reale, 2009

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Stampa e confezione Ingraf srl, Milano gennaio 2015

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