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Italian Pages [73] Year 2010
Focus
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Francesco Bevilacqua
Genius Loci Il dio dei luoghi perduti
Rubbettino
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© 2010 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it Progetto Grafico: Ettore Festa, HaunagDesign
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Indice Prefazione di Pier Luigi Cervellati Prologo: il dio dell’acqua sorgiva Nullus locus sine Genio Rapiti dalle Ninfe Il mondo delle fate Architettura moderna e Genius Loci Paesaggio: silenzio eloquente Essenzialità dello sguardo I geni del Bosco Vecchio Genius Loci, luogo originario individuazione Epilogo: roveri nella brughiera Riferimenti bibliografici
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e
processo
di
Prefazione UN TEMPO, IL PAESAGGIO,
era considerato bene comune, appartenente a tutti; bene «immateriale», inestimabile, come la bellezza o come l’acqua, l’aria. La terra, anche nel passato, era di tutti, ma solo in senso metaforico. Per possederla si doveva ereditare, conquistare, acquisire. Oggi, chi pianifica è ancorato a leggi, decreti, convenzioni. Italiane ed europee. Ci sono manuali specifici e approfondimenti giuridici eloquenti, finalizzati alla tutela del paesaggio. La Convenzione Europea del Paesaggio, firmata a Firenze nel 2000 ma ratificata dall’Italia solo nel 2006, e le ultime integrazioni al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio indicano, proprio attraverso la pianificazione paesaggistica, le modalità di tutela. Raccomandano di salvaguardare il paesaggio e contestualmente di valorizzarlo. Di recente, la Corte Costituzionale, per rispettare un caposaldo della Carta, ha sancito l’equivalenza fra ambiente, paesaggio e territorio. Il paesaggio come forma del territorio e aspetto visivo dell’ambiente, pur inserito nel contesto lessicale giuridico della sentenza, è formula assai affascinante. Specie per chi pianifica, allarga il campo degli interventi. Annette l’antropologia all’estetica, l’economia alla filosofia, la geologia alla storia dei luoghi, la morfologia alla poesia. Tutto questo, però, non spiega con quali criteri progettuali si dovrebbe intervenire. Il paesaggio è sempre stato oggetto di riflessioni e interessi a volte contrapposti. Ha coinvolto saperi diversi e chi pianifica ha tentato di coordinarli, fallendo – specie in Italia – gli obiettivi prefissati. In molti casi, il territorio devastato – la terra bruciata – degrada l’ambiente e uccide il paesaggio. Pur con leggi, decreti, dotte sentenze e tante buone intenzioni, il paesaggio, in non poche zone, non esiste
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più e – ciò è grave – non si riesce più a riconoscerlo. Pianificare ormai equivale a omologare. Si aspira al globale e ci si rifugia nel locale, usando gli stessi stilemi progettuali. Si trasformano i luoghi in generici «spazi». Annullando la loro identità, si banalizzano. Si distruggono. I «pianificatori» spesso sono diventati killer del paesaggio. (Lo so: faccio parte della categoria). Dopo aver violentato – pardon, «urbanizzato»/«cementificato» – il territorio e avvelenato l’ambiente, si ha la presunzione di pianificare il paesaggio. Per «valorizzarlo» tutelandolo, si dice. Tutelare per valorizzare (o viceversa) è un ossimoro condiviso dalla collettività. Due operazioni parallele e contrapposte. Non si tradurranno mai in realtà perché un bene immateriale, inestimabile non può essere valorizzato – calcolato – come un bene economico qualsiasi. Concreto, stimabile. Non si tutela la costa marina monetizzandola, costruendo sulle dune una palizzata di case o villette. Neppure si valorizza il crinale di un rilievo infilzandolo di pale eoliche (magari anche là dove non soffia il vento forte) in nome dell’ecologia. Pianificare è diventato sinonimo di urbanizzare, ovvero sparare cemento e asfalto sul paesaggio valutato economicamente quale forma del territorio e aspetto visivo dell’ambiente. Allora cosa fare? Come riuscire a pianificare il paesaggio? Non mi dispero tanto per la mia categoria. La licenza di uccidere ha una sua precisa scadenza. Il territoriopaesaggio-ambiente, pur tradotto in risorsa economica, non è infinito. Non si riproduce. Sacrificato, esaurito, non ha più acquirenti. La situazione rischia di diventare drammatica. La denuncia scivola in sterili polemiche fra fautori e detrattori, catastrofisti e negazionisti. E pazienza. Il balletto si ripete da tanto tempo. Turba e non poco, non riuscire più a vedere le ninfe. Non riconoscere il Genius Loci. Inquieta
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vederli confusi con personaggi di Walt Disney. Già, le ninfe o le fate o le muse chi sono? Il Genius Loci dove si nasconde? Lo spiega Francesco Bevilacqua. Lui con le ninfe ci fa l’amore. Al suo apparire in luoghi mai visti prima, gli vanno incontro, lo guidano e ogni volta lo rapiscono, lo inebriano. Gli fanno conoscere il Genius Loci. Si apparta apposta. Fa finta di perdersi in impervi declivi, passa la notte dentro canyon strettissimi tanto è sicuro che le ninfe arriveranno ad abbracciarlo. Non si pensi che Bevilacqua sia un visionario o un predestinato, un augure. No. La sua fortuna – il suo attraente magnetismo – è frutto di un’incessante, amorosa, quanto paziente, ricerca. Bevilacqua perlustra, descrive, fotografa e legge; fotografa molto e studia molto. Fotografa le ninfe «immagine di immagine». Dal racconto degli altri impara non solo a capire come i luoghi e il loro genius (e un luogo senza genius non è un luogo ma uno spazio, quello dei pianificatori). Bevilacqua non è un esploratore: è un rabdomante della bellezza, un cacciatore d’immagini e d’emozioni. Percezioni sedimentate in quanto approfondite, coinvolgenti perché incisive, concrete nel raffigurare solidità e mistero – vertigine, orrido (in senso geomorfologico) e bellezza (sublimazione) propria della natura – sono materia dell’incessante ricerca sul paesaggio. La lettura di poeti, letterati, filosofi, antropologi, geografi illuminati e architetti spretati, diventa propedeutico, formativo come pochi vademecum e taccuini di viaggio paralleli alle escursioni riescono a trasmettere. Bevilacqua, ancora una volta, c’insegna come «saper vedere» il paesaggio. Nessuna legge di tutela, convenzione europea o sentenza potrà mai insegnare. L’assenza diffusa di una cultura della bellezza, dell’ambiente naturale, produce i killer del paesaggio. Questo excursus a saper vedere il bello del paesaggio, può (deve) diventare testo non solo per i
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giovani, gli studenti in particolare, ma per chiunque – e siamo molti – ha un rapporto diretto o indiretto con il paesaggio. Soprattutto chi lo sacrifica, lo distrugge – e non siamo pochi – ha il dovere di leggerlo e impararlo a memoria. Chi pianifica senza conoscere (e riconoscere) distrugge. Chi pianifica ha il dovere (l’obbligo, direi) di comprendere i luoghi (e quindi il Genius Loci) per poter prevedere, prevenire e guidare, appunto, progettare la tutela del paesaggio. PIER LUIGI CERVELLATI
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Genius Loci A mamma Adriana e a papà Carlo, tra le cui braccia ho iniziato a percepire la profondità e il mistero del Genius Loci. Ed a tutti i miei luoghi dell’anima
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Prologo: il dio dell’acqua sorgiva Che chi esplora la natura lasci i fenomeni originari nella loro pace eterna e nel loro eterno splendore. JOHANN WOLFGANG GOETHE UNA DOMENICA DEL TARDO AUTUNNO
di molti anni fa. Aspromonte orientale, montagne tra Samo e San Luca, alta valle della fiumara Butramo (etimo prelatino che significa «sterile»). Percorro, con due amici, il sentiero di Buttia, vecchia mulattiera ormai abbandonata, che corre a mezza costa sulla ripida pendice in destra idrografica della valle – laddove questa assume il nome inquietante di Valle Infernale. Ho intenzione di esplorare la zona, in cerca di nuovi itinerari escursionistici e, soprattutto, di nuove bellezze naturali. La valle della Butramo ci ha visti protagonisti di strane avventure: per due volte abbiamo tentato di ridiscenderne il corso in stile torrentistico (la prima, praticamente alla cieca) ed entrambe le volte siamo stati costretti ad abbandonare il percorso dopo una notte all’addiaccio nell’identico posto: nel primo caso perché non avevamo calcolato bene i tempi e le difficoltà del terreno, nel secondo perché fummo colti da un temporale che ci martoriò per una decina d’ore. In entrambi i casi fummo costretti a lasciare il greto risalendo lateralmente sino ad una stradina di crinale. In epoca successiva completammo il percorso in varie occasioni, scoprendo canyon, cascate, laghetti e rupi di straordinaria bellezza. La cosa più curiosa è che ho sognato varie volte la valle, ma come un luogo completamente trasfigurato. Una volta, grazie ad un passaggio segreto, giungevo in una città sotterranea, bellissima ma pericolosa, senza però riuscire a completare il percorso. Un’altra volta c’infilavamo ancora in
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straordinari ambienti ipogei ma poi eravamo costretti a risalire in superficie e ad osservare dall’alto la valle, rammaricandoci ancora una volta di non aver saputo trovare la via giusta per uscire dalle grotte e proseguire il percorso. È come se provassi una particolare attrazione per quel luogo; come se ci fosse un che di irresistibile e di sensuale nella valle, qualcosa che comunque non riuscivo, non potevo «violare». Come se un incantesimo o un’entità burlona la proteggesse dai miei tentativi di invasione e ne volesse mantenere l’inviolabilità, oserei dire la verginità. Questa volta non abbiamo intenzione di scendere sul fiume, di riprovare cioè con il sancta sanctorum della valle, ma di rimanere alti, a mezza costa, e di ritrovare l’antica mulattiera che, secondo la indicazioni di un pastore del luogo, dovrebbe passare per la copiosa fontana di Buttia e portare al valico tra puntone Galera e un poggio che reca il nome di Croce di Dio Sia Lodato. È curioso come in quest’area, a breve distanza, si incontrino toponimi positivi e colmi di speranza ed altri negativi e terrifici. Abbiamo imboccato il sentiero piuttosto tardi rispetto alle nostre abitudini, perché lo cercavamo ostinatamente in una zona più a valle, che però è risultata sconvolta da una frana paurosa. Poi l’incontro col pastore – un giovane alto e con gli occhi azzurri, che a me pare di stirpe normanna – e l’imbeccata giusta. La mulattiera entra ed esce da una fitta lecceta. Quando siamo nel bosco, sotto la buia volta degli alberi, camminiamo in silenzio, come se stessimo compiendo un viaggio segreto. Pare che gli alberi, dalle cortecce grigio scure e le radici simili a zampe mostruose, nocchierute e disarticolate di chissà quale animale preistorico, ci scrutino minacciosi. Anche il frusciare dei passi sulla lettiera di foglie secche, suona alle nostre orecchie come una profanazione del silenzio silvestre.
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Quando siamo fuori dal bosco, invece, su qualche poggio panoramico, quello che si presenta ai nostri occhi sembra lo scorcio di una foresta pluviale in qualche impervia valle delle Ande. Una coltre di nuvole grigie ricopre la volta del cielo. La vista spazia sul solo emiciclo della valle (siamo ancora bassi), in alto sino all’acuto crinale festonato di pini e di querce gigantesche, in basso verso le pendici interne, convergenti sul fiume, che sentiamo scrosciare sul fondo, furioso tra i massi. Sugli scoscendimenti si alternano boschi dai colori autunnali, la cui usuale brillantezza è resa ora diafana dalla luce bigia, costoni rocciosi con rupi bizzarre, canaloni precipiti e bianche ferite di frane piccole e grandi. Su tutto indugiano tanti filamenti di nebbia azzurrina, umida, leggera, che compaiono dal nulla, fluttuano, si sfilacciano, si ricompongono, si disfano nuovamente nell’aria. Sono il risultato della pioggia ininterrotta caduta sulla valle il giorno e la notte precedenti e dell’umidità che pervade il grande imbuto idrografico: hanno qualcosa di vivo, di fascinoso, di sovrannaturale. Paiono creature mimetiche, eteree, che sorvegliano la valle e noi, assumendo queste forme ineffabili, effimere, cangianti. Non si ode frusciare d’animali nel bosco, non si vede volo di uccelli nel cielo. Il piccolo-grande mondo della valle attende la definitiva scomparsa del maltempo per rimettersi in movimento. Oppure, è solo che la notizia della nostra presenza sul sentiero è immediatamente echeggiata di pietra in pietra, sino a rendere gli abitanti del luogo particolarmente elusivi. La sensazione è di essere osservati da occhi nascosti nell’ombra segreta del bosco. Molto lontano, verso il punto da cui proveniamo, si odono gli echi degli scoppi dei petardi dei quali il pastore ci aveva spiegato di far uso per tenere lontani i lupi dal suo gregge. Così come entra ed esce dal bosco, la mulattiera sale e
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scende, ma sempre guadagnando quota. Di tanto in tanto osserviamo piccoli spiazzi circolari ai lati del sentiero. Sono le piazzole dove anticamente si produceva il carbone (il legno di leccio era il migliore). Per trasportarlo in paese a dorso d’asino occorrevano almeno sei ore! Il percorso è un continuo uscire su costoni rocciosi, superarli, rientrare nella successiva valletta laterale, attraversarla e raggiungere un nuovo costone. Dopo quattro ore di cammino, verso le 15, mentre siamo intenti ad attraversare l’ennesimo tratto di bosco fitto e silenzioso, un improvviso lucore attrae la nostra attenzione in lontananza. Cautamente, come se stessimo passando per un anello magico, procediamo verso la luce. Non appena siamo abbastanza vicini per distinguere meglio i dettagli, ci accorgiamo che l’effetto ottico è dato dalla luce diffusa del cielo che si riflette su una liscia ed alta parete di granito fuori dal bosco. Al di sopra di essa un affastellarsi di guglie e di pinnacoli pare il torreggiare di una fortezza medievale. Alla base della parete una fenditura nella roccia, completamente tappezzata di muschio, del tutto simile ad una vulva di donna, lascia fluire dal suo interno un getto gelido d’acqua cristallina, che si raccoglie in una piccola vasca naturale di pietra. È la fontana di Buttia. Osserviamo questo scorcio di paesaggio, senza dire una parola, estasiati dallo spettacolo dell’acqua che fuoriesce dalla roccia come una linfa vitale, come lo strano umore di un corpo umano, come il liquido dono di una creatura soprannaturale. Siamo dinanzi ad un luogo non solo bello ma anche numinoso. Gli antichi si sarebbero soffermati a pregare la divinità del luogo, a spargere qualche goccia d’acqua tutt’intorno per essa, lasciare una briciola di cibo. È quello che facciamo anche noi in silenzio. Poi, cessata la contemplazione, siamo costretti a decidere
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il da farsi per il ritorno. Dinanzi a noi il sentiero si biforca. Un ramo sale a sinistra, ripidamente, e sembra indirizzarsi verso il crinale di Monte Perre e Puntone Galera, sotto il quale corre un sentiero a noi noto che potrebbe condurci con comodità al punto di partenza. Ma abbiamo solo un paio d’ore di luce e se, invece, dovessimo incontrare difficoltà di percorso e fossimo costretti e ripiegare per la via dell’andata, ritrovarla diventerebbe difficile. Un altro ramo prosegue dritto ed è certamente quello che ci conduce al passo sotto Croce di Dio Sia Lodato. Ma non sappiamo quanto ci metteremmo. Abbiamo due alternative. Una è tornare indietro lungo la via dell’andata: sarà un percorso lungo, probabilmente arriveremmo col buio, ma siamo certi di ritrovare le nostre tracce. L’altra ci è stata suggerita dal pastore: poco prima di arrivare alla fontana – ci ha detto – vi è una scorciatoia che sale a mezza costa, obliquamente, verso il sentiero di crinale e lo raggiunge in un paio d’ore nei pressi del punto di partenza. Per rintracciarlo occorre seguire le tacche che egli ha lasciato sui tronchi con l’accetta come segnali. Optiamo per quest’ultima soluzione. Dapprima rintracciamo le tacche, poi, ci sembra di averle perse e saliamo su dritti impantanandoci in difficili passaggi su rupi. Torniamo indietro sino al punto in cui abbiamo perso i segni: ecco dove proseguono. Ci affidiamo allo spirito dei luoghi: ci rimane poco tempo per collegarci al sentiero di crinale. Diversamente dovremo passare la notte all’addiaccio. È quasi incredibile, ma troviamo il sentiero proprio mentre il sole cala dietro le montagne ad ovest. Le nubi sono fuggite via, verso est. Qualche banco ritardatario campeggia ancora nel cielo terso del tramonto e si tinge di cremisi. Una luce tra il vermiglio e il violetto invade la valle. Ansimanti osserviamo ora dall’alto il corso incassato della fiumara, che continua da millenni a scorrere sul fondo, e, come Eraclito insegna, non sarà mai lo stesso
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fiume. Un po’ in debito d’ossigeno, un po’ entusiasti per l’avventura vissuta, un po’ affascinati dalla luce e dai colori del paesaggio, percepiamo in quella visione un respiro più vasto e profondo del nostro.
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Nullus locus sine Genio
NULLUS LOCUS SINE GENIO: questa frase di Servio (retore latino vissuto tra il IV ed il V secolo d.C.) tratta dal Commento all’Eneide (5, 95), risulterebbe incomprensibile alla maggior parte degli odierni lettori, salvo che a qualche specialista di mitologia latina. Eppure essa diceva ai suoi contemporanei una cosa che per loro era ovvia: «nessun luogo è senza Genio». Laddove per Genio s’intende lo spirito, il nume tutelare del luogo stesso. Se volessimo tentare di spiegare oggi, con semplicità, ad una persona qualunque, come può applicarsi questo concetto ad un luogo particolare, potremmo forse dire che quel luogo, propriamente, è «numinoso», è cioè colmo della presenza di un nume, pervaso da un’aura di sacralità. Non esiste, infatti, nella nostra cultura, un’idea che coincida con quella del Genius Loci. Oltretutto, per la cultura latina il Genio non l’avevano solo i luoghi, ma anche le persone. Il Genio, insomma, era il compagno soprannaturale di ciascun’anima (e l’anima, come vedremo, non era solo appannaggio dell’uomo). Più ci si è allontanati, anche temporalmente, dalla cultura latina e più siamo divenuti incapaci di comprendere il significato della frase di Servio e della sua semplificazione tanto lessicalmente bella e armoniosa da essere rimasta viva nelle lingue occidentali, nonostante la totale perdita della sua accezione semantica originaria: Genius Loci. Chiunque
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si occupi a un certo livello di architettura, di paesaggio, di antropologia o di estetica, infatti, si è sicuramente imbattuto in questo concetto o ha talvolta usato questa locuzione, senza mai tradurla e spesso tentando di attribuirle significati ben lontani da quelli originali. Torniamo, allora, indietro nel tempo e cerchiamo di capire cosa volessero dire i latini con la locuzione Genius Loci. Abbiamo detto, traducendo con la massima semplicità le due parole che compongono la locuzione, che con essa si intendeva lo spirito, il nume tutelare del luogo. Ciascun luogo, dunque, si trattasse di una fonte, un fiume, un bosco, un’altura, aveva una divinità secondaria (rispetto a quelle olimpiche) che lo proteggeva e lo tutelava. Si riconosceva, così, ai luoghi, uno status del tutto analogo a quello degli esseri umani. In Censorino (grammatico latino del III sec. d.C.) si ha addirittura un’assimilazione del Genio con i Lari (3,1), che, come è noto, erano le anime dei trapassati, protettrici della famiglia, la cui sede era il focolare domestico, presso cui sorgeva il tabernacolo. Ma vi erano Lari anche dei crocicchi, delle strade, dei militi ecc. Questa idea del Genio, anche se è originale della cultura e della religione latina, trova un precedente parzialmente analogo nella figura greca del Daimon (in lingua italiana «demone» ma con un’accezione del tutto diversa da quella cristiana). Il Daimon dell’uomo greco era, anche in questo caso, una divinità secondaria, uno spirito al quale si attribuivano tutte le vicende umane, liete e tristi. Si riteneva che ciascuno avesse il suo demone buono che lo indirizzava verso il compimento della propria essenza. Dunque il Daimon come nume tutelare di ciascun essere umano.
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La figura del Daimon è stata suggestivamente rievocata dallo psicoanalista e pensatore James Hillman in un suo famoso volume, Il codice dell’anima (Adelphi 1997). Do brevemente conto della tesi iniziale di Hillman perché può esserci utile ad inquadrare il problema. Scrive Hillman: «Questo libro intraprende una strada nuova a partire da un’idea antica: ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. L’idea viene da Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più famosa, La Repubblica. In breve l’idea è la seguente. Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il Daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino» (pp. 22-23). In effetti proprio nelle ultime pagine de La Repubblica Platone, più che il mito, narra l’apologo di Er, un uomo tornato miracolosamente in vita dopo essere morto in guerra, il quale riferisce ciò che ha visto nell’aldilà (1000, 1310). Er racconta molte cose interessanti e misteriose e parla di incontri strabilianti, ma, infine – per quel che ci riguarda nello specifico – testimonia di aver visto le anime scegliersi le vite nelle quali avrebbero dovuto incarnarsi e poi, di seguito, avere assegnato da Lachesi, una delle tre Moire, il demone che si erano scelte quale custode della vita ed adempitore della sorte prescelta. Il senso è chiaro: ciascun’anima ha assegnato – in quanto se l’è prescelto – un compito sulla terra (una mission personale diremmo oggi). Gli dei, comunque, chiedono a quell’anima il compimento di se stessa, secondo il disegno numinoso che la pervade senza tuttavia dominarla. La libertà di ciascun’anima consiste, per l’appunto, nel riuscire
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ad ascoltare i «consigli» del Daimon e nel compiere il disegno. Quella di Hillman è, a ben vedere, una ulteriore specificazione del «processo di individuazione» ossia del processo di realizzazione del sé descritto da Carl Gustav Jung, ai cui insegnamenti Hillman esplicitamente si richiama, e che incontremo più avanti. Nella cultura latina il Daimon prende in nome di Genius ed estende il suo campo d’azione, senza tuttavia perdere le caratteristiche essenziali. Ma questa estensione non dobbiamo considerarla del tutto arbitraria o scollegata dalla precedente cultura greca. Se il Daimon è proprio di ciascun essere dotato d’anima, come dimenticare, infatti, che lo stesso Platone nel Timeo scriveva: «Questo mondo è un essere dotato d’anima e di intelligenza, generato dalla provvidenza di Dio» (30 B-C). E non basta, perché all’obiezione di chi potrebbe riferire questa espressione ad una anima mundi (la qual cosa non escluderebbe affatto che anche le singole componenti del mondo posseggano una parte di quell’anima) basta ricordare come sempre Platone, viceversa, nell’Epinomide sostiene: «I corpi celesti sono esseri viventi, e anzi si può dire che nel loro insieme costituiscano il genere divino degli astri, a cui è toccato il corpo più bello e l’anima più felice e perfetta» (981 E - 982 A). Il che ci dice che il grande pensatore attribuiva un’anima anche a creature diverse dall’uomo e pur sempre diverse dall’insieme indistinto del tutto. A completare il quadro del nostro concetto in età classica vi è, infine Plotino, pensatore nato a Licopodi, in Egitto, tra il 203 ed il 204 d.C., che partecipò alle campagne dell’imperatore Gordiano contro i persiani per venire in contatto con le dottrine del pensiero orientale, si stabilì a Roma dove fondò un’importante scuola di filosofia e morì in Campania tra 269 ed il 270. Plotino, la cui opera fu raccolta
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dal discepolo Porfirio nelle Enneadi, riteneva anch’egli che esistesse un’anima mundi – quale seconda emanazione, dopo l’intelletto (nous), di Dio-Uno – ma era anche convinto che le anime singole fossero parti dell’anima del mondo e che anzi l’anima del mondo fosse reperibile in ogni luogo.
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Rapiti dalle Ninfe
SCRIVE MIRCEA ELIADE NEL SUO Trattato di Storia delle Religioni (Bollati Boringhieri 1999): «Chi fra i greci, poteva vantarsi di conoscere i nomi di tutte le ninfe? Erano le divinità di tutte le acque correnti, di tutte le sorgenti, di tutte le fonti. Non le ha prodotte l’immaginazione ellenica: erano al loro posto, nelle acque fin dal principio del mondo; dai greci ricevettero forse la forma umana e il nome. Sono state create dallo scorrere vivo dell’acqua, dalla sua magia, dalla forza emanata, dal mormorio delle acque. I greci, al più, le hanno staccate dall’elemento con cui le confondevano» (p. 185). Ebbene, per comprendere a fondo il significato di Genius Loci – e soprattutto per attribuirgliene uno che possa andar bene anche per i nostri giorni, che è poi lo scopo ultimo di questo libro – è utile parlare anche delle ninfe dell’antica Grecia, che sono parte fondamentale di quel complesso puzzle che è l’idea classica della sacralità dei luoghi. Si può ormai affermare con sufficiente tranquillità, che le ninfe, al di là della loro originaria e circoscritta appartenenza al fluire delle acque, abbiano finito col rappresentare nella cultura greca innanzitutto le forze – spesso composite se non addirittura contraddittorie – della natura. Esse, anzi, erano associate con categorie di paesaggio, come diremmo oggi, e vivevano in luoghi naturali specifici.
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Lo stesso Hillman, in Saggio su Pan (Adelphi 1977), ci ricorda come Roscher proponga una spiegazione etimologica squisitamente naturale del nome ninfa, fornendone una identificazione, in particolare, proprio «con quei filamenti e banchi di nebbia sospesi sulle valli, sulle pareti montane e le sorgenti, che velano le acque e danzano sopra di esse» (p. 103). Omero, nel vi libro dell’Odissea fa dire, in effetti, all’eroe allorché giunge nella terra dei Feaci: «Un grido ho sentito vicino squillare femmineo; era forse di giovani Ninfe / che ripide cime di monti e sorgenti / di fiumi e verdi distese di prati frequentano?» (125). Mentre Esiodo, nella Teogonia, ci ricorda che «Gea per primo generò, uguale a sé, / Urano stellato, ché tutta in giro la chiudesse, / perché fosse agli dei beati sede sicura per sempre, / e generò i Monti grandi, graziose dimore delle dee / Ninfe, che risiedono su alture disseminate di gole» (126-131), mentre, altrove enumera varie specie di ninfe, come le Melie, abitatrici dei frassini (187), le Moire (217 e 904), che incontreremo ancora, e diverse altre. A dimostrazione della loro universalità, nel pantheon greco si annoveravano varie specie di ninfe attribuibili ad altrettante categorie di luoghi, anche diversi dalle acque: le Oceanine e le Nereidi, ninfe del mare; le Naiadi, dei fiumi e delle fonti; le Oreadi, dei monti; le Napee, delle valli; le Aldeidi, dei boschi; le Driadi e le Amadriadi, degli alberi. Le ninfe erano, secondo alcune fonti, figlie di Zeus Egioco (con riferimento all’egida ossia allo scudo infrangibile del dio che scagliava lampi), secondo altre, degli stessi fiumi presso i quali si praticava il loro culto. Non avevano il dono dell’immortalità, ma erano divinità nutrici di bambini come Dioniso ed Ermes, e quindi protettrici della crescita degli adolescenti e della fecondità. Erano guaritrici e legate a luoghi specifici, ove venivano innalzati loro altari
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rudimentali. Avevano capacità oracolari e praticavano la mantica, ossia l’arte della divinazione, che in Grecia troviamo frequentemente legata al fluire delle acque, come vedremo tra poco. I loro culti erano spesso associati a quelli di Apollo, Dioniso, Pan, talvolta di Artemide e Demetra. Nell’iconografia venivano ritratte come giovinette (vergini) con la testa ornata di fiori ed ammantate di vesti leggere e fluenti. Tra le ninfe più famose della letteratura greca, ricordiamo Circe e Calipso, immortalate nell’Odissea. Ma è bene dire che ovunque, intorno alle principali poleis greche, vi erano luoghi popolati da ninfe con nomi specifici, a comprova dell’alto senso di sacralità che i greci annettevano alla natura ed alle sue singole, individuali, locali manifestazioni. Attorno al culto di una ninfa nascevano leggende, consuetudini, miti. Leggiamo ancora da Mircea Eliade: «Le ninfe sono poi pericolose in un’altra maniera; a mezzogiorno è il momento dell’epifania delle ninfe, chi le scorge è in preda ad un entusiasmo ninfoleptico […]. Per questo si raccomanda di non accostarsi, sul mezzogiorno, alle fontane, alle sorgenti, ai corsi d’acqua o all’ombra di certi alberi. Una superstizione più tarda parla della follia vaticinante che colpisce chi scorge una forma uscire dalle acque: […]. In tutte queste credenze persiste la virtù profetica delle acque, malgrado le inevitabili contaminazioni e affabulazioni. Ma persiste soprattutto il sentimento ambivalente di paura e attrazione verso le acque, che insieme disintegrano (il fascino delle ninfe porta alla pazzia, all’abolizione della personalità) e germinano, che uccidono e facilitano la nascita» (ivi, p. 186). Sul tema si è soffermato con un breve ma illuminante saggio Roberto Calasso in La follia che viene dalle Ninfe (Adelphi 2005). Calasso ci informa, innanzitutto, come la
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tradizione letteraria secondo la quale per antica tradizione chiunque veda un’apparizione emergere da una sorgente, cioè l’immagine di una ninfa, delira, ci viene da Festo. Egli ripercorre poi i principali luoghi della letteratura e della mitologia greca nei quali compare il tema del rapimento da parte delle ninfe e quindi della possessione prodotta dalle ninfe e del delirio ninfoleptico come dono divino. Scrive Calasso, in particolare: «Per i Greci, la possessione fu innanzitutto una forma primaria di conoscenza, nata molto prima dei filosofi che la nominano […] Tutta la psicologia omerica, degli uomini e degli dei […] è attraversata da un capo all’altro dalla possessione, se possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere nomi, forme, profili. Con queste potenze abbiamo a che fare ogni istante, sono esse che ci trasformano e in cui noi ci trasformiamo. In questo senso l’Iliade, sin dal primo verso, che nomina l’ira di Achille, è una storia di possessione […] Incursio, ricordiamo, è il termine tecnico della possessione. Ciascuna di quelle invasioni era il segnale della metamorfosi. E ogni metamorfosi era un’acquisizione di conoscenza. Certo non già di una conoscenza che rimane disponibile come un algoritmo. Ma una conoscenza che è un pathos come Aristotile definì l’esperienza misterica […]. Una conoscenza che non può presentarsi se non in termini erotici» (pp. 2729). Ma – ricorda sempre Calasso – nel Fedro, dove si parla del nympholeptos Socrate, si tratta anche dei simulacri che guariscono, della guarigione offerta alle ninfe e dalle ninfe che hanno catturato Socrate nel loro delirio. È il «giusto delirare», aggiunge in conclusione Calasso, attraverso il quale si può raggiungere la «liberazione» dai mali. E rammenta che un giorno Socrate, sulle rive dell’Ilisso sotto
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un platano aveva detto a Fedro che la mania – la possessione e la follia che viene dalle ninfe di cui abbiamo detto sinora – è più bella della sophrosyne – la temperanza, la moderazione –, perché la mania nasce dal dio, mentre la sophrosyne nasce presso gli uomini (ivi, p. 44). Di tutto questo affascinante discorso, quel che conta ai nostri fini, è l’indissolubile identificazione che sussisteva nella mitologia greca tra creature divine come le ninfe ed i luoghi e/o specifici elementi della natura. Così come preme sottolineare che per effetto di questa identificazione, proprio il suggestivo tema della possessione che viene dalle ninfe, in ultima analisi va fatto risalire ad elementi della natura deificati (le sorgenti e le acque in genere).
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Il mondo delle fate
CI AIUTA AD INTRODURRE questo ulteriore, necessario e non meno suggestivo passaggio della nostra ricerca, lo stesso Calasso, che nel saggio citato, parlando della ninfa Iynx scrive: «È forse questa la prima immagine in cui troviamo saldate la fatalità e la fatuità. Il nome delle fate, eredi delle ninfe, deriva dai Fata, le tre Parche, e da certe oscure divinità dette Fatue, nome che si riferisce al fari profetico prima di dare origine, in francese e in italiano alla parola fatuità» (ivi, p. 30). Ebbene, allorché dal IV sec. d.C., con la conversione di Costantino, il Cristianesimo soppianta gradualmente e lentamente i culti pregressi, le divinità pagane si celano, si travestono, divengono incubiche, comparendo sotto altre forme e sembianze. Heinrich Heine scrisse un poetico e suggestivo commento a questo processo nel suo Gli dei in esilio (Adelphi 2000), nel quale sostiene la tesi della metamorfosi delle antiche divinità pagane: «Queste non sono spettri, poiché […] non sono morte; sono esseri increati, immortali, che dopo la vittoria di Cristo furono costretti a ritirarsi in nascondigli sotterranei» (p. 17). Il processo si produce, per l’appunto, in modo incontrollato, anche dal basso, soprattutto nei ceti rurali, lontani dai luoghi di irradiazione della nuova religione, dove maggiore è la persistenza degli antichi dei, che spesso si camuffano al solo fine di sopravvivere al tentativo
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istituzionale di cancellarli. Alle ninfe si sostituiscono così, pian piano, le fate, che pure avevano avuto una loro genesi autonoma e non erano necessariamente legate ai culti pagani greco-latini. Le fate sono, infatti, figure dell’immaginario collettivo note in quasi tutte le culture e le religioni del mondo, seppure con nomi diversi e con varianti più o meno accentuate. Si tratta, come per le ninfe, di spiriti intermedi tra l’uomo e le divinità ufficiali e nascono anch’esse dalla necessità degli uomini di personificare i luoghi o gli elementi della natura. Tutto ciò risale alle popolazioni di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico, che, costrette dal bisogno di propiziarsi le forze della natura espiando la colpa di avere ucciso animali (il timore era, ovviamente, quello che per effetto della caccia, gli animali scomparissero), immaginarono spiriti femminili cui rivolgere riti e preghiere e che troviamo dipinti sui muri di vari siti preistorici: donne-uccello in Francia, esseri-farfalla in Africa. L’idea è quella comune a tutte le civiltà antiche, ossia che lo spirito è munito di ali ed è composto da elementi sottili. Questa convinzione alimentò la credenza in esseri normalmente invisibili, capaci di levarsi in aria, presenti in natura. Col tempo il termine fata sostituì quello di ninfa, a partire dalla fine della cultura romana. Fatum – come ricordava Calasso – viene da fari che significa dire e indica la predizione del destino, che, come abbiamo visto, era anche una caratteristica delle ninfe. Fata è quindi anche la sorte assegnata ad ognuno. Dunque, le fate sono legate anche al destino ed alla sua predizione o divinazione o mantica. Ne sono esempio le Moire o Parche, già citate come ninfe, e che ritroviamo annoverate in letteratura tra le fate: Cloto, filatrice delle trame della vita, Lacheisis, distributrice della sorte, e Atropos, rappresentante l’inevitabilità della morte,
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che nel Macbeth di Shakespeare predicono al protagonista il suo tragico destino. Nel medioevo, soprattutto presso le civiltà contadine e pastorali che vivevano a stretto contatto con la natura, il mito delle fate assume connotati più attuali, che rimarranno praticamente inalterati sino a noi. Le fate delle leggende europee giunte sino a noi sono creature femminili minute, leggere, eteree, belle, capricciose, mortali. Possono rendersi invisibili, volare, predire il destino, mutare forma e farla mutare agli altri, hanno conoscenza di tutti i segreti della natura, fanno incantesimi e sortilegi. Hanno come consuetudini danzare di notte e lasciare cerchi argentei sull’erba (rugiada), da cui «anello delle fate». Quel che conta ai nostri fini, tuttavia, è il fatto che non solo le fate affollano la letteratura europea e l’immaginario collettivo, ma anche che la loro effettiva presenza, sotto forma di leggende locali è disseminata in modo capillare sul territorio: sono centinaia e centinaia le grotte delle fate, le pietre delle fate o comunque i toponimi che contengono la parola fata, che compaiono ancora oggi sulle carte topografiche e che sono ben vivi nella memoria della gente. Le strutture di queste leggende sono in genere legate alla antica, immaginaria presenza di fate in un determinato luogo; presenza che viene disturbata da un’azione dell’uomo (di solito frutto di tracotanza, hybris avrebbero detto i greci). A seguito di ciò le fate fuggono via con o senza gettare incantesimi. Di norma, la leggenda contiene una speranza finale: quando accadrà un determinato evento catartico – talvolta obiettivamente difficile a realizzarsi –, le fate torneranno. Questo genere di leggende (ne ho personalmente raccolte tra i monti della Sila, in Calabria), sembrano confermare il potente legame tra le fate e i luoghi ed anzi la funzione di
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tutela che le fate hanno sui luoghi. L’azione di disturbo posta in essere dall’uomo simboleggia, a mio giudizio, quel che è accaduto dagli anni Cinquanta del secolo scorso in avanti nelle zone interne del nostro Paese: lo spopolamento dovuto all’emigrazione verso il Nord Italia ed il Centro Europa; il fenomeno dell’oceanizzazione, ossia il trasferimento in massa della popolazione dai vecchi paesi posti nell’interno verso i loro «doppi» posti lungo le coste, meglio servite da infrastrutture e collegamenti, o verso le città; la forte depressione demografica ed economica dei paesi; la concomitante perdita di identità culturale; l’abbandono dei borghi rurali e dei villaggi; la dismissione delle piccole aziende agro-silvo-pastorali; il fortissimo calo di frequentazione dei luoghi naturali, un tempo meta di pastori, contadini, acquaioli, carbonai, legnaioli, boscaioli, raccoglitori di prodotti del sottobosco e la conseguente distruzione dei segni dell’uomo (antichi sentieri, tratturi, arcaiche opere agronomiche, acquari, ripari di pastori, castagnare, edicole votive, carbonaie, neviere, ecc.). La poca gente sopravvissuta allo spopolamento, insomma, accortasi di questa sorta di forzata amnesia dei luoghi, intervenuta in quegli anni, ha finito per immaginare che l’atopia, come direbbe Eugenio Turri, o l’anonimia, che da quella discende (quasi che il luogo antropologico non esistesse più o il suo nome non evocasse più nulla), avessero prodotto l’abbandono dei luoghi stessi da parte dei loro numi tutelari, le fate per l’appunto. È così che la gente, con una disarmante ma chiara esigenza simbolica, è riuscita a spiegare, nel proprio immaginario ferito dai dolorosi mutamenti epocali prodotti dall’abbandono – primi fra tutti la perdita di identità e lo spaesamento – quanto era accaduto ai luoghi della sua memoria ancestrale. Possiamo senz’altro affermare, a questo punto della nostra indagine, che la funzione delle fate nell’economia del
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luogo naturale è sovrapponibile a quella del Genius Loci, ma che, rispetto al secondo, l’idea delle fate è sopravvissuta perché più popolare, meno raffinata da un punto di vista filologico e perché naturalmente risorta in ambito cristiano con funzioni sostitutive di divinità pagane perdute.
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Architettura moderna e Genius Loci
QUEL CHE CONTA, a questo punto della nostra ricerca, è l’aver compreso che sia le ninfe che le fate sono divinità legate ai luoghi, anzi, divinità dei luoghi, al punto da condividerne la sorte. E che i luoghi sono per ciò stesso intrisi della loro esistenza. Se cioè le ninfe e le fate incarnano i luoghi, attraverso ninfe e fate è possibile, per gli uomini, spiegare la bellezza, il senso dei luoghi stessi. A partire proprio da quelli in cui ha parte fondamentale la più strabiliante tra le manifestazioni della natura, l’acqua che scorre perennemente, senza sosta, senza mai fermarsi, dissetando, rinfrescando, fecondando. E qui potremmo discettare a lungo sullo straordinario significato dello scorrere dell’acqua, del fascino indicibile che deriva dalla visione di un elemento che c’è e subito dopo non è più lo stesso e mai più lo sarà, ma che continuerà ad esserci in eterno; a partire, magari, dal famoso frammento di Eraclito per cui non si può scendere due volte nello stesso fiume. Detto questo, dobbiamo incamminarci ora verso la parte attuale della nostra ricerca per tentare di capire come il Genius Loci possa essere concepito in una forma moderna per ridare senso alla dignità dei luoghi se non anche alla loro sacralità. Diceva Kant che alcune cose hanno un prezzo, altre una dignità. Ebbene, i luoghi, intesi sia come singoli spazi vissuti, con una loro specifica identità geografica e storica,
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ma anche come unità di paesaggio o addirittura territori vasti di una intera città, di una provincia, di una regione, dovrebbero essere trattati tra le «cose» di cui parlava Kant cui più di altre è necessario restituire dignità piuttosto che svenderle ad affaristi con pochi scrupoli. E questo per una ragione molto semplice: luoghi, unità di paesaggio, territori sono il nostro habitat, la casa degli uomini; e chi vorrebbe vivere in una casa brutta, sciatta, disordinata, incapace di offrire non solo riparo dalle intemperie ma anche rifugio per l’anima? Ecco, una prima forma moderna di interesse per il Genius Loci la troviamo proprio in architettura, che è oggi la scienza che si occupa dell’abitare e del pianificare gli interventi di trasformazione del territorio. Uno dei pochi libri che s’intitolano, per l’appunto, Genius Loci è quello scritto da un architetto, Christian NorbergSchultz, e, nonostante il sottotitolo reciti Paesaggio Ambiente Architettura (Electa 1979), si tratta di un libro che si occupa in massima parte di architettura. Pur condizionato da questa legittima impostazione personale, Norberg-Schultz tenta – con successo – un’incursione nella filosofia dell’abitare che, come vedremo, tornerà molto utile al nostro discorso e individua in Martin Haidegger il suo campione, soprattutto attraverso il saggio Edificare ed abitare (in Saggi e discorsi, Mursia 1976). La dichiarazione programmatica di Norberg-Schultz è quanto mai chiara: «Abbiamo scelto di accostarci alla dimensione esistenziale in termini di luogo. Il luogo rappresenta quella parte di verità che appartiene all’architettura: esso è la manifestazione concreta dell’abitare dell’uomo, la cui identità dipende dall’appartenenza ai luoghi» (p. 6). Di fronte ad una simile enunciazione, un antropologo potrebbe obiettare – e lo vedremo più avanti – che se è vero che i caratteri di un luogo sono determinati nel
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tempo dall’azione antropica e dal secolare interscambio tra cultura e natura di cui esso è intriso, è pur vero che l’uomo che risiede in certi luoghi è come è, grazie ai caratteri originari dei luoghi, somiglia ai luoghi stessi, ne assume i caratteri, le sembianze, l’indole. Non siamo molto lontani dalla verità se affermiamo che tra uomini e luoghi vi è una osmosi, se non, in alcuni contesti, una vera e propria simbiosi, che se forzatamente impedita (come, ad esempio nei trasferimenti in massa di popolazioni avvenute in India o in Cina per la creazione di grandi bacini artificiali – si parla di diverse decine di milioni di persone sradicate dai loro distretti rurali e scaraventati nelle periferie apocalittiche delle metropoli), – può produrre gravi fenomeni di depressione sociale e spaesamento esistenziale. Comunque sia, l’affermazione programmatica di Norberg-Schultz è già importante perché sottolinea il profondo rapporto che lega il luogo antropologicamente inteso con l’architettura. Non manca una critica all’architettura, che ha dimenticato il significato profondo del luogo, il quale, giustamente, secondo l’autore, è fatto da un insieme di cose concrete con la loro sostanza materiale, la forma, la storia, il colore, ecc. Cose che definiscono il carattere ambientale del luogo, che costituisce – a sua volta – l’essenza del luogo stesso. Facciamo attenzione a questi primi sforzi lessicali (che ci saranno molto utili quando dovremo necessariamente tentare di offrire una definizione moderna di Genius Loci): «carattere ambientale di un luogo», «essenza di un luogo». E non manca una neppure troppo velata critica alla moderna architettura, rea, secondo Norberg-Schultz, di avere completamente tralasciato, nel suo approccio funzionale-utilitaristico, di considerare il luogo come «concreto qui», con la sua particolare identità. Appuntiamo
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anche quest’altra definizione: «particolare identità». Il pensiero di Norberg-Schultz sul Genius Loci è condensato in queste poche righe: «In generale la natura costituisce una tonalità estensiva complessa, un luogo che a seconda delle circostanze locali acquista una particolare identità. Questa identità o spirito, può essere descritta con modi concreti» (ivi, p. 10); «Solo in questo modo possiamo afferrare completamente il Genius Loci, lo spirito del luogo, che gli antichi riconobbero come quell’opposto con cui l’uomo deve scendere a patti per acquistare la possibilità di abitare» (ivi, p. II). Norberg-Schultz dà per scontate le antiche concezioni di Genius Loci e di Daimon (sulle quali ci siamo già soffermati) senza indagarle nel loro contesto d’origine – forse perché egli aveva l’urgenza di svolgere un suo discorso di attualità sulla qualità dell’architettura –. E tuttavia emergono alcuni precisi attributi che, secondo l’autore, a tali idee è possibile ancora oggi conferire. La cauta, sintetica raccomandazione che egli ci rivolge è la seguente: «Proteggere e conservare il Genius Loci significa […] concretizzarne l’essenza in contesti storici sempre nuovi. Si può anche dire che la storia di un luogo dovrebbe essere la sua autorealizzazione» (ivi, p. 18). Dunque, per Norberg-Schultz, il Genius Loci è quel significato profondo del luogo che è iscritto nella sua essenza e che l’architettura deve tendere a realizzare senza stravolgere. Non a caso Norberg-Schultz cita Martin Haideger. Uno dei cardini della filosofia heideggeriana è «l’essere nel mondo», che non è solo la fondamentale interpretazione dell’esistenza, ma vuol dire anche, per l’uomo, prendersi cura delle cose che occorrono per i suoi progetti. È un buon passo avanti – quello di Heidegger – verso un cauto ritorno al passato, verso cioè un’idea che, parafrasando Michelangelo, potremmo così definire: l’opera
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architettonica è iscritta nel luogo stesso ove deve essere compiuta, basta saperla leggere e farla emergere! E chi ne è il progettista primo, colui che ha redatto da tempo immemorabile il progetto generale, in attesa che qualcuno lo esegua? Il Genius Loci, naturalmente. L’aveva capito nella sua originalissima personalità artistica quel grande genio dell’architettura moderna che fu Frank Lloyd Wright quando sosteneva che una casa non deve essere mai su una collina, ma deve essere, invece, della collina, appartenerle. Solo in questo modo, concludeva Wright, collina e casa possono vivere insieme, ciascuna delle due più felice per merito dell’altra. Naturalmente, questa bella intuizione fa sorgere una domanda maliziosa: chi sarà mai a misurare il grado di felicità delle colline o a raccogliere le loro lamentazioni? Ma, a proposito di «architetti geniali» – tanto per contaminare i due termini con i quali abbiamo intitolato questo paragrafo – lasciamo rispondere per nostro conto alcuni studiosi che si sono occupati dell’argomento, con autorevolezza e con ben poco timore reverenziale, da prospettive diverse ma con esiti assai simili. Lo psicoanalista James Hillman, nel libro intervista con Carlo Truppi (docente universitario e architetto anch’egli) L’anima dei luoghi (Rizzoli 2004): «C’è un’inflazione, una sorta di megalomania tipica degli architetti, come se fossero investiti dell’archetipo dell’eroe. Devono essere semidivini, più grandi della vita. Per questo i monumenti che costruiscono sono i loro tumuli: mausolei nei quali i loro spiriti eroici sono sepolti. L’architetto come l’eroe, esprime e rappresenta lo spiritus loci. L’architettura è una professione molto pericolosa!» (p. 59). Il geografo Eugenio Turri in Il paesaggio e il silenzio (Marsilio 2004): «I paesaggi d’oggi in Italia, ad esempio, accolgono uffici e studi dove si progettano artefatti che li
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distruggono, dove si studiano i modi per disarticolarli, violentarli, senza tener minimamente conto della realtà in cui verranno inseriti, delle preesistenze che sono destinate ad accoglierli. Questo isolamento rispetto al paesaggio di chi progetta, spesso puramente sulla base di calcoli economici, è un motivo della rovina che in Italia ha subito il paesaggio: mancanza di una auscultazione del Genius Loci e delle voci che i paesaggi raccontano, la storia della natura e le storie degli uomini, le loro memorie, le loro fatiche, quelle presenze e assenze» (p. 81). L’antropologo Franco La Cecla nel libro Perdersi, l’uomo senza ambiente (Laterza 2005): «Architettura, Urbanistica e Pianificazione Territoriale sono discipline vecchie, ignoranti, assolutamente sclerotiche e coloro che le praticano sono ancora impastoiati in tutte le presunzioni di una pseudoarte e di una pseudoscienza. Oggi il mondo costruito è davvero più brutto, angosciante e meno libero di trenta, quarant’anni fa e buona parte del disastro è dovuto ad architetti, ingegneri, pianificatori, developpers. Le scuole di architettura e di urbanistica non insegnano né a fare lavori sul campo, né ad adottare un’ottica fenomenologia attenta al caso per caso, attenta all’immanenza degli insediamenti» (p. 130). Ed aggiunge caustico: «I grandi architetti di oggi, si chiamino Frank Gehry, Renzo Piano o Norman Foster, sono grandi per le riviste di carta patinata destinate agli architetti, ma continuano a pensare alle proprie opere come ad imponenti imprese pubblicitarie, come spettacoli da offrire ai cittadini (o da lasciare ai posteri!) come ricordo di se stessi e della propria genialità di artisti» (ivi, p. 131). Dunque, perfetta identità di vedute tra studiosi di così diversa estrazione culturale ed appartenenti a discipline così distanti: l’architettura moderna ha dimenticato o del tutto frainteso il concetto di Genius Loci, scambiandolo,
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frequentemente, con la pura e semplice «genialità» del progettista o dell’artista che, di volta in volta, programma l’intervento trasformatore del territorio, o più prosaicamente, ignorandolo in supina adorazione dei più biechi interessi speculativi. Anche se le generalizzazioni sono sempre una parte soltanto della verità e funzionano meglio come delle provocazioni (questo per dire che vi sono anche architetti e pianificatori che si sforzano di andare in controtendenza). Sempre La Cecla – che è anche laureato in architettura – in un altro suo libro dall’emblematico titolo Contro l’architettura (Bollati Boringhieri 2008), si dimostra estremamente critico sulla capacità di architetti e pianificatori di inventare o reinventare gli interventi urbanistici, perché la storia della moderna pianificazione è lastricata di immensi, disastrosi, drammatici fallimenti. Gli esempi portati da La Cecla nel suo libro sono molti e spaziano dai tentativi di razionalizzare ed ordinare le periferie delle grandi città europee agli interventi nelle parti storiche degli abitati, dai grandi progetti di istituzioni pubbliche sino al paradosso che forse una bidonville lasciata alla sua spontanea evoluzione che viene dal basso «ha più dignità, cioè esprime uno sforzo vero, più umano, di abitare che non un’utopia zoppa che alcuni progettisti applicano ad altri uomini, il cui destino abitativo, non vorrebbero senza dubbio condividere» (p. 76). Dunque l’idea che l’odierno modo di costruire e quindi tutto il processo pianificatorio che dovrebbe stargli a monte siano gravemente carenti di auscultazione del Genius Loci – stiamo imparando ad avere dimestichezza con questa figura evanescente e nebulosa e cominciamo a dare per scontato un suo ipotetico significato – si sta facendo sempre più strada tra filosofi, architetti, geografi, antropologi e pianificatori illuminati.
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Paesaggio: silenzio eloquente
SE L’ARCHITETTURA MODERNA deve avere a cuore l’auscultazione del Genius Loci, quest’ultimo è tuttavia iscritto nel paesaggio, celato in esso, ed è attraverso quest’ultimo che occorre imparare a riconoscerlo. Prima di addentrarci in questo affascinante tema, tuttavia, è bene chiarire che il paesaggio ha oramai una sua precisa dignità giuridica anche in Italia: l’art. 9 della Costituzione, la Convenzione Europea del Paesaggio fatta a Firenze nel 2000 e ratificata dall’Italia con la legge n. 14/2006 ed il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio approvato con decreto legislativo n. 42/2004 ci dicono, in sostanza, che il paesaggio è un bene comune alla cui tutela ed alla cui valorizzazione devono ispirarsi le politiche internazionali, nazionali e locali. Nello stesso tempo, le norme richiamate statuiscono che ai processi decisionali che importano trasformazione del paesaggio devono essere chiamate a concorrere le comunità locali, riconoscendo dunque ad esse, un ruolo di primo piano in quella sorta di osmosi-simbiosi con i loro territori cui abbiamo più sopra accennato. Il paesaggio e l’estetica di Rosario Assunto (Novecento 1994) è il libro più affascinante, colto ed appassionato che sia mai stato scritto in Italia su questo argomento. Un volume di 450 pagine, densissimo di citazioni dotte, di argomenti originali, di intuizioni lucide, di asserzioni scomode per l’epoca in cui fu pubblicato (la prima edizione
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è di molti anni precedente a quella da cui cito), non può certo essere qui sintetizzato. Tuttavia da esso possiamo trarre lo spunto iniziale per quello che sarà il fulcro del nostro ragionamento. Assunto ci ricorda innanzitutto che il paesaggio è stato a lungo “trattato come puro e semplice spazio. Chi di questo volesse la conferma sperimentale, non avrebbe che da percorrere una delle tante autostrade costruite negli ultimi decenni, oppure ispezionare uno qualsiasi degli insediamenti d’abitazione, degli impianti industriali, dei complessi turistici che sono stati costruiti negli ultimi dieci e quindici anni. In Italia il fenomeno è stato più vistoso, ha assunto proporzioni macroscopiche, anche perché caratterizzato da una sorta di voluttà sostitutiva, dal sentirsi artefici di una vera e propria rivoluzione culturale che si avventura contro il paesaggio della memoria e della fantasia per ridurlo a puro e semplice spazio della geometria. Tutto sommato, il fatto che agli ingegneri progettisti di autostrade, ed ai loro committenti, la pianura padana non sia apparsa dolce (“lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò declina”) ma semplicemente liscia, come ad un giocatore di carambola il piano del biliardo, attesta una cultura per la quale il paesaggio, a differenza che per la cultura di Dante Alighieri e dei suoi lettori (oggi sempre meno numerosi), è spazio e soltanto spazio» (ivi, pp. 16-17). Naturalmente, questo passaggio polemico del ragionamento di Assunto non è che un’infima parte della strabiliante e densa ricerca dello studioso, che tende, per sua stessa ammissione, a presentarsi come una lenta marcia di avvicinamento all’essenza estetica del paesaggio. Quel che interessa del discorso di Assunto, ai fini del nostro, ben più circoscritto campo di indagine, sono alcune tappe di questa marcia di avvicinamento, dalle quali apprendiamo, ad esempio: che il paesaggio è immagine del tempo storico,
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oppure che il paesaggio può persino essere soltanto uno stato d’animo dell’osservatore; che quando contempliamo un paesaggio siamo in quel paesaggio, il che rende il paesaggio una realtà estetica che noi contempliamo vivendo in essa, condizione diversa da quella che caratterizza l’esperienza delle opere d’arte che nell’atto in cui noi le contempliamo vivono in noi; che la contemplazione di paesaggi sublimi (nel senso della categoria estetica), ossia grandiosi, corruschi e incombenti, mostrandoci una natura minacciosa e dotata di forza immensa, ci costringe a considerare la nostra pochezza e fragilità; che il paesaggio è natura nella quale la civiltà rispecchia se stessa, immedesimandosi nelle sue forme; che la scoperta estetica del paesaggio naturale è una maniera per sottrarre la natura alla sua brutalità estranea all’uomo, una umanizzazione della natura, il suggello della conciliazione tra uomo e natura che sino dall’antichità è stata celebrata nel mito di Orfeo, simbolo della contemplazione estetica, nella quale l’uomo è libero dal finalismo utilitaristico, dal fare interessato. E qui possiamo fermarci con Rosario Assunto, per ripartire con il nostro ragionamento. Anche nell’ambito del rapporto tra uomo e natura o tra uomo e paesaggio, come ci ha ricordato Assunto, vige un antico, eterno conflitto tra due opposti ideali che affideremo, esplicativamente, ad altrettanti miti classici. Da un lato il mito del titano Prometeo, che dona agli uomini le scienze e le arti e per questo deve pagare, inchiodato per volere di Zeus ad una rupe sul Caucaso dove un avvoltoio gli divorava il fegato che ricresce di continuo. Dall’altro quello di Orfeo, il poeta mitico, compagno della ninfa Euridice, che scende nell’Ade per salvare la moglie e commuove col suo canto Persefone, assurgendo a simbolo di conciliazione tra uomo e natura. Il primo incarna l’antropocentrismo, che si arroga il diritto di modificare la
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natura a piacimento ed ha cieca fiducia nella superiorità dell’uomo e della scienza su ogni altra cosa. Il secondo rappresenta l’umiltà della creatura verso il creato, la ricerca di un’armonia perduta, il bisogno di purificazione e redenzione. A questo conflitto dedica tre capitoli de Il velo di Iside, storia dell’idea di natura (Einaudi 2006) – altro libro fondamentale su questi temi – lo storico del pensiero Pierre Hadot (pp. 89-222). Ma, per quel che ci riguarda, è di grande interesse in Hadot la sottolineatura del contributo che il Cristianesimo ha avuto dallo sviluppo della rappresentazione meccanicistica della natura ed alla sua desacralizzazione. E qui, Hadot cita il rammarico di Schiller per il fatto che gli uomini abbiano perso la percezione poetica ed estetica della realtà, che bene era, invece, incarnata dagli antichi dei della Grecia, cui Schiller stesso dedica un famoso poema (Gli dei della Grecia). Ma, aggiunge altrove Hadot: «si può dire che i neoplatonici hanno garantito per secoli la sopravvivenza del paganesimo nel mondo cristiano, non come religione, ma come linguaggio poetico e sacro che permetteva di parlare della natura» (ivi, p. 75). Dunque, la sopravvivenza, sia pure in senso poetico, delle antiche divinità pagane, e quindi anche del Genius Loci, ha garantito in qualche modo la persistenza, quantomeno in idea, del velo di Iside-Artemide, dea personificatrice della natura, che dà il titolo al libro di Hadot. E questo velo avvolge – più per i poeti che per gli architetti o gli amministratori pubblici, in verità – ancora oggi il paesaggio ed i luoghi, conferendo loro, per chi ha occhi allenati e sensibili, aure distintive e numinose. Un contributo a comprendere questa condizione nascosta del paesaggio proprio attraverso il concetto di Genius Loci ci viene dallo storico dell’estetica Raffaele Milani che, nel
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suo L’arte del paesaggio (il Mulino 2001), spiega come «Il Genius Loci è, nella cultura moderna e contemporanea, un’idea secondo la quale la natura infonde nell’artista il proprio ingenium; ed è anche teoria della natura che imita l’arte con il suo ingegno. Presso i Greci, la hyle veniva vista con meraviglia; è attraverso l’osservazione che l’uomo conosce. Vigeva infatti allora un legame tra la vista (thea) e la meraviglia (thauma)» (pp. 119-120). Dunque, è attraverso la vista e il sentimento della meraviglia che è dato scorgere nel paesaggio la presenza sensibile del Genius Loci. Ma lo studioso si spinge oltre, ed aggiunge: «Nella natura, è lo spirito a formare la bellezza, è il Genius Loci a fornire l’incanto delle aggregazioni plastiche, lineari e coloristiche. La materia formata dallo spirito che percepiamo e di cui avvertiamo in anticipo, quando esso appare nel suo ordine superiore, gli interni elementi: la figura, il colore, il movimento. Entriamo nel divino immanente nel paesaggio. […] L’uomo riconosce alla natura lo statuto dell’arte, la quale appare frutto dell’ingegno del luogo, della sua interna abilità capace di creare cose meravigliose. […] Il Genius Loci è segno di una più ampia sacralità. Si può dire con M. Eliade che il più primitivo dei luoghi sacri era un microcosmo, un paesaggio fatto di pietra, alberi, acqua, ecc. Tali ambienti oracolari, profetici, non venivano mai scelti, ma scoperti dall’uomo» (ivi, pp. 120-121). Ecco, il Genius Loci di Milani è l’intima facoltà della natura di plasmare un paesaggio pregno di sacralità, che, a sua volta, sarà capace di stupire l’osservatore umano. Nonostante i passi avanti sinora compiuti per dare un significato «laico» all’idea di Genius Loci – il che non implica negare nel contempo l’idea della sacralità dei luoghi, posto che il contrario di laicità non è sacralità ma confessionalità – non siamo forse, ancora riusciti a
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raggiungere il nocciolo della questione, e coloro che si saranno incuriositi a questo libro, proprio per questa ragione, probabilmente non si riterranno soddisfatti. Andiamo avanti, allora, con fiducia. Abbiamo già visto come il concetto di paesaggio – che qui useremo come sinonimo di luogo – non può avere un mero significato spaziale. Un paesaggio, un luogo, sono il coacervo di più elementi costitutivi, un amalgama inestricabile di elementi materiali ed immateriali: uno spazio fisico e geografico omogeneo (una valle, una montagna, un monumento o un insieme di monumenti di roccia, una cascata, un bosco, una spiaggia, una scogliera, un borgo, ecc); il suo contenuto ecologico (piante, animali, ecc); l’addensarsi in esso di una storia di natura e cultura scandita da segni impressi nei secoli dai fenomeni naturali e dagli eventi umani; un immaginario collettivo che di quel luogo si è prodotto; infine la percezione sensoriale dell’osservatore che in quello specifico momento lo guarda, lo visita, lo attraversa. Questi temi sono mirabilmente trattati in tutta la produzione di Eugenio Turri. Nel già citato Il paesaggio e il silenzio (Marsilio 2004), Turri ricorda come il termine paesaggio è riconducibile etimologicamente al latino pangese (paese), cioè territorio dei pagi, dei villaggi. Dunque, paesaggio rimanda al territorio abitato, con le sue case e i campi circondati dalla foresta, al territorio sottratto alla natura e perciò umanizzato, reso riconoscibile alla cultura umana. Tutto ciò provoca – è lo stesso Turri a chiarirlo, con commovente efficacia, sia nell’opera citata che in Antropologia del paesaggio (Edizioni di Comunità 1983) ed in Il paesaggio come teatro (Marsilio 2003) – una sorta di adesione spirituale, intima, profonda degli uomini ai loro luoghi, che si rivela sì in un adattamento materiale alle
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condizioni ambientali, ma anche in una interiorizzazione psichica dei caratteri del paesaggio. C’è un passo intensissimo de Il paesaggio come teatro, in cui Turri racconta della morte di un contadino e dell’impressione che ebbe quando la salma attraversò i luoghi che erano stati, per l’appunto, il teatro della sua vita: in quel momento egli ricordò quell’uomo al lavoro, lo rivide mentre narrava le sue storie, mentre indicava i singoli elementi del paesaggio, mentre li osservava con gli occhi di uno che ne era parte, ed ebbe nettamente la percezione che egli amava profondamente quel mondo in cui era vissuto e che aveva contribuito a creare da vero uomo-abitante. Ora, come quel contadino, nella sua piccola e circoscritta esperienza di vita ha contribuito a formare quel paesaggio, così gli uomini hanno vissuto in passato nel paesaggio storie straordinarie che quel paesaggio hanno pian piano costruito, caratterizzato, riempito di senso. «Le nostre sensazioni, le nostre percezioni, la nostra memoria, la nostra vita non possono essere raccontante e rappresentate che rispetto a un luogo – scrive l’antropologo Vito Teti, autore de Il senso dei luoghi (Donzelli 2004), uno straordinario saggio scientifico ma traboccante di poesia e commozione sui paesi abbandonati in Calabria – noi siamo il nostro luogo, i nostri luoghi: tutti i luoghi, reali o immaginari, che abbiamo vissuto, accettato, scartato, combinato, rimosso, inventato. Noi siamo anche il rapporto che abbiamo saputo e voluto stabilire con i luoghi» (p. IX). Eccoci così giunti, finalmente, al primo tentativo di enunciare una moderna definizione di Genius Loci. Scrive Turri ne Il paesaggio come Teatro: «Il paesaggio, un tempo era impregnato di usi e di memorie che esprimevano per intero la società, che sussistevano al di fuori di fatti e personaggi precisi, perché il tempo cancellava le date e i personaggi e lasciava emergere tutto ciò che era spirito del
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luogo, Genius Loci, come una divinità impersonale che si limitava ad incarnare il senso del luogo, i suoi odori e colori, le sue parvenze, le sue magie, i suoni e le parole che ad esso imprescrutabilmente si legavano, cosicché attraverso le generazioni si perpetuava uno stile, un modo di vedere, di costruire» (p. 143). Turri non è reticente, non ha timore nell’usare il termine Genius Loci, perché ne ha ben chiaro il significato e perché questo significato ha comunicato in ogni suo scritto. Al punto da spingersi oltre ed a suggerire anche soluzioni per la sua percezione e critiche ad un sistema che pare sordo e cieco. Ne Il Paesaggio e il silenzio spiega come nell’osservare un paesaggio occorra farsi storici ed indagare in senso psicosociologico, attraverso la semiologia del paesaggio stesso, considerata la disciplina del paesaggiotesto, unica capace di coglierne in profondità il senso, unica capace di controbattere le tendenze verso l’omologazione e l’atopia. Ma per Turri osservare il paesaggio di un secolo fa non è come osservare il paesaggio d’oggi. L’antico paesaggio mostrava i segni dell’uomo come timidi mutamenti dell’ambiente naturale, come metodiche di strenuo adattamento alle condizioni ambientali (testualmente Turri: «il segno umano aveva qualcosa di trepido, di sperduto e commovente nel suo aderire ai dettami naturali»), mentre il paesaggio dell’era postindustriale mostra il risultato della sopraffazione perpetrata ai danni della natura dalla tecnologia sempre più invadente e penetrante, sempre più capace di mutare i connotati del territorio, le sue caratteristiche, le sue vocazioni. Così l’uomo, conclude Turri, si direbbe incamminato verso l’atopia, verso un mondo senza luoghi, senza legami topografici. Quando Turri parla di atopia, ossia di assenza di luoghi nel senso antropologico-geografico, vengono in mente altri fenomeni contigui. Ci potremmo riferire all’anonimia di
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certi luoghi oramai spogliati della loro identità per aver subito trasformazioni completamente avulse dalla loro storia, dalla loro pregnanza di senso. Potremmo pensare all’amnesia dei luoghi che si produce nei residenti che, convinti che la vita sia altrove, che la conoscenza e l’informazione siano altro, teletrasmesse o internettate, pensano ai luoghi che attorniano i loro paesi come a un mucchio di legna da ardere, come a un parco eolico, come a una discarica per frigoriferi, materassi e lavatrici dimesse, come a palestre dove spendere provvidenze comunitarie in laghetti collinari, ostelli della gioventù, strade delle vette, zone industriali fantasma; gente che non conosce più i toponimi, non percorre più i sentieri, non guarda più paesaggi e panorami; gente che passeggia sulle strade asfaltate ed avrebbe invece centinaia di ettari di bosco da attraversare; gente che sembra aver paura del proprio passato, di ricordare come era, di riconciliarsi con la propria memoria, di ritrovare l’unico tesoro ancora nascosto che le resti: il senso della propria esistenza lì, in quel luogo, in quel momento. E non può non sovvenire allora l’opera di un antropologo come Marc Augé, che proprio questo aveva spiegato nel suo Nonluoghi (Elèuthera 1993): «Il luogo antropologico è simultaneamente principio di senso per coloro che l’abitano e principio di intelligibilità per colui che l’osserva» (p. 51). In altri termini, perché mai qualcuno dovrebbe venire a visitare un qualunque paese sperduto dell’interno, sia esso al Nord o al Sud, per quanto bello possa essere il paesaggio che lo contorna o per quanto interessanti possano essere i monumenti di cui è dotato, se paesaggio e monumenti non sono riconosciuti, fatti propri, interiorizzati neppure dai suoi abitanti? Ecco perché, secondo Augé, «se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario, né razionale, né storico
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si definirà un non-luogo» (ivi, p. 73). Quanto andiamo dicendo richiama un altro tentativo di definizione del Genius Loci, questa volta dovuto ad un filosofo, Paolo D’Angelo, il quale, nel suo Estetica della natura (Laterza 2005), dopo aver spiegato, tra l’altro, che un paesaggio storico non è necessariamente immodificabile – proprio perché storico, non è giunto a noi primigenio e selvaggio ma, per l’appunto, con i segni della presenza umana – ma basta progettare mutamenti che siano esteticamente validi, cioè tali da non sfigurare l’identità estetica dei luoghi pur trasformandola ove questo è necessario, così spiega: «Parlare di identità estetica dei luoghi significa fare dell’aspetto estetico un tratto saliente dell’identità locale. Ciò consente di riformulare in termini critici e sobri quel che ha spesso trovato espressione in metafore immaginose come quella del Genius Loci» (p. 160). Il discorso ci conduce ad un’altra felice creazione lessicale, questa volta del già citato Franco La Cecla, che è, per l’appunto, il concetto di Mente Locale, titolo di un suo saggio (Elèuthera 1993). Anche in questo caso diamo all’autore la possibilità di chiarire il suo pensiero e di aiutare il nostro argomentare: «Solo oggi, dopo molti anni di mito sul villaggio globale e sui nuovi cittadini del mondo si comincia a capire che il processo di adattamento tra un individuo, un gruppo ed un luogo è una costruzione di una complessità affascinante e fragile insieme. […] La territorialità umana ha a che fare con la sopravvivenza né più né meno che con la parola. Si tratta di una sopravvivenza sociale e culturale oltre che fisica. E ha a che fare con l’apprendimento e la cognizione» (pp. 40-41). E più avanti: «Quel che distingue il processo di apprendimento individuale rispetto a un luogo, dalla mente locale di un luogo è la frequentazione collettiva e assidua nel tempo. […] Per popoli diversi da noi, l’ambiente è ancora un
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materiale preziosissimo su cui appoggiare le proprie classificazioni e i propri sistemi di riferimento. A noi pare di poterne quasi fare a meno, ma sappiamo che si tratta più di una rimozione che di una rinuncia reale» (ivi, p. 43). Dunque, è questo il nostro vero problema, il problema dell’Occidente, del Primo Mondo, del mondo civilizzato ed opulento, delle società dominate dalla tecnica, dal mito prometeico dell’intelletto umano che può vincere ogni sfida sulla natura, e dove la percezione orfica della realtà è affidata a un manipolo di poeti sognatori (siano essi di professione artisti o anche architetti, filosofi, antropologi, ecc): pensare e credere di poter fare a meno dei luoghi, dei paesaggi nella loro accezione più profonda e pregnante, della «identità estetica dei luoghi», della «mente locale», del Genius Loci. Ma, come ha spiegato Hillman in diversi punti della sua vasta produzione, in particolare in La vana fuga dagli dei (Adelphi 1991), gli dei – in questo caso il Genius Loci – se negati, se dimenticati, se cancellati, se rimossi, ritornano. E non certo per osservarci distaccati: tornano sotto forma di malattie, di patologie. Hillman parte da una definizione di William James estremamente chiara ed interessante: «Se si dovesse caratterizzare la vita religiosa nel senso più ampio e generale, si potrebbe dire che essa consiste nel credere che esista un ordine invisibile e che il nostro bene supremo è l’adattamento armonico ad esso. In questa convinzione e in questo adattamento consiste l’atteggiamento religioso dell’anima» (p. 13). E prosegue dicendo che è proprio della divinità rendersi manifesta, rivelarsi (mille sono i modi di questa rivelazione a seconda delle varie credenze), altrimenti non potrebbe esservi con essa alcun rapporto. Ebbene, conclude Hillman, «Le varie definizioni della rivelazione corretta fanno parte della teologia, mentre i casi di
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rivelazione sbagliata, falsa o delirante rientrano nella psicologia anormale e, in particolare in una categoria di questa, la paranoia» (ivi, p. 14). La definizione del senso religioso offerta da Hillman non è esclusiva, bensì inclusiva, a mio giudizio, anche di atteggiamenti laici della vita se non addirittura atei. Perché il pensiero che esista un ordine invisibile (ma non per questo non conoscibile, ad esempio attraverso la scienza) al quale occorre adattarsi armonicamente, e che la divinità o questo ordine invisibile – qualunque esso sia – si riveli, anche attraverso semplici fenomeni naturali, non costituisce una barriera insormontabile tra il sentimento religioso e quello ateo. Ma, a prescindere da ciò, quel che conta è che noi tendiamo con tutte le nostre forze, anche inconsce, a questo adattamento armonico e che, quando neghiamo l’oggetto dell’adattamento, l’ordine invisibile costituito dagli dei (per intenderci), rischiamo di veder ritornare i miti sotto forma di paranoia. È esattamente quanto accade laddove si è perduta memoria del Genius Loci, laddove i luoghi non rappresentano più la soluzione o una delle soluzioni per tentare di raggiungere quella forma di adattamento, e in essi non si scorge più l’impronta del sacro. Spiegano bene questi casi di paranoia-spaesamento, tra gli altri, tre libri distanti tra loro in ordine di tempo ed anche differenti sotto il profilo degli scopi che si prefiggono, che riguardano in massima parte le Alpi e che mi viene spontaneo collegare. Il primo è il famoso Il mondo dei vinti di Nuto Revelli (Einaudi 1977), una vasta inchiesta antropologica sul campo raccolta attraverso centinaia di storie di contadini, testimoni senza voce di cambiamenti epocali sordi ai bisogni di comunità incapaci di conservarsi da sole, di rimettersi in gioco e perciò votate alla marginalità ed alla scomparsa. Il
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secondo è La nuova vita delle Alpi di Enrico Camanni (Bollati Boringhieri 2002), altro libro inchiesta dedicato esclusivamente alle contraddizioni dello sviluppo sulle Alpi, che si chiude però con una appendice contenente Dieci casi da meditare, ossia dieci esempi di sviluppo sostenibile in altrettanti luoghi delle Alpi stesse. Il terzo è Il tramonto delle identità tradizionali, spaesamento e disagio esistenziale nella Alpi di Annibale Salsa (Priuli & Verlucca 2007), nel quale si affronta compiutamente la crisi della tradizionale identità alpina seguita allo sviluppo formidabile del turismo di massa e si denuncia la messa al bando, nella cultura dell’urbanesimo imperante, della civiltà rurale, concepita – in particolare in Italia – come subalterna, periferica, destituita di prestigio sociale. Da qui i casi di sradicamento territoriale (la gente non si riconosce più nell’identità, nei valori, nell’immaginario, nell’universo simbolico di un luogo e di una comunità), il desiderio di trasformare i paesi in clonazioni stagionali delle città, oppure, quando ciò non è possibile, la voglia di fuggir via, di abbandonare quella condizione che si percepisce come marginale, lo spopolamento, il senso di spaesamento, la perdita dei luoghi in senso antropologico ed in senso anche fisico (perché lasciati sfigurare), il dilagare dei non-luoghi. Aggiungiamo noi: il sempre più sotterraneo nascondimento del Genius Loci.
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Essenzialità dello sguardo
CI SONO STRANI LUOGHI nell’Europa civilizzata, opulenta, industrializzata, massacrata dal cemento e dall’asfalto. Seppure a breve distanza da agglomerati urbani, a volte anche di notevoli proporzioni, questi luoghi vivono un’esistenza appartata, dimenticata o tutt’al più ingabbiata nei confini di un’area protetta. Sono sopravvissuti all’apoteosi della tecnica, alle sopraffazioni nei confronti della natura, per uno strano paradosso dell’antropocentrismo, per cui gli uomini, nell’ultimo secolo, anziché dilagare dappertutto come novelli dei onnipotenti, sempre di più hanno abbandonato montagne e contadi, borghi e paesi e sono sciamati come cavallette impazzite verso i grandi agglomerati urbani. Perché hanno creduto che vivere in milioni in poco spazio offrisse maggiori opportunità di sbarcare il lunario (nella peggiore delle ipotesi) o più occasioni umane e professionali (nella migliore delle ipotesi). In realtà si è visto che molti di questi agglomerati sono posti di alienazione collettiva, di solitudini assediate da folle indifferenti, di incomunicabilità, di disagio, di violenza, di squilibri sociali, buoni come dormitori durante la settimana lavorativa ma dai quali si fugge via non appena si ha un po’ di tempo libero. Certi di voler compiere un viaggio come lo si intendeva una volta, un’esperienza di conoscenza e di arricchimento interiore, ma in realtà votati ad un puro e
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semplice «spaesamento», ad una fuga temporanea e coatta verso luoghi esotici e falsificati, ove sono riprodotte le medesime condizioni di vita delle città, che hai acquistato, insieme al biglietto aereo, nell’agenzia di viaggio e che troverai esattamente come la rivista patinata di turno ti ha descritto, dove conoscerai indigeni occidentalizzati, mangerai cibi occidentali, farai giochini non meno cretini di quelli che avresti potuto fare in un qualunque villaggio vacanza europeo, tutt’al più visiterai luoghi e monumenti dei quali non riuscirai mai a comprendere il Genius Loci. Perché, come scrive Hillman nel citato L’anima dei luoghi, «L’anima del luogo deve essere scoperta nello stesso modo dell’anima di una persona. È possibile che non venga rivelata subito. La scoperta dell’anima e il suo divenire familiare, richiedono molto tempo e ripetuti incontri» (p. 55). Molto tempo e ripetuti incontri che di norma il globe trotter occidentale, quello che … «adoro viaggiare!», non ha mai a sufficienza, perché in una settimana deve «vedere» quante più cose possibile, cose che potrà aggiungere come trofei di caccia sui suoi album fotografici e decantare nelle serate con gli amici, ma che non gli apparterranno mai, non entreranno mai nel suo intimo, non produrranno mai in lui un vero cambiamento interiore, non saranno mai luoghi della sua anima, non lo avranno segnato e commosso al punto da avergli fatto desiderare, almeno una volta, di gettare via la sua vita e di ricominciare a vivere proprio lì. Lasciamo i paradossi del viaggiare consumistico moderno, aggiungendo solo, per completezza, che considerazioni sull’argomento che potrebbero tornare utili al nostro discorso e che sarebbe qui troppo lungo riportare sono state svolte, tra gli altri, da Maurice Aymard nel volume curato da Ferdinand Braudel Il Mediterraneo (Bompiani 1999, p. 220), da Marc Augé in Rovine e macerie (Bollati Boringhieri 2004, p. 63), da Remo Bodei in Paesaggi sublimi (Bompiani 2008,
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pp. 163-169), da Eric J. Leed in La mente del viaggiatore (il Mulino, 1992, pp. 347-355, dal sottoscritto in Elogio dello stupore (Rubbettino 2001, pp. 17-33). Dicevo, invece, che questi luoghi appartati, sopravvissuti, ci sono anche in Europa, sparsi ovunque, a distanze più che accettabili dalle nostre città. Chi vi giunge – per scelta, perché ne ha sentito parlare nei messaggi pubblicitari delle aree protette, o per caso perché durante un’escursione ne attraversa uno di cui non conosceva neppure l’esistenza – sente di aver varcato la soglia invisibile di una macchina del tempo e, salvo che i recettori del suo encefalo non siano inebetiti da anni di visioni televisive o di viaggi in Internet (di quell’informazione, cioè, inutile, falsificata e prosaica che serve solo a farti credere che esisti perché la ricevi a ciclo continuo e se si interrompe è come se ti levassero d’improvviso un antidepressivo), subisce una sorta di vertigine, un senso di momentaneo smarrimento. È il primo sintomo della presenza del Genius Loci. «Tra i tanti luoghi che visitiamo senza guardarli veramente o provando solo indifferenza, ne spiccano alcuni – scrive Alain De Botton in L’arte di viaggiare (Guanda 2002) – dotati di una forza così particolare da costringerci a fermarci per osservarli meglio. Questi luoghi possiedono ciò che potremmo approssimativamente definire bellezza […]. È come se volessimo disperatamente dire: sono stato qui, ho visto tutto questo ed è stata un’esperienza fondamentale per me» (pp. 213-214). Il fatto è, per dirla sempre con Hillman in Politica della bellezza (Moretti & Vitali 2002), che «Il bisogno che ha la psiche della bellezza è fondamentale […] Sebbene la nostra tradizione occidentale abbia a lungo condannato la natura come meccanismo autonomo da combattere, sia come
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estensione inanimata ed inerte di materia oggettiva da sfruttare, questa stessa arrogante ottusità ha paradossalmente mantenuto una delicata, sensibile associazione tra natura e bellezza. Il lento ruscello e la bianca cascata, il cielo vasto e limpido e il tramonto, le colline in lontananza e i grandi alberi – sono stati questi i nostri modelli di bellezza e dunque i rifugi per l’anima» (p. 69). Dunque, quel senso di vertigine e di smarrimento che il cittadino prova le prime volte dinanzi ad un paesaggio naturale, ad un luogo eminente è determinato dall’impatto inatteso con la bellezza vista da vicino e non attraverso una rivista in carta patinata o un filmato del «National Geographic». È prodotto dal sentire il sole, il freddo, il vento, il caldo sferzare ed invadere il nostro corpo, mutarci il sangue, trasformarci l’umore. È indotto dai colori, dagli odori, dai sapori che ci assalgono con una intensità impensabile per chi provenga da ambienti urbani. È, in una parola, il portato di una comunicazione profonda, di un travaso d’anime, tra l’anima dell’osservatore e lo spirito del luogo, mercé la bellezza del luogo stesso. Ma, come diceva il filosofo americano Ralph Waldo Emerson in Natura e altri saggi (Bur 1998), «vi è la minima differenza tra un paesaggio e l’altro: ma grande è la differenza tra un osservatore e l’altro. Nulla è più straordinario, in un qualsiasi paesaggio, che la stessa necessità d’essere bello cui sottostà ogni paesaggio. La natura non si fa mai sorprendere in vestaglia. La bellezza irrompe dappertutto» (p. 43). Per cui è fondamentale che l’osservatore sia capace di vedere, non semplicemente di guardare. Vernon Lee, pseudonimo di Violet Page, era una scrittrice inglese di saggi estetici e di racconti di fantasmi, amica di Henry James, morta a Firenze nel 1935, amante
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appassionata dei paesaggi italiani nei quali aveva imparato a percepire il Genius Loci, al punto che in un libro con questo titolo (Sellerio 2007) sono raccolte sue esperienze di viaggio con una commovente prefazione di Attilio Brilli, uno dei massimi studiosi italiani di questo genere di letteratura. Già Brilli, nella prefazione, tinteggia splendidamente l’idea di Genius Loci di Vernon Lee: «Il suo concetto di Genius Loci – scrive Brilli – nasce appunto da questa latenza sepolta, da questa irriducibile memoria pagana alla quale la singola località affida la propria codificazione identitaria. Lo spirito del luogo si mimetizza nei modi e nelle forme più impensati, esso è il misterioso graal per pochi iniziati che sanno come schiudere il varco, come orientarsi in questi paesaggi di trame e di enigmi. La ricerca dello spirito del luogo diventa quindi un viaggio iniziatico nel quale il visitatore di un paesaggio o di una città non è molto differente dal rabdomante che sente una presenza nascosta, ammutolita da secoli eppure disposta a parlare ove sia interrogata con cautela, con discrezione e con tatto» (p. 18). Ma è la stessa autrice che, nella sua introduzione, ci offre con grazia la sua visione di questo compagno così fedele di tutti i suoi viaggi: «Il Genius Loci, come tutte le divinità degne di venerazione, ha la sostanza del nostro cuore e della nostra mente, è una realtà spirituale. E quanto all’incarnazione è il luogo stesso o il paese […]. Può accadere di sentirlo più vicino e più intenso in qualche singolo monumento o in qualche tratto del paesaggio. Molto spesso ha una sua inattesa presenza e prende pieno possesso dei nostri cuori ad una svolta della strada, o in un sentiero tracciato sulle terrazze di una collina con la vista di maestose montagne lontane, o di nuovo in una chiesa come Classe, vicino Ravenna, e soprattutto, forse, nel punto d’incontro dei ruscelli, o alla foce dei fiumi, e sia l’uno che l’altro luogo attirano i nostri passi e i pensieri poco alla volta, senza
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sapere il perché ed il percome. È là che il genio dei luoghi si nasconde; o più precisamente vi si identifica» (ivi, pp. 2931).
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I geni del Bosco Vecchio
A VOLER CERCARE LE TRACCE assai labili del Genius Loci in narrativa, si corre il rischio di compiere un vano viaggio alla ricerca del graal, una quest infinita e senza meta. Perché sembra che i narratori abbiano provato una sorta di timoroso pudore nel parlare di un argomento così fantastico, così ineffabile, così poco realistico. In Italia, che io sappia, esiste un solo sorprendente esempio di storia narrata in un libro che abbia per protagonisti dei personaggi in tutto simili ai nostri spiriti dei luoghi. La storia è quella de Il segreto del Bosco Vecchio di Dino Buzzati (F.lli Treves, 1935). Leggere questo curioso e breve racconto-fiaba è un’esperienza straordinaria. Uscito in un’epoca asfittica per la letteratura e, più in generale, tragica per le libertà civili e politiche, dominata da tutt’altri generi nelle arti, il libro è una pura invenzione che affonda le sue radici nel mito della foresta sacra, personificata dal Bosco Vecchio, per l’appunto. È il concetto romano di lucus, luogo d’elezione per rinvenire quell’aura di numinosità, di sacralità di cui si diceva all’inizio. Il mito della foresta sacra è tuttavia presente anche in altre antiche civiltà europee (ad esempio quelle germaniche) e del mondo. Robert Pogue Harrison, con Foreste, l’ombra della civiltà (Garzanti 1992) e Simon Schama, con Paesaggio e memoria (A. Mondadori 1997) hanno inequivocabilmente
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dimostrato che l’idea della foresta come rifugio del divino – e ancor più del mito – è ben radicata quasi ovunque sulla Terra. Dunque, Buzzati parte dal mito della foresta sacra per imbastire su di esso un racconto dai toni spiccatamente favolistici. Siamo presumibilmente in una valle delle Alpi. Alla morte di Antonio Morro, la sua grande tenuta forestale va, quanto alla parte più riposta, antica e remota – il cosiddetto Bosco Vecchio – al nipote, l’anziano e scorbutico colonnello Sebastiano Procolo, quanto alla parte più estesa e commercialmente sfruttabile al piccolo nipote di questi Benvenuto. Nel Bosco Vecchio vivono dei geni degli alberi, veri e propri custodi di quegli straordinari patriarchi vegetali, vecchi di centinaia d’anni, che erano sempre stati rispettati dal precedente proprietario e dalla popolazione locale proprio perché ritenuti, in una qualche misura, sacri. I geni sono capaci di assumere anche sembianze umane, ed uno di loro, il Bernardi, si premura di comparire dinanzi al colonnello, sotto le mentite spoglie di una guardia forestale, per capire quali sono le sue intenzioni rispetto al Bosco Vecchio. Appreso che il nuovo proprietario, privo di qualunque timore riverenziale per il bosco, ha intenzione di tagliarlo, il Bernardi si accinge a preparare un piano di difesa, utilizzando il vento Matteo, un vento un po’ matto che i geni avevano rinchiuso in una grotta. Ma il colonnello, venuto a conoscenza del piano, libera egli stesso vento Matteo e lo costringe a servire lui anziché i geni. Questi, di fronte all’imminente abbattimento della foresta, sono costretti a promettere al colonnello un tributo quotidiano di legna in cambio di una tregua. L’avidità del colonnello, lo porta ben presto ad aizzare vento Matteo anche contro Benvenuto, che intanto studia in un vicino collegio, per riuscire ad ereditare anche la parte
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più cospicua e commerciale del bosco. I tentativi di uccidere Benvenuto non riescono e vento Matteo ingaggerà un formidabile duello aereo con il buon vento Evaristo che, durante la prigionia del primo, ha preso possesso della valle. Il malanimo del colonnello nei confronti di Benvenuto continua, finché il ragazzo non si ammala gravemente e sembra sul punto di morire. Il Bosco Vecchio, allora, si ribella, processa e condanna idealmente il colonnello che, a quel punto viene isolato materialmente e moralmente, al punto da perdere persino la sua ombra. Mentre nell’animo del colonnello qualcosa comincia a cambiare ed il rimorso prende il sopravvento, dimostrandogli quanto la cattiveria e l’avidità non paghino, e mentre Benvenuto si riprende dalla malattia, vento Matteo, convinto di fargli cosa gradita, annuncia al colonnello che il ragazzo è morto sotto una slavina (cosa non vera). L’annuncio scatena ancor di più il rimorso del colonnello che corre nel bosco di notte e dopo aver vanamente cercato il nipote sotto la neve, si lascia morire nel gelo della bufera, riacquistando, con la morte, quella dignità che aveva perso con la vita. Nella fiaba di Buzzati il mondo del mito e l’universo fantastico corrispondono in qualche modo ad un’età dell’innocenza e del cuore (rappresentata da Benvenuto, dalla natura e dai geni custodi degli alberi – che della natura sono, nello stesso tempo, emanazione e simbolo –) contrapposta ad un’età della bieca ragione (rappresentata dal colonnello). In questo senso, Il segreto del Bosco Vecchio ci offre una ulteriore prospettiva sul Genius Loci, che è quella, potremmo dire, psicologica, dello stupore infantile o delle ragioni del cuore che la ragione non conosce, per dirla con le parole di Pascal. Insomma, il Genius Loci rappresenta la nostra buona coscienza, il nostro senso di armonia con il
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creato, il rifiuto della sopraffazione antropocentrica, il rispetto autenticamente religioso del creato, il ritrovamento della sacralità perduta dei luoghi.
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Genius Loci luogo originario e processo di individuazione
MA C’È UN ULTIMO ASPETTO, nella moderna interpretazione
del concetto di Genius loci, di cui dobbiamo dar conto. Essa non riguarda un elemento oggettivo, quale può essere uno specifico luogo percepito dalla nostra psiche come numinoso, ma concerne invece la nostra stessa anima che, per orientarsi verso la sua meta (come nel caso del Codice dell’anima di Hillman, del quale abbiamo già parlato), per divenire ciò che è iscritto nella sua stessa natura, deve compiere un viaggio, guidata, per l’appunto dal Daimon. Per Carl Gustav Jung, questo viaggio si chiama «processo di individuazione». Il processo di individuazione si svolge attraverso uno scambio simbiotico tra Anima e terra, che è anche il titolo di uno degli scritti di Jung stesso, risalente nella sua originaria formulazione al 1927 (in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1998 vol. X/I). La tesi fondamentale di Jung e che la terra – quella terra, quel luogo in particolare – finisce col forgiare il carattere, l’indole e perfino le fattezze dell’uomo che vi nasce o sceglie di abitarvi giungendovi da altrove. Con questo scritto, Jung diede il via ad una serie di affascinanti studi della moderna psicologia sulla relazione tra anima e luoghi, tendenti a dimostrare che il luogo in cui si è vissuti a lungo ha un valore fondante per la psicologia dell’individuo e una forza che lo accompagna, anche
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incosciamente, per il resto della vita (Elena Lotta, Su anima e terra, Magi, Roma 2005, p. 61). Sin dal grembo materno, il feto percepisce (si cerca di studiarlo con la psicologia prenatale, favorita oggi dallo sviluppo tecnologico delle indagini endoscopiche) la presenza di ciò che per esso è e sarà nei primi mesi di vita il suo Genius loci: innanzitutto la madre ed in particolare quel distretto del corpo della stessa in cui vive per nove mesi. L’utero e, in particolare, il sacco amniotico, sono i “luoghi originari” dell’individuo ed anch’essi hanno, come tutti i luoghi, un Genius Loci. Madre e figlio condividono quel luogo in un processo a termine definito (ivi, p. 62). Ma, quel che più conta, è che – come già avevano intuito per esperienza le nostre madri, le nostre nonne, pur non cogliendone le implicazioni – la psicologia prenatale ci ha confermato l’esistenza di un profondissimo scambio di relazioni tra il feto e il suo luogo originario (il sacco amniotico, il corpo della madre, la madre stessa e persino il mondo immediatamente vicino a essa). Pare che la traccia lasciata nella psiche da questo fondamentale periodo della vita sia così forte che molti saranno i luoghi fisici simbolici che richiameranno quel luogo originario: abissi, valli, grotte, fondo dei mari, case ecc.. Vi è, poi, l’ipotesi dell’ambivalenza del luogo originario: da un lato è rifugio e centro di forza e propulsione verso l’esterno; dall’altro è prigione, trattenimento verso l’interno. Dopo la nascita (alla quale diversi studiosi annettono un alto valore simbolico e archetipico anche in termini mitici e religiosi), la presenza della madre (ovviamente preponderante nei primi tempi) e poi quella del padre, protagonisti delle cure parentali, i loro corpi in particolare, saranno a lungo l’universo materiale e spirituale dell’infante e, quindi anche in questo caso, il suo luogo dotato di genio. Poi, pian piano, allargandosi il suo orizzonte percettivo ed
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esplorativo, il luogo si allargherà alla stanza, alla casa, alle case dove verrà portato più abitualmente, all’asilo e via discorrendo. È in questa delicatissima fase della vita che, proprio dalla relazione con «i luoghi» (intesi in senso ampio) il bambino conosce le categorie del tempo e dello spazio, calibra i sensi cercando le persone che ama e da cui dipende, comprendendo ciò che è piacevole e spiacevole, ciò che è permesso e vietato. Salvo casi patologici, dunque, sul «luogo d’origine» (con tale termine intendendosi, come abbiamo detto, anche il luogo prenatale) ciascuno di noi forma una propria visione del Genius Loci, che è fatta di suoni, di odori, di sapori, di colori, di tradizioni, di abitudini, di gesti ritualizzati, di affetti, di sentimenti, di visioni complesse di paesaggi naturali ed umani. Ecco come il Genius Loci, visto in quest’ottica complessa e affascinante, contribuisce a far nascere in ciascuno di noi l’amore per i luoghi d’origine, o per quelli che abbiamo scelto da adulti come i nostri veri luoghi d’origine dopo aver abiurato, per qualsiasi ragione, quelli dove siamo effettivamente nati e vissuti per anni.
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Epilogo: roveri nella brughiera
DAFNE ERA UNA NINFA, figlia, secondo alcune fonti, del fiume Ladone in Arcadia, votata al culto di Artemide e dunque alla verginità. Apollo, invaghitosi della ninfa e da questa rifiutato tentò di prenderla con la forza, ma Dafne, per sfuggire al dio, ottenne dal padre che la trasformasse in una pianta di alloro. Da quel momento Apollo rese la pianta sacra alla ninfa. Il mito ha ispirato una poesia di Ezra Pound, in Poesie scelte (Mondadori 1974), che rende in modo suggestivo il senso di conoscenza simbiotica che il culto dei luoghi, della natura e dei suoi fenomeni può donare: «Immobile, fui un albero nel bosco, / Seppi la verità di cose prima ignote; / Di Dafne e della fronda d’alloro / E di quei vecchi sposi che ospitarono gli dèi / E divennero roveri in mezzo alla brughiera. / Non prima che gli dèi fossero stati / Benignamente invitati ed accolti / Al focolare della casa diletta / Poteron essi compiere il miracolo. / Eppure sono stato un albero del bosco / Ed ho compreso molte cose nuove / Che prima era follia per la mia mente» (p. 19). È questo il tema conclusivo della nostra ricerca, quello della identificazione o della simbiosi letteraria tra uomini e luoghi. Soffermiamoci su questo punto decisivo con l’aiuto della poesia. Perché i poeti, ben più che gli antropologi, hanno dimostrato, nei secoli, di cogliere il legame indissolubile di cui abbiamo parlato, spiegandolo in modo
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talmente visionario ed immaginifico da lasciare spesso basiti. Thomas Eliot, in Quattro quartetti (Garzanti 1979): «Spunta l’alba, e un altro giorno / Si prepara al calore ed al silenzio. Laggiù sul mare il vento dell’alba / increspa e scivola. Io sono qui / O là, o altrove. Nel mio principio» (p. 23). William Wordsworth, in Poesie scelte (Rubbettino 1999): «Vagavo solitario come una nube / che alta fluttua su valli e poggi, / quando tutto d’un tratto vidi una folla - / uno stuolo di giunchiglie che danzavano: / lungo il lago, sotto gli alberi, / a migliaia danzavano nella brezza. / […] esse balenano all’occhio interiore che / trasforma la solitudine in momento d’estasi; / e allora il cuore trabocca di gioia e danza con le giunchiglie» (p. 275). Rainer Maria Rilke in Elegie Duinesi (Einaudi 1978): «Non soltanto tutti i mattini dell’estate, non soltanto / come si fan giorno e come raggiano prima. / Non soltanto i giorni teneri e delicati intorno ai fiori, / e su, / intorno agli alberi formati, forti e possenti. Non soltanto la devozione di queste forze spiegate / non soltanto le vie non soltanto i prati di sera / non soltanto dopo un temporale tardato, il respiro / della chiarità / non soltanto quell’assommarsi e quel presentire, di sera …/ ma le notti! Ma le notti alte dell’estate, / ma le stelle, le stelle della terra. / Oh esser morti una volta, e saperle all’infinito / tutte le stelle perché come, come, come dimenticarle!» (pp. 40-43). Pablo Neruda in conclusione della magmatica introduzione della sua autobiografia Confesso che ho vissuto (Mondadori 1976): «Chi non conosce il bosco cileno non conosce questo pianeta. Da quelle terre, da quel fango, da quel silenzio, io sono uscito ad andare, a cantare per il mondo» (p. 12). Henry David Thoreau in Camminare (Mondadori 1991):
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«Camminavamo in una luce pura e fulgida, che ammantava d’oro l’erba e le foglie ormai secche, in una luminosità dolce e serena, e io pensai che mai mi ero trovato immerso in un tale flusso dorato, senza un’increspatura o un mormorio che lo turbassero. I pendii dei boschi e delle colline, a ponente, risplendevano come i confini dei Campi Elisi, e il sole, posandosi sulle nostre spalle, sembrava un pastore gentile che guidasse, la sera, il nostro ritorno a casa» (p. 63). Insomma, per quanto l’antropocentrismo imperante, esploso negli ultimi due secoli con l’avvento e la crescita esponenziale della tecnologia, abbia convinto l’uomo della sua superiorità sulla natura e lo spinga ad azioni delittuose contro il suo stesso habitat, la visione orfica del mondo non sembra del tutto dispersa e ci aiuta ancora a percepire un originario ideale di armonia e di equilibrio. Lo stesso che spingeva greci e latini a ricercare negli elementi naturali la presenza della divinità e a deificare i luoghi. Da qui l’idea, mai sopita tra i più profondi trasfiguratori della realtà, quali sono per l’appunto i poeti, che l’uomo potesse addirittura assurgere ad un grado di conoscenza superiore ponendosi ad un livello di comunione con la natura. E non v’è dubbio che per percepire il Genius Loci occorre una disponibilità interiore di questo tipo, senza per ciò stesso pretendere alcuna conversione irrazionalistica o tantomeno mistica o esoterica della nostra mente. È questo il nucleo lavico di tutto il discorso sin qui fatto: senza un pathos, senza una poiesis, senza una mania, il Genius Loci non potrà mai essere percepito né tampoco auscultato. Osservare oltre il velo di Iside significa percepire l’invisibile oltre il visibile – come diceva Anassagora –, vedere un luogo non come possibile spazio da edificare, ma piuttosto come un’anima da deificare, guardare a un fenomeno originario non come a un’informazione
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scientifica, bensì come a una meraviglia della natura, osservare una creatura vivente non come un’opportunità per il proprio delirio egoico ma come un miracolo che ci riempie il cuore di commozione. Guardare oltre il velo vuol dire, insomma, cercare Dafne in un alloro, sentirsi nel mare come nel proprio Principio, lasciare che il proprio cuore danzi con le giunchiglie, morire per non dimenticar le stelle, ritenersi figlio del bosco cileno, accettare che il sole, al tramonto, posi un raggio di luce dorata sulla nostra spalla e ci riconduca a casa.
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Finito di stampare nel mese di febbraio 2010 da Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)
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Focus 1. Dario Antiseri, Princìpi liberali 2. Paola De Benedetti, Tv e minori 3. Enrico Colombatto, L’immoralità no global 4. Vito Cagli, La Medicina: una “malata” difficile 5. Bruno Manghi, Lavori inutili 6. Alberto Oliverio, Memoria e oblio 7. Giuliano Cazzola, Lavoro e welfare: giovani versus anziani 8. Mario Caligiuri, Stato e marketing 9. Alessandra Servidori, Dal Libro Bianco alla Legge Biagi 10. Pierre Rosanvallon, Il politico 11. Bernard Lewis, Iraq 12. Dario Antiseri, Relativismo, nichilismo, individualismo 13. Marco Macciò, Islam e petrolio 14. Richard Pipes, I tre “perché” della rivoluzione russa 15. Dario Antiseri, Liberali e solidali 16. Flavio Felice, Neocon e teocon 17. Antonio Cianci, Brigitta Rossetti, Federico Vasoli, Investire in Cina 18. Rocco Pezzimenti, Il pensiero politico islamico del ’900 19. Tonino Ceravolo, I monaci di clausura 20. Enrico Flavio Giangreco, La fabbrica del pallone 21. Marc Leroy, La sociologia dell’imposta 22. Mario Prignano, Il giornalismo politico 23. Anthony D. Smith, La nazione. Storia di un’idea 24. Enzo Ciconte, ’Ndrangheta 25. Gian Luigi Gessa, Cocaina 26. Dario Antiseri, Gianni Vattimo, Ragione filosofica e fede religiosa nell’era postmoderna 27. Dario Antiseri, L’attualità del pensiero francescano 28. Flavio Felice, L’economia sociale di mercato 29. Alan S. Brown, Il déjà vu 30. Paola Potestio, L’Università italiana: un irrimediabile declino? 31. Francesco Bevilacqua, Genius Loci
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INDICE Titolo Pagina Copyright Indice Prefazione di Pier Luigi Cervellati Prologo: il dio dell’acqua sorgiva Nullus locus sine Genio Rapiti dalle Ninfe Il mondo delle fate Architettura moderna e Genius Loci Paesaggio: silenzio eloquente Essenzialità dello sguardo I geni del Bosco Vecchio Genius Loci, luogo originario e processo di individuazione Epilogo: roveri nella brughiera Riferimenti bibliografici
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