Lascaux. La nascita dell'arte 8884166322, 9788884166326

"Questa straordinaria caverna non finirà mai di sconvolgere chi la scopre: non finirà mai di rispondere a quell

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Lascaux. La nascita dell'arte
 8884166322, 9788884166326

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« Questa straordinaria caverna non finirà mai di sconvolgere chi la scopre: non fini­ rà mai di rispondere a quell’attesa del mi­ racolo che costituisce, nell’arte come nel­ la passione, l’aspirazione più profonda della vita. Spesso giudichiamo infantile questo bisogno di provare meraviglia, ep­ pure non riusciamo a liberarcene. Ciò che ci appare degno di essere amato è sem­ pre ciò che ci sconvolge, è l’insperato, l’insperabile. Come se, paradossalmen­ te, la nostra essenza consistesse nella no­ stalgia di raggiungere ciò che considera­ vamo impossibile. Da questo punto di vi­ sta Lascaux riunisce le condizioni più ra­ re: il sentimento di miracolo che ci dona oggi la visita della caverna, derivante in­ nanzi tutto dall’estrema casualità della scoperta, è in effetti raddoppiato dal sen­ timento del carattere inaudito che queste figure ebbero agli occhi stessi di coloro che vissero al tempo della loro creazione. Per noi Lascaux si situa tra le meraviglie del mondo: siamo in presenza dell’incredibile ricchezza che ha accumulato lo scorrere del tempo. Ma quale dovette essere il sen­ timento di quei primi uomini, per i quali certamente, senza che ne ricavassero una fierezza simile alle nostre (così sciocca­ mente individuali), questi dipinti ebbero un prestigio immenso? Il prestigio che si lega, qualunque cosa se ne possa pensa­ re, alla rivelazione dell’inatteso. E so­ prattutto in questo senso che parliamo di miracolo di Lascaux, perché a Lascaux l’umanità ancor giovane misurò, per la prima volta, l ’estensione della propria ricchezza/ Della propria ricchezza, ossia del potere che essa aveva di raggiungere l’insperato, il meraviglioso».

In copertina: Caverna di Lascaux, particolare di un af­ fresco sul soffitto del diverticolo.

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AESTHETICA

Titolo originale: Lascaux ou la naissance de Vari

© 2014 ABSCONDITA SRL VIA SAN CALIMERO I I - 2 0 1 2 2 MILANO ISBN 978-88-8416-413-I

INDICE

LASCAUX O LA NASCITA DELL ARTE

Il miracolo di Lascaux L’uomo di Lascaux Descrizione della caverna La rappresentazione dell’uomo L’arte animalistica di Lascaux

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Note e documentazione

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Bibliografia essenziale

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Lascaux ou la naissance de l’art fu pubblicato nel 1955 nella sezione dedi­ cata alla pittura preistorica della collana « Les Grands Siècles de la Peinture », presso le Éditions d’art Albert Skira, Genève; illustrato da sessantotto tavo­ le a colori del fotografo Hans Hinz (selezionate da Claudio Emmer). Il testo fu in seguito ripubblicato (privo delle illustrazioni) nel nono volume delle Œuvres complètes di Georges Bataille (Gallimard, Paris 1979, pp. 7-101).

LASCAUX O LA NASCITA DELL’ARTE

Dettaglio del «fregio dei piccoli cavalli». Diverticolo, parete destra, n. 41 [p. 85].

In questo libro ho voluto mostrare la posizione emi­ nente della caverna di Lascaux nella storia dell’arte, e più in generale nella storia deH’umanità. Indiscutibil­ mente questa caverna, tra le diverse opere che l’arte prei­ storica ci ha lasciato, riveste la massima importanza per l’archeologo e per lo studioso di preistoria; per l’uomo colto, appassionato di storia dell’arte, essa ha un signifi­ cato incomparabile: i suoi dipinti sono, eccezionalmen­ te, in uno stato di conservazione straordinario, e al tem­ po stesso sono i soli di cui sia possibile dire, come affer­ ma il più grande dei pittori viventi, che niente di meglio è mai stato fatto in seguito. Parlare della sola Lascaux, e non deH’insieme delle caverne dipinte, significa parla­ re di qualcosa di più ampio interesse: le altre caverne, pur suscitando meraviglia e persino ammirazione, so­ prattutto a causa del loro difettoso stato di conserva­ zione, sono in genere di competenza dell’archeologo e dello studioso di preistoria, dello specialista. Ho insistito, negli sviluppi di questo libro, sul signifi­ cato generale che l’opera d’arte riveste per l’umanità: la questione mi s’imponeva in quanto riguardava l’arte più antica, la nascita dell’arte, e non una qualsiasi delle sue molteplici manifestazioni. L’autentica nascita dell’arte, l’epoca in cui essa aveva assunto il significato di una mi­ racolosa fioritura dell’essere umano, sembrava un tempo molto più vicina a noi. Si parlava di miracolo greco e so­ lo a partire dalla Grecia l’uomo ci appariva in tutto e per tutto un nostro simile. Ho voluto sottolineare il fatto che il momento storico più autenticamente miracoloso, il momento decisivo, doveva essere spostato molto più in­ dietro nel tempo. Ciò che differenziò l’uomo dalla bestia ha infatti assunto per noi la forma spettacolare di un mi­ racolo, al punto che ormai non dovremmo più parlare del miracolo greco quanto del miracolo di Lascaux.

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LASCAUX O LA NASCITA DELL* ARTE

Questo modo di vedere mi ha indotto a mostrare fi­ no a qual punto Topera d'arte fosse intimamente legata alla formazione delPumanità. Ritengo che questo sia accaduto, in maniera forse più significativa che altrove, nella caverna di Lascaux. Per dimostrarlo ho fatto ri­ corso ai dati più generali della storia delle religioni: poiché la religione, o almeno la religiosità, che quasi sempre si associa alParte, fu più che mai solidale con essa alle sue origini. Per quanto riguarda i dati archeologici, mi sono li­ mitato a riprendere quelli che gli studiosi di preistoria hanno stabilito attraverso un lavoro immenso, che esige sempre una straordinaria pazienza - e sovente del ge­ nio. È doveroso ricordare quanto questo libro debba al­ la mirabile opera dell'abate Breuil, a cui sono partico­ larmente riconoscente per avermi voluto aiutare con i suoi consigli. E stato lo studio archeologico da lui in­ trapreso a Lascaux - e che oggi l'abate Glory prosegue fruttuosamente - che mi ha permesso di scrivere questo libro. Devo inoltre esprimere tutta la mia gratitudine a Harper Kelley per la sua amichevole assistenza. Deside­ ro infine ringraziare G. Bailloud per i suoi preziosi con­ sigli.

IL MIRACOLO DI LASCAUX

LA NASCITA DELL’ARTE

La caverna di Lascaux, nella valle della Vézère, a due chilometri dalla cittadina di Montignac, non è sol­ tanto la più bella, la più ricca tra le caverne preistori­ che dipinte; essa è, all’origine, il primo segno sensibile che ci sia pervenuto dell’uomo e dell’arte. Prima del Paleolitico superiore non possiamo parla­ re propriamente di uomo. Abitava le caverne un essere che in un certo senso somigliava all’uomo; un essere che comunque lavorava, che possedeva quel che gli studio­ si di preistoria definiscono un’industria, degli «atelier» in cui si scheggiava la pietra. Ma non realizzò mai « ope­ re d ’arte». Non avrebbe saputo realizzarle e del resto, a quanto sembra, non ne ebbe mai il desiderio. La caver­ na di Lascaux, che risale senz’altro al primo periodo di quell’età a cui si è conferito il nome di Paleolitico supe­ riore, si situa all’inizio della compiuta umanità. Ogni inizio presuppone ciò che lo precede, ma un punto se­ para il giorno dalla notte, e la luce che ci giunge da Las­ caux è l’aurora della specie umana. Solo dell’« uomo di Lascaux » possiamo dire con assoluta certezza e per la prima volta che, in quanto creatore di opere d ’arte, ci somigliava ed era senza alcun dubbio un nostro simile. È sin troppo facile dire che lo fu imperfettamente. Di molti elementi era privo - ma tali elementi non hanno forse l’importanza che attribuiamo loro: dobbiamo piuttosto sottolineare il fatto che quell’uomo diede pro­ va di una virtù decisiva, di una virtù creatrice, oggi non più necessaria. Noi abbiamo aggiunto, malgrado tutto, ben poca co­ sa all’eredità che i nostri immediati predecessori ci hanno lasciato: niente potrebbe dunque giustificare da parte nostra il sentimento d’esser loro superiori. L’« uo-

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LASCAUX O LA NASCITA DELL’ARTE

mo di Lascaux » creò dal nulla il mondo dell’arte, da cui ha inizio la comunicazione spirituale. L’«uomo di Las­ caux» comunica persino, in tal modo, con la lontana posterità che è per lui l’umanità presente. Lumanità presente, a cui sono infine giunti, grazie a una scoperta recente, questi dipinti che il fluire interminabile del tempo non è riuscito ad alterare. Questo messaggio, incomparabile, esige da noi il rac­ coglimento dell’essere nella sua interezza. A Lascaux, nelle viscere della terra, ciò che ci sconvolge e ci trasfi­ gura è la visione di qualcosa di remoto. Questo messag­ gio è inoltre aggravato da una stranezza inumana. A Lascaux siamo infatti spettatori di una sorta di giroton­ do, di una cavalcata animale, che si svolge sulle pareti. Ma nondimeno questa animalità costituisce per noi il primo segno, il segno cieco, e tuttavia il segno sensibile della nostra presenza nel?universo.

LASCAUX E IL SENSO DELL’O PERA D ’ARTE

Della moltitudine di esseri umani, ancora primordiali, anteriori al formarsi di questo girotondo animale, abbia­ mo trovato le tracce. Innanzi tutto quelle dei corpi che, materialmente, furono questi esseri da noi così poco dis­ simili: le loro ossa, quando ci sono giunte, ci fanno cono­ scere le loro forme scarnificate. Numerosi millenni pri­ ma di Lascaux (circa cinquecentomila anni), questi bipe­ di industriosi iniziarono a popolare la terra. Oltre alle ossa fossili, di loro ci rimangono solo alcuni utensili. Te­ stimoniano l’intelligenza di questi antichi uomini, anche se, ancora rozza, si applicava solo agli oggetti di cui si servirono, amigdale, schegge o punte di selce; a questi utensili o all’attività oggettiva che in tal modo persegui­ rono... Non cogliamo mai, prima di Lascaux, il riflesso di quella vita interiore di cui l’arte - e solo l’arte - si as­ sume la comunicazione, e di cui è, nel suo calore, se non l’espressione imperitura (questi dipinti e le riproduzioni che ne facciamo non avranno una durata illimitata), al­ meno la duratura sopravvivenza.

IL MIRACOLO DI LASCAUX

IS

Senza dubbio sembrerà incauto attribuire all’arte que­ sto valore decisivo, incommensurabile. Ma questo valo­ re dell’arte non è forse più sensibile alla sua nascita? Nessuna demarcazione è più netta: all’attività utilitaria essa oppone l’inutile figurazione di questi segni che se­ ducono, che nascono dall’emozione e che all’emozione si rivolgono. Ritorneremo sulle spiegazioni utilitarie che se ne possono dare. Dobbiamo innanzi tutto sottolinea­ re un’opposizione essenziale: certo, le ragioni materiali apparenti sono chiare; la ricerca disinteressata è invece solo ipotetica... Ma se si tratta di opere d ’arte, dobbiamo fin da subito rifiutare qualsiasi discussione. Se entriamo nella caverna di Lascaux, ci afferra un sentimento forte che non proviamo dinanzi alle bacheche in cui sono esposti i primi resti fossili di uomini o i loro utensili di pietra. È lo stesso sentimento di presenza - di chiara e bruciante presenza - che ci procurano i capolavori di ogni tempo. Al di là delle apparenze, è all’amicizia, è al­ la dolcezza dell’amicizia, che si rivolge la bellezza delle opere umane. La bellezza non è forse ciò che amiamo? L’amicizia non è forse la passione, l’interrogazione sem­ pre ripresa di cui la bellezza è la sola risposta? Tutto questo, che, più profondamente di quanto non si faccia abitualmente, attesta l’essenza dell’opera d’arte (che tocca il cuore, non l’interesse), va detto con insi­ stenza a proposito di Lascaux, proprio perché Lascaux si situa ai nostri antipodi. Confessiamolo: la risposta che Lascaux ci offre, di primo acchito, rimane oscura in noi, oscura, solo in parte intelligibile. È la risposta più antica, la prima, e la notte dei tempi da cui giunge non è attraversata che da­ gli incerti bagliori dell’alba. Cosa sappiamo degli uomi­ ni che di sé lasciarono soltanto queste ombre inafferra­ bili, isolate da ogni sfondo? Quasi nulla. Sappiamo so­ lo che queste ombre sono belle, altrettanto belle ai no­ stri occhi dei dipinti più belli dei nostri musei. Dei qua­ li però conosciamo la data, il nome dell’autore, il sog­ getto, la destinazione. Conosciamo i costumi, le manie­ re di vivere a essi legate, possiamo leggere la storia del-

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le epoche che li hanno visti nascere. Non sono, come quelle ombre, nati da un mondo di cui non conosciamo che la scarsità delle risorse, limitate alla caccia e alla raccolta, o la civiltà rudimentale che esso aveva creato, quella unicamente testimoniata dagli utensili di pietra o di osso e dalle sepolture. Non possiamo neppure stabi­ lire la data di questi dipinti se non a condizione di la­ sciare lo spirito in balia di un’oscillazione superiore ai diecimila anni! Riconosciamo quasi sempre gli animali rappresentati e dobbiamo attribuire la cura nel raffigu­ rarli a qualche intenzione magica. Ma non sappiamo quale preciso ruolo tali figure abbiano avuto nelle cre­ denze e nei riti di questi esseri vissuti millenni prima della storia. Dobbiamo limitarci a confrontarle con al­ tri dipinti - o con altre opere d ’arte - dello stesso pe­ riodo e della stessa regione, che tuttavia non sono per noi meno oscuri. Queste figure sono effettivamente nu­ merose: la sola caverna di Lascaux ne offre a centinaia e ve ne sono moltissime altre nelle grotte di Francia e di Spagna. Dei dipinti più antichi Lascaux non ci offre che l’insieme più bello, il più intatto. Al punto di poter dire che nulla può fornirci maggiori informazioni sulla vita e sul pensiero di coloro che per primi ebbero il po­ tere di offrirci di sé quella comunicazione profonda, ma enigmatica, che è un’opera d ’arte disinteressata. Questi dipinti, davanti a noi, sono miracolosi, ci comu­ nicano un’emozione forte e intima. Ma sono per questo ancor più inintelligibili. Ci viene detto di paragonarli agli incantesimi di cacciatori bramosi di uccidere la sel­ vaggina di cui vivevano, ma queste figure ci commuo­ vono, mentre quella bramosia ci lascia indifferenti. E così la loro incomparabile bellezza e la simpatia che su­ scita in noi lasciano in uno stato di penosa sospensione.

IL M IRACOLO GRECO E IL M IRACO LO D I LASCAUX

Per quanto disagio se ne provi, i sentimenti intensi che Lascaux ci ispira sono legati a questo stato di incer­ tezza. Ma nonostante il malessere causato da tali condi-

IL MIRACOLO DI LASCAUX

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zioni di ignoranza, la nostra attenzione è completamen­ te vigile. La certezza ha la meglio su una realtà inespli­ cabile, in qualche sorta miracolosa, che esige attenzio­ ne e avvedutezza. Siamo in presenza di una rivelazione sconvolgente: vecchie di ventimila anni, queste pitture hanno la fre­ schezza della giovinezza. Furono scoperte da alcuni ra­ gazzi che entrarono nella fenditura lasciata da un albe­ ro sradicato: se fosse infuriata più lontano, la tempesta non avrebbe aperto la via che conduce al tesoro da mil­ le e una notte rappresentato da questa grotta. Conosceremmo comunque Tarte preistorica grazié a numerose opere, talvolta mirabili, ma nessuna ci avreb­ be strappato quel grido di una stupefazione che lascia senza fiato. Altrove intuiamo con difficoltà la forma che il tempo ha alterato e che d'altronde non ebbe certo la bellezza che affascina il visitatore di Lascaux. Lo splen­ dore di queste sale sotterranee è incomparabile: al co­ spetto di questa ricchezza di figure animali, che stupi­ scono per vita e splendore, come non provare, per un istante, la sensazione di un miraggio, o di una messa in scena ingannevole? Ma proprio nella misura in cui

Vacca a testa nera e corpo rosso. Diverticolo, parete sinistra, n. 21 [p. 73].

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Particolare delle corna di un cervo. Diverticolo, parete destra, n. 46 [p. 80].

dubitiamo, in cui, stropicciandoci gli occhi, diciamo «è mai possibile? », l’evidenza della verità riesce da sola a rispondere a quel desiderio d’essere stupito che costi­ tuisce la tipicità dell’uomo. Certo, per quanto aberrante sia, accade che un dub­ bio persista di fronte all’evidenza, e sono costretto a parlarne, anche se la dimostrazione è superflua. Non

IL MIRACOLO D l LASCAUX

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ho forse udito, nella grotta, due turisti stranieri espri­ mere la sensazione di trovarsi in un luna park di carta­ pesta? E ormai ovvio che la supposizione di un falso di­ mostra solo l’ignoranza o l’ingenuità di chi la formula. Come conciliare, fondatamente, una falsificazione con documenti ormai noti? Ma soprattutto chi sarebbe riu­ scito a ingannare la critica erudita che si basa, oltre che sulla comparazione, sulla geologia, sulla chimica e sulla conoscenza minuziosa delle condizioni di conservazio­ ne di queste opere millenarie? È fuor di dubbio che in quest’ambito il più modesto tentativo di falso sarebbe immediatamente smascherato: e che dire di questa ca­ verna in cui si accumula una moltitudine di dettagli in­ significanti, di incisioni quasi indecifrabili e di perfetti grovigli? Insisto sullo stupore che proviamo a Lascaux. Questa straordinaria caverna non finirà mai di sconvolgere chi la scopre: non finirà mai di rispondere a quell’attesa del miracolo che costituisce, nell’arte come nella passione, l’aspirazione più profonda della vita. Spesso giudichia­ mo infantile questo bisogno di provare meraviglia, ep­ pure non riusciamo a liberarcene. Ciò che ci appare de­ gno di essere amato è sempre ciò che ci sconvolge, è l’insperato, l’insperabile. Come se, paradossalmente, la nostra essenza consistesse nella nostalgia di raggiungere ciò che consideravamo impossibile. Da questo punto di vista Lascaux riunisce le condizioni più rare: il senti­ mento di miracolo che ci dona oggi la visita della caver­ na, derivante innanzi tutto dall’estrema casualità della scoperta, è in effetti raddoppiato dal sentimento di ca­ rattere inaudito che queste figure ebbero agli occhi stes­ si di coloro che vissero al tempo della loro creazione. Per noi Lascaux si situa tra le meraviglie del mondo: sia­ mo in presenza dell’incredibile ricchezza che ha accu­ mulato lo scorrere del tempo. Ma quale dovette essere il sentimento di quei primi uomini, per i quali certa­ mente, senza che ne ricavassero una fierezza simile alle nostre (così scioccamente individuali), questi dipinti ebbero un prestigio immenso? Il prestigio che si lega, qualunque cosa se ne possa pensare, alla rivelazione

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dell’inatteso. È soprattutto in questo senso che parlia­ mo di miracolo di Lascaux, perché a Lascaux l’umanità ancor giovane misurò, per la prima volta, l’estensione della propria ricchezza. Della propria ricchezza, ossia del potere che essa aveva di raggiungere l’insperato, il meraviglioso. Anche la Grecia ci dona un sentimento di miracolo, ma la luce che ne emana è quella del giorno; la luce del giorno è più difficile da cogliere: eppure, nella durata di un lampo, essa abbaglia maggiormente.

L’UOMO DI LASCAUX

d a l l ’u o m o d i n e a n d e r t a l a l l ’u o m o

D I LASCAUX

La caverna, di cui più avanti forniremo la descrizio­ ne, si apre oggi appena al di sotto del suolo, ai margini del mondo industriale, a qualche ora da Parigi. Siamo necessariamente colpiti - estremamente colpiti - dal contrasto tra la civiltà che essa rappresenta, e che rap­ presenta nel suo massimo splendore, e la vita che ci cir­ conda. Ma non dobbiamo dimenticare che il miracolo che essa testimonia appartiene a un periodo dell’uma­ nità che conobbe un’arte mirabile. Di quest’arte Lascaux non è che l’esempio più ricco: questa caverna è il prisma in cui si riflettono lo sbocciare e il compimento dell’arte e della civiltà « aurignaziana ». Il periodo che in mancanza di termini più validi siamo costretti a chiamare « aurignaziano », non è esattamente il primo nella storia dell’uomo. Non è che la prima fase dell’età che gli studiosi di preistoria definiscono Paleoli­ tico superiore - o Leptolitico - a cui talvolta viene dato anche il nome meno preciso, meno scientifico, ma più felice, di « Età della renna ». L’Età della pietra antica in generale (o Paleolitico) inizia con una fase detta inferio­ re, che una fase media separa da quella superiore. L’uomo apparve all’inizio del Paleolitico distinguendosi dall’antropoide (o dai preominidi da poco scoperti allo stato di fossili, come l’australopiteco...), ma a quel tem­ po non era ancora realmente un nostro simile. Il pite­ cantropo, o il sinantropo, i cui resti risalgono a questa epoca, si distingueva già chiaramente dalla scimmia; tut­ tavia ancora l’uomo di Neandertal, che popolò la terra ai tempi del Paleolitico medio, era molto lontano dal di­ stinguersene quanto noi. La sua capacità cranica era uguale e persino superiore alla nostra, e questa giustifi-

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ca il fatto che sia chiamato uomo. La sua intelligenza gli permetteva, meglio delPuomo dei periodi precedenti, di ricavare dalla pietra, mediante percussione, un'ampia gamma di utensili. Ebbe anche coscienza della morte, mentre gli antropoidi non comprendevano cosa acca­ desse nel momento in cui la vita abbandonava uno di lo­ ro: l'uomo di Neandertal ha infatti lasciato autentiche sepolture. Inoltre camminava in posizione eretta, come noi. Ma nessun comando avrebbe potuto metterlo sul­ l’attenti: le sue gambe erano leggermente flesse e cam­ minando il peso del corpo gravava sul bordo esterno del piede. Un antropologo americano, William Howells, ha affermato che il collo dell'uomo attuale e quello dell'uo­ mo di Neandertal sono rispettivamente «paragonabili a quello del cigno e a quello del toro». L'uomo di Nean­ dertal aveva la fronte bassa, uno spesso cuscinetto osseo faceva sporgere l'arcata sopraccigliare e la mascella era prominente, sebbene avesse poco mento. Ne conoscia­ mo l'aspetto solo dalle ossa: non siamo in grado di for­ nirne la rappresentazione vivente, ma possiamo senza dubbio affermare con Howells che il volto doveva appa­ rire « più bestiale di quello di qualunque uomo oggi vi­ vente». Possedeva sicuramente un linguaggio, ma è lo­ gico supporre che fosse embrionale: gli si attribuisce un balbettamento soprattutto affettivo ed esclamativo. Ve­ dremo come potè anche riguardare la capacità di distin­ guere gli oggetti. In ogni caso non conosciamo alcuna opera d'arte attribuibile a questo essere apparentemen­ te senza fascino a cui gli studiosi di preistoria hanno tal­ volta dato il nome di paleoantropo. Bisogna attendere l'uomo aurignaziano, il neantropo, l'uomo di Lascaux, per trovare testimonianze, in verità molto numerose, della capacità di realizzare opere d'arte. E degno di nota che tale capacità coincida con l'apparizione di un uomo dallo scheletro analogo al no­ stro, sia per la disposizione rigorosamente eretta della postura sia per i tratti del volto. L'aspetto di quest'uomo nuovo non doveva esser meno « umano » del nostro: ave­ va come noi la fronte alta, senza arcata sopraccigliare

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sporgente, e la mascella era poco pronunciata. Apparen­ temente, l’uomo di Cro-Magnon, che risale agli inizi dell’Età della renna, e il cui scheletro fu scoperto in Dordogna, nelle vicinanze di Eyzies, avrebbe potuto passare inosservato ai nostri giorni se vestito e pettinato come noi. Non era inferiore in nulla all’uomo attuale, se non per l’inesperienza della specie. Non dobbiamo dunque meravigliarci di trovare, nelle opere di questo periodo, non soltanto la prova di un’intima somiglianza, ma an­ che l’evidenza di un dono geniale. L’uomo di Neandertal era sicuramente più lontano da noi del più arretrato de­ gli aborigeni australiani. Indubbiamente anche l’uomo di Lascaux non era in tutto simile a noi, ma almeno lo fu per la forma e per il genio creatore. Essenzialmente, l’uomo di Lascaux è quello che l’an­ tropologia designa, in opposizione all’uomo di Nean­ dertal e agli altri ominidi, con il nome di Homo sapiens. Ma ora si pone il problema di capire se la sua data di nascita coincida con quella dell’arte. La maggioranza degli antropologi suppone che l'Homo sapiens esistesse già da decine di migliaia di anni, anche se questa loro convinzione si fonda su ritrovamenti tanto più dubbi in quanto di infimo numero. Il più importante era quello, ormai rifiutato come un falso, del cranio di Piltdown, la cui parte superiore apparteneva realmente a quella di un Homo sapiens (ma di un’epoca assai posteriore, in cui l'Homo sapiens era rimasta l’unica specie comune), men­ tre la parte inferiore era costituita dalla mascella, camuf­ fata da fossile, di uno scimpanzé. Gli altri due reperti so­ no ancor meno convincenti: Hans Weinert e E Clark Howell ritengono siano attribuibili non alYHomo sapiens ma all’uomo di Neandertal. Anche supponendo che in un certo senso abbiano torto, non per questo il loro qua­ dro d’insieme è meno vero: nel periodo che precedette la comparsa dell’uomo compiuto, la terra era popolata da un’umanità pressoché omogenea della specie Neander­ tal, a cui probabilmente si aggiungevano uomini altret­ tanto primitivi ma più affini alYHomo sapiens propria­ mente detto, che ancora non aveva fatto la sua compar­ sa. Nel periodo successivo, nei ritrovamenti ancor più

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numerosi coincidenti, direttamente o meno, con lo svi­ luppo dell’arte, l’Homo sapiens è l’unico rappresentante della specie, ma l’umanità è generalmente meno omoge­ nea: il carattere meticcio, parzialmente «bastardo», del­ l’uomo attuale è già percepibile. A eccezione di un solo scheletro, ritrovato nell’Africa meridionale, l’uomo di Neandertal è scomparso, come se avesse subito un vio­ lento sterminio. Sembra d’altronde appurato che YHomo sapiens non possa discendere dall’uomo di Neandertal. È logico supporre una specie del tutto diversa che, pur la­ sciando scarse tracce di sé, avrebbe conosciuto all’inizio del Paleolitico superiore un improvviso sviluppo, sia in direzione del compimento della specie che della sua pro­ liferazione: un tale sviluppo sarebbe legato alla nascita dell’arte. Formatasi al di fuori dell’Europa, questa specie proveniva « probabilmente dall’Asia ». Durante l’ultima glaciazione l’invasione dell’Europa da parte di questi nuovi venuti fu, secondo l’opinione dell’abate Breuil, un evento «unico», ossia «la sostituzione, probabilmente violenta, dell’umanità neantropica all’umanità paleoan­ tropica, distrutta interamente dagli invasori». Potrebbero così chiaramente delinearsi le ragioni per cui dobbiamo attribuire a Lascaux il valore di un ini­ zio. A condizione tuttavia di non isolare dal suo insie­ me ciò che fu creato dalla casualità. Come ho già detto, Lascaux rappresenta il corona­ mento dell’arte « aurignaziana». Ma questa espressione è discutibile. A partire dai primi anni del ventesimo se­ colo, con il termine di aurignaziano ci si è riferiti a una tipologia di utensili così designati dall’abate Breuil. A questo titolo la parola designava la prima fase del Pa­ leolitico superiore. In Francia e in altri luoghi, gli uten­ sili aurignaziani succedevano a quelli musteriani, la­ sciati dall’uomo di Neandertal alla fine del Paleolitico medio. Ma dopo gli studi di Daniel Peyrony, che mo­ stravano la complessità di utensili diversi, successivi o contemporanei, si giunse a distinguere due ambiti di­ stinti, che corrispondevano in linea di massima a due civiltà diverse. L’Aurignaziano da una parte, il Perigor-

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diano dall’altra. Tuttavia, da un punto di vista cronolo­ gico, questa divisione non è così semplice. Dobbiamo immaginare la successione seguente: la prima fase, pe­ rigordiana, è seguita da quella aurignaziana propria­ mente detta, o tipica, a sua volta seguita da una secon­ da fase perigordiana, il Perigordiano evoluto. I dipinti di Lascaux vanno dall’Aurignaziano tipico al Perigor­ diano evoluto. Questa terminologia piuttosto disagevo­ le, e in definitiva molto contestata, si è imposta nella maggior parte degli studi più recenti. Così non potrem­ mo parlare di Lascaux senza offrire questo sistema di riferimento, l’unico che, in mancanza di dati cronologi­ ci computabili, permette di situare queste opere nel tempo. Ma per conferire all’esposizione dei fatti l’au­ spicabile chiarezza, ci serviremo dei termini utilizzati dall’abate Breuil e da Raymond Lantier: parleremo quindi di Aurignaziano medio e superiore, precisando che il primo corrisponde all’Aurignaziano tipico, il se­ condo al Perigordiano evoluto di Peyrony. Nell’opera Quatre cents siècles d'art pariétal, l’abate Breuil attribuisce Lascaux in parte all’Aurignaziano e per la parte principale al Perigordiano. Noi parleremo solo di Aurignaziano, medio o superiore. Siamo d’altra parte costretti a fornire talvolta un si­ stema di riferimento nuovo, e a indicare con il nome di « uomo di Lascaux » l’uomo che visse al tempo dell’Aurignaziano medio e superiore. Abbiamo mantenuto, precisando quel che in tal modo designiamo, il nome di Aurignaziano. Tuttavia l’interesse eccezionale da noi at­ tribuito al periodo designato dalle fasi media e superio­ re dell’Aurignaziano ci induce a utilizzare anche un al­ tro termine, che indica in modo specifico l’epoca per noi essenziale e che ha il merito di essere il simbolo di una fioritura. Lascaux, certo, è solo l’apice di una civiltà che si estese su una vasta area. Probabilmente essa non fu realmente unitaria: possiamo dire che la regione franco-cantabrica, che comprende la parte meridionale della Francia e la Spagna del nord-ovest, fu caratteriz­ zata da un’unità artistica che durò sino alla fine dell’Età della renna. Anche l’Europa orientale conobbe, pur

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senza contatti significativi, una civiltà aurignaziana, in cui YHomo sapiens dimostrò la sua capacità di realizza­ re opere d’arte. Anche l’Inghilterra, l’Africa, l’Asia co­ nobbero in quello stesso periodo lo sviluppo dell’uomo nuovo. Ma la Dordogna fu allora, in un certo senso, il centro del mondo. Qui infatti troviamo le tracce più nu­ merose e più emozionanti di questa cultura nascente. A quell’epoca, la valle della Vézère costituiva forse un passaggio che conduceva i branchi di renne, in transu­ manza durante la primavera, verso i pascoli dell’Alvernia: le attendeva il massacro, ma esse ripercorrevano ciecamente il medesimo cammino ogni anno assicuran­ do abbondanti risorse agli uomini della vallata. Oggi i branchi di renne si sono rifugiati, fuggendo il calore ec­ cessivo, nelle regioni più vicine al polo, ma i medesimi eventi si riproducono con l’ostinazione dell’abitudine. Le renne del Canada percorrono un itinerario costante di migrazione, malgrado le imboscate in cui cadono. Ta­ li condizioni, forse già esistenti nel Paleolitico medio, quando gli uomini di Neandertal popolavano la Dordo­ gna, probabilmente allora erano tra le più favorevoli al mondo. Per i cacciatori dell’età della pietra antica, e fi­ no ai tempi neolitici, questa regione dovette costituire un habitat privilegiato in cui apparentemente l’umani­ tà, per la prima volta, e con incontestabile fortuna, spe­ rimentò la vita umanizzata. Senza dubbio le nostre considerazioni dipendono dal­ la casualità dei reperti. Inoltre non possiamo conoscere i dipinti, o le altre opere umane, che non furono posti sin dall’inizio in condizioni tali da garantirne la duratura conservazione. Quello che ci è pervenuto, d’altronde da ben poco tempo, ci induce a parlare, non senza traspor­ to ma anche con prudenza. Probabilmente Lascaux, co­ sì come oggi si presenta, costituisce il culmine raggiunto dall’umanità di quel tempo, e la valle della Vézère fu il luogo privilegiato in cui la vita umana più intensa diven­ ne umana per se stessa e per coloro che entrarono nel suo raggio d’influenza. Il nome di Lascaux è così il sim­ bolo delle età che conobbero il passaggio dalla bestia umana all’essere compiuto che noi siamo.

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LA RICCHEZZA DELL’U O M O D I LASCAUX

Un tracciato di luce spezzata, evocante la linea di un fulmine, conferisce sempre al corso incerto della storia una sorta di magia. A diverse riprese, un movimento di conquista ha sostenuto moralmente l’umanità, aprendole le porte del possibile - permettendole di giungere, come al risveglio da un sonno, a ciò che fino ad allora appariva solo in modo furtivo. Il mutamento dell’uomo, il passag­ gio dalla stagnazione dell’inverno alla rapida fioritura

Toro nero. Diverticolo, parete sinistra, n. 26 [p. 84].

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della primavera, sembra essersi manifestato sempre in una sorta di ebbrezza. Come se, improvvisamente, si pro­ ducesse un’accelerazione, un superamento inatteso e ine­ briante che, come una bevanda alcolica, dona una sensa­ zione di potere. Una vita nuova inizia: una vita che ha mantenuto l’asprezza materiale che ne è l’essenza, ed è sempre una lotta rischiosa, ma le nuove possibilità che apre hanno il sapore di un incantesimo. Abbiamo a lungo ritenuto che l’umanità, nella miseria dei suoi inizi, non avesse conosciuto quest’euforia né questa sensazione di potenza. Conferivamo quest’aura miracolosa alla sola Grecia. Il più delle volte attribuiva­ mo agli uomini dell’età della pietra antica un aspetto sor­ dido: esseri privi di bellezza, pressoché bestie, come esse avidi, ma senza averne il portamento seducente, indolen­ te, ovunque tipico dell’animale. Li abbiamo immaginati sparuti, irsuti e cupi, simili a quei miserabili che vivono in uno stato di degrado nei terreni abbandonati che circon­ dano le nostre città. I miserabili hanno una loro grandez­ za, pressoché simile a quella che le illustrazioni dei libri di scuola attribuiscono agli uomini delle caverne. Rivedo, in questo senso, l’immenso, spaventoso quadro di Cormon, un tempo celebre, che illustra i versi di Victor Hugo: Lorsque avec ses enfants vêtus des peaux des bêtes, Echevelé, livide au milieu des tempêtes, Caïn se fut enfui de devant Jéhovah...1 Un sentimento di maledizione si lega all’idea di que­ sti primi uomini. Automaticamente, la maledizione e la decadenza di classi in u m a n e gravano nel fondo del no­ stro pensiero di esseri che sono sì uomini, ma senza averne la dignità... Gli uomini dei tempi preistorici hanno ai nostri occhi il torto, essendo uomini, di avere avuto tuttavia aspetti simili a quelli degli animali. Non possiamo evitare questa reazione inconscia: in noi l’idea di uomo si oppone fondamentalmente a quelQuando con i suoi figli vestiti di pelli animali, / Scarmigliato, livido in mezzo alle tempeste, / Caino fuggì davanti a Geova... [N.d.T.]

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la della bestia; tuttavia i primi uomini dovevano conser­ vare il carattere ibrido della bestialità, che è tipica non dell’animale, ma dell’uomo che misconosce, o che non ha ancora mai riconosciuto la propria dignità. Delle due cose Tuna: o i primi uomini hanno in parte perduto la di­ gnità che appartenne loro all’inizio, oppure non l’hanno mai posseduta. Al punto che all’origine dell’umanità percepiamo senza fallo l’indegnità. Tuttavia l’indegnità non poteva essere la caratteristi­ ca specifica della bestia che stava diventando uomo. L’indegnità esiste solo nella mente di chi oggi ne imma­ gina il comportamento, ma l’animale, che non è uma­ no, non può essere indegno, e l’uomo che si separa dal­ l’animale può essere indegno soltanto ai nostri occhi: arbitrariamente lo assimiliamo a chi tra noi, miscono­ scendo la sua dignità, si comporta come una bestia. Le immagini sinistre dei primi uomini accovacciati su una carcassa per divorarne la carne a morsi sono frutto del­ le categorie del nostro pensiero. Al limite potrebbero riferirsi all’uomo di Neandertal, ma è necessario sottolineare la differenza fondamentale tra quest’ultimo e l'Homo sapiens. Per quanto ci è dato saperne, l’uomo di Neandertal e i suoi antenati si distaccarono solo pro­ gressivamente dall’animalità. Non possiamo individua­ re una soglia tra questi primi uomini e la bestia. Invece YHomo sapiens è fin dall’inizio un nostro simile. E lo è nella maniera più radicale. Le recenti e successive scoperte sulla preistoria, tra cui Lascaux, la più importante, è pressoché l’ultima in ordine cronologico (fu nel 1940 che dei ragazzi entra­ rono nella caverna, da un’apertura appena visibile), hanno allontanato questa visione da incubo. Raramente l’effetto della felicità, della facilità del genio, che sa ri­ solvere la difficoltà più grande, fu più evidente: non vi è invenzione più perfetta, più umana di quella testimo­ niata da queste rocce, all’inizio, per così dire, della no­ stra esistenza. Una così grande riuscita nega il senti-, mento di una iniziale miseria. Era meschino immagina­ re alPorigine una situazione penosa, un sentimento di indigenza che avrebbe giustificato il peggio. Non ab-

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biamo più il diritto di attribuire all 'Homo sapiens com­ portamenti simili a quelli degli uomini rozzi che ci cir­ condano, per i quali la forza bruta è la sola verità con­ cepibile. Avevamo del resto dimenticato che quegli es­ seri semplici ridevano e che senza dubbio furono i pri­ mi che, pur trovandosi in una situazione per noi spa­ ventosa, furono veramente capaci di ridere. Certamente, gli studiosi di preistoria hanno ragione di definire « eccessivamente rude e precaria » la vita di questi uomini che cominciarono. La durata della loro vi­ ta era certo più breve di quella odierna, come dimostra beta media di coloro di cui abbiamo ritrovato le ossa. Ma un’insufficiente sicurezza non significa infelicità. Ra­ ramente superavano i cinquantanni e la vita delle don­ ne era ancora più precaria. Generalmente la vita dei mammiferi finisce «nel momento in cui cessa, o si atte­ nua, Fattività sessuale»: è così per l’uomo verso i cin­ quantanni, e poco prima per la donna. «L’allunga­ mento della vita che si osserva ai nostri giorni non è che la conseguenza dei progressi realizzati dalla civiltà». Questa possibilità non era neppure concepibile per l’uomo di Lascaux. In linea di principio non poteva av­ vertire la miseria suggerita dalle condizioni della propria esistenza. L’idea di precarietà è la conseguenza di un pa­ ragone: ad esempio alla prosperità segue la miseria, così come la tempesta improvvisamente mette in pericolo una nave che, altrimenti, avrebbe continuato a solcare agevolmente il mare. La miseria può anche essere una condizione durevole dell’esistenza di un uomo, di una famiglia, di un popolo. Ma in questo caso si definisce, per colui che ne è colpito, in relazione ad altre possibi­ lità. Possiamo al limite concepire una precarietà prova­ ta, nella prostrazione, da esseri che non avrebbero alcu­ na speranza e non sarebbero in grado di rappresentarsi altro che la loro miseria. Questa possibilità è ecceziona­ le. Quasi sempre la vita, per quanto precaria, è accom­ pagnata da condizioni che la rendono possibile. Anche ai nostri giorni il buon umore si lega altret­ tanto bene a modi di vita che ci appaiono spaventosi. I tibetani, che sopportano senza vetri alle finestre e quasi

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senza fuoco i freddi polari, sono gai, allegri, propensi alla sensualità. Così gli eschimesi poterono dolersi del fatto che un missionario sopprimendo le loro feste tol­ se loro la gaiezza, a loro che fino a quel momento ave­ vano vissuto cantando «come uccellini»... Davanti agli affreschi di Lascaux, smisuratamente ricchi di movimento e di vita animale, come potremmo attribuire a coloro che li concepirono una povertà con­ traria a questo movimento? Se la vita non avesse com­ piutamente condotto questi uomini all’esuberanza, alla gioia, non avrebbero potuto rappresentarla con questa forza decisiva. Ma è soprattutto chiaro per noi che essa li agitava umanamente: questa visione deH’animalità è umana per il fatto che la vita che essa incarna è, in essa, trasfigurata, che essa è bella, e dunque sovrana, al di là di ogni immaginabile miseria.

IL RUO LO DEL GENIO

Non possiamo ammettere alla leggera quanto potreb­ be attenuare il significato di queste pitture. Dobbiamo raffigurarci i loro autori diversamente da come siamo sta­ ti abituati a fare. Perché dubitarne? Questi uomini del­ l’età aurignaziana non dovevano essere meno gai, meno allegri e meno sensuali dei tibetani. Di loro non sappia­ mo quasi nulla. E vero. Ma perché attribuire loro una se­ rietà che ci appartiene? Il riso degli uomini deve aver avuto un inizio. È dubbio che l’uomo di Neandertal ri­ desse, ma sicuramente rideva l’uomo di Lascaux. Noi di­ mentichiamo il sollievo che dovette procurare un riso na­ scente: e per dimenticarlo ci serve tutta la serietà della scienza. A volte ci figuriamo l’uomo di quell’epoca stret­ to nella morsa della miseria, o comunque della necessità. A volte lo consideriamo un bambino. Non esitiamo nep­ pure a paragonarlo al moderno «primitivo». Sebbene queste diverse rappresentazioni abbiano tutte un qual­ che senso, almeno le ultime, dobbiamo liberarcene. Sarebbe strano, come si è tentato di fare, paragonare ai disegni dei bambini le opere delle caverne... Dobbia-

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mo innanzi tutto scartare una rappresentazione che as­ simili la preistoria airinfanzia. Gli uomini del Paleoliti­ co non erano certo assistiti come lo sono i nostri figli. Il loro abbandono, sulla terra, fa pensare piuttosto a quei cuccioli d’uomo a cui è accaduto d ’essere allevati dai lupi: ma coloro che in rarissimi casi la malasorte conse­ gna alla sollecitudine delle bestie, non riescono a supe­ rare il ritardo che ne risulta. Ciò che distingue i primi uomini è Tesser riusciti a elaborare, da soli e attraverso lo sforzo di generazioni, un mondo umano. La comparazione tra l’uomo aurignaziano e l’attuale primitivo è senza dubbio più degna d’attenzione. Si lega al sentimento che induce la scienza moderna ad attri­ buire alle popolazioni « arretrate » dell’Australia, della Melanesia e di altri luoghi il termine azzardato di « pri­ mitivi ». Questi uomini hanno in effetti un livello di ci­ viltà materiale vicino a quello dei veri primitivi. Malgra­ do alcune differenze oggettive, non possiamo negare che ci siano dei punti comuni tra loro. In tal modo è facile ri­ cavarne una rappresentazione coerente. Le somiglianze si moltiplicano, i documenti si fanno più chiari. Come i moderni «primitivi», i primi uomini avrebbero pratica­ to la magia simpatetica e le danze con maschere, avreb­ bero posseduto la «mentalità primitiva» che la sociolo­ gia erudita ha saputo dedurre... Potrei accettare, almeno fino a un certo punto, queste interpretazioni comparati­ ve se non provassi sovente la sensazione di un errore di fondo. Molte delle ipotesi sono giustificabili (a titolo di ipotesi, appunto), ma non possiamo raffigurarci l’uomo di Lascaux così come ci raffiguriamo l’uomo arretrato di oggi. Dobbiamo al contrario affermare che l’arte di Las­ caux è lontanissima dall’arte « selvaggia ». Lascaux è più affine a un’arte ricca di possibilità molteplici, come lo furono, ad esempio, l’arte cinese o quella medioevale. Soprattutto l’uomo di Lascaux, per quanto vicino a un odierno polinesiano, fu gravato, diversamente da lui, da un avvenire massimamente incerto e complesso. Quando cerchiamo di immaginare quest’uomo, così profondamente diverso da noi, dobbiamo sempre tener presente l’impulso che lo muoveva e che lo strappava al-

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la stagnazione. Almeno in questo ci somigliava: qualcosa di indeterminato nasceva in lui. Il moderno primitivo, dopo una maturazione interminabile, si mantiene a un li­ vello più prossimo a quello delle origini rispetto al no­ stro: ma è destinato fino a nuovo ordine a non creare più e a seguire senza sforzi il solco in cui, a memoria d’uomo, la sua vita si è sempre mantenuta. Noi invece viviamo un tempo di nascita indefinita: ben poco importa se possia­ mo deciderlo, il mondo si trasforma e cambia in noi, co­ sì come il mondo si trasformava e cambiava nel periodo compreso tra l’inizio dell’Età della renna e la fioritura della caverna di Lascaux. Questo sbocciare ebbe allora quello che non avrebbe mai più avuto nei tempi che se­ guirono, la luce scomposta di un’aurora. Con questo non intendo dire che l’uomo di Lascaux ne ebbe quella coscienza chiara e analitica a cui troppo sovente noi li­ mitiamo la coscienza. Ma il sentimento di forza e di grandezza che lo sosteneva è forse percepibile nel movi­ mento che anima i grandi tori dell’affresco di Lascaux. L’autore, senza dubbio, non dovette rifiutare una tradi­ zione che non era così forte da sovrastarlo. Ma da que­ sta tradizione egli usciva creando: nella penombra della grotta, alla luce da chiesa delle lucerne, egli superava ciò che era esistito fino ad allora, creando ciò che non esi­ steva ancora un istante prima.

LA NASCITA DEL G IO C O

Due eventi decisivi hanno segnato il corso del mon­ do: la comparsa degli utensili (ossia del lavoro) e la na­ scita dell’arte (ossia del gioco). Gli utensili si devono all 'Homo faber, a colui che, pur non essendo più ani­ male, non era ancora compiutamente l’uomo attuale. L’uomo di Neandertal ne è un esempio. L’arte cominciò con l’uomo attuale, YHomo sapiens, che apparve agli inizi del Paleolitico superiore, nell’Aurignaziano. La nascita dell’arte deve esser rapportata all’esistenza pre­ liminare degli utensili. Non soltanto l’arte presuppone il possesso di utensili e l’abilità acquisita nel fabbricar-

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li, o nel maneggiarli, ma rispetto all’attività utilitaria ha anche il valore di un’opposizione: è una protesta con­ tro un mondo già esistente, ma senza il quale la prote­ sta stessa non avrebbe potuto prendere corpo. L’arte è e continua a essere prima di tutto un gioco. L’utensile è invece l’origine del lavoro. Determinare il si­ gnificato di Lascaux, o meglio dell’epoca di cui Lascaux è l’esito, equivale a cogliere il passaggio dal mondo del lavoro al mondo del gioco, che al tempo stesso è il pas­ saggio dalYHomo faber all’Homo sapiens, ossia, dal pun­ to di vista fisico, dall’abbozzo all’essere compiuto. Mi son sin qui volutamente limitato ad accennare al1'Homo faber, che popolò la terra durante l’età del Paleo­ litico medio e precedette l’uomo di Lascaux; dovevo in­ fatti situare quest’ultimo dal punto di vista temporale, nel momento di passaggio dall’animale all’uomo. Ora, volen­ do fare luce su Lascaux, e così mostrare cosa rappresentò questo passaggio, devo precisare che, cronologicamente, questo periodo del Paleolitico - che ha preceduto l’Età della renna e si situa sotto il segno del lavoro e degli uten­ sili - durò circa cinquecentomila anni. Interminabile sol­ co, a cui corrispondono numerosi giacimenti di pietre scheggiate, di scaglie e di nuclei, che gli studiosi di prei­ storia hanno classificato secondo la fattura e di cui han­ no saputo, in linea di principio, indicare l’ordine di suc­ cessione. Si è anche posta la questione di sapere se esseri del genere Homo vivessero già in precedenza, nel perio­ do Terziario: ma gli utensili in pietra lavorata non com­ paiono negli strati precedenti il Quaternario. Cinquemi­ la secoli sono poca cosa rispetto ai duecentottanta milio­ ni di anni attribuibili ai fossili più antichi. Cinquecentomila anni danno tuttavia il senso dell’immensità se con­ frontati alle poche decine di millenni che durò - dall’Aurignaziano al Magdaleniano - il Paleolitico superiore, l’Età della renna, o ai quindicimila anni che ci separano dal Magdaleniano (cioè il Mesolitico, il Neolitico, l’Età dei metalli, precedenti l’avvento della scrittura); o ai cin­ quemila anni della storia propriamente detta. (A grandi linee, possiamo parlare di un periodo di cinquemila anni per l’età storica, di cinquantamila per

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l’entrata in scena delYHomo sapiens, nel Paleolitico su­ periore, di cinquecentomila per 1'Homo faber. Tranne la prima, tutte le altre date sono ipotetiche, per cui solo con molte riserve ipotizziamo che l’uomo abbia iniziato a decorare la caverna di Lascaux con figure animali cir­ ca trentamila anni or sono.) Per quanto imperfette siano queste approssimazioni, dobbiamo rappresentarci l’importanza relativa di questi lassi temporali se vogliamo cogliere cosa significhi Las­ caux; non dobbiamo inoltre dimenticare che questi pe­ riodi aurorali e inaugurali erano stati preceduti dalla sta­ gnazione secolare della vita umana, almeno delle sue for­ me incompiute, caratterizzata dalla fabbricazione di uten­ sili e dal lavoro. Dopo un inverno di cinquecentomila an­ ni, Lascaux avrebbe così il significato di una prima gior­ nata primaverile. Sembra che il clima stesso sia stato me­ no rigido, se non nei primi tempi dell’Età della renna, al­ meno nell’Aurignaziano superiore, a cui dobbiamo attri­ buire i dipinti più belli della caverna. Ma questo parago­ ne non è logico, l’inverno interminabile era stato prece­ duto a sua volta da una stagione non meno sfavorevole... Fu realmente un inverno, nel senso che le quattro grandi glaciazioni, durante le quali la Francia conobbe spesso un clima siberiano, coprirono esattamente tutto questo periodo. Il Paleolitico superiore iniziò con la quarta gla­ ciazione, detta di Würm. Nell’epoca successiva il clima si addolcì. La fauna degli affreschi di Lascaux è quella di una regione relativamente temperata. La cultura mate­ riale, gli utensili e il lavoro di questo periodo differivano poco da quelli che precedettero l’avvento delYHomo sa­ piens, ma rispetto ad allora si era verificato un mutamen­ to essenziale: il mondo aveva perduto parte della sua asprezza. Gli utensili, malgrado tutto, si erano arricchiti e la calma attività dell’uomo aveva cessato d’avere come unico esito il lavoro: da questo momento l’arte affiancò all’attività utile il gioco. Non sarebbe eccessivo affermare che prima dell’Età della renna la vita umana si distingueva da quella anima­ le soltanto per il lavoro. Almeno in linea di principio. In­ fatti non è rimasta traccia di altre attività umane impor-

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tanti. La caccia non era infatti un lavoro, nel senso in cui la parola presuppone il calcolo ponderato nell’esecuzio­ ne: era un prolungamento dell’attività animale. Verosi­ milmente, nelle epoche che precedettero l’arte (la figura­ zione), la caccia poteva sostanzialmente definirsi umana soltanto per le armi usate. Solo perché lavorava la pietra l’uomo si separò, in maniera assoluta, dall’animale. Egli si distinse dall’animale nella misura in cui il pensiero umano gli fu donato dal lavoro. Il lavoro iscrive nell’av­ venire, anticipa, l’oggetto che ancora non esiste, che vie­ ne fabbricato, e in vista del quale unicamente esso viene svolto. Nella mente dell’uomo esistono quindi due cate­ gorie di oggetti: quelli presenti e quelli a venire. L’ogget­ to passato completa immediatamente questo aspetto già duplice e in tal modo l’esistenza degli oggetti va profi­ landosi compiutamente nella mente. Il linguaggio intelli­ gibile è possibile, al di là dei latrati del desiderio, nel mo­ mento in cui, designando l’oggetto, esso si rapporta im­ plicitamente al procedimento con cui l’oggetto è realiz­ zato, al lavoro che muta lo stato originario assicurando­ ne l’utilizzo. A partire da questo momento il linguaggio situa stabilmente l’oggetto nello scorrere del tempo. Ma l’oggetto strappa colui che lo designa alla sensibilità im­ mediata. L’uomo ritrova il sensibile solo se, mediante il suo lavoro, crea, al di là delle opere utili, un’opera d’arte.

LA C O NO SCENZA E L’INTERDETTO DELLA M ORTE

Tuttavia, fin dall’inizio e prima della nascita dell’arte, il lavoro ebbe una conseguenza decisiva. Riferendosi a se stessi, quegli esseri che fabbricavano, che creavano oggetti, che impiegavano utensili durevoli compresero che sarebbero morti, che in loro vi era qualcosa che non resisteva, mentre gli oggetti resistono al fuggire del tem­ po. Qualcosa non resisteva... qualcosa sfuggiva loro... La coscienza della morte si impose così sin dai tempi più antichi, alla fine dei quali troviamo l’uso dell’inumazione. In Europa e in Palestina sono state scoperte alcune sepolture di adulti e di bambini risalenti alla fine del Pa-

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leolitico medio. Non precedono di molto la comparsa dell 'Homo sapiens, tuttavia gli scheletri che vi si trovano appartengono alicorno incompiuto di Neandertal. Po­ tremmo credere che queste reazioni tardive annuncino il passaggio a un periodo differente dell'umanità. Ma l'Homo sapiens non succedeva in linea diretta alicorno di Neandertal, che è solo un suo lontano parente (deri­ vando, così sembra, da un ramo collaterale). Inoltre le inumazioni dei corpi facevano seguito a comportamen­ ti più generalizzati, più antichi, delle età precedenti, che sovente avevano il solo cranio come oggetto. Il cranio era la parte del corpo che nella morte doveva continua­ re a rappresentare Tessere che Tabitava. Gli oggetti po­ tevano cambiare, ma qualcosa sopravviveva al loro mu­ tamento: il cranio, dopo la morte, era pur sempre l’uomo con cui i sopravvissuti avevano avuto rapporti un tempo. Per quegli esseri primitivi il cranio costituiva un oggetto imperfetto, manchevole, che in un certo senso era quell’uomo, ma al tempo stesso non lo era più: era infatti morto e il suo cranio rispondeva solo con un ghi­ gno all’interrogazione di uno spirito che la manipola­ zione degli oggetti fabbricati aveva abituato alla perma­ nenza di ciò che esiste. Da un certo numero di simili ri­ trovamenti, appartenenti a diverse epoche del Paleoliti­ co medio e inferiore, in cui alcuni crani sembrano esser stati accuratamente preservati, possiamo dedurre che l’umanità di quelle epoche remote già avesse della mor­ te un oscuro sentimento. Così la lunga fase dell’essere larvale che precedette lo schiudimento non sembra es­ ser rimasta estranea a questa fondamentale conoscenza: questo essere si arrestava davanti all’oggetto privilegia­ to - la testa di un suo simile - che era sì l’uomo in pre­ cedenza conosciuto, ma che al tempo stesso annunciava che non era più, che era morto. Apparentemente l’uomo di Neandertal conobbe della vita umana soltanto Γattività utile che implica la capacità di discernere. Se, dopo così lungo tempo, possiamo espri­ mere un giudizio al riguardo, la morte riconosciuta come tale introduceva nella coscienza di quegli uomini qualcosa



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di diverso rispetto agli oggetti distinti e limitati che li cir­ condavano. Ma la morte potè anche - e certo dovette - ap­ portare un elemento puramente negativo: quella sorta di immensa incrinatura che non ha mai cessato di aprirci ad altre possibilità, diverse dall’azione efficace: possibilità che rimasero in apparenza inesplorate fino all’apparizione dell’uomo «dal collo di cigno», I’Aurignaziano. L’umani­ tà precedente si era limitata, così sembra, a tradurre in in­ terdetto il sentimento che la morte gli ispirava. Questo è quel poco che in linea di principio è possi­ bile dire della notte che l’aurora di Lascaux dissipò. Potevo esprimere il significato di questa aurora soltan­ to parlando, preliminarmente, della notte che la prece­ dette. Ma prima di parlare finalmente del giorno, devo insistere su questo elemento di interdetto che, a quanto sembra, venne deciso nel tempo della notte. Ritengo vi sia una lacuna nelle considerazioni che vengono solitamente fatte sui tempi preistorici. Gli stu­ diosi esaminano i documenti che una pazienza e un la­ voro immensi hanno accumulato e che la loro sagacia ha classificato. Li commentano tenendo conto delle condi­ zioni in cui vissero gli uomini oggetto dei loro studi. Tut­ tavia seguendo il solo metodo che si addice a una disci­ plina specialistica, essi si limitano a riflettere su quei do­ cumenti che costituiscono il loro ambito specifico. Non pongono, nel suo insieme, la questione del passaggio dall'animale all’uomo, dalla vita indistinta alla coscien­ za. Una tale questione appartiene a un ambito diverso, per definizione sospetto alla scienza: ed essendo, in ef­ fetti, la psicologia una disciplina equivoca, la questione appartiene all’ambito della filosofia. Di conseguenza, è ovvio, lo scienziato deve escluderla. Ma una simile lacu­ na potrebbe rimanere senza conseguenze? Da parte loro i sociologi rivolgono la riflessione sui fatti etnografici, che vengono osservati e documentati minutamente da coloro che studiano le popolazioni arcaiche. Così essi parlano di tabù precisi, sovente del tutto assurdi, riferi­ ti a un aspetto particolare. Ma trascurano un fatto gene-

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Il «liocorno», animale immaginario (lunghezza m 2,40), e cavallo bruno mutilato. Grande sala, parete sinistra, nn. 2 e 4 [p. 69].

rale: la differenza tra animale e uomo, se considerata nel suo insieme, non riguarda soltanto i caratteri intellettua­ li o fisici, ma anche gli interdetti a cui gli uomini si cre­ dono tenuti. Gli animali si distinguono più radicalmen­ te dall’uomo probabilmente in questo: per l’animale non esiste interdetto; il dato naturale limita l’animale, ma mai l’animale limita se stesso. Tuttavia i sociologi - o gli storici della religione - non concepiscono, in linea di principio, che i numerosi interdetti che essi citano, e che sovente studiano, non debbano dipendere da spiegazio­ ni particolari, che essi dipendano da una spiegazione globale, che chiama in causa nel suo insieme il passaggio dallo stato animale, in cui l’interdetto non può operare, allo stato umano, in cui evidentemente è il fondamento dei comportamenti umanizzati. Ancora una volta, il so­ ciologo e lo storico delle religioni prendono in conside­ razione solo particolari tabù, senza preliminarmente dir­ si che, generalmente, senza interdetto, non vi è vita uma­ na. A maggior ragione, anche gli studiosi di preistoria non si pongono la questione, dato che non riscontrano mai, nel loro ambito, alcun documento che testimoni l’esistenza di un interdetto.

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Tuttavia l’attenzione di cui furono oggetto i cadaveri, 0 più in generale i resti umani - presente, come abbiamo visto, molto tempo prima del Paleolitico superiore, ma le cui testimonianze sono più numerose in quest’epoca -, è sufficiente a dimostrare che i comportamenti umani ri­ guardo alla morte sono primitivi e quindi fondamentali. Evidentemente essi implicavano fin dall’origine un sen­ timento di paura o di rispetto: in ogni caso, un senti­ mento forte che rendeva i resti umani diversi da tutti gli altri oggetti. Questa diversità si contrappose sin dal pri­ mo momento all’indifferenza da parte dell’animale. Per la prima volta il comportamento dell’uomo nei confron­ ti dei morti fa percepire la presenza di un valore nuovo: 1 morti, almeno nel loro volto, affascinarono i viventi, che si sforzarono di vietarne la vicinanza, ponendo limi­ ti a quei normali movimenti che un qualunque oggetto autorizza attorno a sé. L’interdetto consiste proprio in questa limitazione affascinata, imposta dall’uomo al mo­ vimento degli esseri e delle cose. Gli oggetti deputati a un tale sentimento di terrore sono sacri. L’antichissima attitudine degli uomini riguardo ai morti indica che era iniziata la classificazione fondamentale degli oggetti: da una parte quelli ritenuti sacri e interdetti, dall’altra quel­ li considerati profani, illimitatamente maneggiabili e ac­ cessibili. Questa classificazione domina i moti costituti­ vi dell’umano, di fronte a cui ci pone lo studio di quei tempi lontani, di cui Lascaux rimarrà il momento privi­ legiato, quello dell’uomo finalmente compiuto.

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SOLIDALE DEG LI INTERDETTI

Il mondo di Lascaux, così come ci sforziamo di in­ travederlo, è innanzi tutto il mondo che ordinò il senti­ mento dell’interdetto: non potremmo penetrarlo se non lo percepissimo sotto questa luce fin dall’inizio. Non potremmo d’altronde limitarci, su questo piano, a tener conto del divieto legato al terrore della morte, di cui il sottosuolo ha conservato traccia. Le ossa sono giunte sino a noi: le ritroviamo nella posizione in cui fu-

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rono lasciate e possiamo così conoscere quale atteggia­ mento assunsero nei loro confronti gli uomini vissuti mi­ gliaia di anni fa. Non è così per altri comportamenti, non meno fondamentali, che hanno anch’essi contrapposto questi stessi uomini agli animali. Gli interdetti umani fondamentali formano due gruppi: il primo legato alla morte, l’altro alla riproduzione sessuale e quindi alla na­ scita. Quanto al primo gruppo, i ritrovamenti preistorici attestano soltanto l’interdetto nei confronti della spoglia mortale. Ma nulla può fornirci - in positivo o in negati­ vo - informazioni sull’esistenza alla stessa epoca dell’in­ terdetto relativo alPomicidio, universale nel suo princi­ pio, e che, come il precedente, è rapportato alla morte. Il secondo gruppo, più variegato, riunisce l’incesto, le pre­ scrizioni che riguardano i periodi critici della sessualità femminile, il pudore in generale, gli interdetti concer­ nenti la gravidanza e il parto. Ovviamente non abbiamo alcuna testimonianza risalente a tempi precedenti l’Età della renna e anche per quest’epoca non possediamo do­ cumenti figurativi in grado di fornirci informazioni, po­ sitive o negative, dirette o indirette. Tuttavia siamo teo­ ricamente certi dell’esistenza universale dei due insiemi di interdetti: su questo c’è un generale accordo tra i do­ cumenti storici e le osservazioni etnografiche. Se ora af­ fermassi che, nel loro insieme e almeno nel loro fonda­ mento, tutti questi interdetti risalgono, come quello con­ cernente la morte, a tempi di molto precedenti l’Età del­ la renna, non potrei provarlo categoricamente. (Ma vice­ versa nessuno potrebbe dar prova del contrario, della lo­ ro inesistenza a questa data.) Mi appello dunque alla coerenza relativa dei moti dello spirito umano. Solo uno scetticismo vago, indifferente, potrebbe contestare che la coscienza della morte, o l’attenzione estrema data al corpo privo di vita, derivi necessariamente dal lavoro. Possiamo, persino dobbiamo dubitare metodicamente del legame tra l’interdetto dell’omicidio e quello che sot­ traeva il cadavere dei congiunti al contatto degli animali o degli altri uomini. Ma è solo la reazione fondamentale a essere importante. Lo stesso vale per l’insieme degli in­ terdetti sessuali, che completa, essendone esattamente il

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contrario, quello che ha per oggetto la morte.'Non pos­ siamo in nessun modo porci la questione riguardante l’origine in tempi più remoti dell’interdetto dell’incesto o di quello del ciclo mestruale. L’unica questione che po­ niamo riguarda la possibilità di un comportamento pri­ mario e non le forme particolari che esso assunse all’ini­ zio. Dobbiamo solo chiederci se un tale comportamento non sia, come quello causato dalla morte, una conse­ guenza inevitabile del lavoro. Si tratta di sapere se in un mondo creato dal lavoro, i cui inizi risalgono al periodo compreso tra la glaciazione di Giinz (la prima) e quella di Mindel (la seconda delle grandi glaciazioni del Qua­ ternario), l’attività sessuale non dovesse, come la morte, apparire in definitiva totalmente altra. Totalmente altra rispetto al lavoro e al regolare ripetersi di relazioni di­ stinte che esso introduceva tra gli uomini e gli oggetti, così come tra i diversi esseri umani. Considerando l’in­ sieme degli interdetti che generalmente provocano rea­ zioni d’arresto - e di angoscia - davanti a quanto d ’im­ provviso s’annuncia totalmente altro, l’insieme delle in­ formazioni storiche ed etnografiche ci mostra un uma­ nità sempre in accordo con noi su questo punto: per l’inte­ ra umanità conosciuta, il mondo del lavoro si oppone a quello della sessualità e della morte. Per l’umanità della più remota preistoria, che ci ha lasciato tracce ridottissi­ me, si poteva fare luce solo su questo punto. Ma non sia­ mo legittimati a fare in quest’ambito ciò che fa la pa­ leontologia, ossia ricostruire l’insieme a partire dal fram­ mento isolato? Ciò che turba un ordine di cose essenzia­ le al lavoro, ciò che non può essere omogeneo al mondo degli oggetti stabili e distinti, ossia la vita che sparisce o che comincia, doveva essere situato a parte, e considera­ to, a seconda dei casi, nefasto, perturbante, sacro. A ben vedere non esiste una distinzione precisa tra il sessuale e il sacro. Più lontano nel tempo, cogliamo qualcosa di maggiormente strano: quest’ambito inquietante, che an­ cora ci domina, può ridursi a quello della vita animale che non è sottoposta al lavoro. E l’ambito al cui fascino obbediamo in questo libro: quello della caverna di Lascaux.

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IL SUPERAM ENTO DEGLI INTERDETTI: IL G IO C O , L’ARTE E LA RELIG IO NE

Oggetto di questo libro è la nascita dell’arte, di cui Lascaux ci offre oggi l’immagine più avvincente, l’aspet­ to più ricco, il più emozionante. Ma ancora una volta non possiamo separare il significato della nascita dallo stadio larvale che l’ha preceduta. L’uscita da un tale stadio ha un significato fondamentale, anche se in seguito dovremo prendere in con­ siderazione, in rapporto alla parte svolta dal gioco, che sola, propriamente parlando, ha valore d ’arte, la parte attribuibile all’intenzione magica, e attraverso di essa il ruolo svolto dal calcolo interessato. Gli studiosi di preistoria, che hanno discusso l’importanza relativa del gioco e dell’intenzione magica, sono oggi concordi nel riconoscere che entrambi hanno svolto un ruolo attivo. Temo tuttavia che l’intenzione magica e, per suo trami­ te, l’interesse, abbiano sovente preso il sopravvento nelle loro concezioni. Mi sembra che abbiano sempre la tendenza, forse per timidezza, a parlare con riserva, in via subordinata, degli elementi di libera creazione e di festa che queste immagini in qualche modo divine potevano rappresentare per coloro che le raffiguraro­ no. Essi pongono l’accento sulla preoccupazione di raggiungere, nei modi definiti dalla magia simpatetica, il risultato auspicato nella caccia, rappresentando so­ vente animali già trafitti dalle frecce. Senza alcun dub.bio dobbiamo accettare l’esistenza di un’intenzione strettamente materiale, perseguita attraverso la sugge­ stione di queste pitture. Nello spirito degli uomini di Lascaux la magia probabilmente ebbe una parte simile a quella che essa riveste nei popoli studiati dalla storia antica e dall’etnografia. È tuttavia opportuno criticare la consuetudine di attribuire un’importanza eccessiva a questa volontà di azione efficace. Dobbiamo infatti ri­ conoscere che in una qualsiasi operazione rituale la ri­ cerca di un fine preciso non svolge mai un ruolo esclu­ sivo nelle intenzioni di coloro che agiscono: esse coin­ volgono sempre l’intera realtà, religiosa e sensibile

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(estetica). Ovunque esse implicano ciò che in maniera costante costituì il fine dell’arte: la creazione di una realtà sensibile modificante il mondo in risposta al desi­ derio di prodigio, implicito nell’essenza dell’essere uma­ no. Come non vedere la debole forza delle intenzioni particolari nella singola opera d ’arte, se si considera la costanza e l’universalità di questo fine artistico? Esiste forse un’opera d’arte che sia riuscita a sfuggirgli? Di conseguenza dobbiamo sempre trascurare ciò che nel­ l’opera d’arte costituisce l’elemento isolato, meschino. L’elemento isolato non sopravvive, mentre la volontà di prodigio riesce sempre a esser percepita da chi può tra­ scurare l’intenzione caduta nell’oblio. Che importanza ha, in definitiva, se ignoriamo quale preciso significato avessero, per coloro che li edificaro­ no, i prodigiosi allineamenti di pietre erette? Essi li vol­ lero prodigiosi: ed è proprio per questo che la volontà di chi li innalzò ancora vive e ci colpisce nel profondo del cuore. Lo stesso non avviene forse per questi dipin­ ti, peraltro non tutti riconducibili all’interpretazione classica della preistoria? Che significato ha, ad esem­ pio, il «liocorno» di Lascaux al cui cospetto ci trovia­ mo entrando nella caverna, e che rappresenta un ani­ male immaginario? Che significato ha la scena in fondo al pozzo dove, di fronte a un bisonte che perde le sue viscere, giace un uomo inanimato? Anche altre figure preistoriche non sono riconducibili alla semplicità cal­ colatrice della magia. Perché dovremmo, in queste oscure origini, trovare sempre una spiegazione per tu t­ to? Infatti appare chiaro che l’arte di imitare per mezzo dell’incisione o della pittura l’aspetto degli animali non potè servire a qualcosa prima di essere e che, per essere, fu necessario che coloro che vi si esercitarono per primi siano stati spinti a farlo casualmente e per gioco. E pos­ sibile che l’imitazione di grida o di comportamenti ab­ bia indotto a tracciare delle figure su una superficie. Questa possibilità è deducibile dall’interpretazione del­ le linee scavate dalle dita nell’argilla, spesso da più dita insieme, o disegnate sulla roccia da dita intinte nel co­ lore. Nelle caverne, in particolare a La Baume-Latrone,

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sono state trovate tracce di questo tipo di esercizi che gli studiosi hanno denominato «maccheroni». Talvolta queste linee assumono forma. Ma anche le linee casuali delle superimi rocciose hanno potuto divenire il punto di partenza di un’interpretazione; è il caso del meravi­ glioso cervide della grotta Bayol, a Collias, nel Gard. Questa figura, che probabilmente risale al tempo dei «maccheroni» della vicina grotta di La Baume-Latrone, è tracciata a partire dai rilievi naturali della parete, che il colore ha sottolineato in maniera discreta. Solo il gioco poteva in primo luogo condurre a questi balbet­ tamenti. La calma, l’intenzione di un agire efficace, non poterono che servirsi di quanto loro offriva il gioco. L'Homo faber degli antropologi (l’uomo del lavoro) non si è avventurato in questa via su cui avrebbe potuto spingerlo il gioco. Solo YHomo sapiens (l’uomo della co­ noscenza), che venne dopo di lui, potè percorrerla. Lo fece in maniera così risoluta che un’arte colma di mae­ stria - di genio - non tardò a scaturire dai primi tentati­ vi. Chiamiamo Homo sapiens colui che dischiuse in que­ sto modo l’orizzonte limitato dell 'Homo faber. Ma que­ sto suo nome non è giustificato. Quel poco di conoscen­ za che si produsse all’inizio si deve al lavoro del faber. L’apporto del sapiens è paradossale: è l’arte e non la co­ noscenza. Il suo nome testimonia a favore di quel tempo in cui in maniera più esclusiva di oggi si ammetteva che la conoscenza distinguesse l’uomo dall’animale... Se par­ liamo dell’uomo dell’Età della renna, in particolare del­ l’uomo di Lascaux, lo distinguiamo con più esattezza da colui che lo ha preceduto insistendo non sulla conoscen­ za ma sull’attività estetica che è, nella sua essenza, una forma di gioco. Indubbiamente la bella espressione di Huizinga, Homo ludens (l’uomo che gioca, in particola­ re il gioco mirabile dell’arte), gli converrebbe meglio, e persino è l’unica a convenirgli. Solo essa risponderebbe con la dovuta precisione al faber di Neandertal. Il faber restava contratto. Il suo slancio non aveva trionfato sul­ la pesantezza delle forme quadrupedi. Quanto a pesan­ tezza era affine all’antropoide. L’aspetto riuscito (che

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viene anche sottolineato, per opposizione, dagli scarti, dalle brutture così frequenti dell’umanità), il portamen­ to risoluto, sovrano, dell’uomo che ride e seduce, dell’uomo-gioco, cominciano con colui che l’antropologia non ha saputo sin qui chiamare in maniera appropriata e a cui soltanto Huizinga è riuscito a dare un nome ade­ guato. Huizinga lo ha dimostrato: il nome di Homo lu­ dens non conviene soltanto a colui che con le sue opere donò alla verità umana la virtù e lo splendore dell’arte, ma esso designa con esattezza l’umanità intera. Inoltre, non è forse il solo nome che oppone a faber, designante un’attività subordinata, un elemento, il gioco, il cui sen­ so non dipende da un altro fine che se stesso? Infatti fu quando l’uomo giocò e seppe, giocando, attribuire al gioco la permanenza e l’aspetto meravigliosi dell’opera d’arte, che l’uomo assunse l’aspetto fisico a cui la sua fie­ rezza resterà legata. Il gioco non può ovviamente essere la causa dell’evoluzione, ma non c’è dubbio che la pe­ santezza neandertaliana coincida con il lavoro e l’uomo liberato coincida con il fiorire dell’arte. Certo, nulla pro­ va che il gioco non abbia in qualche misura alleggerito l’umanità larvale: ma essa non ha avuto la forza di crea­ re questo universo umano del gioco che legò il significa­ to dell’uomo a quello dell’arte, che ci liberò, foss’anche fugacemente, dalla triste necessità, e ci fece accedere in qualche modo a quello splendore meraviglioso della ric­ chezza, per il quale ognuno si sente nato.

l ’i n t e r d e t t o e l a t r a s g r e s s i o n e

Conviene tornare - dopo aver precisato il significato dei termini - su un’opposizione fondamentale. Ora pos­ so indicare con maggior forza le conseguenze del supe­ ramento, dell’ampiezza e della realtà del gioco. Ho già sottolineato la relazione tra interdetti e lavo­ ro: gli interdetti mantengono - se è possibile e nella mi­ sura in cui è possibile - il mondo organizzato dal lavo­ ro al riparo dai turbamenti incessantemente introdotti dalla morte e dalla sessualità, ossia dalPanimalità persi-

L UOMO DI LASCAUX

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stente in noi, prodotto incessante della vita e della na­ tura, che sono come un fango da cui usciamo. Quando, nel Paleolitico superiore, durante l’Età della renna, il la­ voro fu superato dal gioco, sotto forma di attività arti­ stica, essa stessa era primariamente lavoro, ma un lavo­ ro che assumeva in questo modo il significato di un gio­ co. Durante questo disgelo, anche l’interdetto, genera­ to dal lavoro, venne intaccato. L’interdetto, questo scandalo dello spirito, questo tempo d’arresto e di stu­ pore, non poteva semplicemente cessare d’esistere. Lo scandalo, lo stupore continuavano ad agire, ma la vita li superava così come il gioco superava il lavoro. Per quanto riguarda i tempi preistorici non abbiamo, non possiamo evidentemente avere, testimonianze precise: ne possediamo numerose riguardanti l’umanità che la storia o l’etnografia ci fanno conoscere, e indicano chia­ ramente che un movimento di trasgressione è la contropartita necessaria dell’arresto, dell’arretramento provo­ cati dall’interdetto. Ovunque la festa segnava il mo­ mento improvviso della sospensione di quelle regole di cui normalmente si sopportava il peso: la festa lasciava libero sfogo alla licenza. Non tutti gli interdetti erano sospesi, nessuno lo era per intero, ma lo erano alla loro fonte e in alcuni loro effetti. La festa era essenzialmen­ te un tempo di relativa licenza. Riguardo all’Età della renna, dobbiamo desumere l’esistenza di simili momen­ ti, dobbiamo fare ancora una volta ciò che la paleonto­ logia fa con i fossili: ricomporre l’insieme a partire da frammenti. Non potremmo nemmeno provare che la trasgressio­ ne, nelle epoche precedenti, non avesse effetto, non esi­ stesse. Intendiamoci, parlando di trasgressione non in­ dico il caso in cui, per impotenza, l’interdetto non ha ef­ fetto. Una regola non sempre è efficace: essa può non es­ ser rispettata; in tal caso l’individuo, che non è colto dal­ l’angoscia, ha l’indifferenza della bestia. Questa tra­ sgressione dovuta all’indifferenza, e che non è realmen­ te trasgressione quanto piuttosto ignoranza della legge, dovette sicuramente essere comune al tempo in cui gli interdetti cominciarono a farsi sentire pur senza imporsi

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LASCAUX O LA NASCITA DELL*ARTE

Cavalli del secondo gruppo; navata, parete sinistra, n. 63 bis [p. 93]. Alle pagine precedenti: teste di due vacche; soffitto del diverticolo, nn. 24, 23 [p. 72].

sempre con la necessaria chiarezza. Ritengo si debba ri­ servare il nome di trasgressione al movimento che si produsse non per mancanza di angoscia, e a causa di un’insufficiente sensibilità, bensì, al contrario, malgrado l’angoscia provata. Nella trasgressione autentica l’an­ goscia è profonda ma, nella festa, l’eccitazione la supe­ ra e la sospende. La trasgressione di cui parlo è la tra­ sgressione religiosa, legata alla sensibilità estatica, che è la fonte dell’estasi e il fondamento della religione. Essa si lega alla festa, di cui il sacrificio è un momento di pa­ rossismo. L’antichità vedeva nel sacrificio il crimine di colui che, nel silenzio angosciato di chi assisteva, inflig­ geva alla vittima la morte, il crimine in cui il sacrificatore, con consapevolezza e angoscia, violava il divieto dell’omicidio. Importa qui rilevare che, nella sua essen­ za e nella pratica, l’arte esprime questo momento di trasgressione religiosa, che è la sola a esprimerlo con la dovuta gravità e che ne è l’unico esito. È lo stato di tra­ sgressione che il desiderio comanda, l’esigenza di un mondo più profondo, più ricco e prodigioso, ossia l’esigenza di un mondo sacro. La trasgressione si tra-

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dusse sempre in forme prodigiose: nelle forme della poesia e della musica, della danza, della tragedia e della pittura. Le forme dell’arte hanno come unica origine la festa, e la festa, che è religiosa, si lega al dispiegamento di tutte le risorse dell’arte. Non possiamo concepire un’arte indipendente dal movimento che genera la festa. Il gioco è quindi la trasgressione della legge del lavoro: l’arte, il gioco e la trasgressione esistono solo legati in­ sieme, in un unico movimento di negazione dei princìpi che presiedono alla regolarità del lavoro. Questa fu ap­ parentemente la maggior preoccupazione delle età pri­ mitive - come lo è ancora delle società arcaiche -, ossia far coesistere il lavoro e il gioco, l’interdetto e la tra­ sgressione, il tempo profano e lo scatenamento della fe­ sta, in una sorta di equilibrio precario, in cui incessante­ mente i contrari si compongono, in cui il gioco stesso as­ sume aspetto di lavoro, e in cui la trasgressione contri­ buisce all’affermazione dell’interdetto. Asseriamo con una certa sicurezza che nel suo autentico significato la trasgressione sussista solo a partire dal momento in cui l’arte stessa si manifesta e che la nascita dell’arte, du­ rante l’Età della renna, coincida con un tumulto di gio­ co e di festa, annunciato nelle profondità delle caverne da queste figure in cui esplode la vita, che sempre supe­ ra se stessa e che si avvera nel gioco della morte e della nascita. E poiché la festa mette in opera ogni risorsa dell’uomo e poiché queste risorse assumono in essa la forma d’arte, essa deve aver necessariamente lasciato qualche traccia. In effetti ne abbiamo solo dall’Età della renna, non pri­ ma. Sono, come già ho detto, tracce frammentarie, ma se le interpretiamo nello stesso senso degli studiosi di prei­ storia (che ammettono l’esistenza della festa all’epoca delle pitture rupestri), esse forniscono all’ipotesi da noi formulata un carattere così accentuato di verosimiglian­ za che possiamo basarci su di essa. E anche supponendo che la realtà differisse dalla ricostruzione da noi tentata, lo farebbe solo in parte, e anche se un giorno apparisse qualche nuova verità, sono certo che potrei riconfermare, con poche varianti, quanto ho detto.

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La realtà della trasgressione non dipende da dati pre­ cisi. Se ci sforziamo di dare una spiegazione particolare di un’opera, potremmo ad esempio affermare - e lo si è fatto - che una belva sia stata incisa in una caverna per allontanare gli spiriti. Ogni fatto deriva sempre da un’in­ tenzione pratica particolare, che si aggiunge a quella ge­ nerale che ho voluto cogliere descrivendo le condizioni fondamentali del passaggio dall’animale all’uomo, ossia l’interdetto e la trasgressione mediante la quale l’inter­ detto è superato. Queste condizioni sono ancora quelle della nostra vita, ed è attraverso di esse che la vita uma­ na viene definita, poiché senza di esse è inconcepibile. Contestare questo fatto rivelerebbe l’ignoranza sostan­ ziale dello spirito di trasgressione. Queste condizioni do­ vevano essere presenti fin dall’origine, anche se l’inter­ detto precedette necessariamente la trasgressione. La parte d’ipotesi da me introdotta si limita a situare il pas­ saggio dall’interdetto alla trasgressione, ossia a partire dal momento in cui la trasgressione, concedendosi libe­ ro corso in un movimento di festa, ottenne finalmente anche nell’ambito dell’attività pratica la posizione emi­ nente che la religione le attribuì. Un tale principio non deve esser contrapposto alle interpretazioni precise che ogni singola opera suscita. Un’opera d ’arte, un sacrifi­ cio, partecipano, a mio avviso, di uno spirito di festa che supera il mondo del lavoro e, se non proprio la let­ tera, almeno lo spirito degli interdetti necessari a pro­ teggere questo mondo. Ogni singola opera d ’arte ha un significato indipendente dal desiderio di prodigio che l’accomuna a tutte le altre. Ma possiamo affermare che un’opera d ’arte in cui non si percepisce questo deside­ rio, o dove è debole e agisce appena, è un’opera medio­ cre. Parimenti, ogni sacrificio ha un significato preciso, come l’abbondanza dei raccolti, l’espiazione, o qualsia­ si altro fine logico: ha risposto comunque in una qual­ che maniera alla ricerca di un istante sacro, che supera il tempo profano in cui gli interdetti assicurano la pos­ sibilità della vita.

DESCRIZIONE DELLA CAVERNA

MAPPA DELLA CAVERNA DI LASCAUX

I numeri corrispondono a quelli utilizzati da Fernand Windeis in Laseaux, « Chapelle Sixtine» de la Préhistoire; gli stessi riferimenti numerici sono stati applicati alle immagini qui riprodotte.

LEGENDA P e r im e tr o d e lla c a v e rn a al s u o lo L in e a d e l le p ittu r e e d e lle in c is io n i

SCALA:

0.005

Alle pagine precedenti: vista generale della grande sala dei tori; qui sopra: la parete sinistra e la destra della stessa sala.

NEL LU O G O DELLA NO STRA NASCITA...

Meraviglia agli occhi del visitatore che proviene dalle città industriali del suo tempo; ma ancor più meraviglia agli occhi degli uomini che ne decisero la magnificenza: tale appare la caverna di Lascaux, che ci riporta indietro nel tempo, ai nostri primi balbettamenti. (Tuttavia questo luogo della nostra nascita non è stato celebrato come merita. Forse gli studiosi di preistoria peccano ancora di una sorta di pudore: non hanno abba­ stanza magnificato una scoperta che spetta loro - al di là di quella fatta da alcuni ragazzi.) Non possiamo in nessun modo separare questi dipinti dai loro autori e più in generale dagli uomini che per pri­ mi hanno provato meraviglia ammirandoli e che, per quanto è in suo potere, lo studio della preistoria ci fa co­ noscere. Entrando nella caverna potremmo forse misco­ noscere il fatto che, in condizioni inusuali, siamo nelle vi­ scere della terra, come smarriti «alla ricerca del tempo perduto»...? Ricerca vana, è vero: mai nulla ci permetterà di rivivere autenticamente questo passato che si perde nel­ la notte. Ma vana anche perché il desiderio umano non è mai appagato, tendendo sempre verso una meta che si sot­ trae: la tensione comunque è possibile e noi dobbiamo ri­ conoscerne l'oggetto. Ci importerebbe poco di ciò che que­ sti morti ci hanno lasciato, se non sperassimo di farli rivi­ vere in noi per un inafferrabile istante.

LA GRANDE SALA DEI TORI

Senza illusioni, con leggerezza, senza impazienza dob­ biamo aver coscienza che a Lascaux questi gradini che ci conducono sottoterra ci portano sulle tracce di esse­ ri lontani, appena emersi dalla notte animale.

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LASCAUX O LA NASCITA DELL’ARTE

Questi scalini conducono - al di là delle porte di bronzo recentemente installate per proteggere le pittu­ re dall’aria - in una vasta sala, più lunga che larga. Non è peraltro sicuro che gli uomini preistorici entrassero nella caverna da questo lato. Forse vi accedevano da un ingresso oggi scomparso e che, secondo l’abate Breuil, è possibile localizzare « sul lato destro, verso il pozzo». Va tuttavia precisato che lo stesso abate Breuil lo consi­ dera un «ingresso ipotetico, di cui nessuno conosce l’ubicazione». Che vi accedessero o meno direttamen­ te, la «grande sala» doveva essere per quegli uomini, come lo è per noi, la parte più importante della caver­ na, sia per la sua ampiezza che per la ricchezza e la bel­ lezza dei suoi dipinti. È larga una decina di metri e lun­ ga una trentina, ma la disposizione, l’ordine, in verità disordinato, del fregio che in essa si snoda dà l’im­ pressione di trovarsi in una sorta di rotonda; una ro­ tonda che, dal lato dell’entrata, sarebbe stata ampia­ mente aperta. La disposizione della sala si deve soltan­ to al caso, ma le sue proporzioni sono così belle che

Primo toro (altezza dal ginocchio m 3,10), cavallo rosso e cavalli bruni. Grande sala, parete sinistra, n. 9 [p. 66].

DESCRIZIONE DELLA CAVERNA

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nessuno potrebbe immaginare un qualche cambiamen­ to per migliorarle. Non esiste sala dipinta che presenti un insieme più felice. Di Lascaux si è detto che è la «Cappella Sistina della preistoria» (ma lo si era già detto di Altamira). Eppure, a mio avviso, la Sistina, do­ ve le figure sono indubbiamente più drammatiche, of­ fre una composizione più convenzionale: il fascino, l’imprevisto sono a Lascaux. Questa sala è decorata, nella parte di fronte all’ingresso, da un lungo fregio animale dominato da quattro tori giganteschi. Queste sbalorditive figure - una di esse misura più di cinque metri - si sviluppano in tutta la loro lunghezza su en­ trambe le pareti per ritrovarsi e fronteggiarsi sul lato si­ nistro della sala. Quasi a metà si apre una lunga galle­ ria, relativamente poco tortuosa, ma la cui entrata non interrompe lo svolgersi movimentato del fregio, in cui è riunito un popolo di animali aggrovigliati che riempio­ no tutto lo spazio disponibile. La regolarità della com­ posizione è assicurata dalla regolarità della parete di­ pinta della sala: la superficie utilizzabile, relativamente

Secondo toro (lunghezza m 3,50); in basso, bovidé rosso che s’inginocchia. Grande sala, parete sinistra, n. 13 [p. 66].



LASCAUX O LA NASCITA DELL ARTE

Dettaglio della parete sinistra della grande sala, tra il primo e il secondo toro, nn. 9, io, 11, 12, 13 [p. 66\.

liscia, parzialmente ricoperta fin dall’origine da uno strato biancastro di calcite, comincia appena al di so­ pra del suolo, all’altezza della mano, e diviene sempre più ampia procedendo da sinistra verso destra, anche se l’occhio percepisce appena questa maggiore ampiez­ za della parte destra della parete dipinta. (Il soffitto, fi-

DESCRIZIONE DELLA CAVERNA



ncndo in una cupola ovale, si innalza, proprio al di so­ pra della parte liscia della parete, in una superficie irre­ golare che evoca l’interno di un guscio di noce.) Que­ sta disposizione circolare della superficie disponibile a essere dipinta ha facilitato il formarsi di un fregio a partire dalle pitture che progressivamente la ricopriro­ no. Così gli uomini che si avvicendarono nella compo­ sizione di queste figure, sebbene non avessero mai mi­ rato a un loro insieme, le disposero istintivamente in maniera tale che questo insieme alla fine prese forma. Verosimilmente le dipinsero in periodi molto diversi, e poiché nulla a quell’epoca lo impediva, sconfinarono sovente sulle parti dipinte in precedenza, anche se rara­ mente compromisero le figure già esistenti che contri­ buivano alla magnificenza della sala. Se cerchiamo di raffigurarci cosa rappresentasse per loro questa sala straordinaria, dobbiamo immaginare un certo numero - e in qualche occasione un grande numero - di piccole lampade a olio, formate da una coppa di pietra, con un effetto luminoso simile a quello delle candele in una chiesa, di notte. Del resto ritengo che l’illuminazione attuale (piuttosto ridotta per un in­ sieme di ragioni, soprattutto per il timore di un innal­ zamento della temperatura provocato dal calore di lampade potenti) differisca in minima misura da quella utilizzata nell’Età della renna durante eventuali ceri­ monie. Ma la luminosità elettrica è fredda, come senza vita; la fiamma dolce e vacillante delle candele è più vi­ cina a quella delle lampade paleolitiche. Delle riunioni che ebbero luogo in quella sala in grado di contenere un centinaio di persone assiepate, o poco più, non sappiamo nulla. Ma dobbiamo sup­ porre che le caverne dipinte, che non erano luoghi di abitazione (solo le parti più vicine all’aria aperta han­ no talvolta servito a questo scopo), affascinassero in ragione del terrore naturale che l’uomo prova per l’oscurità profonda. Il terrore è « sacro » e l’oscurità è religiosa: l’aspetto delle caverne contribuì al sentimen­ to di potenza magica, di intervento nell’ambito inac­ cessibile che era a quel tempo l’oggetto della pittura.

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Testa del primo toro. Grande sala, parete sinistra, n. 9 [p. 66].

Esso corrispondeva all·utile, ma al prezzo di un ango­ sciato abbagliamento... Le caverne hanno conservato qualcosa di emozio­ nante, che ammalia e stringe il cuore: per loro natura sono ancora luoghi propizi all’angoscia delle cerimonie sacre (i neri di Haiti le utilizzano ancora nei riti nottur­ ni vudù).

DESCRIZIONE DELLA CAVERNA

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Testa del secondo toro. Grande sala, parete sinistra, n. 13 [p. 66].

Il fascino angosciante che il pittore ricercava non ri­ chiedeva del resto la presenza di una folla. In molti ca­ si le figure di quest'epoca sono state dipinte (o incise) in anguste gallerie che non avrebbero potuto contenere molte persone, e talvolta - come a Lascaux, nel «gabi­ netto dei felini » - in recessi dove un solo uomo può pe­ netrare a fatica... Ma nella sala di Lascaux, così felice,

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ma anche così propizia al terrore religioso, sembra pro­ babile che si siano tenute delle riunioni. A ogni modo va sottolineata la cura con cui i pittori sembrano aver con­ servato a quel santuario la sua semplice e terribile mae­ stosità. I tori mostruosi che ne dominano la disposizio­ ne esprimono con forza questo sentimento. In seguito niente potè mai sconvolgere un tale ordi­ ne. Una serie di cavalli bruni al galoppo sulla parete si­ nistra ricopre, a tratti, i tori, ma solo quanto basta per segnalare che sono stati dipinti successivamente. Un bel cavallo rosso, dalla criniera nera e rigonfia, è dispo­ sto in modo tale che l’estremità delle sue frogie si situi tra le corna del secondo toro. Ma ne sono dipinte sol­ tanto la testa e l’insellatura, e la figura sfuma all’altezza delle corna del primo toro (l’abate Breuil è propenso a ritenere che non sia stato ultimato proprio per evitare che si sovrapponesse ai tori preesistenti). Questa di­ sposizione così frequente a Lascaux (nella grande sala e nel diverticolo assiale) probabilmente si spiega anche in altri casi per la medesima ragione. Nella grande sala singoli elementi si subordinano a un effetto d’insieme. Certo, un tale effetto si manifesta soltanto con il tra­ scorrere del tempo, non in maniera immediata, a parti­ re dalla composizione calcolata dei quattro tori... Calcolo che non può peraltro esser paragonato a quelli che l’arte avrebbe utilizzato in epoche posteriori. Potremmo persino distinguere, in un certo senso, un che di animalesco nella cieca sicurezza con cui i pittori di Lascaux, senza averlo mai concertato, raggiunsero un tale risultato. Anche gli imponenti bovidi rossi - di­ pinti, o ridipinti successivamente, a destra e a sinistra dell’ingresso del diverticolo - che sconfinano nelle zampe e nel petto dei tori, senza rovinare nulla della delicatezza dell’insieme, accentuano un sentimento di moltitudine (come se, necessariamente, queste pareti dovessero rispondere al sogno di un’abbondanza smi­ surata; inoltre gli animali rossi aggiungono varietà alla sala: la vacca a destra è rappresentata seguita da un vi­ tello, e il bovidé di sinistra s’accascia sulle ginocchia). Alcuni cervi della parete sinistra, la cui gracile eleganza

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Particolare del terzo toro (lunghezza totale m 3,80). Grande sala, parete destra, n. 13 [p. 66].

alleggerisce Γenorme composizione, sono stati accura­ tamente ricavati con una tecnica a riserva, nel momen­ to in cui venivano dipinti i tori. Uno solo di loro semiscompare nella massa del secondo toro. Un altro fu ri­ preso in seguito con una tinta diversa; il corpo, ridipin­ to in bistro, è delineato da un contorno; la testa, il col­ lo e le corna sono di un colore più scuro. Probabilmen­ te si voleva conferire all’animale un aspetto più natura-

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le: questo cambiamento finiva di arricchire una compo­ sizione di impressionante varietà. Un piccolo orso solitario fu incluso nel colore nero del terzo toro fino a scomparire nella parte bassa del petto del bovidé. Solo la testa è rimasta distinguibile forse a causa del rilievo della roccia utilizzata per mar­ carne il contorno; più in là è riconoscibile la linea del dorso, mentre in basso sporge una zampa con i suoi ar­ tigli. Un cavallo molto arcaico, semplicemente lineare (è uno dei primi dipinti della caverna), venne ricoper­ to, pur senza sparire del tutto, dall’animale indefinibile raffigurato sulla sinistra dell’entrata della sala: è rima­ sto leggibile nelle parti non colorate deU’immagine che si è sovrapposta a esso. Quest’ultima immagine deve essere esaminata a parte. Non è una delle più belle figure della caverna, ma una delle più strane. Si è soliti chiamarla «liocorno». Ma i due lunghi tratti paralleli che escono dalla fronte di que­ sto mostro singolare non corrispondono affatto all’unico corno della creatura fantastica del Medioevo. È stato pa­ ragonato ad altre figure immaginarie dell’Età della ren-

Cervo (lunghezza m 0,70). Grande sala, parete destra, n. 16. Dettaglio deirimmagine alla pagina precedente.

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na, come lo stregone (o il dio) della grotta dei Trois Frè­ res, anche se queste figure composite sono combinazioni di uomo e di animale. Forse è gratuito immaginare un travestimento umano per spiegare questa anomalia. Nel­ l’arte di quei tempi remoti, quando l’essere umano si dis­ simula sotto la maschera dell’animale, ciò che è specifi­ camente umano (le gambe, ad esempio) è indicato senza lasciare spazio al dubbio. Il « liocorno » di Lascaux, che non assomiglia a niente, è animale in ogni sua parte. «Per la massa del corpo e le zampe grosse» scrive l’abate Breuil «questa figura somiglia a un bovidé o a un rinoceronte; la coda molto corta farebbe propende­ re per quest’ultimo; i suoi fianchi sono marcati da una serie di larghe chiazze ovali a forma di O, il collo e la testa sono, in confronto al corpo, ridicolmente piccoli; il muso quadrato ricorda quello di un felino e dalla sua fronte si protendono due lunghi steli rettilinei, che ter­ minano con una sorta di pennello e non somigliano alle corna di nessun animale, a eccezione, come ha suggeri­ to Miss Bates, dell’antilope tibetana ( hodgsonii)... ».

Quarto toro (lunghezza m 5,50); in basso, vacca rossa seguita dal suo vitello. Grande sala, parete sinistra, n. 18 [p. 61].

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Possiamo solamente aggiungere che questa figura sembra sottrarsi al tema della magia e che in quest’arte naturalistica, ordinariamente posta sotto il segno del­ l’interesse, essa costituisce la componente fantastica, la componente onirica, che non è stata determinata né dalla fame né dal mondo reale. E qualora volessimo prendere in seria considerazione l’ipotesi di un trave­ stimento, dovremmo pensare a qualche creatura so­ vrannaturale, nata dall’immaginazione religiosa. Non è certo il travestimento di un cacciatore che vuole ingan­ nare la preda. È dunque inutile introdurre tra il dipinto e la finzione un’immagine intermedia, ossia quella di un costume che avrebbe mascherato uno o più uomini. Qualsiasi cosa sia, dinanzi a questa forma immaginaria non possiamo più cogliere la determinazione costante e necessaria di rappresentare figure animali esistenti in quel tempo: esse non esprimono necessariamente il de­ siderio di una caccia fortunata. Se qualche altro fattore che non sia la fame, se il gioco o il sogno si sono gra­ dualmente insinuati nella composizione della caverna, non dovremmo forse guardarci dalla grossolanità di un’idea riconducibile a una logica che escluderebbe af­ frettatamente quel movimento per sua natura indeter­ minato e suggerito dalla fantasia, senza il quale non possiamo concepire il fascino dell’arte? Quando entriamo nella caverna scendendo la scala che ne permette oggi l’accesso, questa è la prima figura che ci appare. La testa di cavallo nero, che la precede sulla sinistra, è isolata, poco visibile, non integrata nel vasto movimento d’insieme. Il «liocorno» fa parte di quel popolo solenne che anima con violenza la sala, che lascia il visitatore, appena varcata la soglia, in uno stato di stupefazione - perché proprio in questo istante, da­ vanti ai suoi occhi, si rivela la profondità del tempo che prende vita in queste immagini mute. Il «liocorno», che fu certamente dipinto nello stesso periodo dei tori (è questa la sensazione dell’abate Breuil), partecipa in effetti alla movimentata composizione che essi scandi­ scono e magnificano: l’amplifica, la completa e l’ar­ ricchisce di un elemento bizzarro, dando inizio alla

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scorribanda; perfeziona l’assieme di questa vita selvag­ gia che colma la sala, che le conferisce una cieca pie­ nezza e che, ponendosi sullo stesso piano delle figure in maestà, è ancor più divina in quanto inintelligibile, estranea a tutto.

IL D IV E R T IC O L O A SSIA LE

La stesso disordine che si dispone - senza mai esser l’oggetto di uno sforzo meditato di composizione prosegue nella lunga, galleria sinuosa (sinuosa e tuttavia visibile sino alla fine) che si apre in fondo alla sala, al centro, e che in qualche modo la prolunga. La prolun­ ga ma rimanendone distinta, sia per la scansione che per la disposizione dei dipinti. Questa lunga appendice del santuario, che si apre di fronte all’entrata attuale della caverna, è stata appropriatamente chiamata diver­ ticolo assiale. Non ha la solennità dell’atrio (ma in cam­ bio non ne possiede la relativa pesantezza, legata alla taglia gigantesca dei tori o alla goffaggine imbarazzante del «liocorno»). È persino possibile vedere, alla base del suo ordine capriccioso, un elemento di malizia. Nel diverticolo non ritroviamo il movimento unitario della spettacolare cavalcata della sala: al contrario i movi­ menti vanno in tutte le direzioni, sconvolgendo la pos­ sibilità di un insieme con la rapidità dei balzi. Alcune vacche, prive di peso, sono infatti raffigurate nella biz­ zarra posizione del salto e l’impressione di sparpaglia­ mento è completata dalla sorprendente raffigurazione, in fondo al diverticolo, di un cavallo proiettato a testa in giù. Così, questo diverticolo non è meno sorprendente, meno mirabile della sala. E un lungo corridoio che si restringe a circa metà percorso e che prosegue in lieve discesa verso l’opposta estremità che è disposta in ma­ niera un po’ teatrale, formando lo stretto palcoscenico in cui si vede precipitare il cavallo; sul lato destro di questa «scena» si apre, come una quinta di teatro, un prolungamento ancor più stretto che, dopo una curva,

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Vista dal fondo del diverticolo assiale.

s’interrompe del tutto, segnando il limite, in questa di­ rezione, della caverna. Partendo dall’ingresso, il soffitto di questo divertico­ lo è investito da un insieme inquartato di vacche rosse, la cui leggerezza è tanto paradossale quanto la loro po­ sizione. Come se giocassero, esse compongono sopra le nostre teste non il girotondo che potrebbe ordinarsi su una parete verticale, ma ciò che è concepibile soltanto

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L’ingresso del diverticolo assiale visto dal fondo.

in un soffitto, un insieme inquartato, divergente in tut­ te le direzioni. Solo la prima di queste vacche, che del resto è un po’ in disparte (raffigurata a sinistra, non occupa solo il soffitto ma anche il muro), risulta realmente finita. Del­ la stessa fattura delle altre, differisce soltanto per la te­ sta nera e per il carattere dell’immagine a cui, dai piedi alla testa, non manca davvero nulla. Con le altre figure

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Diverticolo assiale: in alto la parete destra, in basso la parete sinistra.

ha in comune anche il fatto d’esser stata ripresa su una figura più antica, composta da tratti, non da superfici di­ pinte (la linea del dorso della figura originaria rimane al­ l’esterno del dipinto finito). Le altre si dispongono, sul soffitto, attorno a un centro dove convergono le teste e a partire dal quale divergono i corpi non completati

DESCRIZIONE DELLA CAVERNA

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Diverticolo assiale: in alto la parete destra, in basso la parete sinistra.

(certamente, almeno in un caso, per non sconfinare su una figura vicina, più antica). Le teste minute, dalla fronte diritta e allungata, le corna sottili e incurvate in maniera bizzarra, conferiscono a questi animali una certa mancanza di gravità (in tutte le accezioni del ter­ mine). Si è generalmente riconosciuta in queste vacche

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In alto: vacca a testa nera e corpo rosso (lunghezza m 2,80); diverticolo, pa­ rete sinistra, n. 21 [p. 73]. In basso: vacca rossa e primo «cavallo cinese»; diverticolo, soffitto e parete destra, nn. 44 e 45 [pp. 72 e 80].

una specie (bos longifrons) differente da quella dei tori. Ma questa identificazione è contestata. I tori della sala sono sicuramente esemplari di una specie (bos primige­ nius) che si estinse in Europa nel xvn secolo, nota sol­ tanto attraverso disegni. I maschi di questa specie erano

DI-SCRIZIONI·: DELLA CAVERNA

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giganteschi (potevano raggiungere i due metri di altez­ za) e le femmine, piuttosto piccole, corrispondevano, sia per la taglia che per il colore, alle creature del diver­ ticolo. Comunque sia, queste ultime rappresentano in­ nanzi tutto degli animali selvaggi, mescolando a un ca­ rattere silvestre quell’aspetto sinistro che la vacca mal­ grado tutto possiede... Una soprattutto, sbarrando il soffitto con il suo corpo, ha l’andamento sospeso che un salto conferisce all’immagine immobile. Sulla parte destra, dove peraltro lasciano vuoto lo spazio all’inizio della galleria, esse proseguono una serie straordinaria

Testa e insellatura di un cervo; diverticolo, parete destra, n. 46 [p. 80]. Alle pagine successive: teste di un cavallo e di tre vacche; soffitto del diverticolo, nn. 23,43,44, 24 [p. 72].

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Particolare di cavallo al galoppo (lunghezza totale m 3,00). Diverticolo, parete sinistra, n. 28 [p. 85].

di piccoli cavalli. Questi tre cavalli, che sovente sono stati designati con il nome di « cavalli cinesi », fanno a loro volta seguito a un cervo (cervus elaphus), di cui so­ no raffigurati soltanto la testa e il dorso: essi si dirigo­ no, contrariamente al cervo, verso la sala, e soprattutto il secondo è una delle figure più raffinate, più affasci­ nanti di Lascaux. La sua silhouette, chiara e brillante, è

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Particolare di cavallo che cade (lunghezza totale m 1,90) e testa di cavallo. Fondo del diverticolo, nn. 31 e 30 [p. 85].

per così dire evidenziata da segni di un colore ocra più scuro, in cui si possono riconoscere delle frecce volanti dotate di penne stabilizzatrici. (Le frecce, che in molti casi zebrano gli animali, sembrano esprimere il deside­ rio del cacciatore.) A causa della loro forma questi ca­ valli sono stati spesso paragonati a quelli di certe pittu­ re cinesi, da cui il loro nome, ma il secondo mi sembra

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« Fregio dei piccoli cavalli », diverticolo, parete destra. In alto: parte centrale con vacca che salta (lunghezza m 1,70), n. 40 [p. 86]; in basso: estremità destra, n. 41 [p. 85].

più perfetto dei più rifiniti cavalli cinesi. Contornati di nero, la criniera e gli zoccoli neri, essi sono di un colo­ re ocra, che può essere vivo per il contrasto con il bian­ co della calcite su cui sono dipinti, e che, in virtù della tecnica a riserva, produce la delicata sfumatura del ventre. Avrebbero potuto comporre un movimento a

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fregio come i cavalli neri della sala, ma qui le cose acca­ dono molto diversamente: la composizione, come ho già detto, è completamente frammentata. È tuttavia presente, ma in forma sottile, come in un mosaico di elementi discordanti. Questi elementi si armonizzano nel loro insieme, ma solo raramente sono in relazione

Testa di bovidé dominante il «fregio dei piccoli cavalli»; diverticolo, parete destra, n. 41 bis [p. 85].

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reciproca e mai per dar vita a un vasto movimento. De­ sidero sottolineare il fascino che deriva da questa di­ sposizione, prodotta solo dal caso e da un cieco istinto. Nel diverticolo questo fascino ci rapisce non per mezzo di un insieme spettacolare che s'impone allo stupore, ma con una costellazione di vita animale, divergente, che si muove attorno a noi. Questa galleria è tagliata a metà da un restringimen­ to dopo il quale, a sinistra, ci troviamo al cospetto di un grandissimo e bellissimo toro nero, nettamente isolato. Esso sembra essere, secondo l'abate Breuil, uno dei di­ pinti più recenti della caverna (almeno per quanto ri­ guarda il suo ultimo stadio). Questo toro, che ricopre un certo numero di altre pitture più antiche, non è sta­ to realizzato in un'unica volta, senza ripensamenti. Quattro teste di toro, molto arcaiche, tracciate con un semplice tratto di bistro, lasciano spuntare le punta delle loro corna sopra di lui. Due vacche rosse, dal na­ so appuntito, della stessa fattura delle precedenti, ma di un rosso tendente al viola e contornate di colore bru­ no, sono leggibili in trasparenza sotto il colore nero. In­ fine il toro attuale ricopre un primo contorno, che sem­ bra risalire alla stessa epoca in cui sono stati realizzati i tori giganteschi della sala. Solo successivamente si co­ prì con il colore la superficie delimitata da questo trac­ ciato nero. La sua forma fu allora ripresa e rimaneggia­ ta. Impossibile immaginare un dipinto più composito, più carico. Soprattutto non sapremmo evidenziarne con bastante forza la pienezza: raramente un sentimen­ to di presenza si impose a noi con maggior dolcezza, con maggior calore animale e selvaggio. Quanto può esserci di tenero in una animalità robusta - impersona­ le e incosciente - è evocato da questa figura con una precisione impressionante. Più avanti, a destra, i dipinti della caverna proseguo­ no su due livelli. Al limite del suolo si affrontano due equini, tra cui un emione, colorati con un bistro molto povero e che il pallore e l'assenza di rilievo distinguono dalla maggior parte delle immagini della caverna; sopra di loro si slancia, dirigendosi verso il fondo della galle-

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ria, un cavallo in un galoppo sfrenato. Ritroviamo que­ sti due livelli in una rientranza dopo uno spigolo che inquadra, su un lato, il fondo del corridoio, separando­ lo, come una scena teatrale, dalla parte che lo precede (questo fondo è separato allo stesso modo da entrambi i lati: lo spigolo di destra è il limite del piccolo prolun­ gamento strozzato che permette, abbassandosi, di pro­ cedere oltre). I due cavalli si sovrappongono su due piani della rientranza. Il bisonte, il cavallo e l’animale non riconoscibile del prolungamento hanno un’impor­ tanza secondaria e possono essere osservati soltanto da breve distanza. Ma il fondo presenta due figure il cui spettacolare assieme sorprende il visitatore che avanza nella galleria: la testa di un nero cavallo dalla criniera vaporosa domina, quasi araldicamente, la caduta del secondo cavallo, raffigurato con la testa in basso e le zampe anteriori proiettate verso il cielo. Questa figura è enigmatica, ma sembra debba riferirsi a una sorta di caccia ancora praticata da alcune popolazioni arcaiche: una mandria è inseguita e spinta verso un precipizio, da cui gli animali terrorizzati precipitano, talvolta a de­ cine; a Solutré, nella Saône-et-Loire, un ossario di ca­ valli, provocato da simili massacri, risale effettivamente all’Età della renna. Il cavallo capovolto in fondo al di­ verticolo probabilmente cade in condizioni simili: sen­ za dubbio gli strapiombi della valle della Vézère hanno talvolta offerto questo spettacolo vertiginoso. Tra la scena di fondo e il restringimento centrale, un fregio, tracciato in maniera sommaria e di fattura ana­ loga a quello dei tori della sala, domina un’immensa te­ sta di bovidé. È composto da una fila di una dozzina di cavalli di piccola taglia (da cui il nome « fregio dei pic­ coli cavalli»). Questi animali si distinguono per un’an­ datura vaga e indecisa dagli altri che si trovano nella sa­ la: in tal senso sono più animali, privi di qualsiasi inten­ zionalità, e perfino della semplice unità di movimento. Hanno la libertà, simile al sonno, dell’attività ruminan­ te: si riducono all’indifferenza della natura. I più anti­ chi sembrano esser stati dapprima realizzati in un colo­ re bistro piuttosto uniforme, ma sarebbero stati poi lu-

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meggiati con il nero. Quattro di loro, quasi del tutto neri, sono più recenti: seguono, a partire da destra, uno dei cavalli più antichi, lumeggiato di nero; il secondo, molto piccolo, molto peloso, graziosissimo, ha Paspetto di un pony irlandese. A sinistra del fregio si affrontano due stambecchi, uno tracciato con un contorno nero, di fattura simile a quella dei primi tori; Paltro, in appa­ renza più antico, è composto da larghe punteggiature di bistro riunite in tratti continui. Appena al di sopra di questo concatenarsi di cavalli, una vacca nera, piutto­ sto grande, ma fine e gracile, è dipinta nella posizione del salto, le zampe davanti allungate, quelle posteriori ripiegate e la coda che si agita nel movimento. Fu di­ pinta sopra a una figura rossa che chiazza il centro del­ la vacca senza che se ne possa identificare la forma. Questo salto non rientra affatto nella composizione del fregio, ma la pone sotto il segno di una privazione di peso che nulla sembra giustificare: il suo carattere biz­ zarro deriva dal fatto di non essere legata in alcuna mi­ sura alPinsieme delle figure. L’abate Breuil ha parago­ nato la fattura della vacca che salta a quella del toro so­ litario che le sta praticamente di fronte. I due animali sembrano rappresentare Parte di Lascaux giunta al massimo grado della sua perfezione tecnica (se non del suo valore comunicativo). In effetti, pur essendo di una abilità consumata nelPespressione del movimento, que­ sta vacca è lungi dall’essere una delle figure più impres­ sionanti della caverna: non ha la presenza del vicino to­ ro, né la maestà dei tori della grande sala. Essa non ha neppure il fascino del «cavallo cinese» che illumina, per così dire, l’ingresso del diverticolo.

I SEGNI IN IN TELLIG IBILI

In diversi punti della sala s’incontrano segni di inter­ pretazione quantomeno dubbia. Sono più numerosi, più vistosi e di forma più accentuata nel diverticolo (li ritroveremo anche nella navata, di cui parleremo più avanti). I più sorprendenti sono di forma rettangolare,

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Terza delle figure inintelligibili («blasone»), ai piedi della grande vacca nera. Navata, parete sinistra, n. 63 [p. 88].

simili a griglie, e uno sembra una forca... Sono stati og­ getto di diverse interpretazioni, di cui vai solo la pena dire che non hanno posto fine alla discussione. Li si è visti come trappole per la caccia: alcuni segni, nella ca­ verna di Font de Gaume, giustificherebbero, a rigore, questa interpretazione. Altre volte è parso possibile ve­ derli come capanne di frasche (in effetti nella grotta di

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La Mouthe, non lontano da Eyzies, vi è una grande rap­ presentazione di una capanna simile). A questa inter­ pretazione si collega il termine « tettiforme » frequente­ mente attribuito a tali segni. Si è anche creduto di ve­ dervi dei segni tribali usati come blasoni: l’abate Breuil interpreta così soprattutto quei rettangoli che occupa­ no uno spazio molto vistoso nella «navata» e che sono suddivisi a scacchiera in caselle variamente colorate. Per Raymond Vaufrey questi rettangoli policromi « ri­ cordano piuttosto le coperte formate da pelli animali che si vedono in certi ripari dipinti della Rodesia meri­ dionale » (ma egli stesso osserva che la decorazione afri­ cana da lui descritta è un’eccezione). Altri segni sono più semplici, senza per questo esser più comprensibili. Talvolta sono serie di dischi o di punti, oppure tratti semplici o composti. In certi insiemi di tratti complessi (ad esempio nel diverticolo, davanti al muso del toro nero e davanti al cavallo al galoppo) si è creduto di ri­ conoscere dei vegetali. Nella caverna del Castillo (nel nord-ovest della Spa­ gna) si trovano vaste composizioni di tali segni, figure geometriche complesse e interpunzioni, formanti un insieme un tempo sicuramente intelligibile. Potremmo pensare a modi di espressione del pensiero analoghi a una rudimentale scrittura. Ma questi insiemi di segni di Castillo, che non mancano certo di impressionare, invi­ tano piuttosto alla prudenza. Possiamo sempre espri­ mere quello che tali segni talvolta ci suggeriscono, ma alla fine dovremo confessare di non saperne nulla. Mol­ te tracce di queste epoche lontane sono (e resteranno) incomprensibili. Dobbiamo ripetercelo spesso, soprat­ tutto quando, violando il silenzio della caverna, pene­ triamo, più innanzi di quanto sia possibile altrove, nel­ l’ambito del più remoto passato. Dobbiamo ripetercelo consapevoli di questo sentimento: più ci sentiremo su­ perati, più lontano potremo inoltrarci nei segreti di questo mondo scomparso per sempre.

DESCRIZIONE DELLA CAVERNA

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IL PASSAGGIO, LA NAVATA E IL GABINETTO DEI FELINI

I più straordinari di tali segni si trovano in definitiva nella «navata». Ne abbiamo appena parlato, eviden­ ziando la policromia di questi rettangoli divisi a scac­ chiera, visibili anche da lontano quando superiamo la soglia di questa parte della caverna le cui proporzioni le valsero il nome di navata.

Vista della navata.

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Vista della parete sinistra della navata.

La navata è il prolungamento di un passaggio dal soffitto molto basso che si apre sulla destra della gran­ de sala e dove si vedono, più che figure, tracce di ani­ mali dipinti o incisi. In particolare, sulla sinistra, sono ancora leggibili la parte inferiore delle zampe e il petto di due bovidi di grande taglia (al di sopra la pittura si è degradata: non ne resta nulla). Tutta questa parte della caverna, compresa Γ«abside», che si apre alla destra della navata, al termine del passaggio, differisce dalla grande sala e dal diverticolo per la natura friabile della roccia calcarea che non era ricoperta di calcite: per questo intere figure si sono sfaldate. Le incisioni, so­ vente poco leggibili e intricate, sono numerose in que­ sta parte dov’era facile tracciarle; particolarmente nel passaggio. La navata propriamente detta si apre dopo una ven­ tina di metri alla fine del passaggio: è una galleria dal soffitto molto alto e a forma di volta; il suolo è in forte pendenza (si è abbassato, a causa dell’acqua che vi scorreva, fin dai tempi preistorici), al punto che solo al­ cuni gradini ricavati di recente permettono ai visitatori di scendere senza pericolo. L’aspetto «disparato» e

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Vista della parete destra della navata.

grandioso di questa parte della caverna stupisce fin dal­ la soglia, visto dall’alto. I dipinti sono ripartiti in quat­ tro gruppi, chiaramente isolati l’uno dall’altro. Tre di essi si susseguono a sinistra: quello in cui predominano gli stambecchi, quello della grande vacca, e, più in bas­ so, quello dei due bisonti; sulla destra si sviluppa inve­ ce un fregio di teste di cervi. Isolato, il primo gruppo è prossimo al visitatore che, dominando dalla soglia l’insieme della navata, si trova alla stessa altezza del fre­ gio di teste di stambecchi che ne compone il registro superiore. Purtroppo queste teste sono poco leggibili, la pittura è molto rovinata e solo le corna sono abba­ stanza distinguibili. Sono tracce di immagini scompar­ se: quattro di queste teste erano nere e quattro rosse. Due cavalli non meno deteriorati sono raffigurati a sini­ stra degli stambecchi: uno di loro, su una sporgenza della parete, è tuttavia abbastanza leggibile, grazie alla profonda incisione che ne ha per così dire modellato la testa. L’abate Breuil lo apparenta ai « cavalli cinesi» del diverticolo. Gli animali del registro mediano sono rela­ tivamente ben conservati. Non sono stati raffigurati, come i cavalli e gli stambecchi, sulla sezione verticale

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Testa di cavallo incisa (lunghezza dal naso all’orecchio m 0,11). Navata, parete sinistra, n. 56 bis [p. 91].

della parete, che forma una sorta di cornicione: i dipin­ ti dei registri inferiori sono stati disposti nella rientran­ za sotto il cornicione. Sulla parte più sporgente della rientranza è disposto un fregio che si estende tra due segni di forma rettangolare ed è formato, da sinistra a destra, da una giumenta gravida seguita da vicino da uno stallone, poi da un’altra giumenta gravida. Questi animali si dirigono verso sinistra. A destra, un bisonte, che ricopre il posteriore della seconda giumenta, si di­ rige nella direzione contraria. I contorni di questi ani­ mali sono stati incisi dopo essere stati dipinti. Sono sta­ te inoltre incise delle frecce sopra le figure dipinte: il fianco dello stallone e quello del bisonte sono trafitti sette volte. Le figure del registro mediano sono visibili, meglio se ci si abbassa, dal sentiero centrale che entra nella navata. Il che non accade per quelle del registro inferiore, che occupa la parte più bassa della rientran­ za. Queste figure si possono osservare solo da vicino e dobbiamo stenderci a terra per poter vedere due caval­ li, il secondo dei quali verso destra è raffigurato con la testa abbassata, intento a pascolare.

DESCRIZIONE DELLA CAVERNA

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Cavallo del secondo gruppo con cavallo più piccolo inciso sul fianco. Navata, parete sinistra, n. 63 bis [p. 93].

Questi cavalli sono simili al cavallo rosso dalla cri­ niera nera inglobato nel disegno del primo toro della grande sala. Sono affini anche ai cavalli del secondo gruppo che, un po’ più avanti, circondano la grande vacca, dipinta in un secondo momento. Anche il loro contorno, come quello della vacca, è inciso. Inizial­ mente erano una ventina i cavalli che si susseguivano su una parte della parete che, proseguendo la rientranza, domina dall’alto il percorso centrale della navata. Il bi­ sonte della rientranza è posteriore ai cavalli vicini: sem­ bra quindi che tutta questa parte della caverna fosse al­ l’inizio interamente consacrata al cavallo. Dobbiamo ri­ costruire mentalmente, a partire da ciò che ne rimane, questo vasto fregio composto da cavalli variamente co­ lorati. L’enorme vacca nera del centro ne ha ricoperti un gran numero. A condizione, per un istante, di di­ menticare questa figura oggi dominante, l’effetto resti­ tuito è degno di ammirazione. La grande vacca, situata in alto, domina la navata con la sua mole: pur essendo il colore nero leggermente sbiadito essa non è per questo meno impressionante,

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con il suo aspetto al tempo stesso esile, enorme e mo­ numentale. Come nelle vacche del diverticolo, è possi­ bile riconoscere in lei una femmina di bos primigenius. È comunque una delle figure più recenti della caverna. La sua fattura l’apparenta al toro nero e alla vacca che salta: anch’essa è frutto di un’arte molto sottile. Forse rivela l’intenzione di cancellare la folla di cavalli che la circondano, che in alcuni casi riappaiono nella relativa trasparenza del colore nero. Sotto questa grande figura sono dipinti i tre rettangoli quadrettati il cui effetto de­ corativo completa una composizione complessa, biz­ zarra e grandiosa al tempo stesso. Molto più in basso la parete presenta, in posizione isolata, un gruppo il cui movimento stupisce per quan­ to diverge, a partire dal centro, come un’esplosione. Due bisonti itifallici, i cui posteriori si sovrappongono, fuggono in direzioni opposte: entrambi sono di colore bruno scuro, ma una parte del mantello di quello a si­ nistra conserva una specie di fascia rossa. A mio avviso

Cavalli del secondo gruppo. Navata, parete sinistra, nn. 63 e 63 bis [p. 93]. Alle pagine precedenti: grande vacca nera (lunghezza m 2,15), n. 63 [p. 93].

DESCRIZIONE DELLA CAVERNA

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è Timmagine più tumultuosa dell’Età della renna. Il pe­ lo irto, le teste irsute, il movimento serrato e sconcer­ tante, esprimono con potenza insuperata una violenza animale angosciosa, sensuale e cieca. Sulla destra, cinque teste di cervi (cervus elaphus) si susseguono al di sopra di un lieve rilievo della parete come se emergessero dalle acque di un fiume, dirigen­ dosi verso il fondo della navata. Sebbene non siano particolarmente sorprendenti, queste immagini ci la­ sciano una strana sensazione di dolcezza animale, vici­ na alla metempsicosi. Come se il pittore, cervo lui stes­ so invece di uomo, le avesse dipinte in un momento di confuso dormiveglia. Le immagini danno un’impres­ sione di sonnolenza e annullano in una sorta di slitta­ mento in avanti la sensazione del limite: nessuna diffe­ renza, quindi, tra lo sguardo che le osserva e la presen­ za di questi esseri osservati. Queste figure sono traccia­ te a grandi tratti: neri quelli delle prime quattro, bistra­ ti quelli dell’ultima. Probabilmente esse sono recenti: si

I «due bisonti» (lunghezza m 2,40). Navata, parete sinistra, n. 65 [p. 97].

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LASCAUX O LA NASCITA DELL’ARTE

Fregio di teste di cervo, parte sinistra. Navata, parete destra, n. 64 [p. 98].

sovrappongono infatti alle tracce di un cavallo color bi­ stro lumeggiato di nero, testimonianza del tempo in cui questa parte della caverna era consacrata interamente al cavallo. Questo fregio di teste di cervo completa l’immensa varietà pittorica della caverna. La navata termina in uno stretto corridoio, dove per un uomo corpulento è difficile introdursi. Da qui si ac­ cede a un budello molto basso in cui bisogna inerpi­ carsi per uscire nuovamente, un po’ più lontano, da­ vanti a un’altra pendenza ripida e scivolosa che finisce, alcuni metri più in alto, nel «gabinetto dei felini». Questo nome designa un piccolo spiazzo all’uscita del budello, che precede di poco l’apertura che dà su un nuovo slargo della caverna, terminante in un vero e proprio baratro. Questo « gabinetto » è interessante perché sottolinea il carattere essenzialmente discreto delle raffigurazioni che potevano essere realizzate in luoghi pressoché inac­ cessibili. A sinistra, le incisioni di animali trafitti da frecce dovrebbero rappresentare dei felini. A destra,

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Fregio di teste di cervo, parte destra. Navata, parete destra, n. 64 [p. 98].

uscendo dal gabinetto, un fregio di piccoli cavalli di­ pinti e incisi sembra prolungare i due gruppi di cavalli della vicina navata.

l ’a b s i d e e i l p o z z o

All’uscita dal passaggio, prima della navata, si apre sulla destra una piccola sala che, terminando in un se­ micatino, potrebbe esser paragonata a un’abside. È una delle sale più strane della caverna, sebbene presenti sol­ tanto un insieme eteroclito di dipinti in parte cancellati e un groviglio di innumerevoli incisioni, che sconfinano le une sulle altre. Solo un minuzioso lavoro di rileva­ mento, che richiederebbe anni, potrebbe trarre da que­ sto caotico intrico preziosi dati archeologici. Anche l’insieme di questi dipinti e di queste incisioni testimo­ nia l’immensa attività di coloro che incessantemente ri­ cominciarono il minuzioso popolamento di queste pa­ reti: da sinistra a destra, attraverso il soffitto, venne uti-

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lizzata, sovente a più riprese, ogni più piccola particel­ la dello spazio disponibile. A parte la caverna dei Trois Frères, non c’è altro luogo in cui sia possibile avere un’immagine più precisa dell’importanza che aveva la figurazione nella vita degli uomini di quei tempi. I gran­ di dipinti testimoniano i momenti più significativi di un’attività creatrice, ma l’aggrovigliarsi delle incisioni basta da sola a esprimere un’inquietudine che si intrec­ cia incessantemente alla vita, quasi ne fosse la trama. Nel loro insieme, da un punto di vista spettacolare, que­ ste figure dell’abside sono deludenti. Ma un bellissimo cervo basta a dimostrare il fervore che animava coloro che le tracciarono. Essi abbandonavano la loro opera all’incessante attività di chi sarebbe venuto in seguito. Questo ricominciare avrebbe seppellito in un insieme eteroclito l’espressione che essi avevano dato, per un istante, alla vita: ma incidevano le loro figure con con­ vinzione, come se lavorassero per l’eternità. L’«abside» conduce all’apertura del pozzo. Il pozzo è una delle parti più stupefacenti della ca­ verna. Contiene soltanto un piccolo gruppo di immagi­ ni, che per esecuzione non sono forse tra le più riuscite, ma certo, nella caverna, non ve ne sono di più strane. Oggi è facile scendere nel pozzo. Alla fine dell’absi­ de si apre una profonda cavità in cui è possibile intro­ dursi con l’aiuto di una scala di ferro fissata nella roc­ cia, ma nei tempi preistorici, la discesa, che si compiva forse per mezzo di una corda, poteva rivelarsi piuttosto acrobatica. Non è necessario, in verità, scendere sino in fondo al pozzo: una stretta piattaforma, a metà della di­ scesa, quattro metri al di sotto del pavimento dell’absi­ de, permette di fronteggiare (al di sopra della parte che sprofonda a sinistra), una parete su cui sono raffigurati, da un lato, un rinoceronte, e dall’altro un bisonte; in mezzo a queste figure un uomo dalla testa d ’uccello, steso a terra diagonalmente, sovrasta un uccello raffigu­ rato sulla punta di una pertica. Il bisonte è letteralmen­ te pervaso di furore, ha la coda ritta e le sue viscere sci­ volano fuori in pesanti volute tra le sue gambe. Davan-

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Bisonte sventrato (lunghezza m 1,10), uomo disteso, pertica sormontata da uccello; pozzo, n. 52 bis [pp. 100-101]. Alle pagine successive: l’intera «scena del pozzo ».

ti all’animale è tracciata una zagaglia che taglia, da de­ stra a sinistra, la parte superiore della ferita. L’uomo è nudo e itifallico; un disegno di fattura puerile lo mostra disteso in tutta la sua lunghezza, come se fosse stato ap­ pena colpito a morte: le sue braccia sono divaricate, le mani aperte (con solo quattro dita). Vedremo poi come questo enigma preistorico abbia suscitato l’interesse febbrile dei commentatori: esso in­ troduce un elemento drammatico in un’arte che forse ne è carica, ma in cui non riesce mai a prendere forma. Elencherò più avanti le diverse ipotesi proposte, pur non potendo aggiungere nulla alla discussione: l’ambiguità della scena, l’enigma e il dramma, devono rimanere tali.

LA PROSPETTIVA DISTORTA E L’ETÀ RELATIVA DEI D IP IN T I

Il bisonte nel fondo del pozzo è rappresentato in ma­ niera sommaria ma espressiva. Come le figure vicine, non è policromo, ma tracciato con spessi tratti neri. Ba­ sta ad animarlo il caldo colore ocra che la roccia ha in questo punto.

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LASCAUX O LA NASCITA DELL’ARTE

Desidero insistere sul misto di goffaggine e forza espressiva di quest’immagine. La goffaggine rende più evidente un carattere che accomuna tutte le figure della caverna: sono disegnate in «prospettiva distorta». O s­ sia di profilo, ma come se, per meglio disegnarle, alcu­ ne loro parti fossero state ruotate: zampe, orecchie e corna sono viste frontalmente (o di tre quarti). Gli zoc­ coli del bisonte sono fessurati e le due corna, invece di sovrapporsi, o di essere parallele, hanno la forma di una lira, così come potremmo vederle se l’animale ci venisse incontro (una lira inclinata: il bisonte è raffigu­ rato a testa bassa, nell’atto di caricare). Il Paleolitico superiore si divide in linea di massima in tre periodi: aurignaziano, solutreano e magdaleniano. Ho già parlato delle difficoltà che attualmente sol­ leva l’utilizzo del termine « aurignaziano », ma a grandi linee è possibile formulare un aspetto caratteristico per ognuno di questi periodi dicendo che nell’Aurignaziano la prospettiva distorta è di regola; nel Solutreano l’arte delle caverne è essenzialmente rappresentata dal­ la scultura, mentre la pittura è quasi assente; nel Magdaleniano, invece, zoccoli e corna sono in genere visti frontalmente (salvo a sud dei Pirenei, nella Spagna set­ tentrionale, dove la prospettiva distorta non è scom­ parsa). Questo ha permesso all’abate Breuil di datare all’Aurignaziano medio e inferiore le figure che abbia­ mo descritto, dato che tutte si presentano in prospetti­ va distorta. (Tranne i bisonti della parte bassa della na­ vata, di cui solo gli zoccoli sono visti frontalmente e so­ lo uno dei corni viene rappresentato.) Ovviamente questo modo di vedere è discutibile: giunge ad assegnare al Magdaleniano una parte dei di­ pinti di Lascaux. L’opinione dell’abate Breuil sembra contraddetta dalla datazione fornita dall’analisi dei frammenti carbonizzati trovati nel fondo del pozzo: 13.500 anni prima di Cristo. Si ammette di regola che il Magdaleniano ebbe fine 15.000 anni or sono... Ma le analisi del carbonio, messe a punto dalla scienza mo­ derna, permettono di datare ritrovamenti più recenti, mentre sembrano non essere precise riguardo alla prei-

DESCRIZIONE DELLA CAVERNA

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storia antica. Abbiamo quindi valide ragioni per retro­ datare oltre il Solutreano la meravigliosa fantasmagoria di Lascaux. Possiamo così farla risalire all’aurora del­ l’umanità compiuta. (Del resto non cambierebbe molto se la situassimo in una data più avanzata. L’evoluzione era allora infinitamente più lenta rispetto al nostro tem­ po. Proprio per questo permane legittimamente un dubbio: durante tutto il Paleolitico superiore i modi di vita rimangono pressoché immutati, e i documenti a noi giunti delle diverse fasi sono sovente difficilmente distinguibili.)

LA RAPPRESENTAZIONE DELL’UOMO

l ’u o m o c h e s i f r e g i a d e l p r e s t i g i o d e l l a b e s t i a

Torniamo ora all'evento da cui siamo partiti: un gior­ no viene scoperta nei boschi, vicino a un villaggio della Dordogna, questa caverna da mille e una notte. Meravi­ glie enigmatiche, inattese, queste figure ridestano l'eco di una tra le feste più remote del mondo. Portate im­ provvisamente alla luce, queste pitture non solo sembra­ no esser state appena dipinte: hanno un fascino incom­ parabile e, dalla loro disordinata composizione, emana una vita selvaggia e colma di grazia. Fino allora mai nulla aveva reso sensibile in tal modo la presenza, in un'età così remota, di un'umanità a noi così affine, allo stato nascente. Ma questa apparenza sen­ sibile manteneva, sottolineandolo, un carattere parados­ sale di tutta l'arte preistorica. Le tracce che dopo tanti millenni quegli uomini ci hanno lasciato della loro uma­ nità, si limitano - con rare eccezioni - a rappresentazio­ ni animali. Con una sorta di fortuna imprevista gli uomi­ ni di Lascaux resero sensibile il fatto che, essendo uomi­ ni, erano simili a noi, ma lo fecero lasciandoci l'imma­ gine dell'animalità di cui si stavano spogliando. Quasi avessero dovuto ornare un prestigio nascente con la gra­ zia animale che avevano perduto. Queste figure inuma­ ne annunciano con vigore non soltanto che coloro che le hanno dipinte sono diventati uomini compiuti dipin­ gendole, ma che l'hanno fatto dando dell'animalità, e non di se stessi, questa immagine che suggerisce quanto l'umanità ha di affascinante. Questo è quanto ripetono i dipinti animali di Lascaux - insieme alle pitture loro contemporanee e già cono­ sciute che decorano altre caverne. Ma dal giorno in cui l'hanno affermato, esse portavano a compimento la rive­ lazione di questo paradosso in una sorta di apoteosi.

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LASCAUX O LA NASCITA DELL* ARTE

A immobilizzarci in un lungo stupore è che questo eclissarsi dell’uomo rispetto all’animale - e dell’uomo che diviene propriamente umano - è più importante di quanto possiamo immaginare. Il fatto che l’animale rappresentato fosse preda e cibo non cambia il senso di questa umiltà. L’uomo dell’Età della renna ci ha lascia­ to dell’animale un’immagine prestigiosa e fedele, ma nella maggior parte dei casi in cui ha rappresentato se stesso ha dissimulato i propri tratti sotto la maschera dell’animale. Era già un virtuoso nel disegno, ma disde­ gnava il proprio volto: se riconosceva la forma umana, nello stesso istante la nascondeva; si rappresentava con testa animale. Come se avesse vergogna del proprio volto e, volendo raffigurarsi, dovesse al tempo stesso mascherarsi. Questo paradosso dell’« uomo che si fregia del pre­ stigio della bestia», non è normalmente formulato con l’accentuazione che esso esige. Il passaggio dall’animale all’uomo consistette innanzi tutto nella negazione da parte dell’uomo della propria animalità. Consideriamo oggi come essenziale la differenza che ci oppone all’ani­ male. Tutto ciò che in noi evoca l’animalità sussistente è oggetto d’orrore e suscita un movimento analogo a quello dell’interdetto. Ma, primariamente, nell’Età del­ la renna, fu come se gli uomini avessero di loro stessi la vergogna che noi abbiamo dell’animale. Si attribuivano fattezze animali e si raffiguravano nudi, esibendo ciò che noi ci preoccupiamo di velare. Nel sacro momento della creazione artistica, sembrano aver volto le spalle a ciò che doveva invece costituire l’atteggiamento pro­ priamente umano (ma era l’atteggiamento del tempo profano, del tempo del lavoro).

l ’u o m o d e l p o z z o

L’uomo del pozzo della caverna di Lascaux è una del­ le prime raffigurazioni che si conoscano dell’essere uma­ no e al tempo stesso una delle più significative. Piuttosto eccezionalmente essa è dipinta (altre, dello stesso perio-

LA RAPPRESENTAZIONE DELL’UOM O

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do, sono scolpite, a tutto tondo o in bassorilievo, oppu­ re sono incise, se ornano pareti), o almeno è tracciata con grandi tratti di pittura nera. È di facile lettura (la sua interpretazione non lascia adito a dubbi), ma la sua fat­ tura rigida, infantile, colpisce più profondamente in quanto il bisonte che l'accompagna è invece dipinto in maniera realistica (o almeno appare vivo in tutti i sensi). L'abate Breuil ha visto in quest'uomo un morto «rove­ sciato sulla schiena », davanti al bisonte ferito che perde le proprie interiora: il «morto», itifattico, ha una testa piccolissima, « che assomiglia a quella di un uccello dal becco diritto». L'uomo e il bisonte non sono semplice­ mente giustapposti, non sono stati dipinti indipendente­ mente l'uno dall'altro, come accade nella maggior parte delle figure parietali. Anche il rinoceronte può esser dis­ sociato da loro solo arbitrariamente. Il bisonte, il rino­ ceronte, l'uomo e l’uccello sono realizzati con lo stesso tratto e con la stessa pasta di pittura nera e brillante, dal­ l'aspetto brinato. Siamo in presenza di una scena di cui in verità non possiamo dire nulla che non sia congettu­ rale, se non che il bisonte è ferito e l'uomo è inanimato: sebbene semplicemente inclinato, egli è disteso, le brac­ cia divaricate, le mani aperte. Al di sotto dell’uomo c'è un uccello disegnato con un tratto che, pur essendo anch'esso infantile, non è altrettanto goffo. Questo uccello privo di zampe è appollaiato, come un gallo da campa­ nile, all'estremità di quella che sembra un'asta. Le congetture suscitate da questa scena eccezionale sono diverse e poco conciliabili. Ne parlerò esaustivamente, ma ora voglio insistere su un carattere innegabi­ le di questo insieme: la diversità nella rappresentazione tra l’uomo e la bestia. Il bisonte deriva da quella specie di figurazione del reale a cui conviene il nome di reali­ smo intellettuale. Rispetto alla maggior parte delle figu­ re animali di Lascaux, in questo caso non abbiamo che lo schema semplice e intelligibile della forma, non più l'imitazione fedele, naturalistica. Il bisonte nondimeno appare realistico se confrontato all'uomo, ugualmente schematico, ma estremamente maldestro, paragonabile alle semplificazioni infantili. Molti bambini potrebbero

no

LASCAUX O LA NASCITA DELL’ARTE

disegnare un uomo uguale a questo, ma nessuno riusci­ rebbe a raggiungere il vigore e la forza di suggestione dell’immagine del bisonte, che esprime il furore e la grandezza impacciata dell’agonia. Così l’opposizione paradossale delle rappresentazio­ ni dell’uomo e dell’animale fa la sua comparsa, per la prima volta, a Lascaux. Nel loro insieme, le figure umane dell’Età della ren­ na corrispondono in effetti a questa separazione pro­ fonda, come se, per partito preso, l’uomo fosse stato preservato da un naturalismo che negli animali rag­ giungeva invece una perfezione che lascia stupefatti.

LE FIG URE U M ANE DELL’a URIG N A ZIA N O

Le rare figure umane - o, se si preferisce, semiumane della stessa epoca, aurignaziana in senso ampio, talvolta ricordano piuttosto bizzarramente la testa d’uccello del «m orto» di Lascaux. In genere sono piuttosto informi, anche se di una fattura meno rigida di quella di Las­ caux. Delle figure aurignaziane del soffitto di Altamira, l’abate Breuil dice che sembrano mascherate, sebbene siano poco leggibili. (E anche nei casi più fortunati, quando il disegno è chiaro, è impossibile dire se la testa d ’animale sia fittizia o rappresenti una maschera reale.) L’abate Breuil ha paragonato le incisioni di Altamira al­ l’uomo di Hornos de la Pena, « che ha l’aspetto di scim­ mia, accentuato dalla presenza di una coda posticcia ». L’equivoca creatura di Hornos è itifallica così come 1’« orribile antropoide » di La Pena de Candamo, « con le gambe storte e i piedi arcuati». A Pech-Merle, la te­ sta di un personaggio, femminile contrariamente alla re­ gola generale, somiglia alla testa di un uccello; la silhouette sembra possedere anche dei monconi d’ali. Le figure umane o, se si preferisce, inumane, di Los Ca­ sares sono più recenti. Esse sono « raggruppate in sce­ ne [... ] molto suggestive [...]; gli uomini hanno tutti un volto grottesco, come nel soffitto di Altamira e di H or­ nos, e sono associati a figure di pesci e di rane ». Solo

LA RAPPRESENTAZIONE DELL’UOM O

III

una piccola opera in osso proveniente dalla grotta di Péchialet, in Dordogna, offre un’immagine naturalisti­ ca, senza nulla di ibrido, di una testa dalla lunga barba. Questi personaggi sono nel complesso mal riusciti, per metà animali, o grotteschi. Sono stati tracciati sen­ za cura e non si può dare alcuna ragione convincente della loro presenza nelle caverne.

LE FIGURE DEL M AG DALENIANO

Ad eccezione della donna-uccello di Pech-Merle, le figure femminili della stessa epoca dei dipinti di Lascaux sono molto diverse e non possono essere interpre­ tate allo stesso modo. Prima di parlarne, esaminerò le figure umane del Magdaleniano che, rispetto a quelle dell’Aurignaziano, presentano poche differenze essen­ ziali. L’arte magdaleniana sembra ricominciare da zero, sembra la rinascenza, dopo un lungo periodo di inter­ ruzione, di ciò che in senso ampio designiamo come ar­ te aurignaziana: si situa con grande fedeltà nella via già tracciata. Nella fattura e nelle intenzioni, nelle conce­ zioni implicite, le differenze sono secondarie. Confron­ tata a quella dell’animale, la rappresentazione dell’uo­ mo si pone nello stesso rapporto sia nel Magdaleniano che nell’Aurignaziano. Una continuità cosi perfetta im­ plica apparentemente condizioni di vita e una rappre­ sentazione del mondo immutate. (Altrove, nell’ambito forse più recente, ma in parte contemporaneo, del « Le­ vante spagnolo », la tecnica evolve, la vita muta e le fi­ gure dell’uomo e dell’animale non presentano più la strana contrapposizione di cui stiamo parlando: gli uo­ mini sono ancora schematizzati, ma i loro rapidi movi­ menti sono resi con molta più forza, e poiché gli ani­ mali si fanno più schematici, l’umano non è più ai loro antipodi.) Essendo l’Aurignaziano e il Magdaleniano relativamente omogenei, possiamo legittimamente rite­ nere il secondo complementare al primo. Le opere del Magdaleniano, più numerose, chiariscono talvolta ciò che la rarità dei documenti aurignaziani lascia nell’om-

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LASCAUX O LA NASCITA DELL* ARTE

bra. A Les Combarelles, a Marsoulas, e altrove, nume­ rose incisioni continuano la serie di teste e di figure informi di cui ho parlato a proposito del «m orto» di Lascaux. L’aspetto caricaturale che fa la sua apparizione neirAurignaziano, si accentua nel Magdaleniano. Della caverna di Combarelles, nei pressi a Eyzies, l’abate Breuil ha descritto « tutta una serie di figure antropoidi, che rappresentano forse delle maschere. Tra quelle che più colpiscono, si può citare una strana figurina umana la cui testa è a forma di mammut e le cui braccia si pro­ lungano in due lunghe appendici che potrebbero benis­ simo esserne le zanne. Altrove, un uomo obeso sembra inseguire una donna; qua e là sulla parete sono incisi volti umani in teste di animali ». Le figure di Marsoulas sembrano quasi insistere sulla nota comica: si tratta di composizioni inconsistenti e numerose, «soprattutto volti e talvolta profili grotteschi e infantili ». Se non fosse per la meravigliosa grotta dei Trois Frè­ res (le cui incisioni sono purtroppo aggrovigliate e dif­ ficilmente leggibili), il Magdaleniano non sarebbe, in ambito artistico, che il prolungamento dell’Aurignaziano. Ma i Trois Frères apportano all’insieme un elemen­ to nuovo. Al di fuori di Lascaux - tralasciando il Levante spa­ gnolo, che va considerato a parte, e la bella grotta di Altamira, le cui pitture, che vanno cancellandosi, non hanno la nettezza delle copie ad acquerello che ha rea­ lizzato l’abate Breuil - l’arte dell’Età della renna non ha lasciato che una testimonianza capitale: l’immenso gro­ viglio di incisioni della caverna dei Trois Frères, che è di una bellezza, di un valore umano e di una ricchezza eccezionali. Come nel caso dei bisonti dipinti sul soffit­ to di Altamira, conosciamo queste incisioni parietali soltanto grazie alle copie realizzate dall’abate Breuil. Anche se il ricordo - o la visione - delle copie è neces­ sario a un’autentica lettura, noi possiamo ammirare i bi­ sonti di Altamira sul posto; la visita ci procura un sen­ sibile elemento di convinzione. Invece le incisioni dei Trois Frères non ci presentano che un groviglio di linee

LA RAPPRESENTAZIONE DELL’UOM O

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indecifrabili: alla lunga siamo costretti a usare l’imma­ ginazione, se utilizziamo la luce radente. Per questo il mirabile lavoro di decifrazione dell’abate Breuil (solo in parte pubblicato nei Quatre cents siècles d'art pariétal) gli richiese lunghi anni. Ma grazie alla fedeltà di questi rilievi le figure semiumane dei Trois Frères hanno una verità sensibile che neppur lontanamente possiedono quelle di cui ho sin qui parlato. Una di esse è sollevata da un movimento di vita selvaggia. Appare perduta nel­ la folla animale, nel groviglio di cavalli, di stambecchi e di bisonti, sovente incisi gli uni sugli altri. L’oscura e profonda mischia - a cui si aggiunge anche un rinoce­ ronte con il suo profilo barocco - fa da grandioso ac­ compagnamento all’apparizione furtiva e velata della forma umana. Secondo l’abate Breuil quest’uomo dalla testa di bisonte, itifallico, saltellante e danzante, stareb­ be suonando un « arco musicale». Per quanto indiretto sia, questo documento ha nondimeno un significato che ossessiona; poche opere figurative sono più belle, a mio avviso, di questa infinita sinfonia animale che sommer­ ge l’umanità furtiva: senza dubbio la promessa di una dominazione trionfante, ma a condizione d’essere vela­ ta (d’essere mascherata). Anche una seconda figura del groviglio dei Trois Frè­ res presenta l’aspetto ambiguo di un uomo itifallico al di sotto delle reni, e di un bisonte nella parte superiore. Ma quella che deve fermare la nostra attenzione è prin­ cipalmente la figura nota da gran tempo con il nome di «stregone», e che oggi l’abate Breuil ha preferito chia­ mare «il dio dei Trois Frères». E «la sola figura dipin­ ta della caverna». È insieme dipinta e incisa: dapprima incisa, fu poi abbellita dal colore. Sfortunatamente la riproduzione fotografica è poco leggibile, e solo il rilie­ vo permette di farsene un’idea precisa, ma meno diret­ ta, a causa della complessità della fattura, rispetto a quella del primo uomo dalla testa di bisonte. Questo « dio » solitario, situato nella parte alta della roccia, apparentemente « presiede a tutte le bestie riuni­ te in numero incredibile, e sovente in terribile disordine [...]. Vista frontalmente, [la] testa ha occhi rotondi, do-

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LASCAUX O LA NASCITA DELL’ARTE

tati di pupille, tra cui discende la linea del naso termi­ nante in un piccolo arco. Le orecchie sono quelle di un cervo; sulla fronte [...] emergono due forti corna rami­ ficate [...]. Non ha bocca, ma una lunga barba striata gli ricade sul petto. Gli avambracci sono sollevati e giu­ stapposti [...]. Una larga fascia nera contorna tutto il corpo, assottigliandosi nell’incavo lombare ed esten­ dendosi fino agli arti inferiori flessi [...] i piedi, incluse le dita, sono piuttosto definiti e rivelano un movimento analogo a quello della danza del cakewalk ». Il sesso ma­ schile è accentuato; può essere inteso in erezione, ma paradossalmente verso il basso (era impossibile, o alme­ no difficile, rappresentarlo visivamente nell’altro senso). È comunque « ben sviluppato », inserito « sotto una fol­ ta coda (di lupo o di cavallo) terminante con un ciuffo ». «È questa evidentemente» conclude l’abate Breuil «la figura che i magdaleniani consideravano come la più im­ portante della caverna e che a noi appare, riflettendoci, quella dello Spirito che sovrintendeva alla moltiplica­ zione delle prede e alle spedizioni di caccia ». A questa ipotesi non si potrebbe opporre niente di più fondato. Più precisamente, ma nello stesso senso, possiamo citare gli «spiriti-maestri» della Siberia, di cui ci parla Eveline Lot-Falck nel suo Les rites de chas­ se chez les peuples sibériens. Dubito comunque che sia possibile giungere a una conoscenza più certa. Queste immagini si rapportano generalmente alla caccia, a cui anche l’uomo (o piuttosto il dio) dalle corna di cervo, che si innalza al di sopra del disordine animale, non può essere considerato estraneo. Alle ipotesi ricavate dalle conoscenze etnografiche potrei soltanto opporre il sentimento di una realtà poco comprensibile e trop­ po ricca. Ogni definizione, per quanto giustificata, ha forse il torto di non cogliere l’essenziale: l’essenziale mi appare più tortuoso, più vago, l’essenziale ha forse il senso di un’inestricabile totalità. Che questa figura ab­ bia avuto o meno il compito di soprintendere a opera­ zioni sommamente utili per i magdaleniani, posso co­ munque, al di là di questi fini materiali simili a quelli delle nostre macchine, cogliere aspetti totalmente di-

LA RAPPRESENTAZIONE DELL’UOM O

US

versi: sul piano della vita umana questa creatura onirica ne è la negazione più evidente. Questo stregone, questo dio o questo spirito-maestro, ancor prima di presiedere alle attività di cui l’uomo viveva, si opponeva, come un segno al segno contrario, alla vita da cui queste attività dipendevano. Entrando sotto il segno di una simile fi­ gura, quella vita poteva prosperare solo a condizione di negare ciò che essa era e di affermare ciò che essa non era. L’uomo ibrido rappresenta, considerandolo in ge­ nerale, il gioco complesso dei sentimenti in cui l’umani­ tà venne a formarsi. Si trattava di negare l’uomo, in quanto lavorava e calcolava, lavorando, l’efficacia dei suoi atti materiali; si trattava di negare l’uomo a benefi­ cio di un elemento divino e impersonale, collegato al­ l’animale che non ragiona e non lavora. L’umanità deve avere avuto la sensazione di distruggere un ordine na­ turale introducendo l’azione ragionata del lavoro; agiva come se dovesse farsi perdonare l’attitudine calcolatri­ ce che le conferiva un autentico potere. E questo il si­ gnificato dell’assillo per i poteri magici, che si contrap­ pone ai comportamenti direttamente comandati dal­ l’interesse. Fin dal tempo degli ominidi, il lavoro si pro­ dusse, logicamente, a partire da princìpi contrari alla pretesa «mentalità primitiva», che si afferma esser sta­ ta «prelogica». Tuttavia i comportamenti cosiddetti «primitivi» e prelogici, che sono in realtà secondari e post-logici, i comportamenti magici o religiosi, non fanno che tradurre l’inquietudine e l’angoscia che si impadronirono di uomini che agivano secondo ragio­ ne, conformemente alla logica implicita in ogni lavoro. Questi comportamenti esprimono l’inquietudine pro­ fonda che ispirò sin dall’inizio il mondo di cui il lavoro sconvolgeva l’ordine spirituale. Senza alcun dubbio i magdaleniani, a cui gli aurignaziani probabilmente assomigliavano, ebbero il senti­ mento di detenere, in quanto uomini e non più anima­ li, il potere e il dominio. Se ottenevano risultati che ave­ vano per loro qualche valore, sapevano di averli rag­ giunti grazie al lavoro e al calcolo, cosa di cui gli animali sono incapaci. Ma attribuivano agli animali altri poteri,

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LASCAUX O LA NASCITA DELL’ARTE

legati alPintimo ordine del mondo, che a loro sembrava esercitare una forza incomparabile se confrontata alla spregevole operosità umana. Era dunque opportuno per loro non sottolineare la propria umanità, che espri­ meva soltanto il debole potere del lavoro, evidenziando invece un’animalità che irraggiava l’onnipotenza di un mondo impenetrabile: tutta la forza nascosta di questo mondo sembrava superare uno sforzo per loro gravoso. Nella misura in cui si liberavano da un tale peso, senti­ vano di accedere a forze ben più grandi. E così, se po­ tevano, si sottraevano alla regolarità fastidiosa dell’or­ dine umano: facevano ritorno al mondo della selvati­ chezza, della notte, della bestialità incantatrice; lo raffi­ guravano con fervore, nell’angoscia, tendendo a dimen­ ticare, per un lasso di tempo, ciò che nasceva in loro di chiaro, di prosaicamente efficace e di ordinato. Noi stessi proviamo d’improvviso il peso di una civiltà di cui andiamo tuttavia piuttosto fieri. Anche noi abbiamo se­ te di un’altra verità e attribuiamo la nostra debolezza a qualche errore legato al privilegio della ragione. Siamo indotti a screditare i valori derivati dal lavoro, simbo­ leggiati dagli interdetti, ormai razionalizzati, ma simili a ciò che furono all’inizio: regole imposte alle forze ses­ suali, tese a limitare i disordini annuncianti il potere della morte, a opporsi al tumulto passionale che si spri­ giona dall’animalità sfrenata. A tali sentimenti fu incline, più di noi, l’umanità na­ scente, che attribuì valore al divino, mentre non lo ac­ cordò alla ragione. Al divino, il cui carattere infinito si esprimeva nella forma animale, opposta all’aspetto pra­ tico e limitato che è caratteristica esclusiva dell’uomo.

LE FIG URE FEM M INILI

Così il paradosso primario del privilegio conferito al­ la forma animale è apparentemente uno degli aspetti di questo impulso di trasgressione di cui ho parlato. Ho innanzi tutto ricavato dall’esistenza universale, umana, della trasgressione, il sentimento che essa rappresentò

LA RAPPRESENTAZIONE DELL’UOMO

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nel mondo di Lascaux. Ma il paradosso della rappre­ sentazione delPuomo potrebbe assumere, in definitiva, il valore di una testimonianza particolare, che mancava. Almeno in una certa misura. Quest'uomo ibrido, so­ vente grottesco e spesso dissimulato sotto i tratti dell’animale, non è forse segno e testimone di quel movi­ mento di festa con cui ho già detto che eccedeva le re­ gole solitamente osservate? In questo modo l’uomo vol­ geva le spalle alla saggezza e all’abilità laboriosa che l’aspetto naturale del suo volto avrebbe facilmente espresso. Quando lo spirito di trasgressione lo animava, la violenza lo inebriava, rifiutando l’umano, rifiutando la subordinazione all’umile lavoro (al progetto che pre­ vede l’oggetto e ne prevede la fabbricazione). La vio­ lenza, il divino rispondevano ai suoi bisogni, il divino che innanzi tutto è animale: l’aspetto primario della di­ vinità è animale: gli dèi egizi o greci erano associati in­ nanzi tutto all’animalità. Il dio o lo spirito maestro dei Trois Frères permetterebbe di evocare questa irruzione dell’animalità divina al di sopra delle opere umane, sen­ za la quale, apparentemente, il segreto di Lascaux ci sa­ rebbe precluso. Ma non possiamo spingerci più lontano senza esaminare preliminarmente i problemi che com­ porta un’altra categoria di figure, le sculture aurignaziane raffiguranti la donna. Esse formano, nel primo periodo dell’Età della ren­ na, un gruppo distinto, che si contrappone sia alla rap­ presentazione ambigua dell’uomo sia all’immagine na­ turalistica dell’animale. Sono, per la maggior parte, sta­ tuette i cui caratteri singolari da gran tempo ci stupi­ scono. Queste figure insistono sui tratti della maternità: potremmo persino definirle idéaliste, se per noi l’idea­ lizzazione non si presentasse in loro come una defor­ mità. In ogni caso non hanno la fattura trascurata, pue­ rile delle figurazioni maschili (forma ancora imperante nel Magdaleniano, fatta eccezione per i Trois Frères): alcune sono di un naturalismo minuzioso, altre di un idealismo difforme. Queste «Veneri» steatopigie, prov­ viste di seni voluminosi, di anche e di glutei prominen­ ti, hanno sempre generato inquietudine...

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Era logico legare queste forme abbondanti al deside­ rio di fecondità. I seni e la vulva sono generalmente ac­ centuati. Mi limiterò a ricordare che una ricerca di tal genere, che la magia delle figure esprimerebbe, è anch’essa lontana dall’ambito dell’azione efficace. Attiene invece alPoscurità, al profondo disordine, che restano l’essenza e il fondamento del mondo sessuale. È diffici­ le dire qualcosa di certo del significato di queste imma­ gini. Ma esse si apparentano alle rappresentazioni ma­ schili su un punto. Per quanto non assumano mai sem­ bianza animale, anch’esse rifuggono in un certo senso la sembianza umana. Alcune sono acefale. Senza dubbio la maggior parte ha un volto, ma questo volto è, il più sovente, una su­ perficie uniforme, priva di occhi, di bocca e di orec­ chie. La testa della «Venere» di Willendorf è un globo omogeneo, grumoso, somigliante a una grossa mora. La celebre «Venere» di Lespugue, la cui bellezza è indub­ bia nonostante una mostruosa steatopigia, ha la forma liscia di un melone ovale. Parimenti, le statuette di G ri­ maldi, dal sesso accentuato, hanno il viso piatto. Anche la seconda «Venere» di Willendorf ha un volto privo di rilievi. La maggior parte delle figurine trovate in luo­ ghi diversi non ha, o almeno non ha quasi mai, un vero e proprio viso. Il bassorilievo di Laussel presenta anch’esso un volto piatto, una sorta di disco privo di li­ neamenti. Si potrebbe pensare che la pittura supplisse al vuoto, ma la granulazione delle parti anteriore e po­ steriore della «Venere» di Willendorf esclude questa ipotesi. Certo, questa figurina presenta tracce di pittu­ ra, ma non si tratta di segni aggiunti che avrebbero po­ tuto rendere umana questa perfetta assenza di viso. Assenza che tuttavia ammette un’eccezione, che me­ rita la nostra attenzione, risalente peraltro ai primi tem­ pi dell’Aurignaziano. Questa minuscola testa di giova­ ne donna, scolpita nell’avorio di mammut, è stata sco­ perta nel XIX secolo nelle Landes, a Brassempouy. Il na­ so e la bocca sono stati così ben modellati che questo minuscolo viso, conosciuto con il nome, ingiustificato,

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di «figurina dal cappuccio» (si tratta invece di capelli accuratamente acconciati), dà un’impressione di giovi­ nezza, di bellezza, di fascino femminile. Se ce ne fosse bisogno, la figurina di Brassempouy costituirebbe la prova del potere che avrebbe avuto Tarte di quel tem­ po, se Tavesse voluto, di rappresentare la bellezza uma­ na. Ma questo viso non potrebbe invalidare Tevidenza della scelta, che divenne comune, di negare ciò che co­ stantemente si afferma, di mostrare ciò che di solito è velato. Anche queste figure femminili sono dunque enigma­ tiche. Non possiamo sperare di forzare un silenzio così inumano. Forse sono anche più incomprensibili di quel­ le maschili, che almeno lasciano intuire la fascinazione che Tanimale esercitava sulTuomo. Parliamo di fecon­ dità e, poiché la donna si allontana in minor misura delTuomo dalla forza cieca della natura, restiamo nel mon­ do in cui la ragione non saprebbe, neppure indiretta­ mente, affermare la propria preminenza. Ma non cono­ sciamo nulla che possa illuminarci: tutto ciò che possia­ mo dire di queste diverse rappresentazioni, le più anti­ che, della forma umana, è che sono accomunate dal fat­ to di lasciare nell’ombra essenzialmente quell’apparenza che oggi noi mettiamo in luce.

L’ARTE ANIMALISTICA DI LASCAUX

« G L I ANIM ALI E I LORO U O M IN I»

Tenterò ora di parlare del significato delle figure di Lascaux, che alTinizio sembrava inaccessibile. Ho sin qui parlato, in maniera piuttosto vaga, delle condizioni in cui Fattività delFuomo era possibile nei primi tempi. Ho es­ senzialmente sviluppato Fopposizione tra animalità e la­ voro. In quello che ho proposto, la parte ipotetica è for­ se meno importante di quanto sembri. E certo che alFuomo delle origini bisogna attribuire da una parte, una maniera di vedere le cose legata al lavoro, e dalFaltra, il sentimento di un mondo sottratto allo sforzo consacrato al lavoro. E altrettanto certo che i dipinti di Lascaux sia­ no opera di un uomo che viveva questa opposizione. Vi sono diverse maniere di svilupparne gli aspetti: quella che propongo non è necessariamente la migliore, ma è comunque preferibile al rifiuto di riconoscere un princi­ pio elementare. Quanto ho detto ha almeno il merito di aver chiarito un insieme di fatti. Chiarimento che assume il proprio valore soprattutto a confronto con i comportamenti che i popoli di cacciatori dei nostri giorni mantengono di fronte alFanimalità. Ho parlato nel capitolo precedente di quale fosse lo stato d ’animo degli uomini dell’Età della renna nel raf­ figurare la forma umana. Devo ora parlare del loro mo­ do di vedere gli animali e di quali sentimenti si espri­ messero nelle figurazioni che ci hanno lasciato. Non possiamo legittimamente interpretare dei com­ portamenti a partire da altri comportamenti osservati in un altro contesto. Possiamo soltanto passare da una ci­ viltà a un’altra a essa molto affine. Ma i comportamenti di cui parlerò hanno un carattere, in un certo senso, universale. Essi appartengono in linea di principio al-

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l’insieme di popoli che traggono ancora (o traevano) dalla caccia l’essenziale del loro sostentamento. Non è necessario concludere che l’uomo di Lascaux agisse in quella forma che il siberiano dell’epoca presovietica condivideva con i popoli arcaici che vivevano di caccia. Ma quel siberiano viveva effettivamente in condizioni simili a quelle dell’Età della renna: così il confronto di­ viene possibile e, se teniamo presente l’opposizione di cui ho parlato, assume la massima importanza. Un passo di Les rites de chasse..., di Eveline LotFalck, mi sembra particolarmente interessante: «Il cac­ ciatore guarda all’animale come a un suo simile. Lo ve­ de cacciare, come lui, per nutrirsi, suppone che abbia una vita simile alla sua, un’organizzazione sociale dello stesso tipo. La superiorità dell’uomo si affermerà sol­ tanto nell’ambito tecnico, in cui introduce l’utensile. Nell’ambito magico attribuirà all’animale una forza non inferiore alla sua. D ’altro canto, l’animale è superiore all’uomo per uno o più aspetti: per la sua forza fisica, per la sua agilità, per la finezza del suo udito e del suo odorato, tutte qualità apprezzate dal cacciatore. Egli accorderà un valore ancora maggiore ai poteri spiritua­ li che associa a queste qualità fisiche [...]. L’animale è in più diretto contatto con la divinità, rispetto all’uomo è più vicino alle forze della natura, che si incarnano natu­ ralmente in lui. “La preda è come gli esseri umani, solo più santa”, dicono gli indiani navajo, e questa frase po­ trebbe esser condivisa anche dai siberiani». In tal modo le relazioni tra uomo e animale, tra cac­ ciatore e preda, sembrano differire profondamente da quello che di solito pensiamo. L’autrice di Les rites de chasse... ci dice ancora: «La morte dell’animale dipen­ de, almeno parzialmente, dall’animale stesso. Per esse­ re ucciso occorre che abbia dato preliminarmente il suo consenso, che si sia per così dire reso complice della sua uccisione. Il cacciatore tratta dunque con rispetto la preda [...] si preoccupa di stabilire con essa rapporti per quanto possibile buoni. “Se la renna non ama il cac­ ciatore” dicono gli jukaghiri “il cacciatore non sarà in grado di ucciderla”. Anche l’orso acconsente a essere

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vittima ed è lui stesso a offrire la parte del suo corpo più adatta a ricevere il colpo mortale. Lo scoiattolo striato degli oiroti passa volontariamente la testa nel nodo scorsoio, e tra i keto e gli ienisseiani Torso si reca dal cacciatore quando è giunta la sua ora di morire». Le relazioni tra il cacciatore e la preda sono in un cer­ to senso simili a quelle tra il seduttore e la donna desi­ derata. Entrambe le relazioni sono parimenti ipocrite (così le une aiutano a comprendere le altre, e vicever­ sa...). Siamo però lontani dal sentimento di superiorità che non si è ancora radicato nel mondo degli allevatori e degli animali che essi asserviscono, sentimento carat­ teristico di una civiltà più avanzata, in cui Tallevatore stesso è un essere inferiore e il bestiame non è altro che la cosa più bassa, o la più neutra. Come ho già detto, non possiamo sapere se Tuomo di Lascaux avesse per gli animali di cui si cibava lo stes­ so sentimento dei siberiani o dei navajo moderni. Ma i testi che abbiamo citato ci avvicinano alTuniverso in cui Γanimale è rivestito di una dignità intatta, di livello superiore rispetto alla nostra umanità indaffarata: a mio avviso Tanimale di Lascaux si situa allo stesso livel­ lo degli dèi e dei re. Conviene qui ricordare che, nei tempi remoti della storia, la sovranità (la condizione di colui che solo in se stesso è un fine) apparteneva al re, che il re e il dio si confondevano, e che era arduo di­ stinguere il dio dalla bestia. Quando entriamo nella ca­ verna non dobbiamo mai perdere di vista questa verità originaria dei primi uomini. Les animaux et leurs hommes è il titolo di una raccol­ ta di poesie di Paul Eluard. Forse la caverna di Lascaux potrà schiudersi ai nostri occhi a condizione che questa formula poetica, che uno dei più grandi poeti francesi ci ha lasciato, ci serva da chiave. Condizione della poe­ sia è un sentimento più autentico delTuomo: è anche il prezzo che occorre pagare se non vogliamo essere im­ penetrabili agli insegnamenti silenziosi della caverna.

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LASCAUX O LA NASCITA DELL’ARTE

LA CACCIA, IL LAVORO E LA NASCITA D I U N M O N D O SOVRANNATURALE

E possibile cogliere un rapporto di causa-effetto tra un'attività come la caccia - o la pesca - e il sentimento di un mondo dipendente da potenze magiche e religiose. Malinowski ha sviluppato questo punto di vista rappor­ tandolo al sentimento d'impotenza dell'uomo dinanzi al­ la rischiosità di tali imprese. L'uomo poteva agire sulla natura, poteva cambiarla, ma non poteva evitare che in definitiva fosse la sorte a decidere della riuscita della cac­ cia. La sorte dipendeva da un mondo più potente di quel­ lo del lavoro e della tecnica, da un mondo impenetrabile all'uomo nella sfera del lavoro, imbevuto del sentimento dell'efficacia logica. Assai presto, d'altronde, l'uomo im­ maginò di poter agire sulle potenze di quel mondo, ma non come agiva sulla pietra scheggiandola. A quel mon­ do attribuiva un’esistenza profonda, intima, analoga alla propria: ipotizzò in esso l'esistenza di moti di desiderio e di odio, di gelosia, di collera, di amicizia. Credette alla possibilità di influire su di esso, non come influiva sulle cose, lavorando, ma come influiva sugli altri uomini, pre­ gandoli, obbligandoli o placandoli con doni. E mai come durante la caccia sentì un bisogno così grande, così generalmente condiviso, di intervenire in questo ambito inaccessibile, angosciante, da cui, pensa­ va, dipendevano la riuscita o l'insuccesso, la vita facile o le sofferenze della fame. Da qui si origina l'ambiguità della magia, che permise irragionevolmente a Frazer di assimilarla alle tecniche. La magia è sempre la condotta dell'uomo che ricerca un risultato interessato, ma essa è tale nella misura in cui, in questa ricerca, egli riconosce la propria impotenza, attri­ buendo l'onnipotenza al mondo nel quale la tecnica non ha più effetto, non ha più potere, al mondo delle forze ir­ riducibili da cui dipende la sorte. L’operare magico te­ stimonia senza dubbio l'ostinazione nella ricerca del ri­ sultato, ma annuncia un primato nella scala dei valori: quello del sacro sul profano, dei disordini del desiderio sul calcolo della ragione, della fortuna sull’umile merito,

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del fine sui mezzi. L’uomo del lavoro e della tecnica fini­ sce per considerare ogni cosa un mezzo, di cui l’essere non assoggettato al lavoro, l’essere animale, senza tecni­ ca, è il fine. L’attività profana è dunque il mezzo, il mo­ mento sacro è il fine: sin dall’inizio il divino costituì il senso profondo dell’umano. L’atto magico è la condotta di un uomo che al mondo del fine divino (o sacro) attri­ buisce più forza e verità che al mondo laborioso dei mez­ zi: quest’uomo si inchina davanti a una potenza che lo eccede, che è sovrana, così estranea alla sfera umana del lavoro che solo l’animale può esserne l’espressione. Le operazioni magiche rappresentate dalle figure (cer­ tamente in maniera capricciosa, senza sottostare a una necessità miserabile) corrispondono peraltro solo ap­ prossimativamente all’idea che solitamente ci facciamo dei mezzi (ad esempio, gli utensili). Queste figure espri­ mevano il momento in cui l’uomo riconosceva il maggior valore della santità che l’animale doveva possedere: l’animale di cui forse cercava l’amicizia, dissimulando il basso desiderio di cibo che lo comandava. L’ipocrisia con cui velava questo desiderio aveva un senso profondo: era il riconoscimento di un valore sovrano. L’ambiguità di questi comportamenti traduceva un sentimento superio­ re: l’uomo si giudicava incapace di raggiungere la meta prefissata se non riusciva a elevarsi al di sopra di se stes­ so. Almeno doveva fingere di elevarsi al livello di una po­ tenza che lo superava, che nulla calcolava, del tutto di­ sinteressata, e da cui l’animalità non si distingueva. Come ho già detto, se non possiamo dedurre i costu­ mi e i sentimenti dell’uomo di Lascaux da quelli delle moderne popolazioni siberiane, è altresì vero che i con­ testi non sono radicalmente estranei l’uno all’altro. E se possiamo conoscere solo in una maniera vaga i compor­ tamenti dell’uomo di Lascaux, possiamo comunque pen­ sare che fossero caratterizzati dalla medesima ambi­ guità. Possiamo almeno dire che la bellezza, quasi so­ vrannaturale, degli animali della caverna ha tradotto questa ambiguità. Indubbiamente quest’arte è naturali­ stica, ma il naturalismo coglie, esprimendolo con esat­ tezza, ciò che vi è di meraviglioso nell’animale.

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LASCAUX O LA NASCITA DELL*ARTE

LASCAUX NELLA STORIA DELL* ARTE

Ciò che distingue in generale le immagini di Lascaux è il loro integrarsi in alcuni riti. Di essi non sappiamo nulla, ma dobbiamo supporre che l’esecuzione dei di­ pinti fosse una delle loro componenti. Tracciare una fi­ gura non era forse, di per sé, una cerimonia, ma poteva esserne un elemento costitutivo. Si trattava di un’opera­ zione, religiosa o magica. Le immagini dipinte, o incise, senza dubbio non avevano quel significato di decora­ zione duratura che fu loro espressamente attribuito nei templi e nelle tombe dell’Egitto, così come nei santuari della Grecia o della cristianità del Medioevo. Se avesse­ ro avuto un tale valore, il sovrapporsi delle immagini non sarebbe stato possibile. Esso significa che le deco­ razioni esistenti erano diventate trascurabili nel mo­ mento in cui si tracciava una nuova immagine. In quel momento era d’importanza secondaria sapere se la nuova immagine ne distruggeva un’altra più antica, e forse più bella. A Lascaux la ricerca di un effetto d ’in­ sieme cominciò a manifestarsi soltanto nella composi­ zione della grande sala, o del diverticolo. Ma senza dubbio in un secondo momento. L’operazione corri­ spondeva unicamente all’intenzione. La maestà della caverna apparve solo in seguito, come un dono del caso o il segno di un mondo divino. Questa maniera di superare un’intenzione cosciente ben si accorda con il momento essenziale di quest’arte, che non dipende dall’abitudine, ma dalla spontaneità del genio. Ho già detto che uno scarto, un’incertezza fonda­ mentale, distinguono profondamente nei loro comporta­ menti questi autentici «primitivi» da quelli che l’etno­ grafia ci fa conoscere. Se è vero che le condizioni di vita e il clima della Siberia rendono i paragoni meno assurdi (tuttavia è soprattutto l’universalità del sapere elemen­ tare dei popoli cacciatori che ci permette di parlarne), il carattere ancora informe e più spontaneo degli uomini dell’Età della renna finisce per renderli arrischiati: la comparazione tra comportamenti ancora mutevoli e al­ tri fissati da una lunga tradizione non è a rigore impos-

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sibile, ma la mutevolezza dei primi introduce una fon­ damentale riserva. Senza dubbio l’Età della renna non fu un periodo di rapidi cambiamenti. L’Aurignaziano e il Magdaleniano presentano poche differenze nonostan­ te i millenni che li separano. A quel tempo l’evoluzione non era rapida, non era analoga a quella che oggi inces­ santemente muta tutti gli aspetti della nostra vita. Ma neppure seguiva una via tracciata che si opponeva al cambiamento, all’incertezza - a volte persino all’inno­ vazione. Questo punto è essenziale: la regola dell’arte dell’Età della renna era dettata non tanto dalla tradizione quan­ to dalla natura (dalla fedele imitazione della natura). E forse indifferente che si trattasse di natura imitata e non d’invenzione, ma è decisivo che la norma sia stata rice­ vuta daYi!esterno. Significa che in se stessa l’opera d’arte era libera, che non dipendeva da procedimenti che ne avrebbero determinato la forma dall’interno e l’avreb­ bero ridotta a convenzione. Così le associazioni di idee preconcette, convenzionali, i cliché, possono determi­ nare dall’interno l’espressione letteraria, riducendola a un percorso chiuso, eliminando l’imprevisto, il presti­ gioso. Ma un nuovo percorso, aperto e folgorante, ri­ mane possibile in risposta a qualche sollecitazione im­ provvisa che provenga dall’esterno e rovesci l’ordine costituito. L’Età della renna, caratterizzata nel suo in­ sieme da limitati cambiamenti nei modi di vivere, sem­ bra aver risposto prima di tutto ai dati esterni della na­ tura (senza obbedire alla convenzione). Esistevano dei procedimenti, e senza alcun dubbio gli uomini di quel tempo se li trasmisero, ma non erano essi a decidere la forma, lo stile e l’inafferrabile movimento dell’opera d’arte. Questo scarso peso della convenzione non deve stupire, poiché si trattava dei primi passi: ancora non era stata tracciata alcuna via da seguire. Inevitabilmen­ te l’arte, alla sua nascita, sollecitava quell’impulso di spontaneità indomabile che si è convenuto di chiamare genio. A Lascaux questo libero impulso è assolutamen­ te sensibile, e proprio per questo, parlando dell’arte della caverna, ho parlato di un inizio. Non possiamo

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datare questi dipinti con certezza assoluta. Ma qualsia­ si sia la loro datazione reale, essi erano innovativi: crea­ vano dal nulla il mondo che raffiguravano. Non si ebbe allora alcuna innovazione nel modo di lavorare la pietra. Gli uomini dell’Età della renna si li­ mitarono a migliorare le tecniche precedenti (che già l’uomo di Neandertal utilizzava). Ma nei comporta­ menti associati all’arte, nei riti e nei sentimenti, così co­ me nell'arte stessa, l’oscillazione, l’instabilità rendeva­ no diversi dagli odierni popoli primitivi gli uomini del­ l’Età della renna, che conobbero forse la routine, ma senza che questa li dominasse alla stesso modo. Non dobbiamo mai dimenticare questo elemento d ’innovazione, se tentiamo di situare Lascaux nella prospettiva della storia. Lascaux ci allontana dall’arte dei popoli arretrati, ma ci avvicina all’arte delle civiltà più raffinate e più effervescenti. Quello che si percepi­ sce, quello che ci colpisce a Lascaux, è ciò che freme. Un sentimento di danza dello spirito ci innalza di fron­ te a queste opere in cui la bellezza, priva di regole, pro­ mana da movimenti febbrili: di fronte a esse ciò che ci s’impone è la libera comunicazione tra l’essere e il mondo che lo circonda; l’uomo vi si abbandona entran­ do in armonia con questo mondo di cui scopre la ric­ chezza. Questo movimento di danza ebbra ebbe sem­ pre la forza di elevare l’arte al di sopra dei compiti su­ bordinati che essa accettava, che la religione o la magia le dettavano. Reciprocamente, l’accordo dell’essere con il mondo che lo circonda richiede le trasfigurazioni del­ l’arte, che sono le trasfigurazioni del genio. Esiste in questo senso una segreta parentela tra l’arte di Lascaux e l’arte delle epoche più vitali, più profon­ damente creatrici. L’arte sottile di Lascaux rivisse nelle arti nascenti, che abbandonavano con vigore la via tracciata. Questo talvolta accadde senza clamore: pen­ so all’arte dell’Antico Impero, all’arte greca del vi seco­ lo... Ma a Lascaux nulla usciva dal solco tracciato: era il primo passo, era l’inizio.

NOTE E DOCUMENTAZIONE

NO TE SULLE FIGURE PREISTO RICH E CITATE N O N PRO VENIENTI DA LASCAUX

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«Talvolta queste linee assumono forma...», p. 45. Rilievo dell’abate Breuil dalla grotta di La Baume-Latrone, Pont du Gard, presso Nîmes. Si veda H. Breuil, Quatre cents siècles

d’art pariétal. Les cavernes ornées de l’Âge du Renne, Montignac-sur-Vézère 1952.

«...il meraviglioso cervide della grotta Bayol...», p. 45. Rilievo di Edouard Drouot dalla grotta Bayol, a Collias, non lontano da quella di La Baume-Latrone (Pont du Gard, presso Nîmes). Si veda E. Drouot, Les peintures de la Grotte Bayol à Collias (Gard)..., in «Bul­ letin de la Société préhistorique française »,

1953. η· 7- 8, PP- 392-4° 5, %· 8. « Delle figure aurignaziane del soffitto di Altamira...», p. n o . Figura proveniente dalle grotte di Altami­ ra, Santillana del Mar (Santander), ripro­ dotta da H. Breuil e É. Cartailhac, La Ca­

verne d’Altamira à Santillane près Santander, Monaco 1906. Si vedano; H. Breuil, Quatre cents siècles d’art pariétal..., cit., pp. 64-65; E. Saccasyn della Santa, Les Figures humai­ nes du Paléolithique supérieur eurasiatique, Antwerpen 1947, n. i,fig. i;n . n ,fig . 12; n. 12, fig. 13; nn. 48-53, figg. 48-53. «...uomo di Hornos...», p. n o . Figura proveniente dalla grotta di H or­ nos de la Pena, Torrelavega (Santander), ri­ prodotta da H. Alcade del Rio, H. Breuil e L. Sierra, Les Cavernes de la Région canta­ brique, Monaco 19 n . L’abate Breuil precisa di aver omesso « il sesso in erezione » nel ri­ lievo, in quanto non era sicuro che apparte­ nesse alla figura. Si veda H. Breuil, Quatre cents siècles d’art pariétal..., cit., p. 355.

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«A Pech-Merle...», p. n o . Figura proveniente dalla caverna di PechMerle, Cabrerets (Lot), riprodotta da A. Lémozi, La grotte-tempie de Pech-Merle. Un nouveau sanctuaire préhistorique, Paris 1929. Si vedano: E. Saccasyn della Santa, Les Fi­

gures humaines du Paléolithique supérieur eurasiatique, cit., n. 5, fig. 6 (riprodotta a fianco); n. 81, fig. 79; n. 215, fig. 199; n. 216, fig. 200; H. Breuil, Quatre cents siècles d’art pariétal.., cit., p. 273, fig. 307. «A Les Combarelles...», p. 112. Figura dalla grotta di Combarelles, Les Eyzies-de-Tayac-Sireuil (Dordogna), con te­ sta a « forma di mammut », riprodotta in H. Breuil, L. Capitan e D. Peyrony, Les Com­ barelles, aux Eyzies, Paris 1924.

«Una di esse è sollevata da un movimento di vita selvaggia», p. 113. Caverna dei Trois Frères, Montesquieu-Avantès (Ariège), rilievo dell’abate Breuil. La figura semiumana descritta è quella all’estrema destra. Si veda H. Breuil, Quatre cents siècles d’art pariétal..., cit., pp. 176-177, figg. 129 e 139. «...una seconda figura del groviglio dei Trois Frères...», p. 113. Caverna dei Trois Frères, MontesquieuAvantès (Ariège), rilievo dell’abate Breuil. Si veda H. Breuil, Quatre cents siècles d’art pariétal..., cit., p. 177 e fig. 133.

NOTE E DOCUMENTAZIONE

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«...la figura nota da gran tempo con il nome di “stregone”, e che oggi l’abate Breuil ha preferito chiamare “il dio dei Trois Frères”», p. 113. Caverna dei Trois Frères, MontesquieuAvantès (Ariège), rilievo dell’abate Breuil. Si veda H. Breuil, Quatre cents siècles d'art pariétal..., cit., p. 176 e fig. 130.

LA SCOPERTA DELLA CAVERNA

La caverna di Lascaux fu scoperta giovedì 12 settembre 1940 da un gruppo di ragazzi di Montignac (o allora ivi resi­ denti): Marcel Ravidat, che aveva diciott’anni, Jacques Marsal e Simon Coencas, entrambi quindicenni, Georges Agnel, di sedici anni. Ravidat voleva soltanto esplorare la cavità lasciata da un albero sradicato in data imprecisata, forse una trentina d’anni prima. Una vecchia donna, che vi aveva seppellito un asino, sosteneva si trattasse dell’ingresso di un sotterraneo me­ dioevale, che conduceva al piccolo castello vicino a Lascaux, situato ai piedi della collina. Poiché un progetto che aveva condotto i quattro ragazzi alla fattoria vicina non aveva avuto seguito, essi ripiegarono sull’esplorazione progettata da Ravi­ dat, in vista della quale quest’ultimo aveva portato con sé una lampada. La versione secondo cui i ragazzi, partiti con l’in­ tenzione di andare a caccia, avrebbero seguito il loro cane sce­ so nel buco, sembra essere un’invenzione dei giornalisti a cui i ragazzi accondiscesero senza darvi troppa importanza. La cavità misurava circa ottanta centimetri di diametro e altrettanti di profondità. Sul fondo si apriva un buco più pic­ colo in cui si poteva gettare un sasso che cadeva lungamente. Ravidat lo allargò e fu il primo a introdursi, a testa in giù. Cadde su un cumulo di terra prodotto da un crollo. Accese la lampada e chiamò i compagni che lo raggiunsero. Esploraro­ no la caverna dove non tardarono a scoprire dei disegni, poi delle figure animali. Compresero allora di aver scoperto una caverna preistorica, un tesoro inestimabile che avrebbe assi­ curato loro una fortuna. Nella relazione, redatta pochi giorni dopo su richiesta del maestro Lavai, Marcel Ravidat scrisse: «La nostra gioia era indescrivibile, un’orda di selvaggi impe­ gnata in una danza di guerra non avrebbe fatto di meglio ». Decisero di non dir niente a nessuno. Tuttavia tornarono

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l’indomani con un quinto ragazzo. Avevano con loro delle corde e portarono a termine l’esplorazione fino al pozzo. En­ tro pochi giorni una quindicina di persone erano al corrente della scoperta, tra cui un gendarme che consigliò loro di av­ vertire il maestro Lavai, che possedeva nozioni di preistoria. Costui, profondamente scettico, esitò a lungo prima di scen­ dere, ma quando giunse nella grande sala, rimase stupefatto. L’abate Breuil, che allora risiedeva a Brive, presso l’abate Jean Bouyssonie, fu avvertito il 17 settembre e potè recarsi sul posto il 21. «Dalla scoperta della caverna, due ragazzi si ac­ camparono [...] nei pressi; nessuno vi potè entrare senza di loro, e se, a questa data, centinaia di visitatori di Montignac e dintorni non saccheggiarono la caverna, lo si deve alla loro dedizione ». l ’a u t e n t i c i t à d e l l e c a v e r n e d i p i n t e

L’autenticità delle pitture parietali della preistoria è stata posta in dubbio recentemente, in seguito a un incidente av­ venuto nella caverna di Pech-Merle a Cabrerets (Lot). Du­ rante l’estate del 1952, un grande scrittore francese, André Breton, volle rendersi conto dello stato di un dipinto passan­ doci sopra un dito. Scoppiò un alterco, e André Breton ven­ ne denunciato e poi condannato a un’ammenda. Ma poiché era rimasta della pittura sul suo dito, egli ritenne di aver sco­ perto una frode. La Société des Gens de Lettres riprese la questione e formulò una richiesta di indagine sull’autenticità delle caverne dipinte. L’abate Breuil, in un rapporto alla Commission Supérieure des Monuments Historiques classi­ ficò questa richiesta come «irricevibile». Pur senza essere in alcun modo prevenuto contro André Breton, la cui sincerità non è in causa, il punto di vista del­ l’abate Breuil è necessariamente condiviso da chiunque sia sufficientemente informato. La questione dell’autenticità delle caverne dipinte è stata posta fin dall’inizio, al momento della scoperta, nel 1879, del­ la caverna di Altamira da parte di Marcelino de Sautuola. Al­ l’epoca queste pitture incontrarono il generale scetticismo degli studiosi. Si giunse persino a ipotizzare un complotto dei gesuiti spagnoli che vedevano nella preistoria una contesta­ zione pericolosa dei precetti biblici e che avrebbero così commissionato un falso per screditare gli studiosi che a essa

NOTE E DOCUMENTAZIONE

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si dedicavano. Occorsero più di ventanni per superare que­ sta diffidenza. All’inizio del xx secolo, figure analoghe, incise a Les Combarelles, o dipinte a Font de Gaume, costrinsero gli scettici a cambiare opinione. Il mondo degli studiosi di preistoria ne ammise infine l’autenticità. Ma all’epoca era an­ cora cosa comune dubitarne e sostenere ipotesi strampalate. Les Combarelles e Font de Gaume furono ritenute « opera di renitenti alla Coscrizione imperiale». E si accusò l’abate Breuil, « che andava a farvi dei rilevamenti e vi saliva con il materiale per eseguirli». Questo scetticismo passò di moda fino all’incidente di Cabrerets, in cui la scoperta della pittura fresca sembrava giu­ stificare un nuovo allarme. La sensazionale scoperta della frode di Piltdown, pubbli­ camente svelata in Inghilterra il 25 novembre 1953, fornì un ulteriore punto d’appoggio alla diffidenza. Per quarantadue anni anche gli antropologi più esperti avevano ritenuto au­ tentico un ritrovamento di ossa fossili che dovettero infine ri­ velarsi falsificate. Perché gli studiosi di preistoria non avreb­ bero potuto esser stati raggirati allo stesso modo in altre cir­ costanze? Non era forse incredibile trovare fresca una pittu­ ra a cui la scienza attribuiva almeno quindicimila anni? In realtà, a proposito di Piltdown, si trattava, come disse Henri-Victor Valois, « di una frode preparata da tempo, realiz­ zata da qualcuno che aveva accesso a collezioni specializzate, e perpetrata con un machiavellismo stupefacente». Valois con­ cludeva: «Una tale frode [...] fu un capolavoro nel suo gene­ re». Un capolavoro che fu possibile compiere in un laborato­ rio, non avrebbe potuto evidentemente esser ripetuto nelle condizioni di lavoro offerte da una caverna, in cui la coerenza di un sistema figurativo deve essere organizzata punto per punto. D’altra parte, un reperto fossile come il cranio di Pilt­ down rivestiva un interesse eccezionale e doveva fatalmente suscitare innumerevoli studi aberranti. In un certo senso, per quanto assurdo sia, l’impresa valeva la pena. Anche ammet­ tendo che la frode si sia potuta perpetrare nelle caverne dipin­ te, il lavoro richiesto - le falsificazioni minuziose e intermina­ bili - sarebbe sproporzionato rispetto al risultato auspicato: tradito anche da una sola anomalia, a quel dipinto falso non re­ sterebbe che confondersi nella folla di quelli autentici. Del resto, se gli scettici della Société des Gens de Lettres avessero aperto la grande opera che l’abate Breuil pubblicò nell’aprile 1952, diversi mesi prima della «scoperta» di An­ dré Breton, e precisamente al capitolo che l’autore consacra

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alla storia del riconoscimento deirautenticità delle caverne ('Quatre cent siècles d'art pariétal, ρ. 15), vi avrebbero potuto leggere riguardo ai rilevamenti eseguiti nel 1902: «Era im­ possibile ricalcare le grandi figure del soffitto di Altamira. Il colore, infradiciato, avrebbe aderito alla carta e i dipinti sa­ rebbero andati distrutti». Nulla di più banale: la conserva­ zione della pittura allo stato fresco è causata dall’ambiente umido delle caverne. L'abate Breuil ha trattato deirautenticità di Pech-Merle in una nota apparsa in seguito all’incidente (« Bulletin de la So­ ciété préhistorique française», 1952, pp. 465-466), in cui parla anche di Lascaux, facendo allusione alle differenze che talvolta si scoprono tra lo stato attuale di un dipinto e una fotografia più antica. «Non si è forse detto che l’uomo di Lascaux (“l’uomo morto” del pozzo), che Pierre Ichac nel 1940 fotografò e poi pubblicò su “Illustration”, aveva l’organo virile appena visibile, e che con il tempo esso si era molto sviluppato? Testimone a Lascaux dello stato delle cose fin dai giorni della scoperta, posso dire che tutto ciò è falso e che 1’“Illustration” ha ridotto questo dettaglio per rispar­ miarne la vista ai suoi pudibondi lettori». Le condizioni della scoperta di Lascaux, che ho riportato nelle pagine precedenti, costituiscono evidentemente un so­ stegno dell’autenticità dei dipinti. Ma per coloro che, per aberrazione, ne mettessero l’evidenza in dubbio, esiste una prova più precisa. Come ho già detto, all’entrata del passag­ gio dal lato destro si vedono chiaramente le tracce di due enormi figure di bovidi. Di esse rimangono soltanto le zampe e la parte inferiore del petto che una trasudazione ha preser­ vato dallo sfaldamento della pittura un po’ più in alto, sul cal­ care friabile della parete. Come dice l’abate Breuil («Bulletin de la Société préhistorique française», 1950, ρ. 35?)> queste tracce «sono ben visibili sotto una efflorescenza di calcite biancastra che ha fissato il colore e indurito la superficie; tut­ to il resto si è sfaldato: è la prova assoluta dell antichità delle belle figure vicine, perfettamente conservate e realizzate con la medesima tecnica» (il corsivo è dell’abate Breuil). Le resi­ due tracce di questi bovidi sono in effetti perfettamente si­ mili alle parti corrispondenti dei grandi tori della sala. Non potevamo evitare di affrontare la questione dell’au­ tenticità delle caverne preistoriche dipinte, poiché è stata pubblicamente posta di recente, ma dobbiamo precisare che il dubbio è sorto, in seguito al citato incidente, nella mente di persone male informate.

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LE TECNIC H E DELLA PITTURA PREISTORICA

La perfezione e la ricchezza tecnica raggiunta dall’arte pit­ torica in epoca così remota ci lascia sconcertati. Certo, ri­ guardo alle superfici da dipingere la scelta era limitata: si trattava di utilizzare le parti più lisce delle pareti rocciose. Probabilmente gli uomini del Paleolitico superiore francocantabrico non realizzarono dipinti rupestri all’aria aperta. Tali dipinti potrebbero essere scomparsi, ma è improbabile, perché ne rimangono esempi numerosi nel Levante spagno­ lo, in parte contemporanei. Le materie coloranti erano utilizzate così come le fornivano i giacimenti, frantumate e stemperate nell’acqua o in una mate­ ria grassa. Potevano quindi essere utilizzate liquide o pastose. Si tratta di ossidi minerali. In particolare i neri erano ricavati dal manganese, l’ocra rossa dall’ossido di ferro. Queste materie furono del resto già utilizzate, nel paleolitico medio, dall’uomo di Neandertal e si è ipotizzato che se ne servisse per dipingersi il corpo. Soltanto nel Paleolitico superiore queste materie fu­ rono usate per riprodurre forme naturali. All’inizio gli stru­ menti usati per applicare la pittura furono le dita. In seguito vennero utilizzati tamponi di materia vegetale, ciuffi di pelo, bastoni resi morbidi. Inoltre, gli uomini dell’Età della renna, in particolare a Lascaux, hanno certamente utilizzato un procedi­ mento di cui oggi si servono gli aborigeni australiani, che con­ siste nell’introdurre della polvere in un legno cavo e soffiarla. E così che si procedeva per ottenere le impronte di mani, nume­ rose in quasi tutte le caverne: si appoggiava la mano sulla pare­ te e si soffiava tutt’intorno il colore. A Lascaux questo proce­ dimento era in genere usato per le tinte piatte, in particolare per le criniere dei cavalli, che non hanno contorni netti. Non sappiamo quali strumenti utilizzassero per comporre con que­ sta tecnica insiemi eseguiti magistralmente. Potrebbero aver utilizzato ossa cave o canne. Infatti nei giacimenti preistorici sono state ritrovate ossa ricolme di materia colorante. I profili erano talvolta tracciati con un tratto nero finissi­ mo. Ma il contorno che circonda una tinta piatta potrebbe anche esser posteriore. In ogni caso, a Lascaux, il tratto inci­ so che delimita le forme fu impiegato solo successivamente. Le figure potevano esser ritoccate anche molto tempo dopo la loro esecuzione: la forma e la tinta potevano allora essere modificate.

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LE INTERPRETAZIO NI DELLA SCENA DEL PO ZZO

Ho già parlato del pozzo e della scena che vi è rappresenta­ ta. Ne ho parlato innanzi tutto nella descrizione generale della caverna. E vi sono ritornato a proposito della figura umana, che non ne è la componente meno importante. Questa scena è eccezionale nell’arte franco-cantabrica. Solo l’arte rupestre del Levante spagnolo, in parte contem­ poranea e in parte posteriore, e comunque di stile diverso, presenta come il pozzo di Lascaux autentiche scene; scene di caccia, persino di guerra, oppure, in un sol caso, scene di vi­ ta quotidiana: un uomo intento nella raccolta del miele assa­ lito dalle api. La scena di Lascaux è comunque di più ardua decifrazione rispetto a quelle del Levante spagnolo: essa ha infatti suscitato interpretazioni contraddittorie, di cui mi so­ no riservato di parlare in appendice al libro. Innanzi tutto, l’abate Breuil l’ha intesa come una scena aneddotica, peraltro molto complessa, raffigurante un inci­ dente: sarebbe un « dipinto che forse commemora un inciden­ te mortale verificatosi durante la caccia ». L’uomo sarebbe stato ferito a morte dal bisonte. Ma que­ st’ultimo, che sembra esser stato solo sfiorato dalla lancia tracciata di traverso alla ferita da cui perde le viscere, non può essere stato sventrato da quel colpo, che non avrebbe potuto produrre un tale effetto. «La presenza del rinoceron­ te che si allontana a sinistra con passo tranquillo [...] ci offre la spiegazione; sembra allontanarsi con calma dopo aver di­ strutto ciò che lo inquietava». Il «corto oggetto munito di un forte uncino, e con l’altra estremità a crociera», che si trova ai piedi del bisonte, dovrebbe essere un propulsore. Resta da spiegare il «palo con base seghettata», sormontato da un «uccello stereotipato, senza zampe e quasi senza co­ da». Esso ricorda all’abate Breuil «i pali funerari degli eschimesi dell’Alaska e degli indiani di Vancouver». A eccezione forse dell’interpretazione dell’uccello sul pa­ lo, le ipotesi dell’abate Breuil sono verosimili. Esse sono sta­ te riprese da Fernand Windeis e da Alan H. Brodrick. George Lechler, in un articolo su «Man» (The Interpreta­ tion of the Accident Scene at Lascaux, 1951, t. 51), vede nell’uc­ cello sulla pertica un propulsore simile ad altri scolpiti giunti si­ no a noi. E nelle viscere del bisonte vede un qualche segno inin­ telligibile, a cui assegna la forma di una lettera ebraica... L’interpretazione più curiosa, se non la più convincente, è quella a cui Horst Kirchner ha dedicato un lungo articolo su

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« Anthropos » {Ein archäologischer Beitrag zur Urgeschichte des Schamanismus, 1952, t. 47). Per Kirchner non si tratterebbe di un incidente di caccia, l’uomo disteso non sarebbe morto, e sa­ rebbe uno sciamano raffigurato nel momento della trance esta­ tica. Kirchner sostiene che vi sia un rapporto tra la cultura di Lascaux e quella siberiana dei nostri giorni. Non è una tesi in­ sensata: la Siberia nel Paleolitico superiore conobbe certamen­ te una cultura analoga a quella dell’Europa occidentale, e può essere che sia sopravvissuta senza grandi mutamenti fino alla nostra epoca. Kirchner paragona la scena del pozzo alla rap­ presentazione del sacrificio di una vacca presso gli jakuti, for­ nita da Sierozewski (.lakuty, San Pietroburgo 1896; riprodotta in Lot-Falk, Les rites de chasse..., tav. vin, p. 96). Davanti a questa vacca sono raffigurati, assai curiosamente, tre pali sor­ montati da uccelli scolpiti, simili a quello della scena di Las­ caux. Il sacrificio jakuta è effettivamente in rapporto con il ra­ pimento estatico di uno sciamano. I pali servivano a marcare il cammino celeste, lungo cui lo sciamano avrebbe condotto l’animale sacrificato. Gli uccelli sono gli spiriti ausiliari senza i quali lo sciamano non potrebbe intraprendere il viaggio cele­ ste che si compiva mentre era esanime. L’intervento degli uc­ celli nell’estasi sciamanica è assai comune. Lo stesso sciamano, in principio, parteciperebbe della natura dell’uccello. Vesti­ rebbe talvolta un « costume d’uccello » e la testa d’uccello che porta l’uomo del pozzo avrebbe il medesimo significato di quel costume. Esso sarebbe soltanto incompleto e la nudità non do­ vrebbe sorprendere in una pratica sciamanica. La rigidità del­ l’uomo - infatti è rigido come un bastone - sarebbe anch’essa caratteristica di tale pratica. Doveva esserci, per l’autore, qualcosa di così seducente nel­ la sua ipotesi da fargli dimenticare il carattere inverosimile del­ l’interpretazione del bisonte sventrato come un sacrificio. Per sostenerla, doveva in primo luogo ammettere come evidente l’indipendenza del rinoceronte rispetto al resto della scena. Ma un esame obiettivo, che non sembra esser stato da lui compiu­ to, mostra piuttosto la somiglianza nella fattura e suggerisce l’unità dell’insieme. L’ipotesi di Kirchner ha certamente un merito: sottolinea la stranezza della scena. L’ipotesi dell’abate Breuil è sosteni­ bile, ma lascia inesplicato l’elemento più strano, la maschera in forma d’uccello e l’uccello sul palo. D’altra parte, a rigore, possiamo ipotizzare che il rinoceronte abbia sventrato il bi­ sonte e che il bisonte abbia ucciso l’uomo: ma la spiegazione non è soddisfacente.

LE CAVERNE DECORATE DEL PALEO LITICO SUPERIO RE NELLA FRANCIA SU D -O C C ID E N T A L E

La Bastide A

LE CAVERNE DECORATE DEL PALEOLITICO SUPERIORE NELLA REG IO NE D I LASCAUX

SA R LA T O

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F IN IT O D I ST A M PA R E N E L M E SE D I F E B B R A IO in t e r n o

2014

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