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Italian Pages 176/172 [172] Year 1996
Il volume esamina la presenza di prospettive apocalittiche nel Nuovo Testamento. La ricerca è dunque costruita attorno a due poli: gli scritti del Nuovo Testamento da un lato, l'apoca littica, con il suo linguaggio e i . suoi contenuti, dall'altro. Per il Nuovo Testamento vengono presi in considerazione i vangeli sinottici e la personalità di Gesù, le lettere paoline e la personalità di Paolo, l'Apocalisse di Giovanni e il relativo autore. Il genere dell'apocalittica è esaminato sia attraverso l'uso del linguaggio specifico, sia nell'individuazione della mentalità e della prospettiva propria. Un approfondimento diretto dell'a pocalittica cristiana permette di affermare che essa ha, rispet to a quella del giudaismo, una differenza fondamentale: la sua attesa degli avvenimenti finali e del mondo nuovo è accompa gnata dalla certezza che tutto ciò ha già avuto una realizzazio ne anticipata nella persona di Gesù Cristo. La ricerca conclude che gli scritti del Nuovo Testamento e l'a pocalittica sono uniti da connessione inscindibile. Il che obbli ga a dare una risposta positiva all'interrogativo con cui si chiude il volume: c'è uno spazio per l'apocalittica nella fede cristiana? L'interrogativo è anche una sollecitazione alle Chiese. BRUNO CoRSANI, nato a Napoli nel1924, ha studiato alla Facoltà Val dese di Roma e all'Università di Torino, dove nel1948 si è laureato in letteratura cristiana antica, nonché alle Università di Edinburgo e di Basilea, dove ha approfondito in modo speciale le scienze bibliche con i professori Eichrodt, K.L. Schmidt e Cullmann. Ha insegnato a Buenos Aires (anni Cinquanta) e poi alla Facoltà Valdese di Teologia a Roma ( dal1962) . Fra le sue pubblicazioni principali segnaliamo: In troduzione al Nuovo Testamento ( due volumi) , Claudiana, Torino 1972 e1991 ) e 1975; Lettera ai Galati ( CSANT) , Marietti, Genova 1990; L'Apocalisse. Guida alla lettura, Claudiana, Torino 1987.
ISBN 88-10-40264-2
L. 24.000 (IVA compresa)
9 78881 o 402641
collana LA BffiBIA NELLA STORIA diretta da Giuseppe Barbaglio
La collana si caratterizza per una lettura rigorosamente storica delle Scritture sacre, ebraiche e cristiane. A questo scopo, i libri biblici, oltre che come documenti di fede, saranno presentati come espressione di determina ti ambienti storico-culturali, punti di arrivo di un lungo cammino di espe rienze significative e di vive tradizioni, testi incessantemente riletti e re interpretati da ebrei e da cristiani. Si presuppone che la religione biblica sia essenzialmente legata a una storia e che i suoi libri sacri ne siano, per definizione, le testimonianze scrit te. Più da vicino, ci sembra fecondo criterio interpretativo la comprensione, criticamente vagliata, della Bibbia intesa come frutto della storia di Israele e delle primissime comunità cristiane suscitate dalla fede in Gesù di Nazaret e, insieme, parola sempre di nuovo ascoltata e proclamata dalle generazioni cristiane ed ebraiche dei secoli post-biblici. Il direttore della collana, i collaboratori e la casa editrice si assumono il preciso impegno di offrire volumi capaci di abbinare alla serietà scientifica un dettato piano e accessibile a un vasto pubblico. Questi i titoli programmati: l. L'ambiente storico-culturale delle Scritture ebraiche ( M. Cimosa )
2. 3. 4. 5. 6. 7.
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Da Mosè a Esdra. I libri storici dell'antico Israele (E. Cortese: 1985) I profeti d'Israele: voce del Dio vivente ( G. Savoca: 1985) I sapienti di Israele ( G. Ravasi ) I canti di Israele. Preghiera e vita di un popolo ( G. Ravasi: 1986) La letteratura intertestamentaria ( M. Cimosa: 1992) L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata ( R. Penna: 31991) Le prime comunità cristiane (V. Fusco: 1997) La teologia di Paolo ( G. Barbaglio ) Evangelo e Vangeli. Quattro evangelisti, quattro vangeli, quattro destinatari ( G. Segalla: 1993) Gesù di Nazaret ( G. Barbaglio ) La tradizione paolina ( R. Fabris: 1995) Omelie e catechesi cristiane nel I secolo ( G. Marconi: 1994) L'Apocalisse e l'apocalittica del Nuovo Testamento ( B. Corsani: 1997) La Bibbia nell'antichità cristiana ( a cura di E. Norelli) l. Da Gesù a Origene (1993) Il. Dagli scolari di Origene al V secolo La Bibbia nel Medioevo (a cura di G. Cremascoli- C. Leonardi: 1996) La Bibbia nell'epoca moderna e contemporanea ( a cura di R. Fabris:
18.
La lettura ebraica delle Scritture
8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.
1992)
(a cura di S.J. Sierra: 21996)
Bruno Corsani
L'APOCALISSE E L'APOCALITTICA DEL NUOVO TESTAMENTO
EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA
©
1996 Centro editoriale dehoniano Via Nosadella, 6 - 40123 Bologna
ISBN 88- 10-40264-2 Stampa: Grafiche Dehoniane, Bologna 1997
Alla facoltà di teologia dell'Università di Basilea in segno di riconoscenza per il conferimento di un Dottorato h.c.
Avvertenza sulle citazioni e bibliografie
I rinvii o le citazioni nelle note a piè di pagina si riferiscono alle opere elencate nella Bibliografia all'inizio di ciascun capitolo. Nelle note queste opere sono indicate solo con il nome dell'autore, o - se occorre - con qualche parola significativa del titolo. Alcune opere di carattere generale, che possono essere citate in più capitoli, sono elencate qui di seguito. I rinvii a queste opere saranno fatti con il nome dell'autore preceduto da asterisco. Incon trando in una nota un nome così contrassegnato ( per esempio: *Koch ) l'indicazione bibliografica completa andrà cercata in questo repertorio e non nella Bibliografia del capitolo. G., Bibbia. Il Nuovo Testamento. Introduzione nel qua dro della storia del cristianesimo primitivo, Brescia 1974. *CONZELMANN H. - LINDEMANN A., Guida allo studio del Nuovo Te stamento, Casale Monferrato 1986. *CoRSANI R, Introduzione al Nuovo Testamento, vol. I ( Vangeli e Atti) , Torino 21991, vol. II ( Lettere e Apocalisse ) 1975. *KASEMANN E., Saggi esegetici, Casale Monferrato 1985. *KAsEMANN E., «Gli inizi dell a teologia cristiana», in Saggi esegetici, 83- 105. *KASEMANN E., «Sul tema dell'apocalittica cristiana primitiva», in Saggi esegetici, 106- 132. *KocH Kl., Difficoltà dell'apocalittica, Brescia 1977. *RusSELL D.S., L'apocalittica giudaica (200 a.C.-100 d.C.), Brescia 1991. *WIKENHAUSER A. - ScHMID J., Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia 198 1.
*BoRNKAMM
·
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Abbreviazioni
ABD BbbOr BJRL BtE TL CBQ CrNSt EvT GLNT Harv TR IDB Interp NTS Pro t RB RivB RHPR RSB R Thom TLZ TU TViat TZBas ZNW ZTK
Anchor Bible Dictionary Bibbia e Oriente Bulletin of the fohn Rylands Library Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium Catholic Biblica! Quarterly Cristianesimo nella storia Evangelische Theologie Grande Lessico del Nuovo Testamento Harvard Theological Revue Interpreters Dictionary of the Bible Interpretation New Testament Studies Protestantesimo Revue Biblique Rivista Biblica Revue d'histoire et de philosophie religieuse Ricerche Storico Bibliche Revue Thomiste Theologische Literaturzeitung Texte und Untersuchungen Theologia Viatorum Theologische Zeitschrift Zeitschrift fur die neutestamentliche Wissenschaft Zeitschrift fur Theologie und Kirche
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l * Di che cosa stiamo parlando?
Nelle pagine che seguono ci proponiamo di affrontare il tema del rapporto fra Nuovo Testamento e apocalittica, ovvero della pre senza di prospettive apocalittiche nel Nuovo Testamento. I due poli della .nostra ricerca saranno dunque gli scritti del Nuovo Testamento da un lato, e la prospettiva e il linguaggio dell'apocalittica dall'altro. Il primo di questi due poli può, con relativa sicurezza, esser dato per conosciuto. Non potremo, per ragioni di spazio, far riferi mento a tutti i ventisette scritti che compongono il Nuovo Testa-
* Bibliografia: AA. Vv ., L'escatologia. 4" corso di aggiornamento dell'Associa zione Teologica Italiana, Padova 1995; H. ALTHAUS, a cura di, Apocalittica ed escatolo gia. Senso e fine della storia, Brescia 1992; D.E. AuNE, «The Apocalypse of John and the Problem of Genre», in Semeia 36, 65-96; R. BAUCKHAM, La teologia dell'Apoca lisse, Brescia 1994; J.C. BEKER, Paul the Apostle. The Triumph of God in Life and Thought, Philadelphia 1980 (vedi ora anche lo., Paolo l'apostolo' dei popoli [Biblio teca biblica 20), Brescia 1996 [or. Ttibingen 1989, 21992]); J.H. CHARLESWORTH, Gesù nel Giudaismo del suo tempo alla luce delle più recenti scoperte, Torino 1994; J.J. CoL LINS, a cura di, Apocalypse: The Morphology of a Genre, s.l. [ = Atlanta] 1979; Io., , ivi, 1-20; lo., «Apocalypses and Apocalypticism: Early Jewish Apocalypticism», in The Anchor Bible Dictionary, (= ABD), I, 282-288; B. CoRSANI, «L'Apocalisse di Giovanni: scritto apocalittico, o pro fetico?», in BbbOr 17(1975), 253-268; P.D. HANSON, «Apocalypses and ApocalyP ticism: The Genre>> , in ABD l, 279-280; Io., «Apocalypse, Genre», «Apocalypticism», in Interpreter's Dictionary of the Bible, Suppl. Vol., 27-34; D. HELLHOLM, a cura di, Apocalypticism in the Mediterranean World and the Near East, Ttibingen 1983; lo.,
«The Problem of Apocalyptic Genre and the Apocalypse of John», in A. YARBRO CoLLINS, Early Christian Apocalypticism: Genre and Social Setting (Semeia 36), Deca tur 1986, 13-64; KL. KoCH, Difficoltà dell'apocalittica, Brescia 1977; F.J. MuRPHY, «Apocalypses and Apocalypticism», in Currents in Research: Biblica/ Studies 2(1994), 147-179; E. NoRELLI, «Apocalittica: come pensame lo sviluppo?», in RSB VII(1995)2, 163-200; R. PENNA, a cura di, Apocalittica e origini cristiane. Atti del V Convegno di Studi Neotestamentari (Seiano 1993), in RSB VII(1995/2); P. SACCHI, L'apocalittica giudaica e la sua storia, Brescia 1990; E. ScHOSSLER FIORENZA, «The Phenomenon of Early Christian Apocalyptic: Some Reflections on Method», in D. HELLHOLM, a cura di, Apocalypticism in the Mediterranean World and the Near East, Ttibingen 1983, 295316; A. YARBRO CoLLINS, «Apocalypses and Apocalypticism: Early Christian>> , in ABD l, 288-292.
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mento: dovremo, per forza di cose, considerare soprattutto i testi moni principali e le personalità che stanno a monte dei loro scritti: i Vangeli sinottici e la personalità di Gesù, le lettere paoline e la per sonalità dell'apostolo delle genti, l'Apocalisse di Giovanni e il veg gente di Patmos che ne assume la paternità. A monte di tutti questi scritti dovremo tentare, di quando in quando, di risalire alla tradi zione cristiana pre-paolina e pre-sinottica. Il Vangelo di Giovanni e il «discepolo che Gesù amava» che ne è il garante non rientrano in questa ricerca perché il quarto Vangelo rappresenta un orienta mento escatologico che è all'opposto della prospettiva apocalittica (salvo pochissimi passi che generalmente sono considerati interpola zioni editoriali). Il secondo polo della nostra ricerca è l'apocalittica, e qui la possibilità di dare per scontata la sua definizione è molto più limi tata. Gli stessi specialisti rifiutano ogni elemento di certezza alla loro conoscenza della materia, e in modo speciale alla definizione dell'ar gomento dei loro studi. Come scriveva pochi anni fa Paolo Sacchi, oltre all'assenza di buone edizioni critiche degli scritti apocalittici extra-biblici, incombe su tutta la ricerca «l'incertezza del significato stesso di "apocalittica", per cui si corre il rischio di fare la storia di qualcosa che non è mai esistito, almeno con la configurazione esàtta che noi pensiamo».1 È vero che negli ultimi decenni abbiamo assistito a un'esplo sione di interesse per l'apocalittica e per il suo studio: a tutti i livelli e nei più vari ambiti della ricerca storica e biblica gli studiosi si sono curvati su questo tema e hanno discusso fra loro del suo significato e della sua storia. Ne fanno fede numerosissime pubblicazioni: fra queste spiccano raccolte di saggi nelle quali gli specialisti di tutto il mondo affrontano l'argomento, spesso discutendo fra loro e appro fondendo l'uno i risultati dell'altro - o contestandoli. Vorrei far rife rimento anzitutto allo Apocalypse Group del Progetto sui generi let terari sponsorizzato, negli Stati Uniti d'America, dalla Society of Bi blica/ Literature. Questo gruppo di lavoro è all'origine del volume Apocalypse: The Morphology of a Genre, curato nel 1979 da J.J. Col lins per la collezione Semeia (edita dall'americana Scholars Press) nella quale porta il n. 14 (d'ora innanzi questo volume sarà citato come Semeia 14).
1
rist. in 12
P. SACCHI, «> .
anche
CoRSANI,
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2 Giovanni Battista, personaggio apocalittico?*
Sulla soglia dei Vangeli ci imbattiamo nella figura di Giovanni. Personaggio enigmatico, sfugge alle nostre ricerche perché nei docu menti che parlano di lui la persona di Gesù ha un rilievo molto più marcato. Sia nella tradizione primitiva che nei documenti evangelici predomina la prospettiva cristologica. In un certo senso si avvera la norma che il Vangelo di Giovanni attribuisce al Battista stesso: «Bi sogna che egli [Gesù] cresca e che io diminuisca» (Gv 3,30).
LA TESTIMONIANZA DI GIUSEPPE FLAVIO Giovanni è nominato 22 volte in Matteo, 16 in Marco, 24 in Luca, 20 in Giovanni; poi 9 volte negli Atti degli apostoli.
È tutto.
Nessuno degli altri 22 scritti del Nuovo Testamento contiene il suo nome. Nei testi extra-biblici c'è un passo relativamente ampio delle
Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio che parla di lui, e forse non è male partire proprio da questo testo per studiare il carattere della
* Bibliografia: I classici pre-bellici sulla figura di Giovanni sono M. DIBELIUS, Die urchristliche Oberlieferung von dem Tiiufer, Gottingen 1911; M. GoouEL, Au seui! de l'Evangile. Jean Baptiste, Paris 1928; E. LoHMEYER, Das Urchristentum, l, Johannes der Tiiufer, Gottingen 1932; dopo il 1945 ricordiamo W. MARXSEN, Der Evangelist Markus (c. I, 17-32: «Johannes der Taufer»), Gottingen 1956; C.H. ScoBIE, John the Baptist, London 1964; E. LuPIERI, Giovanni Battista fra storia e leggenda, Brescia 1988; Io., Giovanni Battista nelle tradizioni sinottiche, Brescia 1988. Su aspetti partico lari: E. BAMMEL, «The Baptist in early Christian Tradition», in NTS 18(1971/1972), 95128; J. BECKER, Johannes der Tiiufer und Jesus von Nazareth, Neukirchen 1972; G. BoRNKAMM, Gesù di Nazareth, Torino 21977; H. CoNZELMANN, Die Mitte der Zeit. Stu dien zur Theologie des Lukas, Ttibingen 1954 (ed. it. Il centro del tempo. La teologia di Luca, Casale Monferrato 1996); C. H. Dooo, La tradizione storica nel quarto van gelo, Brescia 1983, 305-365; G. JossA, Gesù e i movimenti di liberazione della Pale stina, Brescia 1980; *KAsEMANN, «Sul tema»; W. WINK, John the Baptist in the Gospel Tradition (SNTS, MS), Cambridge 1968.
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sua attività. Riporto il testo dello storico ebreo nella traduzione che ne dà Adolfo Omodeo.1 Il brano delle Antichità si sviluppa come ri flessione sul fatto che l'esercito di Erode Antipa, tetrarca della Gali lea, era stato sgominato da quello del re nabateo Areta. Ecco come prosegue Giuseppe Flavio partendo da questo episodio storico. «Alcuni Giudei ritenevano che l'esercito di Erode (Antipa) fosse stato disfatto da Dio che molto a ragione faceva le vendette di Gio vanni detto il Battista. Erode aveva ucciso costui, uomo retto che aveva invitato i Giudei ad esercitar la virtù e ad usar fra di loro la giu stizia e verso Dio la pietà, e a convenire quindi al battesimo: così in fatti gli sarebbe stata accetta anche l'immersione, quando se ne fos sero serviti non a remissione d'alcuni peccati, ma per la purità del corpo, in quanto l'anima era già purificata dalla giustizia. E accor rendo molti da lui (e infatti moltissimo s'eccitavano a sentire i suoi di scorsi), Erode temendo che tale sua forza di persuasione sugli uomini portasse a qualche insurrezione (mostravano infatti che avrebbero fatto quanto avesse voluto) stimò molto meglio, prima che succedesse qualche novità, di imprigionarlo e toglierlo di mezzo piuttosto che, avvenuto qualche sconvolgimento, doversi pentire d'esser caduto in una rivoluzione. E quello, pel sospetto d'Erode, mandato prigioniero a Machero, il castello di cui abbiamo parlato, vi fu ucciso. I Giudei credettero che per vendetta di lui la disfatta fosse caduta sull'esercito, essendo Iddio avverso a Erode».
Chi volesse leggere, dopo questa lunga citazione, i principali passi dei Vangeli su Giovanni Battista, per es. i primi versetti di Marco l e di Matteo e Luca 3, l'inizio di Matteo 1 1, e poi Gv 1,15-34 e 3,22-30 (tralascio alcuni passi più brevi ai quali eventualmente ac cenneremo più avanti) si renderebbe subito conto che il racconto di Giuseppe Flavio menziona ben poche delle caratteristiche che i Vangeli attribuiscono a Giovanni. Parla sì di un battesimo d'immer sione, ma lo considera semplicemente un lavacro «per la purità del corpo». Manca del tutto il collegamento fra battesimo e invito alla conversione. Il greco metanoia potrebbe significare, in base all'eti mologia, cambiamento di mente (cioè di sentire, di mentalità). In realtà corrisponde a ciò che intendevano i profeti d'Israele quando usavano nelle loro esortazioni il verbo ebraico shub, che vuoi dire:
1
GIUSEPPE FLAVIO,
Nuova edizione a cura di
20
Ant. 18,5,2. Trad. it. da F.E.
A. 0MODEO, Gesù il Nazoreo, Sciuto, Soveria Mannelli 1992, 125.
ritornare (al Signore), cambiare direzione di marcia, dare alla pro pria vita una svolta di 360 gradi (in termini automobilistici si di rebbe: fare una svolta a U).2 Questi difetti del racconto di Giuseppe Flavio però ce lo rendono ancora più prezioso dal punto di vista sto rico, perché significa che egli non dipendeva, per le sue informazioni su Giovanni, né dal testo dei Vangeli né dalla tradizione di cui i Van geli si sono serviti. Nonostante i rilievi che si possono muovere a questa pagina di Giuseppe Flavio, dobbiamo raccoglierne le informazioni degne di fede, come quella sull'integrità morale di Giovanni («uomo retto»), sulla sua efficacia come predicatore, sul martirio con cui terminò la sua esistenza. È invece poco verosimile che il battesimo che impar tiva fosse destinato soltanto a purificare il corpo, come altri lavacri rituali: sarebbe inspiegabile, in questo caso, l'accorrere di un numero così elevato di persone per udirlo ed essere battezzate da lui. Ma a monte di quest'osservazione c'è una domanda più impor tante: come avrebbe potuto nascere e trovare ascolto una predica zione etica così rigorosa, se non nel quadro di un'attesa imminente della fine del mondo (di cui Giuseppe Flavio non fa cenno, ma che è attribuita a Giovanni, come vedremo, dai racconti evangelici)? La formula usata da Giuseppe («esortava... a venire insieme a batte simo») sembra alludere alla formazione di una comunità non for male, specie di fraternità ideale nella quale si entrava attraverso la conversione e il battesimo: la solidarietà fra i battezzati potrebbe es sere stata stimolo e cemento per raggiungere il rigore morale richie sto dalla predicazione apocalittica del Battista alla vigilia della fine del mondo. Questo mi sembra essere il difetto maggiore del testo di Giu seppe Flavio: che egli passi sotto silenzio il presupposto ideologico delle esortazioni etiche di Giovanni. Può darsi che i discorsi apocalit tici non interessassero i lettori che egli si immaginava; ma (per fare un paragone e contrario) l'autore del terzo Vangelo e degli Atti degli apostoli, che pure omise dal suo racconto tanti particolari di colorito
2 Così J. BEHM, «metanoe6, metanoia», in Grande Lessico del Nuovo Testa mento (= GLNT): «Quello che la lingua religiosa dell'A.T. esprimeva con shub ( . . ) nel N.T. come negli scritti giudeo-ellenistici è detto metanoe6 e metanoia. Questo non è un dato filologico di poco conto ( ... ):sono le forme con cui il N.T. concepisce l'an tica idea della conversione etico-religiosa» (VII, 1170s). .
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giudaico che ci risultano da Matteo e Marco per il timore che suo nassero ostici a dei lettori di cultura ellenistica, non ha escluso di scorsi apocalittici di Le 17,22-37 e 21,5-36! È anche possibile immaginare un'altra ragione per questa emarginazione flaviana dell'escatologia apocalittica dall'insegna mento di Giovanni: forse Giuseppe li considerava pericolosi per la stabilità dell'impero romano saldamente radicato sui sette colli fa tali, nelle mani della dinastia Flavia che lo proteggeva e della quale aveva assunto il cognome. Le profezie apocalittiche dei profeti po stesilici e di Giovanni non avevano forse avuto il loro compimento nella caduta di Gerusalemme e nella sconfitta degli ebrei nella guerra giudaica del 68-73 d.C.? Giuseppe non aveva nessun interesse a far rivivere per il suo tempo, alla fine del I secolo, speranze e ti mori di visionari esaltati come Giovanni, che era morto senza vedere il compimento delle sue profezie catastrofiche...
FIGURA E PREDICAZIONE DI GIOVANNI NEI VANGELI A questo punto possiamo lasciare la testimonianza di Giu seppe Flavio su Giovanni il battezzatore, e passare a quelle dei Van geli? L'analisi dei testi su questo argomento si presenta particolar mente difficile e delicata, anzitutto perché si tratta di testi di parte cristiana senza la possibilità di sentire testimonianze del Battista me desimo o dei suoi discepoli. Sappiamo che per un certo periodo Gio vanni continuò ad avere dei seguaci anche quando Gesù aveva già cominciato la sua attività, e forse c'era chi faceva dei confronti fra le dimensioni dei due gruppi, i discepoli di Giovanni e quelli di Gesù (Gv 4, 1). Si diceva che i discepoli di Giovanni praticassero il digiuno come facevano i farisei (Mc 2, 18), che Giovanni avesse insegnato ai suoi discepoli a pregare (Le 11,1), forse con parole diverse dalle pre ghiere tradizionali del giudaismo. Il prologo del quarto Vangelo ha alcuni passi chiaramente polemici nei riguardi della figura di Gio vanni (Gv 1,6-9; 1, 15): potrebbe esserci, qui, la traccia di un'opposi zione fra il gruppo cristiano e quello battista. Ma non ne abbiamo notizie dirette. Nella prima metà del nostro secolo si pensava di po-
mel,
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J.
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Su Giovanni nella tradizione sinottica sono fondamentali W. Wink, E. Bam Becker, E. Lupieri. Per il quarto Vangelo: C.H. Dodd.
ter identificare come eredi dei discepoli del Battista i mandei,4 co munità di tipo ascetico-gnostico vissuta in Mesopotamia: i loro scritti parlano con rispetto di Giovanni, ma in sezioni troppo tardive (VI VII secolo) per esserci d'utilità. Un'altra difficoltà nell'uso dei testi evangelici su Giovanni viene dal sospetto che la tradizione, oltre a essere stata inserita in una prospettiva cristiana, abbia anche ricevuto, in molti casi, un orientamento cristologico che ne ha oscurato il senso originario.5 Nonostante questi problemi, dalla testimonianza dei Vangeli ci rendiamo conto che Giovanni doveva apparire ai giudei del suo tem po come un personaggio collegato in qualche modo all'avvicinarsi della fine del mondo. Questo risulta da un complesso di allusioni. In primo luogo, Giovanni minacciava l'imminenza del giudizio divino: «Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di [o: insegnato a] sot trarvi all'ira imminente?» (Mt 3,7). «Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco>> (Mt 3, 10). L'ira imminente indica il giudizio di Dio, anche se la parola Dio non appare in questi versetti, per la nota reticenza ebraica a nominare Dio quando non fosse assolutamente indispensabile. Anche nelle profezie di Isaia il giudizio di Dio è illu strato con l'immagine della scure:6 «Ecco il Signore, Dio degli eser citi, che strappa i rami con frastuono; le punte più alte sono troncate, le cime sono abbattute. Egli schiapta con l'ascia il folto della foresta» (Is 10,33s). Anche l'immagine del fuoco come strumento di giudizio è fre quente nelle Scritture d'Israele, dalla storia di Sodoma e Gomorra (Gen 19,24) a quella dei soldati del re Acazia, colpevole di aver con sultato un idolo invece di rivolgersi al Dio d'Israele (2Re 1,1-17). Si vedano anche, negli scritti dei profeti, Is 66,15-16, Ml 4,1 e il terzo capitolo del profeta Gioele.
4 Per un'ampia informazione sulla questione mandea rinvio a LuPIERI, Gio vanni Battista fra storia e leggenda, parte II (195-395). 5 Così BoRNKAMM, Gesù, 50. Della cristianizzazione di Giovanni Battista si oc cupa egregiamente LuPIERI, Giovanni Battista fra storia e leggenda, 68-79. Cf. anche,
sui rap forti fra Giovanni Battista e Gesù, *KAsEMANN, «Sul tema», 109s. Lohmeyer fa notare che in diversi passi profetici, tra cui anche Is 5 (parabola della vigna = Israele) il coltello è usato per potare i rami infruttiferi. Nella predica zione di Giovanni invece la scure è posta «alla radice>>: l'albero (= Israele) è elimi nato ab iniis se non fa un «frutto buono>> (Le 3,9). L'aggettivo «buono» modifica la ra dicalità del messaggio, attenuandola. L'idea diventa più quella di un giudizio sulle opere che quella di una condanna della sterilità.
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La minaccia del giudizio però non era fine a se stessa: Gio vanni la associava, come abbiamo già notato, a una martellante ri chiesta di conversione. Negativamente l'appello del Battista consi steva nella richiesta di abbandonare le vie del male; positivamente, nell'esigenza di fare frutti degni della conversione, coerenti con il pentimento e il cambiamento di strada. Solo tali «frutti» potevano accreditare le dichiarazioni verbali di conversione. L'immagine dei «frutti» per indicare la vita cristiana e le opere della fede è usata an che da Paolo, per es.: in Gal 5,22 (che però non li fa discendere dal l'impegno umano, ma li considera dono dello Spirito Santo): «> al battesimo - Jere mias interpreta questo come se dicesse che venivano «per entrare, con la penitenza, nel popolo di Dio escatologico>> . Ma la deduzione che ne ricava mi sembra eccessiva. Cf. J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1972, I, 57s. =
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Osserviamo inoltre che esso era impartito da Giovanni e non gestito personalmente dai fedeli. Non si trattava, dunque, di un autobatte simo, ma di qualcosa che si presentava come dono di grazia da rice vere passivamente, sottomettendosi all'esigenza che simboleggiava. Che il battesimo di Giovanni fosse un qualcosa di assolutamente nuovo e diverso dalle pratiche battesimali correnti traspare dal fatto che solo a lui fu dato il soprannome di «il Battista»; la sua attività di battezzatore aveva un rilievo e una pregnanza superiori rispetto ai battesimi, soprattutto rituali, amministrati da altri. La diversità ve niva appunto dal suo carattere escatologico. Lo possiamo percepire da un commento conservato nel quarto Vangelo (Gv 1,25): «Perché dunque battezzi se tu non sei il Cristo [cioè, il Messia ] , né Elia né il Profeta [escatologico ]?». La logica di questa domanda è data dal contesto precedente. Nei vv. da 19 a 23, rispondendo a sacerdoti e le viti che erano scesi da Gerusalemme per interrogarlo sulla sua iden tità, Giovanni nega di essere il Messia, di essere Elia, di essere il Pro feta. Da qui la nuova domanda del v. 25: perché compi, battezzando, un gesto escatologico, se poi neghi di essere uno dei personaggi esca tologici del giudaismo? Nel Vangelo di Marco il battesimo di Giovanni è presentato soprattutto come premessa al battesimo cristiano. Il brano di Mc 1,2-8 culmina nel contrasto fra i due battesimi, quello di Giovanni e quello di Gesù: «Io vi ho battezzati con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo». Questo è il punto che interessa a Marco. La predicazione del ravvedimento e gli appelli alla conversione sono omessi dal suo racconto. Dobbiamo essere grati agli autori del primo e del terzo Vangelo che ci hanno conservato invece una tradizione più antica, in cui il punto focale è proprio quella predicazione, e il battesimo ha la funzione di confermarla e di rendere concreto il suo carattere totalitario, che impegnava tutta la persona. Certo anche nel racconto di Matteo e di Luca c'è il confronto fra i due battesimi, ma è formulato in termini più primitivi che in Marco, forse più vicini alla temperie apocalittica della predicazione di Giovanni: il suo bat tesimo è con acqua. E quello del Cristo? Marco dice «con Spirito Santo». Matteo e Luca hanno «con Spirito Santo e fuoco».· È possi bile che il testo della fonte usata da Matteo e Luca sia stato ritoccato in senso cristiano. Giovanni potrebbe aver detto semplicemente che il Messia avrebbe battezzato non con acqua ma con fuoco (o forse «con pneuma e fuoco», lasciando a pneuma il senso originario di vento, o soffio. Sarebbe anche immaginabile un'endiadi: con un sof fio di fuoco ). Tutte queste ipotesi sono coerenti con l'immagine del 25
Battista e della sua predicazione quale emerge dai passi di Matteo e di Luca desunti con ogni probabilità dall'antica fonte Q (della quale parleremo più avanti),9 anteriore a Marco, il più antico dei Vangeli, e persino a Paolo, le cui lettere sono i primi scritti cristiani che ci siano pervenuti.
GIOVANNI BATTISTA E IL PROFETA ELIA Un terzo indizio che concorre alla caratterizzazione apocalit tica di Giovanni Battista è la sua equiparazione con il profeta Elia ri tornato sulla terra come battistrada del giudizio e del regno di Dio. Il giudaismo attendeva il ritorno di Elia soprattutto in base a due passi delle Scritture d'Israele: il racconto del rapimento in cielo di Elia (2Re 2,1ss) e la profezia del precursore nel libro di Malachia: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me» (MI 3,1). Questa profezia è interpretata e personalizzata nello stesso ca pitolo di Malachia, al v. 23: «Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore perché converta il cuore dei padri verso i figli e i cuori dei figli verso i padri; così che io, venendo, non colpisca il paese con lo sterminio�� (MI 3,23-24). La fama di Elia era andata aumentando nel periodo intertesta mentario e anche dopo. Il Siracide canta le sue lodi al c. 48. Dopo aver ricordato i momenti salienti della sua attività conclude così: «Fosti assunto in un turbine di fuoco, su un carro di cavalli di fuoco, designato a rimproverare i tempi futuri per placare l'ira prima che divampi, per ricondurre il cuore dei padri verso i figli e riabilitare le tribù di Giacobbe» (Sir 48,9-10). Così parlano di Elia gli Oracoli Sibillini, testi scritti e rielabo rati nel corso di diversi secoli, prima e dopo Cristo (anche con ritoc chi di mano cristiana): «Ai dormienti egli si farà manifesto quando d'improvviso nel cielo ricco di stelle tutti gli astri in pieno giorno si mostreranno nel rapido improvviso precipitare del tempo. Allora ·
9 Nel capitolo III. Cf. le parole di Is 4,4: «Quando il Signore avrà lavato le brutture delle figlie di Sion e avrà pulito l'interno di Gerusalemme ( . ) con lo spirito di giustizia e con lo spirito dell� sterminio» (LXX pneumati kauseos = spirito [o vento] di arsione, o abbruciamento). L'accostamento dei termini «battesimo» (= im mersione in accqua) e «fuoco» può sembrare barocco o illogico, ma rientra nell'ardi tezza del linguaggio simbolico usato anche dai profeti d'Israele. ..
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dal cielo scende il Tisbita sopra la terra, reggendo il carro celeste, e tre segni porta agli uomini che sulia terra hanno dimora, i segni della vita prossima a svanire» (Or Sib ii,l87- 189). Come spesso nel I Libro dei Re, Elia è chiamato «il Tisbita» dalla città di Tisbe, nel territorio di Neftali, sua presunta patria. N ei Vangeli il nome di Elia è applicato a Giovanni in diversi passi, ma alcuni sono di poca utilità proprio perché, come si è visto sopra, mostrano evidente il segno di un incasellamento di Giovanni nella prospettiva cristologica. Così per es. in Mc 1,2 il passo di Ml 3 è citato così: «Ecco io mando il mio messàggero dinanzi a te, egli ti preparerà la strada...». Se si confronta con il testo di Malachia citato prima, si vede che il pronome di prima persona (dinanzi a me) è stato mutato da Marco in un pronome di seconda persona (dinanzi a te), ovviamente in funzione cristologica: l'Elia redivivo che doveva preparare la strada a Dio diventa il precursore del Cristo. L'immagine di Elia come battistrada di Dio mi sembra presente, invece, in Le 1,16-17 (che contiene un'allusione al passo di Ml 3,23): «Ricondurrà molti fi gli d'Israele al Signore loro Dio. Gli camminerà innanzi con lo spi rito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti, e preparare al Signore un popolo ben disposto». Citerò ancora un passo nel quale mi sembra di scorgere una primitiva equiparazione di Giovanni con Elia come personaggio escatologico, e una successiva manipolazione del detto a favore della cristologia marciana. Si tratta di Mc 9,11- 13. Forse in origine la do manda del v. 9 («perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?») seguiva immediatamente la dichiarazione di Gesù al v. l («In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza»). Alla domanda degli scribi Gesù dà una risposta affermativa: certo, Elia deve venire. E poi (se saltiamo il resto del v. 12 sul Figlio dell'uomo) subito leg giamo, con chiaro riferimento a Giovanni: «Orbene, io vi dico che Elia è già venuto, ma hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come di lui sta scritto». I commentatori di Marco fanno osservare che non c'è, nella Scrittura, una esplicita profezia che l'Elia redivivo avrebbe dovuto soffrire, ma Marco usa quest'osservazione sulla sorte toccata al Battista come paradigma di quello che sarebbe toc cato (anzi, era già toccato, all'epoca in cui Marco scriveva) a Gesù. Anche nel suo martirio Giovanni è stato un precursore del Cristo! Cf. anche Mt 1 1,14. 27
I RIFERIMENTI DI GIOVANNI ALLO SPIRITO Un'altra caratteristica apocalittica di Giovanni è la menzione che egli fa dello Spirito. Ne abbiamo già accennato a proposito del battesimo, ma non è male ricordare che già nei profeti esilici e poste silici lo Spirito era annunziato come una forza misericordiosa di gra zia e di consolazione (Zc 12,10), di incoraggiamento (Ag 2,5), di rin novamento (Ez 1 1,19; 36,26), capace di radunare non solo il popolo dei fedeli, ma anche gli animali (Is 34,16a). Era diffusa l'opinione che dopo gli ultimi profeti lo Spirito come fonte di ispirazione si fosse ritirato da Israele (Sal 74,9; 1Mac 4,46 e 14,41), tuttavia nel giudaismo si pensava ancora allo Spirito come una forza ispiratrice sul piano morale. Negli Oracoli Sibillini si legge che coloro che temono Dio vivranno felici nel possesso della Legge, «come profeti esaltati dall'Immortale» (111,582). Probabil mente il passo biblico su cui si fondava questa speranza è Gl 3,1: «lo effonderò il mio spirito su ogni uomo [ebraico: "su ogni carne" cioè su ogni persona, donne comprese], e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie». Il riferimento allo Spirito come una realtà del fu turo imminente, nella predicazione di Giovanni, lo colloca sulla li nea escatologico-apocalittica. È vero che alcuni detti di Giovanni possono essere stati ritoccati in senso cristiano, e proprio quelli in cui si parla dello Spirito, però alla base di ogni rimaneggiamento c'è sempre qualcosa che lo determina. Anche sotto le menzioni dello «Spirito Santo» (tipica formulazione cristiana) ci può ben essere stata, in bocca a Giovanni, un'allusione allo Spirito degli ultimi tempi. Esiterei a vedere come ulteriore indizio del carattere escatolo gico-apocalittico di Giovanni il fatto che svolgeva la sua attività «nel deserto» (Mc 1,4; Mt 1 1,7).10 Dal tempo di Mosè, di Davide, di Elia il deserto era considerato luogo nel quale cercare scampo dai nemici (Es 2,15; 1Sam 23.14 e 24,1-2; 1Re 19,3; Ger 48,6), ma anche possi bile luogo di incontro con Dio (Dt 32,10 e gli esempi, citati sopra, di
10 Alcuni commentatori trovano illogico che Giovanni svolga la sua attività nel deserto, avendo bisogno di acqua per i battesimi, e attribuiscono alla mente razio nale di Luca il cambiamento di ubicazione che si riscontra passando da Mc 1 ,4 a Le 3,2. In quest'ultimo passo il deserto non è il luogo dove Giovanni operava, ma quello in cui la parola di Dio scese su di lui.
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Mosè e di Elia) sia per essere messi alla prova (Dt 8,2) che per cono scere la sua salvezza (Os 2, 16). Quasi tutti i movimenti spirituali e politici del I secolo erano costretti a rifugiarsi nel deserto (At 21,38). La stessa esitazione avrei di fronte a un'interpretazione esca tologico-apocalittica di Le 3, 12-14 (insegnamenti di Giovanni ai pub blicani e ai soldati). Jossa prende questo fatto come evidenza dell'u niversalismo del Battista, che non limitava la sua attività alle catego rie dei pii in Israele.U Ma concordo con la valutazione generale di Giovanni data da Jossa: Giovanni non fu soltanto un predicatore di morale, ma è il Profeta degli ultimi tempi, che raduna e prepara il popolo di Dio per la salvezza, nell'imminenza del giudizio.12 Se le sezioni su Giovanni sono state volute dagli evangelisti come ouverture che desse il tono dell'opera che segue, Giovanni fa questo sicuramente nella prospettiva della fine imminente e dell'at tesa della salvezza e del giudizio di Dio.
11 JossA, Gesù, 283 e nota 25. Bultmann ritiene che il brano sia di tarda produ zione ellenistica, ma esclude che sia un prodotto della cristianità primitiva, per la na turalezza con cui considera la professione di soldato, Geschichte der synoptischen Tra dition, Gottingen 31957, 155. T. W. Manson trova che Giovanni Battista è efficacissimo nella denuncia dei mali esistenti, ma non altrettanto quando è richiesto di dare consi gli in positivo: questi possono mitigare i danni del sistema, ma non lo trasformano ( The Sayings of Jesus, London 2 1949, 253-254; ed. it. I detti di Gesù nei Vangeli di Mat teo e Luca, Brescia 1980, 405-407). Per Lohmeyer invece è la coscienza dei propri li miti che porta Giovanni a essere così modesto nella predicazione propositiva: egli è cosciente che dopo di lui viene uno più forte, e solo il suo battesimo di Spirito e fuoco potrà rinnovare veramente la società giudaica. E. Bammel è decisamente per l'origine lucana dei consigli di Giovanni Battista alle diverse categorie: l'evangelista potrebbe aver tentato, con questi versetti, di attenuare la spigolosità rivoluzionaria dell'inse gnamento del suo personaggio (pp. 105s). 1 2 JossA, Gesù, 283.
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La madre di tutta la teologia cristiana?*
Quando la comunità cristiana primitiva cominciò a fissare per iscritto ciò che fino a quel momento aveva trasmesso solo oralmente - predicando, insegnando, raccontando - su Gesù di Nazaret, la sua produzione sembra essersi incanalata su tre vie: la rievocazione della passione del Signore, i racconti di miracolo, i dibattiti e i «detti del Signore». Il racconto della passione deve la sua origine, probabilmente, a un motivo liturgico: nelle riunioni in cui i fedeli «Spezzavano il pane» (At 2,42; 20,7 e altrove), rievocavano sicuramente gli eventi accaduti «nella notte in cui fu tradito» (lCor 1 1,23). Il ripetersi della rievocazione deve aver portato al cristallizzarsi degli elementi essen ziali del racconto e poi alla loro stesura scritta.1 I racconti di mira colo sembrano rivelare piuttosto un interesse apologetico, sorto nelle comunità giudeo-ellenistiche delle zone periferiche della Pale stina, ai confini con la Siria. Ma senza equiparare Gesù a maghi e taumaturghi delle leggende popolari: infatti il potere carismatico di
Bibliografia: *BoRNKAMM, Bibbia, 36-50; F.F. BRucE, Gesù visto dai contem *CoNZELMANN-LINDEMANN, 70-76; *CoRSANI, vol. 12, 157-167; J. DuPONT, «Le logion des douze trònes (Mt 19,28; Le 22,28-30)», in Biblica 45(1964), 355-392; V. Fusco, «Consensi e dissensi nella questione sinottica», in CrNSt 7 (1987), 591-608; M. HENGEL, Der Sohn Gottes, Ttibingen 1975 (ed. it. Il Figlio di Dio. L 'ori gine della cristologia, Brescia 1984); P. HoFFMANN, Studien zur Theologie der Logien quelle, Mtinster 1972; *KA.sEMANN, «Gli inizi»; Io., «Proposizioni di diritto sacro nel Nuovo Testamento>>, in *KA.sEMANN, Saggi esegetici, 69-82; J.S. KLoPPENBORG, The Formation of Q, Philadelphia 1987; D. LOHRMANN, Die Redaktion der Logienquelle, Neukirchen 1969; T. W. MANSON, I detti di Gesù nei vangeli di Matteo e di Luca, Brescia 1 980; S. ScHULZ, Q: Die Spruchquelle der Evangelisten, Zurich 1972; E. ScHWEIZER, Ge sù Cristo: l'uomo di Nazareth e il Signore glorificato, Torino 1992, 55-62; G. SEGALLA, Evangelo e Vangeli, Bologna 1992, 214-225; *W IKENHAUSER-SCHMID, 326-331. 1 Sul racconto della passione: J. FINEGAN, Die Oberlieferung der Leidens und Auferstehungsgeschichte Jesu (BZNW), Giessen 1934. *
poranei, Torino 1989;
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Gesù era un aspetto del carattere escatologico della sua attività e della sua persona.2
LA FONTE DEI «DETTI» La raccolta di «detti del Signore» ha delle affinità con le numec rose raccolte di detti di carattere sapienziale o istruttivo che ci sono pervenute dall'antichità: ne abbiamo esempi nella cultura egiziana, in quella greca, e ovviamente in quella giudaica. Basti pensare al Li bro dei Proverbi (che appartiene al canone biblico) o al trattato rab binico Abot. Abbiamo poi, dalla metà di questo secolo, una raccolta molto caratteristica di detti attribuiti a Gesù: il Vangelo di Tommaso proveniente dal fondo papiraceo di Nag- Hammadi (Alto Egitto) e databile tra il I e il II secolo d.C. Ciò che accomuna queste raccolte è l'assenza di una cornice narrativa. I detti si presentano come una col lana che può avere, o non avere, qualche collegamento tematico o qualche assonanza di parole tra detti viciniori.3 Mentre il libro (biblico) dei Proverbi e il cosiddetto Vangelo di Tommaso sono giunti fino a noi in veste letteraria, alla raccolta (o forse alle raccolte) di detti del Signore possiamo assegnare soltanto un'esistenza ipotetica, deducendola dal confronto fra i Vangeli di Matteo è Luca, e dalla loro diversità rispetto al Vangelo di Marco. Leggendo uno dopo l'altro i tre primi Vangeli, o meglio ancora leg gendoli in parallelo dall'inizio alla fine, balza agli occhi che molte parti di Matteo e di Luca non sono presenti in Marco (che è notoria mente il più breve). Quando i brani assenti in Marco sono presenti in parallelo sia in Matteo che in Luca, si tratta quasi sempre di detti del Signore. Da questa osservazione è nata l'ipotesi che i Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) risalgano sostanzialmente a due documenti base: il Vangelo di Marco, i cui elementi costitutivi si ritrovano quasi interamente in Matteo e Luca; e accanto ad esso una raccolta di detti del Signore, che avrebbe circolato nelle comunità primitive dell'area
2 Sui racconti di miracolo segnalo C.F.D. MouLE, a cura di, Miracles: Cam bridge Studies in their Philosophy and History, London 1965 e G. THEISSEN, Urchristli che Wundergeschichten, Giitersloh 1974. 3 Per il vangelo di Tommaso cf. BRucE, Gesù, 85-122 (traduzione completa del testo). Altre antiche raccolte di detti sono menzionate in KLOPPENBORG, The Forma tion, 263-316.
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siro-palestinese e che, incorporata da Matteo e Luca per rimpolpare lo scheletro narrativo di Marco, avrebbe cessato di venir ricopiata nelle comunità, spiazzata da lavori più completi e organici quali ap punto i Vangeli di Matteo e di Luca. Eusebio, lo storico di Cesarea, riferisce nella sua Storia eccle siastica (III, 39, 16) una dichiarazione attribuita a Papia, vescovo di Gerapoli nel II secolo. Papia avrebbe affermato che «Matteo mise insieme in dialetto ebraico i loghia, e ciascuno li tradusse secondo la propria capacità». Molto è stato scritto su questa frase attribuita a Papia, e vi è un certo consenso almeno sul fatto che con «dialetto ebraico» si debba intendere non l'ebraico, ma l'aramaico. In passato si è spesso sostenuto che Papia si riferiva al Vangelo di Matteo, che avrebbe conosciuto una prima stesura in aramaico, poi tradotta in greco. Ma l'esame attento di Matteo nel suo testo greco non con ferma questa teoria: sia il vocabolario, sia la struttura stilistica esclu dono che Matteo sia stato tradotto da una lingua semitica. Queste conclusioni sono confermate da un esame in parallelo del testo di Matteo con quello di Marco e di Luca (per le parti che hanno in co mune). Rimane la possibilità che Papia intendesse parlare non del no stro Vangelo di Matteo, ma della raccolta di «detti del Signore». Forse la sola cosa che nelle parole di Papia è verosimile, è l'esistenza della raccolta di loghia. Ma è possibile che almeno allo stadio orale questi loghia avessero circolato nelle comunità in lingua aramaica (anche se l'attuale struttura linguistica, nella forma che ci è stata tra mandata da Matteo e Luca, è greca). I detti del Signore, in forma an tologica e senza collegamenti storico-biografici, affiorano nei Van geli di Matteo e di Luca praticamente nello stesso ordine. Solo ecce zionalmente gli evangelisti maggiori hanno effettuato lo sposta mento di qualche detto. A grandi linee, possiamo dire che la raccolta conteneva la predicazione di Giovanni Battista, la tentazione di Gesù, il discorso della montagna (nella sua forma più breve), le pa role di Gesù su Giovanni Battista, molte parole sul discepolato, sulla missione, sulla resistenza nelle persecuzioni, parole polemiche con tro i farisei e, alla fine, un discorso apocalittico. Questa raccolta, di cui conosciamo soltanto ciò che Matteo e Luca hanno riprodotto, è indicata convenzionalmente da tutti gli studiosi con la sigla Q (iniziale della parola tedesca Quelle = Fonte) ed è una delle più antiche testimonianze di ciò che si predicava e si insegnava nelle comunità cristiane dell'area palestinese e siro-pale stinese. Cronologicamente si colloca non solo prima della composi33
zione dei Vangeli, ma forse anche prima delle lettere di Paolo. Ed è appunto la sua antichità che attira la nostra atttenzione a questo punto. Perché nel testo della fonte Q c'è un'interessante percentuale di detti dal carattere apocalittico.
MATERIALE APOCALITTICO TRADIZIONALE L'elemento apocalittico della fonte dei detti (Q) appare in modo molto evidente nel «discorso» di Le 17,22-37, che attualmente occupa l'ultimo posto fra i brani paralleli di Matteo e Luca e che contiene insegnamenti e raccomandazioni sull'ora della fine.4 Ana lizziamone brevemente la struttura nel testo lucano. a) La prima sezione preannunzia l'ansia di vedere i giorni del Figlio dell'uomo, a cui corrisponderà la venuta di falsi profeti che di ranno: «Eccolo qui, eccolo là». Ma il loro insegnamento non va preso per buono, perché «il Figlio dell'uomo, nel suo giorno, sarà come il lampo che, guizzando, brilla da un capo all'altro del cielo» (vv. 22-25). b) La seconda sezione è un poema che paragona i giorni del Figlio dell'uomo ai giorni di Noè e ai giorni di Lot. Esso sarà improv viso come lo furono il diluvio e la distruzione di Sodoma (vv. 26-30). c) La terza sezione è formata da versetti senza una connes sione logica evidente: i vv. 31-32 ribadiscono il messaggio che ci viene dalla moglie di Lot: non indugiare nella fuga; il v. 33 riprende un noto detto di Gesù sulla vanità di chi pensa di salvare la sua vita: solo chi ne fa getto la salverà veramente (cf. Mc 8,35 e Mt 10,39)� I vv. 34-36 illustrano con tre esempi che l'ora escatologica dividerà le persone senza riguardo ai legami familiari, economici e sociali: c'è chi sarà preso e c'è chi sarà lasciato. L'ultimo versetto (37) può es sere stato un proverbio corrente, che esprimeva un sentimento di ineluttabilità di fronte agli avvenimenti finali. Il carattere apocalittico del «discorso» di Luca 17 (e dei paral leli in Matteo 24) è evidente, non solo per il tema trattato, ma anche per le immagini usate: i propagandisti menzogneri che pretende-
4 Sul discorso escatologico della fonte Q cf. LOHRMANN, Die Redaktion, 71-83; HoFFMANN, Logienquelle, 37-42; ScHuLz, Q, 277-287 e 444-446; MANSON, l detti di Gesù, 222-230.
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ranno di segnalare la presenza del protagonista escatologico (Mat teo v. 26, Luca v. 23 ), l'immagine del lampo nella notte (ispirata forse da Zc 9,14 o dal Sal 97,4 ), che evocava l'idea della subitaneità dell'apparizione del Figlio dell'Uomo, oppure l'estensione vastis sima del'area raggiunta dalla sua luce (Matteo v. 27, Luca v. 24); l'immagine del cadavere e degli avvoltoi (Matteo v. 38, Luca v. 37) che fa perno sull'immediatezza con cui i rapaci si avventano dove un animale è caduto a terra morto, o sulla certezza che così accade sem pre. Estendere il senso dell'immagine fino a dire che il cadavere al lude al popolo «morto» nei suoi peccati e nella sua insensibilità per l'ora escatologica, oppure che gli avvoltoi sono i romani, o i falsi pro feti, significherebbe cadere nell'allegoria. La critica al popolo è però evidente nell'immagine successiva, che gli attribuisce la stessa spen sieratezza che caratterizzava la generazione dei figli di Noè (Matteo vv. 37-39; Luca vv. 26-27). Anche la generazione di Lot è citata come esempio di gente che non aveva saputo riconoscere la gravità della situazione (ammesso che i versetti su Lot, Le 17,28-29, appartenes sero alla fonte Q). Infine, abbiamo l'immagine dei «presi» e dei «la sciati». Nel linguaggio corrente di oggi, chi è preso indica chi muore, mentre i lasciati sono quelli che sopravvivono. Ma nel discorso apo calittico è l'opposto: l'aspetto positivo sta nell'essere presi, che può significare: «presi nella gioia del Regno» oppure «sottratti alla ro vina finale». L'aspetto negativo è nel verbo «sarà lasciato», cioè la sciato fuori, o lasciato al suo destino. Tutte queste immagini concor rono a rendere pressante il messaggio della gravità dell'ora: non solo l'arrivo dell'ora escatologica è ineluttabile, ma sarà anche subitaneo, non lascerà spazio a riflessioni e ripensamenti. Oltre all'ampio «discorso» di Luca 17, un altro passo dall'evi dente carattere apocalittico è quello che promette ai Dodici una par tecipazione alle gioie del regno (simboleggiate dal banchetto) e an che alle responsabilità di governo (simboleggiate dai troni): la fe deltà dei discepoli nel seguire Gesù (secondo il testo di Matteo) o nel restare con lui nelle sue prove (secondo la versione lucana) avrà come conseguenza la loro partecipazione alla vittoria e al regno di Cristo (Le 22,28-30; Mt 19,28).5 Nell'espressione «giudicare le dodici tribù d'Israele» il verbo giudicare non va preso, ovviamente, nel senso di costituirsi in tribunale o pronunziare sentenze di condanna,
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gion»).
Sulla promessa dei dodici troni, cf. ScHULZ, Q, 330-336 e Dupont («Le lo
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bensì nel senso biblico di reggere, governare. I capi carismatici d'I sraele, nel periodo compreso fra Giosuè e Saul, portarono appunto il nome di «giudici» in questo senso, perché avevano autorità su tutto Israele, o su una parte delle dodici tribù. Vedremo ora alcuni indizi meno evidenti, che potrebbero far pensare a un'autocoscienza apocalittica della comunità che stava dietro la fonte Q.
INDIZI DI UN'AUTOCOSCIENZA APOCALI'ITICA a)
Lo jus talionis
Lo sviluppo della ricerca formista sui Vangeli, e più ancora quello del metodo della storia delle tradizioni, hanno portato, negli ultimi decenni, a identificare altri passi che, pur non essendo rivestiti di linguaggio apocalittico tradizionale, possono esser fatti risalire alla coscienza apocalittica della cristianità primitiva come si riflette nella fonte Q. Un momento significativo di questa tendenza è stata l'identificazione, nei Vangeli sinottici, delle «proposizioni di diritto sacro», sostenuta da E. Kasemann in un articolo6 del 1954 e ripresa in un altro articolo7 del 1960. La tesi di questo studioso è che la co munità cristiana primitiva, pervasa e animata dalla presenza dello Spirito e guidata da profeti carismatici nella sua vita comunitaria e nella sua testimonianza, non per questo avrebbe escluso la possibi lità di formulare un qualche tipo di diritto. L'alternativa Spirito/ Diritto è un'alternativa mal posta. Bisogna solo intendersi sul tipo di «diritto» compatibile con l'esaltazione carismatico-apocalittica in cui la comunità dei primi tempi viveva e operava. Kasemann parla di «diritto sacro» perché non emanava da giuristi ma da leader cari smatici, e ne ravvisa la forma tipica in proposizioni che descrivono una circostanza o un comportamento in via ipotetica (se...; qua lora...; chiunque...) e contrappongono loro delle conseguenze puni tive che a volte ricordano il contrappasso dantesco. Questo appare
6 E. KAsEMANN, «Proposizioni di diritto sacro nel Nuovo Testamento>>, in *KAsEMANN, Saggi esegetici, 69-82. 7 *KASEMANN, «Gli inizi», 86.
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chiaramente in due passi della l Corinzi: «Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui» (3,17), e «Se qualcuno non lo riconosce, neppure lui è riconosciuto (Vulg. ignorabitur]» (14,28). Potrebbe trattarsi di una struttura sintattica di origine ebraica, perché la troviamo anche nelle Scritture d'Israele: «Chi sparge il sangue dell'uomo, dall'uomo il suo sangue sarà sparso» (Gen 9,6). Generalmente, questo contrappasso, che Kasemann chiama jus talionis, ha una prospettiva escatologica, perché il secondo mem bro della proposizione è quasi sempre formulato al futuro. La pro posizione di diritto sacro non codifica una prassi di giudizio terrena, ma descrive e anticipa il giudizio stesso di Dio. Questo è possibile, sempre secondo Kasemann, perché non si tratta di un rinvio alle ca lende greche: nella temperie apocalittica della comunità primitiva, il giudizio del mondo si prospetta imminente e i membri della comu nità escatologica si sentono già qualificati da tale futuro, perché sanno di essere già ora davanti al trono di Cristo che giudica il mondo. Nella fonte dei detti del Signore (Q) si trovano modelli di que sto contrappasso escatologico in alcuni passi significativi. Ne ve diamo ora alcuni. In Mt 10,32s si legge: «Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io riconoscerò lui davanti al Padre mio (...). Chi invece mi rin negherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio (...)». Questo detto8 non può essere ridotto a un semplice enunciato moralistico della ricompensa dei buoni e del castigo dei cattivi: il suo centro è cristologico, perché presuppone l'intronizzazione di Cristo nelle funzioni di Figlio dell'uomo escatologico e dunque anche nel l'esercizio del potere di giudicare e condannare. Alla medesima conclusione portano altri detti come Mt 7,2: «Col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con cui misurate sarete misurati», oppure Mt 25,29: «A chiunque ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha». Occasionalmente l'idea del giudizio finale imminente può es sere espressa anche ricorrendo a citazioni dalle Scritture profetiche, come in Mt 11,23: «E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai!» (citazione libera da ls 14,13-15).
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Cf. *KASEMANN, Saggi esegetici, 79 e 103.
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b)
Il «Ma io vi dico»
Un altro indizio che rivela l'autocoscienza escatologica della chiesa dei primi decenni, che considerava se stessa come la comunità degli ultimi tempi, potrebbe essere la frequenza di detti introdotti con la formula: «Ma io vi dico...». Sia che la comunità ripetesse una parola di Gesù, sia che si trattasse di una parola di un profeta rice vuta (da lui e dalla comunità) come una parola del Cristo risorto, la formula implicava una consapevolezza eccezionale di autorità nei confronti di chi l'ascoltava, concepibile soltanto nel quadro della co munità messianica degli ultimi tempi. Questo tanto più se la formula introduceva una norma etica radicale, come vedremo fra un istante. Come esempi del «Ma io vi dico...» possiamo citare il detto sul confessare e rinnegare Gesù, già riportato sopra: nella sua versione lucana (12,8) è preceduto da questa formula; che può essere stata in Q oppure è redazionale, ma per reminiscenza di una caratteristica di Q. Un'osservazione analoga si può fare per Mt 5,39. In questo caso la formula manca nel parallelo di Le 6,29 con tutta la prima parte del v. 39 di Matteo («Ma io vi dico di non opporvi al malvagio»). Un pa rallelismo imperfetto si trova in Mt 5,44 e Le 6,27. Matteo ha: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori». Luca invece: «Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri ne mici...». Meno antico sembra essere il passo sulla fiducia nella prov videnza divina (Le 12,22-31, parall. Mt 6,25-29). Il carattere più sa pienziale che giuridico del contenuto, e l'accettazione gioiosa della natura e della sua bellezza fanno pensare alla diffusione del Vangelo nel mondo ellenistico - anche solo nelle vicinanze della terra palesti nese. La formula «io vi dico» si trova ali'inizio del brano («non ·vi af fannate per la vostra vita») e poi di nuovo dove si enuncia l'esempio di Salomone che con tutto il suo splendore non poteva competere con la bellezza dei gigli dei campi (Mt 6,29, Le 12,27). Infine appartengono al materiale proprio del solo Matteo i passi di Mt 5,18 e 20 («>, in RSB VII(1995)2, 37-60; C. GuiGNEBERT, Gesù, Torino 1950; M. HENGEL, Crocifissione ed espiazione, Brescia 1988; J. JEREMIAS, Il problema del Gesù storico, Brescia 1964; H.C. KEE, Che cosa possiamo sapere di Gesù?, Torino 1993; E. LoHSE, La storia della passione e morte di Gesù Cristo, Brescia 1975; T. W. MANSON, The Tea ching of Jesus, Cambridge 1939; H. MERKEL, «Die Gottesherrschaft in der Ver ktindigung Jesu>>, in M. HENGEL - A.M. ScHWEMER, a cura di, Konigsherrschaft Gottes und himmlischer Kult in Judentum, Urchristentum und hellenistischer Welt, Ttibingen 1991 , 119-161; J. MoLTMANN, Il Dio crocifisso, Brescia 1973; A. 0MOOEO, Gesù il Na zoreo (1927), II edizione a cura di F.E. Sciuto, Soveria Mannelli 1992; N. PERRIN, Re discovering the Teaching of Jesus, London 1967; A. ScHWEITZER, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Brescia 1987; E.P. SANOERS, Gesù e il giudaismo, Genova 1992; B.B. Scorr, Jesus, Symbol-Maker for the Kingdom, Philadelphia 1983; H. WEOER, Gegen wart und Gottesherrschaft, Neukirchen 1993; J. WEISS, Die Predigt Jesu vom Reiche Gottes, Gottingen 1892 ( terza edizione a cura di F. Hahn, 1964, ed. it. La predicazione di Gesù sul Regno di Dio, a cura di G. Jossa, Napoli 1993).
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LE DIFFICOLTÀ DA METTERE IN CONTO Rispondere a questa domanda è più difficile di quanto si pensi. Gesù infatti non ha lasciato nulla di scritto. Quello che sappiamo di lui è quanto si rifletteva nella predicazione e nell'insegnamento del movimento cristiano dei primi decenni. Quella predicazione ha preso forma scritta in Q e poi nei Vangeli. Si tratta dunque di una te stimonianza che vede Gesù e parla di lui attraverso due prismi: il primo è la distanza temporale. Fra la vita di Gesù e Q sono passati un decennio e mezzo, forse due; fra Gesù e il Vangelo di Marco, quattro decenni. Sappiamo tutti, per esperienza, quanto la distanza nel tempo porti a selezionare i ricordi e a idealizzare personaggi e si tuazioni. Il secondo prisma è quello della fede. La testimonianza sulla persona di Gesù e sul suo insegnamento ha preso la forma di predi cazioni, di racconti, e poi di testo scritto perché la fede vedeva in lui il Salvatore, il Signore, l'inviato escatologico di Dio per la salvezza: in mi primo tempo, del suo popolo, e poi, un po' più avanti nella ri flessione sull'opera di Gesù, anche del mondo intero. Per usare il lin guaggio tecnico degli studiosi delle origini cristiane, c'è stato un tra passo dal Gesù predicante al Cristo predicato: il primo appartiene al periodo che va fino alla morte di Gesù, il secondo comincia a mani festarsi dopo la risurrezione e diventa il motivo dominante degli scritti cristiani del I secolo. Spesso si è attribuita la responsabilità di questa transizione al l'apostolo Paolo, che avrebbe messo il Gesù crocifisso e glorificato al centro della sua predicazione (e della fede cristiana) perché non aveva conosciuto il Gesù terreno e si è citato a supporto di quest'ac cusa il famoso passo di 2Cor 5,16 «Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così». In realtà l'inciso «secondo la carne» va collegato non alla parola «Cristo», ma al verbo «abbiamo conosciuto», e critica una conoscenza alla ma niera umana: la sola conoscenza di Cristo che giova per la salvezza è una conoscenza di fede. Si tratta di conoscere Cristo Gesù come Si gnore (Fil 3,8), conoscere «la potenza della sua ri�urrezione e la par tecipazione alla sue sofferenze» (Fil 3,10). In 2Cor 5,16 non c'è nes sun rifiuto del Gesù terreno, e anche se Paolo non ne ripropone l'in segnamento nelle sue lettere (ma molti dei loro passi esortativi ricor dano parole di Gesù: si legga anche solo il c. 12 della Lettera ai Ro mani! ) , quello che Paolo dice di Dio e della salvezza corrisponde a ciò che Gesù insegnava. È ovvio che Paolo accentui, nelle sue let46
tere, cose che per il Gesù terreno non erano ancora avvenute: la croce, la risurrezione, il ritorno di Gesù al Padre (glorificazione). La responsabilità di questo guardare al Cristo in una prospettiva post pasquale non può essere addossata a Paolo, perché era già presente in Q e nelle antiche confessioni di fede che Paolo inserisce qua e là nelle sue lettere. C'è un altro prisma che dobbiamo ricordare a questo punto: esso non si interpone, come i primi due, fra la persona di Gesù e il ri cordo che ne danno gli scritti cristiani più antichi, bensì fra la testi monianza di questi scritti e la lettura che noi moderni ne facciamo. Si tratta del prisma della tradizione religiosa occidentale, specialmente negli ultimi cìnque secoli. La Riforma protestante non ha dato molto spazio alla tematica escatologica in senso stretto, che occupa un po sto relativamente modesto nelle confessioni di fede luterane. Per cir costanze contingenti, sia Lutero che Calvino hanno dato maggior peso alla cristologia che all'escatologia, anzi hanno ricompreso que st'ultima, in certo modo, nella cristologia, quando questa si occupa anche della glorificazione e del futuro del Cristo, non solo della sua opera presente. Così si esprime Lutero nel Grande catechismo (1529): «Il Regno di Dio viene a noi in due maniere: da una parte si stabilisce in questo mondo, nel tempo, per mezzo della Parola e per mezzo della fede; d'altra parte si stabilirà per l'eternità nella rivela zione definitiva. Noi domandiamo le due cose: che venga in coloro che non sono ancora in esso, e in noi, che lo abbiamo ricevuto, con quotidiani incrementi e in futuro nella vita eterna». Nei secoli successivi è stata molto forte l'influenza del pieti smo, che tendeva a interiorizzare la religione, mettendo nel centro l'uomo «convertito» e la sua esperienza religiosa soggettiva. A que sto si aggiunse ancora l'influenza dell'illuminismo e del razionali smo, che tendevano a eliminare l'escatologia giudaica che aspettava un regno futuro nel quale il popolo ebraico avrebbe avuto una posi zione di preminenza sulle nazioni. Gli eventi escatologici sono visti sempre più come un'espressione figurata del dominio interiore di Dio sulle anime, al quale si attribuiranno le caratteristiche etiche suggerite dalla filosofia kantiana. Nell'ambito del cattolicesimo ro mano, da Agostino in poi, non sono mancati stimoli (anche se subito dopo interpretati e delimitati nella loro portata) che inducevano a identificare il Regno di Dio e la chiesa.1
1 Possiamo citare un passo da K. ALGERMISSEN, L a Chiesa e le Chiese (Brescia 1942), 6: «La Chiesa ci appare nei Vangeli come la realizzazione sulla terra del re-
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Queste posizioni rispetto alla tematica escatologica hanno avuto come conseguenza non solo una diminuzione d'interesse, ma anche una svalutazione della prospettiva apocalittica presente nelle sacre Scritture. Ne dà abbondante documentazione il saggio di Kl. Koch pubblicato in Germania nel 1970 dal titolo Ratlos vor der Apo kalyptik.2 Il sottotitolo definisce il lavoro come «Uno scritto pole mico su un trascurato settore delle scienze bibliche e sulle dannose conseguenze [che ciò ha determinato] per teologia e filosofia». Un segno del disinteresse degli esegeti e della teologia tedesca per l'apocalittica,3 è il fatto che i manuali di Teologia dell'Antico Te stamento di W. Eichrodt e di L. Kohler non contengono un capitolo sull'argomento, e - ancora più curioso - che (come fa notare Koch, p. 46) diversi commentari ed enciclopedie pubblicati in Germania hanno affidato le parti o gli articoli che si riferiscono all'apocalittica ad autori stranieri: scozzesi, danesi, svedesi, norvegesi. Tornando al problema del rapporto fra Gesù e la prospettiva apocalittica del giudaismo del suo tempo, è necessario che lo stu dioso superi il filtro costituito dai tre «prismi» di cui abbiamo parlato e che, forse inconsapevolmente, condizionano il nostro modo di leg gere i Vangeli e di immaginarci la persona e il linguaggio di Gesù. Fino a che punto sono questi filtri a farci pensare e affermare che Gesù non aveva nulla da spartire con l'apocalittica giudaica?
ARGOMENTI A FAVORE Che Gesù abbia condiviso, sia pure con certe eccezioni e con delle angolature particolari, la prospettiva apocalittica del suo tempo dovrebbe essere una conseguenza elementare del presuppo sto dell'incarnazione. Homo sum, et nihil humani a me alienum puto. Come Gesù ha condiviso le opinioni del giudaismo del I secolo sul-
gno dei cieli, come il regno di Dio in questo mondo». Si veda anche J. CARMIGNAC, Le mirage de l'eschatologie, Paris 1979, tutto il c. XIII (specialmente le pp. 99-100). Più sfumate le parole del concilio Vaticano II (Lumen gentium 3: «La Chiesa, ossia il re gno di Dio, già presente in mistero, per virtù di Dio cresce visibilmente nel mondo»; Gaudium et spes 40: «Qui sulla terra il Regno è già presente, in mistero; ma con la ve nuta del Signore, giungerà a perfezione»). 2 In italiano: Difficoltà dell'apocalittica, Brescia 1977. Nell'edizione italiana il sottotitolo è stato abbreviato. 3 «È comprensibile che l'apocalittica abbia raramente goduto della benevo lenza della chiesa e della teologia dominante» (KASEMANN, Saggi esegetici, 107).
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l'autore dei libri della Legge o di certi Salmi (Mosè, Davide) senza peraltro farne oggetto di insegnamento specifico, così avrà condiviso anche le sue prospettive sulle cose ultime e avrà usato - come ha usato - il suo linguaggio apocalittico.4 In fondo, quello era anche il linguaggio a cui erano abituati i suoi ascoltatori. Senza sacrificare l'originalità del messaggio, è lecito pensare che Gesù lo abbia formu lato con parole e immagini che suonavano familiari e non esoteriche ai galilei che lo ascoltavano. Ma oltre a questo motivo dogmatico, vi sono diversi altri argomenti che inducono a stabilire un collega mento fra Gesù e l'apocalittica del suo tempo. In primo luogo dobbiamo ricordare i rapporti fra Gesù e Gio vanni Battista. Che Gesù abbia cercato e ricevuto il battesimo da Giovanni è una tradizione al di sopra di ogni sospetto: il fatto era si curamente imbarazzante per la comunità primitiva, che ha cercato di minimizzarlo e, nel caso di Matteo, di giustificarlo (Mt 3,14-15). Inoltre, l'episodio è attestato da tutti e quattro i Vangeli, Giovanni compreso. Se Mc 1 ,14 vuoi dire che l'inizio dell'attività pubblica di Gesù fu determinato, almeno in senso cronologico, dall'arresto di Giovanni Battista, significa che Gesù deve essere vissuto, dopo il battesimo, in qualche rapporto con Giovanni e il suo movimento. E questo è ciò che risulta dal quarto Vangelo: Gv 3,22-4,3 apre uno spiraglio su questi rapporti. Lì risulta che sia Giovanni che Gesù ave vano dei discepoli, c'era rivalità fra i due gruppi quanto al numero dei battezzati, si dice (3,26 e 4,1 ) e poi subito si nega (4,2) che anche Gesù battezzasse. L'intervento redazionale della comunità primitiva si vede soprattutto nell'importanza data alle professioni di umiltà di Giovanni e alla sue dichiarazioni di inferiorità rispetto a Gesù e alla sua missione (3,28-30.34-36).5 I rapporti di Gesù col movimento di Giovanni traspaiono an che dalle numerose parole di Gesù che menzionano il Battista e la sua opera, specialmente Mt 1 1 ,1-19 col parallelo di Le 7,18-35; Mt 21,32; Mc 1 1 ,27-33. Grazie a tutti questi elementi, ma soprattutto per la certezza del battesimo da parte di Giovanni, Kasemann può affer mare: «Gesù inizialmente ha condiviso l'ardente attesa della fine im minente che era propria del Battista, e di conseguenza davanti all'in-
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MANSON, Theaching, 232s. La complessa questione storico-letteraria della testimonianza del quarto Vangelo su Giovanni Battista e sui suoi rapporti con Gesù è esaminata a fondo da C.H. Dodd nel suo Historical Tradition in the Fourth Gospel, Cambridge 1963, parte 1/C (ed. it. La tradizione storica nel quarto vangelo, Brescia 1983, 303-365). 5
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combente giudizio di collera ha accettato il "sigillo" e l'incorpora zione al resto santo del popolo di Dio».6 Un altro fatto oggettivo che colloca l'attività di Gesù nella prospettiva del pensiero apocalittico del suo tempo, è il fatto-che egli sia stato condannato a morte dai romani. Non possiamo qui entrare in una dettagliata analisi del racconto evangelico del processo di Gesù. Molti lo hanno fatto, e ne citiamo alcuni in nota.7 Ogni valuta zione è resa più difficile dal fatto che gli evangelisti (o le loro fonti) non dovevano disporre di testimoni oculari; inoltre i testi evangelici risentono dell'influenza dell'atteggiamento di fede dei primi cristiani e dell'uso liturgico e kerygmatico per cui sono stati scritti. Ma alcuni dati non possono essere messi in dubbio: Gesù - qualunque sia stata la partecipazione dei capi ebrei al fatto o ai suoi preliminari - è stato giudicato da Ponzio Pilato, rappresentante ufficiale di Roma in Giu dea; è stato condannato alla pena della croce, che era il supplizio usato per i ribelli, gli agitatori, j pretendenti; è stato crocifisso tra due «ladroni», in greco lestai, termine che negli scritti di Giuseppe Flavio è usato costantemente per quelli che avevano dedicato la pro pria vita alla lotta armata contro l'occupazione romana o che erano pronti a sacrificarsi per la liberazione del paese dall'oppressore.8 L'episodio di Barabba, preferito a Gesù come carcerato da mettere in libertà per la festa di Pasqua, contiene l'interessante men zione incidentale della «rivolta» per la quale Barabba era in prigione (Mc 15,7). È possibile che fossero pervenute a Pilato notizie dell'at tribuzione a Gesù di pretese messianiche (da lui però fino al pro cesso sempre respinte, cf. per esempio Mc 8,30), e che queste voci fossero state avallate da ambienti giudaici ostili a Gesù. Da qui il so spetto di Pilato che Gesù aspirasse a farsi riconoscere come «il re dei Giudei» (Mc 15,26). Come dice il Bornkamm, «Lo scopo principale del viaggio di Gesù a Gerusalemme era quello di mettere il popolo di fronte al messaggio del Regno di Dio, proprio là, nella città santa, per chiamarlo alla decisione dell'ultima ora. Luca dice esplicita-
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KASEMANN, *Saggi esegetici, 109. Segnaliamo soltanto, dai numerosissimi libri su Gesù, GmoNEBERT, Gesù, 553-565; BoRNKAMM, Gesù, 149- 174; 0MODEO, Gesù, 165; FABRIS, Gesù, 295-300; 305309; Dooo, Il fondatore, 165-167; KEE, Che cosa possiamo sapere, l l ls; CoNZELMANN, Jesus, 85; BARRETI, Jesus, 53-61. Pubblicazioni specifiche sul processo e la condanna di Gesù: B RANDON, Il processo, 191s, 249; 261s; LoHSE, La storia, 87; MoLTMANN, Il Dio crocifisso, 161-163; HENGEL, Crocifissione, 63-73. 8 K.H. RENGSTORF, «lestes», in GLNT VI, 699-714. 7
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mente in diversi punti (19,11; 24,21; At 1,6) che i discepoli affida vano a questo viaggio la speranza che il Regno di Dio si sarebbe fi nalmente manifestato».9 La reazione di Pilato e la condanna di tipo romano sono un indizio che l'arrivo di Gesù a Gerusalemme era stato inteso così, ma in termini politici, anche dai suoi avversari. È lecito pensare che ciò non sarebbe accaduto se la predicazione e gli atteggiamenti di Gesù non avessero avuto aspetti apocalittici. Fra i fatti che si prestano a un'interpretazione apocalittica della persona e dell'attività di Gesù possiamo menzionare anche l'e lezione del gruppo dei «Dodici». La designazione «i Dodici» com pare già nell'antica confessione di fede, prepaolina, citata da Paolo in 1Cor 15,3-7: «apparve ai Dodici». Che il gruppo venisse designato con quel termine tradizionale, quando uno di loro si era auto-escluso con il «tradimento» del Maestro (e forse era già anche morto, cf. Mt 27,3-10 e At 1,20. Ma non è la morte di Giuda a rendere necessaria la sua sostituzione, bensì la sua defezione. La morte di Giacomo figlio di Zebedeo in At 12,2 non porta alla sua sostituzione. La stessa cosa dev'essere accaduta per gli altri membri del gruppo, man mano che morivano) sembra implicare che «l Dodici» fosse diventato una defi nizione tradizionale, prepasquale. Giuda infatti è chiamato «uno dei Dodici» in Mt 26,14.47 e altrove: il gruppo doveva essere già costi tuito prima della morte di Gesù. Se si trattasse di una proiezione al l'indietro, nella vita di Gesù, di un'istituzione post-pasquale non si capirebbe la promessa di Mt 19,28 che presenta i Dodici (Giuda compreso) come destinati a sedere su dodici troni per giudicare le dodici tribù d'Israele. Se teniamo presente che le dodici tribù d'I sraele erano ormai un'entità storicamente inesistente, la promessa deve avere una prospettiva escatologica. La missione dei Dodici ri guarda il popolo di Dio formato, negli ultimi tempi, da tutte le genti della terra, quelli che «verranno da Oriente e da Occidente, da Set tentrione e da Mezzodì» (M t 8,1 1) e troveranno a Gerusalemme un tempio che «sarà chiamato casa di preghiera per tutte le genti» (Mc 11 ,17). In questa prospettiva i Dodici devono predicare e scacciare i demoni (Mc 3,14-15). Il contenuto della predicazione si riassume nella frase riportata in Mt 10,7: «Il regno dei cieli è vicino»; gli esor cismi sono appunto il segno che l'impero di Satana sugli umani volge
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BoRNKAMM, Gesù, 151.
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al termine. È dunque la missione dei Dodici, insieme al loro numero simbolico e alla promessa della loro partecipazione al giudizio ( Mt 19,28) a conferire a questo gruppo una marcata connotazione apoca littica. Sono i messi dell'ultima ora: «> o in bocca a Gesù ricorre più di 60 volte nei Vangeli sinottici (Mt, Mc, Le), 85 in totale se si includono nella somma anche i passi paralleli (FABRIS, Gesù, 116 nota 2}. La formula «regno dei cieli>> è preva lente in Matteo. 13 WEtss, Die Predigt, 11s (ed. i t., 97).
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l) La richiesta del Padre Nostro, «Venga il tuo regno» (Mt
6,10; Le 11,2), non lascia alcun dubbio in proposito; 2) La promessa (Mc 9,1) che alcuni dei suoi ascoltatori non moriranno prima di aver visto il regno di Dio venire con potenza, si riferisce a un avvenimento futuro ed è così problematica che la sua autenticità non può essere contestata; 3) in Le 13,28s il regno di Dio è paragonato a un banchetto al quale parteciperanno Abramo, !sacco, Giacobbe, i profeti e le genti venute dai quattro punti cardinali: il linguaggio e le immagini ricor dano nettamente l'escatologia messianica dei profeti d'Israele; 4) Hanno una prospettiva futura anche i passi che parlano di una prossimità del regno, specialmente quando Gesù manda i disce poli in missione con l'ordine di annunziare che il regno di Dio si è avvicinato (Mt 10,7 e par.); 5) Jeremias interpreta in senso futuro anche passi nei quali, a suo parere, nella forma orale aramaica la copula poteva essere sot tintesa, come Le 17,20s: «Il regno di Dio non viene in modo da es sere osservato, né potranno dire: Eccolo qua, eccolo là; infatti, il re gno di Dio è in mezzo a voi>>. Effettivamente l'aramaico e l'ebraico sottintendono spesso il verbo essere. Il greco lo ha ripristinato con la terza persona singolare del presente («è»), ma avrebbe anche potuto farlo con il futuro (sarà), in armonia con i futuri del contesto (vv. 20.22.23.24 ).14 Si potrebbe ancora aggiungere il detto che pone il . bambino come esempio di accettazione del Regno (Mc 10,15, Le 18,17 e Mt 18,3): «Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non vi en trerà affatto»; ma è anche possibile che il futuro del verbo entrare non sia un futuro apocalittico, bensì un futuro logico. E anche il detto riportato nel contesto dell'ultima cena: «In verità vi dico che non berrò più del frùtto della vigna, fino a che lo berrò nuovo nel re gno di Dio» (Mc 14,25). Più discutibile è l'argomento proposto da E.P. Sanders in Gesù e il giudaismo, quando dice che «si dovrebbe prestare atten zione agli esiti». In altre parole, risultati e conseguenze dell'attività e
14 JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento, 120-122. Per l'ultimo passo ci tato, la proposta di Jeremias è che il regno, !ungi dal poter essere identificato in feno meni dell'esperienza umana, si renderà presente all'improvviso fra gli uomini. È inne gabile un certo parallelismo con i vv. 23-24: mentre alcuni diranno «eccolo qui, eccolo là>>, il Figlio dell'uomo sarà nel suo giorno come il lampo che brilla da un capo all'al tro del cielo.
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dell'insegnamento di Gesù dovrebbero permettere di trarre conclu sioni sulla natura di quest'ultimo. «Le lettere paoline ci mostrano che gli apostoli e i fratelli del Signore (lCor 9,5) agivano come capi di un movimento escatologico giudaico».15 Gli «esiti» di cui parla Sanders sono evidentemente le testimonianze di pensiero e linguag gio apocalittico nelle lettere di Paolo e negli altri scritti del Nuovo Testamento, dei quali ci occuperemo nei capitoli che verranno. Ma questi fenomeni non hanno necessariamente la loro origine e spiega zione nell'influenza del Gesù terreno: potrebbero anche essere spie gati con una minore reticenza degli apostoli e degli altri scrittori del I secolo ad accettare certe prospettive dell'apocalittica e a usarne il linguaggio. Oppure potrebbe trattarsi dell'effetto, sulla comunità primitiva, di quell'evento apocalittico per eccellenza che fu la risur rezione di Gesù. Più possibilista con la teoria degli «esiti» sembra es sere Vittorio Fusco quando scrive: «Non avrebbe potuto esserci, nella comunità primitiva, né l'attesa escatologica a breve scadenza, né la certezza che il regno di Dio misteriosamente è già entrato nella storia, se non ci fossero già state, entrambe, anche nella predicazione di Gesù. Che all'origine di tutta questa realtà possa esserci un Gesù non-apocalittico, risulta poco plausibile ( ... ). Se la risurrezione stessa fu interpretata in categorie apocalittiche, ciò avvenne in base alle premesse, !'"orizzonte di attesa" creato nei discepoli da Gesù stesso. Come minimo, dobbiamo supporre che il suo messaggio era aperto a un'interpretazione di questo tipo, non la precludeva, non era orien tato in senso contrario».16
ARGOMENTI CONTRO Nel 1960 Ernst Kasemann pubblicava sulla Zeitschrift fiir Theologie und Kirche un articolo dal titolo «Gli inizi della teologia cristiana», nel quale si identificava nell'apocalittica «la madre di tutta la teologia cristiana».17 Ma quando arriva a occuparsi di Gesù, Kasemann afferma che, pur essendo Gesù partito dal messaggio del
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SANDERS, Gesù e il giudaismo, 168. Fusco, «Gesù e l'apocalittica». Le due frasi citate sono rispettivamente a pp. 59 e 60. 17 Cf. la conclusione del capitolo precedente e la nota 10 ( ivi ) . L'argomento è ripreso in un altro articolo del 1962 dal titolo «Sul tema dell'apocalittica cristiana pri mitiva>>, trad. it. in *Saggi esegetici, 106-132.
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Battista, «la sua predicazione non portava l'impronta costitutiva del� l'apocalittica, bensì annunciava l'immediatezza del Dio vicino».18 Se uno studioso che ha riscoperto la dimensione apocalittica nella cristianità primitiva nega che Gesù l'abbia condivisa, quali sono i motivi? Con quali argomenti si può respingere l'aggettivo «apocalittico» applicato alla persona e al pensiero di Gesù? Possiamo menzionare in primo luogo un argomento molto ge nerale, d'ordine metodologico . . Gli studiosi che si sono applicati a «riscoprire l'insegnamento di Gesù» (per usare il titolo di un fortu nato libro di Norman Perrin) hanno proposto la necessità di adot tare alcuni criteri, il primo dei quali è stato chiamato «criterio della dissimiglianza»: si può avere una relativa certezza che un detto evan gelico risalga direttamente a Gesù quando è evidente che non può derivare dal giudaismo contemporaneo né dall'insegnamento della chiesa primitiva.19 A questo criterio si possono muovere due obiezioni: esso esige che l'insegnamento di Gesù sia sospeso nel vuoto, senza rapporti né a monte (con l'eredità giudaica nella quale Gesù si era formato) né a valle (con l'insegnamento della comunità primitiva che discendeva dalla persona e dall'opera di Gesù),20 e fa leva essenzialmente sul l'implicito, perché le affermazioni esplicite evidenziano più facil mente la continuità, e questa ne rende aprioristicamente sospetta l'autenticità.21 Comunque sia, l'applicazione radicale di questo crite rio all'argomento che ci interessa produce un sillogismo di questo genere: la prospettiva apocalittica era tipica del giudaismo post esilico, l'insegnamento autentico di Gesù si distingueva da quello del giudaismo, quindi Gesù non può aver condiviso quella prospettiva. Accettando implicitamente quest'esigenza di discontinuità, R. Bultmann tende a escludere la prospettiva apocalittica dall'insegna mento di Gesù sul Regno di Dio perché questo non è legato in alcun
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*KASEMANN, «Gli inizi», 100. PERRIN, Rediscovering, 38-43. Cf. anche D.G.A. Calvert. Presso altri autori è chiamato «criterio di discontinuità» (cf. sotto, nota 21). 2° CALVERT, «Criteria>>, 212; E. KAsEMANN, «Il problema del Gesù storico>>, in *Saggi Esegetici, 48. Bisogna ammettere, d'altra parte, che anche per Gesù come per tutte le altre persone che hanno cambiato il corso della storia, ciò che più interessa è lo specifico del loro pensiero, più che ciò che hanno condiviso con il loro ambiente. Così MERKEL, «Gottesherrschaft», 133. 2 1 V. Fusco, «Tre approcci storici a Gesù>>, in Ras T 23(1984), 311-328, in parti colare p. 318. 19
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modo alle raffigurazioni drammatiche che il giudaismo collegava con la sua venuta: esso significa invece l'aut-aut decisivo che obbliga l'uomo a una decisione. Quindi il Regno di Dio in Gesù non va inter pretato nel senso di un dualismo metafisica o cosmologico,22 e ogni speranza apocalittica è estranea al mondo di pensiero di Gesù. Ab biamo qui un rifiuto aprioristico dell'apocalittica, e della sua pre senza nell'insegnamento autentico di Gesù, a causa della sua irrile vanza per la comprensione esistenziale che abbiamo di noi stessi: la dimensione apocalittica non si lascia inserire nella dimensione esi stenziale. Non molto diverse sono le interpretazioni dell'insegnamento di Gesù sul Regno di Dio che fanno di quest'ultimo un mero sim bolo, negandogli ogni contenuto concettuale. Il discorso sul «regno» sarebbe stato solo un modo per esprimere simbolicamente un'espe rienza di Gesù che non poteva essere tradotta in termini concettuali. Non è un caso che la maggior parte di quel che Gesù dice sul regno sia formulato in forma di parabole, e le parabole non sono discorsi argomentativi, bensì immagini che afferrano e rendono l'idea di un intervento occulto ma reale di Dio, che «regna», cioè esercita il suo potere nonostante le condizioni dell'esistenza umana in questo mondo sembrino dimostrare il contrario.23 Un terzo argomento avanzato spesso per contestare che Gesù abbia condiviso la (o qualche) prospettiva apocalittica è l'assenza, nel suo insegnamento, del tradizionale arsenale degli scritti apocalit tici giudaici: i calcoli per determinare la vicinanza o lontananza degli avvenimenti finali e quindi la loro data, la dottrina dei due eoni rigo rosamente antitetici, le carrellate storiche. Con questo termine mi ri ferisco a quei brani degli scritti apocalittici che contengono descri zioni a volo d'uccello delle tappe di un periodo storico, interpre tando gli eventi da un punto più o meno lontano del passato fino al tempo dello scrittore o (in forma molto indeterminata) anche oltre. Il loro uso va di pari passo con la tecnica della pseudonimia: uno scritto apocalittico, attribuito fittiziamente a un autore vissuto nel passato, può mettergli in bocca una serie di anticipazioni relative ai
22 BuLTMANN, Gesù, 129-137; cf. anche la risposta di Bultmann a_ Kasemann: «1st die Apokalyptik die Mutter der christlichen Theologie?>>. 23 Le interpretazioni simboliche cui accenno sono quelle illustrate da SANDERS, Gesù e il giudaismo, 164-167, che risalgono a B.B. Scott e a B. Chilton. Sulla parabola come mezzo più idoneo per avvicinare il discorso del Regno - se non addirittura il re gno stesso - a uomini e donne della Galilea raccomando la lettura del capitolo sul Re · gno di Dio in s oRNKAMM, Gesù di Nazareth, 62-91 , e in modo speciale le pp. 66-71 .
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fatti che accadranno nel futuro. La forma è quella della profezia, ma si tratta di predizioni post eventum, quindi, per forza di cose, esattis sime. Così la raffica di eventi «profetizzati» dal supposto autore ac quistano un valore apologetico: se egli è così buon profeta nel preve dere gli eventi futuri (in realtà già accaduti) lo sarà altrettanto per ciò che riguarda gli avvenimenti dell'ultima ora, la svolta degli eoni e le descrizioni del mondo nuovo di Dio.24 Ma di questo artifizio tec nico non c'è traccia nelle parole di Gesù. Talvolta si unisce a questo argomento anche l'osservazione che Gesù non indica mai date per gli eventi escatologici, anzi si op pone a qualsiasi previsione o calcolo delle medesime. Ma quest'ar gomento va usato con prudenza. Infatti i passi che si citano in propo sito sono ambivalenti. C'è Mc 13,32s («Quanto poi a quel giorno e a quell'ora, nessuno li conosce ... Vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso !») e il già citato Le 17,20s («>, in NTS 22(1975-1976), 1-14.
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di Gesù. Torneremo a occuparci di parabole nel capitolo seguente, ma possiamo dire, in via preliminare, che anche quando le parabole sembrano non prendere in considerazione la tensione escatologica, non devono andare disgiunte dall'ammonimento: «Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» (Le 12,56), cioè sono in realtà ammonimenti alla vigilanza apocalittica. Nelle frasi introduttive di questo capitolo ho riportato l'affer mazione di Kasemann, secondo cui l'annunzio della vicinanza di Dio, nell'insegnamento di Gesù, è per lui incompatibile con la pro spettiva apocalittica: «Chi aveva fatto questo passo [cioè sentito e predicato la vicinanza di Dio] a mio avviso non può aver atteso la ve nuta del Figlio dell'uomo, la restaurazione del popolo delle dodici tribù nel regno messianico e la parusia che vi era collegata, per fare l'esperienza della prossimità di Dio». Qui la certezza della vicinanza o prossimità di Dio viene elevata a criterio esclusivo di ogni altra te matica - persino di quella apocalittica che comunque implica anche una vicinanza, almeno temporale, di Dio e della sua venuta ... Un ultimo argomento addotto talvolta per negare la presenza della dimensione apocalittica in Gesù, è quello del valore positivo che Gesù dà, in alcuni passi, alla natura, ai fiori del campo e ai frutti della terra; Dio nutre gli uccelli del cielo e dà una veste splendida ai gigli dei campi (Le 12,24-27). L'uomo virtuoso è paragonato a un al bero buono che dà frutti buoni (Le 6,43-45). Il regno di Dio è illu strato con le immagini del granello di senape e del lievito (Le 13,1820). J.S. Kloppenborg, attento studioso della fonte Q, cioè dell'an tica raccolta dei detti del Signore, mette in evidenza queste parole caratteristiche di Gesù, e fa notare che questa valutazione positiva della natura ricorda più la letteratura sapienziale che quella apoca littica: anche quando gli scritti apocalittici si richiamano alla natura, come Enoch 2,1-5,3 che offre una serie di esempi per dimostrare la regolarità dei fenomeni naturali e l'obbedienza degli astri, degli al beri e dei mari agli ordini del loro creatore, lo fanno in un quadro negativo, per sottolineare, in contrasto, la disubbidienza dei malvagi e la correttezza del giudizio divino che li attende. Secondo Kloppen borg, nella fonte Q manca questo senso dell'irrimediabile corruzione del mondo e della natura'.25
25 J.S. KLOPPENBORG, «Symbolic Eschatology and the Apocalypticism of Q», in Harv TR 80(1987), 287-306. Cf. dello stesso autore The Formation of Q, Philadelphia 1987.
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UNA SITUAZIONE DI STALLO? Alla fine di questo capitolo su Gesù sembra che rimanga aperto il problema: gli argomenti invocati a favore o contro l'uso, da parte di Gesù, delle concezioni apocalittiche del suo tempo e del loro linguaggio, paiono contraddirsi a vicenda. Non giova, di fronte alla difficoltà, spiegare la contraddizione invocando il lavoro 'redazionale degli evangelisti. Infatti si potrebbe dire, da un lato, che la tendenza era quella di spiritualizzare la figura e le parole di Gesù: più si andava avanti nel tempo, più questa ten denza si accentuava. Il Vangelo di Giovanni ne costituisce l'esempio più spinto.26 Dall'altro lato si potrebbe invece ipotizzare una ripro posta in forme apocalittiche del messaggio di Gesù. Kasemann sug gerisce di vedere l'humus di questo rivestimento apocalittico del messaggio di Gesù nell'attività dei profeti carismatici della primitiva comunità. A loro potrebbe risalire il freno posto alla dimensione universale della predicazione cristiana (Mt 10,5s), per la convinzione che la missione a tutti i popoli doveva essere l'opera personale ed escatologica di Dio, e che un'iniziativa umana sarebbe stata una te meraria confisca di qualcosa che Dio aveva riservato a se stesso. An che l'attribuzione a Gesù di talune maledizioni apocalittiche avrebbe la stessa radice (per esempio, la maledizione contro le città galilee in Mt 1 1,20-24).27 Tuttavia, escludere la dimensione apocalittica dalla persona e dalle parole di Gesù significherebbe apportare ai testi evangelici (ai sinottici in modo speciale) mutilazioni di vaste proporzioni. E in nome di che cosa? In nome di una pretesa continuità fra la «reli gione di Gesù» e quella dei profeti, avvocati - l'uno e gli altri - di un rapporto tutto spirituale con Dio, di una religione non ritualistica né legalistica, di una morale centrata sul valore della persona umana e sulle esortazioni etiche degli spiriti più illuminati della storia d'Israele. Il mondo degli studiosi europei è stato a lungo vittima di questa falsa contrapposizione fra profetismo e apocalittica. Rite nendo di dover scegliere fra le due espressioni religiose giudaiche la vera radice da cui era scaturito l'evangelo di Gesù, ha troppo a lungo
26 Questa tesi è sviluppata da P. AcHTEMEIER, «An Apocalyptic Shift in Early Christian Tradition: Reflections on Some Canonica! Evidence>>, in CBQ 45(1983), 231-248. È chiaro che una traiettoria di questo genere avrebbe potuto portare la chiesa allo gnosticismo, ma questo traguardo fu emarginato prima che si imponesse. 27 *KASEMANN, «Gli inizi>>, 87-99.
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optato per la radice profetica, eliminando praticamente dall'oriz zonte della ricerca (ma non sempre da quello della pietà personale !) il filone apocalittico. Questo perché si rimproverava all'apocalittica di attendere un regno di Dio oltremondano, mentre i profeti predi cavano un Dio che regna in questo mondo. La prospettiva apocalit tica concentrata sul futuro impedirebbe un impegno costruttivo nel presente. Anche il poco valore attribuito al passato del popolo d'I sraele, in particolare alla storia dell'elezione, dimostrerebbe il di sprezzo apocalittico per la storia. La prospettiva storica dei testi apo calittici ha una dimensione universale come la sapienza giudaica.28 D'altra parte, il rifiuto dell'apocalittica e il tentativo di colle gare direttamente Gesù ai profeti come se non fosse esistito l'inari dimento dello spirito profetico in Israele (Sal 74,9: «Non ci sono più profeti») e la letteratura apocalittica non avesse dominato il campo per due secoli, sono operazioni antistoriche, mentre è frutto di un pregiudizio dogmatico opporre il cosiddetto profetismo etico al fa natismo post-esilico. Ci si potrebbe domandare se alle radici del ri fiuto dell'apocalittica, particolarmente accentuato fra gli studiosi te deschi, non ci sia un riflesso atavico dell'opposizione di Lutero ai fa natici illuminati e apocalittici del suo tempo. Da allora, una visione del futuro e dell'al-di-là colorata di apocalittica è rimasta soprattutto appannaggio di movimenti marginali, settari, che per lo più non si ri conoscono nel protestantesimo né sono riconosciuti dalle grandi chiese protestanti se non, appunto, come «sette».
UNA SVOLTA NELLA RICERCA Una svolta si è prodotta nel 1892 con un lavoro di Johannes Weiss sul regno di Dio.29 Alla fine l'autore riassume i risultati della sua ricerca in dieci tesi: l) In Gesù c'è la certezza che il tempo mes sianico sia imminente; 2) Ma esso è ancora futuro e bisogna pregare per la venuta del Regno; 3) Nessun altro, se non Dio stesso, può isti tuire il Regno di Dio; 4) A lui, Gesù, verrà assegnata la posizione di «Figlio dell'uomo» e il potere di giudicare; 5) Coll'andar del tempo
28
Cf. B. CoRSANI, «L'Apocalittica: fra Antico e Nuovo Testamento», in Prot
17(1972J . 15-22. ·
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WEISS, Die Predigt (ed. it. La predicazione di Gesù sul Regno di Dio).
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Gesù si convince che l'evento dovrà essere preceduto dalla sua morte, dopo la quale ritornerà come Figlio dell'uomo sulle nuvole del cielo; 6) La venuta del Regno coinciderà con l'annientamento di questò mondo e la creazione del mondo nuovo di Dio; 7) A quel mo mento vi sarà il giudizio, non solo sui viventi ma su tutti gli uomini; 8) La terra di Palestina sarà il centro del nuovo Regno, e tutti i po poli riconosceranno e serviranno Dio; 9) Gesù e i suoi regneranno sul nuovo popolo delle dodici tribù; 10) La signoria del Messia non sostituirà quella di Dio, ma la invererà. Non possiamo qui fare la storia della riscoperta dell'apocalit tica e dell'opposizione con cui è stata accolta: i capitoli centrali del li bro di Klaus Koch (Le difficoltà dell'apocalittica) sono dedicati a questo processo storico. Nonostante l'opera di Weiss e quella più ampia ma più emotiva di Albert Schweitzer,30 la prospettiva apoca littica ha continuato a essere guardata con sospetto, e l'aggettivo «apocalittico» è stato ancora usato, molto spesso, come giudizio squalificante. 31
MA È PROPRIO NECESSARIO SCEGLIERE? Di fronte al dato che emerge dalla lettura dei Vangeli sinottici, ci troviamo davanti a due posizioni diverse: da un lato una vasta area di influenza della visuale apocalittica (Regno futuro, attesa del giu dizio, risurrezione futura, parusia, ecc.). Dall'altro abbiamo dei passi che parlano di un regno presente (o alle porte), che considerano questo mondo come non totalmente negativo, che propongono un'e tica del Regno da perseguire nel discepolato terreno. Già molti anni fa Oscar Cullmann, seguito in parte da W.G. Ktimmel, aveva tentato la via della coesistenza delle due prospet tive, osservando che nei Vangeli il mondo nuovo di Dio è già pre sente nella persona di Gesù, nelle sue opere potenti. Ricordiamo i passi biblici più significativi: «Se io scaccio i demoni con il dito di Dio è dunque giunto a voi il regno di Dio» (Le 1 1 ,20); «Io vedevo Satana cadere dal cielo come la folgore» (Le 10,18); il commento di Gesù alle critiche dei farisei perché i suoi discepoli non si associa-
30 ScHWEITZER, Storia della ricerca (l'originale, Geschichte der Leben-Jesu Forschung, è del 1906), 495-550. 31 a. CULLMANN, Heil als Geschichte, 61-65 (ed it., 100-104).
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vano al digiuno dei discepoli dei farisei e di Giovanni Battista: il tempo di Gesù è definito come tempo di gioia e di festa per la pre senza dello sposo (Mc 2,18-20); la risposta alla domanda di Giovanni Battista (Mt 1 1 ,2-6), in cui il presente di Gesù è chiaramente definito come tempo messianico, con riferimento a ls 35 (e a questa risposta si potrebbero accostare le guarigioni compiute da Gesù e la sconfitta degli spiriti malvagi). A tutto questo sembra alludere la parola ri volta da Gesù ai suoi discepoli: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l'udirono» (Le 10,23s). Tuttavia, sempre secondo Cullmann, non si tratta ancora della realizzazione definitiva e universale del mondo nuovo, per il quale i discepoli sono esortati a pregare.32 J. Jeremias interpreta le parole di Gesù sulla prossimità degli eventi escatologici come «espressione della certezza che con l'attività di Gesù hic et nunc ha fatto irruzione l'ora del compimento e l'ora dell'ultima, assoluta parola di Dio all'umanità».33 Da allora si è rafforzata la tendenza a pensare che i detti di Gesù sul Regno e gli avvenimenti escatologici non siano uni formi. E.P. Sanders arriva a suddividerli in sei tipi: l) «Regno>> in senso di «patto». È il più vicino alla concezione giudaica. Sono quelli che parlano di «entrare nel regno di Dio» a certe condizioni (come a certe condizioni si osservava il patto di Dio con Israele): cf. Mt 7,21; 18,3; 19,23. 2) Vicini alla tradizione giudaica sono anche i passi che par lano del Regno come qualcosa che deve ancora stabilirsi pienamente («Venga il tuo regno», Mt 6,10). 3) Il Regno come giudizio e separazione fra eletti e reprobi (Mt 13,40-42, 14,47-50; 24,30s; 25,31ss). 4) Il Regno come evento futuro, decisivo, che darà luogo a un ordine sociale ben individuabile, tale da coinvolgere i discepoli di Gesù se non anche Gesù stesso (Mt 19,28; 20,20-28, Mc 14,25 e parr). 5) Il Regno come realtà già presente nelle parole e negli atti di Gesù (oltre ai passi già citati cf. anche Mt 11,11 e Le 1 1 ,31s).
32 Il punto di vista di Cullmann è presentato in Christus und die Zeit e poi in Heil als Geschichte. Kiimmel si è espresso sull'argomento in Verheissung und Erfii.l lung. Untersuchungen zur eschatologischen Verkilndigung Jesu, Ziirich 2 1953. 33 J. JEREMIAS, «Eine neue Schau der Zukunftsaussagen Jesu», Theologische Bliitter, 1941, 216-222 (cit. da col. 222).
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6) Come sesto gruppo Sanders ricorda i passi che descrivono i valori del mondo nuovo di Dio come l'esatto opposto dei valori di questo nostro mondo presente (cf. l'apprezzamento per i lavoratori dell'ultima ora in Mt 20,1-16 e i peccatori pentiti anteposti ai giusti in Le 15,3-7 e 11-32) . Che Gesù possa essersi espresso in maniere diverse nelle sue allusioni al Regno e agli avvenimenti escatologici non è cosa che debba essere rifiutata a priori. Non bisogna dimenticare che Gesù non ha disquisito astrattamente su questi argomenti né impartito le zioni accademiche. Del Regno e degli eventi escatologici egli parla per lo più in esortazioni parenetiche o in appelli al ravvedimento;34 quando vuole descrivere aspetti della sua idea del regno di Dio si serve, come abbiamo già visto, della parabola.35 L'assenza di un inse gnamento sistematico permette di capire come mai Gesù possa aver sottolineato, in casi diversi, aspetti differenti della sua visuale esca tologica. C'è poi, importantissimo, il precedente della religione d'I sraele: anche lì il regno di Dio non è soltanto una realtà storica, né soltanto una realtà escatologica. Agli israeliti che vogliono proda mario re, Gedeone risponde: «>, in R Thom 58(1957), 405-428; E.E. ELLIS, Paul's Use of the Old Testament, Edinburgh 1957; A. GouNELLE - F. VouaA, Dopo la morte. . ? I cristiani e l'aldilà, Torino 1995; E. GOTIGEMANNS, Der lei dende Apostel und sein Herr, Gottingen 1966; M. HENGEL, Il Paolo precristiano, Bre scia 1992; E. KAsEMANN, «Il grido liturgico di libertà>>, in Io., Prospettive paoline, Bre scia 1972, 175-194; L.E. KEcK, «Paul and Apocalyptic Theology», in Interp 38(1984), 229-241; O. Kuss, Paolo. La funzione dell'Apostolo nello sviluppo teologico della Chiesa primitiva, Cinisello Balsamo 1971; A. LINDEMANN, «Paulus und die korintische Eschatologie>>, in NTS 37(1991 ), 373-399; E. LoHsE, «Apokalyptik und Christologie>>, in ZNW 62(1971), 48-67; U. Luz, Das Geschichtsverstiindnis des Paulus, Munchen 1968; P. voN DER OsreN-SACKEN, «Die paulinische Theologie als Form apokalyp tischer Theologie>>, in EvT 39(1979), 477-496; K. SlENDAHL, Paolo fra Ebrei e pagani, Torino 1995; A. SCHWEI1ZER, La mystique de l'Ap6tre Pau[, Paris 1962 (ed. ted.: 1930); W.C. VAN UNNIK, Tarsus or Jerusalem. The City of Pauls's Youth, London 1962; U. WILCKENS, «Die Bekehrung des Paulus als religionsgeschichtliches Problem>>, in ZTK 56(1959), 273-293; ristampa in U. WILCKENs, Rechtfertigung als Freiheit. Paulusstu dien, Neukirchen 1974, 11-32. .
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lettere che portano il suo nome. È vero che altre, pur portando il marchio dell'autenticità, sono forse state editate e accorpate in testi di una certa ampiezza indirizzati ai medesimi destinatari. Tutto que sto è vero ed è riconosciuto dalla gran massa degli esegeti (che sono d'accordo in linea di principio anche se non tutti giungono alle me desime conclusioni su questo o quel testo ).1 Ma nulla potrà annul lare l'enorme vantaggio di disporre di scritti venuti da lui. Delle epi stole che portano il suo nome sono generalmente considerate poste riori l'epistola agli Efesini e le lettere chiamate «pastorali» (1-2Ti moteo; Tito )2 che portano chiari segni di un'epoca e una problema tica post-paolina; vi sono anche molte esitazioni per Colossesi e 2Tessalonicesi. A questi scritti è bene evitare di fare riferimento per ricostruire il pensiero paolino (salvo che si voglia seguire la traietto ria dell'efficacia del suo apostolato negli anni immediatamente suc cessivi e nell'area della sua influenza). Rimane comunque un blocco di sette lettere (lTessalonicesi, l e 2Corinzi, Filippesi, Filemone, Galati, Romani) alle quali si può attingere con sicurezza per tentare di avvicinarsi al pensiero autentico di Paolo. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio: se per lo storico è una for tuna immensa possedere scritti autentici del personaggio da stu diare, bisogna anche che egli tenga conto delle loro limitazioni. Ne ricorderei due in modo speciale: le lettere sicuramente paoline ap partengono tutte all'ultimo periodo di attività pubblica dell'apo stolo, cioè all'epoca dei suoi grandi viaggi in Asia Minore, Macedo nia, Grecia. Mancano testi che risalgano al periodo formativo della sua personalità di cristiano e di teologo e che ci illuminino sulla sua evoluzione spirituale, sulla nascita della sua fede in Gesù Cristo e della sua vocazione apostolica - fatti salvi alcuni brevissimi accenni nelle lettere esistenti, scritte molti anni dopo.
1 Per tutta questa problematica rinviamo ai manuali di Introduzione al Nuovo Testamento degli ultimi decenni, fra i quali ricorderemo soltanto G. RINALDI - P. DE BENEDETII, Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia 1961; G. *Bornkamm; B. *Corsani, vol. II; *Wikenhauser - Schmid; F.J. ScHIERSE, Introduzione a l Nuovo Te stamento, Brescia 1987 - tutti, ovviamente, solo per la parte che tratta dell'epistolario paolino. Si possono anche consultare utilmente le opere dedicate alla persona e al pensiero di Paolo, come quelle di G. Bornkamm, G. Barbaglio, O. Kuss. 2 Cf. R. PENNA, Lettera agli Efesini, Bologna 1988; F. MoNTAGNINI, Lettera agli Efesini, Brescia 1994; N. BRox, Le lettere pastorali, Brescia 1970; Y. REDALIÉ, Paul après Pau[, Genève 1994; C. MARCHESELLI-CASALE, Le lettere pastorali. Le due lettere a Timoteo e la Lettera a Tito, Bologna 1995; R. FABRIS, La tradizione paolina, Bologna 1995.
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La seconda limitazione riguarda il carattere degli scritti di Paolo: si tratta, come è noto, di Lettere. Paolo non ha lasciato nessuna esposizione sistematica della fede cristiana, nessun trattato di teolo gia fondamentale, nessun manuale di dottrina cristiana. Le sue let tere sono scritti occasionali, indirizzati a lettori specifici (comunità cristiane della metà del I secolo), per incoraggiarli, o per rispondere a problemi concreti dell'esistenza cristiana nel mondo, problemi che talvolta gli erano stati sottoposti dagli interessati, o anche per pole mizzare contro persone che sostenevano punti di vista diversi dai suoi e dei quali non abbiamo nessuna documentazione diretta. Que sto significa che il pensiero di Paolo deve essere ricostruito da questi elementi frammentari e condizionati dalle circostanze culturali e so ciali dei destinatari: di fronte a situazioni e problematiche diverse, i pareri dell'apostolo possono anche, talvolta, apparire contraddit tori.3 Si tratta, volta per volta, di identificare il collegamento dei suoi pareri occasionali con lo zoccolo duro del suo pensiero.
PAOLO APOCALITTICO? Questa domanda può essere affrontata da due punti di vista: quello dell'evoluzione spirituale di Paolo, ossia sul piano biografico, e quello degli scritti che ci ha lasciato, ossia sul piano del suo inse gnamento. Dicevo sopra che sono molto scarsi gli accenni all'evoluzione spirituale di Paolo: della sua vocazione parla sempre di sfuggita, al l'interno di dichiarazioni di una certa solennità, che sono agli anti podi dell'introspezione psicologica con cui a volte i credenti di oggi parlano delle loro esperienze religiose: il tema della sua predica zione e del suo insegnamento non sono la sua persona e le sue emo zioni religiose, ma Gesù Cristo e il suo evangelo di salvezza. In lCor 15,8 Paolo riassume la sua esperienza in due parole (nel testo greco): ophthe kamoi (apparve anche a me): con queste due parole Paolo fa sapere che la fede nel Cristo risorto ha la stessa origine per lui che per i «Dodici» (per questo anche la loro predì-
3 Cf. J.C. BEKER, >; sul nome da dare all'esperienza della via di Damasco cf. anche STENDAHL, Paolo, 55-76 ( «Vocazione anziché conversione>> ) . 5 Così BARBAGLIO, Paolo, 233. 6 Il carattere apocalittico della vocazione di Saulo/Paolo è stato sostenuto particolarmente da WILCKENS, «Die Bekehrung>>.
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Rm 15,18-21, 1Cor 16,8-9. In Rm 15,23 Paolo arriva addirittura a so stenere che in Oriente non c'è più per lui campo d'azione. Si ha l'im pressione che egli consideri le chiese stabilite in alcune città della Si ria, dell'Asia Minore, della Macedonia e dell'Acaia non come delle teste di ponte, ma come una presa di potere di tutta la regione in nome e per conto di Gesù Cristo e del suo evangelo. E questa serena fiducia poteva trovare una giustificazione nella realtà dell'irraggia mento della fede dei membri di quelle chiese nella regione circo stante, come è affermato a chiare lettere per i cristiani di Tessalonica in 1Ts 1,8 («La parola del Signore riecheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell' Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto»). Dei romani dichiara che la fama della loro fede è conosciuta, iperbolicamente, in tutto il mondo (Rm 1 ,8). La dimensione temporale consiste nella convinzione che or mai la storia è giunta al suo termine e che l'ora della svolta è vicina. Ritroveremo questa tesi nell'esame dei passi apocalittici più impor tanti di Paolo. Qui vogliamo solo notare l'importanza che essa ha per l'etica e la parenesi paoline.7 Come già Giovanni Battista e Gesù, anche Paolo propone ai credenti un'etica assoluta, che si iden tifica con il compimento della volontà perfetta di Dio che esige la dedicazione a lui dell'uomo intero, chiamato ad amarlo con tutto il suo cuore, con tutta la sua mente e con tutte le sue forze. Tutto il re sto è secondario. Lo schiavo può anche rimanere nella sua condi zione (1Cor 7,21-22), celibi e coniugati continuino a vivere ciascuno nella condizione in cui fu chiamato (ivi, vv. 17 e 26-27), e così fac ciano anche il circonciso e l'incirconciso (vv. 18-20). Il motivo che sta a fondamento di queste raccomandazioni è indicato ai vv. 29-31, con una formula introduttiva particolarmente solenne: «Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godes sero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo !». Nel quadro di questa doppia dimensione di tipo apocalittico va inserita anche l'importanza data al Cristo come strumento per l'in staurazione del mondo nuovo di Dio nel creato: uno s trumento che
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Quest'importanza è già sottolineata da ScHWEITZER, Mystique, 170-174.
porta ancora il nome del messia (greco Christos), ma più che al tipo di conquistatore davidico nazionalista del profetismo classico, somi glia al preesistente Figlio dell'Uomo degli scritti apocalittici. Lui solo è il mediatore della salvezza. Persino la Legge (fatta eccezione per la pretesa divina di una dedizione totale al suo servizio), per chi volesse considerarla come mezzo di accesso alla salvezza, finirebbe per essere un rinnegamento di Cristo e della sua funzione incompa rabile (Gal 2,21: « ... se la giustizia viene dalla legge, Cristo è morto invano»). Possiamo domandarci, per concludere questo preambolo allo studio delle lettere, se l'interpretazione apocalittica della vocazione di Paolo e la ricerca che stiamo per fare di concezioni apocalittiche nei suoi scritti siano compatibili con quanto sappiamo della sua .for mazione culturale e religiosa pre-cristiana. È possibile che un uomo di Tarso (At 22,3) sia stato influenzato dall'apocalittica giudaica? E che ne abbia condiviso almeno in parte linguaggio e prospettive pur essendo, come egli stesso dichiara, «fariseo quanto alla legge» (Fil 3,5)? Questa seconda domanda trova più facilmente risposta: basta ricordare che prima del 70 d.C. il fariseismo non era monolitico come lo divenne dopo la caduta di Gerusalemme e lo sfascio della nazione. W.D. Davies esamina la questione nel primo capitolo del suo lavoro su Paolo e il giudaismo rabbinico, e attribuisce l'emargi nazione delle prospettive apocalittiche nel giudaismo posteriore al 70 al fatto che esse erano state largamente assunte dal movimento cristiano. L'interesse del partito farisaico per la venuta del re-mes sia, per l'eone futuro e per la risurrezione dei morti rendono difficile escludere dalla loro dottrina qualsiasi prospettiva apocalittica. Pro prio in quanto fariseo, Paolo può dunque aver acquisito un atteggia mento disponibile nei riguardi dell'apocalittica. Nel medesimo con testo il Davies riporta il parere di C.H. Dodd, secondo il quale «sem bra chiaro che Paolo abbia cominciato con concezioni escatologiche del tipo rappresentato da scritti giudaici come il libro di Enoc, l'apo calisse di Baruc e il IV Esdra».8 L'altra domanda, la prima, riceveva di solito, dalla fine del se colo scorso, risposta negativa: Paolo veniva generalmente conside-
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DAVIES, Paul, 9ss. La citazione di Dodd è da BJRL 18(1934), 27.
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rato come persona educata in ambiente ellenistico e tributaria del pensiero filosofico (e forse religioso-misterico) dell'ellenismo. Di questo si trovavano prove nel suo uso della versione biblica dei Set tanta (la Bibbia degli Ebrei tradotta in greco), nell'importanza del culto del Kyrios e nel peso dato da Paolo all'aspetto partecipativo della fede in Cristo («essere in Cristo»). Questa posizione è ora di fesa con meno sicurezza, specialmente dopo il lavoro di W.C. van Unnik, pubblicato nel 1952 in olandese ma più noto nella traduzione inglese del 1962:9 la città della giovinezza di Paolo (cioè del suo pe riodo formativo) fu Tarso o Gerusalemme? La sua padronanza della lingua greca e la facilità con cui cita i Settanta sono notevoli; d'altra parte non si può negare che il greco di Paolo sia spesso aspro, senza i fronzoli e l'ampio periodare di molti scrittori ellenistici. Questo po trebbe rendere attendibile la presentazione che gli Atti degli apo stoli fanno di Paolo come personaggio bilingue, capace di rivolgersi con la stessa facilità agli ufficiali romani (in greco) e al popolo di Ge rusalemme (in aramaico): cf. At 21 ,37-40 e 22,2. Anche le citazioni bibliche non coincidono sempre con la traduzione dei Settanta, ma rivelano a volte una maggior vicinanza all'ebraico, reso in greco forse da Paolo stesso.10 Infine, l'adesione di Paolo al farisaismo sem bra esigere un suo soggiorno in Palestina, perché le fonti in nostro possesso non attestano la presenza di scuole farisaiche nella dia spora.U Così non si può escludere a priori che Paolo avesse studiato anche a Gerusalemme e avesse sentito le lezioni di Gamaliele I (At 22,3) . Il rimando a Gal 1 ,22 non è sufficiente per escluderlo. Poiché Paolo deve essere stato un pensatore dedito alla riflessione teologica già prima della sua svolta verso il cristianesimo, specialmente sui grandi temi biblici quali il significato della parola di Dio e i suoi ef fetti, e la rivelazione di Dio, in giudizio e in grazia, nella storia del suo popolo (Hengel) è possibilissimo che le prospettive apocalittiche gli fossero familiari almeno per quanto concerne il futuro di Dio, del mondo e dei singoli.
9 V AN UNNIK, Tarsus. Il titolo inglese corrisponde esattamente a quello del l'edizione olandese. 10 Cf. ELLIS, Paul's Use, 1 1-16. 1 1 HENGEL, Paolo precristiano, 98. Tutto il secondo capitolo (69-109) affronta la questione già studiata da van Unnik, aggiornando l'informazione.
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BRANI APOCALITIICI NELL'EPISTOLARIO PAOLINO Nelle lettere di Paolo possono essere identificati come mate riale apocalittico quattro o cinque passi di una certa ampiezza, e una cinquantina di accenni di proporzioni molto più ridotte. Ci sofferme remo qui sui passi più lunghi e complessi, perché implicano un la voro di riflessione sull'argomento e non possono certo essere sfug giti dalla penna o dalle labbra di Paolo senza che se ne rendesse conto.
A)
1 Ts 4,13-18
Il primo brano di carattere apocalittico generalmente ricono sciuto è l Ts 4,13-18. La sua struttura può essere facilmente diagram mata: v. v. v. v. v. v.
13: introduzione motivante (perché Paolo scrive il brano) 14: il fondamento cristologico e la speranza conseguente 15: confutazione dei timori errati dei tessalonicesi 16: citazione motivante di una parola del Signore 17 (o 17b): attualizzazione per i lettori 18: conclusione parenetica.
Rileviamo anzitutto l'importanza dei vv. 13 e 18: ciò che Paolo sta per scrivere nella parte centrale del brano non è teoria, ma preoccupazione pastorale per i credenti di Tessalonica e per le loro esitazioni in tema di speranza futura. Si può discutere se queste esi tazioni toccassero in generale il tema della risurrezione futura, o si riferissero esclusivamente (come è più probabile) alla situazione di sfavore in cui sarebbero venuti a trovarsi i credenti morti prima della parousia: il punto in discussione sembra proprio essere il «vantag gio» dei viventi rispetto a quelli che saranno morti. Infatti - pensano i tessalonicesi - solo i viventi e non i morti parteciperanno all'evento salvifico del ritorno del Signore (parousia) : questo vorrebbe dire che nel caso dei cristiani già morti, la morte sarebbe stata più potente della loro fede. E per quanti di quelli ancora vivi non potrebbe suc cedere la stessa cosa, cioè di morire prima della parousia? Paolo in travvede il pericolo che si produca nei fedeli di Tessalonica uno stato di tristezza (v. 13) che li metterebbe sullo stesso piano degli «altri che non hanno speranza», e potrebbe far vacillare la loro fede. Ma 99
questo, Paolo vuole assolutamente evitarlo. La speranza, ha scritto Bultmann, costituisce, insieme con la fede, l'essenza stessa del cri stianoY All'inizio della Prima lettera ai tessalonicesi, Paolo ha reso testimonianza alla loro fede operosa, al loro amore impegnato, alla loro speranza costante (1,3). Nella Prima ai Corinzi menzionerà la fede, la speranza e l'amore come le cose che «durano» (13,13). Sono, insomma, le costanti dell'esistenza cristiana. Perciò Paolo non può ammettere la possibilità d'un naufragio della speranza nei convertiti di Tessalonica. Si discute se Paolo sia venuto a conoscenza di queste perples sità dei tessalonicesi attraverso una lettera, oppure se siano stati loro a interrogarlo in proposito affidando un messaggio orale a Timoteo, o a un membro della comunità che avrebbe potuto incontrarsi con l'apostolo. È molto difficile arrivare a conclusioni accertate su que sto punto, ma non si dovrebbe dimenticare che la problematica rela tiva ai defunti era abbastanza diffusa. In IV Esdra 5,41 leggiamo: «Ecco, Signore: tu prometti13 a coloro che saranno vivi alla fine; ma che cosa faranno quelli che sono vissuti prima di noi...?». E in 13,24: «Sappi dunque che coloro che resteranno saranno benedetti più di quelli che sono morti». Per risolvere i dubbi relativi ai credenti defunti Paolo ricorre a un logos Kyriou (parola del Signore). Anche qui siamo in difficoltà per precisare meglio di che cosa si tratta. È forse una parola detta da Gesù e non compresa nei Vangeli canonici (cioè un agraphon)? Op pure una parola ricevuta e proclamata da un profeta di una comu nità primitiva (o da Paolo stesso) nel nome del Signore? Questa se conda interpretazione è più probabile (anche se in 1 ,8 e in 2Ts 3,1 «parola del Signore» sta a indicare l'evangelo). Il logos che Paolo usa a supporto del suo insegnamento dovrebbe essere contenuto nel v. 16 (o 16 + 17a)/4 il cui vocabolario è ricco di termini raramente o mai usati da Paolo, e frequenti invece in testi apocalittici.
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R . BuLTMANN, «elpfs k. t. l. » , in GLNT III, 544. Altri interpreta: «Tu sei pronto a venire incontro [con benedizioni]>> (R.H. CHARLES, The Apocrypha and Pseudepigrapha of the 0/d Testament in English, Ox ford 1913, Il, 572). 1 4 Così J. Jeremias, che ha curato la sezione sugli agrapha di Gesù nella rac colta degli Apocrifi del NT di Hennecke-Schneemelcher; altri, come A. DE SANTOs 0TERO, Los Evangelios Ap6criphos (B.A.C.), Madrid 1956, 1 19, identifica la «parola del Signore>> col v. 15. Ma il v. 15 è formulato in I persona plurale, quindi non può trattarsi di una parola «del Signore>> (W. MARXSEN, La I Lettera ai Tessalonicesi, To rino 1988, 85). 13
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È possibile che il logos originario riferito da Paolo si occupasse solo della parousia. Paolo potrebbe aver inserito in quel detto le pa role che si riferiscono alla risurrezione dei morti (una tradizione dot trinale non meno valida e autentica di quella relativa al ritorno del Signore): «e prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi». Togliendo queste parole, abbiamo forse l'oracolo originario, relativo unica mente alla parousia. La menzione della risurrezione dei credenti de funti combatte i dubbi dei tessalonicesi circa l'eventuale «svantag gio» di quelli che sono già morti o potranno morire prima del ritorno del Signore.15 Al v. 15 Paolo riassume il messaggio confortante delle parole di 16.17a: Noi che saremo ancora in vita al momento della venuta (greco: parousia) del Signore non avremo alcun vantaggio rispetto a quelli che sono morti. E nelle ultime parole del v. 17 trae la conclu sione: «E così saremo sempre con il Signore» (si noti in questa cita zione lo stesso uso della I persona plurale già presente nel v. 15). L'impressione finale di questo breve brano apocalittico non po trebbe essere formulata meglio di come ha fatto U. Luz, che osserva tre cose in modo speciale: che Paolo ha usato in modo costruttivo e li bero la citazione di un oracolo profetico venuto da parte del Signore (infatti gli premette una sua conclusione applicativa, v. 15); che nel l'insieme, le frasi tipicamente apocalittiche sono ridotte al minimo, cioè a quanto era essenziale per ribattere i timori dei tessalonicesi ri guardo ai loro defunti; e infine, che la parola profetica usata da Paolo è applicata in modo costruttivo alla situzione che caratterizzava i cri stiani di Tessalonica: essa è inserita in un discorso di assoluta attua lità.16 Dunque Paolo usa con naturalezza linguaggio e concezioni apo calittiche, ma senza farne sfoggio e senza indulgere in particolari su perflui, e subordina il loro impiego al fine pastorale del contesto. Queste conclusioni dell'esame di 1Ts 4,13-18 valgono anche per gli altri accenni apocalittici della lettera, che non sono pochi. Sono caratteristici gli accenni alla parousia: in 2,19 i lettori sono chiamati «la corona di cui ci possiamo vantare» al momento della ve-
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Così MARXSEN, La lettera ai Tessalonicesi, 86. Luz, Geschichtsverstiindnis, 330. Molti anni prima lo aveva già notato M. Dibelius: «Mediante la compressione del materiale apocalittico, mediante la pre messa del v. 14, e mediante la chiusa particolarmente religiosa del v. 17, Paolo riesce a ottenere che la sua risposta a un quesito escatologico sia più una testimonianza di cer tezza di salvezza che un oracolo sul futuro>>, An die Thessaloniker I-II (HNT) , Ttibin gen 3 1937, ad loc. 1�
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nuta del Signore Gesù; in 3,12-13 Paolo raccomanda di abbondare nell'amore vicendevole, per rendere i cuori saldi e irreprensibili nella santità al momento della venuta del Sigriore; un fine non molto diverso è menzionato in 5,23: «Tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo» - solo che in questo caso, la premessa per otte nere .quel fine non è la prassi dei fedeli, ma l'azione di Dio invocata per santificarli fino alla perfezione. Ma oltre ai passi che contengono il termine greco, ci sono anche quelli che accennano alla parousia senza fame menzione, come 1 ,10: i tessalonicesi si sono convertiti per servire al Dio vivo e vero «e attendere dai cielo il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti». Un altro tema ricorrente è quello dell'ira (gr. orge): nell'ul timo passo citato, il Figlio è descritto, alla fine, come colui «che ci li bera dall'ira ventura». Quest'ira è chiaramente identificata con il giudizio finale di condanna per i peccatori e gli increduli, cf. 2,16c (se autentico ) .17 Da esso sono salvati i credenti: «poiché Dio non ci ha destinati alla sua collera (orge) ma all'acquisto della salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo». Hanno anche affinità con il linguaggio e le concezioni apocalit tici 2,12 ( «Dio ... vi chiama al suo regno e alla sua gloria»), 2,16b (l'immagine del colmare la misura), gli accenni alla gioia, alla po tenza e alla convinzione della predicazione cristiana in rapporto allo Spirito Santo (in 1,5-6). E soprattutto l'accenno ai segni in 5,1-1 1 . I cristiani di Tessalonica sanno benissimo che il giorno del Signore viene «come un ladro di notte>>-, cioè all'improvviso e senza che uno se lo aspetti. Paolo però lo ricorda loro (è una tipica preterizione re torica), ma non fonda su questo l'esortazione alla vita cristiana nella sobrietà, con la forza che viene da fede, speranza e carità (vv. 6-8). Il vero fondamento dell'esortazione etica sta nell'indicativo dei vv. 4-5 (voi non siete nelle tenebre ... Siete figli della luce) e 9-10 (Dio ci ha destinati all'acquisto della salvezza). Ci troviamo, già in questa prima lettera dell'apostolo, di fronte al tipico schema indicativo imperativo: l'esortazione etica discende dalla certezza della salvezza, dall'annunzio della grazia. L'evangelo precede la parenesi!
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Sulla questione cf. i commentari, o - in sintesi - B. CoRSANI, Introduzione vv. 2,14-16 sembrano non essere in armonia con il con testo, e soprattutto col pensiero di Paolo sul popolo giudaico come esposto in Rm 91 1 . Tuttavia alcuni superano questa difficoltà riferendo il brano personalmente a quei giudei che hanno perseguitato le comunità cristiane (Marxsen) .
al Nuovo Testamento, II, 69. I
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B)
lCor 15 ,20-28
Il secondo passo di carattere apocalittico è 1Cor 15,20-28. La struttura del passo può venire così diagrammata: aggancio a 15,4 e introduzione del tema «primizia» v. 20: vv. 21-22: illustrazione della funzione di «primizia» attribuita al Cristo rinviando al parallelo di Adamo le quattro tappe degli avvenimenti finali vv. 23-24: vv. 25-28: riflessioni su quanto esposto e risultato conclusivo (v. 28c). Questo brano è al centro del lungo c. 15, conosciuto come «il capitolo della risurrezione dei morti». Effettivamente ci sono due parti di 1Cor 15 che prendono di petto questo problema: i vv. 12-19 nei quali Paolo polemizza con quelli che dicono che non c'è risurre zione dei morti, e i vv. 35-49 in cui, nello stile della diatriba, risponde alla domanda retorica: Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno? Se si considera che anche la prima sezione del capitolo (vv. 1-11) contiene, per consenso generale degli studiosi, una confes sione di fede prepaolina che culmina nella menzione della risurre zione e delle apparizioni del risorto/8 possiamo considerare giustifi cato, in parte, l'appellativo dato a questo capitolo. Restano invece delle perplessità sul motivo di questa tratta zione e sul suo rapporto con l'altro tema di questo capitolo, quello della signoria di Cristo. La trattazione del tema «risurrezione dei morti» sarebbe stata imposta dalla necessità di èonfutare le opinioni gnosticizzanti dei (o di una parte dei) cristiani di Corinto che esclu devano la futurità della risurrezione e ritenevano di essere pervenuti alla zoe (vita) come possesso presente, grazie alla comunione con Cristo. Bultmann, che cito come uno dei rappresentanti di questa tesi (peraltro largamente condivisa), rinvia a 2Tm 2,18 (Imeneo e Fi-
18 Questa riflessione sul peso della risurrezione di Gesù nell'insieme dei vv. 1-11 vale anche nel caso che sia stato Paolo a sviluppare la parte finale della confes sione di fede primitiva. Questo sviluppo ci permette di riscoprire l'intenzione di Paolo nel citare quel testo primitivo: Paolo vuoi dimostrare di non essere il capostipite di un'eresia, bensì l'anello conclusivo di una catena che include Pietro e gli altri scelti dal Signore, i quali predicano tutti allo stesso modo (v. 1 1 ) dando il massimo peso all'an nunzio della morte e della risurrezione di Gesù. I corinzi stessi sono giunti alla fede grazie a questa predicazione (v. 1 1 , parte finale). Cf. GOTIGEMANNS, Der leidende Apostel, 88ss.
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leto «hanno deviato dalla verità, sostenendo che la risurrezione è già avvenuta e così sconvolgono la fede di alcuni») e vede il punto più si gnificativo dei vv. 20-28 nel futuro passivo del v. 22 zoopoiethesontai (trad. CEI «riceveranno la vita»; altri: «saranno vivificati») che spo sta decisamente la risurrezione al futuro.19 Questa futurità è poi ri presa alla fine del capitolo, vv. 51-54. Tuttavia non risulta, dal resto della lettera, che la certezza di essere già passati dalla vita mortale a una vita di risurrezione (o una vita eterna) fosse radicata nella comunità di Corinto. A giudicare dalla veemenza con la quale Paolo si esprime nel c. 15, sembra strano che non abbia fatto cenno del problema in precedenza ( que sto potrebbe, fra parentesi, costituire un argomento a favore della partizione della lettera in più missive risalenti a occasioni diverse, come è stato sostenuto, per esempio, da W. Schmithals,20 che fa del c. 15 una lettera autonoma che avrebbe avuto la sua conclusione in 16,13-24. La notizia che alcuni a Corinto dicevano che non c'è risur rezione dei morti sarebbe stata portata a Paolo dalle persone men zionate al v. 17). Inoltre la comunità dei lettori sembra condividere il conte nuto della confessione di fede riportata nei primi versetti del capi tolo. C'è chi sostiene che condividerebbe anche21 l'attesa della pa rousia (1 ,7s; 4,5; 11,26), ed è possibile, per quanto i passi citati non contengano il termine greco. Questo si trova, nel suo significato cri stologico, solo in 15,23. Entriamo nella vexata quaestio dell'idea che Paolo poteva farsi del pensiero dei suoi destinatari: può anche darsi che a volte sia stato male informato, o abbia tratto da informazioni frammentarie o allusive delle conclusioni eccessive, oppure anche che abbia attribuito alle comunità destinatarie della sua corrispon denza i problemi che esistevano invece nell'ambiente dove egli si trovava al momento della composizione di una lettera. Inoltre, il passo di 2Tm è molto posteriore e difficilmente il suo contenuto può essere preso come probante per la situazione della comunità di Co rinto verso la metà del I secolo. Ma queste considerazioni modifi-
1 9 R . BuL1MANN, «La "resurrezione dei morti" di Karl Barth>>, in Io., Credere e comprendere, Brescia 1977, 49-76. Questo testo è apparso nel 1926 come recensione dell'opera di Barth citata nel titolo e pubblicata nello stesso anno (ne esiste una tra duzione italiana del 1984 presso la Marietti di Casale Monferrato [poi di Genova] ) . 20 W. ScHMITHALS, Die Briefe des Paulus in ihrer ursprilnglichen Form, Zurich
1984, 129-185. 21 BECKER, La risurrezione, 91 .
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cano solo in piccola parte le conclusioni che possiamo trarre dalla lettura di l Cor 15: anche se Paolo avesse combattuto contro dei mu lini a vento, le sue argomentazioni (e la forza con cui le sostiene) non sarebbero prive di valore per ricostruire il suo pensiero. Se centriamo sulla risurrezione dei morti il tema di questo ca pitolo, rimane difficile inquadrarvi i vv. 20-28. Questo modo di rico struire lo sfondo del c. 15 e la sua punta polemica svaluta l'impor tanza dei vv. 20-28, che finiscono per essere ridotti a un excursus nel quale Paolo avrebbe ammucchiato immagini e concezioni derivate dall'apocalittica giudaica e appena cristianizzate. Altri invece sostengono che questi versetti rappresentano il culmine dell'argomentazione paolina in lCor 15. 22 Questa tesi è stata argomentata con energia da E. Kasemann: 23 «Nella risurrezione non si tratta anzitutto di un dato antropologico, ma cristologico. Essendo l'opera del secondo Adamo, il suo senso non è prima di tutto, e soprattutto, la nostra risurrezione, ma la sovra nità del Cristo. "Poiché egli deve regnare": ecco la nervatura di que sto sviluppo, e il fondamento che ci dà una certezza anche per il no stro futuro. Ma Paolo non si accontenta di questo. Molto strana mente, a quest'affermazione ne aggiunge immediatamente una se conda: la sovranità di Cristo è limitata e provvisoria: il suo unico scopo è di preparare la sovranità esclusiva di Dio. Cristo è colui che occupa il posto di Dio in un mondo che non è ancora stato completa mente sottomesso a lui, benché a partire dalla pasqua sia in atto la sua sottomissione escatologica, e la sua fine sia in vista. Nessuna prospet tiva può essere più apocalittica>>.
L'importanza accordata ai vv. 20-28 non elimina affatto il tema della risurrezione dei credenti (v. 23: «Quelli che sono di Cristo»), ma lo inserisce nella presentazione paolina della signoria di Cristo che è il grande tema di questo capitolo. Im Rm 8,34, che Paolo scrive pochi anni più tardi, egli preciserà che Cristo siede alla destra di Dio come conseguenza della sua risurrezione: si può quindi desumere che la signoria del Cristo risorto abbia inizio dalla sua elevazione al cielo e non solo dal momento in cui avrà tolto di mezzo tutte le po tenze avverse e schiacciato la morte. Anzi: a quel momento il Cristo consegnerà il Regno a Dio Padre (v. 24a) «perché Dio sia tutto in
22 23
BARTH, «Erwiigungen>>, 516. *KAsEMANN, «Sul tema>>, 127-131. La citazione che facciamo è da p. 128.
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tutti» (v. 28c).Z4 Sarà così suggellato nei fatti ciò che Paolo aveva scritto in 1Cor 3,23: «Voi siete di Cristo e Cristo è di Dio». Anche per 1Cor 15 si può fare l'osservazione fatta per 1Ts 4,13-18: il passo non è un masso eJ;Tatico senza legami o analogie con altre sezioni della lettera. Ricordiamo il famoso brano dei «come se . >;> in 7,29-31 (quelli che piangono, vivano come se non pianges sero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che hanno moglie, come se non l'avessero, ecc.). La motivazione di que ste esortazioni è che «il tempo ormai si è fatto breve» (v. 29), e che «passa la scena di questo mondo» (v. 31). Si potrebbe anche citare 10,1 1 : «Queste cose sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi»; o 6,9-10 che preclude l'ac cesso al regno di Dio per una lunga lista di malvagi. E infine l'invo cazione liturgica conclusiva Marana tha, Vieni, o Signore ! di 16,22. L'idea del giudizio, quella della fine di questo mondo e del ritorno del Signore sono sempre ben presenti alla mente dell'apostolo. Ma in nessuno di questi passi esse danno luogo a sviluppi stilistici o reto rici di tipo apocalittico. ..
C)
2Cor 5,1-10
Il terzo brano di una certa ampiezza che dobbiamo esaminare è costituito da 2Cor 5,1-10. Per capirlo dobbiamo ricostruire l'anda mento del pensiero di Paolo a partire da 4,7 suddividendo il brano in queste sezioni: 4.7-12: 4,13-15: 4,16-5,10:
exordium (forza e debolezza dell'apostolo) narratio (origine, speranza e scopo dell'aposto lato di Paolo) argumentatio.25
Tema dominante di questa parte dell'epistola è la gloria ine rente al ministero apostolico, tema che Paolo ha esposto in 3,7-11 e
24
Cf. OsTEN-SACKEN, «Paulinische Theologie>>, 479s e 488. Seguo la proposta di A. DE OLIVEIRA, Die Diakonie der Gerechtigkeit und der Versohnung in der Apologie des 2. Korintherbriefes, Mtinster 1990, 306-322. L'a. prosegue nella sua analisi del testo identificando in 5,11 un transitus o passaggio alla peroratio (322s), che definisce poi come recapitulatio (5,12-6,10), conquestio (6,11-13 e 7,2-4) e indignatio (6,14-7,1), 328-340. Ovviamente non possiamo seguire questi svi luppi al di là di 5,10. ·
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ripreso in forma conclusiva in 4,6: «Il Dio che disse "Rifulga la luce dalle tenebre" rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la cono scenza della gloria divina che rifulge nel volto di Cristo». La realtà dell'esperienza paolina sembra però contraddire la certezza d'un mi nistero glorioso, perché nella realtà esso è minato costantemente dalla debolezza e dalle miserie della quotidianità di Paolo. Paolo deve perciò spiegare ai suoi lettori, ma soprattutto convincere se stesso, che le sue miserie non annullano la gloria della sua vocazione apostolica: infatti anche le sue miserie evidenziano la comunione col Cristo, che si realizza tanto nel «morire» quanto nel «Vivere». Anzi, il rinnovamento si produce proprio nella situazione di morte, grazie anche alla speranza che illumina il futuro del cristiano e definisce il suo presente. Questo passo di Paolo si distingue dai due precedenti (l Ts 4,13-18 e lCor 15,20-28) per il suo carattere più personale, di rifles sione su se stesso e sul suo apostolato.26 In lCor 15,20-28 abbiamo una serie di affermazioni oggettive, tetiche, al passato (v. 20) o al fu turo (vv. 21-24.26.28), cui si intercalano una affermazione di princi pio (v. 25) e un commento esplicativo (v. 27). È dunque un testo di dattico-dottrinale, nel quale mi sembra essere più forte il carattere polemico che quello paracletico. In l Ts 4,13-18 predomina i 'intona zione pastorale: i fratelli di Tessalonica sono nell'ignoranza ma non devono continuare ad affliggersi (v. 13), perciò Paolo li ingloba nel «noi» dei vv. 14.15b.l7 che esprimono le convinzioni di fede e di spe ranza che sono (o che Paolo vuole rendere) patrimonio comune, suo e di loro. La conclusione è che al conforto delle sue parole dovrà ag giungersi la mutua consolatio fratrum che ripete e rende sempre più accette queste prospettive (v. 18). Nel brano di cui ci occupiamo ora, Paolo è impegnato soprattutto a descrivere, ai lettori e a se stesso, come la sua fede (4,13s) e la sua resistenza rimangano salde attra verso tribolazioni, persecuzioni e pericolo di morte (4,8-1 1 ). Questo non vuoi dire che i lettori non siano presenti al suo pensiero: se in Paolo «opera la morte», in loro opera «la vita» (4,12), e tutto ciò che costituisée l'esistenza apostolica di Paolo (tribolazioni e speranza) avviene per loro. Anche se i corinzi si scandalizzano '
26 M.E. THRALL, A Criticai and Exegetical Commentary on the 'second Epistle to the Corinthians (ICC), Edinburgh 1994, l, 398 (Throughout the passage he chiefly has himself in mind).
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della sua debolezza esteriore, Paolo rimane convinto che non si può avere forza senza debolezza, vita senza esperienza di morte. I lettori, poi, sono anche presenti (come abbiamo visto acca dere in alcuni vv. di lTs 4,13-18) nel «noi» di 5,1-5: mentre la fine del c. 4 e i vv. 6-10 del c. 5 riguardano più direttamente l'esperienza apo stolica, le speranze espresse in 5,1-5 dovrebbero essere comuni an che ai fedeli di Corinto. F. Vouga si domanda se nello sfondo Paolo veda dei cristiani che aspirano alla nudità (cioè all'incorporeità) per trovare, in quello stato di anime nude, più facile accesso a Dio, oppure se aveva di mira degli entusiasti che pensavano che il rivestimento di un corpo nuovo (corpo di risurrezione) fosse già avvenuto. 27 Ai primi Paolo avrebbe opposto la speranza della risurrezione in una «casa» celeste (v. l); ai secondi avrebbe opposto il carattere non ancora definitivo dell'esistenza terrena e dell'abitazione nel corpo terreno (v. l) in sieme con le precisazioni dei vv. 2-3: fra le nostre speranze c'è pur sempre quella di essere rivestiti di un corpo celeste (dunque non lo possediamo ancora). Ma l'ipotesi di un fronte polemico mi sembra del tutto secondaria: se in lCor 15 il tema era la polemica contro la negazione della risurrezione (a cui Paolo contrappone la certezza della futura signoria di Cristo come fondamento della nostra spe ranza), qui il tema è la tensione fra vocazione apostolica e miseria umana del testimone (miseria costituita dalla somma di debolezza soggettiva e di problemi causati dall'ambito circostante). Anche nei vv. 8 e 9 Paolo parla soprattutto di se stesso (come in Fil 3,13s). Non sta disegnando una teoria antropologica. Dob biamo tener presente la diversità di struttura fra il v. 6 e il v. 8. Il v. 6 è una costatazione (mentre siamo nel corpo siamo lontani [spazial menteJZ8 dal Signore). Ma Paolo lascia cadere il discorso (il v. 7 è pa rentetico e documenta l'affermazione del v. 6 al quale si collega me diante un gar = infatti; poiché) e poi, con un anacoluto, ricomincia la frase al v. 8 parlando non più di uno stato, ma di un movimento, con i verbi all'aoristo (emigrare dal corpo e rimpatriarsi presso il Si gnore). Si tratta di una direzione di marcia, di un orientamento, che riprende l'idea del «camminare» dal v. 7. Non c'è quindi, nei vv. 6-8,
27
A. GouNELLE - F. VouaA, Dopo la morte, 160-162. «Paolo non può voler dire che in questa vita il cristiano è lontano da Cristo: troppo spesso ha usato l'espressione "essere in Cristo"!». (C.K. BARRETI, A Commen tary on the Second Epistle to the Corinthians, London 1973, 158). 28
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una contrapposizione dualistica fra vita presente (nel corpo) e vita futura (senza il corpo). In questo cammino, l'unica preoccupazione dev'essere quella di essere graditi al Signore (v. 9), continuando fe delmente la marcia iniziata con la confessione di fede battesimale. Alcuni commentatori si interrogano sui motivi delle diversità che trovano fra la prospettiva di 2Cor 4-5 e quella di lCor 15 (e di lTs 4), e parlano di evoluzione del pensiero di Paolo sulla morte e la sua sconfitta: da una fase influenzata massicciamente dall'apocalit tica giudaica a una fase di influenza ellenistica, o almeno di dialogo con le concezioni ellenistiche dell'aldilà e dell'immortalità dell'anima. M.E. Thrall trova tre differenze tra lCor 15 e 2Cor 4-5: - Paolo non pensa più di essere ancora in vita al momento della parousia (cf. invece lCor 15,52); - Paolo non parla più della morte come di un «dormire» (cf. lCor 15,20), ma come di un essere «presso il Signore» (2Cor 5,8); - la «trasformazione» non deve attendere, per aver luogo, il verificarsi della parousia (cf. l Cor 15,52), ma avviene subito dopo la morte. La studiosa gallese propone di attribuire la prima differenza alle esperienze tragiche affrontate da Paolo (cf. per es. 2Cor 1,8-10) che avrebbero reso molto più concreto e immediato, ai suoi occhi, il rischio di morire prima della parousia, e dunque molto più necessa ria la riflessione sulle conseguenze personali di questo fatto. La se conda differenza potrebbe in parte essere dovuta al tentativo di Paolo di esprimersi in categorie di pensiero affini ai suoi lettori greci, ma forse anche alla sua esperienza di profonda unione personale con Cristo come la descrive in Gal 2,19-20 - una comunione con Cristo che non potrebbe/dovrebbe essere spezzata neppure dalla morte. La terza differenza può avere due spiegazioni: da un lato Paolo ha la certezza che con la risurrezione di Gesù sia già stata inaugurata la fase finale della storia, dall'altro la convinzione che i credenti sono già morti e risuscitati con Cristo può avergli dato la certezza del pos sesso del corpo celeste immediatamente dopo la morte. 29 M. Carrez, a sua volta, rileva e diagramma tre diversi modi in cui Paolo considera la morte e la risurrezione del credente: il primo
29
THRALL, Second Corinthians, 397-400.
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situa questi due momenti della vita cristiana nel corso della storia della salvezza: così fanno le trattazioni di 1Ts e di 1Cor. Il secondo sernbra concentrare l'attenzione sul passaggio dalla vita terrena a un'esistenza presso il Cristo subito dopo la morte: così in 2Cor (cui si può forse aggiungere Fil 1,21-23). Il terzo modo raccoglie entrambi i tipi prima proposti: così avviene in Rm 8.30 M. Thrall e M. Carrez respingono implicitamente quanto scrive Cullmann in «Immortalità dell'anima o risurrezione dei morti?»: Cullmann attribuisce anche a 2Cor 5 la teoria che dopo la morte fisica i credenti «dormano» (cf. 1Ts 4,13 e 1Cor 15,18.20.51 dove il greco usa il verbo koimasthai ' = addormentarsi). «Abitare presso il Signore» (2Cor 5,8) è la prospettiva che consola i morenti e tutti quelli che potrebbero morire prima della parusia e così trovarsi angosciosamente «nudi»: lo «stato intermedio» in attesa di essere ri vestiti del corpo celeste (v. 2) non può separare il credente da Cristo e dal suo amore (cf. Rm 8,38) perché egli è già stato posseduto dallo Spirito santo che è potenza di risurrezione. Tuttavia Cullmann stesso nota che il passo di 2Cor 5 «non precisa più degli altri questo stato intermedio in cui l'uomo interiore spogliato del corpo carnale, ma ancora privo del corpo spirituale, si trova solo cò n lo Spirito santo».31 In realtà, 2Cor 5 non solo non lo precisa, ma non lo menziona af fatto. Noi possiamo presupporlo in base alle lettere precedenti, ma il fatto che Paolo non lo menzioni sembra significare che lo. stato inter medio (o di sonno) non costituiva per lui un argomento significativo né per polemizzare con i corinzi né per esortare loro o se stesso a non lasciarsi turbare da quella prospettiva. Per conto mio, preferisco non attribuire intenzioni sistemati che a queste diverse presentazioni del futuro nelle lettere di Paolo, ma pensare che l'apostolo abbia fatto ricorso, di volta in volta, ad ar gomenti, figure e linguaggi che gli venivano più spontanei e imme diati in rapporto a ciascun gruppo di credenti ai quali stava scri vendo, e conformemente allo stato d'animo che lo animava: pasto rale, paracletico, polemico (senza però distinguere nettamente fra questi diversi approcci, che spesso si sovrapponevano in lui, come appare dai suoi scritti).32 30
138-140.
31 32
M. CARREZ, La deuxième épttre de Saint Paul aux Corinthiens, Genève 1986, CULLMANN, «Immortalità>>, 219. F. LANG, Die Briefe an die Korinther,
Gottingen 1986, dopo aver riportato le ipotesi di sviluppo del pensiero escatologico di Paolo da uno stadio più giudaico apocalittico a uno più ellenistico-gnosticizzante, osserva che questa teoria non è più
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Nel resto della Seconda ai Corinzi non si può dire che affiori spesso la prospettiva apocalittica, forse perché l'argomentazione po lemica di Paolo era più legata a realtà contingenti. Tuttavia troviamo un'allusione al giudizio implicita nella massima di 9,6, che propone una precisa equivalenza fra ciò che uno ha seminato e ciò che mie terà.33 E poi un accenno che poteva essere sviluppato enormemente: quello che menziona il rapimento di Paolo fino al terzo cielo (12 , 3). In questo versetto e nel contesto ci sono tutti gli ingredienti per una descrizione apocalittica di prim'ordine: visioni, rivelazioni (v. 2), pa radiso, parole indicibili (v. 4), col corpo o senza il corpo (o: fuori del corpo) (vv. 2 e 3). Invece Paolo sorvola su tutti i particolari per par lare soltanto delle sue «debolezze» (vv. 5 e 7-10). Dobbiamo dunque costatare anche in 2Cor la presenza di spunti apocalittici che Paolo non esclude dal suo scritto, ma che usa con grande ritegno.
D)
Rm 8,1 8-30
Il quarto passo paolino considerato spesso di carattere apoca littico è Rm 8,18-30. La riflessione dell'apostolo si collega alla con clusione del v. 17, sviluppandone la tematica: partendo dalla testi monianza dello Spirito che siamo figli di Dio (v. 16) Paolo aveva scritto in 8,17 che essere figli significa anche essere eredi di Dio e coeredi di Cristo. E poi subito a questa esaltazione (che potrebbe anche essere stata quella dei cristiani di Corìnto) Paolo contrappone l'esigenza di condividere con Cristo non solo l'eredità e la filialità, ma anche la croce: «Se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria». Solo a questa condizione Paolo può condividere l'entusiasmo cristiano dei suoi lettori. Questa precisazione gli offre il tema per i vv. da 18 a 30, tema formulato al v. 18 (rapporto fra sofferenze presenti e gloria futura) e sviluppato anzitutto riguardo alla creazione intera (vv. 19-22) e poi riguardo ai cristiani:
largamente sostenuta nella ricerca recente, e fa notare come taluni elementi appaia no e riappaiano nelle lettere indipendentemente dalla loro data di composizione, 290-293. 33 Il senso traslato del verbo «mietere» è difeso da W. FoERSTER, «therfzein», in GLNT IV, 499s.
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23-24a:
possediamo le primizie dello Spirito, ma gemia mo aspettando la redenzione del nostro corpo; vv. 24b-25: excursus sulla natura e funzione della speranza; vv. 26-27: altro excursus sull'aiuto che ci dà lo Spirito;34 al gemito dovuto alla creaturalità (v. 23) Paolo vv. 28-30: contrappone la certezza di fede del compimento del disegno eterno di Dio. VV.
Al brano in esame è strettamente legato quello successivo (vv. 31-38) in cui la certezza di fede si trasforma ed espande in un inno di trionfo per esser stati fatti oggetti dell'amore redentore di Dio in Cristo, dal quale nulla ci potrà separare (ma anche in quest'inno, forse di sua composizione, o forse reminiscente di una liturgia batte simale, Paolo introduce la nota della sobrietà ricordando che essere seguaci di Cristo implica pure affrontare persecuzione e martirio, v. 36 con citazione di Sal 43,23). Il carattere apocalittico di questo brano è evidente non solo per i temi trattati, ma anche per un certo numero di reminiscenze dai libri apocalittici. Così IV Ezra 16,30-40 parla del gemito della crea zione intera che aspetta la liberazione: «Come una donna incinta, quando il momento del parto si avvicina, soffre ... , ma quando il bambino viene fuori dal suo ventre non ci sarà più un momento di ri tardo, così le calamità non tarderanno a venire sulla terra, e il mondo gemerà e i dolori lo prenderanno da ogni parte». Si veda anche l'inno di ringraziamento nelle Hodayot di Qum ran (III,19-37), specialmente al rigo 33: «La terra gemette per le ca lamità toccate al mondo e tutte le tenebre emisero lamenti». Sul contrasto fra le sofferenze presenti e la gloria incompara bile del futuro, di nuovo in IV Ezra troviamo, al c. 7,12-13: «Gli in gressi per questo mondo vennero creati angusti, dolenti e faticosi,
34 Per E. Kasemann i versetti sullo Spirito costituiscono il punto culminante di tutta l'argomentazione dell'apostolo: lo Spirito deve venire in nostro aiuto per gridare a Dio la nostra miseria con sospiri ineffabili che, ben !ungi dal rappresentare l'india mento estatico della comunità, rappresentano il gemito di coloro che, chiamati a li bertà, giacciono ancora nei conflitti interiori e nella morte e invocano di essere fatti ri nascere con la nuova creazione ( «>, 56. Luz usa il termine Kontaktlosigkeit: le espressioni apocalittiche di Paolo sono sviluppate autonomamente le une dalle altre, senza tendere all'uniformità o alla coerenza (p. 357). In Gounelle-Vouga troviamo l'aggettivo adiaphora: le immagini apocalittiche di Paolo sono indifferenti. Egli le usa semplicemente per esprimere l'E vangelo della grazia di Dio. Lo specifico del suo insegnamento non sta nelle immagini utilizzate (p. 180). Questo rientra nel fatto più generale che Paolo non sviluppa le sue affermazioni teologiche in. forma teorica, ma sempre in un dialogo epistolare con creto, determinato dai problemi che di volta in volta egli dipana con i destinatari nel contesto delle loro situazioni specifiche, cf. LINDEMANN, «Paulus>>, 399. 38
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La morte e la risurrezione di Gesù, dopo l'incontro di Paolo con Cri sto sulla via di Damasco, prendono nella sua vita e nel suo pensiero una centralità che supera ogni altro aspetto della sua fede e della sua vita di credente. Possiamo dire che la sola cosa che non ha un'impor tanza relativa nel pensiero di Paolo è il binomio morte e risurrezione di Gesù. Paolo ha reinterpretato tutto - le tradizioni storiche d'I sraele, quelle profetiche, qtJelle sapienziali, la liturgia, la legge - alla luce della morte e risurrezione di Cristo. Perciò può dire che «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate» (2Cor 5,17), e parlare del presente come del «giorno della salvezza» (2Cor 6,2). È proprio la centralità di questo tema che gli permette di servirsi di prospettive apocalittiche. Questo vale per il dualismo ( op posizione assoluta fra i valori di questo mondo e i valori del mondo nuovo di Dio; fra le opere dell'uomo e i frutti della grazia o dello Spirito), per l'universalismo (nel nome di Gesù ogni ginocchio deve piegarsi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclamare che Gesù Cristo è il Signore, Fil 2,10s), per il radicalismo del pen siero dell'apostolo. Tutte le speranze che erano già patrimonio dell'apocalittica (trionfo finale di Dio, instaurazione del Regno, salvezza offerta a tutti gli uomini, giudizio finale, rinnovamento del creato, ecc.) possono es sere fatte proprie da Paolo perché nella morte e risurrezione di Gesù Dio ha rinnovato e garantito le sue promesse - più che questo, ha da to un anticipo del loro compimento escatologico. Non solo si sono adempiute le Scritture (1 Cor 15,3-5), ma tutto il senso e la portata dell'evangelo trovano nella morte e risurrezione di Gesù il fondamen to insostituibile. Egli «è stato messo a morte per i nostri peccati, ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25). Beker preci sa il significato della dimensione apocalittica del vangelo di Paolo con le parole cristologicamente determinata: «Propongo che il centro del pensiero di Paolo debba essere collocato nella sua apocalittica futura cristologicamente determinat�» (p. 76). Quella di Paolo è dunque un'apocalittica cristologica. Ciò che la qualifica e la distingue dall'a pocalittica pre-cristiana è che il suo contenuto e le sue prospettive si sviluppano a partire dall'evento Cristo, dalla morte e dalla risurrezio ne di Gesù. Nell'altra sua opera sulla teologia di Paolo, Beker dichia ra fondamentale per Paolo «l'evento-Cristo nel suo significato apoca littico», ossia una cristologia con dimensione apocalittica. Se Cristo è risuscitato dai morti, «primizia» della nostra risur rezione e se lo Spirito, atteso per gli ultimi tempi (Gl 3,1-2) è già stato dato come «caparra» di futuri beni (2Cor 1,22; 5,5), Paolo può 117
dunque parlare alternativamente della grazia e della giustificazione che Dio ha già offerto e compiuto in Cristo, e delle speranze che ri splendono alla fine del cammino di fede come coronamento delle promesse di Dio. Ciò che in Cristo è già realtà compiuta non annulla l'attesa del compimento escatologico.40 In questo compimento si colloca, per Paolo, la risurrezione. Le sue lettere ne parlano al futuro con tutta chiarezza e coerenza: «Dio che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua po tenza» (1Cor 6,14). «Colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusci terà anche noi con Gesù» (2Cor 4,14). «Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo ... L'ultimo nemico a essere annientato sarà la morte: in un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba - quando questo corpo corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo corpo mortale di immorta lità» (1Cor 15, vv. 22.26.52a.54a). La futurità della risurrezione è particolarmente evidente nei passi dove è in contrasto con la partecipazione presente alle soffe renze o alla morte di Cristo: nel c. 6 della Lettera ai Romani Paolo ribadisce più volte, nei primi versetti, il concetto che col battesimo siamo stati battezzati nella morte di Gesù, sepolti insieme a lui nella morte, completamente uniti a lui con una morte simile alla sua (vv. 2.3.5); il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui (v. 6a). Della risurrezione però parla sempre al futuro, nello stesso brano: cf. i vv. 4b, 5b e 8 («Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui»). E in Fil 3,10-11 Paolo parla di partecipazione alla morte di Cristo, di conformità alle sue sofferenze con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti. Ugualmente al futuro, come oggetto di ardente speranza, Paolo parla della redenzione del creato in Rm 8,21, e del riconosci mento della regalità universale di Cristo in Fil 2,10-11 e Rm 14,1 1 . D'altra parte l o stesso Paolo non trascura di sottolineare ciò che già abbiamo in Cristo. Così può parlare della riconciliazione
40 Barbaglio («La "soteria" in Paolo») vede la linea di demarcazione fra Paolo e il giudaismo, nella concezione dell'eschaton che ha fatto irruzione nella storia (p. 353), ma identifica la «Salvezza» da un lato come l'opposto della condanna eterna comminata nel giudizio finale (p. 346), e dall'altro come comunione finale e indefetti bile con Cristo (pp. 347s). È in Cristo venturo che la salvezza troverà il suo compi mento (p. 359) . In quanto oggetto di speranza (lTs 5,8; Rm 8,24 e 5,5-11) essa appar tiene alla fase escatologica dell'opera salvifica di Dio, mentre giustificazione e riconci liazione appartengono alla sua fase storica, e garantiscono il traguardo della salvezza finale perché poggiano sull'evento della morte di Gesù (pp. 344s).
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come di una realtà già presente (Rm 5,1 «Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio ... »; 1Cor 6,11 «Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cri sto ... »; Rm 5,1 1 ; 2Cor 5,18); può parlare della glorificazione (2Cor 3,18 «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima imma gine, di gloria in gloria ... »); o può parlare del possesso della sapienza di Dio grazie alla mediazione dello Spirito (1Cor 2,9-16). Il fondamento nella persona e nell'opera di Cristo vale soprat tutto per il cuore dell'evangelo di Paolo, cioè per l'annunzio che in Cristo il peccatore è giustificato per grazia (sola gratia) mediante la fede (sola fide). Formalmente Paolo si riallaccia alle tradizioni delle Scritture d'Israele che parlano della «giustizia di Dio» (dikaiosyne Theou) non come attributo o qualità intrinseca di Dio, bensì come suo modo di agire per portare salvezza al suo popolo rendendo giu stizia alle proprie promesse. La giustizia di Dio viene così a identifi carsi sempre più con la salvezza che per grazia Dio dona ai suoi e che sta per estendersi a tutti i popoli (tematica sviluppata in modo spe ciale in 'Is 40ss). La novità introdotta da Paolo è l'ancoramento di questo dono di giustizia alla persona e all'opera di Gesù Cristo. La giustizia di Dio si rivela in Cristo (Rm 1,17), si manifesta indipen dentemente dalla Legge (Rm 3,21 ), per tutti quelli che credono (3,22), in virtù della redenzione realizzata in Cristo Gesù (3,24). Per ciò Paolo può dire che' Cristo è «fine della Legge» (Rm 10,4), e che nella comunione con lui si rende presente la nuova creazione (kaine ktisis, 2Cor 5,17). In lui avviene, nel tempo presente (Rm 3,26), la svolta degli eoni, la fine dei tempi (1Cor 10,1 1). Con la sua presenza e con il dono della giustizia, che è dono escatologico, da un lato Cristo qualifica come «escatologica» la vita presente del cristiano, dall'altro lo assume al suo servizio per farlo camminare nell'ubbidienza del giu stificato e nella fede alla promessa del compimento finale della sal vezza quando Dio avrà stabilito la sua sovranità universale sulla ter ra, anzi sul creato.41 Questo rimane tuttavia il traguardo verso il quale Paolo tende, quando il dominio («regno») di Dio sarà una realtà uni versale e visibile, e ciò che ora ci è dato solo in parte (1Cor 13,12b), «in speranza» (Rm 8,24a), sarà pienamente compiuto.
41 La prospettiva della promessa che guarda a un compimento è sottolineata in modo speciale da Kasemann; la realtà presente della salvezza escatologica, che rende concreti nella vita di oggi gli ultimi tempi, è tipica della scuola di Bultmann. Si vedano, oltre alla Teologia del Nuovo Testamento (Brescia 1985) le lezioni tenute al l'Università di Edinburgo nel 1955 su Storia ed escatologia (ed. it. Milano 1962).
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L'Apocalisse come libro del canone cristiano*
Nei capitoli precedenti ci siamo interrogati sulla presenza di prospettive apocalittiche nei vangeli e nelle lettere dell'apostolo Paolo. Ci siamo domandati se Giovanni Battista, Gesù, Paolo erano in qualche misura debitori al mondo di pensiero e di linguaggio del l'apocalittica giudaica - o eventualmente se la tradizione biblica li avesse descritti, almeno in parte, come tali. Avvicinandoci adesso al l'Apocalisse, che è l'ultimo libro del canone biblico, ci troviamo in una situazione del tutto diversa. Infatti da questo libro, più precisa mente dalla sua parola iniziale (Apokalypsis di Gesù Cristo ) ha preso nome tutto il genere letterario degli scritti apocalittici, e singo larmente un certo numero di scritti ( come l'Apocalisse di Baruc, l'A pocalisse di Elia, l'Apocalisse di Tommaso, l'Apocalisse di Pietro ) , scritti che non sono entrati a far parte del canone biblico. Dovrebbe
* Bibliografia: D.E. AuNE, «The Composition History of the Apocalypse of John», paper presentato al gruppo di lavoro sull'Apocalisse durante la 49• Assemblea della SNTS, Edinburgo, 1-4 agosto 1994; G. Biouzzi, I settenari nella struttura dell'Apocalisse. Analisi, storia della ricerca, interpretazione ( RivBSuppl. 31), Bologna 1996; M.E. BOISMARD, «L'Apocalypse ou les Apocalypses de saint Jean», in RB 56(1949) , 507-541 ; C. BRùTSCH, L 'Apocalisse di Gesù Cristo, Torre Pellice 1949; H. VON CAMPENHAUSEN, Die Entstehung der christlichen Bibel, Ttibingen 1968; R.H. CHARLES, A Criticai and Exegetical Commentary on the Revelation of St. John, 2 voli., Edinburgh 1920; H. KoESTER, lntroduction to the New Testament, 2 voli., Philadelphia 1980; H. KRAFf, Die Offenbarung des Johannes, Ttibingen 1974; A. LAPPLE, L 'Apoca lisse. Un libro vivo per il cristiano d'oggi, Modena 1969; E. LOHSE, L 'Apocalisse di Giovanni, Brescia 1984; U.B. MOLLER, Die Offenbarung des Johannes, Gtitersloh Wtirzburg 1984; P. PRIGENT,