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Italian Pages 144 [149] Year 2002
I laboratori di formazione dell’insegnante
Anna Aluffi Pentini
Laboratorio interculturale ACCOGLIENZA, COMUNICAZIONE E CONFRONTO IN CONTESTI EDUCATIVI MULTICULTURALI
edizioni junior
I laboratori di formazione dell’insegnante
Anna Aluffi Pentini
Laboratorio interculturale ACCOGLIENZA, COMUNICAZIONE E CONFRONTO IN CONTESTI EDUCATIVI MULTICULTURALI
edizioni junior
ISBN 978-88-8434-962-0 Prima edizione febbraio 2002 © Edizioni junior Edizione in formato digitale aprile 2023 © Edizioni Junior-Bambini Srl Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108 Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org
A Orun, Letizia e Alberto
Introduzione
Perché una torta Sacher con una strana scritta, sulla copertina di questo libro? La torta è prima di tutto un invito, un invito ad assaggiare e ad assaggiare una cosa buona, quale potrebbe essere l’educazione interculturale nel suo approccio più semplice, ma allo stesso tempo è anche un invito a coinvolgersi nella complessità delle tematiche interculturali decodificando messaggi ambivalenti, come quello più articolato di questa torta, che affrontano con linguaggio leggero le innumerevoli sfide delle società multiculturali. L’immagine è quindi solo apparentemente naif. È molto più un invito a lasciarsi attrarre da questa sfida, quella dell’incontro tra culture diverse. La torta giustappone gradevolmente bianco e nero e su di essa campeggia una scritta (bianca) che richiede per i lettori di questo testo che non conoscono il tedesco uno sforzo di comprensione. Integrationsball significa ballo per l’integrazione. Bianco, nero e lingua straniera (per gli italiani) sono qui stati presi come metafora della molteplicità delle combinazioni possibili, quando si parla di intercultura. La torta Sacher vive in Austria, come simbolo di una tradizione di sapore quasi imperiale: corrisponde ad un’immagine di identità austriaca attribuita dall’esterno, ma nella quale in parte si riconoscono dall’interno anche i diretti interessati. In parte appunto, e allora nella sua semplicità la torta dice anche che nessuna identità è esclusiva e che qualsiasi attribuzione di identità univoca potrebbe risultare offensiva per chi la subisce. La Sacher, marrone scuro come il cioccolato, diventa nera per contrasto con la panna con la quale la si serve abitualmente. In questa immagine la funzione cromatica della panna è assolta dal centrino: bianco/nero: i colori della polarità “razziale” semplificata al massimo. La polarità è rappresentata, rafforzata, da un’altra polarità della parola Integrationsball: ballo per l’integrazione. E qui abbiamo un secondo elemento di identità un po’ stereotipato e quindi anch’esso funzionale al nostro discorso: l’organizzazione di grandi o piccoli balli, che rientra in una consolidata tradizione austriaca; ballo delle debuttanti, ballo di beneficenza, ballo campestre; insomma dal valzer alla polka, secoli di storia, per tutte le classi sociali. Non ballano quindi solo i meridionali, gli africani o i brasiliani. Molti popoli, dunque, hanno la tradizione del ballo, ma non si identificano solo con il ballo. Ed ecco che un ballo in questo paese europeo, confinante con il nostro, viene organizzato con un obiettivo di integrazione (dalla Caritas austriaca) degli stranieri immigrati. Non abbiamo altre informazioni, ma il manifesto dice ugualmente, alcune cose: • bianco nero stanno bene insieme, spiccano, uno grazie all’altro, e si valorizzano vicen-devolmente;
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• l’integrazione degli immigrati non annulla la tradizione, ma la trasforma nel senso che forse nella società multiculturale globalizzata anche la Sacher e non solo il cus cus diventa un cibo “etnico”; L’immagine della torta poi suscita almeno un interrogativo: cosa si ballerà a questo ballo? Forse non solo valzer e polka, probabilmente anche i balli che usiamo definire etnici. È interessante che l’invito venga fatto usando la Sacher e mettendo in piazza se stessi invece che gli altri, esponendo un proprio simbolo, reso etnico per l’occasione. A qualcuno, peraltro, il manifesto può non piacere: in questo caso la torta diventa uno spunto per discutere sull’utilizzo di simboli più o meno efficaci, sulle immagini che ognuno si porta dentro e sulle reazioni evocate dalle immagini esterne che si vedono per strada: si discute di cultura e culture, ci si scambiano immagini e gusti. E allora, ad un meta livello, l’immagine immediatamente accattivante ci invita a servirci di lei, ci dice che a volte le immagini, più di mille discorsi, possono servire ad arricchire un laboratorio di educazione interculturale. Le immagini vanno però lette in un’ottica di curiosa “laboriosità”, nel senso di far propri il lavoro e la fatica, che accompagnano l’allegria di incontrare e conoscere persone e mondi diversi da quello, che a volte può sembrarci l’unico: il nostro. Il valore del laboratorio può essere quindi riassunto da questa digressione sull’immagine della torta: incuriosire e allo stesso tempo invitare a decodificare significati apparentemente scontati che si rivelano complessi alla luce di ulteriori approfondimenti. E invitare tutti, immigrati e non, a cercare insieme il senso delle cose, oltre la complessità e oltre la banalità del quotidiano. Questo testo si basa sulla convinzione che la dimensione interculturale del lavoro educativo è ormai diventata un’importante esigenza della nostra società. L’approccio metodologico che caratterizza i laboratori appare particolarmente adatto a promuovere la consapevolezza critica dei soggetti in formazione. In questo testo si propone un percorso educativo che promuova soprattutto una forma mentis interculturale al di là di ricette precostituite. Tale orientamento infatti risulta utile ad evitare due rischi: il primo che l’interculturalità stessa, sottolineando le differenze, possa alimentare stereotipi; il secondo che il discorso educativo interculturale persegua semplicemente la trasmissione di imperativi categorici di tipo morale. Il laboratorio si configura quindi come possibilità di sperimentare percorsi che possono, da un lato decostruire stereotipi e imparare a riconoscere la complessità delle relazioni tra persone e gruppi e delle tematiche legate all’identità, e dall’altro creare occasioni di incontri interculturali che garantiscano lo spazio per il riconoscimento reciproco di persone, gruppi e organizzazioni. Tutto ciò deve avvenire nella scuola e nell’extrascuola a misura di bambino, ma allo stesso tempo è necessario fornire agli insegnanti delle coordinate di riferimento rispetto alle quali operare. È questo il compito che il testo si prefigge portando avanti il discorso su un doppio livello adulto/bambino che preveda anche un importante coinvolgimento dei genitori nel discorso interculturale. Il testo è suddiviso in due parti. La prima parte riguarda i presupposti teorici del discorso interculturale, la seconda propone alcune modalità di attivazione e trasmissione di competenze interculturali secondo la logica del laboratorio. Le attività suggerite sono pensate sia per il training di insegnanti e futuri insegnanti, sia per fornire delle piste per l’attività nelle classi.
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Parte prima
CAPITOLO I
Quale pedagogia interculturale
Perché si parla di multicultura e intercultura? Le culture convivono, entrano in contatto. Più esattamente persone di culture diverse vivono e lavorano le une accanto alle altre, anche laddove cercano di ignorarsi, di fatto interagiscono. La terminologia – inter, multi, trans-culturale – segue in parte le mode e comunque segue orientamenti di pensiero. Si può ritenere che le culture tanto più si preservano quanto più restano separate e quindi incoraggiare una loro separazione, o si possono invece incoraggiare e cercare attivamente gli incontri, puntare al meticciato. In Italia esiste un certo accordo nell’attribuire al termine multiculturale un carattere descrittivo di una realtà di fatto, mentre si attribuisce al termine interculturale una connotazione prescrittiva, progettuale. Una società multiculturale può svilupparsi nella direzione dell’interculturalità o invece optare per una multiculturalità intesa come un insieme di culture le une accanto alle altre. In questo ultimo caso accetta una giustapposizione di culture a mosaico, quasi incoraggiando il mantenimento delle differenze1. Nel progetto interculturale è insita l’intenzione di creare occasioni di incontro assumendo consapevolmente il “rischio” che scambio e incontro comportino contaminazione, perdita di alcune prerogative culturali esclusive. Si potrebbe sostenere che l’approccio interculturale si muova coerentemente ad un principio di realtà in base al quale le persone non possono vivere insieme senza interagire e risulta pertanto essenziale soffermarsi su queste interazioni e decidere come si possano gestire al meglio. Il prefisso trans si diffonde poi tra gli studiosi per ridare forza ai concetti di scambio e reciprocità una volta che quello inter sembra aver perso di intensità. Al di là della terminologia, nel fenomeno dell’immigrazione tanto gli autoctoni che gli alloctoni temono di dover rinunciare a troppi elementi “propri” in nome dell’incontro, tuttavia è abbastanza evidente che siano piuttosto gli alloctoni che rischiano l’assimilazione e quindi la perdita delle loro abitudini e tradizioni. È per questa ragione che in ambito educativo la cultura doppiamente debole del bambino immigrato (in quanto bambino e in quanto immigrato) richiede una particolare attenzione e un particolare rispetto, che si possono attuare puntando molto sulla presa in carico globale dei bisogni del bambino. In ambito educativo infatti la tematizzazione di differenze e somiglianze e l’attenzione al 1 Aluffi Pentini A., Talamo A., L’intercultura fa bene alla scuola, ISMU, Milano,1998. Nigris E . (a cura di), Educazione interculturale, Mondadori, Milano,1996.
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mantenimento della lingua e delle tradizioni di origine rappresenta un compito importante delle agenzie educative scolastiche e non. Non esiste tuttavia un solo approccio “interculturale” che punta sulle somiglianze o un unico approccio “multiculturale” che sottolinea le differenze. Entrambi gli approcci possono dare luogo a sviluppi positivi o negativi a seconda di come vengono utilizzati2. Perché si parla oggi in Italia soprattutto di pedagogia interculturale e di educazione interculturale? Questo testo assume come presupposto che si sottolinei la volontà di rispondere ad un bisogno educativo delle nostre società multiculturali. È poi necessario affrontare la polarità vecchio/nuovo nel prendere atto di tale bisogno: fino a che punto, infatti, questa esigenza può essere considerata nuova e derivata dai processi di modernizzazione e globalizzazione e fino a che punto esso è sempre esistita, messa a tacere da una presunta omogeneità culturale e sociale dei destinatari del discorso educativo? Infine appare inevitabile fare chiarezza rispetto alle caratteristiche dei destinatari del discorso interculturale: intercultura per tutti? Intercultura per tutti, solo dove è presente una diversità visibile? Intercultura solo per gli immigrati? Intercultura finalizzata ad una rapida integrazione e poi basta? Intorno a queste opzioni si delinea il ragionamento fondante di un approccio educativo interculturale, inducendo le considerazioni che seguono. L’agire educativo, in famiglia a scuola e fuori dalla scuola, non può oggi più essere inteso come trasmissione di valori legati esclusivamente ad UNA cultura, ad UNA lingua ad UNA nazione, ma deve tener conto dei cambiamenti sociali legati alla modernizzazione e alla globalizzazione. Ciò non deve tuttavia portare a sottovalutare l’importanza delle conoscenze curricolari e in particolare la storia del paese nel quale si vive, ma casomai stimolare un desiderio di conoscere criticamente gli intrecci di questa storia con la storia del mondo vista anche da altre prospettive. Le migrazioni, l’allungamento della vita media, la diminuzione delle nascite “avvicinano” modi di vivere e di pensare un tempo lontani per geografia, cultura, lingua e generazione. Allo stesso tempo istituzioni quali la famiglia, lo stato, le chiese, hanno perso un potere assoluto in termini di capacità di creare coesione e consenso intorno a ideali e progetti, e il compito educativo di sostegno alla formazione dell’identità viene a confrontarsi con sfide complesse. Attraverso i cambiamenti sopramenzionati, quindi, ogni contesto educativo può diventare “da un giorno all’altro multiculturale” o meglio scoprire, grazie alla presenza di persone da poco giunte nel nostro paese, alcuni suoi aspetti multiculturali precedentemente ignorati. La presenza dei bambini immigrati può dunque rappresentare un’occasione per riscoprire un ruolo educativo più definito della scuola, e riflettere sulla responsabilità che l’insegnamento comporta rispetto alla formazione dell’identità degli allievi e all’accompagnamento di questi ultimi. I “nuovi venuti” infatti richiedono che nulla - dai valori, alle regole, alle consuetudini - possa più essere dato per scontato. D’altro canto l’esperienza dei paesi con una immigrazione più consistente e precedente quella 2 Demorgon J., Multiculturel ou interculturel? Un préalable à l’éducation de l’européisation et de la mondialisation, in Pratiques de formation (Analyses), Formation permanente Université de Paris VII, Paris, 1999, pp. 13-27.
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italiana echeggia di modelli che sono distinguibili tra loro fino ad un certo punto, in modo particolare in una realtà come quella italiana che li ha mutuati rielaborati ed utilizzati in un periodo successivo e a suo modo. Bisogna quindi porsi con estrema serietà i quesiti che seguono: il minore immigrato è la ragion d’essere dell’avvento dell’educazione interculturale? Ne è l’unico destinatario? Il minore immigrato è il beneficiario o la vittima dell’educazione interculturale se con essa si accentuano o peggio si caricaturizzano le differenze? Il benessere del bambino immigrato dipende dalla singola persona che incontra, oppure si fa strada una nuova consapevolezza del ruolo della scuola nel riconoscere che l’intercultura cambia la scuola, la trasforma, le fa bene?
1. Il compito pedagogico Se ragioniamo sui compiti fondamentali della cosiddetta pedagogia ‘generale’ arriviamo sostanzialmente a due conclusioni: 1. La pedagogia si occupa della riflessione che verte sull’educazione, ed in particolare sulle modalità più idonee ad accompagnare la formazione dell’identità personale tenendo conto del contesto sociale in cui l’individuo vive. 2. La pedagogia aiuta l’individuo a dare un contributo creativo al suo contesto sociale, nel rispetto delle regole che garantiscono una convivenza pacifica. Il lavoro educativo si confronta sul terreno con le possibilità di attuazione di questi compiti e così facendo fornisce alla riflessione pedagogica nuovi stimoli, sfide e risposte. Il discorso delle regole sottolinea poi una dimensione civica dell’educazione che un tempo attingeva a piene mani al più generale progetto dello stato nazionale e che ha da sempre influenzato i contenuti dei programmi scolastici e la modalità di trasmissione di essi. Partendo dal presupposto che un individuo maturo debba essere in grado di rispettare le regole di convivenza nella società in cui vive, risulta infatti necessario che la vita scolastica debba fare acquisire all’allievo una coscienza critica rispetto ai problemi che caratterizzano il contesto e il periodo storico in cui egli vive, oltre a potenziare il ragionamento logico matematico, la comprensione dei fenomeni naturali, la dimensione estetica, espressiva e linguistica ecc. Laddove l’utenza scolastica non risulta più così omogenea come prevede un discorso educativo generale (anche nel senso di nazionale), vale a dire laddove cominciano ad essere presenti molti bambini e giovani immigrati, è necessario che il progetto educativo generale venga reimpostato e l’agire educativo quotidiano venga conseguentemente modulato tenendo specificamente conto delle differenze individuali.
2. Differenze e somiglianze Ogni individuo è diverso da qualsiasi altro, ma le influenze del gruppo o dei gruppi ai quali egli appartiene conferiscono una connotazione di tipo culturale alla sua appartenenza e quindi anche alla sua unicità.
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Per comodità, nonostante il fatto che gli individui siano tutti estremamente diversi tra loro, è stato necessario standardizzare i percorsi formativi, sulla base di un allievo “medio” e sono state definite delle abilità e delle competenze di massima che corrispondono a delle prestazioni considerate “normali” di un allievo. Esiste quindi un margine di generalizzazione delle differenze individuali che viene considerato accettabile, dal momento che consente di rivolgere a più persone una stessa proposta educativa, presupponendo che queste persone siano tutte in grado di trarre beneficio dalla proposta stessa. Tanto più i ragazzi sono uguali o sono considerabili uguali tanto più semplice appare il compito educativo all’interno di una classe. Ciò porta sicuramente a semplificare e uniformare i contenuti curricolari, anche laddove sarebbe meglio differenziare e circostanziare le proposte aiutando ciascuno a trovare il suo personale percorso di apprendimento e di maturazione. Gli allievi più “comodi” sono quindi coloro che non si discostano troppo dall’allievo standard, anche se poi l’allievo standard esiste quasi esclusivamente in teoria. Nella pratica la maggior parte degli allievi presenta qualche tipo di “scomodità”. Tra gli scomodi per antonomasia troviamo gli iperdotati, i portatori di handicap, gli stranieri, e in generale gli allievi svantaggiati. La diversità degli stili di apprendimento rappresenta la più grande sfida al mestiere dell’insegnare, sfida che troppo spesso si cerca di occultare con approcci tecnicistici. Anche per questa ragione si ritiene che la presenza di bambini stranieri possa costituire una sfida importantissima alla scuola di oggi a vari livelli. In quest’ottica la diversità visibile3 dei bambini, ad esempio degli allievi immigrati, risulta un’utile cartina di tornasole per verificare quanto la scuola sappia effettivamente farsi carico delle differenze individuali degli allievi e fare proprie le sfide che da queste diversità conseguono. È principalmente su questo piano che la diversità culturale diventa un arricchimento per tutti, perché solo in quest’ottica, vale a dire di occasione data a tutti di approfondire la propria identità e le proprie appartenenze, l’intercultura sfugge a vezzi esotizzanti che rischiano di alimentare un elogio della differenza ed una folclorizzazione del diverso (Ma diverso da chi poi se non da me? E quindi specularmente io diverso da lui!). È innegabile tuttavia che questa sfida non può diventare tale solo per gli insegnanti e per gli educatori, ma deve essere supportata da un ampliamento di orizzonti della riflessione pedagogica che per questa ragione ha bisogno di uno spazio di lavoro specifico quale quello della educazione interculturale. Quindi proprio come la diversità visibile di un allievo rende consapevoli gli insegnanti della diversità tra tutti gli allievi, l’educazione interculturale invita a verificare sul piano della riflessione pedagogica ed educativa generale i valori e le strategie fondanti dell’agire educativo e ad apportare opportuni aggiustamenti di rotta. In questo tipo di concettualizzazione manca tuttavia la presa in considerazione di un elemento fondamentale nel rapporto tra culture diverse, vale a dire la dimensione del potere. L’approccio interculturale può bastare laddove gli interlocutori appartenenti a culture diverse si collocano su un piano di parità dal punto di vista sociale, economico e culturale. 3 Ritorneremo più avanti su questo concetto, comunque intuitivamente comprensibile.
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Parità significa sia avere un tenore di vita e un livello di istruzione paragonabili nei rispettivi paesi di origine e nel paese di arrivo, sia che questo tipo di parità viene riconosciuta da entrambe le parti, anche in seguito all’esperienza migratoria di una delle parti in questione. Ciò non significa solo che la cultura di origine della persona immigrata venga in toto posta su un piano paritario rispetto a quella del paese di arrivo, ma soprattutto che venga riconosciuta pari dignità e pari opportunità di ascesa sociale a chi da quel paese proviene. La scuola non può assumere da sola questo compito politico, e sarebbe sbagliato delegare alla scuola un ruolo ed una responsabilità che non le competono, ma la scuola può dare un suo contributo in questo senso. Parità può significare per esempio analogo potere di contrattazione sul piano linguistico, vale a dire una conoscenza della lingua del paese in cui si vive, tale da poter esporre senza difficoltà le proprie ragioni o il proprio punto di vista. La conoscenza della lingua significa avere la possibilità di confrontarsi su questioni che culture diverse affrontano in modo diverso. In questo senso la scuola può assumere una funzione chiave sia nel conseguire obiettivi di apprendimento linguistico adeguato, sia nell’offrire possibilità di creare spazi di avvicinamento, al fine di potere dialogare con le famiglie immigrate, anche prima che la padronanza della lingua renda possibili scambi veloci e informali, che magari avvengono con altri genitori, verbalmente o tramite comunicazioni scritte. Parità significa che non vi sia rischio di sopraffazione, né senso di inferiorità. Parità può significare un’organizzazione scolastica che preveda una distribuzione “pensata” degli allievi stranieri, in modo che non vi siano singoli allievi immigrati distribuiti nelle classi, perennemente in minoranza, così da turbare meno possibile la classe e richiedere sostanzialmente solo al singolo un grande sforzo di adattamento: se ciò avviene infatti le responsabilità della riuscita dell’integrazione non vengono equamente ripartite, ma vengono addossate alla controparte debole e minoritaria. Se il gruppo classe non si ricostruisce e lo stile di insegnamento non viene ripensato attorno ad esigenze nuove, il debole arranca. O ce la fa o peggio per lui. Adeguarsi alle esigenze dei minori immigrati e rispondere attentamente ai loro bisogni non comporta, come alcuni erroneamente ritengono, uno scadimento della qualità dell’istruzione per i coetanei, ma significa anzi dare garanzie precise a tutti i genitori che tutti vengono aiutati a dare il massimo e a raggiungere livelli ottimali. Ai fini di creare comunanze tra gli allievi può infatti essere importante per gli alloctoni poter trarre forza dal fatto di essere un gruppo e per gli autoctoni confrontarsi con un’esigenza di sforzi comunicativi che non riguarda il singolo compagno, ma delle dinamiche più generali all’interno della classe. È fondamentale infatti che nessuno diventi “il diverso” per definizione, in una classe o in una scuola, ed è molto più costruttivo far passare il messaggio che ogni persona ha elementi di somiglianza e di differenza più o meno forti con le altre. Da questo genere di considerazioni si evince come sia spesso difficile che in un contesto educativo un giovane immigrato si senta o venga considerato su un piano di parità. Ciò introduce nel nostro argomentare il tema dell’antirazzismo come elemento di verità e verifica dell’approccio interculturale, un tema che invita ad affinare la sensibilità rispetto ad una dimensione ulteriore di attenzione problematica a tutti gli allievi, rispetto ai rapporti di potere che possono instaurarsi in una classe, in relazione alla diversità visibile o ad altre diversità che si connotano come rivelatrici di differenze di potere in senso lato.
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Per verificare l’equilibrio tra una dimensione pedagogica pura, un approccio di educazione interculturale e un orientamento antidiscriminatorio e antirazzista risulta utile fare riferimento allo schema che segue4 e chiedersi di volta in volta se l’attività educativa che si sta svolgendo tiene in sufficiente considerazione i tre aspetti sintetizzati ai vertici del triangolo. Pensiero inclusivo (concretamente parità di accesso a servizi e opportunità)
Unicità individuale
Diversità di gruppo
Questo modello tripolare di controllo dell’orientamento educativo garantisce un equilibrio tra aspetti di uguale importanza, ma complementari, e aiuta l’educatore a chiedersi, almeno di tanto in tanto, se per caso l’impostazione educativa o le attività proposte non siano a volte squilibrate in un senso o nell’altro (vale a dire facendo attenzione solo ad uno dei vertici), dimenticando la auspicabile complementarità. Il concetto di unicità individuale, posto ad uno dei vertici, si riferisce alla centralità della persona nella sua irripetibilità ed è quindi riconducibile ad un approccio pedagogico di tipo generale, che si interessa dell’educazione di tutti e di ognuno senza particolari distinzioni legate alle appartenenze culturali. Come abbiamo visto si potrebbe sostenere che tale approccio, se declinato in modo serio, basti a garantire la risposta ai bisogni specifici dei destinatari del discorso educativo: ad ogni persona l’educatore risponde a seconda dei suoi bisogni, e ciò vale quindi anche per quanto riguarda gli allievi immigrati. Nella realtà è noto come questo concetto di unicità individuale possa essere utilizzato per sostenere che tutti hanno esigenze identiche e quindi avallare una omogeneizzazione dell’offerta formativa. Ciò andrebbe a discapito dei soggetti o dei gruppi più deboli o più svantaggiati, o comunque di tutti coloro che invece, pur nella sostanziale uguaglianza dei bisogni fondamentali, hanno esigenze peculiari e necessitano di forme di individualizzazione delle proposte educative e didattiche. Tenendo conto esclusivamente dell’unicità dell’individuo si rischia di non attribuire la dovuta importanza alla sua appartenenza ad un gruppo e quindi ad elementi della sua cultura che vanno riconosciuti, appunto, non solo come caratteristiche individuali, ma come influenze e condizionamenti sociali forti vissuti ad esempio nell’ambiente familiare. Il pericolo di dare importanza solo all’unicità dell’individuo, viene scongiurato dal riconoscimento della diversità di gruppo. Introdurre il “vertice” della diversità di gruppo significa infatti sottolineare l’attenzione ad un’appartenenza ad un gruppo o a più gruppi che hanno delle peculiarità rispetto ad una reale o pretesa omogeneità di appartenenze degli altri membri ad esempio del gruppo classe in un dato contesto scolastico. Non significa necessariamente “fare” o “far fare” qualcosa che sottolinei questa appartenenza o questa diversità, ma semplicemente essere aperti all’espressione 4 Cfr. anche Aluffi Pentini A., Lorenz W., Per una pedagogia antirazzista, Edizioni Junior, Bergamo, 1995, p. 261.
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di ciò che deriva da tale appartenenza, riconoscerlo e non ignorarlo rischiando così implicitamente di svalorizzarlo. Dal punto di vista pedagogico questo aspetto della diversità del gruppo viene sostenuto e curato dalla educazione interculturale che dichiara l’intento di una tematizzazione delle differenze a scopo conoscitivo per tutti i membri del gruppo, ma che troppo spesso rischia di voler definire e fissare rigidamente appartenenze fluide senza riconoscere lo spazio necessario al “vertice” della unicità dell’individuo e alla irripetibilità dell’individuo stesso. Per gli educatori e gli insegnanti che tengano conto sia della unicità dell’individuo, sia della diversità del gruppo è però necessario un ulteriore elemento equilibrante dell’agire educativo; questo elemento viene rappresentato nello schema triangolare dal vertice denominato pensiero inclusivo e che mette in risalto l’importanza di prendere in considerazione il discorso del potere: il potere nei rapporti tra gli individui e nei rapporti tra i gruppi, potere che influisce indubbiamente sulla possibilità di comunicazione interculturale tra singoli e tra comunità. Il concetto di pensiero inclusivo (parità di accesso), si riferisce all’esigenza di includere, nel senso di garantire l’accesso a servizi e opportunità. Questo concetto viene infatti tenuto in particolare conto in un approccio antirazzista che si prefigge di mettere in luce le dinamiche di discriminazione legate direttamente o indirettamente alla differenza culturale, linguistica o di aspetto fisico e di ricondurle ad una dimensione storica delle diverse forme di discriminazione e di violazione dei diritti. Dal punto di vista pedagogico i temi delle parità di accesso e del potere vengono presi in considerazione soprattutto dalla pedagogia antirazzista. Qualora tuttavia ci si preoccupasse solamente di questo aspetto, tralasciando l’attenzione all’unicità della persona, o la necessità di una conoscenza e di un riconoscimento reciproco fra i rispettivi gruppi di appartenenza, l’educazione interculturale, soprattutto per i ragazzi giovani o i bambini, potrebbe tradursi semplicemente in una arida analisi di responsabilità che facilmente genererebbe sensi di colpa, o comunque in un’analisi di situazioni che rendono difficoltosa la convivenza tra persone di culture diverse. Si rischierebbe in tal modo di tralasciare gi aspetti arricchenti, sia ludici, sia di tipo strettamente culturale, sia esistenziale valoriale, che possono comunque sostenere e ravvivare una convivenza rispettosa e collaborativa.
3. La dimensione storico-geografica dell’intercultura Vediamo ora brevemente come si è sviluppato in Italia e in Europa l’approccio di base alle questioni interculturali. Nella trattazione delle tematiche interculturali l’Italia si è in parte ispirata alla letteratura esistente nei paesi europei tradizionalmente considerati di più antica immigrazione. Volendo sommariamente definire i tre approcci che hanno caratterizzato l’educazione interculturale in Europa si potrebbe semplificare, individuando principalmente i modelli che seguono: – In Francia abbiamo il modello “assimilazionista”, fondato sulla parità di diritti, che ha come obiettivo la formazione del cittadino francese qualunque sia la sua provenienza. L’appartenenza alla nazione comporta l’accettazione dei principi di uguaglianza e di laicità dello stato di matrice illuminista e garantisce la cittadinanza come strumento paritario
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per l’attuazione dei diritti. Questo tipo di modello ha le sue radici nel rapporto della Francia con le sue colonie d’oltre mare e si basa su un patto di scambio tra lo stato laico e democratico da un lato e, dall’altro, i lavoratori immigrati che, se accettano le regole, grazie al patto diventano soggetti di diritti. La differenza culturale non rappresenta un problema perché il razzismo è vietato dalla Costituzione e nel rispetto delle norme repubblicane ognuno può comportarsi come crede5. – In Gran Bretagna il modello del multiculturalismo è anch’esso legato al rapporto con le terre dell’impero coloniale, ma anche al riconoscimento della differenza etnica. Ciò dipende evidentemente dal grande numero di cittadini britannici originari dei territori coloniali e dal fatto che l’essere cittadini è in molti casi un punto di partenza, invece che un punto di arrivo basato sull’acquisizione di uno status. L’essere cittadini britannici non comporta un’identificazione culturale con gli altri cittadini né significa che lo stato si definisca come multietnico e non risolve la questione interculturale. Del resto le differenze “culturali” sono oggetto di dibattiti in Scozia e di tragici conflitti in Irlanda del Nord e devono sovente essere rinegoziate anche all’interno di culture e aspetto fisico simili. Le difficoltà di convivenza non esistono dunque solo tra gruppi etnici diversi e il modello multiculturale viene comunque integrato dall’approccio antirazzista che evidenzia le cause del pregiudizio, smonta il pregiudizio e si impegna per la promozione di un’effettiva parità di diritti6. – In Germania sembra di poter individuare un modello in evoluzione che, partendo da una pedagogia degli stranieri intesa come strumento di compensazione per il deficit linguistico e culturale dei bambini immigrati, elabora in seguito un approccio fondato sulla conoscenza delle differenze. Gli sviluppi successivi individuano e criticano approcci folcloristici semplificati che derivano da una pedagogia multiculturale acritica e puntano il dito sulle cause strutturali della discriminazione, ostacoli ai quali non si può ovviare esclusivamente grazie ad interventi pedagogici. Il passaggio terminologico da Ausländerpädagogik (pedagogia degli stranieri) a pedagogia multiculturale a pedagogia interculturale o transculturale sembra quindi indicare anche una sostanziale trasformazione di approccio educativo. Significativa in alcuni autori la messa in guardia rispetto alla tendenza a risolvere i problemi di tipo politico sociale nei luoghi dell’educazione7. Come abbiamo premesso questi modelli rappresentano una panoramica non esaustiva dei dibattiti e del lavoro di operatori e ricercatori che in questi tre paesi hanno studiato situazioni concrete ed elaborato modelli diversificati da applicare a realtà molto complesse e diverse tra loro anche all’interno di uno stesso paese. Eppure già queste coordinate risultano fondamentali per chi lavora con i bambini e i giovani immigrati. Il passaggio da una pedagogia compensativa ad un approccio multiculturale segna infatti una prima tappa importante dell’evoluzione del dibattito europeo su questi temi così come l’insistenza sul prefisso inter corrisponde ad una 5 Campani G., L’educazione interculturale nei sistemi educativi europei, in Susi F., Come si è stretto il mondo, Armando, Roma, 1999. 6 Troyna B., Hatcher R., Contro il razzismo nella scuola. Il pensiero e le interazioni razziali dei bambini, Erickson, Trento, 1992. Lynch J., Educazione multiculturale in una società globale, Armando, Roma, 1993. 7 Auernheimer G., Einführung in die interkulturellen Pädagogik, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1996. Hamburger F., Päedagogik der Einwanderungsgesellschaft, Cooperative, Frankfurt,1994. Radtke O., Fremd geboren wird keiner, fremd wird man gemacht, in Die Grundschulzeitschrift, n.71, 1994.
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fase caratterizzata dall’enfatizzazione di uno scambio paritario tra culture. L’approccio antirazzista dal canto suo inserisce l’analisi degli elementi strutturali di potere come variabile imprescindibile del discorso educativo legato all’immigrazione e alla differenza etnica e culturale. L’educazione persegue una sua specifica via che, pur non essendo principalmente quella della lotta per il riconoscimento dei diritti, fa propria la consapevolezza degli aspetti strutturali della società, quali i fattori economici e politici, che direttamente o indirettamente condizionano il mondo della scuola, la vita delle famiglie e la comunicazione tra gruppi a tutti i livelli. Infine è bene sottolineare che se si guarda a come le tematiche relative alla presenza degli allievi immigrati sono state affrontate in Europa, colpisce la mancanza di un modello concordemente considerato valido ed utilizzabile in ogni situazione. Ciò è normale se si considera che sono diversi culturalmente tra loro i gruppi e le persone che si spostano nei processi migratori, ma che sono diversi tra loro anche i paesi di arrivo: dal punto di vista culturale, dal punto di vista dell’organizzazione politica e sociale, e dei modelli di accoglienza e in termini di capacità di integrare i soggetti immigrati e le loro famiglie (struttura dei servizi sociali, opportunità formative, riconoscimento dei titoli di studio, offerta di posti di lavoro). Ciò non deve indurre a sottovalutare la portata del mandato pedagogico rispetto a questi temi, né tradursi in uno spontaneismo che non sia oggettivato in riflessione e autoriflessione da parte dei pedagogisti e degli educatori in ambito interculturale. Per quanto riguarda l’Italia, è bene precisare che nel nostro paese si è parlato molto presto di educazione interculturale per designare le modalità di accoglienza dei minori immigrati, anche laddove le strategie utilizzate si rivelavano ad un più attento esame più di tipo compensativo che di tipo interculturale. È importante tuttavia non ricercare negli studi e nelle esperienze che si analizzano un modello rigido da seguire pedissequamente, bensì fare tesoro di meriti e demeriti dei vari approcci interculturali, per affrontare in modo consapevole le sfide complesse che a livello educativo si presentano sia in termini di scelte politiche sia in termini di interventi pedagogici e didattici. La peculiarità dell’Italia rispetto alla questione dell’accoglienza dei bambini stranieri consiste nella capacità di creare soluzioni spontanee che hanno avuto esiti complessivamente accettabili, ma in singoli casi purtroppo disastrosi8. Tuttavia in Italia non sono mai state previste classi separate per gli allievi immigrati che da sempre hanno usufruito del diritto di frequentare la scuola dell’obbligo anche laddove la situazione di genitori rispetto al permesso di soggiorno non fosse regolare. La normativa in materia di inserimento di allievi immigrati nella scuola ha infatti previsto praticamente da sempre l’inserimento immediato del bambino immigrato nella classe corrispondente alla sua età anagrafica9, obbligando quindi i docenti a fare ampio uso di buona volontà e “fai da te”, mutuando appunto in modo inizialmente poco sistematico, dalla pedagogia sociale, dalla pedagogia speciale e dalla pedagogia interculturale altrove in Europa, gli interventi a favore degli allievi immigrati. 8 Ci si riferisce alla esperienza di consulenza pedagogica prestata in un centro polivalente di servizi all’immigrazione situato in Roma, esperienza che ha portato chi scrive ad ascoltare molte famiglie immigrate in modo particolare su questioni riguardanti l’inserimento a scuola dei figli. Spesso i bambini, e di conseguenza i genitori, vivevano situazioni di sofferenza. 9 Precedentemente l’indicazione era quella di inserire il minore nella classe successiva a quella da lui frequentata con successo nel paese di origine. Poi una serie di ragioni, teoriche e pratiche, non ultimo il fatto che non sempre risultava semplice reperire i documenti delle scuole frequentate, hanno fatto sì che le disposizioni cambiassero.
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Questo approccio per molti aspetti “rischioso” ha causato a diversi bambini stranieri situazioni di pesante esclusione di fatto, nei casi in cui ad un nominale diritto allo studio non ha corrisposto un’adeguata accoglienza ed una piena partecipazione alla vita scolastica, condizioni imprescindibili per l’effettivo esercizio del diritto ad apprendere. Questo approccio ha però anche permesso che molte scuole siano diventate dei laboratori spontanei di intercultura, pur se non sempre ha garantito ai minori immigrati una risposta adeguata ai loro bisogni e ai bambini autoctoni l’acquisizione di competenze interculturali. Certamente molti insegnanti si sono impegnati in un lavoro straordinario, guidati dall’intuito, dalla professionalità, dal buon senso e dalla creatività, e da un’opera di recupero e sistematizzazione di buone pratiche, aiutati anche dal diffondersi di una nutrita letteratura di appoggio per il lavoro degli insegnanti, che spazia dalle collane di fiabe dal mondo a strumenti per il lavoro in classe. In ogni caso la grande quantità di resoconti di sperimentazioni e di materiali e strumenti pensati per l’educazione interculturale, fornisce all’operatore un’ampia scelta per portare avanti questo discorso nella scuola10. L’importante è che l’insegnante e l’educatore possano riportare le proposte di intercultura all’interno di solide coordinate concettuali onde evitare effetti indesiderati o addirittura controproducenti di attività di educazione interculturale.
10 V. il sito del Ministero Pubblica Istruzione, www.istruzione.it e il kit libro + CD “Educazione interculturale nella scuola dell’autonomia”, sempre prodotto dal ministero. Vedi anche il sito www.bdp.it/intercultura .
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4. Le coordinate concettuali per il navigante dell’interculturalità L’educazione interculturale riguarda indubbiamente il tema dell’interazione e della comunicazione tra soggetti appartenenti a diverse culture e non è necessario per educare all’interculturalità che ciò sia legato al fenomeno delle migrazioni. Se si parla di intercultura o di comunicazione interculturale in generale, vale a dire quando persone di culture, lingue o abitudini diverse si incontrano, ad esempio nel corso di un viaggio o di vacanze, e comunque in mancanza di elementi conflittuali, l’educazione interculturale si rivela semplicemente uno straordinario spazio di possibilità di apertura mentale, di conoscenza di altre mentalità e modi di vivere. Tuttavia in Italia la tradizione dell’educazione interculturale è più strettamente legata al discorso sull’immigrazione ed in particolare all’inserimento degli allievi immigrati nella scuola. Nella maggior parte dei casi infatti si parla di educazione interculturale relativamente ai flussi migratori, finalizzando lo sforzo educativo soprattutto alla garanzia del benessere psicologico dei minori immigrati e alla serena e creativa convivenza di allievi, italiani e non, nelle scuole, indipendentemente dalla loro appartenenza culturale e religiosa. In generale l’educazione interculturale, nata per rispondere ai bisogni dei minori immigrati, si rivela una opportunità educativa per tutti e laddove questa scoperta viene fatta ciò va evidentemente ad implementare e accrescere la positività del clima scolastico, migliorando le possibilità di accogliere in modo adeguato i minori stranieri: si tratta quindi di un circolo virtuoso che fa uscire l’educazione interculturale da una dimensione puramente compensativa collegata al disagio di una categoria di allievi. Dati i diversi approcci all’educazione interculturale dei quali è stato dato già conto, quando si parla di educazione interculturale con finalità operative è necessario fare chiarezza sul contesto in cui ci si muove e sugli obiettivi che ci si prefiggono. Nel caso specifico si vuole prendere in considerazione la questione interculturale dal punto di vista del minore immigrato e del minore italiano che frequentano le stesse scuole, ritenendo che l’approccio interculturale debba in generale riguardare tutti, ma nello specifico debba venire declinato di volta in volta in modo mirato, a seconda delle situazioni. Le coordinate concettuali che qui si vogliono fornire riguardano la necessità di aiutare insegnanti ed educatori ad orientarsi nella molteplicità dei piani di intervento possibile nel lavoro interculturale, pur senza obbligarli a scegliere una volta per tutte una modalità di intervento; si tratta di fornire delle indicazioni per avere chiaro di volta in volta a quale livello si sta lavorando e perché. Ciò risulta utile anche per evitare: – da un lato la tentazione di onnipotenza rispetto alla possibilità di risolvere a scuola i problemi dell’immigrazione, o addirittura dell’umanità. – dall’altro scongiurare il rischio della sensazione contraria, vale a dire il senso di impotenza e di deresponsabilizzazione degli insegnanti curricolari, rispetto alle sorti degli allievi immigrati. In particolare si intendono qui proporre tre quadri di riferimento che siano utili sul piano operativo, auspicando che l’educatore confrontandosi con essi possa acquisire un sempre mag-
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giore senso critico rispetto al proprio operato. Essi sono la multifattorialità dell’evento migratorio, la distinzione dei livelli di utilizzo del termine cultura, e la tabella che invita a collocare l’intervento educativo concreto nella tabella che “incrocia” i diversi approcci educativi teorici con i piani di lavoro.
5. Riconoscere la multifattorialità dell’evento migratorio Il primo “quadro” riguarda i molteplici fattori che entrano in gioco per i minori che emigrano, fattori dei quali gli adulti devono tener conto, per impostare il loro lavoro e dare un contributo sostanziale al benessere dei minori immigrati nei contesti educativi. In un progetto di ricerca europeo11 sui minori immigrati si è discusso a lungo sulla definizione della categoria di minore immigrato e in effetti risulta utile che ogni insegnante rifletta sulle domande che seguono, proprio come è stato fatto dall’équipe degli studiosi che a quel progetto hanno partecipato. La pista di riflessione che nel riquadro viene suggerita non prevede risposte definitive, ma invita gli insegnanti e gli educatori a soffermarsi sulla difficoltà di rispondere. PARLIAMO DI BAMBINI IMMIGRATI MA… Chi è il minore immigrato?
Fino a quale generazione, dopo una migrazione, si può parlare di minore immigrato?
Chi decide quale minore è da considerarsi immigrato e quale no? Il minore stesso? La sua famiglia? Lo Stato? Lʼinsegnante? I genitori del bambino? E in base a quali criteri?
Quali strumenti può utilizzare lo stato o la scuola per identificare bisogni culturali specifici di minoranze senza imporre loro in modo arbitrario una deteminata identità?
Le risposte a questo genere di domande potrebbero essere molte. Ad esempio:
Un bambino immigrato o figlio di immigrati viene considerato immigrato: – fintanto che non si sente italiano
– fintanto che non parla a perfezione la lingua italiana
– fintanto che non si confonde con gli altri bambini, non essendone più “distinguibile” (allora un bambino africano dalla pelle scura o cinese è sempre immigrato?)
– fintanto che non ha la cittadinanza italiana
– fino alla prima, alla seconda, alla terza generazione… ecc.
11 CENSIS, Children in Between, Progetto CHIP, Roma, 2000.
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In realtà le domande non hanno risposte univoche. Anche perché se si guarda alle politiche attuate dai diversi Paesi Europei esiste una ampia gamma di risposte e nessuno ha l’autorità necessaria per dire con certezza quale sia quella giusta12. Ma le domande sono utili per ragionare, per fare propria la complessità del tema in questione e di conseguenza il rischio che comporta la scelta in questo ambito di una ricerca di ricette educative da applicare in tutte le occasioni. L’intento di questa “provocazione” è proprio quello di suggerire una visione problematica perché alle questioni poste si può effettivamente rispondere solo fornendo un quadro composito dell’evento migratorio in particolare riflettendo sulla posizione dei minori. Quando ha inizio l’evento migratorio? Nell’idea di partire, direbbero gli psicologi; nel momento della partenza direbbero i sociologi. Da pedagogisti potremmo dire che il viaggio inizia per il bambino tre volte, la prima volta quando ne sente parlare, la seconda uscendo di casa, la terza quando arriva in un altrove e inizia un viaggio di scoperta. Quando si conclude la migrazione? Non per tutti, non da tutti i punti vista, non sempre, con l’arrivo nel paese di destinazione. Per certi versi l’evento migratorio può dirsi concluso quando si progetta il futuro nel luogo dove ci si trova e/o quando vengono meno le condizioni di precarietà e spaesamento derivate dallo spostamento. Ma questo concetto richiede maggiore approfondimento. Lo spostamento si verifica da un paese di partenza ad uno di arrivo. Abbiamo dunque un prima rispetto all’evento migratorio che ha visto il minore e la sua famiglia vivere in condizioni caratterizzate da: – variabili oggettive di tipo familiare, sociale, economico, culturale, linguistico; – variabili soggettive che caratterizzano il modo in cui il minore vive la sua realtà nel paese di origine. C’è poi il viaggio. Il viaggio della migrazione interrompe una continuità di vita
In seguito allo spostamento nel paese di arrivo, anch’esso con le sue variabili di tipo oggettivo e soggettivo, può verificarsi uno “spaesamento” del minore e/o della sua famiglia dovuto alle difficoltà di trovare modalità di ambientamento, e di integrare soggettivamente i cambiamenti oggettivi che si sono verificati. Questo spaesamento viene influenzato in particolare da una variabile oggettiva nel rapporto con il paese di arrivo, che riguarda la regolarità o meno dell’ingresso e le chance in senso lato di accesso a opportunità e servizi. 12 Un esempio illuminante a questo proposito riguarda le modalità di classificazione degli immigrati in un censimento: se da un lato
per attuare politiche culturali ad hoc risulta utile che resti traccia del background culturale dei censiti, anche di coloro che hanno la cittadinanza del paese in cui vivono, come è possibile concepire delle categorie di rilevamento? Chi decide circa l’appartenenza? Nel Regno Unito ad esempio decide il diretto interessato che però è evidentemente libero di dichiarare la sua appartenenza a seconda di come si sente . Un individuo delle ex colonie potrebbe dichiararsi italiano ecc.. Non si ha notizia di situazioni di questo tipo se non di sporadici atti dimostrativi, ma non è raro invece che genitori e figli dichiarino appartenenze diverse.
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Lo spaesamento influisce sul benessere del bambino e della sua famiglia, ovvero il mancato raggiungimento del benessere sperato rischia di protrarre a lungo lo spaesamento che segue all’evento migratorio in senso stretto, tanto per gli adulti che per i bambini. Quanto detto viene riproposto nello schema che segue: PAESE DI PARTENZA VARIABILI OGGETTIVE di tipo: FAMILIARE, SOCIALE, ECONOMICO, POLITICO, CULTURALE, RELIGIOSO, LINGUISTICO VARIABILI SOGGETTIVE di tipo: PSICOLOGICO, AFFETTIVO
SPOSTAMENTO - SPAESAMENTO - PRECARIETÀ PAESE DI ARRIVO VARIABILI OGGETTIVE di tipo: FAMILIARE, SOCIALE, ECONOMICO, POLITICO, CULTURALE, RELIGIOSO, LINGUISTICO, “DIVERISITÀ VISIBILE”. Inoltre: REGOLE, MECCANISMI DI ASCESA SOCIALE, REGOLARITÀ DI INGRESSO, OPPORTUNITÀ DI ACCESSO E INTEGRAZIONE, ATTEGGIAMENTO DEGLI AUTOCTONI VARIABILI SOGGETTIVE di tipo: PSICOLOGICO, AFFETTIVO
Pensare di preoccuparsi del benessere del bambino immigrato e della sua famiglia in termini educativi significa quindi assumere l’obiettivo di facilitare la capacità del bambino e della sua famiglia di trovare un nuovo equilibrio, integrando soggettivamente e come nucleo familiare il vecchio e il nuovo. Ma cosa intendiamo per benessere? Il concetto di benessere risulta estremamente complesso, e per semplicità può essere declinato tenendo conto anche degli indicatori di benessere suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che si basano su dati riguardanti aspetti di tipo fisico sociale ed economico. È su questa base che gli indicatori di benessere sono stati riassunti nella tabella alla pagina a fianco. Come si vede il quadro generale degli elementi di cui tener conto risulta effettivamente complesso, ma è importante che gli insegnanti abbiano presente questo quadro prima di affrontare in termini educativi la questione del benessere degli allievi. Se questi indicatori sono significativi rispetto alla qualità della vita di ogni allievo, e non solo di quelli immigrati, è però vero che precarietà e spaesamento influiscono in modo più immediato sulla situazione dei minori immigrati, anche data la mancanza di relazioni allargate. Spostamento e spaesamento amplificano quindi le difficoltà a trovare un equilibrio di vita, che non risenta più dell’evento migratorio. Bisogna inoltre tener conto che, oggettivamente, la migrazione può aver portato ad un miglioramento materiale delle condizioni di vita, miglioramento che spinge però in alcuni casi a minimizzare la portata del cambiamento e delle sue conseguenze psicologiche a livello personale e familiare, soggettivo e di gruppo. L’immigrato ha maggiori possibilità di lavoro e di
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Indicatori di benessere Fisico
Sociale
Economico
INCOLUMITÀ Infortuni Violenza Razzismo
LIVELLO CULTURALE Familiare Rendimento scolastico Dropout
SALUTE Mentale Fisica
TASSI DI CRIMINALITÀ Presenza nelle carceri Esiti di processi
ASPETTATIVE DI VITA
CONOSCENZA DELLA LINGUA
CONDIZIONI ABITATIVE
REDDITO OCCUPAZIONE (dei genitori) Regolare non regolare Gap tra qualifiche e tassi di impiego Tasso di occupazione
Partecipazione CONTATTI CON AUTOCTONI ASCOLTO DEL MINORE RAPPRESENTANZE Livello istituzionale PRESENZE IN TUTTI I SETTORI ECONOMICI
guadagno, ma vive una precarietà diversa e soggettivamente forse più ansiogena. È spaesato, privato del suo paese, alla ricerca di un luogo proprio, di un luogo dove potersi rilassare. Sono venuti meno i supporti di reti informali di vicinato ed è necessario ricostruire rapporti, intessere relazioni. E invece paradossalmente coloro che vengono considerati spaesati fanno paura, inducono gli altri a restare a distanza. Il circolo vizioso di diffidenze reciproche speculari è un rischio in agguato in una situazione di spaesamento. Per questo i luoghi per i bambini sono importanti, perché se il bambino trova un luogo in cui vivere e un luogo in cui star bene, questa dinamica rasserena i genitori e aiuta anche loro a vivere nel luogo in cui si trovano, soprattutto se i genitori vengono coinvolti in un progetto educativo “per” il figlio e quindi in una rete di relazioni significative. È in questo senso che l’intervento interculturale consiste inizialmente soprattutto nel creare luoghi nei quali le modalità di accoglienza rendano possibile l’instaurarsi di relazioni positive e significative. E anche non potendo risolvere i problemi di tipo strutturale che influiscono sulla vita dei bambini, questi luoghi permetteranno di prendere in considerazione la variabile culturale a partire da una presa in carico globale del bambino, presa in carico che include appunto la relazione con la famiglia, la famiglia spaesata, che trova nei figli il perno sul quale costruire o ricostruire la continuità di un progetto di vita. Non bisogna che l’intervento educativo interculturale possa di per sé venire caricato della piena responsabilità del benessere degli allievi immigrati, ma sicuramente gioca un ruolo importante. In termini educativi tradurremo a livello “bambino” il concetto di benessere degli indicatori OMS con l’espressione STAR BENE, volendo indicare una dimensione di tranquillità e serenità contrapposta a quella di disagio. Vedremo nella Sezione I della seconda parte di questo testo, l’attività relativa al laboratorio dell’accoglienza, come l’istituzione scolastica possa intervenire sulle conseguenze di uno spaesamento, nell’inserire gli allievi stranieri a scuola, e contribuire quindi al loro stare bene. Resta tuttavia aperta una delle domande poste all’inizio di questo paragrafo: vale a dire fino a quale generazione si può parlare di minore immigrato? Di fatto comunemente si parla di minore immigrato anche riferendosi a chi, nato in Italia, non
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si è mai mosso dal luogo di nascita. In questo caso infatti si fa riferimento allo status di immigrati dei genitori del bambino. Se un minore di origine immigrata non risulta più in nessun modo come tale perché ha la cittadinanza italiana, come si potrà stabilire quanti minori necessitano di politiche culturali che favoriscano il mantenimento della lingua e della cultura di origine? E se invece una famiglia immigrata vuole diventare e sentirsi prima possibile italiana, perché dovrebbe risultare ancora per generazioni l’origine immigrata? O la scuola dovrebbe continuare a considerarla tale? Rientrata la situazione di precarietà e spaesamento, dovuta allo spostamento, in cosa le esigenze di un bambino di origine immigrata potrebbero restare diverse da quelle di un bambino non immigrato? Per il mantenimento della lingua di origine? Per la permanenza della diversità visibile? Il concetto di diversità visibile è stato introdotto dal già citato gruppo di ricerca internazionale per segnalare una delle possibili esigenze specifiche del minore di origine immigrata, vale a dire dover dare ragione della propria “diversità” anche trascorso molto tempo dallo spostamento della sua famiglia di origine: verosimilmente egli verrà spesso interpellato da frequenti domande che gli vengono rivolte rispetto al suo aspetto fisico, al suo nome e cognome, al fatto di parlare un’altra lingua, al suo accento, e quindi alla sua provenienza. In situazioni tranquille la diversità visibile non dovrebbe costituire un problema, ma sappiamo che invece non di rado può catalizzare dinamiche di capro espiatorio e addirittura mettere a repentaglio la stessa incolumità fisica di persone di origine immigrata, o comunque diverse da una maggioranza, considerata secondo criteri di omogeneità. Per questo il bambino immigrato va aiutato a sostenere l’eventuale “peso” della diversità visibile aiutandolo a parlare con naturalezza. Anche su questi aspetti che verranno ripresi con relative indicazioni operative nella Sezione II è bene che gli insegnanti riflettano, senza pensare di poter trovare “soluzioni una volta per tutte”. Insomma la situazione del bambino immigrato in classe non dipende solo dalla diversità di usi nel paese suo o dei suoi genitori, ma da tutta una serie di fattori che il binomio spostamento/spaesamento e la tabella degli indicatori di benessere ricordano di tener sempre presenti. È inutile dire che gli autoctoni, grandi e piccini, devono anch’essi apprendere a rapportarsi in modo equilibrato alla diversità visibile e anche da questo punto di vista l’educazione culturale è per tutti.
6. Livelli di interculturalità La seconda coordinata concettuale utile per orientare educatori e insegnanti nel lavoro interculturale riguarda la necessità di aver sempre chiaro a che livello ci si situa quando si parla di cultura e quindi di intercultura. Le relazioni interculturali nella vita quotidiana sono più o meno frequenti a seconda del luogo in cui si vive e vengono vissute con maggiore o minore consapevolezza a seconda di fattori che vanno dall’età degli interessati, alla loro condizione socioeconomica, al loro lavoro, al grado di attenzione che i media riservano alla tematica in questione. Quando parliamo di intercultura intendiamo porre l’accento su uno scambio tra culture, su una conoscenza reciproca tra gli esponenti di culture diverse. Ma: COSA INTENDIAMO PER CULTURA?
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Con questa domanda si intende invitare il lettore alla ricerca di definizioni per lui convincenti della parola cultura, nei vari settori del sapere e a trovare una definizione della parola cultura che possa essere di aiuto nell’operatività del lavoro educativo interculturale. Un tale esercizio risulta utile anche tra colleghi o nell’incontro con un mediatore culturale e può essere, una volta sperimentato di persona, esteso anche agli allievi, con modalità a loro adatte. In ogni caso va tenuto presente che quando si parla di Inter – Cultura è bene specificare a quale significato ed estensione della parola cultura ci si riferisce. Una distinzione di uno studioso tedesco13 di tematiche interculturali sembra venirci incontro almeno nell’operare una distinzione di Livelli. Egli distingue infatti tra CULTURA PRIVATA CULTURA OPERATIVA CULTURA GENERALIZZATA CULTURA PUBBLICA
Vediamo cosa si intende con questa distinzione. Si intende per cultura Privata una combinazione unica e individuale di standard, vale a dire ciò che ha a che fare con la persona, con la sua famiglia, con le abitudini quotidiane di vita in una dimensione privata. Dovendo applicare questa categoria alla lingua si potrebbe pensare al modo personale di esprimersi o al cosiddetto lessico famigliare. Si intende per cultura Operativa quella modalità di essere e di agire scelta sulla base della cultura privata in virtù della quale ci si muove in determinate interazioni o situazioni. Una persona all’esterno della famiglia utilizza la sua capacità di discernere come comportarsi, sceglie se far prevalere elementi di cultura privata o di cultura generalizzata o pubblica. Questo livello potrebbe riguardare dal punto di vista della lingua la scelta della terminologia da utilizzare in diversi contesti Si intende per cultura Generalizzata una modalità diffusa e consolidata di interazione tra le persone, che riguarda gruppi e contesti più o meno ampi, e si configura come spazio trasversale e standardizzato di interazione tra diverse modalità di agire e di essere. La cultura generalizzata tiene conto di regole scritte e non scritte, di consuetudini e di abitudini accettate condivise dal gruppo e accettate in un determinato contesto. Dal punto di vista linguistico si potrebbe pensare che a questo livello potrebbe corrispondere, laddove viene utilizzato, un vero e proprio dialetto. Si intende per cultura Pubblica uno spazio di consenso più ampio, esplicito o implicito, sulle culture generalizzate e che allo stesso tempo sostiene o depotenzia le diverse manifestazioni di cultura generalizzata di cui sopra. A questo livello sono possibili formule riassuntive di ciò che si fa o non si fa in un determinato paese o territorio, formule che sono, in parte dipendenti dalle leggi vigenti nel territorio in questione. Questo livello si configura come livello ufficiale sopraordinato agli altri e quindi in ultima analisi prevalente, in ambito appunto pubblico, in caso di conflitti tra i vari livelli. In ambito linguistico viene naturale pensare alla lingua ufficiale di un paese o alle regole della lingua scritta. 13 Cfr. Hamburger F., op. cit., nota 7.
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In qualsiasi fascia di età le influenze e i condizionamenti che derivano dai vari livelli si combinano in modo diverso e orientano più o meno direttamente le scelte dei soggetti coinvolti, in una relazione interculturale. Così se un bambino di due anni, non frequentante la struttura nido, viene influenzato principalmente dalla cultura familiare e in parte da quella televisiva mediata da quella privata (ad esempio nella scelta dei programmi), con la crescita e il sedimentarsi di apprendimenti e di appartenenze a diversi gruppi, il concetto di cultura assumerà nelle sue interazioni con il mondo esterno un significato concettuale e strumentale diverso e in continua evoluzione. È importante quindi, in termini operativi, quando si parla di intercultura, interrogarsi su quanti e quali dei livelli menzionati sono coinvolti e dove si collochi rispetto ad essi l’incontro interculturale, che si sta vivendo o che si sta analizzando. Nella maggior parte dei casi, soprattutto nel rapporto con le famiglie immigrate finalizzato alla buona riuscita di un progetto educativo dei figli, è importantissimo lavorare interculturalmente a livello della cultura privata: non ha senso pensare di fare intercultura a questo livello raccontando ad un bambino la fiaba del paese di origine dei suoi genitori, senza aver verificato se la favola fa parte del suo vissuto culturale personale. Anche se, naturalmente, può essere utile per tutti i bambini conoscere fiabe di paesi diversi. Intercultura, quindi, tra bambini, tra famiglie di bambini frequentanti la stessa scuola, tra cultura dell’insegnante e delle famiglie. Il livello della cultura privata è molto importante nel lavoro con i bambini piccoli, ma diventa via via più necessario tener presenti gli altri livelli e le loro influenze sulle culture private, quando il bambino cresce. È importante anche per l’insegnante non cadere nell’errore di considerare la propria cultura operativa, o peggio quella privata, identica a quella pubblica, misurando su questa base in che termini la cultura altrui si discosta da un concetto di “cultura vigente” assolutizzato e non circostanziato. Anche l’insegnante o l’educatore è tenuto a distinguere i propri parametri culturali, analizzandoli e collocandoli a diversi livelli; ricostruendone l’interdipendenza, che a volte viene ignorata proprio a scapito della considerazione che si nutre nei confronti delle “altre” culture.
7. I piani di lavoro Da quanto detto fino a questo momento e dagli esempi di approcci all’interculturalità negli altri paesi si deduce quanto diverse possano essere le modalità di perseguire obiettivi di integrazione dei soggetti immigrati. Nonostante l’affinamento delle metodologie interculturali risulta difficile se non presuntuoso, lo ripetiamo, sostenere l’esistenza di un’unica ricetta valida per l’approccio alle tematiche relative alle migrazioni e alle differenze culturali in educazione. Certo alla luce della pratica e degli approfondimenti teorici si possono criticare certi approcci o preferire alcuni orientamenti ad altri, ma come nel caso delle tecnologie e dello studio delle loro conseguenze indesiderate, la complessità delle questioni legate alle migrazioni e all’integrazione fa sì che non si possa mai abbassare il livello di guardia ed essere convinti che un certo approccio vada bene per tutti e non abbia effetti collaterali indesiderati. Bisogna pertanto imparare ad avere in ogni momento chiaro in che modo si è scelto di lavorare, e assumersi così fino in fondo la responsabilità di questa scelta, sapendola motivare a chi non dovesse condividerla. Ma più di ogni altra cosa è necessario imparare ad osservare i
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risultati delle proposte e degli interventi educativi sui loro destinatari, vale a dire cercare di cogliere le reazioni, anche le più timide, dei bambini e delle loro famiglie. Dal momento che le differenze culturali non sono definibili una volta per tutte, in modo da darci una chiave di lettura permanente delle persone che ci troviamo di fronte; dal momento che le persone cambiano, e ne arrivano di nuove, bisogna essere pronti a cogliere i primi segnali di eventuali effetti perversi delle nostre buone intenzioni. Se la sensibilità di qualcuno viene urtata dalle nostre attività ovvero se atteggiamenti pensati a fin di bene creano malessere e incomprensioni non possiamo trincerarci né dietro alle nostra buona fede, né dietro alla nostra esperienza; dobbiamo ascoltare, capire, contrattare, spiegare le nostre ragioni, metterci in discussione, cercare una mediazione e comunque nuove soluzioni. Dobbiamo probabilmente allargare progressivamente il nostro orizzonte e quindi potenziare la nostra sensibilità ogni volta che incontriamo una persona nuova; per quanto riguarda eventuali “gaffe” interculturali, dobbiamo integrare gli effetti indesiderati e non previsti di attività o interazioni poco felici, aggiustando di volta in volta il tiro del nostro approccio educativo e migliorando così, anche con una certa umiltà e prontezza, la nostra capacità di rapportarci alle persone più disparate. La tabella che segue riassume i principali approcci educativi in ambito interculturale distinguendo l’orientamento teorico da quello organizzativo, da quello della scelta della metodologia didattica. Ogni progetto o attività può essere inserito in più caselle, generalmente una per ogni livello di lavoro, ma anche più di una. La tabella dà quindi la possibilità all’educatore o all’insegnante di riflettere sul suo operato collocandolo all’interno delle diverse modalità di lavoro in contesti educativi. Approccio Livello
di lavoro
Pedagogia
Apprendi-
per gli
della
stranieri
lingua
speciale
mento
Pedagogia multiculturale
Pedagogia interculturale
Pedagogia antirazzista
Pedagogia del tempo libero14
Orientamento tecnico
Livello
organizzativo
Scelta della metodologia didattica
Per quanto riguarda i livelli di lavoro è abbastanza evidente cosa si intende per ognuna delle voci. Vale invece la pena chiarire cosa succede con i diversi approcci: qualche esempio sarà sufficiente. Si ritiene che la pedagogia speciale per gli stranieri si basi su una modalità compensativa di approccio all’inserimento degli allievi immigrati. Al bambino immigrato, si sostiene, mancano determinate competenze ed è quindi necessario che le acquisisca prima possibile. 14 O dell’extrascuola: si potrebbe teoricamente rivolgere a tutti dichiarando di non fare distinzioni culturali, ma ciò potrebbe ugualmente portare a conseguenze indesiderate se da ciò derivasse una scarsa attenzione alle esigenze specifiche dei bambini immigrati.
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L’intervento educativo supplisce quindi alle sue carenze. Questa concezione molto criticata, perché presupponeva nella sua versione originale una sorta di segregazione degli allievi immigrati in classi speciali, mantiene tuttavia un fondamento di utilità operativa nel senso che ne ritroviamo alcune caratteristiche in qualsiasi tentativo finalizzato al portare gli allievi immigrati allo stesso livello di scolarizzazione dei loro coetanei, in modo da non farli sentire meno capaci degli altri. Non fornire strumenti o spazi per “mettersi al passo” con i compagni potrebbe finire per diventare una modalità di discriminazione; così come evitare a tutti i costi un intervento individualizzato o in piccolo gruppo di bambini immigrati di dieci anni per l’apprendimento della seconda lingua (L2), finirebbe per essere in contraddizione con l’obiettivo dichiarato di voler agire per il bene dei bambini. Anche i corsi esclusivi di lingua all’estero prevedono tempi per la full immersione e tempi di tutoring da soli o in piccoli gruppi per poter manifestare dubbi e chiedere spiegazioni. Perché si dovrebbe optare per una diluizione eccessiva dell’offerta formativa in L2 solo per i bambini immigrati? Qualsiasi lezione integrativa di L2, potrebbe tuttavia venire considerata, in termini organizzativi, e a volte anche in termini di scelta della metodologia didattica, di tipo compensativo, anche se l’orientamento teorico si fonda su presupposti ben diversi. Per questo è importante sottoporre a critica il proprio intento educativo e le sue modalità di realizzazione, per verificare se va davvero nella direzione del benessere degli allievi immigrati e nel miglioramento del clima scolastico. Ciò può avvenire tastando frequentemente il polso della situazione, osservando il bambino e confrontandosi con i suoi genitori . Infatti se un insegnante sceglie di dedicare alcune ore, ad esempio di insegnamento della lingua italiana (L2) a lezioni individuali deve sapere che si espone al rischio di una critica che considera il suo lavoro come tentativo di colmare un deficit linguistico e che considera che ciò non sia corretto. Alcuni sostengono infatti che il bambino non ha un deficit linguistico ma semplicemente conosce un’altra lingua. In una prospettiva antirazzista e di empowerment15 la conoscenza della lingua diventa però uno strumento per acquisire ed esercitare potere. L’apprendimento della lingua tra l’altro può essere perseguito secondo un orientamento teorico della pedagogia antirazzista, ma con una metodologia didattica che caratterizza la pedagogia del tempo libero in generale, piuttosto che quello della educazione interculturale in classe. Una storia di un paese lontano può essere raccontata sulla base della convinzione che la multiculturalità è una situazione di fatto in cui si raccontano tante storie di paesi diversi senza particolare attenzione ai paesi di provenienza dei bambini, oppure con l’intento di far scoprire agli allievi autoctoni i paesi dai quali provengono i loro compagni di classe. In ognuno degli approcci possibili, e ve ne possono essere anche altri oltre a quelli inseriti nella tabella, il fine dell’integrazione di minori immigrati può essere perseguito con sfumature diverse. All’interno di ogni approccio esiste un livello dichiarato di principio, un aspetto organizzativo condizionato da elementi non sempre dipendenti dalla volontà dell’educatore, ed esiste poi una scelta della metodologia da utilizzare. Non sempre nei tre livelli teorico, organizzativo e didattico si rimane ancorati ad un unico orientamento. Occorre quindi cautela e disponibilità a rimettersi spesso in discussione, e a confrontarsi con colleghi, mediatori e consulenti esterni. 15 Letteralmente dare potere. Aiutare ad emanciparsi e a compiere decisioni e azioni autonome. Il black empowerment è stato caratterizzante della filosofia del movimento di emancipazione dei neri in America.
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CAPITOLO II
Allestire il laboratorio: angolo dedicato o dimensione trasversale? La creazione di uno spazio interculturale collegato a possibili attività di laboratorio può avvenire in modo esclusivo, vale a dire creando uno spazio fisico dove siano disponibili materiali “tematici”, oppure in modo trasversalmente integrato negli spazi già esistenti1. In termini pratici la differenza consiste nell’allestire un angolo dedicato a giocattoli, libri, marionette e video adatto alle esigenze di attività di laboratorio interculturale, oppure nel prevedere uno scaffale dedicato, sia nella biblioteche sia nell’emeroteca ecc.. Inizialmente per chi si pone il problema di acquistare materiali interculturali per la prima volta, vale la pena di muoversi sui vari fronti della tipologia di materiali e creare anche fisicamente uno spazio, dove questi materiali siano riuniti e utilizzabili contemporaneamente da vari bambini nei tempi dedicati specificamente al laboratorio interculturale. Successivamente i vari materiali possono essere “diluiti” tra gli altri che si utilizzano, magari riservando uno scaffale ai libri di tipo interculturale, un ripiano di scaffale ai film interculturali tra gli altri film ecc. Allestire uno spazio fisico dedicato all’intercultura risulta utile soprattutto per acquisire una forma mentis di attenzione ai bambini e ai giovani immigrati e in generale alla diversità tra bambini: diversità di aspetto fisico, di provenienza ecc. Ad esempio interrogandosi su come allestire questo spazio fisico (un angolo, un’aula dedicata) sarà importante cominciare ad interrogarsi su come scegliere le immagini da appendere alle pareti, per abbellire gli ambienti in cui si sta insieme, in modo da fornire a tutti i bambini delle possibilità di ritrovarsi in immagini note o di incuriosirsi per immagini esotiche, ma su un piano abbastanza paritario. L’identificazione positiva con immagini di riferimento, di adulti e di coetanei, nelle quali riconoscersi, offre un importante senso di conferma. È necessario pertanto che poster, illustrazioni, personaggi di film e di libri siano rappresentativi non solo di un individuo presunto standard, quindi europeo o americano, bianco, sano ecc., ma della molteplicità che contraddistingue il genere umano. Se si vuole parlare di religione, si parlerà di religioni, ma se non si parla affatto di religione si deve essere consapevoli che il valore della laicità di per se stesso si fonda su valori occidentali post-illuministi e non è quindi esente da impronte culturali. Inoltre, ad esempio, in mancanza di educatori stranieri, e trovandosi quindi bambini e giovani prevalentemente di fronte ad educatori bianchi, risulta particolarmente 1 Cfr. Guerra L., Il laboratorio nell’intercultura, in Orsi D. Incontri colorati, Edizioni Junior, Bergamo, 2000, pp. 51-53.
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importante che i bambini dal colore della pelle non bianco possano almeno attraverso fotografie, poster, e giochi, riflettersi in un’immagine positiva del proprio modo di essere. È essenziale che essi abbiano possibilità dirette o indirette di rispecchiamento e di rinforzo positivo del proprio aspetto fisico come normale, conosciuto, diffuso e accettato. Allestire un laboratorio interculturale giova proprio allo sviluppo della capacità di immaginare le reazioni emotive di interlocutori che potrebbero sentirsi privati del riconoscimento della loro identità in una situazione nella quale si protrae a lungo una mancanza di conferme della propria identità, a maggior ragione se ciò accade in un luogo di convivenza quale quello della scuola.
1. Indicazioni di massima Le indicazioni che seguono, lungi dall’essere esaustive, vogliono essere di invito a perseguire un obiettivo di sostegno all’identità scegliendo alcuni materiali di base da utilizzare in modo critico. Se pensiamo ad esempio a ciò che serve ad allestire una piccola biblioteca appare facile fornire delle regole generali che riguardano l’utilizzo di testi e materiali considerati di tipo interculturale. Per garantire una dimensione interculturale autentica un testo dovrebbe essere scritto a più mani, possibilmente mani diverse, di donne, di uomini, di bianchi, di neri ecc. Nella fase progettuale e di realizzazione di un testo di questo tipo le differenze possono essere valorizzate allo scopo di creare un dibattito interculturale tra coloro che scrivono il testo. Le differenze individuali di genere, di mentalità, di lingua e di cultura tra gli autori diventerebbero in tal modo un’opportunità di contrattazione, approfondimento di significati e aiuterebbero a conferire una dimensione multiprospettica agli argomenti che vengono trattati. Ciò risulta però ancora difficilmente realizzabile soprattutto per la maggior parte dei testi per bambini. Ci si può tuttavia, e ci si deve, interrogare sempre su ciò che un testo esprime dal punto di vista interculturale e chiedersi se dietro ad un testo esiste una sensibilità interculturale e di che tipo. Evidentemente, per il laboratorio interculturale, sono da privilegiare testi che mostrano consapevolezza e cura della dimensione interculturale nella società e nella scuola. Per utilizzare un qualunque testo per bambini in un laboratorio interculturale basta analizzarlo per individuare il punto di vista dal quale il testo è stato scritto. È quello dell’omogeneità stereotipata dell’abbigliamento dei bambini? È quello del bambino con gli occhi azzurri sorridente e pulito e del bambino con gli occhi neri lacero e povero? Questo tipo di analisi diventa quasi automatica quando si è abituati a stare con tanti bambini diversi, quando si vorrebbero mettere a loro disposizione personaggi nei quali identificarsi e ci si trova invece di fronte a illustrazioni che escludono alcuni “tipi” di bambini. Se infatti si tratta di un testo con figure, ci si può chiedere come mai i gruppi di bambini sono rappresentati in modo omogeneo o come mai invece si è pensato di presentare una scuola come luogo dove sono presenti bambini molto diversi tra loro2. 2 Ad esempio i testi francesi edizioni Fleurus (alcuni dei quali tradotti dalla Larus di Bergamo, collana “Il tuo primo libro…”) tengono abbastanza conto di questi aspetti, così come la rivista Pomme d’Api che invece non è tradotta ed è diffficlmente reperibile al di fuori dei paesi francofoni.
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Non sempre è facile trovare materiali che soddisfino appieno i requisiti per lavorare nel modo in cui ogni insegnante intende l’interculturalità. Ciò rende consapevoli della varietà di approcci possibili e invita a costruirsi dei percorsi per le attività consoni ad una sensibilità “formata” dell’insegnante e quindi sempre più consapevole. Non è detto oltretutto che a distanza di qualche anno materiali che potevano in un primo momento apparire adatti per educare all’interculturalità, non appaiono obsoleti o addirittura controproducenti. Potrebbe addirittura accadere che un gioco o un libro o un immagine che si ritenevano “neutri” risultino offensivi per qualcuno: in questo caso è necessario rimettere in discussione la scelta effettuata. Per questa ragione è fondamentale che nel lavoro interculturale vengano interpellati anche i genitori dei bambini immigrati e che i materiali del laboratorio vengano loro mostrati per analizzarli criticamente anche con il loro aiuto. È anche possibile che il laboratorio venga allestito proprio insieme ai genitori e con l’aiuto di tutti gli allievi e che nasca quindi un laboratorio interculturale di classe: di “quella” classe e non necessariamente adatto a tutte le classi. Per seguire questa strada “progressiva”, condivisa e personalizzata i materiali base indispensabili sono pochi e semplici: Mappamondo, per i più piccoli esistono “mappamondi” che sono palloncini di plastica resistente del diametro di circa 40 cm. Planisfero e carta di Petters montati su polistirolo o truciolato in modo da poter infilare delle spille. Bandierine montate su spille o chiodini che possano essere posizionate e spostate a piacimento sulla carta geografica, per indicare la provenienza di tutti i bambini e dei mediatori culturali. Immagini multiculturali nel senso di che vi siano rappresentati bambini e persone di tutti i colori. Cartelloni didattici (ad esempio del corpo umano o di azioni compiute da bambini) che diano conto anche della diversità visibile. Foto di tutti i bambini della classe “per esserci”. Possibilmente videocamera, televisore e videoregistratore. Specchio infrangibile ad altezza bambino. Vocabolarietti, meglio se illustrati. Laddove ci sono giocattoli, bambolotti ”di tutti i colori”. Materiali di recupero. Ascolto reciproco e… FANTASIA!
Vedremo nella Parte Seconda, nelle pagine dedicate alle quattro sezioni tematiche, come questi ed altri materiali possono venire utilizzati, mentre in questo capitolo si intende soprattutto ridimensionare il mito di laboratori interculturali precostituiti. Non bisogna infatti aspettare di trovare materiali ottimali, che forse nemmeno esistono, per cimentarsi nel lavoro interculturale. In ogni tentativo di scrivere un racconto o disegnare dei personaggi che rappresentino una situazione interculturale ci possono essere elementi criticabili o non condivisi dai possibili lettori, perché considerati implicitamente discriminatori o poco corretti. Ciò non deve spaventare, ma deve rendere consapevoli della delicatezza delle tematiche interculturali e dell’attenzione con la quale vanno affrontate. Sarà pertanto un ottimo risultato se l’insegnante che nell’allestire una biblioteca raccoglie testi nell’ambito dell’interculturalità, acquisisce la consapevolezza di muoversi su un terreno complesso e articolato e si pone in una posizione di apertura rispetto alle possibili critiche ad
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alcuni materiali che potranno forse venire da colleghi, genitori o allievi stessi, e rispetto a perplessità relative alle modalità con la quale certi temi vengono affrontati. In un certo senso, forse, il fatto di suscitare critiche può rappresentare uno spunto utile per parlare di cose delle quali altrimenti non si parlerebbe. I due esempi che seguono riguardano prodotti estremamente diversi e vengono presentati per mettere in luce che le attività che si possono proporre in un laboratorio interculturale non hanno bisogno necessariamente di prodotti incentrati sulla differenza culturale3. Il primo esempio non è articolato come proposta di attività ma partendo da un personaggio diffusissimo, la Barbie, pone il problema di un certo tipo di giocattoli “etnicizzzati”, invitando ad utilizzarli con spirito vigile e critico. Il secondo esempio, che prevede invece un percorso di attività, suggerisce la possibilità di utilizzare un prodotto che di per sé non ha caratteristiche interculturali, ma sul quale è stato costruito un modello di lavoro con i bambini, adatto a contesti interculturali. Per quanto riguarda i tempi del laboratorio, la questione non è stata volutamente toccata, se non in alcune eccezioni. Si ritiene infatti che per ogni attività l’insegnante possa autoregolarsi tenendo conto delle caratteristiche del gruppo che ha di fronte.
2. Partendo dalla Barbie: una riflessione
su
“materiale etnico”
Indubbiamente non è questa la sede di soffermarsi sul valore simbolico delle bambole nello sviluppo dei bambini e delle bambine. Tuttavia è evidente come attraverso le bambole e i processi di identificazione e proiezione legati alla bambola vengano attivate dinamiche complesse che riguardano la costruzione dell’identità dei bambini. Nella scuola materna non è pensabile oggi trascurare la necessità di mettere a disposizione a tutti i bambini che la frequentano bambole che somiglino loro. Anche se nella scuola elementare la bambola non ha necessariamente accesso, sappiamo che le bambine che la frequentano giocano ancora con le bambole e si confrontano per così dire con l’aspetto fisico delle bambole che possiedono, o con quelle di proprietà delle loro amiche. 3 Per indicazioni più dettagliate riguardanti i materiali si rimanda alle singole sezioni della seconda parte del testo.
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Chi si occupa di educazione interculturale, lo ripetiamo, deve tener conto della difficoltà di alcuni bambini immigrati che sono “visibilmente” diversi dalla maggior parte dei bambini italiani, a trovare elementi di rispecchiamento della propria immagine e ancor più a cogliere nelle possibili immagini, “riflessi” di specchi positivi, per il loro aspetto fisico. Può essere perciò interessante dedicare una certa attenzione alla famosa Barbie suscitatrice tra genitori e educatori di almeno due schieramenti, uno pro o e uno contro, e che al di là delle implicazioni psicologiche legate alla sua smagliante forma fisica, che potrebbe indurre sconsiderate attenzioni a non ingrassare (fissazioni queste sulle quali molto si è parlato) offre un modello di identificazione abbastanza globalizzante che interpella genitori e figli più o meno direttamente. Rispetto al discorso del laboratorio interculturale un aspetto della Barbie risulta di particolare interesse tanto da giustificare l’acquisto di alcune Barbie da fare entrare in classe. Il suo colore!!! Esiste infatti una collezione etnica di Barbie che “visita” i vari paesi vestendo bamboline dal colore della pelle che va dal consueto rosino o beigeolino chiarissimo, al nero, con gli indumenti più vari, e “tipici” dei vari paesi. Le Barbie che vengono da altri paesi interpellano l’occhio interculturale a vari livelli e pongono alcune domandi importanti. Chi rappresentano quei corpi abbastanza uguali tra loro che cambiano colore e abito e forse taglio degli occhi? È più facile identificarsi con una bambola etnica o continuare a sognare sulla classica platinatissima Barbie “universale” che a pensarci bene non sembra nemmeno americana, ma rivela, a ben guardarla accanto alle altre, tutta la sua artificiosità impersonale? Tra l’altro nella collezione in questione abbiamo anche la Barbie italiana in costume da tarantella. Che effetto fa alle bambine e alle donne italiane? Aumenta la possibilità di identificazione o non fa forse crollare anche l’illusione di poter essere simili a quella classica, perché in fondo diventa chiaro che nemmeno quella corrisponde ad un personaggio verosimile? Quante piccole italiane si riconoscono o riconoscono qualcosa di italiano, nella rappresentazione della Barbie italiana? L’esempio della Barbie mostra come alcune realtà globali, quali ad esempio internet o il computer, parlano da subito un linguaggio omogeneo e globale, ma come poi anche alcuni personaggi “globali” quali la Barbie al tentativo di “localizzazione” diventano goffi e poco credibili, perdendo anche la loro originaria prerogativa di credibilità dal punto di vista del potere di rappresentazione. Il discorso sulla Barbie può essere un buon punto di partenza per affrontare dal punto di vista interculturale il tema della globalizzazione e di alcune sue conseguenze marginali e inattese, e permette anche di introdurre i bambini in modo leggero al tema dell’identità, dei gusti, delle preferenze, e delle identificazioni. La Barbie italiana (insieme alle altre Barbie etniche) rende infatti esplicito il punto di vista di chi produce la Barbie: la Barbie classica sembra diventare americana ai nostri occhi solo quando vediamo quella etnica. Solo allora si comincia a cogliere il significato del punto di vista e l’ovvietà delle posizioni autocentrate. La Barbie etnica spinge a chiedersi: a) Come italiano mi riconosco nella Barbie italiana? Come straniero che vive in Italia condivido l’idea di italianità che questa Barbie personifica e vuole trasmettere? b) Come appartenente ad un’altra “cultura etnica”, stereotipata in un’altra Barbie (africana ecc.) quale sono le mie reazioni a quella che dovrebbe essere la “mia” Barbie. Queste reazioni sono simili a quelle degli italiani?
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c) Da quali punti di vista si vede l’Italia come il paese della tarantella ? Chi ha creato il personaggio? d) Quale “americanità” propone la Barbie “vera”? Esiste un solo modo di essere della donna americana? Cercando di rispondere a queste domande si può cominciare con il dedurre che: 1) la Barbie non è un giocattolo neutro, ma presenta invece una serie di implicazioni culturali in quanto prodotto collegato ad una cultura precisa. 2) Gli stereotipi simili a quelli che noi spesso utilizziamo, quando toccano le nostre appartenenze, ci sembrano nella migliore delle ipotesi un po’ ridicoli come nel caso della Barbie, ma in alcuni casi possono ferirci e offenderci. E, verosimilmente, agli oggetti dei nostri stereotipi noi provochiamo reazioni analoghe, quando li incaselliamo in immagini nelle quali essi non si riconoscono. 3) Alcuni elementi della nostra identità restano legati alla nostra individualità o alla nostra appartenenza ad un gruppo e alcuni vengono condivisi ad un livello più ampio ad esempio con concittadini o connazionali. 4) Nei processi di creazioni di immagini stereotipate le note caricaturali di un popolo assolvono la funzione di catalizzatori di generalizzazioni. 5) Infine se la Barbie rappresenta soprattutto un modello americano di identificazione allora almeno, che si diffonda anche la Barbie nera, americana e nera, se mai qualcuno pensasse che l’America ha la pelle “bianca”. Solo bianca. La presentazione del secondo esempio di prodotto per bambini sul quale lavorare nel laboratorio interculturale invita ad utilizzare una videocassetta che non è stata pensata per il lavoro interculturale, ma che gli si addice in modo particolare. Vediamo perché.
3. Un’attività guida: the snowman4 Quello che segue è un esempio di lavoro che si può svolgere in tempi e modi adeguati al contesto secondo le modalità del laboratorio. Si tratta dell’utilizzazione di un prodotto “narrativo”, scelto proprio perché presenta alcune caratteristiche particolari, adatte alla dimensione di accoglienza e di conoscenza reciproca del 4 La videocassetta del cartone The Snowman di Raymond Briggs è stata per anni commercializzata in Italia dalle edizioni Elle,
di Trieste con il titolo Il Pupazzo di Neve. Le edizioni Elle hanno pubblicato anche un testo di sole immagini del cartone intitolato anch’esso Il Pupazzo di Neve (ed. Elle, Trieste, 1979) e che può essere utile per lavorare con i bambini. Questo testo oggi non è più in commercio, è reperibile in alcune biblioteche, tuttavia l’equivalente inglese può essere ordinato al sito www.penguin.com, ISBN 0-241-14103-6. Gli insegnanti di inglese potrebbero lavorare anche con The snowman, Ladybird, ISBN 0-7214-1863-5. Si possono inoltre visitare i siti: http://www.thesnowman.co.uk, http://www.toonhound.com/briggssnow.htm I siti sono in lingua inglese e permettono di acquistare testi e videocassetta in inglese on line. Per quanto riguarda l’utilizzo della videocassetta in edizione originale, il vantaggio è quello di evitare l’introduzione che precede l’inizio del cartone, assicurando così una comprensione della storia dalle immagini per tutti i bambini. Inoltre si può giocare sull’effetto sorpresa-disappunto dei bambini italiani che non capiscono… e hanno paura di annoiarsi… e quindi protestano… e quindi forse dopo sono più attenti ai loro compagni stranieri appena arrivati in Italia. In ogni caso al di là di questo aspetto, con la cassetta in lingua italiana si può benissimo saltare l’introduzione, perché la storia è comunque molto chiara.
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laboratorio interculturale. Il punto di partenza che si propone è appunto uno stimolo “banale” quale la visione di un cartone animato, ma vista la ricchezza di suggestioni del racconto si prospettano diverse possibilità interessanti di attività e riflessione. Ci si colloca peraltro in una sfera, quella della fruizione del mezzo televisivo e del videoregistratore, che risulta familiare alla maggior parte di bambini o comunque in un ambito di competenze che i bambini acquisiscono facilmente indipendentemente dall’appartenenza culturale. L’esempio vuole avere un carattere paradigmatico nel senso di invitare gli insegnanti a reperire e utilizzare materiali di qualità, non necessariamente pensati per l’intercultura, per dare l’opportunità agli allievi di sentirsi tutti parte di un’attività e di venire coinvolti anche sul piano emotivo da tematiche che tuttavia sono fortemente collegate al discorso della comunicazione interculturale. Inoltre il cartone non essendo stato concepito per svolgere attività interculturali, ma solo per piacere ai bambini, non indica percorsi prestabiliti, ma offre un ampio canovaccio di possibilità delle quali l’educatore è consapevole, ma rispetto alle quali ogni bambino è libero di scegliere, vale a dire libero di notare e far notare, a seconda del suo stato d’animo, elementi diversi che portano anche a riflessioni diverse. In particolare le ragioni fondamentali della scelta di questo cartone sono le seguenti: – la molteplicità degli spunti tematici rilevanti per le tematiche interculturali, – il fatto che questi spunti non siano “a tesi” rispetto all’intercultura, vale a dire con risposte precostituite, – la “silenziosità” di una narrazione senza parole, – il fatto che la dimensione emotiva sia fortemente coinvolgente, – la qualità del prodotto anche dal punto di vista estetico. Questa proposta di attività ha una duplice funzione: da un lato è esemplificativa per insegnanti ed educatori rispetto ad un modello di lavoro possibile collegato alle tematiche interculturali, dall’altro fornisce effettivamente una pista per le attività con i bambini. Il lavoro in classe prevede la visione di un cartone animato e la successiva rielaborazione dei temi che in esso vengono proposti. Il cartone in questione ha per titolo THE SNOWMAN e narra la storia dell’amicizia tra un bambino e un pupazzo di neve. La narrazione avviene quasi esclusivamente per immagini e musica; se si esclude una breve introduzione recitata da un attore in carne ossa, non ci sono nel cartone né dialoghi parlati né voce fuori campo. La colonna sonora svolge una duplice funzione estremamente importante, quella di integrazione e rafforzamento della narrazione iconica. 3.1 La trama Un bambino costruisce un pupazzo, che nella notte si anima. Il bambino esce di casa per stare con il pupazzo, lo invita poi ad entrare in casa, guidando il pupazzo alla scoperta di spazi e oggetti. Mentre i genitori dormono i due entrano nella loro stanza da letto, curiosano tra gli oggetti dei genitori, si divertono ad indossare i loro vestiti, poi vanno a giocare nella stanza accanto, danzando insieme in un allegro girotondo che coinvolge anche i giocattoli.
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Il bambino assume la funzione di esperto della propria casa e introduce il pupazzo alla scoperta dell’ambiente domestico mostrandosi disponibile a condividere con lui la sua realtà.
Il bambino accoglie il nuovo amico attivamente, si dà da fare per “introdurlo” sia a livello emotivo che a livello cognitivo alla conoscenza di una realtà per il pupazzo sconosciuta.
Successivamente il pupazzo colto dalla nostalgia decide di dirigersi verso il paese dei pupazzi di neve e prende per mano il bambino, sollevandolo in volo con lui.
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I ruoli si invertono ed è ora il pupazzo ad avere una funzione di guida e di accompagnamento alle scoperte del bambino. Nel paese dei pupazzi il bambino si sente sicuro in virtù del legame creato con il pupazzo. Nella casa del bambino si è costruito un legame significativo tra i due grazie alle scoperte “comuni”: il bambino infatti ha riscoperto la sua realtà quotidiana assumendo empaticamente il punto di vista del pupazzo.
Dopo il volo di ritorno, una volta a casa, la prevedibile quanto inevitabile separazione tra i due amici… Il bambino ritrovandosi solo si chiede: sogno o realtà?
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3.2 Indicazioni per le attività Il cartone risulta molto coinvolgente dal punto di vista emotivo ed è consigliabile che gli adulti che conducono l’attività si confrontino per primi con le loro emozioni rispetto al cartone e riflettano insieme su come intendono utilizzarlo. Il fatto che la narrazione sia ricca di spunti porterà verosimilmente ad una discussione nel corso della quale si evidenzieranno le differenze anche tra adulti nell’attribuire significato a certi temi piuttosto che ad altri. Grazie a questa esperienza in prima persona gli insegnanti saranno più disponibili a lasciare emergere le differenze tra bambini in modo spontaneo. Per lavorare con questo cartone è necessario che gli insegnanti verifichino innanzi tutto se il cartone suscita loro un qualche tipo di risposta emotiva riguardo alle tematiche interculturali. In caso contrario non è opportuno avventurarsi nel lavoro con gli allievi perché si rischierebbe di non riuscire poi a gestire l’attività al meglio. Una volta che si è optato per utilizzare il cartone è bene che gli insegnanti lo analizzino in modo più accurato per tracciare una mappa delle possibili suggestioni, confrontarsi sui temi che appaiono loro rilevanti, ma anche organizzarli in possibili piste di lavoro del tipo: “se i bambini notano questa cosa, si potrebbe valorizzarla così o riprenderla in questo modo, o approfondirla in quest’altro”. L’obiettivo di un’individuazione dettagliata dei temi non è quello di orientare in modo prestabilito le reazioni dei bambini, ma di avere chiara una mappa delle possibilità dei percorsi di riflessione e di lavoro che potrebbero delinearsi a partire dalle reazioni dei bambini stessi. Ogni bambino può cogliere alcuni aspetti piuttosto che altri e lasciare sorpreso l’adulto che si aspetta qualcosa di preciso, o comunque di diverso. 3.3 Le ragioni di una scelta Come è già stato accennato questo cartone presenta delle caratteristiche che si prestano a lavorare con i bambini su temi vicini a quello della multiculturalità5. In particolare il cartone “racconta” una storia, illustra situazioni e mette in scena sentimenti profondi senza che i personaggi parlino. Ciò mette tutti i bambini in una condizione abbastanza6 analoga rispetto alla 5 Sembra che delicatamente siano presenti questi temi che possono essere significativi per il bambino immigrato. Come accade per i “passaggi obbligati” evidenziati dalla morfologia della fiaba di Propp e che prospettano un ripetersi dei nodi tematici della narrazione nelle favole (Allontanamento, Divieto, Violazione, Partenza, Eroe messo alla prova, Fornitura del mezzo magico, Lotta tra eroe e antagonista, Vittoria, Ritorno dell’eroe, Persecuzione dell’eroe, L’eroe arriva in incognito a casa, Pretese del falso eroe, Riconoscimento, Punizione dell’antagonista, Nozze), così in un certo senso nella storia del pupazzo di neve si individuano alcuni elementi ricorrenti caratteristici dei vissuti e dei sentimenti della migrazione del bambino, quali lo spaesamento, il viaggio, la conoscenza di un nuovo ambiente, la comunicazione, l’empatia, il nascere di legami significativi, le separazioni, ecc., elementi che tuttavia assumono nella realtà di ogni bambino connotazioni e manifestazioni diverse. Vedi anche Moscato M. T., Il viaggio come metafora pedagogica. Introduzione alla pedagogia interculturale, Brescia, La Scuola, 1994. 6 Vanno indubbiamente tenute presenti le caratteristiche culturali dei bambini che potrebbero comunque dare adito a interpretazioni diverse da quanto accade. Ad esempio la familiarità con la neve è indubbiamente diversa se si vive in un paese dove la neve c’è per lunghi periodi, o se si conosce la neve solo grazie alla TV, senza averla mai vista dal vero. Nella realtà romana per la quale l’attività con il cartone era stata inizialmente pensata, la neve non fa certo parte della quotidianità dei bambini, e quindi non esistono grosse differenze in proposito tra autoctoni e alloctoni. Nell’utilizzo di questo prodotto in altri contesti o per la scelta di attività analoghe questi fattori sono estremamente importanti e vanno tenuti presenti, per arrivare eventualmente alla conclusione che è preferibile cercare un altro cartone sul quale svolgere un lavoro analogo.
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ricezione della storia e certamente anche rispetto alla sua comprensione ed elimina ostacoli legati alle diversità linguistiche. Si parte quindi da una condizione di parità tra i bambini e allo stesso tempo si offre loro la possibilità di condividere un’esperienza emotivamente coinvolgente. In secondo luogo, proprio partendo dalla domanda: “I personaggi di questo cartone parlano?” il discorso sulla comunicazione assume una valenza particolare dal momento che i bambini, soprattutto quelli più piccoli, non sono immediatamente consapevoli del fatto che il cartone non sia parlato. Spesso commentano attribuendo dialoghi ai personaggi ed è proprio prendendo le mosse da questo “equivoco” iniziale che diventa facile stimolare la discussione sulla comunicazione verbale o non verbale, ripetendo il semplice quesito: “Ma insomma secondo voi parlano?” ed invitando a riflettere sulla comunicazione non verbale e sulla possibilità di “parlarsi” anche senza emettere suoni o pronunciare frasi. In terzo luogo nel film sono rappresentati molti sentimenti familiari ai bambini. Il film evoca quotidianità, sentimenti allegri e gioiosi, legati al gioco all’amicizia e alla fantasia, e sentimenti di tristezza e solitudine legati alla separazione e al lutto, o comunque alla conclusione di esperienze particolarmente positive e coinvolgenti. Il fatto che si tratti di situazioni familiari ai bambini aiuta questi ultimi a mettere in gioco i sentimenti, facilitando forse il desiderio e la capacità di comunicazione e condivisione. Infine la musica costituisce un sottile e solido filo narrativo che, riascoltata senza le immagini, evoca queste ultime aiutando a ricostruire narrazione, atmosfere, sentimenti, e quindi accompagnando, sostenendo e incoraggiando la “restituzione” del racconto, secondo diverse modalità possibili, soprattutto inizialmente attraverso l’attività del disegno. 3.4 Le tematiche Per quanto riguarda le tematiche, si tratta di tematiche significative per tutti i bambini a seconda delle esperienze fatte, e che possono essere analizzate ed arricchite dal lavoro in classe, e che possono risultare particolarmente indicate acciocché il bambino immigrato, qualora ne avverta l’esigenza, possa rielaborare uno specifico vissuto legato alla migrazione. Allo stesso tempo per gli autoctoni il tema dell’accoglienza viene affrontato in modo non univoco, sottolineando molto gli aspetti di reciprocità dell’accoglienza. L’amico che entra in casa invita realmente e metaforicamente a “ricambiare” la visita per quanto diversa possa essere la sua situazione. Il cartone stimola una riflessione su grandi temi che possono o no colorarsi di una connotazione di confronto interculturale, ma che fondamentalmente riguardano tutti. Vediamo brevemente quali sono questi temi, corredati da possibili domande per stimolare la riflessione. La quotidianità: quali sono le mie abitudini quotidiane? Cosa faccio prima di andare a dormire, quando mi sveglio di notte, quando mi sveglio la mattina. Chi mi accompagna a dormire, chi mi dà la buonanotte? Ho un pupazzo preferito, una storia della buonanotte che mi piace ascoltare? I sogni: Quali sono i miei sogni ad occhi chiusi e quelli ad occhi aperti? Con chi parlo dei miei sogni? Ricordo un sogno bellissimo…
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L’amicizia: come si fa amicizia? Come ci si conosce? Quali elementi sono favorevoli all’amicizia tra i due personaggi e quali la ostacolano? La comunicazione: i personaggi del cartone parlano? Che importanza ha la parola nella comunicazione? Che importanza hanno i gesti e le espressioni del viso? Sono più importanti i discorsi o le cose che si fanno insieme?
L’ospitalità: cosa significa essere ospitali con un amico? Cosa rappresenta la casa per ognuno? Cosa significa mostrare la propria casa a qualcuno? Come lo facciamo? Il bambino mostra il suo mondo, il pupazzo il suo… Empatia: cosa significa essere soli e non sapere con chi giocare? Come fa il bambino a capire le cose che piacciono al pupazzo, disturbano il pupazzo o sono pericolose per lui? Come si capiscono gli stati d’animo degli altri? come se ne diventa partecipi? In quali situazioni siamo capaci di capire i sentimenti degli altri e in quali no? Chi conosciamo che è “bravo” a capire i sentimenti degli altri? Come si comporta? Come ci aiuta ad imparare?
Gioco: come giocano i due personaggi? Il pupazzo cambia volto: anche io amo travestirmi. Lo specchio: che risate! Il ballo: Ci sono differenze tra il ballo in casa e il ballo nel paese dei pupazzi? Quali secondo te? Ci sono somiglianze? Quali secondo te? Le paure: come mai il pupazzo non ha paura di entrare in un ambiente totalmente nuovo?
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Come mai il bambino non ha paura di effettuare un viaggio pieno di pericoli (in volo per giunta!) insieme al pupazzo? Tu di cosa hai paura? Cosa ti aiuta a non avere paura? Alternanza di ruoli: chi è più “grande” (nel senso anche di esperto): il pupazzo o il bambino? Cosa significa essere grandi in questo caso? Quali responsabilità ha un “grande” quando ha il compito di guidare qualcuno? La percezione del mondo degli adulti e dei genitori in particolare: cosa succederebbe se i genitori del bambino si svegliassero? (Altrimenti detto come reagiscono i genitori alla presenza di un amico particolare in casa?) Nostalgia: nel cartone come viene rappresentata la nostalgia? Cos’è la nostalgia?
Cosa significa provare nostalgia per persone e luoghi? Hai mai provato nostalgia? Quando? Di chi? Di cosa? Il viaggio: quali viaggi facciamo? Quali viaggi sono stati importanti dove ci piacerebbe andare? Con chi ci piace viaggiare? Cosa significa viaggiare insieme? Il bambino incontra Babbo Natale: tu chi vorresti incontrare in un viaggio? Progettiamo un viaggio! Le festività: Babbo Natale è collegato alla festività del Natale, quali feste sono più importanti per te e perché? Come vivi le festività importanti della tua famiglia? Come si fa ad organizzare una bella festa? Religione: La festività del Natale è una delle feste religiose più importanti per i cristiani: ad essa è collegato il personaggio di Babbo Natale, che piace tanto ai bambini. Che posto hanno i bambini in altre feste religiose? Quali feste religiose vengono festeggiate in casa tua? Fantasia: Quali sono i miei giochi fantastici? Cosa progetto con la fantasia? Ho un amico immaginario. Sogno di avere un compagno di giochi magico: cosa facciamo insieme ? Simboli: cos’è un simbolo? Quali simboli sono importanti per te? Quali per la tua famiglia? I regali: Babbo Natale fa un regalo al bambino. A tutti i bambini piace ricevere un regalo: tu in quali occasioni ne ricevi e come ti piace riceverli. Alcuni regali hanno un valore simbolico che va oltre la concretezza: prova a ricordarne qualcuno. Separazione: come avviene la separazione tra i due amici? Si rivedranno? Cosa provi quando ti separi da qualcuno? Ti è già capitato di doverti separare da qualcuno a cui vuoi bene? Morte: Che cos’è la morte? Quale percezione hanno i bambini delle separazioni definitive e come le hanno vissute quelli di loro che l’hanno già sperimentate? Ricordo: quali ricordi hai di persone e luoghi importanti nella tua vita dai quali ti sei dovuto
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separare? Ti piace ricordare? Come mantieni vivo il ricordo? Ci sono oggetti che ti ricordano qualcuno o qualcosa? Quali?
Somiglianza e differenza: cosa hanno in comune e in cosa sono diversi il bambino e il pupazzo? Diversità visibile: il “diverso” è davvero bianco e comunque il bambino è più scuro. Non solo il colore, ma anche la pelle è diversa. Ci avevi pensato? Che effetto fa? Se una persona ha un aspetto particolare dovuto ad una malattia o ad un modo di vestire particolare, quali sono le tue reazioni? Condivisione: cosa condividono i due personaggi e cosa si scambiano? Sogno o son desto: il bambino ha sognato o tutto è successo davvero? Da cosa lo capisci? Identificazione: Se potessi scegliere vorresti essere il bambino o il pupazzo? Perché? Finale: Ti è piaciuto il finale? Vorresti inventarne un altro? Cosa rimane dell’amicizia tra i due personaggi? Come potrebbe continuare la storia? Questo cartone può essere utilizzato con bambini di età variabile, ma anche con gli adulti come metafora essenziale dell’incontro. Evidentemente attività e livello della discussione verranno adattati al gruppo di interlocutori. Tra insegnanti si discuterà anche in funzione dell’attività da svolgere con i bambini, ma non solo. Il tempo da dedicare al cartone è anch’esso variabile e va da un minimo di una giornata ad un progetto articolato anche nel corso di un mese, o di tutto l’anno. Sulla falsa riga della proposta qui presentata gli insegnanti potranno poi individuare altri prodotti che si prestano ad una rilettura metaforica che sia in qualche modo “interculturale “ e organizzare il lavoro sul modello che qui viene presentato. Un altro cartone che si presta a lavorare in gruppo sui temi dell’interculturalità è “La Gabbianella e il Gatto”: alcune scuole lo hanno fatto, anche se per bambini molto piccoli può risultare un po’ lungo e meno “essenziale”. Il canovaccio di lavoro può facilmente essere ricostruito per analogia con il modello qui presentato. 3.5 Prima accoglienza nel gruppo con il cartone “Il pupazzo di neve” Un bambino che non capisce l’italiano rischia di sentirsi escluso non solo dalla maggior parte delle attività che si svolgono, ma anche da qualsiasi condivisione di significati. La pressione
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ad apprendere l’italiano è per il bambino straniero molto forte anche laddove non viene esplicitata dagli insegnanti. La comprensione linguistica rappresenta infatti per il bambino un veicolo importante di socializzazione. Una pressione più o meno accentuata ad apprendere l’italiano, per mettere il bambino in grado si seguire le lezioni come gli altri, può essere comprensibile, ma non si può vedere l’inserimento del bambino solo in termini razionali, applicando strategie efficientistiche e “veloci”. Così facendo infatti si sottovaluta l’aspetto affettivo dell’esclusione dalla comprensione. Il bambino ha bisogno di partecipare ad attività comuni e di sentirsi grazie ad esse come gli altri, parte del gruppo. Può quindi essere estremamente importante garantire al bambino accoglienza incondizionata proponendo attività che, come questa, possano coinvolgere almeno nella fase di ricezione del messaggio iniziale mettendolo a livello di tutti gli altri compagni. A questo aspetto si tende ad ovviare principalmente con attività che non richiedono scambi verbali, ma che difficilmente possono dar luogo ad una condivisione di spazi emotivi. Lo stesso sport di squadra, nella prima fase di ambientamento del bambino richiede al bambino l’attivo utilizzo di competenze comunicative in senso lato, che non tutti sono in grado di mettere in gioco in una prima fase dell’inserimento in un gruppo nuovo. Pertanto a seconda del momento rispetto all’inserimento, della composizione e dell’età del gruppo e a seconda delle reazioni alla visione del cartone l’insegnante potrà scegliere di lavorare su aspetti diversi. Disegno: la scena che più ti ha colpito. I personaggi. I gesti. I paesaggi Approfondimento lessicale e linguistico: individuazione di parole che servirebbero se si decidesse di “far parlare” i personaggi. Costruzione di brevi, semplici dialoghi che potrebbero avere luogo tra i personaggi. Traduzione nella lingua del bambino delle parole chiave di questi possibili dialoghi. Narrazione: racconto orale o scritto della storia (anche nella lingua di origine del bambino, da far tradurre poi ad un mediatore). Questo lavoro può essere svolto con l’aiuto del libro illustrato già citato “Il pupazzo di neve”7 relativo alla storia del cartone oppure chiedendo ai bambini di inserire dei fumetti con semplici frasi nei loro disegni che ripropongono le immagini del cartone. Comunicazione: cosa si dicono i personaggi? Invenzione e scrittura di un vocabolario dei gesti: “quando qualcuno fa questo gesto vuol dire…”. Invenzione e scrittura di un copione per i dialoghi del cartone. Espressione corporea: danza, drammatizzazione: preparazione di brevi spettacoli di danza o di recitazione che ripropongano la storia. Fermo immagine: il fermo immagine può essere utilizzato per una stesura collettiva dei dialoghi del cartone. L’insegnante o uno dei bambini a turno ferma l’immagine e chiede agli altri di pensare a cosa si dicono i personaggi e fare delle proposte. Un’altra modalità di utilizzo del fermo immagine riguarda la possibilità di intervenire su un bambino in particolare laddove la non conoscenza dell’italiano e/o la timidezza precludessero comunque al bambino la partecipazione alle attività sopraindicate. Potrebbe infatti risultare utile, provare a far “raccontare” al bambino la storia grazie all’uso del telecomando: al bambi 7 Raymond Briggs, op.cit. Si può pensare ad esempio di ritagliare le immagini del libro, di farle plastificare e di utilizzarle per far ricostruire al bambino la sequenza della storia, anche se non padroneggia ancora la lingua italiana.
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no (meglio se in un piccolo gruppo) viene dato in mano il telecomando chiedendogli di rivedere il cartone e di fermare l’immagine per indicare una scena che lo ha colpito particolarmente. 3.6 Organizzazione dell’attività La modalità di utilizzo del cartone varia a seconda degli obiettivi che ci si prefiggono. È bene comunque lasciare a qualsiasi gruppo una prima visione totalmente libera seguita da un tempo molto tranquillo di disegno individuale, accompagnato dal sottofondo musicale della colonna sonora. Quando un bambino che non conosce la lingua italiana arriva in classe, può essere utile e piacevole proporre tra le varie attività una narrazione che non lo escluda dalla comprensione. Per la stessa ragione la visione comune di un cartone di questo genere fa sentire tutti i bambini accomunati da un’esperienza a tutti accessibile e che diventa quindi un’esperienza di gruppo. La visione del cartone potrà quindi essere seguita da: – Attività di disegno: questa verrà organizzata predisponendo come sottofondo la colonna sonora del cartone, e questo risulterà utile per far restare i bambini immersi nell’atmosfera del film. – Ricostruzione della storia tramite disegni. – Ripetizione della visione del film chiedendo ai bambini di utilizzare il fermo immagine del telecomando per bloccare la pellicola nei punti salienti. Ciò consente di creare una sia pur minima opportunità di comunicazione non verbale. Si può pensare ad esempio di tenere a turno il telecomando, nominando un “telecomandante” che si basa sulle alzate di mano dei compagni, oppure lasciando che un bambino che non ama ancora esprimersi a parole fermi il film quando vuole e gli altri raccontino a turno lentamente le scene, mentre l’insegnante sottolinea le parole chiave. Le scene più apprezzate del film, utilizzando il fermo immagine, vengono quindi condivise dai bambini e fissate dalla discussione, dalla scrittura di parole chiave, dalla produzione di dialoghi o disegni, dalla ripetizione mimata dei movimenti e delle espressioni del volto. – Apprendimento di vocaboli relativi indicanti oggetti o stati d’animo rappresentati nella storia. – Costruzione di narrazioni della storia a complessità crescente. Movimento libero guidati dalle melodie del film. – Preparazione di danze simili a quelle rappresentate nel film Laddove invece non ci sono in classe bambini con scarsa comprensione dell’italiano il lavoro può vertere soprattutto sul far emergere da parte dei bambini le loro reazioni al film non solo tramite le suddette attività, ma anche: – guidando una conversazione comune finalizzata allo scambio di idee sul film; – analizzando su un piano metacomunicativo le modalità di interazione non verbale, e soffermandosi sulle potenzialità e i limiti di immagini e dialoghi, per esprimere “tutto” l’evento comunicativo. A prosecuzione ed integrazione delle attività svolte “intorno” al cartone si possono poi approfondire le tematiche del cartone per analogia, vale a dire identificando prodotti analoghi o,
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partendo dai temi individuati dai bambini, approfondirli grazie ad altri cartoni, film o storie. Esempi di approfondimento trasversale in altre narrazioni possono riguardare, sia nelle storie che nei film, che nei cartoni animati: – L’amicizia: Come fanno amicizia i personaggi delle favole? – Chi è l’amico e chi il nemico e come viene rappresentato? – Il viaggio: Perché partono i bambini? Perché partono gli adulti? – Quali sono le differenze tra descrizioni di viaggi fantastici e viaggi realistici? – I genitori o le figure sostitutive: Come vengono rappresentati? Cosa fanno? – Cosa dicono? Come reagiscono all’ospitalità dei figli? – La separazione o la morte nei cartoni animati: quali separazioni ci colpiscono, quali ci sembrano normali? Quali morti ci lasciano indifferenti perché nemmeno ci facciamo caso? Quali ci addolorano? Cosa proviamo quando la morte è violenta o dovuta all’odio? – Le espressioni del viso e i gesti: Come capiamo i sentimenti dei personaggi? Quali differenze con la nostra realtà quotidiana? – Lo stile del cartone: Notiamo delle differenze tra questo prodotto e altri che vediamo abitualmente? Quali? Data la ricchezza degli spunti possibili di questo cartone, è importante che le attività che ne derivano siano pensate in funzione del gruppo che si ha di fronte. Non ha senso indirizzare forzatamente la discussione sul tema del viaggio solo perché si ritiene che per i bambini immigrati il viaggio costituisca un’esperienza centrale: per alcuni potrebbe esserlo stato, per altri no: inoltre nel bambino esperienze per l’adulto insignificanti, quali una gita o una passeggiata possono essere assimilabili all’idea di un viaggio fantastico e rievocate dalla visione del film. Per alcuni il risveglio dei genitori del bambino può suscitare timori per altri no. Per alcuni è rilevante il senso di amicizia per altri più la curiosità per un ambiente nuovo. 3.7 Condividere le emozioni La proposta di lavorare con questo cartone vuole sottolineare l’importanza di una dimensione emotivamente significativa nel lavoro interculturale e l’importanza di dare a tutti i bambini, e soprattutto ai bambini immigrati, spazi di personalizzazione delle loro emozioni, come antidoto all’omologazione o all’attribuzione stereotipata di sentimenti o presunti tratti culturali. La condivisione di uno spazio ricco dal punto di vista emotivo può costituire per tutti i bambini, ma in particolare per il bambino immigrato, un importante veicolo di continuità con il passato uno spunto per riflessioni significative e un invito a ricucire, in un nuovo ambiente, i fili di una continuità di vita che nell’esistenza, e intorno all’esistenza del bambino, rischiano di andare perduti e di destabilizzarlo. Per un bambino lo spaesamento può essere dovuto alla fuga da un paese in guerra, per un altro dalla separazione dei genitori, per un altro ancora dalla morte di una persona cara. Le culture di tutti i bambini e di ogni bambino sono i loro mondi scoperti e da scoprire: da parte del bambino con curiosità e da parte dell’adulto con curiosità discreta e delicatezza, nei confronti del bambino e del suo modo di essere. Le proposte di attività che sono state menzionate in questo capitolo, articolate a partire dal
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cartone animato “The Snowman” intendono offrire un esempio per rendere delicato, coinvolgente e personalizzante il lavoro educativo interculturale e per creare un clima positivo e collaborativo in classe. Se i bambini riescono a condividere le loro esperienze più profonde secondo modalità a loro adatte, e quindi a conoscersi reciprocamente, il clima in classe non può che ricavarne vantaggio e insieme al clima le interazioni e gli apprendimenti ad esso collegati.
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CAPITOLO III
Gli attori del laboratorio
Gli attori principali del laboratorio sono evidentemente gli allievi e gli insegnanti, i bambini e gli educatori. Il presente testo è stato pensato infatti per aiutare coloro che specificamente sono interessati ad un approccio del tipo laboratorio al discorso interculturale. Su questi attori non ci si soffermerà specificamente qui di seguito, perché l’intero testo riguarda le attività educative interculturali che si possono condurre a scuola o nell’extrascuola. Esistono tuttavia altri due gruppi di persone strettamente legate al laboratorio interculturale, come co-attori o come interlocutori del laboratorio stesso. Si tratta dei genitori dei bambini, immigrati e non, e dei mediatori culturali. Nei paragrafi che seguono verranno chiariti alcuni punti riguardanti specificamente i mediatori e i genitori immigrati.
1. Il mediatore culturale Quella del mediatore culturale è una professione relativamente nuova nel suo significato attuale ed è stata definita in termini di profilo professionale dal CNEL nell’anno 2000, come “un agente attivo nel processo di integrazione e si pone come figura “ponte” fra gli stranieri e le istituzioni, i servizi pubblici e le strutture private, senza sostituirsi né agli uni né a gli altri, per favorire invece il raccordo fra soggetti di culture diverse”1. Si può discutere a lungo se per quanto riguarda la figura del mediatore in contesti scolastici si debba privilegiare un ruolo di traduzione linguistica o di mediazione culturale. Sta di fatto che per delle attività di laboratorio interculturale, la figura del mediatore risulta essere preziosa, se valorizzata dagli insegnanti. E sta di fatto che molto spesso il mediatore viene utilizzato per l’apprendimento dell’italiano come seconda lingua per i bambini immigrati. Il mediatore però può essere invitato nelle scuole indipendentemente dal fatto che siano presenti o meno allievi immigrati. Laddove non sono ancora presenti allievi immigrati, è probabile che arrivino presto e i mediatori potrebbero diventare i principali catalizzatori di un lavoro interculturale, raccontando la 1 CNEL, Organismo nazionale di coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri, Documento “Politiche per la mediazione culturale. Formazione ed impiego dei mediatori culturali”, Roma, 2000.
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loro eventuale storia di migrazione e il lavoro che svolgono; e allo stesso tempo implicitamente o esplicitamente essi avrebbero la funzione di preparare allievi e insegnanti all’accoglienza di allievi immigrati e all’incontro con le loro famiglie quando se ne presenterà l’occasione. In questo caso la mediazione si delinea principalmente come culturale, mentre il contributo del mediatore nella prima fase di accoglienza dell’allievo immigrato appena giunto in Italia, sarà anche e soprattutto di tipo linguistico È tra questi due poli infatti si concretizza l’operato del mediatore, ma è fondamentale che la presenza del mediatore nei luoghi della formazione venga inserita in un quadro concettuale e metodologico preciso. Esistono alcuni criteri fondamentali da tener presenti quando si tratta di mediazione culturale che possono essere riassunti come segue. 1.1 Criterio n. 1 Il mediatore non media tra due culture immutabili e teoricamente definite, ma tra individui o gruppi di individui, concreti. Più concretamente: a) il mediatore media TRA un individuo o una famiglia appartenente ad un gruppo, proveniente da un paesino o una città di una nazione che non è l’Italia2 e un insegnante o un gruppo di insegnanti anche loro appartenenti ad una famiglia, ad un gruppo, provenienti da un paesino o da una città, che hanno un ruolo specifico, una funzione specifica, e che operano in un contesto specifico in un dato momento storico. b) Il mediatore media nel gruppo dei pari TRA allievi autoctoni e alloctoni. c) Il mediatore media TRA genitori autoctoni e alloctoni. d) Il mediatore media TRA le famiglie straniere e il personale non docente della scuola, le famiglie straniere e le istituzioni che sul territorio interagiscono con la scuola. e) Al mediatore nel laboratorio interculturale può anche essere affidato il compito di presentare la sua esperienza di migrazione e il suo paese di origine ad una classe o ad un gruppo di genitori. In questo caso “media” TRA le proprie origini, la propria esperienza migratoria rielaborata nel corso degli anni, e gli autoctoni. 1.2 Criterio n. 2 Il mediatore non prende le parti di nessuno, né può risolvere personalmente problemi che emergono dall’incontro da lui “mediato”. Egli facilita il dialogo tra due parti, salvo contribuire a ridefinire le responsabilità degli interlocutori, in merito alle questioni che si trattano. Egli verifica che non ci siano malintesi legati alla cultura e alla lingua dei partecipanti all’interazione. Se necessario “difende” il bambino immigrato nel senso che esercita la sua funzione di advocacy3. 2 Generalmente provenienti dal suo stesso background linguistico culturale. 3 Si intende per advocacy il prevalere di un atteggiamento di cura e difesa dei diritti dell’immigrato, rispetto ad un atteggiamento di empowerment che insiste piuttosto sul mettere l’immigrato in condizione di difendere da solo i suoi diritti. I due approcci non si escludono ma anzi dovrebbero completarsi e integrarsi.
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Nel caso il mediatore si trovi di fronte a situazioni complesse che richiedono un intervento super partes può farlo presente alle parti e in ultima analisi rivolgersi ad un’autorità superiore, della scuola o del territorio o dell’associazione attraverso la quale è stato contattato. Salvo accordi diversi, presi in situazioni particolari, il mediatore traduce tutto ciò che viene detto, consapevole che omettendo parti di quanto viene detto egli è responsabile di ciò che deriva da tali omissioni. In ogni caso prima di invitare un “mediatore” è bene definire: – Per quale tipo o quali tipi di interazione si ricorre a lui. – Quali tempi si hanno a disposizione per l’intervento. – Da chi e in che modo vengono regolati l’approccio, le modalità e la durata del suo intervento. – Quale ruolo e potere viene riconosciuto al mediatore. – Quali responsabilità vengono attribuite al mediatore. – Chi valuta il suo intervento e sulla base di quali criteri. L’esito del lavoro del mediatore dipende moltissimo dal tipo di rapporto che si instaura con i soggetti per i quali si “facilita” l’incontro. Per quanto riguarda il rapporto con le famiglie immigrate e gli allievi i rischi più frequenti riguardano: – il fatto che il mediatore presuma di poter spiegare ciò che riguarda la famiglia in base alla comune origine, lingua o provenienza, dando l’impressione di non “ascoltare” abbastanza la peculiarità di “quella” famiglia. Ad esempio se il mediatore aggiunge di sua iniziativa dei chiarimenti in italiano alla traduzione, è tenuto a tradurli nella lingua dei suoi connazionali, in modo che i tempi di traduzione non siano evidentemente superiori a quelli di spiegazione da parte dell’interlocutore. Lo stesso dicasi per abbreviazioni laddove si ritiene che un concetto sia stato già espresso. Se queste attenzioni vengono tralasciate, rischia di venir meno la fiducia delle parti nel mediatore; – il fatto che la famiglia si senta troppo esposta a parlare, ad esprimere i propri bisogni di fronte ad un connazionale che ritiene “riuscito e di successo” , dunque superiore di status, quindi forse persona della quale ci si vergogna; – l’antipatia per il mediatore come persona, legata anche a questioni banali quali sensazioni, aspetto, atteggiamento, accento, abbigliamento ecc. rafforzata per contrasto dalla necessità di doversi affidare a lui senza possibilità di scegliere; – le remore a chiedere chiarimenti legate a soggezione o alla poca dimestichezza con conversazioni “tradotte”; Per quanto riguarda il rapporto con gli insegnanti i rischi più frequenti riguardano: – la diffidenza dell’insegnante per una figura professionale poco nota e della quale non si conoscono esattamente le competenze4, e che “forse non sa bene come funziona la scuola”, – la paura di essere giudicato dal mediatore nel suo rapporto con i bambini stranieri, – la frustrazione per il fatto che il mediatore non risolve ogni cosa, 4 Nonostante il citato documento CNEL il profilo professionale può in un certo senso venire ancora considerato in via di definizione, dal momento che non esiste ancora un albo professionale e i mediatori esistenti hanno acquisito nei diversi corsi fino ad oggi frequentati competenze non del tutto equivalenti.
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– la poca dimestichezza con i colloqui “mediati” perché “tradotti”, e quindi le remore a chiedere chiarimenti ulteriori. L’insegnante deve avere fiducia nei mediatori e instaurare laddove possibile un rapporto continuativo con loro, in modo da curare la conoscenza reciproca sia sul piano personale che su quello delle rispettive concezioni educative e possibilmente preparare insieme alcuni momenti del laboratorio interculturale con gli allievi. Il fatto che insegnante e mediatore propongano insieme un’attività o un’unità didattica su un determinato paese, rivolgendosi a tutta la classe, ha valore di per sé, ma serve anche ad evitare che il mediatore venga visto dagli allievi autoctoni come qualcuno che c’è “per gli allievi stranieri”. La presentazione della professione del mediatore nel corso di una riunione di genitori può risultare estremamente utile per affrontare alcune tematiche relative all’interculturalità e alla presenza di allievi stranieri, insieme a tutti i genitori. Se l’incontro è ben preparato, influisce indirettamente in modo positivo anche sul lavoro in classe del mediatore: è verosimile infatti che nelle famiglie si possa discutere sul mediatore una volta che quest’ultimo sia stato presentato sia ai genitori sia ai figli. Le domande che seguono risultano utili per una riflessione degli insegnanti in preparazione ad un intervento del mediatore5: – Cosa mi aspetto dal mediatore? – In che modo penso di accoglierlo? – Quali sono i temi che è necessario discutere prima di accingersi a collaborare nel lavoro con gli allievi? – in che modo intendo presentare il mediatore e le attività da fare insieme ai singoli, alla classe, ai genitori?
Un confronto più approfondito tra insegnanti e mediatori può poi essere incentrato sul concetto di traduzione nei suoi effetti sulla comunicazione. Il confronto si può infatti avviare partendo da una terminologia quotidiana, da uno scambio di idee che parta proprio dal significato che, ognuno nella propria lingua, attribuisce ad alcune parole chiave nell’attività educativa. Per avviare questo confronto mirato intorno al differenziale semantico, si prendano parole quali: Infanzia, famiglia, padre, madre, figli, nonni, educazione, bambino, bambina, gioco, relazione, amicizia, amici, scuola, insegnante, apprendimento, autorità, rispetto, giustizia.
Se in questo tipo di incontro tra insegnante e mediatore viene colto l’aspetto arricchente della necessità di tradurre si inizia ad apprezzare la TRADUZIONE come ciò che crea SPAZIO INTERMEDIO DI APPROSSIMAZIONE tra due SIGNIFICATI 5 Sul mediatore si veda anche l’attività nella sezione II della Parte seconda.
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Sperimentare questo significa potenziare la propria sensibilità al discorso interculturale perché si inizia a cogliere la peculiarità di un lavoro, quello del traduttore, che può arricchire i significati delle parole in entrambe le lingue e ampliare la comunicazione invece che limitarla6. Tradurre è un po’ tradire se non esiste una modalità di dialogo e confronto sulla traduzione. Ma se la traduzione è supportata da curiosità e voglia di capire l’altro, allora si rivela un gioco senza fine, pieno si sorprese e anche di trabocchetti da evitare. Se tra insegnante e mediatore scatta questo meccanismo di collaborazione basato su curiosità e fiducia, certamente anche tutta l’attività del laboratorio interculturale ne verrà arricchita, perché l’insegnante comincerà a porsi in modo diverso rispetto alle “difficoltà” linguistiche degli allievi immigrati. Per quanto riguarda la valutazione della collaborazione con il mediatore è bene scindere gli aspetti riguardanti l’attività con i bambini e quelli più strettamente inerenti alle interazioni con le famiglie. È verosimile che i mediatori mostrino attitudini diverse per compiti diversi. Si può quindi scegliere di collaborare con mediatori diversi a seconda che si tratti di un lavoro con gli adulti o con i bambini. Nelle riunioni con i genitori non è da escludere l’ipotesi di invitare, a spiegare il lavoro che svolge, un mediatore di cultura diversa da quella dei genitori immigrati presenti alla riunione e questo per evitare che qualcuno dei genitori possa temere di essere coinvolto direttamente, in quanto “immigrato DOC”, davanti ad alte persone poco conosciute. Laddove si sceglie di effettuare l’incontro con i genitori invitando un mediatore che ha collaborato per l’inserimento di un determinato bambino, si deve spiegare precedentemente alla famiglia quanto verrà detto e si deve ribadire, in modo molto deciso, che non verrà riferita in pubblico nessuna questione che si riferisca all’intervento svolto. Le domande guida per la valutazione del lavoro con il mediatore possono restare nell’ambito della riflessione dell’insegnante o essere rivolte (selezionandole e adattandole) anche agli allievi e ai genitori a seguito degli incontri. Ne presentiamo alcune generali da integrare poi con domande più mirate relative alla peculiarità dell’intervento svolto. Per valutare gli incontri con il mediatore: – – – – – – –
Cosa mi è piaciuto? Cosa mi ha deluso? Cosa ho imparato? Quale è stato il mio contributo allʼincontro? Cosa rifarei nello stesso modo? Cosa diversamente? In che modo lʼincontro/gli incontri hanno modificato il clima scolastico? Positivamente: in che modo? Negativamente: in che modo? – Quali nuove conoscenze sono state acquisite da adulti e bambini?
6 Per “giocare” su questo tema si veda il testo n. 11 dell’Appendice con le due versioni della poesia di Montale, tradotta “attraverso” varie lingue.
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– In che modo le nuove conoscenze potrebbero essere integrate da approfondimenti nelle diverse materie curricolari? – Ritengo importante discutere la mia valutazione con i colleghi e con i genitori dei bambini?
Le risposte a queste domande e la riflessione sul lavoro del mediatore diventano poi oggetto di discussione con il mediatore stesso prima di progettare un nuovo intervento e contribuiscono ad approfondire il quadro delle potenzialità e dei limiti dell’intervento di mediazione culturale nei contesti educativi7.
2. I genitori I genitori, sia autoctoni che alloctoni, costituiscono degli interlocutori di primo ordine del laboratorio interculturale. Esistono varie possibilità di coinvolgere i genitori: alcune di esse, riguardanti le attività dei bambini, verranno suggerite in seguito nelle pagine di questo libro. Gli insegnanti che credono nell’importanza del laboratorio interculturale devono fare un lavoro di sensibilizzazione nei confronti dei genitori e dedicarsi con particolare cura alla costruzione di relazioni con le famiglie. Senza un rapporto significativo con i genitori e tra i genitori, qualsiasi aspirazione all’interculturalità nella scuola diventa velleitaria e artificiale. Gli insegnanti trovano a volte difficoltà a coinvolgere le famiglie immigrate nella continuità orizzontale, in parte per ragioni oggettive che riguardano il diverso rapporto con l’istituzione scolastica in paesi diversi dall’Italia, in parte per questioni linguistiche, ma soprattutto per il fatto che non credono abbastanza in questa collaborazione e non le dedicano tutto il tempo che essa richiede. Creare un rapporto con le famiglie immigrate è sempre possibile o almeno non è più difficile che crearlo con le altre famiglie: richiede appunto più tempo, ma ciò non basta a far desistere. Indubbiamente la mancanza di disponibilità di tempi lunghi non dipende necessariamente dagli insegnanti e va affrontata in termini organizzativo-strutturali. Per prima cosa per coinvolgere i genitori immigrati nell’idea di un laboratorio interculturale bisogna sfatare un mito falso, ma purtroppo ricorrente, e cioè che i genitori si disinteressano dei figli. Questo mito non ha alcun riscontro nella realtà anzi è vero di solito il contrario, dal momento che quasi tutti gli immigrati con figli affermano di essere partiti per dare un futuro migliore ai propri figli. La scelta migratoria ruota spesso intorno ai figli anche laddove poi finisce per mancare il tempo da dedicare ai figli. 7 Per approfondimenti sulla figura del mediatore culturale:
Castiglioni M.: La mediazione linguistico culturale, Franco Angeli, Milano, 1997; Jabbar A.: La mediazione culturale. Significato, nodi, dilemma, CEM Mondialità, n. 9, novembre 2000, pp. 7-9;Johnson P.:, E. Nigris: le figure della mediazione culturale in contesti educativi, in E. Nigris (a cura di), Educazione interculturale, Bruno Mondadori, 1996. Fiorucci M: Il mediatore culturale, Armando, Roma, 2000; Tarozzi M.: La mediazione educativa. “Mediatori culturali” tra uguaglianza e differenza, Clueb, Bologna, 1998. V. anche www.cnel.it/mediatore
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Il cosiddetto “disinteresse” può invece dipendere da altri fattori quali: – non conoscenza della possibilità di colloquio con gli insegnanti o degli orari previsti per i colloqui; – difficoltà di chiedere permessi nell’orario di lavoro; – timidezza dovuta a varie cause, non ultima la sensazione di conoscere poco la lingua italiana; – il fatto che la suddetta timidezza frena quegli incontri brevi ed informali che all’entrata e all’uscita consentono di chiedere al volo all’insegnante se tutto va bene. Il genitore immigrato risulta più “visibile” nella sua eventuale “assenza” o “silenziosità” ai colloqui e alle riunioni di classe. Specialmente per quanto riguarda il primo colloquio, questo va ottenuto dagli insegnanti prima possibile adattandosi alle esigenze di orario del genitore e dedicando all’incontro molto tempo e calma. Un invito scritto, dando diverse possibilità di orario, può essere compilato anche informalmente con l’aiuto di un disegno del bambino. Quello che potrebbe apparire come una “perdita di tempo” perché può comportare orari scomodi per l’insegnante, fa verosimilmente guadagnare molto tempo in seguito, se l’incontro viene gestito in modo adeguato; e ciò vale sia per il rapporto con le famiglie immigrate sia per quello con le famiglie italiane. Se non è possibile trovare una lingua comune per la comunicazione il genitore potrà venire accompagnato da una persona di sua fiducia che potrà fare da intermediario, al limite dall’allievo stesso. È importante incontrare il genitore prima che ci sia un qualsiasi problema da discutere da una parte o dall’altra, ed è importante chiarire che i colloqui successivi possono essere richiesti da entrambe le parti, spiegando le modalità della richiesta e incoraggiando a chiedere un colloquio per qualsiasi comunicazione, richiesta di chiarimenti o problema dell’allievo. Bisogna anche spiegare che nella scuola italiana si attribuisce un valore alla conoscenza di entrambi i genitori. Quindi al di là della comprensione per le motivazioni culturali che possono portare uno dei due genitori, o tutti e due, a non incontrare gli insegnanti del figlio è bene spiegare ai genitori immigrati che la loro assenza potrebbe venire interpretata come disinteresse e andare quindi a discapito del loro figlio. Se si vuole accogliere l’allievo bisogna accogliere anche i suoi genitori che per primi hanno vissuto verosimilmente, o vivono ancora, un’esperienza di spaesamento. Per molti la scuola rappresenta la prima istituzione italiana con la quale instaurare un rapporto, oltre alla questura e alla ASL. È fondamentale che questo rapporto sia positivo, tanto da smentire precedenti esperienze negative. Accogliere i genitori significa: – Mostrarsi contenti della presenza del loro figlio a scuola. – Manifestare comprensione per la scelta di far venire il figlio “proprio adesso”, anche se dal punto di vista logico si considerasse che si è scelto il “momento sbagliato” (metà anno) per l’inserimento; significa capire che se fino ad oggi i genitori hanno lasciato il figlio con i nonni lo hanno fatto per necessità e per il suo bene, se oggi hanno deciso di portarlo in Italia anche questo lo hanno fatto perché ritenevano che fosse la scelta migliore. – Comunicare l’intenzione di voler collaborare con loro al benessere del loro figlio e chiedere da parte loro un aiuto compatibilmente con gli impegni di lavoro.
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– Mostrare interesse per la storia del bambino e farsela raccontare ascoltando attentamente. – Esprimere il desiderio di conoscere entrambi i genitori ed eventualmente altri membri della famiglia (fratelli, zii o nonni) che verranno a riprendere il bambino. – Far visitare gli spazi scolastici, (aule, palestra, laboratori, mensa, servizi), presentare i colleghi e il personale non docente8. – Spiegare le regole fondamentali della vita scolastica. Illustrare ad esempio le regole riguardanti l’inserimento dei bambini portatori di handicap onde evitare equivoci su comportamenti che in altri paesi non sono considerati compatibili con la vita scolastica. – Rassicurare i genitori circa ansie riguardanti l’apprendimento della lingua italiana: il bambino imparerà, perché tutti imparano: è solo una questione di tempo. E comunque insegnanti e allievi saranno felici di aiutarlo. – Chiedere ai genitori di garantire continuità linguistica al bambino e di sostenerlo nel momento del contatto-impatto con l’italiano continuando a parlargli la lingua che ha sempre parlato: se anche loro si rivolgono al bambino in una lingua diversa da quella a lui familiare il suo disorientamento sarà maggiore. Potranno aiutarlo meglio (se conoscono l’italiano) insegnandogli alcuni vocaboli chiave che ripeteranno nelle due lingue. Laddove possibile stipulare una sorta di patto formativo “Tu lo sostieni nella madrelingua (L1), io, i colleghi e i compagni gli insegnamo l’italiano (L2)”. – Chiedere loro di essere particolarmente incoraggianti con il bambino rispetto all’esperienza scolastica e di facilitare il mantenimento dei rapporti affettivi che il bambino ha vissuto fino a questo momento nel paese di origine (fotografie, lettere, telefonate). – Chiedere se il bambino soffre di allergie o per qualsiasi ragione non può o non deve mangiare determinati cibi. – Per la materna in particolare: la condizione necessaria (e sufficiente nella scuola materna, ma non sempre sufficiente nella scuola elementare o oltre!) perché il bambino vada volentieri a scuola è che i genitori vogliano davvero che ci vada. Che i genitori siano convinti che lì potrà stare bene e imparerà cose nuove. Non bisogna sentirsi in colpa di abbandonarlo né pensare che per questo le mamme saranno meno mamme o i papà meno papà. – Invitare il genitore del nuovo allievo alla prossima riunione dei genitori. – Invitare ai genitori a non esitare a chiedere qualsiasi tipo di chiarimento e assicurare disponibilità a fornire spiegazioni. – Capire quale modello di scuola il genitore si augura trovare per suo figlio e a quali caratteristiche degli insegnanti attribuisce maggiore importanza e valore: in generale e per quel figlio. È fondamentale alla fine di questo incontro sottolineare al genitore come nessuno conosca il bambino meglio di lui e come la scuola abbia bisogno della sua collaborazione e quindi egli sia un interlocutore prezioso per la scuola.
8 Questo è un tipico esempio di come un’accortezza assolutamente indispensabile nei confronti dei genitori immigrati, quale mostrare i locali della scuola, faccia riflettere sull’assurdità che ciò non avvenga necessariamente anche per tutti gli altri genitori. Per i genitori italiani è meno grave perché bene o male trent’anni prima essi una scuola italiana l’hanno frequentata, ma la cosa resta comunque strana.
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Se non si dà tutto il tempo necessario a questo primo incontro il laboratorio interculturale è un inutile vezzo. D’altro canto non bisogna nemmeno pretendere che il genitore risponda a tutte le domande. Lo farà anche nel corso dei colloqui successivi. Successivamente la continuità orizzontale con le famiglie può svilupparsi in vari modi e specificamente rispetto al discorso interculturale si consiglia di: organizzare una riunione con i genitori chiedendo a tutti di presentare il proprio figlio o figlia agli altri9. Si possono poi organizzare degli incontri tematici su temi pertinenti all’educazione dei figli. I temi possono essere indirettamente o direttamente interculturali. Si prenda l’alimentazione, come esempio di un tema che può essere trattato come indirettamente interculturale: cosa mangiano i bambini a casa e a scuola e fuori dai pasti; il fatto di mangiare alla mensa della scuola influenza il modo di mangiare a casa; cosa succede se un bambino non vuole più mangiare quello che preparano i genitori; cosa succede se non mangia più quello che mangiava prima della migrazione; è giusto assecondare i bambini in tutto ciò che vogliono mangiare anche fuori pasto; come si possono aiutare i bambini a mantenere l’igiene dentale a casa e a scuola10. L’alimentazione non è evidentemente un tema interculturale solo indirettamente: lo è anche direttamente a causa dei cibi proibiti e delle indicazioni relative a digiuni, modalità di preparazione dei cibi ecc. Tuttavia è bene sottolineare che in ogni cultura esistono consuetudini. Direttamente interculturali sono gli incontri tematici su un determinato paese o la visione comune di un film che tratta tematiche interculturali. Iniziative direttamente interculturali sono consigliabili laddove si sia già creata una comunicazione positiva tra i genitori. Negli incontri individuali successivi con i genitori di allievi immigrati si possono affrontare alcuni argomenti relativi alla vita della scuola, soprattutto dando particolare spazio alla percezione del clima scolastico, e della relazioni tra compagni che hanno i genitori immigrati. Un capitolo interessante è quello dei rapporti con le altre mamme, rapporti che vanno cautamente e gradualmente incoraggiati, e catalizzati nella misura del possibile, perché contribuiscono ad un inserimento positivo dell’allievo in classe e al suo star bene in generale. Rispetto all’entrare in comunicazione con genitori autoctoni, si può consigliare di osservarli per un po’ in modo da capire con chi potrebbe esserci qualche affinità, spiegando anche che spesso la vita frenetica che si conduce impedisce di entrare in rapporto, ma non per questo bisogna scoraggiarsi e rinunciare. Anche il rapporto con altre mamme immigrate (o papà!) è importante e va incoraggiato spiegando ad esempio che dal confronto su come e quanto la scuola sappia rispondere ai bisogni degli allievi immigrati si può imparare insieme a manifestare le proprie esigenze in generale di genitori ed in particolare di genitori immigrati e identificare le scuole e gli insegnanti migliori in termini di accoglienza interculturale. 9 Funziona benissimo per rompere il ghiaccio tra i genitori (altra necessità per dare concretezza a tutte le possibili attività interculturali). Si chiede ai genitori di fare un disegno del proprio figlio e di descrivere le sue principali caratteristiche. 10 A proposito dell’alimentazione: capita spesso di sentir condannare determinate abitudini alimentari delle famiglie immigrate e di considerarle dannose in assoluto e non relativamente alla cultura italiana. Sarà forse interessante sapere che in Austria capita che le madri immigrate vengano considerate delle madri poco attente alla salute dei figli perché danno loro da mangiare il pane bianco invece che quello integrale, considerato in Austria più sano. In Italia nessuno penserebbe una cosa del genere!!!.
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Una volta raggiunto un rapporto di fiducia reciproca il genitore può essere coinvolto più direttamente nell’allestimento e nell’integrazione di materiali e attività per il laboratorio interculturale secondo le modalità che vedremo nei successivi capitoli. In alcuni casi i genitori immigrati con i quali si è creato un buon rapporto risultano essere dei buoni mediatori per i nuovi arrivati. Bisogna tuttavia essere estremamente cauti nel loro utilizzo, ribadire la necessità di riservatezza che questo compito implica, e, a meno che la situazione non si crei spontaneamente, evitare che “medino” per compagni di classe dei loro figli.
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Parte seconda
Introduzione
Ben inteso il laboratorio interculturale rappresenta una possibilità unitaria di lavorare sulle tematiche rilevanti legate a migrazione, differenza culturale, comunicazione nei contesti educativi. Ciononostante le attività che si propongono sono state organizzate in quattro sezioni ognuna delle quali con un suo orientamento più specifico. La prima sezione è intitolata “Migrazione e spaesamento: il laboratorio dell’accoglienza” e propone attività finalizzate all’inserimento positivo degli allievi immigrati nel gruppo dei pari e alla ricostruzione di una continuità interiore. La seconda sezione è intitolata “Migrazione e diversità visibile: il laboratorio delle competenze”, e verte sull’acquisizione di dimestichezza da parte dei bambini con il concetto di diversità e di capacità di sapersi presentare nonché rendere conto delle propria identità. La terza sezione è intitolata “Migrazione e cultura: laboratorio della conoscenza reciproca” e suggerisce delle modalità per scoprire insieme lingue e mondi diversi anche grazie al coinvolgimento di genitori e mediatori. La quarta sezione è intitolata “Migrazione, appartenenza e futuro: laboratorio come progetto” indica delle possibilità di coinvolgere i bambini in una visione progettuale dell’interculturalità, trasmettendo loro sia fiducia nel nuovo, sia nelle loro capacità di lavorare in modo creativo sulle sfide della multiculturalità.
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SEZIONE I
Migrazione e spaesamento: il laboratorio dell’accoglienza
Come abbiamo visto nel capitolo precedente l’evento migratorio comporta un una situazione di precarietà che si traduce in un’interruzione della continuità di vita dell’individuo immigrato e della sua famiglia. Tale discontinuità comporta un senso di insicurezza tanto per gli adulti che hanno deciso di emigrare, quanto, e molto più, per i minori che verosimilmente non hanno scelto di emigrare, ma hanno subito la decisione dei genitori. La discontinuità che il bambino immigrato vive è soggettiva e non è necessariamente proporzionale alla effettiva precarietà socioeconomica della famiglia: ogni bambino ha delle risorse interiori e delle caratteristiche proprie che gli consentono di reagire a quanto avviene intorno a lui, ogni bambino percepisce ed elabora a suo modo una situazione oggettiva di precarietà e vive a suo modo l’esperienza di discontinuità. Non si può quindi generalizzare ciò che accade ai minori immigrati, pur se esistono delle dinamiche ricorrenti sulle quali intervenire a livello educativo. Lavorare in una prospettiva di accoglienza per i bambini immigrati significa offrire loro delle opportunità di ricostruire i fili di una continuità vitale, tenendo conto che la discontinuità può essere stata vissuta sia in modo problematico, sia in modo sereno. Per tessere i fili della continuità nel panorama delle esperienze del bambino, il rapporto con le famiglie di origine dei bambini risulta di importanza fondamentale, dal momento che i genitori sono gli unici depositari, sia pure a volte inconsapevoli, della storia del proprio figlio e quindi i più attendibili interlocutori per iniziare questo entusiasmante lavoro. Lavorare per il bambino e con il bambino significa lavorare anche insieme ai suoi genitori, rendendoli consapevoli e fieri di quanto essi siano importanti per il bambino. Ciò non è scontato in una situazione nella quale il nuovo paese in cui si vive appare facilmente in modo ambivalente; talvolta sotto una luce molto positiva: qui è tutto meglio che al mio paese; talvolta in una luce troppo negativa: qui è tutto peggio che al mio paese. In una situazione nella quale spesso lo stesso concetto di autorità materna e paterna viene messo in crisi, dal momento che il genitore appare “inesperto” nel nuovo contesto, lavorare con il bambino significa aiutare il genitore a credere nella sua autorità e nella sua capacità di sostenere e aiutare i figli. Lavorare nel senso di ripristinare una continuità significa sostenere il percorso che consente di cominciare a vivere nel presente, integrando i ricordi nel presente e progettando il futuro.
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Per quanto riguarda il bambino è fondamentale, ai fini dell’approccio che qui si intende prospettare, vedere il rapporto tra partenza dal paese di origine e arrivo nel paese di immigrazione come una nuova nascita. Si assume la metafora della nuova nascita per rappresentare l’arrivo in Italia e sempre metaforicamente si assegna al laboratorio interculturale l’importante funzione di incubatore di continuità, vale a dire lo si configura come spazio nel quale si creano le condizioni ottimali perché il bambino trovi un nuovo equilibrio: proprio come nell’incubatrice dopo la nascita. In questo spazio viene garantito calore e sicurezza e viene rassicurato il bambino, consolidando le sue capacità di sopravvivere alla nuova situazione e di trovare le energie per intraprendere poi un cammino verso l’autonomia. Uno spazio protetto, dunque, come luogo di allentamento di tensioni accumulate e come antidoto alla “fretta” di diventare come gli altri. Un fattore importante nell’accoglienza dei bambini immigrati viene costituito infatti dalla possibilità di un rallentamento dei ritmi e di una dilatazione dei tempi, nel senso di dare al bambino la sensazione di avere tutto il tempo necessario ad acclimatarsi, senza ricevere pressioni di sorta. È importante insomma che il bambino venga lasciato in pace e coccolato per tutto il tempo necessario a suscitare in lui fiducia e conseguentemente curiosità per le nuove persone e situazioni che lo circondano. Può essere utile a questo proposito rifarsi al noto concetto winnicottiano di spazio potenziale come chiave interpretativa e operativa di quanto avviene al bambino. La madre ambiente della gravidanza, non cessa di essere tale immediatamente dopo la nascita. Dopo la nascita il bambino è ancora per molto tempo assolutamente dipendente da lei: Winnicott definisce “madre sufficientemente buona” quella madre capace di regredire simbioticamente con il bambino, quella madre che proprio grazie alla nascita del suo bambino, sviluppa la sua potenzialità di capire ed appagare tutti i bisogni del figlio. La madre e il bambino condividono inizialmente uno spazio unico di prossimità, nel quale il bambino non distingue ancora la madre come altro da sé. In questa prossimità si costituisce, quasi misteriosamente, quella fiducia di base, così decisiva per l’esistenza di ogni individuo. Successivamente, una volta che il bambino ha acquisito questa fiducia di base, la madre può tirarsi progressivamente indietro, lasciando che il bambino esplori autonomamente quanto lo circonda e cominci ad avanzare richieste differenziate, alle quali la madre ancora a lungo risponde. Winnicott chiama spazio potenziale quello spazio all’interno del quale si manifestano i bisogni del bambino ai quali la madre risponde istintivamente in una situazione di normalità del rapporto con il bambino1.Questo spazio diventa quindi lo spazio del gioco nel senso di quell’esperienza di fiducia totale che consente al bambino di sperimentare la scoperta dell’ambiente che lo circonda, dapprima identico alla madre, poi, via via, sempre più distinto, e di manifestare delle esigenze, ricevendo risposte adeguate. “Lo spazio potenziale tra madre e bambino, tra il bambino e la famiglia, tra lʼindividuo e la società o il mondo dipende dallʼesperienza che porta alla fiducia. Lo si potrebbe definire sacro perché è qui che lʼindividuo fa esperienza della vita creativa”. 1 Per la citazione nel riquadro v. Winnicot D. W., Gioco e realtà, Armando, Roma, 1996, p. 177. Winnicot chiama infatti quest’area di gioco intermedia “uno spazio potenziale tra la madre e il bambino, o che congiunge la madre e il bambino”, ibid. p. 92.
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La fiducia nell’ambiente, la fiducia di base, è quindi secondo Winnicott la condizione per utilizzare le esperienze in modo creativo e costruttivo e combinarle in modo personale e nuovo. Laddove un brusco cambiamento di luogo ha determinato una discontinuità nella vita del bambino o laddove le differenze tra scuola e famiglia risultano troppo marcate è necessario che questa fiducia primaria in un ambiente nuovo (invece che nella madre-ambiente dopo la nascita) venga ripristinata. Ciò può avvenire solo in un ambiente “sufficientemente buono”. Quest’ambiente potrebbe essere la scuola. Gli insegnanti sono quindi chiamati come singoli e come gruppo a costituire, possibilmente insieme agli altri allievi, un ambiente “sufficientemente buono”. Sono loro a dover in un certo senso regredire empaticamente, per rispondere ai bisogni fondamentali del bambino, quali il bisogno di accoglienza incondizionata, di affetto, di comprensione, di comunicazione. Il bambino deve poter rinascere in una nuova lingua, in un ambiente nuovo per clima, odori, rumori, sapori, suoni e ritmi della lingua. Il bambino deve sentirsi sicuro: sulle prime sarà necessario adoprarsi per rassicurarlo, ma anche rispettare il suo bisogno di ri-orientarsi in solitudine o di apprendere passivamente e silenziosamente la nuova lingua. Come nel rapporto comunicativo tra madre e bambino sono l’intenzione comunicativa della madre e la sua fiducia nelle capacità del bambino a porre le basi per l’apprendimento linguistico e non certo la pretesa della madre di insegnare al bambino singoli vocaboli, così nell’approccio alla seconda lingua, l’intenzione comunicativa dell’insegnante deve situarsi in una dimensione significativa sul piano affettivo e di accettazione. Nessuna madre sufficientemente buona resta muta di fronte al bambino “perché tanto lui non capisce”, o verifica continuamente e severamente il suo apprendimento di singoli vocaboli. Alternando parole e silenzio, la madre lascia al bambino tutto il tempo per cominciare a parlare: lo loda per ogni più piccolo progresso, ma per nessuna ragione lo rimprovera, o lo punisce, se sbaglia. Non si dimentichi inoltre che, sempre secondo Winnicott, tra l’altro, la possibilità di un’esperienza culturale è legata al fatto di avere uno spazio (interiore) dove poter mettere ciò che abbiamo a disposizione: questo spazio interiore è rappresentato inizialmente dal gioco2. Ciò rende ancora più calzante il parallelo tra esperienza culturale e esperienza interculturale: senza sperimentare l’accettazione incondizionata da parte dell’ambiente, senza recuperare il piacere del gioco, senza il riappropriarsi di uno spazio proprio in seguito all’esperienza migratoria, l’acquisizione di una nuova cultura risulta estremamente difficile per il minore immigrato. Il “nuovo spazio potenziale”, che permette al minore immigrato di ricreare una continuità interiore e di acquisire la fiducia di base nel nuovo ambiente, richiede quindi empatia e creazione di legami significativi. L’accoglienza incondizionata passa attraverso sguardi, intonazione della voce, cura del clima generale in classe: clima che deve contribuire a rendere l’ambiente scolastico una sorta di 2 Cfr. anche Winnicott D. W., Dal luogo delle origini, R.Cortina, Milano, 1990, p. 28: “L’esperienza culturale ha inizio con il gioco e conduce a tutto ciò che costituisce il mondo umano, dalle arti ai miti della storia…fino alle istituzioni sociali e alla religione. (….) Ho cercato di analizzare dove si può situare l’esperienza culturale e sono giunto a questa conclusione: essa inizia nell’area potenziale esistente tra il bambino e la madre quando, grazie all’esperienza, il bambino ha sviluppato un elevato grado di fiducia nei confronti della madre, tanto da sentirsi sicuro che ella sarà disponibile quando lui ne avesse improvvisamente bisogno”.
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incubatore di continuità3 per l’allievo straniero, vale a dire un luogo tranquillo in cui i bambini appena arrivati sperimentino serenità, rispetto e fiducia. L’accoglienza in questa ottica passa anche per la messa a disposizione di proposte diversificate, offerte in un’ottica di gratuità e pazienza, vale a dire senza fretta che le proposte vengano colte tutte e subito, senza pensare che l’allievo immigrato le coglierà proprio come noi ci aspettiamo che lo faccia. Sul riconoscimento di questa libertà di reagire in modo personale alla ricchezza delle proposte, si gioca il rinforzo alla soggettività del bambino e l’incoraggiamento ad esprimersi in modo personale al di là di un ruolo predefinito, sulla base di categorie culturali astratte. L’attenta osservazione delle reazioni dell’allievo a quanto avviene intorno a lui, fornisce poi un feed-back prezioso per orientare il lavoro successivo, perfezionando le strategie di inclusione e integrazione nel gruppo. L’insegnante tramite l’osservazione quotidiana gestisce la sua interazione con tutti i bambini dimostrando interessamento e compiacimento per la loro presenza anche laddove “non ci si capisce” sul piano della comunicazione verbale. Nella sua attenzione si concretizza uno specchio che dice al bambino: ci sei e sono contento, così come nella sua distrazione o in interventi non calibrati si riflette un non-esserci, o peggio un essere-di-peso da parte dell’allievo appena arrivato da un altro paese. Queste considerazioni sono imprescindibili per chi si accinge a proporre a dei bambini le attività che seguono. Solo se si condivide questo orientamento tali attività hanno un senso. Il primo esercizio è consigliato agli insegnanti per porsi in una dimensione empatica e di ascolto nei confronti degli allievi immigrati giunti da poco in Italia. Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
È capitato anche a me… Insegnanti. Riflessione individuale e spunto per la riflessione collegiale: come ci si pone di fronte ad un allievo immigrato appena arrivato Carta e penna. Un paio dʼore di tempo, per lavorare individualmente e con i colleghi.
Stimolare lʼattenzione degli insegnanti nei confronti dei meccanismi di esclusione e suscitare lʼempatia degli allievi che ne sono vittime e coltivare le capacità di essere accoglienti. Da soli o con i colleghi si cercano delle riposte alle domande che seguono: • Ti sei mai sentito escluso da un gruppo? In quale situazione? Come ti sei sentito? Come hai reagito? • Quando è stata la prima volta che ti sei sentito “diverso” da altre persone? Quali sono state le tue sensazioni ? • Ricorda una situazione nella quale ti sei sentito diverso e migliore (o più adeguato ad una situazione) e una in cui ti sei sentito diverso e peggiore (o meno adeguato ad una situazione). Confronta le tue sensazioni nellʼuno e nellʼaltro caso. • Da cosa dipende a tuo avviso sentirsi migliori o peggiori degli altri?
3 Il concetto di incubatore di continuità è una metafora mutuata dalle cure neonatali, sviluppata più diffusamente in Aluffi Pentini A., Der interkulturelle Kindergarten als Ort praktizierter Kinderrechte. Das Recht auf Wohlsein, in Eichelberger H., E. Furch, Kulturen, Sprachen, Welten, Wien 1998, e sta ad indicare la messa a disposizione di uno spazio caldo e protetto che dia sicurezza proprio come l’incubatrice aiuta ad equilibrare e consolidare le funzioni vitali del neonato prima che quest’ultimo conquisti la sua primissima autonomia del vivere.
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Esecuzione (segue)
Riflessione Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
• Ti sei mai trovato allʼestero nella situazione di non capire nulla di ciò che uno del luogo ti sta dicendo? Come ti sei sentito? • In cosa è diverso il tuo atteggiamento di fronte alla non comprensione di unʼaltra lingua se ti trovi in Italia o allʼestero? • Nelle situazioni “infelici” di cui sopra, ti è capitato di essere aiutato da qualcuno? Se sì, come? Se no, quale aiuto ti sarebbe piaciuto ricevere e da chi? • Quando sei allʼestero qualcuno parla una lingua che conosci poco, come vorresti che parlasse per facilitare la tua comprensione? Indica almeno sei suggerimenti che daresti al tuo interlocutore per aiutarti a capirlo meglio. • Come pensi di poter aiutare qualcuno che non conosce bene lʼitaliano a capire quando parli? Identificare almeno tre o quattro strategie. • Cosa penseresti se qualcuno storpiasse sistematicamente il tuo nome o addirittura ti chiamasse in un altro modo senza sforzarsi di imparare il tuo nome? Identificare un paio di domande e risposte che sono risultate decisive per la propria riflessione e approfondirle dedicando loro un tempo maggiore. Si consiglia di svolgere lʼattività dapprima individualmente dedicandole almeno mezzʼora di tempo e scrivendo su un foglio di carta tutto ciò che viene in mente in riposta alle domande. In un secondo momento, se si lavora insieme con altri colleghi, si potrà aprire una discussione sulle risposte e condividere le proprie sensazioni e opinioni. Non spostare subito il discorso sugli allievi, ma partire da sé. Evidentemente non si è tenuti a dire tutto ciò che si è scritto, perché si potrebbe non aver voglia di esprimere pubblicamente determinate ricordi o sensazioni. Si possono scegliere alcune domande da sottoporre ai bambini per avviare con loro una analoga riflessione. Cercare con i bambini il significato e lʼetimologia dei termini SIMPATIA, EMPATIA, COMPASSIONE. Come capiamo che qualcuno soffre, sta bene, sta male, lo disturbiamo ecc. e cosa proviamo? Come facciamo capire a qualcuno che soffriamo, gli vogliamo bene, siamo stufi, vogliamo essere amici o ci sta annoiando? Far rispondere i bambini per iscritto o con dei disegni e poi aiutarli in uno scambio di vedute. Dal punto di vista psicologico, quali meccanismi suscitano e sostengono lʼempatia? Ricerca su Internet, o su un dizionario di Psicologia del significato del termine “empatia”.
Mi posso fidare? Tutti i bambini e volendo anche un insegnante a turno (almeno un altro insegnante deve sorvegliare il gioco). Accoglienza. Necessità di creare o rinsaldare rapporti di fiducia nel gruppo.
Una grande sala sgombra e possibilità di costruire un percorso “ad ostacoli” con oggetti vari quali sedie, zaini ecc. Acquisire fiducia nei compagni. Imparare a prendersi cura di qualcuno.
Si tratta di compiere un percorso bendati e guidati per mano da due compagni.
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Esecuzione (segue)
Riflessione Attenzione
Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Riflessione
Si costruisce insieme ai bambini un percorso che passa intorno ad ostacoli, quali sedie, tavoli e che prevede gradini, entrata e uscita da una porta ecc. A turno un bambino viene bendato e due compagni lo conducono per mano per tutto il percorso senza parlare. Il primo bambino verrà guidato dallʼinsegnante in modo da fare vedere come si fa e da far capire bene a tutti la “serietà” del gioco e la responsabilità che comporta. Specialmente nel caso il percorso includa dei gradini, bisognerà trovare il modo di farlo capire al bendato senza parlare o adottando un segnale convenzionale che sia stato ben spiegato a tutti prima. Di tanto in tanto il percorso verrà cambiato affinché il “bambino bendato” di turno, si affidi davvero ai suoi compagni e non alla sua memoria visiva. Il resto del gruppo starà a guardare. Alla fine si discuterà insieme sulle sensazioni provate durante il gioco. Se alcuni bambini si rifiutano categoricamente di partecipare perché il gioco crea loro troppa apprensione non bisogna insistere, e si può cominciare con il chiedere loro di guidare gli altri piuttosto che di farsi bendare. Si può apprendere molto anche guardando gli altri. Ciò vale a maggior ragione per “mosca cieca”, v. variante. Trascorso qualche tempo da questa attività, quando il gruppo si conosce, si può proporre di giocare a mosca cieca, curando lʼaspetto del riconoscimento reciproco tattile e avendo cura anche in questo caso che nessuno si senta a disagio. Si può chiedere ai bambini cosa succederebbe se nel corso di un gioco di questo genere le guide facessero uno “scherzo” al compagno bendato. Cosa avrebbero provato se qualcuno lo avesse fatto mentre erano bendati? Cosa significa un “patto” tra bambini nel gioco o fuori dal gioco? Cosa significa essere leali? Lʼimmagine allo specchio. Bambini. Gruppo che si conosce poco o che ha bisogno di affiatarsi. Attività di psicomotricità disposti a coppie.
Spazi in cui ci si possa muovere agevolmente. Conoscersi e rompere il ghiaccio in gruppi che non si conoscono. Rilassarsi di fronte allʼaltro e ad essere attenti alla mimica del suo viso.
Si dividono i bambini in coppie e si chiede di disporsi uno di fronte allʼaltro. Poi uno dei due comincia a muoversi lentamente in modo che lʼaltro possa imitarlo come fosse uno specchio. Inizialmente vengono fatti solo piccoli movimenti del viso, poi si muove anche la testa, poi anche le braccia e le mani. Dopo qualche minuto se i movimenti sono fluidi, non si distingue più chi si specchia e chi fa da specchio. È bene cambiare ruoli dopo alcuni minuti di gioco, in modo da essere certi che entrambi sperimentino entrambe le sensazioni. Infine si cambiano le coppie e si ricomincia.
Dopo alcuni cambi di coppia si interrompe il gioco e se lo si ritiene utile si chiede ai bambini di dire cosa li ha divertiti, cosa è sembrato buffo o particolare nellʼesperienza.
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Riflessione (segue)
Attenzione a Varianti
BENVENUTI FAILTE SHALOM BOAS-VINDAS HUAN YÍNG BIENVENUS
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Riflessione
La riflessione non è la cosa più importante. È importante semplicemente che i bambini si siano divertiti e che lʼatmosfera tra loro sia diventata più calorosa. È importante anche che i bambini prendano confidenza con le espressioni e smorfie del viso dei compagni. È utile che gli adulti mostrino ai bambini come fare e che possibilmente anche gli adulti si lascino coinvolgere dal gioco.
Successivamente si propone di imitare il modo di camminare. Il pappagallo o lʼeco: si propone lo stesso gioco, ma facendo “rispecchiare” tra bambini anche suoni e parole. In coppia: uno fa un suono e lʼaltro lo ripete, poi si passa a parole buffe o difficili, o allʼimitazione dellʼintonazione in semplici frasi.
WELCOME MURAHHÀB VÍTAME VÁS WITAMY BIENVENIDOS
˘ DOBRO DOSLI MALIGAYANG PAG DATING I MIRËSEARDHUR HOSGELDINIZ WILLKOMMEN
Benvenuti! I gruppi o le classi. Inizio anno. Arriva un nuovo compagno o dei nuovi compagni.
Fogli, colori, materiale per collage, pezzi di stoffa ecc. Rendere tutti responsabili dellʼaccoglienza di qualcuno in particolare o dellʼaccoglienza reciproca.
Si proclama la giornata dellʼaccoglienza e ogni bambino deve trovare il modo di dare il benvenuto agli ultimi arrivati, o a tutti se la classe si è appena formata, preparando un disegno o un altro regalino. Il “regalo” può consistere anche in una scenetta mimata. I bambini possono lavorare in piccoli gruppi, inventando insieme dei modi per dare il benvenuto. A loro volta i bambini appena arrivati possono lavorare sul tema dellʼarrivo in nuovo posto. Possibilmente insieme ad un paio di compagni possono preparare una scenetta che rappresenti come hanno vissuto il loro arrivo a scuola ovvero che “scimmiotti“ i compagni e gli insegnanti, o descriva lʼambiente. Si potrà cercare il modo di sottolineare lʼappartenenza del bambino al gruppo classe grazie ad un qualche cerimoniale di accoglienza o di iniziazione che può consistere nel dare solennità al fatto che al bambino venga consegnato il grembiule uguale a quello degli altri, o la foto di classe, o venga appesa la sua foto con il suo nome accanto a quello degli altri, o venga fatta una nuova foto insieme. Lungi dallʼincoraggiare buonismi o ipocrisie si incoraggiano semplicemente i bambini a dare segnali positivi di apertura alla conoscenza e allʼinclusione nel gruppo di… un altro bambino (non di un bambino “altro”!).
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Attenzione a Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Riflessione
Il benvenuto deve avvenire con grande delicatezza, senza frastuono e verificando che il messaggio di benvenuto non si traduca in una sorta di invasione degli spazi del nuovo arrivato per altro verosimilmente intimidito. Collegato a questa attività può si può realizzare un cartellone dove scrivere “BENVENUTO” in tutte le lingue (v. riquadro) che si conoscono. Si può cominciare a chiedere da subito aiuto a tutti i genitori che conoscono lingue diverse dallʼitaliano, lasciando spazio per arricchire il cartellone nel corso dellʼanno. Come tradizione della classe si può decidere di darsi il benvenuto ogni mattina in una lingua diversa, oppure inventare un altro rituale, condivisibile da tutti. Come si fanno dei gesti di benvenuto; come li facciamo noi, come li fanno le maestre e come li fanno i genitori; come vengono fatti nei film o nella pubblicità. Cosa significa accogliere? E sentirsi accolti? Due testi sullʼarrivo in classe di nuovi compagni e … • Bertelle N., M.L. Giraldo, Un nuovo amico di Anna, San Paolo Junior, Roma, 2001. Un bambino africano arriva nella classe di Anna. • Härtling P., Piccolo amore, Nuove Edizioni Romane, Roma,1993. Anna arriva in classe dalla Polonia e Bruno… Tra i vari temi, quello di una bambina che si ambienta in una nuova classe. • Orlev U., Lʼaggiustasogni, Feltrinelli, Milano. • Dische I. Le lettere del sabato, Feltrinelli, Milano. Cambiare paese non è semplice, ma a volte qualcuno o qualcosa ci aiuta. Ci sono anche io! Bambini di tutte le età. Una classe o un gruppo di bambini che si costituisce o dove si inseriscono nuovi arrivati.
Macchina fotografica, possibilmente polaroid o digitale, videocamera, eventualmente web cam e computer. Colla, forbici e un cartellone, soprattutto per la variante. Esserci tutti !!! Includere tutti i bambini nellʼimmagine che il gruppo ha di sé. A seconda dellʼetà dei bambini gli insegnanti possono decidere se lasciar fotografare e/o riprendere i bambini o farlo loro. Tutti i bambini devono essere fotografati – si può farlo vicendevolmente a coppie. Una volta che si hanno le foto si scelgono le migliori e si appendono alle pareti, oppure si inventa una storia a partire dalle immagini dei “protagonisti”. Oppure si ritagliano i volti e si disegnano i corpi dei personaggi. Per quanto riguarda le riprese con la telecamera è preferibile farle nel corso di unʼattività, meglio se di teatro o durante il gioco a ricreazione. Per bambini che vivono nel mondo delle immagini, il concetto “mi vedo quindi ci sono”, costituisce una prima tappa importante della sensazione di stare in un gruppo. Fotografia e videocamera costituiscono per i bambini uno strumento immediato di inclusione, un modo per convincersi VEDENDOSI con
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Riflessione (segue) Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
gli altri di esserci, di essere arrivati, di essere forse un poʼ spaesati ma ESSERCI. Evidentemente non è tutto e la mera presenza deve man mano arricchirsi di senso. Non si tratta in prima istanza di un laboratorio di fotografia o cinema, e lʼattività serve a dare visibilità a tutti. Le foto o le riprese devono dare la possibilità a tutti di riconoscervisi. Tuttavia se si crea confusione e lʼattività stessa crea affiatamento nel gruppo, anche foto mal riuscite, ricordando ciò che si è fatto insieme, influiranno positivamente sul clima in classe. La foto informale di gruppo è anchʼessa importante. Si può poi chiedere ai bambini di aggiungere ad ognuno un fumetto di ciò che pensa, oppure di immaginare cosa sta pensando il compagno. La foto di gruppo può anche essere costruita con foto individuali, sagomate e disposte in modo creativo a collage, ricavando così unʼimmagine di un gruppo nel quale ognuno ha maggiore spazio di personalizzazione. Per gli insegnanti: cosa provo quando in un gruppo ho la sensazione che potrei anche non esserci e nessuno se ne accorgerebbe?
Attività
Le “icone”
Destinatari Contesto/Situazione Obiettivo
I bambini. Esercizi di comunicazione attraverso icone e immagini stilizzate. Analisi e produzione di simboli per la comunicazione iconica. Decifrare insieme i segni convenzionali che ci circondano e trovarne di nuovi.
Esecuzione
Si mostrano ai bambini i riquadri con i simboli e si chiede loro cosa significano, se sono chiari o no. Si spiega che sono presi da una scatola di imballaggio e si fa notare che i simboli forniscono tutti insieme un messaggio, e che si rinforzano tra di loro. Si chiede poi ai bambini di cercare altri simboli tra gli oggetti che li circondano (etichette, indicazioni di lavaggio, istruzioni, segnaletica, icone computer ecc.…). Una volta raccolto il materiale si chiede ai bambini di tradurre i simboli in parole e successivamente in frasi.
Attività Destinatari Contesto/Situazione
Rido, sorrido, mi arrabbio! Tutti i bambini. Attività di analisi della comunicazione non verbale e costruzione di un “vocabolario” degli stati dʼanimo.
Materiali Obiettivo Esecuzione
Riviste da ritagliare e cartelloni, Internet. Per le varianti: TV e videoregistratore, computer, web cam.
Abituare i bambini a capire gli stati dʼanimo altrui, attraverso lʼanalisi (e la critica) di volti della pubblicità e delle riviste. Si chiede ai bambini di lavorare in gruppi assegnando ad ogni gruppo un particolare stato dʼanimo da ricercare nei volti fotografati nei giornali e nelle riviste (pubblicità, cronaca, mondo dello spettacolo ecc.). Esempi di stati dʼanimo: Allegria, Tristezza, Paura, Solitudine, Amicizia, Golosità, Fretta ecc.
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Riflessione Attenzione a
Varianti Approfondimenti
Un passo successivo è distinguere la decodifica del messaggio dalla propria modalità di espressione, del sentimento che lʼimmagine individuata vuole significare. Verificare che tutti contribuiscano con almeno unʼimmagine e che allʼinterno del gruppo si avvii una comunicazione che coinvolga tutti. Bisogna spiegare che se lʼobiettivo del gioco consiste nello sviluppare una certa attenzione alle espressioni altrui, il gioco stesso deve rappresentare una possibilità di espressione per tutti. La rabbia e il disagio sono sentimenti che richiedono attenzione particolare: spesso è proprio lʼespressione di questi sentimenti negativi che viene preclusa ai bambini immigrati, data la pressione allʼadattamento che avvertono sia pure implicitamente. Quindi ATTENZIONE, questa attività può essere utile… La stessa attività può essere svolta chiedendo ai bambini di raccogliere delle immagini televisive a casa (magari in due o tre) con lʼaiuto dei genitori oppure a scuola tutti insieme, se a casa non è possibile. Una volta consolidata una competenza di “lettura” e “decodifica” di sentimenti si può passare a lavorare sui modi personali di esprimere i sentimenti e quindi alla creazione e costruzione di messaggi da parte degli allievi con lʼaiuto degli insegnanti Rappresentazioni delle proprie modalità di espressione di sentimenti grazie a videocamera e macchina fotografica e web cam.
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(adattato da Pomme dʼapi, maggio 1997)
1. Osservare per capire Un punto importante sul quale gli insegnanti devono soffermarsi, e che può essere assunto come punto di partenza per il lavoro di accoglienza quando ci si trova di fronte ad un bambino straniero appena arrivato in Italia, è che questo bambino fino a prova contraria è un bambino normalissimo (è intelligente, ci vede, ci sente, sa parlare, ama giocare e divertirsi), ma è semplicemente un po’ spaesato. Questa affermazione potrebbe sembrare banale o addirittura ridicola, se non fosse che in molte situazioni invece la non conoscenza della lingua italiana da parte del bambino straniero preclude possibilità di comunicazione verbale e rischia in alcuni casi di precludere anche la comunicazione del bambino con gli adulti e con i pari. Il bambino che non parla e che si astrae da ciò che gli accade intorno suscita a volte sospetto e diffidenza indipendentemente dalle evidenti ragioni di tale silenzio. Per questo è bene che gli insegnanti abbiano sempre presenti queste ragioni e se necessario si aiutino vicendevolmente ad analizzarle, capirle e a ricordarle. Così ad esempio non per tutti gli insegnanti è chiaro che una valutazione delle competenze del bambino straniero nel primo periodo di arrivo in Italia, oltre a non essere utile per ricavare informazioni obiettive sul grado di scolarizzazione e alfabetizzazione del bambino, mette il bambino nella situazione di chi viene giudicato e valutato proprio in un momento di massima debolezza.
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L’atteggiamento di valutazione delle competenze andrebbe quindi assolutamente sospeso in un primo momento non perché il bambino non sappia fare nulla bensì: a) perché se il bambino non parla italiano e l’insegnante non parla la sua lingua l’insegnante non è in grado di dare una valutazione sensata; b) perché anche in presenza di un mediatore culturale, certamente il bambino che non si è ambientato non può essere valutato in modo puntuale4. L’atteggiamento più idoneo da assumere da parte dell’insegnante è quello di osservatore silenzioso e rispettoso che accetta di familiarizzare con il bambino con le stesse modalità con le quali il bambino prende confidenza con la realtà che lo circonda, vale a dire osservando. Il gioco dei primi giorni è un gioco di sguardi e gli sguardi, lo sappiamo bene, possono essere inquisitori o rassicuranti, giudicanti o accettanti. Osservare il bambino e in particolare osservare in che modo il bambino osserva ciò che lo circonda fornisce all’insegnante molte informazioni sul suo stato d’animo: un bambino che non osa osservare o lo fa quasi di nascosto sperando di non essere visto, è un bambino intimidito che va messo a suo agio e rassicurato, ma a volte anche lasciato libero di star solo e in silenzio. Un bambino curioso e attivo è un bambino che ha acquisito sicurezza; un bambino distratto e discontinuo rischia facilmente di isolarsi, un bambino chiassoso e in moto perpetuo è un bambino che ha bisogno di essere contenuto e tranquillizzato. Un bambino lasciato sia pure “casualmente” solo in banco e in ultima fila (succede, “casualmente” appunto!) non si sente certo accolto. L’insegnante osserverà quindi il bambino specialmente riguardo ai punti che seguono: cosa lo diverte? cosa lo tranquillizza? cosa lo mette in ansia? cosa lo spaventa? cosa lo annoia? cosa lo inreressa? con quali bambini si trova meglio? quali immagini, giochi, libri e testi lo attraggono?
2. Accoglienza e linguaggio Bisogna affrontare l’incontro con un bambino immigrato arrivato da poco in Italia e la sua accoglienza da un lato con l’assoluta certezza che il bambino imparerà certamente prestissimo l’italiano, ma dall’altro comportandosi nel quotidiano consapevoli del fatto che nel frattempo è necessario scoprire dei modi alternativi per comunicare con lui, e lasciargli il tempo di imparare, secondo i suoi ritmi. Questa riflessione una volta fatta propria da parte dell’insegnante va condivisa con gli altri allievi. Va cioè spiegato agli altri allievi che la situazione del nuovo arrivato non ha nulla di 4 Ciò non vale evidentemente per tutti i bambini, così come ci possono essere bambini che rifiutano la mediazione di qualsiasi tipo perché sentono che questo è l’unico modo di essere “come gli altri”.
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strano e che molto presto, come tutti gli altri che prima di lui sono stati nella stessa situazione, il bambino imparerà a parlare l’italiano5. Ciò potrà avvenire con minore o maggiore difficoltà, con più o meno sofferenza, a seconda dell’atteggiamento di coloro che lo circondano. A questo livello il gruppo classe può avere una funzione determinante di mediazione tra l’adulto e il nuovo arrivato se adeguatamente sensibilizzato. Si tratta di avviare delle dinamiche che somiglino a quelle dei fratelli grandi che spiegano ai genitori cosa dice il piccolino, nel senso che la comunanza trasversale dell’essere tutti bambini o tutti adolescenti, va ad assumere il significato di un noi e un voi non necessariamente basato sulla lingua e sulla cultura definita dagli adulti, ma sull’età, sul fatto di essere tutti bambini, su una cultura trasversale, di bambini, con le sue potenzialità. Per far passare questo tipo di consapevolezza possono essere proposte attività quali “i vari modi di dividere una torta”6 o comunque attività che facciano ragionare sui processi di inclusione o di esclusione da un gruppo e sul fatto che ogni bambino appartiene a molti gruppi. Infine, dal punto di vista dei linguaggi, uno spazio a parte va dedicato, secondo modalità che variano a seconda delle situazioni, all’avventura della traduzione. La traduzione è uno strumento per eccellenza della conoscenza interculturale troppo spesso sottovalutato per il fatto che si ritiene sia necessario conoscere alla perfezione due lingue per poter tradurre, e si evita quindi di addentrarsi in un terreno poco sicuro. In effetti è così: per tradurre bene bisogna conoscere bene due lingue. Ma non è solo così. Tutto è relativo ed è molto importante volersi capire, voler comunicare. Infatti la consapevolezza di non saper tradurre non vieta di cercare di avvicinarsi al concetto di traduzione e avvicinare i bambini ad esso, grazie a delle attività ludiche che riguardano i “nomi delle cose” in varie lingue. In particolare prendendo spunto dalla presenza dei bambini stranieri nelle classi si può presentare ai bambini l’attività di traduzione seguendo un percorso che va dall’osservazione finalizzata alla ripetizione, alle “parole ponte”, cercando di sottolineare che in ogni attività ognuno ha un ruolo e dà il suo contributo, con creatività e fantasia, all’instaurarsi della comunicazione, qualunque essa sia. Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo
Chi dirige? Bambini che parlano lingue diverse. Necessità di sperimentare una comunicazione senza parole. Voce, corpo, e strumenti musicali rudimentali, un cappello o un fazzoletto. Far comunicare i bambini senza parole. Dare il potere di condurre il gioco anche a chi non conosce la lingua italiana e quindi rischia di venire escluso dalla conversazione.
5 Attenzione a non fare generalizzazioni improprie: una ragazzina italiana di prima media mi ha raccontato che la professores-
sa aveva presentato alla classe una compagna marocchina dicendo che avrebbe imparato presto l’italiano “proprio come suo fratello”, allievo della stessa professoressa nel ciclo precedente. Entrambe le bambine, l’alloctona e l’autoctona, erano state colpite dalla affermazione. L’italiana perché, a differenza della professoressa, si era accorta che la sua compagna l’italiano lo parlava già, e considerava quindi inutile e ingiusto averla “messa in mezzo” senza ragione, e la marocchina che, per ragioni che si immaginano facilmente, si era messa a piangere: veniva definita senza essere conosciuta e riconosciuta. Le sue competenze venivano ignorate. Bisogna tener presente che l’ingiustizia in un caso del genere è difficilmente confutabile da entrambe le bambine: la marocchina con troppo poco potere per difendere se stessa, l’italiana con troppo poco potere per difendere l’amica. 6 (v. sezione II)
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Esecuzione
Riflessione Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo
Esecuzione
Viene designato un capo, identificabile per il cappello o per i fazzoletto, che compie gesti e/o emette suoni che gli altri devono imitare. I bambini devono guardare attentamente il capo gioco e ripetere ciò che fa. Il capo gioco non deve parlare, ma semplicemente usare la fantasia e inventare. Lʼinsegnante o uno dei bambini si incarica di scandire il cambio. Al cambio il capogioco passa il suo distintivo (cappello, fazzoletto o altro) ad uno dei compagni, che continua. Lʼattività serve a trovare uno spazio minimo di comunicazione tra tutti i bambini e agli insegnanti per rendersi conto di come la classe e i singoli riescono o non riescono ad entrare in relazione. Tutti devono avere almeno un turno. Gli intervalli di tempo devono consentire ai capi gioco di proporre almeno quattro sequenze, ma il ritmo deve essere serrato e quindi se il gioco langue, meglio far cambiare più spesso. Il cambio può essere fatto chiamando per nome i compagni, o utilizzando i numeri e quindi slogan tipo “tre chiama quattro”. Si crea una piccola “orchestra” chiedendo ad ognuno (o a piccoli gruppi) di scegliere un verso o un suono (anche con uno strumento musicale), una parola inventata o una parola in unʼaltra lingua. Il direttore dʼorchestra coordina la performance del gruppo, facendo cenno a chi vuole (singoli o gruppetti) di produrre il gesto, il suono, il verso, o la parola, inventata o di unʼaltra lingua ecc. Il vecchio “gioco del silenzio” può avere una funzione importante di coinvolgimento e di avvio della comunicazione. Provare per credere!! Il potere dei gesti: con lʼinsegnante di musica si approfondisce il mestiere del direttore dʼorchestra, mettendo anche in evidenza lʼimportanza di tutti i membri dellʼorchestra.
Lʼinterprete del giorno. Tutti i bambini. Classi o gruppi nei quali arrivano uno o più bambini che non conoscono lʼitaliano.
Materiali di recupero per la seconda variante. Potenziare le capacità di tutti i bambini di mediare significati, di tradurre dalla lingua parlata a quella silenziosa e viceversa, utilizzando smorfie, gesti, rumori, mimica. Incoraggiare la comunicazione non verbale tra tutti i bambini e far capire il suo valore. Creare una tensione di competizione positiva al coinvolgimento dei nuovi compagni invece che alla loro esclusione. Dapprima si fanno esercitare i bambini in gruppo. Si dividono i bambini in due gruppi. Un gruppo “parla”, poi si interrompe e lʼaltro gruppo deve mimare la frase. Poi si fa a cambio. Successivamente un gruppo mima una frase e lʼaltro deve tradurla in parole. Poi si fa a cambio. Una volta sperimentata questo tipo di “traduzione”, si spiega che a turno ogni bambino viene nominato lʼinterprete della giornata, e cioè che in quella giornata è lui ad “inter-mediare” in senso lato (la vera traduzione non è possibile il più delle volte) per il compagno appena arrivato, le cose fondamentali che accadono, vengono dette, si decidono in classe.
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Esecuzione (segue) Riflessione
Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Quando tutti hanno avuto il ruolo di interprete si vota il migliore redigendo poi una classifica dei partecipanti al gioco. Dopo uno o due turni ci si scambiano le impressioni rispetto al gioco. Si riflette insieme sulle doti dellʼ“interprete” più bravo e su quali elementi influiscono positivamente sulla comunicazione. Si risponde alle domande che seguono: cosa avete provato facendo questo “gioco”, quando non riuscivate a spiegarvi, a farvi capire e cosa quando la comunicazione funzionava? Come è cambiato il vostro rapporto con le persone che non parlano la vostra stessa lingua dopo aver fatto questo gioco? Lʼavvio della collaborazione con il nuovo compagno va seguita con attenzione dallʼinsegnante onde evitare che si creino delle tensioni, anche perché se è vero che non si può pretendere che sia sempre lo stesso bambino a fare da interprete, è vero anche che non è semplice per il bambino straniero cambiare interprete ogni volta. Il gioco attraverso i turni deve contribuire a responsabilizzare, in allegria, tutti i bambini sul tema dellʼattenzione alla comunicazione con i compagni che “non capiscono”, ovvero che noi non capiamo. Nelle votazioni del migliore si può attribuire un punteggio maggiore al giudizio espresso dal diretto interessato (il bambino straniero) rispetto allo svolgimento del compito di “interpreti” da parte di compagni. Ad esempio il voto del bambino straniero varrà cinque punti e quello degli altri compagni uno, perché la centralità e la priorità della sua esigenza risultino chiare a tutti. Volendo si può inizialmente simulare una traduzione in conferenza costruendo delle “cuffie” e dei “microfoni”, come se ci si trovasse in una conferenza come interpreti. Si spiega quindi ai bambini cosa fa lʼinterprete in una conferenza o in un gruppo. Nella lezione di lingua straniera si continuerà la riflessione con i bambini sul divertimento, la difficoltà e la responsabilità di fare lʼinterprete.
Parole ponte. Bambini e adulti. Laboratorio interculturale nelle ore di italiano o di altra lingua. Adatto anche ad un gruppo di bambini dellʼextrascuola.
Un grande foglio da appendere alla parete. Colori. Alcune piccole sagome di cartone a forma di mattone. Cartoncini colorati per fare tutti i mattoncini che servono. Introdurre il concetto di traduzione sia dal punto di vista tecnico che per le sue implicazioni psicologiche ed esistenziali.
Lʼinsegnante spiega ai bambini lʼattività disegnando alla lavagna un fiume che scorre tra due sponde. Si sottolinea che le due sponde sono le due lingue: in mezzo un ruscello dʼacqua, lo spazio intermedio tra le due lingue dove ci si può incontrare anche senza capire, quando il tempo è bello cʼè il sole e lʼacqua è calda: semplicemente ci si tuffa e si sguazza. I bambini piccoli farebbero così sempre, ma gli adulti hanno bisogno di ponti, anche perché può far freddo, si può aver fretta e si vuole attraversare il ruscello senza bagnarsi. E poi noi siamo tutti più abituati alla terra ferma che allʼacqua e allora…
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Esecuzione (segue)
Riflessione
Attenzione a Varianti
Allora piano piano si può cominciare a costruire tranquillamente un ponte, un ponte fatto di parole-mattone o parole ponte. Ai bambini viene poi dato lʼincarico di fare il disegno sul foglio grande (o di colorarlo a seconda dellʼetà). Si scrive il nome delle due lingue sulle sponde e si illustra anche il progetto della costruzione del ponte, precisando che questa avverrà poco a poco e che si porrà un mattone per ogni parola appresa nelle due lingue. Con lʼaiuto delle sagome si ritaglieranno tanti mattoni sul cartoncino, in modo da disporre di una riserva di mattoni vuoti. Sui mattoncini si scriveranno mano a mano le parole in due lingue, per costruire il ponte. Il ruscello dovrà essere abbastanza largo, in modo che la distanza tra una sponda e lʼaltra sia almeno di una decina di mattoncini. Evidentemente il ponte potrà essere più o meno solido e quindi prevedere diversi strati di mattoncini. In una successiva giornata ai bambini verrà chiesto di decidere i primi mattoncini fondamentali spiegando che successivamente si arricchirà gradualmente il ponte. E nei giorni ancora successivi si costruirà mano a mano il ponte, aggiungendo parole nuove.
Questa attività può essere utilizzata per spiegare ai bambini il concetto di traduzione. E spiegare anche che si può comunicare senza parole, nellʼacqua che bagna le due rive, ma che costruire un ponte non esclude la prima esperienza e anzi può avvenire di pari passo. Un poʼ si fa il bagno e un poʼ si costruisce il ponte. È importante che i bambini capiscano che in ultima analisi chi diventerà il più esperto utilizzatore del ponte sarà il bambino immigrato, ma che tutti avranno contribuito a costruire il ponte. Alcuni mattoncini uguali a quelli del ponte possono essere attaccati agli oggetti presenti in classe, per indicare il loro nome. Questa attività può essere ripetuta per lo studio della lingua straniera. I mattoncini del ponte possono contenere anche parole in più lingue e in questo caso il ponte verrà costruito alla confluenza di più fiumi. Collegata allʼattività della costruzione del ponte e con lʼaiuto dellʼinsegnante di educazione musicale, si “musicano” alcune parole-chiave. Si scelgono un paio di parole e si ripetono dapprima molto lentamente sillabandole e poi adattandole ad una musichetta che ogni bambino sceglie. Volendo alla musica si può aggiungere un mimo. Il gioco può essere svolto molto brevemente, ma con regolarità ogni giorno, in modo da ampliare il vocabolario, oppure si può dedicarsi al gioco in modo più intensivo e dando molto spazio alla ripetizione di suoni e gesti, muovendosi liberamente.
Approfondimenti
Ai bambini si consiglia la lettura del testo: • Papà e i bagni di lingue, M.A. Murail, Ed. Elle, Trieste, 1993. Per la costruzione del ponte e per il reperimento delle parole si può utilizzare, oltre ai vari dizionari, il sito: www.logos.it Si tratta di un database per la traduzione online. Dà la possibilità di tradurre semplici frasi in molte lingue. Contiene un dizionario per bambini.
Attività Destinatari Contesto/Situazione
Parole ponte 2. Genitori – Insegnanti. Colloqui genitori-insegnanti, eventualmente con lʼaiuto del mediatore.
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Materiali Obiettivo Esecuzione
Riflessione Attenzione a
Varianti Approfondimenti
Scheda prestampata con parole chiave generiche, indispensabili per la comunicazione minime nella vita quotidiana di tutti i bambini. Nelle schede spazi vuoti per parole chiave della vita di QUEL bambino specifico. Garantire a tutti i bambini che non conoscono lʼitaliano di esprimere esigenze e sentimenti di base, quali ad esempio sete, fame, malessere, paura, rabbia, necessità di andare in bagno, non comprensione di ciò che accade. Alla precedente attività può essere affiancato un ulteriore strumento per la comunicazione con il bambino immigrato vale a dire la compilazione insieme ai genitori del bambino (o ad un mediatore) di PAROLE PONTE per i primi tempi, vale a dire una serie di parole che servono al bambino per poter fare delle richieste fondamentali e una comunicazione essenziale sui propri stati dʼanimo. La compilazione di una scheda di questo tipo può avvenire nel primissimo colloquio con i genitori, e le schede possono andare ad arricchire progressivamente i materiali del laboratorio, anche se è consigliabile rivedere le schede con ogni genitore per essere certi che i termini siano familiari al bambino anche nella pronuncia che verosimilmente sarà stata annotata accanto alla parola straniera. Gli insegnanti annoteranno le impressioni riguardanti questo incontro con i genitori, al fine di migliorare sia le successive interazioni con quella determinata famiglia, sia con altre famiglie. Inserire in questi glossarietti anche termini che esprimono malcontento rabbia e disappunto, spiegando ai genitori che è indispensabile in un contesto nel quale tutti i bambini hanno la possibilità di farlo, che anche il loro figlio possa esprimere il suo malcontento e sottolineando che non per questo verrà mal visto dalle maestre o dai compagni. I bambini, tutti insieme, potranno illustrare i glossarietti. Per gli insegnanti si consiglia la lettura o rilettura di: • La lingua salvata, E. Canetti, Bompiani, Milano, 1999. • Lessico famigliare, N. Ginzburg, Einaudi, Torino, 1963. • Sempre nel posto sbagliato, E. W. Said, Feltrinelli, Milano, 1999 (v. appendice testo n. 2)
Consigli… Per l’apprendimento dell’italiano come L2 si veda la collana HIBISCUS, in www.vanninieditrice.it/libri/libri.htm Per l’accoglienza a scuola di bambini e genitori: I Quaderni di Intermundia, CIDI, Roma. V. anche www.cidi.it/dipscuola.
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SEZIONE II
Migrazione e diversità visibile: il laboratorio delle competenze
Il concetto di “diversità visibile” è stato introdotto nel primo capitolo. Si tratta di un concetto importante per quanto riguarda l’intercultura soprattutto relativamente all’inserimento dei minori immigrati nei contesti educativi e nella società. Si tratta altresì di un fattore degno di attenzione da parte degli insegnanti e degli educatori per lavorare nella direzione dell’insegnare a tutti i bambini a “star bene” insieme. Si intende contribuire a preparare gli insegnanti a riflettere sul tema della “diversità visibile”, per aiutare meglio tutti i bambini ad acquisire le competenze necessarie a “presentarsi”, vale a dire a rendere ragione della propria identità, individuando quegli elementi, tra i quali l’aspetto fisico e le somiglianze, che influiscono sull’identità etnica, intesa come appartenenza ad uno o più gruppi1. Nell’impossibilità di stabilire fino a quale generazione successiva all’evento migratorio si possa parlare di minori immigrati, è innegabile che il colore della pelle rappresenta un elemento di “diversità persistente” che continua a caratterizzare in modo peculiare i processi di identificazione del singolo con uno o con più gruppi sociali. E questo sia in termini di autopercezione che di percezione degli altri. Laddove bambini e giovani si trovano a trascorrere del tempo insieme, il tema dell’identità e della percezione di se stessi è un tema particolarmente delicato perché i soggetti in questione oscillano spesso tra l’ostentazione di una totale indifferenza all’aspetto dei coetanei, quasi una colour blindness2, e invece il sottolineare le differenze, anche le minime, per escludere qualcuno o discriminarlo. Essere considerati tutti uguali è importante per i bambini, come del resto per tutti, quanto sapere di essere riconosciuti per la propria unicità. La sfida dell’educazione interculturale sta proprio nel riuscire a mantenere questo equilibrio. Il discorso del colore della pelle non è quindi certamente l’unico al quale prestare attenzione osservando le dinamiche di un gruppo nella scuola e nell’extrascuola. Si ritiene tuttavia che 1 Si prenda come punto di riferimento per il concetto di identità etnica la definizione che segue: “L’identità etnica è quella parte del concetto di sé individuale che deriva dalla propria conoscenza della propria appartenenza a un gruppo sociale (o a più gruppi sociali) e dei valori e del significato emotivo che questa appartenenza comporta” in Tajfel H., Gruppi umani e categorie sociali, Il Mulino, Bologna, 1985. La scuola è per i bambini uno dei luoghi più idonei per lavorare sul significato emotivo delle diverse appartenenze. 2 Cecità rispetto al colore. Non far caso al colore.
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alcune attività del laboratorio interculturale possano riguardare il tema delle differenze tra persone e gruppi e che possano aiutare gli insegnanti ad evitare atteggiamenti spiacevoli tra i bambini, che si traducono in situazioni dolorose o drammatiche, per i più deboli attori della convivenza tra bambini, o a cogliere segnali si richiesta di aiuto che, spesso silenziosamente, si levano da parte dei soggetti discriminati o esclusi, anche a causa del loro aspetto fisico. Molti insegnanti, tra l’altro, quando hanno in classe bambini che sono di “diversi colori” si trovano in una situazione vissuta spesso come nuova e risulta loro difficile trovare un equilibrio tra un atteggiamento totalmente “naturale” nel senso di indifferente alla cosa, e la consapevolezza che l’elemento della differenza possa effettivamente venire utilizzato dai bambini per “colorare” appunto una mancanza di rispetto o un insulto, in modo che finisce per essere sostanzialmente razzista. La diversità visibile, considerata come possibile elemento residuo dello “spaesamento” al quale abbiamo accennato, o come oggetto domande del tipo “di dove sei?” “di che origine sei?” rappresenta un ambito rispetto al quale ad alcuni bambini verrà chiesto di rispondere. Quando un bambino sa cosa rispondere su se stesso, e sa cosa rispondere per presentarsi, forse significa che lo spaesamento è stato o sta per essere superato3. Ed è proprio per questa ragione che la “diversità visibile” costituisce il filo conduttore degli esercizi proposti in questa sezione del laboratorio. Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Il bambolotto4. Insegnanti. Riunione di riflessione su questioni relative alla multiculturalità ed in particolare analisi degli atteggiamenti rispetto alla diversità visibile.
Un bambolotto “non bianco” e pezzi di stoffa o carta per avvolgerlo. Spazio e sedie per disporsi in cerchio. Capire se e in che modo lʼimmagine di infanzia che ci si porta dentro sia in qualche modo stereotipata.
I partecipanti al gioco si siedono in cerchio e il conduttore del gioco mostra un fagottino contente un bambolotto avvolto in un pezzo di stoffa e spiega il gioco. Si tratta di far passare il fagottino di mano in mano, alla maniera del classico gioco del pacco, trattenendo però per alcuni secondi la bambola e soffermandosi a riflettere per alcuni secondi, con la bambola in mano, sulle proprie sensazioni riguardo allʼinfanzia, agli allievi, al nostro rapporto con i bambini in generale ecc. Anche coloro che non hanno in mano la bambola riflettono sulla propria immagine di infanzia e di bambino e cercano di figurarsi il contenuto del fagotto.
3 V. in appendice il brano relativo a questo tema di E. Said (appendice testo n. 2). 4 Questa attività deriva dall’analisi dell’esperienza fatta con un bambolotto nero da una famiglia italiana bianca che lo aveva
regalato alla figlia di quattro anni. La bambina si era affezionata alla bambola, ma molti amici e parenti si meravigliavano della scelta e chiedevano ai genitori il perché del regalo. Era come se il colore di quella bambola avesse infranto la certezza sul colore delle bambole; gli adulti erano imbarazzati e i bambini più grandi perplessi. Forse anche di fronte alle persone, per alcuni è ancora così e allora, proprio perché l’aspetto dell’infanzia nelle scuole e nelle città italiane sta cambiando, meglio prendersi un po’ di tempo per riflettere sulle proprie emozioni e reazioni davanti alla bambola, e farsi eventualmente aiutare a gestirle, piuttosto che davanti ad un bambino, che ovviamente risente e verosimilmente soffre di un atteggiamento innaturale e impacciato.
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Esecuzione (segue)
Riflessione
Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Alla fine del giro prima di aprire il fagottino ci si scambiano alcune delle riflessioni che ognuno ha fatto in silenzio. Poi si apre il fagottino che contiene un “Cicciobello Nero” o unʼaltra bambola simile. Si fa passare di nuovo la bambola in cerchio e si riflette nuovamente su come ognuno ha sempre immaginato un “un bambino standard”. Ci si chiede: cosa mi aspettavo? Cosa ho pensato quando ho visto la bambola? Alla fine del giro ci si scambiano nuovamente le riflessioni personali. Grazie a questa attività gli insegnanti hanno modo di confrontarsi sulle proprie concezioni educative e sulle motivazioni passate e presenti che stanno dietro al lavoro che svolgono. In particolare lʼesercizio aiuta a fare i conti con la propria tendenza più o meno pronunciata ad avere unʼimmagine standardizzata di bambino e di allievo. Nella migliore delle ipotesi nel gioco il gap tra aspettative e realtà provoca sorpresa, ma raramente ci si sofferma a riflettere su come questo atteggiamento “sorpreso” influisce sugli allievi e sul clima in classe. Lʼesercizio crea altresì unʼoccasione di scambio tra colleghi su un argomento che altrimenti difficilmente viene affrontato anche sul piano delle emozioni. a) Questa attività può sembrare ad alcuni banale, ma va invece svolta in estrema serietà (altrimenti è meglio non farla!). b) Il “problema” del colore, non è evidentemente assoluto, legato alla “razza” o al colore in senso stretto, ma dipende dalle questioni di potere che nella storia sono state e sono ancora legate al colore. Il colore è legato alle questioni maggioranza e minoranza in un determinato contesto. Per questo in fondo la scoperta del “colore” del bambolotto può stimolare revisione della propria “neutralità” rispetto alle diversità, di colore o di altro tipo, e aiutare a riconoscere e eliminare i pregiudizi che impediscono di ascoltare TUTTI i bambini.
Lʼattività non si basa esclusivamente sullʼeffetto sorpresa e quindi risulta utile anche se tutti sono a conoscenza del contenuto del fagottino. Una volta che gli adulti hanno sperimentato lʼattività possono adattarla ad un gruppo di bambini, chiedendo loro come si immaginano un bambolotto che non vedono. Agli allievi della quarta e quinta elementare si può proporre un lavoro di ricerca sui volti e colori delle bambole, e sui giocattoli nel mondo, prendendo spunto anche dalla riflessione sulla Barbie, nella prima parte di questo testo.
Diversità e somiglianza: siamo tutti uguali o tutti diversi? Bambini di varia età. Si può partire da un gioco sulle forme: riconoscere forme uguali. Oppure da un ripasso di geometria, di grammatica o di logica.
Cartoncini da ritagliare, o sagome di figure geometriche precostituite. Riviste con foto possibilmente di bambini. Cartelloni. Penne, matite, colla, forbici. Ragionare sui concetti di diversità e uguaglianza prima in senso stretto e poi traslato. Vengono dapprima analizzati o ripresi con i bambini i concetti “neutri” di uguaglianza, differenza e reciprocità. Se A = B allora B = A Se A ≠ B allora B ≠ A
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Esecuzione (segue)
Si propongono alcuni esempi e esercizi che stimolino i bambini a ragionare su questi concetti. Ad esempio si sottolinea la necessità di un termine di paragone: non ha senso dire che B è diverso senza specificare che è diverso da A. Si aiutano i bambini a riflettere dapprima sul significato logico matematico attribuito ai termini “diverso” e “uguale” e si passa poi ai significati più usuali introducendo la necessità lessicale e sostanziale di un termine di paragone, diverso DA, uguale A, nonché la reciprocità tra i termini di paragone: se lui è diverso da me io sono diverso da lui. Le domande rispetto a qualcuno “diverso” da porsi sono quindi: in cosa SIAMO diversi? in cosa SIAMO uguali?
Riflessione
È importante aiutare i bambini a smontare lʼunilateralità del concetto di diversità. In quasi tutte le loro scelte di accorpare cose uguali e cose diverse, i bambini si basano su dei criteri: lʼinsegnante li aiuta quindi a esplicitare questi criteri. Anche nella realtà le cose vanno in modo simile ed è sempre importante saper individuare i criteri in base ai quali ad esempio una persona viene considerata diversa. Alla fine di questa attività, e di quelle indicate come APPROFONDIMENTI, è utile avviare una discussione sui temi che sono emersi e chiedere a ciascuno cosa ha imparato e in cosa sono cambiati i suoi concetti di uguaglianza, diversità e somiglianza. Ciò che viene fuori è la relatività delle categorie prese in considerazione e la necessità di specificare e circostanziare i concetti di uguaglianza, diversità e somiglianza. Una seconda riflessione può essere quella di capire il giudizio di valore implicito, che a seconda dei casi, si nasconde dietro al concetto di uguaglianza e diversità e che spesso invece non viene esplicitato. Diversità e uguaglianza sono due concetti importanti per i bambini. Il loro utilizzo per le persone assume però una connotazione molto delicata e ambigua. Bisogna essere cauti nel gestire il passaggio dal logico matematico alle relazioni tra le persone. Evitare di fare riferimenti ai presenti se si ritiene che ciò possa essere per loro motivo di sofferenza.
Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Si può partire da una situazione nella quale i bambini menzionano il concetto di diversità e proporre gli spunti di lavoro presentati in questa attività in modo personalizzato alla situazione o al gruppo. Si può partire anche dalla domanda: siamo tutti uguali o tutti diversi? Si lasciano discutere i bambini sulle possibili risposte, individualmente e/o in gruppo e poi si propone lʼattività con le forme geometriche. Le attività possono essere svolte nellʼarco di giornate successive ad esempio nellʼambito di un progetto didattico sul tema della diversità. Prendiamo ora una persona, non tra i presenti, che abbiamo considerato “diversa” e basta. Il cosiddetto DIVERSO. Da chi è diverso? Pensiamo ad ognuno di noi: Io da chi sono diverso? A chi somiglio? A chi sono uguale? Pensa a persone simili tra loro. Individuane alcune. In cosa si somigliano? In cosa sono uguali? In cosa sono diverse? Descrivo un bambino della mia classe che mi somiglia in qualcosa. Descrivo un bambino della mia classe molto diverso da me in qualcosa.
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Approfondimenti
Descrivo un mio amico: in cosa mi somiglia e in cosa è diverso. Ritaglia da una rivista le foto di due bambini che ti sembrano uguali. Ritaglia le foto di due bambini che ti sembrano diversi. Incollale su un cartellone e illustra ai tuoi compagni le scelte che hai fatto. Sono uguali e diversi in tutto e per tutto? In quali situazione gli aggettivi “diverso” e “uguale” assumono un significato di POSITIVO o NEGATIVO. Perché?
Attività Destinatari Contesto/Situazione
Colore colore…… Bambini e adulti di tutte le età. Attività grafico pittoriche, numero illimitato di partecipanti. A scuola, ad una festa per bambini, in piazza.
(segue)
Materiali Obiettivo Esecuzione
Riflessione
Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Fogli di carta e colori mescolabili e sfumabili. Relativizzare le denominazioni e definizioni dei colori della pelle. Si invitano i bambini a cercare tra i colori che si hanno a disposizione quello che più sembra simile al colore della propria pelle. Se non esiste tra i colori standard proviamo ad ottenerlo mescolando altri colori. I partecipanti allʼattività, insegnanti compresi, devono trovare il colore corrispondente a quello del palmo della mano e al dorso della mano e a notare la differenza, poi di altri parti del corpo come ad esempio le labbra o il ginocchio. Successivamente si confrontano tra loro i colori ottenuti. Sentiamo spesso parlare del colore della pelle. Come otteniamo il colore della pelle in un disegno. Nessuno è proprio bianco o proprio nero: ognuno ha un suo colore. E… se siamo abbronzati? Alcuni bambini potrebbero voler rappresentare il proprio colore della pelle, come quello che vedono più frequentemente utilizzato dai compagni o nei quadri. In questi casi è bene essere estremamente cauti ed evitare affermazioni brusche del tipo: “Ma tu non sei così”. Bisogna cercare piuttosto di capire le ragioni del bambino e prospettare con delicatezza unʼalternativa. Del resto il colore rosa che frequentemente usano i bambini “bianchi” per rappresentarsi non corrisponde né ad una pelle “bianca”, né ad una “nera”, è un ripiego, di fantasia. Nellʼattività il percorso di scoperta del colore “giusto” deve essere condotto con entusiasmo, ma allo stesso tempo con flessibilità e molta sensibilità. In un gruppo più ristretto di partecipanti si può ampliare la riflessione nel campo della storia dellʼarte andando alla ricerca di immagini di quadri famosi e soffermandosi sui “colori” della pelle. A quale colore siamo abituati, con quali colori viene ottenuto un colore di pelle “bianca”?, con quali la pelle “nera”? In un gruppo classe si può continuare la riflessione ponendo le domande che seguono: • Che significato ha il colore della pelle per ognuno di noi? Che effetto fa pensare sono “bianco” o sono “nero”? • Quando abbiamo pensato per la prima volta “sono bianco” o “sono…” • Che effetto ci ha fatto? Attualmente esistono alcuni prodotti sbiancanti nocivi alla salute così come esistono prodotti abbronzanti nocivi alla salute. Cosa ne pensi?
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Approfondimenti
Perché lʼaspetto fisico è così importante da rischiare la salute per voler essere diversi da come si è? Per gli insegnanti: lettura di Toni Morrison (v. appendice testo n. 8).
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali
Specchio, specchio delle mie brame… Bambini e adulti di ogni età. Attività di pittura o di scrittura. Uno specchio per uno o un grande specchio di fronte al quale tutti si possono sedere, colori, carta, materiale per collage, giornali, colla, forbici.
(segue)
Obiettivo Esecuzione
Riflessione Attenzione a Varianti Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Familiarizzarsi con la propria immagine e autodescriversi. Viene chiesto ai bambini di rappresentarsi attraverso il disegno, la scrittura, e/o il collage. I bambini vengono lasciati liberi di fare smorfie e di provare varie soluzioni. Successivamente si può chiedere ai bambini di immaginare cosa direbbe lo specchio se parlasse. Cosa si pensa guardandosi allo specchio. Cosa piace della propria immagine, cosa piace meno?
Rispettare sempre la timidezza, passando eventualmente sempre alla variante più indolore del gioco, e trovando sempre delle vie dʼuscita a situazioni di tensione. Costruisco uno specchio magico che… I bambini fanno parlare lo specchio come nelle favole o gli attribuiscono altri poteri magici. Approfondire il significato dello specchio nelle favole: • lo specchio di Biancaneve, • lo specchio di Alice, • lo specchio di Narciso ecc. Si possono invitare i bambini a chiedere ai loro genitori se conoscono altre storie in cui si parla dello specchio. I genitori le raccontano al bambino, il bambino le racconta il classe.
E Dumbo…? Bambini. Scuola o extrascuola. Televisione, videoregistratore, cartone DUMBO di Walt Disney. Capire le conseguenze dellʼattribuzione di significati negativi alla diversità. Stimolare lʼempatia rispetto alla sofferenza degli altri che vengono discriminati e messi da parte e aiutare a capirne le cause. Visione del cartone animato Dumbo. Discussione con i bambini. Visione delle sequenze nelle quali Dumbo viene preso in giro ed esplode la sua rabbia: lʼespressione della rabbia peggiora la sua situazione, perché la rabbia viene interpretata come una conferma della sua diversità e della sua pericolosità. Ricerca di situazioni analoghe nella vita dei bambini. Una volta identificate situazioni che possono essere analoghe a quella di Dumbo i bambini possono discuterne in gruppetti.
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Riflessione
Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo
Esecuzione
Cosa accade a Dumbo per il fatto di essere diverso. Chi è responsabile dellʼaccaduto? Spiegazione ai bambini del meccanismo del circolo vizioso e del capro espiatorio. Si escogitano possibili soluzioni: come si può reagire allʼingiustizia ? Come si può difendere un amico che si trova in una situazione come quella di Dumbo? Cosa fa diventare la “presa in giro” crudeltà? Cosa provoca in un bambino essere oggetto di crudeltà? Bisogna essere attenti ad evitare che i bambini si soffermino solamente su una situazione in particolare, se coinvolge qualcuno dei presenti. Eventuali accenni ai presenti devono essere tenuti sotto controllo per evitare in ogni modo che appesantiscano lʼesperienza di questa attività per il diretto interessato. Lʼinsegnante deve saper capire per tempo se la discussione va nella direzione di un alleggerimento oppure di un appesantimento di una dinamica negativa in classe e anche saper valutare i costi emotivi di un tentativo di alleggerimento troppo diretto. Si può chiedere ai bambini di ricercare situazioni analoghe a quella di Dumbo in altre storie. Es. Il brutto anatroccolo, La Gabbianella e il Gatto ecc., e far chiedere dai bambini ai genitori se conoscono altre storie su questo tema. Per gli insegnanti: vedere in appendice (testo n. 10) la storia di Vijay Shahiry e leggere la pagina del suo diario e la sua poesia. Eventualmente raccontarla ai bambini più grandi. Perché sono come sono? Cosa rispondo se… Bambini di tutte le età. A scuola e fuori scuola. A coppie è più divertente.
Carta penna, Registratore. Abituare i bambini a rispondere a domande sul proprio conto, e a lavorare di fantasia pensando a riposte scherzose da dare in caso le domande risultassero per loro fastidiose. Perseguire, giocando, la capacità di presentarsi. Si dividono i bambini in coppie. Nella prima fase del gioco un bambino fa le domande e lʼaltro risponde. Poi si fa a cambio. Le domande sono del tipo: • Perché ti chiami così? • Perché hai i capelli di quel colore? • Perché hai gli occhi di quel colore? • Perché hai la pelle di quel colore? • Perché sei nato dove sei nato? • Perché vivi dove vivi? • Perché ti piace il cibo che ti piace? • Perché parli la lingua (o le lingue) che parli? • Perché sei alto così? • Perché sei grosso così? • Perché tua mamma parla così? • Perché tuo papà parla così?
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Esecuzione (segue)
Riflessione
Attenzione a Varianti
Approfondimenti
• Perché la tua maestra si veste così? • Perché la gente è curiosa? • Perché hai (o non hai) fratelli e sorelle? Una prima parte del gioco prevede che le domande vengano poste in modo serio e ricevano risposte serie mentre nella seconda parte le stesse domande verranno poste in modo invadente e prevedono quindi la possibilità di risposte fantasiose. Chi fa le domande dovrà mostrarsi realmente interessato allʼaltro nel primo caso e insistente e scioccamente curioso nel secondo caso. Si spiega ai bambini che lo scopo del gioco è abituarsi a saper rispondere con tranquillità alle domande che riguardano la propria persona, ma anche eventualmente rispondere in modo ironico o divertente quando chi fa le domande ci sembra inutilmente curioso. Le risposte “serie” alle domande prevedono di poter disporre di certe informazioni, o di raccoglierle, coinvolgendo anche i genitori. A prima vista si tratta di informazioni banali, ma raccoglierle aiuta il bambino a superare timidezze. La preparazione di risposte di fantasia lascia spazio allʼimmaginazione e alla creatività. Il gioco può essere svolto nellʼarco di due mezze giornate. Per molti bambini immigrati, o per i bambini che hanno un aspetto diverso dagli altri, le domande, o certi silenzi (!!), circa la provenienza e/o il motivo della diversità sono un fatto ricorrente. Alcune volte le domande sono oggettivamente assurde, altre volte vengono percepite come tali dal bambino che si trova impreparato. Senza esplicitare in particolare questo fatto gli insegnanti potranno avviare tra bambini una discussione su: • come si sentono i bambini quando vengono rivolte loro domande su cose che li riguardano e alle quali non sanno, ma vorrebbero, rispondere. • come si sentono i bambini quando vengono fatte loro domande alle quali non hanno voglia di rispondere, ma devono rispondere. Bisogna aiutare i bambini a distinguere tra un atteggiamento affettuosamente e delicatamente curioso e uno poco rispettoso e curioso in modo invadente. Li si può quindi aiutare sdrammatizzare con fantasia la sua “diversità” e a saper dare risposte allegre e spiritose (non villane) che lo difendano dalla curiosità inutile della gente. Esempi: ho gli occhi neri perché mia zia è una fata e me li ha dipinti per farmi vedere di notte, oppure ho i capelli rossi perché mia mamma ha fatto scorpacciate di carote. Ho le orecchie a sventola perché quando vado di fretta diventano ali. Lʼinsegnante deve girare tra i bambini che giocano e avere verificare che nessun bambino si trovi in unʼimpasse o in una situazione imbarazzante. Unʼaltra situazione ricorrente per i bambini immigrati è quella in cui viene rivolta loro la domanda: “ti posso chiamare in un altro modo?” Il bambino dovrebbe poter rispondere: “no, ma ti insegno a dire bene il mio nome”. Questa attività, opportunamente modificata per “giocare” sulla questione del nome, può aiutare il bambino ad imparare a rispondere alle domande sul suo nome con maggior serenità.
Si può decidere di volta in volta e a seconda delle caratteristiche del gruppo e dei singoli se privilegiare la parte seria o la parte fantastica del gioco. Per incoraggiare lʼaspetto fantastico si può far leggere ai bambini lʼautopresentazione di Pippi Calzelunghe (v. appendice testo n. 3).
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Approfondimenti
Utilizzando fantasia e umorismo il bambino può sottrarsi in modo indiretto a domande troppo insistenti riguardanti la sua provenienza e il suo aspetto fisico e scongiurare il senso di disistima che potrebbe derivare dal sentirsi troppo spesso messo in mezzo. Non è detto che dia davvero le risposte assurde con le quali ha giocato, ma in cuor suo si sente meno esposto e vulnerabile e più forte. Naturalmente questo meccanismo funziona meglio se si tratta di un gioco che ha condiviso con altri coetanei. Per una riflessione seria sul modo di presentarsi si può leggere ai bambini Ruth Klüger (appendice testo n. 6) o alcuni stralci della biografia di Edward Said (appendice testo n. 2).
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo
Vari modi di dividere la torta. Insegnanti genitori o bambini. Riunioni o attività in classe. Nessuno in particolare. Capire che i gruppi possono essere divisi secondo moltissimi criteri e che il criterio della diversità visibile non è certo lʼunico.
(segue)
Esecuzione
Riflessione
Attenzione a
Varianti
Si chiede ai bambini di dividersi nei seguenti modi: • maschi/femmine • occhi chiari/ occhi scuri • capelli lunghi / capelli corti • numero di piede (fino a /oltre un certo numero) • scarpe da ginnastica/altre scarpe • iniziale del cognome ecc. Ogni volta si chiede al gruppo di trovare delle ragioni per motivare la superiorità del proprio gruppo rispetto agli altri bambini. Ogni gruppo costruisce un cartellone nel quale si fa pubblicità, alimentando così da un lato lo spirito di gruppo, dallʼaltro la presa di distanza dagli altri gruppi e il loro svilimento; poi si cambia criterio di suddivisione dei gruppi e si ricomincia. Si discute poi insieme sullʼattività svolta.
Si guidano i bambini a capire alcuni semplici meccanismi attraverso i quali si costituiscono e si differenziano i gruppi, o alcune persone vengono considerate appartenenti ad un determinato gruppo. Si chiarisce inoltre che i criteri sui quali si basano le divisioni in gruppi sono sempre relativi e non assoluti. Si commenta con i bambini lʼesperienza di appartenere a vari gruppi e allo stesso tempo li si invita a riflettere sulla relatività delle motivazioni che un gruppo adduce per dimostrare la propria superiorità. Controllare che le spiegazioni di superiorità dei gruppi non diventino offensive per qualcuno. In pratica i bambini hanno lavorato per costruire e motivare pregiudizi, e questo va loro spiegato. Con i più grandi si può semplicemente chiedere di trovare i diversi criteri in base ai quali dividere il grande gruppo in sottogruppi. Una variante “dura” dellʼattività è quella di arrivare in classe una mattina e dire con aria seria ai ragazzi di aver letto che un gruppo di scienziati americani ha scoperto che le persone con gli occhi scuri (o chiari) sono più intelligenti di quelle con gli occhi chiari (o scuri). Per questa ragione dʼora in poi la disposizione della classe verrà cambiata e tutti i più intelligenti verranno
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Varianti
Approfondimenti
interrogati meno spesso, avranno meno compiti, potranno esercitare una certa autorità sui loro compagni (insomma comandano loro!!!) ecc. Inoltre per comodità degli insegnanti • tutti gli intelligenti siederanno da una parte della classe in modo da essere distinti dagli altri, • tutti i meno intelligenti avranno un distintivo che sia visibile anche da lontano. Si chiederà inoltre ai bambini di dividersi da subito nei due gruppi e commentare questa notizia. Dopo alcuni minuti (non troppi, altrimenti qualcuno potrebbe davvero soffrire!!) si annuncerà che la notizia era inventata e si chiederà a tutti, “intelligenti” e non, di dire come si sono sentiti. Si aiutano i bambini a capire che la notizia falsa diffusa dallʼinsegnante appare assurda e ci si ride sopra anche perché non viene condivisa da nessuno al di fuori della classe. Si spiega anche che esistono e sono esistite situazioni nelle quali un potere che sostiene teorie fondate sul pregiudizio e si comporta in modo ingiusto con i “diversi” dalla “normalità”. Le differenze vengono così utilizzate per discriminare qualcuno. Il razzismo funziona, quando chi ha potere (nel gruppo, nella classe, nella scuola, nella città, nel mondo) diffonde e sostiene il pregiudizio. Che cosʼè un pregiudizio? Cerca in alcuni dizionari. Non contano solo le differenze ma il valore che si attribuisce alla differenza. Con i bambini più grandi si possono leggere alcune testimonianze legate a questo tema. (v. appendice testo n. 7 e n. 8). Per gli insegnanti: Definizione di razzismo dello studioso A. Memmi : “Il razzismo si sviluppa grazie a differenze REALI o INVENTATE che vengono generalizzate e assolutizzate, a vantaggio dellʼaccusatore che si serve di esse per giustificare privilegi e aggressioni a scapito della vittima” Definizione breve: Razzismo = Pregiudizio + Potere.
1. Consigli per pochi giochi di tutti i colori...
Bambole – Cicciobello colorati (cercando bene ne esistono almeno quattro diversi!). – Le Corolle colorate. – Barbies colorate.
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– Bambole etniche di stoffa, ma attenzione perché le bambole di pezza ad alcuni bambini sembrano più brutte e tristi!!! Quindi se si hanno bambole etniche di pezza meglio averle di tutti i colori anche bianche. Documentazione, storie e storielle – Giocattoli al di là del mare, quaderno UNICEF. – Giocattoli in Africa, giocattoli da costruire e da andare a vedere nei musei, quaderno UNICEF. – Apriti Sesamo, percorsi di lavoro per la scuola dell’infanzia, di V. Ongini, Unicef, 2000. Un elefantino di tutti i colori stanco di essere diverso. – Ma che razza di razza è, di S. Roncaglia, I colori del mondo, Città nuova, Roma, 2000. – La mia famiglia, di Coran P., M. J. Sacré, Arka, Milano, 1977. La storia di una bambina nera adottata. Video – KIRIKU e la strega di Karaba. Alfadedis Entertainment, Milano, 2000. Durata 75 minuti. Un bimbetto magico e nerissimo, piccolo piccolo e per questo inizialmente messo da parte. Kiriku n’est pas grand mais… (Kiriku non è alto ma…) è la cantilena che accompagna le sue gesta eroiche. – Meena Unicef, 1998. Durata 39 minuti. – Sara Unicef, 1998. Durata 15 minuti. Il primo realizzato in Asia con la consulenza di Hanna e Barbera, racconta la storia di una bambina asiatica collegata al tema dei diritti; il secondo Sara, parla di una bambina africana.
2. Materiali dell’Unione Europea su razzismo e xenofobia •
Razzista io!? Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee. Fumetto pubblicato in tutte le lingue ufficiali dellʼUnione. ISBN: 92-828-4021-2.
• Dichiarazione del Consiglio dellʼUnione Europea e dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, riuniti in Consiglio il 16 dicembre 1997, sul rispetto delle diversità e sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia. Gazzetta Ufficiale C del 3/1/1998. • Dichiarazione del Consiglio dellʼUnione Europea e dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, riuniti in Consiglio il 24 novembre 1997, relativa alla lotta contro il razzismo, la xenofobia e lʼantisemitismo nel mondo giovanile. Gazzetta Ufficiale C del 3/1/1998. • Verso nuove prospettive interculturali. Ufficio delle pubblicazioni delle comunità europee. ISBN: 92-828-1339-8.
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•
“Razzismo e xenofobia in Europa”. Eurobarometro 47.1, primavera 1997, direzione generale V. Compendio europeo di buona prassi in materia di prevenzione del razzismo. Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee. ISBN: 92-828-1961-2.
• Piano dʼazione contro il razzismo. COM (1998) 183 def. Del 25 marzo 1998.
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SEZIONE III
Migrazione e cultura: laboratorio della conoscenza reciproca
Nel primo capitolo è stato in parte chiarito come districarsi tra le molteplici accezioni del termine cultura, quando si lavora in un contesto educativo multiculturale e quando ci si accinge a proporre attività che promuovano la conoscenza reciproca. Quasi tutte le discipline curricolari offrono numerose occasioni di approfondire tematiche collegate all’interculturalità, tenendo conto delle provenienze degli allievi che si hanno di fronte e delle culture di appartenenza loro o dei loro genitori. La diversità culturale riguarda in un certo senso tutti i bambini, pur se nel caso degli allievi immigrati le specificità, a cominciare evidentemente dalla lingua, sono solitamente maggiori. Le culture familiari sono infatti comunque diverse tra loro e diverse dalla cultura della classe o della scuola. Nelle due precedenti sezioni sono state proposte attività finalizzate a dare sicurezza ai bambini in modo che essi possano percepire il contesto classe come un luogo rassicurante, che permetta loro di mostrarsi per come sono: un contesto significativo in termini affettivi, che tenga conto delle loro esigenze. Le attività di questa sezione, partendo dal presupposto che si stia cominciando a costituire una cultura della classe, suggeriscono un confronto più esplicito tra le culture pur avendo ben presente che questo confronto deve continuamente essere riportato ad una dimensione accessibile all’età dei bambini che si hanno di fronte. Anche in questo caso si intende dare alcune indicazioni per l’utilizzo di materiali già esistenti e proporre poi alcune attività specifiche. Esiste ormai ad esempio un buon numero di testi, o addirittura di collane, che riguardano i bambini del mondo. La maggior parte dei testi di questo tipo descrive il modo di vivere nei diversi paesi, alcuni più raramente affrontano in modo diretto il tema delle migrazioni. Se da un lato questi testi possono aiutare tutti i bambini a farsi un’idea di massima delle abitudini di vita in paesi sconosciuti, il discorso assume una connotazione diversa laddove i paesi in questione sono anche i paesi di origine dei bambini immigrati. In questo caso potrebbe succedere che i bambini autoctoni si convincano che anche il loro compagno abbia vissuto allo stesso modo anche se magari è arrivato in Italia piccolissimo o addirittura ci è nato, e potrebbe succedere che attribuiscano al compagno delle abitudini e delle caratteristiche culturali, nelle quali il compagno non si riconosce affatto. Per questo nella scelta dei libri è bene preferire quelli che presentano e “illustrano” anche bambini provenienti da paesi non solo di emigrazione e comunque non solo extraeuropei, e, possibilmente, scegliere quelli che presentano anche un bambino italiano.
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In questo modo infatti risulterà più chiaro il meccanismo di generalizzazione che necessariamente trapela da testi di questo genere. Quando un “bambino italiano” si vede ritratto come uno che vive sotto il Colosseo, avrà ben chiaro che non è proprio così anche per la maggior parte dei romani; e quando un insegnante informato leggerà su un testo per bambini che in Alto Adige i gruppi linguistici si sono messi a vivere pacificamente perché hanno deciso di vendere insieme le mele, gli verrà forse il dubbio che anche situazioni più lontane vengano presentate in modo molto semplificato dai testi che illustrano luoghi e culture. In ogni caso utilizzando testi che parlano di bambini del mondo si possono per esempio rivolgere ai bambini delle domande che non siano legate al “suo” paese, del tipo: Quale personaggio ti affascina di più? Perché? Quali notizie conoscevi già sul paese nel quale vive ? Rispetto a quale paese o a quale attività che il personaggio svolge vorresti cercare ulteriori notizie? Si possono inventare molte altre domande, ma tutte devono offrire al bambino sia la possibilità di fare riferimento ad esperienze personali, sia la possibilità di evitare qualsiasi riferimento al proprio paese di origine. Il laboratorio interculturale deve insomma a tutti i costi evitare di diventare un luogo di assegnazione delle identità culturali, pur assumendo il compito di rendere reali e più vicini paesi di provenienza dei bambini, così da permettere a tutti di ricevere informazioni generali e al bambino immigrato di poter eventualmente “ritrovarsi” in un determinato paese. La preparazione di un’unità didattica su un determinato paese di emigrazione richiede una preparazione quantomai oggettiva, come avviene per un’unità didattica sulla Francia o sulla Germania, ma può venire personalizzata da una integrazione soggettiva, per la quale si può richiedere l’aiuto di genitori provenienti dal paese in questione. La dimensione del coinvolgimento dei genitori deve in ogni caso riguardare un po’ tutte le famiglie, e non solamente quelle immigrate e in una prospettiva folcloristica. Certamente se si è alla ricerca di filastrocche dei vari paesi sarà più difficile trovare materiali dei paesi extraeuropei: in nome di questo fatto si potrà chiedere consiglio in modo specifico ai genitori dei bambini immigrati, anche solo per sapere se ciò che si è trovato fa in qualche modo parte del loro patrimonio culturale e familiare. È bene partire sempre dal mostrare qualcosa di concreto (storielle, canzoncine individuate nelle raccolte di fiabe o canzoni dei paesi di tutto il mondo ecc.) per chiedere consiglio o aiuto. Si tenga anche presente che la maggior parte delle famiglie che emigrano, non si sposta con una biblioteca per l’infanzia, nella propria lingua o con valigie piene di giochi, e quindi le richieste di collaborazione dovranno essere caute e realistiche, ad esempio facendo presente un’eventuale disponibilità della scuola a far acquistare materiali nel paese di origine da conoscenti dei quali si prevede ad esempio un prossimo arrivo in Italia, nel caso che tali materiali non siano reperibili in altro modo. Anche per quanto riguarda le modalità di raffigurazione degli aspetti somatici o di rappresentazione di bambini di vari colori è necessario essere molto attenti, e osservare, su tempi lunghi, con grande pazienza e discrezione, se e in che modo funzionano i processi di identificazione dei bambini con le rappresentazioni che illustratori, per lo più occidentali e bianchi, danno delle diverse “razze”. È importante dare al bambino degli stimoli interculturali rispetto ai quali siano consentiti tanto processi di identificazione quanto atteggiamenti di presa di distanza.
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La semplificazione del tratto somatico, inevitabile in tutte le illustrazioni, ma che in alcuni testi pensati per essere interculturali potrebbe incoraggiare la fissazione in uno stereotipo, viene disvelata meglio, e accolta per quello che è, se lo stesso tipo di semplificazione risulta evidente anche per un personaggio “italiano” o di un paese del quale i bambini hanno anche conoscenze maggiormente articolate ed esaustive. Se ad esempio il bambino francese trascorre le sue giornate a Parigi sulla Torre Eiffel e quello italiano si riconosce perché mangia pizza e spaghetti, risulta evidente il valore di un’informazione di questi tipo; sarà pertanto più semplice identificare anche elementi di generalizzazione semplificante che riguardano rappresentazioni di altri. Si eviterà dunque di farle proprie in modo acritico: insomma non tutti i bambini marocchini trascorrono la vita nel deserto e non tutti gli eschimesi passano la giornata sulla porta di un igloo. Per il bambino immigrato è importante che si parli anche a scuola del paese che egli sente nominare a casa, ed è importante acquisire delle notizie che gli permettano di collocare il suo paese di origine in termini geografici e culturali; ma non è detto che egli si voglia poi collocare emotivamente in quel paese o tantomeno riconoscersi nel bambino che viene presentato nella pagina di libro dedicata al suo paese di origine. L’adesione all’appartenenza deve partire dal bambino e può essere suggerita solo in termini di vaga possibilità con domande del tipo: Qui vengono presentati bambini di vari paesi che vivono in modo diverso dal nostro. A voi dove piacerebbe vivere? Siete mai stati in qualcuno di questi paesi? Da quale paese vogliamo cominciare per conoscere il primo bambino? Non tutti i bambini di un determinato paese hanno le stesse abitudini. Se dovessi descrivere come vive un bambino italiano come potresti farlo? Di qui si può passare alla riflessione sul fatto che un bambino di Roma vive in modo diverso da uno di Valtournanche (Val d’Aosta) o uno di Lipari, aiutando quindi i bambini ad individuare le abitudini comuni e quelle diverse tra questi bambini. L’italianità che accomuna questi bambini influisce in modo diretto nella quotidianità. Come? E in modo indiretto? D’altro canto se il bambino di Valtournanche si trasferisce a Roma potrebbe addirittura risultare pericoloso per lui mantenere le proprie abitudini: dovrebbe ad esempio imparare a guardarsi dal traffico e dagli sconosciuti. Il suo essere di Valtournanche, verrebbe quindi naturalmente “contaminato” dal modo di vivere “romano”. Continuare ad oltranza ad attribuirgli una tradizione montanara, che è in realtà dei suoi genitori, rischia di fissarlo nel suo passato e di renderlo disadattato. Nell’esaminare testi che trattano dei bambini di vari paesi l’insegnante assume quindi un ruolo centrale nell’aiutare la classe ad evitare attribuzioni arbitrarie di provenienza e appartenenze tra bambini del tipo “parliamo de paese di Tizio” e quantomeno non dare per scontato che il bambino di origine marocchina, abbia grande dimestichezza con il Marocco, o viva ad esempio a Genova in modo tanto diverso dal bambino che ha i genitori genovesi. In questo senso ogni bambino può sentirsi attratto da un personaggio piuttosto che da un altro e qualsiasi forzatura non lo aiuta certo a rafforzare la sua identità, ma anzi lo confonde e lo limita. In particolare quando si parla di intercultura in contesti educativi bisogna tener distinte un’intercultura intesa come riconoscimento di differenze e un’intercultura che fissa le differenze arbitrariamente, costringendo i singoli in stretti scompartimenti identitari predefiniti.
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L’intercultura dovrebbe quindi servire soprattutto a identificare zone di confine abbastanza fluide tra culture e abitudini, dove ognuno possa collocarsi partendo da quello che vive, sia in termini di valori che in termini pratici, e possa scoprire gli innumerevoli sincretismi che caratterizzano la vita di tutti nell’era della globalizzazione5. Ciò vale a maggior ragione per i bambini e i giovani e in ogni caso per tutti coloro che hanno vissuto un’esperienza migratoria non ancora integrata dalla persona. Spesso l’errore di molti approcci interculturali consiste proprio nel dare per scontate determinate appartenenze culturali e nell’attribuire loro significati non contrattati e concordati con i diretti interessati. Per concordare e contrattare questi significati la scuola e le altre istituzioni educative non possono prescindere da una particolare cura del rapporto con le famiglie dei bambini immigrati, riconoscendo che inevitabilmente la visione dell’immigrazione “respirata” dai media costituisce un grave handicap all’ascolto del singolo bambino immigrato e delle sue esigenze, e che per sgombrare il campo da pregiudizi e stereotipi è necessario un autonomo esercizio di ascolto attivo di bambini e famiglie, supportato da informazioni puntuali e aggiornate sul contesto di provenienza della famiglia. Questo esercizio lungi dal rientrare nelle mansioni specifiche di un educatore “speciale” riporta ogni educatore ad obiettivi generali di ascolto dell’altro e giova quindi indiscutibilmente a TUTTI gli utenti dei servizi educativi. Laddove invece l’appartenenza culturale viene percepita in modo non solo monolitico, ma anche permanente nel tempo, l’intercultura rischia di sottolineare le differenze e radicalizzarle. Le attività che seguono intendono orientare ad una visione cauta e circostanziata delle differenze e a creare uno spazio educativo nel quale ci sia posto anche per la provvisorietà di definizioni di identità e ci sia tempo per decidere dove collocarsi e in cosa riconoscersi, senza per questo bloccare la curiosità e il desiderio di conoscere e di conoscersi, e cercando di definire con l’aiuto delle famiglie delle offerte educative che tengano conto dell’esigenza di tutti di fare i conti con le proprie origini e con la propria storia. Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Sono un fiore di che colore6… I bambini a scuola o nellʼextrascuola. Situazione abbastanza consolidata di fiducia allʼinterno del gruppo. Cartoncini colorati, oppure programma Paint sul PC. Individuare le proprie caratteristiche, gli elementi costitutivi e le proprie appartenenze, sentendole come complementari e facenti parte di un tutto armonico, invece che come esclusive e segmentate. Ogni bambino sceglie un modello di fiore da disegnare utilizzando vari colori. Si può anche proporre un modello precostituito da riempire. Ogni parte del fiore, ogni petalo, ogni foglia, e lo stelo, rappresentano un aspetto dellʼidentità del bambino (personale e sociale).
5 Un bambino di terza elementare mi ha raccontato tutto felice che aveva ricevuto da un compagno indiano una penna proveniente dall’India. Quando gli ho domandato com’era la penna, mi ha detto perplesso: “beh veramente è come la mia BIC”, ma ha aggiunto: “però viene dal’India” e il suo tono era felice. 6 Questa attività che prende spunto dallo schema proposto da T. Balenci e L. Bialato, in Reflexion sur la culture, in Migrants et formation, n.69, 1987, pp. 57-64.
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Esecuzione (segue)
Riflessione
Attenzione a Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo
Esecuzione
Un petalo può essere la famiglia, uno lʼintelligenza, un altro un tratto del carattere o dellʼaspetto fisico ecc. Si spiega ai bambini di identificare dei tratti principali (stelo e parte centrale del fiore) della propria persona (IO) e dei tratti secondari. Si suggerisce al bambino di collocare la propria individualità al centro del fiore e di indicare i vari aspetti che la influenzano nei petali, colorandoli in modo diverso lʼuno dallʼaltro. Il disegno può essere fatto a mano o con Paint al computer. Alla fine si chiede ai bambini di dire se è possibile dire di che colore è il fiore e si lascia che discutano su questo argomento. Si può porre lʼaccento sulle tonalità dominanti, vale a dire di quegli elementi ai quali ognuno ha dato maggiore importanza, ma in ultima analisi non si può rispondere con una parola allʼinterrogativo: sono un fiore di che colore? PAINT può essere un modo rapido di fare il collage per i bambini più grandi che hanno una certa dimestichezza con il PC, ma può costituire per i bambini più piccoli una limitazione al numero di petali del fiore. Successivamente si può costruire il “fiore” della classe: SIAMO UN FIORE DI CHE COLORE…: ognuno disegna se stesso come un enorme petalo o foglia a sua volta multicolore al suo interno con pezzettini di collage per ogni caratteristica del singolo. Per approfondire il tema della multiappartenenza si consiglia di leggere il contributo “Attraversamento delle frontiere nel lavoro antirazzista” di Gita Steiner Khamsi, in “Per una pedagogia antirazzista” di A. Aluffi Pentini e W. Lorenz, Junior, Bergamo, 1995. Cʼè piramide e piramide… Insegnanti, genitori e bambini in momenti diversi. In una classe dove sono presenti bambini appartenenti a varie culture, si vuole approfondire il tema dei bisogni e della loro espressione.
La “piramide” dei bisogni, post it, carta e penna. Riconoscere la generalità dei bisogni di tutti i bambini, ma imparare a conoscere la specificità dei bisogni di ogni singolo bambino. Nelle VARIANTI: • Per i genitori: presentare i propri figli e le loro esigenze. • Per i bambini: acquisire consapevolezza dei propri bisogni e della loro similarità e specificità rispetto a quelli degli altri bambini; imparare ad esprimere i propri bisogni per farsi conoscere e lasciarsi riconoscere. Si traccia il disegno della “Gerarchia dei bisogni di MASLOW”7 su un cartoncino bristol colorato.
7 La teoria di Maslow afferma che solo laddove vengono soddisfatti i bisogni posti alla base della piramide si manifestano poi quelli più alti. Abbiamo dunque:
BISOGNI ESTETICI
DESIDERIO DI CONOSCERE E CAPIRE
BISOGNI DI AUTOREALIZZAZIONE
BISOGNI DI STIMA
BISOGNI DI APPARTENENZA E AMORE
BISOGNI DI SICUREZZA
BISOGNI FISIOLOGICI
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Esecuzione (segue)
Riflessione
Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo
Si avvia una discussione relativa a • il concetto di Maslow in generale • come ogni bambino manifesta i suoi bisogni • quanto e come questi bisogni trovano una risposta adeguata nella classe. Conoscersi significa riconoscersi. Quali bisogni accomunano tutti i bambini ? Quali sono le esigenze particolari che alcuni bambini hanno e alle quali bisogna rispondere perché possano venire soddisfatti i bisogni comuni a tutti ? Quali di queste esigenze sono legate alla appartenenza culturale, al fatto si essere immigrati, alla “diversità visibile”? Il concetto di Maslow deve essere illustrato in modo chiaro, con esempi, al gruppo destinatario della proposta di attività. Attenzione nel corso della discussione a “prender sul serio” le piramidi costruite dai singoli, sulla base della personalizzazione dei bisogni generali. La stessa attività può essere proposta nel corso di una riunione con i genitori: a) si illustra la “piramide” b) si chiede si genitori di descrivere come si manifestano le esigenze del proprio figlio, una per “gradino” dal basso verso lʼalto. c) Si chiede ai genitori di segnalare se ci sono esigenze specifiche del proprio figlio che non vengono rispettate e che mettono quindi in pericolo il soddisfacimento dei bisogni fondamentali uguali per tutti. d) Si avvia una discussione insieme sul tema generalità e specificità dei bisogni e ogni insegnante può illustrare in che modo riesce o vorrebbe lavorare nella direzione di una personalizzazione dellʼinsegnamento. La stessa attività può essere proposta in classe agli allievi: a) si illustrano i concetti della “piramide” b) si chiede agli allievi di costruire insieme i gradini della piramide di tutti (vale a dire della piramide dei bisogni generali). Si scelgono i colori e la forma. c) si chiede ad ognuno di indicare per ogni “gradino” un paio di esempi concreti di situazioni, familiari o scolastiche, nelle quali tali bisogni non vengono ascoltati. Si spiega quindi che lʼesercizio consiste nel personalizzare bisogni generali. d) Ognuno costruisce quindi una propria piramide personalizzata (vale a dire ponendo in ogni gradino esigenze specifiche e personali corrispondenti al gradino di riferimento della piramide per tutti) e) Si dedica un poʼ di tempo ad osservare le piramidi altrui. Ci si scambiano dei commenti riguardo allʼesperienza fatta Con i genitori possono essere affrontati i temi relativi a differenze culturali che vengono vissute con senso di insicurezza allʼinterno delle famiglie immigrate, tra gruppi, e dalle famiglie stesse nei rapporti con la società e istituzioni. Paese che vai… usanza che trovi. Bambini. Una qualsiasi classe o gruppo di bambini si confronta con la contestualizzazione delle regole. Carta e penna e alla fine cartelloni per riassumere le informazioni raccolte. Far capire che le abitudini, le regole di buona educazione ecc. hanno un contesto in cui sono valide e altri in cui è vero esattamente il loro contrario. Capire quali regole sono universali, quali sembrano universali, e possibilmente ciò che una regola esprime dal punto di vista culturale.
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Esecuzione
Riflessione
Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Si redige insieme ai bambini una lista di azioni delle quali si vuole sapere se si fa o non si fa, dove e quando. Alcuni esempi: • Dire buon appetito prima di mangiare • Stare seduti in autobus quando una persona anziana è in piedi • Sputare per strada • Fare la linguaccia • Stendere la mano in segno di saluto • Guardare negli occhi la persona con la quale si parla • Interrompere lʼinterlocutore • Toccare una persona mentre le si parla • Togliersi il cappello quando si entra in un luogo chiuso • Chiedere lʼetà a qualcuno • Chiedere a qualcuno che lavoro fa • Chiedere a qualcuno quanto guadagna • Chiamare o rispondere al telefono senza presentarsi • Arrivare con venti minuti di ritardo ad un invito a cena • Portare un regalo quando si è invitati • Scartare un regalo appena ricevuto davanti al donatore • Accettare da bere o da mangiare appena viene offerto • Rubare le cose altrui A partire dalla banale abitudine di dire “buon appetito” prima di mangiare, considerata, dai più, in Italia come in altri paesi europei cortese, ma in alcuni ambienti invece fuori luogo, perché diffusa in altri tempi soprattutto tra i contadini, si può spiegare ai bambini la relatività anche di concetti quali gentilezza e sgarberia. Anche il porgere la mano in segno di saluto, considerato normale dagli occidentali e invadente in India è però soggetto a distinzioni: chi deve porgere la mano per primo? La mano si stringe energicamente o no? ecc. Aiutare i bambini a capire il significato sociale delle regole in qualsiasi convivenza. Non sottolineare tanto il carattere convenzionale delle regole, quanto appunto quello normativo organizzativo. I bambini rischiano altrimenti di pensare che tutte le regole in quanto convenzioni legate al contesto possono essere ignorate ovunque. È anzi vantaggioso per tutti insegnare alcune regole della buona educazione del luogo dove ci si trova, sottolineando lʼaspetto di attenzione agli altri che queste regole veicolano. Questo è il tipico caso in cui un esercizio interculturale può risultare molto utile a TUTTI. Con i bambini più piccoli si lavorerà su regole semplici. Un esercizio successivo può essere quello di abituarsi a riconoscere un determinato ambiente dalle sue regole. E quindi ad esempio identificare la diversità delle regole che vigono a casa, a casa dei nonni e a scuola. I bambini possono imparare a identificare un contesto e definirlo in base alle sue regole. Per i bambini già scolarizzati in un altro paese o in unʼaltra scuola si possono confrontare le regole delle scuole. Unʼulteriore riflessione può vertere sulla differenza tra le regole che si ritiene dover rispettare ovunque ci si trovi e quelle che invece si “infrangono” in contesti nei quali non sono importanti. Per gli insegnanti si consiglia le lettura del testo “Parole comuni culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale” di P. Balboni, Marsilio, Venezia, 1999. In esso viene affrontato il tema di come la diversità culturale incide sulla comunicazione e sugli usi comuni.
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Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo
Chi è il mediatore? Un gruppo di bambini a scuola o nellʼextrascuola. A completamento di un progetto sulle modalità di conoscenza di altre culture, si vuole presentare una professione emergente.
Cartelloni e pennarelli colorati. Lo scopo dellʼesercizio è far capire agli allievi lʼimportanza della mediazione linguistico-culturale e il divertimento di tradurre da una lingua allʼaltra. Lʼinsegnante prima di invitare il mediatore dovrà suscitare la curiosità dei bambini.
Esecuzione
Si scrive su un grande cartellone lʼindovinello che segue e lo si legge ai bambini con aria misteriosa: La mediatrice è un poʼ una pittrice Dipinge a misura unʼaltra cultura. Il mediatore è un grande oratore racconta qua e là e capisci “a metà” Sapreste per caso spiegare un poʼ a naso che diamine fanno correndo qua e là? Non fate baldoria, capite la storia Se poi state zitti capite i diritti Dirti il colore? Il cuore è rosso La pelle? … non posso!!! Domanda ai bambini: Che cosʼè un mediatore culturale ? Si chiede ai bambini di scegliere tra le risposte che seguono e di verificare con lʼinsegnante e i compagni se hanno indovinato: Un esperto di media Uno che traduce Qualcuno che ha una cultura media Uno che aiuta le persone a capirsi Uno straniero Uno che difende i diritti degli immigrati Poi si spiega ai bambini che nessuna delle risposte è assolutamente esatta e che loro stessi dovranno documentarsi (con lʼaiuto dellʼinsegnante) per trovare la risposta. Inoltre sarà possibile invitare un mediatore e farsi spiegare bene da lui cosa fa. Gli allievi raccolgono dunque informazioni sul mediatore culturale e poi preparano un biglietto per invitarlo e per scoprire chi è veramente. A lui rivolgeranno alcune domande che avranno precedentemente preparato con lʼinsegnante. Dopo lʼincontro: I bambini fanno un disegno che rappresenti lʼincontro e lo commentano a voce o per iscritto.
Riflessione
Dopo lʼincontro si può chiedere ai bambini di pensare a esperienze di mediazione in senso lato che ognuno ha avuto. Mediazione di: conoscenze, regole, istruzioni per un nuovo gioco ecc. Si chiederà quindi loro di fare dei confronti su quanto si è appreso sulla mediazione culturale. “Ognuno è straniero in quasi tutto il mondo”. Questo come altri giochi di parole può aiutare i bambini a confrontarsi con i significati dellʼessere straniero, il che non significa necessariamente sentirsi estraneo. Ad esempio
Approfondimenti
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Approfondimenti
quello che segue gioca proprio sulle sfumature di differenze di significato tra straniero ed estraneo. Fremd ist der Fremde nur in der Fremde. Gioco di parole che significa sia letteralmente “lʼestraneo è estraneo solo nellʼestraneità”, ma anche “lo straniero è straniero solo allʼestero”. Confronta anche il ricco sito sulla mediazione www.didaweb.net/mediatori/ dwmediatori.htm
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali
Albero genealogico “pensante”, “parlante” e “viaggiante”. Tutti i bambini e volendo anche gli insegnanti. I bambini lavorano sulla storia della propria famiglia. Un cartoncino colorato almeno formato A3 per ogni bambino. Pennarelli, colla, carta da collage, forbici
(segue)
Obiettivo
Esecuzione
Attenzione a
Ricostruire molto semplicemente il succedersi delle generazioni (3 o 4) nella propria famiglia, mettendo in evidenza le lingue parlate in casa tra genitori e nonni e alcuni tratti del carattere di ogni “pezzo dellʼalbero”, nonché gli spostamenti di casa, quartiere, città o nazione di ognuno. Si disegna un modello di albero alla lavagna, oppure si proietta una diapositiva di un grande albero che vada leggermente restringendosi verso lʼalto. Lʼalbero deve avere tre o quattro piani a seconda del numero di generazioni che si vogliono prendere in considerazione. Bisogna specificare ai bambini che non dovranno rendere spiegazioni di eventuali “buchi” nei riquadri dellʼalbero genealogico. Al posto del nome mancante potranno fare un disegnino. Ogni storia di famiglia contiene aspetti gioiosi e altri dolorosi. Gli insegnanti dovrebbero presentare la proposta di questa attività ad una riunione con i genitori e capire se questa attività crea a qualcuno delle difficoltà e quindi eventualmente ridefinire la proposta in modo che non risulti spiacevole o imbarazzante per nessuno. È necessario essere attenti anche alle resistenze vaghe e poco articolate e cercare in questo caso di approfondirne le cause in separata sede.
Varianti
Scrivo la storia “di famiglia”: Intervista ai miei genitori. Versione semplificata: scrivo la storia di genitori e nonni.
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali
Adotto… un paese! Bambini, individualmente o a coppie. Lezione di geografia o progetto interdisciplinare. Atlante, libri di geografia, giornali, una scatola, un quaderno, computer, collegamento Internet, e un CD registrabile per ogni paese nel caso si possa e si voglia creare un piccolo archivio multimediale. Ogni bambino, o ogni coppia di bambini, si “prende a cuore” un paese tra quelli che figurano ai primi posti nelle statistiche di paesi di provenienza degli immigrati in Italia. Impara a conoscere questo paese nel corso dellʼanno scolastico o addirittura di un ciclo scolastico e si prepara a diventare un esperto di questo paese. Ogni bambino, o coppia di bambini, sceglie il paese del quale si vuole occupare e dispone di un quadernone dedicato e di una grande scatola per rac-
Obiettivo
Esecuzione
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Esecuzione (segue)
Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali
cogliere il materiale. Settimanalmente o mensilmente il materiale viene ulteriormente selezionato, e poi organizzato e catalogato con lʼaiuto dellʼinsegnante. Gli aspetti da prendere in considerazione vengono concordati insieme allʼinsegnante in modo che tutti i bambini abbiano poi una stessa griglia delle priorità da approfondire e dei materiali da raccogliere. Le informazioni vengono raccolte da fonti di vario genere, ma si presterà attenzione anche alle notizie relative a quel paese e ai suoi emigrati, proposte dalla stampa italiana (articoli, foto ecc.). Non pensare (o peggio fare pressioni in tal senso) che i bambini immigrati si vogliano necessariamente occupare del proprio paese di origine. È anzi preferibile incoraggiare una dinamica secondo la quale questi bambini verranno eventualmente utilizzati come esperti dai compagni. A seconda delle età dei bambini si può combinare in modo diverso il tipo di materiali che si raccolgono. I più piccoli raccoglieranno soprattutto figure e impareranno ad individuare il “loro” paese sul mappamondo, i più grandi invece andranno alla ricerca di notizie più dettagliate. Gli insegnanti possono aiutare i bambini utilizzando lʼAtlante De Agostini e il rapporto Caritas sullʼImmigrazione che ogni anno fornisce i dati aggiornati sullʼimmigrazione.
Sento odor di …tutto il mondo. Bambini di tutte le età. Extrascuola o a scuola come integrazione e completamento di unità didattiche riguardanti lʼolfatto. Spezie varie, e cibi preparati, boccettine “porta odori”.
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Obiettivo Esecuzione
Riflessione Attenzione a Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione
Rendere i bambini consapevoli dellʼimportanza dellʼolfatto e abituarli a distinguere e riconoscere gli odori. Collegare odori, luoghi e ricordi. Si prendono spezie e sostanze particolarmente profumate, quali caffè, cacao, cannella, curry, aglio, cipolla, zafferano, chiodi di garofano ecc. Lʼinsegnante li fa odorare ai bambini disposti in cerchio, che devono indovinare il nome della sostanza. I bambini però non dicono le risposte, ma le scrivono su un foglietto nellʼordine di presentazione. Ciò che invece dicono è cosa ricorda loro quellʼodore, se lo conoscono o no, se piace loro o no. Alla fine dello scambio tra bambini ognuno scrive un breve pensiero su ciò che uno degli odori gli ha evocato. Il gioco può essere svolto singolarmente o a squadre. Alla fine vince chi ha indovinato il maggior numero di odori e chi ha descritto meglio il ricordo. Il gioco fa razionalizzare ai bambini lʼesperienza del ricordo evocato dagli odori: è importante creare un clima di ascolto reciproco, che non esclude poi il divertimento dei commenti ad odori per qualcuno meno gradevoli. Non stigmatizzare odori forti come oggettivamente fastidiosi, ma spiegare ai bambini come anche dietro agli odori esista una questione di consuetudini e gusti diversi sia dal punto di vista soggettivo che dal punto di vista culturale. I bambini (singolarmente o a squadre) preparano gli odori da far riconoscere ai loro compagni. I bambini “preparano” un odore/profumo e una storia ad esso collegata da raccontare ai compagni; (questa variante può essere proposta dopo aver già svolto una delle altre attività). Per i bambini piccoli lʼattività può venire semplificata a piacimento. Per gli insegnanti può essere divertente prepararsi a questa attività con i bambini leggendo i libri: • “La maga delle spezie”, di C.B. Divakruni, Einaudi, Torino,1988. • “Lʼodore dellʼIndia” di P.P. Pasolini, Guanda, Parma,1990. E vedendo il film “Come lʼacqua per il cioccolato” di A. Arau, Messico, 1992. Buongiorno io sono… Bambini dagli otto ai dieci anni. Simulazione di una trasmissione radiofonica o televisiva. Attività sulla multimedialità.
Materiali Obiettivo
Carta penna, registratore audio, video registratore. Consolidare le abilità di autopresentazione. Imparare a comunicare le informazioni che riguardano la propria persona. Distinguere le informazioni principali da quelle secondarie. Selezionare cosa si vuole e si può dire pubblicamente e cosa no. Organizzare le informazioni essenziali per “riempire” un intervallo di tempo limitato in una trasmissione.
esecuzione
Si spiega ai bambini che si vuole simulare una trasmissione nella quale ognuno ha uno spazio di tre o quattro minuti per raccontare la propria storia. In una prima fase del lavoro si invitano i bambini a scrivere un piccolo tema su tutto ciò che viene loro in mente relativamente alla loro storia. Successivamente si seleziona il materiale scritto, verificando che la lettura non superi il tempo previsto e si sottopone la storia ad un compagno per avere consigli. Successivamente si passa allʼillustrazione della storia.
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Esecuzione (segue)
Riflessione Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali
Dopo alcune prove si cominciano le riprese o le registrazioni audio (in questo casa non è necessario avere delle illustrazioni) Traccia per una scaletta: • Come mi chiamo • Mi descrivo (variante radiofonica se le riprese video risultano complicate) • Perché mi chiamo così • Dove sono cresciuto • La mia famiglia • I miei fratelli • I miei giochi • I miei libri, cartoni, sport ecc. Il lavoro può essere poi montato con lʼaiuto di un tecnico e rivisto tutti insieme, e regalato ai genitori per far conoscere meglio tutti i compagni. È importante che lʼattività aiuti i bambini a riflettere sulla propria storia. Possibilmente i bambini dovrebbero coinvolgere i genitori in questo lavoro.
La descrizione del proprio aspetto fisico è un ambito che può essere spinoso per alcuni bambini. Gli insegnanti devono quindi gestire questa descrizione con la dovuta delicatezza. Ogni bambino includerà o tralascerà forse il colore dei capelli, degli occhi o della pelle: le precisazioni del tipo “di che colore è la tua pelle” possono essere richieste solo a quei bambini che hanno già mostrato di non avere difficoltà in proposito. Indirettamente tuttavia queste domande potranno essere raccolte anche da altri, che restano tuttavia liberi di darvi risposta o di sorvolare. Se si decide di affrontare questo aspetto è bene proporre ai bambini in un primo momento una trasmissione radio e poi una video, altrimenti lʼautodescrizione rischia di passare in secondo piano. La timidezza non va forzata e per i bambini più timidi si può lasciare libero il tempo della durata del “pezzo”. Le storie troppo lunghe invece vanno in un primo momento “tagliate” come le altre e poi valorizzate in altri momenti o situazioni e comunque esaminate con attenzione, gratificando il bambino. Non è necessario che i bambini impostino il loro lavoro tutti allo stesso modo. Una volta scelte le priorità circa le cose che si vogliono dire ognuno può trovare una modalità propria di espressione o di autorappresentazione. Per i bambini più piccoli si può cominciare con un tempo di due minuti di “registrazione” per uno. La stessa metodologia può essere seguita per scrivere la storia della famiglia. In questo caso i genitori avranno un ruolo determinante. Si può discutere con i bambini sullʼattività svolta, sulle difficoltà incontrate e analizzare insieme pregi e limiti del lavoro finito. Conoscersi o addomesticarsi? Bambini. Un gruppo o una classe che già si conosce da un poʼ. Nella classe tutto fila liscio, ma le relazioni tra i bambini sono aggressive e superficiali. Alcuni brani scelti dallʼinsegnante sul tema dellʼaddomesticamento, tratti da “Il piccolo principe”, di A. de St. Exupéry, Bompiani, Milano, 1993 e da “Lʼocchio del lupo”, di D. Pennac, Salani, Milano, 1993.
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Obiettivo
Esecuzione Riflessione Attenzione a
Varianti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo
Esecuzione
Riflettere su come si conosce qualcuno, come di diventa amici e come ci si addomestica vicendevolmente. Capire cosa sono i rituali e le consuetudini che creano e rafforzano un legame e quali invece possono essere gli ostacoli allʼamicizia. Si chiede ad ogni bambino di descrivere un amico o unʼamica e poi di ricostruire come si è diventati amici ovvero di ricordare le tappe salienti dellʼamicizia. Perché sono importanti i rituali ? Quali rituali ci piacciono e quali ci danno fastidio e perché ? Chiediamo ai genitori e ai nonni di raccontarci un rituale di famiglia? Si tratta di un tema da affrontare creando un clima particolarmente tranquillo e rilassato, disponendosi in cerchio. Lʼesperienza di addomesticamento fa parte del vissuto di ogni bambino anche se in modi molto diversi. È importante essere aperti a tutto ciò che il bambino sente come addomesticamento. È fondamentale anche aiutare quei bambini che in un primo momento sembrano non capire di che si tratti, a ricordare e ad analizzare la propria esperienza. Evitare di fare riferimento a situazioni della classe che potrebbero creare imbarazzi o gelosie e mettere a rischio la serenità e la serietà del clima. Il Piccolo Principe è tradotto in moltissime lingue. Per bambini che non conoscono bene lʼitaliano si potrà procurare nella loro lingua ed eventualmente chiedere ai genitori di leggerlo a casa nello stesso periodo in cui si legge a scuola. Si parte dalla lettura in cerchio di uno dei due testi sopra indicati, lettura che si svolge in momenti ricreativi o di rilassamento per i bambini.
Le date nel diario. Bambini e famiglie. Inizio dellʼanno scolastico. Si indice la “settimana del diario scolastico”. Il diario di ogni bambino e alcuni cartelloni colorati. Approfondimento delle relazioni temporali e della periodicità degli eventi. Conoscenza dei festeggiamenti importanti per i vari bambini. Inserire nel diario le date importanti per tutti i bambini distinguendo ricorrenze: personali, familiari, religiose e in genere le vacanze. Si chiede ai bambini di prendere il proprio diario e di spiegare ai compagni la scelta di quel diario, motivandola. Si propone poi una personalizzazione del diario annotando le vacanze e le ricorrenze importanti nelle varie famiglie. Sempre più spesso i diari scolastici sono pensati per essere utilizzabili in qualsiasi anno e sempre più raramente quindi riportano le date delle vacanze o delle ricorrenze ad esempio di tipo religioso. (Generalmente allʼinizio dellʼanno ogni bambino annota almeno la sua data di compleanno ). Si propone quindi una personalizzazione del diario che tenga conto dei compleanni di tutti gli appartenenti al gruppo e delle feste che in ogni famiglia si festeggiano in modo particolare. Si insiste soprattutto sulla descrizione delle tradizioni nelle varie feste, nei vari modi di festeggiare. Si può quindi proporre di riportare le date su quattro cartelloni diversi che distinguono aspetti personali, familiari, culturali e religiosi, e di vacanza.
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Esecuzione (segue) Attenzione a
Ad esempio si scopre che “primo maggio” e “venticinque aprile” sono le uniche feste (e vacanze!) di origine laica in Italia. E negli altri paesi?
Non necessariamente la religione gioca un ruolo nella vita dei singoli e delle famiglie, italiane o straniere che siano.
Approfondimenti
Collegata a questa attività si può in un secondo momento proporre quella dei calendari nella sezione 4.
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali
Paese che vai… usanza che trovi 2. Insegnanti e genitori. Riunione tra insegnanti, riunione con i genitori, riunione con il mediatore. Brevi schede che pongono questioni educative sulle quali discutere, ed eventualmente videoregistratore e videocassette.
Obiettivo
Esecuzione
Creare uno spazio per le questioni di tipo culturale e religioso che si possono prospettare nel corso dellʼanno, aprendo in modo ufficiale un canale di comunicazione con i genitori e tra genitori. Evidenziare che lo stile educativo familiare non coincide con la cultura del paese di origine, dato che esistono differenze anche tra i genitori italiani. Discutere le questioni educative acquisendo così conoscenza delle diverse abitudini delle famiglie. Si preparano alcune schede con dilemmi possibili8. Esempio A: il telefonino in classe: “Pensate sia giusto?”: 1) Proibirlo 2) Permettere di averlo nello zaino, ma spento 3) Tenerlo acceso, ma silenzioso 4) Tenerlo acceso solo a ricreazione Esempio B: i genitori di un bambino di religione musulmana chiedono che il figlio non mangi la carne di maiale a scuola: quale soluzione ritenete migliore e perché. 1) Si promette che si eviterà di farglielo mangiare a scuola e si mantiene la promessa 2) Si dice che se il bambino lo chiede è suo diritto assaggiarlo e quindi non si garantisce al genitore che non lo mangerà 3) Si promette che si eviterà di farglielo mangiare a scuola e non si mantiene la promessa, perché convinti che è diritto del bambino assaggiarlo. Esempio C: nella scuola materna si gioca con alcuni prodotti alimentari per far sperimentare ai bambini diverse sensazioni tattili. Ad esempio si utilizzano riso, farina e zucchero, anche per farci camminare i bambini con i piedi nudi. Alcuni genitori ritengono che non si possa giocare con il cibo o comunque non si debba toccarlo con i piedi. 1) Si decide di toccare il cibo solo con le mani 2) Si utilizza solo il cibo che poi può essere cotto e quindi non viene sprecato (cereali, legumi ecc. ) 3) Si trovano materiali alternativi 4) Giocano solo i bambini che hanno il permesso dei genitori 5) Nessuna delle famiglie ha difficoltà e quindi lʼattività viene “assolta per sempre” fino a quando non arriva un bambino nuovo.
8 L’autrice opta per le risposte A1, B1, C1 oppure C2, ma queste posizioni possono non essere condivise.
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Riflessione Attenzione a Varianti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Riflessione Attenzione a
Si tratta solo di esempi, ma la riflessione che ne può scaturire aiuta a conoscersi e apre un canale di comunicazione e di confronto tra scuola e famiglie.
Scegliere come prima cosa delle tematiche che non riguardano direttamente il gruppo o lʼimmigrazione e solo in un secondo momento affrontare le questioni immediatamente collegate alle dinamiche di quel preciso contesto. Si chiede a tutti i genitori di proporre dei temi educativi sui quali discutere. Per affrontare con i genitori tematiche interculturali si organizzano degli incontri pomeridiani (si può invitare un mediatore) per visionare insieme dei film e discuterne insieme le tematiche. Si possono prendere ad esempio: East is east di D. OʼDonell, GB, 1999; Segreti e bugie di M. Leigh GB/ Francia, 1996; Fai la cosa giusta di S. Lee, USA, 1989; Le regole della casa del sidro di L. Hallström, USA, 1999; A spasso con Daisy di B. Beresford, USA, 1989; Il destino di Y. Chahine, Egitto/Francia, 1997; Anna and the king di A. Tennant, USA, 1999; Lamerica di G. Amelio, Italia, 1994. Cfr. anche il testo “Incontriamoci al cinema, proposte interculturali”, di M. Pursumal, A. Gallone, UNICEF, 2001.
Pronto chi parla… Bambini di tutte le età, possibilmente con il coinvolgimento dei genitori a casa. Scuola o extrascuola, grandi spazi dove ogni bambino possa registrare la conversazione.
Materiali di recupero per costruire un telefono, registratore, una audiocassetta per bambino. Incoraggiare la comunicazione con una persona cara che sta lontana, nella lingua che il bambino preferisce.
Si spiega ai bambini che simuleranno una conversazione telefonica con una persona lontana che vedono poco. Si spiega che la conversazione può avvenire in qualsiasi lingua o dialetto, comune al bambino e alla persona con la quale “parla”. Eventualmente per trascrivere e successivamente tradurre la conversazione i bambini potranno chiedere aiuto ai genitori o a un mediatore, se preferiscono. Si mettono a disposizione i materiali di recupero e si costruisce il telefono. Ogni bambino trova un suo angolino silenzioso dove effettuare la conversazione e registrarla. Una volta effettuata la registrazione definitiva (i bambini potranno fare delle prove) lʼinsegnante raccoglie le cassette e chiede ai bambini di raccontare brevemente ai compagni a chi hanno telefonato e perché. Il compito per casa consisterà nella trascrizione ed eventualmente traduzione della telefonata, compito per il quale i bambini avranno due settimane di tempo, così da poter facilmente ricevere lʼeventuale aiuto del quale hanno bisogno. Che significa voler bene a qualcuno da lontano. Come si mantengono i legami affettivi quando si è lontani.
Non necessariamente lʼinterlocutore deve essere in unʼaltra città. Ogni bambino ha un concetto relativo di vicinanza e lontananza. Non è detto che il bambino immigrato voglia fare la conversazione in una lingua diversa dallʼitaliano, quindi può essere invitato a farlo inizialmente come tutti gli altri bambini, altrimenti lʼattività rischia di risultare pesante per lui e di diventare unʼetichetta. Se invece non parla ancora bene lʼitaliano lo si inviterà esplicitamente a farlo nella sua madre lingua.
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Varianti
Lʼattività può anche essere svolta a casa, con un registratore proprio oppure affidando a turno quello della scuola ad ogni bambino.
1. Per conoscersi ancora un po’… Un sito per grandi e piccini: http://www.kidlink.org
Per mettersi in comunicazione con bambini di tutto il mondo in VENTI lingue diverse (per ora!!) KIDLINK offre interessantissime possibilità di confronto interculturale anche a genitori, insegnanti e ricercatori. Si può interagire grazie alla rete privata di chat, ma anche utilizzando i moduli didattici proposti e confrontandosi poi con altri insegnanti che li hanno sperimentati. Si possono spedire commenti e suggerimenti. I volti di tanti bambini diversissimi incitano all’apprendimento cooperativo in rete e lasciano intravedere un modello possibile di comunicazione globale a misura di sentimenti, vivacità e curiosità. Un’avventura che sembra proprio valga la pena provare.
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2. Libroni e libretti • Assessorato Politiche Educative Comune di Roma Un libro lungo un mondo, Giunti, Firenze, 1996. Brevi storie di bambini alternate a piccole favole di paesi lontani. • Jelinek T. S. Kaddish per i bambini senza figli, Edicolors, Genova, 2000. Ricordando i bambini morti nei campi nazisti. • Montanari D. Bambini di tutti i colori, Fabbri Editori, Milano, 1998. Allegro per tutti, descrive il modo di vivere dei bambini nei vari paesi. • Damon E. I bambini del mondo, La Nuova Frontiera, Roma 2000. Un libro pop up per scoprire le differenze. • Il tuo primo libro dei bambini di tutto il mondo Larus, Bergamo, 1992. Consigliato dai quattro ai sette anni, ma suggestivo anche dopo come punto di partenza per riflessioni e per lo stile dei disegni. • Collana Tu non sai chi sono io, FATATRAC, Firenze
Vieni a casa mia? Com’è il tuo paese? I bambini italiani e i bambini cinesi?
La strada delle stelle Le mille e una parola Dialogo con il mondo arabo.
La primavera viene all’improvviso Ogni bambino ha la sua stella Incontro con la cultura curda.
Cici Daci Dom La casa del sole e della luna Incontro con la cultura rom.
A. Giorgetti, V. Mazza. Mettiamo su casa nel mondo, Mondadori. Case cartonate da montare.
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• Collana di libretti cartonati per i più piccoli, Fabbri Clementoni, Recanati La mia amica Cirleia Il mio amico Adissu Il mio amico Harish La mia amica Lyn ecc. • Il mondo in gioco, Gruppo Abele, Torino, Percorsi ludici e repertorio di giochi per l’educazione interculturale. • A.Arnold Giochi dei bambini di tutto il mondo, Mondadori, 1981. • Daniela Orsi Incontri colorati, Educazione interculturale: progetto per un percorso di pedagogia interculturale, Junior, Bergamo,1999. Propone percorsi di lavoro su brevi fiabe. • Marabotto P. Il paese dei colori, Lapis, Roma, 2001. • Tong D. Storie e fiabe degli zingari, Tea ed., Milano, 1997. • Collana economica della fiaba, Giunti. • Collana di miti leggende e fiabe da tutto il mondo, Arcana Editrice, Milano. • Lazzarato F. ,V. Ongini Favole • Collana economica di fiabe e miti, Mondadori • Le favole del mondo, Città Nuova, v. anche www.icoloridelmondo.com Libri e libri attività. • Fiabe dal mondo, Campo Marzo Ed., Bologna. Per i piccoli. • Fiabe e leggende del pianeta terra, Demetra, Colognola ai Colli (VR).
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SEZIONE IV
Migrazione e futuro: laboratorio come progetto
Le attività che in questa sezione vengono proposte hanno lo scopo di sottolineare una dimensione progettuale del laboratorio interculturale. È importante infatti che la prospettiva educativa interculturale non si limiti a seguire delle istruzioni finalizzate all’accoglienza di un bambino immigrato, ad una ricostruzione del suo passato, o ad una conoscenza delle culture e dei paesi di provenienza dei bambini immigrati, viste come separate dal presente, ma diffonda un approccio progettuale all’interculturalità, vista come costruzione di cose nuove in una società nuova, come racconto di esperienze e produzione di strumenti che aiutino la comunicazione interculturale. Questa dimensione va promossa tra i bambini, dato che saranno loro a gestire la società di domani. È importante inoltre tener conto delle potenzialità dinamiche delle situazioni delle famiglie immigrate non considerando queste ultime in funzione del loro passato o di un ipotetico ritorno nel paese di origine. Pertanto è indispensabile creare per i bambini, alloctoni e autoctoni, uno spazio di progettazione interculturale che li aiuti a ricomporre in modo creativo le conoscenze acquisite sulle culture, a progettare, tra fantasia e realtà, occasioni interculturali, nonché a cimentarsi nella ricerca di soluzioni a situazioni interculturali problematiche. I materiali che i bambini produrranno nel laboratorio interculturale, presumibilmente ad uso prevalentemente interno, diverranno oggetto di ulteriore approfondimento delle tematiche interculturali, una volta che verranno mostrati ai genitori e ai mediatori culturali chiedendo loro esplicitamente di contribuire alla riflessione interculturale e di esprimere il loro punto di vista con suggerimenti, critiche e proposte. Non è da escludere poi che alcuni lavori anche grazie ai collegamenti telematici ormai abbastanza diffusi tra le scuole, possano essere scambiati e commentati con altre scuole, e così confrontati anche con i lavori di altri ragazzi. Come primo esercizio prevalentemente progettuale si può ad esempio proporre ai bambini la stesura delle regole scritte e non scritte che vigono nella classe o delle regole supplementari che si intendono discutere e mettere ai voti, con l’aiuto dell’insegnante. Successivamente si può passare alla realizzazione di progetti didattici finalizzati alla costruzione di piccoli dossier, raccolte di racconti o di esperienze ecc., collegamento in rete con altre scuole per discutere questioni riguardanti l’interculturalità. Le attività suggerite in questo modulo sono pensate per delle classi o dei gruppi che si conoscono già da qualche tempo e dei quali fanno parte ragazzi autoctoni e alloctoni che hanno un
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livello discreto di conoscenza della lingua, ma soprattutto ragazzi che sono già abbastanza abituati a lavorare insieme e hanno già sperimentato almeno alcune delle attività precedentemente suggerite. Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Riflessione Attenzione a
Varianti
Le regole comuni. Classi di tutte le età. Qualche tempo dopo lʼinizio di un nuovo anno. In seguito ad un conflitto o ad un episodio spiacevole.
Fogli di carta, pennarelli colorati, colla, forbici, cartelloni. Imparare ad individuare, analizzare, e eventualmente ricontrattare le regole del contesto nel quale si vive, introducendone nuove e apportando modifiche a quelle esistenti che si rivelino inadeguate. Si riprende lʼattività “Paese che vai, usanza che trovi” e si chiede ai bambini di individuare le regole principali sulle quali si fonda la vita della classe, di distinguere quali sono decise dal direttore, quali dagli insegnanti, quali sono “spontaneamente” osservate, e quali sono stabilite dagli allievi. In un secondo momento si chiede agli allievi di pensare a delle nuove regole che potrebbero essere utili, di proporle e di discuterle. Vengono quindi votate le regole che si vogliono introdurre. Si chiede poi ai ragazzi di indicare se ci sono delle regole che sono legate al fatto di essere un gruppo multiculturale. Infine si chiede di individuare alcune regole essenziali da rispettare in un contesto multiculturale (scolastico o non) per proporle a classi o gruppi che si trovano in situazioni analoghe. Ogni regola dovrà essere corredata da una sua illustrazione scritta, ideata e articolata in lavori a gruppi. Le regole che sono state decise per la classe o il gruppo potranno poi essere organizzate in modo creativo e colorato e affisse in classe. Alla fine di questa prima parte di attività i bambini chiederanno ai loro genitori di confrontare le regole “decise” dai figli con quelle che ricordano della loro classe alla stesa età: ogni bambino potrà raccogliere le notizie ricevute dai genitori e poi confrontarle con quelle degli altri genitori. Il nuovo cartellone conterrà le “regole dei genitori” e verrà anche questo analizzato dal punto di vista delle differenze culturali. È importante aiutare i ragazzi a riflettere in corso dʼopera, dal momento che alla fine si concentreranno soprattutto sulla confezione dei cartelloni. Anche in questa attività è essenziale che gli adulti non cerchino a tutti i costi elementi legati alla diversità culturale, ma che aiutino a lasciar spazio alla dimensione interculturale laddove emerge spontaneamente e ad incoraggiarne la manifestazione, laddove questa è sentita dai bambini a qualsiasi livello. È bene incoraggiare gli allievi a compiere questa attività, con la finalità di mettere a disposizione anche ad altri i risultati del lavoro svolto. Si può proporre ai bambini come ulteriore attività di redigere tutti insieme un opuscoletto che aiuti tutti coloro che arriveranno nella classe ad apprenderne facilmente le regole, almeno quelle più necessarie ad un primo orientamento. Ad esempio una regola interessante ed utile da introdurre potrebbe essere quella di chiedere sempre spiegazioni quando non si capisce qualcosa (sia dal punto di vista linguistico che da quello concettuale) sapendo che nessuno si spazientisce.
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Approfondimenti
È interessante che insegnanti e allievi possano riflettere a partire da questa attività sul fatto che lʼesercizio è utile a tutti i bambini e che il laboratorio interculturale funge da spunto per conseguire un obiettivo utile a tutti.
Attività Destinatari Contesto/Situazione
Inventare problemi matematici collegati al discorso delle migrazioni. Insegnanti. Lezioni di matematica e geometria, collegate alla geografia o ad altre problematiche che possono essere vicine alla vita quotidiana dei bambini immigrati o delle loro famiglie. Inserire nei problemi di matematica che si fanno risolvere ai bambini temi riguardanti lʼimmigrazione
Obiettivo Esecuzione
Attenzione a Approfondimenti
Prendendo spunto ad esempio dallʼeconomia dei paesi di emigrazione e dai prodotti che da essi vengono esportati, o dalle distanze geografiche, si cerca di familiarizzare i bambini con le tematiche dellʼimmigrazione, ma anche di trovare temi che accomunano tutti i bambini, sia pure in modo diverso. Esempi: • Compravendita di prodotti etnici. • Costi di traduzione di opere letterarie scritte in altra lingua, o di documenti. • Cambio di valuta. • Calcolo dellʼarea di un appartamento e del prezzo di vendita o di affitto. • Approvvigionamento di un ristorante o di un negozio per prodotti di importazione. • Cambio di biglietto aereo e penalità. • Calcolo distanze tra paesi. • Costi delle chiamate internazionali. Non collegare direttamente i problemi ai singoli bambini e nemmeno solo ai paesi di immigrazione “rappresentati” nella classe.
Per rendersi conto di come nemmeno i problemi di matematica possono vantarsi di essere “neutri” si può dare unʼocchiata allʼinteressante documentazione della BDP, nella sezione dedicata ai problemi di matematica del periodo fascista.
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Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo
Esecuzione
Riflessione Attenzione a
Che anno è, che giorno è? I bambini che costruiscono un calendario da regalare alle famiglie alla fine dellʼanno scolastico, per lʼanno successivo.
Primi mesi dellʼanno in una classe che ha già lavorato sui temi dellʼintercultura. Calendari “vuoti” o fogli per costruire i calendari, materiali di recupero, vecchi calendari – per prendere spunti grafici – forbici, colla, riviste, foto, possibilmente computer, stampante e collegamento internet. Ricerca di informazioni su uno strumento onnipresente nelle nostre vite quale il calendario. Progettazione e realizzazione di un calendario che tenga conto delle principali festività che si festeggiano nel mondo, ma in particolare che tenga conto di quelle importanti per le famiglie degli allievi della classe o del gruppo impegnato nel lavoro. Si assegna ai bambini un compito di ricerca di informazioni sul calendario, come strumento di misurazione del tempo e dei calendari come espressione della scelta di modalità di codifica del tempo nelle diverse epoche e nelle diverse culture. Si individuano i punti di riferimento rispetto ai quali i calendari sono organizzati, in particolare lʼevento rispetto al quale è concepito ogni calendario. Si progetta la costruzione di un calendario che contenga i diversi calendari che si sono “scoperti” o almeno i principali. Si riprendono i diari scolastici personalizzati grazie allʼattività “Le date del diario” . Si decide il livello di dettagli che si vuole dare al calendario, che dipenderà dallʼetà dei bambini. Ad esempio si possono indicare solo le feste principali, oppure decidere di segnare anche lʼinizio e la fine delle vacanze nelle scuole di amici che vivono lontano. Si individuano le feste alle quali si vuole dare una rappresentazione grafica e si comincia a cercare della documentazione, e delle immagini, nonché ad analizzare modelli di calendari. Si scelgono le dimensioni e la veste grafica da dare al calendario (quanto testo, quante spiegazioni). La classe può dividersi il lavoro per mesi: ogni gruppo si occupa di un mese oppure in modo tale che ogni gruppo faccia verosimilmente un lavoro trasversale rispetto ai vari paesi. Naturalmente i vari gruppi si consulteranno e collaboreranno per il reperimento delle fonti informative (genitori compresi!). È importante sottolineare i tre obiettivi che seguono: a) lʼacquisizione di informazioni b) la conoscenza reciproca c) la progettazione di un oggetto interculturale. Si discute con i ragazzi sulla data di inizio di un calendario interculturale: si sceglie di dare la priorità alla praticità del calendario o di partire da una data che il gruppo stabilisce insieme (es. fine della scuola).
Non penalizzare i bambini che esitano e fornire delle date di festività da inserire nel calendario. Non è detto che le feste del loro paese di provenienza vengano festeggiate in famiglia o che i bambini le conoscano. Lʼorigine religiosa di una festa e la commistione di sacro e profano sono aspetti ormai integrati ed accettati nelle società occidentali e laicizzate. Non è detto che ciò avvenga allo stesso modo dappertutto, ma non è nemmeno detto che gli “altri” siano necessariamente più ortodossi. È quindi necessario fornire ai bambini un supporto nella ricerca di fonti e di informazioni, ma far
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Attenzione a (segue)
Varianti
riferimento alla cultura familiare e personale del bambino per comprendere il significato da lui attribuito a feste e pratiche. Si fa anche ricorso ai genitori chiedendo ai bambini di coinvolgerli nellʼattività di aiutarli a ricordare o a raccogliere informazioni. Si può optare per diversi gradi di approfondimento dei contenuti delle festività o dei particolari di rituali e usanze ad esse collegati.
Approfondimenti
Come viene condizionata la nostra mentalità dal calendario che seguiamo? Dove si è imposto il calendario cristiano e perché?
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali
Il libro di ricette. Bambini che preparano un regalo per le famiglie. Una classe o un gruppo che ha già lavorato sui temi dellʼintercultura. Libri di cucina, menu di ristoranti, macchina fotografica, computer, collegamento Internet.
Obiettivo Esecuzione
Attenzione a Varianti
Attività Destinatari Contesto/Situazione
Ideazione e realizzazione di un prodotto interculturale. I bambini fanno una ricognizione dei loro piatti preferiti e si prefiggono di realizzare un quaderno di ricette che permetta a chi lo riceve di preparare alcuni pasti completi con piatti tipici o meno tipici di vari paesi del mondo. Le fasi di lavoro possono comprendere lʼassaggio dei cibo, in ristoranti o nelle case, il reperimento delle ricette, la compilazione di menu assortendo pietanze di vari paesi. Tutto ciò può avvenire in incontri festosi della classe o del gruppo, o in piccoli gruppi che si riuniscono in una casa con lʼaiuto di un genitore. Le fonti dei bambini saranno i genitori, gli insegnanti, ristoratori di fiducia, internet o libri di cucina, ma il consiglio delle pietanze deve basarsi sullʼesperienza personale. Saranno quindi da privilegiare libretti brevi e semplici, ma che partano davvero dai bambini piuttosto che complicate indicazioni di manicaretti che nessuno ha mai assaggiato e tantomeno provato a preparare. Nellʼesecuzione del libretto si può dare la priorità alla quantità delle ricette, scritte quindi al computer, oppure alla cura della grafica e dei colori. Lasciare tempo ai bambini per contattare anche nonni lontani o per tradurre le ricette e reperire gli ingredienti. Chi non ha i nonni chiede ad una zia o alla mamma. Chi ha i nonni che non amano la cucina cerca un libro di ricette. Le ricette della nonna o del nonno: ogni bambino chiede a un nonno o nonna una ricetta e la porta a scuola. Le ricette vengono scambiate e ogni nonna o nonno prova a cucinarne una. Alla fine si vota il piatto più buono con un premio a chi lʼha suggerita e uno a chi lʼha preparata. Con analogo procedimento si possono progettare altri libri interculturali, sempre coinvolgendo genitori, nonni e …fantasia: • un libro di favole • un libro di giochi • un libro di oggetti Piccoli vocabolari. Bambini di tutte le età. La classe lavora sulla lingua e sulla comunicazione.
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Materiali Obiettivo Esecuzione
Riflessione
Carta penna, colori, registratore audio o video. Far ragionare i bambini su come si costruisce un vocabolario e su quali altri elementi sono necessari per trasmettere una conoscenza linguistica (ad esempio un vocabolario “parlato”). Si introduce con i bambini il discorso della traduzione riprendendo se è stata svolta lʼattività e i materiali dellʼattività “Parole Ponte”. Si fa una selezione delle parole e delle frasi che i bambini stessi ritengono indispensabili per iniziare ad inserirsi in un contesto in cui si parla una lingua diversa dalla propria madre lingua, interpellando ben inteso i bambini che hanno vissuto questa esperienza per sapere cosa è stato loro più o meno utile. Si preparano dei piccoli glossarietti per lʼaccoglienza di altri bambini, di un numero di pagine e di densità variabile a seconda dellʼetà dei bambini. Possono essere veri e propri vocabolari che riportano lʼindicazione della pronuncia delle altre lingue oppure dei libretti per aiutare ad apprendere lʼitaliano e quindi “tradotti” da illustrazioni fatte dai bambini stessi o prese dai giornali o dalla pubblicità. I glossarietti possono essere corredati da una cassetta audio registrata dai bambini stessi. Si fanno riflettere i bambini sullʼimportanza di strumenti di comprensione, siano essi persone, libri, audio o video cassette.
Varianti
“Come ti correggo se sbagli: parola, pronuncia o costruzione della frase” Con lʼaiuto dei compagni immigrati che hanno imparato lʼitaliano arrivando nella classe si cerca di stilare un manualetto di istruzioni per imparare a correggere in modo efficace chi impara una lingua senza essere scortese o scoraggiante.
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali
Gli slogan e la pubblicità. Bambini della scuola elementare. Progetto sulla pubblicità. Laboratorio multimediale. Riviste e giornali. Video registratori nelle case dei bambini e a scuola, televisione con possibilità di effettuare una compilation di brevi video.
Obiettivo
Esecuzione
Raccogliere documentazione sulla rappresentazione in televisione della “diversità” tra persone e usi. Costruzione di un piccolo archivio, corredato da commenti degli allievi al materiale raccolto. Rielaborazione del materiale raccolto per inventare slogan su temi legati allʼinterculturalità. I bambini vengono invitati a raccogliere materiale pubblicitario che tematizzi la “diversità” per attirare lʼattenzione su un prodotto o comunicare un messaggio interculturale, collegato più o meno direttamente al prodotto. Per fare ciò lʼinsegnante fornirà alcuni esempi analoghi a quello della campagna contro il razzismo del 1997 (v. riquadro). La raccolta avverrà ritagliando slogan e immagini o registrando pubblicità televisive (un esempio potrebbe essere la pubblicità dei Ringo, nella quale si vedono bambini bianchi e neri giocare insieme, o classicamente le campagne Benetton). La raccolta può essere organizzata in modo tematico: bambini, paesaggi, “esotismo” oppure avvenire liberamente. Un settore interessante può essere anche quello dellʼanalisi dei messaggi del tipo “pubblicità e progresso” oppu-
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Esecuzione (segue)
Attenzione a
Varianti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali
re delle agenzie preposte allʼinfanzia o alla lotta per i diritti umani quali UNICEF ecc. Il materiale raccolto verrà analizzato e commentato in classe e poi ogni bambino sceglierà uno o due messaggi da illustrare e analizzare in un lavoro scritto. Verrà poi catalogato e conservato in una sorta di piccolo archivio. Alle fine si andranno a costruire con il contributo di tutti due prodotti : un album di pubblicità e una videocassetta collettanea. I messaggi pubblicitari devono essere raccolti anche per aiutare i bambini ad analizzare le loro modalità di comunicazione e non solo a seconda del contenuto che trasmettono e soprattutto per insegnare a cogliere anche quanto non viene esplicitamente detto o rappresentato. Nella fase creativa che viene proposta al punto varianti si faccia attenzione a non indirizzare i bambini con i parametri degli adulti, ma a lasciare che ognuno segua un suo originale filo di pensieri e collegamenti per esprimere unʼindicazione “convincente” rispetto al tema in questione. È consigliabile proseguire il lavoro iniziato con questa attività con altre attività creative grazie alle quali invitare i bambini a comporre slogan e pubblicità legate ai temi dellʼinterculturalità. Ecco alcuni proposte da realizzare anche evidentemente utilizzando le immagini e i materiali raccolti: Uno slogan contro il razzismo Uno slogan per incoraggiare il bilinguismo o il pluringuismo Un monito contro gli sbiancanti e gli abbronzanti Uno slogan sui colori della pelle Pubblicizzazione di prodotti utilizzando il linguaggio dellʼinterculturalità.
Costruzione di una mappa interculturale del territorio nel quale si vive. Bambini e testimoni privilegiati del territorio da far interagire con i bambini. Progetto didattico nellʼambito degli studi sociali e/o storici. Pianta della città e/o cartina geografica del territorio, registratore audio, elenchi telefonici, accesso ad un centro di documentazione.
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Obiettivo Esecuzione
Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari
Dare ai bambini la percezione della non monoliticità culturale del luogo in cui vivono.
Si presenta ai bambini il progetto, finalizzandolo alla creazione di una mappatura del territorio dal punto di vista della multiculturalità. Evidentemente la scelta del raggio di azione influirà anche sul reperimento dei “testimoni privilegiati” e sul modo di prendere contatto con essi. Dal punto di vista storico si può ripercorrere la storia degli abitanti di quel luogo, le abitudini linguistiche, i cambiamenti urbanistici o paesaggistici, i monumenti ecc. Si possono consultare dati relativi alla popolazione, oppure in un piccolo centro cercare cognomi non italiani sullʼelenco telefonico e fare delle congetture sulla loro provenienza o origine (mettere in guardia i bambini dallʼeffettuare anche in questo frangente telefonate stando soli) . Verosimilmente si scoprirà che esistevano precedentemente altri concetti di diversità culturale e di estraneità, ma che è sempre arrivato qualcuno da lontano o partito qualcuno per andare lontano o ad esempio cʼè stato un momento in cui sono apparse insegne di negozi con nomi non italiani ecc. Si può ad esempio cercare di individuare una persona molto anziana che parla diverse lingue e andarla ad intervistare. Oppure intervistare un assistente sociale che possa descrivere la tipologia della popolazione immigrata più presente in quel territorio, o anche il gestore di un locale etnico. Si può scoprire se esiste un gemellaggio della parrocchia o di unʼaltra scuola con una comunità lontana ecc. Provare a capire quanti possiedono unʼantenna satellitare e perché.
Non cadere nella ricerca esasperata dellʼesotico. In un piccolo paese dove non ci sono ristoranti etnici ci potrebbero essere interessanti legami con lʼemigrazione italiana e quindi dei contatti interculturali a quel livello. È necessario avere pazienza. La mappatura può avere caratteristiche di “pregnanza” ed “estensione” assolutamente variabile, ma è importante aiutare la classe o il gruppo ad appassionarsi ad un lavoro quasi investigativo. Sia per quanto riguarda lʼesecuzione di questa attività che per le varianti (v.) lʼinsegnante deve incoraggiare i ragazzi a discutere prima, per poi progettare e agire anche individualmente, ma illustrando poi il loro progetto a tutti, essendo pronti ad accogliere le critiche e a tenerle in considerazione. In seguito si può chiedere ai bambini di lavorare di fantasia per progettare insieme luoghi interculturali. • Come organizzeresti un quartiere multietnico: abitazioni, scuole, ospedale, luoghi di culto ecc. • Come organizzeresti un supermercato multietnico nella tua città. Per quali aspetti è importante dare visibilità alla differenza culturale e per quali invece è preferibile che i servizi e gli spazi siano pensati per essere uguali per tutti? Chiedete anche ai vostri genitori un parere!!!
Progettiamo un campo sosta per un gruppo di Zingari (si usa questa espressione per indicare tutti i gruppi che vivono in roulotte e hanno bisogno di campi sosta). Bambini delle elementari.
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Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Riflessioni
Attenzione a
Varianti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Progetto didattico sulla città nellʼambito degli studi sociali. Fogli di carta, colori, materiali di recupero. Avvicinare i bambini al mondo dei viaggianti passando da una prospettiva difensiva ad una attiva e progettuale.
Si invita un esperto a parlare brevemente dei più vicini insediamenti di viaggianti e dei diritti ad essi riconosciuti nelle convenzioni internazionali e nelle leggi nazionali. Ci si sofferma brevemente sulle esigenze legate alla vita nella roulotte e sulle difficoltà di convivenza con gli abitanti “stanziali” della città. Si stila una lista delle principali esigenze e si chiede quindi ai bambini divisi in gruppi di elaborare un progetto per un campo, partendo da esigenze pratiche e integrandole anche con esigenze estetiche, vale a dire il campo deve essere piacevole da vedere e da abitare. Si possono lasciare i bambini totalmente liberi o suggerire gli elementi possibili per la progettazione: alberi, giochi allʼaperto, attacchi per lʼacqua ecc., distanza da altre case e scuole ecc. La riflessione sui progetti può avvenire invitando nuovamente un esperto, meglio se un membro di una comunità di viaggianti o zingari, che valuterà i progetti premiando quello più fantasioso e quello più funzionale e realistico e commentando tutti gli altri. Questa attività non è legata alla presenza di un allievo Rom o Sinti. Bisogna fare attenzione a come proporla nel caso siano presenti allievi appartenenti a famiglie di cultura zingara e vale in ogni caso la pena di consultarsi con gli esperti che si pensa di invitare, prima di avviarla. A integrazione dellʼattività si può chiedere ai bambini di progettare la loro roulotte, se decidessero di vivere come i viaggianti. Andiamo tutti insieme a… Bambini. Studio della geografia. Materiali di recupero. Guide turistiche, cartine geografiche, riviste di viaggi. Divertirsi grazie alla dimensione fantastica del viaggio e allo stesso tempo cominciare a prendere coscienza degli aspetti reali legati alla progettazione e alla realizzazione di un viaggio. Come vorremmo viaggiare? Costruiamo un mezzo fantastico che ci porti nei vari paesi. Si prende ad esempio il paese di origine di uno dei bambini della classe o di uno dei suoi genitori Si raccolgono materiali informativi, e si stila un glossario delle parole necessarie per sopravvivere in quel paese. (possono essere utilizzati alcuni dei materiali raccolti nel corso dellʼattività “Adotto un paese”. Si progetta una visita nella località di provenienza del bambino. Si chiede al bambino se ha delle foto (da fotocopiare e restituire) da mostrare. Poi si approfondiscono i vari aspetti pratico-organizzativi del viaggio: • Quanto costa il biglietto • Quale stagione è migliore • Quale itinerario seguiamo • Chi ci accompagna
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Esecuzione (segue)
Attenzione a
Varianti
• Dove mangiamo, dove dormiamo • Che soldi portiamo – Che soldi usiamo • Che francobolli usiamo per scrivere a casa • Che vestiti portiamo • Cosa possiamo comprare lì • Prepariamo una sacchetta di medicine • Che libro leggiamo in viaggio • Il giro del mondo passando da case amiche!!! Chi mi invita se vado là… I viaggi non devono essere necessariamente esotici. È bene però che riguardino luoghi noti ad uno dei bambini o ad uno dei genitori, che può essere quindi preso come punto di riferimento. Ad esempio il viaggio più vicino ha il vantaggio che forse lo si può realizzare davvero tutti insieme. Analizzando delle guide per adulti e per bambini quali informazioni vorremmo avere che invece risultano carenti.
Approfondimenti
Si possono prendere spunti dalle guide per bambini pubblicate dalla Lapis Editrice di Roma. Per consultazioni di tipo geografico cliccare ad esempio su www.globalgeografia.com
Attività Destinatari Contesto/Situazione
Musica maestro… Bambini e adulti insieme. Si prepara un regalo per le famiglie e per gli insegnanti. Lezione di musica
Materiali Obiettivo Esecuzione
Attenzione a Varianti
Registratore audio o masterizzatore. Cassette audio e CD da registrare. Costruire delle compilation di musica. Far conoscere bambini e famiglie attraverso i loro gusti musicali.
Si decide che tipo di compilation si vuole effettuare (v. Varianti). Si concorda il contributo che ogni bambino darà alla compilation (un pezzo per bambino). Si progetta la grafica della copertina per la compilation, indicendo una piccola gara tra bambini. La copertina potrà essere realizzata al computer o fotocopiando un disegno. Si passa alla fase di registrazione e quindi alla preparazione della copertina e alla confezione del tutto. Nel caso si vogliano coinvolgere i genitori lo si può fare durante una riunione di classe o con lʼaiuto dellʼinsegnante.
Sensibilizzare i genitori riguardo al lavoro che si sta svolgendo, in modo che collaborino con i figli e possano, volendo, cogliere lʼoccasione per far conoscere ai bambini qualcosa del loro passato. Una cassetta o CD con la canzone più nota nella lingua o dialetto dei nostri genitori: i genitori che parlano la stessa lingua o dialetto si metteranno dʼaccordo. Il pezzo di musica preferito da ogni bambino. Un CD con le nostre ninna nanne: ogni mamma o papà canta la sua (in questo caso si tratta di un lavoro di documentazione oppure di un regalo per un fratellino appena nato). • Una cassetta con le nostre canzoni preferite. • La musica che ascolto a casa. • Le canzoni che piacevano ai miei genitori. • Le canzoni dei nonni.
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Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Riflessione
Varianti
Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali Obiettivo Esecuzione
Il giro del mondo vestiti come… i “grandi” che abitano il mondo. Bambini. Approfondimento di geografia o di studi sociali. Riviste di moda, giornali disegni, fotografie di persone vestite normalmente. Costruire la geografia del modo di vestire attuale in un certo numero di paesi concordati.
Si tratta di un progetto a lungo termine che prevede la ricerca di quotidiani dove si rappresenta il modo di vestire. Si possono prendere in considerazione anche le riviste di moda facendo notare ai bambini la discrepanza tra le foto di moda e come si veste la gente. Per capire come si veste la gente risultano più utili rotocalchi e settimanali. I bambini che vivono in famiglie dove si leggono riviste e giornali stranieri possono darsi da fare per raccogliere materiale. Che valore ha il modo di vestirsi per noi e per i nostri genitori. Come si vestivano i nostri nonni da giovani. Come ci vestiamo quando vogliamo essere eleganti. Come si vestono i nostri genitori in occasioni speciali. Il giro del mondo può essere pensato utilizzando gli strumenti più disparati: • Il giro del mondo in poesia. • Il giro del mondo della frutta. • Il giro del mondo delle etichette dei vestiti: trovare etichette provenienti dal maggior numero di paesi. Alcuni prodotti tipici di un certo luogo vengono prodotti altrove. Molti accessori di presepi vengono prodotti in Cina, così come molti souvenir di posti diversi sono prodotti tutti insieme altrove. Tempi e luoghi delle coltivazioni che si sono mescolati.
Il nostro libro dei perché (interculturali), ovvero il “patto dei curiosi”. Bambini di tutte le età. Un gruppo o una classe che ha la prospettiva di trascorrere un periodo di tempo abbastanza lungo insieme. Un “libro” di tutti che resta in classe o in una sede del gruppo. Promuovere nei bambini la curiosità, in quanto voglia di capire. Costruire una memoria delle cose che si sono capite insieme.
Si parla ai bambini del fatto che si trascorre tanto tempo insieme e che è importante abituarsi a chiedere spiegazioni delle cose che non si capiscono sia agli insegnanti, sia ai compagni, sia ai genitori. Si propone quindi una sorta di “Patto dei curiosi” con il quale tutti vengono autorizzati e anzi incoraggiati a chiedere spiegazioni su tutto ciò che li incuriosisce. Le domande riguardano vari aspetti della vita quotidiana scolastica e familiare (abitudini, vestiario, modo di parlare ecc.). Per ricordarsi di tutte le risposte alle domande sollevate, verranno annotate domande e risposte in un quadernone, intitolato “Il nostro libro dei perché”. A turno ci sarà un responsabile del quaderno incaricato di aggiornarlo e tenerlo in ordine. Se ad alcune domande non è stata ottenuta risposta si annoterà comunque la domanda ed il motivo per il quale non è stata data risposta. Se un bambino avrà scoperto anche fuori dalla scuola la risposta ad un per-
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Esecuzione (segue)
Riflessione
Attenzione a Varianti Approfondimenti
Attività Destinatari Contesto/Situazione Materiali
Obiettivo Esecuzione
ché interessante, potrà proporre al gruppo di inserire la sua domanda e risposta nel Libro. Evidentemente alcune risposte saranno da inserire nel libro, altre troppo legate al contingente no. Esempi di domande che i bambini si pongono e sulle quali lavorare con lo spunto del libro dei perché: Perché a Natale si decorano gli abeti? Perché la tua mamma porta (o non porta) il velo? Perché non mangi il maiale? Perché a casa tua il sabato è festa? Perché non festeggi il compleanno? Perché ti accompagna a scuola tua nonna? Perché a scuola si porta o non si porta il grembiule? Perché un compagno svolge un programma diverso? Perché un certo periodo dellʼanno alcune persone mangiano solo dopo il tramonto? Perché ti chiami così? Partendo dai perché si valorizza la curiosità dei bambini e li si aiutano a ricercare i significati di consuetudini e regole oltre che a favorire il crearsi di unʼinterazione rispettosa nel mostrare interesse reciproco e interessi comuni. I bambini imparano a cooperare per apprendere e capire e imparano a porre domande. A seconda della percezione del clima della classe e delle relazioni tra bambini si può decidere che i perché vengano inizialmente sottoposti allʼinsegnante e poi allʼattenzione di tutti o del diretto interessato. Se arriva un nuovo compagno uno dei rituali di accoglienza nel gruppo è quello di mostrargli il libro dei perché: i bambini cercano insieme di spiegare al compagno cosa hanno fatto e come funziona il libro dei perché. Per quali bambini è difficile fare domande e per quali è facile? Come si può aiutare lʼespressione della curiosità? Come si fa a far capire ai bambini la differenza tra un ambiente che sceglie di lavorare sui “perché” e una realtà esterna che potrebbe considerare indiscreto fare troppe domande? Alla fine dellʼanno si ripercorrono insieme le tappe del lavoro svolto e i perché ai quali si è data risposta insieme.
Home is where you take it… Sentirsi a casa ovunque.
Bambini. Riflessione sullʼambiente in cui viviamo e su ciò che lo rende significativo. Fogli e cartoncini colorati per disegnare oggetti e arredi, forbici, colla, colori e eventualmente materiali di recupero (stoffe, immagini, cartoni, sedie). Una scatola di scarpe senza coperchio (e poggiata su una delle pareti lunghe) per ogni bambino. Ragionare con i bambini su cosa rende un ambiente caldo e familiare e su come ci si organizza per sentirsi a casa ovunque. Progettare un angolo proprio, per sentirsi a casa ovunque. Si propone ai bambini di progettare un angolo di una stanza vuota che viene assegnato loro per vivere e giocare. Si chiede ad ognuno di pensare cosa ci metterebbe, come lo abbellirebbe, quali oggetti significativi vorrebbe ci fossero. Una volta progettato lʼangolo i bambini lo realizzano, riproducendo i vari oggetti sui cartoncini colorati, ritagliandoli e disponendoli nella scatola di scarpe. Successivamente i bambini illustrano ai compagni le scelte effettuate, il
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Esecuzione (segue)
Riflessione
Attenzione a
Varianti
Approfondimenti
significato degli oggetti che hanno scelto e cosa significa sentirsi a casa oppure lo scrivono su un foglio. Se si dispone di molto spazio e di molti materiali di recupero o di mobili facilmente spostabili, si può lasciare un vero e proprio angolo da allestire ad ogni bambino Si aiutano i bambini a capire cosa ognuno di loro può fare in un nuovo ambiente per organizzarsi e sentirsi a casa. Si aiutano i bambini a cogliere la semplicità di piccoli particolari che rendono un luogo mio oppure anonimo e uguale a tanti altri: non è importante solo la grandezza dello spazio che mi appartiene, ma come lo organizzo per sentirmici bene. Non si tratta di una gara per chi ha più cose da mettere dentro al suo spazio, né di pensare ad attrezzature lussuose. In questo senso lʼinsegnante può intervenire, limitando il numero di oggetti che si possono mettere nellʼangolo. Si tratta di crearsi un luogo confortevole. Le varianti vanno proposte con molta cautela, accertandosi che non siano dolorose per nessuno, o almeno essendo pronti a sostenere i bambini per i quali potrebbero evocare esperienze difficili. Se partiamo per un viaggio allʼimprovviso cosa prendiamo al volo e perché ? (tre cose in tutto) Se partiamo per un viaggio di una settimana cosa mettiamo in uno zaino grande come quello di scuola. Se partiamo per non-si-sa-quanto-tempo (mesi, anni) cosa mettiamo nello zaino grande il doppio di quello di scuola. (Prendiamo cinque cose utili e cinque alle quali siamo affezionati). Dopo aver immaginato e progettato le proprie scelte i bambini le illustrano ai compagni. Il valore affettivo e simbolico degli spazi e degli oggetti. Gli oggetti che evocano ricordi. Gli oggetti che evocano persone. Gli oggetti che hanno una storia.
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Appendice
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I brani che qui vengono presentati hanno la funzione di integrare le riflessioni (per grandi o piccini) proposte nella prima e nella seconda parte del testo. I temi sui quali i brani vertono riguardano “situazioni interculturali”, di cronaca, saggi o di romanzi, che hanno i bambini come protagonisti; i bambini e il loro modo di presentarsi e di percepire la realtà intorno a loro. Il primo bambino è Ben Abdallah: i suoi professori non imparano a pronunciare il suo nome in modo corretto. Il secondo bambino è Edward Said. Il suo nome e il suo cognome appaiono a tutti come un ibrido inconcepibile, finché il bambino stesso comincia a dubitare. La terza bambina è Pippi Calzelunghe: per lei le presentazioni non erano un problema! Il quarto bambino è Richard Rodriguez che viene presentato ai suoi compagni: che lingua parlerà? La quinta bambina è Georgette: come fare ora che papà ha comprato la matita sbagliata? I suoi insegnanti e i suoi genitori secondo lei non si capiranno mai. La sesta bambina è Ruth Klueger: ha vissuto l’esperienza del lager, ma da bambina si presentava così… La settima bambina è Anna Frank: si rende conto che la sua “piccola vita” sta cambiando… L’ottavo bambina è Pecola: la sua autrice ce la presenta problematizzando il modo in cui era stata “guardata”. Il nono bambino è Alex Langer: viveva in una regione particolare dell’Italia… Di lui vengono riportare anche delle riflessioni non collegate all’infanzia. Il decimo bambino è Vijay Shahiry: un bambino che non ha retto alle provocazioni e al dolore, e che ha lasciato una poesia… Infine una “curiosità” che rimanda alla lettura di un testo di tipo letterario: cosa significa tradurre? È un invito a capire quanto sia complesso tradurre.
1 Le parti di testo in corsivo sono dei diversi autori citati.
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Testo n. 1 Ben Abdallah Da “Béni ou le paradis privé” di Azouz Begag, Editions du Seuil, Paris, 1989. Traduzione italiana di Daniela Marin2. Detesto che mi chiamino come mi chiamo. …Mi piace soprattutto che mi chiamino Béeni perché così non si capisce che sono arabo. Non quel Ben Abdallah che a scuola mi sta appiccicato addosso tutto il giorno…. È proprio a causa della scuola che ho cominciato a voler cambiare nome: i professori non riuscivano a pronunciarlo bene: perché non erano abituati, dicevano. Sì col cavolo! Io invece credo che lo facessero apposta per far ridere la classe. E la classe cosa faceva per far piacere ai prof.? Sghignazzavano tutti naturalmente. All’inizio mi sforzavo anch’io per non fare troppo il diverso e mostrare che sapevo stare al gioco. Ma poi ho smesso di ridere. Lasciavo correre e buon divertimento. Adesso faccio l’istituto tecnico: Tra tre anni, al posto del diploma di scuola media, sopra la televisione, mia madre ci attaccherà la maturità elettrotecnica. Allora per una settimana ci sarà una gran festa, con tanto cuscus che si trovano le palline di semola dappertutto, e pezzetti di agnello con salsa piccante, bottiglie di cocacola e aranciata e angurie grosse come un pallone. Una festa per me e per tutta la famiglia. Ma prima bisogna che superi la vergogna quotidiana del Ben Abdallah. Ogni volta che si passa dalla lezione di francese a quella di inglese, matematica o fisica, si cambia professore purtroppo, e ogni volta mi devo sciroppare l’appello. All’inizio fila tutto liscio, Alain Armand, Thierry Boidard… poi il professore incespica nel mio nome: Badabla, Benaballa, qualcuno che sbaglia periodo e confonde tutti i Ben, dice addirittura Benbella. Allora per forza, devo correggere l’insegnante che si aggroviglia la lingua sul mio nome: “Ben Abdallah, signore”. Intorno tutti ridono. Io divento rosso, mani e piedi si riempiono di sudore e non so da che parte guardare. Questa è la cosa peggiore. Anche se nessuno ride, sento che tutti fanno uno sforzo per trattenersi e in un modo o nell’altro mi blocco. È l’ora di inglese. Il professore è un razzista che non sopporta gli arabi grassi. È evidente come la luce del sole. All’inizio dell’anno mi ha umiliato di fronte alla classe. Stavamo facendo una traduzione e a un certo punto fa una domanda: che ausiliario si usa quando c’è un verbo così cosà… E se ne sta zitto. La classe pure, sembrava che io fossi l’unico a conoscere la risposta. Mi guardo intorno, gli altri hanno gli occhi a spasso, fischiettano, se ne stanno curvi sui banchi. Alzo la mano, il professore dice sì e snocciolo la risposta grazie alla memoria infallibile. Silenzio glaciale tra i banchi. Mister Agostini esclama con perfetto accento londinese: “Very good Ben Alla!” “Ben Abdallah, sir!” 2 Si ringrazia Daniela Marin della collaborazione per i testi 1, 4 e 5 di questa appendice e per aver autorizzato la pubblicazione delle sue traduzioni.
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Dritto sulla sedia dietro alla cattedra, sorride, osserva la classe con lo sguardo stomacato del professore senza più speranze e dice: “Guarda se non è il colmo! L’unico straniero della classe è il solo che possa vantarsi di conoscere la nostra lingua!” Il silenzio a quel punto è diventato di morte. Per gli altri non c’era niente da obiettare, naturalmente, ma io ho fatto notare: “Signore, non si può proprio dire che io sia straniero perché sono nato a Lione come tutti quanti.” Michele Faure che è seduto vicino a me mi corregge: “Non tutti, io sono nato ad Orano”. Qualche temerario scoppia a ridere per allentare la tensione. E io continuo di slancio: “In conclusione, essendo nato a Lione, mi pare giusto essere considerato francese”. Quella volta anche mister Agostini ha riso e la faccenda si è chiusa senza danni per i francesi. Resta il fatto che mi ha chiamato straniero davanti a tutta la classe. E sempre a causa del mio nome. E poi il razzismo del professore di inglese è un po’ strano se si considera che anche i suoi genitori devono aver lasciato anni fa lo stivale dove sono nati. Stavo per dirgli che probabilmente era più straniero di me, ma ho lasciato perdere: non conviene mai mettere in crisi un professore davanti agli alunni. Dopo la storia dell’ausiliare, quando faceva l’appello, Agostini domandava praticamente ogni volta: “Ben Abdallah Bellauina è presente?” “Presente!” Mi prendeva in giro. Si vedeva bene che ero in classe. Sono abbastanza riconoscibile! Gli altri insegnanti erano meno maligni. All’inizio dell’anno uno mi aveva chiesto quale era, dei tre, il cognome; un altro voleva sapere cosa volesse dire, come se per me fosse interessante conoscere il significato di Thierry Boidard e Michel Faure. Figlio del servo di Allah: ecco cosa vuol dire Ben Abdallah. Figlio al quadrato di Allah… (…). Quando sarò ricco e più sicuro di me, che Allah mi perdoni, cambierò nome. André per esempio. Perché, a essere sinceri, bisogna dire che non è molto comodo chiamarsi Ben Abdallah quando si vuole essere come tutti gli altri.
Testo n. 2 Edward Said Da “Sempre nel posto sbagliato” di E. W. Said, Feltrinelli, Milano, 1999. Ciascuna famiglia si inventa i propri genitori e figli, assegnando ad ognuno una storia, un carattere, un destino, addirittura una lingua. Nel modo in cui sono stato inventato io per essere inserito nel mondo dei miei genitori e delle mie quattro sorelle c’è stata una sfasatura fin dall’inizio, non avrei saputo dire. A volte ero intransigente e fiero di esserlo. Altre volte mi sentivo come svuotato di ogni carattere, timido, insicuro, privo di volontà. Ma la sensazione
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dominante era quella di essere sempre nel posto sbagliato. Per esempio, mi occorsero quasi cinquant’anni per abituarmi al mio nome, “Edward”, o meglio per sentirmi un po’ meno a disagio nei confronti di quell’assurdo nome inglese legato di prepotenza al cognome, inequivocabilmente arabo, di “Said”. Sì è vero mia madre mi spiegò che mi aveva chiamato così in onore del principe di Galles, che nel 1935, anno della mia nascita, si era guadagnato le simpatie di tutti, mentre Said era il nome di vari zii e cugini. Ma queste giustificazioni perdettero ogni fondamento quando scoprii che non avevo nonni chiamati Said, e ogni sforzo di mettere in relazione il nome inglese di fantasia con il suo compagno arabo naufragò si conseguenza. Allora per anni a seconda della situazione, nel presentarmi, mi “mangiavo” l’Edward sottolineando il Said; oppure facevo il contrario; oppure, ancora, li pronunciavo insieme così rapidamente che nessuno dei due risultava chiaro. Quello che proprio non sopportavo (eppure quante volte fui costretto a subirla! ) era la inevitabile reazione incredula, e dunque per me corrosiva: Edward? Said? (…..) Questo instabile senso di una pluralità di identità, perlopiù conflittuali mi è rimasto addosso per tutta la vita, insieme al vivo ricordo del mio sconsolato desiderio di poter essere tutto arabo, o tutto europeo o americano, o tutto cristiano ortodosso, o tutto musulmano, o tutto egiziano, e via elencando: Scoprii di avere due formule alternative da opporre a quello che di fatto era il processo di dubbio-riconoscimento-apertura, innescato da domande del tipo. “Che cosa sei?”, “Ma Said è un cognome arabo!”, “Dici di essere americano, e non hai un nome americano e non sei mai stato in America!”, “A vederti non sembri americano!”, “Come mai. se sei nato a Gerusalemme, vivi qui?, “Va bene sei arabo, ma di che tipo? Un arabo anglicano?!”. Che mi ricordi, nessuna delle formule che escogitavo in risposta ad interrogatori del genere riusciva soddisfacente e definitiva. Le due alternative erano ad uso per così dire interno: all’esterno potevano funzionare oppure no: una magari andava bene a scuola, ma non in chiesa o in strada con i miei amici. La prima consisteva nell’adottare il tono sfacciatamente sicuro di mio padre, dicendo a me stesso: “Sono cittadino americano”, punto e basta. Durante la guerra, dire: “Sono cittadino americano” in una scuola inglese in una città occupata dalle truppe inglesi, la cui popolazione a me sembrava totalmente e omogeneamente egiziana, costituiva un atto temerario, da azzardare in pubblico solamente se richiesto formalmente di dire la mia cittadinanza; in privato quell’affermazione non era sostenibile, tanto si mostrava labile a un accurato esame esistenziale. La seconda alternativa era ancora più debole della prima. Consisteva nell’aprirmi allo stato di profonda disorganizzazione della mia vera storia e delle mie vere origini, quali si lasciavano cogliere a sprazzi, per poi cercare di ricostruire le varie tessere secondo un qualche ordine. Ma non avevo abbastanza dati; non c’erano abbastanza connettivi efficaci tra i frammenti che conoscevo o che riuscivo a riesumare e il quadro generale non tornava mai del tutto. E a proposito delle lingue parlate… “Non sono mai riuscito a sapere quale abbia parlato per primo, se l’inglese o l’arabo, né quale fosse al di là di ogni dubbio la mia vera lingua. Quello che so, tuttavia, è che sono sempre state presenti insieme nella mia vita, l’una risuonando nell’altra, a volte con ironia, a
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volte con nostalgia, il più delle volte una a commento e correzione dell’altra. Ciascuna delle due potrebbe sembrare la mia lingua madre, ma nessuna delle due lo è. (…) Come mia madre passava dall’arabo all’inglese affiorava un tono più oggettivo e più grave che bandiva quasi completamente, l’intimità musicale e indulgente della sua lingua madre, che era l’arabo.”
Testo n. 3 Pippi Calzelunghe3 Da “Pippi Calzelunghe” di Astrid Lindgren, Salani, Milano, 1994. Pippi Calzelunghe è una bambina diversa dalle altre e fiera di esserlo, quasi esageratamente fiera direbbero gli adulti… ed è tradotta in 60 lingue! Pippi rende affascinante la sua diversità e la rende decisamente magica, quando si presenta ai suoi amici e ai suoi compagni di classe. In un certo senso però difende la sua vita dalle intrusioni altrui e tutti la rispettano anche per questo. Ecco la sua presentazione rispondendo a chi le chiede il suo nome: Pippilotta Pesanella Tapparella Succiamenta figlia del capitano Efraim Calzelunghe, prima terrore dei mari ora re dei negri. Pippi non è che il mio diminutivo perché papà trovava Pippilotta troppo lungo” “Bene” disse la maestra “anche noi ti chiameremo semplicemente Pippi. Vedi anche la filastrocca di Pippi “…una come me non c’è stata mai” nel sito: www.filastrocche.it e il CD Rom (pubblicato da TDK mediactive) che narra la storia di Pippi Pippi in diverse lingue e propone divertenti attività.
Testo n. 4 Richard Rodriguez Da “Ricordi di un’infanzia bilingue (1980-1981)” di Richard Rodriguez, in Communications, n. 43, 1986, traduzione di Daniela Marin. Mi ricordo molto bene quel giorno in cui a Sacramento in una California di trent’anni fa, entrai per la prima volta in un’aula scolastica, conoscendo in tutto sì e no una cinquantina di parole inglesi colte al volo. … Per una fatalità della geografia fui mandato in una classe in cui tutti erano bianchi. 3 Senza nulla togliere alla serietà delle esperienze di vita vissuta narrate negli altri brani, il testo di Pippi Calzelunghe è stato
inserito per offrire ai bambini la possibilità di riflettere su una figura fantastica, “forte” nella sua fragilità, e invitare gli insegnanti a trovare strade diverse, anche divertenti, per incontrare la fragilità dei bambini che non riescono a “presentarsi” perché l’ambiente non glie lo consente, ovvero a creare l’ambiente adatto per aiutarli farlo.
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(…) ero senza parole. La suora disse con tono amichevole, ma impersonale: “Bambini questo è il vostro compagno Richard Rodriguez (aveva articolato ogni sillaba: Ritch-erde Rode-ri-guess). Era la prima volta che sentivo chiamarmi in inglese. “Richard” ripetè la suora più lentamente e cominciò a scrivere il mio nome nel grande registro di cuoio nero. Mi voltai di nascosto e vidi, dietro il vetro smerigliato della porta, il viso di mia madre dissolversi come in una nube di vapore. … Da una parte c’era quindi l’inglese. Dall’altra parte lo spagnolo. Spagnolo: la lingua della mia famiglia. Spagnolo: la mia lingua privata. Sentivo qualche volta parlare spagnolo alla radio o nella chiesa cattolica messicana, ma stentavo a credere che fosse una lingua pubblica come l’inglese. O meglio avevo l’impressione che chi parlava spagnolo era un mio parente perché sentivo che condividevamo – attraverso la lingua – un modo di vedere le cose diverso da quello dei gringos. Lo spagnolo mi sembrava la lingua di casa mia (il più delle volte lo ascoltavo parlare solo in famiglia). Ogni volta che a casa qualcuno mi rivolgeva la parola, mi sentivo particolarmente riconosciuto. I miei genitori mi parlavano e io era accarezzato dal suono delle loro voci: Quei suoni mi dicevano: Mi esprimo in spagnolo con facilità. Ti dico delle parole che non uso mai con i gringos. Ti riconosco come qualcosa di speciale, qualcuno che mi è molto vicino, come nessun altro di quelli di fuori. Il tuo posto è qui. In famiglia. Fuori da casa c’era la vita pubblica. Dentro la vita privata. Il semplice gesto di aprire o chiudere la porta era fondamentale. Non succedeva quasi mai che uscissi solo o senza una certa riluttanza. Scendendo di corsa il viale sotto gli alberi, guardavo con diffidenza i bambini del vicinato che improvvisamente silenziosi mi osservavano con uguale diffidenza. Teso e contratto, arrivavo al negozio del droghiere e sentivo allora che i suoni gringos che mi erano estranei e mi ricordavano che in quel mondo sconfinato ero uno straniero. Ma poi tornavo a casa. Avvicinandomi alla veranda, ma soprattutto d’estate quando la porta era aperta, dietro la zanzariera, sentivo le voci che parlavano spagnolo e restavo qualche minuto in ascolto. Sorridevo quando mia madre chiamava dicendo. “Sei tu Richard?” Quei suoni mi dicevano: “Sei a casa tua. Vieni più vicino, dentro. Con noi”. …Poi dalla scuola arriva la richiesta di parlare inglese con i figli… Un sabato mattina entrai in cucina dove i miei genitori stavano chiacchierando: ma non mi accorsi che parlavano spagnolo fino a quando, vedendomi, di colpo le loro voci passarono all’inglese. I suoni gringos che uscivano dalla loro bocca mi sconcertarono. Mi respinsero. Mi sentii soffocare da un dolore indicibile. Scappai via dalla stanza. Ma non c’era nessun posto in cui potessi rifugiarmi in spagnolo. Mio fratello e mia sorella stavano parlandosi inglese in un’altra stanza. Nei giorni che seguirono la mia collera continuava a crescere, più di una volta mi sentii esortare da mio padre o da mia madre: “Parla en ingles”. Solo allora mi decisi ad imparare la lingua della scuola. E poche settimane dopo la cosa avvenne: un giorno alzai la mano per rispondere ad una domanda. Parlai in inglese a voce alta. E non trovai strano che la classe mi capisse. Quel giorno l’idea rassicurante che anche io avevo il mio posto nel mondo pubblico cominciò a radicarsi in me.
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Testo n. 5 Georgette Da “Georgette!” di Farida Belghoul, Ed. Barrault, 1986, traduzione di Daniela Marin. Un giorno dico a mia madre: “La maestra ha detto che dobbiamo comprare una matita HB”. “Va bene vado a comprarla subito…” Torna con tre matite nella borsa. “Se ne perdi una puoi cambiarla” Mio padre è lì. “Hai fatto bene. Non devono dire che le manca qualcosa. Non ci sono problemi. Io lavoro per questo. Tu domani sarai qualcuno. Sarai tu a comandare. A dire di comprare le matite”. Apro l’astuccio. Prendo una matita e la infilo dentro… le altre le nasconderò sotto il materasso. Le guardo: sono proprio belle con la loro testolina di gomma… Oh no! Sono 2H: Mia madre è proprio scema! HB è HB non 2H! Le spiego che si è sbagliata. Devo spiegarglielo più di una volta. Non ci arriva. “Una matita nera è una matita nera!” Cammino avanti e indietro. Si ma la maestra vuole… Se la matita è nera dov’è il problema? Cammino più in fretta “E vero… Ma queste matite sono 2H! non sono quelle che ha detto la maestra, non sono HB!” “Non ho comprato la matita rossa… ho preso quella che mi hai chiesto, la nera… E questa è nera, no? O sono io che non ci vedo? Non sei contenta? Bè, io vado a fare da mangiare” Di colpo mio padre si arrabbia. “Vuoi la matita per la scuola… Tua madre ne compra tre! E invece di dire grazie ti metti a fare delle storie! Io e tua madre sempre a farti piacere… questo è il risultato”. Smetto di camminare. Ho voglia di sbattere la testa contro il muro. “Ma sì sono contenta papà! Però la matita è 2H, non HB”. Mi fissa dritto negli occhi. “Tu credi che non capisco niente delle tue acche! Ma io capisco tutto! Non sarà mia figlia piccola ad insegnarmi la vita! Le acche non contano. Acca è la marca. Ci sono matite di marca Acca, e matite di altre marche… Domanda alla maestra se non è vero!” Mi siedo su una sedia. Sono troppo stanca. Tanto non c’è niente da fare. Sto zitta e lascio perdere altrimenti si arrabbia ancora di più e la faccenda peggiora. È capace di infuriarsi e alla fine mi chiede un incontro con la maestra. “E allora? Non è per la matita… La verità è che vai male a scuola e mi disonori! Lunedì prossimo non lavoro. Fissa un appuntamento! Voglio parlare con la maestra!” Sono sulla sedia. Muovo le gambe nel vuoto. Mai e poi mai fisserò un appuntamento tra un deficiente e la maestra…
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Testo n. 6 Ruth Da “Weiter Leben. Eine Jugend” di Ruth Klüger, Wallstein, Göttingen,1992. Ruth Klüger è una bambina austriaca che da grande ha vissuto la drammatica esperienza del campo di concentramento. Un suo ingenuo ricordo di bambina mette in evidenza l’importanza del punto di vista dal quale si guardano le cose e… Una volta in estate siamo andati in Italia e una volta superato il confine, siamo stati costretti a viaggiare dall’altra parte della strada4, ed era buffo perché in Austria fino alla venuta di Hitler si teneva la sinistra. (…) Quando un’auto con la targa austriaca ci ha superato, tutti abbiamo salutato con la mano: e gli altri hanno salutato di rimando. Ma non li conoscevamo. Nel nostro paese non li avremmo salutati. Io sono stata sorpresa ed intenerita scoprendo che gli estranei all’estero si salutano per il fatto di appartenere altrove alla stessa comunità. Io vengo dall’Austria (dove si viaggia dalla parte giusta e si parla tedesco). È così che mi sento in Italia: ed è una frase che in fin dei conti mi descrive. Purtroppo avrei presto dovuto imparare un altro modo di classificarmi, ma non subito. L’autrice si riferisce al fatto di essere ebrea, che diventa nel momento delle persecuzioni una caratteristica distintiva, determinante e decisiva della sua persona.
Testo n. 7 Anna Frank Dal “Diario” di Anna Frank, Einaudi, Torino, 1990. I bei tempi finirono nel maggio del 1940; prima la guerra, la capitolazione, l’invasione tedesca, poi cominciarono le sventure per noi ebrei: le leggi antisemitiche si susseguivano l’una all’altra. Gli ebrei debbono portare la stella giudaica. Gli ebrei debbono consegnare le biciclette. Gli ebrei non possono salire sui tram, gli ebrei non possono più andare in auto. Gli ebrei non possono fare acquisti che fra le tre e le cinque, e soltanto dove sta scritto “bottega ebraica”. Gli ebrei dopo le otto di sera non possono essere per strada, né trattenersi nel loro giardino o in quello di conoscenti. Gli ebrei non possono andare a teatro, al cinema o in altri luoghi di divertimento; gli ebrei non possono frequentare piscine, campi da tennis o di hockey ecc. Gli ebrei non possono nemmeno andare a casa di cristiani. Gli ebrei devono studiare solo nelle scuole ebraiche. E una quantità ancora di limitazioni del genere. Così trascorreva la nostra piccola vita, e questo non si poteva e quello non si poteva. 4 All’epoca del viaggio del quale si parla, in Austria, paese di provenienza della scrittrice, le macchine tenevano la sinistra invece che la destra.
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Su questo argomento si consiglia la visione dei film: • La vita è bella, di R. Benigni, Italia, 1997. In particolare si può spiegare ai bambini la scena della “dimostrazione” della “superiorità ariana”. • Concorrenza sleale, di E. Scola, Italia, 2001. In particolare si può spiegare ai bambini ciò che concerne la scena della consegna delle radio e quella della proibizione di frequentare la scuola per il bambino ebreo.
Testo n. 8 Pecola Pecola è una ragazzina nera che voleva gli occhi azzurri. “Che c’è di male?” potrebbe chiedere qualcuno. Toni Morrison è una scrittrice americana, premio Nobel per la letteratura, che ha raccontato la storia di Pecola nel suo romanzo “L’occhio più azzurro”, libro che assume il significato di una accusa contro chi ha fatto sentire Pecola così “sbagliata” da farle desiderare di essere in un altro modo. Il problema è che Pecola vuole avere gli occhi azzurri perché qualcuno le ha fatto credere che nel suo aspetto c’è qualcosa di sbagliato: siamo consapevoli del potere del nostro sguardo sugli altri? Siamo consapevoli di cosa vuol dire sentirsi considerati “diversi” nel senso di peggiori? Siamo consapevoli di quanto questo incide negativamente nella crescita di un bambino? Il doppio potere di adulti e di educatori è sinonimo di grande responsabilità in questioni così delicate: senza potere non si riesce a rendere le differenze motivo di discriminazione. Come affrontiamo questa responsabilità nel nostro compito di educatori ? Sappiamo scindere il nostro modo di guardare i bambini dall’idea, magari non positiva, che ci siamo fatti dei loro genitori, dalle nostre convinzioni sull’immigrazione, regolare o clandestina che sia? Crediamo che i diritti dei bambini siano davvero uguali per TUTTI? È utile discutere questi temi tra colleghi, ma può essere utile invitare un esperto per avere consigli ed esporre difficoltà e paure. Così parla del suo romanzo l’autrice, nella postfazione della traduzione pubblicata da Frassinelli, Como, 1994. L’occhio più azzurro fu il mio sforzo di dire qualcosa a riguardo; dire qualcosa sul perché lei (Pecola, NdR) non fece mai esperienza, né avrebbe potuto farla, di ciò che possedeva e anche sul perché pregasse in un cambiamento così radicale. Implicito nel suo desiderio era l’odio per la propria razza: e vent’anni dopo mi chiedevo ancora in che modo lo si apprende. Chi glie lo disse? Chi la convinse che fosse meglio essere mostruosa invece di ciò che era lei? Chi l’aveva guardata e trovata così in basso, così piccola nella scala del bello? Il romanzo vuole colpire lo sguardo che l’ha condannata. A far sorgere questi pensieri è stata negli anni settanta la rivendicazione del bello razziale, mi ha fatto pensare alla necessità di un riconoscimento. Perché sebbene schernito dagli altri,
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non si poteva prendere per vero questo concetto all’interno della comunità? Perché per esistere aveva bisogno di una grande articolazione pubblica? Non sono domande molto intelligenti. Eppure nel 1962 quando iniziai questa storia, e nel 1965 quando essa iniziò a divenire un libro, le risposte non erano per me così ovvie come diventarono subito dopo e come sono ora. L’affermazione del bello razziale non fu una reazione all’autoderisione, alla critica faceta dei punti deboli culturali/razziali comuni a tutti i gruppi, ma contro la deleteria interiorizzazione delle ipotesi di immutabile inferiorità che ha origine in uno sguardo esterno. Mi sono concentrata, quindi su come qualcosa di così grottesco come la demonizzazione di un’intera razza potesse radicarsi all’interno del membro più delicato della società: il bambino; del membro più vulnerabile, la femmina. … La particolarità del caso di Pecola deriva soprattutto dalla famiglia, disastrata e disastrosa – a differenza della famiglia nera media e a differenza di quella della narratrice. Ma per quanto fosse singolare la vita di Pecola, ho pensato che alcuni aspetti della sua fragilità fossero comuni a tutte le bambine. Nell’esplorare l’aggressione sociale e domestica che poteva determinare un vero e proprio crollo in un bambino, ho costruito una serie di situazioni di rifiuto, alcune abituali, altre eccezionali, altre ancora mostruose, cercando di evitare a tutti i costi ogni complicità nel processo di demonizzazione a cui era sottoposta Pecola. Vale a dire non volevo disumanizzare i personaggi che avevano schiacciato Pecola e contribuito alla sua rovina. Vi era un problema centrale: il peso dell’indagine del romanzo su un personaggio così delicato e vulnerabile poteva annientarlo e per un lettore sarebbe stata più comoda la compassione piuttosto che l’interrogazione di sé riguardo a quell’annientamento.
Testo n. 9 Alexander Langer Da “La scelta della convivenza” di Alexander Langer, ed. e/o, Roma, 1995. Perché papà non va mai in chiesa?”. Crescendo a Sterzing (950 m, 4000 abitanti), in una famiglia democratica e borghese, che a casa parla in lingua (tedesca) invece che in dialetto (tirolese) e nella quale si respira un clima molto rispettoso e tollerante, mi inquieta molto il fatto che mio padre non vada mai in chiesa. Un giorno, approfittando del mio compleanno, oso chiedere alla mamma il perché. Me ne sento in colpa, come anche per il fatto di parlare in dialetto. “Il papà stando in ospedale tutto il giorno e tutti i giorni (era l’unico medico chirurgo del circondario) serve Dio in altri modi – te lo potrà confermare il cappellano che va bene così”. Il cappellano, un prete cecoslovacco in esilio, conferma. Più tardi mia madre mi spiega anche che mio padre è di origine ebraica e che non conta tanto in che cosa si crede, ma come si vive. … Faccio il pendolare settimanale con Bolzano, per la scuola (a Vipiteno, paradossalmente,
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solo gli italiani hanno le scuole superiori: un quarto della popolazione, ma con i figli degli ufficiali). Chiedere il biglietto o un’informazione è impensabile: in città ci si sente proprio una minoranza, da tirolesi. Sul mio autobus (linea 3 di Bolzano) siamo solo due bambini di lingua tedesca. E ancora una sua riflessione sui mediatori: Dell’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera: occorrono “traditori della compattezza etnica”, ma non “transfughi”. In ogni situazione di coesistenza inter-etnica si sconta, da principio, una mancanza di conoscenza reciproca, di rapporti, di familiarità. Estrema importanza positiva possono avere persone, gruppi, istituzioni che si collochino consapevolmente ai confini tra le comunità conviventi e coltivino in tutti i modi la conoscenza, il dialogo, la cooperazione. La promozione di eventi comuni e occasioni di incontro e di azione comune non nasce dal nulla, ma chiede una tenace e delicata opera di sensibilizzazione, di mediazione e di familiarizzazione, che va sviluppata con cura e credibilità. Accanto all’identità e ai confini più o meno netti delle diverse aggregazioni etniche è di fondamentale rilevanza che qualcuno, in simili società, si dedichi all’esplorazione o al superamento dei confini: attività che magari in situazioni di tensione o di conflitto assomiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’inter-azione. … Proprio in caso di conflitto è essenziale relativizzare e diminuire le spinte che portano le diverse comunità a cercare appoggi esterni (potenze tutelari, interventi esterni ecc.) e valorizzare gli elementi di comune legame al territorio. … Un valore inestimabile possono avere in situazioni di tensione e di conflittualità, o anche di semplice coesistenza interetnica, gruppi misti (per piccoli che possano essere). Essi possono sperimentare sulla propria pelle e come in un coraggioso laboratorio, le difficoltà e le opportunità della convivenza interetnica.
Testo n. 10 Vijay Shahiry Vijay Shahiry è un ragazzo pakistano sikh di tredici anni, morto suicida qualche anno fa in Inghilterra. Vijay era esasperato dalle angherie dei suoi compagni di scuola, ma nessuno, né insegnanti, né genitori si era mai accorto di nulla, perché le angherie avvenivano non a scuola ma nel tragitto che egli percorreva per recarvisi. Ha lasciato un diario del quale riportiamo l’ultima pagina. Riportiamo anche una poesia tratta da un suo tema, pubblicata qualche anno fa in un articolo del quotidiano “Il Manifesto”.
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Lo ricorderò per l’eternità e non lo dimenticherò mai. Lunedì: rubati i soldi Martedì: insulti Mercoledì: uniforme strappata Giovedì: sangue che sprizza dal corpo Venerdì: finita Sabato: libertà Domenica il ragazzo è stato trovato morto. POESIA Sono terrorizzato e spaventato il corpo continua a tremare la bocca è spalancata e raggelata, cadono le lacrime mentre mi distruggono la faccia prendono i miei soldi e scappano dove loro possono andare. Prepotenti Io grido che non hanno proprio sentimenti.
Testo n. 11 Tradurre… Uno spunto affascinante per grandi e piccini, per avvicinarsi al concetto di traduzione, alle sue sfide, ai suoi rischi, alle sue soddisfazioni. Una poesia di Montale è stata tradotta dall’italiano in un’altra lingua, e poi in un’altra ancora, e in un’altra ancora, fino a quattordici lingue, passando anche da lingue diversissime dall’italiano, come l’arabo, e senza che i traduttori conoscessero il nome dell’autore. Di seguito viene riportata la poesia originaria e la poesia dopo le traduzioni. Per i bambini si può tentare un “gioco” analogo con una parola o una semplice frase, cercando di procurarsi traduttori nel corso di tutto un anno. Il meccanismo è vagamente simile al gioco del telefono senza fili, c’è il rischio che alla fine arrivi una parola completamente diversa. L’esempio che segue prende spunto da un interessante “scommessa” fatta da alcuni studiosi della traduzione e appassionati di Montale. Lo studio è stato pubblicato nel testo Eugenio Montale, Poesia travestita, a cura di M. Corti e M. A. Terzoli, Interlinea, Novara, 1999. Le rime montaliane in versione originale Poi che gli ultimi fili di tabacco Al tuo gesto si spengono nel piatto
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Di cristallo al soffitto lenta sale La spirale di fumo Che gli alfieri e i cavalli degli scacchi Guardano stupefatti; e nuovi anelli La seguono, più mobili di quelli Delle tue dita La morgana che in cielo liberava Torri e ponti è sparita Al primo soffio: s’apre la finestra Non vista e il fumo s’agita. Là in fondo, altro stormo si muove: una tregenda d’uomini che non sa questo tuo incenso, nella scacchiera di cui puoi tu sola comporre il senso. Dopo le traduzioni Sul fondo della coppa di cristallo Restano ancora le ultime fibre del tuo tabacco Una lenta spirale s’alza, sopra pedine e cavalli perplessi e la seguono anelli più agitati di quelli che adornano le tue dita. Con il primo sospiro svanisce L’illusione che in cielo Disegnava ponti e torri. Una finestra s’apre, tremola il fumo. Sull’orizzonte una moltitudine Che ignora l’odore del tuo incenso. Sulla scacchiera sei tu il solo Che sa mettere il fuoco nella sfida.
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Postfazione
Questo libro pensato e scritto prima dell’11 settembre 2001, esce invece dopo questa data ormai tristemente famosa. Indubbiamente la sua conclusione ha avuto una battuta di arresto. Le domande sono molte e restano per la maggior parte senza riposta. Resta il fatto che questo libro era ab origine dedicato a un bambino musulmano indiano e a due bambini cristiani e italiani, appartenenti quindi a “culture” oggi ritenute da alcuni in lotta. Questo mi è sembrato un primo motivo, sia pure affettivo, per non rinunciare a pubblicare il libro. Il secondo motivo è invece di natura razionale e riguarda la convinzione che se uno spazio esiste per educare all’interculturalità, si tratta forse dei primi anni di vita e di socializzazione. L’esclusione e l’isolamento giocano un ruolo determinante nel generare odio e risentimento. D’altro canto se ci si abitua ad escludere o a sentirsi superiori questo non è un atteggiamento facilmente eliminabile in età matura. La globalizzazione e la circolazione delle persone offrono a molti bambini di ogni provenienza e estrazione socioculturale possibilità di incontro impensabili fino al secolo scorso. Gli adulti sono responsabili della gestione di questi incontri, della cura della cornice e del clima all’interno dei quali questi incontri hanno luogo e all’interno dei quali questi imprinting reciproci tra bambini, e tra adulti e bambini iniziano a sedimentarsi. Le violenze e le guerre di stato seguono, da qualsiasi parte le si voglia guardare, delle logiche complesse sulle quali difficilmente singoli esponenti o piccoli gruppi di persone in stati “oppressi” o “oppressori” possono influire. Pacifisti, truppe militari o kamikaze avranno ragione solo l’“ultimo giorno”, quello che la maggior parte del mondo si augura tardi ancora ad arrivare. Nel frattempo alcuni bambini nascono e vanno a scuola, alcuni altri muoiono prima di diventare adulti, alcuni soffrono di malattie che si potrebbero debellare. Questo libro è per quelli che vanno a scuola, quelli che hanno insegnanti ed educatori, i più fortunati dunque per certi versi, quelli che tratteranno le generazioni future a seconda di come saranno stati trattati, che saranno capaci di accogliere le idee degli altri a seconda di come hanno imparato a capirle e a discuterle. Almeno questo crede la pedagogia. Non ci sono ricette, ma solo tentativi e per poco che sia vale la pena di provare a educare a convivere in modo civile, includendo invece che escludendo. Nessun bambino può essere dato per perso, qualunque cosa facciano o dicano i suoi genitori. Chi svolge una professione socio-educativa deve credere almeno in questo, altrimenti non è il momento di continuare a fare questo mestiere.
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Bibliografia
(Altri titoli sono citati nel testo e nelle note) Aluffi Pentini A., Der interkulturelle Kindergarten als Ort praktizierter Kinderrechte. Das Recht auf Wohlsein, in Eichelberger H., Furch E., Kulturen, Sprachen, Welten, Wien 1998. Aluffi Pentini A., Lorenz W., Per una pedagogia antirazzista, Junior, Bergamo, 1995. Aluffi Pentini A., Talamo A., L’intercultura fa bene alla scuola, ISMU, Milano, 1998. Bolognari V., Kühne K., Povertà migrazioni e razzsmo, Junior, Bergamo, 1996. Callari Galli M., (con F. Frabboni), Antropologia per insegnare, Mondadori, Milano, 2000. Censis, Children in Between, Progetto CHIP, Roma, 2000. Damiano E., La sala degli specchi. Pratiche scolastiche di educazione interculturale in Europa, F. Angeli, Milano, 2001. Damiano E., Homo migrans. Discipline e concetti per un curricolo di educazione interculturale a prova di scuola, F. Angeli, Milano, 1998. Demetrio D., Favaro G., Bambini stranieri a scuola, accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare, La Nuova Italia, Firenze, 1997. Desinan C., Orientamenti di educazione interculturale, F. Angeli, Milano, 1997. Favaro G., Colombo T., I bambini della nostalgia, Mondadori, Milano, 1993. Gobbo F., Pedagogia Interculturale, Carocci, Roma, 2000. Macchietti S.S., Ianni G. (a cura di) Educazione interculturale: questioni e proposte, IRRSAE Toscana, Firenze, 1996. Nanni A. (a cura di ), Collana “I quaderni dell’interculturalità”, CEM, Brescia. Ongini V., La biblioteca multietnica. Libri, percorsi, proposte, Bibliografica, Milano, 1991. Santagostino P., Come raccontare una fiaba, Red, Como, 1998. Secco L., Portera A., L’educazione umanistica interculturale nelle agenzie educative, Cedam, Padova, 1999. Sigillino I. (a cura di), I bambini dell’Islam, F. Angeli, Roma, 2000. Sirna C. (a cura di), Docenti e formazione interculturale, Il segnalibro, Torino, 1996. Susi F. (a cura di), Come si è stretto il mondo, Armando, Roma, 1999. Troyna B., Hatcher R., Contro il razzismo nella scuola. Il pensiero e le interazioni razziali dei bambini, Erickson, Trento, 1992. Wieviorka M., Il razzismo, Laterza, Bari, 2000.
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Indice delle attività
Un attività guida: the snowman 34 64 È capitato anche a me… Mi posso fidare? 65 L’immagine allo specchio 66 Benvenuti! 67 Ci sono anche io! 68 69 Le “icone” Rido, sorrido, mi arrabbio! 69 Chi dirige? 73 L’interprete del giorno 74 Parole ponte 75 76 Parole ponte 2 Il bambolotto 80 81 Diversità e somiglianza: siamo tutti uguali o tutti diversi? Colore colore… 83 Specchio, specchio delle mie brame… 84 E Dumbo…? 84 Perché sono come sono? Cosa rispondo se… 85 Vari modi di dividere la torta. 87 Sono un fiore di che colore… 94 C’è piramide e piramide… 95 Paese che vai… usanza che trovi 96 Chi è il mediatore? 98 Albero genealogico “pensante”, “parlante” e “viaggiante”. 99 Adotto… un paese! 99 Sento odor di …tutto il mondo 100 Buongiorno io sono… 101 Conoscersi o addomesticarsi? 102 Le date nel diario 103 Paese che vai… usanza che trovi 2 104 Pronto chi parla… 105
Le regole comuni Inventare problemi matematici collegati al discorso delle migrazioni Che anno è, che giorno è? Il libro di ricette Piccoli vocabolari Gli slogan e la pubblicità Costruzione di una mappa interculturale del territorio nel quale si vive Progettiamo un campo sosta per un gruppo di Zingari Andiamo tutti insieme a… Musica maestro… Il giro del mondo vestiti come… i “grandi” che abitano il mondo Il nostro libro dei perché (interculturali), ovvero il “patto dei curiosi” Home is where you take it… Sentirsi a casa ovunque
110 111 112 113 113 114 115 116 117 118 119 119 120
Materiali e strumenti Materiali indispensabili Consigli per pochi giochi di tutti i colori… Materiali dell’Unione Europea su razzismo e xenofobia Per conoscersi ancora un po’… Libroni e libretti
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Indice
Introduzione 5 Parte prima
Capitolo I - Quale pedagogia interculturale 1. Il compito pedagogico 2. Differenze e somiglianze 3. La dimensione storico-geografica dell’intercultura 4. Le coordinate concettuali per il navigante dell’interculturalità 5. Riconoscere la multifattorialità dell’evento migratorio 6. Livelli di interculturalità 7. I piani di lavoro
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9 11 11 15 19 20 24 26
Capitolo II- Allestire il laboratorio: angolo dedicato o dimensione trasversale? 29 1. Indicazioni di massima 30 2. Partendo dalla Barbie: una riflessione su “materiale etnico” 32 3. Un’attività guida: the snowman 34 3.1 La trama 35 3.2 Indicazioni per le attività 38 3.3 Le ragioni di una scelta 38 3.4 Le tematiche 39 3.5 Prima accoglienza nel gruppo con il cartone “Il pupazzo di neve” 42 3.6 Organizzazione dell’attività 44 3.7 Condividere le emozioni 45 Capitolo III - Gli attori del laboratorio 47 1. Il mediatore culturale 47 1.1 Criterio n. 1 48 1.2 Criterio n.2 48 2. I genitori 52
Parte seconda 57
Introduzione 59 Sezione I - Migrazione e spaesamento: il laboratorio dell’accoglienza 1. Osservare per capire 2. Accoglienza e linguaggio 2.1 Consigli…
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Sezione II - Migrazione e diversità visibile: il laboratorio delle competenze 79 88 1. Consigli per pochi giochi di tutti i colori… 2. Materiali dell’Unione Europea su razzismo e xenofobia 89 Sezione III - Migrazione e cultura: laboratorio della conoscenza reciproca 91 106 1. Per conoscersi ancora un po’… 2. Libroni e libretti 107 Sezione IV - Migrazione e futuro: laboratorio come progetto 109 Appendice 123 124 Testo n.1: Ben Abdallah Testo n. 2: Edward Said 125 Testo n. 3: Pippi Calzelunghe 127 Testo n. 4: Richard Rodriguez 127 Testo n. 5: Georgette 129 Testo n. 6: Ruth 130 Testo n. 7: Anna Frank 130 Testo n. 8: Pecola 131 Testo n. 9: Alexander Langer 132 Testo n. 10: Vijay Shahiry 133 Testo n. 11: Tradurre 134 Postfazione 137 Bibliografia 139 Indice delle attività 140
I laboratori di formazione dell’insegnante Collana diretta da Luigi Guerra
Il testo è suddiviso in due parti. Una prima parte riguarda i presupposti teorici della pedagogia interculturale, mentre nella seconda parte vengono suggerite alcune modalità di attivazione e trasmissione di competenze interculturali secondo la logica del laboratorio. Le attività che vengono proposte sono pensate sia per il training di insegnanti e futuri insegnanti, sia per fornire delle piste per l’attività nelle classi.
€ 9,90 ISBN 978-88-8434-962-0