La vita è cinema. Tutti gli scritti 1926-1971


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Italian Pages 355 [382] Year 1974

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La vita è cinema. Tutti gli scritti 1926-1971

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Jean Renoir IA VILI E’ cinemi lutti gli scritti 1926-1971 (dizione italiana a cura di < tknanna Grignaffini e Leonardo Quaresima

PROPRIETÀ

LETTERARIA

RISERVATA

Longanesi A C., © 1978 • 20122 Milano, via Borghetto, 5

Titolo originale ECRITS 1926-1971

Traduzione dall'originale francese di Giovanna Grignaffini (parti 1 e /P') e Leonardo Quaresima (parti 11 e III)

Inserto: Fototeca Pellizzari, Milano (foto nn. 18. 20. 21. 30. 31. 34. 35. 36. 40. 41. 42. 43. 44); Archìvio Belfond. Paris (le altre)

Copyright @1974 by Pierre Belfond, Paris

Copertina di Salvatore Gregorietti, Unimark (Jean Renoir e Anna Magnani sul set de • La carrozza d'oro»)

Presentazione I. Mediocre teorico, « vecchio » filosofo, insuperabile solo come rimuginatone La prima immagine che viene in mente, inoltrandosi per i sentieri di questa prosa piana, lineare, quasi classicheggiante, eppure mobilissima, vivace, ricca di sorprese, è quella di un uomo in pantofole che intrattiene confidenzialmente alcuni umici intorno a un caminetto. Parole « d’altri tempi », « idee d’altri tempi », luoghi comuni quasi, spesso solo indiretta­ mente leg/ati all’oggetto in questione: il cinema. E il termine che cerca di dar corpo e tradurre quell’immagine ci fa quasi arrossire: anacronismo. In questi ultimi anni, si è parlato spesso di Renoir come di un uomo del passato, di un uomo legato a un’epoca a dei costumi a dei modi di pensare superati, di un sopravvissuto quasi, capace tutt’al più di offrire le suggestioni del testimo­ ne di un periodo ormai chiuso. E un primo superficiale ap­ proccio agli scritti raccolti in questo volume pare poter con­ fermare questa convinzione. Essi sembrano mancare dei re­ quisiti tipici di ogni testo * moderno »: attualità, originalità, specializzazione. E Renoir ne emerge come un autore che, parafrasando Benjamin, si rivela quale mediocre teorico, « vecchio » filosofo, insuperabile solo come rimuginatore. E tuttavia è sufficiente proseguire ancora un poco il cammino per lasciarsi prendere dal vero gioco che l’autore ci invita a giocare con lui. E scoprire che quel « rimuginare » rivela un’ imprevista capacità di liberare il « nuovo nel sempreuguale » e di toccare, pure in modo obliquo, indiretto, sfalsato, una se­ rie di nodi decisivi relativi al cinema e non solo a esso, al­ cune sorprendenti e limpide verità. E che cos’è allora questa capacità di essere attuale senza inseguire l’attualità, di stare al passo con i propri tempi senza risultare per ciò stesso datato, legato e prigioniero di ben de­ terminate contingenze? E che cos’è ancora questo potere di attraversare certi stereo­ tipi, certi luoghi comuni del linguaggio e della mentalità corrente senza cadere mai nella banalità, senza correre il ri­ schio di sfiorare il ridicolo? E che cos’è infine questa abilità di non toccare mai diretta­ mente il proprio oggetto, di procedere per allusioni, rimandi, ultraverso un continuo parlar d’altro, senza precludersi nello

VI stesso tempo la possibilità di illuminarne e farne emergere aspetti decisivi, elementi vitali? Truffaut ha detto una volta: « Renoir non ha mai filmato di­ scorsi ma conversazioni »; e questa indicazione, oltre a rileva­ re un elemento decisivo del cinema dell'autore, coglie anche una qualità fondamentale dell’atteggiamento complessivo del­ l’uomo. Il rifiuto delle idee astratte, delle tesi precostituite, delle prese di posizione programmatiche rappresenta infatti quasi un abito morale per Renoir. Non ci si meravigli allora della sua concezione secondo cui sarebbe proprio la conver­ sazione l’elemento che ha consentito la nascita della civiltà greca [1958f. Anche questi scritti, indipendentemente dalla loro sede d’origine, occasione e collocazione temporale, pre­ sentano tutti l’andamento della conversazione. Si tratti della prefazione a un libro, di un intervento per una rivista di cine­ ma, di un omaggio a un amico scomparso, dell’apertura di un convegno o degli articoli settimanali per Ce Soir, questi scritti, tutti, indistintamente, si muovono secondo una logica collo­ quiale, costruita su improvvisazioni, sospensioni, ritorni e ripe­ tizioni: quello che altrove abbiamo definito il suo rimuginare. A essi risulta estranea la dimensione del saggio, del discorso rigoroso, compiuto, legato a una tesi da dimostrare e che cammina spedito verso il proprio scopo. Più frequentemente invece essi presentano la forma della digressione, dell’aneddoto, dell’impressione e della curiosità che diventano la so­ stanza stessa e la qualità anche del discorso. Impressioni di viaggio, riflessioni sul proprio lavoro, ricordi autobiografici, osservazioni di costume, giudizi critici, tutto si mescola e si sovrappone in una prosa poetica che non si limita a giustap­ porre e concatenare, allineandoli, i propri elementi, ma ten­ de sempre a ricomporli in un’unità o totalità superiore che conosce la differenziazione ma non la separazione. L'universo è uno, ama ripetere Renoir, e continua è la sua polemica contro uno dei tanti mali moderni: la divisione del lavoro che porta alla specializzazione e alla parcellizzazione. L’universo è uno ci ripetono questi scritti di Renoir in cui è possibile entrare da qualsiasi parte, a cui è possibile acco­ starsi da qualsiasi punto di vista, senza illudersi però di riu­ scire, per più di un momento, a limitarsi o a restar rinchiusi, in quella parte, in quel punto di vista. E proprio perché l'uni­ verso è uno, nessuna delie sue componenti risulta inanimata e priva di vita. Esso si rivela popolato di volti, cose, idee; al suo interno personaggi e situazioni reali, personaggi e situa­ zioni immaginate, viste al cinema, raccontate da un amico, lette in un libro o in un giornale, coesistono allo stesso li­

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vello e ne significano, pur nella loro diversità, la straordinaria compattezza e unitarietà. Un universo che può fondere i propri contorni reali con quelli della fiaba? Un universo di fiaba, anche. Ma soprat­ tutto un universo reale in cui non vengono cancellati gli aspetti fiabeschi della realtà. Se questi scritti però non hanno, come abbiamo detto, ca­ rattere saggistico e si dispongono preferibilmente secondo i modi della conversazione, il movimento che regola tale di­ stensione non è neanche lirico-memoriale, per quanto la di­ mensione del ricordo, del monologo interiore a volte, del­ l'immagine poetica ne rappresentino un aspetto non secon­ dario; e non si può neppure parlare per essi di dispersione impressionistica o di taccuino d’appunti. La loro capacità infatti è quella di mantenere intatta una fondamentale pro­ pensione narrativa che funziona come esplicitazione di una particolare inclinazione dell’autore (« amo raccontare storie »), c contemporaneamente come istanza organizzativa dei singoli testi. Un Renoir narratore dunque, seppure con accentuazioni quantomeno singolari. Ché un certo gusto . dell'anacronismo, del « già detto », del « già sentito », il tono colloquiale pur in un procedere che si sostanzia di continue « scoperte ». e il riferimento costante a un universo animato in ogni sua parte, conferiscono all'autore il carattere del narratore di fiabe. E la complicità che questi scritti richiedono al lettore è proprio quella di accentuare la sua disponibilità a lasciarsi trascinare in questo mondo di fiaba, non irreale, ma magico, come « ma­ gica è sempre la realtà a volerla ben guardare ». Renoir anacronistico, allora. Ma solo a un secondo livello. Quello in cui le parole si rivelano « desuete » non perché pre­ levate da un altro tempo, ma perché situate, paradossalmen­ te. « fuori del tempo ». Nel mondo in cui ci è capitato (ante volte di entrare con l'artificio del « c’era una volta », per dir­ lo con Renoir, artificio di cui egli si serve come ideale sep­ pure taciuta apertura della sua narrazione di avvenimenti reali, di piccoli fatti quotidiani e di grandi eventi storici. Parole in grado di valere dunque, come contrappunto, presa di posizione, sottolineatura rispetto a circostanze precise in cui si collocano e da cui traggono spunto, ma nello stesso tempo in grado di durare oltre l’occasione specifica da cui muovono e che invano cerca di circoscriverle. Ma chi è questo fean Renoir che ci si presenta sotto la ve­ ste inconsueta e inattuale del narratore di fiabe? La sua immagine ce la consegna un'attività che si distende

Vili lungo un arco di quasi cinquantanni, e che pur eleggendo il cinema a terreno privilegiato del proprio intervento non ha disdegnato l’incursione in altri territori: teatro, letteratura, giornalismo. Ce la consegnano alcuni momenti chiave che hanno attraversato quella attività: l’adesione al Fronte popo­ lare e la lunga permanenza in America; le battaglie per una produzione indipendente « artigianale », slegata dalla grande industria e la capacità di adattamento all’apparato del cinema hollywoodiano; la propensione all’intervento puntuale sull’at­ tualità politico-sociale e la disponibilità alle suggestioni della filosofia orientale; il legame con l’avanguardia francese degli anni ’30 e le aperture verso il cinema di genere; il rapporto con le « maschere », le figure caratteristiche del cinema del pe­ riodo e < l’invenzione » di nuovi attori, schemi interpretativi, fino all’anticipazione del cinema dei « personaggi presi dalla strada » tipici del neorealismo; la ricerca del senso della realtà e la rivisitazione dello spettacolo: commedia dell’arte, musichall, café-chantant. Ce la consegnano soprattutto le parole e i miti con cui la critica ha sottolineato e definito quell’atti­ vità: impressionismo figurativo, naturalismo ottocentesco me­ diato da Zola, realismo poetico, realismo sociale, populismo, perfezione formale, luminosità del tratto. Si è anche cercato di ricomporre questi frammenti, queste contraddizioni e si è parlato di un Renoir uno e molteplice, anzi, per utilizzare l’espressione di Claude Gauteur (cfr. la Nota all'edizione francese della presente raccolta) di un Renoir la cui unità risiede proprio nella molteplicità. Ma più spesso si è preferito dividerlo, sezionarlo, privilegiare un Renoir contro un altro. E chi ha amato la produzione france­ se degli anni ’30 (la maggioranza) non ha capito o non ha voluto capire le opere del periodo americano o quelle fran­ cesi degli anni ’50. Chi ha amato i film americani (pochi in verità: alcuni critici dei Cahiers du Cinéma, Eric Rohmer in particolare) ha messo tra parentesi o sottovalutato la produ­ zione precedente. Chi ha acclamato La règie du jeu ha gridato allo scandalo per II fiume. Chi ha trovato geniale La carrozza d'oro ha cercato di riorientare tutti i film precedenti alla luce di quest’ultimo. Poche le concordanze generalizzate, indiscus­ se, anzi una sola: La grande illusione. Fedeli e assidui sostenitori di tutto il cinema di Renoir solo i Cahiers du Cinéma, all’interno di un discorso tendente ad attribuire al regista (unico esempio nel cinema francese del periodo assieme a Bresson) lo statuto di autore, e per questa ragione attenti a coglierne l’impronta caratteristica, la voce

IX originale e luminosa, nell’arco dell’intera produzione. Spesso con lo stile tipico, perentorio dei Cahiers anni ’50. Dire che Renoir è il più intelligente dei cineasti è conte dire che egli è francese fino alla punta delle dita. Ed Eliana e gli uomini è rii» film francese per eccellenza proprio perché è il film più intelligente che sia mai stato fatto. L’arte e nello stesso tempo la teoria dell’arte. La bellezza e nello stesso tempo il segreto di questa bellezza, il cine­ ma e nello stesso tempo la spiegazione del cinema. [f.-L. Godard, in Il cinema è il cinema. Garzanti, Milano. 1971, pag. 89.f

Definizioni ancora troppo indeterminate, con un sospetto di tautologia, e che non ci aiutano del tutto a individuare pre­ cise coordinate del « sistema » Renoir. E forse è proprio al­ l'interno di questi scritti, e accordandosi al loro movimento, che sarà possibile seguire e collegare quelle tracce sulla cui scorta identificare una fisionomia, ritrovare una evoluzione. 2. L’autore, il regista, il commediante e l’attore

Può sembrare paradossale che Renoir abbia dato inizio alla sua collaborazione a Ce Soir, inaugurando dunque il periodo più e militante » della sua vita, con un elogio della pigrizia, elogio che poteva risultare anche troppo dislocato dati i tem­ pi e la collocazione del pezzo. Ma, più che di paradosso o dislocazione, si può forse parlare della capacità di Renoir di stare addosso e dentro alle cose e nello stesso tempo di te­ nerle come a distanza, di giocare un ruolo decisivo in deter­ minati avvenimenti e nello stesso tempo di guardarli come una rappresentazione svolgentesi su un’altra scena, di lasciar­ si trascinare dal * caos della vita » e nello stesso tempo di cercare di conferirle « l’ordine dei propri sogni più segreti ». E per Renoir la pigrizia è un sogno, un dato storico che ha prodotto la civiltà greca, e un modus vivandi che malaugura­ tamente va perdendosi nella civiltà contemporanea. Naturale che il riferimento alla pigrizia corra costantemente per tutto il suo pensiero e gli consenta di distanziare anche i più imperiosi richiami all’azione. È del marzo 1937 questa con­ siderazione:

Conosco dei giocatori di carte che sono dei veri forzati. [...] Essi si privano così di gioie immense, le più grandi cui si possa pervenire. Queste gioie hanno un rapporto diretto con una certa tenerezza, un certo amore per le persone e per le cose. L’uomo che lavora troppo non ha il tempo d’amare. E senza amore, niente cultura. Considerazione ripresa ed esemplificata anche dal Mei Fer-

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rer di Eliana e gli uomini (« il suo ideale sarebbe la pigrizia universale, per i ricchi come per i poveri », 1956). E riba­ dita ancora dallo stesso Renoir nella sua esaltazione della ci­ viltà indù rispetto a quella occidentale fondata sull’azione e sul lavoro [1972]. Si tratta quindi di' una pigrizia vista, se così si può dire, nella sua più nobile accezione. Ed essa quindi, lungi dall’anda­ re a configurare un’etica del non lavoro, si rivela piuttosto un abito, un atteggiamento mentale, un criterio di orienta­ mento rispetto id proprio lavoro. Di fronte ai « forzati del gioco », a quanti cioè riescono a ridurre anche il gioco a la­ voro, il richiamo di Renoir alla pigrizia diventa proposta per un tentativo di trasformare anche il lavoro in gioco, fatto per divertirsi e per divertire, invito a ritrovare e ricercare an­ che in esso quel risvolto « gioioso » e di piacere, di contatto profondo con le persone e con le cose che nasce da un’intima fusione e confusione di tutti i suoi partecipanti, tra loro e con la realtà che si trovano di fronte. Per questo il cinema. Per questo, del cinema, l’aspetto baraccone da fiera, la com­ ponente ludica, festosa, magica, che lo collega al * Guignol », alla commedia dell’arte, allo stupore dello spettacolo. E senza nascondersi tra l’altro, neppure per un momento, la quantità di impegno, fatica, responsabilità, che è necessario investire in esso. Renoir è troppo consapevole dell’importanza e dell’imprescindibilità di un perfetto padroneggiamento della tecnica, ha seguito troppo da vicino gli sforzi, gli esercizi costanti che il padre dedicava al suo lavoro (che pure e era la sua ragione d’essere»), per poter pensare che fare del cinema significhi preservare un certo spirito dilettantesco o amatoriale. Ciò non gli impedisce però di provare a farlo mantenendo intatto pro­ prio quell’elemento ludico che nasce dalla straordinaria affi­ nità che il cinema rivela rispetto alla concezione generale del­ la vita di Renoir. Il cinema si presenta infatti come prolunga­ mento e amplificazione, non specchio o riproduzione, di quel­ l’aspetto magico, favolistico che, anche quando le sue storie sembrano muoversi in un orizzonte più chiuso e più tragico, rappresenta per Renoir la componente dominante della realtà. Ho passato la mia vita a scrivere storie nelle quali la mescolanza del magico teatrale e del magico della vita formano la base dell’intreccio. fNouvel entretien avec Jean Renoir, in Cahiers du Cinema, n. 78, dicembre 1957.)

Eredità del surrealismo (« mi risulta difficile cogliere la diffe-

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rema tra il sogno e la realtà », 1968); suggestioni dell’in­ duismo (e ...Nell’induismo [...] non si sa più dove sta la leg­ genda, dove sta la storia, dove sta la realtà [...], c'è una con­ fusione voluta tra l'immaginazione e la vita. Questa confusione mi affascina », 1968); una particolare concezione e interpre­ tazione del cinema («Al cinema questa differenza tra il so­ gno e la realtà è pure abbastanza fluida, almeno per quel che ne penso », 1968); tutto ciò si confonde e si rinvia indefini­ tamente in un gioco in cui il cinema, anziché presentarsi come imitazione più o meno fedele della vita, si rivela esso stesso come vita a un secondo livello. Di qui il carattere quasi necessitante dell’accostarsi di Re­ noir al cinema e l'impossibilità quindi di isolare e separare all’interno di questi scritti i fili che tengono inestricabilmente legati la vita e il cinema. E tuttavia, attraverso un'operazione di riduzione e astrazione a posteriori, è forse possibile indi­ viduare una rete di riferimenti e rimandi che costituiscono l’intelaiatura di fondo del cinema di Renoir. Operazione di astrazione resa tra l'altro difficile da altri fattori. Da una parte, come già abbiamo sottolineato, l'ostinata preclusione dell’autore alle formalizzazioni e alle sintesi definitive e dun­ que alle esplicite dichiarazioni di poetica. Dall’altra, le modi­ ficazioni che tale poetica subisce sia secondo un percorso interno sia sulla base delle sollecitazioni che un ambiente esterno, anch'esso in continua trasformazione, è in grado di offrirle. È così che affiorano da queste pagine molte dispa­ rità di rimandi: l'adesione ai modelli del cinema americano degli anni '20, l'attenzione verso procedimenti e tecniche del­ l’avanguardia, le « scoperte » di Chaplin e Stroheim, l’idea di * realismo », la propensione a un classicismo compositivo, la ricerca di una messa in scena finalizzata alla recitazione de­ gli attori. Ma anche una serie di costanti. A partire, ad esem­ pio, dall’invito a leggere in ogni opera d’arte la manifesta­ zione della personalità dell’artista. Invito che presuppone, da un lato la centralità della funzione dell’autore lungo le varie fasi della catena produttiva, centralità difficilmente raggiun­ gibile soprattutto nel cinema in cui la divisione del lavoro si presenta massima; e dall’altro la sottovalutazione del sog­ getto, del contenuto esplicito dell’opera in favore dei modi e delle forme in cui quel contenuto viene espresso, in favore dello stile. E allora, la vocazione a « raccontare delle storie », che tra l’altro costituisce una delle ragioni specifiche che ha spinto Renoir ad accostarsi al cinema («lo strumento più adatto nella nostra epoca a svolgere tale funzione »), non significa dunque

XII per il regista puntare sull'assoluta novità del soggetto, rivendi­ care l'originalità di un determinato intreccio, ma, attingendo all’inesauribile patrimonio di stòrie già esistenti f« l'idea di plagio è nuova, non esisteva nell’antichità »), già raccontate da altri, già consumate talvolta, concentrare i propri sforzi sulla delineazione dei caratteri, degli ambienti, dei dettagli e delle situazioni: luoghi attraverso cui può passare l’esplicifazione di uno stile. Renoir per i suoi film si è sempre servito di storie già rac­ contate da altri (da Zola a Simenon, da La Fouchardière a Flaubert, da Gor’kij a Mirbeau, da Rumer Godden a Mérimée) e se qualche volta ne ha inventate di originali è stato più che altro per « evitare penosissime discussioni con gli sce­ neggiatori ». Quando si è scagliato contro la politica degji adat­ tamenti, poi, è stato soltanto perché per i produttori < adat­ tamento » significava fedeltà assoluta e passiva all'intreccio. Il fatto è che per Renoir il marchio dell’autore significa ben altro che la paternità della storia e del soggetto; esso si deli­ nea e va ricercato nel come succede, più che nel cosa succede. Si può quasi dire che la storia intesa come intreccio gli ser­ va da pretesto, da canovaccio, da interpretare liberamente proprio come avveniva per i testi della commedia dell’arte. E in questo senso un’opera come La carrozza d’oro rappre­ senta non solo un film sulla commedia dell'arte, ma un film alla commedia dell’arte, e quindi un film su Jean Renoir. Tan­ to più che negli ultimi anni del suo lavoro egli confesserà di amare rivolgersi a storie sempre più deboli, quasi * infanti­ li » nella loro strutturazione, ma che gli permettevano pro­ prio grazie a questa debolezza di * fare più liberamente del cinema ». Storie insomma che gli consentissero di esplicitare al massimo grado la qualità forse più caratterizzante della sua poetica: l’improvvisazione. L’improvvisazione, infatti, in Renoir non si configura sem­ plicemente come piacere segreto di trasgredire i percorsi sta­ biliti, come possibilità di contravvenire in ogni situazione a ri­ gidi piani di lavoro, o peggio come capacità specifica di ogni buon mestierante di modificare e adattare le sue idee originarie nel corso delle riprese, ma si rivela molto più inti­ mamente connessa alla sua concezione del cinema. Cinema come gioco, in cui il caso svolge un ruolo decisivo. Universo come totalità vivente e in cui dunque ogni dettaglio risulta significativo. Cinema come vita, e che nasce quindi da un rapporto diretto con le cose, dal contatto che l’autore stabi­ lisce con la realtà circostante. I

xin f perfettamente vero che quando girate un piano e vi dite: « Sto ten­ tando di fare qualcosa di grande; questo diventerà il più bel piano della mia vita, il più bel piano del cinema», ebbene, non è con delle idee generali che sarà possibile fare questo piano. É con un piccolo lampo nello sguardo. Con dei dettagli, dei dettagli che hanno a che vedere con la carne, con i sensi, con la vista, con l’odorato, con la gioia sensuale di sentire le forme, i colori; non con delle idee, non con il cervello / 1957}. E allora l’improvvisazione non sarà tanto una delle possibi­ lità del processo di realizzazione del film, ma la sua condizio­ ne stessa di esistenza, la componente fondamentale di quella che potremmo definire una poetica del rischio e insieme una poetica dei dettaglio. La verità dei dettagli, per Renoir, si ri­ vela più importante della verosimiglianza degli intrecci, delle situazioni, delle psicologie. In questa comune sensibilità, in questa attenzione alle cose nel tentativo di coglierne il loro valore singolare, più che nella qualità figurativa o nella composizione fotografica, si misura la profonda influenza esercitata nei suoi confronti da parte del padre. Certo, come ha rilevato André Bazin, per fean Renoir più che di una « dittatura anarchica dei sensi » si può parlare di una « morale della sensualità ». A patto però di considerarla come una sensualità liberata da ogni debito nei confronti dei miti dell’illusionismo e del trompe * l’oeil. Una morale della sensualità che per essere praticata deve sostanziarsi della « pelle stessa », del materiale di cui si compone il film: attori, cose, ambienti. Per questo il film comincia a esistere realmente soltanto in fase di riprese, per questo « si scopre il contenuto di un film solo a forza di gi­ rarlo », per questo l'improvvisazione diventa il più rigoroso tra i metodi di lavoro. L'improvvisazione, poi, tanto più rivela i suoi scarsi le­ gami con un malinteso concetto di dilettantismo, di scrittura intuitiva (o automatica), quanto più si mette a confronto con la concezione di Renoir rispetto ai procedimenti del linguag­ gio cinematografico. Se infatti Renoir prende talvolta le di­ stanze da determinati perfezionamenti tecnici e sembra rim­ piangere le limitazioni che costringevano « i primitivi » a inventare continuamente i loro strumenti espressivi, è solo per prendere le distanze da una utilizzazione di tali perfeziona­ menti in funzione di un adeguamento e una riproduzione fe­ dele della realtà. Di fatto non solo la sua attenzione e in­ ventiva (« all’inizio mi interessavano soprattutto la tecnica e i trucchi »), ma i continui richiami all’esigenza di un perfetto

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padroneggiamento del proprio strumento espressivo testimo­ niano la centralità che il problema della tecnica assume nel discorso di Renoir: il cinema f..J è una religione pratica. £ un mestiere che ha a che fare con delle lampade, con delle cineprese, con della pellicola, con lo svi­ luppo, un mestiere in cui i problemi materiali contano enormemente 11968],

Questa consapevolezza non si traduce però in una mitizzazio­ ne. e neppure in una ricerca ossessiva di una specificità del linguaggio cinematografico. Padroneggiare il proprio linguag­ gio, per Renoir, significa renderlo trasparente, farlo aderire al proprio oggetto in modo che le valenze linguistiche e poetiche di un determinato discorso non si concentrino sull'esibizione del linguaggio in quanto tecnica del linguaggio. Venti anni di nuovo cinema ci hanno insegnato a ricono­ scere la marca di un autore in una zoomata troppo violenta, in un'alternanza troppo evidente di obiettivi su uno stesso og­ getto; Renoir ci ricorda che essa è disseminata anche altrove, senza che per questo debba invocarsi la negazione delle spe­ cificità linguistiche del cinema. Da questo punto di vista, ri­ sulta esemplare quella sorta di reinvenzione del piano-sequen­ za (e conseguentemente della profondità di campo che lo rende possibile) che anticipa di molti anni quello che sa­ rebbe diventato uno dei procedimenti più caratteristici del cinema degli anni '60. Pur limitando infatti l’intervento del montaggio, comunemente considerato come una qualità spe-> cifica del linguaggio cinematografico, esso consente di sfug­ gire alla logica dei campi-controcampi, che. secondo Renoir, è troppo debitrice di un’impostazione strettamente fotografica del cinema. E ripropone una qualità, essa sì, specificamente cinematografica: la rappresentazione del movimento; e insie­ me una qualità specifica del cinema di Renoir: l'interdipen­ denza stretta, indissolubile tra lutti gli elementi della realtà, dagli esseri alle cose. Attraverso questo procedimento di messa in scena lo spazio e la durata reale non vengono dis­ sociati con un'operazione a priori, ma lasciati intatti nella loro unitarietà che consente forse di liberare la « verità in­ teriore » delle cose e delle persone proprio passando attra­ verso la loro verità fenomenica. Tanto più che questo proce­ dimento consente anche, assecondandolo in nuovi rapporti con la realtà circostante, di mettere a nudo, sino in fondo, il ruolo dell'attore.

La funzione decisiva giocata dagli attori nella concezione

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cinematografica renoiriana è testimoniata non solo dall'insi­ stenza con cui il regista torna su questo problema (tanto che un nucleo consistente di questi scritti potrebbe andare a costituire un vero e proprio < trattato » sull’attore), ma anche dalla cura che Renoir rivela di aver sempre dedicato alla scelta degli interpreti adatti alla parte che aveva in mente. Basti pensare a questo proposito alle pagine dedicate dal­ l'autore all’incontro con Simone Simon che doveva interpre­ tare il ruolo di Séverine ne L'angelo del male. * Non si fa un (dm da soli », ripete Renoir, e l'attore è il principale respon­ sabile, con il regista, di questa creazione collettiva per eccel­ lenza che è il cinema. Esso infatti può costituire per l’autore il vero « tramite » per la sua comunicazione con il pubblico. E non importa allora che si tratti di un professionista o di un attore preso dalla strada; cambierà il processo da seguire, per il primo si tratterà di operare una trasposizione, per il secondo no; ma resterà invariato lo scopo cui quel processo deve tendere: l’espressione di una determinata « verità inte­ riore ». La quale non sarà tanto data dalla verità della perso­ nalità dell’attore o dalla verità della parte che egli deve rappresentare, ma dallo scarto, dal rapporto che si stabilisce tra esse. Anche quando Renoir parla di naturalezza dell'at­ tore non è tanto di una naturalezza intesa come verosimiglian­ za psicologica che si tratta, ma di naturalezza della rappre­ sentazione dell’attore, di verità della sua interpretazione, di naturalezza dell’artificio, di realtà della finzione. Da questo punto di vista solo apparentemente contraddit­ torie risultano le preferenze accordate da Renoir a Stanislav­ ski) e a Chaplin: il primo appoggiandosi alla verità esteriore, il secondo rinunciandovi completamente, mettono entrambi in scena delle parti, unica possibilità per uscire da quel falso­ naturale tanto diffuso nel cinema ma non solo nel cinema. (. estremamente illuminante a questo proposito la distin­ zione utilizzata da Renoir (esistente nella lingua francese e non immediatamente traducibile in italiano) tra acteur e co mèdi en. L'actcur, che in tale specificazione terminologica significa semplicemente interprete di provenienza non teatrale, in Renoir acquista proprio il significato di colui che aderisce alla propria interpretazione nel senso del falso-naturale. Il comédien, invece, diventa colui che vi aggiunge anche quel­ l'elemento di teatralità, di aperta rappresentazione che fa sì thè gli spettatori si trovino contemporaneamente di fronte il suo essere personaggio e il suo essere attore. E il metodo

  • quel momento l’orribile scotto di troppi bei paesi... i serpenti. Non si era mai visto un solo serpente nell’isola. II nostro coltiva­ tore ébbe un’idea geniale. Contro il coniglio e il negro, dal momento che le fucilate non davano nessun risultato, perché non impiegare il cobra? Un breve viaggio in un’altra isola in cui questi rettili pullulavano gli consentì di approvvigionarsi a buon mercato e sparse quei pericolosi guardiani nelle sue piantagioni di canna da zucchero. Vi si moltiplicarono. Non so che cosa pensarono i conigli, ma quei negri che, in un paese in cui tutto cresce spontaneamente, non ammetteva­

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    no (’articolo di fede: « Guadagnerai il tuo pane col sudore del­ la tua fronte », o che, più semplicemente, non amavano mol­ to il manganello del padrone, dovettero scendere a un com­ promesso tra il loro appetito)e la paura dei cobra. Le pian­ tagioni del nostro coltivatore erano ben sorvegliate e, ormai, era impossibile sdraiarsi sull’erba di questo paradiso terre­ stre senza rischiare la morte. Abbiamo un bel po’ di eleganti oratori in Francia che pro­ clamano a ogni istante che, con l’avvento del Fronte popo­ lare, il « sacro diritto » della proprietà è costantemente violato. Parlano sempre di questo,,volendo ignorare gli altri proble­ mi del momento. Perché non innalzano un monumento a quel coltivatore del Pacifico? Perché non mettono il suo nome in lettere d’oro sul loro stendardo? Ecco il vero eroe della cau­ sa, il grand’uomo che non ha esitato a trasformare un pa­ radiso terrestre m un inferno piuttosto che mollare di un centimetro i suoi sacri privilegi. (/ luglio 1937]

    Un'altra storia .coloniale Circa settant’anni fa i bianchi sbarcarono su una certa co­ sta dell’Africa. Stavolta convenientemente provvista di cobra, formiche giganti, ragni velenosi e altre bestiole. La mosca tse-tse si incaricava della diffusione della malattia del sonno. Gli abitanti del posto, negri tranquilli e completamente inoffensivi, accolsero assai bene i nuovi visitatori. Ci fu uno scambio di convenevoli: « Dammi dell’avorio e ti darò delle chincaglierie ». Presagio eccellente, i negri avevano l’a­ ria di prendere gusto all’alcool. Le più grandi speranze erano consentite, nonostante quella maledetta mosca tse-tse, cui, d’altra parte, i negri resistevano con incomprensibile vigore. Quando, all’improvviso, i colonizzatori si accorsero con orrore che i negri erano antropofagi. Non antropofagi feroci, che tendevano trappole al bianco per catturarlo e per nu­ trirsene avidamente con terribili grida. La loro antropofagia assumeva una forma sociale, mite, civilizzata, umanitaria. Semplicemente quando i vecchi genitori cominciavano a di­ ventare un po’ rimbambiti, i bambini li pregavano gentil­ mente di salire su un cocco che scuotevano poi con vigore. Se l’onorevole nonno resisteva, aveva salva la vita. Se ca­ deva, voleva dire che non poteva essere più di alcuna uti­ lità alla famiglia e lo si mangiava. Dopo tutto, Guy de Mau­ passant ci ha raccontato ben altro sui costumi dei contadini normanni.

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    I buoni bianchi fecero invano notare che tutto ciò non era ben fatto. Gli indigeni non vollero lasciarsi convincere. I bianchi decisero allora di mettere in prigione i bambini col­ pevoli di aver mangiato i loro genitori. Ebbe luogo una ri­ volta generale. I negri avevano frecce e scudi. I buoni bianchi avevano fucili e cannoni. L'affare fu presto risolto. 1 bianchi distrussero alcuni villaggi, uccisero una buona parte degli abitanti e poterono in seguito, senza fastidi, imporre ai so­ pravvissuti i vantaggi della civiltà... Il mercante d’alcool, che era momentaneamente sparito durante la mischia, riprese baldanza e decise di far prospe­ rare il suo commercio. Le nostre valenti truppe, approfittan­ do del tempo libero lasciato dalla pace, diffusero generosa­ mente a destra e a sinistra le malattie veneree prese nei bor­ delli del loro paese natale. In capo a dieci anni e senza tener conto della piccola guerra sopra menzionata, la popolazione era diminuita della metà. I negri non resistevano più alla mosca tse-tse e crepavano come mosche comuni. Alcuni me­ dici fecero delle ricerche e accertarono che, oltre l’alcool e le malattie, la principale causa di questa diminuzione era l’abbandono dell'antica antropofagia. In quel paese è impossibile tenere del bestiame. I buoi, le pecore, gli stessi bufali fanno a gara a morire. Gli ortaggi non crescono. La sola cosa commestibile, di prima qualità, erano i genitori. Privando i poveri negri di questo piatto forte, li si faceva morire di anemia, di consunzione e di tristezza. Non si possono biasimare i nostri civilizzatori di aver tentato di far perdere a quegli sventurati un’abitudine che, sebbene praticata in Europa sotto forme diverse, 1ion è per questo meno deplorevole. Quello di cui ci si può stupire è che non abbiano ritenuto loro dovere principale il vettova­ gliamento normale della popolazione di cui si costituivano d’autorità come angeli custodi. Così facendo si mettevano dalla stessa parte di tutti i dispensatori di beneficenza e di morale a buon mercato che percorrono il vasto mondo. [8 luglio 1937]

    Biblioteca rosa Quand’ero ragazzo, odiavo i romanzi della contessa di Ségur, nata Rostopchine. Anzitutto non mi piaceva il colore dei volumi. Quella famosa biblioteca rosa a uso dei bambini di « buona famiglia » mi faceva pensare a non so quale ca­ ramelloso dolciume. 11 linguaggio, poi, mi sembrava altrcttan-

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    io scostante dell’aspetto. Ero disgustato dalla stupida crudeltà, non tanto dei bambini, quanto dei genitori che bazzicavano questi libri. Dove vedevo, non rosa, ma rosso, era nelle see * ne di bontà. Poiché tutti questi fantasmi erano odiosamente caritatevoli. La contessa. « Tieni, mia povera ragazza, ecco un cappello usato. I suoi nastri sono tutti strappati e la sua cuffia somi­ glia a un colabrodo. Sophie, la ragazza del castello, non può più farsi vedere con un copricapo in uno stato così pietoso. Allora, poiché siamo molto buoni, generosamente te ne fac­ ciamo dono. » La povera fanciulla. « Oh! Grazie, signora contessa. Sono così commossa dalla sua generosità che mi manca il respiro. Non domando che una cosa per provarle la mia riconoscenza; avere un giorno l’occasione di dare la mia vita per lei. » Quando raggiunsi l’età della ragione (verso i quarant’anni), cambiai radicalmente parere sul valore delle opere di Madame de Ségur. Mi accorsi che questa innocente scrittrice aveva dipinto il proprio ambiente con una incoscienza feroce e che lutto ciò non mancava di grandezza. Mi apparve come una specie di Balzac della società benpensante. I suoi romanzi costituiscono, sotto la loro amabile copertina rosa, la requi­ sitoria più violenta, perché involontaria, contro la grande borghesia rurale. Ora vi racconterò una storia di cui sono stato, poco tempo fa, testimone impotente e che trae origine direttamente dai romanzi della contessa di Ségur. A cento chilometri da Parigi, in una regione celebre per le sue foreste, una ricca castellana si interessava a una fanciulla povera del villaggio. La domenica, all’uscita dalla messa, quan­ do incontrava la ragazzina che stava mendicando nelle stra­ de, la « rapiva », la portava con la sua macchina fino al ca­ stello dove le faceva il bagno, le pettinava i capelli, le tagliava le unghie, le faceva subire un mucchio di supplizi col prete­ sto dell’igiene e della lotta contro i microbi. La piccola, che aveva circa dodici anni, provava orrore per tutto ciò, ma non osava dire nulla. La brava castellana, nel suo zelo profilatti­ co, non immaginava che la ragazzina aveva anzitutto bisogno di mangiare e che un abbonamento dal fornaio avrebbe fatto meglio al caso suo. Un giorno, la piccola si impadronì di un orologio che gia­ ceva dimenticato su un tavolo del castello. Suo padre, un in­ nocuo vagabondo, tentò di farci dei soldi. Si trattava di un orologio Uniprix del valore di dieci franchi; le sue maldestre trattative diedero nell’occhio e tutta la famiglia venne arre­

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    stata. La buona castellana avrebbe potuto disturbarsi e an­ dare a dire ai gendarmi che aveva offerto, insieme ai bagni, quell’orologio da dieci franchi alla piccola. Ma questa storia accadeva proprio durante la grande stagione di Cannes yachting, baccarà, polo, mahraja, la Simpson, ecc. - e quella signora non poteva veramente abbandonare così gravi occu­ pazioni per una simile bagatella. La ragazzina, incolpata di furto, fu messa in una casa di correzione fino alla maggiore età. Alcuni giornali ci hanno fatto sapere, in questi ultimi mesi, cosa significhino le parole « casa di correzione ». Se, più tardi, una volta uscita da quell’infemo, questa vittima della beneficenza dovesse leggere i romanzi della contessa di Ségur, sarei curioso di chiederle che cosa ne pensa. [15 luglio 1937]

    L'Esposizione della Libertà Recentemente, due tedeschi che conosco bene visitavano 1’Esposizione. Dovendo chiedere un’informazione si rivolse­ ro a una signora che leggeva Ce Soir. Questa, identificandoli dal loro accento, reagì molto freddamente e, mostrando il suo giornale, si rivolse loro più o meno nei seguenti termi­ ni: « Dovrebbe farvi capire quali sono le mie opinioni. Tira­ te dritto e rivolgetevi ad altri ». I due tedeschi, con perfetta sincronia, tirarono fuori dalla tasca ciascuno un'altra copia di Ce Soir e risposero alla signora che quello era, in Fran­ cia, il loro giornale preferito e che, avendo esaminato in pro­ fondità la questione, erano, e motivatamente, almeno altret­ tanto antifascisti di lei. Forse quella signora non aveva dige­ rito bene qualche piatto venduto al padiglione tedesco, o forse nascondeva in fondo al suo animo il'triste ricordo di un’av­ ventura sentimentale con qualche straniero tenebroso e volu­ bile. Credo più probabilmente che, per un esagerato desiderio di estrema semplificazione, avesse detto a se stessa che, essen­ do i nazisti generalmente di origine tedesca, anche il contrario doveva essere vero. Questo ingenuo ragionamento somiglia molto a quello di quell’inglese che, sbarcando in Francia per la prima volta e vedendo al porto una donna dai capelli rossi, scriveva subito alla sua famiglia una lettera affermando che « in Francia tut­ te le donne sono rosse ». Ci sono voluti lunghi anni e il ci­ nema per persuadere i francesi che non tutte le inglesi ave­ vano i denti sporgenti e per cancellare, dalla mente degli an­ glosassoni, la curiosa immagine del francese piccolo, grassoc-

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    ciò, panciuto, che inalbera insolentemente una barba nera a punta. No, non tutti i tedeschi sono nazisti, e per questo dobbia­ mo riceverli da noi a braccia aperte. D’altronde, il più ele­ mentare sentimento del nostro dovere patriottico deve spin­ gerci a far di tutto per trattare bene, materialmente e moral­ mente, gli stranieri che si mostrano così cortesi da venire a visitare la nostra Esposizione. Sul « materialmente » c’è, ahimè, molto da dire. Alcuni albergatori aspettano i nostri ospiti con una mitragliatrice perfezionata. I prezzi praticati in certi ristoranti, all’interno o nei din­ torni dell’Esposizione, sono, a mio avviso, una vera vergogna. Evidentemente, i ristoranti hanno le loro spese, le aree co­ stano care. Ma non si potrebbe fare un piccolo sforzo per evitare di dare al mondo la triste impressione che la Francia sia diventata un paese di trafficanti? « Moralmente », questo dipende da voi, da me, dall’uomo della strada, dal popolo francese. Come sarebbe bello se i nostri amici tedeschi, tornando a casa, potessero dire: « Ho appena visto qualcosa di meravi­ glioso! » « Sì, senza dubbio, le realizzazioni dell’Esposizione devono essere grandiose, le costruzioni colossali, gli oggetti esposti infiniti. » « Sì, tutto questo è superbo, ma ciò che ho visto è ancora più straordinario. E un prodotto che non esi­ ste più nel nostro paese e che invece là si trova dappertutto. L’abbiamo visto all’Esposizione, sui boulevard, in campa­ gna, nei salotti, nei sobborghi. E la libertà. Non soltanto la libertà ufficiale, quella che è legata alle istituzioni, ma an­ che quella che deriva dalla cortesia, dalla affabilità dei modi, dall’assenza di pregiudizi nella popolazione. In Francia ave­ te il diritto di essere cinese, ebreo, tedesco o groenlandese. Nessuno se ne meraviglia, non vi viene neanche fatto notare. Tutta questa mescolanza di razze, riunite all’insegna di un’Esposizione delle arti e della tecnica, è uno spettacolo unico, incomparabile. Uno spettacolo che mi ha fatto riflettere. E ora ho qualche dubbio sulla bontà dei metodi del nostro Fùhrer. » [22 luglio 1937]

    Visita all’Esposizione Prima di andare a visitare l’Esposizione, ho deciso di con­ sultare una guida. Ecco due attrazioni che mi sono sembrate particolarmente avvincenti. « Il Vesuvio a Parigi. Questa attrazione mostra con mezzi

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    nuovi quello che può essere un’eruzione vulcanica e ci fa assistere a una festa romana. Quando lo spettacolo inizia, in effetti, Pompei è in festa, è una sera d’agosto del 79 d.C. Tutta la popolazione si accalca nel foro della piccola città; i cittadini vestiti con toghe leggere, gravi matrone romane, precedute dai loro schiavi, gli abitanti della provincia e quelli dei municipi più umili e più semplici nei loro costumi, gli schiavi con la testa rasata: sono le ferie latine, tutti sono allegri. Improvvisamente si ode un muggito sordo, subito seguito da una serie di violente detonazioni; il cono del vul­ cano si copre di fiamme, il rumore diventa ancora più vio­ lento, gii uomini fuggono, sconvolti, lo scompiglio è genera­ le, presto la lava comincia a scendere e, estendendo la pro­ pria opera di devastazione, inghiotte sotto i suoi torrenti di fuoco la sventurata città. Grazie ai mezzi impiegati, a una serie di giochi di specchi, a proiezioni luminose, l’illusione è assolutamente totale, e lo spettatore esce in uno stato di terrore indescrivibile. » Altra attrazione, « Il Globo Celeste. £ una sfera gigante di quarantasei metri di diametro, che poggia su quattro pie­ di in muratura che ricordano un po’ i pilastri della torre Eiffel, e su cui sono rappresentate figure astronomiche e mi­ tologiche illuminate di notte e che attirano tutti gli sguardi per la loro singolarità. È sormontata, a un’altezza di sessanta metri dal suolo, da un terrazzo cui si arriva per una larga sca­ la a forma di grande cerchio obliquo, che rappresenta lo zo­ diaco e in cui si possono trovare bevande rinfrescanti e mu­ sica, nonché una vista superba. Ma l’interno, di quaranta metri di diametro, non è meno attraente. Si arriva, con ascen­ sori elettrici, proprio al centro della sfera, ove un altro globo, terrestre questa volta, e di sei metri di raggio, gira sul suo asse. Si può prendere posto e ci si può sentire trascinati dal movimento da ovest a est, mentre nello spazio immenso, rima­ sto vuoto, brillano o si muovono gli astri, il sole, le stelle, co­ mete vaganti, la luna con le sue fasi e le sue eclissi. Tutto ciò costituisce uno svago piacevole e istruttivo allo stesso tempo. È la scienza alla portata di tutti. Aggiungiamo che un grande organo meccanico esegue musica composta appositamente e che, la sera, sulla piattaforma della sfera terrestre, duemila spettatori possono ascoltare un’eccellente orchestra di ottan­ ta musicisti, sotto la direzione di Saint-Saèns. l’illustre com­ positore. » Un’orchestra diretta da Saint-Saèns, ecco, certamente, un’at­ trazione non banale. Con un po’ di inquietudine chiusi il li­ bro ed esaminai con maggiore attenzione la copertina. Allo­

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    ra mi accorsi che si trattava di una guida dell’Esposizione del 1900, dimenticata in un angolo della mia biblioteca. [29 luglio 1937]

    Uno spirito nuovo Un’opinione molto diffusa negli ambienti cosiddetti « rea­ zionari » è che le vittorie della Rivoluzione francese, nel 1792, sono dovute alla qualità del materiale militare lasciato in ere­ dità dalla monarchia e, in primo luogo, alla qualità dell’artiglieria. Secondo alcuni, i rivoluzionari avrebbero usurpato una gloria che dovrebbe spettare a de Gribeauval, nominato nel 1776 primo ispettore generale dell’artiglieria, e che morì proprio nel 1789. E in questa volontà di estrema semplifica­ zione, si presenta de Gribeauval come una specie di ingegne­ re, inventore di cannoni di nuovo tipo, in anticipo di molti an­ ni sui cannoni del resto d’Europa. Anzitutto si dimentica il predecessore di de Gribeauval, il luogotenente generale de Vallière, che rese all’artiglieria il più grande servizio che si potesse renderle, regolamentando le nomine in tale arma. Questo coraggioso funzionario riuscì a ottenere dal re la firma di un decreto che imponeva un esa­ me a ogni aspirante ufficiale dell’arma dell’artiglieria. Era dunque, questa, la sola arma in cui, pef comandare, non era sufficiente essere nobili, ma in cui si doveva anche aver im­ parato qualcosa. Ho l’impressione che si può in parte attri­ buire l’elevata qualità dell’artiglieria francese a questa ope­ razione di de Vallière, poiché questi ufficiali preparati pre­ tesero naturalmente sottufficiali che avessero delle conoscenze, e si creò nell’arma una emulazione in campo scientifico as­ solutamente sconosciuta alla fanteria e alla cavalleria. Un al­ tro risultato dell’istruzione dell’artiglieria fu che tutti gli artiglieri abbracciarono con passione le nuove idee. Già, a quell’epoca, esisteva questa parentela tra l’istruzione e il gu­ sto delle riforme sociali. E de Gribeauval, successore di de Vallière, fu il suo intelligente continuatore. Fu l’Àssemblea costituente che, dietro le insistenze di La Fayette, creò l’artiglieria a cavallo. Il passo finale di questa organizzazione fu compiuto nell’aprile del 1792 dall’Assemblea legislativa che, adottando le proposte di un deputato, vecchio ufficiale dell’arma, il cittadino Lacombe Saint-Michel, ne fece un corpo veramente autonomo. Mentre gli artiglieri austriaci e prussiani erano ancora costretti a rivolgersi agli uomini della fanteria per un aiuto nel servizio ai pezzi, e

    126 mentre i loro cannoni erano trasportati da cattivi cavalli pre * si in affitto, l’artiglieria francese, sola in Europa, possedeva già i suoi serventi e i suoi cavalli. Perché attribuire agli uni piuttòsto che agli altri quello che è il risultato degli sforzi di tutto uno stuolo di persone generose, valenti ingegneri, abili strateghi, buoni patrioti? Questa settorializzazione arbitraria è forse un modo di far passare in secondo piano la vera ra­ gione delle vittorie della Rivoluzione: l’entusiasmo popolare. Quando, di fronte alle superbe truppe di Federico il Grande, il cui esercito aveva conosciuto soltanto vittorie, Goethe vide quei volontari, per la verità abbastanza malmessi, poco di­ sciplinati, ignoranti di cose militari, capì che si trattava di una nuova razza di combattenti. Non furono soltanto i can­ noni di Valmy che fermarono i prussiani. Fu anche il grido « Viva la Nazione! », urlato da gente conscia di difendere una patria di cui si sentiva proprietaria. Per concludere questo articolo sull’artiglieria, mi sia con­ cesso ricordare le parole dello stesso Goethe, la sera della battaglia: « Questo luogo e questo giorno inaugurano una nuova epoca nella storia dell’umanità e voi potrete dire: ’ C’ero anch’io! ’ ». [5 agosto 1937]

    Quel « nulla » geniale L’altro giorno, aprendo i giornali, sono stato colpito dall’ab­ bondanza delle foto che ritraevano una signora tedesca, con un nome molto complicato e un aspetto particolarmente ar­ cigno. I titoli enormi che annunciavano l’arrivo di questo per­ sonaggio a Parigi mi fecero anzitutto pensare che si trattasse di una personalità intemazionale. Altrimenti perché mostrare un musino così brutto? Forse si trattava di qualche grande medico che aveva salvato molte vite umane? O quella signo­ ra era un'eroina dell’aviazione che aveva stabilito un im­ portante collegamento aereo? Niente di tutto ciò. Quella scim­ mia, goffamente infagottata, è il « Fiihrer » della moda tede­ sca. L'altro Fiihrer le ha dato due anni e tutti i mezzi neces­ sari per creare una moda berlinese e imporla aH’ammirazione del mondo. E lei si è messa in viaggio per studiare la questio­ ne. La sua prima tappa è stata Parigi. Evidentemente, quando si vede l’aspetto della signora, si può pensare che il pericolo non è molto grande. Ma quello che non mi spiego è questo furore antinazionale che tormenta oggi tanti francesi. Ecco una signora che ci annuncia apertamente di lavorare all’an-

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    nientamento di una delle industrie che fanno la gloria della Francia (e non dimentichiamo che ci sono milioni di france­ si: tessitori, meccanici, artisti, tutti i mestieri possibili che vivono della moda), e le si appiccicano fotografìe in prima pa­ gina, si va in estasi, la si intervista, si gioca agli aristocratici. Fortunatamente, 11 grottesco dell’impresa rende il suo suc­ cesso abbastanza improbabile. Credere che si possa creare di sana pianta un’industria come quella della moda, con dei bravi funzionari e tanti soldi, è un’ingenuità tipicamente hitleriana. Quella gente si immagina che basti un ordine per creare dei capi, e che poi in seguito tutto scaturisca da questi capi. Una piramide appoggiata sulla punta. La storia dell’umanità ci insegna il contrario. Tutto dipen­ de dagli uomini, dall’ambiente, dal clima. Ci sono luoghi in cui il clima è propizio al genio militare, o all’industria del­ l’automobile; altri in cui il clima è propizio alla moda. In questi diversi paesi la popolazione ha il senso di quelle cose, e, come alberi rigogliosi in un buon terreno, grandi uomini vi sorgono. Non voglio diminuire l’importanza di questi capi, al contrario, ma ritengo che gli uomini di valore derivano allo stesso tempo dalle condizioni naturali e da una tradizio­ ne nazionale, e non dal beneplacito di qualche tiranno. Qui, a Parigi, ci sono migliaia di brave donnine che, d’i­ stinto, sanno fare una camicetta, avvolgere un cappello, ap­ plicare una cintura, e che, soprattutto, sanno cucire. Tutto ciò non si impara. Così facevano le loro madri e così le nonne. Questa è la base della piramide. Tra queste donnine ve ne sono alcune che si elevano, che diventano grandi e fanno centro. L’altro giorno guardavo la collezione di un grande sarto. Come descriverne la grazia, lo charme, la signorilità? Sono cose basate su un nulla, come tutto ciò che è geniale; e questo nulla non si esporta. Questo « nulla » sarà il ba­ stione contro cui si infrangerà la nuova offensiva hitleriana. [12 settembre 1937]

    Di ritorno dagli esterni de « La Marsigliese » « Quand on revient sur la terre franose », cantava alcuni anni fa Maurice Chevalier, tornando dall’America. Io non ho attraversato l’oceano, non ho dovuto subire un esilio do­ rato, tomo semplicemente a Parigi dopo un lavoro appassio­ nante, con dei bravi compagni, in una regione magnifica, il Mezzogiorno francese, dove abbiamo portato a termine gli esterni de La Marsigliese.

    128 Laggiù sono stato veramente bene, ho vissuto ore ecce­ zionali: ho conosciuto l’emozione del lavoro fatto in comune. Ho anche raggiunto quel colmo della gioia che viene con la certezza di comunicare direttamente con la mente e il cuore di alcuni collaboratori. È come se il sipario di carne che se­ para gli esseri si fosse alzato improvvisamente. Cade la bar­ riera delle abitudini e degli egoismi e si realizza (per alcuni secondi) il miracolo della comunicazione diretta, quel mira­ colo verso cui tende ogni progresso umano, per la cui rea­ lizzazione gli uomini hanno creato la velocità, hanno inven­ tato macchine complicate, hanno trafitto il cielo, hanno lan­ ciato le loro parole sotto forma di onde attraverso l’atmosfe­ ra. Per arrivare a tanto, occorrono mesi di buona collabora­ zione, di cordiale lavoro gomito a gomito. Occorre essersi la­ sciati alle spalle diffidenze, dubbi, e anche rancori. £ per­ ché sperano di partecipare a questa comunione che alcuni uomini affrontano le lande desolate del Polo o dei deserti equatoriali, esplorano le profondità sottomarine o si chiu­ dono nei laboratori. Perché una condizione necessaria per l’impresa è la certezza di partecipare a un’opera utile agli altri uomini. Il fenomeno del grande contatto tra gli indivi­ dui è condizionato dal loro amore sincero per l'intera umanità. Ma ci siamo allontanati dal nostro ritorno a Parigi. Volevo semplicemente parteciparvi il nostro sbalordimento davanti alla luce di questa città incomparabile. Bisogna dire che la fortuna era proprio dalla nostra parte. Un bel sole autunnale tingeva di giallo lo zinco dei tetti. Una nebbia leggera con­ feriva un’aura idealizzata alle grandi case grige. Credo che proprio per questa luce Parigi sia diventata capitale della Francia, abbia attirato tanti uomini, abbia dato loro l’idea di lavorare talvolta per scopi non troppo interessati. E, di fronte a questo delicato incantesimo, pensavo che anche qui avrei ritrovato certamente la possibilità di quell’impegno comune così necessario al lavoro difficile che abbiamo intra­ preso. (28 ottobre 1937]

    « Sei un cinese » Dei ragazzi si picchiano in strada. Uno riesce a far ca­ dere l’avversario con uno sgambetto a tradimento. L’avver­ sario si rialza e grida: « Ma vattene! Cinese! » Alcune ope­ raie in un’officina accusano una delle loro compagne di go­ dere di privilegi grazie a patteggiamenti poco raccomandabili

    129 con il caporeparto: « Quella è una vera cinese... » Se sospet * damo un amico di ipocrisia o di viltà, immediatamente ci vie * ne l’idea di assimilarlo a un abitante del Celeste Impero. Esiste, al di là della Manica, tutta una letteratura in cui il ruolo del traditore è assunto sempre da un cinese. Natu­ ralmente, non abusa delle grazie dell’innocente eroina bion­ da e fotogenica, perché in questo genere di romanzi la sud­ detta eroina resta sempre vergine attraverso le più sbalorditi­ ve avventure: è una condizione necessaria e sufficiente per provocare l’interesse sentimentale del buon lettore anglosas­ sone. Ma, anche se non attenta alla sua innocenza, il perfido cinese ha altri mezzi per ridere e per divertirsi. La chiude in sotterranei in cui l’acqua sale lentamente e inesorabilmente. La getta in vasche piene di coccodrilli affamati e di sinuosi boa constrictor. La fa coricare su letti i cui materassi sono imbottiti di lame di rasoio. Le fa ingerire droghe misteriose che annientano la sua volontà e la inducono a firmare'pe­ ricolose dichiarazioni a causa delle quali rischia di perdere l’eredità del padre miliardario. Questa strana immagine dei cinesi è talmente diversa dai racconti dei viaggiatori che hanno avuto l’occasione di avvi­ cinarli e che, unanimemente, li descrivono come brava gen­ te di campagna, un po’ limitata, molto laboriosa, molto sfrut­ tata, dunque non molto scaltra, che abbiamo il diritto di chie­ derci quali sono i sentimenti che provocano questa lettera­ tura. Questi sentimenti, io credo di conoscerli. Sono della stesse specie di quelli che animano colui che, volendo annegare il proprio cane, lo accusa di avere la rabbia. 1 francesi e gli inglesi hanno condotto nel 1860 contro i cinesi la più ingiu­ sta delle guerre. Tale guerra è terminata con il trattato di Pechino, grazie al quale gli inglesi fecero cadere tutti gli osta­ coli che si opponevano all’esportazione in Cina dell’oppio in­ diano. Per i ricchi mercanti della City, diffondere quella dro­ ga mortale voleva dire uccidere quella sventurata nazione, uomo dopo uomo, giorno dopo giorno, ma al tempo stesso arricchirsi. E dopo questa squallida avventura i bianchi ten­ tano di giustificare la loro ingiustificabile aggressione scri­ vendo libercoli in cui le loro vittime sono rappresentate con i tratti più foschi. A tale proposito ho trovato nel vecchio Larousse (quello accusato di essere stato redatto da alcuni comunardi) il seguente commento al trattato di Pechino:, « L’Inghilterra, che ha sempre cercato di distruggere in qual­ che modo la Cina, non soltanto nell’interesse del proprio com­ mercio, ma nell’interesse della propria politica di conquista,

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    dovrà solo chinarsi e raccogliere la preda che bramava. Ma le cose, ci auguriamo, non andranno così. La Francia può impedire l'annientamento dell'impero Celeste. Al suicidio dei suoi abitanti per colpa dell’oppio, può opporre, grazie al trattato di Pechino, l’invio dei suoi vini tonici e generosi che basteranno a guarire quella nazione dalla sua passione omi­ cida ». Cosa direbbe il simpatico redattore del vecchio Larousse se oggi fosse vivo e se fosse testimone della terribile e sleale aggressione di cui la Cina è di nuovo vittima? [4 novembre 1937}

    A proposito di olio di ricino Recentemente, negli studi di Billancourt dove stiamo ter­ minando La Marsigliese, diversi collaboratori del film si ac­ cingevano a istallarsi in una sala di proiezione dove dove­ vano effettuare alcuni lavori relativi al montaggio. Con loro grande stupore, trovarono tale luogo di lavoro occupato da un contingente italiano, come fòsse un’isola del Mediterraneo o un semplice villaggio spagnolo. I cineasti transalpini tenevano duro. Godevano di alti ap­ poggi nell’azienda, e non volevano cedere il posto. Iniziaro­ no a volare dalle due parti battute agrodolci e uno dei miei compagni fece riferimento alla recente proibizione in Italia del mio film La grande illusione. « Prego », replicò uno dei cugini latini, « non è La grande illusione che è proibito in Italia, è Renoir stesso!... Ma », aggiunse, « il Duce non è cat­ tivo e per l’iscrizione di Jean Renoir al Partito fascista ba­ sterà una sola dose d’olio di ricino! » Quando i miei compagni mi riferirono quest'incidente, mi sentii immediatamente pervaso da un immenso orgoglio. Pen­ sare che potenti capi di Stato che hanno tante cose per la testa - l'invasione della Spagna, il patto anticomunista, la Cina, la propaganda in Avenue des Champs-Elysées, la scelta delle nuove uniformi - abbiano potuto trovare il tempo di pensare a quell’innocuo fabbricante di film che io sono, e si siano degnati di determinare in un milligrammo circa la quan­ tità di olio di ricino necessaria alla mia salute morale, con­ verrete che può bastare a far perdere la testa al cittadino più modesto. Ahimè! Un esame più approfondito della situa­ zione potè presto dimostrarmi che questa attenzione era me­ no lusinghiera di quanto non avessi creduto in un primo mo­ mento. Se i dittatori si occupano così volentieri di vicende

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    che potrebbero sembrare futili ai comuni mortali, è soltanto perché, ora ne sono fermamente convinto, non hanno nient’altro da fare e perché si annoiano a morte durante intere gior­ nate rigorosamente vuote. Cosa pensate, ad esempio, che si siano detti Mussolini e Hitler durante il loro ultimo incontro, quello che ha fatto tre­ mare il mondo? Sono convinto che non abbiano speso una parola sulle questioni che affannano il nostro sventurato pia­ neta: non una parola sulla Cina, e ancora meno sul Giappone; non parliamo della Spagna o delle miniere di rame! Silenzio assoluto sul petrolio, la disoccupazione e il riarmo. Quelli che trattano queste questioni stanno altrove. Non hanno scin­ tillanti uniformi, non c'è la folla che li acclama. Negli uffici sobriamente ammobiliati delle loro banche, siano ad Amster­ dam. nella City di Londra o a Parigi, possiamo immaginarce­ li, in modesti completi di buona fattura, mentre si spartisco­ no il mondo discretamente e in silenzio. Inviano^ i loro ordini ai « dittatori », e questi debbono solo inoltrarli, la qual cosa non è molto faticosa e lascia del tempo libero. Ma a proposito, che cosa hanno potuto raccontarsi dunque Hitler e Mussolini durante questo famoso tète-à-tète? Forse hanno discusso dei pregi rispettivi dell’Alfa Romeo, della Mercedes o dall’Auto-Union! Forse hanno confrontato l’este­ tica del berretto a nappa mussoliniano e dell’elmo militare tedesco! Credo piuttosto che non si siano detti proprio niente, perché, dopo tutto, Mussolini ignora probabilmente la lingua di Goethe: quanto a Hitler, ha già fatto abbastanza fatica a imparare a parlare un tedesco corretto per sostituire il dia­ letto selvaggio del suo lontano paese natale. [1/ novembre 1937]

    Fischi Forse ci sono, in questo momento, dei camerati che si fanno cattivo sangue all’idea che sarà loro difficile fischiare il film La Marsigliese che abbiamo appena finito? Temono forse che sia sconveniente far cagnara in presenza del nostro inno nazionale; ci tengo fin d’ora a rassicurarli: in capo a qualche giorno sarà possibile. Ancora un po’ di pazienza e sarà decisamente di moda. Oh! certamente, non a Montreuil né a Picpus né nella « cintura rossa ». Ma nei cinema degli Champs-Elysées, bei signori e belle signore si allenano coscienziosamente. La set­ timana scorsa, in una delle sale più eleganti dell’illustre via­

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    le, scoppiò una bella cagnara quando un altoparlante riversò, su un pubblico di élite le strofe di Rouget de Lisle. A dire il vero non era la Marsigliese che direttamente veniva fischia * ta: era Pierre Cot, ministro dell’Aeronautica, che la cinepresa aveva sorpreso al Congresso radicale mentre stava abbaiando in un coro patriottico. Le persone di mondo, che ostentano opinioni nazionaliste, non gli perdonano senza dubbio l’ini­ ziativa di ridare al nostro paese il dominio dell’aria, e glielo dimostrano apertamente. Tuttavia, anche se a proposito di un ministro mascalzone, il fatto di dileggiare la Marsigliese mi sembra un bel segno dei tempi. Fino a quel momento, a giudicare dalle loro afferma­ zioni, avevo creduto che i nostri « patrioti » si fossero attri­ buiti quel canto con una feroce esclusività. Pensavo che, quan­ do giovani monarchici, imberbi e foruncolosi, cantavano in coro: « Allons tyrans, allons perfides, opprobre des nations », avessero la certezza, strapazzando le maestà morte o vive, di compiere un atto di fede reazionaria destinata al solo uso dei benpensanti. Ecco invece che abbattono il loro idolo. So be­ ne che la Marsigliese non ne risentirà molto e che noi, cat­ tivi francesi, siamo qui per continuare a cantarla con una convinzione che non è mai venuta meno. Ma, allora, bisognerà che trovino un altro inno nazionale. In queste difficili circostanze, posso forse aiutarli con un con­ siglio disinteressato. Rinunciando al cinema, passino dunque qualche serata ad ascoltare la radio. Un apparecchio radio è un aggeggio molto istruttivo. Ultimamente ho imparato, grazie a esso, qual era il nuovo inno nazionale della Spagna onesta, la vera, quella del generale Franco. Una stazione francese ci ha collegato direttamente, l’altra sera, con il fronte dei ribelli spagnoli, annunciandoci che avremmo ascol­ tato « dal vivo » la voce degli altoparlanti installati nelle trincee. E il compito di questi altoparlanti, ci dichiarò lo speaker, era quello di far conoscere ai combattenti il nuovo inno nazionale di quella gente. Dopo alcune scariche, alcuni sibili, e pochi secondi di attesa, iniziò la musica, e sapete che cosa ci mandarono come inno nazionale? Nientemeno che Giovinezza, l’inno fascista italiano. Forse i nostri nazionalisti potrebbero accordarsi con il ge­ nerale Franco per acquistare a buon mercato i diritti di uti­ lizzazione di quel canto. Il fatto che sia stato inventato da gente che voleva semplicemente arraffarci la Savoia, la con­ tea di Nizza, la Corsica e il resto deve valere come una rac­ comandazione agli occhi di questo pubblico degli ChampsElysées. Nel caso che ciò non fosse sufficiente per questi

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    bravi francesi, resterebbe loro ancora una possibilità: chie­ dere a Hitler di accordare loro l’autorizzazione ad adattare lo Horst Wessel Lied. [/S novembre 1937]

    Notizie false La stesura di un articolo di giornale, quando, come nel mio caso, non si è veramente del mestiere, rappresenta tal­ volta un’operazione abbastanza laboriosa. Assorbito da altri lavori, mi capita di restare diversi giorni senza aprire un gior­ nale e di aver paura, affrontando questa conversazione set­ timanale con i nostri amici di Ce Soir, di far riferimento ad avvenimenti che esistono solo nella mia immaginazione. Per esempio, l’altro giorno, 1'11 novembre, passavo a tutta velo­ cità in Place de l’Etoile, su un’auto che mi portava verso uno studio lontano: tra due colpi di freno distinsi vagamente una sorta di cippi di compensato la cui presenza sembrava insolita attorno all’Arco di Trionfo. Quel monumento non è proprio bello, ma ha almeno il pregio di essere costruito con la bella pietra di Chàteau-Landon. E su uno di questi cippi riuscii a leggere la parola « Champagne ». Eccomi pre­ da di un’indignazione tanto più furiosa proprio perché avevo appena terminato, ne La Marsigliese, una scena nel corso della quale alcuni personaggi constatano l’enorme progresso apportato alle relazioni tra i francesi dalla trasformazione delle province in dipartimenti. E quella parola « Champa­ gne », scritta su quel cippo, mi fece supporre — mi chiedo perché - che il nostro governo si dedicasse a una propaganda sorniona in favore di quelle antiche divisioni, vere e proprie frontiere te quali facevano sì « che un piccardo fosse lontano da un normanno come un russo da un inglese ». Stavo per iniziare un articolo veemente per mettervi a par­ te del mio sconforto, quando, per fortuna, un amico mi mise al corrente. E seppi che questi cippi in fìnta pietra recano il nome delle grandi battaglie della guerra e che, scrivendo la parola « Champagne », non è alla provincia che si è voluto fa­ re riferimento, ma a un certo avvenimento che, anche senza cippo, non avrei certo dimenticato. Bastò questo per farmi passare da un profondo pessimismo a un entusiasmo deliran­ te. Dunque, è meglio che eviti di parlarvi dell’attualità, è un campo che mi è precluso. Tuttavia, ho sentito parlare vagamente, come tutti, di un certo processo in cui illustri uomini politici, appartenenti a partiti « seri », si sono pubblicamente trattati a pesci in

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    faccia. Uno dei miei giovani compagni, che frequenta posti malfamati, sostiene di aver assistito a uno spettacolo analogo nel dormitorio di un bordello. Ma non posso crederci e resto convinto che quelle signore si comportino molto meglio de * gli uomini politici di quel processo così parigino. Quello che soprattutto mi ha colpito, in questa storia, è il fatto che tutte quelle eccellenze, che conducono apparente­ mente un certo tenore di vita, facciano tante storie per som­ me che non possono apparire loro che derisorie. Questo colon­ nello, sembra, avrebbe preso qualcosa come 200 biglietto­ ni per le sue piccole prestazioni. £ all’incirca quello che gua­ dagna in un anno un salumiere con una buona posizione in una onesta via di commercianti. Ebbene, trovo che, per ciò che riguarda il nostro colonnello, egli non sia stato pagato abbastanza. Con quello che costa la Chrysler (90.000 fran­ chi) o la Mercedes (400.000 franchi) - non parliamo delle macchine francesi, assai poco apprezzate negli ambienti na­ zionalisti - e il controfiletto (16 franchi alla libbra) mi do­ mando come quel disgraziato abbia potuto sbarcare il luna­ rio. O quel poveraccio ha dovuto condurre un’esistenza da spartano oppure possiede altre risorse e quei pochi bi­ gliettoni della Prefettura costituivano solo il denaro per le piccole spese, con cui pagare l’aperitivo e le sigarette (ingle­ si o americane, beninteso). Mi sembra urgente fare una inchiesta seria su tale que­ stione, e, se la grande industria ha avuto l’ingratitudine di la­ sciare morire di fame in questa maniera il suo servitore, pro­ pongo di organizzare immediatamente una colletta per strap­ pare alla miseria quest’uomo che tuttavia è stato un efficace agente di reclutamento per i suoi avversari del Fronte popola­ re. O almeno che Bailby lo iscriva come pensionato numero 1 nella casa di riposo che ha appena fondato per i vecchi giorna­ listi, nel Mezzogiorno, a Biot. Ma ecco dimenticata quella pru­ denza che ho giurato di osservare nei confronti dell’attualità. Dopotutto, mi è stata data forse una falsa informazione e la casa che Bailby sta fondando nel Mezzogiorno forse non è affatto una casa di riposo per vecchi giornalisti. [25 novem­ bre 1937]

    Ancora notizie false Si dice spesso che la ricchezza è un fardello assai pesante da portare. Tutta una letteratura « mondana » ci rappresenta gli sventurati milionari come persone che trascinano le loro

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    gambe affaticate in mezzo a un lusso di cui ne hanno fin so * pra i capelli. Deve esserci del vero in tutto ciò se studiamo la bilancia commerciale dell'industria della droga. Ho sentito dire che la cocaina, l’eroina, ecc. si vendono di più negli ar­ rondissements occidentali — i quartieri bene, come direbbe Aragon - che nel XX. Quale altra spiegazione dare a questo fenomeno se non quella che nei quartieri ricchi abbondano i nevrastenici, mentre nei quartieri meno ricchi la popolazio­ ne vive nella gioia, nell’abbondanza, nella felicità? {Faccio volentieri dono di questo argomento antirivoluzionario ai miei colleghi della stampa di destra.) Se, tra i ricchi blasé, si trovano dei proprietari di grandi giornali d’informazione, suggerisco loro una maniera di ri­ dere e di divertirsi che, personalmente, mi cruccio di non poter praticare. Si tratta semplicemente di inventare notizie piacevoli e di pubblicarle nei loro giornali. Che bel program­ ma poter regolare da soli, con l’immaginazione, il corso del mondo per alcune ore! Dare ai lettori una felicità artificiale e passeggera inventando tutto ciò che può far loro piacere. Annunciare un ribasso delle sigarette, una diminuzione delle imposte, raccontare che l’Italia sta per restituire la sua indi­ pendenza all’Etiopia e insiste .per un disarmo totale e im­ mediato, dire che i mitra dei cagoulards sono di cioccolata, che Hitler sta per essere cacciato dalla Germania perché ebreo... Quest’ultima fandonia sarebbe abbastanza vantag­ giosa per i bistrò. Che baldoria! V’immaginate le grida di gioia, le danze, i cortei, gli abbracci? Qualche cosa come un armistizio che si avrebbe avuto l’intelligenza di firmare pri­ ma di cominciare la guerra! Dimentico però che la gioia della maggioranza non è quella di tutti. E cerchiamo di immaginarci la faccia della gente degli Champs-Elysées. I caffè chiùdono o inalberano bandiere listate a lutto. Perché il personale non offra ai clienti lo spettacolo di una gioia fuori luogo, i padroni servono di persona, il braccio sinistro ornato da un bracciale nero con una croce uncinata color argento. I clienti annichiliti chie­ dono con voce funebre la sola consumazione adatta alla cir­ costanza: un modesto cappuccino. Le ragazze di vita del no­ stro bel viale si tingono le unghie di nero e cospargono di ce­ nere i loro capelli rosso-bruni. I cinema d’attualità sono assa­ liti dà una folla avida di contemplare il film che ricorda gli episodi della vita dell’eroe (le nostre grandi società, per nien­ te stupide, tenevano la pellicola pronta in un cassetto). Nelle librerie del XVI arrondissement, tutti gli esemplari rima­ nenti di Mein Kampf vanno a ruba in un batter d’occhio.

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    Ma il giorno dopo, che risveglio quando i domestici, apren­ do le persiane, annunciano loro che c’è stata una « smenti­ ta »! Che entusiasmo! Come si suol dire: « Si ride, si canta, tutti sono contenti ». E negli altri quartieri, nelle officine, nei laboratori, in campagna e in città, che orribile delusione! Ma, obietterete, nessun direttore di giornale oserebbe ri­ schiare un colpo simile. Avrebbe troppa paura che da una parte come dall’altra finirebbero col rompergli il muso, bru­ ciargli la casa e che il suo giornale, ormai screditato, non troverebbe più un solo lettore. Per il muso e la casa non posso dire nulla, ma per ciò che riguarda la tiratura del gior­ nale sono sicuro che il nostro non avrebbe assolutamente nul­ la da temere. Ci hanno pur annunciato che Bela Kun era a Barcellona, che a Kiev gli abitanti mangiavano i propri figli, che la città di Los Angeles era stata distrutta da una frana, che i comunisti marciavano su Parigi per fare un colpo di Stato. Si sono pubblicate interviste del celebre rivoluzionario Alberto Brefforto senza accorgersi che l’impareggiabile Al­ bert Breffort aveva inventato di sana pianta questo perso­ naggio. E c’è ben altro. Credete che queste false notizie ab­ biano fatto allontanare disgustati dai giornali in questione uno solo dei loro innocenti lettori? Niente di tutto ciò! 11 fatto è che, lo vedete, la lettura quotidiana di uno stesso giornale è un’intossicazione come quella dell'oppio. E ci vuole una grande pazienza per guarire dei drogati dalla loro fune­ sta abitudine. [2 dicembre 1937]

    A proposito di una confessione Molti lettori di questo giornale hanno preso conoscenza del manifesto col quale Henri, conte di Parigi, si dissocia dalVAction Francaise. La pubblicazione di questo documento mi ha riempito di una grande gioia. Il ricordo della monarchia resta legato nella mia mente a grandi momenti della nostra storia. Era fastidioso vedere questo ricordo rumorosamente accaparrato da giovanotti foruncolosi o da epilettici. Mi sec­ cava pensare che qualche centinaio di mascalzoni si fossero riuniti per rompere il muso a Léon Blum, un vecchio, e tutto questo nel nome di Carlo Martello, Filippo Augusto e Luigi XI. Era altrettanto irritante del vedere la bandiera tricolore e la Marsigliese monopolizzate da gente il cui sogno più ambito è quello di veder sfilare Hitler lungo gli Champs-Ely­ sées nella sua Mercedes. Un altro elemento di interesse di questo manifesto è che

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    l’autore vi espone chiaramente, coraggiosamente, senza alcu­ na preoccupazione di ordine elettorale, la teoria della monar­ chia francese. Ho detto proprio « coraggiosamente », perché il grande trucco di tutti i partiti di destra per procacciarsi dei voti è quello di atteggiarsi a campioni del nazionalismo. Ora il culto della nazione, così come lo intendono i francesi mo­ derni, è un’idea rivoluzionaria. È più precisamente un’idea giacobina. Sono stati i club giacobini diffusi in tutta la Fran­ cia che nel 1792 hanno sollevato il paese contro l’invasore straniero e hanno salvato la Francia, dopo aver rovesciato la monarchia. Il conte di Parigi vuole ricordarsi di tutto ciò e lo procla­ ma apertamente. Dichiara che non può associarsi alla tattica puramente pubblicitaria seguita dall’Action Franfaise, la qua­ le consiste nel far credere che « ...la monarchia corrispon­ de ai diversi postulati del nazionalismo... che è essa stessa nazionalismo integrale ». Quale può essere la ragione di que­ sta marcia indietro? Perché, in fondo, il conte di Parigi è il discendente di gente che ha fatto di tutto per tentare di rea­ lizzare questa bizzarra alleanza di nazionalismo e monarchia. 11 suo avo, il duca di Chartres, diventato Luigi Filippo, adot­ tava la bandiera tricolore e si cimentava nella pratica di un governo che corrisponde esattamente a quello che ora il suo crede disapprova con tanta logica. Quel governo, d’altronde, non aveva avuto successo. Il re­ gno di Luigi Filippo è stato il regno della capitolazione al potere del Denaro. Luigi Filippo è stato proprio il re che ha provato che la monarchia aveva fatto il suo tempo e non era più capace di condurre felicemente in porto la sua missio­ ne storica di opposizione al feudalesimo. Non ha capito che i grandi feudatari avevano cambiato nome e, anziché Bourgo­ gne o Saint-Pol, si chiamavano Finanza o Industria. Riconosciamo, d’altra parte, che i diversi governi che l’han­ no seguito sono, anch’essi, venuti meno alla loro missione. Come sarebbe stato bello vedere i nostri presidenti della Re­ pubblica o i nostri ministri agire nei confronti delle duecento grandi famiglie allo stesso modo in cui Luigi XI agiva ver­ so i grandi signori del suo tempo! Non posso leggere la storia di questo re (che impedì che Francois Villon venisse impic­ cato) senza rallegrarmi spudoratamente di quell’ecatombe di teste potenti. Gli alberi da frutta del parco di Plessis-lesTours, piegati sotto il peso dei ricchi impiccati; il cardinale de la Balue con la sua veste dorata chiuso in gabbia. Vi im­ maginate questo spettacolo trasferito nella nostra epoca e Lebrun che viene tutti i giorni tranquillamente a sghignazza­

    138 re davanti a una gabbia in cui fosse rinchiuso qualche dirigen­ te della Banque de France? Ma, per tornare a Henri, quale imperioso desiderio di sin­ cerità ha dunque potuto spingerlo a evocare questo passato pe­ ricoloso? Avrà capito che il suo ideale è tramontato per il fatto stesso che, per realizzarlo, dovrebbe associarsi a for­ ze che non sono assolutamente quelle giuste? Forse si ren­ de anche conto che quella felicità dell'individuo di cui si fa campione sarà possibile solo nell’ambito di comunità umane liberamente costituite, che la società del domani sarà il ri­ sultato di uno sforzo collettivo, come lo sono state le catte­ drali del Medioevo? In tal caso, il manifesto di questo onest’uomo non è un grido di guerra: è un’orazione funebre. (9 dicembre 1937]

    Elogio di un poeta Quando leggiamo nei giornali che il blocco delle demo­ crazie si erge contro il fascismo, sentiamo un piccolo brivido di piacere scorrerci per la schiena. Siamo molto fieri di es­ sere francesi e di essere classificati tra queste democrazie. La democrazia è ora un circolo abbastanza ristretto (ma non esclusivo) in cui ci si trova gomito a gomito con dei colle­ ghi che sono i migliori possibili. Vi si incontrano l’Inghilter­ ra, l’Urss, gli Stati Uniti, la Spagna repubblicana, gli Stati scandinavi, insomma gente con cui si può bere un bicchiere senza rischiare di compromettersi. Tuttavia, prima della guerra, molte belle intelligenze diffida­ vano della democrazia e, Dio mio, l’avvenire che, ahimè, ora è presente, ci prova che non avevano tutti i torti. Non è in nome della democrazia che Poincaré e Lavai hanno condotto la loro spaventosa politica? Ancora adesso i più grandi rin­ negati, i più grandi fedeli amici del fascismo lo sanno bene e si servono di questo prestigioso stendardo per cucirsene una * cagoule Il fatto è che le parole hanno un’esistenza strana e movimentata. Hanno alti e bassi. Il loro significato varia con la qualità della gente che le impiega. Tutto questo ci spiega l’esplosione di collera del buon poeta Fourest: * La Cagoule i il movimento terroristico francese d’estrema destra sorto in reazione al Fronte popolare, e cagoule, in francese, è la buffa, cioè il cappuccio che ricopre il viso con due fori per gli occhi. Di qui il bisticcio usato da Renoir.

    139 S’il faut exalter en moi quelque vertu Narrez que j’exécrai Ie pleutrc démocrate Et que Ie bout de mes souliers était pointu. *

    Giacché stiamo parlando di Fourest, non riesco a spie * garmi come mai La négresse blonde non venga fatta studiare ai giovani delle nostre scuole. Questo libro dovrebbe diventa * re un classico, perché nessuno meglio di Fourest può dare ai nostri figli il piacere della vera poesia. La sua crudezza di buona lega diverte e attira. E proprio perché si è divertiti, si torna a leggere e si resta attratti. 1 suoi alessandrini costitui­ scono una delle più grandi espressioni della nostra poesia li­ rica. E quale convinzione: Il avail violé sa soeur, coupé sa mère En tout petits morceaux...

    le soir il se gavah de tripes A la mode de Caen, parmi des croque-morts. D’ailleurs il n’éprouvait pas l'ombre d'un remords Et vivait très correct et très digne et coulait de Bien beaux jours (comme fait M. Paul Déroulède). **

    Non resisto al piacere di continuare: Mais Dieu possède un doigt et l'immoralité Ne saurait échapper è la fatalité... Un matin, comme il avait fait grande féte Un pot de réséda luì tomba sur la téte Et Ie Seigneur l’admit au paradis profond Car il était plus vif que méchant dans le fond!... ***

    Fourest, come tutti i grandi uomini, ci apre continuamente una porta sulla vita e ci permette di capire una quantità di cose che, senza di luL resterebbero oscure. Per esempio, que­ sto piccolo poema ha gettato bruscamente nel mio spirito una vivida luce sul senso di un articolo apparso recentemente su una rivista « democratica ». Questo articolo era un puro e semplice elogio di Hitler. Evidentemente l'autore riconosceva * Se si deve esaltare in me qualche virtù / Dite che ho esecrato la codarda democrazia / E che le mie scarpe erano a punta. ** Aveva violentato la sorella, tagliato la madre / In tanti piccoli pezzi... / ...la sera si ingozzava di trippa / Come fanno a Caen. assie­ me ai becchini. / D'altronde non provava l’ombra di un rimorso / E viveva correttamente e dignitosamente e passava / Bellissime giornate (come fa Paul Déroulède). *** Ma non ci si può sottrarre alla volontà divina e l’immoralità / Non può sfuggire alla fatalità... / Un mattino, siccome aveva, fatto baldoria / Un vaso di reseda gli cadde sulla testa / E il Signore lo accolse nelle profondità del paradiso / Perché era più vivace che cattivo in fondo!...

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    che il Fiihrer aveva commesso dei crimini, ma, ammesso que­ sto, vantava la sua qualità di uomo privato, la sua bontà ver­ so i bambini, la sua sobrietà, il fascino della sua conversa­ zione. Insomma, il sedicente democratico, redattore di quel giornale, arrivava alla stessa conclusione del poema di Fourest, ma senza ironia e rimirando il proprio ombelico come fanno gli scrittori che si piccano di imparzialità. (76 dicembre 1937]

    Buon Natale Un foglio dattilografato è fissato con quattro puntine alla bacheca dello studio, a lato dell’orologio di controllo, è l’av­ viso che una cinquantina di operai saranno licenziati. Cin­ quanta uomini, la maggior parte dei quali hanno moglie e figli, tutti operai qualificati, alcuni dei quali lavorano da molti anni in questa azienda, stanno per essere costretti, co­ me si dice, ad « andare a spasso ». Quasi tutti sono nel pieno vigore dell’età; la dura legge che li colpisce non è quella che riguarda gli operai troppo vecchi. Si sono consacrati anima e corpo alla fabbricazione di film in cui non hanno alcun interesse materiale e che pos­ sono vedere soltanto pagando per un posto in un cinema. Sono loro che hanno fatto la fama dell’azienda. Se i produt­ tori clienti portano il loro denaro alla direzione dello studio, in parte è perché sanno che le équipe sono di qualità, che gli operai che le compongono amano il loro lavoro e che pos­ sono fornire ai tecnici un’amichevole collaborazione. In que­ sto mestiere in cui non si fa niente da soli, in cui ogni ope­ raio risulta in un determinato momento altrettanto indi­ spensabile per le riprese di un attore o di un regista, ciascuno finisce per considerare questa azienda un po’ come sua. Ma il piccolo foglio appuntato vicino all’orologio di controllo si incarica di ricondurli alla realtà. Brutto Natale per cinquan­ ta famiglie francesi. Nel frattempo, la folla si accalca alle porte dei cinema. Si vogliono film. Non sono mai abbastanza. Per fornire un mercato che si allarga ogni giorno, si è costretti a « doppiare » i film stranieri. In tutti i paesi, democratici o fascisti, i go­ verni fanno uno sforzo notevole per proteggere questa gallina dalle uova d’oro, questo straordinario mezzo di propaganda nazionale che è il cinema. Qui, se ne fregano. Le nostre più grandi società sono in fallimento. La produzione francese è

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    nelle mani di pregiudicati intemazionali e di reazionari. Che importa, purché ci siano bei banchetti con bei discorsi e che alcuni intermediari continuino a intascare quattrini. Sembra che il cinema francese manchi di denaro, ma se ne trova per pagare i milioni di franchi di pellicola che acquistiamo al­ l’estero, e i milioni di franchi di royalties per l’utilizzazione dei brevetti sonori tedeschi e americani. Dato che in Francia non si fabbrica pellicola e i nostri governanti nazionalisti hanno lasciato che il monopolio della riproduzione del suono (invenzione francese) passasse all’estero. Vedete che la stessa cosa si verificherà per il colore. Già la Siemens, in Germania, e la Technicolor, in America, si orga­ nizzano. Domani controlleranno interamente il nostro mer­ cato, e per fare dei film a colori, diventati indispensabili nel­ la concorrenza intemazionale, dovremo pagare loro dei bene­ fici, come i vassalli nel Medioevo ne pagavano al loro so­ vrano. Non ci sono dunque inventori francesi? Dico che ce ne sono e che possono competere con Testerò, ma i nostri grandi capitalisti non amano il loro paese e apprezzano solo le realizzazioni straniere. Si dicono nazionalisti, ma, per loro, lo spirito nazionale consiste nel far braccare alcuni sventu­ rati operai polacchi o intellettuali antifascisti che sono venu­ ti a rifugiarsi da noi. Ecco chi non appartiene molto alla tradizione francese. Pensiamo a Francesco 1 che richiamava da noi Leonardo da Vinci, Benvenuto Cellini e numerosi vetrai di Venezia. Ma, senza dubbio, i nostri patrioti degli Champs-Elysées considerano questo re come una specie di bolscevico. Molte invenzioni francesi hanno creato all’estero lavoro e prosperità, senza contare la gloria. E qui i nostri inventori muoiono di fame. Le fabbriche che dovrebbero sfruttare le loro invenzioni restano nel regno dei sogni. I nostri studi rallentano la loro produzione e, come sempre, è la classe operaia che fa le spese di questa carenza dei nostri dirigenti. Ci auguriamo che Tanno nuovo, grazie alla vigilanza del nostro governo del Fronte popolare, faccia ben presto dimen­ ticare ai disoccupati del cinema il triste ricordo di questo Natale 1937. [25 dicembre 1957]

    Ritorno alla natura? Periodicamente, si leggono in certa stampa di sinistra, per mano di scrittori che si piccano di spirito filosofico, dei pezzi che esprimono un disgusto assoluto verso la nostra civiltà.

    142 Tutto ciò inizia sempre con una descrizione terrificante dei * rumori, delle ansie, delle urla della radio, e di altri misfatti del progresso. Poi si passa a una descrizione spietata dei no­ stri contemporanei, sorta di iloti incapaci di manifestare un gusto o un sentimento « individuale ». Povere pecore capaci al più di mettersi in fila, col pretesto della politica, sotto una bandiera o sotto un’altra. DaU’alto della loro torre d’avorio, al riparo del rozzo contatto con le folle, i nostri filosofi si tappano le narici e stigmatizzano tali costumi in termini di « isteria collettiva » o meglio ancora di « processionismo ». Poi concludono dolendosi di essere trattenuti a Parigi dai loro obblighi sociali o mondani e di non poter fuggire in qual­ che isola deserta del Pacifico. Permettetemi di raccontare una piccola storia vera, in ono­ re di questi ferventi fautori di un ritorno integrale alla na­ tura. Due anni prima della guerra, l’equipaggio di una nave mercantile aveva constatato la presenza, intorno a un’isola a sud del Madagascar, di quantità astronomiche di gamberi. Questa nave apparteneva a una compagnia commerciale di Marsiglia che, dopo ima relazione del capitano, decise di creare in quel lontano paese uno stabilimento per l’inscatola­ mento di questi crostacei. Veri precursori, una mezza dozzina di francesi, tra cui una donna, sbarcarono un bel giorno su quell’isola. Vi scoprirono il paradiso terrestre. In capo a sei mesi, la nave della compagnia andò a ritirare le prime scatole di gamberi. Il capitano redasse un rapporto che constatava l’entusiasmo crescente dei nostri Robinson e riferiva che aveva dovuto quasi impiegare la forza per fare accettare loro qualche merce. La sola cosa che chiese uno di loro fu una coppia di conigli a pelo lungo detti « Giganti delle Fiandre ». La nave fece così quattro viaggi, e ripartì ogni volta carica delle benedizioni delle nostre persone al­ l’indirizzo di Dio che aveva creato quell’isola, e della com­ pagnia che aveva avuto l’idea di inviarli laggiù. Poi la nave non tornò più. Era scoppiata la Grande Guerra! Ma i nostri isolani non ne sapevano nulla. In capo a un anno comincia­ rono a disperare di rivedere ancora i loro corrispondenti e si misero a mangiare le scatole di piselli del capitano, e anche le conserve di loro fabbricazione. Mangiarono anche molti conigli. La prole dei « Giganti delle Fiandre » di cui vi ho segnalato l’arrivo era cresciuta e si era moltiplicata in ma­ niera inverosimile. Avevano invaso l’isola e divoravano tutto. Si dovettero organizzare delle battute e accoppare a colpi di bastone. Piovvero fitti i rimproveri sullo sventurato compa­ gno che aveva avuto l’idea di importare i conigli progenitori.

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    Questi rimproveri degenerarono in liti e le liti in battaglie. Durante uno scontro, uno dei nostri coloni perì, vittima di un gran colpo di randello sul cranio. L'abitudine ormai era stata presa e le discussioni divenne­ ro sempre più violente e quasi quotidiane. Ogni pretesto era buono. Due altri uomini si uccisero a vicenda. Restarono la donna, suo marito, e una terza persona. Quest'ultimo prese a desiderare la donna. Il marito, un buon uomo, tentò una spartizione amichevole. Il primo servizio dell'amante fu di mettere incinta la sventurata, che morì, assieme al bambino, in seguito a un parto maldestro. Il marito espresse vivaci rim­ proveri al suo compagno e poi lo uccise in segno di biasimo. Quindici anni erano trascorsi. La compagnia marsigliese era fallita ed era stata rilevata da un'altra compagnia. Si­ gnori molto seri si misero a esaminare i conti. Scoprirono l’esistenza dell'azienda di conserve nell’isola lontana. Pen­ sando di trovare un vero tesoro di scatole di gamberi, invia­ rono d’urgenza una nave. Ma la nave riportò solo il vedovo, che aveva perso a metà il lume della ragione, malato, rovi­ nato per il resto della sua vita e completamente disgustato della vita libera in mezzo alla natura. [30 dicembre 1937]

    // giorno dopo la festa Natale è nello stesso tempo una festa magnifica, espressione di una grande tradizione, e una cinica impresa commerciale. Dobbiamo biasimare i direttori dei grandi magazzini, i com­ mercianti di giocattoli e altri loro compari che, senza scru­ poli, trasformano in soldi il desiderio di gioia, la commo­ vente fede dei grandi e dei bambini. Sono arrivati a fare, dell’anniversario della nascita di Cristo, una sorta di fiera mondana in cui il gioco consiste in una specie di gara a chi compra di più. La disgrazia è che la maggior parte dei nostri contemporanei (checché ne dicano gli avversari della carta di identità fiscale, ci sono ancora più poveri che ricchi) si trova fortemente handicappata in questa corsa all’acquisto dei re­ gali. E diventerò un fautore senza riserve del Natale, che tanto amo, soltanto quando i ricchi e i poveri - non è così che si classificano ai giorni nostri gli abitanti del pianeta? - po­ tranno concorrere con eguali possibilità. Quanto al Capodanno, mi fa paura perché mi ricorda al­ cune terribili visite della mia infanzia. Mia madre mi trasci­ nava per mano da gente ricca e distinta, cui la gente me­ no ricca e distinta, come noi, doveva, secondo l'usanza, ren­

    144 dere questo omaggio annuale di augurio per l'anno nuovo. E nei salotti di questa gente c’era upa quantità di vecchie si­ gnore bruttissime che mi abbracciavano, il che mi spaventava moltissimo. Dunque, ho voglia di fuggire, ma resto, perché: dove fug­ gire? E Capodanno dappertutto, e tutto ciò che potrei guada­ gnare sarebbe di sostituire gli affabili e innocenti « buon an­ no » degli amici che amo di più, con auguri altrettanto ineffi­ caci, ma anonimi e indifferenti. Ci sono anche i cappelli di carta alla turca che « allegri buontemponi » inalberano tra risa beate, le amene confidenze della tale scrittrice sul tem­ po che « come l’acqua di un fiume, ecc. », la fotografìa dell'in­ cantevole bambino del tale uomo di Stato che soffia stupida­ mente in una trombetta da quattro soldi (il bambino, non l’uomo di Stato) e guarda il fotografo con un occhio tondo e vuoto. E tutto questo mi infastidisce, perché, sulla stessa pagina degli stessi giornali che ci mettono di fronte a questa appassionante realtà, c’è anche, affiancata, per così dire, gomi­ to a gomito, la notizia che a Teruel si lotta contro una tem­ peratura di 12 * sotto zero; c’è il racconto della morte di un disoccupato e del suo bambino che si sono uccisi perché non avevano niente da mangiare; insomma ci sono ben altre cose che ci stringono il cuore. Giosuè seppe fermare il sole, ma le feste di Capodanno, se sono capaci di dare indigestio­ ni agli uni, si rivelano incapaci di arrestare per gli altri l’im­ pietoso ingranaggio della vita. Ero nel mio ufficio sul set de La Marsigliese e rimuginavo ad alta voce un mucchio di esempi di questa mostruosa vici­ nanza che mi dava alla testa, quando fui interrotto da uno dei miei compagni di lavoro che mi richiamò fermamente. I suoi argomenti mi sembrano la migliore conclusione alle mie elucu­ brazioni: « La sua indignazione contro il Capodanno e i gior­ nalisti », mi dice, « è veramente fuori luogo. Si richiama a quel sentimento che consiste nel biasimare coloro che fan­ no un buon pasto mentre altri alla porta del ristorante rac­ cattano croste di pane nei rigagnoli. Bisogna saper canaliz­ zare questa indignazione, e serbarla non per quelli che si di­ vertono durante le feste di Capodanno, ancora meno per i giornalisti che fanno il loro mestiere, neppure per le persone che profittano troppo della vita senza darsi pensiero per coloro che soffrono la guerra e la miseria, ma per coloro che tengono le fila del nostro mondo, per i veri responsabili di questa guerra e di questa miseria ». [6 gennaio 1938]

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    Lavori femminili In questo momento si parla molto del Giappone. E a ra­ gione! Sempre a caccia della più originale attualità, uno dei nostri colleghi di destra ci regala delle scene di vita giappo­ nese: vita vissuta, allo stesso tempo autentica e commovente. Mi proverò a dar vene un’idea. Quello che segue avviene in una grande città. Le strade traboccano di una folla variopinta e grave che agita bandie­ rine e grida: « Banzai! Banzai! » Nell’ufficio in cui si ricevo­ no doni per l’esercito appare un piccolo giapponese di quat­ tro anni vestito da generale e seguito dalla madre, una bor­ ghese di media condizione. L’ufficiale funzionario si alza e saluta gravemente il generale in erba, che restituisce il saluto non meno gravemente e dice: « Tono il piccolo Totor. E potto ai notti vaiolosi toldati i te fanchi che mammina mi aveva dato per compae la soccolata ». La fonetica imprecisa dell’incantevole bimbette è quasi la garanzia irrefutabile del­ l’autenticità della storia.-L’ufficiale prende i tre franchi, dà una ricevuta e s’inchina; il marmocchio continua a salutare come una scimmia ammaestrata, e la madre picchia la fronte in terra ringraziando gli antenati di averle concesso di parto­ rire un figlio così intelligente. Altra scena. Nelle strade della città, alcune mamme giap­ ponesi i cui figli sono in guerra fermano le signore e porgono loro un ricamo in via di preparazione c su cui si accumulano, a caso e senza nessun disegno prefissato, dei punti di lana rossa. La signora così invitata si ferma, aggiunge un nuovo punto c se ne va senza dire nulla. Il gioco consiste nel far ricoprire interamente il ricamo. In questo caso il soldato in onore del quale viene fatto questo lavoro ha delie possibilità di cavarsela! E le più nobili dame - tale è il patriottismo di questo ammirevole popolo - si degnano di fermarsi come sem­ plici operaie e di mettere il loro punto. Ora, si racconta, una di queste madri giapponesi, nel preciso istante in cui si ral­ legrava dell’abbondanza di questi punti rossi nel suo ricamo, ricevette la notizia che il figlio era stato ucciso. Non ne de­ dusse che l’espediente non valeva nulla, bensì che bisognava perfezionarlo per gli altri figli egualmente richiamati alle armi. Questo perfezionamento consiste nel rivolgersi soltanto a ragazze rigorosamente vergini. Ed è qui che si manifesta la grandezza dell’animo giapponese. Una ragazza di laggiù, interrogata su questo ingrato argomento, « non mente mai ». E l'europeo, testimone di questi fatti, afferma di aver visto una ragazza (nondimeno dall’aria innocente, e che avrebbe

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    potuto imbrogliare) girare la testa, arrossire, e preferire al­ lontanarsi, confusa, tra il biasimo delle comari del vicinato (alle quali confessava così la sua colpa), piuttosto che rischia­ re di spedire ad patres con le sue dita impure uno degli at­ tuali conquistatori della Cina. Insomma, questi giapponesi avranno la pelle gialla, ma hanno l’anima candida. Non sono come quei sudici cinesi. E anche se le profezie dell’ammiraglio Tatesy si realizzassero, se li vedessimo un giorno puntare le loro mitragliatrici sull’Avenue du Bois con il solo scopo di civilizzarci, si potrà essere fieri che sia stata proprio questa gente a strapparci dal pericolo rosso. E dopo aver fatto i gargarismi per schiarirci la voce, potremo infine gridare: < Banzai! » agitando ban­ dierine. Ammesso che ai mongolo-giudei, quali noi siamo di­ ventati, così come afferma con tanta convinzione Céline, sia concesso l’onore di mostrare le loro facce di negroidi avvinaz­ zati alla presenza dei loro liberatori. [13 gennaio 1938]

    Pubblicità Tutti i miei amici mi fermavano questi giorni con grandi pacche sulle spalle ed esclamazioni del tipo: « Hai visto il libro di Céline? Quante ne dice della Grande illusione... Con­ fessa che è tutta pubblicità e che tu te l’intendi con lui!... » Abbastanza incuriosito, comprai il libro in questione * un dollaro - e lo misi, senza leggerlo, ben in vista nella mia biblioteca. E grosso, ricco, pieno di lusinghe, ma anche estre­ mamente noioso. Dopo quattro pagine, si è capito tutto. Una cosa tipo la pioggia: monotona e regolare. Céline fa proprio pensare a una signora alle prese con problemi periodici; le danno mal di pancia, e allora grida e accusa il marito. La po­ tenza delle sue urla e la crudezza del suo linguaggio la pri­ ma volta divertono; la seconda si sbadiglia un po’; le volte successive, si taglia la corda e la si lascia gridare da sola. Stavolta non è con suo marito che ce l'ha il nostro Céline, ma con gli ebrei. Ecco qualcosa di veramente nuovo, origi­ nale e inedito. E stavo per rinunciare a sapere cosa raccon­ tasse del mio film quel chiacchierone quando si verificò uno di quegli avvenimenti rari, eroici e decisivi che cambiano il corso della storia: un compagno che amo molto e mi ama molto propose di sacrificarsi e di leggere il libro per intero. * Bagatelles pour un massacre (trad. it. Bagatelle per un massacro, Corbaccìo, Milano, 1938).

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    Tentammo dapprima di indurlo a rinunciare a questa im­ presa insensata. Insistette tanto che dovemmo lasciarlo fare. Il tentativo ebbe luogo di notte. Armato soltanto di alcune bottiglie di whisky, di numerose bottigliette di cola e di un dizionario di parole gergali, si lanciò all'assalto del fìtto guaz­ zabuglio sotto i nostri occhi ammirati e stupiti. Il suo eroismo diede i suoi frutti e, l’indomani, sapevamo cosa c’era. A dire il vero restammo delusi. Suppergiù, Còline si accontenta di affermare che La grande illusione è un’iniziativa della propa­ ganda ebraica. La prova è che in questo film ho osato mo­ strare un vero ebreo e farne un personaggio simpatico. I miei compagni di lavoro erano furiosi. Non è che rite­ niamo disonorevole essere al servizio degli ebrei piuttosto che a quello della Banque de France, degli italiani, dei vuo­ tatoli di pozzi neri o degli impresari di pompe funebri. Ma il fatto è che, in realtà, con questo film non eravamo stati al servizio di nessuno, e che (cosa abbastanza rara, e della quale loro e noi andiamo molto fieri) i nostri commissiona­ toti ci avevano chiesto semplicemente di fare un buon film. Ed è così che abbiamo potuto con tutta semplicità raccontare i nostri ricordi, tentare di mostrare le cose come si erano svol­ te, e niente più. Insommà, tutti gli amici dell’équipe del film non erano af­ fatto contenti (ci vogliono molte persone per fare un film). Parlavano di andare a tirar giù i calzoni a Còline e sculac­ ciarlo sulla pubblica piazza. Abbandonammo presto questi volgari progetti, indegni di onesti sindacalisti come noi, e buoni, tutt’al più, per dei fascisti della Cagoule. Tanto più che l’eroico lettore, che avevamo messo al corrente della cosa, ci informò che non eravamo i soli a essere compro­ messi. Al servizio del giudaismo ci sarebbero state, sembra, anche persone come Cézanne, Racine e molti altri. Siamo dunque in buona compagnia... tanto da vantarsene! Còline non ama Racine. Il che è veramente increscioso per Racine. Personalmente, non amo gli imbecilli, e non credo che questo debba risultare increscioso per Còline, perché ima sola opinione deve interessare questo Gaudissart dell’antise­ mitismo: la propria. [20 gennaio 1938]

    Eleganza anzitutto Conoscete quella nuova pubblicazione che si è data come missione quella di insegnare ai francesi di sesso maschile a vestirsi convenientemente, a seconda delle diverse circostanze

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    della vita? Ci insegna che in occasione di un tè all’ambasciata tedesca il tight è di rigore; non il vecchio tight dei nostri padri che sa di provincia lontano un miglio, ma il tight in­ glese ben svasato sul davanti, con un solo bottone, con i ri­ svolti che cadono molto bassi sui tacchi, confezionato con un tessuto peloso, nero, ornato da qualche filo d'argento. Evitare soprattutto quel vecchio filetto di seta nera che orla i tight di cattiva fattura come se si trattasse di una lettera di parte­ cipazione al lutto. Pantaloni dello stesso tessuto, pelosi, se si hanno meno di trentanni e tutti i capelli. Dalla calvizie in avanti il Pantalone scuro a righe andrà benissimo. Evitare le scarpe di vernice che sanno un po' di XX arrondissement. Il colmo della raffinatezza sarebbero le calzature in box-calf americano, morbide e brillanti. Queste calzature non vanno affidate per la lucidatura alle mani della servitù. Il loro for­ tunato proprietario deve passare ogni mattina almeno un’ora a massaggiarle con forza usando la parte arrotondata di un osso di pecora. Evitare il lucido a base di benzina che sa di albergo di periferia. Tutt’altra cosa il vecchio lucido militare su cui si'sputa abbondantemente, che si passa poi delicata­ mente con uno straccio e che da solo, sotto l’azione dell’os­ so di pecora, darà quello splendore speciale che permette agli intenditori di calzature di riconoscerlo al primo colpo d’oc­ chio: così come, si riconoscono i preti spretati, gli omoses­ suali, i drogati e gli astemi. Non vi parlerò oggi della biancheria intima, sebbene sia il vero sigillo (segreto e tanto più caratteristico) dell’uomo autenticamente elegante. Non vi parlerò neanche dei travesti­ menti studiati apposta per i ricchi appassionati che vanno a Saint-Moritz a guardare gli altri che praticano gli sport in­ vernali. Non vi parlerò neanche del posticcio Haiti. Il po­ sticcio Haiti è un ciuffo di peli intonato al colore dei vostri capelli. Lo si fissa sul petto tra le due mammelle, in modo che d’estate, ai bagni di mare, affiori all’altezza della scollatu­ ra del vostro costume da bagno (ricordo che in quest’articolo si parla solo di moda maschile). Questo permette di dare alle signore un’idea conveniente del vostro sistema peloso, e sem­ bra che esse ne deducano un mucchio di cose molto lusin­ ghiere nei vostri riguardi. No, oggi mi sembra più urgente attirare l’attenzione del nostro collega specialista della moda maschile su una lacu­ na incomprensibile in una rivista così ben documentata. Si tratta della moda per gli assassini. In questo momento, i gran­ di quotidiani non parlano che di assassini!, e la loro prima pagina trabocca di fotografie di signori o di signore colpevoli

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    di aver abbreviato la vita dei loro simili. Ebbene, tutta que­ sta gente è assai malvestita. E ridicola. E ora di rimediare a questo stato di cose. E che il nostro collega non ci obietti che questa clientela è poco interessante perché troppo limi­ tata. lo sostengo che non soltanto raccoglie già un numero ri­ spettabile di seguaci convinti, ma che ci sono grandi possibi­ lità di vederla rapidamente svilupparsi in proporzioni più che onorevoli. D’altra parte, ci sono dentro tutti, dall’alto al basso della scala sociale. Non vorranno veramente farci cre­ dere che tutte quelle armi che si scoprono in tutti gli angoli di Parigi siano state accumulate per fame panoplie. No, sia­ mo certamente alla vigilia di un periodo particolarmente ric­ co di assassini! di tutti i tipi. Ci lasceremo, nel campo della moda per assassini, distan­ ziare dall’estero? Già, in Italia e in Germania, è molto tempo che questi specialisti sono dotati di un’uniforme di cui si dicono molto soddisfatti! Qui il nostro dovere è di agire in fretta, e di riguadagnare il tempo perduto. La Francia, paese del buon gusto e dell’eleganza, ha il dovere, in questo campo come negli altri, di essere all’avanguardia del progresso e della civiltà. [27 gennaio 1938]

    Vecchi ricordi Domani La Marsigliese inizierà le sue proiezioni pubbli­ che. Tra qualche giorno conosceremo il risultato di un anno di preoccupazioni. Questo periodo della presentazione è male­ dettamente sgradevole. Per quanto mi riguarda, preferirei es­ sere altrove, e se mai dovessi rinunciare un giorno al mio mestiere, non sarà a causa del lavoro che amo tanto quanto si può amare qualcosa, ma proprio a causa di questa biz­ zarra cerimonia che è la prima di un film. Quando questa non va, è la fine di tutto. Ci si immagina che il mondo sia tutto nero e che la gente vi spii per gettarvi in faccia il suo disprezzo. Generalmente, ce se ne accorge ab­ bastanza presto e si lascia la sala. Si misurano le strade vi­ cine, ripetendosi ad alta voce: «Sono uno stupido! Sono uno stupido! » Quando va bene, evidentemente è meglio, tuttavia... Cosa rispondere a un gran numero di persone che più o meno si conoscono e che vi dicono: « Credetemi, a me piace molto! » calcando sull’« a me », così da insinuare che essi hanno ca­ pito perché sono eccezionalmente dotati, ma che gli altri si sono abbondantemente annoiati.

    150 La gente dice anche: « Mi ricorda quel tale film svedese * del 1917... Ai tempi del muto ». Grazioso modo di farvi ca­ pire che i vostri dialoghi sono inesistenti * che il vostro film è superato, e che per l’originalità del soggetto, state fresco! E non si creda che tutte queste seccature siano compensa­ te da qualche buona bevuta, nei ristoranti, almeno, degli Champs-Elysées. Niente di tutto ciò: si ha paura, ci si na­ sconde, e a forza di nascondersi, si finisce per perdere tutti di vista. Ed è allora che si cade invariabilmente sullo scoccia­ tore sconosciuto. E siccome si ha bisogno in fretta di un po’ di coraggio, ci si lascia trascinare verso il primo caffè che capita, dove si ingurgita una gran quantità di cattivo cognac. Il giorno dopo, si ha mal di stomaco e si è costretti a pren­ dere il solfato di magnesia. Ora, almeno, gli autori dei film possono difendersi. I pro­ duttori rispettano quasi del tutto il loro lavoro e fanno dei tagli solo se sono assaliti dal panico. Alcuni anni fa, le co­ se andavano diversamente. Conoscevo un distributore del Mezzogiorno che aveva una maniera del tutto personale di si­ stemare i film da lui giudicati un po’ lenti. Vi introduceva uno spezzone che teneva sempre di riserva e che rappresentava una corsa di tori. Questa corrida spuntava improvvisamente nelle commedie moderne, nelle tragedie antiche, nei drammi del mare, e dobbiamo ammettere che, talvolta, l’effetto era abbastanza singolare. Questi sono vecchi ricordi, e la presentazione de La Marsi­ gliese non avrà nessuna relazione con tutto ciò. Questo film è stato prodotto da amici, girato tra amici. Non mettiamo in gioco una situazione personale, mettiamo in gioco molto di più: mettiamo in gioco la fiducia di tantissimi compagni che hanno contribuito a rendere possibile la realizzazione di que­ sto film. E se andrà bene, ce ne andremo a braccetto verso al­ legri conviti. [10 febbraio 19581

    Parlato in francese In questo momento, i francesi che sbarcano a Londra sono sorpresi e incantati dal numero di film di casa nostra che si proiettano lassù. E non soltanto in sale specializzate sul tipo di quei covi eleganti che imperversano a Parigi, nei dintorni dell’Avenue des Champs-Elysées, ma proprio in sale normali, davanti a un vero pubblico. Vi rendete conto che cosa significhino queste migliaia e mi­ gliaia di inglesi che ascoltano il francese e l’imparano senza

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    dubbio, dal momento che questi film hanno un grande sue * cesso? È il primo tentativo riuscito da molto tempo a questa parte per ridare alla nostra lingua una risonanza intemazio­ nale. Cineasti, amici miei, siamo fieri d'essere i servitori di un mestiere che ha permesso questo miracolo, e ringraziamo i no­ stri vicini d’oltre Manica della loro amichevole accoglienza. Ma ci si rende conto qui dell’importanza di ima simile propaganda? Di fronte a questi fatti, si decideranno le auto­ rità, se non ad aiutare il cinema, almeno a smetterla di mal­ trattarlo? Ci si degnerà di considerarlo non più come una vacca da latte, ma come un portavoce delle aspirazioni del paese? E la gente di questo mestiere, invece di spararsi alle gambe, capirà la necessità dell’unione? A questo proposito mi sia concesso ringraziare alcuni dei nostri modesti colleghi della grande stampa per il loro atteggiamento nei confronti de La Marsigliese. C’è in particolare un articolo di un buffo recensore che dedica al nostro film una delle sue note quoti­ diane. « Ero invitato », scrive « alla prima rappresentazione del film che è stato girato, sotto l’egida del Fronte popolare, Jn gloria della Rivoluzione^ Ma non ci sono andato: bisognava indossare il frac o Io smoking per andare a vedere della gen­ te in carmagnola o in pantaloni di traliccio a righe ». E dopo aver così proclamato che non sapeva nulla del soggetto, si lancia in un astioso attacco contro la Rivoluzione francese. In due colonnine trova modo di accumulare tutte le banalità, tutti i luoghi comuni, tutti gli slogan più logori. Un bambino di sei anni avrebbe trovato qualcosa di più originale. Come può della gente leggere ancora il giornale su cui questo Jocrisse pubblica le sue asinerie! Per questo deficiente, la Rivoluzio­ ne vuol dire teste in cima alte picche, carrette di condannati, e soprattutto ghigliottina. Se la nostra Rivoluzione ripugna talmente a questo signore e ai suoi pari, perché non hanno il coraggio di proclamare che non sono repubblicani? E parla­ no di ipocrisia! Che dire del loro comportamento davanti alla bandiera tricolore? Che significa questo rispetto che debbo ben ritenere simulato nei confronti dei nostri tre colori, emblema diretto di quella rivoluzione che essi di­ sprezzano tanto? Se fossero conseguenti, dovrebbero sputar­ ci sopra invece di salutarla. Ma andiamo avanti. Tutto questo non ha importanza, e sono proprio sciocco ad accalorarmi per simili ragli. Torniamo alla nostra situazione attuale che, piaccia o meno agli scorbuti­ ci, è eccezionalmente favorevole. Siamo alla vigilia di.una grande battaglia per la conquista del mercato mondiale. Que­

    152 sto mercato mondiale, come direbbe Alfred de Musset, « il a tenu dans noire verre». All'inizio, i Méliès, i CohI, poi i Max Under, i Rigadin, i Joe Hamman occupavano gli schermi di tutto il mondo, dalla Siberia al Colorado passando per ('Andalusia. In seguito, disonesti industriali hanno venduto il cinema francese in lungo e in largo, all'ingrosso e al det­ taglio, ai loro ricchi concorrenti stranieri. E ora ecco che tutto un gruppo di giovani produttori, giovani distributori, giovani esercenti tenta con fortuna di tirarci fuori da questo marasma. Dimentichiamo le nostre bagatelle e uniamoci a loro. Mi permetto di terminare queste poche righe con un ap­ pello ai nostri grandi compagni che, scoraggiati dalla nostra situazione, sono andati a lavorare all'estero. René Clair in Inghilterra, Feyder in Germania, Duvivier in America. Han­ no trovato là quello che cercavano? Ne dubito. Se possono, tornino da noi. Il cinema francese ha bisogno di loro. [17 febbraio 1958]

    « Come un mazzo di fiori » I miei compagni e io aspettavamo con impazienza le criti­ che su La Marsigliese di Marcel Achard e Henri Jeanson. Amiamo questi autori. Per lunghi anni Henri Jeanson, su Le Canard enchdlné, ha servito coraggiosamente la causa del buon cinema francese, e, per il fatto stesso che si era eretto a campione della qualità, potevamo considerarlo allo stesso tempo come uno dei buoni difensori della causa operaia. Quanto a Marcel Achard, quanti ricordi ci legano a lui. Non c’è un lavoratore che non si sia rallegrato dei suoi successi di prima grandezza. Questi due scrittori fanno parte della nostra piccola cerchia di gente di cinema o di teatro decisa ad anteporre ai loro interessi un certo buon rendimento pro­ fessionale, il cui perseguimento ci sembra servire direttamente la causa del popolo, causa che, a torto o a ragione, conside­ riamo la più giusta. Una grande città è una giungla, e Parigi è piena di piccoli clan. Come i lupi di Seenoee, nello splendido libro di Kipling, abbiamo le nostre leggi e ci affrontiamo dicendo: < Siamo dello stesso sangue, tu e io ». £ veramente difficile uscire da uno di questi clan. Un caso malizioso si è ostinatamente intromesso tra questi articoli su La Marsigliese e me, e, per una ragione che non ho potuto ancora stabilire, tutti i miei amici continuano a nascondermi somionamente i numeri contenenti quella prosa

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    così desiderata. Ho avuto un bel cercare in tutte le edicole di Place Pigalle, il mio luogo natale: i giornali in questione erano tutti venduti (parlo in senso proprio e non figurato). Le nostre felicitazioni agli animatori di questi giornali per que­ sto successo ben meritato. Ho dunque solo echi indiretti di queste righe. Ora, sembra che i risultati siano superiori a tutte le nostre aspettative. £ tanto più gentile da parte di Achard e Jeanson dal momento che sono stati lì lì per collaborare alla sceneggia­ tura de La Marsigliese, e se non l’hanno fatto è perché sono un odioso accaparratore che sogna solo di togliere il pane di bocca ai poveri sceneggiatori. Essere coperto di ingiurie dalla stampa reazionaria è per me un vero piacere. (Non parlo dei monarchici, fanno col­ lette tra le duchesse come quelli di sinistra tra i militanti, ma, fino a prova contraria, non credo sia gente che accetti i sus­ sidi dall’estero.) Tutti questi attacchi si verificano, per la più singolare delle coincidenze, in un momento in cui le parole di Hitler conferiscono loro una piccola nota di attualità che esalta il mio orgoglio di vecchio combattente. Tutto ciò è già molto lusinghiero. Ma il fatto di essere incensato da col­ leghi imparziali e amichevoli, ecco quello che fa piacere. Ciò mi ha talmente commosso che, da diversi giorni, non riesco più a dormire e mi sveglio la notte a pensarci. Per dimenticare il dispiacere di non aver potuto vedere quegli articoli amichevoli, ho deciso di prendermi delle distra­ zioni, e anzi di far baldoria, e ho fissato tutto un programma di festeggiamenti il cui primo punto era costituito da una visita al giardino zoologico di Vincennes. Che meraviglia! Era domenica. Un solicello meraviglioso indorava la cima degli alberi. Uno di quei solicelli che esistono solo a Pa­ rigi. Nel Mezzogiorno non possono capirlo, col loro grande, grosso astro, grossolanamente magnifico. Pensavo a Claude Monet. Con una giornata come quella, ci si ricorda improv­ visamente che era un grand’uomo. Faceva molto freddo, la qual cosa non infastidiva né i visitatori, né gli animali. Leo­ ni indolenti spingevano con la zampa dei pezzi di ghiaccio in una vasca vicina, giocando così, come ragazzi di strada, a qualche misterioso filetto. Le otarie esibivano il loro sex-ap­ peal, latrando di gioia, e ondeggiavano nei loro abiti lucci­ canti, che mi ricordavano quelli dei primi bei film di Cecil B. De Mille, ai tempi in cui le donne americane erano veramente molto eccitanti. Un tucano dell'Abissinia faceva incredibili scherzi a tutto un assortimento di grandi gru dell’Australia. Questo animale è veramente molto curioso. Ha un becco lun­

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    ghissimo e ricurvo. Un becco grande quasi come tutto il suo corpo. La parte superiore e inferiore non aderiscono bene e tra l'una e l’altra filtra la luce. Se ne serve un po’ come fosse un ciak. Con questo strumento bizzarro pizzicava astiosamente le sventurate gru che, un po’ stupide, accettavano tutto su­ pinamente, per rubare le briciole di pane che alcuni vi­ sitatori lanciavano a esse. Ma poi, per mangiarle, non era un affare da poco, perché l’estremità del suo becco è talmente lontana dal gozzo che è costretto a fare tutta una ginnastica. Deve lanciare l’oggetto in aria alla maniera di Rastelli e prenderlo aprendo la bocca come un cantante d’opera. Mi ha ricordato molto certi critici di cinema che, impuden­ temente, vivono delle briciole del lavoro di modesti compa­ gni. [24 febbraio 1938]

    Profezie Ieri ero a letto, con una bella influenza. Un mio amico te­ desco è venuto e, per distrarmi, mi ha letto una poesia di Gottfried Keller, intitolata I calunniatori pubblici. Gottfried Keller è un grande scrittore svizzero. La lingua tedesca gli deve alcuni dei suoi più bei versi. Non posso resistere al de­ siderio di farvi conoscere la mia affrettata traduzione di que­ sto poema, scritto a metà del secolo scorso. Queste strofe cor­ rispondono così tragicamente all’attuale situazione tedesca che mi sento costretto a presentarvele come una profezia: In una pozzanghera di fango secco Sonnecchia un parassita Nascosto come un tizzo di fuoco Nella cenere leggera. Basta un colpo di vento Per risvegliare questa vita nefasta E allora dal niente Nascono fumi e discordie E si diffondono come un'epidemia. Il malfattore abbandona il suo antro notturno E osa camminare in pieno giorno. Non gli basta più rubare qualche borsa Ha trovato di meglio Saprà trarre partito da una lotta senza scopo Utilizzerà le aspirazioni confuse E il vessillo lacerato Di un popolo ridotto allo stato di stupidità. Questo terreno d'azione è là dove può trovarlo Il vuoto dei tempi difficili. E là dove si tollera la sua impudenza Ed egli diviene profeta.

    155 11 piedistallo di questo burattino £ un grande ammasso di sudiciume Dal quale indirizza i suoi appelli e i suoi saluti Al mondo stupefatto. La sua ignominia lo avvolge Come una nube Moltiplica le sue menzogne al popolo E tuttavia la sua potenza aumenta Con il numero dei suoi seguaci Che, potenti o miserabili, Fanno il suo gioco credendo di fare il loro. Risponde della sua parola Come in altri tempi gli apostoli L'hanno fatto per i cinque pani. Da principio quel cane è solo a mentire Ma il veleno s’insinua, l’epidemia avanza E ora sono migliaia e migliaia Che mentono con lui, conferendogli così Una ragione d'essere, una base d'esistenza, una realtà di vita. Le piante nate da questo seme crescono alte verso il cielo Il paese si trasforma La folla, invece di reagire contro questo attentato. Ride e si compiace nel disonore. Oggi quello che, ieri, non era che invenzione è diventato la verità. Le persone oneste sono schiacciate E sono i farabutti che, fièramente, formano i ranghi. Questa catastrofe interminabile come una banchisa Avrà pure un giorno una fine Allora gli uomini ne parleranno come della peste O come di un fantoccio di paglia Che dei ragazzi fanno bruciare sulla brughiera Per loro gioia o per loro dolore E una radiosa luce sorgerà da questo vecchio incubo.

    [5 marzo /93S]

    Nascite Poco dopo la guerra, ero diventato uno dei fervidi am­ miratori di un’attrice che stava per diventare celebre. Sfor­ tunatamente si sposò con un fabbricante di tessuti impermea­ bilizzati, il che rappresentò per lei l’inizio della fortuna e la fine di una carriera entusiasmante. Ma questa è un’altra sto­ ria. Era nata in qualche posto dalle parti di Tilsitt, a meno che non fosse di Riga, di Kovno o di Lvov. Di questo oriente ger­ manico aveva conservato un curioso accento. Giovane, bion­ da, molto robusta, ci riversava in un francese incredibile tut­ to il flusso spontaneo di quello spirito caustico, strampalato c affascinante che è caratteristico dei nativi di quelle curiose

    156 regioni, cocktail dello spirito slavo, dello spirito tedesco, del­ lo spirito ceco e soprattutto dello spirito ebraico. Si direbbe che quella gente ha saputo aprire uno spiraglio sulla vita pri­ vata dei loro dissimili antenati e coglierne tutti gli aspetti ri­ dicoli. Abbiamo avuto a Parigi un esemplare del genere. Al­ fred Savoir, straordinario e pieno di talento. Ma torniamo alla mia attrice. Era la regina incontrastata di un gruppetto elegante, pronto a gettarsi nel fuoco per lei o almeno a esaltare rumorosamente per Parigi il suo spirito, la sua bellezza, soprattutto la sua distinzione. In questo grup­ petto c’erano uomini ricchi, artisti, aristocratici, gente one­ sta e canaglie. Una sola caratteristica ne faceva quasi dei fratelli: lo snobismo. E, un giorno, quello che doveva ac­ cadere accadde. La vecchia madre della futura vedette scese dal treno di Varsavia alla Gare du Nord. Con la morte nel­ l’anima, la figlia l’accolse nel suo elegante appartamento del quartiere Victor Hugo. La brava donna aveva conservato il suo costume locale. Sulle sue forme opulente si reggevano, con mezzi bizzarri, non so quante sottane pesanti e non del tutto pulite. Uno strano scialle, quasi una coperta, le rico­ priva le spalle. La giovane fece appello al senso commerciale della madre. E la vecchia finì per capire che, se si faceva vedere, era forse la fine della carriera della figlia. La si na­ scose per tre giorni in una camera della servitù, poi venne caricata di nuovo sul treno per Varsavia, con un grande so­ spiro di sollievo. Questa storia mi ricorda molto l’atteggiamento di certi francesi che si dicono repubblicani, perché è più comodo, ma che si tappano ostentatamente il naso se si sventolano davanti a loro le reali origini della Repubblica. Un ragazzino, figlio di miei amici, recentemente guardava con disgustato stupore una gatta che stava figliando. Scuote­ va tristemente la testa e diceva: « Quando penso che anch'io sono nato così! » Tutto ciò è veramente ignobile. Non si devono mai rinne­ gare né i propri genitori, né le proprie origini. Ho smesso di frequentare l’attrice in questione dopo questa storia con la sua vecchia madre, tanto più che quella brava donna, che avevo intravisto, mi era sembrata molto più spirituale e no­ bile di sua figlia. £ come con i gattini. È molto bella ed emo­ zionante una nascita, e il bambino che prende contatto con il mondo è con grande probabilità un individuo molto più interessante dell’uomo che, più tardi, si mostrerà disgustato pensando alle sue origini. E quanto alla Repubblica, credo proprio che se essa conserva un certo prestigio nel mondo.

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    non è per l’uso che ne è stato fatto dopo la guerra del 1870, ma proprio in forza delle sue origini innegabilmente rivolu­ zionarie. [/0 marzo 1938]

    Corrispondenza Una teoria che ha molto successo negli ambienti reazionari è quella del « caso » o, meglio ancora, della « fortuna ». Se siete felice, infelice, ricco o povero è soltanto perché non avete pescato un buon numero. La vita viene presentata co­ me una specie di immensa lotteria nazionale in cui ci sono molti che vincono e necessariamente alcuni che perdono. Il problema sta nel persuadere quelli che hanno perso che avranno un giorno o l’altro la possibilità di vincere e che la tattica migliore non è quella di cercare di cambiare l’ordine stabilito delle cose, ma, più semplicemente e più comoda­ mente, quella di aspettare che vi tocchi il numero buono. Una storia classica, molto spesso raccontata nei film, è quella dell’inventore che, respinto da tutti e deciso a gettarsi nella Senna, è salvato da un ricco industriale che riconosce i suoi meriti e gli fornisce i mezzi per realizzare le sue in­ venzioni. In amore è la stessa cosa. Si cerca di farci credere che due persone che si amano, il cui legame è evidentemente armonioso e produttivo, possono separarsi in seguito a una lite, o anche semplicemente per una considerazione spiace­ vole di uno di loro. Non posso assolutamente credere a ciò. Se c’è una separazione definitiva, è perché i poli di attrazio­ ne di queste due persone sono assolutamente diversi. La loro unione era stata falsa, basata sulle menzogne. E un giorno o l’altro, ci sarebbe stata la spiegazione distruttiva. AI con­ trario, se le loro aspirazioni sono comuni, quali che possano essere gli incidenti spiacevoli, anche se litigi passeggeri li separano, un giorno o l’altro si ritroveranno. Quando ero piccolo, avevo un amico che adorava i romanzi polizieschi. In collegio, non pago di divorarne per proprio conto quintali su quintali, cercava di convertire i compagni al suo vizio. I drogati hanno sempre la mania del proseliti­ smo. Finiti gli studi, il mio amico e io ci separammo, e lo ritrovai vent’anni dopo durante un viaggio in una regione lontana. Cosa credete che facesse? Pensate forse che scrivesse lui stesso dei libri come quelli che avevano fatto la gioia del­ la sua infanzia? Ebbene, meglio ancora: era diventato com­ missario di polizia!

    158 Accade che gruppi di uomini modifichino i destini dei po­ poli; accade anche che esseri superiori modifichino il de­ stino di semplici individui. Ma sono cose che riguardano i geni. Nella società attuale, siamo tutti sistemati in piccole caselle da cui è ben difficile uscire. La famosa frase di Napo­ leone: « Ogni soldato ha nella sua giberna un bastone da maresciallo » è una sfrontata menzogna. Il solo modo per un soldato di acquisire i vantaggi che spettano normal­ mente a un maresciallo, non è quello di diventare marescial­ lo, perché questa è un’utopia, ma è quello di lavorare per migliorare la condizione umana dei suoi confratelli, gli altri soldati. [17 marzo 1958]

    Siamo prudenti Il mio amico Desnos mi chiedeva l’altro giorno perché non traessi un film da un libro appassionante, scritto dal principe di Joinville, una cinquantina d’anni fa, e intitolato La guerra del Potomac. Questo libro narra molto semplicemente la sto­ ria di quella famosa guerra nordamericana che, in Francia, chiamiamo Guerra di Secessione (curiosa denominazione: quando si pronunciano queste parole davanti a un americano, per lui è come se fosse arabo; là questo avvenimento si chiama semplicemente guerra civile). Il principe di Joinville la chia­ ma guerra del Potomac, perché il Potomac era la frontiera che separava i Sudisti dai Nordisti. Ebbene, caro Desnos, voglio bene a questo libro come ne voglio a te. Ma non ne farò un film. Sono prudente, tengo alla vita e non ho nessuna voglia di essere fatto a pezzi. Il tuo principe di Joinville è un pericoloso rivoluzionario, e il film che si potrebbe ricavare dalla sua opera sarebbe mala­ mente accolto dal pubblico degli Champs-Elysées. Questo pub­ blico così fine, così delicato, dal gusto così sicuro, questo pub­ blico francese che detta legge (si dice) nel nostro mestiere, impone un film o lo affossa a suo capriccio. Chi è questo principe che si permette non soltanto di affermare che dei generali debbono obbedire a un governo eletto dal popolo, ma che per di più se ne va a combattere, anche lui, per que­ sto stesso governo di mascalzoni? Lo sai che cos’è il tuo principe di Joinville: non è nient’altro che un rosso, e, se Mosca fosse esistita ai suoi tempi, non c’è dubbio che sarebbe stato stipendiato da Dimitrov. Tutti i particolari che ci dà sono d’altronde odiosamente tenden­ ziosi. Per esempio, prima dell’inizio della vicenda, ci mostra

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    l’esercito e la marina nelle mani dei congiurati. In effetti, nel Nord degli Stati Uniti, a causa del puritanesimo, il mestiere di soldato era abbastanza malvisto, e la Scuola militare di West Point reclutava i suoi allievi quasi esclusivamente negli stati del Sud. Prima di smascherarsi, i Sudisti avevano avuto dunque la possibilità di mandare a incrociare molto lontano le navi della flotta americana, il cui equipaggio non era dal­ la loro parte, e di inventare lontane e inutili missioni per i reggimenti sospetti di lealismo. Quando scoppiò la rivolta, i ribelli erano dunque padroni della situazione. Quelli del Nord dovettero improvvisare un esercito, creare dei quadri per comandare i volontari che affluivano. Questo esercito di dilettanti iniziò col farsi sconfìggere su tutta la linea dai soldati cosiddetti regolari, che avevano posto le loro capacità al servizio della rivolta. Il principe di Joinville ri­ chiama l’attenzione sullo spergiuro di questi ufficiali ribelli, sulla loro collusione col nemico straniero, e cioè l'Inghilterra che li sosteneva segretamente. Ci parla anche della- superiorità del loro materiale bellico. Tutto questo non ci ricorda troppo chiaramente qualche cosa? In verità, un film simile non è presentabile al pubblico di traditori che applaude Mussolini e Franco. £ da molto che non vado al cinema e non so se applaudono con tanto calore anche Hitler. Ma, dopotutto, perché no? Altra coincidenza. Nel libro del principe di Joinville si ve­ de l’armata ribelle arrivare fino a tre chilometri da Washin­ gton, la capitale degli Stati Uniti d’America. Ma la città fu salvata dal coraggio delle truppe federali. E quando si sa che la fine dell’avventura fu una clamorosa vittoria del go­ verno repubblicano, questa storia mi sembra ugualmente trop­ po incoraggiante per poterla destinare a qualcosa di diverso da un uso personale. [24 marzo 1938]

    E tua sorella? Questa mattina, verso le 7, un violento squillo di campa­ nello mi svegliò bruscamente. Imprecando contro l’importu­ no, me ne andai ad aprire la porta, e mi trovai faccia a faccia con il mio vecchio caro compagno Arthur. Arthur piangeva. Autentiche lacrime inondavano il suo impermeabile. Si ac­ casciò in una profonda poltrona (orgoglio del mio modesto salotto, come direbbe Courteline) e, una volta ben sistemato, iniziò il racconto delle sue disgrazie. « Mia sorella », mi disse, « è una puttana. Finora avevo fre­

    160 quentato spesso questo genere di persone, e la loro esistenza mi sembrava rispondere a un’evidente necessità della nostra civiltà; ma quando ci si accorge che la propria sorella eserci­ ta questa professione, si trova tutto questo molto meno di­ vertente. Tu conosci mia sorella, tu sai che donna deliziosa, sensibile e intelligente è, credo anzi che tu abbia voluto spo­ sarla... Ma tutto ha un inizio ed ecco quello di questa triste avventura. Dapprima ha accettato una quantità di piccoli re­ gali da una quantità di signori che la trovavano gentile. Sen­ za ombra di male, accumulava i flaconi di profumo di qualità (dal momento che ha buon gusto), le dozzine di calze di seta (americane, naturalmente), gli orologini con braccialetto (di preferenza svizzeri), o le perle coltivate che si divertiva a far sciogliere nell’aceto dell’insalata per stupire gli amichetti. Senza oltrepassare il Rubicone della convenienza, riuscì an­ che a farsi regalare una graziosissima piccola cinque-cavalli rosso bordeaux, proprio il modello che sogno da tanto tempo. Come vedi, il frutto era bacato. Lo sospettavo dal giorno in cui la vidi rifiutare di seguire Machin, il nostro vecchio com­ pagno Machin, che essa amava con tutta l’anima, ma che era tirato come un infilacappi. L’opinione pubblica, almeno quella dei nostri compagni, si agitò, e infine si rifiutò chiaramente di ammettere che mia sorella accettasse tutti questi regali sen­ za dare niente in cambio. Allora, mia sorella, che è la logica in persona, decise di uniformare la sua vita alla sua reputa­ zione, e ora, lo so, ne sono sicuro (ho letto la lettera), se la intende col barone True, quello dell’affare Stavisky e dei de­ positi clandestini di armi ». Qui il mio amico si interruppe e, col suo elegante fazzo­ letto di seta, asciugò una grossa lacrima che scendeva lungo la guancia. « La cosa più triste », mi dice, « è che mia sorella non ha avuto successo. La sua famiglia e i suoi amici rifiu­ tano ora di vederla. Si annoia a morte. Dimagrisce, e la cosa le fa molto male. Beve per dimenticare e sta per diventare orrenda. Ancora un anno come questo e perderà i suoi ammi­ ratori e la si butterà in un canto, come un vecchio oggetto fuori moda ». Molto commosso, tentai di consolare il mio amico: « Non sei il solo, è accaduto anche a me. Certo, non con mia so­ rella, dal momento che non ne ho, ma con amici che erano per me come fratelli ». In casi simili si dice sempre così. Credendo di farle pia­ cere, si cerca di provare alla vittima che si è più sfortunati di lei. Tutto ciò non la consola, ma la distrae, il che è già un risultato. « Che vuoi, mio caro Arthur, è la vita. Credi che

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    abbia riso quando i miei amici X..., Y..., Z..., ecc. hanno ab­ bandonato il terreno su cui combattevamo insieme, per an­ dare a mettersi dapprima con gente tarata, e presto, senza dubbio, con i nostri peggiori nemici? Anch’essi, come tua sorella, avevano dei bisogni. Un appartamento con vista sul Bois è una cosa che si paga. E c’è il desiderio di brillare. Come tua sorella, questi vecchi compagni hanno deciso di ri­ solvere il difficile problema della vita con i mezzi più facili. Come tua sorella, hanno creduto, dapprima, di poter salvare le apparenze. Sfortunatamente, l’avvenire non è necessaria­ mente dei furbi, e prevedo il momento in cui dovranno, come tua sorella, fare un giretto in prefettura, di dove usciranno fieramente, nascondendo in un angolo del portafoglio un gra­ zioso foglietto rosa. » [31 marzo 1953]

    Ai lettori di « Ce Soir» Bourg-en-Bresse Cari lettori di Ce Soir, miei cari amici, eccomi lanciato verso un nuovo lavoro, a causa del quale dovrò rinunciare per alcune settimane al piacere impagabile di dirvi tutti i mercoledì quello che ho nel cuore. Per preparare il mio nuovo film * sono costretto a mettermi in viaggio. I prossimi giorni sarò sempre in giro, e mi sarà quasi impossibile assicurarvi il vostro servizio settimanale, approfittare di questa specie di sfogo così prezioso. Quando si è testimoni di uno spettacolo che vi indigna o che vi fa ridere, si prova l’irresistibile desiderio di partecipa­ re la propria indignazione o il proprio riso a degli amici. E quello che posso fare con voi. Ed è grandioso, il solo difetto della faccenda è che io non vi vedo, che non sento la vostra reazione. Non sono uno scrittore. Sono soltanto uno che non sa resistere al desiderio di raccontarne una buona. Solo che, quando la racconto a gente che posso vedere e toccare, vi giuro che è molto meglio. Sento gli effetti, vedo cosa produce, faccio leva su quello che ritengo interessi o diverta. E anche più facile. E poi, si può « recitare » la storia, come un attore, sottolinearla con gesti delle mani, strizzatine d’occhi e smor­ fie. Insomma, nonostante questa limitazione, mi fa veramente piacere incontrarvi tutti i mercoledì. Mi direte che avrei po­ * L'angelo del male, da La bestia umana di Emile Zola.

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    tuto, prevedendo la mia assenza, preparare in anticipo cin­ que o sei « pezzi ». Non fa per me. Ve lo ripeto, non sono un letterato, e, quando ho qualche cosa da raccontarvi, bisogna che lo faccia subito. Se aspetto, la storia mi sembra stupida e mando tutto all’aria. E poi, sono troppo pigro. E poi, Ce Soir mi ha detto che potrei, più avanti, scrivervi anche al di fuori del mercoledì. Lo farò senz’altro. Ma eccomi dunque con i miei collaboratori, gli stessi de La Marsigliese (dopo quel colpo, abbiamo deciso di non la­ sciarci più), in auto, su una bella strada di Francia. Siamo molto emozionati, perché iniziare un film è un passo molto importante, oltrepassare la frontiera di un paese sconosciuto. E poi guardiamo sfilare davanti ai nostri occhi i meli in fio­ re, il grano ancora verde, gli orizzonti grigi e rosa. Ci diciamo che la Francia è il più bel paese del mondo, che siamo fieri di lavorare qua e che faremo tutto il possibile per non deme­ ritare questo onore. Dunque, cari amici, niente addii e a presto! [14 aprile 1938]

    Salvo Si dice che i finanzieri, quelli veri, i grandi, insomma quelli che hanno successo, sono rigorosamente insensibili a tutto ciò che non sia la finanza. Si sostiene che sono sordi a tutto il resto delle attività umane, che sono incapaci di comprendere i grandi spettacoli della natura (a meno che questi spetta­ coli, invece di essere diretti, non siano riprodotti dall’arte di qualche grande pittore, e non abbiano di conseguenza as­ sunto un valore speculativo), che non provano nessuna emo­ zione di fronte alla sofferenza del loro prossimo, nessuna gioia di fronte alla gioventù, la grazia o la bellezza, che sono come i cavalli delle carrozzelle la cui vista è limitata dai paraocchi. Insomma, che sono così totalmente sepolti nel loro terribile mestiere da arrivare a tagliarsi fuori dal resto del mondo. Ebbene, ho avuto occasione, in questi ultimi tempi, di fre­ quentare un individuo ancora più stupidamente specializzato nelle proprie piccole cose del più intransigente dei magnati della Borsa. Era un innamorato, uno vero, uno di quelli che non dicono che hanno voglia di uccidersi, ma che lo pensano. Sottolineiamo tuttavia una differenza tra i veri finanzieri e i veri innamorati: generalmente i primi hanno successo,

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    mentre i secondi fanno cilecca. In fondo, le donne hanno or * rore di questi animali molesti. Costui mi ricordava un vecchio cane che avevo avuto a Parigi in un piccolo appartamento, al sesto piano, senza ascen­ sore. Non avevo voglia di fare le scale, e, a forza di non camminare più, lo sventurato cane era diventato impotente e rimbambito. Non aveva più interessi se non per l’oggetto del suo amore, in questo caso Io zucchero. Solo una zolletta di zucchero poteva scuoterlo dal suo triste letargo. Nei giorni di grande eccitazione, e sempre con dello zucchero, si arriva­ va a fargli fare un giro completo della camera. Questo eser­ cizio era accompagnato da gemiti strazianti, capaci di com­ muovere un sasso. Il mio innamorato si era ridotto quasi in questo stato: una tartaruga, una talpa, un lombrico sarebbero stati più bril­ lanti di lui. Nella speranza di strappargli una parola, lo por­ tai in collina in mezzo a ulivi meravigliosi. Non sono più alberi, ma amici. Tentai pazientemente di attirare la sua at­ tenzione sul loro vivido fogliame, sui loro tronchi enormi, attorcigliati e voluttuosi come dèi dell’Olimpo. Se ne fregava altamente. Aveva in testa soltanto il rossetto che l’oggetto del suo amore aveva scelto, contro il suo parere. Il paesaggio di un tenero grigio chiaro, il cielo di un blu così dolce si tra­ sformavano nel suo povero cervello in un mostruoso rossetto, « un rossetto sconveniente, chiassoso, buono tutt’al più per una prostituta »; perché l’innamorato diventa un insopporta­ bile moralista quando si tratta della sua prediletta. In un libro bellissimo, Jean Rostand ci descrive l’orribile supplizio del rospo la cui testa era stata invasa da vermi ro­ ditori. A poco a poco questi parassiti aggrediscono il cer­ vello e lo mangiano lentamente. II rospo impazzisce, si mette a girare su se stesso e, finalmente, muore dopo diversi giorni di insopportabili sofferenze. Il mio compagno mi ricordava molto quel rospo. Ci separammo. Perduto nel suo sogno, non si accorse neanche che lo lasciavo. E tuttavia, in precedenza, eravamo stati buoni amici. I mesi passarono, poi un giorno l’ho ritrovato. Ma proprio ritrovato... tutto quanto... le sue braccia... le sue gambe... il suo cervello. Rideva, cantava, faceva dei pessimi giochi di pa­ role. Era guarito. Non ricordava neanche più di essere stato malato. E, col cuore pieno di gioia, abbracciai questo amico, questo fratello, che era scampato alla più terribile delle ma­ lattie, a quella che gli dèi hanno maggiormente seminato sulla terra in odio ai poveri uomini: l'amore. [30 giugno 1938]

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    Viaggio in auto da Parigi a Nizza Esco dal garage alle 8. Siamo in inverno. È notte, ho do­ vuto vestirmi con la luce elettrica. È una cosa che odio, ma bisogna pur farla. I viaggi sono viaggi e si dice che formino la gioventù. Sono solo in macchina. A me la provincia e le sue gioie, l’avventura galante con la cameriera di quella bet­ tola sotto i salici, vicino a un limpido ruscello. Prima tappa: Fontainebleau. Non valeva propria la pena che mi alzassi prima che facesse giorno, ma una specie di tifone si è abbattuto sulla regione parigina e il mio carbura­ tore, trasformato in lavabo, ha finito col rifiutarsi di fun­ zionare. L’ho vuotato due volte, due volte sotto gli scrosci, in mezzo a quella cupa pianura che si estende da Ris-Orangis a Essonnes. Grandi nubi da tragedia si inseguivano furiosa­ mente nel cielo, come megere che si battano a colpi di secchi d’acqua. Facendo appello ai miei ricordi letterari, mi parago­ navo al marinaio brettone sperduto nella tempesta. Final­ mente, scorsi le prime case di Fontainebleau. Fontainebleau, il porto della salvezza, il riparo, l’impermeabile che si asciu­ ga davanti a un allegro fuoco di legna. Fontainebleau, il ca­ stello, la foresta. Cominciai con l’attendere nella mia camera d’albergo che il tempo si placasse. A dire il vero quella camera d’albergo puzzava un po’. Attraverso un cortile grigiastro sul quale dava la mia finestra mi arrivavano i rumori e gli odori di una cucina poco invitante. Una cameriera scontrosa aveva messo il mio impermeabile ad asciugare sopra un triste calorifero appena tiepido. Questa persona presentava una caratteristica abbastanza curiosa: tutti i suoi denti, senza eccezione, era­ no guasti. Ma, dal momento che sorrideva poco, non aveva molta importanza. II tifone si era trasformato in pioggerella, partii per visita­ re il castello, dopo essermi munito di un grosso pezzo di pa­ ne destinato alle celebri carpe. Queste carpe sono orribili. Ce ne sono di quelle che mostrano senza pudore grandi mac­ chie biancastre che fanno pensare alla scabbia, all’alopecia, alla psoriasi o alla peste. Alcune sono enormi; succhiano i pezzi di pane lanciati a esse con un rumore disgustoso. Si di­ rebbero vecchie, grassissime signore malate cui mancassero i denti. Penso alla cameriera del mio albergo e ne concludo, come l’inglese con la francese rossa, che a Fontainebleau tutte le donne hanno una brutta dentatura. Volendo approfittare di una schiarita, decisi di andare a fare un giro nella foresta e, per ridare elasticità ai miei mu­

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    scoli intorpiditi dalla pioggia del mattino, affittai una bici­ cletta. Ho un animo poetico e, rinunciando alle vie ampie, mi introdussi risolutamente negli incantevoli sentieri, « inven­ tati » un tempo da Sylvain Collinet. Questo Sylvain Collinet era, a quanto pare, un vecchio ufficiale del grande esercito di Napoleone. Ritiratosi a Fontainebleau, faticò molto ad abi­ tuarsi a vivere senza guerra. La fine del grande massacro l’aveva fatto piombare in una nera malinconia. Lontano dalle battaglie, perdeva l'appetito e diventava nevrastenico. Allora « inventò » la foresta di Fontainebleau. £ a lui che dobbiamo queste magnifiche rocce che hanno l’aria di essere uscite da un’opera di Wagner, e che non posso credere siano state disposte così sapientemente da un semplice capriccio della natura. La foresta di Fontainebleau, almeno nei suoi angoli celebri, è veramente una scenografia da teatro. Sarebbe pro­ prio malizioso chi vorrebbe farmi credere che la mano del­ l’uomo non c’entra nulla, tanto più che conosco il nome del­ l'autore. Il romantico architetto paesaggista, il sentimentale esperto in rocailles che ha ideato e costruito questa Svizzera borghese a comoda portata delie coppie parigine, è questo valoroso Collinet di nome Sylvain. A meno che questo nome « silvano » non sia un appellativo datogli dai turisti ricono­ scenti. Dunque, nuotavo in piena atmosfera pittoresca, respiravo il wild romantisch con tutta la forza delle mie narici, quando, improvvisamente, un sibilo che mi ricordava qualcosa squar­ ciò l’aria. E un obice scoppiò a pochi metri da me. Era pro­ prio un obice. Ero ancora in guerra, e i venti anni che era­ no seguiti non erano che un sogno? Ma no. 1 miei abiti rigo­ rosamente civili, l’assenza addosso a me di qualsiasi stru­ mento di morte situavano, senza alcun dubbio possibile, questa avventura nel 1938. Un altro obice scoppiò, questa volta dall’altra parte del sentiero. Nessun dubbio, ero stato avvistato. Mi nascosi ven­ tre a terra in un fossato come ai bei vecchi tempi, e mi resi conto che quell’esercizio era ancora più spiacevole al giorno d’oggi che nel ricordo. Avevo una grande fifa, e imploravo il cielo con tutta l’anima, lo supplicavo di far cessare quelle esercitazioni ridicole. Una pausa degli artiglieri mi permise di sfuggire a una nuova salva. Scampato al pericolo, ridendo e cantando da solo, prendendo gli alberi a testimoni del mio giubilo, mi precipitai nel primo caffè dove ingordamente mi offrii tre bicchieri di un pessimo cognac, lodando il Signore di aver fatto le munizioni abbastanza care da suscitare la parsimonia dei nostri artiglieri.

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    L'indomani mattina, già all'alba, lasciavo la città, rinun­ ciando all'idea di visitare il celebre castello. Tanto peggio per Francesco 1, Luigi XIV e Napoleone. Mi hanno detto che erano molto suscettibili e molto sicuri di sé. Non mancheran­ no di dire che dovevo loro una visitina e che sono un male' ducato. Certamente, ma che si mettano un po' nei miei panni. Dopo tutto, se non mi fosse entrata dell’acqua nel carburatore, non mi sarei neanche fermato a Fontainebleau. Non avrei attraversato la città perché c’è una strada che la aggira. Ab lora che mi lascino in pace, o dirò loro quello che si merita­ no. Saranno obbligati a incassare, e a metterselo in tasca con il fazzoletto sopra. [7 luglio I93S]

    Una grande indecisione. All’uscita di Fontainebleau posso scegliere tra la strada n. 5 e la strada n. 7. La n. 5, Parigi-Ginevra, vuol dire la Borgogna che tanto amo. La n. 7, ParigiVentimiglia, è senza dubbio la più perfetta, la più caratteri­ stica e la più amata delle grandi strade francesi. Naturalmen­ te se prendo la strada n. 5 potrei ritornare sulla 7 a Lione; ma questi prestiti da strade diverse non rappresentano una specie di tradimento, un modo di vita paragonabile a quello della bigamia? Ora, la bigamia non mi dà affidamento. Non biasimo i bigami, ma mi sembra che si vadano a cacciare con molta leggerezza in una serie di inutili complicazioni. E poi deve essere molto faticoso. Avanti, dunque, per la strada n. 7. Larga, dritta e arrogan­ te come un cortigiano dell’Ancien Régime, penetra senza pu * dorè attraverso gli altopiani del Gàtinais. Ma, appena si presenta una valle, si fa flessuosa come una gatta e va volute tuosamente a farsi accarezzare da qualche fiume: la Senna che sfiora a Essonnes, mentre oltrepassa l’affluente dello stes­ so nome, poi il Loing, a partire da Nemours. Dopo Montargis, un attimo di pausa e di raccoglimento per contemplare lo spartiacque. Pochi metri dietro di me, l’acqua di quel pic­ colo ruscello si dirige verso la Manica; davanti a me, la goc-' eia di pioggia che cade dal cielo è attratta irresistibilmente verso la Loira e l’Atlantico. Questi « momenti » geografici mi avvincono, e mi piace­ rebbe che le autorità li segnalassero con qualche cartello. Tut­ to ciò mi ricorda un’incantevole riflessione di una giovane at­ trice che, dovendo andare a recitare a Bruxelles, lasciava la Francia per la prima volta nella sua vita. Lo scompartimento era pieno di attori molto parigini, molto divertenti, molto spiri­ tosi e alcuni avevano trovato il modo di farle credere che la

    167 linea punteggiata della frontiera che si vede sulle carte geo­ grafiche esiste anche in natura. E la ragazza spalancava gli occhioni, divorando il paesaggio con tutto il cuore, cercando invano questa famosa linea punteggiata della frontiera. Gli autori dello scherzo si torcevano dalle risa e si davano gran­ di pacche sulle gambe. Altri erano estasiati e colmi di am­ mirazione per questa poetica innocenza. Finalmente, ecco la Loira e il canale di Briare, e subito dopo Pouilly. Impossibile non fermarsi a Pouilly, e tuttavia l’ultima volta mi sono fatto mettere nel sacco. In una locan­ da pretenziosa, genere false travi, falso ferro battuto, e falsa sporcizia, mi hanno fatto bere del vino bianco cui era stato addizionato dello zucchero e mangiare del pàté comprato dal droghiere. Questa volta mi fermo in una piccola bettola fre­ quentata dai camionisti. Sono tipi straordinari, che fanno una vita molto dura, che girano il paese e che non debbono ac­ cordare la loro confidenza al primo venuto. Proprio un enor­ me camion, un elefante o, piuttosto, un animale preistorico, con un didietro grande come l’Arco di Trionfo e un cofano grande come la bara di Napoleone, aspetta davanti alla porta. L’accoglienza è simpatica. Il padrone si occupa lui stesso dei suoi clienti. Nella cucina, c’è una vecchia signora, senza dubbio la nonna, che sta facendo delle rillettes. Un delizioso spuntino, accompagnato con un buon vinello ben secco, mi comunica un sano ottimismo. Eccola, la graziosa cameriera che ognuno sogna di incon­ trare sulla sua strada; è deliziosa in un vestitino scozzese a quadri, coi capelli molto corti e ricci naturali, una graziosa voce forte, vispa, vivace, spiritosa come il vino del posto. C’è, ma non è per me. È per l’autista del grosso camion. In due minuti ho capito: si sposeranno. D’altra parte, mi ac­ corgo quasi subito che è parente del padrone, cugina o ni­ pote. L’uomo è giovane, forse avrà una trentina d’anni, bru­ no scuro, una faccia che mi piace. Si avrebbe voglia di avere questa coppia tra i propri amici. Sono seduti l’uno di fronte all’altra, a un tavolino. Mentre mangia, lui racconta di un incidente stradale. Lei lo ascolta rapita. Ha grandi occhi grigi, in cui tutta la storia sembra riflettersi come su uno schermo cinematografico. Si comportano molto bene. Sono riservati e pudichi. Poi si alzano. Dietro la casa c’è un giardinetto, è lì che vanno. Non sono loro antipatico, almeno penso, ma hanno voglia di stare da soli. Resto a tu per tu con un gatto nero e bianco che viene ad accarezzarmi. Per terra le matto­ nelle, in un disegno che imita dei cubi, risplendono ancora della pulizia mattutina. I quattro o cinque tavoli sono rico­

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    perti da una tela cerata a quadri bianchi e rossi. Al soffitto le lampadine elettriche sono chiuse in una specie di lampada­ rio cubico. Il padrone deve essere un uomo a posto. Questo mi ripaga della locanda dell'ultima volta. Amo le grandezze del passato allo stesso modo di quanto ne detesto la polvere, gli orpelli e soprattutto le imitazioni. Sto bene, qui. Tuttavia è meglio che vada. Un ultimo sguardo al giardino. L’autista e la ragazza si baciano. Anche lui deve partire. Pago alla nonna, che sta sempre lavorando alle sue rillettes. E mi rimetto in viaggio. [14 luglio 1938] A La Charité c’è un bellissimo ponte sul quale la strada da Clamecy a Bourges attraversa la Loira. Non è molto recente e mio zio Benjamin, l’incantevole eroe di Claude Tillier, ha dovuto talora servirsene per andare ad assaggiare dall’altra parte del fiume qualche fusto di vino di Sancergues. Resisto all’imperioso desiderio di seguire il suo esempio e attraverso Nevers e Moulins a gran velocità, senza gettare uno sguardo alle ricchezze artistiche di queste due città. Lapalisse mi fa pensare al Monsieur de La Palice. Non è una riflessione molto arguta, ma, quando si è soli, ci si accontenta di poco. Sono in mezzo a un paesaggio grazioso e stupido come tutti i po­ sti dove ci sono delle mucche. Si sale, ed entro in una regione più maestosa, ma anche abbastanza noiosa. Forse dipende dalle pietre nere di cui è disseminato il paesaggio e che so­ no state utilizzate per costruire le case dei villaggi. Final­ mente, Roanne. Un ottimo esempio di un bel posto rovinato da industriali che si sono scatenati. Come ce l’ho con loro! Lasciamo da parte il punto di vi­ sta sociale o umano, perché allora non si finirebbe più! Ma guardiamo dal semplice punto di vista estetico. Non potevano arricchirsi senza demolire in maniera così totale i luoghi in cui hanno insediato i loro mezzi di produzione? Non posso pensare senza tristezza alla sventurata sorte di questa isola di Billancourt, che in altri tempi era stata un luogo incante­ vole, ricoperto di erbe verdeggianti, di salici e di pioppi. La domenica, le famiglie dei quartiere potevano andarci a spasso e portarvi i loro figli. Il pescatore poteva tranquilla­ mente gettare l’amo in un’acqua quasi pulita. Gli innamo­ rati vi si trovavano a loro agio. Ora, quest’isola è circondata da cemento armato, sbarrata come una fortezza. Si direbbe un sottomarino. Mi sembra, santo cielo, che si poteva trova­ re del posto anche altrove e che, sistemata nel territorio cir­ costante, l’industria avrebbe servito il progresso altrettanto

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    bene e forse anche meglio. Perché, in ogni caso, il progresso non consiste soltanto nel fabbricare qualche migliaio di auto­ mobilisti in più all’anno. Consiste anche nel migliorare la sorte degli uomini, nel permettere loro di vivere in quartieri che non somiglino troppo all'inferho, nel guardare di tanto in tanto un lillà che fiorisce o delle margherite in un prato. Per avarizia, si è ammassato tutto, tutto è stato ammucchiato, le case e gli uomini. Le braccia degli operai non danno soltanto acciaio. Danno anche a chi è scaltro la possibilità di speculare. Là dove gli uomini si concentrano, si vendono, si acquistano, si riven­ dono terreni. I prezzi salgono. Un metro quadrato diventa così caro che bisogna fare strade strette, alloggi cari e mal aerati. Un albero è un lusso. Va bene per i quartieri ricchi. Tagliamoli e facciamo soldi con l’area che si rende utilizzabile. Un giardino! Non fatemi ridere. Anzitutto abbiamo lasciato loro il Bois de Boulogne e il Bois de Vincennes. Non hanno che da andarci a piedi e lasciarci in pace. Tanto peggio per quelli che abitano a Grenelle. E quanto a quelli che sono trattenuti a casa e le cui finestre danno su un triste cortile, se vogliono respirare basta solo che comprino degli ozonizzatori. Tutto ciò incrementerà il commercio. Fortunatamente l’uomo è robusto. Saprà liberarsi di tut­ to ciò, e, in futuro, i nostri figli costruiranno città in cui gli uomini vivranno meglio e per questo produrranno di più, servendo meglio la causa del progresso. Questo gusto della bruttezza si ritrova fin nelle case dei nostri industriali. Che gli operai siano male alloggiati, sup­ pongo sia per loro un problema secondario, ma che essi stessi abitino in ville di un tal cattivo gusto, questo mi sembra in­ comprensibile. Quando guardo quel piccolo castello preten­ zioso in cui l’aggressiva pietra molare lotta in vanità con la guglietta in falso stile feudale, non posso impedirmi di pensare: « Allora, sono queste le classi dirigenti? È là dentro che abi­ tano? » Certamente, dal punto di vista del comfort, tutto ciò deve essere superbo, ma dal punto di vista dello stile, la­ sciateci ridere. « Dimmi quali sono i tuoi gusti e ti dirò chi sei! » La pretenziosa dimora di un direttore d'azienda è per me l’etichetta che nasconde una merce antiquata e svalutata. Francamente si rimpiange il Petit Trianon o la casa di Jacques Coeur. Viva Versailles e Notre Dame! Ben venga un nuovo stato di cose che darà agli uomini il desiderio di costruire secondo principi conformi alle necessità de! momento e al genio del nostro popolo! Un rapido addio alla Loira. E molto piccola, nonostante

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    una specie di sbarramento che, vuole darle artificialmente del­ le arie. Tuttavia arriva quasi a comunicare un po’ di fascino ai quartieri della città che attraversa. L’avevo lardata dopo Nevers e ora non la rivedrò più. Infatti, dopo un valico abbastanza scosceso, arrivo dalla parte di Tarare e passo nella valle del Rodano. Lascio l’Atlantico, è il Mediterraneo che mi attira irresistibilmente. Una sosta per mangiare un boccone in una locanda che si presenta abbastanza comoda a una curva della strada, proprio nel centro di un ricco villaggio. Mi viene servito un vino mol­ to simile al beaujolais, di uno strano colore malva scuro e di gusto assolutamente delizioso. Per accompagnarlo, un pezzo di salame fatto in casa e che è semplicemente un dono degli dèi. Anzi no, perché in quel momento disprezzo Giove col suo triste nettare e la sua lamentevole ambrosia. Me ne vado a malincuore. Un’altra cosa che potrò ritrovare diffi­ cilmente. La qualità rustica di quel cibo e di quel vino è sconosciuta in città. L’industria e i trucchi della finanza l’han­ no uccisa, come tutto il resto. 1 cibi francesi sono un po’ co *, me i nostri paesaggi: la fase finale del periodo capitalistico non è stata loro propizia. [28 luglio 1938] Ogni volta che arrivo sul lungofiume della Saona, penso a Guignol. Non vado a questi spettacoli da molto tempo e non so come siano diventate- |e scenografie. Quand’ero piccolo, le scenografìe davanti alle quali si svolgevano le avventure di Guignol e di Gnafron evocavano irresistibilmente i vecchi quartieri di Lione. Naturalmente, i pittori che le eseguivano avevano copiato quello che vedevano, grandi muri grigi e neri senza alcuna cornice e alcun ornamento, tetti piatti con tegole romane, che sanno già di Mezzogiorno, e una quantità di piccoli buchi regolari a mo * di finestre. In realtà si vedono tegole romane anche più su di Lione., Da tempo immemorabile lente barche hanno risalito il Ro­ dano, poi .la Saona, cariche dei prodotti delle fornaci di Aubagne. Se ne vedono sino nel Beaujolais. Dalle parti di Tournus, c’è rivalità tra il tetto borgognone - capriccioso, fantasioso, un po’ cinese, così commovente con le sue piccole tegole rosse, quadrate e piatte - e il tetto latino, con le sue tegole rosa pallido e a forma di grondaia. C’è una cosa che mi fa pensare a una tegola romana. Sono i magnifici hangar per gli aerei di Orly che si vedono uscendo da Parigi, sempre da questa stessa strada n. 7. Per ritornare a questi tetti latini, la loro presenza sembra

    171 normale in un paese del Mezzogiorno, ma a Lione ci si do­ manda che cosa ci facciano. Mi è successo di rado di attra­ versare la città senza che piovesse o che vi fosse nebbia. Oggi, come al solito, mi sento trafitto dai freddi vapori che salgono dalla Saona all’assalto della collina di Fourvière. Non lo dico per parlare male di Lione. £ un capoluogo in tutti i sensi della parola, e, soltanto attraversandola, la sua austera gran­ dezza vi impressiona. E anche questa atmosfera umida con­ tribuisce a darle un carattere del tutto particolare. Decido di fare ancora ottanta chilometri; mi piacerebbe molto dormire a'Tain-l’Hermitage. Vi si trova uno di quei vi­ nelli bianchi che non finireste più di decantarmi se avessimo l’occasione di vuotarne un bicchiere insieme. Passo veloce­ mente davanti alla fiammeggiante cattedrale di Vienne. L’ul­ tima volta che vi ero passato, la città era in stato d’assedio. C’erano stati scioperi e manifestazioni. La guardia mobile ave­ va caricato duramente alla cieca. Pattuglie solcavano le stra­ de. La città conquistata come una città straniera in tempo di guerra offriva un’immagine di lutto e di disperazione. Non posso più attraversare Vienne senza pensare a quei tristi av­ venimenti. Un po’ più avanti, la pioggia leggera che mi accompagnava da Lione si trasformò in un uragano, fratello gemello di quel­ lo che mi aveva colpito all’uscita di Parigi. Da un tabaccaio mi dicono che nella regione va avanti così da una settimana e che le strade che salgono verso la montagna sono interrotte. Vado avanti con difficoltà. Incontro dei camion impanta­ nati nel fitto strato di melma che la pioggia ha fatto preci­ pitare dalle scarpate sulla strada. 11 Rodano è tutto giallo di fango. I suoi flutti.tumultuosi trascinano alberi, animali mor­ ti, rottami di ogni tipo. A una curva, sono fermato da una massa di pietrisco che è precipitata sulla carreggiata. Alcuni gendarmi mi consigliano di non continuare di notte. Ma ci tengo ad arrivare a Tain. Ho i piedi inzuppati perché sono andato a tastare il terreno in un posto dove temevo di im­ pantanarmi. 11 mio cappello somiglia un po’ alle scarpe di Chariot nella Febbre dell’oro, nella scena in cui le utilizza a mo’ di verdure per la minestra. Insidiosi rivoli d’acqua gelata mi colano nella schiena. In queste condizioni, il vino bianco di Tain-1’Hermitage non è più soltanto un capriccio, diventa una necessità. Mi ostino e continuo a dieci all’ora in mezzo a un paesag­ gio da Apocalisse. Un ultimo ostacolo, ma questo sembra proprio serio. In un avvallamento della strada, s’è formato una specie di lago. Qual è la profondità di questa acqua gial­

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    lastra? Il livello del punto più pericoloso è più alto o più basso del mio carburatore? Se mi intestardisco, non finirò con l'ottenere il sinistro risultato di dovermi accampare in mezzo a questa distesa liquida come un indiano Sioux che fa la posta al caribù nella sua piroga, in mezzo al lago Ontario? Sono talmente bagnato che ora posso rischiare tutto e vado a vedere a piedi. Proseguo a tentoni. Il bagno non va al di là della rotula del ginocchio. Posso tentare l’avventura. Ri­ salgo in macchina e faccio un po’ di marcia indietro per prendere la rincorsa. Ho in mente la storia di Lantier, il meccanico de La bestia umana di Zola che, per superare la neve che ha ricoperto la via, fa nello stesso modo. Dopo aver indietreggiato di cinquecento metri, mi lancio a tutta velocità e supero l’ostacolo in mezzo a immensi getti d’acqua. Per due secondi sono il comandante di un sottomarino al suo periscopio, o, meglio ancora, sono l’eroe di Conrad in Tifone. Niente come i viaggi solitari possono ricordare al viaggiatore felice le buone, vecchie, piacevoli letture. Dappertutto automobili in panne. Squadre di operai chia­ mati in fretta lavorano nella notte. Per proteggersi dalla piog­ gia si sono messi in testa dei sacchi rivoltati. Questi cappelli a punta danno loro un aspetto da fantasmi. Fa lo stesso: che cosa devono subire tra questo fango, sotto la furia degli elementi! Finalmente, arrivo nella città di Tain che presenta un curio­ so aspetto di emigrazione. Un gran numero di camion sono fermi nella piccola piazza. Riesco a trovare a fatica una ca­ mera. Mangio e vado a letto, piuttosto stanco, rimandando all’indomani l’esame di questa curiosa situazione. [6 agosto 1938) Sono svegliato molto presto da grida furiose. Do un’oc­ chiata dalla finestra. Sotto di me una folla furiosa e minac­ ciosa si erge davanti a quattro gendarmi che tentano di dire le loro ragioni. Sotto un cielo basso e nuvoloso, questa gente che si agita mi dà l’impressione che finirò col restare immi­ schiato in qualche fatto tragico. Le prime giornate della grande Rivoluzione, ad esempio gli avvenimenti di Greno­ ble nel 1788 o ancora l’efferato massacro degli operai della fabbrica Révillon nei Faubourg Saint-Antoine durante le ele­ zioni agli Stati Generali, sono iniziate senza dubbio allo stesso modo. Mi infilo i pantaloni e le scarpe. Metto il soprabito di­

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    rettamente sulla camicia da notte e corro in strada. La zona è intasata fino all’inverosimile da grandi camion che han­ no dovuto fermarsi a causa del temporale. È un concentra­ mento impressionante di veicoli enormi. Tutti si sono rac­ colti un po' a gruppi, come in un raduno in cui la gente finisce per raggrupparsi attirata da simpatie misteriose. Da una parte, enormi cisterne piene di benzina aspettano pazientemente. I loro autisti passano il tempo bevendo bicchieri del famoso vino bianco di cui vi ho parlato. Quelli che, adesso, premono sui gendarmi, sono quelli che trasportano derrate deperibili. Se non arriveranno a Parigi a tempo debito, i loro formaggi marciranno e i loro ortaggi non varranno più nulla. C’è anche chi si è caricato di pacchi che sono stati spediti per corriere allo scopo di farli giungere prima. £ in gioco l’onore professionale. 11 cliente che riceverà il suo pacco con ventiquattro ore di ritardo non saprà se c’è stato un temporale a Tain, e ne trarrà la conclusione che i fa­ mosi trasporti rapidi non sono così rapidi come si vuol far credere. Ora, una sola uscita è ancora praticabile, dal momento che le altre sono rigorosamente sbarrate, sia per le frane sia per l’inondazione. Si tratta del ponte che attraversa il Rodano. Dall’altro lato del fiume il temporale è stato un po’ meno violento, e passando per il valico della Repubblica e SaintEtienne si può raggiungere di nuovo la strada a Roanne. Sfortunatamente, questo ponte è un ponte sospeso, con limite di carico e, al di sopra delle due tonnellate, i veicoli rischia­ no di finire nel fiume. I guidatori se ne infischiano e vogliono assolutamente tentare il colpo, nonostante le quattro o cinque tonnellate che si portano dietro. 1 gendarmi fanno il loro dovere e si oppongono al transito. La discussione è veemen­ te. Gli argomenti piovono da una parte e dall’altra. Vado a dare un’occhiata al Rodano. Il ponte collega Tain sulla riva sinistra con Tournon sulla riva destra. Queste due città hanno un aspetto decisamente montano. Le loro case nerastre sono strette contro il fiume, da un lato dagli ultimi contrafforti delle Alpi e dall’altro dal Massiccio Centrale. Si è formato così una specie di cupo corridoio attraverso il qua­ le il Rodano si è faticosamente scavato una strada. Ammi­ ro il coraggio dei tizi dei camion perché, anche a piedi, non mi sentirei sicuro. 1 cavi d’acciaio e le assi vibrano sotto il mio peso come i tiranti di un vecchio aereo. Sporgendomi, vedo scorrere a folle velocità un'enorme massa d’acqua limac­ ciosa. Rottami di ogni tipo continuano a rotolare verso il Me­ diterraneo. Se uno cadesse là dentro, ce ne sarebbe uno di

    174 più, e buonanotte! I gendarmi hanno ragione, ma perché, diamine, sono solo in quattro in una circostanza simile? Il malumore, d’altronde, si calma subito, grazie a un in * cidente che avrebbe potuto diventare tragico. Un camion ci­ sterna pieno di benzina ha appena preso fuoco in seguito a un ritorno di fiamma al carburatore. Non c’è da stupirsi: dopo una notte sotto l’acquazzone, il carburatore e i condotti so­ no pieni d’acqua, e la miscela gassosa stenta a formarsi. Quan­ do dico che questo camion ha preso fuoco, intendo dire che il fuoco si limita ancora al carburatore e all’aspiratore. Ma, un metro più indietro, ci sono due tonnellate di benzina chiu­ se nello zinco, e intorno ci sono numerosi veicoli dello stesso tipo. Ciò vuol dire che se non si blocca l’incendio, è tutta la città che salterà in aria. In quel momento, 1’esistenza di Tain-l’Hermitage dipende dal sangue freddo di un ometto' che, di fronte alle fiamme, lotta con calma, armato di un estintore e di alcuni stracci. C’è un momento di panico. I camionisti, loro, non perdono la te­ sta. Si stringono attorno al loro compagno per aiutarlo. II sangue freddo di questi lavoratori ha ragione del pericolo. Il fuoco è spento. La gente si rassicura, e si va ad annaffiare il tutto con una nuova bottiglia di vino bianco. Due ore più tardi, le squadre di operai incaricate di sgom­ berare la strada n. 7 hanno potuto aprire un varco in dire­ zione di Marsiglia. Viene annunciato che mezz’ora più tardi verrà riaperta anche la strada per Lione. L’ottimismo ritoma, i. motori si scaldano, i gendarmi e la folla conversano amiche­ volmente. Ci si dimentica delle proprie sventure per pensare a quelle dei contadini della regione, duramente provati. Saluto quei compagni di un momento con cui ho appena vis­ suto questo piccolo dramma, e parto alla volta di Nizza, do­ ve arrivo con un viaggio senza storia. [11 agosto 1938]

    Notti brave Ultimamente, mi sono offerto quella distrazione che si chiama « frequentare i locali notturni ». Consiste nell’ammas * sarsi con molta gente in una piccola stanza senz’aria, ma con molto fumo. Era un locale notturno elegante e molto caro. Riconobbi rapidamente diverse celebrità del cinema. Le si­ gnore avevano dei graziosissimi vestiti che lasciavano vedere la schiena. Ce n’erano di tutte le categorie: magre, curve, spi­ golose. Proprio davanti a me c’era una schiena piccolina, tutta infreddolita, che mi faceva molta pena. Personalmen-

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    te rimpiango la moda del Settecento che permetteva alle donne, invece di mostrare la schiena, di mostrare il petto. Mi sbaglierò, forse, ma mi sembra che un petto sia migliore di una schiena. Dimenticavo di dirvi che eravamo immersi in una semio * scurità, del genere intimo e artistico, e che un’orchestra, pure eccellente, riempiva le mie orecchie di strazianti melopee. £ abbastanza curioso constatare quanto le persone che fanno festa amino il genere deprimente. Quand'ero ragazzo, credevo che un viveur fosse un signore che ballava su un tavolo, ver­ sava dello champagne nel pianoforte, si ubriacava circondato da donne raffinate e facili, e all’alba finiva al commissariato, dopo aver insultato gli agenti. Ebbene, niente di tutto ciò. Un viveur è un signore veramente lugubre. Se balla lo fa lenta­ mente e con compunzione. E le sue svenevoli compagne pia­ gnucolano nel suo whisky raccontandogli le loro disgrazie. Nessun dubbio: nella nostra epoca, per questo genere di cit­ tadini, divertirsi vuol dire annoiarsi. Una ragazza ci ha appena cantato in spagnolo bellissime canzoni. Applaudo con calore, il che non è visto di buon oc­ chio. Qui si manifesta la propria approvazione con la punta delle dita. Ne canta un’altra, poi un’altra ancora. Alcuni clienti le chiedono i loro motivi preferiti, e dietro di me un giovanotto alto e biondo si alza e richiede: Arriba Espana. Gli chiedo gentilmente se non ha bevuto un po’ troppo, e se si sente poco bene. Niente di tutto ciò. £ molto serio. Vuole Arriba Espana. E sottolinea la sua richiesta con frenetici: « Viva Franco! » La cosa più curiosa è che il pubblico non manifesta nessun biasimo e considera quella richiesta come del tutto naturale. La mia conversazione con questo signore diventa piuttosto aggressiva. Stiamo per venire alle mani, quando, improvvisa­ mente, lo vedo sparire davanti a me come in una botola. Temendo una rissa (i muri del locale in questione sono ornati da una quantità di ninnoli molto fragili), il proprietario ave­ va ritenuto opportuno far sparire quella singolare attrazione. Perché si trattava proprio di una attrazione. Fuori i tassisti ridevano a crepapelle. Uno di loro mi dice: « E la prima volta che trova un osso duro. È un ballerino del locale. Tutte le sere fa il numero. Piace ai clienti... » Capito? Per farvi dimenticare questa storia sinistra, ve ne raccon­ terò un’altra, egualmente da locale notturno, ma migliore. Un’altra sera, in un posto molto simile al primo, ero con un mio amico ebreo. Non è molto alto, ha un aspetto molto dolce, ma non bisogna fidarsene. Un enorme pezzo d’uomo gli

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    piantò gli occhi addosso e, dopo averlo accuratamente esaminato, gli disse: « Ancora uno sporco ebreo! » Non aveva terminato la sua frase che il pugno del mio compagno si ab­ batteva sulla sua faccia, e lo faceva rotolare tra i tavoli in mezzo a un gran fracasso di bottiglie e bicchieri rotti. Restò svenuto una mezz'ora. Quando il mio amico ebbe assistito al suo risveglio, lo salutò molto gentilmente, e ce ne andam­ mo. Ariani alti e biondi, fate attenzione, troverete prima o poi un osso duro! [25 agosto 1958]

    Come si è fieri di essere francesi quando si contempla la colonna! Io lo ero un po’ meno, questa settimana, vedendo i pari­ gini acclamare il nostro presidente di ritorno da Monaco. Na­ turalmente, sono felice di poter continuare i miei lavoretti personali, invece di andare dalle parti del Reno a documentar­ mi sui progressi della pirotecnica moderna. Tanto più che, per completare tale studio, non sarebbe forse necessario an­ dare così lontano. £ probabile che Parigi ne avrebbe subito un brutto colpo!... Ma insomma, veramente, mi sembra che i nostri rappresentanti abbiano esagerato un tantino nel genere « buono ». Ci sono, allo stesso modo, delle ragazze di cui si dice: « Buona! » Vuol dire che sono incapaci di resistere a una proposta maschile presentata con fermezza. Almeno questo tipo di ragazze ha una scusa: sono le loro grazie che dispen­ sano così generosamente, e non quelle della vicina. C’è una grande differenza tra una stimabile prostituta che paga one­ stamente di persona, e il signore che dispone di lei, la manda da Marsiglia a Montevideo, da Casablanca a Rue Laferrière, senza chiedere il suo parere. Questo patto a quattro ha un piccolo risvolto da « tratta delle bianche » che sarebbe abbastanza divertente, non fosse per le conseguenze. Ha dato, in ogni caso, ai nostri giornali l’occasione di pubblicare deliziose fotografie. Come sfoggio di vanità, non si poteva fare di meglio. Li avete visti questi visi grassi, sorridenti e soddisfatti, quelle graziose pieghe sotto il mento, quegli untuosi cuscinetti dietro la nuca, e quelle uniformi? Il più bello è Goering. Al posto di Daladier e di Chamberlain, umili rappresentanti del­ le nostre sedicenti democrazie in quel baraccone da fiera, mi sarei sentito leggermente umiliato. Ritengo d'altra parte che sia Goering dalla parte giusta. Quando si è deciso di diver-

    177 tirsi, bisogna andare sino in fondo, e non fermarsi a inutili considerazioni sul buon gusto nel vestire o altre sciocchezze, buone al più per i rappresentanti delle nostre vecchie bor­ ghesie. Al diavolo la baronessa Staff e la sua educazione pueri­ le e onesta! Dunque i tedeschi entrano nelle città dei Sudeti. I nostri giornali pubblicheranno, come hanno fatto per Vienna, foto­ grafie degli scherzi spiritosi che gli hitleriani non manche­ ranno di fare agli ebrei di quelle regioni? Vedremo di nuovo dei vecchi lavare i marciapiedi in ginocchio nel fango? Don­ ne obbligate a passeggiare portando scritte infamanti? In po­ che parole, saremo di nuovo i testimoni indiretti e lontani di queste facezie naziste che vengono esercitate così volentieri e così spiritosamente nei confronti dei vinti? Forse, se i gior­ nali si degnano di metterci al corrente di queste notizie, sa­ remo in quel momento meno fieri di essere francesi, anche contemplando la colonna di Place Vendóme!... [7 ottobre 1938]

    Il mio prossimo film * L’azione del mio prossimo film si svolgerà ai nostri gior­ ni, per via dei pali telegrafici. Non che questa storia, di cui ignoro ancora la prima parola, sia obbligatoriamente una sto­ ria di telegrafo. Ma, dopo La Marsigliese, i pali telegrafici mi ossessionano. Quando si gira un film cosiddetto « storico » in cui questo genere di accessori sarebbe fuori luogo, ci si ac­ corge che tutti i villaggi della Francia sono pieni di questi insolenti emblemi. Ce ne sono in legno, in ferro, in cemento armato. Si aggrappano ai muri delle case, tagliano la vista delle chiese più belle. Allora ci vuole il maquillage! Un po’ di vernice che asciuga rapidamente ne nasconde una parte, un albero finto piantato in fretta nasconde il resto. Ma che perdita di tempo e quante storie! Ben venga un film i cui personaggi possono passeggiare con un bei sorriso di beata sicurezza, davanti a una ragnatela artificiale! Mi piacerebbe molto girare un film che si svolgesse su un tetto. Immaginiamo, per esempio, che in seguito a un in­ cendio tre o quattro persone rifugiate in un posto simile ab­ biano, sotto di loro, il fuoco che raggiunge la scala all’altez­ za del primo piano, infuria e sale, lentamente ma inesora­ bilmente, verso gli inquilini. I pompieri si danno da fare e • Testo apparso su Ce Soir. 2 marzo 1958.

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    mettono in mostra straordinarie combinazioni di scale. Il pubblico segue le peripezie del dramma. Le nostre persone lassù non sono affatto disturbate dal fumo, perché c'è vento. Il caso vuole che abbiano uova sode, roastbeef freddo e qualche bottiglia di birra. E siccome l’incendio è assai lento, finiscono per abituarsi alla situazione e si mettono tranquil * lamente a mangiare. Tra loro si svolgerebbe un dramma, che non avrebbe niente a che vedere col pericolo imminente, ma sarebbe piuttosto del tipo grande avventura sentimentale. Si amerebbero, si giurerebbero un amore eterno, poi si tradirebbero, si vendiche­ rebbero. Uno dei due potrebbe venire da un paese lontano, co­ me Otello, e, nell’istante in cui la virtù sarebbe infine ricom­ pensata e i malvagi puniti, il tetto crollerebbe e precipite­ rebbero tutti nelle fiamme. Questa sceneggiatura presenterebbe un grave inconvenien­ te: non avrebbe un lieto fine. Naturalmente le conclusioni tristi sono di moda, ma c’è modo e modo. Una fine triste deve almeno dare il pretesto per qualche primo piano di un eroe disperato che, con la morte nell’anima, si trascina verso altri destini. Ma questa specie di caduta sul tipo dei vecchi gusci di noce che si gettano nel camino d’inverno, quando ci si scalda i piedi bevendo del porto, ecco una cosa che manca totalmente di dignità. Forse si potrebbe immagina­ re un aereo che portasse via all’ultimo momento il giovane e la ragazza, mentre il traditore arrostirebbe come un pollo. Oppure, siamo realisti; dopo tutto non c’è nessuna ragione per cui i pompieri non facciano coraggiosamente il loro la­ voro, ed è nelle loro braccia che la ragazza lascerebbe il suo scomodo rifugio, mentre l’innamorato e il traditore, una vol­ ta tanto strettamente avvinti, aspetterebbero insieme la morte. Notate che non racconto affatto questa storia per gusto maligno ma semplicemente perché mi piace e mi impres­ siona. Se non la presento ai produttori, è per evitare quelle occhiate imbarazzate e quegli sguardi complici di commise­ razione che promettono celle di isolamento. Mi domando se l’eroina dovrebbe essere bionda o bruna. Certamente, si è abusato delle bionde, e lo schermo ci offre in questo momento uno stock di brune molto vantaggioso. Ma pensiamo al cielo - non al cielo metafìsico - ma al vero cielo. Perché su questo tetto è evidente che i primi pia­ ni saranno presi sullo sfondo del cielo, e, in tal caso, il bion­ do risalta meglio. E a Parigi, dove i cieli sono spesso bian­ castri, i capelli neri spiccherebbero troppo nettamente. Questi cieli, d’altra parte, rappresenterebbero senza alcun

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    dubbio il guaio di tutta la faccenda, l’equivalente dei pali te­ legrafici de La Marsigliese. Perché, insomma, bisognerebbe egualmente farli « combinare ». A una domanda posta dal­ l’innamorato su un cielo ornato di cumuli chiari e maestosi, il traditore non potrebbe rispondere adeguatamente su uno sfondo gravato da neri e tragici nembi. Soprattutto se, al mon­ taggio, queste due teste si devono alternare, perché allora il cumulo e il nembo verrebbero a giustapporsi, tra la dispera­ zione degli appassionati di meteorologia. D’altro canto, girare queste scene davanti a un trasparen­ te è molto banale e gli attori non sono in atmosfera. Per calarli nella situazione, un po’ di freddo, un po' di vento non ci starebbero male. Non arriveremmo, senza dubbio, sino a dar fuoco alla casa. Potrebbe essere pericoloso. Si sa quando si appicca un incendio, ma non quando lo si spegne. E poi, le macchine da presa costano care! Decisamente, è tutto troppo complicato, ci rinuncio e mi cercherò un altro soggetto.

    Una giornata con Marcel Pagnol * Sapevo che Marcel Pagnol si era installato con la sua troupe a Le Castelet per girare La moglie del fornaio. Le Castelet è un piccolo villaggio a circa venti chilometri a ovest di Tolone. Per arrivarci bisogna arrampicarsi per una ripida stradina a tornanti. Quando si arriva sulla cima del monte, si scopre una specie di altopiano piuttosto selvaggio. Negli angoli in cui la natura ha accumulato un po’ di terra arabile, crescono begli ulivi, viti, cereali. Dopo un’ultima curva, si piomba improvvisamente nel paese che domina tutta la valle. Ai nostri piedi, una pianura fertile è sfruttata dai suoi indu­ striosi abitanti fino all’ultimo centimetro. La gente del Varo è gente pratica, che utilizza i più moderni metodi di coltiva­ zione. Questa pianura è divisa come una scacchiera dai canali di irrigazione, dalle siepi e dalle recinzioni dei campi. Dal­ l’alto, sembra un bel tappeto moderno. Le Castelet non è un villaggio per turisti, con mura, segrete e camminamenti. £ un autentico villaggio di coltivatori, il che è molto più interessan­ te. Le case sono linde, con tetti nuovi. Non sono destinate a deliziare l’occhio dei turisti romantici, ma ad accogliere dei contadini dopo il duro lavoro dei campi. * Testo apparso su Regards, n. 238. 4 agosto 1938.

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    Nessuna traccia della troupe di Marcel Pagnol. Tuttavia, in un granaio, un trasformatore elettrico collegato a impres­ sionanti batterie di accumulatori ronza sommessamente. Ciò vuol dire che le macchine da presa non sono lontane. In un altro punto, alcuni schermi riflettenti sono ammucchiati lun­ go un vecchio muro. Poi mi imbatto in alcuni proiettori, in cavi che sbarrano la strada e infine in un gruppo elettrogeno. Questo gruppo mi ricorda qualcosa. Tempo fa, con Marcel Pagnol, l’avevamo messo a punto insieme, perché abbiamo entrambi la passione per i lavori di elettricità e di meccanica. Tutto questo materiale è affidato alla buona volontà degli abitanti del villaggio. Alcuni bambini giocano in mezzo ai proiettori. Un contadino scosta un cavo per lasciar passare il suo asino. Finalmente trovo Marcel Pagnol nella piazza del villaggio e capisco la ragione del silenzio e dell’abbandono degli altri posti: è l’ora sacra della partita a bocce. Ci abbracciamo, e sono immediatamente trascinato in una squadra a quattro. Ma presto abbandono. Un settentrionale come me fa una fi­ gura misera di fronte ai brillanti meridionali. Allora, con Marcel, andiamo a bere un bicchiere di vino da Martin, un suo amico, contadino del paese. A poco a poco siamo rag­ giunti da un mucchio di compagni che non vedevo da molto tempo. Ecco Suzanne, la sua montatrice, con cui in passato ho fatto La nuit du carrefour e Boudu sauvé des eaux. Ri­ trovo i macchinisti e gli elettricisti con cui avevo fatto Toni. Ritrovo anche il buon amico Blavette, che recitava la parte di Toni. Poi vengono Dullac, il Javel de La Marsigliese e, in­ fine, tutti i personaggi delle commedie di Pagnol: è Monsieur Brun che mi riempie il bicchiere; è Orane Demazis, l’indi­ menticabile Fanny, che mi taglia una fetta di salame, ed è proprio César, il grande Raimu in persona, che mi cucina una bistecca alla brace. La conversazione diventa generale. Si discute sodo. Marcel è il centro di tutto questo piccolo mondo che, in realtà, è molto grande per la sua importanza. Non inganniamoci. 11 cinema francese esiste perché ci sono ancora degli indipen­ denti, gente che non è sottomessa ai monopoli. La maggior parte dei miei colleghi, dal più piccolo al più illustre, lavo­ ra per le grandi società americane o per la Tobis e la Ufa, che sono tedesche e sotto il controllo diretto di Hitler e di Goebbels. Io non li biasimo. Bisogna pur vivere. Biasimo semplicemente le autorità che lasciano che i nostri concorren­ ti si impadroniscano lentamente, ma inesorabilmente, del mercato nazionale.

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    Rendiamo omaggio a Marcel Pagnol che ha fatto a meno di tutti questi espedienti ed è restato assolutamente libero. La sua posizione è ora abbastanza forte da permettergli, una volta fatto il film, di proiettarlo al pubblico senza passare attraverso i pericolosi intermediari che conosciamo bene. Si possono amare o non amare i suoi film. Si è d’accordo o non si è d’accordo con lui, ma quello che egli dice lo pensa ve * ramente, e non riceve ordini da nessuno. La cosa che Io indigna maggiormente è che i nostri grandi industriali abbiano lasciato finire in mano agli altri paesi l’in­ dustria della fabbricazione della pellicola. Ci riferisce le cifre astronomiche che versiamo ogni anno ai tedeschi e agli ame­ ricani per comprare pellicole Agfa o Kodak. La stessa cosa per il suono. Non si riesce a capire perché non si possa realizzare un sistema sonoro accettabile in Fran­ cia e perché siamo obbligati a rivolgerci alla Western Electric, alla Rea o alla Tobis per fare dei film. Tutti questi sono solo pretesti per spedire il nostro bel de'naro all’estero. Poi parla dei suoi progetti: vorrebbe contribuire, per quanto possibile, a riportare in Francia queste industrie as­ solutamente vitali. Ma, per fare questo, bisognerebbe essere uniti e, da noi, è quasi impossibile. Nel cinema, appena un individuo ha due soldi d’importanza, si crede un papa. Dallo scontro di queste vanità nascono quelle lotte intestine di cui approfittano le ditte straniere installate in Francia. Ma si è parlato abbastanza di politica cinematografica. L’o­ ra di pausa è finita. Si riprende il lavoro. Ciascuno raggiunge il suo posto. Sembra che tutto avvenga senza che ci sia nes­ suno che dà ordini. Spesso Marcel Pagnol non assiste nean­ che alle riprese. Il suo metodo è ben diverso: parla con cia­ scuno, espone la sua idea nel corso di lunghe conversazioni attorno a un pastis. Gli attori si formano un’idea del loro per­ sonaggio; gli operatori prendono coscienza del loro futuro lavoro. In poche parole, ciascuno trae insegnamento da que­ sta specie di piccoli congressi. Poi si passa all’esecuzione. Durante le riprese, Marcel Pagnol sparisce. Non vuole in alcun modo influenzare nessuno. Gli dispiacerebbe contraria­ re le idee personali del più umile dei suoi collaboratori. Al­ cuni se ne lamentano e vorrebbero una direzione più ferma. Ma io credo che, quale che sia il metodo, è solo il risultato che conta. E un fatto assodato: i film di Marcel Pagnol por­ tano il marchio della casa. Non assomigliano a nessun altro. Come la produzione di un qualunque regista può sembrare banale e simile a tutte le altre produzioni del mondo, così quella di Marcel Pagnol si distingue per una perfetta origina­

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    lità. Dunque ha ragione a lavorare così, dal momento che funziona. Prima di partire, assisto alle riprese di una scena. Gusto estasiato questo linguaggio così chiaro, così sicuro e nello stesso tempo così sensibile, in una parola così francese. Poi ci abbracciamo un'ultima volta, e me ne vado.

    5. Amici e cineasti

    Omaggio a Elie Faure *•• ...Non posso pensare a Elie Faure senza immaginarlo men * tre sta parlando con mio padre. Li vedo tutti e due, per l’età uomini del secolo scorso, mentre discutono di alcuni proble­ mi quotidiani. Parlano raramente d’arte. Una sorta di pudore li tiene lontani dai grandi temi. Ciò che li avvicinava era un vivissimo gusto comune per l’autenticità. Elie Faure era un grande analizzatore, forse il più grande della nostra epoca, e un terribile realista. Questa capacità di analisi e questo realismo ne hanno fatto un uomo assolutamente moderno. In confronto a lui, alcuni giovani critici hanno l’aria di portare il peso di centinaia d’anni. Queste caratteristiche hanno auto­ maticamente fatto di lui una specie di profeta. Ci sono due cose di cui gli sono particolarmente ricono­ scente: proprio prima della guerra, ho letto il suo meravi­ glioso Arbre d’Eden. E in questo libro, lo studio più serio sui grandi valori contemporanei che mi fosse stato dato fino ad allora di vedere, mi imbattei con rapimento in un capitolo dedicato a Charlie Chaplin e al cinema. Era la prima volta che uno scrittore così « serio », un filosofo rispettato in tutto il mondo, si degnasse di prendere in considerazione questo mestiere che, già, mi attirava irresistibilmente. E quando dico « si degnasse », penso a quello che avrebbero fatto gli altri. Perché Elie Faure non « si degnava » mai. Vi metteva sem­ pre tutto il proprio cuore, tutta la sua mente. La seconda cosa è la sua affettuosa comprensione dei qua­ dri dell’ultimo periodo di mio padre. Mentre quasi tutta la critica esitava di fronte a questa nuova fase, lui valutava le cause e gli effetti del rinnovamento di un creatore. Il proprio temperamento lo spingeva con forza verso tutto quello che era vivo e nuovo. Nessuno spettacolo più raro e mirabile di quest’uomo che, sino alla fine, ci avrebbe dato l’esempio della vera giovinezza.

    Erich von Stroheim * * Quando La vedova allegra di Erich von Stroheim venne presentato alla stampa e agli addetti ai lavori, tutti furono * Testo apparso su Europe, n. 180, 15 dicembre 1937. •• Il primo dei testi dedicati a Stroheim è apparso su Cinémonde. n. 529, 7 dicembre 1938: il secondo è datato 1958; il terzo, nell’edizio­ ne francese degli Ecrits. non reca indicazione alcuna di data o di luogo.

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    d'accordo nel ritenere che questo film era un bidone e che non sarebbe rimasto in programmazione per più di tre giorni. Gli si rimproverava soprattutto di non essere esattamente La vedova allegra. Il nostro pubblico, dicevano alcuni di * stributori, non riconoscerà l’operetta, e si irriterà. Tale film ebbe un successo sbalorditivo. Fu uno dei primi a « tenere » per parecchie settimane al cinema Madeleine, e io, che avevo assistito a tutte queste discussioni, mi rallegrai ancora di più che se si fosse trattato di una vittoria personale. Sono passati quindici anni, e questi avvenimenti sono ancora vivi nella mia mente come se fosse ieri. Il fatto è che Erich von Stro­ heim era per me una specie di dio, e ora che lo conosco bene, che mi fa anche l’onore di chiamarmi suo amico, la mia opi­ nione non è cambiata. L'altra sera, ero in un caffè con lui e Pierre Lestringuez. E, con Lestringuez, rammentavamo il nostro entusiasmo al­ l’uscita di Greed, questo capolavoro assoluto del cinema, che Tallier aveva fatto proiettare alle Ursulines. « Veramente », dicevamo, « se allora qualcuno ci avesse detto che un giorno saremmo stati seduti familiarmente allo stesso tavolo con l’autore di quell’opera, avremmo pensato a una barzelletta ». E invece è vero. L’uomo di Greed, de La vedova allegra, di Donne viennesi, di Luna di miele, di Sinfonia nuziale (non posso citarli tutti) è qui a Parigi. Possiamo vederlo, par­ largli, toccarlo. Che lezioni dovremmo prendere da questo maestro, a parer mio il più grande regista da quando esiste il cinema... Lo pongo al di sopra di Chariot, perché non si è mai servito di quel tasto patetico di cui il geniale comico si serve così felicemente per toccare il cuore dei suoi spettatori. Stroheim non ha mai piagnucolato. È sempre stato duro, non ha mai fatto concessioni. Il percorso che ha scelto era il meno facile. Una specie di ritegno altero lo ha sempre tenuto lontano dal romanticismo e dal sentimentalismo. Ha sempre disdegnato queste armi, senza dubbio perché con esse un uomo della sua qualità era troppo sicuro di far centro a ogni colpo. È un attore straordinario. È un realizzatore ancora più grande. [/93S] * • L’Avant-Scène du Cinéma, n. 44, gennaio 1965, ha ripubblicato larghi estratti dell’articolo Un Renoir! di Erich von Stroheim apparso in Cinémonde, n. 476. 1 dicembre 1937, che terminava con queste ri­ ghe non riportate: «Amo Jean Renoir. Il mio più grande rimpianto è di non aver fatto parte della troupe de La Marsigliese e >1 mio augu­ rio più caro è di vedermi attribuire, in un altro dei suoi film, una parte, per piccola che sia. La sosterrei, con enorme gioia, come meglio po­ trei e gratis ».

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    Se faccio del cinema, lo devo molto a Stroheim. Egli divi­ de questa responsabilità con Charlie Chaplin e D. W. Grif­ fith. Ma non mi sarebbe stato possibile seguire le tracce di questi ultimi due. Charlie Chaplin interpretava egli stesso i suoi film e io avevo troppa poca fiducia nella mia vocazione di attore per osare apparire su uno schermo. Quanto a Grif­ fith, il suo puritanesimo sudista si situava all’opposto del mio panteismo mediterraneo. AI contrario, con Stroheim mi sentii subito entrare in un mondo che non mi era del tutto estraneo. 11 suo primo film che conobbi fu Femmine folli. Lo rividi numerose volte, ma mi ci vollero parecchie visioni per capire che la Monte Carlo rappresentata sullo schermo voleva rappresentare la piccola città che conoscevo così bene a pochi chilometri da Nizza: una città sporca, con un ridicolo giardino che gli abitanti chiamano camembert come il for­ maggio e un casinò in orribile stile patisserie. Per contro la Monte Carlo di Stroheim era avvincente. Ne conclusi che era la vera Monte Carlo ad avere torto. Cominciai a raccogliere tutti gli aneddoti possibili su Stroheim. Fu così che un francese di ritorno da Hollywood mi raccontò che il regista di Femmine folli aveva interrotto una ripresa per la quale era stato radunato un migliaio di comparse perché una guardia del palazzo, in lontananza e sul­ lo sfondo, non aveva i guanti bianchi. Le mani di questa guardia, che le sue funzioni tenevano a più di cento metri dalla cinepresa, erano certamente invisibili. La guardia stes­ sa, sullo schermo del Marivaux, doveva avere le dimensioni di un moscerino. E Stroheim lo sapeva benissimo! Ma teneva ai guanti bianchi della guardia. E aveva ragione. Questo in­ fimo dettaglio costò probabilmente una fortuna alla Metro, ma è forse il punto di partenza di uno di quei sogni che Stroheim riuscì a immortalare. Stroheim mi ha insegnato molte cose. Il più importante dei suoi insegnamenti è forse che la realtà non ha valore se non quando è trasfigurata. In altre parole un artista esiste soltan­ to se riesce a creare il proprio piccolo mondo. Non è a Pa­ rigi, a Vienna, a Monte Carlo o ad Atlanta che i personaggi di Stroheim, di Chaplin e di Griffith si muovono. È nel mon­ do di Stroheim, di Chaplin e di Griffith. Più tardi ho avuto l’onore di avere Stroheim come inter­ prete nel mio film La grande illusione. Fece di tutto per far­ mi dimenticare che era uno dei profeti del nostro mestiere. Gliene sono riconoscente, ma meno di quanto non gliene sia per alcune fondamentali lezioni che mi aveva impartito a di­ stanza una ventina d’anni prima. [7958]

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    11 produttore de La grande illusione aveva deciso che il film si sarebbe fatto» ed eravamo nella fase della scelta degli attori. C’erano, nella mia sceneggiatura, molte piccole parti di comandanti tedeschi dei campi di prigionia. Un giorno mi venne annunciato che Stroheim aveva l’intenztone di girare in Europa e che avrebbe accettato di interpretare anche un per­ sonaggio secondario. Gli era stato riferito del mio progetto e questo sembrava interessarlo. Ciò nonostante, per prudenza, aveva assistito a una rappresentazione del mio film Verso la trita e mi era stato detto che si era dichiarato affascinato. Questa reazione provocò in me una vampata di orgoglio. In India un giovane che aspira alla penetrazione di certe verità metafìsiche si lega a un guru, cioè a una guida spirituale. Ai miei inizi, mi ero legato a diversi guru. Erano Charlie Chaplin, D. W. Griffith e Stroheim. Non li avevo mai visti ma conoscevo i loro film a memoria. Quando Stroheim entrò nel nostro ufficio, fu davanti a un maestro familiare che mi inchinai. Quello che seguì non doveva deludere né il maestro né l'allievo divenuti colleghi. Mi misi in fretta a riscrivere la sceneggiatura e, da una miriade di parti, costruii il ruolo di Von Rauffenstein. Questo personaggio, con mia grande gioia, piacque a Stroheim. Avemmo una sola discussione, il che è miracoloso se si pensa al romanticismo di Stroheim posto di fronte a un certo realismo che era con buona approssimazione la mia tenden­ za a quell’epoca. Fu a proposito del numero delle decorazio­ ni attribuite al suddetto personaggio. Stroheim ne avrebbe vo­ lute molte, lo volevo che facessero effetto, ma che fossero po­ che. Ebbi una ispirazione e mostrai a Stroheim una fotogra­ fìa di un attore di Hollywood nel ruolo di un generale, chino sotto il peso di una batteria di medaglie. « Vede », dissi a Stroheim, « ecco cosa fanno laggiù ». La discussione era stata vivace ed eravamo quasi arrivati a una rottura. Di fron­ te a questa fotografìa hollywoodiana, fummo entrambi assaliti da un riso irrefrenabile, cademmo l'uno nelle braccia del­ l’altro, versammo qualche lacrima e partimmo alla conquista de La grande illusione.

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    Ancora su Stroheim * Naturalmente esistono degli aneddoti su Stroheim e quan­ do era vivo mi divertivano. Ora che non lo è più, li ho di­ menticati. Quando penso a lui, lo vedo in un blocco solo. Mi è impossibile separarlo dalla sua opera. Per me gli aneddoti su Stroheim sono le azioni dei personaggi densi di vita che ha proiettato sullo schermo. E il banchiere de La vedova alle­ gra turbato dalle scarpe dell’avventuriera irlandese; è il dentista di Greed che suona l'armonica alla sua fidanzata su un tubo delle fognature. Provavo una meraviglia sempre nuo­ va di fronte a quest'essere fatto integralmente per l’inven­ zione cinematografica. Il cinema era lì. alla sua portata, nel momento stesso in cui aveva una gran voglia di raccontare delle storie; adottò il cinema e ne fece il suo linguaggio. E lo fece a tal punto che dimenticò tutti gli altri linguaggi. Par­ lava cinema come un cinese parla cinese. Non uso a caso questo paragone, perché, facendo il nome di Stroheim, è im­ possibile non ammettere che il cinema, nonostante la sua ap­ parenza facile, richiede una iniziazione. La memoria di Stro­ heim è lì a ricordarcelo. Greed, per la maggior parte degli spettatori, è un semplice melodramma. In certi altri film, come La vedova allegra, Stroheim truccò il suo linguaggio se­ greto e gli diede la sonorità di un linguaggio corrente. L’es­ senziale dei suoi film, anche dei suoi grandi successi, è ac­ cettato senza riserve soltanto ora. Ogni valida espressione ar­ tistica è esoterica. Gli uomini - o piuttosto, alcuni uomini impiegano anni a decifrare la scrittura cuneiforme, anni a leg­ gere Cézanne, anni ad accostarsi a Vivaldi. Non c’è alcuna ragione che le cose debbano andare più in fretta nel cinema. Come per tutti gli altri genii, il raggio d’azione di Stro­ heim andava al di là dello strumento che la sorte aveva posto tra le sue mani. Se fosse nato cento anni prima del cinema, sarebbe stato un romanziere o un musicista ma avrebbe tro­ vato il modo di dirci quello che aveva in testa. L’importante nel suo caso è che il mondo dei suoi film è una sua creazione esclusiva. Non dobbiamo considerarlo volontariamente astrat­ to. Spesso i grandi artisti sono astratti senza saperlo. Credono sinceramente di lavorare da semplici copisti. Credono di li­ mitarsi a registrare i fenomeni del mondo che li circonda, * Testo inedito apparso col titolo Hommage à Eric van Stroheim nella monografia Eric von Stroheim di Denis Marion, Etudes cinématographiques. n. 48-50. 1966. e non compreso nell’edizione francese degli Ecrits.

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    mentre in realtà assimilano l'essenziale» lo fanno proprio, e lo restituiscono al pubblico arricchito della propria personalità. Finalmente è questa verità dell'artista che si impone alla sto­ ria e che diventa la vera verità. L'America di Greed come la Mitteleuropa de La vedova allegra resteranno le vere espres­ sioni della storia e della geografia di quei paesi all’inizio del secolo. Perché se è vero che l’ambiente plasma gli uomini è egualmente vero che il ruolo dei grandi uomini è di plasmare il mondo. Dopo ciascuno dei miei numerosi incontri con Stroheim i particolari della nostra conversazione si sono cancellati dalla mia mente e conservo nel ricordo soltanto l'impressione di un prigioniero incatenato al suo destino. È la sorte dei creatori. Diventano schiavi della loro creazione. La morte di Stroheim, cittadino di un mondo prodotto dalla sua imma­ ginazione, è stata conforme alle regole che egli aveva imma­ ginato. Il suo destino, sebbene di sua invenzione, sfuggiva al suo controllo e lo trasportava verso un paradiso lontano da Schdnbrunn così come da Hollywood o da Parigi. In questo paradiso i suoi ufficiali in uniforme bianca lo aspettano ballan­ do gravemente un valzer tra i lamenti di immaginari violini.

    Stroheim o la formazione di un mondo * Gli artisti capaci di forare la nebbia che ci circonda, di scoprire un segreto della natura e di far sì che gli altri uo­ mini si giovino della loro scoperta non sono così numerosi. I poeti che possiedono il linguaggio che permetterà loro di far condividere agli amici le proprie gioie sono ancora più rari. In questo territorio che l’enfasi contemporanea battezza col nome di creazione, i più grandi si riconoscono dalla loro ca­ pacità di edificare e di dotare di vita il mondo in cui si muo­ vono. £ il caso di Stroheim. Naturalmente si tratta solo di una utilizzazione di materiali già esistenti. L’autore li assimi­ la, li digerisce e li restituisce completamente impregnati della sua personalità. In natura « nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasfor­ ma » ha detto Lavoisier. Questa constatazione geniale spiega tutta la storia del mondo. Spiega in ogni caso il processo della sedicente creazione artistica. Evitiamo dunque di dare all’ar­ * Testo apparso come prefazione alla monografia Eric von Stro­ heim di Thomas Quinn Curtiss, Editions France-Empire. Parigi, 1970, e non compreso nell'edizione francese degli Ecrits.

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    tista il nome di creatore che appartiene solo a Dio e rendiamo grazie al suo dono di trasformatore. Se è grande trasforma non soltanto gli elementi necessari al suo modo di espressio * ne ma anche il mondo che lo circonda. Attorno a un grande artista « tutto si trasforma ». Le case, gli animali e gli esseri umani, la gente che vive attorno a lui, le donne che ama, il giardiniere che coltiva i suoi ortaggi, il medico che lo cura, il cuoco che lo nutre, il postino che porta le sue lettere, la natura intera, finiscono col rassomigliargli. C'è un mondo Picasso. Attorno a lui il paesaggio animale, vegetale o umano è inconsciamente Picasso. Vollard mentre andava per la prima volta a Aix-en-Provence per vedere Cézanne guardava le rocce e i grandi pini sfilare davanti ai finestrini del treno. Erano di Cézanne e si chie­ deva se erano quegli alberi che avevano influenzato il pit­ tore o il pittore che li aveva assorbiti nel suo immenso la­ voro di trasformazione. Non c’è alcun dubbio, l’operazione avveniva nei due sensi, ma si può dire che in fin dei conti è Cézanne che ha vinto, così come Stroheim. Queste considerazioni traducono quasi fedelmente la so­ stanza dei mio pensiero a proposito di quest’uomo. Senza questi confronti non potrei che restare nell’astratto. L'astrat­ to si addice poco a Stroheim. Ho tentato in poche righe di dire l’essenziale. Sotto un’altra forma preciserò che ciò che mi sconvolge in lui è il suo suc­ cesso innegabile nella impresa della formazione di un mondo. 11 mondo di Stroheim esiste come quello di Cézanne o quello di Picasso. 1 suoi cittadini sono perfettamente riconoscibili: hanno la loro lingua, i loro costumi. Vanno al di là della real­ tà. Sono fiero del privilegio che il mio genio tutelare mi ha accordato: l’aver accostato l’animatore di questo appassio­ nante universo.

    No, «Monsieur Verdoux» non ha ucciso Charlie Chaplin! * La notte scorsa ho fatto uno strano sogno. Ero nella mia sala da pranzo e stavo tagliando un cosciotto. Procedevo alla maniera francese, cioè nel senso della lunghezza. Questo si­ stema permette di ottenere delle fette molto diverse. A coloro * Testo apparso su L'Ecran Francois. n. 107. 15 luglio 1947.

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    cui piace la carne ben cotta, si riservano le prime. Per quelli cui piace rossa, si aspetta di arrivare più vicino all’osso. Quan­ do mi informai circa i gusti dei miei invitati, questi uscirono da quella specie di annebbiamento che si ha solo quando si dorme e riconobbi persone che ammiro e che amo. Le coppie de / migliori anni della nostra vita erano lì alla mia tavola e mi sorridevano gentilmente. Li servii e mangiarono con buon appetito. Al loro banco, il prete e la donna incinta di Roma città aperta si mostravano un po’ più riservati, ma non me­ no amichevoli. In fondo alla tavola, gli innamorati di Breve incontro si tenevano per mano. Questa audacia era la prova che si sentivano tranquilli, e ne fui lusingato. Quando stavo per passare alla misteriosa Vérité di Amanti perduti, suonaro­ no alla porta d’ingresso. Andai ad aprire e mi trovai in presenza di un signore dal­ l’aspetto distinto. Dapprima, mi ricordò vagamente qualcuno che conoscevo bene, una specie di vagabondo che aveva fatto ridere il mondo intero. Ma capii presto che questa rassomi­ glianza era solo fìsica. Anche sotto la ricca pelliccia da pro­ prietario di miniere d’oro, l’altro era restato un figlio della strada. Si sapeva bene che non si sarebbe dirozzato del tutto. Mentre questo era sicuramente di « buona famiglia ». I suoi genitori gli avevano insegnato a comportarsi educatamente a tavola e a baciare la mano alle signore. E da tutta la sua persona emanava questa impressione di passioni contenute, di temibili segreti, appannaggio della borghesia delle vecchie civiltà occidentali. Mi presentai. Con una cortesia squisita, che sapeva della sua vecchia provincia e della solida educazione dei vecchi padri, mi disse di chiamarsi Verdoux. Poi posò il suo cappel­ lo e il suo bastone su una sedia, con un colpetto tolse un po’ di polvere dalla giacca, aggiustò i polsini, e si diresse verso la sala da pranzo. Immediatamente gli altri si strinsero per far­ gli posto. Sembravano contenti di vederlo. Evidentemente, ap­ partenevano alla stessa società. Terminato il pranzo, uscimmo di casa. Ma la notizia della presenza dei miei illustri ospiti si era diffusa, e la strada era gremita di gente. Quando scendemmo i gradini dell’atrio, l’en­ tusiasmo esplose. Strette di mano, spinte, richieste di auto­ grafi. Improvvisamente una donna molto magra, con un ag­ gressivo cappellino, riconobbe Monsieur Verdoux e lo additò. E, stranamente, l’entusiasmo si trasformò in furore. Si pre­ cipitarono su di lui, coi pugni alzati. Cercavo di capire, e ri­ petevo invano la stessa domanda: « Che cosa ha fatto?... Che cosa ha fatto?... » ma non potevo cogliere le loro risposte, per­

    193 ché tutti parlavano contemporaneamente e i colpi di bastone che cadevano sullo sventurato erano assordanti. Così assor­ danti che mi svegliai di soprassalto e chiusi la finestra che il vento di un temporale faceva sbattere violentemente. Non credo che i critici che hanno così violentemente at­ taccato Chaplin a proposito del suo ultimo film lo abbiano fatto per ragioni personali o politiche. In America, non siamo ancora a questo punto. Credo che si tratti piuttosto di un ti­ mor panico di fronte a un cambiamento completo, di fronte a un passo avanti particolarmente brusco nell'evoluzione di un artista. Non è la prima volta che succede e non sarà neanche l’ul­ tima. Molière è stato vittima dello stesso malinteso. E i cri­ tici hollywoodiani, che si rifiutano di riconoscere le qualità di Monsieur Verdoux, si trovano in buona compagnia. In effetti, i detrattori di Molière si chiamavano La Bruyère, Fénelon, Vauvenargues. Lo accusavano di scrivere male. Gli rimpro­ veravano il suo « barbarismo », il suo gergo, le sue frasi for­ zate, le sue improprietà, i suoi errori, i suoi cumuli di meta­ fore, le sue faticose ripetizioni, il suo stile disarticolato. Questa animosità di alcuni critici non è il solo punto in comune tra la carriera di Molière e quella di Chaplin. Al­ l’inizio, il primo ha molto successo seguendo semplicemente la tradizione della commedia dell’arte. I suoi personaggi por­ tano abiti e nomi familiari, i loro « ruoli » sono quelli cui il pubblico è abituato. Semplicemente, sotto la maschera di Sganarello e dietro le capriole di Scapino, l’autore aggiunge un elemento più raro: un po’ di verità umana. Ma, in super­ ficie, nessun cambiamento troppo appariscente. Quando la situazione va per le lunghe, una buona scarica di bastonate provoca risa sicure. Il risvolto sentimentale è assicurato da formule che non differiscono, se non per la maestria dell’au­ tore, da quelle impiegate correntemente in quell’epoca: un giovane nobile ama una giovane cameriera e incontra l’op­ posizione della sua famiglia. Ma alla fine tutto si aggiusta. Si scopre che l’« ingenua » è di nobili origini e che, da bam­ bina, era stata rapita dai pirati. Chaplin, all’inizio, segue semplicemente la tradizione del genere più in voga nel mondo: il vaudeville inglese. I suoi piedi restano impigliati nei pioli della scala e le sue mani nel­ la carta moschicida. Il risvolto sentimentale, nei suoi film, è rappresentato da infanti abbandonati, prostitute maltrattate dalla vita, eredità dei buoni vecchi melodrammi. Ciò nono­ stante, non si piega mai alla peggiore volgarità della nostra epoca: la falsa bontà lacrimevole. E. dietro la maschera li-

    194 vida del suo personaggio, così come dietro le barbe finte dei suoi compagni, distinguiamo ben presto uomini in carne e ossa. Maturando, come Molière, introduce in un quadro con * venzionale, che ha fatto suo con la forza del proprio talento, gli elementi di un’osservazione sempre più acuta e di una satira sociale sempre più amara. Tuttavia le apparenze re­ stano le stesse, nessuno resta scandalizzato, nessuno protesta. Un giorno, Molière decide di rinunciare alla forma che aveva fatto il suo successo e scrive La scuola delle mogli. Piovono le accuse. Lo si prende per un burlone. Ci si irrita che sia regista, attore, autore. Un giorno, Chaplin scrive Monsieur Verdoux. Abbandona le forme esteriori alle quali aveva abituato il suo pubblico. Grande ondata di indignazione: lo si trascina nel fango. Dopo La scuola delle mogli, Molière, invece di mollare, non ha smesso di vibrare dei colpi sempre più pesanti. La sua commedia successiva fu Tartufo, che attaccava la falsa re­ ligione e i bigotti. Quale sarà il prossimo film di Chaplin? Mi sembra inutile spiegare perché amo il Chaplin vecchia maniera, dal momento che tutti condividono questo parere. E anzi probabile che alcuni detrattori del suo nuovo film ab­ biano scritto a suo tempo articoli ditirambici su La febbre delToro o II monello. Vorrei tentare di mettere insieme alcune delle ragioni che hanno fatto della proiezione di Monsieur Verdoux un avvenimento per me esaltante. Come tutti, ho le mie idee su ciò che si è convenuto di chiamare « arte ». Credo fermamente che, dacché l’epoca del­ le cattedrali è finita, dacché la grande fede che doveva creare il nostro mondo moderno non serve più a dare agli artisti la forza di perdersi in un immenso coro in gloria di Dio, l’e­ spressione umana di valore può essere soltanto individuale. Anche nei casi di collaborazione, l’opera vale solo se la per­ sonalità di ciascuno degli autori resta percettibile al pubblico. Ora, in questo film, questa presenza è secondo me altrettanto chiara di quella di un pittore in un quadro o di un musicista in una sinfonia. D’altra parte, ogni uomo matura, la sua cono­ scenza della vita aumenta e le sue creazioni debbono evolvere di pari passo con lui. Se non ammettiamo queste verità nella nostra professione, tanto varrebbe ammettere immediatamen­ te che è un’industria come le altre, che si fanno dei film come si farebbero dei frigoriferi o della crema da barba. E smet­ tiamola di riempirci la bocca con l’appellativo di artisti e di invocare a ogni piè sospinto le grandi tradizioni.

    195 D’accordo, dicono certuni, Chaplin ha fatto un’opera per­ sonale e conveniamo che ha fatto un passo avanti. Riteniamo soltanto che sia stato fatto in una direzione sbagliata. E ag­ giungono che il maggior crimine di Monsieur Verdoux è quello di aver ucciso l’incantevole vagabondo che amavamo tanto. Il suo autore avrebbe dovuto non soltanto mantenerlo in vita, ma basarsi su di lui nella sua ricerca di una nuova espressione. Non posso condividere questa opinione. Abbandonando le scarpe scalcagnate, la bombetta e il ba­ stone da povero piccolo ometto cencioso il cui sguardo pate­ tico ci faceva spezzare il cuore, Chaplin entra deliberatamen­ te in un mondo più temibile, perché più vicino a quello in cui viviamo. Il suo nuovo personaggio, con i pantaloni ben stirati, la cravatta dal nodo perfetto, ben vestito, e senza più la possibilità di far appello alla nostra pietà, è ormai fuori posto nelle buone vecchie situazioni disegnate con tratti ro­ busti in cui il ricco opprime il povero in una maniera talmen­ te evidente che il pubblico più infantile può cogliere imme­ diatamente la morale della storia. Potevamo immaginare, pri­ ma, che le avventure di Chariot si svolgessero in un mondo riservato al cinema, che si trattasse di una specie di fiaba. Con Monsieur Verdoux non è più possibile alcun equivoco. Si tratta proprio dei nostri tempi e i problemi presentati sullo schermo sono proprio i nostri problemi. Abbandonando cosi una formula che gli offriva ogni sicurezza, affrontando diret­ tamente la critica della società in cui egli stesso vive, compito estremamente pericoloso, il nostro autore eleva il nostro me­ stiere al rango delle grandi espressioni classiche dello spirito umano e rafforza la nostra speranza di poterlo considerare scopre più un’arte. Mi si conceda di aggiungere un’osservazione puramente personale: avendo rinunciato alla temibile arma costituita dalla debolezza del suo vecchio personaggio, Chaplin ha do­ vuto cercarsene un’altra a uso del suo ultimogenito. Quella che ha scelto piace particolarmente a un francese come me. appassionato cultore del Settecento: il cinismo. Capisco perfettamente la diffidenza di certi spiriti confor­ mistici davanti a questo mezzo che sembra appartenere a un’e­ poca aristocratica e superata. Perdonino a un lettore delle opere di Diderot, di Voltaire e di Beaumarchais il piacere che ha tratto da Monsieur Verdoux. D’altra parte, anche quando non è condito di logica para­ dossale, il genio ha spesso qualcosa di scandaloso, di sovver­ sivo, un risvolto alla Cassandra. Ciò dipende dal fatto che egli ha occhi migliori dell’uomo comune e che le semplici ve­

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    rità che scopre restano provvisoriamente errori per la mag­ gior parte di noi. Un’altra ragione per amare Monsieur Verdoux: adoro di­ vertirmi al cinema, e questo film mi ha fatto ridere fino alle lacrime. Credo di veder crescere attorno a me un certo gusto per le realizzazioni collettive, il cui triste anonimato è un tributo all’adorazione dei nuovi feticci. Cito a caso alcuni di questi falsi idoli: i sondaggi d’opinione, l’organizzazione, la tecnica. Non sono che i santi di un dio temibile che somionamente si tenta di sostituire a quello della nostra infanzia. Questo nuovo dio è il progresso scientifico. Come ogni dio che si rispetti, ci attira con dei miracoli. Perché, come chiamare diversamente l’elettricità, l’anestesia e la scomposizione della materia? Io, però, diffido molto di questo nuovo venuto. Te­ mo che, in cambio di frigoriferi e televisori che prodiga così generosamente, cerchi di sottrarci una parte del nostro retag­ gio spirituale. Una volta, ogni oggetto era un’opera d’arte, nel senso che costituiva un riflesso di colui che l’aveva fatto. Il più umi­ le buffet in stile coloniale americano è opera di quel tale e non del tal altro. Questo marchio personale si manifestava in tutto, nelle abitazioni, nei vestiti, nei cibi. Quand’ero giovane, nel mio villaggio in Borgogna, gustan­ do un bicchiere di vino, si diceva: « Viene dalla vigna della Terre-à-Pot in cima alla collina dietro la Sapinière, o dalla fonte Sarment o dalla tal altra frazione ». Alcune bottiglie vi lasciavano sulla lingua il gusto delle pietre della loro vigna, altre erano come velluto, e si sapeva che provenivano da un’u­ mida valle verdeggiante. Chiudendo gli occhi, si poteva ve­ dere quella tale collina grigiastra, con le sue piccole querce contorte e le tracce dei cinghiali che erano stati avvistati l’autunno precedente prima della vendemmia. E, subito dopo, le ragazze curve sotto il peso dei cesti di uva matura. Si po­ teva vedere soprattutto la faccia rugosa del vignaiolo che si era consacrato alla coltura di quel terreno diffìcile. Tutte le manifestazioni della vita acquistavano un senso profondo, perché degli uomini le avevano segnate. Ci si sen­ tiva al centro di un’immensa preghiera che i lavoratori di ogni categoria indirizzavano al cielo con i loro aratri, i loro martelli, i loro aghi, o semplicemente con i loro cervelli. Oggi, viviamo in un deserto di anonimato. I vini sono tagliati. I tubi nichelati del mio bagno, il legno del mio pavimento, lo stec­ cato che circonda il mio giardino mi fanno pensare solo al ronzio monotono delle macchine che li hanno prodotti.

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    Ci resta ancora qualche rifugio, verso cui ci precipitiamo. Un pittore può ancora parlarci di lui nei suoi quadri o un cuoco nei suoi piatti. Ecco senza dubbio perché siamo pronti a offrire una fortuna per un buon quadro o per un buon pran­ zo. Abbiamo anche il nostro mestiere che resterà una delle grandi espressioni della personalità umana, se sapremo con­ servare il nostro spirito artigianale, fortunatamente ancora ben vivo. Di questo spirito, Chaplin ne ha da vendere. Lo si avverte in una certa maniera pudica di affrontare le scene, nell’economia quasi contadina delle scenografie, nella sua sfi­ ducia nei mezzi tecnici, nel suo rispetto della personalità degli attori e in quella ricchezza interiore che ci fa pensare che ogni carattere sia sovrabbondante. Monsieur Verdoux si inserirà un giorno nella storia delle creazioni degli artisti benemeriti della nostra civiltà. Avrà il suo posto accanto alle ceramiche di Urbino e ai dipinti degli impresssionisti francesi, tra un racconto di Mark Twain e un minuetto di Lulli. Mentre i film così ricchi per denaro, tecni­ ca e pubblicità da avvincere i suoi detrattori, andranno a raggiungere, Dio sa dove, diciamo nell’oblio, le ricche sedie in mogano uscite in serie dalle belle officine nichelate.

    Testimonianza su «Luci della ribalta» * Molto spesso, delle persone mi vengono a domandare di identificare un quadro pensando che il figlio di un pittore debba necessariamente intendersi di pittura. Ora, io non me ne intendo molto: tuttavia mi permetto, di tanto in tanto, di dare un giudizio su un'opera d’arte, basandomi sul fatto che me ne intendo, o piuttosto che credo di intendermene di gran­ di uomini. E molto vanitoso da parte mia, ma mi sembra che l’aver frequentato da bambino alcuni amici di mio padre che hanno contribuito alla grandezza del XIX secolo, mi permetta di discendere certe caratteristiche che contraddistinguono il talento o il genio. Mi sarebbe perfettamente impossibile dare un nome all’au­ tore di un quadro non firmato, ma mi è capitato diverse volte di dire se quel quadro era di un maestro o no. Esiterei tra Tiziano, Rubens o Veronese, ma sono quasi sicuro di indovi­ nare se l’opera è di uno di questi grandi uomini o di un abile allievo che dipinge « alla maniera di ». In altre parole mi so* Testo apparso sui Cahiers du Cinéma, n. 18, dicembre 1952.

    198 no costruito una piccola concezione de! mondo in cui le di­ visioni non sono quelle accettate abitualmente. Invece di raggruppare gli uomini per razze, nazioni, religioni, lingue, li raggruppo per affinità spirituali. Il mio mondo si divide in avari e generosi, in negligenti e previdenti, in padroni e schiavi, in furbi e in sinceri, in creatori o in copisti. Uno dei gruppi che mi interessa di più è quello dei creatori artistici, i veri, i grandi. Si assomigliano molto più di quanto non si creda. Ce ne sono di grassi e di magri; ma, nel loro modo di mangiare, si ritrovano sempre alcune caratteristiche comuni, e così nel loro modo di amare, di mentire o di essere sinceri e, beninteso, ancor più nel loro modo di posare il co­ lore con un pennello su una tela o delle parole con una penna su un foglio di carta. Sappiamo tutti che Chaplin appartiene a questa esigua famiglia. Ciò che mi piace, nel suo ultimo film, è di vederlo conformarsi una volta di più all’evoluzione naturale dei gran­ di uomini di tutte le epoche e di tutte le lingue. Come diversi grandi drammaturghi, aveva cominciato col raccontare storie che gli permettevano di sfruttare le sue meravigliose risorse di attore. Ora che i suoi capelli stanno diventando bianchi, in lui, come nel Molière maturo, l'attore scompare sempre di più di fronte all’autore. Certo amo di più vedere il suo ultimo film interpretato da lui stesso piuttosto che da un altro, ma questo film conserverebbe tutto il suo valore se l’autore avesse scelto e portato in scena un attore diverso. Un’altra forma dell’evoluzione propria a tutti i grandi crea­ tori è la tendenza alla semplificazione. 1 primi film di Chaplin si componevano di una serie di aneddoti legati tra loro dallo stesso Chariot che li animava e anche da una trama generale che portava alla conclusione di questa serie di storie. In Luci della ribalta, c’è una sola storia che viene esposta all’inizio, si intreccia a metà, ed esplode in una conclusione quasi ir­ reale alla fine. Tutti gli elementi sono fomiti sin dall’inizio e si precisano a poco a poco nel corso dell’azione come se uscissero dalla nebbia. Ognuno di questi elementi è legato all’altro e non potrebbe esistere senza di esso. E tutto ciò cresce, prende il suo posto nella vita; l’insieme finale emerge naturalmente dalla crescita di tutti questi elementi diversi. Con Chariot rientra tardi eravamo alla miniatura. Con Luci della ribalta siamo all’affresco. Chaplin ci ha pur dato dei capolavori. E forse la prima volta che ci dà un’opera di forma e di ispirazione perfetta­ mente classica. La sua gioia l’altra sera alla Comédie Francjaise ascoltando il Don Giovanni non era finzione. Si trovava in

    199 famiglia, e fa sempre piacere ritrovarsi con i propri famigliari. Come i suoi fratelli e le sue sorelle della famiglia dei gran­ di uomini, Chariot tira dritto per la propria strada, matura, cresce pieno di dubbi per quanto riguarda i particolari secon­ dari del suo mestiere, ma inconsciamente sicuro per quanto ri­ guarda la direzione verso cui lo spinge la sua eterna giovi­ nezza.

    Il mio amico Rossellini * Mi è impossibile descrivere l'ambiente in cui vidi Ro­ berto Rossellini per la prima volta. Doveva essere una ca­ mera d'albergo. Avrebbe potuto anche essere il Campidoglio, il porto di Napoli o Place de la Concorde. Io vedevo soltanto lui e tentavo di cogliere i rapporti sottili tra quelle braccia, quel naso, quella voce e Roma città aperta, Paisà e tutti i suoi film che amo tanto. Improvvisamente, capii. Quest’uomo esi­ ste anzitutto per i suoi occhi. £ il senso della vita che co­ stituisce il suo punto di riferimento col resto del mondo. È attraverso i suoi occhi che assorbe, che registra, che penetra; due occhietti a vite, capaci di forare le superaci più coriacee. Poi, vi si aggiunge il suo cuore, poi il cervello si mette ad analizzare a fondo. Cosa vede Rossellini in questo momento a Parigi? Aspetto con impazienza che mi racconti la nostra città, come mi aveva raccontato Napoli, città santa dell'Italia secondo la teoria rosselliniana. Gli auguro il benvenuto.

    Un prezioso segreto ** Ci si può benissimo lasciar ingannare dalla brillante, per­ sonalità di Rossellini e prenderlo per un giocoliere di idee pronto a fare giochi di destrezza con tutte le idee che lo divertono, buone o cattive che siano. In questa vita, tutto si paga, e Rossellini deve pagare per la portata delle sue cono­ scenze e per la sua irresistibile tendenza alla cortesia. La migliore forma di cortesia non è quella di interessare l'inter­ locutore? Per coloro che amano i suoi film, Rossellini è al contrario l'austero detentore di un prezioso segreto. * Testo apparso su Aris, n. 468, 16 giugno 1954. ** Testo datato 25 febbraio 1963, apparso in Mario Verdone, Rober­ to Rossellini, Seghers. Parigi, 1963, e non compreso nell’edizione fran­ cese degli Ecrits.

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    Ogni grande artista è un sensale di matrimoni, il grande suc­ cesso resta evidentemente al di fuori della sua portata. Mi ri­ ferisco a quell’unione tra materia e spirito che è la conclusio­ ne lontana di tutte le religioni e di tutti i sistemi filosofici. Rossellini ci permette di accostarci a questo equilibrio ser­ vendosi di un dono che possiede in rara misura. In questo * campo non vedo nessun regista che possa essere paragonato a lui. Mi riferisco alla fusione di se stesso, degli attori, degli accessori e del paesaggio. Nella maggior parie dei film, quan­ do un attore si muove in una vera strada, ci si domanda che cosa vi faccia. £ estraneo alla folla animata da vere preoccupazioni come potrebbe esserlo un pesce rosso ben nutrito gettato in un torrente popolato da trote di montagna. In Rossellini gli attori fanno parte della folla, fanno parte anche del paesaggio, e questo perché Rossellini stesso si in­ tegra con la folla e il paesaggio. Non è un osservatore della vita, è egli stesso un uomo vivo

    Andersen * Io e i miei compagni del Théàtre de la Renaissance siamo felici di unirci a voi in questo omaggio ad Hans Christian Andersen. Il mondo intero gli deve molto. Noi, riuniti su questo palcoscenico, gli dobbiamo Orvet perché, senza La sirenetta, non ci sarebbe stato Orvet. Vogliate credere che non c'è nessuna vanità da parte mia nel sostenere che il dono di Orvet valga il minimo ringraziamento. Voglio semplicemente dire che si prova sempre amore per il proprio figlio. Ora Orvet non è più mio figlio. £ molto tempo che i compagni qui presenti me l’hanno sottratto. Ora Orvet appartiene a loro. £ creazione loro cosi come mia. Approfittiamo dell’occasione per ringraziare il padre lontano e involontario. Per quanto mi riguarda, celebrare Andersen è un gesto del tutto naturale. Tutti i giorni gli rendo omaggio. Non viaggio mai senza qual­ cuno dei suoi racconti in fondo alla valigia. £ un'abitudine che ho preso da giovanissimo. 11 visitatore che oltrepassava la porta dello studio di mio padre restava stupito dall'importanza che i racconti di An­ dersen avevano assunto nella nostra vita quotidiana. La ra­ gione era prima di tutto pratica. Mio padre amava dipingere i suoi figli e, per farli stare tranquilli, il modo migliore era di Testo datato 1955.

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    raccontare loro delle storie. E mio padre preferiva delle sto­ rie che andassero bene per lui oltre che per i suoi giovani modelli. Gabrielle, la sua modella, ci raccontava magnifica­ mente col suo bell’accento borgognone le avventure di lb e della piccola Cristina, della principessa sul pisello, di Nicco­ lino e Niccolone, dell’uomo che perse la sua ombra. Con l’im­ maginazione ci introducevamo nel vecchio salice col soldati­ no di piombo, camminavano con le calosce della felicità, decollavamo sul baule volante. Mio padre dipingeva e io ascoltavo. La nostra storia preferita era La minestra allo spiedo. Ne conoscete la trama. Che bell’inizio! D’altronde tutti gli inizi dei racconti di Andersen sono sorprendenti: « In Cina, que­ sto lo sapete benissimo, tutti sono cinesi, persino l’imperato­ re ». Sono le prime righe de L’usignolo. La minestra allo spie­ do comincia così: « Senti che banchetto abbiamo fatto ieri, diceva un vecchio topo a un altro topo, suo vicino. Ero il ventunesimo alla sinistra del nostro vecchio re. Si tratta, credo, di un posto d’onore...! » ed enumera la serie dei piatti: pane muffito, cotica di lardo, pezzi di candela e salsicce in­ tere. Il re dei topi dichiara che sposerà la topolina che gli porterà la ricetta della minestra allo spiedo. Tre topoline attraversano tutto il mondo per scoprire questa ricetta. Nel giorno dell’incontro riferiscono della loro missione. Dal suo soggiorno presso gli elfi delle foreste nordiche, una ha porta­ to delle violette magiche e doni incantevoli; da una qualche altra parte del mondo la seconda ha portato la saggezza mate­ matica delle formiche; un’altra ha frequentato le prigioni, ha imparato che l’espressione « minestra allo spiedo » è l’equiva­ lente di « assolutamente niente », e una vecchia civetta le ha insegnato che solo la verità ha importanza. Una quarta, più scaltra, è restata tranquillamente a casa. E la sua fantasia che le ha dettato la ricetta della minestra allo spiedo. Ordi­ na con un’aria baldanzosa che si metta a bollire dell’acqua in un grande caldaio. L’essenziale della ricetta è che lo stesso re deve immergere per tre volte la coda nell’acqua bollente. Spaventato, il re dichiara che è certamente questa la vera ri­ cetta, ma che verrà provata più tardi. Per le sue nozze d’oro. E sposa la topolina. Un giorno, un amico di mio padre, con pretese intellettua­ li. gli chiese se non ci fosse qualche pericolo nel lasciar cre­ dere a un bambino che i topi parlano. Renoir guardò l’uomo con uno stupore infinito e gli rispose: « Ma parlano! » Ander­ sen, grazie per averci convinto che i topi parlano. Grazie per averci insegnato il vero realismo, quello in cui gli oggetti e

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    gli animali hanno un'anima. Buon Andersen, dal tuo paradiso dei poeti, tra Shakespeare e La Fontaine, getta uno sguardo benevolo sul nostro povero mondo tormentato dal falso reali­ smo. Aiutaci a ritrovare l’amicizia di un mondo che chiede solo di essere amico. Grande Andersen, insegnaci il vero lin­ guaggio universale. Il miglior modo di onorare Andersen è certamente quello di leggere uno dei suoi racconti. Poiché volevamo partecipare tutti a quest’omaggio, avevamo pensato che avremmo potuto farlo tutti insieme, dandoci il cambio a turno e raccontan­ do ciascuno un pezzo della storia. Ci convincemmo ben pre­ sto che questo modo di procedere non si adattava allo stile di Andersen. Questo autore, prima di essere un autore, è un amico. Si rivolge direttamente al lettore, si siede di fianco a lui in un angolo del camino in cui bruciano i resti di un albero di Natale e il racconto viene de! tutto spontanea­ mente. Un racconto che non è mai raccontato ma sussurrato come la confidenza di un amico. Aggiungo che le confidenze di Andersen sono quelle di un giovane forse maturato dal­ l’esperienza, ma il cui atteggiamento nei confronti delle don­ ne e dell’amore è rimasto purissimo. Non penso che un’at­ trice possa leggere Andersen in modo altrettanto convincente di quello di un attore. Un grande poeta vive nel mondo che ha inventato. Dico di più: trasforma il mondo e lo popola dei prodotti della sua immaginazione. Oscar Wilde sosteneva che, prima di Turner, la nebbia a Londra non esisteva. Sono convinto che Wilde aveva completamente ragione.

    Dudley Nichols * Quando ero piccolo, sognavo di poter vedere un cavaliere in carne e ossa. L’avrei voluto vestito con la sua armatura, ma a capo scoperto, per godere l’espressione del suo viso re­ golare, di una bellezza virile. Un paggio avrebbe portato l’el­ mo, un altro la spada. Avevo scelto per il nostro incontro un piccolo boschetto sulle rive della Cagne. Le giovani querce aggrappate alla roccia giallo-ocra e la ripida mulattiera for­ mavano un quadro degno del Baiardo. Gli anni passarono. Due guerre mi fecero conoscere molti compagni leali e coraggiosi, senza macchia e senza paura, ma non il cavaliere della mia infanzia. Mancava il fìsico. Oppure Testo datato 1955.

    203 sentivo che, deposto il loro eroismo, dopo l’armistizio, avreb­ bero ripreso il posto paterno dietro un bancone. Oppure era­ no trovatori, in lotta contro le truppe imperiali a colpi di poesie, di accostamenti di colori, di trovate argute; non a colpi di spada. Avevo quasi rinunciato quando, una sera di primavera, a Hollywood, in una banale camera d’albergo, il mio sogno si realizzò. Baiardo era lì. 11 letto a trapunta, l’armadio di stile messicano, le tende di fattura rustica sfumavano nella neb­ bia. Il boschetto sulle rive della Cagne si precisava. Era lì, molto nobile sotto un cielo provenzale. E Dudley Nichols, sorridendo, mi porgeva la mano.

    Albert Lewin * Ci sono artisti inconsci e altri perfettamente coscienti. 1 primi non sono né inferiori né superiori ai secondi. Ma i se­ condi sono indispensabili ai periodi di transizione. Albert Le­ win è indispensabile alla nostra epoca. Sa che l’epoca del poeta delirante e che sputa il suo « io » in faccia a un mondo disprezzato è finita. Sa che il vanilo­ quio romantico suona falso. Sa che il nazionalismo di Lutero, di Gutenberg e di Giovanna d’Arco non corrisponde più alla realtà geografica. Sa che i drappeggi del Bernini e i mu­ scoli di Michelangelo non incantano più nessuno. Sa che quel capitolo della storia chiamato « Rinascimento » ha superato la parola « fine ». Sa che abbiamo messo piede in un nuovo Medioevo. Sa che le formule dell’ottocento: Il Cuore In Mano, Un Dramma Ben Costruito, Ridi Pagliaccio, Il Me­ lodramma In Cui Margot Ha Pianto... ci faranno morire di noia... così come la suspense, lo strip-tease, Jenny operaia e la delinquenza minorile. Albert Lewin appartiene al mondo di domani. 1 suoi film sono per i nostri figli. I nostri genitori non possono capirli. I suoi personaggi, usciti dalle leggende eterne, Faust, Dorian Gray, l’Olandese volante, si sono scrollati di dosso la polvere dei negozi di accessori del Boulevard du Crime. Essendo eter­ ni non possono scolorire. La loro pelle ben tesa su un'ossa­ tura più volte millenaria non presenta alcuna traccia di ru­ ghe. All’appello di Albert Lewin, sono accorsi. Con lo stre­ gone che li ha risvegliati, come il Principe della Bella addorTesto non datato.

    204 meritata nel bosco, chiedono soltanto allo spettatore di avere un po’ di pazienza, il tempo di conoscerli, poi di riconoscerli, poi di conoscere se stesso dietro i tratti di queste marionette viventi.

    La Città degli Angeli * Jessica Ryan è nata a Los Angeles. Si tratta di una rarità. Le poche migliaia di coltivatori di aranceti e di allevatori di vacche che, cento anni fa, circondavano la missione di Nuestra Senora de Los Angeles sono diventati tre milioni di tecni­ ci aeronautici, di operai tessili o di autori cinematografici. Per forza di cose, tra loro gli abitanti originali di Los Angeles si possono contare sulla punta delle dita. Nella seconda metà del XIX secolo un sindaco francese so­ gnò di fare dell'umile agglomerato il punto di partenza di una grande città. Attraverso le piantagioni di limoni e le zone desertiche, tracciò le linee maestre delle future strade e viali, dividendo la futura metropoli in « blocchi »; è in questo mo­ do che il Nuovo Mondo applica i principi urbanistici di Luigi XIV. Ben presto Main Street, Broadway, Spring Street si tro­ varono delimitate da una serie di costruzioni in tavolato, in quello stile « vecchia America » che affascina tanto i francesi. Alcune raggiungevano i quattro o cinque piani. Erano muni­ te di scale metalliche di soccorso. Questo impiego quasi esclu­ sivo del legno nella costruzione spiega l’ampiezza dei disastri storici americani come l’incendio di Chicago. Gli Stati Uniti si convertono solo molto lentamente all’architettura in ce­ mento. Il mattone aveva già guadagnato non poco terreno all’inizio del secolo. Ma i pionieri erano prima di tutto dei boscaioli e dei carpentieri. Il paese era ricoperto di foreste e, quando si voleva costruire una casa, si abbattevano semplicemente alcuni alberi attorno a sé. Ancora adesso il legno ri­ sulta dominante nella costruzione delle case private. Sup­ pongo che sia la scomparsa delle foreste la causa della re­ cente trasformazione del volto dell’America. In questi ultimi anni a Los Angeles molti immobili dalle pesanti colonne do­ riche in legno sono stati abbattuti e rimpiazzati da grattacieli. Conosco ancora un vecchio locale da ballo, una specie di Partenone riveduto e corretto da carpentieri cercatori d’oro, * Testo apparso come introduzione al romanzo di Jessica Ryan. Citò des Anges, Gallimard, Parigi. 1956. e non compreso nell’edizione francese degli Ecrits.

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    ma che fa l’effetto dell’antichità dimenticata. L'America si tra­ sforma e, allo stesso modo di parecchi dei più grandi scrittori americani moderni, Jessica Ryan è prima di tutto il testimone di queste trasformazioni. Lei è perfettamente a suo agio in tutti gli ambienti, in tutti i quartieri di una Los Angeles in stato di parto continuo. Lei -ne sa cogliere meglio di chiun­ que le reazioni segrete. Le prova lei stessa. La sua storia su­ pera, d’altra parte, il quadro di quel sobborgo di Los Angeles chiamato Hollywood. La sua descrizione potrebbe applicarsi a tutta l’America, a eccezione forse di certe località della Nuova Inghilterra e del Sud ove le persone sembrano volersi aggrappare al passato e si rifiutano di entrare nel tourbillon. A parte queste eccezioni, gli Stati Uniti sono alla ricerca ap­ passionata di un’unità culturale che auguro loro di non tro­ vare mai. Questa mescolanza di costumi e di accenti, questa resistenza dei raggruppamenti nazionali e religiosi alla norma comune che va di pari passo con il culto entusiasta della Co­ munità, le tendenze contraddittorie che agitano questo im­ menso club di europei scontenti sono un segno di vita. In Francia conosciamo questo trattamento per ringiovanire e lo pratichiamo da circa duemila anni, spesso costretti e forzati dalle Grandi Invasioni. L’argomento della Cité des Anges, come indicato dal suo stesso titolo, è Los Angeles. Ma Jessica Ryan tratta soprattut­ to dell’ambiente ove le circostanze e le sue aspirazioni l’han­ no posta. Il suo primo mestiere nella vita è stato quello d'at­ trice e suo marito, Robert Ryan. è un grande attore del cine­ ma. Ella appartiene dunque al mondo hollywoodiano. Ma né lei né Robert Ryan si sono mai lasciati naturalizzare. Abi­ tano fuori città, in una casa ove i loro bambini dettano legge, e da dove possono osservare i flussi del mondo cinematogra­ fico senza essere trascinati dalla corrente. Jessica Ryan, fin dalle prime pagine del suo libro, vi pren­ derà per mano e vi condurrà nelle ricche dimore di Beverly Hills. Vi aprirà anche le porte delle sconfortanti pensioni fa­ miliari ove si rifugiano i vecchi attori che non servono più o i giovani che non servono ancora; con lei vi siederete alla ta­ vola di un modesto ristorante o assisterete a un party dei grandi del mestiere. Ella ha il dono di mettere il lettore a proprio agio. Dopo alcune pagine i poveri e i ricchi di que­ sta sbalorditiva città vi risulteranno familiari. Essi vi svele­ ranno senza pudore il nome della malattia che li tormenta: la speranza. Per l’attore, la speranza di interpretare una grande parte; per la comparsa, la speranza di dire due pa­ role in un film; per altri, la speranza di scrivere una sceneg­

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    giatura, di fare una regia. Per chi ha già in mano un con^ tratto, il successo. Per chi è già famoso, la speranza di unaj fama ancora maggiore. E per chi è veramente arrivato all’a-4 pice, la speranza di restarci. L’autrice della Cité des Anges $ dotata di un grande senso critico, ma anche di un singolari dono di persuasione. Jessica Ryan rischia di convertire moltr indifferenti a questa nuova religione: il cinema. Questa re-' ligione è temibile. In quarantanni ha già accumulato non; pochi martiri, apostoli, sfruttatori, e anche qualche santo^ 11 libro di Jessica Ryan ci fa anche toccare con mano il; grande pericolo che minaccia Hollywood: l'isolamento. Que­ sto sobborgo, o meglio questo ambiente, possiede una reale, capacità di assorbimento. Ben presto il nuovo venuto si rin­ chiude in questo piccolo mondo, limitando la sua attività in­ tellettuale alla digestione delle chiacchiere che circolano in­ tomo ai swimmings pools. Se esce da Hollywood, è per re­ carsi in una succursale come Palm Springs. Questa città è si­ tuata a trecento chilometri nel deserto e molte attrici, pro­ duttori o registi vi possiedono una casa. La vita vi scorre se­ guendo gli stessi riti che vigono sul Sunset Boulevard. Que­ sto isolamento è tanto più tragico per il fatto che Hollywood è un fungo appena spuntato dalla terra. Alcune piccole città del Nord-Est si ripiegano su se stesse. Ma sono ancora nutri­ te dalla grande tradizione puritana. Il Sud può ancora trovare una sua ragion d’essere nei suoi ricordi di splendore aristo­ cratico. Hollywood ha soltanto tradizioni recenti. Esse hanno ancora la fragilità dei sogni infantili. Con un po’ di fortuna possono maturare e rinforzarsi. Tutte le persone di talento che sono passate di là hanno dovuto lasciare almeno un’im­ pronta. E fra i membri di questa divorante Comunità ne esi­ stono alcuni il cui disinteresse non è affatto in dubbio. Dai loro sforzi appassionati uscirà forse qualcosa di più forte dell’orpello che frena la maturità del cinema hollywoodiano; si pensa a una giovane talmente sovraccarica di gioielli che fa fatica a muovere le braccia, e la cui crescita risulta ritarda­ ta da questo fatto. Non dimentichiamo che ai suoi esordi, prima di prendere coscienza di se stesso, il cinema di Holly­ wood è stato il migliore del mondo. E contro questo successo prematuro che bisogna lottare. Frantoi se Sagan, nonna, avrà bisogno di molta energia per restare una grande scrittrice. Parliamo adesso delle origini di Jessica Ryan. Questo pro­ blema è molto importante in America. Sentirete raramente un americano dichiarare: « Sono americano ». Dirà che è greco, francese, russo ortodosso, anche quando la sua famiglia si è stabilita da diverse generazioni negli Stati Uniti. Jessica Ryan

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    dice: « Io sono americana ». Ella ha fatto questa dichiarazio­ ne di fede nel suo paese natale attraverso un personaggio da romanzo poliziesco. Un cop di San Francisco che dichiara di non essere né irlandese, né scozzese, ma più semplicemente americano. Rendiamo omaggio al sentimento di uguaglianza di Jessica Ryan. Di vecchia razza americana, ci tiene a pro­ clamare che il negro appena uscito da una piantagione del Mississippi o l’ebreo polacco appena sbarcato sono suoi simili. Jessica Ryan è d’origine quacchera. La famiglia Cadwalader emigrò in Pennsylvania prima della Rivoluzione. Da parte di sua madre, tra gli Cheyney ci sono anche dei quaccheri. Dei quaccheri noi conosciamo soprattutto gli organismi caritate­ voli, _alcuni dei quali operano in Europa. Come autore di film, sono stato sempre affascinato dalla storia del più illu­ stre fra essi, William Penn, quel gentiluomo che rifiutava di salutare il re 'd’Inghilterra perché un uomo libero deve scoprirsi solo davanti a Dio. Egli ottenne di fondare uno sta­ to quacchero in terra americana. La corona pose una sola condizione a tale fondazione e cioè che William Penn ne de­ limitasse personalmente la frontiera con un percorso a piedi, il cui tempo di svolgimento era limitato a una settimana. A Londra si pensava che la fatica gli avrebbe permesso di in­ cludere soltanto una superfìcie irrilevante. Tale astuzia fu sventata grazie alla devozione degli indiani, che stabilirono delle postazioni lungo tutto il territorio della futura Pennsyl­ vania. Sostenuto da due robusti corridori che si davano con­ tinuamente il cambio, William Penn marciò notte e giorno, per tutta una settimana, a velocità straordinaria e fece della Pennsylvania uno dei grandi stati dell’America. I quaccheri del XX secolo sono, allo stesso tempo, buoni commercianti e idealisti. Nel corso dell’ultima guerra hanno fornito un numero considerevole di obiettori di coscienza e restano pronti ad abbracciare le cause più liberali a condi­ zione che non siano sanguinose. Il punto di vista di Jessica Ryan su Hollywood è quello di una quacchera. Ammette tutte le follie, non biasima nessuno, ma si mette al riparo dalle conseguenze. Un tratto che mi affascina nella genealogia di Jessica è il luogo di nascita di sua madre: Tombstone, Arizona. Tombsto­ ne fu all’inizio uno dei luoghi illustri della corsa all’oro. Una volta esaurito il prezioso metallo, vi si trovò del rame. Il nonno di Jessica era ingegnere in una miniera. Quando i pionieri si spinsero più lontano verso la California, la città divenne un’importante stazione di cambio all’entrata di uno dei passaggi verso il Far West. Esiste ancora adesso qualche

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    vestigia dell’epoca eroica. Un albergo che ha l'aria d’esseré uscito da una scenografia western. Un teatro, sempre in legno, il cui nome - « La gabbia degli usignoli » - è sintomatico della sentimentalità da sartina dei cercatori d'oro. Qualche fo­ tografia di cantanti francesi da caffè-concerto, flessuose nel lo­ ro armamentario da coquette, è ancora appuntata sui muri dei camerini. Viene mostrato il proscenio da cui un principe russo esiliato abbatté a colpi di rivoltella i suoi rivali disse­ minati nella sala. Vi è anche il piccolo cimitero dove solo una tomba contiene i resti d’un abitante scomparso per mor­ te naturale. £ quella del cuoco cinese. La cucina doveva es­ sere buona. Hollywood, per certi versi, è primitiva quanto la città del nonno di Jessica agli inizi del secolo. A mia parere, la grande qualità della Cité des Anges è quella di far intuire, sotto l’aspetto superficialmente banale di Hollywood, che il grande dramma americano continua a svolgervisi. Dietro le facciate ben tenute, gli alberi ben ta­ gliati, nei salotti con i mobili di buon gusto. l’America conti­ nua a costruirsi. Coloro che hanno vissuto in questo paese sanno che da questo immenso guazzabuglio di pellicola, da queste foreste abbattute, da queste montagne sventrate usci­ rà una forma di pensiero che avrà il suo posto nella storia del Mondo. 11 libro di Jessica è importante perché è una te­ stimonianza chiaroveggente e appassionata di questa gigante­ sca operazione.

    André Bazin, nostra coscienza * Non mi sono ancora ripreso dallo choc causatomi dalla scomparsa di Bazin. E, tuttavia, me lo aspettavo. Ma voglio pensare soprattutto allo smarrimento in cui il cinema fran­ cese verrà lasciato dalla sua assenza. Avevo imparato ad apprezzarlo dopo quest’ultima guerra. Cercavo ansiosamente una definizione comune per i film che ammiravo. Amanti perduti era ancora un’opera della guerra. Tra i prodotti della pace, Il diavolo in corpo. Giochi proibiti, Edoardo e Carolina, Vite vendute e molte altre mi avvince­ vano, ma potevano passare per manifestazioni puramente in­ dividuali. Proprio gli articoli di Bazin mi fecero cogliere il collegamento sottile tra queste opere diverse per stile e ispi­ * Testo apparso su France-Observuteur. n. 446. 20 novembre 1958. la prima parte, e sui Cahiers du Cinéma, n. 91. gennaio 1959. la seconda.

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    razione. Riuscii presto a rendermi conto che non soltanto ave * va saputo tracciare quel filo d'Arianna, ma che, senza di lui, la dispersione sarebbe stata completa. Lo leggevamo tutti con passione e ci faceva toccare con mano i motivi inconsci che ci riunivano. André Bazin, « formulando » i dati del cinema francese, ha contribuito a creare un’arte nazionale. Era la nostra coscienza. Personalmente, mi è accaduto di modificare certi progetti pensando all’atteggiamento di Bazin davanti al prodotto finito. Quando penso alla sua opera, il mio primo impulso non è quello di classificarla sotto il termine « Critica ». L'etichetta che mi viene in mente è « Ispirazione ». Era arrivato a questo risultato non con formule vagamente generose, ma con pro­ cedimenti precisi di analisi. L’espressione « lavoro da certo­ sino » si adatta perfettamente al metodo di Bazin. E da que­ sta rigorosa accumulazione di prove, da questa enumerazione di fatti scrupolosamente controllati, emana un sorprendente calore amichevole. In futuro, quando scriveranno la storia dell’arte francese del Novecento, gli storici, al capitolo ci­ nema, daranno un posto d’onore ad André Bazin, storico egli stesso. Avevamo finito per diventare buoni amici e ci riunivamo di tanto in tanto attorno a una tavola. L’uomo era attraente quanto la sua opera e altrettanto generoso. Le colazioni, me­ ravigliosamente preparate da Madame Bazin, erano per me una festa. I piatti erano sempre deliziosi. André era ghiotto e competente. Quanto a Madame Bazin, sapeva passare con grazia dalla classificazione minuziosa dei documenti alla pre­ parazione di un capolavoro di cucina. Entrambi si ingegna­ vano di far dimenticare ai loro amici che il loro ospite aveva i giorni contati. Lui sapeva che il male che lo divorava era senza rimedio. Lei era arrivata al colmo dell’apprensione e delia stanchezza. Ed entrambi sorridevano, felici di vedere i loro amici felici; non con quel sorriso mascherato che sembra ripetere continuamente: « Guardate come sono coraggioso ». Al contrario, la gioia era vera gioia. Il nostro ultimo incontro fu con Roberto Rossellini. Le bat­ tute sprizzavano, 'fiorivano i paradossi. Il riso di Bazin illu­ minava il suo viso diafano. Attorno a noi, tutto contribuiva a mantenerci in questa atmosfera felice: i piccoli personaggi della lanterna magica, dai colori vividi, appuntati sul muro, gli oggetti d’arte popolare brasiliani o polacchi, la simpatica iguana e il cane scodinzolante. Non dovete pensare a una sorta di bric-à-brac. A casa di Bazin, scrittore francese e ordi­ nato, gli oggetti avevano il loro posto e il loro equilibrio.

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    Non ci si può immaginare Diderot che appende al muro un piatto a caso. Ma quest’ordine non era visibile. In questa casa sembrava che le persone e le cose avessero trovato il loro posto con grande naturalezza. Per un amico di passaggio come me, l’impressione era quella di un’armonia naturale, una sorta di seguito o di prefazione all’opera letteraria del padrone di casa. Questo sorprendente risultato può essere spiegato solo dall’immenso amore di Bazin per tutto ciò che costituisce il mondo in cui viviamo. Piangiamo, colleghi registi, piangiamo chi ci ha cosi ben difeso: perché ci mancherà molto! Un delicato sole invernale tingeva di giallo la vecchia casa che vedevo dalla mia finestra. Che bella sera. André Bazin l’avrebbe amata. L’oro pallido dei raggi luminosi gli avrebbe fatto dimenticare quel famoso « buon freddo secco » che de Musset preferiva chiamare « un buon raffreddore di testa ». Dimentico la sceneggiatura che sto scrivendo e penso a tutte le ore che ho perduto. Si passa la vita a sprecare il tempo, a trascurare una buona occasione, a girare le spalle all’utile per precipitarsi verso l’inutile. André faceva parte della piccolissima schiera delle persone utili. Certo, era molto occupato e malato. Sarebbe stato scon­ veniente abusare della sua instancabile socievolezza. E ora rimpiango di non essere stato sconveniente. La sua presenza mi manca continuamente. Quante domande avrei ancora da fargli, quanti lati oscuri potrebbe chiarire, quante discussio­ ni appassionanti che non ci saranno mai! In uno dei suoi saggi, egli richiama l’attenzione dei lettori sul ruolo secondario che gli scienziati hanno svolto nello svi­ luppo del cinematografo e insiste su tutto quello che dobbia­ mo alle persone rapite o possedute da una fortissima imma­ ginazione. E, leggendolo, pensavo « ai Bazin ». Nel linguag­ gio semplicistico del nostro secolo diremmo « agli artisti », in opposizione agli scienziati. La missione di un artista è quella di precedere il branco. Deve rivelare i sentimenti na­ scosti, spalancare le finestre su paesaggi che, naturalmente, esistono già, ma che noi vedevamo male, occultati com’erano dalla nebbia delle false tradizioni. La funzione dell’artista L di squarciare alcuni dei veli che ricoprono la realtà. Guardo l’ultima chiazza di sole sul tetto della vecchia casa. Mi rivela una sorprendente vegetazione di muschio grigia­ stro. Alcuni piccioni tendono le loro ali agli ultimi bagliori, assumono atteggiamenti rivelatori della loro natura di pie-

    211 cioni. L’ombra avanza. Mi alzo e, sulla punta dei piedi, posso cogliere un ultimo raggio del sole calante. Dimentico la vec­ chia casa e i piccioni. Questa luce li ha cancellati dalla mia mente. Certi registi, i cui lavori André Bazin ha analizzato così scrupolosamente, resteranno nella memoria degli uomini solo perché si leggeranno i loro nomi nei suoi libri. Il loro valore non è in questione. A dire il vero non mi interessa molto. Sono loro riconoscente per aver ispirato un vero poeta, un artista che, con la sua umiltà oggettiva, ha fatto della pro­ pria opera l’espressione commovente della sua generosa perso­ nalità.

    Il berrettino di André Bazin * Più vado avanti con gli anni, più ho l’impressione che le maschere si moltiplichino. Nonostante l’apparente semplicità dei vestiti, mi è difficile incontrare un volto di donna che presenti la sua pelle così com’è. La nostra epoca è il trionfo del trucco. E non soltanto per i volti ma soprattutto e prima di tutto per lo spirito. Il mondo moderno ha fondato le sue basi sul commercio. Bisogna vendere o morire. E la pietra di Sisifo. Dimentichia­ mo l’affermazione di Lavoisier: « In natura niente si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma ». Ci lasciamo convin­ cere che le nostre macchine terrestri riusciranno a chiudere l’anello dell’eternità. E per mantenere il livello delle vendite da cui dipende il nostro pane quotidiano, ci vediamo costretti ad allargare il nostro raggio d’azione. Questa conquista vorrebbe essere pacifica. Ma gli avveni­ menti sfuggono di mano agli uomini. Viviamo in piena vio­ lenza e siamo probabilmente alla vigilia di una violenza an­ cora maggiore. Facciamo di tutto per attuare questa operazione « dolcemente », per vincere tramite la persuasione. Di qui il cancro della nostra società: la pubblicità. Nelle epoche oscure sorgono talvolta uomini - o donne che scelgono come missione quella di aiutare i loro contem­ poranei a ritrovare il senso della realtà. Bazin era uno di questi uomini. Lo amavo perché apparteneva al Medioevo. Provo una vera * Testo datato 18 marzo 1971. apparso come avant-propos al volume di André Bazin, Jean Renoir. Champ Libre. Parigi, 1971. e non com­ preso nell'edizione francese degli Ecrits.

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    passione per il Medioevo. Diffido del Rinascimento. Questo movimento, fondando una società che non poteva che diven­ tare industriale, è responsabile della bomba atomica. La gracile persona di Bazin, consumata dalla malattia, era l'incarnazione della canna pensante di Pascal. Per me era anche l’incarnazione di uno di quei santi della cattedrale di Chartres che ci dispensano l’incantesimo luminoso delle loro vetrate. Avrei voluto visitare Chartres con Bazin. Non ce n’è mai stata l’occasione. Tanto peggio per me. Questo intossicato del cinema era a proprio agio in una cappella romanica così come davanti a uno schermo degli Champs-Elysées. I vestiti su di lui assumevano un aspetto diverso. Avevano la stessa origine di quelli degli altri passanti, ma sulle sue spalle perdevano il loro aspetto contemporaneo. Questo scar­ to nel suo aspetto esteriore non costituiva né una critica, né una rivolta, né soprattutto una presa di posizione artistica. Era involontario. Bazin non si rendeva certamente conto che il suo aspetto esteriore, ancora prima che aprisse bocca, lo collocava nella categoria degli aristocratici. Non dimenticherò mai il suo berrettino. Questo berrettino era il copricapo che si addiceva al debole corpo del riforma­ tore del cinema francese. Bazin non doveva terminare questo libro. La malattia che lo consumava ebbe ragione del suo coraggio. Con un gesto d’amicizia postuma Francois Truffaut affrontò l’impresa di colmare le lacune lasciate dalla scomparsa dell'uomo che ve­ nerava. Altri amici hanno dato il loro aiuto per mettere as­ sieme i documenti. I loro nomi sono quelli che. a mio pa­ rere, contano davvero nella storia del cinema. Darei prova di falsa modestia se non proclamassi apertamente la mia emozione riconoscente. Non so se merito questo onore, ma mi affretto ad assaporarlo e senza alcun ritegno. Questo istan­ te è un bel dono di Bazin. Non è il primo né l'ultimo. I grandi uomini non muoiono. AI pensiero che Bazin mi ha dedicato questo libro e che i suoi discepoli più cari hanno assunto l’impegno di terminar­ lo, mi lascio andare a una dolce fierezza. 11 mio sentimento è quello di un uomo cui una persona che egli ammira ha ap­ pena dato una stretta di mano.

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    Arrivederci Jacques * Le catastrofi ci danno il senso dell’avanzare del tempo. Gli uomini della mia generazione distinguono gli anni facendo riferimento a guerre, inondazioni, grandi incendi. Vi aggiun­ go la scomparsa di persone insostituibili. £ evidente che, per me, il mondo senza Jacques Becker non è veramente più lo stesso. Ci si può avventurare in questo mondo dei cinematografo solo se ci si sente attorniati da complici. Un film somiglia molto a un colpo. £ anche un’esplorazione. A un professioni­ sta non verrebbe mai l’idea di svaligiare da solo la Banque de France, né a un esploratore quella di avventurarsi da solo nella giungla. Non è tanto una questione di pericolo fisico; si tratta piuttosto del fatto che un uomo solo, di fronte a un’im­ presa pericolosa, rischia di farsi prendere dal panico. Jacques sapeva molto bene che ero suo complice e che lui lo era per me. Sapeva che i suoi calembours cinematografici avrebbero provocato in me quella reazione di tranquillo di­ vertimento che procurano gli scherzi in famiglia. Per parte mia, contavo sul suo riso aperto, sul suo riso colto, per sotto­ lineare i miei passaggi più presuntuosi. Sto per presentare a degli studenti americani quella Nuit de carrefour che resta per me una delle manifestazioni più evidenti di questa complicità. Quanti ricordi! Rivedo le no­ stre corse nella notte, in vecchie bagnarole impossibili, a folle andatura. Si trattava di trovare un rotolo di pellicola per Lucien; anche lui se ne è appena andato. Oppure mancava un accessorio indispensabile al ruolo di Gehret; anche lui... Mio fratello Pierre era emigrato dal regno di Jouvet ed era diventato nostro complice. Quando la pioggia ci inzuppava al punto da paralizzare i nostri movimenti, o la stanchezza ci faceva trascinare le gambe, tornavamo nella casa dell’in­ crocio. Ti ricordi che dovevamo la sua scoperta a una fo­ ratura? I pneumatici giocano un grande ruolo nel romanzo di Simenon, e quell’incidente ci era sembrato un segno del de­ stino. Nella casa dell'incrocio vivevamo deliziose ore d’intimità. Ci stringevamo attorno alla stufa rovente. I corpi si ammuc­ chiavano su materassi stesi in terra. Una ragazza preparava il vino caldo. Talvolta fumavamo come cavalli dopo una cor­ sa. Improvvisamente ci alzavamo e ci precipitavamo fuori. * Testo apparso sui Cahiers du Cinema, n. 106. aprile I960.

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    Non bisognava riprendere quel piano della strada prima che facesse giorno? Anche mio fratello se ne è andato. Il tempo scorre. Ogni volta che passo per il nostro incrocio, mi rivedo in quella nebbia umida e calda; umida perché non smetteva mai di piovere, ma calda della nostra passione per questo mestiere che sognavamo di strappare di mano ai trafficanti. Jacques, mio vecchio complice, è andata male! £ andata male, ma eravamo noi ad avere ragione. Dillo a mio fratello e agli amici che hai ritrovato. Mostra loro le montagne di pellicola delle grandi produzioni di cui non resta che un mucchietto di nitrato d’argento. E, di fronte a queste merita­ te esecuzioni, alcune immagini scelte dal destino. A volte, in futuro, queste immagini faranno nascere un sorriso di compiacimento sulle labbra di una giovane coppia perdutasi in una cineteca: « Non male, questo film... chi è l’autore? » « C’è dunque un autore?... » « Ma sì, il suo nome è Jacques Becker. »

    Ancora su Jacques Becker * In Occidente l’amicizia esiste ancora a un altissimo livello, ma non ha alcun rapporto con l’amicizia orientale; tanto che sono tentato di attribuire a quest’ultima un nome diverso. Vorrei chiamarla amore, ma sono trattenuto dalle implicazio­ ni sessuali di cui gli uomini del nostro tempo hanno sovrac­ caricato questa parola. Non si può dire « amo un uomo » senza notare subito un leggero stupore negli occhi dell’inter­ locutore. Nel suo intimo si chiede se non si tratti di una fac­ cenda da pederasti. E soltanto riferita a un padre o a un fratello che questa espressione ha qualche possibilità di recu­ perare la sua limpidezza primitiva. In India si vedono abi­ tualmente due amici che camtmnano per strada tenendosi per mano. Due francesi o due americani si vergognerebbero di questo gesto, pure così bello. I cittadini dei paesi evoluti analizzano tutto, anche l’amicizia. Gli occorrono delle ragio­ ni. Si nutre amicizia per un amico perché è allegro e vi di­ verte oppure perché è profondo e vi fa pensare. Un’amicizia purissima può tuttavia essere basata sul fatto che « l’altro » può farvi dei favori, facilitare la vostra carriera. Nello stato * Testo apparso, col titolo Une amitié, nella monografia di Jean Queval, Jacques Becker, Seghers, Parigi, 1963, e non compreso nell’edizione francese degli Ecrits.

    215 attuale della nostra civiltà ogni gesto deve rendere. Un’amici­ zia deve arricchire, tale arricchimento potendo essere di or­ dine spirituale e perfettamente nobile. In India o in Egitto, in Persia o in Marocco la base dell’amicizia è più profonda: si ha voglia di stare insieme, ecco tutto. Essere amici consi­ ste nel vedersi sempre, per niente. Neanche per avere noti­ zie. Ci si siede per terra in un angolo della casa dell’« altro » e ci si riscalda ai raggi che emanano dal suo atman. Non si dice nulla, non si fa nulla, si è là ed è questo che importa, si sta là come un cane sta al fianco del suo padrone, e questa vicinanza è insieme il mezzo e lo scopo. Mi sono chiesto spesso perché amassi tanto Jacques Becker e perché mi amasse tanto. L’amore del cinema? Conosco e ho conosciuto cento compagni pronti a sacrificare tutto al ci­ nema ma che non ho la minima voglia di frequentare. Ora Jacques e io vivevamo assieme come un figlio con suo padre, forse anche come un fratello con un fratello dal momento che dimenticavamo la nostra differenza d’età. Capitava che i nostri modi di lavarci, di raderci, di russare o di dormire silenziosamente, di mangiare troppo salame all’aglio la matti­ na, di fumare sigarette peraltro diverse, di tener conto dei fatti, e soprattutto dei fatti concernenti i sensi, rientravano facilmente nella stessa scatola, si ammucchiavano gli uni ac­ canto agli altri senza darsi fastidio. Gii elementi della no­ stra vita e del nostro lavoro si compenetravano, si completa­ vano come i pezzi di un facile gioco di costruzioni. Natural­ mente avevamo entusiasmi comuni. Ne avevamo per certi film o certi dischi: Femmine folli di Stroheim o il primo Tiger Rag dei Mound City Blue Birds. Aveva portato questo disco dall’America. Amava tanto il jazz che si era impiegato nella compagnia dei transatlantici per poter andare a New York e incontrarvi i primi - e più grandi - musicisti di jazz. Aveva conosciuto Duke Ellington allora giovanissimo, Red Nichols e Armstrong in un’epoca in cui gli americani non li conosce­ vano. Tutti credevano ancora che il jazz fosse musica da operetta un po’ dissonante e molto più ritmica. Anch’io lo credevo. Jacques mi fece intravedere gli orizzonti infiniti del vero jazz, ancora incompreso. Jacques sapeva che questa rivoluzione era altrettanto importante dell’introduzione della scala tonale nella musica occidentale. Sapeva anche che i borghesi stavano per impadronirsi di questa musica, e ren­ derla commerciale e volgare. Prevedeva il trionfo di Gershwin e dei fautori del musical. Fu Renée Cézanne che mi fece conoscere Jacques. Accadde a Mariotte, alla Nicotière, la proprietà dei nostri amici. Fu

    216 una cosa fulminea. Tutti e due lasciammo la compagnia — e Dio solo sa se amavamo Paul e Renée Cézanne — e ce ne an­ dammo a caso, sempre dritti, nella foresta. Alcune centinaia di metri in silenzio, per studiarci, e improvvisamente comin­ ciammo a sgranare il rosario delle nostre preferenze cinemato­ grafiche. Ci entusiasmavamo insieme al ricordo del tale salto di Fairbanks, dei tal sorriso di Mary Pickford, del tal gesto di Chaplin, interrompendoci a vicenda, c ognuno terminava l’affermazione cominciata dall’altro, in poche parole, parlan­ do lo stesso linguaggio perché eravamo « dello stesso sangue io e lui ». Ben presto arrivammo all’essenziale: i piccoli di­ fetti dei nostri idoli. Il fatto che Mary Pickford avesse « il culo basso » ci turbava. I nostri incontri divennero frequenti. Jacques prestava servizio nella cavalleria. Ero stato anch’io cavaliere quindici anni prima di lui. Questa coincidenza fornì un nuovo sup­ porto alle nostre considerazioni, una nuova base di valuta­ zione delle nostre esistenze. Montare corto o lungo, usare la briglia o il morso, stringere il barbazzale o lasciarlo allenta­ to, la piegatura della coperta e la cinghiatura, la strigliatura con 4a spazzola e la lucidatura degli zoccoli dei cavalli rivela­ no più segreti delle ipotesi astratte dall’apparenza filosofica. Un giorno mentre guardavamo i piccioni sporcare il muro intonacato di fresco della casa vicina c ringraziavamo la provvidenza che attenuava così gli effetti del cattivo gusto degli uomini, Jacques mi citò una frase che accolsi d’un fiato, come una vecchia conoscenza. Il suo autore era il nostro autore preferito: Alexandre Dumas padre. La mette in bocca a un lanzichenecco svizzero dei Tre moschettieri durante l’assedio di La Rochelle. Eccola: « Grasso d'oco è molto puono per le gonfiature ». Questa citazione doveva diventare la nostra formula magica. Quando ci trovavamo di fronte a una difficoltà apparentemente insormontabile, un problema di sceneggiatura, di recitazione o tecnico, uno di noi due la sussurrava all’orecchio dell’altro, e tutto si aggiustava. Per anni ci siamo ripetuti le parole del lanzichenecco. Hanno espresso le nostre gioie, le nostre delusioni, i nostri amori, i nostri entusiasmi, la nostra salute e la nostra stanchezza. Poi arrivammo a un punto tale che il nostro sentimento provava piacere a esprimersi nel silenzio. Restavamo lunghe ore senza dire nulla. Eravamo molto felici. Ringrazio il cielo che ci permise di arrivare a questo stadio. La felicità spirituale può sottrarsi alle leggi del tempo. E ora. chiudendo gli occhi, posso immaginare che Jacques è vicino a me e che giochiamo ancora una volta a lasciarci trascinare in un muto fantasticare.

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    Su « Lo schermo in profondità » di G rigorij Kozincev * Non posso che sottoscrivere le conclusioni di Grigorij Kozincev nel suo articolo Lo schermo in profondità. Le po­ che riflessioni che il suo studio mi suggerisce sono giustificate solo dalla diversità delle nostre personalità. Non sono altro che la traduzione delle stesse certezze, o degli stessi dubbi, in un linguaggio diverso. Per linguaggio non intendo il russo o il francese, sebbene anche il fatto di esprimersi nell’una o nell’altra di queste due lingue abbia la sua importanza. In­ tendo piuttosto il colore della pelle, il cibo che abitualmente mangiamo, l’età, il tipo di studi che ha formato la nostra in­ fanzia, gli agi o i disagi, la povertà o la ricchezza, la salute o la malattia. In altre parole non posso che ripetere, serven­ domi del vocabolario Jean Renoir, quello che Kozincev ha detto così giustamente con le proprie parole: conta soltanto l’ispirazione dell’artista e la tecnica non è che uno strumento di questa ispirazione. Sono più che d’accordo, ma l'enunciazione di questa verità fondamentale mi porta ad alcune domande senza importanza. Per esempio, chi è esattamente l’artista la cui ispirazione è fondamentale per l’elaborazione e la messa a punto dell’opera d’arte? Per la maggior parte degli appassionati di cinema è il re­ gista, e questo è vero nell’80% dei casi. Ma so di film in cui il regista è stato soltanto una sorta di capomastro e in cui l’architetto è stato in realtà l’autore della sceneggiatura. So­ stengo anche che, in diverse circostanze, il valore di un libro, da cui il film era stato tratto, era la ragione stessa del valore dell’opera finale. Penso agli insuccessi di alcuni registi priva­ ti della collaborazione di un buon sceneggiatore. E quanti sce­ neggiatori si rivelano impotenti, privati dell'ispirazione di un grande libro. Numerose conversazioni con alcuni artigiani dei primi film muti americani mi autorizzano anche ad affermare che, per alcune di queste produzioni, a condurre il gioco era stato l’attore principale. Sappiamo anche che grandi successi del cinema sono stati opera di un gruppo, di una collettività, ed è impossibile isolare la personalità di un autore particolare. Nella maggior parte dei casi, l’influenza delle équipe tecni­ che, artistiche e operaie gioca un grande ruolo. Solo alcuni Testo non datato.

    218 registi dal cervello superbamente organizzato riescono a sfuggire all'influenza dei loro compagni di lavoro. Non credo che Kozincev approvi questo splendido isolamento, e condivi­ do la sua tendenza a trarre l’essenziale del nostro nutrimen­ to dalla mescolanza fraterna con gli altri uomini. E ha com­ pletamente ragione di ritenere che al punto in cui siamo ar­ rivati il vero autore di un film deve essere il regista. Insisto però su una condizione, e cioè che questo regista scelga il suo soggetto, scriva la sceneggiatura e i dialoghi, di­ riga gii attori, collabori strettamente al montaggio. La storia originale può non essere sua. 11 soggetto è secondario nel­ l’elaborazione dell’opera d’arte. E un pretesto indispensabile, ma niente di più. In ogni caso non è la sua inventiva che de­ termina il riconoscimento della qualità d’autore. A nessuno viene in mente di contestare la paternità di Giulietta e Ro­ meo a Shakespeare, e si dimentica che tale soggetto era stato trattato prima del grande drammaturgo da numerosi autori italiani. Dunque, ammettiamo che il regista, autore della sceneggia­ tura, direttore degli attori, supervisore delle scenografie e del montaggio è l’autore del film. O piuttosto che il cinema dovrebbe tendere a questa formula. Perché questo concentra­ mento di funzioni nelle mani di un solo individuo? Ciò avviene, a mio modesto parere, perché la nostra epoca lo richiede. Il nostro secolo è quello dei grandi agglomerati. Le città si sono sviluppate in proporzioni enormi. Gli uomini vivono sempre più insieme. Il loro lavoro li riunisce a migliaia nelle fabbriche, a centinaia negli uffici. Il telefono e i mezzi di comunicazione li tengono in legame costante con altri uomini. I loro divertimenti si praticano in massa. Gli stadi sportivi che contengono più di ventimila spettatori non sono rari. E quelli che vogliono seguire il gioco per mezzo della televisione sono separati da quella folla solo dalla distanza. Condividono tutte le emozioni degli spettatori diretti. I mezzi materiali di evasione come l’automobile sono soltanto illu­ sori. Per convincersene, basta pensare alle file di vetture che imbottigliano te grandi strade a ogni ritorno dalle vacanze. Anche la piccola casa di periferia offre solo un isolamento relativo. Il suo proprietario dipende da alcuni altri uomini che gli portano l’acqua, il gas, l'elettricità, il mangiare, e, sempre per mezzo della televisione, gli svaghi e la cultura. Tutto ciò mi sembra più che giusto. L’uomo non è fatto per vivere da solo, ma è normale che, in un tempo in cui la folla è sovrana, si senta attratto dalle manifestazioni più in­ dividuali. Il rosso ci arresta agli incroci e il verde ci fa ri­

    219 partire. E normale che ci entusiasmiamo per colui o per colei che sembra aver trovato il mezzo di sfuggire alle regole della circolazione. Di qui il successo delle « confessioni ». Sempre di più, i successi letterari o artistici sono basati sulla confessione. Che accade nella mente di quella signora che incontro tutte le mattine nell’ascensore, e che sembra essere soltanto un nu­ mero tra migliaia di impiegati che si recano al lavoro? E quel guidatore di tram, al di fuori del fatto di essere un buon lavoratore, un padre affettuoso e uno sposo innamorato, non ha nessuna preoccupazione? Non si pone delle domande? Riusciamo a interessarci a un’opera d’arte solo se è una con­ fidenza e anzi una confidenza che va al di là delle indiscre­ zioni abituali delle conversazioni consentite. L’autore che vuole accattivarsi il suo pubblico può farlo solo attraverso un’accurata introspezione e una rivelazione senza menzogne del risultato di questa ricerca. Ora, l’introspezione non si pra­ tica in gruppo. E un’operazione individuale. L’arte collettiva ignora la psicologia. Tanto meglio per essa, ma dobbiamo ammettere che non siamo più nell’epoca delle cattedrali. L’uo­ mo del XX secolo, perduto nel fraterno anonimato della folla, spia con ansia l’egoistico balbettio dell’individuo. Ci vorreb­ be una nuova catastrofe, di cui la sola idèa mi fa inorri­ dire, per provocare di nuovo i grandi slanci di altruismo che hanno così generosamente ripulito i nostri schermi. Come dice Kozincev, l’impiego di una maschera senza rughe non dà la giovinezza. Dovremo dunque accettare lo stile determinato dalle condizioni dell’umanità a noi contemporanea e guar­ dare in noi stessi col microscopio impietoso delle coscienze inquiete.

    Amo Georges Simenon perché è ricco... * Amo Georges Simenon perché è ricco. Non se ne vanta, ma la cosa è lampante. 1 suoi tesori sono inesauribili. Forse è anche ricco economicamente. Se questo è vero, si tratta della sua ricchezza minore. Conosco diversi milionari. Sono poveri. Mi fanno pietà. Mi viene voglia di dar loro una fetta di pane spalmata di lardo: del pane di vero grano macinato da ma­ cine di vero granito; e il lardo sarebbe il grasso di un porcel­ * Testo datato 1961. apparso come contributo nell'opera di Bernard de Fallois, Simenon, Gallimard. Parigi, 1961. e non compreso nell’edi­ zione francese degli Ecrits.

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    lino che ha corso libero sulla montagna e si è nutrito di ca­ stagne. Offrirei così del vero lusso ai miei milionari. Li libe­ rerei per un attimo dai maitre d’hotel diabetici e dalle galli­ ne il cui alito sa di dentifricio. Canterei per loro Un oiseau à la volette. £ una triste storia, che termina con la morte del­ l’uccello. 11 povero milionario piangerebbe e anche il maitre d’hotel e le galline. Simenon non piangerebbe. Prima di tutto perché sarebbe lui a raccontare la storia e non io. Ancora una volta sarebbe lui a dare e gli altri a ricevere. E piangendo con discrezione, essi direbbero: « Va bene così. Non gli costa niente. E talmente ricco! » Gli costerebbe soltanto l’anima, evidentemente. Gli altri, dietro il velo delle loro lacrime com­ piaciute, non si accorgerebbero che l’uccello è lui. E lui a morire in un « bel giardino », uccello coraggioso che non commisera se stesso. Nemmeno la più piccola lacrima. Lo con­ sidererebbe di cattivo gusto. Perché, tra le sue ricchezze, Si­ menon annovera anche il gusto. Credo di essere sul punto di toccare il segreto dell’inesauribile ricchezza di Simenon: l’uc­ cello è lui! Soltanto, poiché possiede anche il pudore, non lo dice. E lui il condannato a morte. E lui il commissario Mai­ gret. Ne ha fumate di pipe prima di arrivare a questa meta­ morfosi. E lui la spietata ragazzina fiamminga. E lui la vec­ chia signorina inacidita di provincia. E lui il borghese che prepara la propria evasione con ostinata ipocrisia. E lui l’uomo e anche la donna del nostro secolo che preferiscono l’avventura omicida alla noia. Egli non propone alcun rimedio a questa noia. E consape­ vole di aderire strettamente alla nostra società come il vi­ schio alla quercia e al pero. Se la quercia e il pero vogliono smettere di tormentarsi, devono tagliare essi stessi il vischio. Simenon non è un medico; non propone delle pillole. Non gioca a fare il filosofo, e non si arrampica sulla balaustra di un balcone per veder meglio le formiche contorcersi in basso nel formicaio cosparso di petrolio. E, nonostante la purezza del suo stile, non ci si inganni: non è un letterato, non più di quanto Van Gogh sia un pittore. E una delle formiche co­ sparse di petrolio, una formica cosciente che riesce a fare nostra la sua piccola storia. Non è il prete che dà l’assolu­ zione. E il peccatore che si batte la fronte sul banco del con­ fessionale. Un confessionale assai ben frequentato. Non vi ha libero accesso chiunque. In questo confessionale, Dostoevskij ha tirato fuori tutto quel che aveva in corpo. Vi si incontra anche la cantante che si abbandona interamente e a gola spiegata al do di petto. E, naturalmente, l’innamorato che si sente venir meno nella stretta della sua amata. Vi si incon-

    221 trano i pochi eletti per i quali la confessione va al di là della febbrile ammissione delle colpe, per i quali essa è offerta e oblio di se stessi. Come confessore, Simenon ha scelto il pubblico. Egli ha in questo confessore una fiducia che dà conforto. E quest’ultimo lo ricambia abbondantemente. Pen­ sate un po' alla fortuna di avere un penitente che è diverso a ogni confessione. L'innamorato è monotono. E sempre la stessa storia. Il penitente normale ha da offrire soltanto la sua persona. Simenon a ogni confessione concede al pubblico un altro se stesso. E talmente ricco! Simenon arriva al punto di modellare la sua vita privata su quella dei suoi futuri eroi. Nato in Belgio, divenne un parigi­ no di Place des Vosges, calato nella tradizione del Marais, poi un marinaio che viveva sul suo sgangherato battello, af­ frontando caparbiamente le tempeste dei mari del Nord, tra­ scinandosi nelle bettole dei porti tedeschi o fiamminghi. Un’al­ tra metamorfosi ne fa un rancher in Arizona. Lo rivedo an­ cora sulla strada di Nogales. Il suo modo di camminare, la sua reazione, il suo pensiero erano quelli di un uomo del West. Si trovava a suo agio in mezzo a cow-boy messicani, serpenti a sonagli e mandrie di vacche selvagge. Prima lo avevo frequentato nella sua qualità di castellano del Boccage vandeano. Più recentemente gli ho fatto visita nella sua resi­ denza della Nuova Inghilterra. L’Arizona era lontana. La vecchia casa in legno, che risaliva a) periodo degli olandesi, si elevava sul bordo di un piccolo lago. Gli aceri cominciava­ no a diventar rossi. Le anatre selvatiche si nascondevano die­ tro i roseti. Mi sentivo veramente a casa di un discendente dei primi coloni, quelli che sbarcarono a Plymouth Rock, quelli ai quali il Signore inviò dei tacchini selvatici proprio nel momento preciso in cui stavano per morire di fame, quelli che avevano fatto bollire la cuccuma della Boston Tea Party, che si erano scrollati di dosso la tutela dell’Inghilterra e ave­ vano bruciato delle streghe, senza abbandonare i loro abiti austeri né ampliare i loro gesti misurati. Simenon era il capo­ tavola della famiglia, sotto le grosse travi che si potevano toccare alzando la mano, circondato dalla stima degli abitan­ ti della piccola città uscita da un quadro di Grandma Moses, veramente uno di loro. Un altro che non fosse Simenon non avrebbe resistito a questo gioco. I travestimenti successivi avrebbero logorato il suo candore. Il camaleonte, per quanto ne so, non ha mai scritto grandi storie. Proprio perché la trasformazione resta a fior di pelle. In Simenon è totale. Non si tratta di un tra­ vestimento ma di una transmutazione. Simenon è il contrario

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    di un furbo. Non sa truccarsi. Possiede la preziosa innocenza dei creatori. Gli altri si modificano seguendo dei modelli, sia inferiori, sia divenuti banali a forza di essere usati. I modelli di Simenon non possono essere usati. Sono nuovi e innocen­ ti come dei neonati, dal momento che sono le sue stesse crea­ ture. Grazie a esse il loro padre può permettersi il lusso di essere uno degli ultimi classici. Può proclamare, insieme a quelli del gran secolo, « l’io è odioso ». Non è lui che si con­ fessa ma dei personaggi ai quali ha dato la vita, dei perso­ naggi che, forse a sua insaputa, reagiscono con le sue viscere, i suoi nervi, il suo spirito, il suo cuore. Questi personaggi continuano a popolare il mondo. Ci arrivano addosso e ci ammaliano. Li amiamo. Non possiamo fare a meno di loro. E quando l'ultimo scompare dalla nostra mente, Simenon ce ne invia un'altro, inatteso, più patetico, più sconvolgente, più attraente, per quanto possibile, dei precedenti. Sappia­ mo adesso quello che gii costa. Ma può permettersi questo spreco insensato. E talmente ricco!

    Brunius * La prima volta che ho visto Brunius, fu quando preparavo il mio primo film sonoro: La purga al pupo, da Feydeau: il mio assistente in questa impresa era Pierre Prévert. Brunius era un amico intimo di Pierre e Jacques Prévert. ed è attraverso loro che l’ho conosciuto. È venuto molto spesso allo studio durante la lavorazione de La purga al pupo, e ab­ biamo fatto amicizia. Più tardi l’ho avuto come collaboratore diverse volte. Non soltanto era un meraviglioso regista, pieno di idee fantastiche, ma era anche un meraviglioso assistente, cioè sapeva mettere la sua personalità in secondo piano ed essere al servizio della personalità del regista. In ogni caso è quello che ha fatto con me, soprattutto ne La scampagnata. Ma, per tornare agli inizi, tutto è nato da conversazioni nel vicino caffè, mentre giravo La purga al pupo. Durante La cagna, ho rivisto Brunius molto spesso. Ma, in realtà, i due grandi momenti della collaborazione con lui sono La scampagnata e Le crime de Monsieur Lange. Ero con­ vinto che Brunius fosse un grande attore; lo era. E possibile che il suo talento di attore dipendesse dal fatto che. sebbene professionista, era riuscito a conservare a suo * Testo apparso sul Bulletin du Festival de Tours. 1968.

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    modo un risvolto di improvvisazione, da appassionato, da dilettante; cosa che non era. Si trattava di una maschera af­ fascinante. E poi Brunius faceva parte di quegli artisti che non sono mai soli, che riflettono l’opinione di un gruppo, di un paese, di una compagnia di amici: lui rappresentava gli amici di Prévert, un gruppo di persone avvincenti, in mezzo alle quali Brunius discuteva, non con asprezza, ma un po’ con l’aria di dormire. Gli ho proposto di trasferire questo stile sullo schermo: il risultato è stato quel personaggio vero del Crime de Monsieur Lange, quell’essere che ha l’aria di muoversi come se dormisse, quel sonnambulo; quanto a La scampa­ gnata, abbiamo giocato egualmente sullo stile di Brunius. Aveva un risvolto fiabesco. Come tutti i personaggi dello schermo, era un personaggio da fiaba. Ma era anche un crea­ tore, e un eccellente romanziere. Era, in fin dei conti, una delle ultime incarnazioni di quello che, nel Settecento, si chiamava un « uomo di corte », l'uomo che sa un po’ di tutto, ma non superficialmente, e che può anche avere una conce­ zione generale del mondo. Infatti, a quell’epoca, non c’erano specialisti. Brunius aveva in sé grandi risorse come comico. Faceva sca­ turire molte idee dalla sua pigrizia. La sua fantasia legava as­ sai bene con i surrealisti, perché era una maschera che an­ dava al di là del realismo. Credo che fosse nato surrealista. Il che non gli impediva di ammirare opere che non andavano in questa direzione. E tuttavia credo che non fosse un uomo contraddittorio, ma un uomo equilibrato. Sapeva vedere, in un film, ciò che è essenziale e ciò che non lo è.

    Morte di un professionista * Se fossi architetto e dovessi costruire un palazzo del cine­ ma, metterei sopra l’ingresso di questo edifìcio una statua di Duvivier. Ai nostri giorni si parla molto di tecnica. Duvivier non ne parlava, ma niente di ciò che riguardava la scrittura nel suo lavoro gli era sconosciuto. Secondo me, il posto che occupa nel Parnaso di coloro che hanno creato il cinema, così come lo conosciamo, è paragonabile a quello che occupano in let­ teratura Sully Prud’hommc o (osé Maria de Heredia, con la • Testo apparso su Le Figaro liltéraire. 6 novembre 1967.

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    differenza che questi poeti sono degli anelli di congiunzione della storia del libro, mentre Duvivier è un punto di par­ tenza verso una maniera di raccontare una storia con una macchina da presa che rappresenta in realtà lo stile contem­ poraneo. Questo grande tecnico, rigoroso, era un poeta. I suoi film non si limitano mai all’esposizione del soggetto, ci traspor­ tano in un mondo nello stesso tempo reale e irreale. Questo mondo non è soltanto il prodotto della sua immaginazione, è anche il risultato del suo acuto senso di osservazione. I suoi personaggi sono veri, e tuttavia riescono a essere fantastici. Questo maniaco della precisione era anche un sognatore. Que­ ste due qualità in apparenza contraddittorie si manifestano in maniera sorprendente in Marianne de ma jeunesse. Che film e che confessione! Il Duvivier che i suoi amici conosce­ vano e che il semplice uomo della strada ignorava vi si svela senza maschera. Per la folla, Duvivier era un burbero, imbronciato e bron­ tolone, antipatico. Per i suoi amici era un tenero. La sua te­ nerezza era rivolta anzitutto a quelli che « facevano bene il loro mestiere », ma si estendeva a tutti quelli che potevano aver bisogno di lui. La sua generosità nascosta era immensa e il suo attaccamento verso i suoi amici senza limiti. Credo di conoscere il legame che manteneva il contatto tra il suo amore profondo per « il lavoro ben fatto », il suo dono acuto dell’osservazione obiettiva e le sue aspirazioni per un mondo di sbrigliata poesia: era la musica. Duvivier consacra­ va una parte del suo tempo libero in conversazioni con Beethoven, Bach o Haendel. Amava frequentare questi Mae­ stri. Vi ritrovava senza dubbio gli elementi su cui si ba­ sava per l’ideazione e la realizzazione dei suoi film. Possa la sua influenza durare. Contribuirà a conservare al nostro mestiere la dignità professionale senza la quale non esiste nessuna grande civiltà.

    Luigi Chiarini * Ciò che mi tentava era la personalità del suo animatore, Luigi Chiarini. Lo conoscevo poco e morivo dalla voglia di conoscerlo meglio. I nostri rapporti, molto affabili, erano stati * Testo datato 1968 e relativo alla Mostra di Venezia, che in quel­ l’anno conobbe la contestazione e l'esplosione della propria crisi in­ tema.

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    quelli di persone interessate agli stessi problemi. Non sospet * tavo fino a che punto il Cielo avesse dotato questo poeta-teo­ rico-organizzatore di un curioso genere di coraggio, nello stes­ so tempo delicato e testardo. Nel corso dei nostri incontri ne avrei raccolto numerose prove. Ora, credo di poter capire questo personaggio. Seguiamo lo stesso metodo di vita, consistente nel considerare l’azione come più importante del risultato. Voglio subito dire che i risultati ottenuti da Luigi Chiarini sono notevoli, ma non mi stupirei se pesassero meno nella bilancia delle sue preoccu­ pazioni e delle sue gioie, della lotta insensata che dovette condurre per evitare il naufragio del suo festival. Ha conosciuto certamente angosce lancinanti, notti sen­ za sonno e collere devastatrici, ma ne valeva la pena. Si trat­ tava di provare che il festival di Venezia esisteva veramente e che, se doveva scomparire, non poteva farlo se non lasciando al mondo un messaggio importante. Si trattava, per Chiarini, di dimostrare una volta di più che il cinema indipendente esiste e deve esistere. Il cinema commerciale utilizza mezzi colossali per eserci­ tare l’addomesticamento di questo mezzo di espressione. La sua arma preferita è la corruzione. Non appena un giovane autore ha successo, si vede spalancare le porte dell’industria. Molto presto il nostro innovatore varca quella soglia e si uni­ sce ai ranghi dei servitori del « già visto ». Ben al riparo, può costruire dei film di tutto riposo senza che i suoi padro­ ni debbano temere un mutamento repentino del gusto del pubblico o della critica, il che rischierebbe di far scadere valori acquistati a peso d’oro. Non avevo provato alcuna sorpresa all’annuncio della de­ cisione delle grandi case di boicottare il festival. Dimostra­ rono soltanto che il cinema può benissimo fare a meno del loro apporto. In ogni caso, non cambiarono nulla, per ciò che riguarda l’atteggiamento di Luigi Chiarini. Quelle asten­ sioni fecero anzi il suo gioco lasciandogli più spazio sugli schermi per opere inattese. Quest’ultimo festival doveva costituire una raccolta nello stesso tempo strana e avvincente dei film meno ortodossi. Questa situazione era conforme al destino di Venezia così come Chiarini l'aveva fissato e coronava il suo sogno di aiuta­ re la presentazione di tutto ciò che può sfuggire alle con­ venzioni del cinema industriale. Era la continuazione della sua lotta contro la tendenza di tutti i commercianti del mon­ do a giocare solo a colpo sicuro. Questa fiducia nella sicurez­ za è la base di molti fallimenti. È, in ogni caso, una delle cau­

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    se di quella sorta di accademismo che continua a imperversare a dispetto di un invecchiamento precoce. Mi erano giunte le notizie più contraddittorie sulla situa­ zione del festival. Al mattino i giornali annunciavano la chiu­ sura: notizia smentita la sera stessa. Sono partito aspettan­ domi di piombare nel mezzo di una rivoluzione. La mia cu­ riosità era eccitata. D'altra parte, il mio obiettivo principale era quello di vedere alcuni film, tra cui Teorema di Pasolini. Se le proiezioni avessero dovuto essere sospese, il mio viag­ gio non aveva più senso. Telefonai al consolato italiano dove mi dissero che Chiarini aveva lasciato Venezia. Un’altra telefonata allo stesso consolato mi fece sapere che Chiarini non aveva lasciato Venezia. Decisi di partire. Quello che non riuscivo a stabilire era l’identità dei ne­ mici di Chiarini. Alcuni giornali Io presentavano come vit­ tima di gente di sinistra, altri come una vittima dei fascisti, come se i problemi del cinema potessero dipendere da sorpas­ sate definizioni politiche. La nostra azione è temibile, ma in termini diversi. Coscientemente o no, chi fa del cinema forma lo spirito del secolo. Il che va ben al di là delle dispute di partito. All'aeroporto di Boston ove dovevo prendere l’aereo Alita­ lia, le informazioni che racimolai erano anch’esse contraddit­ torie. Salendo sull'aereo, chiesi a una delle hostess. Molto gentilmente si informò presso le sue colleghe. Le colleghe non sapevano nulla. A Milano, la ragazza mi affidò a una delle sue colleghe che faceva parte dell’equipaggio dell’aereo per Venezia. Costei si interessava alla questione e partì in caccia di informazioni. Tornò per annunciarmi che il cattivo tempo avrebbe ritardato la nostra partenza. Del festival, non una parola. Comprai dei giornali di diverse lingue e vi raccolsi so­ lo notizie più che vaghe. In uno, il festival era in mano ai contestatori. Nell’altro, il Lido era occupato dalla polizia. Tentai di telefonare, ma non riuscii ad avere la comunica­ zione. Improvvisamente, la giovane hostess mi comparve davanti con un giornale in mano. « Si parla del suo amico », disse con un grazioso sorriso, « ma non si sa che cosa farà ». Quella ra­ gazza, inconsciamente, aveva appena provocato in me lo schiu­ dersi del sentimento più importante nella storia dell’umanità, voglio dire l’amicizia. Nel modo in cui aveva detto « il suo amico », legava la mia decisione a quella di Chiarini, che non era nemmeno presente all’incontro. Conoscevo Chiarini per il suo magistero intellettuale, in un campo che è anche il mio. I nostri rapporti non erano mai

    227 andati al di là di una stima reciproca. Si era mostrato molto indulgente verso alcuni dei miei film. Stimavo senza riserve il critico, il professore, le sue capacità di analisi e di orienta * mento. Il piacere che avevamo avuto incontrandoci non ci aveva mai fatto superare la soglia dei rapporti professionali. Quella parola « amico », provocata dall'ansia delle mie do­ mande, stava per passare dallo stato di semplice voce del vo­ cabolario a quello di realtà vivente. Un termine troppo spesso astratto si concretizzava. Tentai di nuovo di mettermi in con­ tatto con il festival per telefono. Dall'altra parte trovai una gentile segretaria che si mostrò molto desiderosa di infor­ marmi. Ahimè, la sua buona volontà era pari solo alla sua mancanza di informazioni. Decisi dunque di continuare il mio viaggio, di prendere informazioni sul posto. Se Luigi Chiarini avesse dovuto cedere agli avvenimenti e dare le dimissioni, avrei preso il primo aereo di ritorno. Augurandomi che le cose si sarebbero sistemate, mi sentivo sommerso da un'ondata di vanità all’idea dell’occasione che mi si presentava di esibir­ mi in un gesto cosiddetto nobile. Quasi subito ebbi vergogna di questo sentimento. Bisognava che Chiarini restasse. Era necessario non soltanto perché egli era indispensabile, era necessario soprattutto perché era « mio amico ». Bisognava che restassi fedele a Chiarini, non soltanto per me stesso, ma anche per non deludere la graziosa hostess di Milano. La cosa più curiosa è che questo nunzio angelico avrebbe sempre ignorato la portata della sua azione. Mentre l'aereo sorvolava le cime nevose delle Alpi, immaginavo di incontrarla in qualche viaggio futuro e di dirle: « Sa, il mio amico Luigi Chiarini, bene, aveva ragione... è veramente mio amico ». L'aereo iniziò ad abbassarsi, si avvicinò a un terreno piat­ to circondato dall’acqua. Chiarini era là. Mi strinse la ma­ no come solo un amico può fare. I giorni che seguirono det­ tero ragione alla giovane hostess.

    Il peccato di Dreyer * Dio ci ha donato il mondo perché noi lo analizzassimo e lo dissezionassimo? E ciò che fa l'uomo moderno. L’esplorazio­ ne dello scienziato si limita ai corpi e agli elementi che li cir­ * Testo apparso in Carl Th. Dreyer, pubblicazione a cura del Mini­ stero degli Esteri. Copenaghen, dicembre 1968.

    228 condano. L'esplorazione dell’artista tende alla conoscenza dell’anima. Se l’artista tenesse per sé i risultati delle sue scoperte, poco male. E invece no, bisogna che li diffonda. Conosciamo i risultati della diffusione della conoscenza della materia da parte degli scienziati. Ci ha portato la bomba atomica. La diffusione della conoscenza dell’uomo da parte degli artisti è più temibile della fissione nucleare. E un pec­ cato perdonabile solo a patto che il peccatore abbia genio. E il peccato di Dreyer. Dio glielo perdonerà perché lui stesso l’aveva gratificato dei doni che dovevano permettergli tale percezione. C’è lo spirito e c’è la materia. C’è il buon Dio e c’è il dia­ volo. Una pietra è soltanto materia? A quale livello gli ele­ menti che ci circondano cominciano a prendere coscienza di se stessi, del loro universo piccolo o grande? C’è una gerar­ chia? Alla sommità della scala dobbiamo trovare puri spiriti, o almeno un puro spirito? In fondo alla scala dobbiamo ac­ contentarci delle reazioni delle pietre? Esiste un mezzo per dare spirito a una pietra? Alcuni esseri privilegiati vi riesco­ no. Il mistico Medioevo li chiamava santi. Noi li chiamiamo artisti. La loro funzione quaggiù è di aumentare in noi la par­ te di spirito pur preservando la purezza della pietra. Stranamente, e per quella sorta di ironia di cui sembrano compiacersi le forze che ci fanno passare dal caos alla musica di Mozart, questi dispensatori di spirito si basano, nella loro lotta contro la materia, sulla materia stessa. Non sono nume­ rosi, pochi per secolo. Dreyer è uno di questi e, come ogni grande artista, ci pone il problema della soggezione alla na­ tura contemporaneamente a quello dell’evasione dalla suddet­ ta natura. Ci pone questo problema e lo risolve. Meglio, ci fornisce gli argomenti e i mezzi che ci permettono di risol­ verlo. Parlo di Dreyer al presente, come se fosse ancora qui, per­ ché per me e per molti altri è sempre vivo. E lo sarà sempre. Dreyer conosce la natura meglio di un naturalista. Conosce l'uomo meglio di un antropologo. Forse ignora le proporzioni di ossigeno, idrogeno o azoto contenute nelle foglie della vecchia quercia che accoglieva le meditazioni della sua in­ fanzia, ma conosce le lunghe veglie dell'albero durante le notti invernali. Conosce il dolore causato dalla rottura di una foglia ricoperta da troppa neve. Conosce l’ubriachezza portata dalle piogge di primavera. Conosce l’attesa della rugiada delia sera che venga a rinfrescare il suo fogliame nelle sere di sic­ cità. Chiunque, munito di provette, bisturi, reagenti chimici

    229 necessari, può analizzare la natura di un albero. Ma conosce­ re un albero come si conosce un amico, intuire le sue gran­ dezze e le sue piccolezze, constatare ironicamente il suo desi­ derio di dominio, la sua distruzione impietose delle piante rivali, in altre parole identificarsi per un istante col mondo vegetale, è più difficile, e se l’oggetto del vostro interesse non è un albero ma un uomo, l'impresa richiede allora più che strumenti perfezionati. Implica una sensibilità esacerbata, una percezione acuta, un’umiltà rigorosa, il tutto unito a un orgoglio insensato. Implica la fede nel nostro diritto di ficcare il naso negli affari degli altri. Dopotutto, nessuno ci dice che le formiche siano lusingate nel vederci analizzare il loro acido formico. Gli esempi delle intrusioni dell’uomo nella vita delle altre creature riempirebbero con inchiostro rosso di sangue le infinite pagine di infiniti volumi. Ho avvicinato Dreyer due o tre volte nella sua vita, ma non posso pretendere di averlo conosciuto fisicamente. Umana­ mente, credo di potermi vantare di conoscerlo bene. Così co­ me lui può vantarsi di conoscere la grande quercia in que­ stione. Questa grande quercia, non sono del tutto sicuro che egli l’abbia mai vista. Forse non ha mai pensato a una quer­ cia. Questa quercia in verità è utile solo a me. Per avvicinare un essere come Dreyer, bisogna servirsi di un tramite di notevole livello. Di questa quercia le cui più alte foglie si perdono nel cielo, di questa quercia amica che mi dispensa la sua ombra, Dreyer non ha bisogno perché è lui stesso que­ sta quercia. Il problema del realismo contro la trasfigurazione, del con­ creto contro l’astratto, qui non si pone. Se lo richiamo, è perché si pone per me e perché alcuni dei miei dubbi pos­ sono aiutarmi a interpretare il pensiero che si fa strada nella testa dell’uomo che ammiro. Per la maggior parte di noi c’è la verità esteriore e la ve­ rità interiore. Il culto della verità esteriore porta all’accademi­ smo. La riproduzione della natura senza l’intervento dell’ar­ tista non offre alcun interesse. Pascal ce lo ha detto in poche parole: « C’è solo una cosa che interessa l’uomo, è l’uomo stesso ». Se nel paesaggio rappresentato non vedo l’uomo, quel paesaggio non è che una riproduzione. Prendiamo il caso di un attore che deve recitare la parte di un cuoco. Supponiamo che si tratti di un attore non bravo, ma coscienzioso. Andrà a vedere dei cuochi al lavoro, imparerà anche a cucinare, si inizierà al linguaggio delle persone di questa professione, in­ fine acquisterà l’andatura, il passo, l’aspetto di un vero cuoco. Il vestito che porterà per recitare la sua parte sarà stato por­

    230 tato da un cuoco e non sarà stato pulito, per timore di can * celiarne le macchie autentiche. Il risultato sarà molto proba­ bilmente che il nostro uomo, sulle scene o sullo schermo, re­ sterà ciò che è, cioè un cattivo attore, e, nonostante un aspet­ to esteriore autentico, non convincerà nessuno. Prendete il contrario, il caso di un buon attore incaricato di interpre­ tare Io stesso ruolo. Credo che quest’uomo non avrà nessuna passione per la documentazione. Parlerà forse un po’ con alcuni cuochi, ma non si affaticherà a cercare accessori auten­ tici, costumi autentici, un linguaggio autentico. Forse, an­ zi, novello Charlie Chaplin, non si vestirà affatto da cuoco, ma la sua conoscenza umana dei problemi dei cuochi farà sì che il pubblico riconoscerà immediatamente in lui un vero cuoco. Se noi portiamo questa teoria fino all’assurdo, l’unica rispo­ sta è l’abbandono della realtà esteriore e la creazione di un mondo scaturito solo dalla immaginazione dell’artista. £ l’arte astratta. A mio modesto parere, a parte alcuni disegni ani­ mati, non credo che questo percorso possa essere raccoman­ dato come metodo cinematografico. L’artista, secondo me, è tanto più visibile nel paesaggio se non compare direttamente. £ nascosto dietro.qualche cespuglio, ma si fa presto a scoprir­ lo. Lo si riconosce senza fatica dalla sua andatura, dalle sue intonazioni, dalla luce che inonda il suo quadro, dalla di­ sposizione degli elementi del paesaggio. In altre parole, un ottimo sistema di cui si può servire l’artista per raggiungere il pubblico ed essere riconosciuto è quello di nascondersi e di aspettare che il suddetto pubblico lo abbia ritrovato. Ho detto che la questione non si poneva per Dreyer. Lo ripeto e lo ripeterò cento volte. Un uomo di tale statura non è né concreto, né astratto. £ concreto nel senso che i suoi per­ sonaggi hanno una verità inquietante, molto più esteriore che interiore. Quando Dreyer chiese alla Falconetti di tagliarsi i capelli a zero per interpretare il ruolo di Giovanna d’Arco in prigione, non si trattava soltanto di un sacrificio alla verità esteriore. Immagino che si trattasse anzitutto di un’ispirazione di Dreyer. La vista di quello splendido viso privo del suo or­ namento naturale immergeva Dreyer nel cuore stesso della vi­ cenda. Quella testa rasata era la purezza di Giovanna d’Arco. Era la sua fede. Era il suo invincibile coraggio. Era la sua innocenza, più forte dell’astuzia dei giudici. Era la resisten­ za all’oppressione e alla tirannia. Era anche l’amara consta­ tazione dell’eterna brutalità di coloro che si sentono forti. Era l’inutile protesta del popolo. Era l’affermazione che, nel­ le tragedie umane, sono soprattutto i poveri a pagare. E an-

    231 che coloro che sono elevati dalla loro umiltà al rango di que­ sti poveri, più vicini a Dio di quanto non lo saranno mai i ricchi e i potenti. Quella testa rasata diceva tutto ciò e molte altre cose ancora a Dreyer. Era e rimane l'astrazione di tutta l’epopea di Giovanna d’Arco. Quello che è miracoloso, è che lo è anche per gli spettatori che continuano a venire a puri­ ficarsi alle acque lustrali della Giovanna d’Arco di Dreyer. Dreyer è al di sopra delle teorie e prende le sue armi dove le trova. Non importa il percorso che ha seguito la sua ispi­ razione per arrivare a raggiungere noi, suoi spettatori. L’im­ portante è che non soltanto grazie a Giovanna d’Arco, ma anche grazie agli altri suoi film, egli resterà con noi. E che la conversazione si stabilisce su un piano che va ben al di là della banalità quotidiana.

    Henri Langlois * Qualche anno fa - si trattava, credo, del 1956 - ricevetti una telefonata da Mary Meerson: « Jean », mi disse, « ci sono due film che deve assolutamente vedere, deve vederli ». Conoscevo per esperienza l’importanza di questo genere di appello. E così che mi sono stati rivelati Les Mistons di Fran­ cois Truffaut e Le beau Serge di Claude Chabrol. Due autori erano nati. Conoscevo molto bene Francois Truffaut dai suoi scritti; era la prima volta che mi imbattevo in Chabrol. Se Langlois aveva chiesto a Mary di incontrarci, è perché crede in una sorta di legame invisibile che unisce o dovrebbe unire insieme i registi di buona volontà. Per me era normale che la culla in cui questi neonati mi venivano presentati fosse la Cinémathèque, creata e animata da Langlois. Ricordo questo aneddoto non per stabilire il ruolo che Lan­ glois ha svolto nella mia vita di regista, ma per insistere sul fatto che, senza Langlois, la Cinémathèque non sarebbe più che un organismo in mezzo a tanti altri. Insisto anche sul ruolo di coordinatore, ruolo che assolve non con discorsi, ma con un paziente lavoro di accumulazione e di conserva­ zione di ciò che merita di essere accumulato e conservato. Parlo di pazienza, dovrei anche parlare di intuito. Langlois non soltanto « sente » il contenuto spirituale dei film, ma sembra partecipare della materia, e li conosce « fisiologica­ mente », come un padre conosce i suoi figli. Gli sono rico­ * La prima parte del testo non è datata; la seconda reca la data 20 maggio 1969.

    232 noscente di aver salvato film che, senza di lui, ora non si ve­ drebbero più. A poco a poco sarebbero stati dimenticati. Supponete che tutti i quadri di Raffaello vengano ritirati dai musei e distrutti: ebbene, dopo alcuni anni, non esisterebbe più Raffaello. Gli scritti su questo pittore non potrebbero sostituire la contemplazione diretta della sua opera. Raccogliendo e conservando i film che, a suo giudizio, lo meritavano - e, credetemi, il suo giudizio è quello giu­ sto -, mi ha dato la sensazione di essere uno dei numerosi ar­ tigiani di un mestiere indubbiamente grande, indubbiamente nobile, dal momento che le tappe significative di questo me­ stiere sono conservate in un museo. Il giovane pittore che va al Louvre è fiero di appartenere a una disciplina i cui suc­ cessi divengono punti di riferimento anche per il pubblico non esperto. Provo lo stesso sentimento come uomo di cinema quando penso alla Cinémathèque. Langlois ha creato il nostro Louvre. Il confronto, come tutti i confronti, non è d’altronde che una convenzione stilistica. Ci sono delle croste al Louvre. Quello che è straordinario, nel caso di Langlois, è la sicurezza del suo giudizio. Questa rara facoltà è forse la grande ragione del­ l’importanza mondiale della sua opera. La mia fierezza diven­ ta emozione quando penso che è condivisa dai miei colleghi di tutto il mondo.

    Sono molto felice che Henri Langlois abbia deciso di pre­ sentare dei brani dei miei film al Festival di Cannes di quest’anno, del 1969. Il mio piacere è tanto maggiore perché sto per riprendere la mia attività cinematografica e perché questa sintesi del mio lavoro mi aiuta a fare il punto. Vo­ glio dire che questa presentazione può indurmi a evitare alcune gaffe e a non ricadere in certi errori. Non sempre è piacevole tornare sul proprio passato, ma è sempre utile. Questa sintesi sarà tanto più efficace visto che è pre­ sentata da Henri Langlois, che conosce i miei film meglio di me stesso e che è uno dei rari esseri viventi capaci di clas­ sificare con precisione i diversi elementi del nostro patrimo­ nio cinematografico. Lo ringrazio di aver pensato a me come trampolino per il suo salto nel passato. Ho un solo rimpianto, di non poter essere con voi in que­ sta occasione. Ciò non mi impedisce di parteciparvi col pen­ siero.

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    I « Cahiers du Cinéma » * In occasione del loro duecentesimo numero, sono felice di salutare i Cahiers. Amo i Cahiers. Li amo perché amavo Ba­ zin e perché i Cahiers sono una sua creatura. Li amo perché nella vita non bisogna essere ingrati, e poi non serve a nulla. I Cahiers mi hanno fatto del bene. Mi hanno offerto piace­ voli letture. Hanno spesso spiegato quello che io sento con­ fusamente. E tutto ciò con quel certo entusiasmo aggressivo di cui abbiamo tanto bisogno in questo mestiere. I Cahiers mi hanno fatto del bene in mille modi. Hanno parlato di me. Qualche volta male. Più spesso bene. Vedevo il mio nome mi­ schiato a quello dei miei giovani colleghi di trent’anni. Lo vedo ancora. Questo mi fa dimenticare gli anni che dovreb­ bero pesarmi sulle spalle. Occupandosi di me i Cahiers mi ringiovaniscono. I Cahiers mi hanno fatto del bene metten­ domi al livello dei grandi registi che ammiro. Quando ho cominciato a fare dei film non osavo sognare di vedermi ci­ tato tra Griffith e Stroheim. Ebbene, è accaduto. E i Cahiers hanno fatto la loro parte. I Cahiers mi hanno fatto del bene rendendomi familiare a spettatori che avevano bisogno di un dizionario per capire il mio linguaggio. I Cahiers mi han­ no fatto del bene perché sono i Cahiers. Li amo perché amo il cinema e perché è difficile amare l’una cosa senza l’altra.

    Maurice Jaubert ** Maurice io ti rivedo bambino del Mezzogiorno bambino nero dalla testa tonda bambino cocciuto con un nonnulla di brasiliano, il fianco nero e rotondo e buono e dolce e cocciuto. Giocavamo nel Mezzogiorno nell’erba ruvida del Mezzogiorno ne assorbivamo il profumo * Testo apparso sui Cahiers du Cinéma. n. 200-201. aprile-maggio 1968. ** Testo apparso come testimonianza nel volume Maurice laubert. musicien populaire ou maudit di Francois Porcile, Editeurs Francis Réunis. Parigi. 1971. e non compreso nell'edizione francese degli Ecrits.

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    giocavamo con i ciottoli del Mezzogiorno ciottoli grigi caldi ne assorbivamo il calore. Si dice che il nostro paese sia molto vecchio certuni sostengono che è rimbambito. Dimenticano che ci sono da noi bambini che non crescono che Dio ha segnato con la sua grazia a cui Dio ha fatto il dono di restituirci il profumo dell’erba del Mezzogiorno di restituirci il calore dei ciottoli del Mezzogiorno fino alla morte restano come una mela non del tutto matura quando si morde l’interno allappa un po’ i denti. Such an apple a day keeps the doctor away dicono gli inglesi. Dicono anche che i frutti verdi mantengono le nostre buone relazioni le nostre relazioni necessarie indispensabili con ninfe c fontane le driadi e il dio Pan con Nettuno con i ciottoli del Mezzogiorno. Si piangono di più gli uomini di genio perché si piangono di più i bambini. Maurice tu sei morto a vent’anni.

    Il cinema indiano * Si dice < l’india misteriosa », come si dice « la Costa Az­ zurra », « la flemma britannica », o « il fascino slavo ». La costa mediterranea mi sembra più rosa che blu. Conosco un mucchio di inglesi irascibili e russi che non hanno nulla di Testo non datato.

    235 affascinante. La verità è che gli usi degli uomini dipendono più dall'epoca che dalla geografìa. Ho la fortuna di conoscere alcuni indiani abbastanza in­ timamente per poterli considerare come miei amici. Sono penetrato, grazie a loro, in famiglie abbastanza tradizionaliste. Per capirle, mi è bastato riandare agli anni della mia infanzia. In casa dei genitori dei miei amici, ho riconosciuto i pregiudizi, le reazioni dei grandi che frequentavo da piccolo. Quando l'india sarà sviluppata industrialmente, non ci sarà più alcuna differenza tra i suoi abitanti e quelli della Seine-et-Mame o del Massachusetts, è lo strumento che fa l'uomo. Forse ci perderemo con questa uniformità. Gli india­ ni, per il fatto di essersi mischiati finora abbastanza poco con gli occidentali, hanno mantenuto nella loro vita quotidiana alcuni atteggiamenti che ci riportano molto indietro nel tempo. Questi atteggiamenti non sono ricercati. Sono espressione di­ retta di sentimenti di persone che vivono in seno a una so­ cietà non ancora razionalizzata. Le strade del sobborgo di Calcutta più fìtto di fabbriche sono piene di ragazze la cui andatura fa pensare alle statuette di Tanagra. Non è spiace­ vole incontrare delle Tanagra in movimento, soprattutto quando queste Tanagra lo sono inconsciamente, dal mo­ mento che il modo con cui raddrizzano il loro pesante chi­ gnon non è stato insegnato loro da un professore di belle maniere. Ebbene, di Tanagra, ne incontrerete moltissime nei film che vi presenta la Cinémathèque. Anche se alcuni di que­ sti film vi piaceranno meno di altri, vi recheranno in ogni caso il dono inestimabile di un incontro con gente i cui gesti sono ancora quelli dei personaggi de\VIliade, deWEneide o del Ràmayana.

    4. Il mio modo di fare cinema

    Come do vita ài miei personaggi * Non ho una teoria speciale per quanto riguarda i fini ul­ timi del cinema. Mi sembra difficile dire: questo è « cinema » o questo non è « cinema ». Mi sembra che questo nuovo me­ stiere abbracci tutte le forme del pensiero umano, allo stes­ so modo dell’arte libraria. Una libreria ci offre libri di viag­ gio o di scienza pura, poesia, romanzi, insomma il mondo intero. Anche il film può offrirci tutto questo. In questo vasto universo, il caso, i miei gusti e anche le necessità commerciali mi hanno spinto verso i film dramma­ tici (Spielfìlme). Non me ne lamento, e con fervore tento di introdurre, in vicende più o meno riuscite, quella piccola particella di umanità senza la quale ogni film può essere soltanto un cadavere ambulante. Agli inizi ho creduto che fosse possibile, per un regista animato da una giovanile sincerità, offrire tutto questo di­ rettamente. Le mie ricerche erano prima di tutto di ordine plastico. La scenografia, le opposizioni dei valori, l’armonia dei movimenti degli attori mi sembrava dovessero consentire la costruzione di un piccolo universo sufficientemente inte­ ressante. Mi sono presto accorto che, in questo modo, pote­ vo produrre soltanto opere molto fredde. Le grandi arti, co­ me la filosofìa, la pittura, la musica, l’architettura o la poesia, permettono ai loro autori una comunicazione diretta con il pubblico. L’autore di film drammatici deve, come il romanzie­ re, servirsi del tramite di personaggi. Dotando questi perso­ naggi di una personalità veritiera si può forse arrivare a fare di questi film un modo di espressione della nostra povera umanità, e l’autore può tentare, attraverso il tratteggio sin­ cero di queste anime, di lasciar trasparire un po’ del suo stesso sentimento. Si giunge dunque a mettere al primo gra­ dino delle preoccupazioni del regista il fatto di dar vita agli strumenti incaricati di rappresentare questi personaggi, cioè gli attori. Chiamo attori gli individui che, sullo schermo, rappresen­ teranno per il pubblico i miei personaggi. Poco importa se questa gente viene dalla strada o se sono persone del me­ stiere. In via di principio, preferisco questi ultimi che, non dovendo più preoccuparsi della parte meccanica del loro la­ voro, possono dedicare tutte le forze della loro mente a svi­ luppare la personalità del loro ruolo. Soprattutto per il fatto • Testo apparso su Pour Vous, n. 242, 6 luglio 1933.

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    che le esigenze dell'industria ci inducono a fare i film molto rapidamente. L'ideale naturalmente sarebbe di affidare i ruoli a persone che hanno nella vita la mentalità e l’apparenza di quei personaggi. Ma cadere sull'uccello raro che possiede nello stesso tempo una forza d’espressione, un fuoco comunicativo che gli consente di far capire al pubblico questa per­ sonalità, è un caso straordinario. Certe persone sono nate attori e sono possedute da un bi­ sogno di esteriorizzazione più prezioso di una lunga pratica. Tocca al regista prendere queste persone e metterle, prima del film, in una specie di stato particolare che consente loro di vivere il loro personaggio e solo il loro personaggio. Con l’attore di mestiere, ci si arriva aiutandosi con la forza di trasposizione che il suo talento gli conferisce; con l’uomo della strada, ci si arriva senza trasposizione. Comunque sia, questo lavoro deve essere fatto prima. Quando il film è iniziato, il signor X o la signora Y devono scomparire e far posto al personaggio del film, andare, ve­ nire, bere, mangiare come lui. Allora, il regista può forse ar­ rivare fino al punto di far loro dimenticare che ci sono dei macchinari, delle lampade e dei microfoni, e fare ou di essi del documentario, come lo farebbe dal vivo su un animale. Se si arriva a questo, si è molto vicini a qualcosa di abba­ stanza buono. In natura, i vostri movimenti maldestri pos­ sono mettere in fuga l’animale. In un film drammatico, l’attore non fugge, ma è la naturalezza che scompare, ed è ancora peggio. Questo aspetto documentario del lavoro mi sembra appassionante. Esso consente di sorprendere, se si ha fortuna, quella scintilla di vita che gli esseri lasciano talvolta sfuggire quando sono senza controllo e che può essere rivela­ trice del loro destino. Cinema a parte, credo fermamente nel destino dell’uomo. Noi siamo delle povere macchine, poco più libere di un tram che sferraglia sulle sue rotaie. Che voluttà, per un osservatore innamorato, liberare il fatale destino di uno o di diversi es­ seri! So perfettamente che questa opinione è in contrasto con le idee fondamentali della grande industria cinematografica. I film prodotti dalle grandi ditte mondiali sono più o meno inconsciamente basati sulla possibilità di ciascuno di costrui­ re il proprio destino secondo la propria immaginazione. Me­ no male che il tutto è concepito in modo molto ingenuo. La dattilografa sposerà il figlio del padrone e il giovane mecca­ nico la figlia di Ford. Ci si riferisce raramente a quelle forze misteriose, a quelle correnti invincibili, che ci attirano verso un fine sconosciuto.

    241 Far intravedere questo fine al pubblico, come noi lo intra­ vediamo all’alba di certe esistenze, far uscire, più che si può, il modo e gli effetti delle forze fatali, seguire con amore per­ sonaggi che si dibattono e tentano di resistere a questa verti­ gine, questo è il contributo che vorrei dare al cinema. Questi personaggi marcati in fronte da un segno grandioso si muovono nella vita e nel film con una grandezza inconscia. Ogni loro movimento suscita nel mio cuore un entusiasmo ap­ passionato e un fervore che muove a pietà. Come ogni indi­ viduo di educazione cristiana, sono animato da una specie di proselitismo e faccio film nella speranza di arrivare un gior­ no a far condividere al pubblico i miei sentimenti.

    Come faccio un film * Sono prima di tutto un narratore di storie. Sono continuamente preso dalla voglia irresistibile di raccontare delle sto­ rie che mi sembrano eccellenti, e vorrei far condividere la mia gioia ai miei amici e al pubblico. Mi è sempre sembrato che, per raccontare queste storie, la cinepresa fosse uno stru­ mento migliore - poniamo - di una penna o di una mac­ china per scrivere. Per me, la mia concezione del cinema è che si tratta di una nuova stampa; è un’invenzione che ha all’incirca l’importanza dell’invenzione di Gutenberg. Diciamo che l’invenzione di Gutenberg ha assolutamente sconvolto il mondo così come il cinema e la televisione sconvolgono il mondo. Non bisogna dimenticare che prima di Gutenberg la trasmissione delle storie avveniva esclusivamente per via orale. Badate che era una gran cosa; forse, con la stampa, ci abbiamo perso. Non dimentichiamo che la trasmissione orale delle storie richiedeva allo stesso artista di essere l’inventore o il trasmet­ titore della storia (che egli in questo secondo caso doveva reinventare) - non bisognava dunque che egli fosse obbli­ gatoriamente l’inventore della trama o dell’intreccio, ma cer­ tamente doveva essere lo sceneggiatore - e anche l’attore, il musicista (da cui il nome di troviero e trovatore) che andava dappertutto a diffondere la sua storia. 11 giorno in cui è stata inventata la stampa, questo signore è scomparso; è nata una nuova professione, la professione dell’autore. * Testo apparso su Arts, n. 470, 30 giugno 1954, e riproducente al­ cuni brani di una conferenza tenuta da Renoir all'Institut des Hautes Etudes Cinématograpbiques.

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    £ perfettamente evidente che il cinema rappresenta, nella storia della diffusione del pensiero, una rivoluzione altrettan­ to importante. Dunque, io sono un narratore di storie, e il possibile sbocco che si presenta oggi a tutti noi, autori di film, è il film commerciale. Ora, il film commerciale viene a costare sempre molto, e dal momento che viene a costare molto, bisogna prepararlo. Per questa ragione, comincio sem­ pre col concepire una storia, o con Faccettare una storia che mi è stata suggerita da un produttore, e ne faccio una sceneg­ giatura, da solo, o con un autore, dipende (ma in genere la faccio da solo). In ogni caso, cerco di fare di questa sceneg­ giatura qualcosa che dia a me stesso la convinzione che si può già girarla così, che si potrebbe quasi, seguendo il décou­ page piano per piano, ottenere un film. Detto questo, comin­ cio, mi lancio nella produzione. Si verifica allora un fenomeno orribile: e cioè che quando sono in presenza degli attori, in presenza dei paesaggi, mi accorgo che tutto quello che avevo fatto e scritto non vale niente; mi accorgo che quella battuta che mi sembrava piena di vita, una volta detta da un attore in grado di esprimere una sua personalità non vuol più dire niente; mi accorgo che sono in realtà obbligato a legare insieme la mia persona­ lità e quella dell’attore. Ci troviamo a fare un lavoro in cui non si fa niente da soli. In questo lavoro ogni passo diventa una collaborazione con qualcuno. Io concepisco dunque un découpage che credo perfetto e mi accorgo che questo dé­ coupage non corrisponde alla realtà vivente e che la realtà vivente può essere avvicinata soltanto attraverso la mia col­ laborazione, le mie discussioni forse, le mie schermaglie forse, le mie tremende litigate forse, con gli attori, con il camera­ man, con l’operatore, con tutti! £ da questa specie di discus­ sione che nasce la materia vivente del film. Beninteso, bisogna essere chiari, sempre molto chiari. Ne approfitto per aprire una piccola parentesi. Abbiamo avuto in Francia e in America una tendenza molto accentuata al­ l'oscurità; si è immaginato, per esempio, che il massimo per un attore consistesse nel mormorare, che il massimo per la fotografia consistesse nel non vederci niente. In questo modo si sono ottenuti degli effetti molto belli. Nondimeno penso che basare un intero film su effetti di questo genere è quan­ tomeno, se così posso dire, decadente. Personalmente, sono attirato da un tipo di cinema un po’ più consistente di questo. Il mestiere dell’attore è un mestiere terribile, è un mestiere divino, è un mestiere in cui vi viene continuamente richiesto di inventare un essere umano che non esisteva, che non ave­

    243 va del tutto preso forma nella mente dell’autore, e che sarà l’attore a far nascere completamente. Il mestiere dell’attore è un parto continuo. Si sa che i parti sono molto delicati. Se ci sono delle persone intorno che gridano, che infastidiscono la madre, il bambino può nascere male, può riuscire male. Bisogna lasciare in pace le donne che partoriscono; bisogna lasciare in pace gli attori che creano, è molto importante. Ma si può contribuire a questo lavoro di creazione, nello stesso modo in cui l’ostetrico può aiutare il bambino a na­ scere in maniera adeguata: si può per l’esattezza contribuire a questo parto aiutando l’attore a trovare se stesso. Una quan­ tità di attori, soprattutto all’inizio della loro carriera, non conoscono se stessi. Si rischia naturalmente di avere delle pe­ santi discussioni con gli attori, delle difficili dispute, perché molti attori si immaginano di essere qualcosa che non sono. Bisogna rivelarli a loro stessi. Credo che sia questo il grande dovere, il grande lavoro del regista rispetto all’attore. Ogni volta che faccio un film sono pervaso molto onesta­ mente e molto sinceramente dal desiderio di piacere al pub­ blico. Disgraziatamente, non so come si fa a farlo, c'è in me una specie di tendenza, che deriva dal mio gran desiderio di classicismo, che fa sì che talvolta mi trovi in contrapposizione col detto pubblico. In La règie du jeu non ho cercato apposta di fare un film difficilmente accettabile dal pubblico. Al con­ trario, ero convinto che alla gente sarebbe piaciuta molto quella storia; trovavo che fosse una storia affascinante, molto garbata e che dicesse realmente la verità sugli uomini del nostro tempo, sulla società della nostra epoca. Avevo l’im­ pressione di raccontare una storia vera e di raccontarla in modo divertente anziché raccontarla in modo severo e criti­ co. Detto in altri termini, avevo l’impressione che, pur uti­ lizzando una frusta, l’utilizzavo un po’ divertendomi, e senza dare dei colpi violenti sulla faccia della gente. Devo credere di essermi sbagliato, dal momento che la gente ha accolto il film proprio come se ricevesse veramente delle frustate. Se La règie du jeu fosse stato trattato come un film romantico, se avesse presentato delle persone che si sciol­ gono in lacrime er che afferrano il proprio cuore per tenderlo al pubblico dicendo: « Prendilo, bevilo! », se avessi scelto delle persone dai volti turbati, se avessi fatto uso di tutto l’ar­ senale romantico, sono persuaso che la stessa storia sarebbe risultata valida. Ma lo spirito classico, che è uno spirito in cui si cerca più di guardare le cose daH'intemo che di mo­ strarle dall’esterno, è uno spirito estremamente difficile da cogliere oggigiorno da parte di un pubblico che, da cent’anni.

    244 è sommerso di lacrime romantiche. Il classicismo è una via molto faticosa, e vi assicuro che con esso prendo continuamente delle batoste. Nondimeno sono deciso a continuare, e sono convinto che, dopo aver pianto per cent’anni con Margot al melodramma, stiamo per uscirne e che ricadremo sulle so­ lide verità dei signori Shakespeare, Molière e Marivaux. Penso che, per arrivare a questo classicismo, dobbiamo sta­ bilire una differenza tra il realismo interiore e il realismo esteriore. Non posso fare a meno di pensare a Molière: Moliè­ re non ha mai fatto del realismo esteriore. Egli ha chiamato i suoi personaggi Philinte, Orgon, Cléante, invece di chiamarli Dupont, Durand, Dubois; li ha rivestiti con dei costumi che non erano affatto dei costumi realistici; nei costumi utilizzati sulla scena c’era ancora qualche resto della commedia italia­ na. Nondimeno i lavori di Molière sono forse tra i più rea­ listici. Un uomo come Chaplin non ha mai sacrificato nulla al realismo esteriore: Chaplin interpreta un cercatore d’oro, ma è vestito con una piccola bombetta, le sue grandi scarpe e un bastone, e cerca l’oro in mezzo alla neve. Se fosse realista, avrebbe una pelliccia e tutto quel che occorre per non sof­ frire il freddo. Tuttavia Chaplin, con la sua piccola bombet­ ta, mi sembra molto più vero di una quantità di poveri dia­ voli con indosso dei veri abiti sgualciti da cercatori d’oro. Di che cosa hanno l’aria? Hanno l’aria di buffoni con i loro magnifici travestimenti. Chaplin, al contrario, con le sue gran­ di scarpe e il suo piccolo cappello, ha l’aria di un vero cer­ catore d’oro. Personalmente, ho fatto molti film del genere « realismo esteriore ». Ho cercato, umilmente - forse senza riuscirci sempre -, di aggiungervi il realismo interiore. Mi sembrava che se raccontavo la storia di una stiratrice collocando que­ sta stiratrice nel suo vero negozio, con un vero ferro da stiro, nel suo vero grembiule da stiratrice, nel grembiule che ha veramente portato per stirare delle camicie, mi sembrava che, grazie a questi attributi esteriori, avrei forse potuto, con queste armi esteriori, giungere alla conoscenza più intima di quella persona. Ma credo che quelli veramente grandi, Cha­ plin, Shakespeare o Molière, non abbiano bisogno di questo realismo esteriore e che possano conoscere intimamente la stiratrice senza aver bisogno di un vero ferro da stiro. Personalmente vorrei sfuggire al realismo esteriore. Credo che la televisione ci aiuterà, dal momento che essa sta per giocare, rispetto al cinema, lo stesso ruolo che quest’ultimo ha giocato rispetto al teatro. Essa lo decanterà.

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    // paradosso dell’attore * Ho molta fiducia in un metodo di prove come il seguente: esso consiste nel chiedere agli attori di dire le parole senza recitarle, nel consentire loro di cercare di pensare, se così posso dire, solo dopo parecchie letture del testo, in modo tale che nel momento in cui essi applicano determinate teo­ rie, in cui hanno determinate reazioni nei confronti di que­ sto testo, le hanno nei confronti di un testo che conoscono e non di un testo che non hanno forse capito, poiché si capi­ sce una frase soltanto dopo averla ripetuta parecchie volte. Penso anche che il modo di recitare deve essere scoperto da­ gli attori, e, quando l’hanno scoperto, io domando loro di frenarsi, di non recitare subito tutto di seguito, di tentare, di andarci con prudenza, e in particolare di aggiungere i gesti solo alla fine, di essere in pieno possesso del senso della scena prima di permettersi di spostare un portacenere, di prendere una penna o di accendere una sigaretta. Io chiedo loro di non fare del falso-naturale, ma di agire in modo che la scoperta degli elementi esteriori venga dopo la scoperta degli elementi interiori, e non viceversa. In ogni caso, sono estremamente contrario al metodo, applicato da molti registi, che consiste nel dire: « Guardate me, reciterò la scena; ades­ so, fate come me ». Non penso che vada molto bene, perché non sono io quello che recita la scena: è l’attore; bisogna dun­ que che l’attore faccia egli stesso la scoperta della scena e applichi la sua personalità alla situazione, e non alla vostra.

    Il Théàtre en Rond ** £ molto irritante dover cambiare secolo. Ma non si sceglie. I nostri abiti aderiscono alla nostra pelle e, per osmosi, mo­ dificano perfino l’architettura del nostro scheletro. Il mutato rumore della strada notturna culla il nostro sonno e, a nostra insaputa, svia il corso dei nostri pensieri verso orizzonti inat­ tesi. Solo il genio può permettersi di ignorare l’età del no­ stro pianeta. Si tratta d’altra parte di un’ignoranza involonta­ ria. Goldoni o Pirandello credevano fermamente alla loro missione di innovatori. Si tratta di un innocente tranello che * Testo apparso sui Cahiers du Cinéma, n. 66, Natale 1956. *• Testo apparso su Le Figaro, 29 giugno 1956. Il Théàtre en Rond costituiva un esperimento di teatro a scena centrale, come, negli stessi anni, in Italia il milanese Teatro Sant’Erasmo.

    246 il destino tende a coloro che ha scelto. £ vero che i geni hanno sempre anticipato la moda. Ma questo è un aspetto minimo della loro funzione. Per noi spettatori, che cosa im­ porta che Alceste si abbigli di verdi ornamenti? Un Molière ancor più innovatore, ammesso che il suo gusto della novità fosse rivolto agli abiti, avrebbe potuto anche tagliargli i ca­ pelli a spazzola. Sarebbe sempre Alceste. Consideriamo dun­ que le mode come una comodità di linguaggio a uso de­ gli spettatori, e constatiamo, per inciso, che i grandi autori le hanno seguite. £ impossibile essere grandi senza essere nello stesso tempo semplici. Per noi, pubblico, la disposizio­ ne dello spettacolo ha la sua importanza. La canzonetta da caffè-concerto, sentita dai loggioni dell’Eldorado, oggi si ri­ volgerebbe soltanto a dei malati di nostalgia. I vivi vogliono ascoltare questa stessa canzonetta differentemente orchestrata e cantata in uno scantinato dalle luci smorzate, con le seggiole scomode, e in cui la cantante scivola faticosamente tra i bic­ chieri di whisky. E hanno ragione. Sono cinquant’anni che ci rompono le orecchie con l’importanza' dell’ambientazione, e abbiamo voglia di ribellarci, di gridare la nostra fede nel­ l'ereditarietà. Siamo più ragionevoli e ammettiamo le due forze. Il nostro ambiente è in parte responsabile del nostro essere. Esso è anche in parte responsabile del comporta­ mento di questo essere vivente che si chiama lavoro tea­ trale. E qualunque sia il mio amore per le folli invenzioni transalpine, mi domando se il teatro, così come gli italiani del Rinascimento l’hanno inventato, sia sopravvissuto; se il suo mantello di Arlecchino, il suo sipario, il suo palcoscenico, non raggiungeranno presto i polli di cartone e la maschera di Colombina. Mi rincrescerebbe. E rimpiangerei anche le portantine che conducevano gli spettatori all’Hótel de Bour­ gogne. Ho appena visto il dramma di Pirandello a] Théàtre en Rond di Rue Frochot. Sono evidentemente influenzato dalla qualità dell’interpretazione e della regia. Ma mi chiedo se il mio piacere non è stato aumentato dalla disposizione del tea­ tro, da un certo sentimento di comfort intellettuale dovuto alla certezza di sfuggire all’anacronismo. Più aumenta la nostra conoscenza del mondo, più tendiamo a ripiegarci su noi stessi. Quando l’uomo credeva che questa terra fosse il centro dell’universo, e la sua persona il centro di questa terra, la sua curiosità per tutto quello che gli era estraneo era grande. Egli chiedeva ai narratori di renderlo affascinante con le avventure di eroi inverosimilmente forti, coraggiosi o crudeli, di eroi inumani.

    247 Con le pericolose rivelazioni del Rinascimento, l’universo si è allargato. La terra è diventata un semplice pianeta tra altri pianeti. Con l’abbandono della splendida immobilità del nostro astro, l’accettazione sdegnosa della necessaria cor­ sa di un sole preoccupato unicamente di riscaldarci e illu­ minarci, l’uomo comincia a prendersi sul serio. I pittori si avvicinano a lui. Dal gruppo, essi passano all’individuo. Gli tagliano le gambe, poi il ventre. Il viso e il mistero che esso dissimula li affascina. Essi abbandonano i vasti soggetti li­ beri dalla prospettiva. I modelli, ahimè, « pensano ». Presto, si scoprirà l’intellettualismo. Freud aspetta al varco non solo gli artisti e gli amanti dell’arte, ma anche gli sterratori, i fattori, gli acrobati da circo. 11 romanticismo ci offre le scenografìe trompe-l’oeil, il na­ turalismo riempie la scena di vere tavole imbandite e di pa­ sti realmente commestibili. E il gas prende il posto delle can­ dele, l’elettricità del gas. 1 volti diventano più precisi. E dalle sedie del loggione ci si diletta degli stati d’animo. Le avven­ ture di Orlando furioso lasciano il posto ai tormenti morali della Signora dalle camelie. Poi il cinema. I volti mostruosi riempiono fino all’esauri­ mento lo schermo. Non perdiamo più un’increspatura della bocca, una sfumatura in uno sguardo. Presto noi, gente dello spettacolo, seguiremo i pittori, questi scout che già dipingono quello che avviene dietro la loro pupilla e non più davanti. Certo, i grandi hanno sempre raccontato se stessi. Ma, in altri tempi, non lo sapevano ed è inconsciamente che Aristo­ fane nell’Anfitrione presentava Aristofane. Bisogna vivere col proprio tempo. E l’artista deve precede­ re il tempo dei suoi contemporanei. La sua funzione è quella di aprire delle porte sull’evidenza, delle finestre su ciò che esiste già in ognuno di noi. E poiché la scoperta di oggi, di domani e di dopodomani è noi stessi, dimentichiamo gli sce­ nari sorpassati e affascinanti del teatro romantico, gli abbi­ gliamenti commoventi, la falsa sporcizia del naturalismo, i di­ vani confortevoli del teatro da boulevard. Vogliamo dei volti, più vicini, ancora più vicini. Li vogliamo tra noi. Vogliamo vivere un po’ della loro vita, di quella vita che ci comunica­ no attraverso il contatto diretto, come si vive la vita della donna amata sullo stesso tavolino del piccolo caffè in cui lei ci ha dato appuntamento. Togliamo di mezzo questa barriera che ci allontana dai nostri amici, che li illumina di una luce eroica, una luce che rischia di farli più grandi di noi, cosa che non vogliamo a nessun costo; buttiamo giù questi fon­ dali che li collocano in un posto diverso da questo stesso

    248 teatro in cui mescoliamo i nostri respiri. Al loro posto, vo­ gliamo vedere i nostri stessi volti. Di fronte a noi, vorremmo che fossero lo specchio invalicabile che limita i movimenti del nostro prigioniero, l’attore che ci racconta la sola storia che possa ancora interessarci : la nostra. Vogliamo mangiare il suo stesso cibo; vogliamo che condivida il nostro pasto. Vogliamo il Théàtre en Rond.

    Riflessioni su Stanislavski] * Tutta l’opera di Stanislavskij è contrassegnata dalla ricer­ ca ostinata della verità dei sentimenti. Si può dire lo stesso dell’opera di qualsiasi grande autore drammatico, di qualsia­ si grande artista o di qualsiasi grande scienziato. Per i crea­ tori, la grandezza dipende dal loro successo nel solo compito che li interessi, quello cioè che consiste nel cercare di dissi­ pare la nebbia di convenzioni che si frappone tra l’uomo e questa verità. Nel campo fisico, il lavoro degli scienziati è spes­ so ricompensato dal successo verificabile delle loro ricerche. Nel campo dei sentimenti, delle credenze e delie convinzioni umane, i filosofi, gli scrittori o gli artisti sono spesso incom­ presi. Nel campo molto particolare e molto nuovo della re­ gia teatrale, Stanislavskij è il primo ad aver superato il li­ vello della verità esteriore per penetrare in quello della ve­ rità interiore. Le preoccupazioni di molti registi sono spesso di ordine puramente tecnico. Ne conosco certi che subordinano tutto aH’illuminazione. Essi segnano col gesso sul palcoscenico lo spazio riservato ai piedi degli attori, volendo essere certi che questi ultimi saranno illuminati secondo un’angolazio­ ne studiata con cura per aumentare l’intensità dell’espressione dei loro volti. Personalmente ritengo che questa intensità drammatica ha valore solo se è l’espressione di un’emozione veramente provata detrattore. Tanto peggio se, in preda a questa sincera emozione, l’attore compie un gesto che lo fa uscire dall’illuminazione ideale. Credo di concordare con l’insegnamento di Stanislavskij nell'affermare che l’espres­ sione umana mi interessa più della qualità di un gioco di luci. Stanislavskij era certamente un grande tecnico; non credo tuttavia di sbagliarmi affermando che egli era anzitutto un perspicace osservatore della natura umana. Testo apparso su fskusstvo Kino, Mosca. 27 ottobre 1962.

    249 Il mio sogno, a teatro, come al cinema, come nella vita, è di stabilire un contatto con gli altri uomini, di penetrare in toro e di consentire loro di penetrare in me. Penso che sia questa la grande missione di quel che ai nostri giorni definia­ mo arte. La ballerina che si sente veramente morire danzando La morte del cigno diviene per qualche secondo mia sorella, la mia sposa, la mia migliore amica, un altro me stesso. Evi­ dentemente, per comunicarmi il suo sentimento, deve basarsi su una perfetta conoscenza dell’aspetto materiale de) suo la­ voro. Per spiegarsi bisogna conoscere le parole e la gramma­ tica che governa il loro ordine. Ma non è una sapiente il­ luminazione che costituisce la ragione principale della scon­ volgente comunione di uno spettatore con un artista. Questo fenomeno straordinario è dovuto anzitutto, nell’arte dello spettacolo, alia sincerità di questo artista, fondata sulla sin­ cerità di un autore che si è an eh’esso spogliato degli abiti menzogneri di cui ci lasciamo così agevolmente vestire, il me­ todo di Stanislavskij, basato sulla verità esteriore nei costumi, nell’apparenza fisica, si è rivelato di una meravigliosa effica­ cia nella scoperta della verità interiore. Le storie che si rac­ contano su di lui mi affascinano. Egli chiedeva ai suoi attori di vivere completamente il personaggio che dovevano rap­ presentare. E la chiave dell’arte del teatro. Il grande pericolo che minaccia gli attori, soprattutto al cinema, è di lasciare che la loro vita personale prenda piede rispetto alla vita dei per­ sonaggi che essi devono incarnare. Stanislavskij, se devo credere a quello che mi hanno raccontato di lui alcuni suoi ammiratori, non lo tollerava. Per questo noialtri, gente di cinema, possiamo considerar­ lo come uno dei nostri maestri. Il teatro convenzionale può spesso ingannare. Il cinema convenzionale è votato alla can­ crena. Questa putrefazione può impiegare molto tempo a di­ struggere il corpo che attacca, ma, se non si reagisce, la mor­ te è certa. Esistono degli antibiotici. Di tanto in tanto un film senza menzogne brilla in mezzo alla mediocrità. E come un soffio di aria marina che purifica l’atmosfera carica di pro­ fumi artificiali. La malattia indietreggia. L’obiettivo di una cinepresa è come il bisturi di un chi­ rurgo. Esso scava all’interno del nostro essere e mette a nu­ do le nostre debolezze. Capita che una parte del pubblico si senta a proprio agio nella malattia. La verità è spesso diffi­ cile da digerire. La menzogna è più confortevole. Ma la ve­ rità dà vita, mentre la menzogna distrugge. Per questo, nel­ l’interesse della nostra salute, noialtri, gente di cinema, dob­ biamo studiare l’opera di Stanislavskij.

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    « Nanà » * All’uscita della presentazione di Nanà, un editore di film, che fa ogni giorno grandi sforzi per diffondere nel mondo la produzione francese, mi ha detto: « Va molto bene, ma vi faccio un rimprovero ». « Quale? » ho replicato io. « Quello di non essere tedesco o svedese. Se il vostro film fosse stato realizzato da un regista straniero, avrebbe ricevuto soltanto elogi e si sarebbe gridato al capolavoro. » Nessuno è profeta in patria, e non mi sono state, è vero, risparmiate le critiche. Non me ne lamento. Va bene che un’opera, sullo schermo, faccia un po’ scalpore, anche se si tratta di arte muta. Il pubblico e il tempo sono ancora i mi­ gliori giudici; basta saper attendere, senza impazienza, il loro verdetto. Ma c’è una domanda che fu posta, non senza aria di biasimo, al mio collaboratore Pierre Lestringuez e a me stesso, e a essa voglio rispondere. « Perché », ci è stato chiesto, « siete stati tentati da Nanà, una delle opere più rea­ liste, più violente, di Zola? Non potevate scegliere una di quelle belle storie passe-partout che mescolano abilmente il sogno con le lacrime e finiscono con un bel matrimonio? » Confessiamo umilmente di non averci pensato. Abbiamo scelto Nanà, in primo luogo, in conseguenza di un’evoluzione per­ sonale. Abbiamo per lungo tempo considerato l’arte cinemato­ grafica come un’arte plastica; ma un giorno, a forza di ve­ dere dei film e di discuterli, siamo arrivati a rinnegare una teoria che ha sempre dato dei risultati molto freddi. Pensiamo, oggi, che il pubblico può venir interessato soltanto da un dramma (anche se si tratta di un soggetto comico), e che questo dramma più venir espresso solo attraverso delle sce­ ne, scene che devono venir recitate [jouées] nel senso vero del termine. Tutto deve concorrere all’azione, e la nostra vecchia formula, puramente plastica, che consisteva nel pre­ sentare dei « paesaggi », non era buona. Un bel paesaggio, un corno grazioso, un effetto di luce, come in La ragazza del­ l’acqua, sono insufficienti per il pubblico; gli serve un’azione, una successione di scene drammatiche. Quale soggetto poteva offrircene di più strazianti di Nanà! A voler ben riflettere, Nanà non è soltanto una creatura senza moralità, una donna perduta dai suoi vizi; è anche la personificazione del decadimento di una società. Non si vede forse Nanà passare attraverso tutte le classi, passare dal mon­ do delle quinte al mondo di corte, passare dal ballo Mabille * Testo apparso su Ciné-Miroir. n. 100, 15 giugno 1926.

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    a una residenza principesca? Figura pericolosa e distruttrice, ma mai convenzionale, ritagliata ed eretta direttamente dalla vita: è questo aspetto umano che ci ha colpiti, ed è questo che abbiamo voluto mostrare. Era facile fare di Nanà una < vamp » alla moda; non lo abbiamo voluto. Abbiamo lascia­ to Nanà nella sua epoca, nel suo ambiente, ma l’abbiamo di­ pinta come un’incosciente, come una ragazza crudele, che vive soltanto delle rovine accumulate da lei e intorno a lei. Abbiamo modificato la sua fine; ella muore perseguitata dal­ le furie, in preda a tutti i rimorsi, a tutti i terrori nati da una vita di menzogne e di crudeltà. Questo finale, siamo sicuri che il pubblico non ce lo rim­ provererà. Ma non c’è soltanto il pubblico: ci sono quelli che si oppongono al « girare » liberamente, i puristi del te­ sto, i difensori delle grandi memorie: costoro sono insorti contro gli inevitabili cambiamenti richiesti dall’adattamento per lo schermo. Se non si trattasse del Secondo Impero, direm­ mo loro che si dimostrano più realisti del re, e in ogni caso più intransigenti della stessa figlia del celebre romanziere, la signora Leblond-Zola, che ha titolato con talento il nostro film. Non è lei la prima a dover essere tirata in causa? Ora, lei ha approvato il nostro lavoro. E la nostra miglior ricom­ pensa. A proposito del Secondo Impero, ci hanno inoltre doman­ dato: « Perché avete scelto quest’epoca rococò? » E proprio per il fatto che si tratta di un’epoca rococò che essa ci ha interessati e sedotti. In primo luogo non è del tutto brutta, quest’epoca, ha una sua raffinatezza, è piacevole; e poi è vicina a noi, cosa che facilita le ricerche nelle biblioteche, nei musei e anche nei vecchi album di famiglia. Ci è stato rimproverato di aver usato dei mobili stravaganti, di averne inventati per esigenze di scena. Non è stato forse scritto che, nel nostro film, il letto di Nanà non era reale, che non si era mai visto un simile capolavoro di cattivo gusto? Ahimè! esi­ ste e noi l’abbiamo scoperto nel negozio di un antiquario, in cui deve trovarsi ancora. Certo, abbiamo tenuto a dare la vera atmosfera di Nanà", a tratti abbiamo forse spinto il quadro sino alla caricatura, ma ci è sembrato che si poteva far nascere qualche sorriso in mezzo al più crudele; al più patetico dramma umano, in cui si vede andare a fondo, a fianco di una donna, e insieme a lei, un’intera epoca, un in­ tero regime.

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    «Toni» * Sono felice di presentare il mio film Toni perché l’ho rea * lizzato in completa indipendenza e perché, per una volta, posso rivendicare la responsabilità del mio lavoro. Devo que­ sta buona sorte all’amicizia di Marcel Pagnol. Il soggetto del film è tratto da un fatto di cronaca real­ mente accaduto in un angolo del Mezzogiorno della Francia rimasto selvaggio in modo sufficiente a consentirmi una foto­ grafia drammatica. Questa regione è abitata principalmente da immigrati di origine italiana, metà-operai metà-contadini. Presso questi sradicati le passioni sono vive e gli uomini che mi sono serviti da modello per Toni mi sembrava si trasci­ nassero dietro quell’atmosfera greve, segno del destino fatale degli eroi da tragedia, anzi da canzone popolare. Per quanto riguarda l’interpretazione, ho potuto permet­ termi di rinunciare all’impiego dei grandi nomi commerciali. Nessuno più di me ammira il talento delle nostre grandi ve­ dette. Ma i loro film devono strettamente essere concepiti in funzione della valorizzazione della loro personalità, a rischio di non rispondere alle aspirazioni del loro pubblico. Io pre­ ferisco collaborare con attori intelligenti e sensibili, ma che non hanno ancora una carriera molto lunga nel cinema. Essi possono evitare la ripetizione di quei pochi effetti provati che artisti troppo « rifiniti » sono inclini a riproporre ogni vol­ ta che se ne presenta l’occasione. Essi possono, senza rischi per la loro carriera, essere più spontanei, meno artificiali, più vicini alla vita. Con simili attori, conviene rimpiazzare la routine con una creazione costante, e ugualmente non sottometterli a un décou­ page rigoroso in cui ogni gesto, ogni angolazione, ogni tempo è previsto. Io credo che non è l’attore che deve essere a di­ sposizione della tecnica, ma la tecnica che deve piegarsi alla recitazione dell’attore. In cambio di questa libertà materiale, questo metodo esige dall’interprete una fedeltà assoluta allo spirito della sceneggiatura e una rigorosa disciplina morale. Oltre il loro talento, è quello che mi hanno apportato gli in­ terpreti di Toni. Non vi parlo dell’équipe tecnica. Secondo me, essa non deve soltanto essere composta di compagni, ma di più, di complici. Io e questi complici vi presentiamo il nostro lavoro, frutto delle nostre pene e delle nostre gioie. [/935] * La prima parte del testo è apparsa su Comoedia, 8 febbraio 1935: la seconda sui Cahiers du Cinému, n. 60, giugno 1956.

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    Gli entusiasmi e i dubbi che mi hanno portato alla realiz­ zazione di Toni non si sono ancora spenti in me, e sono con­ vinto che sussistono anche per il mio compagno in questa av­ ventura: il produttore di film Pierre Gaut. Era il grande pro­ blema del « naturale » a essere in gioco, come lo è ancor oggi nel nostro lavoro. Il cinema può permettersi la traspo­ sizione o deve, al contrario, farsi schiavo della natura? Dob­ biamo schierarci dalla parte di Caligari o continuare l’espe­ rienza di Roma città aperta? Immaginate molto bene le ragioni che mi hanno spinto verso l’esperienza Toni. La più decisiva tra esse è che il ci­ nema, pensavamo, resta prima di tutto fotografìa, e che l’arte della fotografia è la meno soggettiva di tutte le arti. Un buon fotografo (guardate Cartier-Bresson) vede il mondo com'è, lo seleziona, vi distingue quel che vale la pena di essere visto e lo fìssa come di sorpresa, senza trasposizione. E come in­ travedere la possibilità di una trasposizione quando l’ele­ mento principale del nostro mestiere, il volto umano, si può così difficilmente trasporre? All’epoca di Toni, ero contrario a truccare i volti. La mia ambizione era di portare gli elementi non naturali del film, gli elementi che non dipendevano più dalla casualità delle situazioni, a uno stile il più vicino possibile a quello delle situazioni quotidiane. La stessa cosa per le ambientazioni: in Toni non ci sono ricostruzioni fatte in studio; i paesaggi, le case sono tali quali le abbiamo trovate. Gli esseri umani siano interpretati da attori o da abitanti delle Martigues cercano di rassomigliare ai passanti che hanno il compito di rappresentare," d’altra parte, gli stessi attori professionisti, salvo qualche eccezione, appartengono alle classi sociali, alle nazioni, alle razze dei loro ruoli. Il soggetto era un fatto di cronaca raccolto da Jacques Mortier, il commissario di po­ lizia delle Martigues. Era stato fatto di tutto perché il nostro lavoro fosse il più vicino possibile al documentario. La nostra ambizione era che il pubblico potesse immaginare che una cinepresa invisibile avesse filmato le fasi di un conflitto, sen­ za che gli esseri umani inconsapevolmente trascinati in que­ sta azione se ne fossero accorti. Non ero probabilmente il primo a tentare una simile impresa, e neppure l’ultimo. Più tardi, il neorealismo italiano doveva spingere il sistema fino alla perfezione. Oggi attraverso un periodo della mia vita in cui cerco di allontanarmi da quel realismo esteriore e di trovare uno stile più composto, più vicino a quello che definiamo « il classico ». Questo non vuol dire che rinnego Toni; vuol sem-

    254 pHcemente dire che sono vittima del mio spirito di contrad­ dizione. All’epoca di Toni, i grandi successi del cinema fran­ cese erano basati sull’imitazione del teatro da boulevard. Nel dramma, vigevano i gesti un po’ troppo ampi, gli aggrottamenti di ciglia, le smorfie della bocca; nelle commedie, il perenne sorriso dell’ingenua, l’autorità sufficiente degli attor-giovani un po’ avvizziti, e nell’insieme un sentimentalismo che giudi­ cavo insopportabile, eredità di un antiquato romanticismo. Era hormale che avessi voglia di contrapporre a quegli arti­ fìci la rappresentazione di un fatto di cronaca nel suo auten­ tico ambiente naturale. Oggi l’industria cinematografica ti riempie di naturale. Non ci sono che ragazzacci che si muovono in sudici caffè, ragaz­ ze traviate che si offrono a seduttori senza bellezza in camere d’albergo invase dalle piattole. E il regno degli abiti sporchi, dei corpi mal lavati, delle mani unte di grasso. La zuppa di cipolle non sufficientemente crostata mi fa venir voglia di pranzare in un grande ristorante. È quello che mi sforzo di fare per mezzo dei miei ultimi film. Rimpiango che Toni, accolto, alla sua uscita, con malumore dalla critica * e, diciamolo, dal pubblico, abbia dovuto essere tagliato. Quando un film va male, si perde la testa e si crede di aggiustare tutto tagliuzzandolo. Non si aggiusta proprio niente. Le concessioni non fanno che nuocere. La scena che ci aveva eccitati di più in Toni, e che ci eravamo sforzati di riprodurre tale quale si era svolta nel vero dramma della vera vita, era il trasporto del corpo del marito su un carrettino tirato da una moglie assassina. Questo carretto era carico di panni che nascondevano il cadavere. I carbonai corsi, di cui restano alcune tracce nel film, avevano accompagnato que­ sto carro funebre in quello che scambiavano per un inno­ cente tragitto verso il lavatoio, lungo i sentieri della collina che sovrasta lo stagno di Berre, prodigandosi in scherzi ga­ lanti nei confronti della bella spagnola e incoraggiandola con le loro più belle canzoni. Questo passaggio è scomparso. Toni è un film molto primitivo. Esso accumula gli errori inerenti a qualsiasi impresa ambiziosa. Sarei felice se voi riusciste a indovinarvi un po’ del mio grande amore per questa comunità mediterranea di cui le Martigues sono un concentrato. Questi operai di origini e linguaggi differenti, * Pierre Gaut, produttore di Toni, ci ha fatto notare che su questo punto lean Renoir è stato ingannato dalla sua memoria: in occasione dell'uscita, Toni, tranne poche eccezioni, ottenne eccellenti critiche. (Nota dei Cahiers du Cinéma)

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    venuti in Francia per trovare una vita un po’ migliore, sono i più autentici eredi di quella civiltà greco-romana che ha fatto di noi ciò che siamo. [7956]

    « Verso la vita » * Vorrei approfittare di questa occasione per rispondere a una domanda che mi è spesso stata posta a proposito della realiz­ zazione cinematografica di Verso la vita da Gor’kij. Perché, mi è stato chiesto, non avete conservato nel film l’atmosfera russa originale? La domanda, come si può sospettare, se l’erano posta anche i collaboratori del film. Diverse vie. infatti, si presentavano loro di fronte a questa materia: quella che in un primo momento sembrava la più normale era l’esatta ricostruzione dell’atmosfera dell’epoca, cioè della Russia del 1902. Una seconda soluzione, opposta alla prima, sarebbe sta­ ta quella di portare l’azione ai giorni nostri. Infine, se ne pre­ sentava anche una terza, che consisteva nel non situarla in modo preciso, nel lasciarla in un’atmosfera neutra. Devo dire che, per quanto mi riguarda, ero stato molto tentato da una ricostruzione esatta. Ma troppi ostacoli vi si opponevano: i mezzi materiali ci sarebbero mancati, gli esterni sarebbero stati falsi. E in un tentativo come quello, ogni particolare deve essere minuziosamente messo a punto, in modo da concorrere all’armonia dell’insieme; la minima no­ ta stonata avrebbe rischiato di nuocere seriamente all’impres­ sione generale. Per questo un lavoro simile era piuttosto di competenza del cinema sovietico che possiede tutti i mezzi materiali e psicologici per realizzarlo. Per quanto riguardava noi, il nostro compito era un altro: volevamo anzitutto ri­ produrre lo spirito dell’opera, che, dopotutto, si basava molto poco sul colore locale. Per questo ho considerato anche l’idea di ambientare il film a Parigi, ai giorni nostri, sostituendo i nomi russi con appropriati nomi francesi, parlando di franchi e di centesi­ mi anziché di rubli, in breve, operando un adattamento com­ pleto. Era d’altra parte un restar fedeli all’idea di Gor’kij e alla primitiva regia di Stanislavskij tale quale apparve alla pri­ ma rappresentazione del lavoro, a Mosca, al teatro delle Arti. Gor’kij e Stanislavskij, infatti, ci tenevano anzitutto a un a La prima parte di questo testo è datata novembre 1936; la seconda i apparsa su Le Film soviétique, n. 2, febbraio 1968; la terza non reca indicazioni di data o di luogo.

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    realismo immediato che potesse impressionare direttamente gli spettatori. I personaggi divengono veramente interessanti per il pubblico solo quando sono contemporanei. Tuttavia, d’accordo con Kamenka, il produttore del film, ho rinunciato a questa interpretazione, e ciò soprattutto per non turbare una considerevole parte del pubblico, quella che ha familia­ rità con l’opera di Gor’kij. che alla rappresentazione del film, avendo presente alla memoria il testo teatrale russo di Bassifondi0, avrebbe forse giudicato questo totale adattamento come una mancanza di rispetto alla memoria del grande scrit­ tore. Restava dunque solo un’alternativa, quella di dare al testo (teatrale) un’atmosfera assolutamente neutra. L’atteggiamento adottato per Verso la vita è d’altra parte conforme alle mie idee generali a questo proposito. Ho sempre pensato che, nel cinema, l’esattezza esteriore non avesse alcun peso. Per rendersene conto, è sufficiente d’altra parte notare che. molto spesso, i film più brutti si fondano su questa esat­ tezza. Così alcuni, quando vogliono rappresentare un mari­ naio, si accontentano di vestirlo da marinaio dalla testa ai piedi e sin nei minimi dettagli dell’abbigliamento; poco im­ porta loro se, così mascherato, egli abbia oppure no un’anima da marinaio. Al contrario, guardate Chariot, guardatelo, con in testa la sua bombetta e addosso la sua classica redingote, imitare i passi del marinaio sul suo battello. Non è imme­ diatamente e senza nessun aiuto esteriore molto più profon­ damente marinaio di tutti quei marinai di convenzione che pullulano nei nostri film? Non bisognerà concludere, da tutto questo, che io disprez­ zo lo studio dell’ambiente. Al contrario, lo giudico indispen­ sabile; ma bisogna che sia uno studio serio, reso per assimi­ lazione e trasposizione, e non solo basato su caratteristiche puramente esteriori. Spero dunque di aver meglio servito la memoria di Gor’kij attraverso lo sforzo di tradurre in questo film lo spirito della sua opera che non se ne avessi fatto una parata di costumi storici e di personaggi sedicenti russi. Spero di non aver tradito lo spirito di Gor’kij. Ritengo che, avendo volontariamente rinunciato agli elementi specifici pseudorussi dominanti nelle abitudini di Montmartre - samo­ var, balalaike, tzigani, ecc. -, ho reso meglio il pensiero di Gor’kij. Non mi sono impegnato a fare un film « russo », ho * il dramma di Gor’kij che ha ispirato Renoir è noto anche come L’albergo dei poveri.

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    voluto fare un dramma umano. Per comprendere meglio i personaggi di Verso la vita, ed essere in grado di ricrearli nel mio film, ho vagato a lungo nei sobborghi di Parigi. Là ho trovato i prototipi dei protagonisti del mio film.

    [.;.] lo e Louis Jouvet siamo di opinione diversa su un punto: lui credeva all'importanza fondamentale del regista del film, lo ci credevo meno. Il nostro primo contatto cine­ matografico avvenne in occasione di Verso la vita. Egli inter­ pretava il personaggio del barone. Rimasi molto sorpreso nel vedere l'uomo di teatro che di più ammiravo arrivare come un ragazzino, pormi delle domande riguardanti la forma della sua cravatta, le pieghe dei suoi pantaloni, lo stato di logora­ mento delle sue scarpe. Avevo torto a meravigliarmi. I re, quelli veri, sono umili. La verità è che Jouvet era del tutto sprovvisto di quel difetto tipicamente francese che consiste nel dare giudizi definitivi sui problemi che si ignorano com­ pletamente. Si accostava al cinema con qualche diffidenza. Non aveva per esso né una stima cieca né un disprezzo in­ giustificato. Era un altro mezzo di espressione di cui ignorava i riti, e mi chiedeva di iniziarcelo. L'iniziazione fu rapida. Ben presto arrivammo a quello stato di euforia, giustificazio­ ne profonda del mio lavoro, che è l’invenzione in comune. Cosa che potrebbe anche definirsi stato di grazia. (...1

    « La grande illusione » * L'adattamento cinematografico del romanzo di Zola La bestia umana assorbe tutto il mio tempo e tutti i miei sforzi; tuttavia ci tengo a dire al popolo americano ciò che significa a parer mio La grande illusione. Sono assai felice che La grande illusione sia rappresentata davanti a voi, e nello stesso momento è con un sorriso amaro che sento Hitler sbraitare alla radio, esigere la spartizione della Cecoslovacchia. Siamo sull’orlo di un'altra « grande illusione ». L’atmosfera terrificante della guerra pesa vir­ tualmente su di noi. Negli intervalli delle riprese de L'angelo * La prima parte di questo testo costituisce la presentazione del film al pubblico americano ed è del 1938 (è stata integrata sulla base della versione compresa nel volume Confrontation des milleurs films. Bru­ xelles, 1958); la seconda è la presentazione alla stampa nel 1946; la ter­ za. del 1958, costituisce il commento del prossimamente filmato.

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    del male, i fotografi, gli elettricisti, i macchinisti, gli attori, i tecnici, sbalorditi, si guardano, scuotono la testa, alzano le spaile. Se Hitler sapesse come ci dà fastidio, andrebbe in visibilio. Personalmente, rifiuto di dargli questa soddisfa * zione. Chi può dimenticare il Fiihrer? Ma non permetterò che la mia ostilità nei suoi confronti influenzi le mie azioni o i miei pensieri. È dunque una questione personale tra me e Hitler. Se migliaia di uomini considerassero in tal modo questa minaccia, il flagello della guerra non si abbatterebbe ancora una volta sull’umanità. Ho realizzato La grande illusione perché sono pacifista. Per me, un vero pacifista è un francese, un americano, un tedesco autentico. Verrà il giorno in cui gli uomini di buona volontà troveranno un terreno d’intesa. I cinici diranno che, in questo momento, le mie parole rivelano una fiducia pue­ rile, ma perché no? Per quante preoccupazioni susciti, Hitler non modifica per nulla la mia opinione sui tedeschi. Dalla mia più tenera età, ho amato e stimato questo popolo: se per esempio un antico affetto mi legasse a un amico, ed egli diventasse sifilitico, sarebbe questa una ragione sufficiente per negargli la mia amicizia? Di tutto cuore e con tutti i mezzi, cercherei di ridargli la salute. Ne La grande illusione mi sono sforzato di mostrare che in Francia non si odiano i tedeschi. Il film ha avuto un gros * so successo. Non è migliore di altri, ma semplicemente traduce ciò che il francese medio, mio fratello, pensa della guerra in generale. Per lungo tempo si è rappresentato il pa­ cifista come un uomo dai capelli lunghi, dai pantaloni sgual­ citi, il quale, appollaiato su una cassa di sapone, profetizza­ va senza tregua le calamità che sarebbero sopraggiunte e cadeva nell'angoscia alla vista di un’uniforme. I personaggi de La grande illusione non appartengono a questa categoria. Essi sono l’esatta replica di quel che noi eravamo, noi, la « classe 1914 ». Perché ero ufficiale durante la guerra e ho conservato un vivo ricordo dei miei compagni. Non eravamo animati da alcun odio contro i nostri avversari. Erano dei buoni tedeschi come noi eravamo dei buoni francesi... Sono convinto di lavorare a un ideale di progresso umano presentando sullo schermo la verità non mascherata. Attra­ verso il ritratto di uomini che compiono il loro dovere, secon­ do le leggi della società, nel quadro delle istituzioni stabilite, credo di aver portato il mio umile contributo alla pace del mondo. Avrei voluto che un tedesco, dopo lo spettacolo, si dicesse: < Questi francesi sono brava gente. Mangiano e be­ vono esattamente come noi. Come noi hanno bisogno d’amo­

    259 re e, soprattutto, di amicizia ». E quanto pensano dei tedeschi i francesi che conoscono il film. Disgraziatamente i tedeschi non hanno il diritto di vederlo. Ne sono profondamente di­ spiaciuto. La cosa più penosa per me è che la vita di un film sia così breve. La tecnica si evolve, la recitazione degli at­ tori cambia. Effimeri come la moda, i nostri film cadono nel­ l’oblio e vanno a raggiungere quelli che in altri tempi ci han­ no commosso. Nello stesso istante in cui avrebbe potuto ri­ sultare benefica, La grande illusione viene bandita dal « Gran­ de Reich ». Per caso, il giorno in cui i nazisti entrarono in Vienna, si dava il mio film. Senza perdere un istante, la polizia lo proi­ bì e ne interruppe immediatamente la proiezione. E una sto­ ria che mi riempie di orgoglio. A rischio di farmi trattare da « rompiscatole », colgo tutte le occasioni per raccontarla. Non posso farne a meno. Non è ai miei occhi una distinzione di ordine militare, ma di ordine morale; così non sono co­ stretto a restituirla al Fiihrer, come Henri Bemstein al Duce la sua Croce di San Maurizio e Lazzaro. [/95£]

    Facendo La grande illusione in collaborazione con Charles Spaak avevo cercato di dimenticare i venti anni di pace che avevamo appena vissuto e di ritrovare la mia mentalità di ragazzo di venticinque anni, lanciato nella mischia con altri compagni della stessa età. Sembra cosa da poco, ma mi è co­ stata molta fatica. Gli anni passano, le persone si sono fatte del combattente, e in particolare dell’ufficiale in guerra, un’i­ dea molto falsa. Si sono stilizzati i personaggi, li si è, per così dire, abbelliti. A poco a poco la realtà si è cancellata di fronte a uno stereotipo che il mondo ha adottato. La letteratura, lo spettacolo, il giornalismo hanno contribuito non poco al­ l’edificazione di queste marionette. Ed è così che gli stessi interessati, i vecchi ufficiali della guerra, hanno dimenticato quel che erano stati e hanno sinceramente creduto alla realtà dei fantocci che la convenzione presentava loro nel suo spec­ chio deformante. Tutto è cominciato con le canzoni. Sin dal periodo della guerra, alcuni fabbricanti di eroismo si sono messi a com­ porre motivi a un tempo marziali e salaci. Devo confessarlo? Raramente ho sentito cantare La Madelon in una unità vera­ mente combattente. L'ho sentita diverse volte a teatro, in ca­ serma, nei campi di vettovagliamento, nelle ambulanze. Ma attenti a non sbagliarsi: per quelli che stavano in trincea, tut­ ti questi posti erano già la « retroguardia ». Una canzone che

    260 ho spesso sentito in trincea è Sur les borda de la Riviera. Sous les ponts de Paris godeva anch'essa di un grande sue * cesso. In genere, quelli che combattevano avevano un certo debole per la romanza sentimentale: 93 à Paris, Quand je danse avec mon grand frisé, Entends-tu le tic-tac du moulin?, La femme aux bijoux. Adesso, la maggior parte dei miei vec­ chi compagni combattenti hanno completamente adottato La Madelon. E hanno fatto bene, perché è una canzone affasci­ nante, ma io mi permetto di ricordare che è l’esempio per­ fetto di canzone da retroguardia, composta in uno spirito da retroguardia, e spedita ai combattimenti come si spediva loro del paté di fegato immangiabile in tubetti da dentifricio, dei giochi del domino troppo piccoli e altri accessori cosid­ detti a uso del fronte che le « madrine » compravano nei re­ parti specializzati dei grandi magazzini. Adesso le stesse don­ ne vanno negli stessi magazzini al reparto « beneficenza » ad acquistare degli oggetti speciali per i bambini poveri. Se fossi un povero, avrei orrore di questa carità umiliante e di questi oggetti che sanno di prigione. Neppure i combattenti apprez­ zavano molto quegli ingenui in vii. Dunque, facendo un simile film rischiavo di turbare molte persone le cui idee si sono evolute senza che esse se ne ren­ dessero conto. Ma so che il mio film avrà dei sostenitori e un mucchio di compagni di guerra ritroveranno sullo schermo compagni analoghi a quelli che hanno conosciuto. In questo film, mi sono sforzato, con Spaak, di non mostrare nessuno di anormale. 1 nostri personaggi appartengono a categorie so­ ciali molto differenti. Abbiamo un aristocratico, un uomo del popolo, un ebreo, un insegnante, un attore. Di fronte a loro ci sono dei tedeschi. E i francesi di questo film sono dei buoni francesi, i tedeschi dei buoni tedeschi. Dei tedeschi di prima della guerra del ’39... Dei tedeschi di prima di una guerra in cui ci si è spesso comportati miseramente e in cui il Terzo Reich ha violato le più elementari regole dell'umanità. Ma La grande illusione è solo una rievocazione della guerra '14-18. Non mi è stato possibile prender posizione per alcuno dei miei personaggi. In questo film non ci sono traditori? Non c’è nemmeno un dramma d’amore. C’è una storia d’amore, ma talmente semplice che non è neanche una storia. Tutto ciò esce un po’ dai canoni abituali del cinema e anche dello spettacolo drammatico. Spero, nondimeno, che si troveranno di nuovo spettatori disposti ad accogliere con benevolenza que­ sta evocazione della nostra giovinezza. [/946]

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    Mi chiamo Jean Renoir. Sono l’autore de La grande illu­ sione che verrà prossimamente proiettata su questo schermo. Ho chiesto alla direzione di questa sala di concedermi l’auto­ rizzazione a sostituire l'abituale provino con alcuni minuti di conversazione. Mi fa piacere presentarvi io stesso gli attori o piuttosto le fotografìe degli attori cui sono in gran parte debitore per tutti gli elogi e gli onori che sono stati decretati a questo film nei più diversi paesi. Anche nell’Italia fascista, in cui il film era proibito, abbiamo ottenuto a Venezia la coppa della giuria intemazionale, premio appositamente in­ ventato per evitare di doverci dare la coppa Mussolini. La copia completa e senza tagli che vedrete è stata, del resto, stampata da un negativo sottratto dai nazisti, preda di guerra, e ritrovato dai servizi cinematografici dell’esercito americano a Monaco: nuova preda di guerra, è grazie a que­ sta circostanza che vedrete la versione completa di questo film. La stòria de La grande illusione è rigorosamente vera e mi è stata raccontata da diversi miei compagni di guerra... parlo evidentemente di quella del 1914, in particolare da Pinsard. Pinsard era nei caccia, io in una squadriglia da ricognizione. Mi toccava andare a riprendere foto delie linee tedesche. Mi ha salvato la vita diverse volte intervenendo nel momento in cui i caccia tedeschi diventavano troppo insistenti. Lui stes­ so è stato abbattuto sette volte, è stato fatto prigioniero sette volte ed è evaso sette volte. Le sue evasioni sono alla base della storia de La grande illusione. Ho ritrovato in un cassetto alcuni vecchi ricordi: questo è il primo aereo che ho imparato a guidare all’inizio del 1915, un Voisin. Ecco un altro Voisin. L’aereo sul quale Gabin e Fresnay si fanno abbattere nel film da Erich von Stroheim doveva assomigliare molto a quello o a questo, un Caudron, che pure ho guidato. Questo è un Caudron bimotore che. po­ co più tardi, prende il posto del precedente nella mia squadri­ glia. Questi sono dei Sopwith, un eccellente apparecchio, stra­ na combinazione di una carlinga inglese c di un motore Clerget-Blin di Lione. Questo è un Nieuport: l’apparecchio degli assi della caccia. E l’apparecchio che guidava Pinsard. Mio Dio, come passa il tempo! Scusatemi se insisto ancora sull’autenticità dei fatti riferiti ne La grande illusione, ma certe scene, soprattutto quelle che descrivono i rapporti tra francesi e tedeschi, possono stupire. E che nel 1914 non c’era ancora stato Hitler. Non c’erano ancora stati i nazisti che sono quasi riusciti a far dimenticare che i tedeschi sono anche degli esseri umani. Nel 1914, lo spirito degli uomini non era ancora stato falsato dalle reli­

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    gioni totalitarie e dal razzismo. Sotto certi aspetti, quella guerra mondiale era ancora una guerra di signori, una guerra di gente ben educata, oso quasi dire una guerra di gentiluomini: ciò comunque non la giustifica. Il garbo, o anche la stes­ sa cavalleria, non giustificano il massacro. Una storia di evasione, anche se appassionante, non è sufficiente per fare un film. Bisogna farne una sceneggiatu­ ra. Per questo, Charles Spaak mi ha offerto la sua collabora­ zione. Questa collaborazione fu facile, senza storia. Ai le­ gami della nostra amicizia si aggiungeva quello della nostra fede comune, della nostra profonda credenza nel l’uguaglian­ za e nella fratellanza degli uomini. La grande illusione è la storia di persone come voi e come me, persi in quella snervante avventura che si chiama guerra. La domanda che si pone oggi il nostro mondo angosciato as­ somiglia molto a quella che Spaak, io e molti altri ci siamo posti quando preparavamo questo film. Per questo ci è sem­ brato che La grande illusione fosse tornata di un’attualità bruciante e ci siamo decisi a farla uscire nuovamente. f795S]

    « La Marsigliese » * Per quanto riguarda la realizzazione del film La Marsi­ gliese, in questi ultimi tempi mi sono occupato in particolare della sceneggiatura, lasciando agli altri compagni tecnici il compito di occuparsi, a seconda della loro specializzazione, dei costumi, degli ambienti, dell’interpretazione. Vi parlerò dunque della sceneggiatura. Eravamo partiti con delle idee molto ambiziose che. se le avessimo seguite, ci avrebbero portato a un film di 10.000 metri che avrebbe annoiato chiunque. Dopo una quantità di discussioni e di studi, abbiamo finito col pensare che. per un film intitolato La Marsigliese, la storia più interessante sa­ rebbe stata quella dei marsigliesi che portavano il loro canto a Parigi e, attraverso questi personaggi, di dare un’idea della Rivoluzione francese. Ci è stato necessario, anzitutto, evitare la ripetizione di grandi movimenti di folla. Nulla assomiglia di più a una sommossa di un’altra sommossa, qualunque ne sia lo spirito. Per sprigionare il profondo interesse di una * La prima parte del testo i apparsa su Ce Soir. 9 luglio 1937; la se­ conda su Paris-Soir. 9 febbraio 1938: la terza su Regards, n. 213, 10 febbraio 1938; la quarta non è datata: la quinta è tratta dal press book del film (1938).

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    cosa, bisogna entrare nei dettagli perché quel che è interes­ sante non sono le cose esteriori, ma ciò che pensano gli uomini. Abbiamo voluto metterci nella pelle dei personaggi che abbiamo scelto. Mentirei dicendo che sono imparziale. No, non lo sono e con tutto il cuore siamo dalla parte dei marsi­ gliesi che vengono a Parigi con uno scopo preciso. Possiamo tuttavia supporre che quelli che stavano di fronte a loro aves­ sero ugualmente le loro ragioni, e vogliamo presentarli in perfetta buona fede. Per questo abbiamo evitato l’aspetto po­ lemico e la facile arma che sarebbe stata il fatto di adattare certe storie sulla vita privata di Maria Antonietta. Non vi faremo assolutamente allusione. Questo desiderio di epurazio­ ne ci ha portati, a poco a poco, a tralasciare la presentazione di alcuni grandi personaggi della Rivoluzione come, per esem­ pio, Robespierre e Brissot. Ci è sembrato più appassionante presentare persone come voi e come me, e immaginare le rea­ zioni e le espressioni di tre giovani di Marsiglia di fronte agli straordinari avvenimenti che hanno vissuto. Ma tutto questo non è stato facile. Come, infatti, a priori, non presentare l’appassionante discussione tra Brissot e Ro­ bespierre alla vigilia della guerra? Con il primo che sostene­ va che questa guerra sarebbe servita a propagare le idee ri­ voluzionarie attraverso l’Europa; e con Robespierre che an­ nunciava profeticamente che la vittoria dell’esercito avrebbe rischiato di creare una mistica pericolosa che avrebbe se­ gnato la fine della Rivoluzione. Pensiamo di essere usciti da questa difficoltà. Abbiamo tuttavia conservato un personag­ gio noto, cioè il re. Neppure in questo caso ci siamo fermati alla descrizione trasmessa dai contemporanei. Abbiamo idea­ lizzato Luigi XVI perché vogliamo che esprima con intelli­ genza e buona fede le idee di quelli che erano dalla sua parte. Ne abbiamo fatto un personaggio simpatico che desideriamo veder interpretato da un attore serio, che abbia una certa autorità sul pubblico. Con il re, presenteremo la famiglia reale e soprattutto Maria Antonietta; ma, come vi ho appe­ na detto, evitando l’aspetto polemico che questo personaggio può contenere. Un altro problema è la questione delle folle. Le faremo ve­ dere come in un film su) mare si fa vedere il mare, in un film sulla montagna si fa vedere la montagna. Tra questa folla, sceglieremo degli individui che faranno capire al pubblico perché questa folla agisce in tal modo o in tal altro. Voglio anche dirvi, prima di concludere questo resoconto approssimativo, che commetteremo, del tutto consapevolmen­

    264 te e deliberatamente, degli errori storici. Eccone uno, e non è l’unico: un episodio molto importante del film sarà la presa delle Tuileries il 10 agosto, data delta caduta della monar­ chia in Francia. Ma le Tuileries non esistono più. E piutto­ sto di far agire una vera folla in uno scenario di cartapesta, preferiamo girare questo avvenimento, per esempio, nel corti­ le del castello di Fontainebleau che risale allo stesso periodo e ha la stessa aria regale che avevano le Tuileries. Senza dubbio daremo fastidio a molte persone, ma quel che vogliamo è una cosa esatta nello spirito, e a ciò ci de­ dichiamo con passione. Vogliamo far emergere la grandezza dell’individuo da una storia collettiva. ( 1937]

    Durante i preparativi e le riprese de La Marsigliese, più o meno ogni due giorni una signora si presentava al nostro ufficio dicendo: « Sono Charlotte Corday ». Non che que­ sta signora credesse realmente di essere Charlotte Corday in persona. Così dicendo, ella voleva semplicemente affermare che aveva studiato la parte di Charlotte Corday: che si era investita di questo ruolo; che un appartamento ammobiliato a modo e adomato da adeguate incisioni l’aveva calata in una atmosfera favorevole alla comprensione di questa eroina; in breve, che era sufficiente dar disposizioni per l’illuminazione agli elettricisti e chiedere agli operatori di avviare le loro macchine per poter fissare sullo schermo l’indimenticabile im­ magine dell’assassina di Marat. E quando le si rispondeva che nel nostro film non c’era Charlotte Corday. sussultava e, non volendo credere alle proprie orecchie, ci chiedeva: « Ma insomma, non fate un film sulla Rivoluzione francese? » « Sì. » « E nel vostro film non c’è Charlotte Corday? » « No. » Se ne andava con un sorrisino malcelato, alzando le spalle in gesto di commiserazione. E Rouget de Lisle? in un film che si chiama La Marsi­ gliese, come spiegare la sua inspiegabile assenza? Conoscete quell'incisione che lo rappresenta, tutto ispirato, davanti a un pianoforte nuovo, stile 1850? Ebbene, non faremo vedere neppure lui! Se abbiamo rinunciato a queste primedonne della storia, non è perché sottovalutiamo la loro importanza, ma perché questa stessa importanza ne ha fatto degli oggetti accessibili agli appassionati di ingenui slogan storici. Lo slogan più ti­ pico in questo genere è il cappello di Napoleone. L’altro gior­ no, al circo, il figlio di miei amici vedendo entrare un clown imbacuccato con una specie di bicorno si è messo a gridare:

    265 « Oh! Napoleone! » E tutto il pubblico, felice di poter dare un nome alla grottesca apparizione, a ripetere con lui: « Na­ poleone! Napoleone! » Nelle campagne ove abbiamo girato La Marsigliese, quando alcuni contadini vedevano sfilare i nostri volontari con in testa l'antenato del famoso cappellino, trepidavano di gioia e ci salutavano gridando: « Ecco i Na­ poleoni! » Evidentemente, Napoleone ha avuto un cappello, ma non è male sapere che non ha avuto solo quello, e, se do­ vessi scrivere una sceneggiatura su di lui, farei il possibile per lasciare in ombra questo accessorio da toilette divenuto banale a forza di essere utilizzato. Quello che è appassionante, nel nostro lavoro, è che pos­ siamo ogni tanto cercare di ridare ai fatti il loro vero senso, di liberarli da tutta la farragine e da tutta la polvere che li maschera, che li deforma. Per portare a compimento quest’o­ pera di sgombro, alcuni procedono facendo ampiamente piaz­ za pulita. Altri, ed è il nostro caso, preferiscono ripulire con cura un angolo dell'oggetto, poi ricostituirlo attraverso dedu­ zioni e concatenamenti, come ha fatto Cuvier partendo da un osso per gli animali preistorici. 11 nostro osso di Cuvier, la collinetta che ci è sembrato potesse divenire il promontorio, il punto di osservazione da cui avere una visione d’insieme del periodo rivoluzionario che precede la caduta della monar­ chia, il 10 agosto 1792, è la storia del battaglione dei marsi­ gliesi, più conosciuto sotto il nome di Battaglione del 10 Agosto. Di fronte a questi marsigliesi, abbiamo presentato il re, la regina e alcuni personaggi del loro giro. Abbiamo fat­ to il possibile perché anche costoro sfuggissero all’asfissia delle convenzioni. Luigi XVI è un uomo e non soltanto un simbolo. Tra i due avversari si agitano popolani, borghesi, nobili, militari, emigrati, magistrati come Roederer, il sinda­ co procuratore del dipartimento della Senna. Tutte queste persone sono autentiche, e speriamo che questa autenticità le renderà vive. [/93S]

    Conoscete queiringegnosa immagine propagandistica del comunista con un coltello tra i denti. Questo slogan ha for­ temente contribuito ad ancorare nella mente di tutto un pub­ blico borghese quell’idea già fatta che un rivoluzionario è necessariamente una specie di bandito irsuto, affamato, spor­ co e cencioso, che passa le sue giornate a proferire orribili bestemmie, immorale, indecente, sanguinario. Naturalmente anche la venalità è una delle caratteristiche di questo poco seducente personaggio. Ognuno sa che i rivoluzionari sono

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    sempre dei venduti, come si afferma in un dramma su Maria Antonietta che si recita in questi giorni in un teatro della rive gauche. Sembra anche che. quando su quel palcoscenico un attore afferma questa verità sbalorditiva, l'intera sala scop­ pi in applausi. £ senza dubbio perché tutti sanno che Ro­ bespierre, Marat e Saint-|ust hanno finito i loro giorni stra­ colmi di oro reazionario in palazzi lussuosi. Nel nostro film La Marsigliese, molti dei personaggi che presentiamo sono naturalmente dei rivoluzionari. Per questo, neppur essi sono sfuggiti alla calunnia abituale. Ma forse sa­ rebbe meglio cominciare dall'inizio, e dirvi dapprima che cosa sono questi personaggi che guidano l'azione del nostro film. Come suggerisce il titolo, sono dei marsigliesi. Appartengono a quel famoso battaglione di cinquecento arruolati volontari che, alla fine del giugno 1792, lasciò Marsiglia per recarsi prima a Parigi, ove prese parte alla Rivoluzione del 10 ago­ sto 1792, poi verso le frontiere, ove fu smembrato in reggi­ menti diversi. La prima domanda che viene in mente è: per­ ché questi marsigliesi sono andati a Parigi? Per questo, è ne­ cessario riferirsi alla situazione della Francia in quel periodo. Era appena scoppiata la guerra tra il nostro paese e i fir­ matari del trattato di Pillnitz, cioè Austria e Prussia. L'e­ sercito dell’imperatore d’Austria era penetrato da poco nelle Fiandre francesi, e il nostro esercito stanziato al nord, coman­ dato da La Fayette, gli opponeva una debole resistenza. Nel corso di alcuni scontri che avevano segnato l'inizio di quella campagna, i francesi avevano battuto in ritirata, e si preve­ deva già la data in cui gli austriaci si sarebbero presentati davanti a Parigi. In Francia, l'opinione pubblica accusava i nostri generali di tradimento e la corte di complicità con gli invasori. Queste voci non erano senza fondamento. Quarantamila ufficiali della nobiltà passarono al nemico, e la corrispon­ denza di Maria Antonietta, scoperta alle Tuileries un mese e mezzo più tardi, prova che ella aveva comunicato a suo ni­ pote, l’imperatore d'Austria, i piani di battaglia dello Stato Maggiore francese. D’altra parte, le minacce degli emigrati, die contavano di rientrare in Francia al seguito degli eserciti prussiani e austriaci, erano terribili. « Ci sarà presto », scri­ veva uno di loro, « grande spettacolo sulla Place de Grève a Parigi. Vi sarà drizzata permanentemente la forca, e ogni giorno vi si terrà qualche piccola esecuzione di democratici ». Lombard, segretario della corte di Berlino, scriveva: « L’esa­ gerazione degli emigrati è estrema. Tengono discorsi sempli­ cemente orribili, e se la Francia sarà abbandonata alla loro vendetta presto sarà soltanto un'immensa tomba ».

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    L’avanzata degli austriaci e queste minacce, anziché inde­ bolire la resistenza del popolo francese, l’esaltarono. L'intero paese fu scosso da un immenso fremito patriottico e rivoluzio­ nario. La gente si rendeva conto che la disfatta dell’esercito francese avrebbe portato al ristabilimento della monarchia assoluta, alla fine delle riforme frutto della Rivoluzione. I contadini si immaginavano già riaggiogati all’aratro del loro padrone, gravati di tasse, inviati in galera a vita per un delitto di caccia, e spossessati dei terreni che avevano acqui­ stato e che cominciavano a dissodare. In tutti i punti del territorio nazionale, gli uomini si pre­ sentavano per arruolarsi. Il periodo coincideva con l’anni­ versario della presa della Bastiglia e la celebrazione della Federazione. La Federazione era una grande festa che riuni­ va nelle principali città del territorio, intorno ad altari alzati in onore della patria, tutti i cittadini armati per la difesa del­ la Libertà. A Parigi, alla prima Federazione del 1790. rap­ presentanti di tutti i dipartimenti erano venuti a giurarsi fedeltà e amore, simbolizzando in questo modo quell’unione francese resa possibile dalla soppressione delle frontiere tra le province. Ora. in quell’estate del 1792, di fronte alla mi­ naccia degli eserciti stranieri, la Federazione acquistava un senso particolarmente profondo. I Federati che, da tutti i punti del paese, decidevano di recarsi a Parigi, questa volta lo facevano non solo per affermare la loro unione fraterna, ma anche con lo scopo di rappresentare fermamente di fronte al re e all’Assemblea la volontà dell’intera nazione. A Marsiglia, ove il patriottismo era grande, si fece uno sforzo del tutto particolare creando un battaglione di cinque­ cento uomini che fu armato di due cannoni. Beninteso, que­ sti uomini, che dovevano poco più tardi assumere un ruolo co­ sì attivo alla presa delle Tuileries, sono stati rappresentati sotto le apparenze più fosche dagli scrittori reazionari fedeli alla loro tattica abituale, e anche opere in linea di principio esenti da parzialità hanno ripreso le menzogne di questi ca­ lunniatori. Ecco, per esempio, quanto afferma lo scrittore monarchico Peltier: « La Rivoluzione del IO agosto è stata effettuata da un semplice centinaio di briganti associati che, dopo aver tentato senza successo coi loro scritti e coi loro discorsi di sollevare la nazione per circa un anno, avendo fatto dichiarare la guerra per servirsi delle nostre vittorie, co­ me delle nostre sconfitte, per inasprire e infiammare gli animi, chiamarono, non sapendo più che cosa fare, sotto il nome di esercito marsigliese, un branco di vagabondi, di barbareschi, di maltesi, di genovesi, di piemontesi, di italiani che. in nume­

    268 ro di duecentocinquanta, protetti da Pétion e Santerre, furono ben presto padroni dell'Assemblea nazionale e della capitale, così come Pierre Mandrin, con centocinquanta uomini decisi, fu padrone del Delfìnato e delle province limitrofe per diversi anni, così come Cromwell governò l’Inghilterra per quindici anni con i suoi Fratelli rossi ». E Victor, autore di un opusco­ lo intitolato La vera controrivoluzione o i marsigliesi a Parigi, affermava a sua volta: « Cosa sono questi marsigliesi che si apprestano a entrare in trionfo nella capitale dopo aver at­ traversato, come un paese di conquista, una gran parte del reame, e aver approfittato per la loro sussistenza di tutte le località attraversate? Sono i resti impuri del campo di Monteux; sono i compagni di Jourdan taglia-teste, gli eroi della Glacière; è quel branco di avignonesi che li ha preceduti, anticipandoli, come il lampo precede il tuono; è questo branco di animali feroci che, da -tutte le parti d’Europa, accorrono a Parigi, affamati di sangue e di saccheggi, e già divorano, con la speranza, la ricca porzione che è loro promessa ». Un’accusa che ritorna costantemente è quella degli stranie­ ri. Un opuscolo legittimista, il cui autore è anonimo, raccon­ ta: « I briganti usciti a diverse riprese da Marsiglia per fare delle incursioni erano degli italiani, dei catalani, in una pa­ rola la feccia delle nazioni, e vi si trovavano assai pochi fran­ cesi ». E Barthélémy ha fornito di questi uomini un ritratto quasi altrettanto ingannevole: « Era un battaglione di cin­ quecento forsennati, arrivati a Parigi il 13 luglio 1792 per accelerare i progressi della Rivoluzione la cui avanzata sem­ brava troppo lenta ai furiosi demagoghi che li avevano chia­ mati; coorte impura che le prigioni di Genova, del Piemonte, della Sicilia e dell’Italia avevano vomitato nel porto franco di Marsiglia. Accozzaglia di banditi, di vagabondi, di uomi­ ni senza legge, né fede, né patria... Il più ardito sanculotto era un moderato di fronte a questi schifosi anarchici, degno supporto degli uomini che osavano avanzare il principio, sov­ versivo di ogni legge umana e divina, che non esiste crimine nel periodo della Rivoluzione... » Poniamo termine a queste citazioni. E più che sufficiente. Diciamo semplicemente che, ai nostri giorni, questa campa­ gna di calunnie non si è fermata. E soltanto più discreta per­ ché il soggetto non è più d’attualità. Ma, ogni volta che uno scrittore reazionario ha l’occasione di parlare dei nostri mar­ sigliesi, è per screditarli, e constatiamo l’incoerenza di quanti, pur propagando queste menzogne, si richiamano d’altra par­ te rumorosamente al canto che porta il nome di questi sedi­ centi banditi, di questi genovesi, di questi piemontesi: la

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    Marsigliese. Rileviamo inoltre, dall'enunciato di queste ingiu­ rie, che tali scrittori hanno una curiosa opinione dei nostri fratelli latini. Cosa si deve pensare in Italia, leggendo questi scritti francesi reazionari in cui, per insultare degli altri fran­ cesi, non si trova niente di meglio che trattarli da italiani! Prima di passare alle ritrattazioni, citiamo una frase di Voltaire molto interessante per coloro che. come noi, cercano di eliminare le incrostazioni della storia: « Ciò che moltipli­ ca i libri, nonostante la legge di non moltiplicare affatto gli esseri senza necessità, è che con i libri se ne fanno degli al­ tri; è con diversi volumi già stampati che si fa una nuova storia di Francia o di Spagna, senza aggiungere nulla di nuo­ vo. Tutti i dizionari sono fatti con dei dizionari. Quasi tutti i libri di geografìa sono delle ripetizioni di libri di geografìa. La Summa di san Tommaso ha prodotto diecimila grossi vo­ lumi di teologia. E le stesse razze di piccoli topi che hanno rosicchiato la madre rosicchiano anche i bambini ». C’è un modo molto semplice per presentare il battaglione marsigliese sotto la sua vera luce, quello di riferirsi agli archi­ vi della città di Marsiglia, ove sono conservati tutti i nomi di quanti hanno fatto parte di questo battaglione e le loro condizioni sociali. Ho sotto gli occhi questo elenco comple­ to, ufficiali e semplici volontari. C’erano otto compagnie. Prenderò a caso qualche nome in una compagnia. Mi imbatto nella quinta: il capitano si chiama Audibert: il capitano in seconda, Lieutaud; il tenente, Durbec; il sottotenente, Du­ rand (un nome molto straniero); if sergente maggiore, Pellin; un sergente: Gilbret; un altro sergente: Galabrun. Vedo an­ cora i seguenti nomi: Vigne, Bon, Charlois, Despi ace s, Brochier, Roux, Bonneau, Camoin, Mégis, Arquier. Penso che i detrattori reazionari del Battaglione del 10 Agosto non si sono mai presi la pena di consultare questi elenchi. Altrimen­ ti sarebbero stati colpiti, come noi lo siamo, dalla sonorità particolarmente francese di questi nomi. E ciò vale per la nazionalità. Per quanto riguarda la loro onorabilità, è sufficiente citare le condizioni del loro arruolamento che si conoscono ancora: per essere ammessi in questa truppa, bisognava pagare l'im­ posta, provare che si godeva di risorse sufficienti ad assicu­ rare la sussistenza della propria famiglia durante la propria assenza, non avere debiti, non essere incorsi in condanne giudiziarie, e aver prestato servizio in una formazione militare o civica, in modo da aver già un’istruzione militare. Quando leggiamo le professioni di questi volontari, troviamo tra gli ufficiali dei borghesi di città e anche dei vecchi ufficiali del­

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    l'esercito regio. Nella truppa, fraternamente mescolati, figli di commercianti e di operai. Ci sono diversi facchini del porto - è così che venivano chiamati i portuali -, ci sono dei muratori, dei carpentieri, dei falegnami, una porzione molto piccola di coltivatori. Insomma, siamo lontani dalla truppa di banditi così descritti dagli autori controrivoluzionari. Per concludere, aggiungiamo che, nel corso del mese di settembre 1792, quasi tutti questi uomini raggiunsero l’eser­ cito. Essi fecero parte di quella massa anonima di gloriosi soldati della Repubblica che salvarono la Francia c propaga­ rono attraverso tutta l’Europa le idee della Rivoluzione. Pre­ sto, attraverso il film che abbiamo appena terminato, essi en­ treranno in contatto con il pubblico. Questo pubblico potrà constatare che questi rivoluzionari sono delle brave persone, molto ordinate, disciplinate, simpatiche, dal fare piacevole. Si ha voglia di frequentarli. Farebbe piacere diventare loro amici. Diciamo che gli attori che hanno interpretato questi ruoli l’hanno fatto con raro talento. Si sono assolutamente identi­ ficati nei personaggi che dovevano rappresentare. Quel che vedremo, non sono Andrex, Dullac, Ardisson o Flament, per esempio, che interpretano il ruolo di volontari marsigliesi, ma gli stessi volontari marsigliesi, un impiegato di dogana, un artista-littore avignonese, un muratore e un facchino real­ mente viventi, e che agiscono al di fuori degli artifìci tradi­ zionali. Speriamo che il fatto di frequentare questa amichevole brigata possa consolare i nostri compagni rivoluzionari, sot­ toposti alle calunnie che una certa stampa continua a river­ sare sul loro conto. ( 1938] Mi sono sforzato di mostrare, di presentare dei francesi me­ di, dei piccoloborghesi, degli operai... e non dei rivoluzio nari dalle camicie lacere e dai capelli ispidi che ci si immagina sempre con un coltello tra i denti. In tal modo, mostrando sullo schermo dei personaggi semplici, e non degli eroi spes­ so inavvicinabili, voglio far comprendere l’evoluzione delle idee espresse dai marsigliesi che vennero a Parigi, prima del­ la giornata storica dei 10 agosto 1792. Le storie che possono colpire il pubblico sono quelle cui il pubblico può partecipare... ed è ricordandomi di questa pri­ ma verità che ho realizzato La Marsigliese, che evoca il dram­ ma più emozionante dei tempi moderni: la fine della monar­ chia! Per lungo tempo, ho esitato a portare sullo schermo una

    271 vicenda che si svolgesse nel periodo della Rivoluzione francese. Da cent’anni a questa parte, si è accumulato un tale ammasso di stupidità su quel periodo, si sono a tal punto deformati gli uomini di quel periodo e i propositi che li animavano che si crede di trovarsi di fronte a delle specie di burattini eroi­ ci, a dei fantocci urlanti, vestiti di cenci multicolori, e non di fronte a degli uomini. Ora, studiando la Rivoluzione, ci si accorge che è stata fatta da uomini normali, intelligenti e pia­ cevoli da frequentare. Forse questi uomini stupiranno per la loro familiare semplicità, ma spero che il pubblico ne farà i suoi amici e che non rimpiangerà i fantocci magniloquenti che una cattiva tradizione gli aveva imposto.

    In altri tempi, ho fatto dei film storici. Fortunatamente la vita delle opere cinematografiche è breve. Spero che ogni trac­ cia di queste mascherate sia scomparsa, e che nessun cava­ liere con l’armatura mi farà lo scherzo di comparire sullo schermo al solo scopo di riempirmi di confusione. Il commercio cinematografico classifica i film in due cate­ gorie: i film moderni e i film storici. I film moderni sono quelli che pretendono di svolgersi ai nostri tempi. I film sto­ rici sono quelli che pretendono di svolgersi prima. La loro azione non è sempre la stessa: talvolta essa cerca di farci piangere, qualche volta di farci ridere. -Ma essa si colloca sempre in un’unica e medesima epoca: « l’epoca storica ». Si dice anche « il tempo antico ». Il tempo antico inizia da Sesostri e finisce con Poincaré. L’unificazione interna di questa famosa « epoca storica » è molto comoda per i costumisti. Essa consente di utilizzare indifferentemente lo stesso vestito con corsetto aderente per abbigliare Caterina de’ Medici e la Dame de chez Maxim's, la Regina d’Inghilterra e Mata 'Hari. Talvolta si fa loro bru­ scamente cambiar di corpo e le si destina ai tempi moderni. In questo caso, esse restituiscono la loro vecchia uniforme al magazzino del vestiario e ne prendono una nuova. Il corsetto è sostituito da una guaina elastica e vengono loro tagliati i capelli. A rischio di farmi molti nemici, vi confesserò che non cre­ do molto a questa classificazione. Anzitutto, conosco un muc­ chio di film moderni che presentano delle inquietanti stigma­ te dì senilità precoce. I loro autori vogliono farci credere che sono moderni, perché è più commerciale, ma io, mica stupido, non mi lascio ingannare. I personaggi di questi film sono tal­ mente lontani da noi, sia per il loro linguaggio sia per il loro

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    curioso modo di vestire, che ho capito che, nonostante il telefono, la ferrovia, gli elicotteri, non solo appartengono a un’altra epoca, ma anche a un mondo diverso dal nostro. So perfettamente che non ho nessuna possibilità di incontrare per strada un personaggio vestito come la Marlene Dietrich, o che si esprime come Cécile Sorel. A proposito di linguaggio, una curiosa caratteristica è che i personaggi sia dei film moderni sia dei film storici hanno diritto esattamente allo stesso vocabolario. Questo si spiega. Non si vedono forse nell’esercito corpi molto diversi per l’u­ niforme — per esempio i cacciatori a piedi e i fucilieri sene­ galesi - che sono muniti dello stesso fucile e obbediscono agli stessi ordini, espressione della stessa teoria? Giungo a credere che tutti i film sono fabbricati da un solo e medesimo autore che cambia nome per non essere trattato da accumula­ tore di incarichi. Di modo che io propongo una grande sem­ plificazione, cioè di ridurre queste due categorie in una sola e di dichiarare che i film non devono essere né « storici » né « moderni ». ma semplicemente « attuali ». Ho cercato di fare de La Marsigliese un film suscettibile di essere ammesso in questa onorata categoria. Evidentemen­ te, i nostri personaggi hanno i capelli lunghi e i loro abiti, per quanto ci è stato possibile, si avvicinano a quelli che porta­ vano i nostri bisnonni, centocinquant’anni fa; ma. dopotutto, un ufficiale della Rivoluzione non è più stravagante di una moderna guardia repubblicana o di un allievo di Saint-Cyr, e i cappelli degli elegantoni del 1792 possono sembrare decoro­ si e modesti se confrontati a quelli che le nostre donne esi­ biscono oggi. Quanto al linguaggio rivoluzionario, non è più bizzarro di quello impiegato oggi nelle nostre riunioni elet­ torali. Mi è già capitato più di una volta di presentare dei film il cui contenuto non corrispondeva a una classificazione cor­ rente e di essermi trovato bene. Per esempio, è molto inco­ raggiante per me il fatto di aver visto i direttori di sala so­ stenere La grande illusione senza lasciarsi fermare dall’eti­ chetta « film di guerra ». E Dio solo sa quante storie nausea­ bonde e insipide hanno potuto rifilarci sotto questa etichetta. Ho fatto tutto il possibile per non deluderli con La Marsi­ gliese, e, sotto la pomposa e polverosa etichetta di « film sto­ rico », abbiamo cercato di raccontare una storia del tutto semplice e del tutto umana. E sono tanto più contento di di­ re che è una bella storia per il fatto che, come per quella de La grande illusione, ne sono io l’inventore. Come in quel pre­ cedente film, è nella realtà che sono andato a cercare ì miei

    273 personaggi. E posso dire di aver avuto la fortuna di incon­ trare quei marsigliesi {poiché di marsigliesi si tratta), e, per una volta, l’accento degli eroi del film giustifica il titolo. So­ no giovani, sono simpatici, sono modesti. Attraversano in tutta semplicità uno dei più grandi periodi della nostra sto­ ria. Quando ho fatto la loro conoscenza, dopo numerose ri­ cerche in un sacco di libri, sono subito stato divorato dal de­ siderio di farli conoscere al pubblico. Possa il pubblico amar­ li come li amo io: sarebbe questa la nostra più bella ricom­ pensa. [/938]

    « L'angelo del male» * Le Havre, 8 agosto (per telefono). Con Jean Gabin ci si era detti: « Andiamo ad aspettare la Simone a Le Havre! » E per questo che siamo qui, tutti e due, su un molo molto triste. Sembra che vedremo un mucchio di vedette interes­ santi, e che assisteremo alla manovra, per niente semplice, che consente al Normandie di attraccare. Tutto ciò mi lascia abba­ stanza freddo. Gabin è come me. Una sola cosa ci interessa, ed è che vedremo presto Simone Simon, e che Simone Simon è la nostra Séverine. Séverine è una strana donnina, e da quindici giorni ce ne ha fatte vedere di tutti i colori. Parlo di quella vera, quella di Zola, non di Simone Simon che, lo so, per quanto sia una star di Hollywood, è la migliore compagna del mondo. Séve­ rine ha veramente esagerato con noi. Dico noi, perché io c Gabin non sappiamo più esattamente quale dei due è l'amante dell'eroina di Zola. Lei ci ha mentito; ci ha fatto credere che era pura mentre aveva avuto degli amanti; ci ha fatto crede­ re di aver avuto una giovinezza disgraziata, mentre con le gonne corte passava la maggior parte del suo tempo ad ade­ scare vecchi signori. Ci ha fatto credere che non pensava che a noi, mentre era legata a suo marito dai più ignobili interes­ si, da un segreto infame... E si andava avanti che era una bellezza. Nnn si sarebbe osato toccarla per paura di romper­ la. Eravamo arrivati al punto di evitare di dire delle parolac­ ce davanti a lei. 11 nostro linguaggio era divenuto talmente castigato che non ci riconoscevamo più. Poi. un giorno si è * Le prime quattro parti di questo testo sono apparse su Ce Soir. rispettivamente il 9 agosto 1938. il 10 agosto 1938, il 3 settembre 1938 c il 4 novembre 1938; la quinta c la sesta parte sono apparse su Cinémonde, n. 529, 7 dicembre 1938, e n. 537. I febbraio 1959.

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    spinta troppo in là, e Gabin l’ha uccisa. Dico Gabin perché io non sono l’uomo delle grandi risoluzioni... In attesa della gentile artista che incarnerà questa straordi * nana personcina, ci domandiamo: « £ Simone Simon oppure Séverine che vedremo? » Riuscirò, finita la giornata negli studi, a poter guardare l’affascinante donna che ha appena ter­ minato il suo lavoro, dimenticando del tutto l’altra, il perico­ loso sosia? Gente che se ne intende ci assicura che abbiamo ampiamen­ te il tempo di fare un giro in città prima dell’arrivo del Nor­ mandie. Cosa che facciamo. Per caso la nostra passeggiata ci porta di fronte a un Uniprix. Jean tenta di convincermi ad ac­ quistare una specie di arnese funzionante insieme da coltello, da cacciavite, da punteruolo, da sega, da cavatappi e da apriscatola; ma non ho fiducia e lascio perdere. £ come per il ruo­ lo di Séverine. Mi hanno parlato di una quantità di artisti di genio che sanno fare tutto. Preferisco Simone Simon. So che non sa fare tutto, ma so che quello che fa. lo fa in modo am­ mirevole. £ il segno del vero talento. Scambiamo una specie di fracasso nella strada per un se­ gno che annuncia l’arrivo del Normandie. Finalmente è qui, la stringeremo sul nostro petto. Oh, delusione! quel frastuo­ no è causato dal rumoroso termine di un banchetto. L'arro­ sto di vitello e il pesce in salsa verde interessano molto di più del Normandie gli abitanti di Le Havre. Hanno torto, lo preferisco il Normandie e Simone Simon. Alcuni giornalisti mi consigliano di salire sulla vedetta (una vedetta è una specie di grosso 'battello piatto) che accosterà il Normandie prima del suo ingresso nel porto. Corro, giro intorno, mi perdo e non riesco a prendere la vedetta. Con al­ cuni giornalisti noleggiamo una piccola barca a motore, e cer­ chiamo di raggiungerla. Ahimè! la barca a motore è troppo lenta e non raggiungiamo proprio niente. Torniamo indietro, camminiamo per dei chilometri in questa immensa stazione, e alla fine, schiacciati come delle aringhe, siamo trascinati da una folla disparata attraverso una specie di piccola passe­ rella, del tipo a galleria, fino ai fianchi del Normandie. Corro, salgo, vedo saloni, bagni, molti bagagli. Qualcuno mi dice che « lei » è già a terra quando improvvisamente la vedo. £ seduta in un angolo, molto infastidita dalla trionfale accoglienza che schiere di giornalisti le fanno. La si direbbe una ragazzina che deve superare un esame e che pensa: « Quando tornerò a casa, avrò guadagnato una fetta di dol­

    275 ce ». Lei mi vede, e capisco subito che non ci sono barrie­ re. Si direbbe che abbiamo passato anni e anni insieme. E il inio cuore viene meno dalla gioia. Questa donna, così sem­ plice e gentile, è Simone Simon, l’ho trovata, interpreterà Séverine, e sarà magnifico. Seguiti da gruppi di curiosi, giriamo a caso per la nave. Sa­ liamo sulla passerella, bighelloniamo attraverso interminabi­ li corridoi, e parliamo del film. Che caso strano! Questo sog­ getto le piace quanto a me. Tuttavia, non ne avevamo mai par­ lato tra di noi. Fra l’altro, lei a Hollywood, io qui a Parigi, non sarebbe stato comodo. Alla fine, degli amici riescono a sistemarci in una macchina c lasciamo il porto. Non possiamo più lasciarci. Torniamo insieme a Parigi. Gabin, il fraterno Gabin, ci porta a cena al Bois de Boulogne. Tutti e tre, ci siamo già raccontati diver­ se volte la nostra vita. Si fa ugualmente tardi. Domani si la­ vora. Bisogna andare a dormire. Ci stringiamo le mani, ci abbracciamo e ci lasciamo. Stiamo assistendo a un fenomeno suscettibile di modificare completamente la vita delle nazioni. Questo fenomeno è la diminuzione, lenta ma sicura, dell’influenza di certi giornali. E confessiamo che se lo sono cercato. Un piccolo esempio tra mille. Lo cito perché si riferisce a un avvenimento nel quale sono coinvolto. Sto girando L'angelo del male, tratto dallo splendido romanzo di Zola. Questo film si svolge nell’ambiente delle ferrovie. La prima condizio­ ne per la riuscita era di poter ricostruire l’esatta atmosfera del­ le ferrovie. Per consentircelo, l’amministrazione della S.N.C.F. da una parte, e la Federazione dei 'ferrovieri dall’altra, han­ no offerto alia casa cinematografica per la quale lavoro delle facilitazioni straordinarie. Sono quindici giorni che, con Jean Gabin, Simone Simon. Ledoux e Carette, lavoriamo alla sta­ zione di Le Havre, grazie alla compiacenza degli agenti della rete. Non soltanto ci tollerano (e quando si sa che cos’è il duro lavoro del cinema, il fatto di tollerarci è già molto), ma anche ci aiutano con i loro consigli. Grazie a loro, spe­ riamo di fare un film vero, un film che i ferrovieri non scon­ fesseranno. Non un gesto, non un fatto che non sia passato al vaglio della critica amichevole di questi benevoli collabo­ ratori. E tutto ciò, da parte loro, senza interesse diverso da quello di vedere una rappresentazione della loro professione che non sia né ridicola né inesatta. Perché - cominciano a rendersene conto — se certa stampa perde la sua influenza, il

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    cinema in questo momento ne acquista, sul pubblico, una formidabile, ed è normale che le persone che devono venire rappresentate in un film abbiano la loro parolina da dire. Perché i nostri attori che interpretano ruoli da ferrovieri non abbiano l'aria di dilettanti travestiti. Gabin, con una straordinaria coscienza professionale, ha veramente studiato il mestiere del macchinista; Ledoux ha osservato il vicecapostazione per ore e ore; Carette si è messo a rompere del car­ bone e ha imparato come si carica il focolare della caldaia di una locomotiva. Sa scaldare l'acqua e sa ingrassare come un vero macchinista. Tutto questo è così raro nella nostra pro­ fessione che alcuni giornalisti ne hanno fatto un vero roman­ zo. Ed eccoli che delirano e raccontano che Gabin guida dei treni a centocinquanta all'ora tra Parigi e Le Havre. Ora. i fer­ rovieri sanno che un treno non deve superare i centoventi (sal­ vo tra Tours e Saint-Pierre-des-Corps ove. eccezionalmente, certi treni spingono fino a centotrenta). Sanno anche che non si deve lasciare, solo su una locomotiva, con la responsabilità del treno, un signore che non è un macchinista di professione. Spero che sappiano anche che noi non c’entriamo nulla con queste stravaganti fantasie giornalistiche. Gabin, con un meraviglioso coraggio, ha seguito la strada dei suoi compagni, i macchinisti delle ferrovie; adesso sa far andare una locomotiva, può fare tutte le manovre. Ma quando legge simili stupidate sui giornali, arrossisce e ritiene che tali discorsi siano un insulto per quella professione di macchini­ sta che ammira ancora di più adesso che la conosce bene. Certi giornalisti non potrebbero imparare a parlare con ri­ spetto di quello che non conoscono? La professione dei fer­ rovieri non è uno scherzo, è un grande mestiere. Per alcuni, è quasi un sacerdozio. Costoro pongono la sicurezza dei viag­ giatori e il rispetto degli orari prima della loro vita privata, delle loro comodità; non si curano dei loro disagi; sopportano le intemperie, il freddo, una vita irregolare. Rovinano la loro salute e non se ne lamentano, a tal punto sono presi dal loro mestiere. Per loro, la ricompensa più bella, quando maestosa­ mente la loro macchina accosta lungo la banchina di una grande stazione, è di dirsi: « Quelli saranno contenti, sono arrivati in orario ». « Quelli ». per loro come per noi, è il pubblico. Ci tenevo a dire questo ai miei amici di Ce Soir e appro­ fitto dell'occasione per rivolgere ai nostri compagni ferrovieri, da parte degli attori e dei lavoratori dei film L’angelo del mu­ le. l’omaggio della nostra affettuosa ammirazione.

    2TÌ

    L'associazione letteraria degli Amici di Emile Zola mi ha fatto l’onore di domandarmi di dire ai suoi membri riuniti al­ la Sorbona qualche parola su come ho realizzato L’angelo dei male. Per me non è un onore da poco, ed è nello stesso tempo un grande piacere, perché le ragioni che possono spingere un realizzatore di film ad attingere all’opera di Zola sono assolu­ tamente evidenti. C’è anzitutto l’estrema generosità di questo scrittore. Si può dire che, con la materia de La bestia umana, molti autori con temporanei, e non dei minori, avrebbero prodotto una buona dozzina di romanzi-fiume. Sull’azione principale si in­ nestano continuamente azioni secondarie talmente variate e talmente vere che trascinano il lettore, rapito, senza per que­ sto fargli dimenticare la linea generale del libro. Da ciascuna di queste azioni secondarie si potrebbe trarre la sceneggiatu­ ra di un grande film. Ritengo, per esempio, che Pierre Chenal, che ha fatto un così buon lavoro con L'Affaire Lafarge , * ne avrebbe fatto uno, almeno altrettanto buono, con la storia di Misard che, nella sua baracca da casellante, avvelena lenta­ mente, ma con determinazione, la moglie. D’altra parte, quan­ do consideriamo le opere dell’ottocento, questa ricchezza, questa profusione ci soffocano. Costoro hanno dato molto; adesso sembra che i nostri autori diano con il contagocce. Con una bella battuta, si fa un dramma teatrale in tre atti. Questa mancanza di generosità della mente va di pari passo con la crescente mancanza di generosità materiale delle no­ stre classi dirigenti. L’avarizia è divenuta, ahimè, una carat­ teristica evidente dei nostri grandi borghesi, spesso perfino dei nostri grandi artisti. Un film è una struttura limitata, e mi era quasi impossibile ispirarmi alla totalità de La bestia umana sempre restando in un metraggio commerciale e in un preventivo recuperabile. Per questo, facendomi forte di alcune note di Zola che Mau­ rice Leblond mi ha così amabilmente fatto conoscere, ho preso la decisione di attenermi all’azione principale del li­ bro, a quella che aveva germinato inizialmente nel cervello di Zola. Studiando queste note, sono stato anzitutto colpito dalla preoccupazione dell’autore di creare un ingranaggio ca­ pace di trascinare senza sosta gli eroi del suo libro, dall’idea del marito che costringe sua moglie a diventare la complice dell’assassinio, e che poi le domanda di essere condiscendente con il testimone che potrebbe denunciarlo. E, così facendo, la getta inconsapevolmente nelle braccia di quest’uomo. Cosa * Dal romanzo di Zola. Chenal trasse il film omonimo, noto in Italia come L’ar velenatrice.

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    curiosa, lui che ha ucciso per gelosia non diviene neppure ge­ loso di questo nuovo rivale. Zola attribuisce molta importanza al ritratto della lenta de­ cadenza di Roubaud e. parallelamente, alla spaventosa ere­ dità che pesa sull’amante e lo spinge a diventare l’assassino della donna che ama. Ho cercato con tutte le mie forze di far emergere questi elementi fondamentali. Un’altra idea molto precisa - quella di bilanciare i due assassinii. uno all’inizio, l’altro alla fine - aveva parecchio tentato Zola. In seguito vi ha rinunciato e ha sviluppato le conseguenze, lo mi ci sono attenuto, perché, lo ripeto, un film è limitato, molto più li­ mitato di quanto non si creda. Queste note mi hanno anche consentito di capire meglio le ragioni di Zola nella scelta dei suoi eroi: perché ha inven­ tato Jacques Lantier, facendo di lui il fratello dell’Etienne Lantier di Germinale, quindi uno degli ultimi Rougon-Macquart. Dapprima, aveva cercato di mantenere semplicemente Etienne Lantier. Ciò che glielo ha impedito sono delle ra­ gioni cronologiche. Ho assistito alla nascita di Roubaud che, in un primo momento, doveva essere un funzionario o un magistrato molto più importante. Infine ho visto crescere l’appassionante personaggio di Séverine. Che delicatezza aver­ ne fatto, non una « vamp » come diremmo adesso, ma come lui ha scritto, « una donna dolce, affettuosa, quietamente ap­ passionata. In questo modo l’orribile avventura si abbattereb­ be su una creatura tranquilla, cosa che mi darebbe dei buoni risultati, senza dubbio, per opposizione ». Più tardi, egli ha pensato di accollare a Séverine quella spaventosa infanzia di ragazzina violentata dal ricco e odioso Grandmorin. Ho man­ tenuto questa caratteristica, perché, aggiungendosi a quella della malattia di Lantier, si inquadra nel desiderio di Zola di produrre un’opera che abbia qualcosa a che vedere con la fatalità. Questa fatalità gioca prepotentemente nel libro, e spero che risulterà visibile nel film. La bestia umana di Zola raggiunge, per questo aspetto, le grandi opere dei tragici greci. Jacques Lantier, semplice macchinista delle ferrovie, potrebbe essere della famiglia degli Atridi. Certo, tutti costoro ci sorprendono per la loro intensa vita interiore, così grande e così compli­ cata da conferire loro talvolta un certo carattere di individua­ lismo. Ma non inganniamoci. Zola li ha classificati a colpo si­ curo, nella loro vera categoria umana. Essi appartengono a nazioni, classi, caste e mestieri reali. Collocando i migliori di loro, come Jacques Lantier, all’interno della classe operaia, e attribuendo loro tutte le preoccupazioni che. nella vecchia let-

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    leratura, sembravano riservate solo agli individui delle classi, borghesi e aristocratiche, Zola, uomo progressista, ha agito da grande rivoluzionario. Ho letto La bestia umana di Zola, per la prima volta, su­ bito dopo la guerra. In quel periodo abitavo nel Mezzogiorno, e credo che la contemplazione del monte Sainte-Victoire mi abbia aiutato moltissimo ad assorbire facilmente questo cibo così ricco. Perché, con Zola, siamo lontani dalle magre diete per lettori anemici. Siamo lontani da quei libretti intimisti, attualmente di moda, ove l’autore si degna, in poche pagine e in poche parole appropriate, di metterci al corrente del suo stato d’animo nel corso di una certa settimana della sua vita curiosa e personale. Zola è generoso. Ci dà tutto quello che ha, senza reticenze. E si dà lui stesso. Non calcola. Non si di­ ce: « Guarda, ecco una storia eccellente con la quale potrò, l’anno prossimo, fare un altro romanzo ». E dal momento che egli è ricco, uno dei più ricchi che siano esistiti su questa terra, e dal momento che dà tutto quello che ha, il risultato della lettura di una delle sue opere è una specie di abbaglia­ mento. Sfido chiunque a leggere La bestia umana riuscendo, ap­ pena girata l’ultima pagina, a riprendere normalmente il cor­ so della propria vita, a parlare con calma dei propri affari o anche, più semplicemente, ad attraversare una strada senza farsi investire da un autobus. Per questi motivi, sono sicuro che, se non avessi avuto da molti anni una certa familiarità con La bestia umana, non avrei accettato il compito glorioso, ma non comodo, di trarre un film da questo libro. D’altra par­ te, sarebbe inesatto sostenere che il film di cui sono l’autore è tratto dal libro di Zola. É tratto da una parte del libro di Zola e sono sicuro che con le altre parti si può ancora pro­ durre una buona decina di spettacoli cinematografici. Prendiamo, per esempio, l'avventura di Misard che ho vo­ lontariamente lasciato da parte: l’atmosfera di quella baracca da casellante, scossa dai rapidi che passano senza mai fermar­ si: quelle migliaia di viaggiatori sconosciuti, inglesi, russi, commercianti, ricchi, poveri, che vanno a Parigi o ne ritorna­ no; il giorno che la neve bloccherà il treno, c gli abitanti della baracca vedranno da vicino, potranno toccare quelle fac­ ce sino allora anonime. E, dietro tutto ciò, la terribile storia di questo marito che, lentamente ma con determinazione, av­ velena sua moglie per prenderle il denaro che ha nascosto in un nascondiglio misterioso. Mi fermo, perché, se dovessi se-

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    guire i miei desideri, credo che racconterei tutto il romanzo. Ma riconosciamo che questo caso di Misard. già da solo, co­ stituisce un soggetto altrettanto appassionante quanto quello de L‘Affaire Lafarge. Dunque, ciò che si vedrà nel mio film è soltanto una parte del romanzo di Zola. Ma ho la netta convinzione che questa parte sia la più importante. Questa convinzione è suffragata dalle note di Zola che alcune edizioni hanno pubblicato all’i­ nizio del libro. Queste note rappresentano una lettura appas­ sionante e una documentazione di prim ordine sui metodi di lavoro dell’autore. Zola dice segnatamente: « Il mio lavoro è finito solo quando possiedo tutta la documentazione neces­ saria, e ho trovato l’effetto riflesso del soggetto sulla docu­ mentazione, e della documentazione sul soggetto ». Fino a quando non ha raccolto la documentazione necessaria, si guar­ da dal costruire una trama. Che differenza con la maggior parte dei nostri famosi produttori di soggetti per film che cominciano con l’inventare un'azione drammatica con tutti i suoi artifìci, e che. in seguito, la ambientano indifferente­ mente in una miniera di carbone, tra gli ufficiali della marina, in banca, o persino, se vogliono fare del « vissuto ». in una casa chiusa. Il soggetto, ci dice Zola a proposito de La bestia umana, è semplicemente la storia di un crimine compiuto in ferro­ via. E insiste sulla necessità di procurarsi prima la documen­ tazione. Racconta di essersi rivolto alla Compagnie de l'Ouest, la quale, con grande affabilità, gli ha permesso di studiare da vicino il funzionamento e soprattutto la vita di una rete. Seguendo meglio che abbiamo potuto questo illustre esem­ pio, anche noi abbiamo cominciato col documentarci. Gabin, in particolare, ha vissuto interamente la vita di un macchini­ sta di rapido per diverse settimane. Nelle note citate assistiamo alla nascita dei personaggi principali: Jacques Lantier, Roubaud e Séverine. In un pri­ mo tempo Zola aveva l’idea di impiegare nuovamente il suo Etienne Lantier di Germinale. Ciò che glielo ha impedito so­ no delle ragioni cronologiche. Allora ha immaginato che Gervaise avesse avuto, molto giovane, un altro figlio, e che que­ sto figlio sarebbe stato Jacques. Questo personaggio è dun­ que fornito dell’età che conviene all’azione, e nello stesso tempo di quella pesante eredità dei Rougon-Macquart che fa de La bestia umana un seguito naturale delle grandi tra­ gedie dell’antichità. Jacques Lantier ci interessa tanto quan­ to Edipo re. Questo macchinista di locomotiva trascina dietro

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    di sé un’atmosfera altrettanto gravida di quella di qualsiasi membro della famiglia degli Atridi. Rimpiango una cosa: che Zola non possa vedere Jean Gabin interpretare questo personaggio. Credo che sarebbe contento. Perché gli attori che interpretano i tragici greci han­ no dalla loro il costume, il fatto che l’azione si svolge in tem­ pi già finiti e la possibilità di impiegate un linguaggio magni­ fico, ma così lontano da quello della vita quotidiana da faci­ litare notevolmente la creazione di quell’impressione di no­ biltà che deve colpire lo spettatore. Essere un personaggio tra­ gico, nel senso classico del termine, rimanendo con in testa un berretto e addosso una tuta blu da macchinista, e parlando come la gente qualsiasi, è un tour de force che Gabin ha por­ tato a termine interpretando il ruolo di Jacques Lantier in L’angelo del male. Di fronte a Gabin, Ledoux interpreta il ruolo del marito, Roubaud. Questo film è il primo che ho il piacere di girare con questo attore. Credo che stupirà molta gente. Non che faccia delle cose sorprendenti. Al contrario, quello che fa ha sempre l’aria di venire da sé. lo stesso che. e a ragione, ho visto girare le scene, dimentico, in fase di montaggio, che ho a che fare con un attore. £ Roubaud. Non ha la barba come l’aveva immaginato Zola. Siamo nel 1938 e non nel 1869. ma egli « è piccolo, già un po’ grasso, maschio, molto potente, un po’ brutale, molto onesto, di una rettitudine priva di in­ telligenza. Quando si accorge che sua moglie lo inganna, la sua collera è spaventosa. Potrebbe ucciderla. In seguito si calma. Fa quel che deve fare. Non ne faccio dunque un tipo nervoso. Tuttavia, bisogna che allenti la sua morale, dal mo­ mento che l’assassinio scioglie il legame sociale. Egli ha uc­ ciso perché la sua donna non avesse un amante, e ora soppor­ terebbe quasi un amante per sua moglie pur di nascondere il suo crimine ». Queste indicazioni di Zola le conosco a memo­ ria. Non so se anche Ledoux le conosce, ma egli agisce nel film come se questa linea direttrice avesse automaticamente guidato i suoi gesti e le sue parole. E ora arrivo al terzo personaggio di cui parla Zola. Séveri­ ne, la moglie di Roubaud e l’amante di Lantier. Molti miei compagni sono rimasti stupiti per il fatto che ho chiesto ai produttori del film, i signori Hakim, di far venire Simone Simon da Hollywood per interpretare questo ruolo. Le obie­ zioni erano queste: è una meravigliosa attrice brillante, la sua grazia e la sua eleganza sono inimitabili, può. meglio di chiun­ que, dar vita a un’operetta o a una commedia leggera, ma non è un’attrice tragica. Ora. da molti anni, ero convinto del

    282 contrario, e adesso, più che mai, sono sicuro che Simone Si­ mon ci stupirà in ruoli molto diversi da quelli che la si è vi­ sta interpretare sino a oggi. Curiosa convenzione quella che vuole che un’attrice tra­ gica abbia un aspetto tragico sin dall’inizio del film. Mi è ca­ pitato, nella vita, di avvicinare le protagoniste di spaventosi drammi passionali. In genere, erano delle donnine dolci, sor­ ridenti, e dall’apparenza assolutamente inoffensiva. Zola, a questo proposito, è preciso: « La cosa migliore sarebbe di far­ ne una donna dolce, affettuosa, quietamente appassionata. In questo modo l'orribile avventura si abbatterebbe su una crea­ tura tranquilla. Cosa che mi darebbe degli ottimi risultati, sen­ za dubbio, per opposizione. Una donna tenera, buona, calma, fatta per vivere di affetto e di sottomissione con un fondo di sensualità... » La cosa curiosa è che, di pari passo alla mia certezza che Simone Simon era la sola interprete degna di interpretare il ruolo di Séverine, lei stessa, in America, e sen­ za affatto conoscere le mie intenzioni, pensava a questo ruo­ lo e sognava di interpretarlo. Mi sia permesso, per inciso, di rendere omaggio alla chiaroveggenza dei signori Hakim che, subito dopo che ebbi loro parlato di Simone Simon, le hanno telegrafato a Hollywood e le hanno chiesto di venire. Ora che è fatta, e che tutti sono d’accordo nel riconoscere lo splendido lavoro di questa attrice in questa produzione, una decisione simile sembra normale. Niente è normale nel cinema, almeno niente di ciò che esce dai sentieri battuti. Si classificano gli at­ tori in questa o in quella categoria, e il fatto di immaginare che essi possano fare qualcosa di buono in un altro genere per un produttore rappresenta un coraggio del tutto eccezionale. Il film si limita dunque a raccontare tutto quanto riguarda i tre personaggi centrali. Questo non significa che non ci ac­ costeremo ad alcuni degli altri caratteri che Zola ha in segui­ to aggiunto alla sua storia. Si vedrà Pecqueux, il fochista di Jacques Lantier. £ attraverso questa « accoppiata », come si dice nel mestiere, che faremo conoscenza con la vita della rete. Pecqueux è interpretato in modo magnifico da Carette. Anche lui ha vissuto completamente il suo personaggio. Sap­ piamo che Gabin ha passato delle settimane a imparare a guidare una locomotiva e a familiarizzarsi con la vita dei macchinisti. Dietro di lui, Carette non manifestava meno ar­ dore nello svolgimento esatto della sua funzione di fochista. Non ignora più nulla sul modo di rompere il carbone e di ri­ fornire il focolare di una macchina. Tutte le riprese documen­ tarie che ho fatto per il film sono girate a bordo di una lo­

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    comotiva effettivamente guidata da Gabin e alimentata da * Carette. Si vedrà anche Flore. E Blanchette Brunoy, che interpreta questo ruolo con una forza e una grazia del tutto eccezionali. Essa apporta in questo cupo dramma una visione di fresca giovinezza e di robusta salute. Non era così facile, con un me­ traggio relativamente breve, fornire un indispensabile con­ trappeso agli altri elementi del dramma. Ma arriviamo a uno degli attori più importanti di questa storia: si tratta della ferrovia stessa, e soprattutto di quel­ l'elemento appassionante che si chiama locomotiva. « La Lison ». la macchina di Jacques Lantier. gioca un ruolo di pri­ mo piano. Incorrerà in un minor numero di guasti rispetto al romanzo di Zola. Il fatto è che i tempi sono cambiati, e che il materiale delle ferrovie non è più quello che era nel 1869. Ma essa sarà sempre presente nella nostra azione. La si vedrà circolare sulle rotaie, attraversare le gallerie, passare i fiumi. Si vedranno le cure assidue di cui Jacques Lantier e Pecqueux la circondano. Essa servirà anche da sfondo a una scena d'a­ more tra Gabin e Simone Simon. Tutta quella parte docu­ mentaria cui Zola teneva tanto sarà molto importante nel film. Alcuni la troveranno forse troppo importante, ma mi sembra che avrei tradito l’autore se non avessi, a ogni istante, ricor­ dato che la nostra azione si svolge nel mondo delle ferrovie, e non altrove. Mi è stato spesso chiesto perché ho ambientato il film ai giorni nostri e non prima de) 1870 come nel romanzo. Le ragioni sono molteplici. La prima, e la più importante, è che altrimenti non avrei fatto il film. Il budget necessario alla ricostruzione delle ferrovie di quel periodo avrebbe di gran lunga superato la cifra che è oggi ragionevole impiegare in una produzione. Non siamo in America. In Francia possiamo lare dell’ottimo lavoro e lottare contro i nostri concorrenti stranieri, ma a condizione di restare in una dimensione « com­ merciale ». Se i nostri produttori non recuperano i loro sol­ di, non ci faranno più fare dei film, e, se non si fanno più film, che stupendo pretesto dato ai pubblici poteri per aprire ancor più completamente il nostro disgraziato mercato ai film * « La perdita di Julien Carette è una perdita immensa. Lo è per ine. ma anche e soprattutto per il cinema e per il teatro francese in ge­ nere. Per darvi un’idea di quello che provo, vi confesserò semplicemen­ te che, senza Julien Carette, non avrei realizzato né La grande illusione. né L'angelo del male, né, certamente. La règie du jeu. Resterò inconso­ labile. » [Dichiarazione di lean Renoir a Les Nouvelles Littéraires. 28 luglio 1966.]

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    americani e tedeschi. Un’altra ragione è che le ferrovie del 1869 sono un po’ ridicole. Mi sembra che l'azione, sviluppa­ ta tra locomotive dalle ruote alte e vagoni di legno, avrebbe perso in intensità drammatica. Ho rimpianto l’adattamento solo per quanto riguarda gli abiti di Séverine. Simone Simon con I’« imbottitura » sarebbe stata affascinante. Questa modernizzazione mi ha portato a rappresentare gli1 eroi del film sotto un aspetto più curato di quello che si im­ magina leggendo Zola. Il mondo delle ferrovie si è evoluto. Oggi il personale viaggiante costituisce un personale d’élite, molto istruito, molto consapevole delle sue grandi responsa­ bilità. Anche per quello che riguarda Séverine, ho leggermente forzato in tal senso. Séverine è stata allevata da Grandmorin al castello di Doinville. Di questa infanzia, in un ambiente ricco, le resta qualcosa. Del resto. Zola non fa forse dire a uno dei suoi personaggi (Philomène): « Guardate come è vestita... per la moglie di un sottocapo! »? A parte lei. tutto quello che faremo vedere - abiti, ambienti, linguaggio - è la copia esatta di una realtà che io e i miei collaboratori abbiamo stu­ diato con cura. La trasposizione dell’azione nella nostra epoca mi ha an­ che portato a cambiare la fine del dramma. In primo luogo, perché gli strumenti di controllo sulle reti sono oggi tali che la storia di questo treno folle, che corre senza macchinista at­ traverso la campagna, è diventata assai improbabile. E, poi, perché la Francia attuale non è più quella di Napoleone III, e così com’è, con le sue qualità e i suoi difetti, ritengo sia de­ gna di essere difesa sino alla fine da tutti i suoi figli. L’autore del {'accuse sarebbe senza dubbio d’accordo con me a questo proposito. Un film, come mi ha spiegato già parecchio tempo fa Mary Pickford, non si fa da soli. Certo che, quando riesce, il realiz­ zatore riceve molti complimenti, e può succedere che gli giri la testa e che si tenga per sé tutti i vantaggi. In Francia, que­ sti esempi di vanità esacerbata sono per fortuna molto rari, c io e i miei colleghi sappiamo bene che, senza operatori, sen­ za tecnici del suono, senza architetti, senza addetti al labora­ torio, senza tecnici e senza operai, non faremmo niente. Sap­ piamo anche che, se gli attori non fossero pronti a esibirsi davanti a una cinepresa, non ci sarebbe cinema drammatico. Per questo, oltre ai tecnici e agli operai, non posso pen­ sare al grosso lavoro de L'angelo del male senza che l’imma­ gine degli interpreti venga immediatamente a danzarmi da­

    285 vanti agli occhi. Sono ancora sotto l'influsso di questo film, c vivo in sintonia con Gabin, con Ledoux, con Carette, con Blanchette Brunoy e con Simone Simon. Ma è a quest’ultima che vanno in modo più particolare la mia riconoscenza e il mio affetto. Non che lei abbia più talento o abbia lavorato meglio degli altri, ma lei è il tipo di donna senza il quale non avrei potuto costruire il mio film. Mi capita di incontrare per strada degli amici, degli amici seri, dei tipi in cui si può aver fiducia, che mi dicono: « Per­ ché hai accettato di prender dentro Simone Simon? Come si può concepire che quella fragile donnina sia mescolata a quell’orribile storia concepita da Zola? » A questi amici ri­ spondo che non soltanto l’ho accettata, ma che l’ho richiesta a viva forza. Sono io che ho chiesto che lei tornasse da Hol­ lywood e ne sono non poco fiero. Del resto i produttori de L'angelo del male hanno pensato come me che era lei la don­ na adatta alla parte, e proprio perché agli occhi degli sprov­ veduti non ne aveva l’aria. E non ho fatto molta fatica a con­ vincere quelli che conoscono il loro mestiere e che hanno subito colto quello che poteva esserci di raro in una simile interpretazione. Anzitutto, quelli che non capiscono conoscono indubbia­ mente male il romanzo. Quando si leggono in Zola le descri­ zioni di Séverine, il modo in cui cammina, si siede, i suoi de­ licati abbandoni, il suo immenso desiderio di qualcosa di in­ determinato che non arriverà mai, è impossibile non pensare a Simone Simon; e se nel film avessimo messo un’attrice dal fìsico da « vamp », crollerebbe tutto. Dai primi metri si sa­ rebbe indovinato che questa creatura sarebbe stata genera­ trice di drammi. La cosa sarebbe stata talmente evidente che mi sembra sarebbe stato inutile girare il film oltre la pri­ ma bobina, potendo il pubblico indovinare perfettamente, sen­ za andare più avanti, quello che sarebbe successo. Séverine non è una « vamp ». E una gatta, una vera gat­ ta, con un pelo di seta che si ha voglia di accarezzare, un musetto corto, una grande bocca un po’ supplicante e degli occhi pur sempre in grado di dir la loro. Ora, io so che se nel mondo del cinema c’è una gatta, è Simone Simon. La si è spesso paragonata a un pechinese, cosa anche molto carina, ma questo paragone era alquanto superficiale. Bisogna essere ciechi per non vedere che la vera gatta dello schermo è lei: si ha persino voglia di grattarle il collo per sentirla far le fusa. Ma queste sono ragioni, mi permetto di dire, fisiche, ra­ gioni di scelta d’« attrice ». e non di « commediante ». come

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    spiega bene Jouvet nel suo bel libro Réflexions d’un cotnédien. C’è un’altra ragione che ini ha portato a chiedere a Simone Simon di voler essere la mia interprete: ed è che -lei ha del talento e la qualità del suo talento è ciò che mi ha sedotto maggiormente. Non è uno di quei talenti che si mettono in mostra e fanno rumore. Mai, dopo una « espressione », si gira verso il pubblico strizzando l’occhio e con l’aria di dire: « Co­ sa ne dite? » £ un talento discreto, e per questo è consistente. Lei scivola sugli effetti, è modesta, non forza mai. e per que­ sto ha saputo essere la mia cara Séverine, questo curioso pic­ colo personaggio passivo e tuttavia distruttore, questo minu * scolo centro del mondo che sono tutte le donne che trascinano la sventura dietro i loro modi signorili. Ritengo che, senza di lei, il film non starebbe in piedi, e ritengo anche che lei non abbia finito di stupirci. Non so qua­ li sono i suoi progetti, ma ognuna delle sue apparizioni sarà certamente sconvolgente, criticata ma sempre appassionante. E poi, quelli che portano la pesante responsabilità di un ruolo non agiscono solo sullo schermo, agiscono anche sullo spirito dell’autore nel corso delle riprese. Ora, l’ardore appassionato che nella vita spinge questa ragazza affascinante verso un de­ stino che ignora, è un efficace ricostituente per un regista che si sente incapace di lavorare senza contatto umano. Ringrazio i miei amici di Cinémonde perché mi consento­ no di esprimere in questa sede tutta la riconoscenza che porto a Simone Simon per la sua affettuosa collaborazione e tutta l’ammirazione che ho per il suo grande talento.

    «Tosca» in 24 ore * Nel 1925 avevo già avuto l’idea di realizzare una Tosca, con Catherine Hessling protagonista. Vi rinunziai per ragio­ ni di diritti d’autore. Ma fin d’allora mi resi conto delle grandi difficoltà che avrei dovuto incontrare per portare a termine una tale impresa. La Tosca è infatti uno dei soggetti più pe­ ricolosi, sia perché essa si inserisce nella grande tradizione del teatro di Sarah Bernhardt, sia per l'opera di Puccini, lo ho sempre pensato, e lo penso tuttora, che non c’è alcuna ragione di trarre soggetti per pellicole da opere che hanno conosciuto espressioni perfette nel teatro, nel melodramma e nella lette• Testo apparso su Tempo, a. IV. n. 37. 8 febbraio 1940. e non com­ preso nell'edizione francese degli Ecrits.

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    natura. Un’opera cinematografica per avere un valore deve essere almeno un po’ creazione. Ora, come fare creazione do­ ve tutto è già stato creato? Se attualmente ho accettato di fare Tosca è perché, nono­ stante i notevoli pregi dell’opera di Puccini e del dramma di Sardou, credo modestamente di aver trovato la possibilità di presentare questo soggetto da un punto di vista diverso da quello dei miei illustri predecessori: mi sono messo nei panni di un regista di pellicole poliziesche. Considerando l’av­ ventura di Tosca da questo lato, ho potuto scoprire nei per­ sonaggi e nelle situazioni aspetti che, spero, non sono stati finora sfruttati. Questa concezione m’ha condotto a stringere l’azione della pellicola. Tutto avviene nello spazio delle 24 ore, dall’esecuzione, all’alba, d’un prigioniero in Castel Sant’An­ gelo, all’esecuzione di Mario e alla morte di Tosca, il gior­ no dopo alla stessa ora. Durante questo tempo seguirò i miei personaggi ora per ora, senza lasciarli mai. Ho così il modo di mostrarli in tutte le loro vicende; assisteremo a degli in­ seguimenti che vorrei ansiosi, potremo, insieme a loro, pe­ netrare nelle strade di Roma e mostrare molti aspetti di que­ sta città, così appassionante per un regista. Con essi conosce­ remo anche la campagna romana e la Roma antica: entrere­ mo in Castel Sant’Angelo, nel Palazzo Farnese, nella famosa chiesa dove ha luogo una parte dell’azione. Ecco dunque che la formula del « romanzo poliziesco » e delle « 24 ore » ci dà la possibilità di utilizzare numerosi esterni e di profittare al massimo dell’atmosfera di Roma. Que­ sta atmosfera bisogna naturalmente ricostruirla, popolare le strade di borghesi, di gente del popolo, di soldati, di mercanti dell’anno 1800. I musei di Roma mi hanno dato gli elementi necessari sui costumi e i mestieri di questa epoca. La mia am­ bizione sarebbe di dare allo spettatore l’impressione che il cinematografo esistesse già nel 1800 e che le strade di Roma apparissero come facenti parte di un documentario girato nel­ l’epoca. Tutti questi esterni tenterò di raggrupparli attorno ai punti centrali della pellicola. Per esempio quel dato punto della città, vicino alla chiesa, è stato scelto perché vi ho tro­ vato un insieme di strade sufficientemente silenziose, con un minimo di botteghe moderne, manifesti e fili elettrici: insom­ ma un vero teatro di posa. Luogo ideale di lavoro è in tal senso Villa Adriana, presso Tivoli; nella quale le ore di ripresa sono purtroppo limitate, a causa d’un vicino campo di aviazione, ma dove la diversità delle rovine, delle costruzioni, la bellezza dei panorami mi permettono di raggruppare in qualche centinaio di metri di

    288 pellicola un gran numero di inquadrature. Poiché non bisogna dimenticare che i continui spostamenti sono quelli che mag­ giormente gravano sul bilancio di una pellicola. Questa cura di fare del « documentario » anche in un la­ voro « d’epoca » non deve far credere che io mi voglia vietare la possibilità di ogni arricchimento o semplificazione laddovd supponessi che ciò può rendere l’opera più comprensibile al pubblico, lo ritengo il pubblico assai pigro, e oltre tutto ne ha il diritto, poiché paga per essere distratto e non per risol­ vere dei rebus. Così non esiterò in Tosca a barare un po' in fatto di costumi. L'azione si svolge nel 1800 e a quell’epoca a Roma la mo­ da nel ceto elevato era molto vicina a quella parigina del Direttorio. Ma mi sembra utile stabilire una frontiera fra i nostri personaggi: da una parte Mario Cavaradossi e i suoi amici partigiani delle idee nuove; dall’altra la Regina di Na­ poli e la Corte di Palazzo Farnese, partigiani delle idee vec­ chie. E per rendere la distinzione molto chiara, penso di for­ zare questa seconda categoria verso la moda Luigi XVI. mentre il primo gruppo lo presenterò con i capelli tagliati, culottes e stivali, anticipati forse di qualche anno. (n una pellicola in « costume » ciò che temo più di tutto è la confusione.

    «Il fiume» * Come dice Capitan John ne II fiume: « A ogni cosa che vi capita, a ogni persona per voi importante che incontrate, o morite un po’, oppure rinascete ». Mi è capitato qualcosa di molto importante, a me come a milioni di altre persone, e questa cosa è la seconda guerra mondiale, che è stata la cau­ sa delle mia partenza per l’America ove dovevo incontrare persone per me importanti e ove mi è sembrato di nascere una seconda volta. In quel periodo, la grande idea dei produttori di Holly­ wood era di farmi fare lo stesso genere di Him che avevo già realizzato in Europa. Fui molto lusingato nell’apprendere che i miei film erano loro piaciuti, ma essendo un essere nuovo, ansioso di esprimere nella mia opera quel che ero diventato, c’era su questo punto un totale malinteso. * La prima parte del testo è apparsa sui Cahiers du Cinéma, n. 8, gennaio 1952; la seconda, datata 4 dicembre 1971. è una lettera pubbli­ cata da Ecran 72, n. I. gennaio 1972.

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    Un’altra difficoltà derivava dal fatto che dovevo trovare un nuovo stile che potesse accordarsi con la mia nuova perso­ nalità e con la mia nuova esistenza. Il giorno in cui lessi il romanzo di Rumer Godden, Il fiume, capii che l’avevo trova­ to. Non era, quello, un progetto molto semplice. Dovevo dap­ prima accettare la legge inconsciamente formulata da Rumer Godden: essere una parte « cosciente » del mondo. £ questo il fondamento del pensiero induista. Essere cosciente è d’al­ tra parte anche la caratteristica dell’arte inglese, ed è per questo che l'india e l'Inghilterra possono entrambe riferirsi a Rumer Godden. Ma, essendo coscienti, volere essere utili, e rendersi utili in un mondo sottoposto a trasformazioni quo­ tidiane e le cui esigenze si rinnovano costantemente, è un vero problema. Il grande potere di influenzare il mondo non è soltanto un privilegio dell’artista, del soldato, del filosofo. Un cuoco, uno spazzino, o anche un mendicante possiedono que­ sto potere. E pure un regista. Prima della guerra, il mio modo di partecipare a questo concerto universale era di cercare di portare una voce di pro­ testa. Non penso che le mie critiche siano mai state troppo amare. Amo troppo l’umanità e oso sperare che ai miei sar­ casmi si mescolasse sempre un po’ di tenerezza. Oggi, l’esse­ re nuovo che io sono comprende che non è più il tempo del sarcasmo e che la sola cosa che posso apportare a questo uni­ verso illogico, irresponsabile e crudele è il mio « amore ». Evidentemente c’è in questo atteggiamento l’egoistica spe­ ranza di essere ripagato. Sono cattivo quanto gli altri, e ho come loro bisogno di sorridente indulgenza. Il libro di Rumer Godden è un atto d’amore verso l’infan­ zia. E anche un atto d’amore verso l’india, ma questo l’ho scoperto solo quando Kenneth McEldowney mi ci ha portato. Prima, credevo, come dice il prologo del film, che la storia di un primo amore poteva anche essere ambientata a Timbuctu. Alcune settimane in India mi hanno riportato a questa verità essenziale: che gli uomini non vivono nel vuoto, che ciò che li circonda esiste. Senza l’ìndia, l’incontro della piccola Har­ riet con la vita sarebbe stato molto diverso. Rumer Godden e io abbiamo avuto la buona sorte di trovare un produttore in grado di capire che il fatto di riscrivere un soggetto sul posto poteva dare dei risultati fruttuosi. Il risultato è che la straordinaria atmosfera del luogo ci si è a poco a poco impo­ sta ed è divenuta un nuovo elemento della storia, probabil­ mente il più importante. 11 dramma de II fiume è essenzialmente basato sulla clas­ sica situazione del « triangolo » con Harriet, lo straniero e

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    l’india come « vertici ». Intorno a loro, facciamo agire gli elementi complementari importanti: altre ragazze, un cugina filosofo, una gentile famiglia inglese, un cobra, un albero, un fiume e, lo spero, un po’ della nostra grande devozione per l'india. Ho rivisto recentemente II fiume. 'La proiezione mi ha con * fermato un’idea che mi inseguiva mentre lo giravo, cioè che gli indù, e penso soprattutto ai disgraziati che muoiono di fame in mezzo alla strada, stavano per conquistare il mondo. Il fiume è tratto da un libro di Rumer Godden. Questo piccolo libro è grande per quello che lascia indovinare, forse ancor più che per quello che racconta apertamente. Rumer è cresciuta in quell’ambiente di coloni inglesi che costituiva­ no l’ossatura dell’impero britannico. I protagonisti de II fiu­ me sono delle geniali evocazioni di quella classe. Sono intel­ ligenti, onesti, capaci di pietà. Sono colti, istruiti, e convinti che l’atmosfera da nursery in cui vivono scomparirà soltan­ to con la fine del sistema. Ora, questo sistema, essi lo cre­ dono eterno. Vivono, lavorano, fanno dello sport, ascoltano della musica, come lo farebbero a Londra, a Parigi o a New York. E questo di fronte a milioni di denutriti. Il miracolo è die, ancora una volta, sono i miserabili che stanno per vin­ cere. Non con le armi in mano, ma semplicemente perché credono che tutto quanto li circonda sia solo un’apparenza. L’interesse per le cose dell’india non si limita al successo di qualche guru che predica agli occidentali l’onnipresenza di Brahma; non si ferma neppure alla passione di una parte della gioventù per una musica e delle danze che corrispondo­ no al loro stato d’animo. La potenza distruttrice delle.idee venute dall’india consiste nel fatto che esse rivelano a milioni di occidentali la vanità dell’azione. 'Per quelli della mia gene­ razione, l’azione era la divinità. La forma più popolare di que­ sta azione era il lavoro. La società moderna è fondata sul lavoro. Bisogna muoversi, comprale e vendere, produrre. Tra gli adulti la meditazione è ancora in gran parte sconosciuta. Io conosco adesso molti giovani che fanno meditazione. E mol­ to pericoloso per l’equilibrio del nostro mondo commer­ ciale. I personaggi de II fiume credono nel lavoro. Credono nel­ le virtù che hanno fatto il successo dell’età vittoriana. Il sog­ getto di Rumer Godden non riguardava la condizione degli indù. Quella che io e lei abbiamo trattato nella nostra sceneg­ giatura de II fiume è la storia di una famiglia inglese simbo­

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    lo dello stato di cose che, se ci saranno ancora storici nei se­ coli futuri, sarà catalogata come la fine di un’epoca. Forse il pubblico indovinerà che i pescatori che mostro sui battelli del fiume, i facchini che animano le fabbriche con le loro corse incessanti, le folle che circolano nel bazar e gli uomini di tutte le classi che sonnecchiano sui gradini dei templi so­ no inconsciamente i fautori del crollo del mondo eretto dal­ la tecnologia occidentale. Non si ribelleranno, non prenderanno le armi, acconsen­ tiranno a tutto. Dolcemente, a loro insaputa, la loro credenza nella vanità dello sforzo sommerge il mondo. Cosa importa che gli aerei funzionino e che i treni arrivino in orario, dal momento che questi accessori sono soltanto un’infima mani­ festazione del grande sogno di Brahma?

    « La carrozza d'oro » * Nonostante la mia grande ammirazione per il testo teatrale di Mérimée, ho la certezza che non se ne può fare un film co­ sì com’è. Il fatto che il film fosse girato in Italia mi ha dato la chiave d’approccio al nuovo soggetto. £ difficile, se non impossibile, girare un film di stile stra­ niero in un determinato paese. In Italia i buoni film sono ita­ liani. 'Ero dunque deciso a fare della Carrozza un film ita­ liano. Ciò non vuol dire che io sia sicuro di fare un buon film, ma semplicemente che prendo delle precauzioni. Ho cominciato coi decidere di dimenticare il Perù. Non ci sono più Périchole. Se ci fosse una Périchole, non girerei il film in Italia ma in Perù con una giovane meticcia. Sono in Italia, il mio film si svolgerà dunque in Italia e ne sarà in­ terprete una grande artista italiana. O si fa del documentario o si fa della finzione. L’intera azione si svolgerà in una scena italiana. Sarà un’azione teatrale. La realtà esteriore non gio­ cherà alcun ruolo. Spero che vi si aggiungerà un po’ di realtà interiore, ma questo ce lo dirà il futuro. In Mérimée, la Périchole è un’attrice. Nel mio film, Camil­ la è l’attrice. Nel testo teatrale, la « carrozza d’oro » simbo­ leggia la vanità mondana, lo stesso nel film. La conclusione è in entrambi provocata dal vescovo. Su questi punti i miei • La prima parte di questo lesto è apparsa su Radio-Cinéma-Télévision, n. 165. 15 marzo 1953; la lettera a |can Vilar è datata 21 di­ cembre 1968.

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    collaboratori e io abbiamo inventata una storia che potrebbe intitolarsi La Commediante, il Teatro e la Vita. £ impossibile girare in Italia senza subire l’influenza ita­ liana. Il fatto si manifesta in un film anche attraverso mo­ destissimi aspetti materiali: la forma del bicchiere che il trovarobe avrà appoggiato su un tavolo, non si sa in quale rapporto con i tavoli e le finestre. Questa influenza esiste anche in America e in Francia. Si è cercato di girare dei film francesi a Hollywood: conoscete il risultato. La verità è che, quando ci si riesce, si crea un proprio mondo. La Parigi di Monsieur Verdoux non è Parigi, è qualcosa di appassionante ma di diverso, è il mondo di Chaplin, ma di un Chaplin che vive a Hollywood. La mia ambizione sarebbe, con La carroz­ za, quella di creare un mondo tutto mio e influenzato dal fat­ to che in questo momento vivo a Roma. Questa influenza, al di là dell’esempio del trovarobe, si esercita in tutti gli istanti della vita. Come non riconoscere nel portiere che vi apre la porta un fratello di qualche personaggio della commedia dell’arte? La mia storia è quella dell’attrice o piuttosto, come diciamo in francese, dell’interprete [comédienné]. C’è una grande dif­ ferenza tra un’attrice e un’interprete. Rintintin, cane lupo, è un attore. Chaplin è un interprete. La Magnani ha recitato nei ruoli di Maya e di Anna Christie. Ha fatto del caffè-con­ certo. Ha interpretato sullo schermo i ruoli più naturali e più improvvisati. Non è soltanto una personalità che viene sfrut­ tata: è anche un’attrice che può interpretare un ruolo... iden­ tificarsi con un personaggio. Possiamo dunque conferirle il titolo di interprete, e sono felice che voglia simbolizzare nel mio film tutte le altre interpreti del mondo. Vi ho detto che il film era una fantasia, una finzione. Il cinema in bianco e nero è imbattibile nel genere acquafòrte, ove i bianchi e i neri contrastano violentemente. Per illustrare la mia allegoria, che vorrei amabile, degli acquarelli dai toni puri mi sembrano più appropriati.

    Caro Jean Vtlar, sono molto sensìbile all'onore che mi fate presentando La carrozza d’oro al T.N.P., e questo parallelamente a La carrozza del Santo Sacramento. Ammettendomi a questo accostamento mi conferite un titolo di nobiltà. Non so quel che Mérimée ne avrebbe pensato. Io me ne sento gonfio d’orgoglio. Quel che mi rassicura un po’ è che ho fatto tutto il pos­ sibile per allontanarmi da Mérimée, e che credo di esser riu­

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    scito a raccontare un’altra storia, avendo come unico tratto comune con il capolavoro teatrale l’aneddoto di un’attrice che diventa l’amante di un viceré del Perù. Se si fosse trattato di un concorso, come nel caso di Bere­ nice, su un soggetto che una principessa un po’ saccente si divertì a proporre a Racine e a Corneille, mi sarei tirato in­ dietro, certo come sono di non essere né Racine né Corneille. Per tornare all’aneddoto, sono convinto che, senza Méri­ mée, sarebbe caduto nell’oblio. La storia autentica sarebbe quella di una india di buona famiglia, cui diversi cronisti dan­ no il nome di Périchole, e di un viceré del Perù, evidente­ mente di nascita spagnola, che ne era innamorato. Il viceré le era affezionato perché suonava la chitarra, cantava piacevol­ mente, e soprattutto perché la sua dolcezza e la sua sempli­ cità lo mettevano al riparo delle pretese delle dame europee della sua corte, recentemente arricchitesi con l’oro del Perù. La sposò. Il re di Spagna, gridando allo scandalo, volle punir­ lo. L’intervento del vescovo di Lima lo soddisfece. Si accon­ tentò di richiamare in patria il viceré che, in compagnia della sua amata, si ritirò in un piccolo castello della campagna spa­ gnola. La Périchole gli diede una mezza dozzina di bei bam­ bini. Entrambi vissero lunghi e tranquilli anni, lontano dal­ l’oro e dagli intrighi del Perù. Nessun rapporto con lo splendido lavoro di Mérimée, e neppure con il film che ho girato in Italia. In questo film il prestito più evidente ottenuto da Mérimée è forse quello del vescovo, un personaggio che mi tentava troppo perché riu­ scissi a non inserirlo. Credo al diritto degli autori di andare ad attingere quel che va bene per loro dove lo trovano. 'Molière, Shakespeare, La Fontaine hanno ripreso, senza vergognarsene, le storie di Esopo, di Plauto, dei novellieri italiani e di molti altri. L’han­ no fatto con un’amichevole delicatezza nei confronti dei loro precursori. La nozione di plagio è nuova. In altri tempi una storia apparteneva a tutti. Ciò che costituiva il marchio del­ l’autore non era l’azione: era lo stile, era il dettaglio, era l’assimilazione di Scapin, personaggio della commedia del­ l’arte, da parte di un certo Molière, borghese di Parigi. E a nessuno veniva in mente di andare a dire a Molière: « Hai plagiato un italiano ». I romantici spostarono il valore di un’opera sullo sviluppo dei fatti, sulla sorpresa di un finale inatteso, su quello che chiamiamo suspense. Soffriamo ancora di questa eresia. I greci credevano così poco alla trama che, prima di cominciare la commedia o la tragedia, un coro ne esponeva l’azione agli spettatori, che d’altronde la conosce­

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    vano già perfettamente. Ma Fautore voleva esser certo che il pubblico non si sarebbe lasciato sfuggire l’essenziale: i ca­ ratteri, i particolari delle situazioni, a beneficio del super­ fluo, cioè la sorpresa nello sviluppo degli avvenimenti. Dobbiamo rispettare le credenze anche se non le condi­ vidiamo. Esistono tanti mezzi per trasformare una menzo­ gna in verità. Ci tengo dunque a rispettare questa religione della trama cui una parte del pubblico è ancora attaccata. Se avessi seguito più fedelmente Mérimée, questo pubblico avreb­ be preteso che la mia fedeltà fosse totale e avrebbe sofferto dei miei inevitabili tradimenti. Scostandomi da Mérimée, cor­ ro il rischio di veder accettare il mio lavoro come una crea­ zione originale. Cost facendo, ho evitato a me stesso grandi sofferenze. Nel caso di un adattamento puro e semplice, avrei vissuto nel rimorso; non sarei potuto sfuggire alla tirannia di un grande che ammiro. Girandogli le spalle, avevo la sen­ sazione di rendere omaggio all’indubbia forza dell’autore de La carrozza del Santo Sacramento. Devo aggiungere che mi ero fissato un compito molto pre­ ciso: fare un film con Anna Magnani. Volevo che questo film potesse valorizzarla senza per questo basarsi sugli elementi che, prima della nostra collaborazione, avevano contribuito al suo successo. Non ho bisogno di dirvelo: ammiravo senza riserve i risultati della sua collaborazione con Rossellini e con Visconti. La mia diffidenza nei confronti di queste rea­ lizzazioni aveva la stessa origine della mia diffidenza rispetto a Mérimée. La Magnani è la quintessenza dell’Italia. Ella è anche una personificazione assoluta del teatro, quello vero, con gli scenari di cartapesta, le lampade fumanti, gli orpelli dagli ori scoloriti. Dovevo logicamente rifugiarmi nella com­ media dell’arte e trascinare Anna con me in questa impresa. Dal momento che non si fa un film da soli, le proposi di ag­ giungere a noi un collaboratore. Fummo d’accordo su Vi­ valdi. Ecco la storia de La carrozza d’oro, girata in lingua ingle­ se, in Italia, da un regista francese. Posso chiedervi, caro Jean Vilar, di attirare l’attenzione del vostro pubblico sul fatto che io non sono responsabile dei dialoghi della versione francese? Sono stati doppiati in un modo perfetto da tecnici di prim’ordine, ma un doppiag­ gio non potrà mai avere uno stile perché le parole corrispon­ dono ai movimenti delle labbra prima di corrispondere ai sen­ timenti dei personaggi. Grazie ancora, caro Jean Vilar, d’aver voluto presentare il mio lavoro in queste circostanze eccezionali. Riferite ai

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    vostri spettatori il mio rammarico di non essere con voi sta­ sera. Per mantener fede a una promessa fatta molto tempo fa, sono dovuto andare a Londra a presentare il mio film La grande illusione alla televisione inglese. Auguro a tutti voi un buon Natale. Con amicizia.

    « French Can-Can » * Sono desolato di non poter andare a New York per la pri­ ma di French Can-Can, non tanto per French Can-Can che conosco a memoria, ma per New York che mi manca molto. Sono trattenuto a Parigi dal montaggio di un altro film. ** Confesso che passo delle ore molto piacevoli al fianco di In­ grid Bergman che mi sorride gentilmente dal fondo della mia moviola. Il soggetto di French Can-Can è decisamente infantile e al­ trettanto poco sorprendente di quello dì un western. Mi sento sempre più attirato verso questo genere di storie, delle storie abbastanza deboli da lasciarmi libero di divertirmi a fare del « cinematografo ». Senza essere molto forte in greco, so che ciò consiste nel « descrivere dei movimenti ». I movimenti che mi piacciono non sono necessariamente prodotti da cavalli al galoppo o da automobili che corrono per le strade. Mi basta il gesto di una ragazza che aggiusta la sua chioma, o il respiro di una bella donna che dorme nuda sul suo letto, o un gatto che si stira. In French Can-Can ho tentato alcuni movimenti di questo tipo, con Fran$oise Amoul che si porta dietro il suo cesto di biancheria, con i piccoli negozianti della strada di Parigi, con delle ballerine che si esercitano. E perché non confessare che sono stato molto innamorato di Nini la lavan­ daia? Ciò non sarà forse sufficiente a certi spettatori. C’è in que­ sto momento una seria controffensiva del romanticismo bor­ ghese, del resto mascherato. Ruy Bias ha indossato la tuta blu da operaio o la giacca da impiegato. Verso il 1870 un gruppo di giovani che poi sono stati chiamati « impressionisti » aveva creduto di liberare l’arte da qualsiasi traccia di letteratura. Dopo cinquant’anni di sfor­ zi, avevano convinto il loro pubblico a considerare, in un quadro o in un brano musicale, il soggetto come secondario. Mi ricordo una grande arrabbiatura di mio padre a proposito * Testo datato 7 aprile 1956. *• Eliana e gli uomini.

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    di uno dei suoi quadri che rappresentava una ragazza con la testa reclinata e che un mercante aveva ritenuto commerciali intitolare II pensiero. Furioso. Renoir proclamò: « Nei miei quadri non si pensa ». È una vecchissima battaglia che gli artisti hanno spesso vinto utilizzando l’arma deU’ipocrisia. I pittori del Rinasci­ mento se la cavavano intitolando uno studio di una loro mo­ della che allattava un neonato Madonna Vergine col bambino. Forse sarò obbligato anch’io a mascherare i miei innocenti personaggi da intellettuali e, per seguire il gusto del mo­ mento, a turbare le mie future piccole lavandaie con orri­ bili problemi. Tutto ciò non ha molta importanza, voglio dire i miei film e alcuni altri. Se mi servo di esempi così gloriosi è solo per illustrare la mia teoria.

    « Eliana e gli uomini » * Vi ringrazio di esser venuti a here un bicchiere con noi, e sono soprattutto molto contento che siamo tutti insieme, non per festeggiare, ma diciamo per rallegrarci della venuta nei nostri studi di Ingrid Bergman e Mel Ferrer. E, mio Dio, per quanto mi riguarda, ciò mi consentirà di tentare di riallac­ ciarmi a una certa tradizione che avevo un po' dimenticato, cioè di tentare di fare un film in cui non ci sia psicologia. Sento da qualche tempo una certa diffidenza verso la psk oologia, quindi farò un film in cui non ci sarà psicologia. Spe­ ro che ci saranno dei caratteri veri, e spero soprattutto che questi caratteri veri si influenzeranno gli uni con gli altri e che non ci saranno né ruoli maggiori né ruoli minori. Spero cioè di mostrare con questo film, non quella cosa assolutamente abominevole che chiamiamo l’anima di un solo indivi­ duo, che si analizza, si apre e si mostra in tutti i suoi aspetti, ma spero di poter parlare un po’ di quel che succede in un gruppo di individui, con persone che sono mosse da ambizio­ ni diverse, e spero che i movimenti fisici di questi perso­ naggi, così come le loro parole, aiuteranno a spiegare questa azione. Detto in altri termini, tento di fare un passo avanti * La prima parte del testo costituisce la presentazione del film alla stampa all’inizio delle riprese ed è apparsa su Arts, n. 544, 30 novem* bre 1955; la seconda parte è un testo originale improvvisato dall'autore e registrato, con musiche di Joseph Kosma, nel 1956 su disco Vega. serie Medium, T 35 M 2502. dal titolo Jean Renoir et Vénus.

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    nella direzione che credo buona - posso sbagliarmi - che è la direzione de La règie du jeu. Per quanto riguarda Ingrid, il fatto di girare con lei è un progetto molto vecchio. Sono andato in America in seguito a un telegramma del produttore David O. Selznick che mi chiedeva di girare per lei Giovanna d’Arco. Lei non ne sape­ va nulla e non mi conosceva aifatto. E io sono arrivato in America dove non ho girato Giovanna d’Arco ma dove alme­ no ho conosciuto Ingrid. Abbiamo fatto insieme una quanti­ tà di progetti straordinari, un progetto meraviglioso per esem­ pio, ma che era sempre troppo ambizioso, i produttori non l’hanno voluto, di modo che non si è girato. Per esempio un romanzo di Mary Webb, Sarn, che senza dubbio conoscete, una bella storia, solo che l'eroina ha il labbro leporino. E evi­ dente che tutta Hollywood era contro Ingrid che si faceva un labbro leporino per interpretare l'eroina di un film. Allora, non si è girato. Insomma, la nostra collaborazione in Ameri­ ca si è limitata a numerose riunioni, ci divertivamo a man­ giare insieme, a far arrostire la carne. Ingrid brillava in par­ ticolare in fatto di gamberi. Figuratevi che in California cre­ dono che non ci siano gamberi! Invece, i gamberi in Cali­ fornia ci sono, solo che i californiani non lo sanno, e così de­ vono essere svedesi e francesi a trovare i gamberi. E quando li abbiamo trovati, li mettiamo dentro dei tegami, aggiungiamo delle erbe aromatiche, li facciamo cuocere e mangiamo i gamberi, ed è molto piacevole. Tutto ciò ha molto più valore che se avessimo fatto insieme dei film psicologici! Adesso, quindi, siamo quasi vergini per una collaborazione che avverrà su un’altro piano, e cominciamo con una storia che vorrei anzitutto allegra e incalzante. La vorrei anche un po' sarcastica. Allora, proveremo; proveremo a fare un po’ di critica della nostra epoca. Per essere più liberi, abbiamo scelto un’epoca che non è la nostra, perché se ci mettessimo a raccontare delle storie della nostra epoca non si sarebbe mai finito, non è vero? La gente adesso è un po' suscettibile. Se, per esempio, signore e signori giornalisti, ammettete che io faccia un film contro i giornalisti, voi ce l’avreste molto, moltissimo con me! Mi permetto di dirvi una cosa: ed è che tutte le professioni non manifestano la stessa benevolenza, ci sono molte persone assai suscettibili. Allora, il ritorno al passato è una comoda soluzione. Mi è stata attribuita l’intenzione di fare un film sul gene­ rale Boulanger. In effetti, per un momento, dato che si trat­ ta di un’avventura politica mi sono detto: « Perché non pren­ dere delle persone, un personaggio che è esistito nella sto­

    298 ria? » Ma, subito dopo, con i miei produttori, abbiamo pen­ sato che era meglio restare nella finzione pura, che era più comodo. La mia storia, d’altra parte, è una storia troppo fantastica perché le si possa attribuire qualsiasi parvenza di realtà; è meglio partire dicendo che è una storia falsa. E poi, se fosse una storia vera, bisognerebbe fare della psicologia e io non voglio fare della psicologia. £ la prima volta che Ingrid e Mei lavorano in uno stu­ dio francese. Ero veramente felice di vedere che essi erano felici, che erano contenti. Sì, c’è negli studi francesi un’atmo­ sfera assai straordinaria. C’è un disordine insensato, ma cre­ do che esso aiuti, che vada bene. Credo che l'organizzazione non vada bene per il cinema. Posso darvene un esempio mol­ to semplice: è la storia dell’industria francese. Ho conosciuto l’industria francese in un periodo in cui era organizzata mol­ to bene. C’erano persone come Gaumont. Pathé. Aubert. C’erano grandi organizzazioni, grandi studi, e. credetemi, « era una faccenda seria! » C'erano delle saie, e poi degli « arnesi » e funzionava, e delle riviste, e dei libri sorprendenti, e dei « programmi », e delle « cose » così. Ebbene, in quel periodo non si faceva altro che « porcherie »! Per fortuna che poi c’è stato un uomo che si chiamava Hi­ tler, che ha fatto molto male aU'umanità. ma che ha fatto un favore al cinema francese. Ed è stato di inviare in Francia dei produttori che non potevano restare in Germania. Questi produttori avevano una qualità, avevano anche molte qua­ lità, avevano audacia, ma soprattutto avevano una qualità, cioè non avevano soldi. Siccome in quel momento anche Aubert, Pathé e Gaumont erano falliti, si è iniziato a fare dei film con degli assegni a vuoto, o cose simili, e abbiamo cominciato a fare del buon cinema! Sono convinto che è una cosa eccellente, e lo spiego spesso a Hollywood, lo spiego ai personaggi che hanno una grande importanza per i destini del cinema, dico loro: « Sentite, prima di fare dei capolavo­ ri, bisogna fallire; dopo che sarete falliti, farete dei capo­ lavori! » Sì, il disordine, o invece no. Sentite, in questo momento sto scherzando, lasciatemi ricondurre la cosa alle sue vere pro­ porzioni. Quel che voglio dire è che bisogna che le cose re­ stino su un piano personale, e che quando le organizzazioni diventano mostruose, quando i produttori divengono produt­ tori di trenta film alla volta, ebbene, diventa esattamente la stessa cosa dei capostazione che fanno partire ■ treni: in­ somma, essi non conoscono i treni, non sanno quello che c’è dentro, e se si domanda loro qual è il colore del vestito

    299 della signora che è nel vagone 2403, non lo sanno, e biso­ gna sapere il colore del vestito della signora che è nel vagone 2403 se si vogliono fare dei film, ecco! Credo che dopo questo accenno molto sincero a certi pro­ blemi generali, posso dirvi ancora qualche parola sul mio lilm. Esso è fatto per Ingrid Bergman. Mon ho detto « su » In­ grid. £ un po’ una rivincita per non aver potuto girare con lei a Hollywood, e allora, siccome Mel Ferrer voleva girare con lei, abbiamo detto: faremo un film insieme, e un film che sarà il contrario di tutto quello che lei ha fatto sinora; fa­ remo un film allegro, perfino burlesco per certi aspetti, e cercheremo soprattutto di fare un film con un gran ritmo, estremamente incalzante; questo film avrà una struttura ricca di colpi di scena, sarà, se così posso dire, portato sullo scher­ mo da una troupe di attori veramente straordinari, tutti, e che possono dare un po’ di quel che ammiro tanto nel nostro mestiere, nella nostra professione, cioè un po’ della comme­ dia dell’arte; spero che ci sarà un po’ della commedia del­ l’arte nella nostra storia. Il film avrà una versione inglese, e questa versione inglese non sarà una traduzione: questa versione inglese è scritta da un grandissimo scrittore americano, Cy Howard; è lui che permetterà forse a questo film francese di superare la bar­ riera americana. Per quanto riguarda gli americani ho anche un vecchio compagno che mi ha aiutato a fare La carrozza, ed è... Ma. sentite, non posso nominare tutti, per il fatto che sono tutti dei vecchi amici; dato che sono dei miei vecchi amici, è del tutto naturale che siano qui e che non debba par­ larne. E così! Insomma. cominciamo un’avventura molto faticosa. Ho scritto questa sceneggiatura in cinque-sei mesi, sono sei me­ si che ci sono sopra; ogni volta c’era qualcosa che non anda­ va, o io non la trovavo buona, o i produttori pensavano che ci fossero dei difetti, e avevano ragione loro, ce n’erano, e co­ me! Finalmente, credo che adesso quasi tutto funzioni, e che si possa dare inizio a questa avventura. Grazie per la vostra attenzione. Spero di non avervi annoiato troppo.

    Eliana e gli uomini. £ il titolo di un film che ho appena terminato. E estremamente grave terminare un film, perché si è assaliti dai dubbi; ma credo che accada la stessa cosa in tutte le opere umane. Senza dubbio è la ragione per cui i cuo­ chi non sono ghiotti... Mi pongono spesso questa domanda: « Facendo questo film, o quest’altro, avete voluto dimostrare

    300 qualcosa? > E ogni volta rispondo di no, oppure rispondo di; sì, perché in realtà, è evidente, se si pensa all’oggetto del film stesso, no, certamente, non ho voluto dimostrar: nulla, ma si vuol sempre dimostrare qualcosa, si finisce per farsi della vita una certa opinione, si crede di sapere certe cose, si ha voglia di aprire delle finestre su paesaggi sconosciuti. Ades­ so, quel che dico sembra estremamente pretenzioso, un fìhn non si fa da soli, parlo come se fossi un poeta, e come se fossi il solo, solo al mio tavolo di lavoro, con una penna e un foglio di carta durante la composizione di un poema. Quel poema che è un film, non lo compongo da solo, siamo in una quantità a farlo, ci sono gli attori, i tecnici, gli operai, e c’è la musica. In fondo, l’autore esprime forse delle idee più generali, l’attore esprime forse delle idee più particolari, il compositore è forse tra i due. Ma torniamo a tEliana, Eliana e gli uomini. Chi è Eliana? E molto semplice, ho la mia opinione in proposito, sono certo che Eliana è Venere. E anche Ingrid Bergman, ma è prima di tutto Venere. Venere, di tanto in tanto, discende sulla terra, gli dei dell’Olimpo discendono sulla terra, anche ai giorni nostri. Amano ricordarci alcune verità essenziali. Amano ri­ cordarci che solo la bellezza, la pelle, gli occhi di una donna contano, i divini misteri della grana della pelle della donna che si ama. Sapete, è molto importante la grana della pelle della donna che si ama, molto più importante di una teoria. Dunque, l’altro giorno ho incontrato Venere, era scesa a fare un giretto, a passeggiare in una via di Parigi. Allora l*ho fer­ mata e le ho chiesto se voleva girare un film. Le idee sono essenzialmente sfuggenti, e mi piacerebbe fissare Venere su uno schermo, non è spiacevole di tanto in tanto rimettersi in contatto con i suoi veri tratti, la curva del suo naso, il lobo delle sue orecchie. Dunque, Eliana è Venere, Venere con tutta la sua ‘biondezza, una biondezza squisita, con dei sot­ tilissimi capelli un po’ folli all’attaccatura del collo; è molto piacevole, si ha voglia di toccarli, io non ho osato, certamente. E poi ci sono i denti, c’è questa gaiezza continua, questa spe­ cie di dono di se stessa. Venere non sa darvi il buongiorno senza che si abbia l’impressione che ella si dia interamente, ed ella si dà interamente. Il contrario di quelle bellezze fatali, decadenti, di quei richiami alla disperazione che il diavolo ha cercato di far diventare di moda. Ma di Venere ho fatto una polacca. E molto importante che sia una polacca perché ha delle idee un po’ stravaganti. La sua idea più stravagante è la sua mania di credere di avere una missione; si crede destinata a essere l’ispiratrice di per­

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    sonaggi ■segnati dal destino e crede di poterli aiutare a rea­ lizzare il loro destino. Abita a Parigi, con sua zia, e faticano a pagare l’affitto. Ha dovuto lasciare la Russia perché in disaccordo con la polizia dello zar. Siamo nel 1900, la Po­ lonia apparteneva ancora alla Russia, ed Eliana è rimasta invi­ schiata in certe attività che la polizia non approva. Suo ma­ rito, il principe Volodia, amava fabbricare delle bombe, e ne fabbricava moltissime, con l'idea molto precisa di gettarle sullo zar. Allo zar tutto questo non piaceva, si capisce. Volodia fabbricava le sue bombe nelle sue cucine: chiede­ va ai cuochi di ritirarsi, prendeva delle casseruole, poi, così come si fanno delle salse, fabbricava le sue bombe. Disgra­ ziatamente, era molto maldestro. Sì, un giorno ha sbagliato una miscela e ha fatto saltare tutto. Proprio in quel giorno Eliana era andata in campagna a cogliere le margherite in un gra­ zioso prato, con delle pecore graziose, e altre graziose ra­ gazze dai capelli a fiori. E tra questo quadro campestre, que­ ste margherite di cui faceva un mazzolino, e la morte brutale di suo marito è tale il contrasto che è possibile che sia que­ sto ricordo ad averla influenzata, ad averla indotta a ritenere che la margherita sarebbe stata per lei una sorta di fiore ma­ gico, per l’avvenire; questa margherita è non soltanto un por­ tafortuna, ma un simbolo, il simbolo dell’azione che Eliana crede di esercitare sul destino degli uomini cui si rivolge. Adesso conoscete Eliana. Bisogna che vi parli degli uomi­ ni, dei suoi uomini, degli uomini insomma ai quali lei si interessa dopo che il suo caro Volodia è scomparso in pez­ zettini nel cielo di Varsavia. Il primo di questi uomini è un certo Lionel, che sarebbe un compositore assolutamente affascinante se continuasse a comporre delle polke per il caffè all’angolo; invece Eliana gli ha messo in testa che bisogna che egli componga una grande, una grandissima opera. Quest’opera si chiama Eloisa c Abelardo. Siamo nel salotto di Eliana, un mattino, Eliana e Lionel suonano il piano a quattro mani. Eliana si annoia, si annoia da morire. Sbadiglia. Per me, il regista che la guar­ da sbadigliare, è molto piacevole, è meraviglioso, perché Elia­ na, Venere, sbadiglia come nessun’altra donna sa sbadigliare: sbadiglia un po’ come i gatti d’Angora, sapete, i gatti d’Angora, quando s’annoiano un po’ o i muscoli tirano loro la pelle, allora, con la bocca completamente spalancata (non sembra che lei possa spalancarla allo stesso modo), si vede tutto, il palato, nero per i gatti d’Angora, è rosa, di un rosa squisito, per Venere, e Lionel non approva affatto questo spettacolo. £ troppo stupido per questo, pensa alla sua opera, non ca-

    302 pisce perché la donna che l’ha ispirato, che l’ha spinto a comporre quell’opera, si metta a sbadigliare quando lui la suona. Infine, un avvenimento abbastanza inatteso pone mol­ to felicemente termine a quel malaugurato spettacolo: passa­ no per la strada dei soldati che si recano alla parata del 14 Luglio. Le loro trombe, i loro tamburi, fanno un baccano in­ fernale. Eliana si precipita alla finestra, li guarda con gioia. Del resto, la capisco, perché nel 1900 i soldati francesi erano magnifici, e quelli, pensate, sono degli zuavi. Lionel, irritato, scompare dalla vita di Eliana ed è rimpiazzato da Martin Michaud. Martin Michaud è un personaggio che la zia di Eliana, una donna pratica, giudica molto utile, dirò addirittura indi­ spensabile. Eliana è una vera principessa polacca, non sa cosa sia il denaro, non l’ha mai saputo. Non se ne cura, non ha per lei alcun valore; d'altronde, lei sarebbe altrettanto felice come mendicante che come milionaria. Ma, in fondo, alla zia piace il caviale, lo champagne e le perle, e trova quindi che il signor Martin Michaud, ricco fabbricante di calzature, ha del buono. Questo Martin Michaud non è molto giovane, ma è un uomo affascinante, gioviale, un buon ragazzo; ha un modo di dire « principessa » con la voce che gli trema un po’ che diverte enormemente Eliana. Le propone di sposarlo. Eliana capisce che sua zia ha voglia di caviale e di cham­ pagne, e accetta. La vera ragione è che c’è forse una missio­ ne anche con Martin Michaud: la calzatura, si sa, conta, ed essere la musa del vitello al cromo o del capretto crostato, do­ po tutto, può risultare seducente per Eliana; evidentemente la grande musica non vale tutto ciò, e Martin Michaud ne appro­ fitta per attirare Eliana. In attesa, la conduce alla parata del 14 Luglio. Questo Martin Michaud ha una caratteristica: è in realtà un personaggio molto feroce, è estremamente am­ bizioso. Ha molto denaro, ma ne vorrebbe ancora di più; è molto potente, ma vorrebbe esserlo ancora di più e, in fondo, la distinzione di Eliana, il suo rango di principessa e anche la sua bellezza saranno qualcosa che egli aggiungerà al suo capitale. Tutto ciò avrà il suo peso in questa faccenda. Prima di andare oltre, vorrei presentarvi uno degli inna­ morati di Eliana, uno dei più importanti. Solo, non so come presentarlo, perché questo innamorato è multiplo. Questo in­ namorato è la folla; questo innamorato è il popolo di Parigi. Eliana ha molto fascino. Venere non ha che da camminare perché la si guardi. E la si voglia seguire, toccare. I parigini sono estremamente sensibili a questa sorta di cose. Quando Eliana è per strada, essi sono sensibili al fascino di Eliana.

    303 Ora, eccola partita per la parata del 14 Luglio, accompa­ gnata da Martin Michaud. La folla li agguanta, li trascina, li travolge, li separa, lui molto violentemente, lei gentilmente. E come portata da mani amiche. Senza essere irrispettosi, beh, si è innamorati. £ in mezzo a questa gente, è felice e grida « viva Rollan » (il generale Rollan è l’eroe del momento, il grande generale Rollan che forse domani abbatterà la Re­ pubblica e prenderà il potere), naturalmente non riesce a ve­ derlo, in una parata non si vede nulla, si vedono delle ban­ dierine che sventolano, dei capelli di signora, degli ombrelli, si distingue ogni tanto vagamente un cavallo che caracolla rdl'orizzonte. E come in tutti gli spettacoli di strada, non si vede niente. Ecco che in questa folla, all’improvviso, Eliana si attacca istintivamente al braccio di un bel giovane, un uomo molto diverso dagli altri, un po’ come lei. Si chiama Henri de Chevincourt. Nella vita non fa niente, non che sia ricco (non credo che abbia molto denaro), ma è pigro. Ne è molto fiero. Il 1900 è la grande epoca della corsa verso gli affari. Ci si agita. Lui, Henri, non si agita. Sostiene che il suo ideale sarebbe la pigrizia universale, per i ricchi come per i poveri. Ecco dunque Eliana appesa al braccio di Henri con tanta più insistenza per il fatto che Henri le ha promesso di presentarla al generale Rollan (il generale Rollan è un suo amico). Hen­ ri. d’altra parte, nella mente di Eliana, è esattamente il con­ trario dell’uomo che potrebbe interessarla: pensate, un uo­ mo che non ha alcuna ambizione. Rollan, è un’altra storia, un signore che domani sarà forse re di Francia! Aiutarlo a conquistare il potere, che missione! Così, immediatamente, lei gli offre una margherita. Il generale Rollan naturalmente l’accetta, non perché crede alle margherite, ma perché Eliana è bella, e il gesto con cui presenta quella margherita è di una grazia infinita, e perché Rollan è prima di tutto un grandis­ simo ammiratore del bel sesso. Rollan è il contrario di Henri, Rollan si immagina di essere ambizioso, Rollan ama le accla­ mazioni della folla, sa rispondere a queste acclamazioni, sa farsi amare, è capace di avere il piccolo gesto che fa pensare alla sartina, sperduta nella trentacinquesima fila, che è pro­ prio a lei che si è rivolto, e non a un'altra. Ne ha il dono. Gli manca una cosa piccolissima, gli manca di essere un vero uomo. Gli piacciono troppo le donne per poterlo essere. Dun­ que Eliana ha offerto la sua margherita al generale Rollan, è convinta che, grazie a questo fiore, Rollan si avvierà verso grandi destini, ma non vuole decidersi ad abbandonare così questa folla che le piace tanto.

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    Eccoli nelle strade di Parigi, si mescolano ai «facchini delle Halles, seguono i gruppi di coristi attraverso le strade di Parigi, cantano con tutti delle canzoni: Diffidate di Parigi delle sue strade, del suo cielo grigio per le donne una carezza per gli uomini un’amante stringimi tra le tue braccia fa male ma mi piace una stretta senza promessa la folle ebbrezza della giovinezza. Diffidate di Parigi ma per stringerci di più il valzer ci trascinava il valzer a piccoli passi Parigi era in festa i giovani si abbracciavano e io giravo felice nelle tue braccia felice di perder la testa.

    E alla fine, decidono anche loro di ballare, c’è un piccolo ballo popolare, con un piccolo palco, un’orchestra che suo­ na in modo affascinante. Ella nota che intorno a lei la mag­ gior parte delle donne mettono le braccia intorno al collo del proprio cavaliere, e fa altrettanto, e lo trova molto bello. E poi nota che la maggior parte delle donne intorno a lei sono a capo scoperto, prende allora il suo cappello e lo butta via. E tutti si divertono, e tutti ridono, e lei beve ancora del vino rosso, adora il vino rosso (il vino rosso è una scoperta, non direi che è migliore della vodka, ma se ne può bere di più), e finiscono in un piccolo caffè in cui possono abbracciarsi, Henri è molto insistente, e sta quasi per riuscire a portarla a casa sua, ma lei ha un sussulto, si alza e approfitta della con­ fusione per sparire dietro una cortina di facchini delle Hal­ les, e Henri ha un bel cercarla nelle strade vicine, Eliana non c’è più, è svanita come in un sogno. Un altro personaggio che sfortunatamente Eliana non co­ noscerà mai (è un peccato perché questo personaggio l’avreb­ be appassionata) è un pallone. Un pallone frenato, un gra­ zioso pallone rotondo, che si staglia nel cielo, e questo pal­ lone reca a bordo alcuni aerostieri militari francesi, e, im­ provvisamente, pam! Il cavo si rompe. C'è un forte vento da ovest, il pallone viene spinto verso la Germania, e atterra in un villaggio tedesco. Naturalmente gli aerostieri vengono incarcerati. Questo incidente rischia di dar fuoco alle polveri. Si manifesta per le strade di Parigi, i giornali si impadroni­ scono dell’incidente, e noi rischiamo la guerra.

    305 Nella nostra storia ci sono anche altri uomini i quali, invece di votarsi al culto di Venere, si sono votati a un culto assai meno interessante: quello del potere. Essi formano il comiiato politico del generale Rollan, e sperano che l’incidente del pallone permetterà loro di portare Rollan al potere e di sod­ disfare così le proprie ambizioni. Eliana ha convinto il genera­ le Rollan. Il generale è salito sulla tribuna della Camera, e, in quanto ministro della guerra, ha proposto l’invio di un ulti­ matum all’imperatore di Germania. L’imperatore di Germania ha fatto marcia indietro e ha restituito gli aerostieri france­ si. Il generale è divenuto un eroe. 11 popolo lo acclama nelle strade di Parigi, vuole portarlo al potere. Il governo si spa­ venta e invia Rollan in esilio in una piccola città di guarnigio­ ne, a Bourbon-Salins. A Bourbon-Salins, la situazione è incontrollabile. Il gene­ rale ha raggiunto Eliana in una specie di casetta un po’ equi­ voca, che i cospiratori hanno scelto come centro delle loro attività. 1 contadini si sono accorti della sua presenza, sono intorno alla casa, pronti non solo ad acclamarlo, ma a bat­ tersi per lui. I soldati della guarnigione sono pronti a mettersi in marcia, e la polizia circonda la casa, sta per esserci bat­ taglia, sta per esserci una rivoluzione... Come in ogni com­ media italiana, arriva un momento in cui le cose vanno mol­ lo male, e questo unicamente per consentire all’autore, con gioco da prestigiatore, di ribaltare la situazione. C’è un accampamento di zingari, e in questo accampamen­ to c’è una giovane gitana, e questa giovane gitana canta una canzone: O notte, amica mia, ti aspetto, o notte, portami un amante, o notte, confonditi con la mia chioma.

    Lei canta una canzone nella notte. Un amante che me sola amerà, che al mattino senza rumore partirà.

    Una canzone molto innocente, molto semplice. O notte, ti faccio la preghiera. o notte, di dimenticare il mio amante, o notte, quando finirà il mio bruciore.

    La voce della cantante riconduce i nostri personaggi al senso della realtà: di dimenticare il calore del mattino, di dimenticare i sassi del cammino.

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    Eliana dimentica la sua casa, ridiviene quello che è, una donna, ridiviene Venere. I contadini dimenticano la loro col­ lera. I cospiratori dimenticano il loro complotto, il generale Rollan ritrova la sua amante. Ed Eliana è nelle braccia di Henri, finalmente! È nelle braccia di Henri, non per caso, non portata dalla folla, ma perché vuole essere nelle braccia di Henri, e si abbracciano, si abbracciano appassionatamente. Al canto della gitana, gli dei sono ritornati sulla terra. Le ambizioni, le collere svaniscono, ci si abbraccia, la marghe­ rita cade a terra. Eliana non la vede neppure. Perché Venere dovrebbe preoccuparsi di simili dettagli? Ed ecco Eliana per­ duta tra le braccia di Henri. Eliana o Venere, Ingrid o i sot­ tili capelli dorati alla radice della nuca, il sorriso disarman­ te, e questa meravigliosa presenza terrestre.

    Noi e la televisione * RENOIR. Sto preparando per la tv un film che è l’adatta­ mento del racconto di Stevenson Lo strano caso del Dr Jekyll e di Mr Hyde. Ho spostato la storia ai nostri tempi, a Parigi e in periferia, perché ho pensato che certi sobborghi, di notte, sono più impressionanti che le vie di Parigi. In realtà il mio adattamento è fedele all’originale. I nomi sono francesi e farò un’introduzione allo spettacolo con una breve chiacchie­ rata, presentandolo come se si trattasse di una storia reale, misteriosa, avvenuta recentemente in qualche via parigina. rossellini. Per la tv francese sto preparando anzitutto una trasmissione sull’india. Laggiù ho realizzato, in vista della tv, dieci film e sono questi che presenterò. Li commento io stesso e cerco di dare un filo conduttore quando si passa da un argomento all’altro. bazin. Senta, Renoir, pensa di conservare il carattere di at­ tualità anche nella regia stessa, girando un po’ a caso con una o più macchine da presa? Renoir. Vorrei girare questo film - ed è qui che la tv mi offre qualcosa di apprezzabile - nello spirito della « televi­ * Conversazione con Jean Renoir e Roberto Rossellini organizzata nel 1958 da André Bazin in occasione dell'esordio alla tv francese dei due registi (rispettivamente con // testamento del mostro e con la serie L’India vista da Rossellini). Il resoconto, trascritto da Bazin con la collaborazione di Jean Herman e Claude Choublier, apparve su France Observateur e. in Italia, a cura di Paolo Gobetti, su Cinema Nuovo, n. 136. novembre-dicembre 1958. Non è compreso nell’edizione francese degli Ecrits.

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    sione diretta ». Non si tratterà evidentemente di una trasmis­ sione diretta, dato che sarà preparata sulla pellicola, ma vor­ rei girarla come una trasmissione diretta. Vorrei girare una volta sola ogni scena e che gli attori immaginassero ogni volta, mentre recitano, che il pubblico segua direttamente i loro dia­ loghi e i loro gesti. Gli attori, così come i tecnici, sapranno che si gira una volta sola e che, riuscita o no la ripresa, non si ripeterà mai più. D’altra parte non si può girare che una volta se non si vuole attirare l’attenzione dei passanti, che devono rimanere passanti. Si tratta di girare alcuni episodi di questo film nelle strade in cui la gente non saprà che si sta girando. Di conseguenza, se devo rigirare una scena, tutto crolla. Questa necessità deve quindi dare agli attori e ai tecni­ ci la convinzione che ogni loro movimento è definitivo e regi­ strato per sempre. Vorrei rompere il sistema della produzione cinematografica e costruire con piccole pietre un grande muro, usando un’enorme pazienza. bazin. Naturalmente questo genere di film si farà assai più rapidamente che un film per il cinema? renoir. Ho appena terminato di preparare una sceneggia­ tura, e prevedo la realizzazione di poco meno di quattrocento inquadrature. Ora, l’esperienza m’insegna che, fatto strano, le mie inquadrature hanno una lunghezza media di 5-6 metri. Notate che trovo questo genere di considerazioni ridicole e non ci credo, ma pare che sia un fatto. Se, per esempio, ho cento inquadrature in un film, avrò un film di cinque o seicen­ to metri di lunghezza. Ritengo quindi che con quattrocento inquadrature arriverò a un film di circa 2000 metri, e cioè di lunghezza media. bazin. Prevede l’utilizzazione di questo film anche al di fuori della televisione, per il circuito commerciale cinemato­ grafico? Renoir. Non ne so ancora nulla. Ma tenterò la proiezione davanti a un pubblico cinematografico normale. Mi pare che la tv, oggi, abbia un’importanza sufficiente, per il fatto d’aver dato al pubblico la possibilità d’accettare film « presentati » in modo diverso. Con « presentati » intendo dire non più con­ cepiti a solo beneficio delta macchina da presa; la macchina da presa cioè non farà più dei quadri, seguendo la volontà del regista e dell’operatore. Se la camera fa tali quadri, sarà il risultato d’un caso fortunato, come quello per cui, di quando in quando, ci sono inquadrature delle attualità che mi entusiasmano. bazin. Ma non le pare che la tv ponga un problema classico, tecnico, quello della qualità e della piccolezza dell’immagine

    308 sul televisore? Per i film televisivi americani fatti in gran se­ rie, i registi hanno imperativi categorici di sceneggiatura, gii attori devono rimanere in un inquadramento ideale, in modo da conservare aH’immagine una visibilità costante. Tutti que­ sti imperativi non la spaventano? Renoir. No, perché il metodo che desidererei applicare sarà un giusto mezzo tra quello americano e il metodo con cui si girano i film francesi. Credo che, seguendo e rispettando gli imperativi americani della tv, rischiamo di fare un film difficil­ mente accettabile per gli spettatori dello schermo. Ma se noi rendiamo più flessibili queste tecniche, possiamo arrivare a una nuova tecnica cinematografica che può essere estremamente interessante. Credo che tutto dipenda dal punto di par­ tenza, diciamo, dalla nostra fede, dalla formula. Il cinema, attualmente, mi ha insegnato - e anche Roberto potrà dirlo che la sua religione è la macchina da presa. Abbiamo una mac­ china che è installata su un treppiede, su una gru, e che è esattamente come l’altare del dio Baal: attorno a essa si agi­ tano i grandi sacerdoti che sono il regista, gli operatori, gli assistenti. E questi grandi sacerdoti portano dei bambini in olocausto a questa macchina, e li gettano nel braciere. E la macchina da presa è là, immobile o quasi, e quando si muo­ ve, lo fa seguendo i dati determinati dai grandi sacerdoti e non dalle vittime. Ora, cercherò di spingere più avanti le mie vecchie teorie, cercherò d’ottenere che la macchina da presa abbia un solo diritto: quello di registrare unicamente quello che avviene. E tutto. E basta. Per questo, evidentemente, so­ no necessarie parecchie macchine da presa, perché una mac­ china sola non può essere dappertutto. Non voglio che il mo­ vimento degli attori sia determinato dalla macchina. Voglio che il movimento della macchina sia determinato dall'attore. Quindi si tratta di lavorare come un operatore di attualità. Quando gli operatori di attualità riprendono il discorso d’un uomo politico, o un avvenimento sportivo, non chiedono cer­ to a un corridore di partire esattamente dal punto che a loro fa comodo. Tocca a loro arrangiarsi per riprendere il corri­ dore là dove corre e non altrove. Prendiamo gli incidenti: quando ci presentano così bene una catastrofe, un incendio, con la gente che si spinge, e i pompieri, gli operatori debbono darsi da fare per darci uno spettacolo grandioso, poiché tale spettacolo grandioso non è stato provato e riprovato in funzio­ ne della macchina da presa. La macchina ha lavorato in fun­ zione dello spettacolo grandioso; e questo è un po’ quello che vorrei fare. rossellini. Credo che quanto Renoir ha detto ora ponga

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    il vero problema del film e dello spettacolo di tv; finora, in pratica, non ci sono stati autori di cinema, ma autori vari che si sono riuniti, hanno messo insieme le loro idee per tradur­ re e registrare queste idee su una pellicola, e il lavoro cine­ matografico era assai spesso secondario. L’autore di cinema, al contrario, è colui che sa esprimere in termini personali tutto quello che riesce a osservare - anche se è accidentale - ed è questo che dà valore alla sua opera. renoir. Hai detto l’essenziale. L’autore del film non è af­ fatto un coordinatore, non è affatto il signore che decide, per esempio, il modo in cui dovrà svolgersi un funerale. L’autore di cinema è precisamente l’uomo che si trova davanti a un funerale imprevisto; e avviene che il morto, anziché essere nel feretro, si mette a danzare, che la famiglia, anziché pian­ gere, si mette a correre in tutte le direzioni; spetta a lui, con i suoi colleghi, cogliere tutto questo e, in seguito, nella sala di montaggio, fame un’opera d’arte. rossellini. Non soltanto nella sala di montaggio. Perché non so poi, dopotutto, se oggi il montaggio sia veramente tan­ to essenziale. Credo che dobbiamo incominciare a considera­ re il cinema in un modo assai diverso e liberarci anzitutto di tutti i tabù. Il cinema, all’inizio, era una scoperta tecnica c si sacrificava tutto alla scoperta tecnica, persino il montag­ gio. Poi, più tardi, nel cinema muto, il montaggio assume un significato preciso poiché rappresentava il linguaggio. Dopo il cinema muto, abbiamo ereditato questo tabù del montaggio, ma il montaggio aveva in gran parte perduto il proprio senso. È quindi nella ripresa che l’autore può veramente portare il proprio spirito d’osservazione, la propria morale, la propria visione particolare delle cose. renoir. Hai ragione. Prima, quando parlavo di montaggio, lo facevo per comodità d’espressione. Volevo, in realtà, par­ lare di scelta, un po’ come fa Cartier-Bresson quando, dopo aver fatto cento fotografie d’un incidente, ne sceglie tre: e queste tre sono proprio le migliori. bazin. Come siete arrivati alla tv che, peraltro, viene con­ siderata, dagli intellettuali soprattutto, con ben poca stima? renoir. Sono venuto alla tv perché mi sono straordinaria­ mente annoiato alla proiezione recente di moltissimi film, e mi sono invece annoiato meno a certi spettacoli della tv. Devo dire che gli spettacoli televisivi che più mi hanno ap­ passionato sono certe interviste alla tv americana. Mi sembra che l’intervista dia alla tv un senso del primo piano che tro­ viamo solo raramente al cinema. Il primo piano, al cinema, è un primo piano ricostruito, un primo piano che può dare

    310 risultati magnifici. Alcuni grandi momenti del cinema vengo­ no forse da questi primi piani girati in condizioni prefab­ bricate, in condizioni ricostruite. Praticamente, si prende un'at­ trice, la si mette nel suo ambiente; la si scalda, la si scalda finché essa non ottiene un’espressione ammirevole, è questa specie di espressione artificiale che ha permesso i più bei mo­ menti del cinema. Quando dico artificiale, non voglio fare una critica, perché sappiamo che, dopotutto, ciò che è arti­ stico è artificiale. L’arte è necessariamente artificiale. Detto questo, credo che, essendoci serviti, per trent'anni, di questo genere di cinema, potremmo forse passare a qualcosa di di­ verso. Ho visto in America spettacoli televisivi eccezionali. La tv americana, a mio avviso, è ammirevole. Estremamente ricca. Non perché sia migliore o i suoi uomini abbiano maggior ta­ lento che in Francia, o altrove, ma semplicemente perché, in una città come Los Angeles, ci sono dieci trasmittenti che funzionano continuamente a ogni ora del giorno e della notte. Evidentemente, di fronte a tale varietà di scelta, ci sono buo­ ne probabilità di trovare cose eccezionali, anche se l'insieme della scelta non è buono. Mi ricordo, per esempio, di certi interrogatori fatti in occasione di processi politici, con parla­ mentari che interrogavano e gente che rispondeva. Di colpo, avevamo in un primissimo piano, preso al teleobiettivo, un personaggio umano nella sua integrità. Questo personaggio umano aveva paura. Aveva paura del parlamentare. E que­ sta paura si vedeva. Oppure c’era un tipo insolente, il quale insultava il signore che lo interrogava. Un altro ancora era ironico, un altro prendeva il tutto alla leggera. Di colpo, si leggeva sul volto di questi uomini, televisionati al teleobiet­ tivo con teste che tenevano tutto lo schermo. Li si conosceva. In due minuti sapevamo chi erano e ho trovato la cosa as­ solutamente appassionante; uno spettacolo simile era forse in­ decente, perché era quasi un'indiscrezione, ma questa inde­ cenza era più vicina alla conoscenza deU’uomo di molti film. rossellini. Vorrei fare anch’io un'osservazione in propo­ sito. Nella società moderna l’uomo ha un bisogno enorme di conoscere l’uomo. La società e l’arte moderna hanno distrutto completamente l’uomo. L'uomo non esiste più e la tv aiuta a ritrovare l’uomo. La tv, essendo un’arte ai suoi inizi, ha osa­ to andare alla ricerca dell’uomo. bazin. C’è anche stato un periodo in cui il cinema sem­ brava un’arte che andava alla ricerca dell’uomo, in partico­ lare all’epoca dei grandi documentari, all’epoca di Flaherty. rossellini. Erano ben pochi però a essere alla ricerca del­ l’uomo. La gran massa della gente faceva tutto quanto era

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    necessario perché l’uomo venisse dimenticato. Fatalmente, il pubblico era educato a dimenticare l’uomo. Ma oggi, nel mondo moderno, il problema dell’uomo si pone profondamen­ te, drammaticamente. La tv, tutt’a un tratto, offre una libertà immensa. Bisogna approfittare di questa libertà. Il pubblico della tv è profondamente diverso da quello del cinema. Il pubblico del cinema ha la psicologia della massa. Alla tv ci si rivolge a dieci milioni di spettatori che sono dieci milioni di individui, uno dopo l’altro. Il discorso diventa quindi infi­ nitamente più intimo, infinitamente più persuasivo. Tu sai quanti insuccessi ho avuto nella mia vita, nella mia carriera cinematografica; ebbene, mi sono accorto che gli spettacoli che avevano un insuccesso completo di fronte al pubblico era­ no proprio quelli che in laboratorio, in saletta di proiezione, quando c’erano solo dieci o quindici persone, piacevano di più. E un cambiamento completo. Quello che vedi in una sa­ letta di proiezione, con quindici persone, ha tutto un altro si­ gnificato di quando lo vedi in una sala cinematografica con duemila persone. renoir. Posso corroborare la tua affermazione. Anch’io ho avuto la medesima esperienza personale. Credo che se ci met­ tessimo a contare gli insuccessi, facendo un concorso, non so davvero chi dei due vincerebbe. rossellini. Ti batto, ti batto ampiamente, va’... renoir. Non lo so. Sono più vecchio di te... e quindi posso batterti più facilmente. Comunque, prendiamo, per esem­ pio, un film come II diario di una cameriera. Questo film fu estremamente mal accolto dal pubblico americano per una semplice ragione: era un dramma, presentato col titolo Diario di una cameriera. La gente diceva: « Il diario di una came­ riera, con Paulette Goddard: ci sarà da divertirsi ». E poiché invece non si divertiva affatto, rimaneva scontenta. Nei primi tempi della tv una società televisiva comprò il film che viene ancor oggi continuamente richiesto dal pubblico della televi­ sione. In definitiva alla televisione il film mi ha reso molto, il che prova che mi ero sbagliato. Avevo creduto di fare un film per il cinema e invece avevo fatto, senza supporlo, un film per la televisione. rossellini. lo ho fatto un’esperienza nel cinema con La vo­ ce umana. Volevo insistere su questa possibilità del cinema di penetrare fino al fondo dei personaggi. Oggi, alla tv, si ritro­ vano queste esperienze. kazin. Mi pare che entrambi vi avviciniate alla tv con uno spirito diverso. Lei, Renoir, per ritrovare questo spirito della « commedia dell'arte » che l’ha sempre sedotta, e lei, Rosselli-

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    ni, per ritornare alle sue preoccupazioni, che han fatto di lei il promotore del neorealismo italiano. rossellini. Non ricordo più chi ha detto una cosa da cui son stato profondamente colpito. Viviamo in un’epoca d’inva­ sioni barbariche. Viviamo in un’epoca in cui gli uomini hanno conoscenze sempre più approfondite, ma su un argomento solo, e sono perfettamente ignoranti su tutto il resto. E que­ sto mi dà un’angoscia profonda. Ritorno al documentario per­ ché voglio cercare di ripresentare agli uomini altri uomini. Voglio uscire da questo rigido stato di specializzazione per ritornare a una conoscenza più ampia che permetta di fare delle sintesi, poiché è proprio questo, in definitiva, che im­ porta. bazin. Lei ha girato contemporaneamente India 58 e alcu­ ni documentari per la televisione. Pensa che tali documentari abbiamo influenzato India 58? rossellini. Quando giravo il film vero e proprio, mi diver­ tivo meno. Quando facevo i documentari andavo alla scoper­ ta d’un mondo preciso e nel film cercavo di riassumere l’e­ sperienza che avevo fatto. Erano due cose che si completa­ vano perfettamente. renoir. Potrei riassumere così la posizione di Roberto e la mia: Roberto è il continuatore della pura tradizione francese, che è la tradizione della ricerca umana, lo cerco d’essere ita­ liano e di ritrovare la « commedia dell’arte ». rossellini. Mi sforzo di mettere in piedi un’impresa che permetta non tanto di fare un film, quanto una massa di pro­ dotti. Se s’incomincia a fare una massa di produzioni, si con­ tribuisce in un certo senso alla formazione del gusto del pub­ blico. Si aiuta il pubblico a comprendere certe cose. E estre­ mamente difficile per me, oggi, trovare un soggetto. Non so che soggetto trattare, non riesco a trovare una storia, poiché non ci sono più eroi nella vita; ormai ci sono solo eroismi minuscoli. Manca lo slancio straordinario ed entusiasmante dell’uomo che si lancia in un’avventura qualsiasi. Ma forse, dopotutto, quest’uomo e questo slancio esistono nel mondo. Quel che cercherò di fare è una ricerca, una documentazione sullo stato dell’uomo di oggi, in tutto il mondo, e, via via che si troveranno motivi drammatici, esaltanti, quando si trove­ ranno eroi, si passerà al livello superiore del film a soggetto. La prima fase è la ricerca; la ricerca dev’essere sistematica, osservare gli uomini, stabilire una specie di indice. Pensate a tutto quel che c’è nel mondo, a tutta la musica folcloristica da registrare, pensate alle esigenze della radio, delle case di dischi: immensi. Quando andate in Perù, nel Messico, a Hai­

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    ti. troverete una quantità di cose che vi permetteranno di vi­ vere, di pagare l’iniziativa e, al tempo stesso, di essere indi­ pendente dai grossi capitali. renoir. Credo, Roberto, che ci sia ancora un'altra ragione per spiegare l’interesse dimostrato da te e da me per la tv. £ forse il fatto che la tecnica nel cinema ha perduto oggi la sua importanza. Quando sono entrato nel cinema, era necessario anzitutto conoscere molto bene il proprio mestiere e posse­ derne la tecnica sulla punta delle dita. All’inizio non si sape­ va come realizzare una dissolvenza incrociata in laboratorio. Bisognava farla con la macchina da presa e questo significava un’idea precisa del momento in cui le scene sarebbero finite per fare queste dissolvenze durante le riprese, a un momento che poi non si sarebbe più potuto cambiare. Oggi la tecnica è tale che praticamente un regista perderebbe il suo tempo se, in teatro di posa, si preoccupasse dei problemi tecnici. Il regista diventa oggi un autore estremamente simile a un autore di teatro o a un autore letterario. Gli arazzi della re­ gina Matilde, a Bayeux, sono più belli dei Gobelins moderni. Perché? Perché la regina Matilde era obbligata a dirsi: « Ah! non ho del rosso, metterò quindi un bruno; non ho dell’az­ zurro, impiegherò un colore simile all’azzurro ». Costretta a contrasti crudi, a contrapposizioni violente, era obbligata a lottare continuamente contro l’imperfezione e questo faceva di lei una grande artista. La grande facilità della tecnica rende più rara l’arte, perché l’artista non ha più la facilità procura­ tagli dalla difficoltà della tecnica, ma al tempo stesso non è più limitato da questa difficoltà tecnica e può applicare la propria fantasia inventiva a forme diverse. Oggi, in realtà, se io concepisco una storia per il cinema, è una storia che va al­ trettanto bene per il teatro, o per un libro, o per la televi­ sione; l’invenzione diventa una specializzazione, mentre un tempo la specializzazione era quella materiale. E credo che questo fatto porti un grande cambiamento. Tutte le arti, le arti industriali (e, dopotutto, il cinema non è che un’arte in­ dustriale) sono state grandi all’inizio e si sono poi avvilite con la perfezione. Ho accennato ora agli arazzi, ma è chiaro che lo stesso si può dire per la ceramica. Un tempo anch’io ho lavorato con la ceramica, e ho cercato di ritrovare l’antica semplicità tecnica, e l’ho ritrovata, ma artificialmente; ed è questa la ragione per cui mi sono lanciato in un mestiere che era autenticamente primitivo: il cinema, ai suoi inizi. Il mio primitivismo nella ceramica era un primitivismo artifi­ cioso, poiché rifiutavo d’impiegare i perfezionamenti della tecnica della ceramica e mi limitavo, volontariamente, a for-

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    mule più semplici. E questo non era autentico, era una co­ struzione intellettuale. La cosa è molto significativa per quel che riguarda la ceramica. Mio padre, che ha lavorato nella ceramica, mi ha spiegato che si è arrivati a dipingere un vaso con tutti i colori immaginabili, come si dipinge su una tela o sulla carta. Non ci sono più ceramiche, tutto è finito. La ceramica esisteva finché non disponeva che di cinque, sei co­ lori, finché possedeva una tavolozza limitata e tecniche dif­ ficili. Per il cinema è la stessa cosa; le persone che hanno fatto i primi film americani, o svedesi, o tedeschi, quei primi film così belli, non erano certo tutti grandi artisti, ce n’erano anzi molti mediocri. Eppure i loro prodotti erano belli. Per­ ché? Perché la tecnica era difficile: ecco tutto. In Francia, dopo il grandioso periodo, dopo Méliès, Max Linder, abbiamo film che non valgono niente. Perché? Perché eravamo intel­ lettuali, perché volevamo fare dei film d’arte, volevamo fil­ mare dei capolavori. In realtà, a partire dal momento in cui ci si ouò permettere aessere intellettuali, cessando d’essere artisti manuali, si corre un gravissimo pericolo. Se oggi ci volgiamo, Roberto e io, alla tv, è perché la tv è in uno stadio tecnico un po’ primitivo che potrà forse dare agli autori lo spirito del cinema alle sue origini, quando tutte le realizza­ zioni erano buone.

    « Il testamento del mostro » * L’idea di girare II testamento parallelamente al mio pro­ getto più importante, Picnic alla francese, mi è venuta dalla mia ostilità per i film doppiati. Girare dei film a un costo abbastanza basso da consentire che essi siano numerosi non sarebbe la concorrenza migliore ai film stranieri detti « in ver­ sione francese »? D’altra parte non credo all’efficacia delle misure protezionistiche. La libera concorrenza mi sembra un clima più sano per lo sviluppo di un movimento che tende a introdurre sui nostri schermi il maggior numero possibile di film girati in francese, da attori francesi. Aggiungo che la mia ostilità nei confronti del doppiaggio è prima di tutto di ordine artistico. Le ragioni economiche di questa ostilità ven­ gono molto dopo la mia ripugnanza di fronte a un procedimen­ to che considero un grave oltraggio alla personalità umana. * La prima parte del testo non è datala: la seconda è apparsa sui Cahiers du Cinéma, n. 100, ottobre 1959; la terza su L'Avant-Scène du Cinéma. n. 6. 15 luglio 196i ; la quarta reca la data 23 dicembre 1961.

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    Sono io che ho proposto a d’Arcy di dirigere una trasmis­ sione ispirata a un racconto di Stevenson. Consideravo que­ sto tema come un’ottima base per una storia, e poi per una sceneggiatura,.svolgentesi ai giorni nostri, a Parigi. Dapprima avevo l’intenzione di limitarmi a una realizzazione in diretta. Solo certe scene, in cui l’attore si trasforma, dovevano es­ sere girate in precedenza. Considerando il modo di dirigere questa trasmissione in diretta, non pensavo tanto alla televisione quanto al cinema. La disciplina necessaria a svolgere una rappresentazione da­ vanti ai telespettatori mi sembrava un proficuo allenamento per la messa a punto di un sistema che mi consentisse di gi­ rare dei film dalla cadenza rapida. Poiché al cinema il tem­ po è denaro, il sistema poteva risultare utile per dei film a minor costo. D’Arcy e io, dopo aver studiato il progetto più da vicino, constatammo che i numerosissimi esterni dovevano ugual­ mente essere girati su pellicola, ed era quindi forse meglio considerare la possibilità di una trasmissione non in diretta. Di lì a concepire l’impresa come destinata anche allo sfrut­ tamento cinematografico, non c’era che un passo. Personal­ mente, feci questo passo tanto più volentieri per il fatto che ero convinto della necessità di impiegare; per questa prima produzione, dei tecnici della televisione abituati al ritmo di lavoro della trasmissione in diretta. Ero» convinto, e lo sono ancora, che un personale esclusivamente cinematografico, abituato alle ricercatezze e alle lentezze della produzione ci­ nematografica, non mi avrebbe permesso di riuscire nel mio tentativo. 1 miei collaboratori e io prendemmo tutte le mi­ sure necessarie per tutelare gli interessi dei diversi tecnici. Anche la società che sarà incaricata dello sfruttamento cine­ matografico del film si assumerà il compito di rappresentare tali interessi e questo probabilmente sotto forma di parteci­ pazione agli utili. La parola « metodo » è molto ambiziosa per designare que­ sto modesto tentativo. Se c’è un metodo, esso è basato su due punti principali: prove numerose, non soltanto con gli attori ma anche con i tecnici, e ultime prove possibilmente con le luci definitive; impiego di diverse cineprese, fino a otto in certe scene. Per evitare lo spezzettamento dell’azione scenica, ogni scena, anche lunga, è ripresa in una sola volta, con delle lunghe focali che assicurano i primi piani. La progres­ sione dell’azione scenica è data dall’attore e non dipende più dagli artifìci del montaggio. L’esperienza de // testamento mi ha fatto scoprire ciò che

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    presagivo; cioè che il cinema di domani sarà un cinema d'au­ tori e non più di registi. Beninteso, a condizione che questi autori siano essi stessi i registi. Comunque, il sistema della trance, che consentiva con mezzi assai prossimi all’ipnoti­ smo di ottenere un bel primo piano di un attore quasi inco­ sciente, è superato. Il nuovo cinema sarà fatto da autori, da attori e da tecnici coscienti. Ogni operatore di macchina sa­ rà responsabile della rappresentazione dell’attore sullo scher­ mo, e l’attore dovrà contare su se stesso, esattamente come deve farlo quando recita su un palcoscenico. Questo sistema richiede evidentemente delle sceneggiature concepite da autori già consapevoli di non poter contare sui riaggiustamenti delta regia, dirette da registi meno garantiti dalle facilitazioni del montaggio, e interpretate da attori con­ sapevoli che in caso di farfugliamene non si potrà ricomincia­ re da capo perché la loro recitazione fa parte di un insieme anziché essere un piccolo frammento di una sorta di puzzle da cui il regista e il montatore caveranno la forma definitiva. Altri tentativi per raggiungere una certa libertà nel cinema attraverso la modestia dei budget hanno già avuto luogo, o si sviluppano proprio in questi momenti. Sono appassionanti. Citerò Chabrol in Francia e Ingmar Bergman in Svezia. Gi­ rando Il testamento, non ho fatto che aggregarmi a quanti dei miei colleghi sono come me persuasi che il cinema deve o cambiare o morire. Il mio tentativo non significa che sono contrario alle grandi produzioni intemazionali che vengono a costare pa­ recchi milioni di dollari. Ammiro profondamente 11 ponte sul fiume Kwai, e sono convinto che questi film sono necessari e corrispondono a un certo gusto del pubblico. Ritengo sol­ tanto che i francesi siano mai piazzati per far concorren­ za a simili film. Gli studi americani hanno fatto tali guadagni prima dell’attuaJe crisi che possono rischiare i dollari neces­ sari a queste produzioni, senza compromettere l’equilibrio delle loro finanze. Considerazione più importante, essi si ri­ volgono al mercato inglese, molto più ricco e molto più am­ pio del mercato francese. I francesi, per puntare al mercato intemazionale, dovrebbero impiegare attori di lingua inglese e girare in inglese, dal momento che il doppiaggio, fortuna­ tamente per gli inglesi e per gli americani, è ammesso soltan­ to con molta reticenza dalla maggior parte del pubblico anglosassone. Simili iniziative possono venir prese in conside­ razione - anch’io sto lavorando a un progetto di questo ti­ po -, ma possono rappresentare soltanto delle eccezioni nella produzione francese. Per quanto riguarda le produzioni me­

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    die, esse possono basarsi soltanto sulle cosiddette coproduzioni c sulla vendita nei paesi dì lingua diversa. E ciò significa che ritorniamo al problema del doppiaggio. Tanto vale rinunciare subito alla qualità che è indispensabile all’opera d’arte: l’auicnticità. Perché non ammettere subito che un film ad alto costo è costretto a impiegare attori intemazionali, dunque a doppiare determinate parti, dunque a rinunciare all’auten­ ticità? Ancora una parola su un problema che mi interessa solo indirettamente: quello degli aiuti al cinema. Sono assoluta * mente a favore dell’ingerenza dello Stato negli affari del ci­ nema. Non sarà peggio di quella dei produttori, la cui inca­ pacità è stata in questi ultimi anni ampiamente dimostrata. Ma quando si aiuta un povero bisogna anche che questo po­ vero sia un povero vero. Mi sembra strano tendere la mano quando si pagano salari fantastici come quelli dei grandi at­ tori, dei grandi registi e dei personaggi importanti dell’indu­ stria cinematografica. Troverei logico che l’aiuto andasse alle produzioni a basso costo, essendo la modestia dei mezzi l’u­ nica garanzia per sfuggire alla banalità delle coproduzioni e alle altre schiavitù che sono la conseguenza diretta dei grandi mezzi di produzione. Le imprese umane arrivano quasi sempre a dei risultati che, almeno in apparenza, differiscono dagli scopi primitivi. Credo però che questa infedeltà al piano in precedenza trac­ ciato sia una condizione della riuscita artistica. Le vecchie strutture architettoniche ci colpiscono di più delle costruzioni contemporanee, non solo perché gli anni han­ no aggiunto loro un po’ di mistero, ma soprattutto perché il caso in fase di esecuzione ha finito col modificare la fred­ dezza del tracciato ideale. Ciò consente di supporre che la perfezione tecnica, la potenza e la precisione degli strumenti nuocciano all’opera d’arte poiché permettono ai tecnici di seguire fedelmente l’idea dell’architetto. Beninteso, l’infedel­ tà in fase di esecuzione non è sufficiente, e molte opere di qualità inferiore possono vantare un’esecuzione compietamente libera. Ci sono persone che ritengono che ogni fase della nostra esistenza deve essere una battaglia. Le stesse persone aveva­ no sostenuto che il fonografo avrebbe ucciso i concerti sin­ fonici e che il cinema avrebbe ucciso il teatro. Non si ren­ dono conto che tutte le varie categorie del nostro mestiere mi riferisco allo « Spettacolo » - sono solidali e che il loro

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    nemico comune non è una di quelle categorie, bensì quella grande scoperta che gli uomini, grazie alla Vespa e alla 2 ca­ valli. hanno appena fatto, cioè la natura. Credetemi, si tratta di un avversario molto forte, e non è sbranandoci a vicenda che riusciremo a ricordare agli uomi­ ni che un campo di grano dipinto da Van Gogh può essere più appassionante di un campo di grano vero. Evidentemente questo ci mette di fronte a un terribile obbligo: quello di tentare, nei nostri film, nelle nostre trasmissioni, nei nostri drammi, nei nostri esercizi da circo di essere dei Van Gogh. La prima idea era di girare II testamento solo per la te­ levisione. Ne informai i responsabili di questa organizzazione che mi fecero un’ottima accoglienza. Sognavo una trasmis­ sione in diretta e non pensavo affatto al cinema. Ben presto, però, i miei soci e io ci siamo accorti che la trasmissione in diretta non avrebbe permesso determinati trucchi. Dal mo­ mento che le scene di questo genere, indispensabili al mio racconto, rappresentavano una grossa percentuale della tra­ smissione. ci siamo decisi a registrarla su pellicola. L’obbli­ go di girare questa storia su pellicola portava naturalmente con sé l’idea di uno sfruttamento cinematografico. La spe­ ranza di questo sfruttamento cinematografico consentiva di aumentare leggermente il preventivo e di curare di più il film. Ma, prima di tutto, mi appassionavano altri aspetti del prblema: per esempio la voglia di provare un nuovo stile. So bene che ogni valido cambiamento di quest’ordine deve venire dall'interno, ma io sono influenzabile, e le necessità di una nuova tecnica provocano in me una trasformazione dei sentimenti. La tecnica che morivo dalla voglia di sperimentare è semplicemente basata sulla divisione del film in scene anzi­ ché in piani. Il mio tentativo richiedeva la collaborazione del­ la Televisione, dato che gli studi cinematografici non sono in genere attrezzati per impiegare nello stesso tempo un nu­ mero elevato di microfoni. Ora, in alcune scene de II testa­ mento. ho avuto fino a otto cineprese e dodici microfoni. Questo sistema, allentando l’influenza continua del regista sul­ l’attore, implica in cambio numerose prove. Per // testamento abbiamo provato per quindici giorni. Secondo me. è insuf­ ficiente. Ho girato il film in dieci giorni e mezzo. Con un numero maggiore di prove l’avrei girato più rapidamente. Queste prove, almeno a partire dal momento in cui la recita­ zione e la regia sono risolte, vanno del resto a vantaggio sia dei tecnici sia degli attori e del regista. Beninteso, un simile metodo non risponde a tutte le esi­ genze. Esso si applica soltanto a una determinata categoria

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    dì film. Richiede una trasformazione del sistema sonoro degli studi e un personale addestrato in questo genere di riprese. Anche in questo caso, la Televisione mi ha aiutato in questo primo tentativo assegnandomi alcuni tecnici abituati alle tra­ smissioni in diretta. Adesso, i m ei collaboratori e io. soprat­ tutto dopo Picnic alla francese, conosciamo il problema in modo sufficiente a mettere al corrente rapidamente i nostri colleghi di cinema non abituati a questo procedimento. Il cambiamento, d’altra parte, inizia con la scrittura della sceneggiatura che, per essere girata in questo modo, deve es­ sere concepita e stesa tenendo conto di questo raggruppa­ mento per scene e non per piani. Consentendomi questa esperienza, la Televisione ha fatto un regalo molto bello al ci­ nema. Per ogni industria, il possesso di un nuovo metodo, anche se esso si applica soltanto a un piccolo numero di casi, è un arricchimento; e arrivo alla grande ragione che mi ha spinto in questa avventura e la cui enunciazione volevo riser­ varmi per concludere: questo metodo, abbassando il prezzo di costo di certe produzioni, può forse offrire un’arma per la lotta contro i film doppiati. Il doppiaggio, necessario e raccomandabile in certi casi speciali (per esempio in quello delie superproduzioni ove il valore plastico supera il valore letterario o quello dell’inter­ pretazione), mi appariva troppo spesso come un tradimento. L’autore del soggetto può non soffrirne troppo, ma per l’au­ tore dei dialoghi, il regista e gli interpreti, soprattutto per questi ultimi, è un assassinio. La voce è uno degli elementi più sintomatici della personalità umana. Sostituendo una vo­ ce a un’altra, si distrugge questa personalità. Lasciatemi cre­ dere con Pascal che « la sola cosa che interessa all’uomo, è l'uomo ». Il metodo de II testamento presenta un inconveniente: eli­ mina il lavoro artigianale. Gli attori, i tecnici, lo scrittore e il regista divengono completamente responsabili della loro parte. L’errore di un operatore o di un altro tecnico può far fallire una scena che, in via di principio, si gira una sola volta. Questo genere di lavoro è concepibile esclusivamente con gente de! mestiere. Ora, sappiamo tutti quello che i non professionisti hanno apportato al cinema. Dobbiamo alla gio­ vane senza esperienza incontrata per strada da un regista geniale qualcuno dei nostri momenti migliori nelle sale oscu­ re. Ma non dimentichiamo che il metodo de // testamento non pretende di sostituirsi a tutti gli altri. Il cinema è libero, per fortuna, e ogni realizzatore in pra­ tica inventa il proprio metodo. Egli lo reinventa anche a ogni

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    film, e non mi sarei permesso di dilungarmi in tutte queste spiegazioni se alcuni amici non si fossero preoccupati dei miei tentativi, credendo di vedervi un pericolo per il cinema, men­ tre si tratta, da parte mia, soltanto di un tentativo che sperdi di poter iscrivere come una piccola fase della lotta che tut­ ti noi conduciamo per la nostra sopravvivenza. Le teorie si costruiscono a cose fatte, è solo quando Pope * ra è terminata e ha subito il giudizio del pubblico che si scoprono le ragioni che hanno spinto alla sua elaborazione. Ciò significherebbe che gli impulsi profondi che mettono in mo­ vimento il processo di creazione non esistono e che gli atti di fede a posteriori sono solo delle giustificazioni? Detto in altri termini, gli artisti, quelli che pretendono di creare, in­ novare. riformare, sarebbero soltanto dei buffoni, peggio, degli opportunisti? L’esperienza de II testamento mi ha portato a pormi an­ cora una volta questa domanda. £ evidente che alla partenza le mie motivazioni erano estremamente limitate. Avevo voglia di girare qualcosa di veramente misterioso nella periferia pa­ rigina. Il mistero corre per le strade di Parigi e dei suoi din­ torni. Esso emana, in modo del tutto naturale, dalla nostra mi­ seria dorata. La fluidità della nostra moneta ci permette l’ac­ quisto di una vettura di lusso ma non di far ridipingere le nostre persiane. Sono tempi difficili per i proprietari, e il prez­ zo di un sacco di gesso li porta a rinviare di anno in anno l’intonacatura delle facciate. Le nostre case hanno assunto un aspetto sfiorito che rallegra il mio occhio e placa il mio timore dei contrasti violenti. Una veduta particolarmente incoraggiante è quella dei quar­ tieri settentrionali di Parigi osservati dal metrò sopraelevato. Da Barbès a Combat è tutto un succedersi di tetti ove i blu, i grigi e i malva si mescolano sottilmente. I muri screpolati sfidano l’analisi. Tutti i toni vi si accavallano. Si tratta di una grande pittura astratta, di una pittura al di sopra delle pos­ sibilità umane. Ne sono autori le piogge d’autunno e le gelate di febbraio, la siccità di luglio e le nebbie primaverili. Aiu­ tanti di minor importanza hanno assecondato questi maestri come gli apprendisti delle botteghe del Rinascimento assecon­ davano i loro padroni. Si tratta dei fumi delle fabbriche di Saint-Denis, delle emanazioni dei caloriferi a gas, dei deleteri fumi di scappamento delle automobili. Essi si attaccano senza pietà ai timidi tentativi di intonacatura che rischierebbero di cacciare i fantasmi. Un fantasma è molto suscettibile. Quante

    321 città sognano di regalarsene qualcuno e spendono invano somme folli per attirarli! Quando questo marciume glorioso si distende sulle costru­ zioni di periferia, la mia gioia diventa stupefazione. Il con­ trasto dei verdi cupi delle foglie, i vuoti d’ombra che con­ cludono i viali dei parchi abbandonati, le balconate che lasciano intravedere sotto le loro crepe l’armatura di ghisa corrosa, conferiscono alle dimore un’aria di mistero tragico che le rende degne di essere abitate da esseri eccezionali. Se si aggiunge a questo scenario l’odore delle foglie morte e dei funghi marci, si ha l’ambientazione ideale per lo svilupparsi delle tragedie borghesi che segnano la sopravvivenza dei tem­ pi che rimpiangiamo. I dintorni di Versailles o di Saint-Ger­ main, in un’estate mancata e fredda, in un crepuscolo piovo­ so, sono particolarmente adatti a questo genere. Per me, l'origine de 11 testamento sta nelle passeggiate lun­ go i muri trasudanti di muschio sotto il loro pudico rivesti­ mento. Sta nei miei sguardi di spione attraverso i cancelli arrugginiti. Sta nella mia voglia di indovinare l’identità dei pallidi abitanti delle nobili dimore prima che esse si dissol­ vano sotto la pioggia trascinando nella loro decomposizione l’ultimo supporto che resta al nostro sogno. Poi mi è venuta voglia di basarmi su Jekyll e Hyde, di porre delle vie di Parigi moderne e ben asfaltate in contra­ sto con i vecchi parchi. Nasce II testamento del mostro * Quando sono giunto a! momento della realizzazione, sono venute fuori diverse idee: la collaborazione con la Televisio­ ne, le numerose cineprese, il film girato per scene ininterrotte invece di essere girato piano per piano, tutte cose più impor­ tanti di un’impressione, anche se persistente. Le trasfor­ mazioni tecniche finiscono per modificare il pensiero. La so­ stituzione del focolare della casupola con il fornello elettrico ha modificato la cucina francese. L’automobile, la vita in pe­ riferia, l’uso dell’aereo e la registrazione magnetica stanno*• *• E forse interessante riprodurre, in questa sede, la prefazione di lean Renoir al primo microsolco di Philippe Clay, nel dicembre 1954: « Noi facciamo la coda nel metrò. Portiamo gli stessi indumenti, con dei gradi; il visone della puttanella di lusso equivale alle stelle del ge­ nerale, il girocollo in coniglio ’ tipo pelliccia ' ai galloni di caporale. Vediamo gli stessi film, ci commuoviamo agli stessi avvenimenti spor­ tivi. Qualche cattivo spirito cerca di rompere il bell'ordine del gregge. Philippe Clay è uno dei più pericolosi. Ascoltandolo, le pecore sentono la voglia di attraversare le strade uscendo dai loro recinti. Philippe Clay è esattamente il nostro 'io' segreto e scherzoso. E il Mister Hyde di tutti i Dottor Jekyll che percorrono a grandi c gravi passi i cupi sen­ tieri delle grandi città morte».

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    per modificare Io spirito del mondo. Ma, all’inizio di ognf avventura, c’è l’avvenimento accidentale. Questo avvenimenti accidentale regge soltanto se il suo destinatario è pronto ■ subirlo. Per me, l’avvenimento accidentale che ha detenni nato II testamento del mostro, o piuttosto gli avvenimenti a&. cidentali, sono tutti i castelli da Bella addormentata nel bosco, ancora così numerosi intorno a Parigi, e che danno alla nostre passeggiate domenicali l’aspetto di un’evasione in un racconto di fate. L’insuccesso de II testamento del mostro mi sembra giusti» ficato; il che non vuol dire che le critiche mi abbiano con­ vinto della cattiva qualità di questo film. Non è né migliore né peggiore della maggior parte degli altri miei film. Trovo anzi che il metodo che in esso ho sperimentato gli dia un che di pungente, un’unità resa ancora più compatta dalla parti­ tura musicale. La creazione di Jean-Louis Barrault è unica, l’interpretazione di Michel Vitold straordinaria, e gli altri ruoli sono retti molto bene. Se II testamento del mostro fosse stato girato verso il 1935 e fosse stato presentato alla Cinémathèque, gli stessi critici, gli stessi colleghi, le stesse per­ sonalità cui questo film non è piaciuto griderebbero al ca­ polavoro. Forse il loro atteggiamento sarebbe altrettanto fal­ so di quello consistente nel respingere tale film. Ma ciò è se­ condario. Un atteggiamento non deve essere vero o falso. Esso non è un giudizio. Esso è solo l’espressione di uno stato d’a­ nimo. In tale circostanza, essendo questo stato d’animo sin; cero, mi sono chiesto che cosa l’aveva provocato, e credo di aver trovato una risposta. Eliminiamo l’elemento « sorpresa ». Molti miei amici, con un’indulgenza di cui sono loro riconoscente, pensano che tal­ volta i miei film sorprendono al primo contatto e richiedono un certo numero di anni prima di venir assimilati. Questo caso si è presentato. Le difficoltà del primo contatto vengono probabilmente dalla mia instabilità di linguaggio, anche se questa instabilità può all’occasione diventare un vantaggio. Credo piuttosto che II testamento del mostro sia vittima del­ la mia posizione rispetto al pubblico e che questa posizione sia diventata adesso del tutto falsa. Senza che sia stata pro­ vocata alcuna campagna, ho beneficiato di una pubblicità spontanea molto superiore all’importanza dei prodotti che offrivo al pubblico. Con una gentilezza e un’amichevole buo­ na volontà di cui sono loro riconoscente, molti giornalisti han­ no cantato le mie lodi, molti giornali hanno parlato di me

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    in termini elogiativi. Grazie alla buona opinione che questi giornalisti hanno di me, sono diventato un personaggio po­ polare: mi riconoscono per strada. Mi presto volentieri a questo gioco. I giornalisti sono in genere persone erudite e interessanti; come non essere sensibili al loro apprezza­ mento e come, quando si va ad acquistare un croissant da un fornaio, non sentirsi lusingato dall'attenzione della gio­ vane commessa? Disgraziatamente, questa popolarità della mia persona coin­ cide con un desiderio di lavoro modesto. Avevo voglia di fare dei film d’essai, dei film a basso costo, dei film che, se fossero riusciti bene, avrebbero potuto essere seguiti da altri film, altrettanto modesti per i mezzi impiegati, ma ambiziosi in quanto esperienza. Sognavo una forma di artigianato cine­ matografico mentre la gente si aspettava, dalla reputazione di cui godevo, il capolavoro che raccogliesse tutti i consensi. Prima dell'uscita de II testamento del mostro ho beneficiato di una pubblicità benevola, tanto più importante per il fatto di essere stata attizzata da una campagna tendente a impedire l'uscita del film nelle sale. Si attendeva Emani; la montagna ha partorito un topolino. Ripeto che questo topolino mi sembra di buona qualità, ma non poteva soddisfare un pub­ blico che aspettava un elefante. Non penso che l’avventura de II testamento del mostro sia importante. Mi mette soltanto di fronte all’evidenza della falsità della mia posizione. Il film che ho appena terminato. Le strane licenze del caporale Dupont, dovrà superare gli stessi pericoli. Sento già intorno a me questa attesa del ca­ polavoro che mi terrorizza. So molto bene che non esistono capolavori, almeno che non esistono soltanto di per se stessi, che non sono offerti ben confezionati in un pacco natalizio a un pubblico pronto a estasiarsi per il loro contenuto come per il loro contenente. Il capolavoro, quando per caso esiste, è figlio del pubblico quanto lo è degli autori, e il suo parto ri­ chiede degli anni. A dire il vero, il capolavoro esiste soltan­ to molto tempo dopo la sua nascita. So perfettamente che molti diranno del Caporale: « Non vale La grande illusione... Renoir è in ribasso... farebbe me­ glio ad andare a coltivare il suo giardino... » Sono cose che non mi toccano. Se queste stesse persone ripeteranno questi di­ scorsi tra una decina d’anni, allora diventerà preoccupante, e comincerò ad avere dei dubbi.

    Note e indici

    Nota biografica lean Renoir nasce il 15 sede mòre 1894. a Parigi. Suo padre è il pil­ lole Pierre-Auguste Renoir (1841-1919): sua madre. Aline Charrigot (ni. 1915). è di origini contadine. La famiglia Renoir ha altri due figli: Pierre ( 1885-1952), che sarà un affermato attore teatrale e cinematogra­ fico. e Claude (1901-1969). amministratore finanziario e produttore ci­ nematografico. Un altro Claude Renoir (figlio di Pierre) diventerà uno dei più famosi operatori del cinema francese, lean inizia gli studi al Collège Saint-Croix di Neuilly c nel 1912 si iscrive al Liceo di Nizza. Abbandona però gli studi, per cui ha sempre manifestato scarsa passio­ ne. ed entra in cavalleria. Prende parte alla prima guerra mondiale e viene ferito in Alsazia. Viene allora trasferito a Parigi e trascorre poi la convalescenza a Nizza. Gli ultimi anni di guerra lo vedono in aviazio­ ne. Nel 1920 sposa A nd ree Heuschling. già modella di suo padre, che sarà protagonista dei suoi primi film (da La ragazza dell'acqua a La piccola fiammiferaia) col nome d'arte di Catherine Hessiing; da lei avrà un figlio. Alain. Tra il 1920 e il 1924 si dedica all'attività di cera­ mista, stabilendosi vicino a Fontainebleau. Nel 1924 ha inizio la sua carriera cinematografica. Comincia come sceneggiatore per un film, Catherine o Une vie sons foie, pensato per sua moglie, e diretto da Al­ bert Dieudonné. Ma nello stesso anno La ragazza dell’acqua segna il suo debutto come regista. Nel 1927, poco tempo dopo aver terminato le riprese di Marquitta, e vittima di un incidente d'auto, in cui perde la vita Pierre Champagne, suo aiuto-regista ne La ragazza dell’acqua: verrà salvato da alcuni bracconieri. Nel 1930 la separazione da Cathe­ rine Hessiing. Nel 1931, la realizzazione del suo primo film sonoro: La purga al pupo. Nel 1935 aderisce al programma del Fronte popo­ lare e si accosta al «Gruppo Ottobre», un gruppo teatrale di attori non professionisti, animato da Jacques Prévert e Lou Tchimoukow. che svolge in quegli anni un'intensa attività « militante », di agitazione e propaganda. Con esso realizza Le crime de Monsieur Lange (1935); La vie est à nous (1936), commissionato dal Partito comunista france­ se; La Marsigliese (1937). prodotto sulla base di un'insolita forma di sottoscrizione popolare. Sempre al 1937 risale La grande illusione: al 1939 La règie du jeu. Nel 1940 lascia la Francia per gli Stati Uniti. Vi sposa Dido Freire, che aveva lavorato con lui come segretaria di pro­ duzione ne La règie du jeu. Realizza, nel periodo americano, sette film, tra cui un cortometraggio prodotto dall’Office of War Information (Salute to France) e // fiume, la sua prima opera a colori, girato in India. Nel 1951 ritorna in Francia. Dirige in Italia, l'anno successivo. La car­ rozza d’oro. Dal 1954 accompagna alla propria attività cinematografica una non marginale attività teatrale e poi letteraria. Scrive due comme­ die (Orvet e Carole ou les cabotins). cura regie teatrali, scrive un libro di memorie su suo padre, la propria autobiografìa, due romanzi. Nel 1969 gira per la televisione ìl teatrino di Jean Renoir, formato da quattro episodi, la sua ultima fatica dietro la macchina da presa.

    Nota filmografica (La presente filmografia è stata compilata sulla base di quelle pubbli * cate in: André Bazin, fean Renoir, Champ Libre, Parigi, 1971, e Clau­ de Beylie, fean Renoir, le spectacle, la vie, in Cinéma d’Aujourd’hui, n. 2, nuova serie, maggio-giugno 1975. Dopo il titolo originale vengono dati in corsivo il titolo italiano oppure in tondo la traduzione letterale italiana.)

    Regie la fille de l’eau (La ragazza dell'acqua). 1924

    Regia-, lean Renoir; sceneggiatura-. Pierre Lestringuez; assistente al­ la regia-. Pierre Champagne; scenografia: Jean Renoir; fotografia: lean Bachelet e Alphonse Gibory; riprese: estate 1924; produttore: lean Renoir; lunghezza originale: 1700 m ridotti a 1600 m per la ver­ sione commerciale; durata attuale: 1 h 10; prima proiezione: aprile 1925. Interpreti: Catherine Hessling (Gudule Rosaert), Pierre Philippe [Pier­ re Lestringuez] (Jef), Pierre Champagne (Justin Crépoix). Maurice Touzé (La Fouine), Georges Terof (Monsieur Raynal). Madame Fockenberge (Madame Raynal), Harold Lewingston (Georges Raynal). Henriette Moret (La Roussette), Charlotte Clasis (Madame Maubien), Pierre Renoir (un contadino), André Derain (il padrone del « Bon Coin »), Van Doren (un giovane). nana (Nanà), 1926

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Pierre Lestringuez, dal roman­ zo di Emile Zola; riduzione: Jean Renoir; didascalie: Madame Leblond-Zola; assistente alla regia: André Cerf; scenografia: Claude Autant-Lara; fotografia: Edmund Corwin e Jean Bachelet; montag­ gio: Jean Renoir; riprese: dall’ottobre 1925 al febbraio 1926; produ­ zione: Films Jean Renoir; lunghezza originale: 2700 m; prima proie­ zione: giugno 1926. Interpreti: Catherine Hessling (Nana), fean Angelo (conte di Vandeuvres), Werner Krauss (conte Muffat), Raymond Guérin-Catelin (Georges Hugon), Jacqueline Forzane (contessa Sabine Muffat). Valeska Gert (Zoé), Harbacher (Francis), Pierre Philippe (Bordenave), Claude Moore (Fauchery). Nita Romani (Satin), Jacqueline Ford (Rose Mignon), Pierre Champagne (La Faloise), René Korval (Fontan). Marie Prévost (Gaga), André Cerf (« La tigre »), Pierre Braunberger. R. Turgy (spettatori del Théàtre des Variétés). SUR UN AIR DE CHARLESTON O CHARLESTON-PARADE O CHARLESTON (Su un'

    aria di charleston o Charleston-parade o Charleston). 1926 Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Pierre Lestringuez, da un’idea di André Cerf; assistente alla regia: André Cerf; fotografia: Jean Ba­ chelet; musica originale: Clément Doucet; riprese: alcuni giorni nel­ l’autunno 1926; produttore: Jean Renoir; lunghezza: 600 m circa; du­ rata: 21 minuti; prima proiezione: 19 marzo 1927.

    329 Interpreti: Catherine Hessling (la ballerina), lohnny Huggins (l'e­ sploratore negro). Pierre Braunberger, Pierre Lestringuez e Jean Renoir (tre angeli). marquitta (Marquitta), 1927

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Pierre Lestringuez: scenografia: Robert-Jules Gamier; fotografia: Jean Bachelet e Raymond Agnel; riprese: inverno 1926; produzione: Artistes Réunis; lunghezza: 2400 m. ridotti a 2200 m; prima proiezione: 13 settembre 1927. Interpreti: Marie-Louise Iribe (Marquitta). Jean Angelo (il principe Vlasco), Henri Debain (conte Dimitrieff). Lucien Mancini (il padre adottivo). Pierre Philippe (il direttore del casinò). Pierre Champagne (un tassista), Simone Cerdan. LA PETITE marchande d’allumettes (La piccola

    fiammiferaia}, 1928.

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir, dal racconto di Hans Christian Andersen; coregia: Jean Tedesco; assistenti alla regia: Claude Heymann e Simone Hamiguet; scenografia: Eric Aes; foto­ grafia: Jean Bachelet; musica (per la versione sonora del 1930): bra­ ni da Felix Mendelssohn, Johann Strauss, Richard Wagner; riprese: agosto 1927 - gennaio 1928; produttori: Jean Renoir e Jean Tedesco; lunghezza originale: 2200 m ridotti a 887 nella versione del 1930; durata attuale: 29 minuti; prima proiezione: 31 marzo 1928. Interpreti: Catherine Hessling (Karen), jean Storm (Axel Ott), Ma­ nuel Raabi (l'agente di polizia e l'ussaro della morte), Amy Wells (la bambola meccanica). Madame Heuschling. TIRE AU flanc (Lo scansafatiche), 1928

    Regia: lean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir, Claude Heymann. André Ceri, da! vaudeville di André Mouezy-Eon e André Sylvane; didascalie e disegni: André Rigaud; assistenti alla regia: André Cerf. Lola Markovitch e Alberto Cavalcanti; scenografia: Eric Aes; foto­ grafia: Jean Bachelet; produzione: Néo-Film; lunghezza: 2200 m; prima proiezione: dicembre 1928. Interpreti: Georges Pomiès (Jean Dubois d’Ombelles), Michel Simon (loseph Turlot), Fridette Fatton (Georgette), Félix Oudart (colonnello Brochard), Jeanne Helbing (Solange Blandin), Jean Storm (tenente Daumel), Paul Velsa (caporale Bourrache), Manuel Raabi (l'aiutante), Maryanne (Madame Blandin), Esther Kiss (Madame Flechais). Ca­ therine Hessling (una ragazza), André Cerf (un soldato), Max Dalban (un soldato). Zellas (Muflot), Kinny Dorlay (Lili). le tournoi o le TOURNOi dans la cité (Il torneo o II torneo in città),

    1928 Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Henry Dupuy-Mazuel e André Iaeger-Schmidt; assistente alla regia: André Cerf; scenografia: Ro­ bert Mallet-Stevens; fotografìa: Marcel Lucien e Maurice Desfassiaux: montaggio: André Cerf; riprese: estate-autunno 1928; produzione: Société des Films Historiques; lunghezza: 2400 m; lunghezza attuale: 2000 m: prima proiezione: dicembre 1928. Interpreti: Aldo Nadi (Francois de Baynes), Jackie Monnier (Isabelle Ginori). Enrique Rivero (Henri de Rogier), Blanche Bemis (Caterina * de Medici). Suzanne Desprès (contessa di Baynes), Manuel Raabi

    330 (conte Ginori). Gérard Mock (Carlo IX), Viviane Clarens (Lucrezia Pazzi), Janvier (l'ufficiale delle guardie), William Aguet (lo scudiero), il nano Marval (Antonio), Max Dalban. le bled (L'entroterra), 1929

    Regia'. Jean Renoir; sceneggiatura: Henry Dupuy-Mazuel e André Jaeger Schmidt; didascalie: André Rigaud; assistenti alla regia: André Cerf e René Arcy-Hennery; scenografia: William Aguet; fotografia: Marcel Lucien e Léon Morizet; montaggio: Marguerite Renoir; ri­ prese: febbraio-marzo 1929; produzione: Société des Films Histori * ques. con il contributo del governo francese; prima proiezione: 11 marzo 1929. Interpreti: Jackie Monnier (Claudie Duvernet). Diana Hart (Diane Duvernet). Enrique Rivero (Pierre Hoffer), Alexandre Arquillère (Christian Hoffer), Manuel Raabi (Manuel Duvernet), Berardi Aìssa (Zoubir), Hadj Ben Yasmina (l'autista), Jacques Becker (un conta­ dino). Madame Rozier (Marie-|eanne). M. Martin (Ahmed). on purge bébé {La purga al pupo). 1931

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir, dalla commedia di Georges Feydeau; assistenti alla regia: Claude Heymann e Pierre Schwab; scenografia: Gabriel Scognamillo; fotografia: Théodore Sparkuhl e Roger Hubert; montaggio: Jean Mamy; riprese: fine mar­ zo 1931: produttori: Pierre Braunberger e Roger Richebé; lunghez­ za: 1700 m; prima proiezione: fine giugno 1931. Interpreti: Jacques Louvigny (Follavoine), Marguerite Pierry (Julie Follavoine). Michel Simon (Chouilloux), Olga Valéry (Madame Chouilloux), Nicole Fernandez (Rose). Fernandel (Truchet), il piccolo Sacha Tarride (Toto). la chienne (La cagna). 1931

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir c André Girard, dal romanzo di Georges de la Fouchardière: dialoghi: Jean Renoir; assistenti alla regia: Pierre Prévert e Pierre Schwab; scenografia: Ga­ briel Scognamillo; fotografìa: Théodore Sparkuhl; montaggio: Mar­ guerite e Jean Renoir; musica: una canzone di Eugénie Buffet, sere­ nata di Toselli; riprese: estate 1931; produzione: Pierre Braunberger e Roger Richebé; lunghezza originale: 3000 m; durata attuale: 1 h 40; prima proiezione: 19 novembre 1931. Interpreti: Michel Simon (Maurice Legrand). Janie Marèze (Lulu Pelletier), Georges Flament (André Jauguin, detto Dédé), Magdeleine Bérubet (Madame Adèle Legrand), Gaillard (l'aiutante Alexis Go­ dard). Jean Gehret (Dagodet). Alexandre Rignault (Langelard), Lu­ cien Mancini (Walstein), Courme (il colonnello). Max Dalban (Bon­ nard). Henri Guisol (Amédée), Romain Bouquet (Henriot), Pierre Destys (Gustave), Jane Pierson (la portinaia), Christian Argentin (il giudice), Sylvain Itkine (l'avvocato di Dédé). Colette Borelli (Lily). Mademoiselle Doryans (Yvonne). la nuit du

    Carrefour (La notte dell’incrocio). 1932

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura e dialoghi: Jean Renoir, dal ro­ manzo di Georges Simenon; assistenti alla regia: Jacques Becker e Maurice Blondeau; scenografìa: William Aguet e Jean Castanier;

    331 fotografia: Marcel Lucien Asselin; montaggio: Marguerite Renoir, Suzanne de Troye e Walter Ruttmann; riprese: gennaio-marzo 1932; produzione: Europa Films; lunghezza originale: 2000 m; prima proiezione: 21 aprile 1932. Interpreti: Pierre Renoir (commissario Maigret). Georges Térof (Lucas), Winna Winfried (Else Andersen). Georges Koudria (Cari Andersen), Dignimont (Oscar), G. A. Martin (Grandjean), Jean Gehret (Emile Michonnet), Jane Pierson (Madame Michonnet), Michel Du­ ran (Jojo), Jean Mitry (Arsène), Max Dalban (il dottore), Gaillard (il macellaio), Boulicot (un gendarme), Manuel Raabi (Guido). Lucie Vallat (la moglie di Oscar). boudu SAUvé des eaux (Boudu salvato dalle acque). 1932

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir. dalla commedia di René Fauchois; assistenti alla regia: Jacques Becker e Georges Darnoux; scenografia: Jean Castanier e Hugues Laurent; fotografia: Marcel Lucien; montaggio: Marguerite Renoir e Suzanne de Troye; musica: Raphael e Johann Strauss; riprese: estate 1932; produzione: Société Sirius; durata attuale: 1 h 23: prima proiezione: novembre 1932. Interpreti: Michel Simon (Boudu), Charles Granvai (Lestingois), Marcelle Hainia (Madame Lestingois), Séverine Lerczinska (AnneMarie), Jeanne Dasté (lo studente). Max Dalban (Godin). Jean Gehret (Vigour), Jacques Becker (il poeta). Jeanne Pierson (Rose). Georges Darnoux. chotard et CIE (Chotard e C.), 1933

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir. dalla commedia di Roger Ferdinand; dialoghi: Roger Ferdinand; assistente alla regia: Jacques Becker; scenografia: Jean Castanier; fotografia: ). L. Mund­ willer; montaggio: Marguerite Renoir e Suzanne de Troye: riprese: novembre-dicembre 1932; produzione: Films Roger Ferdinand; lun­ ghezza originale: 2125 m; durata attuale: 1 h 13; prima proiezione: marzo 1933. Interpreti: Femard Charpin (Francois Chotard). Jeanne Lory (Ma­ rie Chotard), Georges Pomiès (Julien Collinet). Malou Trékin (Au­ gustine), Max Dalban (un commesso della drogheria), Louis Seigner (il capitano dei gendarmi), Louis Tunc (il sottoprefetto). Dignimont (Parpaillon), Robert Seller (il comandante). Fabien Loris. Freddie Johnson. madame bovary (Madame Bovary). 1933

    Regia: Jean Renoir. sceneggiatura: lean Renoir. dal romanzo di Gustave Flaubert; assistente alla regia: Pierre Desouches; scenogra­ fia: Robert Gys, Eugene Lourié e Georges Wakhevitch: fotografia: Jean Bachelet; musica: Darius Milhaud: montaggio: Marguerite Renoir; riprese: autunno 1933; produzione: N.S.F.; lunghezza origi­ nale: 3200 m; durata attuale: 2 h; prima proiezione: 4 gennaio 1934. Interpreti: Pierre Renoir (Charles Bovary). Alice Tissot (Madame Bovary, madre), Valentine Tessier (Emma Bovary). Helena Manson (Héloìse), Max Dearly (Homais), Daniel Lecourtois (Leon Dupuis), Fernand Fabre (Rodolphe Boulanger). Léon Larive (il prefetto), Pierre Larquey (Hippolyte Tautain), Florencie (abate Bournisien), Le Vigan (Lheureux), Romain Bouquet (il notaio). Georges Cahuzac

    332 (padre Rouault), Alain Dhurtal (dottor Larivière), André Fouché (Justin), Georges de Neubourg (marchese di Vaubeyssard), Edmond Beauchamp (Binet), Henri Vilbert (dottor Canivet), Robert Moor (l’usciere), Marthe Mellot (la vecchia Nicaise), Monette Dinay (Félicité), Maryanne (Madame Homais), René Blech (il cocchiere), Odette Dynès (Mademoiselle Musette), Christiane Dor (Madame Lafran^ois), Paulette Elambert (la piccola Berthe Bovary), Max Tréjean, Albert Malbert. toni (Toni), 1934

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir e Cari Einstein, da un fatto di cronaca e sulla documentazione di Jacques Mortier; dia­ loghi: Cari Einstein e Jean Renoir; assistenti alla regia: Georges Darnoux, Antonio Canor e Luchino Visconti; fotografia: Claude Renoir; scenografia: Léon Bourrely e Marius Brouquier; montaggio: Mar­ guerite Renoir e Suzanne de Troye; musica: Paul Bozzi; riprese: estate 1934; produzione: Films d’Aujourd’hui; lunghezza: 2600 m; durata: 1 h 40; prima proiezione: 22 febbraio 1935. Interpreti: Charles Blavette (Antonio Canova, detto Toni), Jenny Helia (Marie), Celia Montalvan (Josepha), Edouard Delmont (Fer­ nand), Andrex (Gaby), André Kovachevitch (Sébastian). Max Dalban (Albert), Paul Bozzi (Jacques). le crime de monsieur lance (Il delitto del signor Lange), 1935

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura e dialoghi: Jacques Prévert e Jean Renoir, da un'idea di Jean Castanier; assistenti alla regia: Georges Darnoux e Jean Castanier; scenografia: Jean Castanier e Robert Gys; fotografia: Jean Bachelet; montaggio: Marguerite Renoir; mu­ sica: Jean Wiener e una canzone di Joseph Kosma; riprese: ottobrenovembre 1935; produzione: Obéron; lunghezza: 2200 m; durata attuale: 1 h 15; prima proiezione: 24 gennaio 1936. Interpreti: Jules Berry (Batata), René Lefèvre (Amédée Lange), Florelle (Valentine), Nadia Sibirskaia (Estelle), Sylvia Bataille (Edith), Henri Guisol (Meunier figlio), Marcel Levesque (il portiere), Maurice Baquet (Charles), Odette Talazac (la portinaia), Jacques B. Brunius (Baigneur), Marcel Duhamel (il caporeparto). Jean Dasté (il grafico), Paul Grimault (un tipografo), Guy Decomble (un operaio), Claire Gérard (la prostituta), Edmond Beauchamp (il curato sul treno), Re­ né Génin (un cliente alla locanda della frontiera), Paul Demange (un creditore), Sylvaine Itkine (il cugino di Batala). Fabien Loris, Janine Loris, Henri Saint-Isles, Jean Brémaud, Pierre Huchet, Charbonnier, Marcel Lupovici. la vie est à nous (La vita è nostra), 1936

    Regia: Jean Renoir, André Zwoboda, Jean-Paul Le Chanois; sceneg­ giatura: Jean Renoir, Paul Vaillant-Couturier, Jean-Paul Le Chanois. André Zwoboda, ecc.; assistenti alla regia: Jacques Becker, Marc Maurette, Henri Cartier-Bresson, Maurice Lime, Jacques B. Brunius, Pierre Unik; fotografia: Louis Page, Jean-Serge Bourgoin. Jean Isnard, Alain Douarinou, Claude Renoir, Nicolas Hayer; montaggio: Marguerite Renoir; musica: L'Intemazionale, Canzone del komsomoi e canti del Fronte Popolare; produzione: Partito comunista francese; durata: I h 06.

    333 Interpreti: lean Dasté (il maestro). Jacques B. Brunius (il presidente del consiglio d'amministrazione), Simone Guisin (una signora al Ca­ sinò), Teddy Michaux (un fascista), Pierre Unik (il segretario di Mar­ cel Cachin), Max Dalban (Brochard), Madeleine Sologne (un'operaia), Fabien Loris (un operaio), Emile Drain (il vecchio Gustave Bertin), Charles Blavette (Tonin), Jean Renoir (il padrone del caffè), Madeleine Dax (una segretaria), Roger Blin (un metalmeccanico), Sylvain Itkine (il contabile), Georges Spanelly (il direttore della fabbrica), Femand Bercher (un segretario), Eddy Debray (l’usciere), Henri Pons (Lecocq), Gaston Modot (Philippe), Léon Larive (un cliente della vendita all'asta), Pierre Ferval (secondo cliente), Julien Bertheau (René), Nadia Sibirskaì'a (Ninette), Marcel Lesieur (il padrone del garage), O’Brady (Mohammed). Marcel Duhamel (Moutet), Tristan Sévère (un disoccu­ pato), Guy Favières (il vecchio disoccupato), Jacques Becker (il gio­ vane disoccupato), Claire Gérard (una borghese, in strada), JeanPaul Le Chanois (P’tit Louis), Charles Charras (un cantante), Francis Lemarque (un altro cantante). Nel corteo finale: Vladimir Sokoloff. Francois Viguier. Yolande Oliviero, Madeleine Sylvain, ecc. parti E de campagne (La scampagnata), 1936

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir, da una novella di Guy de Maupassant; dialoghi: Jean Renoir; assistenti alla regia: Jacques Becker, Jacques B. Brunius, Henri Cartier-Bresson, Claude Heymann, Yves Allégret, Luchino Visconti; scenografia: Robert Gys; fotografia: Claude Renoir; montaggio: Marguerite Renoir; musica: Joseph Kosma; riprese: luglio-agosto 1936; produzione: Films du Panthéon; lunghezza originale: 1232 m; lunghezza attuale: 1100 m; durata: 40 minuti. Interpreti: Sylvia Bataille (Henriette Dufour), Jane Marken (sua madre), Gabriello (suo padre), Georges Damoux (Henri), Jacques Borei [Jacques B. Brunius] (Rodolphe), Paul Temps (Anatole), Ga­ brielle Fontan (la nonna), Jean Renoir (papà Poulain), Marguerite Renoir (la cameriera), Pierre Lestringuez (il vecchio curato), Jacques Becker (un seminarista). Alain Renoir (il giovane pescatore). les bas-fonds (Verso la vita), 1936

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Evgenij Zamjatin e Jacques Companeez, da una commedia di Maksim Gor’kij; riduzione e dialoghi: Charles Spaak e Jean Renoir; assistenti alla regia: Jacques Becker e Joseph Soiffer; scenografia: Eugène Lourié, Hugues Laurent: foto­ grafia: Fedote Bourgassoff e Jean Bachelet; montaggio: Marguerite Renoir; musica: Jean Wiener; riprese: agosto-ottobre 1936; produ­ zione: Albatros; durata: l h 30; prima proiezione: dicembre 1936. Interpreti: Louis Jouvet (il barone), Jean Gabin (Pepel), Suzy Prim (Vassilissa), Vladimir Sokoloff (Kostileff), Junie Astor (Natacha), Ro­ bert Le Vigan (l’attore), Camille Bert (il conte), Léon Larive (Félix), Gabriello (il commissario), René Génin (il vecchio), Maurice Baquet (il suonatore di fisarmonica), Jany Holt (la prostituta), Lucien Mancini (il padrone dell’osteria), Paul Temps, Henri Saint-Isles, René Stem, Sylvain, Robert Ozenne. Alex Allin. Femand Bercher. Annie Cérès. Nathalie Alexeielf. Jacques Becker. la grande illusion (La grande illusione), 1937

    Regia: Jean Renoir: sceneggiatura e dialoghi: Charles Spaak e Jean

    334 Renoir; assistente alla regia: Jacques Becker; scenografia: Eugène Lourié; fotografìa: Christian Matras; montaggio: Marguerite Renoir e Marthe Huguet; musica: Joseph Kosma; riprese: inverno 1936-37; produzione: R.A.C.; lunghezza: 3542 m; prima proiezione: 4 giugno 1937. Interpreti: Erich von Stroheim (capitano von Rauffenstein), Jean Gabin (Maréchal), Pierre Fresnay (capitano de Boieldieu), Marcel Dalio (Rosenthal), Julien Carette (Fattore), Gaston Modot (l’ingegnere), Jean Dasté (l’insegnante), Georges Peclet (un soldato francese), Jac­ ques Becker (un ufficiale inglese), Sylvain Itkine (Demolder), Dita Parlo (Elsa), Werner Florian, Claude Sainval, Michel Salina, Cari Koch. la

    Marseillaise (La Marsigliese), 1937

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir con la collaborazione di Carl Koch, Nina Martel Dreyfus e Madame Jean-Paul Dreyfus; dialoghi: Jean Renoir; assistenti alla regia: Jacques Becker, Claude Renoir (senior), Jean-Paul Dreyfus, Demazure, Marc Maurette, Tony e Francine Corteggiani; effetti speciali (ombre cinesi): Lotte Reiniger; scenografia: Léon Barsacq, Georges Wakhevitch, Jean Périer; fotografia: Jean-Serge Bourgoin, Alain Douarinou, Jean-Marie Maillols, Jean-Paul Alphen, Jean Louis; montaggio: Marguerite Renoir e Mar­ the Huguet; musica: Lalande, Grétry, Rameau, Mozart, Bach, Rouget de Lisle, Joseph Kosma e Sauveplane; riprese: estate-autunno 1937; produzione: Société de Production et d’Exploitation du film La Mar­ seillaise; durata attuale: 2 h 15; prima proiezione: 9 febbraio 1938. Interpreti. La corte: Pierre Renoir (Luigi XVI), Lise Deiamare (Ma­ ria Antonietta), Léon Larive (Picard), William Aguet (La Rochefoucauld-Liancourt), Elisa Ruis (Madame de Lamballe), Georgette Le­ febvre (Madame Elizabeth), Marie-Pierre Sordet Dantès (il delfino), Yveline Auriol, Pamela Stirling, Genia Vaury. Le autorità civili e mi­ litari: Louis Jouvet (Roeder), Jean Aquistapace (il sindaco del vil­ laggio), Georges Spanelly (La Chesnaye), Pierre Nay (Dubouchage), Jaque-Catelain (capitano Langlade), Edmond Castel (Leroux), Wer­ ner Florian-Zach (Westerman). Gli aristocratici: Aimé Clariond (Si­ gnore di Saint-Laurent), Maurice Escande (il signore del villaggio), André Zibral (Signore di Saint-Méry), Jean Ayme (Signore di Fougerolle), (rène Joachim (Signora di Saint-Laurent). / marsigliesi: Andrex (Honoré Arnaud), Charles Blavette poi Edmond Ardisson (JeanJoseph Bomier), Paul Dullac (Javel), Jean-Louis Allibert (Moissan), Fernand Flament (Ardisson), Alex Truchy (Cuculière), Georges Péciet (Pignatei), Gèo Dorlys (un capo marsigliese), Gèo Lastry (capi­ tano Massague), Adolphe Autran (il tamburino), Edouard Delmont (Anatole Rous detto Cabri). Il popolo: Nadia Sibirskaia (Louison), Jenny Helia (l’interrogante), Gaston Modot e Julien Carette (due volontari), Séverine Lerczinska (una contadina), Marthe Marty (mam­ ma Bomier), Odette Cazau (Thérèse), Edmond Beauchamp (il curato), Bianche Destournelles (Clémence), Roger Prégor, Pierre Ferval, Fer­ nand Bellon, Jean Boissemond, Lucy Kieffer. la bète huMaine (L’angelo del male), 1938

    Regia: lean Renoir; sceneggiatura e dialoghi: Jean Renoir, dal ro­ manzo di Emile Zola; assistenti alla regia: Claude Renoir (senior) e Suzanne de Troye: scenografia: Eugène Lourié; fotografia: Curt Couranl; montaggio: Marguerite Renoir; musica: Joseph Kosma;

    335 riprese: agosto-settembre 1938; produzione: Paris Film Production; lunghezza: 2400 m: durata: 1 h 45; prima proiezione: 23 dicembre 1938. interpreti: Jean Gabin (Jacques Lantier). Simone Simon (Séverine). Fernand Ledoux (Roubaud), Julien Carette (Pacqueux), Colette Régis (Victoire), Jenny Helia (Philomène), Gérard Landry (Dauvergne fi­ glio). Jacques Berlioz (Grandmorin). Léon Larivc (il suo cameriere), Georges Spanelly (Camy-Lamothe), Jean Renoir (Cabùche), Emile Génevois e Jacques B. Brunius (due giovani contadini), Marcel Pérès (un lampista), Blanchette Brunoy (Florc). Claire Gérard (una viaggia­ trice). Tony Corteggiani (il caposezione). Guy Decomble. Georges Péclet, Charlotte Clasis, Marceau. la rècle ou ieu (La regola del gioco), 1939

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir con la collaborazio­ ne di Cari Koch: dialoghi: Jean Renoir; assistenti alla regia: Carl Koch. André Zwoboda, Henri Cartier-Bresson; scenografia: Eugène Lourié; fotografia: Jean Bachelet; montaggio: Marguerite Renoir e Marthe Huguet; musica: Mozart, Monsigny, Sallabert, Johann Strauss. Saint-Saèns, Chopin, Scotto: riprese: febbraio-marzo 1939; produzione: N.E.F.; durata originale: 1 h 53; durata attuale: 1 h 52; prima proiezione: 7 luglio 1939. Interpreti: Marcel Dalio (marchese Robert de la Chesnaye). Nora Grégor (Christine), Roland Tautain (André Jurieu), Jean Renoir (Octave), Mila Parély (Geneviève de Marrast), Odette Talazac (Char­ lotte de la Piante). Pierre Magnier (il generale), Pierre Nay (SaintAubin), Richard Francoeur (La Bruyère). Claire Gérard (Madame La Bruyère), Anne Mayen (Jackie), Roger Forster (l’invitato effeminato), Nicolas Amato (il Sudamericano), Tony Corteggiani (Berthelin), Paulette Dubost (Lisette), Gaston Modot (Schumacher), Julien Ca­ rette (Marceau), Eddy Debray (Corneille), Léon Larive (il capocuo­ co), Jenny Helia (la cameriera). Lise Elina (la radiocronista), André Zwoboda (l’ingegnere), Camille Francois (lo speaker). Henri Car­ tier-Bresson (il domestico inglese). swamp water (La palude della morte), 1941

    Regia: lean Renoir; sceneggiatura: Dudley Nichols, da un racconto di Vereen Bell; scenografia: Thomas Little; fotografia: Peverell Mar­ ley e Lucien Ballard; montaggio: Walter Thompson; musica: David Rudolph; produzione: 20th Century Fox; lunghezza: 2535 m; dura­ ta: I h 26; prima proiezione: 16 novembre 1941. Interpreti: Dana Andrews (Ben Ragan), Walter Huston (Thursday Ragan), John Carradine (Jesse Wick). Eugene Pallette (sceriffo Jeb MacKane). Ward Bond (Jim Dotson), Guinn Williams (Bud Dorson). Virginia Gilmore (Mabel MacKenzie), Walter Brennan (Tom Keefer). Ann Baxter (Julie). Mary Howard (Hannah), Russel Simpson (Marty McCord). Joseph Sawyer (Hardy Ragan). Paul Burns (Tulle MacKenzie). Dave Morris (il barbiere). Frank Austin (Fred Ulm). Mat Williams (Miles Tonkin). this land is mine (Questa terra è mia), 1943

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura : Dudley Nichols e Jean Renoir; dialoghi: Dudley Nichols; assistente alia regia: Edward Donohue; scenografia: Eugène Lourié. Alberi d'Agostino. Walter F. Keeler.

    336 Darrel Silvera, Al Fields; fotografia: Frank Redman; montaggio: Frederic Knudtsen; musica: Lothar Perl; produzione: R.K.O.; lun­ ghezza: 2847 m; durata: 1 h 43; prima proiezione: 27 maggio 1943. interpreti: Charles Laughton (Albert Lory), Kent Smith (Paul Mar» tin), Maureen O'Hara (Louise Martin), George Sanders (Georges Lambert), Walter Slezack (maggiore von Keller), Una O'Connor (la madre di Albert), Philip Merivale (professor Sorel), Thurston Hall (Henry Manville), Nancy Gates (Julie Grant), Ivan Simpson (il giu­ dice), Georges Coulouris (il procuratore), Wheaton Chambers (Mr. Lorraine), John Donnat (Edmund Lorraine), Franck Alten (tenente Schwartz), Leo Bulgakov (Little Man), Cecile Wetson (la signora Lor­ raine). salute to

    France (Saluto alla Francia), 1944

    Regia: Jean Renoir e altri; sceneggiatura: Philip Dunne, Jean Re­ noir e Burgess Meredith; fotografia: Army Pictorial Service; montag­ gio: Helen Van Dongen; musica: Kurt Weill; produzione: Office of War Information; lunghezza: 540 m; prima proiezione: (in Francia) 13 ottobre 1944. Interpreti: Burgess Meredith (Tommy), Garson Kanin (Joe), Claude Dauphin (Jacques, il narratore e diversi ruoli: il soldato, il contadino, l’intellettuale, l’operaio, il partigiano, ecc.). the southerner (L’uomo del Sud), 1945

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir, dal romanzo di George Session Perry «Hold Autumn in your Hand»; riduzione: Hugo Butler; dialoghi: Jean Renoir, con la collaborazione di William Faulkner; assistente alla regia: Robert Aldrich; scenografia: Eugène Lourié; fotografia: Lucien Andriot; montaggio: Greg Tallas; musica: Werner Janssen; produzione: David L. Loew e Robert Hakim; lun­ ghezza: 2586 m; durata: 1 h 32; prima proiezione: 26 agosto 1945. Interpreti: Zachary Scott (Sam Tucker), Betty Field (Nana Tucker), J. Carrol Naish (Devers). Beulah Bondi (la nonna), Percy Kilbride (Harmie Jenkins), Blanche Yurka (la madre), Charles Kemper (Tim), Norman Lloyd (Finlay Hewitt), Estelle Taylor (Lizzie), Noreen Nash (Becky), Jack Norworth (il dottore), Paul Harvey (Ruston), Nestor Piva (il barman), lay Gilpin (Jot), Jean Vanderbilt (Daisy), Paul Burns (zio Pete), Dorothy Granger, Earl Odgkins, Almira Sessions. the diary of a chambermaid (il diario di una cameriera). 1946

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir e Burgess Meredith, dalla commedia di André Heuse, André de Lorde e Thielly Notes, trat­ ta dal romanzo di Octave Mirbeau; assistente alla regia: Joseph De­ pew; scenografia: Eugène Lourié; fotografia: Lucien Andriot; mon­ taggio: James Smith; musica: Michel Michelet; produzione: Benedict Bogeaus e Burgess Meredith; durata originale: 1 h 31, ridotta a 1 h 22; prima proiezione: 23 giugno 1946. Interpreti: Paulette Goddard (Célestine), Burgess Meredith (capitano Mauger), Hurt Hatfield (George), Reginald Owen (Mr. Lanlaire), Florence Bates (Rose). Francis Lederer (Joseph), Judith Anderson (si­ gnora Lanlaire), Irène Ryan (Louise), Almira Sessions (Marianne).

    337 the woman on the beach (La donna della spiaggia). 1946

    Regia-. Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir. Frank Davis e J. R. Michael Hogan, dal romanzo di Mitchell Wilson «None so Blind»; assistente alla regia: James Casey; scenografia: Darrel Silvera e John Sturtevant; fotografia: Harry Wild e Leo Tover; montaggio: Roland Gross e Lyle Boyer; musica: Hanns Eisler; produzione: R.K.O.; lun­ ghezza: 1928 m; durata: 1 h 11; prima proiezione: 8 giugno 1947. Interpreti: Joan Bennett (Peggy Butler). Robert Ryan (tenente Scott Burnett), Charles Bickford (Tod Butler), Nan Leslie (Eve Geddes), Walter Sande (Vernecke), Irene Ryan (signora Vcmecke). Glenn Ver­ non (Kirk), Franck Doren (Lars). Jay Norris (Jimmy). the river

    (// fiume), 1950

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Rumer Godden e Jean Renoir, dal romanzo di Rumer Godden; assistente alla regia: Forrest Judd; scenografia: Eugène Lourié. Bansi Chandra Gupta: fotografia: Claude Renoir (colore Technicolor); montaggio: George Gale; musica: fol­ clore indiano; riprese: 1949-1950; produzione: Orientai International Film Ine.; lunghezza: 2730 m; durata: 1 h 39; prima proiezione: 19 dicembre 195). Interpreti: Nora Swimburnc (la madre). Esmond Knight (il padre), Arthur Shields (Mr. John), Thomas E. Breen (il capitano John). Suprova Mukerjee (Nan), Patricia Walters (Harriet). Radha Shri Ran (Mélanie), Adrienne Corri (Valérie), Richard Foster (Bogey). Pene­ lope Wilkinson (Elisabeth). Jane Harris (MulFie). Jennifer Harris (Mouse), Cecilia Wood (Victoria), Ram Singh (Sahjn Singh). Nimai Bank (Kanu), Trilak fetlcy (Anil). le carrosse d*or (La carrozza d'oro). 1952

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir. Renzo Avanzo, Giulio Macchi, Jack Kirkland, Ginette Doynel. liberamente tratta dal­ la commedia di Prosper Mérimée « La carrosse du Saint-Sacrement » ; assistenti alla regia: Marc Maurette e Giulio Macchi; scenografia: Ma­ rio Chiari e Gianni Polidori; fotografia: Claude Renoir c H. Ronald; montaggio: Mario Serandrei e David Hawkins; musica: Antonio Vi­ valdi, Arcangelo Corelli e Olivier Metra; produzione: Panaria Films - Hoche Productions; durata: I h 40; prima proiezione: 27 febbraio 1953. Interpreti: Anna Magnani (Camilla/Colombina). Duncan Lamont (il viceré), Odoardo Spadaro (Don Antonio). Riccardo Rioli (Ramón), Paul Campbell (Felipe), Nada Fiorelli (Isabella). Georges Higgins (Mar­ tinez), Dante (Arlecchino). Rino (il dottore). Gisela Mathews (la mar­ chesa Altamirano). Lina Marengo (la vecchia attrice). Ralph Truman (duca di Castro), Renato Chiantoni (Capitan Fracassa). Giulio Tedeschi (Baldassarre), Alfredo Kolncr (Fiorindo), Alfredo Modini (Pulcinella), John Pasetti (il capitano delle guardie). William Tubbs (l'albergatore). Cecil Mathews (il barone). Fedo Keeling (il visconte). Jean Debucourt (il vescovo), i fratelli Medini (quattro bambini). Raf de la Terre. french cancan (French Can-Can), 1954

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir, da un'idea di AndréPaul Antoine; riduzione e dialoghi: Jean Renoir; assistenti alla regia: Serge Vallin. Pierre Kast. Jacques Rivette: scenografia: Max Douy;

    338 fotografia: Michel Keiber (colore Technicolor); montaggio: Boris Lewin; musica: Georges Van Parys, motivi di caffè-concerto; riprese: 4 ottobre-20 dicembre 1954; produzione: Franco London Films - lol­ ly Films; durata: I h 37; prima proiezione: 27 aprile 1955. Interpreti: Jean Gabin (Danglard), Maria Félix (la Belle Abbesse), Frangoise Arnoul (Nini), Jean-Roger Caussimon (barone Walter), Gianni Esposito (principe Alessandro). Philippe Clay (Casimir). Mi­ chel Piccoli (Valorgueil), Jean Parédès (Coudrier). Lydia Johnson (Guibole), Max Dalban (il padrone de « La Reine Bianche »), Jacques Jouanneau (Bidon), Jean-Marc Tennberg (Savate), Hubert Deschamps (Isidore), Franco Pastorino (Paulo). Valentine Tessier (Madame Olym­ pe), Albert Rémy (Barjolin), Annik Morice (Thérèse), Dora Doli (La Génisse), Anna Amendola (Esther Georges), Léo Campion (l’attore). Madame Paquerette (Mimi Prunelle). Sylvine Delannoy (Titine), Mi­ chèle Nadal (Bigoudi), Anne-Marie Mersen (Paquita), Gaston Gabaroche (Oscar), Jaquc-Catelain (il ministro), Pierre Moncorbier (l’usciere), Jean Morder (il gestore dell’albergo), Numès Fils (il vicino), Robert Auboyneau (il ragazzo dell’ascensore), Laurence Betaille (la Pygmée), Pierre Olaf (Pierrot), Jacques Ciron, Claude Arnay (due ga­ gà), France Roche (Béatrix), Michèle Philippe (Eléonore), R. J. Chauffard (l'ispettore di polizia), Gaston Modot (il domestico di Danglard), Jacques Hilling (il chirurgo), Patachou (Yvette Guilbert), André Claveau (Paul Delmet), Jean Raymond (Paulus), Edith Piaf (Eugénie Buf­ fet), Jedlinska (la Gigolette), Jean Sylvère, Palmyre Lavasseur, André Philip, Bruno Balp, Jacques Marin, H. R. Herce. René Pascal, Martine Alexis, MaTa Jusanova. eléna et les hommes (Eliana e gli uomini), 1956

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir; assistente alla regia: Serge Vallin; scenografia: Jean André; fotografia: Claude Renoir; montaggio: Boris Lewyn; musica: Joseph Kosma; produzione: Fran­ co London Films, Les Films Gibé, Electra Compania Cinematografica; durata: 1 h 35; prima proiezione: 12 settembre 1956. Interpreti: Ingrid Bergman (principessa Elena Sorokovska). lean Marais (generale Rolland), Mel Ferrer (Henri de Chevincourl). lean Richard (Hector), Magali Noel (Lolotte), Juliette Gréco (Miarka), Pier­ re Bertin (Martin-Michaud), Jean Castanier (Isnard), Jean Claudio (Lionel), Elina Labourdette (Paulette Escofiier), Frédéric Duvallès (Godin), Dora Doll (Rosa la Rose), Mirko Ellis (Marbeau), Jacques Hilling (Lisbonne). Jacques Jouanneau (Eugène Godin), Renaud Mary (Fleury), Gaston Modot (il capo degli zingari). Jacques Morel (Duchène). Michel Nadal (Denise). Albert Rémy (Buchez), Olga Valéry (Olga). Léo Marjane (la cantante). Léon Larivc (il domestico di Hen­ ri), Gregori Chmara (il domestico di Elena), Paul Demarge (uno spet­ tatore), Jim Gerard, Robert Le Béal, Claire Gérard, René Berthier, Jean Ozenne, Gérard Buhr, gli Zavatta, Hubert de Lapparent, Pierre Duverger. Jaque-Catelain, Simone Sylvestre, Corin Jansen, Liliane Emout, Louisette Rousseau. Palmyre Levasseur. Lyne Carrel. le testament du docteur cordelier

    (// testamento del mostro), 1959

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura e dialoghi: Jean Renoir, dal ro­ manzo di Robert Louis Stevenson « Dr Jekyll e Mr. Hyde»: assistenti alla regia: Maurice Beuchey e Jean-Pierre Spierò; scenografia: MarcelLouis Dieulot; fotografia: Georges Leclerc; montaggio: Renée Li-

    339 chtig; musica: Joseph Kosma; riprese: gennaio 1959; produzione: R.T.F.. Sofìrad. Compagnie Jean Renoir; durata originale: 1 h 40; durata attuale: 1 h 35; prima proiezione: 16 novembre 1961. Interpreti: Jean-Louis Barrault (dottor Cordelier e Opale). Teddy Bilis (Joly), Michel Vitold (dottor Séverin), Jean Topart (Désiré), Mi­ cheline Gary (Marguerite). Jacques Dannoville (commissario Lardout), André Certes (ispettore Salbris). Jean-Pierre Granvai (il padrone dell’albergo), Jacqueline Morane (Alberte), Ghislaine Dumont (Suzy). Madeleine Marion (Juliette). Didier d’Yd (Georges), Primerose Per­ ret (Mary), Gaston Modot (Blaise), Raymond Jourdan (l'infermo). Sylviane Margotte (la bambina). Jaque-Catelain (l’ambasciatore), Ré­ gine Blaess (sua moglie), Raymone (Madame des Essarts), Dominique Dangan (la madre), Céline Sales (una ragazza), Claudie Bourlon (Li­ se), Jacqueline Frot (Isabelle), Francoise Boyer (Franqoise), Monique Theffo (Annie), Annick Allières (la vicina). Jean Bertho, Jacques Ciron (due passanti). le oéjEUNER sur l'erbe (Picnic alla francese), 1959

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura e dialoghi: Jean Renoir; assistenti alla regia: Maurice Beuchey, Francis Morane, |ean-Pierre Spierò, He­ dy Naka, Jean de Nesles; scenografìa: Marcel-Louis Diculot, André Piltan e Pierre Cadiou; fotografìa: Georges Ledere; montaggio: Renée Lichtig e Franqoise London: musica: Joseph Kosma; riprese: luglio-agosto 1959; produzione: Compagnie Jean Renoir; durata: 1 h 32; prima proiezione: 11 novembre 1959. Interpreti: Paul Meurisse (professor Etienne Alexis), Catherine Rouvel (Antoinette), Fernand Sardou (Nino), Jacqueline Morane (Tifine), Jean-Pierre Granvat (Ritou), Robert Chandeau (Laurent). Micheline Gary (Madelaine), Frédéric O’Brady (Rudolf), Ghislaine Dumont (Magda), Ingrid Nordine (Marie-Charlotte), André Brunot (il vecchio curato), Héline Due (Isabelle), Jacques Dannoville (Paignant), Mar­ guerite Cassan (sua moglie), Charles Blavette (Gaspard), Jean Claudio (Rousseau). Raymond Jourdan (Eustache). Francis Miege (Barthélemy). Régine Blaess (Claire), Pierre Leproux (Bailly), Michel Herbault (Montet), Jacqueline Fontei (Mademoiselle Michelet), Paulette Dubost (Mademoiselle Forestier), M. You (Chapui), c i quattro speaker. Mi­ chel Péricart. Roland Thierry. Dupraz, Lucas. le caporal épinclé (Le strane licenze del caporale Dupont), 1962

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir e Guy Lcfranc, dal romanzo di Jacques Perret; dialoghi: Jean Renoir; assistenti alla re­ gia: Marc Maurette e J. E. Kieffer; fotografia: Georges Ledere; montaggio: Renée Lichtig e Madeleine Lacompèrc; riprese: inverno 1961-62; produzione: Films du Cyclope; durata: 1 h 45; prima proie­ zione: 23 maggio 1962. Interpreti: Jean-Pierre Cassel (il caporale), Claude Brasseur (Pater). Claude Rich (Ballochet), O. E. Hasse (il viaggiatore ubriaco), Jean Carmet (Emile), Jacques Jouanneau (Penchagauchc), Conny Froboess (Erika). Mario David (Caruso), Philippe Costelli (l'elettricista), Ray­ mond Jourdan (Dupieu), Guy Bedos, Gérard Darrieu, Sacha Briquet, Lucien Raimbourg, Francois Darbon, Elisabeth Marcus. Elisabeth Stiepel. Helmut Janatsch.

    340 le petit théatre par

    |ean renoir (// teatrino di Jean Renoir), 1969

    Regia: Jean Renoir; sceneggiatura: Jean Renoir; scenografia: Gilbert Margerie; jalografia: Georges Ledere; montaggio: Geneviève Winding e Gisèle Chezeau; musica: Jean Wiener, Joseph Kosma, Octave Crémieux; riprese: giugno-settembre 1969; produzione: R.A.I., Son et Lumière, O.R.T.F. fnterpreti. Le dernier réveillon: Nino Formicola (il clochard), Milly Monti (la clochard), Roger Trapp (Max Vialle), Robert Lombard (il maitre d’hotel), André Dumas (il gestore), Roland Bertin (Gontran). Paul Bisciglia (un clochard), Frédéric Santaya, Pierre Guida, Jean-Michel Mole, Poucette Devaison, Tom Clark, G. Taillade, Daniel Soursain, Sébastien Fioche, Gilbert Caron, Sabine Hermosa, E. Braconnier. Lolita Soler, Alain Peron. Le cireuse électrique: Marguerite Cassan (Emilie), Pierre Olaf (Gustave), Jacques Dynam (Jules), Denis Gunzburg e Claude Guillaume (gli innamorati), Jean-Louis Tristan (il rappresentante). Quand l'amour meurt: Jeanne Moreau (la cantan­ te). Le roi d’Yvetot: Fernand Sardou (Duvallier), Fran$oise Arnoul (Isabelle), Jean Carmet (Féraud), Andrex (Blanc), Dominique Labourier (Paulette). Roger Prégor (Jolly), Edmond Ardisson (César).

    Collaborazioni e realizzazioni varie Jean Renoir ha scritto la sceneggiatura di Catherine o Une vie sans joie (1924), diretto da Albert Dieudonné. Sua è la sceneggiatura (con Alberto Cavalcanti) di Le petit chaperon rouge (1929), dal racconto di Charles Perrault, diretto da Alberto Cavalcanti. Ha scritto e letto il commento francese del film di Joris Ivens Terra di Spagna (1937), commento scritto c letto da Ernest Hemingway per la versione originale. Ha collaborato con Luchino Visconti e Carl Koch alla stesura della sceneggiatura di Tosca (1940), dalla commedia di Victorien Sardou, film del quale ha realizzato solo alcune inquadrature e che è in se­ guito stato portato a termine con la regia di Cari Koch.

    Interpretazioni Jean Renoir ha interpretato un gagà in Catherine o Une vie sans joie, il lupo in Le petit chaperon rouge, un ruffiano in La p’tite Liti (1927, di Alberto Cavalcanti), l'uomo d'affari in Die jagd nach dem Cliick (1930, di Rochus Gliese, Cari Koch e Lotte Reiniger). Per quello che riguarda i propri film, ha interpretato un angelo in Charleston, il padrone del caffè ne La vie est à nous, papà Poulain ne La scampagnata, il bracconiere Cabùche ne L’angelo del male. Octave ne La .règie du jeu. Ha interpretato se stesso ne L’album de famille de Jean Renoir (1956, di Roland Gridi e Pierre Desgraupes), La direction d’acteurs par Jean Renoir (1968. di Gisèle Braunberger), The Christian Licorice Story (1969, di James Frawley). Il teatrino di Jean Renoir.

    Nota teatrografica (Dati desunti da: Claude Beylie, Jean Renoir, le spectacle, la vie, in Cinéma d'Aujourd’hui, n. 2, 1975.)

    JULES CÉSAR (1954)

    Regia: Jean Renoir; traduzione e riduzione (dalia tragedia di Shake­ speare): Grisha e Mitsou Dabat; prima rappresentazione: 10 luglio 1954, arena di Arles (unica rappresentazione). Interpreti: Jean-Pierre Aumont (Marc’Antonio), Henri Vidal (Giu­ lio Cesare), Paul Meurisse (Bruto), Yves Robert (Cassio), Loleh Bel­ lon (Porzia), Fran$oise Christophe (Calpurnia), Jean Parédès (Casca). Jean Topati (Ottavio Cesare), Gastone Modot (Ligario), Henri-Jacques Huet (Fiorio), Francois Vibert (l'indovino), Jaque-Catelain (Decio) e duecento comparse reclutate sul posto. orvet (1955)

    Commedia in tre atti di Jean Renoir; regia: Jean Renoir; scenografia: Georges Wakhevitch; musica: Joseph Kosma; prima rappresentazio­ ne: 12 marzo 1955, Théàtre de la Renaissance. Interpreti: Leslie Caron (Orvet), Paul Meurisse (Georges), Michel Herbault (Olivier), Catherine Le Couey (Madame Camus), Raymond Bussières (Coutant), Jacques Jouanneau (William), Marguerite Cassan (Clotilde), Yorick Royan (Berthe), Suzanne Courtai (mamma Vipère), Pierre Olaf (Philippe), Georges Saillard (il medico). Georges Hubert, Henry Charrett (i cacciatori). CAROLA OU LES CAB0T1NS (1957)

    Si tratta di una commedia inedita di Renoir. £ stata rappresentata per la prima volta all’università di Berkeley nel 1957. LE GRAND COUTEAU

    (1957)

    Dramma di Clifford Odets (tit. orig.: The Big Knife): versione fran­ cese: Jean Renoir; regia: Jean Serge; scenografia: Fred Givone; prima rappresentazione: 30 ottobre 1957, Théàtre des Bouffes-Parisiens. Interpreti: Daniel Gélin (Charles Castle). Claude Génia (Marion Castle), Paul Bernard (Marcus Hoff), Paul Cambo (Smiley Coy), France Delahalle (Patty Benedicte), Vera Norman (Dixie Evans), Teddy Bilis (Nat), Andrea Parisy (Connie Bliss), Robert Moncade (Hank Teagle), Jacques d'Annoviile (il giardiniere), Francois Marie (Buddy Bliss), Andrés Wheatley (Russel).

    Nota bibliografica Opere dì Jean Renoir lean Renoir. Orvet, Gallimard, Parigi, 1955. lean Renoir, Renoir, Hachettc, Parigi, 1962 (trad, it.: Renoir, mio padre, Garzanti. Milano, 1963). Jean Renoir, Les cahiers du capitarne Georges. Gallimard. Parigi, 1966 (trad, it.: Il diario dei capitano Georges, Garzanti, Milano, 1968). lean Renoir, Ma vie et mes films, Flammarion. Parigi, 1974. Jean Renoir, Ecrits 1926-1971, Pierre Belfond, Parigi. 1974. lean Renoir. Le coeur à l’aise, Flammarion. Parigi, 1977.

    Monografie su fean Renoir Paul Davay. fean Renoir. Club du Livre de Cinéma, Bruxelles, 1957. Armand-|ean Cauliez. lean Renoir, Editions Univcrsitaires. Parigi, 1962. Pierre Lcprohon, lean Renoir. Seghers, Parigi. 1967. Francois Poulle. Renoir 1938 ou Renoir pour rien. Editions du Cerf, Parigi, 1969. André Bazin, lean Renoir, Editions Champ Libre, Parigi, 1971. Leo Braudy, Jean Renoir. Doubleday & Company Ine., New York. 1972. Carlo Felice Venegoni, Renoir. La Nuova Italia, Firenze, 1975.

    Numeri speciali di riviste dedicate a fean Renoir Ciné-Club. n. 6. aprile 1948. Cahiers du Cinéma. n. 8. gennaio 1952. Télé-Ciné, n. 36/37. marzo-aprile 1953. Cahiers du Cinéma. n. 78, dicembre 1957. Il Nuovo Spettatore Cinematografico, nn. 26. 27. 28/29. 1961-1962. Premier Pian, n. 22/23/24, maggio 1962. Cinéma d'Aujourd'hui. n. 2. nuova serie, maggio-giugno 1975.

    Principali interviste con lean Renoir Jacques Rivette e Francois Truffaut (a cura di), in Cahiers du Ciné­ ma, nn. 34 e 35, aprile e maggio 1954. Jacques Rivette e Francois Truffaut (a cura di), in Cahiers du Cinéma, n. 78, dicembre 1957. Michel Delahaye e Jean-André Ficschi (a cura di), in Cahiers du Ci­ néma, n. 180, luglio 1966. aa. vv. (a cura di), in Cinéma 67, nn. 116 c 117, maggio e giugno 1967. Michel Delahaye e Jean Narboni (a cura di), in Cahiers du Cinéma. n. 196. dicembre 1967.

    343 Michel Ciment e Bernard Cohn (a cura di), in Positi}, n. 93. marzo 1968.

    Saggi e interventi vari a proposito di fean Renoir Osvaldo Campassi, Dieci anni di cinema francese, Poligono. Milano. 1948. Vito Pandoifi. La commedia dell'arte nella < carrozza d'oro ». in Cinema, n. 83. 1952. Glauco Viazzi, Parabola creativa di Jean Renoir, in Cinema, n. 93. 1952. Eric Rohmer, feunesse de fean Renoir, in Cahiers du Cinéma. n. 102. dicembre 1959. Guido Aristarco. Le grandi illusioni di Renoir, in Cinema Nuovo, n. 163, maggio-giugno 1963. Erich von Stroheim. Un Renoir!, in L'Avant-Scène du Cinéma. n. 44. gennaio 1965. André-S. Labarlhe e Jacques Rivettc. fean Renoir. le patron. i,n Ca­ hiers du Cinéma, n. 186. gennaio 1967. Jean~Loui$ Comolli. Des migrations exémplaires. in Cahiers du Ciné­ ma. n. 196, dicembre 1967. Luigi Chiarini. Cinema e film. Bulzoni, Roma. 1972. Gérard Talon, Regards critiques sur la production et la réalisation des films au temps du Front populaire. in Cinéma 75. n. 194. gennaio 1975. Roberto Escobar e Vittorio Giacci. La Francia net 1936. Il cinema e il Front Populaire. La Biennale di Venezia, 1976. Romolo Runcini. Cinema e letteratura nella Francia del Fronte popo­ lare. in Quaderni storici, n. 34. gennaio-aprile 1977. Gianni Rondolino. // cinema francese del Fronte popolare, in Adelio Ferrerò (a cura di). Storia del cinema. Dall'affermazione del sonoro al neorealismo. Marsilio. Venezia. 1978. Francois Truffaut. 1 film della mia vita. Marsilio. Venezia. 1978.

    Indice dei film Accadde una notte (It Happened One Night, 1934) di Frank Ca­ pra, 50. Amanti perduti (Les enfants du paradis, 1943-45) di Marcel Carnè, 192, 208. Angelo del male, L’ (La bète humaine, 1938) di Jean Renoir, XV, XXI, XXIII, 38, 47, 161, 257-58, 273-86, 334-35. Aventures d’Auto-Maboul, Les (?), 30-31. Avvelenatrice, L’ (L’AfTaire Lafarge. 1938) di Pierre Chenal. 277. Bas-fonds, Les, v. Verso la vita. Beau Serge, Le (Le beau Serge, 1957) di Claude Chabrol, 231. Bète humaine, La, v. L’angelo del male. Bled, Le (L'entroterra, 1929) di Jean Renoir, 330. Boudu sauvé des eaux (Boudu salvato dalle acque, 1932) di Jean Renoir, 46, 180. 331. Braciere ardente, Il (Le brasier ardent, 1923) di Ivan Mosjoukine, 32. Breve incontro (Brief Encounter, 1946) di David Lean, 192.

    Cagna, La (La chienne. 1931) di lean Renoir, 37, 46, 222, 330. Cantante di jazz, Il (The Jazz Singer, 1927) di Alan Crosland, 36. Caporal épinglé, Le, v. Le strane licenze del caporale Dupont. Carcere (Big House, 1930) di George Hill, 50. Carrozza d’oro, La (La carrosse d’or, 1952) di Jean Renoir, Vili, XII, XXII, 291-95, 299, 337. César (1936) di Marcel Pagnol, 29. Chariot rientra tardi (One A. M., 1916) di Charlie Chaplin, 198. Chotard et Cie (Chotard e C., 1933) di Jean Renoir, 331. Ciapaiev (Capaev, 1934) di Sergej e Georgij Vasil’ev, 86, 87. Circo, Il (The Circus, 1928) di Charlie Chaplin, 78. Corazzata Potemkin, La (Bronenosec « Potèmkin », 1925) di Sergej M. EjzenJtejn, 87. Crime de Monsieur Lange, Le (Il delitto del signor Lange, 1935) di Jean Renoir, XVII-XV1II. XXIII, 38. 47, 222, 223, 332. Déjeuner sur l’herbe, Le, v. Picnic alla francese. Diario di una cameriera, Il (The Diary of a Chambermaid. 1946) di Jean Renoir, 48, 312, 336. Diavolo in corpo. Il (Le diable au corps, 1947) di Claude Autant-Lara, 208. Donna della spiaggia. La (The Woman on the Beach. 1946) di Jean Renoir, 337. Donne viennesi (Merry Go Round, 1922) di Erich von Stroheim, 186. è arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes to Town. 1936) di Frank Ca­ pra, 50. Edoardo e Carolina (Édouard et Caroline, 1951) di Jacques Becker. 208. Eliana e gli uomini (Eléna et les hommes, 1956) di lean Renoir, IX, X, XXII, 295, 296-306, 338. Enfants du paradis, Les, v. Amanti perduti. Entr’acte (1924) di René Clair, 79.

    345 Febbre dell'oro, La (The Gold Rush, 1925) di Charlie Chaplin, 78. 171, 194. Femmine folli (Foolish Wives, 1921) di Erich von Stroheim. 33, 187. 215. Fitte de l’eau, La, v. La ragazza dell'acqua. Fiume, Il (The River, 1950) di Jean Renoir, VI11, 53, 55. 62, 288-91. 337. French Can-Can (French Cancan, 1954) di Jean Renoir, XXII. 56, 295-96, 337-38. Gabinetto del dottor Caligari, Il (Das Cabinet des Dr. Caligari. 1920) di Robert Wiene, 49, 253. Giochi proibiti (Jeux interdits, 1952) di René Clément, 208. Giovinezza di Massimo, La (Junost’ Maksima, 1935) di Grigorij Kozinéev e Leonid Trauberg, 85-87. Grande illusione, La (La grande illusion, 1937) di Jean Renoir, Vili. XVIII. XXII, 28, 38, 40-41, 43, 46, 47, 56, 130, 146, 187. 188. 257-62. 272, 283, 295, 323. 333-34. Greed (Rapacità. 1924) di Erich von Stroheim. 186. 189. 190. India 58 (1958) di Roberto Rossellini. 312. India vista da Rossellini, /.’ (1958) di Roberto Rossellini. 306.

    Linea generale, La (Staroe i novoe. 1926-29) di Sergej M. EizenStejn, 87. Louisiana Story (1949) di Robert |. Flaherty. 20. * Luci della città, Le (City Lights, 1931) di Charlie Chaplin. 78. Luci della ribalta (Limelight, 1952) di Charlie Chaplin. 197-99. Luna di miele (The Honeymoon. 1928) di Erich von Stroheim, 186.

    Madame Bovary (Madame Bovary, 1933) di Jean Renoir, 331-32. Madre, La (Mat *, 1926) di Vsevolod Pudovkin, 87. Marianne de ma jeunesse (Marianne, 1955) di Julien Duvivier, 224. Marquitta (Marquitta. 1927) di Jean Renoir. 329. Marsigliese. La (La Marseillaise, 1937) di Jean Renoir. XV11I, 29, 38. 46, 127, 130, 131, 133, 144, 149, 150, 151, 152, 153, 162, 177, 179, 180, 186, 262-73, 334. Migliori anni della nostra vita, f (The Best Years of Our Life, 1946) di William Wyler, 192. Misteri di New York, I (The Exploits of Elaine o The Clutching Hand. 1915) di Louis Gasnier, George B. Seitz, Donald MacKenzie. 31. Mistons, Les (1957) di Francois Truffaut, 231. Moana v. Ifultimo Eden. Moglie del fornaio. La (La femme du boulanger, 1938) di Marcel Pagnol, 179. Monello, Il (The Kid. 1921) di Charlie Chaplin. 194. Monsieur Verdoux (1947) di Charlie Chaplin. 191-97. 292. Nanà (Nana, 1926) di Jean Renoir. 33. 37. 250-51. 328. Nosferatu il vampiro (Nosferatu, einc Symphonic des Grauens, 1922) di Friedrich W. Murnau. 49. Nuit du carrefour. La (La notte dell'incrocio. 1932) di lean Renoir, 180. 213, 330-31.

    346 Ombre rosse (Stagecoach, 1939) di John Ford, 50. On purge bébé, v. La purga al pupo. Paisà (1946) di Roberto Rossellini, 199. Palude della morte, La (Swamp Water, 1941) di lean Renoir, 48. 335. Partie de campagne, v. La scampagnata. Passione di Giovanna d’Arco, La (La Passion de leanne d'Arc, 1928) di Carl Th. Dreyer, 231. Petit théàtre par Jean Renoir, Le, v. Il teatrino di Jean Renoir. Pellegrino, Il (The Pilgrim, 1923) di Charlie Chaplin, 78. Piccola fiammiferaia, La (La petite marchande d’allumettes, 1928) di Jean Renoir, 12, 34, 329. Picnic alla francese (Le déjeuner sur l'herbe, 1959) di Jean Renoir, 314, 339. Ponte sul fiume Kwai, Il (The Bridge on the River Kwai, 1957) di David Lean, 316. Purga al pupo. Im (On purge bébé. 1931) di Jean Renoir, 36, 47, 222, 330.

    Questa terra è mia (This Land Is Mine, 1943) di Jean Renoir, 48, 335-36. Ragazza dell'acqua. La (La fille de l’eau. 1924) di Jean Renoir, 251, 328. Règie du jeu, La (La regola del gioco, 1939) di Jean Renoir, Vili, 43, 44, 47, 52, 53, 55, 70, 72, 243, 283, 297. 335. River, The, v. Il fiume. Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, 61, 192, 199, 253.

    Salute te France (Saluto alla Francia, 1944) di Jean Renoir, 48, 336. Scampagnata, La (Partie de campagne, 1936) di Jean Renoir, XVIII, 222, 223, 333. Sinfonia nuziale (The Wedding March, 1928) di Erich von Stroheim, 186. Southerner, The, v. L’uomo del Sud. Strane licenze del caporale Dupont, Le (Le caporal épinglé, 1962) di Jean Renoir, 323, 339. Sur un air de charleston o Charleston-parade o Charleston (Su un’a­ ria di charleston o Charleston-parade o Charleston, 1926) di Jean Renoir, 328-29. Swamp Water, v. La palude della morte. Teatrino di fean Renoir, Il (Le petit théàtre par Jean Renoir. 1969) di Jean Renoir, XXII, 340. Tempi moderni (Modem Times, 1936) di Charlie Chaplin. 77. Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini, 226. Testamento del mostro, il (Le testament du docteur Cordelier. 1959) di Jean Renoir, 306, 314-23, 338-39. This Land Is Mine, v. Questa terra è mia. Tire au flanc (Lo scansafatiche, 1929) di Jean Renoir, 34, 35. 47, 329. Toni (Toni, 1934) di Jean Renoir. XVII, XXI, XXIV, XXV. 38. 59.180, 252-55, 332. Tosca (1940) di Cari Koch, 286-88. Tournoi, Le o Le tournoi dans la cité (Il torneo o 11 torneo in città, 1928) di Jean Renoir. 329-30.

    347 Ultimo Eden, L' (Moana of the South Seas. 1926) di Robert Flaherty, 20. Uomo del Sud. L’ (The Southerner. 1945) di lean Renoir. 48. 556.

    J.

    Vedova allegra. La (The Merry Widow. 1925) di Erich von Stroheim. 185-86, 189, 190. Verso la vita (Les bas-fonds. 1956) di lean Renoir. XVI11. 28, 58, 47. 56, 91. 188. 255-57. 555. Vie est à nous, La (La vita è nostra. 1956) di Jean Renoir. XV11I, 58. 552-55. Vite vendute (Le salaire de la peur. 1955) di Henri-Georges Clouzot, 208. Voce umana. La (1“ episodio de L’amore. 1948) di Roberto Rossel­ lini. 512. Woman on the Reach. The. v. La donna della spiaggia.

    Indice dei nomi Achard Marcel, 152, 153 Andersen Hans Christian, 16, 20002 Andrews Dana, 48 Andrex, 270 Aragon Louis, 135 Ardisson Edmond, 270 Aristofane, 247 Armstrong Louis, 215 Arnoul Franfoise, 295 Aubert Louis. 298 Bach Johann Sebastian. 34. 224 Bachelet Jean, 35 Bailby Léon, 134 Balzac Honoré de, 121 Bardot Brigitte, 4 Barrault Jean-Louis, 322 Barthélémy Francois, marchese di. 268 Baxter Ann, 48 Bazin André. XIII, XXI, XXVI1. XXVIII, 208-12, 233, 306-314 Bazin Janine, XXVII. 209 Beaumarchais Pierre-Augustin Ca­ ron de, 195 Becker Jacques. XVII1. 213-16 Becquerel Henri, 68 Beethoven Ludwig van. 224 Bennett Joan, 48 Benjamin Walter, V Bergman Ingmar. 316 Bergman Ingrid. 295. 296. 297. 298. 299. 300. 306 Bernard André, XXVII Bernhardt Sarah, 286 Bernini Gian Lorenzo. 203 Bernstein Henri. 259 Beylie Claude. XXII. XXlll. XXVII Bismarck Otto von. 96 Blavette Charles. 180 Blum Léon. XVI, XVII. 136 Boulanger Georges, 297 Breffort Albert. 136 Brennan Walter, 48 Bresson Robert. Vili Brissot Jacques. 263 Brunius Jacques-Bernard. XVIII. 222-23

    Brunoy Blanchette, 283, 285 Capra Frank, 50 Cardinal Pierre, 69 Carette Julien, 275, 276. 282. 283, 285 Carlo il Temerario. 97 Carlo Martello, 136 Carnè Marcel. XXI Cartier-Bresson Henri, XVIII, 253, 309 Caterina de * Medici. 271 Cavalcanti Alberto. 49 Céline Louis-Ferdinand, 146-47 Cellini Benvenuto, 39, 141 Cézanne Paul (padre), 19-20, 147, 189, 191 Cézanne Paul (figlio). 19, 215 Cézanne Renée, 215, 216 Chabrier Emmanuel, 20 Chabrol Claude, 231, 316 Chamberlain Joseph, 176 Chaplin Charlie (Chariot), XI, XV, XXV, 11. 17-18, 31. 46, 47, 49. 57. 77-78. 171. 185, 186, 187, 188, 191-99, 216. 230, 244. 256. 292 Chenal Pierre, 277 Chevalier Maurice. 127 Chiarini Luigi, 224-27 Choublier Claude, 306 Clair René, 79, 91. 152 Clay Philippe, 321 Clemenceau Georges, 7. 115 Cohl Emile, 152 Collinet Sylvain, 165 Commault Roger, XXVII Conrad Joseph, 172 Corday Charlotte, 264 Corneille Pierre. 293 Cot Pierre, 132 Courteline Georges, 159 Cromwell Oliver, 268 Curie Pierre, 68 Cuvier Georges, 265 Dabat Grisha e Mitsou, 21 Daladier Edouard. XVII. 176 Dali Salvador, 62 D’Arcy lean, 315

    349 Dauphin Claude, 48 Demay Louis. XXVI i Demazis Orane, 180 DeMille Cecil Blount, 153 Desnos Robert, 158 Diderot Denis, 195, 210 Dieterle (mademoiselle), 24 *25 Dietrich Marlene, 117, 272 Dimitrov Georgi, 158 Dostoevskij Fedor MichajloviC, 220 Doynel Ginette. XXV11 Dreyer Carl Theodor, 227-31 Dullac Paul, 180, 270 Dumas Alexandre (padre), 13. 1617. 216 Dumas Alexandre (figlio), 117 Durand-Ruel Georges, 22 Durand-Ruel Joseph, 22 Durand-Ruel Paul, 21-22 Duvivier Julien, XXI. 152. 223-24 Dwan Allan. 57

    Edoardo Vili (duca di Windsor). 98, U5, 116 Einstein Carl, 68 Eisenschitz Bernard, XXVII Ejzen&ejn Sergej Michajlovid. 49 Ellington Duke. 215 Esopo, 293

    Fairbanks Douglas sr., 28, 52, Falconetti Renée, 230 Fallois Bernard de, XXV11I, Fatty (Roscoe Arbuckle), 67 Faure Elie, 185 Federico Guglielmo il Grande. Fénelon Francois, 193 Ferrer Mel, 1X-X, 296, 298, Feydeau Georges, 36, 222 Feyder Jacques, XXI, 91, 152 Filippo Augusto, 136 Flaherty Robert J., 20, 310 Flament Fernand, 270 Flaubert Gustave, XII Ford Henry, 240 Ford John, 50 Fouquet Jacques. 29 Fourest Georges, 138-40 Francesco d'Assisi, 87 Francesco I di Francia, 39, 166 Franco Francisco. HI. 132, 175

    216 219

    126

    299

    Frank Nino, 28 Fresnay Pierre, 261 Freud Sigmund, 247

    Gabin Jean, 47, 56, 261, 273, 274, 275, 276, 280, 281, 282, 283, 285 Garbo Greta, 117 Gaumont Leon, 298 Gaut Pierre, 59, 60. 253, 254 Gauteur Claude. Vili Gehret Jean, 213 Gershwin George, 215 Giovanna d’Arco, 53, 203. 222 Godard Jean-Luc, IX Goddard Paulette, 49, 311 Godden Rumer. XII, 289, 290 Goebbels Joseph, 180 Goering Hermann. 98. 176 Goethe Johann Wolfgang von. 126, 131 Goldoni Carlo, 27, 245 Gor’kij Maksim. XII, 255-56 Griffith David Wark. 45, 57. 187, 188, 233 Gutenberg. 203. 241

    Haendel Georg Friedrich, 224 Hakim Raymond e Robert. 281 Hamman Joe, 152 Henri (conte di Parigi), 136, 137, 138 Heredia José Maria de, 223 Hessling Catherine. 32, 286 Hitler Adolf, 95, 109, 110, 111, 115, 126, 131, 133, 135, 136, 139, 153, 159, 180. 257. 258. 259, 261, 298 Howard Cy, 299 Huston Walter. 48 Jaubcrt Maurice, 233-34 Jeanson Henri, 152, 153 Joinville, principe di. 158-59 Jouvet Louis, 213, 257, 286 lurieux André, 70

    141, 159.

    Kamenka Alexandre, 32. 91. 256 Kazan Elia, 50 Keller Gottfried, 154 Kipling Rudyard, 152 Kosma Joseph, 296 Kozinécv Grigorij. 87. 217-19 Kun Bela. 136

    350 La Bruyère Jean, 193 La Fayette Marie-Joseph de, 125, 266 La Fontaine Jean de, 202, 293 La Fouchardière Georges de, XII. 37 Landin Jacques, 29 Lang Fritz, 28, 49, 50, 91 Langlois Henri, XXVII, 231-32 Laughton Charles, 48 Lavai Pierre, 138 Lavoisier Antoine-Laurent. 190. 211 Leblond Maurice, 277 Leblond-Zola (madame). 251 Lebrun Albert, 137 Le Chanois Jean-Paul. XVI11 Ledoux Fernand, 275. 276, 281. 285 Le Nòtte André, 19 Leonardo da Vinci, 38. 39. 141 Lestringuez Pierre, 20. 186. 250 Levesque Marcel, 47 Lewin Albert, 203-04 Linder Max, 45, 152, 314 Lombard Johann Wilhelm. 266 Loyau Bernard, XXVII Lucien Marcel, 213 Luigi XI, 136, 137 Luigi XIV, 166, 204 Luigi XVI, 263, 265, 288 Luigi Filippo d’Orléans, 16. 137 Lulli Jean-Baptiste, 197 Lutero Martino. 58, 203 Magnani Anna, 292, 294 Mandrin Pierre, 268 Marat Jean-Paul. 264, 266 Maria Antonietta (regina di Fran­ cia), 106, 263, 266 Marion Denis, XXVIII, 189 Marivaux Pierre. 244 Mata Mari, 271 Matilde (regina), 46. 313 Maupassant Guy de, 5, 119 McEldowney Kenneth. 289 Meerson Mary, 231 Méliès Georges, 45. 152. 314 Meredith Burgess. 49 Mérimée Prosper. XII. 291.292-93. 294 Michelangelo Buonarroti. 203 Mirbeau Octave, XII, 48, 102

    Molière. XXV, 88. 193. 194, 198, 244, 246 Mollion Louis, XXVII, 14 Monet Claude, 20. 153 Mortier Jacques, 253 Mosjoukine Ivan. 32, 91 Mozart Wolfgang Amadeus, 228 Mumau Friedrich Wilhelm, 57 Musset Alfred de, 152, 210 Mussolini Benito, 98, 99, 111, 115, 116. 130. 131, 159, 259, 261

    Napoleone I, 14. 15, 16. 19. 158. 165, 166, 167, 264, 265 Napoleone 111, 284 Neuville Alphonse de, 14 Nichols Dudley, 48. 202-03 Nichols Red. 215 Odets Clifford, 48 Offenbach Jacques, 24 O’Hara Maureen. 48 Ohnet Georges. 31

    Pabst Georg Wilhelm. 91 Pagnol Marcel, XXI, 28. 38. 39, 40, 179-82, 252 Pascal Blaise, 9, 212, 229, 319 Pasolini Pier Paolo. 226 Pathé Charles. 298 Penn William, 207 Perret Jacques, XXVII Pétion de Villeneuve Jéròme, 268 Picasso Pablo. 38. 39. 59, 191 Pickford Mary, 52. 216. 284 Pinel Vincent. XXVII Pinsard Armand. 261 Pirandello Luigi, 245, 246 Plauto. 293 Poincaré Raymond, 115, 138. 271 Pomiès Georges, 34, 35 Porcile Francois. XXVIII, 233 Poulle Francois, XXI. XXII Preminger Otto, 50 Prévert Jacques, XVI11. 222 Prévert Pierre, 222 Prud’homme Sully. 223 Puccini Giacomo. 286. 287 Queval Jean, XXVIII, 214 Quinn Curtiss Thomas. XXVIII, 190

    Racine Jean, 147 . 293 Raffaello Sanzio. 232

    351 Raimu, 180 Raleigh Walter, 12, 35 Rastelli Enrico, 154 Renard Gabrielle. XXVI, 3, 9. 15, 23, 24, 63-64, 201 Renoir Aline, 3. 5, 7, 9. 15, 20, 23, 24. 143 Renoir Claude, 9, 10, 20 Renoir Pierre, 9, 213 Renoir Pierre-Auguste, XIII. XXVI, 3-6, 9, 10, 11. 12, 16. 17. 20. 22-24. 25. 33, 63, 69. 70. 74. 185. 197. 200, 201, 295-96, 314 Richard (ingegnere), 35 Richet (professore). II. 17. 31 Rigadin, 152 Robespierre Maximilien de. 263. 266 Roederer Pierre-Louis. 265 Rohmer Eric, VIII Rossellini Roberto. XXVIII. 59. 61. 199-200. 209, 294, 306-314 Rostand Jean, 163 Rouget de Lisle Claudc-loseph. 132, 264 Rubens Pieter Paul, 197 Ryan Jessica, XXVIII, 204-08 Ryan Robert. 205 Sagan Francoisc, 206 Saint-Just Louis de. 266 Saint-Michel Lacombe. 125 Saint-Saens Camille. 124 Santerre Antoine, 268 Sardou Victorien. 31, 287 Savoir Alfred. 156 Ségur. contessa de. 120-21. 122 Selznick David O.. 297 Sergine Véra, 8 Shakespeare William. XXV. 21. 43, 88, 202, 218. 244. 293 Sicard Pierre. 25-28 Simenon Georges. XII. 213, 21922 Simon Michel, 34. 35 Simon Simone. XV. 273. 274, 275. 281-82, 283, 284. 285. 286 Simpson Wallis (duchessa di Windsor). 115, 116, 122 Sorel Cécile. 272 Spaak Charles. 259. 260, 262 Staff (baronessa). 177 Stalin, 87

    Stanislavskij Konstantin, XV. 248-49, 255 Stavisky Alexandre, 160 Steinlen Théophile-Alexandrc. Sternberg losef von, 49 Stevenson Robert Louis. 3U6. * Stravinskij Igor. 16 Stroheim Erich von. XI. 33. 57. 185-91, 215, 233, 261

    86,

    10

    315 47.

    Tallier Armand. 186 Tardieu André, 93 Tatcsy (ammiraglio), 146 Tchimoukow Lou. XVIII Tedesco Jean, 12. 34. 35 Tillier Claude, 168 Tiziano Vecellio, 197 Tommaso d’Aquino. 269 Tourneur Maurice. 45, 57 Trauberg Leonid, 87 Troyes Suzanne de. 180 True (barone), 160 Truffaut Francois, 212. 231 Turner William, 8-9. 202 Twain Mark, 197 Vallière. luogotenente generale de. 125 Van Gogh Vincent. 220, 318 Vauvenargues, 193 Verdone Mario, XXVIII. 199 Veronese Paolo. 197 Victor (Claude-Victor Perrin, det­ to). 268 Vilar Jean. 291. 292, 294 Villon Francois, 137 Viry-Babel Roger, XXVII Visconti Luchino. 294 Vitold Michel. 322 Vivaldi Antonio. 189, 294 Vollard Ambroise. 191 Voltaire. 195. 269 Wagner Richard. 165 Webb Mary. 297 Welles Orson. 49 Wilde Oscar, 8, 202 Wyler William, 50

    Zay Jean, 110 Zola Emile. Vili, XXII, XXIIIXXIV, 33. 161, 172. 250. 257. 273. 275, 277. 278, 279, 280. 281, 282. 283, 284, 285

    Indice generale Presentazione di Giovanna Grignaffini e Leonardo Quaresima Nota all’edizione francese di Claude Gauteur Nota all’edizione italiana di g.g.e l.q.

    V XXVII XXVIII

    1. Il mio nome è Jean Renoir

    I

    Montmartre l miei sogni Renoir intimo Su la signorina Dietcrle a Cannes Pierre Sicard Dove va il cinema? Lettera a un editore 1 miei anni di tirocinio Contro il doppiaggio Contratto dei registi I miei progetti dopo « La règie du jeu » Grandezza dei primitivi La mia esperienza americana Mi si chiede... Ho sessantanni Hollywood Questo benedetto mondo nuovo U.S.A. Primo piano su Jean Renoir

    3 14 21 24 25 28 29 30 38 42 43 45 46 52 56 57 57 64 69

    2. Giornalismo (1936-1938)

    75

    A proposito di « Tempi moderni » 11 vitello d’oro fotogenico Suggerimenti Una dissolvenza incrociata... dal cinema di ieri a quello di domani « La giovinezza di Massimo », un film indimenticabile Come si fa il découpage in un film La produzione francese vuole vivere, non bisogna assassinarla! I mercoledì di « Ce Soir » Apologia della pigrizia L’artigliere di Wilmersdorf C’è Germania e Germania

    77 79 80 84 85 88

    90 95 93 95 96

    353

    Senza affettazione e rigidità « Home, sweet home! » « Furibondi bombardimene » Manie borghesi Manie borghesi (seguito) Razzismo Manie borghesi (seguito) II passato che sopravvive A proposito dello « Hindenburg » Spettacoli parigini Le convenzioni Masochismo integrale Immagini di principi Basta con le « vamp »! Il coltivatore, il cobra e il paradiso terrestre Un’altra storia coloniale Biblioteca rosa L'Esposizione della Libertà Visita all’Esposizione Uno spirito nuovo Quel « nulla » geniale Di ritorno dagli esterni de « La Marsigliese » « Sei un cinese » A proposito di olio di ricino Fischi Notizie false Ancora notizie false A proposito di una confessione Elogio di un poeta Buon Natale Ritorno alla natura? Il giorno dopo la festa Lavori femminili Pubblicità Eleganza anzitutto Vecchi ricordi Parlato in francese « Come un mazzo di fiori » Profezie Nascite Corrispondenza Siamo prudenti E tua sorella? Ai lettori di « Ce Soir » Salvo

    97 99 100 102 103 105 106 107 109 110 112 113 115 116 118 119 120 122 123 125 126 127 128 130 131 133 134 136 138 140 141 143 145 146 147 149 150 152 154 155 157 158 159 161 162

    354 Viaggio in auto da Parigi a Nizza Notti brave Come si è fieri di essere francesi quando si contempla la colonna! Il mio prossimo film Una giornata con Marcel Pagnol

    164 174 176 177 179

    3. Amici e cineasti

    183

    Omaggio a Elie Faure Erich von Stroheim Ancora su Stroheim Stroheim o la formazione di un mondo No. « Monsieur Verdoux » non ha ucciso Charlie Chaplin! Testimonianza su « Luci della ribalta » Il mio amico Rossellini Un prezioso segreto Andersen Dudley Nichols Albert Lewin La Città degli Angeli André Bazin, nostra coscienza Il berrettino di André Bazin Arrivederci Jacques Ancora su Jacques Becker Su « Lo schermo in profondità » di Grigorij Kozinéev Amo Georges Simenon perché è ricco Brunius Morte di un professionista Luigi Chiarini Il peccato di Dreyer Henri Langlois I « Cahiers du Cinéma » Maurice laubert (I cinema indiano

    185 185 189 190

    191 197 199 199 200 202 203 204 208 211 213 214 217 219 222 223 224 227 231 233 233 234

    4. Il mio modo di fare cinema

    237

    Come do vita ai miei personaggi Come faccio un film Il paradosso dell’attore 11 Théàtre en Rond Riflessioni su Stanislavskij « Nanà » « Toni »

    239 241 249 245 248 250 252

    355 « Verso la vita » « La grande illusione » « La Marsigliese » « L'angelo del male » « Tosca » in 24 ore « Il fiume » « La carrozza d'oro » « French Can-Can » « Eliana e gli uomini » Noi e la televisione « Il testamento del mostro »

    255 257 262 273 286 288 291 295 296 306 314

    Note e indici

    325

    Nota biografica Nota filmografica Nota teatrografica Nota bibliografica Indice dei film Indice dei nomi

    327 328 341 342 344 348

    .Jean lienoir LI VITI E’ CINEMI

    Truffaut ha detto una volta: « Renoir non ha mai filmato discorsi ma conversazioni »; c questa indicazione, oltre a rilevare un elementi decisivo del cinema dell’autore, coglie anche una qualità fondamentali dell’atteggiamento complessivo dell’uomo. Anche questi scritti presentano tutti l’andamento della conversazione: una conversazione che si snoda lungo l'arco di quasi mezzo secolo. Impressioni di viaggio riflessioni sul proprio lavoro, ricordi autobiografici, osservazioni di costume, giudizi critici, tutto si mescola e si sovrappone in una prosa poetica che non si limita a giustapporre e concatenare, allineandoli, i propri elementi, ma tende sempre a ricomporli in un’unità o totaliti superiore. Un Renoir narratore, e di quale livello sia il narratore bastano a dimostrarlo gli « articoli * - cinquantadue. sinora a lutti ignoti - apparsi su Ce Soir nel 1937-38. Un Renoir che, pur eleggendo il cinema a terreno privilegiato, non disdegna l'incursione in altri territori: teatro, letteratura, giornalismo. Un Renoir che ha vissuto, uomo del suo tempo, gli interessi e le passioni — le « contraddizioni.» • del suo tempo: l’adesione al Fronte popolare e la lunga permanenza in America; le battaglie per una produzione « artigianale » e le capacità di adattamento all’industria hollywoodiana; la propensione all'intervento puntuale sull’attualità politico-sociale e la disponibillt alle suggestioni della filosofia orientale: la ricerca del senso della realt e la rivisitazione dello spettacolo. E se questo è Renoir. questo è il suo libro: un libro sul cinema, un libro sulla vita, un libro sulla . • con-fusione tra vita e cinema, ma un libro che prolunga e amplifica e il cinema e la vita e quella loro con-fusione. • '•

    Jean Renoir (1894). figlio del pittore Piefre Auguste, ha esordito' come regista nel 1924 (La ragazza delTaccila}. Tra i suoi trentasette film ricordiamo - a caso — La cagna. Toni, La grande illusione, ; La Marsigliese, La regola del gioco, Il fititne:,-La carrozza d'oro. * Coautore di due commedie, due romanzi; un'autobiografia e un libro di memorie su suo padre. , i Lire 6500 (6132) |