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altri titoli caienna
Stefano Boni Vivere senza padroni Albert Camus Mi rivolto dunque siamo Critical Art Ensemble Lo spettro della peste David Graeber Critica della democrazia occidentale Gruppo Marcuse Miseria umana della pubblicità Bruno Latour con François Ewald Disinventare la modernità Hervé Le Bras Addio alle masse Marshall Sahlins Un grosso sbaglio Raoul Vaneigem Né vendetta né perdono Colin Ward L’anarchia
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Franco La Cecla, Piero Zanini
Una morale per la vita di tutti i giorni
elèuthera
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© 2012 elèuthera
progetto grafico di Riccardo Falcinelli in copertina: © iStockphoto.com/kzenon
il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected]
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Indice
UNO
Capita a chi viaggia
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DUE
Le regole del non far niente
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TRE
Le regole degli altri
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QUATTRO
Qualcuno bussa alla porta
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CINQUE
Cuori turbolenti
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SEI
Un’etica ordinaria
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SETTE
Si tratta davvero di una morale?
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OTTO
Che razza di morale è?
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NOVE
Una parentesi
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DIECI
Tabù
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UNDICI
Cambia, todo cambia
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DODICI
Lágrimas, tormentos
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TREDICI
Altri tormenti: questa volta più familiari
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QUATTORDICI
Una questione di scala: ancora mente locale?
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QUINDICI
Diritti: umani?
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SEDICI
Etica ordinaria ed estetica
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DICIASSETTE
L’impertinenza
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UNO
Capita a chi viaggia
«Ma cominciamo daccapo: tu ce li hai i principi morali?». «Giusto i principi no, suppongo; di morale avrò magari gli scrupoli». Tommaso Landolfi, A caso
Chi viaggia sa bene che una parte della propria attenzione, quando si arriva in un posto nuovo, è diretta verso un capire come funziona la vita quotidiana della città, del paese in cui ci si trova. «Paese che vai usanze che trovi» significa imparare in breve tempo a conformarsi a un altro ritmo di vita, ad altre maniere di concepire i tempi della giornata, gli spazi del personale e gli spazi della vita in comune. Viaggiare è voler andare verso una discontinuità costante che però ti costringe continuamente a posarti e a confrontarti con il passo a passo, con le abitudini altrui. Sembra quasi una contraddizione, perché il viaggio lo pensiamo come un’evasione dalla vita quotidiana, eppure la prima cosa che facciamo quando ci troviamo in un paese diverso dal no7
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stro è dover imparare o ri-imparare i ritmi locali, la quotidianità locale. La mattina a Hanoi si fa colazione con una zuppa phò accompagnata da un pane lievitato a forma di churro spagnolo. Certo, se rimarrete in albergo non vi capiterà mai, ma se cominciate a girare e a mescolarvi ai locali, a un certo punto capirete quanto sia importante cominciare la giornata con quello che è considerato per i vietnamiti il pasto per eccellenza. Se vivete in Spagna per un po’, vi troverete da outsider a domandarvi come mai le città sono vuote, deserte dalle due alle cinque del pomeriggio, e fin quando non capite che questa sosta permette poi di prolungare la giornata fino a notte inoltrata non avrete afferrata una delle leggi della vita quotidiana spagnola. Ogni paese ha il suo tempo di sospensione, il tempo del bar a Roma, il tempo della xinxina a Lisbona, quello della demi di birra in un bistrò francese, o del chai in un caffè turco, fuori della porta. Per ritmare la vita quotidiana, le sospensioni sono più importanti delle continuità, danno il senso dell’inizio, del passaggio tra una fase e l’altra della giornata, dell’andare verso la sera, della conclusione del giorno. Ogni cultura ha inventato modi e rituali per dare ai ritmi del giorno il senso di una «normalità eccezionale», dalla recita dei vespri delle vecchiette di un paese siciliano, alle cinque preghiere giornaliere dell’islam, o alle puja hindu accompagnate da uno scampanellio che allontani gli spiriti e svegli la coscienza. Ma la ritualità può essere anche il tempo di comprare un durian nei mercati all’aperto di Bangkok, o quello dell’attesa di una camioneta collettiva nella periferia di Quito. Se si passeggia tra le strade della «concessione francese» a Shanghai, ci si rende conto di quante sospensioni e di 8
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quanti ritmi la gente metta in atto per «ammazzare» il tempo, dal discutere animatamente di fronte al banco dei pesci di un mercato, al giocare a mah-jong o al mettere i panni a stendere negli lilong, i vicoli tra le case basse di questa parte della città. A chi viaggia capita di domandarsi cosa siano queste abitudini, e perché siano così importanti e così diverse paese per paese. Sono diverse, eppure tutte riconducono a una stessa questione: quella di «sapere» cosa fare della propria vita quotidiana. Esse sono anzi la vita quotidiana, sono le scansioni che le permettono di essere diversa da un indistinto fluire del tempo. La discontinuità che mettono in atto è quella che diventa una forma tenue, ma allo stesso tempo costante, di regola, di regole. Non si tratta direttamente di regole del bene e del male, anche se questa forma di «saper fare», di arte di vivere, è il sostrato, il tappeto delle trame quotidiane su cui ogni altra forma di morale può essere imbastita. È l’etica «ordinaria» che ci vuole per vivere tutti i giorni, per «saperci fare» con le persone che vivono accanto. È un conformarsi che richiede un apprendimento e poi la quasi dimenticanza di esso. Sono gli stranieri, i viaggiatori, gli osservatori esterni a rendersi conto che la gente, posto per posto, «si dà delle regole» e tacitamente, per buona parte dei casi, le rispetta. Sono regole del buon vivere, dell’andare d’accordo, o del litigare, sono regole dell’uso in comune di spazi, sono norme di «buona educazione» che possono anche diventare norme di «sincerità», di «autenticità», sono quello che gli antropologi hanno chiamato «cultura», implicando che dietro queste banali norme quotidiane si nasconda il senso che la gente dà alla propria vita. Dentro queste regole ci stanno anche gli scrupoli, gli imbarazzi, gli spiazzamenti, appunto perché tra individui e co9
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munità in uno stesso posto c’è un gioco continuo tra il conformarsi e il non conformarsi. Gli adolescenti, ad esempio, giocano con imbarazzo le regole degli adulti, e spesso i singoli individui si sentono stretti in quelle stesse regole, che a volte contribuiscono – con molta fatica – a cambiare. Chi non si conforma è spiazzato e si turba della propria non perfetta conformità, ma in più dis-turba la maggioranza intorno a lui con la propria voce discordante. L’etica quotidiana è una «deriva» che va lentamente rispetto agli individui e li porta via come una lenta corrente cui alcuni fanno resistenza nuotando in un’altra direzione. Clifford Geertz dice: «La cultura consiste in strutture di significato socialmente stabilite ed è pubblica perché il significato lo è» [Interpretazione di culture, il Mulino, 1998, p. 49]. Queste strutture sono quelle che ci fanno resistenza quando viaggiamo, quelle in cui dobbiamo cercare almeno parzialmente di entrare se non vogliamo chiuderci nella stanza dell’ostello o dell’albergo. Sono resistenti perché, come dice sempre Geertz, sono thick, sono «spesse», dense, e vanno dai ritmi e dalle scansioni della vita quotidiana fino ai fatti della vita, la nascita, le emozioni, le paure, il dolore, la gioia, il far parte o meno di un mondo maschile o di uno femminile, il senso dello stare insieme e dello stare da soli, le età della vita, il senso del fare e del parlare, la morte degli altri e la propria. Sono «spesse» perché sono il risultato di una storia e dell’interazione di quella storia con quel posto preciso (quello che altrove abbiamo chiamato «mente locale»); perché sono il risultato di un contesto e di come storia e contesto si siano modificati. Ed è anche per questo che «ci resistono» (a noi viaggiatori e a chi vi appartiene), per cui dobbiamo mettere in conto un certo lasso di tempo per entrarci o per uscirne. Non dobbiamo pensare che queste «regole» siano fisse e 10
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che la gente ci si trovi invischiata senza poter adeguarsi a ciò che di nuovo accade. C’è in queste norme quotidiane non solo l’elasticità dell’arrangiarsi nel mondo, ma anche la dinamicità di spinte verso il futuro, che più che spinte sono derive profonde, falde tettoniche che si muovono nella parte meno cosciente degli individui e della collettività. Gli antropologi sanno, per deformazione professionale, che le culture non sono «assimilabili», che non si può tentare di convincere una cultura a conformarsi a un’altra o a cambiare, se non con un lungo processo, con traumi violenti o a seguito di accadimenti disastrosi oppure mirabolanti. Ma la cultura «resiste», e una sua caratteristica è proprio quella di essere sospesa tra le derive del quotidiano, cose che la gente fa «normalmente» senza chiedersene più il perché, e una struttura ancora più profonda e inconscia, quella dei sogni, delle derive sotterranee che intere folle e popolazioni nutrono senza saperlo. C’è chi ha parlato di «sonnambulismo», di una forma di suggestione che permea l’io che scopre se stesso nell’interazione con il corpo sociale. È una riflessione che Gabriel Tarde fa nel 1884 in un articolo su Cosa è una società?. Come bene riassume Andrea Cavalletti nella sua postfazione. Alla base sta dunque un sapere-essere che è insieme nascita, crescita, affermazione e dispersione dell’io in una miriade di relazioni ogni volta inedite. Vi è già sempre un corpo sociale, luogo di trasmissione intermentale, corpo o eco delle idee, e al fondo di questo corpo la prima cattura. Vi è infatti, in principio, un rapporto di possessione o di fascinazione esercitata da quell’oggetto singolare che resiste al nostro sguardo, mentre ci colpisce in virtù della sua forza di soggetto. Poiché questo raddoppiamento in base al quale vedendo l’altro io scopro me stesso non sarebbe tale 11
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(non si darebbe alcuna coscienza di sé) se non implicasse una «fede irresistibile» nella realtà dell’altra coscienza. Guardando un fiore, una montagna, un albero, dice Tarde, posso dimenticare me stesso, smarrirmi del tutto in quel che vedo. Non è così quando guardo un uomo («o anche un animale superiore»): non posso vederlo senza dirmi che anche l’altro sarà ugualmente padrone di guardarmi. E sono già in sua balìa» [Andrea Cavalletti, postfazione a Gabriel Tarde, Cosa è una società, Cronopios, 2012, pp. 67-68].
Non si tratta di un sonnambulismo chiuso e statico, ma piuttosto di un abbandonarsi dove l’imitazione e la suggestione in cui individuo e società sono uniti diventa una dinamica desiderante. Individuo e società sono immersi in un’etica «ordinaria» che sembra assolutamente stabile proprio perché si muove in modo lento, impercettibile, e trascina tutto con sé. Questa sospensione tra vita quotidiana diurna – apparentemente immobile – e vita quotidiana sotterranea ha una resistenza, un attrito che dà alla cultura cui si appartiene l’apparenza di essere l’unica realtà. Essere realisti richiede di non dimenticare che se si va altrove, in un altro paese, i principi del realismo cambiano. Le culture sono diverse, ma vista la loro densità e il fatto che esse sono strutture di significato, ognuna di essa pretende di essere il principio di realtà, la verità attuale da prendere sul serio e cui conformarsi o ribellarsi. Le culture manifestano con estrema convinzione le proprie ragioni, e se le si ascolta dall’interno sembrano ragioni inoppugnabili.
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DUE
Le regole del non far niente
La vita non ha parti, ma volti e luoghi Maria Zambrano, Chiari nel bosco
Due antropologi svedesi, Billy Ehn e Orvar Lofgren, hanno scritto un libro sul «far niente» [The Secret World of Doing Nothing, University of California Press, 2010] che è un racconto dei modi in cui la gente occupa la propria vita quotidiana con faccende che sembrano irrilevanti, ma che ne costituiscono il vero sostrato. Essi distinguono tre categorie di attività del «non far niente». Le prime sono le routines, quello che la gente fa per abitudine: le abitudini alimentari, quelle del vestire, del parlare, le frasi fatte, i gesti, le consuetudini che possono essere vissute come rassicuranti o oppressive, ma che in ogni caso ricorrono nella vita quotidiana, rendendola una specie di ripetizione costante e allontanando l’angoscia del vuoto, dell’inedito, dell’irruzione dell’inaspettato nella vita. 13
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Avere delle routines può dare una grande dolcezza allo scorrere del tempo, farlo assomigliare al ricorrere del giorno e della notte, ai cicli delle stagioni, al mutare delle piante e dei fiori. A volte non c’è niente di meglio che potersi abbandonare alla sicurezza di queste ricorrenze, dove la cultura diventa per un po’ natura, fa finta di essere anch’essa parte dei cicli e delle stagioni. Le routines sono gli appigli che salvano nei momenti difficili, che consentono di vivere i drammi personali e collettivi, le crisi epocali e le trasformazioni del mondo. Sono ciò per cui si può dire «la vita continua». La filosofia e la sociologia si sono rese conto di queste strutture ripetitive e le hanno chiamate in vario modo, dalle «forme di vita» di Ludwig Wittgenstein, alle «tecniche del corpo» di Marcel Mauss, agli «habitus» di Pierre Bourdieu, alla morale «ordinaria» di cui parla Stanley Cavell rielaborando Wittgenstein, fino a quella che Peter Sloterdjiek chiama «atletica quotidiana», l’ascetica del ripetere. Solo ripetendo gesti, parole, azioni, esse diventano parte di noi, e allo stesso tempo sono un training che ci consente di trasformare il nostro corpo e la nostra mente, rendendoci capaci di stare a nostro agio nella società che ci circonda. Sono buona parte di ciò che si è definito altrove Saperci fare [Franco La Cecla, elèuthera, 1999], una nonchalance, uno stare a proprio agio in azioni, pratiche, maniere quotidiane. Quest’ultimo aspetto rappresenta qualcosa di simile a un mestiere: si apprende a «saper fare» come si apprende a «saperci fare», a essere simpatici, socievoli, seduttivi, convincenti, come si apprende a sembrare di essere esperti, bravi, competenti, uno che sa fare «il proprio mestiere». E per i luoghi è lo stesso. Il mestiere di abitarli richiede l’abilità di orientarcisi, di usarne le risorse, di appartenervi e di 14
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essere capaci di usarli come punto di partenza per le proprie esperienze nel mondo. La quotidianità non è spontanea, anzi è la cosa meno spontanea che esista. Al punto tale che se chiedete a una popolazione perché fa le cose che fa, giorno per giorno, l’unica risposta è «perché si è sempre fatto così». Il corpo, individuale o collettivo, assorbe nel ripetere dei gesti delle lezioni che dimentica. Diventa un corpo competente, ma che non sa davvero di sapere perché gli è diventato naturale fare o non fare certe cose. Le «tecniche del corpo» di cui parla Marcel Mauss, ma anche «l’uomo bricoleur» di Claude Lévi-Strauss, sono questo genere di competenze incoscienti. Non bisogna imparare ogni volta a muoversi, a guidare una macchina, a camminare in un certo modo, a dormire secondo certi ritmi, a sedurre, a saper tenere una conversazione, a saper cucinare, a saper nutrire i figli, a raccontare storie, a distinguere in una foresta o in una città le risorse per la vita quotidiana. La seconda categoria definita dagli antropologi svedesi è quella delle attese. La vita quotidiana è scandita da continue attese, che sono in parte le attese del corpo – la fame, la sete, il desiderio, il sonno – e in parte sono attendere il tram, attendere il proprio turno alle poste, fare la fila per comprare, attendere i figli che escono da scuola, attendere la pioggia, attendere il sole, attendere che le cose si chiariscano, attendere qualcuno, attendere la nascita di un figlio. Le attese sono movimenti lenti del tempo, momenti in cui sembra che il tempo sia più lento di noi, e noi dobbiamo conformarci a esso per essere capaci di attendere. Le attese, come dice la compianta Wislawa Szymborska [«Qualche parola sull’anima», in Pietro Marchesani (a cura di), Cwila (Attimo), Scheiwiller, 2004], sono situazioni in cui a volte l’anima non c’è: 15
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L’anima la si ha ogni tanto, nessuno la ha di continuo, e per sempre. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, possono passare senza di lei. […] Di rado ci dà una mano in occupazioni faticose, come spostare mobili, portare valige o percorrere le strade con scarpe strette. Quando si compilano moduli, si trita la carne, di regola ha il suo giorno libero. […] Gioia e tristezza non sono per lei due sentimenti diversi, è presente accanto a noi solo quando essi sono uniti. Possiamo contare su di lei quando non siamo sicuri di niente e curiosi di tutto. […] Si direbbe che così come lei a noi, anche noi siamo necessari a lei per qualcosa. 16
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L’anima non c’è durante le attese perché dobbiamo confonderla con il tempo che ci obbliga a divenire passivi, a farci portare dal suo scorrere lento, troppo lento. Ci sono attese collettive, pazienze e resistenze che richiedono la speranza che le cose possano cambiare, c’è quella che James C. Scott chiama «l’arte della resistenza» [Il dominio e l’arte della resistenza, elèuthera, 2006], quella che sta dietro alla storia ufficiale, che crea la sotterranea paziente capacità di creare spazi di opposizione, come adesso in Cina dove sono i social networks a formare una rete fondamentale di commento e di diversità dentro al verbo nuovo del partito al potere, che invita tutti ad arricchirsi e a consumare, ma impedisce qualunque forma di riunione, di raggruppamento, di discussione in luoghi pubblici. Sono le attese in cui si formano nuove identità, quelle derive care agli antropologi che sanno che le culture non vengono spazzate via in un batter d’occhio, ma che sotterraneamente resistono e, in forme più o meno trasformate, riemergono alla superficie quando finalmente possono farlo. Infine, la terza categoria proposta è quella del day-dreaming. Quella del sonnambulismo di Tarde o dei sogni a occhi aperti di Benjamin. La gente, le folle, quelle che una volta venivano chiamate le masse, le popolazioni, intere tribù, intere comunità insediate nei super slums di Mumbai o Caracas sognano a occhi aperti e a occhi chiusi. Dharawi, uno slum di Mumbai molto presente nel cinema indiano, sogna un mondo che somiglia un po’ a quello di Bollywood e dei suoi eroi ed eroine, ma sogna anche altri mondi possibili; e sono questi sogni che smuovono la tettonica della storia, che spingono quelle che gli storici chiamano «mentalità» verso una trasformazione, che rendono la verità che la gente cerca nella propria vita qualcosa che va reso attuale 17
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con una tensione che è sopportata da un’intera città, da un’intera comunità. È la categoria dell’archeologia del presente di cui si è occupato Michel Foucault e che è stata raccontata in maniera sublime da Walter Benjamin. Benjamin intuisce – soprattutto nei testi su Parigi capitale del XIX secolo – che la collettività viene trasportata da derive oniriche in cui sono gli spazi della città a giocare un ruolo fondamentale. Le città sono spazi dentro cui i sogni a occhi aperti o chiusi delle folle possono trovare una concretezza in cui diventare visibili, come nei passages parigini alla fine dell’Ottocento. Le società si muovono su queste esperienze. Intere folle utilizzano come spazio dei propri sogni la città in cui vivono e vi proiettano, proprio come su uno schermo al cinema, i propri desideri collettivi. Ci sono esperienze di intere generazioni che stanno alla base di movimenti che conducono alla vertigine della modernità, all’attrazione per l’illusione del cinema, alla tentazione dell’ubiquità, alla volontà di liberarsi da strutture politiche e sociali oppressive, a paure profonde che spingono la gente nelle mani del potere peggiore, a sogni di arricchimento o di eguaglianza, a sogni di redenzione, di palingenesi. Il cinema, i media, la velocità sono stati i sogni della cultura occidentale per oltre un secolo e oggi lasciano spazio ad altre derive, quelle di un mondo sentito come tutto raggiungibile, o al contrario quelle di un localismo vissuto come difesa, o ancora il sogno dell’eterna compagnia – i media sempre con noi – e quello dell’individualismo più estremo. È quanto possiamo intuire ancora adesso guardando il documentario Tahrir: Liberation Square [2012] di Stefano Savona che racconta la piazza Tahrir del Cairo, quella che è stata ed è ancora la protagonista della lunga e faticosa rivoluzione egiziana. È stato lo stare in piazza, nello spazio in cui ci si accampa e si resiste alla polizia di Mubarak, a dare 18
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finalmente alla dimensione della scontentezza di un regime la carne solida del farsi città, la trasformazione dei sogni in possibilità. Quello che prima era sussurrato con paura diventa ora un insieme di volti in un luogo. È in questa piazza che ciò che era sogno clandestino è diventato un faccia a faccia di gente diversa che finalmente si parla apertamente come mai avrebbe osato prima dell’«invenzione» di piazza Tahrir come luogo del riscatto. In questo stare accanto, nell’imitazione dei corpi insieme e nella loro suggestione reciproca, le routines e le attese quotidiane sono sotterraneamente condotte dall’erotismo del legame sociale, che è anche, come ci ha insegnato Benjamin, un erotismo «apparentemente» spostato sulle merci. Le piazze e le strade delle città sono luoghi del mercato come messa in atto dei desideri collettivi, come rappresentazione della vita collettiva che può diventare scambio e progetto e speranza. Se non si capisce l’aspetto onirico delle città e della loro vita quotidiana, il comportamento delle folle può apparire assurdo, inesplicabile. È l’erotismo dello spazio sociale che fa sì che luoghi come i grandi magazzini siano così amati dalle folle come lo sono stati i passages parigini del XIX secolo. Una delle caratteristiche della vita quotidiana è proprio questo rapporto con le merci, con il farle diventare animate – come se fossero persone. Il feticismo delle merci, intuito da Marx ma veramente scavato solo da Benjamin, significa che le merci sono erotiche perché vi si attacca la vita e lo scambio che le persone vi fanno. Le cose, gli oggetti in vetrina, sono vivi e fanno parte della società e degli scambi desideranti che avvengono nella vita di ogni giorno. Il day-dreaming del contadino inurbato a Pechino o a Hanoi in parte è frustrante e in parte è una sostituzione del desiderio che deve circolare in una società perché essa 19
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senta il movimento che conduce la vita quotidiana. Il desiderio è desiderio sociale, di corpi compresenti nei luoghi pubblici della città. Le merci ne sono un tramite. Benjamin insiste sulla dialettica tra sogno collettivo e veglia, sulle derive oniriche che si inabissano ed emergono, e che per lui hanno a che fare con il messianismo di cui era convinto, con il desiderio di liberazione che spinge avanti la storia. La chiave messianica spiega in che modo l’ordinario «covi» il futuro, in che modo i suoi semi vengano tenuti al caldo da quei sogni a occhi aperti che Benjamin aveva individuato così bene nell’immaginario collettivo. Questo fiume profondo che scorre sotto la storia, il fiume profondo del day-dreaming quotidiano, va avanti fin quando non «cozza» contro qualcosa, e allora le falde tettoniche si sollevano, nuovi continenti emergono e altri si inabissano.
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Le regole degli altri
Un romanzo di Mischa Berlinski, tradotto in Italia come Ricerca sul campo [Gran Vía, 2011], racconta una storia esemplare. È la storia di un’antropologa americana che va a fare il suo «lavoro sul campo» in un villaggio dyalo al confine tra la Birmania e la Thailandia. I Dyalo non esistono in realtà, ma somigliano ad altre tribù esistenti nella zona, con una lingua difficile da imparare, fatta di otto toni, e con una complessa cosmologia, legata alla coltivazione del riso. Quando due Dyalo si incontrano, per chiedersi come stanno dicono: «Il tuo riso è felice?». L’antropologa cerca di capire quello che c’è da capire, strutture di parentela, lingue, miti, racconti, maniere di relazionarsi alle risorse e agli antenati. È un lavoro lungo e difficile. Incontra «sul campo» una dinastia di missionari che frequenta la stessa tribù, ne conosce la lingua, gli usi, le strutture profonde della vita quotidiana e da tre generazioni opera per evangelizzarla. Dopo un paio d’anni, l’antropologa torna negli Stati Uniti per sostenere la sua tesi di dottorato e, nonostante la fatica 21
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che le è costata stare nella tribù, una profonda nostalgia la spinge a chiedere una borsa di studio per tornarvi più a lungo. La ottiene e si ritrova di nuovo sul campo, ancora più convinta dell’importanza della cultura che sta studiando, in particolare per il suo rapporto straordinario, quasi erotico, con i campi di riso, le stagioni, il paesaggio. Conosce lo sciamano e tra loro si stabilisce un legame, una passione, che si aggiunge a quella del mestiere di antropologa. Insomma, sempre di più si sente parte di una cultura di cui capisce la bellezza e le motivazioni. Nel frattempo i missionari continuano a operare, soprattutto il più giovane della dinastia, che dopo aver vissuto una grave crisi ed essere andato a vivere in America per un po’, è tornato in Thailandia con una fede più forte. L’autore del romanzo ci racconta la storia come un’investigazione condotta in prima persona a partire dal momento in cui viene a sapere da un amico che l’antropologa, da alcuni anni rinchiusa in un carcere thailandese per aver ucciso il giovane missionario, si è suicidata. Il libro – avvincente, estremamente curato nei particolari (l’autore ha vissuto per anni da quelle parti) – ricostruisce la storia dalla voce di coloro che l’hanno conosciuta ed è l’apologo più esemplare che sia stato scritto sulla questione principale dell’antropologia: «Gli altri, quelli di altre culture, hanno ragione?». Potrebbe sembrare una domanda stupida, ma è la domanda fondamentale cui l’antropologia è chiamata ogni volta a rispondere e cui il viaggiatore si trova dinanzi per accenni. Le regole che la gente si dà in questa cultura che sto visitando o in mezzo alla quale vivo, sono regole morali che vanno rispettate come se fossero regole valide per tutti? Ma allora cosa pensare del fatto che se vado altrove, presso un’altra cultura, le stesse regole sono considerate infrazioni o cose riprovevoli? 22
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È possibile fare, come l’antropologa, il «tifo» per un’altra cultura, difenderla da intrusioni di altre culture? Ma siamo poi sicuri che loro «abbiano ragione» al punto tale da indurci a uccidere chi cerca di cambiare le loro ragioni (per quanto le ragioni della passione amorosa qui si confondano con quelle dell’antropologia: lo sciamano le viene sottratto perché si converte al cristianesimo)? Il romanzo è costruito in modo da lasciare aperti molti dubbi. Perché se i missionari sembrano bacchettoni e indottrinanti, poi si scopre che per molti versi hanno capito profondamente la cultura dyalo, solo che non l’hanno mitizzata. Non c’è il pericolo che gli antropologi mitizzino le culture di cui si occupano ben oltre il modo in cui loro stesse – che sono abituate a cambiare, a trasformarsi – vivano il valore dei propri miti? È come se gli antropologi corressero costantemente il pericolo di essenzializzare una cultura, immobilizzandola e legandola a se stessa e prendendola sul serio in un modo che non è quello di chi la vive quotidianamente. Una morale per la vita di tutti i giorni significa che le regole che la gente si dà per vivere sono regole vive e non sono vissute per lo più come comandamenti esterni, ma come maniere di fare, come pratiche di vita, come forme di vita che appunto possono anche «conformarsi» con le nuove accezioni e gli accadimenti esterni. L’antropologia è diventata con il tempo molto più cauta e acuta nello studiare il modo in cui intere società e tribù, di fronte a una situazione nuova, di crisi, di cambiamento generale, siano state capaci di trasformarsi, di «cambiare/adeguare» completamente morale, cioè stile di vita e motivazioni. Le culture nella loro capacità di resistenza hanno anche questa caratteristica, ovvero di essere molto più elastiche di quello che sembra, e ogni peana per la «distruzione di una cultura» non tiene conto dei processi ef23
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fettivi per cui le persone e le società sono capaci di assimilare il cambiamento, di trasformarlo, di assuefarsi ma anche di assuefarlo. Il problema posto dal romanzo è apparentemente quello del contrasto tra chi professa una morale universale, come i missionari, e chi invece ha la «propria morale». I missionari pretendono di avere una verità morale di cui non è possibile dubitare, e questa morale vale per tutta l’umanità, che va salvata dalle tenebre dell’arretratezza o del peccato. È la visione occidentale nei confronti di culture ritenute primitive, barbare, non civilizzate. È anche la visione del progresso democratico come qualcosa cui «obbligare» tutti i popoli del mondo. Gli antropologi hanno operato molto per dar rilevanza al valore «relativo» di ogni cultura. Come ha fatto Claude Lévi-Strauss nella dichiarazione Razza e storia [1949] all’Unesco contro le pretese universalistiche, dove sosteneva che ogni cultura ha la sua verità e la sua morale e che questa va rispettata in un’ottica di diversità delle maniere di essere umani. A meno che questa cultura non infranga alcuni parametri morali fondamentali, come l’infanticidio, la violenza sulle donne, l’infibulazione, il cannibalismo, la violenza in generale contro altri gruppi umani. Da un relativismo generalizzato si è passati alla convinzione che ci siano dei diritti umani universali da cui non si può prescindere. Anche perché la pretesa della cultura occidentale di essere l’unica è la stessa di ogni cultura, di ogni gruppo tribale, convinto di essere effettivamente l’unico gruppo veramente umano. Allora la questione posta dal romanzo è un po’ più complessa. Non si tratta di universalismo e relativismo, ma piuttosto del modo in cui gli individui possono vivere il rapporto con le morali altrui. In fin dei conti, l’antropologa 24
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non è molto differente dai missionari: anche il suo è un intento missionario, un dovere che scatta in lei di operare per la salvezza del popolo indigeno che ama. All’interno dell’antropologia negli ultimi anni si è andata formando un’area piuttosto consistente dedicata all’antropologia «impegnata» (Applied Anthropology). Gli antropologi non sono solo chiamati a studiare e a osservare senza intervenire, ma cominciano a interrogarsi su come impegnarsi per difendere i diritti dei popoli che studiano. Anzi, devono accettare che il loro ruolo sia messo in discussione: sono proprio gli indigeni, le popolazioni studiate, a dover essere gli attori dello studio della propria cultura. Il punto di vista dei nativi propugnato dall’antropologia della fine degli anni Ottanta e dall’antropologia critica di George Marcus e Michael Fischer va in questa direzione. Il punto di vista dell’antropologo non deve fare violenza alla visione che gli stessi indigeni hanno di sé. Esperienze come Survival International, Cultural Survival e International Work Group for Indigenous Affairs (IWGIA) hanno portato a un’antropologia «schierata» dalla parte dei popoli indigeni, concepiti come portatori di una ricchezza culturale da difendere e in specifico di un rapporto eco-consapevole rispetto alla natura e alle sue risorse. Come se i popoli indigeni fossero superiori e più coerenti di noi nel piazzare la propria cultura in un rapporto corretto con la natura; come se in effetti essi rappresentassero uno «stato di natura» che noi abbiamo perso. Ovviamente non è così e spesso questo porta a equivoci. La natura umana degli indigeni è culturalizzata come la nostra e rende possibile un rapporto più armonico con la foresta, il deserto, il mare, il fiume, proprio perché ha trasformato la natura in parentela, vede nella natura qualcosa di imparentato con la propria società. Gli indigeni hanno cultura25
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lizzato, socializzato, la natura, mentre noi continuiamo a illuderci che essa esista come entità a parte. Detto questo, è evidente che molte tribù, popoli indigeni e società tradizionali hanno un rapporto più profondo e più integrato con l’ambiente circostante – da cui dipendono e di cui vivono, ed è per questo che devono mantenere con esso un dialogo equilibrato. Rapporto che è messo a dura prova di fronte alla rapacità capitalistica e alla devastazione culturale che essa porta con sé in questi contesti, il che spiega la presenza di un’antropologia impegnata. Ma cosa dire di altre comunità che gli antropologi possono studiare? Se, ad esempio, si occupano di un gruppo di skinheads alla periferia di Londra, di un gruppo neonazista in Scandinavia, o dei militanti del partito fondamentalista hindu Shiv Sena? Cosa accade quando un antropologo si mette a studiare i salafiti nei paesi musulmani? In questo caso, cos’è l’antropologia impegnata? La questione delle «loro» regole e della «loro» morale si pone con forte evidenza. Posso da antropologo condividere la morale dei fondamentalisti o dei gruppi neo-nazisti, posso condividere la violenza verbale e machista di un gruppo rap della Spanish Harlem a Manhattan? Evidentemente no. Ma allora in quanto antropologo sono anche portatore di uno «sguardo dall’esterno» che giudica moralmente le regole morali di un gruppo che sto studiando. Più in generale, un approccio relativista alle morali altrui, alle maniere di vivere, alla cultura condivisa da un altro gruppo ha senso fino a un certo punto. Il relativismo assoluto è una forma di assolutismo, come ci ha spiegato magistralmente Clifford Geertz con il suo anti-anti-relativismo: «l’unico relativismo sano è un relativismo relativista».
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QUATTRO
Qualcuno bussa alla porta
Karen Sykes, un’antropologa norvegese che da anni fa il suo lavoro tra i Mesi, una popolazione di Papua Nuova Guinea, si è trovata recentemente in una situazione singolare. Alla sua porta è venuto a bussare Sioni, il figlio di un big man, di un capo molto amato e apprezzato dalla tribù. Sioni ha bussato alla porta dell’antropologa per chiederle aiuto a proposito di suo figlio che stava sposando la donna sbagliata. L’antropologa gli ha risposto: «Perché chiedere a me? Io non sono di qui». Si trattava di una faccenda piuttosto complessa, di cui peraltro l’antropologa era ben cosciente. Una giovane donna di nome Rose stava andando in sposa al figlio di Sioni, Bartly. Rose, che veniva da un villaggio della East Coast di Papua, aveva incontrato Bartly nella miniera dove entrambi lavoravano, quella di Lihir. I due erano andati a vivere insieme, cosa vista assolutamente male dalle tradizioni di entrambi villaggi cui appartenevano. Adesso, accettando di «mettere a posto le cose», Rose voleva sposare Bartly. In 27
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questa mossa, che aveva portato Rose a parlare con gli anziani del villaggio di Bartly, c’era una strategia che mirava a ottenere per Rose e i futuri coniugi quei benefici propri a una famiglia influente – compresa una casa nel villaggio – da aggiungere a quelli già acquisiti come coppia moderna e disinibita. Sioni vedeva in tutto questo una mossa molto calcolatrice e soprattutto era preoccupato che il figlio non capisse che il matrimonio dovesse comportare ben più che una semplice convivenza e un accumulo di vantaggi. L’antropologa non sapeva che fare. Perché era bloccata tra la conoscenza delle regole del villaggio, secondo cui Rose in fin dei conti stava rientrando nel rispetto delle tradizioni, e i dubbi legittimi del padre di Bartly rispetto al fatto che il figlio si stesse facendo prendere per il naso. Dire «io non sono di qui» sembrava liberarla da una situazione imbarazzante. Ma in effetti non era poi tanto vero, visto che lei viveva nel villaggio e come antropologa conosceva benissimo le regole e i costumi dei Mesi. Per un verso, avevo concentrato la mia attenzione sui costumi coniugali dei Mesi come qualcosa di distinto dai costumi occidentali, immaginando che dessero luogo a una situazione di vita ben differente dalla nostra. Non riuscivo a discutere con Sioni del matrimonio di suo figlio perché ero convinta della incommensurabilità dei suoi valori culturali con i miei. Mi aspettavo che fosse lo stesso Sioni a dare una risposta che risultasse consona alle norme sociali e ai costumi della cultura in cui lui e la sua famiglia vivevano. Ma poteva anche essere un mio errore. Per l’altro verso, ero talmente radicata nel senso della mia razionalità e nei privilegi che mi dava il fatto di interrogarmi sulla vita sociale del villaggio che mi sentivo spinta ad analizzare il modo in cui la vita sociale avrebbe dato forma a quel matrimonio, essendo così profonda la logica di funzionamento della 28
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tribù. Il mio impegno a scoprire le ragioni razionali per quel matrimonio mi spingevano a ignorare la passione amorosa di quella giovane donna per Bartly e a focalizzarmi invece sulla logica degli interessi che poteva avere nello sposarsi. I confini tra l’interesse di lei nel matrimonio, l’interesse effettivo per Bartly e il suo benessere erano difficili da separare. Se l’amore c’entrava qualcosa, non era determinabile perché l’evidenza qualitativa di quell’amore non poteva essere misurabile. Avevo cercato di rispondere mettendo insieme la mia sensibilità verso quella cultura e la razionale sicurezza rispetto all’istituzione del matrimonio, per trovarmi alla fine confusa e incapace di dire alcunché di sensato» [Karen Sykes, «Residence: Moral Reasoning in a Common Place-Paradoxes of a Global Age», in K. Sykes (ed.), Ethnographies of Moral Reasoning: Living Paradoxes of a Global Age, Palgrave, 2008, p. 6].
Ecco un caso tipico di quello che la stessa Sykes chiama «paradossi viventi di un’epoca di globalizzazione». Perché a vedere le cose dal punto di vista di Sioni, questi cercava una risposta nell’antropologa proprio perché lei era una outsider insider. Il punto di vista di lei, essendo estraneo alle logiche del villaggio, poteva essere davvero di aiuto. Sioni aveva non solo sfondato la bolla della «pertinenza» antropologica e il comandamento secondo il quale le culture vanno capite all’interno della loro logica, ma si serviva dei vantaggi di un mondo globalizzato per avere un aiuto in una situazione di forte trasformazione del suo mondo. Il ragionamento morale dell’antropologa non corrispondeva al ragionamento morale dell’indigeno proprio perché si erano scambiati i ruoli. L’antropologa si ostinava ad avere uno sguardo da vicino e Sioni voleva ottenerne uno da lontano. È per questo motivo che negli ultimi anni l’antropologia ha scoperto un nuovo campo appassionante, quello delle 29
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«etnografie delle ragioni morali», necessario proprio perché, in epoca di globalizzazione, morali locali e morali «più universali» non si intersecano ma spesso si sovrappongono, si rincorrono, si negano l’un l’altra. Ciò implica che mai come adesso occuparsi di antropologia significa occuparsi delle ragioni quotidiane della gente. L’antropologia è una fonte magnifica per una nuova riflessione filosofica sull’umano. Proprio perché essa vuole essere fedele a una fenomenologia dell’umano. Questo non è un genere astratto e indistinto, ma è l’umano qui, in questo posto preciso, incarnato in uomini e donne, luoghi, paesaggio, comunità, vincoli e relazioni parentali e amicali, storie di generazioni, di angoli di strada, di polvere di villaggio, di campi di riso e di grano. L’antropologia ci ridà quella «carne» del mondo che la filosofia ci ha per troppo tempo negato. E ri-attualizza e trasforma le domande della filosofia in un modo finalmente concreto: cos’è la morale per le persone che vivono insieme in un preciso posto? E che relazione c’è tra questa morale e altre morali? Come vivono gli individui la propria morale e come la vivono le collettività, le società? La morale è quella cosa che conosciamo dai libri di filosofia, quel tormentarsi di fronte a una scelta e a un giudizio? Risponde davvero alla domanda fondamentale di Socrate – «come devo vivere?» – poi ripresa da Raymond Williams? Negli ultimi anni l’antropologia si è posta queste domande, ed è interessante che ne stia nascendo una nuova disciplina che si trova a dover ridefinire buona parte degli elementi in ballo. Ma la cosa ancora più interessante è che lo fa a partire da una casistica, da quella caratteristica antropologica che è la narrazione della vita quotidiana qui e ora, o qui poco tempo fa. Infine, è proprio l’aspetto narrativo dell’antropologia a permetterle di interrogarsi come 30
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disciplina privilegiata sull’etica e sulle morali per la vita quotidiana. La risposta dell’antropologia alla domanda socratica «come vivere?» (ed è Raymond Williams a ricordarci che in greco la domanda non è personale, non è «come devo vivere?», ma appunto «come vivere?») è il «così» della maniera di vivere che ogni cultura si dà. Certo, il chiedersi «come vivere?» corrisponde a un passaggio fondamentale nella cultura greca ai tempi di Socrate, un momento in cui le formule per vivere, la fede negli dèi o la stessa fede nelle regole della città erano entrate in crisi. Socrate prende su di sé la crisi, la interpreta, ne muore, fondando così il passaggio da una maniera di vivere data dai più ancora per assodata e una nuova maniera che deve essere cercata. Paul K. Feyerabend ci racconta una cosa simile, un cambiamento di paradigma nel mondo greco ancora più antico, quando ai tempi della stesura dell’Iliade il comportamento di Achille che si ribella alle normali leggi del risarcimento (perché gli era stata sottratta l’ancella preferita) apre una situazione di crisi inaspettata. L’eroe non si comporta secondo le regole. Questo per Feyerabend racconta un passaggio tra due diversi paradigmi epocali [Paul K. Feyerabend, «L’appassionata congettura di Achille», in Conquista dell’abbondanza, Cortina, 2002]. Ignorare che le scelte morali degli individui stanno in continua dialettica con le «formule per vivere» che le società si danno significa non capire che l’etica, il «cosa fare», il «come vivere», è una prassi, un qualcosa che non concerne l’individuo nella sua cella e nel suo cuore, ma concerne la sua posizione nei confronti degli altri e più in genere il modo in cui si riesce a tradurre la vita in una convivenza. 31
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Cuori turbolenti
C’è un esempio magnifico raccontato da Unni Wikan, un’antropologa norvegese che ha passato anni tra le donne del Cairo e altri anni a Bali, un’isola molto studiata dagli antropologi, da Gregory Bateson e Margaret Mead fino a Clifford Geertz e altri. Quasi tutti concordano nel ritenere la cultura balinese una cultura dell’esteriorità, un teatro in cui l’individuo e le persone non esprimono sentimenti propri, ma stereotipi di sentimenti, un mondo in cui tutto sembra dover essere sempre a posto e ogni picco di espressione o emozione deve essere livellato. Un’artista che aveva lavorato negli anni Trenta con Margaret Mead e Gregory Bateson a Bali descriveva così quella cultura: I bambini non piangono, i ragazzi non si azzuffano, le ragazze si comportano con decoro, i vecchi comandano con dignità… il bambino… deve solo obbedire alle prescrizioni della tradizione per diventare un adulto felicemente adattato alla vita che è la sua [Jane Belo, The Balinese Temper, 1935]. 32
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La Wikan ha invece un’altra esperienza [Managing Turbolent Hearts. A Balinese Formula for Living, Chicago University Press, 1990]. In un autobus che la porta giù dal villaggio verso la pianura, l’antropologa incontra una giovane e timida donna, Suriati, che le accenna al fatto che una persona a lei amica è da poco deceduta. Dopo qualche giorno si incontrano di nuovo e Suriati, sempre sorridente e bright (in qualche modo splendida, splendente), le dice che si tratta in effetti di un amico che è morto improvvisamente dopo un attacco di diarrea. Devono passare altri giorni perché finalmente la ragazza confessi che era un amico molto caro, tanto che pensavano di sposarsi presto, e dica di aver ricevuto un telegramma dalla famiglia che la invita a partecipare al funerale. La ragazza è musulmana, il ragazzo era hindu. Suriati dice che non ci andrà perché non ha i soldi per recarsi nel lontano villaggio di lui e in più deve occuparsi del lavoro dei campi. L’indomani, sempre sorridente, chiede all’antropologa se può aiutarla prestandole i soldi per andare al funerale. La Wikan acconsente e si stupisce ancora della quasi freddezza emotiva della ragazza. Suriati sparisce e l’antropologa chiede di lei ai familiari che le confermano che è partita. Qualche giorno dopo riceve una lettera dalla ragazza che le scrive di non aver potuto partecipare al funerale perché alcuni parenti l’hanno trattenuta per timore della magia nera che si propaga dai funerali hindu. L’antropologa sospetta che sia tutta una messinscena e teme di essersi messa in qualche modo tra la famiglia e la ragazza. Ma questa torna e alla domanda della Wikan di farle vedere le foto del ragazzo, Suriati gliele mostra e le mostra anche le foto di lei sulla tomba di lui. E le racconta che ha pianto per due giorni fin quando i parenti l’hanno lasciata andare. Oltretutto, non le era facile piangere, anche se aveva il cuore spezzato, perché i parenti e gli 33
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amici, vedendola piangere, le dicevano: «È morto. E allora? Sei matta? Cosa c’è da piangere?». La Wikan scopre attraverso Suriati che la gente di Bali sente e soffre come ogni altra persona al mondo, ma che il sistema delle emozioni è un sistema morale. Visto che ridere è considerato ciò che fa bene a sé e agli altri, bisogna sempre ridere, anche nel lutto, perché è un modo di scacciare la tristezza, gli spiriti maligni, e di non fare male agli altri. Le emozioni sono un «pensiero/sentimento» che implicano un coinvolgimento pubblico di sé con gli altri. Vivere a Bali implica una «formula per vivere» in cui è importante «gestire i propri cuori turbolenti». Un’altra amica balinese della Wikan le racconta che non può per adesso lasciare sola la madre perché «non avrebbe con chi ridere». Ridere è una forma di moral committment, perché le emozioni, contrariamente a quanto in genere pensiamo, sono proprio la parte solida del sistema della vita quotidiana insieme. Ed è questo che spiega come mai non capiamo in altre culture le reazioni di fronte al lutto, alla tristezza, alla gioia, all’ansia. Perché se questi fatti della vita sono universali, non lo sono però necessariamente le emozioni che portano con sé. Per quanto strano possa sembrare (almeno nel contesto balinese), le emozioni, come sostiene Robert C. Solomon, sono «scelte», nel senso che esse non sorgono da una pretesa spontaneità della persona, ma sono «modellate e cesellate per conformarsi alle regole sociali» [cfr. Wikan, ibid., p. 139]. Il fatto è che: La variazione culturale nelle espressioni degli affetti è uno degli aspetti più facilmente osservabili e meno facilmente interpretabili del comportamento umano. Come sistema comunicativo, le espressioni emotive sono l’inverso delle espressioni linguistiche: mentre nel linguaggio i simboli linguistici sono 34
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considerati arbitrari portatori di significato, le espressioni emotive sono percepite come aventi un significato in sé. Non ci sorprendiamo se non arriviamo a comprendere il discorso di una persona di cui non capiamo il linguaggio e pensiamo che un’adeguata traduzione possa restituircene il significato. Osservando il comportamento affettivo di una persona di una cultura differente, invece «sappiamo» cosa significa, ma a volte non siamo capaci di capire perché una persona si comporta in quel modo [S. Harkness e P. L. Kilbride, Introduction: The Socialization of Affect, «Ethos», 11.4, 1983, p. 215].
Nel caso balinese, un sistema morale di emozioni regola la vita quotidiana e la risposta ai fatti della vita, ma ciò non esclude che la gente – in privato – pianga, soffra, sia triste e preoccupata. Il caso balinese mostra abbastanza bene in cosa possa consistere un orizzonte morale che ha a che fare più con il «contegno» che con la risposta a «come vivere?». La risposta a «come vivere?»nella società balinese, come in molte altre, è una questione di «stile» – quello che la Wikan chiama brightness, un essere splendenti, solari, positivi, un essere capaci di far fronte alla vita con dignità ed eleganza. Vedremo più avanti come questa componente ci porti verso un’idea di regole morali come regole estetiche.
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SEI
Un’etica ordinaria
Al posto del non analizzabile, dello specifico, dell’indefinibile: il fatto che agiamo in questo e questo modo, che ad esempio, puniamo certe azioni, accertiamo la situazione effettiva in questo e questo modo, diamo ordini, prepariamo resoconti, descriviamo colori, ci interessiamo ai sentimenti altrui. Quello che dobbiamo accettare, il dato – si potrebbe dire – sono i fatti della vita [Ludwig Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia (1947), Adelphi, 1980, p. 188].
Ordinario in italiano è un aggettivo che ha una connotazione leggermente negativa. È ordinaria qualcosa che non è straordinaria, che non è fuori dal tran tran solito. Ordinario vuol dire qualcosa che è priva di qualità rimarchevoli, che ha una prosaicità che la rende poco interessante. Per John L. Austin, il filosofo e linguista americano di Come fare cose con le parole [Marietti, 1987], ordinario ha invece un significato leggermente diverso. È proprio nell’or36
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dinarietà della vita quotidiana che vanno cercati quegli atti linguistici che hanno spesso un’efficacia performativa. Ci sono parole, frasi, «che fanno cose», che le fanno accadere; e parlare, nella vita di relazione, ha un’efficacia che va ben al di là dello scambio di informazioni. È stato un altro filosofo, Stanley Cavell, a riprendere il pensiero di Austin, il maestro che peraltro l’aveva spinto a scoprire Wittgenstein. In un’originale sintesi, Cavell re-interpreta l’idea di ordinario, filtrandola attraverso il pensiero di Henry David Thoreau e di Ralph Waldo Emerson, i due grandi americani del «ritorno all’evidenza», della celebrazione dell’esperienza e dell’impossibilità di ridurla a formule di pensiero. Cavell riprende Wittgenstein, che nella sua opera aveva poco toccato il tema dell’etica proprio perché convinto che non se ne potesse parlare, e definisce le «forme di vita» di cui Wittgenstein parlava come «criteri» che stanno nella natura delle cose e non come convenzioni imposte. I criteri normativi […] non sono esterni, ma interni «alle forme di vita umana», e chiamarli convenzionali ci allontana da loro e allontana noi da noi stessi, perché le nostre forme di vita e i nostri criteri sono una sola cosa» [Roger A. Shiner, «Canfield, Cavell and Criteria», in John Canfield (ed.), Criteria, Garland, 1986, p. 364].
Cavell dedica una delle sue opere più importanti, The Claim of Raison, alla riscoperta dell’ordinario (in italiano il libro è stata tradotto proprio con il titolo La riscoperta dell’ordinario). Davide Sparti, che ne è il curatore, osserva che la fonte della riscoperta è la questione linguistica, l’appellarsi a «ciò che si dice ordinariamente». Introducendo la questione del dominio linguistico nel contesto quotidiano, Cavell dice: 37
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Sia in Austin che in Wittgenstein l’accento cade non tanto sull’«ordinarietà» di un’espressione, quanto piuttosto sul fatto che le espressioni siano «dette» (o scritte) da esseri umani, per esseri umani, in contesti definiti, in un linguaggio che essi condividono: «di qui» l’attenzione ossessiva per l’«uso» delle espressioni. «Il significato è l’uso» richiama l’attenzione sul fatto che ciò che un’espressione significa è una funzione di ciò che gli esseri umani sono usi significare o dire in determinate occasioni. Che un fatto talmente ovvio dovesse assumere una tale importanza è di per sé sorprendente. Delineare la storia intellettuale della focalizzazione, da parte della filosofia, sul significato di parole e proposizioni particolari, isolatamente da un’attenzione sistematica per i loro usi concreti, sarebbe un’impresa degna di considerazione. […] Un titolo adatto a questa storia potrebbe essere: La filosofia e la ripulsa dell’umano [Stanley Cavell, La riscoperta dell’ordinario, (1979), Carocci, 2001, p. 274].
Cavell arriva alla riscoperta dell’ordinario attraverso l’elaborazione di un approccio «scettico» al linguaggio e ai fenomeni umani. Per lui le regole che la gente si dà per parlare (cosa diciamo quando…?) sono tentativi di mettersi in armonia con gli altri membri della comunità (claims to community), richieste rivolte alla comunità. Cavell le chiama tentativi di iniziazione, mutuando la parola dall’antropologia, dalle pratiche iniziatiche che gli adolescenti devono superare per far parte di una comunità. In questo senso, l’ordinarietà di cui parla Cavell non è dominata dalla preoccupazione di sapere se ciò che dico o intendo vale anche per gli altri, ma dalla importanza del «riconoscimento», nel senso dell’inglese acknowledgment, cioè del riconoscere l’altro e me di fronte a lui, nel riconoscere che facciamo parte della stessa attualità (dell’essere entrambi qui). È come se Cavell introducesse un’idea di 38
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«pertinenza», che passa dall’idea di contestualità a quella di un inevitabile coinvolgimento nel qui e ora, la conformità con cui nei primi capitoli di questo libro abbiamo cercato di definire la morale di tutti i giorni. Gli stati mentali del prossimo non sono oggetto di interesse teorico, ma la radice dei nostri legami interpersonali e dei nostri practical committment – dei nostri impegni pratici – con gli altri [Davide Sparti, Postfazione a Cavell, op. cit., p. 517].
I filosofi tradizionali direbbero, con una buona dose di scetticismo, che questo non assicura che la conoscenza che abbiamo di ciò che intendano gli altri e di ciò che capiscano di quello che intendiamo noi sia certa. Ma è il concetto stesso di certezza che non trova applicazione in quello sfondo delle relazioni umane che Wittgenstein e Cavell chiamano «forme di vita» [ibid., p. 518].
Cavell risponde alla domanda scettica assoluta: «come sai che ci sono gli altri?», con «perché alcuni di essi li amo e alcuni li odio; ma né l’amarli né l’odiarli mi assolve dai miei doveri nei loro confronti» [Cavell, op. cit., p. 430]. È da questa matrice filosofica che ha preso le mosse, in un dialogo serrato con le argomentazioni di Cavell, di Austin, di Wittgenstein, l’idea di un’«antropologia dell’etica ordinaria». Da qualche anno in qua, nei lavori sul campo, nelle monografie specifiche su una cultura, nelle collezioni di articoli, nei libri e infine nelle stesse cattedre universitarie, prima negli Stati Uniti e poi timidamente in Europa, si è fatto avanti questo nuovo approccio. Non che gli antropologi tradizionali non se ne fossero occupati, ma in qualche modo è proprio la «crisi dei valori», la «caduta delle 39
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ideologie» e la maggiore conoscenza dell’antropologia delle religioni ad aver aperto questioni nuove, nuovi squarci. Accanto a questa svolta, c’è quella dovuta al cambiamento generale del mondo, al rimescolamento dovuto alla globalizzazione e alla maggiore mobilità, forzata o voluta, delle persone. L’antropologia dell’etica ordinaria è un tentativo di affrontare nuove situazioni di contatto, di scontro, nuovi piani individuali e collettivi che si intersecano, crisi personali e collettive e trasformazioni dovute a queste.
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Si tratta davvero di una morale?
Tre cose sono indegne per una persona rispettabile: mentire, scoreggiare e rubare. proverbio fulani
I Manyika dello Zimbabwe, che fanno parte delle comunità parlanti la lingua shona, condividono con i Fulani questo proverbio. Anita Jacobson-Widding, che li studia da circa dieci anni, confessa di fare fatica a tradurre in shona il termine inglese morality: Ho cercato di spiegare cosa significa moralità, morale, chiedendo ai miei informatori di descrivermi le norme per un buon comportamento. La risposta è stata unanime: la parola giusta era tsika; ma quando ho chiesto al mio informatore bilingue di tradurre tsika in inglese, mi ha risposto che si trattava di «buone maniere». E altri mi hanno detto che tsika è «il modo giusto di salutare gli altri», o è «il modo giusto di mostrare rispetto». Ciò 41
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non soltanto illustra la relatività della morale, ma piuttosto la difficoltà a trasformare una delle astrazioni specifiche alla nostra cultura in un soggetto di investigazione adeguato per una società dove non esiste nemmeno un termine per lo stesso concetto. Come possiamo elaborare metodi per un’etnografia della morale, quando il concetto di morale non esiste? [Anita JacobsonWidding, «I lied, I farted, I stole…: dignity and morality in African discourses on personhood», in S. Howell (ed.), The Ethnography of Moralities, EASA, 1997, p. 49].
Giustamente, osserva la Jacobson-Widding, la stessa cosa vale per altri concetti come il «sé», il «pensiero», l’«emozione», la «società». Per avere un concetto di morale comparabile a quello elaborato nelle nostre società, bisogna avere un concetto di coscienza, di colpa, di responsabilità. L’antropologa dichiara la sua definizione di morale: La morale concerne le norme per il buon comportamento, nella misura in cui questo influisce sul benessere di ogni altra persona oltre al soggetto del comportamento stesso [ibid., p. 50].
Ma, si domanda la Jacobson-Widding, questo comporta un’idea di «altro» come oggetto e di altro come «ogni altra persona», implica cioè la separazione degli altri da me e l’idea di un’eguaglianza tra tutti i soggetti. Nella nostra cultura, inoltre, si distingue tra la vergogna personale rispetto a una trasgressione della norma e la colpa, cioè gli effetti che quel comportamento ha su altre persone. Quando guardiamo al proverbio fulani condiviso dai Manyika, di che cosa si tratta? È una questione di vergogna o di colpa? Per i Manyika il problema è irrilevante, perché le tre azioni – mentire, rubare, scoreggiare – hanno tutte a che fare con un’incapacità di trattenersi, una mancanza di auto-con42
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trollo. Il «contegno» in questo senso è la matrice del comportamento rispettabile. Per capire, però, come questo contegno riguardi alcuni e non altri bisogna considerare che all’interno della comunità non tutti sono considerati eguali, ci sono categorie separate di inferiorità e superiorità che hanno a che fare con differenze di origine e con differenze di genere. La correttezza, il buon comportamento, lo tsika ha a che fare con il saper rispettare queste differenze e gerarchie. Saper mostrare nel modo giusto il rispetto verso gli altri è essenziale per chiunque voglia essere visto come una buona persona. Primo, mostrate rispetto se vi presentate faccia a faccia senza però incrociare lo sguardo dell’altro. Secondo, dovete sapere come presentare un messaggio, un dono o un’espressione di gratitudine. Terzo, dovete assumere la corretta posizione del corpo. Ma è soprattutto una questione di ossequi. La modalità con cui ossequiate un’altra persona consente allo stesso tempo di attestare la sua e la vostra identità sociale. Se siete un uomo che saluta una donna, dovete stare seduto su uno sgabello, con la schiena dritta e il collo rigido, e battere le palme delle mani a ritmo costante. Se siete una donna che saluta un uomo, dovete sedervi per terra, piegare la schiena e il collo, e unire le mani come se steste reggendo un vaso rotondo, battendole discretamente. Se due donne si incontrano, si inchinano meno che se incontrano un uomo, mentre se un uomo incontra un altro uomo assumerà una postura ancora più rigida che se salutasse una donna ed eviterà lo sguardo fisso dell’altro uomo, tenendo il suo corpo e il suo discorso sotto stretto controllo [ibid., p. 59].
Tutto questo sembra avere a che fare più con un codice d’onore che con un codice morale, ma conclude la Jacobson-Widding: 43
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Il fatto è che in questo caso, come in quello di altre società africane, la persona è definita in base a categorie sociali fisse che si suppone siano gerarchicamente interrelate. In queste società due individui di differenti categorie sociali che interagiscono tra di loro rappresentano le categorie più che se stessi [ibid., p. 69].
Come si vede da questo esempio, l’etica «ordinaria» della tsika corrisponde poco all’idea di morale sviluppatasi nella nostra società. Corrisponde piuttosto a un codice di comportamento, a un insieme di regole del buon vivere, a un galateo. E verrebbe immediato giudicare (condannare) questa società per il non egualitarismo, per lo scarso rispetto della donna, per l’idea stessa di gerarchia. Ma per quanto questa etica «ordinaria» locale non ci soddisfi, essa comunque corrisponde alle regole «morali» che un determinato gruppo umano si è dato. È come se il bisogno di darsi delle norme comuni fosse «semplicemente» qualcosa da cui non si può prescindere. Viene il sospetto che si tratti di una gestione della «esteriorità», della morale come una forma di esteriorità in cui è fondamentale la coerenza delle apparenze. Dalle regole di un campo nomadi, a quelle di un asientamento illegale alla periferia di Buenos Aires, di una tribù nella foresta, ma anche di una popolazione urbana, questo «stare insieme» postula immediatamente delle norme comuni, anzi è definito dal darsi di queste norme. Non è necessario che qualcuno le scriva o le dica: le norme si fanno nel dispiegarsi della comunità, nel suo strutturarsi quotidianamente. Da questo punto di vista, non c’è forse migliore illustrazione del romanzo Ricerca di una terra felice di Andrej Platonovic Platonov [Einaudi,1968]. Anche una comunità ferita, disgregata, in una situazione transitoria, si trova di fronte alla costituzione e ri-costituzione di un ritmo comune che ne scandisca «i fatti della vita». Quando Witt44
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genstein parla di forme di vita intende questo: forme che non siano date al di fuori della comunità umana che le produce. Forme di vita che non sono solo forme, ma che formano la vita, che le danno la forma necessaria a dispiegarsi. L’intuizione dell’antropologia è che la normatività su cui si basa una società è la società stessa, è ciò che la tiene densa e unita. Intuizione che andrebbe però svuotata da ogni idea metafisica della società. La società si dà delle regole perché c’è una convivialità che precede ogni regola scritta. È quello che raccontano Alan Passes e Johanna Overing nel libro curato da loro sull’estetica della convivialità [The Anthropology of Love and Anger: The Aesthetics of Conviviality in Native Amazonia, Routledge, 2000]. La convivialità è non solo il gusto di stare insieme, ma è anche la cura costante affinché questo stare insieme «tenga» e tutte le maniere per farlo durare (tecniche, miti, rapporto con gli antenati e le generazioni a venire etc.). È una forma di love and anger, di amore e rabbia, di amore e rabbia sociale. Se i due autori prendono in prestito da Ivan Illich la parola convivialità, va però ricordato che il convivium è per eccellenza una forma di pasto comune ritmato da regole precise di comportamento, eppure scandito da un gusto, da un piacere quasi erotico di stare insieme. L’etica quotidiana non è però un sistema chiuso né una «tradizione», è invece l’equilibrio dinamico di cose non dette e non scritte che vanno condivise. Questo tema ne apre palesemente altri, tra cui quello del rapporto tra queste «forme di vita» e quelle accanto o altrove. Ciò con cui abbiamo a che fare qui è un problema di funzionamento interno. Ovviamente all’esterno «ci si perde», non solo perché si perdono i parametri geografici, ma perché ci si perde nelle regole altrui. Ed è appunto per questo che è un lavoro lungo e difficile ambientarsi in un’altra cultura. 45
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OTTO
Che razza di morale è?
Eccoli, eccoli qua gli uomini che hanno tagliato le teste, con i loro orecchini, quelli che hanno tagliato le teste. canto delle ragazze ilongot
Fin qui abbiamo incontrato «morali di tutti i giorni» che possono sembrarci singolari, ostiche, lontane dai nostri criteri, ma cosa accade se arriviamo al limite e ci imbattiamo invece in sistemi di regole e in forme di vita che prevedono ad esempio l’omicidio rituale? Come è possibile che un gruppo umano riesca a darsi una morale che implica l’eliminazione di altri individui? Se ci pensiamo bene, è un po’ la morale guerriera espressa nell’Iliade, una morale che però è già incrinata da una compresente visione della pietà, un racconto che mette insieme la grandezza dei guerrieri e però anche la pietà verso i vinti, Achille ed Ettore. Un’antropologa prematuramente scomparsa, Michelle Z. Rosaldo, ha vissuto in vari periodi, assieme al marito, 46
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presso gli Ilongot, una popolazione fiera e guerriera di cacciatori e orticoltori delle Filippine, nella provincia di Nueva Vizcaya, nel Luzon settentrionale. Dopo un primo lavoro sul campo svolto alla fine degli anni Sessanta, Michelle Rosaldo e il marito tornarono nuovamente a metà degli anni Settanta. Nella seconda visita gli antropologi portarono con sé i materiali registrati anni prima e si sistemarono all’interno del villaggio. La loro capanna diventò una meta frequentata dagli abitanti del villaggio, curiosi di ascoltare la propria voce, i propri canti passati. Così una sera la Rosaldo organizzò l’ascolto di certi canti guerrieri che aveva registrato nel corso di una particolare occasione durante il primo periodo di ricerca. Si trattava di canti che esaltavano un valore considerato fondamentale per gli Ilongot, quello del liget, una rabbia giovanile, un vigore della vita nella sua pienezza, compresa la voglia di uccidere, di tagliare la testa a un nemico o semplicemente al vicino di un’altra tribù. Quella sera tutto il villaggio si era riunito dentro e fuori la capanna degli antropologi. Quando Michelle accese il registratore scese un silenzio improvviso e poi, mentre le canzoni di guerra di anni prima si facevano sentire, lentamente, uno a uno, gli Ilongot visibilmente turbati si alzarono e lasciarono la capanna. Michelle prese la cosa come un’offesa personale, come se lei, che si era data tanto da fare per fare ascoltare quei canti, venisse poi trattata con distrazione e fastidio. Solo dopo qualche giorno, parlandone con gli informatori a lei più vicini, le venne spiegato che quello che aveva fatto sentire era diventato per le orecchie degli Ilongot «insostenibile». Perché nel frattempo essi avevano incontrato i missionari, che li avevano indottrinati e convinti ad abbandonare i propri costumi cruenti e ad abbracciare una fede fatta di messaggi di amore per il prossimo. Gli Ilongot avevano accettato, ma riascoltando i canti di guerra, 47
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che ricordavano loro quel sentimento sconvolgente che era il liget, erano caduti in un fortissimo turbamento. Nel sistema del liget, lutto e rabbia erano profondamente connessi. La voglia di uccidere qualcuno e di tagliargli la testa era non solo l’iniziazione che i giovani maschi dovevano passare per poter poi trovare una compagna, per passare alla vita adulta, ma era anche la risposta alla morte, anche alla morte per malattia, di un componente del villaggio. Se qualcuno della tribù moriva, agli altri prendeva una rabbia tale che poteva essere risolta solo nel partire, con i canti di guerra, alla ricerca di qualcuno da uccidere. Questa furia giovanile con tendenze omicide era la base, il legante, il senso della vita nella sua pienezza pericolosa, era la nostalgia degli anziani per il proprio vigore perduto e l’ambizione dei giovani di essere riconosciuti. I giovani irascibili spesso si battevano tra di loro per prepararsi al futuro omicidio rituale e le ragazze cantavano: Eccoli, eccoli qua gli uomini che hanno tagliato le teste con i loro orecchini, quelli che hanno tagliato le teste eccoci, eccoci allineate le ragazze con le loro tuniche rosse, tutte le ragazze Ah, come tralci di vite che si piega, i fianchi degli uccisori e delle ragazze [Michelle Rosaldo, Knowledge and Passion, Cambridge University Press, 1980, p. 149].
Il libro in cui Michelle Rosaldo racconta queste storie si chiama non a caso Knowledge and Passion, conoscenza e passione, perché nella visione di se stessi e della propria vita di gruppo gli Ilongot non distinguono tra passione e visione della realtà, tra emozioni e forme di vita. Pur avendo accettato la trasformazione dovuta al contatto con 48
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i missionari, nel profondo rimanevano «cacciatori di teste» e soffrivano di non poterlo più essere. Che tipo di morale è questa? È possibile che un’intera comunità si regga su questa cosmologia violenta? Sì, ovviamente, e i casi simili sono numerosi. Suzette Heald riporta un caso analogo per una tribù africana, i Gisu, dove la moralità è giudicata in base alla capacità di violenza dei maschi [Manhood and Morality, Sex, Violence and Ritual among the Gisu, Routledge, 1999]. E non è un caso che anche qui è nel gioco tra i generi, tra il maschile e il femminile, che si presenta una forma di moralità. La mascolinità «deve» per i Gisu esprimersi nella violenza potenziale dei maschi e precisi rituali marcano il passaggio all’età adulta in questo senso. La Heald racconta che, pur se la violenza è contenuta e ritualizzata, la sua presenza potenziale crea il gioco tra i sessi e il legame che tiene unito il gruppo. Anche lei si domanda come sia possibile che un tale «machismo» possa essere la base di una morale, ma la sua risposta non è distante da quella che si dà tra le righe Michelle Rosaldo. C’è una spartizione emotiva del campo in cui si rappresenta la vita quotidiana della tribù che fa sì che uomini e donne costruiscano le proprie identità in una tensione quasi rabbiosa nei confronti dell’esterno.
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NOVE
Una parentesi
Eppure la domanda «che c’entra questo con la morale?» va posta di nuovo, proprio perché noi siamo abituati a un’imprescindibile barriera, a quel «non uccidere» che insieme a pochi altri comandamenti («non dire falsa testimonianza», «non rubare» e poi forse quelli contro l’invidia, quelli della «roba d’altri») sono filtrati dal monoteismo giudaico-cristiano via via fino alle strutture del nostro quotidiano. È possibile che esistano culture, società, in cui non sia evidente che eliminare la vita di una persona sia qualcosa di insostenibile, che grida allo scandalo, che spinge immediatamente alla riprovazione e mette in moto il nostro sdegno? Queste culture non solo sono esistite ed esistono, ma sono comprensibili proprio nella nozione di «valore» inteso come valore guerriero. In un testo di Amartya Sen sul Laicismo indiano [Feltrinelli, 1998], c’è una ripresa della famosa storia del dialogo che si trova nel Mahabharata tra Arjuna, l’eroe, e Krishna, l’incarnazione divina, prima della battaglia. Arjuna è un guerriero «valoroso», ma sa che dal50
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l’altra parte ci sono i suoi fratelli e che se combatte dovrà ucciderli. È in dubbio sul da farsi. Krishna lo esorta invece a seguire ciò che il suo karma lo spinge a fare. Arjuna è un guerriero ed è nell’atto, nella coerenza dell’atto, che si esprime per lui ciò che «deve fare». Amartya Sen dice che è una risposta/non risposta perché il Mahabharata pone entrambe le verità su una bilancia e fa decidere a noi. Per Sen la verità del valore guerriero è una verità della «esteriorità», di un sistema di coerenza all’interno di un orizzonte dove il karma, ciò che in qualche modo ci precede, è l’a-priori del nostro essere in «un certo modo» al mondo che ci conduce, come ci conducono le virtù, come ci conducono i nostri saper fare. Gli Ilongot, che soffrono ascoltando le canzoni di quando erano ancora tagliatori di teste, sono in qualche modo spinti dalla virtù assimilata per generazioni del valore del guerriero. Ma dall’altra parte, nella «compassione» di Arjuna, c’è il salto oltre la tribù; o meglio, c’è la relativizzazione del karma, del «destino», dell’imprinting sociale e tribale e c’è la natura profonda per cui nella vita quotidiana le cosmologie morali non sono fissate una volta per tutte, ma sono soggette agli imprevisti e alle trasformazioni del vivere. Vedremo più avanti cosa questo significhi e quanto questa elasticità differenzi le morali di tutti i giorni dalle morali «universali». Una piccola osservazione sui dieci comandamenti: nel modo in cui essi vengono affidati a Mosè sul monte Sinai, c’è un superamento della condizione tribale – il «non uccidere» è un ponte lanciato oltre al non uccidere quelli come te, quelli che appartengono alla tua stessa tribù. Ma nell’elenco dei dieci comandamenti si sente ancora il tono antico della tribù: quel «non desiderare la donna d’altri», che ovviamente in un regime patriarcale non prevede il contrario, quell’«onora il padre e la madre», che molto ha 51
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a che fare con le strutture cardine della tradizione, quel «non commettere atti impuri», che avvolge la sessualità dentro un’idea di contaminazione e di purezza che rimanda alle distinzioni ed evitazioni di una società che si vuole premunire da indebite mescolanze. Eppure nei dieci comandamenti e nelle interpretazioni che ne sono state fatte poi, nelle appropriazioni da parte del cristianesimo e solo in parte dall’islam, c’è tutta la sostanza del rapporto in cui stanno le morali che si pongono come universali e quelle che invece sono legate all’orizzonte del quotidiano. Se oggi parliamo di diritti dell’individuo e di diritti umani (vedi il capitolo più avanti) è perché alcune «rivelazioni» religiose – il Mahabharata tra le altre – sono riuscite a porre la testa al di fuori del confine tribale. Ma forse la parola più saggia sui dieci comandamenti l’ha espressa il grande Krzysztof Kiewslovski con i suoi dieci film sui comandamenti. Da polacco, da uomo di fede, ma di una fede molto «moderna», i suoi dieci comandamenti sono esplicati ed esemplarizzati in dieci episodi in cui vengono raccontati proprio dalle eccezioni agli stessi comandamenti. Come se il discorso di Kiewslovski fosse che non si può prescindere dalla vita quotidiana, dalla straordinaria elasticità che essa rappresenta anche di fronte a regole che sembrano immutabili. Come se dall’interno dell’orizzonte di un paese così cristiano come la Polonia (di allora) fosse possibile dire la verità di un’umanizzazione dei comandamenti che ha a che fare con quell’andare contro la «ripulsa dell’umano» tipica non solo della filosofia ma anche di tutte le teologie.
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DIECI
Tabù
1. Non uccidere né mangiare i delfini. 2. Non allevare capretti né mangiarne la carne. 3. Non indicare col dito le balene. 4. Non vendere la carne di tartaruga. 5. Non parlare il dialetto merina in certi luoghi precisi del mare. 6. Non gettare il carapace dei granchi a notte fonda. 7. Non ridere mentre si mangia del miele. 8. Non avere relazioni intime con i fratelli o le sorelle del sesso opposto. 9. Non mangiare pollo. 10. Non mangiare lovo [un pesce barbuto]. 11. Non addomesticare i lemuri. 12. Non lavare un cadavere dopo il calar del sole. 13. Non tagliare a pezzi animali vivi. 14. Non strapparsi i peli del viso (sul mento, non le sopracciglia). 15. Non mangiare il fegato delle razze. 16. Non abbattere alberi farafatse per farne una canoa. 17. Non portare vesti rosse e nere. 53
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18. Non allevare maiali e non mangiarne la carne. 19. Non assistere alle sepolture. [Rita Astuti, La moralité des conventions: tabu ancestraux à Madagascar, «Terrain», n. 48, La Morale, MSHED, 2007].
Rita Astuti, l’antropologa che riporta questa lista di tabù (faly) raccolti tra i Vezo, i nomadi del mare del Madagascar, spiega che i primi otto valgono per tutti, quelli dal 9 al 12 valgono solo per coloro che li hanno ereditati dai loro antenati, quelli dal 13 al 15 solo per le donne (l’ultimo, in particolare, per quelle incinte), il 16 vale solo per i mariti delle donne incinte, e gli ultimi due solo per coloro che sono posseduti dagli spiriti [ibid., pp. 102103]. La Astuti ha cercato di capire che tipo di proibizioni siano queste e soprattutto come vengano motivate dai Vezo. Questi rispondono che in realtà non lo sanno e che loro ne farebbero volentieri a meno non fosse per gli antenati, considerati come la sorgente di tutto, da cui hanno ereditato questi tabù e che si offenderebbero nel non vederli rispettati. Malgrado ci siano modi e rituali per sottrarsi a questo o a quel tabù, questi sono complicati e a volte costosi. E poi, nonostante l’assurdità riconosciuta di alcuni di essi, i Vezo non si possono lamentare perché, dicono, ne hanno sempre meno dei loro vicini, gli Antandroy. Alle donne degli Antandroy dicono che viene ad esempio proibito di lamentarsi e di urlare durante il parto, perché gli antenati non vogliono. Le partorienti dei Vezo, invece, molto più fortunate delle vicine, possono gridare come meglio credono. Nella vita quotidiana dei Vezo questi tabù non hanno un’utilità evidente, né sono chiare le ragioni per cui gli antenati li hanno stabiliti. Eppure essi vengono rispettati, pur lamentandosene. Consapevoli dell’assoluta arbitrarietà di 54
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questi interdetti, i Vezo rispondono che i tabù sono ciò che distingue gli esseri umani dagli animali. I tabù rendono gli umani capaci di essere agenti morali, li rendono capaci di non fare certe cose, capaci di limitarsi, di darsi delle regole. Se così non fosse, la tribù non avrebbe nulla che li distingua da un’accozzaglia generica di persone. Anche questa, che razza di morale è? Non è una morale della violenza, come per gli Ilongot, ma è una morale dell’arbitrarietà, una morale senza motivo, una morale di «capricci», quelli degli antenati da cui discendono: I faly permettono ai desideri e alle intenzioni degli antenati di dar forma alla vita presente dei loro discendenti, quale che sia il carattere irragionevole, arbitrario, difficile e, per definizione, sorpassato delle loro volontà [ibid., p. 110].
E forse sta proprio qui la ragione dell’assunzione di proibizioni apparentemente arbitrarie; anzi, più le regole sono arbitrarie e più esse spiegano il passo «gratuito» con cui un gruppo umano si dà la coerenza e certe norme, il seguire certe pratiche. Come se i tabù fossero dei semplici attivatori di una capacità di essere conformi, di avere una morale quotidiana, come se essi fossero la piattaforma su cui poi la comunità può costruire le proprie responsabilità collettive e il proprio legame di gruppo. Le regole non sono importanti per il loro contenuto (i faly, in sé, non sono considerati intrinsecamente buoni o cattivi), ma per il loro valore «propedeutico». Nella lista che rileggiamo con stupore e divertimento c’è una specie di «esercizio», di prova, di ginnastica, di artificio, la sperimentazione di un saper fare comune che si radica in un «non fare» comune. Appunto, di una moralità delle convenzioni. 55
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UNDICI
Cambia, todo cambia
Cambia lo superficial cambia también lo profundo cambia el modo de pensar cambia todo en este mundo. Mercedes Sosa, Todo cambia
I capitoli che seguono ribaltano in qualche modo le impressioni che le molteplici storie di morali di tutti i giorni ci hanno offerto. Tra i Vezo, tra gli Ilongot, o nell’apparente continuità senza increspature della quotidianità di una comunità, possono inserirsi e irrompere delle fratture, dei ribaltamenti totali. La vita quotidiana può saltare in aria da un momento all’altro quando il sostrato di regole che la struttura si incrina. Non possiamo dare per scontato che sul piano della vita quotidiana le cose tendenzialmente si «arrangino» sempre. In realtà sappiamo che a volte si arrangiano come braci coperte: lo dicono i tanti casi «balca56
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nici» nel mondo dove le differenze degli stili locali diventano per alcuni le scuse dell’odio più feroce. Tutto sembrava tranquillo, fino a quando non è esploso tutto. E la questione è appunto chiedersi cosa accade quando due sistemi di vita quotidiana si incontrano, o quando all’interno di uno stesso sistema si confrontano storie individuali e regole collettive, o ancora quando nei sistemi locali si inseriscono leggi e regole di una dimensione più globalizzata. Il suffisso -alem del latino universalem, dice wikipedia, indica qualcosa «che appartiene», che «è in comune agli esseri di un insieme omogeneo al quale insieme ci riferiamo». Qui sta il punto critico, ovvero nel momento in cui insiemi di vita quotidiana diversi si intrecciano. Perché anche le vite quotidiane hanno i loro bei «sostrati» di regole e codici culturali non sempre facili da condividere (se si è viaggiatori è un conto, ma se ci si deve integrare per lungo tempo o per sempre in un sostrato estraneo sono ben altri dolori). Se c’è una morale di tutti i giorni, questa deve potersi dispiegare – pur se forse con modalità distinte – tanto dentro il sistema cui apparteniamo (il nostro universo) quanto tra sistemi diversi. Ma come? Quali sono in realtà, sul piano della vita di tutti i giorni, i momenti di articolazione tra sistemi diversi? I casi che seguono fanno parte tutti di questa costellazione difficile e complicata del cambiamento. «Cambia, todo cambia» cantava Mercedes Sosa molti anni fa, e alcune società sono più attrezzate di altre ad accettare il cambiamento, alcune strutture del quotidiano ci riescono meglio di altre. Nell’infrangersi con un’altra cultura, o con il resto del mondo, con una dimensione sovra-locale, nascono quelle regole che a volte chiamiamo leggi e diritti, e in particolare quelle che hanno pretese universali e che vogliono esulare dai singoli contesti. È nell’articolazione tra la morale di tutti i giorni e una morale che pretende di essere 57
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universale che sta il futuro della tolleranza, intesa nel doppio senso di tolleranza tra culture, ma anche di tolleranza nei confronti di una cultura specifica perché non venga schiacciata dalle pretese universali e non costringa i suoi membri a prendere per «morale superiore» qualcosa che è invece solo una «morale di tutti i giorni». Nei capitoli che seguono vedremo vari casi di trasformazioni, in positivo e in negativo, di sistemi di morali quotidiane. Alcuni raccontano storie di «successo», di adeguamento e di capacità di trasformazione di una data società che riesce a «mettere a giorno» la propria morale quotidiana per rispondere ai cambiamenti del mondo, quello più prossimo e quello più remoto. Ma ci saranno anche casi in cui questo non avviene e la società perde la sua consistenza, la sua capacità di essere orizzonte quotidiano di riferimento. E poi altri casi di conflitto tra destini individuali e destini collettivi. È rilevante che questa casistica comprenda sia i piccoli gruppi, le tribù, quelle che l’antropologia chiamava una volta società semplici (o società fredde), sia intere culture, interi paesi e nazioni, quelle che venivano chiamate società complesse, appunto perché la morale di tutti i giorni può abbracciare convivenze sia di centinaia, sia di milioni di persone. È come se ci fosse una tendenza «naturale» dell’umanità a costituirsi intorno a sistemi di regole quotidiane che ne compongono il tessuto minuto – che ne sostanziano il senso della realtà come qualcosa di specifico nel qui e ora. La materia è ostica, ce ne rendiamo conto, e ci costringe a fare il surf su piani diversi. Per questo i capitoli che seguono sono sotto il segno di un’altra canzone, questa volta brasiliana: «Lágrimas, tormentos, quantas desilusões», come cantava qualche anno fa Marisa Monte riprendendo un magnifico choro di favela. 58
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DODICI
Lágrimas, tormentos
Lágrimas, tormentos Quantas desilusões Foram tantos sofrimentos e decepções Mas um dia o destino a tudo modificou. Marisa Monte, Lágrimas e tormentos
a. Il caso di Nadia Nell’ottobre del 1997, Nadia, una ragazza norvegese figlia di genitori marocchini trasferitisi in Norvegia quando avevano venti anni e poi naturalizzatesi norvegesi, occupò la prima pagina dei giornali per essere stata rapita dai genitori, privata dei documenti, e portata contro la sua volontà in Marocco per sposarsi con un uomo marocchino scelto da loro. Nadia, che aveva a quel tempo diciotto anni e quindi era maggiorenne per la legge norvegese, sparì improvvisa59
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mente dal negozio in cui era impiegata. Fu lei stessa a chiamare i colleghi e ad avvertirli di quanto le era accaduto. I colleghi informarono il padrone del negozio, che a sua volta avvertì la polizia, che contattò il ministero degli Affari Esteri. L’ambasciatore norvegese in Marocco fu incaricato di negoziare il rilascio della ragazza. Le trattative furono intense e difficili per la diversa maniera di intendere la cittadinanza nei due paesi: per il Marocco Nadia non era maggiorenne (lì lo si è a venti anni) ed era marocchina perché sotto la tutela di genitori marocchini (se si nasce marocchini, lo si è tutta la vita). Il padre della ragazza dapprima promise di ridare la libertà alla ragazza, poi ritrattò, e infine dopo tre settimane le pagò lui stesso il biglietto d’aereo per Oslo. La famiglia di Nadia godeva di un sussidio statale e di un appartamento pagato in buona parte dall’assistenza pubblica, e il padre di Nadia temeva di perdere tutto ciò in seguito alle accuse che gli venivano rivolte. Al ritorno in patria Nadia negò tutto ciò che aveva affermato nelle telefonate ai colleghi. Disse che era partita per il Marocco di sua volontà, senza nessuna costrizione, perché la nonna cui era legata stava male. I genitori dissero che stavano preparando una denuncia per diffamazione contro le autorità statali e i giornali e che intendevano chiedere un risarcimento. Ma nel frattempo il caso legale era andato avanti e un anno dopo i genitori di Nadia vennero convocati per un processo intentato contro di loro dallo Stato norvegese per «aver trattenuto la figlia» contro il suo volere. A questo punto lo Stato norvegese chiese la consulenza di un’antropologa, Unni Wikan, molto nota in Norvegia per aver lavorato lungamente in paesi islamici come l’Egitto, l’Oman, l’Indonesia, che seguì il processo ed ebbe modo di parlare con i principali protagonisti [Unni Wikan, 60
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Citizenship on Trial: Nadia’s case, «Dedalus», The End of Tolerance: engaging cultural differences, vol. 129, n. 4, 2000]. Durante il processo i genitori riaffermarono che Nadia aveva mentito e che era andata con loro spontaneamente per far visita alla nonna. Ammisero che c’erano stati problemi con la figlia, ma dovuti alle sue cattive compagnie e influenze (che, sostenevano, l’avevano portata a bere, a fumare e a rientrare tardi la sera) e dichiararono di aver agito solo per il bene della figlia. Non avrebbero forse fatto lo stesso dei genitori norvegesi? Raccontarono a porte chiuse di aver portato la figlia da un guaritore marocchino per liberarla anche dalla cattiva influenza dei djinn, degli spiriti maligni. Ma loro comunque erano genitori moderni, integrati in Norvegia e in più appartenenti a una ricca stirpe marocchina. Nadia fece la sua apparizione dopo la deposizione dei genitori, coprendosi il viso con un panno per la pesante responsabilità di aver portato la madre e il padre in tribunale. Qui però, in piedi, fragile ma molto decisa, riprese le sue affermazioni originarie, dicendo di averle ritirate solo per paura delle conseguenze sulla sua famiglia. Ma adesso un’altra paura l’attanagliava in maniera ancora più forte, che i genitori la riportassero via e che potessero fare qualcosa di simile alla sorella minore. Di sé parlò come di una persona che aveva combattuto per essere ciò che sentiva di essere, una normale ragazza norvegese, e per questo rifiutava il matrimonio con un giovane marocchino che secondo lei – anche se non ne aveva le prove – era stato pianificato dai genitori. Raccontò che, pochi mesi prima dei fatti, aveva contattato i servizi sociali per denunciare gli abusi del padre, che la picchiava perché lei si truccava, andava a ballare, aveva un ragazzo – pakistano – e lavorava come commessa. I servizi sociali le ave61
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vano offerto protezione fino al compimento dei diciotto anni, ma poi l’avevano costretta a rientrare in famiglia contro la sua volontà. Dopo numerose altre testimonianze (il nonno disse di aver pensato che la Norvegia fosse una democrazia «dove la giustizia viene prima della legge», ma di essersi sbagliato dato che si credeva più alla parola di una ragazzina che a quella della sua famiglia), la corte, pur non riconoscendo il reato di forzato matrimonio, considerò i genitori colpevoli di aver costretto qualcuno ad atti contrari alla propria volontà e li condannò con la condizionale (nel tentativo di mantenere aperta la possibilità di una riconciliazione familiare), obbligandoli a pagare una pena pecuniaria. La Wikan ebbe un ruolo nel convincere la corte a far sì che la pena fosse la più lieve possibile, dato il significato che la prigione avrebbe avuto sul piano della rottura dei legami di parentela e della reazione da parte della comunità marocchina e islamica norvegese. Senza tuttavia rinunciare a stabilire un precedente rispetto all’importanza del crimine commesso. Il verdetto fu centrato intorno alle questioni della cittadinanza, mostrando la complessità della posta in gioco. Avendo deciso di chiedere la cittadinanza norvegese per se stessi e per i figli, i genitori ne avevano implicitamente accettato diritti e doveri, se non sul piano emotivo quanto meno su quello giuridico. Per un cittadino norvegese non è quindi possibile pensare che la legge marocchina possa essere applicata durante una visita nel proprio paese d’origine, come argomentato dalla difesa. Muhammad Bouras, la massima autorità islamica religiosa in Norvegia, dichiarò dopo la sentenza che si trattava di «un insulto a tutti i musulmani, un’offesa alla famiglia e una mancanza di rispetto nei confronti dei valori delle comunità musulmane cui viene invece richiesto di rispettare 62
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le leggi norvegesi» [Unni Wikan, Generous Betrayal, Politics of Culture in the New Europe, Chicago University Press, 2002, p. 192]. Dopo il processo Nadia è andata a vivere da sola, in un luogo segreto per proteggerla da possibili ritorsioni e dalle minacce espresse dalla sua comunità. E fino a oggi ha mantenuto un’assoluta riservatezza sul suo caso e su di sé, rifiutando di rilasciare interviste e di essere fotografata. Unni Wikan ha continuato, come antropologa, a occuparsi di casi come questo e per tale motivo è stata accusata spesso di essere una reazionaria che difende lo Stato contro le regole tradizionali e profonde delle comunità, come racconta nel libro citato in cui raccoglie le sue esperienze negli ultimi anni. In quanto antropologa dovrebbe, dicono i suoi detrattori, schierarsi dalla parte delle «differenze» etniche. Lei trova invece che: Il caso di Nadia pone alcune questioni di fondo. Quali sono i limiti della tolleranza culturale? Come facciamo a equilibrare il rispetto per i diritti umani con le differenze culturali? E come facciamo a dare forza alla legge nel caso di violazioni, pur commesse con le migliori intenzioni, in maniera tale da proteggere un minore da possibili danni?
E continua: Il caso di Nadia contiene una lezione morale, per come la vedo io: i diritti umani devono avere la precedenza su ciò che può essere definito, in mancanza di termini più appropriati, diritti culturali. I diritti umani si basano su un concetto morale dell’individuo, per difenderlo dallo Stato, dalla famiglia, dalle Chiese e dalle religioni, o da altri poteri di controllo. E si applicano su chiunque faccia parte di una democrazia. Non possono 63
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esserci distinzioni sulla base dell’etnia, della religione o di altri fattori. È una questione di eguaglianza e di diritto a uscire dal proprio gruppo, come ha scelto Nadia o altre come lei. Le implicazioni politiche sono le seguenti: le società pluralistiche richiedono un contratto sociale che protegga i diritti di tutti coloro che ne fanno parte. Uno Stato forte, non uno debole, è la migliore garanzia per i diritti umani [ibid., p. 73].
Se c’è una riflessione da fare, a partire dal caso di Nadia e dalle osservazioni della Wikan, è che il problema si pone proprio perché non si può dare a un codice culturale, a un’etica «ordinaria», il valore di una morale «universale». Siamo di fronte a due piani completamente diversi. Un conto è attenersi a una serie di norme che permettono la conformità, il convivere nello stesso posto, ma che hanno più il carattere di criteri di «buone maniere», di «maniere giuste», e un conto è pensare che questi criteri siano applicabili come una morale al di sopra delle contingenze e del loro aspetto continuamente negoziabile. Ovviamente dal punto di vista di un certo discorso musulmano, etica ordinaria e morale si intrecciano e questo è di fatto il punto di attrito radicale rispetto all’idea dei diritti umani che l’Occidente ha sviluppato (è quanto sostiene anche il governo cinese ogni volta che lo si critica per il non rispetto dei diritti umani). Ma anche in campo islamico le posizioni non sono unanimi, come ricorda Mohamed Charfi nel suo Islam and Liberty [Zed Books, 2005]. Cos’è una conformità? È la costruzione quotidiana di un cum che permetta un vivere insieme. Nell’idea di conformismo noi ritroviamo già un giudizio negativo, come se soltanto l’individuo isolato fosse concepibile. Ma l’individuo isolato è un’astrazione utilissima per la sfera dei diritti umani e per quella della legge, ma non lo è se si 64
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vuole capire davvero come fanno le persone, i gruppi umani insediati, le comunità, le popolazioni a restare insieme senza massacrarsi e senza dividersi. La conformità è la capacità quasi danzante di porre il proprio corpo accanto ai corpi altrui senza urtarli o danzando con essi. È un’arte di vivere, la maniera giusta per questa situazione ben precisa e questo momento ben preciso, che domani saranno diversi. Conformarsi significa essere capaci di andare oltre l’irrigidimento delle forme: «con-formarsi» è non solo formarsi cum, insieme, ma è anche dare alle forme un aspetto che non sia solo individuale. Le forme del quotidiano, le forme di vita di Wittgenstein, non sono veramente norme e non sono veramente regole, sono norme e regole che debbono continuamente conformarsi tra loro, pena l’irrigidimento della società, il suo trasformare la cultura, la cultura quotidiana, in una camicia di forza. Accade che certi individui che fanno parte di una cultura con forti consuetudini si rendano conto, a volte, che se c’è un modo buono di stare al mondo è quello di non rimanere invischiati nell’aspetto morale delle proprie regole. Questa considerazione, però, implica già uno sguardo leggermente distante. Chi ne è dotato sente anche di appartenere, ma non fino in fondo, al contesto, alla conformità, alle regole del gruppo di cui fa parte. E vive la propria leggera o forte estraneità al gruppo come una libertà e una sofferenza al tempo stesso. Quello che era il godibile essere parte di qualcosa diventa il rendersi conto dell’assurdità delle regole quotidiane date dalla maggioranza, dalla maggioranza «silenziosa», come scontate. Si diventa come il personaggio di un dramma di Pirandello o di Jonesco. E «uno, nessuno, centomila» è la frizione strana e dolorosa di non riuscire a essere come tutti gli altri, che invece prendono la morale di tutti i giorni come qualcosa di immuta65
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bile, come una «vera» morale. I problemi nascono qui. Le regole che si dà una comunità sono da rispettare fin quando esse consentono agli individui e al gruppo di affrontare le circostanze in cui si trovano a vivere. Ma le circostanze cambiano e individui e collettività spesso non possono far altro che cambiare i propri criteri e le proprie regole. Personaggi come Nadia si trovano schiacciati tra un codice culturale, proprio di una comunità, e una situazione sociale esterna a essa dove questo codice ha poco senso. Nadia è norvegese e per esserlo a tutti gli effetti deve «perdere» la protezione della cultura da cui proviene. Se non la perde, allora è costretta a essere rinchiusa dentro un orizzonte che ormai le corrisponde solo in parte. Una deriva essenzialista di cui sono responsabili anche gli antropologi e la cosiddetta «antropologia critica» è quella di scambiare le culture per sistemi morali, come li intendiamo noi nella nostra società, sistemi di responsabilità e colpa, di diritti e doveri. Questa idea della morale, come ci ha raccontato la Jacobson-Widding, ha ben poco a che fare con le regole su cui si compatta un gruppo umano. Se così non fosse, bisognerebbe accettare che qualcuno vada in carcere e sia punito perché scoreggia in pubblico o perché indica le balene col dito. Se vogliamo liberarci da questi equivoci, è essenziale che noi si distingua tra la forma di morale elaborata dalle democrazie e dalla tradizione della legge, e soprattutto dei diritti umani, e le forme culturali dello stare insieme. Per poterlo fare occorre che all’interno delle nostre stesse culture si distinguano i vari piani. Ma le cose non sono così semplici. È vero che è difficile sostenere, ad esempio nel caso delle regole di casta legate all’induismo, che esse non siano vincolanti quasi quanto una legge. E molto spesso le «conformità», le morali di tutti i giorni, hanno un aspetto 66
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piuttosto vincolante. Sono quello che Bourdieu chiama «habitus». Ed è lui a metterci in guardia rispetto all’idea che gli «habitus» siano solo ciò che la gente fa – essi sono anche la matrice del futuro, della continuità: I condizionamenti associati a una classe particolare di condizioni di esistenza producono degli «habitus», sistemi di disposizioni durevoli e trasponibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè principi generatori e organizzatori delle pratiche e delle rappresentazioni che possono essere oggettivamente adattati al loro fine senza supporre la mira cosciente dei fini e la capacità espressa delle operazioni necessarie per raggiungere quei fini, essendo oggettivamente «regolate» e «regolari» senza essere in nulla il prodotto di obbedienza a delle regole e, essendo tutto questo, collettivamente orchestrato senza essere il prodotto dell’azione organizzatrice di un direttore d’orchestra [Pierre Bourdieu, Le Sens pratique, Editions de Minuit, 1980, p. 190].
E continua: […] l’«habitus» […] assicura la presenza attiva delle esperienze passate che, depositate in ciascun organismo sotto forma di schemi di percezione, di pensiero e di azione, tendono, con più sicurezza di tutte le regole formali e di tutte le norme esplicite, a garantire la conformità delle pratiche e la loro costanza attraverso il tempo. Passato che sopravvive nell’attuale e che tende a perpetuarsi nell’avvenire, attualizzandosi in pratiche strutturate secondo i suoi principi, legge interiore attraverso la quale si esercita continuamente la legge delle necessità esterne irriducibili alle circostanze immediate [ibid., p. 91].
È probabile che nello scrivere queste considerazioni 67
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Bourdieu pensasse al lavoro sul campo che aveva svolto per anni in Algeria, al concetto patriarcale di onore che sembrava sospeso tra un passato fortissimo e l’avvento di una società diversa in cui lo stesso concetto di onore non era più praticabile. Per lui, ma anche per Unni Wikan, che ne ha studiato le sfaccettature nel mondo cairota e in quello omanita, l’onore è una matrice dei comportamenti, è quello che vogliamo che gli altri pensino di noi ed è un motivo talmente forte da spingere uomini e donne a una coerenza «spinta» e l’intera società a un controllo delle vite di ciascuno. Ma è anche vero che un concetto di onore che per gli uomini può corrispondere al controllo delle proprie donne e per le donne al prestigio – la Wikan [Shame and honour: a contestable pair, «Man», vol. XIX, n. 4, 1984, pp. 640-652] racconta la storia di una donna adultera in Oman che nessuno osa rimproverare perché il marito è un taccagno e per lei avere amanti è l’unico modo di provvedere a una ricca ospitalità per amici e parenti – è un tessuto talmente fitto che spesso ci si astiene dall’accusare altri di disonore per paura che questo ricada sull’accusatore. L’onore è il riconoscere nell’immagine che gli altri intorno a noi hanno di noi uno specchio cui conformarci, ma è anche qualcosa di più profondo, è il voler essere all’altezza di altri che «hanno dato l’esempio», che hanno vissuto degnamente, che sono stati prima di noi capaci di vivere meglio di noi.
b. Il caso degli Urapmin: tutti peccatori Il Natale del 1991 è stato un Natale particolarmente duro per gli Urapmin, un piccolo gruppo indigeno di circa quattrocento persone di una remota località all’interno di 68
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Papua Nuova Guinea, nella regione occidentale del fiume Sepik. È stato un Hevi Krismas, perché nel loro insieme gli Urapmin sentivano che in quei giorni che dovevano essere solenni la coesione della comunità (divisa in due gruppi: quelli che abitano «in alto» e quelli che abitano «in basso») si stava progressivamente e inesorabilmente sfaldando. Le dispute erano tali da spingere i capi religiosi dei due gruppi a rinunciare a ogni tentativo di fare celebrazioni e rituali comuni, come negli anni precedenti. E la loro incapacità a oltrepassare le difficoltà per celebrare come si deve il Natale lasciò pieni di vergogna molti Urapmin, fino a spingerne alcuni a pensare di festeggiarlo in altre comunità. Cosa inimmaginabile prima di allora. Cosa era accaduto? Nel corso dell’anno una compagnia mineraria multinazionale, la Kennecott, aveva cominciato a fare delle prospezioni in terreni appartenenti ad alcuni membri del gruppo «in alto». Per fare i lavori aveva assunto parte di questi e ne aveva pagati altri in prospettiva di uno sfruttamento minerario. Mai gli Urapmin avevano avuto la possibilità di un lavoro pagato così bene, e la cosa aveva evidentemente reso scontenti quelli «in basso», che ne erano rimasti in gran parte esclusi. Lo squilibrio nella distribuzione dei benefici aveva creato tali invidie e sentimenti di rabbia tra i due gruppi da portare a dispute, via via sempre più frequenti, ogni volta che un motivo qualunque gliene forniva l’occasione. A tal punto da far sentire l’intera comunità di fronte al proprio imminente collasso, presa in un insostenibile sentimento di fallimento morale e di autoriprovazione (hevi, nella terminologia cristiana degli Urapmin identifica proprio quei problemi che spingono nel peccato). A tutto ciò si aggiungeva un altro elemento di incertezza per il futuro, perché durante l’anno trascorso non si era celebrato nemmeno un matrimonio, 69
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cosa che per un gruppo di quattrocento persone era un segno evidente di crisi. Nel tentativo di uscire da questa drammatica situazione, gli Urapmin investirono del problema il Kaunsil, la persona che all’interno della comunità è eletta con il compito, tra altri, di risolvere le dispute interne. Il Kaunsil propose un piano che seguiva il metodo tradizionale, ancora in uso, di risoluzione delle dispute tra individui, quello dello scambio equivalente di beni, trasponendolo però questa volta sul piano collettivo, rappresentato dai due gruppi in conflitto. Ognuno dei membri dei due gruppi doveva trovare qualcuno nell’altro, indipendentemente dal fatto di essere in disputa con lui o meno, al quale «comperare la vergogna», o «comperare la rabbia», portando qualcosa da dare in cambio. Una volta che ognuna delle parti aveva ricevuto i doni adeguati, la disputa si poteva considerare risolta e le relazioni avrebbero potuto riprendere il loro corso normale. La storia di questo «pesante Natale» ci è raccontata da Joel Robbins in un magnifico libro dedicato agli Urapmin e alla loro maniera di fare i conti con i cambiamenti culturali che li hanno investiti – a partire dagli anni Sessanta – e con i conflitti morali che si portano dietro [Joel Robbins, Becoming Sinners: Christianity and Moral Torment in a Papua New Guinea Society, University of California Press, 2004]. La cosmologia tradizionale degli Urapmin, infatti, è divisa tra la celebrazione della «volontà» (e delle azioni che scaturiscono dallo spirito di iniziativa individuale) come valore, perché capace di creare nuove relazioni sociali, e il rispetto della «legge» (che a diversi livelli definisce l’ambito delle libertà umane), concepita come un impegno a rispettare le «legittime aspettative» presenti nelle relazioni che già esistono. Insomma, un dover limitare i desideri individuali per occuparsi della solidità del gruppo e 70
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del suo futuro. Con il rischio costante, data la complessità del sistema, di «derapare» e diventare così «cattive persone», scatenando dispute per non aver condiviso il cibo, per non aver contribuito al lavoro nei campi, per non aver fatto un dono etc. Da qui l’importanza del ruolo del big man, considerato come colui che ha «l’arte di dispiegare la volontà in modi che sono socialmente produttivi» [ibid., p. 197]. Perché la vita sociale degli Urapmin si crea proprio in questa tensione costante che esiste tra volontà e legalità. Le relazioni e i gruppi sociali (matrimoni, accordi commerciali, villaggi, caccia, coltivazione degli orti, sport etc.) non sono strutturati a partire da un sistema di regole prescrittive, ma devono essere creati dalle azioni individuali. Ad esempio, sono le donne a scegliere il marito che vogliono e lo fanno con una «chiamata» che è un preciso atto di volontà individuale. Gli uomini possono rifiutarsi, ma un uomo che rifiuta o che non è «chiamato» da una donna rimane scapolo. Una simile società è oggetto di «tormenti» continui, perché continuamente combattuta tra le ambizioni individuali e il bisogno di mantenere insieme il gruppo. Per quanto non abbiano mai incontrato direttamente i missionari (alcuni di loro però furono inviati a studiare dai missionari in altri villaggi, anche come tentativo di ritrovare una centralità all’interno del sistema religioso della regione), verso la fine degli anni Settanta gli Urapmin abbandonarono la religione tradizionale e adottarono il cristianesimo. È stata la cosmologia cristiana millenaristica, che vede nei desideri la sorgente di buona parte dei mali, ad averli in un certo senso convinti. Come fare a mantenere la coesione del gruppo e nello stesso tempo a «inquadrare» i desideri di possesso aumentati dal contatto con la globalizzazione? La soluzione trovata è stata quella di definire questi ultimi come facenti parte della sfera dei «peccati» e se 71
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stessi come inguaribili peccatori. Questo era anche il modo in cui gli Urapmin parlavano a proposito della crisi del loro hevi krismas, mentre dall’esterno, per l’antropologo, essa appariva con chiarezza legata alla loro difficoltà di gestire la presenza della compagnia mineraria sul loro territorio. Letta in questo modo [la vicenda], la Kennecott diventa una metonimia per tutte le forze di cambiamento esterne che gli Urapmin hanno sperimentato nei quattro decenni passati, e lo scoraggiamento legato al pesante Natale corrisponde al cristianesimo moralmente esigente che forma così tante delle strutture nelle quali conducono le loro vite [ibid., XXIV].
È la dimensione morale, infatti, a rendere manifeste le contraddizioni esistenti tra queste due logiche, quella tradizionale e quelle cristiana, che allo stesso tempo strutturano la vita sociale degli Urapmin. Come spiega bene Robbins, «ogni volta che onorano il sistema indigeno, [gli Urapmin] inficiano la controparte cristiana come un’evidenza della loro propensione al peccato» [ibid., XXVI]. Con l’adozione del cristianesimo, essi di fatto scelgono di costruire se stessi in quanto soggetti morali, all’interno del sistema morale cristiano, che condanna la volontà, mentre allo stesso tempo essi continuano a vivere in un mondo che gli chiede di creare la loro vita sociale attraverso un atto di volontà. Questa contraddizione è, assieme alla perdita dei tabù, un’altra importante fonte della loro concezione di se stessi in quanto peccatori [ibid., pp. 225-226].
I cambiamenti culturali degli ultimi decenni, compreso l’arrivo della Kennecott, hanno così posto gli Urapmin in questa situazione carica di contraddizioni, come «in mezzo 72
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al guado», e piena di cambiamenti non completamente realizzati, ed è proprio questa indeterminatezza a fare dell’immaginazione del futuro, di un futuro potenzialmente perfetto, qualcosa di fondamentale per gli Urapmin per tentare di fare ordine tra l’eterogeneità dei «materiali culturali» che caratterizza il loro presente. Era questo progetto collettivo di immaginare un futuro che la Kennecott mandava a gambe all’aria. E proprio perché il processo di immaginare il futuro era così importante per gli Urapmin, quando la Kennecott lo sconvolse le perturbazioni furono diffuse [ibid., XXV].
Per la cronaca, il piano del Kaunsil per uscire dalla crisi ebbe un grande successo, lo scambio di beni produsse gli effetti sperati, la situazione si risolse e finalmente gli Urapmin poterono celebrare il rituale – cui tengono particolarmente – dello Spirit Disko, dove le donne e gli uomini si scatenano al buio in balli frenetici al canto delle canzoni cristiane, fin quando spossati e posseduti dallo spirito cadono a terra, ma liberi «dal peccato». Così il Natale successivo non fu più hevi, e gli Urapmin hanno potuto sperare in un futuro che li veda ancora uniti, perché il loro tormento è come conciliare le spinte anarchiche di ciascuno con il bisogno di continuare a stare insieme nonostante tutto. Se da un lato la loro storia illustra come la morale di tutti i giorni possa essere «ripristinata» collettivamente di fronte a una grave minaccia per l’intera comunità, dall’altro essa mostra come una società con una cosmologia forte possa, di fronte a radicali trasformazioni, re-interpretare se stessa adottandone un’altra. È un processo doloroso, difficile e praticato a tentoni, ma dice delle culture aborigene 73
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proprio il contrario di quello che si pensa, e cioè che siano culture «congelate» in una precisa configurazione e «fuori dal mondo».
c. Quando le cose vanno male Ma non sempre le cose vanno per il verso giusto. Può accadere che grandi cambiamenti epocali trovino individui e collettività a un bivio in cui è facile restare schiacciati. Fuor di metafora, si può restare impigliati nelle trasformazioni della storia intorno a sé e posti di fronte a scelte non scelte, a situazioni di doppio vincolo, dove non si arriva a sostituire la vecchia identità, che si dava delle regole sicure, con una nuova e individui e collettività rimangono sospesi in un vuoto che è un vuoto di significato, e quindi una grossa sorgente di sofferenza. Non sempre gli indigeni della Nuova Guinea sono stati così abili a smettere una cosmologia e ad assumerne un’altra. Il caso paradigmatico è quello del villaggio di Ilahita, una comunità di Arapesh di duemila abitanti. Gli Arapesh condividevano un cosmologia che dava molto risalto al potere maschile – un potere la cui fonte andava nascosta alle donne e agli infanti – e che si sostanziava proprio del segreto per perpetuarsi. Come in altre culture tribali in Papua (e altrove, come abbiamo visto nei capitoli precedenti), la moralità era gender specific, cioè si costituiva proprio intorno alle distinzioni di genere. La vita quotidiana veniva scandita dalle differenze tra uomini e donne, gli spazi del villaggio erano divisi secondo due domini diversi e contrapposti. Gli uomini ritualizzavano la propria separazione e ne facevano la base per un’ideologia fondamentalmente guerriera, fatta di bravate, di iniziazioni 74
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al coraggio e a volte di vera e propria violenza. Le donne erano tenute al di fuori delle società maschili, che si incarnavano in una «casa degli uomini» e si esprimevano in rituali di iniziazione in cui gli adolescenti maschi venivano sottratti alle madri per diventare uomini. A queste pratiche rituali se ne contrapponevano altre, altrettanto ricche e segrete, quelle femminili, come documentato da un bellissimo libro a cura di Nancy C. Lutkehaus e Paul Roscoe, Gender Rituals, Female Initiation in Melanesia [Routledge, 1995]. Gli Arapesh maschi avevano mantenuto per generazioni il «segreto» sull’origine del proprio potere – origine soprannaturale e legata a un contatto diretto con un essere superiore denominato, insieme alla sfera rituale che gli competeva, Tambaran. Il rituale comportava un ampio illusionismo di storie, musiche, flauti, trombe, fischi, gong e rombi suonanti, tutti oggetti considerati sacri e segreti, ed era legato a feste sacrificali con meccanismi di alleanze e ridistribuzione con i villaggi vicini. A seguito del contatto con i missionari e soprattutto a seguito della grande trasformazione della vita intorno (il potere non si otteneva più con prodezze guerriere verso altre tribù, ma con l’avvicinamento al potere dei bianchi), nel settembre del 1984 i maschi della tribù degli Arapesh decisero, in una specie di suicidio collettivo, di confessare pubblicamente a tutto il villaggio, alle donne e ai minori che tutto ciò era una farsa, che non c’era nessun segreto e nessun potere segreto che dava ai maschi una particolare forza. Annunciarono «la morte del padre», inteso come Tambaran, e il passaggio a una nuova situazione più prossima all’eguaglianza, come predicato dai missionari. Cosa avvenne? Donald Tuzin, che ha vissuto a lungo tra gli Arapesh, aveva visitato il villaggio prima e dopo l’«outing» del 75
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settembre 1984. Al suo ritorno trovò un villaggio decomposto, caduto in una depressione generale e incapace di trovare un senso collettivo nuovo. I ruoli erano stati frantumati, e con essi la coesione dell’intero gruppo e le motivazioni che spingevano uomini e donne a costruire alleanze interne ed esterne e a procacciare risorse interne ed esterne. La cosmologia «ingiusta» della mascolinità arapesh con il suo crollo aveva trascinato con sé l’intero villaggio. Tuzin scoprì che questa fragilità congenita che aveva portato alla morte della mascolinità arapesh era già implicita nella mitologia arapesh, che prevedeva una grande figura femminile impersonata da un uccello, la Casuaria, abbastanza pericoloso – con un becco tagliente. La Casuaria sarebbe un giorno tornata per ribaltare gli equilibri tra la sfera maschile e quella femminile del mondo arapesh. La storia della vendetta della Casuaria [Donald Tuzin, The Cassowary’s Revenge, The Life and Death of Masculinity in a New Guinea Society, Chicago University Press, 1997] la dice lunga sui pericoli dei cambiamenti e sul fatto che non sempre le comunità sono capaci di adattarvicisi.
d. La Cina che cambia Susanne Brandtstädter, antropologa e sinologa che da anni lavora in Cina, racconta come è stato vissuto dai contadini dello Shandong e del Fujian il passaggio dal maoismo al post-maoismo [Susanne Brandtstädter, «Fakes: Fraud, Value Anxiety and the Politics of Sincerity», in Karen Sykes (ed.), Ethnographies of Moral Reasoning: Living Paradoxes of a Global Age, Palgrave, 2008, pp. 139160]. Mao aveva costruito un’ideologia che attribuiva alla 76
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classe contadina, i nongmin, la capacità di «mangiare amaro e vivere una vita semplice». Questa capacità faceva dei contadini i campioni del suzhi, della qualità, nel senso che il modo di essere dei contadini era considerato quello «autentico», «sincero», contrapposto ai modi della gente di città, inficiati pericolosamente di tendenze controrivoluzionarie. I contadini erano per eccellenza la classe che raccontava la verità della storia e in qualche modo dovevano restare tali per smascherare ogni rigurgito reazionario. Lo standard morale era contrapporre la gente locale, legata alla terra, alla gente di fuori, quella non legata alla terra. Questa qualità morale era ereditaria in linea maschile e la si considerava come base della lotta di classe, costruita su momenti fortemente rituali come i suku, dove i contadini raccontavano la durezza della vita precedente la rivoluzione, i piping, le sedute di critica e autocritica, e le sessioni punitive, dove i nemici di classe, individuati volta per volta nei soggetti che resistevano alla rivoluzione, erano fatti inginocchiare su vetri rotti, con un cartello intorno al collo e dei cappelli a punta sulla testa. Mao, in qualche modo, aveva essenzializzato la qualità morale dei contadini. Questi erano gli eroi e i protagonisti della rivoluzione e dovevano restare contadini, attaccati alle loro terre collettivizzate. L’eroe per eccellenza era Lei Feng, un contadino stakanovista altruista e fedele alla rivoluzione. Il cambiamento radicale del post-maoismo, quello di una «economia di mercato socialista con caratteristiche cinesi», cioè di un «capitalismo socialista», ha completamente ribaltato i ruoli. Oggi suzhi, la qualità, l’autenticità, è diventata una parola che si accoppia alla qualità dei prodotti. Per capire cosa significhi, bisogna andare al mercato dei «falsi» di Shanghai, lo Xiangyang, dove su un enorme spiazzo fangoso vengono venduti tutti i brand come Prada, 77
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Versace e Dior, contraffatti ma a volte di una qualità invidiabile. I venditori sono per lo più contadini o ex contadini inurbati. Il suzhi li riguarda oggi come contraffattori, come coloro che pericolosamente attentano alla qualità dei prodotti e al nuovo verbo dello sviluppo della società cinese, il verbo del cittadino modello, quello che consuma prodotti di qualità. E quello che combatte i prodotti non autentici, una qualità morale del cittadino moderno, avanzato. L’eroe di questa nuova fase è stato Wang Hai, che divenne famoso negli anni Novanta del secolo scorso per comprare prodotti contraffatti e smascherarne i produttori, ricavandone un rimborso. In questo modo Wang Hai divenne ricco e famoso, tanto che fu mandato a ricevere come cittadino modello il presidente americano Clinton quando venne in visita in Cina, finché, pochi anni dopo, venne a sua volta denunciato per frode. Nel frattempo, lo statuto dei contadini si era rovesciato. Adesso essi costituivano la parte arretrata del paese, quella che non riusciva e non riesce a modernizzarsi. Oggi vengono identificati con la parte corrotta del paese, quella legata alle pratiche illegali dei piccoli funzionari e alla produzione di beni scadenti. Se i contadini si inurbano, rimangono però schiacciati tra il non appartenere più a un posto (oggi ci sono trecento milioni di persone in Cina che si sono allontanate dal loro posto natale) e il non essere comunque accettati come cittadini moderni. Sono quelli che «non hanno educazione», sono una sorgente di problemi, definiti con la stessa parola usata da Mao, nongmin wenti, «la questione contadina», trasformata oggi in «il problema contadino», quello di non essere «capaci di far soldi e capaci di spenderli». In più, bloccati come sono tra due identità impossibili, i contadini cominciano a ribellarsi e a essere scontenti, e sono dunque considerati sorgente di luan, caos. 78
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Cosa sta accadendo, dunque? Che ovviamente i contadini sono in una situazione di trasformazione totale, essendo caduta l’«essenzializzazione» maoista della loro identità. Peraltro, anche sotto il maoismo erano in molti a vivere la contraddizione morale tra quello che veniva tradizionalmente vissuto come l’essere una «brava persona», con una qualità relazionale, renqingwei, che rispetta le persone, i sentimenti altrui, e l’essere un «buon rivoluzionario», una qualità spesso brutale e vendicativa come in molti casi di contadini diventate guardie rosse. Oggi la contraddizione rimane intatta, perché i contadini si sentono di nuovo chiusi in uno stereotipo definito dallo Stato. L’unico modo di uscirne, racconta la Brandtstädter, è quello di riappropriarsi della «contadinità» come valore, rifiutando il vortice consumista, riannodando le relazioni di cooperazione, rinnovando la ritualità locale dei templi e degli spazi di riunione. È un po’ quello che sta accadendo nelle province studiate dall’autrice, dove è in atto una ridefinizione del suzhi, dell’autenticità, della qualità, sulla base questa volta di una difesa dalla corruzione della burocrazia, di una nuova richiesta di diritti dei contadini – molti espongono provocatoriamente nelle loro case i busti di Mao – e di una solidarietà locale. Qui siamo di fronte a un cambiamento epocale, in cui la conformità morale della vita quotidiana è stata ribaltata più di una volta. L’«autenticità» rivoluzionaria dei contadini è stata congelata dal maoismo, che ha trasformato in mito politico una forma di vita poi progressivamente lasciata cadere, provocando le crepe e le rotture di un’identità congelata che non ha avuto il tempo per ricostruirsi nella vita quotidiana, nella sua provvisorietà ed elasticità. Oggi è difficile sopravvivere a questo sconquasso ed è la Cina nel suo insieme a farsi domande sulla sua morale di tutti i giorni. Il 79
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caso di una bambina travolta da un’auto e ripresa da una telecamera pubblica, dell’assenza di soccorsi e poi del ritorno a marcia indietro della stessa auto, che le è ripassata sopra (l’autista aveva timore che se la bambina fosse rimasta viva avrebbe chiesto un indennizzo esoso), ha sconvolto l’opinione pubblica della Cina intera. Il dibattito si è trasferito sui social networks che si sono domandati: che razza di paese siamo divenuti se accadono fatti del genere? Dove è finita la compassione, la pietà, la morale in questa nuova Cina dello sviluppo e dell’arricchimento individuale?
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TREDICI
Altri tormenti: questa volta più familiari
Meno di dieci anni fa uno spettro percorreva l’Europa prima di dilagare nel mondo. La sua comparsa faceva emergere proteste e nuove forme di indignazione. Veniva citato come la chiara manifestazione di un imbarbarimento dei costumi, e in più come un segnale preoccupante rispetto a una trasformazione della psicologia collettiva. Sociologi di fama, linguisti, commentatori politici e studiosi del costume e della morale quotidiana additavano il telefonino come un segno chiaro di decadimento dei tempi. Le ferrovie francesi ne proibivano l’uso, se non in speciali compartimenti o addirittura in box di vetro costruiti all’uopo. Quelle italiane annunciavano che l’uso di tale strumento poteva nuocere alle persone vicine. I giovani apparivano come le vittime privilegiate dell’attacco di questo nuovo strumento alle regole della convivenza civile, mentre gli adulti si dividevano in quelli che sdegnosamente promettevano che non ne avrebbero mai fatto uso e quelli che a malincuore lo usavano, ma solo per cose assoluta81
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mente urgenti e per rassicurare la moglie, i figli, il marito lasciati a casa ad aspettare. Il telefonino spaventava per la sua terribile e subitanea diffusione coloro che vi leggevano un chiaro attentato alla «discrezione». Non era accettabile che uno dovesse sentire i fatti degli altri e soprattutto che dovesse sentirli come se lo concernessero. Alcuni nuovi utenti lo usavano tenendo una mano a coprire bocca e apparecchio, come per nasconderlo con vergogna allo sguardo altrui, e vi bisbigliavano dentro. Beccati dal controllore in treno, spesso si veniva multati o semplicemente rimproverati in pubblico per la mancanza di rispetto verso le regole civili. Inquietava in particolare il dilagare del suo uso lasciato all’anarchia più preoccupante di una totale mancanza di regole. Turbava la vista l’idea che qualcuno potesse parlare da solo, come un pazzo, per strada, gesticolando nel vuoto, e turbava l’idea che anche persone rispettabili, e altre meno, rispondessero allo squillo del telefonino mentre erano impegnate in pratiche pubbliche, conferenze di partito, meeting culturali, conferenze dotte. I più ironici vi facevano dello spirito, si inventavano delle battute che mettevano in luce la stupidità dell’oggetto e la stupidità derivante da chi lo usava non rendendosi conto della sua paradossalità. Son passati decenni, no, piuttosto solo pochi anni, e il telefonino è stato assorbito, e non perché ci si sia fatta l’abitudine, ma perché sono state le abitudini a dargli delle regole. Era così difficile capire che si poteva spegnere quando non serviva? Era così difficile pensare di eliminare la suoneria per non disturbare? E poi, perché il parlare al telefono a qualcuno distante doveva arrecare disturbo a qualcuno presente? Arrecava disturbo a un terzo il fatto che si stesse parlando con qualcuno in un compartimento di treno? Come si poteva condannare il normale gossip che la gente 82
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prima faceva di persona, faccia a faccia, e adesso fa attraverso un telefonino? Così, perfino le ferrovie francesi si sono adeguate e hanno capito che sì, in fin dei conti si era un po’ esagerato. La costanza e la diffusione dell’uso ha creato regole, criteri, un minimo comun denominatore di un nuovo galateo del parlare. Eppure, il turbamento arrecato da questa innovazione tecnologica (come spesso è accaduto in altri casi, per il treno e la sua nuova velocità: Gandhi era convinto che il treno avrebbe distrutto la morale dei villaggi indiani) era giustificato. Il telefono mobile ha inciso sulla soglia tra pubblico e privato, tra dentro e fuori, e ha cambiato il modo in cui interpretiamo i suoni – questo essere costantemente all’erta per cogliere i differenti appelli che essi annunciano – e anche il rapporto con la nostra voce in pubblico e con il suo tono. Come è accaduto altre volte per le grandi innovazioni tecnologiche, la gente vi costruisce intorno nuovi comportamenti, nuove situazioni di padronanza e di agio e nuove evitazioni. Il caso del telefonino racconta come la vita quotidiana si inghiotta l’innovazione, come la modelli, la plasmi a sua convenienza, e come la gente riesca a scrivere regole non scritte senza nemmeno rendersene conto. Certo, guidare mentre si scrive un SMS è ancora pericoloso, ma solo perché i produttori di telefonini sono indietro rispetto alla vita quotidiana. Quel che è certo è che nessuno si stupisce più se un bigliettaio dietro lo sportello della stazione, mentre attende che voi cerchiate se avete della moneta, intanto butti l’occhio sugli SMS che gli sono arrivati. Si può pensare che il telefono portatile o l’iPhone abbiano incrementato la nostra solitudine, ma conviene sempre rileggersi le pagine di Elias Canetti in cui osserva quanto dovesse sentirsi sola e ansiosa un’umanità senza telefono. Il telefono portatile ci ha liberato dalla schiavitù di dover tornare a casa per ri83
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cevere telefonate e ci ha dato la possibilità di tornare a essere persone en plein air, ha dato agli emigranti una casa virtuale dove possono essere raggiunti da chi è lontano e a coloro che arrivano tardi a un appuntamento la possibilità di avvertire. È stata una rivoluzione dei costumi, silenziosa, senza troppi drammi, tranne i tormenti dei sociologi, quelli convinti che solo i giovani viziati delle famiglie bene potessero servirsene, miopi di fronte a una trasformazione a livello mondiale per cui anche l’ultimo conducente di risciò nella periferia di Calcutta o l’ultimo pescatore del Kerala se ne serve per mantenere la sua rete di sopravvivenza. Rimane da vedere cosa questa trasformazione dei costumi significherà per il rapporto tra dimensione interiore e dimensione esteriore della vita quotidiana. Se il telefono ci ha liberato dal dover tornare a casa, lo ha fatto però in modo paradossale: mettendoci la casa in tasca, assieme all’ufficio e alla famiglia… Certo, sappiamo bene che il telefono si può spegnere, ma perché farlo? Una volta uscendo di casa restava attaccato al suo muro, dietro di noi; ora è con noi, e spegnerlo non ha molto senso. L’innovazione del telefonino sta nell’aver modificato la consistenza e la molteplicità di ambiti che fanno la nostra quotidianità, spesso riducendoli a uno (noi siamo – anche – il nostro telefonino, basti pensare a tutto ciò che contiene o fa) e illudendoci con il suo potere «infra-strutturante». Finché c’è «campo» e la batteria non si scarica.
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QUATTORDICI
Una questione di scala: ancora mente locale?
Il momento privato e quello pubblico non sono adiacenti tra loro come una camera da letto e un ambulatorio medico, ma sono intessuti l’uno nell’altro. Dove il fatto più privato ha luogo pubblicamente, anche le cose pubbliche sono decise privatamente, e comportano così una responsabilità fisica, politica, che è qualcosa di completamente diverso da quella metaforica e morale. La persona privata si assume la responsabilità degli atti pubblici, perché è sempre sul posto [Walter Benjamin, Critiche e recensioni, Einaudi, 1979].
Il problema dei diritti umani è che questi sono storicamente pensati come un’alternativa alla legge. Sono il prodotto dell’unica civiltà, la nostra, che ha espresso, praticato e costruito una visione globale del mondo (con la conseguenza di elaborare la nozione di cittadinanza universale). Nessun’altra grande civiltà ha avuto in testa un’idea simile, neanche la Cina dei tempi d’oro. Dalla rivoluzione francese in poi, l’idea di universale (cioè di un particolare geografi85
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camente ben situato) si è sovrapposta ideologicamente al mondo, senza mai porsi il problema di capire se e come sia possibile articolare particolare e universale. Non c’è niente di «naturale» nell’idea di cittadinanza universale, anzi la condizione sine qua non perché possa esistere qualcosa del genere è rimuovere l’idea che esista qualcosa che chiamiamo «mente locale». In questo salto di scala qualcosa si lascia per strada, e quel qualcosa è e non può essere altro che il rapporto con il proprio contesto. Quel «tessuto» di rimandi inerente al processo di costruzione di senso – come conversazione tra forme, agenti, presenze, abitudini, tendenze – che è l’abitare un mondo. Quell’irriducibile «essere sul posto» di cui parla Benjamin. Che è però altra cosa dall’abitare il mondo. È una questione di scala. Se è vero che in origine ethos (ηθος) significava «il posto da vivere» e che da questo significato si è poi passati a quello di «consuetudine», allora quello di cui vorremmo parlare viene da lì. Portandosi dietro anche l’idea che la consuetudine è un mood, forma un mood, cioè un temperamento, un carattere. In questo senso, forse sì, quello che stiamo facendo con questo libro è riscrivere venti anni dopo Mente locale [La Cecla, elèuthera, 2011 (1993)], a dimostrazione della necessità di riflettere oggi su come il globo si sta disegnando e su come non farci sorprendere troppo se quello che pensavamo di esserci lasciati alle spalle ce lo ritroviamo poi, fatto il giro del globo, di fronte a noi (come ci ricorda Franco Farinelli). Perché al momento ci mancano le passerelle adatte, se esistono, in grado di consentirci di articolare in termini di senso, e collettivamente (non individualmente), «mente locale» e «mente generale», non potendo la seconda essere pensata soltanto come una declinazione della prima. L’impressione è che l’impossibilità di passare da un livello all’altro, dal particolare, ordinario di tutti i giorni, 86
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alla morale come qualcosa di più cosciente e generale, e infine all’idea di una morale universale minima per tutti, questa impossibilità salva i livelli di reciproca autonomia del quotidiano e del «permanente». L’elasticità, il carattere non direttamente morale del doversi comportare in conformità con la vita altrui, il carattere mimetico della vita quotidiana, tutto questo non può transitare nel livello più astratto, decontestualizzato, della relazione tra contesti. Una qualche regola tra contesti diversi deve esserci, e forse è quello che siamo più abituati a chiamare un sistema di leggi che regolano un paese. Poi si passa a un sistema «transnazionale», e lì non devono giocare le cause particolari, sennò si corre il pericolo, annunciato da Unni Wikan, di un comunitarismo che non rispetta le leggi della persona. La cosa che intriga è capire cosa c’è in mezzo a questi livelli che impedisce la comunicazione. C’è una non equipollenza, ci sono livelli di natura diversi, intraducibili tra di loro. Il cuscinetto che li tiene distanti è anche un trasformatore che altera la natura delle questioni appena si passa da un livello all’altro. Come se i loro «tempi» fossero diversi. Il tempo della mente locale è incarnato nello spazio e si trasforma con esso (è una geografia, non è ancora diritto, non è nomos); il tempo della legge è un tempo immobilizzato, fissato come una farfalla trafitta da uno spillo per stare in vetrina; il tempo dei diritti umani è un fuori tempo, un qualcosa che ha a che fare con la temporalità di un jet lag. Augustin Berque, geografo e orientalista, ha individuato con chiarezza il problema dell’articolazione tra scale diverse cui ci troviamo sempre più confrontati: La soggettività individuale è in continuità con la soggettività sociale (ciò che viene chiamato inconscio collettivo o soggettività 87
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collettiva), ma non è ontologicamente identica perché il suo luogo non si trova alla stessa scala. La soggettività sociale è in continuità con la natura umana, ma non è ontologicamente identica perché il suo luogo non si trova alla stessa scala. Infine, la natura umana è in continuità con la natura, la vita, la materia, l’universo, ma non si tratta della stessa scala. Ciascuna di queste realtà ha la sua scala, diversi luoghi dell’essere, l’individuo, la società, l’umanità, la biosfera, il pianeta, il sistema solare, la galassia, l’universo, tutte dimensioni che hanno un carattere di soggettività. Questa è evidente al livello della scala individuale dell’essere, quello della coscienza dell’«io penso». Lo è sempre meno (perché sempre meno accessibile alla coscienza del soggetto individuale) con il crescere della scala, ma si manifesta comunque per quanto in termini irriducibili a quelli della coscienza individuale. […] È essenziale, dal punto di vista etico, prendere in considerazione questa struttura di livelli di scala della soggettività. Confondere i livelli conduce inevitabilmente all’irresponsabilità morale e ad atti contrari all’etica [Augustin Berque, Être humains sur la Terre, Gallimard, 1996, pp. 131-132].
Una morale per la vita di tutti i giorni è una lettura diversa della Mente locale. Allora la scoperta era quella della supremazia dell’abitare, della sua ostinata presenza nonostante tutti i tentativi di espropriazione da parte di istituzioni, amministrazioni e architetti. L’abitare in effetti non è una morale, è una facoltà umana, una capacità trasmessa e acquisita di usare lo spazio per darvi il proprio senso e di prendere dallo spazio il senso del proprio stare. La mente locale era ed è il dialogo costante tra posti e persone, in una forma di modellamento reciproco. Qui è chiaro che non c’entra una morale, ma che la mente locale è una matrice, questo sì, di un accordo per stare insieme da qualche parte. Per riprendere Benjamin, è questo «stare sempre sul posto», questo 88
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dimorare, questa maniera di essere in un posto, che comporta una responsabilità fisica concreta, quella «prossimità» che deve indurci a riconoscere anzitutto chi è il nostro «prossimo». Scrivere Mente locale è stato un modo di liberarsi dalle forzature di altri approcci, sociologici, antropologici, a partire dall’impressione che nel discorso dell’«habitus», o delle forme di vita, o in quello delle norme sociali o della cultura intesa alla Durkheim, ci fosse un’incompletezza dovuta proprio all’assenza della carne del mondo, del dialogo tra i corpi del mondo e i corpi umani nel mondo. Lo spazio e l’abitare ridanno concretezza a un discorso dove le categorie altrimenti rimangono sospese nel vuoto e danno al contesto una dimensione tangibile e non soltanto testuale. L’intuizione allora era che nelle discipline che si occupavano dello «stare al mondo» vi fosse lo stesso imprinting negativo del «ripudio dell’umano» di cui parla Cavell. La stessa antropologia era ancora schiacciata in una dimensione tutta testuale e di doxa, di classificazione del reale, e solo recentemente ha assunto seriamente la carne del mondo con cui, per motivi disciplinari, ha a che fare. Il punto oggi è capire come ri-pensare quello che come civiltà occidentale abbiamo pensato per alcuni millenni e che su più piani vacilla ormai sotto l’effetto «globo», dato che per alcune cose almeno, «il posto da vivere» è di fatto il mondo tutto intero. Cosa fare allora? Come elaborare uno sguardo un po’ diverso sulle cose? È questa la difficoltà, ad esempio, che incontra un’etica ambientale a dialogare con il quotidiano. Dovrebbe esserci una preoccupazione per il mondo tutto intero, ma tra il livello quotidiano e quello implicato dall’etica ambientale c’è un salto di scala. I pigmei Baka del Cameroun lo sanno sulla propria pelle. Le organizzazioni ambientaliste inter89
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nazionali hanno vinto la battaglia per la protezione della foresta pluviale, ma i pigmei l’hanno persa perché è stato loro impedito di cacciare, cioè di usare il posto in cui vivono e di cui sono i più profondi conoscitori. E spesso nelle grandi battaglie ambientaliste è proprio la dimensione indigena che non viene presa in considerazione. D’altro canto, organizzazioni come Greenpeace hanno effettivamente un effetto sul quotidiano delle persone perché riescono ad avvicinare in una sapiente logica di campaigning il quotidiano alle grandi emergenze, dal tonno in scatola alle centrali nucleari, dalla carta dei libri ai frigoriferi senza HFC. La questione è come passare da una logica militante a una logica «normale», a un’ordinarietà del prendersi cura del posto in cui si vive. Per riuscire a farlo occorre tener conto della differenza di livello che esiste tra «qui» e «il mondo», e non dare per scontato che la globalizzazione ci abbia liberato dalla necessità di praticare il quotidiano. Ma non è facile, c’è qualcosa di profondamente equivoco nella confusione di piani che ancora esiste tra big issues, morali sovranazionali ed etica ordinaria. Una confusione che pesa su altre questioni, come quelle dei diritti umani.
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QUINDICI
Diritti: umani?
Il significato della parola nazione è cambiato dal designare un’entità pre-politica a qualcosa che si suppone debba giocare un ruolo costitutivo nel definire le identità politiche dei cittadini di una politica democratica. Una nazione di cittadini non deriva la sua identità da una qualche proprietà etnica o culturale comune, ma piuttosto dalla prassi dei cittadini che esercitano attivamente i loro diritti civili [Jürgen Habermas, Citizenship and National Identity: Some Reflections on the Future of Europe, «Praxis International», 12 (2):1-19, 1992].
Il buddhismo entrò in Cina dall’India nel II secolo a. C. e vi introdusse dei concetti universali, l’idea di costanti universali e anche di molti concetti astratti. Le religioni, le grandi filosofie classiche, sembrano volare al di sopra della quotidianità. Ma è veramente così? E se fosse che in fondo quello che fanno è piuttosto il contrario, cioè provare a inscrivere nel quotidiano una dimensione universale? Il «non 91
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fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te» non ha allo stesso tempo una dimensione molto concreta e una più astratta? Le puja nel mondo indiano, ad esempio, non sono forse una forma quotidiana di questa articolazione? Anche con il telefonino nel taschino del kurta? Come l’universale, che pretende di entrare nella pratica quotidiana, e la modella, ma per farlo deve attraversare il filtro del quotidiano e cambiare completamente. Come Buddha, che più si sposta a oriente e più diventa una donna, la donna che protegge, Tara, Canon. Buddha che prende gli occhi a mandorla e le orecchie pendule in Cina dopo aver attraversato il volto dei kouros, dei bei Greci coi riccioli della Magna Grecia a Gandhara. Le religioni nascono locali e diventano grandi per come e quanto sanno dispiegarsi e conformarsi per successive sedimentazioni e per rotture e strappi. Le rivelazioni sono forme di «menti locali» – le tavole della legge sono il Sinai, le sure sono Mecca o Medina, l’illuminazione è il ficus di Bodhgaya – che riescono a sintetizzarsi in un modo che consente loro di riapparire altrove. Solo una volta completamente dispiegata la virtù d’umanità tocca l’universalità, sosteneva Menchu. I diritti umani sono la versione laica, moderna, del tentativo fatto dalle religioni con un carattere universale di essere superiori ai contesti locali, ma influenti su di essi. Ad esempio, il buddhismo che insegna all’imperatore Ashoka che c’è qualcosa di superiore all’orgoglio della guerra e della conquista. Nella rupe scolpita nei pressi di Junagad, in Gujarat, fa impressione il riferimento alla quotidianità, alla qualità delle strade, all’ombra che un albero di pipal deve proiettare sul villaggio per consentirne la vita sociale, e l’idea di una non violenza che diventa matrice attiva di esistenza collettiva. Nel cristianesimo e nell’islam ci sono in92
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finiti casi di «contrattazione» delle regole universali con i fatti della quotidianità. Nell’islam tradizionale c’è una capacità di essere trasformato, paese per paese, dalle preesistenze, di mescolarsi ai culti locali, di assumere i djinn, gli spiriti, e l’idea di santità come eroismo o come singolarità. Così ci racconta Clifford Geertz nel suo saggio classico sulle differenze dell’islam in Indonesia e in Marocco [Islam. Lo sviluppo religioso in Marocco e in Indonesia, Cortina, 2008]. E il cristianesimo ha giocato un ruolo simile nella relazione con il culto delle immagini, perfino con quella che poteva essere considerata «idolatria» nei culti nauhatl e aztechi. Si potrebbe addirittura leggere nel cattolicesimo l’istituzione del sacramento della confessione come un tentativo di mediare tra un’idea di morale universale e la necessità di accettare le infinite eccezioni dei contesti locali e delle storie individuali. Quando le cose vanno bene. Perché le religioni sono anche matrice di un rifiuto dell’umano che porta a conflitti, a repressioni, alla negazione del contesto e alla sua abolizione a volte completa. Il problema dei diritti umani non è allora tanto di stabilire quali sono i diritti universali, ma piuttosto di comprendere cosa intendiamo per umano. In questo senso, le religioni hanno sviluppato un’antropologia che manca ai diritti umani, sono partite da una presa sul serio del contesto, di un contesto, e da lì ne hanno allargato i confini. È la vaghezza e la disincarnazione dell’umano che c’è nei diritti umani che li rende difficilmente parte delle preoccupazioni della vita quotidiana. È il vecchio problema che si ponevano già gli illuministi [Henning Ritter, Sventura lontana. Saggio sulla compassione, Adelphi, 2007]. Che cosa muove in me il dolore di un mandarino della lontana Cina e cosa farei se potessi con una decisione provocarne la morte a distanza diventando ricchissimo? Quanto mi sen93
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tirei davvero «coinvolto» nella responsabilità del suo dolore e del suo decesso? Le cose sono cambiate dall’Illuminismo, il mondo da allora è tutto molto più legato e «contiguo», ma nel preoccuparsi per il futuro delle popolazioni colpite da un’inondazione nel sud del Madagascar o della Russia c’è una pretesa un po’ eccessiva di essere davvero «prossimo» a tutti. Lo posso essere moralmente, certo, ma non con le emozioni e il coinvolgimento responsabile del vis-a-vis. Non mi viene richiesta dalla presenza fisica di altri intorno a me la stessa cosa che mi viene richiesta quando mi si presenta una petizione per i diritti di persone lontane o lontanissime. Sono piani diversi, e mescolarli rischia di impedire al piano locale di dispiegarsi e a quello universale di avere effetto. I diritti umani stanno a metà tra la coscienza della necessità di regole superiori al contesto locale, comunitario, della mente locale, e però il bisogno di essere compresi negli stessi contesti particolari. Sono sospesi tra «ciò che è» e «ciò che dovrebbe essere», una sospensione classica della filosofia morale, che ha distinto il piano del costume, di ciò che la gente normalmente fa, e il piano di ciò che dovrebbe fare, diventare, essere. Quello che distingue gli universalismi da ciò che la gente normalmente fa è proprio la «naturale» efficacia pratica delle regole locali contrapposta alla difficile introiezione di astratte regole universali. Pensare alla morale universale implica sapere di avere a che fare con il desiderio «assoluto» di fare del bene. Ed è qui che sta il nodo della partita dei diritti umani. Come essere capaci di farli intendere come qualcosa che fa veramente parte di noi, della nostra vita quotidiana, qualcosa che siamo indotti a rispettare senza nemmeno doverci pensare. Sappiamo che non è così, che è difficile far rispettare i diritti umani, per94
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ché presuppongono l’idea di una comunità umana di cui fanno parte «tutti gli stranieri a noi», idea che non è facile da afferrare proprio perché – Simmel e Kafka l’avevano capito profondamente, ognuno a suo modo – si tratta di una forma di precipitazione di distanze che avvicina qualcosa che per noi resta comunque distante. I diritti umani, racconta Richard Wilson [cfr. «Human rights and Nation Building», in Sally F. Moore, Law and Anthropology. A Reader, Blackwell, 2010], hanno un preciso momento di emergenza nella storia recente. Quando i regimi dittatoriali in America latina o le dittature di Stato nell’Est europeo sono cominciati a crollare, allora ci si è resi conto che la formula che legava la cittadinanza a un’idea di nazione, di terra, di sangue, di appartenenza, non può e non deve più funzionare. Troppi populismi, troppi fanatismi si basano su questa idea. Bisogna costruire nuove democrazie su un’idea meno contestuale ed etnica della cittadinanza. Ed è allora che la questione dei diritti umani prende davvero corpo. Essi devono rappresentare il minimo comun denominatore di appartenenti a uno stesso paese, senza che questa loro appartenenza gli si rivolga a favore o contro. È fondamentale che il soggetto di diritti di un dato paese sia spogliato di tutte le connotazioni contestuali, di lingua, religione, razza, etnia, adesione ideologica e conformità a una morale locale o nazionale. I diritti umani scarnificano il soggetto, ma questa riduzione è essenziale per proteggerlo da definizioni specifiche che rischiano di privilegiarlo o marginalizzarlo. L’applicazione dei soli diritti umani lascia un vuoto tra livello generale e contesto locale. Il caso esemplare è quello del Sud Africa che esce dall’esperienza dell’apartheid, dove la «cultura» come differenza tra cultura dei bianchi, degli afrikaner o dei bianchi di altra origine, e la cultura delle tribù che componevano la na95
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zione era rimarcata come fondante la costituzione. Questo «culturalismo» ideologico era, come racconta un sudafricano doc, Adam Kuper [Culture: The Anthropologists’ Account, Harvard University Press, 1999], proprio un resto dell’ideologia della terra e del sangue di origine ottocentesca. I «territori» in cui le tribù venivano rinchiuse erano giustificati dall’idea che per una pacifica convivenza fosse indispensabile dare alla diversità un carattere di separazione spaziale. Ovviamente il tutto giustificava razzismi, disparità economiche e di accesso alle risorse e preservava rigorosamente dai contatti tra le varie appartenenze. Quando crolla l’apartheid, il primo problema è come tenere unito il paese su una base che non abbia nulla a che fare con l’ideologia della diversità. I diritti umani si manifestano così, ma soprattutto fanno la loro comparsa in occasione dell’apertura della Truth and Reconciliation Commission (Commissione per la Verità e la Riconciliazione). Questa Commissione aveva il compito di giudicare i crimini commessi durante l’apartheid. Ai colpevoli veniva garantita una certa clemenza se confessavano le proprie malefatte alla Commissione in sedute pubbliche. Sembrava l’unico modo di evitare una sequela di vendette e ritorsioni che non avrebbero avuto più fine. Tra il 1995 e il 1999, la Truth and Reconciliation Commission mise in piedi migliaia di udienze pubbliche dove colpevoli e parenti delle vittime, o le vittime stesse, furono chiamate a confessare e a testimoniare. L’idea era che le vittime dovessero chiedere una compensazione in denaro per i terribili danni subiti. Alla fine le vittime risultarono ventiduemila e i procedimenti di risarcimento sempre più difficili e complicati. Il Sud Africa conobbe in questa veste singolare i diritti umani come base per una nuova giustizia sociale e un nuovo paese. La cosa lasciò moltissime vittime e parenti delle vittime profonda96
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mente frustrate e insoddisfatte. Una buona parte di loro avrebbe preferito di gran lunga l’idea di una punizione visibile, molto più concreta, e molto più fedele a un’idea di contrappasso e di vendetta. Qui si scontrarono, secondo Wilson, due diverse concezioni della giustizia, una molto più contestuale e locale e una che pretendeva di essere al di sopra di tutti e di tutto. Un caso simile è quello dei tribunali gaçaça nel Ruanda di oggi. Di fronte all’enormità del massacro – da ottocentomila a un milione di persone, in prevalenza Tutsi, un vero e proprio genocidio perpetrato casa per casa – il nuovo governo, il Rwandan Patriotic Front, nato per rendere giustizia e pacificare, si è trovato di fronte a carceri rigurgitanti, con oltre centomila detenuti accusati di crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra, e alla prospettiva di oltre cento anni di processi. Sono stati allora riattivati i tribunali popolari che esistevano nella tradizione del Ruanda, chiamati gaçaça e gestiti da anziani e da persone ritenute dal villaggio saggi al di sopra delle parti. Il Ruanda ha abolito la pena di morte e ha offerto in questi tribunali la possibilità che i colpevoli si confrontino con i parenti delle vittime di fronte a testimonianze pro e contro degli altri abitanti dei villaggi. I gaçaça operano a tre livelli, fino a una vera e propria corte d’appello, e hanno il diritto di comminare pene detentive, persino l’ergastolo, ma anche risarcimenti e lavori a beneficio del villaggio. L’effetto è stato impressionante, dal punto di vista dell’ammissione delle colpe, ma anche per la ricostruzione dei fatti e della verità. Sono stati istruiti e conclusi così diecimila processi, e l’effetto sulla pacificazione del paese è stato sbalorditivo. Anche se oggi, a livello di Tribunale Internazionale per i Diritti Umani, c’è una forte critica per il carattere eccessivamente artigianale di questa giustizia e per la 97
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poca protezione che offre ai testimoni e ai parenti delle vittime di fronte a possibili rappresaglie da parte dei parenti dei condannati. I gaçaça sono comunque un esempio di come i diritti umani, per essere esercitati, devono trovare una base nel senso locale di giustizia di un dato territorio, una giustizia che sia più aderente ai contesti di quanto le astrazioni della giurisprudenza internazionale possano offrire. In un articolo sulla democrazia nell’isola di Mauritius, Thomas Hylland Eriksen [«Multiculturalism, Individualism, and Human Rights: Romanticism, the Enlightment and Lessons from Mauritius», in Moore, op. cit.] sostiene che i diritti umani, cioè una base minima comune che lega le persone che vivono nello stesso posto e che si definisce proprio come condivisione degli stessi diritti (un’identità fondata sull’idea dei diritti di cittadinanza) è possibile e facilmente agibile in paesi come Mauritius proprio perché, nonostante il patchwork dei suoi costituenti (hindu, musulmani, discendenti dei coloni inglesi e francesi), c’è un senso sviluppatissimo dell’individuo. Ogniqualvolta c’è un conflitto tra diritti individuali e diritti dovuti all’appartenenza a una certa comunità, sono i secondi a dover soccombere. Anche durante le campagne elettorali, che spesso rappresentano le diverse componenti etniche del paese, l’accento è posto sui diritti individuali e sulla comune appartenenza al paese. Dal punto di vista antropologico, i diritti umani sono la conseguenza di un metodo di comprensione della complessità umana. Sono stati gli antropologi a ribadire l’importanza di una visione che tenga conto del relativismo culturale. Ma non va dimenticato, come ricorda Marshall Sahlins, che si tratta di un metodo di conoscenza, non di un parametro di giudizio per cui everything goes, va tutto 98
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bene, e non c’è differenza tra l’idea che sia giusto uccidere un nemico, praticare l’escissione e l’infanticidio, lasciare affogare gli immigrati clandestini e il contrario di questo. Il relativismo culturale è prima di tutto una procedura interpretativa antropologica – vale a dire, metodologica. Non è l’argomento morale che ogni cultura o ogni uso vale quanto ogni altro, se non di più. Il relativismo è la semplice prescrizione che, per essere intellegibili, le pratiche e gli ideali degli altri popoli devono venire immersi nel loro contesto storico, inteso come valori posizionali nel campo delle loro relazioni culturali piuttosto che apprezzato da giudizi categorici o morali creati da noi. La relatività è la sospensione provvisoria dei propri giudizi per situare le pratiche in questione nell’ordine culturale che le ha rese possibili. Non è in nessun altro senso una questione di perorazione [Marshall Sahlins, Aspettando Foucault, Asterios, 2012, p. 35].
I diritti umani trattano ogni uomo come se fosse uno straniero. In questo senso, è all’interno delle relazioni tra contesti diversi, tra diverse mente locali, che sorge la necessità di uno spazio di confine [Piero Zanini, Significati del confine, Bruno Mondadori, 1997], di una frontiera che definisca i diritti dello straniero e i diritti di ogni individuo a essere «straniero» alla propria comunità, cioè a sottrarsi, se vuole, alle norme della vita quotidiana, a patto che questo sottrarsi non tenda a distruggere la vita quotidiana altrui. La relazione tra la morale di tutti i giorni e la morale eccezionale è come sospesa. Il rispetto per il contesto in cui ci si trova è contrapposto al rispetto che qualunque contesto deve avere per l’individualità di chi ne fa parte, «come se questa individualità fosse quella di uno straniero». I diritti umani sono in questo senso basati sui più antichi diritti dell’ospite e sui doveri nei confronti dello straniero. 99
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Nel caso della ragazza marocchina di cui si è occupata Unni Wikan, quello che accade è che lei si sente straniera al contesto culturale in cui è cresciuta e può scegliere di non seguirlo (è una scelta o una diversa maniera di vivere la propria appartenenza?). L’idea di un universalismo basato sulla convivenza di diversi contesti che mediano tra di loro è invece praticamente impossibile. È solo accettando un fuori contesto, rappresentato dall’estraneità, che si possono definire i diritti umani. In questo senso, una nazione costruita sul minimo comun denominatore dei diritti umani è una nazione di stranieri, ed è questo uno degli aspetti più critici della questione (che, ad esempio, il discorso politicamente corretto sul multiculturalismo spesso non ha saputo né soprattutto voluto affrontare). La questione è se è possibile costruire una convivenza civile come la sognavano George Orwell e E.P. Thompson, basata su una common decency, su una comune decenza in cui l’egualitarismo, la giustizia sociale e quella ambientale siano comprese. Questa è un’idea «comunitaria», dove la comunità è quella costituita, ad esempio, dalla classe operaia inglese del XVIII secolo. Quelle condizioni, che facevano sì che questa classe e questa decenza comune fossero concrete, non ci sono più. Allora si basavano su una dialettica di forze: l’economia morale per cui le classi popolari rivendicavano il diritto alla sussistenza (e quindi il controllo locale delle risorse: grano, acqua, boschi) era rispettata dal paternalismo dei feudatari e dei nobili. I tentativi dei commercianti e della finanza di allora di svincolare le risorse dal loro contesto venivano contrastati da un’economia morale per cui la vita delle classi popolari assicurava la permanenza delle classi al potere. Oggi proporre un’economia morale presupporrebbe essere capaci di porre delle condizioni a banchieri, finanza, commercio globale, che 100
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alienano completamente le risorse dal contesto cui sarebbero destinate. Derivati, giochi monetari e mobilità della forza lavoro hanno reso molto difficile a qualunque «mente locale» di esprimersi e farsi rispettare. Questo non significa che non sia possibile un nuovo progetto di economia morale, ma solo se non è pensato unicamente come progetto di resistenza. L’economia morale, ce lo ha insegnato E.P. Thompson, è una dialettica di forze, per essere reale deve superare l’utopismo delle ideologie e affrontare la complessità del mondo attuale. E, come nell’Inghilterra del XVIII secolo, è nella rabbia, nella protesta e nella capacità di espressione collettiva che sta la possibilità che questa dialettica non venga spenta. Si può pensare a una legge di cui i processi di globalizzazione avrebbero bisogno, di alcuni parametri indiscutibili che preservino le comunità umane da ogni tentativo di svendere risorse locali e braccia. Si tratta anche di riesaminare completamente il ruolo che il denaro ha oggi. L’averlo reso un feticcio astratto, che distruggerebbe per sua natura ogni relazione umana e ogni coesione collettiva, ci ha reso miopi sulle mille situazioni in cui il denaro è invece usato proprio per rinsaldare quelle relazioni e per dare preminenza al legame sociale. È quello che David Graeber ci invita a fare nel suo libro Debito, i primi cinquemila anni [il Saggiatore, 2012]. Il debito non è soltanto il peso assurdo che il capitalismo fa gravare su ognuno di noi, ma è anche all’origine e nel quotidiano il modo in cui le persone decidono di legarsi attraverso il denaro, di avere una «obbligazione» nei confronti degli altri. È un passo avanti, dice sempre Graeber, rispetto «all’occhio per occhio, dente per dente», appunto perché una giustizia egualitaria basata sulla vendetta non è economica dal punto di vista della costituzione di una società. 101
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Ce lo avevano già insegnato antropologi come Jonathan Parry e Maurice Bloch in Money and the Morality of Exchange [Cambridge University Press, 1989], proprio a dimostrare che il denaro stesso può essere incanalato e usato per rafforzare i legami che tengono unito un gruppo umano e che esso viene trasformato proprio dal significato di scambio che la gente gli dà quando se lo presta, se lo dona, se lo dà in pegno, e quando rappresenta un bene sociale e non un bene astratto.
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SEDICI
Etica ordinaria ed estetica
Ora io userò il termine «etica» in un senso più lato, in un senso, di fatto, che include la parte secondo me più essenziale di ciò che di solito viene chiamata «estetica» [Ludwig Wittgenstein, Conferenza sull’etica, Cambridge (1930), Adelphi, 1967, p. 7]. La mia tendenza e, io ritengo, la tendenza di tutti coloro che hanno mai cercato di scrivere o di parlare di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio. Questo avventarsi contro le pareti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente, disperato. L’etica, in quanto sorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l’assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza. Ma è un documento di una tendenza dell’animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo [ibid., p. 18].
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Capita a chi viaggia. Ci sono paesi in cui la quotidianità prende un carattere «formale» particolarmente rimarcato. In cui sembra che l’impegno della conformità quotidiana sia tutto profuso nel giusto apparire, anzi nel bell’apparire. Come se per far parte di una società occorresse apprendere e rispettare un’eleganza formale portata all’estremo, un’eleganza che ha a che vedere con il fare il bene e rifuggire il male, nel senso del riconoscere la giusta tonalità, il giusto colore, le giuste geometrie e i giusti volumi. Entrando in un ristorante di Tokyo non lontano dal tempio dove sono ricordati i piloti kamikaze, vi impressiona l’essenzialità del legno, il carattere assolutamente spoglio del luogo. È stato tolto tutto il superfluo. E il vano che accoglie il ristorante non ha nulla alle pareti, la barra di legno sulla quale mangiate non ha alcun ornamento e non è nemmeno levigata. Il cibo, pesce crudo, è squisito ed essenziale, ed è caro, perché questo non è un posto di lusso, ma è uno dei posti in cui tradizionalmente si mangia bene. Non c’è alcun richiamo a uno stile «modernista», nessuna concessione al design come lo intendiamo noi (ma in realtà qui è tutto design nel senso dell’assoluta giustezza del disegno). Il posto è semplicemente così come deve essere. Più tardi, passeggiando nel quartiere poco lontano dei librai e degli stampatori, vi imbattete in una pasticceria. In vetrina c’è un solo piccolo dolce rotondo, e accanto un fiore dal lungo stelo. Ma nessuna coquetterie à la japonaise. È semplicemente una pasticceria, nient’altro. Questa riduzione all’essenziale vi perseguita per tutto il viaggio, non solo nei luoghi, ma nei comportamenti, nell’espressione delle emozioni, nel non dire preferito al dire. Come se un’intera civiltà avesse in odio le sbavature. Poi, una sera, vi trovate a Kyoto a un ricevimento ufficiale e noioso di un’ambasciata occidentale. E c’è uno spetta104
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colo breve di due apprendiste geishe, giovanissime. Fanno una danza di movimenti aggraziati e geometrici accompagnate dallo shamisen, suonato da una geisha più anziana. A fine spettacolo una delle giovani geishe si mostra divertita dalla vostra curiosità per la sua acconciatura, per il rossetto che copre solo il labbro inferiore, per il bianco del trucco che le copre il volto e sul collo finisce con una coda di rondine. E vi guarda, vi lancia degli sguardi sottili con la coda dell’occhio, vi segue impercettibilmente con la sua aria interrogativa e maliziosa, e non sapete che dire, avendo anche poche parole di inglese in comune. Ma l’eleganza dei gesti, la natura allusiva del modo in cui muove la seta del magnifico chimono a fiori, il passo leggero dei piedi nelle geta bianche vi avvolge. Vi ritrovate confusi, irretiti, e vi sembra che tutto questo sia solo per voi, e che vi porti irresistibilmente a chiederle un appuntamento. Fin quando non se ne va portata via dietro i finestrini di una grande auto nera – e si gira indietro per guardarvi. Tornate a casa turbati, tornate in patria e vi capita sottomano un libro, La struttura dell’iki [Adelphi, 1994], dove trovate la vostra storia, quella che vi è accaduta a Kyoto. Ma è raccontata con esemplarità negli anni Trenta da un filosofo giapponese, Kuki Shuzo, che ha cercato di spiegare cos’è l’estetica del quotidiano, quella nonchalance elegante, quel mondo di apparenze che sanno di essere fuggevoli, quella sprezzatura che lui chiama iki e che dice non avere spiegazioni, se non nel modo in cui vi tratta una geisha, nel suo guardarvi con un guizzo della coda dell’occhio, nel suo avvolgervi nel non detto. E poi, con più calma, vi imbattete nella Storia del Principe Splendente (Genji Monogatari), scritta nel XI secolo e raccontata magistralmente dallo storico Ivan Morris [Il mondo del Principe Splendente, Adelphi, 1964], dove è un 105
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intero mondo, quello della corte Heian nel Giappone del X secolo, a essere fondato sui criteri di stile e di bellezza. Poco conosciuta, la civiltà Heian viene descritta da Morris a partire dalle testimonianze lasciateci da alcune scrittrici e dame di corte di grande sensibilità come Sei Shonagon e soprattutto Murasaki Shikibu, autrice di quel capolavoro della letteratura giapponese che è la Storia di Genji, il «Principe Splendente», figlio dell’imperatore. Centro di una cultura aristocratica dalla raffinatezza estrema, la corte Heian era fondata su una complessa stratificazione sociale (al punto da comprendere un rango preciso dedicato ai fantasmi e un altro alla gatta dell’imperatore), nella quale la dimensione estetica – come la qualità della calligrafia o i dettagli del comportamento – giocava un ruolo chiave nel distinguerne i diversi ranghi. Malgrado i numerosi intrighi e i feroci conflitti di potere che caratterizzarono questa epoca, l’interesse e l’attenzione per l’eleganza della composizione poetica o la cura dei dettagli dei cerimoniali di corte prevalevano nei funzionari di alto livello rispetto ai banali doveri connessi all’amministrazione quotidiana. Sbagliare il tono o commettere un errore di gusto poteva significare compromettere il proprio onore ed esporsi alla riprovazione. Ma è soprattutto l’universo femminile, colto come in un costante gioco d’ombre, a dare una misura della sottigliezza di sfumature di sentimenti e di forme che si svilupparono in questo periodo della storia del Giappone. E Morris riesce bene a rendere l’intensità di questa ricerca costante di una «qualità emotiva» (aware) caratteristica non solo della natura o dell’arte, ma anche delle persone e delle cose. Alla corte, amori fuggevoli o un po’ più duraturi si intrecciavano in un carosello galante. Le donne giudicavano gli uomini dal modo in cui al mattino uscivano dal letto, dalla loro capacità di esprimere quanto erano affranti nel106
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l’abbandono. Anche se immediatamente dopo entrambi imbastivano un’altra tresca con altri amanti. Questa giostra era dominata da un senso magnifico della caducità, un mondo di erbe fluttuanti, l’interpretazione che Heian aveva dato al buddhismo giunto dall’India. Ci si occupava di eleganza dei vestiti, di accoppiamento giusto tra colori, di architetture fragili e perfette, e i sentimenti erano anch’essi pura eleganza al limite della freddezza. Un mondo che non era scosso dalle passioni, ma dalla ricerca accurata di comportamenti che esprimessero allo stesso tempo ricercatezza e naturalezza. La corte era talmente presa dai suoi giochi che per oltre due secoli il Giappone smise di avere rapporti perfino con la Cina, e un funzionario si sentiva profondamente punito se veniva inviato a comandare una provincia che non fosse nei paraggi della corte. Come racconta Barbara Carnevali nel suo Il mondo delle apparenze, per un’estetica sociale [il Mulino, 2012], questa preoccupazione per l’esteriorità è stata comune ad altre corti e ad altre aristocrazie ed è stata raccontata come una vera e propria epica nella Recherche di Proust. Il Principe di Guermantes è per Marcel il modello di ciò che lui vorrebbe essere, ma non può perché non appartiene a quella classe sociale che ha davvero ancora la «classe» per comportarsi con eleganza in qualunque occasione, anche quando deve mangiare in posti un po’ plebei o deve scavalcare un divano. È quell’immediatezza, quel saper vivere che l’aristocrazia parigina rappresenta nella vita quotidiana, nell’arte della conversazione, nel non prendersi troppo sul serio e nell’essere però saldamente installata nelle proprie maniere e nell’avere le «forme giuste». Ma tracce della stessa estetica del quotidiano si possono trovare anche in una tribù ben lontana dai salotti parigini come i Kuguru, un popolo della Tanzania centrale studiato 107
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da Thomas Beidelman [The Cool Knife. Imagery of Gender, Sexuality and Moral Education in Kuguru Initiation Ritual, Smithsonian Institute Press, 1997]. Le norme che regolano l’accesso alla sessualità dei giovani sono nella società kuguru scandite da riti di iniziazione. Quello riguardante i maschi è una circoncisione che viene giustificata da racconti mitici. Questi dicono che è stata una donna a operarla per prima sul suo uomo, perché così le piaceva di più, le sembrava che fosse esteticamente più bello. E gli uomini vi si sottopongono perché in questo apprezzamento del loro apparire c’è la natura del legame che tiene insieme la società cui appartengono. La sfera della sessualità kuguru connette insieme etica ed estetica in una strada da seguire se si vuole essere adulti adeguati. Qualcosa di analogo, ma questa volta sul piano della mente locale, si ritrova anche nella società tuareg studiata per molti anni da Barbara Fiore [Tuareg, Quodlibet, 2011], dove le categorie della bellezza muliebre si rifanno ancora al deserto amato, e le donne più apprezzate sono quelle le cui smagliature ricordano le linee che il vento disegna sulle dune. Questo tendere dell’etica ordinaria verso l’estetica ha una spiegazione nell’idea stessa di virtù che la nostra società possiede. Diciamo di un violinista bravo che è virtuoso, attribuiamo al saper fare un mestiere, un’azione, un’arte che si apprende e poi si dimentica, una virtù di cui sembra che non abbiamo più alcun merito, se non quello di averla fatta nostra. Questa «bravura» non ha alcun connotato morale, perché nell’essere diventata «forma» del fare ha perso l’idea che sia una scelta di fronte a un avvenimento. Certamente questo saper fare e saperci fare viene apprezzato dall’intera società perché racconta un lavoro e un’assiduità, ma la sua qualità prescinde dal fatto che il vio108
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linista virtuoso sia anche «buono» moralmente. È quanto Aristotele pensava delle virtù e del loro carattere non direttamente etico. L’artigiano le cui mani «sanno» come fare un abito, un liuto, una tela, un ricamo, è qualcuno che ha trasformato lo sforzo etico quotidiano per apprendere in qualcosa che è diventato apparentemente ovvio e naturale. L’estetica «raffredda» le passioni che portano a una competenza, come «raffredda» le motivazioni su cui una società si dà delle forme: fino al punto da farle apparire naturali, ovvie, come se esistessero da sempre e si trattasse solo di saperle danzare e giocare, una pura questione di stile. Come se l’estetica fosse un’etica in cui le passioni e le emozioni vengono sostituite dalla «perizia», da un «senso della misura» che richiede una precisione senza precisione, cioè una capacità di far gioco con la precisione. C’è nella propensione delle morali di tutti i giorni a farsi estetiche una furbizia del «dispositivo» che contribuisce a tenere insieme le società. Sottrarre all’idea della scelta morale ciò che la gente fa nel minuto del proprio quotidiano significa creare in esso, nello spazio vissuto del giorno per giorno, quel «gioco» (nel senso di una chiave che fa gioco), quella elasticità che consente di non sentirsi stretti, ma di sentire che la propria vita ha un margine, un magnifico potersi permettere una certa rilassatezza, un certo «prendersela con comodo». Il senso di un tempo e di uno spazio che non sono legati solo al comandamento del necessario, del dovuto. Il margine dentro cui individui e comunità possono non solo seguire le forme di vita che si sono date, ma viverle con stile, con il proprio stile. È quanto si prova ad ascoltare gli scherzi, l’insultarsi reciproco, lo sfottersi in dialetto dei gruppi di uomini al bordo di una piazza o sulla riva del mare di fronte alle reti. È quanto si prova nell’ascoltare le donne parlare dei propri figli e mariti, nel giu109
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dicare cosa è accaduto e cosa sta accadendo, nel raccontarsi i sogni e trarne indicazioni. Quel «lasso» che consente alla vita quotidiana di «rilasciare» il proprio sapore e che forse nulla come l’umorismo, l’ironia, la leggerezza riconquistata ogni giorno esprimono nel modo più pieno. C’è chi ha tentato di dimostrare da poeta che l’estetica è madre dell’etica. Nel discorso pronunciato al ricevimento del Nobel nel 1987, Josip Brodski ha parlato di questo: Nell’insieme, ogni nuova realtà estetica rende l’etica umana più precisa. Perché l’estetica è madre dell’etica; le categorie di buono e cattivo sono anzitutto e soprattutto estetiche, almeno etimologicamente visto che precedono quelle di bene e di male. Se non c’è etica, «tutto è permesso» precisamente perché «non tutto è permesso» in estetica, perché il numero dei colori dello spettro è limitato. Il bebè che piange e rifiuta un estraneo o invece si volge verso di lui lo fa istintivamente, facendo una scelta estetica e non morale.
Il punto per Brodski è che sono le regole formali dell’estetica, della poesia e della letteratura soprattutto a dare una forma diversa alla vita quotidiana, a trasformarne e curarne le sue ripetizioni, quando esse diventano preda di regimi che le usano per perpetuare il proprio «ieri» spacciato per domani. La filosofia dello Stato, la sua etica – per non menzionare la sua estetica – sono sempre «ieri». Il linguaggio e la letteratura sono sempre «oggi» e spesso, particolarmente nel caso in cui un sistema politico è ortodosso, possono perfino costituire il «domani». Uno dei meriti della letteratura è precisamente quello di aiutare una persona a rendere il tempo della propria esistenza più specifico, per distinguerlo dalla folla dei suoi predecessori e 110
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dei numeri, per evitare il destino di coloro che sono chiamati in modo onorifico «le vittime della storia». Quello che rende rimarchevole l’arte in generale e la letteratura in particolare, quello che le rende distinte dalla vita, è che esse aborriscono la ripetizione. Nella vita di ogni giorno potete ripetere la stessa battuta tre volte e tre volte suscitare una risata. Nell’arte questo è ciò che si definisce un «cliché».
Ma per Brodski l’estetica sarebbe madre dell’etica proprio secondo l’idea di Dostoevskij che «la bellezza salverà il mondo»: È precisamente in questo senso applicato, piuttosto che platonico, che dobbiamo capire l’osservazione di Dostoevskij che la bellezza salverà il mondo, o la convinzione di Matthew Arnold che la poesia salverà il mondo. Probabilmente è troppo tardi per il mondo, ma per l’individuo vi è ancora una chance. Un istinto estetico si sviluppa velocemente nell’uomo perché, anche se non capisce perfettamente chi è e di cosa ha bisogno, però istintivamente sa come persona quello che non gli piace e quello che non c’entra con lui. Sotto un aspetto antropologico, lasciatemi ripetere, un essere umano è una creatura estetica prima di essere etica. Per cui non è che l’arte e in particolare la letteratura sia un sottoprodotto dello sviluppo della nostra specie, ma proprio l’opposto. Se quello che ci distingue dagli altri membri del regno animale è il linguaggio, allora la letteratura – e la poesia in particolare, essendo questa la più alta forma di discorso – è, per metterla giù rudemente, il fine della nostra specie.
Brodski rivendica alla poesia e alla letteratura il ruolo di «precedere» la società e soprattutto di garantire ai suoi individui quella capacità di non doversi identificare con il «già» prima di loro e intorno a loro. 111
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Il punto non è che la virtù non costituisce una garanzia per produrre un capolavoro, ma che il male, specialmente il male politico, è sempre un cattivo stilista. […] Perché un uomo di gusto, specialmente uno che ha un gusto letterario, è meno suscettibile ai refrain e agli incanti ritmici propri di ogni demagogia politica. Più sostanziale è l’esperienza estetica di un individuo, più profondo il suo gusto, più acuto il suo discernimento morale, e più libero egli sarà – anche se non necessariamente felice [cfr. http://www.nobelprize.org/nobel].
Insomma, l’estetica sarebbe una matrice dell’etica perché la salverebbe dall’imbalsamamento al quale la condannano i regimi morali e politici, ma forse anche dal semplice carattere abitudinario della vita quotidiana. Dunque, la poesia come matrice, come archeologia della società, come garanzia che una società non si faccia irrigidire e non si irrigidisca nelle sue forme. La cosa divertente è che Brodski, da poeta, per giustificare queste affermazioni si rifà a una lettura antropologica che vedrebbe nel gusto e nel disgusto una delle prime affermazioni dell’essere umano.
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DICIASSETTE
L’impertinenza
Cosa porta gli uomini a essere virtuosi? Platone se lo chiedeva come uno dei rovelli principali della sua investigazione. Come era possibile che un uomo come Alcibiade, caro a Socrate quant’altri mai, educato nel più profondo culto delle virtù, diventasse poi uno dei traditori più abili della propria città, si vendesse agli Spartani per combattere i compatrioti Ateniesi e non pago di ciò si vendesse anche ai Persiani, al punto tale da concludere la sua vita ucciso – mentre si trovava in Persia – dagli Spartani stessi? Alcibiade era la dimostrazione che non basta l’esercizio delle virtù per diventare virtuosi e che la morale non è solo una questione di educazione. Probabilmente Platone ce lo ha voluto tramandare questo Alcibiade proprio perché rappresenta le risorse inesauribili dell’impertinenza, quel non riuscire e non volere «conformarsi» né al comportamento generale, né a ciò che ci si aspettava da lui. Alcibiade rappresenta il guizzo benigno o maligno che consente a chiunque di tirarsi fuori con 113
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un colpo di reni dalla maggioranza circostante. È un antidoto – pericoloso nel suo dare contro, ma pur sempre un antidoto – alla coerenza morale dei bigotti, alla buona educazione, alle virtù, che possono diventare perbenismo, fare il bene per apparire come parte del bene. Alcibiade è andato oltre: non gli interessa solo apparire buono. È un traditore che anzitutto tradisce le aspettative su di lui e un’immagine fissa di sé. D’altro canto, il suo maestro, il suo amante/amato Socrate, non è morto proprio per questo motivo, per dimostrare che c’è qualcosa che va oltre le leggi di Atene? Non è stato incolpato dell’infamia più grande, quella di non rispettare gli dèi della sua città? Socrate muore per aprire la possibilità dell’impertinenza, lui che in tutta la sua vita ha «molestato», ha dato fastidio, ha turbato con le sue domande e i suoi comportamenti la morale corrente. La morale ordinaria ha questo limite, il limite segnato da chi testimonia che c’è un modo di andare oltre. Il «bastian contrario», il testimone dell’eccezione, l’amorale, secondo i più, che però apre nuove vie alla morale di tutti i giorni, indica altre possibilità, fa muovere la morale ordinaria verso una dinamica che non le sembra propria, ma che poi le è essenziale se vuole davvero essere vitale. Da non confondere, tuttavia, con coloro che, soprattutto nella società a noi contemporanea, cercano il successo nell’essere immorali e fanno diventare morale corrente la propria immoralità. Il corrotto, il corruttore, è qualcuno che pretende che tutto il mondo sia corrotto con lui, che la sua immoralità diventi maggioranza. Per questo ha bisogno di farne pubblicità, di farla comparire in pubblico il più possibile. Nulla a che fare con il coraggio della «impertinenza», con il coraggio di dire e di fare quello che la maggioranza 114
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non pensa di dire e di fare. L’impertinente non cerca l’applauso, ma piuttosto l’essere pietra di scandalo, ostacolo al pecorume, resistenza al tutto va bene. Eppure, se si vogliono guardare le cose da un altro punto di vista, anche il lavoro del «bastian contrario» è possibile solo se esiste un contesto dentro cui la sua eccezione può avere rilevanza. Se abbiamo capito il motivo per cui ci siamo messi a scrivere questo libro, lo potremmo riassumere in una considerazione semplice che rubiamo a Marshall Sahlins. In Un grosso sbaglio [elèuthera, 2010], Sahlins ci invita a smettere di pensare e di credere che siamo in fondo cattivi e che abbiamo bisogno di qualcuno che ci governi e controlli per indicarci la retta via. L’antropologia ci insegna che la società come vita quotidiana insieme è capace di produrre le regole con cui sostenere una degna reciprocità, ma soprattutto racconta una verità scomoda, poco amata a destra come a sinistra, e cioè che la società viene prima dello Stato e dei riformatori e dei rivoluzionari di professione (le avanguardie, ahi!). Questo significa, dal nostro punto di vista, assumere il fatto che c’è un’etica come «relazione reciproca dell’essere» (che gli antropologi hanno potuto chiamare a volte parentela) in cui gli altri «diventano predicati della propria esistenza e viceversa», cioè nel senso che altri partecipano al mio «essere individuale. E se ‘io sono un altro’, allora anche l’altro è il mio stesso fine» [ibid., pp. 57-58]. La conseguenza di questa osservazione, continua Sahlins, è che «l’esperienza non è una funzione individuale. Dal momento e nella misura in cui le persone sono membri di un insieme, anche le loro esperienze sono condivise. Chiaramente non a livello di sensazione, ma a livello di significato: di ciò che è quel che sta accadendo, ovvero la qualità 115
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umana della comunicabilità in quanto tale» [ibid., p. 59]. E questo lega Sahlins all’etica ordinaria di Cavell e alla «mente locale», come combinazione tra esperienza e pratica di un luogo e di un ambito di persone. Così, il fatto che qualcuno possa ammalarsi «a causa delle trasgressioni morali dei propri parenti» è qualcosa di molto comune nell’esperienza etnografica. Questa «relazione reciproca dell’essere» come dato dell’esperienza antropologica ci salva dalle cadute della filosofia e dalla sua «ripulsa dell’umano». Sta dalla parte di quegli a-priori dell’esperienza di cui parlava Maine de Biran, poi ripresi dalla fenomenologia cara a Emmanuel Lévinas. Sta nella vita quotidiana come «dato» che ci precede e dentro cui siamo imbevuti di alterità. Tutto ciò non fonda, però, alcun essenzialismo etico, non fonda alcuna nuova «morale naturale», come vorrebbero tanto i neurolinguisti e le «facili» affermazioni delle neuroscienze. Non c’è un primato biologico della morale scolpito nei nostri neuroni specchio: se una delle molle è l’istinto mimetico, questo può facilmente volgersi nel suo opposto, perché la mimesi, come ci ha insegnato René Girard, porta tranquillamente all’antagonismo e all’omicidio – rituale o meno – dell’altro. In questo senso, l’etica ordinaria si pone come possibilità – e non come necessità – culturale. François Jullien, l’acuto studioso delle forme di vita in Cina, ci ricorda che una civiltà come quella cinese pensa la virtù di «umanità» (ren) come l’insieme del carattere per «uomo» e di quello per «due», per dire che «ogni virtù dell’uomo è nell’uomo e si manifesta appena si è in due» [François Jullien, Fonder la morale. Dialogue de Mencius avec un philosophe des Lumières, Grasset, 1995, p. 97]. L’uomo è già due, è già pluralità insita nella sua singolarità. 116
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Ma appunto si tratta di una possibilità, di una virtù che è virtuale e che va dispiegata come virtù d’umanità. Se questa «relazione reciproca» è condizione necessaria per l’esistenza di un’etica, da sola non sembra essere sufficiente al suo manifestarsi, perché presuppone un’idea condivisa di cosa chiamiamo «altro». Perché pensando a come si è chiuso il secolo scorso e a come si è aperto questo (Jugoslavia, Ruanda, Cecenia etc.), il problema è ancora e sempre cosa può accadere quando nella relazione tra due «insiemi» questi vengono assunti, per una ragione o per l’altra, con valenze differenti (è la vendetta della facile ammissione della differenza culturale, la vendetta del tanto conclamato multiculturalismo, che sopprime alla radice la possibilità che al di là della differenza l’altro sia me). C’è qui, dal punto di vista antropologico, qualcosa di sconvolgente: va bene, «la cultura è la natura umana», come sostiene Marshall Sahlins [op. cit., 2010, p. 121], mettendoci in guardia da ogni nuovo naturalismo che venga dai neotomisti o dai laboratori di neuroscienze, certo, siamo esseri sociali, ma proprio per queste ragioni dovremmo sempre ricordarci che ogni relazione può a un certo punto rompersi, saltare, mettere in crisi la reciprocità con le terribili conseguenze che purtroppo conosciamo, e sempre «culturalmente» portarci a distruggere il nostro vicino. Questo non è ovviamente, per fortuna nostra, un fatto di natura, ma sappiamo sostenere – letteralmente, tenere su, portare su di noi – che è uno dei modi in cui può realizzarsi «una forma di senso»? Qui si apre il dilemma di Platone su Alcibiade, ma si apre anche la chiave profonda dell’etica ordinaria, quella per cui essa non sfugge alla questione radicale della possibilità e della libertà. «La relazione reciproca dell’essere» non esclude Alcibiade e i suoi tradimenti e non esclude la li117
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bertà. Non esclude l’inesplicabile movimento per cui ogni storia, ogni destino individuale, si gioca come se fosse la prima volta, la relazione fortunata e fatale, terribile e fantastica, tra il nostro far parte del popolato mondo quotidiano e la parte di noi che ne rimane fuori.
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Finito di stampare nel mese di settembre 2012 presso Monotipia cremonese, Cremona per conto di elèuthera, via Rovetta 27, Milano