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Italian Pages 176 [200] Year 2011
Boris Cyrulnik
La vergogna Traduzione di Cristina Fulvia Romano
Boris Cyrulnik La vergogna Progetto grafico: studiofluo srl Impaginazione: Kibo graphic design Redazione: Manuela Pietrini Coordinamento produttivo: Enrico Casadei Boris Cyrulnik Mourir de dire. La honte © Odile Jacob, 2010 © 2011 Codice edizioni, Torino Tutti i diritti sono riservati ISBN 978-88-7578-287-0
Introduzione
Se volete sapere perché non ho detto nulla, vi basterà cercare ciò che mi ha obbligato a tacere. Le circostanze dell’evento e le reazioni di chi mi è accanto sono state ugualmente responsabili del mio silenzio. Se vi dico cosa mi è successo, non mi crederete, riderete, prenderete le parti dell’aggressore, mi farete domande oscene o, peggio ancora, avrete pietà di me. Qualunque sia la vostra reazione, mi basterà dirlo per sentirmi male sotto il vostro sguardo. Tacerò dunque per proteggermi, mostrerò solo la parte della mia storia che siete capaci di sopportare. L’altra, quella tenebrosa, vivrà in silenzio nei sotterranei della mia personalità. Questa storia senza parole governerà la nostra relazione perché nel mio intimo mi sono fatto discorsi non condivisi e racconti silenziosi, continuamente. Le parole sono pezzi di sentimento che a volte contengono qualche informazione. Una strategia di difesa contro l’indicibile, contro ciò che è impossibile da dire, doloroso da ascoltare, ha appena stabilito tra noi uno strano “ponte” affettivo, un muro di parole che permette di mettere in ombra un episodio inverosimile, una catastrofe nella storia, che mi racconto continuamente, senza pronunciare una sola parola. La non-condivisione delle emozioni insedia nell’animo della persona ferita una zona silenziosa che parla senza mai fermarsi, una sorta di bassoparlante, che mormora in sottofondo un racconto inconfessabile. È difficile tacere, ma è possibile non dire. Quando non ci si esprime, l’emozione si manifesta ancora più forte senza parole: finché soffre, un individuo ferito non parla, tutto ciò che fa è stringere i denti. Il non-detto ipercosciente se non viene condiviso configura una presenza estranea: “Questo uomo discute senza problemi, tuttavia sento che parla per nascondere ciò che non dice”. La
rimozione organizza interazioni diverse. Innanzitutto, non è cosciente, ma nei sogni si creano strane scenografie che lasciano sfuggire qualche enigma da decifrare. Colui che prova vergogna aspira a parlare, vorrebbe dire che è prigioniero del suo linguaggio muto, del racconto che narra a se stesso nel suo intimo, ma che non vi può dire tanto teme il vostro sguardo. Crede che morirà dal dire1, e allora racconta la storia di un altro che, come lui, è stato travolto da qualcosa di incredibile. Scrive un’autobiografia in terza persona e si stupisce del sollievo che gli dà il racconto di un altro identico a lui, un rappresentante di se stesso, un portavoce. Avere dato una forma verbale al suo sconvolgimento, e averlo condiviso nonostante tutto, gli ha permesso di abbandonare l’immagine di mostro che credeva di essere. È ridiventato come tutti, poiché è stato capito – e forse anche amato? La scrittura è una relazione intima. Anche quando si hanno migliaia di lettori, si tratta in realtà di migliaia di relazioni intime, perché nella lettura si rimane a tu per tu. Un ricordo di infanzia A Parigi a quei tempi, il Pont des Arts era poco frequentato. Ci si andava a passeggiare, chiacchierando a voce bassa. «Abito qui» mi ha detto Soufir indicando una casa rientrante rispetto al Palazzo dell’Institut de France. «Mio padre è molto ricco. Ha voluto che studiassi a Parigi e mi ha comprato un atelier d’artiste2 sul quai Conti… Me ne vergogno». Mai avrei pensato che si potesse provare vergogna per il fatto di abitare in un luogo tanto incredibile: dalla vetrata si potevano vedere i tetti dell’Institut, il Louvre e la Senna, in poche centinaia di passi si raggiungeva la facoltà di medicina in cui noi studiavamo. Io, invece, abitavo in rue de Rochechouart, tra Pigalle e Barbès, in una stanzetta senz’acqua né riscaldamento che doveva misurare meno di dieci metri quadrati. Ne ero quasi fiero perché l’avevo dipinta di rosso e blu, come
il quadro di Picasso Jacqueline con le braccia incrociate. Non mi vergognavo della galaverna sui muri e del ghiaccio sui vetri che simboleggiavano la prova del freddo e della povertà che avrei saputo dominare, ma provavo vergogna per l’enorme buco nel cavallo dei miei pantaloni, talmente sciupati che avrebbero certamente provocato il disprezzo degli studenti che lo avessero visto. Eravamo amici, Soufir e io, parlavamo con fierezza di ciò che era condivisibile. Mi raccontava la bellezza del Marocco, mi impressionava descrivendo i ricevimenti della sua famiglia e mi stupiva quando mi spiegava il senso di ammirazione mescolato a paura che provava per suo padre. Ma percepivo che tutte queste belle storie gli permettevano di tenere nascosta una parte dolorosa della sua esistenza familiare. Una sera, Soufir mi ha proposto di continuare la nostra discussione in un piccolo ristorante del quartiere. Ho voluto pagare la mia parte del conto, cosa che mi ha impedito di comprare i buoni pasto della mensa universitaria per quasi tutta la settimana. Mi sarei però vergognato di non essere all’altezza: dovevo sembrare a mio agio quanto lo era lui, se avesse pagato avrei percepito il suo regalo come una dominazione da parte sua, quasi un’umiliazione. Il non poter andare alla mensa universitaria per resto della settimana mi ha ricordato che dopo la guerra, quando ero stato piazzato in un’istituzione per bambini, cercavamo di farci assegnare al lavoro ai tavoli, così da raccogliere un pugno di briciole in più. Questo ricordo non mi umiliava, al contrario sentivo una vaga fierezza per avere conosciuto quella situazione, come la brina sui muri e il ghiaccio sui vetri di rue de Rochechouart. Tuttavia, non ne parlavo a Soufir tanto temevo di provocare il suo stupore o la sua pietà (come per i pantaloni sciupati). Uno stesso fatto dunque poteva suscitare un sentimento misto di vergogna e fierezza. Nel mio intimo, un pugno di briciole raccattate pulendo il tavolo non provocava umiliazione; provavo anzi un sentimento di vittoria, come se avessi fatto un piccolo affare rimediando quegli avanzi. Ma nel mondo fuori di me, quello dove le parole sono scambiate, chi avrebbe potuto comprendermi? Sospetto addirittura che noi, quei due amici che provavano vergogna,
siamo stati un po’ sprezzanti. A provocare il nostro sdegno era Alain: sempre contento di sé, la sua eterna soddisfazione ci esasperava. Ci dicevamo tra noi che doveva la sua felicità al fatto di essere incapace di vedere le difficoltà della vita (e ciò sottintendeva che il veleno della vergogna che si infiltrava in noi dipendeva dall’avere una coscienza). Come spiegarvi ciò? Ci sentivamo sminuiti dallo sguardo degli altri perché avevamo un buco nei pantaloni o perché nostro padre ci trattava come bambini regalandoci una casa troppo bella e tuttavia ci sentivamo più umani di Alain. Ci dicevamo che lui era protetto dalla sua incoscienza. Non provavamo ammirazione per la forza che gli dava la sua semplice visione del mondo: con sorriso soddisfatto, ci spiegava che non bisognava ripetere neanche un anno di medicina, perché questo fiasco avrebbe significato una perdita di pazienti nel momento in cui avessimo aperto uno studio in città. Alain sceglieva gli stage mal organizzati che permettevano di non andare in ospedale per guadagnare ogni mattina qualche ora di studio. Aveva calcolato che, poiché la preparazione dei concorsi e la lettura delle riviste faceva perdere tempo, era meglio dedicarsi a imparare solo lo stretto indispensabile per superare gli esami. Lo trovavamo stupido, quando ci spiegava che bastava scorrere le pagine di sinistra dei libri e scegliere alcune parole chiave in quelle di destra per strappare la sufficienza agli esami. Lo trovavamo meschino quando ci diceva che si preparava a sposare una ragazza ricca in modo da avere un’auto, una casa di villeggiatura e un aiuto materiale durante i suoi anni di studio. Non fu mai bocciato, si laureò molto giovane, non provò mai vergogna. Divorziò, lei si suicidò. Non si sentì mai colpevole. Noi, persone capaci di provare vergogna, disprezzavamo lo svergognato perché pensavamo che doveva la sua forza e la sua felicità sempliciotta alla sua assenza di morale. Noi, al posto suo, saremmo morti di vergogna. Eravamo forse fieri di pensare che una tale morte sarebbe stata la prova della nostra moralità? Non eravamo né mostri, né macchine da soldi, noi. Il veleno della vergogna testimoniava la nostra attitudine a patire lo sguardo altrui poiché noi gli attribuivamo molta importanza, prova del nostro senso morale. Soufir e io parlavamo di politica e letteratura; lui mi decriveva il Marocco:
la bellezza delle città e la ricchezza della sua cultura. Non ho mai saputo come suo padre guadagnava il denaro che lo faceva vergognare. Gli spiegavo il mio impegno politico, a sinistra ovviamente, le discussioni con i compagni, il nostro coraggio e le vigliaccherie di cui non mi vergognavo. Non evocavo mai i miei buchi al fondo dei pantaloni, nelle suole delle scarpe e nel tetto della mia stanza. Lui, il ricco straniero, non parlava mai dello strappo dalle sue origini; io, il povero straniero, neppure. Il silenzio delle nostre vergogne ci univa in un patto segreto. Ci scambiavamo le emozioni che si potevano condividere, ma nascondevamo le nostre mute sofferenze. Dicevamo io con piacere quando parlavamo del Marocco, dell’Europa centrale, di cinema o letteratura: malgrado la condivisione di questi racconti e di queste emozioni, il nostro intimo non riusciva mai a parlare in prima persona. Bisognava far tacere la parte “ammuffita” del nostro animo e parlare solo dei ricordi piacevoli per vivere insieme e avere qualche istante di felicità. La vergogna, incancrenita in fondo alle nostre coscienze, separava la nostra relazione in due zone, l’una piena di racconti e di amicizia e l’altra, silenziosa, che avvelenava le nostre vite intime. Abbassando la guardia anche di poco, potevano sfuggire una parola rivelatrice della nostra anima lacerata o un gesto che avrebbe mostrato l’usura dei pantaloni. Soufir ha lasciato l’appartamento senza un addio, senza una parola d’amicizia. Mi hanno detto che suo padre era stato imprigionato: la vergogna ha fatto fuggire il mio amico che non avrebbe sopportato il mio sguardo. Alain si è risposato, ha guadagnato molto denaro e si è ucciso andando a tutta velocità con la sua auto sportiva, senza avere mai provato il più piccolo sentimento di vergogna. Sessant’anni dopo, presso il porto di La Petite Mer a La Seyne, vicino a Tolone, discutevo con Laurent mentre rimetteva un’asse al mio pointu3: queste barche sono opere d’arte, ma dato che sono di legno, bisogna prendersene cura ogni giorno, altrimenti imbarcano acqua. Laurent mi raccontava che andava alla scuola del quartiere, proprio vicino al porto. I suoi genitori erano sordi e non sapevano parlare con la bocca: da bambino moriva
di vergogna quando vedeva le altre mamme che si occupavano dei figli parlando con loro. Immediatamente gli si è strozzata la voce: «Non avevo capito l’immenso regalo che mi hanno fatto, circondandomi di tanto affetto e dedizione, malgrado il loro handicap. Ho vergogna di essermene vergognato. Oggi sono fiero di loro». Ci sono molti bambini italiani a La Seyne. I loro padri sono venuti a lavorare nei cantieri navali, sui pescherecci e nelle coltivazioni di fiori. Félie, durante l’infanzia, sentiva regolarmente suo padre raccontare come era dovuto fuggire dall’Italia. Gendarme a Genova nel 1920, aveva ricevuto l’ordine di sparare sugli operai in sciopero: «Quando ho capito che stavamo per sparare, sono diventato verde, mi sono cagato nei pantaloni, ho abbassato il fucile», non ha mai cessato di raccontare con le stesse parole. Per una ragazzina è difficile ammirare un padre “verde di strizza che si caga addosso”: qualunque bambino avrebbe preferito che avesse ristabilito l’ordine dopo un eroico combattimento per poi essere decorato nella pubblica piazza. Diventata una storica, Félie analizzò il rapporto di un ufficiale tedesco che aveva fucilato 400 ebrei tzigani per vendicare i suoi compagni abbattuti dai partigiani, il quale concludendo scriveva: «Talvolta la sera, ci si ripensa»4. Immediatamente, questo documento ha cambiato il senso che lei attribuiva al ricordo di suo padre “verde di strizza”. «Da allora sono riconoscente a mio padre di essersi cagato nei pantaloni e avere visceralmente rifiutato l’assassinio di suoi simili»5. Giuseppe de La Moquette non era un eroe, nemmeno un antifascista. «Da dove gli viene questo rifiuto di uccidere che ci sconvolge le viscere?» si domanda Félie6: forse era abbastanza poco colto per sottomettersi alla retorica fascista, ma la sua personalità era sufficientemente autonoma da non farglielo fare. La semplice idea di avere ucciso un suo simile innocente gli sconvolgeva le viscere, per lui era un crimine assurdo. Alla stessa epoca (1939-1942), gli uomini del 101° Battaglione di riserva della polizia tedesca7 avevano ricevuto l’ordine di assassinare i bambini ebrei e tzigani della regione di Łódz´, in Polonia. La maggior parte ha eseguito gli ordini alla perfezione. «Ho assistito ai primi eccessi e massacri. Succedeva
sempre così […]. Per essere precisi, non ci diedero in un primo tempo l’ordine di fucilarli sul posto, si accontentavano piuttosto di mettere in chiaro che quella gente era inutile»8. Uccidere diventa rapidamente un’abitudine. Una minoranza di questi uomini, che era stata autorizzata a non partecipare ai massacri, quasi si scusava di non avere la forza di eseguire gli ordini: la scelta di questa parola per descrivere la missione dà all’esecutore un ruolo di agente in un sistema vincitore. Gli ufficiali del Battaglione avrebbero potuto dire che i loro uomini si erano sottomessi agli ordini, ma la scelta di questo termine avrebbe implicitamente orientato il pensiero verso un sentimento di debolezza, mentre la parola eseguire induceva un sentimento di forza meccanica. Si è fieri di eseguire l’ordine che permette di partecipare alla vittoria e all’epurazione, mentre si ha paura di essere sottomessi a ordini che non si comprendono. Queste “brave persone” del 101° Battaglione di riserva, importatori di tè, produttori di legna, piccoli imprenditori, vecchi comunisti trascinati nell’euforia nazionalsocialista, provavano il piacere di eseguire gli ordini, erano fieri di partecipare alla vittoria nazista e alla purificazione della società. Gli uomini che non avevano osato massacrare erano invece quasi vergognosi di non avere avuto tale forza: la loro astensione aveva indebolito il lavoro del Battaglione, non avevano preso parte al successo delle operazioni, avevano un po’ tradito i loro compagni lasciandoli soli a compiere le esecuzioni. Meno del 20% di questi gendarmi si è rifiutato di uccidere dei bambini: ne avevano diritto. Il luogotenente Buchman, 38 anni, membro del partito nazista, dice che non riesce a uccidere degli innocenti; come d’accordo, sarà semplicemente distaccato ad altro compito. Nessun eroismo, nessuna disobbedienza, solo la piccola onta di non avere avuto la forza mentale degli altri gendarmi ed essersi così dissociato dal gruppo. Giuseppe, il gendarme italiano, ha insozzato i pantaloni perché nel suo intimo la semplice rappresentazione di uccidere un proprio simile, per obbedire a un ordine senza senso, ha provocato nel suo corpo un’emozione che ha colpito gli sfinteri. Giuseppe non ha avuto vergogna di questa debolezza. Sua figlia da piccola avrebbe preferito un papà eroico, ma quando
ha raggiunto la maturità intellettuale è passata dall’onta alla fierezza. I bravi uomini del 101° Battaglione della polizia tedesca non hanno avuto vergogna di giustiziare una a una, nelle strade, negli ospedali e nelle scuole, 83 000 persone. Gli unici a non essere stati fieri sono coloro che non hanno avuto la forza di obbedire. L’istinto gregario ha dato fiducia agli esecutori, mentre i deboli, coloro che non hanno potuto partecipare all’estasi del gruppo, si sono sentiti messi in disparte, quasi traditori. Giuseppe si rappresentava uomini come lui, impossibili da uccidere, mentre nell’animo degli esecutori nessun uomo è stato assassinato: questi poliziotti hanno solo ripulito la società di qualche Stück9, parassita o sporcizia non umana. La vergogna, questo sentimento velenoso, questo ascesso nell’anima, non è irrimediabile: si può passare dall’onta alla fierezza quando la nostra storia evolve o per il modo in cui stiamo nel nostro gruppo culturale di riferimento. Conosco sostanze che provocano furori immotivati e liquori che portano a euforie senza ragione, ma non conosco prodotti che inducano la vergogna perché questo sentimento nasce sempre dentro una rappresentazione. Nel segreto del mio teatro intimo, metto in scena ciò di cui non posso parlare, tanto temo quello che potreste dirne voi. «Non è necessario modificare i fatti… Si tratta sempre di svelare un segreto, di confessare… L’orgogliosa vergogna… metamorfosi […] che tramuta un destino subìto in destino dominato»10. Questa poi: si può dunque uscirne?
La vergogna
Capitolo 1
Uscire dalla vergogna come si esce da una tana
Strano silenzio dei feriti dell’anima Strano silenzio dei feriti dell’anima: «Ho saputo all’età di 16 anni che un giorno non avrei più visto. Animato dalla smania di rivincita e per amore dei miei […] ho deciso di non dire nulla, nemmeno ai miei genitori»1. Stordito dall’annuncio, Jacques è tornato a casa, ci ha messo più di un anno prima di osare parlare con qualcuno. Sapeva che appena avesse detto che stava diventando cieco coloro che amava ne sarebbero stati addolorati. Dire è un errore, inconfessabile. Condividere un’emozione calma il ferito2, ma trascina coloro che egli ama nella sua sofferenza. Si tratta di un vincolo, non è vero? Con quale diritto si trascinano i propri cari nella sofferenza? Allora si tace, cosa che offusca la relazione e mette un’ombra tra noi. “Alla vergogna che mi fa tacere si aggiunge, se parlo, il senso di colpa di trascinarvi nel mio dolore”. Fortunatamente la scrittura, il teatro, il romanzo o qualunque altra rappresentazione domina l’emozione dandole una forma artistica che permette una relazione intima con degli estranei. Ecco perché la confidenza è più facile, più leggera con uno sconosciuto, che non si rivedrà mai più, che con una persona vicina con la quale si organizza la propria esistenza. Il peso delle parole non è lo stesso. La condivisione dell’emozione può essere piacevole o angosciante a seconda del tipo di legame affettivo: se si tratta di gioia o felicità non è difficile con coloro che si frequentano; si può addirittura provare una certa
soddisfazione a condividere la pena di coloro che amiamo, per rasserenarli3. Ma chi vorrà dividere alla mia onta? Chi non proverà imbarazzo quando racconterò “le trappole sessuali che mio padre mi tendeva?”. Questo uomo era un punto di riferimento per la comunità, stimato per le sue azioni umanitarie; parlava bene, aveva fascino e si impegnava con generosità in azioni sociali. Era molto apprezzato. Ma la sera, trafficava con la serratura della camera di sua figlia perché lei non potesse chiudersi dentro oppure faceva finta di dormire nella sua poltrona e, quando lei gli passava vicino, la agguantava all’improvviso. Come dire tutto questo senza rischiare di provocare incredulità: “Conosco tuo padre, non potrebbe mai fare questo”. Lo stupore, la nausea o la morbosità oscena influenzano le emozioni dell’ascoltatore. «L’incesto non fa parte della storia»4, non si possono raccontare in pubblico gli abusi sessuali di un padre socialmente stimato. Le situazioni che causano rappresentazioni non condivisibili sono numerose: l’incesto, l’aggressione sessuale, soprattutto per una donna, non sono raccontabili. Immaginate che un padre racconti ai suoi figli, mentre serve deliziosi manicaretti, che verso l’età di 12 anni, quando era in collegio, una donna di servizio veniva ogni tanto la sera, strappava le coperte, faceva quanto necessario per provocare un’erezione, si metteva a cavalcioni del ragazzo e andava via senza dire nulla, lasciandolo completamente sconcertato. Una sola parola di questa donna avrebbe stabilito una relazione umana, la loro assenza aggravava la sensazione di essere l’oggetto sessuale di una sconosciuta: la vergogna. Come dire tutto questo ai vostri figli: impossibile. Ai vostri amici: impossibile. Le loro reazioni stupefatte o ironiche sarebbero un’umiliazione aggiuntiva. «Anche in analisi ho avuto difficoltà a raccontarlo. Ho chiesto di concludere la seduta al bar all’angolo… Come se avessi voluto trasgredire… Non è normale… Mi vergogno di quello che mi è successo… Non sono come tutti gli altri». La persona che prova vergogna mantiene il segreto per non mettere in difficoltà chi ama, per non essere disprezzato e per proteggersi preservando la sua immagine. Questa reazione di legittima difesa genera uno strano discorso:
chi si vergogna preferisce ciò che è banale, distante, superficiale, sentendosi così meno a disagio. All’improvviso, per via di una parola o di un’incomprensione, un silenzio angosciante appesantisce la relazione: queste tensioni ripetute, inattese, incomprensibili per gli altri costano fatica. Niente sfinisce un organismo più dell’inibizione, l’obbligo di non muoversi, di non dire, come una preda immobile in posizione di allerta. Un tale silenzio comportamentale e verbale protegge in un contesto di aggressione, ma non appena l’ambiente cessa di aggredire diventa autodistruttivo. L’adattamento, la legittima difesa in un contesto di guerra o percepito come tale, si iscrive nella memoria come un allenamento e influenza poi tutte le relazioni. Perché tacere quando non si ha più bisogno del silenzio per proteggersi? Perché restare in allerta quando il nostro contesto ci invita a una relazione serena? La memoria ci gioca brutti scherzi quando continua a rispondere a una passata aggressione mentre si vive in un ambiente senza violenza: bisognerebbe evolvere insieme a questo ultimo, cosa non sempre possibile. I bambini imparano così facilmente che, anche quando il loro contesto cambia, continuano a reagire a seconda di quello che hanno già appreso. La maggior parte delle volte, i piccoli che hanno subito delle ferite sono etichettati come bambini difficili e, non essendo sostenuti, lo diventano. Ma quando l’invito alla condivisione rende più serene le loro emozioni e quando il contesto culturale permette di rimaneggiare il sentimento provocato dalla rappresentazione della ferita, la vergogna si trasforma. Da quel momento, il loro destino è influenzato dai discorsi culturali che si fanno attorno a coloro che provano vergogna. Il detrattore intimo Questo veleno dell’anima è difficile da condividere perché “confessare” la causa di una vergogna significa abbandonarsi all’altro, rimettersi al suo potere di giudicarci. Non è raro che una persona che prova vergogna e che si confida provochi «più spesso una reazione critica da parte degli ascoltatori»5. Poiché
il silenzio ha una funzione difensiva, la rivelazione del segreto mette in pericolo colui che parla. Il destino della sua vergogna dipende dalla reazione del confidente, dai miti della sua cultura e dai suoi pregiudizi. Poiché c’è una vittima, c’è stata prossimità fisica tra aggressore e aggredito: ci sarebbe stata una complicità che non ci stupirebbe. D’altra parte in numerose culture si giudicano ancora le corresponsabilità dell’aggressione. La persona che prova vergogna, spersonalizzata dall’aggressione, non ha avuto la forza di opporsi alla presa da parte del suo dominatore né di affermarsi di fronte a lui: si sente meno dell’altro, inferiore, sminuita. Curiosamente, questa enorme lacerazione di sé crea un sentimento morale: “L’altro conta più di me. Studio l’aggressore per controllarlo meglio e mi metto a disposizione di coloro i quali sono stati, come me, aggrediti”. Questa maniera di pensare è un «segno che non c’è perversione»6. Quando Narciso esclama: «Sono il più bello della Terra perché esisto solo io», la persona che vive la vergogna mormora: «Conta solo lo sguardo dell’altro. Se scopre chi sono, morirò di vergogna. Evitare il suo sguardo mi proteggerà. Mi scanso davanti a colui che sento come dominatore». Ma quando si tratta di difendere i suoi “fratelli” invece si sente capace di aggredire l’aggressore. Questa difesa tramite l’attacco gli permette di dimostrare a se stesso che non è così miserabile come crede: aiutare un ferito, comprenderlo, identificarsi con lui, permette in uno stesso movimento di affrontare l’aggressore e rivalutare l’idea spregevole che si ha di sé. La persona che si vergogna è un anti-Narciso, l’altruismo è la sua arma: “Per proteggere gli altri, oso attaccare Narciso che pensa solo a sé e che, confessiamocelo, disprezzo un po”. Aiutando i feriti, aggredendo Narciso, la persona che si vergogna blocca la propria emorragia narcisistica: l’altruismo e la morale si sono alleati per assassinare Narciso il perverso. Trasformare un evento in una storia è un altro modo di aiutare gli aggrediti. Lo scritto o il racconto della storia per una persona ferita è un’arringa che prova a spiegare le cause del suo sminuirsi e rendere meno opprimente lo sguardo altrui. La vergogna è più leggera quando l’entourage
cerca di comprendere e di non giudicare. Quando si racconta la storia di un personaggio che rappresenta se stessi, un portavoce a cui si fa spiegare perché si è dei sotto-uomini, si trae in salvo un “altro-come-sé” e, davanti allo specchio, ci si vergogna di meno. Nel mondo intimo di un essere che si vergogna abita un detrattore che crea dolore e che non smette di mormorare “Tu sei miserabile”, mentre nell’intimo di chi prova senso di colpa ha sede un tribunale che senza sosta lo condanna: “È colpa tua”. Chi si vergogna si nasconde per soffrire meno o tenta di ridarsi valore di fronte allo sguardo altrui. Il colpevole si punisce per espiare: gli afflitti pensano di meritare la morte tanto grande è il loro crimine immaginario; allora, se la sentenza non li distrugge, si puniscono da soli con autoflagellazioni o comportamenti fallimentari. Si stupiscono di rovinare la relazione con la donna che amano e si chiedono perché dimenticano di mettere la sveglia proprio la mattina in cui devono presentarsi a quell’esame, preparato così bene. “Hai solo quello che ti meriti”, decreta il tribunale immaginario. Non crediate che il senso di colpa non abbia punti in comune con quello della vergogna: avere origini diverse non impedisce di andare di pari passo. Penso alla signora M. che aveva dovuto occuparsi di sua madre, colpita dal morbo di Alzheimer. Per quasi vent’anni era stata madre di sua madre, cosa che non le aveva impedito di essere a sua volta madre dei suoi figli e moglie di suo marito. Imprigionata nell’affetto che la rendeva responsabile, si sarebbe vergognata ai suoi stessi occhi di non dedicare i suoi sforzi alla madre malata. Quando infine questa è morta, la perdita ha provocato un dolore immenso e, nello stesso momento, qualche vampata di felicità estatica. “Finalmente libera! Stasera posso andare al cinema con mio marito!”. Terribile gioia. Sentì subito il peso della vergogna di essere felice perché la madre era morta: è normale soffrire per la morte di coloro che si amano, è indecente vivere con gioia la loro perdita. Non si scappa dal senso di colpa, ci si adatta per soffrire di meno. Allora si inventano costose strategie di espiazione, autopunizione o redenzione superficiale. “Mi faccio del male perché ho fatto del male”, pensa colui che
esegue le sentenze del suo tribunale interiore. Non si capisce perché ci si lascia punire, non se ne è consapevoli tanto è forte la rimozione. E quando si lascia uscire dall’ombra l’immagine della colpa, ci si batte il petto ripetendo: «È colpa mia, è la mia grande colpa». Non ho mai sentito dire: «È la mia vergogna, la mia grande vergogna»; ho però spesso visto chi prova questo sentimento nascondersi il viso tra le mani, come se questo gesto volesse dire: «Non sopporto di guardarvi mentre mi vedete in questo stato. Il vostro sguardo mi trapassa fin nella mia intima mediocrità». La vergogna e il suo contrario Ci si abitua alla sensazione della vergogna evitando le situazioni, fuggendo o chiudendosi in se stessi e così facendo si alterano le relazioni. Nonostante tutto si finisce sempre per uscire dalla vergogna, ma come si esce da una tana. Con l’età la sensazione si placa, perché si è diventati più forti, più fiduciosi in se stessi, e poiché, avendo personalità meglio definite, ci si accetta per quel che si è, accordando meno potere allo sguardo degli altri. La vergogna è meno viva perché le nostre emozioni meno intense sono più facili da dominare. Ma non è raro che la vergogna si trasformi nel suo contrario, assumendo un’aria di superiorità. Una sera a Bordeaux, durante una riunione in sinagoga, una donna ha raccontato che, quando era bambina durante la Seconda guerra mondiale, aveva dovuto cambiare nome per sfuggire alla morte. Nascondendo le sue origini ebraiche aveva potuto sopravvivere, ma moriva di vergogna sentendo ogni giorno i coraggiosi contadini che la proteggevano spiegare che avevano difficoltà finanziarie a causa degli ebrei, responsabili della guerra. Dopo la Liberazione, unica sopravvissuta della sua famiglia, ha continuato a nascondere la sua identità ebraica, tanto la vergogna era impressa nella sua memoria. Pensava confusamente: “Sono appartenuta a una famiglia ebrea responsabile della sventura di persone coraggiose che mi hanno tenuta nascosta a casa loro. Basta non dire che sono ebrea perché tutti mi vogliano
bene, ma se pronuncio la parola ebreo coloro che amo mi guarderanno con ostilità”. Dal segreto che le aveva salvato a vita durante la guerra, era passata al non-detto che le permetteva di vivere in armonia con le persone che le erano vicine: avrebbe tanto voluto svelarlo, ma per far ciò le persone intorno a lei avrebbero dovuto premetterle di parlare. Un giorno, superati i 60 anni, mentre prendeva il tè con una vicina, le ha detto: «Sapete, io sono ebrea». Dal momento che questa “confessione” non aveva rapporto con la conversazione, la vicina aveva proseguito con il suo discorso. Con questa semplice dichiarazione, la signora ebrea aveva in poche parole scoperto che il suo detrattore intimo si era messo a tacere. Allora, a ogni incontro diceva: «Sapete, io sono ebrea». I vicini si interessavano alla Shoah perché la cultura nel frattempo era cambiata e i discorsi in proposito non mettevano più in luce le stesse storie. Alcune persone hanno pensato che questa signora cercasse di attirare l’attenzione, interpretavano come arroganza ciò che per lei era soltanto un piacere di libertà. È così che la parola onta può significare esattamente il suo contrario. Stanislas Tomkiewicz è nato a Varsavia nel 1925: non un buon anno per nascere ebrei. Dopo le persecuzioni antisemite, fu rinchiuso nel ghetto, poi deportato in un campo di sterminio. Con la Liberazione, adolescente in fin di vita fu portato in Francia dalla Croce Rossa. Qualche decennio più tardi, divenuto psichiatra di fama internazionale, fu invitato a Gerusalemme. Pietrificato, guardava i soldati israeliani controllare gli arabi e mormorava: «Rieccoci… Rieccoci…». Lui, d’abitudine così gioviale, era diventato cupo. Ha detto: «Sentivo l’onta di essere ebreo». Ma la sua onta non designava affatto lo stesso sentimento della signora di Bordeaux: quando lei usava questa parola, evocava solo una pericolosa sensazione di sminuimento, l’appartenenza a una comunità insozzata; mentre Stanislas intendeva dire che era fiero di provare vergogna, come se avesse affermato: «Non mi metto dalla parte dell’aggressore, io. So troppo bene cos’è, mi ricorda Varsavia, tutto ricomincia!». Dicendo che provava vergogna, esprimeva la fierezza di stare dalla parte degli oppressi e, malgrado la sua appartenenza a un gruppo di dominatori, se ne distaccava.
Tale procedimento di «rovesciamento nel suo contrario»7 non è raro nella vita di tutti i giorni. Si vedono obesi che mettono in mostra la loro grassezza cantando in una corale di persone grasse, calvi che fanno umorismo sulla loro calvizie, omosessuali che organizzano un esuberante gay-pride. «Mi capita persino di trovarlo piuttosto simpatico»8, questo sentimento di vergogna che spesso provo. Quando esso è piccolo dimostra che non sono un dominatore, è come dire quanto sono fiero della mia modestia. Si può quasi sentire un piacere erotico provando un po’ di vergogna, come una donna che si mostra nuda per la prima volta, esponendosi allo sguardo dell’uomo di cui ambisce il desiderio: “Per stimolarlo, devo accettare di mettere in scena un delizioso imbarazzo sessuale che ci condurrà all’intimità”. Gli uomini timidi che si vergognano della loro erezione dicono di essere imbarazzati dall’espressione fisica del loro desiderio, non dicono mai di essere colpevoli della loro voglia9. «Quando sono nuda, sola nella mia stanza da bagno, non provo vergogna» dice la donna «anche se mi capita di essere triste vedendo la mia cellulite»; «Quando ho un’erezione in presenza del mio gatto» prosegue l’uomo «non gli chiedo di voltare la testa per evitare il suo sguardo». Ma quando è nuda in presenza dell’uomo da cui vuole essere desiderata, una donna vuole talmente essere perfetta e sexy ai suoi occhi che «la vergogna può essere legata al fallimento delle nostre pretese personali»10. Lo strappo tra ciò che sono e ciò che aspiro a essere costituisce una vera e propria ferita traumatica. Quando la realizzazione di sé è deprimente se comparata al sogno che si ha di sé, l’immagine lacerata che ci rappresenta ai noi stessi crea un sentimento di vergogna ai nostri occhi, mentre agli altri non appare così. Trasparenza della persona che si vergogna La povertà mette in campo una situazione simile a quella sopra descritta. La miseria non è un vizio, ma gli stracci che la rivelano mostrano un’immagine malandata che fa vergognare il bisognoso. Un paio di pantaloni
sciupati hanno l’effetto di una scrittura di sé che dice agli altri cose che vorremmo nascondere. La vergogna della miseria si prova nella trasparenza: “I miei pantaloni sciupati danno a vedere, malgrado me, il mio degrado sociale”. L’adolescente credendo che sua madre abbia indovinato i suoi sogni erotici muore di vergogna sotto il suo sguardo, mentre la donna non può ovviamente entrare in quel mondo intimo in cui non c’è posto per lei. Durante la giornata, l’adolescente si è sentito penetrare dallo sguardo di sua madre che ha esaminato i suoi comportamenti e “frugato” nei suoi vestiti. Quindi la notte, mentre fa sogni erotici, la sua memoria torna al sentimento di essere stato scoperto. Più tardi, diventato autonomo, potrà comprarsi dei pantaloni o presentare la propria fidanzata a sua madre, potrà ridere dei suoi pantaloni sciupati, vantarsi di avere vinto la miseria e stupirsi della sua ossessione di avere una mente trasparente. Uscito dalla miseria e liberato dalla dipendenza dai genitori, rimaneggerà la rappresentazione di sé. Una simile vergogna spersonalizzante, attribuendo all’altro il potere di uno sguardo severo su di sé, diventa una sorta di masochismo morale, che è l’opposto del masochismo perverso. De Sade e Sacher-Masoch pensano che l’altro non sia niente di più di uno strumento di piacere: per credere di incontrare una persona e non un semplice oggetto sessuale, dovrebbero interessarsi al suo mondo intimo, conoscerne la storia e scoprirne i valori. Un perverso non sa neanche che ci si può porre la questione dell’esistenza del mondo altrui. Mentre chi prova vergogna è così concentrato su ciò che l’altro pensa di lui che la sua strategia relazionale, a furia di non affermarsi, altera l’intersoggettività. La vergogna post-traumatica spinge talmente ad annullarsi che finisce per mettere in imbarazzo il partner: “Guardate chi sono. Come volete che lei ami un poveretto come me? Per amarmi deve averne vantaggio. Le darò tutto per meritare una parte del suo affetto”. Una tale negoziazione affettiva spersonalizza la persona che, pur di farsi amare, si infila da solo nella trappola della depressione per sfinimento. Ecco perché il burn-out11 è così frequente nelle relazioni di aiuto professionale: il 30% delle infermiere ne
soffre; il personale curante, non protetto dalla distanza affettiva concessa dalle macchine, ne soffre anche di più. La fine del trattamento, con lo scopo di lasciare sopraggiungere la morte del malato, è una sofferenza per colui che cura, una lacerazione insidiosa12. Questa percentuale è ancora più alta tra gli psicoterapeuti. Una relazione troppo fredda, senza canalizzazione dell’affetto sulla persona che si ha in cura, non invita all’elaborazione mentale; ma quando il transfert tocca il terapeuta evocando un momento doloroso della sua storia, colui che cura non ne esce indenne. Questa tendenza a mettersi nei panni dell’altro, questo eccesso di empatia, definisce una strategia etica che al contempo rende vulnerabili. Witold Gombrowicz, nato in una famiglia aristocratica polacca che proveniva dalla nobiltà lituana, avrebbe dovuto diventare giurista per amministrare la fortuna familiare. Ma quando, all’età di 10 anni, scopre l’«abominevole verità» la vergogna gli piomba addosso: «Noi, i “signori”, eravamo un fenomeno assolutamente grottesco e assurdo, stupido, dolorosamente comico e persino ripugnante»13. Umiliato dal suo stato di aristocratico non meritato, il bambino comincia a vergognarsi della sua nobiltà, tanto quanto altri muoiono di vergogna perché sollevati dalla morte della loro madre. «Più sono dominante, più la sventura dei dominati mi umilia» dicevano gli aristocratici nella notte del 4 agosto 178914, quando si sono spogliati dei loro privilegi. Un’analoga vergogna nasce dallo spirito di Sacher-Masoch, la cui ricca famiglia era coperta di privilegi. Una fortuna immensa: «Mio padre […] gli spettavano dei cospicui emolumenti e aveva, inoltre, un appartamento principesco nell’edificio della questura: riscaldamento, luce, carrozza, palco in teatro, tutto a spese dello stato»15. Potreste gustare pietanze deliziose mentre alla vostra tavola un bambino affamato vacilla per la consunzione? Per abbandonarvi al piacere di mangiare, dovete dargli parte del vostro cibo. È reagendo così che il piccolo Léopold Sacher-Masoch assiste al combattimento dei rivoltosi di Praga del 1848. A 12 anni, sale sulle barricate e si inebria del «rumore secco dei colpi che partivano dai fucili, gli squilli di tromba, il rullare dei tamburi, i comandi lanciati dagli ufficiali, le grida dei combattenti, i
gemiti dei feriti, tutto ciò suscitava in me sensazioni inebrianti»16. A partire da questo giorno di rinascita spirituale, Léopold consacra la sua esistenza alla condivisione con i poveri, alla difesa degli oppressi, non avendo altra possibilità di essere felice che donando un po’ di felicità. Per questi due ragazzi, Witold e Léopold, la potenza e la ricchezza sono fonti di vergogna perché ottenute opprimendi gli altri. Ci si può liberare della vergogna andando in soccorso dei deboli e degli oppressi: è a questo prezzo che ci si permette la dolcezza del sollievo e il piacere dell’erotismo. Il picco della vergogna culmina nell’adolescenza, in quel periodo in cui il nascere del desiderio spinge il giovane a chiedersi: “Chi sono io sotto lo sguardo altrui? Sono disgraziato a causa degli stracci che fanno intravedere la mia miseria o a causa della mia ricchezza che umilia gli altri? Che io sia ricco o povero soffro per quello che vedo di me nello sguardo altrui”. Si può cancellare la vergogna come uno schiavo che acquista la libertà affascinando il padrone, salendo sulle barricate per dare un’immagine di sé di persona che salva gli oppressi, diventando muratore per ritrovare la propria dignità di uomo disumanizzato o scrivendo un libro per ridare valore a coloro che sono stati sminuiti. Il giorno del suo arrivo ad Auschwitz, Primo Levi ha riconosciuto un guardiano, chimico come lui, e ha cercato di avvicinarlo. L’uomo delle ss ha guardato altrove, facendo capire al deportato che era trasparente: ai suoi occhi, non era più un uomo. Si poteva dunque gettarlo in un forno senza provare il sentimento di aver compiuto un crimine. Ma quando Levi, privato della sua umanità, incontra Lorenzo che nell’orrore del reale aveva mantenuto la sua dignità, lo guarda, lo ammira e lo imita, salvando così se stesso dalla vergogna «Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo»17. Si condivide il proprio piacere, si esprime la propria collera, si nasconde la propria vergogna “Vi do il potere di sopraffarmi per la vergogna o di restituirmi la mia
dignità”. Che curioso dilemma. La plasticità di questo sentimento dipende dall’influenza che si accorda agli altri. E questo potere è muto. Tuttavia, è possibile analizzarlo e valutarlo. Bernard Rimé ha spedito un questionario a 913 persone dai 12 ai 60 anni18: «Quali emozioni forti avete provato negli ultimi giorni?». Con questo metodo ha raccolto numerose testimonianze di collera, tristezza, paura e di altre emozioni. La vergogna venne citata in più della metà dei casi. Ma quando lo scienziato ha chiesto: «Di quali emozioni avete parlato al vostro coniuge, alla vostra famiglia, ai vostri amici e al lavoro?» ha ottenuto risposte stupefacenti. La collera e la depressione sono state le emozioni più facilmente espresse: le persone vicine hanno potuto dunque condividerle grazie alle parole. Tranne che per la vergogna: frequente, intensa, in grado di sconvolgere gli animi, di avvelenarne alcuni e disorientarne altri, la vergogna resta muta. Non è sgradevole raccontare la propria collera. Il passaggio all’atto della parola ha un effetto tanto rasserenante quanto una scarica d’energia: “Devo dirlo!”. Quando un altro condivide la nostra collera, si è meno soli, ci si sente capiti quando si crede che la persona con cui parliamo prenderà le nostre difese e diventerà nostro alleato. Si è rasserenati dall’atto di parlare, rassicurati dalla comprensione attribuita a colui che ci ascolta. La depressione oggi ha più facilmente voce. Non si può ancora dire: «Sono stato ricoverato tre mesi all’ospedale psichiatrico»; ma si possono scegliere parole come: «Ne ho abbastanza, sono scoraggiato, non trovo piacere in niente», che ci permettono di condividere un sentimento che l’altro ha probabilmente provato a sua volta. Restiamo tra la gente normale, insomma, malgrado la depressione. Le parole della vergogna sono più difficili da dire perché temiamo la reazione dell’altro. Immaginiamo che qualcuno ci dica: «Sono in ritardo, scusatemi, mi hanno appena violentata salendo le scale per venire da voi». Qualunque sia la vostra reazione, essa sarà negativa. Non si può rispondere: «Non è niente, non bisogna pensarci più». Si vede spesso, nell’esitare dell’ascoltatore e nel suo sguardo malizioso, il tentativo di scoprire come la
vittima abbia potuto provocare l’aggressore. Dopo avere espresso la sola reazione possibile: «Ti aiuto a tranquillizzarti, poi andremo insieme al commissariato», lo scarto del tempo avrà già modificato il sentimento della vergogna. Quando si è diventate più forti, a molti anni di distanza, si può dire: «Sono stata violentata», ma quando si è appena state umiliate, il sentimento di degradazione impedisce l’espressione di sé. La riuscita, una maschera della vergogna È incredibile quanto la sventura altrui sia appassionante. Ecco perché chi è ferito non controlla la reazione delle persone con le quali si confida. I pompieri sono eroi, si ammira la loro forza e il loro coraggio, sono invulnerabili perché ci salvano: niente li spaventa, né il fuoco, né la morte. Ma un giorno, il supereroe vacilla, si rinchiude in sé, si mette in disparte e si nasconde per piangere19. Si vergogna di essere scalfito dagli orrori che ha dovuto superare. E i testimoni beffardi provano un piccolo piacere nel vederlo finalmente sminuito, come chiunque altro. Allora, poiché la vergogna non si può esprimere e poiché non possiamo vivere se non tra gli altri, ci servono strategie per uscirne. L’ambizione è un’eccellente maschera della vergogna quando il soggetto sminuito diventa fiero della sua ribellione: “Credete che io sia un poveretto, e beh, vi farò vedere chi sono realmente!”. Questa reazione compensatoria dà all’umiliato la forza di riabilitarsi, ma in questa legittima difesa la vergogna rimane il riferimento: la persona che la prova non si libera del suo veleno, ha semplicemente trovato un antidoto necessario e costoso20. Tutti i suoi sforzi sono ormai consacrati al successo, alla riuscita, che permette di mettere in scena un’immagine vittoriosa di sé: parlando solo delle sue vittorie, egli maschera gli insuccessi che silenziosamente lo avvelenano. Dietro la gloria sociale si costruiscono le cripte dove mormorano i fantasmi21. La riuscita non è sempre una prova di realizzazione, spesso è il beneficio secondario di una sofferenza nascosta: d’altra parte, coloro che hanno coniato questo termine
hanno compreso che si trattava di liberarsi della vergogna, come uno schiavo che ha acquistato la libertà. Pensiamo alla stessa parola italiana riuscita22, trovare una via di uscita alla propria sofferenza, un’uscita quando si è imprigionati, bloccati nei binari che obbligano alla ripetizione. Chi muore dalla vergogna improvvisamente capisce che potrà uscirne facendo esattamente il contrario di ciò che ha avvelenato i suoi sentimenti. In questo caso, la riuscita è una lotta e non una realizzazione. Non è raro che un ragazzo magro con un po’ di pancia si senta brutto agli occhi delle ragazze: vergognandosi del suo corpo a un’età in cui deve essere desiderabile, va regolarmente in palestra e in qualche mese si trasforma in “Mister Muscolo”. Dedicandosi moltissimo a modificare il suo corpo rinuncia anche agli studi, ma allo specchio finalmente si piace. Non si vergogna più del suo corpo, si chiede però perché continua a non piacere alle ragazze anche se ormai ha muscolosi bicipiti. Ha compensato la vergogna di avere un corpo magro e flaccido, ma non ha migliorato la sua capacità di costruire relazioni affettive23. La lotta compensatoria contro la vergogna è una legittima difesa, certamente non una realizzazione resiliente. «I meccanismi di liberazione esigono un lavoro in profondità […] per uscire dall’inibizione e dinamizzare nuovamente le proprie potenzialità creative […] trasformare il proprio rapporto con le norme sociali»24. La meravigliosa Romy Schneider aveva 11 anni quando venne mandata in un collegio religioso vicino a Salisburgo: sua madre andava a trovarla tre o quattro volte all’anno, suo padre mai. Magda Schneider, la madre appunto, era una celebre attrice, amica di Hitler e molto impegnata nella propaganda nazista. «Come si può essere tedeschi?»25 si chiede la bambina la cui personalità si sviluppa nel dopoguerra, immersa nella descrizione dei crimini nazisti. La vergogna delle sue origini è una costante amarezza per Romy, la cui «ribellione prende la forma più semplice per una ragazza della sua età: innamorarsi di ragazzi che non piacciono a sua madre»26. Non si tratta proprio di libera scelta di un compagno, quanto piuttosto di un’opposizione all’impegno ideologico della madre. Romy, divenuta madre a sua volta, darà
ai suoi figli nomi ebraici per sottolineare la rottura con i genitori e compensare la vergogna: amando ciò che sua madre aveva perseguitato. Molti giovani tedeschi sono riusciti a liberarsi della vergogna di avere genitori simili, opponendosi pubblicamente a loro. Ma nella prossimità affettiva delle relazioni familiari, il non-detto, per il suo silenzio, opprime tutta la famiglia: Lei da me non saprà niente. Niente, neanche una parola. Quello che hanno fatto resterà un segreto […]. I miei bruciano nel fuoco dell’inferno […]. Nato colpevole, mi hanno lasciato qui solo, e colpevole […]. Una volta, un’unica volta, mio padre si è sbronzato al punto da lasciarsi sfuggire quanto sia stato terribile il giorno in cui furono obbligati a sparare ai bambini con la pistola, a uno a uno, perché quegli idioti di soldati avevano mirato troppo in alto con la mitragliatrice puntandola contro gli adulti in piedi […]. Oddio, quel caro paparino. Tanto buono!27
I maestri del sogno e lo specchio infangato Uno stesso fatto provoca vergogna o fierezza a seconda di come viene visto nel nostro contesto. Tra questi due opposti sentimenti la prossimità è grande. Primo Levi si credeva coraggioso prima di essere deportato, ma, poco dopo il suo arrivo, nel campo di sterminio abbassava lo sguardo per evitare i colpi, non pensava ad altro che a proteggersi dal freddo e a mangiare di nascosto tutto ciò che riusciva a trovare anche se caduto a terra. Quando i liberatori hanno scoperto l’orrore del campo non sono riusciti a non guardare i sopravvissuti con stupore e disgusto. Allora, sotto lo sguardo dei soccorritori, Primo Levi è morto di vergogna, ancora una volta. Era sopravvissuto in parte grazie al suo lavoro in laboratorio, inoltre essendo malato era stato lasciato nel campo durante la fuga dei tedeschi da Auschwitz: ciò gli aveva evitato la marcia che invece uccise decine di migliaia di “cadaveri ambulanti”. Negli anni dopo la guerra, i figli dei nazisti rifugiati in Argentina, in Egitto o in Siria erano fieri del nazismo dei padri: i racconti delle persone del loro ambiente glorificavano le gesta di questi uomini che avevano combattuto per realizzare i mille anni di felicità promessi da Hitler. Il capovolgimento nel suo contrario non è raro quando «ciò che era portatore di vergogna può diventare
oggetto di orgoglio»28. All’inizio del XX secolo in Turchia, i successi intellettuali e sociali degli armeni umiliavano i giovani turchi: l’alibi del tradimento armeno in favore dei russi29 ha permesso ai turchi di mascherare la loro onta e di distruggere gli armeni senza senso di colpa. Essere ebrei «è una maledizione» mi diceva Charles. Ha passato la sua infanzia a Łódz´, una città polacca in cui i numerosi ebrei gestivano le banche, l’industria, il cinema e la musica, quando l’antisemitismo lo caccia via. Appena arrivato in Francia, si arruola nella Resistenza e dice (come Henri Bergson, André Froissard e molti altri) «è la guerra che mi ha spinto a restare ebreo e a difendermi come ebreo, con il mio impegno nei FTP-MOI»30. La vergogna e la fierezza convivono nel suo animo, come coniugi che si distruggono ma non possono separarsi. «Si rimprovera ai negri di essere senza cultura. Io che sono una donna di colore, provo vergogna quando un nero non ha cultura»; «Si rimprovera agli ebrei di essere avari, io che sono ebreo sono fiero di spendere e spandere per dimostrarmi che è falso». Una donna antillana dice: «Aimé Césaire rivendica la sua “negritudine”, avete già sentito un bianco rivendicare la sua “bianchitudine”? L’idea di negritudine» costituisce la reazione difensiva di un essere umano che «sentendo il colore della sua pelle come una maledizione la trasforma in una bandiera»31. Quando l’immagine di sé è talmente infangata che si fatica a guardarsi, ci si può “ripulire” attraverso «dispositivi che invertono il senso della vergogna»32: un’esposizione di quadri o un concerto in cui ci si mette in mostra, o ancora una pubblicazione che verrà citata spesso. Quando l’immagine di sé è insopportabile, non è raro che la persona che si vergogna si rifugi nella fantasticheria33, dove la rappresentazione di sé, finalmente valorizzata, crea un sentimento piacevole. Certo si sa che non è vera, ma ci si sente bene quando si sogna così: per quanto questi racconti siano inventati, essi parlano bene di noi e mettono in scena i nostri desideri nascosti. Ogni sera, nel dormitorio dell’orfanotrofio dove era stato sistemato, Armand aveva un appuntamento con i suoi sogni: al momento di addormentarsi, nella sua coscienza intorpidita, faceva apparire un grosso cane
giallo pieno di affetto. Allora Armand si addormentava sorridendo, gratificato dalla soddisfazione immaginaria dei suoi amori perduti. Questo piacere è una confessione di amarezza personale: “Con questo cane sognato l’affetto è facile, mentre in realtà non c’è nessuno ad amarmi”. Una tale difesa regressiva permette di riprendere fiato, mettersi al sicuro e rigenerarsi prima di intraprendere uno sforzo di resilienza34. Grazie a questa piccola intima fantasia, che gli dà una soddisfazione immaginaria, il bambino bisognoso si tranquillizza e prende coscienza dei suoi desideri. Resta ora il passaggio alla realtà, cosa non sempre possibile. «L’uomo felice non ha bisogno di sogni»35, perché è soddisfatto durante la giornata e si addormenta serenamente dopo una sana fatica. L’infelice, invece, ha bisogno di una messa in scena onirica per modificare il sentimento per se stesso e dare una forma teatrale alla sua mancanza di affetto. Quando un infelice non si sa rifugiare nel sogno, conosce solo l’amarezza del reale, poiché non riesce a provare neppure qualche scampolo di felicità. I maestri del sogno sono i poeti, i romanzieri e i cineasti che ci conducono nelle loro creazioni e danno una forma fantasiosa ai nostri desideri. Ma ci sono anche i truffatori del sogno che approfittano dei nostri desideri per “accalappiarci” con quello a cui aneliamo. Perché il sogno ci renda felici basta andare a dormire, ma per avviare un processo di resilienza dobbiamo sognare e poi svegliarci. La storia di ArielaPaulette Rubinetto illustra bene questa affermazione: «Sei ospite della Pubblica Assistenza, i tuoi genitori hanno abbandonato te e i tuoi fratelli […]. Non puoi più vederli». La bambina resta muta, la brava allieva diventa stupida. Ma quando sogna, la vita torna in lei sotto forma di racconto: Suo padre è un principe molto ricco. Un giorno ha incontrato sua madre, una giovane molto bella ma anche molto povera… la fanciulla aspetta un bambino… bisogna abbandonarlo… è Paulette. Rubinetto non è il suo vero nome, dice lei, ma visto che piange tanto, le è stato affibbiato perché le lacrime le scendevano come da un rubinetto… Più tardi, il principe suo padre e sua madre… la riprenderanno con loro».36
Dopo questo racconto, uno scampolo di felicità, non appena Ariela ritrova una relazione affettiva, ritorna a essere una brava allieva e ricostruisce la sua esistenza.
Le fiabe sono spesso dei racconti di vergogna trasformata in fierezza: Pollicino, dopo tutto, non è che un nano in una famiglia devastata i cui genitori sono diventati poveri. Questo ometto, in un giorno di disperazione rivela il suo talento di soccorritore grazie a dei sassolini bianchi: così protegge i suoi fratelli e riscatta la colpa dei suoi genitori rendendoli felici di ritrovare i figli che volevano abbandonare. Illusione di verità Pelle d’Asino, vergognandosi di un padre ignobile dai desideri incestuosi, salva la propria morale e quella del suo regale seduttore ricoprendosi con stracci ripugnanti e poi ridiventando principessa, fiera di avere evitato la tragedia. L’effetto antidepressivo del rifugio nella fantasia porta a vedere il mondo in modo diverso dal suo aspetto terribile e poi a mettere in cantiere un progetto di ritorno alla vita. Nei campi, i deportati sul punto di morire di fame immaginavano le ricette che un giorno avrebbero condiviso con i loro cari, dopo la Liberazione. Si scioglievano di tenerezza vedendo un soldato ss fare la corte a una guardiana. Il mondo non era dunque solo un incubo, vi si poteva trovare qualche spazio di felicità. L’illusione è un inganno, non del tutto però, perché non tutto ci può illudere: perché un’illusione ci inganni, ci deve promettere quello che speriamo e poi non darcelo. La truffa può riuscire solo se il truffatore promette al truffato di realizzare una parte dei suoi sogni, trasformandolo in un complice manipolato. Anche la realtà può ingannarci, come accade con un appetitoso fungo velenoso o con una droga che promette un istante meraviglioso. Ci inganniamo da soli con queste sostanze, ma siamo ancora più bravi nel cercare di ingannarci con il racconto che facciamo dei nostri traumi. Dobbiamo dare coerenza alla confusione se vogliamo riprendere le redini del nostro mondo psicologico stravolto: allora ci lasciamo illudere, accettiamo di essere prede per le sette e i dittatori che promettono di farci ritrovare la felicità appena perduta.
Il mito è forse un’illusione di verità? Un bambino accede al racconto di sé solo tra i 5-7 anni, allo stadio dello sviluppo in cui il suo sistema nervoso diventa capace di produrre una rappresentazione del tempo, connettendo le informazioni passate (una traccia, un’esperienza) con un sogno di futuro. Può allora operare sullo spirito di altri con un racconto e non più solo con comportamenti legati alle urla, ai pianti o alla ricerca di protezione: raccontandosi a un altro, riesce a far nascere nell’animo di costui una rappresentazione di sé sopportabile. Una piccola vergogna può dunque essere messa in discussione con un’arringa o tramite un’opera d’arte in cui si cerca di modificare l’immagine di sé offerta al prossimo. Un bambino mente per proteggersi se si sente in pericolo, ma il racconto di una storia inventata è un romanzo sincero in cui organizza i ricordi per costruire una bella immagine della sua esistenza che gli permetterà di sentirsi meglio sotto lo sguardo altrui. Ci si vede meglio quando lo specchio è ripulito. La commedia che associa mimica, parole, copioni e idee possiede un grande potere di rimaneggiamento delle immagini. L’autore di un racconto è capace di mettere in scena quello che non osa dire: una volta modificato il vostro mondo mentale, non sentendosi più sminuito dal vostro sguardo, la menzogna avrà perso la sua funzione protettrice37. La relazione ridiventa autentica quando chi prova vergogna non si sente più disprezzato. La mitomania è un esempio di capovolgimento, di cambiamento di direzione a 180° che porta la persona ferita dal non-detto della vergogna al racconto di un’illusione fantastica. Si è dovuto attendere il XX secolo per scoprire la mitomania e capire che è manifestazione di una sofferenza dell’immaginazione e dell’emotività38. La persona la cui vergogna avvelena l’animo si offre di tanto in tanto un viaggio nella mitomania: «Vi confido un evento meraviglioso della mia vita che andrà a comporre su di me una favola straordinaria. Per alcune ore, mi sentirò ammirato». Si tratta di una droga dell’immaginario39, poiché chi si vergogna si piace talmente durante quei viaggi favolosi che dopo essere volato tanto in alto la sua discesa sulla Terra è
triste e dolorosa. Allora il drogato ricomincia in fretta un’altra fiaba per inculcare nel vostro animo una magnifica immagine di sé: cambiando specchio, finalmente si ammira. La menzogna è una muraglia che l’aggredito costruisce quando si sente in pericolo, mentre la sfavillante mitomania è una sorta di tecnica dello struzzo che chi prova vergogna adotta come antidoto. Quando la realtà è pazza, un sogno pazzo dà un istante di felicità; e quando le relazioni avvelenano la persona che prova vergogna, un momento di evasione grazie a un racconto di fierezza può offrire un breve momento di euforia. Questo film mette in scena un sogno di sé che si vorrebbe reale40, un’evasione intima in un immaginario glorioso quando «si è incollati al presente e alle cose»41. I maestri del sogno ci raccontano «belle storie che fanno dimenticare la piatta realtà e ci danno il coraggio di lavorare e trasformarla»42. La mitomania, un sogno raccontato a voce alta, è un’illusione condivisa per affrontare la realtà. I non-sognatori, incollati alla realtà, prigionieri dell’istante, sono incapaci di immaginare un progetto di vita. Al contrario, coloro che non fanno altro che sognare sfuggono la realtà, preferiscono perdersi nelle favole e offrire a se stessi parole piuttosto che affrontare una disperazione senza limite. Coloro che sognano solo quel tanto da darsi un assaggio di felicità scoprono ciò che bisogna fare per trasformare il reale impregnandolo del loro desiderio: possono liberarsi dalla miseria sociale o dal deperimento psichico. Ogni «trauma può scatenare il mito come processo di difesa»43. La menzogna protegge da un pericolo esterno quando si mente per sviare da sé l’aggressore. La mitomania protegge l’individuo da un pericolo di disprezzo che egli vede specchiandosi negli altri. E il mito protegge il gruppo contro un pericolo di indebolimento del rapporto. L’illusione del mitomane crea nello spirito altrui un surrogato di ammirazione, il suo effetto protettivo prepara una delusione. Pascal amava raccontare ai compagni di scuola come sua madre si pettinasse tutte le mattine e non venisse a tavola per colazione prima di essersi truccata. I
bambini ascoltavano vagamente questa testimonianza per loro senza interesse. Ma, grazie a questo racconto, Pascal offriva a se stesso per qualche istante l’immagine di una mamma graziosa, all’opposto di quella reale, alcolizzata e tabagista che fin dal mattino entrava in cucina con un bicchiere di vino e una sigaretta. «Mio padre organizza tutte le feste del villaggio» raccontava un altro bambino il cui padre, accasciato sul divano, non diceva una parola. «La mia fidanzata è bionda, dolce e molto allegra. Facciamo camminate in montagna e la sera andiamo a teatro» raccontava continuamente un adolescente terrorizzato dalle donne. Tutti questi giovani compensavano la loro ferita narcisistica inventando una maschera meravigliosa che sfoggiavano come un’illusione di se stessi, ciò che sognavano di essere per evitare il disprezzo e provocare, in fin dei conti, l’ammirazione altrui. Più grande è la sventura, più gloriosa è la vittoria Il racconto del mitomane è un’illusione di verità che mette in scena i suoi sogni per nascondere la realtà. Aline mi ha detto un giorno: «Mi vergognavo di non avere genitori. Infatti, quando conoscevo un ragazzo, mentivo. Inventavo genitori meravigliosi di cui parlavo molto […]. Mi lamentavo delle bollette del telefono salate che dovevo pagare per far credere di avere tanti amici. Sognavo genitori meravigliosi, un padre funzionario e una madre casalinga»44. Ciò che un sogno meraviglioso per un bambino senza famiglia sarebbe un incubo di vergogna per l’adolescente oppresso dai genitori. Per uscire dalla letargia, per dare uno scossone a un’esistenza tiepida, alcune persone si inventano una tragedia: finalmente una meraviglia, un momento di vita intensa. Bisogna che la sventura sia grande perché la vittoria sia gloriosa: una piccola miseria non potrebbe dare un sentimento di grandezza. Allora, tanto vale usare una storia tragica, raccontare come si è sopravvissuti a un genocidio, come si è combattuto contro i lupi, o persino come si è morti martiri, per vivere ancora meglio nella mente degli altri. «È
proprio il racconto che erige l’evento fondatore, quello che genera il senso»45. Il martire non è mai lontano dall’eroismo, «strumentalizza l’altro per spostare su di sé la violenza. È l’arma dei deboli, per rinforzare la simpatia nei loro confronti e orientare verso il vincitore l’odio o il disprezzo» il martire e la sua spettacolarizzazione finiscono per «invertire il rapporto di forze e dare la vittoria finale al gruppo che pratica l’autosacrificio»46. Affinché il martirio sia persuasivo e provochi odio per il vincitore, bisogna spettacolarizzarlo. In una cultura che si identifica nella vittima piuttosto che nell’aggressore, pochi minuti in televisione provocheranno senza problemi l’indignazione mondiale. L’odio per i vincitori diventa una virtù per gli spettatori che così ridanno forza ai vinti. In un tale contesto, gli individui che cancellano più facilmente la loro vergogna sono coloro che amano l’azione. Quando si è vinti, umiliati, degradati, si ricostruisce l’immagine sciupata di sé con più facilità grazie a un atto che, per quanto distruttivo, è capace di ridare valore. Le persone introverse che faticano a esprimersi condividono difficilmente le loro emozioni e si abbandonano alla solitudine. Il rischio di lacerazione è molto più grande quando la persona ferita e muta è delusa dall’assenza di una sua reazione difensiva. La delusione di sé impedisce di liberarsi dalla vergogna47. Talvolta le «situazioni in cui un individuo si confronta con la differenza tra ciò che credeva di essere e ciò che scopre essere»48 provocano traumi intimi. Le delusioni per se stessi, le lacerazioni tra sé e sé, tra il sogno di sé e la realizzazione di sé mantengono la vergogna come un trauma intimo. Molti bambini, eccessivamente responsabilizzati da genitori smaniosi di realizzare attraverso di essi i propri sogni infranti, si considerano superuomini tanto i genitori li stimano. Ma quando ciò che realizzano di sé è solamente buono, invece di esserne soddisfatti ne sono lacerati. La disillusione dei loro sogni e dei sogni dei loro genitori è un trauma per loro, una vergogna celata: “Non sono all’altezza della stima che si ha per me e alla quale ho creduto. Che vergogna”. In questo caso, la vergogna non è legata allo scacco. Molti ragazzi sognano di diventare grandi calciatori e quando finiscono per ammettere di
essere solo dei buoni giocatori pensano: “È una sconfitta, ma ho giocato bene, ora farò altre cose”. Per la persona che vive l’onta, la rappresentazione di sé ne invece è lacerata: “Ero convinto di essere grande e mi scopro essere un poveretto”. Le reazioni paranoidi sono allora frequenti: “I miei genitori mi hanno imposto i loro desideri. Sono infelice per colpa loro”. Alcuni di questi individui «aggravano l’abiezione»49. Poiché i loro genitori sono eleganti, faranno di tutto per vestirsi male, come un bambino che si graffia il viso per ferire l’oggetto amato dai suoi, come coloro che falliscono volontariamente agli esami che avrebbero fatto felici i loro cari, o quelli che distruggono l’auto regalata dal padre per punirlo di averli sminuiti con un regalo tanto importante. Queste persone finiscono per amare la vergogna che serve loro da vendetta. «E questo povero essere vergognoso era l’immagine di quello che avrei voluto essere»50. Genet aveva fatto delle sue sofferenze infantili un racconto da mitomane perseguitato così da arruolarsi nel partito degli abietti che amano provocare il disprezzo. Non ci si vuole liberare dalla vergogna quando ci dà tanti vantaggi. Ci sono tuttavia molti modi per uscirne. Possiamo sottometterci agli imperativi del gruppo per diventare normali in modo anormale: cloni culturali ultra-convenzionali in cui la vergogna senza più importanza sarà cancellata. Possiamo sottometterci a una forza sovraumana, trascendente, in cui la sottomissione è un valore morale che glorifica coloro che rientrano nei ranghi. Ma si può anche cercare in fondo a sé i valori personali acquisiti nel corso della propria storia e scoprire una sorta di mito intimo da scegliere liberamente, che tematizza la nostra esistenza, che vale per una persona e non per forza per il suo gruppo. Le società totalitarie hanno orrore di questa libertà intima che sfugge al controllo del capo. Nessun segreto sotto la tirannia, ogni cosa deve essere detta, confessata, commentata e punita. I totalitarismi religiosi o profani vengono stravolti dai mondi intimi in cui la persona non ha bisogno del consenso51. Questo appiattimento delle personalità provoca una sorta di contratto perverso: la solidarietà sarà grande verso coloro che si sottomettono
alla legge del gruppo. La gioia promessa dai dittatori, i giorni futuri che cantano i comunisti, i mille anni di felicità dei fascisti esigono un’amputazione della persona: «Dal punto di vista sociale, tutti insieme condividiamo la stessa posta in gioco». Questa felicità si ottiene con l’impoverimento del pensiero individuale, rimpiazzato con entusiasmo dallo psittacismo dei pappagalli. La macchina della solidarizzazione, imponendo un racconto per tutti, falsifica il reale per facilitare il progetto del capo. Tutti i frammenti di memoria sono veri, ma alimentano un racconto pianificato con scopo ideologico. I pappagalli non si vergognano mai.
Capitolo 2
La morte nell’animo: psicologia della vergogna
L’“io” esiste solo rispetto a un altro Lo psittacismo, che conduce l’individuo a recitare ciò che sente senza riflettere veramente né fare un lavoro di introspezione, porta grandi benefici psicologici. Un bambino ripete e prende per vero ciò che dicono gli adulti che egli ama e che lo proteggono. Ripetendo ciò che sente, mette in luce il suo mondo, si sente amato, rinforzato e al sicuro: è il grande beneficio dello psittacismo, gioia dei pappagalli. Solo progressivamente i bambini diventano capaci di decentrarsi dalle loro rappresentazioni e figurarsi un mondo altrui diverso dal proprio. Il soggetto è in via di costruzione, il dubbio diventa creatore/generatore, non c’è una sola maniera di vedere il mondo. Lo sviluppo dell’empatia invita al piacere dell’esplorazione degli altri e all’incertezza della verità. Le persone sicure amano questa avventura psicologica, ma quelle insicure che si sentono aggredite da questo sviluppo dell’individualizzazione hanno bisogno di certezze rassicuranti offerte loro dallo psittacismo. Oggi ci si serve molto della «teoria della mente»1 per comprendere l’intersoggettività. Questo fenomeno mentale permette di acquisire la consapevolezza che «io e il prossimo non sono confusi»2, anche se interagiscono e si compenetrano ogni giorno. Solo verso i 3 anni un bambino diventa capace di affermare “io penso così”; e solo a 4 anni di pensare “io penso così ma penso che lui pensi diversamente”. Questa differenziazione tra sé e gli altri si costruisce gradatamente sotto l’effetto della doppia pressione
dello sviluppo del cervello e dell’armonizzazione affettiva con i propri cari. Un bambino isolato non ha nessuna possibilità di sviluppare questa attitudine a figurarsi rappresentazioni del prossimo perché questo prossimo non c’è: tuttavia il suo cervello è sano. Al contrario, un bambino il cui cervello evolve male a causa di un incidente o di una malattia sviluppa con difficoltà queste capacità, pur essendo il suo entourage sano. Questa separazione tra due mondi mentali comunicanti e differenti che si compenetrano ogni giorno lascia posto alla creazione di un nuovo ponte di legami: il mondo delle parole. Quando queste pressioni si armonizzano, quando «l’accordamento affettivo»3 abbozza la costruzione di un’intersoggettività fin dal sesto mese dopo la nascita, la rappresentazione mentale delle rappresentazioni mentali altrui comincia a riempire il mondo del neonato. Si tratta di una co-costruzione graduale quotidiana che dura per anni, forse addirittura per tutta la vita. Si può dunque concepire un’alterazione del legame intersoggettivo: qualunque punto del sistema può alterare questa “passerella”, un ponte, di attaccamento. Un cervello danneggiato può non essere capace di decontestualizzare un’informazione, un cervello sano può svilupparsi male a causa dell’assenza di informazioni esterne, una stimolazione troppo penetrante può invadere il mondo psichico del neonato, un bambino troppo emotivo può lasciarsi soggiogare da un evento che sarebbe banale per un altro. Da questa malformazione dell’intersoggettività può risultare un sentimento di vergogna. Questo ragionamento sistemico permette di dire che non è per forza un’umiliazione reale a provocare la vergogna. Uno schema umiliante scatena una rabbia muta, una disperazione o un ebetismo traumatico. La vergogna deriva piuttosto dall’attribuire a un altro un pensiero squalificante: chi la sperimenta si aspetta la stima altrui, ma la malformazione del legame intersoggettivo fa credere di essere un poveretto nella mente dell’altro; penetrato dallo sguardo della persona con cui avrebbe tanto voluto stabilire rapporti di stima reciproca, prova la delusione dolorosa di sentirsi disprezzato.
L’umiliazione è uno schema comportamentale di estrema violenza poiché punta alla distruzione del mondo mentale altrui; mentre la vergogna punta al mantenimento di un legame in cui chi si vergogna si sente sminuito: “Dovresti vergognarti” significa “Ti faccio sapere che penso che tu dovresti pensare di non essere più all’altezza della mia stima”. Un tentativo di umiliazione può condurre a un fiero contrattacco, mentre il legame doloroso della vergogna spinge a interrompere un rapporto. Ciò mi ricorda una trasmissione letteraria in cui incontrai Malek Chebel4 e Jean-Marie Le Pen. Il presidente del Front National, da pugile verbale agguerrito qual è, rispondeva agli attacchi frontali di Malek, ma si sentì scombussolato quando gli chiesi se, nel quadro della sua politica di blocco di qualunque emigrazione, avrebbe preteso il ritorno dei milioni di francesi che lavorano all’estero. Ho subito il suo sguardo ombroso con un certo piacere, e non mi sono sentito sminuito quando ha definito specioso il mio argomento. Alla fine della trasmissione ha stretto la mano a Malek disdegnandomi: non mi sono mai vergognato, nonostante il suo disprezzo. La distanza tra noi era troppo grande, l’impossibilità di costruire insieme un ponte intersoggettivo lo privava del potere di farmi vergognare. Per soffrire di una lacerazione, bisogna avere creato un legame. Si può parlare di trauma quando questo legame viene distrutto in modo eclatante, ma anche quando viene smagliato insidiosamente. Questi traumi sono la regola quando si sviluppa un sentimento di vergogna. Ma se la vergogna genera, nel profondo di sé, un’emozione dolorosa la cui espressione altera la relazione (sguardo sfuggente, testa bassa, evitare l’altro, mormorii biascicati), allora le cause di questo trauma hanno origini diverse. Vergogna sessuale «Non sono che una donna» mi diceva una poliziotta violentata. Prima di essere aggredita, le piaceva “fare la posta” ai ricercati e si allenava quotidianamente allo scontro. Quando è uscita dal suo commissariato, in
uniforme e armata, e un uomo l’ha seguita, le ha storto le braccia e l’ha violentata senza che lei potesse neanche afferrare il suo revolver, ne è stata devastata. L’immagine, la rappresentazione di sé, di donna ardita, allenata al combattimento, collega piacevole, sorridente, amante delle chiacchiere, è stata distrutta in pochi minuti: non è stato l’atto sessuale ma la rappresentazione di una penetrazione sessuale imposta con la violenza, un’effrazione del suo corpo e della sua anima alla quale non aveva mai pensato. Quando, in precedenza, aveva rapporti sessuali con il suo compagno ovviamente non ne parlava mai. Erano fatti privati, ecco tutto, al riparo dallo sguardo sociale. Dopo la violenza, quando ha denunciato il fatto nel suo stesso commissariato, si è posta di fronte ai suoi colleghi come una donna vinta. Sapeva che parlandone, avrebbe fissato nelle loro menti l’immagine di una donna presa come un oggetto, penetrata, picchiata, lacerata. In qualche minuto era passata dall’affermazione della sua forte e gioiosa femminilità alla vergogna di essere diventata una persona violentata. Logicamente, avrebbe dovuto considerare questa violenza come un’aggressione molto grave, ma, nella rappresentazione che si faceva delle rappresentazioni altrui, sapeva che aveva perso la sua immagine di donna fiera per diventare una povera piccola cosa: se ne vergognava. La vergogna che segue a tali violenze non si esprime sempre attraverso comportamenti vergognosi. Si può camuffare la degradazione della propria immagine dietro una maschera di indifferenza o di cinismo. La “timidezza acquisita” dopo un evento devastante non ha niente a che vedere con l’ipersensibilità genetica: prima del trauma il soggetto era tranquillamente realizzato e solo dopo deve nascondere la parte dolorosa della sua personalità. I due fratelli, Alec 14 anni e Kevin 12, sentivano che il silenzio era pesante quando tornavano a casa. Una notte, furono svegliati da un insolito rumore. Entrando nel salone, scoprirono la madre, nuda, con le mani legate al termosifone in una postura di supplica: stravolta, era appena stata violentata e picchiata dal marito. Ha guardato i suoi figli senza dire una parola e loro, muti, hanno finto di andare in bagno e poi sono tornati a letto. Niente è stato detto. I ragazzi non hanno osato fare domande (cosa potevano chiedere?) e la
madre non ha osato spiegarlo (cosa poteva spiegare?). Non so dove fosse il padre. Già la mattina seguente, a scuola, il comportamento dei bambini era cambiato. Erano diventati tetri e silenziosi. A chi raccontare questa scena muta, senza condannare il padre o addirittura la madre? Per fortuna, in mezzo a questo enorme trauma psichico con questa parte morta del loro mondo intimo in cui niente poteva essere pensato (come pensare una cosa simile?), i due ragazzi hanno trovato un fattore protettivo che li ha salvati: sono diventati bravi a scuola. In generale i bambini maltrattati vanno male, perché la scuola non ha alcun senso per chi è così turbato da quanto ha vissuto a casa, ma succede che alcuni di loro si servano della scuola per preservare uno spazio di gentilezza e soprattutto una fuga nei problemi intellettuali per evitare di pensare all’orrore vissuto. Questa negazione che li protegge dalla sofferenza migliora i loro risultati scolastici, ma non permette loro affrontare il problema (come avrebbero potuto?) che tornerà forse a galla dieci o vent’anni dopo, il giorno in cui per esempio avranno piccole difficoltà coniugali da risolvere: “è così che si portano avanti le relazioni di coppia?”. Saranno forse talmente angosciati che preferiranno sottomettersi o fuggire e nessuno capirà una tale eccessiva reazione, troppo gentile o terrorizzata, perché le persone ferite non potranno spiegare niente. Potrebbero non aver mai preso coscienza del loro urlo silenzioso (con chi elaborare un simile ricordo?). Non si tratta di una rimozione nell’inconscio, ma al contrario dell’ipercoscienza muta di un legame strappato, impossibile da ricucire. Una personalità ferita si adatta a un trauma simile scomponendosi: una parte socievole, buona allieva, rispettosa, che nella nostra cultura conduce al successo sociale; e l’altra parte che muore di vergogna, senza sosta, ogni giorno, al minimo evento che risveglia la rappresentazione insopportabile di essere i figli di una madre nuda, picchiata e legata al termosifone dal proprio padre. La negazione che permette di non soffrire non è quindi un fattore di resilienza, poiché il ferito non può fare niente a causa della sua ferita: non
riprende uno sviluppo affettivo, si blocca sul suo trauma muto come un ascesso nell’anima. Quando, più tardi una donna farà nascere in loro il desiderio di un incontro, questi ragazzi si chiuderanno ancora di più in loro stessi perché ella risveglierà, senza volerlo, la vergogna di ciò che riguarda la sessualità. Il trauma non è sempre così evidente, più spesso è subdolo e la vergogna acquisita durante lo sviluppo si insidia nella memoria del bambino come un ascesso diffuso, una lacerazione invisibile. Durante le interazioni quotidiane succede che un genitore manifesti senza accorgersene gesti e mimiche di rifiuto o disprezzo. Alcune reprimenda come “ancora tu! Ah! Non mi stupisce da parte tua!”, alcune espressioni facciali involontarie, come arricciare la bocca, aggrottare le sopracciglia, l’irrigidirsi del corpo che si allontana quando il bambino vuole accoccolarsi esprimono un sentimento di distanza affettiva. Quando questi gesti ricchi di significato, vitali per un bambino, si ripetono ogni giorno, per anni, in ogni più piccola interazione, finiscono per iscrivere nella memoria del piccolo una sensibilità infelice, una vulnerabilità acquisita che si manifesta con comportamenti di eccessiva umiltà5. Il bambino si tira indietro, tace, abbassa gli occhi ed evita qualunque scontro verbale. Il suo slancio affettivo verso un genitore che lo rifiuta gli ha fatto acquisire la sensazione che ogni affetto è inaccessibile. Diventa buono in modo anormale, abbattuto, silenzioso, distante, fino all’adolescenza durante la quale dovrà usare questo stile relazionale per tentare l’avventura sessuale. Le minuscole lacerazioni quotidiane hanno costruito nel suo animo una rappresentazione di sé che potrebbe riassumersi così: “Lo vedo che ti deludo… Non sono all’altezza dei tuoi sogni… È normale che tu mi disprezzi”. Il bambino si specchia nello sguardo della sua figura di riferimento che gli rinvia un’immagine di sdegno6. Il gruppo dei fratelli, i compagni di scuola, gli insegnanti, qualunque figura significativa per lui ha il potere di rinviargli un’immagine sminuita di sé. Essere rifiutato o disprezzato da qualcuno al cui affetto aspirava è una lacerazione traumatica. Questa aggressione, meno eclatante di una violenza sessuale o di una scena di orrore familiare, è
particolarmente traumatica perché, essendo poco cosciente, è difficile diventarne consapevoli e dunque proteggersi da essa. Marcel è stato adottato all’età di 10 anni, dopo un’infanzia difficile. La madre adottiva ubriaca d’amore, sognava di diventare una buona mamma che avrebbe reso felice il proprio bambino: grazie a lei, lui si sarebbe gettato tra le sue braccia come qualunque bimbo felice e, grazie a lei, sarebbe andato bene a scuola e avrebbe portato in famiglia una gioia continua. Lei avrebbe fatto di tutto per ottenere questo risultato. La realtà fu diversa. Marcel, che era stato maltrattato e per lungo tempo isolato, non sapeva amare. Aveva paura di quello di cui aveva più bisogno: l’affetto. Quando la madre adottiva si gettava su di lui per abbracciarlo con gioia, sperando in una tenera risposta, spaventava il bambino che si irrigidiva e pensava: “Non merito tutto questo. Più mi abbraccia, più mi sento impacciato. Non so come rispondere. Più lei è gentile, più io mi sento male”. Un controsenso affettivo si iscriveva nella loro relazione. Quando lei lo invadeva con il suo amore, il bambino provava vergogna per il fatto di non sapere rispondere; e quando la respingeva bloccandosi, lei era delusa da questo ragazzino che si comportava “come un vecchietto”. Lei decise per vendicarsi di chiamarlo “Testa di lardo”. Il bimbo accettò questo nomignolo dispregiativo che confermava ciò che percepiva di se stesso, e lo fece così bene che, rapidamente, si stabilì una complicità verbale tra loro come un riflesso automatico. La madre diceva: «Ehi, Testa di lardo, vai a prendermi le sigarette», e il bambino rispondeva subito: «Sì mamma». E tutti ridevano, tranne i due protagonisti che, con questa scenetta, esprimevano la distorsione del legame della loro intersoggettività. Rispondendo a questa rappresentazione di lui sotto lo sguardo di una madre delusa, il bambino imparò a comportarsi come tutte le persone impacciate: evitava qualunque contatto, distoglieva lo sguardo, si teneva in disparte, borbottando a bassa voce risposte confuse, mostrando un sorriso contratto per mascherare la rabbia e disarmare la madre così sprezzante. Un disturbo del funzionamento familiare può quindi incorporarsi nelle abitudini educative in modo inconsapevole. Frasi banali per il genitore, o talvolta semplicemente ironiche, possono avere un impatto nella memoria di
un bambino sensibile e dunque ferirlo. Come quel ragazzino che sua madre chiamava “Pillola” per far ridere gli adulti, facendo loro capire che il piccolo doveva la sua esistenza soltanto alla dimenticanza dell’anticoncezionale. Come quella ragazzina senza grazia alla quale la sua distinta madre spiegava che senza femminilità la sua esistenza sarebbe stata rovinata: «Valérie-Anne, figlia mia, sappi che il tuo capitale lo porti nelle mutandine. La tua mancanza di spigliatezza ti allontanerà dai luoghi che contano». Queste frasi quotidiane aggravavano insidiosamente la riservatezza del ragazzo e la mancanza di grazia della fanciulla. Un mondo in cui ci si vergogna di tutto Qualunque gruppo umano si organizza per fare provare vergogna a coloro che non sono della stessa cultura. I rituali di iniziazione permettono di riconoscersi tra iniziati appunto: coloro che sanno presentarsi, fare il baciamano, conversare opportunamente con le persone del gruppo di appartenenza, adottarne il codice di buone maniere o il gergo, fanno sapere immediatamente che appartengono allo stesso gruppo. Un sorriso condiscendente, una gentilezza mielosa permettono di svilire colui che non padroneggia questi codici. I non-iniziati non appartengono al gruppo, si sentono esclusi, privi di familiarità. Goffi e balbettanti sono messi in condizione di provare vergogna. Allentare il legame può essere una soluzione, ma rende infelici. Si prova meno vergogna evitando la relazione che svilisce, ma ciò provoca l’allontanamento dalle persone da cui si aspettavano stima e affetto. L’accettazione quando “ogni vergogna è superata” diminuisce il malessere allentando la relazione. La propria rinuncia è in questo caso tranquillizzante. Il vino di Noah era davvero buono, ma dopo due bicchieri non ci si poteva neanche alzare dalla sedia, fu dunque vietato. Quando ho visitato la sua ultima vigna in compagnia del proprietario, sono stato sorpreso dal comportamento dei vignaioli: in fila, vicino al tino, avevano tolto il cappello
che si facevano girare tra le mani dietro la schiena. Abbassavano lo sguardo e mormoravano: «Buongiorno padrone». Lui si rivolgeva gentilmente ai suoi lavoratori che si accontentavano di un contatto minimo. Qualunque altra frase o qualunque altro comportamento li avrebbero angosciati. Accettavano la dominazione del padrone. La rinuncia permetteva loro di sopportare la vergogna accettando di essere uomini inferiori, come se questa rappresentazione decurtata di sé costituisse una malattia infantile dell’individualità7: “Sono piccolo. È normale essere inferiori”. A ogni tappa della costituzione di me, una nuova causa può provocare questa sporcizia dell’animo che noi chiamiamo “vergogna”. L’attitudine genetica all’ipersensibilità scompare sotto l’impatto di determinanti esterni. All’impoverimento del legame quando eravamo piccoli, allo strappo dell’involucro sensoriale che ci circondava e che non riesce più a rassicurarci, si aggiunge sovente un trauma tardivo, una “vergogna-umiliazione”8 evidente o insidiosa che, venuta da una persona a noi vicina, possiede una grande capacità di ferire. Quando il trauma, venuto dall’esterno, giunge in un momento sensibile dello sviluppo dell’individuo, diffonde nella memoria come un’infezione, dolorosa e silenziosa che determina atteggiamenti emotivi e comportamentali9. Poiché si tratta di un compromesso tra ciò che si è nel profondo e ciò che c’è al di fuori di noi nel momento dell’impatto, il trauma può anche venire dall’interno. Quando l’ideale di un me stesso grandioso è dissociato dalla sua miserabile realizzazione, ne risulta una spaccatura intima che provoca lo stesso sentimento di umiliazione e la stessa espressione comportamentale. Disprezzandoci da soli, pensiamo sia logico che gli altri ci disprezzino, mentre molto spesso non è affatto così. Da ovunque provenga l’impatto che provoca la lacerazione, si tratta di una «commozione psichica»10, un crollo narcisistico (“non valgo più niente”), una perdita del sentimento di invulnerabilità (“qualunque cosa mi ferisce”), un annientamento del sentimento di sé (“non oso più affermarmi”). Ogni relazione diventa impossibile, solo l’allontanamento placa e affligge. Fin dall’istante in cui una tale ferita, eclatante o insidiosa, lacera la stima di sé, la
persona che si vergogna percepisce con intensità tutti i gesti, le parole e le situazioni che confermano il suo sentimento di vergogna. Diventa ipersensibile a tutto ciò che provoca vergogna. I suoi «pezzi scelti di realtà confermano la sua sensazione di trauma»11. In un tale mondo, tutto genera vergogna. Régine de Saint-Christophe era persino nata in una buona famiglia. Da molti secoli i suoi antenati vivevano in un piccolo castello vicino a Montpellier. Con l’arrivo della modernità, la casa e le terre non portavano più denaro sufficiente per vivere: il padre trasformò il grazioso parco in campeggio e la madre placò il suo dolore nei fumi di un alcoolismo discreto. La ragazzina fu sistemata da una balia che piaceva ai genitori e maltrattava la bimba. La vestiva come una pezzente, la legava alla sedia e le dava da mangiare solo nel porcile, dopo averle chiesto di togliersi le scarpe per farla sguazzare nel fango e negli escrementi. La bambina non andava a scuola e passava le sue giornate da sola, legata a una sedia, in compagnia dei maiali. La balia le si rivolgeva solo per picchiarla e insultarla. Il padre, sopraffatto dal lavoro, sempre in pantaloncini e cazzuola per provvedere alla manutenzione del campeggio, e la madre sempre incupita erano rassicurati dalle buone notizie che dava loro l’amabile nutrice. All’età di 14 anni Régine fu violentata da quattro operai agricoli e nemmeno pensò a denunciarli. Dopo un tentativo di suicidio a 17 anni scoprì per la prima volta, in ospedale, l’attenzione dei medici e la gentilezza delle infermiere. Fu indirizzata verso un centro di aiuto per il lavoro e, dal momento che era graziosa, ebbe presto due bambini che non era in grado di allevare. Quando l’ho accompagnata, ero impressionato dalla sua bellezza, dalla sua intelligenza, dalla sua facilità a verbalizzare e dalla sua vergogna, la sua vergogna, la sua vergogna. Mi raccontava che all’inizio della sua storia c’era un castello, un papà gentile che l’adorava e una madre vivace e presente. Lei sognava che un giorno, da grande, avrebbe avuto una vita romantica, che avrebbe vissuto nel castello, che si sarebbe sposata in abito bianco con un marito coraggioso amato dai suoi genitori, e che avrebbe avuto tanti figli,
tanti amici, tanti animali e tante feste. La felicità! La felicità era andata invece in pezzi all’età di 5 anni, quando suo padre aveva aperto il campeggio, quando sua madre aveva iniziato a bere e la balia dato inizio alla demolizione della sua piccola personalità. L’immensa lacerazione tra i sogni di ragazzina romantica e l’orrore del quotidiano aveva radicato in lei un sentimento di vergogna che impediva qualunque tentativo di resilienza. Dimenticava gli appuntamenti con me perché sentiva che la nostra maniera di riflettere insieme le portava un benessere angosciante che diceva di non meritare. Pensava che non valesse la pena di imparare un mestiere e si sentiva sollevata quando rinunciava. Questa abdicazione le permetteva di evitare la vergogna di sentire i suoi brutti voti detti ad alta voce davanti agli allievi che la canzonavano. «Tutti ridono di me» mormorava. Quando ha messo al mondo il suo bambino, il piccolo era talmente carino che le ostetriche erano quasi fiere di mostrarlo alla madre. Ma lei ha subito pensato: “È così bello! Talmente bello che non è possibile, devono avere sbagliato bambino”. Il ragazzino è cresciuto bene, ma in modo curioso: fin dai 5 anni, ha cominciato a trattare in modo materno sua madre, avvertendone la vulnerabilità. Se la cavava abbastanza bene a scuola, aveva qualche amico e all’età di 16 anni, quando ha presentato in casa la sua prima fidanzata, la madre ha pensato: “È amato, incredibile”, come se la felicità, impensabile per lei, lo fosse anche per i suoi figli. Chi si vergogna proietta forse un po’ del suo veleno intimo su coloro che ama? Questa rappresentazione di sé senza valore altera uno dei due poli dell’intersoggettività, modificandola completamente: una curiosa passerella si crea tra il mondo mentale di una madre che non sa essere felice e quello di un figlio che tesse un legame con questa madre che si sminuisce. Il bambino sviluppa una maturità precoce perché la passerella intersoggettiva gli lascia lo spazio per farlo: il trauma destrutturante che ha demolito sua madre è diventato per lui un trauma strutturante12. Vergogna o colpa?
Quando, più tardi, l’autonomia dell’adolescente diventerà necessaria, bisognerà rielaborare questo curioso equilibrio e sarà doloroso per i due soggetti. La madre percepirà la svolta come un abbandono disperante e meritato, mentre il figlio vivrà la sua legittima liberazione con un senso di colpa. Per una cosa da niente, una parola, un sorriso o un piccolo gesto, queste esperienze che fanno maturare possono diventare laceranti. Nessuna identità senza esperienza: un adolescente si afferma nella sua identità narrativa quando si ricorda delle difficoltà che ha superato così come dei fallimenti che lo costituiscono. Queste prove gli danno la misura di quello che è. In caso di lacerazione traumatica, non riesce più a decidere poiché la confusione gli impedisce di pensare. C’è in questo percorso un momento in cui egli è sul filo del rasoio, in cui la maturità rasenta il crollo. Quando la vita riprende dopo un’agonia psichica si può parlare di resilienza, ma quando «l’involucro non si è ricucito»13 la ferita resta seppellita, indicibile e tuttavia organizzatrice muta della nuova personalità. Più questa zona resta mortificata, criptica, mai elaborata, più agisce senza espressione e frena il processo resiliente. La «cripta vergognosa»14, seppellita nell’intimo, agisce a seconda delle circostanze e avvelena quotidianamente il legame intersoggettivo. La vergogna non è per forza associata alla colpa. La prima, come un sorso di amarezza, riempie l’universo di discredito; la seconda, nell’universo dell’errore, è ricca di sofferenze. Questi diversi mondi organizzano stili relazionali distinti. Il sentimento di aver fatto del male provoca strategie di redenzione, di espiazione o di autopunizione, mentre il sentimento di essere stato umiliato organizza relazioni evitanti in cui ci si seppellisce e suscita acredini disperate. Quando si frequenta una persona che si sente in colpa, si percepisce la sua gentilezza prostrata, si sentono le sue parole, si osservano i suoi comportamenti di mortificazione redentrice, si viene spesso angosciati dal suo desiderio di sacrificio. Ma quando si frequenta una persona vergognosa, ci si accorge che è sfuggente, che evita i nostri sguardi, che ci nasconde qualcosa, che ha paura di noi e ci rimprovera di ciò.
Il colpevole è ostile a se stesso, poiché crede di avere commesso l’errore che gli ha fatto perdere il suo oggetto d’amore: «È tremendo ciò che ho fatto» dice il colpevole lacerandosi il viso «mi lascerà, è colpa mia, ce l’ho con me stesso, voglio il mio male». Il vergognoso dice piuttosto: «Mi sento umiliato, abbattuto dal suo sguardo, lo evito per soffrire meno e ce l’ho con lui perché mi disprezza». «Il cantiere della vergogna ha ravvivato la riflessione degli psicanalisti meno della questione della colpa»15. Tuttavia, il giovane Freud ha conosciuto la vergogna quando suo zio Joseph, accusato di un traffico di monete false, “è finito sulla prima pagina” dei giornali di Vienna e soprattutto quando suo padre si è lasciato umiliare: «Da giovane (racconta il padre) me ne andavo a passeggio nelle vie della tua città natale, tutto agghindato, con un berretto di pelliccia nuovo. Mi viene incontro un cristiano, con un colpo fa volare il mio berretto nel fango e grida “Fatti da parte, ebreo!”. “E tu che cosa hai fatto?”» chiese con interesse il bimbo «Sono andato in mezzo alla strada e ho raccolto il berretto». Da allora il giovane Sigmund «sviluppa fantasie di vendetta. Si identifica con lo splendido, intrepido semita Annibale, che ha giurato di vendicare Cartagine malgrado la potenza dei romani […] una caparbia manifestazione di indipendenza intellettuale, di rabbia controllata, di coraggio fisico […] si fondono in un amalgama indistruttibile […] a formare il carattere di Freud»16. Il piccolo aveva sentito tutta la vergogna, perché la truffa dello zio e la codardia del padre erano state esposte agli occhi di tutti, nei giornali di Vienna e nella pubblica via: la vendetta diventa riparatrice, non l’autopunizione. Uno psicanalista precursore delle teorie dell’attaccamento, Imre Hermann, ha per primo studiato lo sviluppo di questo sentimento velenoso, spiegando che la vergogna sorge quando un bambino perde «il contatto con la madre, oggetto dell’aggrappamento»17. Questo psicanalista ungherese, anticipatore delle sperimentazioni di Harlow su scimmie macache18 e della teoria dell’attaccamento di John Bowlby19, oggi direbbe che un essere vivente (umano o animale) che ha bisogno di una base di sicurezza materna per
svilupparsi perde la sua primitiva fiducia, si sente svilito, quando questa base manca oppure è alterata. In una concezione psicanalitica più classica, Serge Tisseron parla di «cedimento delle para-eccitazioni dell’oggetto materno»20 e Vincent de Gaulejac aggiunge che il lavoro sui racconti e le modifiche delle rappresentazioni del gruppo offrono la speranza di liberarsi dalla vergogna21. Tutti questi analisti hanno visioni differenti che chiariscono tuttavia uno stesso dato: il doloroso sentimento di vergogna provato nel corpo proviene da diverse radici. - La vergogna corporale: “Sono sporco, puzzo” è attribuibile a una sensibilità individuale rispetto allo sguardo altrui. - La vergogna per squalifica: “Guardate chi sono, come volete che mi si desideri… Valgo meno degli altri, sono incolore, vi deludo, mi deludo… Sono umiliato a scuola e miserabile in società”. - La vergogna è tuttavia un elemento della morale e della sua decadenza: “Sono stato disgustoso… Ho lasciato fare senza intervenire”. Questa vergogna ontologica spiega perché ci si può vergognare di dominare gli altri: «“Vieni”, mi dice uno studente, “andiamo a sederci”. Rossa di vergogna, mormorai che andavo di certo a sedermi, ma non al suo fianco»22 racconta una docente universitaria. Lei era così giovane che lo studente pensò fosse un’allieva: sminuita involontariamente, l’insegnante si sente dalla parte degli ignobili, di quelli che dominano e talvolta umiliano. E se ne vergogna. Non è il fallimento che provoca l’onta, è il sentimento di avere fallito, che non è la stessa cosa. Si può fallire senza vergogna e anzi sentirsi liberati di non dovere più tentare un’avventura che ci angoscia. Al contrario, dopo mille successi, si può fallire quando si è quasi giunti alla vetta e sentirsi “una sottomerda” per non avere raggiunto la supremazia. Alcuni bambini si vergognano persino quando un clown si umilia per farli ridere. Ogni essere umano è decisamente morale e la vergogna lo assale con facilità. Lilliput, star della vergogna
Qualunque sia la situazione che provoca la vergogna, è sempre un insieme di immagini e parole a mettere in scena un punto sensibile della nostra storia intima. Al momento del trauma, ci si può sentire umiliati perché l’altro impone la sua forza o la sua influenza. Più tardi, però, quando si ripensa e la vergogna fa arrossire l’anima, questo sentimentoveleno testimonia il nostro tentativo di pensare il trauma, di rappresentarcelo e di andare oltre23. Quando perdiamo la nostra personalità per un evento che ci travolge, non abbiamo vergogna, siamo solo stravolti. Poi la vita mentale fa ritorno e dà di noi stessi una rappresentazione più misera24. Come comprendere che si è stati cacciati dalla condizione umana, che si ha avuto la morte nell’animo, che si è stati meno degli altri, sviliti, insozzati, privati di ogni libertà, e che lo stesso aiuto degli altri ci umilia perché assume il valore di un comportamento condiscendente? Questo sentimento di valere meno degli altri, ma di essere malgrado tutto ancora dei soggetti, assume spesso la forma di «ossessione lillipuziana»25. Molti orfani si stupiscono di fare sogni ricorrenti in cui quasi ogni notte si ripresenta lo stesso schema: il bambino non si vede nel suo film interiore, ma sa che è lui, minuscolo, minacciato da enormi palle che gli rotolano addosso aumentando di volume. Tenta di fuggire ma non può nascondersi, perché si trova in una scatola vuota. Non può né evitarle né fermarle, è troppo piccolo rispetto a queste palle che si ingrossano fino al momento in cui, sul punto di essere schiacciato, l’angoscia lo risveglia. Questo sogno di Lilliput dà forma al modo con cui il piccolo orfano si percepisce nel mondo: solo, minuscolo, schiacciato da oggetti senza volto. La privazione dei genitori, un caso della vita, gli ha tolto una base di sicurezza: senza alterità fortificante, il bimbo si sente minuscolo, senza difese, inferiore agli altri che hanno una madre. Brutalmente privato delle figure di attaccamento, Lilliput si sente schiacciato da ogni incontro. La separazione, la lacerazione dalle proprie basi di sicurezza non è sempre così chiara come nel caso dell’orfano, ma il principio resta lo stesso: una separazione precoce, perché la madre è malata, perché la miseria la obbliga ad
accettare qualunque lavoro lontano dal figlio, perché la sua depressione, rallentando qualunque espressione di sé attraverso parole, sorrisi, canzoni, giochi e movimenti, impoverisce la nicchia sensoriale che avrebbe dovuto stimolare il bambino, tutte queste cause alterano la base di sicurezza e costituiscono strappi traumatici insidiosi26. Il piccolo, male supportato, perde fiducia in sé e si sente stritolato al minimo incontro. La rappresentazione di sé, costruita per gradi nel corso delle sue esperienze relazionali precoci, lo porta ad aspettarsi dagli altri incontri di tipo opprimente27. Quando le figure di attaccamento sono spente dal dolore, il contesto impoverito del bambino imprime nella sua memoria una rappresentazione squalificata di se stesso. Diminuito, lillipuziano, vive ogni confronto come un tentativo di oppressione: sente per gli altri un insieme di paura e collera, e per se stesso insieme vergogna e disprezzo. La vergogna acquisita è diversa dalla gelosia. Chi prova vergogna vorrebbe essere come tutti, ma un caso della vita o un contesto impoverito lo hanno reso incapace. L’idea che si fa di se stesso assomiglia a un’immagine di perdita piuttosto che a un’ingiustizia: “Ho perso ciò che avrei dovuto essere, ma non sono stati gli altri a prendermelo. È solo che sono più grandi di me”. Quando una persona malinconica si guarda in uno specchio, non vede niente perché si sente vuota. La persona vergognosa si sente inferiore alle altre, si vede nuda quando tutti intorno sono vestiti, o mal vestita quando tutti sono eleganti. Allora evita il confronto da cui uscirebbe perdente e osserva con la coda dell’occhio i giganti che la dominano. Per salvare la faccia, accenna un sorriso, farfuglia una frase o aggredisce coloro che, senza averne l’intenzione, la fanno sentire disprezzata. Avere vergogna significa mettere amarezza nella relazione: colui che si sente svilito provoca un malessere contagioso perché priva il partner del piacere di una relazionale di scambio. Georges era “il braccio destro del padrone”: questo giovane studente di architettura aveva appena ottenuto un posto da disegnatore in uno studio in cui imparava la sua professione. Guadagnava abbastanza denaro per permettersi un’auto che gli dava il coraggio di corteggiare le ragazze. Georges
faceva quello che Benjamin avrebbe voluto fare; era ciò che Benjamin avrebbe voluto essere. La sua serena realizzazione diventava per Benjamin una rivelazione del proprio desiderio di identità: e, così, questo ultimo soffriva del fallimento di un’avventura che avrebbe voluto tentare, ma di cui non si sentiva capace. Si sentiva schiacciato da Georges che invece avrebbe preferito gareggiare in spacconate con lui. L’attitudine di Benjamin a sentirsi vergognoso era stata acquisita ben prima del suo incontro con “Braccio Destro”. Una lacerazione affettiva precoce e durevole gli aveva fatto da tempo perdere fiducia in se stesso. Gli eventi della sua vita l’avevano reso fragile e avevano inoltre lasciato nel suo animo una scarsa rappresentazione di sé28. La vergogna può durare due ore o vent’anni La vergogna può durare due ore o vent’anni, diventa un trauma quando il soggetto si «riflette nello sguardo altrui»29. “Quando mi squadra, mi penetra. Perdo la mia dignità sotto il suo sguardo. Con quale diritto mi forza in questo modo?”. Queste pseudo-ragioni non sono che forme verbali date a una sensazione. Quando durante una cena una persona si trova allo stesso tavolo del proprio psicanalista, pensa: “Gli ho dato la possibilità di penetrare il mio animo. Ho riflettuto con lui su quello che cerco di nascondere. Gli ho permesso di sapere tutto su di me, quando con gli amici recito la commedia, so che mi vede dentro e frantuma la mia maschera relazionale. Mi sento male in sua presenza. Mi vergogno di me perché so che lui sa. Penso che pensi che non sono così positivo come voglio far credere”. Il problema è che si può provare vergogna senza ragione: “Per un nonnulla, muoio di vergogna, quando pure non ho fatto niente per meritarlo”. Coloro che ragionano così portano nella loro memoria lacerazioni insidiose, quotidiane, appena coscienti, che hanno finito per mandare in rovina la stima di sé, come per i bambini soprannominati per fare ridere gli adulti “Pillola” o “Testa di lardo”. Quando il nostro animo è imprigionato da un malessere invisibile, quando si è lacerati da microtraumi impercettibili,
tutte le difese, anche le più illogiche, invadono il nostro inconscio. Grazie alla rimozione, riusciamo a soffrire meno di una colpa tormentosa, ma ci costruiamo da soli la nostra sventura perché ci capita di punirci per espiare non si sa bene cosa. La vergogna provoca un malessere inconscio che avvelena ogni gesto quotidiano, per esempio anche solo andare dal parrucchiere per il bambino abbandonato che ci mette molto tempo prima di confessare: “Mi vergogno che ci si prenda cura di me, non lo merito”. Vergogna di stabilire una relazione d’amicizia: “Se per sfortuna diventiamo intimi, lui (lei) scoprirà la mia mediocrità. Passo il mio tempo a seppellirmi o a mettermi una maschera di orgoglio. E l’intensa intimità dell’incontro sessuale scatena in me un terrore senza nome… Fuggo le donne che mi attirano”. Alcune giovani donne, che si vergognano dello spuntare dei seni, li nascondono sotto larghi maglioni, e alcuni uomini vergognandosi delle loro erezioni si sforzano di evitarle per paura del ridicolo. Questa triste rinuncia al piacere di vivere è per loro meno dolorosa dell’umiliazione di un incontro fallito o di un sogno spezzato. Quando infine si liberano della vergogna, si vergognano di averla provata: quanto è triste tale sollievo. Come già ricordato, il malessere non è sempre provocato da un crollo traumatico. Le piccole vergogne della vita quotidiana provano che in alcune situazioni intersoggettive la stima di sé può subire delle scosse: queste brevi degradazioni rivelano lo sviluppo dell’empatia, il rispetto delle rappresentazioni altrui, punto di partenza della morale: “Cosa penserà di me?”. I piccoli sensi di colpa hanno anche una funzione morale: “Rimpiango di averlo ferito. Cercherò di riscattarmi”. Non ci si può permettere tutto quando si tiene conto del mondo degli altri. Senza vergogna e senza colpa, i nostri rapporti non sarebbero che violenza, mentre una briciola di vergogna, un sospetto di colpa ci permettono di coesistere nel rispetto reciproco e di accettare i divieti che strutturano la socializzazione. Cancellare se stessi per rispettare meglio gli altri fa della vergogna un potente mezzo di controllo sociale. Non si è mai soli nella vergogna perché si
soffre sempre dell’idea di sé sotto lo sguardo di qualcun altro. Questa intersoggettività, muta o male verbalizzata, spiega la “trasfusione” dei sentimenti. Anche se l’altro è assente nella realtà, resta presente nella rappresentazione: “Mio padre sarebbe fiero di me”; ma si può anche pensare: “Se mia madre sapesse quel che ho fatto, morirebbe di vergogna”. Che si tratti di vergogna o di colpa, la nostra attitudine alla morale ci sottomette a un tribunale immaginario. La storia che proiettiamo nel nostro cinema interiore si carica di vergogna o di fierezza a seconda del valore che le attribuisce la cultura che ci circonda. Sono rimasto impressionato dal coraggio e dall’autenticità dei giovani tedeschi che cercano di capire cosa è successo nel loro paese durante la Seconda guerra mondiale: se ne interessano, pubblicano testimonianze, partecipano a dibattiti e finanziano musei visitati dagli scolari. Il discorso familiare è tuttavia più difficile di quello pubblico. I giovani tedeschi riconoscono che il loro paese è all’origine di una delle maggiori catastrofi della storia. Cercano di capire la tragedia con molta onestà, ma all’interno delle famiglie il loro coraggioso lavoro si trasforma spesso in accuse ai genitori o ai nonni, e a quel punto diventa doloroso. Un giorno, a Damasco, sono stato invitato a passare una serata in una bella casa siriana in cui la nostra ospite bionda ci serviva vino spiegandoci fino a che punto era fiera del nazismo di suo padre. Nelle scuole di Buenos Aires, non è raro che i figli dei sopravvissuti ebrei i cui genitori avevano erano dovuti fuggire dalla Germania vivano a contatto con i figli dei nazisti i cui genitori sono scappati dallo stesso paese qualche anno dopo. Questi giovani devono affrontare il peso del loro passato. Tutto ciò succede mentre pensano che il padre, che fa parte di loro, ha commesso atti giudicati vergognosi o gloriosi a seconda dei racconti che li circondano. Percepiscono il loro passato con onta oppure con fierezza a seconda delle rappresentazioni culturali. Non è il fatto in sé a essere portatore di vergogna, è la maniera di trasformarlo in racconto. Un evento glorificato dalla cultura rende il bambino fiero della sua storia, mentre lo stesso episodio squalificato dai racconti delle persone vicine lo rende vergognoso. I gitani non si vergognano di essere gente che viaggia,
sono anzi abbastanza fieri della loro discendenza principesca e del loro codice morale che non riguarda i gadjos, i non-gitani. Molti immigrati che hanno dormito per terra prima di integrarsi, molti studenti che sono stati straccivendoli per pagarsi gli studi provavano quasi vergogna all’epoca in cui si sentivano dire che erano sporchi e senza cultura. Qualche anno dopo, avendo ormai conquistato un ruolo valorizzato dalla società, diventavano fieri di sentire che li si trovava coraggiosi per avere superato tali prove30. Dal momento che il fatto aveva cambiato significato nel discorso altrui, cambiava anche l’immagine che avevano di loro stessi. Il cinema interiore del nostro detrattore intimo Il sentimento di vergogna o di fierezza deriva dall’interazione tra due forme di racconto: la narrazione di sé dialoga con il racconto che gli altri fanno su di noi. Non è necessario che tali racconti siano enunciati per farci tacere: una frase, un silenzio, un film, una risata strutturano l’ambiente delle parole in cui la ferita acquista senso. In un simile involucro verbale si può facilmente “morire dal dire”31e soffrire di non dire. Moltissimi uomini sono bloccati tra l’intensità dei propri desideri sessuali e la paura delle donne. Gli immigrati solitari o gli uomini desocializzati non sono fieri di ciò che sono né del paese da cui provengono. Lavorano come bestie, non imparano a parlare la lingua del nuovo paese, a vestirsi in modo opportuno, ad acculturarsi e provano desideri che non hanno modo di manifestare. Restano le prostitute, ma vergognandosi di quel che sono, di non sapere esprimere la propria sessualità, non osano nemmeno chiedere a loro: morirebbero di vergogna se venissero sorpresi a elemosinare una sveltina a pagamento. Le professioniste li chiamano polli, perché si lasciano spennare senza osare affrontare la spennatrice. Enzo era un po’ effeminato con i suoi grandi occhi neri e le sue lunga ciglia curve, come se fossero state truccate. Studente brillante, lavorava molto e viveva solo nella sua stanzetta in un quartiere malfamato di Marsiglia. La
sera, infilava una canotta, il suo marcel32 come diceva lui, metteva un copricapo bianco e scendeva nella pizzeria vicina per infornare le pizze. Aveva passato tutta la sua giovinezza a studiare di giorno e poi a infornare la notte. Nessun amico, nessuna allegra banda in cui i ragazzi fanno la corte alle ragazze. Questa maschera di giovane uomo studioso gli aveva permesso di non svelare la sua immensa timidezza: i desideri sessuali hanno poi aggravato il suo sentimento di impotenza relazionale. Enzo non sapeva come fare. La soluzione gli è apparsa nella via a fianco, vicino alla pizzeria, in cui alcune ragazze si prostituivano. Il suo primo sordido incontro l’ha riempito di disperazione: “Era dunque questo…”, da mettersi a piangere. Ovviamente, impossibile parlarne, a chi? Con i suoi genitori c’era imbarazzo; con i compagni di università sarebbe stato umiliante. Si arrangiò per non pensarci troppo, fino al giorno in cui il desiderio lo riprese. La vergogna si radicava nel suo animo e lo imprigionava. Un studente bello e timido di giorno, pizzaiolo sicuro di sé la notte, costruiva una cripta di vergogna: un tribunale immaginario si installò nel suo animo. L’espressione fisica della sua vergogna indossava una maschera curiosa. Un bambino che si vergogna si nasconde dietro le mani o si rifugia sotto il tavolo; un adolescente arrossisce, evita lo sguardo e farfuglia per il malessere. Enzo, invece, studiava ancora di più, lavorava senza dire una parola, e rinchiudeva la sua vergogna in una cripta inespressiva33. Sarebbe morto di vergogna se qualcuno l’avesse aperta, esponendo allo sguardo di tutti una sessualità miserabile, un atto genitale, nient’altro che uno scambio di mercanzia. Alcuni uomini hanno cominciato con le prostitute, come un gioco senza importanza. Hanno pensato che un atto sessuale non è che un breve traffico, che il mondo mentale di una donna che commercializza la sua vagina non ha importanza, sono affari suoi. Dopotutto, è lei che ha deciso di guadagnarsi da vivere così. Quanto al mondo mentale dei testimoni, può essere persino una fonte di fierezza. Claude B. racconta con orgoglio che suo padre, a un’età avanzata, faceva salire in camera sua una bottiglia di champagne e una
prostituta. Nessun tribunale interiore per lui, al contrario giudicava questo atto ammirevole perché rivelava il vigore sessuale del suo anziano genitore. La vergogna non è nel fatto, proviene dai discorsi intimi che lo giudicano. Tutti partecipano alla vergogna Il detrattore intimo, che mortifica la persona vergognosa, proviene sempre da un crollo della stima di sé. Ma le cause possono avere origine diversa: - Cause esterne sociali: popolo vinto nel corso di una guerra, tendenza a sottrarsi all’influenza della cultura tradizionale, miseria. - Cause esterne culturali: miti o pregiudizi che umiliano la persona vergognosa (un intoccabile che insozza l’acqua, un ebreo che truffa chiunque, un arabo scaltro che accoltella alla schiena un amico, un calciatore negro idiota o uno zingaro ladro di polli). Queste cause esterne umilianti possono provocare vergogna solo se la persona le interiorizza e attribuisce loro importanza. - Le cause esterne familiari sono più efficaci poiché possiedono il potere di colpire profondamente: padre opprimente, madre sprezzante. - Gruppo di fratelli in cui il successo di uno umilia quelli che non riescono nella vita. - Genitori che trasmettono la vergogna: un padre il cui racconto personale è segnato dalla guerra34, una madre che tace quando si parla della sua famiglia di origine. - Cause interiorizzate: «Ci si aspetta di tutto da te. Ci devi meravigliare. Sei talmente dotato che devi raggiungere la vetta». Quando il bambino non è all’altezza dei suoi sogni, che in realtà sono i sogni dei suoi genitori, la lacerazione traumatica è intrapsichica e l’adolescente, avvelenato dalla vergogna di essere solamente arrivato secondo mentre sognava di essere primo, soffre per il fallimento delle sue grandiose aspettative35.
Capitolo 3
Vergogna ingiusta
Si può quantificare la vergogna? Gli eventi della sfera sessuale rivelano così bene il nostro mondo intimo che è difficile affrontarli con distacco: per poterci pensare con calma, si recitano dunque due stereotipi che permettono di nascondere chi siamo. Alcuni dicono: «Non ci si riprende mai da un trauma sessuale, è peggio della deportazione». Altri, al contrario, si compiacciono a pensare che “non è così grave” e che le donne fanno tante storie per poco, colpevolizzando gli uomini e coprendo con la maschera della morale la propria aggressività. In mezzo a questi opposti stereotipi, stanno i risultati delle indagini psicologiche. Nell’insieme «dal 20 al 40% delle vittime di abusi sessuali non presenta effetti deleteri»1. Se ci si accontenta di questo dato, allora si pensa di conseguenza che quasi una donna su due si rimette da sola da uno stupro e che il trauma passa con il tempo. Ma se si aggiunge il risultato di un’altra indagine psicologica a queste cifre, si scopre che il tempo ha dato alle persone che circondano queste donne la possibilità di sfruttare i due concetti chiave della resilienza: il sostegno e il senso. La violenza sessuale provoca nelle vittime un tale sentimento di imbarazzo e di collera, e talvolta nella società un piacere abietto, che questa reazione emozionale spiega l’imprecisione delle cifre. Alcune inchieste sostengono che il 10% della popolazione femminile ha subito un’aggressione e che solo il 10% di queste donne ha denunciato l’accaduto. Ma basta che chi conduce l’indagine consideri molestia sessuale un gesto fuori luogo, una
parola maliziosa o uno sguardo insistente perché la cifra salga fino al 60% della popolazione. Anche il tasso di recidiva è impreciso. Gli uomini in prigione e le aggressioni accertate dovrebbero costituire un riferimento affidabile e invece le valutazioni variano dall’1,6 al 30%2. In questo ventaglio di cifre, alcune paiono meno sfocate: gli aggressori di ragazzini sono i recidivi più numerosi3. La percentuale di resilienza, di ripresa da un trauma, è ancora più difficile da valutare, poiché mentre certi osservatori hanno bisogno di pensare che uno stupro sia il crimine dei crimini, altri stimano che vi si dedichi troppa attenzione. Incrociando le indagini sulla popolazione con le interviste psicologiche è tuttavia possibile capire di cosa si sta parlando. La letteratura clinica fornisce alcune tragiche “sperimentazioni” che gli psicologici possono valutare nell’aiuto alle vittime. Nella Repubblica d’Irlanda, un’istituzione religiosa fu incaricata nel 1949 di raccogliere 247 bambini in difficoltà. Lo scandalo scoppiò quando si scoprì che i bambini, diventati nel frattempo adolescenti, erano stati quasi tutti violentati regolarmente. Ci si occupò di loro, li si sottopose a test e interviste per sostenerli meglio e, cinquanta anni dopo, si tentò di scoprire che fine avessero fatto. I progressi della biologia, i test di attaccamento e i riferimenti sociologici permisero di stabilire dei criteri affidabili4. Si dispose così di due bilanci: esami, test e interviste all’epoca in cui gli aggrediti erano bambini e un confronto con le stesse persone a più di 60 anni di età. A questi si aggiungevano inoltre i racconti delle loro vite, le rappresentazioni narrative dell’orrore passato e della lotta per cercare di uscirne. Quando lo scandalo venne rivelato, l’83% dei bambini di questo gruppo era profondamente alterato, cosa che non sorprenderà nessuno: ritardo nello sviluppo fisico e mentale, ansia, uso di droga e disturbi della personalità. La valutazione dell’attaccamento, cinquanta anni dopo, descrisse un 45% di adulti spaventati, un 27% di persone con un atteggiamento evitante e gelido, e il 12% di inquieti ambivalenti: ovvero più dell’83% di attaccamenti segnati dall’insicurezza, mentre di solito nella popolazione generale se ne riscontra il
30%. Fu stupefacente scoprire che quasi il 17% di questi bambini aggrediti aveva acquisito un attaccamento sicuro. Un dato molto inferiore a quello generale della popolazione, in cui la cifra si avvicina al 66%, ma è pur vero che in un simile contesto ci si sarebbe potuto aspettare il 100% di sviluppi catastrofici. Per quale mistero questi bambini erano riusciti a svilupparsi correttamente, malgrado una carenza affettiva precoce che aveva provocato il loro abbandono in un’istituzione e ripetute e aggressioni sessuali che li avevano distrutti5? Esiste una flessibilità psichica quando uno psichismo alterato da un incontro devastante riesce a ricostituirsi grazie ad altri incontri6? Come valutare i fattori di resilienza? Il problema è così posto: una piccola proporzione di bambini aggrediti ha potuto riprendere uno sviluppo corretto perché altri incontri sono stati loro favorevoli: se arrivassimo a scoprire, analizzare e applicare alcune delle loro condizioni, potremmo dare il via a un maggior numero di processi resilienti. È possibile riunire i determinanti benefici o malefici in tre categorie: - prima dell’aggressione: come si sviluppava il bambino? - durante l’aggressione: le circostanze dell’effrazione influiscono sul divenire dell’aggredito? - dopo l’aggressione: quale forma deve prendere il sostegno familiare e culturale per ricucire la lacerazione traumatica? Ognuno di questi ambiti è analizzabile e valutabile. I bambini che prima dell’evento sconvolgente già soffrivano di alcuni tratti psicopatologici (fobie, agitazione psicomotoria, angosce da separazione, attaccamento confuso) non hanno potuto dare inizio a un processo di resilienza. Questo è vero anche per i bambini che avevano già acquisito un attaccamento insicuro, distante o ambivalente: quando il contesto è stabile, tali stili affettivi non sono tratti patologici, semplicemente testimoniano
l’adattamento a una famiglia particolare. In caso di crollo, però, queste modalità di relazione affettiva divengono fattori di vulnerabilità. Tra i bambini aggrediti divenuti poi resilienti, non vi erano disturbi psicologici e quasi tutti avevano acquisito un attaccamento sicuro che avrebbe facilitato le relazioni successive: questo stile affettivo ha permesso loro di affrontare il trauma con maggiore affermazione di sé. La struttura dell’aggressione, ovvero le condizioni nelle quali si è effettuata l’effrazione sessuale, ha costituito un potente fattore di resilienza o di antiresilienza. Quando l’aggressione è extrafamiliare, quando uno sconosciuto forza la preda sessuale, l’aggredito ha la tendenza a rappresentarsi l’“effrazione” come una sorta di grave incidente. L’attribuzione della colpa, esterna, non mette la vittima in discussione. L’aggredito si rappresenta l’evento come una lotta, un’umiliazione, una dolorosa effrazione, appunto, il cui crimine è da imputare interamente all’aggressore. Ma quando l’aggressione viene da una persona vicina, alla violenza si aggiunge il tradimento. L’espressione abuso sessuale designa correttamente lo schema comportamentale: un adulto (un uomo e talvolta una donna) stabilisce con il bambino una relazione di attaccamento che crea un sentimento di sicurezza e di benessere. Subdolamente, i gesti di tenerezza scivolano verso l’aggressione sessuale, che in questo caso è associata al piacere del legame affettivo, al piacere di ricevere un regalo e talvolta persino a un piacere di tipo sessuale. La preda è così trasformata in complice dell’aggressore. Inoltre, quando si tratta di una persona vicina, l’aggressione sessuale, spesso ripetuta, si trasforma in relazione che interiorizza nella memoria della vittima una partecipazione all’atto, un’attribuzione interna della colpa. Questo processo spiega l’affermazione stupefacente spesso pronunciata dalle donne stuprate: «Senza farlo apposta, devo averlo provocato». Quando invece l’attribuzione della colpa è esterna, il ferito umiliato mantiene nel profondo di sé un po’ di autostima, perché ha potuto rivoltarsi e cercare alleati. Nel gruppo delle vittime colpevolizzate dall’aggressore si trovano diversi casi di coazione a ripetere la condizione della vittima: le donne che reagiscono
in questo modo hanno dal 20 al 30% di rischio di essere nuovamente violentate7. Succede persino che una donna non ricordi di essere stata aggredita, benché lo stupratore abbia confessato sotto la pressione delle testimonianze; capita che lei neghi, spiegando che ciò che le è successo non ha importanza, dal momento che ha potuto riprendere a fare jogging dopo la violenza. In questi casi si ammira la sua resistenza, si è intrigati dalla sua indifferenza, però, magari anche a distanza di due anni, con stupore irrompe una sindrome psicotraumatica che fa tornare l’orrore “come se fosse appena successo”. La donna non pensa ad altro, vede continuamente il film della violenza che si è impadronita del suo mondo intimo e impedisce ogni difesa: il più delle volte precipita in una depressione cronica, una sorta di intorpidimento del piacere di vivere per cui abbandona qualunque vigilanza. Una convergenza di fattori eterogenei spiega la degradazione del mondo intimo delle donne aggredite8. La sessualizzazione attraverso l’aggressione, il sentimento di essere stata tradita, di essere divenuta complice e poi di venire umiliata dallo stigma insito nello sguardo altrui costruiscono nel mondo intimo dell’aggredita un’immagine svilita di sé: «Poiché ho accettato un regalo prima di essere stuprata, ho mercanteggiato il mio corpo… dal momento che mi si può prendere così, con facilità, io sono un giocattolo del desiderio degli altri… non sono capace di differenziare l’attaccamento e la sessualità, ho ragione ad avere paura di amare». Queste immagini vengono radicate nel suo animo dalle reazioni di coloro che la circondano. Quando la famiglia dice: «Non ti credo, conosco tuo padre, non l’avrebbe mai fatto»; quando i compagni di scuola si eccitano alla rappresentazione di una donna usa e getta; e quando uno stereotipo culturale afferma che una donna stuprata è una donna insozzata che disonora la famiglia, allora tutte queste reazioni convergono per seminare la vergogna nell’animo dell’aggredita. I bambini esprimono i loro sentimenti caotici con reazioni esasperate di provocazione sessuale, di esibizionismo e di allusione costanti a una genitalità senza ritegno, mentre gli adolescenti aggrediti si proiettano a ciclo continuo un immaginario sessuale disgustoso e disperato.
La denegazione, una legittima difesa morbosa Il mezzo più sicuro per lottare contro questa vomitevole rappresentazione sessuale è evitare di pensarci: la denegazione è una strategia che permette di minimizzare l’impatto emotivo dell’aggressione. Questa difesa che migliora il coping9, la maniera di affrontare la prova, sembra espressione di una forza mentale: «Non è niente… ne ho viste di peggio!». Si ammirano le persone ferite che sorridono, le si crede invulnerabili, mentre spesso questa protezione innesca una bomba a scoppio ritardato: una tristezza psicologica che esploderà successivamente10. Se evitano di pensarci è perché non si sentono abbastanza forti per parlarne con tranquillità. Questa rappresentazione di sé sporcata, forzata da un altro, è un segno di svilimento, una vergogna che allontana dalla società impedendo alla persona ferita di prendere il proprio posto tra gli altri; dunque, si mette in disparte, al di fuori delle relazioni affettive della vita quotidiana. Nella denegazione si possono creare momenti di felicità con il “pensiero magico”: vengono ammirate le vittime che, dopo l’aggressione, sorridono sognando, scrivono poesie e spiegano che il mondo visibile è governato da forze occulte che hanno appena scoperto. Hanno ragione a reagire così, dopotutto, si stanno difendendo: questo rifugio nell’immaginario, però, è profeta di dolore perché così negano il reale invece di offrire semplicemente a se stesse un istante di piacere. Il cantante Corneille, dopo il genocidio in Ruanda, si è ritrovato in una situazione simile a quella dei bambini ebrei nascosti durante la Seconda guerra mondiale. Dopo aver assistito al massacro della sua famiglia, è riuscito a fuggire in Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), e si è nascosto a Kigali per tre mesi prima di essere accolto da una famiglia in Germania: «Ero salvo. Ero appena sfuggito a un inferno del quale era impossibile parlare»11. Sopravvissuto mentre i suoi cari sono morti, si vergogna di lamentarsi, e allora “mette in sordina” questo ricordo insopportabile e fa in modo di pensare solo alla musica. Questo meccanismo è una difesa insufficiente seppure necessaria: incancrenisce il dolore che ci travolgerebbe se si
permettesse all’emozione di invadere il nostro mondo mentale. Essa permette di strappare dei momenti di felicità e di dare di sé un’immagine forte e sorridente, ma non di affrontare la realtà della perdita, dell’esilio, della sopravvivenza monca: così si condivide solo la parte sopportabile del proprio mondo mentale e si soffoca quella dolorosa della propria storia. In questa legittima difesa, non si può parlare di resilienza perché c’è un’amputazione della personalità: «In effetti, ero morto, assente dalla mia storia, assente da me stesso» dice il cantante12. Il tempo della denegazione è spesso necessario13 perché permette di soffrire meno: ma non si può trascorrere un’intera vita solo con metà della propria personalità. Un giorno bisognerà eliminare questa denegazione e allora si constaterà che il corso dell’esistenza riprende un cammino diverso. La scoppio ritardato è frequente quando è stata evitata qualunque presa di coscienza: «Bisogna andare avanti… non serve a niente rimuginare». Nel momento in cui la denegazione scompare, senza che né il soggetto né il suo contesto siano pronti ad affrontare il dolore, questo irrompe anche più intenso. Ci si vergognerà di non avere sofferto per la perdita dei propri cari: «Non mi ha provocato nulla la loro morte. Sono un mostro». Il lutto impossibile colpisce ancora più forte quando è ritardato: «Devo dunque mantenere questa impressione che sono nata il mattino in cui loro sono morti. Poiché è stato necessario che loro morissero perfino nella mia memoria perché io potessi vivere dopo… Caritatevole amnesia… Fate piangere i bambini che vogliono ignorare di soffrire»14. La denegazione non influisce sulla memoria della tragedia, ma sullo stato affettivo associato a tale memoria. Le prostitute spesso affermano di non soffrire per il loro mestiere. Hanno ragione. Si soffre meno quando il tormento provoca un’agonia psichica: «Non ho più anima, non ho più corpo, più niente che sia mio. Non sono che nulla che vuole durare… Tutto ciò è come la cocaina, un modo di dimenticare»15. Solo quando diventa deputata al Gran Consiglio di Ginevra, Nicole osa finalmente affrontare il suo passato. È sfuggita a un contesto che la avviliva, ma solo quando ha potuto ricostruirsi ha trovato la forza di militare
per Aspasie, un’associazione che aiuta le ragazze da marciapiede: «Forse mi era servito tutto quel tempo per guardare di nuovo la prostituzione in faccia e considerarla per quello che è: una realtà economica e sociale, dunque politica»16. Corneille il cantante dice qualcosa di simile: «[per] essere abbastanza forte e vivo per chiedere aiuto e affrontare il proprio passato per ignobile che sia, senza che ci impedisca di vivere il presente e andare verso il futuro»17. Ma quando la deputata si impegna a proteggere le ragazze venute dall’Europa dell’Est, le sue colleghe si stupiscono che voglia immergersi di nuovo in un universo dal quale era riuscita a fuggire. Tutto accade come se il suo ambiente pensasse: “Io, al posto suo, avrei continuato a tacere”. Questa donna esce dalla vergogna per entrare nella fierezza, ma la società l’avrebbe capita più facilmente se avesse continuato a nascondere il suo passato, salvo rimproverarglielo in seguito. Ricongiungersi alla propria storia significa tentare di ricucire i lembi di un’identità lacerata. Solo quando la denegazione dà il tempo di rinforzarsi e modificare lo sguardo degli altri, essa può tessere un processo di resilienza, dopo anni in cui la sofferenza è rimasta intorpidita18. I bambini sanno usare questa modalità di protezione. Quando Nicole, hostess, muore nell’attentato del volo UTA verso N’Djamena, suo marito responsabilizza troppo suo figlio Benjamin, di 8 anni, per meglio proteggere lui e se stesso: «Parliamo molto insieme. Mi dice ciò che pensa, ciò che crede, ciò che vorrebbe. Mi parla della scuola, dei suoi amici. Non mi parla della sua mamma. Di questo non può parlare»19. Questo silenzio è testimone di un’ipermemoria, il cui racconto resta imprigionato nell’intimo, chiuso a chiave, impossibile da dire e da condividere. L’entourage si rende complice della denegazione, facendo capire alla persona ferita che non si parla di queste cose. Il silenzio allora struttura la vita della persona, diventa un tiranno muto che fa segretamente soffrire, impedendo così il lavoro di ricostruzione di sé. La rabbia della comprensione è un’arma della resilienza, obbliga a interpretare, a dire, a incontrare, a
spiegare; mentre il silenzio che gela la relazione aumenta l’intensità del racconto senza parole: “Penso continuamente alla mia ferita, ma devo tacere perché nessuno può capirmi”. Questa rinuncia insensata (cioè senza un senso) prepara la rimuginazione post-traumatica e la vergogna di sé: “Non sono altro che una donna… noi, le intoccabili, siamo delle sotto-persone… nella storia del nostro popolo, siamo sempre state perseguitate”. La rassegnazione impedisce di prevenire la futura aggressione: quando non si controlla niente, né se stessi, né gli altri, non ci si protegge dai nuovi attacchi, cosa che spiega la strana fatalità della coazione a rivivere la condizione della vittima20. Una cripta silenziosa in cui si agitano i fantasmi Talvolta è impossibile parlare, perché non se ne ha la forza, perché l’altro non vuole ascoltare o perché il pericolo della rivelazione cuce le nostre labbra. Un racconto “a bocca chiusa”, che non può esprimersi, crea nel nostro animo come una cripta in cui si agitano i fantasmi: “Se dico a mamma ciò che mi ha fatto suo marito, ne morirà… se rivelo la mia sporcizia, la mia famiglia mi ripudierà, la società mi disprezzerà”. Confidare un orribile segreto non è sempre un fattore di resilienza: la reazione dei parenti alla rivelazione dell’incesto colpevolizza la figlia che, dopo essere stata lacerata dal padre, verrà distrutta dalla famiglia. La denegazione delle persone ferite che protegge dalla sofferenza impedisce la psicoterapia che talvolta risveglia questo sentimento. Perché la rimozione della denegazione non provochi il ritorno del dolore, è necessario che anche l’ambiente familiare evolva diventando capace di comprendere il trauma e di sostenere la vittima. L’assenza di sostegno prima del trauma non ha permesso l’acquisizione di un attaccamento sicuro che, in caso di aggressione, avrebbe aiutato la ragazza vittima di incesto ad affrontare questa prova21. Inoltre, l’assenza di sostegno dopo l’aggressione rende impossibile la rivelazione: il dubbio e l’ostilità della
famiglia danno il colpo di grazia alla ragazza. Un fattore di resilienza inatteso e ancora poco studiato giunge talvolta a sostenere una piccola vita straziata: una compagna di scuola. Che un bambino sia capace di nominare molti compagni a cui può raccontare le sue avventure rivela la sua attitudine ad andare a cercare da solo un sostegno in caso di sventura22. Tutti gli studi longitudinali che hanno seguito la crescita di bambini in difficoltà hanno sottolineato l’importanza dello stile affettivo acquisito prima dell’evento. Un attaccamento sicuro impresso fin dai primi mesi di vita dà, in caso di dolore, un’elevata probabilità di resilienza. Il bambino ferito reso capace di cercare un sostituto rassicurante ha maggiori probabilità di incontrare un tutore di resilienza23. Questo tutore non può essere chiunque, deve corrispondere al bisogno del bambino. Quando un compagno di scuola accetta di sentire la sventura del bambino ferito, l’intimità del segreto condiviso rafforza il legame. Forse questo spiega perché dopo un’aggressione sessuale i bambini adottati sviluppano una resilienza migliore rispetto a quelli rimasti nella famiglia biologica24: hanno meno paura di raccontare quello che è successo loro. Bisogna nuovamente distinguere aggressione e abuso sessuale. Nell’aggressione è la violenza che si imprime nella memoria e facilita una sindrome post-traumatica, mentre nell’abuso è il tradimento che fa tacere la vittima e la prepara alla vergogna. Quando lo stupratore si organizza perché il bambino confonda gesti di tenerezza con l’atto sessuale, non è raro il tradimento familiare: «L’amico (di famiglia) è molto gentile… ad ogni seduta le foto si fanno più “suggestive”… Mamma non è contenta quando vengono scoperte. “Non è bene” dice lei… Né lei né mio padre cambieranno qualcosa nei loro rapporti con questo uomo e sua moglie: l’amicizia è sacra. Questa estate andranno persino in vacanza insieme»25. Il tradimento dei genitori, l’assenza di protezione causeranno più disturbi dell’aggressione sessuale stessa26. La rivelazione è meno difficile quando la persona ferita trova attorno a sé
un sostegno familiare, amicale e culturale che permette la condivisione delle emozioni27 e la presa di coscienza28. Un tale contesto facilita il controllo della rappresentazione del dolore e la possibilità di riprendere un posto in mezzo agli altri. Quasi sempre, l’assenza di rivelazione indica anche l’assenza di sostegno. La donna aggredita pensa che quello che le è successo sia impossibile da dire perché così darà di sé un’immagine di donna insozzata, vinta, disgustosa: si vergogna della rappresentazione che rischia di infondere nell’animo altrui e, dunque, si protegge tacendo. Un fantasma risuscitato può ancora uccidere È successo qualcosa di strano quando Gérald aveva 17 anni. Era stato accolto in una famiglia non sempre facile, ma che, per lo meno, gli permetteva di andare a scuola. Un giorno era in cucina, la testa piegata su un libro mentre studiava, quando il padre affidatario passò dietro di lui e improvvisamente lo baciò sul collo. Sorpreso, Gérald si raddrizzò ricevendo uno schiaffone tra gli insulti del padre: «Razza di finocchio». Il padre se ne andò e Gérald riprese la lettura. Ripensandoci, si stupiva dell’atteggiamento sessuale di quell’uomo e soprattutto della propria indifferenza davanti a ogni suo tentativo di aggressione omosessuale. Vent’anni dopo, andando al cinema a vedere Festen, film danese che evoca l’incesto, Gérald comprende finalmente il senso di quello che era successo. Nel film, come nella sua vita, gli obblighi familiari hanno soffocato la questione. I suoi amici sostengono che il pesante segreto avrebbe messo in subbuglio la famiglia e provocato delle psicosi nei nipotini. Gérald pensa d’altro canto che la famiglia nella quale aveva vissuto, alla meno peggio, soffriva già di un curioso funzionamento prima dello schema del “bacio-schiaffoinsulto”, e tenta di immaginare cosa sarebbe successo se avesse rivelato l’accaduto: probabilmente la madre affidataria non gli avrebbe creduto, talmente aveva bisogno di salvare quello che restava della sua vita di coppia. In questo caso, Gérald sarebbe stato accusato di diffamazione: «Come osi dire così male di tuo padre, dopo tutto
quello che ha fatto per te?». Gérald sarebbe stato cacciato da quella famiglia, come spesso era stato minacciato. E se lei gli avesse creduto? La rivelazione avrebbe provocato allora un’esplosione in famiglia: la madre non aveva un lavoro e i disturbi di Viviane, la figlia della coppia che aveva 8 anni all’epoca e aveva gravi difficoltà psicologiche, si sarebbero aggravati. Gérald ne sarebbe stato considerato responsabile e si sarebbe autocolpevolizzato. Parlando, avrebbe mandato tutto in pezzi e tutti ne avrebbero sofferto; tacendo, ha limitato il danno. Per proteggersi, però, ha dovuto sviluppare un attaccamento gelido: educato, silenzioso, segreto, senza confidenze, ciò che gli ha permesso di seguire la sua strada senza ferire gli altri, né lasciarsi ferire. L’attaccamento evitante aveva svolto il ruolo di un adattamento analgesico rispetto a questa morbosa famiglia. All’epoca di Festen, Viviane era madre di due bambini che si lamentavano di avere ogni mese un padre diverso, talvolta alcolizzato, talvolta violento. Il tribunale ha affidato i figli ai loro nonni che li hanno accolti con amore. Sfuggendo all’inferno materno, i due piccoli adorano i loro nonni che creano per loro un focolare rassicurante. Imparano un mestiere e si fanno una famiglia, venerano il nonno e si occupano al meglio della madre sempre in difficoltà. Nessuno è diventato psicotico. Avrebbero avuto lo stesso percorso se Gérald, vent’anni prima, fosse andato al commissariato? Le leggi generali che valgono per un gruppo non hanno per forza lo stesso valore per ogni individuo di questo gruppo. In linea di massima, quando una donna subisce un’aggressione extrafamiliare, se prima ha conosciuto un attaccamento fiducioso e se dopo lo stupro è sostenuta dalle persone vicine, accumula fattori di resilienza e riprende la sua dignità. I ragazzi aggrediti, da un uomo o da una donna, trovano meno fattori di resilienza perché con più facilità rischiano di non essere creduti e provocare risposte ironiche. Da quando la cultura occidentale stigmatizza meno le donne violentate, queste riescono a cancellare con meno difficoltà la vergogna dell’aggressione29. Quando la famiglia le sostiene, quando gli amici accorrono e quando la loro cultura non racconta più il mito della donna stuprata che
disonora i suoi cari, la vittima non si sente più respinta dall’umanità. Succede persino che dopo la violenza prenda il sopravvento facendo la morale al miserabile aggressore: «Devi avere un problema ben grosso per non sapere fare diversamente». Oggi succede persino che certe donne ribaltino i ruoli e divengano dominanti, come nello schema sopradescritto. Quando la famiglia funziona male prima dell’aggressione, parlare del proprio stupro significa risvegliare problemi sopiti e aggiungere un’ulteriore lacerazione traumatica. Forse ciò spiega perché le ragazze aggredite preferiscano parlarne prima a scuola, a un’amica oppure a un’infermiera; altre scelgono invece di confidarsi con un prete, o con una persona affidabile al di fuori della famiglia. Poiché la prossimità affettiva rischia di ferire i nostri cari, meglio parlarne con chi è più lontano, con una persona in grado di capire senza crollare insieme a noi30. La rivelazione è spesso seguita da uno scoppio di ansia: “Cosa ne farà del mio segreto? Affidandomi a questa infermiera ho cambiato il suo sguardo su di me… Ormai, per lei, sono una donna stuprata. Ne riderà o mi disprezzerà?”. Confidarsi con una persona cara provoca senso di colpa: “Quando lo dirò a mia madre, le farò del male”; ma confidarsi con chi è più lontano scatena un’angoscia: “Affidando il segreto che mi fa vergognare, mi metto in posizione di vulnerabilità, offro agli altri un’arma di cui potrebbero servirsi contro di me”. Ci si libera dalla vergogna modificando l’animo altrui Non ci si può liberare veramente della vergogna se non alla condizione preliminare che amici, famiglia, luogo in cui si vive e cultura divengano un sostegno31. La persona aggredita, prima dell’evento, poteva essere delicata o coriacea a seconda del suo sviluppo affettivo precoce: se dopo un trauma il veleno della vergogna si radica in lei, questo significa che la sua relazione con il suo contesto era già disfunzionale. Il racconto dell’aggressione crea un ponte intersoggettivo costruito con le
parole che si è osato dire a qualcuno che osava ascoltarle. Si può chiamare tale processo ristrutturazione cognitiva32; e si può anche dire che la rielaborazione della rappresentazione di sé evolve a seconda dei racconti e degli incontri affettivi. Quando mi sforzo di parlare della tragedia che mi ha umiliato e mi confido con l’amico perfetto, sono stupito di sentirmi meglio. Sono rappacificato perché ho condiviso il mio mondo intimo, rinforzato perché ho creato qualcosa con la mia ferita. Non sono più solo al mondo poiché voi avete letto, riso, espresso un giudizio. Mi sento meno escluso dall’umanità (un po’ inquieto, tuttavia, perché non so cosa gli altri faranno di quello che ho confidato loro). Questo rimaneggiamento della rappresentazione del proprio “io ferito” porta con sé una modificazione delle emozioni, della loro espressione comportamentale e della costruzione intellettuale che dà all’orrore una forma ragionevole. Esco dalla confusione, ridivento padrone del destino, non sono più il giocattolo sessuale degli altri, lo Stück, il pezzo da buttare in un forno. Come anticipato, quando il bambino non è sostenuto dai suoi cari, che spesso sono i suoi aggressori, può cercare un tutore di resilienza al di fuori della sua famiglia: può trovarlo in uno zio, un amico, un istruttore sportivo; spesso è un insegnante che, senza accorgersene, sarà scelto. Tra le strategie che orientano il bambino verso un processo resiliente, il sovra-investimento nella scuola è il più benefico33. È il solo luogo in cui si senta rispettato, amato, pieno di progetti e giochi all’intervallo. Alcuni bambini aggrediti sessualmente e seguiti fino all’età di 30 anni hanno dato testimonianza, una volta adulti, di sviluppi molto diversi a seconda della qualità del loro ambiente e della struttura della loro personalità prima del trauma. L’evoluzione peggiore è rappresentata da un 10% dei ragazzi violentati, divenuti adulti violentatori dalla sessualità anormale. Soltanto il 3% delle ragazze ha conosciuto l’effetto a lungo termine di una umiliazione sessuale che le ha spinte a ripetere una sessualità violenta con vittimizzazione, disturbi gravi della personalità e cattiva abilità genitoriale34.
Sono l’abbandono, l’assenza di sostegno dopo lo stupro, l’isolamento affettivo e relazionale i più forti determinanti della riproduzione di questa violenza. Quando durante un processo il violentatore, per attenuare la sua pena, dice che è stato violentato a sua volta, spesso dice il vero, ma non è il fatto di essere stato violentato che gli ha dato un’attitudine a diventare stupratore, quanto il fatto di essere stato lasciato solo dopo lo sconvolgimento o, peggio, di essere stato trattato da bugiardo. Ci si libera della vergogna modificando il proprio animo Una percentuale di vittime che va dal 10 al 20% si aggrava in modo inesorabile. Alcune, paradossalmente, sembrano invincibili, indenni all’aggressione: protette dalla denegazione che ha dato loro un’apparente tranquillità, crollano in occasione di un evento banale dell’esistenza. I fantasmi che si agitano in silenzio nel loro mondo intimo esplodono alla luce del sole, sotto forma di una sindrome psicotraumatica, emergendo anni dopo come se l’evento fosse recente. Questi quadri di peggioramento regolare o ritardato si vedono soprattutto in bambini che dopo l’aggressione vivono in una famiglia deteriorata. Un’altra percentuale che va dal 40 al 75% migliora invece lentamente: sono soprattutto bambini che sono stati sostenuti e rassicurati, e che dunque hanno potuto riprendere in mano la loro esistenza e vedere se stessi in un progetto di vita35. Quando questo lavoro mentale viene fatto, la personalità cambia poiché la rappresentazione di sé si modifica e i valori dell’esistenza non sono più gli stessi. La maturazione post-traumatica è stata spesso osservata nelle persone che vivono in aree abbandonate. Quando sopraggiunge una prova familiare, i bambini rapidamente diventano autonomi, aiutano i loro genitori e a volte addirittura se ne occupano. Dopo una catastrofe naturale in pochi giorni imparano a cucinare, a costruire case o a riempire i formulari che prima li facevano sbuffare di esasperazione. Gli adulti conoscono lo stesso effetto di
maturazione: «Dopo l’aggressione sono diventato più vigile, faccio attenzione ai bambini, mi proteggo meglio» si sente spesso dire. Ma bisogna sottolineare che una simile evoluzione avviene solo con le persone ferite che hanno un sostegno. Quando l’autostima è preservata dall’ambiente, i feriti, dopo aver perduto la loro personalità nell’aggressione, come spesso dicono, «riprendono in mano la loro vita». La strategia resiliente affronta il trauma indirettamente, con la scappatoia dell’opera d’arte, dell’impegno sociale o del lavoro verbale che permette alla vittima di passare dallo «status di oggetto di sevizie a quello di soggetto di un’opera di immaginazione. Le violenze sono trasferite nella creazione di un lavoro personale che si fa a sua volta processo di trasformazione della realtà vissuta. Il bambino partecipa così alla propria ricostruzione senza tuttavia ricordare quello che ha subito»36. Quando questi fattori di resilienza sono numerosi e coordinati, il numero di bambini in difficoltà diminuisce della metà nell’anno successivo all’aggressione37. Il sollievo non significa che hanno dimenticato, ma che, al contrario, hanno rimaneggiato la ferita per trasformarla in ricerca attiva di sostegno affettivo e di trasposizione artistica38. Questa argomentazione, in cui la persona ferita è inserita in una rete familiare e culturale, spiega perché il trauma, attaccando un solo punto della rete, attacca anche i legami e allenta l’insieme del sistema39. Le reazioni dell’ambiente sono talmente intricate che basta che un solo membro del sistema familiare sia attaccato perché le depressioni intorno al traumatizzato si triplichino. «L’ho accompagnata al commissariato, le sono sempre stato vicino» dice il marito «e oggi sto male». Quando una donna è aggredita, il 59% dei mariti cade in depressione, e quando un bambino è aggredito, il 67% dei genitori crolla40. Il fattore di resilienza più efficace, quello che si trova regolarmente negli studi a lungo termine, è la costruzione di un legame affettivo stabile. I feriti che sono riusciti a formare una coppia che resiste nel tempo hanno fornito i migliori risultati di tutte le scale di valutazione41. L’effetto protettivo della
coppia agisce con pienezza sui partner feriti. Dopo alcuni mesi di adattamento, ognuno serve da base di sicurezza all’altro: «Mi sento placata quando mio marito è presente», «Mia moglie è la mia colonna affettiva, organizzo la mia vita per lei, intorno a lei. Con lei ho finalmente un progetto di esistenza». Questo risultato stabile è valutato in una speranza di vita più lunga per chi è sposato, e in un numero molto inferiore di malattie fisiche e di depressioni per le coppie stabili. Le interviste semi-strutturate e i test psicologici precisano che la salute è migliore e che le angosce si placano rapidamente in queste coppie. Si può esporre dettagliatamente l’apporto della coppia sostenendo che la sua stabilità crea un sentimento di familiarità rassicurante, che l’affidabilità dell’altro dà fiducia in sé: «Posso contare su di lei», «È sempre stato presente quando ho avuto bisogno di lui». L’intesa alleggerisce l’angoscia e permette di concentrare i propri sforzi nell’avventura sociale. Il ferito ritrova con il proprio coniuge la figura di attaccamento primaria che, nell’infanzia lo ha rassicurato e fortificato. Se anche questa ultima base di sicurezza viene a mancare, è offerta una seconda possibilità alla persona che ne è carente e che invece nel rapporto di coppia acquisisce la forza e la tranquillità che non aveva trovato prima42. Salvo che “stabilità della coppia” non vuol sempre dire “qualità del legame”. La persona ferita sentendo un maggior benessere grazie al coniuge affidabile, vi si attacca, pur sapendo che la relazione è difficile e dispendiosa: “D’accordo, vuole che io rinunci a una parte della mia avventura sociale. Mi piacerebbe essere giornalista, ma questo lavoro richiede troppi viaggi, ciò rischia di rovinare la vita familiare di cui ho bisogno. Rinuncerò dunque a questa vita di avventure e accetterò di avere una quotidianità con lui. Questa rinuncia mi costerà cara, ma senza mio marito io vado in pezzi”. Nelle coppie stabili si vede speso la lenta creazione di un legame di attaccamento sicuro che era stato lacerato con l’aggressione sessuale. Sovente la donna stuprata attribuisce alla sessualità un senso di violenza contro la quale si difende bloccando i rapporti sessuali e persino i gesti di tenerezza.
Quando è rassicurata dal suo compagno, chiede qualche gesto affettuoso e accetta gli incontri sessuali “per fargli piacere”. In una coppia affidabile e rassicurante, la sessualità si riscalda. Una valutazione dei punteggi di attaccamento testimonia allora un miglioramento della sicurezza insieme al piacere sessuale43. La paura di essere abbandonata di nuovo e la sofferenza della perdita peserebbero così gravemente che la presenza dell’altro è accettata anche quando costa cara. Succede che una tale transazione affettiva divenga eccessivamente costosa quando il partner cerca di ricavarne troppi vantaggi. Percependo che il coniuge accetta di pagare cara la stabilità del legame di cui ha bisogno, il non ferito chiede troppo e spersonalizza il compagno ferito. Se il coniuge non ferito approfitta della richiesta di stabilità dell’altro per imporre la sua influenza, sfrutta la relazione causando la spersonalizzazione o la depressione per sfinimento. Nella maggioranza dei casi il coniuge non ferito prova piacere a sostenere quello ferito: si sente bene quando fa del bene. Questo implicito contratto crea una coppia stabile, rassicurante, rinforzante, in cui lo sviluppo di un attaccamento sicuro crea a sua volta un legame leggero (che non vuol dire superficiale), in cui ciascuno dà forza all’altro senza rinchiuderlo in una prigione affettiva. Ci si libera della vergogna agendo su qualunque punto del sistema Altri fattori, esterni al ferito, partecipano alla resilienza: la religione, per esempio, gioca un ruolo importante44. Nelle culture in cui il prete non stigmatizza, ma al contrario sostiene e conduce verso la spiritualità la donna “insozzata”, questa si sente autorizzata ad attribuire l’aggressione a un elemento esterno. Non è raro che volontari delle associazioni umanitarie soffrano di una sindrome psicotraumatica, perché l’orrore della realtà provoca traumi per compassione. Le congregazioni religiose impegnate negli stessi territori ne soffrono raramente: la preghiera dona loro momenti di
meditazione e di rigenerazione, ma soprattutto sono la stabilità del gruppo e il senso dato dalla fede a proteggerli efficacemente. Lo schema di analisi che valuta la probabilità di resilienza dopo un’aggressione sessuale è in realtà applicabile a ogni trauma, anche se ognuno possiede la sua specificità45. - Valutando lo stile di attaccamento e l’attitudine alla presa di coscienza, si può prevedere se la vittima avrà più probabilità di chiudersi in se stessa piuttosto che di cercare un sostegno. - Analizzando la struttura dell’aggressione, si può prevedere se la vittima attribuirà la colpa a un aggressore esterno o si colpevolizzerà per il fatto di averlo provocato. - Osservando le reazioni del contesto familiare e la struttura dei miti e dei pregiudizi della cultura che circonda la persona devastata, si possono individuare i tutori di resilienza che la aiuteranno a suturare la ferita o le forze che glielo impediranno. Questo metodo di valutazione integra dati: - biologici: acquisizione di uno stile di attaccamento; - psicologici: strutturazione di un mondo intimo; - sociologici: organizzazione delle famiglie e dei miti. I ragionamenti sistemici sono complessi, non complicati. È abbastanza semplice pensare al sistema respiratorio: l’ossigeno gassoso supera il filtro polmonare e poi è raccolto dai globuli rossi che galleggiano nel liquido plasmatico. Il sistema respiratorio complesso, composto di elementi eterogenei, è indivisibile: basta che un incidente alteri un solo ingranaggio di questo sistema perché la respirazione intera cessi di funzionare. Anche la riflessione sulla vergogna necessita di un ragionamento sistemico e dell’integrazione di dati eterogenei e coordinati. Abbiamo appena descritto come questo sentimento non possa essere provocato che da una rappresentazione. Tuttavia, la reazione emozionale a questa “immagine di sé nello sguardo attribuito all’altro” può essere percepita solo nel corpo, che ne è scosso e turbato: ora dobbiamo dunque soffermarci sul modo con cui il corpo accoglie tale rappresentazione di sé.
Capitolo 4
Biologia della vergogna
Gli animali provano vergogna? Un giorno ho avuto l’onore di essere presentato a una famiglia bonobo allo zoo di San Diego. Questi scimpanzé nani sono diventati celebri per essersi accoppiati l’uno di fronte all’altro per risolvere i loro conflitti, mettendo così in pratica il motto di Woodstock: “fate l’amore, non fate la guerra”. Quel giorno una femmina chiedeva cibo al suo guardiano con una tale insistenza che questo ultimo, esasperato, ha finito per “mandarla al diavolo”. Lei mi ha visto in quel momento e ha avuto un soprassalto. Ero venuto il giorno prima, lei si era seduta davanti a me incrociando le braccia e io avevo avuto l’impressione che mi guardasse dritto negli occhi chiedendosi probabilmente con quale diritto andavo a casa sua. Oggi, la sorprendevo mentre elemosinava e si faceva strapazzare. È allora che ha messo la sua mano sinistra davanti agli occhi, girato la testa e… continuato a elemosinare tendendo la mano destra. Siamo scoppiati tutti a ridere e il guardiano mi ha spiegato che la femmina, bloccata tra il suo desiderio di ottenere del cibo e l’imbarazzo che provocava la mia presenza, provava vergogna. Aveva dunque trovato un compromesso comportamentale tra la sua pulsione e il bisogno di fuggire dal mio sguardo. Ammettiamolo. Ma per parlare di vergogna negli animali, dobbiamo organizzare la raccolta di informazioni in un contesto naturale e alcune
sperimentazioni. Cominciamo dicendo che in una popolazione di macachi si constata che il 15-20% sia estremamente reattivo, abbia un soprassalto al minimo rumore, si agiti per un nonnulla e aggredisca per paura. Si osserva che, fin dalla nascita, questi piccoli manifestano un temperamento ipersensibile che sconvolge le interazioni con i compagni e con la madre; sempre incollati al corpo di questa ultima, prendono il latte più a lungo degli altri piccoli, cosa che blocca l’ovulazione della femmina. Questo anticoncezionale naturale ritarda la nascita del piccolo successivo e permette al cucciolo ipersensibile di accaparrarsi la madre per molto più tempo1. Ma non è un grande vantaggio, perché l’iperattaccamento ansioso diminuisce l’apprendimento del piccolo pauroso: esplora poco, gioca male e non impara i rituali di interazione; piccolo e timido, socializza a fatica, resta in disparte nel gruppo e percepisce qualunque invito al gioco come un’aggressione. Si rifugia a tutta velocità nel grembo materno, si rannicchia e la morde, rivelando così un attaccamento ambivalente che dà a qualunque incontro una connotazione di conflitto2. Tutti gli indizi di stress aumentano: accelerazione del battito cardiaco, allarme elettrico cerebrale, disorganizzazione delle fasi di sonno, aumento del cortisolo sanguigno e dell’adrenalina, caduta degli ormoni della crescita. La diade madre-piccolo funziona male: la prima è prigioniera del secondo che si attacca troppo e che, incantato da lei, socializza male perché non può lasciarla. Questo temperamento, che crea un legame di attaccamento serrato e ambivalente, è correlato alla possibilità genetica indotta da un gene mutato allele 5-HIAA3, che si trova in tutti i mammiferi. Gli animali che lo esprimono, faticano ad acquisire la loro indipendenza perché ogni percezione scatena in loro un allarme che li travolge e che non possono calmare se non tramite un contatto rasserenante, ma quando si rifugiano contro il corpo della madre sono ancora in allerta e, di conseguenza, mordono anche colei che li rassicura. Tale determinante genetico codifica male a causa della sintesi di una proteina che trasporta la serotonina nella sinapsi da un neurone all’altro.
La caduta di questo neuromediatore, talvolta provocata da una sostanza (reserpina, interferone, beta-bloccanti), causa uno stato depressivo che si può combattere con altre sostanze che aumentano il tasso di serotonina (anfetamine, antidepressivi). Fin dalla nascita, i piccoli macachi che trasportano poca serotonina vivono con paura ogni informazione, alla quale reagiscono violentemente. Anche un banale stimolo luminoso è per loro un’aggressione contro la quale difendersi4, mentre l’80% dei loro compagni, grandi trasportatori di serotonina, percepisce lo stesso stimolo luminoso come un evento sorprendente che provoca in loro una reazione di gioco esplorativo. La genetica non è totalitaria La tendenza relazionale di questi due gruppi di macachi diventerà molto diversa: conflittuale e dolorosa per i piccoli trasportatori di serotonina, divertente e stimolante per i grossi trasportatori che occuperanno un posto elevato nella gerarchia del gruppo. Uno stile di vita è dunque determinato da una mutazione genetica che porta con sé un divenire sociale. È sufficiente per parlare di destino? Molti animali ci fanno capire che questo determinismo parziale è insufficiente per spiegare la traiettoria di un’intera esistenza. Le scimmie timide, attaccabrighe per paura, hanno tutte un debole tasso di serotonina, ma questo deficit è più ereditabile che ereditario5: ovvero una madre malata o sciupata per via di un trauma, per colpa di un gruppo disorganizzato, per l’attacco di una banda vicina o semplicemente per la secchezza del clima, avvolgerà il piccolo in una nicchia sensoriale non rassicurante in cui ogni informazione sarà un’allerta. Gli adulti stessi, se in difficoltà, aggrediranno anche il piccolo insegnandogli così a rispondere aggressivamente. In questo modo si possono osservare stirpi di scimmie, di cani, di gabbiani capri espiatori: questi animali divengono gli zimbelli del loro gruppo, perché la loro madre o la loro nonna è stata traumatizzata nel corso del suo sviluppo.
Anche le madri timide che socializzano male manifestano un iperattaccamento ansioso: sorvegliano il loro piccolo da vicino limitando così le sue esplorazioni6, connotano ogni evento con una reazione emozionale agitata che agita a sua volta il piccolo. Che queste madri siano state rese timide da una mutazione genetica, da un impoverimento di stimoli nel corso della loro stessa infanzia o dalla disorganizzazione traumatica della loro madre o nonna, il risultato sarà il medesimo per il piccolo: ogni informazione nuova è un segnale di allarme. Può fuggire, spaventato, può immobilizzarsi in un blocco traumatico, può attaccare per paura di un “aggressore” che in realtà non voleva aggredirlo. Altri macachi neonati, grandi trasportatori di serotonina, sono stati precocemente separati dalla madre, nutriti con il biberon e sistemati in un gruppo di compagni a contatto dei quali si sono sviluppati. In età adulta, iperattaccati ai loro compagni sono diventati paurosi e poco esploratori, mentre geneticamente avevano tutto per diventare fiduciosi e sereni. Il determinante genetico del trasporto di una molecola è stato dunque meno forte del determinante emozionale venuto dall’organizzazione del contesto. Questi grandi trasportatori di serotonina, resi vulnerabili dalla separazione precoce, si sono attaccati ai loro compagni ma l’effetto rassicurante è stato inferiore a quello di una madre, provocando un iperattaccamento ansioso7. Dopo appena qualche mese di sviluppo difficile, si sono ritrovati alla base della gerarchia del gruppo come fossero dei piccoli trasportatori di serotonina. Geneticamente poco vulnerabili, hanno acquisito epigeneticamente un fattore di vulnerabilità. Bisogna notare che i piccoli trasportatori di serotonina, nella stessa situazione di separazione precoce, avevano reagito con uno sviluppo catastrofico: i sostituti affettivi offerti dai loro compagni non erano stati sufficienti a permettere la costruzione di un attaccamento, e così il più piccolo stimolo provocava loro una tale agitazione che non riuscivano a placarla se non autoaggredendosi. Il sesso partecipa alla maniera con cui si costruiscono le risposte
emozionali e comportamentali. In caso di privazione, le femmine aumentano le loro attività autocentrate, mentre i maschi non riescono più a controllare i loro impulsi: quando si propone loro un sostegno, le femmine si placano facilmente, mentre i maschi continuano a non controllare le loro esplosioni. L’osservazione inversa è ugualmente vera: un mammifero naturalmente ipersensibile affidato a una madre serena vi si attacca e riprende a reagire in modo meno vivace, migliorando così le sue interazioni affettive e la sua evoluzione sociale. È dunque impossibile spiegare un effetto partendo da una sola causa e attribuire tutto il potere a un solo determinante. Non si può dire: «La sua vulnerabilità è dovuta alla sua limitata secrezione di serotonina»; e neppure: «Questo animale dimostra resistenza perché il suo bagaglio genetico gli permette di trasportare molta serotonina». Queste sperimentazioni ci invitano piuttosto a pensare che una convergenza di determinanti eterogenei, genetici, epigenetici, ecologici e sociali si armonizzi per provocare un solo effetto osservabile: la reazione alla perdita. Un mammifero piccolo trasportatore di serotonina, che gioca ed esplora poco, conduce un’esistenza tranquilla se la madre è disponibile e il suo contesto stabile, solo in caso di separazione o di perdita tale modo di vivere rivelerà una difficoltà a riequilibrare. È accaduto che una femmina di ratto dopo avere figliato abbia abbandonato il nido e che un incidente l’abbia allontanata per sempre. Contrariamente a ciò che era stato predetto, i piccoli non hanno avuto una reazione di allarme, perché non avevano avuto il tempo di tessere un legame e di percepire la sparizione della loro madre come una perdita. L’adattamento a questo contesto sensoriale impoverito ha provocato un rallentamento del metabolismo e del ritmo cardiaco dei piccoli che si sono intorpiditi biologicamente. Più tardi, con una madre di rimpiazzo, hanno ripreso lo sviluppo ma in modo negativo, perché il loro organismo aveva imparato a reagire lentamente8. La maniera con cui si tesse l’attaccamento contribuisce all’acquisizione delle reazioni biologiche dell’organismo e, in caso di cattivo
sviluppo, alla capacità di resilienza di questo ultimo9. Negli animali, il temperamento, che è un insieme di genetica ed epigenetica, induce una strategia di esistenza. Progressivamente, le transizioni tra ciò che un organismo è e ciò che trova intorno a sé possono produrre o impedire una ripresa resiliente. Negli esseri umani, in cui le transizioni si effettuano tra organismo, stile esistenziale acquisito in famiglia e rappresentazioni verbali della cultura, le cause della paura o dell’audacia saranno ancora più eterogenee. L’acquisizione di una vulnerabilità personale dipende dalle emozioni degli altri Negli esseri umani il fenomeno di risonanza può modificare l’orientamento di un determinismo genetico. Quando l’espressione di una persona è amplificata dal senso che prende nella mente dell’altra, l’evento non ha la stessa importanza. Può succede che un neonato sia particolarmente emotivo perché i suoi geni codificano male per via della fabbricazione della proteina che trasporta la serotonina10. Tale debolezza biologica facilita il fatto di provare paura, ma non induce per forza una catastrofe dello sviluppo, poiché tutto dipende dalle transizioni che l’ambiente circostante avrà con questo bambino che facilmente prova timidezza. Molte madri si inteneriscono quando un bimbo piange, provano un grande piacere a prenderlo tra le braccia e sentire che si calma per effetto della loro dolcezza. Questo piacere materno provocato dai pianti del piccolo dà alla madre il potere di diventare una base al cui contatto il bambino impara a trovare sicurezza. Ma accade che a causa della sua storia la madre possa attribuire ai pianti del neonato il senso di un’aggressione: «Quando piange, mi ricorda l’uomo che mi ha violentata e di cui questo bambino è il frutto». In un tale contesto, l’espressione di allarme del bambino non provoca un’emozione di tenerezza rassicurante, ma al contrario risveglia la memoria dolorosa della madre: le risposte a questa rappresentazione sono brutali o
disperate. Il dolore trasforma la madre in base di insicurezza. Se il neonato è un grande trasportatore di serotonina, a contatto di questa madre che non sa rassicurare, diventerà quantomeno timoroso e autocentrato; se è un piccolo trasportatore, la privazione di questa base di sicurezza provocherà una catastrofe nel suo sviluppo. Tra una madre vulnerabile e un neonato forte si può tessere un iperattaccamento ansioso. Questa transizione, non rara, spiega lo stupefacente comportamento di quei bambini che, fin dall’età di 8 anni, si occupano del genitore fragile, assumendo il ruolo di genitore nella relazione11. Anche l’inverso è vero: un neonato pauroso provoca spesso l’iperattacamento ansioso dei genitori. Succede anche che la storia dei genitori attribuisca uno strano senso all’espressione del temperamento del bambino: «Ho talmente bisogno di occuparmi degli altri che posso amare solo un bambino malato. Un bambino che sta bene non mi interessa». Penso a quel padre che sognava di avere una bimba e di occuparsene teneramente, a 8 anni la ragazzina pensava solo al calcio e sognava di diventare una pugile, provocando così la delusione aggressiva di suo padre. Immaginate i possibili scenari di transizioni, ne esistono di ogni tipo, inoltre le traiettorie di esistenza aggiungono variazioni a questi modelli. La signora M. era esasperata dall’attaccamento ansioso del figlio: «sempre attaccato alla mia sottana… mammone… va a giocare altrove». Le frasi di rifiuto aggravavano l’insicurezza del bambino che alternava i gemiti e le richieste di affetto. Fino al giorno in cui, per un “colpo di fortuna”, si è rotto una gamba. La presenza del bambino ha cambiato senso, occuparsi di lui aveva un effetto rassicurante per entrambi. La distanza affettiva non aveva più alcuna ragione di esprimersi, al contrario, era proprio la tessitura di un legame a diventare rasserenante. Coloro che ragionano in termini di causalità lineare rischiano di concludere che è necessario che si rompa la gamba di un bambino perché la madre possa amarlo. Coloro che, invece si allenano a riflettere in termini di sistema penseranno piuttosto che è la convergenza di un insieme di fattori a
provocare, alla fine, la costruzione di un legame. Un tale ragionamento sorprende chi ha bisogno di causalità chiare, ma queste ultime costituiscono una dialettica banale in medicina: pensiamo per esempio alla febbre, che è un sintomo facile da percepire, avendo, però, cause diverse, come l’infezione, una corsa, la disidratazione o una forte emozione. Lo stato di paura, che provoca una reazione di allarme al minimo incontro, è un’emozione dello stesso tipo. Nel caso della timidezza l’allerta è provocata dall’emozione dell’incontro oltre all’idea di non essere all’altezza dell’altro: si teme che ci dominerà e che forse ci giudicherà male. La timidezza è un’emozione percepita nel corpo ma provocata dalla rappresentazione di un “io dominato” dagli altri. Ecco perché si può pensare che la vergogna non sia possibile fino a quando lo sviluppo del bambino non gli dà accesso all’empatia, alla rappresentazione di sé tra gli altri: «Sentimenti sociali come la colpa, la vergogna, l’imbarazzo appaiono nelle nostre società verso i 3 anni quando il sentimento dell’io procura al bambino un senso di individualità proprio e di ciò che è tra altri»12. Un organismo ipersensibile ha più probabilità di acquisire questa timidezza che ne disturberà le relazioni, ma se è rassicurato dal suo contesto la sensibilità caratterizzerà uno stile affettivo riservato che potrà essere giudicato piacevole da alcuni. In caso di trauma, la stessa tendenza organica non rassicurata provocherà una reazione di catastrofe, un’agonia psichica. Al contrario, un organismo geneticamente poco emotivo e mal rassicurato nel corso del suo sviluppo potrà acquisire un fattore di vulnerabilità. In caso di situazione traumatizzante, reagirà con una sensibilità lacerante. Uno stesso organismo geneticamente sereno, poi rinforzato dalle interazioni precoci nel corso dei primi mesi di vita, non solo sarà difficile da abbattere13, ma riprenderà facilmente un buono sviluppo se il suo contesto lo rassicura. Ecco perché anche se alcuni hanno parlato di gene della resilienza14 in questo caso è stato comunque necessario che le interazioni precoci rinforzassero la tendenza organica, permettendo così di affrontare meglio la prova: dopo la lacerazione, è stato quindi necessario che l’ambiente umano
offrisse dei tutori di resilienza, sostenendo affettivamente il ferito dell’anima, rassicurandolo e proponendogli un nuovo progetto di esistenza. Questo modo di ragionare esclude qualunque causalità lineare: una tendenza genetica non è inesorabile, una ferita si iscrive nella storia, non è un destino. La maniera di amare è una modalità di socializzazione La teoria dell’attaccamento propone un metodo di osservazione etologica, un percorso valutabile grazie ai questionari, ai sintomi clinici e all’introduzione di variabili sperimentali: 112 bambini sono stati valutati “timidi” all’età di 5 anni15. I genitori e gli educatori dovevano prendere in considerazione una serie di comportamenti tipici dei timidi: evitare lo sguardo altrui, abbassare la testa, schermare il viso dietro le mani, nascondersi dietro la propria madre o sotto un mobile, tenersi in disparte in un gruppo di bambini. In seguito un questionario convalidato statisticamente doveva valutare le rappresentazioni di attaccamento e classificarle in attaccamenti fiduciosi, evitanti, ambivalenti e confusi. Infine, un anno dopo, all’età di 6 anni, i comportamenti osservati sono stati nuovamente valutati aggiungendo le variabili di interazioni verbali e comportamentali: i contatti di sguardo, la prossimità, il toccare e i giochi. I risultati sono stati chiari. I bambini il cui attaccamento era sicuro hanno avuto numerosi scambi verbali e interazioni comportamentali; hanno sostenuto lo sguardo degli insegnanti e giocato con i loro compagni. Tutti i processi di apprendimento sono stati facilitati da questa maniera di entrare in relazione affettiva. I bambini ambivalenti hanno avuto meno interazioni e più conflitti, cosa facile da prevedere. I bambini definiti timidi hanno avuto pochissime interazioni, ancora meno conflitti e praticamente nessuna iniziativa. Calmi in modo anomalo, sono stati tenuti ai margini, messi in disparte, anche più dei bambini con un comportamento evitante perché almeno questi ultimi accettavano gli inviti degli sguardi, dei giochi e delle
parole. Questa emozione di timidezza può evolvere verso un sentimento di vergogna quando il bambino diventa capace di rappresentarsi le rappresentazioni altrui. Verso i 4 anni il bambino pensa indicativamente: “Mi sento male sotto lo sguardo degli altri. Provo un sentimento di aggressione, perché credo mi giudichino male. Mi sento male a causa dello sguardo degli altri”. Per elaborare una simile razionalizzazione, per dare forma verbale coerente a questo sentimento di inferiorità sotto lo sguardo degli altri bisogna avere accesso a un’intersoggettività. Questo sentimento si presenta ben prima della parola: da quando un’altra persona si costituisce nel mondo mentale di un neonato, egli può, verso il secondo-terzo mese, provare un’emozione di paura sotto lo sguardo altrui, allora distoglie il proprio sguardo o si mette la mano davanti agli occhi per non vedere che lo stanno guardando. La maggior parte dei bambini sostiene “sfrontatamente” lo sguardo altrui senza imbarazzo: in realtà non sono sfrontati, è ovvio, solo non hanno ancora acquisito la sincronia di sguardi e parole che permette di conversare, non si rappresentano ancora l’imbarazzo che può provocare nello spirito altrui il semplice fatto di sostenere lo sguardo. In un adulto, colui che parla guarda l’altro “di sfuggita”, per non metterlo in imbarazzo, e colui che ascolta guarda in modo più attento16. Ma in caso di rapporto di dominazione, colui che parla fissa e colui che ascolta evita di affrontare gli sguardi, come durante gli allenamenti militari in cui il subordinato deve guardare davanti a sé17, o come nei processi in cui l’accusato guarda per terra. La sincronia degli sguardi e delle parole è plasmata dalla cultura. Il bambino sgridato tende spontaneamente ad abbassare gli occhi e quando l’adulto occidentale gli dice «Guardami quando ti parlo» intende fare capire al bambino che è dominato. In molte altre culture gli adulti percepirebbero l’affrontarsi degli sguardi come sfacciataggine. Questi schemi di intersoggetività sono preverbali e paraverbali, come in un film muto. La mimica facciale partecipa a questo tipo di conversazioni senza parole. A questo proposito ricordo quel bambino dell’Assistenza Pubblica che alla
fine della Seconda guerra mondiale dormiva su un pagliericcio vicino a un fossato di liquami: era incredibilmente lercio, nero di fango e di sporcizia, e si lavava solo quando il liquame lo inzaccherava. Non ne soffriva perché a quell’epoca un orfano di 7 anni era invisibile. Chi l’avrebbe guardato? Chi gli avrebbe parlato? Un giorno, una signora di città venne “a occuparsi” di un bambino dell’Assistenza, come si diceva a quei tempi. Il bambino le fu affidato una domenica. Lei volle gentilmente fargli un bagno e vestirlo con abiti puliti, ma quando vide ciò che c’era sotto quei vestiti appiccicosi non poté impedirsi una smorfia di disgusto. Immediatamente sotto lo sguardo di quella signora il bambino ebbe vergogna di ciò era: per la prima volta si vedeva lercio e puzzolente, cosa che non accadeva quando intorno a lui non c’era nessuno. Allora provò ostilità per quella donna generosa che lo aveva umiliato mentre desiderava solo aiutarlo. L’odio, in questo caso ingiusto, può essere considerato come un fattore di protezione contro la vergogna. Un bambino ipersensibile o in una situazione di impoverimento affettivo non avrebbe avuto la forza di provare odio: avrebbe reagito con una vergogna disperata, avrebbe voluto “tornare sotto terra”, rifugiarsi in una tana immaginaria per non affrontare quello sguardo umiliante, quella mimica di disgusto. L’odio ha invece protetto l’autostima di questo bambino diminuendo la sua vergogna, ma non ha migliorato quella relazione negativa. Un bambino geneticamente ipersensibile percepisce ogni incontro con una paura appena sopportabile. Si nasconde gli occhi per non vedere di essere guardato, se invece ha ricevuto un rinforzo affettivo precoce, che gli ha insegnato a superare questa emozione, resta attento allo sguardo degli altri, cura il suo aspetto per farsi accettare, diventa conformista, bravo, un buon allievo, un coniuge fedele, sensibile ed equilibrato. Se un trauma lo dovesse scuotere, egli lo sentirà dolorosamente, ma potrà riprendere uno sviluppo resiliente grazie al suo stile affettivo, all’attitudine relazionale acquisita, a condizione che il suo contesto gli fornisca qualche appoggio rassicurante e un progetto che gli sia di stimolo. Conserviamo per lungo tempo le vestigia di quei comportamenti che esprimono una timidezza che prepara alla vergogna. Molti bambini si
nascondono dietro la loro madre quando arriva uno sconosciuto, molti adolescenti esitano a presentarsi tanto temono di sentirsi dominati, molte donne si celano dietro le mani quando si racconta loro una storia spinta e noi tutti, in caso di dolore, ci precipitiamo a letto a premere il viso contro il cuscino, perché nessuno veda la nostra sofferenza. Non ci si affeziona al più gentile o a chi ha successo sociale, ci si affeziona a coloro che ci infondono fiducia Nasciamo e immediatamente le nostre reazioni emotive e comportamentali non dipendono già più da una sola causa. La connotazione affettiva di ciò che percepiamo viene dall’espressione delle emozioni delle persone che amiamo: è la paura di colei che si prende cura del bambino che lo spaventa perché egli ancora ignora cosa è buono o cattivo. Quando, nel corso dei primi mesi di vita, il neonato percepisce un oggetto, è la paura o la gioia espressa dalla madre ad attribuire all’oggetto una connotazione di repulsione o attrazione: il piccolo risponde a questa affettività con un comportamento di esplorazione o di fuga18. I neonati, però, non sono recipienti passivi. I piccoli trasportatori di serotonina, quelli che sussultano, gli iperemotivi, quando sono rassicurati da una madre tranquilla, finiscono per attribuire all’oggetto una connotazione divertente che stimola le loro esplorazioni; quando invece un dolore colpisce la madre, questi stessi bimbi, mai resi fiduciosi, attribuiscono al medesimo oggetto una connotazione di paura che li blocca e li getta nel panico. Con questa osservazione si è lontani dalla spiegazione causale abituale che pretende che un comportamento di esplorazione o di timore sia attribuibile a un determinismo genetico: non si può più ragionare così poiché l’emozione di gioia o di paura di cui si fa carico un oggetto viene dalla storia della madre. Una tale osservazione permette di capire perché «la fierezza avvicina e la vergogna allontana»19. Quando un neonato non smette di ottenere piccole vittorie – gettare il cucchiaio di purea perché gli venga restituito, i primi passi
che provocano le nostre grida di ammirazione – le reazioni emotive delle figure di attaccamento connotano la prodezza di un piacere condiviso: la fierezza lega, tesse un rapporto. Ma quando a ogni insuccesso segue la disperazione, quando ogni tentativo di esplorazione provoca la collera dei genitori, il bambino impara a temere lo sguardo di coloro che dovrebbero rassicurarlo. Poiché usiamo la parola fierezza per descrivere la piccola vittoria di un bimbo di 10 mesi, perché non dovremmo usare la parola vergogna? L’implicito racchiuso nei termini ci fa pensare che, poiché il fiero si mette in luce, il vergognoso rimane in ombra, vuole nascondersi, tornare sotto terra. Questa reazione sfuggente lo pone ai margini, lo isola e lo porta a percepire il necessario divieto pre-verbale (sopracciglia che si aggrottano, rigidezza del corpo, espressioni come shhh) come un evento terrorizzante. Per il piccolo che prova vergogna il mondo ha preso il sapore della paura in ogni incontro. Questa acquisizione della vergogna pre-verbale dà uno stile di attaccamento basato sulla marginalizzazione che frena la socialità. Mentre un bambino fiero si mette in mezzo al gruppo di piccoli come lui o vicino all’adulto di riferimento, il bambino vergognoso si tiene a distanza dagli scambi di gesti affettuosi e di parole. Partecipando poco ai giochi e allo scambio di oggetti impara male i rituali di interazione e si sente dominato dai bambini fieri: gli fanno paura, porta loro rancore. Tutto il sostegno comportamentale, affettivo e verbale che guida di solito lo sviluppo di un bambino diventa per questa piccola vittima della vergogna un vago appiglio lontano, fragile, amaro e non rasserenante. Il minimo evento rischia allora di diventare un trauma non visibile. Felicità e pulsioni. Vergogna e morale Tuttavia l’impudicizia infantile dei primi anni permette di notare che finché il piccolo non si preoccupa della maniera con cui esiste nello spirito altrui non ha nessuna ragione di avere vergogna. Soddisfare le sue pulsioni
basta alla sua felicità: «Il bambino piccolo è amorale, non possiede inibizioni interne alle sue pulsioni che aspirano al piacere»20. Se sente un bisogno o una pulsione, si rivolge all’altro senza tenere conto dell’effetto che potrà produrre nel suo mondo. In compenso, fin da quando diventa capace di rappresentare a se stesso che l’espressione della sua pulsione può mettere in difficoltà l’altro, il bambino diventa adatto alla vergogna: è l’inizio della morale. La vergogna pre-verbale è interattiva quando il piccolo si sente dominato dalla presenza fisica dell’altro. La vergogna verbale è rappresentazionale quando egli si sente schiacciato dal giudizio dell’altro, e capisce che non può più permettersi tutto. Un freno interno modifica la sua pulsione perché ormai il bambino tiene conto di ciò che non vede ma si rappresenta: il mondo mentale altrui. Un po’ meno Narciso, un po’ più relazionale, acquisisce dunque un’attitudine precoce alla proibizione comportamentale. Prima dei divieti che verranno dagli altri, il bambino si impone già dei limiti: se è poco sensibile agli sguardi altrui, non imparerà a frenare le sue pulsioni, come un perverso o uno psicopatico; se invece è troppo sensibile, rischierà di accordare la priorità a ciò che immagina del mondo altrui e dunque a inibirsi troppo. Una piccola vergogna è quindi la prova di una buona maturazione biologica e di un buono sviluppo delle attitudini relazionali. Una grande vergogna rivela una sensibilità esagerata prossima alla paura, una tendenza a spersonalizzarsi per lasciare posto all’altro. Quanto all’assenza di vergogna, essa testimonia un arresto dello sviluppo a uno stadio di incapacità a rappresentarsi un mondo che non sia il proprio. La neurobiologia della collera è facilmente rintracciabile: quando una relazione assume un valore che provoca l’esplosione emotiva, si individua facilmente un aumento elettrico e fisiologico di tutti gli indici di allarme (il battito del cuore accelera, la pressione sale, i vasi sanguigni si dilatano e provocano rossore, i ritmi cerebrali perdono sincronia e la secrezione delle sostanze di stress sale in verticale). Un’elaborazione delle immagini neurologiche mostra che una zona precisa del cervello consuma
immediatamente molte energie: l’amidgala del rinencefalo diventa rossa21. La gioia, il disgusto o la tristezza provocano la secrezione di altre sostanze e accendono altri circuiti cerebrali. Il ragionamento resta lo stesso: la semplice percezione di un oggetto e il senso che acquista per noi, a seconda della storia nostra e dei nostri cari, avviano modifiche organiche. Quando la madre è triste, qualunque sia la causa della sua tristezza, l’espressione della sua emozione crea attorno al neonato un involucro sensoriale impoverito che ne stimola poco il cervello e le secrezioni neuro-endocrine. La tristezza della madre altera lo specchio naturale del figlio e i riflessi di sé in cui il bimbo si guarda22. Meno rassicurato, il piccolo si crea un’immagine sminuita di se stesso. Meno fiducioso, prova il sentimento di essere dominato dagli altri. Questa impressione modifica le reazioni biologiche; ogni percezione provoca un allarme, ogni incontro rasenta la sofferenza. L’organismo alterato dall’impoverimento della propria sfera sensoriale reagisce a una rappresentazione di sé sminuita. Una convergenza di cause differenti porta alla vergogna: un fattore genetico che rende ipersensibile può essere corretto dalla sfera sensoriale dei primi mesi o aggravato dall’impoverimento affettivo precoce. L’adulto che accudisce a sua insaputa esprime dei gesti di conforto o una mimica che opprimono il piccolo; più tardi, quando parlerà, il bambino potrà trovare un’altra fonte di vergogna, un sentimento di svilimento, sentendo i racconti delle persone vicine, della sua famiglia, del suo quartiere, o i miti e pregiudizi della sua cultura. La fonte della vergogna pre-verbale cambia quando la madre ha un sostegno. L’origine della vergogna verbale varia al variare dei racconti culturali. Negli animali, la convergenza di questi determinanti eterogenei può provocare la sensazione di essere dominati. Negli umani questa confluenza di fattori può fare nascere un sentimento di svilimento. Tale distinzione si legittima poiché la sensazione risulta da una percezione, mentre il sentimento proviene da un’emozione provata nel corpo, ma provocata da una rappresentazione.
Neurobiologia di una timidezza acquisita L’elaborazione delle immagini neurologiche ci permette di dire che, qualunque sia l’origine della sofferenza, dolore fisico o rappresentazione mentale, è la medesima zona cerebrale a essere stimolata nonché a inviare nel corpo le stesse informazioni sgradevoli23. Questo fastidio fisico possiede un valore adattativo comparabile allo stress: quando un essere vivente è sopraffatto da un allarme che non riesce a gestire risponde con il panico e il blocco, ma quando non è mai stressato il suo organismo intorpidito finisce per percepire il più piccolo stimolo come insopportabile. Il dolore possiede un effetto di crescita, a condizione che l’organismo impari a dominarlo. Un animale aggredito spesso nel corso del suo sviluppo impara a sottomettersi alla minima interazione con i suoi consimili. Un animale che non viene mai aggredito, che non ha avuto occasione di imparare a inibire le sue pulsioni, esprime facilmente la sua aggressività. In questi due casi estremi, la socializzazione non è buona. Nel primo caso si ritrova sempre sotto stress e al gradino basso della sua scala sociale. Nel secondo caso l’animale aggredisce alla minima occasione finendo per ritrovarsi solo, mal inserito socialmente, ai margini del gruppo. L’uno è al livello basso della scala sociale del gruppo perché ha acquisito un’attitudine alla sottomissione, l’altro ai margini del gruppo perché incapace di partecipare ai rituali di interazione. Nei mammiferi la paura ha un effetto educativo: un piccolo impaurito da un evento sconosciuto ha un sussulto e si rifugia contro il corpo della madre, alla quale si aggrappa perché lei lo rassicura. Ciò spiega perché i cuccioli di gatto e di tigre allevati con il biberon da un sostituto umano della madre diventano adulti molto aggressivi. Attualmente i piccoli orfani animali non sono più allevati da donne o da uomini, ma affidati a femmine di gatto o di cane24. Quando il piccolo si lascia trascinare dal suo entusiasmo mordicchiando troppo forte la mamma adottiva, lei risponde con una minaccia sonora, uno sputo o uno strattone. Respinto ma non traumatizzato, il cucciolo si rimette a giocare dopo avere acquisito un limite: impara che non può permettersi tutto. Una madre
aggressiva distruggerebbe il suo piccolo, ma una madre distratta che non impone alcun freno comportamentale lo educherebbe male da un punto di vista sociale. I compagni partecipano alla messa in opera di questa inibizione emotiva in modo spesso più radicale della madre stessa. Questa ultima si accontenta di provocare un sussulto emotivo, mentre i suoi compagni lo impongono con una vera zuffa. Un tigrotto non è un piccolo essere umano e tuttavia noi condividiamo lo stesso cervello arcaico con le sue stesse funzioni di sopravvivenza (mangiare, bere, dormire, difendersi e riprodursi), le stesse sostanze di allarme o di distensione, e riproduciamo gli stessi schemi di attaccamento, che ci rendono più dinamici, o quelli di disperazione, che ci abbattono. L’effetto euristico dell’etologia animale, con le sue ipotesi e i suoi metodi, ci permette di capire meglio cosa succede negli esseri umani. Una privazione sensoriale precoce, un involucro impoverito dall’abbandono o la depressione materna, stimolando poco i neuroni della base del cervello del bambino, provocano un’atrofia frontale o un crollo della secrezione di ossitocina25. Il piccolo essere vivente che si sviluppa in un tale contesto perde il piacere di vivere, facilitato dall’ossitocina, ed evolve verso l’indifferenza affettiva. Altri mammiferi, nel caso specifico i topi geneticamente sani e rinforzati da interazioni precoci, sono stati inseriti ripetutamente in situazioni di “disfatta sociale”26. In ogni competizione o esplorazione, lo sperimentatore provoca una situazione che culmina in una sconfitta. Poi inietta nella zampa di tutte le cavie una piccola dose di formalina, sostanza che provoca una sensazione sgradevole. I topi che, nel corso del loro sviluppo, sono diventati più sicuri grazie alle loro vittorie frequenti, reagiscono a questa iniezione scuotendo la zampa 4 o 5 volte, per riprendere la loro vita, come se niente fosse. Quelli che invece hanno conosciuto situazioni di sconfitta sociale ripetuta scuotono la zampa dalle 15 alle 20 volte e riprendono una vita rallentata con meno esplorazioni, meno incontri e meno ricerche alimentari, come se fossero traumatizzati. Si può affermare che un animale sano a cui l’esistenza ha inflitto delle
sconfitte ripetute finisca per diventare iperalgesico? Una stessa quantità di sostanze provoca meno dolore in un animale precedentemente rassicurato e rafforzato, e più sofferenza quando è stato svilito. Questa ipotesi è sostenuta dal dosaggio della colecistochinina (CCK), fortemente aumentato in tutti gli esseri viventi in situazione di perdita o insicurezza27. Una stessa informazione può dunque provocare reazioni di intensità differente a seconda degli eventi che il soggetto ha vissuto prima della prova. Presso coloro che precedentemente sono stati circondati da affetto, la vitalità tornerà rapidamente dopo il trauma, poiché l’organismo avrà acquisito un prezioso fattore di resilienza. Lo stesso fatto ferirà profondamente il soggetto al quale un isolamento prolungato avrà fatto perdere il piacere di vivere, mentre chi ha conosciuto molte sconfitte relazionali avrà acquisito una sensazione “sminuita di se stesso”. Questa percezione di sé lo porta a reagire a ogni informazione con una iperalgesia: il mondo ha acquisito per lui un sapore doloroso. La convergenza di tutti questi fattori di vulnerabilità spiega la sofferenza di chi è vittima degli altri. Se un essere vivente, animale o umano, è geneticamente un piccolo trasportatore di serotonina, se questa tendenza all’ipersensibilità è aggravata dal dolore di coloro che si occupano di lui, se le circostanze avverse lo mettono in situazione di disfatta sociale ripetuta, allora il minimo evento diventerà doloroso. In un organismo reso tanto fragile da un eccesso di sensibilità genetica, da una perdita affettiva o dall’insicurezza relazionale, ogni segnale aumenta la CCK (colecistochinina), di cui la corteccia prefrontale è un avido recettore28. Si sa che questa zona cerebrale è il supporto neurologico dell’anticipazione, poiché un’alterazione, un ascesso, un tumore sopprimono la capacità di proiettarsi in avanti. Quindi, la piccola stimolazione prefrontale data dalla CCK provoca un’ansia anticipatoria che si potrebbe chiamare nell’uomo paura dell’avvenire o anche angoscia della morte. Un’alterazione relazionale durevole, aumentando la secrezione di CCK, stimola il lobo prefrontale e provoca una rappresentazione di allarme: “Sento che sta per succedere qualcosa”. Un bambino che si sviluppa in questo modo
impara a percepire ogni incontro come l’attesa di un pericolo, un ipersegnale insopportabile, una rappresentazione del vuoto angosciante contro il quale si difende con una reazione evitante. Si può chiamare timidezza, paura o vergogna questo stile di reazione emotivo che spinge un bambino a volere “andare sotto terra” e spiega perché le persone che provano vergogna si isolino spontaneamente, provocando così una patologia della solitudine. La si definirà piuttosto proto-vergogna poiché, a questo stadio dello sviluppo, l’emozione non è ancora provocata da un racconto. Funzione socializzante della sofferenza fisica Esiste dunque una funzione socializzante della sofferenza: che sia fisica o relazionale, è la stessa zona cerebrale (area cingolare anteriore) ad accendere e inviare nel corpo informazioni spiacevoli che modificano le reazioni biologiche29. Un essere vivente sensibile, in carenza o sminuito dalle sue sconfitte relazionali ripetute, finisce per percepire ogni incontro come una sofferenza. A ogni confronto, fugge, si rintana, si immobilizza o aggredisce per paura, cosicché, rapidamente, si ritrova a essere lo zimbello degli altri, al gradino più basso della scala sociale o al di fuori del gruppo. Gli uomini, constatando l’effetto socializzante del dolore, l’hanno trasformato in un’arma educativa: hanno addestrato alcuni animali, poi sostenendo che i ragazzi non educati sarebbero diventati come bestie selvagge li hanno picchiati per crescerli meglio. Le ragazze hanno subito un altro pregiudizio: poiché, senza educazione, si sarebbero prostituite, bastava farle vergognare del loro sesso per sottometterle e portarle ad assumere un ruolo accessorio nella coppia e nel gruppo. L’ordine sociale è stato costruito per lungo tempo intorno da un lato alla sofferenza e dall’altro alla vergogna, tanto l’effetto coercitivo di queste armi è efficace. Il ragionamento lineare afferma che, poiché i ragazzi picchiati e le ragazze vergognose finiscono per acquisire il ruolo subalterno attribuito loro, basta sopprimere ogni dolore e ogni vergogna perché essi si realizzino e diventino
felici. È stato provato che un bambino senza paura non aveva bisogno di creare attaccamento30. Quando il contesto è stabile ciò funziona, ma in caso di stress il bambino non avrà imparato a rassicurarsi: questa iperprotezione l’ha reso vulnerabile. Per rendere infelice un bambino basta aggredirlo in modo ripetuto o privarlo della sua base di sicurezza, ma ciò non significa che per renderlo felice basti sopprimere ogni causa di paura, visto che egli viene rafforzato imparando a superare un allarme grazie alla presenza di una figura familiare. Quando il legame rassicurante restituisce al bambino il controllo di sé, lui si sente forte e in pace: ha attinto nel legame con un altro la forza di rassicurarsi. L’iperprotezione che rende euforici porta con sé un forte aumento delle secrezioni oppioidi. Un animale giovane al quale si iniettano oppiacei finisce per non esplorare niente e non partecipare alle interazioni sociali31. Un tigrotto allevato con il biberon e costantemente circondato da umani affascinati dalla bellezza e dalla grazia del piccolo felino si ritrova in circostanze analoghe. Questa situazione stimola talmente la secrezione dei suoi oppiacei endogeni che esso non ha più bisogno di conquistare lo spazio, né di familiarizzare con il prossimo. Autosufficiente, non acquisisce né la sensazione di limite che offre la lotta tra giovani, né i rituali di interazione che permettono la socializzazione: alla minima frustrazione, aggredisce. Effetto de-socializzante della sofferenza morale Negli esseri umani, il malessere percepito nel corpo e i cambiamenti del metabolismo provocati da queste situazioni possono essere scatenati da una stimolazione fisica dolorosa o da una rappresentazione mentale lacerante32. Come hanno fatto i boia a capirlo? «Torturare non è solo far male. È infliggere una rappresentazione che renderà durevole un dolore fisico»33. I torturatori hanno scoperto rapidamente che una scarica elettrica sugli organi genitali di un uomo può farlo soffrire e durante le torture aumentano la sua
sofferenza dicendo: «Dopo lo shock non sarai mai più un uomo». L’attesa aumenta la percezione del dolore e il senso dello shock la fa durare. Dopo la scarica dolorosa, il torturato pensa: “A partire da ora, una parte della mia vita di uomo è morta”. Dopo avere sofferto per un breve istante, soffre per una rappresentazione durevole. Quando le irachene venivano torturate si bendavano loro gli occhi perché il boia sapeva che «il dolore è peggiore nell’oscurità»34: la donna attende senza sosta una sofferenza che arriverà non sa da dove, diventa iperattenta al rumore dei passi, al calore dei corpi e alle voci che si imprimono nella memoria. Una prigioniera, dopo essere stata scagionata torna a casa sua, ma non può sentirsi libera perché ogni sera, quando il telefono suona, l’unica cosa che sente è: “Sono io”, la voce del boia senza volto basta a mantenere viva l’attesa ansiosa. Il telefono si può staccare, ma è troppo tardi: il male è stato impresso nella memoria. Il corpo della torturata ha imparato a soffrire per un’evocazione. Tutti abbiamo sofferto fisicamente, tuttavia non diciamo mai che siamo stati torturati perché in questo dolore naturale non c’è intento disumanizzante. È un incidente che ci ha fatto molto male, non un tentativo di distruzione della nostra personalità. Ogni torturato è un sopravvissuto umiliato, parzialmente morto, amputato di una parte enorme della sua condizione umana, uno spettro disumanizzato, un fantasma di sé. Urinare sul Corano oppure affamare un musulmano e non dargli da mangiare altro che carne di maiale significa imprimere nella sua memoria una rappresentazione vergognosa di se stesso: “Ho commesso il crimine dei crimini, ho lasciato insozzare il Corano senza dire una parola e, per non morire, ho trasgredito la Legge e mangiato il maiale. Sono un subumano, ho perso la dignità di essere un buon musulmano”. Molti torturati accettano di umiliarsi per evitare la ripetizione dello shock elettrico: supplicano, “se la fanno sotto” e talvolta cercano persino di sedurre l’aggressore, e poi lo ringraziano di averli risparmiati. Provano allora un sentimento di gratitudine per colui che li ha sminuiti, “seppelliti”. Se
sopravvivono a tutto ciò, tornano alla vita con impressa nella memoria una rappresentazione di sé terribilmente deteriorata: “Sono stato complice della mia umiliazione”. La vittima si sente colpevole di aver trasgredito a una regola (“ho mangiato il maiale”) e si vergogna per aver cercato di piacere al torturatore (“mi sono umiliato”). Le condizioni contingenti della tortura hanno impiantato nell’animo della vittima un sentimento di vergogna, un’immagine sciupata di sé con la quale dovrà convivere. Ogni volta che la donna torturata si impegnerà in una relazione quotidiana, l’immagine che avrà di se stessa sveglierà il sentimento di essere insozzata e senza valore. L’espressione di tale emozione si esprime con uno sguardo sfuggente, abbassando la testa o con un balbettio. Il profilo comportamentale della persona che prova vergogna è una reazione all’immagine di sé che un altro ha devastato. A partire da questo evento, il mondo intimo è invaso dalla sofferenza. Ogni percezione la provoca, ogni incontro risveglia il sentimento di inferiorità rispetto a colui che si incontra. Per diminuire la sofferenza bisogna evitare il faccia a faccia e, se possibile, evitare anche solo di pensarci. In questo modo si soffre meno nel presente, ma qualche mese dopo la solitudine antalgica provoca una disperazione vicina alla depressione. Senza contesto relazionale per sostenerci, senza un senso da dare alle nostre giornate, la vergogna impressa in noi dalle circostanze distrugge i principali fattori di resilienza. Allora si rimungina, e ciò riempie il vuoto creato dal comportamento evitante che serve a proteggerci dalle relazioni pietose: si instaura così un processo continuo di revisione delle ragioni per sentirsi male che acuisce le percezioni e le rende fisicamente dolorose35. Il beneficio immediato dell’evitare la vergogna ha messo in moto il maleficio durevole della rimuginazione: “Non penso che a questo, perché lui mi opprime quando lo frequento? Perché lei mi umilia quando ride in mia presenza?”. Questa reazione interpretativa, come un momento di paranoia, preserva parzialmente l’autostima rendendo l’altro responsabile della nostra ingiusta sofferenza. Ma questa legittima difesa provoca il tracollo: un uomo ci ha
disumanizzati torturandoci, ci ha umiliati; per evitare il tormento del faccia a faccia, ci siamo isolati e rimuginare su quanto avvenuto ha mantenuto la memoria dolorosa. Talvolta l’indignazione preserva l’autostima e la collera dà il coraggio di esplodere: “Perché tanta arroganza, tanta ingiustizia, tanto disprezzo? Non sono così miserabile come voi credete!”. La rivolta dà un sussulto di dignità che installa nell’animo della persona ferita il coraggio dell’odio. Quando ha avuto il tracollo definitivo, la persona che prova vergogna acquisisce la paura di essere felice: questa affermazione non deve stupire. Anche voi vi vergognereste della vostra felicità alla notizia della morte di vostra madre. Tuttavia succede, la morte di una madre che maltratta provoca piuttosto la nostalgia di un affetto perduto, mentre la morte di una madre con l’Alzheimer causa contemporaneamente la tristezza della perdita affettiva e la gioia della libertà ritrovata. Questo sollievo inconfessabile suscita la vergogna di essere felici. Le condizioni moderne della morte lenta e ritardata degli anziani hanno trasformato il lavoro del lutto in lavoro del trapasso. Quando l’inevitabile perdita di un essere caro ci colpisce, proviamo un rimpianto doloroso misto a una gioia vergognosa. Succede un fenomeno simile quando si è stati torturati e disumanizzati: “La mia sofferenza permette di valutare il crimine del torturatore. Se per sventura ridivento felice come se niente fosse successo, se dimentico, se ne esco, do alla tortura il senso di un semplice incidente che discolpa l’aggressore. Neanche per sogno! Devo soffrire ed esporre la mia sofferenza, ho bisogno di stare male e minacciare quel mascalzone. L’intensità della mia sofferenza diventa la cartina tornasole del suo crimine”. Gli avatar della sofferenza morale Si cita spesso Primo Levi come un esempio di resilienza, cosa che non mi pare convincente. Naturalmente timido, attaccato alla sua casa di famiglia torinese come un mollusco alla sua roccia, conserva nella memoria l’orrore
del passato per testimoniare meglio e diventa revanscista: «Distruggere un uomo è difficile […] ma voi ci siete riusciti, tedeschi»36. Aveva tuttavia trovato ad Auschwitz il fattore di protezione classico del rifugio nel sogno: «Quando tornerò, la mia famiglia mi accoglierà e faremo un caloroso pranzo di festa e racconterò loro». Questo sogno a occhi aperti nel quale si rifugiava ogni tanto per proteggersi dalla sofferenza del reale gli portava momenti di felicità immaginaria. E poi quel giorno è arrivato. Dopo la liberazione dal campo, la sua famiglia l’ha accolto e, nel corso del pasto della rimpatriata, Primo Levi ha portato la sua testimonianza. Come nei suoi sogni, ha raccontato. Allora «un mondo di ghiaccio si è richiuso su di me»37. Le persone che amava hanno taciuto, abbassato la testa ed evitato il suo sguardo talmente grande era il disagio per l’orrore dei racconti che egli gettava loro in faccia. «Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola»38. Il sopravvissuto, testimoniando, ha appena gelato i suoi legami. Si tace, si lascia la tavola, lui si trova solo, nella memoria un orrore che non si può condividere. Il suo libro è inizialmente un fiasco, in Italia come in Francia: nessuno può sopportare un tale peso. L’euforia della Liberazione e la riconciliazione nazionale fanno tacere i sopravvissuti. Molti decenni più tardi, il suo libro sarà infine tradotto in Germania. Levi prova un sentimento di rivendicazione, «i suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come un’arma, erano loro, i tedeschi»39. Questa frase rivela che ha vissuto gli anni del dopoguerra nell’amarezza delle sue rivelazioni male accolte. La sua testimonianza non era stata ascoltata perché rovinava l’euforia della pace ritrovata. Prigioniero del passato, malgrado il desiderio di andare avanti, aveva continuamente trattenuto l’incubo. Il suo processo di resilienza è iniziato molto male. Il tempo aggiusta le cose: questa affermazione è totalmente falsa. Se, come dice lo stereotipo, “con il tempo passa”, è perché il tempo dà alle persone care la possibilità di sostenere la persona ferita. Lo studio sperimentale di una situazione naturale permette di precisare questa osservazione. Il parto provoca un dolore inevitabile, anche se oggi la preparazione psicologica e
talvolta i farmaci permettono alle donne di non perdere il bene dell’intelletto. Si dispone così di una sorta di preparazione naturale per cui si può osservare che la percezione del dolore al momento della prova è diversa dalla rappresentazione del dolore passato40. Lo sperimentatore chiede alle sue partorienti di valutare l’intensità del dolore, al fine di giudicare, come lui vorrebbe, l’efficacia di un analgesico. La valutazione è fatta subito dopo il parto, l’indomani, cinque giorni dopo e infine tre mesi dopo. La risposta è chiara: il livello della valutazione del dolore diminuisce con il tempo. Questa curva discendente si ritrova regolarmente qualunque siano l’analgesico e il numero di gravidanze. Ciò porta ad affermare che la rappresentazione della sofferenza si stempera con il tempo. Mi ricordo di una giovane donna che urlava di dolore durante le contrazioni, supplicava le ostetriche di mettere fine alla tortura perché voleva tornare a casa. Qualche ora più tardi, riposata, truccata, circondata dal marito e dai suoi genitori, affermava sorridendo che era andato tutto bene e che non aveva sofferto. Come giudicare questa dissonanza? Si può dire: «Io l’ho vista soffrire, dunque vuole salvare le apparenze davanti alla sua famiglia»; oppure: «Mimava la sofferenza per farsi sostenere». Per interpretare questo fatto è stato necessario un lavoro comparativo. Lo stesso metodo di valutazione del dolore è stato realizzato dopo una puntura lombare: la curva non scende. Tre mesi più tardi, i malati valutano il dolore come il primo giorno41. Come spiegare che la memoria del dolore resta intensa dopo un’iniezione lombare, mentre diminuisce dopo un parto? Il mago che provoca la metamorfosi della rappresentazione del dolore si chiama bimbo. L’emozione del marito, la presenza dei genitori, le congratulazioni degli amici hanno modificato l’involucro affettivo della madre ancora indolenzita. E soprattutto la presenza del piccolo, le interazioni costanti, il piacere, la «follia amorosa dei primi cento giorni» di cui parla Donald Winnicott hanno dato senso alla sofferenza. Sostegno e senso, i due concetti chiave della resilienza, sono in moto. La rappresentazione del dolore si stempera. La vita riprende, arricchita dal
trionfo del parto, dall’affetto delle persone che circondano la donna e dal senso dato dal piccolo mago: ne valeva la pena. Non ne valeva la pena per Primo Levi. Vergogna. Vergogna di aver bevuto dell’acqua davanti a Raffaele senza condividerla. Vergogna di essere sopravvissuto grazie alla sua vigliaccheria. «Il senso di colpa […] veniva relegato in secondo piano per riemergere dopo la liberazione»42. La difficoltà di farsi ascoltare dopo la guerra, l’obbligo di testimoniare senza sosta e soprattutto l’apparizione del negazionismo l’hanno disorientato. «Ci si è ridotti a fingere di capire… tanto il risultato non cambia»43. L’11 aprile 1987, dopo quarant’anni di doloroso combattimento, Primo Levi si getta dalle scale del terzo piano della sua casa di famiglia. La vergogna, il ritorno del passato costantemente tenuto in vita dal suo obbligo di testimonianza, il sorgere del negazionismo che squalificava il senso dei suoi sforzi avevano impedito la discesa della curva della sua sofferenza. Il tempo non aveva aggiustato le cose. Si può capire questo precipitare grazie alle sperimentazioni sul fenomeno della matrice44. Se una figura di attaccamento, una base di sicurezza è stata impressa nella memoria del soggetto, quando, più tardi, sopravviene un evento devastante si cerca inizialmente di rassicurarsi; solo dopo, però, si analizza l’aggressore in modo da controllarlo e risolvere il problema. Nella rappresentazione di questa prova si è fieri della propria vittoria. All’inverso, quando uno sconvolgimento è stato impresso nella memoria e quando la persona ferita non ha interiorizzato una base di sicurezza, lo stesso evento diventa una lacerazione traumatica, un fallimento supplementare. La sua immagine intima si guasta una volta di più. Germaine Tillion negli anni Trenta aveva lavorato come etnologa presso i berberi. Aveva imparato a osservare i loro comportamenti, la loro mimica, i loro abiti, oggetti, spostamenti e, in quel mondo senza parole, comprendeva qualcosa del loro psichismo e della loro cultura. Amava molto quelle genti che la circondavano di affetto. Quando si è impegnata nella Resistenza con il Museo dell’Uomo, fu arrestata e portata a Ravensbrück. Allora, per affrontare
la situazione di deprivazione della libertà, le umiliazioni e i rischi di morte, avendo nella memoria una base di sicurezza che le dava fiducia, ha effettuato lo stesso lavoro nel campo: ha osservato spostamenti, mimica, gesti delle ss e la sera, nella baracca, spiegava alle altre detenute quello che aveva appena capito. Geneviève de Gaulle, anche lei imprigionata, racconta a che punto queste riunioni le hanno dato sostegno45. Questi appuntamenti quotidiani permettevano un momento di intimità in un contesto terrificante. Il senso dato ai fatti dalle annotazioni di Germaine Tillion permetteva a quelle donne di non essere più sottomesse alla loro condizione di prigioniere: «Si sa cosa fare, si è meno schiacciati dalla loro forza». Subito dopo la guerra, queste due donne ferite ma non distrutte si sono lanciate nell’avventura sociale. La loro ferita le aveva rese altruiste, sensibili a qualunque ingiustizia e a qualunque sofferenza. La rappresentazione di una sventura passata prende una curva discendente quando una persona ne fa un impegno sociale. Queste donne non si sono mai vergognate della loro prigionia. Quando la vergogna si è sviluppata in noi, a causa di una sensibilità genetica eccessiva, di una carenza affettiva precoce, di fallimenti relazionali ripetuti, il legame intersoggettivo non regge più. Allora ci isoliamo per soffrire meno, ma ciò ci impedisce di dare un senso a quello che è successo: rischiamo di diventare preda di teorie estremiste che vorrebbero dare un sussulto di vita anche in un deserto di senso. «La magia consiste nel trasformare il sentimento doloroso dandogli una nobiltà smisurata»46, Alfred de Musset parlava di «Santa Ferita». «Niente ci rende così grandi quanto un grande dolore… i più disperati sono i canti più belli… e ne so di immortali che sono puri singhiozzi»47. La vittima gloriosa incanta la sua esistenza grazie a Santa Ferita. Come fare della vergogna una santa ferita quando si sa che è solo una sporcizia intima? Si fa di tutto per nasconderla, perché esporla agli occhi di tutti gli altri non può che aggravarla. È difficile farne un’opera d’arte, un quadro splendente di epopea napoleonica, una poesia piena di vita, un meraviglioso dolore. Allora, quando si incontra un fabbricante di teorie che ci
spiega che la nostra infamia proviene da un altro, e che basta combatterla per passare dall’ombra alla luce, ci impegniamo contro di lui sperando di liberarci della vergogna, veleno della nostra intimità. Germaine Tillion, fiera di avere superato la prova di Ravensbrück, ha mantenuto il dominio del suo impegno; Primo Levi, invece, per l’onta di essere sopravvissuto ad Auschwitz, si è dedicato a una carriera di testimone che ha impedito di fare rimarginare la sua ferita, fino al momento in cui il negazionismo ha trasformato la sua sofferenza in non-senso.
Capitolo 5
Rosso di vergogna
Chi sono per il prossimo? Da bambini avevamo paura: il semplice sguardo di un adulto sconosciuto ci intimidiva al punto da cercare di evitarlo coprendoci gli occhi. È stata necessaria una lenta costruzione della personalità perché, qualche anno più tardi, provassimo lo stesso turbamento sotto lo sguardo psichico della persona sconosciuta: “Come mi vede?”. Da quel momento è l’idea che abbiamo del giudizio che l’altro ha di noi a scatenare quel penoso sentimento chiamato vergogna. L’aggressione non è più della stessa natura. Prima che riuscissimo a rappresentarci le rappresentazioni altrui, bastava vedere che eravamo guardati per non sopportare l’interazione degli sguardi. Da quando invece riusciamo a percepire nel corpo altrui un minuscolo indizio che basta a farci immaginare il suo mondo mentale, pensiamo: “Chi sono nel suo mondo?”. E questa semplice domanda ci mette a disagio. L’attitudine a sottometterci all’idea che ci facciamo dell’idea altrui partecipa al processo intersoggettivo. È durante l’adolescenza che questa funzione diventa più acuta che mai. Lo sguardo altrui diventa vitale perché impegna la nostra futura esistenza: “Sono desiderabile? Quale donna accetterà un uomo come me? Guardate le mie orecchie, sono ridicole. Mi vergogno che voi le guardiate. Quando le nascondo mi sento meglio”. In questa fase, la vergogna ci infiamma per un nonnulla. Lentamente, con l’età, il sentimento di vergogna si stempera: il fatto di accettare la nostra condizione imperfetta ci tranquillizza. Forse perché
attribuiamo minore importanza allo sguardo del prossimo? Ne dipendiamo meno e ciò gli dà meno potere rendendo anche meno necessaria la rimozione che ci protegge. Rassegnandoci a essere ciò che siamo, non ce la caviamo poi tanto male: possiamo finalmente dire chi siamo (ho rischiato di scrivere: «Possiamo finalmente confessare chi siamo»). Quando cominciamo a sentire che saremo accettati, la vergogna si dissolve. L’umiliazione è più forte quando mettiamo gli altri al di sopra di noi. Una simile relazione interpersonale provoca una tensione così grande che può lacerare il legame… come un trauma: io do all’altro un potere che gli rinfaccerò più tardi, perché la sua presenza mi tortura e io mi umilio a contatto con lui. E la stessa immagine che costruisco di lui lacera l’immagine che costruisco di me: mi vergogno. Mi è capitato di essere disprezzato da un uomo politico dal quale non mi aspettavo la stima e ne ho sorriso. Credo persino che mi sarei vergognato se mi avesse dichiarato la sua ammirazione. Affinché io provi vergogna devo mettere l’altro al di sopra di me e aspettarmi la sua stima: ho bisogno che, nell’attribuzione di giudizi, io ritenga di essere considerato miserabile e che tale pensiero mi faccia vergognare. La persona che si vergogna non sa che magari l’altro la ignora o persino la stima: soffre dell’immagine lacerata che espone al proprio sguardo. L’adolescenza è l’età in cui il sogno di sé è fatto a pezzi dalla realizzazione di sé: la grandezza delle aspirazioni di questa età è spesso dissociata dalla mediocrità della realizzazione del sé adulto che resta da costruire. Questa lacerazione causa una sorta di strappo intrapsichico in cui il soggetto subisce un trauma: “Aspettandomi così tanto da me stesso, ero così soddisfatto nei miei sogni che, quando ho aperto gli occhi, sono stato obbligato a scoprire che non avevo fatto nulla per concretizzarli”. Questa lacerazione intrapsichica si realizza sotto lo sguardo di un altro, anche quando questo è assente nella realtà, anche quando la vergogna è muta: “Mi sognavo coperto di titoli di studio. Mia madre sarebbe stata pazza di gioia, lei che ha dovuto rinunciare ai suoi studi. Mi avrebbe ammirato, il nostro amore sarebbe stato perfetto”. Questa rappresentazione paradisiaca urta contro la realtà e la persona vergognosa, leggermente ferita, si
rimprovera: “Non ho fatto nulla per realizzare i miei sogni… che sono forse i suoi… lei mi ha imposto i suoi sogni”. Una lacerazione intrapsichica resta comunque un trauma intersoggettivo: “Non sono all’altezza delle mie ambizioni che avrebbero tanto soddisfatto le sue. Il suo amore è un peso per me. Dato che non sono capace di realizzarmi, lei mi disprezza, ne sono certo”. Il legame si rompe in un momento in cui avrebbe dovuto semplicemente riassestarsi: in questo caso, l’evoluzione affettiva non si è costruita. Potrebbe avvenire a causa della “frattura narcisistica” di un bambino facile da ferire come racconta la madre: «Già da piccolissimo era suscettibile. Un nonnulla lo turbava. Non aveva senso dell’umorismo. Quando lo si prendeva in giro, si metteva a piangere. Prendeva tutto sul serio»; oppure a causa della rigidità familiare che ha impedito qualunque rimaneggiamento delle rappresentazioni: «Nella mia famiglia si ripeteva continuamente che mio padre era un mostro. Me ne vergognavo, fino al giorno in cui ho scoperto che mia madre si era dileguata dopo la mia nascita e che mio padre tornava presto dal lavoro per occuparsi di me e lavare i miei pannolini. Lasciando la mia famiglia ho potuto vedere mio padre diversamente». Predizione non è fatalità Il senso che si attribuisce alle cose deriva dal nostro contesto e dalla nostra storia. La connotazione affettiva degli eventi proviene in gran parte dalle reazioni emotive dell’ambiente circostante. Il senso che l’evento acquista per i nostri cari si incastona nel cuore della nostra intimità. I fratelli, la scuola, il luogo in cui viviamo, le leggi sociali e gli stereotipi culturali costituiscono un involucro che partecipa alla costruzione del senso che noi diamo a ciò che ci circonda. La tipologia di famiglia genera una logica di inserimento che riproduce il modello familiare1 I ragazzi che vivono nei “quartieri alti” hanno maggiori probabilità di frequentare buone scuole e accedere ai lavori di responsabilità rispetto a quelli dei quartieri poveri. Un bambino infelice a casa si annoia a
scuola: i cattivi risultati scolastici imprimono in lui un sentimento di vergogna che lo tiene in disparte e aggrava la sua difficile socializzazione. Ma questa verità statistica non è una verità individuale, poiché si constatano successi paradossali: capita che figli di analfabeti diventino brillanti scrittori e che grandi menti provengano dai quartieri poveri. Questi casi pongono dei «limiti alle indagini probabilistiche»2 perché, quasi sempre, è una convergenza di fattori determinanti a provocare un effetto. I tentativi di spiegazione con una sola causa sanno di pensiero totalitario. Questa modalità di raccolta di informazioni permette di affermare che le condizioni di sviluppo di un bambino in un contesto precario aumentano la probabilità di incidenti che possono renderlo vulnerabile, ma bisogna subito precisare che questa predizione non è una fatalità. La prospettiva di uno sviluppo vulnerabile è probabile solo se noi non facciamo nulla: e nessuno ci chiede di non fare nulla. In un ambiente precario, una persona ha a maladipena il diritto di esistere, ci si può domandare: - il rischio di trauma è più frequente in un contesto in cui i crolli psichici non sono rari? - bisogna acquisire uno stile affettivo particolare per crescere in un contesto costruito come un castello di carte? - le condizioni di una resilienza sono più difficili in un contesto in cui i tutori sono incerti3? Quando l’Homo Sapiens è apparso sulla Terra, tre milioni di anni fa, la nozione stessa di precarietà non era pensabile poiché tutta la condizione umana, a quell’epoca, era di una precarietà inverosimile. È un miracolo che l’Uomo non sia scomparso come hanno fatto il 90% degli altri essere viventi. Dormivamo per terra, morivamo di freddo, di fame ed eravamo mangiati dagli animali. Tale incerta sopravvivenza è migliorata a partire dal Neolitico, 10 000 anni fa, all’epoca in cui avevamo cominciato a controllare la natura. A ogni invenzione tecnologica la nostra probabilità di sopravvivenza è aumentata.
Nel Medioevo, in Europa, dal 2 al 3% della popolazione aveva la stessa speranza di vita di oggi, perché aristocratici, grandi borghesi e qualche prete vivevano in condizioni stabili e confortevoli. Fino al XIX secolo negli strati popolari, un bambino su due moriva nel corso del primo anno di vita4: le donne mettevano al mondo il maggior numero possibile di figli prima di morire, in media, a 36 anni. Gli uomini vivevano più a lungo e decedevano tra i 55 e i 60 anni. I villaggi andavano in rovina durante le guerre, per i cattivi raccolti o le epidemie. In tali contesti, i bambini abbandonati morivano in massa, ma alcuni si raggruppavano in piccole bande di vagabondi che tentavano di sopravvivere grazie alla delinquenza. In questi branchi di lupi impegnati a non morire, talvolta emergeva un ragazzo che iniziava un’attività, diventava borghese o persino medico del re5 Noi siamo i pronipoti di questi resilienti che hanno superato condizioni di incredibile violenza6 Avrei dovuto scrivere “di inconcepibile violenza” poiché, in una società in cui essa è la norma, non ci si indigna, semplicemente si stringono i denti. Perché la violenza diventi una rappresentazione inaccettabile, bisogna potere immaginare un mondo in cui questa non sia presente, cosa fattibile solo in alcune società attuali. Perché la nozione di precarietà si affacci alla nostra coscienza, bisogna osare sperare di vivere in modo corretto, stabile e sufficientemente confortevole. Ma nel XX secolo la violenza non è mancata. La tecnologia le ha dato una potenza spaventosa: le armi, l’energia atomica e soprattutto quella più grande e più insidiosa, la violenza amministrativa che, con una semplice firma, dà a un foglio il potere di condannare milioni di persone. La vergogna in certi “isolati sociali” Sul pianeta sono a un certo punto della storia comparse zone circoscritte in cui i progressi della tecnica sono al servizio dell’uomo e altri luoghi, anche questi circoscritti, isolati, in cui sono negati i diritti umani e governa la
violenza. Si peni che ci sono attualmente più di 50 milioni di profughi di cui il 50% è costituito da bambini. Nei 59 conflitti armati mondiali, l’80% delle vittime è rappresentato da donne e bambini, perché i combattenti moderni non sono più solo soldati regolari in uniforme: attaccano, poi corrono a rifugiarsi negli ospedali e nelle scuole. Per distruggere gli adulti la tecnica più efficace è distruggere i loro figli: 2 milioni di bambini uccisi, 6 milioni di mutilati, 12 milioni di bambini di strada7; senza contare che praticamente tutti questi piccoli sopravvissuti conserveranno traccia di ciò che hanno vissuto sotto forma di sindrome psicotraumatica o di disturbi della personalità. Anche nei paesi ricchi esistono simili zone di mancata integrazione sociale: il 30% degli americani e il 60% dei sudamericani sopravvivono in condizioni di precarietà comparabili a quelle dei poveri del Medioevo. In una di queste zone, troppo sprovvista di mezzi per mandare i bambini a scuola e pagare la sanità, la mortalità delle donne è trecento volte più elevata che nei paesi industrializzati8 Nel nostro nuovo contesto, in cui la globalizzazione si espande velocemente, la precarietà è sentita con maggiore intensità proprio perché è possibile comparare la stato della sanità, della sicurezza e la possibilità di realizzazione individuale con quelli di chi vive nei paesi ricchi. Quando tutti sono poveri, si è meno consapevoli della povertà, si pensa che la vita sia dura. Ma quando si può mettere su un piatto della bilancia una situazione fragile e dolorosa e su un altro la solida tranquillità del vicino, si prova un sentimento di ingiustizia e di umiliazione. L’ingiustizia è meno penosa perché permette l’indignazione, la protesta verbale e la manifestazione fisica, mentre l’umiliazione spinge a nascondersi, a ritirarsi, a vergognarsi, a non combattere… fino al giorno in cui un’esplosione emotiva sorprende tutti. L’indignazione è un sussulto di dignità, mentre l’umiliazione ci cancella dalle relazioni sociali. In queste zone disagiate in cui i genitori si vergognano l’involucro sensoriale con il quale circondano i loro figli è impoverito: poche risate, poche parole, pochi eventi, i corpi sono distanti, meno calorosi, i visi
immobili strutturano male l’espressione delle emozioni. In un tale contesto relazionale, i genitori in difficoltà sono basi di insicurezza a cui i bambini non si avvicinano per trovare risorse. Questi genitori spaventati diventano a loro volta spaventosi, non stimolano più nei loro figli il piacere di imparare ed esplorare. E poiché il mondo dei bimbi non può cominciare se non da quello dei genitori, basta che i primi stiano male con i secondi per dedurne che stanno male a causa loro. Una valanga di difficoltà conduce un grande numero di individui di questo gruppo a una valanga di traumi. Il necessario aiuto sociale si trasforma in umiliazione aggiuntiva: i giovani vedono chiaramente che il padre è ripreso da un educatore e la madre è sostenuta da una psicologa, così sentono che i loro genitori non sono né forti né competenti. L’involucro sensoriale che circonda i piccoli è impoverito dalle difficoltà sociali e psicologiche dei loro genitori: si parla poco in queste famiglie, si grida molto quando non si sanno controllare le proprie emozioni. L’entourage affettivo non permette né sicurezza né progettualità. Allora, i piccoli si proteggono tenendosi a distanza dagli adulti: stanno meglio tra loro, in strada, inventano un neolinguaggio diverso da quello degli adulti. Difendendosi in questo modo, si privano dell’eredità degli anziani, mentre la trasmissione dei valori costituisce un fattore molto efficace di resilienza9 Quando una catastrofe sociale provoca l’emigrazione, se i giovani possono sentire i racconti che narrano le sofferenze e la dignità dei loro genitori feriti si difendono meglio e riprendono più facilmente un nuovo sviluppo. Ma se le circostanze li hanno privati dei racconti delle loro famiglie, si constata una percentuale elevata di disturbi traumatici. L’esilio e la vergogna Quando i maya moderni sono stati cacciati dal Guatemala dal generale Ríos Montt, nel 1980, una parte di loro si è rifugiata vicino al Messico, mentre un altro gruppo si è diretto verso lo Yucatan. Qualche anno dopo, sotto la pressione della comunità internazionale, sono tornati nei loro territori. Le
reazioni collettive al trauma sono state diverse in ogni comunità10 Il gruppo del Sud che aveva potuto sistemarsi vicino alla frontiera aveva mantenuto i contatti con gli anziani: nonostante lo sdradicamento, il mantenimento dei riti facilitava il sostegno affettivo. Questi indios si riunivano per pregare, danzare e condividere i pasti, davano un senso all’esilio raccontando senza sosta i miti maya e le storie di famiglia. Quando sono tornati a casa hanno recuperato con facilità la loro cultura: era sempre definibile maya, ma si era evoluta. Si erano aggiunti l’esilio e la persecuzione da parte dei militari, si raccontavano la saggezza degli anziani e il coraggio dei giovani. Questa rappresentazione di sé nella propria comunità costituiva una sorta di base di sicurezza narrativa con cui gli individui si ritempravano e preservavano la loro dignità. Quando la politica ha dato loro la possibilità di riprendere la loro vita, essi hanno ricominciato con gioia, con fierezza. Il mito maya aveva solo aggiunto un capitolo alla propria epopea. Al gruppo del Nord, invece, sono state strappate le radici. Isolati in zone di accoglienza, senza possibilità di corrispondenza, questi indios sono sopravvissuti giorno dopo giorno senza riti da condividere, né miti per dare un senso alla loro prostrazione. Una volta tornati a casa, privati della loro cultura, erano abbattuti, amareggiati e facilmente aggressivi. In questo gruppo il numero di disturbi post-traumatici fu elevato poiché l’esistenza di ogni individuo, mal sostenuta dalla comunità, aveva perso qualunque senso: perché vivere insieme? Le condizioni del trauma, privando questo gruppo della sua cultura, lo avevano trasformato in un insieme di vittime e non più una comunità. La tradizione e i valori trasmessi dalla cultura rappresentano un sostegno, una rappresentazione coerente di sé tra gli altri, un prezioso fattore di resilienza. Anche quando le radici sono strappate, non tutto è perduto. Un gruppo traumatizzato può ricominciare a vivere se compone un nuovo mito con le macerie di quello vecchio. A nord di Lima, una popolazione india è stata cacciata dalla cordigliera delle Ande dai guerriglieri del Sendero Luminoso. I
primi ad arrivare si sono installati nei sobborghi presso la città e i luoghi di lavoro, mentre gli ultimi non potevano istallarsi che su un suolo roccioso, lontano dalla città. Tuttavia, questo gruppo non soffre di sindrome posttraumatica: malgrado l’incredibile povertà, questa popolazione india ha inventato una nuova cultura. Gli uomini che erano provetti agricoltori, usando ancora aratri di legno sulle ripide pendici delle Ande, sono invece diventati muratori: dormono per terra, nei cantieri lontani, nei loro vestiti da lavoro ancora bagnati di sudore, e vanno a scuola la sera per diventare funzionari. Danno tutto il loro denaro alle donne che gestiscono la vita della comunità: queste organizzano la scuola, l’educazione, la sorveglianza dei bambini, le cure, l’applicazione delle leggi e le feste che ogni sera richiamano tutti gli abitanti del villaggio. I bambini partecipano alla creazione della loro nuova cultura: vanno a prendere l’acqua, distribuiscono la Coca-Cola in bicchieri di plastica, espongono i loro disegni e raccontano le loro pene. Nessuna vergogna, nessuna amarezza in questa comunità di povera gente: molto lavoro, solidarietà, feste, riunioni per dibattere dei problemi che talvolta li turbano. Le tre comunità di indios perseguitati, poveri, esiliati, cacciati dalla loro cultura di origine, male accolti dai paesi che li hanno ospitati, hanno conosciuto evoluzioni diverse. Il gruppo degli maya espulsi lontano dalle loro contrade natali, devastati e umiliati, non si sono mai ripresi dalla deportazione. Il secondo gruppo maya che ha ritrovato la propria cultura di origine è riuscito a farla evolvere integrando nei racconti il trauma dell’esilio. Mentre gli indios di Lima, sradicati, non hanno potuto fare altro che inventarsi un’altra maniera di vivere insieme. Una simile svolta culturale, importante quanto una rivoluzione che obbliga a ripensare ogni cosa, è riuscita probabilmente grazie a una struttura di accoglienza che, pur rispettando le loro origini, ha fatto scoprire loro la cultura peruviana11 Tutte queste comunità hanno molto sofferto: ma non è la pesantezza che ha traumatizzato per lungo tempo uno di questi gruppi, sono stati il non-
senso della nuova esistenza e lo sfaldarsi dei legami. Questa gente era incredibilmente povera: ma non è la povertà che ha umiliato il gruppo, bensì la sottrazione alla cultura di origine, l’assenza di racconti per rappresentare la collettività e la mancanza di organizzazioni rituali per tessere l’affettività. Anomia e megalopoli Simili sfilacciamenti dei legami e il non-senso degli eventi si osservano facilmente nelle società industriali. Gli ammirevoli risultati della tecnologia rendono meno necessario incontrarsi di persona: il miglioramento delle comunicazioni frammenta le relazioni e le rende puntiformi. All’epoca del baratto, in Provenza i contadini si associavano per fabbricare forme di ghiaccio. Poi le ponevano in grotte fresche e alle tre del mattino un gruppo, aiutato anche da bambini, le caricava sugli asini e le “portava giù” per venderle ai commercianti di Sanary. Oggi basta picchiettare su uno schermo perché, qualche ora dopo, ci vengano consegnate. Che fantastico progresso nella comunicazione, ma che povertà nella relazione. A breve ci saranno sulla Terra 21 megalopoli di più di 20 milioni di abitanti. Come incontrarsi in simili assembramenti? Ci si può solo incrociare e scontrarsi. Per costruire un rituale servono invece riunioni, convenzioni di gesti, offerte e parole che ci identifichino: l’assenza di progetti da condividere e di feste da organizzare rende questi gruppi anomici. In un tale contesto il clan offre un apparente miglioramento: ci si struttura in una gerarchia, ci si coordina per uno scopo, ma poi si scopre rapidamente che tutta questa organizzazione è dedicata al beneficio del capo e dei suoi luogotenenti. Ed è troppo tardi, ormai si è sottomessi. Quando un clan funziona bene la morte degli estranei o la loro sofferenza non riveste alcuna importanza, cosa che conduce ad affermare che, in questo mondo senza alterità, un individuo non perverso è corrotto dalla struttura del clan. All’interno di questo ultimo, ci si conosce, si sa quello che si vale, si rivaleggia per piacere al capo; chi è al di fuori non è una persona, è un’ombra, una marionetta o se preferite una
formica. In una tale cultura, si lascia soffrire l’altro senza provare vergogna, lo si schiaccia senza sentirsi colpevoli. Senza gruppo è l’anomia, ma un gruppo chiuso si trasforma in un clan. Quando un’assemblea umana è strutturata correttamente, ben governata e aperta al cambiamento, sa sostenere la disperazione degli individui che la compongono12 L’immigrazione, in questo senso, è una possibilità sociale: tra l’anomia, che provoca la violenza all’interno di un magma di individui, e il clan, che usa la violenza per imporre la sua legge, l’apporto di nuove forze e di una nuova concezione della vita in società permette il cambiamento. In Francia, nel XIX secolo, si parlava di emigrazione interna per i bretoni, gli abitanti del Morvan o i carbonai dell’Alvernia che parlavano male francese e avevano strane usanze. Nel 1975 c’era un milione di immigrati venuti da altri paesi: si diceva che i loro bambini fossero patologici, avessero difficoltà a scuola e fossero spesso delinquenti. Fino al momento in cui alcune inchieste meglio strutturate hanno permesso di scoprire che bastava pochissimo, un incontro, un’istituzione, un “fattore perno”13 per cambiare la traiettoria sociale di questi bambini e orientarli verso la ricostruzione di sé nel paese di accoglienza. Da quel momento in poi, si è capito che le generalizzazioni erano esagerate. L’immigrazione non era né perfetta né infernale, ma le circostanze di accoglienza costruivano nell’animo di ogni immigrato un sentimento di vergogna o di fierezza, prostrazione o coraggio. L’immigrazione, fortuna o sfortuna sociale? L’età del bambino all’epoca del suo arrivo nella nuova patria gioca un ruolo fondamentale nella sua integrazione: dopo i 6 anni si sente sradicato perché ha già acquisito la lingua, l’accento, le abitudini e la matrice dei paesaggi del suo paese di origine. L’immigrazione per obbligo (fuga, tortura, miseria, disperazione) ha un pronostico di integrazione peggiore di quella per scelta, che invece evoca la bella avventura di un giovane che sogna di vivere in
un paese lontano. Le difficoltà psicologiche prima dell’immigrazione la rendono più dolorosa, mentre paradossalmente le persone felici nel loro paese di provenienza ritrovano senza difficoltà un modo di vivere felice nel paese di arrivo. La felicità dei genitori immigrati gioca un ruolo centrale nell’adattamento e nei buoni risultati scolastici dei loro figli14 Quando i genitori soffrono del fatto di arrivare in un paese sconosciuto, i ragazzi provano la vergogna di essere figli di immigrati. Anche il paese che accoglie reagisce all’umore degli immigrati: i greci più gioiosi, rispetto a questa scelta, sono stati bene accetti dai tedeschi, mentre i turchi più sofferenti sono stati spesso rifiutati. Ogni cultura codifica l’espressione della sofferenza psichica: se si è portoghesi ci si nasconde per soffrire, ci si ripiega su se stessi, si stringono i denti e si tenta di non importunare gli altri con le proprie sventure; mentre, se si è antillani, si esternano i propri sentimenti15, ci si esprime con gioia quando si è felici, ma quando si soffre lo si fa sapere, si urla, si beve, si tirano pugni. Uno stereotipo probabilmente superficiale dice che i libanesi sono calmi, i turchi aggressivi, che i cinesi si integrano rapidamente ma sono insoddisfatti, che i messicani si deprimono e gli inglesi sono condiscendenti. Gli studi mostrano che ogni comunità possiede una modalità di esprimersi che la cultura che accoglie accetta più o meno favorevolmente16 Queste tipologie nazionali variano a seconda delle transizioni tra le popolazioni, tra due gruppi culturali. I polacchi cattolici invitati dalla Francia negli anni Trenta, per lavorare nelle miniere di carbone, si sono rapidamente integrati malgrado la brutalità della polizia che, al minimo incidente, ne espelleva un grande numero: pochi disturbi psicologici, poco ricorso alla medicina, poca delinquenza. I minatori polacchi, al termine di un lavoro che esigeva grande forza fisica e una resistenza morale eccezionale, il sabato sera suonavano la fisarmonica e facevano danzare gli abitanti del quartiere in balli popolari organizzati in mezzo alla strada. Rivaleggiavano con gli italiani, che preferivano il mandolino per suonare una canzonetta17 Queste stesse popolazioni, accolte negli Stati Uniti, non hanno potuto strutturare una rete
simile di solidarietà, sono state isolate in un paese in cui i rapporti sociali erano tesi: gli uomini si sono ammalati, sono crollati psicologicamente e si sono organizzati in bande di delinquenti. Nelle medesime due culture di accoglienza, gli ebrei polacchi hanno avviato strategie di integrazione diverse. In Francia, dopo la guerra, hanno sofferto in silenzio e hanno frequentato discretamente gli studi di psicanalisi. Il loro ridotto tasso di delinquenza rivelava forse una grande inibizione. Uno stesso gruppo di provenienza, che si era diretto negli Stati Uniti, si è integrato in fretta, senza “consumo” medico o psichiatrico e senza delinquenza. Una stessa ferita può dunque sperimentare passaggi di genere diverso a seconda della cultura di accoglienza: coraggiosi e felici laddove la solidarietà li conforta, possono al contrario crollare e diventare delinquenti in un contesto che li isola e in cui il clan li protegge. Un cinese che emigra negli Stati Uniti arriva in una comunità sinoamericana organizzata fin dal XVII secolo. Circondato da interpreti e da aiuti sociali, incitato al coraggio fisico, senza dimenticare le sue tradizioni, conoscerà una luna di miele e un’integrazione agevole. Ma allora, da dove viene l’amarezza che manifestano questi immigrati in tutte le culture di accoglienza? La loro solidarietà che facilita l’integrazione diventa forse una specie di grande clan non abbastanza aperto agli usi del paese che accoglie? I pochi cinesi che oggi arrivano in Europa del Nord sbarcano in un mondo del tutto sconosciuto. Non sono accolti così male, ma sono sconcertati dal clima, dalla lingua, dai rituali che non capiscono. Il cambiamento angosciante li isola e li rende aggressivi, tanto sono sopraffatti da un mondo indecifrabile18 Non è detto che questa amarezza degli asiatici persista, ormai si vedono giovani cinesi frequentare i musei, scoprire l’arte greca, l’opera italiana e ridere al cinema delle cose che fanno ridere gli europei. Anche in questo ambito bisogna rinunciare alle causalità lineari. Non si può più dire che una popolazione di emigrati crea problemi appena supera il 10%. Alcuni grandi gruppi di stranieri migliorano la cultura che li accoglie quando i compromessi tra le due popolazioni facilitano la loro partecipazione
all’evoluzione sociale. È in questo modo che possono salvare la cultura che li salva. Altri gruppi si organizzano in comunità nelle quali gli individui sopravvivono come in un clan: per non morire, si sottomettono a un gruppo chiuso al di fuori del quale non c’è umanità, gli altri non sono che marionette o scarafaggi. Questa protezione, necessaria quando il gruppo è aggredito, porta però alla perversione gli individui che si difendono in questo modo. La scuola, prigione o liberazione? Quando la collettività non ha bisogno di questa difesa morbosa, la scuola diventa il luogo primario dell’integrazione dei bambini. Per poter assumere tale senso, è necessario che l’entourage del bambino la indichi come istituzione: bisogna che la famiglia manifesti al piccolo, con attente mimiche, sorrisi incoraggianti e racconti costruttivi, che si tratta di un importante luogo per l’avventura sociale; bisogna che il gruppo dei fratelli e dei compagni del quartiere condividano questo significato e che la scuola stessa non deluda le attese. Quando gli stimoli affettivi, amicali e intellettuali circondano il bambino, si constata che «i figli di immigrati riescono meglio di quelli delle società che li accoglie»19 Tra i bambini salvati dalla scuola e quelli che invece ne fuggono, la differenza sta soprattutto nella designazione familiare: è il lavoro di senso dato dall’ambiente circostante che mette in buona luce la scuola. Quando un padre descrive la sua dolorosa infanzia e suggerisce che con la scuola avrebbe vissuto meglio, indica al suo piccolo il luogo della sua liberazione; quando una madre incoraggia lo scolaro accompagnandolo nella sua avventura e quando le famiglie discutono dei libri che danno vita alla cultura, la scuola entra in casa e partecipa alla quotidianità. Questo tipo di famiglia è probabilmente il più adatto a partecipare a una cultura in cui la scuola organizza le nuove classi sociali. Lasciano stupiti i bambini che attribuiscono “da soli” questo senso a un’istituzione ignorata o
disprezzata dalla famiglia. Ho appena scritto “da soli” come se dessero da sé abbastanza importanza alla scuola attribuendole un potere liberatorio. Resta da vedere. Il mio amico Eric ha perso la sua famiglia durante la Seconda guerra mondiale. Aveva 6 anni quando è stato mandato in campagna presso una famiglia affidataria. Dopo molti anni di disperata confusione e di risultati scolastici penosi, il bambino si è aggrappato a due tutori di resilienza: la gentilezza dei contadini e gli incoraggiamenti del signor Hubac, maestro della sua scuola. In poche settimane la vita psichica ha fatto ritorno nel bimbo inebetito dal dolore: il luogo della gioia era la scuola. Quando il maestro ha chiesto che fosse iscritto alla scuola superiore, in un’epoca in cui meno del 3% dei ragazzi la frequentava, la famiglia affidataria è stata sorpresa e rallegrata dall’avvenire inatteso che si apriva per il bambino. Quindici anni dopo Eric superò la selezione di una scuola molto prestigiosa per cominciare una brillante carriera di amministratore ecologico. Oggi si parla della sua intelligenza e della sua capacità di lavoro. Cosa ne sarebbe stato di lui se il signor Hubac l’avesse trascurato o se la famiglia affidataria avesse preferito mandarlo a lavorare nei campi, come si faceva con i ragazzi della Pubblica Assistenza? L’esempio più comune è quello di Albert Camus che ha dedicato il Nobel al signor Louis Germain, maestro che ha risvegliato in lui il piacere di leggere. Quando Camus ha annunciato il suo successo a sua madre, lei gli ha risposto che i suoi pantaloni erano stropicciati e che li avrebbe stirati. Il grande uomo se li è tolti. Ha capito che lei non sapeva cosa fosse il Nobel, ma ha mantenuto il suo affetto e la sua ammirazione per quella donna analfabeta che aveva tenuto duro affinché suo figlio andasse a scuola, mentre tutti intorno a lui si auguravano che trovasse un lavoro di qualunque genere20 Anche Tahar Ben Jelloun ha amato e ammirato la madre illetterata: le ha teneramente posto moltissime domande per condividere ancora un po’ della sua storia, prima che il morbo di Alzheimer spegnesse il suo mondo intimo21 È più difficile capire come alcuni bambini diano importanza alla scuola
malgrado il loro ambiente li scoraggi. Mounir ha cominciato male nella vita: passa la sua infanzia in un contesto povero di denaro e di parole. Fugge da casa, litiga e ruba, fino al momento in cui viene tolto alla famiglia per essere inserito in una casa di accoglienza. Cos’è successo con quell’educatore che, improvvisamente, ha messo in buona luce la scuola? Immediatamente Mounir diventa un ottimo allievo, recupera il suo ritardo, viene mandato a Parigi per frequentare un ambito corso di preparazione per entrare in una scuola prestigiosa. La sua personalità allora va in pezzi: è bello, stringe delle amicizie, i suoi risultati scolastici sono eccellenti, ma sua madre gli telefona ogni sera per dargli del traditore e dirgli che non pensa ad altro che a sé, che ha abbandonato la sua famiglia e non è nemmeno salito su un treno per andare a trovare suo fratello minore appena finito in prigione. Dopo queste parole Mounir non riesce più a concentrarsi. Se, per disgrazia, sarà accettato alla selezione di una grande scuola, si sentirà traditore della sua famiglia. Come descrivere a sua madre il cocktail di benvenuto e i discorsi eleganti con gli industriali? Come reagirà, lei che non può comprarsi niente dopo il quindici di ogni mese? Come parlerà a suo fratello, che detesta gli intellettuali, del piacere di leggere? Allora Mounir si mette da solo i bastoni tra le ruote, si veste male, indossa il berretto di traverso e cammina dinoccolato, fiero delle sue origini. Se supererà la selezione, si vergognerà di abbandonare i suoi familiari e se fallirà si vergognerà di abbandonare i suoi sogni. In entrambi i casi, si sentirà un disgraziato. Il buon allievo non è per forza un eroe, tutto dipende dal significato che la scuola ha per la sua famiglia. Molti immigrati pensavano che la loro sola dignità fosse la forza nel lavoro, il coraggio di lavorare senza lamentarsi. Un uomo vero, accetta qualunque mestiere e dà tutto il suo denaro alla moglie: è fiero della sua muta sofferenza e del benessere della sua famiglia. Molti immigrati italiani, portoghesi o polacchi, nonostante la bellezza della loro cultura di origine, sostenevano che la loro nobiltà consistesse nel lavorare sodo per le loro famiglie. «Soltanto le ragazze e i finocchi studiano» dicevano questi uomini rugosi, prendendo a calci i libri. Malgrado tutto, alcuni ragazzi hanno studiato di nascosto e sono diventati professori di francese… con
sommo orgoglio dei loro padri. Si può passare in fretta dalla vergogna alla fierezza. Affettività e performance scolastica La labilità dei sentimenti permette di sfuggire alle intenzioni inconsce delle figure di attaccamento. In Inghilterra, negli anni Novanta, c’erano due gruppi di antillani. I primi rimpiangevano le Antille e vivevano nella nostalgia del clima e della bellezza del loro paese di origine: i loro figli hanno nutrito un battaglione di depressi, di pessimi allievi e di delinquenti. I secondi erano invece felici di tentare l’avventura in Inghilterra: i loro figli non si sono depressi, hanno appreso dei mestieri e sono riusciti egregiamente22 La prossimità affettiva, l’attaccamento che permette il contagio delle emozioni, dà al mondo un sapore che si percepisce: cambiando a seconda del contesto affettivo, questo sapore muta il senso che noi attribuiamo ai fatti. Ariela si stupisce del cambiamento dei suoi risultati scolastici23 Era brava a scuola fino a quella notte del 1942 in cui suo padre l’ha svegliata per affidarla a due donne che l’hanno condotta al “deposito di bambini di Denfert-Rochereau” a Parigi. Presso l’Assistenza Pubblica era al sicuro dalle retate antisemite. Era vietato parlare nei dormitori, d’altra parte era impossibile dato che la sua vicina di letto cambiava quasi ogni sera. Ariela non ha capito perché suo padre l’avesse abbandonata. La sua anima si era gelata. Non provava più il piacere di leggere, non aveva più la forza di difendersi, non si muoveva più, accettava tutto passivamente. Quando alla fine è tornata a scuola, la maestra ha sospirato: «Eccone un’altra dell’Assistenza!». La sua voce non era gentile. Non ha guardato la bambina, che pensò: «Non capisco niente. Ma veramente niente di niente… Niente mi entra in testa. Vergogna. Vergogna di non capire»24 Nel settembre 1945, dopo la guerra, la ragazzina torna nella sua scuola, in rue della Folie-Méricourt. La signorina Duval, la maestra, la riconosce e le dice: «C’erano trentacinque allievi nella classe. A settembre, dopo la retata del
16 luglio 1942, c’erano solo otto ragazzine non ebree». Appena ritrova suo padre e riprende il suo posto nella scuola, la vita mentale rinasce in lei. «Curiosamente, fin dalla prima lezione, mi pare di capire… sono proprio io?»25 Immediatamente Ariela torna a essere la prima della classe. Numerosi bambini conoscono un’esperienza simile. Bravi a scuola quando si sentono sicuri, il loro animo di pietrifica quando sono rifiutati. Anche quando non è evidente l’aggressione possiede un grande potere distruttivo. Un adulto potrebbe forse sentire la maestra sospirare: «Eccone un’altra dell’Assistenza!» ma saprebbe vedere che non lo sta guardando? Per la ragazzina quel non-sguardo significa: «Voglio che tu non esista nel mio mondo». La forza di amare la scuola si acquisisce nell’entourage affettivo. La cultura del quartiere gioca un ruolo importante nel modo in cui si percepisce la scuola e nell’attribuzione del suo significato. All’interno dei quartieri governati dalla droga, la delinquenza è una funzione adattativa perché permette di partecipare a un’attività commerciale. In questi luoghi la scuola non racchiude il piacere di pensare, di prepararsi alla vita sociale o di guarire la ferita sociale dei genitori. Nelle favelas di San Paolo i bambini che accettano di creare un legame con un ballerino o un chitarrista per preparare uno spettacolo nel vicinato recuperano rapidamente il loro ritardo scolastico. Ma sono disprezzati dal ragazzini che, in una sola serata, guadagnano più del salario mensile del loro padre26 e per i quali la scuola non ha valore, solo flirtare con la morte dà gloria. Il fatto di amare la morte dà loro un coraggio straordinario e una speranza di vita breve. Poco importa: ignoranti come sono, non conoscono altro che i rapporti di forza, sono ammirati dagli altri ragazzi e adulati dalle ragazze. Non temono gli adulti, guadagnano molto denaro e lo spendono prima di morire. Queste culture di quartiere fanno apparire nuovi fenomeni: per esempio, l’esclusione dei poveri bianchi. I ricchi bianchi, da molte generazioni, abitano in quartieri belli e frequentano le scuole che danno acceso ai lavori più prestigiosi. Nei quartieri poveri nelle periferie delle grandi città, invece, si constata da poco che i bambini dei migranti (spesso di colore) si integrano
meglio dei poveri bianchi degli stessi quartieri. Il fatto di essere un figlio di immigrati è un pungolo doloroso, ma è comunque un pungolo che dà senso alla scuola e rinforza il coraggio, che rende fieri di sé. Prima degli anni Settanta, armeni ed ebrei, qualunque fosse la cultura di accoglienza, hanno avuto risultati scolastici impressionanti malgrado le difficili condizioni materiali. Dagli anni Ottanta, gli asiatici e gli antillani hanno seguito lo stesso percorso. I bianchi dei quartieri poveri non hanno le stesse motivazioni per reggere alla sofferenza; lo sforzo che chiede loro la scuola non ha lo stesso senso poiché essi sono nati in quello stesso paese: vivono come un’ingiustizia le politiche di aiuto per le persone di colore sostenute con il denaro guadagnato dai bianchi. La solidarietà degli immigrati, la gioia che mettono nelle prove da superare, il successo scolastico dei loro figli aggiungono un’umiliazione al fallimento intellettuale e sociale dei bianchi poveri: si costituiscono allora in bande molto aggressive, volgari e sprezzanti, credendo di superare così, con un’estrema violenza, la vergogna di sentirsi inferiori, loro che credevano di essere dei dominatori. L’immigrazione non è un handicap scolastico, al contrario27 Numerosi intellettuali hanno avuto genitori poveri e poco colti, per i quali hanno conservato una grande ammirazione, come raccontano appunto Albert Camus e Tahar Ben Jelloun. Il principale handicap scolastico è la mancanza di cultura di quei quartieri in cui è attribuito un grande valore alla violenza arcaica e all’erotizzazione della morte. In un tale contesto, la violenza subita e soprattutto la violenza vista provocano emozioni incontrollabili che possono portare allo strappo traumatico. In queste culture suburbane si trova quasi il 20% delle famiglie monoparentali in cui la madre, povera e oppressa, non rassicura più i suoi bambini. Più del 30% dei disoccupati di lunga durata priva i figli della possibilità di ammirare il padre. L’assenza di rituali culturali, per i quali ci si veste bene per andare al cinema e frequentare gli amici e ci si prepara alle discussioni che di solito seguono uno spettacolo, diminuisce la possibilità di incontri amicali. In tali contesti socio-culturali i traumi si
succedono a catena28, inoltre essendo scomparsi i riti di socializzazione sono qui nettamente più frequenti angoscia e depressione rispetto a contesti poveri ma colti29 In un ambiente in cui non c’è salvezza al di fuori dell’istruzione, un fallimento scolastico provoca una vergogna disperante. Jean-Luc era morto di vergogna perché aveva fallito il concorso per entrare in una scuola prestigiosa: «Sono una merda» mi diceva evitando il mio sguardo. Invece in una cultura in cui non c’è salvezza al di fuori della propria famiglia, è il fatto di non dedicarsi ad essa che provoca la vergogna. Nella Jouteya di Derb Ghallef, vicino a Casablanca, si è fieri di sé quando ci si dedica alla famiglia. Non ci si vergogna di lavorare in una povera medina in cui si vendono cianfrusaglie per dare da mangiare ai propri cari. Nell’area fabbricabile lasciata in abbandono della Jouteya, 20 milioni di abitanti provenienti dall’immigrazione interna, venuti da Berrechid o da Deroua, hanno creato un ambiente urbano fatto di assi di legno sulle quali si riparano materassi, si vendono libri, orologi e pesce. Uomini e donne istallatisi in questo spazio sono fieri di donare il frutto del loro lavoro alla famiglia30 «Ho alle spalle un primo anno di diritto all’Università Hassan-II e un diploma di contabilità all’Istituto Goethe. Mio padre è malato. Ho quattro fratelli minori e tre sorelle. Sono felice di vendere questi mobili». Si sente anche dire: «Mio padre mi ha dato questo spazio. Sarebbe stato umiliante rinunciarci. Preferisco lavorare nel souk piuttosto che nell’impresa in cui ero informatico». In questa modalità di socializzazione non ci sono dunque esclusi: «Ero impiegato di banca con cravatta e diplomi. Spesso mi sentivo depresso. Ora aggiusto pneumatici, ho degli amici, parlo, ascolto i cantastorie, dormo bene». A qualche minuto dal souk, i marocchini europeizzati sono ricchi e colti. Il successo individuale organizza i loro progetti di vita, ma quando falliscono, muoiono di vergogna. Nella cultura dedita alla prossimità, tipica del souk, ci si tocca, ci si parla, ci si aiuta vicendevolmente. La nozione di successo prende un’altra forma e ciò modifica il sentimento della vergogna.
Racconti “dell’entourage”31 e sentimenti intimi La situazione dei bambini ebrei perseguitati durante la guerra può aiutarci a capire come una struttura sociale possa inculcare nell’animo di un bambino un sentimento di vergogna o di fierezza. In meno di tre anni, la persecuzione degli ebrei d’Europa ha ucciso il 70% degli adulti e il 90% dei bambini32 salvo che in Francia, dove un adulto su tre (76 000) e un bambino su quattro (11 400) è stato bruciato nei forni di Auschwitz. Paradossalmente, in una cultura antisemita il fatto di vedere portare una stella gialla ha scioccato i cristiani e provocato uno slancio di solidarietà in cui la “banalità del bene” dei Giusti e la resistenza ebraica hanno organizzato il salvataggio. È stato dunque necessario occuparsi di 40 000 bambini nascosti fino al termine della guerra in diverse condizioni. Una minoranza è stata sfruttata e maltrattata da vari Thénardier33, alcuni sono rimasti con i loro genitori e la maggior parte sono sopravvissuti affidati coraggiosi contadini. Tutti, per sopravvivere, hanno dovuto nascondere di essere ebrei. Questa reazione sociale ha insinuato nello spirito dei bambini una difficile rappresentazione di sé: “Se dico che sono ebreo, morirò. Se non lo dico, sarò un traditore”. La vergogna si è radicata nel punto più profondo del loro animo. È un concatenamento di racconti ad aver provocato un tale sentimento: i bambini sentivano una narrazione esterna che diceva che gli ebrei erano sporchi, che non pensavano ad altro che al denaro, che complottavano per possedere il mondo e che bisognava uccidere i bambini prima che avessero il tempo di commettere i tipici crimini degli ebrei. Questi piccoli sentivano che la condanna, derisa preventivamente, li avrebbe colpiti se solo avessero parlato. Bastava dunque tacere per vivere: era facile, solo che tacendo tradivano coloro che amavano e parlando li avrebbero trascinati verso la morte. Queste affermazioni antisemite erano talvolta pronunciate da coloro che li proteggevano. Un legame si tesseva, tenero e rude insieme, tra contadini e bambini nascosti, fino al giorno in cui l’adulto esasperato dalla mancanza di
denaro motivava i risultati economici negativi del suo paese come «un altro colpo basso degli ebrei»; oppure, spaventato dalla brutalità dell’esercito occupante, affermava che «gli ebrei erano dei fautori di guerra e che, senza di loro, tutto sarebbe andato meglio!». In un tale contesto retorico il bambino non poteva argomentare, sapeva di essere troppo piccolo, condannato a tacere perché non voleva aggredire quel contadino che amava. Allora faceva domande ironiche: «Se tu vedessi un ebreo, lo riconosceresti subito, vero, nonno?»34 Provava un certo piacere a dare scacco al “nonno”, lo rassicurava il fatto di verificare, grazie al suo piccolo scherzo, che bastava mettere a tacere una parte di sé per essere al sicuro. Questa vittoria relazionale veniva pagata però con un’amputazione della personalità. Il suo silenzio lo proteggeva ma gli suscitava vergogna: “Non ho il coraggio di essere tutto di un pezzo, di dire tutto di me, non ho la forza di dire chi sono. Mi vergogno di farmi amare così. Non viene amato quello che sono, ma quello che mostro di me: è un amore di facciata”. Questa strategia relazionale, che consiste nel mettere in luce la parte accettabile di sé, permette di lasciare in ombra la parte pericolosa. In questa spaccatura della personalità una parte tiene conto della realtà (se parlo muoio), mentre l’altra la nega (non è poi così grave). Si può giocare con la morte. Si può persino parlare per nascondersi dietro le parole, basta raccontare storie. Gli adulti fanno solo questo, parlano di ciò che non conoscono, pronunciano parole che fluttuano nelle correnti d’aria senza conoscere niente della realtà dell’essere ebrei. Durante la guerra, la legge del governo di Vichy li aveva resi troppo visibili dal momento che dovevano portare la stella gialla: se non la cucivano sui loro abiti erano arrestati duranti i continui controlli della polizia in strada e nei luoghi pubblici, poi sparivano. Se la portavano erano prelevati in casa durante le retate notturne, e sparivano. Per un bambino ebreo i genitori erano all’inizio troppo visibili e poi improvvisamente invisibili. Doveva dunque attaccarsi a genitori che, prima di sparire, erano sì presenti ma incapaci di infondere sicurezza. Poi continuava ad amare genitori
spariti e immaginati. Dopo la guerra il sovrainvestimento immaginario sui genitori perduti non ha facilitato la nascita di un legame con le famiglie di accoglienza. “Se amo quelle persone, tradirò i miei genitori scomparsi” pensavano numerosi orfani. Tanto più che nei periodi di pace gli ebrei continuavano a essere visibili e invisibili. La maggior parte erano diventati laici, dopo che la famiglia aveva vissuto per secoli in Francia; alcuni riscoprivano con sorpresa solo al momento dell’arresto le loro origini ebraiche; tutti i sopravvissuti hanno avuto l’occasione di sentire un uomo pubblico affermare la propria ebraicità, come Mendès France che dichiarava: «Amo dire che sono ebreo, ma non so bene cosa sia essere ebrei». Con una sola frase, si rendeva visibile in quanto ebreo, mentre prima era visto solo come un uomo politico. La manifestazione dell’appartenenza alla cultura ebraica attraverso i vestiti degli ultraortodossi – il grande cappello nero, la camicia bianca senza cravatta, i boccoli di capelli davanti alle orecchie, tutti elementi riapparsi da poco – rendevano di nuovo visibile l’affermazione dell’ebraicità di questo gruppo che costituisce il 5% dei 13 milioni di ebrei presenti sul pianeta. I bambini che nascono in un contesto “di visibilità” si attaccano a coloro che si occupano di loro. Imparano, giorno per giorno, come un’evidenza, la condizione ebraica, la maniera di vestirsi, di incontrarsi, di pregare e di pensare l’esistenza. La visibilità di questi rituali sviluppa in loro il sentimento di appartenenza a un gruppo di persone che amano. La credenza condivisa organizza una rappresentazione del mondo comune, gli incontri creano le opportunità reali di tessere un legame in occasione dei pasti, delle uscite, delle feste familiari e religiose. La fierezza di avere genitori vivi, di amarli e ammirarli, in un contesto culturale che racconta la storia e i valori del gruppo, dà ai bambini la fiducia in sé e la fierezza. I bambini nascosti non hanno potuto acquisire questo sentimento di appartenenza: i loro genitori erano morti; essi ne conoscevano poco le condizioni della sparizione e non potevano neppure immaginare i loro ultimi giorni, talmente si proteggevano dall’insopportabile orrore di una tale rappresentazione con la denegazione. Non si possono immaginare il proprio
padre e la propria madre mentre si incamminano verso il forno. Questi bambini non potevano neanche sentire i racconti della loro vita prima della morte, non c’era più nessuno a narrarli. Non potevano fare altro che inventare i loro genitori a partire da rimasugli di verità: una foto, un’allusione verbale, una quietanza di affitto a provare che avevano vissuto in quella casa, un oggetto restituito da una vicina. Infatti è la narrazione pubblica che ha creato l’orazione dei genitori scomparsi e che, per quarant’anni, ha raccontato che si erano lasciati condurre al mattatoio come pecore. Solo sessant’anni dopo la tragedia gli storici, scavando negli archivi, hanno mostrato che gli ebrei avevano invece combattuto in un tutte le armate antinaziste e si erano impegnati in tutte le resistenze35 La vergogna per origine Nelle famiglie affidatarie e nelle istituzioni che hanno salvato questi bambini non si parlava mai di simili argomenti: bisognava ricominciare a vivere, andare avanti e soprattutto non rimuginare sul proprio passato. Le condizioni generalizzate della denegazione erano favorite proprio dagli educatori che così proteggevano i bambini, amputandoli però di una parte preziosa della rappresentazione di sé: “Penso solo ad andare avanti, non so da dove vengo, non so come si prega nella mia famiglia, né quali siano i valori che devo rispettare per farmi amare dai miei genitori defunti. Non ho che la vergogna per la mia origine, vergogna di non essere come gli altri, vergogna che all’origine di me ci sia solo una necrosi. Avanti! Avanti! È la sola maniera di non sentirsi male. Se voglio rimettermi a vivere, devo inventare il mio avvenire e negare il mio passato”. Così pensavano i bambini nascosti. Coloro che hanno la fortuna di avere una famiglia rassicurante passano l’infanzia a fare dichiarazioni d’amore non verbali: vestirsi come si deve per manifestare che sono fieri della loro appartenenza, pregare come i loro genitori per condividerne le credenze e abitarne lo stesso mondo mentale, festeggiare con i bambini del gruppo per costruire ogni giorno un sentimento
di gioia e benessere. Durante la guerra i bambini hanno dovuto nascondere se stessi e il fatto di essere ebrei per salvarsi. Dopo la guerra, hanno dovuto nascondere di essere stati nascosti per vivere nella denegazione. È dunque di nascosto che hanno amato i loro genitori scomparsi: non potevano parlarne poiché, nel loro nuovo contesto, nessuno aveva conosciuto i loro cari e li si incoraggiava a non pensarci più. Allora approfittavano del minimo indizio per tentare di immaginare i loro genitori: «Non so da dove viene questa foto di mia madre. L’hanno probabilmente trovata in un dossier dell’Assistenza Pubblica. Sul retro, c’è una cosa che ho scritto quando avevo 7 anni: “questa è la mamma di Joseph”. Sono io Joseph, ma non ho osato scrivere “foto della mia mamma”. Fatico a pronunciare questa parola. Non ho mai avuto l’occasione di impararla. Avevo 2 anni quando è scomparsa. Quando sarò grande, avrò un sacco di sue foto e scriverò tante parole su di lei». Joseph ha nascosto la foto: nel muro della fattoria dove era ospitato ha trovato una pietra smossa, l’ha tolta, ha messo la foto in una scatola che ha poi riposto dietro la pietra. Solo lui sapeva dove era incastrato il suo segreto tesoro affettivo. Ci pensava spesso, talvolta andava a guardarla, ma non ne parlava mai. Aveva celato questo passaggio della sua storia per mostrare alla luce del sole ciò che gli altri accettavano. Ma grazie a questo schema del tesoro sepolto e della foto con la scritta, Joseph cominciava a imparare il suo lavoro di regista, mestiere che è diventato il suo vent’anni dopo. La scelta è semplice: i bambini che hanno passato la loro vita a nascondersi hanno sepolto la vergogna in fondo a loro stessi. Quelli invece che hanno dovuto riempire il vuoto della sparizione all’origine della loro storia si sono allenati alla creatività. Hanno trasformato l’angoscia dell’incognito nel piacere di un enigma da decifrare. Quando l’ambiente circostante si è interessato ai suoi misteri, il bambino nascosto ha percepito la possibilità di esprimersi, ha potuto trarre qualcosa dalla sua ferita. La trasformazione in opera d’arte della tomba delle origini (un romanzo, un film, un saggio) «permette alla vittima di passare dalla condizione di oggetto di
sevizie a quella di soggetto di un’opera di immaginazione»36 La metamorfosi di un bruco in farfalla non è possibile se non quando l’ambiente circostante si dimostra interessato ad essa. Quando, dopo la guerra, venivano usate nella banalità del quotidiano espressioni come sporco ebreo, figlio di un crucco, finocchio o negro, il carico affettivo contenuto in esse costruiva una rappresentazione che obbligava al silenzio le persone ferite. Il dialogo era impossibile con un discorso sociale, brutale e arrogante che faceva tacere gli ebrei, i figli di padri tedeschi, gli omosessuali e i neri. Lo spazio culturale era riempito da un solo discorso, quello che esprimeva un trionfo sarcastico: «Noi apparteniamo alla razza di quelli nati bene, non siamo ebrei, noi! Le nostre donne non hanno praticato la collaborazione orizzontale, sono pure. La nostra sessualità è sana e la nostra pelle bianca. Abbiamo dunque tutte le ragioni di avere vinto la guerra». L’obbligo del silenzio non impedisce di pensare, ma rende impossibile la condivisione delle esperienze. Quando un discorso sociale è talmente sprezzante che la persona brutalizzata non può rivoltarsi, questa dentro di sé non pensa ad altro. Spesso finisce per scoprire modalità di espressioni culturalmente accettabili: poesie, canzoni, testi teatrali, romanzi, saggi o il ricorso all’ironia. Essere forzati al silenzio porta a essere forzati all’opera d’arte. Le circostanze culturali della guerra e del dopoguerra hanno così dato i natali a due opposti discorsi: l’orazione dei pappagalli e la cripta dei poeti. Lo psittacismo permette di recitare velocemente parole che fanno credere che si è capito: non è così, è ovvio, ma la chiarezza della recitazione rinforza la convinzione degli ignoranti. Questo procedimento culturale permette di dare l’illusione dell’intelligibilità: posso rapidamente recitare una teoria psicologica di cui non capisco una parola. Ma se, a forza di ripeterla, la recito bene sarete impressionati dal mio virtuosismo. E io sarò felice di impressionarvi. I portatori di vergogna e la loro mimetizzazione linguistica
Se provo disagio per avere denunciato un vicino ebreo e avere così ricevuto un piccolo premio dal commissariato37, ho tutto l’interesse a recitare la teoria del complotto giudaico-massonico per sentirmi discolpato, in posizione di legittima difesa. Se non sono a mio agio con la mia sessualità, il semplice fatto di disprezzare gli omosessuali mi farà credere che non sono poi così disgraziato. E se nella vita non ho combinato niente, mi basta prendere in giro un negro-scimpanzé per mettermi in alto nella gerarchia umana. Mi proteggo grazie a questa mimetizzazione linguistica38, posso mascherare la mia triste realtà senza sentirmene scalfito. Negli anni del dopoguerra, tutti i racconti culturali si sono espressi in questo modo. Per non evocare l’immagine insopportabile di civili uccisi durante i bombardamenti bastava parlare di “combattenti nemici” o di “danni collaterali”. Per non vedere la donna o il bambino abbattuti da un proiettile in testa bastava scrivere in fretta un rapporto amministrativo e fare grafici sulle posizioni nemiche distrutte. Con il linguaggio amministrativo si parla attraverso cliché39 per evitare le emozioni. Il luogo comune o lo stereotipo diluiscono la rappresentazione dell’orrore. Ma il sopravvissuto si ritrova circondato da racconti che proteggono solo gli aggressori: l’assassino impedisce a se stesso di pensare per non essere imbarazzato, mentre la persona ferita non pensa ad altro ma non può parlarne. Non può neanche testimoniare se coloro che la circondano ridono o, increduli, relativizzano il suo trauma: «Le donne violentate sono un po’ complici, no? In quanto agli ebrei, è comunque curioso che siano perseguitati regolarmente. Cosa fanno per farsi perseguitare? Cosa fanno le donne per essere violentate? Guardate in Thailandia, il primo ministro ha detto che erano stati gli ebrei a provocare l’inflazione. Quanto ai neri, con tutto il denaro che si dà loro, non pensano che a giocare a calcio e a massacrarsi a colpi di machete». In un tale contesto verbale, la situazione è chiara per un umiliato. Tacere è la soluzione più facile. È il metodo adattativo che permette di vivere in una simile società, spegnendo una parte della propria personalità. Rivoltarsi
quando si è soli sembra assurdo di fronte all’enormità di un gigantesco stereotipo culturale, a meno che non si abbia la possibilità di esprimersi e il talento di trasformare la propria ferita in evento culturale: un racconto, inizialmente marginale, può allora modificare le rappresentazioni collettive. Ogni fede prende la forma di un sistema di rappresentazioni di immagini, parole, miti e pregiudizi che organizzano i progetti di un gruppo. Ogni fede induce sentimenti intimi negli individui che condividono la stessa credenza. Il racconto che si costruisce provoca un’emozione e mette tutti sulla stessa barca. Il racconto che umilia i “negri” e i “finocchi” è un gioco verbale che preserva l’autostima degli sprezzanti, ma i neri e gli omosessuali che subiscono questi racconti sono, loro malgrado, coinvolti nelle rappresentazioni di coloro che li aggrediscono. Accettare o reagire: un umiliato non ha sempre questa libertà. I “figli dei crucchi”, nati alla fine della Seconda guerra mondiale, potevano crescere solo nel contesto familiare tragico in cui la vita li aveva fatti nascere: i loro genitori erano quelli costretti a nascondersi. Il disfacimento nazista ha obbligato questi bambini a svilupparsi nel dolore parentale appena venuti al mondo, nell’obbligo del segreto per non essere maltrattati. Fin dai primi mesi di vita, la loro prima culla affettiva è stata spenta dalla vergogna familiare che strutturava intorno a loro un lignaggio infamante, una madre oscura, ansiosa, talvolta distante a causa del significato che prendeva per lei il neonato: “A causa tua sono in pericolo. Mi vergogno perché la tua presenza rivela al mondo quello che gli altri chiamano la collaborazione orizzontale, sono una puttana che va coi crucchi”. In un simile contesto di racconti sociali l’amore di una francese per un soldato tedesco acquistava il valore di un tradimento. La madre braccata e il padre ignoto hanno costituito un blocco sulle origini del bambino: nessun diritto di sapere, la vergogna all’origine di sé. Questi piccoli, prima di diventare capaci di parlare, si sono sviluppati in un ambiente affettivo impoverito dal dolore della madre e dal tabù sul nome del padre, sostituito da una macchia nera, nauseabonda, intoccabile. Il loro lavoro di resilienza è stato difficile e tardivo. È stato necessario aspettare gli anni Novanta perché alcuni di loro, soprattutto artisti, raccontassero il problema in modo culturalmente
concepibile40 Questi bambini erano colpevoli? I loro genitori erano davvero criminali? Essendosi evoluto il contesto sociale, hanno accettato di dare la parola agli storici che scavano negli archivi e cercano i testimoni41 Il processo resiliente è iniziato cinquant’anni dopo, nella stesso periodo in cui è cominciato quello dei bambini ebrei nascosti. I neri e la stella gialla I neri devono affrontare lo sguardo altrui e sentire i racconti intessuti dai non-neri. È curiosa l’idea di una categoria “neri” come se si dicesse: «Gli occhi blu amano la musica classica e sono grandi lavoratori». Il senso attribuito al colore viene dalla storia delle civiltà, all’epoca in cui i “non-neri” disponevano di navi, armi, tecnologie e ideologie che davano loro tutti i diritti. La prova della loro inferiorità non è il colore della pelle ma il senso sociale che esso incarna. È piuttosto carino avere la pelle nera o gli occhi blu, ma quando nero vuol dire sub-umano e quando blu designa coloro che si sono riservati il potere dei signori, pelle nera diventa uno stigma di inferiorità che espone agli occhi di tutti la storia del discendente di uno schiavo o il un figlio di una donna stuprata. È il senso a portare la vergogna, non il nero della pelle di una persona, che potrebbe essere il discendente di un principe, il figlio di un amore vero o un uomo pieno di qualità. Molti neri hanno un sentimento di vergogna, piantato nel fondo di loro stessi dallo sguardo altrui, e stabiliscono tra loro una gerarchia di colori scuri. Una tale immagine svalorizzata di sé risulta dalla co-costruzione di racconti da parte della persona di colore e degli altri non-neri o meno neri: “Soffro vedendomi umiliato nello sguardo dei bianchi, allora vado a comprarmi dei prodotti schiarenti, rompo il termometro per prendere il mercurio che sbiancherà la mia pelle”. Un nero può persino pensare: “Disprezzo i bianchi che mi disprezzano e gliela faccio vedere io”. Aggredendo gli aggressori, la legittima difesa conduce gli umiliati a comportarsi come specchi. I neri decidono di vivere in una comunità nera in cui si sentono meno neri di
quanto non si sentano in presenza dei bianchi. Ma oggi molte persone di colore decidono, come Nelson Mandela, di modificare lo sguardo dei bianchi mostrando la loro nobiltà: «Guardate la mia bellezza, la mia forza e generosità. Non chiedo vendetta, vi racconterò quello che mi avete fatto subire». «Mostrare senza accusare. L’importanza della narrazione può talvolta prevalere sul processo stesso»42 In Sudafrica, dopo avere deposto davanti alla Commissione Verità e Riconciliazione, molti bianchi sono usciti in lacrime e hanno confessato: «Non mi rendevo conto di quello che abbiamo fatto loro passare». Altri provano vergogna quando cambiano i racconti. Se una donna dice che si sente bella allo sguardo del marito, partecipa a quel gioco di specchio emozionale in cui ciascuno si accoppia con la rappresentazione dell’altro, come se dicesse: «Mi sento desiderabile perché lui mi desidera. Un indizio di desiderio percepito nel suo sguardo modifica lo sguardo su me stessa». Benjamin, che aveva 11 anni quando ha dovuto portare la stella degli ebrei, dice: «Indugiavo dietro alla porta per un’ora prima di avere il coraggio di uscire, prima di lanciarmi nella strada dove sarei stato odiato, disprezzato, insultato, preso a spintoni. Il semplice sguardo altrui su di “me-con-la-stella” mi annientava di vergogna… Dopo la Liberazione, ho voluto cambiare nome, avrei voluto chiamarmi Dupont43, come tutti. Non mi sarei più sentito trapassato dallo sguardo degli altri, sarei stato libero». Molti ebrei, al contrario, si mettevano l’abito della domenica per uscire: questa espressione è sparita dalla nostra cultura, perché la domenica non si indossano più il completo o l’abito bello, il cappello o i guanti bianchi. La famiglia si metteva l’abito della domenica con la stella, e allora qualche cristiano, per manifestare a queste persone stima e restituire loro la dignità, sollevava il cappello quando le incrociava. Un semplice segno cucito su un vestito cambia il mondo e sopprime la banalità. Tutto diventa pericoloso. «Il dottor Charles Mayer è stato arrestato perché portava la stella troppo in alto… Una signora dell’ufficio ha esclamato:
“Questa è davvero la prova della loro malafede!!!”»44: Charles Mayer è morto, torturato per avere cucito male la sua stella. Hélène Berr, che talvolta lo incontrava, si è sentita profondamente mutata perché il suo mondo è stato trasformato. Passeggiando con un amico, una volta è entrata nel giardinetto vicino a Notre-Dame e si è seduta su una panchina per chiacchierare. Il guardiano è uscito come una furia, l’ha insultata e cacciata dal giardino vietato agli ebrei. Negri, zoo e ospedali psichiatrici I neri hanno conosciuto una simile situazione in Sudafrica e negli Stati Uniti: dovevano stare in piedi, schiacciati in fondo a un autobus, mentre pochi bianchi occupavano i posti davanti. Negli anni Trenta in Francia si mettevano negli zoo famiglie di colore, tra le giraffe e gli elefanti45 I piccoli parigini di buona famiglia andavano a guardare le donne negre, morte di vergogna e di disperazione, mentre allattavano il loro piccolo. Oggi la vergogna non è più nell’animo di quelle donne esposte negli zoo, ma nella cultura che ha osato compiere un tale scempio. Tutte le culture hanno osato: basta che un uomo non sia nella norma perché i normali lo opprimano con la loro arroganza, come se il fatto di essere uguale agli altri legittimasse il piacere di umiliare chi non lo è. Il terrificante potere dei pappagalli offre loro di tanto in tanto un piccolo piacere sadico, umiliando il pazzo, l’orfano, il nero, lo straniero o l’animale da zoo. Avete letto bene: c’è una parentela tra l’ospedale psichiatrico, lo zoo e il negro in gabbia. Cortez, in una lettera a Carlo v (1520) descrive il castello del signore di Montezuma in marmo, riccamente decorato di diaspro con magnifici giardini per gli uccelli […] e grandi gabbie recintate per i leoni, le tigri, i lupi, le volpi… curate da trecento guardiani […]. In un’altra casa abitano dei nani, dei gobbi, e ogni sorta di mostruosità […] esseri strani che hanno fin dalla nascita il viso, il corpo, i capelli, le ciglia, le sopracciglia tutte bianche […]. Anche loro hanno dei guardiani.46
L’assenza congenita di pigmenti per colorare la pelle metteva gli albini nella medesima condizione di estraneità di coloro la cui pelle era nera. In una
dittatura della normalità si trova accettabile mettere in gabbia questi strani esseri: le giraffe, gli elefanti, gli albini e le negre. Molti principi italiani del Rinascimento tenevano nel loro serraglio neri, tartari, mori; anche il celebre “ragazzo selvaggio dell’Aveyron” fu alloggiato al Jardin des Plantes di Parigi prima di essere accolto dal dottor Itard e poi educato dalla sua governante47 Il circo Barnum in America esponeva contemporaneamente orsi, tigri e dei pellerossa, mentre Hagenbeck in Germania esponeva nel suo bel parco zoologico gruppi di lapponi, nubiani, kalmucchi, patagoni e ottentotti. Quando si parla di normalità biologica, nessuno è escluso dal gruppo: ogni essere umano per esempio per non ammalarsi deve avere un tasso di zuccheri nel sangue vicino a un grammo per litro. Quando la normalità è assiologica tutti ne sono esclusi perché ciascuno di noi ha una storia particolare che iscrive il valore e il senso da attribuire a quello che vediamo. Ma quando la normalità è normativa, il conformismo ci sottomette al capo e ci fa credere che solo un modo di esistere sia normale: il suo. (E il nostro, dal momento che ci conformiamo). Allora non ci crea problemi mettere in gabbia, per il piacere dei dominatori e l’istruzione dei bambini, un elefante, un nero e un pazzo. In questo modo si visitava l’ospedale psichiatrico di Bedlam a Londra, nell’Ottocento e nel Novecento: ogni giorno circa 300 visitatori pagavano un penny per passeggiare su passerelle sopra il cortile in cui si agitavano i pazzi e davanti alle camere in cui si poteva farli parlare, prendendoli in giro e gettando loro dell’alcool per ridere un po’48 Quando la cultura è progredita scoprendo i mondi mentali degli animali, dei pazzi, dei neri e degli albini, metterli in gabbia è diventato imbarazzante. Ecco perché, da qualche decennio, si assiste all’umanizzazione di manicomi e zoo. Non possiamo più mettere in gabbia un nero eletto presidente degli Stati Uniti ed esitiamo a rinchiudere una pantera o un leone capaci di decodificare i nostri gesti e le nostre posture. Quando il contesto culturale cambia, di conseguenza muta il sentimento
di sé: una negra in uno zoo muore di vergogna e di disperazione, ma quando è la cultura a vergognarsi a sua volta per avere osato fare una cosa del genere lei diventa una donna come le altre, nondimeno con la pelle scura come gli altri hanno gli occhi blu. «Colui che adora i negri è “malato” tanto quanto colui che li esecra» dice lo psichiatra antillano Frantz Fanon49 che confessa di essersi vergognato della sua pelle nera. Solo diventando un “negro laureato” dalle università bianche e militando contro il razzismo e il colonialismo è riuscito a sbarazzarsi di questo marchio di infamia. Allora ha cercato figure di neri gloriosi in cui identificarsi che riabilitassero la sua immagine degradata. Ne ha trovate, certamente, e a ogni incontro, dimostrava a se stesso che soltanto i pregiudizi degradavano la sua immagine. Questa umiliazione quotidiana, che spinge le persone che si vergognano a cercare figure riparatrici, talvolta dà loro un coraggio compensatorio. «Si tratta di uscire da una trappola trans-generazionale infernale, che consiste nello svalutare continuamente l’uomo nero venuto dalla schiavitù. Ecco perché […] l’organizzazione della Marcia dei discendenti di schiavi è stata essenziale per la guarigione della nostra anima»50
Capitolo 6
Una coppia mista: vergogna e fierezza
La coppia, atomo della società La vergogna non ha alcuna utilità: allora la persona che la prova si persuade che essa abbia un valore morale, pensa di provarla perché rispetta gli altri e perché attribuisce troppa importanza al loro sguardo, cosa vera in fondo. Elevando l’altro, svilisce se stesso. La vergogna diventa così un’arma che colui che si vergogna fornisce a chi lo guarda. Nella Grecia antica il sentimento della vergogna governava la cultura. Questa dolorosa impressione ha permesso di costruire la democrazia dando a ogni uomo libero il potere di giudicare. Fin da allora l’opinione pubblica possedeva dunque un’arma di controllo sociale: la vergogna. Presso i burgundi (tedeschi di Borgogna) il “fetore dell’adulterio” permetteva di consolidare la coppia, giudicando ogni incontro extraconiugale un crimine enorme. La donna adultera di Windeby (Germania) è stata gettata nella palude dove la torba ha conservato il suo corpo. Nello stesso modo si possono ancora oggi trovare ragazze di 13 anni incinte, strangolate da un laccio di cuoio1. In altre civiltà scoperte di recente (1951), presso i baruya della Nuova Guinea2, gli adulteri erano sventrati e il loro fegato strappato messo a seccare su pali piantati nella piazza del villaggio. L’imperatore galloromano Maggioriano nel v secolo promulgò una legge che imponeva al marito tradito di uccidere immediatamente la moglie adultera e il suo amante. I franchi erano ancora più radicali poiché pensavano che l’intero lignaggio fosse insozzato dall’infedeltà di una donna che così copriva di
vergogna tutta la sua discendenza. Talvolta si dava una possibilità alla presunta colpevole sottomettendola all’ordalia dell’acqua: le veniva legata una pietra al collo ed era gettata nel fiume, se avesse galleggiato la sua innocenza sarebbe stata provata. Per assumere valore sociale la coppia deve assolutamente essere integerrima. L’incesto, che per la sua endogamia instaura un legame di grande prossimità, era dunque considerato un crimine minore rispetto all’adulterio3. Con il proprio corpo, usato come fosse uno strumento, si faceva parte della società: la verginità delle donne e la violenza degli uomini assumevano un valore morale. Le donne vergini erano quindi delle dee, perché, dando il loro corpo a un solo uomo, assicuravano il perno sui cui si fondava la società. Queste divinità regnavano sulla natura designando colui che sarebbe diventato loro servitore rendendole madri. «Così Ishtar, Astarte e Anat, dee della fertilità e dell’amore, erano definite vergini, anche se queste Grandi Madri (Magna Mater) hanno tutte avuto amanti e molti figli. In questo caso, “essere vergini” non era un sinonimo di castità, ma designava una donna che non era sposata»4. Nessun uomo possedeva queste vergini che potevano conoscere diverse maternità. Neith, la divinità egizia, non ebbe bisogno di un maschio per mettere al mondo il dio sole Ra. Artemide non amava l’amore e Atena, con le sue frecce e il suo scudo, non vedeva la necessità di un uomo per proteggerla. Per restare pura, Era, sposa di Zeus, madre di famiglia e divinità protettrice, ogni anno faceva il bagno nella fontana di Kanathos per ritrovare la sua verginità5. Oggigiorno a Napoli, a Beirut o a Washington, ci sono chirurghi che ricuciono gli imeni strappati, non più l’acqua di Kanathos, ma il principio resta lo stesso: una donna deve restare pura e inviolata anche se ha una decina di amanti. La cultura della verginità protegge le donne da una sessualità che non è scelta dal gruppo e designa nello stesso tempo l’uomo che, unico amante, sarà il padre del bambino. Bisogna vedere se la verginità è morale. I Padri fondatori della Chiesa, pur affermando che Eva era complice di Satana, non potevano rendere Maria
responsabile della caduta, bisognava farla restare vergine. Allora, quando la morale sessuale ha strutturato la società, la verginità è diventata simbolo di purezza e la sua perdita ha fornito la prova dell’immoralità, una sorta di corruzione, di vergogna sociale. Le donne che arrivano al matrimonio senza l’imene intatto non sono conformi all’ideale del gruppo. L’imene diventa la firma anatomica che prova che i bambini della donna saranno concepiti dall’uomo che la società le ha dato: la donna vergine salva il suo onore e quello di suo marito, mentre la donna deflorata, tradendo la coppia, copre di vergogna la sua famiglia e la sua stirpe. I “bastardi”, nati fuori dal matrimonio, hanno terribilmente sofferto per questa rappresentazione culturale. L’imene è un discorso sociale L’imene rappresenta un discorso sociale che designa la donna pura: sottomettendosi alle regole del matrimonio, moralizza la famiglia, mentre la donna impura la copre di disonore. In un tale contesto culturale, la deflorazione la sera delle nozze è una prova di moralità della donna e di vigore dell’uomo che potrà diventare padre. Si espongono le lenzuola macchiate di sangue perché la folla possa applaudire colei che, conservandosi per il marito, ha accettato di essere un anello solido della società. Si dà un uomo a una donna e si dà questa donna alla società: lei può essere fiera della sua verginità perduta con il beneplacito della società che consacra il suo ventre alla sopravvivenza del gruppo. I sentimenti di vergogna o di fierezza che si provano in fondo all’animo dipendono tuttavia da discorsi culturali incredibilmente diversi. La cosa importante è la coppia, l’unità più piccola della comunità e fabbrica dei bambini, che è solo uno strumento che struttura il gruppo e mette al mondo uomini. Ecco perché fino al IX-X secolo, la cerimonia del matrimonio si svolgeva alle porte della chiesa. Bastava un prete che mettesse le mani degli sposi le une nelle altre e dichiarasse il “dono reciproco”. Solo a partire dal XVII
secolo il matrimonio è stato autorizzato a entrare in Chiesa, dove era ben visto che la donna fosse già incinta6, e questa era probabilmente fiera di aspettare un bambino, non potendo immaginare che in epoca vittoriana la stessa situazione sarebbe diventata una vergogna infamante. Fino al XVIII secolo l’atto notarile era più importante della cerimonia religiosa, come ancora oggi si insegna a scuola attraverso il teatro di Molière. Si teneva conto più del reclutamento sociale delle persone che dell’impegno intimo dei loro sessi: le donne siglavano l’affare con il loro imene e gli uomini con le loro erezioni. Il sovrano stesso non sfuggiva a questo imperativo amministrativo e sessuale. «Il membro virile del Re non si irrigidisce più a causa del dispiacere». E un re che “non si irrigidisce più” non può assicurare la stirpe né la sua eredità. «La debolezza sessuale equivale alla sconfitta della monarchia»7. Presso gli egizi, nella Grecia antica, presso i burgundi, i baruya della Nuova Guinea, il ventre delle donne e l’erezione degli uomini appartengono allo stato. È la coppia impossibilitata a trasgredire a costituire la molecola sociale indispensabile per la sopravvivenza del gruppo. Una volta istituita, le sue pratiche sessuali non sono codificate dalla società, ma prima della sua formazione, la sodomia ha l’effetto di un atto morale perché permette di evitare la vergogna di una deflorazione prima del matrimonio8. In seguito, nel Medioevo cristiano, quando la sessualità serviva da contratto sociale tra due persone, la sodomia diventa il peggiore dei crimini9, una truffa sessuale che impedisce di fare bambini, di mettere al mondo anime. Oggi, in un contesto culturale in cui la sopravvivenza del gruppo è largamente assicurata, il ventre delle donne non appartiene più allo stato, ma alla persona, e dunque la sodomia diventa una malizia che piace ad alcuni amanti. Nelle culture ad alto sviluppo tecnologico in cui la religione ha conservato il potere di vietare e organizzare, come per esempio in Marocco, l’autonomia sociale dei giovani è ritardata perché serve loro tempo per imparare un mestiere. Nelle società ricche in cui le condizioni educative sono sane la pubertà è anticipata. Il risveglio sessuale è precoce, ma la possibilità di
realizzazione nel matrimonio è tardiva. Allora «i giovani trovano modi per aggirare questa difficoltà… atti sessuali senza penetrazione… la nozione di imene intatto […] non può significare verginità»10. Le donne arrivano al matrimonio all’età di 25 anni con un imene intatto e una grande esperienza sessuale. Lo stesso accade nei puritani Stati Uniti, dove alcune ragazze frequentano i “balli della purezza”11, concedendosi però pratiche sessuali che farebbero morire di vergogna un’europea che arriva al matrimonio avendo da tempo perso la verginità. Quando la violenza era morale Il sentimento d’amore nel matrimonio, che l’Occidente rivendica come una prova di moralità sessuale e di rispetto degli individui, è per lungo tempo apparso assurdo. I romani deridevano l’uomo innamorato che, languido con la sua amata, era meno disponibile al combattimento. In numerose culture l’amore coniugale è stato considerato un’oscenità: «Niente di più immondo di amare la propria moglie come si ama la propria amante»12. Nei manuali di amore provenzale nel XIII secolo, le donne affermavano che bisognava sposare un uomo per il nome o per i beni, certamente non per amore, che era riservato all’amante13. In questi contesti culturali confessare di amare il proprio coniuge rendeva talmente ridicoli che la vergogna faceva tacere. Le sole avventure umane che potevano rendere un uomo fiero della sua esistenza erano quelle nell’esercito o nella fede, la spada o l’abito talare. Ogni relazione sentimentale, ogni amore nel matrimonio, sviliva la dignità e diventava fonte di imbarazzo. Quanto all’erotismo nella coppia ci si chiede a cosa sarebbe servito: fino al XX secolo le donne, oppresse dai figli, mandavano il marito al bordello per avere un po’ di tranquillità. Mi è capitato di chiacchierare con signore di più di 90 anni che mi spiegavano di essersi vergognate nei momenti in cui l’orgasmo le aveva talvolta sorprese tra le braccia del marito: «Come una
donnaccia. Una donna virtuosa lo fa solo per dovere». È incredibile come un racconto culturale e una struttura sociale possano provocare un intenso sentimento di vergogna o fierezza nel profondo di noi. Anche gli uomini sono sottomessi a questo processo socio-intimo, ma per loro non si parla né di imene né di maternità, bensì di coraggio, forza fisica e dono di sé. Un uomo muore di vergogna se non può lavorare perché non è abbastanza robusto, sveglio o combattivo. Nella fase in cui si costruisce la società, l’ineguaglianza si fonda sulla forza fisica, messa al servizio del gruppo. A partire dal Medioevo la dominazione sociale degli aristocratici si basa sull’appropriazione delle terre e sulla costruzione di castelli grazie al lavoro del popolo. La forza fisica, la capacità di maneggiare le armi e l’apprendimento dei codici di gentilezza permettevano ai nobili di riconoscersi grazie a pochi gesti e di mettere in imbarazzo il popolino privo di buone maniere. Dopo il Rinascimento (XV e XVI secolo) la dominazione sociale si mette in scena con gli usi, i rituali, gli abiti, la caccia e il duello. Un uomo pauroso che temeva di battersi non poteva legittimare la sua dominazione, molti preferivano morire in duello piuttosto che di vergogna. Per governare tramite la vergogna, bastava inventare un codice di onore che allontanasse dalla società coloro che non lo applicavano. Ancora oggi più si scende nella gerarchia sociale, più le risse si fanno a pugni e calci. Il conformismo dell’ineguaglianza invita gli uomini a scegliere tra l’onore della violenza e l’onta della non-violenza14. Un uomo che sa battersi in duello oppure picchiare sarà onorato perché avrà messo la sua brutalità al servizio del gruppo in difficoltà. Ma quando la collettività non è più in pericolo, questa stessa violenza perde la sua funzione protettrice e diventa distruttrice della famiglia o del gruppo. Quando non si ha più bisogno di violenza per costruire la società, la maternità conserva il suo valore morale? All’epoca in cui gli uomini ponevano le basi della società con i loro pugni e le donne con il loro ventre, l’amore aveva l’effetto dell’acqua di rose. Si deridevano i romani innamorati; ci si commuoveva, è vero, per l’avventura sentimentale di Abelardo ed Eloisa, si
ammirava la dichiarazione d’amore di Dante per Beatrice: l’amore esisteva, certamente, ma non era che poesia. Questo supplemento sentimentale non poteva diventare un valore culturale se non dopo che la società era stata organizzata. Il matrimonio sviliva l’uomo, e l’amore ancora di più, poiché ostacolava l’avventura personale. Non molto tempo fa, Tabarly, il grande navigatore, diceva che soltanto un grande amore avrebbe potuto impedirgli di solcare i mari. Ormai avanti con l’età, ha trovato la donna che lo ha accompagnato sui mari, ma aveva 63 anni quando è accaduto, accettando il freno del suo incontro sentimentale. Da qualche anno le donne accedono a questa possibilità di realizzazione: la nuova condizione permette anche a loro di andare in giro per il mondo. In questo mutato contesto, matrimonio e figli diventano un ostacolo e persino un’alienazione15. La maternità cambia significato: mettere al mondo un bambino non è più una promozione sociale che assicura la coesione del gruppo, ma un intoppo alla realizzazione personale. San Paolo diceva che ci si poteva sposare se non si era capaci di fare di meglio; Pascal pensava che la vita di coppia svilisse l’uomo; e Tabarly affermava che soltanto un grande amore avrebbe potuto limitarlo. Questi uomini passano oggi il testimone a donne che, allo stesso modo, amano la libertà. È ancora necessario soffrire? Non molto tempo fa l’esistenza era una sofferenza quotidiana, ogni inverno si moriva di freddo e di fame, come si può ancora vedere nei paesi poveri con un basso livello di sviluppo tecnologico. L’arte di sopportare la sofferenza giustificava un codice d’onore: un uomo non poteva sottrarsi al dolore, ne andava della sua virilità16. Doveva soffrire e tacere, la più piccola lamentela l’avrebbe coperto di vergogna. Gli uomini erano eroici quando scendevano in miniera o quando dormivano per terra, nei loro abiti da lavoro, nei cantieri in costruzione. Erano fieri di sapere soffrire in silenzio e dare tutto il salario alla loro sposa che governava la casa. Ma questa
esaltazione non era vantaggiosa per le donne, perché legittimava la dominazione: «Soffro per te, ti do tutto quello che guadagno, è il mio onore, tu devi servirmi a tavola». Onore e virilità erano collegati e quando un uomo non aveva abbastanza muscoli per caricare i carrelli di carbone, quando la malattia lo indeboliva o quando l’alcool lo rendeva asociale, la sua famiglia moriva di vergogna. In un mondo rude che provoca la sofferenza, i muscoli degli uomini e la virtù delle donne sono valori adattativi: si soffre in silenzio e se ne va fieri; ci si riserva per il marito che la società ci ha dato, lo si serve e se ne va fiere. Quando invece la tecnologia domina la natura e la rende sopportabile, l’onore diventa un valore desueto e la virilità appare come un comportamento ridicolo, da macho si dice per esprimere il proprio disprezzo. Immaginiamo che una società perfetta, una cultura in pace, permetta la realizzazione di qualunque individuo; in questo modo non avremo bisogno né della protezione della coppia, né di quella del gruppo. I bambini nati per caso o per soddisfare un arcaico desiderio di figli dovrebbero svilupparsi in una nicchia sensoriale impoverita di legami sfibrati. Ne risulterebbe un’indifferenza affettiva che faciliterebbe lo sviluppo di personalità narcisistiche, centrate su se stesse. Naturalmente la realtà è sempre più complicata perché noi ne percepiamo solo un’infima parte con la quale costruiamo le nostre rappresentazioni. L’invisibile non rinuncia ad angosciarci, talvolta persino a traumatizzarci: per affrontare la realtà sconosciuta, il bisogno che abbiamo degli altri assume mille forme diverse a seconda delle culture. Sono tutte necessarie e costose, ma pur di rassicurarci, ne paghiamo il prezzo. Quando la violenza è diretta verso un nemico esterno, la sottomissione al capo la rende più efficace. Si uniscono le forze per distruggere il nemico, per dominare il clima che ci fa morire di freddo, per cacciare gli animali che ci spaventano e talvolta per addomesticarli, per distruggere la nazione vicina che anela ai nostri beni. L’uomo che non consacra al gruppo la sua forza e la sua brutalità, la donna che non dà all’uomo il suo ventre e la sua servitù saranno disonorati. In un tale contesto di socializzazione arcaica la fedeltà aumentava l’autorità del capo, egli poteva contare sul popolo la cui obbedienza
accresceva il suo potere. In caso di vittoria, la folla fedele condivideva l’euforia, la sua gloria ricadeva sui suoi sottoposti. «Essendo fieri del nostro capo, siamo fieri di noi stessi, ma guai a lui se non è all’altezza dei nostri bisogni, lo sacrificheremo per non dividere con lui la sua sconfitta». In questa strategia, ogni individuo infedele indebolisce il gruppo, merita di essere cacciato dalla collettività, espulso, deportato, torturato o rieducato secondo le razionalizzazioni ideologiche. La vergogna diventa un’arma che assicura la coesione: minacciando di vergogna l’infedele che non si sottomette, il conformismo conduce al potere colui che invece lo fa. L’insieme di sentimenti che associa fierezza di prostrarsi e violenza contro un nemico esterno è ciò che legittima l’esercito e spiega perché i soldati devono essere belli, obbedienti e aggressivi quando si ordina loro di esserlo. La diserzione o il semplice rifiuto sono una vergogna che esige che il traditore sia cacciato dalla società da lui stesso indebolita. I nazisti dicevano: «Ci si vergogna di essere deboli non obbedendo, non avendo la forza di sparare in testa a bambini che rischiano di divenire nemici di Hitler»17. Gli hutu del Ruanda hanno usato lo stesso argomento quando la radio delle Mille Colline ripeteva in ogni trasmissione: «Non lasciatevi intenerire dai bambini. Se non li uccidete, ve li ritroverete tra qualche anno davanti a voi con un’arma in mano»18. «Non ho avuto la forza di torturare quell’uomo» confessa il soldato davanti al tribunale militare che lo giudica colpevole di non avere ottenuto, tramite la tortura, la rivelazione del luogo in cui erano nascoste le armi del nemico. La sua debolezza emotiva l’ha trasformato nel complice della morte dei suoi compagni. Quando la servitù rafforza Il sentimento di sé, di vergogna o di fierezza, dipende dal posto che ci danno le rappresentazioni collettive. Ecco perché la retorica gioca un ruolo di rilievo. Si giura fedeltà al proprio re, al proprio capo politico, al proprio padrone dell’azienda e anche al proprio maitre à penser. Si rende sacra
l’obbedienza, si è fieri di sottomettersi a colui al quale la nostra fedeltà ha dato il potere. È così che si arriva, nel modo più logico del mondo, a eseguire scrupolosamente gli ordini di un capo delirante. Ci si vergognerebbe di tradire colui che ci rappresenta: ogni infedeltà sarebbe un disconoscimento di noi stessi. Questa retorica finisce per diventare un sistema semantico di controllo ideologico. Quando gli ussari di Napoleone si intrecciavano i capelli davanti alle orecchie per farne treccine; quando si facevano lo chignon sulla nuca per sembrare virili e portavano pantaloni aderenti per evidenziare i genitali, esprimevano una retorica preverbale, un discorso sociale che significava: «Mi sottometto alla norma, mi vesto correttamente, secondo i criteri di un ussaro che obbedisce al suo capo fino alla morte». Provate oggi, signori, a intrecciare i capelli davanti alle tempie, a farvi uno chignon e ad andare a lavorare con pantaloni aderenti: provocherete certamente un silenzio imbarazzato e qualche consiglio da un amico. Le situazioni socio-intime che fanno passare dalla vergogna alla fierezza non sono rare. Fino agli anni Settanta, i bambini che nascevano fuori dal matrimonio, i bastardi come si diceva, soffrivano terribilmente della vergogna della loro madre la cui sessualità non rispettava le regole della società. Oggi, quasi il 60% dei bambini nasce al di fuori del matrimonio e si sviluppa bene: hanno fiducia in loro stessi perché le madri non danno più al racconto culturale il potere di farle vergognare o, piuttosto, perché il racconto culturale ha perso questo potere. Fino alla Seconda guerra mondiale era disonorevole partorire in ospedale con le donne senza famiglia. Il parto a domicilio era la prova che la madre era ben inserita nella società e che suo marito guadagnava abbastanza per pagare il medico. Le ragazze si vergognavano di non essere ancora sposate a 25 anni, di avere il ventre piatto un anno dopo le nozze o di lamentarsi delle sofferenze dell’esistenza. Quando un uomo metteva fine ai suoi giorni, la famiglia intera moriva di vergogna, mentre oggi è torturata dal senso di colpa. L’abbandono dei bambini non era causa di vergogna in Occidente fino al XIX secolo, epoca in cui questa pratica era comune. Mettere i figli presso una
nutrice19 o usare il biberon non sterilizzato sono equivalenti all’infanticidio di cui ancora oggi si sottovaluta la stima20. L’Impero ha inventato la “ruota degli esposti”, nella quale bastava deporre un neonato per poi farla girare così da lasciare il piccolo nell’ospizio dove aveva una piccola possibilità di sopravvivenza. Lamartine, il poeta, divenuto deputato incoraggiava l’abbandono dei bambini nati fuori dal matrimonio: per salvare l’onore familiare, raccomandava la “paternità sociale”, era lo stato che doveva occuparsi dei bambini senza padre21. Vergogna di andare a cercare il padre al bar, vergogna di mostrarsi nuda al proprio amante, vergogna di provare un piacere sessuale, vergogna dello speculum vissuto come una “violenza medica”, vergogna di mettersi le supposte, vergogna di essere malati: tutte queste cause di vergogna che talvolta ci fanno sorridere hanno origine nei discorsi che ci circondano. La violenza al teatro dell’onore Le culture dell’onore implicano un codice di rituali la cui non osservanza scatena l’indignazione. In queste culture è più sopportabile morire fisicamente che di vergogna, perché sopravvivere sotto lo sguardo sprezzante degli altri sarebbe una tortura continua. Il teatro dell’onore mette in scena la prestanza: l’eleganza nel vestire, il rigore morale, il coraggio, nonché la dignità compongono ruoli che devono suscitare la stima del proprio ambiente. Ogni mancanza rispetto a questa apparenza costituisce una lacerazione, un trauma. E come tale merita la morte. Una simile sottomissione al codice dell’onore che preferisce la morte alla vergogna delinea bene le culture della gerarchia. Quando un mendicante insultava un principe che scendeva dalla sua carrozza, questo, un po’ imbarazzato, non lo sfidava a duello: ci si batte a morte solo quando si è offesi da un pari. Un aristocratico non si aspetta la stima di un vagabondo, mentre un servitore lo respinge con un colpo di bastone. Ma se un uomo degno di
questo nome sbeffeggia l’onore del nobile non rispettando il codice di precedenza, tale mancanza giustifica un combattimento a morte. Soltanto un pari o un rivale possiedono il potere di ferire un principe. Lo sguardo di un subumano non esiste, non ha il potere di scatenare la vergogna. Ma quando il cavaliere von Sacher-Masoch, quando il nobile polacco Gombrowicz o gli aristocratici francesi della notte del 4 agosto 1789 danno agli uomini del popolo il potere di giudicarli, cominciano a considerarli come loro pari, o comunque come degli interlocutori. Nelle culture dell’onore la violenza non è mai lontana: violenza contro la donna che ha concesso il suo ventre a un uomo che non le è stato dato dalla società; violenza contro l’uomo che rifiuta di dare la vita per proteggere la sua famiglia; violenza contro i militari della scuola di Saint-Cyr che durante la guerra del 1914-1918 indossavano i loro pennacchi e i loro guanti bianchi per essere impeccabili mentre salivano a farsi mitragliare da qualche soldato tedesco sprezzante: erano fieri di morire così. Quando la cultura si civilizza e chiede a un terzo di assicurare la sua difesa, l’onore perde il suo valore perché si chiede alla persona insultata di non riparare da sola all’umiliazione, ma di chiamare in suo soccorso un poliziotto o un avvocato. In una società che ha previsto una simile istituzione giudiziaria, l’onore vale meno dell’indignazione di una vittima. Ma appena uno stato viene a mancare, il gruppo riscopre quasi subito un codice d’onore. Nei paesi in cui la polizia è mal organizzata o corrotta, gli uomini si raggruppano per “farsi giustizia da soli”: le loro rappresaglie scatenano eccessi ed errori, ma essi si vergognerebbero di sottrarsi a questo obbligo. La mafia usa questo sistema, definendosi da sola onorevole società, nella quale un incauto gesto o la minima rivalità “legittimano” l’assassinio. Nelle società del duello la cortesia aveva un significato vitale perché una parola sbagliata poteva portare la morte. È stato necessario aspettare lo stato assolutistico di Luigi XIV perché venissero vietati i duelli che massacravano i nobili di Francia, di Germania e di Russia. Oggigiorno, in Occidente, si chiede a un processo di rimpiazzare il giudizio delle armi. La buona educazione perde il suo valore di protezione e assume un effetto relazionale, non si rischia
più la vita insultando gli altri con gesti osceni e parole volgari. Espressioni come figlio di puttana o fottiti offendono l’animo dell’avversario senza suscitare una risposta mortale. Persino l’esaltazione in chiave eroica diventa un valore desueto in una società ben organizzata che chiede ai rappresentanti della legge di intervenire al posto degli individui. Oggi dei bambini “maleeducati” possono distruggere dei mezzi pubblici o maltrattare dei viaggiatori senza che un solo uomo si opponga: vent’anni fa un uomo sarebbe morto di vergogna per non essere intervenuto. Recentemente il mio amico Jean-Pierre Pourtois è stato aggredito vicino alla Gare du Midi a Bruxelles. Essendo robusto e difficile da intimidire si è battuto e ha fatto fuggire l’aggressore: i testimoni l’hanno circondato per criticarlo, rinfacciandogli di essersi battuto. La generazione precedente l’avrebbe biasimato per non averlo fatto. L’onore è un sentimento nobile che cementa il gruppo e assoggetta l’individuo al capo per legittimare la violenza. La parola virilità un tempo designava un uomo piuttosto rude, capace di soffrire senza lamentarsi, di affermarsi con decisione e azzuffarsi con fierezza. L’onore delle donne, posto nel loro imene e nella loro fedeltà, dava loro il potere di assicurare la coesione del gruppo. La spiritualità, in cui si lasciavano coinvolgere con fierezza, permetteva loro di trascendere la durezza dei doveri di tutti i giorni: «Dio mi chiede di essere morale in questo modo. Grazie a me, la mia famiglia è ben gestita». Si tratta in questo caso di un processo socio-intimo in cui un discorso imprime nell’animo del soggetto un’attitudine a provare un sentimento di vergogna o fierezza, in reazione a uno stesso fatto. Si possono valutare questi sentimenti che differiscono secondo le rappresentazioni culturali. Alcuni ricercatori americani hanno risposto a richieste di impiego aggiungendo al loro falso curriculum vitae una curiosa precisazione: «Devo segnalarvi che ho pugnalato un uomo che aveva insultato mia moglie»22. Negli Stati Uniti del Nord, i capi dell’azienda hanno commentato questa strana candidatura, spiegando che un uomo così non era padrone delle proprie emozioni, mentre la maggior parte di quelli del Sud ha affermato che
una tale reazione rivelava un uomo d’onore sul quale si poteva contare. Se vi capita un giorno di uccidere qualcuno, sappiate che questo crimine sarà considerato come un atto di debolezza o di forza a seconda del luogo in cui abitate. Gli stessi ricercatori hanno inviato questionari in cui chiedevano: «Se un uomo ubriaco dà uno spintone a vostra moglie, trovate che sia giustificato: spiegargli che un comportamento simile dà fastidio; respingerlo senza una parola; tirargli un pugno in faccia». Il 15% degli uomini del Sud pensava che fosse normale colpire l’importuno, contro solamente l’8% di quelli del Nord. Alla domanda: «Se un uomo tenta di violentare vostra figlia sedicenne, trovate normale sparargli in testa?», il 50% degli uomini del Sud ha risposto che si vergognerebbe di non farlo, contro il 20% di quelli del Nord23. Quando lo stato è debole perché la sua classe politica non riesce a governare o anche solo perché i posti di polizia sono troppo lontani, gli uomini valorizzano la violenza che ritrova un antico potere di socializzazione; mentre quando la società è ben organizzata, quando i politici governano e la polizia è vicina, la violenza assume un insopportabile aspetto di disorganizzazione sociale e trauma emozionale. Le donne interpretano la violenza fisica come i loro partner: sono fiere dell’aggressività dei loro uomini in un contesto di socializzazione arcaico, ma si vergognano di questa violenza appena la società si civilizza24. Questo fenomeno è facile da osservare nelle megalopoli. Nel centro delle città in cui l’urbanizzazione è strutturata dalla storia e dalla ricchezza, l’amabilità è un valore relazionale. Mentre nelle favelas in cui la rapida edificazione ha impilato case-alveari senza dare il tempo di inventare rituali culturali, le interazioni comuni si impregnano di violenza: «Quando incrocio qualcuno che mi getta uno sguardo malevolo, lo colpisco, deve restare al tappeto»25. Il ragazzo che si esprime così ha 13 anni, pesa 70 chilogrammi e si è allenato negli sport di combattimento grazie alle associazioni che credono con questo sistema di canalizzare la violenza. Il contesto anomico di questo stile di urbanizzazione anche se permette di canalizzare la violenza,
certamente non consente di spegnerla e ancora meno di svalorizzarla. Al contrario, persino i ragazzi e le ragazze di questi quartieri ammirano gli attaccabrighe fieri di “passare all’azione”. Quando la realtà è diversa dal racconto della realtà Poiché il contesto psicosociale è fondamentale nell’attribuire a uno stesso fatto un sentimento di vergogna o fierezza, è pensabile agire sulla cultura per uscire dalla vergogna. Forse si dice uscire dalla vergogna come si esce da una tana, come quando si sbuca da un nascondiglio dopo essersi nascosti? I bambini che sono stati nascosti per evitare loro la morte (i piccoli ebrei della Seconda guerra mondiale, o i piccoli tutsi del genocidio del Ruanda) hanno quasi tutti sofferto di torture mentali. La tortura non è fatta per provocare male, ma per disumanizzare. Come già ricordato, quando ci si rompe la gamba è doloroso, ma non si è disumanizzati perché veniamo curati, aiutati a spostarci e la gente ci chiede come è avvenuto. Un bambino nascosto non ha male, ma soffre continuamente di una rappresentazione dolorosa di sé: “Tu vali meno degli altri… è pericoloso essere te stesso, perché se dici chi sei, morirai… vieni da genitori, da una famiglia e da un popolo che sono regolarmente scacciati dalla società, sono perseguitati come anche tu sarai, se dici chi sei”. Una tale rappresentazione di sé, dolorosa e vergognosa, implica strategie di esistenza “costose” sul piano emotivo in cui le autopunizioni permettono di espiare la colpa di esistere. I comportamenti fallimentari sono la regola quando la vergogna ci squalifica, quando lo stereotipo culturale suggerisce: «È normale che sia ombroso e che non vada bene a scuola, con quello che gli è successo». Anche il successo può far nascere la vergogna. Capita che la realizzazione del bambino nascosto umili i bambini normali che avevano tutto per riuscire ma si sono lasciati intorpidire dalla sicurezza e dalle comodità: con tali strategie esistenziali è difficile uscire dalla vergogna perché bisogna non solo
lavorare per sé, ma anche applicarsi per non umiliare gli altri realizzandosi troppo in fretta. Dalla confluenza di tutte queste condizioni potrà sorgere un processo di resilienza. I miei nonni, i miei zii e le mie zie… Ho spesso sentito parlare yiddish a casa loro… Amavano la lingua e nello stesso tempo se ne vergognavano perché indicava la povertà, l’esilio, l’inferiorità degli ebrei in Europa e qualcosa di inutile per i loro discendenti… doppia eredità della tenerezza e della vergogna… Era anche la lingua del segreto perché è in yiddish che si esprimevano quando non volevano che noi, i bambini, potessimo capire.26
Uscire dalla vergogna in un simile contesto richiede molto lavoro. Forse è più efficace agire prima sull’ambiente esterno? Lo stereotipo degli ebrei che si sono lasciati condurre come pecore al macello è stato raccontato nel mondo intero. Anche in Israele, i sabra, ebrei indigeni, hanno riportato tante vittorie contro le armate arabe che considerano con disprezzo gli ashkenazi europei, il cui grasso era stato trasformato in sapone ad Auschwitz. Negli anni Cinquanta si rivolgevano a loro chiamandoli solo soap (“sapone”), e ciò manteneva nei sopravvissuti il sentimento di essere semplici oggetti perché, dopo essere stati designati dai tedeschi con la parola Stück (“pezzo”), erano soprannominati saponi dai loro stessi compatrioti israeliani. La vergogna di essere una cosa da disprezzare ha dato loro la rabbia per uscirne. Il loro coraggio estremo, pungolato da questo disprezzo, li spingeva a lavorare enormemente. Un grande numero di questi “pezzi” di “sapone” sono divenuti universitari, capitani di industria o artisti rinomati. Ho scritto rinomati: la saggezza delle parole si condensa in questo termine ri-nomati; queste persone potevano ormai esistere agli occhi degli altri, tranquillamente e senza vergogna, perché non erano più nominati “pezzi”, né “saponi”, ma erano rinomati, avevano un nuovo nome27. Per cambiare l’immagine e la parola che li designava, gli ebrei hanno dovuto inizialmente ripararsi essi stessi, ma da qualche anno gli storici frugando negli archivi hanno fatto scoprire un’altra realtà. Contrariamente allo stereotipo, gli ebrei hanno molto combattuto il nazismo in tutti gli eserciti e in tutte le resistenze. In Spagna, nel reggimento degli stranieri in cui Hemingway combatteva il fascismo, un soldato su tre era ebreo. In Francia, il reggimento di marcia degli stranieri era composto quasi solo da repubblicani
spagnoli e da ebrei immigrati da poco che si erano arruolati in questa sorta di legione straniera fin dall’inizio della guerra. Nelle reti europee, la resistenza ebraica era molto rappresentata: rete di mimetizzazione dei bambini tramite l’OSE28, documenti falsi, organizzazione di evasioni. La resistenza armata degli ebrei francesi è stata più tardiva: tanto era grande la loro lealtà che non potevano credere che il governo del loro paese avesse programmato la loro eliminazione, ma dopo la retata del Vel D’hiv non ci sono più stati dubbi, bisognava imbracciare le armi. Gli FTP-MOI associano nei loro combattimenti ebrei comunisti e armeni. Gli Esploratori israeliti e l’Organizzazione Ebraica di Combattimento moltiplicano gli attentati. L’insurrezione del ghetto di Varsavia (aprile-maggio 1943), in cui alcune centinaia di sopravvissuti ridotti alla fame tengono testa a 3 000 soldati equipaggiati di cannoni, mitragliatrici e lanciafiamme, prova che l’esercito tedesco non è invincibile e lancia un segnale della resistenza europea. Alla fine della guerra, dopo aver combattuto nelle armate russe e polacche e preso parte alla sconfitta del nazismo, questi ebrei si aspettavano di essere ricevuti come eroi. Ma le loro case, i loro appartamenti e i loro uffici erano occupati dai vicini. È allora che hanno avuto luogo gli attacchi ai convogli dei sopravvissuti da parte della popolazione civile e i pogrom del dopoguerra in Lituania, Bielorussia, Ucraina e Slovacchia. In Polonia, il 4 luglio 1946, sedici mesi dopo la capitolazione tedesca, il pogrom di Kielce ha provocato l’esilio in Europa Orientale e in Palestina di 250 000 ebrei29, per la maggior parte militanti antisionisti, che hanno raggiunto gli “ebrei palestinesi”, così chiamati prima del voto dell’ONU per l’indipendenza dei due stati israeliano e palestinese. Questi esuli non sono stati accolti bene dagli ebrei palestinesi che avevano appena vinto le truppe tedesche e arabe dell’Afrika Korps di Rommel, avendo dato 40 000 uomini all’esercito francese e 30 000 a quello britannico. Durante tutta la guerra «gli ebrei non sono andati a morire come pecore»30, ma, al contrario, hanno partecipato a tutte le forme di combattimento. Immagini incontestabili hanno filmato i convogli e
l’abbattimento di 6 milioni di civili, denunciati dai vicini e arrestati dai soldati tedeschi e dalla polizia del loro stesso paese. Quando un documentario filmato mostrava soldati su un campo di battaglia o uomini della Resistenza legati a un palo davanti a un plotone di esecuzione, non ci si chiedeva quale fosse la loro religione, inoltre gli uomini della Resistenza ovviamente non volevano essere filmati. Nei combattimenti d’Africa e del Medio Oriente, le armate ebraiche hanno avuto un ruolo importante: quello degli ebrei palestinesi nella vittoria di Bir Hakeim in Libia (1942) è stato decisivo al punto che il generale Kœnig aveva preteso che sfilassero a fianco della bandiera tricolore dei francesi, con la bandiera bianca e blu con la Stella di David che al tempo non era ancora israeliana. Nel corso della guerra di Indipendenza di Israele nel 1948, i cinegiornali mostravano questo coraggioso piccolo popolo, il cui stato esisteva solo da un giorno al momento dell’invasione delle armate arabe, trionfare sui paesi vicini che avevano combattuto a fianco dei nazisti. In effetti, questi film rivelavano una grande indulgenza verso gli israeliani: mostravano bei cavalieri ebrei caricare i loro avversari, sullo sfondo di incendi; oppure graziose donne ebree, fucile in spalla, mentre guidavano trattori per fertilizzare il deserto; mentre dei malvagi siriani bombardavano gli asili dalle alture del Golan. Nessuna foto di cadaveri, nessun film sull’esodo palestinese. Queste testimonianze non mentivano, ci sono stati davvero in Europa convogli di civili sui carri bestiame diretti ad Auschwitz; ci sono state davvero incredibili vittorie israeliane sul deserto e sulle armate dei paesi vicini; ma, mostrando questa parte di verità, si è lasciata in ombra un’altra frazione del reale: i combattimenti degli ebrei di Europa e l’esodo di centinaia di migliaia di arabi innocenti erano esistiti sul serio, senza una sola immagine o una sola parola che rappresentassero questi eventi. E poiché i nostri sentimenti sono provocati da rappresentazioni, i sabra israeliani provavano una grande fierezza, gli ebrei d’Europa una grande vergogna e gli arabi del Medio Oriente una grande umiliazione.
I senza-vergogna Tuttavia, in piena catastrofe intima o collettiva, ci sono individui che non provano né vergogna né fierezza. Le loro condizioni esistenziali e il loro modo di mostrare certe parti della realtà, di “vedere le cose”, come affermano solitamente, non provocano in loro alcuna emozione. Talvolta questa indifferenza è causata da una lesione organica, ma più spesso si tratta di sofferenze morali infinite che lasciano il soggetto senza più respiro nel sollievo dell’agonia psichica. Qualche perverso piuttosto raro, ma di cui si parla molto, ci affascina per l’assenza di sentimento che gli conferisce la durezza del ghiaccio. Se ne traggono noirs e film dell’orrore in cui la messa in scena dei loro atti depravati procura deliziosi brividi. In realtà, il grosso dell’esercito dei senza-vergogna è costituito dai pervertiti: uomini equilibrati che provano il piacere di sottomettersi a un capo. Alcuni di noi non provano mai vergogna perché non attribuiscono nessuna importanza all’opinione altrui. I nostri figli devono aspettare l’età di 4 anni prima di scoprire che gli altri abitano un mondo mentale diverso dal loro. Questa ontogenesi, questo sviluppo dell’empatia, necessita di un sistema nervoso capace di decontestualizzare un’informazione, rispondere a uno stimolo tracciato nella loro memoria e collegare una rappresentazione futura. Un tale cervello, capace di simili esecuzioni, non realizzerà niente di tutto ciò se il suo ambiente affettivo non rassicurerà e infonderà dinamismo al bambino31. Gli psicotici accedono con difficoltà alla rappresentazione del mondo altrui e l’alterità stessa è per loro talvolta difficile da concepire: ecco perché capita loro di rispondere alle voci che sentono nel mondo intimo o di masturbarsi in pubblico come se gli altri non esistessero. I lobotomizzati, il cui lobo prefrontale è stato schiacciato durante un incidente, e le persone colpite da demenza prefrontale, la cui zona cerebrale si atrofizza sotto l’effetto della malattia, perdono la possibilità di empatia poiché non hanno più la capacità neurologica di anticipare e di rappresentarsi quello che potrebbe succedere: possono dunque agire senza considerare gli effetti che
provocheranno nella mente altrui. Succede che un ascesso cerebrale, una contusione o un’emorragia distrugga l’amigdala del rinencefalo sulla superficie profonda e inferiore del cervello: il malato, avendo perso la sua possibilità di reazione emotiva, si scollega da ogni evento che non ha più alcuna importanza per lui. Come si può provare vergogna quando l’altro non esiste o quando il vostro cervello alterato non è più capace di rappresentare il mondo degli altri? Si risponde solo a quello che resta ancora vivo nel mondo intimo, divenuto incapace di decentrare da se stesso. Queste distruzioni neurologiche non escludono l’impatto dei danni esistenziali che provocano i medesimi effetti. Quando l’età avanzata modifica la rappresentazione del tempo, quando la morte diventa sempre più probabile e non più immaginata in un lontano futuro impensabile, le persone anziane non hanno più bisogno della rimozione per rendersi socialmente accettabili: possono infine dire quello che pensano senza tenere conto delle reazioni dei loro cari e, senza vergogna, quello che hanno sempre nascosto. Le malinconie che paralizzano il mondo del malato, le depressioni ripetute che isolano il soggetto e impoveriscono il suo contesto sensoriale, provocano in poche settimane un’atrofia temporo-limbica del lato destro32. Le reazioni affettive si intorpidiscono perché la zona limbica, supporto neurologico delle emozioni, non può più rispondere; allora la vergogna diventa derisoria e si spegne: “Al punto in cui sono, non ho neanche più vergogna”. Questa rassegnazione, che permette di soffrire meno, impedisce il dolore della lotta per la vita. Quando l’entourage non si lascia trascinare nel desiderio del depresso di mollare la presa, una resilienza neuronale riparte abbastanza in fretta e restituisce la possibilità del lavoro attraverso la parola. L’esilio affettivo altera il cervello tanto efficacemente quanto un trauma fisico, ma quando la vita fa ritorno, lo stato affettivo ridestato risveglia il piacere di vivere e allo stesso tempo il dolore. Le privazioni sensoriali sono particolarmente rovinose durante il periodo sensibile della giovane età. Quando le reazioni dell’amigdala non sono state legate in modo armonioso dall’associazione tra una paura e in seguito la
rassicurazione di una figura di attaccamento, il giovane non impara a fare delle sue emozioni una funzione relazionale: «Quando ho una pena, so chi la calma» dice chi ha un attaccamento sicuro. Ma quando la privazione affettiva provoca un intorpidimento, compaiono comportamenti inutilmente intrepidi: i giovani non tengono conto né del pericolo, né della reazione altrui. L’elaborazione funzionale delle immagini neurologiche mostra che un bambino isolato non conduce la sua amigdala emozionale a reagire. Poco emotivo, non teme niente e si sottopone a rischi eccessivi33. Poco attento agli altri, non esista ad assalirli oppure a impadronirsi dei loro beni. Sprovvisto del freno emotivo provocato dallo sguardo altrui, passa all’azione per suo puro piacere, senza scrupoli e senza vergogna. Esistono infinite gradazioni per distinguere chi è insensibile allo sguardo degli altri, chi è poco sensibile e chi è ipersensibile. Questa acquisizione neuro-relazionale crea stili affettivi diversi. Ho conosciuto giovani uomini che, quando provavano un desiderio sessuale, sollecitavano tutte le ragazze che incrociavano o semplicemente telefonavano per proporre l’avventura. La maggior parte delle ragazze scioccate o divertite rifiutava, ma non tutte. Quando respinto il candidato passava tranquillamente al numero di telefono successivo. Questa debole emotività dava ai partner una sensazione di leggerezza, un sentimento di libertà per via dell’assenza di attaccamento. Mai ferito da un rifiuto, il postulante non disturbava le donne poiché bastava loro una parola per non essere più importunate. Questa debolezza emotiva permetteva a questi uomini di non provare vergogna. Ho conosciuto altri uomini che veneravano le ragazze, le ammiravano talmente da crederle inaccessibili. Bloccati nella loro incapacità di esprimere il più piccolo desiderio, le fuggivano appena se ne innamoravano perché profondamente feriti anche dal più gentile dei rifiuti. Preferivano evitare qualunque incontro con l’oggetto del loro desiderio pur di evitare la vergogna insostenibile di un rifiuto. Ho conosciuto donne che davano senza alcun problema a uomini incontrati da poco il biglietto da visita in cui specificavano quando erano
libere. Ne ho conosciute altre che si inferocivano e correvano al commissariato appena un uomo sorrideva loro. Questa gamma di reazioni emotive così incredibilmente varie, dalla più leggera spigliatezza alla vergogna cocente, è acquisita nel corso dello sviluppo affettivo, sotto la pressione del contesto sensoriale che stimola in modo diverso il cervello durante lo sviluppo. Una volta costruito, il cervello meno facilmente si impronta al contesto: sono allora le condizioni esterne a determinare le modalità di reazione a un evento, poiché il cervello è meno plastico. Quando un individuo si trova in una situazione in cui è sopraffatto, si adatta per forza, ma oltre una certa soglia o una certa durata, il suo psichismo sommerso non gli permette più di fronteggiarla. Quando Primo Levi è arrivato ad Auschwitz, è stato sconvolto da quello che vedeva. Rapidamente, la vergogna «provata all’inizio dell’incarcerazione cede di fronte al necessario adattamento per la sopravvivenza […] coloro che provano troppa vergogna […] muoiono rapidamente […per] ripiego forzato su se stessi, rifiuto di comunicare, convinzione che se ne uscirà da soli»34. I barboni, i senzatetto, subiscono lo stesso processo di spersonalizzazione. La tripla sconfitta35, innanzitutto sociale quando perdono il lavoro, poi psichica quando si trovano soli e infine fisica quando in strada diventano sporchi e malati, provoca un’estinzione della vergogna. «Al di là di qualunque vergogna dalla quale si parta, ci si lascia scivolare verso la non-umanità»36. La popolazione dei senza-vergogna è molto eterogenea. Vi si trova il musulmano, chiamato così chi nei campi di sterminio accettava il suo destino, si metteva in ginocchio in una postura di preghiera, regressione fetale di ripiegamento su di sé, e poi si lasciava morire. Un simile abbandono di sé e una simile vergogna irreversibile si ritrovano nei disumanizzati, per i quali lo sguardo degli altri non esiste più. Ma tra i senza-vergogna dei campi, c’erano anche i comunisti, i Testimoni di Geova e alcuni giovani della JEC (Jeunesse Étudiante Chrétienne, Gioventù studentesca cristiana) che avevano conservato una rete di solidarietà: cercavano di organizzare evasioni e in
questo aiuto reciproco davano senso alla loro sofferenza. Tenevano conto solo dello sguardo dei loro compagni, che preservava la loro dignità di esseri umani. Si sapevano vinti e imprigionati, avevano perso una battaglia ma non si sentivano né miserevoli né subumani poiché non davano un tale potere ai soldati che li sorvegliavano. La loro empatia non arrivava fino a questi ultimi, non si mettevano nei panni delle ss, non si fidavano, e sopravvivevano amichevolmente tra ribelli. Soffrivano da uomini. Una persona prova vergogna solo se desidera preservare l’amor proprio sotto lo sguardo di coloro ai quali riconosce il potere di umiliarla. Come ricordato, prima dei 4 anni i bambini non si interessano ancora a quello che gli adulti credono37; i comunisti deportati si oppongono al fascismo e i barboni senza più umanità perdono la capacità sociale, lo slancio verso gli altri. Questi uomini non provano vergogna malgrado una situazione di estremo svilimento. Il neonato non si è ancora sviluppato abbastanza, il combattente non vuole interessarsi al mondo mentale del nemico, il senzatetto non ha più la forza di pensare a qualcun’altro. Abbiamo bisogno della vergogna per vivere insieme? La sua assenza sembra rivelatrice della nostra mancanza di solidarietà, della nostra indifferenza verso gli altri? Morale, perversioni, pervertiti I perversi non si vergognano mai perché per loro l’altro non esiste, è solo un burattino che procura piacere. Il XIX secolo è stato affascinato dalle perversioni, nel momento in cui il contesto sociale valorizzava il sacrificio di sé per rinforzare la famiglia e fondare la nazione. I perversi si occupano solo del loro piacere immediato, cosa che indebolisce la solidarietà; sono immorali perché restano a uno stadio infantile dello sviluppo e organizzano la maniera di vivere «su una modalità pregenitale, controllati da pulsioni parziali» come spiegava Freud38. Il rifiuto di rinunciare a una parte della propria realizzazione personale per consacrarsi agli altri era considerato una perversione dalla Chiesa e dalla
medicina del XIX secolo39. Le donne dovevano mettere al mondo più bambini possibile e consacrare il loro corpo e i loro sforzi al marito e alla famiglia. Gli uomini, dal canto loro, dovevano dedicare il loro corpo e i loro sforzi all’industria nascente e alla nazione. L’ordine sociale risultava da questi sacrifici morali. Nel XXI secolo il sentimento di onore è diventato un po’ ridicolo, non ci si batte più in duello per una scortesia, non si muore più annegati e sull’attenti quando la propria nave affonda: ci si salva, è meno stupido. In questa nuova cultura mettere al mondo un figlio, allattarlo e occuparsene provoca un conflitto tra la donna e la madre40. È stupido occuparsi degli altri al punto di rinunciare a una parte della propria avventura personale: è un valore da creduloni, una truffa affettiva. Gli uomini oggi hanno il diritto di occuparsi di loro stessi, perché le donne non dovrebbero avere lo stesso diritto? L’asimmetria naturale dei sessi costituisce un’ingiustizia sociale. Il fatto che le donne portino i bambini in gravidanza e che il latte provenga dai loro seni diventa un ostacolo alla loro realizzazione. Il sacrificio, valore morale nel XIX secolo, degenera in truffa sociale nel XXI secolo. Questo conduce ad affermare che il narcisismo, che provoca la sofferenza e la fine della solidarietà nel gruppo, diviene a sua volta un valore morale? Lo sviluppo di diversi mestieri legati alla cura della prima infanzia permetterebbe di organizzare intorno ai neonati un sistema educativo a molteplici attaccamenti, adeguato a loro, e di aiutare i genitori ad allevare i loro figli sacrificandosi meno. Molti paesi hanno applicato le scoperte della teoria dell’attaccamento e la conseguente valutazione dei risultati è stata eccellente41. Ma per fare ciò bisogna modificare i racconti culturali in modo che i nostri governanti decidano di organizzare una nuova politica della prima infanzia. Fino a oggi la costruzione delle nostre società si è preoccupata soprattutto di trovare i mezzi per punire coloro che si opponevano a una concezione di vita nella società. Bisognava fare eseguire gli ordini a qualunque prezzo. La ricetta è facile: basta deresponsabilizzare l’agente esecutore, ridurlo al ruolo di
ingranaggio che partecipa all’ordine sociale, così egli diventa capace delle peggiori esecuzioni senza provare vergogna né colpa42. L’esempio del boia è il più esemplificativo. Egli non è responsabile degli ordini della macchina giudiziaria, non fa che eseguire gli ordini, giustiziando i condannati: non è sadico, non gode della morte degli altri, semplicemente lavora. Ma facendo ciò, perde la sua capacità di empatia: «È la conclusione finale di un processo di disaffiliazione con il mondo comune e di affiliazione a un mondo completamente a parte»43. Quando un uomo recide il collo di molte persone, lo si considera un pazzo pericoloso perché si autorizza da sé a togliere la vita in nome dell’idea che si fa delle vittime. Ma quando obbedisce alla decisione di una macchina sociale che pretende di preservare l’ordine, non si dice che è un assassino, ma un funzionario. Il boia dice: «È lui il colpevole, ha tagliato il collo a molti innocenti. Io non sono colpevole, taglio il collo su richiesta della società. Faccio il mio lavoro, tutto qui». L’affiliazione a un mondo a parte, a una setta o a un partito politico estremista, provoca la disaffiliazione dal mondo comune. Più sovente lo scivolamento da un’affiliazione all’altra si fa in modo insidioso, non si vede il cambiamento. Se nel 1939 qualcuno avesse detto all’impiegata di una casa di moda a Praga: «Tra quattro anni, la vostra padrona sarà spedita a morire senza ragione. Allora approfittatene, sistematevi subito nel suo ufficio e date il vostro nome alla sua azienda. Fate in fretta», sono convinto che questa impiegata si sarebbe indignata; avrebbe reagito: «Per chi mi prendete? È un furto! La mia padrona è corretta con me, va a Parigi a vendere i suoi vestiti, assicura il mio lavoro e io traggo beneficio dal suo talento». Qualche anno dopo, la polizia ha arrestato la padrona, l’atelier di moda ha funzionato qualche mese sena direttrice, poi una legge ha permesso di comprare l’azienda a un prezzo risibile, nel contesto dell’arianizzazione dei beni degli ebrei. Nel 1945, la padrona sopravvissuta ha voluto tornare a casa sua. L’amabile impiegata le ha mostrato l’atto di vendita poi, a disagio, l’ha invitata a cena “da lei” per raccontarle della guerra e spiegarle quanto avesse
sofferto. La sopravvissuta ha condiviso un pasto eccellente, con stoviglie arianizzate, poi è andata a dormire una tenda in un campo lì vicino44. Anche solo negli anni Trenta, queste persone sarebbero morte di vergogna all’idea di lasciare andare in una camera a gas la padrona per impadronirsi del suo atelier e delle sue stoviglie, ma qualche tempo dopo, «il cambiamento del contesto, il tran-tran quotidiano, le abitudini, la salvaguardia delle istituzioni… altrettante prove di normalità sono giunte a rinforzare la convinzione che tutto continuava, come nel buon tempo antico»45. Non era un crimine, neanche una colpa poiché era permesso dalla legge, l’impiegata avrà pensato di non avere alcun motivo per provare vergogna, in fondo aveva persino invitato l’ex-padrona a cenare a casa sua. Dopo la sconfitta del nazismo, il crollo delle strutture sociali ha “autorizzato” i soldati a violentare le donne tedesche. I russi pensavano che non era poi un grande crimine se comparato ai milioni di morti, alla distruzione totale delle città e alla rovina dei paesi dell’Est. Alcuni soldati francesi hanno agito nello stesso modo senza provare il sentimento di compiere un crimine. Tornati a casa, non si sono sentiti in colpa. Quando si obbedisce a un’autorità, a una legge folle o a una pulsione sessuale in un contesto di guerra in cui passare ai fatti è un comportamento valorizzato, l’individuo deresponsabilizzato si sente un semplice ingranaggio in un sistema. Non c’è più un freno quando si deve rispondere a un’autorità riconosciuta come unica responsabile o quando il crollo sociale ha soppresso le strutture legali e naturali. Non c’è più empatia quando si pensa: “Posso permettermi tutto”. In uno stadio iniziale della socializzazione, l’empatia funziona solo per le persone vicine, del proprio clan o esercito. La legge non esiste se non all’interno del gruppo, gli altri non sono veramente esseri umani, dunque non è davvero un crimine violentare una donna di un altro paese che è all’origine del disastro che si è subito. Non c’è vergogna quando non c’è sguardo sull’altro.
Conclusioni
Il potere dei calzini
«Siamo le marionette dei nostri racconti»1. Il sentimento di vergogna o di fierezza che colpisce i nostri corpi o alleggerisce le nostre anime proviene dalla rappresentazione che ci facciamo di noi stessi. Quando uso la parola rappresentazione è al suo senso teatrale che penso: siamo noi gli attori delle messe in scena che facciamo con quello che ci è capitato, autori-attori in qualche modo. L’emozione provocata dalla rappresentazione che noi recitiamo nel nostro teatro intimo dipende dall’importanza che accordiamo agli spettatori. Quando la sala è vuota, non proviamo né vergogna né fierezza, un po’ di noia, ecco tutto. Perché parlare? Il muto non corre alcun rischio, l’uomo invisibile non soffre dello sguardo altrui, ma non è così che vivono gli uomini. Il sentimento che avvelena dipende dalla maniera con cui il pubblico reagirà. Recitare il dramma della mia esistenza davanti a una sala vuota non ha senso, ma si trasforma in un’emozione di allegria o di tristezza quando gli altri applaudono o mi fischiano. Spesso gli spettatori assistono alla rappresentazione del dramma intorno a un tavolo della cucina, nel loro teatro quotidiano. La persona che prova vergogna vorrebbe solamente dire due o tre parole sulla sua infanzia miserabile. È allora che una delle persone che sono sedute a tavola esclama: «Ma è la storia di Cosette che ci raccontate!»2. Tutti scoppiano a ridere. La rappresentazione è finita. Tanto vale tacere, la sala è vuota, dopo tutto il pasto è buono. Non è necessario che lo spettatore esista nella realtà: gli basta essere
presente nella vostra memoria o nella vostra immaginazione, è lì che la persona vergognosa ha situato il suo detrattore intimo. Quando la vergogna è muta, il denigratore occupa tutto lo spazio interno, il suo potere non è negoziabile. Ma quando la persona ferita riesce a mettere in scena il dramma che l’ha umiliata, attenua il disprezzo che la avvelena. Bisogna notare che recitando la sua vergogna nello spazio pubblico si abbandona allo sguardo altrui: perché si dice “lui si abbandona”? Il semplice fatto di parlare conferisce forse agli altri il potere di usare la confessione come un’arma contro di noi? La madre di Julien adorava il suo pulcino. Scrivo pulcino perché giocava a calcio nella squadra dei pulcini di Forcalquier. La gioia di questa donna consisteva nell’essere una buona madre: amava guardarsi dall’esterno mentre si occupava della sua famiglia, preparando pasti per soddisfare i suoi piccoli affamati e stirando la biancheria che li rendeva così eleganti. Il calcio non la interessava, ma provava piacere nel vedere il suo pulcino impeccabile nei pantaloncini bianchi e nella maglia gialla e blu della squadra del villaggio. Si sentiva meno fiera quando, dopo qualche minuto di gioco, i calzini del suo pulcino erano inzaccherati di fango. Ma dal momento che questa donna voleva organizzare alla perfezione la felicità del suo piccolo clan, aveva previsto il dramma e, nell’intervallo, entrava in campo per portare al figlio dei calzini puliti. E il pulcino moriva di vergogna davanti a questa manifestazione d’affetto. Non era l’amore che lo uccideva, ma la scena della devozione di una madre che si umiliava facendogli recitare il ruolo di un pulcino: lui, che invece si credeva un’aquila. La scena dei calzini puliti dati nell’intervallo gli attribuiva la parte del bambino tutto agghindato sotto lo sguardo canzonatorio dei ragazzini scafati di 10 anni. La vergogna irrigidiva il bambino che respingeva la madre, la quale, delusa e colpita al cuore, credeva che il ragazzo rifiutasse di amarla, mentre lui la maltrattava per non sentirsi più così svilito. La sua storia personale aveva reso questa donna attenta al benessere dei suoi cari: «Darei tutto perché siano felici», ma lo schema della sua devozione inculcava nell’animo di suo figlio un ricordo umiliante. I controsensi
affettuosi non sono rari nelle famiglie in cui l’attaccamento dà ai calzini il potere di ferire le persone amate. Mi chiedo se i calzini avevano un potere simile all’epoca in cui la nostra società era contadina e operaia. Mi ricordo di Marguerite, la mezzadra di Pondaurat, che nel 1944 alla fine della guerra governava la fattoria, divideva i compiti di una decina di operai agricoli e che la sera, durante il pasto, sedeva silenziosa e impettita a capotavola. Dava l’idea di un patriarca, in qualche modo, di padre napoleonico, a cui la società attribuiva questo genere di potere. In una simile organizzazione della quotidianità, adatta alle esigenze agricole, serviva un capo per governare il gruppo e risolvere i problemi dei raccolti e della vita sociale. In questo contesto, i valori cardinali erano costituiti dall’essere forti fisicamente, coriacei e obbedienti. I bambini partecipavano ai lavori della fattoria, prelevavano l’acqua dal pozzo e riaccompagnavano le pecore. Dovevano anche togliere gli zoccoli agli uomini: a quei tempi (quelli dei vostri genitori o nonni) c’erano poche scarpe di cuoio, si mettevano zoccoli di legno e, per evitare le vesciche, li si riempivano di paglia. La sera, la paglia si era gonfiata per effetto dell’acqua e del sudore e il lavoro dei bambini consisteva nel tirare gli zoccoli, che gli uomini non potevano levare senza aiuto. In un tale contesto di tecnica e di relazioni umane, i calzini non avevano niente da dire. La gentile attenzione di portare i calzini al proprio pulcino non sarebbe venuta in mente a nessuna madre, perché questo desiderio passi per la testa e ferisca il bambino amato la cultura deve cambiare valori. In un simile mondo tecnico e simbolico, Edipo metaforizza la maniera di stabilire relazioni conflittuali con coloro che amiamo, le nostre figure di attaccamento. Quando una famiglia è chiaramente strutturata, il mito dà al padre uno status di re nella casa e la madre assume il ruolo di idolo affettivo, sessualmente intoccabile. Il mondo intimo è chiaro, l’ordine regna. Ma quando questo ordine è disorganizzato dall’abbandono di Edipo, quando il padre è così mal delineato da non sapere distinguere nella famiglia la figura materna, si rischia allora di confondere questa ultima con una donna.
L’incesto, il crimine dei crimini, risulta da questo disordine affettivo. «Avrei dovuto vedere che si trattava di mia madre» dice Edipo cavandosi gli occhi «Ma per vederla, avrei dovuto sapere chi era mio padre, che mi fosse nominato». Da qualche decennio, le nostre società non sono praticamente più contadine né operaie. Ogni mattina, il padre e la madre lasciano il bambino per andare a svolgere lavori che non hanno più una specificità sessuale, in una società in cui il settore terziario è divenuto preponderante. La sera, nel momento in cui ci si ricongiunge, i racconti di questi nuovi genitori iscrivono un nuovo mito nell’animo dei bambini: «Tuo padre non è più un re che nutre la famiglia, è diventato una sotto-madre, l’aiutante della madre, se preferite. Deve associarsi a lei per facilitare la realizzazione degli individui. Ogni ostacolo all’avventura di una persona di questa famiglia sarà una ferita giudicata severamente». Edipo assomiglia sempre più a Narciso, non trovate? In questa nuova condizione in cui la società propone agli individui una grande gamma di avventure personali, ogni ostacolo è un’ingiustizia, ogni scacco nella realizzazione di sé diventa una ferita narcisistica. I nostri progressi tecnici e culturali, cambiando miti, vengono a trasformare la vergogna in una futura sofferenza. Ecco perché oggi la nostra cultura narcisistica ha dato ai calzini il potere di farci vergognare. Anche le tragedie sociali sono sottoposte all’arte del dialogo. Il sentimento che si prova nel proprio animo dipende dal racconto che gli altri fanno di ciò che è stato detto loro. La narrazione della mia infanzia mi è un po’ sfuggita: facendo attribuire la medaglia dei Giusti a Marguerite Lajujie3 ho reso pubblica una storia che credevo intima. Non avevo capito che lo sconvolgimento della guerra non aveva niente di personale. Come ho potuto pensare che il fatto di bruciare nei forni 11 400 bambini, in meno di tre anni, fosse una questione individuale4? Dopo questa “rivelazione” avventata, certi mi hanno fatto dichiarazioni di ammirazione che mi sorprendevano e mi imbarazzavano un po’. Non era
cambiato niente in me né attorno a me, ma tutto era cambiato nella rappresentazione che gli altri si facevano di me. Sapendo da dove venivo, ciò che ero diventato assumeva per loro un senso particolare, una nuova luce trasfigurava la realtà. Scoprivano un destino, un’epopea forse? Senza questa “rivelazione” sarei stato un medico come un altro. Ma il furore della Seconda guerra mondiale e il mutismo imposto dal ritorno alla pace hanno dato un senso eccezionale a questa lacerazione infantile. Dopo la vergogna di essere senza famiglia, di essere stato cacciato dalla società, considerato meno di un uomo, improvvisamente sorprendevo, nello sguardo altrui, una curiosità, quasi un’ammirazione che trovavo divertente e immeritata. Niente era cambiato nella realtà. Tutto aveva subito una metamorfosi nella loro rappresentazione di questa realtà. E non provavo più vergogna!
Note
Introduzione 1 Rosenblum, 2000, pp. 113-139. Si è volutamente scelto di lasciare questa espressione che è anche il titolo del testo originale. [N.d.T.] 2 Utilizzati da pittori e scultori nel XIX secolo, sono grandi spazi caratterizzati dalla presenza di ampie vetrate che rendono molto luminosi gli interni, per lo più si situano in quartieri rivalutati dal mercato immobiliare parigino nel XX secolo. [N.d.R.] 3 Imbarcazione tipica del sud-est della Francia, così chiamata per la forma (appuntita) della poppa e della prua: originariamente utilizzata dai pescatori e interamente costruita in legno. [N.d.R.] 4 Pastorello-Boidi, 2009. 5 Pastorello-Boidi, 2009. 6 Pastorello-Boidi, 2009. 7 Browning, 1992. 8 Probst, 1992, p. 39. 9 Stück: “pezzo” in tedesco. 10 Malraux, 1967, p. 11. Capitolo 1 (Uscire dalla vergogna come si esce da una tana) 1 Semelin, 2007. 2 Rimé, 2005. 3 Lewis, 2000. 4 Ciccone e Ferrant, 2009. 5 Singh-Manoux, 1998, p. 235. 6 Scotto Di Vettimo, 2006, p. 233. 7 Freud, 1998.
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Ogien, 2002, p. 9. 9 Sartre, 1943. 10 Ogien, 2002, p. 45. 11 Si definisce burn-out la sindrome che sfocia in un malessere psicofisico e in difficoltà relazionali derivante sia da eventi traumatici sia da conflitti interni irrisolti: ne sono tipicamente colpiti gli operatori sociali, che per il loro lavoro di aiuto a soggetti disagiati sono quotidianamente investiti da responsabilità emotive e morali che possono condurre a situazioni di iperstress non più controllabile. [N.d.R.] 12 Baeza e Mercier, 2000. 13 Gombrowicz, 1984, p. 26. 14 Dopo la presa della Bastiglia, mentre erano in corso sommovimenti nelle campagne francesi, la notte del 4 agosto 1789 l’Assemblea nazionale decise l’abolizione del sistema feudale in Francia cancellando i privilegi signorili, in particolare quelli personali quali le corvées e la decima ecclesiastica. [N.d.R.] 15 Michel, 1989, p. 21. 16 Michel, 1989, p. 82. 17 Levi, 1971, p. 154. 18 Rimé et al., 1991. 19 Lavillumière e Cruz, 2009. 20 Gaulejac, 1996, p. 230. 21 Abraham e Torok 1978; e Cyrulnik, 2003. 22 In italiano nel testo originale. [N.d.R.] 23 Lelay et al., 2009. 24 Gaulejac, 1996, p. 255. 25 Bloch-Dano, 2007, p. 56. 26 Bloch-Dano, 2007, p. 87. 27 Sichrovsky, 1987, pp. 43, 45. 28 Gaulejac, 1996, p. 249. 29 Kévorkian, 2006, p. 221.
30 FTP-MOI: Franchi Tiratori Partigiani 31 Laclef-Feldman 2008a; 2008b. 32
– Mano d’Opera Immigrata.
Ciccone e Ferrant, 2009, p. 103. 33 Ionescu, Jacquet e Lhote, 1997, p. 247. 34 Lighezzolo e Tichey, 2004. 35 Freud, 1972. 36 Palacz, 2009, pp. 29-30. Ariela Palacz fu affidata all’Assistenza Pubblica con i suoi fratelli e la sorella, anche se poi vennero separati, dai genitori, ebrei polacchi immigrati, per proteggerli dalle persecuzioni antisemite nella Francia della Seconda guerra mondiale; dopo la guerra Ariela ha ritrovati i fratelli, la sorella e il padre, la madre invece morì ad Auschwitz. [N.d.R.] 37 Myquel, 2000. 38 Dupré, 1936. 39 Cyrulnik, 2006b. 40 Amiel-Lebigre e Gognalons-Nicolet, 1993. 41 Lagache, 1962-1984. 42 Janet, 1990. 43 Durand, 1999, p. 10. 44 Cyrulnik, 2004, p. 58. 45 Ricœur, 1983. 46 Chouvier, 2009, pp. 149-150. 47 Gilbert, Price e Allan, 1995. 48 Tisseron, 1992, p. 46. 49 Bersani, 1998. 50 Genet, 1982. 51 Hachet, 1990, p. 104. Capitolo 2 (La morte nell’animo: psicologia della vergogna) 1 Vidal, 2000. 2 Golse, 1990. 3 Stern, 1985.
4
Se volete scoprire un islam amichevole, leggete: Chebel, 2004. 5 Malatesta-Magai e Dorval, 1992. 6 Lewis, 1992. 7 Martin, 2006, p. 76. 8 Brown, Harris e Hepworth, 1995. 9 Schore, 1998. 10 Ferenczi 1974. 11 Schauder, 2009. 12 Ciccone e Ferrant, 2009, p. 28. 13 Benghozi, 1995. 14 Abraham e Torok, 1978. 15 Ciccone e Ferrant, 2009, p. 8. 16 Gay, 1991, p. 11. 17 Hermann, 1972, p. 29. 18 Harlow, 1972. 19 Bowlby, 1978. 20 Tisseron, 1992. 21 Gaulejac, 1996. 22 Clément, 2009, p. 238. 23 Scotto Di Vettimo, 2006, p. 164. 24 Agamben,1999, p. 97. 25 Kilborne, 1992. 26 Barudy e Dantagnan, 2010. 27 Pierrhumbert, 2000. 28 Gorwood, 2004, p. 109. 29 Ferrant, 2004. 30 Harder, 1995. 31 Rosenblum, 2000. 32 Il termine francese indica esattamente questo indumento. [N.d.T.] 33 Lewis, 1992.
34
Benghozi, 2003. 35 Chamalidis, 1999; 2010. Capitolo 3 (Vergogna ingiusta) 1 Dufour, Nadeau e Bertrand, 2000. 2 Boulay, 2009. 3 Aubut, 1993. 4 Carr et al., 2009. 5 Rutter, 2006. 6 Cyrulnik et al., 2007. 7 Wright et al., 1998. 8 Stevens e Denis, 2009. 9 Morrow e Smith, 1995. 10 Varia, Abidin e Dass, 1996. 11 Péronet, 2009. 12 Péronet, 2009. 13 Tichey, 2008. 14 Duperey, 2002. 15 Castioni, 1998, p. 123. 16 Castioni, 1998, p. 204. 17 Péronet, 2009. 18 Roth e Newman, 1993. 19 Deblicker e Deblicker, 2007, p. 49. 20 Celano, 1992. 21 Spaccarelli e Kim, 1995. 22 Chandy, Blum e Resnick, 1996. 23 Luthar e Zelazo, 2003. 24 Hodges e Tizard, 1989. 25 Castioni, 1998, p. 30. 26 Gold et al., 1994. 27 Rimé, 2005.
28
Bateman e Fonagy, 2006. 29 Testa et al., 1992. 30 Chaffin, Wherry e Dykman, 1997. 31 McNulty e Wardle, 1994. 32 McMillen, Rideout e Zuravin, 1995. 33 Wyatt et al., 1993. 34 Brière e Eliott, 1994. 35 Habomana et al., 1999. 36 Klein, 2007. 37 Kendall-Tackett, Williams e Finkelhor, 1993. 38 Spaccarelli, 1994. 39 Benghozi, 2009. 40 Wright et al., 1999, p. 627. 41 Rutter, Quinton e Hill, 1990. 42 Cyrulnik, 2004, p. 118. 43 Carr et al., 2009, p. 185. 44 Valentie e Feinauer, 1993. 45 O’Sullivan, 1991. Capitolo 4 (Biologia della vergogna) 1 Suomi, 1999. 2 Berman, 1992. 3 Suomi e Levine, 1998. 4 Higley, Suomi e Linnola, 1996. 5 Champoux, Higley e Suomi, 1997. 6 Andrews e Rosenblum, 1991. 7 Suomi e Levine, 1998. 8 Hoffer, 1995. 9 Feeney, 2000; e Guedeney, 1995. 10 Lesch et al., 1997. 11 Brisch, 2002.
12
Le Breton, 1998, p. 139. 13 Tousignant, 1992. 14 Caspi et al., 2002. 15 Rydell, Bohlin e Thorell, 2005. 16 Cosnier e Kebrat-Orecchioni, 1987. 17 Morris, 1997, pp. 73-74. 18 Emde, 1992. 19 Nathanson, 1992, p. 187. 20 Freud, 1936, p. 87. 21 Cacioppo et al., 2000. 22 Tronick e Cohn, 1989; e Barudy, 2010. 23 Singer et al., 2004; e Cyrulnik, 2006a. 24 Bomsel e Cyrulnik, 2009. 25 L’ossitocina è un ormone secreto dalla ghiandola dell’ipofisi che facilita le contrazioni uterine e la lattazione. Il suo tasso aumenta nella donna dopo una relazione sessuale o dopo un piacere intellettuale. 26 André et al., 2005. 27 Panksepp, 1998, pp. 11, 206-222. 28 Becker, 2001. 29 Gorge et al., 2000. 30 Panksepp, 1998, pp. 276- 277. 31 Panksepp, 1998, pp. 276-277. 32 Danziger e Willer, 2003. 33 Sironi, 2009. 34 Adler, 1991. 35 Panksepp, 1998, p. 33. 36 Amsallem, 2001, p. 26 (citando Primo Levi, Se questo è un uomo). 37 Hölderlin, 1963. 38 Levi, 1971, p. 74. 39 Levi, 1986, p. 138.
40
Robinson et al., 1980. 41 Baddeley, 1993, pp. 421-422. 42 Anissimov, 1996, p. 12. 43 Anissimov, 1996, p. 635. 44 Bowlby, 1978. 45 Gaulle, 1998. 46 Jouvent, 2009, p. 133. 47 Musset citato in Jouvent, 2009, p. 134. Capitolo 5 (Rosso di vergogna) 1 Lahaye e Burrick, 2007. 2 Gayet, 2007, p. 43. 3 Zaouche-Gaudron, 2005. 4 Jorland, 2010. 5 Le Roy Ladurie, 1995. 6 Gianfrancesco, 2001. 7 UNICEF, 2009. 8 UNICEF, 2009. 9 Ehrensaft e Tousignant, 2006. 10 Rousseau, Morales e Foxen, 2001. 11 Marie-France Cathelat, comunità installata a Monterrey (nord-est di Lima): qui l’ONG Cedapp gestisce una Yachaywasi (Casa del sapere). 12 Garland, 2002, pp. 210-211. 13 Bibeau et al.,1989. 14 Bibeau et al., 1992. 15 Fombonne, 1987. 16 Sabatier, 1999. 17 In italiano nel testo. [N.d.T.] 18 Beiser et al., 1995. 19 Sabatier e Holveck, 2000. 20 Lendini, 1995; 2009.
21
Ben Jelloun, 2008. 22 Minde, Minde e Musisi, 1982. 23 Palacz, 2009. 24 Palacz, 2009, p. 141. 25 Palacz, 2009, p. 141. 26 O’Donnel, Schwab-Stone e Muyeed, 2002; e Cyrulnik, 2009. 27 Vallet e Caille, 1996. 28 Marsella, Wandersman e Cantor, 1998. 29 Attar, Guerra e Tolan, 1994. 30 Khalil, 2008. 31 Il termine viene volutamente lasciato in lingua originale per il significato che riveste in francese: entourer significa infatti “circondare”. I racconti in questione sono dunque quelli del contesto, delle persone, della cultura che circondano la persona. [N.d.T.] 32 Bensoussan, 2009. 33 Coppia di locandieri senza scrupoli ne I Miserabili di Victor Hugo. [N.d.T.] 34 Le Vieil Homme et l’enfant, film di Claude Berri (1967) con Michel Simon, ispirato ai ricordi personali del regista. 35 AACCE, 2009; e Guillon e Laborie, 1995. 36 Klein, 2007. 37 Lewertowski, 2008. 38 Breton, 2009, p. 139. 39 Arendt, 1997, p. 93. 40 Lenorman, 2007. 41 Virgili, 2005. 42 Garapon, 2002, p. 174. 43 Cognome francese molto diffuso. [N.d.T.] 44 Berr, 2009, pp. 118, 120. 45 Thuram, 2010. 46 Ellenberger, 1964.
47
Malson, 2009. 48 Reed, 1952. 49 Fanon, 1961. 50 Laclef-Feldman, 2008b; e “Marche des descendants d’esclaves” organizzata nel 1998. Capitolo 6 (Una coppia mista: vergogna e fierezza) 1 Ariès e Duby, 1985a, p. 356. 2 Godelier, 1996. 3 Ariès e Duby, 1985a, p. 356. 4 Quentin, 2010. 5 Harding, 2001. 6 Ariès, 1982b. 7 Rauch, 2000, p. 24. 8 Lindisfarne, 1998, p. 254. 9 Vigarello, 1998, p. 42. 10 Kadiri e Berrada, 2009, pp. 15-16. 11 I Purity Ball, diffusi appunto negli Stati Uniti, sono serate in cui i padri di ragazze entrate nella pubertà si impegnano a proteggere la verginità delle figlie fino al matrimonio, in alcuni casi è chiesto anche un impegno formale da parte delle ragazze. [N.d.R.] 12 Ariès, 1982a, p. 142. 13 Lafitte-Houssat, 1971. 14 Ariès e Duby, 1985b. 15 Badinter, 2010. 16 Gilmore, 1990, p. 224. 17 Browning, 1992. 18 Lignes de front, film documentario di Jean-Christophe Klotz, 2010. 19 Jorland, 2010, pp. 129-147. 20 Tursz, 2010. 21 Ariès e Duby, 1985c, p. 214. 22 Cohen e Nisbett, 1997.
23
Cohen e Nisbett, 1994. 24 Cohen, Vandello e Rantilla, 1998. 25 Berger, 2009. 26 Chabon, 2009; e intervista con Jacob, 2009. 27 Il francese per rinomati è renommés, con cui si intende sia di grande nomea, sia con un nuovo nome. [N.d.R.] 28 OSE: Œuvre de secours aux enfants, Opere in soccorso dei bambini. 29 Bensoussan et al., 2009, p. 409. 30 Christienne, 2009, p. 32. 31 Berthoz e Jorland, 2004; Cyrulnik, 2006a. 32 Schore, 2003. 33 Sterzer, 2009. 34 Ciccone e Ferrant, 2009, p. 18. 35 Declerck, 2001. 36 Emmanuelli, 2009. 37 Bischof-Köhler, 1991. 38 Faruch, 2004. 39 Krafft-Ebing, 1969. 40 Badinter, 2010. 41 Robert, 2008. 42 Joule e Beauvois, 2009. 43 Sironi, 2004, p. 235. 44 Esptein, 1988. 45 Welzer, 2009. Conclusioni (Il potere dei calzini) 1 Tantam, 1998, p. 171. 2 Personaggio de I Miserabili di Victor Hugo [N.d.T.] 3 L’istitutrice che, durante la Seconda grande guerra, si prese cura dell’Autore; i genitori di Boris Cyrulnik morirono durante la deportazione [N.d.T.]
4
Bensoussan, 2009.
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Indice Frontespizio Introduzione Capitolo 1 Uscire dalla vergogna come si esce da una tana Capitolo 2 La morte nell’animo: psicologia della vergogna Capitolo 3 Vergogna ingiusta Capitolo 4 Biologia della vergogna Capitolo 5 Rosso di vergogna Capitolo 6 Una coppia mista: vergogna e fierezza Conclusioni Il potere dei calzini Note Bibliografia
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