La Trasmissione Dei Testi Patristici Latini: Problemi E Prospettive: Atti del Convegno Roma, 26-28 Ottobre 2009 9782503542355


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La Trasmissione Dei Testi Patristici Latini: Problemi E Prospettive: Atti del Convegno Roma, 26-28 Ottobre 2009
 9782503542355

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI PATRISTICI LATINI: PROBLEMI E PROSPETTIVE ATTI DEL COLLOQUIO INTERNAZIONALE ROMA, 26-28 OTTOBRE 2009

I N S T R V M E N T A P A T R I S T I C A E T M E D I A E VA L I A

Research on the Inheritance of Early and Medieval Christianity

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI PATRISTICI LATINI: PROBLEMI E PROSPETTIVE ATTI DEL COLLOQUIO INTERNAZIONALE ROMA, 26-28 OTTOBRE 2009

a cura di Emanuela Colombi

2012

I N S T R V M E N T A P A T R I S T I C A E T M E D I A E VA L I A

Research on the Inheritance of Early and Medieval Christianity

Founded by Dom Eligius Dekkers († 1998)

Rita  Beyers Georges  Declercq Jeroen  Deploige Paul-Augustin  Deproost Albert Derolez Willy Evenepoel Jean Goossens Guy Guldentops Mathijs Lamberigts Gert Partoens Paul Tombeur Marc Van Uytfanghe Wim Verbaal

All right reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any from or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without the prior premission of the publisher. © 2012

F H G (Turnhout – Belgium) Printed in Belgium D/2012/0095/204 ISBN 978-2-503-54235-5

Sommario PRINZIVALLI, Emanuela: Presentazione ....................................

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CANFORA, Luciano: Il problema delle varianti d’autore come architrave della Storia della tradizione di Giorgio Pasquali ............................................................................

11

SIMONETTI, Manlio: L’edizione critica di un testo patristico. Caratteri e problemi ...........................................................

33

CAVALLO, Guglielmo: I fondamenti materiali della trasmissione dei testi patristici nella tarda antichità: libri, scritture, contesti ..............................................................................

51

BURINI DE LORENZI, Clara: Scritti pseudociprianei: la restituzione di una lexis popolare e degradata ........................................

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COLOMBI, Emanuela: La trasmissione dei testi poetici: alcune riflessioni .............................................................................

97

GAMBERALE, Leopoldo: Gerolamo e la trasmissione dei testi. Osservazioni sparse (ma non troppo) .................................. 141 GORI, Franco: L’edizione critica delle Enarrationes in Psalmos di Agostino e il metodo stemmatico ...................................... 179 PARTOENS, Gert: The Sources and Manuscript Transmission of the Venerable Bede’s Commentary on the Corpus Paulinum. Starting points for further research ...................................... 201 SCORZA BARCELLONA, Francesco: La trasmissione del testo agiografico: problemi ed esperienze di ricerca ............................. 253 ZELZER, Klaus: Die Edition der Regula Magistri im CSEL und ihre Probleme........................................................................

279

ZELZER, Michaela: Der Beitrag von Mailand zur Bewahrung der Werke des hl. Ambrosiusim Spiegel der ersten Gesamtausgabe des Mailänder Kanonikers Martinus Corbo aus dem 12. Jahrhundert .......................................................... 297 CHIESA, Paolo: Filologia patristica e filologia mediolatina, una collaborazione inevitabile. Il caso della Regula pastoralis di Gregorio Magno .................................................................. 315 Indice degli autori antichi e medievali ......................... 333 Indice dei manoscritti ........................................................ 339

IN MEMORIAM MICHAELAE ZELZER DE PATRUM PHILOLOGIA DOCTE STUDIOSAE FECUNDEQUE MAGISTRAE

*

* *

Presentazione Emanuela PRINZIVALLI (Roma)

Questo volume risponde a un’esigenza della critica testuale cui finora non è stata data soddisfacente risposta, quella cioè di mettere a confronto e far interagire la filologia classica con le filologie patristica e mediolatina. Il titolo si incentra sui testi patristici perché delle tre filologie, contigue l’una all’altra, la patristica è spesso a tutt’oggi negletta dai cultori delle altre due, come del resto avviene per la corrispondente letteratura cristiana antica: eppure i fenomeni che in essa macroscopicamente si presentano possono gettare luce su alcune difficoltà ecdotiche riscontrate ripetutamente nel lavoro di edizione dei testi classici e medievali derivanti dai medesimi fenomeni, primo fra tutti la possibilità della rielaborazione di un testo da parte dello stesso autore. L’esigenza di mutua interconnessione di cui sto parlando è sentita da molto tempo e la polemica – tante volte richiamata nei contributi del volume – intrapresa da Giorgio Pasquali nei confronti del metodo meccanicistico di elaborazione stemmatica sistematizzato da Paul Maas ne costituisce la premessa. Pasquali infatti, per criticare Maas, si era servito dell’edizione della Storia ecclesiastica di Eusebio approntata dal grande filologo classico Eduard Schwartz, il quale si occupò anche di opere cristiane, riuscendo a cogliere, con acuta sensibilità storica, il problema rappresentato, ai fini di una ricostruzione verticale dello stemma codicum, dalla presenza di successive redazioni d’autore, come si verifica nell’opera eusebiana e in

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EMANUELA PRINZIVALLI

molta produzione dei cristiani, che si avvalevano di trascrizioni private su cui l’autore poteva facilmente continuare a intervenire. La sensibilità dimostrata da Schwartz è segno che il metodo filologico è lo stesso per testi classici, cristiani e mediolatini, ma la sua corretta applicazione dipende dall’attenzione posta alle caratteristiche individuali di ciascun’opera e alla storia specifica della sua trasmissione. Conseguentemente, i saggi contenuti nel volume, pur segnalando la continuità fra classici e cristiani dovuta ai medesimi tramiti di trasmissione e all’assenza di autografi, discutono le peculiarità dei testi patristici e a volte dei mediolatini rappresentate dalla minore distanza cronologica fra la composizione dell’opera e le prime testimonianze manoscritte, dalle tradizioni numerose, dalla degradazione della lingua latina, dalla mancanza di un processo editoriale univoco, particolarmente evidente in caso di generi letterari propri ai cristiani, come le raccolte omiletiche o gli scritti di contenuto canonistico. I saggi che nel volume sono maggiormente impegnati sul versante metodologico, sempre a partire dall’esperienza concreta degli studiosi nei rispettivi campi di studio, mostrano tutti in modo diretto come prospettiva filologica e prospettiva storica nell’approccio ai testi siano indissolubilmente intrecciate e suggeriscono, in modo indiretto ma facilmente deducibile, sul piano ancora più generale di teoria della conoscenza, come la filologia sia strumento euristico della scienza storica e la storia debba sostanziarsi dell’attenzione inesausta ai testi. D’altra parte si troverà sia nei saggi generali sia in quelli dedicati a una specifica questione ecdotica un equilibrato apprezzamento del rapporto tra i fattori che accentuano nei processi di trasmissione l’instabilità dei testi, quindi le eccezioni, e un certo numero di regole di trasmissione, da presupporre per poter comprendere le eccezioni. I contributi sono la rielaborazione di altrettante relazioni presentate al Convegno La trasmissione dei testi patristici latini: problemi e prospettive, svoltosi a Roma dal 26 al 28 ottobre 2009. La sua ideazione si deve a Emanuela Colombi, che non a caso si è formata alla duplice esperienza degli studi di filologia classica, presso l’Università di Pavia, con il compianto Domenico Magnino, e patristica, presso la Sapienza Università di Roma, sotto la guida di Manlio Simonetti. Il Convegno è stato reso possibile dalla collaborazione fra quattro diverse istituzioni: il Dipartimento di Studi Storico Religiosi della Sapienza Università di Roma, l’Istituto Patristico

PRESENTAZIONE

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Augustinianum, legato da vincoli pluriennali di amicizia ai membri del suddetto Dipartimento e istituzionalmente alla Sapienza da un accordo quadro, il Dipartimento di Scienze Storiche e Documentarie dell’Università degli Studi di Udine e l’Istituto Pio Paschini per la Storia della Chiesa in Friuli, che ha messo anche a disposizione dieci borse di studio per laureati e dottorandi. Il comitato scientifico è stato composto da Paolo Chiesa (Università di Milano), Emanuela Colombi (Università di Udine), P. Robert Dodaro (Preside dell’Augustinianum), Manlio Simonetti (Emerito della Sapienza) e dalla sottoscritta. I lavori si sono svolti in tre sedi, una per ogni giornata: la prima presso la sala Odeion dell’edificio di Lettere e Filosofia della Sapienza, la seconda presso l’Aula minor dell’Istituto Patristico Augustinianum, la terza presso la Sala Vanvitelli dell’Avvocatura Generale dello Stato (ex convento dei Padri Agostiniani), per gentile concessione dell’allora Avvocato Generale dello Stato, dr. Oscar Fiumara. Il risultato, consegnato al presente volume, dell’impegnativa riflessione sopra sommariamente delineata, unitaria nell’istanza di fondo che governa la polifonia delle voci, è importante: non si tratta dell’ultima parola per una problematica tanto vasta e sfaccettata, il cui studio anzi ha inteso stimolare, tuttavia costituisce una guida sicura per ogni successivo approfondimento, grazie all’acribia nell’esame di dettaglio e alla capacità di sintesi degli Autori. Lo affidiamo quindi con soddisfazione e fiducia al giudizio del lettore.

Il problema delle varianti d’autore come architrave della Storia della tradizione di Giorgio Pasquali Luciano Canfora (Bari)

1. Struttura e significato della Storia pasqualiana Prenderei le mosse da una schematica descrizione della Storia della tradizione e critica del testo (1934). L’unità di ispirazione di questo grande libro è evidente. È sin dal principio un ‘terremoto’ contro l’idea meccanica della tradizione. Del primo capitolo (Il metodo del Lachmann) il succo è che il miglior Lachmann non è il ‘pontefice’ delle regole enucleate da una ultra-semplificata tradizione di Lucrezio, ma il Lachmann editore del Nuovo Testamento proteso a mettere a frutto la nozione di molteplicità di testi (redazioni) formatisi ab origine, sin dalle prime fasi della tradizione. Il secondo capitolo (Ci fu sempre un archetipo?) mette in crisi il presupposto principale della Textkritik maasiana. Il titolo del capitolo già anticipa la risposta. Il terzo (Eliminatio codicum descriptorum) è per un verso la premessa del quarto (lo ‘scandaloso’ Recentiores non deteriores), e per l’altro, pur nella sua brevità, un drastico contravveleno nei confronti della tendenza lachmanniana-maasiana a fare piazza pulita di (presunte) copie. «L’eliminatio codicum descriptorum – scrive Pasquali – non è un lavoro per frettolosi» (p. 38). Non dimentichiamo che nel Rückblick aggiunto alla terza edizione della Textkritik (Leipzig, 1957) Paul Maas ‘sbotterà’ nel drastico (e allarmante) «comburendi, non conferendi!». Il grosso dell’opera è composto dai capitoli V (Tradizione meccanica e varianti medievali), VI (Varianti antiche e antiche edizioni), VII (Edizioni originali e varianti d’autore): da p. 109 a p. 466, cioè 360 pagine su complessive 466. Quei tre capitoli procedono con impeccabile linearità verso l’epilogo, che è la demolizione, su base storica, di ogni illusione stemmatica: ben duecento pagine illustrano il fenomeno delle varianti antiche (cap. VI: pp. 185-394), che è l’antecedente logico e fattuale dell’ul-

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teriore passo verso la fase ancora più alta della storia del testo, le varianti d’autore appunto (cap. VII: pp. 395-466). Il primo dei tre, il quinto, pone già quasi subito in rilievo l’opera e lo studioso dai quali maggiormente Pasquali ha tratto ispirazione: l’edizione di Eduard Schwartz della Storia ecclesiastica di Eusebio (pp. 135-141). La conclusione cui Schwartz era giunto e che Pasquali valorizza come problema che va oltre il testo di Eusebio è che, in quel caso (ed eventualmente nel caso di altri testi che abbiano avuto analogo peso storico-culturale e altrettale ramificazione della tradizione manoscritta), «ragioni esterne non possono dare mai il tracollo in favore di una o di un’altra lezione»; e ciò non da ultimo perché all’origine vi è stata una intensa e capillare rielaborazione d’autore. Il tema torna, ovviamente, in grande stile nell’ultimo e fondamentale capitolo sulle varianti d’autore. Un osservatore superficiale parlerebbe di libro sproporzionato, laddove è evidente che quell’equilibrio delle parti ha un senso: la ‘rivoluzione’ pasqualiana ha infatti nello studio delle fasi iniziali della tradizione, e nella rivendicazione del loro ruolo decisivo anche per la critica del testo, il suo fulcro e il suo obiettivo. E coerenti con l’impostazione di fondo – come vedremo – sono anche i punti principali del Dodecalogo ripubblicato identico nel 1952 (specie 1, 2, 7, 10), nonché le due appendici più importanti aggiunte nella riedizione del 1952: la recensione, già apparsa nel 1951 all’interno del volume 23 di Gnomon, a Les manuscrits di Alphonse Dain e l’edizione di molto ampliata degli Schicksale der antiken Literatur in Byzanz di Paul Maas1. 2. La ‘guerra dei trent’ anni’ In realtà tutta questa vicenda, che si snoda nell’arco di trent’anni (1927-1957) è un dialogo serrato, e da parte tedesca assai polemico, tra Pasquali, da un lato, e, dall’altro, il versante dommatico-teorico della filologia tedesca. O meglio, si potrebbe anche dire, una serrata discussione, non scevra di asprezze, all’interno della discendenza intellettuale di Ulrich von Wilamowitz (1848-1931). I protagonisti sono, infatti, da un lato Giorgio Pasquali (1885-1952) e dall’altro Paul Maas (1880-1964) e Günther Jachmann (18871979). Ma se accanto a Pasquali vi è, pur alieno da teorizzazioni 1

Della terza, Congettura e probabilità diplomatica, diremo più oltre.

IL PROBLEMA DELLE VARIANTI D ’ AUTORE

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astratte, Eduard Fraenkel (1888-1970), è soprattutto il grande esempio di critica testuale integralmente storica fornito da tutta l’opera di Eduard Schwartz a costituire l’alimento ed il modello da cui Pasquali è stato maggiormente influenzato. Non a caso Schwartz appare come «paterno amico», accanto a Girolamo Vitelli, nella significativa dedica della Storia della tradizione. Il debito verso Eduard Schwartz è dichiarato così alla conclusione della Prefazione: Perché io abbia voluto che la mia opera fosse dedicata ad Eduard Schwartz, resulta dal libro stesso: egli, pur senza preoccuparsi di dare una teoria generale, è stato il pioniere della nuova critica testuale [corsivo mio]: la sua edizione della Storia ecclesiastica di Eusebio rimarrà, per tal genere di indagini, paradigmatica.

È giusto segnalare come qui Pasquali parli con piena e fondata consapevolezza dell’importanza del suo lavoro, di «nuova critica testuale». Ripercorriamo le date di questa ‘guerra dei trent’anni’. 1927

Maas pubblica la Textkritik: appena diciotto pagine, essenziali e ‘geometriche’, nella terza edizione (vol. 1) dell’Einleitung di Alfred Gercke e Eduard Norden.

1929

Recensione di Pasquali alla Textkritik, su Gnomon (5, pp. 417-435 e 498-521). Donde il celebre incipit della Storia della tradizione: «Questo libro è nato da una recensione».

1934

Pasquali pubblica la prima edizione della Storia della tradizione, cui seguirà, nel 1938, il libro che per tanti versi integra la Storia, e cioè Le lettere di Platone.

1937

Maas pubblica, nella Byzantinische Zeitschrift (37, pp. 289-294), Leitfehler und stemmatische Typen. Si accorge cioè che nella sua Textkritik mancava il pezzo più importante: come si giunge allo stemma. Stemma che invece, nella Textkritik, viene presentato sin dalle prime pagine già bell’e pronto senza che il lettore venga a sapere come vi si giunga. Senza menzionare mai Pasquali, Maas ritiene di avere così risposto ai problemi posti dal libro di Pasquali (e già dalla recensione). La risposta gli sembra risiedere nella dinamica – apparentemente oggettiva – degli errori «separativi» e «congiuntivi». Ma Pasquali (e già Schwartz) aveva messo in crisi proprio tale nozione. Quella comunque è l’unica ‘storia del testo’ che Maas

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concepisca: e ancora una volta il cammino ricostruttivo è all’indietro, dai testimoni verso l’archetipo. Con l’avvertenza (alla fine), in realtà allarmante e di portata molto più grave di quanto Maas voglia lasciar intendere, che contro la contaminazione non c’è rimedio («gegen die Kontamination ist noch kein Kraut gewachsen»). 1941

Günther Jachmann pubblica, nel volume del Petrarcahaus di Köln che celebra il decennale dell’istituto italo-tedesco2, Das Problem der Urvarianten in der Antike und die Grundlagen der Ausoniuskritik (pp. 47-104). Lì l’attacco alla fiducia di Pasquali, non esplicitamente bersagliato, di individuare varianti d’autore (dunque al cuore stesso della Storia della tradizione) è sferzante: Ogni epoca ha i suoi errori prediletti (Lieblingsirrtümer), anche nella scienza […]. La bizzarria prediletta di oggi in filologia classica è quella della Urvariante, una teoria secondo cui certe divergenze della tradizione testuale risalgono all’autore stesso […]. Alla fine quasi nessun autore antico è rimasto immune da questa dottrina […]. Io per parte mia, come ho già detto più volte, non posso aderire a questa teoria, anzi la ritengo non dimostrata in alcun caso [!]3 e confutata in molti, e in generale pericolosa e nociva. L’esperienza dimostra che essa viene applicata con leggerezza e senza criterio a tutte le possibili varianti testuali etc. (p. 47).

1947

Dopo la bufera della guerra e la dolorosa crisi personale Pasquali pubblica negli Studi italiani di filologia classica da lui diretti (22, p. 261) una singolare Preghiera, nella quale annuncia il proposito di «rifare» (non semplicemente ristampare) la Storia della tradizione e subito, in forma di parziale autocritica, indica il punto dolente su cui intende rifare il proprio lavoro: «Io credo ora di sapere […] che varianti d’autore, frequenti in scritture medievali, rinascimentali, più moderne, in opere dell’antichità sono molto più rare di quanto allora credessi».

1948

Subito dopo la Preghiera, Pasquali pubblica un articolo battagliero e che ribadisce un punto cardine della sua Storia: Congettura e probabilità diplomatica4. Qui non solo replica quanto scritto nella 2 Concordia decennalis. Festschrift der Universität Köln zum 10-jährigen Bestehen des Deutschen-Italienischen Kulturinstituts Petrarcahaus, Köln, 1941. 3 L’esempio ciceroniano addotto da Pasquali (p. 398) è addirittura oggettivo e dichiarato da Cicerone stesso (Att. 12, 6, 3)! 4 In Annali della Scuola Normale di Pisa, 17 (1948), pp. 220-223.

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Introduzione del 1934 («È un pregiudizio credere che la tradizione degli autori antichi sia sempre meccanica; meccanica è solo dove l’amanuense si rassegna a non intendere») ma ribadisce la scelta dello Schwartz della Storia ecclesiastica come sua stella polare. Lo definisce «il maggior filologo degli ultimi cinquant’anni», e ne trascrive una riflessione che già figurava nella Storia della tradizione (p. 137): «Non è vero che la grande massa degli errori sia costituita dagli scambi di lettere coi quali principalmente fa i conti la critica testuale moderna»! Difficile dire più chiaramente di così che la nozione maasiana di ciò che è «normale» e ciò che è «anomalo» va radicalmente ribaltata. 1949

Maas pubblica, nella prima edizione dell’Oxford Classical Dictionary (OCD), la voce Textual Criticism (pp. 888-889)5. La voce è quasi una tacita autocritica, in quanto la ‘stemmatica’ balza – com’era ovvio e necessario – al primo posto nell’ordine espositivo, nella sezione «A», già nel secondo capoverso! È tuttavia sintomatico dell’ostinazione di Maas nel non recedere da posizioni errate che egli abbia ristampato nel 1950, 1957, 1960 altre tre volte la Textkritik, inserendo modifiche e aggiunte, ma non si sia mai deciso a collocare la ‘stemmatica’ dove era giusto e logico che figurasse. Questa voce dell’Oxford Classical Dictionary è composta quasi per metà di una bella bibliografia ragionata. La Storia della tradizione di Pasquali appare subito in apertura di tale bibliografia, insieme con il Manuel de critique verbale di Louis Havet ed il Companion di Frederick W. Hall, ma viene liquidata con una formula sommamente riduttiva: «Pasquali treats predominantly the problems of abnormal transmission»! Questa sentenza, che pretende di sapere cosa è normale e cosa è anomalo o eccezionale nella tradizione dei testi, si ritrova, ampliata, l’anno dopo nella seconda edizione della Textkritik.

1950

Maas ripubblica presso Teubner, in seconda edizione, la Textkritik; al termine colloca, come Appendice [!] (Anhang: pp. 27-31), l’articolo del 1937 sulla ‘stemmatica’ e nella Vorrede (datata luglio 1949) attacca direttamente il libro di Pasquali. E prende le mosse appunto da Pasquali, che appare essere il suo principale cruccio:

5 L’OCD, concepito nel 1933 a imitazione del Lübker’s Reallexikon, era stato effettivamente costruito nel 1945-1948 e terminato nel giugno 1948.

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La prima edizione di questo compendio (1927) fu recensita ampiamente e non sfavorevolmente da G. Pasquali (Gnomon 5, 417 ss.). Le ricerche, del tutto indipendenti, di Pasquali, scaturite dal mio scritto (Gnomon 5, 498 ss. e Storia della tradizione e critica del testo, 1934) si muovono prevalentemente in campi affini, ma che io ho escluso dalla mia esposizione: e cioè in quello relativo alla storia della tradizione dei vari autori («dem der speziellen Überlieferungsgeschichte») e in quello della tradizione contaminata e dunque non indagabile secondo regole («methodisch») (p. 3).

Questa interpretazione della prima formula («spezielle Überlieferungsgeschichte») è confermata dalla traduzione inglese forse suggerita dallo stesso Maas alla sua traduttrice inglese Barbara Flower: «The history of transmission of the individual texts» (p. III). È alquanto paradossale quanto si evince da questi due giudizi coevi di Maas sulla Storia di Pasquali: lo studio della storia della tradizione dei singoli autori equivarrebbe dunque ad indagare «the problems of abnormal transmission»! Dunque per Maas finisce con l’essere ‘anormale’ la storia della tradizione in quanto tale. Strano che non si renda conto che una ‘stemmatica’ che non voglia essere impressionistica, e che dunque si proponga di valutare fondatamente, cioè storicamente, la natura dei «Leitfehler», non può che fondarsi sulla storia della tradizione. Costretto, per così dire, a reintegrare la ‘stemmatica’ nella Textkritik, Maas ha compiuto nel modo meno esplicito il necessario passo in direzione della ‘storia della tradizione’, o meglio del riconoscimento della inscindibilità di storia della tradizione e critica del testo: anche se la stemmatica resta «Anhang» (ma nella voce Textual criticism essa è invece necessariamente collocata al primo posto)6. 1951

Pasquali ‘replica’ a questo attacco frontale con una mossa in certo senso a sorpresa. Pubblica, in tedesco, su Gnomon (23, 1951, pp. 233243), una amplissima e (come notò Alfred Ernout)7 «fort élogieuse» recensione di Les manuscrits di Alphonse Dain (apparso a Parigi presso Les Belles Lettres nel 1949). Era molto più che una replica, 6

Si potrebbero muovere altri rilievi alle contraddizioni in cui Maas incorre nel perseguire il suo rifiuto di Pasquali: a) Se la Storia di Pasquali tratta «abnormal transmission» come mai appare subito all’inizio della bibliografia nella voce per l’OCD? b) Quale assiologia e quali criteri sono alla base delle due nozioni di ‘normale’ e ‘anormale’? 7 Revue de Philologie, 28 (1954), p. 293.

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era una sconfessione dell’astrattezza geometrica di Maas. Con quell’intervento, Pasquali riproponeva, proprio su Gnomon e ancora una volta direttamente in tedesco, l’operazione a suo tempo (1929) compiuta con la Textkritik. È ben noto quanto disprezzo da parte tedesca si fosse riversato sulla «critique française» (come orgogliosamente la chiamerà lo stesso Dain). Lo stesso Pasquali aveva condiviso quel disprezzo quando aveva scritto, riecheggiando giudizi di ambiente post-wilamowitziano, che di tutta la Collection Budé si salvavano unicamente l’Aristofane di Victor Coulon e il Giuliano di Joseph Bidez e Franz Cumont (Storia della tradizione, pp. 269270, nota 2). Ora invece inneggiava, e non a torto, ad un libro strutturalmente anti-teoretico, quale appunto Les manuscrits, che parte dallo studio concreto dei singoli testimoni e della loro storia individuale (che è culturale, paleografica, materiale in ogni senso), e addirittura ne propugnava una traduzione in tedesco. Di Dain, Pasquali apprezza in particolare l’attenzione posta al concreto problema delle molteplici cause di errore: una bella lezione alla pretesa maasiana (su cui si fonda la ‘stemmatica’) di sapere intuitivamente cosa sia errore «ovvio» e «non ovvio» (onde procedere al gioco apparentemente rigoroso della costruzione di uno stemma). E soprattutto Pasquali si sente in sintonia con Dain là dove Dain pone l’accento sulla «fase più antica della trasmissione» come decisiva8. E non può non gioire per l’aforisma di Joseph Bidez, ripreso con consenso da Dain (p. 168): «Tous les cas sont spéciaux». Altro che «normal», ovvero «abnormal», «transmission»! 1952

Pasquali compie però anche una mossa ‘cordiale’ nei confronti di Maas promovendo, e forse guidando, la traduzione italiana della Textkritik: traduzione affidata a Nello Martinelli (che già aveva tradotto i tre volumi di Nuovi capitoli di Letteratura greca di John U. Powell, dedicati alle nuove scoperte papiracee) nella Bibliotechina del saggiatore di Le Monnier dove nel 1920 aveva pubblicato il suo ‘manifesto’ in difesa degli studi filologici, significativamente intitolato Filologia e Storia. Premette alla traduzione una sua Presentazione e molto realisticamente mette in luce che un libro come la Textkritik è tuttavia indispensabile, soprattutto in Italia, per il robusto sopravvivere di mentalità pre-filologica (cioè pre-scientifica) in campi confinanti con la filologia classica. Esso gioverà a quei docenti «che lasciano chiamare o chiamano sé maestri» e però 8

Cfr. Storia della tradizione, pp. 477-478.

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«sovente non hanno mai riflettuto sui criteri della costituzione dei testi» e tuttavia «non si rassegnano a tenere le mani lontane9 da questo ufficio» (pp. v-vi). Insomma per dirozzare la nostra provincia («italiani romanisti e specialmente italianisti») il libriccino di Maas – scrive Pasquali per spiegare l’iniziativa della traduzione – è pur sempre prezioso. E risulta tale proprio per la sua esposizione «geometrica» («critica textualis ordine geometrico demonstrata» è però frase ironica) e per la sua pretesa, parzialmente giustificata, di universalità. Forse anche nell’iperbole «non saprei immaginarmi che l’originale, poniamo, di un testo cinese o bantu possa essere ricostruito dalle copie […] se non sul fondamento delle considerazioni e conforme alle regole enunciate dal Maas» c’è un pizzico di ironia. Ma nel finale della nota introduttiva sembra quasi rispondere alla Vorrede maasiana di due anni prima: «Io ho consentito di tutto cuore al lavoro del Maas appena uscì la prima volta; e in esso ha una delle sue radici, forse la principale10, il mio libro che il Maas menziona in questa sua seconda edizione» (p. viii). Dopo di che si concede una puntigliosa analisi lessicale del motto «Gegen die Kontamination ist noch kein Kraut gewachsen», per concludere che invece «rimedi» ci possono essere. E conclude: «Proprio questa era una delle mire di quel mio libro, che ora si ristampa purtroppo anastaticamente» (p. ix). 1952

Contemporaneamente appare la seconda edizione della Storia della tradizione. La Prefazione del 1934 viene riproposta integralmente, ma è seguita da quattro pagine nuove (xx-xxiv: 10 giugno 1952) che non si limitano a preannunziare il contenuto e il significato delle tre appendici nuove (pp. 469-492): contengono un’autocritica, certo parziale, sul tema delle varianti di autore. «Problemi di tal genere […] sarebbe temerario porli a manoscritti disgiunti dall’originale da interi secoli» (p. xxi); e ancora: «Per gli antichi invece11, io temo che la mia opera abbia, per questo rispetto, più ancora 9 L’espressione sembra riecheggiare quella wilamowitziana (Geschichte der Philologie, Leipzig – Berlin, 1921, p. 76), su cui torneremo più oltre: «Es soll seine Hand von der Texten lassen, wer es nicht versteht, den Weg von der erhaltenen Handschrift bis auf die des Verfassers zurückzuverfolgen». 10 Ma nella introduzione alla Storia il debito principale è dichiarato verso Schwartz. 11 Diversamente che per un Petrarca, un Boccaccio, un Foscolo, per i quali Pasquali prospetta giustamente l’opportunità di pubblicare addirittura più originali.

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nociuto che giovato, e sento il dovere di ammonire principianti, anche principianti annosi, ὀξυμαθεῖς di tale filologia, a essere cauti» (p. xxii). È però significativo che Pasquali abbia anche voluto far circolare, parallelamente, la prefazione ampliata e le tre appendici come opuscolo a sé stante (Ernout lo segnalò con molta simpatia nella Revue de Philologie): era un modo di riaffermare la sostanziale validità del «dodecalogo» del 1934 e di porre maggiormente in luce le novità affermate nelle appendici. Il proposito di dar vita ad un secondo volume di ricerche nuove, proclamato al termine della prefazione alla traduzione Martinelli della Textkritik (p. ix), venne però travolto dalla fine improvvisa e tragica di Pasquali avvenuta pochi giorni dopo il si stampi alla nuova edizione della Storia. 1952

Il 9 luglio muore Pasquali.

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Maas pubblica per la terza volta la Textkritik, arricchita di un Rückblick 1956 (pp. 30-32) e, finalmente, di un indice (pp. 33-34). Contro Pasquali, ormai scomparso, lancia la bordata divenuta poi proverbiale (§ 2 del Rückblick) «comburendi non conferendi»: replica frontale e intenzionale al pasqualiano IV capitolo della Storia della tradizione: «Recentiores non deteriores». L’attacco è tanto più fastidioso in quanto il § 2 si apre con un apparente riconoscimento tributato a Pasquali («ha giustamente messo in rilievo che un testimonio più recente di un altro non deve perciò essere anche peggiore») per subito dopo impartire a Pasquali una lezione decisamente scolastica: «Ma non esistono in generale testimoni buoni e cattivi ma solo dipendenti e indipendenti, cioè che dipendono o meno da testimoni conservati». E rapidamente conclude che «i recentiores, certo non sempre ma quasi, risulteranno dipendenti». Donde l’epilogo col motto, a torto attribuito a Carel Gabriel Cobet: «comburendi non conferendi», preceduto da una sarcastica frase di Wilamowitz, che in realtà è poco più che uno scatto di impazienza (Lysistrate, Berlin, 1927, p. 62)12. La critica è troppo facile: intenzionalmente tralascia di considerare che, per Pasquali, la doverosa 12 Può essere curioso osservare che Maas incomincia il Rückblick 1956 con una allusione all’incipit della nuova introduzione di Pasquali alla riedizione della Storia: «Mi pare di poter asserire senza taccia di vanità che il libro ebbe successo, come testimonia non soltanto lo smercio» (Pasquali, p. XXI); «Il successo editoriale di questo fascicolo è considerevolmente maggiore dell’influsso che se ne può scorgere nelle edizioni e nei saggi testuali apparsi dopo il 1927» (Maas, p. 30). Sulla vera storia del presunto motto «comburendi non conferendi» vedi l’efficace ricostruzione di A. Carlini, «‘Recentiores non deteriores’,

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maggiore attenzione da dedicarsi all’insieme dei testimoni superstiti non è capriccio pedantesco ma assume significato in presenza appunto di quelle tradizioni non «verginali»13 che a torto Maas si ostinava a considerare «abnormi». 1960

Maas ripubblica per la quarta volta la Textkritik senza modifiche di rilievo rispetto alla terza edizione: nella bibliografia iniziale – che continua a ignorare Les manuscrits di Dain – le critiche a Pasquali rimangono immutate così come per altro verso gli elogi al Companion di Hall; nell’empireo delle edizioni ‘esemplari’ viene assunto anche il Bacchilide di Bruno Snell (Leipzig, 1958) e in blocco tutti i P.Oxy. editi da Edgar Lobel. Si deve pensare che dunque questo trentennale scontro di vedute si è concluso con la prevalenza del punto di vista di Maas? Riconsiderando a cinquant’anni dalla prima edizione della Storia (1984) la questione delle varianti d’autore, Scevola Mariotti si pose opportunamente la domanda sulle cause della parziale «marcia indietro» di Pasquali. Le indicò nelle aspre prese di posizione di Jachmann nel già ricordato saggio su Ausonio e nell’abbandono, da parte di Ulrich Knoche, dell’ipotesi di varianti d’autore in Giovenale (sostenuta, invece, in precedenza da Friedrich Leo), nonché nell’abuso superficiale di quel concetto che da qualcuno si veniva facendo. «Quale dunque la posizione giusta?» si chiedeva Mariotti. E formulava con estremo equilibrio alcune considerazioni che meritano di essere qui riproposte: «Lo scetticismo preconcetto può anche essere comodo in tutti i casi in cui non si vuol correre il rischio di essere giudicati ingenui». E proseguiva: Ma in linea generale, se si considera che i pochi autografi antichi riconoscibili sono così simili agli ‘scartafacci’ moderni, con correzioni, sostituzioni, varianti alternative fra cui non è stata operata una scelta; se si ricorda che Cicerone, come sappiamo da lui stesso, faceva eseguire correzioni nelle sue opere quando queste erano già in circolazione; se si pensa a casi noti di opere antiche lasciate incompiute dall’autore e pubblicate solo dopo la sua morte oppure di opere pubblicate più di una volta dall’autore stesso (possibili occasioni le une e le altre della diffusione di doppioni auten‘comburendi non conferendi’», in Mousa. Scritti in onore di Giuseppe Morelli, Bologna, 1997, pp. 1-9. 13 Nella prefazione alla traduzione Martinelli Pasquali definisce «verginali» quelle (non molte) in cui davvero la trasmissione è stata rigorosamente ‘verticale’, e si può perciò procedere alla scelta ‘meccanica’ delle varianti.

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tici); bisognerà ammettere che, almeno in astratto, non è per nulla improbabile che tra le innumerevoli varianti significative risalenti con sicurezza o con verosimiglianza ad età antica si conservi, in mezzo a correzioni e interpolazioni, anche materiale autentico14.

3. «Critique française» e varianti d’autore Ponendo al centro della sua riflessione il tema delle varianti antiche, delle antiche edizioni e delle varianti d’autore, Pasquali si è venuto avvicinando, come la sua recensione ai Manuscrits di Dain chiaramente documenta, alla «critique française»: alle ricerche concrete, care alla «critique française», sulle modalità della diffusione antica del libro come presupposto e fondamento della critica del testo. Riprendo l’espressione «critique française» dalla recensione di Dain alla terza edizione della Textkritik di Maas (Revue des Études Latines, 1957, p. 360): «La vérité est que la critique française s’est placé sur le plan de l’histoire, alors que celle du maître oxonien [Maas] et de ses disciples demeure sur le plan résolument abstrait». Su questo punto si era già espresso uno dei migliori allievi di Dain, Jean Irigoin, in diversi interventi: a. recensione della seconda edizione (1950) della Textkritik: «On ne peut pas établir un classement de manuscrits dans l’abstrait […]. Le classement ne prend son sens que s’il est accompagné d’une histoire du texte». E ancora: «M. Maas a contribué à éclaircir la notion de conjecture byzantine; on aurait aimé que dans son précis il insistât plus sur l’intérêt d’une critique historique» (L’Antiquité Classique, 21, 1952, pp. 185-186); b. stemmas bifides et états de manuscrits: «Trop souvent, les théoriciens de la critique textuelle ont travaillé sur des apparats critiques et non sur les manuscrits eux-mêmes […]. Aussi ont-ils la tendance à assimiler complètement, ou presque, les manuscrits à des livres imprimés» (Revue de Philologie, n.s. 28, 1954, p. 213)15. S. Mariotti, «Varianti d’autore e varianti di trasmissione», in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno di Lecce (22-26 ottobre 1984), Roma, 1985, pp. 97-111, ora in Id., Scritti di filologia classica, Roma, 2000, pp. 551-563 (pp. 554-555). 15 Ammonimento che sarà egregiamente ripreso e sviluppato da B. A. Van Groningen, «Ekdosis», Mnemosyne, n.s. 16 (1963), pp. 1-17 (qui pp. 4-5. Ma è importante l’intero saggio). 14

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La consapevolezza della lontananza della ‘geometria’ maasiana dalla concreta realtà dei manoscritti e della loro storia non potrebbe essere più chiara16. Quale sia il legame stretto tra storia della più antica fase della tradizione, e cioè della forma stessa dell’«autografo», e «varianti d’autore», è di immediata evidenza. Dain era andato molto avanti su questo piano, in questo cammino a ritroso. Egli aveva ben compreso il nesso tra forma dell’autografo, modo della diffusione libraria «d’autore», ed eventuali «varianti d’autore». Tutto questo modo di guardare alla storia della tradizione non poteva che interessare enormemente Pasquali. L’autore antico ha «messo in pagina» il suo testo, lo ha fatto copiare ed inviare (ἐκδιδόναι) a qualcuno, ha avuto modo di lavorarci ancora, ha ‘inseguito’ alcuni esemplari (talora con fortuna, talora no), non ha potuto impedire che ogni copia avesse il suo destino (modifiche etc., che a loro volta creano tradizione)17. Non a caso Pasquali aveva preso le mosse, per il suo settimo capitolo (p. 398), dalla celebre autocorrezione di Cicerone in Orator 29, documentata dallo stesso Cicerone (Att. 12, 6, 3) ed aveva coronato quel memorabile capitolo con la vicenda della ‘falsificazione’ delle lettere di Agostino da parte di Gerolamo (pp. 454-456). La percezione di tutto questo è bene espressa dalla celebre formulazione di Alphonse Dain nel capitolo III dei Manuscrits: La confection de l’original a toujours été une entreprise moins simple qu’on ne le croit. Comment Hérodote et Xénophon, comment Stace ou Lucain ont-ils confectionné leur original? […] On peut dire que l’original de Thucydide était fait de la suite de rouleaux au bas desquels il avait apposé sa signature18. Mais qu’en était-il des autres? Que de problèmes de composition d’une œuvre ancienne trouveraient peut-être leur solution si nous étions mieux renseignés sur ces faits! 16 Un aspetto di tale consapevolezza è l’orientamento di un altro importante scolaro di Dain, Bertrand Hemmerdinger, a considerare – nel solco, del resto, di un insegnamento di Desrousseaux (maestro di Dain) – unicamente le lacune materiali come «Bindefehler»: ancora una volta lo status concreto del testimone. 17 La migliore sintesi di questo genere di vicende, che dobbiamo pensare normali nella composizione antica, è in Van Groningen, «Ekdosis» (cit. n. 15). 18 Scoperta dovuta a B. Hemmerdinger, «La division en livres de l’œuvre de Thucydide», Revue des Études Grecques, 61 (1948), pp. 104-117. Questa scoperta è stata messa in dubbio senza argomenti ma per il gusto di dubitare fine a se stesso da K. J. Dover nel complemento all’Historical Commentary on Thucydides di A. W. Gomme, 5, Oxford, 1981, p. 390.

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E aggiungeva: Qu’on retienne en tout cas que dès le point de départ, l’histoire du texte est liée aux conditions matérielles qui constituent ce que nous appellerions aujourd’hui la mise en page de l’ouvrage19.

In realtà la comprensione del nesso tra modo della diffusione originaria del testo e varianti d’autore (per non parlare degli altri effetti, nel corso della storia del testo, del progressivo offuscamento dell’originaria mise en page) era ben presente molto prima. Un saggio pioneristico (1845) in tal senso era stato quello di Sir George Cornewall Lewis (1806-1863), The Hellenics of Xenophon and their division into books, pubblicato nella seconda annata del periodico The Classical Museum (pp. 1-44, specie pp. 3-4). Ludwig Dindorf, nell’edizione oxoniense Xenophontis Historia Graeca (Oxford, 1853), p. xiv, ne riprese con giusto consenso i concetti principali: Sembra che gli scrittori antichi abbiano spesso tenuto le loro opere in revisione durante una lunga parte della loro vita. Fu questo probabilmente il caso di Erodoto20, e Niebuhr stesso21 ha fatto questa osservazione a proposito della Historia plantarum di Teofrasto […]. Bisogna osservare – prosegue –, per quel che riguarda la Grecia del iv secolo a.C., che la ‘pubblicazione’ di un libro era, allora, un evento assai meno definito e preciso che non sia poi divenuto a partire dall’invenzione della stampa, o di quanto sia avvenuto in un’epoca più tarda nella stessa Grecia. Quando Platone, Senofonte, Aristotele, avevano composto un’opera, probabilmente essi la leggevano – o ne leggevano delle parti – ad alcuni dei loro amici o discepoli; e forse anche alcuni ottenevano di fare delle copie; ma la pubblicazione era così limitata, che l’autore tranquillamente continuava a rivedere la sua opera per tutto il tempo che restava desto il suo interesse per quella materia (pp. 3-4).

Lewis coglieva alla radice un carattere essenziale della produzione letteraria arcaica: il carattere di ‘opera di tutta la vita’; opere che 19 Cap. III, Les manuscrits et le problème de l’histoire des textes: I. Les originaux, p. 93 (p. 105 della seconda edizione, Paris, 1964). 20 La cui più celebre variante d’autore è di sicuro Alicarnasseo soppiantato da Turio nel primo rigo del testo. Che Aristotele scegliesse Turio non è indizio di poco conto. 21 L’articolo di Lewis per l’appunto nasce come discussione del celebre articolo di B. G. Niebuhr, «Über Xenophons Hellenika», Rheinisches Museum, 1 (1827), pp. 194-198, poi Kleine historische und philologische Schriften, 1, Bonn, 1828, pp. 464-470, sulla edizione senofontea dell’opera postuma di Tucidide.

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attraversano e scandiscono un’intera esistenza e si arricchiscono e sono profondamente rimaneggiate anche per le parti già sviluppate e ‘divulgate’, appunto perché non c’è, ogni volta, da ‘ritirare dal commercio’ la precedente edizione. Pochi lettori, ergo lunga lima di tutta una vita, continuo ritorno dell’autore sulla propria opera. Quattro anni prima di Lewis, Aléxis de Tocqueville, in uno dei più interessanti excursus compresi nella seconda parte della Démocratie en Amérique (1840), aveva già messo in luce, in poche felici e pertinenti formulazioni, per l’appunto questo fenomeno dell’antica composizione letteraria: il nesso lima stilistica / pochi libri / pubblico ristretto. E grazie all’acuto excursus tocquevilliano possiamo risalire ad un intero filone interpretativo della realtà letteraria-editoriale antica che rende più che mai giustificata – al di là della consapevolezza che egli stesso poté avere di tale ascendenza – l’espressione di Dain «la critique française». Ricostruiamo i momenti salienti di questo filone. All’origine c’è l’opzione illuministica per i «moderni». La Querelle è il loro vero antecedente; ed è grazie a loro – e soprattutto all’Encyclopédie – che i moderni hanno vinto per lo meno per una lunghissima fase. Nel Discours préliminaire dell’Encyclopédie (1751) D’Alembert sviluppa in un paragrafo questa riflessione: «On ne voyait pas d’ailleurs que s’il y a dans les anciens un grand nombre de beautés de style perdues pour nous, il doit y avoir aussi par la même raison bien des défauts qui échappent, et que l’on court risque de copier comme des beautés»22. Ritroviamo questo apprezzamento non idolatrico nei confronti degli antichi nel capitolo che Tocqueville dedica al posto e al ruolo dello studio dei Greci e dei Romani. Rileggiamo quella celebre pagina. «On doit de plus remarquer – esordisce Tocqueville – que, dans toute l’antiquité, les livres ont été rares et chers et qu’on à éprouvé une grande difficulté à les reproduire et à les faire circuler […] le goût des lettres» era limitato ad un piccolo numero di persone le quali costituivano «une petite aristocratie littéraire» all’interno di una aristocrazia politica. Donde la presenza, in quelle letterature di età classica, dei «vices particuliers» e delle «qualités speciales» tipici della produzione letteraria dei «secoli aristocratici». E cioè, per un verso, la mancanza, 22 Citiamo dall’edizione curata da F. Picavet, D’Alembert, Discours préliminaire de l’Encyclopédie, Paris, 1894, pp. 81-82.

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talora, di «variété et fécondité dans les sujets» (che è in sostanza l’addebito formulato elegantemente nelle parole di D’Alembert ricordate prima), ma, per l’altro, «un soin admirable dans les détails» e soprattutto una mancanza di fretta («rien ne semble fait à la hâte»)23. Riferimento chiaro a quel lavoro di lima costante che, unito alla ristrettezza estrema del pubblico ed alla estrema difficoltà nel moltiplicare le copie24, costituisce la premessa per l’assiduo ritorno di ciascun autore sul proprio testo. Una delle fonti di ispirazione di Tocqueville in quella memorabile pagina è certamente la voce Livres del Dictionnaire philosophique di Voltaire: «Avant l’admirable invention de l’imprimerie, les livres étaient plus rares et plus chers que les pierres précieuses»25, specie se si considera che il capitolo subito precedente nella Démocratie (il XIV) riguarda appunto la produzione libraria come prodotto industriale (De l’industrie littéraire). Nel seguito della sua voce, Voltaire si sofferma sulla fatica, sempre individuale e mai seriale, dell’antico copista: «Que de temps et de peine – esclama ironicamente – pour copier correctement en grec et en latin les ouvrages d’Origène, de Clément d’Alexandrie et de tous ces autres écrivains nommés pères!». Né manca di ricordare aspetti concreti dell’attività di copia nel mondo antico quale il mediocre compenso riservato ai copisti («les marchands payèrent toujours fort mal») e l’intensificarsi ad Alessandria di tale attività. Dieci anni più tardi Condorcet nell’Essai de tableau historique des progrès de l’esprit humain26 si sofferma per l’appunto sul salto rappresentato dalla moltiplicazione meccanica delle copie e fa incominciare appunto con la stampa l’ottava epoca del suo disegno di storia universale27. Né può dimenticarsi, a riprova della radicata presenza, nella «critique française», di questo tema, il celebre capitolo di Victor Hugo (1830) in Notre Dame de Paris (libro V, capi23 A. de Tocqueville, De la démocratie en Amerique, tomo 2, parte 1, Bruxelles, 1840, cap. XV. 24 Per Tocqueville questo fenomeno è tipico di tutte le «epoche aristocratiche»: lo dice in modo esemplare nel capitolo subito precedente: De l’industrie littéraire (I, 11, 14). 25 Voltaire, Dictionnaire philosophique (ed. Kehl, 1784-1787), 6, Paris, 1821, p. 335. 26 Apparso postumo dopo la tragica fine dell’autore. 27 Un tema che sarà sviluppato tra l’altro da Auguste Comte e da Littré, e che interessò molto uomini come Grote e lo stesso Lewis.

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tolo 2) Ceci tuera cela, incentrato per l’appunto sul motivo della estrema marginalità della scrittura, come mezzo di comunicazione, fino all’invenzione della stampa («jusqu’à Guttemberg, l’architecture est l’écriture principale»). Era la stessa visione della realtà libraria antica che PierreClaude François Daunou presentava, e argomentava, nei suoi corsi di storia al Collège Royale, reiterati per numerosi anni (1819-1830). «Poche centinaia di rotoli contenenti non più che qualche poema epico e qualche opera di filosofia»: questo sarà stata – egli osservava nella proemiale Critique historique – la cosiddetta «biblioteca di Pisistrato» di cui favoleggia Gellio (6, 17). E qui colpisce la sintonia con l’immagine dell’arcaica «biblioteca» ateniese tratteggiata, per parte sua e molto dopo, da Pasquali nella voce Biblioteca dell’Enciclopedia Italiana28, dove si legge: «né del resto si vede che cosa esse avrebbero potuto contenere, tranne qualche poema epico». Ovviamente, da un certo momento in avanti le tradizioni si intrecciano. (Il che tanto più fa risaltare l’isolamento in cui il «catechismo» maasiano ha finito col collocarsi: e soggiungiamo che, paradosso nel paradosso, senza Pasquali e la sua critica, quel catechismo sarebbe stato presto dimenticato). Non seguiremo questi intrecci fecondi se non per cenni. È bensì vero che la monumentale Collection Didot degli autori greci è stata realizzata in grandissima parte da tedeschi; ma non di rado da notevolissimi personaggi extra-accademici come Karl Müller (il cui contributo per storici e geografi fu immenso). Ed è altrettanto vero che trasferimenti, anzi trapianti, in Francia di personaggi quali Karl-Benedikt Hase, concreto, empirico, impareggiabile conoscitore di manoscritti greci (poi conservateur des manuscrits alla Bibliothèque Royale) ovvero Heinrich (poi Henri) Weil, commentatore di Demostene ed Euripide, per Hachette, e studioso degli ‘esemplari atticiani’, hanno dato vita ad una vera e propria «critique française» ad opera di tedeschi francesizzati. La più impegnativa ipotesi di variante d’autore in un grande testo ‘classico’, la cosiddetta Terza Filippica demostenica, è stata argomentata per l’appunto da Weil nella per certi versi insuperata sua edizione delle Harangues demosteniche (Paris, 18731). E sarà peraltro, molti anni dopo, un tedesco, Hilarius Emonds, a tentare addirittura un reper28

Vol. 6, Roma, 1930, p. 942.

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torio, Zweite Auflage im Altertum (Leipzig, 1941), delle notizie di storia della tradizione che autorizzano a considerare come particolarmente probabile, nell’ampio numero di autori da lui censiti, la eventualità che la tradizione superstite serbi varianti d’autore, conseguenti per l’appunto a tale opera di riedizione29. Ci si potrebbe chiedere: donde era venuta alla «critique française» questa peculiarità, questa speciale attenzione alla storia del testo? Si potrebbe rispondere in modo sommario evocando alcuni grandi nomi che si collocano nella seconda metà del Seicento, prima e dopo l’esplosione della Querelle e quando ormai, in altri campi, la «nuova scienza»30 aveva celebrato i suoi fasti. Su questo terreno della ricostruzione della propria genealogia intellettuale, è proprio Dain ad apparire disinformato e riduttivo, quando scrive in una aggiunta inserita nella seconda edizione dei Manuscrits: «c’est à Wilamowitz que nous devons le premier ouvrage fondamental sur l’histoire des textes, sa Textgeschichte der griechischen Bukoliker de 1906» (Les manuscrits, Paris, 19642, p. 97)31. Ad ogni modo è evidente che le due Histoires critiques di Richard Simon, rispettivamente del Vecchio (1678) e del Nuovo (1689) Testamento, erano a tutti gli effetti delle storie del testo, e si ponevano nel solco del grande modello del Tractatus theologico-politicus di Baruch Spinoza (1670), che comprende tra l’altro una pionieristica storia del testo del Pentateuco: un archetipo della nostra disciplina32. Né va dimenticato che la prima Histoire critique di Richard Simon nasce nello stesso clima in cui l’abbé D’Aubignac (morto nel 1676) sottopone a critica il corpus omerico, nella Dissertation sur l’Iliade (prima edizione postuma, anonima, 1715), frutto – com’è noto – della Querelle. Nel 1697 esce il secondo tomo dell’Ars critica di Jean Le Clerc, che comprende il De emendandi ratione. Lì già si può leggere nella 29 Uno studioso italiano attende da anni allo studio del testo di Isocrate, le cui autocitazioni nell’Antidosis sono un autentico vivaio di varianti d’autore: si veda intanto P. M. Pinto, Per la storia del testo di Isocrate: la testimonianza d’autore, Bari, 2003. 30 Bacone e Galilei in primis. 31 Questa uscita gli è stata giustamente rimproverata da B. Hemmerdinger, Les manuscrits d’Hérodote et la critique verbale, Genova, 1981, p. 13. 32 Celebre la domanda posta da Spinoza a proposito del Deuteronomio: «Come può essere Mosé l’autore se nell’ultimo capitolo sono descritte la sua morte e la sua sepoltura?» (libro I, cap. V). Bossuet reagì parlando di «attentato alla religione» (cfr. J. B. Bossuet, Correspondance, 2, Paris, 1909, p. 73).

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Pars III una felice e assai concreta trattazione (Sectio I, cap. 1) De origine mendorum (errori «acustici» che si producono nel corso della lettura, errori sorti da cattiva divisione delle parole, errori sorti da fraintendimento di compendi etc.) nonché un quadro della res libraria nel mondo antico (Sectio II, cap. 1: De fraudibus) la cui modernità consiste nel collegamento, che viene lì istituito, tra l’inquietante realtà del commercio librario nel mondo antico ed il formarsi (e via via ingigantirsi) della letteratura pseudepigrafa33. Peraltro senza il precedente di Spinoza meno si capirebbero i Prolegomena ad Homerum di Friedrich August Wolf, un cui antecedente, con buona pace dell’autore, è la Dissertation di D’Aubignac. 4. Conclusioni Insomma la storia dei testi ha caratterizzato gli studi sulle letterature antiche ben prima del ‘fatidico’ 1906 in cui Wilamowitz pubblica la storia del testo dei bucolici. In realtà nell’opera di Wilamowitz la centralità della storia del testo è chiara da ben prima di quell’anno. Wilamowitz ‘pensa’ i testi greci e latini sempre in termini di storia del testo. Esempio insigne i quattro capitoli iniziali della prima edizione dell’Eracle (Berlin, 1889)34 divenuti anche autonoma Einleitung in die griechische Tragödie. Il terzo, Geschichte des Tragikertextes, non solo tratteggia la storia del testo di un dramma attico a partire dal manoscritto d’autore («die Tragödie, ein Buch») ma si spinge fino a tratteggiare una intera storia della filologia classica dall’epoca alessandrina fino al tempo suo, che culmina con pagine memorabili sulla Textkritik (pp. 252-258 dell’ed. 1921). C’è in quelle pagine il nucleo della Geschichte der Philologie (Berlin – Lepizig, 1921). In entrambi i casi, nelle pagine finali dell’Einleitung e nella Geschichte der Philologie, Wilamowitz invera, per così dire, l’indissolubilità – affermata pochi anni dopo da Pasquali e negata ostinatamente da Maas – tra storia della tradizione e critica del testo. Anche la Geschichte infatti si conclude con pagine esemplari e di grande profondità sulla critica del testo. Ed è appunto in quelle pagine finali che si legge l’ammonimento,

33 Una bella trattazione in proposito troviamo nel libro forse più riuscito di K. J. Dover, Lysias and the corpus Lysiacum, Berkeley – Los Angeles, 1968. 34 Nella seconda edizione quei capitoli furono staccati dal resto dell’opera.

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splendido e perentorio: «Non dovrebbe toccare i testi chi non sa seguire il cammino che dal manoscritto conservato risale a quello dell’autore»35. Errava Maas quando, nel secondo un po’ nervoso paragrafo del Rückblick 1956, cercava di trarre dalla sua – oltre Cobet – anche Wilamowitz nella lotta contro lo studio dei deteriores. Basti pensare all’ironia con cui Wilamowitz trattava la smania cobetiana di limitare al minimo la base documentaria dell’edizione critica: «Es würde sehr erfreulich sein, wenn das Geschäft der recensio wirklich so einfach wäre»36. E concludeva osservando che per i grandi autori (Erodoto, Tucidide, Demostene, Eschine, Senofonte, Aristotele Fisica «e purtroppo anche la Retorica») «wir auf eine eklektische Kritik angewiesen sind». Nelle pagine finali della Geschichte der Philologie il punto di partenza per tale summa della critica testuale è, con scelta assai felice, il panorama sommario delle «deduzioni ormai possibili sulla base delle nuove scoperte», cioè della grande quantità di papiri riaffiorati tra fine Ottocento e i primi decenni del Novecento. Abbiamo – scrive – resti di libri per tutti i periodi dalla fine del iv secolo in poi, e conosciamo la forma che le tragedie avevano quando arrivarono alla Biblioteca di Alessandria. Ammiriamo la tecnica libraria che lì fu portata alla perfezione, la seguiamo di generazione in generazione, osserviamo l’imbarbarimento dell’ortografia e la riforma di Erodiano, la decadenza nella fabbricazione del papiro e il passaggio dal rotolo al codice. Manoscritti di grammatici presentano l’aggiunta di varianti erudite; appaiono scolî marginali che sono estratti da commenti indipendenti37.

E ancora: «La storia del testo, che si è aggiunta alla recensio e all’emendatio, significa ancora di più». E non è privo di significato, se ricordiamo quanto si è detto al principio intorno al primo capitolo della Storia pasqualiana, che Wilamowitz concluda questa sua densa Textkritik con una riflessione sulla critica del testo del Nuovo Testamento. Quel testo, scrive, U. Von Wilamowitz-Moellendorff, Geschichte der Philologie, Berlin, 1921, p. 76, ovvero p. 145 della traduzione einaudiana a cura di F. Codino, Torino, 1967. 36 U. Von Wilamowitz-Moellendorff, Einleitung in die griechische Tragödie, Berlin, 1921, p. 253. 37 Von Wilamowitz-Moellendorff, Geschichte (cit. n. 35), p. 76, ovvero p. 145 trad. Codino. 35

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restò indifeso per secoli, poi fu fissato nel complesso, ma non senza subire violenze e per fortuna senza che fossero cancellate del tutto le tracce di altre redazioni. L’apporto delle traduzioni e delle citazioni più antiche fa di questa storia del testo, nonostante tutte le differenze, il miglior parallelo di quella di Omero, e dimostra in modo particolarmente istruttivo come il metodo del Lachmann sia rettificato dalla storia del testo38.

La matrice comune è dunque in Wilamowitz. Dal suo modello discende anche Schwartz, con la sua straordinaria capacità di infrangere la sciocca separazione tra le due filologie (una sui testi cristiani, l’altra sui testi ‘profani’) con il risultato di una vera compenetrazione metodologica delle due esperienze. E Pasquali, proprio in quanto si pone nella scia di Schwartz – e ‘gioca’ Schwartz contro Maas –, ne è ben consapevole. Ma anche qui un importante precedente remoto era in un primario esponente della «critique française», intendo dire l’Isaac Casaubon critico degli Annali ecclesiastici di Baronio. Come s’è appena visto, a ragion veduta, e con mente davvero moderna, Wilamowitz apriva la sua Textkritik assumendo come punto di partenza quanto abbiamo imparato dalle scoperte di papiri. Torniamo, a questo punto, per un momento, al Dodecalogo pasqualiano posto al principio della Storia della tradizione, ed in particolare al decimo punto di quel ‘prontuario’: «I papiri per la tradizione greca, le citazioni antiche per la latina, mostrano che già nell’antichità per autori molto letti ogni esemplare rappresenta in qualche modo un’edizione particolare, cioè una miscela ogni volta variamente graduata di varianti preesistenti, genuine e spurie. Già nell’antichità era incominciato il processo di contaminazione, di conguagliamento fra tradizioni diverse, il processo che talvolta sbocca nella formazione di una vulgata. Tali condizioni spiegano come papiri che restituiscono in un punto la lezione genuina oscurata nella tradizione medievale, coincidano poi con rami e ramoscelli di essa in corruttele particolari» (p. xviii). È significativo come queste parole trovino riscontro in un punto cruciale del saggio di Bernhard Abraham Van Groningen, Ekdosis (cit. n. 15), il cui focus è il modo antico dell’edizione e che perciò sfocia inevitabilmente nella questione delle varianti antiche (e d’autore):

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Ibid., p. 77, ossia p. 147 trad. Codino.

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Il convient se rappeler une fois de plus que chaque copie manuscrite est unique, présentant ses propres caractéristiques, ses propres écarts de l’original, intentionnels ou accidentels, et qu’elle n’est pas le représentant d’un groupe d’exemplaires identiques39.

Una volta preso atto di questa che è l’effettiva realtà della tradizione antica, si ridimensionano il senso e la portata della ‘dommatica’ maasiana. La quale prescinde totalmente dal quadro concreto e dalle implicazioni ‘stemmatiche’ che discendono dal constatare che, sin dal principio, ogni esemplare antico fu di fatto una ‘edizione’. Pur concentrandosi di necessità sullo studio della fase terminale della tradizione (culminante, al più, in un presunto ‘archetipo’ medievale di rilevanza storica assai modesta), la dommatica maasiana fa nondimeno spesso riferimento con singolare leggerezza all’‘originale’, quasi che esso sia da considerarsi press’a poco l’antecedente immediato dell’‘archetipo’! Di qui il carattere utopistico, se non ingenuo, della frase di apertura della maasiana Textkritik: «compito della critica del testo è la restituzione di un testo che si avvicini il più possibile all’originale» (§ 1), cui tiene dietro (§ 8) uno ‘stemma’ nel quale recta via si discende dall’originale all’archetipo! Ancora una volta meritoria appare dunque, anche sotto questo rispetto, l’impostazione storica della «critique française», onde felicemente Dain, nei Manuscrits, declassò il poco significante ‘archetipo’ (quando davvero lo si può ricostruire) a «plus proche commun ancêtre de la tradition» e chiamò invece ‘archetipi’ gli esemplari che ebbero davvero rilevanza storica: le edizioni tardo-antiche, e, prima ancora, le decisive sistemazioni alessandrine dei grandi autori. Ma allora come non ricordare, conclusivamente, l’intrinsechezza che Wilamowitz ottantenne dichiarò verso tutta la cultura francese nel mirabile suo schizzo autobiografico stilato di getto in latino il 6 marzo 1928? «Eodem fere tempore – scrive – et iam prius (inde fere ab 80)40 Gallos, Voltaire, Diderot legere coepi et multa multum legi, a Rabelais ad Verlaine, quos cum recte aestimassem, in tenebras recessere Germani veteres, etiam Lessing»41. William M. Calder III, che ebbe il grande merito di pubblicare questo prezioso Van Groningen, «Ekdosis» (cit. n. 15), pp. 7-8. Cioè 1880. 41 Che era stato la sua prima passione letteraria, ed è il primo autore menzionato («Lessing 1865/6»). 39 40

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testo, a tratti sconvolgente42, ha segnalato anche, nel commento a questa frase, che la descrizione del filologo schizzata da Wilamowitz nelle coeve Erinnerungen (p. 104 della seconda edizione: «Dazu muss der Kopf kühl sein, aber heisse Liebe im Herzen brennen») è ispirata ad un’analoga battuta di Diderot nel Paradoxe sur le comédien. Lo schizzo autobiografico è rilevatore anche per quel che riguarda l’apprezzamento profondo che Wilamowitz esprime per Spinoza. Una indagine approfondita di quel mirabile testo ci porterebbe lontano, e non può rientrare in questo intervento.

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Ad esempio nella drastica dedizione più volte proclamata verso Platone e nel non meno drastico «Christiana cor meum numquam intravere»: W. M. Calder, «Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff: an unpublished Latin Autobiography», Antike und Abendland, 21 (1981), pp. 34-51 (pp. 42 e 48).

L’edizione critica di un testo patristico. Caratteri e problemi Manlio SIMONETTI (Roma)

Se sfogliamo quell’autentica Bibbia del filologo che è la Storia della tradizione e critica del testo di Giorgio Pasquali1, avvertiamo subito come, tra tanti autori dell’antichità classica, vi siano presi in considerazione anche antichi testi cristiani, dal Nuovo Testamento alla Historia ecclesiastica di Eusebio, dalle lettere di Gregorio di Nissa alle poesie di Prudenzio; e se vogliamo additare un editore di testi patristici eccezionalmente benemerito per qualità e quantità di lavoro, il pensiero corre subito a Eduard Schwartz, vale a dire, a un filologo classico. La cosa non sorprende, perché gli ambiti delle lettere classiche e cristiane, ben specificati uno rispetto all’altro in virtù dei contenuti, non lo sono invece per quanto attiene all’allestimento di edizioni criticamente valide: in effetti furono gli stessi tramiti di trasmissione che assicurarono, lungo i secoli del medioevo, la sopravvivenza dei testi sia pagani sia cristiani, e gli stessi monaci che trascrivevano Ambrogio e Agostino, dedicavano le loro cure, pur se più occasionalmente, a Cicerone e Virgilio. D’altra parte, gli antichi testi cristiani, quelli che oggi definiamo patristici, presentano alcuni caratteri che, pur non essendo loro specifici in senso stretto, di fatto si riscontrano mediamente con maggiore frequenza nelle loro pagine che non in quelle dei testi classici, e perciò possono essere assunti come oggetto della nostra attenzione. A mo’ d’introduzione basterà accennare che di nessun scrittore antico si dispone di autografi, non solo a causa del distacco cronologico ma anche perché lo scrittore antico di norma non scriveva direttamente lui ma dettava a tachigrafi, i quali mettevano per scritto l’opera, che poi i copisti passavano in bella copia. Disponiamo perciò di trascrizioni, che col passare del tempo si succe1

Pubblicata a Firenze in prima edizione nel 1934, in seconda nel 1952.

DOI 10.1484/M.IPM.1.101074

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devano l’una all’altra, nel senso che quella data copia dell’opera, mettiamo di Tertulliano o Agostino, veniva successivamente trascritta per diventare a sua volta la copia (antigrafo) di cui si facevano altre trascrizioni (apografi), prima su papiro e poi su pergamena, e così di seguito, sì che gradualmente il processo di trascrizione si allargava a raggiera attraverso i secoli dell’età di mezzo e dell’umanesimo, finché la scoperta della stampa ha modificato radicalmente il procedimento di trasmissione e diffusione dei libri. A migliaia sono giunti a noi i codici pergamenacei contenenti scritti degli antichi autori cristiani, ma sono sempre un’esigua minoranza rispetto a quante copie di una data opera sono state fatte col passare dei secoli e in gran parte sono andate perdute per motivi vari2. Definiamo tradizione manoscritta di una data opera il complesso dei codici di essa che sono giunti a noi3. L’entità dei manoscritti superstiti può variare, anche di moltissimo, da un’opera all’altra, da uno scrittore all’altro. È ovvio che è maggiore l’entità della tradizione manoscritta delle opere di scrittori importanti, ma 2 Tra questi motivi, in primo luogo vanno annoverati gli eventi bellici, soprattutto in Occidente le guerre di religione del Seicento, che provocarono la distruzione di numerosi conventi, con annesse biblioteche: si pensi all’importantissima biblioteca del monastero di Fulda. Ricordiamo, per la sua romanzesca vicenda, l’Ad Diognetum, testo, si pensa, del III secolo, che attraversa senza tracce ben oltre un millennio, per apparire in una pescheria di Costantinopoli nel 1436, all’interno di un codice contenente una raccolta di testi apologetici patristici e bizantini, quale unico testimone dell’anonima apologia; trasmigra poco dopo in Occidente dove, copiato tre volte nella seconda metà del Cinquecento, quindi oggetto di decine d’edizioni e infine attentamente collazionato due volte nel 1842 e nel 1861, scompare definitivamente nell’incendio della biblioteca di Strasburgo, bombardata dai prussiani nel 1870 (cfr l’edizione di H. I. MARROU, Paris, 1951 [SCh, 33]). 3 Definiamo questa tradizione diretta, e invece indiretta quella rappresentata da citazioni di una data opera all’interno di un’altra dello stesso o di altro autore. P. es., la Storia della chiesa di Eusebio di Cesarea è costituita per larga parte da passi di scritti di autori cristiani precedenti, molti dei quali, andate perdute le opere originali, sono conosciuti soltanto per questo tramite. Una collocazione particolare all’interno della tradizione indiretta occupano le antologie esegetiche greche (chiamate più tardi catene) sui singoli libri biblici. Nate in età tardoantica al fine di facilitare la fruizione dell’immenso patrimonio esegetico patristico, divennero presto vero e proprio genere letterario che restò vitale nella tradizione manoscritta per oltre un millennio. Cfr sull’argomento il recente C. CURTI, M. A. BARBÀRA, Catene esegetiche greche, in Patrologia, V, Dal Concilio di Calcedonia (451) a Giovanni Damasceno († 750). I Padri Orientali, ed. A. DI BERARDINO, Genova, 2000, pp. 611-655, con ampia bibliografia.

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neanche in questo caso bisogna generalizzare: perfino di Agostino qualche scritto è addirittura scomparso. Comunque, in complesso, di scrittori come Ambrogio, Girolamo, Agostino sono giunti a noi molti, a volte moltissimi manoscritti delle loro opere; invece di altri scrittori, tutt’altro che disdicevoli, alcuni scritti sono conosciuti grazie a un solo testimone4, talvolta addirittura soltanto da antiche edizioni a stampa, in quanto il o i manoscritti di cui quei primi stampatori si sono serviti sono successivamente scomparsi per accidenti vari5. In casi di tal genere il compito del moderno editore è relativamente agevole, pur se necessariamente denso d’interrogativi, e così anche quando i manoscritti superstiti sono pochi: ben diverso il caso quando i manoscritti sono molti, addirittura moltissimi. In effetti soltanto la collazione di tutti i testimoni mette l’editore in grado di apprezzare in modo esauriente il loro valore e di stabilire sulla base degli errori comuni i rapporti che intercorrono tra loro e perciò, in caso di lezioni diverse attestate per le stesse parole, scegliere quelle che egli ritiene originali6. Per altro, quando i manoscritti sono molti, il lavoro di collazione diventa troppo faticoso per un solo studioso, a volte impossibile da realizzare: si pensi alle centinaia di codici che ci hanno tramandato le Confessiones o le Enarrationes in Psalmos di Agostino. In casi di questo genere o si fa una cernita preliminare di alcuni testimoni da privilegiare rispetto ad altri ovvero si ricorre a un lavoro di équipe: ma nel primo caso sono evidenti i limiti dell’iniziativa7, 4 È il caso dell’Octavius di Minucio Felice e dell’Adversus nationes di Arnobio, conosciuti soltanto grazie al codice Parigino latino 1661 (IX secolo). 5 È il caso del De trinitate di Novaziano, sulla cui vicenda editoriale cfr G. F. DIERKS, Novatiani Opera quae supersunt, Turnhout, 1972 (CC SL, 4), pp. 2 ss. 6 È il cosiddetto metodo di Lachmann, sul quale cfr S. TIMPANARO, La genesi del metodo del Lachmann, Padova, 19852. Esso ha reso obsoleti i precedenti criteri editoriali, fondati o su un testo considerato più attendibile perché più diffuso (textus receptus) o su quello trasmesso dalla maggioranza dei codici (codices plurimi) senza tener conto delle loro reciproche relazioni o su quello attestato dall’esemplare ritenuto migliore (codex optimus). 7 Per forza di cose, in cernite di questo genere, si privilegiano soprattutto manoscritti di maggiore antichità, ma una serie di fatti ha dimostrato che i codici recentiores non sono sempre deteriores, sì che applicando quel criterio si corre il rischio di eliminare a priori qualche testimone importante nonostante la sua recenziorità.

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nel secondo si devono fare i conti con la difficoltà sia di mettere insieme un’équipe di studiosi validi sia di riuscire a farli operare in modo soddisfacentemente omogeneo. Dopo questi cenni necessariamente generici di carattere preliminare, entriamo più direttamente in rem, precisando che ci occuperemo di problemi: 1. 2. 3. 4. 1.

inerenti alla composizione stessa dell’opera; connessi con l’esistenza, o meno, del cosiddetto archetipo; proposti da testi scritti in lingua che, per comodità, definiamo grammaticalmente ‘irregolare’; derivati dalla citazione di un’opera, nella fattispecie biblica, nel contesto di un’altra8.

Oggi la pubblicazione di un libro implica tre operazioni ben distinte una dall’altra: l’autore scrive l’opera, il tipografo la stampa, l’editore la diffonde. Nel mondo antico il medesimo procedimento si aveva con opere che venivano trascritte in buon numero di copie nelle officine librarie e messe in vendita nelle librerie: era il caso soprattutto dei libri d’autore in uso nelle scuole e delle opere di scrittori importanti, in prosa o in versi. Ma raramente il libro di contenuto cristiano veniva pubblicato in questo modo9, e per lo più veniva trascritto e diffuso privatamente: ne risultava che la seconda e la terza operazione venivano in sostanza a coincidere, in quanto l’autore o chi per lui, che aveva fatto trascrivere e diffuso inizialmente solo pochi esemplari di una data opera, se richiesto, la faceva ulteriormente trascrivere e recapitare al richiedente. Ma in casi particolari poteva darsi che anche la composizione dell’opera interferisse con la sua diffusione, nel senso che l’opera alla quale quel dato autore attendeva era conosciuta, in ambienti a lui molto vicini, a mano a mano che veniva composta, e poteva darsi il caso che critiche e suggerimenti provocati da questa parziale e continuata conoscenza inducessero l’autore a soppressioni modifiche aggiunte: è il caso, per es., di uno scritto importantissimo quale il De principiis di Origene, la cui struttura, per vari rispetti anomala, si spiega appunto come esito di ripensamenti e modifiche appor8 Per non dilatare troppo questa relazione, limitiamo l’esemplificazione, pur con più di un’apertura in ambito greco, a testi in lingua latina. 9 Con l’eccezione, quando la religione cristiana s’impose quale religione ufficiale dell’impero, della Bibbia e di opere di particolare successo, quali, p. es., la Vita Martini di Sulpicio Severo.

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tati dall’autore in itinere. Oggi lo studioso è in grado di ricostruire il complesso procedimento di composizione e diffusione di questa opera soltanto a grandi linee, mentre resta dubbio l’accertamento di tanti dettagli10: ed è evidente, invece, che ai fini di una corretta edizione critica sarebbe importante che l’editore fosse meglio a conoscenza di tali dettagli. Un caso diverso si ha quando un autore, dopo aver completato e diffuso un suo scritto, vi ritorna sopra con aggiunte e/o modifiche. È il caso, per fare soltanto due esempi ben diversi uno dall’altro, della Historia ecclesiastica, che Eusebio di Cesarea integrò più volte per aggiungere, di volta in volta, nuove notizie pertinenti ai fondamentali avvenimenti che di giorno in giorno modificavano, tra la fine del III secolo e gl’inizi del IV, il quadro del rapporto tra chiesa e impero; e del De fide di Gregorio di Elvira, dettato nel contesto delle vicende della controversia ariana negli anni 357-360, e ripreso qualche tempo dopo dall’autore al fine di replicare a critiche che gli erano state mosse. In ambedue questi casi siamo in grado di accertare come sono andate in complesso le cose, per l’eccezionale competenza dell’editore, Schwartz, nel caso di Eusebio, e nel caso di Gregorio perché per vie diverse e sotto nomi diversi ci sono state tramandate ambedue le redazioni11. Ma in altri casi è tutt’altro che agevole accertare se effettivamente quel dato autore abbia rivisto in secondo tempo la sua opera: in anni ormai abbastanza lontani si è discusso non poco di seconda redazione d’autore a proposito dell’Apologeticum di Tertulliano senza per altro nulla concludere di concreto12. È ovvio che in casi di questo genere l’incertezza non può non riflettersi anche sull’allestimento dell’edizione critica. Un caso ancora diverso è quello di scritti di contenuto canonistico (liturgico e/o disciplinare). Opere di questo genere per loro natura non sono originali, nel senso che i loro autori, o meglio redattori, raccolgono e dispongono con un certo ordine materiale già in uso 10 Per dettagli in argomento, cfr G. SFAMENI GASPARRO, Origene e la tradizione origeniana in Occidente, Roma, 1998, pp. 237 ss.; M. SIMONETTI, «Agl’inizi della filosofia cristiana: il de principiis di Origene», Vetera Christianorum, 43 (2006), pp. 157-173. 11 Per Eusebio si veda il terzo volume dell’edizione critica di E. SCHWARTZ (Eusebius Kirchengeschichte, Leipzig, 1908), per Gregorio di Elvira l’edizione del De fide da me curata (Torino, 1975). 12 Per un recente ragguaglio sulla questione cfr P. PODOLAK, in Tertulliano. Opere apologetiche, edd. C. MORESCHINI, P. PODOLAK, Roma, 2006, pp. 172 ss.

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nelle loro comunità. Come tali, queste opere sono destinate ad accrescersi continuamente per l’aggiunta di altro materiale e anche a essere travasate da un’opera a un’altra per lo più di maggiori dimensioni. È evidente quanto questo stato di cose complichi il lavoro dell’editore, per lo più alle prese con manoscritti notevolmente diversi tra loro per la mancanza di omogeneità di questo materiale variamente collettaneo. Per averne un’idea basta scorrere tanti scritti della sterminata bibliografia relativa alla Didachè, con svariate, quasi tutte infondate, proposte di espunzione a spese del testo del principale testimone, un manoscritto conservato ora a Gerusalemme, il solo che ci abbia tramandato direttamente l’opera originale con l’omissione soltanto di poche righe finali13. 2.

Di norma, tra un testo classico e i codici più antichi che ce lo hanno tramandato si frappone un intervallo temporale di molti secoli, e spesso i codici che ci hanno trasmesso questo testo sono pochi, a volte pochissimi. Invece per i testi patristici l’intervallo temporale è di media molto più ristretto, a volte ristrettissimo: per fare qualche esempio, del De trinitate d’Ilario di Poitiers, dettato intorno al 360, ci sono giunti ben quattro manoscritti del V-VI secolo e altre quattro copie mutile o frammentarie della stessa epoca, e anche delle Historiae di Orosio, che risalgono ai primi decenni del V secolo, abbiamo un testimone della fine del VI secolo14. Abbiamo inoltre già rilevato come i testimoni che ci hanno trasmesso gli scritti patristici siano mediamente molto più numerosi rispetto a quelli che ci fanno conoscere i testi classici. Proprio la consapevolezza di queste differenze dovrebbe rendere cauto l’editore di testi patristici nell’applicazione di certi criteri ecdotici che pure sono del tutto usuali nella valutazione critica della tradizione manoscritta dei testi classici. Mi riferisco innanzi tutto all’identificazione del cosiddetto archetipo, intendendo con questo termine l’esemplare non giunto a noi, intermedio tra la prima edizione di una data opera e i codici che Si veda in proposito l’edizione di G. VISONÀ, Didachè. Insegnamento degli Apostoli, Milano, 2000. 14 Di Ilario riportano il testo integro o quasi i Parigini lat. 2630, 8907, il Vaticano Basilicano D 182 e il Veronese Bibl. Cap. XIV (12); mutili o frammentari i manoscritti Paris, nouv. acq. lat. 1592 (libri 6-12), Wien 2160, Paris lat. 13367, Besançon 184 + 640; di Orosio il testimone più antico è il ms. Laurenziano Plut. 65. 1. 13

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ce l’hanno trasmessa e che derivano tutti da questo esemplare perduto. Ricordo, come esempio κατ’ἐξοχήν, che i due principali testimoni del poema di Lucrezio, due manoscritti di Leida, del IX secolo, denominati Oblongus e Quadratus, concordano tra loro in tante corruttele di varia entità da convincere Lachmann della loro derivazione da uno stesso esemplare, che egli assegnava al IV-V secolo. Rileviamo a tal proposito sia l’intervallo di tempo intercorrente tra l’epoca di composizione dell’opera e quella della trascrizione dei due manoscritti, quasi mille anni, e l’esiguità di questa tradizione manoscritta. Casi di questo genere, ben attestati nell’ambito dei testi classici, ovviamente non mancano nell’ambito dei testi patristici: io stesso svariati anni fa dimostrai che tutti i codici, meno uno, posteriori all’XI secolo, che ci hanno tramandato l’Apologia di Rufino di Aquileia, dettata sul finire del IV secolo, discendono da un unico esemplare, con ogni probabilità rimontante al IX secolo15. È naturale perciò che il filologo aduso ad applicare all’edizione dei testi cristiani criteri di valutazione usuali in ambito classico sia portato a generalizzare l’esistenza dell’archetipo intermedio anche in età patristica, dove invece, per i motivi che ho sopra accennato, occorre valutare con maggiore cautela. Mi limito a un esempio. Le Confessiones di Agostino, composte verso la fine del IV secolo, ci sono state tramandate da numerosissimi manoscritti, svariate centinaia. La selezione di quelli utilizzati per le tre edizioni critiche che sono state pubblicate tra il 1896 e il 1991 è stata ristretta a una dozzina di testimoni, quasi tutti del IX secolo. Anteriore a questa data si ha soltanto il Sessoriano 55, che risale al VI secolo, così come l’antologia di passi di quest’opera allestita da Eugippio. Pius Knöll, al quale dobbiamo la prima edizione critica dell’opera per il CSEL (vol. 33; Wien – Leipzig, 1896), collazionando i manoscritti da lui selezionati constatò che tutti si accordano in alcuni errori, non più di tre o quattro indiscutibili, e su questa base postulò l’esistenza di un archetipo intermedio tra l’edizione agostiniana dell’opera e gl’innumerevoli manoscritti che ce l’hanno tramandata. La sua ipotesi fu accettata dai successivi editori, Martin Skutella (Leipzig, 1934) e Luc Verheijen (Turnhout, 1981, CC SL, 27). Mi chiedo se questa ipotesi possa essere 15 Cfr Tyrannii Rufini Opera, ed. M. SIMONETTI, Turnhout, 1961 (CC SL, 20), pp. 31 ss.

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considerata valida: il numero degli errori è esiguo, tanto più se rapportato alla lunghezza dell’opera, in tredici libri; tra l’epoca della sua composizione e la datazione del Sessoriano intercorrono non più di due secoli; l’entità della tradizione manoscritta è stragrande, e dobbiamo anche considerare che, secondo l’attestazione proprio di Agostino, le Confessiones erano la sua opera più popolare, il che significa che la sua conoscenza si era diffusa rapidamente in Africa Italia Gallia e altrove. Considero molto difficile che varie centinaia di manoscritti, dispersi in diverse regioni d’Europa, possano essere derivati tutti, direttamente o indirettamente, da un unico esemplare trascritto dopo la fine del IV secolo e prima del VI. Preferisco perciò ipotizzare che i pochi errori comuni a tutti i manoscritti finora utilizzati per l’edizione critica fossero già presenti nell’esemplare dal quale Agostino a suo tempo aveva fatto trascrivere le prime copie di questa sua fortunata opera16. In effetti il filologo classico, aduso a trattare con testimoni tanto lontani dall’epoca di composizione delle opere che tramandano, necessariamente è portato a dare poco peso all’eventualità di errori già contenuti nella prima edizione di tali opere; ma, come ho rilevato, in ambito patristico le cose stanno diversamente e impongono di prendere in considerazione questa eventualità, tanto più se teniamo conto della complessità del procedimento editoriale e anche della disattenzione, oltre che dell’ignoranza, di tanti copisti. Basti scorrere il testo del De doctrina christiana di Agostino trascritto, per i primi due libri, nel codice Petropolitano Q.v.I.3, addirittura coevo dell’opera e forse uscito proprio dallo scrittorio d’Ippona, eppure tanto ricco di sviste d’ogni genere17. Per concludere su questo punto, in casi di opere tramandate da manoscritti cronologicamente non molto distanti dall’epoca di composizione, si può ammettere la derivazione di tutti gli attuali testimoni da un archetipo intermedio solo in presenza di un numero notevole di errori significativi o comunque anche di una sola corruttela ma veramente indicativa (p. es., la presenza di una vasta lacuna in tutti i testimoni, che stia a indicare caduta di uno o più Cfr quanto osservo in proposito in Sant’Agostino. Confessioni, I, Milano, 1992 (Fondaz. L. Valla), pp. CLXV ss. 17 Per la documentazione rinvio all’apparato della mia edizione, Sant’Agostino. L’istruzione cristiana, Milano, 1994 (Fondaz. L. Valla). 16

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fogli nell’archetipo). In presenza di un numero esiguo di errori non così significativi è preferibile ipotizzare la loro presenza già nella prima edizione dell’opera. Il chiarimento non ha soltanto valore teorico: se infatti un editore è convinto di trovarsi di fronte a una tradizione chiusa, la tendenza a correggere il testo tràdito ne risulta senz’altro incoraggiata. Per tornare alle Confessiones, se Verheijen non fosse stato convinto della derivazione di tutta la tradizione manoscritta da lui utilizzata da un unico archetipo intermedio, non sarebbe stato tanto corrivo a correggere il testo tramandato concordemente da tutti i manoscritti anche là dove non se avverte la necessità: si veda, p. es., a 1, 2, 2: non enim ego iam inferi, et tamen etiam ibi es, il caso di inferi, accettato dagli altri editori come forma di locativo e da lui integrato arbitrariamente in in profundis inferi. 3.

Qui sopra ho accennato alle difficoltà nelle quali l’editore di testi patristici può imbattersi in presenza di forme grammaticalmente ‘irregolari’. Con questo termine, di cui non mi sfugge l’approssimazione, intendo due fenomeni tra loro variamente correlati ma che in complesso si possono considerare distinti uno dall’altro. In primo luogo intendiamo, in senso lato, formazioni grammaticali tipiche del latino tardo, risultato del processo di continua modificazione del linguaggio, più o meno profondamente innovative rispetto alle corrispondenti forme del latino che per comodità definiamo classico: un’interrogativa indiretta coll’indicativo, che al tempo di Cicerone è un volgarismo evitato dagli scrittori di un certo livello, al tempo di Girolamo è acclimatato anche in tali scrittori. Come si vede, nulla di specifico dei testi cristiani: ma di fatto già nel III secolo i testi cristiani in lingua latina tendono a soverchiare quantitativamente i testi pagani, e col passare del tempo il divario si accentua fino alla scomparsa dei testi pagani, sì che fenomeni di questo genere si riscontrano soprattutto in testi di scrittori cristiani, tanto più che costoro in complesso si sentirono meno legati di quelli pagani ai vincoli della tradizione letteraria e perciò anche grammaticale. Forme grammaticali di questo genere propongono spesso difficoltà all’editore, dato che, là dove il testo in questione è stato tramandato da più testimoni, è probabile che qualcuno di essi attesti anche la forma grammaticalmente più tradizionale, e la scelta tra le due non riesce agevole, soprattutto se la differenza non è di gran conto. Per es., quando in Agostino ricorrono forme

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come transibat, praeteribat, quasi sistematicamente i manoscritti oscillano tra questa forma classica, e transiebat, praeteriebat, forma analogica di uso più recente in contesto letterario, che al tempo di Agostino ormai faceva concorrenza all’altra. La difficoltà di optare per una forma o per l’altra è accresciuta dal fatto che in linea teorica sarebbe arbitrario ricercare una soluzione onnivalente, dato che Agostino, a seconda delle circostanze e degli umori del momento e soprattutto del maggiore o minore spessore letterario dell’opera alla quale in un dato momento attendeva, potrebbe aver preferito ora la forma più tradizionale, ora l’altra. In questo specifico contesto e alle prese con variazioni di modestissimo significato, nei Dialogi di Gregorio Magno, opera volutamente volgarizzante, sistematicamente c’imbattiamo, nei testimoni a nostra disposizione, nell’alternanza hi / hii, velim / vellim: nel primo caso sia Adalbert de Vogüé sia il sottoscritto18 abbiamo sistematicamente preferito la forma volgarizzante hii, nel secondo caso altrettanto sistematicamente de Vogüé velim, io vellim. Ma è tutt’altro da escludere che Gregorio potrebbe aver scritto, nella stessa opera, ora in un modo ora nell’altro; epperò, dato che, in questi casi, l’alternanza della tradizione è sistematica, l’editore per forza di cose è costretto a normalizzare o in un senso o nell’altro. In casi, per altro, di innovazioni grammaticali di maggiore significato il ricorso ai normali procedimenti della tecnica ecdotica permette a volte di risolvere correttamente la difficoltà. Per es., in un passo del De benedictionibus patriarcharum di Rufino leggiamo così nell’unico manoscritto che ci ha trasmesso l’opera, il Vindobonense lat. 847, molto antico e molto buono: refertur enim et hoc ab scriptura sancta quod habebant consilium fratres sui (sono i fratelli del patriarca Giuseppe) illo in tempore ut occiderent eum, sed interveniens Iuda represserit parricidale consilium (2, 25)19. Nella perfetta coordinazione delle due proposizioni dipendenti dal quod dichiarativo risulta immotivato il passaggio dall’indicativo della prima al congiuntivo della seconda; di conseguenza Domenico Vallarsi nella sua edizione (ripubblicata in PL, 20) ha adottato la correzione repressit. Ma nel 18 Faccio riferimento all’edizione Grégoire le Grand. Dialogues, ed. A. DE VOGÜÉ, tr. P. ANTIN (SCh, 251, 260, 265), Paris, 1978-1980, e alla mia edizione dello scritto gregoriano, Milano, 2005 (Fondaz. L. Valla), pp. LXX ss., alla quale rinvio per maggiore informazione in argomento. 19 Cfr CC SL, 20 (cit. n. 15), p. 220.

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complesso degli scritti di Rufino, a guardare attentamente sulla scorta diretta dei manoscritti, si riscontrano, nelle forme verbali, parecchi casi di variazioni altrettanto immotivate, sia di modo sia di tempo, in sequenze di proposizioni tra loro coordinate20: perciò il ricorso all’usus scribendi dell’autore permette di concludere che sia in questo caso sia negli altri similari, anche se Vallarsi ha preferito normalizzare sistematicamente, la variazione è originaria e perciò va accolta nel testo senza correzione. Finora ci siamo occupati di scrittori di ottimo o buon livello letterario. Ma ormai cominciano a imbatterci in una letteratura di più basso livello, dedicata a generi di larga popolarità, come quello agiografico, e in opere di autori spesso largamente illetterati e perciò capaci di esprimersi soltanto in un latino molto scaduto sotto l’aspetto sia lessicale sia grammaticale. Poi, col passare del tempo, causa il progressivo imbarbarimento culturale, questo scadimento si avverte anche in scrittori di ben più alto livello ma attivi in ambienti ormai culturalmente disastrati: è il caso, per es., di Gregorio di Tours. In opere siffatte, stante la frequente oscillazione dei manoscritti tra forme più o meno grammaticalmente o lessicalmente compatibili, di continuo si propone il dilemma: è la forma originariamente corretta ch’è stata svisata nel corso della trasmissione del testo, o è quella originariamente scorretta ch’è stata normalizzata da qualche copista? Bruno Krusch e Wilhelm Levison, nell’edizione dell’Historia Francorum di Gregorio pubblicata in MGH21 hanno ritenuto valida la seconda alternativa e hanno preferito in linea di principio le forme anomale: ma non è facile convincersi che Gregorio, il quale leggeva ancora qualcosa di Virgilio, di suo usasse scrivere abitualmente victuria invece che victoria. In testi grammaticalmente così caratterizzati l’editore incontra particolare difficoltà là dove ha a che fare con passi in cui i vari testimoni sono, più o meno, d’accordo nel presentare un testo di una certa ampiezza in cui, a un certo punto, il filo, sia logico sia sintattico, del discorso viene meno irrimediabilmente. Quando infatti casi di questo genere si riscontrano in autori di più alta caratura linguistica attivi in ambienti culturalmente elevati, l’impossibilità di ammettere che proprio lo scrittore si possa essere espresso in Per esempio in proposito si veda l’indice rufiniano in CC SL, 20 (cit. n. 15), p. 343. 21 SS. rer. Merov., 1.1, Hannover, 1937-1951. 20

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questo modo spinge a ipotizzare che ci troviamo di fronte o a una lacuna o ad altra grave corruttela del testo verificatasi durante il corso della sua trasmissione: ma nei testi di cui ci stiamo occupando ora non si può affatto escludere che il difetto sia nel manico, vale a dire che l’autore illetterato non sia stato in grado di padroneggiare un periodo di una certa complessità e a un certo punto si sia perso per strada. Per illustrare con un esempio questo tipo di difficoltà, mi servo di uno scritto ps. ciprianeo, il De duobus montibus. Si tratta di opera di datazione piuttosto alta, III-IV secolo, ma scritta da ignoto vescovo africano evidentemente aduso a parlare in punico e che di latino aveva solo una superficiale infarinatura, per cui si è espresso in una forma addirittura gremita di tutte le possibili occorrenze di un ‘cattivo’ latino, lessicali morfologiche sintattiche. Nei frequenti casi di questo genere i manoscritti presentano di norma l’oscillazione, già sopra segnalata, tra forma anomala e corrispondente forma normale; per quem e per quo, ex persona e ex personam, dicente Iesu e dicentem Iesu, parentorum e parentum. In casi di questo genere si fanno preferire, di norma, le forme anomale, tanto più che esse trovano sistematico riscontro nelle epigrafi cristiane rinvenute in Africa. Risulta invece ben più difficile decidere in casi di periodi sintatticamente scombinati. Per es., nel cap. 3 leggiamo: et deus ex eodem monte Sina terreno per Moysen adhuc in carne terrena primi hominis positum populo Iudaeorum terreno et carnali legem a deo accipit illis tradendam, digitis sacris scriptam in duabus tabulis lapideis22. Così com’è, e su di esso c’è largo consenso dei manoscritti, il testo è insostenibile. L’editore viennese Wilhelm Hartel (CSEL 3.3; Wien, 1871) ha risolto solo molto parzialmente la difficoltà integrando dedit dopo legem: deus … populo Iudaeorum legem dedit; ‘questa legge Mosè l’ha ricevuta e l’ha data’ ecc., e su questa strada si potrebbe proporre anche qualche altro miglioramento23. Ma la vera difficoltà qui sta a monte: cioè, ci dobbiamo chiedere se siamo autorizzati a intervenire su un testo come questo. Teniamo conto che in un’opera di meno di una ventina

Per documentazione in proposito, rinvio all’edizione di C. BURINI, Pseudo Cipriano. I due monti Sinai e Sion, Fiesole, 1994, p. 148. 23 Si potrebbe, p. es., ipotizzare un’omissione più ampia tra legem e accipit (Deus … legem dedit. Moyses legem accipit), come propone in apparato BURINI (cit. n. 22), per spiegare più facilmente l’eventuale omissione con saut du même au même. 22

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di pagine casi di questo genere ricorrono altre volte, e intervenire sistematicamente, come ha fatto Hartel, con integrazioni e indicazioni di lacuna, appare arbitrario, in quanto si può ipotizzare che a esprimersi in modo tanto poco soddisfacente sia stato proprio l’ignoto autore, poco pratico di grammatica latina. Presentiamo ora un esempio di tutt’altro genere, in cui proprio il postulare un’improprietà sintattica permette di risolvere una situazione testuale ingarbugliata. Nei Dialogi di Gregorio Magno, la cui facies linguistica volutamente volgarizzante abbiamo già rilevato, leggiamo il miracolo del risanamento di un corpo piagato (4, 28, 3); nel punto che ci interessa i testimoni da noi utilizzati si ripartiscono in due lezioni: umquam vulneris nihil e numquam vulneris aliquid. È chiaro che ambedue le lezioni hanno cercato in modo diverso di evitare la ripetizione pleonastica della negazione; ma pleonasmi di questo genere sono ben attestati nel latino tardo: non avremo perciò difficoltà a risolvere l’impasse proponendo l’agevole correzione numquam vulneris nihil, che mette d’accordo ambedue le varianti. Per concludere su questo punto, presentiamo un caso ancora diverso, in quanto ora la difficoltà del testo è in ambito lessicale. In un passo del De aleatoribus, operetta africana linguisticamente molto simile al De duobus montibus di cui sopra, in 7, 9 come attributo di imaginem i manoscritti si dividono tra perniciosam e syneciosam24. Questo secondo termine sembra non dar senso, sì che Hartel ha preferito perniciosam e Marcello Marin ha proposto la correzione finctiosam25. Ma syneciosa, che in latino è hapax, in realtà non è altro che traslitterazione di συνοικοῦσα, ossia ‘familiare’, ‘affine’, e rappresenta una lectio difficilior tale da imporsi senz’altro come lezione autentica, che proprio perché non è stata compresa da alcuni copisti, è stata emendata in perniciosam. In questi due ultimi casi è stato possibile risolvere la difficoltà proposta dalla tradizione manoscritta, ma non ci nascondiamo che in testi di questo genere in molti casi le difficoltà di carattere testuale sono destinate a restare insolute: in effetti, quando un’opera dà a vedere una struttura grammaticale insoddisfacente, l’inevi24

Per la documentazione, cfr la recente edizione di C. NUCCI, Bologna, 2006, p. 96. 25 Nell’edizione privata M. MARIN, Il de aleatoribus pseudociprianeo: tradizione manoscritta, edizione critica e appendice, Bari, 1984.

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tabile margine d’incertezza, che quasi ogni opera antica presenta sotto l’aspetto testuale, è destinato ad aumentare, e non di poco26. 4.

Dei vari argomenti dei quali ci stiamo occupando quello che riguarda le citazioni può essere considerato il più specificamente attinente ai testi patristici. Infatti anche se in tanti testi di Cicerone e di altri prosatori pagani si riscontrano citazioni da altre precedenti opere, soprattutto di poeti, il riferimento degli scrittori cristiani al testo della Scrittura, sia mediante citazioni esplicite sia con allusioni che a volte potevano essere anche molto indirette, fu così costante, e spesso addirittura strutturale, da presentarsi nelle loro pagine come un fatto nuovo rispetto a quelli che ci appaiono i caratteri distintivi della pagina di uno scrittore pagano. E anche le citazioni scritturistiche pongono problemi attinenti alla costituzione critica del testo e comunque impongono all’editore precisa attenzione, per più riguardi. Il motivo fondamentale dipende dal fatto che i testi patristici latini anteriori alla diffusione della traduzione geronimiana della Scrittura, quella detta Vulgata, citano il testo biblico secondo traduzioni anteriori, mentre i monaci che nel corso dei secoli medievali erano incaricati di trascriverli erano ormai familiarizzati con la traduzione geronimiana e, soprattutto dove leggevano passi biblici molto noti e perciò da loro conosciuti a memoria, erano naturalmente portati a correggere adeguando la citazione che trascrivevano alla forma di essa che era loro familiare, quella appunto della Vulgata. Perciò, anche se solo in linea di principio, dove i manoscritti di un testo patristico presentano una citazione scritturistica 26 Un caso a parte, in materia di edizione di testi patristici, è rappresentato dall’edizione di testi agiografici. Rappresentanti di una letteratura ‘popolare’ scaglionata dal IV secolo a tutto il medioevo, sono spesso scritti nel latino approssimativo di cui ci stiamo qui occupando. Ma la più grave difficoltà che propongono questi testi è un’altra. Dato il carattere ‘popolare’ del testo, spesso il copista non si riteneva da esso rigidamente vincolato e introduceva di suo qualche variazione. Ne risulta, allo stato degli atti, che molte volte i testimoni che ci tramandano testi agiografici presentano, per uno stesso testo, tali e tante varianti tra un manoscritto e l’altro che, in casi di questo genere, è giocoforza rinunciare a proporre un testo composito sulla base della tradizione manoscritta trattata alla maniera che sopra abbiamo illustrato, ed è preferibile tornare al codex optimus: vale a dire, pubblicare il testo sulla base del testimone ritenuto migliore, e riportare in apparato le varianti degli altri testimoni, in modo che il lettore abbia, tra testo e apparato, il quadro di tutta la tradizione.

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alcuni in aderenza alla Vulgata altri in modo difforme, proprio questa seconda forma sarà da preferire. Non così ha ragionato Hartel quando ha pubblicato in CSEL, 3.1 (Wien, 1868) i Testimonia ad Quirinum di Cipriano, grande raccolta antologica di passi dell’Antico e del Nuovo Testamento, ordinati per argomenti; egli infatti, in presenza, per uno stesso passo biblico, di varianti influenzate e no dalla Vulgata, ha preferito sistematicamente le prime: per es., in 1, 13, nella citazione di Mt 11, 30, iugum meum bonum est et onus meum leve, di fronte alle varianti onus meum leve / sarcina mea levis, ha preferito erroneamente la prima, in quanto confortata dalla Vulgata. La stortura metodologica di Hartel fu subito avvertita dalla critica, e la successiva edizione di Dom Robert Weber, in CC SL, 3 (Turnhout, 1972), ha restituito qui (p. 15) e altrove la retta lezione. Per un altro esempio di questo genere ma ben più complesso, si veda un passo dell’omelia di Agostino su Ps 25: Ad hoc enim hodie cantavimus: «Ne perdas cum impiis animam mam et cum viris sanguinis vitam meam» (Ps 25, 9). Quid enim est: «Ne cum impiis perdas»? Ne simul perdas. (in psalm. enarr. 25, 2, 5). Com’è suo solito, Agostino, dopo aver citato, nel corso dell’omelia, un passo del salmo che sta interpretando lemma per lemma, ne spiega subito qualche termine poco chiaro. In questo caso, a stare al testo dei Maurini, ristampato in PL, 36 e ripreso, senza sostanziali variazioni, in CC SL, 38 (Turnhout, 1956) e anche nel testo latino che correda la traduzione italiana27, Agostino si chiede che cosa significhi: «Non mandare in rovina insieme con gli empi (la mia anima)», e risponde: «Non mandare in rovina insieme», una perfetta tautologia. Ma accanto a manoscritti che citano così il testo del salmo, ce ne sono altri che invece di perdas hanno comperdas: ne comperdas cum impiis vitam meam, dove comperdas corrisponde perfettamente al greco dei LXX μὴ συναπολέσῃ, mentre la Vulgata dà perdas. E questi manoscritti continuano: Quid enim est: ‘Ne comperdas’? Ne simul perdas. A questo punto tutto diventa chiaro. Nel testo del salmo letto in chiesa c’era comperdas, e Agostino ha ritenuto opportuno spiegare subito il significato di questa forma verbale molto rara, adoperata soltanto quale calco del greco συναπολλύναι, e ha spiegato: comperdere significa simul perdere, cioè Cfr Agostino. Esposizioni sui Salmi, edd. A. CORTICELLI, R. MINUTI, I, Roma, 1967, p. 338.

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‘mandare in rovina insieme’. Qui l’adeguamento dell’originario comperdas in perdas della Vulgata ha provocato anche l’alterazione del passo successivo dell’omelia col risultato di rendere incomprensibile il contesto, ma il ricorso ad altri manoscritti che hanno conservato la lezione originaria permette di restituire per intero il testo agostiniano rovinato nelle edizioni a stampa. Non sempre però in casi di questo genere l’accertamento del testo originario risulta così agevole: ce lo dimostra un altro passo agostiniano. A conf. 6, 10, 17 Agostino scrive: et erant ora trium egentium (sono Agostino Alipio e Nebridio) et inopiam suam sibi invicem anhelantium et ad te expectantium ut dares eis escam in tempore oportuno, dove nell’espressione finale è evidente il riecheggiamento di Ps 103, 27. Il Sessoriano 55 e il Parigino 1911, testimone anch’esso parecchio autorevole, presentano ad te, mentre gli altri manoscritti hanno a te. Questa lezione concorda con la Vulgata, mentre ad te concorda col testo dei LXX πρὸ σὲ. Appare perciò ineccepibile la scelta di Skutella e Verheijen che hanno dato la preferenza a ad te. Allo stesso modo e con la medesima motivazione si comporta Franco Gori, recentissimo editore delle Enarrationes 101-109 (CSEL, 105.1, Wien, 2011), che nel testo critico dell’enarratio dedicata specificamente all’interpretazione sistematica di Ps 103 accoglie ad te, testimoniato da circa metà della tradizione manoscritta, mentre l’altra riporta a te 28 . Per c. Pelag. 4, 11, 31, unico altro passo delle opere agostiniane in cui compaia questa citazione biblica, gli editori del CSEL (vol. 60, Wien – Leipzig, 1913, p. 564, l. 12) Carl F. Urba e Joseph Zycha accolgono invece a te, attestato da quattro dei sette manoscritti su cui è ricostruito il testo: dei tre rimanenti, due omettono del tutto la preposizione, e solo uno presenta la variante ad con segno di espunzione sottoscritto alla d. Infine Prospero di Aquitania, la cui pedissequa dipendenza da Agostino nell’interpretazione dei Salmi è ben nota, in in psalm. 103, 27 sembra presentare la forma a te, senza che risultino varianti dall’apparato dell’edizione di Paul Callens (CC SL, 68A, Turnhout, 1972, p. 27, l. 359). Va detto inoltre che a te è sostenuto anche dalla testimonianza del Salterio Gallicano e del Veronese. Si consideri del resto quanto facilmente un originario a te in scrittura continua, abituale al tempo di Agostino, poteva alterarsi in ad te, soprattutto in una 28 Cfr in psalm enarr. 103, 4, 11, dove la citazione si ripete tre volte con le medesime oscillazioni nella trasmissione.

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trascrizione effettuata sotto dettatura: tutto considerato, sono propenso a preferire a te, ma il dubbio resta forte. Concludo queste brevi annotazioni con un caso diverso, dove cioè aver individuato un’allusione scritturistica veramente sottile ha permesso di restituire la lezione originaria del testo, ancora una volta delle Confessiones. A 10, 42, 67, dopo aver parlato di Gesù come mediatore, Agostino presenta un ben altro mediatore, il diavolo: fallax itaque ille mediator, quo per secreta iudicia tua superbia meretur inludi, unum cum hominibus habet, id est peccatum. Dio, nel suo imperscrutabile giudizio, si serve del diavolo per ingannare, deridere (inludi) la superbia dell’uomo. In luogo di inludi il Sessoriano presenta indui, che sia Skutella sia Verheijen hanno scartato, ritenendo forse poco perspicua questa variante, comunque isolata. Ma Alfons Isnenghi29 ha riconosciuto in indui una sottile, sofisticata allusione di Agostino a Rm 3, 14, dove Paolo parla di induere Christum: cioè, dopo aver parlato della mediazione di Cristo, Agostino viene a parlare della mediazione del diavolo e osserva che, come il buon cristiano si riveste di Cristo, così Dio permette che il superbo si rivesta del diavolo (quo … superbia meretur indui). Anche se non matematicamente, siamo comunque ragionevolmente certi che qui indui sia lezione originaria, successivamente modificata in inludi, perché non è stata più intesa l’allusione a Paolo e perciò il testo risultava poco chiaro.

A lui dobbiamo una serie di osservazioni critiche sul testo delle Confessiones: «Textkritisches zu Augustins: ‘Bekenntnissen’», Augustiniana, 15 (1965), pp. 5-31 e 361-388.

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I fondamenti materiali della trasmissione dei testi patristici nella tarda antichità: libri, scritture, contesti Guglielmo Cavallo (Roma)

1. Premessa Quando un discorso, qualsiasi discorso, verte su libri e scritture nell’Occidente latino della tarda antichità e fino a tutto il secolo viii, punto di partenza obbligato della ricerca è la grande raccolta dei Codices Latini Antiquiores di Elias Avery Lowe1: il che vale perciò per i manoscritti patristici di cui si discorrerà. Lo spoglio della raccolta – in questa sede rivolto in particolare agli esemplari prodotti tra i secoli iv-vii e incentrato sui manoscritti contenenti opere di Agostino, ma con qualche incursione anche tra quelli di Ambrogio e Gerolamo – non è certo nuovo giacché, con intenti diversi o variamente mirato a determinati Padri o testi, è già stato operato e ha dato i suoi frutti (basti pensare a contributi come quello, più lontano, dello stesso Lowe mentre lavorava alla sua raccolta2 o a quelli, assai più recenti, di Michael M. Gorman e di Michaela Zelzer3); ma qui si vogliono meglio indagare di quei manoscritti gli aspetti più specificamente inerenti a maniere e contesti in cui furono allestiti, scritti, letti e rivisti, senza dimenticare certe implicazioni relative alla composizione, alla diffusione, alle pratiche di lettura e alla storia ulteriore dei testi che essi contengono. 1 Codices Latini Antiquiores, ed. E. A. Lowe, I-XI and Suppl., Oxford, 19341971 (d’ora in avanti CLA). 2 E. A. Lowe, « A List of the Oldest Extant Manuscripts of Saint Augustine with a Note on the Codex Bambergensis », in Miscellanea Agostiniana, II, Studi agostiniani, Roma, 1931, pp. 235-251 (rist. in E. A. Lowe, Palaeographical Papers 1907-1965, ed. L. Bieler, I, Oxford, 1972, pp. 303-314). 3 Si vedano la raccolta di studi di M. M. Gorman, The Manuscript Traditions of the Works of St Augustine, Firenze, 2001, e M. Zelzer, « Zum Wert Antiker Handschriften innerhalb der patristischen Überlieferung (am Beispiel von Augustinus- und Ambrosiushandschriften) », Augustinianum, 25 (1985) (Miscellanea di studi agostiniani in onore di P. Agostino Trapè), pp. 523-537.

DOI 10.1484/M.IPM.1.101075

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2. Instabilità dei testi patristici Come già nel mondo classico, da cui ereditano le pratiche, i Padri di solito non seguono nella composizione testuale – si tratti di scritturazione autografa, assai rara, o di dettatura a notarii o librarii4 – un percorso lineare che vada dal concepimento dell’opera a una prima stesura e quindi a una edizione definitiva univoca e condotta in ogni momento sotto il controllo diretto ed esclusivo dell’autore. Nel caso dei Padri, peraltro, le urgenze pastorali, le pressanti richieste di opere dottrinali da parte di amici, fedeli, comunità cristiane interferirono non poco nei processi di composizione e di pubblicazione delle loro opere condizionandone o rendendone desultorio il percorso. Consideriamo qualche caso. Si prenda il De civitate Dei di Agostino. Decostruendo e riesaminando due assai discusse lettere a Fermo (1*A e 2* Divjak) si possono ricavare alcuni dati interessanti. Dalla seconda delle due lettere risulta che Fermo aveva richiesto una copia dell’intera opera ad Agostino dopo aver ascoltato la lettura del libro XVIII data in tre pomeriggi consecutivi, segno, quanto meno, che parti dell’opera erano oggetto non solo di recitazioni, ma forse anche di interventi durante questa lettura pubblica. Nella medesima lettera, altresì, Agostino riferisce che da altra lettera di Fermo gli risulta che questi ha letto non transeunter, ma discutendone diligenter, i primi dieci libri dell’opera, e chiede a che gli faccia ugualmente conoscere le sue osservazioni sui rimanenti dodici5. Ma nella prima delle due lettere, inviata a Fermo nel 426/427, Agostino aveva scritto: A proposito dei libri dell’opera La città di Dio che i nostri fratelli di Cartagine ancora non hanno, ti chiedo di metterli amabilmente e di buon grado a disposizione di quanti ne fanno richiesta per trascriverli, senza certamente concederli a molti ma a uno o due, e questi poi li daranno ad altri6.

Alla luce di queste lettere è da chiedersi: l’assetto testuale dell’opera messo da Fermo a disposizione dei fratres di Cartagine per ulteriori Rimando a O. Pecere, « La scrittura dei Padri della Chiesa tra autografia e dictatio », Segno e Testo, 5 (2007), pp. 3-29. 5 Aug. epist. 2*, 2 e 3, 1, ed. J. Divjak, Wien, 1981 (CSEL, 88), p. 10. 6 Ibid., 1*A, 2, p. 8: [...] quos tamen nostri fratres ibi apud Carthaginem ad hoc opus pertinentes quod est de civitate dei nondum habent, rogo ut petentibus ad describendum dignanter libenterque concedas. Non enim multis dabis, sed vix uni vel duobus et ipsi iam ceteris dabunt [...]. 4

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copie era quello inviato da Agostino o, almeno per i primi dieci libri, quello che eventualmente risultava – magari con l’introduzione di osservazioni o varianti – dalla lettura effettuata diligenter da Fermo7? Ma già nel corso della lunga elaborazione del De civitate Dei – protrattasi dal 413 al 427 ca. – Agostino aveva inviato ad amici e corrispondenti gruppi di libri man mano che li andava componendo per averne suggerimenti e correzioni: nel 413/414 inviava i primi tre libri al vicario d’Africa Macedonio8, e nel 418 metteva a disposizione dei monaci Pietro e Abramo i primi dieci libri, già pronti, se ancora non li avessero, e anche quelli successivi, all’incirca fino al XIV, visto che li stava portando a termine a quel momento9. Infine, è da credere che un esemplare dell’opera venisse depositato nella biblioteca di Ippona a disposizione di chi volesse trascriverla. Insomma, da una parte esemplari del De civitate Dei completi o parziali si devono ritenere in circolazione già prima che l’opera fosse licenziata, ma il trattato, d’altra parte, anche una volta definitivamente messo in circolazione continuava a essere oggetto di revisione o di intrusioni altrui, come mostra la corrispondenza con Fermo. Ho voluto ricordare il caso del De civitate Dei come esemplare. Ma non mancano altri casi. Così Agostino scrive a Paolino da Nola: « Poiché stai per leggere molti nostri scritti, molto mi sarà più gradito il tuo affetto se da essi vorrai emendarmi quanto disapprovi »10. E in un’altra lettera ringrazia Simpliciano, il successore di Ambrogio, d’essersi assunto non solo la fatica della lettura dei suoi scritti ma anche quella della correzione11. Si tratta solo di qualche esempio giacché sono molte le opere che Agostino sottopose alla valutazione di sodali e intellettuali cristiani, anche prima della 7 Non mi sembra ponga nei termini giusti la questione, pur avendo il merito di averla suscitata, J. Divjak, « Augustin erster Brief an Firmus und die revidierte Ausgabe der Civitas Dei », Wiener Studien, 8 (1977) (Latinität und Alte Kirche. Festschrift für Rudolf Hanslik zum 70. Geburtstag), pp. 56-70. 8 Aug. epist. 154, 2, ed. Al. Goldbacher, Wien – Leipzig, 1904 (CSEL, 44), pp. 428-429. 9 Ibid., 184A, 5-7, pp. 735-736. 10 Aug. epist. 27, 6, ed. Al. Goldbacher, Prag – Wien – Leipzig, 1895 (CSEL, 34.1), p. 102: [...] Sane quia multa scripta nostra lecturus es, multo mihi erit gratior dilectio tua, si ex his, quae tibi displicuerint, emendaveris me [...]. 11 Aug. epist. 37, 3, ed. Al. Goldbacher, Prag – Wien – Leipzig, 1898 (CSEL, 34.2), p. 64.

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pubblicazione definitiva12, se pure questa vi fu – e non sempre vi fu – in quanto tale. Non solo tuttavia Agostino ma pure altri Padri della Chiesa, anche greci, usavano spesso sottoporre i propri scritti a una cerchia di amici talvolta già nella stesura rivista dall’autore pur se non ancora licenziata. Il che non può suscitare meraviglia. Proprio perché eredi, s’è detto, di pratiche più antiche, i Padri non si comportavano diversamente dagli autori di età classica, i quali solevano far conoscere i loro scritti a una cerchia di amici per riceverne reazioni e suggerimenti: se ne ha notizia da Cicerone a Plinio il Giovane13; quest’ultimo, anzi, nel caso di un suo scritto arriva alla civetteria di dimostrare all’amico Minicio, severo recensore, di saper comporre versioni alternative di certi passi tra cui scegliere14. Insomma, collegando queste pratiche ai dati offerti dalla tradizione testuale, in sede critica vale anche per gli scritti patristici quanto Scevola Mariotti ebbe a scrivere per quelli classici: assai alta è la probabilità che, almeno in certi casi, « tra le innumerevoli varianti significative risalenti con sicurezza o con verosimiglianza ad età antica si conservi, in mezzo a corruzioni e interpolazioni, anche materiale autentico », o meglio un materiale latamente autentico, giacché proprio il rapporto strettissimo tra l’autore e la sua cerchia vanifica ogni tentativo di discernimento tra varianti « genuine » e varianti « sincroniche » uscite da quella cerchia, e lascia perciò dubbi insolubili sulle scelte definitive dell’autore15. Il che, anzi, è ancora più vero nel caso dei testi patristici per tutta una serie di intermediari, depositari, chiese e comunità che non trova riscontro, per articolazione e ampiezza, per gli autori classici e che ancor più perciò poté influire sulla tradizione di quei testi. 12 Le testimonianze sono discusse da M. Caltabiano, Litterarum lumen. Ambienti culturali e libri tra il IV e il V secolo, Roma, 1996, pp. 118-119, e « Libri iam in multorum manus exierunt. Agostino testimone della diffusione delle sue opere », in Tra IV e V secolo. Studi sulla cultura latina tardoantica, ed. I. Gualandri, Milano, 2002, pp. 141-157. Ma si veda anche J. Scheele, « Buch und Bibliothek bei Augustinus », Bibliothek und Wissenschaft, 12 (1978), pp. 14-114 (pp. 88-91). 13 Mi limito a rinviare a O. Pecere, Roma antica e il testo. Scritture d’autore e composizione letteraria, Roma – Bari, 2010, pp. 178-192 e 229-244. 14 Plin. epist. 7, 12, 1-5. 15 S. Mariotti, « Varianti d’autore e varianti di trasmissione », in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno di Lecce (22-26 ottobre 1984), Roma, 1985, pp. 97-111 (p. 101).

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Al di là di tutto questo, si deve aggiungere che nel caso di certe opere patristiche possono essersi generate varianti talvolta dovute a interventi dell’autore stesso anche dopo la pubblicazione e/o la diffusione, altre volte legate a particolari vicende di composizione del testo. Il primo caso è adombrato da Agostino più volte: scrive a Consenzio che, rispetto ai codici mendosissimi che questi possedeva di sue opere, vi erano copie che erano state corrette e perciò – si deve desumere – ulteriormente riviste dall’autore16; a Memorio comunica di non avergli ancora inviato certi suoi libri, che quegli ha sollecitato, giacché, gravato da molti impegni, non è riuscito ancora a correggerli come promessogli, e tuttavia, alla fine, si risolve a inviarglieli pur senza averli rivisti17; si rende conto che i libri del De baptismo parvulorum mandati a Marcellino gli sono stati respinti da quest’ultimo perché mendosi e conclude con un emendare volui18. In questi casi Agostino è intervenuto (o almeno si deve ritenere che sia intervenuto) sui suoi scritti in un secondo momento correggendo e rivedendo e magari introducendo varianti, ma quegli scritti erano già in circolazione... Inoltre, Possidio parla di emendatiora exemplaria conservati nella biblioteca di Ippona19, segno che su questi assai verosimilmente era intervenuto Agostino stesso con correzioni successive. Anche in questo caso si tratta dell’eredità di una pratica antica: Marziale o Plinio il Giovane continuavano a intervenire sui loro scritti già pubblicati e addirittura messi in vendita20. Quanto a varianti d’autore generatesi per vicende varie di composizione del testo, si prendano in particolare ancora una volta due scritti agostiniani: il De Trinitate e il De doctrina christiana. Assai note, grazie alle Retractationes, sono le vicende relative alla composizione e alla pubblicazione del De Trinitate. Sottratti all’autore i primi undici libri mentre componeva il dodicesimo, essi furono diffusi minus emendati quam deberent et possent, sicché quando l’autore urgentis [...] fratribus mise mano a correggerli e aggiunse gli ultimi quattro libri affidando al vescovo Aurelio di Cartagine la copia licenziata, almeno per una buona parte redazione primitiva e redazione finale vennero verosi16 17 18 19 20

Aug. epist. 120, 1, ed. Goldbacher (cit. n. 11), pp. 704-705. Ibid., 101, 1, p. 539. Aug. epist. 139, 3, ed. Goldbacher (cit. n. 8), p. 152. Possid. vita Aug. 18, 10, ed. A. A. R. Bastiaensen, Milano, 1975, p. 178. Mart. 7, 11 e 17; 10, 2, 1-5; Plin. epist. 4, 26, 1.

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milmente a incrociarsi e contaminarsi21. Di questa duplice circolazione, del resto, sembra consapevole lo stesso Agostino, il quale in una lettera-prefazione indirizzata al vescovo Aurelio si limita a dire solo che, ove la redazione definitiva venga a conoscenza di quanti posseggano già l’opera, questi si voluerint et valuerint, emendabunt22. Infine, il De doctrina christiana. Si sa, sempre dalle Retractationes, che la stesura dell’opera fu abbandonata dopo i primi due libri e parte del terzo; solo in una seconda campagna di scrittura essa fu portata a termine con il completamento del terzo libro e l’aggiunta del quarto e ultimo23. Ma quando fu conclusa la stesura dei primi due libri, questi furono evidentemente messi in circolazione, a quanto dimostra il codice Petropol. Q.v.I.3 dell’inizio del secolo v24, il quale – come ha dimostrato in modo convincente William M. Green – contiene solo la prima metà del trattato in un assetto codicologico tale da far escludere che ai primi due potessero seguire i rimanenti libri25: si tratta infatti di un corpus di alcuni scritti agostiniani nel quale il De doctrina christiana è preceduto dai trattati De diversis quaestionibus ad Simplicianum, Contra epistulam fundamenti e De agone christiano, né il codice appare mutilo. Al momento in cui Agostino completò la sua opera sull’istruzione cristiana, peraltro, è assai verosimile che, prima di licenziarla, abbia rivisto quella che Green chiama la « first edition » dei primi due libri, anche se già in circolazione. Ma non è detto che il codice di San Pietroburgo sia stato scritto a Ippona e a stretto contatto con Agostino stesso, proprio perché quella « first edition » si era certamente diffusa anche altrove. Vi è motivo di credere, a quanto risulta anche da uno studio di Almut Mutzenbecher, che il manoscritto sia stato prodotto in Africa, ma non necessariamente a Ippona26; né si può escludere che – pur quando Agostino aveva già completato il trattato – i primi due libri della « first edition » continuassero talora a circolare in un tomo distinto dai 21 Aug. retract. 2, 15, 1, ed. A. Mutzenbecher, Turnhout, 1984 (CC SL, 57), p. 101. 22 Aug. epist. 174, ed. Goldbacher (cit. n. 8), pp. 650-651. 23 Aug. retract. 2, 4, 1, pp. 92-93 ed. Mutzenbecher (cit. n. 21). 24 CLA, 11, 1613 (riferito da Lowe al iv-v secolo). 25 W. M. Green, « A Fourth Century Manuscript of Saint Augustine? », Revue Bénédictine, 69 (1959), pp. 191-197. 26 A. Mutzenbecher, « Codex Leningrad. Q.v.I.3 (Corbie). Ein Beitrag zu seiner Beschreibung », Sacris Erudiri, 18 (1967-1968), pp. 406-450 (pp. 435-442).

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due rimanenti, a loro volta disposti in un secondo tomo quando si volle completare l’opera. È quanto mi pare potersi desumere da alcuni fogli di guardia di due manoscritti conservati alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, riferibili alla seconda metà del secolo vi: si tratta dei codici Ambr. M 77 sup. e G 58 sup. contenenti nei fogli di guardia brevi sequenze l’uno del libro secondo e l’altro del libro terzo27, nei quali risulta che una medesima mano di poco più tarda ha interpunto e corretto il testo. Ma questi fogli del secondo e del terzo libro non possono derivare da uno stesso originario manoscritto giacché gli uni sono scritti in semionciale, gli altri in onciale. Peraltro per un’epoca così alta sembra doversi escludere un’alternanza di scritture diverse, semionciale e onciale, in un medesimo manoscritto. Si deve concludere perciò che i fogli Ambrosiani risalgono a tomi diversi dell’opera contenenti l’uno i libri I-II, l’altro i libri III-IV, rivisti poi insieme da una mano correttrice. Sembra, insomma, che per i primi due libri del De doctrina christiana si trasmettessero sia la prima redazione del testo – la « first edition » di Green, non limitata perciò al solo manoscritto di San Pietroburgo – sia la redazione verosimilmente rivista da Agostino al momento in cui egli completò e licenziò l’opera: ne consegue che in sede critica è da valutare la possibilità che vi siano varianti d’autore. Opere come il De Trinitate e il De doctrina christiana, pur se attraverso vicende testuali che ne segnarono la tradizione ulteriore, giunsero comunque a una edizione finalmente licenziata dall’autore. Ma, restando nell’ambito degli scritti agostiniani, assai istruttiva riesce la lettura delle stesse Retractationes riguardo a opere rese pubbliche e diffuse incomplete o senza un vero e proprio controllo da parte di Agostino, pur se questi, talora suo malgrado, vi acconsentì. Qualche esempio: il De beata vita risulta a fratribus quibusdam descriptus da un esemplare lacunoso o incompleto28; i Soliloquia rimasero incompiuti e così furono diffusi29; i primi nove libri delle Confessiones pare fossero stati messi in circolazione quando Agostino stava ancora scrivendo il decimo30, e perciò – si deve riteCLA, 3, 356 e 343. Aug. retract. 1, 2, ed. Mutzenbecher (cit. n. 21), p. 11. 29 Ibid., 1, 4, 1, pp. 13-14. 30 G. Madec, Introd. a Sant’Agostino. Le ritrattazioni. Testo latino dell’edizione maurina confrontato con il Corpus Christianorum. Introduzione gene27 28

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nere – prima che egli procedesse alla revisione dell’opera completa; il De diversis quaestionibus octoginta tribus, prima di essere pubblicato, si trovava disperso per chartulas multas, senza alcun ordinamento, e fu messo insieme in un libro e riordinato mediante una sequenza numerica solo in un secondo momento e a cura di altri cui Agostino aveva richiesto l’operazione31; le Adnotationes in Iob erano state trascritte dai margini di un codice veterotestamentario e fatte confluire e messe in circolazione in un unico testo, peraltro assai corrotto, per iniziativa di altri, tanto che l’autore non sapeva fino a che punto poteva considerarle opera sua32. Da tutto il precedente discorso risulta una forte instabilità testuale degli scritti agostiniani, ma la medesima considerazione vale verosimilmente per le opere di altri Padri: instabilità dovuta alle vicende di composizione e alle modalità di pubblicazione, di produzione libraria e di circolazione di quelle opere. Si tratta peraltro di una instabilità cui i Padri stessi finiscono con l’acconsentire giacché in essi e nelle loro cerchie prevalgono le urgenze dottrinali e di diffusione e di propaganda degli scritti. Come ha scritto HenriIrénée Marrou, « saint Augustin [...] est bien étranger aux préoccupations d’ordre philologique »33, ed estranei a preoccupazioni di ordine filologico – e di ordine letterario, si può aggiungere – erano anche gli altri Padri, fino a Gregorio Magno. O, meglio, si impongono delle distinzioni. Più attenti quando si trattava di ricontrollare ed emendare le Sacre Scritture, i Padri non sempre lo erano altrettanto riguardo ai loro scritti. Le preoccupazioni che alcuni di essi mostrano in certe subscriptiones alle loro opere a che le successive trascrizioni fossero assolutamente fedeli all’originale – è il caso di un Ireneo o di un Gerolamo – servivano a garantire l’autenticità del testo e a evitare falsificazioni o interpolazioni34. Ma quando si trattava di revisione o di emendatio o di collazione con il modello rale di G. Madec, traduzione, note e indici di U. Pizzani, Roma, 1994, p. LII. 31 Aug. retract. 1, 26, 1, ed. Mutzenbecher (cit. n. 21), p. 74. 32 Ibid., 2, 13, pp. 99-100. 33 H.-I. Marrou, « La technique de l’édition à l’époque patristique », Vigiliae Christianae, 3 (1949), pp. 208-224 (p. 219). 34 Testimonianze citate e discusse da O. Pecere, « La tradizione dei testi latini tra IV e V secolo attraverso i libri sottoscritti », in Società romana e impero tardoantico, IV, Tradizione dei classici, trasformazioni della cultura, ed. A. Giardina, Roma – Bari, 1986, pp. 19-81 (pp. 24-29).

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che gli stessi Padri compivano sui loro testi, esse erano intese solo alla correzione di errori materiali e magari pure all’introduzione di varianti di contenuto o di stile, ma assai spesso senza alcun intento di dare ai testi stessi un assetto tale da farne esemplari di riferimento. Parlare in ultima analisi di flessibilità dei testi patristici può essere una provocazione, ma sulla quale forse va aperta una discussione. 3. Aspetti materiali e sistemi di produzione dei manoscritti patristici Accostiamoci finalmente ai libri, ai manoscritti patristici direttamente conservati, per osservarne la fisionomia. Le scritture adoperate sono sostanzialmente due: l’onciale e la semionciale. Si tratta, certo, di acquisizione non nuova, ma la circostanza non è entrata finora in una questione che ha intrigato, e talora contrapposto, grandi nomi degli studi patristici come quelli di Joseph de Ghellinck, Gustave Bardy, Henri-Irénée Marrou, Eligius Dekkers: la questione, vale a dire, del sistema di produzione libraria delle opere patristiche35. Trascrizione privata o libri allestiti in botteghe o comunque a cura di una qualche editoria commerciale e destinati alla vendita? La constatazione che le scritture adoperate sono sostanzialmente soltanto l’onciale e la semionciale, due scritture professionali, da copisti di mestiere, vanifica almeno sul piano grafico qualsiasi eventuale distinzione tra copie private e copie commerciali, e invita, invece, a un discorso più articolato. Le fonti letterarie attestano nel mondo cristiano tardoantico richieste, scambi, prestiti di libri da trascrivere o far trascrivere: operazioni che venivano effettuate da quanti erano interessati a certi scritti patristici e che – a parte qualche eccezione di copia individuale – si rivolgevano in qualità di committenti a copisti di mestiere che libri di quegli scritti producevano normalmente a prezzo. Due soli esempi, l’uno diretto, l’altro indiretto. Nel manoscritto di Verona

35 J. de Ghellinck, Patristique et Moyen Âge. Étude d’histoire littéraire et doctrinale, II, Bruxelles – Paris, 1947, pp. 189-200; G. Bardy, « Copies et éditions au ve siècle », Revue des Sciences Religieuses, 23 (1949), pp. 38-52; Marrou, « La technique » (cit. n. 33), pp. 208-224; E. Dekkers, « Des prix et du commerce des livres à l’époque patristique », Sacris Erudiri, 31 (1989-1990) (Opes Atticae Raymondo Bogaert et Hermanno van Looy oblata), pp. 99-115.

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XIII (11) del v secolo36, contenente Ilario, In Psalmos, a f. 327r si trova il colofone scribit antiquarius Eutalius con cui evidentemente Eutalio si sottoscrive come copista di mestiere. L’altro esempio, indiretto, è tratto da una lettera di Agostino, il quale a Massima, dama facoltosa che gli aveva richiesto un libro, scrive: se per caso desideri possedere opuscoli dei nostri lavori, manda qui tibi describant; Dio infatti ha voluto che tu possa farlo assai facilmente giacché ti ha dato i mezzi mediante i quali tu sia nella possibilità di farlo37.

Qui tibi describant, da compensare adeguatamente, allude a copisti che trascrivevano libri a prezzo. E dunque tra i nostri manoscritti non sono testimoniate trascrizioni private almeno nel senso che fossero dovute agli stessi lettori-consumatori, i quali non avrebbero adoperato scritture professionali come l’onciale e la semionciale. E quanto a copie commerciali vere e proprie, queste dovevano essere assai rare in un’epoca di crisi delle tradizionali botteghe librarie. Un’officina libraria, gestita da un certo Maiorinus è attestata intorno al 390 a Tagaste da Agostino, il quale vi fece allestire una copia del De vera religione38. Più tardi, un esemplare superstite è costituito dal Paris. lat. 2235 dell’inizio del secolo vi39, contenente i Tractatus in Psalmos di Gerolamo, uscito – come è stato dimostrato – dalla bottega, statio, dell’antiquarius goto Viliaric a Ravenna40, la stessa in cui risulta prodotto e sottoscritto l’Orosio Laur. Plut. 65.141. Si può far cenno, ancora, alla circostanza che a Roma nel vi secolo circa esisteva ad vincula S. Petri almeno una bottega libraria gestita da un Gaudiosus42, dove fu prodotto l’antigrafo di un Vangelo del tardo ix o dell’inizio del x secolo ora conservato alla Bibliothèque Municipale d’AnCLA, 4, 484. Aug. epist. 264, 3, ed. Al. Goldbacher, Wien – Leipzig, 1911 (CSEL, 57), p. 638: [...] Sed laborum nostrorum opuscula si forte habere desideras, mitte, qui tibi describant; voluit enim deus, ut hoc facillime possis, qui tibi dedit, unde possis. 38 Aug. epist. 15, 1, ed. Goldbacher (cit. n. 10), pp. 35-36. 39 CLA, 5, 543. 40 A. Petrucci, « Un altro codice della bottega di Viliaric », in Studi offerti a Roberto Ridolfi, Firenze, 1973, pp. 399-406. 41 CLA, 3, 298. 42 D. De Bruyne, « Gaudiosus, un vieux libraire romain », Revue Bénédictine, 30 (1913), pp. 343-345. 36 37

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gers, cod. 24, e dove si ritiene vi sia stata forse allestita una copia del De actibus apostolorum di Aratore43: una bottega, comunque, in cui non si può escludere che vi fosse trascritta anche una qualche opera dei Padri. Ma molti dei manoscritti patristici tardoantichi si devono credere esemplari scaturiti da un sistema di produzione libraria fondato su una committenza rivolta a copisti di professione da comunità ecclesiastiche o monastiche o da singoli individui desiderosi di possedere e leggere opere patristiche. In una lettera scritta ad Agostino da Consenzio, questi usa il verbo comparare per indicare l’acquisizione dei libri delle Confessioni44; ma il termine non documenta necessariamente l’esistenza di un vero e proprio mercato librario, indicando invece che Consenzio si era procurato quei libri magari facendoseli scrivere a prezzo. Quantificare il costo di queste committenze è compito difficile: per alcuni scritti patristici i calcoli fatti in tal senso da Eligius Dekkers e Sigrid Mratschek, fondati sul costo della materia scrittoria e sulla qualità e il numero di versus di scrittura secondo le tariffe stabilite da Diocleziano nell’Edictum de pretiis, indicano che far scrivere libri, soprattutto di gran mole, doveva costare davvero molto45. Ma i rapporti di lavoro dei Padri con notarii e librarii e le stesse committenze di scritti patristici da parte di fedeli, lettori, ammiratori, non sempre risultano chiari. La tarda antichità tuttavia è pure l’epoca in cui nell’ambito di sedi vescovili o di monasteri o delle loro biblioteche sorgono quelli che sono stati indicati come scriptoria prima degli scriptoria, nel senso che in essi si producono libri pur se non ancora secondo un’organizzazione precisa come in quelli medievali46. A scrivere libri erano in questi casi individui di condizione religiosa – si pensi ai fratres che

43 P. Supino Martini, « Aspetti della cultura grafica a Roma fra Gregorio Magno e Gregorio VII », in Roma nell’alto medioevo (27 aprile – 1 maggio 2000), II, Spoleto, 2001 (Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 48), pp. 921-968 (pp. 921-925). 44 Aug. epist. 12, 1, ed. Divjak (cit. n. 5), p. 70. 45 Dekkers, « Des prix » (cit. n. 35), pp. 99-115; S. Mratschek, « Codices vestri nos sumus. Bücherkult und Bücherpreise in der christlichen Spätantike », in Hortus litterarum antiquorum. Festschrift für Hans Armin Gärtner zum 70. Geburtstag, edd. A. Haltenhoff, F.-H. Mutschler, Heidelberg, 2000, pp. 369-380. 46 L’espressione « scriptorium prima dello scriptorium » si deve a P. Fioretti, « Composizione, edizione e diffusione delle opere di Gregorio Magno. In margine al Codex Trecensis », Scripta, 1 (2008), pp. 61-75 (pp. 73-75).

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vivevano in comunità con Agostino47 – che, istruiti nelle pratiche librarie, operavano nelle istituzioni ecclesiastiche, vescovili o monastiche di cui facevano parte. In ogni caso, in quanto affidata comunque a mani di mestiere, la cosiddetta ‘edizione’ degli scritti patristici nella tarda antichità oscilla fra trascrizioni professionali e meccaniche e revisioni più o meno critiche di quanti a quegli scritti erano interessati e dei quali – si vedrà – si incontrano in diversi esemplari mani che scrivono marginalia, eseguono e sovente dichiarano collazioni, emendano i testi come possono. La distribuzione delle opere dei Padri in più codici o in singoli codici o di più opere in un corpus – laddove sia possibile constatarla o ricostruirla – si dimostra direttamente correlata all’estensione dei testi. Iniziamo ancora una volta con il De civitate Dei, tornando alla prima lettera a Fermo, in cui Agostino dà una serie di indicazioni sul numero dei volumi o tomi tra i quali l’opera, in quanto molto estesa, dovrà essere ripartita: I libri sono ventidue, troppo corposi per legarli in un solo volume. Se vuoi due volumi, occorre dividerli in modo che un volume abbia dieci libri e l’altro dodici [...]. Se invece ne preferisci più di due, devi approntare cinque volumi, di cui il primo contenga i primi cinque libri [...]; il secondo il successivo gruppo di cinque [...]; gli altri tre volumi che seguono dovranno avere quattro libri ciascuno48.

Nel dare queste indicazioni Agostino si preoccupa di collegare le suddivisioni in volumi alle fasi di svolgimento e alle partizioni della materia. I più antichi manoscritti superstiti rispecchiano in linea di massima queste suddivisioni, ma con alcuni aggiustamenti

47 E. Dekkers, « Saint Augustin éditeur », in Troisième Centenaire de l’édition mauriste de saint Augustin. Communications présentées au colloque des 19 et 20 avril 1990, Paris, 1990, pp. 235-244 (pp. 240-243). 48 Aug. epist. 1* A, 1, ed. Divjak (cit. n. 5), pp. 7-8: [...] Quaterniones sunt XXII quos in unum corpus redigere multum est; et si duos vis codices fieri, ita dividendi sunt, ut decem libros habeat unus, alius duodecim [...]. Si autem corpora malueris esse plura quam duo, iam quinque oportet codices facias, quorum primus contineat quinque libros [...]; secundus sequentes alios quinque [...]; iam tres alii codices qui sequuntur quaternos libros habere debebunt [...]. Si veda ultimamente L. Holtz, « Les mots latins désignant le livre au temps d’Augustin », in Les débuts du codex. Actes de la journée d’étude organisée à Paris les 3 et 4 juillet 1985, ed. A. Blanchard, Turnhout, 1989, pp. 105-113 (pp. 109-110).

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più che deroghe vere e proprie. Il codice di Lione 607 del secolo vi contiene i primi cinque libri49; il codice smembrato tra Parigi, BnF, lat. 12214 e San Pietroburgo, Q.v.I.4 sempre del secolo vi reca i primi dieci libri50; il codice Ambr. C 238 inf. + E 26 inf. del secolo v-vi conserva frammenti dei libri XVI e XVII51. Fin qui sembra esservi perfetta corrispondenza con le indicazioni agostiniane, giacché ci si trova di fronte a manoscritti che testimoniano una suddivisione dell’opera o in cinque tomi (codice di Lione + altri quattro tomi andati persi) o in due tomi (codice di Parigi + San Pietroburgo, di dieci libri, + un tomo andato perduto di dodici; e frammenti Ambrosiani dei libri XVI e XVII, evidentemente da un secondo tomo di dodici libri o da un quarto tomo di quattro). Un’eccezione sembra costituire un manoscritto finora non menzionato, il codice di Verona XXVIII (26) dell’inizio del v secolo52, il quale reca i libri XI-XVI, ma va osservato che questi sei libri costituiscono la metà di dodici, segno che tutta l’opera era probabilmente contenuta in quattro tomi, due di cinque e due di sei: suddivisione non contemplata da Agostino, ma che evidentemente fu introdotta dai copisti o dai committenti. Del resto, dalla lettera a Fermo risulta che Agostino si limita a suggerire, data l’estensione dell’opera, alcune soluzioni, e in ogni caso non dice in quale assetto librario egli aveva mandato allo stesso Fermo i ventidue libri dell’opera. Comunque stiano le cose, vanno sottolineate le conseguenze che queste modalità di allestimento del De civitate Dei erano suscettibili di avere – e certo hanno avuto – sull’ulteriore storia della tradizione del testo. Quando nel medioevo, a partire dai secoli viii-ix, l’opera fu trascritta non è da credere che i modelli a monte fossero sempre costituiti da una medesima ‘edizione’ comprensiva di tutti i ventidue libri; anzi, è assai verosimile che il più delle volte distruzioni e dispersioni di manoscritti dei secoli precedenti abbiano determinato trascrizioni dell’opera sia parziali sia integrali derivate da antigrafi tardoantichi nella specie di tomi che in origine non facevano parte di una stessa ‘edizione’. Un solo significativo esempio. Il codice di Lione 606 del secolo ix, contenente i libri I-XIV del De civitate 49 50 51 52

CLA, CLA, CLA, CLA,

6, 5, 3, 4,

784. 635 + 11, **635. **325. 491.

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Dei, si dimostra per i primi cinque libri copia dell’altro manoscritto di Lione, il già ricordato 607 del secolo vi; e, invece, quanto ai libri VI-XIV, questi – a quel che è già stato rilevato da Emanuel Hoffmann su vari e validi fondamenti – non derivano dallo stesso codice 607 prima che eventualmente perdesse un blocco di libri, ma da altro modello53, segno, anche per ragioni codicologiche, che il manoscritto tardoantico di Lione conteneva solo i primi cinque libri dell’opera e che era l’unico tomo superstite di un’edizione in più tomi. A ulteriore chiarimento e completamento delle osservazioni di Hoffmann si può aggiungere che l’antigrafo dei libri VIXIV del codice di Lione 606 doveva essere costituito da due tomi, uno di cinque e l’altro di quattro, di un De civitate Dei distribuito in cinque tomi, secondo una delle modalità previste da Agostino nella prima lettera a Fermo. Di qui la difficoltà (o impossibilità) di stabilire tra i diversi manoscritti e rami di tradizione medievale relazioni che non siano instabili, incerte o discutibili giacché più volte vi è stata una mescolanza di modelli parziali derivati da edizioni a monte diverse per caratteristiche testuali. Tutto questo vale verosimilmente anche per un’altra opera agostiniana assai corposa, le Enarrationes in Psalmos, certamente spartita fin dal suo primo allestimento in più tomi, anche se – a differenza che per il De civitate Dei – mancano precise indicazioni dell’autore al riguardo. Tra i superstiti e peraltro frammentari manoscritti più antichi, il Vallic. B 38ii, il Vat. Ottob. lat. 319 + Vallic. B. 38ii e il Casin. 271, tutti in onciale e del vii secolo54, recano parti rispettivamente della settima, ottava e quindicesima deca, segno che si trattava in origine di una stessa edizione suddivisa in quindici tomi. E ancora, il codice di Autun 107 + Paris. nouv. acq. lat. 1629 del vi-vii secolo55, mutilo, contiene in psalm. enarr. 141-149, e dunque, l’ultima deca. La suddivisione per tomi testimoniata dai manoscritti superstiti qui ricordati corrisponde perfettamente a quanto si legge in Cassiodoro, il quale mostra di conoscere la grande opera agostiniana distribuita per deche56; tracce di questo medesimo Sancti Aurelii Augustini Episcopi De Civitate Dei Libri XXII, ed. E. Hoffmann, I, Prag – Wien – Leipzig, 1899 (CSEL, 40), pp. II-III (dove il codice di Lione 606 è citato con l’errata segnatura 608). 54 CLA, 4, 431; 1, 67; 3, 375. 55 CLA, 6, 729. 56 Cassiod. inst. 1, 4, 1, ed. R. A. B. Mynors, Oxford, 1963, p. 20, e in psalm. praef. 18-19, ed. M. Adriaen, Turnhout, 1958 (CC SL, 97), p. 3. 53

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ordinamento si ritrovano, altresì, nelle titolature di diversi manoscritti medievali, pur se il contenuto è esteso a più deche57. Tuttavia non mancano, nel corso della stessa tarda antichità o poco oltre, anche altre soluzioni. Il codice Paris. lat. 9533 del secolo vi58 reca in psalm. enarr. 29-36, il che indica una scelta mirata giacché si tratta di un gruppo di sermoni in populo habiti, mentre per il mutilo, lacunoso e perturbato Vat. lat. 5757 (scrittura superiore) – ma siamo già nel secolo vii59 – si può ricostruire che conteneva almeno in psalm. enarr. 119-140, e dunque in ogni caso più deche. Comunque stiano le cose, le copie medievali dell’opera – le quali tendono a ricompattare raramente in un solo corpus ma assai spesso in corpuscula, soprattutto in tre tomi60, le unità librarie tardoantiche per deche, o anche a disaggregare e riaggregare queste ultime diversamente e variamente – possono aver attinto il testo recuperandolo da codici originari di edizioni diverse, fossero queste integrali o parziali, e perciò di varia tradizione61. 4. Note di lettura, sottoscrizioni, interventi Un esame ancor più ravvicinato dei manoscritti patristici di età tardoantica o al più tardi del vii secolo – sia delle stesse opere agostiniane sia di altri Padri – consente di osservare in alcuni di essi almeno due caratteristiche, talora l’una correlata all’altra, alle quali non è stata finora dedicata la dovuta attenzione. Si tratta di più o meno folti marginalia coevi o solo di poco seriori e/o di una serie di interventi, ora della mano medesima che ha scritto il testo ora di altre mani dell’epoca, mirati a risanare omissioni o a introdurre correzioni, talvolta dichiarati con subscriptiones, vale a dire con espliciti riferimenti all’emendatio compiuta o a una qualche collazione del testo. 57 A. Wilmart, « La tradition des grands ouvrages de saint Augustin », in Miscellanea Agostiniana, II, Studi agostiniani, Roma, 1931, pp. 257-315 (p. 296 n. 7). 58 CLA, 5, 587. 59 CLA, 1, 34. 60 Wilmart, « La tradition » (cit. n. 57), p. 295 n. 1. 61 Sulla complessità della tradizione delle Enarrationes in Psalmos si veda ultimamente almeno F. Gori, « La tradizione manoscritta delle Enarrationes in Psalmos graduum di Agostino. Studio preliminare per l’edizione critica », Augustinianum, 37 (1997), pp. 183-228. Ma si veda anche Wilmart, « La tradition » (cit. n. 57), pp. 295-312.

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Iniziamo il discorso dai marginalia, pur se questi non sempre sono separabili dagli interventi correttivi e anzi talora se ne sostanziano. Essi si trovano non solo in manoscritti agostiniani ma anche in quelli di altri Padri e dimostrano per l’età antica un approccio al testo non certo quiescente ma attivo e interessato. Si tratta ora di correzioni, vere o presunte, o di varianti, ora di note introduttive e di commento al testo, ora di reazioni di lettori di fronte allo scritto, ora di sommari o, per così dire, di tiranti, ora di glosse o di note esegetiche, ma la varietà di questi interventi che colonizzano i margini è anche assai più ampia. Va osservato in particolare che i Padri solevano talora adnotare, vale a dire postillare, i propri manoscritti, sicché certi marginalia nei codici tardoantichi potrebbero riverberare annotazioni d’autore trasmessesi in qualche modo. Di questa pratica patristica si ha esplicita testimonianza da più scritti di Gerolamo62; peraltro nelle Quaestiones in Heptateuchum di Agostino una di queste annotazioni d’autore è scivolata addirittura nel testo: sed considerandum est quemadmodum hoc dicat A. Gellius et diligenter inserendum, evidente postilla introdotta a margine nello scritto agostiniano e incredibilmente accolta in sede critica fin nella più recente edizione63. Una ricerca complessiva e su singoli esemplari dei marginalia agli scritti dei Padri reperibili nei codici tardoantichi e magari fino a secolo vii resta uno dei grandi auspici che si possono formulare per gli studi patristici. Un’indagine sistematica sull’eterogenea pluralità grafica64, sulla tipologia dei contenuti, sulla relazione con il testo, sull’eventuale stratificazione, sulla funzione di questi marginalia non solo restituirebbe uno spaccato delle variabili sociali e culturali di quelle che furono le pratiche di lettura di testi patristici nei secoli che ne videro la prima diffusione, ma forse potrebbe dare in qualche caso anche risultati interessanti per la costituzione critica del testo. Nella massa dei marginalia, infatti, non è escluso si E. Arns, La technique du livre d’après saint Jérôme, Paris, 1953, pp. 71-72. Aug. quaest. hept. 1, 30, ed. I. Fraipont, Turnhout, 1958 (CC SL, 33), p. 13. 64 Pur se non dedicato o circoscritto solo ai marginalia dei manoscritti patristici, costituisce una introduzione assai utile alle diverse espressioni grafiche adoperate in margine nei codici tardoantichi il recente lavoro di E. Condello, « Scritture in margine. Riflessioni paleografiche sulle glosse del codice latino tardoantico », in In uno volumine. Studi in onore di Cesare Scalon, ed. L. Pani, Udine, 2009, pp. 111-132. 62

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possano incontrare varianti al testo che risalgono a rami di tradizione diversa e più corretti, talora magari non altrimenti noti perché scomparsi. Ma non si potrà giungere a risultati soddisfacenti se non quando a ogni singolo manoscritto sarà dedicata un’indagine come quella – mirabile – condotta da Augusto Campana sul cosiddetto ‘codice Ravennate di Sant’Ambrogio’65, conservato nel locale Archivio Arcivescovile, o come l’altra, sebbene meno dettagliata, di Michael M. Gorman sul Sessor. 13 contenente il De Genesi ad litteram agostiniano66. Alcuni manoscritti mostrano di essere stati emendati e talora esplicitamente collazionati a quanto mostra – si è accennato – la presenza di subscriptiones, pur se non sempre si può verificare se una determinata collazione è stata effettuata con l’antigrafo o con un esemplare diverso. In molti esemplari omissioni nel testo e risarcimenti in margine sono indicati o da segni di rinvio o mediante i richiami, in forma abbreviata hd per quanto è omesso e hs o hp per quanto è risarcito: queste abbreviazioni sono state variamente interpretate, ma lo scioglimento più probabile è h(ic) d(eest) e h(ic) s(upple) o h(ic) p(one)67. Va sottolineato, piuttosto, che è importante riconoscere se il risarcimento è dovuto alla medesima mano che ha vergato il testo o almeno coeva o ad altra e seriore mano, giacché è verosimile che nel primo caso l’omissione sia stata risarcita ricontrollando l’antigrafo, nel secondo collazionando un diverso esemplare. Ma a proposito di ricontrolli e collazioni antiche, il fenomeno è di portata piuttosto vasta e resta tutto da indagare nelle caratteristiche, nelle maniere di approccio ‘filologico’ ai testi patristici in età tardoantica, nelle implicazioni e conseguenze per la trasmissione dei testi, nel valore che gli si può attribuire in sede critica. Da una ricerca pur non esaustiva il fenomeno emerge comunque assai netto. Nel già ricordato Paris. lat. 12214 + Petrop. 65 CLA, 4, 410a e 410b. A. Campana, « Il codice ravennate di S. Ambrogio », Italia Medioevale e Umanistica, 1 (1958), pp. 15-68 (pp. 45-59). 66 CLA, 4, 418. M. M. Gorman, « Marginalia in the Oldest Manuscripts of st. Augustine’s De Genesi ad litteram », Scriptorium, 38 (1984), pp. 71-77 [rist. in Id., The Manuscript Traditions (cit. n. 3), pp. 249-255]. 67 Si veda E. A. Lowe, « The Oldest Omission Signs in Latin Manuscripts. Their Origin and Significance », in Miscellanea Mercati, VI, Città del Vaticano, 1946, pp. 36-79 [rist. in Id., Palaeographical Papers (cit. n. 2), II, pp. 349-380].

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Q.v.I.4 del vi secolo, contenente i primi dieci libri del De civitate Dei di Agostino, alla fine di ciascun libro si trova la sottoscrizione contuli e una volta ex exemplar (sic) contuli. In un altro codice già menzionato e assai noto, il Petrop. Q.v.I.3 dell’inizio del v secolo, si legge a f. 106r, alla fine del De agone christiano, e a f. 127r, alla fine del primo libro del De doctrina christiana, un emenda che si è voluto attribuire alla mano stessa dell’autore68: si tratta di ipotesi suggestiva, ma che non può essere provata; si può affermare solo che questa nota implica probabilmente una revisione del testo. La nota stessa peraltro è scritta in una corsiva del v-vi secolo ed è quindi diacronica rispetto ad Agostino. Nel Paris. lat. 13367 del secolo vii69, contenente diversi opuscoli agostiniani (De opere monachorum, De fide et operibus, Contra Donatistas, De bono virginali, De bono coniugali, De bono viduitatis), talvolta si incontra contuli scritto in segni tachigrafici dopo la segnatura dei fascicoli. Il codice dell’Escorial del De baptismo agostiniano dell’inizio del secolo vii70 reca tracce della collazione di un lettore il quale scrive contuli alla fine di ogni libro e in un caso, f. 172v, contuli quantum mihi dominus opitulatus. Il Neap. VI.D.59, riferibile al vi-vii secolo71, delle Epistulae di Gerolamo, reca le note contuli ucumque (sic) a f. 44r e emendavi utcumque a f. 76r. E ancora: il già ricordato Paris. lat. 9533 del secolo vi delle Enarrationes in Psalmos 29-36 di Agostino reca di mano di un correttore l’annotazione emendabi semel deo gratias; il palinsesto Vat. lat. 5757 del secolo vii, anch’esso già menzionato e contenente Enarrationes 119140, attesta oltre a sommari di sequenze testuali nei margini due note di collazione contuli a p. 142 e a p. 182; nel codice di Lione 478 (ff. 10-202) del secolo vi72, contenente il De consensu evangelistarum sempre di Agostino, si legge contuli prima dell’inizio del secondo libro, e più oltre, a f. 202v, si trova scritto da altra mano, corsiva, [...] quantum potui emendavi et supercalcavi; ad alcuni colofoni del Paris. lat. 8907 del tardo secolo v73 recante, tra l’altro, il De fide di Ambrogio e il De Trinitate di Ilario è stato aggiunto un emendavi; infine, nel Paris. lat. 2235 del secolo vi74 contenente i 68 69 70 71 72 73 74

È quanto ritiene Lowe, CLA, 11, 1613. CLA, 5, 658. CLA, 11, 1629. CLA, 3, 405. CLA, 6, 777. CLA, 5, 572. CLA, 5, 543.

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Tractatus in Psalmos di Gerolamo, s’incontra a f. 131v, alla fine dei Salmi, la sottoscrizione in consulatu recognovi atque emendavi, mentre si trova scritto emendavi alla fine di uno dei fascicoli del codice a f. 106v. Queste le attestazioni originali di revisione o collazione operate su alcuni manoscritti patristici. Ma va ricordata anche qualche testimonianza non direttamente conservatasi ma che si ricava da copie medievali del De Trinitate di Agostino. Ben nota è quella che suona: emendavi ut potui imperatore domno Iustiniano anno tricesimo tercio ind(ictione) VII. VI k(a)l(endas) iunias in provincia Campania in territorio Cumano in possessione nostra Acherusio75, indizio prezioso che i codici medievali recanti tale subscriptio derivano da un esemplare emendato nel 559 in Campania; e sempre per quanto concerne il De Trinitate agostiniano, qualche manoscritto medievale reca la nota contuli in Christi nomine di sicuro trasmessasi da un esemplare tardoantico giacché essa nel Vat. Ottob. lat. 63 del secolo xii si accompagna a quattro distici elogiativi dell’opera agostiniana dovuti a un Rusticus che sembra doversi identificare con il poeta Rustico Elpidio Exquaestor contemporaneo di Boezio76. È da chiedersi: chi ha operato queste collazioni, revisioni, correzioni? Il problema è assai delicato giacché va stabilito, in via preliminare, per ciascuna mano che interviene se questa è perfettamente coeva a quella del testo, o magari la medesima, o altra e più tarda. Si tratta di lettori più o meno avveduti? Di grammatici? E quali si devono pensare di volta in volta gli esemplari di riscontro di collazioni, revisioni, correzioni? E quando in un manoscritto che reca la sottoscrizione contuli vi sono correzioni di più di una mano, quale si è servita di un esemplare di collazione? O quali altri interventi furono operati senza riscontro con altro esemplare? E ancora: se la mano che appone subscriptiones e/o opera gli interventi si dimostra la medesima del testo, non potrebbe trattarsi, piuttosto che degli stessi copisti, di note di revisione recepite e trascritte da un modello sul quale l’autore Wilmart, « La tradition » (cit. n. 57), p. 271. Ibid., pp. 271-272 e n. 7. Si può aggiungere un’importante sottoscrizione relativa agli Excerpta agostiniani di Eugippo trasmessasi nel Paris. lat. 11642 del secolo ix, sulla quale si veda ultimamente M. M. Gorman, « Chapters Headings for Saint Augustine’s De Genesi ad litteram », Revue des Études Augustiniennes, 26 (1980), pp. 88-104 (pp. 102-103 n. 58), ristampato in Id., The Manuscript Traditions (cit. n. 3), pp. 44-60 (pp. 58-59). 75 76

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stesso può aver operato una collazione tra prima stesura derivata dal dettato in scrittura tachigrafica e copia definitiva e licenziata? Che valore, insomma, hanno queste collazioni e revisioni? E quali tracce o risultati se ne possono cogliere nei manoscritti medievali? Uno stesso testimone tardoantico potrebbe aver dato origine a una duplice tradizione se trascritto sia prima di essere stato collazionato con altro manoscritto sia dopo: problema che si pone – vista l’estensione del fenomeno – anche per antichi testimoni perduti che possono aver ricevuto varianti per collazione e che hanno generato tradizione. A queste e ad altre domande potrà cercare di rispondere – almeno per i testimoni conservati – solo un’indagine approfondita di carattere paleografico, codicologico e testuale condotta caso per caso. A mo’ di esempio, ho preso in considerazione un solo manoscritto, il Paris. lat. 12214 + Petropol. Q.v.I.4 del De civitate Dei. Qui la mano che scrive contuli alla fine di ogni libro è diversa da quelle (due, A e B) del testo, giacché non in semionciale ma in cosiddetto ‘quarto d’onciale’, pur se a esse coeva, ed è la medesima che risarcisce le omissioni con i rimandi h(ic) d(eest) e h(ic) s(upple). Ma il manoscritto è anche altrimenti interessante: all’inizio, dopo l’indice dei capitoli (ff. 1r-3r), si trova trascritto dalla mano A, quella perciò di uno dei copisti, il passo delle Retractationes relativo al De civitate Dei (ff. 13v-14v), cui segue la nota, non esente da errori, hoc capitulum ideo de libris retractationum in hoc codicem posui ut lector cognoscat quid de hoc opus auctor exponens sive retractans dixit. Non pare da credere che passo delle Retractationes e nota relativa siano dovuti a iniziativa del copista A, un amanuense di mestiere, il quale dovette limitarsi semplicemente a scriverli materialmente; essi invece, a quanto si ricava da un accurato esame codicologico, risultano aggiunti, insieme all’indice, in un momento successivo alla trascrizione del De civitate Dei evidentemente a cura di chi fece allestire il manoscritto di Parigi + San Pietroburgo e nell’intento di rendere consapevoli altri lettori anche delle considerazioni ultime di Agostino riguardo al suo testo. Il fenomeno qui rilevato delle subscriptiones tardoantiche relative a revisioni o collazioni richiede un corollario: esso è da tempo noto e assai indagato per quanto concerne i testi classici, tra i quali tuttavia le testimonianze direttamente conservatesi si riducono in sostanza a qualche esemplare: se ne conoscono per

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Livio, Frontone e Virgilio77, quest’ultimo – cosiddetto Virgilio Mediceo – emendato e interpunto da Turcio Rufo Aproniano Asterio nel 494, mentre altre subscriptiones con attestazioni di revisione e/o collazione di manoscritti operate in età tardoantica – piuttosto numerose – si recuperano da copie medievali78, come nel caso di quelle al De Trinitate agostiniano. E invece per i testi patristici non sono scarsi i manoscritti attestanti il fenomeno nelle sue maniere originali, sicché l’approfondimento di indagine qui auspicato non solo si propone come un terreno di ricerca per ricostruire certe vicende testuali di numerosi scritti patristici, ma può contribuire fors’anche a una migliore conoscenza del medesimo fenomeno per quanto concerne gli autori classici. 5. Quali conclusioni? Dopo aver osservato una congrua serie di manoscritti patristici tra i secoli iv-vii, ritorniamo a quel che documentano o inducono a credere gli stessi Padri quando riferiscono della composizione, pubblicazione, circolazione e diffusione dei loro scritti; e chiediamoci quale possa essere stata la fisionomia concreta, la costituzione fisica – direi – di questi scritti nei loro assetti primitivi, tenuto conto che, tutto sommato, essi non potevano presentarsi in modi diversi dalle loro copie, qui esaminate, distanti talora di qualche decennio, per lo più di circa un secolo, altre volte magari pure di due secoli, ma in un’epoca di relativa stabilità tecnico-libraria quale fu la tarda antichità latina, con l’invalsa adozione del codice e con l’uso sostanzialmente esclusivo per i manoscritti patristici delle scritture onciale e semionciale. È il caso di ricordare – contro la concezione secondo cui il testo esiste in sé, distinto da ogni materialità – che invece non esiste testo avulso dalle forme con cui si materializza e si trasmette su un supporto. Fatto ovvio, si dirà. Ma dirompente ove si cali in una situazione reale. Gli scritti patristici CLA, 5, 562; 1, 27 + 3, **27; 3, 296. Sul fenomeno delle subscriptiones tardoantiche ad autori classici si vedano almeno i lavori di O. Pecere, « Esemplari con subscriptiones e tradizione dei testi latini. L’Apuleio Laur. 68, 2 », in Il libro e il testo. Atti del convegno internazionale (Urbino, 20-23 settembre 1982), edd. C. Questa, R. Raffaelli, Urbino, 1984, pp. 111-137, ristampato in O. Pecere, A. Stramaglia, Studi apuleiani. Note di aggiornamento di L. Graverini, Cassino, 2003, pp. 5-35, e Pecere, « La tradizione » (cit. n. 34), pp. 19-24 e 29-81. 77 78

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erano libri che – prima ancora che fossero pubblicati e anche dopo essere stati affidati a un intermediario o depositario o resi disponibili in un ambito vescovile, monastico o privato – acquisivano note interlineari, marginalia di vario genere e varianti di mani di amicilettori (e talora persino suggerite da un uditorio), quando non addirittura dell’autore stesso dopo la pubblicazione: tutti materiali che interferivano continuamente con l’assetto del testo. Una volta immesso in una circolazione più ampia, poi, il testo era oggetto di trascrizioni ora più ora meno corrette e talora di revisioni effettuate secondo esperienze e competenze culturali di lettori diacronici che introducevano annotazioni ulteriori e interventi correttivi (o presunti tali) con o senza esemplari di riscontro. Ogni libro manoscritto, insomma, fin dalle prime fasi di circolazione del testo, finiva col costituire e originare quasi una tradizione a sé secondo la qualità del testo trascritto. Ritorniamo ancora una volta a quanto scrive Possidio a proposito degli scritti agostiniani: chi ama la verità di Dio più delle ricchezze terrene scelga ciascuno per sé quanto abbia voglia di leggere e conoscere, e o lo richieda alla biblioteca della chiesa di Ippona, dove potrebbero trovarsi esemplari più corretti (emendatiora exemplaria), o lo cerchi ovunque voglia, e dopo averlo trovato lo trascriva e lo possegga, e a chi lo richieda per ricopiarlo lo conceda liberamente79.

E, dunque, i testimoni migliori e più corretti della tradizione non vanno necessariamente cercati tra i manoscritti tardoantichi, quando ve ne siano, di un determinato testo: esempio significativo il Sessor. 55 della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele II di Roma, contenente le Confessiones di Agostino, macchiato da errori di ogni genere80. Il che aveva già ben capito André Wilmart quando scriveva: non basta possedere un manoscritto del vi o vii secolo per ritenere un testo solidamente garantito [...]. Non è meno possibile che, sotto l’apparenza di una calligrafia ammirevole, gli errori vi formicolino81.

Possid. vita Aug. 18, 10, ed. Bastiaensen (cit. n. 19), p. 178. Si veda l’ottimo lavoro di F. Bolgiani, Intorno al più antico codice delle Confessioni di s. Agostino, Torino, 1954. 81 A. Wilmart, « Un sermon africain sur les noces de Cana passé sous le nom de Saint Augustin », Revue Bénédictine, 42 (1930), pp. 5-18 (p. 7). 79 80

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Copie medievali di esemplari tardoantichi perduti ma emendatiora e accurati possono restituire un testo assai più corretto di codici tardoantichi gravati da errori di copisti esperti sul piano grafico ma culturalmente deficienti o magari rivisti da lettori altrettanto carenti o collazionati con esemplari non meno scorretti. Nella situazione delineata in tutto il precedente discorso, quando si risalga alla primitiva materialità degli scritti patristici, che significato o valore possono avere concetti come quelli di stemma, archetipo, subarchetipo, contaminazione, recensione chiusa o aperta?

Scritti pseudociprianei: la restituzione di una lexis popolare e degradata Clara BURINI DE LORENZI (Perugia)

È ormai acquisito – e va ricordato solo a titolo di premessa – che la fama e la venerazione di Cipriano concorsero notevolmente ad attribuire al sanctus martyr electus a Deo1 una serie di opere che la critica posteriore, a partire soprattutto dal xiv secolo, dichiarerà certamente spurie perché non condividevano né la lingua né lo stile degli scritti sole clariora2 del vescovo cartaginese. All’interno di questi suppositicia, meritano una particolare attenzione due sermoni: il De duobus montibus (duob. mont.) e il De aleatoribus (al.), caratterizzati da una lexis popolare e degradata la quale però non ne compromette il valore storico, letterario e filologico; una identità che fu mascherata da copisti ed editori convinti di dover normalizzare un testo corrotto non all’origine ma nel corso della tradizione; una identità dunque da recuperare. Nel 1520 Erasmo da Rotterdam, dopo la revisione della Editio princeps Romana curata nel 1471 da Giovanni Andrea Bussi3, pubblicò a Basilea un’edizione nella quale gli scritti autentici di Cipriano erano separati da quelli a lui falsamente attribuiti e tra questi figurava duob. mont.4, omelia esegetica dedicata alla interPass. Cypr. rec. I, 2, 1; rec. II, 2, 1. Hier. vir. ill. 67, 2: huius ingenii superfluum est indicem texere, cum sole clariora sint opera eius. 3 Episcopus Aleriensis: referendario, bibliotecario e segretario di Sisto IV. Uomo erudito e scrivano distinto, fu vescovo di Aleria (Corsica) dal 23 luglio 1466 al 4 febbraio 1475. Noto per la sua erudizione e per essere stato anche promotore di opere stampate. 4 Dal 1471 al 1718 le edizioni che precedono quella di Hartel sono: 1471: Editio princeps Romana Iohannis Andrea Ep. Areliensis; 1477: Editio Memmingensis; 1512: Editio Remboltiana; 1520: Editio Erasmiana (revisione della Editio princeps Romana); 1563: Editio Manutiana; 1564: Editio Moreliana (giudicata ottima da Hartel); 1568: Editio Pameliana (giudicata pessima da Hartel); 1648: 1 2

DOI 10.1484/M.IPM.1.101076

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pretazione del monte Sinai e del monte Sion per dimostrare che l’Antico Testamento si è adempiuto nel Nuovo e che la temporanea legge mosaica è stata superata dal messaggio eterno di Cristo e dall’evento redentivo della croce5. Successivamente, nel 1568, Jacob Pamèle inserì tra le opere Cypriano adscripta il De aleatoribus6, un sermone severissimo che, minacciando il castigo di Dio, inveisce contro i giocatori di dadi Editio Rigaltiana; 1681: Editio Reimbartiana; 1682: Editio Oxoniensis; 1718: Editio Baluziana (revisionata da Maran nel 1726). Nel 1871 G. Hartel cura una edizione che progredisce notevolmente rispetto alle precedenti: S. Thasci Caecili Cypriani opera omnia. Pars III (Opera spuria, Indices, Praefatio), Wien, 1871 (CSEL, 3.3), pp. 104-119. Nel 1994 è stata pubblicata l’edizione curata dalla sottoscritta: Pseudo Cipriano. I due monti Sinai e Sion (De duobus montibus), ed. C. Burini, Fiesole (Biblioteca patristica, 25). 5 Costituito da 15 capitoli, duob. mont. è l’unico scritto della letteratura cristiana antica dedicato al tema dei due monti, il Sinai e il Sion. Nel solco di una tradizione di matrice alessandrina il sermone consegna un procedimento esegetico affatto trascurabile e forse inatteso rispetto al modesto livello culturale dell’autore. La prima parte, dal cap. 1 al cap. 11, stabilisce – con frequente ricorso alla etimologia – la differenza di significato tra il Sinai, luogo della legge, e il Sion, luogo della croce; la dimostrazione delle due realtà, l’una terrena l’altra celeste, procede attraverso una scelta di temi biblici binari (le due tavole, le due genti, le due parti, i due figli di Rebecca, i due popoli, i due ladroni, i due testamenti) che costituiscono l’elemento caratterizzante del sermone e dell’impianto esegetico. La seconda parte, dal cap. 12 al cap. 15, approfondisce il significato ecclesiologico e soteriologico di speculatio riferito al luogo dove fu issato il legno regale, cioè la croce, ‘santa legge’ dei cristiani. Il sermone coniuga la polemica antigiudaica – il cui vertice è rappresentato dal cap. 8 sulla exacerbatio Patris contro i persecutores del Figlio – alla istruzione sull’antica e nuova alleanza, sulla lex Moysi in monte Sina contrapposta al verbum Domini ab Hierusalem. 6 Tra le edizioni di al., precedenti quella di Hartel, ricordiamo: Editio Pameliana (1568); Editio Rigaltiana (1648); Editio Oxoniensis (1682); Editio Baluziana (1718). Nel 1871 al. compare nel terzo volume dell’edizione a cura di G. Hartel (cit. n. 4), pp. 92-104. Della edizione curata da Hartel terrà conto A. Harnack nel pubblicare Der pseudocyprianische Tractat De aleatoribus, die älteste lateinische christliche Schrift, ein Werk des römischen Bischofs Victor I. (Saec. II), Leipzig, 1888 (TU, 5/1). Una più ampia analisi della tradizione nell’edizione curata da M. Marin, Il de aleatoribus pseudociprianeo: tradizione mss., edizione critica e appendice, Bari, 1984. Nel 2006 è stata pubblicata l’edizione curata da C. Nucci, con introduzione, traduzione e commento: Pseudo Cipriano, Il gioco dei dadi, Bologna (Biblioteca patristica, 43). Il vol. 6/2008 di Auctores Nostri (edd. M. Marin, M. Bellifemine, Bari, 2008) è interamente dedicato ai Nuovi Studi sul De aleatoribus pseudociprianeo: cfr in particolare M. Marin, «Una recente edizione critica dello pseudociprianeo De aleatoribus. Per una rivisitazione metodologica» (pp. 11-49); M. Ugenti, «Nota critico-testuale allo pseudociprianeo De aleatoribus 3, 13-15» (pp. 93-96).

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che si dannano sul tavolo da gioco, si votano al demonio e tornano addirittura a praticare l’idolatria7. A fronte di un argomento assolutamente diverso e di una trattazione che si muove prevalentemente sul versante esegetico in duob. mont. e sul versante morale in al., i due scritti, entrambi esito di una predicazione tenuta da un catecheta popolare davanti a un pubblico altrettanto popolare, offrono, all’interno del corpus pseudociprianeo, l’esempio maggiormente dimostrativo di un testo in cui vulgaritas e degradatio costituiscono la principale connotazione linguistica e al tempo stesso l’elemento primo in base al quale fu esclusa la paternità ciprianea. Eliminati dall’elenco degli scritti autentici, i due sermoni sono stati penalizzati – insieme ad altri scritti pseudociprianei – dalla loro identità spuria e non hanno calamitato l’attenzione degli studiosi che preferirono rivolgersi piuttosto alle opere autentiche del vescovo cartaginese. Penalizzati immeritatamente perché, di fatto, questi due sermoni, composti non prima del iii secolo e non più tardi del iv, si rivelano di eccezionale interesse nella storia della letteratura cristiana antica e nella storia della lingua latina purché restituiti cercando di preservare il più possibile i loro connotati linguistici. Il carattere pseudoepigrafo di duob. mont. e di al. era ormai solidamente ratificato quando Wilhelm von Hartel si accinse nel 7 L’argomento non solo è nuovo ma è anche unico; l’anonimo catecheta, di estrazione popolare e assai maldestro nell’uso della lingua latina, riesce a trasmettere un accanito e intransigente rimprovero verso coloro che perdono patrimonio e anima al tavolo dei dadi. Dopo un’introduzione (capp. 1-4) dedicata alla condanna del gioco d’azzardo in generale e al monito rivolto ai vescovi perché anch’essi si lasciano traviare, segue l’argomentazione vera e propria (capp. 5-10) dove il folle comportamento dei giocatori – peccato e ingratitudine contro Dio e costume indegno per chi si chiama cristiano – è condannato non solo come abominevole azzardo ma anche come nefasta idolatria. La esortazione finale (cap. 11) raccomanda al cristiano di non lasciarsi sedurre dal demonio, istigatore anche del gioco d’azzardo, e di purificare le proprie mani le quali devono attendere solo alle opere della carità. In questa breve omelia, libellus o addirittura epistula come titolano gli incipit dei manoscritti M Q T U (cfr n. 18), il predicatore formula la sua denuncia e il suo veemente rimprovero perché il gioco proibito è ancora più sacrilego a motivo del rito nel quale s’impone al giocatore di sacrificare in onore dell’inventore la cui statua troneggia nel luogo dove si gioca (ita ut qui vellet studio eius adherere non ante manum in tabulam porrigeret, nisi auctori huius prius sacrificasset: al. 7, 18-20). Argomento che meriterebbe di essere ulteriormente approfondito (specie riguardo alla identificazione dell’adinventor) perché significativa testimonianza del persistere di costumi pagani difficili da sradicare anche all’interno di una comunità dove non era facile «lasciarsi formare dagli ammonimenti del vangelo» (11, 23).

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1871 alla edizione degli scritti ciprianei e pseudo per il Corpus di Vienna8, premettendo che soprattutto i suppositicia avrebbero richiesto un comportamento filologico «cautius quam audacius»9 perché – a suo giudizio – discendevano «ex uno archetypo non parum depravato»10. Pertanto, fondandosi solo sui codici M (Monacensis Lat. 208 di viii-ix secolo), T (Reginensis Lat. 118 di x secolo), e μ (Monacensis Lat. 18203 di xv secolo derivato da T) e accordando massima fiducia al cod. T («in primis sequendum est»)11, adottò prevalentemente la ratio della normalizzazione. Ma nel caso degli scritti pseudociprianei – di duob. mont. e di al. in particolare – il criterio della normalizzazione rischia di consegnare un testo tanto più lontano dall’originale quanto più s’interviene correggendo perché, a fronte di una capacità argomentativa esegetica ed etica tutt’altro che trascurabile e spesso arguta, tali scritti fanno uso di una lingua trasgressiva anche nei confronti della vulgaritas. È inevitabile interrogarsi quindi su come il predicatore abbia effettivamente parlato e scritto e se il latino popolare e puntellato di solecismi dipenda solo dalla sua ignoranza e dal suo modesto livello culturale o, piuttosto, rifletta anche la lingua del territorio, l’idioma locale, come è possibile comprovare sulla base di due importanti testimonianze esterne: l’Appendix Probi e le Inscriptiones Africae Latinae. L’Appendix Probi è documento di significativo e autorevole riferimento. Bruno Luiselli nel suo articolo «Il de aleatoribus pseudociprianeo»12, cui faremo spesso riferimento, entra nel merito della edizione curata da Chiara Nucci13 e conforta alcune lezioni – mentre da altre se ne discosta – prendendo come riferimento proprio questo prontuario linguistico redatto da un anonimo grammatico con un intento puristico […] quello di disciplinare gli errori abnormi della lingua scritta […]. L’Appendix, composta non prima del 200 e non dopo il 320, di area africana o forse romana, documenta un diffuso impiego di forme variamente abnormi e volgari che certamente si riflettevano nella lingua scritta. E se ciò accadeva nella lingua

Ed. Hartel (cit. n. 4). Comportamento al quale si affiancava un’«ars critica [...] factitanda lectionum electione»: ed. Hartel (cit. n. 4), p. lxxxviii. 10 Ibid. 11 Ibid., p. LXII dove, riguardo al Vat. Reg. 118, afferma: «archetypi integritatem optime servavit». 12 Pubblicato in Augustinianum, 47/2 (2007), pp. 259-281. 13 Ed. Nucci (cit. n. 6). 8 9

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scritta di Roma, centro della cultura imperiale, a fortiori, accadeva nell’Africa romana […]14.

Le varie forme linguistiche registrate dall’autore dell’Appendix come abnormi, sono riconducibili infatti a un ambiente africano: in Africa o in un quartiere della stessa Roma. Di conseguenza testi predicatori, come duob. mont. o al., non troppo lontani cronologicamente dall’Appendix e di stessa area, derivanti da un sermone per un uditorio altrettanto popolare, è senz’altro verosimile che rispecchino la stessa situazione linguistica registrata dall’autore dell’Appendix15. Anche le Inscriptiones Africae Latinae, con particolare riferimento a quelle funerarie di ambiente popolare, attestano spesso un uso degradato della lingua16 quale si legge nei nostri testi17. Di fronte al testo La lettura di alcuni luoghi tratti sia da duob. mont. che da al. potrà meglio persuadere circa la non sempre facile restituzione della vulgaritas e della degradatio in cui sono stati composti i due sermoni. Le edizioni cui faccio riferimento collazionano i codici capostipiti della tradizione più antica18. Nonostante il numero dei codici Luiselli, «Il De aleatoribus» (cit. n. 12), pp. 261-263. Frequenti casi di: non concordanza tra preposizioni e caso; non concordanza di genere tra sostantivo e aggettivo o tra sostantivo e pronome; scambio di declinazione; scambio di coniugazione; frequenti scambi consonantici; scambio di prefissi, ecc. Sulla catalogazione delle anomalie morfosintattiche registrate sia in duob. mont. che in al., cfr rispettivamente l’edizione Burini (cit. n. 4), pp. 113-117 e Nucci (cit. n. 6), pp. 53-58. 16 Cfr ad es. CIL, 8, 1 (Inscriptiones Africae Latinae), 2728; 3455; 3933; 9010; 9292; 10570. 17 Alle due testimonianze esterne concorre una testimonianza che è interna al testo la quale però riflette presumibilmente una connotazione del sermone popolare in genere: mi riferisco alle citazioni bibliche. Nei nostri scritti (specie nel duob. mont.) sono sempre riferite in un latino prevalentemente corretto rispetto al restante latino. In altre parole: quando l’autore copia (o cita a memoria) un passo biblico, il latino fluisce quasi sempre correttamente mentre, prima e dopo la citazione, il latino slitta dalla correttezza grammaticale. Quanto all’obiezione che la correttezza della citazione biblica si sarebbe comunque registrata perché gli amanuensi conoscevano la Scrittura e il testo sacro era ‘intangibile’ e non consentiva interventi (sebbene la tradizione manoscritta non raramente smentisca tale principio), va detto che specie nel duob. mont. le citazioni bibliche non appartengono ai passi più noti e più citati e presentano anch’esse caratteri di arcaicità. 18 Per duob. mont.: edizione Burini (cit. n. 4). Sono stati collazionati sei codici, i testimoni principali e rappresentativi delle diverse famiglie: 14 15

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collazionati sia maggiore rispetto a quelli collazionati da Hartel, il criterio di cernita potrebbe apparire riduttivo19 ma in realtà la selezione, sebbene limitata ai testimoni rappresentativi delle famiglie principali, non compromette nel nostro caso l’esito finale perché buona parte dei solecismi e delle lezioni abnormi «si rivelano così antichi che non è indispensabile, in casi del genere, moltiplicare il numero dei testimoni»20. Dalla collazione si evince infatti che duob. mont. e al. sono testi ‘scorretti’ fin dal loro nascere, intendendo con scorretto l’allontanarsi non episodico ma pressoché costante da quelle leggi grammaticali che, convenzionalmente rispettate, permettono di M = Monacensis 208 (viii-ix secolo): duob. mont. = ff. 246-250 dim.; al. = ff. 64-167. Q = Trecensis 581 (viii-ix secolo): duob. mont. = ff. 259v-264v; al. = ff. 175-179. T = Reginensis 118 (ix secolo): duob. mont. = ff. 172r-175r; al. = ff. 169172. D = Oxoniensis Bodleianus 451 (x secolo): duob. mont. = ff. 186v-189v. R = Reginenis 117 (xi secolo): duob. mont. = ff. 97r-99r. Δ = Taurinensis Bibl. Nat. D IV 37 (XII secolo): duob. mont. = ff. 211r-215r; al. = ff. 207-211. Il gruppo M Q T (viii-ix secolo) è il più antico, il gruppo D R Δ è il più recente. Come criterio fondamentale, ma non assoluto, le lezioni proposte da M Q T (prima delle correzioni) sono da preferire: M e Q sono deteriori rispetto a T, ma quando la loro lezione concorda con T, è quasi sempre da accogliere, eccetto rari casi. Accanto ai manoscritti è stata collazionata anche la ediz. di Hartel. Per al.: edizione Nucci (cit. n. 6). Sono stati collazionati gli stessi codici M Q T Δ che tramandano anche duob. mont.; a questi sono stati aggiunti il cod. Parisinus Lat. Bibl. Nat. 13047 (viii secolo), siglato D (al. = ff. 144149v) e il cod. Oxoniensis Bodleianus Laud. misc. 105 (ix secolo), siglato U (al. = ff. 159-162). Questi ultimi due codici tramandano al. ma non duob. mont. così come i cod. D e R dell’ediz. duob. mont. non tramandano al. Sono state collazionate anche le citate edizioni a cura di Hartel (cit. n. 4) e di Marin (cit. n. 6) ed è stata considerata – non in apparato ma nel commento – l’edizione di Harnack (cit. n. 6) nei luoghi in cui si distacca dalle lezioni di Hartel. 19 Ammonterebbero a 57 i mss. che tramandano il De duobus montibus: catalogati da D. van Damme, Pseudo-Cyprian, Adversus Iudaeos. Gegen die Iudenchristen die älteste lateinische Predigt, Freiburg, 1969 (Paradosis, 22), pp. 93-95; 53 invece i manoscritti che tramandano il De aleatoribus, catalogati da M. Marin, «Problemi di ecdotica ciprianea. Per un’edizione critica dello pseudo-ciprianeo De aleatoribus», Vetera Christianorum, 20 (1983), pp. 141-239. 20 M. Simonetti, «Note sulla tradizione manoscritta di alcuni trattati di Cipriano», Studi Medievali, 12/2 (1971), pp. 865-897 (p. 866).

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definire e di verificare la correttezza della lingua. Pertanto, sebbene il fenomeno linguistico sia in costante mutazione e, di conseguenza, le leggi che regolano l’uso di una lingua non possano essere mai definitivamente fissate, l’aggettivo ‘scorretto’ – in riferimento specifico ai nostri testi – vuole significare e definire la deviazione e il sensibile distacco sia rispetto al latino della classicità, sia rispetto al latino tardo. Di conseguenza, senza voler stabilire un principio assoluto, in presenza di un latino ‘volgare’ e talora, come ho detto, insubordinato alla stessa vulgaritas, sarebbe procedimento erroneo, e quindi non adottabile, disciplinare e uniformare il testo alle regole grammaticali, uniformità che per i copisti, prima ancora che per gli editori, fu ritenuta invece legittima e risolutiva. Contestare e respingere il criterio della normalizzazione non significa tuttavia eliminare il margine d’incertezza circa la validità delle lezioni scelte; anzi il rischio è molto più elevato di quanto accade, di norma, in testi redatti in un latino migliore. È comunque preferibile mettere in conto tale margine d’incertezza piuttosto che deliberare – fatta eccezione per alcuni e limitati casi – a favore di una emendatio che, pur attenta al rispetto della correttezza grammaticale, potrebbe risultare arbitraria, considerato che la difficoltà di restituire una lexis attendibile non solo dipende dalle differenti situazioni linguistiche e contenutistiche, ma non raramente si fa più consistente per l’impossibilità di definire i limiti dalla ignoranza della lingua da parte dell’autore il quale peraltro, come accade in alcuni casi e inspiegabilmente, anche all’interno di uno stesso costrutto alterna alle forme abnormi forme grammaticalmente ‘disciplinate’21. a.

Restituzione agevole della lexis: alcuni esempi

La prima serie di esempi che prendo in esame è costituita da alcuni dei frequenti luoghi in cui è abbastanza facile individuare l’inter21 In al. è attestato un maggior numero di solecismi rispetto a duob. mont. Una differenza che meriterebbe di essere completata attraverso un raffronto con gli altri scritti pseudociprianei perché ogni scritto ha una propria caratteristica all’interno di una comune vulgaritas: diversa ad esempio la fisionomia linguistica dell’Adversus Iudaeos e del De centesima, trattati nei quali la vulgaritas è presente ma non prevalente. M. Marin (cit. n. 6) passa in rassegna (sulla base dell’edizione di G. F. Diercks, Sancti Cypriani episcopi Epistularium, Turnhout, 1994-1996 [CC SL, 3 B-D] la tradizione ms. di alcune lettere di Cipriano per dimostrare che nei mss. M Q T U (mss. che trasmettono anche il De aleatoribus) si registrano gli stessi ‘errori’ presenti nello scritto pseudociprianeo; pertanto non si può imputare solo all’autore la scorrettezza linguistica, ma anche ai copisti, la cui «prassi scrittoria [...] impone di riconsiderare globalmente le vere peculiarità della lingua dell’anonimo» (p. 47).

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vento di normalizzazione e quindi abbastanza agevole restituire la lexis che riteniamo appartenga al testo. – duob. mont. 3, 3, 18: Ideo in duabus significans ex unitatem populi dividi duas partes ex unitatem] M T Qa.c. Burini,

ex unitate D R Δ, Qp.c. Hartel

Di fronte all’accusativo retto da ex (infrequente anche nel latino tardo nonostante l’estensione dell’accusativo), tre codici (D R Δ) normalizzano; a questi si aggiunge la seconda mano di Q che interviene solo per normalizzare la precedente lezione. La lezione da mantenere è dunque ex unitatem, quella ritenuta ‘scorretta’22. – duob. mont. 5, 1, 7-8: ad confundendum et revincendum antechristo antechristo] Q T, Ma.c. Burini,

antichristum D R Δ, Mp.c. Hartel

Il gerundivo ad confundendum et revincendum con valore finale mantiene l’accusativo nelle forme verbali mentre pone in ablativo antechristo (incostanza nell’uso del caso)23. La lezione da mantenere è quella di Q T, M (ante corr.) e non quella normalizzata da D R Δ, M (ex corr.) i quali, condivisi da Hartel, correggono antichristum, intervenendo non solo sulla correzione del caso, ma anche sulla vocale e di ante-: non antechristum ma antichristum, traslitterazione del greco ἀντίχριστος. – al. 2, 17-18: Et iterum: extimate sacerdotem esse cultorem et omnes esse apud eum granaria plena omnes – granaria plena] M Q D T U Marin, add. Δ Hartel

apud eum] delicias

22 Identica situazione in duob. mont. 6, 2, 35: ex dictoaudientiam; 6, 2, 36: ex aspredinem; 12, 1, 2: ex eam veritatem. In tutti questi casi Hartel accoglierà sempre le lezioni giudicate grammaticalmente corrette e testimoniate per lo più dai codici D R Δ Qp.c. (post correctionem) che tendenzialmente normalizzano; ma nel caso di 12, 1, 2, nel correggere ex eam veritatem, scinde il complemento e, introducendo una †, legge: Aliam probationem veritatis scripturis positam † ex ea veritatem caelestem spiritalem… (ed. Hartel, cit. n. 4, p. 116, r. 16). La preoccupazione di restituire un testo corretto ha comportato la modifica del complemento e la supposizione di un testo corrotto o lacunoso. 23 Cfr anche duob. mont. 4, 3, 30-31 (Iesus […] dicentem); 6, 1, 9 (monte Sina temptatio aeterna); 8, 1, 3 (gentes […] conversas).

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Uno dei tanti casi di non concordanza di genere24. Hartel condivide la lezione di Δ che, per risolvere omnes / granaria plena introduce delicias e con una congettura (direi interpolazione) propone di rimediare alla discordanza. Senz’altro da accogliere la lezione confermata da tutti gli altri codici. Da notare che la lezione scorretta è solo omnes mentre plena è correttamente concordato (altro esempio d’incostanza)25. – al. 9, 3-4: parentorum originem turpis praesentibus dehonorant26 parentorum] Q T U Hartel Marin Nucci,

parentum M D Δ, Q ex corr.

Si riconosce immediatamente, nel gruppo M D Δ Qp.c., la correzione della desinenza del genitivo plurale di un sostantivo che appartiene alla terza e non alla seconda declinazione27: la prima mano di M D Δ testimonia parentum e Q post corr. rettifica. Normalizzazione che però, in questo caso, Hartel non condivide, forse per la fiducia accordata al codice T. turpis] M Q T U Δ Nucci,

turbis D M2 Q2 Hartel Marin

In questo caso la normalizzazione è frutto di un ragionamento più complesso e meno ovvio. I mss. D M2 Q2 e gli editori Hartel e Marin leggono turbis, sostituendo a turpis un sostantivo che, di significato attinente, sia compatibile con praesentibus nella desi-

24 Cfr anche: venenum laetalem: 5, 11; crimen ignobilem: 6, 19; duplicem crimen: 6, 30-31; duob. mont. 4, 3, 32 (illum […] fanum); 8, 1, 3-4 (gentes […] salvati). 25 Inoltre tutta la frase, grazie alla locuzione et iterum dalla quale è introdotta, sembra appartenere a una citazione diretta di cui non si riesce però a identificare la fonte; forse è ricavata da una raccolta di Testimonia (cfr M. Marin, «Citazioni bibliche e parabibliche nel De aleatoribus pseudociprianeo», Annali di storia dell’esegesi, 5 (1988), pp. 169-184, spec. p. 176), oppure si tratta di una conflazione di testi sulla base di Prv 3, 10. Sarebbe la terza citazione dopo quella di Erma (sim. 9, 31, 5 s.) e di Sir 32, 1-2, nelle quali non si registrano però forme scorrette (cfr sopra n. 17). 26 Si parla dei giocatori che «accecati da un offuscamento provocato dal diavolo, si mettono l’un l’altro le mani addosso, maledicono, si votano al diavolo, e disonorano la propria famiglia [lett.: la discendenza dei genitori] mescolati a gente depravata [lett.: presenti persone turpi]». 27 Cfr anche al. 3, 14; 3, 18; 6, 17; 9, 3; 9, 4.

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nenza dell’ablativo28. La normalizzazione grammaticalmente più logica e più prevedibile, quella cioè di turpis in turpibus, è testimoniata solo da codici posteriori di xv secolo: due discendenti di Q (η29, Φ30) e un discendente di Δ (φ31)32. Altri cinque codici (di xiixiii secolo) leggono: – – –

turpes: I33 turpiter: L34 culpis: N35 m36 F37

È un esempio abbastanza eloquente di come nel corso della tradizione si sono susseguiti comunque interventi di correzione e di come, ai fini della restituzione del testo, i testimoni posteriori non incidono sulla restituzione della lexis popolare. Accogliere invece la lezione turpis, nonostante l’improprietà della desinenza, non solo è coerente con il criterio di respingere la normalizzazione, ma è perfettamente corrispondente al senso: i giocatori disonorano la propria famiglia «alla presenza di ignobili spettatori»: turpis praesentibus (lett. ‘presenti persone turpi’), ablativo assoluto, questa volta al posto dell’accusativo assoluto o della forma mista (accusativo + ablativo). Cambiare turpis in turbis significherebbe invece che il gioco veniva svolto alla presenza di ‘folle’, ma questo è da escludere anche perché il gioco dei dadi non era ludus publicus, anzi severamente proibito come gioco d’azzardo e consentito solo durante i Saturnalia. Si giocava dunque 28 Cfr invece al. 6, 16: sordidissimis aeris, attestata da tutti i codd. e accolta anche da Hartel e da Marin. 29 Oxoniensis Bodl. Laud. misc. 217 (xv secolo). 30 Sandanielinus 22 (xv secolo). 31 Vaticanus lat. 199 (xv secolo). 32 Cfr ed. Marin (cit. n. 6), apparato, p. 30 e Appendice, p. 44 dell’ed. Marin. 33 I = cons. di I (Taurinensis Bibl. Nat. E III 5, xv secolo), X (Vaticanus Chisianus A VI 177, XV secolo), Y (Romanus Vallicellianus D 21, xv secolo) discendenti da Δ. 34 L = cons. di e L (+ b P c y) (secoli xii-xiii), famiglia caratterizzata da «grande omogeneità dei testimoni, elevatissimo numero di trascrizioni erronee, omissioni, cambiamenti arbitrari. Nella tendenza a normalizzare il latino di al. secondo forme ‘corrette’ e nell’adozione di alcune lezioni presenta interessanti convergenze con d, ma tale accordo credo che decisamente non meriti il consenso dell’editore» (ed. Marin, cit. n. 6., pp. 4 s.). 35 N = Admontanus 136, xii secolo. 36 m = Monacensis Lat. 16068, xii secolo. 37 F = Florianensis XI 126, xiv secolo.

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nelle locande, in casa propria, durante un banchetto, e persino nella camera da letto, ma non davanti a schiere di gente38. Altri casi si potrebbero addurre in cui risulta evidente che il testo è stato banalizzato per rimediare alla trasgressione della conosciuta regola grammaticale e la lexis volgare è stata forzatamente ricondotta alla disciplina morfologica, ma quelli sopra citati mi sembrano sufficientemente dimostrativi, tenuto conto peraltro che una volta compreso il criterio della normalizzazione, questo rimane facilmente individuabile. b.

Restituzione difficoltosa della lexis: alcuni esempi

– duob. mont. 3, 3, 27: partem idolatrem perditam et partem incredulam viventem per fidem viventem] R Hartel Burini,

videntem M Q T D Δ

In questo passo il periodo è abbastanza corretto ma la lezione viventem per fidem non è facilmente interpretabile né la presupposta ignoranza linguistica dell’autore può essere tale da non riconoscere la differenza di significato tra videre e vivere. Nonostante il consenso dei codici e soprattutto del gruppo M Q T (che si conferma quasi sempre attendibile), nella mia edizione non ho condiviso la lezione videntem per fidem sebbene il concetto di ‘vedere per mezzo della fede’ abbia un senso. Sulla base di 3, 3, 19 e soprattutto di 8, 1, 4, dove s’insiste sullo stesso concetto, ho scelto la lezione meno attestata (viventem): in 38 Originariamente i Saturnalia, celebrati il 17 dicembre, festeggiavano la chiusura del lavoro dei campi, specie della semina: la festa era in onore di Saturno, dio dell’agricoltura. Dal 217 a.C. i festeggiamenti iniziavano con un sacrificio e una grande ‘baldoria’ (lectisternium) nel tempio di Saturno. Durante il principato di Augusto alla festa furono dedicati tre giorni e alla fine del I sec. sette giorni, dal 17 al 23 dicembre. Inizialmente i Saturnalia erano celebrati solo a Roma, ma poi in tutto l’impero (cfr Gell. 17, 2, 1). Caratteristica della festa l’evasione totale fino alla trasgressione e una incontrollabile allegria. Tutto era permesso, persino il gioco d’azzardo e quindi anche il gioco dei dadi. Tribunali e scuole erano chiusi e tutti si godevano, come scrive Marziale, quei madidi dies dove governava la licentia (cfr Mart. 14, 1, 9). Fuori dei Saturnalia, il gioco dei dadi tornava a essere il gioco proibito anche se comunque praticato: si giocava nei retrobottega delle locande, vere e proprie bische, durante un banchetto, talora alle terme, oppure nella propria casa e addirittura nella camera nuziale, come preliminare all’amplesso (Prop. 4, 8, 45 ss.). Giocava il popolo, giocava l’imperatore (cfr Suet. Aug. 70 ss.; Claud. 33, 2; Sen. apocol. 14, 4-5, 1).

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3, 3, 19 l’autore interpreta le ‘due parti di popolo’ prefigurate dalle ‘due tavole della Legge’39, come riferite rispettivamente alla pars quae salvatur e alla pars incredula quae perit. Al ‘perire’, inteso come esclusione dalla salvezza, corrisponde l’essere salvati e quindi la ‘vita eterna’ non il ‘vedere eterno’. In 8, 1, 4 si ripropone un concetto simile a quello di 3, 3, 19: salvati vivebunt in aeterna saecula; vivebunt è attestato solo da Hartel; videbunt da M Q T D Δ; videntur da R. Anche qui ho condiviso la lezione di Hartel perché il complemento in aeterna saecula mi è parso più conseguente al concetto di ‘vivere’ che non a quello di ‘vedere’, senza dimenticare che l’espressione in aeterna saecula, accompagnata spesso dal genitivo elativo saeculorum, tipica delle finali eucologiche e delle proclamazioni di fede, è preceduta da vivere o regnare piuttosto che da videre. Anche l’amanuense di R, non convinto dal significato ‘i salvati vedranno nei secoli eterni’, mantenne il verbo videre ma lo mutò nel presente indicativo passivo videntur d’impervia traduzione: ‘sono visti / si vedono salvati nei secoli eterni’. Le lezioni dunque più convincenti sia in 3, 3, 27 che nel cap. 8, 1, 4 apparivano, rispettivamente, quella di viventes e quella di vivebunt. Tuttavia, sempre sulla base di un raffronto interno, potrebbe essere addotta un’altra considerazione: l’autore, nello stesso cap. 8, prosegue affermando che Gesù dalla croce osservava i pagani i quali viderant (unica variante: viderint T Δ) virtutes eius mirabiles et deificas e dolentes plorabant mentre i Giudei irridevano Cristo e lo percuotevano con una canna. Mi chiedo se il ‘vedere i mirabili e divini prodigi’ possa avere corrispondenza con il ‘vedere nei secoli eterni’, e cioè: chi vide i prodigi del Figlio di Dio e credette a lui, continuerà a vedere (sott.: gli stessi prodigi) nei secoli eterni40. Secondo questo significato si potrebbero accogliere le lezioni videntem di 3, 3, 27 e videbunt di 8, 1, 4, attestate entrambe da M Q T D Δ. – duob. mont. 9, 2, 12: Pontius Pilatus inpulita mente a Deo accepit tabulam et titulum et scripsit tribus linguis accepit – scripsit] M Q Δ Hartel Burini tabulam] tabulum T lum] R et2] del. D

titu-

Sul ‘dualismo’ di duob. mont. dedico nell’edizione un apposito paragrafo perché i temi binari sono componente fondamentale nel criterio esegetico adottato dall’autore. 40 Tutto il cap. 13, altro elemento interno da prendere in considerazione nel restituire il testo, si basa sul concetto del ‘vedere’, di Cristo specchio del Padre e dei credenti che vedono Cristo in loro. 39

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La restituzione del testo è intralciata dal doppio et il quale, sebbene sia frequente l’uso pleonastico della congiunzione41, qui risulta anomalo e ingiustificato. Considerando la frase costituita da due coordinate, notiamo che il verbo accepit è testimoniato alla unanimità così come è unanime la lezione tabulam di cui tabulum – propria di T – è l’unica variante42; tabulam è indiscutibilmente complemento oggetto di accepit e anche titulum potrebbe esserlo, se collegato a tabulam dal primo et: accepit tabulam et titulum. Ma se titulus significa ‘iscrizione’ dovrebbe essere piuttosto complemento oggetto di scripsit (scripsit et titulum) nel qual caso però il secondo et è impropriamente inserito. I codici R D intervengono: R sostituisce stilum a titulum (accepit tabulam et stilum et scripsit: ‘Pilato prese la tavoletta e lo stilo e scrisse’) quindi, con una certa disinvoltura, risolve l’ingombro del secondo et. D invece elimina il secondo et e legge: accepit tabulam et titulum scripsit. Gli interventi di R e D, di fronte all’inutile secondo et, cercano di recuperare il senso più logico ma la lezione da mantenere, sia sulla base della tradizione, sia in considerazione del sempre precario latino, è accepit tabulam et titulum et scripsit. Quando però si va alla ricerca del significato, emerge la difficoltà d’interpretazione, anche perché, in questo caso, non è affatto scontato che et equivalga a etiam, sì da poter intendere: ‘Pilato prese la tavoletta e scrisse anche l’iscrizione’, come a sottolineare, con una sfumatura linguistica insolita rispetto al parlare del nostro autore, che Pilato scrisse ‘persino’ di proprio pugno. In questo caso dovremmo aspettarci semmai un etiam et quale si legge in 14, 1, 1 (Vero etiam et vitem veram se esse dixit) o altra locuzione copulativa analoga43. Tra le 152 presenze di et (di cui 39 all’interno di citazioni dirette e 113 proprie di duob. mont.), cfr 3, 1, 4.6.10; 4, 2, 17; 5, 1, 7.10.12.13.17; 7, 14; 9, 5, 45.47; 11, 1, 4 e in particolare 6, 2, 34; 13, 1, 5; 14, 1, 1. 42 La variazione tabulum per tabulam in questo caso è ininfluente. Forse, come accade in 1, 2, 17 (differentiam / differentium) potrebbe trattarsi di una grafia aperta della a da cui la lettura tabulum anziché tabulam, tenuto conto che in latino non è attestato né tabulus né tabulum ma solo tabula. 43 Ad eccezione di 3, 1, 6 (ibi est et civitas illa), in tutti gli altri casi in cui et equivale a etiam, è preceduto da altre congiunzioni: da quia (3, 3, 25; 14, 1, 3: quia et), da nam (4, 2, 17; 13, 1, 5: nam et), da atque (5, 2, 13: atque et), da vero / verum (6, 2, 24: vero et; 9, 3, 22: verum et), da aeque (7, 1, 4: aeque et), da enim (15, 1, 2: enim et), oltre il sopra citato etiam et di 14, 1, 1. 41

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L’attenzione quindi va spostata da et a titulum per capire anzitutto se accepit può reggere due complementi oggetto (tabulam et titulum), nel qual caso la presenza del secondo et non disturberebbe. Ma perché coesistano i due complementi oggetti, dovremmo supporre che si tratta di due cose diverse. Titulum, secondo complemento oggetto, è il titulus che si legge in Io 19, 19 cui è da ritenere faccia riferimento il passo; Io 19, 19 è infatti l’unico testo evangelico che attribuisce direttamente a Pilato la scritta da apporre in cima alla croce: ἔγραφεν δὲ καὶ τίτλον44 καὶ ἔθηκεν ἐπὶ τοῦ σταυροῦ. La versio antiqua45 traduce: scripsit autem et titulum Pilatus et posuit supra crucem. Titulum dunque, che in Io 19, 19 è complemento oggetto di scripsit, indicherebbe l’iscrizione che dichiarava il nome del condannato o il motivo della condanna o entrambi. Nel caso di Gesù, il titulus scritto da Pilato è Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum46 e, come ricorda anche duob. mont. subito dopo, la scritta fu «nelle tre lingue ebraica, greca e latina». Se dunque anche in duob. mont. – sulla base di Io 19, 19 – mantenessimo titulum complemento oggetto di scripsit, non si comprende la ragione per cui oggetto e verbo siano separati da et. Se invece colleghiamo titulum ad accepit per indicare la tavoletta su cui Pilato scrisse, il secondo et è giustificato ma non il doppio complemento oggetto di accepit: la grammatica non impedisce la presenza dei due complementi oggetti, ma il senso chiede di escludere la ripetizione tabulam et titulum, dal momento che entrambi i termini indicherebbero la ‘tavoletta’ sulla quale fu scritto Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum. Un’ipotesi: non è da escludere che ci troviamo di fronte a una reminiscenza composita dove accepit tabulam è proprio dell’autore47, mentre et titulum et scripsit è ricavato, con inversione di termini, da Io 19, 19 (scripsit autem et titulum). Quindi: la prima et 44 Latinismo da titulus e termine tecnico rispetto al più generico ἐπιγραφή di Mc 15, 26; Lc 23, 38 (mentre in Mt 27, 37 si legge: ἐπάνω τῆς κεφαλῆς αὐτοῦ τὴν αἰτίαν αὐτοῦ γεγραμμένην). 45 P. Sabatier, Bibliorum sacrorum Latinae versiones antiquae seu Vetus Italica, III, Remis, 1743, p. 479. La Vulgata nova mantiene la stessa lezione. 46 Iesus Nazarenus è il nome del condannato e rex Iudaeorum è il motivo della condanna. 47 Assente infatti sia in Io che nel Ciclo apocrifo di Pilato e ugualmente assente nel racconto sinottico della Passione: manca in Mt 27, 37 («Al di sopra del suo capo avevano apposto il motivo – αἰτίαν – della sua condanna»);

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unisce le due azioni di Pilato (il prendere la tavola e lo scrivere), mentre la seconda et – che davanti a titulum appartiene alla citazione biblica (et titulum)48 ma che nel periodo di duob. mont. 9, 2, 12 è del tutto stonata –, permane senza essere cassata (eliminata invece da D che ancora una volta normalizza il testo)49; e che non sia stata cassata può dipendere non solo dall’aver mantenuto intenzionalmente et titulum di Io 19, 19, ma anche da una ulteriore trascuratezza linguistica del nostro autore. – duob. mont. 13, 1, 7: in epistula Iohannis ad Paulum ad Paulum] T D R Δ Burini,

ad populum M Q Hartel

Questo esempio non interroga sulla lingua, ma sul destinatario dell’agraphon citato e sull’agraphon stesso: una citazione approssimativa che potrebbe denunciare anche una conoscenza biblica non puntuale, dal momento che né tra i canonici né tra gli apocrifi ci risulta una lettera di Giovanni ‘a Paolo’ o ‘al popolo’; in altre parole: il modesto livello culturale dell’autore potrebbe ripercuotersi anche sulla inesattezza delle citazioni alle quali fa riferimento. Ho accolto la lezione ad Paulum (forse difficilior) perché non solo meglio testimoniata, ma anche perché, sulla base delle Lettere di Giovanni a noi pervenute, è più probabile che la lezione ad Paulum sia stata modificata in ad populum che non il contrario. Le prime due Lettere di Giovanni, infatti, pur mancando di riferimenti espliciti, sono indirizzate: la prima alle sette chiese ricordate in Apc 1, 4 – 3, 22 e ad altre comunità dell’Asia minore minacciate dalle eresie; la seconda a una ‘eletta signora’, figura di una

Mc 15, 26 («l’iscrizione – ἐπιγραφή – con la causa della sua condanna»); Lc 23, 38 («C’era anche una scritta – ἐπιγραφή – sopra il suo capo»). 48 Cui segue la precisazione della iscrizione in tre lingue, ulteriore reminiscenza tratta da Io 19, 20: «molti Giudei lessero questa iscrizione – τίτλον / titulum – perché era scritta in ebraico, in latino, in greco». Quanto all’ipotesi che et titulum oppure et scripsit fossero inseriti a margine di un codex deperditus (per integrare secondo la narrazione di Io), dovremmo supporre che questo sia avvenuto fin dall’origine della tradizione dal momento che M Q, T, D e Δ appartengono a rami diversi della tradizione. 49 Sulla base di questa ipotesi, la traduzione è: «prese la tavoletta e la titolatura scrisse nelle tre lingue ebraica, greca e latina».

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chiesa o di una comunità dove predicano falsi dottori50. Più convincente, e dunque facilior, appariva la lezione ad populum anziché ad Paulum, considerato anche che l’agraphon contiene parole rivolte ai discepoli. Il problema della individuazione del destinatario è comunque collegato a quello della individuazione dello stesso agraphon (ita me in vobis videte quomodo quis vestrum se videt in aquam aut speculo). Tutti i tentativi d’interpretazione a cominciare da quello di Theodor Zahn nel 1900 fino a quella di Hans-Josef Klauch del 199251 si basano sulla edizione Hartel che legge però epistula Iohannis ad populum. Alcuni sostengono un imprestito dagli apocrifi Acta Iohannis, altri propendono per una combinazione di formule giovannee. È vero che il tono dell’agraphon è giovanneo così come il rapporto popolo – Cristo – fedeli, ma la frase citata è anche molto vicina a II Cor 3, 18 («noi tutti, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore»), frase che potrebbe concorrere a giustificare la lezione ad Paulum anziché ad popolum. Tuttavia l’agraphon resta non identificato. – duob. mont. 15, 1, 9-10: a puero caeleste correptus et spiritalibus flagris emendatus exululans ad centesimum effugit in locis aridis et desertis exululans] M T R, Qp.c. Burini,

exulans Qa.c. Hartel,

exultans D Δ

Soggetto è il viator diabolus che ammonito dal puer custos, «il servo di Dio, custode della vigna», è costretto a fuggire. Si tratta di capire se fugge exululans oppure exulans. Scartiamo la lezione di D e Δ (exultans) perché non ha senso che il demonio, ammonito e castigato dalle sferzate dello Spirito, fugga ‘esultando’. Scartiamo la lezione di Q (ante corr.: exulans), accolta da Hartel – questa volta contro T – sulla base del complemento ad centesimum che non può essere interpretato come di moto a luogo indefinito. La lezione da mantenere è, a mio avviso, quella attestata da M T R e da Q (ex corr.) e il senso la conforta alla luce di un linguaggio figurato, alquanto significativo dal punto di vista

50 La terza invece è diretta a Gaio, membro di una fervente chiesa dell’Asia Minore. 51 Cfr ed. Burini (cit. n. 4), p. 280.

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esegetico, quello del custos puer riferito a Cristo che protegge la vigna del Padre e la difende dalle insidie del demonio. Il diavolo, ammonito (correptus) e castigato dalle sferzate dello Spirito (spiritalibus flagris emendatus), sarà costretto a fuggire verso luoghi aridi e deserti «urlando cento e cento volte» ovvero «a gran voce», cioè all’infinito: ad centesimum, iperbolismo attestato da tutti i testimoni. Parimenti, exululans (ex + ululans)52 è una forma rafforzativa analoga a quella di exacerbatio53, exacerbatus54, excaecare55. Quanto poi alla posizione che ad centesimum occupa all’interno del periodo, il complemento potrebbe riferirsi sia al precedente exululans che al successivo effugit e in questo caso indicherebbe il fuggire ‘assai lontano’ / ̔cento volte lontano’. Di fatto però effugit regge già un complemento di moto a luogo (in locis aridis et desertis)56; in ogni caso, si ritenesse doverlo collegare a effugit, è da escludere la interpretazione di Cuthbert H. Turner che, basandosi sulla lezione exulans letta in Hartel, affermò senza esitazione che duob. mont. era stato composto a Roma: «il ladro dichiarato colpevole è punito e bandito ad centesimum, alla centesima pietra miliare. Centesima da dove? Naturalmente da Roma luogo dell’autore e del suo uditorio»57. La tesi di Turner non ha avuto seguito; è molto fragile e da non condividere per i seguenti motivi: quando ad centesimum si riferisce a ̔pietra miliare’ troviamo sempre documentato ad centesimum milliare; ammesso e non concesso che voglia significare ‘centesima pietra miliare’ da Roma, questo non prova che il luogo di composizione dell’opera sia Roma; l’interpretazione non coglie il senso figurato di questa pagina.

Il verbo exululo non frequente nella classicità (cfr Ov. met. 1, 233: Licaone invano urla; Ibid., 4, 521: l’urlare delle Baccanti) si ritrova anche in Pass. Perp. 21, 9, dove il verbo exululavit è riferito all’urlo straziante di Perpetua ferita dalla spada. 53 Sei occorrenze: 2, 1, 3; 6, 1, 8; 7, 1, 5; 8, 3, 21; 9, 1, 2; 12, 1, 6. 54 Una occorrenza: 8, 2, 13. 55 Una occorrenza: 7, 1, 14. 56 Lezione anche questa condivisa da tutti i mss. e senza tentativo di correggere in + accusativo. 57 C. H. Turner, «Adversaria patristica. IV. The Pseudo-Cyprianic De montibus Sina et Sion written in Rome», Journal of Theological Studies, 7 (1906), pp. 590-605, spec. pp. 597-600. 52

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– al. 1, 3: Magna nobis ob universa fraternitate cura est, fidelis, maxime et rea perditorum omnium audacia id est aleatorum, animos ad nequitiam se in latum mortis emergunt ob universa fraternitate] M1 Q T U Marin Nucci, ob universam fraternitatem M2 D Δ Hartel

La lezione normalizzata va scartata a favore di quella scorretta per le ragioni già menzionate. cura est] Hartel58 Nucci, cura Marin

cure M Q T U,

curae D,

curo Δ,

Pur dichiarando l’affidabilità del gruppo M Q T e il principio secondo il quale la lezione normalizzata non è la più convincente, Nucci condivide la lezione di Hartel. È da supporre infatti che cure sia forma contratta di cura est. La traduzione interpreta bene il concetto con cui si apre il sermone: «la grande preoccupazione per i fratelli che si rovinano con il gioco dei dadi» (letteralmente: ‘grande è in noi la preoccupazione per tutti i fratelli’). È pur vero che sarebbe senz’altro plausibile una forma ellittica che sottende il verbo est (come propone Marin che però corregge cure in cura) e quindi, senza aggiungere est, si poteva mantenere semplicemente cure (M Q T U) la cui forma dittongata curae si legge solo in D, forma che, se corrispondesse al nominativo plurale, discorderebbe sia con il singolare magna che con il sottinteso est (ma questo rientrerebbe nella consueta scorrettezza!). Ma è altrettanto vero che non si registra mai (neppure in duob. mont.) un nominativo plurale della prima declinazione monottongato; pertanto è più persuasivo che cure sia forma contratta la cui restituzione cura est non è proprio una normalizzazione ma la risoluzione della contrazione59. fidelis] M Q T D Δ U Nucci,

fideles Hartel Marin

Hartel e Marin leggono fideles, correzione che inserisce la corretta desinenza della terza declinazione ma, come attestato anche Condivisa da Harnack (cit. n. 6). Luiselli, «Il De aleatoribus» (cit. n. 12), p. 275, aggiunge: «La ellissi di est conferisce all’esordio della predica la stessa incisività che abbiamo nell’esordio, caratterizzato anch’esso dalla medesima ellissi, del De resurrectione mortuorum tertullianeo: fiducia christianorum resurrectio mortuorum (1, 1 in CC SL, 1)». 58 59

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dall’Appendix Probi, è frequente nel latino volgare il nominativo e vocativo plurale della terza declinazione in -is anziché in -es. Pertanto mantenere fidelis rispetta ancora una volta la vulgaritas del nostro testo60. in latum] Nucci, in latu Q D T U, Hartel, in laqueum Marin

in late M,

illatum Δ, in lacum

Considerato che le lezioni Hartel e Marin sono congetturate probabilmente sulla base del verbo emergunt (lezione concordemente attestata)61 cui, a senso, bene consegue sia il complemento in lacum che in laqueum, la lezione proposta da Nucci tiene conto della lezione in late di M e illatum di Δ considerata risultato di un’assimilazione da una forma in latum. Di qui la traduzione «immergono se stessi nell’abisso della morte». Il sostantivo neutro latum (o aggettivo sostantivato) sta a indicare la ‘vastità’, cioè dire ‘la grandezza’, ‘il baratro’ o ‘l’abisso’ della morte e anche della dannazione eterna. Non occorre quindi una sostituzione con lacum o laqueum. Ma forse, senza congetturare in + accusativo, poteva essere mantenuta la lezione in latu, poiché in + ablativo come complemento di moto a luogo è frequente nel latino volgare, anche se nel nostro caso si aggiunge un altro scambio di declinazione perché la forma corretta sarebbe in lato. Si dovrebbe recuperare dunque la lezione in latu attestata da Q D T U. Non credo sia però da escludere che nel complemento in latum mortis possa essere caduta la m di latum, assorbita dalla m di mortis. In questo caso la congettura in latum torna a essere giustificata. – al. 5, 20: quid est ut iterum laqueis diaboli unde exuta est inplicetur et ipsa perdamnat? et ipsa perdamnat M T U Nucci, se ipsa perdet et damnat Q, aleatricem manum dico quae se ipsa perdet et damnat D1, aleatricem manum dico quae se ipsa perdit et damnat D2 Hartel, et per ipsam damnetur Δ, et ipsa se perdet et damnat Marin

A essere imputata è la mano del giocatore, la quale è tanto più colpevole perché è la stessa mano che riceve il sacramento e fa il Ibid., p. 263. Ibid., p. 263: emergunt «documenta nel nostro autore il carattere ormai sfuggente del senso di quel prefisso e-, sì da essere sentiti, mergunt ed emergunt, praticamente equivalenti». 60 61

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segno della croce. Il costrutto è contorto e non è possibile mantenere la traduzione letterale («perché mai di nuovo sarebbe legata dai lacci del demonio62 da dove è stata liberata e essa stessa condanna?»). Il verbo perdamnare, rafforzativo di damnare, è molto più raro, e quindi meno conosciuto, di quest’ultimo sebbene appartenga all’uso popolare di verbi transitivi impiegati in senso assoluto o anche medio. Tuttavia le varianti cercano di risolvere l’inconsueto perdamnat: la forma ipsa perdamnat doveva essere all’origine della tradizione e Q fornisce per primo una nuova lezione rispetto a M T U per ovviare con una endiadi all’insolito perdamnare. D1 crea una interpolazione, non smentita dalla seconda mano (D2) che però corregge perdet in perdit. Correzione condivisa da Hartel che accolse favorevolmente anche l’esplicitazione aleatricem manum dico interpolata da D su probabile suggestione dell’inizio del cap. 5 (Alea tabula, dico, ubi diabolus…). Δ (che deriva da un ramo diverso da quello da cui derivano M Q e T U) normalizza, come consueto, sia sintatticamente che lessicalmente e legge: per ipsam damnetur. Marin segue Q, accoglie l’endiadi e inverte se ipsa in ipsa se (ipsa se perdet et damnat). La lezione et ipsa perdamnat, lezione difficilior, va mantenuta anche in considerazione che «l’uso assoluto di perdamnat per dire ‘si danna’ (o ’si danna totalmente’, considerato il prefisso rafforzativo per-) ben s’inquadra nell’uso popolare di verbi transitivi presi assolutamente e col significato medio»63. – al. 7, 22: post mortem ad profanis et errantibus sub finctioso nomine dei talis coli meruit sub finctioso] M Qa.c. Marin Nucci, sub factioso Qp.c., T U Δ, sub fictoso D, sub fictioso Hartel

suffinctioso

L’inventore del gioco viene addirittura adorato come un dio: «dopo la morte ha meritato di essere venerato, da gente pagana e in errore, sotto il fittizio nome di un Dio», questa la traduzione di Nucci sulla base della lezione accolta.

62 Simile frase in Firm. err. 23, 1 (a mortalibus laqueis putres hominum artus exuit). 63 Luiselli, «Il De aleatoribus» (cit. n. 12), p. 271.

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Vediamo il testo a cominciare dall’aggettivo. Nel citato articolo Luiselli64 suggerisce – con dovuta riserva – di accogliere suffinctioso in luogo di sub finctioso sulla base del seguente criterio: sub finctioso attestato da M Q è da correlare a suffinctioso attestato da T U Δ, quindi da due rami della tradizione (quello di T U e quello di Δ). Quanto alla dipendenza l’uno dall’altro, è più verosimile che l’insolito aggettivo suffinctiosus sia stato risolto in sub finctioso, piuttosto che il contrario. Quanto poi alle lezioni sub factioso (Q2), sub fictoso (D) e sub fictioso (Hartel), sono da considerare normalizzanti, come quelle della tradizione posteriore. A giustificazione di suffinctioso – e sempre tenendo conto di un latino tardo e popolare – non è da escludere una forma suffingo derivata da sub-fingo (per un fenomeno analogo a suffigo derivato da sub-figo). Da cui la sequenza suffingo → suffinctum / suffinctus (supino e aggettivo deverbale) → suffictio (sostantivo) → suffinctiosus (aggettivo denominale). Il nostro aggettivo, dunque, sarebbe originato da sub e fingo, dove fingo ha il significato di ‘inventare’ e, rafforzato dalla preposizione sub, vorrebbe trasmettere un significato di ‘subdola invenzione’. In altre parole fu inventato il nome di un dio affinché mediante il nome fossero tratti in inganno coloro che avrebbero onorato l’inventore come se fosse stato veramente una divinità. Ne consegue la revisione della traduzione di ad profanis et errantibus (lezione da mantenere rifiutando la normalizzazione a profanis di M2 Q2 D Δ Hartel); non si tratta di un complemento d’agente retto da una errata preposizione, ma di un complemento di svantaggio nel senso che l’invenzione subdola del nome di dio, attraverso cui venerare l’inventore, fu realizzata a danno di gente pagana e in errore. Se noi accogliamo invece la lezione sub finctioso, la preposizione sub regge sia finctioso che nomine e dobbiamo tradurre finctioso con ‘fittizio’, aggettivo che è forse troppo debole rispetto al concetto d’inganno e d’insidia, concetto che alla luce della polemica di al. risulta più pertinente e più convincente. Al termine di questa limitata serie di esempi, che spero sufficientemente dimostrativi, se proponessi una conclusione, questa confliggerebbe con il principio che una edizione critica non è mai esaustiva. Di fatto, se la restituzione di una lexis è posta in 64

Ibid., p. 278.

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discussione ogni volta in cui si torna a riflettere sul testo, sulla dinamica della sua composizione, sulle vicende della sua trasmissione e sull’attendibilità dei testimoni, a maggior ragione questo si verifica quando si tratta di opere la cui stessa identità storicoletteraria, prima ancora che linguistica, chiede un attento lavoro di ricostruzione. Restauro impegnativo ripristinare scritti anonimi di carattere assolutamente popolare e per molto tempo appartenuti al patrimonio letterario di una celebrità. Mentre si lavora e si coordinano i risultati di una variegata ricerca per avvicinarsi il più possibile al prodotto originale, ci si accorge che queste opere spurie – non raramente considerate categoria inferiore rispetto alle opere che vantano una paternità certa e illustre – meritano invece uno studio che possa valorizzarle appieno come testimonianze che, pure ‘volgari’ e ‘degradate’, proprio per questo sono da considerare tra le più genuine di un processo di cristianizzazione avvenuto in periferia ma di pari dignità, nell’intento, a quello dei grandi centri. Anche uno scritto ‘pseudo’ è significativo e autorevole protagonista nella storia del cristianesimo antico e della sua letteratura, ma esige che al suo anonimo autore non vengano sottratti i panni popolari che gli sono appartenuti e indossando i quali svolse il suo dovere di esegeta e di catecheta tra gente altrettanto popolare.

La trasmissione dei testi poetici: alcune riflessioni Emanuela Colombi (Udine)

1. Il punto di partenza La sollecitazione a cercare di formulare quella che non pretende di essere nulla più che una proposta di indagine della ‘fenomenologia della trasmissione’ dei testi poetici, proviene in realtà da un campo di ricerca ben circoscritto, ovvero le peculiarità della trasmissione degli Evangeliorum libri di Giovenco, e le difficoltà editoriali che ne conseguono1. I tratti caratteristici di tale trasmissione si possono riassumere nei seguenti punti: –





si tratta di una tradizione piuttosto ampia (si annoverano circa 50 manoscritti entro il xiii secolo) e alta: due terzi dei manoscritti sono infatti datati entro la metà del ix secolo2, ma possediamo anche alcuni testimoni e frammenti dell’viii secolo3; la qualità del testo trasmesso sembra piuttosto elevata, o quanto meno non risultano parentele tra i codici in ragione di errori significativi, ed è presente un solo guasto meccanico; in compenso, tutti i testimoni presentano un’alta frequenza di varianti del tutto adiafore, a diversi livelli. Sono presenti anzitutto quelle che potremmo definire ‘varianti significative’, cioè alternative molto diverse dal punto di vista semantico, formale, e talora anche per la funzione grammaticale che assu-

1 Sto attualmente preparando l’edizione critica del poema per i tipi di Brepols, CC SL. 2 Un elenco completo dei codici in H. McKee, The Cambridge Juvencus Manuscript Glossed in Latin, Old Welsh, and Old Irish, Aberystwyth, 2000, pp. 413-436. 3 Cambridge, Corpus Christi College, 304 (secolo viii1); München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 6402 (secolo viii ex.); Bernkastel – Kues, Bibliothek des St. Nikolaus-Hospitals, 171 (framm.; secolo vii ex.); i due testimoni conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (Vat. Lat. 5759, palinsesto del secolo viii, e Vat. Lat. 13501, singolo frammento triangolare, secolo vi-vii) sono quasi completamente illeggibili.

DOI 10.1484/M.IPM.1.101077

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mono nel verso. Si riscontra però anche un’abnorme quantità di varianti ‘minori’, ovvero trasformazioni di una parola tramite il cambiamento di una lettera o di una sillaba, che danno come risultato un’altra parola che risulta comunque adeguata al contesto grammaticale, metrico, semantico; a queste vanno aggiunti i comuni cambiamenti di caso, genere e numero di sostantivi o aggettivi, le trasformazioni di modi e tempi verbali, gli scambi tra particelle e avverbi come cum tum tunc etc. Eventi, questi ultimi, tranquillamente ascrivibili ai vari accidenti della trasmissione. Tuttavia la loro frequenza, e l’altissima percentuale di casi in cui anche le varianti ‘minori’ risultano perfettamente equivalenti tra loro da ogni punto di vista, hanno costituito forse lo stimolo maggiore alla verifica di quanto tali innovazioni ‘facili’, potenzialmente generate da sviste e fraintendimenti, ma così spesso adeguate al senso, alla grammatica e alla metrica, siano presenti nella stessa misura anche in altre trasmissioni: quale possa essere, cioè, la probabilità che le perturbazioni della trasmissione dei testi poetici generino una tale quantità di varianti, e una tale percentuale di varianti adiafore a diversi livelli; anche prescindendo dall’inadeguatezza metodologica di stabilire eventuali raggruppamenti dei testimoni degli Evangeliorum libri sulla base non di errori ma delle varianti, bisogna constatare come la distribuzione di tutte le varianti (anche di quelle più significative) nei testimoni risulti del tutto casuale. Non si può parlare però di diffrazione in senso proprio: quello che accade è che un gruppo più nutrito di codici riporta una lezione, un gruppo più ristretto l’alternativa (esistono anche casi, più rari, di triplice variante) ma i due gruppi sono di volta in volta composti da differenti manoscritti; molti testimoni segnalano a margine o interlinea la variante alternativa (e questo avviene anche per le varianti ‘minori’) preceduta da vel o aliter. Alcuni manoscritti presentano entrambe le varianti in textu: questa modalità si verifica sempre nel più antico manoscritto che trasmette l’opera per intero (Cambridge, Corpus Christi College, 304 = C)4, ed è consentita dal fatto che il testo si trova trascritto in una sorta di scriptio continua, senza cioè che il copista vada a capo a ogni verso o segnali in altro modo gli incipit dei versi stessi; le varianti alternative si rivelano per la maggior parte del tutto e tenacemente adiafore non solo, come si è detto, dal

4 Scritto probabilmente in Italia da un esemplare spagnolo, cfr E. A. Lowe, Codices Latini Antiquiores. A Palaeographical Guide to Latin Manuscripts prior to the Ninth Century, II, Great Britain and Ireland, Oxford, 1935, nr. 127.

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punto di vista della correttezza semantica e grammaticale, ma anche secondo i criteri d’appoggio abitualmente usati nella valutazione delle varianti, quali l’usus dell’autore, i modelli a cui i versi si richiamano, l’attestazione più o meno precoce delle varianti da parte dei poeti successivi a Giovenco, il grado di allontanamento dall’ipotesto evangelico che Giovenco sta parafrasando, il livello stilistico etc.. Accade anzi con una certa frequenza che entrambe le alternative abbiano ciascuna a proprio favore la presenza di uno o più di tali parametri, e addirittura che vengano entrambe supportate dal medesimo parametro: per esempio, entrambe le varianti possono rivelare lo stesso tipo di manipolazione di una diversa fonte classica5, oppure venire citate da due (o più) poeti posteriori di cui è nota la dipendenza dagli Evangeliorum Libri (e molto spesso da poeti di poco posteriori come Paolino di Nola)6; la più evidente conseguenza di tali disordinate perturbazioni nella trasmissione è l’impossibilità di restituire un testo critico degli Evangeliorum libri seguendo un approccio stemmatico tradizionale. La più recente edizione disponibile del testo, quella

5 Mi limito a citare l’esempio di 1, 354, dove la maggior parte dei codici riporta il verso nella forma accolta da Huemer: haec memorans v i t r e a s penetrabat fluminis u n d a s , sostenuta dalla presenza di una contaminazione, abituale in Giovenco, di due versi di Silio Italico, ovvero 5, 47 (haud secus ac v i t r e a s sollers piscator ad u n d a s ) e 13, 66 (verum ubi Tyrreni perventum ad fluminis undas). Tuttavia anche la variante riportata da un minoranza di testimoni, haec memorans vitreas Christus penetravit in undas, che apparentemente potrebbe essere stata generata dalla penetrazione di Christus (esplicitazione del soggetto in interlinea) in testo con conseguente adeguamento metrico del verso, risulta invece modellata su Ov. met. 3, 272 (ab Iove mersa suo Stygias penetrabit in undas) e potrebbe essere la più antica delle due. Per una discussione più analitica di questo passo, e in generale per la conoscenza dei Punica da parte di Giovenco, rimando al mio « L’allusione e la variante: Giovenco e Silio Italico », in Nuovi archivi e mezzi d’analisi per i testi poetici. I lavori del progetto Musisque Deoque (Venezia, 21-23 giugno 2010), edd. P. Mastandrea, L. Spinazzé, Amsterdam, 2011, pp. 157-185. 6 Cfr e.g. 3, 10, dove Huemer accoglie la variante minoritaria clamoremque simul confusa mente dederunt; la maggior parte dei manoscritti testimonia voce in luogo di mente, e il manoscritto più antico (C) riporta entrambe le alternative in textu. La lezione accolta è sostenuta sia dall’usus (Iuvenc. 1, 27: olli confusa respondit mente sacerdos) che dall’attestazione presso altri poeti tardoantichi abituali frequentatori di Giovenco (Paul. Nol. carm. 6, 86: diriguit trepida confusus mente sacerdos; Coripp. Ioh. 4, 18: attollunt animos confusa mente tribuni e 4, 97: aemula dividitur confusa mente voluntas). Lo stesso però si può dire della variante voce attestata dalla gran parte dei codici, cfr Iuvenc. 2, 179: venit et ad Christum summissa voce profatur; Ven. Fort. carm. 4, 9, 5: quem plebs cuncta gemens confusa voce requirit e Mart. 1, 414: qua sacer erubuit confusus voce sacerdos.

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curata da Johannes Huemer per il CSEL nel 1891, pur senza rinunciare a ipotizzare delle relazioni tra i codici (minate però alla base da una conoscenza parziale dei testimoni superstiti) ha perciò privilegiato il manoscritto più antico (C), peraltro a mio avviso sopravvalutandolo, e scegliendo senza un criterio guida tra le alternative che questo annovera in textu7. Qualche progresso in questo senso è stato compiuto nel 1950 da Nils Hansson8, che ha riesaminato la tradizione giovenchiana collazionando un maggior numero di codici (anche se in parte solo sui loci critici), e approdando a uno stemma certamente più completo. Tuttavia gli snodi dello stemma sono determinati, data l’assenza – come si è detto – di errori significativi, sulla base delle varianti o tutt’al più degli errori poligenetici, e se anche alcuni raggruppamenti appaiono sensati, si può riscontrare come codici tra cui risulta dimostrabile una relazione siano collocati in luoghi dello stemma anche molto lontani tra loro9, e viceversa che si trovino avvicinati testimoni che risultano invece del tutto estranei: i raggruppamenti inoltre sembrano incuranti del luogo di origine dei codici stessi, e questo rende improbabili alcuni accostamenti di manoscritti coevi scritti in luoghi tra loro molto distanti.

Di fronte a tradizioni di tal genere, a meno di non rassegnarsi a ricorrere al codex optimus come nell’edizione di Huemer, sembra inevitabile prevedere per la ricostruzione del testo critico una scelta ‘variante per variante’, senza un criterio guida che possa costituire un minimo comun denominatore accettabile. La soggettività del testo che ne risulta è evidente, dal momento che troppo spesso la sequenza di ragionamenti che induce a sostenere una variante si trova a essere perfettamente reversibile a favore dell’alternativa10.

7 Huemer inoltre ha usufruito per questo codice di una collazione indiretta (cfr l’introduzione all’edizione CSEL, 24, Prag – Wien – Leipzig, 1891, p. XXIV), che non sempre risulta accurata. 8 N. Hansson, Textkritisches zu Juvencus: mit vollständigem index verborum, Lund, 1950. 9 Anche i due codici tra cui, come si accennava, è possibile dimostrare una parentela diretta in ragione di una corruttela meccanica (Berlin, Staatsbibliothek, Phillipps 1824 [Ph] e Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reginensis lat. 333 [V1]), vengono riconosciuti da Hansson come appartenenti alla stessa famiglia, ma non in relazione diretta. 10 Numerosi esempi di tale reversibilità per quanto riguarda il primo libro del poema giovenchiano ho presentato in E. Colombi, « Iuvenciana I », Vetera Christianorum, 37 (2000), pp. 235-269.

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L’obiettivo del presente lavoro è stato dunque in prima istanza quello di verificare e in qualche modo ‘quantificare’ l’effettiva peculiarità della trasmissione di Giovenco, nel tentativo di trovare punti d’appoggio esterni per la ricerca di un criterio più imparziale nella valutazione delle varianti. 2. Il metodo a. Il campione di versi selezionato

Il primo passo è stato enucleare una rosa di altri sette poeti sui quali condurre il confronto. Anzitutto le altre parafrasi bibliche tardoantiche, per verificare un eventuale legame tra il genere letterario e la tipologia di trasmissione: il Carmen Paschale di Sedulio (v secolo); il De spiritalis historiae gestis di Avito di Vienne (inizi del vi secolo); l’Historia apostolica di Aratore (recitata a San Pietro in Vincoli fra l’aprile e il maggio del 544)11. Per ottenere invece un riscontro con generi e cronologie non omogenei, ho analizzato anche campioni di versi tratti dalla produzione esametrica di altri due poeti tardoantichi: Paolino di Nola, in quanto appartenente a un entourage per cui è documentato il vicendevole scambio della produzione letteraria alla ricerca di opinioni e revisioni che avrebbero potuto lasciare una traccia nella tradizione a noi giunta12, e Prudenzio (Apotheosis e Psychomachia), dal momento che è uno dei poeti tardoantichi su cui si è dibattuto a proposito di varianti d’autore13. Il corpus è stato infine inte11 Non sono state considerate l’Alethia di Claudio Mario Vittorio e l’Heptateuchos del cosiddetto ‘Cipriano Gallo’, rappresentati da tradizioni troppo esigue. 12 Ancora valido a questo proposito, anche per l’attenzione alle ricadute di tali prassi circolatorie sulla trasmissione dei testi, il contributo di G. Bardy, « Copies et éditions au Ve siècle», Revue des Sciences Religieuses, 23 (1949), pp. 38-52. Cfr anche S. Santelia, «Storie di libri nella Gallia del V secolo: testimonianze a confronto », Romanobarbarica, 18 (2003-2005), pp. 1-29. Sulle conseguenze della ‘circolazione intensiva’ dei testi cristiani sulla trasmissione successiva in una prospettiva generale e metodologica, cfr il contributo di G. Cavallo in questo stesso volume (nota 10 e testo corrispondente per Paolino di Nola e Agostino) e M. Caltabiano, Litterarum lumen. Ambienti culturali e libri tra il IV e il V secolo, Roma, 1996, in particolare pp. 111-119 (p. 117 per Paolino). 13 Un’equilibrata rassegna delle diverse posizioni al riguardo in A. A. R. Bastiaensen, « Prudentius in Recent Literary Criticism », in Early

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grato da due autori classici, Virgilio (Eneide) e Ovidio (Metamorfosi), con i quali un confronto mi appariva necessario sia per la tipologia di trasmissione, differente per motivi cronologici da quella dei poeti tardoantichi14, sia per il loro impiego scolastico (più continuativo e istituzionalizzato per Virgilio), cui avrebbero eventualmente potuto essere ascritte almeno in parte le perturbazioni della trasmissione, sia infine perché la redazione finale di entrambe le opere è stata sin dall’antichità oggetto di speculazioni per quanto riguarda le revisioni d’autore15. Non mi aspettavo naturalmente a priori che un’indagine comparativa sulle tradizioni di cui oggi disponiamo per questi poeti dovesse rappresentare con evidenza le prime fasi della storia di ciascuno dei testi scelti: tuttavia mi è sembrato potesse essere interessante, dovendo isolare un gruppo definito di autori, scegliere tra i testi compatibili con quello giovenchiano, e/o potenzialmente mobili o ‘perturbati’ nella loro trasmissione come appare essere quello degli Evangeliorum libri. È bene però a questo proposito mettere subito in evidenza alcuni limiti dell’indagine, le cui conseguenze metodologiche sono difficilmente arginabili, e che devono dunque rappresentare un costante monito alla prudenza nell’interpretazione dei dati. Un primo limite, di cui si tratterà meglio più avanti, è ‘interno’ all’indagine stessa e al corpus selezionato: pur avendo escluso dall’indagine (cfr anche n. 11) trasmissioni troppo esigue, restano comunque discrepanze quanto alla numerosità e alla cronologia delle tradizioni considerate, le cui ricadute sull’interpretazione dei risultati verranno messe in luce più oltre. Altri due ordini di problemi sono per così dire ‘esterni’ alle caratteristiche delle trasmissioni, e riguardano le edizioni dei poeti Christian Poetry. A Collection of Essays, edd. J. den Boeft, A. Hilhorst, Leiden – New York – Köln, 1993, pp. 101-134 (in particolare pp. 103-108). 14 Per una messa a punto delle analogie e differenze tra la trasmissione dei testi classici e quella dei testi patristici, cfr il contributo di M. Simonetti contenuto nel presente volume. 15 Per Virgilio, utile la raccolta delle testimonianze in The Virgilian Tradition. The First Fifteen Hundred Years, edd. J. M. Ziolkowski, M. C. J. Putnam, New Haven – London, 2008; cfr anche O. Zwierlein, Die Ovid- und Vergil-Revision in Tiberischer Zeit, I, Prolegomena, Berlin – New York, 1999. Per Ovidio, cfr l’introduzione di R. J. Tarrant all’edizione per gli OCT delle Metamorfosi, Oxford, 2004, pp. V-VI.

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selezionati dalle quali forzatamente ho dovuto dipendere. Questo ha implicato la necessità di tamponare (ma anche, ove questo fosse impossibile, di accettare) sia la selezione iniziale, da parte di alcuni editori, dei codici impiegati – che questa sia avvenuta casualmente o consapevolmente, e secondo criteri più o meno condivisibili – sia l’eventuale selezione delle varianti e degli errori da riportare in apparato, ai fini di una maggiore leggibilità di quest’ultimo o per esigenze editoriali. Ho cercato di arginare la compromissione dell’affidabilità dei risultati sia collazionando edizioni diverse dello stesso testo, sia tenendo presenti ulteriori difficoltà residue nell’interpretazioni dei dati, come si dirà meglio in seguito. Mi limito per il momento a elencare, per ogni autore considerato, i versi che sono stati analizzati e le edizioni che sono state impiegate, con la segnalazione delle diverse strategie editoriali e del peso che queste hanno assunto nella presente indagine: –







Vergilius, Aeneis 1, 235-284; 1, 381-430; 1, 588-687; 3, 691740; 4, 1-50. Edizioni utilizzate: Mario Geymonat (nella riedizione 2008, Roma, Edizioni di storia e letteratura), con apparato dettagliato quanto a varianti ed errori; Gian Biagio Conte (Berlin – New York, Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, 2009), con apparato più selettivo per quanto riguarda gli errori ma arricchito dalla collazione di otto codici carolingi non esaminati dai precedenti editori; Ovidius, Metamorphoses 1, 76-185; 3, 131-160; 5, 162-221; 7, 174-223; 8, 1-50. Poiché il confronto tra le più recenti edizioni di Richard J. Tarrant (Oxford, OCT, 2004) e di William S. Anderson (Leipzig, Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, 1977) non forniva dati completi a causa della selezione delle varianti in apparato richiesta da entrambe le collane, è stato necessario ricorrere al confronto con l’apparato, certamente sovrabbondante e bisognoso di aggiornamento, ma più utile ai fini di un’indagine della storia del testo, di Hugo Magnus, Berlin, 1914; Iuvencus, Evangeliorum libri 1, 1-100; 2, 1-100; 3, 1-100. Sono state utilizzate le collazioni effettuate personalmente dell’intera tradizione manoscritta in vista dell’edizione in preparazione; Paulinus Nolanus, Carmina 10, 103-152; 12, 1-30; 15, 43-92; 22, 1-50; 27, 436-555, analizzati sull’unica edizione critica a tutt’oggi disponibile, quella di Wilhelm von Hartel per il CSEL (Wien – Leipzig, 1894), dotata di un ricco (e spesso sovrabbondante) apparato utile per la nostra indagine. Si è tenuto conto anche delle nuove segnalazioni conte-

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nute nell’aggiornamento dell’edizione CSEL curato da Margit Kamptner, Wien, 2009; Prudentius, Apotheosis 1-150; Psychomachia 1, 1-150. Edizione di Maurice P. Cunningham, Turnhout, 1966 (CC SL, 126). La tradizione ci ha conservato due codici tardoantichi, a cui l’editore ha aggiunto la collazione di numerosi esemplari d’età carolingia (di cui una minoranza collazionati solo per loci critici; di alcuni ritenuti meno utili sono state omesse le lectiones singulares). La maggior parte dei codici vengono ricondotti a tre subarchetipi collocati in età tardoantica, anche se le motivazioni addotte per tale discendenza spesso si limitano a lezioni di poco peso, o sono basate sull’ordine dei carmi presentato dai codici, che tuttavia talora non è il medesimo ma soltanto « simile». In ogni caso, ai fini della nostra indagine, per quanto riguarda la completezza dell’apparato l’editore dichiara (p. X): «semper ante oculos habere conatus sum mihi non codices sed poetam edendum esse. Itaque apparatum non pinguiorem neque omnibus quisquiliis fartum sed lepidum atque nervosum desiderari oportet ». Tuttavia la registrazione di facili varianti grafiche e di errori di minor peso che si riscontra per tutti i carmi editi lascia pensare che Cunningham si riferisse solo a sviste di copiatura o eventi di nessun momento non solo per l’edizione critica ma anche per la storia del testo. Dal momento però che le recensioni a tale edizione non sono state scevre di critiche16, l’apparato è stato confrontato con quello dell’edizione curata da Johannes Bergman per il CSEL, Wien, 1926, senza riscontrare tuttavia cambiamenti significativi ai fini della nostra indagine, se non l’attestazione da parte di più codici di alcune varianti che dall’apparato di Cunningham risultavano tràdite da un solo testimone (su questo punto cfr infra); Sedulius, Carmen Paschale 1, 17-120; 2, 35-130; 3, 1-100. L’edizione impiegata è ancora l’unica disponibile, quella curata da Johannes Huemer per il CSEL (Wien, 1885). L’editore ha collazionato un numero di codici pari a circa un decimo di quelli attualmente conosciuti, come si può constatare dal confronto con il volume di Carl P. E. Springer, The Manuscripts of Sedulius: a Provisional Handlist, Philadelphia, 1995. Tuttavia la presenza di una distribuzione disordinata delle varianti, che appare simile a quella riscontrata per Giovenco (cfr infra) e l’apparato sovrabbondante, caratteristico delle edizioni CSEL dell’epoca, permettono di ipotizzare la registrazione quanto meno di buona parte delle varianti presenti nella tradizione, o almeno di poter individuare l’andamento

Cfr ancora Bastiaensen, « Prudentius » (cit. n. 13), pp. 101-103.

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della trasmissione stessa, e di considerare dunque in questo senso affidabili i dati ricavati dall’edizione di Huemer17; Avitus, De spiritalis historiae gestis 1, 20-230; 2, 1-90. La recente edizione curata da Nicole Hecquet-Noti (Paris, 1999 e 2005, Sources Chrétiennes, 444 e 492) è stata confrontata con quella di Rudolf Peiper (Berlin, 1883, MGH, Auct. Ant., 6.2). Il ricorso all’edizione MGH è stato motivato dal fatto che il testo critico pubblicato dalle Sources Chrétiennes è ricostruito solo sulla base dei migliori rappresentanti delle famiglie individuate dall’editrice (parzialmente coincidenti con quelle di Peiper, che tuttavia dava conto delle lezioni riportate da tutti i testimoni), sulla base però di elementi che sembrano essere non del tutto cogenti di fronte a una tale selezione (cfr infra). Il confronto con l’edizione di Peiper, dall’apparato assai più dettagliato, ha permesso tuttavia di constatare come la tradizione di Avito si presenti tutto sommato povera di innovazioni, senza un decisivo cambiamento dei dati ottenuti nell’indagine, come vedremo meglio in seguito; Arator, Historia apostolica 1, 1-100; 2, 1-100; 3, 1-100. Anche in questo caso è stata necessaria la collazione degli apparati di due differenti edizioni. Infatti la recente edizione di Árpád P. Orbán (Turnhout, 2006, CC SL, 130) dei 103 codici attualmente noti di Aratore scritti tra ix e xiv secolo ne seleziona 27, ovvero i codici copiati entro l’xi secolo che siano portatori di glosse (delle quali Orbán fornisce l’edizione a parte). Ai fini della nostra indagine il criterio di selezione è apparso poco rappresentativo, e per questo motivo si è confrontato l’apparato con quello dell’edizione di Arthur Patch McKinlay per il CSEL (Wien, 1951). Nonostante l’affidabilità dell’edizione McKinlay sia indebolita dall’aver suddiviso i codici in classi meliores e deteriores secondo considerazioni discutibili (tanto che Orbán utilizza molti di quelli che erano stati considerati deteriores, cfr p. 94 dell’introduzione all’edizione), tuttavia la collazione di un maggior numero di codici (una quarantina, oltre alla collazione sui loci critici di altri 60 testimoni) e la restituzione del testo

17 Mi ha sostenuto in questa direzione la conoscenza del modus operandi editoriale di Huemer, che per Sedulio appare essere il medesimo descritto sopra per l’edizione di Giovenco, cfr Springer, The Manuscripts (cit. nel testo corrispondente a questa nota), pp. 19-23 e in particolare n. 50, in cui si descrive l’approccio di Huemer a una tradizione evidentemente contaminata, dove peraltro – come per Giovenco – il codice più antico (Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, E IV 42, secolo vii) testimonia varianti adiafore isolate: « Indeed, Huemer used what might be called a modified ‘optimist’ approach, relying on a codex optimus supplemented by readings from other manuscripts, when his favorite manuscript failed him ».

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critico su un gruppo di manoscritti solo in parte coincidente con quello selezionato da Orbán, oltre alla maggiore ricchezza che contraddistingue gli apparati del CSEL, ha consentito di fruire di una quantità di dati che hanno integrato in modo presumibilmente affidabile quelli che risultavano dall’edizione del Corpus Christianorum.

Come si vede dal precedente elenco, per ciascun poeta è stato isolato un campione di 300 versi, selezionati a gruppi di versi non consecutivi e scelti casualmente oppure, nel caso di opere trasmesse in modo frammentario da alcuni testimoni (Virgilio, Ovidio) o di opere a circolazione separata (Paolino di Nola, Prudenzio) scelti in modo da includere porzioni di testo in cui fossero nel complesso rappresentati tutti i testimoni considerati. È vero che 300 versi di per sé non rappresentano un campione troppo significativo dal punto di vista statistico, ma il verso è un’unità di misura comoda e immediatamente comprensibile. Poiché ho considerato soltanto testi in esametri, assumendo che in ogni esametro sia contenuta una media di 7 parole, dal momento che le varianti riguardano nella quasi totalità dei casi singole parole il campione esaminato corrisponde quindi a una media di più di 2000 parole per ogni poeta: una quantità dunque che permette di trarre delle conclusioni statistiche almeno indicative. Ho cercato comunque di attenuare il rischio di ‘errore campionario’ (rappresentatività quantitativa solo parzialmente soddisfacente del campione considerato rispetto alla produzione esametrica latina) riducendo la variabilità e la quantità delle variabili da misurare (le quattro tipologie che ora vedremo possono classificare tutte le varianti di ogni trasmissione) ed evitando l’errore di ‘mancata risposta’ tramite la scelta di un campione ‘qualitativamente’ rappresentativo di poeti (diverse epoche, diversi generi letterari). b. I parametri dell’indagine

Per cercare di quantificare le tipologie di varianti che le diverse tradizioni possono presentare, è stata messa a punto la seguente classificazione: 1. varianti riportate da un solo codice 1.a. varianti ammissibili: ovvero tutte le varianti adeguate dal punto di vista semantico, metrico, grammaticale. Va detto subito che i confini di tale categoria sono piuttosto ampi,

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poiché comprendono tutte le innovazioni latamente ‘accettabili’, anche quelle per cui, sulla base di altre considerazioni, soprattutto stilistiche e talora semantiche, sembra facile discernere tra una variante ‘peggiore’ e una ‘migliore’. La conseguenza è un livello basso di discrimine ‘a sintonia fine’ sul livello stilistico-linguistico delle varianti (poca lectio difficilior), ma mi è sembrata più importante la conseguenza inversa, ovvero il tentativo di prescindere dalla valutazione estetica delle varianti (e anche dalle considerazioni sulla ‘psicologia’ del copista e degli errori di copia) in cui inevitabilmente si incorre soprattutto quando il quadro della tradizione è tale da non consentire altro che la scelta ‘variante per variante’. Tale tipologia è ulteriormente suddivisa in: 1.a.1. varianti ammissibili ‘minori’. In questa categoria sono state incluse: –



– – – – –

in generale, tutte le varianti ‘omeografiche’ / ’omeofoniche’ che risultino adeguate al metro, alla grammatica e alla semantica del verso; le varianti in cui il cambiamento di una lettera o di una sillaba dia come risultato una parola appartenente a un’area semantica anche molto diversa, ma comunque corretta sia di per sé che nel contesto in cui è inserita (ivi compresi i cambiamenti dei prefissi di verbi, sostantivi, aggettivi composti); tutte le varianti la cui genesi possa essere motivata da considerazioni d’ordine paleografico; i cambiamenti nel caso, genere o numero del medesimo sostantivo, aggettivo o pronome; le modifiche di modi, tempi e persone del verbo; le inversioni dell’ordo verborum metricamente compatibili; le omissioni o le aggiunte di monosillabi che mantengano comunque la congruenza metrica, grammaticale, semantica del verso o della frase.

Per gran parte di queste varianti, il livello di intenzionalità presunto è in linea teorica basso o medio-basso, anche se certo non si può escludere a priori un intervento consapevole18.

18

Su questa tipologia di varianti, ma in relazione all’ipotesi di varianti d’autore, si è espresso a suo tempo S. Mariotti, « Ancora di varianti d’autore», Paideia, 5 (1950), pp. 26-28 [ora in Id., Scritti di filologia classica, Roma, 2000, pp. 540-543]: «quando due varianti entrambe soddisfacenti e adatte al contesto

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1.a.2. varianti ammissibili significative: ovvero varianti che presentino un mutamento significativo e irreversibile della parola dal punto di vista soprattutto formale, e che dunque non possano essersi prodotte per accidenti di copia ma solo per volontà di cambiamento del testo. Dal punto di vista semantico, la discrepanza può essere minima (sinonimi, compresi quelli sospetti di essere glosse penetrate in textu, purché metricamente adeguate), media (entrambe le alternative appartengono alla medesima area semantica o a una contigua) o massima (le alternative appartengono a campi semantici lontani tra loro e possono anche avere funzioni grammaticali molto differenti nel verso). 1.b. varianti non ammissibili (errori): 1.b.1. varianti non ammissibili ‘minori’: sono comprese in questa categoria tutte le innovazioni che possono essere valutate come errori di trascrizione di facile produzione, quali: – – – –

inversioni dell’ordo verborum metricamente incompatibili; omissioni di segni abbrevativi; aggiunta di sillabe o monosillabi con risultato ipermetrico; cambiamento di una lettera, di una sillaba o di desinenza che dia come risultato una parola di per sé dotata di senso ma inadeguata al contesto (cfr infra); – piccole omissioni (di lettere, sillabe o monosillabi); – falsi tagli (solo con esito di parole dotate di senso, cfr infra); non sono stati considerati, data la frequenza di produzione di tali accidenti che avrebbe a mio avviso falsato i risultati di questa tipologia nel confronto con le altre, gli errori ante correctionem se la correzione viene indicata dall’editore – o dalla mia personale collazione – come effettuata dalla stessa mano che ha compiuto l’errore.

sono più vicine tra loro per la forma o la grafia che per il senso, esse non debbono in generale essere ritenute varianti d’autore, anche se non risultano immediatamente chiare le ragioni paleografiche o psicologiche del passaggio dall’una all’altra » (p. 26). La presente indagine non vuole tuttavia mettere in relazione diretta la produzione di tali varianti ammissibili minori con l’ipotesi di varianti d’autore, bensì monitorarne anzitutto la presenza sia in rapporto a quella degli errori minori, sia in rapporto alle varianti significative.

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1.b.2. varianti non ammissibili significative: errori più importanti e visibili, omissioni di almeno una parola etc. La medesima suddivisione è stata applicata alle varianti riportate da più codici, e le tipologie verranno così identificate:

2. varianti riportate da gruppi di codici 2.a. varianti ammissibili 2.a.1. varianti ammissibili ‘minori’ 2.a.2. varianti ammissibili significative 2.b. varianti non ammissibili 2.b.1. varianti non ammissibili ‘minori’ (errori poligenetici) 2.b.2. varianti non ammissibili significative (errori congiuntivi) c. Avvertenze e cautele metodologiche –





La suddivisione tra varianti di un singolo codice e varianti riportate da più codici è funzionale, nelle tradizioni numerose, all’isolamento di eventuali propensioni all’innovazione individuale da parte di singoli codici, che avrebbero falsato il valore statistico dei risultati. La necessità di un confronto con tradizioni meno numerose (o selezionate dagli editori) ha reso però necessario anche l’accorpamento dei risultati tra il gruppo 1 (singoli codici) e il gruppo 2 (gruppi di codici) (cfr infra); la suddivisione è stata anche funzionale alla verifica di eventuali costanti nei raggruppamenti tra i codici, soprattutto per quanto riguarda le varianti significative. Segnalo tuttavia subito che questo tipo di monitoraggio non ha dato praticamente alcun risultato in questa direzione per nessuno dei poeti considerati (cioè nessun raggruppamento fisso) nemmeno per quanto riguarda le varianti ammissibili significative: evidentemente queste, che anche dal punto di vista metodologico non basterebbero in ogni caso a definire i rapporti di parentela tra i codici, sono state generate secondo modalità non collegabili alle linee di trasmissione del testo attualmente ricostruibili; la separazione tra varianti singolari e non, inoltre, permette di monitorare, per quanto riguarda i risultati del gruppo 2, l’eventuale presenza di errori congiuntivi (varianti 2.b.2). La necessità di lavorare nella fase finale, come vedremo a breve, su dati che invece accorpino i risultati sia del gruppo 1 che del gruppo 2, implica dunque la consapevolezza che tale accorpa-

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mento non è indicativo ai fini della valutazione genealogica della trasmissione; vale la pena di esplicitare anche alcune conseguenze dell’obiettivo primario di questa indagine, che è quello di tentare di verificare l’affidabilità dei parametri scelti per monitorare differenti tipologie di trasmissione. Dovendo sintetizzare, si può dire che si è tenuto conto da un lato dei due ‘estremi’ nelle possibilità di varianza, ovvero di alternative molto differenti tra loro e vistose dal punto di vista formale, che risultino adeguate al contesto (varianti significative) oppure no (errori significativi). In questo caso lo scopo è verificare se ci troviamo in presenza di una trasmissione più o meno accurata nella trascrizione oppure più o meno ‘manipolata’ (qualunque sia la mano a cui attribuire la manipolazione, e quali le intenzioni). D’altro lato si è invece voluto indagare quella ‘zona grigia’ di varianti minori, di potenziali sviste di trascrizione, che tuttavia quando risultano adeguate al contesto – soprattutto quando questo accade con elevata frequenza, come nel caso degli Evangeliorum libri – mettono in altrettanta e forse maggiore difficoltà l’editore. In questo caso l’obiettivo è stato quello di verificare in che proporzione tali piccole perturbazioni siano presenti nelle diverse trasmissioni, e secondariamente in che percentuale tali possibili sviste diano come esito delle alternative perfettamente equivalenti. Seguendo questo filo conduttore, ovvero l’intenzione di monitorare l’andamento e il tasso di variabilità di ogni trasmissione, si è scelto di impiegare sempre il termine neutro di ‘variante’, che coincide con ‘errore’ nel caso in cui non vi sia coerenza con la grammatica, la semantica o la metrica (varianti inammissibili); tale intendimento ha comportato due scelte nella considerazione delle varianti. La prima è stata quella di tenere conto, anche per le varianti inammissibili (cioè gli errori) soltanto di parole di per sé portatrici di senso. La decisione, certamente arbitraria, è stata presa sulla base di quanto esposto sopra: nell’ipotesi che tutte le varianti minori, ammissibili e non, siano state generate da accidenti di copia, l’intenzione è stata monitorare quante possibilità ci sono che l’esito della svista sia comunque un parola adeguata e, nel caso di una marcata sproporzione a favore di alternative che risultino sempre adeguate, tentare di trarre delle conclusioni in paragone con i dati relativi agli altri parametri. L’esigenza di confrontare un’area di variabilità omogenea viene comunque confortata dal fatto che le varianti costituite da parole prive di senso rappresentano un’esigua minoranza almeno nei campioni considerati (essendo

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di più difficile produzione e di più facile correzione), e avrebbero comunque avuto un’incidenza minima sulla statistica; una seconda decisione è stata presa a proposito della valutazione delle varianti riportate da un solo codice. Il tentativo di raggiungere una maggiore oggettività impone di considerare alla pari entrambe le alternative se queste risultano adeguate dal punto di vista grammaticale, linguistico e metrico, indipendentemente da quale sia la variante accolta nell’edizione disponibile, e anche da quale possa eventualmente sembrare ‘migliore’: in linea di principio non si può mai escludere che la variante isolata sia originale, e che siano tutti gli altri codici a opporvisi. Questo ragionamento, tuttavia, non può essere mantenuto nel caso di varianti inammissibili, dato il livello culturale di tutti gli autori considerati. Convenzionalmente (e certo opinabilmente) ho quindi adottato i seguenti criteri: a) varianti ammissibili con opposizione di un codice a tutti gli altri: gruppo 1; b) varianti non ammissibili (errori) riportate da un solo codice in opposizione agli altri: gruppo 1; c) varianti ammissibili con più alternative, ciascuna riportata da un codice diverso: conteggiate più volte nel gruppo 1; d) varianti non ammissibili riportate da più codici in opposizione a un solo codice (anche se poligenetiche): gruppo 2; non ho ritenuto necessario, anche per semplificare la classificazione, discriminare tra valore semantico e/o grammaticale delle alternative, o introdurre ulteriori suddivisioni tipologiche sulla base del corpo fonico delle parole (maggiore o minore estensione) o del livello lessicale dal punto di vista sia dell’autore sia del copista (usus e lectio difficilior): mi sono invece concentrata sulle tipologie di trasformazione delle parole. L’obiettivo era infatti quello di ottenere un orientamento, su numeri che mi sembrano sufficientemente grandi, relativo all’andamento ‘medio’ della tradizione, isolando i fenomeni comuni e gli scarti dalla media. Ovviamente il mutamento di una particella (es. da ab a ac) è diverso dal mutamento semantico di un sostantivo, ma grosso modo nei diversi campioni sarà contenuta una analoga quantità di particelle o di parole che presentano un diverso grado di complessità; a questo proposito va anche segnalato il permanere di una soggettività, in questo caso ‘per difetto’, per quanto riguarda le varianti ammissibili minori, tra le quali sono compresi i mutamenti dell’area semantica di una parola tramite la trasformazione di una lettera o sillaba. Soprattutto nel caso delle sillabe (ivi compresi i prefissi dei composti), in particolare nel caso in cui la variante sia riportata da un gruppo di codici appare talora assai incerto ipotizzarne la poligenesi, e tale sottocategoria

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può racchiudere alternative a confine con le varianti significative (anche se da sole difficilmente discriminanti dal punto di vista stemmatico). Tuttavia, ai fini di trarre conclusioni statistiche indicative, mi è parso più importante isolare con decisione le varianti formalmente del tutto differenti, che presentassero un grado più evidente di intenzionalità nella loro genesi e che in nessun modo avrebbero potuto prodursi per fraintendimenti o sviste di copiatura.

Ulteriori scelte e convenzioni da segnalare, tutte legate alle indicazioni metodologiche sopra esposte, sono le seguenti: – –





non è stato tenuto conto delle varianti grafiche, e come tali sono stati considerati anche gli arcaismi; non è stato tenuto conto di versi interi ritenuti dagli editori come omessi o aggiunti, la cui considerazione avrebbe implicato una presa di posizione sul valore testimoniale dei codici che non sono ovviamente in grado di assolvere; per lo stesso motivo non sono state conteggiate le cruces desperationis, che avrebbero implicato una valutazione troppo specializzata della trasmissione e delle singole varianti riportate; l’indagine quantitativa è stata affiancata al monitoraggio di altri parametri, quali la tipologia di relazioni tra le coppie di varianti e l’eventuale presenza di varianti alternative segnalate esplicitamente a margine o interlinea con vel, aliter e simili, di cui si riferirà più oltre.

3. I risultati a. Tipologie di varianti

I risultati secondo questa suddivisione (i decimali sono stati approssimati all’intero più vicino) si possono riassumere nella seguente tabella:

Vergilius Ovidius Iuvencus Prudentius Paul. Nol. Sedulius Avitus Arator

1.a.1 18% 24% 24% 24% 22% 22% 46% 26%

1.a.2 3% 8% 5% 1% 2% 6% 9% 7%

1.b.1 48% 22% 23% 40% 33% 24% 27% 23%

1.b.2 1% 3% 2% 2% 3% 4% 0 0

2.a.1 22% 31% 34% 16% 22% 27% 12% 30%

2.a.2 1% 9% 9% 2% 3% 7% 2% 7%

2.b.1 7% 3% 3% 14% 13% 10% 4% 7%

2.b.2 0 0 0 1% 2% 0 0 0

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Si possono anzitutto fare alcune considerazioni ‘orizzontali’ sulla distribuzione delle varianti all’interno delle singole trasmissioni. Per quanto riguarda le varianti attestate da un singolo codice, i risultati forniti dall’indagine sulle trasmissioni di Virgilio, Prudenzio e, anche se con minore evidenza, di Paolino di Nola, mostrano come la maggior parte delle perturbazioni del testo corrispondano a varianti del tipo 1.b.1, ovvero facili errori, sviste di trascrizione, fraintendimenti grafici etc. Per quanto riguarda invece Ovidio, Giovenco, Sedulio e Aratore, nell’ambito delle varianti ‘minori’, le possibilità che l’esito della trasformazione sia una variante adeguata al contesto sono più o meno equivalenti a quelle che si produca una variante inammissibile, mentre nella sola trasmissione di Avito la prima possibilità è decisamente più elevata della seconda (ma cfr infra). Quanto alle varianti più significative dal punto di vista formale e/o dell’impatto sul contesto (1.a.2 e 1.b.2), gli autori del primo gruppo (Virgilio, Prudenzio, Paolino di Nola) presentano una percentuale piuttosto bassa sia di varianti ammissibili che di errori, mentre in quelli del secondo gruppo si riscontra, a fronte di un’analoga bassa percentuale di errori, una più rilevante presenza di varianti adiafore significative testimoniate da un solo codice. Considerando invece le varianti testimoniate da più codici, per tutte le trasmissioni esaminate è di gran lunga più frequente che si producano varianti minori ammissibili (2.a.1), evidenza che potrebbe essere giustificata dalla minore probabilità che le sviste di copiatura evidentemente inammissibili vengano commesse da parte di più copisti, nonché dalla più frequente possibilità che l’errore venga corretto in modo indipendente. Tuttavia il primo gruppo (cui si aggiunge in questo caso Avito) mantiene una percentuale più elevata di varianti minori inammissibili (2.b.1), il secondo una presenza di varianti ammissibili significative (2.a.2) decisamente più significativa nella distribuzione interna delle varianti. Ulteriori considerazioni ‘in verticale’ possono vertere sull’osservazione che le varianti ammissibili minori (a.1) sono rappresentate da percentuali molto simili per tutte le trasmissioni (tranne, come si è detto, l’eccezione di Avito): in media il 20% delle perturbazioni di ogni trasmissione è costituito da varianti ammissibili minori testimoniate da un solo codice (1.a.1), e in media il 26% dalla medesima tipologia di variante attestata però da più di un manoscritto (2.a.1). Si tratta ovviamente, ma riprenderemo

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il discorso più avanti, di una questione di distribuzione percentuale delle varianti all’interno delle singole trasmissioni, e non di frequenza delle varianti, che utilizzeremo in un secondo momento come parametro di riscontro. Inoltre, è in generale scarsa o nulla la presenza di errori significativi, siano questi attestati da un codice solo o da più codici (in quest’ultimo caso il dato è giustificato non solo dalla minore possibilità che si produca un errore o un’omissione significativa nella trascrizione di un testo in versi, ma anche dall’eliminazione dei descritti da parte degli editori). È necessario tuttavia riflettere sull’opportunità di considerare separatamente le varianti riportate da un solo manoscritto rispetto a quelle testimoniate da più d’uno dei codici che sono giunti sino a noi. La suddivisione è stata infatti introdotta nell’indagine anzitutto – come s’è detto – per verificare la propensione alla varianza individuale da parte di un singolo codice, che avrebbe falsato i risultati complessivi: ma questa eventualità di fatto si è verificata in modo del tutto irrilevante in tutte le trasmissioni considerate19. Inoltre sulla base della tabella appena analizzata è possibile in linea di principio effettuare un confronto ‘verticale’ soltanto tra trasmissioni sufficientemente numerose: la distinzione tra il gruppo 1 (varianti riportate da un codice solo) e il gruppo 2 (varianti riportate da più codici) ovviamente non ha quasi alcun 19 In realtà soltanto nella trasmissione di Sedulio rilevo una più marcata tendenza all’innovazione da parte del codice siglato da Huemer come A, ovvero il codice Ambrosiano C 74 sup., scritto a Bobbio nella prima metà del ix secolo. Due considerazioni importanti a questo proposito: innanzitutto il codice presenta un gran numero di varianti individuali soltanto per la tipologia 1.a.1, cioè le varianti minori ammissibili, mentre rientra in media con gli altri testimoni nelle varianti non ammissibili. In secondo luogo, la tradizione di Sedulio è molto più articolata di quanto appaia dall’edizione di Huemer, che pure ha collazionato un discreto numero di codici (a selezione casuale): l’esame del testo di Giovenco trascritto nel medesimo codice classifica infatti l’Ambrosiano come uno dei testimoni più importanti nella trasmissione di varianti adiafore sia minori che significative, spesso condivise con una minoranza (sempre diversa) dei manoscritti conservati. Ritengo verisimile che un nuovo esame della trasmissione di Sedulio (che Springer, The manuscripts [cit. n. 17 e testo corrispondente], pp. 21-22 e n. 50, citato infra, qualifica sinteticamente come ‘contaminata’) rivelerebbe non solo la necessità di riconsiderare il valore testimoniale del codice di Bobbio, ma anche la condivisione di buona parte delle varianti di quest’ultimo con altri codici sinora non collazionati.

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senso nel caso di tradizioni fortemente selezionate dalla storia o dagli editori del testo, benché come detto sopra si sia cercato di arginare le conseguenze di quest’ultimo problema collazionando differenti edizioni critiche ove necessario. Viceversa, per trasmissioni sufficientemente numerose potrebbe essere considerata penalizzante una valutazione della distribuzione delle varianti che sommi quelle riportate da un codice solo con quelle riportate da più codici. Tuttavia è innanzitutto l’unico modo per rendere confrontabili tutte le tradizioni considerate. Inoltre mi sembra che l’operazione sia resa lecita, se non necessaria, dalla constatazione empirica di quello che in genere succede quando si incrementa il numero di codici considerati. Non mi riferisco solo al confronto tra diverse edizioni che ho effettuato per Virgilio, Ovidio, Prudenzio, Avito e Aratore (oltre alla consultazione degli aggiornamenti alle edizioni di Paolino di Nola e Sedulio), ma anche a quanto ho potuto verificare con il materiale di prima mano a mia disposizione per Giovenco, di cui ho analizzato versi provenienti dai primi tre libri dell’opera, per ciascuno dei quali era diverso il numero dei manoscritti collazionati (essendo ancora in itinere il lavoro di edizione critica), e in parte erano differenti anche i manoscritti stessi. Quel che ho potuto riscontrare in tutti questi casi (collazioni tra diverse edizioni e collazione diretta per Giovenco) è che l’incremento dei codici non comporta uno spostamento degno di nota delle percentuali tra le diverse tipologie ‘qualitative’ delle varianti (da minori a significative, o da ammissibili a non ammissibili). È cioè molto raro che l’incremento dei codici anche massiccio aumenti in modo significativo la quantità delle varianti dell’uno o dell’altro gruppo: quello che avviene in linea di massima è che varianti – di qualsiasi tipologia – già testimoniate da un codice risultino tràdite invece anche da altri codici, e questa tendenza risulta valida anche per le varianti non ammissibili. La conseguenza concreta è dunque che l’aumento dei codici porta a degli spostamenti statisticamente rilevanti solo dal gruppo 1 al gruppo 2, ovvero le stesse varianti vengono ‘travasate’ dal gruppo testimoniato da un codice a quello testimoniato da più codici, senza sensibili spostamenti all’interno della classificazione tipologica. A quanto pare la sovrapposizione tra la selezione ‘naturale’ dei manoscritti giunti sino a noi e quella compiuta dagli editori, sia pur secondo diversi criteri, genera una campionatura delle varianti che sembrerebbe sufficientemente rappresentativa anche

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per quanto riguarda la ‘qualità’, ovvero la suddivisione tipologica, delle varianti. Ovviamente questo vale a livello di orientamento probabilistico, più che statistico, nella valutazione dell’andamento e della tipologia di ogni trasmissione nel suo complesso, e le eccezioni per singoli autori e/o singole categorie di varianti sono pur sempre possibili. Tuttavia tale constatazione empirica, se venisse confermata da uno studio più a largo raggio, parrebbe in qualche modo sconfessare la communis opinio di un’inevitabile « entropia della trasmissione »20, almeno per le tradizioni sufficientemente numerose, oltre a essere di conforto nel trattamento di tradizioni esigue; per quelle numerose, inoltre, risulterebbe comunque istruttiva per superare l’impatto psicologico delle varianti ammissibili soprattutto ‘minori’ riportate da molti codici, che in caso di difficoltà stemmatiche si è portati a prediligere, in sede di ricostruzione del testo, alle lectiones singulares della stessa tipologia. Per i motivi appena esposti, il confronto tra tutte le tradizioni esaminate risulta dunque più verisimile sulla base della seguente tabella, che elimina la distinzione tra gruppo 1 e gruppo 2 e si concentra solo sulle tipologie di varianti:

20 Tale l’espressione impiegata da D’A. S. Avalle, « L’immagine della trasmissione manoscritta nella critica testuale», in Id., La doppia verità. Fenomenologia ecdotica e lingua letteraria del Medioevo romanzo, Firenze, 2002, pp. 3-14 [l’articolo era stato pubblicato come terza appendice a La letteratura medievale in lingua d’oc nella sua tradizione manoscritta. Problemi di critica testuale, Torino, 1961, pp. 183-196], a p. 13, che traduce nel linguaggio della fisica il calcolo di A. Dain (Les manuscrits, Paris, 1949, p. 43) secondo cui «à mesure que le texte s’altère plus gravement, les fautes de copie croissent en proportion géométrique». Ma è lo stesso Avalle a ricordare di seguito come «sempre nel campo della fisica, si è speculato sulle possibilità che una volta raggiunto il grado di massima entropia, nulla possa più accadere e che tutti i processi, anche quelli vitali, giungano ad una fine». Quello che ho potuto riscontrare solo empiricamente, e che sarebbe utile verificare su campioni e secondo modalità statisticamente affidabili, è la possibilità che il ‘grado di massima entropia’ avvenga prima di quella che Avalle chiama «morte entropica» dei testi (che sarebbero divenuti illeggibili e senza senso per il moltiplicarsi infinito delle innovazioni, se «l’ingegnosità umana non fosse intervenuta più di una volta a frenare ed a correggere le ‘preferenze’ della natura », p. 14), e che vi sia un ‘tetto di saturazione’ delle varianti che, una volta stabilito anche in termini probabilistici, permetterebbe tra l’altro di definire un numero di manoscritti sufficiente a un adeguato trattamento delle tradizioni numerose.

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Vergilius Ovidius Iuvencus Prudentius Paul. Nol. Sedulius Avitus Arator

a.1 41% 55% 57% 40% 45% 49% 58% 56%

a.2 4% 17% 14% 3% 6% 13% 11% 14%

b.1 54% 25% 27% 54% 44% 34% 31% 30%

b.2 1% 3% 2% 3% 5% 4% 0 0

La prima e più evidente constatazione è che i due gruppi in cui si ripartivano in modo abbastanza definito le trasmissioni analizzate secondo la tabella precedente vengono mantenuti, e anzi risaltano con maggiore evidenza se si annulla la distinzione tra varianti riportate da un solo codice e varianti riportate da più codici. Al gruppo composto da Ovidio, Giovenco, Sedulio e Aratore si aggiunge anche Avito, che prima risultava un caso a sé a causa dello sbilanciamento, soprattutto nella categoria a.1 (varianti minori ammissibili) tra varianti riportate da un solo codice e varianti riportate da più codici. Il riallinearsi di Avito a un gruppo compatto, una volta che si annulla la distinzione tra varianti testimoniate da uno oppure da più codici, permette di ipotizzare che tale sbilanciamento possa imputarsi alla selezione dei codici sia da parte degli editori (cfr quanto detto sopra a proposito delle edizioni critiche consultate) che della storia del testo (cfr infra). In ogni caso, questo gruppo si distingue per una percentuale di varianti a.1 (ammissibili minori) decisamente superiore a quella delle varianti minori non ammissibili (b.1), lievemente meno marcata nel caso di Sedulio; inoltre risalta una cospicua presenza di varianti ammissibili significative (a.2), superiore al 10% delle varianti in tutti i componenti del gruppo. L’altro gruppo (Virgilio, Prudenzio, Paolino di Nola) presenta invece una percentuale di varianti minori inammissibili (b.1) pressoché equivalente a quella delle ammissibili (a.1). Gli errori ‘minori’ (b.1) sono proporzionalmente rappresentati in maggior quantità nelle trasmissioni di Virgilio e Prudenzio, e sono in assoluto la tipologia predominante per entrambi; per Paolino di Nola invece si assiste a un leggero sbilanciamento tra le due tipologie a favore delle varianti ammissibili minori (a.1), oltre a una percentuale leggermente superiore rispetto agli altri due poeti di varianti

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significative a.2 (sempre ben al di sotto però del 10%). Dovendo ipotizzare una giustificazione di tale anomalia (ammesso che si debba considerare tale, visto che è stato selezionato un campione di versi e di poeti circoscritto), sarebbe forse necessario riflettere sulle peculiarità delle trasmissioni a circolazione separata, quale è quella dei carmi di Paolino (testimoniati ciascuno da codici in parte o del tutto differenti), che possono condurre a oscillazioni tali da falsare i risultati (peraltro non sostenuti dall’indagine su una trasmissione molto numerosa). In ogni caso, le varianti ammissibili significative (a.2) sono decisamente meno rappresentate in tutti e tre questi poeti rispetto a quanto accadeva nell’altro gruppo. Prima di formulare ulteriori riflessioni su questi dati, occorre incrociarli con gli altri parametri monitorati. b. Frequenza delle varianti

Oltre alla distribuzione percentuale delle varianti all’interno delle singole trasmissioni, un altro elemento da osservare è quello della frequenza con cui le varianti si generano all’interno delle trasmissioni stesse (le frequenze assolute sono state tradotte, per maggiore chiarezza, anche nella frequenza delle varianti rispetto al numero di parole esaminate, assumendo come si è detto che in ogni esametro sia contenuta una media di 7 parole):

Vergilius Ovidius Iuvencus Prudentius Paul. Nol. Sedulius Avitus Arator

φ assoluta 1/2 (1/14 p) 1/1 (1/7 p) > 1/1 (1/5 p) > 1/2 (1/15 p) > 1/1 (1/6 p) 1/1 (1/7 p) 1/3 (1/20 p) 1/1 (1/7 p)

φ a.1 1/4 1/2 > 1/2 1/5 1/2 1/2 1/5 1/2

φ a.2 > 1/40 1/6 1/7 1/66 1/14 1/9 1/25 1/8

φ b.1 1/3 1/4 1/3 1/4 1/2 1/3 1/9 1/6

φ b.2 1/150 1/30 1/40 1/68 1/15 1/30 > 1/300 > 1/300

I due gruppi in cui si erano ripartiti gli autori considerati quanto alla distribuzione percentuale della varianti all’interno delle singole trasmissioni, che sono risultati più evidenti annullando la distinzione tra varianti riportate da uno o da più codici, vengono sostanzialmente confermati anche dall’indagine sulla frequenza delle varianti, tuttavia con alcune ‘anomalie’ (il termine come s’è detto va inteso convenzionalmente) che riguardano gli stessi autori che pre-

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sentavano parziali eccezioni anche quanto alla distribuzione delle varianti, ovvero Paolino di Nola e Avito. Il gruppo caratterizzato da alta percentuale di varianti ammissibili (minori e significative, ovvero a.1 e a.2) e bassa percentuale di errori ‘minori’ (b.1; la proporzione di b.2 come si è detto è inferiore per tutti gli autori) presenta quasi sempre una frequenza assoluta molto elevata di varianti, almeno una per ogni verso o anche più: la constatazione vale per Ovidio, Giovenco, Sedulio, Aratore, ma non per Avito, che come ora vedremo si allinea per le frequenze piuttosto al secondo gruppo. Paolino di Nola, invece, che nella distribuzione interna delle varianti si allineava a Virgilio e Prudenzio, per quanto riguarda la frequenza è invece affine al primo gruppo, con una media di una variante ogni 7 parole, ovvero il doppio o più del doppio rispetto a Virgilio, Prudenzio e Avito. La maggiore frequenza si riverbera anche sulle singole tipologie di varianti: per il primo gruppo vi è infatti una possibilità ogni 2 versi che si produca una variante minore ammissibile, mentre per il secondo la probabilità è di una variante a.1 ogni 4-5 versi. La peculiarità della trasmissione di Paolino rispetto al corpus considerato si rivela però nella frequenza di varianti ammissibili significative (a.2), che risulta all’incirca dimezzata rispetto agli altri componenti del gruppo, anche se comunque ben superiore rispetto a Virgilio, Prudenzio e Avito. Viceversa la trasmissione di Paolino presenta una rilevante frequenza di errori, sia di tipo b.1 (minori) che di tipo b.2 (significativi), superiore (per i b.2 decisamente superiore) a quella di tutti gli altri poeti considerati. Che questo sia da attribuirsi alla circolazione separata dei carmi o ad altre motivazioni non identificabili, è comunque evidente che siamo in presenza di una trasmissione genericamente molto ‘perturbata’, per la quale l’indagine sulla distribuzione interna delle varianti può forse offrire elementi di maggiore riflessione. Per quanto riguarda gli altri due componenti di questo gruppo, ovvero Virgilio e Prudenzio, che come Paolino erano caratterizzati da un’equivalente percentuale di varianti minori ammissibili e non (a.1 e b.1) e da una più scarsa presenza di varianti significative a.2, anche i dati sulla frequenza si mantengono omogenei, e come si è detto vi si allinea anche Avito: la frequenza assoluta delle varianti è inferiore (circa la metà) a quella del primo gruppo, e lo stesso vale per le varianti ammissibili minori (a.1). Decisamente meno frequenti sono poi le varianti ammissibili significative (a.2):

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da notare però che, in proporzione, le varianti significative in Avito sono decisamente più rappresentate, e anche in questo caso ‘anomalo’ dunque il dato sulla frequenza va abbinato a quello della distribuzione proporzionale delle varianti nelle diverse tipologie (cfr anche infra). c. Monitoraggio di altri parametri e riflessioni conclusive

Prima di procedere all’approfondimento dei risultati sin qui considerati, è opportuno operare un confronto con l’unica operazione analoga che a mia conoscenza sia stata condotta sulla fenomenologia della trasmissione dei testi poetici. Un esperimento molto simile è stato infatti proposto nel 1928 da Joseph Bédier, al fine di quantificare le caratteristiche della trasmissione manoscritta del Lai de l’Ombre21. I risultati ottenuti da Bédier, consistenti nell’osservazione di un’analoga frequenza di varianti (quantificata in una variante ogni tre-quattro parole) anche in altre trasmissioni, come quella di Chrétien de Troyes, sono stati in seguito ripresi e ampliati, nonché accompagnati da una riflessione metodologica di più ampia portata, da D’Arco Silvio Avalle22; vale la pena riportarne in sintesi il procedimento attuato e le conclusioni ottenute, poiché costituiscono un indispensabile parametro di confronto con le considerazioni che seguiranno riguardo al lavoro proposto in questa sede: –





per ottenere risultati comparabili con quelli ottenuti da Bédier, Avalle ha selezionato un campione di testi in versi, escludendo i generi « più compromessi dalla dinamica dei ‘rifacimenti’ » come le chansons de geste; per lo stesso motivo, sono stati presi in esame testi trasmessi da una media di sette manoscritti « o, comunque, una sezione della varia lectio relativa corrispondente al materiale offerto da sette manoscritti scelti tra i più rappresentativi »; seguendo i parametri stabiliti da Bédier, Avalle ha tenuto conto delle varianti « di sostanza, ad esclusione quindi di quelle grafiche e morfologiche, ma comprese le inversioni di parola »;

J. Bédier, « La tradition manuscrite du ‘Lai de l’Ombre’. Réfléxions sur l’art d’éditer les anciens textes », Romania, 54 (1928), pp. 161-196; 321-356. 22 D’A. S. Avalle, « Fenomenologia ecdotica del medioevo romanzo», in Id., La doppia verità (cit. n. 20), pp. 125-153 (in partic. pp. 128-135). L’articolo era stato pubblicato col titolo «La critica testuale » in Grundriss der romanischen Literaturen des Mittelalters, edd. H. R. Jauss, E. Köhler, I, Généralités, Heidelberg, 1972, pp. 538-558. 21

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a questo proposito Avalle sottolinea che « eventuali oscillazioni nell’apprezzamento di talune lezioni (ad esempio per quel che riguarda le varianti relative a sintagmi) non modificano i risultati, visto l’alto numero dei dati in presenza »; inoltre viene esplicitato come « la diversa ‘qualità’ delle tradizioni infine (sia sul piano della cronologia relativa, sia per quel che riguarda il numero, variabilissimo, dei codici che fanno parte delle singole tradizioni manoscritte) non interessa la nostra ricerca, perché le osservazioni si riferiscono pur sempre ad un parametro numerico »; i dati sulla frequenza delle varianti, analogamente a come aveva agito Bédier, vengono ricercati ed esposti sulla base delle singole parole, non dei versi, ciò che invece nella presente indagine è stato applicato per approssimazione soltanto ai dati relativi alle frequenze assolute (che del resto sono quelli su cui si concentra la ricerca di Bédier e poi di Avalle). Tale differenza è forse legata sia alla mancanza di un metro fisso e quantitativo nelle liriche oggetto del monitoraggio, sia al fatto che i campioni di versi selezionati sono di lunghezza inferiore (sino a una ventina di versi) e solo il conteggio delle singole parole poteva fornire risultati quantitativamente espliciti; i campioni di versi selezionati sono di lunghezza variabile, sia per loro natura (il materiale di partenza è costituito da singoli componimenti di diversa anche se quasi sempre modesta estensione) sia per conseguente selezione di ulteriore materiale utile al confronto che fosse di estensione più ampia (es. i primi 21 versi della canzone di Dante Doglia mi reca ne lo core ardire, p. 133); i risultati: per quanto riguarda la lirica trobadorica (sono stati analizzati componimenti di Bernart de Ventadorn, Rigaut de Berbezilh, Folchetto di Marsiglia e Peire Vidal), risulta una media complessiva abbastanza costante di una variante ogni quattro-cinque parole, « e sta ad indicare la notevole omogeneità di lezione e uniformità raggiunte dai canzonieri occitanici più antichi sia pur sulla base di un materiale in genere abbastanza disparato »; l’indagine sulla trasmissione della lirica italiana delle origini porta a risultati affini, con medie che « possono salire addirittura a una variante ogni due o tre parole, come ad esempio nella canzone Al cor gentil di Guido Guinizzelli » (pp. 130-131 per l’analisi in dettaglio del testo); tuttavia in altri componimenti dello stesso Guinizzelli (come la ballata Fresca rosa aulentissima) il tasso delle varianti crolla a livelli decisamente inferiori (fino a una variante ogni

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36 parole). Lo stesso accade per la produzione dantesca: mentre nelle Rime i valori sono molto elevati (anche una variante ogni 2, 7 parole), nella Commedia il tasso risulta decisamente inferiore, una variante ogni 12 parole circa, ovvero « livelli medi di varianza propri di non poche tradizioni latine, come per esempio quelli dell’Eneide »; a riscontro di tali esiti, Avalle analizza dunque anche campioni di versi tratti dalla produzione poetica latina (non esclusivamente esametrica), ottenendo i seguenti risultati: una variante ogni 12 parole per Virgilio (solo leggermente superiore dunque a quella riscontrata nella nostra indagine); una ogni 10 parole per Catullo; una ogni 23 parole per Orazio; infine una ogni 9 parole per Ovidio; benché per quest’ultimo autore la frequenza sia leggermente inferiore a quella da noi rilevata (una variante ogni 7 parole) viene confermata una presenza più intensa, anche se con minore scarto, di varianti nella trasmissione ovidiana; riporto per esteso le conclusioni cui giunge Avalle (pp. 134135): « I reperti di questa rapida e incompletissima panoramica delle frequenze medie di varianza nelle due tradizioni manoscritte, romanza e latina, mettono in forse due luoghi comuni abbastanza diffusi: 1) che la tradizione manoscritta romanza sia, per sua natura e, comunque, di norma, più ‘viva’ di quella latina, e 2) che tale differenza sia dovuta al fatto che i testi romanzi sono più vicini agli originali di quanto non lo siano quelli latini. I primi manoscritti (quelli della vulgata antica) della Commedia sono abbastanza vicini all’originale, eppure non sono meno ‘regolari’, almeno per quel che riguarda i valori medi di varianza, di manoscritti lontani di molti secoli dagli originali. La spiegazione della maggiore ‘vivezza’ di una parte, anche se cospicua, della tradizione manoscritta romanza, va quindi cercata altrove. Essa dipenderà molto probabilmente – come abbiamo visto – dal genere a cui appartengono i testi a più alto indice di varianza [corsivo mio] ».

Con queste premesse possiamo allora tornare al punto di partenza, ovvero gli interrogativi posti dalle peculiarità della trasmissione di Giovenco, per i quali sono certamente emerse delle risposte: la frequenza di varianti testimoniate dai codici a noi giunti degli Evangeliorum libri è superiore a quella che si riscontra per gli altri poeti considerati. Lo scarto su un campione di 300 versi non sembra decisivo, ma tenendo conto che la parafrasi consta di più di 3000 versi, è facile comprendere il numero abnorme di varianti con cui ci si deve confrontare rispetto a quasi tutte le

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altre trasmissioni considerate. La frequenza di produzione delle varianti più vicina a quella riscontrata per Giovenco si rileva in Paolino di Nola: tuttavia la tradizione di quest’ultimo (relativamente paragonabile, come si è detto, a causa della circolazione separata dei carmi) si caratterizza per una maggior frequenza di varianti inammissibili, viceversa quella di Giovenco per una più alta frequenza di varianti ammissibili sia minori che significative (a.1 e a.2), e quindi non sembra che le due tipologie di trasmissione possano essere utilmente confrontabili. Giovenco condivide invece un’alta frequenza di varianti abbinata a una predominante presenza di varianti ammissibili con Ovidio, Sedulio, Aratore; se ci si concentra solo sulle tipologie di varianti e non sulla frequenza, al gruppo come si è visto va aggiunto anche Avito. L’autore più problematico del gruppo, che presenta percentuali e frequenze molto simili a quelle di Giovenco, è certamente Ovidio. In particolare, se fosse sensata la possibilità di correlare la cospicua rappresentanza di varianti di tipo a.2 (sia quanto a frequenza che quanto alla proporzione rispetto alle altre tipologie all’interno di ogni singola trasmissione), che contraddistingue in generale tutto il gruppo e in particolare Ovidio e Giovenco, alla possibilità di ammettere varianti d’autore in questo tipo di trasmissioni, o comunque una revisione colta del testo verificatasi in tempi precedenti rispetto alla cronologia dei testimoni per noi disponibili (anche se è impossibile dire quanto in precedenza), risulta evidente il limite di questa indagine nel caso di tradizioni come quella di Ovidio, disperatamente frammentaria nei pochi codici superstiti di età carolingia – peraltro in generale già ben più distanti nel tempo dall’originale di quanto lo siano rispetto ai testi cristiani – e integra solo in codici non anteriori alla fine dell’xi secolo. Mi domando dunque in generale se parametri di questo tipo siano o possano essere validi solo confrontando tradizioni più omogenee tra loro, dove i codici recentiores (diciamo bassomedievali e oltre) vengano valutati insieme a un numero, solitamente maggiore, di codici più antichi: naturalmente non è questione di misconoscere l’aureo principio dei recentiores non deteriores, ma la banale constatazione che, aumentando la distanza cronologica tra l’opera e i suoi testimoni, aumentano anche le occasioni culturali di manipolazione del testo ad alto livello di simulazione, gli ambienti e le epoche in cui questa manipolazione si è potuta verificare, e che è più immediato sospet-

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tare in assenza di testimoni manoscritti ‘intermedi’23. Resta quindi il dubbio che le vicende così peculiari della trasmissione ovidiana non possano essere adeguatamente fotografate da un’indagine di questo tipo, e che sia indispensabile l’integrazione con altri elementi di valutazione, come uno studio sistematico delle attestazioni posteriori delle varianti come terminus ante quem della loro produzione. La necessità di tali cautele e riflessioni mi pare inoltre venga sollecitata anche dal confronto con il contributo di Avalle di cui s’è dato conto sopra, e non solo per quanto riguarda la discrepanza (tutto sommato lieve) sui risultati relativi alla frequenza delle varianti in Ovidio, sia in assoluto che in relazione allo scarto, inferiore nell’indagine di Avalle, rispetto al tasso di varianza delle altre trasmissioni di poeti latini. Mi pare che la differenza maggiore tra le due ricerche, dal punto di vista del metodo, risieda nell’aver considerato garanzia di maggiore oggettività due differenti parametri, in un certo senso l’uno a scapito dell’altro: nell’indagine di Bédier – Avalle infatti resta costante il numero dei mss. considerati (sette, selezionati tra i « migliori rappresentanti » ove la tradizione fosse più cospicua), mentre non è fisso il numero dei versi considerati per ciascun autore o ciascuna opera. Questa scelta consente di ritenere meno problematica la ‘qualità’ delle trasmissioni, dal momento che è già stata isolata ‘d’ufficio’ una selezione arbitraria delle trasmissioni stesse. Nell’indagine che ho condotto, il parametro fisso è quello del numero di versi considerati, mentre la trasmissione manoscritta è stata considerata nella sua globalità, per quanto lo consentivano almeno le collazioni tra gli apparati critici consultati. La scelta è stata motivata dalla volontà di evitare il margine di aleatorietà derivante dalla selezione dei codici da considerare, che avrebbe a mio avviso compromesso la possibilità di verificare l’andamento globale delle singole trasmissioni anche in rapporto alla loro consistenza (che pure è stata tenuta presente nell’interpretazione dei risultati) e pregiudicato l’eventualità di ipotizzare il tasso di casualità o di consapevolezza segnalato dalla 23 Cfr le analoghe considerazioni di G. Orlandi per un poema tardoantico, il De raptu Proserpinae di Claudiano, i cui codici più antichi risalgono al xii secolo (« Pluralità di redazioni e testo critico », in La critica del testo mediolatino. Atti del Convegno (Firenze 6-8 dicembre 1990), ed. C. Leonardi, Spoleto, 1994, pp. 79-115, in particolare pp. 48-49).

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presenza di determinate tipologie di varianti nel maggior numero di codici che era possibile considerare. Si è cercato di ovviare alla ‘mobilità’ di questo parametro separando in prima istanza le varianti riportate da un solo codice da quelle riportate da più codici, e sono state di conforto in questa direzione sia la verifica del fatto che i risultati nella distribuzione delle varianti fornivano esiti comunque coerenti, sia l’osservazione di una mancata corrispondenza tra numerosità della tradizione e frequenza delle varianti (si pensi a Paolino di Nola), sia infine la già esposta constatazione che l’incremento dei manoscritti consultati non cambiava in modo significativo il tasso di varianza: in particolare per l’autore di cui era possibile fruire di dati di collazione di prima mano, Giovenco, è stato verificato come l’impiego di un numero di manoscritti anche doppio non implicasse mutamenti significativi né nella frequenza né nella distribuzione delle varianti. Tuttavia si tratta pur sempre di una constatazione empirica, non di una verità scientificamente dimostrata, ed è quindi evidente che questo tipo di scelta nella selezione dei campioni di versi obblighi a porsi il problema, come si è appena osservato, di quali tradizioni siano adeguatamente confrontabili sia dal punto di vista della quantità che della ‘qualità’. Inoltre, va segnalato come la diversità del parametro da considerarsi fisso rispetto all’indagine di Bédier – Avalle sia forse legata anche alla struttura generale e agli obiettivi dell’indagine stessa: nel caso dei testi romanzi, la ricerca delle varianti è concentrata sin dall’inizio sulle varianti « di sostanza » (che dovrebbero coincidere con le nostre varianti significative a.2, dal momento che non si parla esplicitamente di errori o varianti inaccettabili) e risulta quindi ‘bidimensionale’ (versi – quantità di varianti) mentre per il nostro obiettivo, che era quello di monitorare più in generale le perturbazioni delle trasmissioni considerate, è stato necessario introdurre un terzo parametro, quello della tipologia della varianti, per cercare di individuare la ‘qualità’, oltre che la quantità, di tali perturbazioni. Più importanti di queste differenze mi sembrano tuttavia, e di gran lunga, le affinità tra le due ricerche, sia negli intendimenti e nel metodo (e mi è stato di particolare conforto ritrovare analoghe cautele e analoghe riflessioni sull’ininfluenza del possibile diverso apprezzamento di singole lezioni), sia soprattutto nei risultati. Due monitoraggi condotti anche con parametri parzialmente differenti presentano risultati molto simili, sia quando si tratta degli

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stessi autori considerati (Virgilio, Ovidio) sia più in generale per la constatazione che esistono differenti fenomenologie di trasmissione dal punto di vista del tasso di varianza che non sembrano necessariamente collegate alla diffusione dell’opera in questione (Virgilio, Commedia). E particolarmente importanti mi sembrano a questo punto le conclusioni di Avalle, che individua la ratio dei risultati ottenuti nel genere letterario cui appartengono i testi esaminati, che sarebbe dunque in diretta relazione con le tipologie di trasmissione del testo. Per quanto ci riguarda, sospendendo in parte il giudizio sui risultati dell’indagine relativi a Ovidio per i motivi di cui s’è detto, resta allora da constatare come la massiccia presenza di varianti ammissibili a.1 e a.2, sia in frequenza assoluta che in proporzione agli errori, caratterizzi inequivocabilmente tutti gli autori di parafrasi bibliche, mentre per gli altri poeti scandagliati la possibilità che una perturbazione della trasmissione dia come esito una variante ammissibile minore è equivalente a quella che si produca un errore minore (varianti ed errori significativi invece sono come si è detto poco frequenti). L’osservazione della costante corrispondenza tra produzione di varianti ammissibili e uno specifico genere letterario, quello della parafrasi biblica, rende difficile pensare che, nonostante la limitatezza del campione analizzato, tale coincidenza sia da ascriversi soltanto alle casualità delle copiature, anche perché come si è detto non ho pressoché mai riscontrato correlazioni stabili tra produzione di determinate tipologie di varianti e singoli codici o gruppi definiti di codici. Viene allora da domandarsi se questa corrispondenza non possa avere un senso e una genesi precisi, e in particolare se la netta predominanza di varianti ammissibili, minori e significative, soprattutto se abbinata a un’elevata frequenza di varianti, non possa indicare un consapevole e intenzionale lavorìo compiuto sul testo, che questo sia avvenuto in tempi di poco o di molto successivi alla sua composizione, o addirittura per mano dell’autore medesimo. Viceversa, una presenza equivalente di varianti minori ammissibili e non ammissibili, soprattutto se sbilanciata a favore di quelle non ammissibili (b.1), una scarsa presenza di varianti ammissibili significative (a.2) e una frequenza assoluta di varianti non elevata potrebbero segnalare semplicemente la presenza dei normali disordini della trasmissione (soprattutto per testi così frequentemente trascritti quale quello virgiliano) che sono andati a incrinare la

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forma di un testo editorialmente definito sin dalla sua prima circolazione (o dalla prima diffusione da cui dipendono i codici in nostro possesso, che non necessariamente è la prima in assoluto). Non potendo ovviamente individuare in quale fase (o quali fasi) della storia del testo collocare l’eventualità di consapevoli interventi a diversi livelli (varianti minori e significative) che abbiamo ipotizzato per trasmissioni come quella di Ovidio e delle parafrasi bibliche, è lecito forse però domandarsi se gli esiti evidenziati possano corrispondere a testi che permettono o invitano, per le loro stesse caratteristiche e/o per l’impiego che ne viene fatto, a un intenzionale lavorìo che si verifica pressoché a ogni verso: testi che possano o debbano essere più ‘mobili’ di altri, per i quali magari, dal punto di vista materiale della trasmissione, potesse o dovesse essere prassi anche una eventuale circolazione nella forma di una sorta di ‘collettore di varianti’, di editio variorum per la quale non si aveva interesse alla reductio ad unum, e che potrebbe spiegare molti dei tratti peculiari di tali trasmissioni. Mi domando se, per quanto riguarda Ovidio, qualche spunto in questa direzione non possa venire dall’ipotesi di una recezione delle Metamorfosi come poema ‘didattico’24 a carattere enciclopedico, come inesauribile repertorio di immagini e nozioni che ne avrebbe giustificato le allusioni nonostante il contenuto mitologico pagano. Ma non si tratta che di una suggestione, legata alle riflessioni sull’identità letteraria degli altri componenti del gruppo, e in ogni caso compromessa da un arco temporale troppo lungo ai nostri occhi in cui tale tipologia di trasmissione possa essersi prodotta, benché non manchino nella critica ovidiana i sostenitori dell’ipotesi di un testo mobile delle Metamorfosi già in epoca molto alta25. Qualche suggerimento in questa direzione in O. A. W. Dilke, « La tradition didactique chez Ovide», in Colloque ‘Présence d’Ovide’, ed. R. Chevallier, Paris, 1982, pp. 9-15, e in A. Schiesaro, «Ovid and the Professional Discourses of Scolarship, Religion, Rhetoric», in The Cambridge Companion to Ovid, ed. Ph. Hardie, Cambridge, 2002, pp. 62-75. R. Hexter definisce le Metamorfosi come «the ‘pagan Bible’ of the Middle Ages» nel suo contributo «Ovid in the Middle Ages: Exile, Mythographer, Lover » in Brill’s Companion to Ovid, ed. B. Weiden Boyd, Leiden – Boston – Köln, 2002, pp. 413-442 (p. 431). 25 Cfr A. S. Hollis, Ovid. Metamorphoses Book VIII, Oxford, 1970, pp. XXVII; 102-104 (per i vv. 595 ss.: « The two most interesting possible cases of double recension in this book»); 123-124, e in particolare p. XI: «A possible cause of the doublets is that the ‘several copies’ made at Rome (Tristia I 7 24 ss.) 24

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Per quanto riguarda le parafrasi bibliche invece, che nei risultati di questa indagine sembrano formare un gruppo compatto, e non un caso isolato come per Ovidio, la mobilità del testo quale ora ci appare dalla tradizione manoscritta in nostro possesso (sufficientemente confrontabile per tutti i poeti) potrebbe essere connessa con l’impiego che di questi testi si è fatto nel tempo, e/o eventualmente con lo scopo stesso per cui sono stati composti. Mi riferisco all’ipotesi, formulata nel 1930 da Jospeh Golega26 e ripresa da Ernst Robert Curtius27, di un’origine della parafrasi biblica a partire dagli esercizi di scuola, che a quanto pare prevedevano però solo la parafrasi in prosa di scritti poetici. La teoria è stata poi sviluppata in dettaglio a metà degli anni Ottanta da Michael Roberts28: lo studioso, attraverso una disamina delle teorie sulla parafrasi nei retori greci e latini29, ha inteso soprattutto sottolineare la continuità con la tradizione letteraria antica della parafrasi biblica, che partendo dalla scuola sarebbe poi divenuta un genere letterario autonomo. Non è mia intenzione inserirmi nel dibattito su questo argomento, reso problematico in particolare dalla mancanza di testimonianze (sia quanto alla teoria che quanto alla prassi) sulla versificazione di testi in prosa in ambito scolastico, oltre che dalla difficoltà di individuare il passaggio della parafrasi da esercizio scolastico a genere letterario autonomo: è sufficiente ora rimandare alla lucida e dettagliata sintesi critica che recentemente ha proposto Franca Ela Consolino30. Non voglio quindi discutere l’origine e lo statuto di genere letterario di tali testi (e impiego dunque l’espressione ‘genere letterario’ in riferimento alla posteriore percezione di questa produzione come tale), ma più cautamente riferirmi, seguendo lo spunto delle affinità delle trasmissioni di tutti questi should have varied, as representing different stages of the author’s rough draft ». 26 J. Golega, Studien über die Evangeliendichtung des Nonnos von Panopolis, Breslau, 1930, pp. 92-97. 27 E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, tr. it., Firenze, 2000 (ed. origin. Bern, 1948), p. 168. 28 M. Roberts, Biblical Epic and Rhetorical Paraphrase in Late Antiquity, Liverpool, 1985. 29 Ibid., pp. 5-36. 30 F. E. Consolino, « Il senso del passato. Generi letterari e rapporti con la tradizione nella ‘parafrasi biblica’ latina », in Nuovo e antico nella cultura grecolatina di IV-VI secolo, edd. I. Gualandri, F. Conca, R. Passarella, Milano, 2005, pp. 447-526.

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testi, a un’abitudine compositiva appresa con la scuola31, che può ragionevolmente aver influenzato anche le modalità della composizione, e/o la posteriore fruizione, di tale tipo di testi, lasciandone tracce anche nella loro tradizione manoscritta. In questo senso l’origine, o forse meglio le radici culturali del genere, potrebbero coincidere anche con le finalità. Com’è noto i tentativi, peraltro episodici, di trasformare il contenuto dei programmi di studio da pagani in cristiani non riuscirono mai ad avere seguito, ma soprattutto per l’educazione d’élite in epoca tardoantica si fa via via più concorrenziale alla scuola pubblica l’alternativa dei circoli privati32. In un contesto di tal genere, peraltro variamente testimoniato, sarebbe credo ammissibile l’ipotesi di un simile impiego della parafrasi, che avrebbe permesso di studiare contemporaneamente il testo sacro, la sua esegesi, ma anche le leggi della metrica e dell’ornatus poetico (le varianti a.1 del resto spesso altro non sono che diversi tipi di paronomasia e simili giochi fonici, soprattutto quelle che trasformano l’area semantica della parola trasformandone una lettera o una sillaba)33: esattamente quello che sarà il destino di questi stessi testi qualche secolo dopo, particolarmente nelle scuole 31 Sulla scorta anche delle riflessioni di Consolino, che pure manifesta perplessità quanto alla derivazione della parafrasi biblica da quella retorica, nel saggio citato alla n. precedente, pp. 456-457: « Se non può essere provata una diretta filiazione della parafrasi biblica dalla parafrasi retorica, è invece evidente che essa presuppone un’acquisita competenza negli esercizi scolastici di parafrasi e di versificazione: in questo senso – ma solo in questo senso – la parafrasi biblica appare in continuità con la tradizione dell’insegnamento retorico e può considerarsi un prodotto della scuola». Ancora, alle pp. 521-522: «Ma una tendenza analoga [scil. l’integrazione nella parafrasi di elementi di esegesi] – intenzioni moralistiche incluse – è rilevabile anche in testi di esegesi profana quali i commenti tardoantichi a Virgilio, e caratterizza in particolare il commento virgiliano di Tiberio Claudio Donato [...]. Sotto questo profilo i poeti biblici sono figli della scuola non meno dei Padri e dei grammatici tardi ». 32 Una disamina delle testimonianze divise per aree geografiche in P. Riché, Éducation et culture dans l’occident barbare (VIe-VIIIe siècles), Paris, 1962, pp. 59-78. 33 Cfr H. Lausberg, Elementi di retorica, tr. it., Bologna, 1969 (ed. origin. München, 1949), p. 148, definizione di paronomasia: « gioco di parole che riguarda il significato della parola, che nasce per mezzo di un mutamento di una parte del corpo della parola in cui spesso a un quasi impercettibile mutamento nel corpo della parola corrisponde un mutamento sorprendente, paradossale, del significato della parola ».

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carolinge34. Procedendo a ritroso dall’alto medioevo ha infatti formulato un’analoga ipotesi Louis Holtz35, che analizzando le testimonianze sulle auctoritates citate da scrittori della Spagna visigotica (dai Versus in Bibliotheca di Isidoro di Siviglia all’anonimo trattato De dubiis nominibus cuius generis sint) ha mostrato come nella Spagna del vi e vii secolo – dove il contesto episcopale ha avuto maggiore margine d’intervento sulle strutture scolastiche rispetto a quello monastico – si sia prodotta una sorta di sostituzione in senso cristiano nei programmi di studio, nel momento in cui la chiesa prese in mano l’insegnamento per salvaguardare un livello culturale sufficiente a permettere l’accesso alla Scrittura e alle opere esegetiche e dottrinali. E ricordando come, nelle scuole altoimperiali, gli allievi del grammatico « en lisant Virgile, ils apprennent la poésie, mais aussi la géographie, les constellations, le nom des héros qui ont marqué l’histoire de l’Italie et de Rome, la mythologie [...], l’origine des cités »36, Holtz analizza l’anello di congiunzione tra i due estremi delle testimonianze scolastiche considerate, e ne trae le più plausibili conclusioni: « On peut donc se demander si l’initiative prise par Juvencus au ive siècle et par Sédulius un siècle plus tard d’écrire des épopées chrétiennes n’est pas dès le principe inspirée par un dessein pédagogique et par la conscience que l’œuvre virgilienne, en dépit de la quatrième églogue, ne répond pas aux besoins d’une formation chrétienne, du moins à cause de son contenu, sinon de sa forme, qui reste, aux yeux même de ces nouveaux auteurs, inégalable »37. La correlazione tra una simile ipotesi, culturalmente ragionevole come Holtz ha dimostrato, e l’andamento delle perturbazioni della trasmissione in tutti questi poeti, vuole qui costituire solo un possibile spunto di riflessione, basato sul minimo comun denominatore tra quattro tipologie di trasmissione che risultano molto simili nella distribuzione delle varianti. Varrebbe però forse la pena di mettere 34 Cfr M. Lapidge, « Versifying the Bible in the Middle Ages », in The Text in the Community: Essays on Medieval Works, Manuscripts, Authors, and Readers, edd. J. Mann, M. Nolan, Notre Dame, 2006, pp. 11-40. 35 L. Holtz, « Le poètes latins chrétiens, nouveaux classiques dans l’Éspagne wisigothique », in De Tertullien aux Mozarabes. Mélanges offerts à Jacques Fontaine à l’occasion de son 70e anniversaire, edd. L. Holtz, J.-C. Fredouille, II, Haut Moyen Âge (VIe-IXe siècles), Paris, 1992, pp. 69-81. 36 Ibid., p. 71. 37 Ibid., p. 73.

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questa possibile associazione in relazione anche con altri elementi, sia esterni che interni, come il fatto che i primi autori di parafrasi bibliche, Giovenco e Sedulio, nonostante il grandissimo successo riscosso anche i tempi immediatamente successivi e le menzioni favorevoli già a partire da Girolamo, restino per noi soltanto dei nomi senza altra notizia di contorno, o il fatto che il primo esempio di parafrasi biblica, gli Evangeliorum libri di Giovenco, sia quasi del tutto privo delle amplificazioni in senso esegetico che contraddistinguono in misura sempre maggiore le successive parafrasi: evidentemente non era quello lo scopo di una versificazione così aderente al vangelo per contenuto e forma come quella di Giovenco. E vale la pena anche forse di ricordare, come ha ben osservato Consolino a proposito degli Evangeliorum libri, che « nessun elemento – interno o esterno al poema – consente invece di sostenere che con la sua opera Giovenco intendesse dar vita al ‘nuovo genere letterario’ della parafrasi biblica. Egli infatti non esordisce con il motivo del primus ego, non sottolinea mai l’originalità del suo tentativo poetico, né mai allude alla tecnica parafrastica impiegata o alla novità consistente nel ricorso ad essa »38 e, a proposito della contaminazione tra i vangeli operata da Giovenco, che « l’adozione di questo procedimento è [...] una ragione di più per considerare il suo poema, piuttosto che il primo esemplare di un nuovo genere letterario [...], un epos caratterizzato da una applicazione estensiva della tecnica parafrastica »39. E ancora, che « il fatto che Sedulio non chiami parafrasi il suo poema potrebbe provare che né lui, né i suoi dotti destinatari percepivano la parafrasi come un genere letterario »40. Del resto Sedulio fece seguire alla sua parafrasi un’ulteriore riduzione (cioè una ‘ri-parafrasi’) in prosa, l’Opus Paschale, inaugurando la prassi di una stretta relazione testuale tra opere gemelle in prosa e versi (opus geminatum) mediata dal procedimento parafrastico, che avrà fortuna in seguito41 e per cui ancora una volta potrebbe essere stata la consuetudine scolastica a fornire lo spunto. Tutti elementi esterni (ma ne vedremo ora altri

Consolino, « Il senso » (cit. n. 30), pp. 468-469. Ibid., p. 471. 40 Ibid., p. 484. 41 Penso per esempio alla Vita Cuthberti di Beda, parafrasi in versi di un’anonima Vita in prosa, in seguito ritrasformata da Beda in un nuovo testo in prosa. 38 39

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interni) che potrebbero suggerire la presenza o la compresenza di intenti e usi più ‘concreti’, utili e didattici, e non (solo?) di compiacimento letterario fine a se stesso. Il lavorìo compiuto sul testo che in generale mi pare possa essere segnalato da un’alta percentuale di varianti ammissibili troverebbe così nel caso specifico un collegamento pertinente con il genere letterario che accomuna la maggior parte dei poeti in cui ritroviamo questa caratteristica, e forse potrebbe sollecitare nuove riflessioni anche a proposito della trasmissione ovidiana. Del resto proprio il più recente editore delle Metamorfosi, Richard J. Tarrant, ha collegato quella che definisce come « collaborative interpolation» (nell’ambito di una generale sfiducia nella possibilità di varianti d’autore) a «the large role played in the ancient world by imitation of specific styles and authors, both as method of instruction and as a form of elegant diversion »42. Inoltre, quanto agli elementi ‘interni’, la mobilità costituzionale o precoce che questo tipo di testi sembra manifestare sulla base della frequenza e delle tipologie di varianti potrebbe essere in relazione anche con la costante percezione, da parte degli editori moderni di questi autori (che quindi hanno esaminato la trasmissione dei singoli poeti per ben più di 300 versi), di trovarsi di fronte a una tradizione in parte o del tutto contaminata43, che porta a selezioni più o meno opinabili dei codici per venire a capo 42 R. J. Tarrant, « Toward a Tipology of Interpolation in Latin Poetry», Transactions of the American Philological Association, 117 (1987), pp. 281-298 (p. 296); cfr anche Id., «The Reader as Author: Collaborative Interpolation in Latin Poetry », in Editing Greek and Latin Texts. Papers given at the TwentyThird Annual Conference on Editorial Problems, University of Toronto, 6-7 November 1987, ed. J. N. Grant, New York, 1989, pp. 121-162. La tipologia di interpolazioni ‘collaborative’ coincide comunque soprattutto con le varianti ammissibili significative (a.2). 43 Per Sedulio, cfr Springer, The Manuscripts (cit. n. 17 e testo corrispondente), pp. 21-22 e n. 50: « contaminatio in the textual tradition of the Paschale Carmen is rampant, making it virtually impossible to set up the kind of neat stemma codicum that one can construct for the Paschale Opus, which has a much less complicated manuscript tradition»; per Aratore, Orbán parla di «’Mischtradition’ der dritten Kategorie » (p. 95 dell’edizione per il CC SL sopra citata al par. 2.a, et passim), riconoscendo come a tale categoria di codici si allineino però talora ulteriori testimoni, e impiegando peraltro come criterio per stabilire le relazioni tra i manoscritti la presenza o meno di versi supplementari o alternativi, testimoniati in modo disordinato in questa trasmissione come accade anche in quella di Giovenco. Le contaminazioni nella tradizione

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di un’edizione critica. Il problema, serio, è che a quanto pare i raggruppamenti tra i codici vengono fatti in linea di massima proprio sulle varianti (o su elementi non indicativi di parentela in trasmissioni di tal fatta, quali la presenza di versi supplementari e/o alternativi), e dove la situazione è più complessa (un maggior numero di codici evidenzia maggiormente la distribuzione disordinata delle varianti) o si segue antiquo more il codex praestantissimus (Huemer) o tutt’al più si deve cercare la tendenza all’accordo da parte di gruppi di manoscritti (per ultimo Orbán, pp. 96-99 dell’edizione CC SL), ma anche questa tendenza (che pure potrebbe rappresentare l’unica strada percorribile) è sovente valutata sulla base di varianti adiafore, mettendo tra l’altro sullo stesso piano le poligenetiche dalle significative. Il sospetto, dunque, tenendo conto delle altre affinità di trasmissione manifestate dai parametri che ho invece potuto verificare, è che se si ripartisse da capo senza utilizzare questo procedimento, e imparentando i codici solo sulla base di eventuali errori significativi o guasti meccanici, tutte queste tradizioni potrebbero evidenziare quello che a me sembra probabile per Giovenco ma che non viene generalmente ipotizzato per nessuna di tali tradizioni affini, e cioè, per usare la celeberrima espressione di Giorgio Pasquali44 che peraltro resta a mio avviso la più neutra possibile, una ‘contaminazione totale pretradizionale’ della quale solo in parte, spesso minima, si possono tirare le fila, e che una volta di più sembra suggerire un lavoro sul testo precoce e/o costante nel tempo. Potrebbero andare nella direzione suggerita anche gli esiti del monitoraggio di un ulteriore parametro che si era anticipato all’inizio, ovvero la presenza di varianti a margine o interlineari esplicitamente segnalate come tali dalla presenza di vel o aliter. Anche in questo caso i gruppi sin qui individuati restano i medesimi. Nella trasmissione di Virgilio, Paolino di Nola, Prudenzio, tale evento a quanto pare si registra con una frequenza nulla o insignificante. Viceversa, nelle trasmissioni di Ovidio, Giovenco, Sedulio e Aratore si rileva una massiccia presenza di questo fenomeno: 1/10 versi per Ovidio, 1/7 per Giovenco, 1/13 per Sedulio, 1/6 versi per Aratore. Sospendendo ancora il giudizio su Ovidio per i motivi di Avito sono segnalate da Hecquet-Noti (nell’edizione Sources Chrétiennes citata sopra al par. 2.a), alle pp. 97, 98, 100, e cfr lo stemma a p. 105. 44 In Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, 1934, p. 146.

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di cui s’è detto, va tuttavia segnalato che, almeno a quanto appare dagli apparati critici consultati, per quest’ultimo le varianti a margine o nell’interlinea appaiono soprattutto testimoniate da singoli codici (non però sempre i medesimi), mentre per le parafrasi bibliche sono più spesso gruppi di codici, peraltro a composizione quasi sempre diversa. Vi è tuttavia un autore di parafrasi biblica in cui il fenomeno appare praticamente assente, ovvero Avito (sempre secondo gli apparati delle edizioni consultate)45, e abbiamo già sottolineato come questo non sia l’unico elemento per cui Avito rappresenta un’eccezione rispetto alle altre parafrasi: la distribuzione percentuale delle varianti manifesta proporzioni del tutto affini, ma la loro frequenza è sensibilmente inferiore, mentre tutte le altre parafrasi sono ai primi posti per lo stesso parametro. Una prima possibile spiegazione di tale parziale anomalia potrebbe essere connessa con le caratteristiche peculiari della parafrasi di Avito, talmente libera da non poter forse neppure essere chiamata tale46, e che quindi avrebbe sollecitato in misura minore un certo tipo di interventi sul testo. Tuttavia, date le affinità con le altre parafrasi quanto alla distribuzione interna delle varianti, che sembrano suggerire analoghe modalità di composizione e/o fruizione del testo, mi domando se la motivazione di una così netta discrepanza non possa trovarsi invece già nelle primissime fasi della storia del testo stesso, stando almeno a quanto racconta lo stesso Avito nel prologo del De spiritalis historiae gestis, in cui si dà notizia di una prima diffusione privata, del recupero dell’opera in versi almeno un decennio dopo che era stata composta, in vista di una pubblicazione unitaria, e della sparizione dei rappresentanti della prima fase di circolazione del testo47. La testimonianza di una pub45 Per la verità l’edizione curata da Hecquet-Noti segnala la presenza di varianti a margine e nell’interlinea in due codici monacensi che l’editrice considera non significativi (SCh, 444, pp. 100-102): non sembra però che le varianti siano precedute da vel o aliter, e l’editrice afferma che si tratti di una ben individuabile contaminazione, da parte di due codici appartenenti alla famiglia dei Germanici, con le lezioni proprie invece della famiglia dei Gallicani. 46 Così Consolino, « Il senso» (cit. n. 30), p. 503, che rimanda anche a P. Flury, «Juvencus und Alcimus Avitus», Philologus, 132 (1988), pp. 286-296 e a W. Ehlers, «Bibelszenen in epischer Gestalt: Ein Beitrag zu Alcimus Avitus », Vigiliae Christianae, 39 (1985), pp. 353-369 (356-362). 47 Recolo equidem nonnulla me versu dixisse; adeo ut, si ordinarentur, non minimo volumine stringi potuerit epigrammatum multitudo. Quod dum facere

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blicazione dell’opera di parecchi anni successiva alla sua composizione e prima diffusione potrebbe quindi spiegare la distribuzione delle varianti analoga alle altre parafrasi bibliche (da collegarsi quindi forse alle modalità di composizione e/o prima fruizione del testo)48 e la frequenza nettamente inferiore delle varianti, da mettere invece in relazione alla revisione dell’opera, che potrebbe aver ‘ripulito’ in una fase precoce della trasmissione parte delle tracce del lavorìo (‘scolastico-erudito’?) effettuato sul testo, o addirittura averle eliminate del tutto, prima che si producessero di nuovo, ma in misura minore, a causa di un utilizzo del testo analogo a quello delle altre parafrasi ma che godette di un successo inferiore a queste ultime, come dimostra la tradizione manoscritta più esigua rispetto a quella degli altri parafrasti49. Torna allora la suggestione precedentemente abbozzata, ovvero l’ipotesi che una bassa frequenza di varianti (Virgilio, Prudenzio, Avito) sia da mettere in relazione con un’edizione precocemente ‘chiusa’ in una fase abbastanza alta della sua trasmissione, mentre le proporzioni tra le tipologie di varianti sarebbero invece da collegarsi al tipo di impiego dei testi medesimi, contestualmente o successivamente alla loro composizione. Viceversa, l’elevata frequenza corrisponderebbe a testi rimasti in movimento più a lungo e/o in servato causarum vel temporum ordine meditarer, omnia paene in illa notissimae perturbationis necessitate dispersa sunt. [...] Aliquos sane libellos apud quendam familiarem meum postera repperi; qui licet nominibus propriis titulisque respondeant, et alias tamen causas inventa materiae opportunitate perstringunt. 48 Curioso del resto come sia lo stesso Avito a segnalare il legame tra la sua produzione in versi, la fruizione d’élite e la conoscenza delle leggi del verso, da sostituire con l’educazione nella fede (Prol. p. 275, 9-12 Peiper):... nec in eo immorari, quod p a u c i s i n t e l l e g e n t i b u s mensuram syllabarum servando canat, sed quod l e g e n t i b u s m u l t i s mensurata fidei adstructione deserviat. Sarebbe importante individuare qui l’esatto significato del termine adstructio, il cui valore prevalente di ‘argomentazione’ (ThLL 2, 968, 55 ss.) non sembra adeguatissimo al contesto (soprattutto abbinato a mensurata). Va detto però che il sostantivo presenta in alcuni codici la variante adstrictione, che da un lato parrebbe facilior, dall’altro sembrerebbe più pertinente: vista la simmetria dei due periodi, la costrizione/disciplina (moderata, però) della (o forse meglio ‘alla’) fede corrisponderebbe quindi alla (maggiore) costrizione/disciplina della metrica, riservata alle élites. 49 I testimoni attualmente noti del De spiritalis historiae gestis ammontano a 25, metà di quelli di Giovenco e ancor meno rispetto alle centinaia di codici di Sedulio e Aratore.

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modo più ‘intenso’, che questo sia accaduto durante, dopo o anche molto dopo la vita dell’autore che li ha composti. A queste considerazioni sarebbe forse possibile affiancare gli esiti del monitoraggio di altri parametri più raffinati. Mi riferisco in particolare all’analisi delle relazioni reciproche tra le varianti alternative secondo le sotto-tipologie elencate all’inizio (cambiamenti nello statuto grammaticale e/o semantico della parola etc.): per esempio, nell’ambito delle varianti ammissibili minori (a.1), nel gruppo caratterizzato da una possibile mobilità prolungata del testo (Ovidio e i parafrasti) si riscontra una decisa predominanza delle varianti in cui la trasformazione di una lettera o di una sillaba produce una parola appartenente a una diversa area semantica, ma comunque adeguata al contesto. La constatazione va certamente sfumata a seconda degli autori considerati: se per Giovenco e Aratore tale predominanza è più marcata, in Ovidio e Sedulio appaiono ben rappresentati anche i casi di cambiamento di caso genere numero di sostantivi, aggettivi, pronomi e le trasformazioni di avverbi e preposizioni, ciò che si verifica in misura ancora maggiore in Avito. Senza voler trarre conclusioni forzate, torna però a proposito la riflessione formulata sopra su quanto in particolare tale sottotipologia delle varianti a.1 assomigli a un lusus verborum, di cui si è tentati a questo punto di sospettare l’intenzionalità. Anche perché, viceversa, in Virgilio, Prudenzio, Paolino di Nola, che comunque presentano una frequenza inferiore di tali varianti, appaiono più numerose le alternative che trasformano lo statuto grammaticale della parola, sia per il caso genere numero di sostantivi etc, sia per i modi e i tempi verbali. Per quanto riguarda le varianti ammissibili significative (a.2), mi limito alla constatazione, che anche in questo caso non vorrei sovraccaricare di ulteriori implicazioni, di una maggiore presenza di varianti tra loro semanticamente molto diverse negli autori caratterizzati da bassa frequenza di varianti (Virgilio, Prudenzio, Avito), mentre negli altri si riscontra uno sbilanciamento (più netto in Giovenco, Sedulio, Aratore) a favore delle varianti appartenenti alla stessa area semantica, o più genericamente che assolvono una analoga funzione semantica nel verso. Per Paolino di Nola le due tipologie sono rappresentate in maniera equivalente, anche se in proporzioni differenti a seconda dei carmi considerati, mentre per

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gli altri autori analizzati anche porzioni di testo molto distanti tra loro danno risultati omogenei50. Altre considerazioni potrebbero poi scaturire dall’indagine su ulteriori sotto-tipologie, partendo dalle caratteristiche peculiari della trasmissione di cui ci si occupa più da vicino: per esempio, Giovenco sembra condividere con il solo Ovidio la presenza di varianti multiple (solitamente tre alternative per la stessa parola), rarissime nelle altre trasmissioni poetiche che ho considerato, ma condivide soprattutto con Sedulio la presenza importante di varianti che incidono sulla struttura sintattica del periodo, la cui produzione credo dovesse essere più difficile, e più difficilmente casuale. Questo tipo di considerazioni può illuminare in modo diverso l’utilizzo, che vi va naturalmente accompagnato, degli altri parametri che si possono impiegare nella valutazione delle varianti, quali l’attestazione più o meno precoce delle lezioni alternative, che come si è detto ne può stabilire un terminus ante quem, nonché l’usus dell’autore (linguistico, grammaticale, metrico) e il monitoraggio, ove possibile, delle relazioni tra varianti e intertestualità, integrati eventualmente da tentativi di isolare geograficamente le testimonianze manoscritte di determinate varianti, verificando infine le eventuali relazioni tra le attestazioni posteriori delle varianti e la provenienza dei manoscritti51. 50

Porterebbero troppo lontano qui considerazioni su quanto esiti discordanti relativamente alle tipologie di varianti, in particolare per testi a circolazione separata, potrebbero giovarsi di indagini sulle tipologie di errori ma anche di varianti cui tende il copista del singolo codice. Un interessante esempio di tale indagine, volto ad arginare i problemi posti dalla trasmissione di testi di basso livello linguistico quali le opere pseudo-ciprianee, in M. Marin, « Una recente edizione critica dello pseudociprianeo De aleatoribus. Per una rivisitazione metodologica », in Auctores Nostri. Studi e testi di letteratura cristiana antica, 6, Bari, 2008, pp. 11-49. 51 Le possibilità di questo tipo di indagini sono enormemente incrementate dall’attuale possibilità di utilizzare banche dati di poesia latina, quali Poetria Nova, curata da P. Mastandrea e L. Tessarolo, di cui è recentissima la riedizione (Firenze, 2010) oppure Musisque Deoque, fruibile on line (http://www.mqdq.it/mqdq/). Per le nuove implicazioni di tali strumenti in filologia cfr Poesia latina, nuova e-filologia: opportunità per l’editore e per l’interprete, edd. L. Zurli, P. Mastandrea, Roma, 2009, e in particolare il contributo di L. Mondin, « Appunti per una critica (inter)testuale della poesia latina», alle pp. 73-105. Alcuni esempi per quanto riguarda il testo di Giovenco nelle relazioni intertestuali con i Punica di Silio Italico ho presentato in «L’allusione e la variante » (cit. n. 5).

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È chiaro però che più si raffinano i parametri, più diventa indispensabile operare delle distinzioni sulla base delle caratteristiche peculiari di ogni singola tradizione, mentre su numeri più grandi e usando ‘macro-tipologie’ è più probabile ottenere almeno un orientamento, se gli scarti quantitativi sono sufficientemente perspicui. Nonostante l’ovvia necessità di personalizzare la ricerca, potrebbe però risultare utile, al di là degli spunti oltre ai quali i miei scandagli non permettono certo di andare, l’impiego di parametri condivisi, sui quali far convergere le indagini di più studiosi su un campione più esteso di testi e di versi: i risultati permetterebbero allora di confrontare in modo oggettivo la tradizione che ci si trova a fronteggiare con altre compatibili. La possibilità di capire la fenomenologia della singola trasmissione in rapporto alle altre può essere importante (e per quanto riguarda il mio punto di partenza devo dire che lo è stata, anche sulla base di un campione circoscritto) per non involversi sul singolo autore e soprattutto sui singoli problemi filologici perdendo di vista il quadro d’insieme, e anche come contributo alla risoluzione pratica dei problemi editoriali con cui si deve fare i conti per tradizioni molto complesse e ‘lavorate’. Mi riferisco per esempio alla necessità di moltiplicare le fasce di apparato (sono forse in controtendenza aderendo in toto alle considerazioni, risalenti a più di trent’anni fa, di Cesare Segre, sintetizzate dall’affermazione che « occorre insomma capovolgere i rapporti gerarchici fra testo e apparato, dare la maggior enfasi all’apparato e considerare il testo come una superficie neutra [...] su cui il filologo ha innestato le lezioni da lui considerate sicure, tra le tante considerate »52), o comunque di trovare il modo di presentare « un sistema problematico d’alternative testuali: presentazione che separi anzitutto le varianti ammissibili dalle inammissibili» e ordini poi le ammissibili «secondo una gerarchia prospettica di probabilità »53, se è individuabile, o ancora alla possibilità di pubblicare in textu in modo sinottico entrambe le alternative per determinate tipologie o determinati ‘strati’ di varianti. 52 C. Segre, « La critica testuale », in Atti del XIV Congresso Internazionale di linguistica e filologia romanza (Napoli, 15-20 aprile 1974), ed. A. Varvaro, Napoli – Amsterdam, 1976, I, pp. 493-499 (p. 497). 53 Le affermazioni sono tratte dall’intervento di A. Roncaglia, « La critica testuale », al medesimo convegno citato alla n. precedente (pp. 481-488 degli Atti, qui p. 485).

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Certamente la maggiore oggettività che si potrebbe raggiungere solo grazie alla condivisione collettiva di parametri e risultati avrebbe come auspicabile conseguenza anche quella del risparmio di tempo, una volta delineate le tipologie di trasmissione nell’ambito delle quali inquadrare quella specifica di cui ci si occupa, e le prassi con cui è bene avvicinare e trattare le medesime tipologie: questo potrebbe aiutare a evitare di perdere di vista lo scopo primario del lavoro filologico, che è quello di mettere a disposizione un testo critico stabilito con onestà, motivato con chiarezza, e possibilmente pubblicato in tempi ragionevoli.

Gerolamo e la trasmissione dei testi. Osservazioni sparse (ma non troppo) Leopoldo Gamberale (Roma)

Fra i numerosi motivi per i quali i Padri si interessano alla trasmissione dei testi1 il principale, o almeno uno tra i più importanti, è strettamente connesso con i problemi della traduzione. In special modo per quanto riguarda i testi sacri, e più in particolare per l’Antico Testamento, i Padri sono ben consapevoli che le traduzioni a cui fanno usuale riferimento comportano naturaliter errori e divergenze di rilievo che non sempre possono essere ricondotte ai singoli traduttori, mentre la parola divina dev’essere preservata nella sua autenticità. Le testimonianze in merito sono numerose e note, e ci si può limitare a un paio delle più ‘classiche’, come Hier. epist. 57, 5, 2, il quale afferma che nelle sacre scritture et verborum ordo mysterium est2, oppure Aug. doctr. christ. 2, 11, 16, Latinae linguae homines ... duabus aliis ad scripturarum divinarum cognitionem opus habent, Hebraea scilicet et Graeca, ut ad exempla1 Come si potrà facilmente notare, il mio intervento è piuttosto marginale rispetto al tema specifico del convegno. Ma non è forse inutile esaminare alcune riflessioni dei Padri sulla trasmissione dei testi ; del resto, da filologo classico con competenze patristiche molto limitate, non posso che proseguire una ricerca, già avviata in altri lavori, sulla ‘filologia’ di Gerolamo. Scegliendo fra i molti e a volte inconditi appunti di lettura della enorme produzione geronimiana (e, in misura molto minore, degli scritti di Agostino), ho cercato di seguire un filo, spero non troppo tenue, che mi tenesse in qualche modo legato all’argomento del convegno : di qui il sottotitolo minimalista di queste note. Ringrazio Edoardo Bona e Valeria Capelli per l’attenta lettura e le proficue osservazioni a una prima redazione di queste pagine. 2 Per la discussione di questo passo, che ha dato adito a interpretazioni molto diverse, mi limito a rinviare a P. Antin, « Ordo dans S. Jérôme », in Id., Recueil sur saint Jérôme, Brussels, 1968, pp. 229-240 ; G. J. M. Bartelink, Hieronymus. Liber de optimo genere interpretandi (epistula 57). Ein Kommentar, Leiden, 1980, pp. 44 ss. ; E. Bona, La libertà del traduttore. L’epistola de optimo genere interpretandi di Gerolamo, Acireale – Roma, 2008, pp. 55-67.

DOI 10.1484/M.IPM.1.101078

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ria praecedentia recurratur, si quam dubitationem attulerit Latinorum interpretum infinita varietas3 (in quest’ultimo caso si notino, per l’aspetto della trasmissione, le parole exemplaria praecedentia). Tuttavia la sensibilità testuale che i vari autori dimostrano, relativamente al problema, è molto varia e, in genere, la consapevolezza filologica e critico-testuale non è molto elevata, salvo alcune eccezioni che possono a volte stupire per la loro modernità. All’incirca negli anni 363-365 Ilario di Poitiers compone e pubblica i Tractatus super Psalmos4. Commentando l’inizio di Ps 133, Ecce nunc benedicite Dominum omnes servi Domini : qui statis in domo Domini, in atriis domus Domini, scrive : Repperi autem quosdam ambiguos circa hoc, ‘in atriis domus Domini’, fuisse dicentes idcirco hoc a translatoribus primis adiectum esse, quia sub iisdem versibus sequenti psalmo continetur, opinantibus ipsis s c r i p t o r u m v i t i o in libris Hebraicis fuisse praeteritum. Sed novi interpretes, quae volunt, tractent : n o b i s vero obsequendum est et auctoritati translationum e t v e t u s t a t i 5.

Sembra abbastanza chiaro quel che Ilario sostiene : la pericope in atriis domus Domini sarebbe, secondo alcuni, aggiunta di traduttori da Ps 134, 2 (dove il testo è molto simile), nella presunzione che la sua assenza dal testo ebraico di Ps 133 sia dovuta a errore di copisti. Ma, conclude Ilario, bisogna fondarsi sull’a u t o r i t à e l’a n t i c h i t à delle traduzioni. Il passo non è, in verità, 3 Per il mio assunto basta il rinvio a un commento abbastanza recente, Sant’Agostino. L’istruzione cristiana, ed. M. Simonetti, Milano, 1994, pp. 435 ss. È stato, naturalmente, osservato che l’indicazione viene da uno studioso che non padroneggiava del tutto il greco e non conosceva l’ebraico, cfr ad es. K. Pollmann, Doctrina christiana. Untersuchungen zu den Anfängen der christlichen Hermeneutik unter besonderer Berücksichtigung von Augustinus, De doctrina christiana, Freiburg Schweiz, 1996, p. 75. 4 Per quanto riguarda la data di composizione, i Tractatus super Psalmos sarebbero più o meno contemporanei al Contra Auxentium (364/365) secondo J. Doignon, in Sancti Hilarii Pictaviensis episcopi. Tractatus super Psalmos. Instructio Psalmorum, In Psalmos I-XCI, Turnhout, 1997 (CC SL, 61), Introduction, pp. VIII ss. M. Simonetti, « Ilario di Poitiers », in Nuovo Dizionario patristico e di antichità cristiane, Genova – Milano, 20072, col. 2525, li ritiene « scritti probabilmente dopo l’esilio », cioè posteriori al 361. 5 In psalm. 133, 4. Cito da Hilarius Pictaviensis. Tractatus super Psalmos. In Psalmos CXIX-CL, edd. J. Doignon, R. Demeulenaere, Turnhout, 2009 (CC SL, 61B), p. 140, con piccole modifiche all’interpunzione.

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chiarissimo (qual è il testo delle antiche e autorevoli traduzioni che Ilario approva ?), ma si presta almeno a tre osservazioni. La prima : l’espressione vitio scriptorum, che indica errore di copisti, compare qui, a quel che risulta, per la prima e unica volta prima che in Gerolamo, che ne fa invece un uso relativamente frequente. La seconda : qualcuno (impossibile forse precisare chi e quando) arrivava a supporre errori di copisti nel testo ebraico della Bibbia. La terza : Ilario ha una posizione, dal punto di vista critico-testuale, decisamente ‘conservatrice’, in quanto afferma che ci si deve fidare di testi antichi e (perciò) autorevoli ; ma è anche difficile dire se Ilario si riferisca a traduzioni latine o al testo dei Settanta. Meno di quarant’anni dopo, Gerolamo ragiona diversamente (tract. in psalm. 133)6 : Et qui statis, non ubicumque, sed in domo Dei. ‘In atriis domus Dei nostri’, i n H e b r a i c i s v o l u m i n i b u s n o n h a b e t u r : s e d i n s e q u e n t i p s a l m o e s t . Quomodo enim sequitur in ipso psalmo ? ‘Laudate nomen Domini, laudate servi Dominum : qui statis in domo Domini, in atriis domus Dei nostri’. Quoniam ergo iste psalmus habet, ‘qui statis in domo Domini, in atriis domus Dei nostri’, p r o p t e r e a q u i d a m p u t a v i t e t in ipso psalmo qui praecessit, ‘qui statis in domo D o m i n i ’ , d e b e r e a d d e r e ‘in atriis domus Dei nostri’. Quid autem significet ‘in atriis domus Dei nostri’ et quae sit differentia domus et atriorum in sequenti psalmo cum lectus fuerit disseretur [il tract. in psalm. 134 non è stato scritto o è perduto].

Dato che la pericope non è nell’ebraico, evidentemente è un’interpolazione dal contesto simile di Ps 134, 2. Un’osservazione dello stesso tenore è già in commentar. in psalm. 1337 : In atriis domus 6 I Tractatus dovrebbero essere del 401-402 secondo G. Morin, cfr S. Hieronymi presbyteri Tractatus sive Homiliae in Psalmos, in Marci evangelium aliaque varia argumenta, ed. G. Morin, Turnhout, 19582 (CC SL, 78), p. XI, n. 1 (la prima ed. di Morin è del 1895). Ai primi anni del v secolo, con un’approssimazione leggermente più larga, li assegna P. Jay, « Jérôme à Bethléem : les Tractatus in psalmos », in Jérôme entre l’Occident et l’Orient. (XVIe centenaire du départ de saint Jérôme de Rome et de son installation à Bethléem). Actes du Colloque de Chantilly (septembre 1986), ed. Y.-M. Duval, Paris, 1988, pp. 367-380. Per le date delle altre opere di Gerolamo seguo in genere, ove non ci siano particolari discussioni, la classica ricostruzione di F. Cavallera, Saint Jérôme, sa vie et son oeuvre, Louvain – Paris, 1922. 7 L’opera fu composta probabilmente prima del 393 secondo G. Morin, cfr S. Hieronymi presbyteri Opera, I, Opera exegetica, 1 ... Commentarioli in Psal-

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Dei nostri. Hic versiculus nec in Hebraeis voluminibus nec in quaquam editione nec in ipsis quoque Septuaginta interpretibus reperitur, sed d e c o n s e q u e n t i p s a l m o i n h o c m i h i v i d e t u r a d p o s i t u s . È stato riconosciuto che Ilario nella sua esegesi è in genere debitore di Origene8 ; ma anche per quanto riguarda i Tractatus in Psalmos di Gerolamo si è supposto che siano di ascendenza origeniana, addirittura al limite della traduzione9 : è tuttavia evidente nel nostro caso la divergenza netta delle due interpretazioni testuali. Un contributo specifico di Marc Milhau non approda ad alcuna conclusione10, per l’asserita mancanza di testimonianze mos ... ed. G. Morin, Turnhout, 19592 (CC SL, 72), p. 172 (la prima ed. di Morin è del 1895). L’autore definisce, alla fine del prologo, la sua operetta come angustum commentariolum e afferma di avervi notato in estrema sintesi per lo più appunti di lettura dall’Enchiridion e da commenti e omelie sui Salmi di Origene ; ma questo non esclude che possa a volte aver inserito osservazioni originali, come si vedrà più avanti. 8 Doignon, Introduction (cit. n. 4), p. XV. Lo aveva del resto già detto Hier., in Mich., prol. 2 : sed et Hilarius noster furti reus sit, quod in Psalmos quadraginta ferme milia versuum supradicti Origenis ad sensum verterit. Aggiungo, di passaggio, che questo prologo è quasi interamente composto ad imitazione dei prologhi terenziani, ben più di quanto segnali M. Adriaen in S. Hieronymi presbyteri ... Commentarii in prophetas minores, Turnhout, 1969 (CC SL, 76), p. 473, appar. delle fonti, ad loc. ; e l’imitazione sembra del tutto sfuggita a studiosi recenti, ad es. M. Hale Williams, The Monk and the Book : Jerome and the Making of Christian Scholarship, Chicago, 2006, p. 191, mentre era indicata con sufficiente evidenza in H. Hagendahl, Latin Fathers and the Classics, Göteborg, 1958, pp. 136-138 ; 271-272 ; 300 ; 321 (i passi di Ter. erano già segnalati da Ae. Luebeck, Hieronymus quos noverit scriptores et ex quibus hauserit, Leipzig, 1872, pp. 111-115). Della questione spero di occuparmi in altra sede. 9 V. Peri, Omelie origeniane sui salmi. Contributo all’identificazione del testo latino, Città del Vaticano, 1980. Naturalmente lo stesso Peri riconosce la presenza di aggiunte o modifiche da parte di Gerolamo. L’identificazione dei Tractatus con una traduzione di omelie origeniane non è stata accolta senza riserve, cfr ad es. Jay, « Jérôme à Bethléem » (cit. n. 6) ; e, per alcuni particolari, L. Gamberale, « Pratica filologica e principi di metodo in Gerolamo », Rivista di filologia e istruzione classica, 135 (2007), pp. 329-346 (pp. 336-338 e nn.). 10 M. Milhau, « Différentes versions de titres ou de versets de Psaumes rapportées par Hilaire de Poitiers ‘Tractatus super Psalmos’ », Revue Bénédictine, 102 (1992), pp. 24-43 (pp. 35-36). L’autore osserva che non sembrano esserci in Origene o in Eusebio osservazioni simili ; che il testo dell’Esapla non chiarisce la situazione, e che i ‘nuovi traduttori’ potrebbero essere quelli successivi ai Settanta, senza che tuttavia ne resti traccia. Per lo più i Padri (compreso in alcuni casi Gerolamo), citano il testo ‘lungo’ di Ps 133. È il caso di aggiungere,

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origeniane. Ora, forse non è del tutto esatto dire che manca qualunque testimonianza di Origene, perché nei frammenti del Commento a Matteo il testo di Ps 133, 1 si legge così : ὁ τοίνυν ἀκούσας τὸ ‘ἰδοὺ δε εὐλογεῖτε τὸν Κύριον πάντες οἱ δοῦλοι Κυρίου οἱ ἑστῶτες ἐν οἴκῳ Κυρίου, ἐν αὐλαῖς οἴκου Θεοῦ ἡμῶν’, κτλ., e la corrispondente versione latina del vi secolo suona si intellexeris quae sint atria domus Dei, de quibus scriptum est : ‘ecce nunc benedicite Dominum, omnes servi Domini, qui statis in domo Domini, in atriis domus Dei nostri’. Si autem eqs11. Che si tratti di Ps 133 è evidente per la presenza di εὐλογεῖτε (lat. benedicite), mentre in Ps 134 il testo ha αἰνεῖτε (lat. laudate). Dunque Origene cita anche lui la forma ‘lunga’, almeno in questo passo12. Molto più incerta è da considerare l’attribuzione a Origene di un frammento catenario in cui è rilevata la differenza testuale fra i due salmi (PG, 12 =

per completezza, ulteriore documentazione : l’apparato di A. Rahlfs (Septuaginta. Psalmi cum Odis, Göttingen, 19672, p. 315) a Ps 133, 1 : « ÷ Ga, > o teste Hi ed. Morin (S.-St. 2, p. 121) : ex 1342 » (cioè con l’obelo nel salterio Gallicano, omette il testo esaplare di Origene secondo Gerolamo. Per quanto riguarda il testo dei Settanta, ho sempre presente, accanto all’edizione di Gottinga, anche Septuaginta, id est Vetus Testamentum Graece iuxta LXX interpretes, ed. A. Rahlfs, Stuttgart, 19359). L’apparato dell’ed. romana del Salterio Gallicano (Biblia sacra iuxta Latinam vulgatam versionem ... cura et studio monachorum Abbatiae pontificiae sancti Hieronymi in Urbe ..., Liber Psalmorum ..., Roma, 1953, appar. a Ps 133, 1) riporta : « ÷ = RFRGVG ; om. rell. codd. et edd. » (cioè il segno dell’obelo è nei mss. R FR FG FV G ; gli altri mss. non hanno la pericope). Il testo di Ps iuxta Hebr. (Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, ed. R. Weber, Stuttgart, 19752) è : Ecce benedicite Domino omnes servi Domini qui statis in domo Domini / in noctibus levate manus vestras eqs. 11 26, 69-75 (GCS, Orig., 11, p. 240, 8 ss.) P 319, 5 An. Su questa traduzione latina, sul suo possibile autore e sul suo carattere (se sia versione fedele o rimaneggiata) cfr F. Mali, Das « Opus impefectum in Matthaeum » und sein Verhältnis zu den Matthäuskommentaren von Origenes und Hieronymus, Innsbruck – Wien, 1991, pp. 70 ss., con discussione della bibliografia precedente. 12 Il Commento a Matteo è composto probabilmente nel 248 o 249, cfr P. Nautin, Origène, sa vie et son oeuvre, Paris, 1977, pp. 376 ; 380. A questa data, non lontana dalla morte, l’impresa dell’Esapla era stata già compiuta e, naturalmente, erano state già composte le Omelie sui Salmi. Ciò non permette di escludere che in opere precedenti al Commento a Matteo Origene trattasse la divergenza testuale fra Ps 133 e 134 ; tuttavia, a quanto ne so, l’unica testimonianza che abbiamo, al riguardo, è quella che riporto nel testo.

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Orig. 2 1652 D, Ps 134)13, [...] Σημειώσῃ δέ ὅτι ‘οἴκος μὲν Κυρίου̕ λέγεται, ‘αὐλαὶ δὲ τοῦ Θεοῦ ἡμῶν’. καὶ ἀνωτέρῳ (scil. in Ps 133) μὲν εἰρῆσθαι ‘εὐλογεῖτε’, νῦν δὲ ‘αἰνεῖτε’ κἀκεῖ μὲν μόνον τὸ ‘οἱ ἑστῶτες ἐν οἴκῳ Κυρίου̕, ὡς ἐν τῷ ̔Εβραικῷ νῦν δὲ μετὰ τοῦ ‘ἐν αὐλαῖς οἴκου Θεοῦ ἡμῶν’ ; sulla paternità origeniana di buona parte degli scoli di questo genere ai Salmi ha espresso dubbi che appaiono fondati Marie-Josèphe Rondeau14. Comunque sia, la nota relativa all’aggiunta di una interpolazione in Ps 133 dal simile contesto di Ps 134 sembra essere esclusivamente di Gerolamo, in linea con osservazioni critico-testuali dello stesso tipo che si leggono, ad es., nell’epist. 106, come ho mostrato altrove15. Dunque l’approccio filologico di Gerolamo è molto più moderno, ed è tanto più significativo in quanto Gerolamo conosce questa parte dei Tractatus di Ilario : infatti in vir. ill. 100, 2 ricorda che Ilario aveva composto in Psalmos commentarios a 1-2, da 51 a 62, da 118 usque ad extremum16. La parte che riguarda Ps 133 in PG, 12 ha l’aggiunta ἐν αὐλαῖς οἴκου Θεοῦ ἡμῶν come lemma del versetto : ma quest’ultima parte non viene commentata, anzi sarebbe in qualche modo in contraddizione con il commento. 14 M.-J. Rondeau, Les Commentaires patristiques du Psautier (IIIe – Ve siècle), I, Roma, 1982, pp. 122 ss. ; l’autrice tende a restituire a Evagrio una parte degli scoli catenari anonimi ai Salmi ; preannuncia anche un’edizione, che non mi risulta sia stata pubblicata. 15 Anche Aug., in psalm. enarr. 133, conosce e interpreta solo la forma ‘lunga’ di Ps 133 (‘Ecce nunc benedicite Dominum, omnes servi Domini, qui statis in domo Domini, in atriis domus Dei nostri’. Quare addidit ‘in atriis’ ? Nessuna variante significativa nell’apparato dell’ed. di F. Gori, Enarrationes in Psalmos 119-133, Wien, 2001, CSEL, 95.3, ad loc.). Per quanto riguarda le osservazioni critico-testuali di Gerolamo sulle interpolazioni cfr K. K. Hulley, « Principles of Textual Criticism Known to St. Jerome », Harvard Studies in Classical Philology, 55 (1944), pp. 87-109 (pp. 100 s.) ; L. Gamberale, « Problemi di Gerolamo traduttore fra lingua, religione e filologia », in Cultura latina cristiana fra terzo e quinto secolo. Atti del Convegno (Mantova, 5-7 novembre 1998), Firenze, 2001, pp. 311-345 (pp. 331 ss.). Naturalmente, per non sopravvalutare la coscienza filologica di Gerolamo si deve dire che a volte la sua posizione riguardo a uno stesso passo è oscillante. Proprio per Ps 133 cfr epist. 21, 15, dove il versetto è citato in forma ‘breve’ ma, più tardi, in adv. Iovin. (del 393) 2, 34 (PL, 23, col. 346 C), il testo compare nella forma plenior, e addirittura nello stesso trattato sul Salmo 133, più avanti, l. 142 ed. Morin2 (cit. n. 6) vos autem qui estis in domo Domini, qui statis in domo Domini, in atriis domus Dei nostri : qui estis servi Domini eqs. 16 Per la valutazione da parte di Gerolamo del commento di Ilario cfr sopra, n. 8. Una discussione sulla possibile incompletezza dei Tractatus di Ilario si può leggere in Doignon, Introduction (cit. n. 4), pp. XIX ss. 13

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Possiamo confermare il livello alto di sensibilità testuale manifestato da Gerolamo anche con un esempio di segno quasi opposto a quello ora esaminato, sempre relativo al testo dei Salmi e in particolare a Ps 44, 5 : è opportuno riportare i due testi della Vulgata (secondo i Settanta e secondo il testo ebraico)17 : Ps iuxta LXX 44, 4-5 : accingere gladio tuo super femur tuum potentissime / specie tua et pulchritudine tua / et intende prospere procede et regna / propter veritatem et mansuetudinem et iustitiam / et deducet te mirabiliter dextera tua. Ps iuxta Hebr. 44, 4-5 : accingere gladio tuo super femur fortissime / gloria tua et decore tuo / decore tuo prospere ascende / propter veritatem et mansuetudinem iustitiae / et docebit te terribilia dextera tua.

Nell’epist. 65 a Principia, del 39718, Gerolamo commenta in dettaglio il salmo 44 ; come di consueto propone numerose osservazioni sulle differenze fra il testo tradotto dal greco e quello tradotto dall’ebraico e, a proposito dei versetti 4-5 in particolare, ne propone una che è insieme testuale e stilistica (epist. 65, 11, 1) : in Hebraeo : ̒decore tuo prospere ascende propter veritatem et mansuetudinem iustitiae, et docebit te terribilia dextera tua̓. S e c u n d o scriptum est apud Hebraeos ̒decore tuo̓, ne quis id i p s u m v i t i o l i b r a r i i r e p e t i t u m p u t e t , et est figura quae apud rhetores repetitio nominatur.

Non abbiamo in questo caso, come nota Gerolamo, un errore di dittografia dovuto a un copista (si noti vitio librarii), ma una figura retorica, la repetitio, impiegata consapevolmente dall’autore del testo ebraico. L’acuta percezione dei meccanismi di trasmissione del testo che Gerolamo manifesta in questi così come in molti altri casi (sia pur senza sistematicità e con limiti da non disconoscere) è, per i suoi tempi, abbastanza rara. Può valere al riguardo il confronto con il più illustre dei suoi contemporanei, Agostino.

17 Cito da Biblia sacra, ed. Weber (cit. n. 10) ; per quanto riguarda Ps iuxta LXX ho presente anche Biblia sacra iuxta Latinam vulgatam versionem..., Liber Psalmorum, Roma, 1953 (cit. n. 10). 18 Cfr anche Saint Jérôme. Lettres, ed. J. Labourt, III, Paris, 1953, Notes complémentaires, pp. 228 s.

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Le Retractationes (pubblicate, come si sa, nel 427) sono, a quel che mi risulta, molto poco studiate per ciò che riguarda le osservazioni di tipo critico-testuale che l’autore fa relativamente ai suoi scritti precedenti19. Mi limiterò qui ad esaminare un solo esempio20. In retract. 1, 7, 3 Agostino riprende in esame il De moribus ecclesiae catholicae e nota che vi aveva citato Ecl 1, 2 con la lezione erronea vanitas vanitantium. Aggiunge che è necessario correggere : in multis quidem codicibus legi, sed hoc graecus non habet : habet autem ‘vanitas vanitatum’, quod postea vidi, eos latinos esse veriores, qui habent ‘vanitatum’, non ‘vanitantium’. Ex occasione tamen huius mendositatis quaecumque disserui vera esse ipsis rebus apparet.

All’apparenza, la correzione di Agostino è dovuta a un più accurato controllo dei manoscritti ; si noti tuttavia l’ultima parte del testo citato, in cui si dice che l’errore è privo di importanza relativamente alle cose dette21. In realtà le cose stanno un po’ diver19 Di pochissimo aiuto, in questo senso, G. Madec, Introduction aux « Révisions » et à la lecture des oeuvres de saint Augustin, Paris, 1996. 20 Cito da Santi Aurelii Augustini Retractationum libri II, ed. A. Mutzenbecher, Turnhout, 1984 (CC SL, 57). 21 Agostino si preoccupa più volte, nelle Retractationes, di sostenenere che l’errore indotto dalla mendositas del manoscritto su cui ha lavorato non influisce sulla sostanza delle cose dette, cfr ancora retract. 1, 7, ll. 9 ss., in eo igitur qui est de moribus ecclesiae catholicae, ubi posui testimonium in quo legitur : ‘propter te adficimur tota die’, aestimati sumus ut oves occisionis, m e n d o s i t a s n o s t r i c o d i c i s m e f e f e l l i t minus memorem scripturarum, in quibus nondum assuetus eram. Nam eiusdem interpretationis alii codices non habent ‘propter te afficimur’, sed ‘propter te morte afficimur’, quod uno verbo alii dixerunt mortificamur. Hoc esse verius Graeci libri indicant, ex qua lingua in Latinam secundum Septuaginta interpretes veterum divinarum scripturarum est facta translatio. Et tamen secundum haec verba, id est ‘propter te afficimur’, multa disputans dixi quae in ipsis rebus non tamquam falsa inprobo ; 1, 7, ll. 25 ss. similiter et paulo post testimonium posui de libro sapientiae secundum codicem nostrum, in quo scriptum erat : ‘sobrietatem enim sapientia docet et iustitiam et virtutem’. Et secundum haec verba disserui res quidem veras, sed ex occasione mendositatis inventas. [...] His enim nominibus Latinus interpres quattuor illas virtutes, quae maxime in ore philosophorum esse assolent, nominavit, sobrietatem appellans temperantiam, prudentiae imponens nomen sapientiam, fortitudinem vero virtutis vocabulo enuntians, solam iustitiam suo nomine interpretatus est. Has autem quattuor virtutes in eodem libro sapientiae suis nominibus appellatas, sicut a Graecis vocantur, longe postea repperimus in codicibus Graecis ; 2, 12, ll. 10 ss. in primo ergo libro in eo quod positum est, ‘Dominum seorsum duobus discipulis suam retulisse passionem’, mendositas codicis nos fefellit ; nam duodecim scriptum est non duobus. Come si

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samente : a partire dalla lezione sbagliata Agostino aveva accreditato un participio sostantivato vanitantes (e dunque un inesistente verbo vanitare), del quale aveva dato in più di un’opera spiegazioni lessicali e semantiche. I casi sicuri sono almeno i seguenti22 : mor. eccl. (datato al 387) 1, 39 tali tamen principio constituto, exsequitur [...] vanitantes esse eos qui rebus huiusmodi falluntur eqs. quant. anim. (composto nel 388) 33, 76 [...] quo intellecto vere videbimus quam sint omnia sub sole vanitas vanitantium. Vanitas enim est fallacia, vanitantes autem vel falsi vel fallentes vel utrique intelliguntur. vede, l’attenzione di Agostino non è rivolta in primo luogo alla lettera del testo. Diverso è il problema quando, come può capitare, gli errori sfigurano lo stesso manoscritto dell’autore, al punto da rendergli impossibile il ‘controllo’ del proprio testo, cfr retract. 2, 13, ll. 10 ss. (a proposito di Adnotationes in Iob), postremo tam mendosum conperi opus ipsum in codicibus nostris, ut emendare non possem, nec editum a me dici vellem, nisi quia scio fratres id habere, quorum studio non potuit denegari. Ma le Retractationes sono in genere ricche di spunti per una indagine filologica, ancora trascurati dagli studiosi ; conto di tornare sul problema in altra sede. 22 Per le date di composizione faccio riferimento, ove non altrimenti indicato, ad A. D. Fitzgerald (ed.), Agostino, Dizionario enciclopedico, ed. it. L. Alici, A. Pierretti, Roma, 2007. Per mor. eccl. cfr S. Aurelii Augustini De moribus ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum libri duo, ed. J. B. Bauer, Wien, 1982 (CSEL, 90), p. VII. Naturalmente nel testo della citazione alcuni mss. hanno la variante ‘corretta’ vanitatum (p. 44, ll. 10-11 ed. Bauer), ma dal contesto successivo si desume che Aug. aveva certamente letto vanitantium. Per la data di quant. anim. cfr S. Aurelii Augustini Soliloquiorum libri duo, De immortalitate animae, De quantitate animae, ed. W. Hörmann, Wien, 1986 (CSEL, 89), Praefatio, pp. X s. Quanto alla lez. vanitantium, essa è accolta nel testo ad es. in divers. quaest. LXXXIII 67, 3 ed. A. Mutzenbecher, Turnhout, 1975 (CC SL, 44A, p. 167, l. 56) e in retract. 1, 26 Agostino non corregge questo luogo, ciò che peraltro, alla luce di quanto osservo nel testo, non è probante. D’altra parte, come si ricava dall’apparato della Mutzenbecher ad loc., in buona parte dei mss. si legge vanitatum, e forse non è da escludere che sia da ripristinare nel testo. Nello stesso apparato si ricorda una serie di opere in cui è testimoniato l’erroneo vanitantium : in civ. 20, 3 ; vera relig. 21, 41 ; in Rom. 53 ; conf. 8, 11, 26 ; nupt. et concup. 2, 29, 50 ; ma non sempre le edizioni sono del tutto affidabili e spesso dai relativi apparati critici si ricava anche la presenza, in parte più o meno consistente della trad. ms., di vanitatum. Ad es. in civ. 20, 3 gli editori fanno scelte diverse : E. Hoffmann (Prag – Wien – Leipzig, 1898-1900) stampa vanitantium e così fanno anche B. Dombart, A. Kalb1 (Leipzig, 1928-1929), mentre in B. Dombart, A. Kalb2 (Turnhout, 1955, CC SL, 48 ; non sono indicati nella prefazione i nomi dei revisori) è accolto vanitatum. In conclusione, i casi sicuri in cui Agostino accoglie vanitantium saranno da considerare solo quelli in cui argomenta sul conseguente

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vera relig. (composto verso la fine del 390) 21 neque enim frustra est additum vanitantium quia, si vanitantes detrahas, qui tamquam prima sectantur extrema, non erit corpus vanitas, sed [...] ; cfr anche ibid. 33 tolle itaque vanitantes et nulla erit vanitas.

Se l’errore nel passo dell’Ecclesiaste è abbastanza diffuso e si insinua nelle tradizioni manoscritte di vari autori e varie opere23, la conseguente neoformazione del participio sostantivato vanitantes (e, quindi, di un verbo vanitare) potrebbe essere opera di Agostino perché, allo stato della nostra documentazione, non sembra ne esistano esempi precedenti. Ma, proprio a partire da Agostino e nonostante le Retractationes, il ‘nuovo’ termine ha una qualche diffusione in scritti posteriori fino al Medioevo, almeno fino a Pietro vanitantes e dunque prende esplicitamente posizione. Una discussione analitica del problema si legge in A. A. R. Bastiaensen, « Sur deux passages des Confessions », in Homo spiritalis. Festgabe für Luc Verheijen zu seinem 70. Geburtstag, edd. C. Mayer, K. H. Chelius, Würzburg, 1987, pp. 425-439, il quale discute la lez. vanitatium accolta nel testo di conf. 8, 11, 26 da L. Verheijen nell’edizione del CC SL (Turnhout, 1981), p. 129, 18 ad loc., considerandola – secondo me giustamente – da scartare. Condivido con Bastiaensen la tesi che Agostino abbia scritto in opere meno mature vanitantium e, almeno nelle Retractationes, vanitatum e che queste siano le uniche forme che ha usato. Ma non credo che vanitantium vada conservato in Hier. epist. 49, 14 (cfr sotto, n. 26), come tende a fare Bastiaensen (p. 426) e non sarei nemmeno sicuro dell’interpretazione che l’autore dà al passo delle Confessioni (vanitates = ‘persone vane’). Del resto, vanitantium è accolto in Sant’Agostino. Confessioni, III, testo crit. riv. a c. di M. Simonetti, trad. di G. Chiarini, comm. a c. di G. Madec, L. F. Pizzolato, Milano, 1994, ad loc. e la traduzione di Chiarini, che non mi sembra giusta dato quel testo, è « le vanità più vane » (diversa l’interpretazione nel commento, p. 276). Un parallelo solo apparente è costituito da sanitantium (che si leggerebbe in citazione di Ps 67, 20 = Ps 84, 5) accolto nel testo di Aug. in psalm. enarr. 67 e 84 da E. Dekkers e I. Fraipont, Turnhout, 1954 (CC SL, 39) e di pecc. mer. 2, 5, 5 e 2, 19, 33 da C. F. Urba e I. Zycha, Wien – Leipzig, 1913 (CSEL, 60), soprattutto nell’ingiustificabile nesso sanitantium nostrarum ( !), cfr Bastiaensen, « Sur deux passages » (cit. sopra), p. 430 n. 11 ; nonostante che P. Capelle, Le texte du psautier latin en Afrique, Roma, 1913, pp. 127 e 144, abbia ritenuto che si tratti di una forma ‘africana’ sanitans (ma sarebbe un sostantivo o un participio ?), mi sembra nel giusto D. De Bruyne, « Les citations bibliques dans le De civitate Dei », Revue biblique, 41 (1932), pp. 550-560 (pp. 554 s.), che considera sanitantium una corruttela. Comunque Agostino non lo discute mai dal punto di vista linguistico. 23 Compresa la Vulgata, cfr l’apparato di Biblia sacra iuxta Latinam vulgatam versionem ... cura et studio monachorum Abbatiae pontificiae sancti Hieronymi in Urbe ..., Liber Salomonis ..., Roma, 1957, p. 139 (e cfr ibid. il primo dei Capitula libri Ecclesiastes, p. 129).

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Damiani e Bernardo di Chiaravalle24. Andrebbero riesaminate le scelte degli editori, riguardo a questa lezione, in diversi casi25 ; ma quel che appare evidente è che, diversamente da Agostino, Gerolamo non ha sostanzialmente dubbi sulla lezione vanitatum26 e, se non la discute da un punto di vista critico-testuale, la approva chiaramente (anche se in modo implicito) già nel commento all’Ecclesiaste, uno dei suoi primi e meno maturi (del 388-389) :

24 Rispettivamente epist. 174, p. 270, ll. 18 ss., ed. K. Reindel, Die Briefe des Petrus Damiani, München, 1983-1993 (MGH, Epist., II : Die Briefe der deutschen Kaiserzeit, I-IV), IV : Et quid est aliud, quicquid in mundo pro mundi concupiscentia geritur, nisi quod scriptura loquitur : Vanitas vanitantium, et omnia vanitas ! Vanitas siquidem efficit vanitantes, et ipsi vanitantes faciunt vanitatem, dum et mundus, qui transitorius est, homines, quos decipit, vanos efficiat, et homines mundum, quem insane diligunt, in vanitatem vertant ; ed epist. de moribus et officio episcoporum (epist. 42), 7, p. 64, ll. 12 ss. (Bernard de Clairvaux. Lettres, II, edd. J. Leclercq, H. Rochais, Paris, 2001 [SCh, 458]) : Duo denique mala de una prodeunt radice cupiditatis, dum et vos vanitando peritis, et nos spoliando perimitis. Cfr CLCLT 7. Naturalmente non si può escludere del tutto che la errata formazione del verbo vanitare si sia prodotta, negli scrittori più tardi, in modo indipendente ; resta il fatto che non si registrano esempi prima di Agostino. Il caso di vanitantes e vanitare è uno degli esempi antichi di parole nate da corruttele, un fenomeno che avrà lunga e interessante fortuna almeno fino all’umanesimo. Un caso più antico è forse loquentia, sostantivo nato a quanto pare da un errore di uno o più manoscritti sallustiani in Catil. 5, 4 e accreditato niente meno che da Probo (ma poi usato, a quel che pare come neologismo occasionale, da Giulio Candido, cfr Plin. epist. 5, 20, 5) ; si veda la discussione in S. Timpanaro, Per la storia della filologia virgiliana antica, Roma, 20022 (19861), pp. 122-126 ; Id., Virgilianisti antichi e tradizione indiretta, Firenze, 2001, pp. 103-105. Per quanto riguarda parole nate da corruttele o cattive letture di testi antichi da parte di autori dell’Umanesimo o del Medioevo cfr S. Mariotti, « Sul testo e le fonti comiche della Chrysis di E. S. Piccolomini », ora in Scritti medievali e umanistici, ed. S. Rizzo, Roma, 20103, pp. 167-182 (p. 174) [l’art. originale è del 1946] ; E. Cecchini, « La congettura : esperienze e riflessioni », ora in Scritti minori di filologia testuale, Urbino, 2008, pp. 27-46 (p. 42) [l’art. originale è del 1994] ; S. Rizzo, « Neologismi nati da corruttele nel latino umanistico », in Le strade della filologia. Per Scevola Mariotti, Roma, 2012, pp. 275-286, passim. 25 Significativa, come si è accennato, l’oscillazione degli edd. per Aug. conf. 8, 11, 26, cfr Bastiaensen, « Sur deux passages » (cit. n. 22), p. 426. 26 In epist. 49, 14, gli editori (Sancti Eusebii Hieronymi Epistulae, I, ed. I. Hilberg, Wien – Leipzig, 1910 [CSEL, 54] ; Saint Jérôme. Lettres, II, ed. J. Labourt, Paris, 1951) stampano il testo vanitas vanitantium, omnia vanitas, dixit Ecclesiastes ; ma dagli apparati si ricava che è ben documentata anche la lez. vanitatum che, alla luce dell’uso geronimiano, credo vada ripristinata.

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in eccles. 1, 2 : ‘Vanitas vanitatum27, dixit Ecclesiastes, vanitas vanitatum, omnia vanitas’. Si cuncta quae fecit Deus valde bona, quomodo omnia vanitas, et non solum vanitas, verum etiam vanitas vanitatum ? ut sicut in canticis canticorum, inter omnia carmina excellens carmen ostenditur, ita in vanitate vanitatum vanitatis magnitudo monstretur.

Come sarà consuetudine nei suoi commenti, Gerolamo conferma il testo mediante il confronto sia con l’ebraico sia con il greco (ibid.) : in Hebraico pro ‘vanitate vanitatum’ ‘abal abalim’ scriptum est, quod, exceptis Septuaginta interpretibus28, omnes similiter transtulerunt ἀτμὸς ἀτμίδων sive ἀτμῶν [...] ; e questo non lascia evidentemente dubbi sull’accettazione di vanitatum nel latino. È ben noto che Gerolamo ha sviluppato la sua sensibilità critico-testuale anche attraverso l’opera di traduzione, nel confronto interlinguistico e intralinguistico ; anzi, il più delle volte, specie nei commenti, le divergenze testuali sono osservate in base alla traduzione sia del testo ebraico sia del testo greco, e questo rende più difficile orientarsi con precisione nelle osservazioni specificamente filologiche dell’esegeta. Ma questo esula dai limiti del mio intervento. Meno nota è, probabilmente, l’interazione che in Gerolamo a volte si verifica fra traduzione e critica del testo. Ne propongo qui un esempio di data abbastanza alta, dal Commento all’epistola ai Galati, che è del 38629. In Gal 5, 9 si legge : μικρὰ ζύμη ὅλον τὸ φύραμα ζυμοῖ (var. lect. δολοῖ) [appar. Nestle-Aland27 : δολοῖ D* lat ; McionE Lcf] ; e analogamente in I Cor 5, 6, Οὐ καλὸν τὸ καύχημα ὑμῶν. οὐκ οἴδατε ὅτι μικρὰ ζύμη ὅλον τὸ φύραμα ζυμοῖ… [appar. Nestle-Aland27 : δολοῖ D* | corrumpit Irlat]30. Gerolamo commenta (in Gal. 5, 9) : 27 Anche qui (e solo qui), secondo l’apparato dell’editore M. Adriaen (CC SL, 72, Turnhout, 1959, p. 252) un unico ms., P, legge vanitantium, a testimoniare di quanto sia invasiva la lezione errata. 28 Il testo dei Settanta ha ματαιότης ματαιοτήτων, εἶπεν ὁ ’Εκκλησιαστής, ματαιότης ματαιοτήτων, τὰ πάντα ματαιότης. 29 Fra l’estate e l’autunno, cfr S. Hieronymi presbyteri ... Commentarii in epistulam Pauli apostoli ad Galatas, ed. G. Raspanti, Turnhout, 2006 (CC SL, 77A), p. VII. È il secondo dei quattro commenti ‘paolini’, cfr S. Hieronymi presbyteri ... Commentarii in epistulas Pauli apostoli ad Titum et ad Philemonem, ed. F. Bucchi, Turnhout, 2003 (CC SL, 77C), pp. V-VII (con discussione della bibliografia precedente). 30 L’apparato è trascritto da Novum Testamentum Graece, post Eb. et Er. Nestle edd. B. et C. Aland, Joh. Karavidopoulos, C. M. Martini,

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Modicum fermentum totam conspersionem fermentat. M a l e i n n o s t r i s c o d i c i b u s h a b e t u r ‘modicum fermentum totam massam corrumpit’ et sensum potius interpres suum quam verba Apostoli transtulit […] : ait quippe [scil. Apostolus] : ‘Non bona gloriatio vestra. Nescitis quia modicum fermentum totam massam corrumpit ?’ sive (u t e m e n d a v i m u s ) ‘totam conspersionem fermentat’ ? eqs.

Ora, il testo che Gerolamo qualifica come errato è quello accolto nella Vulgata (come è noto, le epistole paoline non sono tradotte da Gerolamo) ed è, verosimilmente, quello delle più antiche versioni latine ; così compare, del resto, nella massima parte delle citazioni dei Padri, e sembra derivare da una edizione greca con la lezione δολοῖ. Gerolamo invece, a quel che pare, legge il greco con il verbo ζυμοῖ. Ma quel che più mi preme osservare è che commenta il testo in chiave critico-testuale : Male in nostris codicibus habetur è terminologia chiarissima in questo senso31, e indica una corruzione dei manoscritti l a t i n i ; nello stesso senso orienta il successivo ut emendavimus, che ugualmente si riferisce a una corruttela da correggere32. Dunque, quella che a prima vista potrebbe doversi classificare come una diversa traduzione del passo della lettera ai Galati è in realtà trattata come la correzione filologica di un errore nel testo latino. Si è visto, anche dai pochi casi sopra discussi, che Gerolamo, e con lui più d’uno dei Padri, ha chiara consapevolezza del fatto che anche i testi sacri nella trasmissione si corrompono, e non solo per il procedimento della traduzione. Si può dire tuttavia che

B. M. Metzger, appar. crit. elaboravv. B. et K. Aland, Stuttgart, 199527 ; è da consultare anche l’apparato dell’ed. Stuttgart, 196325. 31 Cfr almeno Hier. in Am. 1, 1, non utique ad Iudam et Hierusalem, ut male apud Graecos et Latinos habetur; adv. Iovin. 1, 27 (PL, 23, col. 260 B), non enim (ut male habetur in Latinis codicibus) sobrietas est legenda sed castitas, id est σωφροσύνη; epist. 106, 6, sed et in hoc male; in Hebraeo enim ‘sedechi’ habet; epist. 106, 32, male error obtinuit κατεάξεις, id est ‘confringes’. 32 Qui mi limito a citare tre esempi dall’epist. 106: 18, rursum et in hoc loco additum nomen Domini est; et ne eadem semper inculcem, observare debetis nomen Domini et Dei saepissime additum et id vos debere sequi, quod de hebraico et de septuaginta interpretibus emendavimus; 46, miror, quis in codice vestro emendando perverterit, ut pro ‘sancto’ ‘sanctis’ posuerit, cum et in nostro codice ‘in sancto’ inveniatur; 56, addite ‘te’ et emendato errore librarii vestrum quoque errorem emendabitis.

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Gerolamo più degli altri mostra coscienza dei meccanismi complessi che riguardano la trasmissione dei testi. C’è un nutrito gruppo di passi (almeno una decina) in cui Gerolamo afferma che un errore (o una variante) si è prodotto paulatim33. Potrebbe trattarsi di una di quelle banali ripetizioni non insolite in Gerolamo, ovvero dell’uso di un avverbio troppo generico per essere davvero significativo ; ma credo che l’esame attento di alcuni passi permetta di arrivare a conclusioni diverse. In quaest. hebr. in gen. 23, 2 Gerolamo scrive : ‘et mortua est Sara in civitate Arboc, quae est in valle, haec est Chebron in terra Chanaan’. Hoc, quod hic positum est ‘quae est in valle’, i n a u t h e n t i c i s c o d i c i b u s n o n h a b e t u r . Nomen quoque civitatis Arboc p a u l a t i m a scribentibus legentibusque c o r r u p t u m e s t . Neque enim putandum LXX interpretes nomen civitatis Hebraeae barbare atque corrupte et aliter, quam in suo dicitur, transtulisse. Arboc enim nihil omnino significat. Sed dicitur ‘arbee’, hoc est quattuor, quia ibi Abraham et Isaac et Iacob conditus est et ipse princeps humani generis Adam.

Coerentemente, la traduzione della Vulgata è [...] et mortua est in civitate Arbee quae est Hebron in terra Chanaan eqs. Il testo dunque mostrerebbe più di un livello di corruzione : una frase relativa non presente nel testo ebraico (oppure nell’autentico testo dei Settanta – ? – non è facile decidere)34 e interpolata, più una corruttela nel nome della città, Arboc, formatasi paulatim per incomprensione di copisti (e lettori). È interessante e secondo me acuta, e giusta, l’osservazione secondo la quale non è possibile pensare a un errore dei Settanta, perché in un caso come questo i traduttori avrebbero semplicemente traslitterato il nome ebraico e da questo procedimento non sarebbe potuta venir fuori una vox nihili come Arboc. Un termine che non significa niente non può essere lasciato nel testo, ma è evidentemente un errore di cui si deve cer33 Si veda CLCLT 7, s. v. paulatim. I passi più significativi, fra i quali scelgo quelli che tratto sotto nel testo, sono quaest. hebr. in gen. 23, 2; commentar in psalm. 131; in Is. 9, 30, 26; 11, 40, 6; in Am. 3, 7; in Mich. 2, 6; in Gal. 3, 5, 8 p. 161 (ed. G. RASPANTI, cit. n. 29); in Eph. 1, col. 425, 26 (PL, 26); in Tit. 3, 9, p. 67 (ed. F. BUCCHI, cit. n. 29); adv. Rufin. 2, 17. 34 Il testo greco suona καὶ ἀπέθανεν Σάρρα ἐν πόλει Ἀρβόκ, ἥ ἐστιν ἐν τῷ κοιλώματι (αὕτη ἐστὶν Xεβρών) : cito da Genesis, ed. J. W. Wevers, Göttingen, 1974, p. 219. Naturalmente le forme dei nomi della città presentano diverse varianti, cfr appar. ad loc.

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care di spiegare la genesi. Paulatim sembra dunque voler dire ‘nel tempo’ o ‘col tempo’. In qualche modo simile, almeno dal punto di vista del metodo seguito da Gerolamo, è il caso di in Is. 9, 30, 2635 : miror quomodo in praesenti loco verba Hebraica ‘labana’ et ‘hamma’, quae Aquila interpretatur ‘albam’ et ‘calorem’, per quae lunam solemque significat, supra idem LXX ‘laterem’ et ‘murum’ transtulerint, in eo loco ubi scriptum est : ‘et erubescet luna et sol confundetur’. Pro quo illi interpretati sunt : ‘liquefient lateres et ruet murus’, et nunc idem, sequentes hebraicum, lunam solemque transtulerint. U n d e m i h i d a t u r s u s p i c i o n o n e o s e r r a s s e a principio, sed paulatim scriptorum vitio depravat o s . Neque enim fieri potest ut, qui in hoc loco eadem verba bene interpretati sunt, in superioribus erraverint.

Gerolamo si riferisce a Is 24, 23, dove la sua traduzione dall’ebraico36 suona et erubescet luna et confundetur sol (cum regnaverit Dominus exercituum in monte Sion et in Hierusalem), mentre nel testo dei Settanta si legge καὶ τακήσεται ὁ πλίνθος καὶ πεσεῖται τὸ τεῖχος37. Ora, il commento di Eusebio ad loc.38 offre una lunga discussione nella quale sono riportate fra l’altro le traduzioni di Simmaco, Aquila e Teodozione, sostanzialmente concordi nel testo giusto, ad es. Simmaco καὶ ἐντραπήσεται ἡ σελήνη καὶ αἰσχυνθήσεται ὁ ἥλιος ; viene criticata la versione dei Settanta : οὐδεμία ἐν τούτοις μνήμη οὐη ἡλίου οὐδε σελήνης γεγήνεται, σφόδρα δὲ κεκαλυμμένως εἴρηται τό· ‘και τακήσεται ὁ πλίνθος και πεσεῖται τὸ τεῖχος’, ἀποκρυψάντων ὡς εἰκὸς τῶν ἑρμηνευσάντων τὸν λόγον διὰ τὸ Ἕλλησιν ἐκδιδόναι τὴν γραφὴν καὶ διὰ τὸ ἀπεμφαῖνον τῆς λέξεως ; ma non viene data né qui né a proposito di Is 30, 26 alcuna spiegazione dell’errore.

35 Sul passo cfr il commento, peraltro insoddisfacente, di P. E. Arns, La tecnica del libro secondo san Girolamo, tr. it., Milano, 2005, p. 211 (ed. origin. Paris, 1953). 36 Sia nel commento sia nella Vulgata, per cui cfr Biblia sacra iuxta Latinam vulgatam versionem ... cura et studio monachorum Abbatiae pontificiae sancti Hieronymi in Urbe..., Liber Isaiae..., Roma, 1969, p. 105. 37 Dall’apparato di J. Ziegler (Septuaginta, ... Isaias, Göttingen, 19672, p. 207) si ricava tuttavia che il cod. Sinaitico (S), una parte della redazione esaplare, la redazione lucianea ed Eusebio, leggono il testo corretto. 38 Eusebius Werke 9, Der Jesajakommentar, ed. J. Ziegler, Berlin, 1975, pp. 159-161.

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Nel commento a Is 8, 24, 23 Gerolamo non si era fermato affatto a citare le altre versioni, ma aveva dato una spiegazione diversa dell’errore nella versione dei Settanta39 : In praesenti igitur loco pro ‘labana’, id est ‘luna’, Septuaginta interpretati sunt ‘laterem’, qui Hebraice appellatur ‘lebena’, verbi ambiguitate decepti. Rursum pro ‘hamma’, id est ‘calore’, per quod intellegitur ‘sol’, posuerunt ‘murum’, qui Hebraice dicitur ‘homa’.

Successivamente, procedendo nel commento, Gerolamo si è accorto che in un altro passo (Is 30, 26) i Settanta hanno tradotto giustamente le stesse parole e non gli sembra dunque possibile la diversità delle due versioni ; perciò cambia idea e attribuisce l’errore non alla traduzione, ma alla trasmissione e a una progressiva corruttela da parte dei copisti. La spiegazione mi pare in complesso improbabile, ma è tuttavia metodicamente interessante, specialmente se confrontata col passo che ho commentato in precedenza. Un altro esempio meritevole di attenzione si legge in adv. Rufin. 2, 17 (del 401)40 : et quomodo, inquies, in libris eorum vitiosa nonnulla sunt ? Si me causas vitiorum nescire respondero, non statim illos haereticos iudicabo. Fieri potest ut vel simpliciter erraverint, vel alio sensu scripserint, v e l a l i b r a r i i s i m p e r i t i s e o r u m p a u l a t i m s c r i p t a c o r r u p t a s i n t , vel certe, antequam in Alexandria quasi daemonium meridianum Arius nasceretur, innocenter quaedam et minus caute locuti sint.

39 Non è improbabile che Gerolamo, pur nella diversità di esegesi, abbia avuto presente il commento di Eusebio, dato che fra i passi scritturistici cita anche Dt 4, 19 esattamente con lo stesso ‘taglio’ di Eusebio ad loc. 40 Per l’esegesi complessiva del passo e per i suoi risvolti polemici rimando a P. Lardet, L’Apologie de Jérôme contre Rufin. Un commentaire, Leiden – New York – Köln, 1993, pp. 190 ss. ; solo, non credo possibile che librarii in questo contesto valga, oltre che ‘copisti’, « peut-être aussi ‘dépositaires’ des livres », così come notarius significa sia ‘tachigrafo’ sia ‘segretario’ o ‘archivista’ (ibid., p. 192). Gli imperiti scriptores, o l’imperitia scriptorum, indicano sempre in Gerolamo i copisti incompetenti, cfr in Is. 12, praef. ; ibid., 15, 55, 1 ; in Os. 1, 1, 4 ; in Eph. 1, col. 425, 26 ; praef. in Victorin. Poetov. in apoc. ; in Ezech. 12, 40, 14-16 (cit. più avanti nel testo). Un nutrito elenco di passi geronimiani in cui si trovano i termini librarius e scriptor è in Arns, La tecnica del libro (cit. n. 35), pp. 74-75 e n. 137. Cfr anche L. Gamberale, « Due note sulla filologia di san Gerolamo », in Studi offerti ad Alessandro Perutelli, edd. P. Arduini, S. Audano et all., Roma, 2008, II, pp. 3-14 (partic. pp. 5-6).

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Tra le varie possibilità di errore in un testo ce ne sono alcune imputabili all’autore, altre dovute alla trasmissione e ai suoi meccanismi che si attuano ‘nel tempo’ (paulatim), a causa dell’incompetenza dei copisti. Altrove Gerolamo dirà, infatti, che la corruttela si accresce progressivamente : in Ezech. 12, 40, 5, 13 [...] nomina [...] nimia vetustate corrupta scriptorumque vitio depravata et, dum de inemendatis scribuntur inemendatiora, de verbis Hebraicis facta esse Sarmatica, immo nullius gentis41. Probabilmente però paulatim, oltre a indicare un’alterazione testuale o una corruttela che si produce ‘nel tempo’ o ‘col tempo’42, vuol dire qualcosa di più specifico. A proposito di Ps 131, 15, viduam eius benedicens benedicam : pauperes eius saturabo panibus, in commentar. in psalm. 131, ad loc., Gerolamo scrive : pro vidua, χήρᾳ, et Hebraea volumina et ipsi Septuaginta θήραν habent. Sed propter novitatem verbi et unius litterae demutationem, p a u l a t i m θήρα obtinuit ut legeretur χήρα : maxime quia in sequenti versiculo pauperes sequebantur. Θήρα Symmachus et Aquila ‘cibaria’ interpretati sunt.

Si capisce che la versione è stata influenzata non solo dalla somiglianza delle due parole greche, ma dal contesto successivo, cosicché la presenza di ‘poveri’ ha richiamato la frequente compresenza di ‘vedove’, laddove il testo, corretto sia nell’Ebraico sia nei Settanta, parlava di cibo (Ps iuxta Hebr. venationem eius benedicens benedicam)43. Ma il riferimento a questo stesso versetto, che leggiamo in quaest. hebr. in gen. 45, 21, chiarisce meglio il problema : Verbum seda, quod hic omnes ore consono ἐπισιτισμόν, id est ‘cibaria’ vel ‘sitarcia’ interpretati sunt, in Psalterio quoque habetur. Ubi enim nostri legunt ‘viduam eius benedicens benedicam’, 41

Cfr Gamberale, « Problemi di Gerolamo traduttore » (cit. n. 15), p. 340

n. 93. 42 Naturalmente si possono citare altri esempi, come in Ezech. 10, 22, 23-33 : octo plus minus versus ab eo loco quem posuimus : ‘qui in sanguine comeditis, et oculos vestros levatis ad immunditias vestras’, usque ad eum locum ubi scriptum est : ‘haec dices ad eos : haec dicit Dominus Deus’, in Septuaginta non habentur, qui cum multis aliis et haec praetermiserunt, sive, interpretata ab eis, scriptorum paulatim sublata sunt vitio ; oppure in Gal. 3, 5, 8, su cui cfr Gamberale, « Pratica filologica » (cit. n. 9), pp. 344-346. 43 Nel nostro testo dei Settanta le lezioni sono effettivamente ambedue presenti, cfr Septuaginta. Psalmi cum Odis, ed. Rahlfs (cit. n. 10), p. 314, appar. ad loc.

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licet i n p l e r i s q u e c o d i c i b u s pro ‘vidua’, hoc est pro χήρᾳ, n o n n u l l i legant θήραν, in Hebreaeo habet seda, id est ‘cibaria eius benedicens benedicam’.

Fra numerosi manoscritti greci alcuni (nonnulli) hanno la lezione errata χήραν (viduam). L’errore dunque, secondo Gerolamo, non si è propagato in t u t t a la tradizione ma soltanto in u n a p a r t e . Possiamo forse concludere che l’avverbio paulatim, in questo tipo di contesti, indichi a volte la produzione di varianti ed errori progressiva, n e l t e m p o e i n u n a p a r t e d e l l a t r a d i z i o n e manoscritta. Gerolamo offre anche note interessanti per quanto riguarda la possibile ricostruzione, ritenuta a seconda dei casi sicura, probabile o ipotetica, del testo originale, in presenza di lezioni corrotte. È il caso ad es. di in Matth. 1, 2, 5 (del 398)44 : ‘at illi dixerunt ei : in Bethleem Iudeae’. L i b r a r i o r u m e r r o r est ; putamus enim ab evangelista p r i m u m e d i t u m sicut in ipso hebraico legimus : ‘Iudae’, non ‘Iudeae’. Quae est enim aliarum gentium Bethleem ut ad distinctionem eius hic Iudeae poneretur ? Iudae autem idcirco scribitur quia est et alia Bethleem in Galilaea ; lege librum Iesu filii Nave (cfr Ios 15, 59 e 19, 15). Denique et in ipso testimonio quod de Micheae prophetia sumptum est ita habetur : ‘et tu Bethleem terra Iuda’ (Mi 5, 2).

In questo passo non mi interessa tanto il punto di arrivo quanto, anche in funzione di quel che dirò più avanti, il punto di partenza ; non tanto l’errore dei copisti quanto l’espressione primum editum, che designa il testo originario dell’evangelista (secondo Gerolamo), recuperato dal confronto con il testo ebraico della profezia di Michea, interpretata naturalmente in chiave cristologica. La questione è in realtà più complessa, perché il testo del profeta, nella versione che anche Gerolamo conosce, reca καὶ σύ, Βηθλεεμ, οἶκος τοῦ Εφραθα, ὀλιγοστὸς εἶ τοῦ εἶναι ἐν χιλιάσιν

44 Per la data cfr anche Saint Jérôme. Commentaire sur S. Matthieu, ed. É. Bonnard, I, Paris, 1977, pp. 11 s. Ritenuto, coerentemente con le affermazioni dello stesso autore verso la fine della Praefatio, superficiale e frettoloso, il commento contiene tuttavia numerosi spunti critico-testuali. Non mi occupo, naturalmente, della questione relativa a quale testo greco Gerolamo abbia tradotto nella revisione del Nuovo Testamento (o soltanto dei Vangeli). Per una sintesi del problema cfr B. M. Metzger, The Text of the New Testament. Its Transmission, Corruption, and Restoration, Oxford, 1968, pp. 76 s. ; 266 s.

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Ιουδα45 ; e lo stesso Gerolamo è molto più esplicito nel Commento a Michea (di poco anteriore al 393)46, 2, 5, 2, dove naturalmente fa riferimento al contesto di Matteo 2, 1 ss. (la risposta degli scribi a Erode sul luogo della nascita di Cristo) e osserva la divergenza fra il testo dell’evangelista, Bethleem terra Iuda, e quello sia dell’ebraico, Bethleem Ephrata, sia dei Settanta, Bethleem domus Ephrata ; quindi prosegue : Quod testimonium nec Hebraico nec Septuaginta interpretibus convenire me quoque tacente perspicuum est, et arbitror Matthaeum, volentem arguere scribarum et sacerdotum erga divinae scripturae lectionem neglegentiam, sic enim posuisse ut ab eis dictum est. Sunt enim qui asserant in omnibus paene testimoniis quae de Veteri Testamento sumuntur istiusmodi esse errorem, ut aut ordo mutetur aut verba, et interdum sensus quoque diversus sit, vel apostolis vel evangelistis non ex libro carpentibus testimonia, sed memoriae credentibus, quae nonnumquam fallitur.

Non entro qui nello spinoso problema che Gerolamo tratta spesso, ma non sempre coerentemente, di quale sia il testo dell’Antico Testamento da cui citano gli evangelisti, se quello dei Settanta o l’ebraico47. Mi limito a osservare che, dopo una lunga spiegazione sul nome Ephrata, Gerolamo torna al passo di Matteo per rilevare che il suo testo indica chiaramente l’appartenenza di Betlemme alla tribù di Giuda, come si legge anche in Idc 19, 12 [...] ‘et abiit in domum patris sui in Bethleem Iuda’. Pulchre autem dicitur ‘in Bethleem Iuda’, ad distinctionem eius Bethleem, quae in Galilaea 45 Cfr anche l’apparato di Septuaginta. Duodecim prophetae, ed. J. Ziegler, Göttingen, 19672, p. 217. 46 Cioè di non molto anteriore alla composizione di vir. ill., in cui è citato fra le ultime opere di Gerolamo. Cfr Cavallera, Saint Jérôme (cit. n. 6), II, pp. 30 s. ; Gerolamo. Gli uomini illustri (De viris illustribus), ed. A. CeresaGastaldo, Firenze, 1988, p. 343. 47 Cfr anche A. Kamesar, Jerome, Greek Scholarship, and the Hebrew Bible. A Study of the Quaestiones Hebraicae in Genesim, Oxford, 1993, pp. 51-52 ; 63 ss. Fra le testimonianze geronimiane, di particolare rilievo è l’epist. 57, 7-10, per la quale cfr Bartelink, Liber de optimo genere (cit. n. 2), e Bona, La libertà del traduttore (cit. n. 2), ad locc. In un commento ben più tardo, in Ier. 6, 31 (38), 15, a proposito di Mt 2, 17, 18, che cita appunto Geremia, Gerolamo noterà che nec iuxta Hebraicum nec iuxta LXX Mattheus sumpsit testimonium. [...] Ex quo perspicuum est evangelistas et apostolos nequaquam ex Hebraeo interpretationem alicuius secutos, sed quasi Hebraeos ex Hebraeis quod legebant Hebraice suis sermonibus expressisse.

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sita est, sicut in eodem Iesu volumine repperi48. Dunque, pur nella diversità delle varie esegesi, Gerolamo non ha dubbi sulla correttezza della lezione Iuda nel testo di Matteo e, come argomenta soltanto nel commento al testo dell’evangelista, ritiene Iudeae sostanzialmente una banalizzazione49. Come si è già accennato, è comune nella riflessione filologica latina, già almeno dalla prima età imperiale, ritenere che i manoscritti più affidabili siano i più antichi e che siano questi a conservare le lezioni giuste. A questa impostazione, se non erro, Gerolamo ne sostituisce una diversa, che gli permette di spiegare a volte gli errori secondo un meccanismo quanto meno più complesso. Ancora nel Commento a Matteo 1, 1, 12, scrive : ‘Et post transmigrationem Babylonis Iechonias genuit Salathiel’. Sciamus ergo Iechoniam priorem ipsum esse quem et Ioiacim, secundum autem filium non patrem, quorum prior per k et m et sequens per x et n scribitur, quod s c r i p t o r u m v i t i o e t l o n g i t u d i n e t e m p o r u m apud Graecos Latinosque confusum est.

Qui i fattori considerati sono almeno tre : la traduzione, che peraltro non è il principale, l’errore dei copisti e il tempo. Nel Commento a Ezechiele, scritto molti anni più tardi, fra il 411 e il 414, si legge (12, 40, 14-16) : haec fastidioso lectori molesta fore non ambigo, sed volui breviter ostendere quantum t e m p o r i s l o n g i t u d i n e , immo s c r i p t o r u m v i t i o et, ut apertius loquar, v i t i o e t i m p e r i t i a , ab Hebraica veritate discrepet antiqua translatio, praecipueque in Hebraicis nominibus quae50 nos de aliorum editionibus in Latinum sermonem

48 In epist. 57, 8, 3 ss. Gerolamo espone distesamente le divergenze testuali fra il passo di Matteo e la sua fonte, Michea 5, 2, ma in una prospettiva alquanto differente, cfr Bartelink, Liber de optimo genere (cit. n. 2), pp. 91 s. 49 Diversamente spiega Hulley, « Principles of Textual Criticism » (cit. n. 15), p. 97. 50 Nell’ed. di F. Glorie, Turnhout, 1964 (CC SL, 75), p. 566, l. 532, si legge Hebraicis sermonibus quae ; è un’evidente sconcordanza derivante dal testo di D. Vallarsi (in PL, 25, col. 381, cfr appar. ad loc.), che leggeva Hebraicis nominibus quae. Se il pronome relativo nella trad. ms. è effettivamente al neutro va ripristinata la lezione nominibus, che tra l’altro mi sembra più coerente col senso del passo (nomina non vuol dire soltanto ‘nomi propri’) e sermonibus potrebbe essere un errore di anticipazione dal contesto immediatamente successivo. Ma un margine di incertezza resta, dato che l’apparato di Glorie è muto al riguardo.

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expressimus, non tam explanationem dictorum quam suspicionem nostram simpliciter indicantes.

Il passo non è chiarissimo ; non si capisce bene, ad esempio, che cosa voglia dire Gerolamo quando scrive che ha tradotto de aliorum editionibus (si riferisce forse alle altre versioni dal greco oltre quella dei Settanta ?), ma è comunque evidente che ricompaiono, in ordine inverso, due elementi già presenti nell’esempio citato in precedenza : la distanza temporale e l’errore dei copisti. Non escluderei però che la serie abbia un significato per come è presentata e che gli elementi che la compongono siano messi in ordine di importanza crescente. Il tempo intercorso fra l’originale ebraico e il testo che si legge correntemente quando Gerolamo scrive il suo commento è il primo dato ; in questo tempo è avvenuto più volte il procedimento di copia (per quanto Gerolamo non lo dica in maniera esplicita) ; i copisti, in più (immo), hanno introdotto errori e, per esprimersi più chiaramente (apertius), non solo meccanici (vitio) ma anche per incompetenza (imperitia)51. È la combinazione di vari aspetti che riguardano la trasmissione del testo profetico che permette di spiegare il prodursi di guasti testuali, anche se non necessariamente di trovare il modo di sanarli. Ora, il testo del profeta riguarda la descrizione di un edificio, di cui vengono dati orientamento e misure ; e anche altrove, quando ci sono problemi relativi a indicazioni minute, definizioni tecniche di parti di un edificio, divergenze numeriche fra testo ebraico e traduzione dei Settanta, Gerolamo si esprime con cautele simili a quelle con cui conclude il passo citato52 ; quello che qui, tuttavia, mi sembra importante e significativo è che non si limita a notare che il testo più antico (in particolare l’ebraico) è giusto, ma offre considerazioni più complesse e articolate in base a problemi di distanza 51 Gerolamo non precisa se gli errori siano di copisti greci o latini o di entrambe le lingue ; ma, dato che altrove ipotizza errori di copia sia per il greco che per il latino, può darsi che abbia in mente una casistica piuttosto varia. 52 Apparentemente insolite per chi abbia l’immagine di Gerolamo come di uno studioso sempre sicuro di sé e pieno di orgoglio, sono in realtà più frequenti di quanto ci si aspetterebbe, specie nei commenti maturi, cfr i passi citt. sotto, n. 53. Un po’ diverso, nel contesto di una critica a un’omissione dei LXX, in Ezech. 1, 13, 14 : melius est autem in divinis libris transferre quod dictum est, licet non intellegas quare dictum sit, quam auferre quod nescias ; alioquin et mu1ta alia quae ineffabilia sunt et humanus animus non potest comprehendere, hac licentia delebuntur.

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temporale, differenza di lingua, interventi nel corso della trascrizione e trasmissione del testo. Ora, le incongruenze minute che si riferiscono all’orientamento dei luoghi, alle misure, alle indicazioni numeriche affliggono Gerolamo, e i suoi lettori, negli ultimi commenti, a Ezechiele e a Geremia53 ; e proprio questioni che riguardano differenze nei numeri costringono a cercare la soluzione attraverso la critica testuale, e per di più con sorprendente modernità, da parte di chi non ci si aspetterebbe che lo facesse, cioè da parte di Agostino. Nel quindicesimo libro del De civitate Dei54, al cap. 13 scrive che, sulla lunghezza della vita dei Patriarchi e sull’età nella quale hanno generato figli, i manoscritti greci (e latini), unanimi, danno indicazioni diverse rispetto al testo ebraico. Alcuni, riferisce Agostino, attribuiscono la diversità alla malitia o al mendacium degli Ebrei ; ma anche i Settanta erano ebrei, e la loro traduzione ispirata non può essere sbagliata. D’altro canto, absit ut p r u d e n s quispiam vel Iudaeos cuiuslibet perversitatis atque malitiae tantum potuisse credat i n c o d i c i b u s t a m m u l t i s e t t a m l o n g e l a t e q u e d i s p e r s i s , vel Septuaginta [...] hoc de invidenda gentibus veritate unum communicasse consilium. C r e d i b i l i u s ergo quis dixerit, cum p r i m u m de bibliotheca 53 Cfr ad es. in Ezech. 12, 40 (p. 583, 1024 s. ed. Glorie, cit. n. 50) ; nel corso della lunga descrizione di un luogo e dell’edificio che vi si trova, scrive una specie di rassegnato ammonimento : Ignosce, lector, difficultati locorum, aut si melius quid invenire potes, doce : libenter discimus quod nescimus. In modo simile si esprime in in Ezech. 13, 14, 1-12 (p. 609 ed. Glorie) : multaque alia quae in praesenti loco proposita sunt, inter hebraicum et Septuaginta non solum ordine sed et numero et verborum interpretatione discordant, ut, si voluerimus haerere in singulis et diversitatis eorum quaerere et explanare rationem, multum aberremus a proposito ; volueramque, desperatione et magnitudine rei, praesens testimonium silentio praeterire, sed melius arbitratus sum quodcumque dicere, quam omnino nihil dicere, socraticum illud assumens : ‘scio quid nesciam’, pars enim scientiae est, scire quid nescias. 54 Il libro dovrebbe essere posteriore al 418, se a quell’anno risale (come generalmente si ritiene) l’epist. 184, nella quale, al § 6, Agostino scrive che sta componendo il libro XIV del De civitate Dei. L’argomento comincia ad essere trattato al cap. 10, cfr tit., De differentia qua inter Hebraeos et nostros codices videntur annorum numeri dissonare ; e la soluzione del problema, lì all’apparenza ignorata, è in realtà solo rinviata, ibid. : etsi inter Hebraeos et nostros codices de ipso numero annorum nonnulla videtur esse distantia, q u o d i g n o r o q u a r a t i o n e s i t f a c t u m , non tamen tanta est, ut illos homines tam longaevos fuisse dissentiant.

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Ptolomaei d e s c r i b i ista c o e p e r u n t , tunc aliquid tale fieri potuisse i n c o d i c e u n o , sed p r i m i t u s i n d e d e s c r i p t o , unde iam latius emanaret ; ubi potuit quidem accidere etiam s c r i p t o r i s e r r o r . Sed hoc in illa quaestione de vita Mathusalae non absurdum est suspicari, et in illo alio, ubi superantibus viginti quattuor annis summa non convenit.

E, poco più avanti, aggiunge (ibid.) : itaque illa diversitas numerorum aliter se habentium in codicibus Graecis et Latinis, aliter in Hebraeis, ubi non est ista de centum annis prius additis et postea detractis per tot generationes continuata parilitas, nec malitiae Iudaeorum nec diligentiae vel prudentiae Septuaginta interpretum, sed s c r i p t o r i s tribuatur e r r o r i , qui de bibliotheca supradicti regis c o d i c e m d e s c r i b e n d u m p r i m u s a c c e p i t . Nam etiam nunc, ubi n u m e r i non faciunt intentum ad aliquid, quod facile possit intellegi vel quod appareat utiliter disci, et neglegenter describuntur et neglegentius emendantur.

Sono passi di una lucidità filologica straordinaria. All’inizio Agostino argomenta che non è possibile che manoscritti così distanti per tempo e luogo abbiano tutti le stesse lezioni55, ciò che a rigore implicherebbe un’origine comune solo in presenza di lezioni e r r a t e e non, come giustamente ritiene improbabile Agostino, del testo giusto56 ; ma poi osserva che, se si considera giusto il testo ebraico, per l’errore comune nella tradizione dei Settanta e nei manoscritti da essa derivati l’unica spiegazione possibile è che le corruttele si siano prodotte non nel t e s t o dei Settanta (che, in quanto ispirato, doveva essere corretto), ma nella prima copia tratta dall’originale della biblioteca di Tolomeo (in codice uno, sed primitus inde descripto), per errore di copista (scriptoris error) ; Agostino ribadisce lo stesso concetto una seconda volta (scriptoris tribuatur errori, qui de bibliotheca supradicti regis codicem describendum

55 Agostino in effetti si riferisce all’impossibilità che gli Ebrei abbiano cambiato il testo per ‘malizia’ ; ma dal punto di vista critico-testuale la situazione non cambia rispetto a quanto osservo nel testo. 56 Mi allontano, per questo aspetto, da quanto scrive V. Capelli, « Segni diacritici ed eredità filologica origeniana in Gerolamo », Adamantius, 13 (2007), pp. 82-101 (pp. 98-99), solo in quanto riferisco questa parte del ragionamento di Agostino anche a un aspetto critico-testuale (fra parentesi osservo che non è poi così raro che anche filologi moderni commettano lo stesso sbaglio nella valutazione dei rapporti fra i manoscritti).

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primus accepit). Dunque un errore condiviso da tutta la tradizione non può che risalire a un unico antecedente comune. Agostino perciò individua quello che, in terminologia moderna, chiameremmo errore di archetipo, e ne espone la natura con chiarezza cristallina57. Ma è interessante anche l’ultima osservazione di Agostino nel passo citato, ed è anche’essa, come si direbbe, ‘da manuale’. Le trascrizioni dei numeri rischiano di essere facilmente sbagliate, specie dove non c’è motivo esplicito che richiami l’attenzione dei copisti ; e, una volta fatto l’errore, la sua correzione rischia di essere un peggioramento58. Questa ‘scoperta’ del concetto di errore d’archetipo potrebbe apparire propria di Agostino e, forse, lo è per quanto riguarda la chiarezza dell’individuazione e dell’esposizione. Ma io credo che non sia un unicum e che, per altre vie, ci fosse già arrivato Gerolamo. Per dimostrarlo devo rileggere passi che ho già trattato in un altro lavoro, correggendo sostanzialmente o integrando quanto ho scritto59. Procedo seguendo l’ordine cronologico degli scritti di Gerolamo, iniziando con in Matth. 2, 13, 35 (del 398). Il commento riguarda un passo di Matteo in cui si legge : « perché si adempisse

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Su questi passi e sulla loro giusta interpretazione ha richiamato la mia attenzione la mia allieva Valeria Capelli, che ne ha scritto in « Segni diacritici » (cit. n. 56), partic. pp. 98-100. Una trattazione sintetica, con il giusto rilievo al principio filologico, è già in B. Chiesa, Filologia storica della Bibbia ebraica, I, Brescia, 2000, p. 34 e n. 40 (ricordato anche da Capelli, p. 100 n. 57). 58 Sugli errori derivati da errata trascrizione di segni numerici, osservati anche da Gerolamo, cfr già Hulley, « Principles of Textual Criticism » (cit. n. 15), pp. 95-96. Per quanto riguarda Agostino, naturalmente, anche la sua osservazione non diventa base di un ‘sistema’ filologico. Per restare al De civitate Dei, in 18, 42-44 sostiene ancora la vecchia tesi dei Settanta traduttori che, singolarmente, avrebbero tradotto nello stesso modo ; ma in 18, 43 la mitiga un po’, per affermare che comunque lo Spirito ha ispirato i Settanta come ha ispirato i profeti, e le diversità rispetto all’ebraico sono diversità fra profeti, come ci sono ad es. fra Isaia e Geremia ; e dove, come in Ion 3, 4, c’è differenza fra ebraico e Settanta (tre o quaranta giorni per la distruzione di Ninive), è probabile che Giona abbia scritto, così come appare nel testo ebraico, ‘quaranta’, ma il senso profetico e simbolico di entrambi i numeri rimane e, dunque, sostanzialmente il senso del passo è pressoché lo stesso (tre sono i giorni dopo i quali Cristo è risorto ; quaranta i giorni che Cristo ha passato con gli apostoli dopo la resurrezione). È un bell’esempio di prevalenza dell’aspetto religioso su quello testuale. 59 Cfr Gamberale, « Problemi di Gerolamo traduttore » (cit. n. 15), pp. 339 ss.

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quanto detto dal profeta che disse : ‘Aprirò la mia bocca in parabole’ [...] », ὅπως πληρωθῇ τὸ ῥηθὲν διὰ τοῦ προφήτου λέγοντος ‘’Ανοίξω ἐν παραβολαῖς τὸ στόμα μου’ [...], ma è presente la variante διὰ τοῦ ’Ησαίου προφήτου60. Il passo in realtà in Isaia non c’è, perché si tratta di una citazione da Ps 77, 2. Gerolamo scrive : Legi in nonnullis codicibus, et studiosus lector id ipsum forte repperiat in eo loco ubi nos posuimus et vulgata habet editio61 : ‘ut impleretur quod dictum est per prophetam dicentem’, ibi scriptum : ‘per Esaiam prophetam dicentem’. Quod quia minime inveniebatur in Esaia arbitror postea a prudentibus viris esse sublatum. Sed mihi videtur i n p r i n c i p i o ita e d i t u m , quod scriptum est : ‘per Asaph prophetam dicentem’ (septuagesimus septimus enim psalmus, de quo hoc sumptum est testimonium, Asaph prophetae titulo inscribitur) e t p r i m u m s c r i p t o r e m non intellexisse ‘Asaph’ et putasse scriptoris vitium atque e m e n d a s s e nomen ‘Esaiae’, cuius vocabulum manifestius erat.

Il ragionamento ipotizza una soluzione poco ‘economica’ : la corruttela si dovrebbe articolare in due fasi : rispetto al testo di Matteo, che avrebbe avuto Asaph, il primus scriptor avrebbe ‘emendato’ l’erroneo e più banale Esaiam e questo nome a sua volta sarebbe stato eliminato, in un momento successivo, da qualcuno che si sarebbe accorto che nel testo di Isaia quella citazione non aveva riscontro62. Dal punto di vista del metodo, tuttavia, si tratta di una Cfr appar. dell’ed. Nestle, Aland27 (cit. n. 30), ad loc. Non entro qui nello spinoso problema di cosa voglia dire, per il Nuovo Testamento, l’espressione vulgata editio usata da Gerolamo ; rinvio per questo al breve cenno di J. K. Elliott, « The Translations of the New Testament into Latin : The Old Latin and the Vulgate », in ANRW, 2, 26, 1, Berlin – New York, 1992, pp. 198-245 (p. 220), con sintetica bibliografia (diverso è il problema per l’analoga indicazione quando si tratta dell’Antico Testamento ; in quei casi indica in genere una ‘redazione’ dei Settanta di cattiva qualità, cfr ad es. in Ier. 6, 30, 10.11 ; 31 [38], 21-22). Nel caso specifico il testo è più o meno quello della Vetus Latina, che presenta le varianti ‘minori’ adimpleretur e dictum erat, cfr Itala. Das Neue Testament in altlateinischer Überlieferung, I, Matthäus-Evangelium, ed. A. Jülicher, Berlin, 1938, p. 90, ad loc. 62 Superficiali in complesso le spiegazioni di Hulley, « Principles of Textual Criticism » (cit. n. 15), p. 99, e di Arns, La tecnica del libro (cit. n. 35), pp. 80 ; 212. Cfr invece Chiesa, Filologia storica (cit. n. 57), pp. 36 s., il quale non richiama la tipologia dell’errore di archetipo ma acutamente rileva che, comunque si giudichi la specifica soluzione proposta da Gerolamo, l’importante è « la modernità del ragionamento », che richiama « quella che G. Contini ha definito come ‘diffrazione in assenza’, ossia l’occasionale necessità di congetturare una 60 61

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osservazione interessante. Se il testo di Matteo aveva Asaph, e se d’altro canto scriptor, come spesso, significa ‘copista’, ne consegue che il manoscritto del ‘primo copista’ che ha trascritto il testo di Matteo, introducendo l’erroneo Esaiam, non può essere che il capostipite della tradizione ; si tratterebbe dunque anche in questo caso di un ‘errore di archetipo’63. Nello stesso senso andrà letto un passo dell’epist. 121, 2 (databile al 406-407) : Gerolamo commenta un altro passo del vangelo di Matteo (12, 15-21) in cui è citato un brano di Isaia (42, 1-4) con l’omissione di un versetto subito dopo la parola iudicium : si accorge, con straordinaria acutezza, che può trattarsi di un ‘saut du même au même’ e così lo spiega : lectio difficilior, da porre all’origine delle forme effettivamente attestate ». Molto meno chiaro è Gerolamo in tract. in psalm. 77, ll. 67 ss. ed. Morin2 (CC SL, 78), che sembra presupporre la presenza effettiva di una lezione Asaph nei codici più antichi del vangelo di Matteo ; ma poiché questa lezione non sembra attestata in nessun testimone greco nel passo evangelico (cfr gli apparati delle edizioni ad loc.), è difficile dar credito all’affermazione di Gerolamo in questo tractatus. 63 La proposta di Gerolamo non è accolta, credo a ragione, dagli editori moderni. Un ragionamento solo in parte simile è in tract. in psalm. 77, ll. 59 ss. ed. MORIN2 (cit. n. 6), ma con numerose incongruenze interne e con una facies linguistica piuttosto approssimativa, che fa quanto meno pensare a testo non rivisto o curato dall’autore: hoc, inquit, factum est, ut impleretur quod scriptum est, ‘aperiam in parabolis os meum, eloquar propositiones ab initio’. Videtur nobis nihil remansisse quaestionis, sed diligenter adtendite: studii enim mei est non declamare more rhetorico, sed scripturarum sensum capere. [...] Dicitur ergo in Matthaeo: ‘haec, inquit, facta sunt, ut impleretur quod scriptum est in Asaph propheta’. Sic invenitur in omnibus veteribus codicibus, sed homines ignorantes tulerunt illud. Denique multa evangelia usque hodie ita habent ‘ut impleretur quod scriptum est per Esaiam prophetam: aperiam in parabola os meum, eloquar propositiones ab initio’. Hoc Esaias non loquitur, sed Asaph. Denique et inpius ille Porphyrius proponit adversum nos hoc ipsum, et dicit: ‘evangelista vester Matthaeus tam inperitus fuit, ut diceret, quod scriptum est in Esaia propheta, aperiam in parabola os meum, eloquar propositiones ab initio’. [...] Ergo simpliciter dicamus:[...] error fuit scriptorum, ut pro Asaph Esaiam scriberent. Nescientes enim (quia prima ecclesia de inperitis congregata fuit gentibus), ergo cum legerent in evangelio ‘ut impleretur quod scriptum est in Asaph propheta’, ille qui primus scribebat evangelium coepit dicere: quis est iste Asaph propheta? non erat notus in populo. Et quid fecit? Ut dum errorem emendaret, fecit errorem. Oltre al fatto che nessun ms. del vangelo di Matteo ha nel testo Asaph, è anche incomprensibile il riferimento a ‘tutti i codici antichi’ del vangelo di Matteo che avrebbero avuto la lez. Asaph, se poi si dice che ‘il primo trascrittore’ del vangelo, ‘uomo ignorante’, avrebbe cambiato Asaph in Esaia. Perciò l’unica testimonianza attendibile di Gerolamo resta quella del Commento a Matteo.

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quod autem de adsumpto testimonio in evangelio minus est : ‘splendebit et non quassabitur, donec ponat super terram iudicium’, videtur mihi accidisse p r i m i s c r i p t o r i s e r r o r e , qui legens superiorem sententiam in verbo ‘iudicii’ esse finitam putavit inferioris sententiae ultimum verbum esse ‘iudicium’ et pauca verba, quae in medio, hoc est inter ‘iudicium’ et ‘iudicium’, fuerant, praetermisit.

A quanto ho scritto diversi anni fa, sulla finezza e sulla chiarezza con la quale Gerolamo individua il ‘saut du même au même’64, devo qui aggiungere anche che ipotizza la nascita dell’errore nella prima copia del testo di Matteo e dunque, per la seconda volta, ipotizza un ‘errore di archetipo’. Anche in questo caso la specifica soluzione del problema critico-testuale molto probabilmente non è giusta, ma il principio per così dire teorizzato da Gerolamo è di grande interesse e di notevole modernità. Ho scritto che il principio è ‘teorizzato’ da Gerolamo perché ritengo che sia applicato almeno in altri due casi, anche se in modo appena meno chiaro. Ne analizzo in dettaglio uno. Nel Commento a Geremia (scritto dopo il 414) 4, 22, 29-30, Gerolamo cita la sua traduzione secondo il testo ebraico : scribe virum istum sterilem, virum qui in diebus suis non prosperabitur, nec erit de semine eius vir qui sedeat super solium David et potestatem habeat ultra in Iuda ; e, dopo aver notato che la versione dei Settanta ha una serie di differenze di cui un diligens lector può accorgersi confrontando le due edizioni, precisa : Possumus ergo hoc dicere, quoniam illud, quod deest in LXX, videlicet ‘in diebus eius non prosperabitur’ sive ‘non crescet’, ignorantibus fecerit quaestionem. LXX enim transtulerunt : ‘scribe virum istum abdicatum hominem, quia non crescet de semine eius vir, qui sedeat super thronum David, princeps ultra in Iuda’65, quod in Hebraico bis positum est ; quod putantes, q u i a b i n i t i o s c r i p s e r u n t , in Graecis libris additum, subtraxerunt.

Cfr Gamberale, « Problemi di Gerolamo traduttore » (cit. n. 15), pp. 338 s. Il testo greco (Ieremias, Baruch, Threni, Epistula Ieremiae, ed. J. Ziegler, Göttingen, 1957) è : Γράφον τὸν ἄνδρα τοῦτον ἐκκήρυκτον ἄνθρωπον, ὅτι οὐ μὴ αὐξηθῂ ἐκ σπέρματος αὔτοῦ καθήμενος ἐπὶ θρόνου Δαυιδ ἄρχων ἔτι ἐν τῷ Ιουδα. In apparato è registrata anche una variante, contrassegnata da asterisco, ἐν ταῖς ἡμέραις αὔτοῦ ὅτι οὐ μὴ αὐξηθῇ, e un’altra ὅτι οὐ μὴ αὐξηθῂ ἐν ταῖς ἡμέραις αὐτοῦ καὶ οὐ μὴ αὐξηθῇ ἐκ τοῦ σπέρματος αὐτοῦ (tratta dalle versioni saidica, etiopica e armena). 64

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Come si vede, nella versione dall’ebraico di Gerolamo66 non c’è un’autentica reduplicazione di frase, quanto piuttosto la ripetizione, non letterale, di un concetto, che non compare n e l t e s t o d e i S e t t a n t a l e t t o da Gerolamo ; ma, se si esamina con attenzione il commento, si capisce che l’omissione n o n è attribuita ai Settanta bensì ai p r i m i t r a s c r i t t o r i della loro traduzione, i quali avrebbero ritenuto che la frase fosse un’indebita aggiunta n e i m a n o s c r i t t i g r e c i (in libris Graecis) e dunque l’avrebbero tagliata. Anche in questo caso, dunque, Gerolamo presume che l’originale dei Settanta avesse il testo giusto e che l’errore (l’eliminazione di una frase) sia intervenuto nella prima trascrizione. A differenza dal secondo esempio che ho esaminato, qui l’errore non sarebbe stato, secondo l’esegeta, meccanico, ma dovuto a copisti ‘intelligenti’ che, come altrove viene detto (epist. 71, 5) dum alienos errores emendare nituntur, ostendunt suos67. Come negli esempi analizzati in precedenza, la spiegazione proposta da Gerolamo è tutt’altro che sicura, ma va considerata separatamente dal principio di metodo filologico, che non perde niente del suo valore e che è applicato ancora in in Ier. 6, 30, 12-15 (37, 12-14)68, a cui dedico un più rapido accenno : Quodque sequitur, ‘quid clamas super contritione tua ? Insanabilis est dolor tuus propter multitudinem iniquitatis tuae’, in LXX non habetur, videlicet quia secundo dicitur ‘propter multitudinem iniquitatis tuae et dura peccata tua’ et, q u i s c r i b e b a n t a p r i n c i p i o , additum putaverunt.

Qui la situazione è più simile a quella di una corruttela meccanica, perché nel versetto 14 della versione dall’ebraico si legge appunto propter multitudinem iniquitatis tuae dura facta sunt peccata tua e nel 15 propter multitudinem iniquitatis tuae et propter dura peccata tua, e si ha l’impressione, dalla citazione non del tutto precisa del commento, che Gerolamo possa addirittura aver penIn questo caso del tutto corrispondente a quello della Vulgata. Per questo specifico passo cfr Gamberale, « Due note sulla filologia di Gerolamo » (cit. n. 40), pp. 3-6. 68 Naturalmente non sono sicuro di aver preso in considerazione tutti i passi in cui Gerolamo suppone un possibile ‘errore di archetipo’ : ho notato solo quelli in cui l’uso di una simile terminologia permetteva una ricerca anche attraverso l’uso delle basi dati elettroniche, in particolare CLCLT 7 ; ma sarebbe necessaria, e forse produrrebbe qualche ulteriore risultato, una lettura attenta e accurata dei commenti e delle lettere esegetiche. 66 67

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sato che i primi trascrittori abbiano creduto a una ripetizione anticipata nel testo greco dei Settanta69. È il caso di tirare brevemente le fila su questo problema. Agostino, come si è detto, si esprime sulla tipologia dell’errore di archetipo con esemplare chiarezza e ‘modernità’ ; ma, da un punto di vista strettamente cronologico, non è il primo a trattarne, perché i primi esempi geronimiani che abbiamo esaminato risalgono a circa trent’anni prima, e certo non si può escludere che il vescovo di Ippona abbia avuto presente (che vuol dire di più che non la semplice lettura) qualcuno dei contesti di Gerolamo. Ma il fatto più significativo è che, tra la fine del iv e il primo ventennio del v secolo, la riflessione sui processi di trasmissione dei testi sacri ha prodotto mature considerazioni critico-testuali ; in particolare ha fatto scoprire la possibilità che, in un momento molto vicino all’‘originale’, sia stata prodotta una copia già sfigurata da errori, e che da questa unica copia sia derivata tutta la tradizione successiva. Si noti infine che, se è giusto quanto ho cercato di dimostrare, Gerolamo ritiene di poter individuare addirittura due casi nello stesso testo, cioè sia nel vangelo di Matteo sia nel libro di Geremia. È tempo di chiudere le mie ‘osservazioni sparse’. Un aspetto non secondario della trasmissione dei testi è rappresentato dalla tradizione indiretta e, in particolare per i testi patristici, dalla ‘ricezione’ e dal riuso che ne viene fatto in età successive ; anche per questo argomento devo precisare che le mie letture sono, naturalmente, un po’ occasionali e che un’analisi sistematica potrebbe dare risultati più sicuri, oltre che di maggior portata. All’inizio dell’viii secolo un autore che utilizza in modo massiccio, in complesso intelligente ma a volte ai limiti di quello che modernamente chiameremmo plagio, la grande esegesi dei Padri di iv e v secolo è, come è ben noto, Beda. Ma l’opera di Beda e di altri mostra anche chiaramente che quei testi esegetici mantengono una grande vitalità, sia per l’aspetto ermenutico sia sotto il profilo più strettamente filologico. Beda, dunque, aveva scritto un commento agli Atti degli apostoli (databile dopo il 709) ; circa un decennio dopo (o poco più : fra 69 Il nostro testo greco dei Settanta qui non aiuta, perché l’intero versetto 15 è omesso dai principali manoscritti, cfr la complessa situazione nell’apparato dell’edizione di Ziegler (cit. n. 65), p. 352 ad 37, 14-16.

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il 715 e il 725) ne fa una Retractatio70. È opportuno citare in modo un po’ esteso la praefatio : Scimus eximium doctorem ac pontificem Augustinum, cum esset senior, libros Retractationum in quaedam sua opuscula quae iuvenis condiderat fecisse, ut quae ex tempore melius crebro ex lectionis usu ac munere supernae largitatis didicerat [...]. Cuius industriam nobis quoque pro modulo nostro placuit imitari, ut post Expositionem Actuum apostolorum, quam ante annos plures [...] conscripsimus, nunc in idem volumen brevem Retractationis libellum condamus, studio maxime vel addendi quae minus dicta v e l emendandi quae secus quam placuit dicta videbant u r . In quo etiam quaedam quae in Graeco sive aliter seu plus aut minus posita vidimus, breviter commemorare curavimus ; quae, utrum neglegentia interpretis omissa vel aliter dicta an i n c u r i a l i b r a r i o r u m s i n t d e p r a v a t a s i v e r e l i c t a , nondum scire potuimus. Namque Graecum exemplar fuisse falsatum suspicari non audeo ; u n d e l e c t o r e m a d m o n e o u t h a e c u b i c u m q u e fecerimus gratia eruditionis legat, non in suo tamen volumine velut emendaturus interserat, nisi forte ea in Latino codice suae editionis antiquitus sic interpretata reppererit. Nam et Hieronimus pleraque testimonia Veteris Instrumenti, ut Hebraica veritas habet, edocet, n e c t a m e n h a e c i t a i n n o s tris codicibus aut ipse interpretari aut nos emendare v o l u i t . Verbi gratia : ‘Non aspiciam hominem ultra et habitatorem, quievit generatio mea’, et, ‘erit sepulchrum eius gloriosum’, et, ‘a finibus terrae laudes audivimus’, et, ‘omnis qui occiderit Cain septuplum punietur’, dicit in Hebraeo haberi. ‘Septem vindictas exsolvet’, et, ‘ab alis terrae’, et, requies eius gloriosa’, et, ‘habitatorem quietis, generatio mea ablata est’ ‹**› ; quae sic apud Hebraeos haberi lectorem voluit eruditionis solummodo, non autem emendandi gratia nosse71. Per le date seguo R. Grégoire, « Beda il venerabile », in Nuovo dizionario patristico di antichità cristiane, ed. A. Di Berardino, Genova – Milano, 20062, I, col. 757. 71 Per il testo mi allontano (a parte minimi interventi di interpunzione) in un punto, che mi pare cruciale, da Bedae venerabilis opera, II, Opera exegetica, 4, Retractatio in Actus Apostolorum, ed. M. L. W. Laistner, Turnhout, 1983 [CC SL, 121] (prima ed. Cambridge Mass., 1939), praefatio, pp. 103 s. (= PL, 93, col. 995 D). Nell’ultima parte del testo edito da Laistner, infatti, si fa esclusivo riferimento al testo ebraico e, per di più con l’interpunzione adottata, sembra che ambedue le serie di passi compaiano in q u e l l a forma nel testo ebraico. Si deve pensare, secondo me, che almeno in un punto Beda abbia fatto esplicito riferimento a un testo d i v e r s o , relativamente alla seconda 70

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Naturalmente l’autore, quanto al titolo di questa sua opera, fa subito riferimento ad Agostino proprio per per ciò che riguarda il procedimento di autocorrezione dei propri errori, sia fattuali che esegetici ; ma va anche notata la prudenza relativamente alla possibilità che la rilevazione di errori nel testo greco possa venir interpretata come dichiarazione che Graecum exemplar fuisse falsatum. Le correzioni, dunque, andranno lette eruditionis gratia e non inserite nel testo greco. Qui Beda segue chiaramente la stessa impostazione di Gerolamo, epist. 106, 47, una lettera molto diffusa e, credo, a lui ben presente, che riporterò più avanti. Gerolamo infatti aveva proposto una sua correzione al testo dei Settanta in una nota marginale pro eruditione legentis (la stessa terminologia poi usata da Beda)72. Ma, appunto, Gerolamo è esplicitamente citato da Beda come seconda – e non secondaria – ‘autorità’, per quanto riguarda il confronto interlinguistico della traduzione col testo originale73 e per il rispetto della traduzione dei Settanta che, a detta di Beda, non avrebbe voluto correggere né far correggere dai lettori dei suoi Commenti. Beda, in conclusione, dice di volersi comportare come Gerolamo ; e questi in più di un caso, anche nei prologhi alla traduzione di libri dell’Antico Testamento, aveva prudentemente dichiarato di non voler revocare in dubbio l’autorità dei Settanta74. Anche la terminologia più specificaserie di citazioni. Perciò segno punto fermo dopo Hebraeo haberi (invece dei due punti di Laistner) e indico, a titolo semplicemente diagnostico, una lacuna dopo ablata est, nella quale potrebbe esserci qualcosa come ‹in Latinis codicibus legitur›. Il senso del passo sarebbe, più o meno, che la prima serie di citazioni è così nell’ebraico, mentre la seconda è così nei codici latini, e Gerolamo ha voluto che il lettore sapesse quel che c’era nell’ebraico soltanto per sua personale informazione, non per correggere il testo. 72 Su questo passo di Gerolamo cfr Chiesa, Filologia storica (cit. n. 57), p. 37 ; Gamberale, « Problemi di Gerolamo traduttore » (cit. n. 15), pp. 333 s. ; troppo semplicemente descrittivo D. Brown, Vir trilinguis. A Study in the Biblical Exegesis of Saint Jerome, Kampen, 1992, pp. 38 ; 45 ss. 73 Il modello del commento sembra quello usuale in Gerolamo, dato che mette uno dopo l’altro il testo ‘vulgato’ latino e la versione del testo greco, dove ci sono differenze. Qualche volta questo procedimento si vede anche nell’Expositio, ma è molto più frequente e, direi, quasi sistematico nella Retractatio. 74 Cfr ad es. quaest. hebr. in gen., prol. : Neque vero LXX interpretum, ut invidi lacerant, errores arguimus, nec nostrum laborem illorum reprehensionem putamus ; Prol. libr. Salomonis, in fine (Biblia sacra iuxta Latinam vulgatam versionem ... cura et studio monachorum Abbatiae pontificiae sancti Hieronymi in

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mente filologica rivela la lettura dei testi di Gerolamo, ad es. depravata per indicare le corruttele ha una ventina di esempi in Gerolamo75 e per una iunctura come incuria librariorum è quasi superfluo segnalare che Hieronymi sermonem redolet ; al di fuori del lessico filologico basterà richiamare l’espressione hebraica veritas. Il discorso sembra lineare e coerente, senonché, a un esame analitico e al di là di problemi testuali della Praefatio, si scopre che Beda opera una clamorosa forzatura del suo modello. Le quattro citazioni scritturistiche per le quali Beda chiama in causa Gerolamo rinvierebbero, secondo l’apparato delle fonti nell’edizione di Max L. W. Laistner, rispettivamente, a in Is. 11, 38, 10-13 ; 4, 11, 10 ; 8, 24, 16 ; quaest. hebr. in gen. 4, 1576. In realtà le cose stanno diversamente. Cominciamo con un esame del passo della Genesi, 4, 15 : qui è lo stesso Gerolamo a non essere del tutto coerente. In quaest. hebr. in gen., ad loc., si limita a citare il passo nella versione dai Settanta e, di seguito, le traduzioni di Aquila, Simmaco e Teodozione : ‘Omnis qui occiderit Cain septem vindictas exsolvet’. Pro ‘septem vindictis’ Aquila ‘septempliciter’ interpretatus est, Symmachus ‘septimum’, Theodotion ‘per hebdomadem’ : super quo capitulo exstat epistula nostra ad episcopum Damasum. La lettera a Damaso (del 384) è la 36 della nostra raccolta ed è una risposta al pontefice che aveva tra l’altro chiesto (epist. 35, 2) : Quid sibi vult quod in Genesi scriptum est : ‘omnis qui occiderit Cain septem vindictas exsolvet’ ? In essa Gerolamo dice che per capire bene bisogna riportare il testo ebraico e le varie traduzioni ; cita l’ebraico solo in translitterazione, poi le traduzioni : Aquila : ‘et dixit ei Dominus : propterea omnis qui occiderit Cain septempliciter ulciscetur’ ; Symmachus : ‘et dixit ei Dominus : non sic, sed omnis, qui occiderit Cain, ebdomatos sive septimus vindicabitur’ ; Septuaginta et Theodotion : ‘et dixit ei Urbe..., Libri Salomonis..., Roma, 1957, p. 5, ll. 7 ss.). Naturalmente sono ben più frequenti i casi in cui il traduttore difende la novità del proprio lavoro o ne fa l’apologia. 75 Cfr CLCLT 7. Cfr in particolare in Is. 9, 30, 26 e in Ezech. 12, 4, 5, 13 citt. sopra nel testo. Aggiungo solo altri due esempi, in Ezech. 1, 4, 4-6, ll. 1346 s. ed. Glorie (cit. n. 50) : et tamen non sunt scriptorum vitio depravati ; ibid., 12, 40, l. 455 ed. Glorie : quod mihi videtur scriptorum neglegentia depravatum. 76 Nell’appar. di Laistner (cit. n. 71), ad loc. sono in ordine diverso da quello che seguo nel testo e che è quello nel quale compaiono la prima volta nel testo di Beda.

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Dominus : non sic, sed omnis, qui occiderit Cain, septem vindictas exsolvet’. Ora, è abbastanza evidente che a Teodozione sono attribuite, in epist. 36, 2 (septem vindictas) e in quaest. hebr. in gen. 4, 15 (per hebdomadem), due traduzioni diverse e che la prima corrisponde in realtà al testo dei Settanta : καὶ εἶπεν αυτῷ Κύριος ὁ Θεός̇ ‛οὐχ οὕτως̇ πᾶς ὁ ἀποκτείνὰς Κάιν ἑπτὰ ἐκδικούμενα παραλύσει’. Sarebbe stato opportuno che gli editori segnalassero la divergenza, mentre i loro apparati sono o muti o inesatti77. Ma soprattutto, per tornare a Beda, Gerolamo non riporta, né in quaest. hebr. in gen. né in epist. 36, la lezione septuplum punietur, che è quella della Vulgata78. Septem vindictas exsolvet è invece evidentemente il testo più diffuso della Vetus Latina, citato da numerosi Padri79 ; inoltre lo stesso Beda dà, altrove, una motivazione della sua scelta : in princ. gen. 2, 4, ll. 419 ss. ed. Jones (cit. n. 80), Huius expositionem sententiae propterea iuxta antiquam translationem posuimus, quia de opusculis sancti Augustini qui hanc sequebatur, sicut et alia multa, decerpsimus80. Per ciò che concerne i tre passi di Isaia, a me non pare per niente sicuro che Beda citi dal Commento di Gerolamo. Per Is 11, 10 il Commento riporta come versione dall’ebraico erit sepulchrum eius Mi riferisco a S. Hieronymi presbyteri Hebraicae quaestiones in libro Geneseos ..., ed. P. de Lagarde, Turnhout, 1959 (CC SL, 72) ; Sancti Eusebii Hieronymi Epistulae, I, ed. Hilberg (cit. n. 26) ; Saint Jérôme. Lettres, II, ed. Labourt (cit. n. 26). Niente neppure in Sancti Eusebii Hieronymi Epistulae, IV, Epistularum indices et addenda, comp. M. Kamptner, Wien, 1996 (CSEL, 56.2). Solo in Genesis, ed. J. W. Wevers (cit. n. 34), p. 98, nel secondo appar. ad loc. è segnalato « omnis qui occiderit Cain ebdomatos sive septimus vindicabitur ο᾽ θ᾿ », cioè Simmaco e Teodozione, ma questo non corrisponde alle indicazioni di Gerolamo, come si vede dai passi citati nel testo ; riproduce piuttosto la traduzione del solo Simmaco secondo Hier. epist. 36, 2, compresa l’alternativa ebdomatos sive septimus, che va attribuita solo a Gerolamo traduttore latino il quale, come fa più volte, lascia ‘aperta’ la traduzione di un termine o di un’espressione. 78 Biblia sacra iuxta Latinam vulgatam versionem ... cura et studio monachorum sancti Benedicti..., I, Genesis, rec. H. Quentin, Roma, 1926, p. 155 ; cfr anche Biblia sacra ed. Weber (cit. n. 10), appar. ad loc. 79 Cfr Vetus Latina, 2, Genesis, ed. B. Fischer, Freiburg, 1951-1954, p. 87. Il passo è così citato, fra gli altri, da Filastrio, Ambrogio, Agostino, cfr le attestazioni in CLCLT 7. 80 Bedae venerabilis opera, II, Opera exegetica, 1, Libri quatuor in principium Genesis ..., ed. Ch. W. Jones, Turnhout, 1967 (CC SL, 118A). Il riferimento ad Agostino è certamente a Contra Faustum 12, 12, come nota Jones nell’appar. delle fonti ad loc. 77

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gloriosum e come versione dai Settanta et erit requies eius honor81 ; ancora una volta, la traduzione dai Settanta, come la riporta Beda, non corrisponde esattamente a quella che si legge nel commento geronimiano82 e, ancora una volta, la prima traduzione è quella della Vulgata. Per quanto riguarda Is 24, 16 effettivamente nel Commento ad loc. Gerolamo cita le due traduzioni esattamente come Beda ma, a conclusione del paragrafo, critica decisamente la versione dei Settanta83, portenta, come sbagliata a fronte del testo ebraico che va reso con psalmi e laudes. Infine, Is 38, 11 : ancora una volta il primo testo di Beda corrisponde alla Vulgata84 e non a quello offerto da Gerolamo nel commento : non aspiciam hominem ultra et habitatorem quietis. Cessavit generatio mea, ablata est [...] ; mentre il secondo dello stesso Beda, habitatorem quietis, generatio mea ablata est, è molto diverso dalla versione dei Settanta85 proposta da Gerolamo nel Commento, hominem adhuc cum habitantibus, defeci a cognatione mea, e sembra preso, con minime variazioni, dal testo ‘ebraico’ di Gerolamo. Per quanto il manoscritto sul quale Beda leggeva il Commento a Isaia di Gerolamo possa essere differente da una nostra moderna edizione critica, mi sembra abbastanza chiaro che Beda non ha tratto nemmeno i passi di Isaia da quel Commento e, per quanto il suo testo ‘ebraico’ corrisponda alla Vulgata, non sarei nemmeno sicuro che abbia preso la prima serie direttamente da lì. Perché infatti proprio quei tre passi, distanti fra loro per contesto e argomento ? Viene il sospetto che dietro ci sia una fonte che non sono in grado di individuare, né per le traduzioni dall’ebraico né per il ricorso a più antiche versioni, almeno una delle quali (Is 11, 10, requies eius gloriosa) sembra attestata, come testo dei Settanta, dal

Gr. καὶ ἔσται ἀνάπαυσις αὐτοῦ τιμή. Lo stesso testo in Hier. epist. 46, 5. Per il complesso delle antiche traduzioni latine cfr Vetus Latina, 12.1, Esaias, ed. R. Gryson, Freiburg, 1987-1993, pp. 362 s. 82 Requies eius gloriosa si legge, ad es. in Isid. fid. cath. 1, 9, 12 (PL, 83, col. 467 C), come testo ebraico. 83 Gr. ἀπὸ τῶν πτερύγων τῆς γῆς τέρατα ἠκούσαμεν. Un quadro delle antiche traduzioni latine in Vetus Latina, 12.1, Esaias (cit. n. 81), pp. 514 s. 84 Cfr il testo nell’ed. cit. n. 36, anche se alcuni mss. hanno la lez. quietis, cfr appar. ad loc. 85 Gr. Οὐκέτι μὴ ἴδω ἄνθρωπον ἐκ τῆς συγγενείας μου. Κατέλιπον τὸ λοιπὸν τῆς ζωῆς μου, con varr. ll. ἐπαύσατο γενεά μου ed ἐξέλειπεν ἡ γενεά μου. Per la Vetus Latina cfr l’ed. di Gryson (cit. n. 81), pp. 767 s. 81

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solo Beda. Per ciò che concerne il rapporto con Gerolamo, si può osservare che è vero che nei commenti Gerolamo affianca usualmente le due versioni, prima quella dall’ebraico e poi quella dal greco dei Settanta, e che spesso le commenta ambedue, ma è anche vero che nei prologhi alla traduzione dei singoli libri dell’Antico Testamento più volte difende la propria ‘nuova’ traduzione, e specificamente in quello a Isaia scrive86 : hoc a fastidiosis lectoribus precor ut, quomodo Graeci post Septuaginta translatores Aquilam et Symmachum et Theodotionem legunt vel ob studium doctrinae suae vel ut Septuaginta magis ex conlatione eorum intellegant, sic et isti saltem unum post priores habere dignentur interpretem. Sembra invece che Beda resti complessivamente e programmaticamente fedele alla vecchia traduzione latina e non voglia tener conto, a tanta distanza di tempo, della nuova. Rimane il fatto, alquanto singolare, che Beda presenta quattro luoghi effettivamente discussi da Gerolamo nella sua esegesi ; che conosce bene (e vi si è formato) i Commenti geronimiani e altrove li utilizza ; che, infine, vuole accreditare una posizione accentuatamente conservatrice rispetto alla traduzione dei testi sacri come un consenso con le idee, in effetti profondamente diverse, di Gerolamo. Eppure si deve dire che la ‘scuola’ di Gerolamo ha lasciato il segno su Beda. L’esortazione a non introdurre nel testo correzioni o congetture ha riscontro, come ho accennato sopra, in testi specifici di Gerolamo, in particolare epist. 106, 46 a proposito di Ps 73, 8 : ‘Incendamus omnes dies festos Dei a terra’. Pro quo in Graeco scriptum est ‘καταπαύσωμεν’, et nos ita transtulimus : ‘Quiescere faciamus omnes dies festos Dei a terra’. Et miror quomodo e latere adnotationem nostram nescio quis temerarius scribendam in corpore putaverit, quam nos p r o e r u d i t i o n e l e g e n t i s scripsimus hoc modo : Non habet ‘καταπαύσωμεν’, ut quidam putant, sed ‘κατακαύσωμεν’, id est ‘incendamus’. [...] plenius de hoc disputandum videtur. In Hebraeo scriptum est ‘sarphu chol moedahu hel baares’, quod Aquila et Symmachus verterunt ‘ἐνεπύρισαν πάσας τὰς συνταγὰς τοῦ Θεοῦ’, id est ‘incenderunt omnes sollemnitates Dei in terra’ ; quinta ‘κατέκαυσαν’, id est ‘combusserunt’ ; sexta ‘κατακαύσωμεν’, id est ‘comburamus’ ; quod et Septuaginta iuxta hexaplorum veritatem transtulisse perspicuum est. Theodotion quoque ‘ἐνεπυρίσαμεν’ vertit, id est ‘succendimus’. Ex quo perspicuum 86

P. 1096, ll. 18 ss. ed. Weber (cit. n. 10).

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est sic psallendum ut nos interpretati sumus, et tamen sciendum quid Hebraica veritas habeat.

Qui, come ho scritto altrove, Gerolamo aveva proposto una congettura, per di più giusta, a un versetto del Salmo 73, ma, con ragionevole prudenza, non aveva voluto cambiare il testo usato nella liturgia87. E proprio con l’esame di una bella congettura di Beda concludo queste pagine. Negli Atti degli apostoli, 28, 1-2, si racconta che Paolo, nel viaggio verso Roma, fa naufragio e approda a Malta ; qui i barbari accolgono benevolmente i naufraghi. Ecco il testo greco, seguito da quello della Vulgata (come è noto, gli Atti non sono tradotti da Gerolamo) : οἵ τε βάρβαροι παρεῖχον οὐ τὴν τυχοῦσαν φιλανθρωπίαν ἡμῖν̇ ἅψαντες γὰρ πυρὰν προσελάβοντο (var. προσανελάμβανον) πάντας ἡμᾶς. Barbari vero praestabant non modicam humanitatem nobis / accensa enim pyra reficiebant nos omnes / propter imbrem qui imminebat et frigus88.

Il testo di Beda e la sua nota di commento sono i seguenti : ‘Accensa enim pruna89 reficiebant nos omnes’. In Graeco scriptum est ‘recipiebant nos omnes’, q u o d e t n o s arbitramur primo sic interpretatum esse in Latinum sed librariorum neglegentia mutatum.

È probabile che la lezione della Vulgata, reficiebant, sia traduzione del greco προσανέλαμβανον, ma a me sembra del tutto verosimile che il testo greco letto da Beda abbia avuto προσελάβοντο. A partire da questo ultimo verbo Beda ha congetturato recipiebant. Ora, l’intervento critico-testuale, che propone di correggere una parola Gamberale, « Problemi di Gerolamo traduttore » (cit. n. 15), pp. 333 s. Riporto in questo caso, perché più perspicuo, l’appar. di I. Wordsworth, H. I. White (Novum Testamentum [...] Latine, III.1, Actus Apostolorum, Oxford, 1905), p. 222, ad loc. : « r e f i c i e b a n t codd. paene omnes et vd, et refecerunt gig. = προσανέλαμβανον [...] quod recte redditur ‘refreshed’, cf. Polyb. ix. 8, 7, xxii. 22 (25), 6, Diod. xvii. 16 : recipiebant D cf. Bed. (retr.) [...] ; gr. plur. προσελάβοντο ». 89 Appar. di Laistner (cit. n. 71), ad loc. : « pruna codd. – cum Amiat. – pyra N1 ». Pruna, termine di uso raro ma anche classico, che in genere significa ‘carbone acceso’, va certamente conservato nel testo di Beda. Sul ms. degli Atti degli apostoli usato da Beda cfr A. Souter, The Text and Canon of the New Testament, London, 19542, pp. 26 s. 87 88

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con un’altra simile sia graficamente che fonicamente, che sia giusto o meno, è certamente acuto e, se posso permettermi l’aggettivo, molto elegante. La congettura, inoltre, mi pare fatta in stile geronimiano, sia perché è proposta in base a un confronto col testo greco e riguarda una traduzione che proprio a partire dal testo greco si può correggere, sia perché, analogamente a quanto spesso afferma Gerolamo, l’errore si sarebbe prodotto per neglegentia dei copisti. Naturalmente l’espressione primo sic interpretatum indica qui non l’opera di un copista, ma quella originale del traduttore. Del resto, anche in altri passi Beda non rinuncia ad esercitare l’acume filologico ; ne tratto rapidamente soltanto uno, sempre dalla Retractatio90, a proposito di Act 28, 11 : ‘Navigavimus in navi Alexandrina quae in insula hiemaverat cui erat insigne castrorum’. Credo primitus ‘insigne Castorum’ esse positum, sed vitio librariorum R litteram adiectam, sicut frustra panis pro frusta et adpropriat pro adpropiat saepe scriptum in antiquissimis exemplaribus invenimus; in Graeco enim pro insigni castrorum παρασήμῳ Διοσκούροις scriptum est. Διόσκουροι autem gemini Castores, id est Castor et Pollux, Graece vocantur.

L’erroneo castrorum è attestato in numerosissimi manoscritti della versione latina91 e, d’altro canto, si può dire che correggerlo sulla base del greco non era difficile. Ma è significativo il fatto che Beda, oltre a ripristinare la lezione giusta, abbia cercato anche la motivazione, questa volta linguistica, della corruttela92. Nei vari elementi di critica testuale che ho fin qui esaminato, relativi alla tradizione e trasmissione dei testi, non c’è, nemmeno da parte di Gerolamo, alcuna sistematicità (l’ho già scritto altre 90 Se ne potrebbero trovare numerosi altri ; ci sono ad es. casi in cui Beda stabilisce la lezione giusta fra le varianti del latino, come in Act 2, 1, a proposito di pentecostes genitivo contro la variante pentecosten accusativo. 91 Cfr gli appar. ad loc. di Actus Apostolorum, edd. I. Wordsworth, H. I. White ; Biblia sacra ed. Weber (cit. n. 10), p. 1746 (la maggioranza dei mss. utilizzati dall’ed.) ; ed anche di Novum Testamentum Graece et Latine, ed. A. Merk, Roma, 19578, p. 506 sin. (utile comunque, anche se l’edizione non è tra le migliori). 92 E poco importa, naturalmente, che essa non sia del tutto esatta. Su questa tipologia di errore, abbastanza comune in « suoni che ricorrono in sillabe precedenti o seguenti della stessa parola » cfr l’esemplificazione, da varie lingue, di S. Timpanaro, Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale, Firenze, 19752, pp. 116 s.

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volte). E tuttavia l’atteggiamento nei confronti dei testi, anche e in primo luogo dei testi sacri, che tende a diventare marcatamente filologico, permette la ‘scoperta’ di principi critico-testuali importanti e l’applicazione di un metodo a tratti moderno93. E la decisa spinta di Gerolamo in questo senso comincia a far breccia già nei contemporaei, come Agostino, e lascia tracce durature nel Medioevo ; su di esse, credo, si dovrebbe indagare in modo approfondito con altra competenza che la mia ; anche perché si potrebbe scorgere una linea di continuità filologica che parte dai Padri del iv secolo e arriva almeno fino a Erasmo.

93 Su questioni in parte analoghe a quelle che ho trattato cfr ora anche M. Meiser, « Hieronymus als Textkritiker », in Die Septuaginta – Texte, Theologien, Einflüsse. 2. Internationale Fachtagung veranst. von Septuaginta Deutsch [LXX.D], (Wuppertal, 23. bis 27. Juli 2008), edd. W. Kraus, M. Karrer, unter Mitarbeit v. M. Meiser, Tübingen, 2010, pp. 257-271.

L’edizione critica delle Enarrationes in Psalmos di Agostino e il metodo stemmatico Franco Gori (Urbino)

La prima edizione critica del monumentale commento di Agostino sui Salmi, patrocinata dall’Accademia delle Scienze di Vienna e dall’Istituto Augustinianum, è ancora in corso, ma è abbastanza progredita da consentire uno sguardo retrospettivo per ricavare possibili deduzioni metodologiche da collocare nel vasto campo della critica testuale. Le Enarrationes, come si sa, si distinguono in due categorie : dettate e predicate. Sono due generi letterari, la cui diversità risulta evidente alla semplice lettura. Qui ci occuperemo principalmente delle seconde, predicate, perché hanno posto specifici e inconsueti problemi alla critica testuale, problemi che l’editore ha dovuto affrontare senza poter contare su una tradizione di studi specifici, che in altri casi la storia della filologia consegna a chi progetta l’edizione critica di un testo antico di un particolare genere letterario. Il progresso degli studi filologici, soprattutto nel corso degli ultimi due secoli, ha faticosamente elaborato un metodo di critica testuale in linea di massima valido per tutti i testi antichi, tardoantichi e medievali. Col tempo, però, si è visto che esso è direttamente applicabile solo a quei testi che si siano trasmessi da copia manoscritta a copia manoscritta con un processo verticale rigorosamente genealogico, applicabile insomma a tradizioni semplici e poco numerose che dipendono da un unico archetipo medievale, come è accaduto ad un certo numero di opere classiche latine, che nei secoli della debacle culturale dell’Alto Medioevo sono state trascurate e dimenticate, e si sono fortunosamente salvate in un solo codice ; cosa che invece assai più raramente si è verificata per i testi

DOI 10.1484/M.IPM.1.101079

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greci nell’oriente bizantino1, che non hanno attraversato secoli di profonda incultura, e che molto spesso non dipendono da un archetipo ricostruibile e nemmeno da un archetipo antico o tardo-antico riconoscibile. Il quadro storico delle tradizioni di testi cristiani è diverso, perché questi hanno conservato solitamente una loro vitalità, più o meno vigorosa, in tutto il Medioevo, anche in occidente, e la loro tradizione non ha del tutto cessato di ramificarsi nemmeno nei secoli in cui alfabetismo e cultura erano confinati, sempre in occidente, in pochi centri ecclesiastici e monastici, ove certamente gli scritti cristiani, anche quando non erano trascritti e utilizzati, venivano quanto meno salvaguardati con maggior cura. Questo tipo di tradizione presenta all’editore qualche svantaggio, ma anche evidenti vantaggi. La tradizione manoscritta superstite dei testi cristiani da una parte risulta più di frequente complicata, e perturbata da fenomeni non catalogabili, come la contaminazione, dall’altra dipende solitamente tutta da un archetipo, che può essere individuato anche quando le perturbazioni non consentono di ricostruirlo con certezza, e che si colloca generalmente assai vicino all’originale, quando non coincide con esso. Ora volendo mostrare come da queste osservazioni generali sia possibile dedurre possibili conclusioni metodologiche da applicare all’edizione delle Enarrationes di Agostino, dobbiamo procedere per gradi. In tale prospettiva valutare in primo luogo il genere letterario è importante, ma non basta, se non si mettono in luce i caratteri letterari formali specifici del testo. Nel corso del nostro lavoro editoriale la questione si è prepotentemente posta all’emergere dei caratteri delle Enarrationes predicate. Nel febbraio del 2001 si è tenuto a Vienna un simposio a cui hanno preso parte, tra gli altri, i collaboratori del progetto per l’edizione critica delle Enarrationes. Il tema era appunto Textsorten und Textkritik. Come si può vedere negli Atti pubblicati2, la qualità dei contributi offerti da studiosi di valore è stata elevata, ma la questione del metodo critico e della sua applicazione al genere Cfr B. A. Groningen, Traité d’histoire et de critique des textes grecs, Amsterdam, 1963, p. 13. 2 Textsorten und Textkritik, Tagungsbeiträge, edd. A. Primmer, K. Smolak, D. Weber, Wien, 2002. 1

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oratorio agostiniano è stata toccata solo da alcune relazioni, vuoi perché il tema del convegno era ampio, vuoi perché il riconoscimento dei caratteri oratorii delle Enarrationes, e la consapevolezza del peso che essi avrebbero dovuto avere nella definizione dei criteri di edizione, iniziavano solo allora a farsi strada, e non senza remore, nel giudizio dei collaboratori impegnati nel progetto. 1. I caratteri del genere oratorio agostiniano A fondamento delle successive considerazioni metodologiche è necessario ripetere qui, sia pur sinteticamente, quanto finora è venuto alla luce sui caratteri delle Enarrationes predicate. Innanzi tutto bisogna sgomberare il campo da possibili pregiudizi. La considerazione che l’oratoria di Agostino era ben compresa da un pubblico numeroso ed eterogeneo ha favorito in passato la tesi, ormai superata, secondo cui i suoi sermoni non rifletterebbero la tradizione retorica colta, ma sarebbero un prodotto del Volkslatein3, della Volksrhetorik4, un monumento della altchristliche Volksprache5. Nei nostri gruppi di lavoro la discussione ha preso inizialmente un indirizzo diverso : si è discusso intensamente se, considerata la statura dell’autore, si dovesse vedere nelle Enarrationes un modello letterario. Poi – qui mi riferisco al gruppo di lavoro romano, che si occupa della terza cinquantina delle Enarrationes – è maturata la convinzione che i sermoni sui Salmi documentano il buon latino del tempo, in una provincia, quella africana, ove la lingua latina aveva, meglio che altrove, conservato un buon tenore, di cui Agostino ha saputo magistralmente giovarsi per comporre un’espressione oratoria pregevole, e insieme del tutto spontanea, che non perseguiva scopi letterari, bensì voleva essere chiara e gradevole comunicazione per un pubblico eterogeneo e di cultura mediamente modesta. Attrarre l’attenzione del popolo in ascolto e farsi capire era l’imperativo dello spirito pastorale che animava Agostino, che ispirava l’esercizio della sua eloquenza, J. Schrijnen, Charachteristik des altchristlichen Latein, Nijmegen, 1932, p. 12. 4 Chr. Mohrmann, Études sur le latin des Chrétiens, I, Roma, 19612 (Roma, 19581), p. 348. 5 Ead., Die altchristliche Sondersprache in den Sermones des hl. Augustinus, Amsterdam, 19652 (Nijmegen, 19321), p. 16 ; Chr. Mohrmann ha poi riveduto la sua opinione in Études (cit. n. 4), p. 396. 3

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e che ritroviamo nell’insegnamento teorico del doctr. christ. : Multo magis in populis, quando sermo promitur, ut intelligamur istandum est … Debet maxime tacenti subvenire cura dicentis6. In questa cornice abbiamo identificato gli specifici caratteri delle Enarrationes predicate. In sintesi i caratteri più importanti che definiscono il genere delle Enarrationes dictae sono i seguenti : sono prediche, cioè sono testi concepiti e pronunciati per un pubblico che ascoltava e guardava l’oratore ; sono prediche improvvisate – repentini sermones li chiama Possidio7 –, registrate sul momento da tachigrafi, trascritte e pubblicate senza revisione dell’autore né di altri. Le prediche hanno così conservato le impronte dell’espressione orale improvvisata, ma hanno inevitabilmente e irrimediabilmente perduto l’originale vigore retorico-oratorio : hanno perduto il suono, essenziale per tante figurazioni retoriche, e comunque fondamentale per l’efficacia della comunicazione. L’aforisma agostiniano di ascendenza aristotelica8, omne verbum sonat9, non aveva attinenza esclusiva con il genere oratorio, ma nell’oratoria – e ovviamente nei generi teatrali – con più evidenza realizza il suo senso : ‘la parola è veramente tale quando risuona’, non quando è scritta. La scrittura di queste prediche ha perduto le cadenze, le pause della voce, che scandivano il periodare, facevano intendere connessioni e distinzioni in contesti sintatticamente incerti per il largo uso della paratassi, e permettevano di intendere incisi e anacoluti che disorientano il lettore. Lettore ed editore si trovano in difficoltà quando, alla ricerca di una sicura scansione del periodare, devono constatare che il sistema convenzionale di interpunzione risulta spesso inadeguato o inapplicabile. Il tono della voce dell’oratore faceva intendere le tante interrogative prive del pronome o della congiunzione interrogativa. La predilezione per gli asindeti doveva essere gradevole all’uditore, anche ove il lettore li sente inusuali e aspri. E lo stesso si deve dire delle frequenti ripetizioni di parole e frasi, che, declamate dall’oratore, comunicavano all’uditore preAug. doctr. christ. 4, 10, 25. Possid. vita Aug. 7, 1. 8 Cfr Aristot. interpret. 16a. 9 Aug. dialect. 5, edd. B. Darrell Jackson, J. Pinborg, Dordrecht – Boston, 1975, p. 88 : Omne verbum sonat. Cum enim est in scripto, non verbum sed verbi signum est ; quippe inspectis a legente litteris occurrit animo, quid voce prorumpat. 6 7

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sente tutto il loro vigore retorico, mentre al lettore, come anche all’editore poco avvertito, possono sembrare insignificanti o incomprensibili – in effetti ci è accaduto di doverle difendere contro chi le giudicava dittografie. L’oratoria antica, e quella di Agostino, che all’oratoria classica si richiama, avevano evidenti analogie con le forme tipiche dei testi teatrali, non solo per il suono della viva voce dell’oratore, ma anche per la comunicazione gestuale e mimica, per l’actio dell’oratore, che sosteneva la declamazione e rendeva perspicue espressioni che il lettore sente oscure, finché non immagina movimenti o gesti con i quali il predicatore distingueva gli oggetti o i personaggi di cui parlava, e indicava cose reali o immaginate, presenti o lontane. Di questi caratteri l’editore deve essere continuamente consapevole per comprendere i caratteri originali del testo, e non scambiarli per corruttele da emendare, e anche per prendere atto talora che il trasferimento dalla originaria forma orale improvvisata alla scrittura, senza adattamento alcuno alla lettura privata, ha indebolito quella perspicuitas dicendi10 e suavitas dictionis11 che questi sermoni dovevano avere per il pubblico, che accorreva numeroso ad ascoltare il vescovo d’Ippona, come narra il suo biografo12. E Possidio sapeva bene per esperienza ciò che noi possiamo solo intuire, e non manca di segnalarci che l’uditore presente più che il lettore assente poteva trarre profitto dall’insegnamento di Agostino : Ego arbitror plus ex eo proficere potuisse, qui eum et loquentem in ecclesia praesentem audire et videre potuerunt13. Per la messa a punto di un metodo appropriato di critica testuale da una parte è fondamentale lo studio dei caratteri letterari del testo, dall’altra è importante l’indagine storica sulla sua trasmissione. Ma nel caso delle Enarrationes balza evidente anche un’altra necessità, quella di mettere in luce il rapporto o, meglio, le interferenze fra i caratteri originari del testo e i caratteri o i modi della sua tradizione manoscritta.

Aug. doctr. christ. 4, 8, 22. Ibid., 4, 13, 29 e passim. 12 Possid. vita Aug. 7, 3 : ipsi quoque haeretici concurrentes cum catholicis ingenti ardore audiebant et, quisquis, ut voluit et potuit, notarios adhibentes, ea quae dicebantur excepta describentes. 13 Ibid., 31, 9. 10 11

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2. Storia della tradizione delle Enarrationes Nel proemio della Enarratio 118 Agostino parla di insistenti, vigorose pressioni esercitate su di lui dai fratres14, che volevano che completasse l’opera sul Salterio con il commento del Salmo 118. È un passo che non va liquidato come topos letterario : pensiamo invece che abbia valore di notizia storica. Chi fossero i fratres che lo assillavano, lo si può dedurre dalle parole dello stesso Agostino, che di sèguito spiega di essersi messo all’opera per non privare dell’esegesi del Salmo 118 i conventus ecclesiastici, che erano soliti, dice, allietarsi del canto dei Salmi15. Le insistenze venivano dunque dai monaci. Appunto, fu il grande interesse nei monasteri d’Africa, prima, e poi d’Europa per il commento agostiniano la ragione della rapidità della sua diffusione e della immediata ramificazione della sua tradizione, documentata dal numero singolarmente elevato dei codices antiquiores16. Che prima dell’avvento della stampa i testi fossero instabili, e che il grado di instabilità fosse proporzionato alla numerosità delle trascrizioni, è un dato storico noto. Ciò che invece non è stato indagato abbastanza è l’effetto che si produceva quando alla instabilità di una tradizione viva e molto numerosa, si associava l’instabilità intrinseca di un testo originariamente oratorio e improvvisato, non adattato alla scrittura e alla lettura. La numerosità della tradizione ha moltiplicato il numero delle variazioni del testo, quale effetto inevitabile della trasmissione manoscritta da copia a copia, ma non minore incidenza hanno avuto gli interventi intenzionali di copisti e lettori medievali che di fronte alle asperità e oscurità proprie del genere oratorio improvvisato si comportavano come facilmente si può immaginare. E dunque il processo tendente a rendere più scorrevole la lettura delle Enarrationes attraverso l’eliminazione o la correzione dei peculiari 14 Aug. in psalm. enarr. 118, prooem. 6-10 (CC SL, 40) et cum molestissime ferrent fratres mei, eius solius expositionem, quantum ad eiusdem corporis psalmos pertinet, deesse opuscolis nostris, meque ad hoc solvendum debitum vehementer urgerent, diu petentibus iubentibusque non cessi. 15 Ibid., 25-27. 16 Cfr F. Gori, « La tradizione manoscritta delle Enarrationes in Psalmos graduum di Agostino. Studio preliminare per l’edizione critica », in Augustinianum, 37 (1997), pp. 183-228 (p. 213, n. 31) ; Id., « Genere oratorio, tradizione manoscritta e critica testuale delle Enarrationes in Psalmos predicate di Agostino », in Textsorten und Textkritik (cit. n. 2), pp. 125-140 (p. 128).

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caratteri della loro origine orale iniziò subito dopo la loro pubblicazione ed è sfociato intorno ai secoli x-xi nella formazione di un testo vulgato che è sostanzialmente il textus receptus dalle edizioni a stampa. In qualche modo l’adattamento alla scrittura e alla lettura, che non fu fatto al momento della pubblicazione, cioè nell’archetipo, crediamo che sia stato compiuto successivamente da una miriade di interventi scaglionati nel tempo con il risultato di un’ampia banalizzazione delle forme e anche dei significati. Ecco perché la revisione critica delle Enarrationes predicate deve fondarsi da una parte sulla considerazione dei loro caratteri specifici e dall’altra su una recensio della tradizione manoscritta che miri a ricostruirne la ramificazione più antica con testo ancora poco evoluto, e soprattutto poco o punto contaminato. 3. Lineamenti stemmatici della tradizione di in psalm. enarr. 101-109 Della Praefatio dell’edizione di in psalm. enarr. 101-109 (CSEL, 95.1, Wien, 2011) ripetiamo qui solo quanto è strettamente indispensabile a questa discussione. Riproduciamo lo stemma e l’elenco dei mss. con i raggruppamenti che è stato possibile individuare : ω

π

ε ε1

α

α2

V2

F2

χ

δ

A Mc2

H1

K

ε2

S

N

1

N

Gt An3

I mss. utilizzati per l’edizione di in psalm. enarr. 101-109 risultano così classificati : 1) mss. con testo non contaminato collocati nello stemma : α (V2), δ (A H1), ε (N Gt An3)

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2) mss. con testo contaminato, distinti in tre categorie : a ) mss. collocati nello stemma : α2 (F2 Mc2), χ (K S) b ) mss. del ix secolo non collocati nello stemma : C Bn2 Ly c ) mss. deteriores non collocati nello stemma : ζ (P6 T), Br1 P23 Y X e3

Dato fondamentale, che ritengo ragionevolmente certo, è la bipartizione della tradizione manoscritta, costituita da due rami che discendono dall’archetipo attraverso due subarchetipi : π e ε. Il capostipite χ è escluso dalla categoria dei subarchetipi, perché non rappresenta una terza diramazione dall’archetipo, bensì è l’esito della contaminazione delle lezioni derivate da due manoscritti perduti, appartenenti uno al ramo di π, l’altro al ramo di ε. Sulla collocazione stemmatica dei due esemplari contaminati da χ si può solo dire che avevano una posizione alta, vicina ai due subarchetipi. 4. La contaminazione La contaminazione, come si sa, costituisce la grande obiezione al metodo stemmatico17. In effetti essa ha un’ampia e incisiva presenza nella tradizione delle Enarrationes, a motivo della loro grande e ininterrotta fortuna. E tuttavia è stato possibile costruire lo stemma nelle sue linee fondamentali. Non è inutile qui ricordare i termini della discussione sull’argomento intervenuta fra due grandi della filologia del xx secolo. Giorgio Pasquali nella lunga recensione alla Textkritik di Paul Maas18 osservò che il filologo tedesco non aveva tenuto conto della contaminazione19. Il Maas si giustificò col dire : « Contro la contaminazione non si è ancora scoperto alcun rimedio »20, e il Pasquali replicò : « Credo che, in particolari casi, rimedi si possano escogitare con buon frutto »21.

17

Della contaminazione in rapporto al metodo stemmatico ha ampiamente trattato G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, 19622 (Firenze, 19341) pp. 141-183. 18 P. Maas, Textkritik, Leipzig – Berlin, 1927. 19 La recensione fu pubblicata in Gnomon, 5 (1929), pp. 417-435 ; 498-521. Qui ci riferiamo alla ristampa in G. Pasquali, Scritti filologici, II, Firenze, 1986, pp. 880-883. 20 P. Maas, Critica del testo, tr. it., Firenze, 19722, p. 62. 21 Ibid., Presentazione di G. Pasquali, p. ix.

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Per comprendere come abbiamo potuto ottenere dalla recensio della tradizione contaminata delle Enarrationes quello che riteniamo essere il ‘buon frutto’ o risultato utile per la costituzione del testo, bisogna procedere per successive distinzioni : 1) mss. con testo non contaminato : α (V2), δ (A H1), ε (N Gt An3). Sono i mss. che hanno reso possibile la ricostruzione dello stemma. 2) mss. con testo contaminato, distinti in tre categorie : a) mss. contaminati collocati nello stemma : α2 (F2 Mc2), χ (K S). La contaminazione in α2 e χ non impedisce la loro collocazione nello stemma, perché le lezioni di diversa provenienza in essi confluite possono essere riconosciute e la loro origine individuata, se non con precisione in un determinato esemplare manoscritto, almeno in un determinato ramo della tradizione. b) mss. contaminati non collocabili nello stemma : C Bn2 Ly. Hanno subìto contaminazioni plurime di origine non identificabile, tuttavia sono testimoni meritevoli di maggiore considerazione rispetto a quelli elencati di seguito, non perché più vetusti (secolo ix), ma perché hanno un testo meno degradato. c) mss. deteriores : ζ (P6 T), Br1 P23 Y X e3 (quest’ultimo ha il testo epitomato). Sono mss. posteriori al secolo ix non collocabili nello stemma, utili solo per documentare l’evoluzione del testo per effetto di contaminazioni plurime e inestricabili e di molte correzioni banali.

A proposito dei mss. contaminati, che non è stato possibile collocare nello stemma, si deve dire che nessuno di essi ha subìto contaminazione di origine extrastemmatica - a nostra conoscenza solo nella sezione 134-140 delle Enarrationes si verificano casi di contaminazione extrastemmatica, che però è controllabile, perché la fonte estrastemmatica, come vedremo, è individuabile. La possibilità di accertare l’origine delle contaminazioni dei mss. collocati nello stemma costituisce il primo dei due presupposti di ogni discussione sullo stemma medesimo. Il secondo punto fermo è che la recensio non ha messo in luce dati significativi che siano in contraddizione con la ricostruzione della tradizione schematicamente sintetizzata nello stemma – purché nel valutare i dati si tenga conto dei peculiari caratteri della tradizione manoscritta delle Enarrationes, e dei peculiari caratteri del loro testo oratorio : in altre parole, purché si tenga presente che l’apparato critico dell’edizione,

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insieme alle variae lectiones prodotte dal normale e meccanico processo stemmatico, contiene una miriade di varianti prodotte da un gran numero di lettori e copisti, che erano mossi dalla volontà di intendere il commento dei Salmi e di farlo intendere. Si tratta di varianti che non trovano spiegazione nello stemma – ma neppure in ipotesi extrastemmatiche o di stemma diverso –, perché sono il prodotto dell’iniziativa soggettiva di singoli correttori. Si aggiunga che i caratteri oratorii delle Enarrationes favorivano la cosiddetta ‘poligenesi dell’errore’, fenomeno che sfugge anch’esso alle norme della trasmissione stemmatica, e che si verificava quando due o più copisti incorrevano casualmente nel medesimo errore di scrittura o più correttori introducevano indipendentemente l’uno dall’altro la medesima correzione. Bisogna tuttavia aggiungere che le numerose variae lectiones, che da una parte non rispondono alla regola dello stemma, e dall’altra non bastano a contraddirlo, sono però bastate per convincere l’editore a guardasi dal farne un uso acritico e meccanico. Fare un uso critico dello stemma significa verificarne le indicazioni alla luce delle altre norme di critica testuale : l’usus loquendi o sermocinandi di Agostino – ovvero i caratteri della sua oratoria improvvisata –, la lectio difficilior, i loci similes. Dunque la validità dello stemma è relativa, ma non trascurabile. Le sue linee fondamentali sono affidabili. La recensio ha dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che un archetipo è realmente esistito, e che l’intera tradizione è fluita dall’archetipo attraverso due subarchetipi. Lo stemma consente la ricostruzione dell’archetipo quando i due subarchetipi concordano, come si può ben capire, ed è anche affidabile per individuare e segnalare in apparato, quando la concordanza dei testimoni lo ha reso possibile, le lezioni dei due subarchetipi π e ε, e le lezioni dei capostipiti delle famiglie α α2 δ χ. Ovviamente, quando le lezioni dei due subarchetipi non sono riconoscibili o divergono l’una dall’altra, venendo a mancare un’obiettiva indicazione per ricostruire l’archetipo, l’editore ha fatto uso del iudicium. Quando, poi, la frammentazione delle testimonianze non ha consentito nemmeno di conoscere le lezioni dei capostipiti delle famiglie discese dai subarchetipi, nell’apparato sono state registrate le lezioni dei singoli mss., e su di esse l’editore ha operato la selectio.

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La trasmissione manoscritta delle Enarrationes non è stata un rigoroso processo meccanico, eppure merita la definizione di trasmissione genealogica, ossia stemmatica. Nella fase più antica il processo è stato del tutto verticale, non toccato da fenomeni di trasmissione orizzontale, quali sono le contaminazioni. Perciò non ci si deve stupire che sia stato possibile ricostruire le linee fondamentali dello stemma. Non è tanto importante che molti dati della tradizione, ricavati dai mss. contaminati e talora anche dai non contaminati, non trovino spiegazione nelle linee stemmatiche : ciò che importa è che quei dati non suggeriscono alcuna seria ipotesi di stemma diverso da quello da noi costruito. Dunque non il dilemma ‘stemma sì o stemma no’ deve essere posto al centro della discussione, ma i limiti del suo impiego e i criteri che devono regolarne l’uso. 5. Stemma bifido L’esistenza di due subarchetipi pone l’editore di fronte al tipo di recensione detta ‘aperta’, nel senso in cui Pasquali22 usava l’espressione da lui stesso coniata. ‘Aperta’, perché, quando i due subarchetipi divergono, la recensio non dà indicazioni oggettive per accertare quale delle due sia la lezione dell’archetipo. Allora a che cosa serve lo stemma, se non tutti i manoscritti vi possono trovare una collocazione precisa, se non sempre funziona secondo gli automatismi della trasmissione genealogica, e se oltretutto è bifido ? Non siamo i primi qui a sollevare questi interrogativi, e non sono stati sollevati per la prima volta nei nostri gruppi di lavoro sulle Enarrationes : li sollevò Giorgio Pasquali23, il quale, a sua volta, ricordava che prima di lui il problema era stato posto con vigore da Eduard Schwartz nei Prolegomena dell’edizione critica dell’Historia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea24 – lo Schwartz « ci 22 Pasquali, Storia della tradizione (cit. n. 17), p. 126. Sull’argomento si veda anche G. B. Alberti, « ‘Recensione chiusa’ e ‘recensione aperta’ », Studi italiani di filologia classica, 40 (1968), pp. 44-60. 23 Cfr Pasquali, Storia della tradizione (cit. n. 17), p. 140 ; si vedano anche S. Timpanaro, La genesi del metodo del Lachmann, Torino, 20032, Appendice C : « Stemmi bipartiti e perturbazioni della tradizione manoscritta », pp. 129-160 ; Id., « Ancora su stemmi bipartiti e contaminazione », Maia, 17 (1965), pp. 392399. 24 Cfr E. Schwartz, Eusebius Werke, II.3, Leipzig, 1909 (GCS, 9.3) p. cxlvi.

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trasporta nel cuore della questione », annotava il Pasquali. Aveva infatti osservato lo Schwartz (tradotto da Pasquali) : « Che giova fingere un archetipo e disegnare un albero genealogico, se l’incrociarsi vicendevole dei gruppi di mss., o lezioni giuste che appaiono qua e là, provano che ogni tanto venivano a galla esemplari di tradizione speciale, sui quali venivano ricorretti più o meno completamente i mss. dipinti per benino uno sotto l’altro nell’albero genealogico ? »25. La questione cosí posta in realtà voleva essere una radicale obiezione al metodo stemmatico, e fin’anche all’idea lachmanniana di archetipo. Il Pasquali aveva grandissima stima dello Schwartz – lo definisce « filologo d’immensa dottrina e di singolare acume »26, e a lui ha dedicato la sua Storia della tradizione e critica del testo. Eppure il Pasquali, mentre da una parte rimproverava a Paul Maas di avere disegnato le geometrie della Textkritik27 trascurando che la gran parte delle tradizioni manoscritte non rientra in quello schema, né in altri schemi, perché ciascuna tradizione presenta problematiche proprie e perturbazioni singolari con effetti non classificabili, dall’altra replicava allo Schwartz mostrando come una raffinata critica diplomatica dei due soli codici superstiti della tradizione manoscritta gravemente perturbata di Epifanio consenta di ricostruire le linee fondamentali della tradizione e di rappresentarle nello stemma, che risulta utile per spiegare il progressivo degrado del testo28, e utile quindi per risalire all’archetipo. Questo è possibile perché gli elementi di diversa origine confluiti nella tradizione manoscritta superstite sono, dice Pasquali, « piuttosto giustapposti che fusi »29, sono dunque riconoscibili. Schwartz aveva sferzato con l’ironia i disegnatori degli stemmi ; Pasquali garbatamente dissente, osservando che non tutte le tradizioni sono così perturbate come quella della Historia ecclesiastica, di cui ci restano solo mss. contaminati, e che « riman sempre sicuro che la trasmissione del testo avviene da principio, com’è naturale, in senso ‘verticale’ »30. Sebastiano Timpanaro, tornando sulle contestazioni dello Cfr ibid. Pasquali, Storia della tradizione (cit. n. 17), p. 135. 27 Maas, Textkritik (cit. n. 18). G. Pasquali poi nella Presentazione dell’edizione italiana del volumetto del Maas (Critica del testo, trad. it. di N. Martinelli, Firenze, 1952, p. V) lo definirà : « critica textualis ordine geometrico demonstrata ». 28 Cfr Pasquali, Storia della tradizione (cit. n. 17), pp. 141-146. 29 Ibid., p. 145. 30 Ibid., p. 140. 25 26

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Schwartz, aggiunge che alla tradizione dell’Historia ecclesiastica non si può attribuire valore paradigmatico, perché su di essa hanno influito fattori esterni specifici31. Infine merita di essere ricordata l’osservazione di Jean Irigoin, secondo cui solo ricostruendo le linee fondamentali della tradizione verticale il critico del testo potrà determinare la realtà e l’ampiezza della contaminazione32. Ma torniamo alla nostra edizione, e all’ultimo interrogativo che sopra abbiamo sollevato sull’utilità dello stemma bifido. La risposta è duplice. Innanzi tutto il nostro stemma, pur con i limiti specifici sopra detti, e con i limiti insiti nel concetto medesimo di schema genealogico ricostruibile attraverso i documenti superstiti, rappresenta la ricostruzione storica possibile della trasmissione manoscritta delle Enarrationes, e più in generale è un dato utile per la storia della cultura. In secondo luogo possiamo affermare che ogni volta che ci siamo trovati di fronte al dilemma di due diverse lezioni attestate dai due subarchetipi, abbiamo tratto vantaggio dalla consapevolezza che l’archetipo doveva avere con buone probabilità una delle due. E il vantaggio non è stato di poco conto per una tradizione manoscritta numerosa e complicata, pur dovendosi ammettere che la selectio tra le due lezioni ha spesso richiesto la massima concentrazione dell’attenzione critica, e che talora il dubbio non è stato risolto, perché tra le caratteristiche di questa tradizione vanno annoverati i numerosi casi in cui entrambe le lezioni dei due subarchetipi risultano sensate e accettabili. Si può ben capire come in una tradizione manoscritta che si evolve prevalentemente per effetto di interventi intenzionali, le due diverse lezioni dei due rami appaiano entrambe attendibili. Quello invece che ci è parso tutt’altro che ovvio è che questi casi siano particolarmente numerosi nella sezione di in psalm. enarr. 101-109. E non solo il numero dei casi è singolarmente elevato, ma singolare è anche la loro tipologia. L’indagine sulla loro genesi è stata non solo necessaria, ma anche utile al fine di precisare i criteri da applicare alla selectio delle lezioni attestate dai due subarchetipi. I casi e i dati documentari, su cui ci apprestiamo ad esercitare le nostre analisi esemplificative, pensiamo che possano offrire indicazioni utili per verificare se e come il metodo stemmatico possa Timpanaro, La genesi (cit. n. 23), p. 100. J. Irigoin, « Quelques réflexions sur le concept d’archétype », Revue d’Histoire des textes, 7 (1977), pp. 235-245 (p. 243). 31 32

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giovare alla critica dei testi oratorii agostiniani e allo studio della loro tradizione manoscritta perturbata. 6. Integrazioni, interpolazioni e glosse di ε1 Il subarchetipo ε è testimone indipendente dell’archetipo, e perciò è fondamentale per l’edizione, come lo è l’altro subarchetipo π. Ma il testo di ε ha subìto emendazioni e integrazioni ope ingenii, e qualche inserimento (intenzionale o meno, non sappiamo) di glosse da parte di una mano che abbiamo indicato con la sigla ε1. Le ipotesi sono due : ε1 potrebbe essere stata una copia, corretta e interpolata, tratta dal subarchetipo ε, oppure sarebbe da identificare con una mano correttrice che ha operato in ε medesimo. In ogni caso ε1, insieme a ε, è da collocare in una posizione molto alta, vicino all’archetipo, che supponiamo sia stato redatto a Ippona. Le innovazioni di ε1 più spesso sono ampliamenti che solitamente rivelano una buona comprensione del commento di Agostino, e notevole dimestichezza con le sue idee. Documentano anche un’ingegnosa propensione all’imitazione delle forme stilistiche e fin’anche delle figure retoriche più consuete dell’oratoria di Agostino, nonché una conoscenza puntuale dei testi biblici. Non a caso la gran parte delle innovazioni è stata accolta finora nelle edizioni a stampa, e le caratteristiche formali e stilistiche di non poche di esse hanno indotto anche noi editori dell’edizione critica a considerare seriamente l’ipotesi che si dovesse riconoscere la loro autenticità. L’imitazione ingegnosa, e talora raffinata ha rappresentato un tranello quasi perfetto. Quando, per esempio, l’interpolazione crea figure di suono, come l’anafora e l’omeoteleuto, abbiamo seriamente pensato che in quelle forme si dovesse riconoscere la ratio erroris, cioè la spiegazione dell’omissione accidentale occorsa nell’altro subarchetipo π. L’interpolatore era senza dubbio abile, ma, per fortuna dell’editore, si è fatto prendere la mano dall’autocompiacimento per i floscula che ingegnosamente elaborava, fino a trascurare talora la coerenza dei medesimi con il contesto33. 33 Dobbiamo precisare che a causa di alcune contaminazioni del ms. N, interne al ramo ε1, non siamo in grado di dimostrare con certezza che tutte le emendazioni e integrazioni, concordemente documentate dai tre mss. del ramo, appartengano a ε1. Perciò, pur essendo logico supporre che appartengano tutte alla stessa mano – e quindi supponiamo che appartengano tutte a ε1 –, nell’apparato dell’edizione, quando è mancata la prova certa, abbiamo genericamente attribuito la correzione al ramo ε.

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a. Esempi di integrazioni o interpolazioni di ε1 101, 2, 4, 19 Ergo si ecclesia speculatio, ibi iam annuntiatur nomen domini. [Non solum nomen domini in hac Sion annuntiatur, sed et laus inquit eius in Ierusalem (Ps 101, 22)].

Abbiamo giudicato che la frase indicata tra parentesi quadre sia un’integrazione posticcia di ε1 per due ragioni : perché corrisponde bene al modus operandi del correttore, e perché il testo di π non mostra alcun indizio di corruttela. Il correttore ha supplito l’omissione del secondo emistichio di Ps 101, 22, curando di armonizzarlo con il contesto, ma senza darne un vero e proprio commento. La causa dell̓omissione nel testo dell̓archetipo è da attribuire, pensiamo, a un lapsus del predicatore, perchè è del tutto improbabile che egli abbia omesso consapevolmente l’emistichio, che più oltre è citato (6, 2 s.) : Agostino di solito commenta integralmente e ordinatamente il testo dei Salmi. Tuttavia rarissimamente può accadere che ne ometta qualche espressione, come in in psalm. enarrat. 102, 27, 4, ove manca il secondo emistichio di Ps 102, 20 ad audiendam vocem sermonum eius, per un difetto, sembra, del ms. del suo Salterio, accidentalmente causato da omeoteleuto : l’omissione infatti si ripete dopo poche righe (102, 28, 3). 101, 2, 8, 27 Annuntia mihi exiguitatem dierum meorum (Ps 101, 24). Non a te quaero illos dies aeternos ; illi sine fine sunt, ubi ero ; non ipsos quaero, temporales dies mihi annuntia : exiguitatem dierum meorum, non [a te quaero illos] aeternitatem dierum meorum, annuntia mihi.

La lezione di ε1, tra parentesi quadre, potrebbe essere una dittografia della precedente ricorrenza di a te quaero illos. Se fosse un’aggiunta intenzionale, rivelerebbe un fraintendimento del contesto. 101, 2, 15, 25 Quanta pertulit, quanta audivit Moyses pro hominibus non intraturis in terram promissionis. Intrarunt [novi homines] filii eorum. Quid significat ? Intrarunt novi homines.

L’interpolazione in ε1, tra parentesi, turba il senso del passo : l’espressione novi homines è la risposta all’interrogativa, non la premessa. 103, 4, 5, 7 Illic naves commeabunt (Ps 103, 26). [Quem commeatum reperiunt tristem quando gubernatorem sentiunt Christum ?]

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L’aggiunta di ε1, tra parentesi quadre, ha una generica sintonia di senso con il contesto, ma non è per nulla necessaria, e nemmeno utile allo sviluppo logico del discorso. L’assenza di connessione sintattica con il contesto la rende sospetta di essere un ampliamento posticcio intenzionale. L’ipotesi che sia appartenuta all’archetipo, e che sia stata espunta o caduta dal subarchetipo π, lasciandone il contesto in perfetto ordine logico e sintattico, è inverosimile. 103, 4, 4, 5-10 Repleta est terra creatura tua (Ps 103, 25), sed nondum sumus in terra viventium, adhuc ista terra morientium est ; clamamus autem, et dicimus : Spes mea es tu, portio mea in terra viventium (Ps 141, 6). In terra morientium spes mea, in terra viventium portio mea. Ecce ista terra, quae repleta est creatura dei, quia [qui adhuc in ista terra est morientium] nondum est in terra viventium, qua transit ?

L’integrazione di ε1 qui adhuc… è stata dedotta dal contesto, come si può vedere, e vuole sanare l’anacoluto dando un soggetto grammaticale a nondum est, che nel testo di π, da noi approvato, ha per soggetto logico creatura dei. 104, 19, 4 Non ita debemus accipere verba signorum et prodigiorum (Ps 104, 27) quasi verba, quibus verbis fierent signa et prodigia [id est quae dicerent ut fierent signa et prodigia]

La frase aggiunta da ε1 id est … è superflua e banale, costruita in assonanza con la precedente, secondo il modus operandi tipico di ε1. b. Glosse di ε1 101, 1, 15, 1 Ergo et hic quid dicit ? Quoniam beneplacitum habuerunt servi tui in lapides eius (Ps 101, 15). In lapides cuius ? In lapides Sion. Sed sunt ibi et non lapides. [Cuius non lapides ?] Ergo quid sequitur ? Et pulveris eius miserebuntur (Ibid.).

A favore della autenticità dell’interrogazione Cuius non lapides ? attestata da ε1 sono stati considerati un paio di elementi formali : il parallelismo antitetico con la precedente espressione In lapides cuius ?, e l’omeoteleuto, che potrebbe confortare l’ipotesi della sua caduta accidentale da π. Ma in fine la lezione è stata giudicata falsa per una ragione più solida : a ben vedere, essa turba gravemente la connessione logica, che invece è lineare in π. Riteniamo probabile che in origine Cuius non lapides ? fosse una glossa mar-

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ginale. Le glosse di ε1, inglobate nel testo, hanno in effetti forma interrogativa. 103, 4, 6, 34 Hoc quod venit in mentem, caput serpentis est : caput calca, et evades ceteros motus. [Quid est caput calca et evades ceteros motus ?] Quid est caput calca ?

È assai probabile che l’aggiunta di ε1, tra parentesi quadre, sia una glossa. 103, 3, 2, 51 Non enim frustra duodecim habere voluit – et ita numerus ille sacratus est, ut in locum unius qui ceciderat, non posset nisi alter ordinari. [Quare duodecim apostoli ?]

Anche in questo caso l’interrogativa Quare duodecim apostoli ? in ε1 è una glossa. Il passo seguente, invece, non presenta integrazioni o interpolazioni e la nostra ricostruzione della lezione di ε e di quella di ε1 è meno sicura : 104, 4, 7 Ego sum qui sum, et Dices filiis Israel : ‘Qui est misit me ad vos’ (Ex 3, 14), quod, ex quantulacumque particula, rara mens capit Apparato critico : rara] pura An3 α2 ; pura praem. ε2 ; pura add. ζ

Che la lezione del subarchetipo π fosse rara è certo. Che la medesima lezione fosse anche del subarchetipo ε lo possiamo desumere dal quadro delle testimonianze dei mss. dipendenti da ε. Infatti la varietà delle lezioni nel ramo ε può essere spiegata, se si suppone che ε avesse rara. Innanzi tutto tale ipotesi è suffragata dalla testimonianza di N (ante corr.), autorevole rappresentante del ramo. Osserviamo poi lo stemma di ε, e scopriamo che in effetti le tre varianti di rara – cioè pura, pura rara, rara pura – hanno origine non da ε, ma da ε1 : presumibilmente ε1 aveva nel testo rara e a margine la glossa pura. Il glossatore intendeva spiegare che la rara mens, che può capire la definizione metafisica di Dio in Ex 3, 14 (Ego sum qui sum), è una mente pura, cioè capace di pura, astratta razionalità. Il copista di An3, da cui dipende talvolta α2, ha frainteso la glossa pura giudicandola un’emendazione di rara, e ha trascritto nel testo pura. L’altro apografo di ε1, che abbiamo indicato con ε2 (N1 Gt), ha anch’esso frainteso, giudicando pura un’integrazione, e ha trascritto nel testo pura rara. Infine ζ (P6 T) – testi-

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mone pluricontaminato di nessuna importanza per la costituzione del testo – ha anch’esso scritto nel testo le due parole, ma in ordine inverso, rara pura. c. Lezioni ‘agostiniane’ spurie in ε1 103, 4, 2, 47-48 Nonne verbum caro factum est, et habitavit in nobis (Io 1, 14) ? Nonne accendit lucernam carnis [suae dum penderet in cruce], et quaesivit perditam drachmam ?

L’integrazione di ε1, tra parentesi quadre, riproduce un concetto agostiniano34. Ciò significa che il correttore aveva familiarità con i testi agostiniani, non che l’espressione sia autentica. L’abbiamo giudicata spuria perché non è in armonia con il contesto, e non si vede perché sarebbe stata espunta o sarebbe caduta da π, ove per altro il testo corre lineare senza l’integrazione. 103, 4, 11, 22-24 Si non sapis terrena, non es terra ; si non es terra, non manducaris a serpente [cui cibus data est terra]. Cibum suum dat deus serpenti, quando vult, quem vult.

L’integrazione di ε1 è letteralmente agostiniana, ma non è autentica : chiunque poteva dedurla facilmente dal contesto35 e, come abbiamo osservato sopra per altri casi, se fosse autentica la sua espunzione o caduta da π sarebbe senza spiegazione. 7. Contaminazione extrastemmatica Finora la nostra recensio ha incontrato sporadici casi di contaminazione extrastemmatica solo in alcuni sermoni della sezione delle Enarrationes 134-140 (CSEL, 95.4, Wien, 2002). Fenomeni di questo genere possono essere ostacoli insuperabili per chi si propone di far luce sulla perturbazione del testo, perché possono far sorgere interrogativi senza risposta su fasi antiche, forse prearchetipe, inconoscibili della tradizione, persino dubbi sulla reale esistenza di un archetipo. I casi da noi individuati interessano la ramificazione alta dello stemma della sezione 134-140, la ramificazione che può essere ricostruita sulla base dei mss. non contaminati, e anche di 34 Cfr per es. Aug. serm. 289, 6 : crux Christi est magnum candelabrum ; serm. 317, 3, 4 : candelabrum, Christi crux est : lucerna in candelabro lucens, Christus in cruce pendens. 35 Cfr anche Aug. in psalm. enarr. 61, 11, 6 (CC SL, 39) : illi autem inhaerent terrenis ; tamquam terrigenae sapiunt terram, et sunt terra, serpentis cibus.

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quei mss. contaminati nei quali sia riconoscibile e identificabile la diversa provenienza delle lezioni. Stemma della tradizione manoscritta di in psalm. enarr. 134140 : ω

ω1

γ

π α

γ1

δ

ε

γ2

β

L’esemplare β, ricostruibile attraverso la testimonianza concorde di due mss. parigini del ix e del x secolo, aveva alcune lezioni autentiche ove tutta la tradizione manoscritta che discende dall’archetipo è in errore. Che β abbia dedotto da una linea extrastemmatica anche lezioni erronee, è possibile, ma non possiamo provarlo, perché gli errori singolari di β potrebbero essere attribuiti al medesimo β, mentre le lezioni autentiche singolari di β non è verosimile che siano sue emendazioni congetturali36. In un primo momento37 abbiamo avanzato l’ipotesi che la fonte delle singolari buone lezioni di β sia da individuare in un prearchetipo, che pensavamo di identificare con la trascrizione in chiaro del testo stenografato dei sermoni, la medesima trascrizione usata poi per redigere il ms. dell’edizione originaria. Dal prearchetipo avrebbe avuto origine una linea di trasmissione non ufficiale, non autorizzata, che, dopo aver trasmesso alcune lezioni a β, si sarebbe spenta. Il testo di β è primariamente dedotto dal ramo γ dello stemma, ma il copista, o un’altra mano, avrebbe emendato il testo collazionando un testimone della linea extrastemmatica discesa dal

36 37

Le lezioni di β sono elencate in CSEL, 95.4, Praefatio, p. 16. Cfr Ibid., p. 13.

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prearchetipo. Successivamente38 abbiamo preso in considerazione una variante di questa medesima ipotesi, secondo cui non un prearchetipo sarebbe all’origine della tradizione extrastemmatica, ma una seconda registrazione tachigrafica di alcuni sermoni. Questa ricostruzione, che suppone un secondo archetipo, è confortata da una testimonianza di Possidio, il quale narra che quando Agostino predicava, cattolici e anche eretici accorrevano numerosi ad ascoltarlo, e chi voleva, e aveva le risorse per farlo, ingaggiava tachigrafi per registrare i suoi sermoni39. Dunque probabilmente per una iniziativa privata nacque una tradizione minore, ben presto esauritasi, distinta da quella diramatasi dall’edizione ufficiale. 8. Recensire la contaminazione ? Che la tradizione manoscritta delle Enarrationes sia ampiamente contaminata è un dato inconfutabile. Ma così formulata l’osservazione si è prestata alla conclusione che il nostro sforzo per individuare le linee della trasmissione stemmatica sia stato inutile, se non pericoloso per l’edizione. Quando poi sono emersi anche casi di contaminazione extrastemmatica, sembrò che le critiche avessero trovato la riprova. In realtà noi pensiamo che sia più giusto parlare non di contaminazione della tradizione, ma di contaminazione di determinate diramazioni della tradizione e determinati manoscritti. Così precisata, la contaminazione diviene essa stessa oggetto di ‘recensio’. Ed è possibile studiare il fenomeno della contaminazione con qualche buon risultato, se l’editore, individuati i mss. con testo contaminato, associa all’idea tradizionale di stemma codicum l’idea di stemma lectionum. L’obiettivo che si vuol perseguire con questo indirizzo, che beninteso non è in grado di predisporre norme o meccanismi automatici, è quello di fornire probabili spiegazioni del maggior numero possibile di casi di perturbazione, e ricavare indizi obiettivi utili per ricostruire con maggiore probabilità storica l’archetipo. L’alternativa sarebbe la critica soggettiva, l’emendatio ope ingenii dei filologi dell’età umanistica, in sostanza la rinuncia a qualsiasi critica testuale. Infatti nessun metodo critico può prescindere dal presupposto che la trasmissione manoscritta dei testi,

38 39

Cfr CSEL, 95.5, Praefatio, pp. 15 s. Cfr Possid. vita Aug. 7, 3 (cit. n. 12).

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perturbata o meccanica, vergine o inquinata, è pur sempre trasmissione fondamentalmente genealogica. E l’idea di genealogia può essere applicata anche alle lezioni che si muovono trasversalmente, da un ramo all’altro. Le Enarrationes non sfuggono a questa considerazione. Quanto possa essere deleteria la critica soggettiva applicata al genere omiletico del commento agostiniano sui Salmi, possono capirlo più facilmente quanti hanno preso parte alle lunghe, serrate discussioni sui criteri da adottare per l’edizione : sono discussioni documentate in alcune pubblicazioni che in questi anni hanno accompagnato il lavoro editoriale40. 9. Conclusione Negli ultimi due secoli, dapprima ci si è orientati verso la ricerca di un metodo stemmatico meccanico che semplificasse e rendesse pressoché infallibile il lavoro del critico. Tale ricerca si è rivelata pressoché illusoria. Poi, dopo la Textkritik di Paul Maas, e a partire dalla Storia della tradizione di Giorgio Pasquali, si è definitivamente affermata tra i filologi la convinzione che la tradizione manoscritta dei testi delle letterature classiche e cristiane è fenomeno storico, che nella tradizione di ciascun testo è scritta la storia di quel testo, che la critica testuale coincide con « l’arte e la scienza di ponderare probabilità storiche »41. All’interno di questa nuova visione i contributi del Lachmann e del Maas, padri del metodo, si considerano ormai superati, ma superati nel corso di un processo scientifico inimmaginabile senza il loro apporto. Ordunque, noi crediamo che il metodo stemmatico sopravviva, e debba soprattutto sopravvivere come modulo della ricerca storica sulla tradizione dei testi. Queste considerazioni pensiamo che siano valide per tutte le tradizioni manoscritte, ma soprattutto per i testi della letteratura cristiana che attraverso i secoli si sono evoluti a causa della interna instabilità propria dei testi manoscritti rimasti in uso nel Medioevo, Si vedano per es. A. Primmer, « Die Edition von Augustinus, Enarrationes in Psalmos : Eine Zwischenbilanz », in Textsorten und Textkritik (cit. n. 2), pp. 147-192 ; B. Alexanderson, « Réflexions sur l’édition récente des Psalmi graduum de s. Augustin », Augustinianum, 42 (2002), pp. 187-204 ; F. Gori, « A proposito di due articoli sull’edizione critica delle Enarrationes in Psalmos 119-133 di Agostino », Augustinianum, 42 (2002), pp. 315-346. 41 E. J. Kenney, Testo e metodo, tr. it., Roma, 1995, p. 190. 40

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e anche a causa dell’influenza, o interferenza, di fattori e di interessi esterni, religiosi, teologici, culturali. I caratteri dei testi cristiani oratorii improvvisati, l’uso che la storia ha fatto di essi, la ramificazione numerosa e complicata della loro trasmissione possono rendere molto difficile la ricostruzione della storia della tradizione, anche a chi possiede le necessarie specifiche adeguate competenze, ma non la rendono meno importante per l’edizione critica.

The Sources and Manuscript Transmission of the Venerable Bede’s Commentary on the Corpus Paulinum. Starting points for further research Gert Partoens (Leuven)

1. Introduction During the Middle Ages, different kinds of anthologies have played a major role in the diffusion of the theology and exegesis of saint Augustine (354-430). The recapitulation of the vast œuvre of the African Church Father into intellectually more manageable collections of excerpts started very early, possibly even during his lifetime1. These anthologies were composed of either short sententiae (compare the Sententiae ex operibus S. Augustini [CPL 525] of Prosper Aquitanus [fl. 420-450]) or longer fragments (compare the Excerpta e S. Augustino [CPL 511] of Vincent of Lérins [434] or the Excerpta ex operibus S. Augustini [CPL 676] of Eugippius of Lucullanum [fl. ca. 509]). A particular branch within the second category of florilegia consists of some Pauline commentaries that are composed exclusively of fragments taken from the work of the bishop of Hippo, whose predilection for the writings of the Apostle of the gentiles is widely known. The oldest preserved commentary of this type is the so-called Collectio ex opusculis sancti Augus1 For the oldest Augustinian florilegia, cfr H. Chadwick, «Florilegium», in Reallexikon für Antike und Christentum, 7, Stuttgart, 1969, coll. 1131-1160 (esp. col. 1151); E. Dekkers, «Quelques notes sur des florilèges augustiniens anciens et médiévaux», Augustiniana, 40 (1990), pp. 27-44 (esp. pp. 28-33); J. T. Lienhard, «The Earliest Florilegia of Augustine», Augustinian Studies, 8 (1977), pp. 21-31; Id., «Florilegia», in Augustine through the Ages. An Encyclopedia, ed. A. D. Fitzgerald, Grand Rapids (Mich.) – Cambridge (U.K.), 1999, pp. 370-371; J.-P. Bouhot, «La transmission d’Hippone à Rome des œuvres de saint Augustin», in Du copiste au collectionneur. Mélanges d’histoire des textes et des bibliothèques en l’honneur d’A. Vernet, edd. D. Nebbiai – Dalla Guarda, J.-F. Genest, Turnhout, 1998 (Bibliologia, 18), pp. 23-33.

DOI 10.1484/M.IPM.1.101080

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tini in epistulas Pauli apostoli (CPL 1360)2 of the Venerable Bede (672/673 – 735). Although this commentary brings together three important names of western intellectual history – Paul, Augustine and Bede – and many scholars have stressed the necessity of its publication, it still awaits its editio princeps. This article can be considered a first step in the preparation of this much needed critical edition, which will appear eventually in the Series Latina of the Corpus Christianorum. I would like to stress from the outset that this article is much indebted to dom Irénée Fransen and Bertrand Coppieters ’t Wallant, who have kindly put at my disposal the transcription of the Collectio as it has been preserved in the manuscript Saint-Omer, Bibl. Mun., 91, as well as their collations of several other manuscript witnesses. 2. Bede between Peter of Tripoli and Florus of Lyon The oldest known attempt at the composition of a Pauline commentary consisting of Augustinian fragments is attested to in a passage of the first book of Cassiodorus’ Institutiones (ca. 550), where the latter expresses his hope that a manuscript containing the Pauline commentary of a certain Peter of Tripoli3 will soon arrive from Africa in Vivarium: [...] Petrus abbas Tripolitanae provinciae sancti Pauli epistulas exemplis opusculorum beati Augustini subnotasse narratur, ut per os alienum sui cordis declararet arcanum; quae ita locis singulis competenter aptavit, ut hoc magis studio beati Augustini credas esse perfectum. Mirum est enim sic alterum ex altero dilucidasse, ut nulla verborum suorum adiectione permixta desiderium cordis proprii complesse videatur. Qui vobis inter alios codices divina gratia suffragante de Africana parte mittendus est (inst. 1, 8, 9; ed. R. A. B. Mynors, Oxford, 19612).4

Although it cannot be excluded that Peter’s commentary actually did make it to Vivarium, the work has not been passed down 2 Cfr also R. Sharpe, A Handlist of the Latin Writers of Great Britain and Ireland before 1540, Turnhout, 1997 (Publications of the Journal of Medieval Latin, 1), p. 71, no. 152. 3 For a hypothesis concerning Petrus of Tripoli’s identity, cfr J. J. Gavigan, De vita monastica in Africa Septentrionali inde a temporibus S. Augustini usque ad invasiones Arabum, Città del Vaticano, 1962 (Bibliotheca Augustiniana Medii Aevi. Secunda series [sectio historica], 1), p. 133, § 158. 4 For a translation, cfr Cassiodorus. Institutions of Divine and Secular Learning and On the Soul, transl. and notes by J. W. Halporn, introd. by M. Vessey, Liverpool, 2004 (Translated Texts for Historians, 42), p. 129.

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to us. From the twelfth century onwards, it was often identified with a Pauline commentary consisting of Augustinian fragments that circulated widely within Western Europe, but that – as was shown by Jean Mabillon in 16755 – has to be attributed to the Carolingian scholar Florus of Lyon. Although the authorship proposed by Mabillon was confirmed by André Wilmart in 19266 and later research has proved that the commentary in question partially depends on manuscripts of Augustinian works that were kept in the Cathedral Library of Lyon7, the attribution of the commentary – or at least of one of its manuscript witnesses – to Peter of Tripoli is still defended by some modern scholars. Luciana Cuppo Csaki, for instance, claims to have discovered Peter’s commentary on I Cor up to Hbr in the eleventh-century codex Vat. lat. 49508. This view about the Vatican manuscript, which 5 Cfr J. Mabillon, Veterum analectorum tomus I, Parisiis, 1675, pp. 12-21 (PL, 90, coll. 67-72). 6 For an historical overview of the identification of the commentary of Peter of Tripoli with that of Florus of Lyon, cfr A. Wilmart, «La collection de Bède le Vénérable sur l’Apôtre», Revue Bénédictine, 38 (1926), pp. 16-52, esp. pp. 19-20 (Robert de Torigny [† 1186]), 21 (Baronius), 26-27 (Angelo Mai), 29-31 (Heinrich Seuse Denifle) and 30-31 (Alexander Souter). The same confusion is found in the manuscript transmission of Florus’ commentary: cfr J. Heil, Kompilation oder Konstruktion? Die Juden in den Pauluskommentaren des 9. Jahrhunderts, Hannover, 1998 (Forschungen zur Geschichte der Juden, A.6), pp. 403-405 (oldest attribution to Peter of Tripoli: eleventh century). 7 Cfr C. Charlier, «Les manuscrits personnels de Florus de Lyon et son activité littéraire», in Mélanges E. Podechard, Lyon, 1945, pp. 71-84; Id., «La compilation augustinienne de Florus sur l’Apôtre. Sources et authenticité», Revue Bénédictine, 57 (1947), pp. 132-186 (esp. pp. 139-155) (p. 155: «La compilation est certainement d’origine lyonnaise, car elle se trouve préparée sur des manuscrits qui ont appartenu à la bibliothèque de la cathédrale de Lyon, dès le IXe s., et sans doute dès avant, pour plusieurs»); G. Partoens, «Une version augmentée de la collection médiévale de sermons augustiniens De uerbis Domini et Apostoli. Son importance pour la transmission de l’œuvre homilétique de l’évêque d’Hippone», Recherches Augustiniennes et Patristiques, 35 (2007), pp. 189-237 (esp. 211-222 and 226; with further bibliography); P.-I. Fransen, «Le florilège augustinien de Florus de Lyon», in Saint Augustin et la Bible, edd. G. Nauroy, M.-A. Vannier, Bern, 2008, pp. 313-324 (esp. pp. 316317). Cfr also the articles of L. De Coninck and L. Holtz quoted in n. 30. 8 cfr L. Cuppo Csaki, «Hypertext ca. 600 A.D.: Marginalia and their Function in Vat. Lat. 1348, 4950, and 5730» (Kalamazoo, May 2003: http://www. geocities.com/athens/aegean/9891/otherlinks.html); «Biblical Exegesis and Mnemotechnics in ms Verona, Biblioteca Capitolare XXII» (Leeds, 2004: http:// www.geocities.com/Athens/Aegean/9891/Boeth.html): «Vat. lat. 4950 con-

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was already upheld by scholars such as Angelo Mai, Heinrich Seuse Denifle and Alexander Souter9, has been referred to with approval by Fabio Troncarelli10. Yet, as early as 1931, André Wilmart convincingly proved that Vat. Lat. 4950 only contains an incomplete version (i.e. without the part on Rm) of the Pauline commentary of Florus11. A second Pauline commentary exclusively consisting of quotations from the works of Augustine was produced by the Venerable Bede. It is mentioned in the list of his own works which the AngloSaxon scholar added to the last chapter of the last book of his Historia ecclesiastica gentis Anglorum (731): In Apostolum quaecumque in opusculis sancti Augustini exposita inveni, cuncta per ordinem transcribere curavi (hist. eccl. 5, 24, 2; SCh, 491). Since Mabillon (1675), the anthology spoken of by Bede is identified with a Pauline commentary consisting of 457 Augustinian fragments that has been preserved today in at least 12 direct witnesses. Although these manuscripts do not correspond with regard to the commentary’s title, they all ascribe the work to Bede or at least do not contradict this attribution. I will offer a list of these witnesses and their individual titles in § 4. In the following, I will use for convenience’s sake the title Collectio in Apostolum or simply Collectio. The individual fragments will be referred to according to the numbering used by Paul-Irénée Fransen in his description of the commentary (1961)12, and not accordtains the commentary to the Letters of Saint Paul drawn from various works of St. Augustine by Peter of Tripoli and commonly attributed to Florus of Lyons [...]». 9 Cfr Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), pp. 26-27 (A. Mai), 29-30 (H. S. Denifle) and 30-31 (A. Souter). 10 Cfr F. Troncarelli, «Mentis cogitatio. Un prologo di Boezio in un prologo a Boezio?», in Les prologues médiévaux, ed. J. Hamesse, Turnhout, 2000 (Textes et études du Moyen Âge, 15), pp. 39-86 (esp. p. 77 n. 44): «L. Cuppo Csaki ha ritrovato un testo attribuito a Petrus e si accinge a pubblicarlo». 11 Cfr A. Wilmart, «Le mythe de Pierre de Tripoli», Revue Bénédictine, 43 (1931), pp. 347-352. Compare already Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), pp. 31-32. Wilmart was followed by F. Stegmüller, Repertorium Biblicum Medii Aevi, IV, Commentaria. Auctores N-Q, Madrid, 1954, pp. 417-423 (no. 6920-6932). 12 Cfr P.-I. Fransen, «Description de la collection de Bède le Vénérable sur l’Apôtre», Revue Bénédictine, 71 (1961), pp. 22-70.

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ing to their numbering in David Hurst’s translation (1999)13. Both numberings are identical until frgm. 207. In Hurst’s translation, this fragment is followed by a quotation from civ. 13, 23 that is absent from Fransen’s description. Since Hurst has attributed the number 208 to this additional fragment (instead of, e.g., 207* or 207bis), the numberings are not parallel anymore (frgm. 208 Fransen = frgm. 209 Hurst, etc.). The parallelism is restored almost 200 fragments later, when Hurst eliminates frgm. 394 Fransen, which he rightly considers to be a later interpolation14. Because of this elimination, frgm. 393 Fransen / 394 Hurst is immediately followed by frgm. 395 Fransen / 395 Hurst. My decision to stick to the numbering of Fransen is in keeping with the system used by Michael Lapidge in his recent description of the Augustinian sources of the Collectio15. It has been suggested in the past that Cassiodorus’ reference to the work of Peter of Tripoli in the Institutiones inspired Bede to compose the Collectio16. Modern scholars, however, are inclined to assume that the Anglo-Saxon never read the Institutiones17. It seems more likely that – if Bede had no direct access to the work 13 A provisional edition of the work was made for the Series Latina of the Corpus Christianorum by David Hurst, whose earlier editions of Bedan works have been severely criticized. Compare F. Dolbeau, Augustin et la prédication en Afrique. Recherches sur divers sermons authentiques, apocryphes ou anonymes, Paris, 2005 (Collection des Études Augustiniennes. Série Antiquité, 179), p. 496 n. 5. Fransen, «Le florilège augustinien de Florus de Lyon» (cit. n. 7), p. 322 mistakenly claims that this edition «dort dans les ordinateurs du Corpus Christianorum depuis quelques dizaines d’années». Although Hurst’s provisional edition was never published, its editor produced a translation of the Collectio in Apostolum. Cfr Bede the Venerable. Excerpts from the Works of Saint Augustine on the Letters of the Blessed Apostle Paul, transl. by D. Hurst, Kalamazoo (Mich.), 1999 (Cistercian Studies Series, 183). 14 For the problem of the authenticity of frgm. 394 Fransen, cfr § 6.a. 15 Cfr M. Lapidge, The Anglo-Saxon Library, Oxford, 2006, pp. 196-204. 16 Cfr Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), p. 18; Dekkers, «Quelques notes» (cit. n. 1), p. 32. 17 Cfr P. Meyvaert, «Bede, Cassiodorus, and the Codex Amiatinus», Speculum, 71 (1996), pp. 827-883 (esp. pp. 827-831); Vessey in Cassiodorus. Institutions of Divine and Secular Learning and On the Soul (cit. n. 4), pp. 17 and 82. Neither are the Institutiones mentioned in M. Lapidge’s list of books present in the libraries of Wearmouth and Jarrow. Cfr Lapidge, The AngloSaxon Library (cit. n. 15), pp. 191-228 (esp. p. 205).

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of Peter of Tripoli itself – he followed the example of Paterius, secretary of Gregory the Great, who had produced a systematic biblical commentary consisting exclusively of fragments drawn from Gregory’s works (CPL 1718)18. Bede in the prologue to the last book of his commentary on the Song of Songs, which explains the biblical text by means of quotations drawn from works of Gregory and proceeds in exactly the same systematic way as the Collectio does (in both works, the selected fragments are preceded by a detailed indication of their provenance and presented in the order of the biblical verses commented upon)19, affirms that he will imitate the example of Paterius20. He regrets, however, that he does not have Paterius’ work at hand, which would have considerably facilitated his task21. For this commentary, cfr the article of F. Martello, «Paterio, alter Gregorius, e la redazione del Liber testimoniorum», which will be published soon in the proceedings of the conference Gregorio Magno e le origini dell’Europa (Firenze, 13-17 Maggio 2006) (series: Archivum Gregorianum, SISMEL – Edizioni del Galluzzo). 19 According to Martello (cit. n. 18), it was Paterius who codified this type of biblical commentary: «Nella classificazione dei ‘florilegi strutturati’ composti entro il 1300 messa a punto da Thomas Falmagne, il Liber testimoniorum è registrato come ‘florilège exégétique, consacré à un seul auteur’; non compaiono esempi della medesima tipologia che lo precedano cronologicamente. Da parte mia, non ho potuto rintracciare esempi anteriori di raccolte che assommino contemporaneamente le caratteristiche principali della nostra opera, ossia il fatto di raccogliere passaggi di esegesi biblica appartenenti a un solo autore disposti sistematicamente secondo la loro successione nelle Scritture e corredati ciascuno delle proprie coordinate di provenienza. Possiamo dunque affermare che il Liber testimoniorum codifichi i tratti caratteristici di questa tipologia. Molti, invece, sono gli autori successivi che, implicitamente o esplicitamente, hanno riprodotto il metodo e la logica compilativa del discipulus Gregorii». 20 For Paterius’ commentary as a model for the Collectio, cfr also Dekkers, «Quelques notes» (cit. n. 1), p. 32; M. Stansbury, «Early-Medieval biblical commentaries, their writers and readers», Frühmittelalterliche Studien, 33 (1999), pp. 49-82 (esp. p. 74). For Paterius’ commentary as a model for the last book of Bede’s commentary on the Songs of Songs, cfr R. Wasselynck, «L’influence de l’exégèse de S. Grégoire le Grand sur les commentaires bibliques médiévaux», Recherches de Théologie ancienne et médiévale, 32 (1965), pp. 157204 (esp. pp. 161-162). 21 Audivi autem quia Paterius eiusdem beati papae Gregorii discipulus de tota sancta scriptura quaeque ille per partes in suis operibus explanavit collecta ex ordine in unum volumen coegerit, quod opus si haberem ad manus facilius multo ac perfectius studium meae voluntatis implerem; verum quia necdum illud videre 18

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The Collectio enjoyed relative success on the continent during the Carolingian Renaissance. Six or seven of the twelve known direct witnesses of the commentary are continental manuscripts dating from the ninth century (cfr § 4). Moreover, the work was known to several Carolingian scholars: the compiler of the extensive commentary on Paul’s letter to the Romans preserved in Paris, Bibl. Nat., lat. 11574 (ninth century), origin: Northern France (Corbie?) (Helisachar [?]: † before 840)22, Hrabanus Maurus (ca. 780-856)23, Sedulius Scottus (middle of the ninth century)24, Lupus of Ferrières (ca. 805-ca. 862)25 and Hincmar of Rheims († 882)26. A further important Carolingian user of the Collectio was Florus of Lyon (ca. 785/790 – ca. 860), who in the years 840-852, produced a new and more extensive Pauline commentary which – again – merui ipse per me hoc prout potui imitari domino adiuvante curavi. (CC SL, 119B, p. 359, ll. 17-23) 22 Cfr G. Partoens, «La collection de sermons augustiniens De uerbis Apostoli. Introduction et liste des manuscrits les plus anciens», Revue Bénédictine, 111 (2001), pp. 317-352 (esp. pp. 322-323 n. 22bis); Sancti Aurelii Augustini sermones in epistolas apostolicas, I, ed. G. Partoens, Turnhout, 2008 (CC SL, 41Ba), pp. CLVIII-CLXI. 23 Cfr S. Cantelli Berarducci, Hrabani Mauri opera exegetica. Repertorium fontium, I, Rabano Mauro esegeta. Le fonti. I commentari, Turnhout, 2006 (Instrumenta Patristica et Mediaevalia, 38), p. 232 + n. 552; III, Apparatus fontium (in Mattheum-Homiliae in Euangelia et Epistolas). Indici, Turnhout, 2006 (Instrumenta Patristica et Mediaevalia, 38B), pp. 1374-1381. Compare Sancti Aurelii Augustini sermones in epistolas apostolicas (cit. n. 22), pp. CLVIICLVIII; Heil, Kompilation oder Konstruktion? (cit. n. 6), pp. 259, 269 and 357. 24 Cfr Sedulii Scotti Collectaneum in apostolum, I, In epistolam ad Romanos, edd. H. J. Frede, H. Stanjek, Freiburg, 1996 (Vetus Latina. Die Reste der altlateinischen Bibel. Aus der Geschichte der Lateinischen Bibel, 31) pp. 47*, 40 and 46; G. Partoens, «Le sermon 176 de saint Augustin sur 1 Tim. 1, 15-16, Ps. 94, 2/6 et Lc. 17, 11-19. Introduction et édition», Revue des Études Augustiniennes, 49 (2003), pp. 85-122 (esp. p. 98). 25 Cfr epist. 76 ad Hincmarum: Collectaneum Bedae in apostolum ex operibus Augustini veritus sum dirigere, propterea quod tantus est liber, ut nec sinu celari nec pera possit satis commode contineri. Quapropter, si alterutrum fieret, formidanda esset obvia improborum rapacitas, quam profecto pulchritudo ipsius codicis accendisset; et ita forsitan et mihi et vobis periisset. Proinde tuto vobis memoratum volumen ipse commodaturus sum, cum primo, si Deus vult, aliquo nos contigerit sospites convenire. (MGH, Epp. 6) 26 Cfr Hincmar Rhemensis, De praedestinatione dei et libero arbitrio posterior dissertatio 1: Si quis tamen eosdem libros non habet, videat in collectione venerabilis Bedae presbyteri de opusculis sancti Augustini super apostolum, et ibi discere poterit quod antea ignoravit. (PL, 125, col. 74)

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consisted exclusively of Augustinian quotations: the so-called Expositio in epistulas beati Pauli ex operibus sancti Augustini27. For this compilation, Florus borrowed quotations from both the Collectio and other – mostly direct – witnesses of Augustine’s works (the exact scale of his dependence on the Collectio has not yet been determined)28. Although many manuscripts do not attribute the Expositio to Florus – some codices remain silent about the identity of its compiler or even attribute its composition to Bede or Peter of Tripoli –29 it cannot be doubted that the anthology was of Lyonnese origin. Not only did the compilation’s presumed archetype – the present codex Lyon, Bibl. Mun., 484 – belong to the Cathedral Library of Lyon30, but also many of its quotations depend on Augustinian manuscripts that are still preserved and once belonged to the very same Cathedral library31. 27 For the date of Florus’ commentary, cfr Charlier, «La compilation augustinienne de Florus sur l’Apôtre» (cit. n. 7), pp. 158-159 («La compilation a donc vu le jour sous l’épiscopat d’Amolon [840-852]») and 166 («entre 840 et 850»); C. Charlier, «Florus de Lyon», in Dictionnaire de spiritualité, 5, Paris, 1964, coll. 514-526 (esp. col. 518: «[...] l’immense Expositio [...] appartient aux dernières années de sa vie»); Heil, Kompilation oder Konstruktion? (cit. n. 6), p. 338; K. Zechiel-Eckes, Florus von Lyon als Kirchenpolitiker und Publizist. Studien zur Persönlichkeit eines karolingischen «Intellektuellen» am Beispiel der Auseinandersetzung mit Amalarius (835-838) und des Prädestinationsstreits (851-855), Stuttgart, 1999 (Quellen und Forschungen zum Recht im Mittelalter, 8), p. 16. For a description of this commentary, cfr PL, 119, coll. 279-420; Charlier, «La compilation augustinienne de Florus sur l’Apôtre» (cit. n. 7), pp. 168-186. P.I. Fransen, L. De Coninck, B. Coppieters ’t Wallant and R. Demeulenaere are preparing a critical edition of this commentary for the Continuatio Mediaevalis of the Corpus Christianorum. For a first volume, see CC CM, 220B (2011). 28 Cfr, however, Fransen, «Le florilège augustinien de Florus de Lyon» (cit. n. 7), p. 322: «Sur les 459 extraits que compte la compilation de Bède, 169 se retrouvent dans Florus». 29 cfr Heil, Kompilation oder Konstruktion? (cit. n. 6), pp. 403-405; Fransen, «Le florilège augustinien de Florus de Lyon» (cit. n. 7), p. 313. 30 For Lyon, Bibl. Mun., 484, which contains pieces written by Florus himself, as the commentary’s archetype, cfr L. Holtz, «Le manuscrit Lyon B. M. 484 (414) et la méthode de travail de Florus», Revue Bénédictine, 119 (2009), pp. 270-315; L. De Coninck, «Pour une nouvelle édition de la compilation augustinienne de Florus sur l’Apôtre», Revue Bénédictine, 119 (2009), pp. 316-335. Moreover, the manuscript Troyes, Bibl. Mun., 96 was directly copied from Lyon, Bibl. Mun., 484 by Florus’ disciple Mannon of St.-Oyen. For this manuscript, cfr chapter B in the above mentioned article of L. De Coninck (again with further bibliography). 31 Cfr n. 7.

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The enormous popularity of Florus’ extensive Pauline commentary from the late ninth century onwards32 probably explains why the Collectio does not seem to have been often copied after the Carolingian period: only five or six of the twelve known direct witnesses of the Collectio date from the tenth century or later. Florus’ commentary outshone the Collectio to the extent that the latter almost fell into complete oblivion and Florus’ work was often considered to be the Augustinian anthology spoken of by Bede in his Historia ecclesiastica33. This erroneous identification led to the publication of Florus’ commentary under the name of Bede from 1499 onwards34. It was only in 1675 that both commentaries were again formally distinguished and each attributed to its proper compiler in the Vetera analecta of Mabillon35. It has been suggested in the past – among others by dom Fransen – that the by then traditional view on the interdependence of the Collectio and the Expositio may have to be turned upside down, which would mean that the Collectio is subsequent to 840852 and cannot be the work of the Anglo-Saxon scholar36. However, this hypothesis is contradicted by the following arguments (which can undoubtedly be multiplied): (1) We know with certainty that the Collectio was used by Hrabanus Maurus for the compilation of his own commentaries on the letters of Saint Paul37,

32 Cfr Heil, Kompilation oder Konstruktion? (cit. n. 6), pp. 339 and 403405; G. Partoens, «La présence d’Augustin dans l’Expositio super epistolam ad Romanos de Guillaume de Saint-Thierry», Sacris erudiri, 44 (2005), pp. 285-300. 33 For the history of the ascription of Florus’ commentary to Bede, cfr Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), pp. 19-32. The oldest example of this ascription mentioned by Wilmart is the work of Gerlandus of Besançon, which is prior to 1144. The oldest manuscripts ascribing the Carolingian commentary to the Anglo-Saxon scholar also date from the twelfth century. Cfr Heil, Kompilation oder Konstruktion? (cit. n. 6), pp. 338-339 and 403-405. 34 For an overview of the printed editions of Florus’ commentary under the name of Bede, cfr Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), p. 20 n. 3; Charlier, «La compilation augustinienne de Florus sur l’Apôtre» (cit. n. 7), p. 138 n. 2; Heil, Kompilation oder Konstruktion? (cit. n. 6), p. 338 n. 24. Compare Fransen, «Le florilège augustinien de Florus de Lyon» (cit. n. 7), p. 314. 35 Cfr n. 5. 36 Cfr P.-I. Fransen, «Les commentaires de Bède et de Florus sur l’Apôtre et saint Césaire d’Arles», Revue Bénédictine, 65 (1955), pp. 262-266 (esp. 265). 37 Cfr n. 23 as well as § 5.b.

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which are probably older (before 842)38 than Florus’ Expositio (840852)39. (2) Three direct witnesses of the Collectio may have been written earlier than 840-852 (C O1.2; cfr § 4). (3) Florus’ text shares significant variants with a particular subgroup of manuscripts within the transmission of the Collectio (cfr n. 78). (4) The Collectio quotes Augustine’s sermons 153-156 as respectively the first until the fourth homily on Paul’s letter to the Romans40. This situation reflects the way in which these four sermons must have been transmitted in Late Antiquity and the Early Middle Ages. However, while sharing several fragments of these sermons with the Collectio, Florus’ Expositio refers to them by means of titles that make no use of this original numbering41. 3. The Augustinian works quoted in Bede’s Collectio The Collectio quotes a noticeably large amount of Augustinian works. According to François Dolbeau, Fransen’s description of the Collectio (1961) enables us to forcefully enlarge the list by Max Ludwig Laistner of Augustinian works present in the libraries of Wearmouth and Jarrow (1935)42. The following overview, which was composed on the basis of François Dolbeau’s list of Augustinian treatises, letters and sermons known to Bede as well as on Michael Lapidge’s inventory of Augustinian quotations in the

38 For the dating of Hrabanus’ Pauline commentaries before 842, cfr Heil, Kompilation oder Konstruktion? (cit. n. 6), p. 257; Cantelli Berarducci, Hrabani Mauri opera exegetica. Repertorium fontium, I (cit. n. 23), pp. 6-8 and 47. The terminus ante quem can be deduced from the dates of Hrabanus’ letters 23 and 24, which both mention the commentary and date from the beginning of the 840’s (MGH, Epp. Karol. Aevi 3, pp. 429-431 [esp. p. 430 n. 3]), as well as from Rodolfus Fuldensis, Miracula sanctorum in Fuldenses ecclesias translatorum 15. The latter mentions the commentary in a list of the works that Hrabanus wrote before he lost his function as abbot of Fulda (= before April 842; MGH, SS 15.1, pp. 340-341). 39 For the date of Florus’ anthology, cfr n. 27. 40 Compare Sancti Aurelii Augustini sermones in epistolas apostolicas (cit. n. 22), pp. LXXIX-LXXXI and CLV-CLVII. 41 Compare Sancti Aurelii Augustini sermones in epistolas apostolicas (cit. n. 22), pp. CLXI-CLXIV. 42 Cfr M. L. W. Laistner, «The Library of the Venerable Bede», in Bede. His Life, Times, and Writings, ed. A. H. Thompson, Oxford, 1935, pp. 237-266 (esp. pp. 249-251 and 263).

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211

Anglo-Saxon’s complete œuvre43, presents all the works of the African bishop that are quoted by Bede44. The asterisks mark the works that were already included in the list of Laistner. Augustinian works that are quoted in the COLLECTIO as well as in other works of Bede 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.

* Confessiones * Contra adversarium legis et prophetarum Contra duas epistulas Pelagianorum45 * Contra Faustum Manichaeum Contra Iulianum haeresis Pelagianae defensorem libri sex Contra litteras Petiliani libri tres Contra secundam Iuliani responsionem opus imperfectum 46 * De civitate Dei * De consensu evangelistarum De correptione et gratia De diversis quaestionibus ad Simplicianum De diversis quaestionibus LXXXIII47 * De doctrina christiana * De Genesi ad litteram

43 Cfr Dolbeau, Augustin et la prédication en Afrique (cit. n. 13), pp. 497498 and 520-523; Lapidge, The Anglo-Saxon Library (cit. n. 15), pp. 196204. Compare J. D. A. Ogilvy, Books known to the English. 597-1066, Cambridge, 1967 (The Mediaeval Academy of America. Publications, 76), pp. 80-96. 44 Note the remarkable absence of the Expositio quarundam propositionum ex epistola ad Romanos, the Epistolae ad Galatas expositionis liber unus, and the Epistolae ad Romanos inchoata expositio. 45 According to Lapidge, The Anglo-Saxon Library (cit. n. 15), p. 196, this work is quoted only in the Collectio. See, however, Dolbeau, Augustin et la prédication en Afrique (cit. n. 13), p. 497 n. 10. 46 According to Lapidge, The Anglo-Saxon Library (cit. n. 15), p. 197, this work is quoted only in the Collectio. See, however, Dolbeau, Augustin et la prédication en Afrique (cit. n. 13), p. 497 n. 13. 47 The Collectio refers to this work as Liber quaestionum LXXXIIII instead of Liber quaestionum LXXXIII (compare the titles of frgm. 51, 63, 71, 178, 217, 254, 263, 302, 342, 344 and 448). This phenomenon may be explained in two ways: (1) Bede has borrowed this title from the Augustinian anthology of Eugippius, which was the mediating source of several (but not all!) of the Collectio’s quotations from De diversis quaestionibus. Compare P.-I. Fransen, «D’Eugippius à Bède le Vénérable. À propos de leurs florilèges augustiniens», Revue Bénédictine, 97 (1987), pp. 187-194 (esp. p. 191 + n. 15). (2) Bede partially depends on a direct witness of the De diversis quaestionibus LXXXIII, in which s. 101 was inserted as capitulum 58. Compare Dolbeau, Augustin et la prédication en Afrique (cit. n. 13), p. 521 n. 113 and p. 637, addendum ad p. 521 (131) n. 113.

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* De mendacio De nuptiis et concupiscentia De praedestinatione sanctorum De sermone Domini in monte libri II De trinitate * Enarrationes in psalmos * Enchiridion ad Laurentium, seu de fide, spe et caritate Epistulae 55, 82, 120, *147, 190, *205 * In Ioannis epistulam ad Parthos tractatus x * Quaestiones Evangeliorum (including the Quaestiones XVI in Matthaeum = Quaestionum evangeliorum appendix)48 25. Sermones 71, 101augm., 155, 162C, 198augm., 218augm., 268, 306D 26. * Tractatus in Evangelium Ioannis49 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24.

Augustinian works that are quoted only in the COLLECTIO 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37.

Ad Orosium contra Priscillianistas et Origenistas Contra Gaudentium Donatistam episcopum libri duo Contra Secundinum Manichaeum liber De adulterinis coniugiis De anima et eius origine De baptismo contra Donatistas De bono coniugali De dono perseverantiae De gestis Pelagii De gratia et libero arbitrio De moribus ecclesiae et de moribus Manichaeorum libri duo50 [De opere monachorum]51

48 Compare Dolbeau, Augustin et la prédication en Afrique (cit. n. 13), p. 498 n. 34. 49 The numbering of the Tractatus in the Collectio shows that Bede’s source did not contain Tractatus 20-22. Cfr the titles of frgm. 47 (Tr. 38 instead of 41), 106 (Tr. 50 instead of 53), 143 (Tr. 82 instead of 85), 147 (Tr. 95 instead of 98), 179 (Tr. 42 instead of 45), 190 (Tr. 59 instead of 62), 192 (Tr. 71 instead of 74), 223 (Tr. 47 instead of 50), 249 (Tr. 91 instead of 94), 250 (Tr. 38 instead of 41), 272 (Tr. 105 instead of 108), 294 (Tr. 38 instead of 41), 305 (Tr. 70 instead of 73), 310 (Tr. 41 instead of 44), 339 (Tr. 82 instead of 85), 345 (Tr. 33 instead of 36), 358 (Tr. 50 instead of 53), 367 (Tr. 105 instead of 108), 379 (Tr. 62 instead of 65), 423 (Tr. 50 instead of 53). Compare C. Weidmann, «Vier neue Predigten des Augustinus» at http://homepage.univie.ac.at/clemens.weidmann/ augustinus/vierpredigten.htm (with further bibliography); now also available in Revue d’Études Augustiniennes et Patristiques, 56 (2010), pp. 173-196. 50 This work is not quoted in the list of M. Lapidge. See, however, frgm. 83 of the Collectio. 51 Although the De opere monachorum is mentioned by Dolbeau and Lapidge, the work has to be removed from the list of Augustinian works known to Bede. Frgm. 394 of the Collectio – the work’s only quotation in the whole

THE VENERABLE BEDE ’ S COMMENTARY

38. 22. 25.

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De perfectione iustitiae hominis Epistulae 40, 98, 130, 140, 149, 157, 186, 187, 194, 214, 215, 217, 218, ad Vitalem Sermones 2, 3, 28A, 37, 49A, 61A, 77C, 131, 151, 153, 154, 156, 160, 162, 167A, 176, 177, 205, 218A, 218C, 228A, 229, 229V, 236, 278, 283augm., 293, 298, 299, 302, 330, 334, 341augm., 350, 354A, 362

Works which Bede quotes outside the COLLECTIO 39. Contra Adimantum 40. Contra Maximinum haereticum 41. De agone christiano 42. De divinatione daemonum 43. De Genesi ad litteram imperfectus liber 44. * De Genesi contra Manichaeos 45. De haeresibus 46. * De sancta virginitate 22. Epistulae 102, 164, *167, 199, 265 47. * Quaestiones in Heptateuchum 48. Retractationes 25. Sermones 7, 130A, 149, 150, 170, 229J, 238, 263A, 265, 319, 335C, 352A, de S. Salvio (335C?)

In his recent The Anglo-Saxon Library (2006), Michael Lapidge is more sceptical than Dolbeau about the abundance of Augustinian works present at Wearmouth and Jarrow: «Bede’s knowledge of the writings of Augustine, to judge from his (unprinted) Collectio ex opusculis beati Augustini in epistulas Pauli apostoli [CPL 1360], was apparently extensive, exhaustive even; but there is a real possibility that he was not using the works of Augustine themselves, but was quoting from an intermediary source such as the Excerpta ex operibus S. Augustini by Eugippius of Naples, in which case the number of library books in question would be reduced drastically from forty-eight to eighteen (roughly, that is, to the number of works of Augustine known to Bede as identified by Laistner in 1935)»52. The same is suggested by Alan Thacker and Arthur G. Holder, who claim that Bede took the fragments of the Collectio for the most part from Eugippius53. It needs to be added, however, of Bede’s oeuvre – is found in only one witness of the commentary (Monte Cassino 178, pp. 211-223) and has to be considered a later interpolation. This problem will be discussed in § 6.a. 52 Cfr Lapidge, The Anglo-Saxon Library (cit. n. 15), p. 36 (compare p. 60). 53 Cfr A. Thacker, «Bede and the Ordering of Understanding», in Innovation and Tradition in the Writings of the Venerable Bede, ed. S. DeGregorio, Morgantown, 2006, pp. 37-63 (esp. pp. 53-54); A. G. Holder, «Bede and the

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that Eugippius’ Augustinian anthology has been the source of only a limited number of fragments of the Collectio: 104 on a total of 457 according to the comparison of both anthologies by dom Fransen (1987)54. Based on this comparison, we may assume that, of all the Augustinian works that are quoted in the Collectio only, Bede’s knowledge of the following came exclusively from Eugippius: Ad Orosium contra Priscillianistas et Origenistas, De bono coniugali, De dono perseverantiae, De gratia et libero arbitrio, De moribus ecclesiae et de moribus Manichaeorum libri duo, De perfectione iustitiae hominis. This means that Fransen’s study of Eugippius’ influence on the Collectio allows us to reduce the amount of Augustinian works present at Wearmouth and Jarrow to only 42. I do not exclude, however, that this number may be reduced through subsequent research on Eugippius’ influence on the Collectio as well as on Bede’s œuvre as a whole. Moreover, other anthologies may have influenced the Collectio as well. One might think here, for instance, of the Pauline commentary of Peter of Tripoli. If this work ever really existed and – in accordance with Cassiodorus’ wish – did arrive in Vivarium, it cannot be excluded that a copy of it found its way to England through the same channels as did many other Italian codices in the sixth and seventh century55. A hypothesis comparable to that of Lapidge was proposed by Michaela Zelzer in an article on the transmission of Augustine’s Contra secundam Iuliani responsionem opus imperfectum, wich is quoted 19 times in the Collectio and always without dependence on Eugippius56. Zelzer suggests that Bede’s personal contribution to the composition of the Collectio was restricted to the systematic rearrangement of fragments which he had found in a collection of Augustinian quotations that was acquainted with the anthology of Eugippius and that in all probability was also composed in Southern Italy: New Testament», in The Cambridge Companion to Bede, ed. S. DeGregorio, Cambridge, 2010, pp. 142-155 (esp. p. 146). 54 Cfr Fransen, «D’Eugippius à Bède le Vénérable» (cit. n. 47), pp. 193-194. 55 For a synthetic overview of the relations between Italian libraries of Late Antiquity and Anglo-Saxon England, cfr Lapidge, The Anglo-Saxon Library (cit. n. 15), pp. 24-30. 56 Frgm. 23-24, 35-38, 40, 49, 59, 86-87, 92, 96, 98, 101-102, 241, 351, 399.

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«Dalle parole di Beda [= the list of his works in the Historia ecclesiastica gentis Anglorum] si potrebbe dedurre che egli stesso abbia raccolto gli estratti dalle opere agostiniane, ma non lo credo: Beda non sapeva che esistevano due opere agostiniane contro Giuliano: p.e. al Rom. 7 cita, dopo il titolo ex libro contra Iulianum quarto, alcune frasi della prima opera contro Giuliano e poi, dopo il medesimo titolo ex libro contra Iulianum primo, alcune frasi dell’opus imperfectum. Come già ha visto il Fransen [...], alcuni estratti [not of the 19 fragments that derive from the opus imperfectum, but of the 457 that form the Collectio as a whole] concordano con quelli fatti da Eugippio nel sesto secolo. Perciò per me è certo che una collezione tardoantica, fatta sia a Castro Lucullano sia nei suoi dintorni, era arrivata in Inghilterra e che Beda non fece null’altro che mettere in ordine gli estratti»57.

Zelzer’s observation concerning the references to the works against Julian is certainly very relevant for further research concerning the extent of Bede’s knowledge of Augustine’s works. One might even add that the only fragment which Bede quotes from the Contra duas epistulas Pelagianorum, another work against Julian, is entitled Ex libro contra Iulianum primo too (frgm. 48) and that the fragment which immediately follows this quotation (frgm. 49), stems from the Contra secundam Iuliani responsionem opus imperfectum and bears the title Item ex eodem libro58. However, this observation is not sufficient proof that the Collectio is nothing but the systematic rearrangement of fragments borrowed from one single Italian anthology with strong links to that of Eugippius. The high number of Augustinian works quoted in the Collectio as well as in Bede’s other works – be it on the basis of direct or indirect sources – constitutes an argument – next to the testimony of the manuscript witnesses – in favour of ascribing the Collectio to the Anglo-Saxon scholar. Moreover, both the Collectio and Bede’s other works presuppose a (direct or indirect) acquaintance with some ancient sermon collections which do not seem to have widely circulated during the Early Middle Ages (the collections of Mainz / Grande-Chartreuse, Mainz / Lorsch and Wolfenbüttel)59. 57 Cfr M. Zelzer, «L’edizione critica dell’Opus imperfectum contra Iulianum», in Opus solidarietatis pax. Studi in onore di Mons. Antonio Forte, Avellino, 1999, pp. 219-225 (esp. p. 223). 58 Cfr Fransen, «Description de la collection» (cit. n. 12), p. 29. 59 Cfr Dolbeau, Augustin et la prédication en Afrique (cit. n. 13), pp. 507509.

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4. The witnesses of Bede’s Collectio Until now, twelve manuscript witnesses of the Collectio have been identified60: C

Köln, Dombibl., 104 (ix1-2/4) Origin: Köln Title: Incipit liber B æ d a e presbyteri super epistolas Pauli (f. 1; contemporary handwriting)

60 This list of manuscripts is based on Fransen, «Description de la collection» (cit. n. 12), p. 23. For other lists, cfr M. L. W. Laistner, A Hand-List of Bede Manuscripts, Ithaca (New York), 1943, pp. 37-38; F. Stegmüller, Repertorium Biblicum Medii Aevi, II, Commentaria. Auctores A-G, Madrid, 1950, pp. 182-183 (no. 1619-1631); W. Affeldt, «Verzeichnis der Römerbriefkommentare der lateinischen Kirche bis zu Nikolaus von Lyra», Traditio, 13 (1957), pp. 369-406 (esp. pp. 375-376). The above list adds only one manuscript to Fransen’s list of 1961, viz. codex F. The consultation of the following catalogues or lists of manuscripts did not yield new witnesses: the Werkverzeichnisse in the published volumes of the series Die handschriftliche Überlieferung der Werke des heiligen Augustinus; T. Falmagne, «Les cisterciens et les nouvelles formes d’organisation des florilèges aux 12e et 13e siècles», Archivum Latinitatis Medii Aevi, 55 (1997), pp. 73-176 (esp. p. 141); Heil, Kompilation oder Konstruktion? (cit. n. 6), p. 338 n. 23. According to Heil, Paris, Arsenal, 93 from St.-Victor and Troyes, Bibl. Mun., 614 from Montier-la-Celle have to be added to the list of Collectio witnesses. These additions, however, are incorrect: (1) The manuscript Paris, Arsenal, 93 does not contain a commentary on the Letters of Saint Paul (cfr H. Martin, Catalogue des manuscrits de la Bibliothèque de l’Arsenal, I, Paris, 1885, pp. 45-48). However, a Pauline commentary attributed to Bede and coming from St.-Victor is mentioned in the catalogues of the Bibliothèque de l’Arsenal (cfr Martin, Catalogue, p. 346 [no. 497]) and the former library of St.-Victor (cfr G. Ouy, Les manuscrits de l’abbaye de Saint-Victor. Catalogue établi sur la base du répertoire de Claude de Grandrue (1514), II, Turnhout, 1999 [Bibliotheca Victorina, 10], p. 244 [FF 14]). After inspection, this manuscript turned out to be a witness of Florus’ Pauline commentary, which was mistakenly attributed to Bede. Since this manuscript has not been included in Heil’s list of witnesses of Florus’ commentary (cfr Heil, Kompilation oder Konstruktion? [cit. n. 6], pp. 403-405), I suppose that Heil erroneously referred to this manuscript as Paris, Arsenal, 93. (2) As indicated by Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), p. 26 + n. 2, the manuscript from Montier-la-Celle does not contain the Collectio, but a Pauline commentary that is traditionally ascribed to Gilbert de la Porrée (incipit: Sicut prophetae post legem, sic et apostoli post evangelium recte conscripserunt, ut [...]; cfr Stegmüller, Repertorium Biblicum Medii Aevi, II, p. 346 [no. 2515]; IV, p. 369 [no. 6786]; IX, p. 28 [no. 2515-2528]).

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Content: frgm. 1-393 (the manuscript never contained frgm. 359; frgm. 389end-393beginning have fallen out due to the loss of folia between ff. 158v [= end of quire 21] and 159) Description: P. Jaffé, W. Wattenbach, Ecclesiae metropolitanae Coloniensis codices manuscripti, Berlin, 1874, p. 42; R. Kurz, Die handschriftliche Überlieferung der Werke des heiligen Augustinus, V, Bundesrepublik Deutschland und Westberlin, 1. Werkverzeichnis, Wien, 1976 (Veröffentlichungen der Kommission zur Herausgabe des Corpus der lateinischen Kirchenväter, 9; Österreichische Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse. Sitzungsberichte, 306), p. 516. Date and origin: R. Kurz, Die handschriftliche Überlieferung, p. 516 (ix1); B. Bischoff, Katalog der festländischen Handschriften des neunten Jahrhunderts (mit Ausnahme der wisigotischen), I, Aachen-Lambach, Wiesbaden, 1998 (Bayerische Akademie der Wissenschaften. Veröffentlichungen der Kommission für die Herausgabe der mittelalterlichen Bibliothekskataloge Deutschlands und der Schweitz), pp. 397-398 (no. 1917: «Wohl Köln, ix. Jh., 1./2. Viertel»). The website Codices Electronici Ecclesiae Coloniensis (http://www.ceec.uni-koeln.de) offers a detailed description of C as well as a synthesis of the literature on this manuscript. O1

Orléans, Bibliothèque Municipale, 81 (78) (ix1/3) Origin: (south of?) France provenance: Fleury St-Benoît (pp. 62-210) Title: on p. 62, a blank has been left for the general title. Next to this blank a contemporary hand has added in the margin: Excemtum Augustini in epistolas Pauli ad Romanos. Content: frgm. 1-393 (pp. 62-72: frgm. 1-22beginning; pp. 89-106: frgm. 22end-64beginning [frgm. 50end-54beginning have fallen out due to the loss of folia between pp. 100 and 101]; pp. 73-88: frgm. 64end-105beginning; pp. 107-210: frgm. 105end393). This manuscript breaks off shortly before the end of frgm. 393 (p. 2102). According to Mabillon and Wilmart, the codex contained the entire Collectio before the loss of some quires (cfr Wilmart, «La collection» [cit. n. 6], pp. 35-36). However, since several other witnesses only contain frgm. 1-393 [cfr § 6.b], it seems more proba-

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ble that this manuscript lost only one folio (pp. 211-212), of which the recto side contained the end of frgm. 393. Description, date, origin and provenance: C. Cuissard, Inventaire des manuscrits de la bibliothèque d’Orléans. Fonds de Fleury, Orléans, 1885, pp. 40-41 (xi); Catalogue général des manuscrits des bibliothèques publiques de France. Départements, XII, Orléans, Paris, 1889, pp. 39-40 (x-xi); Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), p. 35 (ix med.); M. Mostert, The Library of Fleury. A Provisional List of Manuscripts, Hilversum, 1989 (Medieval Studies and Sources, 3), p. 126, BF 513 (ix1/2; origin: Fleury); B. Bischoff, Katalog der festländischen Handschriften des neunten Jahrhunderts (mit Ausnahme der wisigotischen), II, LaonPaderborn, Wiesbaden, 2004 (Bayerische Akademie der Wissenschaften. Veröffentlichungen der Kommission für die Herausgabe der mittelalterlichen Bibliothekskataloge Deutschlands und der Schweitz), p. 335, no. 3680 (origin: South of (?) France, ix1/3); Bedae presbyteri Expositio Apocalypseos, ed. R. Gryson, Turnhout, 2001 (CC SL, 121A), pp. 59-60 (no. 62; ix). O2

Orléans, Bibliothèque Municipale, 84 (81) (ix2/4) Origin and provenance: Fleury St.-Benoît (pp. 1-288) Title: absent. Later hands ascribe the work to Bede in the upper and right margins of page 1. Content: frgm. 1-344beginning. This manuscript breaks off before the end of frgm. 344 (explicit on p. 288: habendo hominem inventus ut homo est; non enim poterat inveniri). This situation is not due to the loss of folia that were originally present in the manuscript: the word inveniri is followed by a blank half page which now contains several notes written by later hands. Description, date, origin and provenance: Cuissard, Inventaire [cfr O1], p. 42 (xi); Catalogue général [cfr O1], p. 41 (xi); Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), p. 37 (ix med.); C. Samaran, R. Marichal, Catalogue des manuscrits en écriture latine portant des indications de date, de lieu ou de copiste, VII, Ouest de la France et pays de Loire, Paris, 1984, p. 215 (origin: Fleury, ix med.); Mostert, The Library of Fleury [cfr O1], p. 127, BF 516 (origin: Fleury, ix med.); Bischoff, Katalog der festländischen Hand-

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schriften, II, Laon-Paderborn [cfr O1], p. 336, no. 3684 (origin: Fleury, ix2/4). R

Rouen, Bibliothèque Municipale, 147 (A 437) (ix) Provenance: Jumièges St.-Pierre Title: Adnotationes B e d a e presbiteri in epistolis Pauli ex libris Beati Augustini (f. 1) Content: frgm. 1-193 (frgm. 193 has been enlarged with Caes. Arel. serm. 211, 1-2) + 194-207 + frgm. 207bis (= Aug. civ. 13, 23) + 208-393 + 396-445beginning (frgm. 445end-457 have fallen out due to the loss of folia after f. 99v [end of manuscript]). Description, date and provenance: H. Omont, Catalogue général des manuscrits des bibliothèques publiques de France. Départements, I, Rouen, Paris, 1886, p. 33 (ix). The same date is proposed by G. Nortier, Les bibliothèques médiévales des abbayes bénédictines de Normandie, Paris, 1971 (Bibliothèque d’histoire et d’archéologie chrétiennes, 9), pp. 145 n. 10 and 164; Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), pp. 33-34; Augustin d’Hippone. Vingt-six sermons au peuple d’Afrique, ed. F. Dolbeau, Paris, 1996 (Collection des Études Augustiniennes. Série Antiquité, 147), p. 534. According to Nortier, this manuscript belongs to a small group of ninth-century manuscripts of unknown provenance that arrived in the library of Jumièges after the abbey’s reconstruction in the second quarter of the tenth century. Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), p. 34 signals that Robert de Torigny, abbot of Mont-St.-Michel from 1154 to 1186, also mentions the Bedae adnotationes on the letters of Paul (compare pp. 19-20). Bede’s Augustinian anthology probably circulated in Normandy and the North of Brittany under the name of Adnotationes Bedae etc.

So

St.-Omer, Bibliothèque Municipale, 91 (ix1) Provenance: St.-Omer St.-Bertin Title: Incipit liber collectionum venerabilis B e d e presbyteri ex scriptis beati Augustini episcopi in epistolas beati Pauli apostoli elaboratis (written by a late medieval hand on f. 1). A contemporary hand wrote on f. 120v: Explicit collectio B e d a e presbiteri ex opusculis beati Agustini in epistolas Pauli apostoli.

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Content: frgm. 1-393 + 396-457 (frgm. 396-457 seem to be a later addition [cfr below § 6.b]). Description: M. Michelant, Manuscrits de la bibliothèque de Saint-Omer, Paris, 1861 (Catalogue général des manuscrits des bibliothèques publiques des départements, 3), p. 54 (ix). According to Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), pp. 38-40, this manuscript was written in the first part of the ninth century by about ten copyists. The handwritings are continental, but some of them, he claimed, show signs of insular influence. Wilmart therefore concluded that So was partly written by English monks working in the scriptorium of St.-Bertin. Moreover, a writing error in So (coaetennum instead of coaeternum) led him to assume that So even depended on an eighth-century Anglo-Saxon model: «La vraisemblance est [...], que l’archétype des manuscrits de Saint-Bertin [So and B], fut apporté directement de la côte anglaise, les Anglais n’ayant jamais manqué à Saint-Omer, à cette époque surtout» (p. 36). As a consequence of Wilmart’s remarks, So has been considered for several decades the most important witness of the Collectio. This exceptional status, however, has never been verified on the basis of a comparison of this manuscript’s text with that of the Collectio’s other witnesses. W

Würzburg, Universitätsbibl., Mp. th. f. 63 (ix2/3) Origin: Würzburg? Provenance: Dombibliothek (ff. 2-75v)

Würzburg

Title: Expositio super apostolum (f. 2) Content: frgm. 1-306beginning. This manuscript breaks off before the end of frgm. 306 (explicit on f. 75v: ideo apostolus inde transiens inde veniens, transiens scilicet ad christum). This situation is not due to the loss of folia that were originally present in this manuscript. For frgm. 306 is followed immediately on the same folio by Prudentius’ hymn on Saint Cyprian (Peristephanon 13). Description, date, origin and provenance: B. Bischoff, J. Hofmann, Libri sancti Kyliani. Die Würzburger Schreibschule und die Dombibliothek im VIII. und IX. Jahrhundert, Würzburg, 1952 (Quellen und Forschungen zur Geschichte des Bistums und Hochstifts Würzburg, 6), pp. 34 (no. 31) and 128-129 (no. 109) (ix2/3); R. Kurz, Die handschriftliche Überlieferung [cfr C], p. 600;

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H. Thurn, Die Pergamenthandschriften der ehemaligen Dombibliothek, Wiesbaden, 1984 (Die Handschriften der Universitätsbibliothek Würzburg, 3.1), pp. 46-47 (ix2/3). F

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, San Marco 648 (ix-xi) Provenance: (1) the library of Niccolò Niccoli, (2) Firenze San Marco (ff. 1v-113v) Title: Excerptio Venerabilis B e d a e ex opusculis sancti Augustini episcopi in epistolas Pauli apostoli (f. 1v) Content: frgm. 1-193 (frgm. 193 has been enlarged with Caes. Arel. serm. 211, 1-2) + 194-207 + frgm. 207bis (= Aug. civ. 13, 23) + 208-393 + 396-457. Description and different datings: M. Oberleitner, Die handschriftliche Überlieferung der Werke des heiligen Augustinus, I, Italien, 2. Verzeichnis nach Bibliotheken, Wien, 1970 (Veröffentlichungen der Kommission zur Herausgabe des Corpus der lateinischen Kirchenväter, 2; Österreichische Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse. Sitzungsberichte, 267), pp. 108-109 (xi); M. L. Tanganelli, A. Manfredi, «28. Biblioteca Medicea Laurenziana, San Marco 648», in Gli umanisti e Agostino. Codici in mostra, ed. D. Coppini, M. Regoliosi, Firenze, 2001, pp. 162-163 (ix-x). For the last dating, compare B. L. Ullman, P. A. Stadter, The Public Library of Renaissance Florence. Niccolò Niccoli, Cosimo de’ Medici and the Library of San Marco, Padova, 1972 (Medioevo e umanesimo, 10), pp. 68 and 152 (ixx). The manuscript has not been included however in B. Bischoff, Katalog der festländischen Handschriften, I, Aachen-Lambach [cfr C].

M

Monte Cassino, 178 (1075-1080) Origin: Monte Cassino Title: Incipit excerptum B e d e presbyteri de diversis opusculis sancti Augustini in epistolis sancti Pauli (p. 1) Content: frgm. 1-258beginning (frgm. 258end-260 are missing) + frgm. 261-457 (including frgm. 394-395; frgm. 370 has been inserted between frgm. 367 and 368). Description, date and origin: Codicum Casinensium manuscriptorum catalogus. Cura et studio monachorum S. Benedicti

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archicoenobii Montis Casini, I, pars 2 (codd. 101-200), Monte Cassino, 1915, p. 262 (xi); F. Newton, The Scriptorium and Library at Monte Cassino. 1058-1105, Cambridge, 1999 (Cambridge Studies in Palaeography and Codicology, 7), pp. 79-89; 365; pl. 128 (p. 365: «second half of the Desiderian period, probably in the second half of the 1070s»). B

Boulogne, Bibliothèque Municipale, 64 (71) (xii in.) Origin: Saint-Omer Saint-Bertin (ff. 72-88) Title: Exceptiones de collectaneo B e d ę in apostolum ex operibus sancti Augustini (f. 72) Content: these folio’s offer the following selection of fragments taken from the Collectio. Rm I Cor II Cor Gal Eph Phil Col I Th II Th

frgm. 3, 6, 7, 10, 11, 15, 22, 32, 34, 43, 48, 47, 55, 60, 65, 71, 75, 79, 80, 83, 89, 92, 93, 99, 116, 110, 119, 121-123 frgm. 151-153, 158-162, 168-172, 174, 178, 182, 184, 190, 185, 195-197, 200, 202, 208-211, 215, 216, 219 frgm. 236, 242-244, 247, 250, 251, 255, 257, 258, 260 frgm. 269, 284, 285, 287, 290, 293, 299, 303, 305-307 frgm. 313, 315, 321, 389, 325, 327-329, 381, 330, 331, 337, 338 frgm. 346, 347 frgm. 374 frgm. 390, 391 frgm. 393.

Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), p. 38 erroneously states: «[le texte] correspond à la principale partie des extraits de Bède pour la première Épître aux Corinthiens». Description, date and provenance: A. Gérard, Catalogue des livres manuscrits et imprimés composant la bibliothèque de la ville de Boulogne-sur-Mer, s.l., 18442, pp. 56-58 (xii ex.); H. Michelant, Manuscrits de la bibliothèque de Boulogne-sur-Mer, Paris, 1872 (Catalogue général des manuscrits des bibliothèques publiques des départements, 4), pp. 613-614 (xi); Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), p. 38 (xii in.). Sc1

Schaffhausen, Ministerialbibl., 64 (xii1/2) Origin: Southeast Germany provenance: Allerheiligen (ff. 1v-102v)

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Title: Incipiunt deflorationes B e d ę presbyteri de libris sancti Augustini (f. 9) Content: frgm. 1-393 (without frgm. 307, 313, 314, 322, 326, 336, 341, 351, 354, 359, 366, 367 and 385 from the start; frgm. 337 and 338 in inverted order; frgm. 123end-128beginning have fallen out due to the loss of folia between ff. 40v and 41) Description, date, origin and provenance: R. Gamper, G. Knoch-Mund, M. Stähli, Katalog der mittelalterlichen Handschriften der Ministerialbibliothek Schaffhausen, Zürich, 1994, pp. 163-164. Compare A. Bruckner, Schreibschulen der Diözese Konstanz. Kloster Allerheiligen in Schaffhausen, Genf, 1952 (Scriptoria Medii Aevi Helvetica. Denkmäler Schweizerischer Schreibkunst des Mittelalters, 6), p. 110 (origin: Schaffhausen; xii1/2); A. Butz, W. Augustyn, Katalog der illuminierten Handschriften des 11. und 12. Jahrhunderts aus dem Benediktinerkloster Allerheiligen in Schaffhausen, Stuttgart, 1994 (Denkmäler der Buchkunst, 11), p. 60 (n° 52) (origin: Schaffhausen; xii1/2); S. Janner, R. Jurot, Die handschriftliche Überlieferung der Werke des heiligen Augustinus, IX, Schweiz, 1. Werkverzeichnis, Wien, 2001 (Veröffentlichungen der Kommission zur Herausgabe des Corpus der lateinischen Kirchenväter, 19; Österreichische Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse. Sitzungsberichte, 688), p. 55. Sc2

Schaffhausen, Ministerialbibl., 65 (xii) Origin and provenance: Schaffhausen, Allerheiligen (once in the possession of the Dombibliothek at Konstanz) (ff. 2-101) Title: Defloratio B e d e presbyteri de libris Augustini episcopi excerpti [sic] (f. 2) Content: frgm. 1-393 (without frgm. 307, 313, 314, 322, 326, 336, 341, 351, 354, 359, 366, 367 and 385; frgm. 337 and 338 in inverted order) Description, date, origin and provenance: Gamper, Knoch-Mund, Stähli, Katalog der mittelalterlichen Handschriften [cfr Sc1], pp. 164-165. Compare Bruckner, Schreibschulen der Diözese Konstanz [cfr Sc1], p. 66 («[...] könnte um 1200 hergestellt sein. Nach dem Besitzervermerk auf F. 101v episcopi Constantiensis [15. Jh.] befand sich der Codex jedenfalls damals im Besitz des

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Konstanzer Bischofs»); Janner, Jurot, Die handschriftliche Überlieferung [cfr Sc1], p. 55. V

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. lat. 102 (between 1474 and 1482) (ff. 233-408v) Title: Excerptio [exceptio Va.c.] venerabilis B e d e ex opusculis sancti Augustini episcopi in epistolas Pauli apostoli incipit (f. 233) Content: frgm. 1-193 (frgm. 193 has been enlarged with Caes. Arel. serm. 211, 1-2) + 194-207 + frgm. 207bis (= Aug. civ. 13, 23) + 208-393 + 396-457. μ

μ

Description: C. Stornajolo, Codices Urbinates latini, I, Codices 1-500, Roma, 1902 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti), pp. 121-122. Terminus post quem is 1474, for the words Friderici Ducis Vrbini on f. 1 imply that the manuscript was written after Federico’s rise to the status of duke on 23 August 1474. Compare A. C. de la Mare, «New Research on Humanistic Scribes in Florence», in Miniatura fiorentina del Rinascimento. 1440-1525. Un primo censimento, I, ed. A. Garzelli, Firenze, 1985, pp. 393-600 (esp. p. 450); M. Peruzzi, Cultura potere immagine. La biblioteca di Federico di Montefeltro, Urbino, 2004 (Collana di Studi e Testi, 20), p. 71, n. 34. Terminus ante quem is given by Federico’s death in 1482. It is striking that the above list of the Collectio’s direct witnesses does not contain any manuscript of English origin. This observation requires further comment: (a) The transmission of the Collectio is in this respect not exceptional: other Anglo-Saxon Latin texts have been preserved solely in continental codices. This phenomenon has often been explained with reference to the decline of Latin culture in ninth-century England61. (b) The Collectio must have circulated to some extent in England during the later Middle Ages. The Glastonbury catalogue of 1247/1248 mentions an Excerpcio Bede de opusculis Augustini in epistolis Pauli contra Vque

61 Cfr M. Lapidge, «Latin Learning in Ninth-Century England», in AngloLatin Literature. 600-899, ed. M. Lapidge, London – Rio Grande, 1996, pp. 409-454 (esp. pp. 417-425). Compare the quotation in n. 65.

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hereses (no. 97)62. This title impossibly refers to a version of Florus’ commentary that was ascribed to Bede63, but must refer to the Collectio itself: not only does the title’s first part (Excerpcio [...] Pauli) correspond with the title of the Collectio in the manuscript F (f. 1v: Excerptio Venerabilis Bedae ex opusculis sancti Augustini episcopi in epistolas Pauli apostoli) and V, but also its second part (contra Vque hereses) refers without any doubt to the title of the Collectio’s first fragment (ex libro contra quinque hereses = Quodvultdeus serm. 10, 5)64. It cannot be excluded, however, that the Glastonbury manuscript was actually derived from a continental tradition that had made its way back across the Channel, e.g. in the wake of the Norman conquest of England65. 5. The genealogical relationships of the Collectio’s witnesses a. Preliminary remarks 1. Some old witnesses of the Collectio were written on the continent in the area of the eighth-century Anglo-Saxon mission: namely manuscript W, which is thought to have been written 62 Cfr R. Sharpe, J. P. Carley, R. M. Thomson, A. G. Watson, English Benedictine Libraries. The Shorter Catalogues, London, 1996 (Corpus of British Medieval Library Catalogues, 4), p. 179 (cfr pp. 167-169 for general information on this catalogue). The older catalogues of Glastonbury do not mention a Pauline commentary that is attributed to Bede (cfr pp. 157-167). 63 The catalogues of medieval English libraries often mention Pauline commentaries attributed to Bede, but it cannot be excluded that in these cases Florus’ commentary is hinted at (I checked all attestations of a Pauline commentary attributed to Bede or Florus in volumes 1-13 of the Corpus of British Medieval Library Catalogues [1990-2008]). 64 Florus’ Pauline commentary starts with a fragment from De spiritu et littera 7, 12 (CSEL, 60, p. 163, l. 24 – p. 164, l. 16). It also contains Quodvultdeus serm. 10, 5, but quotes this passage only in tenth position. Cfr PL, 119, coll. 279-280. 65 Compare Lapidge, «Latin Learning» (cit. n. 61), p. 424 on the transmission of Bede’s exegetical works: «Generalisations are bound to be misleading, but it would seem that, with the exception of the Commentary on Proverbs [...], all Bede’s exegetical writings were preserved in continental libraries during the ninth century, and needed to be imported in the tenth century. [...] It is only from the late eleventh century onwards that copies of these writings begin to multiply in English libraries, probably at the insistence of Norman ecclesiastics».

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in the vicinity of Würzburg sometime between 830 and 860, as well as Hrabanus Maurus’ commentaries on the letters of Saint Paul (hrab), which probably originated in Fulda before 84266. In light of the frequent requests for Bedan manuscripts addressed to Anglo-Saxon scriptoria by Boniface and his collaborator/successor Lull67, only few intermediate sources may have separated W and hrab from models of Anglo-Saxon origin68. 2. Manuscript F, which has been variously dated between the ninth and the eleventh century, contains the Collectio (ff. 2v-113v) as well as some works of Augustine (ff. 114-167). Its place of origin is unknown, but the codex already belonged to the manuscript collection of Niccolò Niccoli (1365-1437)69 in 142470. After the humanist’s death, it found its way through Cosimo de’ Medici (1389-1464) to the public library of the Florentine Dominican monastery of San Marco (cfr f. 1v: Conventus Sancti Marci de Florentia ordinis praedicatorum. Ex hereditate Nicolai de Nicolis 66

Cfr n. 38. For Boniface, cfr epist. 75 (746-747; to Ecberth of York, disciple of Bede; Epist. sel. 1, p. 158); 76 (746-747; to Huetberht of Wearmouth; Epist. sel. 1, p. 159); 91 (747-754; again to Ecberth of York; Epist. sel. 1, p. 207). For Lull, cfr epist. 125 (767-778; to Coena of York; Epist. sel. 1, p. 263); 126 (764786; to Cuthbert of Wearmouth and Jarrow; Epist. sel. 1, p. 264). Compare H. Schüling, «Die Handbibliothek des Bonifatius. Ein Beitrag zur Geistesgeschichte der ersten Hälfte des 8. Jahrhunderts», Archiv für Geschichte des Buchwesens, 4 (1962), coll. 285-348 (esp. coll. 317-319 and 340-342). 68 For the strong Anglo-Saxon influence on the library and scriptorium of Fulda, cfr P. Lehmann, «Die alte Klosterbibliothek Fulda und ihre Bedeutung», in Erforschung des Mittelalters. Ausgewählte Abhandlungen und Aufsätze, ed. P. Lehmann, Leipzig, 1941, pp. 213-231 (passim). According to the Vita Bonifatii by Willibald of Mainz (ca. 760), the personal library of Boniface even ended up in the monastery of Fulda (MGH, SS rer. Germ. 57, p. 51). Compare M. A. Aris, «Der Trost der Bücher. Bonifatius und seine Bibliothek», in Bonifatius. Vom angelsächsischen Missionar zum Apostel der Deutschen, edd. M. Imhof, G. K. Stasch, Petersberg, 2004, pp. 95-110 (esp. pp. 97-99: presence of works of Bede in Boniface’s library; p. 99: arrival of Boniface’s books in the library of Fulda). 69 For Niccolò Niccoli’s interest in manuscripts containing the works of Augustine, cfr A. Manfredi, «S. Agostino, Niccolò Niccoli e la biblioteca di San Marco», in Gli umanisti e Agostino [cfr F], pp. 79-86. 70 The manuscript is mentioned as property of Niccolò Niccoli in a letter of Ambrogio Traversari of 27 February 1424 (epist. 8, 12). cfr M. L. Tanganelli, A. Manfredi, «28. Biblioteca Medicea Laurenziana, San Marco 648» [cfr F], p. 162. 67

THE VENERABLE BEDE ’ S COMMENTARY

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viri famosi de Florentia). Its version of the Collectio served in all probability as a model for the ff. 233-408v of codex Vaticanus Urb. lat. 102 (V). The latter was written between 1474 and 1482 by a scribe from the entourage of bookseller Vespasiano da Bisticci (1421-1498)71, who provided the library of Federico da Montefeltro (1422-1482)72 with several manuscripts that were copied from models from the library of San Marco73. The dependence of V on F also emerged from a detailed comparison of their global composition, titles and text. For this reason, I have excluded manuscript V from further consideration. 3. The descriptions given above in § 4 prove that the two twelfthcentury codices from the monastery of Allerheiligen in Schaffhausen (Sc1.2) are closely related. For this reason, I have excluded the youngest of them (Sc2) from further consideration too. From now on, I will refer to Sc1 by means of the simple abbreviation Sc. b. A provisional stemma codicum This paragraph will present a first, provisional, stemma codicum for the manuscripts C O1.2 R So W F M B Sc. It will also take into account the testimony of Hrabanus Maurus. My stemmatic research was based on full collations of the manuscripts C O1.2 R So F M B made by Bertrand Coppieters ’t Wallant. For the codices W Sc, I have only checked the presence or absence of readings sug71 cfr A. de la Mare, «New Research on Humanistic Scribes in Florence» [cfr V], pp. 449, 463-464 and 550-551 (no. 99); Id., «Vespasiano da Bisticci e i copisti fiorentini di Federico», in Federico di Montefeltro. Lo stato, le arti, la cultura, III, La cultura, edd. G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani, Roma, 1986 (Biblioteca del Cinquecento. Centro studi sulle società di antico regime. Europa delle Corti, 30), pp. 81-96 (esp. p. 89 + n. 37). 72 For the role of Vespasiano da Bisticci and Florence in the development of the library of Federico da Montefeltro, cfr also M. Peruzzi, «Cultura potere immagine» [cfr V], pp. 59-78; Id., «The Library of Glorious Memory: History of the Montefeltro Collection», in Federico da Montefeltro and his Library, ed. M. Simonetta, Milano, 2007, pp. 29-39 (passim). 73 Cfr M. Moranti, «Organizzazione della biblioteca di Federico da Montefeltro», in Federico di Montefeltro. Lo stato, le arti, la cultura, III (cit. n. 71), pp. 19-49 (esp. pp. 32-33); C. Martelli, «The Production of Illuminated Manuscripts in Florence and Urbino», in Federico da Montefeltro and his Library (cit. n. 72), pp. 41-49 (esp. p. 41).

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gested by the other manuscripts74. When checking the lists of significant variant readings at the end of this paragraph, the reader should keep in mind that variant readings in biblical quotations and (most) titles have not been taken into account. Correct readings were distinguished from erroneous ones on the basis of the testimony of the modern critical editions of the Augustinian texts involved (aug). This means that my conclusions rest on two presuppositions: (1) The Collectio’s earliest transmission was not contaminated through collation with direct witnesses of the Augustinian texts quoted – or at least not to a degree that would render a Lachmannian approach impossible. (2) At the places where groups of manuscripts are characterised by significantly different readings, Bede’s Augustinian manuscripts corresponded with the reading of the modern editions of the quoted texts. I am aware of the fact that Bede’s source manuscripts each belonged to a specific branch of the transmission of the Augustinian works involved and that their text by consequence was not identical to that of the modern editions. Moreover, I have absolutely no intention of editing the fragments contained in Bede’s Collectio according to the modern editions of the Augustinian works quoted. However, the criterium by which I have chosen to distinguish correct readings from erroneous ones seems to be justified by the fact that it resulted in the discovery of certain patterns in the distribution of erroneous readings which recur throughout the Collectio with a rather high frequency and which are paralleled in the distribution of other distinctive traits, such as the presence/absence of added/ eliminated fragments. Since the frgm. 394-395 do not occur in C O1.2 R So W F B Sc and the numbers 396-457 are absent from C O1.2 W B Sc, significant variant readings were searched for in frgm. 1-393 only. Further research on the stemmatic relations between the parts of R So F M that contain frgm. 396-457, proved extremely difficult. In any case, it did not simply confirm the results obtained for the parts of these manuscripts containing the series 1-393. However, for reasons that will become clear in § 6.b, this discontinuity

74 Because of the strong links between C and Sc (cfr below list 2) and the lack of errors suggesting a special relationship between C and W, I have not searched for variants common to W and Sc.

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does not necessarily falsify the stemmatic conclusions obtained for frgm. 1-393. The distribution of significant errors proves that R F (list 1), C Sc (list 2) and O1.2 So W M B (list 3) constitute three groups of closely related manuscripts. For the groups R F and C Sc, this relationship is possibly mirrored in the specificities of their composition: C Sc have both omitted frgm. 359, while R F do not only contain a version of frgm. 193 that has been enlarged with a part of the rare sermon 211 of Caesarius of Arles (§§ 1-2: CC SL, 104, p. 841, ll. 14-23)75, but have also inserted an extra fragment (stemming from Aug. civ. 13, 23 [CC SL, 48, p. 408, ll. 113-120]) between frgm. 207 and 208. While the latter could be a fragment that belonged to the Collectio’s original text76 – which would imply that its absence is a distinctive trait of C Sc + O1.2 So W M B – the addition of Caes. Arel. serm. 211, 1-2 has less chance of being authentic77. I have not yet been able to clarify the precise relationships between the three groups. At a few places, R F share a reading with aug against the manuscripts C Sc and O1.2 So W M B (list 4). These cases, however, are not sufficient proof for establishing a bipartite stemma with R F as one branch and C Sc + O1.2 So W M B as the other. The same goes for a number of places where O1.2 So M (to the exclusion of W [!], while B does not contain the fragments involved) correspond with aug against the manuscripts R F and C Sc (together with W [!]) (list 5). Again, these cases do not provide sufficient proof for a bipartite stemma, this time with R F + C Sc on one side and O1.2 So M B on the other. There seem to be a few more instances which suggest that C Sc constitute a first branch of a bipartite stemma and R F + O1.2 So M B a second one (list 6 [with several cases where W corresponds with C Sc aug in a correct reading!]). However, since there is not enough clear evidence in favour of a clear cut 75 For this sermon’s rare transmission, cfr J. Lemarié, «Trois sermons fragmentaires inédits de saint Césaire d’Arles conservés à l’«arxiu capitular» de Vich», Revue Bénédictine, 88 (1978), pp. 92-110 (esp. pp. 94-96). 76 The fragment has been considered authentic by Hurst, Excerpts from the Works of Saint Augustine (cit. n. 13), p. 158. 77 Frgm. 193 and 402 would be the only fragments in the Collectio to combine under one title sentences from different works (frgm. 402 combines serm. 176, 3-4 with serm. 299, 6).

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bipartite transmission, the stemma I propose below leaves open all possible relationships between the three groups that can be identified with certainty. Since O1.2 So B share errors at places where W M and the other manuscripts offer a correct reading (list 7), one could be tempted to postulate α as a hyparchetype of O1.2 So B. However, since W or M also shares errors with O1.2 So B at places where M or W has a correct reading in common with the other manuscripts (lists 8 and 9), it cannot be excluded that one or even both of them offer a corrected text. In light of what will be said below in § 6.a concerning fragment(s) 394 (and 395), the latter seems quite probable for M. The possibility that W or/and M offer(s) a corrected text, makes it difficult to determine with certainty their precise stemmatical position in relation to α. Ω

α (?)

RF

C Sc

W

M

O1.2So B

Since it has not yet been clarified to what degree Florus’ Expositio depends on Bede’s Collectio78 and a thorough description of Florus has errors in common with the group O1.2 So M B for some fragments he certainly borrowed from the Collectio. A few examples: Frgm. 34: epist. 157, 18 – CSEL, 44, p. 466, l. 22 in nemine C R W F aug hrab] om. O1.2 a.c. So Ba.c., non O2 p.c. M Bp.c. flor, in nullo Sc ║ 19 – p. 467, 78

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the Romans commentary attributed to Helisachar is still lacking, I have limited for the moment my stemmatic study of the indirect witnesses to the testimony of Hrabanus Maurus’ Pauline commentaries. This work’s dependence on the Collectio has been described in detail by Silvia Cantelli Berarducci. The lists given below show that Hrabanus Maurus’ source did certainly not belong to the branches formed by R F, C Sc, and O1.2 So W M B.

List 1 Frgm. 21: in psalm. enarr. 31, 2, 3 (CC SL, 38, p. 226, l. 10) etiam C O1.2 So W M Sc aug hrab] om. R F, def. B ║ Frgm. 25: praed. sanct. 19 (PL, 44, col. 975, l. 16) vero est C O1.2 So W M Sc aug] evero Ra.c., vero Rp.c., est vero F, def. B hrab ║ Frgm. 38: c. Iulian. op. imperf. 2, 148 (CSEL, 85.1, p. 271, l. 24) codex tibi C O1.2 So W M Sc aug] tibi codex R F, def. B hrab ║ Frgm. 41: epist. 157, 16 (CSEL, 44, p. 464, l. 17) infirmitati C O1.2 Rp.c. So W M Sc aug hrab] infirmitatis Ra.c.F, def. B ║ Frgm. 54: quaest. Simpl. 1, 1, 3 (CC SL, 44, p. 9, l. 50) alio C O1.2 So W M Sc aug hrab] et praem. R F, def. B ║ Frgm. 70: serm. 156, 14 (CC SL, 41Ba, p. 156, l. 349) servitutis1 C O1.2 So W M Sc aug hrab] in timore add. R F, def. B ║ Frgm. 71: divers. quaest. 67, 3 (CC SL, 44A, p. 167, l. 61) fuit C O1.2 So W M Sc aug hrab] om. R F, def. B ║ Frgm. 121: de serm. dom. 2, 18, 59 (CC SL, 35, p. 155, l. 1368) bono C O1.2 So W M B Sc aug] om. R F, def. hrab ║ Frgm. 125: in psalm. enarr. 78, 3 (CC SL, 39, p. 1101, l. 44) idem C O1.2 So W M aug] om. R F, def. B Sc hrab ║ Frgm. 184: serm. 229, 1 (MiAg, 1, p. 30, l. 9) quod – sumus C O1.2 So

ll. 10-12 regnavit-Adae C R F Sc aug hrab] om. per hom. O1.2 So W M B flor ║ ll. 12-13 est melior R W F M aug hrab] melior est C Sc, melior O1.2 So B flor ║ l. 17 eorum C R W F Sc aug hrab] horum O1.2 So M B flor ║ Frgm. 44: enchir. 14, 52 – CC SL, 46, p. 78, l. 88 totum C R F Sc aug hrab] om. O1.2 So W M flor, def. B ║ Frgm. 46: serm. 228A – Rev. Bén., 84 (1974), p. 263, ll. 10-11 in resurrectione vita iustorum C R F Sc aug] om. per hom. O1.2 So W M flor, def. B hrab ║ Frgm. 47: in evang. Ioh. 41, 12 – CC SL, 36, p. 364, l. 13 dicere C R F Sc aug hrab] om. O1.2 So W M B flor ║ Frgm. 70: serm. 156, 10 – CC SL, 41Ba, p. 152, ll. 280-281 non-vivunt C R W F Sc aug hrab] om. per hom. O1.2 So M flor, def. B ║ 15 – p. 158, l. 378 ponere C R W (pone Wa.c.) F Sc aug hrab] dicere O1.2 So M flor, def. B ║ Frgm. 72: c. Secundin. 8 – CSEL, 25.2, p. 916, l. 20 dicit C R W F Sc aug] om. O1.2 So M flor, def. B hrab.

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GERT PARTOENS

W M B Sc aug hrab] om. R F ║ 2 (l. 29) simul2 C O1.2 So W M B Sc aug hrab] quia praem. R F ║ Frgm. 188: anim. 1, 17, 27 (CSEL, 60, p. 328, l. 8) et1 C O1.2 So W M Sc aug hrab] om. R F, def. B ║ Frgm. 248: c. Faust. 11, 8 (CSEL, 25, p. 326, l. 4) non C O1.2 So W M Sc aug hrab] om. R F, def. B ║ Frgm. 265: epist. 82, 7 (CSEL, 34.2, p. 357, l. 14) in2 C O1.2 So W M Sc aug] om. R F, def. B hrab ║ Frgm. 271: c. Faust. 14, 4 (CSEL, 25, p. 406, l. 2) et1 O1.2 So W M aug hrab] om. C Sc, christum add. R F, def. B ║ Frgm. 272: in evang. Ioh. 108, 5 (CC SL, 36, p. 617, l. 7) docente C O1.2 Rp.c. So W M Sc aug hrab] dicente Ra.c F, def. B ║ Frgm. 282: civ. 22, 2 (CC SL, 48, p. 807, l. 19) dicitur C O1.2 So W M Sc aug] dicit R F, def. B hrab ║ Frgm. 290: serm. 3 (Rev. bén., 84 (1974), p. 250, l. 15) ibi C O1.2 So W M Scin marg. aug] om. R F, def. B hrab ║ Frgm. 306: serm. 160, 6 (PL, 38, col. 877, ll. 2-4) qui – occultabatur C O1.2 So M Sc aug] om. per hom. R F, def. W B hrab ║ Frgm. 310: in evang. Ioh. 44, 1 (CC SL, 36, p. 381, l. 16) dicit C O1.2 So M Sc aug] om. R F, def. W B hrab ║ l. 17 et1 C O1.2 So M aug] inquit praem. R F, enim praem. Sc, def. W B hrab ║ Frgm. 312: praed. sanct. 19 (PL, 44, col. 975, l. 2) gratia est C O1.2 So M aug] est gratia R F, def. W B Sc (lacuna) hrab ║ Frgm. 315: epist. 140, 63 (CSEL, 44, p. 210, l. 5) optet O1 So aug] potest C Sc, oportet O2 M, putet R F, def. W B hrab ║ l. 19 molestiae C O1.2 So M Sc aug] molesti R F, def. W B hrab ║ Frgm. 321: civ. 22, 15 (CC SL, 48, p. 834, l. 13) in C O1.2 So M B Sc aug] om. R F, def. W hrab ║ Frgm. 344: divers. quaest. 73, 2 (CC SL, 44A, p. 211, ll. 57-58) ab illo est C O1 So M Sc aug hrab] est ab illo R F, def. O2 W B ║ Frgm. 378: serm. 362, 23 (PL, 39, col. 1627, l. 33) carnem2 C O1 So M Sc aug hrab] spiritum vel praem. R F, def. O2 W B ║ Frgm. 381: bapt. 4, 5, 7 (CSEL, 51, p. 229, l. 5) malum sit C O1 So B Sc aug hrab] sit malum R F, def. O2 M W ║ Frgm. 393: civ. 20, 19 (CC SL, 48, p. 732, l. 73) populum C So M B Sc aug hrab] spiritum R F, def. O1.2 W ║ faciat C So M B aug hrab] faciet R F, facit Sc, def. O1.2 W

List 2 deest fragmentum CCCLIX in C Sc ║ Frgm. 1: Quodvultdeus serm. 10, 5, 4 (CC SL, 60, p. 277, l. 20) sequendus O2 R So W F M quodvultdeus] secundus O1, querendus C Sc, def. B hrab ║ Frgm. 3: de serm. dom. 1, 17, 51 (CC SL, 35, p. 59, l. 1264) suades O1.2 R So W F M B aug hrab] persuades

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C Sc ║ Frgm. 11: serm. 9Dolb., 2 (Vingt-six sermons, p. 32, l. 65) de mendace veracem O1.2 R So F W M B aug hrab] om. C Sc ║ Frgm. 20: serm. 2, 9 (CC SL, 41, p. 16, l. 231) alio O1.2 R So W F M aug] in praem. C Sc, def. B hrab ║ l. 250 iustificari homo O1.2 R So W F M aug hrab] homo iustificari C Sc, def. B ║ Frgm. 33: c. Iulian. op. imperf. 2, 63, 1 (CSEL, 85.1, p. 209, l. 9) peccatum O1.2 R So W F M aug hrab] nam dicit add. Csup. lin. Sc, def. B ║ Frgm. 34: epist. 157, 19 (CSEL, 44, p. 467, ll. 12-13) est melior R W F M aug hrab] melior est C Sc, melior O1.2 So B ║ Frgm. 37: c. Iulian. op. imperf. 2, 69, 2 (CSEL, 85.1, p. 213, l. 16) etiam in his inquit O1.2 R So W F M aug] inquit etiam in his C Sc, def. B hrab ║ Frgm. 53: serm. 153, 8 (CC SL, 41Ba, p. 62, l. 186) enim2 O1.2 R So W F M aug] autem C Sc, namque hrab, def. B ║ Frgm. 54: quaest. Simpl. 1, 1, 5 (CC SL, 44, p. 11, l. 82) quam O1.2 R So W F M aug] quia iam C Sc hrab, def. B ║ Frgm. 65: c. Faust. 14, 5 (CSEL, 25.1, p. 406, l. 20) traduce Ca.c. O1.2 R So W Fp.c. M B aug hrab] radice Cp.c. Sc, traducere Fa.c. ║ l. 23 erat Ca.c. O1.2 R So W F M B aug hrab] et add. Cp.c. Sc ║ Frgm. 66: serm. 155, 12 (CC SL, 41Ba, p. 124, l. 295) sunt Ca.c. O1.2 R So W F M aug hrab] et add. Cp.c. Sc, def. B ║ Frgm. 77: praed. sanct. 19 (PL, 44, col. 975, l. 15) bono O1.2 R So W F M aug hrab] bona C Sc, def. B ║ Frgm. 88: quaest. Simpl. 1, 2, 3 (CC SL, 44, p. 26, l. 58) illi O1.2 R So W F M aug hrab] qui add. C Sc, def. B ║ Frgm. 113: conf. 13, 22, 32 (CC SL, 27, p. 260, ll. 5-6) adiunxisti O1.2 R Sop.c. W F M aug] iunxisti C Sc, adiuxisti Soa.c., def. B hrab ║ Frgm. 132: serm. 22Dolb., 4 (Vingt-six sermons, p. 555, l. 67) imperitos impolitos O1 R So W F M aug hrab] imperitos C Sc, imperitos et impolitos O2, def. B ║ Frgm. 143: in evang. Ioh. 85, 3 (CC SL, 36, p. 540, l. 36) enim O1.2 R So W F M aug hrab] om. C Sc, def. B ║ Frgm. 151: civ. 21, 26 (CC SL, 48, p. 797, l. 43) calamitates O1.2 R So W F M B aug hrab] calamitas C Sc ║ Frgm. 159: in psalm. enarr. 86, 4 (CC SL, 39, p. 1201, l. 20) primo Ca.c. O1.2 R So W F M B aug hrab] primum Cp.c. Sc ║ Frgm. 165: trin. 6, 3, 4 (CC SL, 50, p. 232, l. 21) diversum Ca.c. O1.2 R So W F M aug hrab] diversa Cp.c. Sc, def. B ║ Frgm. 167: trin. 14, 14, 20 (CC SL, 50A, p. 448, l. 85) naturarum Ca.c. O1.2 R So W F M aug hrab] naturali Cp.c. Sc, def. B ║ Frgm. 168: serm. 162, 2 (PL, 38, col. 887, l. 39) efficitque O1.2 R So F W M B aug hrab] efficiat C, efficit Sc ║ Frgm. 171: serm. 354A (Rev. Bén., 84 (1974), p. 267, no. 46, l. 8) timuit poenas aeternas Cp.c. O1.2 R So W F (timuit om. F) M B aug hrab] om. Ca.c. Sc ║ Frgm. 172: de

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GERT PARTOENS

serm. dom. 1, 14, 39 (CC SL, 35, p. 42, l. 909) non O1.2 R So F W M B Scp.c. (post uxor) aug hrab] om. C Sca.c. ║ Frgm. 180: c. Faust. 6, 2 (CSEL, 25.1, p. 285, l. 26) ipse O1.2 R So W F M aug hrab] ille C Sc, def. B ║ Frgm. 183: c. adv. leg. 1, 19, 38 (CC SL, 49, p. 69, ll. 1027-1028) se iam O1.2 R So W F M aug hrab] iam se C Sc, def. B ║ l. 1029 ut O1.2 R So W F aug hrab] ad C Sc, om. M, def. B ║ Frgm. 184: serm. 229, 2 (MiAg, 1, p. 30, l. 21) diligendo vos O1.2 R So W F M B aug hrab] om. per hom. C Sc ║ Frgm. 200: civ. 22, 29 (CC SL, 48, p. 857, l. 41) fidei nobis O1.2 R So W F M aug hrab] nobis fidei C Sc, om. B (lacuna) ║ Frgm. 214: epist. 205, 2, 13 (CSEL, 57, p. 334, l. 2) nostra corpora O1.2 R So W F M aug hrab] corpora nostra C Sc, def. B ║ Frgm. 228: trin. 15, 8, 14 (CC SL, 50A, p. 480, ll. 31-32) a deformi Ca.c. O1.2 R So W F M aug hrab] adam Cp.c. Sc, def. B ║ Frgm. 236: trin. 14, 17, 23 (CC SL, 50A, p. 454, l. 20) igitur O1.2 R So W F M B aug hrab] ergo C Sc ║ p. 455, l. 23 cupiditatem O1.2 R So W F M B aug hrab] cupiditatibus C Sc ║ Frgm. 259: serm. 61A, 4 (CC SL, 41Aa, p. 284, l. 58) carnis O1.2 R So W (carni) F aug hrab] om. C Sc, def. B M ║ Frgm. 264: de mend. 12, 26 (CSEL, 41, p. 506, ll. 1-2) quamvis - simulate O1.2 R So W F M aug] om. C Sc, def. B hrab ║ Frgm. 265: epist. 82, 2, 7 (CSEL, 34.2, p. 356, ll. 20-21) ipse paulus O1.2 R So F M aug] paulus ipse C W Sc, def. B hrab ║ Frgm. 266: epist. 186, 2, 4 (CSEL, 57, p. 48, l. 20) nisi ipsa dilectio dei diffunderetur O1.2 R So W F M aug] om. C Sc, def. B hrab ║ Frgm. 271: c. Faust. 14, 4 (CSEL, 25.1, p. 405, l. 25) ex peccato tamen O1.2 R So W F M aug hrab] exspectatum C, et peccatum Sc, def. B ║ p. 406, l. 2 et1 O1.2 So W M aug hrab] om. C Sc, christum add. R F, def. B ║ l. 3 et1 O1.2 R So W F aug hrab] om. C M Sc, def. B ║ c. Faust. 14, 6 (p. 408, l. 7) a O2 R So W F M aug hrab] om. C Sc, autem O1, def. B ║ Frgm. 273: serm. 156, 4 (CC SL, 41Ba, p. 141, l. 115) humiliaretur cervix O1.2 R So F M aug] cervix humiliaretur C W Sc, def. B hrab ║ Frgm. 283: gen. ad litt. 4, 9 (CSEL, 28.1, p. 106, l. 8) eum O1.2 R So W F M aug] om. C Sc, def. B hrab ║ l. 10 praestitit O1.2 R So W F M aug] praestitisses C, praestitisset Sc, def. B hrab ║ l. 12 sinere O1.2 R So W F M aug] sine C Sc, def. B hrab ║ l. 13 ille O1.2 R So W F M aug] om. C Sc, def. B hrab ║ Frgm. 284: enchir. 21, 79 (CC SL, 46, p. 93, l. 56) eo O1.2 R So W F M B aug hrab] et C Sc ║ Frgm. 292: epist. 82, 2, 15 (CSEL, 34.2, p. 365, ll. 10-11) consumeretur O1.2 R So W F M aug hrab] consummaretur C Sc, def. B ║ Frgm. 293: c. Faust. 16, 22 (CSEL, 25.1, p. 465, l. 21) scribentis O1.2 R So W F M B aug hrab] subscriben-

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tis C Sc ║ Frgm. 299: civ. 14, 2 (CC SL, 48, p. 416, l. 58) tunc O1.2 R So W F M B aug hrab] om. C Sc ║ l. 59 hac O2 R So W F B aug hrab] hoc O1 M, om. C Sc ║ Frgm. 309: in psalm. enarr. 30, 2, serm. 2, 13 (CC SL, 38, p. 211, l. 30) ille O1.2 R So F M aug hrab] velle C, vel Sc, def. W B ║ Frgm. 310: in evang. Ioh. 44, 1 (CC SL, 36, p. 381, ll. 15-16) quando – quandoquidem O1.2 R So F M aug] om. C Sc, def. W B hrab ║ Frgm. 315: epist. 140, 63 (CSEL, 44, p. 210, l. 5) optet O1 So aug] potest C Sc, oportet O2 M, putet R F, def. W B hrab ║ 64 (p. 211, l. 12) quo modo voluit mortuus est O1.2 R So F Mp.c. aug] om. per hom. C Ma.c. Sc, def. W B (lacuna) hrab ║ ll. 17-18 usque ad terram O1.2 R So F M B aug] ad terram usque C Sc, def. W hrab ║ Frgm. 317: serm. 268, 2 (PL, 38, col. 1232, l. 35) unus spiritus aug] unitas spiritus O1.2 R So F M (cfr. notam Maurinorum: «In Mss., sed unitas spiritus»), unitas sanctus C, unitas sancta Sc, def. W B hrab ║ Frgm. 319: epist. 149, 2, 11 (CSEL, 44, p. 359, l. 5) amplexus O1.2 R So F M aug] complexus C Sc, def. W B hrab ║ Frgm. 332: perf. iust. 15, 34 (CSEL, 42, p. 35, l. 16) ergo O1.2 R So F M aug hrab] om. C Sc, def. W B ║ Frgm. 333: c. Faust. 12, 8 (CSEL, 25.1, p. 337, l. 5) agnoscat O1.2 R So F M aug hrab] cognoscat C Sc, def. W B ║ Frgm. 334: in psalm. enarr. 30, 2, serm. 1, 4 (CC SL, 38, p. 193, l. 9) suum O1.2 R So F M aug] unum C Sc, def. B W hrab ║ Frgm. 335: in psalm. enarr. 30, 2, serm. 3, 2 (p. 213, l. 8) ut O1.2 R So F M aug] om. C Sc, def. B W hrab ║ l. 14 inimicos O1.2 So F M aug] esse add. C Sc hrab, etiam add. R, def. W B ║ Frgm. 340: in evang. Ioh. 46, 6 (CC SL, 36, p. 402, l. 40) Paulo apostolo O1.2 R So F M aug hrab] apostolo Paulo C Sc, def. W B ║ Frgm. 346: serm. 131, 3 (Augustiniana, 54 (2004), p. 68, l. 44) etiam O1 R So F B aug hrab] est C, si praem. M, sunt Sc, def. O2 W ║ Frgm. 348: trin. 1, 6, 13 (CC SL, 50, p. 43, l. 116) eo – λατρεύειν O1 R So F M aug hrab] om. per hom. C Sc, def. O2 W B ║ Frgm. 350: epist. 40, 4, 6 (CSEL, 34.2, p. 75, l. 15) post O1 R So F M aug hrab] om. C Sc, def. O2 W B ║ FRGM. 355: in psalm. enarr. 38, 6 (CC SL, 38, p. 407, l. 28) iste O1 R So F M aug] om. C Sc, def. O2 W B hrab ║ FRGM. 362: conf. 13, 26, 41 (CC SL, 27, p. 267, l. 38) datoris O1 R So F M aug hrab] doctoris C Sc, def. O2 W B ║ FRGM. 368: serm. 26Dolb., 21 (Vingt-six sermons, p. 382, l. 476) Iuno Iuno O1 R So F M aug] Iuno C Sc, def. O2 W B hrab ║ l. 478 ut aerem colamus R So F M aug] et add. C Sc, vitae recolamus O1, def. O2 W B hrab ║ Frgm. 377: c. Faust. 11, 7 (CSEL, 25.1, p. 324, l. 23) dilucidissime O1 R So F M aug hrab] lucidissime C Sc, def. O2 W B ║ Frgm. 378:

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GERT PARTOENS

serm. 362, 23 (PL, 39, col. 1627, ll. 40-41) mortuus est ab ebrietate resurrexit in sobrietate aug] om. C Sc, mortua est ebriositas (ebrietas hrab) resurrexit sobrietas O1 R So F M hrab, def. O2 W B ║ Frgm. 383: gen. ad litt. 3, 20 (CSEL, 28.1, p. 87, l. 16) in agnitione O1 R So F aug hrab] imaginem C, in agnitionem M, in imaginem Sc, def. O2 W B ║ Frgm. 393: civ. 20, 19 (CC SL, 48, p. 731, l. 44) dixit O1 R So F M B aug] om. C Sc, def. O2 W hrab

List 3 Frgm. 34: epist. 157, 19 (CSEL, 44, p. 467, ll. 10-12) regnavit – Adae C R F Sc aug hrab] om. per hom. O1.2 So W M B ║ Frgm. 37: c. Iulian. op. imperf. 2, 63 (CSEL, 85.1, p. 210, l. 33) per C R F Sc aug hrab] in O1.2 So W M, def. B ║ l. 34 videtur ambiguum C R F Sc aug hrab] ambiguum O1.2 So W, ambiguum est M, def. B ║ Frgm. 41: epist. 157, 15 (CSEL, 44, p. 463, l. 1) ex C R F Sc aug hrab] ab O1.2 So W M, def. B ║ Frgm. 44: enchir. 14, 52 (CC SL, 46, p. 78, l. 88) totum C R F Sc aug hrab] om. O1.2 So W M, def. B ║ Frgm. 46: serm. 228A (Rev. Bén., 84 (1974), p. 263, ll. 10-11) in resurrectione vita iustorum C R F Sc aug] om. per hom. O1.2 So W M, def. B hrab ║ Frgm. 47: in evang. Ioh. 41, 12 (CC SL, 36, p. 364, l. 13) dicere C R F Sc aug hrab] om. O1.2 So W M B ║ Frgm. 90: civ. 16, 35 (CC SL, 48, p. 540, l. 18) nostrorum C Re corr. F Sc aug] nostrum O1.2 So W M, def. B hrab ║ Frgm. 150: trin. 6, 3 (CC SL, 50, p. 231, l. 4) diversa sentiunt C R F Sc aug hrab] sentiunt diversa O1.2 So W M, def. B ║ Frgm. 151: civ. 21, 26 (CC SL, 48, p. 797, l. 33) secundum hoc C R F Sc (secundum saeculum hoc) aug hrab] hoc secundum O1.2 So W M B ║ Frgm. 152: enchir. 18, 69 (CC SL, 46, p. 87, l. 76) ignem quendam Cp.c. R F Sc aug hrab] quendam ignem Ca.c. O1.2 So W M B ║ Frgm. 158: enchir. 21, 78 (CC SL, 46, p. 93, l. 36) esse C R Wp.c. F Sc aug hrab] om. O1.2 So Wa.c.M B ║ Frgm. 176: de serm. dom. 2, 16, 54 (CC SL, 35, p. 145, l. 1172) hinc C R F aug hrab] hic O1.2 So W M Sc, def. B ║ Frgm. 186: trin. 6, 9 (CC SL, 50, p. 240, l. 38) dicit C R F Sc aug hrab] dicitur O1.2 So W M, def. B ║ Frgm. 219: civ. 13, 23 (CC SL, 48, p. 405, l. 15) in C R F Sc aug] om. O1.2 So W M B, def. hrab ║ Frgm. 228: trin. 15, 8 (CC SL, 50A, p. 479, l. 15) latinam C R F Sc aug] linguam add. O1.2 So W M hrab, def. B ║ Frgm. 232: c. adv. leg. 1, 11, 15 (CC SL, 49, p. 46, l. 337) apostolo C R F Sc aug hrab] apostolus O1.2 So W M, def. B ║ Frgm. 314: gen. ad litt. 5, 19 (CSEL, 28.1,

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p. 162, l. 18) resurrectionem C R F aug hrab] resurrectionis O1.2 So M, def. W B Sc ║ Frgm. 315: epist. 140, 62 (CSEL, 44, p. 207, l. 24) est C R F Sc aug] om. O1.2 So M, def. W B hrab ║ Frgm. 332: perf. iust. 15, 35 (CSEL, 42, p. 36, l. 1) eam C R F Sc aug hrab] eandam O1 M, eadem So O2, def. W B ║ Frgm. 339: in evang. Ioh. 85, 3 (CC SL, 36, p. 540, l. 25) et C R F Sc aug hrab] om. O1.2 So M, def. W B ║ Frgm. 342: divers. quaest. 71, 3 (CC SL, 44A, p. 203, l. 73) libenter C R F Sc aug hrab] om. O1.2 So M, def. W B ║ Frgm. 383: gen. ad litt. 3, 20 (CSEL, 28.1, p. 87, l. 16) lapsum C R F Sc aug hrab] baptismum O1 So M, def. O2 W B

List 4 Frgm. 9: epist. 194, 26 (CSEL, 57, p. 196, l. 20) esse R F aug] om. C O1.2 So W M Sc hrab, def. B ║ Frgm. 125: in psalm. enarr. 78, 3 (CC SL, 39, p. 1101, l. 44) propheta R F aug] phetia Ca.c., prophetia Cp.c. O1.2 So W M, def. B Sc hrab ║ Frgm. 178: divers. quaest. 71, 4 (CC SL, 44A, p. 204, l. 84) alium R F aug] alteram Ca.c., alterum Cp.c. O1.2 So W M B Sc hrab ║ Frgm. 217: divers. quaest. 70 (CC SL, 44A, p. 197, l. 11) repugnasset R F M aug] repugnaret C O1.2 So W Sc hrab, def. B

List 5 Frgm. 70: serm. 156, 15 (CC SL, 41Ba, p. 158, l. 372) non1 O1.2 So M aug hrab] est add. C R W F Sc, def. B ║ Frgm. 132: serm. 22Dolb., 4 (Vingt-six sermons, p. 556, l. 81) prope O1.2 So M aug] tam praem. C R W F Sc hrab, def. B ║ Frgm. 272: in evang. Ioh. 108, 5 (CC SL, 36, p. 617, l. 9) dixisset O1.2 So M aug hrab] autem praem. C R W F Sc, def. B ║ l. 13 christus C O1.2 a.c. So M Sc aug hrab] christi O2 p.c. R W F, def. B ║ Frgm. 273: serm. 156, 5 (CC SL, 41Ba, p. 142, l. 130) iaces O1.2 Rp.c. Soa.c. Wp.c. M Sc aug hrab] iaceres C Ra.c. Sop.c. Wa.c. F, def. B

List 6 Frgm. 5: serm. 26Dolb., 32 (Vingt-six sermons, p. 390, l. 721) et1 C Sc aug] om. O1.2 R So W F M, def. B hrab ║ Frgm. 44: enchir. 14, 52 (CC SL, 46, p. 77, l. 66) enim C Sc aug

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hrab] autem O1.2 R So W F M, def. B ║ p. 78, l. 93 soli C Sc W aug hrab] solum O1.2 R Sop.c. F M, solumaiores Soa.c. (ut videtur), def. B ║ Frgm. 72: c. Secundin. 8 (CSEL, 25.2, p. 916, l. 17) autem C W Sc aug] enim O1.2 R So F Mp.c., om. Ma.c., def. B hrab ║ Frgm. 93: quaest. Simpl. 1, 2, 15 (CC SL, 44, p. 40, l. 430) sit2 C W M Sc aug] possit O1.2 R So F B, def. hrab ║ Frgm. 95: quaest. Simpl. 1, 2, 18 (CC SL, 44, p. 47, l. 603) ut sicut C W Sc aug] sicut O1.2 Rp.c. Sop.c. M, ex sicut Ra.c. Soa.c., et sicut F, def. B hrab ║ Frgm. 100: in epist. Ioh. 4, 2 (PL, 35, col. 2006, l. 4) expectant C M Sc aug] expectabant O1.2 R So W F, def. B hrab ║ Frgm. 116: in psalm. enarr. 78, 14 (CC SL, 39, p. 1107, l. 28) non ipse C W Sc aug] ipse non O1.2 R So F M B, def. hrab ║ Frgm. 273: serm. 156, 3 (CC SL, 41Ba, p. 140, ll. 88-89) alio loco idem apostolus C Sc aug hrab] idem apostolus alio loco O1.2 R So W F M, def. B ║ Frgm. 277: bapt. 5, 24, 34 (CSEL, 51, p. 291, l. 5) sacramenti perceptionem C W Sc aug hrab] perceptionem sacramenti O1.2 R So F M, def. B ║ Frgm. 287: c. Gaud. 1, 30, 35 (CSEL, 53, p. 233, l. 20) hoc C W Sc aug hrab] om. O1.2 R So F M B ║ Frgm. 362: conf. 13, 26, 40 (CC SL, 27, p. 266, l. 31) revivescente C Sc aug] requiescente O1 R So F M hrab, def. O2 W B ║ Frgm. 370: trin. 13, 19, 24 (CC SL, 50A, p. 415, l. 24 in verbo intellego C Sc aug] intellego in verbo O1 R So F M, def. O2 W B hrab

List 7 Frgm. 5: serm. 26Dolb., 32 (Vingt-six sermons, p. 390, l. 738) purgari C O2 p.c. R W F M Sc aug] pugnare O1.2 a.c. Sop.c., pugnari Soa.c., def. B hrab ║ Frgm. 7: grat. 43 (PL, 44, col. 909, l. 19) quando C R Soin marg. W F M Sc aug] qualitas O1.2 So in textu Ba.c., aequitas Bp.c., def. hrab ║ Frgm. 15: in psalm. enarr. 13, 3 (4) (CSEL, 93.1A, p. 246, l. 18) plenae sunt C R W F (plen) M Sc aug hrab] plenae erunt O1.2 (erunt in erant mutavit O2), plena erunt So, def. B ║ Frgm. 30: serm. 218A, no. 26 (Rev. Bén., 84 (1974), p. 262, l. 4) dei C R W F M Sc aug hrab] deus O1.2 So, def. B ║ Frgm. 34: epist. 157, 19 (CSEL, 44, p. 467, ll. 12-13) est melior R W F M aug hrab] melior est C Sc, melior O1.2 So B ║ 20, p. 469, l. 19 quamvis C R W F M Sc aug hrab] quam O1.2 Soa.c., quas Sop.c., def. B ║ Frgm. 54: quaest. Simpl. 1, 1, 5 (CC SL, 44, p. 11, l. 85) vetatur C O2 p.c. R Sop.c. W F M Sc aug hrab] fatetur O1, fetatur O2 a.c. Soa.c., def. B ║ Frgm. 69: serm. 155, 14 (CC SL, 41Ba, p. 128, l. 352) mea C R W F M Sc aug] om. O1.2 So,

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def. B hrab ║ Frgm. 71: divers. quaest. 67, 2 (CC SL, 44A, p. 166, l. 44) re ipsa C R W F M Sc aug hrab] res add. O1.2 So, def. B ║ Frgm. 102: inscriptio (ex libro contra iulianum primo): iulianum C R W F M Sc] hilarium O1.2 So (cfr inscriptionem fragmenti CI: ex libro ad hilarium), def. B hrab ║ Frgm. 108: praed. sanct. 33 (PL, 44, col. 984, l. 54) audimus C R Sop.c. W F M Sc aug] audivimus O1.2 Soa.c., def. B hrab ║ Frgm. 124: serm. 218A, frgm. 27 (Rev. Bén., 84 (1974), p. 262, l. 8) cadere M aug] post cernerent C R W F, om. O1.2 So, def. B Sc hrab ║ Frgm. 126: in epist. Ioh. 3, 6 (PL, 35, col. 2000, l. 37) autem C R W F aug] et O1.2 So, om. M, def. B Sc hrab ║ Frgm. 151: civ. 21, 26 (CC SL, 48, p. 797, l. 66) inliciente C R Sop.c. We corr. F M B Sc aug hrab] inlitigente O1.2 a.c. Soa.c., inlitigenti O2 p.c. ║ Frgm. 212: epist. 205, 11 (CSEL, 57, p. 332, l. 18) et C R W F M Sc aug] om. O1.2 So hrab, def. B ║ Frgm. 253: in psalm. enarr. 121, 9 (CSEL, 95.3, p. 101, l. 65) habebat C R W F M Sc aug hrab] habeat O1.2 So, def. B ║ Frgm. 257: epist. 228, 2 (CSEL, 57, p. 485, l. 13) est C R W F M Sc aug hrab] om. O1.2 So Ba.c., fuit Bp.c. ║ Frgm. 258: serm. 154, 6 (CC SL, 41 Ba, p. 84, l. 135) et C R W F Sc aug hrab] om. O1.2 So B, def. M ║ Frgm. 294: in evang. Ioh. 41, 8 (CC SL, 36, p. 362, l. 28) ipsa C R W F Sc aug hrab] ex praem. O1.2 So, def. M B ║ Frgm. 300: serm. 205, 1 (PL, 38, col. 1039, l. 18) qui C R W F M Sc aug hrab] om. O1.2 So, def. B ║ Frgm. 317: serm. 268, 2 (PL, 38, col. 1232, l. 31) colligo aug] et veto add. O1.2 a.c. So, et vegeto add. C O2 p.c. R F M Sc, def. W B hrab ║ col. 1233, l. 1 vegeteris C O2 p.c. R F M Sc aug] veteris O1.2 a.c. So, def. W B hrab ║ Frgm. 318: trin. 15, 19 (CC SL, 50A, p. 510, l. 47) redderetur C R F Me corr. Sc aug] reddetur O1.2 a..c So, redditur O2 p.c., def. W B hrab ║ Frgm. 328: gen. ad litt. 4, 9 (CSEL, 28.1, p. 106, l. 2) culpanda C Rp.c. F M Sc aug hrab] culpa O1.2 So B, culpandum Ra.c., def. W ║ Frgm. 344: divers. quaest. 73, 1 (CC SL, 44A, p. 210, l. 32) induta C R F M Sc aug hrab] cum praem. O1.2 So, def. W B

List 8 Frgm. 147: in evang. Ioh. 98, 3 (CC SL, 36, p. 577, l. 9) iudicavit C R F M Sc aug hrab] iudicat O1.2 Wp.c., iudicant So, iudica*t Wa.c., def. B ║ Frgm. 153: in psalm. enarr. 29, 2, 9 (CC SL, 38, p. 181, l. 15) affectibus C R F M Bp.c. Sc aug hrab] effectibus O1.2 So W, *ffectibus Ba.c. ║ Frgm. 192: in evang. Ioh. 74, 1 (CC SL, 36), p. 513, l. 43 dicitur C R F M Sc aug hrab] dicit

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O1.2 So W, def. B ║ Frgm. 199: trin. 15, 9 (CC SL, 50A, p. 481, l. 15) dicitur C R F M Sc aug hrab] dicit O1.2 So W, def. B ║ l. 20 quale illud C R F M Sc aug hrab] illud quale praem. O1.2 So W, def. B ║ l. 24 multum tardis C R F M Sc aug hrab] tardis multum O1.2 So W, def. B ║ p. 482, l. 42 intellegi C R F M Sc aug hrab] intellegere O1.2 So W, def. B ║ Frgm. 209: trin. 1, 8 (CC SL, 50, p. 47, l. 7) sibimet C R F M Sc aug hrab] sibi O1.2 So W B ║ Frgm. 221: in epist. Ioh. 8, 2 (PL, 35, col. 2037, l. 28) est2 C R F M Sc aug hrab] om. O1.2 So W, def. B ║ Frgm. 228: trin. 15, 8 (CC SL, 50A, p. 479, l. 15) sunt R Sop.c. Wp.c. F M Sc aug] om. C O1.2 Soa.c. Wa.c. hrab, def. B

List 9 Frgm. 5: serm. 26Dolb., 33 (Vingt-six sermons, p. 391, l. 763) dicit C R W F Sc aug] dixit O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 6: in epist. Ioh. 2, 11 (PL, 35, col. 1995, l. 19) vobis C R W F Sc aug hrab] vos O1.2 So M B (in praem. Bp.c.) ║ Frgm. 21: in psalm. enarr. 31, 2, 3 (CC SL, 38, p. 226, l. 1) ex2 C R W F Sc aug] om. O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 32: trin. 13, 16 (CC SL, 50A, p. 411, l. 82) uno eodemque C R W F (eodem) Sc aug hrab] eundemque O1, eodemque O2 a.c. So M B, eodem O2 p.c. ║ Frgm. 34: epist. 157, 18 (CSEL, 44, p. 466, l. 22) in nemine C R W F aug hrab] om. O1.2 a.c. So Ba.c., non O2 p.c. M Bp.c., in nullo Sc ║ 19, p. 467, l. 17 eorum C R W F Sc aug hrab] horum O1.2 So M B ║ 20, p. 469, l. 15 cum C R W F Sc aug hrab] sed praem. O1.2 So M, def. B ║ Frgm. 51: divers. quaest. 66, 2 (CC SL, 44A, p. 153, l. 63) solum O2 So M Sc aug] hic add. C R W F (hoc verbum additum est in compluribus codicibus huius operis Augustini; cfr apparatum criticum editionis CC SL, 44A), def. O1 B hrab ║ Frgm. 62: serm. 155, 1 (CC SL, 41Ba, pp. 105-106, ll. 12-13) mala – nisi C (de praem.) R (de praem.) W (de praem.) F (de praem.) Sc (de praem.) aug] om. per hom. O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 70: serm. 156, 10 (CC SL, 41Ba, p. 152, ll. 280281) non – vivunt C R W F Sc aug hrab] om. per hom. O1.2 So M, def. B ║ 15 (p. 158, l. 378) ponere C R W (pone Wa.c.) F Sc aug hrab] dicere O1.2 So M, def. B ║ Frgm. 71: divers. quaest. 67, 5 (CC SL, 44A, p. 168, ll. 85-86) partim animalis partim corporalis C R W F Sc aug hrab] partim corporalis partim animalis O1.2 So M B ║ Frgm. 72: c. Secundin. 8 (CSEL, 25, p. 916, l. 20) dicit C R W F Sc aug] om. O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 74: epist. 194, 16 (CSEL, 57, p. 188, l. 12) qui-

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bus C R W F Sc aug] cui O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 81: epist. 186, 25 (CSEL, 57, p. 65, ll. 13-14) quos autem vocavit hoc est secundum propositum Cp.c. (sine hoc est) R (sine hoc est) W (sine hoc est) F (sine hoc est) Sc (sine hoc est) aug] om. per hom. Ca.c. O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 83: mor. eccl. 1, 11, 19 (CSEL, 90, p. 22, l. 4) sit aug] om. O1.2 So M B, est C R W F Sc (est legitur in Eugippii florilegio Augustiniano), def. hrab ║ Frgm. 86: c. Iulian. op. imperf. 1, 141 (CSEL, 85.1, p. 159, l. 36) in C R W F Sc aug] om. O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 90: civ. 16, 35 (CC SL, 48, p. 540, l. 23) fuerat C R W F Sc aug] erat O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 94: epist. 194, 5 (CSEL, 57, p. 179, l. 20) meriti C R W F Sc aug] meritum O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 102: c. Iulian. op. imperf. 1, 141 (CSEL, 85.1, p. 163, l. 133) hoc C R W F Sc aug] id O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 119: serm. 302, 10 (SPM, 1, p. 105, l. 19) reprehendis et C R W F Sc aug] reprehendisset O1 (de-) So, reprehendis sed O2 M B, def. hrab ║ Frgm. 134: in psalm. enarr. 65, 4 (CC SL, 39, p. 841, l. 59) in te debes C R W F Sc aug hrab] debes in te O1.2 So M, def. B ║ Frgm. 137: gen. ad litt. 11, 8 (CSEL, 28.1, p. 341, l. 25) sibi sit C R W F Sc aug hrab] sit sibi O1.2 So M (sit iterat O2), def. B ║ Frgm. 173: de serm. dom. 1, 14, 39 (CC SL, 35, p. 43, l. 928) procreatis C R Sop.c. W F Sc aug hrab] procreandis O1.2 Soa.c. M, def. B ║ Frgm. 180: c. Faust. 6, 2 (CSEL, 25, p. 285, l. 27) sit C R Soa.c. W F Sc aug hrab] sint O1.2 Sop.c. M, def. B ║ Frgm. 219: civ. 13, 23 (CC SL, 48, p. 407, l. 69) quando C R W F Sc aug] quoniam O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 240: serm. 299, 9 (PL, 38, col. 1374, l. 59) illo C R W F Sc aug hrab] alio O1.2 So M, def. B ║ Frgm. 254: divers. quaest. 59, 4 (CC SL, 44A, p. 117, l. 156) virginem2 C R W F Sc aug hrab] om. O1.2 So M, def. B ║ Frgm. 270: civ. 16, 23 (CC SL, 48, p. 525, l. 7) magis C R W F Sc aug] maior O1.2 So M, def. B hrab ║ Frgm. 271: c. Faust. 14, 5 (CSEL, 25, p. 406, l. 28) ergo C R W F Sc aug hrab] autem O1.2 So M, def. B ║ Frgm. 299: civ. 14, 2 (CC SL, 48, p. 416, l. 51) quibus C R W F Sc aug hrab] quae O1.2 So M B

6. The Collectio’s treatment of II Th a. Introduction: frgm. 393-395 According to Fransen’s description, the Collectio’s section on II Th contains only 3 fragments:

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* *

Frgm. 393 on II Th 2, 1-3 (borrowed from civ. 20, 1979 through the mediation of the Augustinian anthology of Eugippius [frgm. 131 (147)])80; Frgm. 394 on II Th 3, 11-12 (from op. monach. 3, 4-14, 15); Frgm. 395 on II Th 3, 14 (from in psalm. enarr. 100, 8-9).

The last two fragments, however, are found in only one single manuscript, viz. the Cassinian codex M (pp. 211-224). I believe with David Hurst that at least frgm. 394 is a later interpolation: this fragment, that would be the only quotation from op. monach. in the whole of Bede’s work81, is excessively long when compared to the other fragments in the Collectio (CSEL, 41, p. 536, l. 24-p. 556, l. 6 = M, pp. 211-223). The long passage from op. monach., in which the verses II Th 3, 6-12 give rise to an extensive treatment of Paul’s view on manual labour, has probably been inserted by a monk who felt that an exposition on these verses, which proved the importance of manual labour for the monastic life, was lacking82. If this hypothesis is correct, the Collectio’s section on II Th contained only one (frgm. 393) or maybe two fragments (frgm. 393 and 395). b. The interruption of the Collectio at the end of frgm. 393 A second observation concerning the Collectio’s section on II Th is that only R So F M offer the frgm. 396-457. O2 and W break off before the end of frgm. 344 and 306 respectively, while C O1 Sc all end in frgm. 393. The same probably goes for the source from which B has selected its fragments, for the latter manuscript does not contain any fragment from the series 396-457. Moreover, Silvia Cantelli Berarducci has proved that the Collectio version that was used by Hrabanus Maurus for the composition of his own commentaries on the letters of saint Paul also ended in

79 The witnesses of the Collectio mistakenly state that the fragment was borrowed from civ. 20, 13 (Ex libro de civitate Dei XX titulo XIII). Cfr Fransen, «Description de la collection» (cit. n. 12), p. 57. 80 For the dependence of frgm. 393 on Eugippius’ frgm. 131 (147), cfr Fransen, «D’Eugippius à Bède le Vénérable» (cit. n. 47), p. 194. 81 Cfr Lapidge, The Anglo-Saxon Library (cit. n. 15), p. 200. 82 Compare Bede the Venerable. Excerpts from the Works of Saint Augustine (cit. n. 13), p. 10.

THE VENERABLE BEDE ’ S COMMENTARY

243

frgm. 39383. In addition, she has pointed out that a library catalogue of the monasterium Fuldense mentions a witness of the Collectio that only contained the first 393 fragments (fuld). However, since the catalogue in question is of a rather late date (Vaticanus Palatinus lat. 1928: ca. 1550)84, we cannot be sure that fuld was identical with or acquainted to the direct source used by Hrabanus: Beda super epistolas Pauli. [...] P. Paulus servus Christi Iesu vocatus apostolus. Ex libro contra quinque hereticos. Ordo iste querendus est. [= incipit of frgm. 1] F. Quod si quis non obedit verbo nostro per epistolam, hunc notate, et non commisceamini cum illo. [= II Th 3, 14 (without the final words ut confundatur), which follows immediately on frgm. 393 in several other manuscripts]85 The preceding remarks shed a new light on a striking change of page layout in So, which suggests that the manuscript originally only contained frgm. 1-393 and that the numbers 396-457 were added somewhat later. For the letter width and line spacing of So become strikingly smaller from frgm. 396 onwards. Folio 113 illustrates the difference in appearance between the manuscript’s series of frgm. 1-393 and that of frgm. 396-45786: 83 Cfr Cantelli Berarducci, Hrabani Mauri opera exegetica. Repertorium fontium, III (cit. n. 23), pp. 1374-1381. 84 Cfr Cantelli Berarducci, Hrabani Mauri opera exegetica. Repertorium fontium, I (cit. n. 23), p. 232 and n. 552. 85 Cfr K. Christ, Die Bibliothek des Klosters Fulda im 16. Jahrhundert. Die Handschriften-Verzeichnisse, Leipzig, 1933 (64. Beiheft zum Zentralblatt für Bibliothekswesen), pp. 100-101 (no. 167). – According to the catalogue of the library of La Charité (diocese of Besançon) written by Guillaume Pinard († 1766) in the 1750’s, this Cistercian abbey owned an (albeit mutilated) exemplar of the Collectio too. Compare A.-M. Turcan-Verkerk, Les manuscrits de la Charité, Cheminon et Montier-en-Argonne. Collections cisterciennes et voies de transmission des textes (IXe-XIXe siècles), Paris, 2000 (Documents, études et répertoires publiés par l’IRHT, 59; Histoire des bibliothèques médiévales, 10), pp. 58 (no. 27) and 100. 86 I do not contest Wilmart’s claim that So was written by some ten different hands (cfr «La collection» [cit. n. 6], p. 39). I only say that these different hands, how numerous they may have been, have written according to two different types of page layout: one for frgm. 1-393, the other for 396-457.

← Frgm. 393 ← II Th 3, 14

← Frgm. 396

The above photograph reveals that manuscript So originally ended in frgm. 393, borrowed from civ. 20, 19 through the mediation of the Augustinian anthology of Eugippius, and a supplementary quotation of II Th 3, 14 (Quod si quis non oboedit verbo nostro per epistolam, hunc notate et non commisceamini cum illo). The latter verse, however, is quoted neither in civ. 20, 19 nor in Eugippius’ fragment and, moreover, has no specific link with the content of the text borrowed from Augustine/Eugippius. The same quotation immediately followed on frgm. 393 in the lost manuscript from Fulda mentioned in Vaticanus Palatinus lat. 1928 (cfr its description above). With regard to the other Collectio witnesses ending in frgm. 393, one can say with certainty that Sc B do not contain the additional verse, while for C and O1, this cannot be verified87. 87

For C, cfr n. 100; for O1, cfr the description of this manuscript in § 4.

THE VENERABLE BEDE ’ S COMMENTARY

245

The manuscripts R F, which contain the entire series of frgm. 1-393 + 396-457, have the following traits in common with So: (a) The section on II Th contains only one fragment, namely number 393 on II Th 2, 1-3 (compare also C O1 B Sc rhab fuld). (b) The explicit of frgm. 393 (per ihesum christum iustissime iudicaturum iniustissime iudicatum) is followed immediately and without any sign of interruption by a quotation of II Th 3, 14 (compare also fuld). (c) The quotation of II Th 3, 14 is followed immediately – or almost immediately in the case of R (cfr below) – by a title that signals the beginning of the section on I Tim. The above observations allow the following conclusions: (a) The witnesses C O1 R So F B Sc rhab fuld all depend on a source with a section on II Th that contained only one fragment (frgm. 393). (b) R So F fuld presuppose a common source in which a fragment on II Th 3, 14 was announced, but not actually given. Maybe this was also the case in the common source of C O1 R So F B Sc rhab fuld as a whole. In that case, the absence of II Th 3, 14 in some of its descendants is due to a deliberate and justified elimination. In light of the latter conclusion, it is striking that in manuscript R, the quotation of II Th 3, 14 is immediately followed by the words Ex tractatu psalmi CII (f. 89v). This title, however, is followed by a blank half page and not by a new fragment. The title of the section on I Tim as well as frgm. 396 only follow at the top of f. 90r. Since II Th 3, 14 is the subject of in psalm. enarr. 100, 8, it cannot be excluded that the title Ex tractatu psalmi CII announced (with a slightly mistaken number) a quotation taken from this enarratio. If this hypothesis is correct, it is surprising that frgm. 395, which together with 394 can be found only in M (pp. 223-224), is a commentary on II Th 3, 14, which has been borrowed exactly from in psalm. enarr. 100, 8-9 (CC SL, 39, pp. 1413-1414, ll. 42-12). Contrary to what is suggested in the descriptions of Wilmart and Fransen, the fragment has the following title in M (with a rather enigmatic ending): Ex tractatu psalmi centesimi InSr̃ p̃s)88. The way in which the section 88 Wilmart, «La collection» (cit. n. 6), p. 45 states that the Cassinian manuscript offers the title Ex tractatu psalmi centesimi and does not take into account the title’s enigmatic ending. Fransen, «Description de la collection» (cit. n. 12), p. 57 suggests that frgm. 395 has no title in M, but that a title such as Ex tractatu psalmi C has to be added.

246

GERT PARTOENS

on II Th and the remaining frgm. 396-457 have been transmitted, can thus be synthesized as follows: C O1 B Sc hrab frgm. 393

So

first phase

fuld

So

second phase

F

R

M

frgm. 393 + 394 II Th 3, 14

frgm. 393

frgm. 393

frgm. 393

II Th 3, 14

II Th 3, 14

II Th 3, 14 Ex tractatu Psalmi CII

Ex tractatu psalmi centesimi InSr̃ p̃s frgm. 395 = in psal. enarr. 100, 8-9 frgm. 396-457 frgm. 396-457 frgm. 396-457

Several hypothetical explanations can be given for the different ways in which the section on II Th has been transmitted. One thing, however, can be said with certainty: the section on II Th must have been atypical in the transmission’s archetype, for it contained only two (frgm. 393 + 395: compare M) or even only one (frgm. 393: compare C O1 R So F B Sc rhab fuld) fragment (the second shortest section [on Tit] contains 4 fragments). In the latter case, it may have had an open ending (quotation of II Th 3, 14: compare R So F fuld; quotation of II Th 3, 14 + title without fragment: compare R). The previous remarks presuppose for several reasons that both series 1-393 and 396-457 belonged to the original version of the Collectio: (1) Both series presuppose a compiler who was able to distinguish with great accuracy Augustinian from pseudo-Augustinian material. The whole of frgm. 1-393 and 396-457 contains only 4 inauthentic pieces: frgm. 1 from Orosius’ Sermo contra quinque haereses (CPL 410; with medieval transmission under the name of Augustine [CPPM I, 1204 + 6401])89, frgm. 218 from For the early circulation and use of the Sermo contra quinque haereses in Anglo-Saxon England, cfr T. Hall, «Biblical and Patristic Learning», in A companion to Anglo-Saxon Literature, edd. P. Pulsiano, E. M. Treharne, Oxford, 2001, pp. 327-344 (esp. pp. 336-337: its use by Aefric and Bede). 89

THE VENERABLE BEDE ’ S COMMENTARY

247

Caesarius’ Sermo 177 (depending on Augustine’s Sermo 151; with medieval transmission under the name of Augustine [CPPM I, 2183])90, frgm. 260 from the Altercatio Augustini cum Pascentio (CPL 366; probably written in North-Africa at the end of the fifth century and inspired by Augustine’s correspondence with the Arian Pascentius [epist. 238-241]; with medieval transmission under the name of Augustine [CPPM II, 145])91 and frgm. 276 from Caesarius’ Sermo 139 (depending on Augustine’s Sermo 37; with medieval transmission under the name of Augustine [CPPM I, 843])92. (2) Both parts presuppose a source in which Augustine’s sermons 153-156 were presented as respectively the first until the fourth homily on Paul’s letter to the Romans. In the preserved direct transmission of these sermons, this is only the case in two Italian manuscript witnesses93. (3) Both parts presuppose a compiler who was acquainted with some ancient sermon collections which do not seem to have circulated widely during the Early Middle Ages (the collections of Mainz/Grande-Chartreuse, Mainz/ Lorsch and Wolfenbüttel)94. (4) According to dom Fransen, there

Cfr Fransen, «Les commentaires de Bède et de Florus» (cit. n. 36), p. 264; Sancti Aurelii Augustini sermones in epistolas apostolicas (cit. n. 22), p. CLVII. 91 Cfr U. Heil, «Augustin-Rezeption im Reich der Vandalen. Die Altercatio sancti Augustini cum Pascentio Arriano», Zeitschrift für antikes Christentum, 11 (2007), pp. 6-29 (for the manuscript transmission, cfr pp. 7-8). 92 Cfr Fransen, «Les commentaires de Bède et de Florus» (cit. n. 36), pp. 263-264. 93 Cfr the titles of frgm. 57, 61, 62, 69, 70, 258, 273, 301, 400. Compare Sancti Aurelii Augustini sermones in epistolas apostolicas (cit. n. 22), pp. LXXIX-LXXXI and CLV-CLVII. 94 Mainz/Grande-Chartreuse: frgm. 11 (serm. 28A), 119/120 (serm. 302 [cfr also Wolfenbüttel]), 144 (serm. 283augm.), 171 (serm. 354A), 240 (serm. 299), 263 (serm. 101augm. [cfr also n. 47]), 306 (serm. 160), 402end (serm. 299), 407 (serm. 293 [cfr also Wolfenbüttel]), 411 (serm. 162C), 415/419/422 (serm. 177 [cfr also Wolfenbüttel]), 432/435 (serm. 299); Mainz/Lorsch: frgm. 5 (serm. 198augm.), 132 (serm. 341augm.), 133/149 (serm. 198augm.), 196 (serm. 350), 213/216 (serm. 362), 261/286 (serm. 198augm.), 331/366 (serm. 341augm.), 368 (serm. 198augm.), 378/380 (serm. 362), 387 (serm. 341augm.), 424 (serm. 362); Wolfenbüttel: frgm. 115 (serm. 218C), 119/120 (serm. 302 [cfr also Mainz/ Grande-Chartreuse]), 184 (serm. 229), 307 (serm. 218C), 407 (serm. 293 [cfr also Mainz/Grande-Chartreuse]), 415/419/422 (serm. 177 [cfr also Mainz/GrandeChartreuse]), 433 (serm. 298 ). Compare Dolbeau, Augustin et la prédication en Afrique (cit. n. 13), pp. 117-119 and 130-133. 90

248

GERT PARTOENS

are traces of Eugippius’ Augustinian anthology in both parts95. (5) Both parts quote the Liber de diversis quaestionibus octoginta tribus under the title Liber quaestionum LXXXIIII96. (6) They both depend on a version of the Tractatus in evangelium Ioannis in which the actual numbers 20-22 were lacking97. c. The four copyists of manuscript C Let us now return to manuscript C. This witness, which is already mentioned in the 833 catalogue of the library of Cologne cathedral98, is supposed to have been written in Cologne by four scribes, whose names are mentioned in six verses on f. 118: Hoc scedulum licet sit vili scriptu formatus. Saltim devoti conpingunt hunc divisione quaterna. Cuius inicium proponit devotus H a d o l o l d u s scribendi. Sequens propositum mox eius V u i c b e r t u s supplex. Tunc partem ternalem praesumens G r i m b a l d u s indignus. Quem complens scribendo C o s m a s concludit in finem.

Each scribe’s contribution to the realization of manuscript C is traditionally considered to have been as follows99: Hadololdus:

ff. 1-75r

= frgm. 1-176 = Rm. → middle of I Cor = quires 1-10 (f. 75v has remained blank)

Compare the list of fragments Bede borrowed from Eugippius in Fransen, «D’Eugippius à Bède le Vénérable» (cit. n. 47), pp. 193-194. 96 Cfr n. 47. 97 Cfr n. 49. 98 For an edition of this catalogue, cfr A. Decker, «Die Hildebold’sche Manuskriptensammlung des Kölner Domes», in Festschrift der 43. Versammlung deutscher Philologen und Schulmänner, Bonn, 1895, pp. 217-253 (esp. pp. 224229, no. 35: Item Bedae super epistolas Pauli). The reference in the catalogue is identified with manuscript C on p. 235. For the 833 catalogue, cfr also J. M. Plotzek, «Zur Geschichte der Kölner Dombibliothek», in Glaube und Wissen im Mittelalter. Die Kölner Dombibliothek, München, 1998, pp. 15-64 (esp. pp. 22-27). 99 For this traditional interpretation, cfr Bischoff, Katalog der festländischen Handschriften, I, Aachen-Lambach [cfr C], pp. 397-398 (no. 1917; with further bibliography). 95

THE VENERABLE BEDE ’ S COMMENTARY

Vuicbertus:

Grimbaldus:

Cosmas:

ff. 76-f. 118r

ff. 119-160r

= frgm. 177-260 = middle of I Cor → II = quires 11-16 (f. 118v remained blank) = frgm. 261-393 (frgm. excepted) = Gal → II Th = quires 17-22 (f. 160v remained blank)100 = frgm. 396-457 = I Tim → Hbr101

249

Cor has 359

has

According to this interpretation of the six verses on f. 118, manuscript C must originally have contained the Collectio in its entirety (except frgm. 359), but now lacks the part written by Cosmas due to the loss of several quires. But how to explain in that case the fact that other witnesses of the Collectio also end(ed) in frgm. 393 (O1 Sc fuld, the original version of So and the models of B and hrab)? Two explanations immediately come to mind: (1) Manuscript C is the hyparchetype of a large part of the Collectio’s manuscript witnesses. This conclusion, however, seems to be contradicted by the series of errors typical of C Sc as presented above in list 2. Moreover, we would need a further explanation for the fact that Fransen’s frgm. 359, which is absent from C Sc, is found not only in manuscripts that solely contain the fragments 1-393 (O1 Sofirst phase), but also in codices that have transmitted the fragments 396-457 too (R F M). (2) The confusion at the end of frgm. 393 in the archetype of the Collectio’s preserved witnesses (cfr 100 The last words of frgm. 393 on f. 160r are: Novissimo manifestoque iuditio per ihesum christum iustissime iudicaturum. This means that the fragment’s last two words (iniustissime iudicatum) are missing in C. However, since the words Novissimo [...] iudicaturum occur at the bottom of f. 160r, it cannot be excluded that both missing words could originally be read at the top of f. 160v. Unfortunately, this side of the folio has become unreadable due to a blank leaflet that has been glued to it. According to Harald Horst of the Erzbischöfliche Diözesanund Dombibliothek, whom we wish to thank for having inspected f. 160v once again, «there are no visible indications of writings or ink on 160v». 101 Cosmas, the fourth scribe of manuscript C, has been identified with the Cosmas who partook in the writing of Köln, Dombibl., 52 (ix1-2/4) origin: Köln (f. 177: Ego Cosmas scripsi et finivi istos libros). Compare Bischoff, Katalog der festländischen Handschriften, I, Aachen-Lambach [cfr C], pp. 390-391 (no. 1889) and 397-398 (no. 1917).

250

GERT PARTOENS

above § 6.b) caused an identical interruption at different moments of the work’s transmission and not only in manuscript C. It cannot be excluded, however, that the traditional interpretation of the six verses on f. 118 is incorrect. I do not want to suggest that the preserved folios of manuscript C were written by four scribes (including Cosmas) instead of only three (Hadololdus, Vuicbertus, Grimbaldus), for the latter aspect of the traditional interpretation seems to me to be incontestable. Less sure, however, is the assumption that the lost part written by Cosmas must have contained frgm. 396-457. Could it not have initially offered another text with no connection whatsoever to Bede’s commentary and for that reason have been eliminated at a later date? 7. Conclusions and unsolved problems The present article, which focussed on the direct witnesses of Bede’s Collectio in Apostolum as well as on the indirect testimony of Hrabanus Maurus, has yielded the following conclusions: (1) The manuscript So does not seem to deserve the privileged status it has received since Wilmart’s important publication of 1926. The manuscript seems to have contained originally only frgm. 1-393, while frgm. 396-457 were added in a second phase. Moreover, for frgm. 1-393, it is just a representative of one of maybe three branches within the work’s direct transmission and probably even belongs to a subgroup within this branch (depending on the hypothetical hyparchetype α). Old witnesses such as R F C, which belong to the other two branches, are at least as important as the manuscript from Saint-Omer. Within So’s own branch, the codices W and M deserve equal attention for they might be independent from α. A further important witness is Hrabanus Maurus, whose Pauline commentary seems to derive from a source that was independent of the three branches within the Collectio’s direct witnesses. (2) The section on II Th must have been atypical in the archetype of the whole transmission. This probably explains why it was reworked in manuscript M (through the addition of at least frgm. 394) and why the Collectio breaks/broke off after the section’s first (and only?) fragment (no. 393) in four preserved witnesses (C O1 Sofirst phase Sc) and in at least three manuscripts that are now lost (the sources of B and hrab as well as fuld).

THE VENERABLE BEDE ’ S COMMENTARY

251

This study also left some problems unsolved: What are the exact relationships between the branches that could be identified with certainty in the transmission of frgm. 1-393? What are the stemmatic relationships for the parts containing the frgm. 396457 in R Sosecond phase F M? What to do with fragments 207bis, 359 and 395?102 How do we interpret exactly the six verses on f. 118 of manuscript C? These are some of the problems concerning the Collectio which will have to be addressed by further research.

102 For these fragments, cfr pp. 219/221/224/229 (frgm. 207bis), 217/223/229 (frgm. 359) and 241/ 248 (frgm. 395).

La trasmissione del testo agiografico : problemi ed esperienze di ricerca Francesco Scorza Barcellona (Roma)

1. Premessa Dal titolo della mia comunicazione si capisce che non intendo passare in rassegna un’ampia casistica di problemi quanto piuttosto, secondo l’espressa richiesta degli organizzatori di questo convegno, illustrarne alcuni che ho dovuto affrontare nel corso delle mie ricerche. A questioni più generali, sempre partendo da casi specifici, era stato dedicato un seminario promosso dall’AISSCA, l’Associazione per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia, tenutosi a Roma nel 2001 sul tema L’edizione critica delle fonti agiografiche, cui intervennero con le loro comunicazioni non solo studiosi affermati quali Antonella Degl’Innocenti, Paolo Chiesa, Giovanni Paolo Maggioni, Emore Paoli, ma anche i giovani Pierluigi Licciardello, Umberto Longo, Eugenio Susi, appena licenziati dal Dottorato di ricerca da me coordinato nell’Università di Roma ‘Tor Vergata’, che allora era uno specifico dottorato in Agiografia. Nella mia introduzione al seminario1 avevo accennato alla multiforme fluidità che può caratterizzare la circolazione e la trasmissione del testo agiografico : successivi adattamenti del testo originario a situazioni diverse, varianti intenzionali e riscritture, compresenza nel dossier di un santo o di un gruppo di santi, di versioni in lingue diverse di una Vita o di una Passione, solo per citarne alcuni. Sono problemi che si riflettono nel modo di affrontare l’edizione di un testo ; se sia sufficiente, qualora possibile, pubblicare il testo originario dando conto soltanto in apparato della testimonianza dei suoi ulteriori sviluppi, o se sia meglio pubblicare l’originale e le redazioni successive in colonne parallele, ovvero, più semplicemente, l’una di seguito all’altra, salvaguardando così, ma a caro 1 « L’edizione critica delle fonti agiografiche », ed. F. Scorza Barcellona, Sanctorum, 1 (2004), pp. 5-112, in particolare pp. 9-11.

DOI 10.1484/M.IPM.1.101081

254

FRANCESCO SCORZA BARCELLONA

prezzo – anche un prezzo reale ! – l’identità di ognuna rispetto alle altre. In quella circostanza ricordavo alcuni studi di riferimento sul tema del seminario, che qui mi limito a richiamare senza la pretesa di aggiornare la bibliografia, che appesantirebbe non poco le note di questo contributo : la raccolta di Martin Heinzelmann sui manoscritti agiografici e il lavoro degli agiografi2, studi specifici di singoli studiosi3, il progetto delle Sources hagiographiques de la Gaule4 di cui si cominciavano a vedere le prime realizzazioni e la pubblicazione di altri dossier di santi come quello di Pelagia curato insieme a un folto gruppo di collaboratori da Pierre Petitmengin5, o quello di Anastasio il Persiano, oggetto di studio prima di Bernard Flusin, poi di Carmela Vircillo Franklin6. In questa sede vorrei presentare alcuni problemi che nelle mie ricerche si sono posti relativamente alla riscrittura dei testi agiografici, un argomento su cui esiste già una specifica letteratura7. Tralasciando, perché difficilmente riassumibile, uno studio 2 Manuscrits hagiographiques et travail des hagiographes, ed. M. Heinzelmann, Sigmaringen, 1992 (Beihefte der Francia, 24). 3 M. Lapidge, « Editing Hagiography », in La critica del testo mediolatino. Atti del Convegno (Firenze, 6-8 dicembre 1990), ed. C. Leonardi, Spoleto, 1994, pp. 239-257 ; G. Philippart, « Pour une histoire générale, problématique et sérielle de la littérature et de l’édition hagiographiques latines de l’antiquité et du moyen âge », Cassiodorus, 2 (1996), pp. 197-213. 4 F. Dolbeau, M. Heinzelmann, J-C. Poulin, « Les sources hagiographiques narratives composées en Gaule avant l’An Mil (SHG). Inventaires, examen critique, datation (avec Annexe) », Francia, 15 (1987), pp. 701-731 ; M. Heinzelmann, L’hagiographie du haut moyen âge en Gaule du Nord : manuscrits, textes et centres de production, Stuttgart, 2001 (Beihefte der Francia, 52). 5 P. Petitmengin, Pélagie la Pénitente. Métamorphose d’une légende, I, Les textes et leur histoire, Paris, 1981 ; II, La survie dans les littératures européennes, Paris, 1984. 6 B. Flusin, Saint Anastase le Perse et l’histoire de la Palestine au debut du VIIe siècle, I, Les textes ; II, Commentaire : les moines de Jérusalem et l’invasion perse, Paris, 1992 ; C. Vircillo Franklin, The Latin Dossier of Anastasius the Persian. Hagiographic Translations and Transformations, Toronto, 2001 (Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto, Studies and Texts, 147). 7 La réécriture hagiographique dans l’Occident médiéval. Transformations formelles et idéologiques, edd. M. Goullet, M. Heinzelmann, Ostfildern, 2003 (Beihefte der Francia, 58) ; M. Goullet, Ėcriture et réécriture hagiographiques. Essai sur les réécritures des Vies des saints dans l’Occident latin médiéval (VIIIe-XIIIe siècles), Turnhout, 2005 (Hagiologia, 4) ; Miracles, Vies et réécritures dans l’Occident médiéval. Actes de l’Atelier ‘La réécriture des Miracles’ (IHAP, juin 2004) et SHG X-XII : dossiers des saints de Metz et de Laon et saint Satur-

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sulla complessa questione del dossier agiografico di san Rufino8, tanto più intricata perché tuttora gli studiosi non sanno se la Vita e le due Passioni che ne fanno parte si debbano riferire ad un unico personaggio o a più di uno dallo stesso nome, e una rassegna pure critica, ma prevalentemente espositiva, del dossier di Euplo, martire di Catania9, ho pensato di proporre il caso di due ricerche, una sulle redazioni della Passione di Secondo, martire ad Amelia, l’altra su un caso particolare di riscrittura riscontrabile nel confronto tra la Passione di Getulio e la Passione di Zotico, quella che consiste nell’adattamento a un santo o a un gruppo di santi di un testo precedentemente scritto per un altro santo o gruppo di santi10. Se in questo secondo caso espongo le mie conclusioni dopo l’esame delle due Passioni, per la Passione di Secondo ripercorro i diversi momenti di una ricerca che, partendo da un’ipotesi poi non rivelatasi dimostrabile, mi ha portato a valutare le diverse redazioni della Passione : non fui io a portare a termine la ricerca, ma ho avuto il piacere di verificare che i risultati cui è giunto il più giovane studioso che l’ha conclusa hanno confermato le mie intuizioni di allora, aggiungendo la necessaria contestualizzazione storica per comprendere il senso delle riscritture di un testo agiografico. 2. Le redazioni della Passione di Secondo di Amelia11 Secondo di Amelia è un santo la cui commemorazione non è segnalata né nel Martirologio geronimiano, né nei martirologi storici medievali dei secoli viii-ix, ma per la prima volta nel Martironin de Toulouse, edd. M. Goullet, M. Heinzelmann, Ostfildern, 2006 (Beihefte der Francia, 65). 8 F. Scorza Barcellona, « Rufino e Cesidio, santi della Marsica », in La terra dei Marsi : cristianesimo, cultura, istituzioni. Atti del Convegno di Avezzano (2426 settembre 1998), ed. G. Luongo, Roma, 2002, pp. 265-285. 9 « La Passione di Euplo nella storiografia ecclesiastica e regionale », in Euplo e Lucia 304-2004. Agiografia e tradizioni cultuali in Sicilia. Atti del Convegno di studi (Catania-Siracusa, 1-2 ottobre 2004), edd. T. Sardella, G. Zito, Catania, 2006 (Quaderni di Synaxis, 18), pp. 123-141. 10 Si tratta di quello che Goullet, Écriture et réécriture hagiographiques (cit. n. 7), pp. 214-216, chiama plagio (plagiat). 11 Riprendo il mio articolo « S. Secondo tra Amelia e Gubbio (BHL 75587560) », Augustinianum, 24 (1984), pp. 281-292, al quale rinvio per la storia degli studi e la bibliografia specifica su ogni singolo punto trattato, concentrandomi qui sulla descrizione delle tre redazioni della relativa Passione.

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logio Romano del 1584, alla data del I giugno. La Bibliotheca hagiographica Latina registra tre Passioni di Secondo di Amelia, contrassegnate dai numeri 7558, 7559, 7560, cui si è aggiunta nei successivi supplementi la segnalazione di ulteriori testi noti da cataloghi di manoscritti o pubblicati sia pure anche soltanto per estratti, riconducibili alle tre Passioni precedentemente indicate : BHL 7558a, 7559a-b, 7560b12. Di questi testi l’unico edito integralmente, almeno fino ad anni recenti, era BHL 7558, pubblicato nella trattazione relativa a Secondo di Amelia negli Acta Sanctorum di giugno ad opera di Godefroid Henschens e di Daniel Papebroch13. In questa Passione, dopo un prologo in cui si sottolinea l’efficacia dell’ascolto delle vite dei santi per l’edificazione dei fedeli, Secondo è presentato come un pio cristiano che vive a Gubbio in casa della cristiana Eudossia, dedito alle preghiere e alle opere di carità. Durante la persecuzione scatenata da Massimiano, Secondo è arrestato, condotto a Spoleto per essere processato dal proconsole Dionisio, e vi subisce un primo interrogatorio, dopo il quale il martire è gettato nella profondità di un luogo oscuro, dove però una luce celeste lo circonda, mentre una voce gli annuncia la corona del martirio e le gioie superne. Il giorno successivo, sempre in presenza del proconsole, Secondo si rifiuta di sacrificare ad Ercole, per cui è condannato al supplizio dell’eculeo, durante il quale, a seguito delle sue preghiere, un terremoto distrugge il tempio di Ercole. Secondo allora è gettato in carcere per quindici giorni, senza cibo e bevande, ma è consolato da visitazioni angeliche. Nuovamente condotto davanti a Dionisio, Secondo subisce la flagellazione, e gli si versa in bocca piombo bollente. Nuovamente il martire chiede l’aiuto del cielo, e si veri12 Bibliotheca hagiographica Latina antiquae et mediae aetatis, Bruxelles, 1898-1901 (Subsidia hagiographica, 6) [= BHL] ; il suo Novum Supplementum, ed. H. Fros, Bruxelles, 1986 (Subsidia hagiographica, 65) comprende le aggiunte pubblicate nella seconda edizione del Supplementum apparso nel 1911 (la prima edizione era posta in appendice alla BHL). Qui di seguito non mi occupo di BHL 7558a e 7559a, che presentano solo varianti rispetto a BHL 7558 e BHL 7559, non configurandosi cioè come redazioni autonome o riscritture delle precedenti. 13 Acta Sanctorum Iunii, I, Antverpiae, 1695, pp. 51-57, testo a pp. 52-54. L’introduzione e il testo sono di G. Henschens, le note al testo e l’Appendice di D. Papebroch.

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fica un altro terremoto, che mette in fuga il proconsole. Il giorno successivo Secondo è condannato ad essere gettato con una pietra al collo nel Tevere, presso Amelia. I soldati che hanno eseguito la sentenza sono assaliti da un orso, che ne uccide otto : i superstiti si fanno battezzare dal presbitero Eutichio, un pescatore di nome Mauro ritrova in riva al fiume il corpo di Secondo senza la mola che gli era stata legata al collo, e lo seppellisce sotto un albero. Eudossia recupera il corpo del martire, lo porta a Gubbio e lo fa seppellire a sedici miglia dalla città. Il mio interesse per la Passione di Secondo era determinato da una suggestione di Francesco Lanzoni14, il quale riteneva che il nome del pescatore che ritrova il corpo del martire, Maurus, fosse un’eco dell’origine africana del santo, in quanto la sua ipotesi, peraltro già formulata alla metà del xviii secolo dallo storico della chiesa eugubina Mauro Sarti, era che Secundus fosse il risultato della trasformazione in un santo locale di Secundinus, un vescovo e martire africano come il suo collega Agapius, che compaiono nella Passione di Mariano e Giacomo relativa a un gruppo di martiri della Numidia nel 259. A Gubbio si conserva un manoscritto della Passione datato al ix secolo, e i suoi protagonisti Mariano e Giacomo sono titolari della nuova cattedrale della città, costruita tra la fine del xii e gli inizi del xiii secolo. Non solo, però, alla lettura della Passione di Secondo non trovavo qualche dato più consistente che avvalorasse l’ipotesi di Francesco Lanzoni, ma studiando la storia del culto dei vescovi africani Secondino e Agapio e del martire Secondo a Gubbio venivo ad apprendere che nel corso del xii secolo una chiesa locale dedicata ai santi Secondino e Agapio, cioè i due vescovi e martiri africani, assume la titolatura di san Secondo, e che, come afferma un’epigrafe del 1343 posta sull’altare maggiore della medesima, si riteneva che vi fossero conservati tanto i corpi dei due vescovi e martiri africani quanto quello del martire Secondo : Henschens riferisce che i Canonici regolari di San Salvatore celebravano i tre martiri nella chiesa di San Secondo, come anche nella loro congregazione di cui erano considerati patroni, alla data del 10 maggio, distinguendo nelle lezioni del secondo Notturno dell’Ufficio san Secondo passus Kalendis Iuniis dai santi Secundinus e Agabius che ave14 F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo (an. 604). Studio critico, Faenza, 1927 (Studi e Testi, 35), I, pp. 480-481.

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vano subito il martirio presso Cirta di Numidia tertio Kalendas Iunii, quest’ultimo termine da correggersi in Maii in quanto la data del 29 o del 30 aprile è quella assegnata nei martirologi storici medievali all’anniversario di Agapio e Secondino. Veniva così a cadere l’ipotesi della trasformazione del vescovo africano Secondino in un martire locale di nome Secondo, potendosi ammettere al massimo lo sdoppiamento di Secondino in un martire locale dal nome simile, che la Passione sopra esaminata afferma originario di Gubbio, martirizzato presso Amelia e sepolto a Gubbio. Lanzoni accennava anche, sulla base dei desinit di BHL 7559 e 7559b riportati nel repertorio dei Bollandisti, al fatto che in queste altre Passioni Secondo era dato per sepolto non longe ab urbe Amerina15, ritenendo che questa variante si potesse spiegare « forse per le consuete ragioni campanilistiche » : giudizio altrettanto facile del precedente, in quanto prescindeva da un’analisi di questi altri testi, peraltro allora impossibile se non sulla base dei manoscritti che li riportavano. Sfuggiva però a Lanzoni che del problema del rapporto tra BHL 7558 e BHL 7559 si era già occupato Albert Dufourcq, fornendo un primo contributo per la soluzione della questione16. Dufourcq aveva rilevato che BHL 7559 è un testo sostanzialmente più breve di BHL 7558 per la mancanza del prologo e specialmente nella parte centrale relativa al processo, alle torture, alle detenzioni di Secondo. Ma questo testo breve non può considerarsi riassunto del più lungo BHL 7558, in quanto presenta alcuni dati che non compaiono in quest’ultimo, cioè la data del martirio posto alle Calende di gennaio17, e la notizia, riferita di passaggio all’inizio,

15 A Daniel Papebroch, che disponeva di varie copie di manoscritti della Passione di san Secondo raccolte dai Bollandisti, non era sfuggito di segnalare che nella Passione ora identificabile come BHL 7560b, copiata da un manoscritto amerino, trovata a Roma e collazionata con un manoscritto della Biblioteca Vallicelliana, il luogo della sepoltura di Secondo era non lontano dalle mura di Amelia : Acta Santorum Iunii, I (cit. n. 13), p. 54, nota l. 16 A. Dufourcq, Étude sur les Gesta martyrum romains, III, Le mouvement légendaire grégorien, Paris, 1907, pp. 133-136. 17 In realtà il testimone più antico di BHL 7558, il manoscritto di Karlsruhe, Badische Landesbibliothek, Augiensis LXXXIV (fine x-inizio xi secolo) riporta nel finale la data delle Calende di giugno, quella che compare (cfr più avanti, n. 20), anche in BHL 7560, e che era nota a Gubbio nelle tradizioni liturgiche della chiesa di San Secondo e dei Canonici regolari di San Salvatore.

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che Massimiano era figlio di Diocleziano : dunque il testo breve precede il testo lungo, o meglio, non ne dipende. Volli estendere la mia ricerca a BHL 7559 e BHL 7560, sulla base degli estratti che ne erano stati pubblicati, ma anche su alcuni dei manoscritti delle tre redazioni della Passione : se ne disponeva già allora di un elenco18, in base alle cui indicazioni mi recai a Bruxelles e a Karlsruhe, poi a Napoli, Foligno e Gubbio, mentre dei manoscritti della Biblioteca Vallicelliana di Roma avevo già preso visione. Per quanto riguardava il punto di partenza della mia ricerca, l’ipotesi della trasformazione del vescovo africano Secondino in un santo locale, neanche da BHL 7559 e BHL 7560 emergeva alcun indizio che la confortasse, mentre mi colpivano altri dati interessanti sui rapporti tra queste due redazioni : – pur tenendo presente che BHL 7560 ha una forma più estesa, ridondante, con un ampio prologo sulla protervia dei persecutori e una preghiera del martire in esametri, essa si attiene allo stesso impianto narrativo di BHL 7559, in cui il processo di Secondo consiste in un unico interrogatorio che termina con il terremoto che distrugge il tempio di Ercole, a seguito del quale il proconsole Dionisio pronuncia la condanna a morte. – rispetto a BHL 7558, nelle altre due redazioni della Passione non si fa menzione di Gubbio, né come la città in cui Secondo si rifugia in casa di Eudossia, né come luogo definitivo della sepoltura del martire. All’inizio di BHL 7559 si legge che Secondo si nasconde in casa di Eudossia in vicino (o vicina) civitatis, mentre in BHL 7560 la casa di Eudossia in cui Secondo si rifugia è a Spoleto. In entrambe le Passioni, come era già stato segnalato da Papebroch e da Lanzoni19, Eudossia seppellisce il martire non longe ab urbe Amerina20.

18 F. Dolbeau, « Les manuscrits hagiographiques de Gubbio », Analecta Bollandiana, 95 (1977), pp. 367-368. 19 E più recentemente da Dolbeau, « Les manuscrits hagiographiques » (cit. n. 18), p. 367. 20 Altro dato in comune a BHL 7559 (come anche alla sua riscrittura BHL 7559b) e BHL 7560, da me allora non rilevato, è l’affermazione che Massimiano fosse figlio di Diocleziano. Le due redazioni si discostano invece sulla data dell’anniversario del santo, in quanto BHL 7560 lo pone alle Calende di giugno, come il più antico testimone di BHL 7558, mentre BHL 7559 alle Calende di gennaio.

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Ciò mi induceva a tenere conto, in parallelo alla tradizione della sepoltura del santo a Gubbio, anche della tradizione amerina che rivendicava la sepoltura in loco del martire Secondo : nella cittadina umbra, poco distante da Porta Romana, esiste tuttora una piccola chiesa di San Secondo, edificata nel 1642 sui resti di un complesso più antico di cui documenti del xii secolo parlano come di una abbazia di San Secondo. Alla fine del xvi secolo il vescovo locale Antonio Maria Graziani attestava che su una lastra marmorea della vecchia chiesa si poteva leggere Hic iacet corpus sancti Secundi martyris, anche se doveva ammettere che non si trovavano tracce delle reliquie del santo. Dunque la vera o presunta sepoltura di Secondo ad Amelia trovava riscontro in una tradizione locale sufficientemente antica, non fosse altro per l’esistenza già nel xii secolo di una chiesa dedicata al santo. La mia ricerca si concludeva, per il momento, osservando che il problema posto dalle tre redazioni della Passione di Secondo era quello di appurare il rapporto tra BHL 7558 da una parte e BHL 7559-7560 dall’altra. Certo, dalle osservazioni di Dufourcq sul rapporto tra BHL 7558 e BHL 7559, e dai miei sondaggi su BHL 7559 e BHL 7560 si configurava già una plausibile soluzione, cioè che BHL 7559 fosse il testo più antico, in cui non è meglio specificato in quale città si trovi la casa di Eudossia dove Secondo si nasconde, ma il martire, processato a Spoleto e ucciso presso Amelia, trova qui sepoltura. A questa più antica redazione si ricollegherebbe da una parte BHL 7558, che fa di Secondo un santo il quale durante la persecuzione si nasconde in casa di Eudossia a Gubbio, è processato a Spoleto, è gettato nel Tevere nei pressi di Amelia e poi sepolto a Gubbio ; dall’altra BHL 7560, che pone a Spoleto la casa di Eudossia in cui Secondo si nasconde, prima di subire il processo nella stessa città, e di essere annegato nel Tevere presso Amelia dove poi trova sepoltura. Restava solo da chiarire il rapporto di dipendenza tra BHL 7559 e BHL 7560. Si trattava però soltanto di congetture basate su pochi sondaggi, e per questo osservavo che preliminare ad ogni altro accertamento fosse l’edizione delle diverse redazioni della Passione. Ulteriori impegni mi hanno impedito di tornare sulla questione, ma lo studio delle tre redazioni della Passione di Secondo è stato affrontato con acume tanto filologico quanto storico da Eugenio Susi nella sua tesi dottorale discussa nel 2000, che aveva

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per oggetto l’agiografia della Tuscia meridionale nell’Alto Medioevo, da lui ricondotta a vario titolo all’attività dello scriptorium del monastero di Santa Maria di Farfa. Susi ha proceduto preliminarmente alla recensione della tradizione manoscritta della Passione di Secondo, distinguendo le tre redazioni BHL 7558, 7559, 7560, dalle riscritture delle due ultime (BHL 7559b, BHL 7560b), individuando anche due tardive rielaborazioni di BHL 7558, e pubblicando l’edizione critica dei sette testi21. Lo studioso dimostra, con una serie di argomenti assai plausibili, che BHL 7559 costituisce la più antica versione di una ‘tradizione amerina’22 relativa a Secondo, rappresentata anche dalla terza redazione BHL 7560 e dalla sua riscrittura BHL 7560b. BHL 7559 sarebbe stata composta da un monaco di Farfa negli ultimi decenni dell̕ viii secolo, dopo la caduta del regno longobardo nel 774, al fine di affermare la presenza religiosa e patrimoniale E. Susi, Farfa e l’agiografia della Tuscia meridionale nell’Alto Medioevo, Tesi discussa nel Dottorato di ricerca in ‛Agiografia : Fonti e metodi per la storia del culto dei santi’, a. a. 2000. Alla Passione di san Secondo è dedicato il cap. IV « Due testi gemelli : la Passio sancti Secundi e la Passio sanctorum Valentini et Hilarii », pp. 128-160, mentre « Il dossier agiografico di san Secondo martire » occupa l’Appendice II, pp. 323-394, in cui si procede alla recensione dei manoscritti, all’identificazione delle tre redazioni e delle loro riscritture, si fornisce uno stemma codicum e si presenta l’edizione critica di BHL 7559 (pp. 342-349), della sua riscrittura BHL 7559b (pp. 350-352), di BHL 7558 (pp. 353-362), di BHL 7560 (pp. 399-383) e della sua riscrittura BHL 7560b (pp. 384-389), nonché di due tarde rielaborazioni di BHL 7558 : un De legenda sancti Secundi martyris (pp. 363-368) e un Martyrium sancti martyris Secundi (pp. 390-394). Dello stesso autore si vedano anche, a proposito di Secondo di Amelia, « La cristianizzazione nell’Umbria e nella Tuscia », in Id., Geografie della santità. Studi di agiografia umbra mediolatina (secoli IV-XII), Spoleto, 2008, pp. 23-29, e « I santi patroni di Amelia », ibid., pp. 170-176. 22 Mi chiedo tuttora se in BHL 7559 il legame di Secondo con Amelia si limitasse soltanto alla circostanza della sua sepoltura, e non anche alla provenienza del martire. L’indicazione che al momento della persecuzione il luogo in cui i cristiani – tra cui Secondo in casa di Eudossia – si nascondono sia in vicino civitatis (Passio sancti Secundi martyris 1, 2 : cfr Susi, Farfa e l’agiografia, cit. n. 21, p. 343), non si giustifica senza un preciso riferimento alla città. Dal momento che nella sentenza di Dionisio si ordina che Secondo sia condotto in eamdem civitatem Amerinam et in fluvium Tyberim (Passio sancti Secundi martyris 3, 5 : cfr ibid., p. 347) ; sebbene la maggior parte dei testimoni riporti all’inizio la lezione in vicino civitatis, evidentemente presente nell’archetipo di BHL 7559, sono portato a credere che il testo originale presentasse la lezione in vicino civitatis Amerinae. 21

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del monastero farfense mediante l’appropriazione e la riqualificazione dei culti locali23. A seguito dell’affievolimento del culto del martire nell’area amerina, forse in concomitanza con l’espansione pontificia nel territorio di Amelia, sarebbe avvenuta la traslazione delle reliquie di Secondo a Gubbio, attestata dalla seconda redazione, BHL 7558, che pone in quella città la sepoltura del martire : questa Passione deve essere anteriore al suo più antico testimone, il già citato manoscritto di Karlsruhe, ascrivibile alla fine del x o agli inizi dell̕ xi secolo24. Successivamente, attorno alla metà dell’xi secolo, sarebbe stata composta la terza redazione, BHL 7560, che ripropone Secondo come martire di Amelia celebrato alla data delle Calende di giugno testimoniata dai calendari di Gubbio (e, aggiungiamo noi, dal più antico testimone di BHL 7558) : questa Passione sembra accreditare l’origine spoletina del santo, il quale allo scoppiare della persecuzione si nasconde in quella città in casa di Eudossia, e ciò non farebbe pensare ad una compilazione di origine amerina, che avrebbe cercato di porre la figura di Secondo e la sua predicazione alle origini della chiesa di Amelia, per cui Susi non esclude che questo testo possa costituire un’ulteriore testimonianza degli interessi di Farfa a riproporre la prima ufficializzazione del culto del santo espressa da BHL 7559. BHL 7560b costituirebbe una semplice riscrittura di BHL 756025. Conviene anche richiamare che Susi pensa non errato ritenere che la prima ufficializzazione del culto di san Secondo possa essere ricondotta al transito o alla ricezione in ambito amerino, verosimilmente in epoca più o meno coincidente alla traslazione delle spoglie di Mariano e Giacomo, di reliquie attribuite al pressoché omonimo santo africano venerato a Gubbio, cioè Secondino26.

Susi, Farfa e l’agiografia (cit. n. 21), pp. 131-146. Ibid., pp. 147-149. 25 Ibid., pp. 149-152. 26 Susi, « I santi patroni di Amelia » (cit. n. 21) ; Id., « La cristianizzazione nell’Umbria » (cit. n 21) : il trasferimento delle reliquie di Mariano, Giacomo, Agapio e Secondino a Gubbio sarebbe avvenuto ad opera di profughi africani dell’invasione vandalica giunti in Umbria dalla Sardegna, o alla successiva presenza di truppe bizantine nel corso delle guerre gotiche. 23 24

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3. Un testo riciclato : la Passione di Zotico e la Passione di Getulio27 Zotico, Amanzio e Primitivo, insieme a Cereale sono i protagonisti di una Passione [PZ] fino a non molto tempo fa edita solo per estratti, che dai primi studiosi che se ne occuparono alla fine del xvi secolo fu subito messa in relazione con la Passione di Getulio, Amanzio, Primitivo e Cereale, martiri di Gabii in Sabina [PG]. I nomi di Zotico, Amanzio e Primitivo sono noti al Martirologio geronimiano : Zotico e Amanzio vi figurano come martiri commemorati il 10 febbraio al decimo miglio della via Labicana, dove circa due secoli or sono fu ritrovato un cimitero, citato come cimiterium sancti Iutici via Labicana in Liber pontificalis 98, 5 nella Vita di papa Leone III (795-816)28. Primitivo compare nel Martirologio Geronimiano alle date del 10 e 12 luglio come un martire di Gabii, al dodicesimo miglio della Prenestina (così al 10 luglio), pur essendo il suo culto documentato anche in altre località e a date diverse : ma è verosimile che la data della sua commemorazione fosse quella pure attestata del 26 aprile, e confermata da PZ. I resti di un’antica chiesa di San Primitivo a Gabii sulla via Prenestina sono ancora visibili. Meno identificabile è la figura del martire Cereale, la cui vicenda come è presentata tanto in PG quanto in PZ non ha nulla in comune con quella di un omonimo che compare nella Passione di Cornelio, probabilmente lo stesso che in un graffito presso la tomba di papa Cornelio nel cimitero di Callisto sulla via Appia è citato come sanctus Cerealis. Quanto a Getulio, le prime attestazioni su di lui, al di fuori della Passione, provengono, a partire dagli inizi dell’viii secolo, 27 In questo paragrafo tratto del confronto tra la Passione di Zotico e la Passione di Getulio che costituisce il centro del mio articolo « I martiri Zotico, Amanzio, Cereale e Primitivo e la loro Passione (BHL 9028) », Rivista di Archeologia Cristiana, 82 (2006), pp. 417-438, di cui riproduco varie sezioni, sia pure con revisioni e aggiornamenti. Rinvio all’articolo citato per altri dati relativi alla storia del culto dei santi presenti nelle due Passioni, in particolare anche alla possibile identità di Getulio e Zotico, e per ulteriori questioni letterarie e archeologiche relative alle due Passioni e ai luoghi che vi figurano, qui ridotte all’essenziale. 28 Ed. L. Duchesne, Le Liber pontificalis. Texte, introduction et commentaire, II, Paris, 19552, p. 2.

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da documenti farfensi, quando si fa riferimento ad una chiesa in cui si conserva il sepolcro del martire, donata all’abbazia nel 724 da Trasmondo II duca di Spoleto. La Passione che ha Getulio come protagonista insieme ad Amanzio Cereale e Primitivo è riassunta nel Martirologio di Adone, le cui recensioni si ascrivono al terzo quarto del ix secolo, per cui essa deve considerarsi composta anteriormente a tale data. In questa Passione [PG]29 si racconta che l’imperatore Adriano ordina di inviare al suo cospetto tutti i cristiani. In quel tempo nella città di Gabii in Sabina, non lontano da Roma, si trovava Getulio, un cristiano che riuniva attorno a sé una moltitudine di fedeli. Avutane notizia, Adriano manda il vicario Cereale ad arrestarlo, e questi lo trova seduto in casa mentre istruisce i cristiani radunati presso di lui. La comunicazione dell’editto imperiale costituisce il punto di partenza per un dibattito durante il quale Cereale si avvicina sempre più alla fede, tanto più perché Getulio, il quale tra l’altro dirà di avere lasciato per amore di Cristo la moglie e i figli a Tivoli, fa intervenire il proprio fratello Amanzio, che era tribuno e amico di Cereale. Sarà proprio Amanzio a spiegare che per avere la vita eterna occorre ricevere il battesimo riconoscendo la divinità di Cristo. Cereale vuole riceverlo subito, ma Getulio gli propone un periodo di penitenza insieme a lui. Dopo un digiuno di tre giorni, Getulio Amanzio e Cereale odono una voce divina che li esorta a chiamare Sisto, vescovo di Roma, perché impartisca loro il battesimo. Recatisi a Roma, essi tornano con Sisto a Gabii in Sabina, dove il vescovo catechizza e battezza Cereale, celebra l’eucaristia, conforta tutti nella fede, e quindi torna a Roma. A Gabii arriva poi un pubblico tesoriere, Vincenzo, venuto a cercare guadagni amministrando il denaro pubblico. Cereale gli dichiara di avere rinunciato ai beni temporali, a re imperatori e potenze di questo mondo. Vincenzo allora lo denuncia ad Adriano. L’imperatore invia il consularis Licinio, che giunge nello stesso luogo in Sabina, arresta Cereale insieme a Getulio, Amanzio e Primitivo, quest’ultimo qui nominato per la prima e unica volta, e avverte l’impePer PG seguo il testo dell’edizione di M. G. Mara, I martiri della via Salaria. Introduzione edizione critica e traduzione delle Passioni di S. Antimo, S. Giacinto, S. Getulio, S. Anatolia, S. Vittoria, Roma, 1964 (Verba Seniorum, N.S., 4) pp. 134-146. 29

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ratore. Adriano ordina che i quattro sacrifichino agli dei, o che siano bruciati. Il 10 marzo a Tivoli si svolge il processo : Cereale e Getulio professano la loro fede in Cristo, e i martiri sono allora battuti, quindi Licinio li fa mettere in prigione per ventisette giorni in oppido supra scripto, espressione che nel contesto può riferirsi solo a Tivoli o a Gabii. A Licinio, che è andato a riferirgli l’accaduto, Adriano ordina di bruciare vivi i quattro cristiani. La sentenza è eseguita nel fundus di Capriolis sulla via Salaria a trenta miglia da Roma, sopra il Tevere, nel territorio dei Sabini. Ma il fuoco risparmia Getulio, che i soldati finiscono a colpi di pali sulla testa. Sua moglie Sinforosa ne seppellisce il corpo nell’arenarium30 di una sua villa in Sabina, nella località di Capris. Nell’intestazione di un manoscritto della Passione, la commemorazione del martirio è fissata al 9 giugno, ma la data che poi si imporrà sarà quella del 10 giugno. L’altra Passione, quella di Zotico, Amanzio, Cereale e Primitivo [PZ]31, si differenzia dalla precedente soprattutto per il finale con il lungo excursus sul martirio di Cereale, e per alcune diverse coordinate spazio-temporali. Segnalo qui di seguito le principali divergenze di PZ da PG : all’inizio in PZ si afferma che Zotico si trova nella città di Gabii non lontano da Roma, senza alcun riferimento alla Sabina, come per la Gabii di cui si parla in PG. Quando Cereale arriva a Gabii vi trova Zotico seduto in casa mentre istruisce i cristiani che si erano radunati presso di lui insieme a Primitivo. Quando Zotico, Amanzio e Cereale vanno a Roma per chiamare papa Sisto, tornano con lui a Gabii e si riuniscono tutti in una grotta insieme a Primitivo. Il processo si svolge sempre a Tivoli – dove precedentemente Zotico aveva detto di aver lasciato la moglie e i figli – come in PG, ma l’8 marzo, e riguarda anche Primitivo, che a parte le menzioni precedenti e il riferimento al suo martirio, resta anche in questa 30 Qui e di seguito mantengo l’espressione latina, comune alle due Passioni, tenendo presente che in queste composizioni agiografiche essa sta ad indicare un cimitero sotterraneo : cfr V. Fiocchi Nicolai, I cimiteri paleocristiani del Lazio, II, Sabina, Città del Vaticano, 2009 (Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Monumenti di Antichità Cristiana, II serie, 20), p. 161. 31 Per PZ seguo l’edizione di G. P. Maggioni, « La composizione della Passio Zotici (BHL 9028) e la tradizione della Passio Getulii (BHL 3524). Un caso letterario tra agiografia e politica », Filologia mediolatina, 8 (2001), pp. 127-172 (testo pp. 152-162).

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Passione una presenza muta anche se più volte richiamata. Dopo la bastonatura Licinio ordina che i martiri siano messi in prigione a Labicum (presso l’attuale Montecompatri), e lì restano per ventotto giorni. Il rogo dei martiri avviene nel fundus Capreolis al decimo miglio della via Labicana. Ma in questa Passione tutti i martiri sopravvivono al rogo : Zotico e Amanzio muoiono sotto i colpi di pali da vigna, Primitivo invece è condotto sulla via Prenestina ed è decapitato presso la locale Gabii ; il suo corpo è gettato nel vicino lago, ma lo raccoglie il prete Esuperanzio che lo seppellisce in un arenarium il 26 aprile. I corpi di Zotico e Amanzio sono invece sepolti da Sinforosa in un arenarium della sua villa di Capris, il 12 gennaio, dove spesso tornò a fare veglie e preghiere insieme ai figli e al beato Esuperanzio. La vicenda di Cereale ha in questa Passione uno sviluppo assai articolato in una lunga coda in cui si racconta della sua prigionia presso Adriano, che il martire segue durante un viaggio a Gerusalemme, dove sarà decapitato un 22 novembre davanti al muro della Porta Aurea, e sepolto sul posto. Non c’è dubbio che PG e PZ presuppongono un unico testo diversamente adattato, almeno per quanto riguarda la prima parte di PZ (perché PG non ha lo spostamento del martirio di Cereale a Gerusalemme) infarcito di luoghi comuni tipici dell’agiografia tardoantica e altomedievale, in cui spesso si incontrano testi che nulla ci dicono della reale personalità dei santi di cui si narrano le vicende, ma dai quali si può forse ricavare qualche dato sul loro culto e sui luoghi ad esso collegati. È evidente che PG celebra principalmente un martire della Sabina, Getulio, di cui rivendica l’origine nella locale città di Gabii, il possesso delle reliquie, e anche una certa superiorità sugli altri suoi compagni di martirio, perché solo Getulio scampa al rogo e deve essere ucciso a colpi di bastone. Vi si parla inoltre solo della sua sepoltura, mentre a quella degli altri martiri non si fa nessun cenno, e lo stesso Primitivo vi compare solo al momento dell’arresto. Tivoli è la città in cui Getulio ha lasciato moglie e figli, e dove si svolge il processo disposto da Licinio. Invece PZ è la Passione di alcuni martiri dell’area tiburtino-labicano-prenestina, tranne probabilmente Cereale : Zotico Amanzio e Primitivo vivono a Gabii sulla Prenestina, sono processati insieme a Cereale nella vicina Tivoli, la città dove vivono la moglie e i figli di Zotico, sono tenuti in prigione

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a Labicum. Zotico e Amanzio sono martirizzati al decimo miglio della via Labicana, Primitivo a Gabii. Tenendo presente quanto si è detto all’inizio sulle notizie relative a Zotico Amanzio e Primitivo nel Martirologio Geronimiano, è evidente che PZ è più vicina alle notizie di questo antico documento. Ma se lo svolgersi dei fatti nelle due Passioni è quasi identico, salvo il nome del protagonista e l’ambientazione in due diverse zone, resta da determinare quale sia il testo originale e quale il testo cui esso è stato successivamente adattato. La Passione di Getulio [PG] era già nota per essere stata pubblicata nel Sanctuarium di Bonino Mombrizio alla fine del xv secolo e nel 1572 da Lorenzo Surio, in forma stilisticamente riveduta, nel terzo volume del De probatis Sanctorum historiis, mentre la Passione di Zotico [PZ], pur nota a Cesare Baronio, che se ne servì nelle sue Notationes al Martirologio Romano per argomentare l’identità di Zotico con il Getulio di PG, è rimasta sostanzialmente inedita, come si è detto, fino a pochi anni or sono. Fu Daniel Papebroch, un buon centinaio di anni dopo Baronio, a porsi il problema del rapporto tra PG e PZ, servendosi per quest’ultima degli Acta pervetusta che Baronio aveva detto di possedere nella sua biblioteca. A giudizio di Papebroch il testo originale è quello di PG, che l’autore di PZ « non sine inscitia, seu potius temeritate » avrebbe trasformato, accresciuto e corrotto sostituendo al nome di Getulio quello di Zotico, facendo scampare tutti e quattro i martiri al rogo e ponendo l’anniversario del protagonista al 12 gennaio, ma soprattutto per avere inserito nel racconto come compagni di Cereale insieme a Zotico Amanzio e Primitivo, che subiscono il processo sotto Adriano, i martiri Andronico, Probo e Taraco, vittime della persecuzione dioclezianea32. Nella seconda metà del xix secolo il giudizio resta sostanzialmente lo stesso anche da parte di Enrico Stevenson il quale, pur cogliendo la coincidenza dei dati calendariali degli anniversari di Zotico, Amanzio e Primitivo in PZ con quelli del Martirologio Geronimiano, parla di PG come più sincera recensione, e di PZ come Atti corrotti33. Da questa communis opinio resta Acta Sanctorum Iunii, II, Antverpiae, 1698, pp. 264-267, in particolare p. 265, n. 5 (testo di PG a pp. 265-266). 33 E. Stevenson, Il cimitero di Zotico al decimo miglio della via Labicana, Modena, 1876, pp. 46-66. 32

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influenzato Francesco Lanzoni, che si lancia in libere ipotesi sulle fasi e i modi di composizione delle due Passioni34. Conviene tuttavia segnalare alcuni orientamenti in controtendenza rispetto a questa opinione tradizionale che si sono manifestati nel corso del secolo appena passato. In primo luogo gli archeologi hanno messo in discussione e poi escluso l’esistenza di una Gabii presso l’attuale località di Grotte di Torri in Sabina, che ora sembra sempre più il frutto di una costruzione a posteriori basata su PG e su documenti farfensi a partire dal ix secolo35. Già nel 1940 negli scholia historica al Martirologio Romano riaffiora la questione relativa a quale delle due Passioni sia stata utilizzata per l’altra36, e cinquant’anni dopo Victor Saxer ritiene fondato il sospetto che Getulio fosse solo un doppione di Zotico della via Labicana trasformato in un santo della via Salaria37. L’auspicata e ottima edizione di PZ da parte di Giovanni Paolo Maggioni ha permesso un confronto diretto e complessivo tra le due Passioni. Si deve premettere che Maggioni accoglie come un dato acquisito l’esistenza di Gabii sabina e l’anteriorità di PG rispetto a PZ, assunto, quest’ultimo, per il quale Lanzoni, Le diocesi d’Italia (cit. n. 14), pp. 126-128 (Zotico della via Labicana) ; 129-131 (Primitivo di Gabii prenestina) ; 354-355 (Getulio). 35 Cfr M. P. Muzzioli, Cures Sabini, Firenze, 1980 (Forma Italiae, Regio IV, II), p. 11, n. 24 ; 51, n. 354 ; V. Fiocchi Nicolai, « Cimiteri paleocristiani e insediamenti nel territorio meridionale della Sabina tiberina », in Bridging the Tiber. Approaches to Regional Archaeology in the Middle Tiber Valley, ed. H. Patterson, Roma, 2004 (Archaeological Monographs of the British School of Rome, 13), pp. 120-121, n. 17 ; Id., I cimiteri paleocristiani del Lazio, II (cit. n. 30), pp. 157-161. Più sfumata la posizione di M. L. Mancinelli, Il « Registrum omnium ecclesiarum diocesis sabinensis » (1343), Roma, 2007 (Società Romana di Storia Patria, Miscellanea, 53), pp. 50-52. 36 Martyrologium Romanum ad formam editionis typicae scholiis historicis instructum, Bruxelles, 1940 (Acta Sanctorum, Propylaeum Decembris), p. 232, n. 2. 37 V. Saxer, « I santi e i santuari antichi della via Salaria da Fidene ad Amiterno », Rivista di Archeologia Cristiana, 66 (1990), pp. 262-265, in seguito Id., « Il culto dei santi delle diocesi suburbicarie di Roma in età paleocristiana », in Santi e culti del Lazio. Istituzioni, società, devozioni. Atti del Convegno di Studio (Roma, 2-4 maggio 1996), edd. S. Boesch Gajano, E. Petrucci, Roma, 2000 (Società Romana di Storia Patria, Miscellanea, 41), pp. 21-23, non cita più Getulio tra i santi della via Salaria. La tesi di Saxer è seguita da E. Susi, « I culti farfensi nel secolo viii », in ibid., pp. 61-81 (pp. 66-67), che richiama anche gli elementi che legano le vicende del martire all’area tiburtina. 34

LA TRASMISSIONE DEL TESTO AGIOGRAFICO

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porta argomenti testuali che emergerebbero da un confronto tra le due Passioni, sui quali si dovrà tornare più avanti. Secondo Maggioni PG sarebbe stata composta in relazione al culto di san Getulio attestato dalla donazione dell’omonima chiesa sabina all’abbazia di Farfa nel 724, e dalla successiva documentazione farfense38. PZ invece sarebbe una rielaborazione di PG effettuata quasi un secolo più tardi – in relazione al trasferimento in Santa Prassede delle reliquie di Zotico e compagni dal cimitero della Labicana disposto da Pasquale I (817-824) – sostituendo il nome di Zotico a quello del martire sabino e ricollocando il martirio nel luogo in cui era già onorato Primitivo, cioè nella Gabii prenestina ; la mancanza di testimonianze sulla sepoltura di Cereale si sarebbe elusa trasferendone il martirio a Gerusalemme. Tale operazione – in un momento di tensione fra Pasquale I e Lotario I, il quale aveva esentato l’abbazia di Farfa da un tributo precedentemente imposto da papa Stefano IV – avrebbe avuto lo scopo, con pochi ritocchi al testo, di ridimensionare il culto sabino sfruttando l’omonimia delle due Gabii, a partire dal luogo del martirio e della basilica farfense. Ma il tentativo non avrebbe avuto successo : PZ non si diffuse al di fuori di un ristretto numero di testimoni tutti di origine romana39. L’ipotesi della diffusione di PZ all’epoca di Pasquale I troverebbe conferma nel fatto che nei manoscritti più antichi che ce la tramandano essa è contigua alla Vita Theodorae, in quanto è nota la devozione del papa per la madre Teodora, che fece raffigurare nella cappella di san Zenone in Santa Prassede40. Disponendo finalmente dell’edizione critica di PZ, venuto a cadere il più solido aggancio di PG al territorio sabino, cioè l’esistenza di una locale città di Gabii, e in considerazione dell’ipotesi di una duplicazione della figura di Getulio da quella di Zotico, mi chiedo se non si possa ricavare dal confronto delle due Passioni qualche elemento che la conforti. Abbiamo visto che entrambe le Passioni pongono in scena un gruppo di quattro martiri : soltanto PZ ne segue le vicende fino alla sepoltura, perché PG si interessa solo a Getulio, il quale rispetto a PZ, come si è detto, figura da protagonista asso38 39 40

Maggioni, « La composizione della Passio Zotici » (cit. n. 31), p. 139. Ibid., pp. 139-140. Ibid., pp. 133-134.

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luto. Finora l’opinione prevalente è stata quella secondo cui il redattore di PZ avrebbe adattato PG in base ai dati del Martirologio Geronimiano relativi a Zotico, Amanzio e Primitivo. Ma a me sembra macchinoso pensare che l’autore di PG, volendo celebrare un martire della Sabina, faccia di sua iniziativa continuo riferimento ad una Gabii in Sabina che risulta non essere mai esistita, che metta in campo Amanzio e Primitivo – i quali già nel Martirologio Geronimiano erano legati il primo insieme a Zotico alla via Labicana, il secondo alla via Prenestina – poi anche Sinforosa e i suoi figli a Tivoli, città dove pure si svolge il processo dei quattro martiri : e non piuttosto che lo stesso autore di PG abbia riadattato PZ a un Getulio martire della Sabina, semplicemente spostando in questa regione tutta la vicenda, salvo l’episodio del processo a Tivoli. Prendiamo in esame proprio quei passi in cui il presunto rielaboratore di PZ avrebbe ritoccato PG, e che riguardano l’ubicazione di Gabii, della città in cui i futuri martiri sono messi in prigione, il luogo del martirio di Zotico e Amanzio in PZ e quello dei quattro martiri in PG, e infine quello della sepoltura di Zotico e Amanzio in PZ, e rispettivamente di Getulio in PG, tralasciando quello del processo, che in entrambe le Passioni è Tivoli, la città in cui Getulio/Zotico ha lasciato la moglie Sinforosa, i figli e le proprie sostanze41 : PZ

PG

4 : in civitate Gavis non longe ab 10-12 : in territorio savinensium in urbe Roma Gabis civitate, non longe ab urbe Roma 7-8 : et precepit eum teneri misso 20-22 : misso Ceriali vicario in Cereali vicario. Ad quem cum praedictum locum savinensium, venisset Cerealis in civitatem Gavis iussit eum teneri. Ad quem cum venisset Cerialis in Gabis civitatem 57 : venerunt ad locum in civitatem 84-86 : venerunt in locum territorii Gavis praedicti savinensium in civitatem Gabis

41 Qui e di seguito per PZ i numeri si riferiscono a quelli dei paragrafi nell’edizione Maggioni (cit. n. 31), per PG ai numeri delle righe nell’edizione Mara, I martiri della via Salaria (cit. n. 29).

LA TRASMISSIONE DEL TESTO AGIOGRAFICO

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64 : Vincentius (…) veniens ad civita- 99 : Vincentius (…) veniens ad civitatem Gavis tem Gabis 70-71 : eadem hora Adrianus imperator misit quendam Lycinium consularem et iussit sibi presentari Cerealem vicarium. Quem tenens Lycinius

113-115 : (…) Adrianus eadem hora misit quondam Licinium consularem, ut sibi Cerialem vicarium presentare deberet. Qui cum venisset in saepe dictum lucum savinensium tenuit Cerialem

99 : date eos in custodia publica in 149-150 : eos (…) date in custodia oppido Lavicano publica in oppido supra scripto 103 : educti de custodia in fundo 154-157 : Eductique sunt in fundo Capreolis via Lavicana miliario caprioli via Salaria ab urbe Roma decimo plus minus miliario tricesimo supra flumen Tiberim, ad partem savinensium 112 : Corpora vero sanctorum Zotici et Amantii collegit uxor ipsius Symphorosa et sepelivit eos cum gloria in pretorio Capris in arenario cum germano suo Amantio

168-171 : Cuius sanctum corpus collegit uxor ipsius Synforosa nomine et sepelivit eum cum gloria et honore in pretorio suo savinensium, in loco nuncupante Capris, in oppido supra dicto, marenario (=in arenario) predii sui

Se si confrontano PZ e PG, a me sembra che l’autore di PG abbia ritoccato assai maldestramente PZ, con riferimenti al territorio sabino – territorium, locus, pars … Savinensium – monotonamente ripetuti e appesantiti da rimandi interni (praedictus, saepe dictus, supra scriptus, supra dictus). Solo la quarta volta in cui Gabii è citata (PG 99) manca il riferimento al territorio sabino, a differenza delle tre occorrenze che la precedono ; ma quando arriva Licinio ad arrestare Cereale, mentre in PZ 70-71 non è indicata la città che evidentemente è Gabii, in PG 115116 si ribadisce che si tratta del saepe dictum lucum Savinensium ; e alla fine della Passione il pretorium Savinensium in cui Sinforosa seppellisce il marito è collocato in oppido supra dicto (PG 169), con una palese incongruenza logica. Né credo che si possa considerare lezione degli atti originali in oppido supra scripto (PG 150) per indicare la città in cui Licinio condanna i martiri ad essere imprigionati : un’espressione del genere al massimo può rappresentare il punto di vista del narratore, il quale però non si accorge di intervenire nella sentenza di Licinio riferita in discorso

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diretto. Mi sembra più verosimile che in oppido supra scripto si spieghi come il maldestro tentativo di eliminare il riferimento a Labicum, da cui secondo PZ Zotico e Amanzio sono portati al decimo miglio della via Labicana per subirvi il martirio, perché sarebbe stato poco credibile che da quella città i martiri fossero stati condotti per il supplizio al trentesimo miglio della via Salaria. Il redattore di PG, rielaborando PZ, sostituisce supra scripto a Lavicano, non accorgendosi però di ricorrere a una formula che non poteva trovare posto in una sentenza pronunciata da Licinio. Non voglio nascondere un’obiezione che può farsi alla mia interpretazione del rapporto tra PZ e PG : relativamente a PZ, sulla via Prenestina non resta memoria del toponimo Capreolis proprio del luogo dell’esecuzione dei quattro martiri, né del praetorium Capris nel cui arenarium Sinforosa seppellisce Zotico e Amanzio, anche se ci è detto che il fundus Capreolis si trovava al X miglio della via Labicana, quindi non lontano dall’arenarium del praetorium Capris, se in questo dobbiamo vedere il cimitero che da Zotico prese il nome. Quanto a PG, se pure possiamo escludere l’esistenza di una Gabii Sabina in cui PG ambienta tutta la prima parte della vicenda, i dati dei documenti farfensi relativi all’ubicazione della chiesa di San Getulio orientano a identificare la zona con l’area attorno alla località di Ponte Sfondato, all’altezza del km. 8 della Strada Statale 313 che si trova in prossimità del Tevere e a circa 29 miglia da Roma, secondo i dati che in PG identificano il fundus Capriolis. Quest’ultimo e la località di Capris, nel cui arenarium Sinforosa seppellisce Getulio, troverebbero riscontro nel fundus Capriolus menzionato in alcuni documenti del Regesto di Farfa : il toponimo di Caprola, attestato non lontano da Ponte Sfondato, riecheggerebbe l’antica denominazione. Quel che è curioso è che nella stessa zona era stato identificato nel secolo scorso l’ingresso di un cimitero ipogeo di cui si sono perdute le tracce42. Non ritengo tuttavia che la perdita della memoria del fundus Capreolis e di una villa a Capris sulla via Prenestina provi che questi non siano mai esistiti, tanto più trattandosi di località circoscritte e probabil42 Una trattazione organica di tutta la questione, con ampia bibliografia, è ora quella di Fiocchi Nicolai, I cimiteri paleocristiani del Lazio, II (cit. n. 30), pp. 157-161.

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LA TRASMISSIONE DEL TESTO AGIOGRAFICO

mente secondarie : mi sembra del resto che gli argomenti evidenziati per dimostrare che il redattore di PG ha rielaborato PZ siano sufficienti per poter ammettere che anche per Capriolis e Capris PG dipenda da PZ. Non escluderei che nella descrizione del fundus Capriolis in PG si tenga conto del definitivo assetto dell’area legata al culto di Getulio, in cui si identificavano i luoghi che in PZ erano quelli connessi al culto di Zotico sulla via Labicana. Altre obiezioni all’ipotesi della dipendenza di PG da PZ sono quelle rilevate da Maggioni43, secondo cui la dipendenza di PZ da PG, ammessa da Lanzoni come del resto già da Stevenson, sarebbe confortata da una lacuna nel testo di PZ trasmesso da tutti i suoi testimoni rispetto al testo di PG in una citazione di Ps 50, 19 secondo la Vulgata : Ps 50, 19

PG

(…) spiritum contribulatus. Cor contritum et humiliatum deus non erubescit

PZ

147-150 : Spiritum con- 97 : Spiritum contributribulatum, cor contri- latum et humilem deus tum et humiliatum deus non spernit non spernit

A questo si aggiungerebbero altri passi in cui si possono riscontrare guasti provocati da lacune : PG

PZ

13-16 : et victum atque alimenta omnibus eis praebebat, exponensque eis legem divinam et tam ex Graeciae quam ex Italiae regionibus maximam multitudinem erudiebat

6 : alii victualia ministrabat, alii exponebat legem divinam quamquam ex Graecia iam eruditus fuerat

44-47 : Novissimis temporibus dignatus est venire ut mortuos suscitaret, caecos inluminaret, laeprosos mundaret, mare pedibus ambularet, ventis et tempestatibus imperaret

30 : Nam novissimis temporibus dignatus est venire ut mortuos suscitaret, cecos illuminaret, leprosos mundaret et mari imperaret et ventis

43 Maggioni, « La composizione della Passio Zotici » (cit. n. 31), pp. 147-148, 150 : si veda anche Id., « Filologia mediolatina e testi agiografici. Casi di normale eccezionalità », Sanctorum, 1 (2004), pp. 36-37.

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oltre all’incipit delle due Passioni in cui l’aggiunta di falsa in PZ sarebbe difficilmente interpretabile : PG

PZ

1-4 : Iam quasi tempestate remota, ab Adriano principe hoc in mandatis declarat, ut omnes civitates tam amplius sui senatus vel curiae ordo vulgaretur scriptum.

1 : Iam quasi tempestate falsa remota, ab Adriano principe hoc in mandatis declaratur, ut omnes civitatum amplissimi, senatus vel curiae ordo, vulgarentur scripto.

Non sono tuttavia convinto che l’unica spiegazione dei primi tre esempi riportati da Maggioni consista nel fatto che si tratti di lacune di PZ e non piuttosto di ampliamenti di PG. Per quanto riguarda la citazione di Ps 50, 19 lo stesso Maggioni osserva che una lacuna in un passo biblico è facilmente correggibile, pur rilevando che tutti i testimoni di PG presentano la citazione intera e quelli di PZ riportano il testo lacunoso44 : di fatto, supponendo che PG dipenda da PZ, si può pensare che il redattore di PG abbia conservato o restituito la citazione intera, non escludendosi che la famiglia di manoscritti che rappresentano PZ attesti una lacuna introdottasi all’origine della sua tradizione. Relativamente a PZ 6 e PZ 30 mi sembra che, mentre Maggioni suppone lacune di PZ rispetto a PG, si possa invece ritenere che PG tenda a correggere, ampliando o interpretando a modo suo il testo di PZ : così rispetto a PZ 6, in cui sembra esprimersi l’idea che Zotico avrebbe avuto la sua formazione cristiana in Grecia – se dietro quamquam si suppone una forma quam o qua – quanto si legge in PG 13-16 può intendersi come il tentativo di correggere il testo, interpretandolo in modo sostanzialmente diverso, nel senso che Getulio fosse solito istruire moltitudini di persone provenienti dall’Italia e dalla Grecia. E così anche rispetto a PZ 30, dove mari imperaret et ventis riprende Mt 8, 25 : imperavit ventis et mari e Lc 8, 25 : et ventis et mari imperat, laddove PG 44-47 ha (…) mare pedibus ambularet, ventis et tempestatibus imperaret, aggiungendo cioè un riferimento all’episodio di Gesù che cammina sulle acque (Mt 14, 22-32 ; Mc 6, 45-52 ; Io 6, 16-21).

44

Maggioni, « La composizione della Passio Zotici » (cit. n. 31), pp. 147-148.

LA TRASMISSIONE DEL TESTO AGIOGRAFICO

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Quanto all’aggiunta di falsa in PZ 1, essa può ben intendersi come una glossa inglobata nel testo45. Nello stesso incipit, la lezione di PG 3 civitates tam amplius sui ha tutto l’aspetto di un errore di lettura di PZ 1 civitatum amplissimi : e forse proprio questo errore costituisce un argomento a favore dell’ipotesi della dipendenza di PG da PZ, che a me sembra assai probabile, anche in forza delle considerazioni sopra esposte, contro quella tradizionale, accolta da Maggioni, della dipendenza di PZ da PG. A mio avviso PG è stata composta in un periodo compreso tra gli inizi dell̕ viii secolo – data su cui concorda la maggior degli studiosi che se ne sono occupati – e la metà del ix secolo, prima cioè della composizione del Martirologio di Adone che la riassume, in relazione allo sviluppo del culto di Getulio in Sabina, ma sulla base della preesistente PZ. Ciò non impedisce che si possa accogliere, in un’altra accezione, l’indicazione dell’epoca di Pasquale I (817-824) proposta da Maggioni, non però per la composizione di PZ, quanto piuttosto per il rilancio del culto del martire e la ripresa della sua preesistente Passione entro le mura romane, in connessione con il trasferimento delle sue reliquie nella chiesa di Santa Prassede46. 4. Qualche osservazione conclusiva Come si è potuto vedere a proposito delle tre redazioni della Passione di Secondo di Amelia e del rapporto tra la Passione di Getulio e la Passione di Zotico con i loro compagni, la soluzione dei problemi relativi alla composizione, e alla nostra comprensione, di testi che presentano simili problemi non può prescindere dalla recensione dei manoscritti e dall’edizione critica dei testi stessi, anche nelle diverse redazioni. Per questo mi ero fermato ad un certo punto nella mia ricerca su Secondo di Amelia ; per questo ho avuto elementi per pronunciarmi sulla Passione di Zotico Così del resto suggerisce anche Maggioni, ibid., p. 150 e p. 163, n. 1. Su questo evento cfr Stevenson, Il cimitero di Zotico (cit. n. 33), p. 20 ; Maggioni, « La composizione della Passio Zotici » (cit. n. 31), p. 138 n. 3. All’epoca di Stefano III (768-772) doveva essere avvenuta una traslazione di reliquie di Zotico, di Sinforosa e dei loro figli nella chiesa di Sant’Angelo in Pescheria (cfr Stevenson, Il cimitero di Zotico, pp. 66-68), ma le circostanze richiamate da Maggioni inducono a credere che il momento della ripresa del culto di Zotico a Roma sia stato quello del pontificato di Pasquale I. 45 46

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soltanto dopo la pubblicazione delle sua edizione critica da parte di Giovanni Paolo Maggioni. Dobbiamo astenerci da valutazioni basate su sondaggi casuali, come spesso è avvenuto in passato anche per difficoltà oggettive di comunicazione che oggi sembrano risolte dalla facilità di accesso in via informatica a cataloghi e a fonti stampate o anche manoscritte : penso ad esempio ai giudizi sopra riportati, di Francesco Lanzoni, su due delle tre redazioni della Passione di Secondo di Amelia, ma non sono meno gratuiti quelli sulle Passioni di Zotico e di Getulio che mi sono limitato soltanto ad evocare con i necessari rinvii bibliografici. Non che non si possano formulare ipotesi sulla base di rapidi sondaggi, ma dichiarandole come tali e con ogni cautela, non per fornire certezze, ma spunti per un approfondimento che presuppone una visione più generale dei problemi, e la capacità di procedere con metodo e lucidità. L’analisi letteraria e il confronto tra redazioni e riscritture di un testo, come per la Passione di Secondo di Amelia, o tra due testi dei quali si capisce che uno ha plagiato l’altro come per le Passioni di Getulio e Zotico, può portare a cogliere differenze sostanziali tra di essi, e anche ad intuire circostanze che ne hanno determinato la stesura. Confrontando le redazioni della Passione di Secondo di Amelia, se BHL 7558 ci presenta sin dall’inizio il martire a Gubbio dove torneranno le sue reliquie, mentre BHL 7559 lo fa morire presso Amelia, dove poi è sepolto, mentre la terza redazione BHL 7560 lo pone inizialmente a Spoleto, ma lo ritiene sepolto ad Amelia, significa che queste varianti rappresentano punti di vista e interessi diversi, sui quali però non è facile pronunciarsi se non si evidenziano altri elementi che ci permettano di datarli o contestualizzarli, relativamente tra loro o in assoluto. Seguire, per quanto è stato possibile, la storia del culto di Secondino, Agapio e Secondo a Gubbio, e di Secondo ad Amelia, mi ha aiutato a comprendere la dinamica di culti cittadini contesi tra Amelia e Gubbio, ma è stato soprattutto Eugenio Susi quello che è stato in grado di fornire la spiegazione della genesi delle tre redazioni della Passione tenendo conto, tra i tanti elementi, anche dei riferimenti all’assetto politico dell’Umbria tra vi e xi secolo (presenza di profughi africani o di militari bizantini che avrebbero portato dall’Africa le reliquie di antichi martiri, la politica religiosa e patrimoniale di Farfa, la fine del regno

LA TRASMISSIONE DEL TESTO AGIOGRAFICO

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longobardo, i rapporti tra Amelia e Gubbio, l’espansione pontificia nella regione). Per quanto riguarda il discusso rapporto tra la Passione di Getulio e quella di Zotico, il dubbio che il redattore di PG potesse avere riutilizzato il preesistente PZ mi è sorto in primo luogo considerando l’impianto narrativo delle due Passioni, e si è confermato analizzando il modo in cui fin troppo scopertamente cerca di riportare in Sabina una vicenda che in PZ si svolge in area tiburtina, labicana e prenestina. L’accordo pressoché unanime degli archeologi contemporanei che escludono l’esistenza della Gabii sabina in cui PG ambienta gran parte della vicenda mi ha ulteriormente confortato nel ribadire l’ipotesi dell’anteriorità di PZ rispetto a PG. Vorrei infine ricordare l’utilità, quando non l’opportunità, di ripercorrere la storia degli studi sul culto dei santi e l’agiografia antica a partire dall’età moderna, a cominciare dalle Notationes di Cesare Baronio al Martyrologium Romanum : spesso vi si possono trovare le origini di tante opinioni non sempre adeguatamente motivate, e che pure si sono tramandate come dati di fatto incontrovertibili.

Die Edition der Regula Magistri im CSEL und ihre Probleme Klaus Zelzer (Wien)

1. Kurze Einführung 1.1. Die sogenannte Regula Magistri (RMag), die längste der lateinischen Mönchsregeln aus der Wende der Spätantike zum frühen Mittelalter, erscheint seit Jahrhunderten eng verbunden mit der Regula Benedicti (RBen). Dies betrifft sowohl den Gesamteindruck als auch die enge, teilweise sogar wörtliche Übereinstimmung des letzten Teiles ihres Prologs und einer Reihe von Abschnitten ihrer ersten zehn Kapitel mit dem Prolog und den ersten sieben Kapiteln des Benedikt1. Allerdings kennt man weder Autor noch Ort und Zeit der Entstehung dieser anonym überlieferten Regel ; auch Papst Gregor der Große, der von ihrem Autor wohl noch gewußt haben sollte, gab in seinen Dialogi keinen entsprechenden Hinweis, da ihm dieser offensichtlich nicht hinreichend bedeutend oder bemerkenswert erschien. Erst um die Wende des viii. zum ix. Jahrhundert bezeichnete Abt Benedikt von Aniane, als er mit Codex und Concordia Regularum seine beiden großen Regelsammlungen um die RBen zusammenstellte, den Text als Regula Magistri, nach der Formel respondit dominus per magistrum, die die Mehrzahl ihrer Antworten auf Schülerfragen einleitet.

1 Vgl. A. de Vogüé, J. Neufville, La Règle de S. Benoît, I, Paris, 1972 (SChr, 181), pp. 414-490 ; B. Steidle (ed.), Die Benediktusregel (lat.-dt.), Beuron, 19783, pp. 31-34 ; 54-88 ; B. Guevin, Synopsis Fontesque Regula Magistri – Regula Benedicti, St. Ottilien, 1998 (Regulae Benedicti Studia, Suppl. 10) ; K. Zelzer, « Benedikt von Nursia als Bewahrer und Erneuerer der monastischen Tradition der Suburbicaria », Regulae Benedicti Studia, 18 (1994), pp. 203-219 ; Id., « Zu einigen Textproblemen der Regula Magistri », in Textsorten und Textkritik, Tagungsbeiträge, edd. A. Primmer, K. Smolak, D. Weber, Wien, 2002 (Österr. Akad. d. Wiss., Sb. phil.-hist., 693), pp. 231-242.

DOI 10.1484/M.IPM.1.101082

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1.2. Was die Abfassungszeit der Regel betrifft, so gab es Jahrhunderte lang keinen Zweifel an der Abhängigkeit des Magisters von Benedikt ; daher setzte man den Text in das späte vi. oder in das vii. Jahrhundert2. Doch als man im frühen xx. Jahrhundert erkannte, daß ihre beiden ältesten und gar nicht so eng übereinstimmenden Textzeugen P und E bereits um das Jahr 600 geschrieben waren, erklärte Augustin Genestout (osb !) in den Dreißigerjahren zu allgemeiner Überraschung (und zum Entsetzen weiter benediktinischer Kreise), die RMag sei nicht von der RBen abhängig, sondern viel eher als Benedikts Vorbild und Hauptquelle anzusehen3. Dies gab Anlaß zu einer jahrzehntelang recht heftig geführten, nur durch den Zweiten Weltkrieg teilweise unterbrochenen Diskussion über den Ursprung der RMag, doch hat sich bis etwa in die Siebzigerjahre die Anerkennung ihrer Priorität gegenüber Benedikts Regel durchgesetzt4. Neben der Chronologie ihrer Handschriften und neben historischen Argumenten, etwa aus dem allgemein als älter anerkannten Charakter ihrer gesamten Organisation, zeigte Noch L. Traube, Textgeschichte der Regula S. Benedicti, München, 19102 (ed. H. Plenkers), p. 36, verwies die RMag und den Paris. lat. 12205 in das vii., den Paris. lat. 12634 in das frühe viii. Jahrhundert, vgl. H. Plenkers, Untersuchungen zur Überlieferungsgeschichte der ältesten lateinischen Mönchsregeln, München, 1906, pp. 50 ff. 3 Vgl. E. A. Lowe, « Some Facts about our Oldest Latin Manuscripts », Classical Quarterly, 19 (1925), pp. 197-208 ; Id., « More Facts about our Oldest Latin Manuscripts », Classical Quarterly, 22 (1928), pp. 43-62 (nr. 44) ; Id., Codices Latini Antiquiores, I-XI and Suppl., Oxford, 1934-1971 : 5, 633 und 646 ; 6, p. X ; A. Genestout, « La Règle du Maître et la Règle de S. Benoît », Revue d’ascétique et mystique, 21 (1940), pp. 51-112 ; Id., « Le plus ancien témoin manuscrit de la Règle du Maître, le Paris. lat. 12634 », Scriptorium, 1 (1946-1947), pp. 129142 mit Taf. 12-14 ; H. Vanderhoven, F. Masai, P. B. Corbett, La Règle du Maître, édition diplomatique des manuscrits latins 12205 et 12634 de Paris, Bruxelles – Paris, 1953, pp. 42-60. 4 Vgl. etwa Chr. Mohrmann, « Regula Magistri. À propos de l’édition diplomatique des mss lat. 12205 et 12634 de Paris », in : Ead., Études sur le latin des chrétiens, III, Roma, 1965, pp. 399-411 (ex Vigiliae Christianae, 8 [1954], pp. 239-251) ; D. Knowles, Great Historical Enterprises and Problems in Monastic History, London, 1963, pp. 139-195 ; B. Jaspert, Die RBen-RMagKontroverse, Hildesheim, 19772 ; A. de Vogüé, La Règle du Maître, I.2, Paris, 1964 (SChr, 105-106), 1, pp. 221-225 ; 233 ; Id., RBen, I (zit. Anm. 1), pp. 173-314 ; K. S. Frank, Die Magisterregel, Einführung und Übersetzung, St. Ottilien, 1989, pp. 5 ff. ; K. Zelzer, M. Zelzer, Von der Weltflucht zur Weltgestaltung. Benedikt von Nursia und seine Regel in seinem asketischen Umfeld und in den Dialogen Gregors des Großen, Wien, 2002 (Wiener Kathol. Akademie, 45), pp. 35-40. 2

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sich auch von sprachlicher Seite sehr deutlich, daß der Wortschatz der gemeinsamen Partien beider Regeln viel enger mit dem Eigengut des Magisters zusammengeht als mit dem des Benedikt5. 1.3. Als Ort der Entstehung dieser Regel wurden die verschiedensten Regionen innerhalb und außerhalb Italiens vorgeschlagen, von Südgallien und der Provence bis nach Bruttium, dem modernen Kalabrien. Doch verwies Adalbert de Vogüé auf die Nähe des Ordo psalmorum des Magisters zu dem der römischen Kirche und konnte so die RMag sehr wahrscheinlich dem Raum zwischen Rom und Neapel zuordnen6. Dazu fügt sich, daß einer der seltsamen liturgischen Termini der RMag, der sogenannte rogus dei für ein nicht näher bezeichnetes Gebet zum Abschluß gewisser Gebetszeiten, vom viii. bis ins xi. Jahrhundert vermehrt in der Rechtssprache der Gebiete um Capua, Benevent und Salerno wiederkehrt7. 2. Die Textgeschichte der RMag und ihre handschriftliche Überlieferung 2.1. Die Rekonstruktion der Textgeschichte der RMag ist schon deshalb schwierig, weil diese Regel bis zur Wende des viii. zum ix. Jahrhundert nur als anonymer Text verbreitet war und in Dokumenten des vorkarolingischen Mönchtums niemals eindeutig genannt wird. Anders als Benedikts Regel in ihrer reichen handschriftlichen Tradition, die allerdings mit einer Ausnahme erst in karolingischer Zeit einsetzt, ist die Regel des unbekannten Magisters nur in weni5 Vgl. etwa Knowles, Great Historical Enterprises (zit. Anm. 4), pp. 75 ff. ; Vogüé, RBen, I (zit. Anm. 1), pp. 245-267. 6 Vgl. Vogüé, RMag, I (zit. Anm. 4), pp. 255-233 ; Id., «Vues nouvelles sur la Règle du Maître...», in Bielawski – Hombergen (zit. Anm. 11), p. 724 f. – Besonders widersinnig war seinerzeit die Zuschreibung dieses sprachlich sehr problematischen Textes an Cassiodor in Squillace, den gelehrten Vorkämpfer sprachlich korrekter Weitergabe lateinischer Texte (vgl. Cassiod. inst. 1, 15, 11, u. Anm. 28) ! 7 Rogus dei erscheint syntaktisch korrekt als Nom. Sing. mask. in RMag 33-44, vgl. A. Pratesi, « Rogus = Rogatus », Archivum Latinitatis Medii Aevi, 22 / 1 (1952), pp. 33-62 ; E. Franceschini, « Un contributo linguistico allo studio della Regula Magistri », Aevum, 26 (1952), pp. 571 f. ; J. M. Niermeyer, Mediae latinitatis lexicon minus, Leiden, 20022, coll. 1203 f., verzeichnet zusätzlich fünf Stellen für per rogum (u. ä.) aus Pavia, Benevent und zwei Papstbriefen des viii. / ix. Jahrhunderts. Erklärungsversuche für rogus dei bei Frank, Die Magisterregel (zit. Anm. 4), p. 382 Anm. 30 ; vgl. K. Zelzer, M. Zelzer, « Weiteres zu Textproblemen der Regula Magistri », Wiener Studien, 120 (2007), pp. 215-246 (p. 239 Anm. 68).

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gen Zeugen erhalten, darunter in den beiden erwähnten frühen Handschriften der Jahre um 600, während der älteste erhaltene Textzeuge der RBen, der Codex Hatton 48 der Bodleiana in Oxford, erst etwa der Mitte des viii. Jahrhunderts entstammt8. Doch muß die RMag bereits in der ersten Hälfte des vi. Jahrhunderts in der Suburbicaria gelebt haben : einerseits wurde sie bald Vorbild und Quelle der gegen die Jahrhundertmitte verfaßten RBen, anderseits zeigen ihre beiden ältesten Zeugen aus der Region bereits etwa 70 bis 80 Jahre nach der Entstehung des Textes eine Reihe voneinander verschiedener Veränderungen und Verderbnisse (vgl. unten Abschnitt 3.3 f.). Von diesen beiden enthält Codex Paris. lat. 12205 (Süditalien, später Corbie ; CLA, 5, 633, P) die RMag vollständig, jedoch ohne Hinweis auf Verfasser oder Titel. Sie folgt zudem innerhalb der Vermerke incipit und explicit regula sanctorum patrum unmittelbar der kurzen Regula quattuor patrum (RIVP), der vermuteten Gründungsregel von Lérins, in ihrer süditalischen Fassung Π, was die Suche nach einem Autor nicht erleichtert9. Der andere etwa gleich alte Zeuge ähnlicher Herkunft, Paris. lat. 12634 (ebenfalls Süditalien, später Corbie und S. Germain des Prez ; CLA, 5, 646, E), ist das einzige (oder einzig erhaltene) Exemplar eines höchst wahrscheinlich von Eugippius, Abt von Lucullanum bei Neapel, zusammengestellten Regelcento, der sog. REug, etwa aus der Zeit der Entstehung der RBen. Dieser enthält unter ausgewählten Kapiteln aus Augustinus, Basilius, Cassianus und weniger anderer früher asketischer Texte nur 16 der 95 Kapitel des Magistertextes10. Bereits der unterschiedliche Zusammenhang dieser beiden alten Zeugen macht jedenfalls deutlich, daß weder der Text des ältesten vollständigen Codex (P) noch der des etwa gleich alten Regelcento des Eugippius (E) unmittelbar aus einem Autograph oder Archetyp des anonymen Magisters selbst kopiert sein können, was das Vertrauen zu ihren (zumal unterschiedlichen) Textformen nicht unbe8 Vgl. K. Zelzer, « Regulae Monachorum », in La trasmissione dei testi latini del medioevo (Te.Tra.), edd. P. Chiesa, L. Castaldi, I, Firenze, 2004, pp. 364393 (p. 373). 9 Vgl. A. de Vogüé, Les Règles des saints Pères, II, Paris, 1982 (SChr, 298), pp. 547 f. ; 561-576. 10 Vgl. F. Villegas, A. de Vogüé, Eugippii Regula, Wien, 1976 (CSEL, 87), pp. IX ff. ; Vanderhoven, Masai, Corbett, La Règle du Maître (zit. Anm. 3), pp. 318-337.

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dingt erhöht. Der Text von E zeigt gegenüber P (und dem gleich zu nennenden Codex C) sowohl manche richtige Lesart bewahrt als auch eine Reihe eigener Veränderungen und Verderbnisse, er erscheint aber niemals als Vertreter einer ersten, ‘primitiven’ Version, eines ‘Kerns’ der RMag, als den ihn vor Jahrzehnten François Masai und Eugène Manning vorstellen wollten11. 2.2. Anderseits zeigt die von Benedikt von Aniane seinen beiden erwähnten Sammelwerken zugrunde gelegte Tradition, daß ein Zweig des Magistertextes relativ früh in den südgallisch-fränkischen Bereich gelangt sein mußte. Nach wechselnden Erfahrungen mit strengeren eremitischen Lebensformen in jüngeren Jahren fand der wisigotische Adelige Witiza (Euticius) die geeignetste Vorlage asketischen Lebens in der Regel des Benedikt von Nursia, nahm dessen Namen an und sammelte nach Gründung seines Klosters Aniane ab dem Jahr 780 alle erreichbaren Regeln dieser Region für eine Reform des Klosterlebens in Aquitanien. Wenige Jahre später berief ihn Ludwig der Fromme, Sohn Karls des Großen und damals König von Aquitanien, zum Reformabt seines Reiches : omnibus in suo regno monasteriis praefecit ut normam salutiferam cunctis ostenderet12. Daher stellte er gegen Ende des viii. Jahrhunderts alle von ihm gesammelten Regeln der RBen gegenüber : im Codex in vollständiger Form, in der Concordia abschnittweise den einzelnen Kapiteln des Benedikttextes. Nach dem Tode Karls im Jahr 814 berief Ludwig als sein Nachfolger Benedikt aus Aniane zur Reform aller Klöster des Gesamtreiches in das eigens für ihn gegründete Kloster Inda / Kornelimünster bei Aachen13, wobei es vordringlich um die Durchsetzung der RBen 11 Vgl. etwa Th. Payr, « Der Magistertext in der Überlieferungsgeschichte der Benediktinerregel », in Regula Magistri – Regula S. Benedicti, ed. B. Steidle, Roma, 1959 (Studia Anselmiana, 44), pp. 1-84 (pp. 18-24) ; gegen die Thesen von Masai und Manning vgl. A. de Vogüé, Le Maître, Eugippe et saint Benoît, Hildesheim, 1984 (RBS Suppl., 17), pp. 163-186 ; 193-199 ; 259-333 ; K. Zelzer, « Nochmals à propos de la tradition manuscrite de la règle bénédictine », Regulae Benedicti Studia, 12 [1983 (1985)], pp. 203-207 ; Id., « Zu einigen Textproblemen » (zit. Anm. 1), pp. 233 f. ; Id., « Zur Geschichte und Überlieferung des Textes der Regula Benedicti », in Il monachesimo tra eredità e apertura, edd. M. Bielawski, D. Hombergen, Roma, 2004 (Studia Anselmiana, 140), pp. 739-751 (741 ff.). 12 Ardonis Vita Benedicti Abbatis 29, vgl. Benedicti Anianensis Concordia Regularum, ed. P. Bonnerue, Turnhout, 1999 (CC CM, 168 ; 168A), I, pp. 29-43 (mit Anm. 74). 13 Vgl. Bonnerue (zit. Anm. 12), I, pp. 44-47.

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gegenüber den Mischobservanzen ging, noch nicht um die Reform ihres Textes. Doch ersetzte der Abt damals, gleichsam als Signal dieser Reform, in seinem Codex Regularum den vorkarolingisch entwickelten monastischen Gebrauchstext der RBen durch den sogenannten ‘authentischen’ (oder ‘reinen’) Text, den Karl der Große als Kopie aus Monte Cassino erhalten hatte ; alle anderen Regeln aber, darunter auch die RMag, beließ er in der von ihm aus Aquitanien mitgebrachten Textform14. Das einzige erhaltene Exemplar seines Codex Regularum, darin die ganze RMag15, findet sich heute in München, Clm 28118 (C), geschrieben vor 821 (Benedikts Todesjahr) im erwähnten Reformkloster Inda. Die älteste Kopie der Concordia, ebenfalls aus dem ix. Jahrhundert und wahrscheinlich aus Fleury sur Loire, liegt heute in Orléans, Bibliothèque Municipale, 233 (F). Ihr Text enthält 54 Kapitel des Magisters jeweils in Gegenüberstellung mit den entsprechenden Kapiteln des Benedikt16. 2.3. Für die RMag stehen somit vier Zeugen zur Verfügung : je einer des vollständigen Textes aus den Jahren um 600 (P) und aus dem ersten Drittel des ix. Jahrhunderts (C, aus aquitanischer Tradition des späteren viii. Jahrhunderts), und zwei Auswahltexte, ein kürzerer des Eugippius, ebenfalls aus den Jahren um 600 (E), und ein längerer des Benedikt von Aniane im Codex F aus dem ix. Jahrhundert, eng verwandt mit der Textform des C.

14 Seit damals bietet die Concordia für die RBen eher den vorkarolingischen monastischen ‘Gebrauchstext’, aus dem auch manche Lesarten in den Magistertext geraten sind (etwa 2, 4 quod absit, 2, 8 erit liber, C), der Codex eher den sogenannten ‘reinen’ Text aus Cassino ; vgl. etwa Plenkers, Untersuchungen (zit. Anm. 2), pp. 3 ; 20 ; Zelzer, « Regulae Monachorum » (zit. Anm. 8), pp. 378 f. Die Concordia ist in R. Hansliks Benedikt-Ausgabe, Wien, 19772 (CSEL, 75) nicht berücksichtigt, da unzutreffend als ‘kontaminiert’ bezeichnet (ib. xxix f.), vgl. K. Zelzer, « Zur Stellung des Textus Receptus und des interpolierten Textes in der Textgeschichte der Regula S. Benedicti », Revue Bénédictine, 88 (1978), pp. 205-246 (pp. 212-216). 15 Mit Ausnahme zweier Blattverluste, die aus einer späten Abschrift in Köln (Arch. W.F. 231, aus dem Jahr 1466, K) zu ergänzen sind. 16 Editionen : S. Benedictus Anianensis. Codex Regularum, ed. L. Holstenius, Romae, 1661, (16632) observationibus critico-historicis a M. Brockie additis aucta et emendata, Augustae Vindelicorum, 1759 (übernommen von I. P. Migne, PL 103, coll. 393-665, mit Verweis auf in anderen Bänden abgedruckte Regeln, etwa PL 88, Paris, 1850, coll. 943-1052 für RMag) ; bzw. Bonnerue (zit. Anm. 12).

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3. Aufbau, Textform und Sprache der RMag 3.1. Wie die RBen ist auch die RMag ein Komposittext aus verschiedenen in Mittelitalien umlaufenden asketisch-monastischen Traditionen. Doch während für Benedikts Regel drei inhaltlich und sprachlich unterschiedliche Hauptteile zu unterscheiden sind : geistlich-asketische Grundlagen (prol.-cap. 7, in bearbeiteter Auswahl aus der RMag), liturgischer Kalender (8-20, wohl aus einer stark volkssprachlich gefärbten romnahen Tradition) und, als Benedikts Eigentext in zwei Stufen, klösterliche Organisation (21-66 ; 67-73), ist über Herkunft oder Hintergrund der Motive, Kapitel oder Kapitelgruppen des anonymen Magisters keine Aussage möglich17. 3.2. Doch erscheint bemerkenswert, daß seine Regel, anders als die um 400 ins Lateinische übersetzten eher ungeordneten frühen Texte des Basilius und Pachomius, eine einigermaßen logisch-rationale Abfolge von Themen und Kapiteln aufweist, vielleicht unter dem Einfluß einer gewissen römischen Tendenz zur Organisation, die sie Benedikt als Vorbild für seine Regel empfahl18. Anderseits läßt ihre teilweise eher verwilderte Syntax, Morphologie und Orthographie den Leser gelegentlich etwas ratlos zurück19. 3.3. Die beiden alten Zeugen P und E aus der Zeit um 600 sind in verschiedener Weise mit Fehlern, Verlesungen, Verschreibungen und Verwechslungen durchsetzt, Codex P zusätzlich mit einer Reihe von 17 Manche Vermerke verweisen mehr oder weniger deutlich auf gewisse Kapitelgruppen, etwa explicit actus militiae cordis nach den asketisch-monastischen Grundlagen RMag 10, 123 (die in Auswahl auch Benedikt übernahm), oder incipit regula quadragesimae und explicit regula quadragesimalis vor bzw. nach Kap. 51 und 53, ferner die liturgische Ordnung currente psalterio ähnlich der der römischen Kirche und die Vorschriften zur Aufnahme bzw. Einsetzung neuer Brüder oder eines neuen Abtes ; vgl. auch Vogüé, RMag (zit. Anm. 4), I, pp. 155 ff. Wie die RMag endete wohl auch Benedikts Regel zunächst mit dem Kap. 66 über den Pförtner (der als Verbindung zur Außenwelt ursprünglich sehr bedeutend war, auch bei Aufnahme von Eintrittswilligen, vgl. Vogüé, Règles [zit. Anm. 9], II, pp. 431 f. zur sog. Regula Orientalis). Die Kapitel RBen 67-73 sind wohl ein Nachtrag Benedikts, worin er sein Kloster durch organisatorische und spirituelle Neubestimmung der nun als solcher anerkannten Brüdergemeinschaft noch deutlicher von dem des Magisters absetzt. Zur abweichenden Anordnung der liturgischen Kapitel von RMag und RBen vgl. auch Payr, « Der Magistertext » (zit. Anm. 11), pp. 77 ff. 18 Vgl. Vogüé, RMag (zit. Anm. 4), I, pp. 169-195. 19 Vgl. Zelzer, « Benedikt von Nursia » (zit. Anm. 1), pp. 209 f. ; K. Zelzer, M. Zelzer, « Weiteres zu Textproblemen » (zit. Anm. 7), passim.

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Vulgarismen. Dieser älteste vollständige Zeuge der Regel, erstmals von Vogüé seinem Regeltext zugrundegelegt, ist von zwei Schreibern (Pa / Pb) in verschiedener Weise aus einem Subarchetypus kopiert, der selbst bereits manche Fehler und umgangssprachliche Formen enthalten hatte : etwa sconmunicatio (24 Mal an Stelle von excomm- ; wogegen die Magisterkapitel in E sieben Mal die korrekte Form und nur einmal sconmunicatio zeigen)20, ferner antefana, oblagiae und usitilia (für antifona, eulogiae und utensilia), Formen, die weder in der aquitanischen Tradition von Aniane erscheinen noch bei Benedikt oder Eugippius (E), deren Regeln bald nach der RMag etwa gleichzeitig in der gleichen Region entstanden sind. 3.4. Auch die aquitanische Tradition von Aniane (CF), die zwar von einem mit P gemeinsamen, durch Lesarten und alte Fehler belegbaren Subarchetypus ausgeht, ist nach vorkarolingischer Entwicklung einer Anzahl eigener Korrekturen und Fehler nicht mehr unmittelbar mit dessen Text verwandt21. Somit müssen sich die beiden Linien einer im frühmittelalterlichen Mönchtum noch lebendigen Tradition dieser Regel bereits früh voneinander getrennt haben. Dabei erweist sich der Text von CF einerseits verderbt durch sehr frühe Fehler und Mißverständnisse, aber auch durch solche der Kopisten des Subarchetypus dieses Zweiges (also teilweise noch 20 Vgl. Vogüé, RMag (zit. Anm. 4), I, pp. 126 ; 245-262 (pp. 253 f.) ; nur ausnahmsweise schreibt P de exconmunicatione culparum für Kap. 12 (als spätere Zufügung ?) in Inhaltsverzeichnis und Titel (vgl. Vogüé, RMag [zit. Anm. 4], III, pp. 165 f.) und E (REug 39, 5) scommunitione für excommunicatione, vgl. Villegas, Vogüé, REug (zit. Anm. 10), pp. 81 ; 102 (aus RMag 12, 5) ; Zelzer, « Zu einigen Textproblemen » (zit. Anm. 1), pp. 241 f. Sehr ausführlich zu Sprache, Schrift, Orthographie und Fehlern Vanderhoven, Masai, Corbett, La Règle du Maître (zit. Anm. 3), pp. 67-113 (‘Travail des scribes et problèmes d’édition’), was jedoch nicht immer zu Zustimmung einlädt (etwa die Aussage, die Codd. PE seien « tous deux très correctement écrits », p. 90). 21 Beispiele alter gemeinsamer Lesarten, Fehler und Lücken von PC finden sich bei Payr, « Der Magistertext » (zit. Anm. 11), pp. 18 f., dazu kommen mehrere erst von uns erkannte Fehler (vgl. u. Abschnitt 4.6 f.), etwa et disputatione th. 12 ; cognitione ignoranti th. 19 ; armaverit 8, 30 (gleichzeitig Beispiel für syntaktische Anpassung des Textes von CF an den Fehler) ; nomina 33, 40, und Ziffernverluste und Homoioteleuta im liturgischen Teil, etwa Verlust der Zahl XII und tria statt IIII 33, 29 ; octo 33, 36 ; responsorium sine alleluia 44, 2.6 ; deinde tria antiphona cum alleluia om. 44, 2. Einige Beispiele besserer Lesarten und mancher Bewahrung des Textes « des diesen beiden Handschriften gemeinsamen Subarchetypus » in C gegenüber (dem von Payr sonst bevorzugten) P verzeichnet schon Payr, « Der Magistertext » (zit. Anm. 11), p. 19.

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gemeinsam mit P, teilweise bereits von seiner Textform abweichend), ferner durch die allgemeine vorkarolingische Verwilderung der Orthographie, etwa häufig -ae- für -e- auch in unbetonten Silben, wie aeclesia (was oft auch noch nachkarolingisch erscheint), piaetas, consuaetudine ; anderseits fehlen in CF bei einer im Allgemeinen korrekteren Syntax22 auch die zahlreichen umgangssprachlichen Formen von P. Doch bietet Codex C im frühen ix. Jahrhundert keinen nach Grundsätzen der ‘karolingischen Reform’ durchkorrigierten Text, wie bisher immer wieder vermutet wurde ; sein Text beruht vielmehr auf einem Exemplar der zweiten Hälfte des viii. Jahrhunderts aus dem Umkreis von Aniane, Ergebnis einer mehr oder weniger lebendigen, aber infolge der Anonymität des Textes nicht konkret erfaßbaren vorkarolingischen Tradition mit Verderbnissen und Korrekturen verschiedener Stufen23. Für die Erstellung des Magistertextes ist daher die Tradition von CF ebenso bedeutend wie die der älteren Zeugen PE24. 3.5. Jedenfalls sind die verschiedenartig überlieferten volks- oder umgangssprachlichen Wort- oder Ausdrucksformen der Handschriften kaum mit Sicherheit auf die Absicht des Autors selbst zurückzuführen, gelegentlich vielleicht auf seine Nachlässigkeit. Im Zuge des Niedergangs der korrekten Beherrschung der lateinischen Sprache im v. und vi. Jahrhundert sorgten sich auch antiquarî und librarî trotz 22

Wenngleich diese auch nicht immer von Erscheinungen der Phonetik oder Orthographie zu scheiden ist, etwa bei in monasterio oder in monasterium, oder bei gewissen sprachlichen Korrekturen. 23 Schon L. Traube erschloß im Vorwort zu Plenkers, Untersuchungen (zit. Anm. 2), pp. VIII f., aus Resten iberisch-hispanischer Abkürzungen in C, Abt Benedikt habe die im frankogallischen Süden gesammelten Regeltexte ohne weitere Korrektur seinen Mönchen zur Abschrift übergeben. 24 Nicht aufrecht zu erhalten ist die frühere Überschätzung des Codex P auf Grund seines Alters, etwa « The text of RM in ms P is so generally sound that every effort should be made to understand it as there given » (P. B. Corbett, The Latin of the Regula Magistri, Louvain, 1958, p. 130) ; « P ist eine vorkarolingische Handschrift und daher verlässlicher als der ihm nahestehende Monacensis 28118 ..., der die Regula Magistri im Rahmen des Codex Regularum des Benedikt von Aniane bietet » (Payr, « Der Magistertext » [zit. Anm. 11], p. 14 ; sie spricht für Clm 28118 auch von « Glättungen, die man den Tendenzen der karolingischen Reform zugutehalten wird », ibid., p. 19) ; « Ces dates » (der Zeugen PCK) « suggèrent d’elles-mêmes l’importance primordiale de P. Seul en effet ce manuscrit livre un texte non encore retouché par les scribes carolingiens, dont on connait les tendances normalisatrices » (Vogüé, RMag [zit. Anm. 4], I, p. 126).

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oft sehr schöner Schrift vielfach wenig um sprachliche Form und Qualität der von ihnen kopierten Texte und behandelten Orthographie, Morphologie und bisweilen auch Syntax eher nachlässig, worüber bereits Augustinus klagte25. Anderseits zeigen gewisse unklar oder ungeschickt formulierte, aber eindeutig überlieferte Sätze und Perioden, daß entweder der anonyme Magister selbst oder eine seiner unbekannten Quellen gelegentlich die Syntax nicht allzu genau nahm oder die Wortstellung verdrehte, durch Zufall, aus Nachlässigkeit oder vielleicht auch nach dem Geschmack einer manieristischen Tendenz spätantiken Stils26. Aus der großen Zahl der Verderbnisse nicht nur der beiden alten Codices (PE), sondern auch der vorkarolingischen Tradition des Benedikt von Aniane (CF) und aus den gemeinsamen, daher frühen Fehlern von PC wird sehr wahrscheinlich, daß das sogenannte ‘autographische Exemplar’ des Magisters selbst, der Archetypus der gesamten Tradition, für den täglichen Gebrauch im Kloster in (semi)kursiver Minuskel und möglichst platzsparend auf hölzernen Wachstafeln (tabulae) konzipiert war, selbst geschrieben oder diktiert, unter Verwendung sowohl allgemein üblicher als auch besonderer monastischer Abkürzungen liturgischer oder organisatorischer Begriffe, die nicht immer sorgfältig gesetzt oder aufgelöst wurden. So konnten etwa gekürzte Verbalendungen, aber auch die Mehrdeutigkeit der Suspension f für frater und fratres zu den relativ häufig überlieferten Numeruswechseln der Prädikate aufeinander folgender Sätze führen27. Solche tabulae, wie sie etwa in RMag 50 25 Vgl. etwa Aug. retract. 2, 38, 8, in primo ergo libro ... mendositas codicis nos fefellit ; epist. 139, 3, libros de baptismate parvulorum ... mendosos eos repperi et emendare volui ; dazu M. Zelzer, « Zum Wert antiker Handschriften innerhalb der patristischen Überlieferung », in Miscellanea di studi agostiniani in onore di P. Agostino Trapé = Augustinianum, 25 (1985), pp. 523-537 (p. 532). 26 Zur Sprache des Magisters bzw. der Handschriften seiner Regel vgl. etwa Vogüé, La règle du Maître (zit. Anm. 4), I, pp. 196-206 ; 245-262 ; III (Indices) ; A. Grilli, in M. Bozzi, A. Grilli, Regola del Maestro, II, Introduzione, testo e note, Brescia, 1995, pp. 7-17 ; zu Orthographie und Fehlern von Autor und Schreibern ausführlich Vanderhoven, Masai, Corbett, La Règle du Maître (zit. Anm. 3), pp. 67-113. 27 Vgl. schon Plenkers, Untersuchungen (zit. Anm. 2), pp. 6, 13f. (zu Abkürzungen in CF) ; die häufigen Numeruswechsel der Überlieferung haben wir im Text zum Teil ausgeglichen, zum Teil als Anakoluthe gekennzeichnet. – ff für fratres war möglich, aber nicht zwingend, antike Suspension schrieb nur den ersten Buchstaben einer Form.

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und 57 als Unterrichtsbehelfe für Lesen und Schreiben lernende Brüder erwähnt werden, wurden erst anschließend mehr oder weniger sorgfältig in Codices übertragen, wobei bereits vor Abschrift der erhaltenen Zeugen P und E die frühesten Fehler auftreten konnten, etwa bei der Auflösung von Abkürzungen oder der Mutilation von Ziffern (vgl. u. Abschnitt 4.6.). 4. Die Erstellung des Textes der RMag 4.1. Die Konstitution des Magistertextes und die Darstellung dieses Vorgangs in kurzen Worten ist daher, auch abgesehen von der divergierenden handschriftlichen Bezeugung, aus mehreren Gründen eher schwierig28. Einerseits enthält der Text über die ganze Länge verstreut eine Reihe sprachlich und inhaltlich problematischer Stellen, die hier in Kürze nicht zu behandeln sind, anderseits auch Gruppen typischer Probleme, von denen wir im Folgenden wenige Beispiele bereits gelöster als auch noch offener Fragen anführen. Zur Erstellung eines möglichst verständlichen Textes, der nicht vordringlich den vor allem von Codex P gebotenen sprachlichen Seltsamkeiten des vi. Jahrhunderts folgt, waren nicht nur die drei Traditionen von P, E und CF gegeneinander abzuwägen, sondern auch manche von ihnen gebotene, kaum verständliche Textstelle durch Korrektur oder Konjektur zu heilen29. Der Anteil kaum verständlichen Textes, den man als Editor einem Autor gerade noch zutrauen (und in mühevollen Überlegungen erklären oder retten) will, bleibt dabei mehr oder weniger subjektiv. Wir gehen dabei nicht so weit wie frühere Editoren, da ein Text vor allem verständlich sein sollte und seine Aussage wohl zu trennen ist von seiner eher zufälligen orthographischen oder umgangs- (bzw. vulgär-) sprachlichen Schriftform in verschiedenen Überlieferungsträgern. Texteingriffe werden wie üblich durch Tilgungs- oder Einfügungsklammern bezeichnet, wo dies nicht möglich ist, in den meisten Fällen durch 28 Vgl. etwa die laufenden Bemerkungen in den Editionen von Vogüé, La Règle du Maître (zit. Anm. 4), unter dem Text und Grilli (zit. Anm. 26) im Kommentar, ferner Corbett, The Latin (zit. Anm. 24) ; Payr, « Der Magistertext » (zit. Anm. 11) ; Zelzer, « Zu einigen Textproblemen » (zit. Anm. 1) ; K. Zelzer, M. Zelzer, « Weiteres zu Textproblemen » (zit. Anm. 7). 29 Nach der Anweisung Cassiodors an seine mit Transkription von Texten befaßten Brüder : Quod si tamen aliqua verba reperiuntur absurde posita ... intrepide corrigenda sunt (inst. 1, 15, (9) 11).

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die Sigle q am Seitenrand, die auf den Apparat verweist : ‘quaere in apparatu’. Dennoch verbleiben im Text eine Reihe von Problemen : neben den umgangssprachlichen Formen des Codex P stehen etwa nicht hinreichend klar tradierte, formulierte oder strukturierte Sätze oder Perioden, die mehrfach wenigstens mit einem Gedankenstrich als anakoluthisch bezeichnet werden (um nicht stärker einzugreifen), oder einzelne technische Ausdrücke der monastischen Fachund Umgangssprache, die in vergleichbaren Texten gar nicht oder nur sehr selten, in der RMag gelegentlich auch ohne Rücksicht auf Kasus, Genus oder Numerus auftreten. Auf all dies wird meist ebenfalls durch am Rand gesetztes q verwiesen : wenn auch nicht alles notwendig die Sprache des Autors selbst betrifft, erscheinen darin doch Tendenzen der allgemeinen und monastischen Sprachentwicklung der Zeit und der Region, die im Apparat deutlich als solche dokumentiert sein sollten. 4.2. So findet sich etwa die allein in P häufige umgangssprachliche Form antifana im Regelcento E nur fünf Mal zu Beginn seines ersten Kapitels, des ordo monasterii des Augustinus30. Da aber die Verwendung dieser Form weder für ihn als früheren Rhetorikprofessor noch für einen seiner Freunde noch auch für Eugippius selbst anzunehmen ist, alle sehr gebildete Personen, wird sie auch in E auf einen wenig gebildeten librarius des ausgehenden vi. Jahrhunderts zurückzuführen sein, etwa als Auflösung einer liturgischen Abkürzung (wie 33, 40 der alte Fehler nomina statt numerum in PC und den modernen Editionen, der auf falscher Auflösung der antiken Suspension ñ beruht). In ähnlicher Weise drangen in P für verschiedene Abkürzungen wohl auch andere umgangssprachliche Formen ein, etwa oblagiae für den griechischen Begriff eulogiae, der in zwei Kapiteln des Magisters und bei Benedikt erscheint (immer im Plural, für außerordentliche Zuwendungen einer hochgestellten Person, etwa eines Bischofs), nicht aber bei Eugippius ; oder die Form usitilia an Stelle der bei

30 REug 1, 4-9, vgl. Vogüé, RMag (zit. Anm. 4), III, pp. 54 f. ; Villegas, Vogüé, REug (zit. Anm. 10), pp. 3 ; 111 ; die Form erscheint weder in CF noch in der RBen (mit Ausnahme von antefana im Oxon. Bodl. Hatton 48 des viii. Jahrhunderts), vgl. R. Hanslik, Benedicti Regula, Wien, 19772 (CSEL, 75), pp. 66 (app. crit.) ; 203.

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Livius, Columella, Vegetius und in RBasRuf und RMag (C) belegten Normalform utensilia31. 4.3. Weitere umgangssprachliche Formen finden sich in der Liturgie- und Mahlzeitenordnung oft ohne Rücksicht auf Kasus, Genus oder Numerus verwendet (möglicherweise als indeklinabel empfunden, wie Philip B. Corbett und Adalbert de Vogüé vermuteten) : etwa merum / meros, (noch) unvermischter Wein, caldum / caldos, warmes Getränk, singulae oder singulas caldos, einzelne warme Getränke, ante / post pullorum cantus, vor / nach dem ersten Hahnenschrei (wo C meist die Formen korrekt dekliniert). Außerdem zeigt sich eine gewisse Unsicherheit für Formen wie opera, als Neutr. Pl. oder Fem. Sing. (opera corporalia oder urgentia in C, opera corporalis oder opera urgente in P), oder bei im vi. Jahrhundert akustisch nicht mehr unterschiedenen Fügungen wie in monasterio oder in monasterium und ähnlichen. Das macht die Erstellung eines zuverlässigen Textes zusätzlich schwierig ; bei Fehlen einer grammatisch eindeutigen Lösung setzen wir daher eher die korrekte Form (meist aus der aquitanischen Tradition), da ein Autor vermutlich seinen Text korrekt und verständlich bieten wollte, auch wenn ihm das gelegentlich nicht gelungen ist. 4.4. Ein praktisch unlösbares Problem in formaler Hinsicht betrifft (wie von Vogüé bereits aufgezeigt) die Kapitelüberschriften, nicht nur ihre Aufzählung im Inhaltsverzeichnis nach dem sog. ‘Thema’, sondern auch jeweils an ihrem Platz vor den einzelnen Kapiteln. Weder der Beginn der Regel noch der ihrer einzelnen Kapitel bietet verläßliche Anhaltspunkte zur Beurteilung ihrer Authentizität, zumal einerseits die Inhaltsliste nicht zwischen Prolog und erstem Kapitel steht wie in der RBen, sondern vor Prolog und Thema, aber ohne diese beiden ihr dann folgenden Stücke zu nennen, anderseits die einzelnen Titel in den Handschriften verschie31 Vgl. RBasRuf (Regula Basili a Rufino latine versa, ed. K. Zelzer, Wien, 1986 [CSEL, 86]), 103, 0 ; 106, 1 ; RMag 16, 57 ; 18, 3 ; 79, 3 ; für die paganen Autoren vgl. K. E. Georges, Ausführliches lateinisch-deutsches Handwörterbuch, s.v. – Elemente beider lat. Formen enthält die moderne frz. Form ustensile für ‘Haus- bzw. Küchengerät’ (auch in Vogüés Übersetzung) ; im Ital. heißt es allerdings utensile, auch der ‘Südfranzose’ Cassian aus Marseille schreibt utensilia ohne Varianten in der Überlieferung. Grilli, Regola (zit. Anm. 26), II, p. 262, zitiert aus Du Cange die Formen usibilia und usibilis für das Jahr 855 und die spanische Mark (was nach Suffixwechsel aussieht), Georges nennt utibilis aus Plautus und Terenz neben der Normalform utilis, jedoch nicht *usitilis.

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den behandelt sind, da C im Verlauf des Textes mehr Titel bietet als P32. Benedikt von Aniane übernahm in seinen Codex Regularum (die Vorlage von C) zwar mehr Titel, aber nicht die vollständige Reihe (so es diese jemals gab) ; dies ist wohl ein weiteres Argument dafür, daß er seinen aus der aquitanischen Tradition gewonnenen Text nie systematisch korrigiert hat. Zudem ist ihre ursprüngliche Formulierung wohl kaum mehr zu erreichen, da P und C die Titel meist abgekürzt bieten : möglich wären einerseits interrogatio discipuli oder discipulorum, anderseits respondet oder respondit dominus per magistrum. 4.5. Im ordo liturgicus, einem wesentlichen, bisweilen einer passenden Quelle entnommenen Teil jeder Klosterregel (vgl. RBen, oben 3.1.), besteht ein gewisses Problem um den Begriff evangelium, der je für Matutin und Lucernarien (Vesper) und für die vier Tagzeiten, Komplet und Nocturn in P und C in verschiedener Form überliefert ist : lectionem apostoli et evangelia quae semper abbas dicat (P) : 35, 1 / 36, 1 (jeweils evangelii C ; matut. / lucern. [= vespera ; cf. 35, 5.12]), 39, 2 (lectiones et evangelia quae PC ; matut.)33, 41, 3 (evangelium quod C ; lucern.) ;

cum responsorio et evangelia / cum < responsorio et > evangelia (P) : 36, 2 (PC), 36, 7 (evangelio C ; lucern. Winter / Sommer) / 39, 3 (evangelio C ; matut.) ;

lectionem apostoli lectionem evangelii quam semper abbas dicat (PC) : 35, 3 (IIII horae) ; 44, 4 (noct.) ;

lectionem apostoli lectionem evangeliorum quam semper abbas dicat (PC) : 37, 1 (compl.) ; 40, 3 (IIII horae) ; 44, 8 (noct.) ;

Vgl. Vogüé, RMag (zit. Anm. 4), I, pp. 158-169. Vielleicht eher lectionem ‹apostoli› et…wie 35, 1 ; 36, 1 ; 43, 1 ? Jedenfalls erscheint der Plural lectiones seltsam, bezogen auf eine einzelne lectio (36, 2.7 ; 39, 2) ; möglicher Weise durch eine Kürzung wie lecτ oder lectioñ ausgelöst, was für evangelia quae bzw. lectionem evangelii quam weniger wahrscheinlich ist ; vgl. auch Vogüé, RMag (zit. Anm. 4), II, pp. 192 f. Anm. 36, 2 ; Bozzi, Grilli, Regola (zit. Anm. 26), II, p. 320 (zu 39, 2 bezogen auf 35, 2). 32 33

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An den zitierten Stellen bietet P somit für Matutin und Lucernarien (gleich Vesper, vgl. 34, 5.12) durchgehend die Pluralformen evangelia bzw. evangelia quae als nicht von lectionem abhängig, wobei C zum Teil mitgeht, zum Teil wohl korrigiert hat ; dagegen bieten PC übereinstimmend für die vier Tagzeiten (Prim, Terz, Sext, Non) und für Komplet und Nokturn (vor der Matutin) lectionem evangelii (oder evangeliorum) quam. Die an diesen Stellen seltsame, in P durchgehend gesetzte Pluralform evangelia könnte nach Adalbert de Vogüé Cantica aus den Evangelien bezeichnen, die bis heute Bestandteile des liturgischen Morgen- und Abendlobes sind, etwa Benedictus und Magnificat (Lc 1, 68-79 ; 46-55) ; für Marcellina Bozzi ist dies noch fraglich34. Der festen Verteilung der Formen in P folgend setzen wir daher (versuchsweise) für Matutin und Lucernarien die Form evangelia, zumal sie dort auch mit dem Relativum quae kongruiert (35, 1 ; 36, 1 ; 39, 2 ; 41, 3) und sich anschließend auf diese Kongruenz bezieht (36, 2.7 ; 39, 3). Codex P dürfte hier eine ursprüngliche, ungrammatisch-‘monastische’ Formulierung erhalten haben, die C aus lebendiger Textentwicklung bereits mehrfach, aber nicht durchgehend sprachlich korrigiert überliefert35. Auf distributive Verwendung von evangelia könnte die Verteilung der Formen in 46, 4-6 verweisen : evangelii lectiones si praesens fuerit abbas semper dicat, … postquam lectio apostoli fuerit recitata, evangelia semper abbas praesens sequatur ; … sequitur diaconus evangelia sancta lecturus. Innerhalb der Regelung beliebiger Gebetszeiten (quovis tempore, 46 tit.) erscheinen zwar die evangelia in 46, 5 f. ebenfalls unter Matutin und Lucernarien, sie werden dort jedoch kaum viel anderes bedeuten können als die evangelii lectiones von 46, 4 im Sinne von ‘Lesungen des Evangeliums’ oder ‘Evangelien’, die der Abt (bzw. bei Verhinderung ein Diakon) jeweils vorzutragen hat. Letzte Klarheit über all dies ist jedoch wohl kaum mehr zu gewinnen. 4.6. Für einzelne Teile der liturgischen Tagzeiten sind vor allem die Zahlenangaben vielfältigen Verderbnissen ausgesetzt : römische Zahlzeichen werden leicht verstümmelt, mißverstanden oder ganz 34 Vgl. Vogüé, RMag (zit. Anm. 4), II, p. 192 Anm. 36, 1 bzw. Bozzi, Grilli, Regola (zit. Anm. 26), I, p. 320 ; zu den liturgischen Kapiteln insgesamt vgl. Bozzi in Bozzi, Grilli, Regola (zit. Anm. 26), I, pp. 316-329. 35 Deutlich etwa singula responsoria versus lectio apostoli et evangelium quod … (41, 3) ; mehrfach auch (lectionem) evangelii und (cum) evangelio.

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verloren. Die liturgischen Kapitel (33-44) erscheinen daher auch deshalb in Handschriften und Editionen eher konfus. Doch lassen sich die Ziffern für die Häufigkeit der sogenannten impositiones, gewisser Bestandteile liturgischen Gebetes wie antiphonae oder responsoria36, damit auch Struktur und Aufbau der einzelnen Horen, auf Grund ihrer vom Autor jeweils geforderten Summe und ihres (von diesem offenbar vorausgesetzten) Verhältnisses von drei zu eins (vgl. 33, 36.40.42-51) durchaus wieder herstellen ; dazu bedarf es keiner eingehenden Kenntnis der Liturgie, sondern nur der Beachtung der Vorgaben des Autors. So verlangt RMag 33 unter dem Titel de officiis divinis in noctibus für den Sommer viginti impositiones, bestehend aus novem antiphonae (so bei Adalbert de Vogüé zu Recht aus der nach Verlust einer Haste unvollständig überlieferten Zahl octo) und tria responsoria, somit zwölf Einheiten (33, 35 f. ; wie sie fast gleichlautend 33, 39 f. secundum numerum – nicht nomina ! – apostolorum gefordert werden), denen weitere octo matutinorum impositiones zugezählt werden (33, 37)37. Diese insgesamt zwanzig Einheiten verstehen sich ohne Lesungen und Vers (extra lectiones et versum) ; hinzuzufügen (aber nicht mehr mitzurechnen) ist der schon erwähnte seltsame, jeweils nach Ende der Aufzählung korrekt im Nom. Sg. genannte rogus dei (33, 36, vgl. 30). Ähnlich sind für die längeren Nächte des Winters viginti quattuor impositiones vorgeschrieben (33, 27.32), bestehend aus sedecim nicht näher bezeichneten und octo matutinorum impositiones (33, 30 f.), wie im Sommer extra lectiones et versum, und wieder abgeschlossen durch einen rogus dei. Diese winterlichen sedecim impositiones sind aber nur als Folge von zwölf Antiphonen und vier Responsorien zu verstehen (33, 29 f.)38. Die Codices PC bieten hier allein antiphonae ohne Zahl et tria responsoria, daher ergänzte Vogüé (nach Ménard und Holste) vor antiphonae die Zahl XIII39, um mit tria responsoria Vgl. Frank, Magisterregel (zit. Anm. 4), p. 382 Anm. 30. Zu den VIII matutinorum impositiones aus VI psalmis (cum antiphonis, 39, 3), responsorio et evangelia vgl. 35, 1 f. ; 36, 1 ff. und 7 f. ; 39, 1-3. Ein alter von den Editoren bisher übernommener Fehler setzt hier nomina an Stelle von numerum als falsche Auflösung der antiken Suspensionskürzung ñ. 38 Immer im Verhältnis 3 zu 1, vgl. etwa 33, 36.40.42-51 mit der Vorschrift, Psalmen seien in Hinblick auf unitas und trinitas Gottes jeweils einzeln oder zu dritt zu singen (aut singulos aut ternos diximus debere dici quia […] unitas in trinitate et trinitas in unitate agnoscitur, 33, 48 f.). 39 Von ihm selbst als « bizarrerie » bezeichnet, Vogüé, RMag (zit. Anm. 4), I, p. 53, vgl. ibid., p. 50, Anm. 1 ; « tredecim scripsi » RMag, II, p. 182 app. ad loc. 36 37

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die geforderten sedecim impositiones zu erreichen. Doch ist ‘dreizehn’ keine liturgische Zahl, zudem ist damit das für impositiones geforderte Verhältnis von drei zu eins zerstört40. Unsere (an sich naheliegende) Lösung deckt einen sehr alten Fehler auf, da offensichtlich der noch gemeinsame Subarchetypus von PC bereits die Zahl XII und die letzte Haste von IIII (nach Ausweis von ‘tria’ in beiden Zeugen wohl schon bei der Umschrift des Wachstafel-Konzepts) verloren hatte : setzt man ‹XII› antiphonae et III‹I› responsoria, ergibt sich zwanglos die erwünschte Summe von sedecim. In ähnlicher Weise ist 44, 3 und 7 die verschieden verderbte und verlorene Zahl der sedecim und duodecim impositiones wieder zu vervollständigen. Für den Winter sind die auf die Zahl von sedecim impositiones fehlenden Elemente einzusetzen, also VIIII antiphonas und ‹III› responsoria sine alleluia ‹deinde III antiphonas cum alleluia› und alium responsorium cum alleluia, immer unter Bewahrung der Proportion 3 zu 1 (44, 2 f.), für den Sommer sind den sechs Antiphonen sine alleluia zwei Responsorien hinzuzufügen (an Stelle des einzigen in PC und den Editionen genannten, 44, 6), die mit weiteren drei Antiphonen und einem Responsorium cum alleluia die Zahl von zwölf impositiones auffüllen (44, 7). 4.7. Zum Abschluß noch ein Beispiel zweier ebenso alter Fehler der noch gemeinsamen Textstufe von PC aus den ersten Versen des Themas gleich nach dem Prolog. Die Rede ist dort von der Quelle des erlösenden Taufwassers, die sich dem auf Erden unter schwerer Last dahinwandelnden Menschen durch die freundliche Stimme Gottes im Osten eröffnet und ihn nach einem Trunk daraus erleichtert und freudig voranschreiten und auf seinen früheren schweren Lebensweg zurückblicken läßt (thema 1-25). In den Versen 12 und 19 dieses einleitenden Textes, der in vielfachen Bezügen ineinander verwoben und verstrickt zu einer Vater-Unser-Erklärung führt, bieten PC und die Editionen von Holstenius, Vogüé und Bozzi – Grilli wieder sehr alte Fehler. So meinen die betroffenen Sprecher von thema 12, post resurrectionem (sc. durch das Wasser der Taufe) stetimus (was an ἕσταμεν erinnert) stupidi nimio gaudio †et disputatione† intuentes iugum vi‹t›ae transacti laboris41. Das Begriffspaar gaudio et disputatione ergibt keinen Sinn 40

Vgl. 35, 2 ; 40, 1 und o. Anm. 32. Wobei sich iugum vitae (gegenüber iugum viae der Überlieferung) an der Formulierung peregrinae vitae temporale iugum suscipientes von th. 4 ausrichtet. 41

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(auch nicht in einem Bezug von disputatione auf intuentes, den schon der sprachliche Ablauf verbietet), Johannes B. Bauer schlug dafür brieflich nicht ganz unpassend gaudio et consolatione vor nach neutestamentlichen Parallelen42, doch wird man im Blick auf thema 19, nos ante … desperatos, die hier unverständliche disputatio eher durch desperatio (und et durch ex) ersetzen dürfen : stetimus stupidi nimio gaudio ex desperatione. Der Fehler erklärt sich kaum schwierig aus der häufigen Verwechslung der Vorsilben de- und dis- und durch fehlerhafte Auflösung der Kürzung für per innerhalb des Wortkörpers. Ähnlich sinnlos bieten kurz darauf PC und die vorliegenden Editionen per ignorantiam sacrae legis vel †cognitione ignoranti† baptismi (thema 19 ; was aber soll eine cognitio ignorans ?) ; doch findet sich im Rückblick auf thema 11 der Satz ad fontem (sc. baptismi) prosternimur bibentesque diu surgimus renovati, der als passenden Wortlaut die Korrektur zu per ignorantiam sacrae legis vel conditionis renovantis baptismi nahelegt. Nach einer von Adolf Primmer als Korrektur einer alten Textverwerfung gesprächsweise vorgeschlagenen Umstellung von cognitionem ... baptismi zu ante und im Anschluß an die Wortfolge von 12b könnte der Gegensatz von renovati und desperatos (jeweils 11 bzw. 12 und 19) als Ersatz von cognitione ignoranti am ehesten auch folgenden Wortlaut empfehlen: Quae sarcinae peccatorum nos ante cognitionem innovantis baptismi vel sacrae legis desperatos nos suo pondere in mortem per ignorantiam fatigaverant .... Daß der Text dieses einleitenden Kapitels dennoch nicht ohne Probleme und die Freude über gelungene Verbesserungen eher auf dem Boden bleibt, zeigt etwa der Satz thema 22, der, verschieden überliefert und konjiziert, wenn überhaupt nur mühsam verständlich ist. Soweit ein zeitbedingt kurzer Überblick über einige der Voraussetzungen, Probleme und Lösungsversuche einer philologisch-kritischen Neuausgabe der Regula Magistri.

42 Repletus sum consolatione, superabundo gaudio (II Cor 7, 4) ; gaudium magnum habui et consolationem (Phlm 7) ; vgl. II Cor 7, 13 ; Apc 15, 31 ; Ps 94, 19.

Der Beitrag von Mailand zur Bewahrung der Werke des hl. Ambrosius im Spiegel der ersten Gesamtausgabe des Mailänder Kanonikers Martinus Corbo aus dem 12. Jahrhundert Michaela Zelzer (†) (Wien)

1. Nach einer Blüte im ix. Jahrhundert zur Zeit des Erzbischofs Angilbert (824-859) erlangte Mailand ab dem Ende des xi., noch mehr im xii. Jahrhundert wieder Macht und Ansehen, auch auf kulturellem Gebiet. Angilbert war jener Bischof fränkischer Herkunft, der in Sant’Ambrogio, der von Ambrosius selbst für sich erbauten Grabeskirche, den berühmten Goldenen Altar über jener Stelle errichten ließ, an der Ambrosius nach seinem Wunsch zusammen mit den beiden von ihm 386 entdeckten Martyrern Protasius und Gervasius bis heute bestattet ist1. 1.1. Als in den Jahren 1135 bis 1152 der Kanoniker Martinus Corbo, Spross einer angesehenen Mailänder Familie, dieser Kirche vorstand, ließ er eine Sammlung aller Werke des Ambrosius in vier großen Bänden anlegen, zum größten Teil von einem einzigen Kopisten in schöner karolingischer Schrift lombardischer Prägung geschrieben. Später wurden die umfangreichen Bände zerteilt : Sechs Teile davon finden sich heute im Archiv der Basilika Sant’Ambrogio, zwei in der Biblioteca Vaticana, wie Giuseppe Billanovich entdecken konnte ; verloren ist nur der Abschnitt mit der Briefsammlung, der aber in einer Abschrift des xv. Jahrhunderts erhalten ist2. Vgl. Ambr. epist. 76 (Maur. 20), 13. Eine ausführliche Dokumentation des berühmten Altars mit prachtvollen Abbildungen bei C. Capponi (ed.), L’Altare d’Oro di Sant’Ambrogio, Cinisello Balsamo, 1996. 2 Vgl. dazu G. Billanovich, « La tradizione milanese delle opere di sant’Ambrogio, I. Testi ambrosiani nelle biblioteche dei canonici di sant’Ambrogio e del capitolo di Santa Tecla », in Ambrosius episcopus. Atti del Congresso internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della 1

DOI 10.1484/M.IPM.1.101083

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Wie die folgende Beschreibung zeigt, hatte Martinus Corbo tatsächlich zum ersten Mal fast alle Werke des Ambrosius in einer ‘Edition’ vereint, die sich heute auf folgende Bände verteilt3 : M 33 M 34

M 32

M 31

M 35

1. Band : Milano Archivio di S. Ambrogio M 33 + M 34 + M 32 Expositio evangelii secundum Lucam. De incarnationis dominicae sacramento (der Anfang ist verloren, inc. 8, 81) ; (ps. Ambr.) Misterium paschae (= ps. Ambr. sermo 35 [PL, 17, 674]) ; De interpellatione Iob (et David) 1 ; De Tobia (mit einer Lücke) ; De interpellatione (Iob et) David 2 ; De interpellatione Iob (et David) 3 ; De interpellatione (Iob et) David 4 ; De obitu fratris sui Satyri et de resurrectione ; De virginibus ; Liber quartus (= De virginitate) ; De viduis ; Exhortatio virginitatis ; De perpetua virginitate sanctae Mariae (= De institutione virginis)4 ; der Band endet f. 106v mit sententiam illi dictum est (4, 26). f. 1r-2v De perpetua virginitate sanctae Mariae, inc. in tristitia paries filios tuos (4, 26), des. salutem ne matrem … relinquat (7, 48) ; f. 5r inc. caritatis gloriam triumpho virtutis (In psalm. I 7, 3 ; Verlust eines Blattes) ; f. 14r-89v In Psalm. XXXV, XXVI, XXXVII, XXXVIII, XXXIX, XL, XLIII, XLVII, XLVIII. Am Ende des Blattes 89 findet sich der Verweis auf den nächsten, heute verlorenen Faszikel mit der Auslegung des 61. Psalms ; das Inhaltsverzeichnis dieses Bandes (M 33 f. 116r, s. xiii) enthält die Angabe Item expositio psalmi LXI in quo infidelitatem et impietatem Maximi tirampni graviter redarguit etc5. 2. Band : Milano Archivio di S. Ambrogio M 31 + M 35 + Vat. lat. 282 f. 3v eine Miniatur : Martinus Corbo kniet vor Ambrosius, mit der Beischrift : Martinus presbiter ac prepositus huius aecclesiae. Liber canonicorum Sancti Ambrosii. Exameron. De paradiso (das erste Blatt ist verloren, inc. 1, 2 plasmavit deus istius paradisi) ; Sermo de Adam et de arbore interdicta (= Ps. Aug. sermo 1 rec. altera [CPL 368]) ; De Cain et Abel ; De Abraham ; De Isaac et anima ; De bono mortis ; De fuga saeculi ; De Iacob et vita beata ; ps. Ambr. sermo 47 (PL, 17, col. 699, zu Prv 30) ; De primo Adam et secundo (= ps. Ambr. sermo 45

elevazione di sant’Ambrogio alla cattedra episcopale (Milano, 2-7 dicembre 1974), Milano, 1976, pp. 5-34 (pp. 9 sqq.) 3 Bei der Beschreibung stütze ich mich im Wesentlichen auf die Angaben von Billanovich, « La tradizione milanese » (zit. Anm. 2). 4 Zu den abweichenden Titeln vgl. weiter unten im Text. 5 Vgl. Billanovich, « La tradizione milanese » (zit. Anm. 2), p. 11.

DER BEITRAG VON MAILAND

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[PL, 17, col. 691]) ; De Ioseph ; De patriarchis (mit Verweis auf den folgenden Faszikel : Incipit Apologia David). Apologia David ; (ps. Ambr.) De lapsu Susannae ; De Nabuthae ; Dicta sancti Ambrosii de vita Bragmanorum. Commonitorium Palladii (PL 17, 1131) ; De (Helia et) ieiunio ; De poenitentia ; De officiis ; De sacramentis ; De mysteriis ; (ps. Ambr.) Liber pastoralis (CPL 171a [PL, 139, coll. 169-178]).

Vat. lat. 282

3. Band : Milano Archivio di S. Ambrogio M 14 f. 3r Miniatur : Martinus Corbo reicht Ambrosius ein Buch dar. Expositio psalmi CVIII. 4. Band : Vat. lat. 268 [+ Ambr. F 114 sup. (s. xiv)] Miniatur (ganz ähnlich den Miniaturen in M 31 und M 14)6 [Der erste Teil des Bandes mit der Briefsammlung ist verloren (cfr Index f. 1 : Epistolae eiusdem beati Ambrosii circa 82 numero inter quas est obitu Theodosii), ist jedoch in einer Abschrift des xv. Jahrhunderts, Ambr. F 114 sup., für den Mailänder Erzbischof Francesco de Pizzolpassis erhalten ; s. u.] ; (ps. Ambr.) De vocatione omnium gentium (= Prosper) ; (ps. Ambr.) Epistola ad Demetriadem ; (ps.) Mansuetus Ad Constantinum imperatorem ; Expositio fidei patrum mediolanensis synodi7. Der erwähnte Ambr. F 114 sup. des xv. Jahrhunderts enthält : epistulae extra collectionem 14 + 13 ; epistulae 1-76 ; obitus Theodosii ; obitus Valentiniani ; epistulae extra collectionem 15 + 128 ; anschließend eine Kopie von fünf Schreiben aus dem Briefwechsel des Martinus Corbo mit den deutschen Klerikern Paul und Gebehard9.

Vgl. P. Courcelle, Recherches sur Saint Ambroise : « vies anciennes », culture, iconographie, Paris, 1973, p. 161. 7 Der Mailänder Bischof Mansuetus hielt im Jahr 679 eine Synode zur Frage der Monotheletisten und sandte im Namen der versammelten Bischöfe einen Synodalbrief an Konstantin IV Pogonat (gedruckt PL, 87, coll. 1265-1268) 8 Erhalten ist noch eine zweite wesentlich ältere Abschrift dieses Teiles der Corbosammlung, ein im Zisterzienserkloster Heiligenkreuz bei Wien bewahrter Codex (254) des ausgehenden xii. Jahrhunderts mit fast derselben Anordnung (epistulae extra collectionem 14 + 13 ; epistulae 1-76 ; epistula extra coll. 12 ; obitus Theodosii ; obitus Valentiniani ; epistula extra coll. 15 ; Tractatus sancti Ambrosii de psalmo LXI in quo infidelitatem et impietatem Maxuimi tyranni graviter redarguit qui ausus est dominum suum Gratianum imperatorem fraude et dolo perimere, quem imperatorem in domini tabernaculo habitare et in monte eius requiescere dicit). 9 Vgl. dazu weiter unten im Text. 6

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1.2. Im erhaltenen Bestand der Sammlung mögen vielleicht die abweichenden Werkbezeichnungen des ersten Bandes auffällig erscheinen, wie De resurrectione für die zweite Satyrusrede oder Liber quartus für De virginitate, doch handelt es sich dabei, wie ich zeigen konnte, um die authentischen Titel10. Martinus Corbo hat manche Werke aufgenommen, die im Mittelalter vielfach Ambrosius zugeschrieben wurden, heute aber als unecht gelten, etwa De lapsu Susannae (auch betitelt De lapsu virginis consecratae) oder die Epistula ad Demetriadem11 ; Martinus Corbo ist der erste, der Prospers Werk De vocatione omnium gentium dem Ambrosius zuschreibt12. Auffällig ist auch die Gestaltung der Briefsammlung : Vor die große von Ambrosius selbst zusammengestellte Sammlung in zehn Büchern, die, wie in vielen Handschriften, nach Verlust des letzten Briefes13 mit der Rede zum Tod des Kaisers Theodosius endet, stellte Martinus Corbo dessen langen Brief an die Kirche von Vercelli, die 10 Vgl. M. Zelzer, « Quelques remarques sur la tradition des œuvres d’Ambroise et sur leurs titres originaux », in Lire et éditer aujourd’hui Ambroise de Milan. Actes du colloque de l’Université de Metz (20-21 mai 2005), ed. G. Nauroy, Bern u.a., 2007, pp. 21-35 (Recherches en littérature et spiritualité, 13) 11 Vgl. CPL nr. 651 bzw. nr. 737. 12 Vgl. Prosper. De vocatione omnium gentium, edd. R. J. Teske, D. Weber, Wien, 2009 (CSEL, 97), p. 53. Nicht Aufnahme fand die unter dem Namen Hegesippus erhaltene Übersetzung des Buches De bello iudaico des Flavius Josephus, die in den Handschriften vielfach dem Ambrosius zugeschrieben wird ; die interessante Untersuchung von Ch. Somenzi, Egesippo Ambrogio. Formazione scolastica e cristiana a Roma, Milano, 2009 (Studia Patristica Mediolanensia, 27) bemüht sich, es als Jugendwerk des Ambrosius herauszustellen. 13 Epist. 77 (Maur. 22) über die Auffindung der Gebeine der Märtyrer Protasius und Gervasius wenige Wochen nach den im Brief 76 (Maur. 20) geschilderten harten Auseinandersetzungen mit dem arianischen Kaiserhaus in der Karwoche des Jahres 386 ; die Auffindung wurde zu einer triumphalen Kundgebung für Ambrosius und die fides Nicaena. Obwohl die beiden an seine Schwester Marcellina gerichteten Briefe zusammengehören, hat Ambrosius bei der Gestaltung des zehnten Briefbuches, für uns überraschend, zwischen diese beiden Dokumente die Totenrede auf Theodosius eingeschoben und die beiden geschilderten Ereignisse bewusst getrennt ; vgl. M. Zelzer, « Zur Chronologie der Werke des Ambrosius. Überblick über die Forschung von 1974 bis 1997 », in Nec timeo mori. Atti del Congresso internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della morte di sant’Ambrogio, edd. L. F. Pizzolato, M. Rizzi, Milano, 1998, pp. 73-92 (pp. 82 f.).

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nach dem Tod des Bischofs Limenius wegen interner Streitigkeiten seit längerem ohne Oberhirten war (das längste von Ambrosius erhaltene und zugleich sein letztes Schreiben aus 396, dem Jahr vor seinem Tod), anschließend einen zu Ende des Jahres 386 an die Bischöfe der Provinz Aemilia gerichteten Brief mit der Verteidigung des 25. April als des Osterdatums des kommenden Jahres nach der alexandrinischen Berechnung, das die römische Kirche als zu spät ablehnte (an jenem Termin wurde bekanntlich Augustinus von Ambrosius getauft)14. Ans Ende der Briefsammlung stellte Martinus Corbo die Totenrede auf Kaiser Valentinian (mit dem nicht authentischen Titel Obitus Valentiniani15) ; anschließend die Antwort des Mailänder Bischofs auf jenen Brief des Kaisers Gratian, der an der Spitze der von ihm erbetenen Abhandlung De spiritu sancto steht, und dann eine von ihm im Namen der versammelten Bischöfe Norditaliens verfasste Antwort auf ein Rundschreiben des Papstes Siricius16. Wie die Texterstellung für das CSEL zeigte, hat Martinus Corbo diese von Ambrosius nicht publizierten Briefe aus einer nicht vor dem ix. Jahrhundert in Mailand zusammengestellten Sammlung übernommen17, die als zweites Corpus von Briefen extra collectionem bezeichnet wird. Neben den vier von Martinus Corbo der Briefsammlung zugefügten Schreiben enthält dieses Corpus auch den berühmten Bußbrief an Kaiser Theodosius nach dem Blutbad von Thessaloniki aus dem Jahr 390. Dieser Brief sollte vor den beiden Totenreden Obitus Theodosii und Valentiniani in die Corbosammlung eingefügt werden, wie aus dem Index im Ambr. F 114 sup. hervorgeht18, wurde aber ausgelassen, weswegen er in der 14 Dieser Brief galt lange Zeit (und gilt zum Teil heute noch) als unecht auf Grund des (arroganten) Urteils von E. Schwartz, Christliche und jüdische Ostertafeln, Göttingen, 1905, pp. 54 f., der allerdings die Überlieferungslage nicht kannte ; zum Nachweis der Echtheit vgl. M. Zelzer, « Zum Osterfestbrief des hl. Ambrosius und zur römischen Osterfestberechnung des 4. Jahrhunderts », Wiener Studien, 91 (1978), pp. 197-204 ; Ead., Sancti Ambrosi opera. Pars decima, Epistularum liber decimus ; Epistulae extra collectionem ; Gesta Concili Aquileiensis, Wien, 1982 (CSEL, 82.3), pp. CXVII ff. Als unecht ist dieser Brief noch bezeichnet in der dritten Auflage der CPL (aus 1995) nr. 160 (p. 48). 15 Vgl. Zelzer, « Quelques remarques » (zit. Anm. 10), pp. 25 ff. 16 Epist. extra collectionem 12-15 (Maur. 1, 23, 63, 42). 17 Vgl. ed. Zelzer (zit. Anm. 14), pp. CX ff. 18 Vgl. Ambr. F 114 sup., f. 20v : LXXVIII De traditione basilice / LXXXIX Ad theodosium imperatorem / LXXX De obitu Valentiniani imperatoris / LXXXI De obitu theodosi imp.[…].

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Corbo-Edition fehlt19. Erhalten ist der Mailänder Codex, aus dem Martinus Corbo die vier Briefe extra collectionem übernehmen ließ : der Codex Ambr. J 71 sup., geschrieben am Metropolitansitz S. Tecla im xi. Jahrhundert (darauf ist noch einzugehen). 2. Leider enthält die Sammlung des Martinus Corbo heute nicht alle Werke des Mailänder Bischofs : einerseits gab es Verluste ihrer Überlieferung, anderseits fehlte manches Werk bereits von Anfang an ; sei es dass Martinus Corbo es nicht kannte oder dass ihm manches nicht mehr zugänglich oder erreichbar war. 2.1. Nach der Zerlegung der vier großen Bände ging nicht nur der erste Teil des vierten Bandes mit der Briefsammlung verloren, auch von den drei anderen Bänden sind einige Faszikel oder Blätter in Verlust geraten. Besonders groß sind die Verluste im ersten Band : Dort fehlt nicht nur der Anfang der Schrift De incarnationis dominicae sacramento, sondern auch die Werke De fide und De spiritu sancto, die dieser Band ursprünglich enthielt : Denn im provisorischen Katalog dieser Sammlung, die Giuseppe Billanovich in einer Handschrift des Archivio di S. Ambrogio entdeckte, findet sich die Angabe : In alio volumine (d.h. im vierten) continentur de laude sanctorum. De fide ad Gratianum inperatorem20 ; unter der Überschrift De fide ad Gratianum verbindet eine Handschrift aus Mailand die Bücher De fide, De spiritu sancto und De incarnationis dominicae sacramento21, und mit dem Schluss dieser Schrift beginnt heute Codex M 34 des Archivio di S. Ambrogio. Verloren ist auch der letzte Faszikel mit der Auslegung des 61. Psalms, von der nur die Einleitung erhalten ist : Item expositio psalmi LXI in quo infidelitatem et impietatem Maximi tirampni graviter redarguit etc. 2.2. Nur ganz wenige Schriften fehlen in dieser Gesamtedition : der Traktat De Noe, die Explanatio symboli a quodam excerpta, ferner die vielleicht unechte Abhandlung Apologia David altera Epist. extra collectionem 11 (Maur. 51). Billanovich, « La tradizione milanese » (zit. Anm. 2), p. 20. 21 Es handelt sich um Vat. lat. 267, s. ix2 (eine Abschrift davon bietet der großformatige Sammelcodex Ambros. B 54 inf. aus dem xi. Jahrhundert, vgl. M. Ferrari, « La tradizione milanese delle opere di sant’Ambrogio II. Recensiones milanesi tardo-antiche, carolinge, bassomedievali di opere di sant’Ambrogio », in Ambrosius episcopus (zit. Anm. 2), pp. 35-102 (pp. 36 f.). 19 20

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und das erste Corpus von Briefen extra collectionem (mit den Briefen 1-10). Die wenigen erhaltenen Handschriften der exegetischen Abhandlung De Noe stammen von einem lückenhaften Archetypus ; der beste und älteste Zeuge ist ein Codex der Abtei Corbie aus dem ix. Jahrhundert (heute Paris. BnF lat. 12137)22. Die kurze Mitschrift der Credoauslegung, Explanatio symboli a quodam excerpta, findet sich nur in zwei Manuskripten, einem Sangallensis (188, s. viii1) und einem Bobbiensis (Vat. lat. 5760, s. x). Die Überlieferung der sogenannten Apologia David altera setzt erst im xii. Jahrhundert ein ; neben wenigen französischen Handschriften findet sich dazu ein Codex des xiii. Jahrhunderts in der Bibliothek von Novara (nr. 20), der von derselben Vorlage abstammt wie der wichtigste Codex, Reims 352 aus dem xii. Jahrhundert23. Was schließlich das erste Corpus mit zehn von Ambrosius nicht publizierten Briefen betrifft, wurde es wohl nach dem Tod des Bischofs von seinem Sekretär und Biographen Paulinus herausgegeben. Diese Sammlung ist erstmals erwähnt in einem Katalog der Abtei Pomposa aus dem Jahr 1093 ; die zwei wichtigsten Handschriften sind heute ein Oxonienis des xii. Jahrhunderts, olim monasterii sanctae Iustinae de Padua (Bodl. 210 + 229), und ein Parisinus des xiv. Jahrhunderts (Bibliothèque Nationale lat. 1920, geschrieben in Oberitalien) ; obwohl beide Handschriften der Mailänder Tradition zuzuordnen sind, wusste auffälligerweise Martinus Corbo nichts von dieser Sammlung von epistulae extra collectionem24. 22 Der Codex ist heute aus drei verschiedenen Handschriften des ix. Jahrhunderts zusammengesetzt ; die erste enthält nach De Noe die beiden Bücher De Abraham und das Incipit zu De sancto Isaac. 23 Vgl. De apologia prophetae David, ed. C. Schenkl, Prag-Wien-Leipzig, 1897 (CSEL, 32.2), p. XXXVIII. Zur Frage der Autorschaft vgl. M. Roques, « L’authenticité de l’Apologia David altera : historique et progrès d’une controverse », Augustinianum, 36 (1996), pp. 53-92 ; 423-458. 24 Diese Sammlung (epistulae extra collectionem 1-10 [Maur. 41, 40, 61, 62, 10 – 12, 14, 13, 51]) beginnt mit einem Brief an seine Schwester Marcellina, in dem ihr der Bischof den Verlauf der Kontroverse um die Zerstörung der Synagoge von Kallinicum schildert ; als Anhang legte er ihr jenen Brief bei, den er in dieser Angelegenheit an Kaiser Theodosius gerichtet hat. Darauf folgen einige weitere Schreiben an Kaiser, den Schluss bildet der Brief an den imperator Eugenius aus dem Frühjahr 393. Das Schreiben

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2.3. Einige in Mailand nicht auffindbare Werke versuchte sich Martinus Corbo anderswoher zu verschaffen. Sein Bemühen ist bezeugt für die Auslegung des 61. Psalms, für den Kommentar zum Propheten Isaias und für zwei in der Vita des Paulinus erwähnte Abhandlungen des Ambrosius ; es handelt sich um die an den von ihm wiedererweckten Knaben Pansofius gerichtete Schrift (30, 3) und den berühmten katechetischen Brief an die markomannische Königin Fritigil, die sich um eine Unterweisung im christlichen Glauben an den Mailänder Bischof gewandt hatte (36, 2). Von diesen Bemühungen erfährt man aus einem Briefwechsel des Martinus Corbo mit den deutschen Klerikern Paulus und Gebhard ; diese Briefe sind entweder im Original im Archiv von S. Ambrogio erhalten oder in Abschrift im bereits erwähnten Ambrosianus F 114 sup. des xv. Jahrhunderts. Im Jahr 1134 schrieb der Kleriker Paulus an Martinus Corbo : Quoniam collega meus Gebehardus absens est pro quadam legatione domni papae … mea sollicitudo hoc tibi mittit pro dono quod Ambrosius super Ysaiam prophetam compertus est esse apud Remensem ecclesiam et eum Mediolanenses sua dignitate non desperamus mutuaturos esse. scripta eius ad Pansophium et ad reginam Marcomannorum adhuc nusquam investigare nequivimus vicissimque petimus ut si vos invenistis vel invenire potueritis nos inventionis vestrae congratulatores datis indiciis habere velitis25.

Die Information über den Isaiaskommentar erwies sich als falsch ; einige Zeit später berichten die beiden Kleriker von ihren weiteren vergeblichen Bemühungen : […] nondum ab inquisitione destitimus quippe qui nuper misimus in Saxoniam et paulo ante miseramus in Galliam Belgicam ob investigandum Ambrosium super Isaiam …26

an Theodosius in der Affaire von Kallinikum hat Ambrosius in etwas überarbeiteter Form ins zehnte Briefbuch aufgenommen (epist. 74 [Maur. 40] ; vgl. CSEL, 82.3, pp. XXI f.). 25 Vgl. J. von Pflug Harttung, Iter Italicum, Stuttgart, 1883, p. 472, nr. 59. Zu den im Archivio di S. Ambrogio erhaltenen Briefe des xii. Jahrhunderts vgl. W. Wache, « Eine Sammlung von Originalbriefen des 12. Jahrhunderts im Kapitelarchiv von S. Ambrogio in Mailand », Mitteilungen des Instituts für österreichische Geschichtsforschung, 50 (1936), pp. 261-333 (pp. 318 ff.) 26 Iter Italicum nr. 61 (a. 1136/1137).

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Der Isaiaskommentar, den Augustinus in seinen beiden Spätwerken Contra Iulianum und Opus imperfectum contra Iulianum benützte, ist tatsächlich nicht erhalten ; von den beiden in der Vita Ambrosii erwähnten Dokumenten weiß man gar nichts. Dagegen konnten die beiden Kleriker die Auslegung des 61. Psalms ausfindig machen und sie Martinus Corbo von Verona übersenden, wie ein Brief an Erzbischof Anselm von Mailand um das Jahr 1126 meldet, in dem sie um Übersendung von Schriften des Ambrosius bitten27 : […] nam et nos parati sumus eius cunctorumque fratrum tuorum voluntatibus satisfacere sic ubi forte nos aliquid Ambrosianum opus quod vos non habetis contigerit invenire sicuti Verone positi fecimus quando expositionem quarti decimi psalmi (sic !)28 in qua de morte Gratiani imperatoris agitur domino Martino eiusdem beati Ambrosii thesaurario transmissimus.

Bemerkenswert ist auch ein Brief, den der Abt Theobaldus des Benediktinerklosters Pontida in der Provinz von Bergamo in den Jahren 1140/1144 an Martinus Corbo richtete : Libellum predicti beatissimi Ambrosii super Lucam deo donante scribere iam fecimus, sed necdum ad plenum, ut cupimus, eundem correximus. Eapropter vos op(p)ido rogamus ut per latorem presentium vestrum ad exemplar nobis dirigere studeatis, et nos peracto opere quam cito vobis retransmittere curabimus. Scitote autem pro certo quoniam si vobis ex nostris aliquid petere placuerit, sine aliqua occasione vestra dilectio ad prebendum nos paratissimos invenire poterit29.

3. Dieser letztzitierte Brief bezeugt das große Interesse an den Werken des Ambrosius, wofür man sich auch Codices zur Korrektur der eigenen Abschriften ausborgte. Unerwartet intensiv beschäftigte man sich in Mailand im xi. und xii. Jahrhundert mit seinen Schriften, den Höhepunkt dieser Tätigkeit bezeichnete die

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Erhalten im Codex Ambr. F 114 sup., f. 208rv. Die Verwechslung kam deswegen zustande, weil der sekundäre Vorspruch zu dieser Psalmenauslegung Bezug nahm auf § 27, wo Kaiser Gratian der Anfang des Psalms 14 in den Mund gelegt ist (Habeo habitaculum meum in domini tabernaculo et in sancto eius monte requiescam) ; zu diesem Vorspruch vgl. weiter unten im Text. 29 Iter Italicum, p. 479 nr. 65. 28

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Edition des Martinus Corbo ; nach dessen Tod Mailand bald von Friedrich Barbarossa zerstört wurde. Doch bereits im ix. Jahrhundert hatte man sich in Mailand mit den Werken des großen Bischofs beschäftigt, wofür die anonyme Schrift De vita et meritis Ambrosii Zeugnis gibt, verfasst zur Verteidigung der Größe Mailands im Zuge heftiger kirchenpolitischer Auseinandersetzungen mit Rom gegen Ende des ix. Jahrhunderts30. Jedoch sind aus der früheren Zeit nur ganz wenige in Mailand entstandene Codices erhalten, etwa der Codex Vat. lat. 267 (s. ix2) zu den neun Büchern De fide ad Gratianum, bestehend aus fünf Büchern De fide, drei Büchern De spiritu sancto und dem Buch De incarnationis dominicae sacramento. Nach dem Urteil von Bernhard Bischoff ist möglicherweise auch eine der beiden ältesten Handschriften des ambrosianischen Briefcorpus in Mailand selbst geschrieben, Vat. lat. 286, ebenfalls aus der zweiten Hälfte des ix. Jahrhunderts31. Mit wenigen Ausnahmen sind aus Mailand erst Handschriften ab dem xi. Jahrhundert erhalten, ältere finden sich in Frankreich und Deutschland. Das hängt damit zusammen, dass wenige Jahre nach dem Sieg Karls des Großen über die Langobarden, im Jahr 790, auf Betreiben des Mailänder Erzbischofs Petrus ein Privileg Karls und seines Sohnes Pippin Ambrosius offiziell als einen der Reichsheiligen anerkannt hat32 ; daraufhin wurden seine Werke von Mailand aus im Reich verbreitet. Zwei Beispiele zur Illustration aus meiner Editionstätigkeit für das CSEL : Der erst im ix. Jahrhundert von Mailand aus veröffentlichte Bußbrief an Kaiser Theodosius ist zum ersten Mal in einer um 860 entstandenen Schrift des Bischofs Hincmar von Reims benutzt und teilweise wörtlich zitiert ; der von Hincmar verwendete Text geht auf dieselbe Mailänder Vorlage zurück wie die beiden dazu erhaltenen Handschriften, der Codex Bamberg Patr. 7, aus dem 30 Vita e meriti di S. Ambrogio, ed. A. Paredi, Milano, 1964 ; mit Zitaten aus De resurrectione, De obitu Theodosii und den epistulae 36, 49, 74, 75a, 76, 77 (Maur. 2, 59, 40, 21a, 20, 22). 31 Vgl. CSEL, 82.3, p. XXXIX ; nach Ferrari, « La tradizione milanese » (zit. Anm. 21), p. 42 ist der Codex vielleicht in Vercelli entstanden ; Ende des xi. Jahrhunderts lag er im Kloster von S. Ambrogio, wo ihm vor der Briefsammlung die Briefe extra collectionem 14 und 13 (Maur. 63 und 23) zugefügt wurden, zweifellos übernommen aus Ambros. I 71 sup. (= A). 32 Vgl. A. Ambrosioni, « L’altare e le due comunità ambrosiane », in L’altare d’Oro (zit. Anm. 1), pp. 57-71 (p. 58).

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Ende des x. Jahrhunderts und der schon mehrfach erwähnte Ambrosianus I 71 sup. aus dem Ende des xi. Jahrhunderts, aus dem Martinus Corbo das zweite Corpus von Briefen extra collectionem übernahm33. Und der älteste erhaltene Codex der Virginitätsschriften, Köln 32 aus dem x. Jahrhundert, stammt, wie die Verwendung des Buchstabens K als Satzgliederungszeichen beweist, von derselben Vorlage wie der Text dieser fünf Schriften im Ambrosianus B 54 inf. aus dem Metropolitansitz S. Tecla und in der Edition des Martinus Corbo34. 4. Die modernen Editoren haben sich allerdings lange Zeit – unverständlicher Weise – nicht mit der Mailänder Tradition, daher auch nicht mit der Edition des Martinus Corbo beschäftigt. In ihrem Referat Recensiones milanesi di opere di S. Ambrogio vor dem internationalen Kongress zur Feier der 1600. Wiederkehr der Bischofsweihe des Ambrosius im Jahr 1974 beklagte Mirella Ferrari mit Recht, dass die vorliegenden Editionen des Ambrosius nicht ausreichen, um die rege Beschäftigung mit seinen Schriften in Mailand während des xi. und xii. Jahrhunderts richtig beurteilen zu können. So bemerkte Ferrari zu den Editionen der Werke Exameron und De paradiso von Carl Schenkl aus dem Jahr 1896 : « Lo Schenkl […] non conosceva e non ha collazionato nessuno dei codici della famiglia milanese : con risultati spiacevoli per il testo, perché ha accolto lezioni palesemente erronee fornitegli dai manoscritti più antichi, dell’viii-ix secolo, della famiglia franco-insulare, su cui quasi esclusivamente si basava ; ma soprattutto con il risultato che, al fine di ricostruire le linee direttrici della fortuna e diffusione delle opere di s. Ambrogio, l’apparato dello Schenkl è del tutto inservibile »35. Diese beiden Werke erschienen 1896 im ersten Band der von der ‘Kommission zur Herausgabe eines Corpus kritisch berichtigter Texte der lateinischen Kirchenväter’ an der Kaiserlichen (heute Österreichischen) Akademie der Wissenschaften besorgten Ambrosius-Edition. Ein Jahr später lagen – mit Ausnahme der Psalmenerklärungen – bereits alle exegetischen Schriften zum Alten Vgl. CSEL, 82.3, pp. CXXXI ff. Vgl. M. Zelzer, « Das ambrosianische Corpus de virginitate und seine Rezeption im Mittelalter », Studia Patristica, 38 (2001), pp. 510-523 (p. 521). 35 Ferrari, « La tradizione milanese » (zit. Anm. 21), p. 63. 33 34

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Testament erstmals in einer von Carl Schenkl kritisch erstellten Edition vor, die bis heute ihre Gültigkeit nicht verloren hat36 ; die erst im xi./xii. Jahrhundert einsetzende Mailänder Tradition beachtete der Editor allerdings nicht. Im Jahre 1902 erschien die kritische Edition der Expositio evangelii secundum Lucam, vollendet nach dem Tode Carl Schenkls von seinem Sohn Heinrich. Auch wenn diese Editionen des CSEL vom Standpunkt der modernen Textkritik zum Teil etwas antiquiert sind37, wurden ihre damals erstellten Texte ohne größere Korrekturen in die doppelsprachige Mailänder Gesamtausgabe Opera omnia di Sant’Ambrogio (saemo) übernommen ; die geringen Eingriffe beschränken sich vor allem auf Orthographie und Interpunktion38. Das reiche von Carl und Heinrich Schenkl hinterlassene Handschriftenmaterial wurde im Jahr 1924 dem Jesuitenpater Otto Faller anvertraut, der sich nach Publikation dreier Bände des CSEL (erschienen erst nach dem zweiten Weltkrieg in den Jahren 1955, 1962, 1964) bis zu seinem Tod mit der Edition der Briefe des Mailänder Bischofs beschäftigte, deren ersten Band er 1968 herausbringen konnte. Aber auch er, wohl im Anschluss an die von C. und H. Schenkl hinterlassenen Vorarbeiten, beachtete für diesen Briefband die Mailänder Tradition nicht, obwohl sie ihm bekannt war – was mich überaus verwundert. Wie ich nach der Übernahme der Briefedition anhand des zehnten, kirchenpolitischen Briefbuches feststellte, konnte Faller die Überlieferung deshalb nicht klären, weil er die beiden ältesten Mailänder Handschriften des xi. Jahrhunderts nicht berücksichtigte, die am Metropolitansitz S. Tecla geschriebenen Codices Ambrosiani I 71 sup. (A) und B 54 inf. (M). Diese beiden Ambrosiani vertreten zwei verschiedene Textklassen der Briefsammlung : Ambr. I 71 sup. eine auf Mailand beschränkte, wenig bezeugte Klasse, Ambrosianus B 54 inf. dagegen eine weit verbreitete Familie. Zu Beginn des xii. JahrhunCSEL, 32.1-3. Geplant ist ein bibliographisch ergänzter Nachdruck der ältesten CSELEditionen zu Ambrosius. 38 Ausnahme etwa F. Gori zu De Abraham, Roma, 1984 (SAEMO, 2.2), pp. 23 f. Vgl. seine « Emendazioni ambrosiane I : De Abraham », Studi Urbinati, B 3, 57 (1984), pp. 31-39, und Id., « Emendazioni ambrosiane II : De Helia, De Nabuthae, De Tobia », Vetera Christianorum, 22 (1985), pp. 121140. 36 37

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derts versuchte ein unbekannter Gelehrter in S. Tecla besonders im 10. Briefbuch den Text beider Codices zu vereinheitlichen, einmal nach der einen, ein anderes Mal nach der anderen Handschrift39 ; außerdem trug der unbekannte Gelehrte in beide Codices zu drei Dokumenten des zehnten Briefbuches Varianten eines weiteren Codex ein, der unter dem Titel De rebus gestis in ecclesia Mediolanensi die drei Dokumente zum Kirchenstreit des Jahres 386 aus dem 10. Briefbuch enthielt (Codex Ambr. C 133 inf., s. xi)40. Da Otto Faller für seine Edition nur Abschriften dieser beiden korrigierten Handschriften heranzog, konnte er die wahren Überlieferungsverhältnisse nicht erkennen41. So liest man, um ein Beispiel zu geben, in der Edition der Mauriner des Jahres 1690, die fast 300 Jahre, bis zum Erscheinen meiner CSEL-Edition im Jahr 1982, in Verwendung war, am Anfang des Briefes 76, in dem Ambrosius seiner Schwester die Ereignisse der Karwoche 386 schildert : convenerunt me primo principes virtutum viri comites consistoriani ut et basilicam traderem et procurarem etc. Der größte Teil der Handschriften bietet allerdings convenerunt me primo viri comites consistoriani …, so auch die beiden Ambrosiani A und M, jedoch findet sich bei ihnen am Rand hinzugefügt al. principes virtutum als Variante zu primo viri, und diese Lesart hatte der unbekannte Korrektor dem Ambr. C 133 entnommen. Die Variante principes virtutum war ein Versuch, den etwas verdorbenen Text zu verbessern, nach viri ist aufgrund von Kürzung das Wort illustres verloren gegangen (üblicherweise gekürzt v. i.), der Text sollte also lauten convenerunt me primo viri comites consistoriani … Ein von Faller zur Texterstellung herangezogener Vaticanus aus dem xii. Jahrhundert (lat. 6023) überliefert die von den Maurinern gewählte Textfassung, dieser 39 Z. B. fügte er die Zusätze fallax zu seges bzw. satiari iussus zu cruoris aus A in M ein (epist. 73 [Maur. 18], 12 bzw. 35) oder verbesserte pius in A fälschlich nach M zu ipsius (epist. 75 [Maur. 21], 23). 40 Es handelt sich um die Briefe 75, 75a und 76 (Maur. 21, 21a und 20). Heute fehlt in diesem Codex der größte Teil von epist. 76, doch gibt es zu dieser Zusammenstellung u.a. einen Codex aus Vercelli (CIII) aus dem ausgehenden ix. Jahrhundert. 41 Daher mussten drei von Faller herangezogene Handschriften (Vat. lat. 264, s. xi/xii, Vat. lat. 6023, s. xii, Kopenhagen bibl. reg. 22, s. xv) ausgeschieden und die zwei Ambrosiani aufgenommen werden, vgl. CSEL, 82.3, pp. XLIV ff.

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Codex stellte sich mir als Abschrift des Codex A heraus (und war daher auszuscheiden). Da Martinus Corbo auch diesen Codex A zur Erstellung seiner Edition des Briefcorpus heranzog und daraus das zweite Corpus der epistulae extra collectionem übernahm, ist nicht verwunderlich, dass auch sein Text die Lesung bietet convenerunt me primo principes virtutum viri comites consistoriani… Martinus Corbo erstellte seinen Brieftext aus beiden Textklassen und bemühte sich auch, verdorbene Stellen zu verbessern. In dem erwähnten Brief 76 bieten alle Handschriften der Zehnbuchsammlung einen Christus in den Mund gelegten Ausspruch in folgender Form (21) : Si ad arma concurritur, si in templo meo clausi commove(n)tur, ‘quae utilitas in sanguine meo ?’ (Ps 29, 10), wobei die älteren Handschriften beider Klassen das Verbum im Singular bieten, was auf einen alten Fehler hinweist ; daher versuchte Martinus Corbo den Text zu verbessern und ersetzte clausi durch die Konjektur lis, ihm folgten die frühen Editoren (Iohannes Amerbach, 1492, nach dem Erstdruck von Georgius Cribellus, Mailand, 1490 ; Stephanus Dulcinius, 1491 ; Papst Sixtus V [editio Romana], 1587). Die Mauriner dagegen hielten sich an die Überlieferung und nahmen clausi commoventur in den Text. Die Lösung brachte die erwähnte Sondertradition De rebus gestis in ecclesia Mediolanensi, wo sich dafür classicum movetur findet – classicum (zu ergänzen signum) bedeutet eigentlich « das Zeichen mit der Trompete, das Signal » und übertragen « Kriegstrompete »42. 5. Abschließend noch einige Bemerkungen zu einer bisher nicht gelösten Frage, zum ‘Sitz im Leben’ der sogenannten Explanatio psalmorum XII – der Titel ist modern, er stammt vom Herausgeber dieser Auslegungen im CSEL, Michael Petschenig43. Dieses Werk umfasst die ambrosianischen Auslegungen der Psalmen 1, 35, 36 bis 40, 43, 45, 47, 48 und 61. Die Auslegung des 43. Psalms diktierte Ambrosius nach Aussage seines Sekretärs und Biographen 42 Vgl. z. B. Verg. Aen. 7, 637 classica iamque sonant. Der Fehler lässt sich durch falsche Worttrennung leicht erklären. Obwohl G. Banterle in der Mailänder Gesamtedition meine Texterstellung des zehnten Briefbuches übernommen hat (SAEMO 21, 1988), folgt er auffälligerweise an dieser Stelle der Lesart der Mauriner, doch « se quelli che stanno rinchiusi nel mio tempio entrano in agitazione » erscheint nach « se si ricorre alle armi » recht unpassend. 43 Wien, 1919 (CSEL, 64) ; editio altera supplementis aucta curante M. Zelzer, Wien, 1999.

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Paulinus wenige Tage vor seinem Tod (4. April 397) und konnte sie nicht mehr vollenden44. Wie bereits erwähnt, erhielt Martinus Corbo den Text der Expositio psalmi LXI von den beiden deutschen Klerikern Paulus und Gebhard und fügte ihn als zwölfte Psalmenauslegung der Sammlung der elf Psalmenauslegungen hinzu45. Für diesen Traktat verfügen wir über keine Handschriften vor dem Ende des xi. Jahrhunderts, und die wenigen Zeugen zerfallen in zwei Gruppen : die eine beginnt mit den Worten Incipit explanatio super psalmos undecim, enthält aber zwölf Auslegungen einschließlich der des 61. Psalms (Familie α), die andere (β) wird gebildet von Handschriften, denen sowohl die zwölfte Auslegung als auch ein gemeinsamer Titel fehlt, sie beginnen mit Incipit tractatus … de primo psalmo … Incipit de psalmo XXXV etc46. Lässt schon der Titel explanatio super psalmos undecim vermuten, dass die Auslegung des 61. Psalms sekundär zugefügt wurde, ist dies durch den Text der Corbo-Edition, der eindeutig der Klasse α angehört, erwiesen47. Die Auslegung des 61. Psalms ist mehrfach als Einzeltext bezeugt. In der aus dem Jahr 1093 stammenden Beschreibung eines heute verlorenen Codex der Bibliothek von Pomposa findet sich diese Auslegung am Anfang einer Sammlung mit den Totenreden des Ambrosius und den epistulae extra collectionem 1-10. Das Verzeichnis beginnt mit den Worten : Tractatus sancti Ambrosii de psalmo LXI in quo infidelitatem et impietatem Maximi tyranni graviter redarguit qui ausus est dominum suum Gratianum imperatorem fraude et dolo perimere quem imperatorem in domini tabernacolo habitare et in monte eius requiescere dicit. Hic liber sic incipit : Omnium nostrum indubia consuetudo est48.

44 Vgl. Paul. Med. vita Ambr. 42 : Ante paucos vero dies quam lectulo detineretur, cum quadragesimum tertium psalmum dictaret, me excipiente […] scribendi vel dictandi ipso die finem fecit, siquidem ipsum psalmum explere non potuit. 45 Vgl. 2.3 mit Anm. 28. 46 In den drei von Petschenig herangezogenen Handschriften der Klasse β (alle aus dem xii. Jahrhundert) folgt auf die Auslegung des 48. Psalms die Schrift De lapsu virginis consecratae (unter dem Namen des Ambrosius). 47 Vgl. CSEL, 64, p. I. 48 Vgl. G. Becker, Catalogi bibliothecarum antiqui, Bonn, 1885, pp. 168 f.

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Auch für Cluny ist in einem Katalog des xii. Jahrhunderts diese Zusammenstellung bezeugt49. Dieses ausführliche incipit findet sich auch in den wenigen Handschriften der Klasse α, doch erkannte bereits der Editor Michael Petschenig, dass es den Titel des Psalms 61, In finem proidithun ipsi David, verdrängte, auf den sich Ambrosius in den ersten drei Kapiteln dieser Auslegung ausdrücklich bezieht ; daher ergänzte M. Petschenig den Titel In finem proidithun ipsi David. Es ist mir gelungen, zwei Michael Petschenig nicht bekannte Handschriften zu finden, die den ursprünglichen Titel bewahren. Sie enthalten eine Zusammenstellung der drei Totenreden des Ambrosius in chronologischer Reihenfolge : vor den Reden De obitu Valentiniani und De obitu Theodosii steht die Auslegung des 61. Psalms als Totenrede auf Gratian mit den Anfängen Ambr. De obitu Gratiani psalmus sexagesimus primus in finem pro idithun ipsi david bzw. Am. ps. LXI in fine pro idithun ipsi david de obitu gratiani. Diese Zusammenstellung geht sicher nicht auf Ambrosius zurück, denn die Rede auf den Tod des Kaisers Theodosius veröffentlichte er in seinem zehnten Briefbuch50, und der Titel De obitu Valentiniani ist nicht die originale Bezeichnung51. Bei den beiden Handschriften mit dem ursprünglichen Anfang handelt es sich um zwei Mailänder Codices, um den schon erwähnten Ambrosianus I 71 sup. aus S. Tecla und den Parisinus lat. 1920 des xiv. Jahrhunderts ; in dem im xi. Jahrhundert geschriebenen Ambrosianus wurden die drei Totenreden im xii. Jahrhundert nachträglich zugesetzt (nach einem leeren Blatt). Wie dargelegt, benützte Martinus Corbo diesen Ambrosianus für seine Briefedition und entnahm ihm das zweite Corpus von Briefen 49 Vgl. L. Delisle, Le Cabinet des manuscrits de la Bibliothèque Nationale, II, Paris, 1874, p. 463 ; die Beschreibung beginnt mit den Angaben : 118 Volumen in quo continentur Ambrosius de psalmo LXI, obitu Theodosii. Nur die Auslegung des 61. Psalms enthält ein Mailänder Miszellancodex des xii. Jahrhunderts, Ambr. I 145 inf. (auch er beginnt mit dem ausführlichen Incipit). 50 Vgl. CSEL, 82.3, p. XX. 51 Der originale Titel lautete wohl Liber de consolatione Valentiniani, denn auf Ambrosius ist wohl zurückzuführen die auffällige Zusammenstellung folgender Werke : De Isaac, De bono mortis, De fuga saeculi, De Iacob, De paradiso (immer in dieser Anordnung), die Rede zum Tod des Kaisers Valentinian unter dem genannten Titel Liber de consolatione Valentiniani und zuletzt der lange Brief an die Kirche von Vercelli, vgl. Zelzer, « Quelques remarques » (zit. Anm. 10), pp. 25 f.

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extra collectionem, wohl noch bevor das Corpus der drei Reden zugefügt wurde. Der Parisinus aus dem xiv. Jahrhundert ist dagegen einer der beiden wichtigen Zeugen des von Martinus Corbo nicht aufgenommenen ersten Corpus von Briefen extra collectionem52. In seiner umfangreichen und gelehrten Tesi dottorale in Teologia e Scienze Patristiche aus dem Jahr 2007 bemühte sich Francesco Braschi unter dem Titel L’Explanatio psalmorum XII di Ambrogio : una proposta di lettura unitaria, die Zusammenstellung der zwölf Psalmenauslegungen auf Ambrosius selbst zurückzuführen53 ; mit der Überlieferungslage kam er jedoch nicht zurecht54. Vielleicht bringt eine weitere Aufarbeitung von Handschriften noch eine Lösung. Für die geplanten Neuauflagen oder die Bearbeitung der älteren Ambrosiuseditionen wird jedenfalls die Mailänder Tradition endlich Berücksichtigung finden. In Vorbereitung ist derzeit einer Neuedition der ambrosianischen Totenreden.

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Vgl. 2.2 mit Anm. 24. Studia Ephemeridis Augustinianum, 105, I-II, Roma, 2007. Bezüglich der Auslegung des 43. Psalms, die Ambrosius nach Paulinus wenige Tage vor seinem Tod diktierte und nicht vollendete (vgl. Anm. 44), kommt F. Braschi zu dem Schluss (p. 587) : « Riteniamo si possa quindi ragionevolmente ipotizzare che Ambrogio avesse intrapreso – poco prima della malattia che l’avrebbe portato alla tomba – la revisione di un’omelia da lui tenuta durante un precedente periodo postpasquale ». 54 Vgl. pp. 739 ff. ; 849 ff. 53

Filologia patristica e filologia mediolatina, una collaborazione inevitabile. Il caso della Regula pastoralis di Gregorio Magno Paolo Chiesa (Milano)

Il superamento del dibattito filologico novecentesco mi sembra costituito dal cambio di giudizio di valore che viene dato, a partire da Giorgio Pasquali e da Gianfranco Contini, agli elementi non lineari che intervengono nella trasmissione dei testi. In una visione meccanicistica – quella vulgatamente detta lachmanniana, che trova la sua espressione più alta e nitida nel celebre manuale di Paul Maas – la non linearità era considerata un’anomalia rispetto a un processo ‘normale’ e puro, e quindi come un ostacolo che si frapponeva a una ricostruzione perfetta della tradizione. Il termine ‘contaminazione’ ha connotazioni negative, presupponendo una sorta di eugenetica della trasmissione, che vigeva quando esso venne coniato ; dell’esistenza di varianti d’autore originarie, o dell’esistenza di redazioni multiple in epoca prearchetipica, si preferiva parlare poco o per nulla1, nonostante qualsiasi letteratura, di qualsiasi epoca e latitudine, che sia meglio conservata e conoscibile di quella antica, dimostri l’inevitabilità della loro esistenza. La prima metà del Novecento, e talvolta anche la critica successiva, sembra aver giudicato con fastidio ciò che disturbava il processo ‘puro’ della sviluppo critico-testuale, e in parte aver negato o rimosso il problema : da un lato perché si era ancora in una fase di elaborazione di un sistema di regole scientifiche, che per diventare tali dovevano, in un certo senso, essere elaborate ‘in provetta’, dall’altro per la dif1 Per qualche osservazione sulla posizione di Maas – che assumiamo qui a portabandiera di quello che tradizionalmente si chiama lachmannismo, autorizzati in questo se non altro dalla fortuna che ebbe il suo manuale – sulle varianti d’autore cfr E. Montanari, La critica del testo secondo Paul Maas. Testo e commento, Firenze, 2003, pp. 32-33 ; 227.

DOI 10.1484/M.IPM.1.101084

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ficoltà pratica di lavoro che il riconoscimento della non-linearità avrebbe comportato. La conseguenza fu che molti, messi davanti all’obiettivo di una ricostruzione perfetta che non riusciva, scivolarono nello scetticismo, applicando un ragionamento di questo genere : il metodo tradizionale funziona solo in casi particolari, quando lo sviluppo della tradizione non sia in alcun modo perturbato ; questi casi sono molto rari, e anzi per nessuno di essi possiamo essere certi che sia davvero tale ; i risultati quindi non sono mai sicuri ; tanto vale rinunciare a utilizzare il metodo. Ma dopo Pasquali e Contini le tradizioni non-lineari hanno smesso di essere un insolubile problema per diventare un’insostituibile risorsa, per quanto difficile da usare. Ci si rende conto, oggi, del fatto che, se dell’opera di un scrittore antico o medievale esistono redazioni multiple fin dall’origine, questo ci dà informazioni utili sulla genesi del testo, sulla sua fruizione antica, talvolta sulla poetica stessa dell’autore : una ricchezza importante, nonostante le difficoltà che questa situazione comporta per la ricostruzione di uno stemma codicum. Ci si rende conto del fatto che, se un’opera presenta una trasmissione fortemente ‘attiva’, all’interno della quale cioè i copisti e i lettori hanno compiuto frequenti interventi migliorativi, correggendo e modificando il testo, o collazionando un esemplare con l’altro, questo è segnale della vitalità e dell’interesse che l’opera in questione presentava e dell’incidenza storica che essa ebbe ; e questo nonostante la ricostruzione stemmatica possa in certi casi risultare impossibile. Ci si rende conto del fatto che la storia di un’opera letteraria non si chiude con la storia del suo autore, ma continua nell’interazione che essa ha creato con chi l’ha letta : perché per un pubblico è stata concepita, e un pubblico – magari diverso, e inevitabilmente molto e sempre diverso se si tratta di un’opera di lunga durevolezza storica – l’ha compresa, apprezzata e utilizzata in modo proprio. Il superamento delle posizioni ‘meccanicistiche’ avviene perciò nella valutazione positiva di ciò che in un famoso saggio Sebastiano Timpanaro aveva chiamato ‘perturbazioni’ : un termine che continua a mantenere una connotazione vagamente negativa rispetto alla linearità della tradizione, ma che nel linguaggio dello studioso aveva solo compiti descrittivi. Del resto è ormai chiaro a tutti, o almeno a chi sui testi ci lavora davvero, che i casi di ‘perturbazione’ non sono eccezione, ma normalità ; così come la

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fisica teorica definisce delle leggi perfette, ma la fisica applicata le cala nella realtà con tutti gli accidenti che della realtà sono propri. Secondo una legge fisica, un suono emesso a 331, 5 metri di distanza, che si propaga nell’aria, dovrebbe giungere a un osservatore dopo un secondo ; ma un fisico sa benissimo che nei fatti esso non giungerà esattamente dopo un secondo, perché questa misura varia in ragione della densità dell’aria, della sua composizione chimica, della temperatura, della presenza di eventuali ostacoli, dell’incidenza del vento ecc. ; la variazione può essere anche consistente, e può capitare anche che un suono che si penserebbe di percepire non si percepisca affatto. Quando esco da casa mia alle 8 del mattino prevedo di raggiungere l’università alle 8, 40 ; ma ben raramente arriverò proprio alle 8, 40, perché talvolta troverò un semaforo rosso in meno, o i mezzi pubblici non arriveranno subito, o dal giornalaio ci sarà una coda maggiore. Ciò non toglie che il suono normalmente si propaghi nell’aria a 331, 5 metri al secondo, e che io normalmente giunga all’università in quaranta minuti : quand’anche la situazione normale non si verificasse mai, essa è alla base di ogni analisi, di ogni predittività e di ogni comportamento. Per applicare alla critica testuale queste considerazioni, per la banalità delle quali chiedo scusa, mi preme ricordare ancora una volta una frase di Giovanni Orlandi, mio maestro : « Mi è accaduto spesso di raccomandare agli studenti di leggere il Maas per imparare le regole e il Pasquali per le eccezioni, avvertendoli tuttavia che in campi come il nostro le eccezioni hanno importanza anche maggiore delle regole – ma pur sempre in quanto eccezioni, cioè tali da far riferimento a regole »2. Non credo si possa dire meglio : le norme lachmanniane come mediana cui attenersi, con la consapevolezza che la realtà è variamente sparsa e distante rispetto a questa mediana, anche se misurabile e interpretabile alla luce di essa. L’analisi genealogica continua a valere e resta insostituibile, perché in modo genealogico si svolse effettivamente la trasmissione dei testi ; la ricchezza della tradizione, la fantasia – se mi si consente il termine – data dal fatto che gli attori della trasmissione sono uomini, che rispondono a moventi e inte« Apografi e pseudo apografi nella Navigatio sancti Brendani e altrove », Filologia mediolatina, 1 (1994), pp. 1-35, a p. 29, n. 87 [ora in G. Orlandi, Scritti di filologia mediolatina, Firenze, 2008 (Millennio medievale, 77), pp. 73-94, a p. 87, n. 87]. 2

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ressi molto vari e non sempre codificabili, costituiscono però una realtà difficile da irreggimentare, e di questo occorrerà tener conto. Il filologo di oggi accetta perciò con maggiore serenità quello che aveva turbato i filologi novecenteschi, e tende a dare valore a ciò che essi ritenevano soltanto un ostacolo. Con questo non ha risolto i suoi problemi, certo : perché il filologo, al di là della riflessione teorica, si trova a dover produrre un risultato pratico, l’edizione di un testo, e questo impone che la tradizione vada in qualche modo decifrata. Uno strumento in più può essere dato dalla casistica, nel tentativo di individuare elementi costanti e elementi variabili nella trasmissione testuale. È quello che si fa, beninteso, in tutte le scienze, e che si è sempre fatto anche per la filologia, magari con minore consapevolezza di oggi : si studiano i casi meglio conoscibili per inferire quanto può essere successo in casi paralleli sui quali si hanno meno informazioni. Sarà da precisare che non si parla qui di ricercare modelli matematici : ben inteso, alcuni strumenti matematici – nella forma di metodi statistici elementari – possono essere utili, ma il valore predittivo delle risultanze non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello che si può raggiungere nelle scienze esatte. (Un paragone più consono potrebbe essere forse con i modelli sociologici, che infatti hanno limiti di predittività molto maggiori ; di un campo particolare di fenomeni sociologici, in fondo, stiamo qui parlando, se consideriamo che gli artefici dei processi di trasmissione sono uomini). Più che di ‘stabilire’ dei modelli, si tratterà di ‘percepire’ dei comportamenti normali – e chi si occupa di tradizioni testuali di solito lo fa già, più o meno inconsciamente – e di descriverli, perché siano utili in altri casi. Il progetto di ricerca Te.Tra.3 si propone appunto un’indagine in questa direzione sui testi della letteratura latina medievale. Non tanto e non solo un prontuario di ciò che si sa della trasmissione delle singole opere, quanto soprattutto un tentativo di mettere un numero consistente di trasmissioni una a fianco dell’altra per vedere cos’abbiano in comune e in cosa si differenzino l’una rispetto all’altra. L’ambizione è quella di poter rispondere a domande di questo tenore : cosa differenzia la trasmissione dei testi di un determinato genere letterario, o di una determi3 La trasmissione dei testi latini del medioevo. Medieval Latin Texts and their Transmission (Te.Tra.) edd. P. Chiesa, L. Castaldi, I-III, Firenze, 2004-2008.

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nata epoca, o di un determinato ambito geografico, rispetto ad altri ? I testi esegetici sono trasmessi con linee e modalità del tutto identiche a quelle dei testi cronachistici o di quelli poetici, o con modalità diverse ? Le verifiche e ricollazioni dei testi agiografici sono rare o frequenti ? Qual è la probabilità che irregolarità evidenti nella trasmissione dipendano da una molteplicità iniziale di redazioni d’autore ? Esistono casi di trasmissione esemplari e illuminanti, che possano servire da guida per interpretare fatti più oscuri che ricorrono in altre tradizioni ? All’ultima di queste domande – e solo all’ultima, per ora – sono in grado di rispondere, e la risposta è affermativa. Lo farò presentando un esempio per certi versi clamoroso, e meno noto di quanto meriterebbe, della trasmissione di un’opera letteraria importante ; un’opera sulla tradizione della quale è possibile conoscere molto, e che può perciò servire come esempio di riferimento per altri casi analoghi. Il testo il questione è la Regula pastoralis di Gregorio Magno, un autore che mi sembra particolarmente adatto a concludere questo convegno in quanto vera cerniera fra letteratura patristica e letteratura medievale, ad entrambe le quali può essere a buon diritto ascritto ; e che con la letteratura medievale, come con la letteratura patristica, condivide le problematiche filologiche. Ma di questo diremo qualcosa alla fine. La Regula, che è opera di non modesta entità (116 colonne della Patrologia Latina), è conservata in oltre 700 manoscritti interi o frammentari, secondo quanto si ricava dalla banca dati dei codici gregoriani della SISMEL4. In mezzo a questa massa di testimoni, di per sé ingovernabile se non a prezzo di dolorose selezioni a priori, ce n’è uno più antico di tutti gli altri, riconosciuto da tempo come di assoluta eccellenza. È il codice 504 della Bibliothèque Municipale5 di Troyes, un manoscritto in onciale che Armando Petrucci ha attribuito a Roma alla fine del vi secolo, in base a considerazioni che in seguito non sono state smentite e oggi sono in genere accettate6. Il codice proverrebbe perciò 4 Ringrazio Fabiana Boccini e Sara D’Imperio per avermi permesso di accedere ad essa, e avere compiuto per me diverse esplorazioni ed estrazioni, mentre era ancora in fase di allestimento. 5 Ora Médiathèque de l’Agglomération Troyenne. 6 Per la bibliografia sul manoscritto e sul suo valore testuale rimando al mio contributo « Regula pastoralis », in corso di pubblicazione in Ecdotica gre-

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dalla città dove viveva Gregorio Magno e sarebbe datato alla sua stessa epoca, e potrebbe perciò essere molto vicino all’autore. Si penserebbe anzi che difficilmente un codice esemplato a Roma vivente Gregorio possa presentare un testo di modesto valore : ben conosciamo l’impegno del pontefice nel controllare quanto circolava sotto il suo nome, e sarebbe strano che nella sua stessa città esistessero copie non autorizzate di una sua opera. Questo codice presenta in più una particolarità di rilievo. Il testo in esso originariamente contenuto, che chiameremo T1, è stato oggetto di un processo di revisione sistematico, si direbbe in epoca molto prossima a quella della sua prima copiatura, che ha portato alla costituzione di un testo modificato (T2), talvolta anche in modo abbastanza profondo. La maggior parte delle correzioni riguardano le citazioni bibliche, molte delle quali nella stesura originaria non corrispondevano al testo della Vulgata – non tanto perché riprendessero traduzioni precedenti, a quanto si può capire, quanto perché Gregorio aveva riferito a memoria, o piuttosto aveva rimaneggiato il testo sacro per ottenere migliori effetti retorici – ; queste citazioni ‘abnormi’ vengono in T2 ricondotte sistematicamente alla forma ormai canonica. Un’altra parte consiste nell’aggiunta di esempi o ulteriori testimonia biblici ; un’altra ancora in correzioni nel tono, che diventa in certi casi più tollerante e disteso rispetto a una maggiore intransigenza iniziale ; un’altra nella rettifica di qualche passaggio che poteva generare equivoci dottrinali, o che si basava su un’esegesi approssimativa o francamente sbagliata di alcuni passi biblici ; un’altra, infine, in modifiche stilistiche tout court. È chiaro che le correzioni alle citazioni bibliche potrebbero essere un banale intervento di regolarizzazione da parte di qualsiasi bibliotecario o studioso interessato a un uso normativo del testo ; ma altrettanto non si può dire per le aggiunte di testimonia, e ancor meno per le correzioni di tono, per gli aggiustamenti esegetici o dottrinali e soprattutto per le modifiche stilistiche gratuite, tutti interventi che difficil-

goriana, ed. L. Castaldi, e ai diversi saggi critici (di B. Judic, G. Orlandi, A. Petrucci – F. Nardelli Petrucci e P. Chiesa) che accompagnano l’edizione in facsimile del codice : Codex Trecensis. La Regola pastorale di Gregorio Magno in un codice del VI-VII secolo : Troyes, Médiathèque de l’Agglomération Troyenne, 504, I, Riproduzione fotografica, a cura di L. G. G. Ricci ; II, Studi critici, a cura di A. Petrucci, Firenze, 2005 (Archivum Gregorianum, 5).

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mente si potrebbero imputare a un soggetto diverso da Gregorio stesso7. L’ipotesi che è stata avanzata è perciò che il codice di Troyes sia l’esemplare dell’opera a disposizione di Gregorio, e che le modifiche siano da ascrivere a lui stesso : non alla sua diretta scrittura, beninteso – i tentativi di individuare una possibile mano del pontefice fra quelle che hanno effettuato le correzioni appaiono piuttosto aleatori8 –, perché ben più verosimile è che lo scrittore, dopo aver progettato una vasta serie di modifiche al testo, ne abbia indicato la strategia e spesso la lettera ai suoi scribi e segretari, e che siano stati questi a introdurli materialmente. Un’ipotesi che non trova ostacoli nei dati che fornisce la storia della tradizione : la correttezza testuale del manoscritto è elevatissima, al di là di alcuni minimi trascorsi di penna9, e non sono state finora riconosciute in altri manoscritti lezioni di valore superiore a quelle presenti in una delle redazioni T1 o T2. Si penserebbe, quindi, di avere fra le mani il primo manoscritto d’autore vero e proprio (un idiografo, come viene tecnicamente definito un esemplare sorvegliato dall’autore anche se non da lui materialmente scritto), almeno di ampia estensione, di tutta la letteratura occidentale, e questa ipotesi daremo da qui in poi come accettata.

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Le modifiche, per altro, appaiono di segno analogo, e talvolta addirittura identico, agli interventi che si registrano in un’altra opera gregoriana, le Homeliae in Evangelia, ricostruibili tuttavia in quel caso soltanto dalla tradizione successiva, non essendosi conservati manoscritti di epoca così alta ; cfr R. Étaix, « Note sur la tradition manuscrite des Homélies sur l’Évangile », in Grégoire le Grand. Chantilly, Centre culturel Les Fontaines, 15-19 septembre 1982, Paris, 1986, pp. 551-559 ; Gregorius Magnus. Homeliae in Evangelia, ed. R. Étaix, Turnhout, 1999 (CC SL, 141), p. XI. 8 R. W. Clement, « Two Contemporary Gregorian Editions of Pope Gregory the Great’s Regula pastoralis in Troyes ms. 504 », Scriptorium, 39 (1985), pp. 89-97, a p. 94 ; cfr in proposito le giuste osservazioni di H. Hoffmann, « Autographa des früheren Mittelalters », Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters, 57 (2001), pp. 1-62, a p. 10. 9 Le idiosincrasie di natura grafica o fonetica sono compatibili con quella che doveva essere la prassi scrittoria dell’ambiente romano dell’epoca, e il codice è anzi considerato un esempio importante della scrittura e della pronuncia del latino in Italia alla fine del vi secolo ; cfr L. M. Hartmann, « Ueber die Orthographie Papst Gregors I. », Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, 15 (1890), pp. 527-549 ; G. Orlandi, « Il codice di Troyes : aspetti linguistici », in Codex Trecensis (cit. n. 6), pp. 101-111.

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Un testimone di simile valore ci fornisce un’occasione unica di entrare nell’officina di uno scrittore del vi secolo, vedendone l’attività successiva sul testo e cogliendone i ripensamenti. Poiché il codice non è un manoscritto di lavoro, ma una copia finita, le correzioni apportate sono piuttosto costose, anche in termini estetici, e presuppongono dunque un alto grado di intenzionalità : non si tratta di lezioni ‘doppie’ introdotte provvisoriamente, in attesa di una decisione, ma di vere e pesanti modifiche, introdotte in quanto il testo sottostante non era più ritenuto accettabile. Da questa base possiamo partire per cogliere un’evoluzione della strategia pastorale di Gregorio, e talvolta anche delle sue istanze poetiche. Col passare del tempo, il pontefice deve avere pensato che, per dare al testo maggior valore ufficiale, fosse necessario ricondurre le forme bibliche al testo canonico, anche a costo di diminuire l’incidenza retorica del linguaggio ; che certe prescrizioni apodittiche, che potevano suscitare qualche sconcerto o irritazione presso determinate categorie di fedeli, dovessero essere moderate con l’introduzione di formule possibilistiche ; che alcune affermazioni poco chiare, per complessità sintattica della frase o per involuzione del pensiero, dovessero essere esposte in forma più esplicita. La possibilità di praticare una critica letteraria a partire dalle varianti d’autore, una risorsa che tutti conosciamo per le letterature moderne e contemporanee, si amplia stavolta fino allo scorcio dell’antichità. Ma, oltre a questo, il fatto che sia in questo caso conservato il punto di partenza ci consente di esaminare l’intera trasmissione ‘in caduta’ e di studiare i meccanismi che l’hanno governata. Sarà bene chiarire che, dal punto di vista testuale, il ‘punto di partenza’ presenta alcuni problemi. Anzitutto, il manoscritto non è conservato per intero : mancano un intero fascicolo, un bifolio, un foglio singolo e la parte finale. Nell’insieme si tratta in fondo di lacune modeste, che interessano meno del 10% del testo : non irrilevanti per chi volesse ricostruire il testo gregoriano – che si troverebbe in questi punti privo del sostegno del testimone principale, altrove da utilizzare all’incirca alla stregua di codex unicus10 –, meno importanti per chi è interessato, come noi in questa sede, a esaminare le vicende della tradizione. In secondo luogo, in parecchi punti nel manoscritto di Troyes vediamo talvolta la correzione, che è palese, ma non riusciamo 10

Su questo argomento mi ripropongo di tornare in altra sede.

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più a ricostruire il testo precedente : questo succede in diverse correzioni per sostituzione, dove la forma T2 è stata introdotta sul rigo, eradendo quella precedente e riscrivendo al suo posto. In questi casi, a onor del vero, nemmeno la forma T2 è sempre leggibile, perché l’inevitabile danneggiamento della pergamena conseguente alla rasura ha talvolta provocato col passare del tempo un più grave deterioramento (anche veri e propri buchi) ; uno sciagurato restauro novecentesco ha malauguratamente peggiorato la situazione. Per altri tipi di correzione – per esempio le aggiunte, che sono poste in margine o nell’interlinea, senza danneggiamento del testo preesistente – la forma di T1 è invece perfettamente conoscibile ; ma anche nei casi più difficili sono spesso rimasti residui di lettere o parole della scriptio inferior, che – se non consentono di ricostruire esattamente quel testo – forniscono però una guida e un limite alle congetture circa quello che poteva essere. La forma di T1 non è dunque sempre conoscibile, ed è anzi spesso problematica ; nonostante questo limite, ciò che si può ricavare dallo studio della tradizione è sicuramente interessante. Il fatto più singolare è che nei manoscritti successivi non sono attestate soltanto forme della redazione T2, ossia post correctionem – quella che, nel linguaggio della filologia moderna, potremmo chiamare ‘l’ultima volontà dell’autore’ –, ma anche forme di T1, ossia ante correctionem. Se è vero che la maggior parte dei manoscritti corrisponde, in genere in modo abbastanza fedele, alla redazione T2, in altri riemergono, talvolta in modo sporadico e occasionale, talvolta in modo più sistematico, residui della redazione T1. Il controllo è sicuro quando nel codice di Troyes le due forme siano entrambe leggibili o ricostruibili ; ma non sono rari i casi in cui, in un punto interessato da una correzione e dove il testo T1 non sia più leggibile nel codice, alcuni manoscritti recentiores presentano un testo radicalmente diverso da T2 e pienamente compatibile con le tracce di scrittura rimaste della scriptio inferior del manoscritto trecense. Il confronto con la tradizione successiva si è rivelato così uno strumento utile per ricostruire il testo di T1, o almeno per formulare ipotesi plausibili su quale potesse essere11. 11 P. Chiesa, « Gregorio al lavoro. Il processo testuale della Regula pastoralis », in Codex Trecensis (cit. n. 6), pp. 31-99, alle pp. 73-99.

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La permanenza nella tradizione di forme risalenti alla ‘prima redazione’ della Regula pastoralis si può spiegare col fatto che le modifiche saranno state eseguite non immediatamente, ma dopo un certo lasso di tempo, si può presumere dopo qualche anno, quando ormai dall’originale erano già state tratte varie copie12. Non è stato tuttavia finora trovato13 alcun codice che riporti la redazione T1 in forma sistematica e compatta : si tratta sempre di residui, in numero più o meno massiccio, all’interno di testimoni che, in altri punti, riportano tranquillamente la forma T2. La ragione di questo stato di cose è che la tradizione della Regula, come si è detto vastissima, risulta contaminata fin da epoca molto alta : i copisti verificavano il testo a loro disposizione su altri codici, e quando trovavano dualismi redazionali accettavano una delle due forme, abbandonando l’altra. L’importanza del contenuto e l’autorevolezza di Gregorio, nonché il fatto che, a partire dall’età carolingia, la Regula pastoralis fosse opera molto usata per la formazione del clero, dovevano indurre studiosi e lettori medievali a migliorare il testo ricorrendo ad altri manoscritti ; e l’enorme diffusione dell’opera semplificava l’operazione. Fra i codici più antichi dove si osservano tracce evidenti di contaminazione si possono citare i codici Kassel, Landesund Universitätsbibliothek, 2° theol. 32 (viii secolo) e Sankt Gallen, Stiftsbibliothek, 217 (viii-ix secolo), dove figurano lezioni tratte da antigrafi diversi, e il codice Würzburg, Universitätsbibliothek, Mp.th.f.42 (ix secolo), dove la contaminazione è già in atto ; ma fenomeni analoghi – soprattutto nella prima parte dell’opera : evidentemente collazioni complete erano piuttosto impegnative e spesso non venivano condotte a termine – si ritrovano un po’ dovunque nella tradizione. Casi particolarmente interessanti sono quelli del codice Köln, Dombibliothek, 89 (x secolo), nel quale un correttore ha eraso, nei primi fogli dell’opera, i passi che corrispondevano alla redazione T2, e li ha sostituiti con quelli della redazione T1, reintroducendo inconsapevolmente la forma 12

In una lettera dell’aprile 593 (3, 29) Gregorio si rivolge ai Milanesi, in occasione dell’elezione di un nuovo vescovo, con espressioni che ricalcano quelle del prologo della Regula ; bisogna credere che a quel tempo il libro, concepito per l’istruzione dei pastori, fosse già stato diffuso, con ogni probabilità – data l’epoca alta – nella sua prima redazione. 13 Sullo stato e le modalità della ricerca cfr oltre, n. 16 e testo corrispondente.

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più antica della Regula sullo strato testuale più recente ; e del codice Oxford, Bodleian Library, Laud. misc. 263 (viii secolo ; alcuni suoi frammenti si trovano oggi a Würzburg), dove al contrario le forme di T1, piuttosto frequenti nella stesura originaria del manoscritto, sono state sistematicamente sostituite con quelle di T2. La presenza di contatti orizzontali fin da epoca molto remota ha dunque prodotto già dall’viii secolo una mescolanza fra le forme della prima e della seconda redazione, che noi riusciamo oggi a decifrare solo grazie al fatto che possediamo il presunto punto di partenza della tradizione. Vien da chiedersi cosa sarebbe successo se non l’avessimo posseduto : procedendo in modo maasiano – l’unico che possa dare qualche speranza di sfrondare la selva dei manoscritti – ci saremmo trovati di fronte a una serie di lezioni adiafore contrapposte, che in qualche caso avrebbero potuto farci sospettare una variante d’autore, ma che più frequentemente avremmo ascritto senza troppe domande all’attività dei copisti ; e avremmo tentato di ricostruire ‘famiglie’, o quanto meno di individuare affinità, sulla base di lezioni certo significative, ma in realtà non discriminanti, un po’ perché tutte autoriali, un po’ perché penetrate nella trasmissione attraverso contatti orizzontali. Circa la regolarizzazione delle citazioni bibliche, dove il filologo può senza difficoltà comprendere quale sia la forma più antica – quella deviante rispetto alla Vulgata – e quale quella più recente – quella conforme, perché nessun copista o studioso medievale avrebbe mai sostituito il testo biblico canonico con uno non canonico –, nel migliore dei casi sarebbero sorte discussioni sulla possibile autorialità della correzione ; ma in mancanza di prove certe di interventi redazionali d’autore sarebbe probabilmente prevalso lo scetticismo. La presenza del codice di Troyes permette altresì di far chiarezza sulla struttura originaria dell’opera, che appare sfigurata nella tradizione successiva per via dell’intervento di scribi e bibliotecari. La Regula, in origine, era un testo continuo, suddiviso in 65 capitoli, presentati in un sommario iniziale. Nel prologo Gregorio spiegava che i temi trattati nell’opera (disputationes) erano quattro (con che atteggiamento il pastore debba giungere all’episcopato ; come debba vivere una volta che vi sia giunto ; come debba insegnare ; come debba mantenere l’umiltà), senza per altro che questo comportasse una scansione in sezioni della Regula ; ma

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questo indusse qualche lettore a suddividere l’opera in quattro libri o in quattro partes, ed è in questo modo che essa venne pubblicata dai Maurini (e spesso è ancora oggi citata). Inoltre, il cap. 23 della Regula presenta un elenco preliminare delle categorie morali e sociologiche cui il pastore deve rivolgere la predicazione ; questo elenco, sviluppato poi nei capitoli successivi, poteva apparire una specie di nuovo sommario, e per questa ragione l’opera venne talvolta, fin da epoca molto remota, suddivisa indebitamente in due libri. Anche di questa vicenda è possibile ora ricostruire le fila, grazie alla conservazione del punto di partenza. Le ricerche da noi condotte sulla Regula pastoralis hanno per obiettivo principale quello di risalire con la maggiore sicurezza possibile al testo della redazione T1, dove essa non risulti più leggibile nel codice di Troyes, ricercandone nella tradizione posteriore i residui14. Data la mole di materiale – i settecento codici che si è detto – si era ritenuto necessario fissare dei criteri piuttosto drastici per selezionare a priori i codici da esaminare, in base all’attesa prevedibile di risultati positivi. I criteri, di carattere cronologico e geografico, erano i seguenti : – esame dei testimoni più antichi. Questo perché, tanto più recenti sono i testimoni, tanto più probabile è che la contaminazione della forma T2 abbia finito per cancellare la forma T1 ; e per l’ovvia considerazione che i testimoni più recenti potrebbero almeno in parte discendere, per via diretta o indiretta, da altri più antichi conservati, ed essere pertanto inutili. – esame dei testimoni di area spagnola. La Regula pastoralis era giunta in Spagna parecchio prima del luglio 595, come dimostra una lettera di ringraziamento di Liciniano di Cartagena a Gregorio, e qui sarà stata probabilmente copiata. Poiché tale data è piuttosto alta, è probabile che a Liciniano – e in seguito a Leandro di Siviglia, nel luglio 595 – fosse pervenuta la 14 Un obiettivo meno rilevante all’interno del presente discorso, ma piuttosto importante in prospettiva editoriale, è quello di individuare quale possano essere i migliori codici da utilizzare nei punti dove il codice di Troyes è lacunoso o illeggibile. Per le parti dove esso è conservato e leggibile, infatti, la nostra ipotesi è che esso debba essere assunto come codex unicus della redazione T2 ; ma che fare nei punti in cui questo non avviene ? La ricerca qui mira a individuare i manoscritti che abbiano il minor livello di devianza rispetto al codice di Troyes, cioè i suoi descripti più diretti e conservativi.

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redazione T115. Se tale versione venne messa in circolazione, essa può aver lasciato residui nella penisola iberica. – esame dei testimoni di area britannica. La missione inviata da Gregorio nel 596-597 in Britannia, guidata dal monaco Agostino, si servì certamente di libri. È plausibile che fra questi libri vi fosse la Regula pastoralis, dato che Agostino era destinato a diventare vescovo degli Angli e che l’opera gregoriana è appunto un manuale di istruzioni ad uso di vescovi. Non sappiamo con precisione quando sia avvenuta la revisione gregoriana dell’opera ; ma vi è la possibilità che all’epoca della missione essa non fosse ancora stata fatta, e che Agostino abbia portato in Inghilterra una copia della prima redazione della Regula. Anche in questo caso eventuali correzioni, magari dell’epoca della successiva missione di Teodoro e Adriano, potrebbero essere state solo parziali o inefficaci. – priorità inversamente proporzionale alla distanza (non necessariamente chilometrica, ma geografico-culturale) del luogo di composizione del manoscritto rispetto a Roma. La Regula pastoralis ha una fisionomia ‘ufficiale’ ; si può immaginare che nella curia romana, nelle chiese da essa dipendenti e in quelle più facilmente raggiungibili le eventuali copie già esistenti della redazione T1 siano state subito emendate, su indicazione del pontefice, nella forma T2, ma che tale operazione sia divenuta progressivamente più difficile con il crescere della distanza e il diminuire del controllo.

Purtroppo, l’esame della tradizione finora condotto16 ha dimostrato che questi criteri di priorità, per quanto ragionevoli, sono tuttavia fallaci. Il manoscritto finora individuato che contiene singolarmente il maggior numero di passi corrispondenti alla reda15 Non vi sono elementi precisi sulla data di composizione della seconda versione. Se si suppone – come abbiamo fatto : Chiesa, « Gregorio al lavoro » (cit. n. 11), p. 63 – che essa sia collegata all’estrazione dei testimonia biblici gregoriani effettuati da Paterio, i limiti cronologici dovrebbero essere il 594 e il 601-602 (cfr F. Martello, Paterius, notarius Ecclesiae Romanae, e il ‘Liber testimoniorum’. La redazione, il contesto di produzione e la trasmissione del primo florilegio esegetico gregoriano, tesi di dottorato, Università di Roma Tor Vergata, a.a. 2008-2009, p. 241) ; è in ogni caso poco verosimile che la revisione sia avvenuta a poca distanza dalla prima stesura, che è del 590-591. 16 Sono stati esaminati per questa indagine circa 170 manoscritti della Regula, fra cui tutti quelli precedenti all’xi secolo che riportino un testo esteso (che non siano cioè frammenti o escerti). Un elenco di questi codici si trova in Chiesa, « Gregorio al lavoro » (cit. n. 11), pp. 71-72, con gli aggiornamenti di Chiesa, « Regula pastoralis » (cit. n. 6), n. 83 e testo corrispondente.

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zione T1 – e in alcuni casi è l’unico testimone a riportarli – è un codice italiano del xv secolo, il Vaticano lat. 590, una situazione che contraddice clamorosamente i criteri geografici e cronologici sopra indicati17. Pur non avendo permesso di individuare un codice preferenziale della prima redazione, la griglia geografica sopra esposta ha tuttavia permesso di chiarire qualche punto interessante circa la storia della trasmissione del testo. Nell’area spagnola, ad esempio, i manoscritti che abbiamo potuto esaminare appaiono fedelissimi alla redazione T2 : se la copia inviata a Liciniano era davvero della redazione T1, dunque, essa ha avuto scarsa o nulla circolazione, ed è stata in seguito sostituita dalla seconda18. In Inghilterra, invece, sono frequenti i manoscritti che conservano qualche residuo della prima redazione, specialmente nella prima parte ; tali residui tendono per lo più a diminuire e a scomparire con il passare del tempo, evidentemente in seguito a controlli e collazioni su altri codici. Meglio va per i codici dell’viii secolo ricollegabili ad ambienti insulari sul continente, dove le forme della prima redazione sono spesso numerose (come nel caso dei già citati manoscritti di San Gallo, Oxford, Würzburg e Kassel) ; e con questa influenza si spiegherà la conservazione anche in epoca successiva di alcune di queste forme in codici di area alpina e tedesca meridionale. La tradizione italiana è in genere compattamente fedele a T2, con l’importante eccezione del Vaticano lat. 590, di cui si è detto ; anche in Francia la forma T2 è del tutto prevalente (come dimostra il secondo codice completo dell’opera in ordine di antichità, il manoscritto Ivrea, Biblioteca Capitolare, 1, del vii secolo, collegato a quanto pare con Luxeuil), mentre in Normandia e sulla Manica il comportamento è analogo a quello dei codici inglesi. 17 In seguito a tale scoperta, si è preferito procedere a un’indagine a tappeto, la più ampia possibile, su loci critici, escludendo soltanto i manoscritti frammentari e parziali. È stato stabilito di interrompere la ricerca una volta che siano stati decifrati, grazie all’ausilio di qualsiasi manoscritto, tutti i passi oscuri della redazione T1 ; se mai sarà possibile farlo. 18 Per il passaggio in Spagna della quale si potrebbe pensare a Taione di Saragozza, che qualche decennio dopo vi portò da Roma estratti di opere gregoriane, trovati a suo dire nell’archivio papale ; se a lui si dovesse anche l’introduzione di un esemplare della Regula, essa sarà evidentemente stata nella redazione T2.

FILOLOGIA PATRISTICA E FILOLOGIA MEDIOLATINA

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Quello della Regula pastoralis è per la sua antichità un caso assolutamente singolare, di cui non esistono paralleli nel mondo occidentale. Nonostante questo, esso può consentire qualche riflessione metodologica, e soprattutto può mostrare come le competenze di chi si occupa di patristica e quelle di chi si occupa di medioevo debbano di necessità essere associate, pena altrimenti una scarsa efficacia della ricerca svolta. I testi patristici latini, da un punto di vista della loro trasmissione, vengono a condividere alcune caratteristiche specifiche da un lato con quelli dell’antichità classica pagana, dall’altro con quelli del medioevo occidentale. Con i testi classici hanno in comune, anzitutto, il contesto in cui sono nati e in cui si è svolta la loro prima circolazione : per vari secoli scrittori cristiani e scrittori pagani si sono formati alle stesse scuole e hanno vissuto una medesima situazione culturale. La distinzione fra i due campi mantiene un suo valore per l’aspetto tematico e formale ; ma il modo di produzione della letteratura, per pagani e cristiani, era lo stesso, così come medesima era la formazione scolastica e analoghi i meccanismi di diffusione del libro. Buona parte del lavoro del filologo consiste nello sceverare ciò che è testo originario di un autore da ciò che lettori e copisti successivi hanno introdotto, e questo è possibile soprattutto grazie al fatto che il sistema linguistico e culturale del primo e quello dei secondi sono diversi ; sotto questo profilo, il metodo che si applica allo studio di uno scrittore pagano e di uno scrittore cristiano coevo resta il medesimo. Con gli scrittori classici, ancora, i Padri latini condividono la sorte di aver dovuto attraversare la strettoia dei secoli vii-viii, con l’inevitabile selezione e perdita di materiale che essa ha comportato ; ma qui le affinità diminuiscono. La difficoltà di trasmissione delle opere classiche fu più grave per il fatto che esse erano prevalentemente detenute da laici e usate nelle scuole, e gli sconvolgimenti sociali della cosiddetta ‘età barbarica’ resero problematica la loro conservazione ; le opere dei Padri erano invece detenute dalle istituzioni ecclesiastiche, che mantennero qualche continuità anche in questi secoli. In compenso, il fatto di non aver avuto in genere una fruizione scolastica, fino almeno all’età carolingia, impedì che le opere patristiche subissero una precoce normalizzazione del testo in una forma vulgata ; e questa è una caratteristica che differenzia i Padri dai classici e li

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avvicina ormai agli scrittori mediolatini. Come quelle dei medievali, anche le opere dei Padri, nel loro complesso, non incontrarono nella loro storia epoche di vero e proprio ‘oscuramento’ o di ‘rinascenza’, anche se certo si può parlare di periodi di maggiore o minore interesse per un singolo scrittore o per un particolare problema. La tradizione dei Padri – così come quella degli scrittori medievali – ha quindi maggiore continuità : mentre in genere per gli scrittori classici, a fronte di un numero limitato di copie del medioevo alto e centrale, si riscontra un numero molto alto di copie di età umanistica, per i Padri il processo è più omogeneo e uniforme. Del resto, si deve ricordare che la storia della tradizione dei Padri si sviluppa nel medioevo, e che, in omaggio a Pasquali, soltanto interrogando questa storia è possibile praticare una corretta e fruttuosa critica del testo. Per Pasquali, si intende, l’accento rimaneva ancora tutto sulla ricostruzione testuale, che costituiva il fine unico delle operazioni filologiche : per questo fine lo studio della tradizione era imprescindibile, ma pur sempre strumentale. Oggi, in un’epoca in cui, oltre che il testo come venne scritto all’origine, interessa anche il testo come ha operato nella storia, il sinolo fra storia della tradizione e critica del testo risulta ancor più inscindibile, e in un certo senso più ricco di significati. Per questo lo studioso di filologia patristica e quello di filologia medievale hanno bisogno l’uno dell’altro.

Indici Indice degli autori antichi e medievali e delle opere anonime Indice dei manoscritti

a cura di Emanuela Colombi

INDICE DEGLI AUTORI ANTICHI E MEDIEVALI

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Indice degli autori antichi e medievali e delle opere anonime Acta Iohannis, 90. Ado Viennensis, mart. 264, 275. Aeschines, 29. Alcimus Avitus ep. Viennensis, spir. hist. 101, 105, 112, 113, 115, 117120, 123, 133n, 134-135, 136. Altercatio Augustini cum Pascentio, 247. Ambrosius Mediolanensis, 33, 35, 51, 53, 173n, 297-298, 302, 303, 304, 313 ; Abr. 298, 303n, 307, 308 ; apol. Dav. 299 ; bon. mort. 298, 312n ; Cain et Ab. 298 ; epist. 297n, 299-301, 303, 304n, 306n, 308-311 ; epist. extra coll. 299303, 306n, 307, 310-313 ; exc. Sat. 298, 300, 306n ; exhort. virg. 298 ; fid. 68, 302, 306 ; fug. saec. 298, 312n ; Hel. 299, 308n ; hex. 298, 307 ; Iac. 298, 312n ; incarn. 298, 302, 306 ; inst. virg. 298 ; Iob 298 ; Ioseph 299 ; in Is. 304-305 ; Isaac 298, 303n, 312n ; in Luc. 298, 305, 308 ; myst. 299 ; Nab. 299, 308n ; Noe 302, 303 ; obit. Theod. 299, 301, 306n, 312 ; obit. Valent. 299, 301, 312 ; off. 299 ; paenit. 299 ; parad. 298, 307, 312n ; patr. 299 ; in psalm. 298, 299n, 302, 304-305, 310, 311, 312, 313 ; sacr. 299 ; spir. 301, 302, 306 ; symb. 302, 303 ; Tob. 298, 308n ; vid. 298 ; virg. 298 ; virginit. 298, 300. Ambrosius Mediolanensis Pseudo, apol. Dav. II 302-303 ; dign. sacerd. 299 ; epist. ad Demetr. 299, 300 ; laps. virg. 299, 300, 311n ; mor. Brachm. 299 ; serm. 298. Appendix Probi 78, 79, 93. Aquila, interpres VT, 155, 157, 172, 175. Arator, act. 101, 105, 112, 113, 115, 117-119, 123, 132n, 133, 135n, 136.

Ardo Anianensis, vita Ben. 283n. Aristophanes, 17 ; Lysistr. 19. Aristoteles, 23, 23n ; interpret. 182n ; phys. 29 ; rhet. 29. Arnobius rhet., nat. 35n. Augustinus Hipponensis, 33, 34, 35, 42, 51, 54-58, 60, 62, 66, 72, 101n, 141n, 147, 150, 151, 169, 173, 173n, 178, 181, 183, 188, 192, 198, 201-205, 208, 209, 209n, 210, 213251, 282, 288, 290 ; c. Adim. 213 ; adult. coniug. 212 ; c. adv. leg. 211, 234, 236 ; agon. 56, 68, 213 ; anim. 212, 232 ; bapt. 55, 68, 212, 232, 238 ; beat. vit. 57 ; bon. coniug. 68, 212, 214 ; bon. viduit. 68 ; civ. 52, 53, 62-64, 68, 70, 149n, 150n, 162, 162n, 163-164, 164n, 205, 211, 224, 229, 232, 233, 234, 235, 236, 239, 241, 242, 242n, 244 ; conf. 35, 39, 40, 41, 48, 49, 57, 61, 72, 149n, 150n, 151n, 211, 233, 235, 238 ; cons. evang. 68, 211 ; corrept. 211 ; dialect. 182n ; div. daem. 213 ; divers. quaest. 58, 149n, 211, 231, 232, 237, 239, 240, 241, 248 ; doctr. christ. 40, 55, 56-57, 68, 141-142, 142n, 182, 183n, 211 ; adv. Don. 68 ; enchir. 212, 231n, 234, 236, 237 ; epist. 22, 52, 53, 55, 56, 60, 61, 62, 63, 63, 162n, 212, 213, 230n, 231, 232, 233, 234, 235, 236, 237, 238, 239, 240, 241, 247, 288n ; c. epist. fund. 56 ; in epist. Ioh. 212, 238, 239, 240 ; in evang. Ioh. 212, 212n, 231n, 232, 233, 235, 236, 237, 239, 248 ; c. Faust. 173n, 211, 232, 233, 234, 235, 241 ; fid. et op. 68 ; in Gal. 211n ; c. Gaud. 212, 238 ; gen. ad litt. 67, 69n, 211, 234, 236, 237, 239, 241 ; gen. ad litt. imperf. 213 ; gen. c. Manich. 213 ; gest. Pelag. 212 ;

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INDICI

grat. 212, 214, 238 ; haer. 213 ; in Iob 58 ; c. Iulian. 211, 215, 239, 305 ; c. Iulian. op. imperf. 211, 214, 215, 231, 233, 236, 241, 305 ; c. Maximin. 213 ; de mend. 212, 234 ; mor. eccl. 148, 149, 212, 214, 241 ; mor. Manich. 212, 214 ; nupt. et concup. 149n, 212 ; op. monach. 68, 212, 212n, 242 ; pecc. mer. 150n ; c. Pelag. 48, 211, 215 ; perf. iust. 213, 214, 235, 237 ; persev. 212, 214 ; c. Petil. 211 ; praed. sanct. 212, 231, 232, 233, 239 ; c. Priscill. 212, 214 ; in psalm. enarr. 35, 47, 48, 64, 65, 68, 146, 150n, 179-199, 212, 231, 233, 235, 237, 238, 239, 240, 241, 242, 245, 246 ; quaest. evang. 212 ; quaest. hept. 66, 213 ; quaest. Simpl. 56, 211, 231, 233, 238 ; quant. anim. 149 ; retract. 55, 56, 57, 58n, 70, 148, 148n, 149n, 150, 150n, 170, 171, 213, 288n ; in Rom. 149n, 211n, 217 ; in Rom. imperf. 211n ; c. Secundin. 212, 231n, 238, 240 ; serm. 196n, 203n, 205n, 207n, 210, 212, 213, 229n, 231, 231n, 232, 233, 234, 235, 236, 237, 238, 239, 240, 241, 246, 247, 247n ; de serm. dom. 212, 231, 232, 234, 236, 241 ; soliloq. 57 ; spir. et litt. 225n ; trin. 55, 57, 69, 71, 212, 233, 234, 235, 236, 238, 239, 240 ; vera relig. 60, 149n, 150 ; virg. 68, 213. Augustinus Hipponensis Pseudo, 246, 247 ; serm. 298. Ausonius, Decimus Magnus, 14, 20.

Bacchylides, 20. Basilius Caesariensis, 282, 285 ; reg. 291. Beda Venerabilis, 169, 175, 205, 208, 210-215, 216n, 225n, 226, 226n, 242 ; in cant. 206 ; collect. opusc. 201-202, 203n, 204-251 ; Cuthb. 131n ; exp. act. apost. 169 ; exp. apoc.

218 ; hist. eccl. 204, 209, 215 ; in princ. gen. 173 ; retract. act. apost. 170, 170n, 171-174, 176-177. Benedictus Anianensis, 283, 286, 287, 288 ; cod. 279, 283, 284, 287n, 292 ; conc. 279, 283, 284. Benedictus Nursinus, reg. 279-285, 290n, 291, 292. Bernardus Claravallensis, epist. 151. Biblia, 34n, 36, 46, 47, 79n, 83n, 89, 129, 130, 141, 143, 147, 150n, 154, 155n, 192, 206 147, 150n, 320, 325, 327n ; Vetus Testamentum 27, 76, 86, 141, 159, 161, 162, 163, 164n, 165n, 170 ; Gn 154, 172-173, 173n ; Ex 195 ; Dt 27n, 156n ; Ios 158 ; Idc 159 ; Ps 47, 48, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 150n, 157, 165, 175-176, 184, 188, 193, 194, 207n, 245, 246, 273, 274, 281, 285n, 294n, 296n, 298, 299, 302, 304, 305, 307, 310-312 ; Prv 83n ; Ecl 148, 149, 151, 152 ; Ct 152, 206 ; Sir 83n ; Is 155, 155n, 156, 164n, 165, 166, 173-175, 304-305 ; Ier 159n, 164n, 167, 167n, 168-169 ; Ez 157, 161 ; Ion 164n ; Mi 158159, 160n; Novum Testamentum 11, 27, 29-30, 33, 60, 76, 77n, 131, 152n, 153, 158n, 165n, 292-293 ; Mt 47, 88n, 158, 159, 159n, 160, 160n, 164-166, 166n, 167, 169, 274 ; Mc 88n, 89n, 274 ; Lc 88n, 89n, 274, 293 ; Io 88-89, 90, 196, 274 ; Act 169, 176, 177, 177n ; Rm 49, 210, 222, 247, 248 ; I Cor 152, 203, 222, 248, 249 ; II Cor 90, 222, 249, 296n ; Gal 152, 153, 222, 249 ; Eph 222 ; Phil 222 ; Col 222 ; I Th 222 ; II Th 222, 241-246, 249, 250 ; I Tim 207n, 245, 249 ; Tit 246 ; Phlm 296n ; Hbr 203, 249 ; I-II Io 89 ; III Io 90n ; Apc 89, 296n. Bonifatius (Wynfrith), 226 ; epist. 226n.

INDICE DEGLI AUTORI ANTICHI E MEDIEVALI

Caesarius Arelatensis, 209n ; serm. 221, 229, 247. Cassianus Massiliensis, 282, 291. Cassiodorus, 64, 214 ; inst. 64n, 202, 205, 205n, 281n, 289n ; in psalm. 64n. Catenae in Psalmos, 145-146. Catullus, C. Valerius, 122. Cicero, Marcus Tullius, 20, 33, 41, 46, 54 ; Att. 14n, 22, 54 ; orat. 22. Claudianus, Claudius, 124n. Claudius Donatus, Tiberius, 129n. Claudius Marius Victor(ius), aleth. 101n. Clemens Alexandrinus, 25. Columella, 291. Corippus, Flavius Cresconius, Ioh. 99n. Cyprianus Carthaginiensis, 75, 76, 77, 80n, 220 ; epist. 81n; test. 47. Cyprianus Carthaginiensis, Pseudo, aleat. 45, 75-85, 92-95, 137 ; adv. Iud. 80n, 81n ; mont. 44-45, 75, 76n, 77-82, 83n, 85-91, 92 ; tract. 81n. Cyprianus poeta (‘Gallus’), hept. 101n.

De dubiis nominibus cuius generis sint, 130. De vita et meritis Ambrosii, 306. Demosthenes, 26, 29. Doctrina Apostolorum (Didaché), 38.

Epiphanius Salaminensis (ep. Salaminae), 190. Epistula ad Diognetum, 34n. Eugippius, exc. Aug. 39, 69n, 201, 211n, 213, 214, 215, 241, 242, 244, 248 ; reg. 282, 283n, 286, 290 (cfr etiam cod. Paris, BnF, lat. 12634). Euripides, 26 ; Heracl. 28. Eusebius Caesariensis, 144n, 155n ; hist. eccl. 7, 12, 13, 15, 33, 34n, 37, 189, 190-191 ; in Is. 155, 156n.

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Filastrius Brixiensis, 173n. Firmicus Maternus, err. 94n. Florus Lugdunensis, exp. in epist. Paul. 202-203, 203n, 204, 205n, 207-210, 216n, 225, 225n, 230, 231n, 247n. Fronto, M. Cornelius, 71.

Gellius (Aulus Gellius), 26, 66, 85n. Gerlandus Bisuntinus, 209n. Gilbertus Porretanus, epp. cum gloss. 216n. Gregorius Iliberritanus, fid. 37, 37n. Gregorius Magnus, 58, 206, 329 ; dial. 42, 45, 279, 280n ; epist. 324n ; in evang. 321n ; past. 319-329. Gregorius Nyssenus, epist. 33. Gregorius Turonensis, 43 ; Franc. 43. Guillelmus a Sancto Theodorico, exp. in Rom. 209n.

Hegesippus, 300n. Helisachar Andegavensis, 207 ; in Rom. 231. Herma, sim. 83n. Herodianus grammaticus 29. Herodotus 22, 23, 23n, 27n, 29. Hieronymus Stridonensis, 22, 35, 41, 51, 58, 62, 131, 141n, 143n, 144n, 146n, 147, 151, 152, 153, 154, 156n, 161, 163n, 164, 168n, 169, 170, 171, 172, 175, 177-178 ; in Am. 153n, 154n ; commentar. in psalm. 143-144, 154n, 157 ; in eccles. 151-152 ; in Eph. 154n, 156n ; epist. 68, 141, 146, 146n, 147, 150n, 151n, 153n, 159n, 160n, 166-167, 168, 171, 172-173, 173n, 174n, 175-176 ; in Ezech. 156n, 157, 157n, 160-161, 161n, 162, 162n, 172n ; in Gal. 152-153, 154n, 157n ; in Ier. 159n, 162, 165n, 167168 ; adv. Iovin. 146n, 153n ; in Is. 154n, 155-156, 172, 172n, 173-174 ; in Matth. 145n, 158, 158n, 160,

336

INDICI

164-166 ; in Mich. 144n, 154n, 159-160 ; in Os. 156n ; in Philem. 152n ; praef. Vulg. 171, 171n, 175 ; quaest. hebr. in gen. 154, 157-158, 159n, 171n, 172-173 ; adv. Rufin. 154n, 156 ; in Tit. 152n, 154n ; tract. in psalm. 60, 69, 143, 144, 146, 146n, 166n ; Victorin. Poetov. in apoc. 156n ; vir. ill. 75n, 146, 159n ; Vulg. cfr Biblia. Hilarius Pictaviensis, 142n, 144 ; c. Aux. 142n ; in psalm. 60, 142143, 146 ; trin. 38, 38n, 68. Hincmarus Rhemensis, 207, 306 ; praed. et lib. arb. 207n. Homerus, 27, 28, 30. Horatius, 122. Hrabanus Maurus, comm. in epist. Paul. 207, 209-210, 210n, 226, 230n, 231-241, 242, 245, 246, 249250 ; epist. 210n.

Inscriptiones Latinae Africae, 78, 79. Irenaeus Lugdunensis, 58. Isidorus Hispalensis, 130 ; fid. cath. 174n. Isocrates, 27n. Iulianus imp., 17. Iuvenalis, 20. Iuvencus, evang. 97-102, 104, 105n, 110, 112, 113, 114n, 115, 117-119, 122, 123, 125, 130, 131, 132n, 133, 134n, 135n, 136, 137.

Leander ep. Hispalensis, 326. Liber Pontificalis, 263. Licinianus ep. Carthaginiensis, 328, epist. 326. Livius (Titus Livius), 71, 291. Lucanus, 22. Lucretius, 11, 39. Lullus Moguntinensis, 226 ; epist. 226n. Lupus Ferrariensis, 207, epist. 207n. Lysias, 28n.

Mansuetus ep. Mediolanensis seu Damianus ep. Ticinensis, ad Const. 299 ; expos. fid. 299. Martialis 55, 85n. Martinus Corbus, 297-307, 310-313. Martyrologium Hieronymianum, 255, 263, 267, 270. Minucius Felix, 35n.

Navigatio sancti Brendani, 317n. Nonnus Panopolitanus, 128n. Novatianus, trin. 35n.

Opus imperfectum in Matthaeum, 145n. Origenes Alexandrinus, 25, 144-145, 146, 163n ; comm. in Matth. 145 ; comm. in psalm. 144n ; hex. 144n, 145n, 155n ; hom. in psalm. 144n, 145n ; princ. 36-37, 37n. Orosius, Paulus, 246 ; hist. 38, 38n, 60. Ovidius, 122, 126, met. 91n, 99n, 102, 103, 106, 112, 113, 115, 117-119, 122, 123, 124, 126, 127, 128, 132, 133-134, 136, 137.

Pachomius mon., reg. 285. Passio Agapii, Secundini, Mariani et Iacobi et soc. mm. in Numidia, 257. Passio Cornelii papae m., 263. Passio Cypriani ep. Carthaginiensis, 75n. Passio Getulii, Cerealis et soc. (BHL 3524), 255, 263-277. Passio Mariani et Iacobi mm. in Numidia, 257, 262. Passio Perpetuae et Felicitatis, 91n. Passio Secundi m. cult. Ameriae, Eugubii, Pergulae etc. (BHL 75587560), 255-262. Passio Zotici et soc. mm. (BHL 9028), 263-277.

INDICE DEGLI AUTORI ANTICHI E MEDIEVALI

Paterius, test. 206, 206n, 327n. Paulinus Mediolanensis, 303, 310311 ; vita Ambr. 304, 305, 311n. Paulinus Nolanus, 53, 99 ; carm. 99n, 101, 103, 106, 112, 113, 115, 117119, 123, 125, 133, 136. Petrus Damiani, epist. 150-151. Petrus Tripolitanus, comm.epist. Paul. 202, 202n, 203, 203n, 204n, 205, 206, 208, 214. Plato, 23, 32n ; epist. 13. Plinius, Caecilius Secundus, 54, 55 ; epist. 55n, 151n. Possidius, vita Aug. 55, 72, 182, 183, 198. Propertius, 85n. Prosper Aquitanus, in psalm. 48 ; sent. 201 ; vocat. gent. 299, 300. Prudentius, 33 ; apoth. 101, 104, 106, 112, 113, 115, 117-119, 133, 135, 136 ; perist. 220 ; psych. 101, 104, 106, 112, 113, 115, 117-119, 133, 135, 136.

Quodvultdeus, serm. 225, 225n, 232.

Regula Magistri, 279-296. Regula quattuor patrum, 282. Rodolfus Fuldensis, mirac. 210n. Rufinus Aquileiensis, 43 ; apol. adv. Hier. 39 ; Basil. reg. 291 ; patr. 42. Rustic(i)us Helpidius, 69.

Sallustius Crispus, Catil. 151n. Sedulius presb., carm. pasch. 101, 104, 105n, 112, 113, 114n, 115,

337

117-119, 123, 130, 131, 132n, 133, 135n, 136, 137 ; op. pasch. 131, 132n. Sedulius Scottus, 207, collect. 207n. Seneca, apocol. 85n. Sermo contra quinque haereses, 246. Silius Italicus, 99n, 137n. Statius, 22. Sulpicius Severus, Mart. 36n. Svetonius, Aug. 85n ; Claud. 85n. Symmacus, interpres VT, 155, 157, 172, 173n, 175.

Terentius, Publius Afer, 144n. Tertullianus, 34 ; apol. 37, 37n ; resurr. 92n. Theodotion, interpres VT, 155, 172173, 173n, 175. Theophrastus, hist. plant. 23. Thucydides, 22, 22n, 23n, 29.

Vegetius, 291. Venantius Fortunatus, carm. 99n ; Mart. 99n. Vergilius, 33, 43, 71, 122, 126, 129n, 130, 151n ; Aen. 102, 103, 106, 112, 113, 115, 117-119, 122, 126, 133, 135, 136, 310n ; ecl. 130. Victricius Rotomagensis, laud. sanct. 302. Vincentius Lerinensis, exc. 201. Willibaldus Moguntinus, vita Bonif. 226n.

Xenophon, 22, 23, 23n, 29 ; Hell. (hist. graec.) 23.

INDICE DEI MANOSCRITTI

339

Indice dei manoscritti Admont Bibliothek des Benediktinerstifts, 136 84n Angers Bibliothèque municipale, 24 60-61 Autun Bibliothèque municipale, 107 64 Bamberg Staatsbibliothek, Msc. Patr. 7 306-307 Berlin Staatsbibliothek zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Phillipps 1824 100n Bernkastel-Kues Bibliothek Des Sankt NikolausHospitals, 171 97n Besançon Bibliothèque municipale 184 38n 640 38n Boulogne Bibliothèque municipale, 64 (71) 222, 227-241, 242, 244, 245, 246, 249-250

Cambridge Corpus Christi College, 304 97n, 98, 99n, 100 Città del Vaticano Biblioteca Apostolica Vaticana Arch. di San Pietro D 182 38n Chig. A VI 177 84n Ottob. lat. 63 69 Ottob. lat. 319 64 Pal. lat. 1928 243, 244 Reg. lat. 117 80n, 82, 85, 86, 87, 89, 90 Reg. lat. 118 77n, 78, 80n, 81n, 82, 83, 85, 86, 87, 89, 90, 92, 93, 94, 95 Reg. lat. 333 100n Urb. lat. 102 224, 227 Vat. lat. 199 84n Vat. lat. 264 309n Vat. lat. 267 302n, 306 Vat. lat. 268 299 Vat. lat. 282 298, 299

340

INDICI

Vat. lat. 286 306 Vat. lat. 590 328 Vat. lat. 1348 203n Vat. lat. 4950 203, 203n, 204 Vat. lat. 5730 203n Vat. lat. 5750 71 Vat. lat. 5757 65, 68 Vat. lat. 5759 97n Vat. lat. 5760 303 Vat. lat. 6023 309n Vat. lat. 13501 97n El Escorial Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo del Escorial, Camarín de las Reliquias, s.n. 68 Firenze Biblioteca Medicea Laurenziana Plut. 39.1 71 Plut. 65.1 38n, 60 San Marco 648 221, 226, 227-241, 242, 245, 246, 249-251

Ivrea Biblioteca Capitolare, 1 328 Karlsruhe Badische Landesbibliothek, Augiensis LXXXIV 258n, 262 Kassel Gesamthochschulbibliothek, Murhardsche Bibliothek der Stadt Kassel und Landesbibliothek, 2° theol. 32 324, 328 København Kongelige Biblioteket, Gl. Kgl. S. 22 309n Köln Erzbischöfliche Diözesan- und Dombibliothek 32 307 52 249n 89 324-325 104 216-217, 227-241, 242, 244, 245, 246, 248-251 Historisches Archiv der Stadt Köln, W 231 284n Leiden Bibliotheek der Rijksuniversiteit Vossius lat. fol. 30 39 Vossius lat. Q. 94 39

INDICE DEI MANOSCRITTI

London British Library, Add. 43725 (Codex Sinaiticus) 155n Lyon Bibliothèque municipale 478 68 484 208

Biblioteca Capitolare dell’Arcibasilica di Sant’Ambrogio M 14 299 M 31 298, 299 M 32 298

606 63, 64

M 33 298

607 63, 64

M 34 298, 302

Milano Biblioteca Ambrosiana B 54 inf. 302n, 307, 308 C 74 sup. 114n C 133 inf. 309 C 238 inf. 63 E 26 inf. 63 E 147 sup. 71 F 114 sup. 299, 301, 304, 305n

341

M 35 298-299 Monte Cassino Biblioteca del Monumento Nazionale di Monte Cassino 178 213n, 221-222, 227-241, 242, 245, 246, 249-251 271 64 München Bayerische Staatsbibliothek Clm 208 77n, 78, 80n, 81n, 82, 83, 85, 86, 89, 90, 92, 93, 94, 95

G 58 sup. 57

Clm 6402 97n

I 71 sup. 306n, 307, 308, 309, 310, 312

Clm 16068 84n

J 71 sup. 302

Clm 18203 78

M 77 sup. 57

Clm 28118 284, 286-296

342

INDICI

Napoli Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, VI D 59 68 Novara Biblioteca del Seminario, 20 303 Orléans Bibliothèque Municipale 81 (78) 217-218, 227-241, 242, 244, 245, 246, 249-250

35n lat. 1911 48 lat. 1920 303, 312, 313 lat. 2235 60, 68 lat. 2630 38n lat. 5730 71

84 (81) 218-219, 227-241, 242

lat. 8907 38n, 68

233 284, 286-289,

lat. 9533 65, 68

Oxford Bodleian Library Bodley 210 303

lat. 11574 207 lat. 11642 69n

Bodley 229 303

lat. 12137 303

Hatton 48 282

lat. 12205 280n, 282, 284-296

Laud. Misc. 105 80n, 81n, 82, 83, 92, 93, 94, 95

lat. 12214 63, 67, 70

Laud. Misc. 217 84n Laud. Misc. 263 325, 328 Laud. Misc. 451 80n, 81n, 82, 83, 85, 86, 87, 89, 90, 92, 93, 94, 95 Paris Bibliothèque de l’Arsenal, 93 216n Bibliothèque nationale de France lat. 1661

lat. 12634 280n, 282, 284-290, lat. 13047 80n lat. 13367 38n, 68 nouv. acq. lat. 1592 38n nouv. acq. lat. 1629 64 Ravenna Archivio Arcivescovile, codice ‘di S. Ambrogio’ 67

INDICE DEI MANOSCRITTI

Reims Bibliothèque municipale, 352 303 Roma Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II Sessoriano 13 67 Sessoriano 55 39, 40, 48, 49, 72 Biblioteca Vallicelliana B 38II 64 D 21 84n Rouen Bibliothèque municipale, 147 (A 437) 219, 227-241, 242, 245, 246, 249-251 Saint-Omer Bibliothèque municipale, 91 202, 219-220, 227-241, 242, 243-244, 245, 246, 249-251 San Daniele del Friuli Biblioteca Civica Guarneriana, 22 84n Sankt Florian Bibliothek des Augustiner Chorherrenstifts, XI/126 84n Sankt Gallen Stiftsbibliothek 188 303 217 324, 328

343

Sankt-Peterburg Gosudarstvennaïa Publicnaïa Biblioteka im M.E. SaltykovaScedrina lat. Q.v.I.3 40, 56, 68 lat.Q.v.I.4 63, 67-68, 70 Schaffhausen Ministerialbibliothek 64 222-223, 227-241, 244, 245, 246, 249-250 65 223-224 Torino Biblioteca Nazionale Universitaria D IV 37 80n, 82, 83, 85, 86, 89, 90, 92, 93, 94, 95 E III 5 84n E IV 42 105n Troyes Médiathèque de l’Agglomeration troyenne 96 208n 504 61n, 319-328 581 77n, 80n, 81n, 82, 83, 85, 86, 89, 90, 92, 93, 94, 95 614 216n

344

INDICI

Vercelli Biblioteca Capitolare Eusebiana, CIII 309n Verona Biblioteca Capitolare XIII (11) 59-60 XIV (12) 38n XXII (20) 203n XXVIII (26) 63

Wien Österreichische Nationalbibliothek lat. 847 42 lat. 2160 38n Würzburg Universitätsbibliothek Mp. th. f. 42 324, 328 Mp. th. f. 63 220-221, 225-226, 227-241, 242, 250