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Italian, English, German, French Pages 292 Year 1997
MONOGRAFIE SCIENTIFICHE SERIE SCIENZE UMANE E SOCIALI
ISTITUTO PER GLI STUDI MICENEI ED EGEO-ANATOLICI Via Giano della Bella, 18 - 00162 Roma Direttore: Prof. MIRJO SAI VINI
- CNR
MONOGRAFIE SCIENTIFICHE SERIE SCIENZE UMANE E SOCIALI
Istituto per gli Studi Micenei ed Egeo-Anatolici
FRIGI
E FRIGIO
Atti del 1° Simposio Internazionale Roma, 16-17 ottobre 1995
A cura di R. GUSMANI, M. SALVINI, P. VANNICELLI
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE ROMA 1997
© 1997
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE ROMA
Stampato in Italia — Printed in Italy EREDI dort. G. BARDI s.r.l. - Roma
INDICE
Pag. Prefazione
. Sono indicativi di questi contatti che spinsero i Frigi verso sud-est alla fine del III
secolo il nome Βωδορις (un frigio con nome gallico o un galata frigizzato?) 24, Κατμαρος (cfr. celtico Catumaros) ?, Βοισαγαρος 35.
Sono infine riscontrabili anche tracce sporadiche di una ridotta penetrazione dell’onomastica latina, segno della decadenza del frigio sotto l’impero romano. Nomi come Λουλια, Λουλιανη, AovAeıavn, attestati nel frigio orientale, richiamano indubbiamente
nomi latini 25. Βωλας, più volte attestato in varie località della Frigia, potrebbe rappresentare una Kurzform di BwAavog, in ricordo di Vettius Bolanus, proconsole dell'Asia Minore sotto il regno dell’imperatore Vespasiano 3°. Questo approccio di natura diacronica e interlinguistica è certamente interessante ed
utile per mettere in evidenza una stratificazione nell’onomastica frigia, ma la cosa più
im-
portante sarebbe poter applicare al materiale che resta, una volta dedotti gli influssi citati prima, un criterio intrinseco di definizione.
L'ideale sarebbe poter identificare una serie di nomi che fossero motivati in riferimento al materiale linguistico frigio, che contenessero cioè degli elementi riconducibili a lessemi della lingua indigena, così come accade per nomi chiaramente motivati come gr. Θεόδωρος, It. Honorius, got. Wulfila.
2 Cfr. C. Brixhe - M. Lejeune, Corpus... cit., 245. 3 Cfr. R. Schmitt, “Iranische Namen im Prygischen”, in Iranisches Personennamenbuch, VIA, Wien 1982, 34 s. % Cfr. L. Zgusta, op. cit., 173. 2 Cfr. St. Mitchell, “Population and the Land in Roman Galatia”, in ANRW 7.2 (1980), 1059 ss. » Cfr. C. Brixhe, “Du paléo- au néo-phrygien”, Académie des Inscriptions ἃ Belles-Lettres (1993), Avril-Juin, 336, 340. Cfr. L. Zgusta, op. cit., 219. ἢν Cfr. P. Frei, art. cit., 187; W. Dressler, “Galatisch Borcanupog”, Die Sprache 13 (1967), 67. ἣν Secondo Zgusta (op. cit., 274), potrebbe esserci una somiglianza con Lolha, Drew-Bear mi suggerisce piuttosto l'accostamento con Julia * Cfr. L. Zgusta, op. cit., 130,
uestioni di onomastica ‘Frigia’ 18:
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Questo criterio si rivela perd subito estremamente restrittivo e sostanzialmente impra-
ticabile. Conosciamo poco della lingua frigia e quanto di specifico è stato osservato in campo fonetico, morfologico, sintattico non si presta a trovare un riscontro applicativo
nell’ambito dell’onomastica personale. Non basta la presenza del tipico acc. in -an dei temi in cons. a caratterizzare come frigio un nome come Ovavaxtav, né la forma sigmati-
ca del nom. degli antroponimi maschili e femminili 3! (Voine/Voines, Otu/Otys, Nana /Nanas) riscontrabile in frigio ma non in onomastico.
licio, pisidico, sidetico, per giudicare del tipo
Quel che fa difetto in frigio è soprattutto la conoscenza della componente nominale del lessico che svolge un così grande ruolo ai fini della trasparenza e della motivazione all’interno dell’onomastica personale in lingue perfettamente note. Forse soltanto quattro sono gli antroponimi in cui è possibile riconoscere degli elementi lessicali autenticamente frigi: Πριβις, Bevvioc, Iuav e BavBovAoc. Nel primo ca-
so * siamo di fronte alla trasformazione in nome personale femminile di quello che potrebbe essere il vecchio termine frigio per ‘moglie’, quindi, più che un esempio di originale onomastica frigia, avremmo davanti l’emergere nell’onomastica più tarda di un elemento di sostrato, al pari dei nomi di parentela luvi che ritornano nelle lingue del primo millennio come nomi di persona. Nel caso di Bevvıog si tratta di un nome secondario da
un epiteto di Zeus frigio, che allude all’organizzazione dei suoi fedeli in un gruppo defini to in lingua indigena bennos #3. Per quanto riguarda Iuav /Imeneia, che si presenta come un nome irradiato dalla Frigia e persistente dal paleofrigio fino alla documentazione greca, potrebbe esistere un rapporto con l’omofono fr. iman, peraltro di significato oscuro,
forse nel senso che si avrebbe da fare con un antroponimo derivato da un appellativo 34. È infine allettante l'accostamento dell’hapax Βανβουλος alla glossa di Esichio che attribuisce alla lingua dei Frigi la voce βαμβαλον, per la cui etimologia si rimanda al lituano
bambalas ‘nano’ 35. L'atteggiamento più realistico resta dunque quello di parlare di un tipo onomastico congruente per diffusione con l’area frigia, concentrando l’attenzione su quei nomi che risultano documentati solo in essa e sulla frequenza di particolari tipi di suffissazione. Questo non è di per sé garanzia che si identifichi il nucleo dell’onomastica frigia, ma è il criterio più accettabile per tracciare almeno un quadro descrittivo in cui siano oggettiva-
mente riconoscibili certe tendenze. È indubbio che una categoria preponderante nell’onomastica frigia sia quella dei Lallnamen. In fase paleofrigia sono tuttavia documentate quasi esclusivamente forme bi-
Cfr. C. Brixhe, “Du paléo-au néo-phrygien”, cit., 340. % Per Πριβις si rimanda al lavoro di R. Gusmani, “Note di linguistica micrasiatica 2”, AION, sez. ling. 4 (1962), 48-50. 5 Si rinvia all’approfondito studio di Th. Drew-Bear - Ch. Naour, “Divinités de Phrygie VIII. Zeus Bennios”, ANRW Il 18.3, 1952-1991. * Cfr. C. Brixhe, Réflexions sur Phrygien iman (Reprinted from Mélanges Mansel), Ankara 1974, 239-250.
* Cfr. R. Gusmani, “Studi sull'antico frigio. La popolazione, le glosse frige presso gli antichi”, Rendiconti Isti-
tuto Lombardo 92 (1958), 855 s.
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L. Innocente
sillabiche: baba/babas, mama, nana, nina, atalataslates, tatas/tates. La documentazione greca seriore attesta invece anche le forme semplici Ma, Na, Aa e altre forme reduplicate, sia del tipo Δαδα, Παπας, Batta, Kappa, sia del tipo a + forma monosillabica: Αβα, a volte con raddoppiamento interno: Annas, Αττας, Ακκα. Questa tipologia, di nota matrice micrasiatica, sembra aver conservato in frigio una certa vitalità, come dimostra non solo il numero elevato di attestazioni, ma anche la com-
parsa di forme variamente suffissate che non hanno perso però il carattere di Lallnamen, come Navvaxog, Maupapov, Tatapıv, Παπαρριων, Παππιανος, Αμμιανη, Αμαλιον.
Accanto al nome “eroico” tradizionale indoeuropeo, che è il composto, esiste anche una tipologia, di livello stilistico inferiore - largamente rappresentata in greco, indo-ira-
nico, germanico — data da nomi che hanno struttura bisillabica. E in frigio, a parte dei Lallnamen, essi non sembrano poi così rari come solitamente si è sostenuto. In frigio possono essere riportati a questa tipologia: Ates, Eies, Iktes, Tiyes, Tolos, Voines, Ises forse anche ...]Sabas. Dalle iscrizioni di epoca ellenistica e imperiale è bile desumerne un numero davvero notevole - circa una trentina esclusivi dell’area
il tipo paleoVasos, possifrigia-
(cfr. Baptog, Νιμος, Πουκρος, Σαβις, ZovAog, Zovpvog, Ταγας), cui se ne potrebbero aggiungere altri non unicamente frigi. La composizione sembra invece svolgere un ruolo molto ridotto, specialmente in epo-
ca paleofrigia. Gli unici antroponimi composti che emergono dalle iscrizioni di Gordion sono benagonos, di difficile analisi, ma probabilmente raffrontabile col tipo gr. Avtıyovog e ksuvaksaros che però non sembra rispecchiare una componente indigena. Si configura come composto biradicale anche polo-drates ”. L’analizzabilità puramente formale non assicura la motivazione trasparente, tuttavia un caso singolare potrebbe essere
rappresentato da modrovanak. Composto dal termine attestato al dativo vanaktei *, nome frigio del re, e da Modra attestato come toponimo frigio da Strabone **, potrebbe si gnificare ‘signore di Modra’ e costituire un appellativo del nome proprio che lo precede. Ma dato l’impiego di vanak- nell’onomastica frigia più tarda (Ovavodog, Ουαναξων, Ovavaërwv), modrovanak potrebbe anche essere considerato un antroponimo secondario, del tipo greco Λεσβωναξ, e di conseguenza rappresentare un esempio di composto
determinativo#9. Leggermente diversa la situazione in epoca Πουσοῦυκκα
(cfr. TIovsa + Οκκα)
e Δορμαγλῆς
più tarda. Sono certamente composti (cfr.
Μαγλος).
Da
accostare
a Aop-
μαγλης è Aop-uevnc, il cui primo componente, riferibile a gr. δόρυ (per cui cfr. altri due composti unicamente frigi Aopv-Kavog e AOPU-HEVOS) appare qui in una forma apocopata che risulta estranea all’onomastica greca, mentre sembra ricorrente in quella frigia.
Infatti forme per così dire ‘sincopate’ sembrano riconoscibili anche in Kat-yorog Kov-
% Cfr. G. Neumann, Phrygisch und Griechisch... cit.,9. "Chr. mann, (biden. ®Cfr. M. Lejeune, “A propos de la titulature de Midas”, Athenaewm 17 (1969), 179-192 δ Strab. 12, 3, 7 (= C 543): ποταμὸς [...] Γαλλὸς ἐκ Μοδρων τὰς ἀρχας ἔχων τῆς ἐφ᾽ Ἑλλησπόντῳ Φρυγίας. Cfr. G. Neumann, Ausgewählte Klee Schriften, Innsbruck 1994, 370. © Cfr. G. Neumann, Phrygisch und Griechisch...cit.. 9
Questioni di onomastica ‘Frigia’
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Banaxoc, Κον-κλατος e Kovv-Bapıwmv e il fenomeno sembra applicato anche a nomi di origine straniera come il gal. Katuapoc.
Nomi come Kav-xapog e Κεκ-κελος, attestati soltanto in area frigia, potrebbero essere analizzabili come forme a raddoppiamento iniziale intensivo. Abbastanza nutrita appare invece la serie delle Kurzformen. Si tratta di forme abbre-
viate di composti che hanno una lunga tradizione indoeuropea*'. Come casi più perspicui di questa tipologia si possono presentare Δηλας-- AnAng di contro ai composti gr. del tipo Δηλο-δοτος, Αρι-δηλος, ma soprattutto al nome del dio trace Andormg;
Ipèi di
fronte a Ipôtauovtag (IS), IpôtoBovAos (PIS LYK); Οιδας, di fronte alle forme composte
Ἐξ-οιδας, Περ-οιδας, Kovpa, di contro a Kovyntog (PIS), Κουμασις (PIS). Oltre ai casi
sicuri, ci sono molti altri esempi di nomi bisillabici (come IAXag, Γωκας, Ητας, Napo, Νιμος, Xotov, Χαιχας, Κουτας, Κουρπας etc.), che apparentemente sembrano delle Kurzformen,
per i quali però è difficile individuare il Vollname corrispondente, e che
quindi a rigore non possiamo far rientrare nella categoria. Entro il criterio della frequenza tipologica rientra anche un’analisi sul tipo di suffissazione. Occupa una posizione di spicco tra i suffissi riscontrabili nell’onomastica frigia il
suffisso -εἰο- 42, che in miceneo è applicato alla formazione di aggettivi di materia, ma già anche all’onomastica personale, e che in epoca letteraria è attestato soprattutto nel tessa-
lico per la formazione di patronimici. annoverare
parecchie
forme
In paleofrigio, specialmente a Gordion, possiamo
di femminili
come
tiveia, imeneia,
...]agineia,
...]agipeia,
ibeya , ...]terkeya , kubeleya | kubileya, dumasteia con esempi anche di maschile: lagineios, voineios, particolarmente significativo per il confronto con voines. Il tipo è vitale anche in epoca tarda e sembra caratterizzare anche la formazione di toponimi #, come Kondetov, Μιδάειον, Βοτιάειον *.
Ma anche altri sono i suffissi che sembrano costituire punti di contatto col greco #5. Ci limitiamo a segnalare: -tör/ -tor dei nomina agentis, rappresentato in greco anche nell’onomastica (cfr. Νέστωρ etc.), che compare nel nome Συργάστωρ attestato attraverso una glossa di Esichio, e di cui sono forse postulabili altri due esempi *Ztektop e *Ovaoıap -ta-wo- in paleofr. Proitavos, nei testi greci APOTOOG, Δουμεταος.
Meno frequenti ma interessanti per il richiamo all’area balcanica * sono: -ist- in antroponimi femm. cfr. Αγδιστις -ri- Tatapw, Μασγαρις, Σιγερις
-at- Κονκλατος.
4 Cfr. R. Schmitt, “Entwicklung der Namen in älteren indogermanischen Sprachen”, in Namenforschung... cit., 618. #2 Cfr.G. Neumann, Phrygisch und Griechisch … cit., 7.
# Cfr. P. Frei, “Untersuchungen zu den Ortsnamen Phrygiens”, in Türk Tarih Kongresi'nden ayrıbasım, Ankara
1990, 188 5. # Cfr. L. Zgusta, Kleinasiatische Ortsnamen, Heidelberg 1984, rispettivamente ai $$ 594-3, 807-1, 164.
+ Si rimanda al citato lavoro di G. Neumann, Phrygisch und Griechisch... cit, 8 ss. 4 Tipologia segnalata già in R. Gusmani, “Le iscrizioni dell’antico frigio”, Rendiconti Istituto Lombardo 92
(1958), 923.
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L. Innocente
Tra i formanti di tipo ittito-luvio ricordiamo: -li-, che ha un grande ruolo in licio, mentre in frigio sembra isolabile solo in due casi: Ογολλις, Μουσιλλις -anos in Τυνδιανος, Τανταμανος. Solo sporadicamente sono osservabili in frigio nomi che potrebbero tradire la derivazione da toponimi: notevole è Γόρδιος, nome ricorrente nella dinastia frigia la cui derivazione da toponimo “7 è assicurata dal significato di una base — quella di It. hortus, got. gards, asl. gradi - che ha avuto un suo ruolo col valore di ‘città’ in parecchie lingue indoeuropee #8.
Anche se più comune sembra essere la designazione onomastica singola, le iscrizioni paleofrigie lasciano intravedere anche l’esistenza di una formula onomastica bimembre, composta dall’idionimo + il patronimico. Tre esempi sicuri provengono dalla Frigia classica, la “Città di Mida”: ates arkiaevais, baba memevais, bba memevais. Ad essi si possono aggiungere verosimilmente altri due casi: ...Jtumida memeuis, anche se con diverso
suffisso patronimico, e ..... kanutieivais, anche se mutilo dell’idionimo precedente. In ates arkiaevais akenanogavos dalla Città di Mida è forse addirittura individuabile una denominazione a tre membi mo + patronimico + nome del nonno al genitivo. Il frigio possiede dunque un suffisso di patronimico in -evais: cfr. arkiaevais, memevais, kanutieivais, accanto a kanutiievanos. Sembra attestata fin dal paleofrigio anche l’usanza di una formula femminile binaria: tiveia imeneia, avvalorata da un’altra espressione lacunosa ...]ia aspe/... . La tipologia continua in epoca più tarda, come dimostra il nome Θέκλα Arkaıva.
L’usanza di un
Doppelname, che però non è esclusiva del frigio, è attestata in epoca seriore anche per il maschile: cfr. Ovavatog Δαμας, Τροφιμος KexxeAoc, etc. Tuttavia bisogna sottolineare la differenza stilistica intercorrente tra queste ultime denominazioni e quelle della Città di Mida, dove la formula più complessa potrebbe essere motivata unicamente dal carattere solenne e cultuale dell’iscrizione. Alla fine di questa rassegna dobbiamo riconoscere che i criteri affidabili per identifi-
care questo tipo di onomastica sono oggettivamente limitati. Qualche risultato si ottiene cercando di enucleare la varie tipologie e le diverse stratificazioni. Potremmo considerare verosimilmente frigi nomi come Benagonos *, Dumasteia, Lagineios, Iman/Imeneia 5°,
Bennios, ma anche molti dei nomi bisillabici e delle cosiddette Kurzformen localizzati esclusivamente in Frigia, specie orientale, che non mostrano finora corrispondenti radica-
li in aree contigue, hanno molta probabilità di essere tipici di questa lingua. Tuttavia la scarsa conoscenza del frigio (soprattutto nel lessico), incide in questo settore in modo determinante.
+ Oltre che in Senofonte (Hell. 1,4,1), il tipo toponimico è attestato anche epigraficamente: ctr. L. Zgusta, Kleinasiatische Ortsnamen... cit, $ 215. 4* Cfr. C. Brixhe - M. Lejeune, Corpus... cit., 80. + Per la possibile relazione con l'epiteto di Zeus Bennios cfr. M. Lejeune, Notes paléo-phrygiennes, Revue des Études anciennes, 71/3-4 (1969), 294. % Cfr. C. Brixhe, Le Phrygien... cit., 175.
Les clitiques du néo-phrygien
CLAUDE BRIXHE Université Nancy 2
1. Introduction La phrase française Pi'erre réprim'ande s'on ‘ami comporte quatre accents !; il n’en
reste plus qu’un après transformation pronominale:
il le réprim'ande. Il et le sont dé-
pourvus d’accent. Dans il le pr'end, le est inaccentué, mais il porte l'accent du groupe dans prends-l'e. Le même
mot, selon sa place, porte ou ne porte pas l’accent, cf. turc
ama: söylemis, ‘ama isitmedim “il l’a dit, mais je n’ai pas entendu” - söylem’is ama (atone), isitmedim (même sens, mais ama
lié au premier mot), ou encore avec valeur excla-
mative gòrmed'im ama “mais je ne l’ai pas vu” 2. Le même mot peut rester sans accent,
quelle que soit sa place, en tête ou en fin du groupe: cf. italien la dans guard'arla - la gu'ardano. L'existence de mots non accentogènes ἡ, c’est-à-dire qui n’ont pas la propriété intrin-
sèque de constituer une unité accentuelle, est un phénomène largement répandu dans les langues. Ces mots portent, vous le savez, le nom de clitiques: proclitiques s’ils sont liés à l’unité accentuelle qui suit, enclitiques s’ils le sont à celle qui précède. L'italien la montre qu’un même mot peut, selon le cas, être l’un ou l’autre. On vient de voir avec prends-l'e
que “non accentogène” ne signifie pas “non accentué”: le clitique peut recevoir dans une unité un écho d’accent, voire l’accent lui-même.
Pour la proclise dans les langues anciennes, nous n’avons de témoignages que sur le grec: serait-elle issue d’un développement propre à cette langue? * Il n’y a pas de raison de le croire, dans la mesure où c’est un phénomène banal. Toujours est-il que les grammairiens grecs sont muets
à son sujet 5. Heureusement,
ils ne le sont pas sur l’enclise.
Pour le sanscrit, on n’a pas sur ce point de renseignements sérieux au-delà de la période
védique tardive.
Concernant le phrygien, nous ne pouvons nous appuyer que sur son ascendance in-
1 L'accent est noté par le signe qui précède la voyelle accentuée. 2 Exemples empruntés à L. Bazin, Introduction à l'étude pratique de la langue turque, Paris 1968, 151. * Expression empruntée à P. Garde, L'accent, Paris 1968, passim et surtout 70-74 pour la question abordée ici et dont je m'inspire dans les lignes suivantes. + Suggestion de M. Lejeune 1972, 300. 5 M. Lejeune, ibid. * Voir L. Renou, Grammaire de la langue védique, Paris 1952, 68-74, et Grammaire sanscrite?, Paris 1961, 25.
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C. Brixhe
do-européenne, sur sa proche parenté préhistorique avec le grec et sur le comportement
de certains mots dans la phrase. En l’absence de tout témoignage antique (textes accentués ou considérations de grammairiens) et en raison de l'extrême minceur du corpus, il est sans doute prétentieux de vouloir aborder une telle question. Je dirai donc plus sim-
plement que, dans le cadre de la préparation du corpus néo-phrygien ? et après l’examen des problèmes graphiques (1994), j’entends rassembler ici l’essentiel de ce que nous pouvons savoir sur des catégories de mots qui fournissent généralement les clitiques: prépositions (préverbes), particules, conjonctions *, auxquelles j’ajouterai quelques formes pronominales, avant d’examiner leur comportement dans la phrase, c’est-à-dire la façon
dont ils s’enchainent?. 2. Les prépositions 2.1. aë(-)
On a depuis longtemps identifié une unité αδ comme préverbe: — Dans aò(3)aket(op) en face de δακετ et dans αββερετί(ορ) en face de Bepet !°, aux-
quels correspondent dans les textes grecs contemporains respectivement προσποιήσει ou variantes et προσοίσει ou variantes, calques du phrygien avec sens insolite imposé par ce dernier !!.
— Dans l’impératif adertov en face de eıtov. 2.1.1. Préposition αδ et analyse d'arn/atne/atun 2.1.1.1. On a reconnu l’existence d’une unité τιος à partir de la séquence τιος ovtav, complément d’objet de l'impératif eyzôov en 32, 33, 34, 36, 59, 60, 76, 105. Haas, 67 et 86, y a vu le génitif d’un nom glosé par Gott, διός (sic) ou τοῦ θεοῦ; pour Heubeck et Lubotsky, voir infra $ 2.1.1.3. L'identification du cas est confirmée par le texte 106, où τιος est relayé par opovevo: eyedov opovevog ovtov "2, cf. Brixhe 1983, 127, et Heubeck, 80; en effet, il s’agit là du génitif correspondant au nominatif (?) opovav présent en
48, avec la même flexion que celle de l’anthroponyme Iuav/ Ipevog (alternance e: - e, d'où phrygien a(:) - e), voir Brixhe, L.c., et Brixhe - Neumann,
183.
L’accusatif du même nom apparaît sans doute dans la sequence ας trav en 14, 53, 99 et probablement 67 ($ 2.4), pour ne prendre que les cas sûrs '*, voir Heubeck, 79, d’après
© Ce qui, par souci d'exhaustivité, entraînera parfois quelques détours et quelques longueurs. Les mots entrent souvent dans la catégorie de ce que Fr. Bader appelle “les particules pronominales”; par souci de clarté, j'utilise ici une terminologie purement fonctionnelle, réservant le terme de particule à un certain type d'invariables. Sur les flottements terminologiques observés quand on passe d'un auteur à l'autre, voir Fr. Bader, 30, n. 7. “ Pour le corpus avec lequel j'opère, voir Brixhe 1990, 60 et n. 1, et 1994, $ 2. "Cf. Brixhe 1979, 177 sqq.
" Voir Brixhe, RPb (1968), 310; Brixhe 1983, 129. τὲ outov variante de ovtav, lecture confirmée par la bonne photo de MAMA 7, 436, pl. 25. τε Un exemple possible dans un contexte de segmentation incertaine nav, 116, 1. 13 (Brixhe - Neumann,
Les clitiques du néo-phrygien
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une segmentation de 99 par Calder (MAMA 7, XXVIIIc), suivi par Lubotsky 1988, 24 et n. 13 (cf. Brixhe 1990, 75), et 1989, 84. 2.1.1.2. A. Lubotsky (1988, 24, n. 13; 1989, 82) croit retrouver le datif de la même
unité sous les formes te/nn/u, seules ou dans des syntagmes prépositionnels. Séduisante,
l'hypothèse mérite d’être vérifiée. 2.1.1.2.1. Si l’on adopte la segmentation de Lubotsky, on rencontre nie ou tın dans l’apodose de: a. 26, 115: TE TT τετικμενος ELTOU
114:... nn τι tlemxpevo]g (ou nt [τετικμενο]ς) eıtov. b. 97: pe ζείμε)λως κε dEWG κε Tie τι τετικμίενος ertov], où le groupe verbal semble accompagné de deux circonstants, l’un prépositionnel
(ne ζείμε)λως κε dewg Ke), l’autre
non (TE).
c. Le texte 112 pourrait présenter une situation particulière avec pe dewg ne nt te-
TIKMEVOG ELTOV; certes, on peut songer à une structure semblable à celle de b, avec δεως seul à dépendre de pe et tie syntaxiquement sur un autre plan; mais deux et me sont susceptibles d’être en asyndète et d’être régis tous deux par la préposition: pour une asyndète, dans un circonstant non prépositionnel, cf. 93, dewg ζεμελως τι TETIKHEVOG εἰ-
τοὺ 4, et, dans un circonstant introduit par la même préposition qu’ici, cf. 5 (voir Brixhe 1994, $ 4.3), pe èuofg ζ]εμελως τι τετικμενος NTOV.
Dans le type a, τιεχτιη paraît occuper la place du datif δεωςζεμελὼς de la formule la plus courante, cf. 40, dewg ζεμελως κε TT τετικμενος EUTOV: un argument de poids en faveur de la thèse de Lubotsky.
J'écarterai du dossier pour insécurité dans l’établissement du texte: — 6: en 1978, 13 (1978/1, 1; 1979, 185) !5, je proposais de lire I. 3-4 τος vi pe ζεpero κε deog | κετιητιττετικμενος (ou κε τι ἡτιττετικμενος) ellltov, ce qui, avec la seg-
mentation de Lubotsky 1989, 182, fournit un énoncé de type δ: pe ζεμελω xe deog | xe an nt τετικμενος e[1]tov. Or Ramsay est le seul à avoir vu le document (1884) et, à partir de la même copie, entre sa publication de 1887 (où fac-similé) et son commentaire de
1905, 109-110, VI), il hésite quant à l’appréciation de la lacune à la fin de la 1. 3 et au début de la 4: en 1887, deux ou trois lettres à la fin de la 3, une ou deux avant € au début de la 4; en 1905, une lettre à la fin de la 3, une avant € au début de la 4. Mon com-
plément n’est donc pas le seul possible. — En 102, la fin de la 1. 2 et les I. 3-4 sont lues par Haas via τεαμί[α εἸτιετιτετικμενος aulfov]. On pourrait donc a priori isoler ici une séquence te; mais, comme le montre le dessin de Calder, MAMA 7, 108 (p. 128), la lacune au début de la 1. 3 risque
d’avoir été plus importante que ne le croit Haas, d'où, plus vraisemblablement, avec Cal-
14 Autre cas possible avec [δέος ζ]ιμελως τι, en 25, 5 2.5.1. ! Pour la protase, voir dans ce volume Brixhe - Drew-Bear 1995, Texte I.
44
C. Brixhe
der: avt ate(a)ulfa ATITI ετιτετικμενος ertlfov]; avec la segmentation de Lubotsky, cette lecture peut nous fournir un exemple supplémentaire de at me (infra $ 2.1.1.2.2 b): [at] me τι τετικμενος et[ov].
Le cas de 25, où un © non prépositionnel ne peut être exclu, sera examiné au $ 2.5.1. 2.1.1.2.2. La sequence αττυαττιεαττιη, présente dans un nombre notable de documents,
a souvent
été interprétée comme
une forme
du nom
d’Attis (en dernier lieu,
Heubeck, 78). A. Lubotsky (1988, 24, n. 13; 1989, 84; cf. Brixhe 1990, 75, 79, 85) a cru y reconnaître un syntagme prépositionnel composé de cò + datif tume/un.
Sauf indication contraire, l’apodose se compose uniquement de la portion de texte citée.
τετικίμ]είίνος alt τι aöelultov, cf. Lubotsky 1989, 80. — 51: participe mutilé, suivi de at tlulaëeutov]; il n’est pas sûr que le texte ne soit
pas allé au-delà. — 54: après δοκετ (= Saxet), apodose réduite apparemment à at n aser[tlov], cf. le fac-similé de Calder 1911, p. 198 (unique illustration disponible), seul éditeur à avoir vu
le monument. — 57, 77, 80, 101 et sans doute 85: TIT τετικμενος ατ τι adertov.
— 76: apodose formée de trois propositions, dont la première est τιτ τετικμενος at n αδειίτου. — 87: apodose composée de deux propositions, dont la première a τι adertov. — 106: apodose formée de deux propositions, la première étant ζειραι (voir Brixhe 1990, 84 sqq.) τιἰτετικμενος ατίτι αδειτου. J'élimine de ce répertoire le n° 67, qui présente probablement non pas at τι (leçon retenue par Haas à la segmentation près), mais ας nav, voir infra $ 2.4.
b. at ne — 12: ζειρα κε or πεῖες KE τιτίτετικμενος at ne adeıttvov (voir Brixhe 1990, 86). — 45: τιττετικμενος QT mile αδειτου.
— 56: TIT TETIKHEVOG at Tie ertov (cf. Lubotsky 1989, 80). — 61: τι τετιίκμενος at nelaëerrov. — 94: AT TE TI TETLKMEVOG ELTOU.
— 100: τι τετικμενίοςατ the αδείι]του. Un autre cas possible en 102, cf. $ 2.1.1.2.1.
cat nn — 39: apodose formée de deux propositions, dont la seconde at an xe (ligateur de propositions) adertov. — 62: αικαν (voir infra $ 4.1) at nn κείδεως κε nt terixne|vog ertou (...xe ….Ke liant nn et Eux).
— 65: peut-être selon Lubotsky (1989, 80) at an
θιτ {τ]ετικμενοί ...]: la restitution
Les clitiques du néo-phrygien
45
de aëertov proposée par Lubotsky est suspecte: quand at tn ou varantes précède le participe, l’impératif est toujours ettov.
— 86: l’apodose semble constituée de deux propositions, la seconde étant at in xe
(ligateur de propositions) n tenxy{e]|vos ertov. Les problèmes posés par 25 seront traités infra $ 2.5.1. 2.1.1.2.3. Dans l’imprecation phrygienne, dewg/LeneAwg désigne ceux pour (ou de-
vant) lesquels l’éventuel déprédateur doit être maudit: “dieux - hommes” ou “dieux du ciel - dieux des enfers”. L'association ou non à ces noms de l’unité dégagée par Lubotsky devrait permettre de cerner le champ sémantique auquel elle est susceptible d’appartenir. Or on rencontre quatre situations: a. HE ζείμε)λως xe δεως xe tie TI τετικμίενος ertov], 97. Structure peut-être voisine en 6, si mon complément (supra $ 2.1.1.2.1) était correct: syntaxiquement, δεωςίζεμελως et me/an, quoique tous deux circonstants, ne seraient pas sur le même plan.
b. aıkav at TIM κε Semg KE TIT TETIKNEVOG ertov (62): contrairement à ce que j’affirmais en
1990
(85), l’organisation du texte dégagée par cette segmentation
ne contredit
pas la thèse de Lubotsky; simplement, à l’intérieur d’un syntagme prépositionnel commandé par aò (ici at), tim et dewg seraient liés par Ke ...xe. On a vu plus haut ($ 2.1.1.2.1 c) que le texte 112 avait au moins autant de chances d’appartenir à ce type
qu’au précédent, avec pe suivi de deux et me en asyndète. c. Δεωςίζεμελως et nn figurent dans l’apodose du même document, mais non dans la même proposition: pour 39, vu par Ramsay en 1891 (copie partielle en 1905, col. 102) et par Calder en 1911, la meilleure copie est celle de Calder 1913, p. 97; si on la suit, l’apodose se présente ainsi: $10g [x]e σζεμελακίκε nt [t]e[t]uquevog eultov at nn xe (ligateur
de propositions) adertov. A partir de là, deux ordres de remarques s’imposent, qui appuieraient l’hypothèse de l’identité ou de la proximité des champs sémantiques de dewg/LeneAwg et de tte ou variantes. 2.1.1.2.4. Le premier concerne l’environnement verbal des unités en cause: adertov est toujours lié à at me ou variantes: cet impératif d’un composé apparaît immanquablement quand ot ne figure immédiatement avant lui (11, 12, 61, etc.) et l’on a l’impression
que la proximité de la préposition αδ attire une forme verbale préfixée en aë-. La seule exception à cette règle est fournie par le n° 56 (où ettov); et cette même règle rend a prio-
ri suspecte la restitution d’adertov en 65, où at nn est placé avant le groupe participe + impératif. Avec adertov, on a donc deux types de séquences: 1. τετικμενος + at ne (ou variantes) + adertov (passim) 2. at tie (ou variantes) + adertov, trois cas !6:
Notons que δεωφζεμελως provoque immanquablement l'apparition de τετικμενος.
46
€. Brixhe
— 39 (cf. supra) où τετικμενος, figurant dans la proposition précédente, pourrait avoir été senti comme en facteur commun aux deux verbes, eıtov et adertov; — 54, où l’apodose, mutilée, pourrait se réduire à at τι aôet[tou);
— 87, où a n adettov constitue la première proposition de l’apodose. Le lien privilégié entre at me et adertov, joint au fait que ces deux unités peuvent constituer un énoncé - ce qui n’est pas le cas de δεωςζεμελως + εἴτοῦ (toujours accompa-
gné de τετικμενος)-, pourrait faire croire à des champs sémantiques différents pour δεωςίζεμελως et TE (ou variantes)/nog/mav. Pourtant, on observe que: 1. quand mie ou variantes n’est pas régi par une préposition, il est suivi de ertov, cf. 14, 53,
2. lorsqu’ at ne ou variantes précède temKpevoc, c’est ELTOU qui apparaît, 3. ας nav (cf. supra $ 2.1.1.1 et infra $ 2.4) est lui aussi toujours accompagné de teTIKHEVOG + ELTOU. Si δεωςίζεμελως, tie, at TE et ας tav peuvent s’accommoder ainsi du même groupe verbal, τετικμενος ertov, c’est peut-être que ces formes ou syntagmes appartiennent à la même sphère idéologique. 2.1.1.2.5. La syntaxe risque de corroborer l'hypothèse Certes, dans le cas a du $ 2.1.1.2.3, dewg/LeneAwg et ne/nn, présents dans la même
proposition, semblent n’y pas avoir la même fonction. Certes, dans le cas c, ces mêmes unités figurent conjointement dans l’apodose, mais appartiennent à des propositions différentes, avec noyau verbal différent. Mais dans le type b, on les voit associées dans le
même En auprès On
syntagme prépositionnel, liées par ...KE ...xe ou en asyndète. outre, quand me est seul et non régi par une préposition (2, 26, 115), il semble jouer, de τετικμενος ELTOV, exactement le même rôle que les datifs δεωςζεμελως. en conclura donc que si - comme c’est plausible - la segmentation de Lubotsky est
correcte, l’item représenté par tav, τιος et te/tim/ti appartient à la sphère des animés et,
plus précisément au monde des entités auprès desquelles un déprédateur n'a pas intérêt à être maudit. 2.1.1.3. Un faisceau d'indices concordants semble donc condamner l'interprétation d’atme ou variantes par Attis et plaide en faveur de la thèse d'A. Lubotsky. Reste à essayer de préciser le sens de l’item ainsi dégagé. A s’en tenir aux formes manipulées jusqu'ici (acc. nav, gén. τιος, dat. ne/nn/n), on a l'impression d’avoir affaire à un thème en -i (voir déjà Brixhe 1990, 71, 79, 85) 17. Sans avancer d’hypothèse, Heubeck (80), qui n’opère qu'avec trav et τιος, voit bien que l’initiale du mot empêche de l'identifier comme un emprunt phrygien au grec (Δία. Διός) "5.
Lubotsky (1988, 24, n. 13, et 1989, 85), tout en retenant l'hypothèse d'un théonyme,
1° Sur l'échange graphique E-H, voir Brixhe 1994, $$ 5.
Une des équivalences suggérées par Haas, voir supra $
Les clitiques du néo-phrygien
47
tente d’ouvrir une autre voie. Croyant retrouver le nominatif dans le paléo-phrygien tiyes (M-04), il est contraint de voir, dans la série nom. tiyes, acc. tav, gén. 106, dat. ne/min/n,
la flexion d’un thème en -s et de reconstituer une base *tiH-es. Il reconnaîtra aisément luimême que cet étymon, qui ne débouche sur rien de connu dans une autre langue indo-européenne, est une construction purement théorique qui ne mène pas bien loin !?. 2.1.2. Quoi qu’il en soit, les analyses d’A. Lubotsky ont le mérite de contribuer à l’é-
mergence d’un emploi prépositionnel de cò. Sa consonne finale s’assimile (comme en cas de préverbation) à l’initiale du lexème suivant, d’où at te vel simile. En raison de l’élimination de la corrélation de gémination
(Brixhe 1994, $$ 5.1.1 et 6.1.3), la géminée ainsi obtenue est réduite à la simple dans un
cas (87); ailleurs, à cause probablement
du caractère formulaire de l’énoncé, la graphie
historique géminée est remarquablement stable. Cette préposition régit le datif, cf. gotique at, qui, outre l’accusatif, est souvent accompagné d’un datif2° (“un datif-locatif” selon Pokorny, s.v. ad-/1).
Le syntagme at ne semble fonctionnellement identique au datif dewg/GeneAwg ou zıe/mn. En réalité, de ce point de vue, il y a probablement une différence entre ces deux types de syntagmes, mais sans conséquence sur le sens général de la proposition: dewg/Geμελῶὼς pourrait réaliser un DATIF “pour”, tandis que at ie ou variantes correspondrait à un LOCATIF “chez, parmi”, cf. infra $ 2.5 (pe). Les textes connus fournissent-ils d’autres attestations de aö(-)?
2.1.3. On a depuis longtemps identifié un lexème qui semble désigner une partie du tombeau ou de son environnement: — avi da τίο]υ τεαμας, 115 — av τιαμας, 87 (pour l’échange e/i, Brixhe 1983, 119).
Trois documents en fournissent une variante: — αινι ατεαμας, 112 — avi atequ{a], 102 (cf. supra $ 2.1.1.2.1) — peut-être aıvı αἰτεαμαί(ς)}, 43. Le texte 18 est ambigu: à la 1. 5, TATIAMA (cf. le fac-similé de Haas, 99), qui semble présenter la même unité, est-il à lire ta τιαμα (Haas, 100) ou τ᾽ ατιαμαῦ voir Brixhe
1994, $ 6.2.2. On a donc un item teapov/oateapo: a. En présence d’ateauar, là où l’on attend un datif, Lubotsky (1989, 84) déclare le mot indéclinable; on verra plus loin à propos de ας avavkoi que c’est inexact et comment interpréter ces flottements —0, -αὶ, -av au datif des thèmes en -a: (δ 2.4).
! Je n'ai, pour l'instant, aucune étymologie à proposer. Mais les pièces du dossier avancées par Lubotsky en 1989 (85) devraient être reprises avec rigueur: e.g. Τίειον est une ville non pas phrygienne, mais bithynienne (bords de la Mer Noire, à l'Ouest d’Amastris); le paléo-phrygien modrovanak, apparemment titre de tiyes, peut difficilement
signifier “maître de Modra” ou “Modroi”. Lubotsky a raison de ne pas faire intervenir ici le dérivé paléo-phrygien
tiveia: son w l'en exclut, puisque ce phonème n'est éliminé en néo-phrygien que devant o. 2 Cf. Ernout - Meillet, Dictionnaire etymologique de la langue latine. Histoire des mots*, Paris 1967. s.v. ad.
48
C. Brixhe
b. Il est possible qu’ateapa soit un composé en aë- de τεαμα. Une seule objection à cette hypothèse: l'absence de la géminée tt; mais on a souligné supra ($ 2.1.2) l'abolition des oppositions de gémination et la réduction d’+atteoua à ateaua ne surprendrait
donc pas. Si l’on laisse de côté le cas de 43, où ateaua(c) est restitué, on aurait deux cas sûrs d’ateaua
(102,
112) et un autre probable
(14, cf. infra): dans
les trois textes
concernés αδδακετ est, notons-le, écrit adaret?!.
L'inscription 14, que je viens de mentionner, permet peut-être d’ajouter une pièce au dossier, avec la séquence avadateapalg (lecture confirmée par la photo de MAMA
1,
391). En 1978/1, 4, j'évoquais la possibilité d’une orthographe fautive: le graveur aurait eu à écrire adaret Vi τεαμας; arrivé à cv, il aurait par erreur répété le début du mot précédent, avant d'achever correctement la sequence22. A. Lubotsky (1989, 84, cf. Brixhe
1994, $ 6.2.2) suggère une solution plus économique: civ” ad ατεαμας, avec ad ατεαμας͵ correspondant fonctionnellement au cepovv xvol[u]paver qui précède le verbe: [1Jog vi σεμουν kvolfuluave κακιν aalket av’ ad ateauals “quiconque endommagera ce monument ou sa...”. Cette constatation confirmerait les conclusions syntaxiques tirées plus haut ($ 2.1.2). 2.1.4. Haas lit et segmente ainsi une partie de la 1. 4 de 30: Joveßav eyepet οἱ aurw œvta NKET ανειῖττγον.... Cette lecture et le fac-similé (111) qui l’appuie travestissent tota-
lement la réalité. Pour s’en convaincre, il suffit de se reporter aux bonnes photos données par Calder, MAMA 7, 195, pl. 10 (la pierre) et surtout 11 (l’estampage). Avec Calder, on lira sans hésitation JOYE BANE KPE TOIAKKOATAHKETAN..., à segmenter sans doute JOYE BAN EKPET OI AKKOATA HKE TAN... 2 Que vaut cet AKKOATA?
En 18, I. 6, la copie de Ramsay 1887 (p. 395) donne, après une haste au début de la ligne: ΤΑΙ JAIKOATAMAIIEIIOL; celle de Calder 1926, 26, fig. 2: TAETMKOATAMA-
NIIOL. L’estampage de Ramsay est conservé à l’Òsterr. Archäol. Institut de Vienne; Haas en a tiré (99)
un fac-similé, qui demande
TALTAIKOATAMANEIIOC.
Il segmente
d’abord
naturellement
à être vérifié; il lit
(100) cette séquence
ainsi:
?]tag ται
KoAtanaveı τος; mais, dans son commentaire (102) et dans le corpus (117), il propose ται κολταμαν εἰ LOI τῇ (γλυκυ)τάτῃ aut quis, faisant ainsi de κολταμαν le superlatif
(bases morphologiques très fragiles, 225) d’un adjectif non identifié. Pourquoi pas ται KoAta...? “à ce/le k.”? 4 Le texte 30 nous fournirait peut-être le même lexème, mais dans un syntagme prépositionnel: ax (< ad) xoAta (datif). L’obscurité des contextes fragilise l’hypothèse et, en tout cas, ne permet pas de proposer une étymologie sérieuse.
2! Notons cependant que le texte ΠῚ de Brixhe - Drew-Bear 1995 donne av’ ateapa, mais αὅδακετ. 2 Rapprochement difficile avec la |. 1 de 18, ...KNOYMANETIAEAAAMANKA: même s'il y a devant μανκα (une partie du monument) une séquence AAA materiellement identique, l'ensemble suggère une segmentation xvovμὰν eni (= er) AEAAA pavxa, cf. en 9 vou] | pa en p(a)vxa, voir Brixhe 1978/1, 3 2 Pour la séquence soulignée, voir Brixhe 1994, $ 6.2.2 = Avec ra pour gan attendu: un “hellénisme”, cf. en 2 τὰ μανκαῖ en face de σαι... μανκαι (35).
Les clitiques du néo-phrygien
49
2.1.5. En 33 et 76, axxeot a été analysé par Haas (84) et moi-même (1978/1, 2) comme axxe οἱ (datif pronominal), avec ακκὲ qui aurait la même origine et la même fonction
que le latin atque. Ingénieusement, A. Lubotsky (1989/1, 150; cf. Brixhe 1994, $$ 6.1.2 et 6.2.1) suggè-
re une segmentation ax (< ad, préposition) κε (conjonction) ot (pronom), selon le modèle offert par 99, pe (préposition, $ 2.5) xe ot. On ne prendra pas en compte en 7 (brisé à droite et à gauche) la séquence (I. 3)
Jaxeor: l’alpha peut faire partie du mot précédent, d’où Ja. κε ot, cf. en 12 Leıpa xe or. 2.2. ev
Le néo-phrygien semble avoir connu une unité ev qui apparait: — Comme préposition (suivie du datif):
— dans le syntagme ev otapva δουμω κε (48) “dans le tombeau et le...” (plutôt que “sur la stèle et le...”), voir Brixhe 1990, 93-94; — peut-être en 116, |. 12, eœvton 16 κε ey(?)..., mais a) le v n’est pas assuré, δ) si la sé-
quence τς κε correspondait non à τος xe (relatif indéfini, cf. Brixhe - Neumann, 182), mais à 1g (préposition, infra $ 2.3) + xe conjonction de liaison, ey(?) appartiendrait à coup sûr au mot suivant 25;
— Comme préverbe: - dans everopxrec, 31, cf. eneparkes en paléo-phrygien, G-01 d, G-125, M-01d?6; — peut-être, dans un autre prétérit, qui aurait perdu (phonétique syntactique?) son s final: evapxe (116, 1. 5), si à analyser ev-apxe(g), cf. Brixhe - Neumann,
173-174.
2.3.15? Le phrygien pourrait avoir connu la m&me innovation que nombre de dialectes grecs, différenciant une préposition locative, ev + datif, d’une préposition directive, par adjonction de s à la premiere: ens. C’est peut-être cette unité que nous fournit, comme préverbe ou comme préposition, à la I. 11 de 116, 1oapyueva (participe parfait d’un composé) ou τς apyueva (16 + régime participe parfait substantivé), voir Brixhe - Neumann, 180-181. Comme en phrygien le *e: hérité a abouti à a(:) (cf. matar), il faudrait supposer, pour comprendre cette graphie,
un phénomène d’allongement compensatoire avec, comme dans maints dialectes grecs, émergence d’une longue plus fermée que l’ancienne et qui se serait fermée davantage encore pour aboutir à i(:) (cf. Brixhe 1990, 89).
35 Absence de traces de en en paléo-phrygien; mais, dans un document inédit trouvé par Th. Drew-Bear sur le territoire de Dokimeion et assignable à la fin du IV siècle a.C. (cf. Brixhe 1993, 326-327), on a peut-être, 1. 2-3 ev [o]a σοροι “dans ce tombeau” (plutôt que “sur cette stèle”). 2 Tentative d'interprétation avec le sens de “graver” par M. Lejeune, REA 71 (1969), 291-292, et Kadmos 9 (1970), 68.
50
C. Brixhe
Autre cas de 16 préverbe avec ıoyeıket (88)? voir Brixhe 1994, $ 5.2.3. Un cas, plus
problématique encore, a été entrevu au paragraphe précédent 27. L’allongement compensatoire, avec production d’une voyelle fermée, est soutenu jus-
qu'ici par deux exemples seulement et qui sont discutables (Brixhe 1990, 84 sqq.), et 16 ne serait attesté qu’une ou deux fois dans des contextes incertains 28. Mon hypothèse est donc bien fragile; mais, dans notre progression à travers les documents phrygiens, il faut
la garder à l'esprit. Toujours est-il que sa confirmation contraindrait à proposer pour og ($ 2.4) un étymon autre que *ens.
2.4. ag On a
vu apparaître supra (δ 2.1.1.1), avec ἀστιαν segmenté ας Trav, une préposition
ας, régissant l’accusatif 29, Aux exemples donnés là il faut sans doute ajouter le n° 67: nous sommes tributaires pour lui de deux copies, l’une médiocre de Hogarth (n° 3; d’où Ramsay
1905, n° XLI), l’autre, bien supérieure, de Callander (chez Calder 1911); pour la
fin de la 1. 14 et le début de la 15 la première donne AÎTIAAEITOIY],
la seconde
AC|TIAACITOY. Si, pour la fin de la |. 14, cette dernière est exacte, il faut comprendre agltıoy ertov: confusion par les deux copies de la partie gauche d’un nu avec un delta .
La même préposition se retrouve en: — 20, sous Le document a troisième ligne bably A ou A,
la forme αας devant un substantif non identifié avec certitude, car mutile. été vu en 1883 par Ramsay, qui en donne en 1887 une copie majuscule: la se termine par une haste oblique, restes d’un caractère triangulaire, “proprobably not M, certainly not A” (p. 396, n. 1), d’où sa transcription αα-
oxoval. Sans avoir revu la pierre, il revient sur le document en 1905, alléguant une copie d’Anderson (1899), mais qui n’améliore la lecture que de l’épitaphe grecque: pour des raisons herméneutiques, il penche alors pour M, d’où AALKNOY[MENOL],
dans lequel,
à partir d’une glose d’Hesychius (adore βλάπτει, cf. lexique LSJ), il semble voir un participe médio-passif. La copie (1908) évoquée par Calder dans sa publication de 1911 est identique à celle d’Anderson: “perhaps auokvou [avec hypothèse d’une ligature K + N] is an imperative, meaning ‘let him perish’; but possibly KNOY/ is κνουίμανει or κνουίμινος". Dans MAMA 7, 259, Calder se contente de reprendre les considérations épigraphiques de Ramsay 1887, sans proposer de complément; sa photo (pl. 15), malgré son exiguité, confirme à la fin de la ligne, après KNOY
(désormais assuré), une haste obli-
que, voire un triangle, ce qui donne le texte suivant: τὸς vi σεμίον (ou-ouv) xvov]uover αἀδακετ TI τετικμενος αας KVOVI..]; xvovpav ou variante n’a rien à faire dans l’apodose
” En 116, L. 10, la segmentation ovopomia 1ç..., qui ne mène à rien, est très vraisemblablement à écarter. * L'hypothèse d'un emprunt au grec eig (lis/), invoquée à côté de *ens > as, par Brixhe - Neumann (181), ne pourrait guère valoir que pour l'emploi prepositionnel, non pour le preverbal. ® Ce qui exclut, pour l'instant, l'attestation de l'impératif d'un composé avertov, puisqu'il faudrait lire en 14, 53 et 99 non pas ἀστι avertov (Haas), mais ag nav ertov. En 30, pour d'autres raisons, on doit probablement segmenter nxetav εἰττνοῦ (supra $ 2.1.4). % Je ne puis cependant pas exclure totalement une lecture ας τὶ adeLtov, avec échange datiflaccusatif (cf. infra).
Les clitiques du neo-phrygien
si
et l’on écartera la suggestion de Haas (as knouma): si αας vaut bien ας, il faut sans doute entendre après lui un mot qui, comme trav dans ag nav, désigne l'entité animé auprès de
laquelle le déprédateur doit être maudit; possibilité alternative, puisque manque ici un verbe conjugué):
l’impératif d'un composé en 00-; ce mot était nécessairement très court,
car nous sommes à l'extrême bord de la pierre et le texte ne semble pas s’être poursuivi ailleurs: après KNOY, ne peuvent avoir disparu plus d’une ou deux lettres. Souhaitons qu’une future découverte permette de compléter la forme.
— 31: ag σεμουν κνουμαν (I. 1). Le texte fournit peut-être un autre exemple de la préposition. La pierre a été vue par deux des éditeurs: J. G. C. Anderson, JHS 18 (1898), 121-122, n° 67 (avec fac-similé), et Calder 1911, 215, addenda: le fac-similé d’Anderson donne, pour la cinquième lettre avant la fin de la ligne 2, une haste suivie, en haut, d’un
petit trait; Calder est formel: il y a là un sigma carré (les autres sigmas ont un tracé classi que), ce qui nous donnerait la suite αδικεσειανίμανκαν ταν εσταες, que G. Neumann (Kadmos
25,
1986, 81-82)
propose
de rectifier en aôlkeGEav…
et de segmenter en
ἀδικες eav (démonstratif) μανκαν ταν εσταες “. . a endommagé cette stèle que X a fait ériger”; cette retouche a deux défauts: elle manipule le texte, ce qui n’est pas de bonne méthode, et elle fait apparaître un démonstrai édit (on attendrait cav, cf. Brixhe 1978/1,
13-14). Avec Haas, je retiendrais volontiers.
ἀδικεσει av μανκαν Lav EOTAEG;
uavrav, attesté ailleurs et désignant le monument ou l’un de ses parties, serait régi par av < αδ: “... portera atteinte à cette stèle” }!. Certes, on attendrait une assimilation m-m,
mais cf. en 5 adaxev pe, voir Brixhe 1994, $ 6.1.2. — 33: ag Batav, 36: a βαταν, avec assimilation de s au b suivant et réduction de la géminée (Brixhe, ibid., $ 6.1.1)", — Le texte 35 est assuré par la bonne photo de MAMA 7, 315, pl. 21: τὸς vi car κακοίυν αὅδακεμ μανκαι AZANANKAI ot παντα κενα [Πννου 3, C'est la segmentation
de la sequence en majuscule qui est en cause. Généralement, on pense à ας avavkoı (ainsi Diakonoff, o.c., 92), ou l’on hésite entre Lubotsky (1989, 84) suggère ag avav, c'est cusatif; ceci semble exclure avavkon, qui ne connaître, la situation phrygienne et son
cette leçon et as anankaioi (Haas, 91). Si A. parce que ας est normalement suivi de l’acpourrait être qu’un datif. C’est, je crois, méenvironnement grec: a) dans les thèmes en
-a:, la débilité de la nasale finale et la réduction de -a:i à -a ont entraîné la confusion de l’accusatif et du datif, cf. μανκα (26, 29, 82, 97) ou pavkav (69), là où l'on attend navkan (2, 60); parfois, on observe, à partir du même trait, un divorce formel entre le déterminant et le nom sur lequel il porte: σαν... μανκαι (60) et peut-être l'inverse en 69
avec σαι... μανκαν. On ne devrait donc pas s'étonner d’avavkaı pour avavka(v) “. Cet-
ἡ Haas, 103, à partir de la même segmentation, traduit par in memoriam (au sens de *monument”) quam posuit, sans s'expliquer sur av. Ὁ Sur Barav (cf. paléo-phryxian T-02 b batan), accusatif d'un thème en τὰς ou d'un athémarique, tentative d'in terprétation à partir de la racine "bheHl, ἰφημυ φάναι. for/fari) par 1. M. Diakonoft chez I. M. Diakonoff et V. P. Neroznak, Phrygian, New York 1985, 96-97. " Sur le complément [1lvvov, de pers. du plur. d'un impératif, cf. en 71 nt τετικμίεϊνοι tvvou, voir Brixhe 1990, 81 qq. et 90-91. % Sur l'origine de cette unité (autochtone ou emprunt au grec) et son sens ainsi que sur celui de la proposition, voir Brixhe 1993, 331 et surtout 341-342
52
C. Brixhe
te explication est suffisante et l’on pourrait en rester là. Il convient cependant d’ajouter b) que cette mutation se produit dans le cadre d’un système où le datif est éliminé ou en voie d'élimination, relayé par le génitif: cf. μανκης (finale influencée par le grec, 86), σας τοῦ σκερεδριας (56) en face de où τι σκελεδριαι (67), ou, à côté du tegu[a] attendu (102),
τιαμαςίατεαμας (14, 87, 112), lequel n’est donc pas un indéclinable (ainsi Lubotsky, supra $ 2.1.3}.
Cette seconde mutation a pu prendre naissance au singulier des thématiques, où, en raison de la fermeture de o et de l’élimination de la nasale finale, accusatif, génitif et datif devenaient identiques. On retrouve le même phénomène dans le grec environnant (Brixhe 1992, 145-150).
Si, dans nos documents néo-phrygiens, les athématiques (types ag tav ou at ne)
sont peu touchés (cf. cependant en 5 x(v)ovpivog pour kvovpaver ou variantes), c’est qu’il n’y avait pas là confusion formelle et que la pression normative de la formule y était naturellement plus efficace 36.
2.4.1. L'étymologie de cette préposition ας qui régit l’accusatif a déjà été abordée au ς 2.3. Je n’ai longtemps songé qu’à un étymon *ens, avec innovation identique à celle du cousin grec: l’allongement compensatoire aurait fourni une longue moyenne qui se serait confondue avec l’héritée, laquelle, on le sait aboutit à a(:) . En 1983, 117, l'hypothèse d’un allongement produisant une voyelle plus fermée que l’héritée me faisait déjà évoquer l’idée d’une autre origine. En 1990, 75-76 et 89, j'ai repris le dossier sans aboutir à plus
de certitude, mais en y incluant 1ç ($ 2.3): si τς procédait de *ens, ag viendrait nécessairement d’ailleurs. Serait-ce l’ancien génitif du pronon non personnel *e-/o-, donc à lier à αἵ (ancien locatif, infra $ 3.1) et à la particule/préposition (?) aey/ae (ancien datif) du paléophrygien? C’est là au moins une hypothèse de travail à ne pas perdre de vue dans nos tentatives
herméneutiques. 2.4.2. On doit naturellement se demander quelle(s) fonction(s) ας contribuait à réaliser. Notre appréciation est doublement handicapée par les incertitudes qui pèsent sur l’origine du mot et sur le sens des lexèmes qu'il régit.
Si l’on part d’un emploi directif primitif, on retrouve cette fonction dans un syntagme tel que ας σεμουν κνουμαν (31).
On a probablement affaire à une autre fonction quand le nom régi est un animé, comme ce semble être le cas en ας trav. On sait la proximité sémantique entre le DIRECTIF et d’autres fonctions #, entraînant des échanges de marqueurs:
Cf. * En sion, mais tre corpus
déjà Brixhe 1978, 1, 13-14 et 19-20. grec (cf. Brixhe, 1992, Lc.}, ce sont les thématiques singuliers qui fournissent la majorité des cas de confules athématiques (quoique résistant mieux, pour les mêmes raisons qu'en phrygien) sont présents dans nodes “fautes”.
# Brixhe 1978, 17; Brixhe - Neumann,
* Cf. Brixhe 1992, 139-140.
181.
Les clitiques du néo-phrygien
53
— avec le DATIF: cf. Virgile, En. 5.451 it clamor caelo (datif pour DIRECTIF) Plaute, Cap. 1019 hunc... ad carnificem dabo (ad + acc., expression normale du DIRECTIE, pour DATIF); — avec le LOCATIF de proximité, cf. français “vers” = “en direction de” et “dans les
environs de”, cf. lat. Cic., De orat.. 2.353 stare ad januam ἢ.
Dans l’apodose des menaces phrygiennes, on a donc pu hésiter entre LOCATIF (at me
“près de, chez”) et DATIF
“pour”
(te), avec, pour ce dernier, variante ας tav,
empruntant ses marqueurs au DIRECTIF, cf. supra $ 2.1.2. 2.5. pe
J'ai identifié naguère (1979,
184-190) l’existence en phrygien d’un monème pe,
susceptible de jouer le ròle de préverbe et de préposition. Préposition régissant: a. le couple δεωςίζεμελως (liés ou non par ke), 5, 6, 96, 97, 113
b. ζεμελως seul, 21 c. eux seul, 113
d. totoc, 18; ovopaviag, 116, 1. 5 e. 01 (pronom), 99.
En a, b, c, e, la préposition (sur son origine, Brixhe, ibid., 188) est suivie à coup sùr du datif; ce pourrait être aussi le cas de pe totog en d (Brixhe, ibid., 187) ‘0. Avec pe ovopaviac, si, comme il semble, pe correspond bien à notre préposition, on a
incontestablement un génitif: cf. à la I. 10, ονομανιαις, la meilleure segmentation4!. Aurions-nous affaire à un nouvel échange entre datif et génitif (supra $$ 2.4 et 2.4.2; cf. Brixhe - Neumann, 173)? ou serions-nous en présence d’une préposition régissant deux cas avec différences fonctionnelles? L’opacité du contexte de 116 interdit de répondre à la question.
Ailleurs, pe + datif pourrait réaliser un locatif “auprès de, chez, parmi” (déjà Brixhe 1979, 185 et 187). J'ai laissé hors répertoire deux cas qui méritent un examen particulier. 2.5.1. Je me suis intéressé à plusieurs reprises au texte 25: 1979, 185; 1994, $ 6.2.2.
Le document a été vu par le seul Hamilton (n° 449), dont la copie majuscule est reprise par CIG 3974, Mordtmann (n° 4), Ramsay 1887, etc. On lit |. 3-6: TOEINIA... IMTAQZTIMEKAIT..TITTETIKMENOSEITOY. En 1979 (I. c.), j'avais suggéré le complément τος vi $[ew/og ζ]ιμελως τι pe κατίι εἸτιττετικμενος ertov. Après l’hypothèse de Lubotsky ($ 2.1.1.2.1), on devrait au moins écrire τος vi δίεωνος ζ]ιμελως τι pe κ΄ (τ) tre]
TIT TETIKHEVOG εἴτου.
% Exemples empruntés à A. Ernout, Fr. Thomas, Syntaxe latine, Paris 1951, 29 et 60. = J'inclinerais d'autant plus volontiers à cette analyse que, contrairement à ce que, après d'autres, je croyais en 1979 (186-187), τοτος a quelques chances de ne pas devoir être identifié à τευτους (33, 36) et τευτωσι (116, 1.8),
cf. 1994, $ 4.4.
41 C£. Brixhe - Neumann, 179: ὀνομανια τς ne ménerait actuellement nulle part (voir déjà supra n. 27).
54
C. Brixhe
Le texte ainsi présenté comporte cependant deux étrangetés:
a. Avec τι et TIT, on a l'impression d’avoir deux occurrences de la même particule dans l’apodose. La première ne pourrait guère porter que sur le groupe prépositionnel introduit par pe. Mais on sait les difficultés de lecture de ces modestes documents: l’epsilon étant carré, peut-on exlure totalement une leçon ke, c’est-à-dire δίεως ζ]ιμελως Ke? cf. en 40, eux ζεμελως xe, voir Brixhe 1978/1, 1. Il y a pourtant une façon moins brutale d’éliminer l’anomalie constituée par cette cooccurrence de tı(t), c’est de voir dans le premier
τι un datif, variante de me et de tin ($ 2.1.1.2.2): on aurait ainsi trois datifs en asyndète (voir Brixhe, I. c.): δεως, GeneAwg εἴ τι.
b. La seconde difficulté est double: κ᾿ semble relier un syntagme prépositionnel à un autre qui ne l’est pas (dewg/LeneAwg) et surtout on aurait la succession de deux prépositions (ue et cè). Il n’y a, apparemment que deux possibilités de la surmonter: ou pe n’est
pas la préposition et fait mot avec la séquence suivante, d’où μεκατί..],
ou l’on comprend
με κατί..]. Dans les deux cas, on aurait affaire à un lexème nouveau, non attesté jusqu'ici.
2.5.2. La stèle à porte qui fournit le n° 42 a été vu par le seul Hogarth, une première fois d’où l'édition de 1890 (158-159, n° 2), la deuxième en 1890 (d'où Ramsay
1905).
La seconde copie améliore peu la première: l’un des quatre panneaux avait disparu, la surface inscrite était endommagée et le monument était à demi enterré, une bonne portion de la partie droite étant invisible. L'imprécation phrygienne était en lettres plus petites que l’épitaphe grecque. Personne n’a revu le document et toutes les éditions ultérieures dépendent directement ou indirectement de Hogarth. On aurait aimé que le texte phrygien fût intact, car on le sent original par son lexique
(cf. l’hapax kovvov) # et sans doute par la structure de son apodose. De la ligne 4, Hogarth n’a lu que quelques lettres, les dernières étant TH: si l’on en juge par les lignes 3 (restituable pour l’essentiel) et 5, et par la position de ces deux lettres (par rapport à celles du dessus et du dessous), TH devait être suivi d’une lacune d’environ 16 lettres. Hogarth lui-même restitue Ce] à l'extrême fin de la ligne (id. chez Haas); Ramsay 1905, Calder
1911
(d’où Friedrich) proposent pe Ce], d’où avec la segmentation
de
Haas le texte suivant (I. 4-6): - - - pe Ge] [οἱ - - - Ce] | μελως xe [ö]elolg (ou [8lelwlç) pe KOVVOU KE ισνιοίυ] Ιαι παρτης.
Malgré la mutilation de cette apodose, on entrevoit les difficultés que présente sa structure: que faire du xe qui suit [Ge]ueA we? +* J’entrevois deux solutions:
A. Si la pierre portait bien pe Kovvou, ce ke serait ligateur de propositions, unissant une proposition qui commencerait avec ζεμελὼς à une proposition précédente (lacune et
débris de la |. 4). A partir de là deux variantes sont possibles: a. [Le]ueAwg (xe) [δ]είω)ς με κοννου
ke: le second
ke lierait deux
circonstants, pe
Kovvov et Ceu£Awg/ôeuc en asyndète *; de réalisation différente, ils auraient été sentis
# Un second exemple vient d'apparaître avec le texte ΠῚ, L 3, de Brixhe - Drew-Bear 1995 (dans ce volume). SI ne peut servir à lier ζεμελως à deoxg: la strueture X xe Y n'est ni attestée, ni du reste attendue #4 Sur celle-ci, Brishe 1978, 1,1.
Les clitiques du néo-phrygien comme
55
fonctionnellement identiques; malgré les considérations du $ 2.4.2, l'association
serait insolite. b. C’est peut-être pour cette raison (ils ne s’expliquent pas) que certains ont restitué
un pe avant ζεϊμελως: dans ce cas, le second xe unirait ne ζεμελωςίδεως (toujours en asyndète) à pe Kovvov; mais la reprise de la préposition surprendrait. B. Hogarth aurait mal lu ou le graveur se serait trompé et il faudrait comprendre non pas HE KOVVOU, mais KE ou (K)E kovvov, cf. déjà Brixhe, o.c., 2: [te] pero κε [ôle[w]s (x)e xovvov ke; on aurait ainsi sur le même plan ζεμελως, deux et Kovvov, selon une
structure X xe Y xe Z xe, non encore attestée avec certitude (Brixhe, /.c.), mais fort plau-
sible. Cependant, le sens (sphère de la parenté) que semblerait impliquer le texte mentionné supra n. 42 n’y est guère favorable. La meilleure de ces solutions se heurterait à un dernier obstacle: GeneAwg/dewg entraînent normalement la présence de τετικμενος (TETIKHEVOL) EITOL (1ovou) situé après #5. En définitive, aucune solution n’est totalement satisfaisante.
2.6. πουρ Le dossier de cette préposition a été traité récemment par A. Lubotsky, 1989/1, 151-152, et CI. Brixhe, 1993, 332-333. Je me contenterai d’en résumer les éléments:
a. Paléo-phrygien W-05 b, une dedicace:... [e]daes (fecit, Éne) por mater[an], avec
restitution de l’accusatif du nom de la “Mère” d’après c. b. Dans le texte de Dokimeion mentionné supra n. 25, |. 6, Top Kopo: ce Kopo se retrouve à la I. 7 et sans doute dans le n° 92 (xopov, cf. Brixhe 1983, 127); ce pourrait être
un emprunt au grec (χῶρος): ici à l’accusatif avec déjà élimination de la nasale finale ($ 2.4)?
c. En 88, rovp Ovavaxtav xe (ligateur de propositions) Ovpavıov. Quelle(s) fonction(s) cette préposition régissant l’accusatif servait-elle à réaliser? le DATIF certainement pour a; le DIRECTIF en b et c? mais les contextes sont obscurs.
Sur l’étymon possible, voir Lubotsky, I. 2.7. Une préposition ôn? Le texte 4, une bilingue vue uniquement par Ramsay en 1881 et 1884, comporte 3 lignes, avec une lacune de 8 à 10 lettres # au centre de chacune d’entre elles. Au début de
la l. 3, θαλαμει, un emprunt au grec qui désigne une partie du monument, clôt la prota-
se. L’apodose commence avec ôn diwg ζεμελωϊς — —-]#7.
4 Une seule exception connue jusqu'ici, avec l'apodose tenxuevos ettou dung κε ζεμελως xe παρτης, St. Mitchell, Anatolia. Land, Men and Gods in Asia Minor 1. Celts in Anatolia and the Impact of Roman Rule, Oxford 1993, 186, fig. 33 = n° 118 de mon corpus.
+ D'après a) les indications fournies par Ramsay 1887: largeur primitive du texte “about 28 (inches)”, largeur de la lacune “about four inches”, et b) à partir des lacunes comblables des lignes 2 et 3, ainsi en 2 10ç vi cepov [xvovpaver] κακουν κτλ. 4 Un complément ζεμελωίς κε nt τετίικμενος εἰτοῦ correspondrait assez bien ἃ l'ampleur de la lacune.
56
C. Brixhe
Que vaut Sn?
particule (Brixhe
1983,
126) ou préposition (Lubotsky
1989,
83; cf.
Brixhe 1994, $ 5.2.2)?
Notre dossier fournit des parallèles pour chacune des hypothèses: — en faveur de la seconde, cf. με Geox + ζεμελως en 5, 6, 96, 97, 113 (supra $ 2.5). — en faveur de la première: a) pour l’absence de préposition, cf. 39 (διος [K]e σζεμελως xe), 40 (δεως ζεμελως xe), 63 et 93 (deux ζεμελως); b) pour la présence d’une par-
ticule de mise en relief au début de l’apodose, cf. infra $ 4 sqq. On ne peut donc que suspendre son jugement sur ce point. Etymologiquement, un seul trait est clair: *e: ayant abouti à 4(:) en phrygien, -n ne
peut guère remonter qu’à *e et le mot appartient à ce groupe de formes où /e/ est noté H, voir Brixhe 1994, $ 5.2.2. Pour la consonne, compte tenu de la phonétique phrygienne, où d peut remonter à *d ou à *dh, on a le choix entre deux thèmes pronominaux non personnels de l’i.-e: *de/o (Bader, 36-39) ou *dhe/o (cf. la série adverbiale grecque en -θε, -Bev, -θι, -Θα), voir déjà
Brixhe 1983, 126. Selon le cas, δὴ équivaudrait donc formellement au -de directif (οἰκόνδε), au --δε demonstratif (öde), au δέ adversatif du grec, ou au -Θε adverbial de la même langue. Le sort historique de ces débris de systèmes consommés par l’i.-e. au cours des millénaires ne permet pas d’orienter une hypothèse quant au rôle de ôn, puisque les mots fournis par ces pronoms appartiennent, entre autres, aux deux catégories évoquées plus haut.
Il est bien évident que, si ôn était une préposition remontant à *de/o, celle-ci serait à rapprocher fonctionnellement du -de grec latif. 2.8. ont et nog?
Il n’est pas sans intérêt de mentionner la possibilité de voir apparaître un jour comme
prépositions deux lexèmes qui ne sont attestés jusqu’ici que comme préverbes: — Dans les inscriptions grecques de Phrygie et de certaines zones adjacentes (notamment le Moyen Hermos), la préposition et le préverbe grecs npög/npoo- ont la forme nög et ποσ-: c’est vraisemblablement un fait de substrat/adstrat #. Dans la documentation proprement phrygienne la forme n’est attestée jusqu’ici que comme préverbe: ποσεκανες, 3e pers. du sing. d’un prétérit, voir Brixhe -Neumann,
175-176. Elle est sans doute identique à l’arcado-chypriote πός. — Le texte 9 présente aux lignes 3-4 la séquence μία)νκαν οπεεταμίεναν, cf. la photo de MAMA
4, 18, pl. 14. Haas hésite entre opeetamenan (105 et 228 où le mot est tra-
duit par ἐφεστηκυῖαν ou superpositam) et oreotapevav (corpus, 115, n° 9). En raison des fréquentes confusions (lapicides ou épigraphistes) entre € et C (cf. Brixhe 1994, $ 4
sqq.) une lecture ore(0)topevav est tout à fait plausible: participe parfait de *steH), déterminant μία)νκαν (autre erreur du lapicide, qui a oublié le a). On y gagnerait un préverbe or-, sans doute οπίι)-, identique à la préposition/préverbe du mycénien om(-). L'apparition, un jour, des préposition πος et om ne surprendrait donc pas.
“ Voir CI. Brixhe 1987, 113-114 et surtout 158.
Les clitiques du néo-phrygien
57
2.9. Un préverbe 0-? La bilingue n° 2 n’a été
vue qu'une fois par Ramsay en 1884; il en donne une copie
en majuscule en 1887, dont dépendent les éditions ultérieures. A en juger par cette copie, la lecture semble assurée. La menace de l’apodose est répartie sur deux propositions, dont la seconde se présente ainsi: v κε (= οἱ ke) akada. oovitetou ova. Sa structure est claire: groupe groupe verbal oovitETOV, circonstant v/o1.
nominal
sujet aka
ova
(possessif) 5°,
Si l’on retranche la finale d’impératif de 3e pers. du sing. -tov (Brixhe 1990, 90) et la voyelle thématique -€-, nous sommes, pour le verbe, en présence d’un thème oovit-; compte tenu de la phonétique historique et des règles graphémiques du phrygien, ce thème devrait renvoyer à owit-, lequel, en raison du contexte a toutes chances d’avoir un
sens négatif ou privatif. A titre d’hypothese de travail,
je serais tenté de pousser l'analyse un peu plus loin et
de voir là un composé o-wit, avec o- préverbe fourni par le thème pronominal non personnel *e/o 5!, peut-être formellement identique à l’initiale vocalique du grec ὁ-κέλλω ou ὀ-τρύνω. Je n’irai pas plus loin. Le phrygien remontant normalement à un *t i.-e., l’hypothèse de Haas (85), qui cherche là l'équivalent du lat. videto, est irrecevable, en I"
tat actuel des connaissances assurées. Le lexique indo-européen ne manque pas de candidats pour un theme *wit, mais une identification sérieuse est doublement handicapée, par notre ignorance a) du sens d’axaAa, et δ) de la signification du préverbe.
3. Les conjonctions 3.1. ca, avi Je me suis naguère penché sur ces deux conjonctions (1978/1, 3-6). Je ne reprendrai
ici que les grandes lignes du dossier. 3.1.1. On isole aisément une conjonction hypothétique ot, formellement et fonctionnellement identique au grec dorien et éolien αἱ, ancien locatif du vieux démonstratif/anaphorique *e/o: αἱ κος, “si quis”, 64 (et peut-être 72, infra $ 6.1); αἱ noσεκανες, 116, 1. 7 (“si” suivi du prétérit du verbe mentionné supra $ 2.8). Par ailleurs apparaît à maintes reprises une conjonction aıvı, qui semble jouer un
double rôle et avoir un double sens: — “ou”, quand elle relie des lexèmes de même statut (noms, en un cas - 100 - adjectifs) et de même fonction, cf. e.g. σεμὸν Kvovnave... avi pavia (26);
4 En dernier lieu, Brixhe 1994, $ 5.2.1. s Le phrygien ne connaissant pas la règle τά God τρέχει (Brixhe 1990, 86) et le verbe étant au singulier, axaàa devrait être le nominatif sing. d'un theme en τας. %! Sur ses avatars historiques dans le monde des particules, voir Bader, 32-35.
58
€. Brixhe
— “ou si”, quand unissant deux propositions hypothétiques. Cette dualité (cf. lat. sive “ou”/”ou si”) est illustrée par le n° 18, |. 8-9: gavi κος σεμουν kvoupavet klakouv αδδακετ givi μανκα “ousi quelqu'un (sive quis) “2 vient à endommager ce monument ou la...”.
3.1.2. Les conclusions précédentes s'appuient sur des exemples indiscutables. Deux textes pourraient être versés au dossier de αἱ, même si je suis conscient que le
terrain est excessivement dangereux, quand il s'agit d’une séquence aussi simple que AI, empruntée à des documents mal gravés ou mal copiés, perdus et mal illustrés, et dont le sens précis nous échappe.
3.1.2.1. On a vu supra (δ 2.5.2) les difficultés d'approche de 42.
Ce document fournit un sinon deux exemples de la séquence Al: — Après une lacune d’une lettre apparemment, au début de la |. 4. La protase commence à la ligne précédente; si elle était conforme à la formulation standard, on pourrait restituer (l. 3-4): τὸς vi oeuov kv[ov]paveli kax]o[v Saxe]l[t] AICATPA....
Au $ 2.5.2, il
est apparu que l’apodose pourrait avoir comporté deux propositions (hypothèse A). S'il en était ainsi, la première commencerait-elle immédiatement après (Boxe? si oui, une segmentation αἱ CATPA
serait éventuellement possible, avec αἱ jouant le rôle de particu-
le: ici résomptive (“dans ces conditions”) ou mettant simplement en relief le contenu de la proposition? Sur les traces d'emplois non subordonnants du grec ei/ai, voir infra $ 4.1.
Mais, si la protase se poursuivait au-delà de [Saxe|t], peut-on exclure une structure [δακεῖ τ] αι σα TPA..., comparable
à σεμουν
κνουμανε... avi μανκα
(97) ou, encore
plus proche, ἃ σεμον κνουμανι... avi σας μδυει (73) “(quiconque endommagera) ce monument ou cette...” (nom d'une partie du monument, cf. μδους en 69?)? ou jouerait ici le même rôle disjonctif que αἰνι.
— A
la ligne 6 de la même imprécation, on lit après une lacune apparemment courte
à la fin de la |. 5, AIMAPTHE:
10vio[v] | AIMAPTHE.
Si AI ne constitue pas la finale d’un
mot disparu à la fin de la ligne précédente, les textes 87 et 118 (voir n. 43) invitent indé-
niablement à une segmentation tovio[v] lon παρτῆς. Que vaudrait o devant une forme nominale qui a toutes chances d’être au nominatif pluriel? un article (cf. grec ὁ, ἢ)» mais 1) le thème *se/o a fourni un démonstratif au phrygien (Brixhe 1978/1, 13 sqq.) et initial n’y a pas disparu comme en grec; 2) παρτῆς pourrait être un masculin: en que Calder (MAMA 1, 406) lit aotot παρτης risque, comme le suggère Haas, de être compris GOTOL παρτῆς pour ŒUTOL παρτης, avec, comme seconde lettre, non
son s87, ce devoir un C,
mais un O, dont la moitié droite est évanescente (cf. la photo d’estampage donnée par MAMA). Si rapıng est un masculin, l’idée, pour ot, d’un emprunt au grec est à bannir. Resterait une interprétation comme particule de mise en relief.
© Ce qui devrait nous inviter a rechercher une premiere hypothétique dans les lignes précédentes
Les clitiques du néo-phrygien
59
3.1.2.2. Nous avons vu supra $ 2.4 les conditions de transmission du n° 67, également perdu.
Aux lignes 13 et 14 Hogarth donne KAKOYN
MAKETA | TETIKMENOC... Il faut
sans doute comprendre κακοῦν ôaxet (ou adaxet, cf. Ramsay 1905, XLI avec AA pour le M de Hogarth) Altetixpevog. (A)Saxet A a souvent été interprété comme (a)Saxeta[1], avec finale médio-passive --αι; mais aucun des autres cas avancés d’une tel-
le désinence ne résiste à l'analyse (cf. Brixhe, RPh 1968, 318); et, tout en conservant le même complément,
Haas (95), évoquait, pour la considérer comme
“ganz unsicher”,
l'existence d’une particule ou. L'idée n’est peut-être pas à abondonner: αἱ interviendrait en début d’apodose, devant τετικμενος, là où l’on a tant de fois la particule (sans doute
proclitique) tt): alors particule de mise en relief? Si l’on laisse de côté le premier cas éventuellement fourni par 42, l'hypothèse conviendrait bien pour le second (portant sur
παρτης) et pour celui de 67 (portant sur TETIKHEVOG). Encore une fois, je ne sous-estime pas la fragilité de ces conclusions: j'entends seule-
ment soumettre l’idée aux déchiffreurs.
Ke connnaît deux emplois, qu'on n’a aucune raison sérieuse de faire remonter à deux étymons différents (e.g. *kWe, grec τε, et *ke/o, grec ke, xa, etc.): ils derivent vraisemblement de *kWe (cf. le double emploi de lat. que). L'un d’entre eux sera examiné au $ 5.1.1).
Le plus fréquent en fait une conjonction copulative, reliant (cf. grec te, lat. que, voir déjà Brixhe 1978/1, 1-2): — Deux
unités non verbales (des noms dans notre corpus) de même statut et de me-
me fonction: dewg ζεμελως xe (40) ou pe σζεμελως κε δυως κε (113); — Deux propositions fonctionnellement identiques: en 36 ... γεγρειμεναν eyedov τιος
OUTAV ŒUTOG KE ... YEYAPLTHEVOG … (pour le détail, Brixhe 1994, 6.2.2). On a les deux emplois en 87: ... α(τ) τι adertov φυελας Ke (ligateur de propositions) τοῦ κε (liaison QUEÀQG — του) 1OVOU αοτοι παρτης (voir supra).
3.3. Elimination de te en 63? A
lire Calder
1911 et MAMA
1, 385 (d’où Haas, n° 63), on peut croire à l'existence
d’une conjonction enclitique te, fonctionnellement identique à la précédente. Le document ne semble avoir été vu que par Calder: en 1908, 1910 (d’où 1911, avec fac-similé)
et 1912 (d’où 1926). Son édition de MAMA est accompagnée d’une photographie inutilisable. En 1911, après dewg ζεμελως, il proposait [t]e: à l'emplacement de son [τ], son fac-similé donnait un petit trait horizontal au niveau du haut des autres lettres. En 1926,
après revision, il considérait la lecture comme sûre et éliminait les crochets: alors supposer une seconde conjonction de coordination te de *te/o? On en n'aurait pas d'autre exemple. Par ailleurs un “hellenisme” serait difficilement concevable, puisque te n’appartient plus à la langue courante. C'est pourquoi je doute de la lecture de Calder. S'il lui a
60
C. Brixhe
fallu trois visites au monument pour lire T, c’est que la lettre n’était pas intacte, malgré l'absence de crochets dans MAMA: je vois là un encouragement à lire ge (avec un x dont n'aurait subsisté que l’appendice oblique supérieur) 5: d’où dewg ζεμελως xe τι re| mt [xpevo]g [ertov].
4. Les adverbes La plupart des inscriptions néo-phrygiennes sont, on a pu le constater, des imprécations, qui ont la forme d’une corrélation: “celui qui..., que celui-là...”. Généralement,
le
relatif n’est pas repris par un corrélatif résomptif au début de l’apodose (la principale), d’où le schéma: τος (vi)..., D.... On a cependant deux cas sùrs d’une telle reprise par tog vi, en 6 et 25, et un cas probable par le relatif lui-même, τος: 28 (où τοςτι τετουκμενουν, Brixhe 1994, $ 4.2) 54.
Il est possible que dans quelques textes le début de l’apodose soit marqué par un adverbe/particule à valeur également résomptive. Ce pourrait être le cas de ön (supra $ 2.7), s’il ne s’agit pas d’une préposition, et de au, si ce mot connaissait ce type d’emploi ($ 3.1.2.1).
Un examen attentifde la documentation révèle peut-être d’autres unités comparables. 4.1. Un “adverbe” aıkav? Nous avons vu partiellement supra ($ 2.1.1.2.2/3) la structure de l’apodose de 62. La
bonne photo de MAMA
1, 384 nous assure de la lecture: τὸς vi σεμὺν Kvupaver xaxuv
αδδακετ αἰκαν OT TN KE δεως KE TIT τετικμενος ertov. Quels sont le statut et la fonction
d’œxav? Le mot appartient-il à la protase ou à l’apodose? 4.1.1. De 53, Calder donne (MAMA 1, 32) une excellente photo. Le monument est légèrement endommagé à droite, où manquent une ou deux lettres. On lit clairement, |. 7 AAAKETTAIKAI |; la dernière haste ne serait-elle pas un ru mutilé? On aurait ainsi [a] ἰδδακεττ αἴἰκαν | τιτ τετικμενίος} [ας TLOV ELTOV. 4.1.2. Le n° 3 paraît n’avoir été vu que par Ramsay (1881), dont dépendent toutes les
éditions. Unilingue apparemment, elle se développe sur quatre lignes, deux longues (1-2) et deux très courtes (3-4). La seconde est fort endommagée, mais on observe dans sa pre-
mière moitié des débris de lettres que Ramsay 1887 et Haas renoncent à exploiter. Je me contenterai d'examiner le tout début de la ligne.
© Qu erreur de gravure? cf. par la suite le redoublement du te de τετίκμενος, Les erreurs de gravure ne sont pas rares sur ces modestes monuments, qui ne bénéficiaient ni des meilleurs rédacteurs ni des meilleurs lapicides. # Le n° 114, primitivement analysé ainsi, quand on n'en connaissait que la partie droite (CI. Brixhe, Th. DrewBear, Kadmos 17 (1979), 52-53), pourrait en réalité présenter une protase complexe composée de deux relatives coordonnées: 106Vi ... 10KE ... * elui qui . . et ce i qui …”, voir texte I de Brixhe - Drew-Bear 1995 (dans ce volume).
Les clitiques du neo-phrygien
6
Que dit le document? τος VI GEHOV KVOLHOVEL κακὸν αδδακετ |AIKAI 55. La leçon de Calder 1911 (d’où Friedrich), [u]Ja{v]xa{v], n’est pas recevable: elle suppose une ligature entre N et K et sur-
tout, comme le remarque Calder lui-même, quand un second nom de monument intervient après le verbe de la protase, il est toujours lié au premier (xvovpover) par œvi (éventuellement αἱ, $ 3.1.2.1). Je serais tenté de lire αἰκαν. Le tracé qui précède, à l’ex-
trême bord gauche de la pierre est fautif sur un point au moins: le petit trait oblique inférieur ne correspond à rien. Reste la haste elle-même: peut-on songer aux vestiges d’un T, d’où αδδακετίτ αἰκν, comme en 53? 4.1.3. Cet œxav ne peut représenter un second nom désignant le monument ou l’une de ses parties %, pour la raison qui a été invoquée plus haut contre le μανκαν de Calder/Friedrich. Le redoublement
du T de αδδακετ,
sûr en 53, possible en 3, semblerait cependant
suggérer que auxov appartient à la protase, puisque le phénomène implique apparemment une articulation enchaînée de αδδακετ et du mot suivant; ce serait a priori impossible si αδδακετ cloturait la protase, car on attendrait après lui une frontière forte interdi-
sant “liaison” (ici) ou assimilation. Or on a parfois l’impression qu’il y a médiation d’une lecture à haute voix par un rédacteur/graveur qui ne tient pas compte de ou ne comprend pas la structure de l'énoncé et l’on a quelques cas surprenant d’assimilation entre la fin de la protase et le début de l’apodose (Brixhe 1994, $ 6.1.2). De plus, en liaison avec l’élimination de la corrélation de gémination, on voit apparaître des géminées hypercorrectes, à l’intérieur d’un mot (cf. xvovppavet, en 53 précisément) ou en sandhi (aıvı μμυρα, 25), voir Brixhe 1994, $$ 5.1.1 et 6.1.3.
Rien ne s’oppose donc à ce qu’aıkav appartienne à l’apodose. 4.1.4. Sans se poser ces questions, c’était l'avis de Haas (96) à propos de 62 (aıkav)
et de 53, où il lisait ago: pour lui accusatif et datif du nom aika de *aiwi-kai, désignant l’“éternité” et signifiant “auf immer”.
N’aurions-nous pas affaire à un conglomérat de particules, issu banalement de thèmes pronominaux non personnels? αἱ < *e/o (déjà vu) + av de *ke/o, cf. grec KE, Ka(v), etc., voir Bader, 49-52.
Le grec εἴθε (dialectal αἴθε) montre que œi/ei peuvent participer à de telles associations et, si là le mot est proche de l'hypothèse (“pourvu que”), εἶτα (variante dialectale eltev) conserve la trace d’un emploi non subordonnant de ai/ei (Bader, 46).
On aurait là l’association de deux clitiques: la forme serait sans doute accentuée sur le premier, comme et dans elta.
55 Reproduction “standardisée” pour des raisons techniques: en réalité, dans la copie de Ramsay, la première haste comporte à sa base un petit trait oblique partant vers la gauche, et les trois autres hastes verticales sont réduites
à leur moitié supérieure.
% Ainsi R. Gusmani, “Studi frigi”, Renconti Ist. Lombardo Accad. di Scienze e Lettere, classe di Lettere, XCH (1958), 885.
62
€. Brixhe
Auxav ponctuerait le début de l’apodose. Avec valeur resomptive? “celui qui endommagera ce tombeau, que dans ces conditions...” ? Cette lecture et cette interprétation invalideraient la restitution de [t]og [vi] que Cal-
der 1911 propose en 3 après la séquence ici discutée: tog vi apparaît immanquablement en téte de l’apodose. 4.2. Un “adverbe” epo? Le texte 36, une bilingue, a été vu par Ramsay en 1905 (d’où Ramsay 1905, avec facsimilé), par Ramsay et Calder en 1910 (d’où Calder 1911, avec fac-similé) et de nouveau
par les deux hommes en 1912 (d’où Calder 1926). Il est repris dans MAMA
7, 316, avec
photo de l’estampage pl. 21. A la ligne 5, après κακοῦν adax[et] ou variante, Ramsay proposait déjà € PA, assorti d’un point d’interrogation, puis yeylpeinevov... Cette lecture a été confirmée par les revi-
sions ultérieures et l’on peut la retenir, même si la photo de MAMA
ne permet pas de
vérifier le P médian. L'environnement - adaket d’un côté, yeypeınevav (cf. e.g. 34) de
l’autre - assure la segmentation: pa constitue bien un mot. J'accorderais volontiers un préjugé favorable à l'hypothèse de Haas (86, 95, 119), qui y voit une particule, à rapprocher du grec ἄρα, lui-même susceptible d’avoir connu une
variante chypriote &pa ou &p (voir Chantraine, DELG, s. ἄρα) ”. Sémantiquement proche du grec ἄρα qui marque souvent la découverte d'une conséquence (“alors, ainsi”, etc.), le phrygien pa ponctuerait le début de l’apodose, avec le sens résomptif de “dans ces conditions”, voisin ainsi de aıkav.
Il serait vraisemblablement tonique.
5. Particules J'ai regroupé sous ce terme imprécis un petit nombre de monèmes qui semblent porter non sur la proposition (conjonctions, adverbes), mais, avec des valeurs diverses, sur le
mot qu’ils précèdent ou suivent. Ils sont susceptibles de s’unir à lui de façon stable pour former des pronominaux complexes. 5.1. Pronominaux complexes 5.1.1. Le xe vu plus haut ($ 3.2), outre sa valeur copulative, pouvait, toujours atone
et enclitique, s’ajouter au relatif pour lui donner une valeur indéfinie: τὸς κε (= l’habituel τος vi, infra, lat. quicumque) en 27, 34, 36, 48 et peut-être 72 (l. 1, voir Calder 1913); 1(0)og xe en 37 (Brixhe 1994, $ 5.1.6); τς xe en 5 (avec ı pour 10, Brixhe, ibid.).
© Sur sa préhistoire possible, voir €, Watkins, Indogermanische Grammatik, IVI, Heidelberg 1969, 194-197.
Les clitiques du néo-phrygien
63
og ke en 54 °® constitue un compromis entre le grec ὃς ἄν et le phrygien τὸς xe. Autre hybridation avec tig xe en 71 (Brixhe 1994, $ 6.2.2) associant tig relatif grec ‘ et ke phrygien. 5.1.2. La particule vi, que nous avons vu s’unir à αἱ pour former une conjonction disjonctive “ou si, ou” ($ 3.1), s’ajoute au relatif τος (d’où τος vi, passim) et à l’anaphorique τος (plus rarement) pour fournir un indéfini, cf. dans les mêmes textes (6, 25): τὸς
νι... τος vi... “quiconque/celui quel qu’il soit qui..., celui-là quelqu’il soit...”, voir Brixhe 1978, 15 544. log vi a donc la même valeur que le 106 κε vu précédemment.
5.1.3. Le démonstratif est parfois renforcé par une particule τοῦ (Brixhe 1978/1, 2021): σεμουν του Kvovpavet (10, 61), où του μανκα (82), cf. encore 39, 56, 115. En un cas, où le graveur a substitué O au OY habituel (Brixhe 1994, $ 5.2.4.1), cette particule a la forme to: σεμον to... (27).
Il s’agit vraisemblablement d’une forme figée de l’anaphorique *te/o ($ 5.1.2): ancien ablatif *to:d, ancien instrumental *to: ou ancien datif *to:i, chacune de ces finales étant susceptible d'aboutir à [u]. Le texte 27 est mutilé: τὸς vi oeuov to κακὸν o$l; le nom du monument a des chances d’avoir été placé après le verbe (cf. 35: τὸς νι gar xaxovv αδδακεμ μανκαι) et donc d’a-
voir été séparé de son démonstratif; on voit que la particule to ne le suit pas mais reste “collée” au démonstratif cepov. Elle sert donc manifestement non à mettre en relief le substantif qui suit (Brixhe 1978/1, 21), mais à renforcer le démonstratif (ainsi déjà Lejeu-
ne 1969, 296).
Le rapport de ce τοῦτο avec le démonstratif précédent semble être le même qu'entre —de et τό dans le grec τόδε, où -Se, d’abord simplement emphatique, n’a dû devenir obligatoire qu’avec la généralisation de 6, ἢ, τό comme article. En deux cas, une particule τι apparaît dans les mêmes séquences, entre démonstratif et nom: où τι σκελεδριαι (67) et σεμον τι κνουμανει (103). S'agit-il d’une autre graphie de tou? Pour des échanges I-OY, voir Brixhe 1994, $ 5.2.4.2. Ou de la même unité, mais enclitique et avec emploi différent, que le τι du $ 5.1.4, qui, proclitique, met en relief le
mot qu’il précède? En 76, une bévue du graveur interdit une appréciation: τὸς vi σεμιν ® τ Kvovpaver; le modèle comportait-il 6! ou tou?
% Pour [1]og αν en 44, voir Haas: Calder donne dans MAMA 7, 137 0g αν: 1) Les deux lettres soulignées sont
restaurées d’après une copie de J.R.S.
Sterrett, The Fpigraphical Journey to Asia Minor ( = Papers of the American
School at Athens Il), Boston 1888, n° 174; 2) Anderson (/HS 18, 1898, 118) indique à l'initiale deux lettres rondes (la seconde non fermée à droite), suivies d'une haste oblique, puis d'une lacune. La photo donnée par Calder dans MAMA (pl. 8) ne laisse apercevoir que les deux lettres rondes d'Anderson: sans doute 05; ensuite av simplement possible, mais actuellement invérifiable. # Voir Brixhe 1987, 84. “ὃ σεμυν non exclu, voir Brixhe 1994, n. 57.
#1 Valant éventuellement tou, ci si lecture exacte, σεμὶν pour σεμουν.
64
€. Brixhe
5.1.4. τυτιτίτιδ
En 1978 (8-15), j'ai identifié une particule issue de *te/o portant sur le mot qui suit (généralement un participe, le plus souvent temkpevog). Ce petit mot apparaissant sou-
vent dans la séquence TITTETIKMENOS, j’attribuais alors la géminée à l’initiale du verbe
et je segmentais TI TTETIKHEVOG, croyant à un *ti primitif avec le même i originellement anaphorique que dans vi. A présent, je me rallierais volontiers à la thèse d’A. Lubotsky (1989, 85-87; 1989/1, 147, n. @), qui me paraît rendre compte de l’ensemble des faits
graphiques: la forme de base de la particule a pu être *tid/mò, avec assimilation du dä l'initiale du terme suivant, avec lequel il formait un mot accentuel (Brixhe 1994, $ 6.1.2). On trouve cette particule habituellement dans l’apodose: — Devant τετικμενος, cf. ut τετικμενος (2, 12, 40, etc.), plus rarement τὶ τετικμενος (5, 14, 82, etc.), où la géminée représente la graphie historique et la simple la prononciation (Brixhe 1994, $$ 5.1.1, 6.1.2 et 6.1.3);
— Devant une autre participe, cf. τιγ Yeyapituevo (88);
— Peut-être devant un adjectif, s’il faut retenir la segmentation d’A. Lubotsky (1989, 87), avec no peypouv (33, 76).
Deux textes font problème: — Le n° 25, qui a été examiné au $ 2.5.1.
— Et le n° 39, où τι figure dans la protase devant αδδακετ. La pierre porteuse (perdue) a été délibérément piquetée et le texte est de lecture difficile. Calder (1913) dit avoir
longuement travaillé pour déchiffrer la partie phrygienne et il accompagne son édition d'un fac-similé. Aux lignes 5-7, on voit 106 vi ofeuJov τίου] xvov]pav{e] (ou -v[1]) κακοῦν TL αἰδ]δαίκετο). Ti semble ici mettre addaxet en relief.
5.1.4.1. Le déplacement de τιδ avec le participe de l’apodose pourrait impliquer non pas une forme accentogène, comme je le croyais en 1978, mais un proclitique.
“As far as the origin of the particle τιδ is concerned, dit A. Lubotsky (1989, 87), it is
likely that this particle reflects the anaphoric pronoun
*id with added t- from the pro-
noun *so, *sa:,*tod...”. Est-ce le chemin le plus économique? Je partirais volontiers d’u-
ne particule "εἰ (de *te/o) avec même vocalisme anaphorique (cf. déjà Brixhe 1978, avec
bibliographie) que vi (de *#e/o, $ 5.1.2). En raison de similitudes d'emplois avec le pronom
neutre, il y aurait eu extension
à ti de la finale -d de neutre, d’où tid, comme
on
avait vraisemblablement *kid (de *kWid). Puis, dans la flexion pronominale, le -m/n nominal aurait, comme en sanscrit (cf. e.g. interrogatif kim), remplacé le -d originel, cf. kıv ($ 6.2): celui-ci n’aurait subsisté que dans la particule, en raison de la marginalité de cette dernière, cf. la particule sanscrite id*' avec maintien de la finale “authentique” en face du
idam pronominal*.
€ Seule reelle difficulté: “There was an apparently ancient symbol between the third and fourth letter of αδδάκετ (1. 7). Ir was probably an ‘ivy-leal if a letter, it was part of Cor €”. Si ce “symbole” n'est pas une illusion, aucune des hypothèses de Calder n'est satisfaisante. δὲ “Id, très fréquent [en védique] soul le mor précédent ou la proposition dont cette particule suit le mot iniRenou, Grammatre de la langue v que, Paris 1952, 375 “ Renou, ibid., 233
Les clitiques du néo-phrygien
65
Le moment venu, il conviendra de situer dans ce concert, le si paléo-phrygien de si keneman (M-01b, fin VII s.-début VI° a.C.), s’il s’agit bien d’un démonstratrif:
*sid
keneman > sik keneman, avec non-notation de la géminée? Il faudra aussi s’interroger sur l’éventuelle signification accentuelle de l’absence d’interponction entre si et kenemans.
6. Quelques pronoms
Je ne retiendrai ici que les formes pronominales sûrement ou probablement non accentogènes.
6.1. L'indéfini *kWe/o Voir déjà Brixhe 1978/1, 22.
Le nominatif masculin singulier est attesté sûrement: — en 64: αἵ KOG si quis, — en 18 aıvı Kog sive quis. Le n° 72 a été découvert, copié et estampé par T. Callander, qui a mis son matériel à
la disposition de Ramsay et Calder, lesquels ont revu le monument en 1912, d’où Calder 1913, dont dépendent les éditions ultérieures. L’editio princeps de Calder est accompagnée d’un fac-similé, seule illustration à notre disposition. Il se pourrait que l’imprécation phrygienne se compose de deux phrases, toutes deux constituées d’une protase et d’une apodose. La première (I. 1-4) commencerait par τος ou 106 xe (cf. supra $ 5.1.1) et serait close par aÿertov; la seconde (1. 5-7) se présente ainsi
=]. Cal-
der propose le complément suivant: [01?] xog [.. αδδα]κκιτορ | xe. Si son fac-similé est exact, il manque au début de la ligne une lettre au plus et la présentation de Haas, |[..] xog, est erronée (influence de la restitution de Calder?). S’il faut comprendre [αι] xoc, l’alpha pourrait avoir été gravé à la fin de la ligne précédente (I. 4). Αδδακκι--
top pour αδδακετορ présenterait une géminée xk hypercorrecte et un échange E-I, qui ne constituent pas des obstacles majeurs à la restitution (sur ces deux traits, Brixhe 1983,
119, et 1994, $ 5.1.1). Si le xe suivant est bien la conjonction de coordination, l’économie de la phrase m’échappe, d’autant que l’absence de coordination entre les deux phrases surprend: on attendrait non pas αἱ Kog, mais quelque chose comme aıvı xog (18).
Entouré de deux lacunes un ΚῸς pronominal est possible, non certain. Le nominatif/accusatif neutre singulier est attesté en 100 avec κακοῦν κιν = grec κακόν τι. Sur sa finale -v, voir $ 5.1.4.1.
# Une nouvelle particule, of, vient d’apparaitre avec le texte VII de Brixhe — Drew-Bear 1995 (dans le présent vo-lume). # Actuellement 14 lettres contre 15 pour la I. 3.
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C. Brixhe
6.2. Les anaphoriques 6.2.1. Le thèmes *te/o Les thèmes de démonstratifs/anaphoriques *se/o et *te/o, associés en grec dans le paradigme de l’article, pourraient bien s’être spécialisés en phrygien: — “selo comme demonstratif, cf. dat. neutre σεμοὺν ou variantes et fém. σῶσαι, σαν, σα, voir Brixhe 1978/1, 12-20.
— *telo comme anaphorique. On a vu, en effet, plus haut ($ 4) que le relatif 10ç (vi) pouvait être repris par le corrélatif tog vi: deux cas sûrs, en 6 et 25. En 69 et 103, le tog vi de Haas n’a rien de certain.
Il y a de grandes chances pour que le génitif du méme pronom se retrouve en 87, dans la seconde proposition de l’apodose: φυελας κε (ligateur de propositions) tou xe (unissant του à ouEA a) 1ovou aoroı (voir $ 3.1.2.1) παρτης. Sur la préhistoire de ce génitif et sur son ancétre paléo-phrygien tovo, voir Brixhe 1990, 96-97.
Cet anaphorique était-il tonique ou atone? tonique seulement au nominatif, car alors emphatique? S’il était toujours atone, en tog vi il portait au moins un accent d’enclise, comme dans τοῦ ke(voir infra 7.3).
6.2.2. Le thème *swe Le même relatif og (vi) peut être repris dans l’apodose par un autre anaphorique, qui n’apparaît en néo-phrygien qu’au datif: ot, cf. 2 (v κε = 01 κε), 33, 36, 76, etc.
On le rencontre peut-être occasionnellement dans la protase: en 4 si aıvı οἱ θαλαμει; en 48 avec Ev otopva Sovpo κε O1; peut-être dans un cas de structure peu claire, 31, si à
la ligne 2 il faut segmenter Zevve ot. Sur cette unité pronominale, voir Brixhe 1978/1, 8-10 67.
Même si les grammairiens anciens hésitent parfois à propos d’Homère 6, on admet qu’en grec ce thème était tonique quand il fournissait le réfléchi, et atone quand anaphorique. Le ot anaphorique du phrygien était-il atone, c’est-à-dire enclitique?
7. L'ordre des mots Dans les pages qui précèdent, comme toujours, s'agissant du phrygien, la part de la philologie a été prépondérante dans la démarche suivie: préalable indispensable à la réflexion linguistique et à l'intervention de la comparaison. En dépit du titre choisi, ce qui a servi de fil directeur à mon enquête, c’est moins l'examen des clitiques en tant que tels que la recherche des mots qui constituent l’armatu-
Je laisse provisoirement de côté un éventuel doubler 101 (de *sesoi?), car trop incertain et nécessitant l'ouverture d'un nouveau dossier, voir Brixhe 1978/1, 10-11.
= Voir P. Chantraine, Grammaire homerique I, Paris 1958, 264.
Les clitiques du neo-phrygien
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re logique de la phrase. Et il se trouve qu’une grande partie d’entre eux appartiennent à cette catégorie. Comme je l’ai souligné dès l'introduction et comme on a pu le constater au fil de l’ex-
posé, pour apprécier le caractère accentogène ou non de ces petits mots, on dispose: — Du parallèle grec, qu’on peut légitimement utiliser en raison de l’étroite parenté préhistorique probable entre les deux langues: comme en grec, les prépositions étaient
sans doute proclitiques, tout comme la conjonction hypothétique αἱ, et les indéfinis xog/xtv vraisemblablement enclitiques.
— Et/ou du comportement du mot dans la phrase: la place de xe et de vi, par exemple, les désigne comme enclitiques.
Je n’ai pas cherché à masquer les zones d’ombre: le τι qui dans l’apodose précède le participe et sert sans doute à sa mise en relief est-il tonique ou proclitique ($ 5.1.4)? Ne jouerait-il pas un rôle un peu comparable après le démonstratif, comme enclitique cette
fois ($ 5.1.3)? La possibilité pour une même unité d’être l’un ou l’autre a été rappelée dans l'introduction. Ces incertitudes n’interdisent cependant pas un examen de l’ordre des mots dans la
phrase ou le syntagme, quand sont impliqués des monèmes présumés non accentogènes. 7.1. Associations stables de clitiques Il est vraisemblable qu’une association stable de clitiques aboutissait à un mot accentogène: dans aukav (si analyse exacte, $ 4.1) et œvt, originellement succession d’un proclitique et d’un enclitique, l’accent d’enclise du premier est certainement devenu une propriété intrinsèque du mot ainsi constitué et l’adjonction d’un proclitique avait les mêmes conséquences que la postposition de ke à δεως: aıvı or (4) et avi Kog (18) représentaient
des unités accentuelles identiques à dewg κε. 7.2. Proclitique + proclitique? On a vu ($ 2.5.1) que la succession de deux proclitiques en 25 risquait d’être illusoire: dans τι ne κατί..],
1 pourrait être le datif d’un nom (= nıe/un).
7.3. Enclitique + enclitique
Le premier recevait sans doute un accent d’enclise: — Vv κε = οἱ κε (ligateur de proposition), 2; — Ja xe (rôle exact?) ot, 7; — Capa xe (ligateur de mots) où πεῖες κε, 12;
— ev otapva dovpo xe (ligateur de mots) οι, 48. Cas possibles, mais incertains en raison de notre ignorance du caractère accentogène ou non de tog/tov ($ 6.2.1):
— 106 YI, 6, 25; — ουελας xe (ligateur de propositions) του ke, 87; notons qu’ici on aurait trois encli-
68
C. Brixhe
tiques de suite: comme en grec, tous, sauf le dernier, recevaient-ils un accent d’enclise? Question tout à fait gratuite, puisque τοῦ a toutes chances d’être accentogène. 7.4. Contacts entre proclitique et enclitique
Ces contacts n’ont d’intérèt que si le proclitique précède l’enclitique. Quand on a l’ordre inverse, les deux mots appartiennent naturellement à des unités accentuelles différentes (limite marquée ici par une double barre verticale):
— τος νι] [με ζεμελω, 6; --αττιη κε
τι terixulelvog, 86;
— pe dewg κε ζεμελως xe | τι τετικμενος, 96; — κακουν κιν Il τι τετικμενος, 100; —
etc.
7.4.1. Proclitique + enclitique (cf. déjà $ 7.1) Un cas certain avec αἱ xog en 64 et peut-être en 72 ($ 6.1): le premier recevait sans doute un accent d’enclise. 7.4.2. Séquences plus complexes Je voudrais, pour conclure, examiner des syntagmes prépositionnels (donc introduits par un proclitique), avec terme régi susceptible d’être un pronom enclitique et avec intervention de xe. Il convient de séparer les cas où xe est ligateur de mots de ceux où il est ligateur de propositions.
Quand xe est ligateur de mots, il se place immédiatement après le nom qu'il sert à lier:
— ax nn κε deux xe, 62;
— με ζεμελω κε deog [xe], 6;
— με deux κε ζεμελωςxe, 96;
— μὲ ζείμεγλωςκε δεως κε, 97; — ue σζεμελως κε δυως κε, 11399. Lorsqu’intervient un pronom enclitique, il est placé après xe, comme le font attendre et le rôle de ke et la différence fonctionnelle entre le pronom et les noms liés par xe (... KE... KE):
— ζειρα xe où πεῖες xe, 12;
— εν σταρνα Sovpoxe οι, 48. Il est probable que des séquences comme at nn xe, pe ζεμελως κε, ζειρα xe ot ou Sovpo xe ot constituaient des unités accentuelles, avec éventuellement, quand succession
de deux clitiques, écho d’accent (accent secondaire) sur le premier. L'ordre des mots pose plus de problèmes quand ke était ligateur de propositions. On
* Sur l'ambiguité de pe xovvov κε (42), voir $ 2.5.2.
Les clitiques du neo-phrygien
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l'attend évidemment en seconde position, comme il l’est, par exemple en auto κε (33, 36) ou gueAas κε (87). C’est ce que nous rencontrons lorsque le terme régi par la préposition est un pronom enclitique; on a, en effet, alors l’ordre préposition + ke + pronom: — ax KE or, 33, 76;
— pe xe 01, 99. Ces syntagmes constituaient vraisemblablement des mots phonétiques avec accent principal sur la préposition, et accent secondaire (cf. supra) sur le second clitique. Mais lorsque le circonstant était un substantif, xe était rejeté après la séquence préposition + nom: — at Tum κε, 39, 86;
— πουρ Ovavartav κε ovpaviov, 88.
On évitait donc dans ce cas, puisqu’on pouvait le faire, la succession de deux mots non accentogènes ("αἵ xe, ici, *rovp xe là). Voir les réflexions de Lubotsky 1989/1, 150, et de Brixhe 1993, 332.
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C. Brixhe
BIBLIOGRAPHIE
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Huit inscriptions néo-phrygiennes
CLAUDE BRIXHE* - THOMAS DREW-BEAR* * * Université Nancy 2
** CNRS.
Ce congrès, pour l’organisation duquel il convient de remercier vivement le Professeur Mirjo Salvini, Directeur de l’Istituto per gli Studi Micenei ed Egeo-Anatolici,
ainsi que le Professeur Roberto Gusmani de l’Università di Udine, donne l’occasion de faire connaître quelques nouveaux documents en langue néo-phrygienne !. L'analyse linguistique de ces textes est l’œuvre de CI.. Brixhe 2. On retrouvera les lieux mentionnés sur la carte Fig. 1. I. Territoire d’Antioche Au débouché d’un passage (par lequel on peut joindre la plaine marécageuse de Karamık ?, au Nord de laquelle s’étend la steppe du Caÿstre) à travers la chaine montagneuse des Karakus Daglari qui bordent à l’Quest le territoire d’Antioche en Pisidie#, sur les pentes inférieures de la montagne au-dessus du lac de Hoyran Gölü, est situé le village de Yukarı Kasikara (“Arête Noire d’en Haut”) 5. Dans ce village l’un de nous a pu relever de nombreux restes de l’Antiquité et du Moyen Age: inscriptions, stèles-portes, pithos, relief byzantin, monnaies etc. Parmi ceux-ci figure une inscription en langue phrygienne, encastrée dans le mur d’une maison. Naturellement on voudrait connaître sa
provenance. * C'est un plaisir de remercier la Direction Générale des Monuments et Musées de la Turquie pour l'autorisation de recherche sur le terrain accordée à Th. Drew-Bear, ainsi que le Directeur du Musée de Yalvag Dr. Mehmet Taslıalan, l'ancien Directeur du Musée d'Afyon M. Ahmet Topbas, et son successeur M. Ahmet llaslı pour leur aide efficace. 2 Pour le corpus utilisé, voir précisément Brixhe 1995, n. 9. > On trouvera des considérations aventureuses sur la géographie historique de cette plaine chez J. G. C. Anderson, JHS 18 (1898), pp. 108-110. + On écartera en effet la suggestion avancée par B. Levick, Roman Colonies in Southern Asia Minor (Oxford 1967), pp. 44-45, selon laquelle “One possible boundary line [du territoire d'Antioche] in this direction is formed by the Elek Su, which rises near Sagir”: car ce petit cours d'eau, qui coule du Nord-Est au Sud-Ouest depuis les pentes inférieures des montagnes Sultan Dagları jusqu'à la pointe Nord du lac de Hoyran, est trop insignifiant pour constituer une limite de territoire; et d'autre part, on se demande quelle pouvait bien être la ville qui aurait contrôlé, selon ce schéma, la bande de territoire entre cette petite rivière et le massif des Karakus Daglari. $ Ce toponyme fait allusion à la situation du village sous une arête rocheuse sur les pentes de la montagne, bien au-dessus du village d'Agagi Kasıkara (* Arête Noire d'en Bas”) qui se trouve à la base de la montagne près du lac.
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EV. an
Va
EN
x)
EN
Nie
Rn
sfera
N° CANE
Va
=
Citésetvillages antiques
=
Villes et forteresses byzantines
=
Villes et villages turcs o τ ——
20
30 40 50km [oo
T. Lochman
Fig. 1 - Carte topographique.
Le”
È
xa
A
PEISEANOL/ PISSIA
Huit inscriptions néo-phrygiennes
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Fig. 2 - Colline d’Asarlık Tepesi (Yukarı Kagikara).
L'une des stèles funéraires relevées au village, qui porte une épitaphe du Haut Empire,
provient d’après les habitants d’un vieux cimetière situé au lieu-dit Kusaksiz Oreni, qui se trouve en contrebas du village à ca. 2,5 km vers le Sud, sur les pentes occidentales d'un promontoire qui s’allonge du Nord au Sud au-dessus de la plaine de Hoyran, à droite de
la route qui monte au village depuis le lac. Au même endroit auraient été trouvés quelques gros blocs rectangulaires et d’autres pierres antiques, emportées au village. Mais
à
l'examen sur place, le lieu de trouvaille de l’épitaphe se révèle être un ancien cimetière musulman situé sur la pente opposée, à l'Ouest, de l’autre côté d’une petite plaine. A pré-
sent il n’y reste qu’une seule pierre debout, un bloc de conglomérat local, parmi quelques genévriers arborescents et chènes à vallonnée épars. Les pierres exhumées ici de nos jours par les paysans de Yukarı Kasıkara avaient donc été réutilisées comme pierres tombales à l’époque ottomane. L'habitat qui précéda le village actuel se trouvait plus haut que celui-ci, au sommet
d’une colline qui s'élève derrière Yukarı Kagikara ca 1,5 km au Nord, et qui porte le nom significatif d’Asarhk Tepesi (“la colline de la forteresse”). Au sommet de cette colline, qui figure sur la photographie (prise depuis le Sud-Est) de la Fig. 2, on peut voir, éparpillés sur une étendue assez grande, d'importants restes de murs apparemment d'époque romaine faits de gros blocs rectangulaires avec du mortier, des fragments de tuiles, et des tes-
sons des époques romaine et byzantine. Une profonde entaille creusée sur la pente Sud de la colline témoigne de l'extraction de charbon, qui se fait actuellement au moyen de gros engins modernes. Sur la pente juste au-dessus, on a trouvé un pithos. Il s'agit d’un lieu d'habitation en haut de cette colline, fortifié au moins par son emplacement, qui devait son importance aussi à sa position topographique, au débouché d’une route à travers les montagnes depuis la plaine du Caÿstre: ce n’est pas le site d'un cimetière antique.
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C. Brixhe - T. Drew-Bear
Mais il existe aux environs de Yukarı Kasikara aussi un deuxième site ancien, appelé Saray Yeri (“lieu du palais”), à ca 1,5 km au Sud-Ouest du village, à gauche de la route qui monte au village depuis le lac. Ce site est marquée par une source, le Sütlü Pinar (“source aux saules”), donnée importante pour déterminer le site d’un habitat antique. L'eau de cette source a creusé une ravine qui serpente à peu près du Nord au Sud au pied des collines (à gauche sur la photographie). Là où poussent deux arbres très près l’un de l’autre, à la base de la colline dans la ravine, à l'endroit marqué par la flèche sur la photographie (prise depuis l’Est) de la Fig. 3, a été trouvée une stèle-porte avec des reliefs figures, qui est maintenant au
village. La pente au-dessus est parsemée de restes de con-
structions en blocs rectangulaires et pierres des champs, qui émergent du sol parmi les pins et les genévriers. D'ici des bases de colonnes auraient été emportées au village pour servir de bases de piliers en bois, et l’on y aurait déterré un pavement en marbre. Sans doute s’agit-il du
d’une communauté de l’époque romaine avec son cimetière, qui a
très bien pu être le lieu de provenance de l'inscription phrygienne. Celle-ci est gravée sur un bloc rectangulaire de calcaire (ἢ. 0,52; 1. 0,73; ép. visible 0,36; ἢ. 1. 0,025), qui faisait sûrement partie d’un tombeau monumental. La pierre se trouve actuellement encastrée dans le mur d’une maison
dans le Yayla
Mahallesi; elle
aurait été trouvée par Haci Hasan Mert il y a 70 ans dans les ruines d’une construction antique. L'inscription est gravée au-dessus d’un fronton triangulaire en faible relief surmonté de trois acrotères sans décoration, chacun traversé par un trait vertical (l’inscrip-
tion est interrompue par l’acrotère central, qui semble très grand par rapport au fronton
lui-même). Le bord supérieur de la face inscrite a reçu quelques éraflures et une petite entaille vers le centre. L'inscription grecque de ce monument,
s’il y en avait une, devait
être gravée sur un autre bloc”. La partie droite de ce texte, qui était seule visible, a reçu une publication préliminaire * en attendant “qu'il puisse être un jour dégagé et que sa moitié cachée, sans doute
gravée de façon symétrique au-dessus de la partie gauche du fronton, puisse être livrée aux linguistes.” Grâce à l’aimable intervention du Dr. Mehmet Taglialan, Directeur du Musée de Yalvag, cela a pu être fait: après avoir creusé le mur en briques crues, à l’intérieur duquel ce bloc soutient une poutre en bois, l’un de nous a pu faire la photographie Fig. 4 et prendre copie et mesures du texte complet. Celui-ci est d’autant plus intéressant qu'il ne constitue pas, comme c'était évident déjà d'après sa moitié droite, un exemplaire de plus d’une des formules courantes dans les épitaphes néo-phrygiennes: au contraire,
cette inscription nous livre un texte original, qui de ce fait n’a pu, à l'exception du début et de la fin, être restitué dans la première publication.
* Celle-ci sera publiée ailleurs, avec les autres steles-portes relevées dans ce vill © Le bloc que surmontait celui qui conserve l'inscription a pu représenter une porte. Cf. par exemple un monument funéraire dans la ville voisine de Philomélion (certes d'une époque antérieure à celle du texte publié ici), qui est composé d'un fronton en relief avec inscription sur un bloc, et d'une porte en relief sur un autre: voir M. Christol et Th. Drew-Bear, Tyche 1 (1986), pp. 41-43 avec pl. I n° Let pl. 2 n° * CI. Brixhe et Th. Drew-Bear, “Un nouveau document néo-phrygien”, Kadmos 17 (1978), pp. 50-54 avec pl. 1 (localisé par lapsus au village d'Asagr Kayıkara).
Fig. 3 - Site de Saray Yeri (Yukarı Kagikara).
En voici donc le texte complet:
IOCNIICJEMONKN PETATNOYKT KEBPEITTIEPB TETIKMENO
[OY]MANHKAKONABBE ONMPOCCACIOC EAANTIHTIT CEITOY
D’après les formes des lettres et la mise en page du texte, ce document devrait dater de la deuxième partie du II° ou de la première partie du III siècle de notre ère. Ainsi qu’il a déjà été indiqué dans la première publication et à plusieurs reprises par la suiteἢ, l’existence de ce texte, qui est original et non un formulaire tel que nous en rencontrerons ci-
dessous, apporte la preuve qu'on parlait phrygien dans la campagne d’Antioche de Pisidie encore à l’époque du Haut-Empire romain. Antioche était en effet une ville phrygienne (quant à la population indigène de sa région) en Pisidie, comme Alexandrie, par exemple, était une ville grecque en Egypte"°.
A la ligne 2, en raison du volume de l’acrotère central, il est vraisemblable qu'aucune lettre n’avait été incisée entre T et ON. Quel qu’en soit le rôle (cf. infra), τὸς à la fin de
* Voir notamment Th. Drew-Bear et Chr. Naour, ANRW II 18.3 (1990), p. 1955 n. 169, rappelé dans BCH 114 (1990), p. 697 n. 66. D'après W. Ruge, RE XX.1 (1941) col. 791, citant la localisation chez Strabon ἢ πρὸς Πισιδίαν, Antioche “lag also (wenn auch phrygische Inschriften fehlen) in Phrygien, nicht in Pisidien”. Ainsi L. Robert, Hellenica XI-XII (Paris 1960), p. 357, parlait-il d'“Antioche de Phrygie”. Déjà W. M. Ramsay, Ann. Brit. Sch. Athens 9 (1902/03), p. 247, faisait remarquer que “Antiochia was not in the strict national sense Pisidian, but a Phrygian city”, citant Strabon et Prolémée. On rencontre d'ailleurs des inscriptions en langue phrygienne encore au Sud-Est d’Antioche, dans la region de Néapolis: il s'agit des nos 26, 27, 94 du recueil d'O. Haas, pp. 114 sqg. % Pour la frontière linguistique entre le phrygien et le pisidien voir CL. Brixhe et Th. Drew-Bear, op. cit. (ci-dessus n. 7), p. 54.
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C. Brixhe - T. Drew-Bear
Fig. 4 - Texte néo-phrygien n° I.
cette même ligne est probablement le relatif. Cette constatation délimite la protase ou la première proposition de la protase:
106 vi [σἸεμον Kv[oujuavn κακὸν aßßepet ATNOTKTONMPOCCAC.
Cette subordonnée n’appelle aucun commentaire particulier jusqu’à aßßepet; sur la finale -n de xv[ov]uown, là où l’on attend —er (majoritaire), -1 ou -€, voir Brixhe 1994,
$ 5.2.2.
L'objet indirect de κακὸν aßßepet est identifié: [oleuov xv[ov]uawn. Il est parfois
prolongé par un second, qu’introduit la conjonction disjonctive cavi (“ou”, Brixhe 1995, $ 3.1.1); ce n’est pas le cas ici. En deux textes, la notion de “dommage” connaît une double expression, la seconde introduite par avi également: [x]oxovv... avi μμυρα (n° 25), uovpoviv] ...[ox]vi kakovv (n° 100); ce n’est pas davantage le cas ici. La séquence ATNOYKTONMPOCCAC correspond donc vraisemblablement à un circonstant. A. Lubotsky (lettre du 6.11.95) attire amicalement notre attention sur le texte néophrygien n° 6, qui pourrait, à la ligne 2, comporter la même séquence que celle qui initie
notre circonstant. Le document a été vu et copié par le seul Ramsay, près de Sülümenli
Huit inscriptions néo-phrygiennes
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(Est-Sud-Est d’Afyon), en août 1884, d’où son édition de 1887, avec copie en majuscules.
Les lignes 2-3 se présentent ainsi: ABBEPETATNOYIIMON TOC NI ......
N
Ramsay nous dit qu’après NOY les deux hastes peuvent appartenir à N ou M et il doute qu’à la fin de la ligne, après N, une lettre ait été perdue. Il est d’autre part évident qu’avec τος vi commence l’apodose (ici corrélation t06..., tog...). En 1887, Ramsay “comprend” afı]vov[v] po[vpa]tog vi; et en 1905 (n° 109-110), sans avoir revu la pierre: a[u]vov[p] p[a]v{xa]v...; en passant par Calder 1911, avec Haas, nous arrivons à a[uvov[u] pov[xa]v...
Le texte a donc été passablement manipulé. Or la copie de Ramsay comporte la même séquence ATNOY que l’inscription présentement republiée. Selon A. Lubotsky: ou en 6 on lit KTON là où Ramsay donne IIMON, ce qui est bien difficile, ou l’on suppose une frontière de mot après ATNOY, ce qui lui semble la solution la plus satisfaisante. Atvov pourrait être, d’après lui, une préposition semblable à kovvov (< *kom-no: “together”), voir infra texte ΠῚ. Puis, il segmente ainsi la suite: atvov xtov μρος σας “including the ground of the monument”. Ktov pourrait être un emprunt au grec χθών; en soi, c’est phonétiquement plausible, cf. peut-être xopo/kopov pour χῶρος (Brixhe 1993, 341); mais a. quelle serait la flexion du mot en phrygien? faudrait-il le supposer non décliné? b. Dans les épitaphes grecques contemporaines, pour désigner le terrain sur lequel est le tombeau on n’emploie jamais χθών, mais κῆπος, περίβολος, τόπος, χωρίον, etc !!.
A. Lubotsky croit retrouver le nom du “monunent”, μβρος, à deux reprises dans notre documentation: —
Dans
le texte 58, une bilingue copiée en 1908, en Phrygie orientale
(au Nord-
Ouest du Tuz Gölü) par Calder, revue et recopiée par lui et Ramsay en 1910, d'où Calder 1911, avec fac-similé, seule illustration disponible pour ce document aujourd’hui perdu. On lit à la |. 1 du texte phrygien povavy. potiniov ..., avec probable segmentation μοναν μ.ρο τιηϊον; que vaut le point (transformé en tiret par Haas) qui sépare M de P?
Calder ne s’explique pas. — Dans l'inscription paléo-phrygienne B-01, 1. 2, on aurait avec imroy la même unité lexicale, mais pourvue d’un i- prothétique. Comme nous ne sommes pas à une hypothèse près, on pourrait peut-être joindre au dossier le nıpov de la ligne 10 du n° 116: le tautosyllabisme de mr aurait ici été évité grâce à une anaptyxe.
Dans notre texte, le mot serait déterminé par le démonstratif (féminin) σας. Certes celui-ci est, jusqu'ici, généralement placé avant le nom qu’il détermine: soit immédiatement avant lui, ca copov (texte n° 21, voir infra sous le texte VII), soit séparé de lui par
# Voir J. Kubinska, Les monuments funéraires dans les inscriptions grecques de l'Asie Mineure (Varsovie 1968).
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C. Brixhe - T. Drew-Bear
la particule emphatique to/tov, ca του oopov (infra VII), soit encore, pour des raisons
stylistiques, nettement détaché de lui, en début de protase, le nom en question marquant la fin de cette dernière, 100 vi σαι xaxovv αδδακεμ μανκαι (texte n° 35). Mais, comme
le souligne A. Lubotsky, il y a une exception: l'inscription phrygienne hellénistique de Dokimeion (Brixhe 1995, n. 25) commence par povxa μεκας σας, avec démonstratif emphatiquement postposé.
Si la place de CAC ne constitue donc pas un obstacle insurmontable à son interprétation comme démonstratif, μρος pose un sérieux problème flexionnel. Za orienterait vers
un génitif singulier féminin: alors -0g finale athématique? Mais a. cette analyse réduirait le radical à μρ--: est-ce vraisemblable? b. en réalité, si les rapprochements suggérés supra étaient exacts, nous aurions affaire à un thématique: un thématique féminin n’est évidemment pas impossible, cf. copog (infra texte VII), emprunté au grec avec son genre féminin; mais, dans ce cadre que vaudrait la finale -0g? Un nominatif étant exclu, la seule alternative serait d’y voir une désinence de datif pluriel (cf. dewg/deog, Brixhe 1990, 96). Il faudrait alors manipuler σὰς en ce sens. L’accumulation des difficultés rend, semble-t-il, fort suspecte la segmentation évoquée ci-dessus. C’est pourquoi, à titre d’hypothèse de travail, nous proposerions volontiers l’a-
nalyse suivante: @t VOUKTOV μροσσας, un syntagme prépositionnel introduit par at, qui régit vovKtov, lui-même déterminé par μροσσας. AT correspondrait-il à la préposition αδ (Brixhe 1995, $ 2)? Ce n’est pas impossible; mais, pour l’admettre, il faut surmonter deux obstacles: a. on attendrait ad devant une sonore, mais cf. par exemple
le x de xvaıko/xvaıkav
(texte n° 116,
1. 6 et 11), si de
même radical que γυνή; b. après cette préposition, on attendrait le datif (Brixhe 1995, $ 2.1.2); mais, comme dans le grec contemporain, on observe fréquemment dans les textes phrygiens des flottements entre datif, génitif et accusatif (Brixhe, ibid., $ 2.4). Nous sommes dans la protase et l’on attend ici non l’évocation d’un éventuel châti-
ment, mais une précision quant aux dégâts susceptibles d’être causés. Peut-on aller audelà? Nous avons toujours quelques scrupules à le faire, car l’on fait alors un pari avec les risques d'erreur qu’implique naturellement cette démarche. Avec excessivement de réserves donc, nous suggérons: — Pour vouktov, une formation adjectivale en *-to, ici substantivée, à rapprocher de grec νύσσω, att. νύττω, “piquer” et, avec préverbes δια-- ou κατα-, “toucher, blesser”, sans doute de *nu-k (rattaché par Pokorny, 767, à la racine *neu-/2, cf. lat. nuo; doutes
chez Chantraine, DELG, s.v.). Donc un substantif évoquant l’“atteinte à”, voire la “destruction”? Aurait-il quelque chose à voir avec le noktoy (datif thématique) de la stèle de Daskyleion, publiée récemment par T. Bakir et R. Gusmani "2, si ce document est réel-
lement phrygien? Dans le texte n° 6, at serait suivi d’un appellatif différent, mais commençant par la même séquence. — Pour μροσσας, un dérivé (mais avec quel suffixe?) de la racine *mer “mourir”, cf.
"2 Epigr. Anat. 18 (1991), pp- p. 157-164 et pl. 19.
Huit inscriptions néo-phrygiennes
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grec ἄμβρωτος < *n-my-to, avec b épenthétique; pour une graphie -MP- en Phrygie, cf. précisément ᾿Αμρότη
(MAMA
gien par Zgusta (KPN, graphie up en Phrygie: Dokimeion (voir supra), pour μροσσας la notion
I, 421, au Nord-Ouest
d’Amorion), donné comme
phry-
$ 58), mais valant en réalité ᾿Αμβρώτη. Autres exemples de la ppotig (rapports exclus avec μροσσας}), dans le texte de |. 4, et Teupoyewog “du Tembris” (texte n° 48). Si l’on écarte de “mort” non attendue, peut-on songer à celle de “monument
funéraire”? D’autres que nous trouveront certainement mieux.
Que vaut le τος qui clôt la ligne 2? Ne connaissant que la partie droite du monument, en 1978, Brixhe avait songé à un corrélatif marquant le début de l’apodose, cf. dans le texte n° 28 τος vi..., τος... “celui qui..., que celui-là...”. Mais ce qui vient ensuite intrigue: la succession des symboles vocaliques et consonantiques impose une frontière de mots après KEBPEIT, dont la finale évoque presque immanquablement une désinence verbale; or, dans l’apodose, on identifie aisément
un verbe et il est à l'impératif:
l’“auxiliaire”
ertov, accompagné du participe τετικμενος. Si la séquence KEBPEIT recèle bien un verbe,
il est apparemment au même temps et au même mode qu’ aBfepet. C’est pourquoi nous verrions volontiers dans τὸς l’introducteur d’une seconde relative appartenant à la protase et nous segmenterions ainsi: τὸς ke (ligateur de proposition) βρειτ. Le rédacteur aurait répété le relatif sans doute parce qu'il introduisait deux procès distincts, non nécessairement accomplis par le même individu; la structure ainsi détectée étant jusqu'ici un hapax !*, nous n’avons malheureusement pas de parallèle: τὸς xe “et celui qui ...”. Pouvons-nous nous risquer à rattacher Bpert au thème *breH-/briH- “couper avec un outil tranchant” de Pokorny (166)? Cf. lat. frio “réduire en morceaux, concasser, broyer” et gallo-latin brisare (si ressortissant à la même base). Reste TIEPBEAAN. Si, en raison du vocalisme prédésinentiel, on écarte une interpréta-
tion de la finale par i.-e. *-dha(n), grec --θαί(ν) (cf. dans les textes n°’ 15 et 114 l’adverbe
vyoôav reconnu par A. Lubotsky) !5, on peut hésiter entre un groupe prépositionnel régi par ΠῈΡ et un composé, objet direct de Bpeit. Nous opterions volontiers pour un composé à premier élément nep- et dont le second renverrait à la racine *bhedh “creuser”, cf. lat. fodio, fossa, etc.: nepßedav, accusatif d’un composé en -a:, objet direct de βρειτ et désignant par exemple l’“entourage de la tombe”, le περίβολος (ou variantes) des inscriptions grecques?
L’apodose commencerait donc avec tim: sur la segmentation proposée ici, cf. Brixhe 1995, $$ 2 et 5.1.4.
On conçoit aisément que l’accumulation des hypothèses fragilise considérablement l'interprétation de l’ensemble. Quoi qu’il en soit, notre texte risque de devoir son origina-
1 L'épenthèse, née de la perte de sa nasalité par la fin de m, n'est pas une nécessité: une partie au moins de la population phrygienne pourrait l'avoir ignorée. * On notera cependant: 1. que dans le texte n° 79 la protase semble avoir également comporté deux verbes, αδδακετ et [aBBlepetop, mais que la mutilation du texte nous empêche de voir comment ils étaient articulés: 2. que dans le texte n° 18 le sens de cavi xog, qui ouvre une protase suivie d'une apodose, implique, avant certe phrase, une structure identique, voir Brixhe 1995, $ 3.1.1.
15 Kadmos 32 (1993), pp. 127-134.
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C. Brixhe - T. Drew-Bear
lité non seulement à son lexique, mais aussi à la structure de sa protase (deux propositions contre une habituellement). 106 vi [σ]εμον κν[ου]μανη κακον aß
PET QT VOUKTOV μροσσας τος xe βρειτ nepßedov, τιη nt
TETIKHEVOG EUTOV. II. Environs d’Afyon La ville d’Afyon, capitale du département homonyme, ne se trouve pas sur le site une cité de l’époque classique: elle prit de l’importance d’abord sous l’empire byzantin, lors de la construction, en haut d’une falaise à pic qui surplombe la ville moderne, d’une forteresse remaniée aux époques postérieures, noyau de la ville ottomane qui se développa à ses pieds (Fig. 5) "6. Comme l’écrivait E. Naumann "7, “Das Städtebild Afium Karahissar ist das schönste in ganz Kleinasien. Nahe dem Gebirge entsteigt ein riesenhaft erscheinender schlanker Trachytfels der Erde. Hoch oben erblicken wir die Mauern und
Zinnen der Burg; unten zieht die Stadt mit ihren Kuppeln und Minarets, ihren Häusern und Gärten vom Fuße der Felsen in die Ebene herein und das Thal hinauf. Dem Tieflande entsteigen außerhalb der Stadt noch zwei wild zerrissene Trachythöcker, wie Reste einer vulkanischen Mauer, der auch der burggekrönte Riesenpfeiler anzugehören scheint.” Dans l’Antiquité le centre urbain de cette région était la ville de Prymnessos !*, dont on
1 Déjà en 1899 E. Oberhummer (ci-dessous n. 23) publia une petite photographie du site, p. 390 Abb. 40 (ainsi
qu'une photographie des falaises de trachyte Abb. 41), à laquelle on preferera la vue panoramique d'A. Philippson, Reisen und Forschungen im westlichen Kleinasien III: Das östliche Mysien und die benachbarten Teile von Phrygien und Bithynien, Erg-Heft 177 (1913) des Petermanns Mitteilungen, pl. 7 Abb. 14: “Afiun-Karahissar und seine Trachytfelsen, geschen von O, von der Ebene aus”, montrant la falaise qui porte la citadelle dans son environnement, adossée aux montagnes qui s'étirent en arrière-plan. Philippson donne aussi une photographie plus détaillée du rocher avec les fortifications, pl. 6 Abb. 15. On trouvera un petit panorama de la ville, dominée par la falaise de trachyte portant la citadelle, dans une photographie prise vers la fin du siècle dernier, à la p. 444 de l'article “Afyonkarahisar” par F. Emecen dans l'{släm Ansiklopedisi I (Istanbul 1988).
Ch. Texier, Asie Mineure: Description
géographique et archéologique (Paris 1862), pl. 45, présente un dessin montrant la citadelle avec ses murs inférieurs mieux préservés qu'aujourd'hui. Deux petites vues de la citadelle en bas de la pl. 1 de MAMA IV (infra n. 18). 17 “Reisen in Anatolien”, Globus 67 (1895), p. 301.
Cf. la description de Philippson, op. cit., p. 121: “Afiun-
Karahissar bietet eins der eigenartigsten, man möchte sagen unwahrscheinlichsten Städrebilder dar, die ich gesehen... Mitten aus dem ausgedehnten Meere eng aneinander gebauter niederiger grauer, meist flach gedeckter Lehmhäuser und weißer Moscheenkuppeln und Minarehs springt ein jäher, nahezu senkrechter schwarzer Felspfeiler etwa 200 m hoch (1220 m über Meereshöhe) in die Höhe, unvermittelt, ohne erhebliche Schutthalden am Fuß, scheinbar ganz unersteiglich. Keine Spur von Erde oder Schutt an den absolut kahlen Wänden, die durch die unregelmäßige Klüftung des Trachytes in grobe Wülste oder hier und da auch pfeilerartig gegliedert sind. Das kleine Gipfelplateau aber wird umgurtet von der Ringmauer einer mittelalterlichen Festung, von der auch noch andere Baureste oben erhalten sind. Ein in den Felsen gehauener schwindliger Treppenweg führt hinauf... Aus der horizontalen Ebene regen wieder unvermittelt mehrere inselartige Felsspitzen und Kuppen auf, ebenso nakt und rauh, wenn auch nicht so hoch und steil, wie der Burgfelsen. τε On peut trouver une photographie du site chez W. H. Buckler, W. M. Calder, W. K. C. Guthrie, MAMA IV {Manchester 1933), pl. 1 en haut (ef. px).
Huit inscriptions néo-phrygiennes
81
Fig. 5 - Citadelle d’Afyon. voit les maigres restes au village de Sülün, dans la plaine du Caÿstre à environ 6 km vers
le Sud-Est. Sur le site d’Afyon même il n'y avait à l’époque romaine qu’un village, celui
des 'Axponvoi, attesté parmi les nombreux démotiques que nous livrent les listes de donateurs gravées sur le temple des Xenoi Tekmoreioi près d’Antioche 1°. En effet, dans un de ses premiers articles sur la Phrygie ?°, W. M. Ramsay a localisé ce village des ᾿Ακροηνοί à Afyon en rapprochant l’ethnique byzantin "Axpoivög, bien connu par une série de passages dans des historiens du Moyen Age et les Notitiae episcopatuum2. Or chez les Byzantins Akroinos désigne certainement la citadelle d’Afyon, dont la caractéristique principale est de se trouver sur une “hauteur”
176.
spectacu-
Sur ces listes voir en dernier lieu les deux corrections apportées par Th. Drew-Bear, REA 82 (1980), pp. 174-
» Ath. Mitt. 7 (1882), p. 141, répété dans The Historical Geography of Asia Minor (Londres 1890), pp. 87 et 139, et dans Studies im the History and Art of the Eastern Roman Provinces of the Roman Empire (Londres 1906), p. 363, etc. 2! On retrouvera facilement ces derniers chez J. Darrouzès, Notitiae episcopatuum Ecclesiae Constantinopolitanae (Paris 1981), p. 449 (index). Pour les autres sources médiévales sur ce point d'appui militaire voir W. Brandes, Die Städte Kleinasiens im 7. und 8, Jahrhundert (Amsterdam 1989), pp. 114-115, et K. Belke et N.
Mersich, Tabula Imperii Byzantini 7: Phrygien und Pisidien (Vienne 1990), pp. 177-178.
82
C. Brixhe - T. Drew-Bear
laire 22. Cette identification, qui avait emporté l’assentiment général 3, n’a pourtant pas convaincu W. Ruge**, ni plus récemment L. Zgusta ?. Il faut donc argumenter. Zgusta enregistre “Akpoa” et “’Axpénvoc” comme deux localités différentes, peutêtre moins par choix réfléchi que par simple ignorance de la bibliographie. Qui plus est, cet auteur considère le démotique Akponvos chez les Xenoi Tekmoreioi (sic pour l’absence d’esprit et d’accent), dont il tire un toponyme Akpo/® sans tentative de localisation,
comme indigène 2, alors que pour lui l’ethnique byzantin ᾿Ακρόηνος (sic pour l’accent) 27, 2 Cette hauteur est telle que W. M. Ramsay, malgré toutes les explorations qu'il a effectuées en Phrygie pendant des décennies, n'a jamais escaladé la falaise jusqu'à la citadelle, comme il l'avoue dans JHS 40 (1920), p. 109. Cf. G. Radet, En Phrygie (Nouvelles archives des missions scientifiques 6, Paris 1895) p. 466: “Rien de pénible comme l'ascension de cette colossale pyramide de trachyte. Non seulement la montée est des plus abruptes; mais d'énormes blocs, suspendus aux flancs du pic qui luit d'un éclat roussätre, obligent à de continuels détours. Chaque escalade est suivie d'une descente sournoise vers un vide qui donne le vertige, et le sentier glissant se livre, le long de l'abime, à un véritable jeu de montagnes russes. Au sommet, l'enceinte du kaleh n'est guère moins raboteuse. On ne s'est pas donné la peine d'aplanir le roc brut. A la manière dont tout est construit, portes, remparts, crénaux, tours, citernes, on sent que les architectes étaient des gens pressés. Le fort actuel ne remonte pas, dans ses parties apparentes, au delà du temps où Seljoukides et Byzantins se disputaient, avec une mobilité hâtive, les hauts plateaux de l’Anatolie.” Et pourtant il s'y trouve une inscription grecque, sur laquelle, ainsi que sur les éléments byzantins de cette citadelle en général, on peut voir 5. Eyice, Dumb. Oaks Pap. 27 (1973), pp. 303-307. 3 Ainsi par exemple E. Oberhummer dans R. Oberhummer et H. Zimmerer, Durch Syrien und Kleinasien (Berlin 1899), p. 391; W. M. Buckler, W. M. Calder et W. K. C. Guthrie, MAMA IV, p. ix; K. Belke et N. Mersi Phrygien und Pisidien, loc. cit., etc. % RE XX.1 (1941), col. 810: W. Ruge considère que l'identification de ce toponyme “noch gar nicht gelungen ist” (cf. la col. 806 pour l'explication de l'échelle de 1 à 4 qu'utilise cet auteur). Comme cela peut arriver dans la Realencyclopädie (l’un de nous signalera ailleurs un cas semblable), il a échappé à l'éditeur (à cette occasion, G. Wissowa) qu'il avait commandé, et fait imprimer, deux articles sur un seul et même lieu. En effet, dans RE Suppl. I (1903), col. 45 se suivent les articles “Akroa”, par W. Ruge, citant le démotique Axponvög dans les listes des Xenoi Tekmoreioi, et “Akroénos”, par E. Oberhummer, citant l'ethnique Ἀκροηνός, Ἀκροινός dans les Notitiae episcopatuum. 3 Kleinasiatische Ortsnamen (Heidelberg 1984), pp. 54-55 $ 36-3 et $ 36-5. Malheureusement L. Zgusta a été suivi par A. M. Hakkert dans son Lexicon of the Greek and Roman Cities and Place Names in Antiquity fasc. 3 (Amsterdam 1995), col. 436-437, où l'on trouve un article “Akroa” suivi d'un article “Akroinos”, alors qu'il s'agit d'un seul et même lieu. 3 Déjà pour W. M. Ramsay, CRAI 1935, p. 130, la forteresse “s'appelle aux temps byzantins ‘Akroun’, dont les Grecs ont fait ‘Axponvög [cette forme, comme nous l'avons vu, est déjà attestée à l'époque romaine], ‘Axpoıvdg ‘Axpouvéc”. Ramsay explique en note que “Akroun est le nom phrygien, et c'est la preuve [?] que dans ce district les noms et la prononciation étaient conservés." Mais en réalité, il n'existe aucun témoignage pour l'existence d'un toponyme *Akroun en langue phrygienne. Ramsay continue: “Le professeur Holl a établi que la langue phrygienne
était encore parlée aux Vile et Ville siècles de notre ère; il aurait pu dire ‘et plus tard’, à mon sens, sans erreur.” Mais
une fois encore, on ne voit pas sur quelles sources s'appuie Ramsay pour soutenir cet avis. L'ouvrage auquel il renvoie, sans autre précision, est: K. Holl, “Das Fortleben der Volkssprachen in Kleinasien in nachchristlicher Zeit”, Hermes 43 (1908), pp. 240-254 = Gesammelte Aufsätze zur Kirchengeschichte 2: Der Osten (Tübingen 1928), pp. 238-248, où n'est établi rien de tel (Holl voulait croire que les hérétiques, très nombreux en Phrygie, constituaient autant de locuteurs de la langue phrygienne; mais rien ne permet de conclure qu'on était hérétique parce qu'on ignorait le grec). D'après G. Neumann dans Die Sprachen im rômischen Reich der Kaiserzeit (Beiheft 40 des Bonner Jahrbücher, Cologne 1980), p. 175, le plus récent témoignage concernant le phrygien en tant que langue parlée date du Se siècle de notre ère. # Accentuation peut-être inspirée à L. Zgusta par la variante Axporvog, non citée par lui mais évoquée (2) dans sa notice ‘Axpénvog (qui
est empruntée, avec un faux renvoi, à une édition obsolète des Notitiae episcopatuum), où cette
forme est assortie de “auch Entstellungen”. Cette variante Axpoivos a pu être alignée par Zgusta sur les adjectifs de matière en -ıvog, qui font remonter l'accent, cf. ἐλεφάντινος ou λίθινος: voir J. Vendryes, Traité d'accentuation grecque (Paris 1904), p. 172, et P. Chantraine, La formation des noms en grec ancien, Paris 1933, pp. 201-203. Mais il
Huit inscriptions néo-phrygiennes
83
qu'il identifie à Afyon avec Oberhummer (cf. n. 23), est “certainement grec”. Mais puisqu’il s’agit soit de la même orthographe, soit (avec ᾿Ακροῖνός) d’une menue variante dans l'orthographe d’un seul et même
nom de lieu, variante dont l’origine, l’iotacisme, est un
phénomène très répandu et bien connu, la position de que romain et l’ethnique byzantin renvoient à une Afyon. D’autre part, dans la mesure où la grande Tekmoreioi portent des noms indigènes, on est amené
Zgusta est intenable ?8: le démotiseule et même localité, l’actuelle majorité des villages des Xenoi à douter de l’étymologie grecque
qui a les faveurs, à moitié si l’on peut dire, de Zgusta. Certes, on doit vraisemblablement
reconnaître dans ce toponyme le theme*akr du grec ἄκρα ou ἄκρος, 2" mais ce peut être ici un radical phrygien hérité; sa présence dans les deux langues surprendrait d’autant moins qu’on connaît leur étroite parenté préhistorique. Reste la problème du suffixe. Le grec a hérité d’une suffixe -avög/-nvög, largement répandu en Asie Mineure, remontant à *-eH,-no, conglomérat qui est aussi à l’origine de lat. -a:no- et peut-être de lycien -(e)ñni/-(a)ñna %: ici un suffixe grec ajouté à une base
phrygienne (toponyme Akros ou Akroi par exemple}? Mais comment justifier l’hiatus -OH-? Ce trait est d’ailleurs fréquent dans la région: cf. parmi les démotiques des Xenoi Tekmoreioi Aavkenvôc, Tatanvög, Παπαηνός, etc. Le suffixe grec n’y serait-il pas confondu avec un avatar du suffixe ethnique louvite -wana/-wani1, cf. lycien B -evñni??.
Ce croisement s’expliquerait par le substrat louvite préphrygien et la proximité contemporaine de parlers postlouvites (e.g. le pisidien, tout proche au Sud). Au Nord de la cité d’Afyon, lors de travaux de canalisation dans la nouvelle zone
industrielle (Organize Sanayı Bôlgesi), au lieu-dit Çapak Cayiri, fut trouvée en 1987, à
une profondeur de ca 2 m., une stele-porte (h. 0,97; I. 0,75; ép. max. 0,25; h. 1. 0,015),
conservée au Musée d’Afyon sous le n° d’inventaire 10102 (Fig. 6). De toute évidence, celle-ci avait été réutilisée dans une construction postérieure, car son encadrement en sail-
lie, en haut et des deux côtés, a été très sommairement ravalé, et il reste des traces de béton sur sa partie inférieure. Pour cette raison nous ne pouvons connaître la provenance originelle de la stèle. Or quelle qu’ait été la frontière du territoire de Prymnessos vers le
Nord, la plupart des pierres antiques relevées à Afyon doivent venir des ruines de cette
convient d'utiliser l'accentuation normale Ἀκροηνός pour les attestations autant d'époque romaine que d'époque byzantine, selon le modèle courant Κυζικηνός, Λαμψακηνός. Φιλαδελφηνός, etc., voir Schwyzer, Gr. Gr. I, p. 490. 2 De même pour le bourg romain des Πεισεανοί et l'évêché byzantin de Πισσία L. Zgusta offre deux étymologies différentes, grecque et indigène, qui correspondent chez lui à un dédoublement du toponyme (voir ci-dessous, commentaire du texte VII).
29 D'après P. Chantraine, Dictionnaire ötymologique de la langue grecque: Histoire des mots | (Paris 1968), p.
44, sur ἄκρος: “le mot exprime l'idée de pointe, mais surtout celle d'extrémité, de point le plus élevé, soit au propre soit au figuré”; (p. 45) “cette racine *ak- qui exprime l'idée générale de ‘aigu’, ‘pointu’, est largement répandue en i.e. mais les spécialisations de ce sens varient selon les langues.” On peut rapprocher les démotiques ᾿Ἀκρεινάίτης! chez les Xenoi Tekmoreioi, ‘Axpeıvnvög (épithète de Zeus au Sud-Ouest de Julioupolis en Galatie), ᾿Ακρεανή (épithète d'une déesse-mère à Dorylaion), ainsi que le nom de la forteresse byzantine Akrokos en Phrygie du Nord vers Tiberioupolis, etc. (voir pour ces toponymes L. Zgusta, op. cit. sauf pour le dernier, absent de son recueil, qu'on trouvera chez K. Belke et N. Mersich, Phrygien und Pisidien). % Cf. F. Bader, BSL 84 (1989) 2, p. 267.
» Voir E. Laroche, BSL 55 (1960), pp. 171-173. * Dont, selon E. Laroche loc. cit, l-fe)îini/-(a)rina cite plus haut pourrait être en définitive une forme évoluée.
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cité 33. Mais cela n’exclut pas, bien sûr, que notre stèle ait pu être apportée depuis quel-
que village antique de la plaine du Caÿstre, si elle ne provient pas du village même des Akroenoi#. La stèle sort certainement d’un atelier de la ville voisine de Dokimeion. Elle conserve la représentation de la porte elle-même, dont les quatre panneaux sont séparés, au centre
par un pilastre avec chapiteau et base, et en haut, au milieu et en bas, par six petits panneaux creux en forme de rhombes. Dans les panneaux du registre supérieur prennent
place un homme (à gauche) et une femme (à droite) dont les têtes ont été effacées 3, les deux revêtus d’un himation au-dessus d’un chiton %, tandis que les panneaux, plus petits, du registre inférieur ont un étui avec des stylets (à gauche) ?” et un peigne sur une corbeille à laine (à droite), outils dont se servait ce couple dans sa vie de tous les jours.
L'inscription funéraire en langue grecque a disparu avec la moulure supérieure sur laquelle elle était gravée, et il n’en reste que les mots ultimes. L'inscription phrygienne, en
revanche, prend place, pour l'essentiel, sur le linteau de la porte, en retrait par rapport à la moulure qui le surplombait, et elle a donc été conservée (Fig. 7):
[
τ τμνήμη]ς χάριν. νας. 106 vi σεμίουν]τὸ
xvovporve KOKEV αδδακετ,
με ζεμελως κε δεως κε
τι τετικμενος ELTOU Ligne 1. τος: reste la partie inférieure de l’omicron et du sigma. — σεμίουν): traces du bas des jambes du mu — to: avant 0, base d’une haste, restitution assurée par le formulaire, cf. σεμουν του Kvovpoarver (textes n° 10, 61) ou σίεμ]ον τίου] xvovpavie] (texte n° 39), voir encore les variantes dans les textes n° 27, 76, 103; sur le renforcement du démonstratif par to/tov, en dernier lieu Brixhe 1995, 5.1.3.
Ligne 2. Pour la finale -e de xvovpove (variantes -εἰ, majoritaire, -1 et -n), voir Brixhe 1983, 120, et 1990, 78-79. — xaxev: du K initial reste la haste verticale, avec, à
droite, appendices obliques évanescents (cf. l’espace “anormal” entre la haste et le A suivant);
κακεν est conforme à l’un des formulaires utilisés, cf. les textes n® 40 et 97 (xaxe,
3 C'est ce qu'ont fait observer Th. Drew-Bear et W. Eck, Chiron 6 (1976), p. 290. Voir aussi, dans le même sens, E. Kirsten, RE XXIII.1 (1957), col. 1155. % Rappelons que d'autres inscriptions néo-phrygiennes ont été déjà été trouvées dans la ville d'Afyon: les textes nos 3, 7, 90,91. 35 C'est un phénomène qui a endommagé beaucoup de reliefs antiques en Anatolie. Dans certains cas au moins ce n'est pas l'œuvre de l'obscurantisme moderne, car l'un de nous a pu constater l'effacement des visages sur des reliefs fraichement déterrés par les paysans ici et là, autant en Phrygie qu'en Mysie Abbaitide du Sud. Il semble donc que déjà à l'époque chrétienne des fanatiques - analphabètes, faut-il supposer - ont vu dans ces reliefs représentant les défunts des effigies de démons. Dans l'énorme abondance de sculpture paléochrétienne et byzantine en Phrygie, il n'y a presque jamais de représentations figurees. % L'homme tient, peut-être, un obiet difficile à distinguer, et la femme, peut-être, un fuseau et une quenouille, comme il est habituel sur les stèles-portes de la plaine du Haut Tembris. ” De la plaine du Haut Tembris proviennent des steles-portes possédant des reliefs sur lesquels les stylets dans ces étuis ont des formes différentes (sur certains on reconnait notamment l'extrémité aplatie qui servait à effacer l'écriture sur la cire).
Huit inscriptions néo-phrygiennes
Fig. 6,7 - Stele-porte n° IL. Bilingue greco-phrygienne n° II.
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€. Brixhe - T. Drew-Bear
sans le -v parasitaire, dans les n° 21 - voir infra commentaire du texte VII -, 88 et sans doute 99); explication de la finale -e(v) chez Brixhe 1990, 80.
Des comparaisons stylistiques avec des motifs correspondants sur la série de stèlesportes produites à Dokimeion, qui suivaient le développement de la décoration des petits côtés des sarcophages à colonnes issus des ateliers de la même cité, permettent de dater cette stèle-porte avec assez de précision de ca. 200 ap. J.-C."
II. Plaine du Caÿstre Dans la partie Nord de la plaine du Caÿstre, à l'Est de la ville d’Afyon et au Nord-Est du village de Gebeceler, se trouve un petit lac appelé Seyitler Gölü, séparé de la plaine par une basse montagne qui porte le même nom. Les eaux de ce lac rejoignent l’Akar Gay en coulant droit vers le Sud, mais leur cours est interrompu par un barrage qui en règle le
débit ®. Dans la face Sud d’un vieux pont (Fig. 8) appelé le Sopalının köprü (“pont de l’homme au bâton”: pour l'explication de ce toponyme voir ci-dessous n. 41), qui enjambe ce cours d’eau à un endroit idyllique encadré de saules, non loin du village de Gebeceler, sont encastrées diverses pierres des époques romaine et byzantine “Ὁ, Parmi celles-ci se trouve une stèle-porte bien conservée (ἢ. 0,81; 1. 0,55; ἢ. 1. 0,015),
dont seulement l’angle supérieur gauche et le bord supérieur sont cassés ou recouverts de béton (Fig. 9). Les quatre panneaux, entourés sur les deux côtés et en haut par un enca-
drement en saillie décoré d’étroites bandes plates entourant une moulure arrondie, sont séparés, au centre par un pilastre avec chapiteau et base, et en haut, au milieu et en bas, par six petits panneaux creux en forme de rhombes. Dans les deux panneaux du registre supérieur on voit une corbeille à laine (à gauche) et une plaque de serrure en losange (à
droite), tandis que les deux panneaux, plus hauts, du registre inférieur représentent une tête de lion effacée au-dessus d’un heurtoir en forme d’anneau (à gauche) et un fuseau avec une quenouille (à droite)*'. L'un des propriétaires du tombeau était donc une
% Comme la stele-porte suivante, celle-ci appartient au deuxième type de steles de Dokimeion, qui cs par un linteau plat et non par un fronton triangulaire. Mais à l'encontre de la stèle suivante, celle du Musée d’Afyon était du type “dorique” (c'est-à-dire, dont le linteau s'étend des deux côtés au-delà des montants), qui remplaça le type “ionique” (possédant un encadrement plus simple, dans lequel le linteau venait au ras des montants) vers 180 ap. J.-C.
Cette stele-porte sera insérée dans son groupe stylistique par T. Lochman: voir déjà Th. Drew-Bear,
Gnomon 63 (1991), p. 428 n. 13.
Cost ce barrage à la sortie du lac qui donne son nom au cours d'eau, appelé Baraj Gavi. 4 Naturellement on ne connait pas la provenance de ces pierres, qui ont pu venir de divers sites antiques et chretiens aux alentours. A Gebeceler même l'un de nous a relevé des inscriptions des époques romaine et byzantine, mais aussi aux villages dans la plaine au Sud, Sulumenli et Gobanlar, ainsi que dans des sites un peu plus éloignés tels que Feleli {maintenant Kocaoz). L'expérience montre que des pierres antiques ont pu être transportées sur des distances
considérables à travers la plaine du Caystre pour la construction de ponts: ainsi dans le Kirk Goz Kopru (“pont aux quarante arches") près de Bolvadin étaient encastrées des inscriptions apportées depuis le site de la ville de Synnada, loin au Sud-Ouest: voir Th. Drew-Bear, Chr. Naour et R. $. Str
Arthur Pullinger ci-dessous n. 86), p. 67 n. 91.
4 La quenowlle se termine en bas par un anneau, dans lequel la femme mettait un doigt afin de mieux la tenir quand elle filait la laine. Cest ce rehet, pensons-nous, assimilé par les paysans à un homme (la quenouille, à droite) tenant un bâton (le fuseau, plus mince, à gauche), qui a donne son nom à ce pont.
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Fig. 8 - Le Sopalının köprü,
femme. Sur l’architrave de la porte, au-dessous d’un liteau plat surmontant le chambranle portant une lourde décoration (de haut en bas) de palmettes, d’oves et flèches, et de perles et pirouettes, se trouve une inscription en langue phrygienne (Fig. 10). Commençaitelle au-dessus des palmettes? En tout cas, comme on peut le voir sur la photographie et comme le suggère le formulaire utilisé, elle est mutilée à gauche.
far arr rJaprus oveßpo. log vi σεμον τὸ [xvovna]ve κακὸν αδδακετ av’ ατεαμα, τς TLE τι {τετικΊ ug vog eıtv ovVeAag Kovvov κ᾿ HNK
:NTIBETIAI xe πάρτης Bexoc(?) Ligne 1. n]aptug oveßpa, restitution d’après le texte n° 9, 1. 5 (dans le village d’Isiklar, au Sud-Est d’Afyon), où l’on a raptus ovßpa: (ovxpa, à tort, chez Haas, pp. 105 et 115); dans ce dernier document, Haas indique la perte d’une lettre, en tout début de ligne, avant raptus, d’où [.]taptvg p. 105, puis [εἸπαρτυς p. 115. Ramsay, qui a vu
la pierre en 1884, fait en 1887 de TI la première lettre de la ligne; Calder, qui l’a revue en 1911, ne signale rien de particulier à ce sujet en 1926, non plus qu’en 1933 (MAMA IV 18); sur la photographie de l’estampage qui accompagne cette édition (Fig. 14), TI, non tout à fait au bord de la pierre, semble précédé d’un X avec trou au centre des branches
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Fig. 9, 10 — Stèle-porte n° III.
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supérieures. OveBpa et ovBpa sont vraisemblablement des variantes: passage de l’un à
l’autre par réduction de we à u? L’obscurite et/ou la mutilation des contextes interdisent toute spéculation herméneutique, comme tout rapprochement entre naprug et le napıng de la |. 4. Constatons cependant: a) qu'ici, comme
dans le texte n° 9, cette séquence mar-
que la fin d’une phrase: ici parce que suivie de la banale protase d’une imprécation; dans le n° 9, parce que suivie par l’épitaphe grecque; b) qu’ici comme dans le n° 9 le texte phrygien ne se réduisait pas à une simple imprécation, mais que l’imprécation qui commence avec 106 vi était probablement précédée de la mention d’un ou de défunts; c. que
l'association de raptus et ovepa a un caractère probablement formulaire: désignation d’un lien de parenté ou, comme
le suggère A. Lubotsky (lettre du 6.11.95), formule com-
parable au μνήμης χάριν grec, avec παρτὺς (gén. sing. ou acc. plur.) régime d’une post-
position oveBpa? En raison de la fragilité actuelle de ces hypothèses, il ne nous semble pas opportun d'essayer de les étayer érymologiquement .
Ligne 1-2. ceuov to [xvovpa]ve: pour le renforcement du démonstratif par τούτου et la finale -€ du substantif, voir supra texte II.
Ligne 2. au
ateaua “(quiconque endommagera ce monument) ou la ...”: area
(datif) désigne une partie du monument ou de son environnement; on en connaît une variante τεαμουτιαμα (textes n° 87, 115); ατεαμα — composé en αδ-- du précédent? — apparaît dans les textes n°* 102 (aıvı atequ{a]), 112 (αινι ατεᾳμας) et peut-être 43 (avı
a[teaua(s?)]). Une séquence un peu plus complexe
(syntagme prépositionnel introduit
par a), mais sans doute fonctionnellement identique, figure dans le texte n° 14: av” ad ατεαμας; voir Brixhe 1995, $ 2.1.3, et, pour l’hésitation entre génitif et datif, $ 2.4.
Avec 16 commence l’apodose: cette forme vaut τος; c’est le second exemple, dans l’épigraphie néo-phrygienne, de la réduction “grecque” de 10 à 1, le premier connu se trouvant dans le texte n° 5 (16 également), cf. Brixhe 1994, $ 5.1.6.6. La corrélation a donc
ici la forme τος ..., 105 ..., voir supra sous le texte I. Pour la segmentation mie τὶ (ou nt), voir également supra commentaire du texte I. Ligne 3. Avant le M, dont il reste un fragment de la jambe droite, doit-on lire [t TETUK]UE VOS (avec un premier τ appartenant au mot précédent) ou seulement {τετικ] μενος» L’ampleur de la lacune supposée ne semble-t-elle pas favorable à la seconde solution?
Eu, impératif, pour l’habituel eıtov: Y pour OY, voir Brixhe 1994, $ 5.2.4.1. Après ce verbe, la proposition semble se poursuivre: absence de liaison entre lui et le mot suivant. Le verbe n’occupe donc pas la position finale, comme habituellement: cf.
déjà les textes n° 42, 87 et 118, clos précisément par naptng, présent ici à la 1. 4. Ονελας, vraisemblablement génitif d’un oveAc, n’est pas un inconnu, puisque déjà attesté dans la seconde proposition de l’apodose du texte n° 87 (où figure naprng!),
trouvé à Beykôy (au Nord-Ouest d’Amorion et au Sud-Ouest d’Orkistos): oveAag κε (ligateur de propositions) τοῦ ke (liant ουελας à του) Lovov aotot παρτης; l’imprécation
menace donc le déprédateur (tov, anaphorique) et sa wela. Cette association invalide
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C. Brixhe - T. Drew-Bear
l’hypothèse de Diakonoff#: racine *wel, d’où wela “turning” peut-être au sens d’“adversity, reverse, vicissitude”. Elle nous oriente du côté de la famille ou de la descendance de
l'homme. Il n’est pas exclu qu'il faille y voir l’avatar d’un mot qui pour l'instant n’a aucun correspondant connu dans une autre langue indo-européenne, mais dont la structure serait parfaitement claire: *swe-la: de *swe avec le même suffixe que φυλή et signifiant “l’ensemble des gens appartenant au groupe swe”, c’est-à-dire “l’ensemble des siens”; sur les noms de parenté formés avec
*swe (e.g. lat. soror < *swe-sor, “la femme
propre au groupe swe”), voir la discussion d’E. Benveniste *. L'un des documents attestant παρτῆς (le texte n° 42) nous avait fourni un premier exemple de kovvov. Ici, comme dans le texte n° 42, la structure de l’énoncé semble exclu-
re l’interprétation de xovvov comme adverbe ou préposition (A. Lubotsky, lettre du 2.11.95); le mot est à chaque fois suivi de xe: pe xovvov κε le montre dans le texte n° 42 au centre d’un syntagme prépositionnel lié par xe à un circonstant précédent; ici xe élidé
le met sur le même plan que oveAac. Il s’agit donc à peu près sûrement d’un appellatif: xovvov génitif d’un *xovvoc. L’une des solutions évoquées par Brixhe 1995, $ 2.5.2 ([Ke]peAmwg xe [δ]είω]ς με Kovvov κε, erreur de lecture ou de gravure pour ... ke xovvov xe) impliquait pour *kovvog la même sphère sémantique que pour CeueAux/Geux “hommes / dieux” ou “dieux du ciel / dieux des enfers”. Notre nouveau texte semble condamner l’hypothèse: l'association de *oveda et de +kovvo oriente vers un même champ
sémantique pour les deux mots: *kovvog désignant par exemple la parenté au-delà du cercle restreint du groupe swe (ουελας, supra)? de *kom-no-, ancien adjectif substantivé?
cf., pour le sens, le grec συγγένεια A la fin de la ligne, après un K à appendice oblique inférieur évanescent, sans doute HNK: à segmenter κ᾿ (= κε, liant xovvov à ουελας) HNK? la disparition du début de la ligne 4 empêche d’en dire plus.
Ligne 4. La base de la plupart des lettres est endommagée, avec l’arête inférieure de l’architrave; toutes pourraient être pointées, à l’exception de la dernière. Au début, série de lettres évanescentes et le plus souvent incertaines: après un Y à peu près certain, plutôt DIC
, voire OCTEN, que OITCEN; plus loin, après BE, deux hastes
verticales: un IT, dont la barre horizontale est masquée sur la photographie par la moulure du dessus? Puis A plutôt que A, pour des raisons morphologiques: d’où un
dent par xe. La jambe droite du II deraptng a disparu avec un trou dans la pierre; sur ce mot, déjà entrevu, et sa graphie finale, Brixhe 1994, $ 5.2.2. A la fin, sans doute partie supérieure de la séquence BE, d’où βεκο, dans lequel on est tenté de rechercher Bexog, le nom du “pain”, présent dans l’apodose des textes n° 33, 76, 86, 99, 108, 111. Si le genre du mot, neutre dans les sources grecques (cf. Hérodote II 2),
#1. M. Diakonoff et V. P. Neroznak, Phrygian (New York 1985), pp. 141-142. # Le vocabulaire des institutions indo-européennes 1 (Paris 1969), pp. 214 et 328 sqg.; pour un dérivé en -L, voir P. Chantraine, DELG, s. v. ἀέλιοι “beau-frère”.
Huit inscriptions néo-phrygiennes
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n'y a pas été travesti, on devrait exclure une lecture ßexoı, avec un I dont on pourrait entre-
voir l’ombre dans l’angle formé par la moulure. Si fexoc, on ne verrait du sigma que la partie gauche, la droite (peut-être réduite par manque de place) étant cachée par la moulure. Ce monument constitue un bon exemple des stèles-portes produites à Dokimeion depuis le début du II jusqu’au milieu du III: siècle ap. J.- Chr., qui fermaient de petites
chambres funéraires autrement dépourvues d'ornement. Ces stèles-portes rappellent de façon simplifiée les petits côtés des sarcophages à colonnes largement répandus en Asie Mineure, également sculptés à Dokimeion mais bien plus richement décorés. La comparaison de forme et de style avec les petits côtés de ces sarcophages, qui eux aussi représentent souvent des portes fermées, permet de dater les stèles-portes avec assez de précision. Celle dont il s’agit ici fait partie d’une deuxième catégorie dans le développement artistique, qui se différencie de la première, plus ancienne, par le linteau plat qui surmonte la porte, au lieu d’un fronton triangulaire. Ce deuxième type remplaça progressivement le précédent dans les années entre 140 et 160 ap. J.-C. L’execution soignée des moulures, rapprochée des ornements correspondants sur les sarcophages à colonnes, indique pour cette stèle-porte une date assez tôt dans la période de la deuxième catégorie, c’est-à-dire vers 160 ap. J.-C.#.
IV. Entre Dokimeion et Polybotos Dans les montagnes, relativement basses mais aux pentes parfois abruptes, qui séparent les grandes carrières romaines de marbre “5, à l'Est du site de Dokimeion, de la large
plaine de Polybotos loin au Sud-Est, les cheminements sont tributaires des accidents du terrain. A l’intérieur de cette région reculée, à environ
17 km vers l’Est du site de
Dokimeion (iscehisar), se trouve le petit village d’Akpınar. Bien que ce village soit aujourd’hui rattaché à la sous-préfecture nouvellement créée de Bayat, bourg situé sur la grande route d’Afyon à Ankara, d’où l’on peut accéder à Akpinar en passant par le village important d’imralli, du point de vue géographique Akpınar regarde plutôt vers le SudEst, dans la direction du gros bourg d’Özburun situé à la lisière de la plaine de Bolvadin qui était dominée par la cité de Polybotos (attestée d’abord à l’époque byzantine) #, dans la région où l’on cherche la ville romaine de Julia 47.
+ C'est un plaisir de remercier T. Lochman pour ces indications. Sur les inscriptions latines provenant de ces carrières voir en dernier lieu Th. Drew-Bear, “Nouvelles inscriptions de Dokimeion”, Mélanges de l'Ecole Française de Rome (Antiquité) 106.2 (1994), pp. 747-844, avec la bibliograp!
* Pour les sources concernant Polybotos voir K. Belke et N. Mersich, Phrygien und Pisidien, pp. 363-364. Rappelons une excellente suggestion qu'a faite per litt. W. Treadgold: K. Belke et M. Restle, Tabula Imperii Byzantini 4: Galatien und Lykaonien (Vienne 1984), p. 203, enregistrent en Galatie un “lieu et forteresse près d’Amorion” appelé Marg as-Sahm, désigné par des géographes arabes comme siège du stratège du thème des Anatoliques après la destruction d’Amorion en 838. Pour la localisation de ce lieu il n'existe qu'une vieille hypothèse de Ramsay, qui le cherchait aux environs de la sous-préfecture de Gifteler dans la province d’Eskigehir, “ohne hinreichenden Grund” comme le disent, à juste titre, K. Belke et M. Restle, loc. cit. Mais ils font eux-mêmes remarquer que le toponyme Marg as-Sahm a le sens de “Fettwiese”, “prairie fertile”: ne serait-ce pas une traduction arabe du nom de Polybotos, dont la situation dans une plaine convient parfaitement? * Voir provisoirement H. von Aulock, Münzen und Städte Phrygiens | (Tübingen 1980), pp. 63-64.
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Ὁ Brixhe - T. Drew-Bear
A l’époque byzantine une route menait de la forteresse de Kedrea (juste au Sud-Quest de Bayat) par les villages de Derbent (“Le Col”) et Özburun, ou par la ville de Phyteia (dont le site se trouve au village turc de Kemerkaya, autrefois Cogu), jusqu’à Polybotos *#.
Cette voie de communication contournait à l’Est la region plus accidentée, occupée par la montagne du $am Dagi, où se trouve Akpınar. Les habitants d’Akpınar parlent d’un “Ulu Yol” (“grande route”, terme par lequel les paysans désignent de vieilles voies de commui n remontant soit à l’époque ottomane, soit à l’Antiquité), non pavée, qui menait depuis leur village jusqu’aux villages de Cevizli et de Konarı (Egnedik), et de là
à Iscehisar. Mais de l’autre côté de la montagne les communications sont plus faciles, en suivant la route qui descend la vallée le long du cours d’eau dont il sera question ci-dessous, jusqu’à Özburun et la plaine de Polybotos. Si cette plaine appartenait sous le Haut
Empire à un domaine impérial*, la région d’Akpınar pouvait en faire partie. A
ca. 500 m vers l'Ouest d’Akpınar, dont le nom veut dire “source claire”, se trouve
effectivement une source importante 5°, surgissant d’une dépression circulaire, qui reçoit aussi, par l'intermédiaire d’un ruisseau bordé de saules, les eaux d’une autre source au
pied d’une colline à cinq minutes de marche plus loin à l'Ouest. Si cette seconde source peut tarir au mois d’août, la première coule abondamment en été comme en hiver. L'eau est amenée au village par un canal bordé d’un alignement de peupliers. Elle descend ensuite, dans une rivière qui faisait autrefois tourner une série de moulins à eau, irriguer
les champs du bourg d’Özburun à ca. 6 km au Sud-Est. Si Akpinar est un pauvre village aujourd’hui, la présence d’eau explique l’existence ici d’un site antique °!. De fait, dans le champ entre le village et la source les paysans ont trouvé de gros blocs rectangulaires, et à l'emplacement occupé par le village sont venus au jour des mon-
naies du Bas-Empire et de l’époque byzantine, ainsi que des pithoi, dont l’un (haut d’un mètre) sert encore de récipient dans une maison,
tandis qu’un autre (h. 0,91; diamètre
interne à la bouche 0,31) porte sur sa paroi à nervures les deux lettres E I, grossièrement
gravées (ἢ. 1. 0,033) sous l’ouverture après cuisson (Fig. 11). En labourant un champ près du village, la charrue a accroché une pierre antique (ἢ. 0,135; 1. 0,51; ép. 0,24; h. I. 0,015) cassée à gauche, en bas et à l'arrière, qui n’est autre qu’un élément de stèle-porte (Fig. 12), maintenant conservé au Musée d’Afyon (n° d'inventaire E 9991).
Ce bloc (sorti sans aucun doute des ateliers de Dokimeion), constitué d’un liteau plat
au-dessus d’une moulure décorée d’une rangée de palmettes stylisées, surmontait à l’origi-
4 Voir K. Belke et N. Mersich op. cit., pour Kedrea pp. 297-298, pour Derbent p. 232, pour Phyteia pp. 361362, et pour Özburun p. 354. * Voir la discussion peu concluante de J. Strubbe, Anc. Soc. 6 (1975), p. 247, qui se base sur des hypothèses, pour la plupart sans fondement, émises par W. M. Calder, JRS 2 (1912), pp. 250-251. τῷ Malgré son nom, le village voisin d’Inpinar (“source dans la caverne”), à ca 4 km vers le Nord-Ouest, ne pos-
sède pas de source notable. De toute évidence, les paysans qui y habitaient vivaient non seulement de l'agriculture, mais aussi du päturage: au lieu-dit Tepece Mevkii à environ 4 km au Nord du village actuel se trouve, d'après les dires des paysans, une caverne dans le rocher taillée de main d'homme, comme on en trouve souvent dans le tuf de cette région, assez haute pour qu'on puisse se tenir debout, et assez large pour servir de refuge à plus d'une centaine de moutons.
Huit inscriptions néo-phrygiennes
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Fig. 11 - Pithos vu à d'Akpinar. ne la moulure encadrant les panneaux d’une porte ‘? et devait être encastré dans le mur d’un monument comportant une chambre funéraire ‘*. Sa surface supérieure est grossière-
ment aplanie (on y remarque les traces du ciseau), et sa face postérieure se termine au milieu par un arrondi qui devait servir pour fixer le bloc dans un mur. Bien que les bords droit et gauche soient usés, le bloc est complètement préservé. Sur le liteau prend place une inscription constituant une imprécation en langue phrygienne, qui devait défendre le tombeau. Les formes des lettres s'accordent avec l’aspect plat des palmettes pour dater cet élément de stèle-porte, qui appartient elle aussi au deuxième groupe dans la chronologie de la production de Dokimeion, de la première partie du III° siècle ap. J.-C. PITTOTETTOQMNI(?)
aretop διως
-ca 6/7-1(2)C(2)N «ca 5/6-N(?)[. δ]--
CeuleA]o(c)
nt τετικμενος.
[ertov]
5 D'après les paysans, il existerait d'autres pierres inscrites sous la couche de crépis recouvrant les murs de plusieurs maisons; l'une d'elles pourrait être la porte qui prenait place au-dessous de notre litcau. 53 Cf. les frontons de Philomélion (ci-dessus n. 7) ou d’Aizanoi qui, eux aussi, constituent des blocs travaillés à part.
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€. Brixhe - T. Drew-Bear
Fig. 12 - Texte néo-phrygien n° IV. Le traitement de ce texte doit être commandé par les conclusions à tirer de la description du document : — La pierre correspond au sommet du monument et l’inscription devrait ètre complete en haut; et, si la pierre portait aussi une inscription grecque, celle-ci suivrait l’in-
scription phrygienne (sur cette disposition relativement rare, voir infra texte V et Brixhe
1993, p. 329);
— Les bords gauche et droit sont certes érodés, mais préservés, ce qui interdit tout complément important aux extrémités des lignes ; — Par conséquent, la restitution indispensable de l“auxiliaire” eıtov après le dernier mot visible de la ligne 2 implique l’existence d’une troisième ligne, sur la partie haute de la porte (cf. supra texte II).
Ligne 1. Avant un rhö à la boucle un peu grèle, absence de trace de lettres. - Apres
TOM, N plutôt que H? - Puis longue brèche (6/7 lettres) close par la base d’une haste, à laquelle succède le bas d’une lettre ronde: C ou €. pondre aux restes d’un N ou de N
- Vient ensuite ce qui pourrait corres-
+ | (la haste droite semblant détachée du triangle adja-
cent). - Après quoi, lacune de 5 ou 6 lettres, ponctuée par un N à peu près au-dessus (mais légèrement à droite) du N de la ligne 2. - Si l’on en juge par la ligne 2, à l'extrême bord droit, place pour deux lettres au plus. Il faut savoir résister à la tentation de rechercher du grec dans la sequence TOMN(?),
car ce qui précède ne saurait s'expliquer par cette langue. D'autre part, rechercher dans la partie droite τς (= τὸς, cf. texte III) vi, début le plus fréquent d’une protase d’imprecation, est handicapé par l'impossibilité - faute de la place nécessaire - de retrouver entre cette suite et le verbe final (cf. infra) les mentions habituelles du monument (ceLovv κνουμα-
ver vel simile) et du dommage
(κακοῦν vel simile). Et supposer un déplacement d’un de
ces deux éléments avant 1(0)g vi impliquerait une structure et des lexèmes non attestés jusqu'ici. Alors, avant τ(οὺς vi, épitaphe phrygienne, réduite à des anthroponymes [constructeur(s)/bénéficiaire(s) du tombeau] par exemple, et, ensuite, protase formulée de façon plus ramassée qu’habituellement? En fait, mieux vaut s'abstenir de toute spéculation et attendre la découverte d’un
texte complet susceptible de résoudre les problèmes posés
par celui-ci
Huit inscriptions néo-phrygiennes
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Ligne 2. La ligne pourrait commencer par un A; le complément minimal, Δ, serait
donc à placer à la fin de la ligne précédente, avec non-respect de la coupe syllabique. La protase serait donc close par une 3e personne médio-passive [öJaxetop. Certes cette forme n’est pas encore attestée ; mais l’on a αδδακετορ en face d’addaxet: Saxetop en
face de Saxet ne surprendrait pas (sur les formes évoquées Brixhe 1979, pp. 177-179). Naturellement on n’exclura pas [aô]aketop, avec non-notation de la géminée (sur ce voir Brixhe 1994, $ 5.1.1), impliquée par l’exiguité de la place disponible à la fin de la ligne 1. On a l’impression qu’existe aussi une 3° personne médio-passive en -oy, cf., outre par
exemple les cas détectés par G. Neumann dans l’inscription de Vezirhan (dans ce volume), peut-être αββερετοι (textes n° 91, 113), 1ôetot (texte n° 116, 1. 14). L’existence de
cette finale pourrait faire douter d’une désinence —top et inviter à voir en op non pas un morphème désinentiel, mais une particule. Ce n’est pas le lieu ici de reprendre cette importante question. Nous nous contenterons, après examen du dossier, de constater que la séquence op, chaque fois qu’elle apparaît (dans les textes nos 42, 63, 73, 75, 79), suit
toujours αδδακετ ou αββερετ et paraît bien y être liée, d’où vraisemblablement αδδακεtop et aBBepetop. Plus loin correspond sans doute à un lapsus du graveur, répétant malencontreusement la finale verbale. Auwg est une variante graphique de &eax: sur l’hésitation εἰ, Brixhe 1983,
119. Après ζεμίελ), partie droite d’un Q plutôt que d’un O, à
cause de duc, encore que la graphie ne soit pas toujours homogène, cf. les textes n® 6 (GeneAw/deog) et 39 (διοςίσζεμελως). Autre bévue: à la fin du mot, € pour C. Les erreurs sur les lettres rondes ne sont pas le monopole des épigraphistes (Brixhe 1994, $ 4 sqq.),
cf. e.g. dans le texte n° 111 BCKOC pour BEKOC. Auwg et Ceu[eA]o(c) sont ici en asyndète, voir Brixhe 1978/1, 1. Ligne 3. La ligne 2 s’achevait probablement avec τετικμενος: l'impératif eıtov attendu devait donc être sur une troisième ligne, disparue avec la porte (cf. supra).
V. Région de Polybotos Dans une fontaine (gesme) du village d’Özburun mentionné ci-dessus, au lieu-dit Kaklık Mevkii, se trouve une double stèle-porte (Fig. 13) de basalte gris (ἢ. 1,25; 1. 1,48;
ép. 0,50; h. 1. 0,03). Les deux portes, séparées par une vrille de vigne, sont entourées par trois bandeaux, dont le supérieur porte une inscription phrygienne suivie d’une inscrip-
tion grecque. Dans les panneaux des deux portes sont représentés en haut à gauche un heurtoir rond et à droite une plaque de serrure se terminant en feuilles aux angles. En bas à gauche sur la porte de gauche se trouve une rosette à quatre feuilles, sur la porte de droite un tourbillon usé dans un disque rond. Le panneau inférieur droit de la porte de
gauche est décoré d’un losange rhomboïdal avec un tourbillon au centre, tandis que l’objet dans le panneau correspondant sur la porte de droite est usé (une vrille de vigne?). Ce monument funéraire, qui d’après les habitants d’Özburun proviendrait du lieu-dit
%
€. Brixhe - T. Drew-Bear
Fig. 13 - Stele-porte n° V. Yanal Mevkii dans le territoire du village de Derbent ‘*, a été inséré dans son cadre typologique par T. Lochman et daté, dans le courant du développement artistique des motifs, des alentours de 190 ap. J.-C. “᾿ς, Au-dessous d'un texte phrygien de deux lignes (Fig. 1415) on lit une épitaphe grecque de la même longueur (Fig. 16-17). Lol [oe]povv [kK]vovpaver κακοῦν [- -- -- ἸΔΙ-- -- -- -
JEUTOU νας, [Ἀλ]έξανδρος ᾿Αλεξάνδρου καὶ Tata σύμβιος αὐτοῦ. ζῶντες ἑαυτοῖς μνήμης χάριν
La zone où est gravée le texte phrygien est très érodée. Les lettres semblent être de tailles irrégulières : plus petites à partir du Y de [x]vovpovet. Ligne 1. Le sigma visible non loin du début semble trop éloigné du nu suivant pour appartenir au même mot que lui: d'où la restitution proposée ici avec [το]ς, seul, au début
* Voir la description de ce site donnée par Th. Drew-Bear et Chr. Naour, “Divinities de Phrygie” dans ANRW 11 18.3 (1990), pp. 1917-1918:
ne.
ces auteurs ont pu y localiser un sanctuaire de Zeus et un habitat de l'époque romai-
“Th. Drew-Bear et Τὶ Lochman, “Grabreliefs aus Amorion, Orkistos und der antiken Siedlung von Bagle
Zeugen verlorengegangener Grabbauten”,
Arkeoloyi Dergist 4 (Izmir 1996), pp. 109-134 (sur cette pierre: p. 123 n°
3, avec la pl. XXI. Comme il est évident d'après divers passages en allemand, en grec et même en turc, cet article a été publié sans que les auteurs aient vu d'épreuves.
“anosp atared 19 jenu23-2qones sonsed ‘À „u 5918 XI] — 21-91 “BU
auosp anzed 19 jenuss-ayones sanıed ‘A zu 218 A1Yd-09U XI] — ST-41 “814
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C. Brixhe - T. Drew-Bear
de la protase (cf. Brixhe 1978, 16). - Après kaxouv et une lacune, un A très net pourrait
orienter vers [a8]$[axet]. - Ensuite, traces de lettres non identifiables.
Ligne 2: close par eıtov, aucun vestige de lettres. Nous sommes donc en présence de l’imprécation lacune de la fin de la ligne 1 et dans celle qui précède quelque chose comme dewg-LeneAwg (entités auprès devait être maudit) et τιτ τετικμενος, participe parfait
néo-phrygienne standard. Dans la eıtov à la ligne 2, il faut supposer desquelles l’éventuel déprédateur précédé de la particule emphatique
τι(τ) (sur elle voir Brixhe 1995, $ 5.1.4).
Ainsi, le texte phrygien précédait ici le texte grec, cf. supra commentaire de IV.
VI. Territoire d’Amorion Dans le village de Davulga au Sud-Est de Hisar Kôy, site de la ville romaine et byzantine d’Amorion, est un bloc rectangulaire de marbre blanc utilisé comme banc devant la maison de Hasan Oguz (ἢ. 0,43; 1. 1,32; ép. max. 0,26; ἢ. I. 0,02), qui porte la moitié droite d’une épigramme funéraire en langue grecque au-dessus d’un listel en haut relief dont la surface a été martelée. A droite de ce listel, entre celui-ci et une couronne en relief surmontée de deux bandes d’étoffe, se trouve au centre du bloc une inscription en langue
phrygienne qui constitue une malédiction destinée à protéger la sépulture. Une moulure en forte saillie qui couronnait le bloc en haut a été arasée, et la pierre a été endommagée à mi-hauteur du bord droit (Fig. 18). A côté de ce linteau gisait un deuxième bloc rectangulaire, qui ne semblait présenter
aucun intérêt particulier. Mais quand ce bloc fut retourné, sur les indications du propriétaire de la maison, il s’est avéré que sur la face cachée contre terre se trouvait un dispositif symétrique à celui du précédent (Fig. 19): à droite d’une couronne en relief surmontée de deux taeniae prend place, au-dessus d’une moulure et d’une rangée de denticules, la partie gauche du même listel dont la surface a été martelée, au-dessus duquel est gravée la moitié gauche de l’épigramme. Il subsiste la moulure de couronnement (ἢ. 0,43; |. 1,02; ep. 0,32). A
l’origine c'était un seul bloc, cassé postérieurement en deux morceaux, qui
devait faire partie d’un ensemble monumental en tant que linteau au-dessus de l’entrée d’une chambre funéraire.
L'épigramme grecque (Fig. 20: détail de la partie droite) se compose de deux distiques élégiaques, dont le début des pentamètres est gravé en retrait, comme
il arrive souvent,
par rapport au début des hexamètres: Σύμφωνος
Πρεῖϊμία τ᾽ Al/povvmor odg
κτερίσας
ἐνθάδε
μί......1 τῇδε
κεῖνται
κόνει
πέτασεν.
Εὕὔτακτος υἱὸς dpi[oto]k£ .. στο νέας προπόλοιο 4
τειμήσας
τειμαᾷς μμνημοσύνης
ἕνεκεν.
L. 1: il reste la partie inférieure de la haste du rhö — L. 4: Il reste la partie gauche de l'alpha, la barre droite des deux nus et les barres verticales de l'éra.
Huit inscriptions néo-phrygiennes
Fig. 20 - Epigramme grecque n° VI, partie droite.
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Le texte présente des lignes de réglage, qui sont régulièrement dépassées en haut par l’une des hastes obliques des lettres triangulaires. Cette caractéristique, ainsi que les barres horizontales des alpha et epsilon qui ne rejoignent pas les hastes obliques et droite, incitent à attribuer à cette inscription une date bien après le début du III siècle. “Ci-gisent les Aruntii Symphonos et Prima, que [ - - - ] a ensevelis et étendus ici dans la poussière.
Eutaktos fils excellent [ - - - ] de la jeune servante 4
en les honorant avec des honneurs pour leur mémoire”.
L’anthroponyme Σύμφωνος n’est pas fréquent 5. Pour le sens on peut rapprocher le nom féminin ‘Appovia 5”. Ce nom est attesté, sinon à Delphes 5#, certainement à Rome,
dans les deux langues 5°, et à Alexandrie (un citoyen romain) 9°. La deuxième syllabe du nom latin Prima est brève, contra metrum, ainsi que cela peut arriver avec les noms propres (comme Eutaktos ici) dans les épigrammes lapidaires δ". La famille portait le gent romain Arruntius 52, bien connu en Asie Mineure 83.
% Sur une monnaie de l'ile de Pordosilöne, datant du règne de Septime Sévère, P. M. Fraser et E. Matthews, A Lexicon of Greek Personal Names 1 (Oxford 1987), p. 416, rétablissent le nom “Euyguvivoc?" d'après le recueil de Mionnet, II, p. 629 n° 733. Cet anthroponyme est absent de R. Münsterberg, Die Beamtennamen auf den griechischen Münzen (Vienne 1911-1927, réimpr. Hildesheim - New York 1973), qui enregistre “ἐπ στρ Συπφωνίνου Mr. 11 629 (C)”, mais cf. p. [273] = 97: “ein dem Zitat aus Mionnet beigefügtes Clousinéry]... gilt als Warnungszeichen.” 7 Il existe aussi l'équivalent féminin, p. ex. IG V.1 539 (à Sparte) Avp. Evugolvia]: A. 5. Bradford, A Prosopography of Lacedaemonians (Munich 1977), p. 386, cf. IG IX.2 641 (à Larisa): Euuguvnv?, mais voir W. Peek, Griechische Vers-Inschriften 1 (Berlin 1957), n° 1624 pour d'autres conjectures. En Egypte, à Oxyrhynchos, a été préservée la signature de Αὐρήλιος Συμφωνίας υἱὸς ‘ABpaopiov (P. Oxy. 16 1899, en 476 ap. J.-C.). 51 Déjà M. Lambertz, “Die griechischen Sklavennamen”, LVIII. Jahres-Bericht über das k. k. Staatsgymnasium im VIII. Bezirke Wiens (Vienne 1908), p. 6, classait cet anthroponyme parmi les noms d'esclaves tirés d’adjectifs désignant de bonnes qualités, d’après une inscription de Delphes qui enregistre les nouveaux noms attribués aux esclaves dont le roi de Bithynie Nicomède III venait de faire don à la cité, οἷς ὀνόματα τὰ μετο[νομασθέντα... La même attestation est enregistrée dans SGDI 2738, 1. 19: Σύμφωνίον), et dans OGIS 345, comme par F. Bechtel, Die historischen Personennamen des Griechischen bis zur Kaiserzeit (Halle 1917), p. 413; mais G. Colin, FD ΠῚ 4.1 n° 77, y a lu: Νυμφῶνία (avec un faux accent, car dans le nom Νύμφων l'accent remonte, selon la règle générale), ce qui semble être confirmé par la photographie d'un estampage pl. XI.3. # Parmi les anthroponymes tirés de “caractéristiques morales et sociales” H. Solin, Die griechischen Personennamen in Rom: Ein Namenbuch (Berlin - New York 1982) Il, p. 736, enregistre trois attestations de Σύμφωνος et Synphonus. @ SB IV 7366 C 49 (139 ap. J.-C.) Πούπλιος Αἴλιος Σύμφωνος. #1 Bien que la forme masculine du nom soit susceptible d'éviter l'entorse à la métrique, la largeur des lacunes dans les lignes suivantes semble imposer une restitution brève ici. D'autre part, en supposant qu'il s'agisse du feminin, on obtient un couple, ce qui semble cadrer avec la mention du “fils” à la 1. 3. Avec la restitution adoptée, qui semble la plus courte susceptible de comporter les deux syllabes exigées par la métrique, certe ligne compte 37 lettres alors que la ligne suivante en a bien moins, ce qui est normal parce que celle-ci commence en retrait et se termine à gauche de la ligne 1. & A la place de ce gentilice on pourrait songer aussi à un démotique se rapportant à un village, dont le nom serait autrement inconnu, du territoire d’Amorion. © Des atrestations de ce nom en Asie Mineure ont été rassemblées par M. Christol et Th. Drew-Bear, Tyche 1 (1986), pp. 57-59, dont plusieurs sont orthographiées avec un seul rbo. Rajouter à cette liste un évergète de la ville de Prymnessos: W. J. Hamilton, Researches in Asia Minor, Pontus and Armenia Il (Londres 1842), p. 436 n° 170 (CIG Il add. n° 3882 d); la famille des Arruntii établie à Iconion: L. Robert dans Laodicée du Lycos, Le Nymphée, éd. J.
Huit inscriptions néo-phrygiennes
101
Le verbe κτερίζω, déjà homérique, se trouve naturellement dans les épigrammes funéraires 64; mais le verbe πετάννυμι s'emploie normalement dans de sens de “ouvrir, répan-
dre” 65. Une épigramme funéraire à Halicarnasse comporte une fin de pentamètre avec le même sens: τῆιδε κέκευθα κόνει “6. Cf. à Rome une fin de pentamètre analogue: τήνδ᾽ ἐπέθοντο κόνιν 57.
L'inscription phrygienne (Fig. 21), bien qu’imparfaitement conservée dans sa partie centrale à cause des frottements dont la surface inscrite a souffert, peut être restituée avec assez de certitude parce qu'il s’agit de formulaires déjà bien connus par ailleurs: τος vi σεμίουν xvov]paver xax[ovv ad] δίακ)ετ
TIE TIT FEFKHEVOS eut{ov]
L.1:.Du mu final subsiste, d'après l'estampage, la jambe droite et la base de la gauche.— L. 3: Il reste la partie supérieure des lettres pointées. Les restitutions proposées ici s'appuient sur les statistiques: ainsi GEHOUV et κακοῦν sont très largement majoritaires par rapport à σεμὸν et κακὸν; et aussi sur la longueur
Fig. 21 - Texte néo-phrygien n° VI. Des Gagniers et al. (Paris 1969), p. 360 n. 4; et un Arruntius à Salimia dans la steppe Iycaonienne: Th. Drew-Bear, Gnomon 59 (1987), p. 605 n. 4. # Par exemple L. Moretti, I. G. Urbis Romae III (Rome 1979), n° 1149 Il. 7-8: οὖς κτερέϊξε / χερσὶ φίλαις, θυγάτηρ.
“" On est tenté de rapprocher une formule homerique (Il. 4. 522-523 et 13. 548-549), où ces deux mêmes mots apparaissent à proximité l'un de l'autre: ὁ δ᾽ ὕπτιος ἐν κονίησι / κάππεσεν, ἄμφω χεῖρε φίλοις ἑτάροισι πετάσσας. Cette juxtaposition des deux mots a pu rester dans l'esprit du rédacteur de notre épigramme. Mais comme le remarque Eustathe sur cette formule dans ses Commentaires sur l'Iliade I, p. 800 Il. 8 sqq., τὸ δὲ πετάσαι τὰς χεῖρας δηλοὶ
μὲν τὸ ἀπλῶσαι οἷα πτέρυγας.
= P. A. Hansen, Carmina Epigraphica Graeca Saeculi IV. a. Chr. n. (Berlin - New York 1989), n° 709. # Moretti, I. G. Urbis Romae Ill, n° 1162.
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C. Brixhe - T. Drew-Bear
des lacunes et les restes de lettres: à la fin de la I. 2, Saxet est théoriquement possible,
mais trop court; la forme à préverbe aò- s'impose donc; en raison de l’espace à combler et de la fréquence de la forme, on préférera αδδακετ
(une trentaine d’occurrences)
à
adaxet (une vingtaine). Les trois premières lignes comportent ainsi respectivement 17, 16 et 16 lettres. Sur la segmentation me tıt KTA., voir supra sous le texte I (tin τιτ κτλ.).
Le caractère original de l’épigramme, rédigée pour cette occasion, à côté du formulaire de l’imprécation qu’on retrouve dans maintes inscriptions funéraires bilingues, permet de conclure que la langue parlée par les personnes responsable de cette épitaphe dans le voisinage immédiat de l’importante ville d’Amorion était le grec %, tandis que le phrygien
était conservé en tant que langue sacrée, qui donnait à la malédiction toute sa puissance. VII. “Pissia” Au village d’Agagi Piribeyli ‘’, situé à la base des contreforts de l'Emir Dag au bord de la grande plaine qui s'étend à l’Est de Davulga et d’Amorion, se trouve dans la cour de la mosquée un bloc de marbre blanc qui proviendrait, d’après les habitants, de l’ancienne mosquée
récemment
démolie
et remplacée
par le bâtiment
actuel. Ce bloc
(h. 1,10; I.
1,72; ép. 0,50; ἢ. 1. 0,04), qui faisait certainement partie d’un édifice funéraire, porte une
épitaphe grecque suivie d’une imprécation en langue phrygienne (Fig. 22): [A]p. Mevéag Mara καὶ Kupiwv ὁ υἱὸς αὐτοῦ [κ]αὶ ἡ σύνβιος Κουιντιανὴ ζῶντες 3
κατεσκεύουασαν ἑαυτοῖς μνή--
μῆς χάριν. © log où του copou κακε αδδακετ με ζεμελως οτ τιτ τετικμε-6
$ νος ELTOU
Le Les deux textes sont séparés par une feuilles d'autres feuilles encadrent la dernière ligne, er une quatrième, bien plus grande que les autres, occupe la partie inférieure du champ inscrit. — L. 3: Il reste la partie supérieure de l'alpha. On remarquera alpha et delta dont la haste oblique droite dépasse parfois celle de gauche, epsilon et éta dont la barre centrale ne touche pas les autres traits, upsilon dont
la haste verticale est barrée par un trait horizontal, et oméga angulaire: formes de lettres qui dans leur ensemble indiquent pour cette inscription une date qui ne serait pas antérieure au III‘ siècle.
= Pour le cas analogue d'une épigramme grecque suivie d’une imprécation stéréotypée en phrygien au village d’Asatı Piribeyli, dont il sera question ci-dessous, voir W. M. Calder, Rev. Phil. 46 (1922). pp. 123-124, n° 7 (Haas, n° 82) *° “Piribeyli d'En Bas”, dans la sous-préfecture d'Emirdaÿ et la province d'Afvon: à distinguer de Yukan Piribeyli, “Piribeyli d'En Haut”, village voisin rattaché administrativement, suite à des désaccords entre les habitants des deux localités, à la sous-préfecture limitrophe de Yunak dans la province de Konya.
Huit inscriptions néo-phrygiennes
103
Fig. 22 - Bilingue gréco-phrygienne n° VII. La graphie kateoxevovaoov, bien attestée par ailleurs, reflète la prononciation “haute” de la diphtongue eu devant voyelle: [euw], avec “glide” noté ov 7°. Le même
niveau de langue se retrouve dans la graphie Κουιντιανή, avec la notation la plus précise qui soit de l’appendice labiovélaire latin. Le texte phrygien rentre pour l’essentiel dans le cadre des formulaires connus. Pour le renforcement, par τοῦ, du démonstratif ca, voir supra sous le texte II. Zopov est le datif
d’un emprunt au grec σορός, sans changement de genre, qu’on retrouve dans le texte n° 21
(infra) fourni
par le même
site; il s'agit d’un
emprunt
ancien, puisque
déjà présent
dans le document hellénistique de Dokimeion: |. 2-3,ev | [σ]α σοροι (-o:i > -0: > -u, d'où Gopov à l’époque romaine).
Le seul point notable est l'apparition du monème ot, que l’environnement permet d'isoler à coup sûr, sans qu’a priori on puisse envisager l'hypothèse d’une erreur du rédacteur ou du graveur. Cette unité n’est peut-être pas nouvelle : — Haas croyait déjà trouver une séquence identique dans le texte n° 92 (un peu au Nord-Ouest du lac d’Egridir), où il lisait, I. 15, xe ot ekteu[oet ?], suggérant de voir après
ot un verbe grec; la segmentation de cette séquence mutilée (cf. MAMA
n’est pas évidente.
” Voir la discussion par Brixhe 1987, pp. 58-60.
IV 116, pl. 30)
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C. Brixhe - T. Drew-Bear
— Mais les textes n® 18 et 69, géographiquement très éloignés (respectivement Bayat et Kadinhani), présentent deux suites de lettres, où il n’est peut-être pas absurde de chercher notre mot: OKAYFOCI
(n° 18) et OKKAYTOI
(n° 69), où, à cause de la géminée
graphique KK, il est difficile de reconnaître avec Haas (p. 72) un lexème avyovavyogi; il faut à peu près sûrement identifier un kavyovkavyoaı, précédé éventuellement de ot, avec assimilation de t au k et notation ou non de la géminée (sur ce point, Brixhe 1994, $ 5.1.1). — Diakonoff (o.c., 128), qui n’a pas remarqué ces formes, a cru identifier un ot en
paléo-phrygien: en P-04a, |. 4, en début de ligne devant une lacune et après tekmor (fin 1. 3); aussi en B-01, 1. 7, après matar et devant okonov/-]. Dans les deux cas, l’obscurité des
contextes impose la prudence. Restent donc en lice les textes n* 18 et 69 et notre nouveau document: dans ce dernier ot pourrait bien être un adverbe. Dans les n° 18 et 69 (contextes très incertains), si
καυγουκαυγόσι est un élément nominal, on a a priori le choix entre une préposition et le
premier membre d’un composé; on rejettera la première hypothèse, parce que, si -οσι peut être un datif pluriel (sur -ωσι, Brixhe 1990, 96), ot ne peut être un datif singulier, lequel est devenu -u, écrit -ov à cette époque (cf. ici-même σὰ του σορου): ce serait donc
un nominatif pluriel, d’où pour okkavyot et οκαυγοσι respectivement nominatif et datif pluriel d’un composé à premier élément ot-? Quel serait l’étymon de cette unité, préposition ici et adverbe là?
On constate dans cette famille, comme il arrive assez souvent dans les épitaphes de la Phrygie ”', un mélange d’onomastique grecque, latine et indigène. Dans ce village ont déjà été trouvées d’autres inscriptions phrygiennes (textes n° 20, 21, 82, 104), dont notam-
ment une épitaphe grecque, suivie une fois de plus d’une imprécation en phrygien, qui émane de la même famille 72:
4
Adp. Κύριλλα Μύρωνος σύμβιος Αὐρ. Παπα Μενέ-ov τοῦ καὶ Κυρίωνος καὶ Anπας γαμβρὸς αὐτῆς καὶ Τατ-αἡ σύμβιος αὐτοῦ ζῶντες κατεσκεύασαν τῇ μητρὶ τὴν σορόν. log ca σορου κακε
8
αδακετ με ζεμελως τιτ τετι--
κμενος εἴτου. Notons que dans ce texte grec le “sarcophage” est désigné par τὴν σορόν, auquel répond ca copov dans l’imprécation phrygienne. Notre nouveau document vient appor-
71 Cf. Th. Drew-Bear, Nouvelles inscriptions de Phrygie (Zutphen 1978), p. 55, sur les “noms d'origine latine qui sont passés dans le système onomastique grec et utilisés de la même façon que les noms proprement grecs”, à côté des “noms d'origine indigène, en fait presque tous des ‘Lallnamen”.… qui ne passaient sans doute pas pour être vraiment ‘indigènes’, par opposition aux noms grecs.” 72 Ramsay 1887, pp. 396-397 n° 21 (seule édition d’après la pierre); cf. du même,
p. 176; Friedrich, pp. 131-132; Haas, p. 117.
1905, col. 117; Calder 1911,
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ter une deuxième attestation de ce mot, qui se trouve en langue phrygienne de l’époque romaine uniquement dans les deux épitaphes de cette famille. Déjà dans son editio princeps de ce texte, W. M. Ramsay ”° avait identifié copov comme un emprunt en phrygien
du terme grec qui signifie “sarcophage”. Qui plus est, Ramsay écrivait qu’il avait copié cette inscription “in a panel on the side of a large sarcophagus, in distinct letters of late style.” Mais dans le nouveau document, si la partie phrygienne fournit une formule pres-
que identique, ca τοῦ σορου, l’épitaphe grecque ne désigne pas le monument. En effet, la nouvelle inscription a comme support un très gros bloc rectangulaire - qui a pu, bien sûr, appartenir à un édifice funéraire (comme dans le cas du texte VI) auquel appartenait un sarcophage, comme on en a des exemples bien conservés par exemple à Hiérapolis en Phrygie du Sud-Ouest ”*. Quant à l'identification du site antique à Agagı Piribeyli, rien ne nous oblige à accepter la deuxième hypothèse émise par W. M. Ramsay ” et suivie (après une suggestion divergente) 75 par W. M. Calder 77, comme déjà, avec une certaine hésitation, par J. G. C.
Anderson 78, mais restée inconnue de L. Zgusta ”°, que “Piribeyli itself was proba-
” Loc. cit.: “sopov is borrowed from the Greek, and this is one of the traits which prove that these inscriptions are written in a living spoken language.” Ramsay a été suivi par Haas, p. 79. * Voir les photographies de tombeaux à Hiérapolis par L. Robert chez J. Kubinska, Les monuments funéraires
(ci-dessus n. 11), pl. VIII et IX, avec le commentaire aux pp. 73 sag. (voir aussi pp. 32-35, pour l'emploi de σορός en Asie Mineure).
* Historical Geography (ci-dessus n. 20), pp. 232-233. Ici Ramsay ne mentionne même plus sa première identification du site d’Asagı Piribeyli, 1887, p. 396, comme “the site of Pitnisos or Petinessos (mentioned by Strabo, a bishopric in Byzantine times)”, qu'il donnait pourtant là comme une certitude, sans indiquer toutefois ses raisons. On soupçonne que la principale de celles-ci était que les deux toponymes, Piribeyli et Pitinissos ou Pitanissos ou Petenissos, commencent (peut-être) par la syllabe Pi-. On cherche cette ville vers la frontière entre la Galatie et la Lycaonie, à l'Ouest du lac Tatta: voir L. Zgusta, Ortsnamen, et K. Belke et M. Restle, Galatien und Lykaonien, s. n. 76 Dans JRS 2 (1912), p. 257, où il publia l'inscription qui apporte la localisation de Phyteia (ci-dessus n. 48)
entre Polybotos et Amorion, après avoir admis lui-même que “further conjecture is extremely hazardous”, W. M. Calder ne pouvait s'empêcher d'identifier Pissia avec Phyteia, tout en plaçant cette Pissia / Phyteia à Bayat, de l'autre côté des montagnes Sam Dagi qui précisément séparent la région de Phyteia, comme nous l'avons vu dans la Section IV ci-dessus, de celle de Kedrea. La raison donnée par Calder pour cette identification est savoureuse: “Pissia must be placed at Bayat, the only place in this region whose remains admit the possibility that it may have been a bishopric.” Or c'est précisément la même raison qui avait été invoquée par Ramsay pour placer Pissia à Asagi Piribeyli! En réalité, Bayat est le site du village des Etsyenoi, connu par une dédicace de l'époque romaine: voir en dernier lieu Th. Drew-Bear et Chr. Naour, “Divinités de Phrygie” dans ANRW Il 18.3 (1990), pp. 1949-1951. Calder lui-même abandonna tacitement cette hypothèse par la suite (il n'en fait aucune mention dans sa rapide énumération des sites antiques visités pour MAMA VII: voir la note suivante). ? MAMA VII (Manchester 1956), pp. xx-xxi. Ainsi toutes les inscriptions de la region de Piribeyli et des villages voisins sont-elles mal classées dans ce volume, aux pp. 56-63, dans un chapitre à part intitulé: “Pissia (?).” C'est l'occasion de rappeler l'explication du texte n° 2794 à la p. 62, dans le village de Kargalı au Sud de Piribeyli, où W. M. Calder a lu: “Εἰσταυρίω προχιμένω. ἢ τι κακὸν ἢ τι πονηρὸν ΠΑΡΕ KOY [ - - .” L'éditeur donne un fac-similé (à la p. 135) d'après sa copie prise en 1913, qui montre les deux premiers mots inscrits au-dessus d'une croix dans laquelle est gravé un chi. Dans ces conditions, on interpretera le premier mot comme σταυρίον “petite croix” (avec iota prothétique, comme souvent). Il s’agit d’un linteau de porte sur lequel on a fait un usage apotropaique de la Croix comme l'a vu L. Robert, Hellenica 13 (Paris 1965), pp. 265-271, qui écrit παρέρκου, c'est-à-dire παρέρχου.
On traduira donc: “La Croix étant par-devant (datif pour génitif, confusion bien attestée en Phrygie), mal ou méchanceté, va-t-en!” Voir maintenant sur cette formule M. W. Dickie, Bull. Amer. Soc. Papyr. 30 (1993), p. 65.
7 A propos de cette localisation Anderson écrivait d'abord, JHS 19 (1899), p. 306: “not sufficient evidence to fix with certainty.” Mais malheureusement à la n. 1 de cette même page il modifie son jugement, après une enquêre
106
C. Brixhe - T. Drew-Bear
bly Pissia”, évêché connu par les Notitiae episcopatuum. Ramsay argumentait que “Pissia was probably situated at Piri-bey-li on the road from Amorion to Philomelion, about twelve hours from the latter and six from the former. The remains here are sufficient *° to mark it as a place sufficiently important to be the seat of a bishop, and its situation on the road between Philomelion and Amorion proves that it must belong to the same local group of bishoprics.” Mais il faut objecter, une fois de plus, ®' qu’à la difference du Synekdeme d’Hiéroclès, les Notitiae episcopatuum ne rangent point les cités
en ordre géographique, puisqu'il s’agit strictement de listes de préséance ecclésiastique. Ainsi l'argument de Ramsay est-il caduque: selon lui, puisque Piribeyli se trouve sur la route entre Amorion et Philomélion, et qu’il existe à Piribeyli assez de restes chrétiens pour qu’il ait pu être le siège d’un évêché, l’évêché qui devait s’y trouver devait dépendre de la même métropole que les deux autres cités. Mais bien qu’Agagı Piribeyli se trouve près d’une des routes possibles entre Amorion et Philomélion, il n’y a pas davantage de restes chrétiens dans ce village qu’à maint autre endroit dans cette région, où abondent les pierres architecturales des époques paléochrétienne et byzantine. De même, on ne peut utiliser la localisation géographique d’Asagi Piribeyli pour appuyer la localisation de Pissia à cet endroit précis: car le même argument vaudrait autant pour n'importe quel autre site avec restes chrétiens entre Dokimeion et Philomélion. Il n'existe donc aucun élément spécifique qui milite en faveur d’une localisation de Pissia à Piribeyli. Mais on connaît depuis longtemps une communauté d'époque romaine, au pied du Sultan Dag entre Philomélion et Hadrianoupolis, qui s’appelait le δῆμος des Πεισεανοί, et dont le nom était conservé jusqu’à nos jours sous la forme de Bisse, avant
d’être remplacé par celui, au sens banal et transparent en turc, de Camlı (“pinède”)"2, Il
qu'il avait menée au Nord-Ouest d’Amorion, qui “shows that only small villages existed there”. Pour trois sites antiques dans cette région voir Th. Drew-Bear, “Trois villages de Phrygie” dans les Mélanges Z. Tagliklioglu (sous presse depuis 1991). De l'absence de trouvailles importantes dans cette région Anderson tirait la conclusion que “The identification [de Pissia] with Piribeyli seems, therefore, practically certain.” Pourtant, le fait d'admettre que Pissia ne se trouvait pas au Nord-Ouest d'Amorion ne devait pas entraîner la conclusion que le site de cette localité était nécessairement à Agagı Piribeyli et pas ailleurs. ” Voir les notes 88 et 99 ci-dessous. On ne suivra pas L. Zgusta dans sa tentative de donner à ce toponyme une étymologie grecque: il veut le faire dériver du nom commun πίσσα “poix, résine”. % Voici la description de J. G. C. Anderson, loc. cit.: “Under the western corner of the Seifi Öreni ridge, in a
favourable situation... is an extensive site on both banks of the stream which comes down from Yokaru Piribeyli and waters the gardens of the village. Both the village and the cemeteries are full of remains of all sorts; on the slopes on the south side of the stream there are numerous ‘door-stones' lying about, probably in their original position; and on a round hill beside them large squared blocks may still be seen in situ. Clearly this was a town of some importance.” Le bourg moderne, bien que sa population ait diminué depuis une vingtaine d'années à cause d'émigration en ville et en Europe, a utilisé comme matériaux de construction les pierres mentionnées par Anderson, et peu de celles publiées dans MAMA VII sont conservées. Seront données ailleurs une description (avec photographies) des restes antiques qui subsistent aux alentours, et des photographies de quelques stèles-portes inédites. x! Voir L. Robert, Villes d'Asie Mineure (Paris 1962), p. 428. * Déjà M. H. Ballance, apud K. Belke et M. Restle, Galatien und Lykaonien, p. 134, et K. Belke et N. Mersich, Phrygien und Pisidien, p. 362 qui le suivent, “vor allem auf der Ähnlichkeit der Namen (Pissia-Bisse)”, abandonaient la localisation de l'évêché à Asagı Piribeyli en faveur de celle à Bisse. Mais voir ce qu'ont fait remarquer J. et L. Robert, “La persistance de la toponymie antique dans l'Anatolie” dans les Actes du colloque de Strasbourg 1975 La toponymie antique, pp. 26-27, en condamnant “l'ignorance de la première règle essentielle, règle d'or et règle de fer,
Huit inscriptions néo-phrygiennes
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faut souligner que le nom du δῆμος des Πεισεανοί est attesté, non pas par une dédicace à une divinité locale - dont les sanctuaires pouvaient se trouver dans de petits villages, ou même dans la campagne #3 - mais par une inscription honorifique sur la base de la statue d’un empereur. Or la présence d’une telle statue implique l’existence d’un centre administratif jouissant de revenus suffisant pour en payer les frais. Il doit s’agir du chef-lieu d’un domaine impérial, dont les habitants érigèrent la statue de l’empereur parce qu’il était leur maître. On peut conclure que ce petit centre, qui n’avait pas le statut de ville à l’époque romaine, fut promu au rang d’évêché - dernier en rang parmi les suffragants d’Amorion - et donc de cité à l’époque byzantine.
En effet, Pissia paraît pour la première fois dans la Notitia 4 selon le classement de J. Darrouzès #, qui remarque ad loc. que “Pissia est un nouvel évêché; le nom du moins ne figure ni dans les listes conciliaires # ni dans les notices.” Le classement est le suivant: 34° et dernière métropole est celle de ᾿Αμορίου, dont les suffragants sont, dans l’ordr: Φιλομηλίου, ὁ τοῦ Aokıniov, ὁ KAavéov, ὁ Πολυβότου, ὁ Πισσίας. Le site de Philomélion est certainement ἃ Aksehir ®, celui de Dokimeion ἃ Iscehisar, et celui de Polybotos à Bolvadin, tandis qu’on a placé Klanéos vers le Sud-Est de Piribeyli au pied
des contreforts de l’Emir Dag, en bordure d’une plaine qui marque de début de la grande steppe “axylon” #7. Pissia, le dernier en rang des cinq évêchés attachés à la dernière en rang des 34 métropoles dépendant du Patriarche de Constantinople, n’était certainement pas un bourg très important "δ, Cet évêché paraît encore, au même rang parmi les suffragants d’Amorion, dans les Notitiae 7 (du patriarche Nicolas I, au début du Xe siècle), 9, 10, et 13%.
dirons-nous... On rencontre à tout instant ces expressions: ressemblance, ‘Ahnlichkeit*.. “Gleichklang‘... adaptation, déformation, pure corruption, ‘Verderbnis’... Il y a maldonne. Foin des ressemblances! II s'agit, dans les meilleurs cas, de constater une identité” (avec les réflexions de méthode qui suivent). Tel est effectivement le cas ici. # C'est le cas, par exemple, du sanctuaire de Zeus Andreas dans le territoire de la cité d’Appia en Phrygie du Nord: voir provisoirement L. Robert, Documents d'Asie Mineure (Paris 1987), p. 387. * Notitiae episcopatuum (supra n. 21), p. 260, 1. 482; quant à la date, cette Notitia serait (p. 45) “proche du
concile de 869.” * Mais K. Belke et N. Mersich, Phrygien und Pisidien, p. 362, citent un évêque Michel au Synode de Constantinople en 879/80. * Pour la première inscription sur place (dans le village de Gôlçayir, au Nord-Ouest d'Akçehir) mentionnant le nom de Philomélion, qui se trouvait sur la grande route depuis la plaine du Caÿstre jusqu'à Ikonion, voir Th. DrewBear, Chr. Naour et R. 5. Stroud, Arthur Pullinger: An Early Traveller in Syria and Asia Minor, Transactions of the American Philosophical Society (Philadelphia 1985), pp. 64-65. # Voir essentiellement W. M. Calder, MAMA VII, p. XX, suivi par K. Belke et M. Restle, Galatien und Lykaonien, p. 191.
% Notons pour mémoire que Nicétas Choniatès, dans son récit des aventures militaires du faux Alexios II en 1190, mentionne un φρούριον Πίσσα, qu'on ne peut localiser dans la région d'Apollonia (voir ci-dessous n. 100) malgré la tentative de W. M. Ramsay, Cities and Bishoprics of Phrygia 1.1 (Oxford 1895), pp. 186-187: car ce conflit s'est déroulé dans la vallée du Méandre. Voir J. Keil dans RE XX.2 (1950), col. 1806, qui juge cette localisation “nicht sehr überzeugend”, et la bibliographie sur cette guerre chez K. Belke et N. Mersich, Phrygien und Pisidien, p. 122 (qui ne mentionnent pas Pissa). L. Zgusta, Kleinasiatische Ortsnamen, p. 497, classe à tort ce toponyme avec celui de l'évêché de Πισσία, qui se trouvait, nous allons le voir, sur les frontières de la Phrygie et la Lycaonie, loin de la vallée du Méandre et loin de la région d’Apollonia. # Respectivement p. 286, 1. 659 (variantes: Πισσείας, Moovag); p. 305, 1. 533; p. 331, 1. 639; et p. 365, 1. 703. Pour la date des Notitiae 9 et 10, qui sont des compilations traversant les siècles, voir les discussions de J. Darrouzès,
108
C. Brixhe - T. Drew-Bear
Or Darrouzès remarque ἢ, à propos de la nouvelle éparchie d’Amorion en Galatie Seconde, que celle-ci “comprend un évéché de Galatie (Klanéos), deux évéchés de Phrygie Salutaire (Dokimion et Polybotos), un évêché de Pisidie (Philomélion); le cinquième, Pissia, est un nom nouveau.” Pourtant, on connaissait depuis 1898 la base d’une statue impériale, qui attestait cet ethnique, il est vrai sous une forme très légèrement différente, tout près
de Philomélion. Il s’agit d’une inscription en l’honneur de Septime Sévère, publiée d’abord par J. G. C. Anderson, JHS 18 (1898), p. 115 n° 56 avec un fac-similé (d’où R. Cagnat et G. Lafaye, IGR III 239); présentée comme un document inédit par W. Ruben, Belleten Türk Tarih Kurumu 12 (1948), p. 182, sans transcription mais avec une bonne photo-
graphie pl. 41 fig. 11; et reproduite par W. M. Calder dans MAMA VII n° 133, sans photographie ni même fac-similé et pourvue d’un lemme très incomplet, qui cite, parmi les éditions précédentes, uniquement celle d’Anderson, sans pourtant le nommer *!. La pierre se trouve à présent au Musée d’Aksehir, où l’un de nous a pu en faire une nouvelle copie et prendre la photographie donnée ici. Alors que Calder la décrit comme étant un “plain bomos”
(pas un mot de description chez Anderson), il s’agit en réalité,
non pas d’un autel, mais d’un simple bloc de calcaire blanc (h. 0,37; 1. 0,71; ép. 0,54; h. 1. 0,032); la surface inscrite est criblée de petits trous, le bloc est cassé à l’arrière, et un
trou le traverse depuis la face supérieure pour aboutir dans la partie gauche de la face inscrite, où il a détruit quelques lettres (Fig. 23). L'inscription occupe la totalité de la face antérieure, sauf une petite marge à gauche: Αὐτοκράτορα Καίσαρα Aovkioy Σεπτίμιον Σεουῆρον
Περ--
τίνᾳκα Σεβαστὸν γῆς καὶ θα--
4
Méoo]ns καὶ πάσῃς τῆς οἰκου-μέϊνη!ς δεσπότην Φίλαιος Ma-
ρίωνος εὐμενῆ τῷ Πεισεα--
νῶν δήμῳ παρ᾽ ἑαυτοῦ 8
ἀνέστησεν
Les ligatures ne sont pas toutes reproduites dans le fac-similé d’Anderson Calder), — LI. 1-2: Λούκιοιν alii, contrairement à la coupe syllabique qui est inscription (le fac-similé d'Anderson est inexact sur ce point; la copie de Calder re). — L. 4: La barre horizontale du premier δία est préservée, en ligature avec rieure du premier sigma. L. 7: Il reste la haste gauche du deuxième nu.
(aucune respectée suit celle sigma. —
indication de ligature partout ailleurs dans d'Anderson et non la L. 5: Il reste la barre
chez certe pierinfé-
op. cit. ci-dessus n. 21) aux pp. 94 et 116-117; la Notitia 13, quant à elle, représente la liste des suffragants du XIIe siècle (op. cit. p. 136).
» Op. cit, p. 42. Sur l'attribution de Pissia à la Galatie ou à la Phrygie dans les diverses Notitiae voir K. Belke et N. Mersich, loc. cit. (ci-dessus n. 82), d'après lesquels “Das Schwanken in der Zuordnung... ist wohl insofern nicht wörtlich zu nehmen, als mit Phrygien hier cher die Landschaft als die Provinz gemeint sein dürfte.” * On est en droit de se demander quelle était l'utilité de la republication de ce texte dans MAMA VII, simple recopiage sans un seul mot de commentaire, qui n’ajoute rien aux éditions précédentes et se trouve même en régression par rapport à l'editio princeps par J. G. C. Anderson, laquelle comportait fac-similé et discussion (sur celle-ci voir la note suivante). Les défauts du lemme de W. M. Calder ont été indiqués par L. Robert, Hellenica XIII (Paris 1965), p. 255.
Huit inscriptions néo-phrygiennes
109
Fig. 23 - Inscription en l'honneur de Septime Sévère (avec mention du Πεισεανῶν δῆμος).
A la 1. 6 Anderson 2, suivi par Cagnat et Lafaye et par Calder *, “corrige” le lapicide en écrivant: Εὐμένηςς», ce qui serait un second nom de l’évergète Philaios fils de
Marion. Mais il n’y a rien à “corriger”, car il faut conserver le texte tel qu'il a été gravé: il s’agit bel et bien de l'adjectif, utilisé ici pour qualifier l’empereur qui s'était montré “bienveillant envers le peuple des Piseanoi” - ou dont on espérait la bienveillance. Ce document était sans doute l'inscription principale de la communauté des Πεισεανοί, dont il a permis la localisation “3, tout comme l’inscription sur la base d’une autre statue de Septime Sévère a permis l'identification du site de la ville de Brouzos dans la “Pentapole” phrygienne près de Sandıklı *. On s’apergoit que, dès les campagnes de ce guerrier redoutable en Asie Mineure au début de son règne, et encore par la suite quand
* Il écrivait: “Εὐμένη in 1.6 for Evpéwn{g],.. it is less likely to be a corrupt form of the genitive, and it can hardly be the adiective, agrecing with Zeounpov.” *! D'où le nom fantôme Εὐμένης dans l'index de MAMA VII, pp. 150 et 153. * Une fois encore on est déçu par W. Ruge, qui dans son article “Phrygia: Topographie”, RE XX.1 (1941), col. 848, considère que l'identification de ce toponyme “noch gar nicht gelungen ist” (cf. col. 806 pour l'explication de l'échelle de 1 à 4 utilisée). Pourtant il savait en 1937, RE XIX.1, col. 141, que “Peisa” était une "Stadt in Phrygien, bekannt durch eine Inschrift mit tw Πεισεανῶίν! δήμῳ, die Anderson in Bissa, 14 km südöstlich von Akshehir (Philomelion) gefunden hat”, et il critiquait R. Kiepert parce que “auf seiner Karte von Kleinasien 1:400.000 Bl. € III sind die Ergebnisse der Andersonschen Reise nicht benützt.” Sur le “Classical Map of Asia Minor” par W. M. Calder et G. E. Bean (Londres 1958) est enregistré à sa place le toponyme “Pisea”. * W. M. Ramsay, JHS 8 (1887), p 480; Cities and Bishoprics of Phrygia 1.2 (Oxford 1897), p. 700 n° 634 (l'un de nous a revu cette inscription sur place). Cf. encore l'inscription sur la base d’une statue de Septime Sévère, relevée
à Afyon, qui devrait venir de Prymnessos, publiée par Th. Drew-Bear et W. Eck, Chiron 6 (1976), pp. 289-290 n° 1.
110
C. Brixhe - T. Drew-Bear
il traversait la péninsule lors de ses offensives en Orient, les cités de l’Asie s’empressaient
de faire preuve de loyauté, en érigeant chacune dans son centre civique des statues de l’empereur et des membres de sa famille, dont les inscriptions nous sont parvenues en nombre considérable. Comment s'empêcher de conclure que ce Πεισεανῶν δῆμος %, attesté ainsi sous le
règne de Septime Sévère dans le voisinage immédiat de la ville de Philomélion "7, est devenu, au plus tard dans le dernier tiers du VII: siècle de notre ère, l'évêché de Moota”, rat-
taché comme Philomélion et Polybotos à la métropole d’Amorion 2 Le lieu d'habitation a conservé son nom jusqu’à nos jours 1%, Quant au site romain et chrétien de Piribeyli, il
devait s’agir tout simplement d’un village dans le territoire de cette dernière cité.
VII. Région de Tymandos Dans le village de Büyük Kabaca, à la base des plaine d’Apollonia et de Tymandos débouchant sur la mosquée du Dere Mahallesi, une pierre funéraire haut à droite (Fig. 24) dont le relief, qui représente
montagnes qui délimitent au Nord le lac de Hoyran, se trouve en face de marbre blanc brisée à gauche et un fronton triangulaire avec bosse
la de en au
* J. G. C. Anderson, op. cit, p. 114, donnait à ce site le nom de “Pisa”: mais l'ethnique tel qu'il est préservé par l'inscription pour Septime Sévère indique plutôt un nominatif Pfe)isea. * Le site antique est décrit ainsi par Anderson (note précédente): “Pisa [pour la forme du toponyme voir la note suivante], which retains its name to the present day... was situated beside the village Bissa in the plain under the shadow of the mountain... The village contains numerous remains, but many of the marbles have been destroyed to build a new mosque: the process of destruction was going on when we visited the village.” % J. et L. Robert, dans La toponymie antique, p. 45, écrivaient que “sur la bordure Nord-Ouest de la Lycaonie, le village, inconnu par les textes, de Peisea est resté Bise”, avec un simple renvoi à W. M. Calder dans MAMA VII. Mais nous voyons que ce bourg, qui était déjà plus qu'un simple village à l'époque romaine, est bel et bien connu par les textes, au moins à l'époque byzantine, quand il fut promu au rang d'évéché (tout comme son voisin Polybotos, qui a suivi la même évolution}. * Une fois encore, comme dans le cas des Akroenoi que nous avons vu ci-dessus, L. Zgusta dédouble ce toponyme, en enregistrant comme des noms de lieux différents ses attestations à l'époque romaine et à l'époque byzantine, et il dedouble en même temps son étymologie. Ainsi trouve-t-on à sa p. 480 “Πεισεα", sur l'origine duquel Zgusta remarque: “gegebenenfalls est er aus Griechenland übertragen. Ich ziehe aber vor, ihn als einheimischen Namen aufzufassen”, nom de lieu qu'il distingue de Πισσία à sa p. 497, où il donne à ce toponyme une Etymologie grecque: “diese Namen dürften zu griech. πίσσα “Pech, Teer’ [*poix, goudron”] gehören”. 1 Notons que le répertoire des noms de village Türkiye’de Meskün Yerler Kilavuzu (Ministère de l'Intérieur, 1946-1947), p. 164, n'enregistre que deux villages appelés Bise, celui dont il est question ici et un autre, lui aussi
dans la province de toponyme Bise n'a changé en Bagkòy), tagnes qui séparent W. Ruge,
RE
Konya, sous-préfecture d'Ermenek (son nom a été transformé en Evsin, ce qui indique bien que le pas de signification en langue turque). Mais on peux citer un troisième Bise (dont le nom a été qui se trouve dans la province d'Isparta, sous-préfecture d'Uluborlu, sur les pentes Sud des monles territoires d'Apollonia et de Tymandos de celui de Metropolis au Nord. Malgré l’hésitation de
XIX.1
(1937), col.
147 ("vielleicht”), on écartera
fermemement
la suggestion aberrante de W. M.
Ramsay, Studies in the Eastern Roman Provinces, p. 369, qui voulait localiser ici le village des TlelıJoönvoi ou Πεισδιανοὶ connu par les listes des Xenoi Tekmoreioi: car on n'expliquerait pas la disparition du delta. II n'existe pas de témoignages archéologiques qui montreraient que l'emplacement de ce Bise était habité dans l'Antiquité, Mais
encore plus haut dans la montagne, à quelques kilomètres du village actuel, l'un de nous a découvert un site antique,
qui a livré des inscriptions d'époque romaine et des restes byzantins.
Huit inscriptions néo-phrygiennes
ui
centre entouré de deux acrotères, est très usé (ἢ, 0,72; |. 1,06; ép. 0,28; ἢ. 1. 0,025). Dans
la partie inférieure du fronton, qui surmontait sans doute une stèle-porte sur un autre bloc, est inscrite une épitaphe grecque de trois lignes, dont les lettres sont en partie évane-
scentes: Μεννέας Αππας ALOYÉV— ng voi Διογένους ἐποίησαν διὰ τεχνίτοευ» Movvadog
Ce document déjà publié (on trouvera la bibliographie 1°! dans MAMA IV n° 240, avec la photographie d’un estampage et un dessin, faits quand la pierre était moins usée et apparemment complète) appelle une correction à la troisième ligne, où les éditeurs précédents ont lu: διὰ teyvito Movva: dre
Fig. 24 - Bilingue gréco-phrygienne n° VIII. 11 La première édition est celle de J. R. 5. Sterrett, The Wolfe Expedition to Asia Minor: Papers of the American School of Classical Studies at Athens ΠῚ (Boston 1888), p. 402 n° 590, qui lisait la |. 3 ainsi: AIATEXNHTONOYNAAIIC
mais transcrivait: διὰ τεχνητίωϊν Obva[A]m[ov?]
112
Ὁ. Brixhe - T. Drew-Bear
Buckler, Calder et Guthrie écrivaient: “The year 284 = A.D. 259”, en comptant d’après une ère de la Galatie qui commencerait en 25 av. J.-C. Il est inutile d'examiner la question de cette ère, car on ne s’attend pas à trouver une indication de date qui ne serait pas précédée de la mention habituelle: ἔτους. En réalité nous nous trouvons en face d’une
petite erreur de lecture, dans cette ligne de toute évidence rajoutée postérieurement à l'inscription précédente, avec ses lettres plus petites et serrées entre la ligne 2 et la moulure en bas du fronton. Car au lieu de pi il convient de lire omicron, ainsi qu’on peut le vérifier sur la photographie de détail Fig. 25. Nous obtenons ainsi un génitif normalement formé du nom indigène Movvag, dont cette attestation fut classée par L. Zgusta à tort en Pisidie 102, Dans la partie inférieure du linteau, sur une espèce de bandeau en faible relief, prend place une inscription phrygienne (= Haas, n° 29), négligemment gravée, mutilée à droite et en bas.
105 GEHOUV κνουμᾶνε vacat OVL μανκα κακὸν αδδακίετὶ - - - - - - - -
Fig. 25 - Détail du texte grec n° VIII.
2 Kleinasiatische Personennamen (Prague 1964), p. 336. L'auteur voyait lui-même le problème posé par l'apparition de ce nom phrygien en Pisidie, car il remarquait (n. 313) que “Es ist ganz gut möglich, daß der Mann aus einer anderen Gegend stammte” - hypothèse gratuite, qui ne fait que souligner la difficulté suscitée par un classement géographique trop sommaire, ici comme souvent dans cet ouvrage. Il aurait dû être évident que la présence d'une inscription en langue phrygienne sur cette même pierre montre le caractère phrygien, et non pisidien, de la population indigène de certe région.
Huit inscriptions néo-phrygiennes
113
Ligne 1. Après NE , ne pas prendre pour un ἰδέα ce qui n’est qu’une fissure dans la pierre.
Ligne 2. Ce qui suit κακὸν a été gravé légèrement au-dessus du niveau du reste de la
ligne. Nous sommes en présence de la protase d’une imprécation comportant la conjonction disjonctive avi (ici “ou”, cf. Brixhe 1995, $ 3.1.1): “celui qui endommagera ce knou-
man ou la manka ...”. Manque donc l’apodose, c’est-à-dire la malédiction elle-même, qui occupait au moins une troisième ligne, dont il n’y a plus trace.
114
€. Brixhe - T. Drew-Bear
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New Phrygian Inscription No. 48: Palaeographic and Linguistic Comments ALEXANDER LUBOTSKY Department of Comparative Linguistics - Leiden University
1. Introduction Although it may often look as if the study of the Phrygian language has come to a dead end and that only the discovery of new inscriptions may lead to some progress, I
believe that the possibilities of the good old method - a combination of palaeographic, combinatoric and etymological analysis (in this order) - are not yet exhausted. The work may be tedious and progress may not be spectacular, but every step brings us a better understanding of the Phrygian inscriptions and grammar. In the present paper I would like to show how this method can contribute to the interpretation of one of the most important New Phrygian (NPhr.) texts, viz. inscription 48. This inscription has been discovered by the Greek amateur epigrapher Ἰ. Μηλιόπουλος in the neighbourhood of Eskisehir (Dorylaion). On the basis of his drawing and impression, the inscription was published in 1898 in the “Mittheilungen des
Kaiserlich Deutschen Archaeologischen Instituts” '. The whereabouts of the stone itself are unknown, and we can only guess at its original measurements and function. It is also
unclear whether the inscription is complete: there may have been some text above our first line. In the first publication, the text was given as follows: ? SBune
εἰ..]ιθνιουμενος
νιοισιος ναδροτος eıtov Μιτραφατα
κε Μας Τεμρογε
1 This journal published the newly discovered inscriptions anonymously, every issue containing several sections with the title “Funde”. I shall refer to the original publication as Mittheilungen 1898. During a short visit to Vienna in December 1993, I was able to consult the impression and the drawing of this inscription, which are being preserved in the Kleinasiatische Kommission of the Wiener Akademie der Wissenschaften. I would like to express my gratitude to Dr. G. Rehrenböck of the Kleinasiatische Kommission for his kind assistance and to Doz. Dr. Friedrich Hild and Dr. Klaus Belke (Tabula Imperii Byzantini Kommission), who prepared for me various detail photographs of the impression. These photographs and the excellent photograph of the impression given in Haas (1970, 39) formed the basis of the drawing made by Mrs.T. Ignatova-Wezel (Fig. 2); 1 also reproduce a copy of the original drawing of the inscription by "I. Μηλιόπουλος (Fig. 1). 2 The same text, albeit with slightly different word divisions, is given by Calder (1911, 188) and Friedrich (1932, 135).
A. Lubotsky
116
τος xe Πουντας
Bag xe Evotapv(a) δουμθ κε Οιουθ βαν Αδδα κε Τορου av. παρεθέμην τὸ μνημεῖον τοῖς προ γεγραμμένοις θε
οἷς xè τῇ κώμη" Tavo’ ὁ πατὴρ ᾿Ασκληπιός
2. The palaeographic analysis
very carefully and beautifully written, and only the beginning letters. The impression shows that the stele was cut aslant on the in order to use the stone for a different purpose. Old stelae and used later for a wall or a water-line. On the left side of the im-
E 1ON1°YMEN°C NIeIC RCNAAPoT°C EITFMITPABATA KEMACTEMPTE ECKETIYNTAC
BACKEENCTAPN/ AYMOKE-IY © BANAAAAK ET-PY ANITAPE 6€ MHNT* MNHMEIONT:ICITR TETPAMMENFIC 0€ e[CKTHKAKH TAYOOITATHP ACKAHITI:C
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The inscription is shows a few damaged upper side, presumably tombstones were often
Fig. 1 - New Phrygian inscription 48 (a drawing by the discoverer of the inscription, "1.MnAıdπουλος, from the collection of the Kleinasiatische Kommission of the Wiener Akademie der Wissenschaften)
New Phrygian Inscription No. 48: Palaeographic and Linguistic Comments
ἢ
»
117
ME NoC NISICICNAN Ὁ TOC EITOYMITPA9ATA FEMAC TE MPOTE IOCK E MOYN TAC BACKE ENCTAPN ΔΟΧΜΘΚΕΟΙΟΥΘ
| MNHMEIONTOICIIPO TEIPAMMENOIC SICK THKOMH:
TAYOONATHP ACKAHIIIOC
Fig. 2 - New Phrygian inscription 48 (a drawing by Mrs. Τ᾿ Ignatova-Wezel).
pression (the right side of the inscription) there is some empty space above the line, practically without any traces of letters, but it is difficult to judge whether there was some text. Above the final sigma of the first line there is a triangular trace, which may represent an apex at the foot of T, P, I, T, etc. Therefore, there remains a distinct possibility that our line 1 is not the beginning of the text. The first letter is clearly an epsilon. Then follows a space for one broad or two narrow letters, but without clear traces. Haas’ assertion (1961, 79) that “der Abklatsch ...
läßt … die Gruppe et 18 völlig einwandfrei erkennen” ? is simply false. The top of the next letter is missing. It can be an I, as in the first edition, but a T, which we find in Haas’ text, is more probable, as the distance between this letter and the next one is larger than the distance between I and the adjacent letters elsewhere in this inscription. A gam-
ma cannot be excluded either. The fifth letter is identified by all editors as a ©, but a closer look at the impression shows that the letter is not closed, so this must be an E. To be
3 Haas assumed that his first four letters et τθ represent the date of the inscription, 10 standing for the year 309 of the Sullan era (224/5 A.D.). Not only is the reading impossible, but it is far from obvious that the Phrygians should date their texts after Sulla in 3d century A.D. (cf. Diakonoff - Neroznak 1985, 86). It is important that the only dated NPhr. inscription (29) uses the provincial era (Ramsay 1905, 119f.).
118
À. Lubotsky
sure, there is a shallow trace of the circle, but the circle is not deepened during the final cutting of the letter. The scribe presumably worked with a templet for engraving round letters (O © C €) and first marked a circle on the surface, which he later deepened out. It
is conceivable that his command of the Phrygian language was limited and that he just copied an original. A similar explanation accounts for the unexpected thetas of the Phrygian inscription, which we shall discuss below, and for the theta without a cross-bar in
the Greek part of the inscription. One more letter of the first line remains to be discussed, viz. letter 7, which follows the clear N. Its top is missing, so that we only see a vertical hasta. It is therefore quite comprehensible that all editors thought that it was an I. Nevertheless, I believe this identification is wrong. The iotas in this inscription are always written exactly in the middle between the adjacent letters, whereas letter 7 stands far away from the preceding N and close to the following O. This position is identical with the end of line 9 where we find T between N and O, the top of T written above the O. This leads me to assume that letter 7 is a tau. Accordingly, line 1 must be read as: e[(-)-]y/tevrounevog. The three occurrences of the letter © in the Phrygian part of the inscription are remarkable because this letter is practically absent from the NPhr. inscriptions. We only find it in the Greek loan-word θαλαμεὶ (4) and a personal name Αδιθρερακ (31, cf. Neu-
mann
1986, 82). Already in 1900, Kretschmer saw that the consonantal group μθ of
Sovp®@ is improbable and proposed to consider the final © a scribal error for O or Q. Later, when Haas identified the word oveßav in inscription 30 (1961, 81f.), he assumed
that ov@fav in inscription 48 must likewise be corrected to ουωβαν. In line 1, according
to Haas, the 8 is real and constitutes part of the date at the beginning of the inscription (see fn. 3). From 1961 on, everyone has cited this inscription with Q instead of Θ΄, at least in δουμὼω and ovwßav, in spite of the fact that these readings are highly improb-
able. First of all, we cannot expect that in an inscription carved with so much care, a scribe would twice mix up © with Q, which has a very different shape in the Greek part of the inscription (line 12). Therefore, Haas
assumed
(1961, 80) that it was not a mis-
take, but that in Phrygian inscriptions one could simply use © instead of Q because Phrygians had different spelling conventions. This of course is unsatisfactory because we know that the opposite is true: the Phrygian inscriptions in general follow the Greek conventions and we have further no examples of © used for Q. Haas himself gave a different and, in my view, correct solution in the same article in a footnote (1961, 82, fn. 16): “Das Bild [in inscription 30, AL] zeigt einwandfrei oueban gegenüber ouwban der Nr. 48; ein Lautwandel ue- zu uo- wäre ja denkbar (vgl. oukra ne-
ben ouekro [...]), doch ist @ für e in 48 eher ein Versehen des Steinmetzen: er hatte sich, wie aus dem Abklatsch ersichtlich ist, alle O © C € mit einer ovalen Schablone vorgeritzt
und beim Ausfertigen der Inschrift irrtümlich das ganze Rund vertieft, statt eines €”. This explanation not only accounts immediately for oveßav, but also gives the reading Sovpe in line 7, which is, as we shall see below, also preferable to $ovp® from the point
ὁ Brixhe (1990, 94) tentatively suggested that © in this inscription “pourrait être un omieron diacrité. Il reflète peut-être une réalité phonétique; mais son isolement m'empêche d'en dire davantage.”
New Phrygian Inscription No. 48: Palaeographic and Linguistic Comments
119
of view of morphology. Unfortunately, Haas apparently forgot or disregarded his own solution and operated with ὦ in all his later publications. The palaeographic analysis further shows that lines 7-14 are added to the inscription later, which went unnoticed by the previous editors. This is already indicated by the empty space at the beginning of line 7. Theoretically, it is conceivable that this place was
originally occupied by a letter which in the course of time has become invisible, but this is hardly the case here. In the first six lines, the scribe put the words in such a fashion that the end of a word generally coincided with the end of the line; he left then some free space open (cf. especially lines 1, 3, 4, 5). In line 6, the scribe was clearly doing his best
to finish the word on the line by squeezing in the final alpha, only half of which is visible on the impression. This way of arranging the text is only comprehensible if the alpha was the last letter of the text and the scribe did not want to leave some letters on a new line. Note that the first word of line 7 is Sovpe, which constitutes a complete Phrygian word. Furthermore, there is a clear palaeographic “break” after line 6. First of all, the form of kappa changes from line 6 on. Whereas in the first six lines the side strokes of kappa are short, in the second part of the inscription they are long, so that the stroke below
reaches the writing line. The “lay-out” of the text is also different. As we have seen, in the first six lines the scribe tried to arrange the text in such a way that the end of the line coincided with the end of a word (only in line 4 this proved impossible). In lines 7-11, all free space is used up, and only the final three lines (the end of the inscription proper and the “signature”) have free space at the end. Finally, as we have seen above, the two instances of the @ instead of € are found in line 7, i.e. after the “break”. We may speculate that this text was written by a scribe, who was supposed to add the Greek text to the inscription,
but at the same time had to engrave some Phrygian words before the Greek text. Accordingly, we may conclude that lines 7-14 were added later, which has important consequences for the interpretation of the inscription.
The palaeographic analysis of inscription 48 thus leads to the following text (the e in brackets corresponds to the θ of the inscription; the justification of the word divisions κα
will be given below):
e[(-)-]y/tevrovpevog
D GO JO
Un
ων
VLOLOLOG ναδροτος eıtov Μιτραφατα xe Mag Tenpoye106 xe Πουντας
Bag KE evotapva [vac.] δουμίε) κε ot ov(e)-
Bav aödorxer opovαν [Greek:] παρεθέμην τὸ
5 In 1961, 77ff., 1966, 97, 169, Haas started the Greek text from the beginning of line 9, because he identified
opov with the gloss, given by Achilles Tatius: τὸ opou τὸ ἄνω δηλοῦν Φρυγῶν ἴδιον, ὡς Νεοπτόλεμος ἐν ταῖς
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A. Lubotsky
10
μνημεῖον τοῖς προ-
11
γεγραμμένοις θε-
12 13
οἷς xè τῇ κώμῃ. ταῦθ᾽ ὁ πατὴρ
14 ᾿Ασκληπιός
3. As the text has now been established, we can turn to the combinatorial and etymological analysis, but before we do so I would like to pay tribute to P. Kretschmer, who, in my opinion, gave the best analysis of this inscription in a short article (1900). Firstly, he recognized that this is a quasi-bilinguis. Secondly, he made the important observation that Phr. xe is always enclitic, so that there are three deities in the Phrygian text, viz. Mutpadata, Mag Teupoyeoc, and Πουντας Bac. Furthermore, since the Greek text adds xè τῇ κώμῃ, we have to look for the Phrygian correspondence of κώμῃ in evotapva δουμθ (as it was then read). He proposed to read the latter word Sovpo or Sovpo and to identiἐν it with Sovpog “σύνοδος, σύγκλητος, ouuBiwoiç” found in a Greek inscription from Maionia. Finally, he saw in Phr. αδδακετ the verb, often occurring in malediction formulae, which here must mean something like ‘hat festgesetzt, angeordnet’. These conclusions seem essentially correct to me, but Kretschmer’s ideas did not find acclaim, and the
subsequent treatments of this inscription practically disregarded them. 4. The Greek text From the Greek part of the inscription we learn that the “father” Asklepios has placed this monument under the protection of the above-mentioned ὁ gods and of the community. It is worth mentioning that in inscriptions of Asia Minor the title πατήρ was specifically used for a high official in the Mitra cult (Haas 1976, 50 n. 2, with referen-
ces). This observation combined with the name of Mitra in the Phrygian part means that our inscription must be seen in the context of this cult. It therefore seems reasonable to
assume with Haas (1976, 51) that κώμῃ means ‘ein religiöser Verein’ rather than simply ‘a village’. The Greek text makes clear that we have to look for the names of gods in the Phrygian part of the inscription.
5. The Phrygian text. Part I (lines 1-6)
Since Haas (1961), all interpretations of inscription 48 started from the assumption that this is a curse, mainly because of the verbs eıtov and αδδακετ, which are commonly
φρυγίαις φωναῖς, Later, he changed his mind (1976, 49#f) and took -av as the end of the Phrygian text, which is certainly preferable because the Greek form ἀνπαρεθέμην is hardly feasible. * For the meaning of προγεγραμμένοις see Haas (1976, S1f.) contra Schmitt (1973, 56 n. 60). As was already indicated by Kretschmer (1900, 445), παρεθέμην must mean something like ‘place under the protection of.
New Phrygian Inscription No. 48: Palaeographic and Linguistic Comments
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used in the malediction formulae, e.g. 82. 105 vi σὰ tou μανκα xaxovv αδδακετ, TI TE-
τικμενος etov ‘whoever brings harm to this monument, may he become cursed’. Haas assumed that we have to do here with a converse formula, the apodosis with ettov pre-
ceding the protasis with aò$axet. This is a priori improbable, and, moreover, the part with aô5axet was added later, which means that it simply cannot be the protasis of a malediction formula.
The interpretation of the first six lines of the inscription is difficult because we cannot be sure that this is the beginning of the text. The morphological identification of separate forms is more or less clear: we first have three adjectives / participles (e[(-)-]y/tevTOLHEVOG, νιοισιος, vadpotoc) in the nom.sg., then 3sg. impv. ettov ‘may he become’, followed by three theonyms Μιτραφατα, Mag Teupoyeıog, Πουντας Bag in the nom.sg., coordinated by the conjunction κε, and, finally, the difficult evotapva. The question is:
who is the subject of evtov? This verb only occurs in final position in the apodosis of the curses, and it is of course very probable that this is the case here, too. Accordingly, the three adjectives constitute the apodosis of the curse (‘may he become e[(-)-]Yy/tevtovpe-
νος, vio10106, ναδροτος᾽), while the protasis must have been broken off. In general terms, we can expect that these adjectives express some negative notions, but for the rest
we must rely on etymological analysis, which, unfortunately, does not provide spectacular results this time. All previous attempts to explain the first word £[(-)-]y/tevtovpevog are useless be-
cause they were based on a wrong reading. This word must be a medial participle with the suffix -uevo < PIE *-mHyno-. In Phrygian, all attested medial participles are athematic and reduplicated, probably belonging to the system of the perfect, cf. OPhr. evememesmeneya (Lubotsky 1988, 15), NPhr. τετικμενος, YEYAPITHEVOG, yeypeınevav, oleJotanevov, apyueval-], but this may also be due to a coincidence. Also £[(-)-]Y/tTevtovpevog is athematic (-0v- can reflect either *-u- or *-6-), but its reduplicated character is uncertain.
Remarkable here is the consonant group -vt-, which is very rare in Phrygian: find B-01.4 kintelemi, which must be analysed kin telemi (Lubotsky 1993, 97), probable borrowings navta (35)? and Πουντας (48, see below). The fate of the group *-nt- follows from the ending of the 3pl. imperative (< *-ntö, cf. 3sg. impv.
we only and the original eıtov
NPhr. -@ cf. dat.sg.f. σα; the development of *-nt- to Phr. -nn- is discussed above. We must assume that the 3pl. ending -va was generalized from the postvocalic position (for instance, in thematic verbs), since *-(Cntai would probably have yielded **-antai > **-anna. The precise prehistory of the ending -pva is difficult to reconstruct, however. For the combination of *-r- with -nt-ending in the 3rd plural in Phrygian cf. further 3pl. pf. δακαρεν (98 δακαρεν πατερης εὐκιν APyov) < *-er+-ent. 15 1961, 80; 1970, 38. Haas considered the Phrygian word to be cognate with Gr. θωμός.
% Attested as a citation by Johannes Tzetzes, which ends with ἐν κατωτικῷ δούλῳ The last word must probably be corrected in "δούμῳ,
1° The emendation of the gloss δοῦλος - ἡ οἰκία ἢ τὴν ἐπὶ τὸ αὐτὸ συνέλευσιν τῶν γυναικῶν to δοῦμος was al-
ready proposed by Wackernagel in ἃ manuscript note. Cf. further comments to this gloss by Fauth (1989, 197£.).
New Phrygian Inscription No. 48: Palaeographic and Linguistic Comments
125
clude Greek inscriptions from North-East Lydia (2d century A.D.), Pisidia and an inscription from Serdica (Thracia) '*, where we come across (ἱερός) Sodpog referring to a
religious association of women, often belonging to a cult of a goddess. The same word also occurs in Latin inscriptions. An inscription from Scythia Minor (2d-3d century A.D.), probably dedicated to Kybele, mentions pater dumi, mater dumi, sacratis dumi.
The
altar inscription
from
Novae
(Moesia
Inferior) with an image
of
Mater Magna and the great god of Odessos reads: L. Oppius Maximus sacerdos M(atris) D(eum) dendroforis et dumopiretis d(edit) d(edicavit), the term dumopiretis most prob-
ably referring to ‘the fire-priests of the dumos’. In OPhr. we find the acc.sg. duman in line 3 of the Germanos inscription B-01: matar kubeleya ibeya duman ektetoy. The syntactic structure is clear, viz. Subj. (Nsg.) matar kubeleya ibeya - Obj. (Asg.) duman - Verb (3sg. middle) ektetoy. The crux is the verbal form. The often suggested comparison with Gr. κτίζω (e.g. Diakonoff - Neroznak 1985, 31) is unlikely because OPhr. e can hardly represent *i or *ei. It seems more reasonable to connect Gr. xtéopon, Ion. κτέομαι, if from *tkH;-, which in the perfect means ‘to possess, be master of’ (also mentioned as an alternative by Diakonoff - Neroznak
1985,
119). As the augment of ektetoy points to a preterite tense (most probably, aorist *HyetkHy-to + i), the line may thus be translated ‘Mother Kybele ibeya (a title) is the mistress of the religious community’. OPhr. dumeyay in the damaged inscription G-01(A) provides no information. As to two fragmentary Gordion inscriptions G-131. Jdumastaeia| and G-245. dumast[a/e]v-[, it
is conceivable that they contain dumasta, a name or a title, derived from duma- (Bajun Orel 1988, 198). Further connections of Phr. duma-
have been proposed
by Fauth
(1989), who
sug-
gested to read Mycenaean official titles du-ma, me-ri-du-ma-te, po-ro-du-ma-te, e-ra-wo du-ma as "δύμας, "μελιδύμας, "σποροδύμας, "ἐλαιοδύμας, respectively, and to consider them cult officials (at least, originally), responsible for sacrifices of honey, seeds, !? and
oil. Fauth further points out (p. 193ff.) that the name of the Phrygian king Δύμας (Ilias TI 718), father of Hecabe and Asios, may go back to a Phrygian title, like Πάλμυς (N 792) reflecting Lyd. galmAus ‘king’, Πρύτανις (E 678) reflecting Etruscan purône ‘regent’, etc.
The origin of the term *duma- cannot be determined. The ending -ε of Sovp(e) is an often attested dat.sg. ending of Phrygian consonant stems (cf. xvovpave beside -e1, -1, -n, Bpatepe), which is in perfect agreement with
dat.sg. κώμῃ of the Greek part of the inscription. Accordingly, in terms of morphology the reading Sovp(e) is preferable to the previously conjectured Sovpo, the ending of which is unique. For the paradigm dat.sg. δουμίε), acc.sg. OPhr. duman, compare the
paradigm of the female NPr. dat.sg. Zevve / Zeuvn, acc.sg. Zevvav.
M [----ie]poò δούμου, standing next to [---tajig μυστρίαις ‘women of the mysteries'. ‘9 Interestingly, line 4 of the same Germanos inscription, dedicated to Kybele, reads yos tivo [t]a spereta ayni kin telljemi (for the reading see Lubotsky 1993), and it is tempting to see in [t]a spereta, most probably acc.pl.n., the word for ‘seeds’. The line can then be rendered ‘whoever [steals] these seeds or any telemi (sacrificial gift?) from the goddess...’ vel sim.
126
A. Lubotsky
The enclitic o is an anaphoric pronoun of the 3rd person sg. It is found in the following contexts: 4. τὸς νι σεμον [xvovpavi] κακουν adaret avi οἱ θαλαμει... ‘whoever will bring harm to the grave or to its sepulchral chamber...” (θαλαμει is dat.sg. of a loan-word, corresponding to Gr. θαλάμη, cf. Brixhe 1978b, 5); 12. Capa ke or mereg κε tit τετικμενα at Til] adertivov ‘and may ζειρα (nom.pl. neuter) and his πεῖες become cursed (nom.pl. neuter) by T.’;2°
33, 76 … ax κε οἱ βεκος ἀκκαλος nôpeypouv ertov ‘and may bread become ... for him’; 99. ... pe xe οἱ τοτοσσεῖτι Bag Bexog ‘and Bas will deprive him of his bread”. ?' Phr. ot has often been identified with the Indo-European reflexive pronoun *swoi (Gr. oi, cf. Haas 1966, 220, 225; Brixhe 1978b, 9). Neumann (1971, 157 n. 7) objected
to this reconstruction: “Mit dem griech. Pronomen or kann es m.E. wegen des fehlenden Vau am Anfang, das im Phryg. im Gegensatz zum Griech. erhalten sein müßte, nicht identisch sein”. This argument is not decisive: as we never find w before o in NPhr. (in contradistinction to out, OVE, ova, cf. below, sub opovav), we may assume that *wo > 0.
More important is the fact that next to οἵ we also find vor in a similar function, cf. 86, 111. ... Bag τοι Bexog μεβερετ ‘... Bas will take his bread away’; 18.....Be06 101 με τοτοσσ' eunoapvav ‘ . E. will deprive him of his bread’; 15.....(t0v) tot avap Aopvxa[vog ...] ‘... her husband Dorukanos ..”.2
From ἃ methodological point of view, we cannot separate ot from τοι, which renders the derivation of Phr. ot from *swoi improbable. The most economical solution is to consider ot a variant of τοι. The distribution of these two forms is remarkable: we find ot after xe (3 times) and auvı (1x); or after a consonant (4x). If we take tor as the original
form, we can assume that the initial 1- of the clitic was lost in post-vocalic position (especially, after front vowels), which is phonetically plausible ?. As far as the etymology of tot is concerned, this form must be derived from the Indo-European anaphoric pronoun *Hje-/i- (Lat. is, ea, id), most probably representing *Hje(i)oi.
2 This sentence illustrates a peculiar feature of the Phrygian syntax which, to my knowledge, remained unnoticed: If several members are conjoined by xe, the number and gender of the first member determine the rection. Cf. further 33, 36 ... αντος κε Ova x εἴοροκα γεγαριτμενος ας βαταν τευτους ‘and let him (nom.sg.m.) and his progeny (? nom.pl.n. / nom.sg.f.) become cursed (nom.sg.m.)" vel sim. 21 Brixhe (1979a, 192) assumed that uxe in 2. ... vxE ἀκαλα oouttetou ou stands for οἶκε, but this may likewise be a conjunction similar to Gr. αὖτε. 2 The context of 35 (... ἃς ἀνανκαῖοι παντα eva [i]vvou) is too unclear to allow any conclusions. Possibly, we may single out tot xvovpav in 116, but there, too, the context is unclear.
2% The distribution of T/Tie/Tin is instructive in this connection: Tin only occurs before consonants (6, 39, 62,
65, 86, 114), Ti only occurs before vowels (adertov 11, 54, 57, 72, 76, 77, 80, 85, 87, 101,
106; ατιτικμενος 103),
Tıe is found in both positions, but the instances before a vowel are rare (only 5x out of 15: 12, 45, 56, 61, 100). We may conclude that there was a strong tendency to drop the final - of Tie in the position before a vowel.
New Phrygian Inscription No. 48: Palaeographic and Linguistic Comments
127
Haas identified ov(e)Bav αδδακετ (his ovwBav αδδακετ) with κακοὺν αδδακετ of the malediction formulae (1961, 80; 1966, 98, etc.) and interpreted oveßav as ‘damage,
harm’. He saw a justification of this analysis in NPhr. inscription 30, which he read JoveBav eyepet οἱ auto ava net averttv[o]v and translated “wer Schaden antut, ihm selbst dasselbe (auch?) soll zustoßen” (1966, 111). This interpretation and even the read-
ing ?* are uncertain, however. Moreover, the context of inscription 48 makes clear that ovefav is rather a term for a tombstone or a stele of some kind and is thus parallel to μνημεῖον of the Greek part of the text. The same meaning is perfectly possible for inscription 30 as well.
The verb form αδδακετ is no doubt identical with αδδακετ of the protasis of the malediction formulae but its morphological analysis is a matter of controversy, the proposed labels ranging from thematic aorist to present and present subjunctive (the latest discussion can be found in Brixhe 1979a, 180ff., who tentatively opts for a subjunctive). In our
inscription, αδδακετ 26 corresponds to the aor. παρεθέμην of the Greek text, which makes the preterite interpretation of this form very likely. The fact that in curses aòdaxet functions as a subjunctive does not necessarily mean that it is a morphological subjunc-
tive. In inscription 18, we find in the protasis the sigmatic aorist εγδαες (106 νι ovKpaov
λατομεῖρν εγδαες μουρσᾳ, CALVI KOG GEHOVV KVOUHOVEL KUKOUV αδδακετ avi pavia ...), which indicates that αδδακετ can easily be a preterite. 27 The last word, viz. opovav, must be the subject of the sentence 2°, representing the nom.sg. of an #-stem. Because of the quasi-bilingual character of the inscription, it seems likely that opovav corresponds to ὁ πατήρ of the Greek text. This hypothesis can be cor-
roborated by the following considerations. The gen.sg. of the same noun occurs in the curse of 106, ... γεγρείμενον x εγεδου opovevog ovtov. This is a variant of the common formula yeypewevav eyedov Τιος ovtav ? (found in 32-6, 59, 60, 76, 105, 108), where
instead of opovevog we find Tioc, gen.sg. of the name of a god, which is most probably analogous to Ζεύςἢ. It follows that opovevog is interchangeable with Τιος, and since the
% Note that Calder (1956, XXVIII), reads e.g. ...expetoraxkoAta... instead of Haas’ eyepet οἱ auto αντα. 35 veban, attested in line 13 of the Vezirhan inscription (see elsewhere in this volume), most probably represents the same word, but the context is unfortunately unclear. 2 The most common verbs of the protasis are αδδακετ and αββερετορ, whereas αδδακετορ (40, 63) and aßßepet (6, 13) occur only in a few inscriptions. This distribution seems to indicate that the original formulae used either active αδδακετ, or middle aßßepetop, but later the forms became mixed up. 2571 would like to stress that αδδακετ must contain the full grade of the root (*d#eHjk-e-t). The reconstruction *dPHjk-e-t, with zero grade of the root, which appears time and again in scholarly publications (most recently, Brixhe 1994, 173, who keeps both options open), is phonetically impossible: vocalized *H, yields Phr. e (cf. Lubotsky 1988, 14ff.). 1 This analysis of opovav (nom.sg.) and its relationship to gen.sg. opovevog (parallel to Iuav / Iuevog) was already recognized by Brixhe (1983, 127). » -0- instead of -α- in Ἰεγρειμενον and ovtov is a dialectal feature, cf. also aSoxet in the same inscription, instead of the usual a()8axer. The form (a)Soxet only occurs in East Phrygia (inscriptions 44, 54, 106) and is always accompanied by at Ti adertov in the apodosis. % Cf. the remarks by Stephanus Byzantius, who identifies the Phrygian deity with Zeug: Δημοσθένης 8’tv Βιθυ--
128
A. Lubotsky
latter stands for Ζεὺς, one of the reasonable options is that opovevog is the gen.sg. of the word for ‘father’ (cf. Ζεὺς πατήρ, etc.). Etymologically, opovav can be compared to Gr. οὖρος ‘watcher, guardian’, cf. especially the frequent Homeric formula Νέστωρ ... οὖρος ᾿Αχαιῶν ‘Nestor, Warden of the Achaeans’. The Greek word reflects *worwo- (Frisk s.v.), and since it is likely that *w disappears before *o in New Phrygian (there is not a single instance of (0)vo- in NPhr. inscriptions whereas we find oe avtar < *(s)wei-, Ova < *(s)weH); οονιτετου), we may reconstruct OPOVAV, OPOLEVOS as *worwen, worwenos.
The whole sentence Sovp(e) xe οἱ ov(E)Bav αδδακετ opovav can thus be rendered:
“And to (the care of) the religious community the “father” has put his (tomb)stone?. 7. Conclusions The palaeographic analysis of inscription 48 has revealed that 1) the first line of the inscription, which must be read e[(-)-]y/tevrounevog, is proba-
bly not the beginning of the text; 2) instead of the mysterious © we must read E, which gives us the readings Sovp(£) and ov(£)Bav;
3) the original inscription ended with line 6, the rest of the Phrygian text being added simultaneously with the Greek part. The Phrygian part consists of three sentences. The first (e[(-)-]y/tevtouuevos νιοι-
σιος vadpotog ertov) represents the apodosis of a curse, the protasis of which has been broken off. The second sentence (Mitpadata xe Mag Teupoyerog ke Πουντας Bag xe
evotapva) contains three names of deities who must guarantee the fulfilment of the curse, evotapva being 3pl. middle of the verb en-stä-. Finally, the third sentence is a paraphrase of the Greek text, informing the reader that the “father” (a high official in the Mithra cult) has put his (tomb)stone under the protection of the gods and of the community.
νιακοῖς φησὶ κτιστὴν τῆς πόλεως γενέσται Matapov ἑλόντα Παφλαγονίαν. καὶ ἐκ τοῦ τιμᾶν τὸν dia Tiov προσα-γορεῦσαι (see on this passage Haas 1966, 67; Lubotsky 1989, 85). According to Wirczak (1992-3, 265ff.), the two
are also etymologically identical. The obvious difficulty is that Phrygian does not seem to have undergone the Lautverschiebung. Therefore, Witczak assumes a Bithynian origin for the Phrygian god, which is of course possible, but unverifiable. Moreover, the inflection of this word is difficult to reconcile with this explanation. In the acc. and dat.sg. we expect *-1 to be preserved in Phrygian, but we find Trav, Tile/n). Witczak tries to resolve this difficulty by assuming loss of intervocalic τος in “Bithynian”, but this rule is ad hoc and, further, it does not often happen that words are borrowed together with their inflection (for instance, the inflection of Modern German Christus, Christi, etc. is clearly artificial).
New Phrygian Inscription No. 48: Palaeographic and Linguistic Comments
129
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Rapporti tra Greci e Frigi al tempo di Mida
FILIPPO CASSOLA Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università-Trieste
1. Intorno alla figura di Mida nacquero e si svilupparono numerosi miti, ambientati soprattutto in Frigia (o in Lidia), ma talora anche in Macedonia, e, raramente, in Tracia.
Mi limito a ricordarne alcuni. Mida, mescolando del vino alle acque di una sorgente cui Sileno (o Satiro) era solito
dissetarsi, lo inebriò e lo fece prigioniero !. Insistendo a lungo, lo convinse a rivelargli quale fosse la sorte migliore per gli uomini; la risposta fu: “non nascere, e, per chi è na-
to, morire”. L'episodio è illustrato nella pittura vascolare fin dalla prima metà del VI secolo 2, e nelle fonti letterarie è attestato da Erodoto (VIII 138, 2-3) e da Senofonte (Anab., I 2, 13) in poi (v. anche infra, $ 3).
Poiché il re aveva ospitato generosamente il suo prigioniero, e infine lo aveva restituito a Dioniso, ottenne dal dio (Ovid., Met., XI 100-145; Max. Tyr., V 1), o dallo stes-
so Sileno (Hyg., fab., 191; Serv., in Aen., X 142) il diritto di chiedere un dono, e chiese
di poter trasformare in oro ciò che toccava. Ben presto si accorse che la facoltà acquisita era apportatrice di morte, perché coinvolgeva anche i cibi e le bevande, e pregò di esserne liberato. Il nuovo desiderio fu soddisfatto mediante un tuffo nel Pattolo, le cui sabbie d’allora in poi divennero aurifere (diversamente Conon, 26 J. fr. 1,1: v. $ 3).
Sebbene questo secondo mito si presenti come un’appendice del primo, è lecito supporre che sia stato in origine indipendente, e che sia anch’esso molto antico, in quanto è ispirato alla ricchezza di Mida, che fu per i Greci il carattere fondamentale, e da sempre
il più noto, della sua personalità. Del resto, sebbene la forma canonica della narrazione risalga a Ovidio, il tema era già noto ad Aristotele (Pol., I 1257 b 14-17). Per lo stesso motivo ritengo antico anche un altro episodio: mentre Mida, ancora in-
! L'interlocutore di Mida è Sileno per la maggioranza delle fonti da Erodoto in poi; è Satiro (0 un satiro qualunque) per Senofonte e per alcuni autori di età imperiale (Max. Tyr., V1; Philostr., Vita Apoll., VI 27; Imag., 1 22; Himer., XV 5 Colonna). In origine non si faceva alcuna distinzione fra sileni e satiri (nel Ciclope di Euripide Sileno è il padre dei satiri): gli uni e gli altri erano raffigurati con orecchie, coda e zampe (0 zoccoli) di cavallo. Cfr. T.H. Carpenter, Dionysiac Imagery in Archaic Greek Art, Oxford 1986, pp. 76-97; A. Kossatz-Deichmann, LIMC VII 1 (1994), τιν. Silenos; G. Hedreen, Journ. Hell. Stud., 114 (1994), p. 147, n. 1. 1 satiri assumono orecchie, coda, e zampe (0 zoccoli) di caprone solo dal IV secolo in poi. Sulla tendenza a isolare, entro una pluralità di esseri soprannaturali, un solo essere che ne diviene il rappresentante per eccellenza, o il capo, cfr. M.P. Nilsson, Gesch. der griech. Rel., 1), München 1967, p. 499, che cita a confronto la Regina degli Elfi. ? F. Brommer, Arch. Anz. (1941),cc. 36-50.
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fante, dormiva, le formiche portarono alla sua bocca chicchi di grano, simbolo di prosperità (Cic., de div., 178; Val. Max., I 6, ext. 2; Aelian., VH, XII 45).
l’avvento del re al potere era stato preceduto da una serie di presagi e vaticinii ricevuti dai suoi futuri sudditi e da suo padre Gordies ?. Peraltro su questo tema era diffusa anche un’altra versione, secondo cui presagi e vaticinii avevano preparato il regno di
Gordies; Mida sarebbe salito al trono per diritto ereditario (v. $ 6). Altri miti rispecchiano la fama di cui godevano i Frigi nel campo della musica: il re inventò la tibia obliqua (Plin., NH, VII 204), e fu padre di Lityerses, eroe che personificava il canto con cui i mietitori accompagnavano il lavoro (Sosith., fr. 2 Nauck?; Athen., X
8, 415 B; Schol. in Theocr., X 41). Questo tema fu anche oggetto di parodia: avendo assistito all’agone in cui si misurarono Pan, con la zampogna, e Apollo, con la cetra, il re, il
cui parere non era stato chiesto, proclamò che Pan era il migliore, dando cosi una clamorosa prova d’incompetenza; e Apollo si vendicò facendogli crescere orecchie d’asino. Le prime figurazioni appaiono intorno alla metà del V secolo. Nelle fonti letterarie troviamo spesso semplici
allusioni (Aristoph., Plut., 287; Lycophr., 1401, ecc.); il resoconto pit
particolareggiato è quello di Ovidio (Met., XI 146-193). Si diceva, infine, che Mida fosse figlio di Cibele (v. $ 2), e che fosse stato iniziato ai riti misterici da Orfeo (v. $ 3).
2. La ricchezza e la varietà delle tradizioni su Mida hanno suggerito ad alcuni studiosi l’idea ch’esse si
riferiscano a due entità diverse, poi confuse fra loro: da un lato un dio,
o demone, delle selve, della vegetazione o delle sorgenti, dall’altro il capostipite leggendario della dinastia reale frigia. Ambedue le figure sarebbero ben distinte dal Mida storico che fronteggiò gli Assiri (717-709 a.C.) e fu sconfitto dai Cimmeri (secondo Eusebio, nel 696 a.C.)°.
Ben diversa è l’opinione degli autori antichi, che mostrano di conoscere un solo Mida, figlio di Gordies e re dei Frigi, cui attribuiscono senza esitare tutti i racconti sopra citati, e altri. L'unica eccezione è Filostrato (Vita Apoll., VI 27), secondo il quale Mida
riusci a catturare un satiro perché apparteneva egli stesso alla stirpe dei satiri. Ma lo scrittore non ha la minima pretesa di attingere alla tradizione: afferma infatti che le orecchie d’asino provano la natura satiresca di Mida (il che può spiegarsi solo come uno
* In quasi tutte le fonti il nome è Fopätog/Gordius. Erodoto (I 14, 2; VIII 138, 2) e la Vita Hom. Herodotea (Il. 132, 134 Allen; ma v. infra, n. 72) usano il gen. Γορδίεω, che presuppone un nom. Γορδίης, Mi attengo a questa forma perché Erodoto è pit vicino degli altri autori, nel tempo e nello spazio, agli antichi signori della Frigia. Gordies è ovviamente uno ionismo, quindi si dovrebbe preferire Gordias; ma questa grafia non è attestata, e comunque sarebbe altrettanto ipotetica, poiché non conosciamo il corrispondente nome frigio. * Tibia traduce il greco aulos, che non è un flauto (v. ad es. M.L.. West, Ancient Greek Music, Oxford 1992, pp. 1-2; 82). La tibia obliqua invece dovrebbe considerarsi identica al πλαγίαυλος, che è classificato come flauto (West, op. cit., p. 113); si tratta senza dubbio del flauto traverso. Su Lityerses: P. Maas, RE, XIII 1 (1926), «ιν. Sulle figurazioni di Mida con le orecchie d'asino: F. Brommer, op. cit. (n. 2), c. 44. Per una approfondita analisi di questo mito {e di altri concernenti Mida) v. E. Pellizer, La peripezia dell'eletto, Palermo 1991, pp. 94-109. * P. es. 5. Eitrem, RE XV 2 (1932), s.v. Midas, 1-3; H. von Geisau, KP III (1975), s.v. Midas, 1-3; F. Bömer, P. Ovidius Naso, Metamorphosen, Buch X-XI, Heidelberg 1980, pp. 259-260; D. Asheri, Erodoto, Le Storie, libro I, Fond.L. Valla 1988, p. 272.
Rapporti tra Greci e Frigi al tempo di Mida
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scherzo) e d’altra parte che questi voleva catturare il satiro perché si burlava di lui appunto a causa delle sue orecchie.
Inoltre i Greci non hanno mai pensato di duplicare la persona del re Mida inventando un capostipite omonimo: per loro il fondatore dello stato frigio era quello stesso Mida che soccombette all’invasione cimmeria (e che dunque sarebbe stato il primo e ultimo re), oppure suo padre Gordies. Nell’assegnare al regno di Frigia una durata cosi breve essi non sbagliavano: scavi antichi e recenti dimostrano che tanto Gordion, quanto la cosid-
detta “città di Mida” (Midassehir, Yazılıkaya) furono centri importanti solo negli ultimi decenni dell’VIII secolo e nei primi anni del VII: lo spazio di una o due generazioniδ. Né hanno mai conosciuto un Mida dio o demone delle selve o delle sorgenti (con l’ec-
cezione già ricordata di Filostrato): nei vari episodi in cui il re incontra divinità o altri esseri soprannaturali (Apollo, Pan, Dioniso, Sileno) egli rivela tutti i limiti e le debolezze di un comune mortale. È bensi vero che Mida fu considerato figlio di Cibele (cosi Plut., Caes., 9, 2, che attribuisce questa opinione ai Frigi; Hyg., fab., 191; 274)”; o, secondo un’interpretazione ra-
zionalistica del mito, dopo
la morte della madre egli ne decretò l'apoteosi
e l’identificazione con la dea (Hesych., s.v. Μίδα θεός; Lex. Suda, s.v. ἔλεγος = E 774) 8.
Ma questa versione non dimostra che i Frigi abbiano venerato un semidio Mida: essa è nata dal fatto che il re aveva considerato Cibele sua divinità tutelare. La facciata rupestre di Yazılıkaya, detta “monumento di Mida” perché vi si legge un’iscrizione che contiene il suo nome, è un tempio di Cibele; la nicchia scavata nella facciata doveva contenere una
statua in bronzo della dea (cfr. $$ 7-8) "ἢ. Un interesse di Mida per il santuario di Pessinunte è ricordato implicitamente da Teopompo (115 J. fr. 260), esplicitamente da Diodoro (III 59, 8); Arnobio (adv. nat., 11 73) credeva addirittura ch'egli fosse stato il fondatore del culto.
Non si può dire che nelle fonti a noi note i rapporti fra Mida e la vegetazione, o le selve, assumano un particolare rilievo. Suppongo che nessuno voglia citare, a questo proposito, un noto passo delle Metamorfosi ovidiane (XI 180-193; cfr. Philostr., Imag., I 22): il barbiere del re si accorse ch’egli aveva le orecchie d’asino, e poiché non osava divulgare la sua scoperta, ma non poteva resistere al desiderio di parlarne, si recò in un luogo solitario, scavò un buco in terra e chinandosi raccontò ciò che aveva visto. Pit tar-
+ C.H. E. Haspels, The Highlands of Phrygia, I, Princeton 1971, passim; A. Gabriel, Phrygie, IV: La cité de Midas. Architecture, Paris 1965, p. 1 (cronologia molto bassa: 715-676). Il tumulo W di Gordion - il più antico - risale a una generazione prima di Mida: M. J. Mellink, in R.S. Young e altri, Three Great Early Tumuli (The Gordion Excavations, Final Reports, 1), University of Pennsylvania, 1981 (d'ora in poi: Gordion, I), pp. 269; 272. 7 Secondo Lattanzio Placido, Narrat. fab. Ovid., Met. XI, fab. 4, anche Esiodo (fr. dub. 352 Merkelbach-West) e Ovidio affermano che Cibele fu madre di Mida. Ma il riferimento a Esiodo non è attendibile (sarebbe molto difficile indicare un’opera di scuola esiodea in cui possa esservi un posto per Mida, che non ha legami genealogici con nessun eroe greco); il frammento andrebbe classificato piuttosto fra gli spurii. Per quanto riguarda Ovidio, è probabile che il mitografo abbia frainteso l’espressione Berecyntius heros (Met., XI 106): qui l'epiteto significa semplicemente “frigio” (v. la nota del Bömer ad L.). * Nel lemma di Esichio Μίδα è genitivo, θεός è femminile; il significato è quindi “la dea di Mida” e non “il dio Mida”, come è sembrato ad alcuni critici. ? Gabriel, op. cit. (n. 6), pp. 53; 63-70; Haspels, op. cit. (n. 6), pp. 73-76; 99; 110-111.
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di in quel luogo crebbero delle canne, che mormorando al vento rivelarono il segreto. Si tratta di un ricamo favolistico sul nucleo originario del mito. Resta soltanto il “giardino di Mida” in Macedonia, ai piedi del monte Bermio (Hdt., VII
138, 2-3; cfr. Nicandr., fr. 74, 11-13 Gow-Scholfield, che nomina
l’Emazia, a nord
del Bermio). Ivi crescevano spontaneamente rose con sessanta petali che superavano tutte
le altre per il loro profumo '°. Il re dunque aveva posseduto un giardino meraviglioso, il che mi sembra non autorizzi a concludere che sia stato una divinità della vegetazione. Il mito è nato dall’idea che ogni cosa riguardante Mida dovesse essere grande e magnifica. Quanto ai rapporti con le acque, una “sorgente di Mida” presso Thymbrion è ricordata da Senofonte (Anab., I 2, 13), un’altra ad Ancyra da Pausania (I 4,5). Ma la formula non designa sorgenti di cui Mida fosse il nume: questi autori alludono a due fra le tante localizzazioni della famosa sorgente in cui il re versò del vino per catturare Satiro (Se-
nofonte) o Sileno (Pausania) che la frequentava. Si potrebbe dunque pensare piuttosto a una “sorgente di Sileno” o “di Satiro”, se non si dovesse tener presente l’osservazione di
M. P. Nilsson: die Flussdämonen sind männlich wie das Wort ποταμός, die Quelldämonen weiblich wie die Wörter κρήνη, πηγή "". Ne si puö parlare di un legame con le acque fluviali: il tuffo nel Pattolo sembra un mito eziologico escogitato per spiegare la presenza dell’oro nel fiume. Secondo l’Eitrem, il von Geisau, il Bömer (cfr. n. 5), le orecchie d’asino alluderebbero a un parziale teriomorfismo di Mida, che lo assimilerebbe a figure del corteggio dionisiaco. Ciö mi sembra impossibile, perché asini e esseri semiasinini, dopo l’età micenea, mancano del tutto nella mitologia (e anche nel culto) dei Greci !2. I Sileni hanno zampe, orec-
chie e coda di cavallo; i Satiri, da quando sono stati distinti dai Sileni, zampe, orecchie e coda di caprone (cfr. n. 1). Il fatto che Dioniso e i suoi seguaci abbiano talvolta l’asino come cavalcatura non mi sembra pertinente !?.
10 I ricordo di queste rose era ancora vivo al tempo di Tertulliano, de cor., 31 (cento petali); de pall., 11 7. "Op. cit. (n. 1), p. 249. Ancora un’altra “sorgente di Mida”, situata presso Celene, s'incontra nel de fluviis (10, 1-2), operetta attribuita a Plutarco. In questo caso l'anonimo redattore, contrariamente alle sue abitudini [quasi tutte le sue citazioni, come quelle dei Parallela Graeca et Romana, sono inventate: cfr. K. Ziegler, RE, XXI 1 (1951), σιν. Plutarchos, 2, cc. 870-871, cfr. 868] adduce come fonte un autore (Alessandro Poliistore) e un'opera (Dpunaxd) realmente esistenti, e lo Jacoby accoglie le ultime righe del passo, in cui si parla del fiume Marsia, tra i frammenti autentici (273 J. fr. 76; cfr. FGH, Illa, Leiden 1974, pp. 285-287). La storia nel suo insieme, invece, è cosi assurda che può esser nata solo nella fertile mente dell'anonimo: Mida, avendo sete, toccò il suolo, e da questo non usci acqua, bensi oro; invocò allora Dioniso, e il dio, benignamente, fece sgorgare un fiume. Tutto ciò sembra una variazione, poco felice, sul tema del “tocco d’oro” (v. $ 1). Segue, come rileva lo Jacoby, una flagrante contraddizione: quando Marsia, nello stesso luogo, fu scorticato da Apollo, dal suo sangue scaturi un fiume; da allora la sorgente di Mida fu chiamata sorgente di Marsia. È chiaro che se il fiume nacque allora, non poteva esisterne uno precedente con un altro nome. Eustazio, în Dion. Perieg. 321, ripete il racconto del de fluviis ma lo abbrevia evitando cosi la contraddizione. 1: I demoni con resta e dorso d'asino raffigurati in un frammento di affresco della casa Tsountas di Micene, datato al Mic. III B (v. 5. Immerwahr, Aegean Painting in the Bronze Age, University Park and London 1990, pp. 121; 216 n. 20; 192 n. 8,
con ulteriore bibliografia) non hanno avuto eredi nel primo millennio a.C. A proposito del culto,
il fatto che si attribuiscano sacrifici di asini in onore di Ares agli Sciti (Clem. Alex., Protr., Il 29, 4; Arnob., IV 25), in onore di Apollo agl'Iperborei (Pind., Pyth., X 31-36; Callim., fr. 186: 492 Pfeiffer, da Clem. Alex., I. cit.), sottolinea Pestraneitä del rito alla tradizione greca. 15 Cfr. [Eratosth.], Cataster., pp. 92-93 Robert. Tuttavia C. Gasparri, LIMC, III 1 (1986), s.r. Dionysos, identifica la cavalcatura del dio, nelle figurazioni, sempre con un mulo, non con un asino (Cat., N. 384-403; 565). La sorgente tracica presso cui Bione, 14 ]. fr. 3, colloca l'incontro fra Mida e Sileno si chiama “Ivvn, che s'interpreta “sorgente
Rapporti tra Greci e Frigi al tempo di Mida
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In conclusione, anziché affermare che una o due figure mitiche sono state confuse con un personaggio realmente esistito, è preferibile supporre che il re Mida sia diventato il
protagonista di vari miti a causa della sua notorietà e di alcune sue caratteristiche, quali la sua favolosa ricchezza e la sua tragica fine !*. Fra l’altro, non è certo per caso ch’egli fu scelto come interlocutore di Sileno nel dialogo sul destino: la massima che per l’uomo sia meglio non nascere, e, se è nato, morire, ben si addice a colui ch’era stato il più potente
dei re noti ai Greci in età arcaica e si era poi ucciso dopo aver visto crollare il suo regno.
Lo stesso fenomeno si osserva a proposito di Servio Tullio: di lui si disse che era figlio di una schiava e di un dio (Vulcano, o il Lar familiaris); che, quando era ancora un fan-
ciullo, una fiamma miracolosa si accese intorno al suo capo, rivelando ch’egli era predestinato al trono; che era il beniamino, o addirittura il segreto amante, della dea Fortuna;
eppure nessuno pensa che vi siano stati due Servii Tullii, uno mitico e l’altro storico, poi ‘arbitrariamente confusi !$. Nel caso di Mida, è possibile cogliere il momento in cui, accanto al ricordo della realtà storica, che non andò mai perduto, si era delineata la dimensione mitica. In una
delle sue elegie parenetiche composte durante la seconda guerra messenica (variamente datata: le ipotesi oscillano fra il 650-625 e il 625-600) "6 Tirteo sostiene che l’unica qualità importante per un uomo è il coraggio in battaglia. Chi manca di questa dote, se anche possedesse la forza dei Ciclopi, la velocità di Borea, la bellezza di Titone, la ricchezza
di Mida e di Cinara, il potere di Pelope, l’eloquenza di Adrasto, non sarebbe degno di alcuna considerazione (fr. 9 Prato = fr. 12 West, 1-12). Mida, due o tre generazioni dopo la sua morte, è messo sullo stesso piano di personaggi che appartengono tutti mitico !?.
al mondo
3. La grande maggioranza dei miti elencati al $ 1 è ambientata in Asia: Mida figlio di Cibele e padre di Lityerses; il prodigio delle formiche; l’avvento al trono; l’invenzione della tibia obliqua; la storia delle orecchie asinine. Cosi anche la trasformazione in oro di
cibi e bevande: soltanto Conone (26 J. fr. 1, 1) fa risalire l’episodio al soggiorno di Mida in Macedonia e afferma ch'egli decise di emigrare in Asia per liberarsi del dono funesto. Un solo tema si richiama esclusivamente alla Tracia o alla Macedonia: l’insegnamento ricevuto da Orfeo (Conon, |. cit.; Ovid., Met., XI 92-93; Iust., XI 7, 14; Clem. Alex.,
dell'asino” (da ultimo H. von Geisau, I. cit. a n. 5). Ma ἴννη significa “bambina” o “pupilla degli occhi”; ivvog è il bardotto, non l'asino; inoltre non si vede perché un nome tracico dovrebbe essere spiegato ricorrendo al lessico greco. M Cosi P. Carrington, AS, 27 (1977), pp. 119-120; L. E. Roller, Class. Antiquity, 2 (1983), pp. 301-302.
4 V. in generale R. Thomsen, King Servius Tullius, Copenhagen 1980; sul rapporto fra Servio e la Fortuna F. Coarelli, Il foro Boario, Roma 1988, pp. 253-288. È accaduto che Servio fosse considerato un personaggio interamente mitico, p. es. da E. Pais, Storia di Roma, I 1, Torino 1898, pp. 324; 333-335; 375 (diversamente in Storia critica di Roma, 1 2, Roma 1913, p. 492 e passim); ma non che fosse sdoppiato. Paragonando Servio Tullio a Mida seguo le orme di Giovanni Tzetzes, Schol. in Aristoph.Plut., 287; Historiae, Chil. VI, 680-684 Leone, che elenca i due fra coloro che ottennero il trono “facilmente e senza fatica”. 16 V. ad esempio D. Musti, in: D. Musti - M. Torelli, Pausania, Guida della Grecia, IV, La Messenia, Fond. L. Valla, 1991, pp. 224-227; V. Parker, Chiron, 21 (1991), pp. 25-47.
Lo nota L. E. Roller, op. cit. (n. 14), p. 302.
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F. Cassola
Protr., 13, 1) !8. Tutti questi autori peraltro considerano Mida
frigio, e re dei Frigi
(Giustino scrive: qui ab Orpheo sacrorum sollemnibus initiatus Phrygiam religionibus implevit). Più complessa è la situazione per quanto riguarda l’incontro con Sileno (o Satiro). Se-
nofonte lo colloca a Thymbrion, nella Frigia meridionale (Anab., I 2, 13), Pausania ad Ancyra
(I 4, 5), Filostrato genericamente
in Frigia (Imag., I 22); Ovidio (Met., XI
85-145), Igino (fab., 191), il Servio Danielino (in Aen., X 142), in Lidia (si tratta di una
Lidia soggetta al re dei Frigi: Ov., op.
cit., 91-92; 106). Anche in varie figurazioni del
mito l’abbigliamento di Mida e dei suoi
seguaci ha carattere asiatico !’.
Per contro, secondo Erodoto, Sileno fu catturato in Macedonia, ὡς λέγεται ὑπὸ Μακεδόνων (VIII 138, 2-3). Gli fanno eco Teopompo (115 J. fr. 74) e Conone (I. cit.).
Ma, ancora una volta, va sottolineato che Mida è il figlio di Gordies per Erodoto; è il noto re frigio per Teopompo (fr. 75a, c; fr. 260) e per Conone. Infine, l’oscuro mitografo Bione ricorda una località in Tracia (14 J. fr. 3)2%. Mida è collegato all'Europa, oltre che da questi dati francamente mitici, anche da altri che si presentano come storici. Callistene afferma ch’egli trasse grandi ricchezze dalle miniere del Bermio (124 J. fr. 54), e probabilmente vuol dire la stessa cosa Conone, se-
condo il quale Mida divenne re dei Briges che vivevano presso il Bermio dopo aver scoperto un tesoro. Giustino, in un passo dedicato alla storia della Macedonia, presenta come fondatore della dinastia argeade Carano; questi avrebbe scelto come sede l’Emathia, e avrebbe consolidato il suo potere scacciando Mida: nam is quoque portionem Macedoniae tenuit (VII 2, 11). La postilla dimostra che l’autore non considera ovvia la presenza
di Mida, quindi non lo distingue dal re frigio di cui parlerà più oltre (XI 7).
Si può dire dunque che gli antichi, come conoscevano un solo Mida protagonista di eventi reali e di miti, cosi conoscevano un solo Mida
localizzato ora in Asia ora in Euro-
pa. Per spiegare la sua ubiquità vennero formulate due teorie. Secondo Conone
il re convinse
i suoi sudditi, i Briges, a lasciare la Macedonia,
e si
stanziò ὑπὲρ Μυσῶν (oltre, o sopra, la Misia: espressione vaga che potrebbe indicare tanto la Frigia Ellespontica quanto la Frigia Maggiore). L'idea di un arrivo dall'esterno, quindi — è lecito supporre — dall'Europa, è accolta anche dagli scoliasti all’Ippolito di Euripide (671); il carro conservato sull’acropoli di Gordion, il cui nodo fu sciolto, o
tagliato, da Alessandro, era quello che aveva portato Mida in Frigia ?!. E forse si deve aggiungere anche un enigmatico passo di Polieno, in cui Mida e i suoi seguaci appaiono come nuovi venuti e conquistatori, distinti dai Frigi che sono indigeni (VII 5).
τε Conone scrive che Mida fu allievo di Orfeo in Pieria. Secondo Strabone, la Pieria appartenne prima ai Traci, poi ai Macedoni (X 3, 17,471). ! F. Brommer, op. cit. (n, 2), cc. 42-44.
2 Numerose fonti ricordano l'episodio senza alcuna indicazione geografica: Arst., fr. 44 Rose; Cic., Tusc., I 114; Max. Tyr., V 1; Philoser., Vita Apoll., VI 27; Himer., Or., XV 5 Colonna. 21 I testo dello scolio è pubblicato dallo Jacoby come frammento di Marsia (135-136 J. fr. 4): ma il nome di questo autore non è citato a proposito dell'intero passo, bensi solo di un particolare irrilevante: il nodo era formato da un tralcio di vite. N.B. Il carro “che aveva portato Mida” è ricordato anche da Zen., Prot., IV 46 Leutsch-Schneidewin, e dalla Suda, s.r καθαμμα Avers=K 31; ma si potrebbe pensare anche al carro che portò Mida alla capitale dalla sua fattoria (v. $ 6).
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Una versione antitetica ebbe fortuna presso i poeti di età ellenistica: Mida, re di Frigia, condusse una spedizione in Europa (Euphor., fr. 33 van Groningen; Lycophr., 13971408; Nicandr., fr. 74, 11-13 Gow-Scholfield). Euforione e Nicandro lo fanno giungere
in Macedonia, mentre i toponimi citati da Licòfrone appartengono tutti alla penisola Calcidica 22.
4. Gli studiosi che credono nell’esistenza di tradizioni circa un dio o demone chiamato Mida ritengono che esse abbiano avuto origine in Macedonia; ma, come si è visto, an-
che se ci limitiamo a considerare il patrimonio mitico i rapporti con la Frigia e la Lidia risultano preponderanti 2. Per quanto riguarda i dati storici, va tenuto presente che il nome Mida, testimoniato sia in licio, sia in ittita, sembra risalire al sostrato anatolico 4: è dunque improbabile che appartenga al repertorio onomastico traco-frigio, e che in Tracia o in Macedonia sia vissuto realmente un Mida, o siano nate leggende il cui protagonista sia stato cosi denominato. Si deve piuttosto ritenere che un re dei i, nell'VIII secolo,
abbia portato un nome attinto alla tradizione culturale indigena, con cui il suo popolo era in contatto ormai da molte generazioni. Tuttavia, l’idea che un Mida abbia abitato la Macedonia settentrionale, che ivi abbia posseduto territori, miniere e giardini, e abbia incontrato Sileno e Orfeo, non può essere sorta dal nulla: occorre in qualche modo spiegarne la genesi.
Erodoto (VII 73) riteneva che i Frigi dell’Asia Minore discendessero dai Bpiyeg della Macedonia; passando il mare, insieme con la sede avrebbero cambiato anche il nome (og-
gi non si direbbe che i due etnici derivano l’uno dall’altro, bensi che le consonanti iniziali PH e B rappresentano due diversi esiti di un’antica sonora aspirata, BH). Con lui concordano Strabone (VII 3,2, 295 e fr. 25; cfr. Eust., 1395, 54-55, in Od., I 101) e Conone (26
J. fr. 1,1), che mescola mito e storia. Secondo Xanto di Sardi i Frigi vennero dall’Europa dopo la guerra di Troia (765 J. fr. 14): si deve intendere, senza dubbio, poco dopo 25. Secondo Omero,
invece, essi erano
2 Il Powell, pubblicando in Collectanea Alexandrina, Oxford 1925, il frammento di Euforione (p. 36, N. 32), ha tagliato la frase riguardante Mida, per motivi che mi sfuggono. Si noti che questa impresa non va confusa con la grande spedizione dei Misi e dei Teucri che partendo dalla Troade avrebbero sottomesso tutti i Traci fino al Mare lonio, e si sarebbero spinti a sud fino alla Macedonia (Hdt., VII 20,2; 75,2; cfr. V 13,2; Lycophr., 1341-1345; Strab., VII fr. 38-39; Plin., NH, VII 206; Dion. Byz., Anaplus Bosphori, 54, p. 23 Güngerich). Questa spedizione è considerata anteriore alla guerra di Troia; Licòfrone, che cita ambedue gli episodi, considera il secondo come una ripetizione del più antico (1398: πάλιν... ἀντιπορθήσει). 2 Cfr. P. Carrington, op. cit. (n. 14), pp. 119-120. HR. Gusmani, Rendic. Ist. Lomb., 92 (1958), p. 875. 25 Xanto, in apparenza, si discosta da Erodoto perché afferma che i Frigi venivano ἐκ τῆς Εὐρώπης καὶ τῶν dpıστερῶν τοῦ Πόντου; la Macedonia sarebbe dunque esclusa. Ma, poiché sembra distinguere “il lato sinistro del Ponτοῦ, cioè la costa balcanica del Mar Nero, dall'Europa, probabilmente usa quest'ultimo termine in un significato ristretto (Grecia settentrionale, Macedonia, Tracia meridionale) che è forse già attestato nell'Inno omerico ad Apollo (251; 291), affiora in due passi erodotei (VI 43,4; VII 8 8 1), e riappare in autori più tardi (Hegesipp. Mekyb. 391 J. fr. 3; lust., VII 1, 5-6; Schol. in Arat. Phaen., 348). Cfr. 5. Mazzarino, Antico, tardoantico ed era costantiniana, Il, Bari 1980, pp. 412-430; F. Miltner, Orpheus, 1 (1954), pp. 14-21; G. Zecchini, in: M. Sordi (ed.), L'Europa nel
mondo antico, CISA XII, Milano 1986, pp. 126-127 (ho trattato questo tema più ampiamente negli atti del Convegno per Santo Mazzarino, in corso di stampa). Se è cosi Xanto, piuttosto che negare una provenienza dalla Macedonia, assegna ai progenitori balcanici dei Frigi un territorio molto ampio, che comprende anche la Macedonia
138
F. Cassola
presenti in Anatolia già al tempo della guerra (Il., Il 862-863; XVI 719, ecc.), anzi ancor prima
(III 184-190).
Strabone (XIV 5, 29, 680-681)
rimprovera
Xanto perché ha osato
contraddire Omero, e Apollodoro di Atene (244 J. fr. 170) perché ha cercato di conciliare le due versioni invece di seguire incondizionatamente il poeta. Oggi nessuno prenderebbe alla lettera la testimoniamza dell'Iliade: se ne può indurre soltanto che nell’epoca in cui il poema raggiunse la sua forma definitiva l’arrivo dei Frigi appariva ormai molto
antico, tanto da suggerire che essi potessero essere stati alleati di Priamo. I dati archeologici confermano la cronologia di Xanto: secondo l’interpretazione più diffusa la nuova cultura che si diffuse nell’Anatolia occidentale dopo la caduta dell’impero ittita fu porta-
ta dai Frigi?*. Se dovessimo pensare che i Brigi abbandonarono in massa le loro sedi balcaniche durante le grandi migrazioni, per trasferirsi in Anatolia, l’ipotesi che il ricordo della loro presenza fosse sopravvissuto in Macedonia fino al tempo di Erodoto, e oltre, apparirebbe
poco credibile. Ma, in primo luogo, è probabile che il passaggio sia avvenuto in più ondate e in epoche diverse 27. Va notato fra l’altro che la forma Bpiyeg è attestata anche in Asia Minore, accanto al più comune Φρύγες (Hesych., s.v. Bpékuv; Steph. Byz., s.v. BpiYES: ... Koi Bpryia ἡ Τρωική); dunque al movimento parteciparono almeno due gruppi di
Frigi,
che parlavano due diversi dialetti 2%.
Inoltre, secondo Strabone, non tutti i Brigi ma solo alcuni di essi erano passati in Asia. Questa notizia, di per sé verisimile, è confermata da numerosi dati che riguardano
altri etnici, fra cui Bpüyeg/BpüyouBpüyot 2. È lecito utilizzarli perché, come osserva ancora il geografo, καὶ Βρύγοι καὶ Βρίγες καὶ Βρύγες καὶ Φρύγες οἱ αὐτοί (XII 3, 20, 550), Brygoi sono attestati in Macedonia da Erodoto (VI 45, 1-2; VII 185,2) al tempo delle guerre persiane, e da Strabone (VII 7,9, 327), che attinge probabilmente ad Eforo, quindi
rispecchia la situazione del IV secolo; Stefano di Bisanzio (s.v. Βρύξ) definisce i Βρύγαι
2 R.D. Barnert, CAH, 112 (1975), p. 418;
J.D. Hawkins, CAH, ΠῚ 12 (1982), p.
M. J. Mellink, CAH, 1112?
(1991), pp. 626-628.
“τ K. Bittel, Kleinasiatische Studien, Istanbul 1942 (rist. Amsterdam 1967), p. 67: O. Haas, Die phrygische Sprachdenkmäler, Sofia 1966 (che non ho potuto consultare); id., Acta Acad. Scient. Hungar., 18 (1970), pp. 31-69; R. Gusmani, Indogerm. Forsch., 72 (1967), p. 327.
2 Ai due passi citati nel testo si può aggiungere probabilmente un frammento di Giuba, il dotto re della Mauri-
tania (275 J. fr. 98, da Hesych., s.v. Bpiyeg):
Ἰόβαςδὲ ὑπὸ Λυδων ἀπὸ φαίνεται Bpiya λέγεσθαι τὸν ἐλεύθερον. Se-
condo un'acuta ipotesi del Gusmani, op. cit. (n. Βρίξ acquistò questo significato quando la Lidia Φρυγα . λέγονται καὶ Bpiyes, perché l’etnico è dei codici. Infine, alla prima battaglia di Filippi
24), p. 860: id., I.ydisches Wörterbuch, Heidelberg 1964, p. 273, fu assoggettata dai Frigi. Non si può citare invece Steph. Byz. s.v. una congettura, sia pure plausibile, del Salmasio, per ®piyes, Dies parteciparono, nelle file dei repubblicani, reparti di schiavi, che si
batterono valorosamente, tanto da venir menzionati nell'elenco dei caduti (Plut., Brut., 45,1; App., BC, IV 112, 471);
secondo Plutarco, Bruto li chiamava Bpiyeg. Ma non è certo che venissero dall'Anatolia, perché fra il 43 e il 42 a.C. i repubblicani avevano arruolato truppe tanto in Macedonia quanto nella provincia d'Asia; d'altra parte Bruto potrebbe aver usato la forma Bpiyes per sfoggio di cultura (alludendo p. es. ai Bruges di Ennio, fr. scaen. Vahlen?, 176, cfr. 173).
# L'accentazione varia nei codici e nelle edizioni moderne: si dovrebbe preferire Bpuyut perché l'y è lungo in Ap.
Rhod., IV 470 (ove peraltro si legge Bpuyoi), cfr. 330. % Come spesso accade negli elenchi di nomi propri il testo dei codici presenta numerose varianti; seguo l’edizio-
ne del Lasserre.
Rapporti tra Greci e Frigi al tempo di Mida (sic) “ethnos
macedonico
vicino agl’Illiri”; l'Etymologicum
139 Magnum
(s.v. ᾿Αφροδίτη,
p- 176, 16-19) considera Bpwyeg la forma dialettale macedonica per Φρύγες. In Tracia, Stefano (s.v. Bpùxng) ricorda i Βρύκαι, detti anche Bpuxeic. Numerose sono le testimonianze riferite al versante adriatico: Eugammone di Cirene (VI sec. a.C.), nella Telegonia, menziona Brygoi in Epiro, confinanti coi Tesproti (p. 109,
15-16 Allen); altri Brygoi abitavano l’Illiria meridionale intorno a Epidamno e Apollonia (ps. Scymn., 434, 437; Strab., VII 7, 8, 326, ambedue da Eforo). Appiano invece chiama
Briges gli antichi abitatori di Epidamno e li ritiene discendenti dei Frigi (BC, II 39, 156). 1 Brigoi di cui parla Apollonio Rodio (IV 470) si sarebbero spinti fino alla Liburnia: vivevano infatti sulla costa di fronte alle isole Brigeidi (330), che il poeta identifica con le Absirtidi (480-481; 514-515); e queste ultime erano collocate dai geografi antichi nel golfo Flanatico (Quarnero).
È dunque chiaro che nuclei più o meno consistenti di popolazione frigia sono rimasti nella penisola balcanica, e non si sono mescolati coi loro vicini, almeno fino al V/IV secolo (Erodoto; Eforo) #1. Quelli che si erano spinti a ovest e a nord-ovest si isolarono forse
dagli altri; ma quelli che occupavano territori della Macedonia settentrionale e della Tracia devono aver conservato rapporti con la Frigia Ellespontica, e, tramite questa, con la Frigia Maggiore. In ciò vedo la più probabile spiegazione del fatto che nell’VIII secolo la
fama di Mida si estese fino alla Macedonia, e alcuni miti di cui egli era protagonista furono ambientati anche in Europa.
5. Le cronache di Sargon II (721-705) riferiscono che dal 717 al 709 un personaggio chiamato Mita di Mushki contrastò tenacemente l’espansione assira sull’alto Eufrate e in Cilicia, appoggiando i principati neoittiti che tentavano, con scarso successo, di salva-
guardare la propria indipendenza. Nel 709 fu conclusa una tregua, presentata da Sargon come una sottomissione del rivale; ma è possibile che i due sovrani abbiano rinunciato a combattersi perché condividevano Cimmeri 2,
la preoccupazione
per una imminente offensiva dei
Da una lettera di un re assiro (il cui nome non appare nel testo) apprendiamo che, in un momento
imprecisato, Mita compi un gesto conciliante: arrestò gli ambasciatori in-
viati da Que (Ci ) all’Urartu per trattare un’alleanza contro gli Assiri, mentre attraversavano il suo dominio, e li consegnò a un funzionario del re. Quest'ultimo dichiara di
aver molto gradito l’iniziativa, sintomo di riavvicinamento dopo un periodo di ostilità, e invita il funzionario a ricambiare il favore. Il primo editore attribuiva la lettera a Sargon, e la datava al 709; in tal caso essa rive-
31 Secondo N.G.L. Hammond, A History of Macedonia, I, Oxford 1972, pp. 407-414; CAH, Ill 12 (1982), pp. 649; 653-656, dal XII al IX secolo i Bryges/Frigi abitarono la Macedonia occidentale, l'Epiro settentrionale e parte dell'Illiria; sembra che egli attribuisca loro l’organizzazione di uno stato unitario, dal momento che indica in Edessa la loro capitale. Trascurando i dati omerici, lo Hammond afferma che i Frigi emigrarono in massa verso l'Asia Minore intorno all’800 a.C. Scrive inoltre: “The period of Brygian ascendancy ended, according to Herodotus, when they set off for Asia”; ma Erodoto non dice nulla di simile. * Sui rapporti fra Mita e Sargon: J.D. Hawkins, CAH, ΠῚ 12 (1982), pp. 416-422.
140
F. Cassola
lerebbe la nuova politica di Mita, dopo la tregua ®. Altri però preferiscono pensare a Tiglatpileser ΠῚ (744-727), e datano il documento fra il 735 e il 732 #. Si dovrebbe allora
supporre che Mita abbia sfidato per due volte la potenza assira, e ambedue le volte abbia rinunciato al tentativo.
Alla fine del secolo scorso H. Winckler identificò il Mita citato nelle fonti assire fino allora pubblicate con Mida, re La sua tesi, ben presto universalmente accolta, venne poi confermata da un'iscrizione rinvenuta a Tuwanuwa (Tyana), uno degli staterel-
li neoittiti alleati con Mita di Mushki: il testo contiene il nome Mida ed è redatto in frigio 3. Partendo da questa plausibile identificazione molti studiosi, soprattutto in passato, ritennero — contro il parere del Winckler — di poter considerare i termini geografici “Mushki” e “Frigia” come sinonimi, e identificarono gli “uomini di Mushki”, citati anche in
altri documenti, coi Frigi. L'ipotesi ebbe un notevole influsso sulla ricostruzione della storia anatolica. Infatti un passo delle cronache assire concernente i primi anni di Tiglatpile-
ser I (1115-1077) ricorda che il re aveva sbaragliato 20.000 “uomini di Mushki” sull’alto Tigri, e aggiunge che lo stesso popolo si era stanziato sull’alto Eufrate cinquant'anni
prima, cioè poco dopo il crollo dell’impero ittita %. Da ciò si volle indurre che i Frigi, dopo aver travolto gl’Ittiti, avevano attraversato rapidamente tutta l’Asia Minore fino alla frontiera degli Assiri. Tuttavia da tempo è stata sostenuta un’altra ipotesi, che oggi è la pi accreditata: il popolo di Mushki, nei primi secoli della sua storia, non avrebbe avuto nulla in comune coi
Frigi, e sarebbe giunto sull’Eufrate non da ovest, ma da nord o da nord-est, I risultati di
recenti indagini archeologiche dimostrano che nel corso del XII secolo nella zona dell’alto Eufrate si insediò una nuova popolazione: ma la cultura che questa portava è ben distinta da quella che contemporaneamente si affermava in Frigia, e ha invece rapporti con l’area caucasica (Georgia). Gl’invasori dovrebbero essere appunto gli “uomini di Mushki” citati
da Tiglatpileser 1?9. Va ricordato anche lo studio del Gurney su Mita di Pakhkhuwa, personaggio menzionato in un documento ittita databile a uno degli ultimi re, cioè ai primi decenni del XII secolo (KUB, XXIII 72). Gl’Ittiti consideravano questo Mita come un vassallo; egli inve-
ce si comportava con indipendenza, e il testo mette in rilievo la sua slealtà. Pakhkhuwa
> H.W.F. Saggs, Iraq, 20 (1958), pp. 182-187; 205 (che non ho potuto vedere); la tesi del Saggs è stata ripresa da N. Postgate, Iraq, 35 (1973), pp. 21-34. # M. J. Mellink, Florilegium Anatolicum (Mélanges Laroche), Paris 1979, pp. 249-250. % Sull'iscrizione di Tyana: C. Brixhe, M. Lejeune, Corpus des inscriptions paleo-phrygiennes, 1, Paris 1984, T-02 b; Mellink, op. cit. (n. 34), pp. 249-257. © D.J. Wiseman, CAH, Il 23 (1975), pp. 457-458. 7 V. per tutti H. Bengtson, Griech. Gesch.$, Munchen 1977, p. 75. “ Cosi Ed. Meyer, Gesch. des Altertums, Il 2), Stuttgart 1953, p. 362: M. J. Mellink, Anadolu Arastirmalari (Gedenkschrift Bossert), Istanbul 1965, pp. 318-320. # V. Sevin, AS. 41 (1991), pp. 87-97. La differenza fra le culture dell'Anatolia occidentale e orientale si manifesta anche piü tardi, fino all'VIII secolo: G.K. Sams, AS, 24 (1974), p. 181. Un'iscrizione geroglifica, di epoca indeterminata fra XII e X secolo, conservata presso Iconion in Licaonia (dunque a sud-est della Frigia propriamente detta), pubblicata e dottamente commentata da P. Meriggi, Athenaeum, 42 (1964) = Studi Malcovati, pp. 52-59, potrebbe indicare il punto più occidentale raggiunto dal “popolo di Mushki”.
Rapporti tra Greci e Frigi al tempo di Mida
141
doveva trovarsi sull’alto Eufrate, nello stesso territorio che poco dopo è chiamato “paese di Mushki” dagli Assiri. Il Gurney suppone che i seguaci di Mita fossero già “uomini di Mushki”; se cosi fosse, poiché in quel momento
l’impero ittita era ancora in piedi, essi
non sarebbero potuti venire da occidente, e risulterebbe confermata la loro provenienza
da est o da nord-est‘0. È probabile che l’etnico Μόσχοι, ampiamente attestato nelle fonti classiche, si colleghi al coronimo Mushki. I Moschi vivevano sulla costa orientale del Mar Nero, a sud del Caucaso (Strab., XI 2, 1, 492; 14, 1, 527; XII 3, 18, 548); le sorgenti del Phasis si trova-
vano nel loro territorio (Plin., NH, VI 12). Ecateo li considerava parte dei Colchi (1 J. fr. 288 = 301 Nenci); per Strabone invece si trattava di due popoli vicini (XI 2, 14, 497; cfr Plin., NH, VI 29), ma il confine non era ben determinato (Strab., XI 2, 18, 499). Erodoto
nomina i Moschi due volte, insieme coi Tibareni, e assegna gli uni e gli altri alla XIX satrapia dell’impero persiano (III 94; VII 78). Questi etnici sembrano corrispondere ai coronimi Tabal e Meshek, spesso abbinati nel Vecchio Testamento (Genesi, 10, 2; Paralipomeni, I 1, 5; Ezechiele, 27, 13; 32, 36; 38, 2-3; 39, 1; solo Meshek nel Salmo 120, 5).
Si ritiene che l’unificazione della Frigia e di Mushki in un solo regno sia opera di Mida *!. Secondo un’abitudine molto diffusa nel mondo antico gli Assiri avrebbero designato la nuova compagine statale col nome della regione per loro pit vicina e da tempo più nota, sebbene l’elemento frigio fosse dominante.
6. Sull’avvento al trono di Mida le fonti sono divise: è lecito supporre che gli stessi Frigi, al tempo di Alessandro il Grande, non avessero pit idee chiare in proposito. Arriano (Anab., II 3, 2-8) ci dà il resoconto più ampio, e lo presenta come attinto alla tradizione locale di Gordion, che gli ufficiali di Alessandro conobbero quando accompa-
gnarono il conquistatore nella sua visita al tempio di Zeus, ove, come ho già ricordato, sciolse, o tagliò, il famoso nodo gordiano #. Gordies, padre di Mida, era un povero contadino; mentre guidava l’aratro trainato da una coppia di buoi, un’aquila, presagio di regno, si posò sul giogo e vi rimase fino a sera. Molto tempo dopo i Frigi erano in preda a
una lotta civile; un oracolo avverti che la pace sarebbe stata ristabilita da un re che sarebbe venuto su di un carro. Mentre l’assemblea popolare discuteva la situazione, sopraggiunse il carro che portava Gordies e Mida: gli astanti (non è chiaro per quale motivo) decisero che il vaticinio si riferiva al secondo, e lo acclamarono re.
Eliano (NA, XIII 1) ricorda solo il prodigio dell’aquila, e nota ch’esso presagiva il regno per il figlio di Gordies. ® O.R. Gurney, Annals of Arch. and Anthr. Univ. of Liverpool, 28 (1948), pp. 32-47. V. sopra, n. 24, sull'ori-
gine anatolica e non frigia del nome Mita/Mida.
#1 Ed. Meyer, Gesch. des Altertums III, Stuttgart 1954, p. 35; K. Bittel, op. cit. (n. 27), pp. 108-109; M. J. Mel-
link, L cit. (n. 38). 4 E.A. Fredricksmeyer, Class. Phil., 56 (1961), pp. 160-168, ha osservato con ragione che Alessandro può essere stato spinto a visitare il tempio non solo dal vaticinio che prometteva il dominio dell" Asia a chi avesse sciolto il nodo gordiano, ma anche da un interesse personale per la tradizione su Mida, ancor viva in Macedonia al suo tempo. Lo studioso aggiunge che agli occhi di Alessandro lo Zeus di Gordion doveva essere un dio macedone, portato in Frigia da Mida; questa ipotesi mi pare assai meno probabile. Il re era un appassionato lettore di Omero (Ones., 134 J. fr. 38, ap. Plut., Alex., 8, 2), e senza dubbio credeva che i Frigi fossero in Asia già dall'età eroica.
142
F. Cassola
Il racconto di Giustino (XI 7, 3-14) è ben diverso: eppure è inserito nel medesimo contesto (il soggiorno di Alessandro a Gordion e la visita al tempio), quindi in ultima analisi dovrebbe risalire, sia pure attraverso Clitarco, alle stesse fonti, cioè alle testimo-
nianze degli ufficiali macedoni. A parte numerose varianti di scarso rilievo (ad esempio non si parla di un’aquila, ma di aves... omnis generis) la differenza sta nel fatto che il
prodigio è interpretato come una promessa di regno per Gordies, e più tardi il carro porta ai Frigi il solo Gordies, che diventa re; gli succederà, a suo tempo, Mida. In teoria si dovrebbe considerare più attendibile Arriano: ma questi, senza accorgersene, si contraddice, perché scrive che a Gordion si trovava la reggia di Gordies e di suo
figlio Mida (Anab., Il 3, 1). Qualcosa di simile, in modo un po’ vago, sembra dire Stra-
bone, quando parla di modesti villaggi che hanno perduto il loro antico aspetto di città, ove abitarono Mida “e prima di lui Gordies e alcuni altri” (XII 5, 3, 568). D’altra parte, affermare che la reggia appartenne a Mida (Curt. Ruf., III 1, 11), o che Gordion fu la residenza di Mida (Plut., Alex., 18, 1), non significa escludere che nell’una e nell'altra sia
vissuto già Gordies; infatti Curzio Rufo, scrivendo vehiculum quo Gordium, Midae pa-
trem, vectum esse constabat, mostra chiaramente che per la sua fonte il re designato dal vaticinio era Gordies (è probabile del resto ch’egli, come Trogo-Giustino, utilizzi Clitar-
co). A mio parere l’uso frequente della formula “Mida figlio di Gordies” nelle fonti suggerisce di per sé che già Gordies abbia regnato sui Frigi. La fama di cui godeva Mida spiega facilmente ch’egli abbia eclissato il padre e sia stato a lui sostituito nella leggenda, mentre sarebbe più difficile spiegare il fenomeno inverso. Senza dubbio Strabone non sbaglia quando attribuisce a Gordies anonimi predecessori (ma non afferma che siano vissuti nella stessa località,
e tanto meno
nella stessa reg-
gia): i Frigi stanziati sull’alto corso del Sangario devono aver avuto, da sempre, dei capi. Ma quando un personaggio diventa protagonista di leggende che lo descrivono come predestinato al trono ciò significa ch’egli non ha avuto il potere per eredità, e che ha fondato una nuova dinastia. Poiché le due versioni del racconto coincidono nel parlare di lotte intestine cui Gordies (in Giustino) o Mida (in Arriano) pose un termine, possiamo supporre che il nuovo re - probabilmente Gordies - abbia unificato, in tutto o in parte, i Frigi. Ciò
non esclude che la creazione del grande stato comprendente la Frigia e il paese di Mushki sia stata opera di Mida, come pensano alcuni Strabone (1 3, 21, 61; cfr. Eust., p. 1671, se, bevendo sangue di toro, mentre i Cimmeri scono il suicidio (e il mezzo usato), ma non
storici moderni (cfr. n. 41). 22 in Od., XI 14) afferma che Mida si ucciinvadevano il suo regno. Altri autori conone indicano il motivo (Plut., Flam., 20, 5;
Apollon., Lex. Hom., p. 156 Bekker; Hieron., Chron., stravagante (Plut., de superst., 8, 168 F)*.
a. 696)
#1 La stessa forma di suicidio è attribuita a Psammenito (Psammetico III), (Hdt., Ill 15, 4); a Temistocle (Aristoph., Ég., 83-84; Diod., XI 58, 3; Plut., 20, 5), ecc gli antichi infarti credevano che il sangue di toro fosse un veleno 318). Sul problema: R.J. Lenardon, The Saga of Themistocles, London 1978, vite di Tenustocle e di Camullo, Fond. L. Valla, 1983, pp. 282-284.
o lo spiegano
in modo
ultimo re della XXVI dinastia egiziana Them, 31); ad Annibale (Plut., Flam., mortale (v. p. es. Nic., Alexiph., 312pp. 197-199; L. Piccirilli, Plutarco, Le
Rapporti tra Greci e Frigi al tempo di Mida È stato molto studiato un grandioso tumulo
nei pressi di Gordion,
143 contenente
lo
scheletro di un uomo sui 65 anni e ricche offerte. Secondo R.S. Young, che faceva risalire la deposizione al 730 circa, e più tardi al 720 circa, vi fu sepolto il padre o comunque l'immediato predecessore di Mida; ora si tende ad abbassare la data al primo decennio del VII secolo e a riconoscere nel tumulo la tomba dello stesso Mida *. Sia l’avvento, sia la morte di Mida erano registrati e datati nella Cronaca di Eusebio; purtroppo l’originale greco è andato perduto, e le due versioni a noi pervenute non concordano. L'ascesa al trono, per San Girolamo (p. 89 b Helm) ebbe luogo nel terzo anno della nona Olimpiade (742-741), per il traduttore armeno (p. 82 Schoene) nel terzo anno della decima (738-737). Più leggera è la divergenza sulla morte del re: Ol. XXI 1 (696695) in Girolamo (p. 92 b), OI. XXI 2 (695-694) nella versione armena (p. 84).
Per Giulio Africano invece Mida mori durante il breve regno di Amon in Gerusalemme, da lui datato al 676-674 (ma dai moderni al 642-640)45. Evidentemente Eusebio, che conosceva questo autore e spesso lo ha utilizzato, nel caso di Mida ha deciso di non tenerne conto, e probabilmente a ragione #6.
La cronologia di Mida, del resto, non era un mistero per i Greci: Ellanico, per datare la nascita di Terpandro, prendeva come punto di riferimento “il tempo di Mida” (4 J. fr. 85 b); supponeva dunque che per il suo pubblico questa indicazione fosse comprensibile. Certo la si può considerare troppo vaga; ma presumibilmente significa “quando il re era ancora vivo”, cioè “prima del 696-695”. Ancora da Ellanico (fr. 85 a) apprendiamo che Terpandro fu premiato alla prima celebrazione delle Carnèe (676-675), il che è piena-
mente compatibile con la datazione della nascita ad almeno vent'anni prima *”. 7. Si legge in Erodoto (I 14, 2-3) che Mida inviò a Delfi, come offerta votiva ad Apollo, il trono su cui soleva sedersi quando rendeva giustizia; era un’opera “degna di essere vista” 4. L'offerta, nota il Muscarella, fa supporre che il re abbia consultato l’oraco-
RS. Young, Expedition, 1 (1958-1959), N. 1, pp. 3-13; id., Hesperia, 38 (1969), pp. 259-260; A.J.N.W. Prag, Danaé Thimme, AS, 39 (1989), pp. 159-165; K. DeVries, Amer. Journ. Arch., 94 (1990), pp. 388-390; M. J. Mellink, Gordion, 1 (cit., n. 6), pp. 271-272; ead., CAH, III 23 (1991), pp. 633-634. Sul tumulo MM in generale: RS. Young, Gordion, I, pp. 79-190. 4 JA. Cramer, Anecd. Parisiensia, Il, Oxford 1839 (rist. Hildesheim 1967), p. 264. L'opera edita dal Cramer è una compilazione di autore ignoto (erroneamente attribuita nel codice a Leone Grammatico), solo in parte risalente a Giulio Africano. Cfr. H. Gelzer, Rhein. Museum, 30 (1875), p. 252, n. 6; id., Sextus lulius Africanus und die byz. Chron., I, Leipzig 1885 (rist. New York, s.d.), p. 179. “ U. Cozzoli, I Cimmeri, Roma 1968, p . 81-82, considera Giulio Africano ed Eusebio ugualmente inattendibili. Apparentemente il materiale archeologico è a favore di Eusebio, ma si tratta di un'illusione poiché esso è stato datato sulla base della sua cronologia: lo avverte esplicitamente R.S. Young, Gordion, 1 cit. (n. 6), p. 10. L'unico criterio di scelta è quello indicato da M. J. Mellink, ibid., p. 272; CAH, III 22 (1991), p. 624: la data eusebiana si accorda meglio con le cronache assire. La data di Giulio Africano ha però sempre avuto i suoi fautori: p. es. F. LehmannHaupt, RE, XI 1 (1921), s.v. Kimmerier, cc. 413-414; A. Gabriel, I. cit. (n. 6); A.M. Snodgrass, The Dark Age of Greece, Edinburgh 1971, p. 350; O. Murray, Early Greece, London 1993, p. 246. * Cfr. D. Ambaglio, L'opera storiografica di Ellanico di Lesbo, Pisa 1980, p. 146. 4 R.S. Young, Amer. Journ. Arch., 61 (1957), aveva interpretato una tavola di legno intarsiato, rinvenuta nel tumulo P di Gordion (ove era sepolto un bambino di circa cinque anni appartenente alla famiglia reale), come la era di un trono, e aveva osservato che essa poteva dare un'idea del trono offerto a Delfi da un Mida. In seguito idea, e defini l'oggetto come un paravento: Gordion, 1, cit. (n. 6), pp. 62-67. Cfr. anche M. J. Mellink, ibid.,
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F. Cassola
lo 4; e in ciò non vi sarebbe nulla di strano, perché nell’VIII secolo la fama di Delfi era già pienamente affermata, anche fra gli aedi delle isole e delle coste anatoliche (Il., IX 401405). È certo che Erodoto, menzionando semplicemente Mida figlio di Gordies, pensava al
grande re di Frigia. Ma la sua opinione è stata da alcuni respinta, da altri messa in dubbio: si dovrebbe pensare a un omonimo di epoca più tarda 5°. Sappiamo infatti che ancora nel VI secolo, fino al tempo di Creso, esisteva in Frigia una “stirpe regale” i cui esponenti, vassalli dei re lidii, portavano i nomi di Mida e Gordies (Hdt., I 35; 45). I nomi dimostrano che essi volevano essere considerati discendenti dell’antica dinastia frigia, e
nulla vieta di credere che lo fossero realmente. Probabilmente gli autori che hanno assunto una posizione scettica ritengono che i rapporti fra mondo greco e mondo frigio nell'VIII secolo fossero ancora irrilevanti, e che quindi sia impensabile un interesse di Mida per il dio di Delfi. Ma questo punto di vista non è affatto ovvio. È bensi vero che la Frigia, al tempo del suo massimo splendore (tempo in cui, secondo
autorevoli studiosi, era più progredita della Grecia per quanto riguarda la vita economica e lo sviluppo della tecnica) 5 guardava soprattutto al Vicino Oriente, da cui importava
merci e riceveva influssi stilistici 52. L’arte frigia è, in generale, indipendente dall’arte greca 53, e mancano indizi sicuri di importazioni sia dalla Grecia, sia anche dalle colonie della costa anatolica 5. Ma
tutto ciò non esclude che vi fossero rapporti fra i due mondi, i
quali erano in contatto fra loro sia indirettamente, attraverso la Lidia, negli ultimi decenni dell'VIII secolo soggetta ai Frigi, sia direttamente: la regione del Sipilo era chiamata Frigia “dagli antichi” (cosi Strabone, XII 8, 2, 571), e la città che si credeva fosse esistita
sul Sipilo (probabilmente mitica, poiché era crollata ai tempi di Tantalo: Pherec., 3 J. fr. 38; Strab., I 3, 17, 58) era una πόλις Φρυγίας per Ellanico (4 J. fr. 76). Pelope era lidio per Pindaro (Ol., I 24), ma frigio per Erodoto (VII 11, 4) e altri (p. es. Strab., I. cit.)55.
pp. 264-265: si tratterebbe di una spalliera che veniva sistemata dietro una persona seduta su di un tappeto 0 un cuscino. ** Anatolia and the Ancient Near East (Studies Özgüg), Ankara 1989, p. 333. % L'offerta di Mida, e anche quella di Gige, per J. Defradas, Les thèmes de la propagande delphique, Paris 1954, pp. 214-215, sono dei falsi. Secondo P. Georges, Barbarian Asia and the Greek Experience, Baltimore and London 1994, pp. 4; 248 n. 15; 249 n. 17, può anche darsi che il trono fosse un manufatto frigio, ma l'offerente doveva essere un greco. Pensano a un Mida di epoca relativamente tarda: C. Roebuck, lonian Trade and Colonization, New York 1959, p. 43 n. 10; D. Asheri, L cit. (n. 5). Come ho già detto (n. 48), R.S. Young parla cautamente del trono offerto da un Mida. # C.H. E. Haspels, op. cit. (n. 5), p. 110: J.N. Coldstream, Geometric Greece, London 1977, pp. 265-266. s2 V. p. es. A. von Saldern, Journ. of Glass Studies, 1 (1959), pp. 23-49; G.K. Sams, op. cit. (n. 39), pp. 169196: R.S. Younge altri, Gordion, | cit. (n. 6) passim; F. Prayon, Phrygische Plastik, Tübingen 1987. 5 F. Isik, AS 37 (1987), pp. 163-178; F. Prayon, op. cit. (quest’ultimo tuttavia ammette, sia per la plastica sia per la ceramica, che alcuni motivi frigi derivano da modelli greci: p. 183). % M. J. Mellink, Gordion, I, cit. (n. 6), supponeva che alcuni frammenti di ceramica rinvenuti nella rocca di Gordion fossero di origine greca; ma in CAH, ΠῚ 22 (1991), pp. 631: 640, mostra di aver cambiato idea. δι Cfr. P. Kretschmer, El. in die Gesch. der griech. Sprache, Göttingen 1896, pp. 203-204; 5. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente!, Milano 1989, pp. 173; 355 n. 500; C. Talamo, La Lidia arcaica, Bologna 1979, p. 61 e n. 154.
Rapporti tra Greci e Frigi al tempo di Mida
145
Una solida e diffusa tradizione rende certo che i Greci impararono molto dai Frigi nel campo della musica: fra l’altro, l’uso dell’aulo, che è attestato nelle figurazioni già verso la fine dell’VIII secolo. Secondo la Suda, s.v.
Ὄλυμπος = O 221, Olimpo, maestro di au-
letica, fu contemporaneo di Mida; quest’ultimo poi, come
ho già ricordato, era conside-
rato l’inventore della tibia obliqua (Plin., NH, VII 204) 5°. E se i Greci, almeno a quanto sappiamo finora, non esportavano verso la Frigia, da essa importavano attivamente: in particolare, manufatti di bronzo”.
In altri campi
invece la cultura frigia è stata influenzata dalla greca.
a) I rapporti tra i due alfabeti (che sono pressoché identici) sono stati molto discussi,
e sono state proposte tre ipotesi: i due popoli hanno adattato la scrittura fenicia alle proprie esigenze indipendentemente l’uno dall’altro; l’alfabeto greco deriva dal sistema feni-
cio non direttamente, bensi attraverso la Frigia; l’alfabeto frigio deriva dal greco. Ma da tempo è stato esaurientemente dimostrato che la terza ipotesi è l’unica accettabile 58, b) Il DeVries ha notato la frequenza di brocche, coppe e tazze nei megara e nelle tombe di Gordion, e ne ha indotto che la famiglia reale e l’aristocrazia avevano adottato l’a-
bitudine, tipicamente greca, del simposio. Si constata dunque un influsso greco sullo stile di vita frigio, al livello della classe dominante 5°. Vale la pena di ricordare che sulla base di un’analoga documentazione archeologica, risalente in parte allo stesso periodo (dagli
ultimi decenni dell'VIII secolo in poi) si è potuto osservare che il costume del simposio si era diffuso nella vita quotidiana e nei riti funebri della nascente aristocrazia latina, tramite le prime colonie greche fondate in Italia 90. c) La titolatura ufficiale di Mida è greca. Essa ci è nota da un'iscrizione incisa sulla
facciata rupestre di Yazılıkaya, in cui si legge fra l’altro Midai lavagtaei vanaktei (dativo). La cronologia è controversa, ma oggi prevale la data alta (inizio del VII secolo), che permette di considerare il documento di poco posteriore alla morte del re δ). La lettura esatta risale a K.O. Müller; in seguito prevalse, per molto tempo, l’erronea
trascrizione lavaltaei, che impediva di comprendere il significato del vocabolo. Lo Huxley, aderendo a una proposta di S. Luria, ha ricuperato il testo del Müller, e la forma lavagtaei è stata confermata qualche tempo dopo anche da M. Lejeune #2.
Per il Müller era facile riconoscere in vanaktei il termine greco (F)dvaé, ben noto da Omero. Ma senza dubbio egli aveva rettamente interpretato anche lavagtaei, poiché os-
% M.L. West, op. cit. (n. 4), pp. 80-81; 91-92; 330-333.
5 J.M. Birmingham, AS, 11 (1961), pp. 185-195.
st Prima ipotesi: R.S. Young, Hesperia, 38 (1969), pp. 252-296; G.K. Sams, op. cit. (n. 39), p. 192. Seconda ipo-
tesi: R.D. Barnett, CAH, Il 23 (1975), p. 434. Terza ipotesi: 5. Mazzarino, op. cit. (n. 55), pp. 252-256; M. Lejeune,
SMEA, 10 (1969), pp. 40-41; id., Kadmos, 9 (1970), p. 64; C. Brixhe, M. Lejeune, op. cit. (n. 35), p. IX. # In: K. DeVries (ed.), From Athens to Gordion (Memorial Symposium Young), Philadelphia 1980, pp. 33-46. “ὁ G. Bartoloni, M. Cataldi Dini, C. Ampolo, Dial. Arch.3 2 (1980), pp. 132; 185 e passim. Testo e cronologia: C. Brixhe, M. Lejeune, op. cit. (n. 35), M-01a. Descrizione del monumento: A. Gabriel, op. cit. (n. 6), pp. 51-72; C.H. E. Haspels, op. cit. (n. 6), pp. 73-76; 100-111. La Haspels, pp. 103-104; 108-109;
135, data l'iscrizione agli ultimi decenni dell'VIII secolo: sembra dunque supporre che sia stata incisa in vita di Mida (il che non è affatto impossibile). € ΚΟ. Müller, Die Dorier, I, Breslau 1824, p. 8 n. 1; G.L. Huxley, Greek Rom. Byz. Stud.. 2 (1959), pp. 8399; M. Lejeune, Athenaeum, 47 (1969) = Studi Meriggi, pp. 179-192.
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F. Cassola
serva che ambedue i titoli dimostrano una sorprendente analogia col greco nella flessione e nelle radici: aveva dunque intuito l’identità di lavagtaei con λαξ αγέτας (condottiero del popolo in armi), voce ch’egli conosceva soltanto nella forma λαγέτας, attestata da Pindaro (OI, I 89; Pyth., III 85; IV 107) e da Sofocle (fr. 221, 12 Radt; cfr. anche Hesych., s.v.
λαγέτης). Lo Huxley e il Lejeune potevano estendere il confronto al lessico dei testi in lineare B, che comprende sia wa-na-ka (F&vo&) sia ra-wa-ke-ta (λαξαγέτας). È singolare il fatto che i due titoli, riferiti, almeno nel regno miceneo di Pilo, a due poteri ben distinti,
siano cumulati nella persona di Mida ®. Non è facile dire quando questi termini siano stati adottati dai frigi. Poiché il titolo di Εάναξ significa in modo inequivocabile “re” nel greco miceneo, mentre nei poemi omeri-
ci ha assunto quello più generico di “signore, capo”, e poiché tanto vanaktei quanto lavagtaei rispecchiano uno stadio dell’evoluzione fonetica in cui il
digamma era ancora
pronunciato, il Lejeune preferisce pensare a una data preomerica (cioè ai cosiddetti secoli oscuri, in cui si formò la tradizione epica). Lo Huxley, nello stesso ordine di idee, propo-
neva addirittura l’età micenea, durante la quale i Frigi erano in contatto col mondo greco nelle loro sedi macedoniche **. Tuttavia non si può escludere — come ammette anche il Lejeune — che il prestito risalga all'VIII secolo. Ancora nella forma definitiva dei poemi omerici ἄναξ, sebbene non designi esclusivamente il re, può designare anche il re; inoltre, è un attributo degli dèi. Del resto, com'è noto, lo stesso titolo di βασιλεύς non vuol dire soltanto “re”, ma anche
“principe”, e nell'espressione βασιλῆι ἄνακτι (Od., XX 194) non è chiaro quale dei due termini rafforzi l’altro 65. Il digamma era scomparso nel dialetto ionico, ma sopravviveva nell’eolico %: e il regno di Frigia, se è vero che si estese fino al Sipilo, doveva avere rap-
porti con l’Eolide più che con la Ionia (a questo proposito si dovrebbe ricordare il matrimonio di Mida con una principessa cumana: ma poiché il tema fa parte del quod est demonstrandum lo tratterò a parte, nelle pagine seguenti). A mio parere la datazione all'VIII secolo è preferibile. La lingua frigia disponeva di una parola per designare il re: BaAArjv (Soph., fr. 515 Radt; Hesych., s.v.)7. La scelta di
nuovi titoli fa pensare a una radicale trasformazione dell’autorità regia, come quella che si ebbe in Frigia quando si formò un grande regno unitario, ed ebbe fine la situazione di frazionamento tribale presupposta dalla leggenda di Gordies e di Mida come pacificatori delle discordie interne ($ 6).
8. Nella Costituzione dei Cumani, che, come la Costituzione degli Ateniesi, andava
sotto il nome di Aristotele ma più probabilmente fu redatta da un suo allievo, si narra che Hermodike, moglie di Mida re dei Frigi, si distingueva per la sua bellezza, ma era an-
+ Lo ha osservato il Lejeune, op. cit. (n. 62), pp. 191-192. + Lejeune, op. cit. (n. 62), pp. 188-192; Huxley, op. cit. (n. 62), pp. 97-98. ** Secondo F. Ameis, C. Hentze, P. Cauer, Homers Odyssee!*, Leipzig 1920, ad L., ἄναξ rafforza βασιλεὺς e distingue un vero sovrano dalla folla dei βασιλεῖς itacensi; cosi anche J. Russo, Omero, Odissea, V, Fond. L. Valla 1985, p. 2 P. Wathelet, Les traits coliens dans la langue de l'épopée grecque, Roma 1970, pp. 146-147. + Lejeune, op. cit. (n. 621,p. 186 e n. $3.
Rapporti tra Greci e Frigi al tempo di Mida
147
che abile (τεχνικτ) e saggia, e per prima coniò moneta a Cuma (πρώτην νόμισμα κόψαι Κυμαίοις:
Arst., fr. 611, 37 Rose, da Heracl. Lemb.,
de r. p., 37 Dilts).
Giulio Polluce, in un elenco di personaggi cui si faceva risalire l'invenzione della moneta (πρῶτος ἔκοψε νόμισμα), cita Demodike,
figlia di Agamennone
re di Cuma,
che
sposò Mida il Frigio (IX 83). L’erudito non può aver attinto all’epitome di Eraclide Lembo, perché dà un particolare in piü (il re Agamennone). Ma non deriva nemmeno dal testo originale della Κυμαίων πολιτεία, sia perché parla di una Demodike anziché di una Hermodike (questa variante peraltro potrebbe essere dovuta a un incidente della tradizione manoscritta in uno dei due testi), sia perché attribuisce alla principessa non l’introduzione della moneta
a Cuma, bensi l’invenzione della moneta
dunque due fonti indipendenti:
in assoluto. Abbiamo
la versione di Polluce, che dà maggiore importanza
all’opera di Demodike, potrebbe risalire a Eforo, strenuo laudator della sua città. Come la notizia sull’offerta votiva a Delfi, cosi quella sul matrimonio di Mida con
una principessa cumana è talvolta considerata una pura invenzione #, talvolta riferita a un altro Mida, più tardo 9. Per completezza ricordo anche una vecchia tesi dello Steuding, secondo cui si tratterebbe di una costruzione evemeristica, suggerita dalla notoria ricchezza del re frigio. Ciò
sarebbe confermato da un passo del de fluviis pseudoplutarcheo (7, 2): Pattolo, figlio di Leucotea, durante i riti misterici per Afrodite (sic) violentò la propria sorella Demodike, senza riconoscerla; scoperto il misfatto si uccise gettandosi nel fiume Chrysorrhoas, che
da lui prese il nome di Pattolo”°. In tutto ciò l’evemerismo, che consiste nel trasferire sul piano umano figure ed episodi mitici, non c’entra per nulla: qui anzi sarebbe avvenuto il contrario, perché un dato storico (la ricchezza di Mida e di sua moglie) avrebbe dato ori-
gine a un mito. Ma lo Steuding doveva sapere che il de fluviis, nove volte su dieci, non offre tradizioni bensi solo le fantasie dell’autore”'. Sebbene l’attenzione degli storici si concentri sulla Costituzione dei Cumani e su Polluce, è ben noto che queste fonti non sono isolate. Secondo la Vita erodotea di Omero (Il. 131-140 Allen) il poeta, mentre soggiornava a Cuma, fu invitato dai rev@epoi di Mida
(cioè gli affini: i parenti della moglie) a comporre per il defunto re un epitafio, che fu inciso sulla sua tomba 72, Il Certame di Omero e di Esiodo (Il. 260-274 Allen) attribuisce invece l’invito ai figli di Mida, Gorgo (da correggere probabilmente in Gordio) e Xanto??.
** R. Drews, Basileus, New Haven 1983, pp. 32-35; P. Georges, I. cit. (n. 50). 4 L. H. Jeffery, CAH, III 12 (1982), p. 832; D. Asheri, op. cit. (n. 5), pp. 288-289. τὸ Steuding, in: W.H. Roscher, Ausführl. Lexicon der griech. und rm. Myth., 1 2 (1886-1890), «ιν. Hermodike. Misteri di Afrodite sono attestati solo a Cipro: M.P. Nilsson, Griechische Feste, Leipzig 1906 (rist. Milano 1975), pp. 364-365. Nel de fluviis, 13, 1, è menzionata anche un’altra Demodike, madre di Scamandro. 7 V. su questo tema K. Ziegler, I. cit. (n. 11). Tuttavia secondo lo Huxley, op. cit. (n. 62), il racconto testimonia il ricordo di Demodike e della sua ricchezza. 71 Nei codici si legge ἐπὶ τῆς στήλης τοῦ μνήματος τοῦ Γορδίεω (I. 134), testo manifestamente assurdo: la tomba e l'epitafio appartengono a Mida, non a Gordies. Lo Schweighaeuser (citato dal Westermann) suppliva «Miew τοῦ Γορδίεω; Wilamowitz (Vitae Homeri et Hesiodi, Berlin 1929) preferiva espungere τοῦ Γορδίξω, probabilmente a ragione (Mida era già stato nominato alla |. 132). Allen, come al solito, stampa il testo corrotto e non cita in apparato gli emendamenti proposti. ” A. von Gutschmid, Kleine Schriften, ΠῚ, Leipzig 1892, propone Γόρδιος, osservando che i due nomi Gordios, Gorgos, tendono a confondersi nella tradizione manoscritta.
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Ambedue gli autori dànno il testo dell’epitafio, che si finge recitato da una fanciulla effigiata in bronzo sul monumento (χαλκῆ παρθένος εἰμί, Midew δ᾽ ἐπὶ σήματι κεῖμαι): “...finché i grandi alberi fioriranno, brilleranno il sole e la luna, scorreranno i fiumi, e il mare bagnerà le rive, rimanendo su questa tomba oggetto di molto pianto annuncerò ai
viandanti che qui è sepolto Mida”. Questi versi furono popolari nell’antichità e appaiono in varie fonti con numerose varianti (anche in una redazione abbreviata: quattro esametri invece di sei) ”*. Alcuni li at-
tribuivano a Cleobülo di Lindo, uno dei Sette Sapienti, perché secondo la cronologia vulgata Omero
era vissuto molto prima di Mida
(Diog.
La., I 89-90); infatti l’autore della
Vita Erodotea datava la nascita del poeta al 1102 a.C. (Il. 538-553 Allen), ma sembra del tutto inconsapevole della contraddizione in cui è incorso ἢ.
È superfluo dire che l’epitafio non fu mai inciso sulla tomba di Mida: è però notevolmente antico, poiché era già noto a Simonide (fr. 76 Page, da Diog. La., I. cit.), come ope-
ra di Cleobülo. L'idea che sul monumento funebre di un re fosse effigiata una fanciulla è molto strana; secondo il Gabriel l’autore dei versi poteva essere informato del fatto che nella facciata rupestre di Yazılıkaya era collocata, in una nicchia, la statua di Cibele 76.
Ciò che interessa in questa sede è il quadro in cui si inserisce la versione dei biografi omerici. Essi, raccogliendo la tradizione locale di Cuma (ὡς οἱ Κυμαῖοι λέγουσι, Vita Her. |. 131 Allen), hanno incontrato un riferimento ai congiunti di Mida
(Vita Her.) o ai
suoi figli (Certamen): si supponeva evidentemente che questi ultimi si fossero rifugiati a Cuma durante o dopo l'invasione dei Cimmeri 77. Il matrimonio fra Mida e una principessa cumana non ha in sé nulla d’inverosimile. Si può ricordare che, dalla prima metà del VII secolo in poi, i Basilidi efesii (non più re,
ma discendenti di re) più volte s’imparentarono coi Mermnadi: un Melas sposò una figlia di Gige, e suo nipote Mileto una figlia di Ardys (Nic. Dam., 90 J. fr. 63); un altro Melas, una figlia di Aliatte (Aelian., ΝΗ, III 26) ®.
Che si tratti proprio del grande Mida e non di un suo oscuro discendente è dimostrato dal fatto che il suocero Agamennone, in Giulio Polluce, ha il titolo di βασιλεύς: in una
polis della costa anatolica un re non può essere molto posteriore all'VIII secolo ??. È bensi vero che a Cuma, dopo il tramonto della monarchia, esisteva una magistratura collegiale di βασιλεῖς (Vita Her., 1. 160 Allen; Plut., Quaest.Gr., 2, 291
τε Janko, τ >
F - 292 ΑἹ "ἢ; ma un mem-
Le citazioni sono elencate da T.W. Allen, Homeri Opera, V, Oxford 1912 (più volte rist.), pp. 198-199. R. Class. Quart., 38 (1988), pp. 259-260, ha fatto notare che l'epitafio fu imitato da Virgilio, Acm., 1 607-609. Cfr. A. Mele, relazione inviata al Convegno su Cuma colica (settembre 1995), in corso di stampa, $ 3. Op. cit. (n. 6), p. 53. Il poeta avrebbe dunque confuso un santuario della dea con la tomba di Mida.
© G.L. Huxley, op. cit. (n. 62), p. 96.
"Il confronto è suggerito da P. Carlier,
La royauté en Grèce
avant Alexandre, Strasbourg 1984, p. 463. Sull'ap-
partenenza di questi personaggi alla stirpe dei Basilidi v. 5. Mazzarino, op. cit. (n. 55), pp. 192; 218; 220; Carlier,
pp. 442-443. > Cosi O.W. Muscarella, op. cit. (n. 49), pp. 334-335.
= Alcuni codici della Vita Erodotea, anziché τῶν βασιλέων tva, dinno τῶν βουλευτέων eva; Westermann e Allen optano per la seconda lezione. Ma dobbiamo seguire Wilamowitz (efr. n. 72), che stampa βασιλέων, perché Bouλευτέων può essere una banalizzazione dovuta al fatto che la stessa parola appare due volte nelle righe precedenti, mentre non si spiegherebbe l'insenmento di βασιλέων per iniziativa di un copista.
Rapporti tra Greci e Frigi al tempo di Mida
149
bro di questo collegio non sarebbe stato definito βασιλεὺς Κυμαίων. Del resto Cuma era in rapporto cogli stati dell’entroterra già prima di Mida: l’Eraclide Ardys, re di Lidia, che San Girolamo data al 778-743, l’Eusebio armeno (p. 77; 82 Schoene) al 776-742, privato del trono da un usurpatore, si rifugiò appunto a Cuma, e vi rimase finché non riusci a ricuperare il potere (Nic. Dam., 90 J. fr. 44, 3-10; Heracl. Lemb., 36 Dilts) #1.
Consideriamo infine i nomi dei personaggi greci che le nostre fonti mettono in rap-
porto con Mida. Il nome della principessa ci è tramandato nella forma ionico-attica Hermodike o Demodike da autori che usavano il dialetto attico o la κοινή; ma poiché Cuma è una città eolica ella doveva chiamarsi Hermodika o Damodika. Una Damodika, infatti,
è documentata a Cuma da un epitafio del I secolo a.C. "2, È interessante il fatto che la donna commemorata nell’iscrizione appartenesse a una famiglia di rango elevato: aveva ottenuto una “gloriosa vittoria” in una gara di quadrighe; suo marito era stato inviato come ambasciatore della polis a Roma. Poiché nelle aristocrazie tendono a ripetersi gli
stessi nomi, o nomi formati cogli stessi elementi, si può dire che l’esistenza di una Damodika nel I secolo offre un sia pur piccolo indizio favorevole alla storicità della principessa che sposò Mida, si chiamasse Hermodika o Damodika. Comunque d’ora in poi, per brevità, userò solo quest’ultima forma.
Il nome Agamennone per un re di Cuma è pienamente credibile. Infatti le dinastie rea-
li, e poi le famiglie nobili, dell’Eolide vantavano una discendenza dagli Atridi e sostenevano che la migrazione degli Eoli dalla Grecia all’Asia Minore era stata guidata da Oreste, o da suo figlio Pentilo, o dai suoi nipoti e bisnipoti #. A Mitilene è attestato un γένος di Pentilidi (Arst., Pol.,
V 1311b 26-30) nel cui ambito si tramandava il nome Pentilo (Alc.,
fr. 75, 10; 302 c1 Voigt; Arst., I. cit.; Diog. La., 1 81); Alceo li chiamava Atridi (fr. 60, 67). L'esistenza di Pentilidi
a Metimna
si può indurre da Anticlide (140 J. fr. 4), Mirsilo
(477 J. fr. 14), Plutarco (Sept. Sap. Conv., 20, 163 A-C). Allo stesso modo i principi
indigeni della Troade, nell’VIII secolo (Il., XX
306-308) e nel VII (Hy. Hom.
V in Ven.,
196-201) pretendevano di appartenere alla stirpe di Enea (cfr. Strab., XIII 1, 52, 607).
Accanto all’anacronismo già rilevato (sopra, n. 75) non mancano altri problemi cronologici. Per noi, l’Iliade fu composta nell'VIII secolo; Mida mori nel 696; l'aristocrazia si affermò nel corso del VII secolo. Ma il biografo ritiene che l'autore dell'Iliade abbia composto un epitafio per Mida e che abbia incontrato a Cuma un collegio di βασιλεὶς, dunque un regime aristocratico. Ciò si spiega ricordando che le biografie raccolgono molteplici tradizioni conservate nella scuola degli Omèridi e riferite a varie generazioni di aedi. ® Cfr. A. Mele, op. cit. (n. 75), $ 2. Si ammette generalmente che Nicolao Damasceno attinga a Xanto di Sardi, che quindi sia una buona fonte sulla storia lidia. Alcuni studiosi però ritengono che Nicolao abbia usato un testo di Xanto soggetto a interpolazioni di età ellenistica (0 che sia egli stesso responsabile di contaminazioni): v. p. es. K. von Fritz, Die griech. Geschichtsschreibung, | (Anmerkungen), Berlin 1967, pp. 348-377. Un esempio sarebbe appunto il fr. 44: qui il Damasceno avrebbe considerato Cuma parte del regno lidio, errore che Xanto non avrebbe mai commesso. Il von Fritz rileva che il locandiere Thyessos, fautore di Ardys, chiese al re l'esenzione dal tributo, e la ottenne. Ma il narratore non afferma ch'egli vivesse nel territorio di Cuma: la sua locanda poteva trovarsi in un punto qualsiasi della strada che congiungeva Cuma a Sardi. Inoltre Thyessos è il mitico fondatore della città omonima (Nic. Dam. fr. 44, 10; Steph. Byz., s.v.), che, sebbene l'ubicazione sia discussa, era comunque in Lidia (Stefano). #2 H. Engelmann, Die Inschriften von Kyme, Bonn 1976, N. 46. 5 V. F. Cässola, La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, pp. 119-121. Il re Agamennone prende il nome dall'eroe omerico secondo H.T. Wade-Gery, The Poet of the Iliad, Cambridge 1952, pp. 6-8; P. Carlier, op. cit. (n. 78), p- 463; A. Mele, op. cit. (n. 75), $ 2.
150
F. Cassola
9. Come si è visto, secondo Giulio Polluce (IX 83) Damodika neta”; secondo
la Costituzione dei Cumani
“per prima conii
(Arst., fr. 611, 37 Rose)
“per prima coniò
moneta a Cuma”. In generale si ritiene che queste affermazioni siano del tutto insensate δ; a mio avviso vale la pena di esaminarle per vedere se possano avere un senso. Com'è noto, le teorie moderne sull’origine della moneta coniata (ossia della moneta tout court) muovono dall’analisi del materiale scavato dallo Hogarth a Efeso (1904-
1905) nelle fondamenta dell’Artemision; parte di esso costituiva un deposito di fondazione, cioè l’offerta votiva con cui si celebrava quella che oggi si chiamerebbe la posa della prima pietra. Fra i reperti figurano circa ottanta monete di elettro, mescolate con una
ventina di globetti e pezzi informi di elettro o d’argento, alcuni dei quali presentano quadrati incusi o striature, altri sono del tutto lisci. Il gruppo più compatto si trovava presso la base centrale; un altro era contenuto
in un’olpe situata a breve distanza; vari pezzi
erano sparsi qua e là ma si possono attribuire al medesimo strato.
Il fatto che gli offerenti abbiano messo insieme (con pari dignità, si potrebbe dire, anche se non in pari quantità) monete e mezzi di pagamento premonetali dimostra che il deposito rispecchia una fase di transizione fra i due sistemi. La data dipende da quella degli altri oggetti rinvenuti nello stesso contesto (spilloni, fibule, laminette decorative, figurine
di uomini e animali, in oro, elettro, argento, bronzo, ambra, avorio, osso), e dovrebbe offrire un punto di riferimento per l’esordio della circolazione monetaria, che sarà ante-
riore, ma non di molto, alla costruzione del tempio.
Una cronologia alta è stata sostenuta da Liselotte Weidauer, che data il deposito
fra il
675 e il 650; la coniazione potrebbe dunque aver avuto inizio nei primi decenni del VII
secolo. D. Kagan scende un po’ più in basso per il deposito (al più tardi verso il 645), ma in compenso ammette un intervallo più ampio tra la formazione della raccolta e le prime monete coniate, che risalirebbero dunque
al 700 circa #5. In tal caso l’ipotesi che Da-
modika abbia avuto una parte nella storia della coniazione non potrebbe considerarsi
assurda #6. Questa teoria peraltro non ha riscosso molti consensi #. La grande maggioranza degli studiosi segue tuttora la cronologia nettamente più bassa sostenuta nel 1951 dallo Jacobstahl e dal Robinson: il deposito si data fra il 600 e il 590; l’uso della moneta coniata sa-
rebbe anteriore di una o due generazioni (terzo o quarto venticinquennio del VII secolo)#. La communis opinio non è contraddetta dai nuovi ritrovamenti: un tesoretto di 45
* Cosi non solo gli autori che negano la possibilità di un matrimonio fra Mida e una principessa cumana (n. 68), ma anche alcuni di quelli che la ammettono: H.T. Wade-Gery, L cit. (n. 83); G.L. Huxley, op. cit. (n. 62), p. 94; P. Carlier, op. cit. (n. 78), p. 463. “ L. Weidauer, Probleme der frühen Elektronprägung, Fribourg 1975; D. Kagan, Amer. Journ. Arch., 86 (1982), pp. 343-360. * Cfr. O.W. Muscarella, op. cit. (n. 49), pp. 334-335. * V. le recensioni di M.J. Price, Num. Chron.”, 16 (1976), pp. 273-275, e C.M. Kraay, Gnomon, 50 (1978), pp. 211-213, al volume della Weidauer. * P. Jacobstahl, Journ. Hell. Stud., 71 (1951), pp. 85-95; E.S.G. Robinson, ibid., pp. 156-167; id., Num. Chron», 16 (1956), pp. 1-8; L. Breglia, Ann. Ist. ital. Num., 18-19 (1971-1972), pp. 9-24; Ὁ. Manganaro, Epigraphica, 36 (1974), pp. 57-58; C.M. Kraay, Archaic and Classical Greek Coins, London 1976, p. 28; R.W. Wallace, Amer. Journ. Arch., 91 (1987), p. 385 e n. 1; id., Journ. Hell. Stud., 108 (1988), p. 203 e n. 4; J. Carradice, M Price, Coinage in the Greek World, London 1988, pp. 24-26; G.K. Jenkins, Ancient Greek Coins, London 1990, pp.
Rapporti tra Greci e Frigi al tempo di Mida
151
monete, probabilmente lidie, da Gordion, risalente al 625-610#, e dieci stateri da Clazo-
mene, situati in un contesto che la ceramica permette di datare fra il 650 e il 600%. Se si accetta, per l’origine della circolazione monetaria, la cronologia bassa, si deve escludere che Damodika abbia coniato moneta. Tuttavia, come ha notato il Mele, la “sa-
pienza come patria netali,
tecnica” a lei attribuita “parla di sviluppo della metallurgia e di uso del metallo mezzo di scambio” ?'. È possibile ad esempio che la regina di Frigia, tornata in dopo la morte del re, abbia suggerito modifiche alla circolazione dei mezzi premomediante una riforma o una razionalizzazione del sistema ponderale o qualche
accorgimento tecnico.
Una tale iniziativa potrebbe esserle stata suggerita da esperienze fatte a Gordion. Nel megaron 3, che era probabilmente la reggia di Mida, gli archeologi hanno rinvenuto dieci barre di ferro (nove delle quali riunite in un unico gruppo) e un globulo d’oro. Il DeVries ha opportunamente paragonato le prime agli spiedi usati nella Grecia arcaica come premoneta (spesso riuniti in gruppi di sei), il secondo ai globuli argentei di Efeso”. Per quanto riguarda i metalli preziosi,
a Cuma la materia prima non mancava. Clara
Talamo ha osservato che a breve distanza dalla città si trovavano le miniere di Atarneo, sfruttate da Gige e dai suoi successori (Strab., XIV 5, 28, 680; cfr. [Arst.], de mir. ausc.,
834a 23-24): la notizia su Damodika suggerisce l’ipotesi che lo sfruttamento delle miniere fosse già cominciato prima di Gige, cioè al tempo di Mida”. 10. Mentre i moderni insistono a buon diritto sulla rigorosa distinzione fra mezzi di pagamento premonetali e moneta coniata *, i Greci usavano indifferentemente il termine νόμισμα per ambedue i concetti *. Le fonti sono tanto numerose che una lista completa
risulterebbe impossibile e inutile; ma vale la pena di ricordare alcuni passi in cui nomisma appare nei due significati (p. es. Xen., Lac. resp., 7, 5; Polyb., VI 49, 8-9; Plut., Lyc., 9, 1; Lys., 17, 2; cfr. anche Plat., leg., V 742 AB).
Nello stesso modo si comporta Aristotele, là dove tratta dei vari modi in cui gli uomini si procurano le merci mancanti e desiderate (Pol., I 1257 a 14-41), In origine era suf-
13-14. Recentemente D. Williams, Bull. Inst. Class. Stud., 38 (1991-1993), pp. 98-103, occupandosi in particolare delle monete contenute nell’olpe, ha proposto di rialzare la data al 650-625, ma suppone che esse siano vicinissime alle prime coniazioni, o addirittura che appartengano alle prime serie coniate, databili dunque intorno alla metà del VI secolo. * AR. Bellinger, in: C.M. Kraay, G.K. Jenkins (edd.), Essays in Greek Coinage pres. to δ. Robinson, Oxford 1968, pp. 10-15. * Ne dà notizia M. J. Mellink, Amer. Journ. Arch., 95 (1991), p. 147. Cfr. D. Williams, op. cit. (n. 88), p. 102, che opta per l'ultimo venticinquennio del secolo. Op. cit. (n. 75), $ 3. * Op. cit. (n. 59), pp. 34, 36, 40. * Op. cit. (n. 55), pp. 95-96. ἜΝ, p. es. N.F.
Parise, Dial. arch.?, 7 (1973), pp. 382-391.
* G. Nenci, Ann. Scuola norm. Pisa°, pp. 88-89; 95-97. Sul significato originario 17 (1955), p. 10. * Sui passi aristotelici riguardanti la pp. 5-23; A. Maffi, Ann. Ist. ital. Num., 26
4 (1974), pp. 639-657; M. Lombardo, Ann. Ist. ital. Num., 26 (1979), di nomisma: É. Will, Rev. Hist., 212 (1954), p. 226; id., Rev. Numism.*,
moneta v. É. Will, Rev. Hist., cit., pp. 209-231: id., Rev. Num., cit., (1979), pp. 161-184; A. Berthoud, Aristote et l'argent, Paris 1981.
152
F. Cassola
ficiente il baratto (ἀλλαγή), che, come nota il Maffi, non è genericamente lo scambio di
merci contro merci, ma specificamente lo scambio diretto fra produttori ”7; esso è possibile solo tra vicini. Più tardi, con l’estendersi dei rapporti a comunità via via più lontane, fu
introdotto per necessità l’uso del nomisma; e dapprima si scelsero materiali per sé stessi utili, come il ferro, l'argento e altri metalli, valutati secondo la quantità e il peso [a questa fase si riferisce anche un passo dei Magna Moralia (1 1194 a 18-25):
“stabilirono di
usare una materia mediante la quale si potesse acquistare ogni cosa, definendo l’argento nomisma (ἀργύριον προσαγορεύοντες νόμισμα)]. Infine, per evitare che gli utenti fosse-
ro costretti a pesare ogni volta il metallo, apposero su di esso un marchio (χαρακτήρ), come segno della quantità. È proprio del nomisma, fin dalla prima fase, l’essere accettato per convenzione (1257 a 35: συνέθεντο). Esso è νόμος παντάπασι, φύσει δ᾽ οὐθέν; e a questo proposito il filosofo richiama il mito di Mida (τὸν Μίδαν ἐκεῖνον μυθολογοῦσι), che aveva oro in abbondanza ma moriva di fame (I 1257 b 14-17). Anche nell’Etica Nicomachea (V 1133 b 20-23) si afferma che il nomisma è cosi chiamato perché lo si accetta per convenzione (ἐξ,
ὑποθέσεως; cfr. 1133 a 28-31: κατὰ συνθήκην) ?8.
Si può dunque affermare che, se all’inizio del VII secolo fosse stato adottato a Cuma un nuovo sistema ponderale, o fosse stato introdotto un mezzo di pagamento premonetale nuovo per il metallo prescelto o per l’aspetto in cui si presentava, questo provvedimento sarebbe apparso come una riforma del nomisma. Erroneo senza dubbio nei nostri due autori è l’uso del verbo κόπτω, che dall’età classica in poi vuol dire “coniare” %; l’errore è soprattutto manifesto in Giulio Polluce, che
mette Damodika sullo stesso piano di Fidone e dei Lidi. Ma l’iniziativa attribuita alla principessa, col passare dei secoli, poteva facilmente
confondersi nel ricordo dei Cumani con una vera e propria emissione di metalli coniati. Si può citare un caso in parte analogo: sebbene al tempo di Solone Atene non coniasse ancora moneta, nella Costituzione degli Ateniesi (10, 2) si legge che la riforma ponderale
di Solone fu anche una riforma monetaria !°.
“ Op. cit. (n. 96), pp. 166-167.
* Sul carattere di convenzione comune all'uso di una merce privilegiata e della moneta coniata: É. Will, Rev. Hist., cit. (n. 95), p. 220; A. Berthoud, op. cit. (n. 96), pp. 92-97. Rapporto fra νόμισμα e νόμος: M. Caccamo Caltabiano, P. Radici Colace, Dalla premoneta alla moneta, Pisa 1992, p. 63 e n. 59. * M. Caccamo Caltabiano, P. Radici Colace, op. cit. (n. 98), p. 61. τὸ Cfr. ΟΜ, Kraay, in: C.M. Kraay, G.K. Jenkins (edd.), op. cit. (n. 89), pp. 1-9; id., op. cit. (n. 88), pp. 55-60; 310; L. Piccirilli, Plutarco,
La vita di Solone, Fond. L. Valla 1977, pp. 188-190;
Aristotelian Athenaion Politeia, Oxford 1981, pp. 167-168; D. Foraboschi,
A.
nason Politeia di Aristotele (Incontro Acquasparta 1991), Napoli 1994, p. 292.
. Rhodes,
A Commentary on the
Gara, in: G. Maddoli (ed.), L'Athe-
Lote τὴν κατοικίαν. Società e religione nella Frigia romana. Note introduttive!. TOMMASO
GNOLI - JOHN THORNTON Università “La Sapienza” - Roma
1. Il silenzio delle campagne ?, una delle caratteristiche della tradizione antica che più imbarazzano lo storico, s’interrompe parzialmente, almeno in Frigia, «rural Anatolia par excellence» 3, tra il II ed il III secolo d.C., l’epoca cui appartiene «la grande masse de la
documentation épigraphique» della regione #; le iscrizioni che testimoniano la vitalità dei culti indigeni nella Frigia romana squarciano il buio che avvolge la vita della “Frigia profonda”, come potremmo definirla, riecheggiando espressioni che s’incontrano, significativamente, in due illustri rappresentanti della cultura greco-romana: in un passo delle Verrine Cicerone, dopo aver ricordato le malefatte di Verre nel corso della sua pretura
urbana, si chiedeva quid iste in ultima Phrygia, quid in extremis Pamphyliae partibus fecerit, qualis in bello praedonum praedo ipse fuerit qui in foro populi Romani pirata nefarius reperiatur? $ Oltre un secolo più tardi Dione di Prusa, per prendersi gioco della precaria libertà ὁ dei Rodii, e della servile adulazione 7 nei confronti delle autorità roma-
1166 1 e 3 sono di John Thornton, i $$ 2 e 4 di Tommaso Gnoli. 2 M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, Firenze 1933, p. 229: le città «ci hanno raccontato la loro storia, mentre la campagna rimase sempre silenziosa e riservata. (...) la voce medesima della popolazione rurale non la si ode che raramente»; cfr. anche M. 1. Rostovtzeff, “Il tramonto della civiltà antica” (orig. russo 1922), in Per la storia economica e sociale del mondo ellenistico-romano. Saggi scelti, a cura di T. Gnoli e J. Thornton, con Introduzione di M. Mazza, Roma 1995, pp. 149; 151 («il benessere del primo secolo e mezzo dell'impero, la diffusione della scrittura, la possibilità di utilizzarei servigi degli artisti costrinse anche la campagna a prender la parola. E il suo primo balbettio furono preghiere, suppliche e ringraziamenti indirizzati alle vecchie divinità»); A. Giardina, “L'impero e il tributo (gli hermeneumata di Sponheim e altri testi)”, RFIC 133 (1985), pp. 307-327, in particolare p. 325 parla di un «velo che oscura il mondo rurale». > Con la Galazia, secondo 5. Mitchell, Anatolia. Land, Men, and Gods in Asia Minor 1. The Celts and the Impact of Roman Rule, Oxford 1993, p. 178. + Th. Drew-Bear - Ch. Naour, “Divinités de Phrygie”, ANRW II 18, 3, Berlin - New York 1990, pp. 19072044, in part. p. 1913. 5 Cic. II Verr. 1,154. * L'espressione precaria libertas, a indicare la condizione effettiva (re) degli Achei nei confronti dei Romani, ai quali formalmente (specie) erano legati da un aequum (...) foedus, ricorre in Liv. XXXIX 37, 13 nel discorso attri-
buito a Licorta di fronte agli ambasciatori romani a Clitore in Arcadia nel 184 a.C. (cfr. anche 37, 9, dove Licorta rappresenta la condizione degli Achei come quella servorum disceptantium apud dominos, anziché sociorum apud socios); essa può applicarsi però almeno altrettanto legittimamente alla situazione di città e popoli liberi in età tardorepubblicana e nel primo secolo dell'impero: vd. per es. H. von Arnim, Leben und Werke des Dio von Prusa, Berlin 1898, p. 214, che definisce appunto «precärer« il possesso della libertà da parte dei Rodii nel I secolo d.C. ? vd. A. Momigliano, recensione di Ch. Wirszubski, Libertas as a Political Idea at Rome during the Late Republic and Early Principate, Cambridge 1950, in JRS 41 (1951), pp. 146-153, in particolare p. 153: il senso del discor-
154
T. Gnoli - ]. Thornton
ne con cui essi si sforzavano di conservarla, espresse il giudizio, paradossale ed irriverente, che meglio di loro se la passassero τοὺς ἐν Φρυγίᾳ μέσῃ δουλεύοντας ἡ τοὺς ἐν Αἰγύπτῳ καὶ Λιβύῃ ". In ultima Phrygia, ἐν Φρυγίᾳ μέσῃ: «nel mezzo della Frigia», «nella profonda Frigia». Queste espressioni indicano una lontananza non soltanto geografica
dal mondo di Cicerone e Dione Crisostomo:
ai loro occhi, la Frigia si presenta come
l’ambiente di una vita servile, polo negativo rispetto alle città ellenistico-romane, o come
una sorta di “far West” d'Oriente, in cui vige la legge del più forte, la patria degli abusi impuniti, la terra d’elezione dell’arbitrio dei magistrati. In questa sede non ci si propone naturalmente di considerare nel loro insieme i culti della Frigia”; piuttosto, s'intende presentare alcune considerazioni preliminari ad una
valutazione delle testimonianze relative alla religiosità della regione, i culti indigeni, ma anche l’eresia frigia, nel quadro più vasto del confronto fra l’Asia Minore interna e l’impero sovranazionale romano, con il suo diverso sistema economico-sociale e la cultura ellenistica di cui era portatore: la religiosità frigia apparirà così come un aspetto di un processo di acculturazione complesso !° e non indolore.
Il passo di Dione di Prusa rivela con incisiva evidenza come un colto rappresentante del notabilato che dominava le città orientali nella prima età imperiale considerasse il sistema di vita dei Frigi: quella dei Frigi gli appariva come una vita da schiavi "!.
so di Dione era «that the status of a civitas libera is not worth saving if it must be defended by constant use of ‘adulatio” * Dio Or. XXXI, 113. 1 Frigi ritornano anche più avanti, nel discorso di Dione, dove il comportamento dei Rodii, “ultimi degli Elleni” (λοιποὶ δὲ ὑμεὶς ἐστε), viene più onorevolmente contrapposto a quello di quanti fra i Greci, dimentichi dell'antica dignità della loro patria, avrebbero contribuito a rendere gli Elleni Φρυγῶν (...) ἡ Θρακῶν ἀτimorépous (Or. XXXI, 158). Ancora una volta, dunque, i Frigi svolgono nel discorso dioneo la funzione di termine di paragone negativo: rispetto ai Rodii, e ai Greci in genere, sono l'“altro” da cui è necessario distinguersi: vd. P. Desideri, Dione di Prusa. Un intellettuale greco nell'impero romano, Messina-Firenze 1978, p. 171 n. 40, che rimanda anche ad Or. XXXIII, 3 per un'altra contrapposizione fra Elleni e Lidi o Frigi. In generale, sul Rhodiakos di Dione vd. H. von Arnim, Leben und Werke, cit., pp. 210-222, che ne proponeva una datazione fra il 79 (morte di Vespasiano) e [82 (esilio di Dione); A. Momigliano, recensione cit., pp. 150-151; 153, che corresse la datazione del von Arnim proponendo quella, a lungo incontrastata, «between 69 and c. 75»; P. Desideri, Dione di Prusa, cit., pp. 110116; 168-172; C. P. Jones, The Roman World of Dio Chrysostom, Cambridge, Mass. and London 1978, pp. 26-35; 167-171; G. Salmeri, La politica e il potere. Saggio su Dione di Prusa, Catania 1982, pp. 96-97; B. F. Harris, “Dio of Prusa: a Survey of Recent Work", ANRW Il 33, 5, Berlin -New York 1991, pp. 3853-3881, in particolare pp. 3865-3866; P. Desideri, “Dione di Prusa fra ellenismo e romanità”, ibidem, pp. 3882-3902, in particolare p. 3892, e ora H. Sidebottom, “The Date of Dio of Prusa's Rhodian and Alexandrian Orations”, Historia 41 (1992), pp. 407419, in particolare pp. 409-414, e 5. Swain, Hellenism and Empire. Language. Classicism, and Power in the Greek World AD 50 - 250, Oxford 1996, pp. 428-429, che ne propongono una datazione in età traianea. * Un compito che non si potrebbe esaurire nello spazio di una relazione, e di fronte al quale sono indietreggiati studiosi di ben altra levatura - ma che è lecito attendersi che possa realizzare il professore Drew-Bear. % Come indicano già alcune delle relazioni tenute in questo Convegno, ad esempio con il quadro offertoci dal professor Drew-Bear di una popolazione rurale che importa dall'Italia nord-orientale le proprie forme artistiche, e adotta nel contempo l'alfabeto, quand'anche non la lingua, dei Greci. * Dione non sta paragonando il servile umiliarsi dei Rodi alla condizione giuridica degli schiavi, ma piuttosto, sulla scorta di un'antica tradizione greca, sta pronunciando un giudizio complessivo sulla natura stessa (fra gli altri) dei Frigi, che gli appare segnata da un connaturato carattere servile. Così, ad esempio, ancora in App. BC Il 74
Società e religione nella Frigia romana
155
Il δουλεύειν applicato con tanta naturalezza ai Frigi indica in realtà una condizione
di dipendenza '? di popolazioni indigene organizzate in comunità di villaggio collettivamente responsabili del versamento di un phoros "ἢ: nell’Anatolia interna, nella “profonda Frigia” le comunità
di villaggio costituivano la struttura produttiva di base, secondo
tradizioni secolari. A Zelea, un decreto databile probabilmente «in die Zeit kurz nach der Schlacht am nahen Granikos» '* stabiliva, in vista del recupero delle terre di proprietà della città occu-
pate abusivamente da privati, l’elezione di nove ispettori dei terreni pubblici, ὅσα μὴ ot Φρύγες ἔχοντες φόρον ἐτέλεον: la posizione di questi Frigi “di frontiera” rispetto alla città sembra appunto quella di «una servitù collettiva (di carattere essenzialmente tributario)» !5.
Queste forme di dipendenza, vere e proprie strutture di lunga durata 's, si sono rivelate particolarmente resistenti in Frigia; nel discorso rivolto agli abitanti di Celaenae, Dio-
(308), nell’allocuzione di Cesare alle truppe prima della battaglia di Farsalo la definizione degli alleati di Pompeo come ἀνδράποδα (...) Σύρια καὶ Φρύγια καὶ Avira, φεύγειν αἰεὶ καὶ δουλεύειν ἕτοιμα, non va intesa nel senso che Pompeo avesse arruolato degli schiavi frigi, ma significa soltanto che nel suo esercito erano presenti, fra gli altri ἑῷα ἔθνη, anche dei Frigi (cfr. App. BC II 71 [294]), considerati inquantotali andrapoda sempre pronti a douleuein; il passo dunque non può addursi, con M. Bang, “Die Herkunft der römischen Sklaven”, MDAI(R) 25 (1910), pp. 223251, in particolare p. 229, come prova diretta dell'origine micrasiatica degli schiavi romani in età repubblicana; per una giusta valutazione di analoghe testimonianze addotte dal Bang come prova di effettiva riduzione in schiavitù vd. D. Musti, “Modi di produzione e reperimento di manodopera schiavile: sui rapporti tra l'Oriente ellenistico e la Campania”, A. Giardina - A. Schiavone (a cura di), Società romana e produzione schiavistica 1. L'Italia: insediamenti e forme economiche, Roma - Bari 1981, pp. 243-263; 505-511, in particolare p. 246. Cfr. anche P. Debord, “Populations rurales de l'Anatolie greco-romaine”, Centro ricerche e documentazione sull'antichità classica. Atti 8 (19761977), pp. 43-68, in particolare pp. 50-51 sui σώματα di Plu. Eum. 8, 9.
2 È ancora D. Musti, “Modi di produzione e reperimento”, cit., p. 246, ad aver rilevato la necessità di intendere «in chiave di strutture economiche» i brani «che presentano i Siri, o anche gli Asiatici, come tipi umani predestinati alla servitù». ® Sulla difficoltà di esprimere con precisione, in termini latini (ma lo stesso vale per il greco, come risulta appunto dall'uso non tecnico ed improprio di δουλεύειν in Dione di Prusa), le forme di dipendenza caratteristiche del «modo di produzione asiatico», e tipiche appunto dell'Asia e dell'Egitto, si veda, a proposito di Varr. rust. I 17, E. Lo Cascio, “«Obaerarii» («obaerati»): la nozione della dipendenza in Varrone”, Index 11 (1982), pp. 265-284, particolarmente pp. 271-273 (sul passo di Varrone vd. anche P. Debord, “Populations rurales de l'Anatolie”, cit., pp. 62-63). # H.G. Lolling, “Mittheilungen aus Kleinasien III. Inschrift aus Zeleia”, MDAI(A) 6 (1881), pp. 229-232; la datazione proposta dal primo editore, ed accolta in SIG’ ad [., è ora confermata anche da M. Corsaro, “Un decreto di Zelea sul recupero dei terreni pubblici (δγί!.", 279)", ASNP serie III, 14 (1984), pp. 441-493 (per la datazione vd. in part. p. 492, testo e n. 229).
1 Secondo la definizione di M. Corsaro, “Un decreto di Zelea”, cit., p. 475; cfr. anche Idem, “Le forme di dipendenza nella chora del re e in quella cittadina dell'Asia Minore ellenistica”, Forme di contatto e processi di trasformazione nelle società antiche. Atti del Convegno di Cortona (maggio 1981), Pisa - Roma 1983, pp. 523-547, in particolare p. 531. Si veda comunque già M. Rostovtzeff, Per la storia del colonato romano, ed. it. a cura di A. Marcone, Brescia 1994, p. 258 (= M. Rostowzew, Studien zur Geschichte des römischen Kolonates, Leipzig und Berlin
1910, p. 260): gli indigeni godrebbero del «possesso ereditario» di terreno appartenente alla città, nei cui confronti
erano «soggetti a tributo»; cfr. anche H. Kreissig, “Landed Property in the “Hellenistic” Orient”, Eirene 15 (1977),
pp. 5-26, in particolare p. 25, secondo cui nell’iscrizione Φρύγες sarebbe «a synonim of “dependent labour”», e P. Debord, “Populations rurales de l'Anatolie”, cit., p. 54 («terres tenues par des populations locales et dont l'organisation reste collective»). τὸ In generale, sul villaggio come «struttura di lunga durata, nell’assetto socioeconomico del mondo antico», vd. M. Mazza, “I modi della trasformazione: morte e trasfigurazione dell'economia nell'impero romano”, RCCM 33
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ne di Prusa ne rappresentava il benessere fondato sulla sottomissione alla città, tra l’altro, di πολλὰς καὶ εὐδαίμονας κώμας !7, e siamo in età flavia; ma ancor più significativa è forse l’indicazione che sembra potersi trarre da un decreto di Aezani, di età giulio-claudia, con cui la città accettava l'offerta di un certo Nannas, che aveva consacrato al finanziamento di manifestazioni connesse con il culto imperiale τὴν λε]γομένην κώμην Ma
λοκα καὶ τὸ ἀπὸ τῆς προσόδου αὐϊτῆς ἀεὶ γιγνόμενον !8: dunque, anche il costituirsi di
(1991), pp. 115-141, in particolare pp. 138-140; sulla persistenza, e financo la preminenza, nella Commagene di età ellenistico-romana, nonostante i fenomeni di ellenizzazione culturale, «di strutture dispotico-servili-vicaniche» vd. D. Musti, “Morte e culto del sovrano in ambito ellenistico (in particolare sulle tombe-santuario dei sovrani della Commagene)”, G. Gnoli - J.-P. Vernant (sous la direction de), La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge Paris 1982, pp. 189-201 (passim). Per un'area specifica, e lungo un arco cronologico di grande estensione, vd. ancora M. Mazza, “Strutture sociali e culture locali nelle provincie sulla frontiera dell'Eufrate (II - IV sec. d.C.). Uno studio sui contatti culturali”, SicGymn n. s. 45 (1992), pp. 159-235, in particolare pp. 175 ss., con la bibliografia ivi citata. Di «stabilità delle situazioni e del loro perdurare fino in età romana», a proposito delle condizioni delle popolazioni indigene d'Asia Minore, parlava già M. Rostovtzeff, Per la storia del colonato romano, cit., p. 258 n. 47. Sull'Anatolia rurale e i suoi villaggi, «the essential elements of rural settlement», vd. ora anche S. Mitchell, Anatolia I, cit., pp. 165-197, con la bibliografia precedente nelle note. © Dio Or. XXXV, 14. L'elogio della prosperità di Celene, ai $$ 13-17 del discorso, seguito immediatamente dall’ironica descrizione dell'India, con la sua «ideale prosperità (...), tradizionalmente spontanea, venata di elementi favolosi, indipendente dall'attività dell'uomo» (A. Zambrini, “L’orazione 35 di Dione di Prusa”, ASNP serie III, 24 (1994), pp. 49-83, in particolare p. 75), va senz'altro inteso in funzione delle «ragioni di strategia retorica» del brano, che da ultimo rileva A. Zambrini, “L'orazione 35”, cit., in particolare p. 70 n. 47, rimandando a Or. XXXII, 3738 e Or. XXXIII, 17-29 (il confronto tra questi brani del Celenitico, dell'Alessandrino e del Primo Tarsico era stato proposto già da H. von Arnim, Leben und Werke, cit., pp. 454-455): agli occhi di Dione, non è la ricchezza del territorio a determinare la felicità di una città, ma il fatto che i suoi cittadini siano assennati, saggi e giusti. Tuttavia, nonostante l'evidente intenzione retorica, si può aderire al giudizio di C. P. Jones, The Roman World, cit., p. 66, secondo cui «though Dio is mocking them, he scarcely exaggerates the city's advantages» (cfr. anche A. Zambrini, “L'orazione 35", cit., pp. 69-70); in particolare, sembrano accettabili i dati sull'ampiezza e la ricchezza del territorio della città e la presenza in esso di numerosi villaggi, nonostante, come ha osservato G. Salmeri, La politica e il potere, cit. p. 68 n. 74, «il possesso di un territorio esteso, ricco di villaggi e bagnato da fiumi» sia un elemento tradizionale degli epainoi περὶ τὰς πόλεις καὶ χώρας (vd. Menander Rhetor, edited with translation and commentary by D. A. Russel and N. G. Wilson, Oxford 1981, pp. 28-74); anche in questo genere di discorsi, d'altra parte, non ci si poteva allontanare troppo dal vero, come mostra Lib. Ep. 19, 8: ei u’ ἐχρῆν ἐπαινεῖν τὰ Κύθηρα, τὰ δὲ Κύθηρα νῆσός ἐστιν ἐπικειμένη τῇ Πελοποννήσῳ, τὸν οὖν λόγον ἐργαζόμενος διελθὼν ἂν ὡς εὔβοτος καὶ πολύοινος εὐλίμενός τε ἐστιν À καὶ ὕλη κομῶσα, τὴν εἰς πυροὺς φορὰν οὐκ dv ἐπήνουν. ἐψευδόμην γὰρ ἄν, (..). Anche Strabone appare considerare l'ampiezza del territorio di una città, ed il numero di villaggi in esso compresi, come indizio della sua ricchezza e della sua potenza: vd. almeno XIII 4, 17 (631 C.), sui Cibirati, la cui auxesis, dovuta all'eunomia, si esprimerebbe appunto nel possesso di villaggi su un'area estesa dalla Pisidia e dalla vicina Miliade sino alla Licia e alla Perea Rodia. ἡ IGR IV 582, Il. 7-8; cfr. anche IGR IV 583 (in cui ricorre ancora un esplicito riferimento alla κώμη e alla πίρό]σοδος che ne deriva). Per una proposta di identificazione del sito di questo antico villaggio vd. M. Waelkens, Die kleinasiatischen Türsteine. Typologische und epigraphische Untersuchungen der kleinasiatischen Grabreliefs mit Scheintür, Mainz am Rhein 1986, 83, e B. Levick - 5. Mitchell, MAMA IX. Monuments from the Aezanitis recorded by C. W. M. Cox, A. Cameron, and J. Cullen, edited by B. Levick, S. Mitchell, J. Potter, and M. Waelkens, London 1988, p. XIX. Sull'iscrizione come prova dell’appartenenza di interi villaggi, in età imperiale, «zu privaten Domä-
nen-, vd. M. Worrle, Stadt und Fest im kaiserzeitlichen Kleinasien. Studien zu einer agonistischen Stiftung aus Oinoanda, München 1988, p. 142; sembra invece doversi respingere la tesi di B. Levick - 5. Mitchell, I. cit., secondo cui «the village Palox, which supplied revenues used to endow games in honour of the emperors at Aezani, received special mention on the inscriptions because it was an important centre, remote from the city itself, which preserved a certain independence in matters of public finance». Va rilevato piuttosto come in IGR IV 582 il villaggio figuri in posizione subordinata rispetto al a città di Aczani, e soprattutto rispetto a Nannas, che dispone a suo piacimento della rendita che ne deriva, e che stabilisce di dedicarla, come ewergesia nei confronti del demos di Aezani, al finanziamento degli agoni connessi al culto imperiale: gli agoni rimanevano dunque una manifestazione della città di Aezani, in
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ampie proprietà private sul territorio cittadino non aveva portato sempre e immediata-
mente alla disgregazione dell’organizzazione produttiva fondata sui villaggi, il cui rapporto con la proprietà del suolo sembrerebbe essersi mantenuto nei termini di una dipendenza collettiva: comunità di villaggio, nella Frigia romana, se ne incontrano tanto sui latifondi imperiali (vd. oltre) quanto su terre di proprietà municipale o privata "?. Delle comunità di villaggio, la documentazione epigrafica permette di cogliere in primo luogo la forte solidarietà religiosa, che si realizza nel segno del carattere marcatamente agrario dei culti indigeni 2: da questi due elementi risulta l’unità religiosa delle campagne frige. Basti qui accennare a pochi documenti, tratti in particolare dall'area di Dorylaeum e Nacolea, in cui «the purely sepulchral inscriptions do not outnumber the dedications» 21, e queste ultime testimoniano una straordinaria vitalità del paganesimo 22. MAMA V 182, rinvenuta a Kuyucak, nel territorio fra Dorylaeum e Nacolea, e copiata da Sterrett nel 1883, è una dedica posta da Giasone figlio di Zeuxis agli dei Zeus, Eracle e Papias περὶ βοῶν ἰδίων κ(αὶ) κώμης 2"; la nr. 213 della stessa raccolta, rilevata a Seyit Gazi, sito di Nacolea, è una
dedica alla madre Cibele posta dalla comunità degli Σκαλατηνοί (... περὶ βοῶν. Non meno significativa è la nr. 220, rilevata anch'essa a Seyit Gazi, dedica di una coppia a Zeus Bronton περὶ éaut@{v] κ(αὶ) τῶν ἰδίων k(oi) τ[ῶν] καρπῶν k(ai) τῆς [Kalung σωτηρίας, con
favore della quale veniva impiegata la rendita derivante dal lavoro del villaggio. Questa forma di finanziamento, decisa autonomamente da un privato ed accolta poi dal demos di Aezani, non depone in favore dell'indipendenza finanziaria del villaggio; piuttosto, il rapporto fra Nannas e la comunità appare in tutto analogo a quello, poniamo, tra Antioco I di Commagene ei villaggi che egli aveva consacrato al finanziamento delle cerimonie religiose prescritte nel hierothesion del Nemrud Dagh: vd. N, Il. 140-142 (npooödoug te λαμβάνων ἀπὸ κωμῶν, ὧν ἐγὼ καθωσίωσα gi σεως ἡρωικῆς χάρισιν iepaig); 192-193 (κώμας, ἃς ἐγὼ καθειέρωσα δαίμοσιν τούτοις); 197-200 (κώμας ἐκείνας À πρόσοδον, ἣν ἐγὼ κτῆμα δαιμόνων ἄσυλον ἀνέθηκα). Cfr. anche le Il. 67-69 (Χώραν τε ἱκανὴν καὶ προσόδους ἐξ, αὐτῆς ἀκινήτους εἰς θυσιὼν πολυτέλειαν ἀπένειμα), dove si parla di chora senza esplicita menzione dei villaggi, e, per ulteriori riferimenti alla terra e alle entrate che ne derivano come base del finanziamento delle cerimonie cultuali, SyV, IL. 24-25; S2, Il. 24-28; A, Il. 73-75; 118-120; 165-170; As, Il. 93-94; G, IL. 61-63; 101-106 (per i testi vd. H. Waldmann, Die kommagenischen Kultreformen unter König Mithradates I. Kallinikos und seinem Sohne Antiochos 1, EPRO 34, Leiden 1973). Sul fatto che solo al Nemrud Dagh, e non nei restanti hierothesia e temene, si faccia esplicita menzione dell’assegnazione dei proventi di villaggi vd. D. Musti, “Morte e culto del sovrano”, cit., pp. 194-195, che mette anche in rilievo come i testi di Antioco I rimandino ad «un paese caratterizzato da una struttura economica prevalentemente agraria, con forte presenza delle strutture di villaggio e di un modo di produzione basato sulla servitù» (p. 194, e passim); dunque, l'analogia con la donazione di Nannas ad Aezani, che è innegabile, indica la persistenza, in età giulio-claudia, di strutture sociali tradizionali, rivelatesi stabili e capaci di resistere alle minacce apportate al loro perpetuarsi dallo sviluppo urbano come dal rapporto con il modo di produzione schiavistico. * Cfr. 1. 5. Svencickaja, “Some Problems of Agrarian Relations in the Province of Asia”, Eirene 15 (1977), pp. 27-54, in particolare p. 45 (con la discussione che precede) e, tra gli altri, G. Salmeri, La politica e il potere, cit., p.78.
“Divinités de Phrygie”, cit., pp. 1913-1914. Si tratta, d'altra parte, di una ni di G. Petzl, “Ländliche Religiosität in Lydien”, E. Schwertheim (hrsg. von), Forschungen in Lydien, Asia Minor Studien 17, Bonn 1995, pp. 37-48, che individua «eine besondere Religiosität des Nicht-Stadters», che corrisponde alla dipendenza «von ausreichender Ernte und gesundem Viehbestand» (p. 39); giustamente il Petzl ne rileva il carattere «spezifisch ländlich (...) nicht spezifisch Iydisch». 2 vd. Th. Drew-Bear -
:
2! C. W. M. Cox - A. Cameron, MAMA
V. Momunents from Dorylaeum and Nacolea, Manchester U. P. 1937,
2 C. W. M. Cox - A. Cameron, MAMA
V, cit., p. XXXIII.
p. XIX, a proposito dei villaggi del territorio di Dorylaeum; cfr. anche p. XXIV, sulla situazione dei villaggi dell’area compresa fra Dorylaeum e Nacolea. 1! vd. MAMA V, cit., pp. 85-86; 147.
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cui si può confrontare la nr. 218, un’altra dedica a Zeus Bronton posta, per cura di un cer-
to Asclepiodoro figlio di Apollas, da ἐνχώριοι ?* non meglio definiti (almeno nello stato in cui ci è pervenuto il testo) περὶ ἑαυτῶν καὶ [τῶν ἰδίω]ν πάντων καὶ τῶν καρπῶν [καὶ τῆς]
Νακολέων σωτηρίας. Una dedica analoga, ancora dall’area di Nacolea, posero gli Apokometi ad Osio Dikaio περὶ τῶν ἰδίων πάντων σωτηρίας k(ai) καρπῶν θελεσπορίας25; l’editore richiama anche una dedica a Zeus Bronton da Alpanos, un villaggio del territorio di
Nacolea, περὶ πατρίδος πολυθενίας περὶ καρπῶν τηλεσφορίας2. Dediche simili s’incontrano in quantità anche in altre zone della Frigia: dalla vicina Orkistos (a circa 50 km da Nacolea) proviene la dedica al dio Papas posta dal Μαλκαιτηνῶν δῆμος ὑπὲρ βοῶν σωτηρίας 27; ma anche a Sabir, nel territorio di An
chia ἡ πρὸς Madia, e dunque ai confini tra Frigia e Pisidia, nel testo di una fondazione ricorrono la cura per il buon esito del raccolto e la preoccupazione del singolo per l’intera comunità: un certo Scimno lasciò τῆς κώμῃ (δηνάρια) ρ᾽ ἐκ τόκου γείνεσθαι Bévvos
Aët Καλακαγαθίῳ ὑπὲρ καρπῶν 3. Il carattere agrario della religiosità della popolazione frigia, che arrivava ad invocare per la maturazione del raccolto anche Osio Dikaio, divinità apparentemente più adatta a ricevere voti «d’ordre moral» 2°, emerge anche dalla considerazione di divinità quali Zeus
Karpodotes (attestato a Bayat, tra Amorion e Docimeion ?), Zeus Eukarpos e Zeus Epikarpos (attestati nella Frigia orientale 3), o Demetra Karpophoros (testimoniata nel territorio di Acmonia 2), e soprattutto dei rilievi presenti sui
monumenti, talora più signi-
ficativi dell’iscrizione stessa **; ma l’aspetto su cui si deve insistere è piuttosto quello della
# Un'altra attestazione del termine nel territorio di Nacolea, oltre alle due ricordate da Cox e Cameron in MAMA V, cit., p. 105, ora in Th. Drew-Bear, Nouvelles Inscriptions de Phrygie, Zutphen, Holland 1978, cap. III nr. 19 ([Ἀπελλοκωμῆται ἐνχώίριοι]); secondo I. 5. Svencickaja, “Some Problems”, cit., p. 46 «the terms χωρῖται, ἐγχώριοι (...) seem to have been used for the inhabitants of individual estates or landed properties which did not forma village». 2 Th. Drew-Bear, Nouvelles Inscriptions de Phrygie, cit., cap. ΠῚ nr. 3 2 1. W. MacPherson, “Inscriptions from Eskisehir and District", ABSA 49 (1954), pp. 11-16, in particolare nr. 9 p. 15; cfr. ancheJ. et L. Robert, “Bull. épigr.” 1956, nr. 294 pp. 170-171. ?° W. M. Calder, MAMA VII. Monuments from Eastern Phrygia, Manchester U. P. 1956, nr. 303. 2 Il testo fu pubblicato per la prima volta da W. M. Ramsay, “The Tekmoreian Guest-Friends: an Antichristian Society on the Imperial Estates at Pisidian Antioch”, Idem (ed.), Studies in the History and Art of the Eastern Provinces of the Roman Empire, Aberdeen 1906, pp. 305-377, nr. 25 p. 345; vd. ora Th. Drew-Bear - Ch. Naour, “Divinites de Phrygie”, cit., p. 1956, testoe n. 170. 2 Come ha osservato Th. Drew-Bear, Nouvelles Inscriptions de Phrygie, cit., p. 38, pubblicando l'iscrizione cit. in n.25. ‘ Th. Drew-Bear - Ch. Naour, “Divinités de Phrygie”, cit., pp. 1949-1951. © MAMA VII, cit., 453 (da Bulduk) e 476 (da Kôtü Ugak). Ὁ Th. Drew-Bear, “Local Cults in Graeco-Roman Phrygia”, GRBS 17 (1976), pp. 247-268, in particolare 249. FT €. W. M. Cox - A. Cameron, MAMA Vi cit, p. X per l'enunciazione del principio e pp. XLII-XLII per la sua applicazione alle dediche a Zeus Bronton: «in four of these cases (126; 152-3; 170) the reliefs no doubt typify the καρποὶ or βόες mentioned in the dedication»; cfr. anche il commento alla nr. 50, secondo cui la raffigurazione sui monumenti di coppie di buoi aggiogati 0 anche solo di bucrani rappresenterebbe generalmente «the aspect of the dedicators' lives which the god is asked to bless», e quello alla nr. 74 (a p. 42), che, in forza della raffigurazione di uva e spighe di grano, equivarrebbe a una dedica ὑπὲρ καρπῶν; cfr. anche L. Robert, “Hellenica XV. Inscriptions au Musée du Louvre”, RPh 65 (1939), pp. 198-207, in particolare p. 204 (ora in OMS II, Amsterdam 1969, pp. 1351-
Società e religione nella Frigia romana forte solidarietà religiosa delle comunità di nomica e sociale non meno rilevante.
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villaggio, cui corrisponde una solidarietà eco-
2. Il villaggio costituisce per la sua stessa natura una unità culturale #, come si tornerà a ribadire riguardo al grande fenomeno sociale e religioso rappresentato dalla crisi montanista. Ciò che ora conta mettere in rilievo sono i modi della solidarietà economica all’interno della struttura sociale del villaggio, dove la unità di base è la famiglia contadi-
na che possiede i mezzi di produzione *5. Questa realtà sociale costituisce una struttura di lunghissima durata, praticamente impermeabile anche agli eventi più traumatici quali nel Mediterraneo orientale furono la conquista araba o selgiuchide. In questo senso è importante notare come l’assunto che la diffusione della morale e delle pratiche di vita cristiane avrebbero prodotto sensibili mutamenti nella struttura della famiglia nei secoli V-VI resti spesso più un’affermazione di principio che un fatto realmente documentabile %, Dall’epigrafia rurale frigia risulta con grande evidenza la persistenza e la lunga durata del gruppo familiare mononucleare, come aveva già rilevato I. 5. Svencickaja in uno studio che non ha ricevuto l’attenzione che avrebbe meritato ”. La studiosa russa ha individuato nella struttura familiare ristretta (small family), limitata cioè
per lo più alla paren-
tela di primo grado, la forma più comune nelle campagne frigie di età imperiale. La stessa struttura parentale è risultata prevalere nell’analisi di un coeso gruppo di iscrizioni cristiane di III secolo recanti la formula “Christians for Christians” 3, Sempre la famiglia
1360, in partic. p. 1357). Sulla necessità della considerazione dei documenti nel loro complesso, rilievi compresi, per stabilirne la natura vd. anche, in un caso concreto, Th. Drew-Bear - Ch. Naour, “Divinités de Phrygie”, cit., nr. 24 pp. 2002-2012. M Cfr. M. Mazza - T. Gnoli, “Aspetti sociali delle comunità di villaggio nella Siria romana (IV-V sec. d.C.): il villaggio come unità culturale”, P. N. Doukellis - L. G. Mendoni (eds.), Structures rurales et sociétés antiques, Actes du colloque de Corfou (14-16 mai 1992), Paris 1994, pp. 453-461. * Non si intende necessariamente un regime di piena proprietà. In realtà, ai fini del funzionamento del modello della économie paysanne, può considerarsi funzionale anche una famiglia di schiavi dotati di peculium e non viventi in ergastula, coloni etc. 1 limiti entro i quali è utilizzabile il modello economico della économie paysanne sono ben illustrati da D. Thorner, “Une théorie néo-populiste de l'économie paysanne”, Annales E.S.C. 21 (1966), pp. 12321244, e da E. Patlagean, “Economie paysanne’ et ‘féodalité byzantine””, Annales E.S.C. 30 (1975), pp. 1371-1396 (= Eadem, Structure sociale, famille, chrétienté à Byzance, IV°-XI° siècle, London 1981, Ess. ΠῚ). * S. Mitchell, Anatolia, Land, Men, and Gods in Asia Minor Il. The Rise of the Church, Oxford 1993, p. 119: «It seems likely that the influence of this new outlook [le idee e le pratiche ascetiche] was profound, and closely linked to major transformations in social organization and even in family structure. The nature of the evidence dictates that, for Anatolia at least, it is easier to argue for the importance of this influence as a hypothesis, than to demonstrate its impact with specific examples». Tuttavia, nonostante questa ineccepibile premessa, Mitchell non evita di aggiungere, poco dopo, che «two structures had defined the organization of the Graeco-Roman world since its inception, the city with its political organization, and the houschold based on kinship structure. Both showed signs of serious disintegration in this period». 1, S. Svencickaja, “Some Problems of Agrarian Relations”, cit., p. 48: «The main body of village land was in the hands of individual peasant families [...] Judging from the epitaphs, the basic economic unit in most of the communities of the province of Asia was the small family». ME. Gibson, The "Christians for Christians” Inscriptions of Phrygia, Greek Texts, Translation and Commentary, Harvard 1978.
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mononucleare ristretta emerge anche da un’altra categoria di fonti rappresentata dall’a-
giografia bizantina #. Nell’epigrafia funeraria delle campagne di Frigia è molto frequente che l’intrapresa
dell’opera sia da attribuire non ad un singolo individuo, ma ad un gruppo familiare: sono spesso i fratelli a far incidere la lapide per i genitori, o un genitore con il concorso dei figli a costruire un sepolcro per la famiglia. Lo studio delle dinamiche di popolazione attraverso la consistenza e la struttura dei nuclei familiari richiederebbe, in mancanza di un abbondante materiale documentario,
quanto meno un’attenta considerazione delle unità abitative e dei centri rurali di insediamento. Ma anche in Frigia, come in molte regioni del Mediterraneo, soprattutto quelle dove le abitazioni contadine venivano costruite in materiale altamente deperibile, l’archeologia ha potuto fornire finora poche indicazioni sull’abitato rurale. È con prudenza che si deve ricorrere alla comparazione nello studio sociale ed economico di una data regione, ma in questo caso la scelta è obbligata. Recenti indagini nella Siria settentrionale, dove al contrario la casa contadina veniva costruita in pietra, hanno messo in rilievo co-
me la famiglia nucleare abbia fortemente influenzato anche la struttura abitativa e dunque l’aspetto stesso dell’insediamento rurale *. Alla famiglia mononucleare corrisponde, nella Siria settentrionale, una casa contadina essenzialmente costituita da un unico ampio locale su due livelli che corrispondevano ad una dislocazione funzionale: il piano terra assolveva a funzioni prettamente economiche, mentre il piano rialzato aveva funzione abitativa. Questa struttura “cellulare” dell’abitato poteva ripetersi e svilupparsi con un processo di duplicazione all’infinito, a mano a mano che la famiglia si sviluppava ed i figli si rendevano indipendenti e costituivano un altro nucleo familiare. Tutto lascia supporre, anche se in mancanza di dati certi per la Frigia, che il quadro recentemente emerso nella Siria tardoantica possa essere allargato praticamente senza alterazioni sostanziali
all’Asia Minore interna. Il villaggio, per sua natura lontano dall’ambiente cittadino e non toccato, se non in maniera del tutto marginale, dalle dinamiche di mercato che caratterizzano l’economia urbana, obbediva a leggi economiche e a ritmi propri, dove mancavano cioè, in tutto o in
parte, i principali elementi dinamici del mercato urbano e della campagna periurbana: i meccanismi della domanda e
dell’offerta, con la conseguente determinazione di prezzi e
salari. La «economia contadina» è una forma economica per eccellenza stabile e poco dinamica proprio come stabile è la struttura sociale da essa determinata: la comunità di vil-
» M. Kaplan, Les hommes et la terre à Byzance du VI” au XF siècle, Propriété et exploitation du sol, Pari
1992, p. 484: «si l'on examine la vie des saints originaires de familles d'agriculteurs, celles qui, nous allons le voir, vivent en autarcie, on s'aperçoit que la vie met en scène, du moins dans le village, le saint et ses parents, éventuellement des frères et sœurs, encore que ces familles ne semblent pas très nombreuses. Jamais, ou presque, les oncles ou tantes ne vivent sous le même toit que les parents». # J.-P. Sodini, G. Tate, B. et 5. Bavant, J.-L. Biscop, D. Orssaud et al., “Déhès (Syrie du nord). Campagnes I-III (1976-1978), Recherches sur l'habitat rural”, Syria 57 (1980), pp. 1-305; J.-P. Sodini, G. Tate, “Maisons d'époque romaine et byzantine (II°-VIS siècles) du Massif calcaire de la Syrie du Nord. Etude typologique”, Actes du colloque d'Apamée de Syrie, Bruxelles 1984, pp. 377-429; la formalizzazione definitiva dei dati archeologici raccolti nei precedenti lavori è ora in G. Tate, Les campagnes de la Syrie du nord du II° au VII siècle. Un exemple d'expansion démographique à la fin de l'antiquité, 1.1, Paris 1992.
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laggio. Eppure, anche l'economia contadina ha i suoi elementi dinamici di trasformazione. Il più importante ed il meglio studiato è quello demografico. In un’economia contadina «pura», dove cioè non si riscontra presenza di lavoro esterno alla famiglia, né proprietà terriere esterne al villaggio, né carenza di terra coltivabile da occupare, ciò che costituisce la ricchezza della famiglia è il numero dei figli e la conseguente capacità di aumento delle terre lavorate. A.V. Cajanov, il massimo teorico di questo sistema, ha calcolato che una famiglia contadina con un tasso di accrescimento medio di un figlio vivo ogni tre anni conosceva un parziale impoverimento per i primi quattordici anni, per poi
avere un’espansione economica con accrescimento geometrico su base triennale *. La capacità produttiva di una famiglia non è regolata se non marginalmente dal meccanismo della domanda e dell’offerta, ma è in realtà frutto di un equilibrio tra i bisogni
di consumo della famiglia e il fastidio causato dal lavoro. È questo aspetto peculiare della produzione contadina che rende possibile, in ambiti economici che secondo la logica di mercato sarebbero poveri o marginali, attività economiche che, richiedendo una gran quantità di mano d’opera, in un sistema di mercato sono da considerarsi di lusso. Il riferimento è soprattutto all’edificazione di abitazioni in pietra con ricche decorazioni ed all’esistenza di una epigrafia rurale fortemente sviluppata. Nell’intrapresa di simili opere interviene la solidarietà familiare e di villaggio. È così che, per i pochi casi documentabili, tutti di area arabo-palestinese ed egiziana, si vede che i lavori di edilizia e di idraulica riguardano sempre l’intera comunità (o quanto meno ampi gruppi all’interno di essa) “2. La crescita eccessiva della popolazione ha però sull’economia di una regione degli effetti negativi che sono stati ampiamente studiati #. Essi sono tanto evidenti che non è necessario ricordarli. La prosperità è data dall’eguilibrio tra capacità produttive e popolazione. Recenti lavori sulla «capacità di carico» (carrying capacity) di un dato territorio
hanno mostrato l’estrema difficoltà di valutare il rapporto ottimale tra produttività e popolazione anche in presenza di situazioni estremamente semplici e di una ricca documentazione *. Resta comunque il fatto che la carrying capacity di regioni quali gli altopiani
41 La principale opera di Cajanov è disponibile in traduzione inglese e francese: D. Thorner, B. Kerblay, R. E. F. Smith (eds.), Chajanov on the Theory of Paesant Economy, Homewood, Ill. 1966 e, più recentemente, A. V. Tchayanov, L'organisation de l'économie paysanne, trad. A. Berelowitch, Paris 1990; una utile bibliografia è in B. Kerblay, “Bibliographie des principaux travaux de A.V. Chajanov”, Cahiers du monde russe et soviétique 7 (1966), pp. 85112; sono importanti le integrazioni alla teoria dell'economia contadina contenute, oltre che nei lavori citati sopra, n. 35, in B. Kerblay, “A.V. Chajanov. Un carrefour dans l'évolution de la pensée agraire en Russie de 1908 à 1930”, Cahiers du mond russe et soviétique 5 (1964), pp. 411-460; J. R. Millar, “A Reformulation of A.V. Chajanov Theory of Peasant Economy”, Economic Development and Cultural Changes 18 (1969), pp. 219-229; T. B. Wien, “Uncertainty and Factor Allocation in a Peasant Economy”, Oxford Economics Papers 29 (1977), pp. 48-60; D. Grigg, The Dynamic of Agricultural Change, London 1982, pp. 91-100 (trad. it. Bologna 1985). 41 La documentazione è quasi tutta di carattere papiraceo. Per i documenti non egiziani cfr. da ultimo H. M. Cotton, W. E. H. Coeckle, F. G. B. Millar, “The Payrology of the Roman Near East: A Survey”, RS 85 (1995), pp. 214-235. Sono particolarmente importanti a questo riguardo i quattro ostraka provenienti da Sbeita, nel Negev, dei quali conto di dare al più presto una nuova lettura: H. C. Youtie, “Ostraca from Sbeitah”, AJA 40 (1936). È inoltre certo che allo stesso argomento faccia riferimento PDura 26, 1. 25, cfr. T. Gnoli, Le comunità di villaggio nella regione siro-palestinese in età romana, diss. dottorato, Messina 1995, pp. 323-326. + Una sintesi informata in D. Grigg, The Dynamic of Agricultural Change, London 1982. * Cfr., p. es., B. Rosen, I. Finkelstein, “Subsistence Patterns, Carrying Capacity and Settlement Oscillations in the Negev Highlands”, PEQ 124 (1992), pp. 42-58.
162
T. Gnoli = J. Thornton
della Frigia interna doveva essere piuttosto bassa, e non è quindi un caso che in base alle iscrizioni rurali di Frigia gli studiosi siano concordi nel sottolineare la scarsità numerica dei componenti i nuclei familiari 45. In particolare Svencickaja, fornendo dati quantitativi
relativi all’analisi del materiale epigrafico proveniente da tre regioni della Frigia interna, ha potuto mettere in evidenza che la dimensione media della famiglia contadina quale emerge dai testi epigrafici è costituita da quattro persone. La stessa stima, frutto di un’analisi delle fonti agiografiche completamente indipendente, è alla base delle considerazioni di Kaplan riguardo alla «exploitation familiale paysanne». La ristrettezza numerica dei nuclei familiari non è da interpretare in questo caso in maniera necessariamente negativa. Al contrario, l’esportazione, anche forzata, di manodopera dalle regioni dell’interno può
aver giocato un ruolo di stabilizzazione economica fondamentale per la persistenza degli insediamenti in zone con scarso potenziale produttivo. 3. Alcuni aspetti dell’integrazione dei Frigi, con il loro sistema economico-sociale e la loro cultura, nello stato sovranazionale romano, emergono con particolare evidenza da un brano dell’orazione pronunciata da Cicerone nel 59 a.C. in difesa di Lucio Valerio
Flacco, accusato de repetundis in seguito agli abusi commessi nel governo della provincia d’Asia, nel 62. Agli occhi
di Cicerone il processo, nell’anno del consolato di Cesare, della
transitio ad plebem di Clodio e della condanna di Antonio, suo collega nel consolato del 63 *, assumeva un più alto significato politico: un giudizio sfavorevole all’imputato, che
da pretore, nella notte fra il 2 e il 3 dicembre del 63, aveva arrestato al ponte Milvio i legati degli Allobrogi, sequestrando loro le lettere che permisero al console di agire contro i complici di Catilina rimasti a Roma, avrebbe rappresentato un'ulteriore rivincita delle forze coinvolte nella congiura ‘7. L'avvocato della difesa, dunque, invitò i giudici a considerare innanzitutto quid utilitas civitatis, quid communis salus, quid rei publicae tempora poscerent“ὃ; quest’appello alla ragion di stato equivale quasi ad un’ammissione della colpevolezza dell'imputato, data per scontata più tardi da Macrobio #, che annovererà Flacco tra i nocentissimos reos difesi con successo da Cicerone; e la strategia della difesa,
il cui discorso si fa specioso nelle rare occasioni in cui tenta di dimostrare la legittimità del comportamento dell’imputato, è volta tutta a screditare i testimoni dell'accusa.
In particolare, meritano di essere rilevate le parole che Cicerone dedica sprezzantemente alle vicende dell’accusa di Dorylaeum. I rappresentanti della città, a riprova delle
1.5. Svencickaja, “Some Problems”, cit., p. 49: «this random analysis of material from three rural parts of Phrygia shows a clear preponderance of families with few children»; M. Kaplan, Les hommes et la terre, cit. sopra in n. 39. * Cic. Hacc. 5:95. + Cie. Flacc. 94-97. + Cic. Face. 98; cfr. 3; 94:99. + Macr. Sat. Il 1, 13: atque ego, ni longum esset, referrem in quibus causis, cum nocentissimos reos tueretur, victoriam tocis adeptus siti ut ecce pro 1.. Flacco, quem repetundarum reum ioci opportunitate de manifestissimis criminibus exemit. Sull'ironia e l'umorismo nella pro Hacco vd. A. Haury, L'ironie et l'humour chez Ciceron, Leiden 195$, in particolare pp. 139-140; cfr. anche, più in generale, e con riferimento soprattutto alle lettere di Cicerone, A. R. Hands “Humour and Vanity in Cicero”, J. Ferguson - L.. A. Thompson - A. R. Hands - W. A. Laidlaw, Studies in Cicero, Rome 1962, pp. 115-125
Società e religione nella Frigia romana
163
estorsioni di Flacco, intendevano produrre al processo le tabulae publicae 5°, ma furono derubati dei documenti durante il viaggio. Cicerone, in verità, vorrebbe far figurare che li avessero smarriti
(perdidisse; amissas,
$ 39) o, meglio ancora, che fingessero di averli
smarriti; ma uno dei suoi ioci rivela come i testimoni dell’accusa ne lamentassero piuttosto il furto, evidentemente, accusandone l’imputato e la sua parte: O pastores nescio quos cupidos litterarum, si quidem nihil istis praeter litteras abstulerunt! 5! L’esclamazione avrà
forse strappato il sorriso di giudici ben disposti 52, ma non cancella il sospetto che Flacco e Cicerone avessero rinnovato i fasti della notte fatale del 63 (che l’oratore non esiterà a rievocare con accenti commossi
nella perorazione finale, $ 102), impadronendosi
ancora
una volta, ma in circostanze meno gloriose, di documenti compromettenti 53. Sbarazzatosi così delle insidiose tabulae publicae, Cicerone si lamenta però che si sia fatto avanti ancora un nescio qui di Dorylaeum, affermando di essere stato costretto a versare del denaro a Flacco privatim 5. L’oratore, che deliberatamente non ne fa il nome,
si compiace di presentarlo come un perfetto sconosciuto, e porta ancora un altro elemento a discredito del testimone dell’accusa: tre cavalieri romani, honesti et graves, non gli avevano creduto cum in causa liberali eum qui adserebatur cognatum suum esse diceret. Giudicato inattendibile in una causa che lo toccava nel suo stesso sangue 55, come poteva
pretendere di essere ritenuto gravis auctor iniuriae publicae? 56
50 Sul peso decisivo che questi documenti avrebbero dovuto avere nei processi de repetundis si vedano alcuni passi delle Verrine: I Verr. 1, 27-28 (Nonne aut in tabulis aut in testibus omnis exspectatio indicum est?); 88-89 (Semper enim existimasti, et maxime in Sicilia, satis cautum tibi ad defensionem fore, si aut referri aliquid in litteras publicas vetuisses, aut quod relatum esset tolli coegisses); 128 (un caso analogo a quello del testimone di Dorylacum, su cui vd. oltre nel testo); 158 (Hoc modo iste sibi et saluti suae prospicere didicit referendo in tabulas et privatas et publicas quod gestum non esset, tollendo quod esset, et semper aliquid demendo, mutando, interpolando); Il Verr. Il, 60; 90 (false accuse di falsificazione delle litterae publicae mosse su impulso di Verre}: II Verr. III, 73-74 (il peso nel processo delle litterae publicae degli Agyrinenses); 122; 173; II Verr. IV, 43; 91; 140; 149; II Verr. V, 10; 102-103; 147. 1 Cic. Flacc. 39. & Vd. A. Haury, L'ironie et l'humour, cit., pp. 243-244: «Sans doute est-ce l'un des mots qui, au dire de Macrobe, firent merveille». 5) Tentativi di questo genere non dovevano essere infrequenti nella vita giudiziaria romana, se lo stesso Cicerone, div. in Caec. 51, poteva respingere in questi termini la pretesa di Q. Cecilio di fargli da subscriptor nell’accusa contro Verre: Quid? mihi quam multis custodibus opus erit, si te semel ad meas capsas admisero? qui non solum ne quid enunties, sed etiam ne quid auferas custodiendus sis. # Cic. Flac. 40. % Nel discorso di Cicerone, questo episodio ha anche la funzione di screditare ulteriormente il testimone, accostandolo in qualche modo alla condizione servile. “ Cic. Flacc. 40, al culmine di un brano teso tutto a dimostrare l'inattendibilità, e in definitiva l’irrilevanza delle lamentele di un frigio contro il governatore della provincia d'Asia: cum vero is quem nemo vestrum vidit umquam, nemo qui mortalis esset audivit, tantum dicit; «dedi», dubitabitis, iudices, quin ab hoc ignotissimo Phryge nobilissimu civem vindicetis? Solo pochi mesi prima del processo di Flacco, Cicerone s'era espresso in termini analoghi in una lettera al fratello Quinto, governatore della provincia d'Asia: nisi forte me Paconi nescio cuius, hominis ne Graeci quidem ac Mysi aut Phrygis potius, querelis moveri putas... (ad Q. fr.11, 19, scritta tra la fine del 60 e i primi mesi del 59 a.C.). Sulla distinzione che Cicerone stabilisce nella pro Flacco tra la vera et integra Graecia (61), che ha in-
viato legazioni in favore dell'imputato, e i Greci d’Asia Minore che lo accusano (cfr. $ 100: Graecis autem Lydis et
Phrygibus et Mysis obsistent Massilienses, Rhodii, Lacedaemonii, Athenienses, cuncta Achaia, Thessalia, Boeotia) vd. D. Schlichting, Cicero und die griechische Gesellschaft seiner Zeit, Diss. Berlin 1975, in part. p. 6 n. 13. Cfr. anche ad esempio II Verr. II, 7 (nibil ceterorum simile Graecorum, detto dei Greci di Sicilia rappresentati da Cicerone): l'oratore non esita a far leva sui pregiudizi della giuria e del pubblico.
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T. Gnoli - J. Thornton Il cittadino di Dorylaeum era morto a Roma, dopo aver prestato testimonianza al
processo; una morte improvvisa, di cui l’accusa aveva tentato di riversare la responsabilità sull’imputato, uno dei numerosi punti oscuri di questo processo. Rivolto a Decimo Lelio, che irritualmente ospitava in casa propria i testimoni a carico di Flacco 5”, Cicerone gli ritorce contro l'accusa, rimproverandogli di aver provocato lui stesso, per neglegentia,
la morte del testimone: homini enim Phrygi qui arborem numquam vidisset fiscinam ficorum obiecisti8. In queste parole vi è qualcosa di più della consueta διαβολή contro l'avversario giudiziario 9; vi si può leggere, nettissima, la contrapposizione fra il verdeggiante mondo mediterraneo, il paese della vite, dell’ulivo e, appunto, del fico, e l'Asia Minore interna,
«the bare, treeless, and dun-coloured steppe between Eskisehir [nei pressi dell’antica Dorylaeum] and Ankara» 6°, Nella contrapposizione è implicito un giudizio di valore: il frigio che non avrebbe mai visto un albero, e sarebbe morto d’indigestione per aver consumato con avidità (edacem enim hospitem amisisti δ᾽, dice Cicerone a Decimo Lelio, vo-
lendo dimostrare come la morte del frigio giovasse più alle tasche dell’accusatore che alla causa della difesa) un canestro di fichi, è una caricatura additata allo scherno dei giudici
e del pubblico 62.
Cic. Flace. 22: una ex domo prodeunt; si verbo titubaverint, quo revertantur non habebunt; 23: plura etiam effundet quam tu ei domi ante praescripseris? (. .) vivunt cum inimicis, adsunt cum adversariis, habitant cum accusatoribus; 24: ne ignotis testibus, ne incitatis, ne accusatoris consessoribus, convivis, contubernalibus; 41: tuos contubernalis; 83: habitare una? Quis hoc nescit? % Cic. Flacc. 41.
Sui procedimenti impiegati da Cicerone nella diabole, «ce dénigrement méthodique- cui ricorreva «quand seule la considération des mérites respectifs peut tirer le tribunal de son incertitude», vd. ancora A. Haury, L'iromie et l'humour, cit., 106-109.
« p. I, da consultare anche per le considerazioni sul contrasto fra la costa meditered il modo in cui vi hanno reagito i viaggiatori, da Cicerone al Ramsay, fino allo
® 5. Mitchell, Anatolia 1 ranea e «the plateau of Anatoli stesso Mitchell. #1 Cic. Flace. 41.
# Nelle parole di Cicerone, secondo cui il frigio, in quanto tale, non avrebbe mai visto un albero, vi è naturalmente una buona dose di esagerazione, di forzatura, di generalizzazione e di indebita semplificazione; ancora una volta, l'oratore solletica l'orgoglio romano-centrico della giuria e del pubblico. Sulla reale complessità, e sul carattere composito del paesaggio frigio - e in particolare proprio della Frigia orientale, cui appartiene Dorylaeum - vd. E. Chaput, Phrygia. Exploration archéologique 1. Géologie et géographie physique, Paris 1941, in particolare pp. 1-7 e 99-120; appare opportuno citare, da p. 118, l'equilibrato giudizio conclusivo sulla «géographie botanique» della Frigia orientale: «Si l'on examine seulement les flores des steppes, on peut dire de la Phrygie Orientale ce qu'on a dit de la région d'Ankara: les affinités essentielles indiquent une province irano-anatolienne des hauts plateaux asiatiques; mais, si l'on tient compte des régions de buissons et de forêts, les affinités européennes apparaissent tout aussi bier sans meconnaitre la ressemblance avec les hauts plateaux asiatiques, il est logique de placer la Phrygie Orientale dans le domaine des régions montagneuses méditerranéennes du Sud-Est de l'Europe. Di fatto, nella concreta articolazio-
ne del territorio, la steppa e la foresta si ritrovano spesso nella chora di una sola città: così, a proposito del territorio di Nacolea, Th. Drew-Bear -
Ch.
Naour, “Divinites de Phrygie”,
cit., 1922-1926 hanno avuto buon gioco a mostrare
l'inesattezza della tesi che metteva in dubbio la possibilità di un culto di Zeus Alsenos a Nacolea in base (tra l’altro) alla considerazione che «cette ville se situe justement dans une région sans arbres» (]. Strubbe, "Les noms indigènesà Pessinonte”, Talanta
10-11 (1978-1979), pp. 112-145, in particolare p.
120):
tondandosi sulle memorie dei viaggia-
torì dei secoli scorsi e su un passo di Ammiano Marcellino (XXVI 9, 8), i due studiosi hanno giustamente rilevato come, a causa delle «destructions causées par les villageois à la recherche de bois de chauffe ou de matériaux de construction», l'estensione attuale delle foreste di Frigia non riflette più le condizioni dell'antichità (sul disboscamento nella Frigia orientale vd. anche E, Chaput, Phrygie L cıt., pp. 104-115, che insiste anche sulle forme, talora estrema-
Società e religione nella Frigia romana
165
Contrasto di paesaggi, contrasto di alimentazione, contrasto di civiltà; o meglio, nella
prospettiva dell’oratore, contrasto fra la civiltà greco-romana e l’assenza di civiltà: pur dove Cicerone, generosamente, riconosce ai Frigi e ai Misi gli stessi difetti dei Greci, ne sottolinea nel contempo la barbarie, definendoli levitate Graeci, crudelitate barbari 5). Ma, oltre agli aspetti culturali, questo brano vale anche ad illuminare gli aspetti eco-
nomici del rapporto fra Roma e l’interno dell’Asia Minore: un frigio, anche se imparentato con un personaggio di qualche rilievo, almeno a livello locale, perché tale doveva essere, checché ne dica Cicerone, il testimone a carico di Flacco *, correva sempre il rischio di
mente distruttive, dello sfruttamento delle foreste; su fenomeni analoghi nell'Italia romana, e sulle tensioni che potevano derivarne, vd. A. Giardina, “Allevamento ed economia della selva in Italia meridionale: trasformazioni e continuità”, A. Giardina - A. Schiavone (a cura di), Società romana e produzione schiavistica 1, cit., pp. 87-113; 482-499, in particolare pp. 99 s .); tuttavia, l'affermazione che Nacolea «se trouvait pendant l'Antiquité dans un pays caractérise par de grandes forêts» (pp. 1925-1926) rischia di apparire anch'essa troppo perentoria, troppo poco nuancée; è vero che ancora negli anni "30 di questo secolo, come risulta dalla carta pubblicata da E. Chaput, Phrygie I, cit. fig. 9 p. 109, a sud e a ovest di Nacolea figuravano ampie zone di foresta, ma è anche vero che risultava spoglia la pianura compresa fra Nacolea e Dorylacum; in questa zona, la pianura di Eskigehir, si presentano le condizioni abituali delle steppe dell'Anatolia centrale, e «les plantes arborescentes ont (...) une existence difficile» (E. Chaput, Phrygie I,
cit., pp. 99-102; cfr. anche C. W. M. Cox - A. Cameron, MAMA V, cit., pp. XVIII per il territorio di Dorylaeum -
«in the treeless plain and on the bare foothills of Boz Daß; XXII per la regione fra Dorylaeum e Nacolea - «high and bare, (...) particularly stony in its northern reaches», benché in gran parte adatta al pascolo e non priva di coltivazioni; XXVI per il sito di Nacolea - «a level treeless valley»): è probabile dunque che una parte considerevole del territorio di Nacolea, ai confini con quello di Dorylacum, fosse spoglia già nell'antichità, benché la città possedesse anche zone boscose (sull'importanza delle regioni boscose della montagna, accanto ai campi della pianura, nell'economia e nella vita delle città d'Asia Minore vd. L. Robert, “Nonnos et les monnaies d’Akmonia de Phrygie”, JS (1975), pp. 153-192 = OMS VII, Amsterdam 1990, pp. 185-224, in particolare pp. 211-212; per le città di Creta vd. ora A. Cha-
niotis, “Von Hirten, Kräutersammlern, Epheben und Pilgern: Leben auf den Bergen im antiken Kreta”, Ktema 16
(1991 [ma 1995]), pp. 93-109; ma soprattutto, si veda in che termini poteva essere rappresentata la felice posizione
di un villaggio: καλῶς μὲν τῶν ὁρῶν καὶ τῶν πεδίων ἔχουσα: IGBulg IV, 2236, da leggere ora nella nuova edizione di K. Hallof, “Die Inschrift von Skaptopara. Neue Dokumente und neue Lesungen”, Chiron 24 (1994), pp. 405-429,
in particolare p. 420, Il. 127-128). 1 caratteri della regione a sud di Eskisehir sono tali che in G. Perrot, E. Guillaume et J. Delbet, Exploration archéologique de la Galatie et de la Bithynie d'une partie de la Mysie de la Phrygie, de la Cappadoce et du Pont I, Paris 1862, pp. 149-150 essa poté essere identificata con l'Axylon quam vocant terram per cui marciarono gli uomini di Vulsone nel 189 a. C. (Liv. XXXVIII 18, 4: ab re nomen habet: non ligni modo quicquam, sed ne spinas quidem aut ullum aliud alimentum fert ignis: fimo bibulo pro lignis utuntur); l'identificazione è accolta da D. Magie, Roman Rule in Asia Minor to the End of the Third Century after Christ II, Princeton, New Jersey 1950, p. 1307 n. 8, e ora anche da 5. Mitchell, Anatolia I, cit., p. 24 n. 124. Naturalmente, la caratterizzazione
ciceroniana del territorio di Dorylaeum non può apportare alcun contributo reale alla ricostruzione dell'itinerario seguito da Vulsone e al connesso problema dell'identificazione dell’Axylos terra di Livio (sulla marcia di Vulsone vd. anche i diversi tentativi di ricostruzione di A. Körte, “Kleinasiatische Studien II. Gordion und der Zug des Manlius gegen die Galater”, MDAI(A) 22 (1897), pp. 1-51, in particolare pp. 5-18 - pp. 11-13 sull’Axylos terra; J. G. C. An-
derson, “Exploration in Galatia cis Halym Il. Topography, Epigraphy, Galatian Civilisation”, JHS 19 (1899), pp. 52-134; 280-318, in particolare pp. 311-312; K. Bittel, Kleinasiatische Studien, Istanbuler Mitteilungen 5, Istanbul
1942); ma il confronto fra l'invettiva di Cicerone e il resoconto liviano della marcia di Vulsone vale ad illustrare come la sensibilità mediterranea di Cicerone o della fonte di Livio fosse colpita da un aspetto del paesaggio frigio, che convive con altre, diverse forme; Cicerone, nell'interesse dell'imputato, finisce per presentarlo come caratteristica generale dell’alterità frigia - che diviene immediatamente inferiorità. # Cic. Flacc. 24. 4 Si noti che del rappresentante di Dorylaeum Cicerone non può dire, come di Eraclide e Nicomede di Temno, altri due testimoni dell'accusa, che egli non faccia parte del senatus della sua patria; sui senatus delle città greche nel I secolo a.C., e la loro composizione regolata dal principio timocratico, vd. D. Schlichting, Cicero und die griechische Gesellschaft, cit., pp. 8-16 (e, per le funzioni svolte, p. 16 e ss.).
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T. Gnoli - J. Thornton
essere ridotto in schiavitù; e allora, se pure si aveva la fortuna di ritrovarlo, i giudici delle
causae liberales non erano disposti a lasciarsi didaskein, o peithein, da un nescio qui frigio, né come adsertor né come testimone.
A partire dagli ultimi decenni della repubblica, e almeno per i primi due secoli dell'impero, i Frigi, e più in generale le popolazioni indigene dell’Asia Minore, saranno in prima linea, loro malgrado, nel rifornimento del mercato della manodopera schiavile65; il parente dell’accusatore di Flacco, un caso sfuggito all'attenzione del Bang, può conside-
rarsi uno dei primi schiavi frigi a Roma di cui si abbia esplicita testimonianza %. È raro che le vicende personali di questi uomini, sradicati dal loro ambiente e degradati al livello di merce, e di strumento vocale, vengano registrate dai colti rappresentanti dei ceti diri-
genti urbani dei quali ci sono pervenute le opere ‘7; per la Frigia, un caso eccezionale è quello di Nicostrato di Primnesso, tramandato da Pausania. Il periegeta, passando in rassegna i ‘magnifici sette’ atleti capaci di vincere nella stessa edizione delle Olimpiadi il
pancrazio e la lotta, coglie anche l'occasione di narrare la vicenda meravigliosa del settimo e ultimo di questi campioni, il celebre Nicostrato: ἕβδομος δὲ Νικόστρατος ἐκ τῶν è πὶ θαλάσσῃ Κιλίκων, οὐδὲν τοῖς Κίλιξιν αὐτοῦ μετὸν εἰ μὴ ὅσα τῷ λόγῷ. τοῦτον τὸν Νικόστρατον νήπιον παῖδα ἔτι ἐκ Πρυμνησσοῦ λῃσταὶ τῆς Φρυγῶν ἥρπασαν, οἰκίας ὄντα οὐκ ἀφανοῦς: κομισθέντα δὲ αὐτὸν εἰς Αἰγέας ὠνήσατο ὅστις δή: χρόνῳ δὲ ὕστε-
ρον τῷ ἀνδρὶ τούτῳ ὄνειρον γίνεται: λέοντος δὲ ἔδοξεν ὑπὸ τῷ σκίμποδι κατακεῖσθαι σκύμνον, ἐφ᾽ ᾧ ἐκάθευδεν ὁ Νικόστρατος“5. Dunque
Nicostrato, vincitore nella lotta e nel pancrazio
all’Olimpiade del 37 d.C.,
veniva da Aigeai di Cilicia, ma in realtà era frigio, di Primnesso, e discendeva da una famiglia non priva di lustro (come il parente del testimone a carico di Flacco); in Cilicia era arrivato, ancora
bambino,
vittima di λῃσταί;
lì era stato acquistato, sul mercato
degli
schiavi, e lì si era verificato il prodigio che ne preannunciava la futura grandezza. Il caso di Nicostrato, che eccezionalmente ci è noto grazie alla sua straordinaria carriera di atleta e all’interesse di Pausania per il logos sorto intorno ad essa, dimostra come, ancora
nell’età di Tiberio, o al più presto di Augusto, un frigio potesse essere catturato dai banditi e raggiungere i porti della Cilicia, dove poteva essere acquistato e trattenuto, ma da
cui pure poteva prendere il mare per essere venduto in Italia; qualcosa di simile potrebbe essere accaduto al parente del rappresentante di Dorylaeum
(e, privatim, parte lesa) nel
processo contro Flacco. Questi due casi, che in qualche misura riusciamo a cogliere nella
+ M. Bang, “Die Herkunft der römischen Sklaven”, cit. in particolare pp. 235-236; 248; 251 #* Per il 46 a.C. si ha l'attestazione di una Numitoria C. I. Philumina natione Prugia, in CIL 1? 2965 a.
© VA. Z. Yavetz, Slaves and Slavery in Ancient Rome, New Brunswick (USA) - Oxford (UK) 1988, in particolare pp. 160-161: «No classical author went out of his way to try to fathom tha anguish of a free-born man who ended his days as a miner». # Pausania V 21, 10-11, su cui
'eda G. Maddoli - V. Saladino, Pausania. Guida della Grecia.
de e Olimpia, a cura di G. M. e V. S., Milano 1995, p. 316:
Libro V. L'Eli-
riferimenti a Nicostrato, prova della sua celebr
contrano anche in Tac. Dial. 10, 5; Quint. Inst. Il 8, 14; Luc. Hist. Conser. 9; inoltre, se ne è conservata un’immagine con palma e disco in un mosaico di Seleucia: vd.
D. Levi, Antioch Mosaic Pavements, Princeton
1947, p. 116 tav.
19. Sulla tecnica narrativa del Periegeta, e la concezione dell’opera che lo porta ad includere, accanto agli aspetti puramente descrittivi, anche quelli più propriamente narrativi, vd. ora D. Musti, “La struttura del discorso storico in
Pausania”, Pausanias historien, Entretiens sur l'antiquité cl:
ue 41, Genève 1996, pp. 9-34.
Società e religione nella Frigia romana
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loro concretezza, sono come il vertice casualmente affiorante di un fenomeno di vaste dimensioni sommerso nel silenzio, nel disinteresse e nel disprezzo delle fonti: i Frigi, e con
loro le altre popolazioni indigene dell'Asia Minore ellenizzata, sono davvero «peuples sans histoire» “ἢ.
La reale rilevanza del fenomeno in età tardo-repubblicana può cogliersi però considerando alcuni dati ben noti: agli ambasciatori inviati da Mario a chiedergli truppe ausili rie per la guerra cimbrica il re di Bitinia Nicomede III Evergete oppose un rifiuto motivato dalla considerazione che τοὺς πλείους τῶν Βιθυνῶν ὑπὸ τῶν δημοσιονῶν διαρπαγέν-
τας δουλεύειν ἐν ταῖς ἐπαρχίαις ”; ancor più significativo della risposta di Nicomede è il fatto che il senato prese sul serio le sue parole, ammettendo così implicitamente che il trasferimento di manodopera schiavile verso le regioni soggette al diretto controllo di Roma rischiava di ridurre allo spopolamento la Bitinia. Si ricordi, d’altra parte, che in un celebre passo di Cicerone ”!, relativo agli anni della pretura siciliana di Verre, gli schiavi, con vina (...) Graeca”*, figurano come la merce principale trattata dai mercanti che dall’Oriente si dirigevano in Sicilia e in Italia (o piuttosto, in Italia passando per la Sicilia: vd. la n. seguente); a giudizio di Cicerone, la preminenza degli schiavi, tra le merci importate dall’Asia, era analoga a quella della porpora nelle importazioni da Tiro, o di tus (...) atque odores vestemque linteam, gemmas (...) et margaritas nelle importazioni dall'Oriente che transitavano per i porti della Siria e per Alessandria ”°. Una conferma del testo ciceroniano risulta ora dalla considerazione della lex portorii Asiae del 75 a.C.; pervenutaci at-
traverso la copia pubblicata ad Efeso delle disposizioni relative alla riscossione dei diritti doganali nella provincia in vigore nel 62 d.C.”*, di cui era ancora alla base, la legge stabiliva in via generale un dazio pari ad 1/40 del valore della merce (τὸ τεσσαρακοστὸν pepos, I. 1175), equivalente al 2,5%. Per gli schiavi tuttavia, e in particolare per i più pregiati, i fanciulli 76, in deroga alla regola generale i legislatori s'erano dati cura di stabilire un limite massimo di 5 denarii a testa (μή τι πλεῖον τέλους ἑκάστης κεφαλῆς δηναρίων
πέντε διδόναι ὀφειλέτωζ1)}, 1. 12); che la disposizione ricorresse proprio all’inizio della
#* H. Moniot, “L'histoire des peuples sans histoire”, J. Le Goff - P. Nora (sous la direction de), Faire de l'histoire 1. Nouveaux problèmes, Paris 1974, pp. 106-123, in particolare p. 121, n. 3 peri criteri che definiscono l'appartenenza al gruppo, «nécessairement hétéroclite», dei popoli senza storia, alcuni dei quali, a partire dal «mépris colonial», si applicano perfettamente ai Frigi in età romana. 7 Diod. XXXVI 3, 1. τι Cic. II Verr. V, 145-146. 2 Cfr. Cic. II Verr. 1, 91: vina ceteraque quae in Asia facillime comparantur. 7 Cfr. anche Cic. II Verr. V, 149: Verre sottraeva ai mercatores naves, mancipia e merces; su questi passi della de suppliciis si veda D. Musti, “Il commercio degli schiavi e del grano: il caso di Puteoli. Sui rapporti tra l'economia italiana della tarda repubblica e le economie ellenistiche”, Roman Seaborne Commerce, MAAR 36 (1980), pp. 197215, in particolare pp. 198-201, con l'individuazione del ruolo di Puteoli (cfr. II Verr. V, 154) nel commercio con Asia, Siria, Fenicia ed Egitto intercettato da Verre: Idem, “Modi di produzione e reperimento”, cit., in particolare pp. 250-253. 7 Das Zollgesetz der Provinz Asia. Eine neue Inschrift aus Ephesos, herausgegeben von H. Engelmann und D. Knibbe, mit einem Beitrag von F. Hueber, FA 14 (1989). 75 H. Engelmann und D. Knibbe, Das Zollgesetz der Provinz Asia, cit., p. 20; cfr. anche, a p. 109, l'integrazione proposta dagli editori per la I. 98. * H, Engelmann und D. Knibbe, Das Zollgesetz der Provinz Asia, cit., p. 20 Il. 11-12; cfr. anche le pp. 44-46: il limite doveva valere Url σωμάτων παιδαρίων ἀνδρείων ὑπὲρ τε σωμάτων] παιδαρίων κορασίων.
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legge ($ 3) può considerarsi un ulteriore indizio della notevole rilevanza del commercio degli schiavi. Un’analoga deroga riguardava un’altra delle merci indicate da Cicerone fra le più caratteristiche del commercio dall’Oriente all’Italia, la porpora, per cui si imponeva il pagamento di τὸ εἰκοστὸν μέρος (I. 20), dunque di 1/20 (pari al 5%) anziché 1/40 del valore.
Va osservato come le eccezioni disposte nel no in direzioni diametralmente opposte: per la nuto di poter raddoppiare la misura del dazio: estranee preoccupazioni di carattere suntuario,
75 a.C. per la porpora porpora, un prodotto a questa misura non cosicché essa potrebbe
e gli schiavi vadadi lusso, s'era ritesaranno forse state doversi ricondurre
«à un souci politico-social, et pourrait-on dire moral» 7; di natura prettamente economi-
ca appare invece la norma stabilita per il commercio degli schiavi, che già Polibio annoverava tra le merci πρὸς μὲν γὰρ τὰς ἀναγκαίας τοῦ βίου xpeiag”®. La misura avrà avu-
to origine anche dalla peculiare difficoltà inerente alla valutazione della merce umana ”?, ma certamente risultava favorevole agli interessi dei commercianti di schiavi, che veniva-
no tutelati da eventuali arbitrî degli esattori nella definizione del valore della merce e di conseguenza della misura del dazio, e di fatto dovevano finire, il più delle volte, per pagare meno di 1/40 del prezzo che avrebbero incassato al momento di rivendere gli schiavi. Nel 75 a.C., dunque, a Roma si prendevano misure tese a favorire l’esportazione di schiavi dall’Asia, in particolare, si deve intendere, verso l’Italia stessa e la Sicilia "Ὁ. L’esa-
me delle aggiunte apportate alla lex portorii Asiae dopo il 75 a.C. conferma le linee di tendenza già individuate, e in particolare la rilevanza del commercio di manodopera dall'Asia Minore all'Italia (e alla Sicilia) e i tentativi delle autorità romane di favorirlo: per la porpora, i consoli del 5 d.C., Lucio Valerio Messalla Voleso e Gneo
Cornelio Cinna
Magno potrebbero aver confermato la disposizione di età tardorepubblicana, o aver persino innalzato la misura del dazio, in armonia con la contemporanea politica augustea di moralizzazione ®'; per gli schiavi, una disposizione stabilita nel 17 a.C. aveva introdotto una differenziazione tra l'ammontare del dazio dovuto per l’importazione e per l’esportazione, con il risultato che quest’ultima risultava più conveniente nella misura di un dena-
rio e mezzo per soggetto *. Ma ancor più indicative appaiono le aggiunte sui novicia
7 Così, a proposito di misure analoghe, J. France, “De Burmann à Finley: les douanes dans l'histoire économique de l'Empire romain”, Économie antique. Les échanges dans l'Antiquité: le rôle de l'État, Entretiens d'Archéologie et d'Histoire, Saint-Bertrand-de Comminges 1994, pp. 127-153, in particolare p. 142. ΤΕ Plb. IV 38, 4, a proposito del commercio con il Ponto, e in contrapposizione a merci come il miele, la cera, il pesce salato, considerate πρὸς δὲ περιουσίαν. τ Cfr. H. Engelmann - D. Knibbe (hrsg. von), Das Zollgesetz der Provinz Asia, cit., p. 45: «Neben messbaren Werten wie Alter, Kraft oder Gesundheit zählten hier auch schwer wägbare Dinge wie persönliche Anmut, besondere Fähigkeiten und Kenntnisse». * H, Engelmann - D. Knibbe (hrsg. von), Das Zollgesetz der Provinz Asia, cit., p. 45 ritengono che la misura avrebbe prodotto anche «eine wohl eher unbeabsichtigte Nebenwirkung»: data la scarsa disponibilità dei publicani a discostarsi di molto dal limite massimo fissato per ogni singolo schiavo, i commercianti avrebbero tentato «nur junge Sklaven bester Qualität über den Zoll zu bringen-. »! H. Engelmann - D. Knibbe (hrsg. von), Das Zollgesetz der Provinz Asia, cit., Il. 122-123 a p. 29: il passo purtroppo è lacunoso. Per l'ipotesi di un ulteriore aumer.to del dazio presentata dagli editori vd. le pp. 122-123.
# H. Engelmann - D. Knibbe (hrsg. von), Das Zollgesetz der Provinz Asia, cit., Il. 98-99 p. 27; per gli effetti della misura, tesa a favorire l'esportazione di schiavi dall'Asia Minore all'Italia, vd. anche p. 111.
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mancipia del 5 d.C.: all’ingresso e all’uscita dai confini della provincia, li si doveva dichiarare al pubblicano, che avrebbe provveduto a far apporre loro il marchio della società *; e in caso di ripetuti passaggi per la frontiera, il dazio sui novicia mancipia doveva essere pagato una volta sola #.
Anche da questo documento, dunque, emerge l’importanza dell’esportazione di novicia mancipia,
uomini appena
ridotti in schiavitù, dall'Asia all’Italia; in Frigia, in parti-
colare, i mercanti di schiavi non mancavano: basti ricordare lo otatdpıov dedicato ad
Acmonia, probabilmente intorno alla metà del I secolo a.C., da un cittadino romano, Gaio Sornaltio "5. Per intendere il rapporto economico fra l’Asia Minore interna e il centro dell’impero, ci si deve interrogare sulle condizioni che rendevano possibile il trasferi-
mento di manodopera verso l’Italia, dominio del modo di produzione schiavistico. Qualche indicazione sembra potersi trarre innanzitutto dalla considerazione del caso, cui si è già fatto cenno, della Bitinia di Nicomede III, spopolata dai publicani; di fronte al diffici-
le problema delle forme in cui questi ultimi «could carry off the subjects of an allied king», M. I. Rostovtzeff pensò in primo luogo ad una collaborazione fra i publicani e «the professional robbers of Mysia, Phrygia, and especially Galatia and Pontus, (...) un-
der the benevolent eye of the Roman governor of Asia» #. Ma, come ha rilevato E. Ba-
Secondo C. Schäfer, “Zur σφραγίς von Sklaven in der lex portorii provinciae Asiae”, ZPE 86 (1991), pp. 193198, attraverso «die Plombierung mit einem Halssiegel». % H. Engelmann - D. Knibbe (hrsg. von), Das Zollgesetz der Provinz Asia, cit., Il. 117-122 pp. 28-29; vd. anche p. 122 per gli effetti della misura sul commercio di transito degli schiavi e per alcune considerazioni sui notevoli guadagni che i pubblicani traevano dall’esportazione di manodopera dall'Asia verso l'Italia. Sottolinea gli effetti di incentivazione del commercio di questi provvedimenti H.-J. Drexhage, “Einflüsse des Zollwesens auf den Warenverkehr im römischen Reich — handelshemmend oder handelsfordernd?”, MBAH 13, 2 (1994), pp. 1-15, in particolare pp. 6-7. Le conclusioni cui perviene il Drexhage, secondo cui «zumindest einige Zollgebührenordnungen hätten handelspolitische Zwecke verfolgt und zum Ziel gehabt, den Handel mit einigen Gütern zu fördern» (p. 14), sono in diretta polemica con la valutazione delle dogane antiche di M. I. Finley, The Ancient Economy, Berkeley - Los Angeles 1973; sul problema dell'esistenza o meno di una politica doganale dello stato romano, e delle sue eventuali motivazioni economiche, vd. ora anche J. France, “De Burmann à Finley”, cit., in particolare pp. 140 ss. con le note relative, che fi per ammettere l’esistenza di una dimensione economica, accanto a quella fiscale, del portorium romano. * MAMA VI. Monuments and Documents from Phrygia and Caria, ed. by W. H. Buckler - W. M. Calder, 260; la datazione è quella proposta dagli editori, su base paleografica. Sullo statarion di Acmonia, «che probabilmente serviva alla raccolta di schiavi dalle zone interne» (A. Gara, “Il mondo greco orientale”, M. I. Crawford (a cura di), L'Impero romano e le strutture economiche e sociali delle province, Como 1986, pp. 87-108, in particolare p. 102), si veda innanzi tutto W. V. Harris, “Towards a Study of the Roman Slave Trade”, Roman Seaborne Commerce, cit., pp. 117-140, in particolare pp. 127-128, che tenta d’inserire la città nella rete del commercio di schiavi d'Asia Minore, di cui individua punti di snodo centrali in Apamea di Frigia ed Efeso. * M.I. Rostovtzeff, The Social and Economic History of the Hellenistic World Il, Oxford 1941, p. 782. All'origine di questa ipotesi c'è qualcosa di più che non il semplice «prejudice against the publicani» da cui la fa derivare E. Badian, Publicans and Sinners. Private Enterprise in the Service of the Roman Republic, Ithaca, New York 1972, p. 146 n. 30: il Rostovtzeff, benché non lo citi esplicitamente, sembra chiaramente partire da Strabone XI 2, 12 (495496 C.), il brano sugli Heniochoi e sulla loro vita ἀπὸ τῶν κατὰ θάλατταν ληστηρίων: Strabone, dopo aver descritto le imbarcazioni degli Eniochi, i modi delle loro azioni piratesche e le forme della collaborazione che essi incontravano talora in οἱ τὸν Βόσπορον ἔχοντες, concludeva osservando come ἐν μὲν οὖν τοῖς δυναστευομένοις τόποις ἐστί τις βοήθεια ἐκ τῶν ἡγεμόνων τοις ἀδικουμένοις: ἀντεπιτίθενται γὰρ πολλάκις καὶ καταποντίζουσιν αὐτάνδρους τὰς καμάρας. ἡ 8 ὑπὸ Ῥωμαίοις ἀβοηθητοτέρα ἐστὶ διὰ τὴν ὀλιγωρίαν τὼν πεμπομένων: deriva da qui il quadro del governatore di provincia disposto a chiudere un occhio sulle attività dei predoni di professione, che potevano risultare funzionali all'approwvigionamento di manodopera schiavile in cui, secondo le parole di Nicomede, erano coinvolti i publicani. Sul brano di Strabone vd. M. H. Crawford, “Rome and the Greek World: Economic Relationships”,
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dian "7, nella stessa pagina il Rostovtzeff ammetteva pure la possibilità che un’altra fonte
del commercio schiavile organizzato dai publicani debba individuarsi «in the willingness of the kings, the chief priests, and the feudal landlords of Bithynia, Pontus, Cappadocia, and Armenia to dispose of some of their bondsmen» ##; in questa direzione, il Badian ha fornito davvero «the easiest explanation» delle proteste di Nicomede, suggerendo l’ipotesi che i pubblicani avessero prestato ingenti somme di denaro al re di Bitinia, e che questi, che godeva della piena disponibilità di tutti i sudditi non residenti nelle città, avesse offerto in garanzia alcuni dei suoi dipendenti #. Non pienamente convincente, nella proposta del Badian, è l’insistenza sulla «legittimità» del processo, quasi si trattasse di un'ordinaria transazione d'affari”; tuttavia, il Badian almeno ammette che, presentatasi per le difficoltà militari di Roma in Occidente la possibilità di protestare di fronte al senato contro la deportazione dei Bitini da parte degli affaristi romani, Nicomede III non se la sia lasciata sfuggire. Più di recente, a R. Kallet-Marx è apparso invece difficile riconciliare le proteste di Nicomede e la reazione del senato «with the view that this was no more than the legitimate consequence of default on loans» ?!: come se nei rapporti tra gli affari-
sti romani e le comunità dell’Oriente ellenistico cui essi prestavano il loro denaro non potessero sorgere tensioni, e il re di Bitinia, una volta indebitatosi, non avesse potuto aver più nulla da obiettare sulla legittimità del tasso d’interesse applicato dagli affaristi romani, e sul modo in cui essi lo calcolavano, o più ancora sulla loro stima del valore della
EcHR Il s., 30 (1977), pp. 42-52, in particolare p. 50, che lo cita a riprova dei buoni rapporti «with local city governments= degli «slave-raiders» della costa settentrionale dell’Asia Minore; D. Musti, “Modi di produzione e reperimento di manodopera schiavile”, cit., pp. 260; 507 n. 13 ha rilevato però giustamente come il passo di Strabone segnali «anzi una più efficace tutela esercitata da capi locali sulle loro popolazioni rispetto alla tutela esercitata dai romani nelle zone di loro competenza». E. Badian, Publicans and Sinners, cit., pp. 87-88 e, in particolare, pp. 146-147 n. 30. * M. I. Rostovtzeff, The Social and Economic History of the Hellenistic World, cit., Il, pp. 782 fr. anche III, pp. 1514-1516 n. 49. ® La tesi del Badian rende ragione anche della presenza di publicani nel regno indipendente di Bitinia, problema già risolto in questa stessa direzione da D. Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., I, p. 197; II, p. 1093 n. 57 («by δημοσιῶναι must be meant the Roman money-lenders, for there could have been any publicani in the independent kingdom of Bithynia=), e sentito ancora da Ed. Will, Histoire politique du monde bellénistique (323 - 30 av. J.-C.) Il. Des avènements d'Antiochos III et de Philippe V à la fin des Lagides, Nancy 1982), 476, che riteneva inammissibile il riferimento di Diodoro a un'attività dei publicani, «du moins en tant que publicains», in Bitinia; accentuando giustamente il ruolo di Nicomede nell'indebitamento che vede all'origine della riduzione in schiavitù dei Bitini, il Badian fa perdere valore alla critica mossa da Ὁ. Vitucci, Π regno di Bitinia, Roma 1953, p. 102, testo e n. 2, a D. Magie, Roman Rule in Asia Minor, |. cit.: perché tanti sudditi bitinici cadessero attraverso l'indebitamento nelle mani dei demosionai non è necessario «ammettere che questi facessero i loro affari con elementi di condizione così misera»: ad indebitarsi con i publicani possono essere stati piuttosto quanti - in primo luogo lo stesso re - disponevano della popolazione bitinica, e in alcune circostanze potevano essere disposti (0 costretti) ad alienarne il possesso. * E. Badian, Publicans and Sinners, cit., p. 88 («they were legally entitled to abduct his subjects»); p. 146 n. 29 {-the Senate decree (Diod. 1. c.) does not specify illegal enslavement-); sui “pregiudizi a favore dei publicani ” del Badian (-a great admirer of free enterpreise and market competition-) vd., oltre alla recensione di Publicans and Sinners di P. A. Brunt, JRS 63 (1973), pp. 250-252, M. Mazza, Prefazione, E. M. Staerman - M. K. Trofimova, La schiaviti nell'Italia imperiale I-IIl secolo, Roma 1975, p. XL n. 64 (ora anche in M. Mazza, La fatica dell'uomo. Schiavi e liberi nel mondo romano, Catania 1986, 243-295). % R. Kallet-Marx, Hegemony to Empire: The Development of the Roman Imperium in the East from 148 to 62
B.C., Berkeley and Los Angeles 1995, p. 140, con la discutibile affermazione che «the experience of Nicomedes' son a decade later, under much straitened circumstances, is of dubious relevance».
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merce umana con cui si ripagavano. Nelle forme e nei modi dell’esazione del credito da parte dei publicani il re di Bitinia avrà trovato motivi sufficienti per contestare la legittimità della riduzione in schiavitù in massa dei suoi sudditi 52, benché non potesse negare di aver contratto un debito con gli affaristi romani. Quello del rapporto fra le classi dirigenti locali, gli affaristi ed il governo romano e gli strati della dipendenza delle province, e delle connesse dinamiche dell’esazione delle imposte, dell’indebitamento e della riduzione in schiavitù è un tema che s’impone all’attenzione dello studioso dell’età tardorepubblicana, ma che non può essere affrontato in questa sede. Basti qui aver ribadito come la presenza, in Bitinia e nel resto dell’Asia Mi-
nore interna, di comunità di villaggio la cui popolazione operava in condizioni di dipendenza costituisca fonte di reperimento di manodopera essenziale per il modo di produzione schiavistico 9. D’altra parte, la notevole vulnerabilità delle comunità di villaggio, i cui
abitanti, privi di protezioni, erano sempre esposti al rischio della deportazione, e di concludere la propria vita in condizione di schiavitù, è una costante nella storia del Mediterraneo antico e tardoantico: ancora nel V secolo d.C., nell’Africa di Agostino, obiettivo
privilegiato dell’attività predatoria dei mangones e dei loro complici erano i piccoli agglomerati rurali, in cui meno agevole risultava l’organizzazione di una difesa *, gli agrestia quaedam loca, in quibus pauci sunt homines®. © R. Kallet-Marx, Hegemony to Empire, cit., pp. 140-141, propone invece di spiegare la riduzione in schiavitù
dei Bitini con la pretesa dei publicani «to encroach upon territory in which they did not have an indisputable legal right to collect taxes», e con il sequestro di quanti, «in just such disputed territory along the edges of Nicomedes’ kingdom», non avrebbero fatto fronte al pagamento delle tasse ingiustamente richieste loro. Corollario indispensabile di questa ipotesi è il rifiuto di ammettere la rilevanza numerica del fenomeno nei termini presentati da Diodoro; tuttavia, le considerevoli dimensioni del traffico d'uomini tra la Bitinia e la Sicilia e l'Italia risultano, più ancora che dalle parole di Nicomede, cui è fin troppo facile imputare «patently self-interested exaggeration of the number of its victims» (R. Kallet-Marx, Hegemony to Empire, cit., p. 141), dal fatto che il senato - cui non dovevano mancare i mezzi di accertare le reali condizioni del regno di Bitinia — prese estremamente sul serio le proteste di Nicomede III (in questo senso già W. V. Harris, War and Imperialism in Republican Rome 327 - 70 B.C., Oxford
1979, p. 82 testo e
n. 2). Il provvedimento adottato dal senato, che decretò che nessun σύμμαχος ἐλεύθερος dovesse servire nelle province (e in Italia?), dando mandato ai governatori provinciali di provvedere alla liberazione di quanti si fossero trovati in quella condizione (Diod. XXXVI 3, 2), appare qualitativamente diverso dai casi di decisioni contrarie ai publicani nelle contese con le comunità dell'Oriente ellenistico intorno allo sfruttamento di proprietà sacre o ai diritti di città e popoli liberi cui lo vorrebbe accostare il Kallet-Marx (Hegemony to Empire, cit., pp. 141-148): solo in questo caso, infatti, il senato non si limitò a regolare la questione per il futuro, ma ordinò anche che si procedesse alla liberazione delle vittime dei publicani. Il fatto che in Sicilia, dopo le prime fasi di zelante applicazione della decisione del senato da parte del pretore Licinio Nerva, ἦσαν πάντες οἱ κατὰ τὴν νῆσον δουλεύοντες μετέωροι πρὸς τὴν ἐλευθερίαν (Diod. XXXVI 3, 2), può intendersi come un ulteriore indizio della considerevole rilevanza numerica delle deportazioni di massa dall'Asia Minore interna alle regioni in cui predominava il modo di produzione schiavistico. ® Vd., oltre alle considerazioni di M. I. Rostovtzeff, The Social and Economic History of the Hellenistic World II, cit., pp. 782-785, soprattutto D. Musti, “Morte e culto del sovrano”, cit., passim, ma in particolare p. 197; Idem, “Modi di produzione e reperimento di manodopera schiavile”, cit., pp. 245-246: gli «strati della dipendenza» come «struttura fondamentale» del «rifornimento di manodopera schiavile»; ibidem il Musti rileva anche come, in età romana, particolarmente intensi siano stati i «processi di disgregazione» del modo di produzione «*dispotico-servilevicanico'» caratteristico delle regioni interne dell'Asia Minore. # Vd. J. Rouge, “Escroquerie et brigandage en Afrique romaine au temps de saint Augustin (Ep. 8" et 10°)", «Les Lettres de saint Augustin découvertes par Johannes Diviak. Communications présentées au colloque des 20 et 21 Septembre 1982», Paris 1983, pp. 177-188, in particolare p. 186; già C. Lepelley, “La crise de l’Afrique romaine
au début du V° siècle, d'après les lettres nouvellement découvertes de Saint Augustin”, CRAI 1981, pp. 445-463, in particolare p. 458, aveva rilevato come i rapimenti e le razzie avvenissero «surtout dans les campagnes» * Aug. Ep. 10* 2, 3 (Sancti Aureli Augustini Opera. Epistolae ex duobus codicibus nuper in lucem prolatae. Recensuit Johannes Divjak, Vindobonae 1981, CSEL 88); cfr. la villula di 3, 1
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T. Gnoli -- J. Thornton Nell’Africa del V secolo d.C., come nella Bitinia del 104 a.C.,
la deportazione degli
abitanti delle comunità di villaggio avrebbe comportato, a detta di Agostino, concreti ri-
schi di spopolamento; il governo imperiale, tuttavia, non era in grado di arrestare il fenomeno. Nel 104 a.C., le misure promulgate dal senato in seguito alle proteste di Nicomede non poterono trovare durevole applicazione: il provvedimento che disponeva la liberazione dei socii di condizione libera illegalmente ridotti in schiavitù e deportati nelle provin-
ce, nobile e giusto e fors’anche razionale, nella misura in cui la sua applicazione avrebbe assicurato a Roma la possibilità di trarre i necessari contingenti militari dagli stati clienti, urtava con la dinamica economica, ed era dunque destinato al fallimento.
Gli anni immediatamente successivi non videro alcuna razionalizzazione dello sfruttamento dell’impero: nel primo decennio del I secolo a.C., il celebre governatorato d’Asia di Q. Mucio Scevola Pontefice * fu seguito dalla condanna del suo integerrimo legato Rutilio Rufo: segno inequivocabile che il tentativo di porre fine a tà τῶν δημοσιωνῶν dr νομήματα” non fu più che un episodio effimero, condannato all’insuccesso dall’incapacità, o dalla mancanza di volontà d’intervenire strutturalmente nell’amministrazione del-
l'Asia”; la misura del fallimento del tentativo di Scevola, anch’esso generoso e razionale, in quanto mirava ad alleviare le condizioni dei provinciali rendendo più tollerabile lo sfruttamento, si coglie considerando quanto massiccia sia stata, pochi anni dopo, l’adesione delle città della provincia alla rivolta mitridatica.
Sconfitto Mitridate, le condizioni dell’Asia peggiorarono ancora: le esazioni di Silla, che venivano ad incidere su una provincia già duramente provata dalla guerra e dalle misure prese dal re del Ponto prima di abbandonarla, costrinsero le città d’Asia, prive dei mezzi finanziari per farvi fronte, a prendere denaro in prestito a tassi d’interesse altissimi, ipotecando αἱ μὲν tà θέατρα (...), αἱ δὲ τὰ γυμνάσια À τεῖχος À λιμένας À «εἰ» τι
δημόσιον ἄλλο; a ciò si aggiungeva la pirateria, sempre più audace e potente, contro
* Per la cui datazione, che oscilla tra il 98 0 il 97 ed il 94/93 a.C., vd. almeno gli argomenti contrapposti di E. Badian, “Q. Mucius Scaevola and the Province of Asia”, Athenaeum n. 5. 34 (1956), pp. 104-123, in particolare pp. 104-112, in favore del 94 a.C., e di B. A. Marshall, “The Date of Q. Mucius Scaevola's Governorship of Asia”. Athenaeum n. s. 54 (1976), pp. 117-130, e da ultimo R. Kallet-Marx, “Asconius 14-15 Clark and the Date of Q. Mucius Scaevola's Command in Asia”, CPh 84 (1989), pp. 305-312, in favore della data più alta γ᾽ Diod. XXXVII 5, 2; cfr. anche XXXVII 5, 1 (i publicani ἀνομημάτων ἐπεπληρώκεσαν τὴν ἐπαρχίαν) e XXXVII 5, 4 (i publicani come τοὺς ὀλίγῳ πρότερον διὰ τὴν καταφρόνησιν καὶ πλεονεξίαν πολλὰ παρανομοῦντας): gli abusi degli avidi publicani, e le misure prese da Scevola a difesa dei provinciali sono il Leitmotiv di tutto il brano diodoreo (XXXVII 5). ** Sul buon governo di Scevola Pontefice in Asia la fonte principale è Diodoro XXXVII 5-6; gli escerti diodorei appaiono costruiti tutti sul motivo, caratteristico della riflessione greca - e polibiano-posidoniana in particolare - sull'esercizio del dominio, che un potere esercitato ingiustamente genera il μῖσος dei popoli soggetti, ed è per questa ragione pericoloso per i dominanti stessi. A detta di Diodoro, la σύνεσις e l'äper di Scevola, la sua giustizia e - soprattutto — la rigida opposizione all’avidità dei publicani avevano invece riguadagnato a Roma τὰς εὐνοίας τῶν
συμμαχούντων. Sull'amministrazione di Scevola vd. almeno D. Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., I, pp. 173176; Il, pp. 1064-1065, nn. 47-49; E. Badian, “Ὁ. Mucius Scaevola and the Province of Asia”, cit., in particolare pp. 113.11
h. Drew-Bear, “Deux decrets hellénistiques d'Asie Mineure”, BCH 96 (1972), pp. 435-471, in particolare
pp. 469-470; e da ultimo R.
Kallet-Marx, Hegemony 10 Empire, οτος pp. 143-147.
= App. Mub. 63 (261). Cosa significasse, concretamente, ipotecare i porti può risultare da un'attenta considerazione della già citata lex portorii Astae del 75 a. C.; come hanno rilevato gli editori dell'iscrizione di Efeso, diversi luoghi della legge dimostrano che nel 75 i puhlicani erano già presenti attivamente a Calcedone, nel territorio del re-
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cui Silla 100 non prese alcun provvedimento. Qualche anno più tardi, Lucullo trovò l'Asia in condizioni disperate, ὑπὸ τῶν τελωνῶν καὶ τῶν δανειστῶν πορθουμένην καὶ ἀνδρα-
ποδιζομένην '9'; quest’ultimo termine non va letto soltanto in senso metaforico, in quanto Plutarco precisa che, come le città erano costrette a vendere ἀναθήματα, γραφάς, ἱεροὺς ἀνδριάντας, in breve, tutto il loro patrimonio artistico, qualsiasi ne fosse la valenza sacra !%, così i privati erano costretti a vendere i propri figli (υἱοὺς εὐπρεπεῖς θυγατέρας
te παρθένους); per gli adulti, poi, tali e tanti erano i disagi cui li sottoponevano i creditori che quando infine cadevano in servitù questa condizione sembrava loro σεισάχθειαν
(...) ἐἶναι καὶ εἰρήνην 193, Nelle Verrine di Cicerone, che furono scritte nel 70 a.C., l’anno successivo alle rifor-
me di Lucullo in Asia, e s’immaginano pronunciate di fronte ad una giuria di senatori e al pubblico romano, il tema della necessità di una razionalizzazione dello sfruttamento,
dell’urgenza non più procrastinabile di porre fine agli abusi rovinosi nell’amministrazione delle province è motivo dominante; certo, è innanzi tutto a Verre, questo monstrum e
prodigium inviato a governare una provincia !%, che Cicerone imputa la responsabilità di
gno di Bitinia, controllavano il Bosforo e riscuotevano il dazio sul commercio con la zona pontica. Già alla vigilia della prima guerra mitridatica il re di Bitinia Nicomede IV Filopatore appariva praticamente in mano ai suoi creditori romani, che porerono indurlo, ἄκων, ad invadere il Ponto e a γείτονος τοσοῦδε πολέμου κατάρξαι (App. Mith. 11 136-37]); la presenza dei publicani nei porti del Bosforo, nel 75 a. C., deve necessariamente ricondursi all'indebitamento della monarchia bitinica. Vd. H. Engelmann - D. Knibbe (hrsg. von), Das Zollgesetz der Provinz Asia, cit., Il. 8-11 p. 20; Il. 13-15 pp. 20-21; pp. 42-43; 46; 161. 100 „.eite ἐκὼν ὡς ἁμαρτόντας ἐνυβρίζεσθαι καταλιπών, εἶτ᾽ ἐπὶ τὴν ἐς Ῥώμην στάσιν ἐπειγόμενος: App.
Mith. 63 (263) affianca due spiegazioni contrapposte del dato di fatto dell'inerzia di Silla di fronte alla recrudescenza della pirateria cilicia; la prima, decisamente ostile a Silla, ha il pregio di mostrare, quand’anche la si voglia ritenere inverosimile, quanto acuti e pungenti fossero i risentimenti romani contro le città d'Asia schieratesi con Mitridate tanto vivi che si poteva immaginare che a bella posta Silla avesse abbandonato ai pirati laso e Samo e Clazomene e Samotracia, con il suo celebre santuario. La seconda spiegazione addotta da Appiano suona un po’ come una giustificazione, una replica alle accuse antiromane, e in primo luogo antisillane, implicite nella prima. τοι Plu. Luc. 20, 1. La connessione fra riscossione delle imposte e prestiti a usura appare caratteristica ricorrente, e si potrebbe quasi dire strutturale, del meccanismo di esazione nelle province; nel prestito a usura cui le comunità provinciali erano costrette a ricorrere per far fronte alla tassazione non era poi raro che fossero coinvolti i magistrati romani, e gli uomini del loro seguito (si pensi agli affari di Malleolo, questore di Dolabella in Cilicia nell’80, che in provinciam sic copiose profectus erat ut domi prorsus nihil relinqueret; praeterea pecunias occuparat apud populos et syngraphas fecerat: Cic. II Verr. 1, 91). La figura di Lucio Carpinazio, pro magistro della società che aveva appaltato la scriptura e il portorium (II Verr. Il, 171) in Sicilia durante il governatorato di Verre, che prestava ad usura, alle
vittime del governatore, anche il denaro di quest'ultimo (pecunias istius extraordinarias grandis suo nomine faenera-
batur, Cic. II Verr. II, 170; cfr. anche i $$ 171-173, sulla complicità fra Verre e Carpinazio; 186-191 per la Carpinati
nota cum isto praetore societas ac faeneratio ed il connesso, maldestro tentativo di falsificare le tabulae della societas publicanorum di cui Carpinazio rappresentava gli interessi) può considerarsi simbolica di questo intreccio d'interessi rovinoso per i provinciali. Cfr. anche II Verr. III, 33 (tuorum comitum, hominum nequissimorum, conlusio cum decumanis, sociis tuis atque adeo procuratoribus). 102 Sulla natura coatta di queste “vendite”, e il risentimento delle città greche costrette a privarsi delle proprie opere d’arte, basti qui rimandare a Cic. II Verr. IV, 133: credite hoc mihi, iudices: nulla umquam civitas tota Asia et Graecia signum ullum, tabulam pictam ullam, ullum denique ornamentum urbis sua voluntate cuiquam vendidit. 10! Plu. Luc. 20, 2. Legittimamente, dunque, Th. Drew-Bear, “Deux décrets hellenistiques”, cit., in particolare
p. 471 riporta al periodo fra [80 circa («rétablissement des publicains en Asia») e il 71 a.C. (data delle riforme di Lucullo) il decreto del koinom d'Asia in onore di due cittadini di Afrodisia che avevano accettato di andare in ambascı ria a Roma a lamentare la situazione della provincia, ridotta eig τὴν ἐσχάτην ἀπόγνωσιν ad opera dei publicani (l'iscrizione anche in J. Reynolds, Aphrodisias and Rome, JRS Monographs 1, 1982, n. 5 pp. 26-32). τοι Cic. II Verr. IV, 47.
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T. Gnoli - J. Thornton
uno sfruttamento criminale e rovinoso dell’impero; per la sua avidità, Verre non ha dato in appalto le decime, secondo le leggi, ma piuttosto fructus integros atque adeo bona for-
tunasque aratorum omnis 5; ha rovinato gli aratores '%, costringendoli, per far fronte alle sue arbitrarie esazioni, a vendere boves et aratrum ipsum atque omne instrumentum '”, e spingendoli persino ad abbandonare i campi "55, Così facendo, Verre ha tenuto conto solo di un anno o due, ma non si è curato affatto di salus provinciae, commoda rei
frumentariae, ratio rei publicae in posteritatem '%; in particolare, nell’ultimo anno del suo governo siciliano, certo ormai di dover abbandonare la provincia, non si preoccupa-
va si aratorem nullum in Sicilia omnino esset relicturus ''°. In un brano gustoso ma amaro Cicerone paragona il comportamento di Verre in una provincia del popolo romano a quello di un vilicus disonesto e incosciente: Ut si qui vilicus ex eo fundo qui sestertia dena meritasset, excisis arboribus ac venditis, demptis tegulis, instrumento, pecore abalienato, domino viginti milia nummum pro decem miserit, sibi alia praeterea centum confe-
cerit, primo dominus ignarus incommodi sui gaudeat vilicoque delectetur, quod tanto plus [sibi] mercedis ex fundo refectum sit, deinde, cum audierit eas res quibus fundi fructus et cultura continetur amotas et venditas, summo supplicio vilicum adficiat et secum male actum putet: item populus Romanus, cum audit pluris decumas vendidisse Gaium Verrem quam innocentissimum hominem cui iste successit, Gaium Sacerdotem, putat se
bonum in arationibus fructibusque suis habuisse custodem ac vilicum; cum senserit istum omne instrumentum aratorum, omnia subsidia vectigalium vendidisse, omnem spem posteritatis avaritia sua sustulisse, arationes et agros vectigalis vastasse atque exinanisse,
ipsum maximos quaestus praedasque fecisse, intelleget secum actum esse pessime, istum autem summo supplicio dignum existimabit 1. Così, condannando Verre i giudici non soltanto mostreranno di aver cura del modo in cui i magistrati trattano i socii populi Ro-
mani, ma difenderanno anche la communem populi Romani causam
\?; per il danno che
ha apportato agli interessi stessi del popolo romano, per cui tanto importante era il grano di Sicilia, Verre meritava di essere condannato anche da chi fosse insensibile ai
sociorum incommoda, e non si lasciasse commuovere da aratorum fugae calamitates exilia suspendia 11. Era interesse di Cicerone sottolineare di fronte alla giuria l’eccezionalità e l’inaudita novità degli abusi escogitati da Verre !#; ma così facendo, Cicerone finisce per ammettere
10° Cie. II Verr. II, 40. "= Vd., a titolo d'esempio, Cic. 11 Verr. Ill, 79 (perditis enim iam et direptis aratorum bonisk ma la rovina degli aratores è il tema dominante di tutta la de frumento. Cic. II Verr. ΠῚ, 199; cfr. già II Verr. ΠῚ, 198; II Verr. III, 201 (vendiderit instrumentum necesse est); Il Verr. III, 226 (etiam instrumenta agrorum vendere coacti sunt).
x» Cic. II Verr. I1, 9; II Verr. III, 44-48; 80; 120-122; 124-127; 228 (arationes omnis tota Sicilia desertas atque a dominis relictas esse cognoscitis); II Verr. IV, 114 (quae solitudo esset in agris. quae vastitas, quae fuga aratorum, quam deserta, quam inculta, quam relicta omnia). το Cic. Il Verr. HI, 43. II Verr. 111, 104.
c. II Verr. WI, 119. . JI Verr. WII, 122. II Verr. I, 144.
II Verr. MIL, 64 (lamne intellegitis, indices. quae pestis, quae immanitas in vestra antiquissima fidelissima
Società e religione nella Frigia romana la frequenza, e quasi
la regolarità degli abusi dei magistrati:
175 per rilevare la mostruosità
degli abusi di Verre, che aveva costretto !!5 i Siciliani, abitualmente muti (...) in iniuriis suis !!6, nonostante avessero sperimentato il governo di tot cupidi, tot improbi, tot auda-
ces 17, a ricorrere infine ad aram legum praesidiumque vestrum, Cicerone parte dalla considerazione che essi avevano già sopportato le iniuriae di multi magistrati romani !!8; in un altro passo, e ancora per sottolineare la mostruosa eccezionalità del comportamento di Verre, l’oratore ammetteva che tot homines in Asia nocentes, tot in Africa, tot in Hispania, Gallia, Sardinia, tot in ipsa Sicilia fuerunt °. Un caposaldo della difesa di Or-
tensio, almeno a quanto se ne può ricavare dal suo avversario giudiziario, era proprio il fecisse alios ‘2; a questo singolare argomento di difesa, di cui pure è costretto a ricono-
scere in qualche misura la veridicità 12), Cicerone replica tracciando un quadro a tinte fosche della situazione dell'impero: Lugent omnes provinciae, queruntur omnes liberi populi, regna denique etiam omnia de nostris cupiditatibus et iniuriis expostulant; locus intra Oceanum iam nullus est neque tam longinquus neque tam reconditus quo non per haec tempora nostrorum hominum libido iniquitasque pervaserit; sustinere iam populus Romanus omnium nationum non vim, non arma, non bellum, sed luctum, lacrimas, querimonias non potest "22. L’assoluzione di Verre ratificherebbe questi comportamenti, e
consegnerebbe le province all’arbitrio dei magistrati 2, gettando inoltre il discredito sull’intero ordo senatorio 123, e suscitando un’ondata di risentimento e di odio antiroma-
no 125; gli uomini al cui exemplum si richiamerebbe la difesa di Verre sono quelli in quos aliquid exempli populus Romanus statui putat oportere 1%, Via via, dal testo di Cicerone emerge una situazione in cui l’immanitas di Verre appare sempre meno mostruosa, sempre meno prodigiosa: cursoriamente, egli riconosce che multas acceperint per hosce annos socii atque exterae nationes calamitates et iniurias 7; più meditatamente, dipinge un
quadro della condizione ormai quasi disperata dei socii, preda di pochi potenti nel silen-
proximaque provincia versata sit? iam videtis quam ob causam Sicilia, tot hominum antea furta rapinas iniquitates
ignominiasque perpessa, hoc non potuerit novum ac singulare atque incredibile genus iniuriarum contumeliarumque perferre?); cfr. anche II Verr. III, 118 (hoc neque exemplo cuiusquam neque ullo iure fecit) e soprattutto II Verr. IV, 53. 118 Cic. II Verr. IN, 72.
t Cic. II Verr. ΗΠ, 96.
117 Οἷς, II Verr. IV, 7.
1 Cic. II Verr. II, 8-9. "9 Cic. II Verr. II, 158. 12 Cic. II Verr. III, 205.
12! Cic. II Ver. III, 206.
12 Cic. II Verr. III, 207.
12 vd. in particolare Cic. II Verr. III, 219: Improbi sunt qui pecunias contra leges cogunt, stulti qui quod licere
iudicatum est praetermittunt.
12 Cic. II Verr. III, 223-224. 185 Cic. II Verr. IV, 68: Nomen vestrum populique Romani odio atque acerbitati scitote nationibus exteris, iudices, futurum, si istius haec tanta iniuria impunita discesserit; per la disperazione (nihil esse quod quisquam dubitaret de exitio sociorum atque amicorum) suscitata nei socii e nelle nationes exterae dai comportamenti di Verre, quando questi sembravano ricevere sanzione pubblica a Roma, cfr. anche I Verr. 59. 16 Cic. II Verr. III, 210. 11 Cic. II Verr. IV, 132.
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T. Gnoli -J. Thornton
zio complice dei tribunali senatorii '2%; le villae di costoro sono piene delle spoglie sociorum fidelissimorum, le exterae nationes ormai omnes egent, perché delle loro ricchezze si sono appropriati quanti nelle loro villae hanno rinchiuso Athenas, Pergamum, Cyzicum, Miletum, Chium, Samum,
totam denique Asiam, Achaiam,
Graeciam, Siciliam; e, quel
che è più grave, i socii sono ormai privi non solo di ogni possibilità di resistere alla rovinosa paucorum cupiditas, ma hanno perso etiam suppeditandi facultas "?. Lo sfruttamento irrazionale, rovinoso e volto a soddisfare interessi privati delle province del popolo romano, un sistema in netto contrasto con le disposizioni stabilite dalla maiorum sapientia '%, che avevano saputo conciliare la salus sociorum con l’utilitas rei publicae ‘3, era dunque qualcosa di più che un frutto isolato dell’immanitas di Verre; e non solo la Sicilia rischiava di non poter più far fronte alle esazioni di Roma. Lo stesso Pompeo, console designato per il 70 a.C., ottenne il consenso del popolo cum dixisset populatas vexatasque esse provincias, iudicia autem turpia ac flagitiosa fieri; ei rei se providere ac consulere velle '2; almeno, se ne può concludere che lo sfruttamento selvaggio delle province, ridotte alla disperazione e incapaci ormai di far fronte alle esazioni, era una realtà ben nota ai cittadini di Roma, e suscettibile di essere sfruttata per ottenerne il
consenso, politico o giudiziario '°; ma più ancora, in questi anni appare farsi strada la consapevolezza dell’intollerabilità di un livello di sfruttamento che comportava reali rischi di disgregazione per le economie provinciali.
Tuttavia, le contraddizioni interne della repubblica romana non permisero, nonostante la lex Iulia de repetundis, di compiere progressi significativi nella direzione di uno
sfruttamento compatibile, di una razionalizzazione dello sfruttamento delle risorse dell'impero di cui pure si avvertiva la necessità;
l’etä delle guerre civili, al contrario, fu du-
rissima per le comunità dell’Oriente. Così, le province non osteggiarono il nuovo ordinamento che ne uscì, il principato augusteo; a detta di Tacito, diffidavano piuttosto del do-
minio del senato e del popolo, ob certamina potentium et avaritiam magistratuum, invalido legum auxilio quae vi ambitu postremo pecunia turbabantur ‘“; al miglioramento
1 Cic. II Verr. V, 126: Patimur enim multos iam annos et silemus, cum videamus ad paucos homines omnis omnium nationum pecunias pervenisse. ἣν Cic. II Verr. V, 127. 10 Cic. II Verr. III, 14: il merito dei maiores era stato quello di voler tanta cura Siculos tueri ac retinere, siderazione della straordinaria utilità dell'annessione della Sicilia, tam opportunum subsidium belli atque paci 14 Cic. II Verr. III, 21.
1% Cic. I Verr. 45; cfr. anche Cic. II Verr. I, 204 per il parere dell'opinione pubblica romana, a detta di Cicerone contraria ed indignata del saccheggio delle province. 1 Cfr. P. A. Brunt, “Charges of Provincial Maladministration under the Early Principate”, Historia 10 (1961),
pp. 189-227, in particolare p. 190 n. 3.
4 Tac. Ann. 1 2, 2; il passo ha un parallelo nell'orazione funebre di Tiberio per Augusto in Dio LVI 41, 4, come ha rilevato E. Koestermann, Cornelius Tacitus. Annalen. Band 1. Buch 1-3. Erlautert und mit einer Einleitung versehen von E. K., Heidelberg
1963, p. 66. J. Gascou, “Tacite et les provinces”, ANRW
II 33, 5, Berlin - New York
1991, pp. 3451-3483, in particolare p. 3465 n. 18 ha rilevato l’eccezionalità di questo brano, l'unico in cui Tacito
mostrerebbe interesse per gli abusi commessi dai governatori ponendosi dal punto di vista dei provinciali. Anche in Annales IV 6, 4, in sede di giudizio complessivo sul principato di Tiberio sino al suo mutamento in deterius che ebbe imizio nel 23 d.C., Tacito gli riconosce una cura per il benessere (0, piuttosto, per la razionalità dello sfruttamento) delle province (et ne provinciae novis oneribus turbarentur utque vetera sine avaritia aut crudelitate magistratuum tolerarent providebat).
Società e religione nella Frigia romana
177
delle condizioni delle province contribuì forse più il mantenimento della pax Augusta in sé che una diversa sensibilità del governo imperiale per il benessere e gli interessi dei provinciali 55; tuttavia, anche se i magistrati provinciali non erano divenuti meno avidi, né il senato, che giudicava delle accuse de repetundis contro i senatori, meno parziale a favore dei membri dell’ordo, è legittimo ritenere che il governo imperiale garantisse, più che l'ordinamento della tarda repubblica, la repressione degli abusi di «individuals who greatly overstepped the mark and indulged in acts which, if allowed to continue and spread, might disturb and endanger the whole system» 1%. Naturalmente, il principato non pose fine allo sfruttamento delle province; ma ridusse considerevolmente i rischi di uno sfruttamento distruttivo delle risorse dell’impero, che potesse portare all'abbandono dei campi in Sicilia, o allo spopolamento della Bitinia, e in generale all’impossibilità di far fronte alla tassazione regolare (all’esaurimento della suppeditandi facultas) "57. Una testimonianza in questo senso si può leggere, più ancora che nel celebre detto di Tiberio secondo cui boni pastoris esse tondere pecus, non deglubere %, in un passo di Tacito, che sembra poter confermare splendidamente l’ipotesi, avanzata con prudenza dal Musti, che «l’interesse stesso (economico, politico, militare) di Roma
a non lasciar di-
sgregare totalmente il modo di produzione delle regioni assoggettate» abbia portato alla temporanea realizzazione «di un processo di razionalizzazione nell’acquisizione di materiale umano dalle regioni incorporate nell’Impero» 13. Nel discorso che Tacito gli presta nell’Agricola, «la plus éloquente diatribe qu’on ait jamais prononcée contre le pouvoir romain» ', ma anche un’analisi acuta e penetrante della natura del dominio romano e delle sue interne contraddizioni, Calgaco mostra ai suoi uomini come solo nella vittoria
essi debbano riporre le proprie speranze di salvezza:
...in excidium petimur; neque enim
arva nobis aut metalla aut portus sunt, quibus exercendis reservemur (31, 4). Il discorso
145 È questa la tesi, ben documentata, di P. A. Brunt, “Charges of Provincial Maladministration”, cit., pp. 189227; Tacito stesso, d'altra parte, era pienamente consapevole della stretta connessione tra le spese militari delle parti
impegnate nelle guerre civili e lo sfruttamento selvaggio delle province: oltre al riferimento ai certamina potentium
nel passo cit. sopra nel testo, si veda anche Hist. II, 84, in cui Tacito considera gli abusi di Muciano nello sfruttamento delle province necessitate armorum excusata.
1% G. E. M. de Ste. Croix, The Class Struggle in the Ancient Greek World from the Archaic Age to the Arab
Conquest, London 1981, p. 383; vd. tutta la discussione alle pp. 381-383 ed inoltre, sulla condizione delle province
nel principato, pp. 356; 363; 371; 373; 380. 1? E tuttavia, non mancano casi in cui, ancora in età imperiale, il circolo vizioso che passava per l'imposizione fiscale e i modi dell'esazione, l'indebitamento necessario a farvi fronte e i tassi di usura applicati dagli affaristi romani poteva condurre all'asservimento: alla tribù transrenana dei Frisii una ‘precisazione’ delle modalità di esazione del
tributo risultò talmente intollerabile da costringerli a cedere dapprima i buoi, quindi i campi, e da ultimo le mogli e i figli. Le loro richieste di soccorso (in concreto, di un alleviamento del tributo) non sortirono alcun risultato, ed essi finirono per ribellarsi: Tac. Ann. IV 72. Cfr. anche, ad esempio, Tac. Ann. ΠῚ 40, 1 (Eodem anno Galliarum civitates
ob magnitudinem aeris alieni rebellionem coeptavere; i promotori della rivolta discutevano de continuatione tributo-
rum, gravitate faenoris, saevitia ac superbia praesidentium): in un’area meno periferica gli abusi, pur gravi, non sembrano essersi spinti tanto avanti come oltre il Reno. Νά. 5. L. Dyson, “Native Revolts in the Roman Empire”, Historia 20 (1971), pp. 239-274; Idem, “Native Revolt Patterns in the Roman Empire”, ANRW II 3, Berlin - New York
1975, pp. 138-175: dall'analisi delle rivolte indigene nella parte occidentale dell'impero emerge appunto il ruolo scatenante della tassazione regolare, degli abusi amministrativi, dell'indebitamento (accanto ad altri fattori). 138 Suet. Tib. 32, 2;
cfr. anche Dio LVII 10, 5.
1 D. Musti, “Modi di produzione e reperimento”, cit., p. 261. 10 J. Gascou, “Tacite et les provinces”, cit., p. 3480.
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«certainement est élaboré tout à fait indépendamment par Tacite» !4!; e indubbiamente alla riflessione di Tacito si deve la considerazione di Calgaco secondo cui ai Britanni vinti l’unica prospettiva che si apre è quella dello sterminio; più avanti (32, 4), nelle ultime parole di esortazione indirizzate ai suoi, Calgaco specifica, tra le ceterae servientium poenae, espressamente tributa ac metalla: quello alle miniere è un chiaro riferimento alla forma di schiavitù che potevano attendersi i Britanni vinti, la schiavitù nella sua forma
più dura e disumana !42, La sorte dei Caledonii però sarebbe stata diversa, se essi avessero posseduto campi produttivi, considerevoli ricchezze minerarie, o una posizione favorevole al commercio:
Tacito dunque sembra attestare, almeno per la sua epoca, l’affermazione, nella consapevolezza e nella pratica di governo della classe dirigente romana, di uno sfruttamento “compatibile”, non distruttivo delle risorse delle province: le popolazioni provinciali che erano in possesso di arva, metalla o portus venivano salvaguardate non per riguardo nei loro confronti, ma appunto perché potessero continuare a exercere, a vantaggio di Roma, arva, metalla e portus.
In questi limiti sembra doversi circoscrivere il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni provinciali, e in particolare degli strati della dipendenza; non che talora
non fosse necessario richiedere una diminuzione del tributo !*, o che fosse venuta meno l’avidità dei magistrati, con gli abusi che ne scaturivano; soltanto, era meno probabile che i loro effetti fossero paragoanbili a quelli di una pestis '*, ed essi potevano apparire in qualche modo più tollerabili, come si tollerano sterilitatem aut nimios imbris et cetera naturae mala !45.
Dalla Frigia, in particolare, non cessò l'afflusso di schiavi a Roma; lo dimostrano, pi ancora che le fonti epigrafiche raccolte dal Bang '*, alcuni brani di autori di età imperiale, e in particolare un noto passo di Filostrato: nell’apologia di fronte all'imperatore Domiziano, in VIII 7, 12, Apollonio deve rispondere dell’accusa di aver sacrificato agli dei
un giovinetto arcade, e contesta la possibilità stessa di acquistare un greco, in quanto i Greci sarebbero ancora amanti della libertà, e non venderebbero oltre confine neppure uno schiavo; gli Arcadi poi sarebbero fra tutti i più gelosi della propria libertà, e, per la natura stessa del loro territorio, avrebbero anche necessità di un gran numero di schiavi. Piuttosto, afferma Apollonio, ἀνδράποδα (...) Ποντικὰ ἢ Λύδια ἡ ἐκ Φρυγῶν mpiont' ἂν κἀνταῦθά τις, ὧν γε καὶ ἀγέλαις ἐντυχεῖν ἐστιν ἅμα φοιτώσαις δεῦρο; questi popoli infatti, e più in generale i barbari, πάντα τὸν χρόνον ἑτέρων ἀκροώμενοι οὔπω τὸ
Mi Così R. Ullmann, La technique des discours dans Salluste, Tite Live et Tacite. La matière et la composition,
Oslo 1927, p. 199 (pp. 199-201 per l’analisi dei discorsi contrapposti di Calgacoed Agricola). I passo va confrontato con le aspettative di Cicerone sull'esito della spedizione britannica di Cesare del 54 : neque argenti scrupulum esse ullum in illa insula neque ullam spem praedae nisi ex mancipiis; ex quibus mullos puto te litteris aut musicis eruditos exspectare. Cfr. anche Dio LX 30, 3: prigionieri britannici impiegati come gladiatori nel 47 d.C.; queste, e non altre, sono le occupazioni che la classe dirigente romana, dall'età di Cicerone a quella di Tacito, immaginava per prigionieri come i Britanni. vd.
Tac.
Ann. Il 42, 5: et provinciae Syria et ludaea fessae oneribus deminutionem tributi orabant.
1% Cic. II Verr. 11, 64. 14 Tac.
Hist. IV 74, 2, nel discorso di Petilio
1 M. Bang,
Cerial a difesa e giustificazione del dominio romano in Gallia.
“Die Herkunft der römischen Sklaven”, cit.
Società e religione nella Frigia romana
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δουλεύειν αἰσχρὸν ἡγοῦνται᾽ Φρυξὶ γοῦν ἐπιχώριον καὶ ἀποδίδοσθαι τοὺς αὐτῶν καὶ ἀνδραποδισθέντων μὴ ἐπιστρέφεσθαι #7. Che a Roma, ancora nell’età di Commodo, o
di Marco Aurelio, continuassero ad arrivare intere partite di schiavi frigi, sembrano poter testimoniare anche i brani di Erodiano e Cassio Dione sulle modalità della vendita del frigio Cleandro, che sotto Commodo
sarebbe divenuto, da schiavo, prefetto al
pretorio,
per cadere poi vittima di una sommossa sorta in seguito ad una carestia che gli si imputava di aver provocato '#; tuttavia, le dimensioni del fenomeno non sembrano esser state tali da mettere a repentaglio la produttività agricola della regione, o lo sfruttamento delle cave di marmo; sul piano economico, della produzione, questa sottrazione di manodope-
ra non sembra aver avuto effetti più negativi dell’annuale sottrazione di una quota del prodotto, a titolo di tributo o di rendita fondiaria. Ben altra dev'essere però la valutazione degli effetti sociali del fenomeno !#. Questa situazione di equilibrio, tuttavia, non poté mantenersi a lungo; e nel III secolo d.C., l’epoca in cui si addensano le testimonianze dei culti indigeni della regione, s’incontrano di nuovo i lamenti delle comunità contadine frige di fronte a forme di pressione sul loro sistema economico di nuovo tendenzialmente insostenibili 1%; a Filippo l’Arabo e a suo figlio è diretta la celebre supplica degli Aragueni !5!; un frammento di un analogo documento, da Eumeneia, ha individuato il Drew-Bear '2; un altro ancora, da Synnada, può forse riconoscersi in MAMA IV, 57 !53; più recente è invece la pubblicazione di un re-
17 vd. E. Staerman - M. K. Trofimova, La schiavitù nell'Italia imperiale, cit., pp. 16-17, e D. Musti, “Modi di produzione e reperimento”, cit., pp. 261-262, che riconducono il fenomeno alla povertà dei contadini della regione e alla sopravvivenza di varie forme di schiavitù per debiti. 1 Hdn. 1 12, 3 (Κλέανδρός τις ἦν, τὸ μὲν γένος Φρύξ, τῶν δημοσίᾳ εἰωθότων ὑπὸ κήρυκι πιπράσκεσθαι); Dio LXXIII 12, 1 (ὁ δὲ δὴ Κλέανδρος (..) καὶ ἐπράθη μετὰ τῶν ὁμοδούλων, μεθ᾽ ὧν καὶ ἀχθοφορήσων ἐς τὴν “Ῥώμην ἐκεκόμιστο). 19 Vd. soprattutto Z. Yavetz, Slaves and Slavery in Ancient Rome, cit., pp. 160-161. 1% L. Robert, “Sur un papyrus de Bruxelles”, RPh 17 (1943), pp. 111-119 (= OMS I, Amsterdam 1969, pp. 364-372), in particolare p. 119 osservava come le comunità, «les paysans ricorressero alle suppliche dirette alle autorità, e in particolare agli imperatori, «lorsqu'il y avait des faits trop graves, (...), lorsqu'on avait à délibérer si l'on se déroberait aux exigences en disparaissant du domaine cultivé depuis des générations. Dans le train-train journalier, les paysans payaient, et ils écrivaient dans leur comptes: ὑπὲρ διασεισμοῦ 2.200 drachmes» (come appunto nel papiro illustrato dal Robert). Un quadro sostanzialmente analogo delle capacità di sopportazione dei provinciali di fronte agli abusi dei magistrati romani aveva già offerto Cicerone nelle Verrine: vd. II Verr. II, 8-9 e gli altri passi citati più sopra. 19 J. G. C. Anderson, “A Summer in Phrygia: 1”, HS 17 (1897), pp. 396-424, in particolare nr. 20 pp. 417-422; A. Schulten, “Libello dei coloni d'un demanio imperiale in Asia”, MDAI(R) 13 (1898), pp. 221-247, in particolare p. 231 e ss.; J. G. C. Anderson, “A Summer in Phrygia: Some Corrections and Additions”, /HS 18 (1898), pp. 340-344, in particolare pp. 340-341; CIL III, 14191; OGIS 519; M. Rostowzew, “Angariae”, Klio 6 (1906), pp. 249-258, in particolare pp. 256-257; IGR IV, 598; M. I. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, cit., pp. 556-557 n. 26; G. Mihailov, Inscriptiones Graecae in Bulgaria repertae IV, Serdicae 1966, pp. 224-225; P. Herrmann, Hilferufe aus römischen Provinzen. Ein Aspekt der Krise des römischen Reiches im 3. Jhdt n. Chr, Joachim Jungius-Gesellschaft der Wissenschaften, Hamburg 1990, pp. 28-33; MAMA X. Monuments from the Upper Tembris Valley, Cotiaeum, Cadi, Synaus, Ancyra, and Tiberiopolis recorded by C. W. M. Cox, A. Cameron, and J. Cullen, edited by B. Levick, S. Mitchell, J. Potter and M. Waelkens, JRS Monographs 7, 1993, nr. 114 pp. 34-36. 12 Th. Drew-Bear, Nouvelles Inscriptions de Phrygie, cit., cap. I nr. 8, p. 16. 153 W. H. Buckler, W. M. Calder, W. K. C. Guthrie, MAMA IV. Monuments and Documents from Eastern Asia and Western Galatia, Manchester U. P. 1933, pp. 17-18; si tratta soltanto di un frammento, probabilmente di una lettera dell'imperatore intorno a una questione in cui erano coinvolti anche i suoi epitropoî; vi compare anche, al da-
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scritto di Caracalla, con i frammenti dei documenti relativi alla complessa pratica burocratica messa in moto dalle disposizioni dell’imperatore, da Takina, al confine tra Frigia,
Pisidia e Panfilia !54. I coloni imperiali di Aragua, nei felicissimi tempi dei due Filippi, che avevano posto fine ad ogni malvagia estorsione, si videro costretti a rivolgere una supplica agli imperatori, in quanto essi soli subivano ἀλλότρια τῶν εἰὑτυχεστάτων) καιρῶν '55. Le loro proteste sono rivolte contro i soldati !56, contro i δυνάσται τῶν προυχόντων K[at]à τὴν
tivo, il consueto riferimento al governatore della provincia (I. 8), un elemento che s'incontra anche nel testo citato
nella n. precedente.
154 5, Sahin - D. H. French, “Ein Dokument aus Takina”, EA
10 (1987), pp.133-142 = SEG 37 (1987),
nr. 1186. 15 MAMA X 114, Il. 11-12; cfr. anche la 1. 9 (ἐν τοῖς μακαριωτάτοις ὑμῶν καιροῖς) e le Il. 16-17 (πάσ]χομεν ἀλλότρια τῶν ὑμετέρων μακαριωτάτων καιρῶν). Il confronto con Cic. epist. Il 11, 2, lettera scritta a Celio, da Laodicea, nell'aprile del 50, in risposta alle insistenti richieste dell'amico di procurargli le pantere necessarie per i ludi che doveva dare da edile (vd. Cael. Cic. epist. VIII 9, 3, del settembre del 51), in cui Cicerone si scusa adducendone la mi-
ra paucitas, e sostenendo inoltre scherzosamente che eas quae sunt valde aiunt queri quod nihil cuiquam insidiarum in mea provincia nisi sibi fiat; itaque constituisse dicuntur in Cariam ex nostra provincia decedere (su questo passo vd. A. Haury, L'ironie et l'humour chez Cicéron, cit., p. 173, testo e n. 3; A. R. Hands, “Humour and Vanity in Ci-
cero”, cit., p. 123), induce a considerare con prudenza la questione della reale rispondenza ad «una politica imperiale
che pare aver determinato una svolta nella situazione dell'impero» (Ὁ. Poma, “Nota su OGIS 519: Filippo l'Arabo e la pace coi Persiani”, Epigraphica 43 (1981), pp. 265-272, in particolare p. 267) delle espressioni delle Il. 9-12 della
supplica. La formula impiegata dai coloni doveva essere consueta, quasi obbligata nel momento in cui all'imperatore, o al governatore di provincia, un intervento che riscattasse da una situazione di grave che andava necessariamente contrapposta ai tempi felici della propaganda imperiale e degli omaggi di ispirati. A ulteriore, definitiva conferma della topicitä dell'espressione, e della sua derivazione dai circoli
si richiedeva oppressione, rito da essa più vicini al-
l’imperatore, basti il rimando alle Il. 11-15 della supplica di Scaptopara (1GBulg IV, 2236 = K. Hallof, “Die Inschrift
von Skaptopara”, cit.), rivolta all'immediato predecessore di Filippo l'Arabo: Ἐν τοῖς εὐτυχεστάτοις καὶ αἰωνίοις, σοῦ καιροῖς κατοικεῖσθαι καὶ βελτιουσθαι τὰς κώμας ἥπερ ἀναστάτους γίγνεσθαι τοὺς ἐνοικοῦντας ROMANI)
ἀντέγραψας. Sembra dunque che non si possa fare troppo conto dell'«immagine positiva che i coloni offrono delle condizioni dei sudditi» (G. Poma, “Nota su OGIS 519”, cit., p. 270), e tanto meno se ne possano trarre indizi per una più precisa datazione del documento all’interno del periodo, tra l’agosto del 244 e l'agosto del 247 d.C., indicato
dalla titolatura dei due imperatori (e in particolare dal fatto che il figlio di Filippo è ancora soltanto Cesare), tanto
più che espressioni in tutto analoghe sui tempi felicissimi dei due Filippi ricorrono anche in TAM V, 1, 419 (Il. 4; 2930), iscrizione frammentaria ma databile con precisione al 247/8 d.C. (anno 332 dell'era sillana), dunque all'estremo
opposto del periodo di regno di Filippo l'Arabo rispetto a quello a cui pensa la Poma per l'iscrizione di Aragua. 1% L'integrazione della 1. 18 di questa iscrizione è un punto su cui vale la pena di soffermarsi: sulla pietra si legge παραλιμπάνοντες τὰς λεωφόρους dl- - - ; la linca seguente comincia con le sillabe nwtan. L'integrazione 6[300g all'inizio della lacuna è certa, come pure, alla
fine, l'integrazione στρα]τιῶται. Nel mezzo J. G. C. Anderson, “A Summer
in Phrygia: I", cit., p. 419 aveva proposto γίνονται (calcolando dunque uno spazio di 16 lettere; per la lunghezza della lacuna vd. anche Idem, “Some Corrections and Additions”, cit., p. 340: nelle Il. 14 ς 15 non andrebbero integrate più che 13 e 15 lettere); προσέτι δέ era la proposta di A. Schulten, “Libello”, cit., pp. 232; 243-244, accolta dal Dittenber-
ger in OGIS 519 (in totale, 17 lettere integrate). M. Rostowzew, “Angariae”, cit., p. 256 propose invece στρατάρχαι te καὶ, raggiungendo un totale di 23 lettere, 0 piuttosto di 24, in quanto alla fine della linea integrava (probabilmente per una svista) στρατ anziché στρα; a giustificazione della nuova proposta, in nota, il Rostovtzeff si limitava a rinviare
alla I. 17 (16), dove l'Anderson aveva letto ed integrato μ[ η]τε παρὰ otpatalpyn μηδενί: lo Schulten (*Libello”, cit.,
p. 232) aveva pubblicato la ultima A di otpatal- - - come incerta (nell'apografo di Anderson, “A Summer in Phrygia: 1", cit., p. 418, la lettera appariva incompleta, ma certa; si badi tuttavia che più tardi lo stesso Anderson, “Some Corrections”, cit., p. 340, affermò che «the reproduction given on page 418 does not quite accurately represent my copy in some slight details»; la copia stessa, d’altra parte, poteva non essere perfetta), ma poi (p. 243: «pare che l'ultima A sia certa») aveva finito per accettare l'integrazione dell Anderson, mutandola soltanto nel genitivo στρατάίρχου. La fotografia della pietra scattata da C. W. M. Cox, pubblicata ora in MAMA X, plate XII non aiuta a risolvere la que-
stione; ma la proposta degli editori per la I. 16, xe μίη!τε rapa στρατίοπέδοις ὄντες, in considerazione del contesto
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(precedono immediatamente le parole μεσόγειοι γὰρ τυγχάνοντες) e del confronto con la supplica di Scaptopara, 1GBulg IV 2236 (= K. Hallof, “Die Inschrift von Skaptopara”, cit.) Il. 24-26 (κεῖσθαι μέσον δύο στρατοπέδων τῶν ὄντων ἐν τῇ σῇ Opdwm), appare fortemente raccomandabile. Comunque sia di ciò, da un eventuale, improbabile occorrere del raro termine στρατάρχης alla I. 16 non deriva la necessità di integrarlo anche alla |. 18, prima del sicuro riferimento agli στρα]τιῶται, tanto più che questa integrazione appare decisamente troppo lunga, Ad una più attenta riconsiderazione del testo epigrafico nel suo complesso, nella n. 26 del capitolo XI della Storia economica e sociale dell'impero romano, il Rostovtzeff arrivò alla conclusione «che le linee del documento (il margine destro è corroso) erano molto più brevi di quanto generalmente si ritenesse», e propose, per le Il. 15-17, di integrare da 15 a 16 lettere, per le linee 18-20 di integrare 18 lettere. Tuttavia, non rinunciò all’inserimento degli στρατάρχαι alla 1. 18, benché per la 1.
16 si fosse ormai risolto a proporre, conservando alla fine della linea la A indicata come incompleta ma certa dall’Anderson, quel παρὰ στραταίρχίαις ὄντες, accertato ancora da P. Herrmann, Hilferufe, cit., p. 30, che sembrerebbe doversi intendere, come richiede il contesto, in senso topografico (στραταρχία = “sede di un comando militare”, un senso per il quale tuttavia non è facile trovare paralleli). L'integrazione proposta dal Rostovtzeff, che qui teneva conto del fatto che nell'iscrizione la congiunzione καί, secondo la pronuncia dell’epoca e l'uso scrittorio della regione, appare nella forma κίαί), arrivava così a 21 lettere - contro i suoi stessi calcoli della lunghezza della lacuna. Il fatto è che il Rostovtzeff aveva seri motivi per introdurre gli στρατάρχαι fra gli oppressori della comunità contadina di Aragua: nella sua ricostruzione della storia economica e sociale dell'impero assolutamente imprescindibile è la tesi dell'identità di interessi, nel III secolo, fra le classi inferiori agricole e l'esercito, che da esse veniva reclutato e che avrebbe espresso appunto «i desideri e le aspirazioni dei contadini» (M. I. Rostovtzeff, “La crisi sociale e politica dell'impero romano nel III secolo d. C.”, Per la storia economica e sociale del mondo ellenistico-romano, cit., pp. 157-165 [ed. orig. MB 27 (1923), pp. 233-242], in part. p. 164); anche questi documenti dovevano rientrare nel quadro, in cui gli imperatori figurano, quando volontariamente («Massimino, che odiava cordialmente l'antico regime»: Storia economica e sociale dell'impero romano, cit., p. 539), quando loro malgrado, come alleati dei contadini/soldati nella loro lotta cieca e accanita contro «la borghesia cittadina». Così, a più riprese Rostovtzeff sottolinea come fossero spesso dei soldati a presentare all'imperatore le petizioni dei loro villaggi, e in ciò ritiene di poter indicare «una prova diretta delle relazioni tra le campagne e l’esercito» (“La crisi”, cit., p. 165; M. Rostovtzeff, A History of the Ancient World Il. Rome, translated from the Russian by J. D. Duff, Oxford 1927, p. 318): ma è più riluttante a rilevare come sia soprattutto del
comportamento dei soldati che i contadini si lamentano; piuttosto, enfatizza la loro ostilità nei confronti di «town magistrates, officials, and army officers» (A History of the Ancient World Il, cit., p. 318). Nel processo di provincializzazione dell'esercito che, a partire dall'età dei Severi, vide la massiccia immissione nei ranghi delle «classi contadine delle regioni più bellicose e meno civili» (“La crisi”, cit., p. 163; cfr. anche A History of the Ancient World II, cit., p. 313),
animate «da un profondo sentimento di odio contro le classi dominanti» (“La crisi”, cit., p. 162), il Rostovtzeff rilevava però una certa gradualità: i contadini delle province si sarebbero imposti dapprima nella truppa, e solo gradualmente avrebbero conquistato anche i posti di ufficiali (“La crisi”, cit., p. 163: «Le classi cittadine scomparvero dall'esercito, le città non vi furono rappresentate che dagli ufficiali»; A History of the Ancient World Il, cit., p. 315: «So bydegrecs the officers, the last representatives of a higher culture, disappeared from the army; they became indistinguishable from the rank and file, and as rough and coarse as their men»). La gradualità del processo lasciava spazio alla possibilità che in alcuni momenti, all’interno dell'esercito, alle truppe, espressione delle popolazioni rurali dell'impero, estranee ed ostili alla civilitas ellenistico-romana, e vicine invece ai sentimenti e alle aspirazioni delle campagne, si contrapponessero, negli ufficiali, i rappresentanti delle classi agiate e colte delle cit à; ora, perché potesse reggere tutta la ricostruzione della vicenda del III secolo proposta dal Rostovtzeff, che nell'esercito vedeva l'organo utilizzato dai contadini per distruggere le odiare classi dirigenti cittadine, si dovevano spiegare in qualche modo le numerose testimo nianze dell’ostilitä dei contadini nei confronti dei soldati; a questo scopo, la soluzione più brillante era quella di scaricare sugli ufficiali, ultimi rappresentanti della borghesia cittadina nell'esercito, il peso dell'ostilità delle comunità contadine. Così, i documenti che avrebbero dovuto indurre a ripensare, e a modificare, l'interpretazione generale della storia del III secolo proposta dal Rostovtzeff, venivano piegati fino a fornirne un elemento di conferma; ma percl potesse accadere, era necessario far entrare gli στρατάρχαι alla |. 18 della supplica degli Aragueni, che lo consentissero 0 meno le dimensioni della lacuna.
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πόλιν (I. 19) 17 e contro i cesariani imperiali '58; costoro, abbandonando le strade principali, li distolgono dai lavori dei campi e ne sequestrano i buoi; τοὺς ἀροτῆρας βόας, sot-
tolineano i supplici !59. Sono quei buoi sui quali i contadini frigi erano soliti invocare la protezione delle loro divinità; quei buoi che già Esiodo considerava bene fondamentale ed irrinunciabile del contadino, sullo stesso piano della casa e della moglie: οἶκον μὲν πρώτι-στα γυναῖκά te βοῦν τ᾽ ἀροτῆρα '99, Aristotele citò due volte questo verso esiodeo, e significativamente all’inizio del I libro dell’Economico "δ᾽ e all’inizio del I libro della Politica, dove l’illustrò spiegando che ὁ γὰρ βοῦς ἀντ᾽ οἰκέτου τοῖς πένησίν ἐστιν. Come
ha rilevato ἃ più riprese L. Robert, «le couple de boeufs était le bien essentiel de ces paysans phrygiens», e non solo frigi 63, ed il loro principale strumento di lavoro. Si ricordi come Cicerone avesse insistito sull’intollerabilità delle esazioni in denaro imposte da Verre, che costringevano gli aratores siciliani a vendere boves et aratrum ipsum atque omne instrumentum V4; la vendita dei buoi appare il passo immediatamente precedente all’abbandono delle proprie sedi '6. La requisizione dei buoi destinati all’aratro, lamentano i 15° Gli editori di MAMA X alla I. 19 leggono πόλιν Afnriav; questa A - di cui effettivamente sembra potersi scorgere qualche traccia sulla fotografia (plate XII) - non era registrata perd nell'apografo di Anderson. Che la πόλις cui si fa riferimento alla |. 19 potesse essere la vicina Appia (cfr. I. 18) era stato suggerito (ma non senza qualche riserva) già da A. Schulten, “Libello”, cit., p. 245; M. Rostowzew, “Angariae”, cit., p. 257 aveva pensato invece che questa πόλις non meglio specificata potesse essere Roma, e che gli oppressori della comunità fossero «die hochgestelIten Römer»; a δυνατοί municipali pensava invece lo Schulten, “Libello”, cit., p. 245. 158 Degli abusi dei cesariani ci si lamentava alla 1. 31, nella parte finale dell'iscrizione; ragionevolmente dunque A. Schulten, “Libello”, cit., p. 244 ne propose l'integrazione alla 1. 19, che è stata generalmente accettata (sui Caesariani vd. in particolare W. Dittenberger, OGIS Il, pp. 172-173 n. 25); la respingono ora gli editori di MAMA X, in quanto, integrato il nome della città di ᾿Αἰππίαν all'inizio della lacuna, non vi sarebbe spazio sufficiente per accoglieτε il riferimento ai Katcapiavoi; la loro proposta, xè δοῦλοι ὑμέτεροι («Imperial δοῦλοι fir the gap well», p. 36), non appare però del tutto convincente, in quanto nei documenti di questa serie non sembrano figurare riferimenti ai douloi dell'imperatore come attori degli abusi lamentati dai supplici. Gli editori di MAMA X potrebbero forse aver pensato alla documentazione sugli schiavi imperiali inreig, attestati anche in Frigia, che L. Robert, “Hellenica XVI. Épitaphe de Dorylaeion”, RPh 65 (1939), pp. 207-210 (= OMS Il, Amsterdam 1969, pp. 1360-1363) propose di interpretare come «des courriers à cheval». 1 La brillante integrazione della 1. 21, καὶ τοὺς ἀροτῆρας βόας ἀνγαρεύοντες, si deve a M. Rostowzew, “Angariae”, cit., p. 256, in base alla lettura BOAZANT delle ultime lettere conservate della linea data da J. G. C. Anderson, “Some Corrections and Additions”, cit., p. 340. 10 Hes. Erga 405. M. L. West, Hesiod. Works and Days, edited with Prolegomena and Commentary by M. L. W., Oxford 1978, p. 259 ad. I. considera la massima «probably traditional». Sul discusso problema dell'autenticità del verso successivo vd. ibidem, p. 260. 1 Arist. Oec. 1343 a. 12 Arist. Pol. 1252 b. 13 L. Robert, “Hellenica XV. Inscriptions au Musée du Louvre", RPh 65 (1939), pp. 198-207, in particolare p. 204, sulla frequente raffigurazione di «deux têtes de boeufs unies par le joug, che sarebbe una sorta di «transcription figure de la formule περὶ βοῶν» (ora in OMS Il, Amsterdam 1969, pp. 1351-1360, in partic. p. 1357); Idem, “Épitaphe d'un berger à Thasos”, Hellenica VII, Paris 1949, pp. 152-160, in partic. pp. 157-158 con le nn. relative; Idem, “Dédicaces et reliefs votifs”, Hellenica X, Paris 1955, pp. 5-166, in partic. pp. 35-36; 108. La medesima osservazione, per una regione diversa, in I. Stoian, “La plainte des paysans du territoire d'Histria”, Études Histriennes,
Coll. Latomus 123, Bruxelles 1972, pp. 81-108, in particolare p. 100. Si veda comunque soprattutto M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, cit., pp. 438-439: «Il bestiame, risorsa principale dei contadini, che in esso avevano investito quasi tutti i loro risparmi, frutto di lunghi anni di lavoro, era portato via, maltrattato, mal nutrito, e ritornava coi suoi conducenti, se pure ritornava, quando il proprietario non ne aveva più bisogno». c. II Verr. II, 199, già cit. sopra. Cie. II Ver. III, 228: nel paragrafo conclusivo della de frumento Cicerone affermava che solo grazie alla
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coloni di Aragua, ha precisamente gli stessi effetti: una delle ultime frasi che si leggono
nell’iscrizione è, significativamente, τὰ χωρία épnuodoBo (alla 1. 32). Degli effetti rovinosi, e della frequenza, di simili, illegittime requisizioni il governo imperiale aveva piena consapevolezza; ma dalla costituzione di Costantino contro chi, iter faciens, requisisca
bovem non cursui destinatum, sed aratris deditum emerge in primo luogo proprio la difficoltà, per non dire l’impossibilità di imporre il rispetto di una tale disposizione !66. Co-
munque, i contadini di Aragua si sforzano di far intendere quanto siano gravi, per loro, queste estorsioni; l’imperatore dovrà ascoltarli, perché già una volta, da prefetto "67, era intervenuto in loro favore, rispondendo ad una petizione analoga; i supplici si danno cu-
ra di riportare le due righe di latino con cui Filippo aveva sbrigativamente risolto la questione, rimandando la pratica al proconsole, diremmo, alle autorità competenti. Esse, però, non avevano sortito alcun risultato (οὐδὲν ÖdeAolg, 1. 28); e l’iscrizione termina per noi con una nuova rappresentazione della situazione disperata dei coloni di Aragua, e
con un significativo cenno allo spopolamento e all'abbandono dei loro χωρία (I. 32). Non c’è ragione di credere che il rescritto di Filippo imperatore, fatto incidere fiduciosamente dai coloni in testa al dossier relativo alla vicenda, sia risultato loro più utile
della risposta alla supplica rivolta precedentemente a Filippo prefetto, cui è nella so-
stanza perfettamente analogo: ancora una volta, Filippo s’era limitato a rimettere la questione al proconsole. La petizione degli Aragueni va intesa in base al confronto con le analoghe suppliche
contemporanee lé, databili tutte in quel lungo III secolo, che può farsi iniziare almeno dall’età di Commodo, che vide la trasformazione della società classica nel mondo della Tarda antichità.
Vi si riscontra la stessa insistenza sulla regolarità delle concussioni, con-
siderate una prassi inveterata '9, e sull’inefficacia dei provvedimenti già adottati per porvi rimedio, che sono
rimasti
lettera morta "Ὁ; tuttavia, colpisce la fiducia che i coloni
severitas e alla diligentia dei giudici, me duce atque auctore, gli aratores siciliani sarebbero potuti tornare in agros atque in sedes suas; dopo la vendita dell'instrumentum, gli aratores avevano abbandonato le coltivazioni. In Tac. Ann. IV 72, il passo già citato sugli abusi che spinsero alla rivolta la tribù transrenana dei Frisii, la vendita dei buoi prelude immediatamente alla perdita dei campi, e poi alla riduzione in schiavitù delle mogli e dei figli. "= CTh VIII 5, 1, cit. da M. Rostowzew, “Angariae”, cit., p. 257, che rimandava anche alla consultazione dell'intero titolo de cursu publico angariis et parangariis. Il drastico provvedimento dell’imperatore Giuliano in CTh VIII 5, 12 dà la misura dell'inefficacia dei precedenti tentativi di evitare gli abusi in questo settore; per la consapevolezza di Giuliano che a tollerare il peso del cursus publicus, almeno nella provincia Sardinia, era la rustica plebs, id est pagi, vd. CTh VINI 5, 16. Sulla legislazione relativa al cursus publicus nella Tarda antichità vd. ora P. Stoffel, Über die Staatspost, die Ochsengespanne und die requirierten Ochsengespanne. Eine Darstellung des römischen Postwesens auf Grund der Gesetze des Codex Theodosianus und des Codex lustinianus, Frankfurt a. M. 1994, in particolare pp. 25-27 sugli abusi e pp. 98-99 sul tentativo di riforma di Giuliano (e sul problema dell'attribuzione a lui 0 al suo successore di CTh VIII 5, 16). 7 MAMA X, 114 1. 24: ὁπότε τὴν ἔπαρχον διεϊπείς ἀρχήν. Sulla carriera di Filippo e di suo fratello Prisco sotto Gordiano III vd. F. Kolb, Untersuchungen zur Historia Augusta, Bonn 1987, pp. 99-132.
11 Enumerate e discusse, da ultimo, da P. Herrmann, Hilferufe, cit.
!** Alla 1. 14 di CIL VIII, 17639, un esempio africano di lamenti contro exactiones inlicitae (1. 7), si legge signifi-
cativamente quasi quodam more constiltuto.
19 In questo senso, basti qui rimandare alla celebre iscrizione di Scaptopara (1GBulg IV, 2236 = K. Hallof, “Die
Inschrift von Skaptopara”, cit), dove alle I . 56-73 i supplici lamentavano di essersi già rivolti πλειστάκις (I. 56) ai
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sembrano riporre nel nuovo intervento richiesto alle autoritä provinciali, o piuttosto all’imperatore !"', e nella stessa pubblica esposizione del testo della replica imperiale 172, inciso nel punto più in vista del monumento epigrafico '”°, nonostante il suo tenore possa apparire spesso deludente. Analoga fiducia, e analoghe illusioni, nutrivano anche i ceti agiati e colti delle città
della parte orientale dell’impero le cui aspirazioni esprime l'anonimo redattore dell’Eis basilea pseudoaristideo !”*. L’orazione, rivolta secondo i più allo stesso Filippo l’Arabo cui s’erano indirizzati i coloni di Aragua "7", elogia il basileus per aver tentato di porre
governatori di Tracia, ottenendone risposte favorevoli, che furono però rispettate solo χρόνῳ μέν τινι (I. 66); si confrontino anche le Il. 86-91 - οἱ ἡγούμενοι πλεονάκις ἐκέλευσαν... = e le Il. 155-162. 1 Persino i coloni imperiali di Agabeykôy in Lidia, nonostante la gravità degli abusi di cui erano stati oggetto, privati καὶ βίου καὶ συνγενῶν οὕτως ὠμῶς, s'aspettano che sui colpevoli piombi ὑπὸ τῆς ὑμετέρας δεξιᾶς ἐκδικία τις, e che l'intervento imperiale li metta in condizione di non dover abbandonare le case dei padri e le tombe degli avi Οἱ Keil u. A. von Premerstein, Bericht über eine dritte Reise in Lydien und den angrenzenden Gebieten loniens, ausgeführt 1911 im Auftrage des kaiserlichen Akademie der Wissenschaften in Wien, DAWW 57, 1, Wien 1914, nr. 55 pp. 37 ss., in particolare Il. 17-18;
41-42).
12 Vd. in particolare le Il. 99-104 dell'iscrizione di Scaptopara, citata secondo l'edizione di K. Hallof, “Die Inschrift von Skaptopara”, cit.: συμβήσεται & τοῦτο ἡμεῖν ἐν τοῖς εὐτυχεστάτοις σου καιροὶς ἐὰν κελεύσης τὰ θεῖά σου γράμματα ἐν στήλῃ ἀναγραφέντα δημοσίᾳ προφίαἸνεῖσθαι. Il Drew-Bear (Th. Drew-Bear - P. Herrmann - W. Eck, “Sacrae litterae”, Chiron 7 (1977), pp. 355-383, in particolare p. 363) ha parlato di «inscriptions ‘protectrices’» erette da villaggi che speravano, “pubblicando” le decisioni del potere centrale, di garantirsi dagli abusi degli agenti di questo stesso potere, e ha osservato, a proposito delle diverse copie rinvenute in Oriente di un rescritto imperiale del 204 d.C. che confermava il diritto dei senatori romani di non accogliere ospiti contro la propria volontà, come «les privilégiés aussi essayaient de se défendre par les mêmes moyens»; P. Herrmann, Hilferufe, cit., p. 64 vi ha letto persino «die Hoffnung auf eine apotropäische Wirkung» delle parole dell'imperatore; da ultimo, Th. Pekäry, “Die Flucht: eine typische Erscheinung der Krisenzeit im 3. Jh. n. Chr.?”, R. Günther - 5. Rebenich (hrsg. von), «E fontibus haurire. Beiträge zur römischen Geschichte und zu ihren Hilfswissenschaften Heinrich Chantraine zum 65. Geburtstag», Paderborn - München - Wien - Zürich 1994, pp. 185-196, in particolare p. 194 ha ritenuto di poter spiegare il gran numero di queste petizioni rivolte agli imperatori «mit dem Glauben der einfachen Leute an die übermenschlichen, magischen Kräfte des Kaisers». 1 Il rescritto inviato agli Aragueni apriva il dossier epigrafico (Il. 2-4), in cui i vari documenti risultavano ordinati gerarchicamente anziché cronologicamente; nella lunga iscrizione di Scaptopara, il testo del rescritto di Gordiano III era inciso alla fine della stele, su quattro linee (165-168) estese sull'intera superficie, a differenza del testo greco, disposto su tre colonne (vd. ora il disegno del calco dell'iscrizione pubblicato da K. Hallof, “Die Inschrift von Skaptopara”, cit., p. 414). 1% [Aristid.] Or. XXXV K. Per l'accostamento di questa orazione alle petizioni dei contadini di III secolo vd. già M. I. Rostovtzeff, “Le classi rurali e le classi cittadine nell'alto impero”, Per la storia economica e sociale, cit., pp. 167-181, in particolare p. 180 (ed. orig. 1926); più di recente, vi ha insistito L. De Blois, “The Εἰς Βασιλέα of Ps.-
Aelius Aristides”, GRBS 27 (1986), pp. 279-288, in particolare p. 285, che ha notato come sia comune all'orazione pseudoaristidea e alle petizioni dei contadini di III secolo l'-apprehension about heavy fiscal burdens and the misbehaviour of soldiers». 1 Per la non autenticità del discorso vd. in primo luogo B. Keil, Aelii Aristidis Smyrnaei Quae supersunt omnia, edidit B. K., II, Berolini 1898, p. 253; Idem, “Eine Kaiserrede (Aristides R. XXXV)", NAWG 1905, pp. 381-428, con la proposta di identificare con Macrino l'anonimo basileus. La pars destruens del contributo del Keil è stata generalmente accettata; come possibili destinatari dell'orazione sono stati proposti però i nomi di Pertinace (ipotesi di Th. Mommsen resa nota da U. von Wilamowitz Moellendorf, «Die Kultur der Gegenwart» I, 8, Berlin 1905, pp. 161-162), Gallieno (A. von Domaszewski, "Beiträge zur Kaisergeschichte IL. Die Rede des Aristides εἰς βασιλέα",
Philologus 65 (1906), pp. 344-356, e più recentemente S. Faro, “La coscienza della crisi in un anonimo retore del Ill secolo”, Athenaeum n. s. 58 (1980), pp. 406-428, in particolare pp. 421-426; vd. anche la bibliografia indicata alle pp. 427-428), Filippo l'Arabo (E. Groag, “Studien zur Kaisergeschichte Il. Die Kaiserrede des Pseudo-Aristides”, WS 40 (1918), pp. 20-45; questa tesì fu accolta, tra gli altri, da M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero ro-
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freno all’authadeia, alla hybris e all’akolasia dilaganti già prima di salire al trono "76; motivo ricorrente del discorso, «an exhortation
in the form of praise» "77, è proprio quello
dell’opposizione agli abusi dei militari (e dell’amministrazione civile): il basileus è lodato per aver liberato le città dal terrore delle spie "78, per non essersi lasciato dominare dai soldati, per averli impegnati in πόνοι e nell’esercizio fisico,
e per non aver consentito loro
di λαμβάνειν !79. In questo modo, egli non sarebbe soltanto andato incontro alle neces-
mano, cit., pp. 522-523, e si è affermata con tanta forza da poter figurare nel titolo del saggio, con traduzione e commento, di L. J. Swift, “The Anonymous Encomium of Philip the Arab”, GRBS 7 (1966), pp. 267-289), Decio (S. Mazzarino, L'Impero romano Il, Roma - Bari 19843 - prima ed. 1956 -, pp. 626-627); si è anche pensato alla possibilità «that the pseudo-Aristides of the oration eis basilea was a Byzantine scholar» (E. Barker, Social and Political Thought in Byzantium from Justinian ] to the last Palaeologus, Oxford 1957, pp. 220-225; se ne veda la confutazione in L. J. Swift, “The Anonymous Encomium”, cit., pp. 270-271); che l'opera sia un'esercitazione retorica della fine del III o dell'inizio del IV secolo, rivolta ad un sovrano idealizzato piuttosto che ad un imperatore specifico ha sostenuto poi S. A. Stertz, “Pseudo-Aristides, Εἰς βασιλέα", CO 73 (1979), pp. 172-197 - una tesi giudicata «interessante» da M. Mazza, “Il principe e il potere. Rivoluzione e legittimismo costituzionale nel ΠῚ sec. d.C.”, ora in Idem, Le maschere del potere. Cultura e politica nella Tarda antichità, Napoli 1986, pp. 3-93 - prima ed. 1976 -, in particolare p. 68); solo C. P. Jones, “Aclius Aristides, Εἰς βασιλέα", JRS 62 (1972), pp. 143-152 ha riproposto la tesi tradizionale dell’attribuzione del discorso ad Elio Aristide, identificando il basileus con Antonino Pio; questa tesi, benché accolta ad esempio da F. Millar, The Emperor in the Roman World, London 1977, pp. 528-529, è stata respinta dai più: si veda in particolare S. A. Stertz, “Pseudo-Aristides, Εἰς βασιλέα, cit. (con la replica di C. P. Jones, “The Εἰς βασιλέα again”, CO n. 5. 31 (1981), pp. 224-225); M. Mazza, “Il principe e il potere”, cit., in particolare pp. 64-74; L. De Blois, “The Εἰς Βασιλέα of Ps.-Aclius Aristides”, cit., pp. 279-288, con ulteriore bibliografia. La soluzione de-
gli ultimi due studiosi citati, che propendono per una datazione intorno alla metà del III secolo, ma prudentemente rinunciano al tentativo di identificare con precisione il destinatario del discorso (nonostante una certa preferenza, esplicita nel De Blois, per Filippo l'Arabo), appare ancora la più convincente. 7% [Aristid.] Or. XXXV K., 13: ὁρῶν πολλὰ τῆς βασιλείας où καλῶς οὐδὲ ὁσίως διοικούμενα, ἀλλὰ πολλὴν αὐθάδειαν καὶ ὕβριν καὶ ἀκολασίαν ἐγγενομένην, οὐκ ela αὔξεσθαι οὐδὲ περαιτέρω χωρεῖν. Già E. Groag, “Die Kaiserrede des Pseudo-Aristides”, cit., p. 37 propose di identificare la carica ricoperta dal futuro imperatore quando avrebbe intrapreso quest’azione con la prefettura al pretorio assunta da Filippo l'Arabo alla morte di Timesiteo; così anche, tra gli altri, L. J. Swift, “The Anonymous Encomium of Philip the Arab”, cit., pp. 283-284, di cui tuttavia non sembra potersi accettare il riferimento di questo brano, anziché alle condizioni interne dell'impero, alla campagna persiana di Gordiano III e alle immediate conseguenze della sconfitta romana. 17 L. De Blois, “The Εἰς Βασιλέα of Ps.-Aclius Aristides”, cit., pp. 283; 287. 1 [Aristid.] Or. XXXV Κι, 21. Per un'analoga lode tributata a Macrino vd. Hdn. V 2, 2, addotto da B. Keil, “Eine Kaiserrede”, cit., p. 420, assieme a Dio LXXVII 17, 1, sulle dimensioni raggiunte dal fenomeno dei delatori sotto Caracalla, a sostegno della sua proposta di identificazione del basileus dell'Or. XXXV. 1 [Aristid.] Or. XXXV K., 30. Una sottile vena di antimilitarismo percorre tutta l’orazione, e ne costituisce uno dei motivi più interessanti e meno studiati (vd. però le acute osservazioni di M. Mazza, «Il principe e il potere”, cit., in particolare pp. 86-87, sulla «progressiva svalutazione dell’apetti guerresca», rispetto alle virtù morali del princeps, quale «risultato dell'evoluzione della teoria monarchica, quale veniva configurandosi nel conflitto con la realtà economica e sociale del III secolo»); elementi di questo antimilitarismo possono ritrovarsi già nella riprovazione del mvδυνεύειν saggiamente evitato dal basileus nei tempi tempestosi del suo accesso al trono ($ 14); anche la ridicolizzazione di Achille (ἀπελθούσης τῆς Bpionidog παρ᾽ αὐτοῦ καὶ χρόνον τινὰ ποιησάσης παρ᾽ ᾿Αγαμέμνονι παραχρῆμα μὲν οὕτως διετέθη ὥστ᾽ ἔκλαεν ὁρῶν "ἐπὶ οἴνοπα πόντον’ καλῶν τὴν μητέρα, ὥσπερ παιδάριον πεπονθὸς τοῦτο ὑ᾽
πὸ ὁμοίου ἑτέρου; cfr. tutti i $$ 28-29), benché l'eroe sia biasimato in quanto ἀκόλαστος ἦν περὶ τὰς ἡδονὰς καὶ μικροπρεπής, e dunque a rigore questo passo appartenga al tradizionale elogio 46} ἐγκράτεια del sovrano, può rientrare in questo quadro: al $ 29 si afferma infatti che impadronirsi di mura che sembravano imprendibili può riuscire anche a uomini φαῦλοι: come notò B. Keil, “Eine Kaiserrede”, cit., p. 392 qui si ha un riccheggiamento di Xen. Ages. 8, 8; ma la variazione introdotta dal retore appare particolarmente significativa: mentre Senofonte concedeva che τείχη ἀνάλωτα κτᾶσθαι ὑπὸ πολεμίων possa apparire καλόν, il retore osserva invece come questa impresa possano compiere anche uomini φαῦλοι, e dunque chiaramente la svaluta rispetto al suo modello. A giudizio dello PseudoAristide, il vero coraggio è quello di chi, come l'anonimo basileus, può tollerare βίου δὲ εὐκολίαν καὶ διαίτης eure
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T. Gnoli - J. Thornton
sità dei sudditi 150. non avrebbe soltanto provveduto alla disciplina (εὐταξία) dei soldati, ma avrebbe anche assicurato le entrate dello stato !8!. Dunque, per l’autore dell’Eis basi-
Acıav. Segue immediatamente ($$ 30-31) la critica contro quanti, pur coraggiosi di fronte al nemico, si sono lasciati
dominare dai propri soldati; contrapposto a questi, il basileus viene lodato per aver saputo porre un limite alla sfre-
nata cupidigia dei militari, che pretendevano minacciosamente donativi sempre maggiori. Si ha qui un tema centrale dell’orazione, essenziale anche per la sua datazione nel III secolo: ciò che più sta a cuore all'oratore, e alle oligarchie municipali di cui egli può considerarsi il portavoce, è soprattutto che si limitino le pretese finanziarie dei soldati. Quindi, nei $$ 32-34, viene elaborato ancora il tema della superiorità, anche negli affari di guerra, dell’evBovàiae della σύνεσις del basileus di fronte alla sconsideratezza di quanti, volendo in ogni circostanza e in tutte le occasioni mostrare la propria ἀνδρεία, espongono a pericoli gravi e non necessari sé e i propri amici; ben ha fatto dunque il basileus a non imitare τοὺς ἀνοήτους καὶ ῥᾶιψοκινδύνους τῶν ἀνθρώπων, ma a garantirsi la sicurezza nei confronti dei barbari τῷ εὖ βουλεύεσθαι. Anche in questa sezione, come aveva osservato già B. Keil, “Eine Kaiserrede”, cit., p. 390, s’incrociano singolari «Reminiscenzen aus zwei Reden»: la frase del $ 34 οἱ μὲν ... τυχόντες μὲν KuxdipOu— σαν, ἡττηθέντες δὲ συμφοραῖς … περιβάλλουσιν, οἱ δὲ ... κατορθώσαντες μὲν τυγχάνουσιν ... ὧν ἐβουλήθησαν,
διαμαρτόντες δὲ οὐδὲν βλάπτονται richiama Isoc. Euag. 28 (ἢ κατορθώσας τυραννεὶν À διαμαρτὼν ἀποθανεὶν) e [Isoc.] Demon. 25 (μὴ τυχὼν . οὐδὲν βλαβήσῃ, τυχὼν δὲ κτλ); ma, come osservava il Keil, qui «der Redner den Topos des Isokrates umkehrt: dieser lobt den Wagemut, jener verurteilt ihn». Dunque, per due volte il retore ha mostrato la libertà di cui era capace nel trattare il materiale tradizionale che la sua paideia gli metteva a disposizione; non può essere privo di significato che le variazioni che apporta ai topoi di cui si serve vadano nella stessa direzione, quella cioè di una notevole svalutazione del coraggio e delle virtù belliche. Dopo una simile tirata, risalta in tutta la sua evidenza la poca sincerità dell’elogio obbligato dell’andreia del basileus che segue al $ 35. 1% [Aristid.] Or. XXXV K., 30: ἐπήμυνε μὲν ταῖς τῶν ἀρχομένων ἐνδείαις. La traduzione di C. P. Jones, “Aelius Aristides, Εἰς βασιλέα", cit., p. 147 («he met the needs of his subjects») appare più convincente dell’interpretazione proposta da B. Keil, “Eine Kaiserrede”, cit., p. 420, che vi vedeva rispecchiato un aspetto particolare della politica di Macrino, che avrebbe ripreso l'attuazione di un programma di alimenta disattesa dal suo predecessore. ist [Aristid.] Or. XXXV K., 30: τῶν δὲ χρημάτων βεβαιοτέραν ἐποίησεν τὴν πρόσοδον. La tesi secondo cui l’imperatore, se impedisse gli abusi dei suoi funzionari e dei soldati, gioverebbe anche ai propri interessi, cioè agli interessi dello stato, ricorre con notevole insistenza nei testi in cui si esprime il punto di vista dei contribuenti nei confronti della fiscalità imperiale, e in particolare nelle suppliche indirizzate agli imperatori dalle campagne: la si incontra nella petizione rivolta a Commodo dai coloni del saltus Burunitanus, a noi nota dall'iscrizione di Suk el-Khı (ILS 6870, ma vd. D. Flach, “Inschriftenuntersuchungen zum römischen Kolonat in Nordafrika”, Chiron 8 (1978), pp. 441-492, in particolare pp. 489 ss.), in particolare col. II II. 3-4; nella supplica di Agabeyköy in Lidia (1. Keil u. A. von Premerstein, Bericht über eine dritte Reise, cit., nr. 55 pp. 37 ss.), Il. 28-30 (cfr. anche le Il. 38-40 e 53-54); nella supplica di Scaptopara (IGBulg IV, 2236 = K. Hallof, “Die Inschrift von Skaptopara”, cit.), Il. 15-17 (dove la tesi sembra attribuita all'imperatore: roXAdx(16) ἀντέγραψας, Il. 14-15); 26-30; 91-94; 97-99. La stessa rappresentazione della coincidenza d'interessi fra contribuenti e imperatore sembra ripresentarsi anche nel frammento di un'iscrizione da Güllüköy (P. Herrmann, Neue Inschriften zur historischen Landeskunde von Lydien und angrenzenden Gebieten, DAWW 77, 1, Wien 1959, n. 9 pp. 11-13); in qualche modo analogo è il punto di vista dei coloni dell'iscrizione di Ain el-Djemala (D. Flach, “Inschriftenuntersuchungen”, cit., p. 484, col. 1 Il. 3-4). Come ha osservato A. Giardina, “L'impero e il tributo”, cit., p. 315 «può accadere (...) che le condanne provenienti dall'imperatore assumano toni non diversi da quelle formulate dai cittadini dell'impero»; così, la tesi secondo cui gli abusi dei soldati e dei funzionari imperiali ai danni dei contribuenti risulterebbero rovinosi allo stesso fisco imperiale, cara nel ΠῚ secolo tanto alle oligarchie urbane di cui è portavoce l’autore dell'Eis busilea quanto ai contadini che rivolgono le loro petizioni all'imperatore, s'incontra nel preambolo dell'edirro di Tiberio Giulio Alessandro, secondo cui l'Egitto non doveva essere gravato da tasse nuove e ingiuste (cfr. Tac. Ann. IV 6, 4, già cit., sull’atteggiamento di Tiberio nei confronti delle province, fino al 23) affinché potesse ἐν εὐσταθείᾳ διάγουσαν εὐθύμως ὑπηρετεῖν τῆι τε εὐθηνίᾳ καὶ τῆι pet στηι τίν] vov καιρὼν εὐδαιμονίᾳ (G. Chalon, L'édit de Tiberius Julius Alexander. Étude historique et exégétique,
Olten et Lausanne 1964, p. 27 Il. 4-5 e inoltre pp. 35; 95; e soprattutto 100 e, più in generale, pp. 237-242; cfr. ora anche J.-L. Mourgues, “Le préambule de l'édit de Tiberius Julius Alexander, témoin des étapes de son élaboration”, BCH 119 (1995), pp. 415-435, secondo cui l’editto sarebbe stato in origine «néronien», per essere poi modificato alla notizia «de l'accession de Galba-). Nei secoli V e VI la stessa concezione ritorna nelle leggi di imperatori quali Maioriano, Giustiniano, Giustino II. Con la Nov. II, del marzo del 458, de indulgentiis reliquorum, Maioriano rimetteva gli arretrati allo scopo di rendere i provinciali semper idoneos remota feralium compulsorum acerbitate: la re-
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lea come per i contadini che nel III secolo rivolgevano le loro petizioni agli imperatori, la fine delle estorsioni tornerebbe a vantaggio non soltanto dei contribuenti, ma anche del
tesoro imperiale. Ma l’illusorietà delle aspirazioni cui dà voce lo Pseudo-Aristide si rivela laddove egli descrive i mezzi con cui l’imperatore avrebbe non costretto, ma convinto alla moderazio-
ne uomini ἀπλήστως#2 πρὸς χρήματα καὶ τὸ λαμβάνειν !83 διακειμένους '#; il miraco-
lo di questa conversione sarebbe stato compiuto grazie al solo esempio della sua sophrosyne !85. L'esempio della sophrosyne dell’imperatore come mezzo dell’eliminazione di ogni
forma di immoralità dalla vita dell'impero: siamo di fronte a un motivo topico degli epainoi degli imperatori, canonizzato da Menandro retore !% nella formula incisiva οἷον γὰρ ὁρῶσι τὸν βασιλέως βίον, τοιοῦτον ἐπανήρηνται; lodando la sophrosyne imperiale era
opportuno anche sottolinearne la benefica ricaduta sui mores dei sudditi, nel caso dello Pseudo-Aristide, in particolare sui mores di quei sudditi, gli avidi soldati e funzionari re-
pressione degli abusi degli esattori, accusati di intascare duplum vel amplius in sportulis rispetto a quanto versavano nelle casse dello stato, avrebbe impedito che i possessores abbandonassero i propri campi exigentium atrocitate perterriti: l’imperatore stesso dunque ammetteva che le estorsioni cui i provinciales erano sottoposti dagli agenti del potere imperiale rischiavano di render loro impossibile far fronte ai regolari obblighi tributari, con conseguente danno dello stato. Gli stessi motivi ricorrono ancora nel proemio della celebre Novella VIII di Giustiniano, del 535 d.C. (su cui si veda in particolare R. Bonini, Ricerche sulla legislazione giustinianea dell'anno 535. Nov. lustiniani 8: venalità delle cariche e riforme dell'amministrazione periferica, Bologna 19802): l'imperatore riconosceva come la corruzione dei governatori di provincia, di cui egli aveva individuato la causa nella venalità delle cariche, potesse ridurre i sudditi eig τελειοτάτην (...) ἀπορίαν, al punto da render loro impossibile pagare τὰ συνήθη καὶ νενομισμένα τῶν δημοσίων καὶ ταὶς ἀληθείαις εὐσεβὼν φόρων. L'interesse dello stato era al contrario nell’euporia dei sudditi ( te βασιλεία τό τε δημόσιον εὐθηνήσει χρωμένη ὑπηκόοις εὐπόροις), nell'eliminazione dell’aporia causata dai governatori provinciali corrotti (τὴν ἀπορίαν ἐκείνου τὴν δι' αὐτὸν γενομένην ἡμῖν ὑπολογίζεται). Si confronti anche la Novella CXLIX di Giustino Il, del 569, in cui la riproposizione del divieto della vendita delle cariche e la minaccia di dure punizioni contro i magistrati e gli officiales che perseguitino ingiustamente i provinciali sono indirizzate al fine che τὰς ἐπαρχίας εὐνομεῖσθαί te καὶ ἀσφαλῶς οἰκεῖσθαι καὶ τὴς τὼν ἀρχόντων ἀπολαύειν δικαιοσύνης, τούς τε
δημοσίους ἀμέμπτως εἰσάγεσθαι φόρους. Sul significato di questi testi vd. G. E. M. De Ste. Croix, The Class Strug-
gle in the Ancient Greek World, cit., in particolare pp. 499-501.
M L'alrAnotiav, un'avidità insaziabile — probabilmente dei kolletiones - era stata lamentata, nel 247/8 d.C. (anno 332 dell'era sillana), dunque ancora nei tempi felicissimi dei due Filip i, in cui evidentemente non proprio tutti
potevano condurre ἤρεμον καὶ γαληνὸν τὸν βίον, come fingevano di credere i coloni di Aragua (MAMA X, 114, 1.
10), da una comunità di contadini lidii, in una supplica rivolta agli imperatori: vd. TAM V, 1, 419, in particolare Il. 11-12 (e, per la felicità dei tempi, IL. 4; 29-30). 1 Il verbo λαμβάνειν, che ricorreva già al $ 30, a indicare le requisizioni e le estorsioni dei soldati, può consi-
derarsi quasi un termine tecnico, che s'incontra tanto nelle fonti letterarie (vd. per es. Dio LXXVIII 28, 1, passo ad-
dotto dal Keil, “Eine Kaiserrede”, cit., p. 414 a riprova dell'identificazione con Macrino del basileus dell’orazione) quanto in quelle epigrafiche (vd. Th. Drew-Bear, Nouvelles Inscriptions de Phrygie, cit., cap. I nr. 8, 1. 8: τῶν AavB6vtuv, e da ultimo H. Malay, “Letters of Pertinax and the Proconsul Aemilius Juncus to the City of Taba-
la”, EA 12 (1988), pp. 47-52 = SEG 38 (1988), 1244 pp. 374-375, Il. 6-8: i soldati abbandonano la strada principale
e visitano la comunità al solo fine τοῦ λαμβάνειν τὰ σουπλημέντα καλούμενα). 1% [Aristid.] Or. XXXV K., 31; cfr. l’analoga definizione dei funzionari autori degli abusi indotti alla moderazione al $ 26, cit. nella n. seguente. τὰς [Aristid.] Or. XXXV K., 26: ἀλλὰ τὸν σώφρονα βίον ἑλόμενος. τὴν μὲν ὕβριν καὶ παρανομίαν μισήσας.
παράδειγμα δὲ σωϑροσύνης ἑαυτὸν παρασχών, dote τοὺς τέως ἀσελγεὶς καὶ ὑβριστὰς μεταθέσθαι τὸν τρόπον.
ὁρῶντας αὐτοῦ τὴν σωφροσύνην καὶ τῆς τε πρὸς τὰ χρήματα ἐπιθυμίας παύσασθαι καὶ πρὸς τὸ σωφρονέστερον διαθέιναι. 1 Il 376 (= 90 Russel - Wilson).
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T. Gnoli - J. Thornton delle estorsioni ai danni dei contribuenti, che più necessitavano di correzione. ivi ed espressioni in tutto analoghi ritornano, significativamente, in Temistio, a pro-
posito della concordia di Valentiniano e Valente: οὐδεὶς γὰρ εἰς τοὺς προστάτας ὁρῶν πλέον ἔχειν ἐφίεται τοῦ προσήκοντος !#7. Ma il documento che più utilmente può confrontarsi con l’Eis basilea pseudoaristideo è un celebre papiro relativo alla remissione (parziale) dell’aurum coronarium concessa da un imperatore ormai unanimemente identi-
ficato con Severo Alessandro 38; dopo aver giustificato la parzialità della misura con la pubblica aporia (col. II 1. 5), il principe esprimeva l’intenzione di τὸ κλῖνον ἀναλήμψασθαι οὐχ«ὰ φρόρων 18° ζητήσεσιν ἀλλὰ σωφρο[σύνῃ]. E anche qui, la sophrosyne impe-
riale agirà sulle condizioni dell’impero attraverso il benefico effetto che potrà esercitare sui costumi dei magistrati, e in particolare dei governatori di provincia, che si proporranno anch'essi ὡς μετριωτάτους παρέχειν αὑτούς (col. II, 1. 18). Quindi, prima delle disposizioni relative alla pubblicazione dell’editto, il ragionamento si chiude con questa considerazione: μᾶλλον γὰρ δὴ καὶ μᾶλλον [oji τῶν ἐθνῶν ἡγεμόνες καταμάθοιεν ἂν peθ᾽ ὅσης αὐτοὺς προθυμίας φείδεσθαι καὶ προορᾶσθαι τῶν ἐθνῶν οἷς ἐφεστήκασι προσήκει, ὁπότε καὶ τὸν Αὐτοκράτορα ὁρᾶν παρείη αὐτοῖς μετὰ τοσαύτης κοσμιότη-
τος καὶ σωφροσύνης καὶ ἐγκρατείας τὰ τῆς βασιλείας διοικοῦντα (col. II, Il. 18-21). Dunque, qui come nell’Eis basilea pseudoaristideo, la sophrosyne dell’imperatore appare il mezzo della salvezza dell’impero in quanto, attraverso l’«efficacité de l’exemple» 190, induce i magistrati e i funzionari tutti a φείδεσθαι i provinciali, i contribuenti. Acutamente,
C. Préaux
ha riconosciuto
realizzare il suo ambizioso programma
nei mezzi con cui Severo Alessandro
intendeva
«un aveau d’impuissance» !?!, e la negazione stes-
sa della politica; su questi stessi temi ha insistito anche J. Moreau "2; e M. Mazza ha messo in luce la «reale situazione di impotenza in cui si trovava Severo Alessandro, con
la sua politica di appoggio alle classi “colte” urbanizzate e le reali trasformazioni della struttura socio-economica, che avrebbero tra poco portato al potere l’alleanza tra i gran-
di latifondisti e l’alta burocrazia imperiale» 1%.
1#7 Them. Or. IX, 127 δ.
τ B. P. Grenfell, A. 5. Hunt, D. G. Hogarth, Fayäm Towns and Their Papyri, London 1900, nr. 20 pp. 116123; riedizione di W. Schubart, “Zum Edikt über das aurum coronarium (P. Fay. 20)”, APF 14 (1941), pp. 44-59. La bibliografia su questo documento è sterminata, e non mette conto riportarla; il confronto con l'Eis basilea pseudoaristideo è stato proposto già da J. Moreau, “Krise und Verfall: Das dritte Jahrhundert n. Chr. als historisches Problem”, ora in Idem, Scripta minora, hrsg. von W. Schmitthenner, Heidelberg 1964, pp. 26-41, in particolare p. 35 (ibidem, pp. 37-39 discussione della bibliografia sul documento; pp. 39-41, discussione della bibliografia sull’Eis basilea); vd. però soprattutto M. Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo d. C., Roma - Bari 19732, pp. 9-11.
τὰν Questa lettura è quella di A. 5. Hunt - C. C. Edgar, Select Papyri II. Non-literary papyri. Public documents, London - Cambridge, Mass. 1934, nr. 216; il papiro, alla I. 14 della II col. porta ovxopuv ζητήσεσιν; a proporre acutamente un riferimento ai phoroi fu per primo il Wilamowitz; sui diversi tentativi di emendamento e d'interpretazione del passo vd. C. Preaux, “Sur le déclin de l'Empire au III” siècle de notre ère. A propos du P. Fayum 20”, CE 16 (1941), pp. 123-131,in particolare p. 125 n.3.
ux, “Sur le déclin de l'Empire”, cit., p. 131. 1 C. Préaux, “Sur le déclin de l'Empire”, cit., p. 126. 1% J. Moreau, “Krise und Verfall”, cit., p. 35.
M,
Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria, cit., p.
513 n. 23.
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All’impotenza dell’imperatore non potevano credere i coloni di Frigia, o di Lidia, che gli si rivolgevano fiduciosi nella speranza che egli potesse alleviare le loro condizioni di vita, porre fine agli abusi e consentire loro di rimanere indisturbati nelle loro sedi, dove erano nati e cresciuti,
e dove sorgevano le tombe dei loro avi; così, continuavano a
rivol-
gersi all’imperatore, e a riporre fiducia nell’efficacia delle sue risposte. Nei rescritti imperiali, è facile scorgere una «bienveillance platonique et hypocrite» 1%.
Forse è fin troppo facile, e «banale»: prendendo spunto dalle complesse prescrizioni per smascherare le frodi fiscali ordite dagli esattori con la complicità degli officia di una costituzione di Valentiniano I di recente pubblicazione '95, che prevedeva la diretta partecipa-
zione, o meglio la responsabilità unica del governatore provinciale nella procedura di inquisitio, A. Giardina ha rilevato «l’implicita dichiarazione d’impotenza presente in questa normativa», che rivela l’inattuabilità pratica di un controllo per vie gerarchiche, e la radicalità dell’«opposizione tra le alte dignitates dell'impero e gli officiales» 1%, Così, si comprende come l’imperatore potesse apparire l’unico garante della regolarità della vita del-
l'impero, l’elargitore «del dono della moderazione fiscale» *; ma si comprende anche come i suoi sforzi, quale che fosse la loro sincerità, fossero destinati al fallimento. L'impera-
tore avrebbe dovuto tutto vedere e tutto controllare, personalmente; soprattutto, avrebbe dovuto controllare l’operato dei magistrati e degli officiales: così, Severo Alessandro, nel papiro sulla parziale remissione dell’aurum coronarium cui si è accennato, afferma di aver inviato i governatori nelle province eig τὸ ἀκριβέστατον δοκιμάσας καὶ προελόμενος !98; così, Temistio, nel discorso rivolto a Valente in occasione dei Quinquennalia, lo elogia per aver reso gli esattori emuli della giustizia di Aristide: ma a questo fine, l’imperatore s'è dovuto mostrare καὶ συνιέναι καὶ προλαβεῖν καὶ καταγελάσαι τῶν λαβυρίνθων τῆς τέχνης ὀξύτερος (...) τῶν μόνον τοῦτον ἔργον πεποιημένων """. Così, Valente ha prodotto una moralizzazione del comportamento dei funzionari, in quanto ciascuno ora sa μὴ Arjσων: ai magistrati civili - continua Temistio - non è più possibile λαθεῖν (...) δώρων dr λόντα, À προσεισπράξαντα τοῖς ὡρισμένοις, À παρανόμως γνόντα, À παροινήσαντα ἄλλως εἰς τοὺς ὑπηκόους. Valente, quindi, viene lodato con le parole che Agamennone
rivolgeva al Sole, perché tutto vede e tutto ascolta, καὶ σχεδὸν αὐτήκοος εἶ καὶ αὐτόπτης τῶν ὑφ᾽ ἑκάστου δρωμένων 2%: in ciò Temistio vede la condizione necessaria (e irrealizzabile) per l’ordinata amministrazione dell’impero.
1%" Così A. Deman, “Matériaux et réflexions pour servir à une étude du développement et du sous-développement dans les provinces de l'empire romain”, ANRWII 3, Berlin - New York 1975, pp. 3-97, in particolare p. 43, a proposito dell'iscrizione di Ain el Djemala (D. Flach, “Inschriftenuntersuchungen zum römischen Kolonat”, cit., pp. 484-486). #5 A. Giardina - F. Grelle, “La tavola di Trinitapoli: una nuova costituzione di Valentiniano 1", MEFRA 95 (1983), pp. 249-303. % A. Giardina, “L'impero e il tributo”, cit., p. 315. 17 A. Giardina, “L'impero e il tributo”, cit., p. 315.
* A. 5. Hunt - C. C. Edgar, Select Papiri II cit., nr. 216 Il. 17-18. 199 Them. Or. VIII, 114 b-c.
200 Them. Or. VIII, 116 d - 117 a (ma motivi analoghi ritornano anche più avanti nell’orazione). Cfr. anche Ari-
stid. Or. XXVI Κι, 31-3 :
i magistrati inviati nelle province da Antonino Pio μᾶλλον μὲν ἐκεῖνον εἰδέναι vopitov-
σιν ἃ πράττουσιν ἡ σφᾶς αὐτούς, μᾶλλον δὲ δεδίασιν καὶ αἰδοῦνται À τὸν δεσπότην div τις τὸν αὐτοῦ παρόντα
καὶ ἐφεστηκότα καὶ κελεύοντα; purtroppo, «panegyric is ποῖ to δὲ taken for truth» (P. A. Brunt, “Charges of Pro-
vincial Maladministration”, cit., p. 207).
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T. Gnoli - J. Thornton Di fronte a questi compiti, anche l’imperatore piü generoso deve cedere; cedere al
tempo e alla distanza, i nemici invisibili dell’impero 2!; cedere, soprattutto, all’esiziale al-
leanza fra la burocrazia e i grandi proprietari terrieri, ai danni - in primo luogo - del ceto produttivo dell'impero, su cui si scaricava il peso di un’esazione fiscale che cresceva in
misura direttamente proporzionale alle spese militari e all'aumento del numero degli officiales. Gli studiosi moderni possono considerare con superiore distacco, e financo con ironia le voci disperate dei contadini del III secolo; possono nutrire dubbi sulla reale gravità delle condizioni della comunità lidia che lamentava «first, loss of the baths, and second, loss of the barest necessities» 2°; o possono
svalutare sistematicamente
tutte le «voices of
gloom and despondency», in quanto esse, in ogni epoca, «are rarely as credible as their volume or stridency would suggest»; in particolare, poi, i lamenti che risuonano nelle
suppliche di III secolo pervenuteci per via epigrafica potrebbero moltiplicarsi «from almost any period», e i coloni che minacciavano di abbandonare le proprie sedi non an-
drebbero presi sul serio: la frequenza dei loro lamenti dipenderebbe da un carattere «formulaic», piuttosto che dalla reale gravità delle condizioni di vita dei contadini 2%. Le posizioni estremistiche di Whittaker sono discutibili anche sul tema specifico del suo contri-
buto, la misura del fenomeno degli agri deserti e della crisi della produttività agricola, a partire dall’età di Marco 2%; ma
soprattutto, sono
innegabili
i gravissimi effetti sociali
della “crisi” del III secolo: su questo punto, diversamente dai giudici di un tribunale romano, dobbiamo prestar fede agli ignoti contadini di Frigia 25.
20! P. Brown, The World of Late Antiquity from Marcus Aurelius to Muhammad, London 1971, p. 36. 2 R. MacMullen, Soldier and Civilian in the Later Roman Empire, Cambridge, Mass. 1963, p. 87 n. 38, su
TAM V, 1, 611, Il. 21-24:
aro[otepeioßlalı] μὲν λουτροῦ δι᾽ ἀπορίαν. drootepeio[@]e [δὲ x(cù)] τῶν πρὸς τὸν βίον.
αἰν]ανκέίω!ν. Per una più comprensiva valutazione dell'importanza del bagno pubblico, nella vita dei «paysans» d’Asia Minore, che lo consideravano «comme un besoin de première nécessité», vd. però L. Robert, “Sur un papyrus de Bruxelles”, cit., pp. 368-9; più in generale, chi voglia cogliere l'importanza delle terme nella vita pubblica delle province orientali dell'impero in erä romana e tardoromana potrà consultare la Nov. CXLIX di Giustino II, del 569 d.C.: nel caput II, giustificando con accenti accorati la necessità della riscossione dei tributi, l'imperatore, immediatamente dopo aver ricordato le spese militari, che garantivano la difesa dai nemici e dalle incursioni dei barbari, dei pirati e dei banditi di ogni genere, e quelle necessarie al mantenimento dell'apparato burocratico dell'impero, e al restauro di mura e città, al primo posto tra le spese πρὸς θεραπείαν τῶν ὑπηκόων rammentava come grazie ai tributi δημοσίων τε βαλανείων ἐκπυρώσεις προίασθαι: il mantenimento delle terme aveva tale importanza da poter figurare, in un documento ufficiale emanato dall'imperatore di Bisanzio, accanto ai capitoli di spesa fondamentali dello stato tardoantico, l'esercito, l'apparato burocratico, il restauro delle mura e delle città. 2 C. R. Whittaker, “Agri deserti”, M. I. Finley (ed.), Studies in Roman Property, Cambridge 1976, pp. 137165; 193-200 (le citazioni nel testo dalle pp. 140; 149). Ora, che nelle forme in cui si esprimono i lamenti dei contadini di III secolo, e persino nella minaccia di abbandonare le proprie sedi e trasferirsi altrove vi sia un carattere topico appare innegabile, ed è confermato al di là di ogni dubbio dal modo in cui Cicerone, due o tre secoli prima, attribuiva scherzosamente alle pantere della sua provincia analoghi lamenti e analoghe minacce. Ma che le lamentele dei contadini si esprimano in forme e formule tradizionali non significa che esse non abbiano alcun fondamento; cfr. la diversa valutazione dei lamenti contro il fiscalismo tardoantico di 5, Mazzarino, Aspetti sociali del quarto secolo. Ricerche di storia tardo-romana, Roma 1951, pp. 35-37: benché s'incontrino «ad ogni passo», questi lamenti «sono, in ultima analisi, un documento della eccezionale gravità - e tuttavia, anche, necessità - della pressione fiscale»; se di topos si può parlare, si tratta di «un fopos non pià di origine letteraria, ma di appassionato dolorante realismo». 2% Cir. ad esempio Th. Pekäry, “Die Flucht”, cit.. p. 189, e già P. Herrmann, Hilferufe aus römischen Provinzen, cit., pp. 57-59.
2° Sugli effetti rovinosi che anche le sporadiche esazioni di soldati e funzionari vaganti potevano avere sul delica-
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Dall’illusione ideologica al duro, inevitabile impatto con la realtà; esclusi ed emarginati dalla cultura egemone 2%, frustrati negli sforzi di veder riconosciuti i loro diritti, an-
che i più elementari, dalle autorità romane, sfruttati oltre i limiti del tollerabile e sempre esposti alle estorsioni e alla violenza del braccio armato del potere romano, delusi dagli scarsi risultati degli appelli alla tanto decantata philanthropia imperiale, i contadini frigi si chiudono nella loro cultura, e celebrano i propri dei. Sottoposti a pressioni crescenti,
sembrano ripiegare sulle proprie tradizioni: la loro resistenza, sorda e profonda, non trova altro mezzo di espressione che il rifiuto della cultura dominante, greco-romana, e l’ostinata riaffermazione delle divinità indigene, cui ci si volge talora con accenti nuovi, di
rara intensità. Non va forse sottovalutata l’invocazione rivolta ad Osios kai Dikaios dalΤ᾽ ᾿Αλιανῶν κατοικία, una comunità della Frigia settentrionale, in un'iscrizione rilevata a Kırgıl, a ovest di Aezanoi e a nord di Kadoi, nella forma inconsueta 207 σῶζε τὴν
κατοικίαν 29, 5, Reinach, primo editore del documento, ha negato che questa formula
to equilibrio dell'agricoltura di sussistenza praticata da famiglie e comunità dell'impero vd. J. K. Evans, “Wheat Production and its Social Consequences in the Roman World”, CQ 31 (1981), pp. 428-442, in particolare pp. 440-441. 2% Un'ulteriore prova della discriminazione nei confronti dei Frigi può forse trarsi dalla dedica di Dionisodoro figlio di Xenias all'imperatore Tiberio e a τοῖς κατοικοῦσιν ἐν Πρειζει Ῥωμαίοις καὶ Ἕλλησιν, rinvenuta ad Akmonia e pubblicata da Th. Drew-Bear, Nouvelles Inscriptions de Phrygie, cit., cap. I nr. 6, pp. 12-14: l'editore stesso ammette la possibilità che la comunità comprendesse, accanto a una minoranza di Romani e Greci, accomunati all’imperatore nella dedica di Dionisodoro, una maggioranza di Frigi indigeni, non considerati nella dedica. K. Holl, “Das Fortleben der Volkssprachen in Kleinasien in nachchristlicher Zeit”, Hermes 43 (1908), pp. 240-254, in particolare pp. 247-8 attirò l’attenzione sulla menzione dei Frigi, accanto agli Isauri, tra le gentes barbarae quae pullulaverunt sub imperatoribus nell'appendice al laterculus Veronensis; come ha notato 5. Mazzarino, L'impero romano Il, cit., p. 498 «“barbari”, nella concezione romana del III secolo, sono non soltanto le gentes externae, ma anche gli indigeni non romanizzati» 27 I] parallelo più prossimo che sia riuscito a trovare per questa formula è nell'epigramma che i Messenii (secondo Polibio IV 33, 2-3, che si richiama esplicitamente all'autorità di Callistene di Olinto, FGH 124 F 23), 0 gli Arcadi stessi (secondo Pausania IV 22, 7, che riporta lo stesso epigramma con una variante nel v. 2) avrebbero fatto incidere su una stele nel santuario di Zeus Liceo in Arcadia, ἐν τοῖς κατ' ᾿Αριστομένην καιροῖς (Polyb. IV 33, 2), e che si concludeva con un’invocazione al dio nella forma χαῖρε, Zed βασιλεῦ, καὶ σάω ᾿Αρκαδίαν. 2 L'iscrizione fu copiata dal capitano Callier nel corso di un lungo viaggio d’esplorazione in Asia Minore, tra il 1830 ed il 1834, ed è nota soltanto dal suo apografo; fu pubblicata da S. Reinach, “Inscriptions inédites d'Asie Mineure ἃς de Syrie recueillies par M. le Capitaine Callier (1830-1834)”, REG 3 (1890), pp. 48-85, nr. 1 pp. 51-53 in questa forma: ['Et]ovg 00€"... | Νεικήτας Παρδαλᾶ
Mnvi θεῷ | εὐχήν | ὁσίῳ κίαὶ) δικέῳ. (sic) | Ἡ ᾿Αλιανὼν κα-
toria. Σῶζε τὴν κατοικίαν. Il medesimo testo hanno riprodotto poi P. Perdrizet, “Mén”, BCH 20 (1896), pp. 55106, in particolare pp. 62-63 (che però, coerentemente con l'interpretazione del testo come dedica a Men con gli epiteti osios e dikaios, scriveva εὐχὴν con l'accento grave), ed E. Lane, Corpus Monumentorum religionis dei Menis 1. The Monuments and Inscriptions, Leiden 1971, nr. 88 p. 58 (che però scriveva εὐχὴν con l'accento grave e alla I. 1 riportava l’a{...] leggibile sull’apografo del capitano Callier, ma omessa da 5. Reinach nella trascrizione del testo, e ora spiegata da Th. Drew-Bear, “Problèmes de la géographie historique en Phrygie: L'exemple d’Alia”, ANRW II 7, 2, Berlin - New York 1980, pp. 932-952, in particolare p. 939 n. 24 «comme désignant le premier mois de l'année»). iù recentemente, ripubblicando questo testo Th. Drew-Bear, “Problèmes de la géographie historique en Phrygie”, cit., pp. 939-940, ha omesso la punteggiatura del primo editore e riconosciuto, alla |. 5, l'entità divina frigia Osios kai Dikaios, in quelli che, dopo il Reinach, erano sempre stati intesi come epiteti riferiti a Men; ha mantenuto però la
maiuscola in Σῶζε, alla |. 7. Questa nuova interpretazione del monumento (si tratterebbe, secondo l'indicazione del
Reinach, “Inscriptions inédites”, cit., p. 51, di una «stèle paraissant intacte, avec corniche»), senz'altro più corretta, evidenzia però il fatto che qui ci si trova di fronte a due testi, che sembrano assolutamente indipendenti l'uno dall'altro. Lo stesso ordinamento simmetrico della parola εὐχήν alla 1. 4 - che il Drew-Bear giustamente stampa con l'accento acuto, separandola così da quanto segue - indica che la dedica di Niceta doveva con ciò considerarsi conclusa. La successiva dedica ad Osios kai Dikaios da parte della katoikia, che si conclude con l'invocazione alla divinità di-
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possa indicare «quelque péril pressant»; piuttosto, significherebbe soltanto che la katoikia era sotto la protezione della divinità cui si rivolgeva in questi termini; il Perdrizet,
riprendendo il testo, si limitava ad accostarvi le dediche al dio Sozon, un’altra figura del pantheon indigeno. In realtà, quel che si vorrebbe sapere è se questa formula debba considerarsi equivalente alle dediche ὑπὲρ σωτηρίας τῆς κώμης, che non sembrano indicare una situazione
di particolare tensione o disagio, o se piuttosto alla formula diversa non corrispondano anche diverse condizioni della comunità; essa potrebbe dunque rivolgersi alla propria divinità chiedendo non il mantenimento di una situazione di stabilità nel complesso soddisfacente, ma la salvezza in una situazione di tensioni crescenti, di oppressione ai limiti della tollerabilità, quale quella dipinta dagli Aragueni: una situazione in cui accadeva che τὰ χωρία ἐρημοῦσθαι καὶ av[dotata γίγνεσθαι 2, e in cui davvero le comunità di villaggio cercavano salvezza. Comunque sia di ciò, nella Frigia del III secolo al bisogno di
salvezza della popolazione rurale si aprivano anche altre possibilità. 4. È nell’ambito del profondo disagio delle plebi contadine di Frigia che va posta l’intera vicenda della Nuova Profezia o «eresia dei Frigi» o «Catafrigi» 21°. Lo studio di questo movimento ereticale, che poi, a partire dal tardo IV secolo, prese dal suo fondatore il nome di Montanismo, ha a buon diritto appassionato gli studiosi del Cristianesimo anti-
co: la cosiddetta “crisi montanista” 2! ha infatti contribuito decisamente alla fissazione definitiva del canone delle Sacre Scritture 212 così come allo spinoso problema dei rapporti
scussa nel testo, non ha alcun rapporto con quel che precede, e a rigore potrebbe persino essere stata incisa in un secondo momento, cosicché la data del 190 d.C. per essa non sarebbe che un £. p. 4. (la riutilizzazione della stele rappresenterebbe inoltre un ulteriore indizio che la dedica della katoikia sia stata posta in un'epoca di gravi difficoltà). È almeno altrettanto possibile, tuttavia, come mi ha suggerito oralmente il professor Drew-Bear, che la definizione del monumento come stele sia fuorviante, e che possa trattarsi invece di un bomos con iscrizioni incise su più lati (nonostante l'apografo pubblicato dal Reinach). 20 MAMA X, 114 1. 32. 210 Del tutto contrari a questa impostazione sono studiosi quali H. von Campenhausen, Kirchliches Amt und geistliche Vollmacht in den ersten drei Jahrhunderten, Tübingen 1963, dove a p. 195 si legge: «Das Nebeneinander verschiedener Vollmachten wird nicht als Problem empfunden. Es ist ein typisch modernes Mißverständnis, von dem vermeintlichen Gegensatz der amtlichen und charismatischen Gruppen überall auszugehen. Auch die Amtsträger besitzen den Geist, und auch die Geistträger lehren in der Kraft der überlieferten apostolischen Wahrheit, soweit sie mit Recht zur “Kirche” gehören. Die Grenze wird sachlich-dogmatisch, nicht kirchenrechtlich und soziologisch gezogen». Per un'interpretazione ‘kirchenrechtliche und soziologische' come è quella qui adottata cfr. soprattutto W. K. Wischmeyer, Griechische und lateinische Inschriften zur Sozialgeschichte der Alten Kirche, Gütersloh 1982; W. H. C. Frend, “Montanism: A Movement of Prophecy and Regional Identity in the Early Church”, BJRL 70 (1988), pp. 2534; Id, “Montanism: Research and Problems”, W. H. C. Frend, Archaeology and History in the Study of Early Christianity, London 1988, pp. 521-537; D. H. Williams, “The Origins of the Montanist Movement: A Sociological Analysis”, Religion 19 (1989), pp. 331-351. 21 È questo il titolo del celebre lavoro di P. de Labriolle, La crise Montaniste, Paris 1913, che ha anche fornito un'ottima ed ancor oggi insuperata raccolta di fonti sul movimento: Id., Les sources de l'histoire du Montanisme. Textes grecs, latins, syraques publiés avec une Introduction critique, une Traduction française, des Notes et des «Indices», Paris 1913. Esistono altre raccolte di fonti sul Montanismo: N. Bonwetsch, Texte zur Geschichte des Montanismus, Bonn 1914; R. E. Heine, The Montanist Oracles and Testimonia, Macon, GA 1989; W. Tabbernee, Montanist Inscriptions and Testimoma: Epigraphic Sources Illustrating the History of Montanism, Macon, GA, in stampa. 21 G. Salmon, “Montanus”, W. Smith (ed.), A Dictionary of Christian Biography, III, London 1882, pp. 935945; W. C. van Unnik, “De la règle Μήτε πρόσθειναι μήτε ἀφελεῖν dans l'histoire du Canon”, VChr 3 (1949), pp.1-
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tra laici e clero 23, al definitivo costituirsi della gerarchia ecclesiastica 24, alla creazione
della “teologia del martirio” ?!5, in breve a tutti i grandi problemi ai quali il Cristianesimo primitivo ha dovuto far fronte. Tutti tranne uno, in verità: il problema cristologico 216, Qui basta ricordare che pochissimo di certo è noto del Montanismo originario e che
gran parte di ciò che si conosce proviene o da fonti radicalmente avverse o da Tertulliano, illustre aderente al movimento,
ma
certamente
in qualche misura
anche
innovato-
re 217, L'indagine sul movimento montanista ha presto assunto toni confessionali 2#, che
35; Id., “Ἡ καινὴ διαθήκη - a Problem in the Early History of the Canon”, Studia Patristica 4 (TU 79), Berlin 1961, pp. 212-227; H. Paulsen, “Die Bedeutung des Montanismus für die Herausbildung des Kanons”, VChr 32 (1978), pp. 19-52; C. M. Robeck, “Canon, Regula Fidei and Continuing Revelation in the Early Church”, J. E. Bradley, R. A. Muller (eds.), Church, Word and Spirit, Essays in honour G. W. Bromley, Grand Rapids 1987, pp. 65-91. 2!) Per quanto riguarda il rigorismo montanista basti qui ricordare l'adesione di Tertulliano al movimento e le probabili influenze montaniste sull'autore dell'Elenchos, sia 0 no da identificare con Ippolito di Roma. Contrario all'identificazione dell'autore dell’Elenchos con Ippolito di Roma è P. Nautin, Hyppolite et Josipe, Paris 1947, sulla base soprattutto delle contraddizioni presenti tra l'Elenchos e il Contra Noetum, ripreso da V. Loi, “L'identità letteraria di Ippolito di Roma”, in Ricerche su Ippolito, Studia Ephemeridis Augustinianum 13, Roma 1977, pp. 67-88; M. Simonetti, “Due note su Ippolito: Ippolito interprete di Genesi 49. Ippolito e Tertulliano”, in Ricerche su Ippolito, cit., pp. 121-136, cfr. anche Id., ibid., pp. 151-156; contro J. Frickel, “Contraddizioni nelle opere e nella persona di Ippolito romano”, in Ricerche su Ippolito, cit., pp. 137-149. Per lo stato della questione vd. ora M. Simonetti, “Aggiornamento su Ippolito”, in Nuove ricerche su Ippolito, Studia Ephemeridis Augustinianum 30, Roma 1989, pp. 75-130. 24 Cfr. p. es. H. Kraft, “Dalla «Chiesa» originaria all'episcopato monarchico”, RSLR 22 (1986), pp. 411-438, in particolare p. 430: «Dopo la separazione del montanismo, l'appellativo di presbitero non esiste più nella Chiesa per indicare la carica-guida della comunità. Gli unici presbiteri che ancora rimangono dopo quel momento nella Chiesa, sono i presbiteri sottoposti al vescovo nel servizio della comunità e i dottori-presbiteri. Presso i montanisti si è costituito successivamente il medesimo clero a tre livelli della Chiesa cattolica». Su questo punto cfr. anche, tra gli altri, R. B. Eno, “Authority and Conflict in the Early Church”, Église et Théologie 7 (1976), pp. 41-60; E. G. Jay, “From Presbyters-Bishops to Bishops and Presbyters”, The Second Century 1 (1981), pp. 125-162; C. Andresen, “Ubi tres, ecclesia est, licet laici”. Kirchengeschichtliche Reflexionen zu einem Satz des Montanisten Tertullian Matt. 18, 20”, H. Schroer (ed.), Vom Amt des Laien in Kirche und Theologie, Berlin 1982, pp. 103-121. 215 La fanatica ricerca del martirio da parte dei seguaci dell’eresia è alla base del curioso dibattito sorto in seno ab le comunità cristiane di II-III secolo sulla distinzione tra martirio e suicidio (quest’ultimo inteso come volontaria ed immotivata ricerca della morte), I testi principali sono tutti i martiri di II secolo, soprattutto gli atti dei martiri di Lione (sui quali cfr. Les martyrs de Lyon (177), Actes du Colloque, Lyon 20-23 Septembre 1977, Paris 1978), il martirio di Policarpo (cfr. 5. Ronchey, Indagine sul martirio di San Policarpo. Critica storica e fortuna agiografica di un caso giudiziario in Asia Minore, Roma 1990; B. Dehandschutter, “The Martyrium Polycarpi: A Century of Research”, ANRW 11 27, 1, Berlin - New York 1993, pp. 485-522; G. Buschmann, “Martyrium Polycarpi 4 und der Montanismus”, VChr 49 (1995), pp. 105-145) e quello di Perpetua e di altri martiri africani (cfr. L. Robert, “Une vision de Perpétue martyre à Carthage en 203”, CRAI 1982, pp. 228-276; R. Rader, “The Martyrdom of Perpetua: A Protest Account of Third-Century Christianity”, P. Wilson-Kastner (ed.), A Lost Tradition: Women Writers in the Early Church, Washington D.C., 1981, pp. 1-17); cfr. da ultimo G. W. Bowersock, Martyrdom and Rome, Cambridge 1995. 2 Non è un caso che uno tra i migliori studi recenti sulle dispute trinitarie tra dottrina del Logos e dottrina monarchiana non faccia alcuna menzione del Montanismo: M. Simonetti, “Il problema dell'unità di Dio da Giustino a Ireneo”, RSLR 22 (1986), pp. 201-240; Id., “Il problema dell'unità di Dio a Roma da Clemente a Dionigi", RSLR 22 (1986), pp. 439-474; Id., “Il problema dell'unità di Dio in Oriente dopo Origene”, RSLR 25 (1989), pp. 193-233. 27 Sul rapporto tra Tertulliano e il Montanismo la letteratura è immensa: cfr. T. D. Barnes, Tertullian:A historical and literary study, Oxford 1971; G. Schöllgen, “Tempus in collecto est’. Tertullian, der frühe Montanismus und die Naherwartung ihrer Zeit”, JAC 27/28 (1984-'85), pp. 74-96. D. Powell, “Tertullianists and Cataphrygians”, VChr 29 (1975), pp. 33-54; D. Rankin, Tertullian and the Church, Cambridge 1995, tentano di ridimensionare e limitare l’adesione al Montanismo di Tertulliano. Essa è invece decisamente negata da A. Quacquarelli, “L’antimonarchianesimo di Tertulliano e il suo presunto montanismo”, Vetera Christianorum 10 (1973), pp. 5-45. Importate per il punto sugli studi è R. D. Sider, “Approaches to Tertullian: A Study of Recent Scholarship”, The Second Century 2 (1982), pp. 228-260. 2% Cfr. R. Lane Fox, Pagans and Christians in the Mediterranean world from the second century AD to the con-
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hanno in buona parte contribuito ad ingarbugliare la già complicata questione delle ori-
gini dell’eresia. Si è giustamente detto che non è facile individuare nel Montanismo originario nette posizioni ereticali 21°. A questo proposito è anzi da notare il dispetto causato in Basilio di Cesarea dal fatto che Dionisio il Grande, vescovo di Alessandria, potesse ritenere ancora verso la fine del IV secolo i Montanisti membri di un’assemblea
illecita (παρασυ-
ναγωγή) e non veri e propri eretici 22°, Tuttavia anche la tradizione storiografica più prudente è generalmente concorde nell’isolare quattro punti fondamentali di contrasto tra Montanismo e Chiesa cattolica che potrebbero esser fatti risalire al pensiero del fondatore del movimento.
Lo Spirito Divino, il Paracleto, parlava attraverso Montano. Era
imminente la discesa della Gerusalemme Celeste secondo la visione apocalittica di Giovanni - fatto, questo, che si sarebbe verificato negli oscuri villaggi frigi di Pepuza e Tymion 22!, Le donne avevano la possibilità di celebrare il sacerdozio. Nell'attesa dell’imminente apocalissi i fedeli erano chiamati ad un comportamento fortemente rigoristico -
con la negazione della possibilità di risposarsi dopo la morte del coniuge, intensificazione dei digiuni etc. Rispetto a questi punti, le differenze liturgiche appaiono non gravi, e comunque tali da non spiegare la messa al bando del movimento già negli anni ‘70 del secondo secolo 22, Ciò che apparve insopportabile alla Chiesa era quindi soprattutto l’ampia diffusione che Montano attribuiva allo Spirito Profetico, il quale poteva ancora incarnarsi in qualunque persona, uomo o donna. I polemisti cristiani più antichi, alcuni dei quali quasi
contemporanei alla predicazione di Montano, attaccarono duramente «l’eresia dei Frigi» proprio su questo punto: lo Spirito Santo non si sarebbe più incarnato nei falsi profeti perché si era già incarnato nella Chiesa di Dio e parlava attraverso la bocca dei suoi Apo-
stoli: i vescovi 221, In seguito si iniziarono ad accumulare falsità pretestuose sul prima fra tutte quella che essi avrebbero attribuito più valore ai Vangeli; ma la vera svolta in proposito è ben rappresentata da un chesi di Cirillo di Gerusalemme che rivolgeva contro i Montanisti
conto dei Montanisti, loro falsi profeti che ai noto passo della Cateun’accusa che già i pa-
version of Constantine, London 1986, p. 405: «Modern study of their sect has tended to follow the orthodox Church's perspective» 2% Cfr., p. es., R. Lane Fox, Pagans and Christians, cit., p. 405. Ὧν Basil., ep. 138 ad Amphilochio, del 375 d.C. 2! Questa notizia, riportata da Apollonio, ἐκκλησιαστικὸς συγγραφεὺς (Eus., δ. e., V, 18. 1), viene discussa oltre. #2 Soprattutto la celebrazione quartodecimana della Pasqua. Ma la sconfitta dei Quartodecimani verrà sancita solo a partire dal Concilio di Nicea, quando venne siglato un accordo, probabilmente solo verbale, sulla questione. Ancora nel concilio di Antiochia, nel 341, venne minacciata la scomunica per i Quartodecimani. La situazione molto più fluida del periodo precedente è ben rappresentata da C. W. Dugmore, “A Note on the Quartodecimans”, Studia Patristica 4 (TU 79), Berlin 1961, pp. 411-421: resoconti molto completi su questa eresia in A. Hilgenfeld, Die Ketzergeschichte des Urchristentums, Leipzig 1884, pp. 601 ss. e, per quanto attiene più specificatamente al computo
calendariale, A. Strobel, Ursprung und Geschichte des frühchnistlichen Osterkalendars, TU 121, Berlin 1977. * Questo punto è particolarmente dibattuto dai polemisti più antichi, citati in Eus., h. e., V, 16 ss, e cioè il famoso Anonimo antimontanista, Apollonio, Serapion, e da Origene, che aveva ben individuato il punto su cui attaccare la setta: cfr. Or., princ., Il, 7. 3; comm. in ΜΙ. 15, 28, 47 etc.
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gani avevano rivolto contro i Cristiani: quella di sacrificare un bimbo e col suo sangue impastare l’ostia consacrata 24. È proprio questo delle falsificazioni posteriori l'aspetto più spinoso nella ricostruzione del Montanismo originale. Le differenze liturgiche non costituivano motivo di contrasto decisivo con il resto della Grande Chiesa nella seconda metà del secondo secolo; è in-
vece il secondo dei quattro punti sopra individuati, cioè l’identificazione nel villaggio di Pepuza del luogo della parusia a e della discesa della Gerusalemme celeste, quello che può costituire la chiave di volta per una corretta interpretazione delle più antiche testimonianze sul Montanismo primitivo.
La prima fonte che parla di Pepuza è Apollonio, probabilmente vescovo di Efeso 225, autore di un insigne et longum volumen 326 contro i Montanisti, scritto presumibilmente tra il 200 e il 210227, Non è possibile in questa sede analizzare nel dettaglio tutto il lungo passo di Eusebio tratto dall’opera di Apollonio. Il principale referente polemico di questo scrittore erano le προφητείαι ψευδεῖς dei Montanisti. È pertanto ovvio che egli si soffer-
masse e desse il maggior risalto possibile a quanto di più manifestamente assurdo era stato detto da Montano e dalla sua cerchia. In questo senso gli oscuri nomi di Pepuza e Tymion associati a quello della santa Gerusalemme non potevano non suonare come un paradosso agli orecchi di un cristiano: Apollonio era sicuro di suscitare una certa ilarità nei suoi lettori, dando la notizia in questa forma. Ma siamo certi che quelle riferite da Apollonio sono state le parole effettivamente pronunciate da Montano? Il fatto stesso che già le fonti più antiche e quasi contemporanee ai fatti si mostrino particolarmente male informate su queste località, presentando continue oscillazioni nella loro definizione (Tymion sparisce completamente dalla tradizione, mentre Pepuza viene volta a volta definita κώμη, πόλις, oppidum, villa etc.), unitamente al fatto che la legisla-
zione antiereticale tardoantica punì duramente la setta e non nominò mai espressamente la località di Pepuza, ma solo la setta dei Pepyzitas ... vel alio latentiore vocabulo appellant (CTh XVI, 5, 59, del 423), mostra come questa località non abbia mai costituito il centro d’irradiazione della setta, ma semplicemente un exemplum 228.
24 Cyr. H., catech., 16. 8, dell'anno 347-348. 2 Così Praedestinatus, 26 (PL 53, 596); la notizia è accolta con giusta cautela da G. Bareille, “Apollonius, antimontaniste”, DTC 1.2, 1931, coll. 1507-1508, dal momento che Eusebio non qualifica Apollonio del titolo di vescovo. Gli studiosi recenti sono divisi su questa identificazione, così come su molti dei problemi che coinvolgono il dettagliato resoconto dell'eresia nel libro V della historia ecclesiastica di Eusebio. Mi occuperò altrove di questo importanlimitandomi a rilevare come C. Trevett, Montanism: gender, authority and the New Prophecy, Cambridge il più possibile di prendere posizioni su questo tema. 2% Hier., vir. ill., 40.
2” A. von Harnack, Geschichte der altchristlichen Literatur bis Eusebius 1. Die Überlieferung und der Bestand der altchristlichen Litteratur bis Eusebius, Leipzig 1893, p. 241; al 212 ca. lo data P. de Labriolle, La crise Montaniste, cit., p. 584. 2* Cfr. già N. Bonwetsch, Studien zu den Kommentaren Hippolyts zum Buche Daniel und Hohen Liede, TU ΝΕ. 1. 2, Leipzig 1897, p. 76, secondo il quale l'indicazione di Πέπουζα sarebbe da paragonare al deserto di Joh., Apoc. 12, 14. A questo proposito va anche notata l'infondatezza della notizia che a capo della Chiesa montanista stesse un patriarca di Pepuza. Questa è una falsificazione bella e buona, mirante ad avvalorare la tesi di un preteso conservatorismo della Chiesa montanista che, dietro pretese sembianze rivoluzionarie, avrebbe finito col ripetere la struttura rigidamente gerarchica della Chiesa cattolica che a parole combatteva. Questa tesi, artatamente creata da
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Non ci sarebbe quindi molto da stupirsi, stando cosi le cose, che oggi sia impossibile determinare con esattezza il sito di Pepuza, nonostante recentemente si siano moltiplicate le accurate religionsgeographische Untersuchungen, con un esercizio che ha occupato molti profondi conoscitori del territorio frigio 22. Eusebio riferisce che Apollonio scrisse che ὁ [scil. Movtavög] Πέπουζαν καὶ Tiprov Ἱερουσαλὴμ ὀνομάσας (πόλεις δ᾽ εἰσὶν αὗται μικραὶ τῆς Φρυγίας) 2%. La località di Τύμιον, resa da Rufino con Tymium, non ricorre altrove, fatto che è stato recentemente
spiegato con una pretesa contiguità geografica delle due località 2}. Poco oltre Eusebio scrive che «questo stesso Apollonio ... dice che Zotico ... ἐν Πεπούζοις προφητεύειν
δὴ προσποιουμένης τὴς Μαξιμίλλης ἐπιστὰς διελέγξαι τὸ ἐνεργοῦν ἐν αὐτῇ πνεῦμα neπείραται, ἐκωλύθη γε μὴν πρὸς τῶν τὰ ἐκείνης φρονούντων 32. La tradizione manoscrit-
ta non riporta varianti alla forma plurale del toponimo qui adottata, mentre Rufino rende il nome della località con un singolare: apud Pepuzam 2}. Il problema costituito dalla testimonianza di Apollonio in Eus., h. e., V, 18. 13, con il dat. pl. del toponimo ἐν Πεπούζοις che sostituisce i due toponimi singolari Πέπουζαν καὶ Τύμιον è della massima importanza, nonostante quanto ritiene Strobel 234, Disponendo le fonti su Pepuza in ordine cronologico è facile notare come Eus., h. e., V, 18. 2 e 13 preceda di oltre un secolo tutte le altre attestazioni del nome, essendo Apollonio soltanto
Girolamo nella già citata ep. 41 a Marcella, fu ripresa in tempi moderni da W. M. Ramsay, The Church in the Roman Empire, cit., pp. 437-438: «Montanism was in many respects the conservative principle. It remained truer to the old forms. [...] It claimed that it preserved the character and the views of the early Church. But it was unconscious that in human society conservatism is an impossibility. The life of the Church lay in the idea of unity and intercommunication; the Catholic Church was truer to this essential idea, and, in order to maintain it, was ready to sacrifice some of the older forms. Montanism was blind ro the real character of this idea, and went back to the early thought of a local centre for the unified Church, for which it was as zealous as the Catholics. It made a New Jerusalem, and localised it in two little villages of the Phrygian highlands, Pepouza and Tymion. In opposition to this idea of a local centre, the Catholic Church maintained in theory that its centre had no locality, and that primacy in the Church lay in the most perfect realisation of the Christian idea», quindi, con la mediazione di A. Harnack, Die Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten drei Jahrhunderten, Leipzig 19062, giunse infine in H. von Campenhausen, Kirchliches Amt, cit., p. 199: «ja in gewissem Sinne kann auch er |scil. Montanismus] als eine reaktionäre Erschei nung verstanden werden». Ἦν Risparmio al lettore tutte le ipotesi di identificazione dei siti di Tymion e Pepuza avanzate a partire dalle pionieristiche ricerche di G. Radet e W. M. Ramsay. Esse si trovano ampiamente discusse nei più importanti lavori recenti: A. Strobel, Das heilige Land der Montanisten, Eine religionsgeographische Untersuchung, Berlin 1980; C. Markschies, “Nochmals: Wo lag Pepuza? Wo lag Tymion?”, JAC 37 (1994), pp. 7-28. Anche su questo punto
C. Trevett, Montanism, cit., non prende posizione. 2% Eus., h. e., V, 18. 2. L'espressione posta tra parentesi è da ritenersi una glossa intercalata dallo stesso Eusebio nel passo di Apollonio (così P. de Labriolle, op. cit., p. 16 n. 1). ZU A. Strobel, Das heilige Land der Montanisten, cit., p. 10: - Man kann der Angabe entnehmen, daß beide Orte nahe beisammen lagen und einander von Natur zugeordnet waren. Bei solcher geographischer Voraussetzung erklärt es sich, warum Tymion später nicht mehr genannt wird-, affermazione recisamente contestata da C. Markschies, “Nochmals: Wo lag Pepuza? Wo lag Tymion?”, cit., p. 23.
us..h.e., V, 18. 13.
ὁ Cfr. E. Schwartz, T. Mommsen
(Hrsgg.), Eusebius Werke Il, GCS 9.1, Leipzig 1903, pp. 478-479.
“ A. Strobel, Das heilige Land, cit., p. 11 n. 5: -kommt Euscb., h. e. V, 18, 13, als Beleg für Πέπουζοι nicht in Betracht. Die dortige Wendung ἐν Πεπούζοις geht auf den Ortsnamen (Plur. Neutr.) nach Maßgabe einer metaplastischen Deklination-. Per quanto possa sembrare strano le poche righe qui riportate sono le sole che affrontano il problema della variante nella flessione del toponimo.
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di una generazione all’incirca più giovane di Montano ?*, e la sua alta autorità per le
informazioni da lui fornite sui caratteri del Montanismo primitivo non è quasi mai stata messa in dubbio dagli studiosi moderni 23. La seconda attestazione del toponimo Pepuza è della metà del IV secolo ed è costitui-
ta proprio da quel passo della Catechesi di Cirillo di Gerusalemme del quale è già stata messa in evidenza l’astiosa animosità nei confronti degli eretici, animosità che si spinge fino alla deliberata menzogna. Ritroviamo dunque il toponimo Pepuza trasformato in un etnico designante i Montanisti nella già citata ep. 138 ad Amphilochio di Basilio di Cesarea, del 375, e nel contemporaneo Panarion di Epifanio di Salamina. Degli anni 382-385 è l’ep. 41 a Marcella di S. Girolamo, che, a proposito della gerarchia montanista sovvertitrice delle vere dignità ecclesiastiche, dice che essi habent enim primos de Pepuza Phrygiae patriarchas. Le testimonianze poi si moltiplicano nei secoli successivi, anche se al toponimo Pepuza si sostituisce quasi sempre un etnico con terminazione -nvög o -ita1, do-
ve la coloritura dispregiativa appare evidente. La testimonianza di Apollonio acquista perciò maggior valore proprio perché isolata cronologicamente e vicinissima ai fatti, ed è
quindi del tutto immetodico svuotarla di valore a causa di una differenza nella morfologia di un toponimo che al contrario, se bene interpretata, può considerarsi risolutiva. Se si intende, come mi sembra che sia evidente dal contesto, che il passo di Apollonio doveva avere un intento fortemente polemico nei confronti dell’eresia, volgendo al paradossale le affermazioni di Montano, risulta allora che la sostituzione dei due toponimi
con un plurale non poteva essere casuale in un’opera che certamente faceva largo uso di tutti i possibili espedienti retorici. Una lettura attenta delle più antiche fonti su Pepuza (e Tymion) porta alla conclusione che l’“oracolo” montanista relativo alla Nuova Gerusalemme sia in realtà una maliziosa invenzione di Apollonio, forse dovuta anche ad un fraintendimento, almeno per quanto attiene la falsa identificazione di Pepuza e Tymion con Gerusalemme. Visto il sicuro successo che la “trovata” di Apollonio doveva avere nei suoi lettori, questa vera e propria leggenda si è diffusa nella più tarda letteratura antiereticale. Non è senza significato, in questo contesto, la tesi avanzata a suo tempo, in maniera
non troppo chiara, da Bonwetsch l'oscuro nome di Pepuza si volesse so, però, come “altro rispetto alla cetta questa ipotesi, fondata anche
e non più seriamente discussa in seguito: cioè che con indicare «die Wüste» 257. Il deserto andrebbe qui intecittà”, come una qualsiasi realtà non urbana. Se si acsulla assoluta indeterminatezza delle fonti riguardo al-
2 Eus., b. e., V, 18. 12 afferma che Apollonio scrisse la sua opera quarant'anni dopo l’inizio della predicazione di Montano. 2% Cfr. P. de Labriolle, La crise Montaniste, cit.; W. Schepelern, Der Montanismus und die Phrygische Kulte, Eine religionsgeschichtliche Untersuchung, Tübingen 1929, pp. 1-3; A. Strobel, Das heilige Land, cit., p. 10 etc. Alcuni di loro hanno tuttavia messo in rilievo il forte spirito di polemica che animava il nostro autore, pur continuando a ritenerlo sostanzialmente fededegno: cfr. soprattutto per questa tendenza W. Bauer, Rechtgläubigkeit und Ketzerei im ältesten Christentum, Tübingen 19642, pp. 140-146 e, da ultimo, C. Trevett, Montanism, cit., pp. 30-32. Isolata appare la posizione totalmente negativa di A. Faggiotto che definisce Apollonio un «botolo ringhioso»: A. Faggiotto, La diasporà catafrigia. Tertulliano e la «nuova profezia», Roma 1924, p. 118. 2° Cfr. sopra. n. 228.
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la località, si può comprendere meglio il plurale di Eus., 4. e., V, 18. 13, che, anziché essere considerato un mero errore ortografico o una stranezza nella flessione di un toponimo frigio, ben si presta ad un confronto con espressioni quali “ἐν ἐσχατίαις": Pepuza, Poscura località nella quale ebbe inizio l’attività profetica di Montano, starebbe dunque ad indicare, secondo la concezione montanista, un qualsiasi luogo di nessuna importanza, moltiplicabile all’infinito perché privo di specificità. Furono gli avversari del movimento che, per forzare la mano e spingere all’assurdo le posizioni di Montano, fecero di Pepuza la Nuova Gerusalemme e quindi il centro principale della “chiesa” montanista. Il contrasto in realtà era tra città e campagna, tra clero cittadino e clero rurale. Il problema dell’autorità dei vescovi e dell’unità della Chiesa non era nuovo in Asia Minore, ed era già sentito nelle lettere di Ignazio di Antiochia, in un periodo, cioè, precedente la nascita del Montanismo ?*. Che il principale motivo del contendere fosse rappresentato dall’obbedienza dovuta ai vescovi è dimostrato, oltre che dai noti passi di Ter-
tulliano 2°, dal confronto tra due dei 60 canoni che conclusero il concilio di Laodicea del
380 2%. Questo concilio, tenuto nella città frigia di Laodicea Combusta, rappresenta un momento forte, ancorché tardivo, del contrattacco della Chiesa all’eresia dei Frigi. Il ca-
none 7 del concilio prevedeva che gli eretici che venivano riammessi nella Chiesa cattolica dovessero lanciare un anatema contro tutte le eresie e fare la cresima, mentre il canone 8, specifico per l’eresia dei Frigi, prevedeva che costoro «fossero istruiti nella religione con la più grande cura; essi dovevano essere anche battezzati dai vescovi e dai preti della Chiesa»: per i Catafrigi era dunque necessaria una sottomissione formale al vescovo o, in zone rurali, al clero di campagna 21. La centralità del ruolo dei vescovi implicava il predominio, non più solo economico,
sociale e culturale, ma ormai anche spirituale, della città sulla campagna. È questo un punto estremamente critico perché tocca uno degli elementi costitutivi della comunità rurale 242. In mancanza
di strutture amministrative
o sociali peculiari, la comunità
rurale
211 Cfr. W. M. Calder, “Philadelphia and Montanism”, BRL 7 (1923), pp. 309-354; C. Trevett, “Prophecy and anti-episcopal activity: a third error combated by Ignatius?”, JEH 34 (1983), pp. 1-18; Ead., “Apocalypse, Ignatius, Montanism: Seeking the Seeds”, VChr 43 (1989), pp. 313-338; Ead., A Study of Ignatius of Antioch in Syria and Asia, Lewiston — New York 1992. J. Massingberd Ford, “A Note on Proto-Montanism in the Pastoral Epistles”, NTS 17 (1971), pp. 338-346 ha parlato a questo proposito di protomontanismo, concetto che richiederebbe, a mio avviso, un'attenta verifica. 2% Tert., De ieiunio, 13; Adv. Praxean, 1 (sul quale E. Evans, Tertullian's Treatise against Praxeas, London 1948); De pudicitia, 21, 16-17 (sul quale A. M. Vellico, “‘Episcopus episcoporum' in Tertulliani libro de pudicitia”, Antonianum 5 (1930), pp. 25-56); Pud. 1, 6-7, quest'ultimo non rilevato da P. de Labriolle, Les sources, cit. Sull’espressione episcopus episcoporum, cfr. anche K. M. Girardet, “Kaiser Konstantius IL. als “Episcopus episcoporum und das Herrscherbild des Kirchlichen Widerstandes”, Historia 26 (1977), pp. 95-128. 2 È da notare la contemporaneità tra i canoni del Concilio di Laodicea e la maggior parte delle fonti su Pepuza successive a quelle riportate da Eusebio. #1 La presenza del canone 8 basta da sola a contraddire la tesi di una repentina perdita d'importanza e quindi scomparsa dell'eresia già a partire dalla fine del III secolo, tesi capeggiata da A. Faggiotto, La diasporà catafrigia, Tertulliano e la “Nuova Profezia”, Roma 1923 e ripresa, tra gli altri, da R. Knox, Enthusiasm, Oxford 1950, p. 25. Questa tesi si basa fondamentalmente su un passo di Epifanio, haeres. 48, 14, 1 sg. (238-9 Holl), secondo il quale “ormai” (νῦν) la “città” di Pepuza era distrutta (ἡδαφισμένη). Naturalmente anche questo passo va inteso secondo quanto detto sopra. 32 Cfr. J. Gilissen, “Étude historique comparative des communautés rurales. Essai de synthèse générale”, Les
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tende a caratterizzarsi proprio sul piano religioso per l’esistenza di culti locali. Il particolarismo religioso dei villaggi veniva seriamente minacciato dalla volontà accentratrice dell’episcopato cittadino. Il villaggio si vide sottratta prima la molteplicità dei culti pagani e poi la possibilità di sostituire tali culti nell’ambito della nuova religione con il surrogato rappresentato dal culto degli angeli. Esso quindi combatté la sua ultima battaglia sul fronte del culto dei santi, sempre alla ricerca di un elemento caratterizzante che lo svincolasse dalla soggezione alla città. Si è più volte rilevato come la scelta di Pepuza per la parusia della Nuova Gerusalemme avesse un carattere fortemente anticittadino 24. Ma fortemente anticittadina, o meglio
diretta contro la nascente, centralizzata in senso urbano, gerarchia ecclesiastica, era pure la decisione di declassare il vescovo al penultimo posto dell’organizzazione montanista 24
e, contestualmente, di creare un gran numero di vescovi che non facessero capo ad un seggio cittadino ma che risiedessero in villaggi 245. È notevole a questo riguardo la somiglianza tra il Montanismo ed un’altra eresia, di quasi un secolo posteriore, quella di Paolo di Samosata: anche qui non sono chiare le differenze dogmatiche, ma solo quelle litur-
giche e disciplinari; anche qui incontriamo vescovi nei villaggi 2. La Grande Chiesa con il suo rappresentante, lo ἐπίσκοπος - è degno di nota il fatto che in MAMA
I, 170, un epitaffio frigio di incerta datazione, sia attestata la problematica
titolatura di πόλεων πανεπίσκοπος -- dovette concedere qualcosa alla richiesta della campagna: è così che si conoscono vescovi di villaggio appartenenti alla Chiesa, ed anzi schierati in prima persona nella lotta all’eresia dei Frigi, come quello Zotikos, vescovo del villaggio di Kumana, nominato da Eusebio di Cesarea 247. La reazione non tardò mol-
to e si manifestò, come ha ben mostrato il Leclercq 248, con l’istituzione, che noi conoscia-
communautés rurales, Cinquième partie, Recueils de la Société J. Bodin 44, Paris 1987, pp. 715-820, spec. pp. 768769. 24 Su questo punto, oltre quanto detto sopra, cfr. soprattutto i lavori di Frend, sebbene con una diversa prospettiva: W. H. C. Frend, Martyrdom and Persecution in the Early Church, A Study of a Conflict from the Maccabees to Donatus, Oxford 1965, p. 292; Id., “The Winning of the Countryside”, JEH 18 (1967) (= W. H. C. Frend, Town and Country in the Early Christian Centuries, London 1980, Ess. II), pp. 1-14, p. 2; Id., “Town and Countryside in Early Christianity", D. Baker (ed.), The Church in Town and Countryside, Studies in Church History 16 (= W. H. C. Frend, Town and Country, cit., Ess. I), Oxford 1979, pp. 25-42, pp. 35-36. 24 Sulla pretesa gerarchia montanista cfr. H. Grégoire, “Épigraphie chrétienne. I. Les inscriptions hérétiques
d'Asie Mineure”, Byzantion 1 (1924), pp. 695-710; Id., “Du nouveau sur la hiérarchie de la secte Montaniste, d'après une inscription grecque trouvée près de Philadelphie en Lydie”, Byzantion 2 (1925), pp. 329-335; S. Liebermann, “The Martyrs of Caesarea”, AIPhO 7 (1939-1944), pp. 395-446; W. M. Calder, H. Grégoire, “Paulinus, Κοινωνός de Sébaste de Phrygie”, BAB 5è% série, 38 (1952), pp. 163-183. Soprattutto questi ultimi due studi hanno ingenerato l'opinione di influssi giudaici sul Montanismo: cfr. J. Massingberd Ford, “Was Montanism a Jewish-Christian Heresy?”, [ΕΗ 17 (1966), pp. 145-158. 24% Questo dei vescovi di villaggio è un tratto che accomuna Frigia, Cipro e Arabia: cfr. Sozom., h. e., VII, 19. 2 (330 Bidez). 2 G. Bardy, Paul de Samosate: étude historique, Louvain 1929; F. Millar, “Paul of Samosata, Zenobia and Aurelian: The church, local culture and political allegiance in third-century Syria”, JRS 61 (1971), pp. 1-17; M. Simonetti, “Paolo di Samosata e Malchione. Riesame di alcune testimonianze”, in Hestiasis. Studi di tarda antichità offerti a S. Calderone, Studi tardoantichi I, Messina 1986, pp. 7-25; Id., “Per la rivalutazione di alcune testimonianze su Paolo di Samosata”, RSLR 24 (1988), pp. 177-210. 7 Eus., h. e., V, 16. 17. 24 H. Leclercq, “Chorévéques”, DACL III. 1, Paris 1913, coll. 1423-1452.
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mo a partire dal concilio di Ancira del 314-315, del χωρεπίσκοπος, il «vescovo di cam-
pagna» ?*°. L'istituzione di questa figura sottoposta all’autorità del vescovo contribuì decisamente a rimettere il clero rurale sotto il diretto controllo di quello cittadino ed è significativo che proprio nel già citato concilio di Laodicea venissero prese ulteriori misure per diminuire l’autorità dei χωρεπίσκοποι (canone 57). Nonostante la guerra che i vescovi delle città mossero ai vescovi della campagna, il χωρεπίσκοπος ebbe ancora un ruolo molto importante nella Chiesa nestoriana fino al X secolo 250. Se dunque è nel conflitto tra vescovi e Cristianesimo rurale che bisogna veramente cercare le ragioni profonde del movimento montanista, allora si capisce perché la Frigia costituì un terreno d’elezione per la nascita e il successivo profondo radicamento dell’ere-
sia, così come si capiscono da un lato i toni
rivoluzionari di alcuni degli oracoli montani-
sti, dall’altro la forte componente millenaristica contenuta nella Nuova Profezia.
24 Sul corepiscopo, oltre a H. Leclercq, op. cit.. cfr. F. Gillmann, Das Institut der Chorbischôfe im Orient: historisch-canonische Studie, Leipzig 1903; R. A. Markus,
“Country Bishops in Byzantine Africa”, D. Baker (ed.), The
Church in Town and Countryside, cit. in n. 243, pp. 1-15: O. Bucci, “Episcopato delle campagne e Corepiscopi. Un caso emblematico del Cristianesimo orientale fra proletariato rurale siriaco e predominio culturale delle poleis ellenistiche. L'impressionante parallelismo all’interno del Cristianesimo occidentale”, Arti dell'Accademia Romanistica Costantiniana - 4° Convegno internazionale, Perugia 1981, pp. 99-163. 2%
A. Voobus, A History of Ascetism in the Syrian Orient,
CSCO Subsidia 17, Turnhout
1960.
Leesperimento linguistico di Psammetico (Herodot. II 2): c’era una volta il frigio PIETRO VANNICELLI Istituto per gli Studi Micenei ed Egeo-Anatolici, CNR - Roma
471. È così difficile trovare l'inizio. O meglio: è difficile cominciare dall'inizio. E non tentare di andare anco-
ra più indietro. 472. Quando il bambino impara la lingua, impara,
contemporaneamente, che cosa si debba cercare e che cosa non si debba cercare.
(L. Wittgenstein, Della certezza, tr. it. Torino 1978, 76)
1. L'esperimento di Psammetico AI racconto dell’esperimento linguistico di Psammetico I (664-610) - il faraone fon-
datore della XXVI dinastia - Erodoto assegna una posizione di rilievo all’inizio del libro Il delle Storie (II 2). Narra Erodoto che gli Egiziani, prima del regno di Psammetico, si ritenevano (Il 2,1: ἐνόμιζον ἑωυτούς) i più antichi tra gli uomini, ma che da quando Psammetico volle sapere in modo certo (ἠθέλησε εἰδέναι) a chi spettasse il primato dell’antichità tra gli uomini, da allora essi ritengono (νομίζουσι) che i Frigi siano più antichi di loro, e loro più antichi di tutti gli altri. Questa conclusione è peraltro il frutto di un singolare esperimento. Psammetico infatti, non riuscendo in alcun modo a verificare attraverso normali indagini (2, 2: πυνθανόμενος) la presunta straordinaria antichità egiziana, fece ricorso a un espediente (ἐπιτεχνᾶται τοιόνδε): architettò un mezzo per scoprire quale fosse la lingua originaria e risalire poi, grazie ad essa, al più antico tra i popoli 2. A questo scopo affidò a un pastore due neonati, con l’ordine di allevarli nel più
! Per bibliografia relativa all'episodio, oltre ai commenti erodotei ad loc. (in particolare quelli di J. Ch. F. Bahr, Ὁ. Rawlinson, H. Stein, A. H. Sayce, W. W. How-J. Wells, Ph.-E. Legrand; nonché, dedicati al solo libro II, quelli di A. Wiedemann, W. G. Waddell e A. B. Lloyd: per quest'ultimo il riferimento è al commento in 3 voll., Leiden 19751988), vd. W. A. Heidel, Hecataeus and the Egyptian Priests in Herodotus, Book Il, Boston 1935, 57-60; A. Salmon, “L'expérience de Psammétique (Hérodote, II, ii)”, LEC 24 (1956), 321-329; Ch. Froidefond, Le mirage égyptien dans la littérature grecque d'Homère à Aristote, Paris 1971, 140 s., 145 e 184 s.; A. Sulek, “Doswiadezenie Psameryka (Komentarz do Herodota II, 2)", Meander 38 (1983), 75-85; Id., “The experiment of Psammetichus: fact, fiction and model to follow”, JHI 50 (1989), 645-651; J. Knobloch, “Die Glaubwürdigkeit von Herodors Bericht über das Sprachursprungsexperiment des Pharaos Psammetich”, Glossologia 4 (1985), 19-20; H. Erbse, Studien zum Verständnis Herodots, Berlin-New York 1992, 113-116; M. R. Christ, “Herodotean Kings and Historical Inquiry”, ClAnt 13, 1994, 167-202, in particolare 184-6; per ulteriori contributi, rinvio alle note seguenti.
2 Per le implicazioni dell'esperimento, vd. W. A. Heidel, op. cit., 59, e Lloyd ad loc.
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assoluto isolamento, senza che mai alcuno pronunciasse una parola in loro presenza, nutrendoli con il latte di capre condotte regolarmente presso di loro: voleva sentire quale parola avrebbero pronunciato per prima una volta abbandonati gli indistinti balbettii. Dopo un periodo di due anni, si verificò qualcosa di nuovo: i bambini cominciarono ad accogliere il pastore dicendo Bexög e accompagnando la parola con gesti come di supplica (2, 3: προσπίπτοντα βεκὸς ἐφώνεον ὀρέγοντα τὰς χεῖρας). Il fatto venne segnalato a
Psammetico, che lo verificò personalmente. Ha così inizio una seconda fase: Psammetico infatti, ottenuto in modo alquanto eterodosso un indizio da cui partire, poté ricondurre la sua ricerca nell’ambito del πυνθάνεσθαι e indagare quali uomini chiamassero qualcosa βεκός
(2, 4: ἐπυνθάνετο οἵτινες ἀνθρώπων
βεκός τι καλέουσι).
Il risultato
(πυνθανόμενος δὲ εὕρισκε) ? fu che con questa parola i Frigi chiamavano il pane: si impose quindi - ma su questa base (2, 5: οὕτω συνεχώρησαν Αἰγύπτιοι καὶ τοιούτῳ
σταθμησάμενοι πρήγματι) * - la conclusione che i Frigi sono più antichi degli Egiziani (τοὺς Φρύγας πρεσβυτέρους εἶναι ἑωυτῶν, che anularmente richiama l’iniziale Φρύγας. προτεΐρους γενέσθαι ἑωυτῶν, τῶν δὲ ἄλλων ἑωυτούς) 5. Lo storico afferma di aver ap-
preso questa versione dell’esperimento a Menfi, dai sacerdoti di Efesto, e respinge come insulsa la più cruda variante attribuita a Ἕλληνες, secondo la quale Psammetico avrebbe fatto allevare i bambini da donne alle quali era stata mozzata la lingua. Vengono così presentati all’inizio del libro II il tema, centrale in tutto il libro, della
straordinaria antichità dell’Egitto e quello, strettamente connesso, della verifica delle tradizioni greche alla luce di quelle egiziane: di fronte a queste ultime, le prime, a partire dal racconto omerico sulla guerra di Troia (II 118, 1), appaiono per lo più come sciocchezze (μάταια) 5.
* Con simili espressioni Erodoto altrove introduce ed evidenzia una conclusione autonomamente raggiunta (cfr. p. es. in V 57,1 ὡς δὲ ἐγὼ ἀναπυνθανόμενος εὑρίσκω, a proposito delle origini dei Gefirei): questa seconda fase della ricerca di Psammetico infatti, a differenza dell'esperimento che la precede, rientrava a pieno titolo nell'ambito delle ricerche che Erodoto stesso poteva condurre 0 verificare. + Si nori come καὶ τοιούτῳ σταθμησάμενοι πρήγματι rincalzi e circostanzi il precedente οὕτω συνεχώρησαν Αἰγύπτιοι, riducendo così la portata della conclusione di Psammetico. D'altra parte, in che scarso conto Erodoto tenga questa conclusione appare chiaro in II 15, 3, dove - al culmine della discussione, introdotta proprio dal suddetto esperimento, relativa all'antichità dell'Egitto, in generale, e del Delta, in particolare - egli afferma che, da quando esiste la razza umana, gli Egiziani sono sempre esistiti. In questa direzione va anche il gioco linguistico che in II 2,1, oppone il νομίζουσι degli Egiziani circa i Frigi αἱ! εἰδέναι a cui aspira, invano, Psammetico. * Si può meglio apprezzare il carattere paradossale della conclusione dell'esperimento, se lo si confronta con la conclusione, del tutto simmetrica, del celebre racconto del tesoro di Rampsinito: Rampsinito capitola di fronte all'astuzia diabolica del ladro concedendogli in sposa la figlia ὡς πλεῖστα ἐπισταμένῳ ἀνθρώπων᾽ Αἰγυπτίους μὲν γὰρ, τῶν ἄλλων προκεκρίσθαι, ἐκεῖνον δὲ Αἰγυπτίων (Il 121 ζ 2). * Diversamente intende μάταια H. Erbse, op. cit., 116 n. 10, la cui esegesi, a mio avviso troppo restrittiva,
appa-
re strettamente funzionale alla sua interpretazione dell'episodio. Per la centralità della critica alle tradizioni greche nel logos egiziano, vd. le importanti pagine di V. Hunter, Past and Process in Herodotus and Thucydides, Princeton 1982, 50-92.
L'esperimento linguistico di Psammetico (Herodot. II 2 ): c'era una volta il frigio
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2. Psammetico e i Greci È convinzione pressocché unanime dei moderni che la storia dell’esperimento di Psammetico sia di origine greca, più precisamente ionica 7. Certamente all'esperienza io-
nica rinvia il riferimento ai Frigi, e non a caso la voce βεκός, la cui origine frigia è confermata per via epigrafica, è attestata indipendentemente da Erodoto in un frammento di Ipponatte (124 Degani = 125 West), il giambografo nativo di Efeso, fiorito a cavallo tra VI e V sec. a.C. e dunque contemporaneo di Ecateo di Mileto®. Meritano inoltre di essere valorizzati alcuni elementi che si ricavano da Erodoto stesso. Egli afferma che, a partire dalla XXVI dinastia, fondata appunto da Psammetico I, il suo racconto della storia egiziana si fonda non più soltanto sulla testimonianza degli Egiziani, bensì su quella degli “altri uomini” residenti in Egitto e degli Egiziani in quanto concordi con loro (Il 147, 1: ὅσα δὲ οἵ te ἄλλοι ἄνθρωποι καὶ Αἰγύπτιοι λέγουσι ὁμο-λογέοντες τοῖσι ἄλλοισι κατὰ ταύτην τὴν χώρην γενέσθαι, ταῦτ᾽ ἤδη φράσω). Questi ἄλλοι ἄνθρωποι sono soprattutto i Greci, in particolare gli Ioni, che, come risulta dalla
stessa esposizione erodotea (II 152 ss.), appaiono significativamente coinvolti nelle vicende dell’Egitto proprio a partire dal regno di Psammetico I. Il racconto relativo all’esperimento di Psammetico offre dunque un esempio di questa impostazione erodotea: si tratta di una tradizione che, al di là della divergenza relativa alle ‘nutrici’ dei bambini (capre o
donne mutilate della lingua), è raccontata sia da Greci che da Egiziani°. Un’altra notizia riferita da Erodoto sempre a proposito dei rapporti tra gli Ioni e
Psammetico è indicativa di una certa sensibilità linguistica da parte di quest’ultimo e può concorrere a illuminare la genesi della tradizione relativa al nostro esperimento: Psamme-
* In questo senso, con argomenti diversi, vd. p. es. Wiedemann, How-Wells e Lloyd ad loc.; A. Salmon, art. cit., 323; J. Knobloch, art. cit., 19; H. Erbse, op. cit., 114 s. Non affronto in questa sede il complesso problema delle fonti di Erodoto per il libro II, né intendo affastellare dossografia sul tema: in questa sede mi limiterd a considerare alcuni problemi relativi a Il 2-4, rinviando la discussione generale a un più ampio articolo dedicato al libro II di Erodoto; per un'impostazione del problema, vd. ora R. L. Fowler, “Herodotus and his contemporaries”, JHS 116 (1996), 80 ss. * Per il frammento di Ipponatte, vd. commento e bibliografia nell'edizione di E. Degani, Stuttgart-Leipzig 1991), 126 s. e 231; per bekos frigio, vd. R. Gusmani, “Studi sull'antico frigio. La popolazione, le glosse frige presso gli antichi”, RIL 92 (1958), 857; O. Haas, “Phrygische Inschriften. Berichtigte Lesungen - verbesserte Deutungen”, Die
Sprache 7 (1961), 83-5; Id., Die Phrygischen Sprachdenkmäler, Sofia 1966, 84 s., 160; I. M. Diakonoff-V. P. Neroznak, Phrygian, New York 1985, 98; una ulteriore attestazione di bekos è forse in una delle iscrizioni neofrigie presentate da Th. Drew-Bear e CI. Brixhe nel corso del presente convegno (testo III). Tutte le attestazioni fin qui note sono in iscrizioni neofrigie, risalenti cioè ai primi secoli d. C. (soprattutto al IVIII sec.}: è incerto se queste iscrizioni rappresentino una lingua viva © invece, come argomenta R. Gusmani, art. cit., 837-41, il residuo arcaizzante di una lingua che aveva ormai cessato di esistere durante l’età ellenistica. Tra le due versioni, quella con le capre è con ogni probabilità l'originaria, non soltanto perché il βεκός balbettato dai bambini sembra presupporre un'imitazione del belato delle capre, quanto piuttosto perché - come acutamente mi scrive C. Franco, con il quale ho discusso questo e altri aspetti dell'episodio erodoteo - la versione con le donne con la lingua tagliata “è una ‘normalizzazione’, che esclude il contatto con la natura (giacché l'essere nutriti dalle capre è una vera Aussetzung des Kindes, che forse un'età più tarda non capiva/accettava più) ma implica invece quel tratto tipicamente orientale che è la mutilazione del corpo”; diversamente, per l’anterioritä della versione con le donne, vd. Wiedemann e Lloyd ad loc., e W. Aly, Volksmärchen, Sage und Novelle bei Herodot und seinen Zeitgenossen, Göttingen 1921 (1969), 62.
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tico avrebbe affidato a Ioni e Cari — i mercenari grazie al cui sostegno era asceso al trono
— fanciulli egiziani perché imparassero la lingua greca: da costoro discendono gli interpreti attivi nell’Egitto visitato da Erodoto (II 154, 2) !°. D’altra parte, quella dell’esperimento linguistico di Psammetico non è una tradizione isolata: Erodoto riferisce, con
aperto scetticismo, di un altro presunto tentativo di Psammetico di saggiare i limiti, questa volta spaziali, della conoscenza umana (II 28, 4: a proposito delle sorgenti del Nilo) !!. Infine, le fonti egiziane per questo episodio sono, a quanto dice Erodoto, i sacerdoti di Menfi; ma Menfi era anche il luogo nel quale, sempre secondo Erodoto II 154, 3,
Amasi aveva trasferito i discendenti di quegli Ioni e Cari fatti precedentemente insediare in Egitto da Psammetico in alcune località dette Στρατόπεδα. In altre parole, le indicazio-
ni interne a Erodoto sembrano andare nel senso di una tradizione greca accolta anche dagli Egiziani "2, Questa coerenza complessiva dei dati erodotei non è riducibile a pura costruzione let-
teraria. L'indagine storica relativa ai Greci in Egitto a partire dal periodo saitico fornisce conferme al quadro offerto da Erodoto !3. In particolare, alcuni documenti di recente
19 Sulla notizia, in relazione all'esperimento linguistico di Psammetico, attira l'attenzione Salmon, art. cit., 328. Per la novità dell’iniziativa di Psammetico, vd. 5. Donadoni, “Gli Egiziani e le lingue degli altri”, VO 3 (1980), 1-14,
ripubblicato in Cultura dell'Antico Egitto. Scritti di Sergio F. Donadoni, Roma 1986, 193-206. " Altre, e più crudeli, ricerche di Psammetico sono menzionate da Clearco di Soli (fr. 98 Wehrli ap. Athen. VIII 345 e), secondo il quale tra l'altro Psammetico, volendo scoprire le sorgenti del Nilo, avrebbe fatto allevare bambini
nutriti soltanto con pesce (Ψαμμήτιχον τὸν Αἰγυπτίων βασιλέα παῖδας θρέψαι ἰχθυοφάγους, τὰς πηγὰς τοῦ Νείλου
βουλόμενον εὑρεῖν): un episodio che sembra fondere insieme elementi dei due esperimenti ricordati da Erodoto. Lloyd ad loc. ha richiamato alcuni punti di contatto tra l'esperimento linguistico di Psammetico e aspetti della riflessione scientifica greca, suggerendo la possibilità di vedervi un esperimento condotto scrupolosamente. A me sembra che comunque Erodoto prenda senz'altro le distanze dall'operato di Psammetico (vd. oltre $ 6), anche se il suo racconto in qualche modo presuppone un modello teorico di esperimento scientifico. Più in generale, per il problema dell'impiego o meno dell'esperimento nell’ambito della scienza greca, fondamentale è la riflessione di Ὁ. E. R. Lloyd: vd. p. es. Metodi e problemi della scienza greca, tr. it. Roma-Bari 1993, 123-172. 22 In questo senso vd. Lloyd ad loc. (“probably we must imagine that the tale was assimilated into ΕΒ. tradition from Gk. sources in Memphis, Naucratis or some other area where the two peoples had lived for decades in close proximity”); per quanto riguarda le fonti egiziane, potrebbe in sostanza trattarsi di un fenomeno analogo a quello che gli studiosi di tradizioni orali chiamano feedback (p. es. D. Henige, Oral Historiography, London-New York-Lagos 1982, 81: “A great deal of testimony obtained from informants is really feedback; that is, it originated as information that entered the society and was absorbed into traditions because it proved useful or entertaining. In many cases informants themselves fail to realize this because it happened long ago and in subtle enough ways that it quickly became indistinguishable from true oral tradition”; cfr. anche J. Vansina, Oral Tradition as History, London 1985, 156 s.). Quanto alla distribuzione delle due varianti tra Egiziani e Greci, essa sembra rispondere, oltre che alla costruzione letteraria del passo (vd. oltre $ 5), alla logica delle cose, giacché non sorprende che gli Egiziani facessero propria la versione che meno accentuava gli elementi di crudeltà dell'esperimento; per la mutilazione come caratteristica della crudeltà dei Barbari, vd. J. de Romilly, “Cruauté barbare et cruautés grecques”, in ZPAIPOE. Hans Schwabl zum 70. Geburtstag gewidmet,
WS 107/108 (1994/95), I, 188.
* Per i Greci in Egitto in età arcaica, tema che sta conoscendo un vero sussulto di interesse, vd. Lloyd Introduction, 1-60; J. Boardmann, The Greeks Overseas, London 19802, 111-141; T. F. R. G. Braun, in CAH III 2, Cambridge
1982, 32-56; T. G. H. James, in CAH
ΠῚ 3, Cambridge
1991, 711
ss.; P. W.
Haider,
“Griecher im Vorderen
Orient und in Agypten bis ca. 590 v. Chr.”, in Wege zur Genese griechischer Identität. Die Bedeutung der frühar-
chaischen Zeit, hsg.
von Ch. Ulf, Berlin 1996, in particolare 95-11
. Bowden,
“The Greek Settlement and Sanc-
tuaries at Naucratis: Herodotus and Archacology”, in M. H. Hansen-K. Raaflaub (eds.), More Studies in the Ancient Greek Polis, Historia Einzelschriften 108, Stuttgart 1996, 17-37; F. De Romanis, Cassia, cinnamomo, ossidiana. Uomini e merci tra oceano indiano e Mediterraneo, Roma
1996, 33-95.
L'esperimento linguistico di Psammetico (Herodot. II 2 ): c'era una volta il frigio
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pubblicazione hanno fornito dati di grande interesse in merito all'intensità dei rapporti greco-egiziani in età arcaica e classica: penso p. es. alla statua con iscrizione rinvenuta presso Priene, grazie alla quale apprendiamo le vicende di un certo Pedon mercenario al servizio di Psammetico I (o II), nonché al papiro aramaico di Elefantina che ha restituito
un registro doganale dell'Egitto achemenide con i pagamenti effettuati all’entrata e all’uscita da navi greche e fenicie nel corso - secondo la datazione degli editori — del 475 a.C. Quest'ultimo testo è stato pazientemente recuperato in un papiro riutilizzato successivamente per scrivervi una versione aramaica, la più antica sinora nota, della Storia di Ahi-
gar; ci troviamo così di fronte a un papiro palinsesto di V sec. a.C. rinvenuto in Egitto, nella colonia militare aramaico-giudaica di Elefantina, che contiene un’opera di ambientazione assira, sovrapposta alle annotazioni di un registro doganale della satrapia persiana d’Egitto, che riporta le merci e le relative tasse di navi greche e fenicie giunte nel 475 a.C.: davvero una significativa testimonianza di incroci di culture nell’Egitto visitato da Erodoto '*.
3. Il pane: alimento per i mortali Il carattere greco del racconto erodoteo dell’esperimento di Psammetico può essere illustrato anche da una attenta lettura della scena centrale, quella cioè dei bambini che si precipitano verso il pastore dicendo Bexög (2, 3: προσπίπτοντα βεκὸς ἐφώνεον ὀρέγοντα τὰς χεῖρας). Antichi e moderni si sono concentrati sulla parola Bexög per lo più ora per
documentarne l’effettiva origine frigia, ora per rilevare come verosimilmente i bambini non facessero altro che imitare i belati delle capre. Tutto ciò ha però posto in ombra un
altro elemento essenziale, cioè che questa parola significa ‘pane”. Il fatto che l'abbandono degli ἄσημα κνυζήματα coincida con una richiesta di pane, fa venire in mente p. es. i
primi versi dell’elegia soloniana sulle età dell’uomo (27 West = 23 Gentili-Prato): in essa il primo settennio di vita è quello del νήπιος - dell’infans, di colui che non parla - e della dentizione (vv. 1-2: παῖς μὲν ἄνηβος ἐὼν ἔτι νήπιος ἕρκος ὀδόντων | φύσας ἐκβάλλει πρῶτον ἐν Ext’ ἔτεσι) "5. In altre parole, nei versi soloniani come nell’episodio erodoteo, le due acquisizioni che insieme caratterizzano i primi anni di vita sono la capacità di parlare e di mangiare cibi solidi, come il pane.
"* La prima pubblicazione dei documenti citati nel testo risale, per l'iscrizione di Pedon, a C. Sahin, “Zwei Inschriften aus dem Südwestlichen Kleinasien”, EpigrAnat 10 (1987), 1-2; per il papiro palinsesto di Elefantina, a B. Porten e A. Yardeni, Textbook of Aramaic Documents from Ancient Egypt, Ill, Jerusalem 1993 (= C 3. 7; una concisa presentazione in A. Yardeni, “Maritime Trade and Royal Accountancy in an Erased Customs Account from 475 B. C. E. on the Ahigar Scroll from Elephantine”, BASOR 293 (1994), 67-78). Per un inquadramento complessivo dei documenti citati, vd. ora l'ampia sintesi di P. Briant, Histoire de l'empire perse, Paris 1996, 398, 499, 955, 974 (cui si rinvia anche per ulteriori indicazioni bibliografiche). Per l'Abigar di Elefantina, vd. F. M. Fales, “Storia di Ahiqar tra Oriente e Grecia: la prospettiva dall'Antico Oriente”, OS 38 (1993), 143-166; e “Riflessioni sull'Ahiqar di Ele-
fantina”, in Orientis Antiqui Miscellanea 1, Roma 1994, 39-60; la più recente traduzione a me nota è quella di I. Kortsieper, in TUAT III 2 (Weisheitstexte II), Gütersloh 1991, 320-347. 15 vd. D. Musti, “La teoria delle età e i passaggi di status in Solone. Per un inquadramento socioantropologico della teoria dei settenni nel pensiero antico”, MEFRA 102 (1990), 11-35.
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Oltre però a questo elementare dato biologico, la richiesta di pane ha probabilmente anche un significato più profondo. All’inizio i bambini ricevono latte: questo è per i Greci, nella primissima fase della vita, un nutrimento comune a uomini, animali e talora per-
sino dèi. Ma nel momento in cui abbandonano questa prima fase di indistinti balbettii (ἀπαλλαχθέντων τῶν ἀσήμων κνυζημάτων), ciò che essi insieme dicono e chiedono è il pane, cioè il cibo che per eccellenza spetta 4}} ἄνθρωπος. Gli uomini sono infatti già in
Omero σιτοφάγοι, mangiatori di grano (questo è probabilmente anche il significato dell’epiteto omerico ἀλφησταί); così, per citare due esempi celebri, Glauco, incontrando Diomede nel libro VI dell’Iliade (Il. VI 142; cfr. XXI 462 ss.), chiede a quest’ultimo se
egli sia un dio o un uomo “di quelli che mangiano il frutto del campo”, frumento e orzo (εἰ δέ τίς ἐσσι βροτῶν, ci ἀρούρης καρπὸν ἐδοῦσι), mentre nella presentazione del ciclope Polifemo si dice che egli οὐδὲ ἐῴκει | ἀνδρί γε σιτοφάγῳ (“non somigliava a un uomo
che mangia pane”: Odissea IX 190-1). In altre parole, la crescita porta i bambini fatti allevare da Psammetico a richiedere il cibo che è proprio della loro natura, la natura di uomini, di ἄνθρωποι σιτοφάγοι, di ἀνέρες ἀλφησταί !*. Non a caso è dopo che i bambini hanno chiesto e detto ‘pane’ che Psammetico può compiere un’indagine per sapere quali
uomini, appunto, chiamino qualcosa Bexög (οἵτινες ἀνθρώπων βεκός τι καλέουσι) 7. Ancora una notazione. La scena dei bambini che esclamano e reclamano ßexög deve la sua gustosa efficacia anche a un certo tono epico. I bambini accompagnano la loro ri-
chiesta di pane con il gesto, caratteristico sia della supplica sia della preghiera, del tendere le mani: Bexög ἐφώνεον dpéyovta τὰς χεῖρας. Il verbo dpéyw compare in Erodoto soltanto in questo passo, ma è relativamente frequente nei poemi omerici, per lo più unito al sostantivo xeip (Il. I 351; XV 371; XXII 37; XXIV
506; Od. IX 527; XII 257; XVII
366). In particolare, esso ricorre in una celebre scena del libro XVII
dell’Odissea (360
ss.), che Erodoto ha probabilmente tenuto presente, nella quale Odisseo si aggira sotto mentite spoglie come un vecchio mendicante tra i proci πάντοσε χεῖρ᾽ ὀρέγων “dovunque
τα Questo è un tema particolarmente presente nella riflessione di M. Detienne, J.-P. Vernant e P. Vidal-Naquet: vd. p. es. M. Detienne, Les Jardins d'Adonis, Paris 1972, 216-7 (tr. it. Torino 1975, 149); J.-P. Vernant, in La cwisi-
ne du sacrifice en pays grec, a c. di J.-P. Vernant e M. Detienne, Paris 1979, 42 e n. 4, 68-71 (tr. it. Torino 1982, 2930, 47-48, 207 n. 8); P. Vidal-Naquet, Le chasseur noir. Formes de pensée et formes de société dans le monde grec,
Paris 1983:, 47 (tr. it. Roma 1988, 21). 1 Anche il linguaggio registra questo passaggio dalla condizione infantile a quella di che i bambini dicono può essere interpretato come la parola frigia per ‘pane’, allora i suoni più, per usare la terminologia di Pierce, semplici segnali (quale è p. es. il belato delle capre), funzione simbolica, che secondo Aristotele è propria unicamente del linguaggio umano (cfr. proposito del nome in Aristot. de interpret. 16 a 26-29:
ἄνθρωπος: se infatti ciò da loro emessi non sono ma segni dotati di quella p. es. quanto si osserva a
τὸ δὲ κατὰ συνθήκην, ὅτι φύσει τῶν ὀνομάτων οὐδέν ἐστι,
ἀλλ᾽ ὅταν γένηται σύμβολον ἐπεὶ ÖnAoDoi γέ τι καὶ οἱ ἀγράμματοι ψόφοι. οἷον θηρίων. ὧν οὐδέν ἐστιν ὄνομα: per il rapporto tra linguaggio umano e linguaggio animale in Aristotele, vd. W. Belardi, Il linguaggio nella filosofia di
Aristotele, Roma 1975, 125-37; Id., Linguistica generale, filologia e critica dell'espressione, Roma 1990, 77-91; D.
Di Cesare, La semantica nella filosofia greca, Roma 1980, 180 s.). Ciò do dei bambini come frigio sia, come Erodoto stesso forse intende, il che, al di là dell'intenzione del mittente, nella ricezione di Psammetico faraone ritiene di poter finalmente avviare una ricerca sulle lingue degli
è vero anche qualora l'interpretazione del grifrutto di un equivoco: ciò che conta infatti è quel grido sia inteso come un segno, sicché il uomini.
L'esperimento linguistico di Psammetico (Herodot. II 2 ): c'era una volta il frigio
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tendendo la mano” per chiedere, si noti, del pane, e così “riconoscere quelli che erano retti e i malvagi” '*.
4. I Frigi in Erodoto
Le considerazioni fin qui svolte a proposito della richiesta in frigio di pane da parte dei bambini consentono una prima osservazione circa la caratterizzazione dei Frigi in Erodoto. Degno di nota è il fatto che uno dei pochissimi tratti che caratterizza i Frigi erodotei, oltre la lingua '°, non li distingua dai Greci: anch'essi mangiano pane. Al contrario p. es. nello stesso libro II delle Storie gli Egiziani biasimano grandemente quanti si nutrono di frumento e di orzo (II 36, 2); nel libro III (22, 4) il re degli Etiopi, dopo aver udito
che i Persiani mangiano pane e possono vivere fino a 80 anni, replica che è naturale che viva così poco - l’etä media degli Etiopi, teste Erodoto, è di 120 anni - chi si nutre di escrementi: così è qualificata l'alimentazione a base di pane (gli Etiopi hanno invece un’alimentazione a base di carne e latte); nel libro IV (109, 1), all’interno dei capitoli dedicati
all’etnografia dei popoli confinanti con gli Sciti, Erodoto sottolinea la superiore civiltà dei TeAwvoi, popolazione a suo dire di origine greca, definendoli tra l’altro mangiatori di pane (σιτοφαγοι), in opposizione ai vicini Βουδῖνοι che sono autoctoni e mangiano - forse — pidocchi (φθειροτραγέουσι) 2. Quello che però qui conta sottolineare è che, se è vero che i Greci si definiscono rispetto ai Barbari per differentiam, l’episodio dell’esperimento di Psammetico fornisce un’indicazione secondo la quale i Frigi sono sentiti come assai meno estranei di altri Barbari: potremmo insomma dire che sono i più vicini tra i più lontani ?!.
Si pone a questo punto il problema del perché l’esito dell’esperimento conduca proprio ai Frigi 22, In questo si è visto tra l’altro una trovata basata sulla casuale somiglianza tra la parola frigia per pane e il belato delle capre imitato dai bambini; si è inoltre pensato che la scelta dei Frigi miri a irridere Psammetico o le smodate pretese di antichità degli Egiziani, in quanto lo stesso Erodoto in VII 73 attesterebbe che i Frigi sono un popolo re-
18 Stein ad loc. giustamente osserva come l'atteggiamento dei bambini sia di supplica; diversamente, A. Salmon, art. cit., 327. Anche προσπίπτοντα può rinviare a un contesto di supplica: cfr. LS] s. v. προσπίπτω, III. In generale per la supplica, vd. ora W. Pötscher, “Die Strukturen der Hikesie”, in ΣΦΑΙΡῸΣ cit., 51-75, con discussione della bibliografia precedente. Il gesto di Odisseo in Od. XVII 366 è quello di un mendicante più che di un supplice: si tratta in ogni caso di categorie sociologicamente marginali. 1* Anche per quanto riguarda la lingua, i Greci notavano analogie tra loro stessi e i Frigi: cfr. Plato Crat. 410 a; per i rapporti tra greco e frigio, vd. la sintesi di G. Neumann, “Phrygisch und Griechisch”, SAWW 499 (1988); per l'interesse dei Greci in età arcaica alle lingue dei barbari, vd. D. Gambarara, Alle fonti della filosofia del linguaggio. “Lingua” e “nomi” nella cultura greca arcaica, Roma 1984, 65 ss.; E. Degani, “La lingua dei barbari nella letteratura greca arcaica”, in Actes du Colloque International ‘Langues et Peuples’, Aosta 1989, 75-82; C. W. Müller - K. Sier J. Werner (hrsg.), Zum Umgang mit fremden Sprachen in der griechisch-römischen Antike, Stuttgart 1992, 1-62. 2 vd. A. Corcella, “Sciti ἀροτῆρες e sciti γεωργοί", OS 35 (1992), 49-60.
21 È in questo senso anche una delle poche notizie date da Erodoro sul frigio Mida: quella della dedica da parte di Mida a Delfi del trono regale (I 14, 2; vd. oltre nel testo). Per la vicinanza tra Greci e Frigi, vd. S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente (Firenze 1947), Milano 1989, 248, 255, 176. 2 Per questo punto, vd. soprattutto Lloyd ad loc.
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lativamente giovane 2. A proposito di quest’ultima osservazione, va detto che in realtà
l’estrema antichità dei Frigi affermata nel libro II non è necessariamente in contrasto con la tradizione, secondo la quale “i Frigi, a quanto dicono i Macedoni, erano chiamati BpiYES per tutto il tempo che, stando in Europa, abitarono insieme ai Macedoni; poi, passati
in Asia, insieme al paese cambiarono anche il nome” (VII 73). Questa affermazione di una relativa recenziorità della fase asiatica, nonché del nome, dei Frigi non implica affatto una recenziorità tout court dei Frigi; così p. es., sempre in Erodoto (I 56, 3), il caratte-
re recenziore dell’insediamento nel Peloponneso, nonché del nome stesso, dei Dori non compromette, nella prospettiva erodotea, l’indubbia antichità di questo ethnos ellenico. Il punto è se l’indicazione dei Frigi come il più antico dei popoli debba considerarsi nulla più che l’epilogo a sorpresa di una storiella divertente, oppure abbia una qualche indipendente validità. Ritengo che la seconda alternativa possa essere sostenuta con qualche ragione.
Erodoto si occupa dei Frigi soltanto marginalmente. Il grande regno di Frigia, tramontando all’inizio del VII secolo a.C., si colloca prima del limite cronologico alto del periodo storico che egli sceglie di narrare in modo sistematico e tendenzialmente completo (cioè grosso modo il periodo che va dal 570/560 a.C. alle guerre persiane) ?*. Erodoto quindi fornisce indicazioni prevalentemente sui Frigi e la Frigia tra l’epoca di Creso e la campagna di Serse in Grecia (I 28; 35 ss. su Adrasto ®pü& μὲν γενεῇ, γένεος δὲ τοῦ βα-σιληίου; 72, 2; III 90, 2; 127, 1; V 49, 5; 52; VII 26, 3; 30; 73; IX 32, 1), limitandosi a
occasionali, seppur significativi, per il ben più rilevante periodo precedente (I 14, 23; VII 26, 3; 73; VIII 138, 2-3) 2%. Il periodo più importante della storia dei Frigi si colloca insomma
per Erodoto oltre il limite delle possibilità di una conoscenza
certa, fuori
dalla portata della ricerca di chi voglia εἰδέναι. Si può esemplificare concretamente ciò, considerando due passi delle Storie. All’inizio del libro I Erodoto dichiara che punto d’inizio della sua esposizione è Creso, “colui che io
so (οἶδα) essere stato il primo a compiere opere ingiuste contro i Greci” (I 5, 3). Poche righe più avanti egli precisa in cosa siano consistite queste opere ingiuste: Creso è il primo tra i Barbari di cui si abbia conoscenza (βαρβάρων πρῶτος τῶν ἡμεῖς ἴδμεν), ad aver sot-
tomesso una parte dei Greci al pagamento di un tributo (I 6, 2). C’ un possibile precedente che viene immediatamente evocato: l’arrivo in Ionia dei Cimmerii, che però - preci-
21 Cfr. p. es. Legrand ad loc.; A. Salmon, art. cit., 323 s.; J. Knobloch, art. cit., 20; H. Erbse, op. cit., 114 s. = Sulla definizione del campo storico erodoteo, vd. D. Musti (a cura di), La storiografia greca. Guida storica e critica, Roma-Bari 1979, XVI-XXI P. Vannicelli, Erodoto e la storia dell'alto e medio arcaismo (Sparta-TessagliaCirene), Roma
1993.
2 Per le fonti greche sui Frigi, vd. P. Carrington, “The Heroic Age of Phrygia in Ancient Literature and Art”, AS
27 (1977), 117-126; L. E. Roller, “The Legend of Midas”, ClAnt 2 (1983), 299-313; Ead., “Midas and the Gordian
Knot", ClAnt 3, (1984), 256-271; M. C. Miller, "Midas as the Great King in Attic Fifth-Century Vase-Painting”, AK 31 (1988),
79-89; G. Laminger-Pascher, I.ykaonıen und die Phryger, SAWW
532 (1989);
D. Musti,
Storia greca, Ro-
ma-Bari 1990%, 258 s.; M. Lombardo, in Hérodote et les peuples non Grecs, Entretiens Hardt XXXV, VandœuvresGenève 1990, 205 s.; R. Drews, “Myths of Midas and the Phrygian Migration from Europe”, Klio 75 (1993), 9-26; P. Georges, Barbarian Asia and the Greek Experience. from the Archaic Period to the Age of Xenophon, Baltimore — London
1994, 4 s., 248 s.; A.
Dihle, Die Griechen und die Fremden, München
Greci e Frigi al tempo di Mida", in questo volume.
1994, 22; F. Cässola, “Rapporti tra
L'esperimento linguistico di Psammetico (Herodot. Il 2 }: c'era una volta il frigio
209
sa Erodoto - non rappresentò un assoggettamento di città, ma si esauri in saccheggi e scorrerie (I 6, 3). Alla spedizione dei Cimmerii, che Erodoto richiama anche altrove, sempre in incisi o digressioni retrospettive (1 15 s.; 103, 3; IV 1, 2; 11 s.; 13, 2; VII 20, 2), la
tradizione greca assegna un ruolo decisivo nel crollo del grande regno di Frigia (p. es. Strabo I 23, 3, 61); ma Erodoto, che probabilmente non ignorava ciò, non ne parla: il fatto non rientra nel suo campo storico ed egli non è tenuto a farvi riferimento. Ancora più interessante è il modo in cui in I 14, 2, viene data la notizia della dedica
da parte di Mida a Delfi del trono regale. Siamo all’interno della digressione retrospettiva dedicata ai Mermnadi ed Erodoto, a proposito del fondatore di questa dinastia, afferma
che “Gige fu il primo dei Barbari di cui abbiamo conoscenza (πρῶτος βαρβάρων τῶν ἡμεῖς ἴδμεν) che dedicò ex-voto a Delfi dopo Mida figlio di Gordio, re di Frigia” (1 14, 2). È significativo che questa notizia relativa a Mida sia in rapporto con una relativa a Gige. La Lidia dei Mermnadi è infatti “la prima esperienza storica orientale, di cui i Greci abbiano una compiuta esperienza o — che storicamente è l'aspetto più decisivo — memoria. È attraverso la storia dei Lidi che i Greci (cioè, in questo caso, la cultura ionica)
ricordano e rappresentano altri regni orientali” 2, Erodoto dunque sa di Mida, ma ne parla in modo da suggerire una differenza qualitativa tra la tradizione relativa a Gige e quella sul re fri Mida appartiene a un’area e a un’epoca, per le quali Erodoto nel complesso non ritiene di potere contare su tradizioni affidabili. Così, nell’ambito delle
tradizioni collegate agli ἀναθήματα delfici, Gige è il primo di cui sappiamo (ἴδμεν), mentre il precedente di Mida è evocato, ma per essere posto oltre la soglia dell’eidévai, di un sapere verificato, sicuro. Il grande regno di Frigia, e il suo celebre sovrano, sono insom-
ma appena all'orizzonte della memoria storica greca e, conseguentemente, fuori dal campo storico erodote: una condizione di liminarità cronologica che l’esito dell’esperimento di Psammetico efficacemente rappresenta.
5. La tradizione extraerodotea Il più antico cenno extraerodoteo all’episodio di Psammetico è probabilmente un verso delle Nuvole di Aristofane, nel quale Strepsiade, accusato di essere antiquato e ingenuo, viene gratificato da Socrate con l’epiteto di Bexkeo£Anvog (nub. 398): coniato verosimilmente sul modello di npoo&Anvog, che tradizionalmente qualifica gli Arcadi, antichi
per eccellenza fra i Greci (Hippys FGrHist 554 F 7; Aristot. fr. 591 Rose) 27, esso sembra utilizzare come primo elemento quella parola βεκός, che guida Psammetico alla ‘scoperta’ dell’antichità dei Frigi. Data questa interpretazione, corrente negli scolii ad loc. e ge-
neralmente condivisa dai moderni , si pone il problema ulteriore se l’allusione all’esito * D. Musti, Storia greca cit., 259. ® Per gli scoli ad Apollonio (schol. Ap. Rhod. IV 262c-264b) che riportano le citazioni di Ippi di Reggio e di Aristotele, vd. M. Giangiulio, “Per la tradizione antica di Ippi di Reggio”, ASNP s. III, 22 (1992), 303 ss. = Vd. p. es. G. Mastromarco, in Aristofane. Commedie I, Torino 1983, 362 n. 59, con rinvio a }. Taillardat, Les images d'Aristophane. Études de langue et de style, Paris 1965*, 262; cfr. anche A. H. Sommerstein, Aristopha-
nes: Clouds, Warminster 1982, 182; J. Knobloch, art. cit., 20; più cauto K. J. Dover nella sua edizione commentata
210
P. Vannicelli
dell’esperimento di Psammetico sia indipendente da Erodoto (il quale cita anche "EAAnveg come fonti per l’episodio) oppure, come inclino a credere, ne presupponga la conoscenza 29.
Le fonti letterarie recenziori che in vario modo richiamano l’episodio, contengono talora semplici allusioni o generici richiami all’antichità dei Frigi (Quint. X 1, 10; Aristid. 113, 7; Clem. Al. protr. VI 4; Celso in Origen. c. Cels. IV 36; la cd. Predica dei Naasseni
in Hippol. refutatio V 7, 22; cfr. anche 7, 4; Claudian. Eutr. II 251-4; Pollux onom. V 88, cfr. II 8; schol. Ap. Rh. IV 262c); sono però soprattutto, anche se non esclusivamente, le
testimonianze scoliastiche che consentono di cogliere più chiaramente alcune caratteristiche della tradizione extraerodotea. a) Le due versioni riferite da Erodoto κατὰ τὴν τροφὴν τῶν παιδίων (allevati cioè o da capre o da donne con la lingua mozzata) sono ugualmente rappresentate nella tradizione extraerodotea, con qualche variante secondaria. La versione che prevede la presenza delle capre è talvolta chiosata con un’interpretazione razionalistica: il Bexög dei bambini sarebbe, più che frigio, un tentativo di imitazione del belare di quelle anomale nutri-
ci (così p. es. schol. Ap. Rh. IV 257/62c; schol.Tz. Aristoph. nub. 398a; Suid. s. v. BexeoéAnve) 19. Conseguenza di questa interpretazione è il fatto che nella maggior parte
degli scolii ad Aristofane (vd. anche schol. Aristid. II 3, 7) i bambini dicano semplicemente βέκ- βὲκ γάρ φασι καὶ τὰ πρόβατα. Stento però a credere che questa possibilità fosse
sfuggita a Erodoto stesso ?!. b) Un’altra caratteristica della tradizione extraerodotea è il fatto che l’esperimento di Psammetico sia presentato come il mezzo per dirimere una contesa περὶ τῆς ἀρχαιότητος
tra più popoli (che poi in sostanza è null’altro che la rappresentazione in forma drammatica del progressivo allinearsi nella storiografia greca, e naturalmente già in Erodoto, di aspirazioni al primato dell’antichità). Ecco dunque che protagonisti della contesa appaiono Egiziani e Frigi (Paus. I 14, 2, con distinzione dell’ambito greco da quello dei Barbari; schol. Tz. Aristoph. nub. 3984), Frigi e Paflagoni (schol. Aristid. Il 3, 7; schol.Th.Tr. Ari-
stoph. nub. 398b; per i Paflagoni, vd. sotto), o infine - in passi che invece contrappongono Greci e Barbari — Arcadi e Frigi (Mythogr. Vat. ΠῚ 1, 11 Bode) oppure Arcadi, Frigi e Persiani(?) (schol. vet. Aristoph. nub. 398d). È significativo che anche laddove Erodoto è
quasi parafrasato (schol. vet. Aristoph. nub. 398b; Suid. s. u. BexeotAnve), la difficoltà di
delle Nuvole (Oxford 1968, 152); scettico invece G. Guidorizzi nel commento ad Aristofane. Le nuvole, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1996, 246 s. Il termine βεκκεσέληνος, oltre ad essere registrato in alcuni lessici antichi (Esichio, Suida, Zonara), è ricordato da Plut. mor. 881a. 2 Non entro nel merito del più ampio problema dei rapporti Erodoto/Aristofane (0 delle sue eventuali implicazioni per la pubblicazione delle Storie): in generale però sono più vicino a posizioni quali quelle di G. Perrotta (RIL 59, 1926, 105-114) o Ὁ. Mastromarco (OS 3, 1977, 41-50) che non quelle p. es. di D. M. MacDowell, Aristophanes and Athens. An Introduction to the Plays, Oxford
1995, 62 ss.
% In questo senso è forse da intendere l'allusione di Clemente Alessandrino (protr. VI 4) alle αἶγες μυθικαί. M Come invece ritengono p. es. A. Salmon, art. cit., 325 s.: J. Knobloch, art. cit., 20; a un Erodoto meno distrat-
to pensano invece D. Fehling, Herodotus and bis ‘Sources’. Citation, Invention and Narrative Art, tr. ing. Leeds 1989, 141, e H. Erbse, op. cıt.. 114 ss, Va detto peraltro che in greco il verso delle capre è normalmente riprodotto con βῆ, come risulta p. es. da un noto verso del Διονυσαλέξανδρος di Cratino (PCG 45: ὁ δ᾽ ἡλίθιος ὥσπερ πρόβα-τὸν βὴ βῆ λέγων βαδίζει). commedia rappresentata probabilmente nel 430 a. C.
L'esperimento linguistico di Psammetico (Herodot. Il 2 ): c'era una volta il frigio
211
partenza di Psammetico (οὐκ ἐδύνατο πυνθανόμενος πόρον οὐδένα τούτου ἀνευρεῖν OÙ γενοίατο πρῶτοι ἀνθρώπων), che nelle Storie è presentata come una impasse -- potrem-
mo dire — epistemologica, diventi più banalmente impaccio di fronte alle pretese di molti (οὐχ οἷός te ἦν ἀνευρεῖν τὸ ἀκριβὲς διὰ τὸ πολλοὺς περὶ τούτου φιλονεικεῖν). c) Merita attenzione una più rara versione dell’episodio (schol. vet. Aristoph. nub. 3986; una variante facilior in schol. rec. 398f), di cui è protagonista Sesonchosis, il farao-
ne egiziano per antonomasia nella tradizione tarda ?°. Egli, definito - come altrove (Ps. Call. Hist. Alex. Magni I 33, 6; 34, 2) - κοσμοκράτωρ, a seguito di un esperimento bru-
talmente semplificato scopre che Béx indica il pane presso i Paflagoni. Lo scambio Frigi/Paflagoni, documentato anche in altri casi, è facilmente comprensibile se si considera come le fonti antiche rilevino una vicinanza non solo geografica, ma anche linguistica e, in senso lato, culturale tra Frigi e Paflagoni. Così p. es. Erodoto registra l'appartenenza di Frigi e Paflagoni alla stessa satrapia (III 90, 2), ma anche l’estrema somiglianza del loro equipaggiamento militare (VII 73) ; Strabone rileva la difficoltà di definire i confini tra i popoli di quest'area (XII 4, 4, 564; cfr. 3, 9, 544 sulla vicinanza tra Frigia e Paflago-
nia) e definisce il nome Manes ora frigio (VII 3, 12, 304) ora paflagonico (XII 3, 25, 553). Il ricorso ai Paflagoni, in una fase della tradizione che ormai riflette il quadro dell'Asia Minore presente all’erudizione ellenistico-romana, sembra in sostanza sottolineare
l’esito inatteso del celebre esperimento di un faraone egiziano, rinviando a una lingua mi-
croasiatica ritenuta antica e marginale, cioè lontana nel tempo e nello spazio; e tanto più si spiega se Φρύγες poteva anche designare genericamente le popolazioni microasiatiche,
senza una più precisa distinzione etnica e linguistica #. Infine la stessa ampiezza delle
Ὁ È chiaro che una volta che non si ricordi più quale sia il faraone in questione - in questa direzione vd. p. es. Quint. e Claudian. locc. citt., dove si fa un generico riferimento, rispettivamente, a reges e a un rex Aegyptius — si sceglie il faraone per eccellenza, lo straordinario κοσμοκράτωρ. Ciò a sua volta apre la strada al fatto che nei successivi sviluppi della tradizione, l'esperimento possa essere attribuito a qualsiasi illustre sovrano (Federico II, Giacomo IV di Scozia, il Gran Mogol Akbar: vd. oltre nel testo). Per Sesostris/Sesoosis/Sesonchosis, vd. O. Murray, “Hecataeus of Abdera and Pharaonic Kingship”, [ΕΑ 56 (1970), 162-4, 179 s.; A. B. Lloyd, op. cit. Il, 16-37 ; C. Obsomer, Les campagnes de Sésostris dans Hérodote, Bruxelles 1989 (in particolare per le varianti del nome, vd. 33-36: la forma Σεσόγχωσις sembra introdotta a partire da Manetone); 5. West, “Sesostris' Stelae (Herodotus 2. 102-106)”, Hi storia 41 (1992), 117-120; per l'appellativo κοσμοκράτωρ, vd. F. Cumont-L. Canet, “Mithra ou Sarapis κοσμοκ-pétup”, Comptes rendus de l'Acad. Inser. 1919, 313-328; per il ruolo di Sesostri nella storia universale, vd. A. Momigliano, “The Origins of Universal History”, in Settimo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1984, 89 (originariamente pubblicato in ASNP s. ΠῚ, 12 (1982), 533 ss.). Nell'ambito della storiografia universale greco-romana il dibattito su quale fosse il più antico tra i popoli, di cui cogliamo un primo cenno in Erodoto, si sviluppa indipendentemente dai Frigi: da questo punto di vista di grande interesse è il passo di Diodoro sull'antichità degli Egiziani (I 9; la palma di uomini più antichi è assegnata in ΠῚ 2, 1, agli Etiopi: per Diodoro, vd. ora D. Ambaglio, La Biblioteca Storica di Diodoro: problemi e metodo, Como 1995) che presuppone una serrata polemica con la posizione erodotea, nonché l'inizio del libro II di Giustino (lust. Il 1; cfr. anche Amm. XXII 15, 2), dove la prospettiva erodorea viene ribaltata, contestando agli Egiziani il primato dell'antichità e assegnandolo a quegli Sciti, che Erodoto stesso definisce “il più giovane di tutti i popoli” (Herodot. IV 5, 1; per il rapporto tra i due λόγοι dedicati a Egitto e Scizia, vd. A. Corcella, Erodoto. Le Storie IV, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1993, X s.). % Herodot. VII 73: Φρύγες δὲ ἀγχοτάτω τῆς Παφλαγονικῆς σκευὴν εἶχον, ὀλίγον παραλλάσσοντες: per la
σκευή τῶν ὅπλων come criterio di identificazione etnica, vd. p. es. il celebre passo dell'archaiologia tucididea sui Cari (Thuc. 18, 1). * Così G. Neumann, op. cit., 20. Per la vicinanza Frigi/Paflagoni, vd. anche O. Haas, op. cit., 16, 18 (ma sulla presunta iscrizione di Otys, vd. ora le puntualizzazioni di C. Brixhe e M. Lejeune, Corpus des inscriptions paléo-
212
P. Vannicelli
conquiste asiatiche attribuite a Sesostri/Sesonchosis favoriva il fatto che egli fosse messo in qualche rapporto anche con i Paflagoni. In conclusione, appare chiara la dipendenza di tutta la tradizione da Erodoto II 2. Va inoltre sottolineato come, al di là di tutte le varianti, dato costante e primario sia il fatto
che la parola pronunciata dai bambini indichi il pane. La fortuna dell’episodio continua, non senza connotazioni inquietanti, anche in epoca moderna. Sono note tradizioni relative a una ripetizione dell’esperimento da parte di Federico II di Svevia (1194-1250), Giacomo IV di Scozia (1473-1513) e del Gran Mogol Akbar (1542-1605):
l’esito sarebbe stato, nel primo caso, la morte dei bambini, nel se-
condo, “un ottimo ebraico”, nel terzo (qui l'indagine è mossa da interessi religiosi), il
mutismo dei circa venti piccoli indiani #. L'analisi di queste tradizioni esula però dai limiti del presente lavoro. 6. Funzione dell’episodio di Psammetico nel libro II delle Storie Torniamo ora a Erodoto per meglio precisare il significato e la funzione del racconto
relativo a Psammetico e ai bambini parlanti all’interno delle Storie. A questo fine occorre considerare attentamente i capitoli iniziali del libro II. Erodoto pone qui il problema della scelta del punto d’inizio, della soglia storica della sua esposizione relativa all'Egitto (si noti il ricorrere quasi ossessivo di πρῶτος πρότερος). Il problema è analogo a
quello affrontato all’inizio del libro I, ma su sua ἱστορίης ἀπόδεξις Erodoto definisce il me oggetto delle Storie, nel caso particolare l’Egitto - il problema della scelta del punto
un piano diverso. Se nei capitoli iniziali della limite cronologico alto del periodo scelto codel libro Il - l'ampia digressione dedicata alda cui cominciare equivale all’indicazione del
limite cronologicamente più alto raggiungibile per la storia umana tout court: gli Egiziani sono infatti un popolo che esiste fin da quando esiste la razza umana (Il 15, 3) e che più di ogni altro ha dedicato grande cura all’esercizio della memoria storica (77, 1)%.
L’analogia tra i primi capitoli dei libri I e Il va ulteriormente approfondita dal punto di vista formale. Nel libro I, dopo l’ampia frase proemiale, Erodoto avvia immediatamen-
phrogiennes, I, Paris 1984, 237 s.). Cfr. infine l'alternativa Frig/Lidi, storicamente ben comprensibile, a proposito di βεκόςin schol. vet. Aristoph. nub. 398f. % Cfr. p. es. M. Leroy, Profilo storico della linguistica moderna, tr. it. Roma-Bari 1965, 36; M.-L. Launay, “Un
roi, deux enfants et des chèvres: le débat sur le langage naturel chez l'enfant au XVI" siècle”, Studi francesi 24 (1980), 401-414; A. Sulek, “The experiment”, cit., 647 s.; M. D. Grmek, Il calderone di Medea. La sperimentazione sul vivente nell'antichità, Roma-Bari 1996, 13 ss. A commento dell'esperimento di Psammetico si possono richiamare, come non a caso fa nella sua traduzione commentata P. H. Larcher (II, Paris 1786) ad loc., le vicende dei cd. ragazzi selvaggi, dei quali il più celebre, grazie anche a un film di F. Truffaut, è quello dell'Aveyron (vd. 5, Moravia, Il ragazzo selvaggio dell'Aveyron, Roma-Bari 1972: A. Pioli, in Storia dell'educazione, a c. di E. Becchi, Firenze 1987, 211-218). Non sono stata invece in grado di trovare riscontro alle notizie raccolte oralmente, secondo cui l’esperienza sarebbe stata ripetuta anche nell'ambito delle sperimentazioni condotte durante il Terzo Reich: per l’eugenetica nazista, vd. ora C. Koonz, “Ethical Dilemmas and Nazi Eugenics: Single-Issue Dissent in Religious Contexts”, Journ. Mod. Hist 64 (1992), 8-31.
% Accenno in questo paragrafo brevi
buto dedicato al libro egiziano di Erodoto.
mente ad alcuni temi che riprenderò in modo più sistematico in un contri-
L'esperimento linguistico di Psammetico (Herodot. II 2 ): c'era una volta il frigio
213
te la discussione circa le cause del conflitto tra Greci e Barbari con il racconto dei λόγιοι persiani, tutto incentrato sulle note coppie chiastiche dei ratti di lo, Europa, Medea ed Elena (I 1-4). La versione dei λόγιοι persiani (I 5, 1: οὕτω μὲν Πέρσαι λέγουσι κτλ.) viene poi confrontata, per un singolo aspetto, con una variante fenicia (5, 2: περὶ δὲ Ἰοῦς οὐχ ὁμολογέουσι Πέρσησιν οὕτω Φοίνικες; una variante greca era stata già evocata in I 2, 1). A questo punto però Erodoto, dopo una formula riepilogativa (ταῦτα μέν νυν Πέρσαι te καὶ Φοίνικες λέγουσι), interviene in prima persona troncando la discussione: “io invece (ἐγὼ δέ, in forte contrapposizione ai Πέρσαι te καὶ Φοίνικες) riguardo a queste vicende non sto a dire se si siano svolte in questo modo o in un altro, ma, dopo aver indicato colui che so aver dato inizio ad azioni ingiuste contro i Greci (τὸν δὲ οἷδα αὐτὸς
πρῶτον ὑπάρξαντα ἀδίκων ἔργων ἐς τοὺς Ἕλληνας, cioè Creso), procederò nel racconto, discorrendo ugualmente delle grandi e delle piccole città degli uomini”. L'ampio rac-
conto dei rapimenti incrociati di eroine greche e barbare si rivela dunque una sorta di falsa partenza ?”, che pone in maggiore risalto Creso, scelto da Erodoto come l’effettivo
punto d’inizio. Questo procedimento si ritrova anche in II 2-4. Anche qui, come già all’inizio del libro I, Erodoto entra subito in medias res: il racconto dei bambini fatti allevare da Psam-
metico, che assegna il primo posto ai Frigi e il secondo agli Egiziani nella graduatoria assoluta dell’antichità, sembra offrire una soluzione al problema dell’antichità dell’Egitto (2, 1-5). Alla versione dei λόγιοι di turno, i sacerdoti di ‘Efesto’ a Menfi (2, 5: ὧδε μὲν
γενέσθαι τῶν ἱρέων τοῦ Ἡφαίστου τοῦ ἐν Μέμφι ἤκουον), si contrappone poi, per un singolo aspetto, una variante greca (Ἕλληνες δὲ λέγουσι κτλ.). Riassunto quanto fin qui detto (3, 1: κατὰ μὲν δὴ τὴν τροφὴν τῶν παιδίων — ché questo è appunto l’oggetto del contendere - τοσαῦτα ἔλεγον), Erodoto precisa di aver ascoltato dalle sue fonti egiziane
anche altro (ἤκουσα δὲ καὶ ἄλλα ἐν Μέμφι κτλ.) e di essersi quindi recato a Tebe ed
Eliopoli, data la fama degli Eliopoliti quali λογιώτατοι fra gli Egiziani, per fare un confronto con i racconti appresi a Menfi: viene così suggerito un ampliamento dell’orizzonte d’indagine rispetto al singolo episodio di Psammetico. L'esito del confronto però viene lasciato in sospeso, perché a questo punto Erodoto, sempre in prima persona, liquida bru-
scamente questa discussione delle tradizioni relative alle origini degli Egiziani: “i racconti relativi agli dèi che ho ascoltato [scil. dai sacerdoti egiziani] non sono disposto a riferirli (tà μέν νυν θεῖα τῶν ἀπηγημάτων οἷα ἤκουον οὐκ εἰμὶ πρόθυμος ἐξηγέεσθαι), con la sola eccezione dei nomi degli dèi, poiché penso che in merito a questi tutti gli uomini abbiano uguale conoscenza; cid che eventualmente ricorderd a questo proposito, lo ricorderò perché costretto dall’esposizione. Invece nell’ambito delle vicende umane, così dicevano [scil. i sacerdoti] concordando tra loro (ὅσα δὲ ἀνθρωπήια πρήγματα ὧδε ἔλεγον ὁμολογέοντες σφίσι): gli Egiziani, primi fra tutti gli uomini, scoprirono l’anno ecc.” (3,
* Così viene efficacemente definita da D. Lateiner, The Historical Method of Herodotus, Toronto-Buffalo-London 1989, 38, e soprattutto da H. Pelliccia, “Sappho 16, Gorgias’ Helen, and the preface to Herodotus’ Histories", YCS 29 (1992), 63-84, interessante per la definizione dei capitoli iniziali delle Storie come una forma di recusatio (definizione da estendere anche ai capitoli iniziali dei libri Il e IV: vd. oltre nel testo) e per il parallelo tra l’inizio del libro I delle Storie e quello dell’ Elena di Gorgia: il capitolo dei rapporti tra Erodoto e la sofistica - per il quale vd. A. Dihle, “Herodor und die Sophistik”, Philologus 106 (1962), 207-220 - è in buona parte ancora da scrivere.
214
P. Vannicelli
2-4, 1). Erodoto dunque non intende riportare, se non per puntuali esigenze narrative, i racconti relativi agli dei # e passa senz’altro alle vicende umane (ἀνθρωπήια πρήγματα), all’interno delle quali segnala (4, 1-2) tutta una serie di primati egiziani, che culminano, e
in certo modo si riassumono (vd. sotto n. 41), nell’indicazione del sovrano che identifica il punto d’inizio da lui scelto per la stoi iana: Min, il primo uomo a regnare sull’Egitto (βασιλεῦσαι δὲ πρῶτον Αἰγύπτου ἄνθρωπον ἔλεγον Miva).
Per comprendere meglio il significato di questa presa di distanza dai θεῖα τῶν ἀπηγη-μάτων e la conseguente scelta di Min come limite alto dello spazio storico egiziano, oc-
corre considerare un’altra sezione cruciale del libro Il (142-6), che per più aspetti si colle-
ga ai capitoli iniziali ora considerati. In 142 ss. infatti Erodoto fornisce ulteriori dettagli circa le tradizioni relative all’antichità della storia egiziana apprese a Menfi: siamo cioè nell’ambito di quelle altre notizie (καὶ ἄλλα),
a cui Erodoto
fa riferimento in 3, 1. In
questo stesso contesto vengono inoltre narrate le visite a Tebe di Ecateo ed Erodoto (143): a quest’ultima Erodoto fa riferimento sempre in 3, 1, quando afferma di essersi re-
cato a Tebe (ed Eliopoli) per verificare se c’era accordo con le tradizioni raccolte a Menfi. Le indicazioni fornite in II 142 ss. dai sacerdoti di Menfi e Tebe a proposito di Min e dei suoi successori si sovrappongono e, in certa misura, si confondono: a ciò peraltro corri-
sponde l’affermazione erodotea, secondo la quale quello che i sacerdoti di Menfi, Tebe ed Eliopoli dicevano sugli ἀνθρωπήια πρήγματα - vale a dire sulla storia egiziana a partire da Min - lo dicevano ὁμολογέοντες σφίσι (4, 1) ®.
Dai sacerdoti egiziani dunque Erodoto apprende che da Min fino a Setone, sacerdote di Efesto - l’ultimo sovrano prima di quella dodecarchia che sarà rovesciata proprio da Psammetico
I — si succedettero
ben 341
faraoni e altrettanti sommi
sacerdoti
(142,
1).
Questo spazio storico di 341 generazioni, uno spazio sconfinato rispetto alla ben più corta memoria storica greca, rappresentata dalle 16 generazioni di Ecateo, è documentato a Tebe da altrettante statue lignee di sommi sacerdoti, mostrate a Erodoto dalla prima al-
l’ultima (143, 2-3). Prima di queste 341 generazioni, in Egitto avrebbero regnato non uomini, ma dèi che vivevano assieme agli uomini (144). Mentre però la successione di 341
generazioni corrispondenti ai regni da Min a Setone è documentata, secondo Erodoto,
per tutta la sua ampiezza dalle statue dei sommi sacerdoti, nonché, per i primi 330 successori di Min, da un papiro menzionato in precedenza (Il 100, 1), i racconti relativi agli dèi non hanno un analogo riscontro. La diversa qualità delle tradizioni relative a questi
due periodi è evidenziata grammaticalmente da un repentino passaggio al discorso indiretto “Ὁ, la cui utilizzazione è circoscritta all’ampia frase dedicata ai regni divini (144, 2:
τὸ δὲ πρότερον τῶν ἀνδρῶν τούτων θεοὺς εἶναι τοὺς ἐν Αἰγύπτῳ ἄρχοντας οἰκέοντας
% Per una eccellente discussione del passo, vd. ora J. Gould, “Herodotus and Religion”, in Greek Historiography, ed. by 5. Hornblower, Oxford 1994, 91 ss.; cfr, anche F. Mora, Religione e religioni nelle Storie di Erodoto, Milano 1986, 136 s.; G. Zographou, “L'argumentation d'Hérodote concernant les emprunts faits par les Grecs à la religion égyptienne”, Kernos 8 (1995), 187 ® Oltre ai commenti di Wiedemann e Lloyd, una buona introduzione ai complessi problemi posti da Herodor. II 142 ss. è l'articolo di W. Kaiser, “Zu den Quellen der ägyptischen Geschichte Herodots”, ZAeA 94 (1967), 93-116; per una più recente discussione, vd. $. West, “Herodotus' Portrait of Hecatacus®, JHS 111 (1991), 145-154. + Vd. G. L. Cooper, “Intrusive Oblique Infinitives in Herodotus”, TAPA 104 (1974), 23-76, in particolare 26
L'esperimento linguistico di Psammetico (Herodot. I 2 ): c'era una volta il frigio
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ἅμα τοῖσι ἀνθρώποισι, καὶ τούτων αἰεὶ Eva τὸν kpatéovta εἶναι" ὕστατον δὲ αὐτῆς
βασιλεῦσαι Ὦρον τὸν Ὀσίριος παῖδα, τὸν ᾿Απόλλονα “Ἕλληνες ὀνομάζουσι: τοῦτον. καταπαύσαντα Τυφῶνα βασιλεῦσαι ὕστατον Αἰγύπτου).
Tutto ciò consente di determinare la presa di distanze di Erodoto II 3, 2, dai racconti
relativi agli dèi ascoltati (anche) a Tebe (tà μέν νυν θεῖα τῶν ἀπηγημάτων οἷα ἤκουον) come in primo luogo una presa di distanze da questa fase antichissima e non verificabile della storia egiziana: di conseguenza egli sceglie di riferire quanto rientra nelle vicende
umane (ὅσα δὲ ἀνθρωπήια πρήγματα ὧδε ἔλεγον) ovvero il periodo a partire dal regno di Min*!.
Ricapitoliamo. Nei capitoli iniziali del libro II Erodoto pone il problema della definizione del limite cronologico alto della sua esposizione relativa all’Egitto e lo risolve fissando come soglia storica il regno di Min, primo uomo a regnare in Egitto. In questo contesto il racconto relativo a Psammetico assolve a una funzione analoga a quella dei racconti dei λόγιοι persiani all’inizio del I libro: entrambi evocano un ambito cronologico e di tradizioni non verificabili, che Erodoto colloca al di fuori della propria sfera d’indagine; e come la ricusazione delle tradizioni sulle origini mitiche del conflitto tra Greci e Barbari assegna maggior rilievo all’indicazione di Creso quale punto d’inizio delle Storie, così quella dei racconti relativi ai regni degli dèi in Egitto dà maggiore evidenza alla scelta erodotea di non risalire oltre la soglia di Min “2. C'è inoltre un rapporto dialettico tra la figura di Psammetico e l’io narrante delle Storie *. Psammetico, come Erodoto, vuole appurare se
davvero gli Egiziani siano i più antichi tra gli uomini: chiaro è il parallelo, più volte notato, tra Psammetico, che ἠθέλησε εἰδέναι chi fossero gli uomini più antichi (II 2, 1), e Ero-
doto, che si reca a Eliopoli e Tebe ἐθέλων εἰδέναι se ci sia o meno accordo con le tradizioni raccolte a Menfi (II 3, 1). Questo parallelo può forse essere ulteriormente circostanziato. Raccontando il suo incontro con i sacerdoti di Menfi, Erodoto di fatto si rappresenta
per l'uso “of oblique infinitives as narrative verb forms without any ruling verb or other introductory expression. This usage is apparently confined to Herodotus and seems ... to be invariably significant of reserve on the part of the author”; di quest'uso è esempio anche Il 144, 2, nonostante la riserva, forse un po’ formalistica, dello stesso Cooper, art. cit., 27 n. 7; cfr. anche J. Gould, art. cit., 95 s. 4 Molti altri dettagli possono essere segnalati per illustrare, al di là dell'esplicito rinvio fatto da Erodoto, lo stretto rapporto tra l'enunciazione programmatica di Il 3-4 e Il 142-6. Rinviando ad altra sede per un'analisi più minuziosa, mi limito a segnalare (1) la centralità in entrambi i passi dell'opposizione tra il regno degli dei e quello degli uomini; (2) Γέργω ἐδήλουν riferito ai sacerdoti egiziani immediatamente prima del riferimento a Min in Il 4, 2, che rinvia all'estenuante ἀπόδεξις - (ἀπο)δείκνυμι ricorre nel passo ben 6 volte — delle statue da parte dei sacerdoti; (3) infine il fatto che i primati egiziani elencati in Il 4 appaiono strettamente funzionali sia all'indicazione di Min come soglia storica dell'esposizione relativa all'Egitto sia alla documentazione che di ciò viene fornita in Il 142-146: così il primato egiziano nella definizione e suddivisione interna dell’anno costituisce una garanzia dell'accuratezza dei complessi calcoli cronologici sfoggiati dai sacerdoti egiziani in Il 142 (vd. la nota equivalenza delle 341 generazioni da Min a Setone a 11340 anni nonché il loro continuo (ἐξ)αριθμέειν), mentre il fatto che gli Egiziani siano stati i primi
uomini ad attribuire agli di altari, statue e templi costituisce la premessa indispensabile del fatto che essi possano documentare la loro storia con le statue dei sommi sacerdoti nel tempio di ‘Zeus’ a Tebe fin dalla lontanissima epoca di Min. 4 L'impostazione di Erodoto comporta una formulazione del racconto in termini così strettamente funzionali alla sua prospettiva storiografica, che l'individuazione di uno specifico autore come sua eventuale fonte (Ecateo?) appare, ai miei fini, un problema per lo meno secondario. * Vd. M. R. Christ, art. cit., 185, 197 ss.
216
P. Vannicelli
allo stesso livello cronologico di Psammetico: le 341 statue di sommi sacerdoti coprono infatti, come già detto, il periodo che va da Min fino a Setone, il faraone della generazione immediatamente precedente quella di Psammetico. Oltre Min, né per Erodoto né per Psammetico è possibile approdare a una conoscenza certa. Di fronte a ciò, la scelta erodotea è di prendere atto di non poter risalire oltre la soglia di Min; la scelta di Psammetico è invece di aggirare l’aporia escogitando un espediente (ἐπιτεχνᾶται τοιόνδε). L'espressione
ἐπιτεχνᾶται τοιόνδε merita qualche parola di commento. Essa ricorre in Erodoto altre quattro volte (I 63, 2; 123, 3; Il 119, 2; 121 öl) e si riferisce sempre all’adozione di un’espediente spregiudicato, quando non violento, per uscire da situazioni senza apparente via
d’uscita; i protagonisti di questi episodi sono spesso tiranni o monarchi (Pisistrato, Psammetico, l’empio Menelao in Egitto; oltre a questi Arpago e il ladro del tesoro di Rampsinito) *. Psammetico che fa segregare i bambini per ricercare la lingua originaria rappresenta
insomma una sorta di ‘modo di produzione asiatico’ del sapere, di exemplum e contrario, che Erodoto stesso liquida pochi capitoli più avanti (II 15, 3). 7. Conclusioni La tradizione erodotea relativa all'esperimento di Psammetico ($ 1) è di origine ioni-
ca; è però senz'altro possibile che, come Erodoto stesso afferma, essa fosse conosciuta e accolta anche da Egiziani ($ 2). La pointe del racconto, come già notato dagli antichi, consiste con tutta probabilità nel fatto che la parola bekos è un’imitazione del belato delle capre. Nondimeno la richiesta di pane da parte dei bambini, inserita in un vivace quadretto non privo di echi omerici, indica il loro passaggio alla condizione di ἄνθρωπος ($ 3). L'implicita connotazione dei Frigi come mangiatori di pane suggerisce una certa vici-
nanza, nell’immaginario greco, tra Greci e Frigi. Inoltre l’antichità dei Frigi segnalata dall’episodio indica una loro liminarità cronologica rispetto alla memoria storica greca, che di fatto registra in modo compiuto la storia dell'Asia Minore a partire dalla Lidia dei Mermnadi
($ 4). La tradizione extraerodotea,
che - con
l’unica possibile eccezione
di
Aristofane - da Erodoto interamente dipende, banalizza la ricchezza del racconto erodoteo e, pur mantenendo la centralità della richiesta di pane, progressivamente elimina il ri-
ferimento a Psammetico e ai Frigi, aprendo la strada alla fortuna dell’episodio in età medioevale e moderna ($ 5). Una piena comprensione del locus erodoteo non può prescindere da un suo inquadramento nel libro II. Con questo racconto Erodoto intende indica-
re un ambito cronologico e di tradizioni della storia egiziana, che si sottrae a ogni possibilità di verifica e, di conseguenza, è escluso dalla sua esposizione: si tratta, come viene precisato più avanti, del periodo di storia egiziana in cui regnarono gli dèi. L'esperimento
di Psammetico è raccontato da Erodoto in termini strettamente funzionali alla sua prospettiva storiografica e costituisce una sorta di ‘falsa partenza’, assimilabile ai racconti
4 Vd. L. Camerer, Praktische Klugheit bei Herodot. Untersuchungen zu den Begriffen μηχανή. τέχνη, σοφίη, Tübingen 1965, 57-64, 94, il quale considera i cast sopracitati, tranne quello di Pisistrato, come esempi di “Klugheit im volkstumlichen Bereich”.
L'esperimento linguistico di Psammetico (Herodot. Il 2 ): c'era una volta il frigio
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dei Persiani all’inizio del libro I e a quelli relativi alle origini degli Sciti all’inizio del libro IV. Respingendo l’esperienza di Psammetico e indicando il punto d’inizio della storia egiziana in Min, primo re uomo, Erodoto stabilisce il più alto limite raggiungibile per la storia umana. Egli fissa così, già all’inizio del libro, i termini di quel confronto tra storia greca e storia egiziana riproposto con particolare efficacia nei capitoli 142 ss., ai quali i capitoli iniziali per più aspetti rinviano ($ 6)“.
5 La presente relazione è stata rielaborata in vista della pubblicazione durante un soggiorno di studio presso il Philologisches Seminar della Eberhard-Karls-Universität di Tübingen, nel quadro di un programma del CNR di scambi internazionali per la mobilità di breve durata.
Il culto imperiale in Frigia
M. DOMITILLA CAMPANILE Università
degli Studi - Pisa
La scelta di trattare un argomento quale ‘il culto imperiale’ declinato in una partico-
lare regione dell'Asia Minore presuppone evidentemente la pretesa di trovare nell’ambito adottato particolari caratteristiche che rendano utile la selezione. A tale proposito appare stimolante un recente contributo di G.W. Bowersock !, ove si suggerisce che già dal-
l’età antonina, dall’epoca del regno congiunto di Marco Aurelio e Lucio Vero, fu cura dell’autorità romana creare particolari distinzioni regionali all’interno della provincia d’Asia, quasi preludio e anticipazione delle future provincializzazioni realizzate da Diocleziano?.
Ritengo, d’altra parte, che per il nostro tema sia più
interessante un tentativo di rile-
vare caratterizzazioni e specificità già presenti nella regione frigia piuttosto che imposte
dall’esterno dal potere centrale. Poiché il nostro tema è relativo al culto imperiale è in questo ambito e in particolar modo nei suoi rappresentanti, nei sommi sacerdoti, che si tenterà di evidenziare distinzioni e particola
1. È d’obbligo a questo punto ricordare l’atto fondante del culto dell’imperatore in Asia Minore: nel 29 a.C. Ottaviano concesse ai provinciali, su loro richiesta, di costruire un
tempio a Pergamo dedicato a sé ed alla dea Roma’. Da allora un sommo sacerdote, eletto annualmente, officiava il culto dell’imperatore a Pergamo, divenuta città neocora, ovvero sede di un tempio dedicato al culto imperiale.
! G.W. Bowersock, Martyrdom and Rome, Cambridge 1995, part. 85-98: «Appendix 4. Asia, Aphrodisias and
the Lyon Martyrium».
? È difficile però convincersi completamente che a) il liberto imperiale M. Aurelius Marcio sia stato a capo di un “independent procuratorial district’ della Frigia nella seconda metà/fine del II secolo d.C. (Bowersock p. 96) e che b) i compiti amministrativi del cavaliere M. Cosconius Fronto (esazione della vigesima hereditatium in Frigia e in Asia) siano il segno di una volontà imperiale di intromettersi nella politica di una provincia pertinente al senato come l'Asia. Su tutto ciò si veda G. Boulvert, Esclaves et affranchis imperiaux, Napoli 1970, p. 294 (con E. Kornemann s.v. “Domänen”, in RE suppl. IV, 1924, part. col. 248); P.R.C. Weaver, “Freedmen Procurators in the Imperial Administration”, Historia 14 (1965), pp. 460-469; A.R. Birley, The Fasti of Roman Britain, Oxford 1981, pp. 304-305; M. de Dominicis, “Sulle attribuzioni dei «procuratores» imperiali nelle provincie senatorie”, in Studi in onore di B. Biondi, 1, Milano 1965, pp. 565-597; M. Corbier, L'Aerarium Saturni et l'Aerarium militare, Rome 1974, pp. 682-689 e Ead., “L'Aerarium militare”, in Armées et fiscalité dans le monde antique, Paris 1977, pp. 197-234, part. 227-232.
3 Tac. Ann. IV, 37: Cum divus Augustus sibi atque urbi Romae templum apud Pergamum sisti non prohibuisset. Dio Cass. LI, 20, 7: τοῖς δὲ δὴ ξένοις, Ἕλληνάς σφας ἐπικαλέσας, ἑαυτῷ τινα. τοῖς μὲν Ἁσιανοῖς ἐν Περγάμῳ τοις δὲ Βιθυνοῖς ἐν Νικομηδεία τεμενίσαι ἐπέτρεψε.
220
M.D. Campanile
2. È possibile individuare un altro episodio di grande importanza per l’istituzione del culto. Fra i più antichi documenti relativi al koinòn d’Asia sono da considerare i decreti emessi appunto dall’assemblea provinciale in seguito alla proposta del proconsole d’Asia Paullus Fabius Maximus (PIR? F 47) di far iniziare l’anno civile per la provincia d’Asia
nel giorno anniversario del genetliaco dell’imperatore Augusto (23 settembre)*. Tali decreti, unitamente all’editto del proconsole, formavano un unico documento da esporre in varie località della provincia, ἐν ταῖς ἀφηγουμέναις τῶν διοικήσεων πόλεσιν, nelle città preminenti dei conventus
(Laffi p. 22 1. 65). È interessante rilevare che sono
state rinvenute copie (o frammenti di copie), oltre che a Priene e in Meonia di Lidia, ad
Apamea di Frigia ‘, Dorylaeon ed Eumeneia. Relatore del primo e del secondo psephisma del koinòn è l’archiereus Apollonios figlio di Menophilos (1. 31 e Il. 78-79) e la sua città di origine è Aizanoi. Fatta salva la casualità del ritrovamento epigrafico, potrebbe essere lecito collegare la cura nel riprodurre copie del dossier nella regione frigia con la medesima
provenienza, frigia, del sommo
sacerdote Apollonius. 3. Sempre nel tentativo di individuare cronologicamente, in questa prima parte della comunicazione, elementi che colleghino la storia ‘generale’ del culto imperiale nella provincia d’Asia con la Frigia è importante ricordare un episodio. Nel 23 d.C. il koinòn d’Asia ottenne dall'imperatore Tiberio la concessione di costruire un secondo tempio dopo quello di Augusto a Pergamo δ, ma tre anni dopo gli inviati di undi à ? si recarono a Roma per ottenere il privilegio di edificarlo ciascuno nella propria *. Anche se poi a Roma Laodicea, insieme con altre città (Hypaepa, Tralles e
Magnesia), fu trascurata perché parum valida e Smirne ottenne la neocoria, è chiaro che in Asia mancava una città su cui potessero convergere i voti dei rappresentanti del koinòn e che comunque Laodicea aveva superato una selezione precedente che la abilitasse ad inviare ambasciatori in proprio favore presso l’imperatore ed il senato; più avanti esamineremo un'ipotesi sulla possibile identità dell’ambasciatore di Laodicea in questa circostanza.
4. Le città della Frigia dovettero attendere circa 150 anni prima di ottenere una neocoria imperiale; Commodo
beneficò Laodicea della concessione, che fu annullata dopo la dam-
natio memoriae dell’imperatore, e la città dovette sostituire nelle iscrizioni il titolo di
“U. Laffi, “Le iscrizioni relative all'introduzione nel 9 a.C. del nuovo calendario della provincia d'Asia”, SCO
16 (1967), pp. 5-98 ST. Drew-Bear, Nouvelles inscriptions de Phrygie, Zutphen 1978, p. 25-26.
* Tac. Ann. IV, 15: ob quam templum Tiberio matrique eius ac > Hypaepa, Tralles, Laodicea, * Tac. Ann. IV, 5 : Undecim Laodicents ac Magnetibus, simul
ultionem et quia priore anno in C. Silanum vindicatum erat, decrevere Asiae urbes senatui. Et permissum statuere. Magnesia, Ilio, Alicarnasso, Pergamo, Efeso, Mileto, Sardi, Smirne. urbes certabant, pari ambitione. viribus diversac ... Verum Hypacpeni Trallianique tramissi ut parum validi; cfr. C. Habicht, “New Evidence from the Provincia of
Asia”, JRS 65 (1975), pp. 64-91, p. 71; S.R.F. Price, Ritual and Power. The Imperial Cult in Asia Minor, Cambridge
1984, pp. 64-65.
Il culto imperiale di Frigia
221
‘neocora’ con quello, meno prestigioso, di φιλοσέβαστος ?. Il neocorato fu restituito a
Laodicea da Caracalla e donato forse a Hierapolis per la prima volta !°. 5. Fino al termine del II secolo, dunque, i sommi sacerdoti provenienti dalla Frigia rivestirono la carica in città diverse da quelle della propria regione, come Pergamo, Smirne, Efeso, Cizico, Sardi. Prenderemo quindi in esame alcuni di questi personaggi, iniziando appunto da quelli originari di Laodicea.
6. L. Antonius Zenon !! apparteneva al ramo di Laodicea dell’illustre famiglia degli Zenonidi. Le prime notizie su questa famiglia ci sono fornite da Strabone (XIV, 2, 24), allorché ricorda che Hybreas di Mylasa e Zenon di Laodicea impedirono che le loro città si alleassero con Labieno e i Parti contro i Romani (40 a.C.). In premio di ciò M. Antonio rese Polemone, il figlio di Zenon, re del Ponto; tale donazione fu confermata poi da Augusto. Moglie di Polemone fu la celebre Pythodoris, figlia dell’asiarca di Tralles Pythodorus!2,
Il nostro L. Antonius Zenon era figlio di Zenon, il fratello del re del Ponto e sacerdote di Roma e Augusto a Cuma eolica "", fu sommo sacerdote del culto imperiale alla fine dell’età augustea o all’inizio del regno di Tiberio. Fece anche parte dell’ordine equestre, come tribunus militum della legione XII Fulminata, e fu particolarmente onorato dall’imperatore Augusto col privilegio della porpora regale, βασιλικῇ ... πορφυραφορία, quale
riconoscimento dei vincoli di parentela con i regnanti del Ponto e forse, come suggerisce la Ritti, quale speciale monito di Augusto ai re clienti del Ponto che in Asia continuava
ad esistere e prosperare un ramo meno importante ma fedele. Alcune emissioni monetarie di Laodicea fino all’epoca di Nerone ricordano L. Antonius Zenon come sacerdote eponimo. Il sacerdozio locale viene ereditato dal figlio, omonimo. Data l’importanza di questo personaggio, l’attenzione riservatagli da Augusto e le parentele regali, è possibile suggerire che l’inviato da parte di Laodicea a perorare nel 26 d.C. a Roma la causa della città come sede di un tempio, sia da identificare appunto con L. Antonius Zenon.
7. La famiglia raggiungerà il culmine della fama e della gloria dopo circa due generazioni; forse pronipote, sicuramente discendente del sommo sacerdote, è il sofista più famoso della sua epoca, M. Antonius Polemone, cui Filostrato dedicò una tra le lunghe delle “Vite dei Sofisti” 4. Senza seguire in questo momento il suo operato di sofista e di inse-
* L. Robert, in J. de Gagniers et al., Laodicée du Lycos. Le nymphée, Québec-Paris 1969, pp. 281-294. % L. Robert, “Sur des inscriptions d'Ephèse. VI. Lettres impériales à Ephèse”, RPh (1967), pp. 44-64 (= OMS V, pp. 384-404, part. 397): neocorie di Caracalla a Smirne (3%), Philadelphia, Tralles, Laodicea sul Lico, Hierapolis, luliopolis. Si veda però, per l'attribuzione della neocoria di Hierapolis a Elagabalo, A. Johnston, “Hierapolis revisited”, NC 144 (1984) pp. 52-80. 1 MAMA VI, nr. 104 e A. Ceilan-T. Ritti, “L. Antonius Zeno”, Epigraphica 49 (1987), pp. 77-98.
1 Cfr. A. Ceilan-T. Ritti, art. cit., pp. 85-86 con bibliografia precedente. MH. Engelmann, Die Inschriften von Kyme, Bonn 1975, nr. 19. !* Philostr., Vitae Sophistarum 530-544.
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M.D. Campanile
gnante, va osservato che di grande importanza furono le sue imprese come ambasciatore presso gli imperatori, ed in particolare presso Adriano, di cui fu amico personale '5. Anche se non rivestì mai il sacerdozio imperiale, le sue azioni in favore di Smirne in
un lungo volgere di anni furono anche relative a questo ambito. È possibile anzi supporre
che il mancato sacerdozio sia stato frutto di una scelta dell’uomo convinto che “una città riceve sì lustro da piazze e da superbi edifici, ma anche da un nobile casato, ché non solo una città dona rinomanza ad un uomo, ma la riceve anche da un uomo” !6.
Un prezioso riscontro documentario è offerto da un'iscrizione databile al 124 d.C. ove si attribuisce esclusivamente all’intervento di Polemone, (διὰ Ἀντωνίου Πολέμωνος)
il conferimento della seconda neocoria a Smirne e i ricchi doni di Adriano per questa occasione !”; nell’epigrafe è menzionato anche l’asiarca Chersiphron, ma la concessione della seconda neocoria, conferita dall'imperatore attraverso un senatus consultum, è dovuta unicamente a Polemone, il quale è riuscito a dirigere la simpatia di Adriano da Efeso, città verso cui l’imperatore era estremamente favorevole, a Smirne.
I benefici di Polemone verso la città in campo religioso quasi non terminarono con la sua morte; davanti all'imperatore Antonino gli Smirnei discutevano una causa relativa ai templi e a diritti connessi
mentre
Polemone,
cui era stata affidata
la causa, era morto.
Antonino chiese se il sofista non avesse lasciato l’orazione, rinviò il processo finché non fu prodotto un testo e assegnò la causa a Smirne quale postumo omaggio a Polemone "5. 8. Il figlio di Polemone, Attalos, è noto per alcune emissioni monetarie, da lui finanziate,
dove figura come sofista e cittadino di Laodicea e Smirne !. La figlia
di Attalos, Claudia
Callisto 2°, sposò il consolare Flavius Rufinianus, originario di Focea. Loro figlio, L. Fla-
2 Tra le molte prove di questo rapporto personale è sufficiente ricordare che Adriano raccomandò nel testamento Polemone ad Antonino, scrivendo che proprio il sofista gli aveva consigliato la sua successione. * Philostr., ib., 532: πόλιν γὰρ δὴ λαμπρύνει μὲν ἀγορὰ καὶ κατασκευὴ μεγαλοπρεπὴς οἰκοδομημάτων, λαμπρύνει δὲ οἰκία εὖ πράττουσα, οὐ γὰρ μόνον δίδωσι πόλις ἀνδρὶ ὄνομα, ἀλλὰ καὶ αὐτὴ ἀρνυται ἐξ ἀνδρός. © G. Petzl, Die Inschriften von Smyrna, Il, 1, Bonn 1987, nr. 697 Il. 33 ss. Adriano in quell'occasione ha concesso alla città di Smirne l'agone sacro, esenzione da imposte, la creazione di un collegio di theologoi e di hymnodoi e ha donato un milione e mezzo di denari e 72 colonne di marmo di Synnada, 20 di marmo della Numidia e 6 di porfido, pietre provenienti da cave di proprietà imperiale. Cfr. L. Robert, “Les kordakia de Nicée. Le combustible de Synnada et les poissons-scies. Sur des lettres d'un métropolite de Phrigie au X° siècle. Philologie et réalités”, JS, (1962), pp. 5-74, part. 15 (= OMS VII, pp. 71-140, part. 81).
5 Philostr., ib., 539-540: Kaxriva τῶν Πολέμωνι τιμὴν" ἐχόντων ἦριζεν ἡ Σμύρνα ὑπὲρ τῶν ναῶν καὶ τῶν ἐπ᾽ αὐτοῖς δικαίων, ξύνδικον πεποιημένη τὸν Πολέμωνα ἐς τέρμα ἤδη τοῦ βίου ἥκοντα. ἐπεὶ δὲ ἐν ὁρμῇ τῆς ὑπὲρ τῶν δικαίων ἀποδημίας ἐτελεύτησεν. ἐγένετο μὲν ἐπ᾿ ἄλλοις ξυνδίκοις ἡ πόλις. πονηρῶς δὲ αὐτῶν ἐν τῷ βασιλείῳ δικαστηρίῳ διατιθεμένων τὸν λόγον βλέψας ὁ αὐτοκράτωρ ἐς τοὺς τῶν Σμυρναίων ξυνηγόρους ‘où Πολέμων"
εἶπεν “τουτουὶ τοῦ ἀγῶνος ξύνδικος ὑμῖν ἀπεδέδεικτο: “vai, ἔφασαν “εἰ γε τὸν σοφιστὴν λέγεις" καὶ ὁ αὐτο-
κράτωρ “ἴσως οὖν᾽ ἔφη “καὶ λόγον τινὰ ξυνέγραψεν ὑπὲρ τῶν δικαιων. οἷα δὴ ἐπ᾽ ἐμοῦ τε ἀγωνιούμενος καὶ ὑπὲρ τηλικούτων. ἴσως. ἔφασαν, “ὦ βασιλεῦ, οὐ μὴν ἡμῖν γε εἰδέναι. καὶ ἔδωκεν ἀναβολὰς ὁ αὐτοκράτωρ τῇ δίκῃ,
ἔστ᾽ dv διακομισθὴ ὁ λόγος. ἀναγνωσθέντος δε ἐν τῷ δικαστηρίῳ κατ᾽ aurov ἐψηφίσατο ὁ βασιλεύς. καὶ ἀπῆλθεν ἡ Σμύρνα τὰ πρωτεῖα νικῶσα καὶ τὸν Πολέμωνα αὐτοῖς ἀναβεβιωκεναι φάσκοντες. BMC
229.
lonia, p. 307 nrr. 511-513; p. 308 nrr. 514-516;
SNG von Aulock, lonien nrr. 2243-2244.
2 M. Th, Racpsaet-Charlier, Prosopographie des femmes de l'ordre senatorial (1°-Il'siècles), Louvain 1987, nr.
Il culto imperiale di Frigia
223
vius Hermocrates, fu l’unico discendente di Polemone tale da essere paragonato al famoso antenato 2). Fu celebre sofista, sacerdote del culto imperiale nei templi di Pergamo e membro del consilium di Caracalla 22. Da un’epigrafe pergamena risulta che egli riportò il successo in una disputa in cui erano coinvolti i diritti e la titolatura della città 23, come appunto più volte anche Polemone.
9. Ad un personaggio così celebre tentò di legarsi Aelius Antipater di Hierapolis, nipote
di P. Aelius Zeuxidemus Cassianus, sommo sacerdote del culto imperiale e figlio di P. Aelius Zeuxidemus Aristus Zenon, membro dell’ordine equestre e advocatus fisci in Frigia ed in
Asia 24. Aelius Antipater, personaggio di fiducia della corte imperiale, nominato da
Settimio Severo διδάσκαλος dei figli Caracalla e Geta e ab epistulis Graecis della cancelleria imperiale 25, propose a Hermocrates la propria figlia in matrimonio, nel desiderio di imparentarsi con un giovane di una casata tanto più illustre della propria; Hermocrates,
nonostante avesse dissipato le ricchezze avite, rifiutò la prospettiva di nozze con la ragazza provvista di una ricchissima dote e fu solo sotto la precisa costrizione dell’imperatore che accettò il matrimonio, seguito poco dopo dal divorzio.
Malgrado l’apparenza di pettegolezzo che conserva la storia riportata da Filostrato 6, l’impressione che se ne trae è l’esistenza di una particolare ‘gerarchia di nobiltà’ tra le famiglie di notabili della Frigia e l’estrema difficoltà di superarla anche nel caso si fosse raggiunto il vertice del potere a Roma. Evidentemente Aelius Antipater, nonostante la ricchezza e l’intimità con gli imperatori, appariva ancora un parvenu agli occhi di chi poteva vantare antenati famosi da quasi tre secoli, mentre il diventare suocero di un simile personaggio, per Antipater palesemente doveva rappresentare un'ulteriore promozione
nella sua regione. L’orgogliosa coscienza di sé e delle proprie origini è confermata dalla altera risposta di Hermocrates
all’imperatore, incantato dalla sua arte declamatoria, che lo invitava
a
domandargli qualunque premio “Corone, immunità, diritto a banchetti gratuiti, porpora e sacerdozio il nonno ha già lasciato ai discendenti, perché dovrei chiederti oggi quanto possiedo da tempo?” 27.
21 Philostr., ib., 544 : Μέχρι Πολέμωνος τὰ Πολέμωνος, οἱ γὰρ ἐπ᾽ αὐτῷ γενόμενοι ξυγγενεῖς μέν. où μὴν οἷοι
πρὸς τὴν ἐκείνου ἀρετὴν ἐξετάζεσθαι, πλὴν ἑνὸς ἀνδρός, περὶ οὗ μικρὸν ὕστερον λέξω. e ib., 608-612.
2 R, Merkelbach-J. Nollé, Die Inschriften von Ephesos, VI, Bonn 1980, nr. 2026 Il. 19-20. 2 C. Habicht, Die Inschriften des Asklepieions (Altertümer von Pergamon VIII, 3), Berlin 1969, nr. 34. > IGRRP IV, nr. 819. 2 Philostr., ib., 606-607; R. Merkelbach-]. Nollé, op. cit., nr. 2026 Il. 17-18, rescritto di Caracalla agli Efesini (circa 203 dC.): AA. Ἀντίπατρος ὁ φίλος καὶ διδάσκαλος Kali τὴν τά]ξιν τῶν᾽ Ἑλληϊνιϊκῶν ἐπιστολῶν ἐπιτετραμμένος. Su questo personaggio si veda T. Ritti, “Il sofista Antipatro di Hierapolis”, XIII Miscellanea Greca e Romana (1988), pp. 71-108. 2% Philostr., ib., 610-611.
? Ib., 611: Καὶ ἀκροατὴς δὲ τοῦ Ἑρμοκράτους ὁ αὐτοκράτωρ γενόμενος ἠγάσθη αὐτὸν ἴσα τῷ πάππῳ δωρεάς τε aiteiv ἀνῆκεν" καὶ ὁ Ἑρμοκράτης ᾿στεφάνους EV’ ἔφη "καὶ ἀτελείας καὶ σιτήεις καὶ πορφύραν καὶ τὸ ἱερᾶσθαι ὁ πάππος ἡμῖν τοῖς ἀπ' αὐτοῦ παρέδωκεν, καὶ τί ἂν αἰτοίην παρὰ σοῦ τήμερον, ἃ ἐκ τοσούτου ἔχω;
224
M.D. Campanile
10. A Laodicea sono noti altri sommi sacerdoti, come
L. Antonius Hyacinthus, stratega
della città, morto a Roma durante un’ambasceria ?* e P. Aelius Piger 2 forse padre dell’omonimo P. Aelius Piger, amicus di Valeriano il quale nel 255 ottenne per la città di Philadelphia la remissione dal pagamento di contributi dovuti ἐπὶ τὰς [ἀρχιερ᾿ωσύνας καὶ τὰς τῶν πανηγύρεων ἀρχὰς ἱπρ]ὸς τὰς μετροπόλεις 3°, ma i personaggi presi precedente-
mente in considerazione forniscono gli esempi maggiormente significativi. 11. All’inizio si è citato Apollonios di Aizanoi, è ora opportuno prendere brevemente in esame altri sacerdoti di questa città. L’asiarca M. Ulpius Appuleius Eurycles, discendente di un sommo sacerdote e di evergeti ?!, è oggetto di un interessante carteggio, svoltosi negli anni, tra il Panhellenion di Atene, l’Areopago, l’imperatore Antonino Pio, il koinòn d’Asia e la città di Aizanoi. Queste epistole, evidentemente sollecitate dallo stesso Ulpius Eurycles e fatte successivamente incidere, sempre a sua cura, sulle pareti del tempio di Zeus ad Aizanoi, sono μαρτυρίαι, testimonianze degli atti compiuti dal nostro personag-
gio ed attestazioni della sua alta cultura ed educazione degna della patria e degli avi, dimostrate ad Atene durante la sua permanenza in quanto membro del Panhellenion. Non mancano neppure le dichiarazioni di onori a lui tributati, come l'erezione di una statua 2. Tutti questi impegni e ‘raccomandazioni’ andarono a buon fine per il nostro Eurycles che pochi anni dopo divenne sommo sacerdote del koinòn d’Asia. Più avanti si vedrà come anche un personaggio originariamente membro dell’aristocrazia locale di Synnada abbia rivestito importanti cariche ad Atene. Nel 163/164 il nostro Eurycles come λογιστής, curator della γερουσία di Efeso, è il destinatario di una circostanziata lettera di Marco
Aurelio e Lucio Vero #, sollecitata da lui forse in modo lievemente pretestuoso, come gli stessi imperatori non mancano di far notare.
Circa quindici anni dopo il nostro personaggio, forse per le sue capacità amministrative e finanziarie, è curator della città di Afrodisia 34, nonché sommo sacerdote dei templi
di Smirne designato per la seconda volta. Questi dati, provenienti da epigrafi per la maggior parte note da tempo, sono stati accresciuti da nuove iscrizioni di Aizanoi *, e il no-
stro personaggio viene ora meglio a collocarsi al centro di complessi rapporti di parentela con un’altra famiglia di importanti notabili locali; la moglie di Ulpius Eurycles, (Claudia)
> IGUR
p.279.
Il, 1 nr. 353. L.
Robert, in J. de Gagniers et al., Laodicée du Lycos. Le nymphée. Quebec-Paris
1969,
2 BMC, p. 314 nr. 221;p. 315 nr. 225: p. 316 nr. 226. % J. Keil-F. Gschnitzer, “Neue Inschriften aus Lydien”, AAWW
93 (1956), pp. 217-231, pp. 226-229.
Ὁ F. Naumann, “Ulpii von Aizanoi”, IM 35 (1985), pp. 217-226. Ἢ J.H. Oliver, Marcus Aurelius. Aspects of Civic and Cultural Policy in the Fast, Princeton 1970, arr. 28; 30; OGIS, nr. 505; J.H. Oliver, Greek Constitutions of Early Roman Emperors. Philadelphia 1989, nr. 155. Grazie ai nomi degli arconti del Panhellenion i testi sono databili al 156/157 e 157/158. Sul lessico di elogio in questi testi si veda C. Panagopoulos, “Vocabulaire et mentalité dans les Moralia de Plutarque”, DHA 3 (1977), pp. 197-235, part. 218 e 227-228. % Sacerdozio: IGGRP
IV, nr. 564; curatela della γερουσία di Efeso: J.H. Olive
dell'iscrizione gli editori hanno omesso la particella negativa “un”. “ MAMA VIII nr. 505: J. Reynolds, Apbrodistas and Rome, London 1982, nr. 57.
»p. cit., nr. 170, Nella linea 8
"ΕΜ, Worrle, “Neue Inschriftenfunde aus Aizanoi I”, Chiron 22 (1992), pp. 337-376.
Il culto imperiale di Frigia
225
Severina, sacerdotessa d’Asia è nipote del sommo sacerdote L. Claudius Lepidus, di un olympionikes famoso e figlia del ricco L. Claudius Severinus. Anche la sorella di Ulpius Eurycles è legata a un membro di questa famiglia. Eurycles, dunque, sembra al centro di una strategia familiare di consolidamento ulteriore e di promozione sociale, ottenuta legandosi con altri rappresentanti del culto imperiale. In questo modo potrebbe essere sostenibile la proposta * di considerare figlia di Eurycles una matrona senatoria presente a Roma ai ludi secolari del 204 e già nota come moglie di Attius Rufinus e madre di P. Attius Ulpius Apuleius Clementinus Rufus. Il matrimonio del cognato di lei ?” con una notabile di Afrodisia di famiglia sacerdotale potrebbe forse costituire un elemento di rilievo per raffozare l'ipotesi che la matrona fosse figlia di M. Ulpius Appuleius Eurycles, dal momento che Eurycles, come si è osservato, è stato curator di Afrodisia. Tali osservazioni sembrano ulteriormente evidenziare l’importanza rappresentata per le famiglie di notabili della regione frigia dallo stringere legami matrimoniali di prestigio
sociale, importanza che sembra superare - come nel caso di Aelius Antipater e L. Flavius Hermocrates - quella conferita alla carriera dei singoli. Mutando leggermente la proposizione, si potrebbe allora affermare che l’ansia di promozione sociale per sé e per la propria famiglia in tali notabili veniva soddisfatta altrettanto bene da matrimoni prestigiosi quanto dall’ascesa politico-sociale e dall’ingresso diretto nell’amministrazione e nella vita politica romana.
Quest'ultimo fenomeno, ovvero l’ingresso diretto nell’amministrazione e nella vita politica romana, è alquanto vistoso in famiglie di sommi sacerdoti di altre regioni della provincia d’Asia tanto che è possibile figurarsi un modello generale di tale sviluppo: da sommo sacerdote, evergete fornito di cariche locali si ha un figlio membro dell’ordine equestre cui segue un nipote membro dell'ordine senatorio. Come si è notato, ciò procede
in modo lievemente diverso per le famiglie di sommi sacerdoti frigi. 12. Procediamo nell’argomentazione. In un’iscrizione di Synnada il δῆμος degli Ateniesi onora Claudius Attalus, figlio dell’asiarca Tib. Claudius Piso Tertullinus e nipote dell’o-
monimo ἱερεὺς τῶν Ἑλλήνων Claudius Attalus 38. Tib. Claudius Piso Tertullinus è noto anche come monetiere durante il regno di Antonino Pio e Marco Aurelio ®, mentre il figlio Claudius Attalus (meno probabilmente l’omonimo zio) è stato πρύτανις e λογιστής di Synnada ‘0.
% W. Eck, “Epigraphische Untersuchungen zu Konsuln und Senatoren”, ZPE 37 (1980), pp. 31-68, part. 45-48,
cfr. M. Th. Raepsaet-Charlier, op. cit., nr. 822 (Ulpia Apuleia). » P. Attius Pudens (PIR? A 1362), marito di Carminia Liviana Diotima, cfr. M. Th. Raepsaet-Charlier, op. cit., nr. 190. MAMA
VI, nr. 374.
» BMC Phrygia, p. 400 nr. 41. E. Babelon, Inventaire sommaire de la collection Waddington, Paris 1898, nr. 6537; F. Imhoof-Blumer, “Griechische Münzen”, ABAW 18 (1890), pp. 625-796, p. 748 nr. 743; F. Imhoof-Blumer, Kleinasiatischen Münzen, I, Wien 1901, p. 294 nr. 16.
+ BMC Phrygia, p. XCIX; p. 395 nr. 17; p. 401 nr. 4 ait. p. 295 nr. 21.
Babelon, op. cit., nr. 6542;
Imhoof-Blumer, op.
226
M.D. Campanile
Da tempo è stato identificato il Claudius Attalus ‘sacerdote degli Elleni’ con Tib. Claudius Attalus Andragathus, ἱερεὺς τῆς Ὁμονοίας tôv' Ἑλλήνων, sacerdote della Concordia degli Elleni, officiante il culto di Zeus Eleuthereios a Platea, e ἱερεὺς τοῦ Xopeiou Διονύσου, sacerdote dei technitai dionisiaci ad Atene e arconte#!, personaggio di grande
rilievo in questa città, noto anche a Delos # e Sparta, ove, quale rappresentante di Synnada, elevò una statua ad Atena Polias#3. I rapporti tra Sparta e Atene da un lato e Synnada
dall’altro ricordano i legami mitici che i ceti colti della città frigia, tra cui forse i nostri personaggi, amavano ricostruire considerando la propria città colonia delle due città greche. Ci troviamo, dunque, di fronte ad una famiglia di notabili
locali i cui membri hanno
rivestito sacerdozi imperiali, curatele cittadine e si sono impegnati anche fuori provincia, ad Atene e in altre città della Grecia; la casata poi, ci è nota dall’epoca di Claudio #,
imperatore al quale si deve la concessione della cittadinanza romana per la famiglia. Può stupire che in una famiglia così antica nessuno sia entrato direttamente nell’amministrazione o nella politica romana, ma, in effetti, secondo una recente ricostruzione #,
la famiglia si è nobilitata imparentandosi con un console. La nobile Claudia Basilò di rango consolare, ὑπατική, e θεωρός delle Olimpie
a Efeso* è, secondo la convincente
ipotesi di Müller, da identificare con la figlia dell’asiarca Tib. Claudius Piso Tertullinus 7. Un'iscrizione di Efeso # ci fornisce il nome del marito, A. lulius Proculus, e di un figlio, A. lulius Pompilius Piso. A. lulius Proculus (PIR? I 492+493), di origine probabilmente
orientale, fu governatore della Licia-Panfilia e console “ἡ. Egli, cum suis, fu ucciso o costretto al suicidio tra il 190 e il 192.90. Nella Vita Commodi viene narrato che il prefetto del pretorio Cleandro ‘!, per com-
piacere un certo Attalus, fece condannare il proconsole d’Asia Arrio Antonino e che tale condanna scatenò l’odio popolare e provocò la caduta di Cleandro. Come pura possibilità Müller suggerisce che nell’Attalus responsabile di tali fatti sia da riconoscere il Claudius Attalus fratello di Claudia Basilö, πρύτανις e λογιστής a Synnada e ciò motiverebbe la morte violenta di lulius Proculus e Claudia Basilô.
4 D.J. Geagan, “Hadrian and the Athenian Dionysiac Technitai”, TAPhA 103 (1972), pp. 133-160; J. e L. Robert, BEp. (1966), nr. 144; ib. (1972), nr. 139. 4 P. Roussel-M. Launey, Inscriptions de Délos, Paris 1937, nr. 2538. 4 IG V, 1 nr. 452 (con Addenda et Corrigenda p. 303). # BMC Phrygia, p. 391 nr. 10; p. 399 nr. 36; E. BAWLON, op. cit.. nr. 6836: 6522, Claudius Andragathus φιλόκαισαρ.
4 H. Müller, “Claudia Basilo und ihre Verwandtschaft”. Chiron 20 (1980), pp. 457-484, cfr. M. Th. RaepsaetCharlier, op. cit., nr. 227 e PIRE B 63 = L. Robert, “Les femmes théores à Ephèse”, CRAI (1974), pp. 176-181 (= OMS V, pp. 669-674). + Nota anche da emissioni monetarie di Synnada, BMC Phrygia, p. XCIX n. 1; p. 402 n. 2; H. Müller, art. cit.,
p. 467 n. 69.
* H. Engelmann-D. Knibbe-R. Merkelbach, Die Inschriften vom Ephesos, IV, Bonn 1980, nr. 1103. “Ἢ, Halfmann, Die Senatoren aus dem östlichen Teil des Imperium Romanum bis zum Ende des 2. Jh. n.C.. Göttingen 1979, nr. 82: Id., “Die Senatoren aus den kleinasiatischen Provinzen”, in Epigrafia e Ordine Senatorio, Il, Roma 1982, pp. 603-650, part. 636; Gi. Altoldy, Konsulat und Senatorenstand unter den Antoninen, Bonn 1977, pp. 168-169 e 29 SHA, Vita Commodi, 7,7. SH. Müller, art. cit, pp. 482-484. Cleandro - di origine frigia = era arrivato a Roma come schiavo.
Il culto imperiale di Frigia
227
Anche in questo caso, dunque possiamo osservare che ciò che sembra caratterizzare
questa famiglia di Synnada è la presenza di un importante legame matrimoniale con un membro dell’ordine senatorio piuttosto che un’ascesa politico-sociale con ingresso diretto nell’amministrazione e nella vita politica romana. Anzi, tale ascesa è piuttosto da riconoscere nella ‘carriera’ di Tib. Claudius Attalus Andragathus e nella sua vita ateniese, ovvero nella sua partecipazione pubblica non alla vita politica romana ma a quella della città simbolo dell’ellenismo. 13. Per concludere citiamo un’altra cospicua famiglia sacerdotale della Frigia, di Apamea sul Meandro; Tib. Claudius Mithridates archiereus d’Asia, durante una seduta del
koinòn, ha giurato di elevare a proprie spese una statua a Sosia Polla moglie del governatore della provincia Pompeo Falco, defunta di recente ὅ2 (ca. 124/128 d.C.).
Il figlio, Ti.
Claudius Piso Mithridatianus, è stato sacerdote di Zeus Κελαινεύς, ginnasiarca, agoranomos ed efebarco. Mithridatianus ha promesso, a patto che anche il figlio Ti. Claudius Granianus divenisse ginnasiarca, di rinunciare alla somma che veniva fornita dalla città
per il bilancio della ginnasiarchia, inoltre ha distribuito gratuitamente olio e ha donato ulteriormente alla città 19.000 denari 53; così facendo, ha creato un capitale, grazie alla cui rendita la città di Apamea ha potuto sanare un deficit.
14. In questi esempi la competizione per il prestigio e le cariche pare svolgersi esclusivamente su base locale, e la carica più ambita sembra essere quella del sacerdozio d'Asia, con una certa chiusura verso altre possibilità che indubbiamente erano offerte. A mio vedere, infatti, sarebbe forse scorretto ed eccessivo considerare quale unica spiegazione per tali situazioni l'impossibilità di re una carriera nell’amministrazione romana. Si potrebbe allora ripetere, per concludere, che le aspirazioni sociali di alcuni notabili della Frigia erano indirizzate in prevalenza verso alleanze matrimoniali e sacerdozi imperiali. Matrimoni prestigiosi e autorevolezza in ambito regionale e provinciale conferita dalla gestione del sacerdozio imperiale erano evidentemente socialmente gratificanti quanto l’ascesa politico-sociale e l’ingresso diretto nell’amministrazione e nella vita politica romana.
Occorre alla fine sottolineare che ho inteso prendere in esame alcune tendenze che mi sono parse salienti, cui — è chiaro - possono esserne contrapposte altre. Però proprio la “lateralità’ dell’area frigia, l'assenza in essa di città di grande importanza e prestigio, mi sembrano fornire una motivazione per il fenomeno della promozione attraverso l’alleanza matrimoniale e - infine - la dialettica tra piccola patria e centro del potere per alcuni dei notabili locali può essersi risolta a favore della prima.
“ MAMA VI, nr. 182. Su Sosia Polla cfr. M. TH. Raepsaet-Charlier, op. cit., nr. 723. SYIGRRP IV, nr. 790; MAMA VI, nr. 1801e 180 Il
Phryger in Daskyleion !
TOMRIS BAKIR-AKBASOGLU Ege Üniversitesi, Edebiyat Fakültesi-Bornova
Das Vordringen der Phryger aus ihrem ursprünglichen, wahrscheinlich thrakischen
Lebensraum in den westlichen Teil des anatolischen Hochlandes geschah im Verlauf der sog. Âgäischen Wanderung und in mehreren Schüben-dies jedenfalls sagen übereinstimmend antike Quellen und moderne Forschung. Die Art dieser Wanderbewegung und ihre Richtung blieben allerdings in mancher Hinsicht ungeklärt. Herodot zufolge (V, 49, 52)
liegt Phrygien zur Zeit des Dareios, um 500 v. Chr., östlich von Lydien. Bei Homer, etwa
300 Jahre vorher, begegnen uns die Phryger als Bewohner des Gebietes zwischen Hellespont und dem Fluß Sangarios. Aber bis in unsere Zeit gab es keine materiellen Beweise für die Anwesenheit der Phryger in Mysien, in der Propontis und am Hellespont oder gar
für eine Verbindung mit jener älteren phrygischen Kunst und Kultur, wie sie etwa von den Siedlungshügeln Mittelanatoliens bezeugt ist. Dies war die Sachlage, der sich die Archäologie vor etwa 20 Jahren gegenübersah, und manche Wissenschaftler vermuteten
denn auch, daß die plötzliche Entstehung eines phrygischen Reiches am Ende des 8. Jh. auf eine weitere Einwandererwelle aus dem Balkan zurückgehe. Wie aber nun, wenn die
Geburtsstätte der phrygischen Kultur im Nordwesten Kleinasiens läge? 1952 untersuchte Kurt Bittel den am südöstlichen Ufer des Kus Gölü (“Vogelsee”) gelegenen Siedlungshügel Hisartepe und identifizierte den Ort als die Residenz der persischen Satrapie Daskyleion 2. Das dem Hügel gegenüber liegende sog. “Vogelparadies” sei, so der deutsche Archäologe, nichts anderes als der übriggebliebene Teil des antiken Paradeisos von Daskyleion. Rüdiger Schmitt erkannte 1972 durch den Vergleich ver-
schiedener “Satrapien-Verzeichnisse” den altpersischen Namen der daskylitischen Satrapie, wie er auch in der Behistun-Inschrift des Dareios aufgegührt wird. Er lautet TAYAIY DRAYAHYA
und bedeutet: “(die [scil.: Völker],) welche am/ im Meere (sind/wohnen)” 3.
Als ich vor neun Jahren mit den Ausgrabungen in Daskyleion begann, hatte ich die
1 Der vorliegende Aufsatz ist die überarbeitete Fassung des Vortrags, den die Verf. anläßlich des Symposiums “Frigi e Frigio” am Consiglio Nazionale delle Ricerche in Rom 1995 gehalten hat. Vgl. auch T. Bakır, “ Archäologische Beobachtungen über die Residenz in Daskyleion”, in P. Briant (Hrsg.), Dans les pas des Dix-Mille, Pallas 43 (1995), 269-285, Abb. 19-26.
2K. Bittel, “Zur Lage von Daskyleion”, AA (1953), 1 ff. * R. Schmitt, “Die achaimenidische Satrapie TAYAIY DRA YAHYA",
Historia 21 (1972), 522-527.
230
T. Bakir-Akbaçoëlu
Absicht, diesen Ort, dessen Identität mit der daskylitischen Satrapie durch jene vorange-
gangenen Untersuchungen Gewißheit geworden war, archäologisch weiter zu erforschen und vielleicht neue Einblicke zu gewinnen in die Wechselwirkungen von phrygischer, lydischer und achämenidischer Kultur, welche hier an einem Ort zusammen anzutreffen wa-
ren. Von allen anderen bedeutenderen Satrapenresidenzen versprach Daskyleion die ergiebigsten Resultate, denn hier hatte das feudale Lehnswesen, von dem das Achämenidenreich durchdrungen war und das es im Innern zusammenhielt, seinen — auch für uns
heute noch -
sichtbaren Ausdruck in einer repräsentativen Hofhaltung und Lebensform
gefunden, etwa in jenen wahrscheinlich zu den Palästen der Residenz gehörigen Parkanlagen. Der von Xenophon
schon erwähnte Paradeisos existiert, wie oben schon bemerkt,
heute noch in der Gegend von Daskyleion als Vogelparadies * weiter.
Hisartepe liegt im Nordwesten des Dorfes Ergili bei Bandırma und am südöstlichen
Ufer des Vogelsees (antiker Name:
Daskylitis Limne), in jenem Dreieck, das der Karadere
in seinem unteren Lauf mit dem See bis zu seiner Einmündung bildet. Der Hügel erhebt sich — auf der Seeseite - etwa 25 m über die Uferebene; seine Oberfläche mißt 25.000 qm. In Daskyleion - so wird der Ort seit Bittels Entdeckung in der archäologischen Lite-
ratur geführt - begann Ekrem Akurgal 1954 mit Ausgrabungen, die er jedoch nach 1960 nicht mehr fortführte δ. Die berühmte achämenidische Satrapenresidenz hat die antiken Schriftsteller immer
wieder beschäftigt. Und so sind nicht nur die Namen der Herrscher der daskylitischen Satrapie überliefert; auch ihre Regierungszeiten lassen sich mühelos erschließen 7. Historisch belegt ist der Ortsname schon für die vorachämenidische Zeit, insbesondere für die Perio-
de der kimmerischen Einfälle etwa um die Mitte des 7. Jh. v. Chr. Wenn man annimmt,
daß der Name der Stadt auf Daskylos, den Vater des späteren lydischen Königs Gyges (reg. ca. 680-652), zurückgeht ®, dann wäre zu folgern, daß der Ortsname Daskyleion frühestens seit Anfang des 7. Jh. existierte. Die Ausgrabungsergebnisse unterstützen in vieler Hinsicht die Aussagen der antiken Schriftquellen. Darüber hinaus sind wir jedoch während der letzten Jahre bis zu Siedlungsschichten des 8. Jh. vorgedrungen. Einzelne Funde und Grabungsergebnisse aus noch früheren Epochen belegen, daß der Ort schon seit dem 2. Jahrtausend besiedelt war?. Während der letzten Ausgrabungskam-
pagne kam beispielsweise der Teil einer Burgmauer zum Vorschein, deren Mauertechnik
4 Das heutige sog. “Vogelparadies” ist vom Europa-Rat mit dem Diplom “Klasse A” ausgezeichnet worden. SK. Bittel, a.2.0., 12. + E. Akurgal, “Ergili-Daskyleion Kazisi”, Belleten 78 (1956), 355; ders., “Les Fouilles de Daskyleion”, Anatolia 1 (1956); ders., “Ergili Kazısı”, Belleten 88 (1957), 350; ders. “Ergili Kazısı ve Kyzikos Calismalari”, Belleten 88 (1958), 632-633; ders., “Ergili Kazisi”, Belleten 92 (1959), 692; ders., “Ergili ve Candırlı (Pitane) Kazıları", Belleten 96 (1960), 712; ders., Die Kunst Anatoliens (1961), 167-174; ders., “Griechisch-persische Reliefs aus Daskyleion”, Iranica Antiqua VI (1966), 177 ff.; ders., Ancient Civilizations and Ruins of Turkey (1969), 41-43, Pl. 20; ders., “Zur Datierung der Grabstelen aus Daskyleion”, in Mélanges A.M. Mansel 2 (1974), 967-970; ders., Griechische und römische Kunst in der Türkei (1977), 24, 63-64, Taf. 3, 93; ders., Eski Caßda Ege ve Izmir (1993), 63-67. © T. Bakır, “Daskyleion”, Höyük 1 (1991), 79, Anm. 25. * RE, “Daskylos”; L. Zgusta, Kleinasiatische Ortsnamen (1984), $ 246-2. * T. Bakır, “Daskyleion 1989 Kazıları", XII. Uluslararası Kazı, Arastırma ve Arkeometri Sempozyumu Bildiri
Ozetleri (1990), 33.
Phryger in Daskyleion Ähnlichkeiten zeigt mit den frühmykenischen
231
Burgen auf den Kykladen !° und auf dem
griechischen Festland !! oder auch mit der Stadtmauer von Troja VI. Auf einem am östlichen Ufer des Vogelsees gelegenen Höyük (Akyarlar) ist außer Steingeräten auch Keramik der Troja-Yortan-Gruppe !? des 3. und 2. Jahrtausends bezeugt. Ein altbabylonisches Roll-
siegel aus Hämatit wurde bei unseren Ausgrabungen in Daskyleion gefunden. Die Siegelabrollung zeigt zwei Figuren, von denen eine den Gott Adad auf einem Stier darstellt; eine zweite, in ein langes Gewand gekleidete Person ist in Beterhaltung abgebildet und verkörpert wahrscheinlich den König. Die dreizeilige Legende lautet in der Übersetzung: “[...]Istar, der Diener Adads”. Auf Grund stilistischer Merkmale läßt sich das Siegel in die Zeit
der assyrischen Handelskolonien, also ins 19. bis 17. vorchristliche Jh. datieren 1.
Strabo zufolge kamen aiolische Einwanderer unter der Führung von Archelaos und Gras “sechzig Jahre nach den Troischen Begebenheiten” in diese Gegend '*. Wenn auch leider bislang die jene Periode betreffenden Siedlungsschichten noch nicht entdeckt wurden, so bezeugen doch einige Scherben, daß am Ende des 2. Jahrtausends tatsächlich
ganz bestimmte Neuankömmlinge an dieser Stelle gelebt haben. Graumonochrome Scherben mit qualitätvoller Polierung, gestempeltem geometrischen Muster und eingeritzten Wellenlinien als Ornamentband finden ihre Parallelen nicht in den kleinasiatischen Kulturen des 2. Jahrtausends, sondern in den gleichzeitigen Kulturen Thrakiens, Mazedoniens
und Thessaliens. Ein “Muster-Stempel”, der zusammen mit Scherben gefunden wurde, läßt auf eine Keramikwerkstatt bei der Siedlung schließen. Homer zufolge sind die Thraker am Hellespont zu Hause, und nach anderen literarischen Quellen zu urteilen,
haben zwischen Nordwestkleinasien und Thrakien Richtungen stattgefunden. Folgen wir dem Bericht Phryger und wohl mit ihnen die übrigen Stämme Zerstörung Trojas ihre westkleinasiatischen Sitze Burg Troja existierte, konnten der Hellespont und von außerhalb kommende
ständig Völkerwanderungen in beide Herodots, so hätten die einfallenden der thrakischen Völker erst nach der eingenommen. Solange die mächtige die Propontis wohl schwerlich durch
kriegerische Horden erobert werden. Der Einfall der thraki-
schen Völker ist zweifellos erst nach der Zerstörung von Troja VIla erfolgt. Es ist bezeichnend, daß nach der Eroberung von Troja Vla die Stadt von Trojanern für kurze Zeit erneut bewohnt (Troja VIIb 1) und erst danach von einem Volk besiedelt wurde, für
das die sog. Buckelkeramik charakteristisch ist. Das Nebeneinander von Buckelkeramik und anderer - graumonochromer - Keramik findet sich auch in den zeitgleichen Schichten Daskyleions.
Von der spätgeometrischen Phase an scheint sich die ökonomische und politische Situation der Bewohner der Siedlung verbessert zu haben. Als Beweis dafür anführen ließe sich ein teures Importgefäß aus Griechenland - aus einer spàtgeometrisch-korinthischen
Ὁ C.L. Kaskey, “Excavation in Keos, 1960-1961”, Hesperia 31 (1962), 263-283, PI. 100 a-d.
“ D. Hagel - H. Lauter, “Die frühmykenische Burg von Kiapha Thiti/Attika”, Marburger Winkelmann-
Programm (1987), 3-13, Taf. 1-2.
2 M. Korfmann bin ich für die entsprechende Zuordnung zu Dank verpflichtet. Ich danke N. Özgüg für die Transkription und A. Erkanal für die Datierung. + Strabo XIII 1,3.
232
T. Bakir-Akbasoglu
Werkstatt. Die fein gearbeitete und dünnwandige, korinthisch-spätgeometrische Oinochoe ! datiert das Fundament eines großen Gebäudes und ist gleichzeitig ein terminus post quem für diesen Bau (von dem weiter unten noch die Rede sein wird), der - so läßt
sich folgern - nicht früher als 750 v. Chr. errichtet worden sein kann. Allerdings war es für uns keine Überraschung, aus dem
archäologischen
Befund auf die Anwesenheit von
Phrygern ab der Mitte des 8. Jh. in Daskyleion schließen zu können. Unsere oben genannte Oinochoe lag nämlich zusammen mit frühphrygischer grauer Keramik im selben Fundzusammenhang. Wie für die zahlreichen grauen Scherben so finden sich auch für eine andere phrygische Scherbe, mit polychromem Rhomben-Muster, Entsprechungen des späten 8. Jh. in Patele, Mazedonien "6, Für das Ende der von uns erfaßten Periode stehen mehrere frühprotokorinthische Scherben, die darauf hindeuten, daß es seit dem dritten
Viertel des 8. Jh. einen beträchtlichen wirtschaftlichen Aufschwung gab. Antike Quellen berichten von drei Einfällen der Kimmerier in Westanatolien. Kaletschs lydischer Chronologie zufolge fanden sie in den Jahren 667, 652 und 645 v. Chr.
statt !”. Mehrere Stadtstaaten Westanatoliens sanken in Schutt und Asche. Glücklicherweise nun stießen wir in Daskyleion auf jene Zeit betreffende Brandschichten mit gut datierbarer mittel und spätprotokorinthischer Keramik und entsprechenden Architekturteilen. Sie gehören einer Period an, welche zeitgleich sein könnte mit jenem Daskylos, der
dann hier an diesem Ort zusammen mit Phrygern gelebt hätte. Im 8. und 7. Jh. scheint Daskyleion noch nicht im Herrschaftsbereich der lydischen Dynastie gelegen zu haben; die Gegend wird von den antiken Quellen jedenfalls als phrygisch bezeichnet. Falls die Stadt auf dem Hisartepe nach dem Vater des Gyges benannt sein sollte, so trug sie zweifellos zu jener Zeit noch einen anderen Namen, den wir jedoch bis jetzt noch nicht in Erfahrung bringen konnten. Den Namen des Sees aus dieser Zeit aber kennen wir; er lautet: Aphnitis Limne '*. Wie die Brandschichten erkennen lassen, wurde die phrygische Siedlung zerstört und mit ihr ein Tempel, dessen Lehmziegelwände im Feuer der Zerstörung gebrannt wurden. Von seinem Fundament war weiter oben schon die Rede. Wenn uns auch der genaue Grundriß dieses Temples noch nicht deutlich geworden ist, so sind einige Funde aus der unmittelbaren Umgebung des Heiligtums umso aufschlußreicher. Unter anderem wurden neben dem Fundament mehrere Kleinfunde in einer Grube entdeckt, die
mit dem Gebäude inhaltlich in einem Zusammenhang stehen und gleichzeitig die Funk-
% Vgl. Corinth XV, Il, PI. 1-4. Zum Keramikhandel in vorkolonialer Zeit: C. Dehl, “Die korinthische Keramik
des 8. und frühen 7. Jhs. v. Chr. in Italien”, AM 11, Beiheft (1984), 142: “Die Existenz eines vorkolonialen korinthischen Keramikhandels muß damit aber ausgeschlossen werden... Unter Auswertung der absoluten Daten, die aus der thukydideischen Überlieferung und dem Boccoris-Grab in Pithekussai zu erschließen sind, darf die Datierung der frühesten korinthischen Importe im Westen in die Jahre um 740/30 gelten”. Meines Erachtens läßt sich für Dasky-
leion dasselbe sagen.
18 W.A. Heurtley, Prehistorie Macedonia. An Archaeological Reconnaisance of Greek Macedonia (West of Stru-
ma) in the Neolithic, Bronze and Early Iron Ages (1939), 99-100, 158-194 und 17 ders., “A Prehistoric Site in Western Macedonia and the Dorian Invasion”, BSA XXVIII (1926-1927), 158-194; E. Akurgal, Phrygische Kunst (1955), 26. 1H. Kaletsch, “Zur Iydischen Chronologie”, Historia VII (1958), 1-47. ** Strabo XII 1, 9; D. Kaptan-Bayburtluoglu, “A Group of Seal Impressions on the Bullae from Ergili/Dasky-
leion”, Epigraphica Anatolica 16 (1990), 16, Anm. 6.
Phryger in Daskyleion
233
tion von Grube und Gebäude erklären. Die Grube ist nämlich ein sog. Bothros, d.h. eine
Vertiefung, in welcher zeremonielle - und damit heilige - Geräte und Gegenstände niedergelegt wurden: eine große dunkelgraue phrygische Öllampe, mehrere Würfel aus Ton, zahlreiche Omphalosschalen und Hörner von Tierfiguren, ebenfalls aus Ton. Sie sind At-
tribute eines ganz bestimmten Kultes, des Kultes der Kybele, der Hauptgöttin der Phryger. Zum Heiligtum gehört auch ein überdeckter Opferkanal aus exakt verlegten rechteckigen Steinplatten, welcher das Blut der geopferten Tiere auffing '°. Der jüngst gemachte Fund einer goldenen Perle läßt darauf schließen, daß man für den Opferritus Zere-
monialkleidung mit wertvollem Schmuck trug. Offen bleiben mußte bislang, welche Art der Opferung (Taurobolium?) hier stattgefunden hat. Die lebensgroße Skulptur eines Löwen aus Marmor könnte ebenfalls zu dem Tempel gehören.
Endgültig geklärt werden konnte die Zuordnung des Tempels durch die Bergung eines Tempelmodells 2° aus Kalkstein mit rot bemalten Architekturteilen. Lunulare (oder auch hornförmige)
Akrotere, wie sie auch dieses Modell aufweist, sind anderweitig in Klein-
asien für den Kybelekult bezeugt, so daß die Funktion unseres Gebäudes wohl eindeutig ist. Die mit roter Farbe bemalten, auf der Vorderseite neben der großen Tür stehenden beiden Säulen mit ionischen Kapitellen deuten auf ein templum in antis. Gefunden wurde das Tempelmodell
in einer Schicht, welche sich mit Hilfe gut datierbarer Keramik
in die
Mitte des 7. Jh. einordnen läßt. Die phrygische Stadt des 7. Jh. besaß eine Stadtmauer, von der 1995 ein Teil gegraben
werden konnte. Sie liegt im SO, am Fuß des Hügels, und besteht aus rechteckigen Kalksteinblöcken. Bis jetzt haben wir nur sechs Lagen des Mauerfundaments entdeckt, deren
Höhe insgesamt 2 1/2 m beträgt. Der obere Teil der Mauer bestand sicherlich aus Lehmziegeln, deren Spuren wir jedoch noch nicht entdecken konnten. Aber auch Teile einer Bastion bzw. eines Tores kamen ans Tageslicht. Die Tatsache, daß sich diese phrygische
Stadtmauer am Fuße des Siedlungshügels befindet, verweist auf Umfang und Bedeutung der phrygischen Stadt im 7. Jh. v. Chr. In diese Periode gehören auch einige Bronzefunde: eine Fibel von “thessalischer” Form
(nach
Blinkenberg 2!) und mehrere
Pfeilspitzen. Zahlreiche
qualitätvolle Scherben
verschiedener Kulturen beweisen Wohlstand und einen hohen Lebensstandard der Bevölkerung. Neben der phrygischen und aiolischen grauen Keramik finden sich auch lydisch-subgeometrische Gefäße, Scherben von bemalten phrygischen Gefäßen, Scherben mit phrygischen und lydischen Graffiti sowie Teller und Deckel der sog. “Ephesian Ware”. Teile solchen Tafelgeschirrs sind in verbranntem Zustand auch in den kimmerischen Zerstörungsschichten gefunden worden. Die Kimmerierhorden, welche 677 von Asarhaddon geschlagen und zurückgedrängt wurden setzten ihren Vernichtungszug bis ins westliche Kleinasien fort und überrannten
** 2 2 bula in
A. Körte, “Kleinasiatische Studien III. Die Phrygischen Felsendenkmäler”, AA 23 (1898), 104 ff. Vgl. T.G. Schattner, Griechische Haus-Modelle, AM 15, Beiheft (1990), 16, 135, 199, 204-205. Chr. Blinkenberg, Fibules Grecques et Orientales (1926), 110-128; D. Stronach, “The Development of the Fithe Near East”, Iraq 21 (1959), 181-206: Die From B III (achämenidische Fibelform) gleicht der Fibula von
Daskyleion.
234
T. Bakır-Akbagoglu
auch die phrygische Stadt Daskyleion. Die Brandschichten mit ihrer gut datierbaren Keramik legen Zeugnis davon ab, wie zerstörerisch dieser Schlag war. - Lange Zeit hört man nichts mehr von den Phrygern. Das Königtum in Gordion war schon um 700 vernichtet worden,
spalten
und
die Schriftquellen setzen aus. Doch
in kleinere Fürstentümer
aufge-
und dezentralisiert, hielten sich die Phryger weiterhin als unterscheidbare
Bevölkerungsgruppe. Es ist offenkundig, daß 20 Jahre nach dem letzten beginnt erneut der Handel logisch nachweisen durch
es den Bewohnern der Stadt Daskyleion, den Phrygern, etwa kimmerischen Einfall wieder besser ging, denn ab 625 etwa mit den westanatolischen Stadtstaaten. Dies laßt sich archäoden Fund von sog. frühorientalisierenden Gefäßen des Tier-
friesstiles, die im letzten Viertel des 7. Jh. in Mode kamen.
Zu Anfang der archaischen Epoche scheint Daskyleion bereits im Machtbereich der lydischen Könige gelegen zu haben. Gyges Nachfolger waren Ardys (reg. 651-ca. 613) und Sadyattes (gest. ca. 619). Nikolaos von Damaskus 2? berichtet nun, daß Daskylos auf
den Befehl von Ardys hin außerhalb von Daskyleion ermordet worden sei. Die Erwähnung der Ereignisse in dieser Quelle ist insofern wichtig, als ihr Namengeber genannt wird, doch darf man Zweifel an der zeitlichen Einordnung der Geschehnisse haben. Im selben Zeitraum jedoch erstarkte ein mit den Kimmeriern ehemals verbündeter thrakischer Stamm, die Trerer, und plünderte erneut mehrere Stadtstaaten, bis sie dann der Iydi-
sche König Alyattes (reg. ca. 619/607-560) um 600 endgültig besiegte; Trotz dieser letzten Bedrohung konnte Daskyleion seinen Wohlstand offenbar aufrechterhalten — die in
diese Periode datierbaren Schichten bezeugen dies durch große Mengen von Importkeramik korinthischen und orientalisierenden Stils. Zu den frühesten attischen Importfunden in Daskyleion δ᾽ zählt ein Krater des Gorgo-Malers (um 590). Außerdem seien genannt die verbrannten Fragmente einer “Komasten-Schale” des KY-Malers (um 575/65) und ein
Kolonettenkrater (um 560) aus dem Umkreis des Malers Lydos. Zwar gilt die Stadt zu dieser Zeit als lydisch - bis Kyros den lydischen Herrscher Krösus besiegt und seine Hauptstadt Sardis erobert (547/6) -, doch scheint die
phrygische Bevölkerung nicht ver-
trieben worden zu sein, und bis zum Ende des Achämenidenreichs lassen sich vereinzelte phrygische Spuren verfolgen, die zu belegen scheinen, daß es in Daskyleion Phryger gab bis in die hellenistische Zeit. Die ersten Statthalter der Achämeniden in Daskyleion sind Pharnuchos, Mitrobates, Megabazos und Megabates. Von dieser Periode, die ich die Frühachämenidische Phase in Daskyleion nennen
möchte, sind einige Bauteile erhalten, darunter ein kleines, ionisches
Votivkapitell, ein Voluteneckakroter, ein ionisches Kyma mit aufgesetztem Lotus-Palmettenfries und — jedoch nicht als Bauteil - eine Anthemionstele * des persoanatolischen 25 Stiles. Sie wären an das Ende des 6.Jh. zu datieren und gehörten damit zu den Zeugnissen
kolaos Damaskenos, FGrHist 360 F 63.
ich danke Y. Tuna-Norling für die Bearbeitung der attischen Keramik aus Daskyleion. # Noch nicht publiziert; vgl. zuletzt: M. Nolle, Denkmäler vom Satrapensitz Daskyleion (1992), 11-47. 2 Diese Bezeichnung wurde zuerst von P.R.S. Moorey gebraucht: Cemeteries of the first millennium B.C. at Deve Höyük, BAR
International Series 87 (1980); 5. auch. T. Bakır, “Anadolu
1993 Yılı Anadolu Medeniyetleri Müzesi Konferansları (1994), 24-30.
Pers Sanatı ve Daskyleion Satraplıgı",
Phryger in Daskyleion
235
für die Bautätigkeit des Satrapen Megabazos. Der Voluteneckakroter lift sich zu einer Gruppe ebensolcher Akrotere stellen, welche aus der Gegend von Milet stammen 26. ge dieser milesischen Eckakrotere gehören zu Altären; in unserem Falle muß jedoch vorläufig noch offenbleiben, ob der Voluteneckakroter diese Funktion hatte und etwa zu einem persischen Feueraltar oder zu einem Altar für die Hauptgöttin der Phryger (bzw.
der Lyder) gehörte. Zweifellos hat ihn jedoch ein milesischer Baumeister geschaffen, der im Dienste des Satrapen stand. Wie die Könige in Persepolis so haben nämlich auch die Satrapen in Daskyleion kleinasiatische Baumeister und Künstler mit dem Bau und der Ausschmückung
(Reliefs auf den Orthostaten und Grabstelen) ihrer Gebäude
beauftragt.
Auf diese Weise ist der perso-anatolische Stil entstanden. Die neugefundene Anthemionstele zeigt in ihrem ersten und obersten Fries eine Zeremonialszene:
Auf einem
Stuhl in der Mitte sitzt eine verschleierte Frau, der sich von re-
chts zwei andere Frauen nähern. Hinter ihr stehen weitere Personen. Das rechts neben der ersten Figur befindliche Räuchergefäß (Thymyaterion) deutet sicher auf eine Zeremonie im Begräbniskult der Perser. Wie bei anderen perso-anatolischen Stelen wären auch hier noch zwei weitere Friese mit Flachrelief zu erwarten, doch fehlen sie leider.
Was die Architekturdetails der spätarchaischen Epoche in Daskyleion angeht, so sollten noch die architektonischen Terrakotten erwähnt werden, die die Gebäude verzierten.
Attische Importkeramik ? existiert in Daskyleion in großen Mengen neben anderer Importkeramik, wie etwa der korinthischen und der orientalisierenden. Ab der Mitte des 6. Jh., seit der persischen Machtübernahme, läßt sich eine deutliche Zunahme attischer Keramik beobachten. In der Zeit von 546-530, in der die Satrapie durch Pharnuchos re-
giert wurde, sind vor allem Kleinmasterschalen (Band-, Droop- und Kasselschalen) in der Überzahl. Für die Qualität des attischen Importes in Daskyleion im 3. Viertel des 6. Jh.
sprechen eine Bauchamphora des Amasis-Malers 5 und die Amphora des Exekias. Aus den letzten dreißig Jahren des 6. Jh., für die Mitrobates als Satrap überliefert ist, sind
sowohl Gefäße des neuen rotfigurigen Stils als auch des nach wie vor in größeren Mengen vertretenen schwarzfigurigen Stils belegt. Ein Amphorafragment zeigt Herakles mit
Löwenfell und Wehrgehänge. Das um 520/10 entstandene Gefäß dürfte aus dem Umkreis des Antimenes-Malers stammen. Zu den frühesten rotfigurigen Vase in Daskyleion zählt eine Schale des Euphronios mit einer Gelageszene. Solch exklusive Importkeramik zeigt,
wie wertvoll und teuer das Tafelgeschirr des Satrapen Mitrobates war (imitatio regis). Keramik mit Graffiti kam für diese Epoche in den ausgegrabenen Abschnitten des Heiligtums reichlich zu Tage. Aber es gibt nicht nur die attischen, Iydischen, phrygischen und aramäischen Aufschriften
auf den Gefäßen, sondern auch Inschriften auf Marmor-
blöcken. Ein Votivblock etwa trägt eine phrygische Inschrift ??. Er wurde während der dritten Ausgrabungskampagne, 1990, in dem Kösemtug-Tümülüs freigelegt (vgl. auch
2+ W. Koenigs, “Bauglieder aus Milet I . Milet 1978-1979", IstMitt. 30 (1980), 56-91, Taf. 29-38, Beilage 1-15; Nr. 1.1; 62-64, Taf. 30, Beilage 5, Abb. 7. * Zuschreibungen und Datierungen wurden dem Manuskript von Y. Tuna-Nörling entnommen. Ἂν Für diese Zuschreibung danke ich E. Simon. > Τὶ Bakır, “A Phrygian Inscription found at Daskyleion”, Museum 4 (1990-1991), 60-61; T. Bakir - R. Gusmani, “Eine neue phrygische Inschrift aus Daslyleion”, Epigraphica Anatolica 18 (1991), 157-164, Taf. 19.
236
T. Bakır-Akbagoglu
weiter unten). Er hatte als Schwellenstein
zu der ebenfalls
marmornen
Grabtür
eine
sekundäre Verwendung gefunden, und man hatte ihn für diese neue Funktion maßgerecht
zugeschnitten. Leider ging dadurch ein Gutteil der Inschrift verloren, lediglich die letzten vier Zeilen blieben erhalten. Mehrere Buchstaben im oberen rechten Teil des Blockes wurden darüber hinaus durch die kreisförmige Einbettung der Türpfosten zerstört. Letzter Umstand beweist ebenfalls, daß sich der Stein nicht in situ befindet, sondern daß er
als Spolie im Tumulus wiederverwendet wurde. Dem neugefundenen Text kommt insbesondere deswegen Bedeutung zu, weil es sich 1. um den weslichsten epigraphischen Fund in phrygischer Sprache handelt und weil mit ihm 2. ein sicherer Beleg für die Anwesenheit der Phryger in dieser Gegend vorliegt. Offen bleiben muß vorläufig noch die Frage, ob diese Votivinschrift zum Tempel der Kybele gehörte. Ein anderer marmorner Steinblock - eine Scheintür - trägt auf seinem linken Rand eine aramäische Inschrift %. Bei diesem Fund handelt es sich um das Grabmonument eines Juden, eines gewissen Pedejahs, welcher ein religiöses Amt innerhalb der in Daskyleion lebenden jüdischen Gemeinde innehatte. Die Existenz einer jüdischen Gemeinde in Daskyleion (schon im 6. Jh. v. Chr.) mag ein weiteres Zeugnis sein für die von den antiken
Schriftstellern behaupetete Toleranz der Perser gegenüber den von ihnen behrrschten Völkern1. Von den anderen Funden der frühen Satrapenzeit in Daskyleion wären noch zu nennen: elfenbeinerne
Schmuckstücke,
mehrere
Webgewichte,
Schleudergeschosse
aus Blei,
achämenidische Schalen aus Ton und ein bronzenes Teil von einem Pferdegeschirr. Das letztgenannte Stück ist eine Riemenkreuzung mit Steinbügel an ihrer Unterseite.
Man findet Parallele bei den Trensen der Pferdedarstellungen auf den Reliefs von Persepolis. Bemerkenswert
sind außerdem
rituelle Mörser
und Teller aus Marmor,
wie man
ähnliche, mit aramäischen Inschriften auf der Unterseite, auch in Persepolis gefunden hat 32, Sie sind gleichzeitig Beweis dafür, daß die Achämeniden das Heiligtum der Phryger für ihre Religion weiterverwendet haben. Schließlich sind noch zu erwähnen die über 500 Bullae aus dem Palastarchiv von Daskyleion, - Beweisstücke für die Korrespondenz zwischen den Satrapen und dem jeweiligen König in Persepolis. 33 Seine größte Blüte erlebte Daskyleion allerdings in der Zeit zwischen dem Anfang des 5. Jh. und der Mitte des 4. Jh. Klassische Bauteile dieser Periode zeigen eine lebhafte bautätigkeit. Offenbar gehören sie zu einem einzigen Bauwerk, das man als einen unkanonischen Andron bezeichnen könnte. Möglicherweise handelt es sich bei diesem Gebäude mit einer Vorhalle in antis um den Palast der Satrapen ’*. Von hier aus hätten also Artabazos I., Pharnabazos I., Pharnakes I. und Pharnabazos II. regiert. Noch als Xenophon
‘ R. Altheim-Stiehl - M. Cremer, Epigraphica Anatolica 6 (1985), 1-16, Taf. 1 a-b. δὲ G. Wallis, “Jüdische Bürger in Babylonien während der Achämeniden-Zeit”, Persica IX (1980), 172 ff. © G.R. Driver, Aramaic Documents of the Fifth Century B.C. (1954). δὲ K. Balkan, “Inscribed Bullae from Daskyleion-Ergili”, Anatolia IV (1959), 123-128, Fig. 1-3, Taf. XXXIIXXXIV; D. Kaptan-Bayburtluoglu, “A Group of Seal Impressions on the Bullae From Ergili/Daskyleion”, Epigraphica Anatolica 16 (1990), 15-27, Tat. 1-3. * Dies ist die Auffassung von W. Koenigs, dem ich für die Bearbeitung dieses Materials herzlich danken möchte.
Phryger in Daskyleion
237
mit seinen Soldaten durch diese Gegend zog, existierte der Palast von Daskyleion, doch bald darauf, in Jahre 395, wurde er durch den spartanischen Kommandanten Agesilaos in Brand gesetzt. Im Zusammenhang mit dem Bau seiner Residenz ließ Artabazos I. auch
eine Temenosmauer umbauen, welche ursprünglich über dem alten Kultplatz des KybeleHeiligtums
verlief und
später dann, wie ich denke, ein zoroastrisches Heiligtum,
einen
Feuertempel (Feueraltar) beschützte, zu dem Reliefs gehören könnten, welche Magier und
Opfertiere bei einer Opferhandlung zeigen 35. Die Priester amtieren vor einem Feuer, und sie tragen Filztiaren (Poitidana), deren herabhängende Seitenstücke Wangen und Lippen bedecken. Auf Grund stilistischer Merkmale datiere ich diese Reliefs in die Zeit um 400 v. Chr. Sollten sie von einem zoroastrischen Feuertempel 36 (Feueraltar) stammen, so wür-
de sich diese zeitliche Zuordnung gut einfügen in den Zusammenhang
der offiziellen
Anerkennung des Zoroastrismus durch Artaxerxes II. (Thronbesteigung 404). Ein anderer, neu entdeckter Eckblock zeigt im Relief einen Mann in persischer Tracht sowie Spuren der Beine des neben ihm stehenden Pferdes. Auch diesen Block kann mann
— wie das Magierrelief - auf Grund stilistischer Kriterien in die Zeit um 400 v. Chr. datieren. Durch die von Agesilaos in Jahre 395 verursachte Brandschatzung wurden sowohl die Paläste ” als auch das zoroastrische Heiligtum zerstört. Pharnabazos II. ließ jedoch die Residenz,
mit Palast und
Heiligtum,
wiederaufbauen;
die schnelle Instandsetzung
wird insbesondere deutlich an dem verbrannten Fußboden und der ebenfalls verbrannten Lehmziegelmauer des Temenos. Auf einer attischen Schale vom Beginn des 5. Jh. steht in phrygischen Buchstaben das Wort
VANA(X) 3%. Meine Deutung
ist, daß
ein Phryger
(nicht ein Perser!) das Amt des
Mundschenkes im Dienste des Satrapen Megabates ausübte und diese Bezeichnung in seiner Muttersprache auf die Unterseite der Schale schrieb, damit er die Trinkschale seines
Herrn nicht mit den anderen verwechseln würde. Attische rotfigurige Kratere wurden in großer Zahl gefunden. Ikonographisch interessant ist das Fragment eines schnurrbärtigen Kriegers auf einem solchen Gefäß, der einen chalkidischen Helm mit Querbusch trägt. Einige andere Gefäße, Werke des berühmten attischen Vasenmalers, des Niobiden-Malers, gehören zum Tafelgeschirr des Satrapen
Pharnabazos I. Aus der Regierungszeit der Satrapen Pharnakes und Pharnabazos II., also aus der Zeit des letzten Viertels des 5. Jh. bis zur Jahrhundertwende, sind wenige attische Vasen gefunden worden. Xenophon (Hellenica) zufolge bevorzugte Pharnabazos II.
statt der Keramik goldenes und silbernes Tafelgeschirr. Solche aus Edelmetall hergestellten Gefäße haben wir in Daskyleion bislang jedoch noch nicht entdeckt, aber sie sind in Lydien von manchen Tumuli aus persischer Zeit bekannt.
* P. Bernard, “Les bas-reliefs gréco-perses des Dascylion à la lumière de nouvelles découvertes”, RA (1969), 17-
28, Fig. 8; K. Bittel, “Ein persischer Feueraltar aus Kappadokien”, Satura (Festschrift O. Weinreich) (1952), Anm. 39 un 40.
% S. Wikander, Feuerpriester in Kleinasien und Iran (1946).
# Xenophon, Hellenica IV 1,15 f; IV 1, 20 f; IV 1, 29 und 33; IV 3, 10: Sonnenfinsternis vom 1. August 394 v. Chr. Der Überfall des Agesilaos in Kaue fand ein Jahr zuvor statt. * T. Bakır - R. Gusmani, “Graffiti aus Daskyleion”, Kadmos 32 (1993), 136 Kat. No. 2, Abb. 2.
238
T. Bakir-Akbagoëlu
Selbst während des Satrapenaufstandes (unter Artaxerxes II.) und bis zur Schlacht am Granikos (334 v. Chr.) scheint das Leben in Daskyleion friedlich verlaufen zu sein. Ein in-
teressanter Fund bezeugt die Anwesenheit von Phrygern noch in dieser Zeit. Es handelt sich um einen attisch-schwarzgefirnißten Kantharos aus dem Jahre 350 v. Chr., der von einem adligen Phryger dem Heiligtum als Weihgabe geschenkt wurde. Auf der Lippe der Trinkschale hat der Besitzer in phrygischen Buchstaben das wort KAREA eingeritzt #. Alexander der Große interessierte sich für Daskyleion wegen der Schönheit seines berühmten Paradeisos, und nach dem Triumpf am Granikos# beauftragte er seinen Ge-
neral Parmenion mit der Eroberung. Obwohl die antiken Schriftquellen das Gegenteil behaupten, haben unsere Ausgrabungen gezeigt, daß die Perser die Residenz nicht sofort aufgaben, sondern sie gegen die Mazedonier verteidigten, wenngleich auch ohne Erfolg.
In der Folgezeit erlebte Daskyleion seinen Niedergang, und damit schließt ein Kapitel persischer und gleichermaßen phrygischer wie lydischer Geschichte - Jahrhunderte, welche in ähnlicher Weise schicksalbestimmend für ganz Kleinasien waren.
Nach dem Weggang der Perser ließen sich die mazedonischen Soldaten in Daskyleion nieder und bauten sich aus den Spolien der Satrapenpaläste ihre Wohngebäude. Zu dieser frühhellenistischen Bautätigkeit gehörte auch die Errichtung einer Terrassenmauer. Leider
ist sie trotz ihres ursprünglich gut erhaltenen Zustandes (zum Zeitpunkt von Akurgals Ausgrabung“!) mittlerweile, nach 40 Jahren, stark verfallen. Wir haben in jüngster Zeit angefangen, sie zu restaurieren. Der Tumulus eines mazedonischen Adligen (s.v. Kösemtug-Tümülüs), ein
im Kern aus Andesit-Blöcken errichtetes Grabmonument,
wur-
de mit Hilfe geophysikalischer Methoden untersucht, ausgegraben und restauriert. Die Grabkammer besteht aus einem viereckigen, 3 m breiten Raum, einem 8 m langen be-
deckten Dromos, welcher auf den berühmten Paradeisos und damit auf den Daskylitissee ausgerichtet ist, und einem nicht überdachten Vorraum. Die pyramidal abgestufte Decke,
die durch das gleichmäßige Vorkragen der Quader aller vier Wände entstand, ist charakteristisch für thrakische Tumuli 42, Das Grab wurde schon in der Antike ausgeraubt. Die Räuber plünderten die Grabkammer, ließen aber den Vorraum des Dromos unberührt. Hier nun wurden die Reste einer Halskette gefunden - vergoldete bronzene Kettenglieder
und 112 ebenfalls vergoldete, verschiedenförmige Tonperlen *. Die Halskette dürfte an dem bei der Begräbniszeremonie angezündeten Feuer geweiht worden sein; mehrere verkohlte Äste wurden jedenfalls neben den Perlen gefunden. Für die zeitliche Einordnung dieses Grabes kommt das letzte Viertel des 4. Jh. in Frage - ein terminus ante quem für die Datierung der früher anzusetzenden phrygischen Inschrift auf dem Schwellenstein des Eingangs zur Grabkammer*.
“T. Bakır - R. Gusmani, ebda., 137, Kat. No. 3, Abb 3. Δ Arrian, Anabasis | 17, 1 abo XVI 776; Pausanias, 129, 10. * E. Akurgal, Die Kunst Anatoliens (1961), 171, Fig. 115. # A.M. Mansel, Die Kuppelgräber von Kirklareli in Thrakien (1943); M.J.
Mellink,
M. Maass, “Ein Terrakottaschmuckfund aus dem Zeitalter Alexanders d. Gr.”,
“Nach
R.
6. oder 5. Jh. v. Chr.
mani, “Fine neue phrygische Inschrift aus Daskyleion”,
Epigraphica
AJA 96 (1992), 148.
AM 100 (1985), 310-326.
Anatolica
18 (1991),
163,
Gordion and the Kingdom of Phrygia
G. KENNETH SAMS University of North Carolina
The observations in this paper are generally limited to the Early Phrygian period, from sometime after the collapse of the Hittite empire down to the end of the 8th century B.C.
Gordion lies about 100 km southwest of Ankara, on the Sangarios (modern Sakarya) river, and also on the Eskisehir - Ankara railroad line. During the construction of the railroad, the site was visited in 1893 by Alfred Körte, who identified it as Gordion !. The location concurs with Classical testimonia, which also relate that Gordion
had been the
capital of the kingdom of Phrygia and the ruling seat of Midas?. The Classical sources further inform us on Midas and the Phrygians. The Phrygians were said to have come into Anatolia from southeastern Europe; they were known for the breeding of horses, elaborate textiles, and distinctive music. They worshipped a mother goddess, sometimes known as Kybele. As for Midas, if we exclude the mythol-
ogy and assume that the testimonia refer to the same individual: he founded Ankyra; he married a Greek princess from Aiolian Kyme; he was the first non-Greek ruler to make a
dedication at Delphi; and he died at the onslaught of the Kimmerians. For the last event, we have a date of 696/695, provided by the Latin and Armenian translations of Euse-
bios. The same translations tell us that Midas became king in 742 or 738; if we can accept either set of dates, he would have ruled for somewhat over 40 years?.
We receive corroboration for his dates from the contemporary annals of Sargon of Assyria, which show “Mita” as being politically active in Tabal and northern Syria from 717 to 7094. We also see Midas in a Phrygian inscription in the Phrygian Highlands, on the Midas Monument at Midas City. The district is noted for its rupestral architectural facades. Most seem to be of a religious nature; several mention Phrygian Matar in their inscriptions. The inscription directly above the facade, where Ates dedicates to “Midas, leader of the people and king,” may refer to the late-8th-century Midas. Yet current thinking among several scholars would place the monument itself in the 6th century.
* Körte (1897), 1-28. ? For the testimonia, Körte and Körte (1904), 28-35. > Ibid. * Hawkins (1982), 417-422.
* Brixhe and Lejeune (1984), 6-9,
240
G. Kenneth Sams
One view is that Midas continued to be revered, and that by the time the monument was carved he had achieved heroic or possibly even a semi-divine status. If so, the facade
would be a telling reflection of the once greatness of this Anatolian monarché. In the year 1900, Alfred and Gustav Körte came to Gordion to carry out a single sea-
son of excavation. Most of their attention was concentrated on burial mounds or “tumuli,” about which
more will be said below. The richest, Kôrte Tumulus
III, contained an
array of luxury goods, including bronze vessels, wooden furniture, and elaborate pottery. Assuming the tomb to be Phrygian and to belong to the time of Midas, Alfred Körte dated it to the late 8th century B.C., a date that today cannot be improved upon 7. The tomb presumably belonged to a member of the royal house of Phrygia. In 1950, Rodney S. Young began excavations at Gordion, on behalf of the University Museum of the University of Pennsylvania. His work continued through 1973; excavations resumed in 1988. In what follows, the results of Young” investigations in the Early Phrygian period first will be summarized; afterward will come an assessment of how the more recent work has complemented what had been known about the period. The focus of the excavations under Young came to be a fortified citadel of the 8th century B.C. Much of the citadel had been destroyed in a great fire, which Young early on attributed to the Kimmerians. The destruction can thus be dated to around 700 B.C., if the standard interpretation is accepted ®. The excavated citadel lies in the eastern half of the City Mound; we know practically nothing about the western half of the mound during this period. The most impressive monument of the site today is the great gate complex giving access to the citadel, still standing to a height of about 10 m. In its final phase, the passageway consisted of a ramp paved with carefully laid cobble-stones; the well preserved condition of the cobbles suggests that the gate did not see wheeled or ani-
mal traffic, and even pedestrian traffic may have been limited. Within the citadel, excavation has revealed two major precincts ?. The one, which is
taken to have been the Palace Quarter, consists of two large courtyards separated by a wall and flanked by monumental buildings. The second precinct, on a terrace at the southwest, consists of two large row-buildings. The type of building regularly seen here is a variety of megaron, with a large central room and an antechamber or porch. Megarons have a long history in Anatolia, for example in the citadel of Troy VI, and it is possible that the Phrygians borrowed the concept from local Anatolians. We also see echoes of earlier Anatolian traditions in Phrygian building techniques. The smallest of the megarons, Megaron 1, was built entirely of mudbrick and wood. Vertical insets in the walls originally held upright timbers; timbers also ran horizontally and transversely through
* DeVries (1988). © Korte and Korte (1904), 38-98. * Sams (1994A), 1. Bossert (1993) argues on textual grounds, that the destruction, and the death of a subse-
quent Midas, occurred about a quarter of a century later, matching a date of 675/74 for the demise of Midas given by Julius Afrıcanus. Her argument raises a number of archacological difficulties, not the least of which have to do with stages of ceramic development. * Sams (1994A), 2-7.
Gordion and the Kingdom of Phrygia
241
the building !°. The technique can be traced back for millennia in Anatolia, and even specific combinations of wood and mudbrick find parallels in earlier times.
Neighboring Megaron 1 is Megaron 2, a somewhat larger building with similar timbered construction; but here, instead of mudbrick, blocks of soft limestone were used in
the timber frame. Megaron 2 was a special building. Its main hall contained a richly-patterned mosaic of different-colored pebbles !!. The building is also exceptional for the
wide variety of figural and abstract designs engraved on its exterior walls. Also found incised here are building facades, invariably shown with doors or windows, a double-pitched roof, and hornlike roof crowns or akroteria, as occur on the Midas Monument and
other facades in the Phrygian Highlands, e.g., the nearby Areyastis Monument !2. The device is also depicted on reliefs from Ankara that presumably show the Phrygian Matar standing in a doorway, perhaps the entrance to her temple !3. Megaron 2 itself may have
had an akroterion, a well preserved stone example found near the building !4. The possibility presents itself that Megaron 2 was a temple. If so, the engravings on the walls could perhaps be interpreted as offerings to the deity, who may have been Matar herself. The building held no contents that might help to secure this (or any other) identification.
The largest of the megarons, Megaron 3, stood prominently within the inner court of the Palace Quarter. Series of wooden beams in the floor served as underpinnings for timbers that would have supported balconies and the roof; the main rows of supports divi-
ded the spacious hall into a nave with flanking side-aisles. When the citadel was destroyed, Megaron 3 burned with its contents intact — furnishings that reflect wealth and a luxurious life-style '5. These include ivory furniture, which is essentially a Middle Ea-
stern idea. Among the most precious finds from Megaron 3 are finely-woven textiles, sometimes appearing in technique to be miniature kilims. Along the rear wall of the building apparently stood a low, fabric-covered couch, perhaps not unlike an Ottoman di-
van. Size, furnishings, and the prominent yet secure location of the building suggest that this was the center of the Phrygian palace. Next to Megaron 3 stood Megaron 4, elevated on a terrace and approached by a cobble-stone ramp. The purpose of the building is not clear. The row buildings on the terrace behind the Palace Quarter tell a different story.
Each is essentially a single building; that at the northeast has been excavated for its total length of over 100 m., with eight individual units. All the units are of megaron plan, sim-
ilar to Megaron ters of domestic grain was made beside spinners
3 in having a nave and side-aisles. Almost all the rooms were lively cenindustry, primarily food and textile preparation '*. In the main rooms, into flour on grinding stones set on low platforms. The grinders worked and weavers, whose implements are found in abundance in the rooms.
τὸ Young (1960) and Young (1962), on Phrygian architecture and building techniques. 1! Young (1965). "2 Young (1969). For the rupestral monuments, Haspels (1971), 73-80.
1 Prayon (1987), Taf. 9 a-b. See also Mellink (1983). * Young (1956), 261-262 and PI. 93, Fig. 41. 15 DeVries (1980), 38-40. 1 Ibid., 39-40; Sams (1994A), 4-6.
242
G. Kenneth Sams
The side aisles contained hundreds of clay vessels for dining, food preparation, and storage. The anterooms were the kitchens, where cooks baked bread in large, domed ovens
and prepared other foods on grills. A single one of these units would perhaps have been sufficient for the basic domestic needs of the citadel. Yet since the same activities were repeated many times over from one hall to the next, the units surely bear witness to a high
level of economic and social organization, with an administration to supervise it. Perhaps raw foodstuffs and other goods were brought here for processing and redistribution, as
in a centralized palace economy. The large number of ceramic dining vessels found in the units might indicate that meals were taken either in the halls or nearby. The finds from the destroyed citadel are rich and varied. Pottery, which is especially prevalent, reflects a high level of craftsmanship and the originality of the potters who supplied their wares to the capital "7. Theirs would have been but one of several specialized trades contributing to Phrygian material economy; others include wood and ivory carving, ironsmithing, carpentry and cabinetmaking, bronze production, and textile man-
ufacture. Yet only for textiles and food processing does evidence exist for production centers for this period. Signs of foreign contact also occur, as with a group of horse-trap-
pings in ivory, found in what may have been a treasury. Stylistically, they belong to the world of Syrian art. We know from Assyrian records that Mita-Midas had dealings with
Pisiri of Carchemish. Ivory was a highly prized material in antiquity, worthy of kings. The horse-trappings could have been part of a royal or diplomatic gift exchange between the Phrygian court and a prince of Syria !*. Our view of Phrygian civilization at this time is supplemented by the evidence from contemporary tumuli. This type of burial had not been indigenous to Anatolia, and it is likely that the concept was introduced from southeastern Europe. Over 80 tumuli mark
the landscape around Gordion. They range in date from the 8th century into Hellenistic times. In all periods, they would have been for the elite of society. Kôrte Tumulus III can
now be seen as typical for the period, in that the burial had been in a tomb-chamber of wood. Opposite it, on the other side of the Gordion Museum grounds, Young excavated Tumulus Ρ the burial of a child around five years old when
he or she died !?. The tomb
contained much fine pottery, including zoomorphic vessels that might have been specially made to delight a youngster, either in this world or the next. Equally suitable for a child’s burial are a number of carved wooden animals, which might have been toys. The impor-
tant child was also surrounded by elegant inlaid furniture. Roughly contemporary in date with Kôrte Tumulus III, the late 8th century, the burial could have been that of an offspring of Midas or another child within the royal household. The earliest tumulus so far excavated is W, which lies about 2.5 km to the east of the citadel prominently situated on a ridge. The second largest tumulus at Gordion, it is dated on the basis of contents to ca. 750 B.C. ?°. According to limited skeletal remains, the occupant was a small adult, prob-
"= "> " 2"
Sams (1994A), 187-192. Sams (1979), 45-46; Sams (1993), 552. Young (1981), 1 Ibid., 191-218.
Gordion and the Kingdom of Phrygia
243
ably male. The siting of the tumulus is intriguing, for it is precisely aligned with the main (east-west) axis of the monumental gateway of the Early Phrygian citadel. For some reason, the occupant of the tomb, or his survivors, wished to establish this visual connec-
tion. Perhaps the monumental gate and fortifications had been a project of the deceased. By far the largest of the early tumuli at Gordion is MM, which lies at the top (i.e., north) of a triangle it forms with Körte III and the child’s tumulus. This impressive earthen monument originally rose to a height of about 50 m. Excavated in 1957, the tomb measures over 5 by 6 m. and has a double-pitched roof rising over 4 m. from the floor !. Made primarily of pine, the tomb was surrounded by a casing of juniper logs, and the entire structure was enclosed by a massive stone wall. Recent investigations in the structure have revealed the curious presence of reused timbers. The occupant, a short-
ish man who had died in his early to mid 605, lay in a wooden coffin against one wall 2. Altogether, nearly 400 items accompanied him to the grave 2. These included several pieces of wooden furniture, such as a pair of inlaid serving stands and a highly intricate table, textiles, hundreds of bronze fibulae, and bronze vessels. Also among the bronzes is
a pair of large cauldrons with bird-demons, so-called “Sirens,” on the rim, and a third with bull protomes 24. Like the ivory horse-trappings mentioned earlier, these are stylisti-
cally of Syrian origin and may again reflect the exchange of gifts berween rulers. Whether the inhabitant of the tomb was actually Midas or another member of Phrygian royalty is a continuing matter of controversy. The date of the burial, as gained archaeologically, appears to have been close to the time of the destruction in the citadel, which is associated
with the invasion of the Kimmerians and the death of Midas. Yet others contend that the Phrygians, in the wake of the Kimmerian disaster, would have been in no position to undertake so ambitious a project as the construction of the tomb and the mounding up of
the gigantic tumulus 25, Among the earliest Phrygian inscriptions we possess the tumulus, some possibly being the names of those donating gifts to the suming that the Phrygians borrowed their alphabet from the Greek world, could have resulted from Midas’s dealings with the Greeks; in any event, not yielded any firm evidence for Phrygian writing before the end of the 8th
are five from burial 2. Asits adoption Gordion has century.
By the first half of the 6th century, the Phrygian citadel is rebuilt at a much higher
level. If one compares the new plan with that of the 8th-century citadel, the resemblances are striking: large megarons continue to be used, and the buildings almost one for one match those of the older complex. The builders, in other words, took pains to replicate
the old citadel of Midas, as though in an effort to restore the greatness that Phrygia once
2! Ibid., 85-100.
2 Simpson (1990). ® Young (1981), 100-190.
% DeVries, ibid., 219-223. 15 Sams (1994A), 195-196. The lower dating of the Kimmerian onslaught proposed by Bossert (1993) would admittedly eliminate the dilemma, since in her view this tomb would remain that of the late-8th-century Midas, while the destruction of the site occurs a quarter-century later. 2 Brixhe in Young (1981), 273-277.
244
G. Kenneth Sams
had under him. As Keith DeVries has argued, this major renewal may belong to the same social and cultural climate that produced the Midas Monument at Midas City”. The new program of activities begun in 1988 includes resumed excavation and regional survey, both under the direction of Mary M. Voigt. The new work builds on, and very much complements, what had been achieved under Rodney Young. One important undertaking has been the investigation of the earlier history of the Phrygian citadel. The
sector chosen was the outer court of the Palace Quarter. Some excavation in these earlier levels had already been carried out, but much remained that was not understood ?#.
Since 1950 the excavators had been aware of a variety of handmade pottery that began to occur in the earliest Iron Age levels, directly above those of the Late Bronze Age”.
The pottery finds its closest parallels in Troy VIIb and in southeastern Europe, especially the region of Thrace, and thereby lends substance to the ancient tradition of Phrygian origins. Yet the pottery was always found as refuse in fills or dumps, with no architectur-
al setting to indicate the context of use. This situation changed in 1989, when for the first time the pottery was found in association with an architectural level #. One of the structures was a modest house, set partially in the ground, with cooking and storage facilities. There was no admixture of the handmade pottery with earlier Hittite pottery, i.e.,
no indication that these presumed European newcomers were here mingling with local Anatolians. The date of the level could be as early as the 11th or 10th century, not far re-
moved from the time of Troy VIIb and its European-oriented handmade wares. We have no indications that the newcomers played a role in the collapse of the Hittite Empire; nor that they took the site by force. The likeliest scenario is that they migrated sometime
after the Hittite collapse %!. In the next habitation level in this area, the architecture is again modest and domes-
tic, a house whose walls were made of poles, reeds, and clay "2, Something may be missing in going from the previous level, with its handmade pottery, to this one, because here is found wheel-made pottery that differs little from advanced Phrygian pottery, as known from the ca. 700 Destruction Level ®. In other words, a considerable development in ce-
ramic technology has occurred. A situation may here exist in which the levels preserved are not providing a complete picture of the sequence of habitation. One of the vessels from the house bears close resemblance to a Thracian type of jug, as known in quantity
from a burial at Tashcabayir, near Kırklareli in European Turkey *. At some time subsequent to the burnt-reed house and its pottery, perhaps around the middle of the 8th century, pottery impressed before firing with a variety of decorative
δ ® * %
DeVries (1988). DeVries (1987); Sams (1994A), 7-15. ams (19944), 19-28. ‘oigt (1994), 267-268; Henrickson (1994), 106-108, Sams (1992). Vorgt (1994), 269-2 Henrickson (1994), 108-110, Ihid., p. 125, Fig. 10.5.e. Cf. Özdogan (1987), Figs. 7-14.
Gordion and the Kingdom of Phrygia
245
stamps begins to occur *5. In the Anatolian Iron Age, such pottery-stamping is known only at Gordion, Ankara, and Midas City. The technique thus appears to have belonged
exclusively to the Phrygians of west-central Anatolia. The only other region where such pottery-stamping is a common feature at this general time is Thrace. Certain motifs are also shared between Thrace and Phrygia, particularly the S-spiral, which also finds analogies in European wire-made jewelry. It is perhaps not a coincidence that the S-spiral
stamp is among the first to appear at Gordion. As argued elsewhere, the picture that seems to emerge is that southeast European elements do not appear all at once at Gordion, but rather in a diachronic sequence that sug-
gests renewed or continuing influxes of people and ideas over time, and perhaps not all coming from the same precise area *. Even the ancient sources do not agree on the homeland of the Phrygians: alternately Thrace and Macedonia. Yet in the material record at
Gordion, primarily pottery, occur elements that find their closest parallels in one or the other of these two regions. Others are in a far better position than the present author to discuss whether Phrygian as a distinct language might have emerged in this new Anatolian setting. From the archaeological point of view, however, it seems likely that what we call Phrygian civilization emerged in Anatolia from an amalgam of European and Anatolian elements”.
The Phrygians eventually came to establish a prominence in west-central Anatolia, presumably with a sophisticated state administration and other institutions, such as kingship. This evolution may well be reflected in subsequent stages of the Palace Quarter. The site was fortified by a massive defensive wall with a gate complex at the northeast. Later, a second gate was added at the south. These activities are related to the transformation of the site into a citadel, perhaps as early as the 9th century. So much had been known from the excavations under Young #. The Phrygians later built a new, expanded fortification system, with the major gate mentioned earlier, perhaps around the middle of the 8th century, and perhaps under the sponsorship of the occupant of Tumulus W. A part of that project had been the covering over of the old gate at the north, the installation of a new megaron (Megaron 9) directly over it, and the paving of the outer court with large stone slabs 3°. At least one Phrygian building had been dismantled in the process, because membra were found reused in several contexts connected with the new project. The building was especially intriguing because of its finely-cut limestone blocks and special building elements, including lunate blocks perhaps connected with columns, sloping blocks that might belong to a roof, and a large akroterion, considerably larger than the
δὲ Sams (1994A), 123- 133. # Sams (1988), 12-13; Sams (1994A), 175-176.
© Drews (1993) has argued that the Phrygian migration from Europe was a fiction of the Sth century B.C., and that the Phrygians had been in Anatolia since the earlier 2"d millennium. The contentions are based largely on literary evidence, and are not particularly well informed by archacology. Even without the ancient tradition of a Phrygian homeland in Europe, the archacological record alone would bear the indications of a non-Anatolian, European component at Gordion in the Early Iron Age. “ DeVries (1987). # Sams (1994A), 10-12; Sams (1994B), 211-212.
246
G. Kenneth Sams
one that may have belonged to Megaron 2 ‘°. The mystery building may have been found
in 1993, lying directly inside and between the gates in the older fortification system*'. As to be expected, it had been badly marauded by the later builders. Yet enough remained to show that the building was a megaron, constructed from well-cut limestone blocks. The blocks have the same kind of masons’ dressing marks that are found on the displaced series. To the building’s south, an added surprise came with the discovery of a stone paving in red and white slabs forming a checkerboard. The building is presently under study, to see how all of its parts might have fit together. In regard to the building’s purpose, there is no internal evidence to serve as a guide. Might it have been a temple or shrine, perhaps the predecessor of Megaron 2? Both megarons show similar stone-cutting. Both also may have had akroteria crowning their roofs, as seen in the depiction of Phrygian shrines
elsewhere, in Ankara and at Midas City. After the activities that brought about the end of the newly discovered megaron, the Phrygian citadel began to take on the configuration that was discussed above. The next major renovation project was the installation of the terrace with its service buildings.
Then came Megaron 4, the last major building before the destruction that is associated with the Kimmerians. At the very time of the destruction, the Phrygians were engaged in yet another major building program, one that somehow involved the dismantling of the gatehouse and the construction of massive terraces in the southeast “2, The form that the new project was to have taken will never be known.
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Zur Herkunft der Bezeichnung ‘Muski’
JUTTA BÖRKER-KLÄHN Berlin
Die Identität der Mus/ski des ausgehenden 8. Jh!. mit den Phrygern ist unbestreitbar. Anders verhält es sich mit den 20000 Muski, die unter fünf “Kônigen”, wie es heißt, im
Akzessionsjahre Tiglatpilesers I. - 1114 - eine Landnahme in der Kommagene versuchten?. Als assyrische Tributäre seien sie seit 50 Jahren schon, ergo seit 1164, im ostanatolischen Alze und Purulumze ? - etwa im Vilayet Diyarbakir — ansässig gewesen, berichtet
der assyrische König. Nur Ignoranten altorientalischer Bürokratien und ihrer Archive könnten an der Zuverlässigkeit der Angabe zweifeln *. Die Gleichsetzung auch dieser Muski mit Phrygern ist von der Forschung vor 100 Jahren rückhaltslos bejaht worden 5. 50 Jahre vergeblicher Archäologenerwartung, die
Existenz von Phrygern vor dem 8. Jh. auch dinglich nachweisen zu können, führten dann K. Bittel dazu, Zweifel an der Identität zu äußern 6. Diese Zweifel bildeten den Nährbo-
den für den von M.J. Mellink nach weiteren 25 Jahren begründeten Kompromiß 7, der infolge fleißiger Wiederholung zum Konsens geronnen ist #. Demgemäß hätte eine Namensübertragung von Unbekannten aufgrund deren (fiktiver) Kooperation mit Phrygern
! Sargonische Belege: ARAB II $$ 8 (4. J.), 16 und 18 (7. J.), 25 und 55 (9. J.), 42 f. 71 (13. J.), sowie 80, 82, 96, 118, 137 und 183 (Résumés). - ND 2759 = SAA I Nr. 1,1 (5. Parpola); J.N. Postgate, Iraq 35 (1973), 21 ff. un-
ter Rückverweis auf H.W.F. Saggs. 5. noch Anm. 25. ? ARABI $ 221; Grayson, ARI Il $$ 12 ff. + Purulumze ist nicht lokalisierbar, wohl aber Alzefi, assyr. auch Enzite: s. Skizze bei A.M. Dingol, IE) 21 (1994), 13 Abb. 4. + In der Tat scheinen die b.luw. Stelen von Karahöyük-Elbistan und Izgin von inneranatolischen Wanderungsbewegungen im 12/11. Jh. zu berichten: J.D. Hawkins, in: ed. M.J. Mellink - T. Ozgüc - E. Porada, Aspects of Art and Iconography: Anatolia and Its Neighbors. Studies in Honor of Nimet Özgüg, Ankara 1993, 273 ff. Eine falsche Spur hat aber P. Meriggi (Athenaeum 42, 1964, 52 ff.) gelegt, als er in der mutmaßlich dem 12. Jh. angerörenden Hartapus-Inschrift KIZILDAG 4 “una prima attestazione epicorica dei Moschi in Frigia” wähnte: es ist vielmehr die Rede von einem Sieg über die Stadt Ma-sà-ka' (zu Lesung und Sachverhalt: J.D. Hawkins, in: ed. E. Akurgal - H. Ertem - H. Orten - A. Süel, Hittite and Other Anatolian and Near Eastern Studies in Honour of Sedat Alp, Ankara 1992, 267. - PN eigentlich Hartapu- oder Hartapusa-: ebda. 265), und es ware zu überlegen, ob wir es dabei mit dem ersten Beleg von Mazaka, dem Vorgängernamen für Caesarea-Kayseri, zu tun haben. 5 G. & A. Körte, Gordion. Ergebnisse der Ausgrabungen im Jahre 1900, [4] Erg.bd. V (1904), 9 f. € K. Bittel, “Kleinasiatische Studien”, IstMitt 5 (1942), 67 £. ? M.J. Mellink, JDKIF 2 (1965), 317 ff. (Mita, Mushki and Phrygians”). * Und archäologische Folgen gebiert: vgl. zuletzt G.D. Summers, in ed. A. Gilingiroglu - D.H. French, Anatolian Iron Ages 3. The Proceedings of the Third Anatolian Iron Ages Colloquium Held at Van 1990, Ankara 1994, 246 f.
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J. Börker-Klähn
auf eben dieselben stattgefunden. Die Konstruktion gipfelt gar in einer Auslegung als Doppelstaat.
Für um 800 gelegt*. Grenzen
Aufklärung sorgt eine bildluwische Inschrift aus Kargamis. Ihre Aussage wurde dem minderjährigen Kônig Kamanas von seinem Regenten Jariris in den Mund Da heißt es ° KARKAMIS A 6 Z. 2-3: “Die Götter ließen meinen Namen die überschreiten. Einerseits hörte man ihn von mir in Ägypten, andererseits hörte
man ihn in Babylon? (3), andererseits hörte man (ihn) auf Mysisch, auf Phrygisch und auf
Phönizisch, und dazu ließ ich (meine) Untertanen ihn bei jedem König angenehm machen” !!. Die Adressatenreihung enthält eine Zäsur: während in den ersten beiden Fällen eine Ortsangabe gemacht wird, finden in den anderen dreien Adjektiva auf -za im (adverbiell gebrauchten) PI. N./A. n. Verwendung. Das hier primär Interessierende ist, daß allen Bezeichnungen determinierte Städtenamen zugrunde liegen !?: die Länder der Städte Mizra,
x(475)-la,
Musa,
Musga
und Sur sind Ausgangspunkt
auch
der adjektivischen
Wortbildungen. Mizra ist als Ägypten zutreffend identifiziert 3, Babylonien als Lesung nicht garantiert und m.E. nicht einmal wahrscheinlich. Bildluwisch (a)su+r rekurriert, wie die spätere
assyrische Provinzbezeichnung ”Surru, auf die einheimisch-westsemitische Bezeichnung von Tyros als sör, “der Felsen” !*; von phönizisch ist folglich insofern die Rede, als das zu Tyros gehörige Land unterliegt, obwohl der Geltungsbereich der phönizischen Sprache
erheblich darüber hinausreichte. Vor dem umgekehrten Fall stehen wir mit Musa. Das ist sprachlich einwandfrei Mysien, aber es gab, soweit wir wissen, keine mysische Sprache. Die Region nutzte vielmehr neben Phrygisch, das in der Inschrift
jedoch gesondert auf-
geführt ist, das Lydische: mit Mysisch muß folglich Lydisch gemeint sein, aber eben nicht Lydien. Belege für die Stadt Musa waren bisher nicht bekannt, doch läßt sich in einer Epheben-Liste aus Pergamon mehrfach die Herkunftsangabe [Md(60ç)] ‘EAAnlonövnog] rekonstruieren !5. Damit verliert sich die Spur.
Die formale Unterscheidung zweier Nationen von drei Sprachregionen in der Kargamis-Inschrift setzt zwar verschiedene Akzente, doch verblüfft die Nennung von Mysern, Phrygern und Tyrern um 800 selbst dann, wenn wir zwischen ihnen und den vorangehen-
den Mächten der offenkundig hierarchischen Reihung eine Bedeutungszäsur unterstellen: ein Jahrhundert vor dem groß-phrygischen Reich des Midas’ muß die phrygische Sprache immerhin von mehr als regionaler Bedeutung gewesen sein, und das ist natürlich politisch
* Kontext: J.D. Hawkins - A. Morpurgo Davies, Hethitica 8 (1987), 286 ff. 1.0). Hawkins, AnSt 31 (1981), 154 f. J.D. Hawkins - A. Morpurgo
Davies, in: ed. H.A.
Hoffner - G.M. Beckman, Kamissuwar.
À Tribute to Hans G.
Giiterbock, AS XXIII (1986), 79 f. 1 J.D. Hawkins, AnSt 25 (1975), 152. " Vel. F. Starke, “Untersuchungen zur Stammbildung des keilschrift-luwischen Nomens”, StBoT XXXI (1990),
352 mit Anm.
1242.
τὸ Vgl. schon Verzettelung sub Lar. 107 und 225. Das Verfahren entspricht uralter, nicht nur anatolischer Praxis der Herkunftsbezeichnung, für die - im Regelfalle - auf die Kapitale zurückgegriffen wurde. "Vgl. H. Tadmor, JCS 12 (1958), 77 Anm. 178. #4 H.J. Katzenstein, The History of Tyre, Jerusalem 1973, 65. τῆς Robert, Villes d'Asie Mineure?, Paris 1962, 80 f.
Zur Herkunft der Bezeichnung ‘Muski*
251
zu gewichten. Der von Kamanas gewählte literarische Topos nimmt eindeutig auf dessen Reputation !6 Bezug, was jedoch nur bei entsprechendem Gewicht der Genannten erwähnenswert war, d.h. die Phrase scheint, wenn
nicht die tatsächlichen, so doch
potentielle
Bündnispartner Kamanas’ zu nennen 17. Wenn Kamanas nun deren drei sprachlich charakterisiert, dann müssen die Götter seinen Namen
bei einer Vielzahl von phönizischen,
phrygischen und mysischen Fürsten propagiert haben, aber es kann einen phrygischen Zentralstaat um 800 so wenig gegeben haben wie je einen mysischen und phönizischen. Da jedoch die mysischen und phrygischen Fürsten aus der Sicht des Herrscherhauses von Kargamis vor den phönizischen Potentaten rangierten, ist Strabos Mitteilung bestätigt (XII 4,6), nach dem Fall Trojas hätten Phryger und Myser die Vorherrschaft in Kleinasien
ausgeübt!8. Ein bis anderthalb Jahrhunderte später sind das nunmehrige Groß-Phrygien, Kargamis und Tyros Protagonisten in einem polit-geographischen Dreiecksverhältnis: Midas hat in Tuwana/Tvava Fuß gefaßt, dessen Herr Warpalawa trägt phrygische Prunkgewänder !9, schreibt außer Bildluwisch auch Phônizisch 2° und duldet phrygische Inschriften 2! und Tumuli 2 auf seinem Territorium; Midas erobert für kurze Zeit das kilikische Que 2 und schließt ein Bündnis mit seinem jetzigen Nachbarn, Pisiris von Kargamis ?*; Warpalawas mutmaßlicher Sohn, Mugallu, paktiert mit König Ba’al I. von Tyros, und alle
τὸ Vgl. CHD I-n 35 f. s.v. laman, h). Daß dieselbe Phrase unter dem keilschriftlichen Material (noch) nicht belegt ist, wiegt gering. Das bildluwische harrt noch der Verzettelung. 5. nächste Anm. 1° Als SamBi-Adad I. (AOB 1 24 IV 12; CAD 5 293 s.v. Sumu c) in vergleichbarer Terminologie sagt: 3u-mi rabém u narija ina mât Lab'an ... lu aëkun (“ich etablierte meinen großen Namen und meine Stelen im Lande Laban”), sprach er von den Folgen einer Eroberung. τι Über mehr als 300 Jahre - bis in die Zeit Midas’ - war Tyros die bedeutendste Wirtschaftsmacht des Mittelmeerraumes (Katzenstein a.O. 94); alle phönizischen Handelskolonien waren solche von Tyros, deren älteste das 2ypriotische Kition (12. Jh., ebda. 91). Territorial war Tyros auf den Küstenstreifen zwischen Akko und Karmel sowie auf Teile des Libanons beschränkt (ebda. 105 f. 108). Sardur II. (756 - ca. 730) bestätigt Strabo, wenn er in der Izoglu-Inschrift informiert: “jenseits (wörtlich: auf der anderen Seite) der Stadt Melitia (=Malatya) gelangte ich bis
zum Land Musa” (Text: vgl. M. Salvini, Geschichte und Kultur der Urartäer, Darmstadt 1995, 68). 1 Das ist keine Entdeckung von R.M. Bochmer (AA 1973, 149 ff. mit Reihung jüngerer Fundmaterialien) sondern von R.M. Ramsay (Archäologische Zeitung 1885, 205; ders.-D.G. Hogarth, RT 14/15 (1893), 77 f. 90 f.). Die phrygische Herkunft war zwischenzeitlich schon von E. Akurgal bekräftigt worden (Die Kunst Anatoliens von Homer bis Alexander, Berlin 1961, 59. 61. 81; ders., Phrygische Kunst, Ankara 1955, 45 ff. 85. 93. 109). 2 B. Dingol, Tel Aviv 21 (1994), 117 ff. - Der phönizische Einfluß in Anatolien und N-Syrien läßt sich hauptsächlich auf Tyros zurückführen: T.N.D. Mettinger, No Graven Immages? Israelite Aniconism in Its Ancient Near Eastern Context, Stockholm 1995, 93 unter Verweis auf C. Bonnet. 21 Darunter eine mit Erwähnung eines Midas’: C. Brixhe - M. Lejeune, Corpus des inscriptions paléo-phrygiennes. ERC mem. XLV, Paris 1984, T 01-03; A. Cinaroglu - E. Varinlioglu, EpAnat 5 (1985), 5 ff.; C. Brixhe, in: ed. B. Le Guen-Pollet - O. Pelon, La Cappadoce méridionale jusqu'à la fin de l'époque romaine. Etat des recherches. Actes du Colloque d’Istanbul. Institut Frangais d’Etudes Anatoliennes 1987, Paris 1991, 37 ff. (mit Korrekturen der Erstedition): Stelen; drei Handschriften, drei Gelegenheiten. 2 Tepebaglari: M.J. Mellink, AJA 79 (1975), 209 ; AJA 80 (1976), 271; 81 (1977), 299; 82 (1978), 322; 84 (1980), 508. - Kaynarca: Dies., AJA 93 (1989), 119; M. Akkaya, in Le Guen - Pollet-Pelon a.O. 25 ff. 3 Niemals zuvor habe sich Midas einer fremden Macht unterwerfen (ARAB II $$ 43. 71), nun (715) aber einen Unterhändler an die elamische Grenze schicken müssen ($ 42), um die Unterwerfung anzubieten ($ 43. 71), so daß Sargon sein Joch über Musku habe werfen können ($ 137). Vgl. dazu J.D. Hawkins, RIA VIII 3-4 (1994), 271 f. s.v. Mita und nächste Anm. Ἢ ARABI $ 8. 2 Karzenstein a.O. 286 mit Lit.; 5. Parpola, Letters from Assyrian Scholars to the King Esarhaddon and Assur-
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J. Börker-Klähn
sind erbitterte Gegner Assyriens. Sargon flucht, sie möchten ihm die Füße mit dem Bart wischen 26, Die Situation führt noch einmal auf Jariris und Kargamis zurück.
Der Regent und Prinzenerzieher rühmt sich in KARGAMIS A 15 (b 4), vier Schriftsysteme beherrscht zu haben, von denen sich drei identifizieren lassen als Bildluwisch, Phö-
nizisch und assyrische Keilschrift 27,
Bildluwisch benutzte Kargamis traditionell; für die
Anwendung der anderen beiden Schriften - und natürlich Sprachen - muß Bedarf bestanden haben. Betreffs der vierten von Jariris gemeisterten Schrift und Sprache -- derjenigen
von Teman in Hanigalbat # - wäre zu überlegen, ob man sich, wie in Assyrien auch, zusätzlich des Aramäischen bedient haben könnte. Im Anschluß berichtet Jariris sodann, zwölf Sprachen gesprochen zu haben. Wir erfahren leider nicht, welche das gewesen sind, wohl aber, daß er sich Muttersprachler kommen
ließ und zum Zweck des Spracherwerbs
möglicherweise sogar Bildungsreisen unternahm. Zudem läßt die KÖRKÜN-Inschrift König Astiruwas’ erkennen, daß man bereits Gymnasien oder Akademien unterhielt 2°. Beides führt zu der Vermutung, unter Jariris’ Sprachlehrern wie unter den Absolventen jener
Akademien könnten Illiteraten gewesen sein, die gegen 800 mit den Segnungen der Schriftlichkeit erstmalig im polyglotten Staate Kargamis in Berührung kamen - mit Phönizisch so gut wie sicher, mit Aramäisch wahrscheinlich. Den Überlegungen zur Herkunft des griechischen und phrygischen Alphabets vermag das vielleicht eine neue
Wendung zu verleihen ”, Unsere nächste Bemühung gilt der Suche nach der Stadt Musg/ka. Daß sie sich auf dem Balkan befunden haben könnte, ist unwahrscheinlich ?', vor allem aber unwichtig,
denn in Anatolien gab es sehr wohl eine Stadt des verlangten Namens: der Ort befindet sich in Reichweite des Sangarios’, für einen rüstigen Fußgänger eine Tagesreise von Gordion entfernt. Seine Spur ist erhalten in einer byzantinischen Quelle über das Leben des heiligen Theodor von Sykeion kurz vor 700 A.D. Im Zusammenhang mit den Lebensdaten des Kirchenfürsten wird berichtet, jedes Jahr treffe sich die Bevölkerung der Bischofs-
sitze Germa und Eudoxia in einer Prozession im Orte Movoye - er ist im Dativ überliefert - zu Ehren der Muttergottes, und W.M. Ramsay hat dieselbe, entsprechend der Sachlage im benachbarten Pessinus, gewiß berechtigt als Nachfolgerin der großen phrygischen Göttin Kybele verdächtigt ??. Die Ansetzung des Ortsnamens als Movoya gegenüber
banipal. AOAT V,1 (1970), Nr. 279 Rs. 7, Weissagung über den Tod Ba’als und Mugallus anläßlich der Mondfinsternis vom 27./28.12.671; vgl. noch SAA X Nr. 351 Rs. 7 (5. Parpola). 2 Nimrud-Brief von 710 ND 2759 $ E: s. Anm. 1 und Hawkins a.O. 272 mit weiterer Lit. - Heute nicht mehr haltbare Datierung auf Tiglatpileser IIl.: M.J. Mellink, in Florilegium Anatolicum. Mélanges offerts à E. Laroche, Paris 1979, 249 unter Berufung auf Ph.H.J. Houwink ten Cate. ® J.D. Hawkins - A. Morpurgo Davies, in ed. H.A. Hoffner - G.M.
G. Güterbock, AS XXIII (1986), 76; J.D. Hawkins, AnSt 25 (1975), 150 f.
Beckman, Kanissuwar. A Tribute to Hans
2 J.D. Hawkins, Iraq 36 (1974), 68 Anm. 6.
# Vel. Hawkins-Morpurgo Davies a.0. 77. Ὁ Vel. J. Ray, CAJ 2 (1992), 120: auslautendes «a griechischer Buchstaben unerklarlich, aber nachgestellte Artikel auf τὰ ebenso wie matres lectionis im Aramaischen vorhanden. ® R. Gusmani (“Studi Frigi”, Rendiconti dell'Accademia di Scienze e Lettere. Istituto Lombardo XCII, Milano 1959, 857 ff. und ebda. XCIII,
1959,
30) hat Herodor (VII 73) und Strabo (VII 25) darin bestätigt, daß die Selbstbe-
zeichnung schon der Eindringenden Βριγες lautete.
% W.M. Ramsay, The Historical Geography of Asia Minor, Amsterdam 1890, 225.
Zur Herkunft der Bezeichnung ‘Muski'
253
Movoye ® wird nun durch die bildluwische Quelle gesichert. Mit Seitenblick auf eine bei Strabo (XII 8,3) berichtete Herleitung des Myser-Namens - und folglich desjenigen der
Stadt Musa - von einer einheimischen Bezeichnung für die Buche # kann betreffs Musg/ka versuchsweise auf neuassyrisch Gl$musku, ein Bauholz 35, verwiesen werden. Die bei der Lokalisierung der genannten Orte - Germa, Eudoxia und Musg/ka - eingeschlagenen Irrwege hat M. Waelkens gelichtet ®, so daß ich mich auf den Hinweis auf die Kartenskizze (Abb. 1) beschränken kann. Musg/ka ?” war Vorgängerin von Günyü-
zii #, in einer Nordöffnung des Dindymos’ gelegen. Betreffs der Situationsschilderung * beschränke ich mich auf die Feststellung, daß die Wahl des Ortes unter logistischem,
verkehrsgerechtem und strategischem Gesichtspunkt verdient, ideal genannt zu werden. Archäologische Beobachtungen von Wert liegen nicht vor, aber die Gegend verdient Beachtung, da sich abzeichnet, Musg/ka könne der kleinasiatische Stammsitz der Phryger ‚gewesen sein. Um das herauszufinden, wäre zunächst das Ankunftsdatum von Phrygern in Kleina-
sien allgemein festzustellen, sodann die Identität der vor 1164 aus Musg/ka in das Vilayet Diyarbakır (Anm. 3) Abgewanderten zu ermitteln. Das Ergebnis wird seinerseits die Aus-
gangsfrage beantworten, ob die phrygischen Muski der Sargon-Zeit den Musg/ka-Leuten des 12. Jh. gleichzusetzen sind oder nicht. Die Sprachwissenschaft hat Herodots und Strabos Berichte bestätigt, die Etrusker seien Nordwest-Kleinasiaten “Ὁ, Wir erfahren (Her. I 7; 94; VII 74; Strabo V 2,2; XII 4,6;
8,3), die ursprüngliche Heimat der Lyder sei Mysien gewesen *'. Man habe sich zweigeteilt; während der Zug des Königssohnes Lydos über das Quellgebiet des Kaikos in die historischen
Sitze der Lyder eingerückt
sei, habe sich der Zug
seines Bruders
Tyrsenos/Tyrrhenos über Smyrna und viele Zwischenstationen nach Umbrien ausgeschifft. Daraus ergibt sich eine vage Zeitangabe, denn dem archäologischen Schätzdatum gemäß haben sich die Etrusker um das Jahr 1000 in Italien niedergelassen "2, Der davor
* Die lateinische Fassung verzeichnet Musgon: W. Ruge, RE XVI (1935), Sp. 822 s.v. Musge(-a?). * Zur Buchenpolulation (aber auch Verwechslung von Buche und Ulme) in nämlicher Gegend: 5. K. Kannenberg, Kleinasiens Naturschätze, Berlin 1897, 178 ff. » CAD m 11276 und AHw Il 684, jeweils s.v. musku(m). % M. Waelkens, Byzantion 49 (1979), 447 ff. * Auf allen einschlägigen Karten - von Kiepert bis Calder/Bean - in der richtigen Gegend falsch eingetragen, nämlich bei Hamamkarahisar. ἃ Erscheint in der Literatur auch unter den Namen Gezek, Günüg und Kozaßac. >". Appendix. < Vgl. bei O. Carruba, MIO 8 (1962), 383 Anm. 4 (“Lydisch und Lyder”) und R. Gusmani, Lydisches Wb Erg.bd., Heidelberg 1980, 20. Klassische Archäologen nehmen das nicht zur Kenntnis, sondern verharren auf der Gewißheit, daß in den zivilisatorischen Relikten der Villanova-Kultur kein Bruch erkennbar ist. Das bis auf Strabo tradierte Wissen über die Herkunft der Etrusker ist durch die Beobachtung gedeckt, daß sowohl phönizische als auch griechische Pflanzstädte Bindungen an das Mutterland über Jahrhunderte hinweg aufrecht erhielten. 4 Nach Xanthos. Zur Verwechslung mit den europäischen Moesiern: P. Carrington, AnSt 27 (1977), 118 f. Dort auch Belegstellen zu den Mysern aus der Ilias. 4 Vgl. Anm. 40. Beachtenswert zur Ethnogenese der Etrusker: E. Paschinger, AW 24 (1993), 111 ff. bes. 122 und 124 (mit Verweis auf M. Pallottino). Dort auch zur Versippung des Aeneas' mit Lavinia, der Tochter des Latinus” von Lavinium, und des Tyrrhenos’ mit der Tochter des Stadtfürsten von Tarquinia (vgl. Strabo V 2.2 zu Tarko, entschlüsselbar als luw. Wettergott Tarhunt).
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J. Börker-Klähn
a)
Asp. 1 a) - Nach Euro-Atlas RV 1993/94 skizziert. Asp. 1 δ) - Nach R. Kiepert, Karte von Kleinasien in 24 Blatt, Berlin 1902-06, B III Angora/1914 skizziert.
Zur Herkunft der Bezeichnung ‘Muski”
255
liegende Zeitpunkt der Abwanderung ließe sich präzisieren, wären - wie vielfach angenommen * - die Tuponvoi mit den 1179 im Nil-Delta abgewiesenen Tursha * identisch,
und gut vereinbar wäre mit diesem Zeitpunkt die für die Abwanderung gegebene Begründung einer 18jährigen Hungersnot infolge Mißernten in Mysien, denn das Phänomen ist um 1200 von Mittel-Europa bis an die Grenzen Chinas beobachtet worden *. Als Zweitgrund wird Druck seitens aus Thrakien eingedrungener Phryger* geltend gemacht, und für deren Zuwanderungsdatum ist nicht unerheblich, daß die Ur-Lyder vor ihrem Abzug Zweisprachigkeit erworben hatten (Strabo XII 8,3). Da es trotz hoher Glaubwürdigkeit *7
aus methodischen Gründen nicht geraten ist, die in der Ilias geschilderten Verhältnisse “ἢ als Argumentationshilfe# zu bemühen 5°, müssen wir allein mit dem archäologischen Be-
+ K.A. Kitchen, in: ed. D.J. Wiseman, People of Old Testament Times, London 1973, 57 f.; G.A. Lehmann, Die mykenisch-frühgriechische Welt und der östliche Mittelmeerraum in der Zeit der "Seevölker”-Invasionen um 1200 v. Chr., RhWestfAkWiss Vorträge G 276, Opladen 1985, 22 mit Anm. 39 und Index 74. * Ebda. 70 Wiederholung der Übersetzung von der Medinet Habu-Inschrift seitens E. Edel. 418. Brentjes, Hallesche Beiträge zur Orientwissenschaft 12 (1988), 19 f. “ Das eröffnet zwei Möglichkeiten. 1) Entweder kamen sie zu verschiedenem Zeitpunkt nach Kleinasien, also in zwei Schüben, und dann legt die geographische Situation nahe, den ersten Zug über den Bosporos, den zweiten über die Dardanellen kommen zu lassen. Die dazu aus Homer und Strabo hergeleiteten Bestätigungen sind allerdings ebenso Wunschformeln wie die dialektale Unterscheidung in Nordwest- und andere Phryger durch O. Haas (Die phrygischen Sprachdenkmäler, Sofia 1966, 11 ff. - Sprachwissenschaftliche Kritik allgemein: vgl. R. Gusmani, “Studi Frigi” Rendiconti dell'Accademia di Scienze e Lettere. Istituto Lombardo XCII, Milano 1959, 843 und C. Brixhe - M. Lejeune, Corpus des inscriptions paléo-phrygiennes, ERC mém. XLV, Paris 1984, p. VII und IX: “ouvrage/travail
aventurieux”. Haas’ Umgang mit archäologisch-historischen Sachverhalten darf ebenfalls skandalôs genannt werden). Nach Xanthos (FrGrHist Ill C Nr. 765 Fr. 14) bei Strabo (XIV 5, 29) kamen sie von der Westseite des Pontos Euxinos. Die bei Herodot VII 73 festgehaltene makedonische Tradition - mit Hinweis auf Paionia, Dardania und Illirya sowie den Berg Bermion - ist verdächtig, da Strabo VII Fr. 388 die Paionier als ἄποικοι führt: im fraglichen Gebiet scheinen Phryger eben nicht primär. 2). Oder ein Teil der Europäer hat sich nach einer Weile der Seßhaftigkeit am Sangarios vom Binnenlande her in Richtung Troas bewegt. © Vgl. C. Watkins, in: ed. M.J. Mellink, Troy and the Trojan War. A Symposion Held at Bryn Mawr College 1984 (ebda. 1986), 45 ff. 4 Belegstellen in der Ilias, Phryger betreffend: Il 862 f. (Phryger aus Askania unter Führung von Phorkys und Askanios als trojan. Alliierte), III 184 ff. (Priamos gemeinsam mit Phrygern, geführt von Otreus und Mygdon, gegen “Amazonen” am Sangarios), XVI 714 ff. (Asios vom Sangarios als Schwager Priamos', nämlich Bruder von dessen Gemahlin Hekate, die “Trojanisch” von ihrer Amme erlernte), XXIV 543 ff. (Priamos’ Territorien grenzten nordwärts an phrygische) und XVIII 288 ff. (Trojas Schätze an Phrygien und Maionien verloren, als Zeus zürnte); ferner III 401 und X 431. Historisch erweislich ist bisher aus tyrischer Quelle allein die Tatsache des Trojanischen Krieges samt Fall der Stadt: die Neugründung von Tyros erfolgte ein Jahr vor der Eroberung von Troja. Bei der Nachricht handelt es sich um keine Fiktion später Historiker (Justinus, Epitomes XVII 3,5 und Josephus, Ant. VIII 62) sondern um tradierte Exzerpte aus der ab urbe condita geführten Stadtchronik, deren Seriosität durch den Nachweis beigegebener und Interessenten über Jahrhunderte zugänglicher Urkunden (Briefwechsel zwischen Hiram und Salomon z.B.) gesichert ist. Zudem hatte man - unliebsamen - Kontakt mit “Seevölkern”, zu denen nachweislich Kleinasiaten als mutmaßliche Nachrichtentrager gehörten (vgl. Katzenstein a.O. 59 f., 61 £., 83 f., 77 ff.). Gemäß Manetho fiel das Ereignis in die beiden Regierungsjahre der Pharaonin Siptah (um 1190): M. Yon, in: ed. W.A. Ward - M. Sharp Joukowsky, The Crisis Years: The 12th Century B.C., Dubuque 1989, 119 und P.M. Bikai ebda. 133. % Untauglich zum Nachweis von Phrygern ist allerdings eine sprachwissenschaftliche Studie, die das Onomastikon hethitischer Texte aus vermeintlich nordwest-kleinasiatischem Kontext untersucht. I. von Bredow (in: ed. J. Herrmann, Heinrich Schliemann. Grundlagen und Ergebnisse moderner Archäologie 100 Jahre nach Schliemanns Tod, Berlin 1992, 337 ff.) beurteilt darin “die meisten der bestimmbaren” Namen als “vorgriechisch” und glaubt, sie als “protophrygisch” bezeichnen zu dürfen. Wir ständen immerhin vor anatolischen Phrygern des beginnenden 13. Jh., was die Verfasserin allerdings nicht gewahr wurde, denn Datierungsfragen hethitischer Texte scheinen ihr un-
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J. Börker-Klähn
fund in Troja und Gordion auskommen. Die Europäisierung des Inventars bestimmter Schichten hüben wie drüben läßt keinen anderen Schluß zu als den auf einen dominierenden Bevölkerungszuwachs. In der relativen Chronologie ist das Phänomen in Troja jünger als in Gordion °': hier, in Gordion,
waren
Europäer
zuerst.
Anhaltspunkte
für eine
Überführung der relativen in die absolute Chronologie liefert Troja: die Europäisierung macht sich mit Keramik und Fibeln in Stratum VII b zuerst bemerkbar5. Da das Inventar der (älteren) Schicht VII a mit Keramik der Stufe Späthelladisch III C vergesellschaftet ist,
muß die Zerstörung zwischen VII a und b um 1140/30 angesetzt werden °. Die archäologisch in Troja VII b als Europäer Definierbaren dürften, wenn nicht die großen Unbekannten, die von Strabo (XII 8,3) genannten Phryger gewesen sein, die den trojanischen Herrscher besiegten. Daß sie nicht allein agierten sondern gemeinsam mit ansässi-
gen Mysern, legt Homer nahe, der (Il. XVIII 543 ff.) blumig berichtet, Trojas Schätze
seien an Phrygien und Maionien - ein anderer Name für die Lyder (Strabo XIII 3,2) verlorengegangen, als der Wettergott - Zeus - zürnte. Das vermochte nur zu berichten, wer die Vergangenheit des lydischen Volkes kannte 5, und soweit wir sie kennen, schließt sich hier der Kreis: in der Troas siedelten Phryger vor + 1135, in Gordion folglich “Europäer” zuvor.
Bei den aus Musg/ka vor 1164 Abgewanderten #5 kann es sich theoretisch sowohl um eine Gruppe dieser Europäer handeln als auch um die von ihnen verdrängten Alteingeses-
bekannt (zu exemplifizieren an Tawagalawa: vgl. dazu S. Heinhold-Krahmer, OrNS 52, 1983, 81 ff. und OrNS 55, 1986, 47 ff.) Daß sie die neun für tauglich befundenen Orts- und Personennamen als “ziemlich hoch” an Zahl gewichter, könnte man ihr zwar ebenso nachsehen wie die eingestandene Fragwürdigkeit der Lokalisierung etlicher Toponyme. Doch werden beklagenswerterweise die vorgeblich balkanischen Parallelen zu Abbijawa, Apawija, Arduka, As3uwa, Attarimma, AttariSäija, Atrija, Lazpa und Tawagalawa nur behauptet und nicht im Einzelnachweis erbracht. Auch wurden unbemerkterweise in der Vergangenheit einige Begriffe ganz anders und mit der nötigen Autorität zugeordnet (zu beispielsweise Attarimma vgl. H. Eichner, OrNS 52 (1983), 64 ff. unter Bezugnahme auf G. Neumann, zu Abbijawa und Assuwa, O. Carruba, Athenaeum, NS 42 (1964-65), 286 ff.), so daß das Ergebnis der prinzipiell willkommenen Bemühung als unseriös eliminiert werden muß. SK. Sams, in Ward - M. Sharp Joukowsky a.0. 58. # E. Caner, Fibeln in Anatolien 1. PBF XIV 8, München 1983, 200. © J.D. Muhly, in Ward - M. Sharp Joukowsky a.O. 17 mit Lit.
“ Tatsächlich galt Homer als Maionier, was nebenher die Luwismen in seinen Schriften erklärt, handelt es sich bei Maionien doch um das Ländchen
Maÿa/i der Hethiter-Zeit (O. Carruba, Athenaeum
NS 42, 1964-65, 294 ff.);
zum Horror der Graeculi könnten Luwier und Phryger im Stammbaum des womöglich mehrsprachigen Lykiers verborgen sein. Erinnert sei noch an Herodor I 172: Lyder, Myser und Karer seien blutsverwandt und wohnten mit den phrygischen Maioniern - d.h. in Maionien unter anderem ansässigenen Phrygern - zusammen. Da8 sie ihre Identität über 50 Jahre hinweg strikt gewahrt haben, in den Ortsansässigen nicht aufgegangen sind, ist nicht selbstverständlich, aber aufschlußreich. Da sie sich auf Musg/ka als Stammsitz beriefen, müssen sie nämlich 1164 dort längst verwurzelt gewesen sein. Die Dauer der Verwurzelung ist nicht meßbar, aber ein Faktor bei ihrer Einschätzung zu beachten. Forschungsergebnisse zum Ahnendienst haben uns mit der Gewißheit versehen, daß die individuelle Verehrung der Ahnen - bei entsprechender Stufung - drei Generationen erfaßt; alle Vorangegangenen fallen einer Kollektivierung anheim (vgl. das zu den Känigshäusern von Amurru und Ugarit Überlieferte: O. Loretz, in: ed. B. Janowski - K. Koch - G. Wilhelm, Religionsgeschichtliche Bezichungen zwischen Kleinasien, Nordsyrien und dem Alten Testament. Internationales Symposion Hamburg
1990, Freiburg-Göttingen
1993, 296 f.). Soweit rei-
che das Gedächtnis der Lebenden, was die Tradierung von Ereignissen in Archiven selbstverständlich nicht im geringsten berührt. Das Gedächtnis über drei Generationen entspricht auch unserer Lebenserfahrung: wir überschauen ungefähr ein Jahrhundert unserer Familiengeschichte. Die Alten zwar hatten, statistisch betrachtet, eine anthropologisch
nachgewiesene Lebenserwartung von weniger als 40 Jahren - bei Frauen der misera plebs waren es 28 Jahre und 30
Zur Herkunft der Bezeichnung ‘Muski'
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senen 5, was jedoch die Anwesenheit der ersten voraussetzt. Die seit den Brüdern Kôrte in Vergessenheit geratenen Muski-Belege aus den Regierungszeiten Tukulti-Ninurtas II. (888-84) und Assurnasirpals II. (883-59), also aus der 1. Hälfte des 9. Jh., führen weiter.
In seiner 6. Kampagne wohl strebte Tukulti-Ninurta über Nasibina (Nusaybin) und Huzirina noch vier Tagesmärsche weiter in das Land der Muski mit der Stadt Pî[ru]; der Assyrer plünderte, verheerte es und machte es erneut tributpflichtig, berichtet von Gebirgen,
schwierigem Terrain und unwirtlicher Gegend “7. Daß er sich nicht nur östlich von Diyarbakır sondern auch nördlich des Tigris’ bewegte, bestätigt die Wegebeschreibung Assurnasirpals anläßlich einer Strafexpedition in die Länder Katmuhu und Muëku ‘8. Schon die Brüder Körte haben in diesen Muski Nachkommen jener 6000 im Jahre 1114 überleben-
den und von Tiglatpileser I. umgesiedelten Muski (Anm. 2) vermutet und sie mit den z. Zt. Strabos (XVI 1,23) zwischen dem kommagenischen Euphrat und Nisibis siedelnden Mygdonen verbunden 5°. Ihre Stammesbrüder sind als östliche Nachbarn der Dolionen bekannt und saßen zwischen Rhyndakos (Simav Cay-Capaz/Koca D.) und Myrleia (Mu-
danya) nördlich des bithynischen Olymps (Ulu Dag) in mehr oder weniger zusammenhängendem Siedlungsgebiet , wie Strabo (XII 4,4; 8,10 f.) auch weiß 6!, und ihre
bei Männern (E. Strouhal, ArOr 47 (1979), 127 f.; auch bei den Etruskern hatten die Männer mit 50-60 eine höhere
Lebenserwartung: E. Paschinger, AW 24 (1993), 124 Anm. 105) -, doch ließ sich an babylonischen Schreibern das stattliche Durchschnittsalter von 80 errechnen (M.A. Dandamayev, Mesopotamia 8 (1980) 183 ff. = XXVle RAI). Könige indes lebten wohl risikoreicher, denn das Durchschnittsalter der judaischen betrug bei ihrem Tode 46 Jahre (H.J. Katzenstein, The History of Tyre, Jerusalem 1973, 82). Wenn sich also noch nach 50 Jahren Exil Leute auf ihren Ausgangsort beriefen, sollten sie dort ebenfalls 50 Jahre gelebt haben, und dieser zur Verwurzelung nätige Minimalzeitraum würde die Existenz von Musg/ka in das Ende des 13. Jh., ins hethitische Großreich folglich, überführen. Strabos harmonierende Mitteilung über phrygische Wanderungen “vor dem Trojanischen Krieg” (XII 8,4) wird von, disons, Nicht-Orientalisten als unqualifizierte Behauptung abgetan. % Eine Beobachtung in Gordion favorisiert diese Möglichkeit. Im Tiefschnitt von R. Young zeigte sich, daß die technisch und formal hochstehende hethitische Keramik durch eine minderwertige Ware balkanischen Ursprungs sukzessive verdrängt wurde (zum Publikationsstand: F. Prayon, Phrygische Plastik, Tübingen 1987, 21 mit einer genau gegenteiligen Folgerung: bei anfänglicher “Anpassung an die überlegene einheimische Kultur” sei “eine erst allmähliche Ausbildung einer ‘eigenen Kunst’ “zu beobachten, begleitet von einer teils unzutreffenden, teils wegen Fundmangels unmöglichen Parallelisierung mit den Hethitern). Der Vorgang widerspricht allerdings jeglicher Erfahrung: es pflegt sich das kulturell iberlegene Angebot durchzusetzen. Dem Tiefschnitt stehen jüngere Untersuchungen entgegen, denen gemäß ein abrupter Wechsel stattfand (R.C. Henrickson, in: ed. A. Gilingiroglu - D.H. French, Anatolian Iron Ages 3. The Proceedings of the Third Anatolian Iron Ages Colloquium Held at Van 1990, Ankara 1994, 95 ff. bes. 107), wie er gewaltsame Ablösungen kennzeichnet. Beides ist indes nicht unvereinbar und ließe sich interpretieren als anfängliches Zusammenleben auf verschiedenem sozialen Niveau bei allmählicher Verdrängung der Alteingesessenen bis zum endgültigen Bruch. 7" ARABI $$ 401 und 413; Grayson, ARI II $ 476. 5 ARABI $ 442; Grayson, ARI Il $ 547. # G. & A. Körte, Gordion. Ergebnisse der Ausgrabungen im Jahre 1900, [4] Erg.bd. V (1904), 9 ff. Die ost-
anatolischen Muski-Mygdonen hätten sich demnach, über die genannten Zwischenstationen, bis zum 1. Jh. längs der Verkehrsader von Gaziantep über Sanlı Urfa und Mardin nach Cizre ausgebreitet. Sie waren es wohl, von denen Samsi-ilu zwischen 781 und 774 Kontingente in assyrische Gefangenschaft führte (Löweninschrift von Til Barsip / Zeit Argistis L: vgl. M. Salvini, op. cit., 62).
“Ὁ Gemäß Pausanias X 27,1 allerdings ist Mygdon bei Stektorion (s. Sandıklı, ὃ. Mentes) bestattet. # Derartige Distanzen, auch Verlagerungen von Landesbezeichnungen sind kein seltenes Phänomen, wie man dem bekannten Fall des spanischen und kaukasischen Iberia entnehmen darf. Assurnasirpal II. liefert (Grayson, ARI 11 $ 549) ein für die Hethitologie bedenkenswertes Beispiel: Nachbar des mygdonischen Muski-Landes im Umkreis vom Tür Abdin (Kasijari) war im 9. Jh. Hulaja, das sich um 1300 nachweislich im Unteren Lande (bei Karaman) be-
258
J. Börker-Klähn
balkanische Herkunft ist nach seinem Zeugnis (VII 3,2; 11; 36; 41) garantiert. Selbst ihr anfängliches unstetes Umherwandern
ist - wie das der Phryger — erwähnt (XII 4,4).
Damit spitzt sich die Sachlage auf die Wahrscheinlichkeit zu, daß die Musg/ka-Leute von 1164, 1114 und aus der 1. Hälfte des 9. Jh. nicht nur identisch sind, sondern Myg-
donen waren. Jariris im Namen des Kamanas’ von Kargamis aber läßt nur 50 Jahre später keinen Zweifel, daß mit dem anatolischen Stammsitz der Muski die phrygische Sprache zu verknüpfen ist, und die sargonischen Midas-Belege bekräftigen, daß aus assyrischer Sicht eine Gemeinsamkeit zwischen frühen und späten Muski existierte, die nach dem Verständnis der Alten immer in Sprache und Sitten bei Einschluß der Religion bestand. Zwischen Phrygern und Mygdonen kann es folglich keine größeren Unterschiede
als die organisatorischen zwischen zwei Stammesverbänden desselben Ethnos’ gegeben haben; Strabo bezeichnet sie dementsprechend als verwandt und mit ihnen - ob ausgewandert oder daheimgeblieben - Bebryker, Medobithynier, Bithynier, Thynier, Moisier, vielleicht Mariandyner
(VII 3,2) und
indirekt
letztlich Berekynthier
und
Askanier
(X
3,12.20. XII 2,21; XIV 5,29). Welche Splittergruppen und ἄποικοι des weiteren dazugehört haben mögen - ihrer aller Behandlung als Nicht-Phryger scheint artifiziell: nichts als die Sammelbezeichnung für ein im großen und ganzen einheitliches Volk scheint uns zu fehlen, und eine Sonderung nur insoweit angebracht, als einzelne Stämme, wie eben
die Briges am Sangarios, politisch erfolgreicher und daher kulturell tüchtiger waren als andere.
Eine Ehreninschrift
des 3. Jh. A.D.
aus Antiochia
ad Pis. (Yalvag)
und
damit
(neu-)phrygischem Sprachraum verwendet in poetischem Kontext Mygdonia und Phrygia synonym (s. bei W. M. Calder, Monuments from Eastern Phrygia. MAMA
VII, Manche-
ster 1956, XI-XIII). Das vorläufige Ergebnis rechtfertigt ein paar Bemerkungen und Überlegungen. Die Aufsplitterung in quantitativ überschaubare Stammesverbände, wie sie sich 1114 in den berichteten 20000 Seelen bei fünf “Kônigen” und noch in des Kamanas” Verlautbarung von 800 spiegelt, fällt ebenso ins Auge wie die - ab origine bis über den Hellenismus hinaus verfolgbaren - häufigen phrygischen Filialgründungen, vorgenommen durch einen Heros eponymos oder in seinem Namen 2. Offensichtlich haben wir es mit einer der Verstädterung sowie politischen Zentralisierung traditionell abgeneigten und daher der Fremdbeeinflussung noch in den ersten anatolischen Jahrhunderten schwer zugänglichen Organisationsstruktur zu tun. Angesichts dessen gehen wir wohl zu Unrecht von einem an Gordion gebundenen, erblichen Kônigtum der Phryger aus; das scheint erst der Realitàt in der Folge eines Einigungsprozesses im letzten Drittel des 8. Jh zu entsprechen.
Dafür gibt es Verdachtsmomente. Für Midas liegt weder phrygischer- noch assyri-
fand und niemals so weit östlich gereicht haben kann. Gegenüber den in der Bronzetafel niedergelegten Verhältnissen (H. Orten, Die Bronzetafel aus Bogazkòy. Ein Staatsvertrag Tuthalijas IV, StBoT Bh I, 1988) bezeugt die Verlagerung/Spaltung gewaltige Turbulenzen bei den alteingesessenen Anatoliern; vgl. dazu Anm. 4. *: Vgl. Dokimeion nach Dokimos; makedonische Gründung der Diadochenzeit: L. Robert, Journal des Savants 1975, 157 Anm. 10. - Vgl. Gordios, ausdrücklich charakterisiert als Vater des Midas’ und Eponymos der von Midas gegründeten Siedlung Gordiouteichos (nahe Aphrodisias; dies bei Strabo XII 8,13 phrygisch) durch Stephanos von Byzanz: dazu L. Robert, Etudes anatoliennes, Paris 1937, 554 f.
Zur Herkunft der Bezeichnung ‘Muski”
259
scherseits eine Genealogie vor. Sodann ist seines Vaters vorgeblicher Name, Gordios, sehr
durchsichtig entschlüsselbar als der “Herr eines *ghord-, eines befestigten/umgürteten Platzes”, wie G. Neumann zeigte . Endlich wird auf dem sog. Hauptaltar von “MidasStadt” König Tiyes von Modra 6 erwähnt, der als vanax desselben Ranges war wie Midas. Nur räumt das in der Fassadenbeischrift von Yazılıkaya °° dem Königstitel vorangestellte lavagetas, “Heerführer”, Midas eine über das Königtum ersichtlich hinausgehende
Position ein, und diese militärische Position kann nicht in der Befehlsgewalt über seine eigenen Truppen bestanden haben: das wäre selbstverständlich gewesen und daher nicht erwähnenswert. Um das größere Gewicht des Heerführers gegenüber dem König zu erklären, müßten
vielmehr alle Truppen aller phrygischen Könige in Midas’ Gewalt
gestanden haben, was ihm die - erzwungene oder zugestandene - Stellung eines Hegemonialfürsten einräumte % und durch Sargons Bekundung vom mächtigen Heer der Phryger” gedeckt ist. Der Mangel an konventioneller Überlieferung, das einzigartige Denkmal von Yazılıkaya °% und die Titulatur weisen Midas folglich als etwas Besonderes aus, aber die Besonderheit besteht ganz offensichtlich nicht darin, Großkönig einer Reihe ebensolcher
und ein erfolgreicher Feldherr zu sein. Daß obendrein Gordion als Midas-Residenz etwas Besonderes war, deutet Gordions
rituelle Bestattung nach der Kimmerer-Invasion
unter
einer 2,5 bis 4 m dicken sterilen Schicht an: sie ist Manifestation eines sakralrechtlichen
Akts . Schließlich zeigen die Inschriften der sog. Midas-Stadt, daß mehrere phrygische Stämme an den Denkmalsstiftungen beteiligt und daß hier lokale Kybele-Hypostasen wie in einem dem Panionion ”° vergleichbaren nationalen Zentrum vereinigt wurden. Hier, in
+ G. Neumann, Phrygisch und Griechisch, ÖAkWiss Sb 499, Wien 1988, 4 Anm. 6; G. Neumann, KlPauly (1972), Sp. 842 s.v. Phryger: *ghordho-. Unangemessene Behandlung des PN bei L. Zgusta, Kleinasiatische Personennamen, Prag 1964, 137 $ 230. Vgl. slav. gorod und grad (“Stadt”), dt. Gürtel, heth. gurta- (“Burg”). “C. Brixhe - M. Lejeune, Corpus des inscriptions paléo-phrygiennes, ERC mem. XLV, Paris 1984, MNeumann, EpAnat 8 (1986), 52; A. Lubotsky, Kadmos 28 (1989), 85. Zu Tiyes = Tios Orel, Kadmos 29 (1990), 35. - Tiyes läßt in der Beischrift wissen, er habe einen “Hohepriester” zu irgendetwas ver anlaßt.
Brixhe - Lejeune a.O. M-01a, dort auch zu vanax und lavagetas. “ Die Möglichkeit, Midas könne der Einiger von “Gaufürsten” gewesen sein, wurde bereits von K. Bittel, Kleinasiatische Studien. IstMitt 5 (1942), 109 erwogen. 4 ARABII $ 118. “1 Eine üblicherweise Kybele vorbehaltene Kultfassade ist Midas gewidmet worden. Die Fassade ist nicht, wie gewöhnlich, auf ein Felsmassiv aufgetragen; vielmehr hat Yazılıkaya Form und Funktion einer ins Gigantische gesteigerten Stele. Die von Baba mitgeteilte Denkmalsbezeichnung, sikeneman (M-01a), dürfte gebildet sein aus dem suffigierten Demonstrativpronomen -iman (vgl. 1.M. Diakonoff - V.P. Neroznak, Phrygian, New York 1985, 112 s.v.) und siken, dieses zurückgehen auf das heth. Pseudideogramm NMZI.KIN(= huwasi-), seinerseits entlehnt aus sem. skn/sikkinu von sakänu, “(inne)wohnen”. Eine vergleichbare Entlehnung liegt mit nPhr. cavpavav aus heth. Sam(a)na-Ram{a)natar-, “Fundament” (A. Lubotsky, Kadmos 32 (1993, 131) vor. + Sterile Schichten sind in Anatolien m.W. bisher nicht beobachtet worden, aber aus Mesopotamien hinlänglich bekannt: teils dienten sie als Gründungsschicht unter Bauten, die der kultischen Reinheit wegen von ihrer Umgebung abgesondert werden sollten, teils kennzeichnen sie deren kultische Bestattung. Auswahl: J. Börker - Klähn, ZA 69 (1979), 229 mit Anm. 56 f. - Zur kultischen Bestartung von Heiligriimern im syrisch-palästinensischen Raum: D. Ussishkin, [EJ 39 (1989), 149 ff.; Texthinweise auf die Praxis im hurrischen Kulturraum: KUB VII 60 Rs. III 11-18° (Stadt) aund Sattiwaza-Vertrag B Vs. 11 (Palast von Wassakanni).
τὸ Die kleinasiatischen lonier vereinigten sich “regelmäßig” (Herodot I 148; Diod. Sic. 15.49; Strabo VIII 7,2 und XIV 1,14) im Panionion, dem Poseidon-Heiligtum auf der Nordseite der Halbinsel Mykale. Strabo, in dessen Ta-
260
J. Börker-Klähn
“Midas-Stadt”, ist ein Schlüssel zum Verständnis für die Entstehung der phrygischen Nation regelrecht liegengeblieben, ein zweiter wird in Gordion ausgegraben, Musg/ka aber dürfte den dritten bergen. Appendix: Musg/ka - Günyüzü Aus dem Weichbild des Städtchens werden geringe Reste byzantinischer Zeit berichtet7!, ohne dokumentiert zu sein. Da jeder in Archäologie und Topographie Reisende of-
fenbar Wichtigeres zu tun hatte, als Günyüzü zu erkunden und zu beschreiben, vermag augenblicks nur die Kartenskizze (Abb. 1) Einblicke zu vermitteln.
Günyüzü schmiegt sich in eine Nordöffnung des Dindymos’, und überblickt und beherrscht
in dieser Lage die fruchtbare,
von einem
Wasserlauf durchzogene
Ebene zu
Füßen. Dieselbe wird durchquert von der Hauptverbindung zwischen Bursa und Ankara über Eskisehir und Polatlı mit der bekannten Bedeutung schon im Altertum. In Nordsüd-
richtung erreicht man von Günyüzü Zugang zum einzigen Paß in 895 m Höhe über Dindymos; die Brüder Körte benötigten 2 Stunden für die Distanz ”?. Südwärts abwärts führt der Paßweg zu einem Sangarios-Übergang; der hier im Volumen noch scheidene Fluß umrundet den Bergstock an zweien seiner Flanken. Südwärts traf man
den und beauf
Yürme, modern Kayakent, das byzantinische Eudoxia mit dem zugehörigen Dorf Holanta (Anm. 71), angesichts dessen man sich fragen darf, ob darin ein bronzezeitliches *hal(l)uwant-, “zum Tiefen/zur Ebene gehörig”, nachlebt. In den Hängen oberhalb
wurde ein System unterirdischer Treppen und Wasserreservoire unbestimmten Alters entdeckt 73. Pessinus ist auf Bergpfaden von Günyüzü in 2 1/2 Stunden zu Pferde erreichbar”; nahe dem Gipfel des 1820 m hohen Arayıt war die Territorialgrenze markiert 75. Ein möglicher Weg von Gordion in Richtung Midas-Stadt und Afyon führte über Pessinus durch Günyüzü; der für die Topographie der Gegend so wichtige Kybele-Priester und Konsul Gnaeus Manlius Volso beschritt ihn 189 n. Chr. in umgekehrter Richtung gegen die Galater (Liv. XXXVIII
12-18).
Im Umfeld bietet Günyüzü Thermalquellen, und in mäßiger Distanz sprudeln diejenigen von Hamamkarahisar,
in dessen Weichbild W.J. Hamilton die aus antiken Spolien
errichtete türkische Ruine A(r)slanli ausfindig machte, die ursprünglich für Musg/ka gehalten wurde, aber Germia ist (Anm. 71).
gen die Sitte noch lebendig war, entnahm dies Il. XX 403: begründet wurde die Institution folglich vor 800. Bei den Feiern spielte ein Stier eine Rolle; das Personal stellte Priene, auf dessen Territorium sich das Panionion befand: heute Güzelgamlı (güzel cam = “schöner Nadelbaum”). M.
Waelkens,
Byzantion 49 (1979), 447 ff.
2 G. & A. Korte, Gordion. Ergebnisse der Ausgrabungen im Jahre 1900, Jdl Erg.bd. V (1904), 32. ΤΡ, Lambrechts, De Brug 15 (1971), 261 ff. TÉ, 10-13, zitiert bei Waelkens a.O. und mir nicht zugänglich. ” Körte 4.0. 32. ΤῈ M. Waelkens, Die klemasiatischen Türsteine, Mainz 1986, 283 Anm. 793.
The Paredroi between “Midas” City” and “Midas” Gardens”
ALEXANDER FOL Institute of Tracology - Sofia
1. After my studies on Thracian Orphism and on the paredria Great Goddess-Mother - (her) Son in oral orphic rites and cults (Fol 1986, 1993, 1994, 1995), I began to avoid ethno-geographical terms as “Thrace/Phrygia” and even “Thraco-Phrygian”, when speaking of religion and culture in Pre-roman Times. Instead of these rather contemporary than ancient visions, I do prefer the notion of “cultural contact zone” between Tauros-Tmolos-Ida
Mountains
in Western Asia Minor and Haemos-Rhodopes
Ranges in
South-Eastern Europe. A synonym of this description may be “zone between Midas’ city in Phrygia and Midas’ gardens in Thrace” (in so-cold “Thraco-Macedonian region). This
definition could be considered more exquisite and appropriate to written Greek sources, but in both cases the nucleous of this territory covers the chöra of Byzantium (Constantinople) to East/South-East and to West/North-West from the Bosphorus.
According to my terminology adopted for studies on non-literary societies observed by writing neighbours, oral beliefs, worship and rites are discernible “between Midas”
city and Midas’ gardens” throughout Greek (Latin) “translations-designations of messages-metaphors”. “Sabazios” is just one of these “translated messages”. It is understandable in Greek (Latin) as identification of the Son of the Great Goddess-Mother, known with her theonyms/epikleseis Meter/Mater/Kybeleya/Kybele/Eptuve-Hipta/Kotytto/Misa, etc. or with the generalizing name Méter Theòn (cf. Gasparo 1985; Drew-Bear - Naour 1990, 1944-1949).
2. In Orphei Hymni 48, 1-6 Quandt (= OF II 199, 222 = CCIS II TA 24 = Fol 1994,
No. 29) Sabazios “pater” is defined as “son of Kronos”. His “son Bakkhos/Dionysos” reached the sacred mountain Tmolos in Lydia, where lives “Hiptan kallipäreion”. In Orphei Hymni 49, 1-7 Quandt (= OF II 199, 223 = CCIS II TA 25 = Fol 1994, No. 30)
Hipta (Hippa vulgo) is named “eyäda koüren”, “chtonia meter” and “basileia” of Phrygian Ida or Lidian Tmolos. The theonym is to be identified in Procl. In Plat. Tim. 34B and 35B Diehl (= OF II 199, 211) in the orphic position of “méter theòn”. “Méter Hipta” is known from the inscriptions CCIS
II, 36, 37 and 40 in paredria with Zeus
Sabazios. All documents
are
found in Lydia, but they could be from “mysian origin”, according to the publisher, and in this manner - to be related to the opinion of the “old Thracian belonging” of the goddess’ name (Georgiev 1977, 54-55).
262
A. Fol This statement goes back to Kretschmer 1927, 76, No. 17, who allows *Epta as pri-
mary form of Hipta/Hippa. It is accepted by Detschew 1976?, 167-170, where all Thracian parallels in two-compound’s anthroponyms from Epta-kentis type and similar could
be found. In addition Homer mentions the names of six rivers flowing down from Ida: Rhésos,
Eptäporos,
Käresos, Rodios,
Grénikos,
Aisepos, Skämandros
and Siméeis have
not sure Thracian etymology (Hom. Il. 12, 20-22; cf. Gindin 1993, 17-18). At the same time the Phrygian form *Eptuve from the “black stone” in Tyana could be easily related to Hipta (Vassileva 1992, 3) and accepted as proof of the “Phrygian ori-
gin” of the theonym. This eventual discussion remains without importance for my idea of “cultural contact zone” and comes itself to impasse by two inscriptions from Thrace re-
cently read in Phrygian language. The first of them, dated in VI c. B.C., is engraved on a tomb-stone in the necropolis near Kjolmen village, region of Preslav in Eastern Haemos, and is read “Matar ... ipt(i)”, according to Orel 1993. The second inscription is a rocktext near Sitovo village at 30 km South-Eastern from Plovdiv in Rhodopes Range. After
their own autopsia Bayun-Orel 1991, 144-148 dated the inscription in III-I c. B.C. and saw on the rock “Ipta” as “figurine, cult object, image (in paredria ?) with Bacchus’ figurine”.
It is admissible that an ancient name of the Great Goddess-Mother was introduced in the contact zone between Midas’ city and Midas’ gardens as early as the period of the Old-phrygian inscriptions. The theonym persists in the sacred language of the Thracian Orphism, but entered the literary Greek Orphism, too. 3. The Thracian “royal city” (s. Fol 1990, 72-119) of Kabyle was renamed Diospolis in the time of Diocletian (Velkov 1977, 130-131). The toponym was corrupted in Diampolis/Dampolis after XI-th century and related to the new city on the site of the destroyed ancient town, i.e. to present day Yambol, in which name the expected phonetic transcrip-
tion from the medieval form is absolutely correct. Such a renaming of ancient cities with given names of gods and semi-gods under Diocletian could be considered as an ideological and political attempt within the framework of his reforms. “City of Zeus” instead “Kabyle” - mentioned by Demosthenes in his description of Philips II campaign in Thrace - is not accidental at the beginning of IV c. AD
in the time of revaluation of old traditions. It is to be expected either translation of the Thracian place-name in Tonzos’ (mod. Tundja river) valley in Southern Bulgaria, or re-
vealing of its meaning. The latter is most probable in spite of extravagant explanations of *Kab-s etymology from Engl. “quab” = “bog, boggy” from Slav. “Zaba” = “frog” (Duridanov 1976, 38-39; Georgiev 1977, 82).
The nucleus of the “royal city” formed by a fortified residence-sanctuary was discovered at the acropolis of Kabyle, where a rock-cut sanctuary seems to be connected with the cult of Great Goddess-Mother
(Velkov
1982,
14). Her
Greek
“translation-designa-
tion” as Artemis Phosphoros comes from “τό Phosphörion” in Kabyle, attested by IGBulg. III 2, 1731. 27-31 together with “eis ten agoràn parà ton bomòn τοῦ Apöllonos”. So, this couple in hellenized Odrysian Thrace goes back to the old aniconic Thracian orphic identifications in the paredria Mother-Son in his solar (ouranic) hypostase. The so-
The Paredroi between * Midas’ City” and “ Midas’ Gardens”
263
lar hypostase of the Son of the Great Goddess-Mother in oral orphism is to be named most probably Sabazios (Tacheva-Hitova
1983, 187-189; Fol 1994, 102-106), known as
Zeus-Sabazios in the zone berween Midas’ city and Midas’ gardens (Fol 1994, 216-294). This solar (ouranic) hypostase of the Son remains in opposition to the chthonic one,
i.e. to Dionysos Zagreus (Fol 1993), but in oral orphism could replace it when envisaged
as bearer of the balance Earth-Heaven. Then the god is realized as a more powerful identification of the Son and becomes more appropriated to king’s orphic rites. The “ThracoPhrygian” practice to celebrate together “Sabazia” and “Metréa” (Strab. 10. 3. 18 Meineke), where (Zeus-) Sabazios is presented as “paidion” “tes Metröa” (Strab. 10. 3. 15 Meineke; cf. Fol 1994, 118-134), comes to its full equivalence in the literary record of the rite by the two orphic hymns for Hipta-Sabazios. In the second of them the written form of the god’s theonym is Sabas (Orphei Hymni 49, 2 Quandt). 4. Sab-os (Sabas in CIPP I M-08; s. reading and interpretation of this old-phrygian graphite from Midas’ city in Bayun-Orel
1988-1, 181) could be seen in Sau-component
of the place-name “Sau-thaba” mentioned in the inscription on Rogozen vase No. 112 “Kotyos ex Sauthaba” (first halh of IV c. B.C.), as well as in “Sau-ada” between Kardia and Aenos (Detschew 19762, 427). “Sau/Sab-” toponyms’ composita in Thracian have to
be related to “royal cities” with given theonyms according to orphic tradition (Fol 1994, 66, 221, 276). They
have one later parallel in the dedication
on Zeus Brontòn
[Slaouädios from [SJaouäda in Phrygia, near mod. Avdan (preserving the ancient toponym) in the region of Musalar Köyü (Drew-Bear - Naour 1990, 2000 with nn. 344-346). But “Sab-” is attested as “Kab-” in the manuscripts, firstly, of Harpokr. s.v. Saboi
Bekker (= Amphiteos or Nymphys Peri Herakleia II = FGrHist III B, 431 F 1b; cf. Fol 1994, 97-101), where “sabäzein” is written “kabäzein” (cf. Schol. ad Aristoph. Aves 874 Diibner), and, secondly, of Macrob. Saturn. 1. 18. 7 Willis, where in Aeschyl. fr. 86
Mette “Bakkheîos” in “ho kisséys Apéllon ho Bakkheîos ho mäntis” is written “Kabaios”. Apollo “Kabaios/Kabas Sabos/Sabas” is perfectly equivalent to Sabazios/Kabazios as paredros of the Great Goddess-Mother with her Greek “translation-designation” Artemis. The second component “yle” in Kab-yle or “hyle” = “wood” favors this conclusion, because of its explicit connection with “älsos” = “(sacral) wood”, mentioned for Onokarsis, the residence-sanctuary of Kotys (383-359 B.C.), by Theopomp. fr. 31 (= Athen. 12. 42, 531E-532A = FGrHist ΠῚ B, 115 F 31). This second component represents locus communis for the “royal cities” in Odrysian Thrace. “Kabyle” could be translated as “Sabazios’ sacral wood”, which is the conventional term for rock-cut sanctuaries of
the Odrysian “orphic” kings. 5. Alex. Polyhistor's Phrygiaca (?) written at the eve of the Early Imperial period was cited and commented five centuries later by Macrob. Saturn. 1. 18. 1-11 Willis. Macrobius explains that in Thrace Apollo and Dionysos were considered to be one deity in two hypostases. The “mystery of that faith” was for the Sun to be called Apollo when it is in the upper hemisphere, i.e. during the day, and Dionysos when it is the lower hemisphere, i.e. during the night. This dual deity named Sabazios was celebrated with “magnifica religione”. He has, according to Alexander Polyhistor, a temple located on the mountain
264
A. Fol
peak “Zilmissus”. It was round in shape and its roof was open in the middle. In this way, the round sanctuary represents the Sun when the light penetrated from the top of the roof and the “entire Universe” becomes visible. The “night mystery” was connected with
the fire-dionysiac prophecies, the sacrificed animal was the bull - the Sun-Fire sacral animal par excellence for the link Helios-Chthonos, and all ritual practice was contextually related to the oral Thracian Orphism,
because of the designation of the mountain as
“Zilmissos”, i.e. Zalmoxis (Fol 1986, 89-103).
This essential dual identification is proved written, archaeological tion could be discerned
position of the Son of the Great Goddess-Mother in Sabazios’ for the “chéra of Byzantium/Constantinople” on the basis of and epigraphic sources’ material (Fol 1995b). But the same tradieven after Late Antiquity. In Mich. Psellus De verb. signif. 109
Boissonade (= CCIS II TA 33 = Fol 1994, No. 37) is said: ἔστι ὁ μὲν "Artus τῇ Φρυγίᾳ γλώσσῃ ὁ Ζεύς, τὸ δὲ bic εὐκτιτόν ἐστι, τὸ δὲ σάβα ἐθνικόν. ὥστε τὴν ὅλην εὐχὴν
τοιαύτην εἶναι “inc ὦ Ζεῦ Σαβάζίιε, ino”. These eleventh century Byzantine comments on the famous Demosth. Buther-Rennie (= OF I 205 = CCIS II TAD 1
18. 259-260
= Fol 1994, No. 5) testimony that the day-
time cry of Sabazios’ worshipers in Athens is “eyoî saboî” and “hyês ättes, ättes hy&s”
could be situated in the series of evidences on “Säba/Säbo” as theonym, sacral placename and self-calling of the mystes. These texts go back to IV-III c. B.C. in Demosthenes’ and Amphiteos’ (Nymphis’ ?)testimonies mentioned above and come to Eustath. In Odysseam
1431, 45-46
(2. 16) Stallbaum (= CCIS
II TA 36 = Fol
1994, No. 41), who
gives the last literary observation on “säbos”. But - as it seems to be - not only literary. Eustathius is a recognized connoisseur of
popular religion’s cults and rites in the regions of the Aegean coasts and of the chöra of Byzantium/Constantinople. Relics of Sabazios’ cults/rites’ practices could be seen in eth-
nological records for Northern Greece, Southern Bulgaria and for some Greek speaking people in Asia Minor (at the end of XIX century). To-day “Säbo” remains the name giv-
en to the Sun rising over the horizon on St. Athanasius’ holiday (18th or 30th of January) by worshippers dancing around fires in holes in the snow and bearing ivy-wreaths over their foreheads. In folksong from the same region in Central Haemos near the town of Etropolé in Bulgaria the archaic theonym is attributed to the “God of the bare, cold mountain”, who is called on hierogamy with a dying virgin decorated with ivy and snowdrops (Fol 1994, 209-216).
St. Athanasius’ holiday marks the beginning of the winter-vernal Dionysiac cycle preserved by some Grecized or Slavonicized pagan people in the chéra of Byzantium/Constantinople known as “Anastenari” in Greek and as “Nestinari” in Bulgarian language. On St. Athanasius’ holiday they dance on live-coals before the chimney in their wooden chapel, but on Sts. Constantine’s
and Helene’s
holiday
(21st - 23rd
of May)
the same
dance takes place during the night in an open sacral square. These days of May close the winter-vernal cycle, because they are devoted to the couple Constantine and Helene, i.e. to the ancient paredria Great Goddess-Mother - Son (Kybele-Sabazios/Attis). The Son is seen in his Sun-Fire (solar-chthonic) dual hypostase (Fol 1994, 187-202).
The Paredroi between * Midas’ City"and “Midas' Gardens”
265
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A Few Notes on the Recent Phrygian Epigraphic Data
MAYA VASSILEVA Institute of Thracology - Sofia
Recent excavations in Anatolia have produced extensive evidence of Old-Phrygian writing. Actually, the one-word graffiti prevail, some of them badly damaged. Nevertheless, they can supplement or verify some previous observations. The tumuli excavated near Bayindir, Lycia, seem to be the most striking recent dis-
covery (Özgen & Òzgen 1988, 32-49, 187-195; Mellink 1990, 140). Their and grave goods parallel those of the great tumuli at Gordion. Tumulus number of inscribed bronze and silver bowls. The Bayindir tumuli revealed time silver vessels placed in a grave chamber. Although MM at Gordion
burial rites D yielded a for the first is the most
probable candidate for Midas’ tomb, there were no objects made of precious metals
(Young 1981, 102-190). The newly-found inscribed phialae are much more numerous
(10+1
silver ladle) than those in MM
(4), and demonstrate another practice of inscrib-
ing. Instead of writing on a wax strip near the rim of the phiale, the graffiti are placed on the reverse around the hole of the omphalos, scratched with a pointed utensil (Varinlioglu 1992, 10-20). The archaic script and the whole archaeological context suggest a date for the Bayindir tumuli similar to that of the great tumulus (MM)
at Gordion (late
8h - early 7th century BC). Inscription No.
8: sifidos seems to be the most worthwhile find (Varinlioglu
1992,
15). Although a piece of the bronze phiale is broken, it is clear that this is the whole in-
scription and no part of it is missing. It can solve the problem of the word division in si idosakor (G- 105) on a bowl from the Gordion MM tumulus: sifidos akor. The writing is very similar: the initial s is of 5 bars, while the closing one is smaller and of 4 bars,
long vertical strokes for i, and a small o. These are most probably two personal names (both in Nom., or si Tidos in Gen. (?) like Iman-Imenos in the later Greek inscriptions from Phrygia, Brixhe 1994, 173). This word division could also provoke a reconsideration of the assumption that siTeto is an imperative form (W-08 - W-10, Brixhe ἃς Le-
jeune 1984, 53; Brixhe 1994, 174; Bajun-Orel 1988, 185). If this is the case, the inscrip-
tion might support further elaborations on the formulaic way of inscribing metal vessels. It might turn out to be a part of an Anatolian/Near Eastern tradition (followed by Urartu and Persia as well) which can also be traced down in the inscriptions in Greek on 4th century BC Thracian silver vessels (Vassileva material: Mihailov 1989, 47-71).
1992-1993,
161-166;
on the Thracian
The comparable forms sifidos/siTeto offer an example of t/d alternation in Old-Phry-
268
M. Vassileva
gian itself (not in the Greek inscription from Phrygia where this phenomenon has already been explained otherwise, Brixhe 1994, 171-172). The record of the peculiar Phrygian
sign T is also enriched. Further reflections on its graphic variability and phonetic value can be encouraged by another of the newly discovered graffiti. No. 7 read as Ates. Here t is rendered by the arrow-sign. If the reading is correct and the sign after 7 is casual scratching, this would be strong evidence for T = [ t ] (the graphic variant T already
noted, Brixhe & Lejeune 1984, 282). Thus, a Tiiai, a Tion and a os in Tyana inscriptions (T-03, T-02b, Varinlioglu
1985, 8-12; Vassileva
1992,
1-3) might also need to be
reconsidered. Seven of the vessels from Bayindir bear ATES (2 cauldrons and 5 phialae), one of the graffiti is ATA. However, this significant increase of the early evidence on the name Ates would hardly strengthen the argument about the “Phrygian deity/hero” Attis. Ates is the dedicator in the most monumental Phrygian inscription on the impressive rock fagade in
“Midas City”, while the object of his dedication is Midai lavagtaei vanaktei (Dat., M01a, Brixhe & Lejeune 1984). He can only be a higher religious official. Ates is also the dedicator in one of the inscriptions in the rock complex near Gepni (Büyük Ay Tepesi: WO08, demonstrating also an early script, Brixhe & Lejeune 1984, 52). The same sacred place offers a votive text where Atai (Dat.) is the probable dedicatee. Other related forms can be read: atevo (adj. or Gen. ?) and atoios (Nom. ?) (W-10, Brixhe & Lejeune 1984, 55). The cult and ritual context of this early evidence is beyond doubt. Versions of the name and related forms (ata: G-107, 118, 224, 234; atas: G-128, Dd101; atatas: M-01c, possibly ates in the damaged G-123, 124, 148, 221, Brixhe & Lejeune 1984) are attested as well, but their distribution seems to be confined to “Midas
City”, Gordion and “Western Phrygia” (W according to Brixhe & Lejeune 1984 but actually in the region of “Midas City”). The fragments of clay vessels prevail in the Gordion inventory, coming as a rule from poorly dated layers (from the 6th to the 3rd century BC, Brixhe &
Lejeune
1984, 94). Some of the forms suggest sigmatic and asigmatic
stems of the name, as well as the probably inherited peculiarity of non-differentiation between feminine and masculine gender, which is characteristic of Hittite and Luwian languages (Brixhe & Drew-Bear 1982, 70-71). The Greek inscriptions in Asia Minor, mainly from Phrygia and Lydia, present similar peculiarities for this set of names (Zgusta 1964, $ 119).
The final literary personification of Attis was most probably achieved by the authors of Roman times and originated in Agdistis rituality at Pessinus (Paus. 7, 17, 9; Fol 1994, 132). The Hellenistic sources mentioning Attis are scarce and obscure (Hepding 1903; Gow
1960, 93). Attes/Attis was a name
reserved
for the priests at Pessinus (Polyb. 21,
37, 5) who used to be dynastai in ancient times (Strabo 12, 5, 3). It seems that the mystic cry hyes attes preserved by Demosthenes might have underlain the Greek literary figure
of Attis (Dem. 18, 259-260; Fol 1994, 132). It certainly passed through a stage of an adjective designation. The popularity of the name Attis (and its versions) in Lydian and Greek inscriptions found in Lydia (Zgusta 1964, $ 119), as well as its presence among the legendary Lydian royal names (Hdt. 1,7; 34; 94), just points to the cultural intermediary between Greece and Phrygia.
A Few Notes on the Recent Phrygian Epigraphic Data
269
The Old-Phrygian epigraphic record offers examples of adjective designation, and certainly confirms the ritual significance of the figure bearing the name Ates. The interpretations of the word akenanogavos, which is grammatically linked to Ates in M-01a, are still quite uncertain but a high priestly office cannot be ruled out. The importance of the ritual moment in front of the impressive rock façade at “Midas City” or in the rocky
mountainous landscape of Çepni can be compared to that in front of the huge and richly furnished wooden chambers of the great tumuli at Gordion. The ceremonial context of placing the phialae in the burial chamber can hardly be doubted (Mellink 1993, 297). Thus Ates/Ata on the silver and bronze vessels cannot be names of commoners or of the Greek Attis. These are probably mystery names of devotees and initiates into a mystery cult (that of the Great Mother Goddess in spite of Orel’s argument that Attis was never
mentioned together with matar, Orel 1990, 107; “pious words” already suggested by Varinlioglu 1992, 16). If adjective and feminine forms can be proved, then an epithetic homonymous designation could be supposed for the Mother and her Son, probably characteristic of a certain stage of initiation. This practice can be traced down in Anatolia and is noted for Thrace and Phrygia by the ancient Greek authors (Strabo 10, 3, 20; 13, 1, 17; Hesych. s.v. Berekynthes, etc. Vassileva 1990, 94-101). The first attempts to evaluate
the Phrygian writing from historical and cultural points of view have already been made (Mellink 1993, 293-298). The finds from Bayindir can contribute to this set of problems. The recently discovered inscriptions can help to define some distributional peculiarities. The use of the T-sign is confined to “Midas City”, “Western Phrygia”, Gordion,
Tyana and Bayindir. Si fidos/si Teto occurs in Gordion, Bayindir/ “Western Phrygia”, and Ates and its versions are to be found again in “Midas City”, “Western Phrygia”, Gordion and Bayindir (plus Tyana if a fa, aTion and afios can be relevant here). It might be worth mentioning that Midas can be identified on inscriptions and graffiti from “Midas City”, Gordion and Tyana. The Old-Phrygian inscriptions found in Tyana, also of early date, may not look so isolated now in the southeastern region of Anatolia. The geographic distribution thus followed forms almost a diagonal of NW/SE orientation. Maybe the important keystones of the Phrygian political and cultural activity can be sought along this axis. It might also turn out to be the boundary of the Balkan-Anatolian zone of cultural interactions in the 1st millennium BC.
270
M. Vassileva
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Zur altphrygischen Areyastis-Inschrift
MICHAEL JANDA Indogermanisches Seminar, Universität - Zürich
1. Der* Areyastis-Inschrift kommt unter den altphrygischen Sprachdenkmälern besondere Bedeutung zu. Die fast vollständig erhaltene Inschrift aus der ersten Hälfte des sechsten vorchristlichen Jahrhunderts, eingemeisselt in eine aus natürlichem Fels bestehende Fassade bei Yazılıkaya, nahe der “Midasstadt” im westlichen Phrygien, etwa 50 km nördlich von Afyon, zählt nicht nur zu den längsten Denkmälern, die wir von den Phrygern besitzen. Ihre Buchstaben sind sorgfältig gesetzt und, von einigen zerstörten
Zeichen abgesehen - gut lesbar. Deutlich segmentieren Trennpunkte die einzelnen Wörter bzw. Wortkomplexe. Umso bedauerlicher, dass die Inschrift, wie die meisten phryg. Texte ! - für uns noch kaum verständlich ist und in ihren einzelnen Teilen wie auch als Ganzes zahlreiche Probleme bietet 2. Als ein kleiner Beitrag zu ihrer Erschliessung sollen hier zwei Details in den als Fluch- und Bauformel interpretierten Partien untersucht und
einer Lösung nähergebracht werden. 2. Die Inschrift gliedert sich in drei Teile, W-01 a-c 3. In der Gruppierung der drei Segmente, in die a) unterteilt ist, folge ich Lubotsky: a) (114) ε-
(I)
+
materan: areyastin (III) bonok: akenanogavos
vrekun: tedatoy: yostutut- - -g-m° noy: akenanogavos | aey
b)
— yosesait: materey: eveteksetey: ovevin: onoman: da‘Pet: la + kedokey: venavtun: avtay: materey
c)
©
ataniyen: kuryaneyon: ta | negertoy
* Für Hinweise danke ich H. Eichner (Wien) und D. Steinbauer (Regensburg). * Ein Überblick über die neuere Forschung mit einem Literaturverzeichnis bei L. Innocente, “Stato degli studi frigi”, Atti del II Congresso Internazionale di Hittitologia, a cura di O. Carruba - M. Giorgieri - C. Mora (Studia Mediterranea 9), Pavia 1995, 213-224.
? Auch A. Lubotsky, der die Areyastis-Inschrift vor kurzem ausführlich, anregend und gedankenreich untersucht hat (“The Old Phrygian Areyastis-Inscription”, Kadmos 27 (1988), 9-26, im folgenden einfach: Lubotsky), dürfte nicht alle Schwierigkeiten gelöst haben. “Rather obscure” (Lubotsky, Fn. 2) die Übersetzung von I.M. Diakonoff - V.P. Neroznak, Phrygian, New York 1985, 63. 2 Text nach C. Brixhe - M. Lejeune, Corpus des inscriptions paléo-phrygiennes, Paris 1984, Vol. 1: texte: 36-42, Vol. Il: planches: pl. XVI-XIX (Abbildung) - im folgenden: Brixhe - Lejeune; Skizze bei Lubotsky, 10. Die Pfeile geben die Schriftrichtung an; der Doppelpunkt steht für den aus drei Punkten bestehenden Worttrenner. + Die römischen Ziffern geben die Anordnung durch Brixhe - Lejeune wieder.
272
M. Janda 3. Der Inschriftenteil a) verläuft am Rand des Giebelfeldes. Lubotsky (16, 18) vermu-
tet darin zwei Sätze, von denen der zweite mit yostutut beginnt:
1. “Bonok, the high priest (?) of the Bpiyes, placed/dedicated (this) Mother Areyastis.” 2. “Whoever ... may become an akenanogavos”. Gesetzt den Fall, mit yostutut (und dem Folgenden bis einschliesslich aey) wäre nicht auf den akenanogavos bonok Bezug genommen, sondern, in der Protasis eines neuen Satzes, ein neues Subjekt eingeführt, so bleibt die Frage offen, wo es nach Satz 2 weitergeht, in Teil b), eingemeisselt oberhalb des Giebelfeldes in den unbearbeiteten Fels, oder in Teil
c), der am rechten Rand der geglätteten Fassade, unterhalb des Schlusswortes aey von a), nach unten laufenden und schliesslich, hinter ta, nach links abknickenden Inschrift. Dass der mit yostutut beginnende Satz über aey hinaus fortgesetzt ist, lässt sich aus dem Erscheinungsbild der Inschrift nicht folgern, allerdings auch nicht ausschliessen. Nachdem dem Schreiber hinter aey nicht mehr genügend Raum im Giebelfeld zur Verfügung stand, musste er, wenn er fortfahren wollte, in einem anderen Bereich der Fassade neu ansetzen,
und darüber zu spekulieren, weshalb er nicht unmittelbar unter aey am rechten Fassadenrand weiterschrieb, sondern in beträchtlichem Abstand (im Fall einer Fortsetzung in c))
bzw. nicht unmittelbar darüber im rohen Fels, sondern auf die linke Seite der Fassade wechselte (wenn - mit Lubotsky — δ) die Protasis weiterführt), bleibt müssige Spekulation.
Lubotsky, 18 entscheidet sich aus sprachlichen Gründen für die Fortsetzung in b), weil “Part c) contains a past tense verb form -egertoy with an augment (...), which is unlikely to be the verb of the apodosis”. Es wird jedoch unten zu zeigen sein, dass auch eine ande-
re Analyse von egertoy möglich ist. Zudem könnte im Inschriftenteil b), dem einleitenden yosesait nach zu urteilen, ein eigener Satz mit eigener Protasis beginnen. In Lubotskys Sicht besteht die Protasis aus zwei Teilsätzen, vgl. S. 25: “whoever may become a high priest (?) ... and may put his own name on this (monument of the) ... Mother, let he himself be cursed by the Mother herself”.
Nach allgemeiner und auch von Lubotsky geteilter Auffassung gehört der Inschriftenteil b), beginnend mit yosesait, zur Fluchformel. In ihrem Verständnis können wir m. E. ein Stück weiterkommen. 4. Allerdings gibt es genau genommen nur ein einziges Indiz dafür, dass b) die Fluchformel darstellt, nämlich das einleitende Relativpronomen yos “wer”, das in jungphrygischen Inschriften häufig die Protasis der Fluchformel eröffnet. Der Rest des Satzes ist
unklar, obwohl wir einige Wörter deuten können: In dem an yos angehängten esait sehen Lubotsky, 18f. und G. Neumann 5 sicher zurecht ein deiktisches Pronomen im Dat. Sg. f., mit einem angehängten Element -t, entsprechend dem Dat. Sg. materey, also “dieser Mut-
* “Zur Syntax der neuphrygischen Inschrift Nr. 31”, Kadmos 25, 1 (1986), 81 = Ausgewählte kleine Schriften, . E. Badali - H. Nowicki - 5, Zeilfelder, Innsbruck 1984, 366.
Zur altphrygischen Areyastis-Inschrift
273
ter”. Damit ist zweifellos die Göttin des Heiligtums, eine lokale Ausprägung der phrygischen Muttergöttin Kybele gemeint; eveteksetey verstehen wir noch nicht, doch könnte der Ausgang -ey, identisch mit dem von materey, auf ein Beiwort der Kybele deuten ὁ. Unter den folgenden Wörtern zeigt onoman “Name” klar seine Verwandtschaft mit griech. ὄνομα. In ovevin sieht man einen pronominalen Komplex, der sich wohl auf onoman bezieht, also “seinen/ihren Namen” (Lubotsky 20). Als Verbum der Protasis könnte dakset
fungieren, wenn wir den von Lejeune ? vorgeschlagenen Lautwert für das psi-gestaltige Zeichen einsetzen. Für ein Verbum spricht die Endung -et, die u.a. in jungphr. αδδακετ und aßßepet wiederkehrt. Lubotsky 20f. sieht in dakset die idg. Wurzel *dheh,-, erweitert um das Element -k- (vgl. lat. facere) und mit dem Ausgang -set des Konjunktiv Me-
dium versehen. Aus der Auffassung von dakset als Verbum ergibt sich, dass wir den Beginn der Apodosis und vor allem auch ihr Verbum in dem Komplex lakedokey suchen müssen.
Bereits R. Meister # verglich venavtun mit griech. ἑαυτόν “sich (selbst)” und erntete damit überwiegend Zustimmung °. Das gr. Reflexivpronomen, eine Zusammenrückung, ist auf *sue + *auton zurückzuführen. Aus dieser Vorform dürfte sich auch venavtun herleiten lassen, wenn wir annehmen, dass vor der Univerbierung das erste Element
*sue zu-
sätzlich eine den Akkusativ Singular verdeutlichende Erweiterung *-m (> -n) erhalten hat. Am Ende der mutmasslichen Fluchformel ist wiederum der Dativ Singular materey “der Mutter” zu erkennen. Voran geht, im fem. Dat. Sg., der vermutlich pronominale Stamm avto-, dem wir gerade in venavtun begegnet sind. Die Gleichsetzung von avto- mit griech. αὐτο- dürfte das Richtige treffen: “eben der Mutter”, “besagter Mutter”. Fassen wir die bisher erreichte, leider recht lückenhafte Deutung der einzelnen Satz-
bestandteile zusammen, so gelangen wir zu folgendem provisorischen Verständnis: “Wer … der Mutter (irgendeinen Schaden zufügt: ihren Namen verunglimpft, oder: seinen Namen dazuschreibt, 0.ä.), … Sich selbst besagter Mutter”. 5. In der Apodosis bleibt die Sequenz lakedokey übrig. Darin scheint sowohl ein Eigenname als auch ein Titel zu fehlen, der als Subjekt interpretiert werden könnte. Das Subjekt von Protasis (yos) und Apodosis dürfte daher identisch sein. Lubotsky, 21f. segmentiert lakedo + Modalpartikel key und vermutet in ersterem ei-
* Lubotsky, 20. Ähnlich ist - besonders auch im Hinblick auf die semantische Nähe der idg. Wurzeln *genh, “erzeugen, hervorbringen” und *tekp “schaffen, hervorbringen” - das griechische Götterepitheton ἀειγενέτης “ewig, in Ewigkeit geboren(?)” (vgl. z.B. Lexikon des frühgriechischen Epos, Bd. I, Göttingen 1979-, 287 s.v.) < *aiwei-genetäs, doch scheint der Diphthong ai sonst im Phryg. erhalten zu bleiben, vgl. esait, memevais usw. ” “Sur l'alphabet paléo-phrygien”, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di lettere e filosofia, Serie III, vol. VIN, 3 (1978), 783-790. * Berichte der Sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften, 63 (1911), 24. * Brixhe - Lejeune, 40f.; Lubotsky, 22. Ob dadurch ein genereller Laurwandel von s > @ im Anlaut erwiesen wird (oder nur vor μ7), bleibt angesichts von - scheinbaren? - Fällen der Bewahrung (Akk.Sg. n. des Demonstrativpronomens si, vgl. Lubotsky [wie Fn. 17], 227) unsicher.
274
M. Janda
nen - sonst nicht belegten - Imperativ der 3. Singular Medium '°. Das Problem liegt dabei u.a. in der Bedeutung der angenommenen Wurzel lak-, die Lubotsky zweifelnd mit griech. λάσκω “schreie, kreische, rufe aus” vergleicht. Ein Verbum dieser Bedeutung erwar-
ten wir in der Apodosis einer Fluchformel eigentlich nicht. Lubotskys Übersetzung setzt im übrigen eine zumindest nichttriviale semantische Weiterentwicklung zu “verfluchen” voraus, die der Autor nicht weiter begründet: “whoever (...) may put his own name on this (...) Mother (= on the monument dedi-
cated to the Mother), let him himself be cursed by the Mother herself”. 6. Ich möchte den Komplex lakedokey in la-ke-dokey segmentieren und für die einzelnen Elemente folgende Erklärung vorschlagen: la kann wegen des Lautgesetzes è > a (vgl. matar < *mäter) auf "ἰδ zurückgeführt und mit der hethitischen Prohibitivpartikel le
“nicht!” verglichen werden. Ihr liegt letztlich der endungslose Imperativ leh, “lass!” eines Wurzelaorists zugrunde, der sonst allein in albanisch la “er liess” (< */a-t für **leh,-1) fortgesetzt ist !!. Verstanden als indogermanisches Erbgut und bewahrte Altertümlichkeit erweist phryg. la natürlich keine besondere Beziehung des Phrygischen zur anatolischen Sprachfamilie. Vielmehr sprechen seine sprachlichen Eigenheiten, soweit sie uns durchschaubar sind, eher für eine Zugehörigkeit zum Balkanindogermanischen "2,
Auf la folgt das Element ke, hier sicher nicht die Konjunktion “und”. Man könnte entweder an eine Modalpartikel, vergleichbar griech. xe denken oder eher an das Präverb, das auch in lat. cedö (*ke-doh;) “gib her”, cette “gebt her” bewahrt ist 3. Die Parallelität mit cedö wird noch enger, wenn wir auch in dokey die Wurzel *doh; “geben”, erweitert um -k- annehmen (vgl. *dheh,-: *dheh,-k- > phryg. dax°); dokey kann auf *dökey < *doh;kei oder *dokei < *da kei zurückgehen. Der Protasis: yosesait: materey: eveteksetey: ovevin: onoman: da Wet:
“Wer der Mutter irgenwie schadet”,
folgt bei dieser Annahme die Apodosis: la kedokey: venavtun: avtay: materey
“der soll sich nicht besagter Mutter hingeben”. Die Strafe kann auf zwei Weisen interpretiert werden: Entweder ist der Frevler ein Pilger, der vorgehabt hatte, sich der Mutter Areyastis bzw. ihrem Kult hinzugeben, was er
1° Ebenso Kadmos 32, 2 (1993), 130, Anm. 3: 3.5g. Imp. Med. -do, lakedo < *-sdbò, gr. “σθω. ἡ G. Klingenschmitt, Das altarmenische Verbum, Wiesbaden 1982, 150. "2 G. Klingenschmitt, “Die Verwandtschaftsverhaltnisse der indogermanischen Sprachen”, In honorem Holger Pedersen, Kolloquium der Indogermanischen Gesellschaft vom 26.28. Mare 1993 in Kopenhagen, unter Mitwirkung von B. Nielsen hg. v. JE. Rasmussen, Wiesbaden 1994, 244. τὲ Das Phrygische hätte hier demzufolge wie im Fall von a8 = lat. ad cin im Griechischen verlorengangenes Präverb bewahrt.
Zur altphrygischen Areyastis-Inschrift
275
jetzt, nach seiner Sünde nicht mehr darf. Oder aber - was mir wahrscheinlicher vorkommt: Der Frevel wiegt so schwer, dass sich der Übeltäter gar nicht mehr der Matar Areyastis zur Entsühnung überantworten braucht — er ist rettungslos verloren. Zu erinnern ist an Herodots Erzählung von Adrastos (I 45), zufallig ein phrygischer Kônigssohn, der versehentlich Atys, den Sohn seines Gastgebers Kroisos getòtet hat und sich daraufhin “in dessen Hände gibt”. Auffallig dabei ist, dass auch das Griechische hier das Verbum δίδωμι zusammen mit reflexivem ion. ἑωυτόν gebraucht !4: στὰς δὲ οὗτος πρὸ τοῦ νεκροῦ παρεδίδου ἑωυτὸν Κροίσῳ προτείνων τὰς χεῖρας ἐπικατασφάξαι μιν κελεύων τῷ νεκρῷ, “Dieser
trat vor den
Leichnam
und
übergab
sich Kroisos,
indem
er die Hände
vorstreckte und aufforderte, ihn auf den Toten hinzuschlachten”.
Es zeigt sich in diesem Zusammenhang, dass die allem Anschein nach nächstverwandte Sprache des Phrygischen eine idiomatische Wendung kennt, die sich aus δίδωμι, dem Reflexivstamm &avto- und einem Dativ zusammensetzt und die Bedeutung “sich in die Hande, die Verfügungsgewalt, in den Schutz von jmd. (einer Autoritàt) begeben”. Drei m. E. schlagende Parallelen zu unserer phryg. Stelle seien hier aus Herodot angeführt: οὗτοι ἐπείτε ἐς Αἰθιοπίην ἀπίκοντο, διδοῦσι σφέας ἑωυτοὺς τῷ Αἰθιόπων βασιλέι, ὁ δέ σφεας τῷδε ἀντιδωρέεται ... (Il 30).
“So kamen sie nach Äthiopien und gaben sich unter die Hand des Äthiopenkönigs, und dieser wiederum belohnte sie damit...”. ἐς τὸ ἣν καταφυγὼν οἰκέτης ὅτεῳ ὧν ἀνθρώπων ἐπιβάληται στίγματα ἱρά, ἑωυτὸν διδοὺς τῷ θεῷ, οὐκ ἔξεστι τούτου ἅψασθαι (II 113).
“Wenn sich in diesen (Tempel) ein Sklave flüchtet und sich mit den heiligen Malen bezeichnen lässt und sich damit dem Gott zu eigen gibt, so darf ihn keiner antasten, wer auch immer sein Herr sei”.
τὴν δὲ ᾿Αθηναίην φασὶ Ποσειδέωνος εἶναι θυγατέρα καὶ τῆς Τριτωνίδος λίμνης καί μιν μεμφθεῖσάν τι τῷ πατρὶ δοῦναι ἑωυτὴν τῷ Διί, τὸν δὲ Δία ἑωυτοῦ μιν ποιήσασθαι θυγατέρα (IV 180). “Athena, sagen sie, sei des Poseidon und der Tritonis Tochter; da sie aber ihrem Vater
grollte, habe sie sich an Zeus gewandt und Zeus habe sie als seine Tochter angenommen”.
Nicht ganz klar ist allerdings die zu erschliessende Endung der 3. Person Singular -ey. Mit einer phryg. Perfektendung -ey rechnet Lubotsky 18, der in aey eine Perfektform der
% Text nach H.B. Rosen, Herodoti Historiae, Vol. I (libros I-IV continens), Leipzig 1987.
276
M. Janda
3. Person Sg. sieht (< *êse + sekundäres i). Auf eine idg. Stativendung *-ei(/-oi) dürfte die
ai. 3. Pers. Sg. Med. -e (z.B. säye “liegt”) zurückgehen. Nach den Regeln altindischer Syntax sollte man freilich im Prohibitivsatz den Injunktiv Aorist erwarten !$. An dieser Stelle lassen uns unsere allzu fragmentarischen Kenntnisse des phryg. Verbalsystems im Stich, doch scheint von dieser verbliebenen Schwierigkeit das neuerrungene Verständnis der Apodosis grundsätzlich unberührt !6. 7. Wir kommen zu Teil c) der Inschrift: ataniyen: kuryaneyon: ta | negertoy
Lubotsky 22 bemerkt dazu: “In view of the fact that the last word, tanegertoy, is a past tense verb, we can surmise that this inscription is a dedication of the type ‘X made this monument’ ”. Lubotsky sieht weiter in ataniyen den Nominativ Singular eines Personennamens und in kuryaneyon die Entlehnung einer - vielleicht mykenischen - Vorform von griech. xowpavéwv “herrschend”. Ich halte beides für sehr unsicher, weiss aber selbst auch keine Lösung.
Lubotsky hat sicher recht, aus der Schlussfolge tanegertoy tan als Akk. Sg. fem. des deiktischen Pronomens, entsprechend griech. τήν < uridg.*täm herauszulösen. Übrig bleibt egertoy, wahrscheinlich ein Verbum mit der Medialendung -toy. Die Koexistenz
von medialem -toy und anlautendem e- lässt zwei Deutungen zu: Entweder wurde die idg. Primärendung -toj im Phrygischen auch in Vergangenheitstempora verschleppt wenn nämlich e- das Augment darstellt. Oder wir nehmen die Primärendung ernst: Dann
muss das e- wegen der grundsätzlichen Einsilbigkeit der idg. Wurzel aus einem Laryngal (δι) hergeleitet werden. Bekanntlich entspricht das Phrygische bei den Laryngalvokalisie-
rungen dem Griechischen "7. In diesem Fall gelangen wir zu einer Wurzel
*h,ger-, die
strukturell durchaus keinem häufigen Typ angehört. Sie findet eine lautlich genaue Ent-
sprechung in griech. &yeipw “wecke auf” und ai. jagära “bin wach” !*. Semantisch passt aber besonders gut das etymologisch verwandte !? alb. Präsens ngré “hebe auf, stelle auf, wecke auf”, Med. ngrihem “erhebe mich”. Wenn das Albanische mit der Bedeutung Akt. “jmd./etw. aufrichten”, Med. “sich aufrichten” das Ursprüngliche zeigt - und es gibt keinen Grund, daran zu zweifeln — dann ist die phryg. Wortfolge tan egertoy wiederzugeben mit “diese (die Matar Areyastis) stellt er für sich, in seinem Interesse auf”. Das passt gut
τι Κὶ Hoffmann, Der Injunktiv im Veda, Heidelberg 1967, 265. *» In der altphryg. Inschrift B-03 (Brixhe - Lejeune, 69-71) wird die letzte lesbare Sequenz - ounlakea | [deshalb vielmehr -oun la ke do] zu lesen und zu segmentieren sein. Dem Schreiber durfte der horizontale Strich des Delta einfach zu weit nach oben gerutscht sein. 1 Vel. z.B. Lubotsky, Rez. Diakonoff - Neroznak (wie Fn. 1), Bibliotheca Orientalis 48 (1991), 226. % M. Mayrhofer, Etymologisches Wörterbuch des Altindoarischen, I. Band, Heidelberg 1992 -, 574f.; J.
Pokorny, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, Bern 1969, 390. Die Hochstufe im Medium des phryg. Ver-
bums konnte in Verbindung mit dem dehnstufigen avest. Perfektpartizip janiurunäh- (s. J. Kellens, Le verbe avestique, Wiesbaden 1984, 402f., Fn. 15) auf eine “Narten-Wurzel” hindeuten. ἀν Fur die Ausgangsform ist allerdings vielleicht eine erweiterte Wurzel *h,grei- anzunehmen, 5. Klingenschmitt (wie Fn.
11), 76f., Anm.
18,
Zur altphrygischen Areyastis-Inschrift zu Lubotskys Auffassung.
277
Lubotsky weist allerdings darauf hin, dass auch sonst Ver-
balformen auf -toy ein Präfix e-, also wohl das Augment aufzuweisen scheinen, z. B. anepaktoy, ektetoy, estatoi. In diesem Fall wäre die Verbindung von egertoy mit ἐγείρω
usw. durch die Annahme zu retten, dass in der phryg. Weiterentwicklung von uridg. *e-hgertoli] > *ègertoy > *agertoy die “normale” Augmentfärbung analogisch wiederhergestellt worden wäre.
Wir verfügen über zwei jungphryg. Inschriften, in denen eine ähnliche Lautfolge begegnet: Nr 30 (...)
] ovefav EYEPET OL autw auto NKET ἀνεϊττνου 2
Nr71
τις K eyepelt?] [εἸτιττετικμενοι ıvvov “those who ..., let them be cursed.” 2!
So unklar in beiden Fallen die Einzelheiten sein môgen - es handelt sich jeweils deutlich um eine Fluchformel.
Eine Fluchformel
bezieht sich auf kiinftige, zu unterbleibende
Handlungen. Dann kann aber das anlautende e- von eyepet bzw. eyepel[t?] kein Augment
sein. Gehören die beiden Wörter mit altphryg. egertoy zusammen, muss auch darin kein Augment vorliegen.
2 O. Haas, Die phrygischen Sprachdenkmäler, Sofia 1966, 118. Dass eine Fluchformel vorliegt, ist aus dem Vergleich von avertivov mit dem wohl entsprechenden adeırtvov in Nr. 12 (...) entenxpeva attı[e] adeırvov zu vermuten. - Nach Nr. 30 ergänzt Haas, 127 auch Nr. 92: τὸς vi σίεμουν xvov]| pave xaxovv [αδδακετ au]vi x
opov ονίεβαν
eyeper?] [ζεμ!!ελωσι xe δεως
. ] | κε τι τετικμίενος εἴτου] |
2 Text nach Haas (wie Fn. 20), 124; die Ergänzung eyepelt?] ist unsich
Lubotsky, Kadmos 28, 1 (1989), 81.
Aspetti ideologici della presenza frigia nella tradizione greca sul regno di Lidia ROBERTO
BALDRIGA Roma
Dall’analisi della documentazione storiografica greca emerge la frequente incertezza con cui la tradizione di epoca ellenistico-romana registra lo sviluppo etnico dell’Anatolia pregreca di epoca arcaica. Questo si presenta come un processo di progressiva differenziazione da un’entità culturale e politica con caratteri e confini ancora confusi ed imprecisati, la Frigia appunto, verso un complesso ben più definito ed articolato, specie nelle
relazioni interetniche, in cui ciascun gruppo acquista contorni politici, sociali e geografici sempre più chiari ed originali. Non si possono, infatti, escludere contatti tra Sardi e l’immediato altopiano anatoli
co ad est, anche se archeologicamente la presenza di legami con la Frigia rintracciabili a Sardi è più o meno intensa, né si può ritenere che l’inizio dell’ altopiano anatolico costi-
tuisca una barriera e che la vita di Sardi sia da vedere culturalmente collegata in modo esclusivo con la piana ad ovest e le città greche. In favore di un ruolo frigio in Lidia sono, del resto, le relazioni del re Mida con Agamennone
di Cuma
e con Delfi, nonché la
forza della tradizione greca che colloca dinasti e monumenti frigi, soprattutto di età eroi ca, nella bassa valle dell’Hermo e nelle vicinanze di Smirne?
In questo contesto la tradizione storiografica sui re di Lidia, che con Gige soppian-
terà lo stato frigio nel ruolo di potenza egemone del continente anatolico, assume un’importanza tutta particolare, per il modo in cui proprio l’elemento ‘frigio’ interviene nella caratterizzazione dei passaggi decisivi della evoluzione politico-dinastica dello stato lidio. Questa ci è nota principalmente attraverso la testimonianza di Erodoto e Xantho di Li-
dia, quest’ultimo pervenuto attraverso Nicolao Damasceno. In particolare la versione erodotea, vista la sua maggiore completezza e coerenza espositiva, riveste negli studi sull’argomento un ruolo rilevante 4. Essa, come è noto, ricostruisce il passato dinastico dei
* Cfr. Strabo XIV 3,3 : Οἱ ποιηταὶ δέ, μάλιστα οἱ τραγικοί, συγχέοντες τὰ ἔϑνη, καϑάπερ τοὺς Τρῶας καὶ τοὺς Μυσοὺς καὶ τοὺς Λυδοὺς Φρύγας παραγορεύουσιν, οὕτω καὶ τοὺς Λυκίους Κᾶρας. 2 Prevale una prospettiva grecizzante in T.J. Dunbabin, The Greeks and their Eastern Neighbours, London 1957, p. 70. * È noto, ad esempio, come il fiume Hyllo, affluente dell'Hermo, la cui collocazione tradizionale è nella Lidia di età storica, portasse anche il nome di ‘fiume frigio'; cfr. Strabo XIII 4, 5 . La stessa caratterizzazione etnica del mitico re Pelope oscilla significativamente tra Lidia e Frigia. Si consideri inoltre la rilevanza delle tradizioni sul culto della frigia Cibele nei pressi del Sipilo, documentato da numerose testimonianze archeologiche, con importanti paralleli in area propriamente frigia; cfr. W.M. Ramsay, HS ΠῚ (1882), 33 ss. + Cfr. Her. I, 7: ἡ δὲ ἠγεμονίη οὕτω περιῆλϑε, ἐοῦσα Ἡρακλειδέων. ἐς τὸ γένος Κροίσου. καλεομένους δὲ
280
R. Baldriga
re di Lidia seguendo un preciso criterio cronologico che vede il susseguirsi di tre gruppi dinastici: i cosiddetti Atyadi, o, più in generale, i leggendari predecessori dei re di Lidia, che non costituiscono in realtà una dinastia vera e propria, vista l'ambiguità con cui la tradizione allude ai singoli personaggi che non sempre vengono collegati gli uni agli altri
in maniera omogenea. A questo gruppo appartengono Lydos figlio di Atys, dal quale sarebbe nato l’etnico lidio, noto in precedenza come meonio. In un altro passo delle Storie
ancora Erodoto ricorda altri due appartenenti alla dinastia Atiade: Manes, padre di Atys e Kotys figlio di Manes e padre di Asio 5; seguono le sole due vere dinastie reali di Lidia, riconosciute dalla tradizione come tali: gli Eraclidi, in cui si è soliti riconoscere il tentativo, maturato in una precisa fase della tradizione, di assegnare ai dinasti lidi una ascen-
denza greca $, ed i Mermnadi. Questi ultimi sono i protagonisti della più recente storia del regno lidio nota ai Greci; per opera di Gige, capostipite della dinastia e primo dei sovrani Lidi ad inviare doni votivi al santuario di Delfi, viene spodestata la dinastia eraclide 7.
La moderna indagine storica si è più volte interrogata sulle peculiari caratteristiche di questa tradizione, concentrandosi soprattutto sulla contrapposizione tra i Mermnadi di Gige e i loro predecessori Erac! nonché sulla presenza di una stirpe di origine greca, come quella appunto degli Eraclidi, all’interno della storia dinastica lidia. Scopo di questo intervento vuole essere quello di spostare l’attenzione sull’importante ruolo che la caratterizzazione etnica ‘frigia’ svolge tanto nella definizione delle origini dei Mermnadi
quanto della forse troppo spesso trascurata dinastia pre-eraclide degli Atyadi, al fine di contribuire ad una più chiara comprensione della stessa formazione della tradizione sui re di Lidia all’interno della cultura greca. Tutti i personaggi appartenenti alla prima dinastia dei regnanti di Lidia, precedenti
agli Eraclidi, noti come Atyadi, appaiono infatti fortemente legati all'area genericamente frigia #. Manes, il loro mitico progenitore, viene considerato da Plutarco un antico re frigio, celebre per la sua bontà e forza; da lui sarebbe venuto il termine μανικά volto ad in-
dicare le sue imprese straordinarie. Da alcuni, aggiunge ancora Plutarco, egli sarebbe sta-
Μερμνάδας. ἦν Κανδαύλης. τὸν οἱ Ἕλληνες Μυρσίλον ὀνομάζουσι, τύραννος Σαρδίων, ἀπόγονος δὲ ‘AAkaiov
τοῦ Ἡρακλέος. “Αγρων μὲν γὰρ ὁ Νίνου τοῦ Βήλου τοῦ AAxaiou πρῶτος Ἡρακλειδέων βασιλεὺς ἐγένετο Σαρδίων, Κανδαύλης δὲ ὁ Μύρσου ὕστατος. Οἱ δὲ πρότερον "Αγρωνος βασιλεύσαντες ταύτης τῆς χώρης ἦσαν ἀπόγονοι Λυδοῦ τοῦ "Ατυος, ἀπ᾽ ὅτευ ὁ δῆμος Λύδιος ἐκλήθη ὁ πὰς οὗτος, πρότερον Μηίων καλεόμενος. παρὰ τούτων Ἡρακλεῖδαι ἐπιτραφθέντες ἔσχον τὴν ἀρχὴν ἐκ θεοπροπίου, ἐκ δούλης τε τῆς Ιαρδάνον γεγονότες καὶ Ἡρακλέος, ἀρξαντες [μὲν] ἐπὶ δύο τε καὶ εἴκοσι γενεὰς ἀνδρῶν, ἔτεα πέντε τε καὶ πεντακόσια, παὶς παρὰ πατρὸς ἐκδεκόμενος τὴν ἀρχήν, μέχρι Κανδαύλεω τοῦ Μύρσου. * Cfr. Her. I, 94: ἐπὶ "Ἄτυος τοῦ Μάνεω βασιλέος σιτοδείην ἰσχυρὴν ἀνὰ τὴν Λυδίην πᾶσαν γενέσθαι: e IV, 45, a proposito dell'origine del nome Asia: καὶ toutou μὲν μεταλαμβάνονται τοῦ οὐνόματος Λυδοί, φάμενοι ἐπὶ ᾿Ασίεω του Κότυος τοῦ Μάνεω κεκλῆσθαι τὴν Ἀσίην, ἀλλ οὐκ ἐπὶ τῆς Προμηϑέος ᾿Ασίης. + Cfr. 5. Mazzarino, Fra Oriente ὁ Occidente, Firenze 1966, p. 165 e ss. © Cfr. Her. I, 8-14 * Cir. C. Talamo, La Lidia arcaica, Bologna 1979, p. 29. Cfr. Plut., De Is. et Osır. 24
Aspetti ideologici della presenza frigia nella tradizione greca sul regno di Lidia
281
to chiamato Masnes !°. La testimonianza plutarchea permetterebbe dunque di recuperare oltre alla originaria area di provenienza del personaggio anche la più antica forma del nome, Masnes o Masdes. A ciò si aggiungano altri elementi di carattere toponomastico che rimandano ancora all’area frigia !!; Manesion, sito della Frigia di età storica, è fonda-
ta da Manes σφόδρα εὐπόρου κτιστοῦ, commenta Stefano di Bisanzio. Ed ancora, Acmonia,
altro toponimo
della Frigia occidentale, è considerata
fondazione
di Acmon,
fi-
glio di Manes; un altro suo figlio Doious avrebbe dato il nome alla vallata di Doiante. Allo stretto legame esistente tra Manes e la Frigia rinvia un dato, questa volta, di carattere propriamente etnico e culturale, tanto più importante perché indicativo del radicamen-
to di determinate tradizioni storico-mitiche. Strabone riferisce che era abitudine invalsa nell’Attica quella di chiamare gli schiavi di origine barbarica con il loro etnico, come Lido o Siro, oppure usando nomi particolarmente diffusi nei loro paesi di provenienza. È questo l’esempio degli schiavi frigi, tra i quali i nomi più diffusi erano appunto Manes e Mida 2,
Eppure un qualche legame tra Manes e la Lidia di età storica esiste. I toponimi sopra ricordati si riferiscono ad un’area, quella della Frigia occidentale, che segna il confine con la Lidia propriamente detta. Proprio qui la tradizione ' sembrerebbe ambientare un celebre racconto mitico in cui troviamo messi in relazione Manes, o Damasen, secondo la le-
zione del testo di Nonno, e l’eroe lidio Tylon, eponimo della famiglia dei Tylonidi 4. Tylon, dopo aver vissuto per breve tempo in Meonia, giunge presso le rive dell’Hermo, per il quale la tradizione ricorre all’apostrofe di ‘fiume Migdonio’ e, aggiunge, γείτων, vicino, confinante. Qui si imbatte in un serpente che lo uccide. Sua sorella Moria, che ha assisti-
to alla morte del fratello, fugge per i boschi ed incontra il gigante Manes/Damasen che le
presta soccorso uccidendo il serpente. La stessa Moria poi grazie ad un’erba divina, ἄνϑος Διός, riesce a resuscitare il fratello. Quello che anche in questa sede torniamo a verificare è la caratteristica tendenza del-
la tradizione di cultura greco-orientale !$ a proiettare la storia ed i personaggi apparte-
τ. Μάσνης è la correzione proposta dal Wilamowitz per Μάσδης del testo tradito; cfr. commento a Plut., De Is.
et Osir., ed. J.G. Griffiths, Cambridge 1970, p. 382.
τι Cfr. Steph. Byz. σιν. ᾿Ακμονία; Μανήσιον; Δοίαντος πεδίον.
2 Cfr. Strabo VII, 3, 12: ἐξ ὧν γὰρ ἐκομίζετο (ἐν τῇ Ἀττικῇ), ἢ τοῖς ἔϑνεσιν ἐκείνοις ὁμωνύμους ἐκάλουν τοὺς,
οἰκέτας, ὡς Λυδὸν καὶ Σύρον, À τοὶς ἐπιπολάζουσιν ἐκεὶ ὀνόμασι προσηγόρευον, ὡς Μάνην ἡ Μίδαν τὸν Φρύγα.
Τίβιον δὲ τὸν Παφλαγόνα.
15 Cfr. Nonno XXV 451 ss. e Plinio XXV 14 = FGrH 765, 3; alla stessa narrazione mitica si riferiscono le raffigurazioni presenti su due tarde monete di Sardi, grazie alle quali si potuta anche stabilire la connessione tra il gigante Damasen e l’eroe Manes; cfr. Head, BMC, Lydia, N. 179, fig. 27, 12; Paris Cabinet des Medailles N. 1309; L. Robert, Etudes Anatoliennes, Paris 1937, p. 155; sul mito di Tylon una ampia discussione in C. Talamo, loc. cit., pp. 18-24 e 125-127. Cfr. Nicol. Damasc. FGrH 90 f 45; 47, 5.
* Plinio che, insieme a Nonno, riporta il racconto di Tylon, cita esplicitamente come sua fonte Xantho di Lidia, cfr. loc. cit.
282
R. Baldriga
nenti al più antico passato della Lidia in uno spazio geografico e culturale che è fortemente caratterizzato dall’elemento frigio !6.
Quanto agli altri due membri della mitica dinastia preeraclide di Lidia, Kotys e Atys, entrambi mostrano forti connessioni con l’area frigia. Atys viene tradizionalmente collegato con la leggenda di Attis. Kotys è un nome largamente diffuso nell’onomastica tracia, legato in modo particolare ai culti orgiastici, i Koröno, culti ben noti alla tradizione antica !”, che significativamente ne sottolineava l’aspetto ‘asiatico’, se non esplicitamente “frigio’ !8. Questo ci rinvia all’altra ben nota tradizione, riportata dallo stesso Erodoto !9, secondo cui i Frigi sarebbero una popolazione di origine tracia, i Brigi appunto. Kotys è inoltre presente nella toponomastica frigia, attestato nella valle del Tembris, presso la lo-
calità di Kotyaion, il cui nome risulta chiaramente, come accade frequentemente in quest’area, dall’aggiunta di un suffisso di determinazione locale ad un nome proprio (e.g.
Gordion). Vista l’indubbia origine tracia di questo nome ?, la sua presenza nella lista dinastica lidia si spiega solo a condizione di ammettere una mediazione frigia, in una fase successiva alla loro presunta migrazione in Asia Minore. Esiste a questo proposito un’altra lista dinastica dei re di Lidia, trasmessaci da Dio-
nigi di Alicarnasso, in cui ritroviamo l’associazione tra Kotys, di nuovo considerato figlio di Manes, e la dinastia dei Tylonidi, quali espressione della continuità etnico-politica che la tradizione greca stabiliva tra il mondo frigio e quello lidio ?!. Quando ancora questa regione non aveva preso il nome di Lidia, dunque in una fase di evidente incertezza etnica e culturale, primo re sarebbe stato Manes, nato da Zeus e Gea; dall’unione di questi con l’oceanina Kalliroe discese Kotys. Quest'ultimo si unisce alla figlia di Tyllos, Halya,
generando Asia e Atys, padre di Lydos e di Tyrrenos. In questa ricostruzione mitica delle origini remote del regno di Lidia emerge con tutta evidenza come l’associazione tra il ceppo “frigio’ rappresentato da Manes e Kotys e quello propriamente lidio, a cui si collega la figura eponima di Lydos, si realizza anche qui attraverso la mediazione dei Tylonidi, che qualificano così anche il passaggio da una fase storica di indeterminatezza etnico-geografica, rappresentata dal nome Mnovio, corrispondente forse ad un momento in cui la Lidia ruotava nell’orbita politica e culturale frigia, ad una fase più chiaramente distinguibi-
᾿ς Ricordiamo ancora che ‘balim' la parola usata in Plinio per indicare l'erba miracolosa che avrebbe ridato vita all'eroe Tylon, non è una parola greca e probabilmente non appartiene neanche al lessico propriamente lidio (cfr. R. Gusmani, Lydisches Wörterbuch, Heidelberg 1964, s.v. balim), mentre esistono molti indizi che rinvierebbero anche per questa via all'ambito frigio; ad esempio il vocabolo ‘balen’ o ‘ballen’ che significa re e ‘ballenaion’, la montagna del re; cfr. Hesych. s.v. βάλην; Ps. Plut., De Fluviis 12.3; O. Haas, Die Phrygischen Sprachdenkmäler, Sofia 1966, p. 159. ν᾽ Cfr. Aesch. fr. 47,9 Nauk = Strabo X 3, 14. ! Cfr. Strabo ibidem: ταῦτα γὰρ ἔοικε τοῖς Φρυγίοις. 2 Cfr. Her. VII 72. » Cfr. D. Detschew, Die Trakischen Sprachreste, Wien 1957, p. 258. # Cfr. Dion. Hal., Ant. Rom, 1 27,1: τοῦτον δὲ (Tuppnvèv) Λυδὸν εἶναι τὸ γένος ἐκ τῆς πρότερον Mnovias καλουμένης. παλαιὸν δή τινα μετανάστην ὄντα τοῦτον δὲ καὶ Καλλιρόης τῆς ᾿Ὠκεανου ϑυγατρὸς γεννηϑῆναι Koruv- τωδε Κότυι γήμαντι ϑυγατέρα Τύλλου tou γηγενοὺς ᾿Αλίην δὺο γενέσϑαι παιδας Ἀσίην καὶ "Aruv- ἐκ de Ἅτυος καὶ Καλλιῦεας τῆς Χωραῖου Λυδὸν φυναι καὶ Tuppnvov- καὶ τὸν μεν Λυδὸν αὐτοῦ καταμείναντα τὴν πατριαιν ἀρχὴν παραλαβειν καὶ ἀπ᾽ dutov Λυδιαν τὴν mv ὀνομασθῆναι
Aspetti ideologici della presenza frigia nella tradizione greca sul regno di Lidia
283
le sul piano etnico-politico, rappresentata dalla formazione del nome Λυδία, che come sempre accade nella tradizione antica è, ad un tempo, indicazione geografica ed etnica 22. Kotys è padre di Asio, dal quale secondo l’opinione dei Lidi sarebbe venuto il nome del continente asiano. Ma anche in questo caso numerosi indizi, particolarmente importanti vista la loro arcaicità, ci riconducono all’ambito frigio. Omero ricorda un Asio fri-
gio, figlio di Dimante e fratello di Ecuba ?°, ed un Asio Irtacide del quale nel Catalogo non viene fornita una precisa caratterizzazione etnica, ma che in un altro contesto viene
menzionato in compagnia di Adamante, figlio dell’ Asio di Frigia 2". È curioso osservare come ancora lo stesso Omero sembri caratterizzare con il marchio frigio, personificato da Asio, la Lidia di età storica. Ci riferiamo ad un famoso passo dell’Iliade in cui si ricorda lo "Ἄσιος λειμῶν, ponendolo ‘intorno alle correnti del Caistro’, dunque in pieno territo-
rio lidio, prossimo ad Efeso ?. il Mazzarino osservava la difficoltà di collegare questa chiara allusione alla regione lidia e quelli che egli definiva ‘malcerti indizi’ di una nozione più ampia del termine ‘Agia, rappresentati dall’attribuzione del nome "Ao1oç a personaggi dell’area frigia ed ellespontica, in genere 2°. L'apparente ambiguità di queste indicazioni, in realtà, troverebbe la sua più facile spiegazione se ammettessimo che il no-
me Ἀσία, erede probabile della Assuwa di secondo millennio 27, così come gli antroponimi ad esso legati, Asio ed Asieo, rappresentino piuttosto un comune patrimonio linguistico-geografico, valso a caratterizzare, nell’ambito della tradizione di cultura greca, prima la Frigia, come prima potenza egemone del continente anatolico, e successivamente la Lidia. I primordi mitici di questa vengono così a confondersi con quelli dei predecessori frigi, in una visione ideale di continuità nell’evoluzione etnico-politica del mondo orientale. Così Omero se da un lato non può ignorare la realtà contemporanea rappresentata dall’avvento al potere di Gige ?#, evento che segna anche l’affermarsi dello stato lidio in Anatolia di contro al declino della potenza frigia, dall’altro è portato ad ‘arcaizzare’, secondo una abitudine più volte osservata in altri contesti omerici, fingendo di ignorare quello stesso presente a cui pure altrove allude. I Lidi vengono allora chiamati Meoni, ma alla valle del Caistro, prossima a Sardi, viene dato il nome del frigio Asio.
Ma lo stesso Gige, padre della grande Lidia di età storica e primo re della dinastia dei Mermnadi, viene considerato originario della Frigia. Si tratta di un particolare che merita, a nostro giudizio una attenzione maggiore, proprio in considerazione della funzione
= Tanto più rilevante appare allora il fatto che il nome etnico non sia attribuito al primo progenitore mitico, Manes appunto, ma ad un suo lontano discendente, Lydos; in questo la tradizione manifesta una profonda coscienza del complesso sviluppo storico-politico e, ad un tempo, etnico-geografico dell'Anatolia pre-greca. Su Manes si confronti l'interessante contributo di R. Gusmani, “Manes e il problema della preistoria lidia”, PP 15 (1960), 326-335. 2 IL XVI, 717 ss.: Ἀσίῳ, ὃς μήτρως ἦν Ἕκτορος ἱπποδάμοιο, | αὐτοκασίγνητος Ἑκάβης. υἱὸς δὲ Avpavtog. ἰὸς Φρυγί ναίεσκε ῥοῆς περὶ Σαγγαρίοιο. = Cfr. Cfr. 35 Cfr. Cfr.
IL I, 5. F.
II, 835 ss.; XII 561, 759, 771. II, 461: Agiw ἐν λειμωνι, Kavotpiov ἀμφὶ ῥεεῦρα. Mazzarino, Tra Oriente e Occidente, Firenze 1947, p. 57. Cassola, La fonia nel mondo miceneo, Napoli 1957, p. 124 e ss.
2 Cfr. ILL Il, 864-5: Moov αὖ Μέσϑλης te καὶ λίμνη.
"Ἄντιφος ἡγησάσϑην
|vie Ταλαιμένεος, τὼ Fuyain τέκε
284
R. Baldriga
che la caratterizzazione frigia svolge nelle tradizioni
riguardanti la Lidia di età arcaica.
Erodoto, nel presentare il celebre episodio della conquista del regno da parte di Gige, ci
fornisce il nome di suo padre, Dascilo 2°. Questa notizia trova riscontro con quanto riferisce, con maggiore dovizia di particolari, Nicolao di Damasco, la cui fonte probabile è Xanto di Lidia. Secondo questa tradizione Dascilo, padre di Gige, sarebbe il figlio di un
nobile lidio, anch’egli di nome Dascilo, appartenente alla famiglia dei Mermnadi, caduto vittima di una congiura ordita da Adiatte, figlio del re Ardys Ὁ. La moglie di questi, temendo per la propria vita e per quella del figlio Dascilo, sarebbe allora fuggita in Frigia, suo paese di origine. Da quel momento i sovrani lidi, per scongiurare le possibili conseguenze di quell’atto, cercheranno in più occasioni, ma invano, di richiamare Dascilo dall’esilio volontario3'. Infine Adiatte, nome corrispondente al Candaule della versione erodotea, ottiene da Dascilo il rientro in Lidia del figlio di questi, Gige ?2. Non ci interessa
qui discutere i particolari di questa narrazione, né in quali termini si ponga la relazione con il parallelo racconto erodoteo, in particolare per quanto riguarda il tema dell’avvicendamento tra Mermnadi ed Eraclidi #. Si conferma l’importanza e l’influenza esercitata dalla Frigia nell’evoluzione storico-politica della Lidia in età premermnadica. Ma la pro-
spettiva storiografica è diversa: da questi frammenti emerge la scarna, e pure significativa, cronaca di un’aspra contesa dinastica che trova nell’area frigia un polo di forte attrazione e condizionamento politico verso una compagine statale, quella lidia, che ancora verso la fine dell’ VIII secolo svolgeva in Anatolia un ruolo subalterno 34. L'esilio forzato del re Meles a Babilonia, per espiare la colpa commessa da Adiatte, la moglie di Dascilo che si rifugia nel suo paese d’origine, il nome stesso di quest’ultimo, che rinvia alla nota località di Daskyleion, nella Frigia ellespontica, sono tutti elementi che contribuiscono a
formare l’idea di Lidia, stato vassallo, con risorse limitate e peso politico modesto. Fu in effetti proprio Gige il primo a fare della Lidia la potenza egemone in Anatolia, complice anche l’invasione cimmeria che travolse la compagine statale frigia. Naturale allora che la tradizione omerica nel vantare le glorie eroiche dei Lidi non avesse di meglio che collegarle direttamente proprio alla stirpe di Gige. Ciò che lo aveva preceduto finì inevitabil mente nel fondersi con i predecessori ed antichi signori frigi, dando luogo a quella idea di un lento emergere della Lidia dalla Frigia, che è il dato culturalmente più rilevante del modo in cui la tradizione greca ha immaginato l’evolversi delle grandi compagini politico territoriali dell’Oriente anatolico. Una riflessione conclusiva, in questo contesto, merita il presunto avvicendamento dinastico, che, sempre secondo lo schema cronologico proposto dal resoconto erodoteo, se-
® Cfr. Her. 1,8. * Cfr. Nic. Dam. FGrH 90 f 44 (11).
‘i Cfr. Nic. Dam. FGrH 90 f 45-46. è Cfr. Nic. Dam. FGrH 90 f 47 (2). 5 In proposito condividiamo l'opinione espressa da Mazzarino, loc. cit., p. 170 e s . che attribuisce all’ambiente oracolare del santuario delfico un ruolo determinante nella formulazione e nello sviluppo della tradizione sugli Eraclidi di Lidia.
# Sul ruolo dominante della Frigia in Lidia cfr. T. J. Dunbabin, loc. cit., pp. 63-71: S. Mazzarino, loc. cit.,
p. 173.
Aspetti ideologici della presenza frigia nella tradizione greca sul regno di Lidia
285
gna il passaggio dalla cosiddetta dinastia Atyade a quella degli Eraclidi. In realtà, che il
costituirsi della seconda dinastia abbia storicamente rappresentato un evento traumatico per la Lidia, è difficile, se non improbabile, da immaginare. Un criterio puramente ‘cro-
nologico’ , pare a nostro giudizio quello meno confacente alla natura ed agli intenti più verosimilmente ‘ideologici’ della nostra tradizione storica. Già E. Meyer * sosteneva la possibilità che gli Eraclidi fossero da identificarsi con gli Atyadi, di cui sarebbero la variante greca. Un simile approccio ben si confà a quella che appare essere la caratteristica modalità greca di avvicinarsi alle culture ‘altre’, ovvero operando una qualche forma di assimilazione a propri parametri culturali e alle proprie
esperienze storico-mitiche. In questo caso, in particolare, pare operare forse il tentativo, maturato in una precisa fase evolutiva della dinastia di Lidia, di stabilire una più marcata differenziazione etnica ma soprattutto politica dalla compagine statale frigia, richiamandosi a presunte parentele mitiche con eroi greci, con una compagine etnica dunque che
veniva avvertita più vicina culturalmente e che condivideva l’opposizione al grande stato territoriale frigio. La tradizione non parla, né ha mai parlato, di una dinastia di Atyadi soppiantata dagli Eraclidi; tutto ciò infatti sarebbe assolutamente artificioso e quanto
mai poco realistico, nel senso che non si capisce per quale motivo i Greci avrebbero dovuto attribuire una ascendenza eraclide per la dinastia di Lidia né al principio né alla fine ma proprio nel mezzo del suo sviluppo cronologico. La tradizione nota a Nicolao di Damasco, più vicina probabilmente alla cultura e alle cronache delle popolazioni indigene d’Anatolia
(Xanto di Lidia) in effetti non conosce
propriamente
una dinastia di Atyadi
distinta dagli Eraclidi. L’unico dato chiaro della tradizione è la comparsa in un momento molto preciso della storia lidia della famiglia dei Mermnadi. Questo dato non può essere in alcun modo confuso con la tradizione sugli Atyadi che ad esso è totalmente estranea. In effetti con i Mermnadi si verifica un radicale cambiamento al vertice della dinastia lidia 36, che, tuttavia segna anche la nascita della Lidia come grande potenza del continente
asiano, e come tale viene sentito dalla tradizione propriamente greca. In fondo, esistono solo Eraclidi, da una parte, e Mermnadi dall’altra, una dinastia greca ed una dinastia orientale 37. Quella dei cosiddetti Atyadi raccoglie un patrimonio onomastico che caratte-
rizza una fase di incertezza etnico-politica segnata, agli occhi di un greco, da una forte presenza dell’elemento frigio. Attraverso essa la tradizione ci trasmette il senso di una continuità ideale che unisce la storia e le culture delle grandi compagini statali d’Anatolia, anteriori alla conquista persiana.
* Cfr.
E. Meyer, Forsch.z.Alt.Gesch., Halle 1892-99, I, 167s, 317.
% Meriterebbe forse maggiore attenzione la proposta del Gelzer, “Das Zeitalter des Gyges”, Rheinisches Museum 35 (1880), 514-528, secondo cui i Mermnadi
sono un ramo collaterale degli Eraclidi\Atyadi, giacchè, in effetti,
i nomi dei Mermnadi ripetono quelli dei loro antagonisti. * Sul ‘passaggio’ Eraclidi-Mermnadi cfr. O. Seel, “Heracliden und Mermnaden”, Navicola Chilonensis, 1956, pes.
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Redazione a cura di PIER LutGi BIZZARRI & GISLANA SALUSTRI PERINI Ufficio Pubblicazioni e Informazioni Scientifiche, CNR — Roma
Finito di stampare nel luglio 1997