La scrittura e la memoria: Lalla Romano
 9788886267021

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LANGELIT

FLAVIA BRIZIO

EE CSCRIBRIADIEA E LA MEMORIA (Lalla Romano)

Redazione grafica: Stefania Rutigliano Impaginazione: Fotocomposistem, Tregasio (MI) © Selene Edizioni s.a.s., 1993 Via Carpaccio, 5

20133 Milano 02-70600034

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata

A mio padre Armando e a mia madre Marì (in memoria) con affetto e riconoscenza

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INDICE

Introduzione

1. Dalla pittura alla poesia

2. Iracconti

3. Iprimi romanzi

4. Iromanzi maggiori

5. Le opere “fotografiche” 6. Nei mari estremi e le lune di di Hvar: gli ultimi romanzi

7 Un sogno del nord: conclusioni Bibliografia

RINGRAZIAMENTI

La preparazione di questo saggio è stata possibile grazie alla signora Romano che ha incoraggiato il mio progetto fornendomi materiale critico, talvolta inedito, sul quale ho potuto lavorare

sin dal lontano 1986. Un particolare riconoscimento va al dottor Antonio Ria che, permettendomi di consultare lo schedario completo sull'opera di Lalla Romano, ha favorito l'accuratezza bibliografica del mio lavoro e ne ha facilitato la realizzazione; il

suo contributo è stato prezioso e indispensabile. Gradirei esprimere inoltre i miei ringraziamenti al professor Cesare Segre (Università di Pavia), alla professoressa Pia Friedrich (Università di Washington) e al professor Salvatore Di Maria (Università del Tennessee) che hanno letto il manoscritto durante fasi alterne della sua stesura, fornendomi giudizi critici

che ho trovato utilissimi e di cui ho fatto tesoro. Vorrei manifestare la mia gratitudine anche al Dipartimento di lingue romanze dell’Università del Tennessee per avermi concesso un congedo di otto mesi che mi ha permesso di portare a termine il lavoro. Infine, questo libro non sarebbe mai stato realizzato senza l’assistenza del dottor Paolo Ciarlo della Letimbro Computers di Savona e dei suoi collaboratori che hanno risolto i numerosi problemi tecnici che sono sorti via via.

INTRODUZIONE

Nel panorama della saggistica italiana sull'opera di Lalla Romano esistono, oltre a un notevole numero di interviste e recensio-

ni, soltanto due volumi critici: un lungo saggio di Flora Vincenti che arriva sino a L'ospite (1973) e una monografia di Annamaria

Catalucci che termina con Una giovinezza inventata (1979). Solo nel marzo 1991 è apparso il primo volume delle opere complete di Lalla Romano nei Meridiani di Mondadori,” con una splendida introduzione di Cesare Segre che prende in esame tutta la produzione letteraria della scrittrice, da Fiore (1941) fino a Nei mari estremi (1987). Tuttavia, se si esclude il saggio di Segre di recente pubblicazione, la penuria di studi critici su un autore che ha ricevuto plausi da letterati insigni e numerosi premi letterari rimane inspiegabile. Questo mi ha spinto a intraprendere un'analisi completa e sistematica dell’opera della scrittrice di origine piemontese dagli esordi sino all'ultimo romanzo, Le lune di Hvar (1991). L’insolito iter artistico della Romano, dalla pittura alla prosa attraverso la poesia, mi ha convinto a esaminare la sua produzione come parte di un processo creativo meglio evidenziabile se studiato cronologicamente. Partendo da questo presupposto ho analizzato lo sviluppo dell’opera seguendo l'ordine di composizione degli scritti per quanto riguarda i primi racconti, e

quello di pubblicazione per i romanzi. Nel corso del mio lavoro ho tenuto conto delle opinioni di numerosi letterati e critici, soprattutto di quelle di Montale, Bo, De Robertis, Sereni, Pullini,

Spinazzola, Pasolini e Segre. Inoltre mi sono state utilissime le

interviste all'autore, nonché le prefazioni e le note che lei stessa

ha aggiunto alle sue opere.

La maggior parte dei suoi scritti prende avvio da quella che potremmo chiamare una realtà esistenziale privata. La famiglia, l'infanzia, l'adolescenza, l'infanzia del figlio e del nipote, la mor-

te del marito, vengono scandagliate attraverso una scrittura concentrica che scava intorno a un nucleo centrale e mira all’essenzialità. Se nei primi racconti lo stile rivela il profondo influsso della pittura e della poesia, nelle opere successive tali influenze si integrano a livello tematico, così da costituire un corpo di

motivi ricorrenti intorno ai quali si orchestra la narrazione. Nel primo capitolo ho analizzato il passaggio dell'autrice dalla poesia alla prosa, i propositi e imotivi della sua scrittura e della sua narrativa. Il capitolo secondo si concentra sulla produzione antecedente al 1951, costituita da un gruppo di racconti che testimoniano della precedente pratica poetica e pittorica. Il capitolo terzo esamina i primi romanzi (Le metamorfosi, Maria, Tetto murato, L'uomo che parlava solo), mettendone in risalto lo

sviluppo stilistico. Il capitolo quarto studia i romanzi che hanno maggiormente contribuito alla fama della Romano: La penombra che abbiamo attraversato, Le parole tra noi leggere, L'ospite, Una giovinezza inventata e Inseparabile. Il capitolo quinto tratta dei libri “fotografici”: Lettura di un'immagine (poi Romanzo di figure), La treccia di Tatiana e Terre di lucchesia. In Lettura di un'immagine la scrittrice sottolinea che le fotografie sono il “testo” e questa affermazione costringe il lettore a chiedersi se l'importanza data all'immagine sia da collegarsi al precedente interesse della Romano per le arti figurative e se il suo sia, in ultima analisi, un percorso circolare. La risposta viene discussa nel capitolo sesto dove, attraverso l'esame di Nei mari estremi e Le lune di Hvar, ho

inteso dimostrare come queste due opere “riassumano” una

lunga carriera artistica e allo stesso tempo ne mettano in evidenza, reiterandoli, gli aspetti più salienti. Il capitolo settimo, infine, riprende le tematiche emerse dall'esame delle varie opere alla luce degli scritti di Un sogno del nord, per offrire una visione di insieme del cammino letterario della scrittrice.”

NOTE

! F. Vincenti, Lalla Romano, La Nuova Italia, Firenze 1974; A. Catalucci, Invito alla lettura di Lalla Romano, Mursia, Milano 1980. Tra il 1980 e il 1991 la Romano

pubblica Inseparabile (1981), La treccia di Tatiana (1985), Romanzo di figure (1986), Nei mari estremi (1987), Un sogno del nord (1989) e Le lune di Hvar (1991). ? Lalla Romano, Opere, a cura di Cesare Segre, vol. I, Meridiani, Mondadori,

Milano 1991. Il primo volume contiene un’ampia nota biografica, mentre il secondo offre un’ottima bibliografia critica a cura di Antonio Ria. 3 Il termine narratore, anche se riferito a un io narrante femminile, è inteso come funzione, ovvero come istanza fondamentale delia narrativa che regola le moda-

lità del racconto. Nella stessa accezione ho usato anche il termine autore anziché autrice.

1. DALLA PITTURA ALLA POESIA

Nonostante Lalla Romano si dedichi quasi esclusivamente alla pittura e alla storia dell’arte durante gli anni universitari, nel 1941 pubblica una raccolta di poesie, Fiore, che riscuote l’ammi-

razione di Montale.” A molti anni di distanza dalla pubblicazione di Fiore, Cesare Segre riscopre l’importanza di queste poesie e nell’introduzione al primo volume dei Meridiani, scrive: A rileggere oggi Fiore (che era piaciuto a un lettore sottile come Ferdinando Neri), ci si accorge che è un libro chiave: per quanto anticipa dell'attività futura [...]. Anticipa, per esempio, quello che chiamerei il paesaggio vissuto, un paesaggio i cui particolari, colti con attenzione, portano ancora traccia

del momento sentimentale in cui la memoria li registrò, donde l'andamento quasi narrativo: “Noi andavamo leggeri...”; “Andiamo nella campagna deserta...”; “Andavamo d’inverno in mezzo al bosco...”; “I campi erano pieni d’oro...’’; “Il fiume era

esile e chiaro...”.°

Lo studioso conclude col definire la raccolta “quasi una storia d'amore in versi”. In effetti le brevi poesie esprimono momenti epifanici, a volte sereni, a volte passionali, talvolta disperati, in uno stile multiforme, dove si alternano i metri e la sintassi

viene piegata per potenziare le pause e per porre in risalto le parole. Le anticipazioni di cui parla Segre non si fermano all’essenzialità del verso stringato, all'uso sapiente della parola che traduce l’immagine. La tematica stessa, dal paesaggio-stato

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d'animo al sogno, riaffiorerà nella successiva produzione narrativa, specialmente ne Le metamorfosi e in Nei mari estremi. Le poesie di Fiore non rimangono un caso isolato nella carriera artistica della Romano: nel 1955 viene pubblicato L'autunno e nel 1974 Giovane è il tempo. L'autunno presenta uno stile più compatto e conciso rispetto a quello di Fiore. Annota Segre:

Per misurare la strada percorsa verso la concentrazione, basta confrontare gli otto versi lunghi de “I papaveri” (Fiore) con i sei versi brevi de ‘L'estate’ (L'autunno), dove rimane la mossa iniziale (‘Già

balenava nel folto di rossi papaveri il grano”, che diventa “Già impallidivano i grani”), e il finale... (“Ardevano come carboni, e ad ogni folata di vento,/ come brace che il vento avviasse, trascolorava-

no” diventa “Dei papaveri fatui/ già era acceso il delirio”), mentre al centro le immagini di tempesta e desolazione si fanno gelo dello spirito: “Ferma era la mente/ rappresa sotto l'inverno”. Gli elementi (papaveri, grano) rimangono, ma il significato della poesia nella seconda redazione è sovvertito.° Dal punto di vista tematico non vi sono variazioni notevoli; il paesaggio interiorizzato e l’amore rimangono i temi fondamentali sia di Fiore sia de L'autunno. Il terzo volume, Giovane è il tempo, è diviso in cinque sezioni (“I flauti acerbi”, “Il caro odore del corpo”, “La bocca arida”, “Giovane è il tempo”, “Da una ruvida mano”), contiene alcune

poesie di Fiore e de L'autunno e altre inedite o pubblicate in modo sparso. Segre osserva: Il volumetto premia il controllo critico con il massimo risultato poetico. Il controllo si esercita, oltre

che nella revisione formale, nell'ordinamento e nel-

la scelta. L'ordinamento asseconda le fasi di quella che è stata una vicenda ormai fatta memoria: la 11

natura; poi l’amore come scoperta dei sensi; poi le vicissitudini dell'amore, il distacco, la fine e il pensiero della morte; torna la natura nel quarto tempo,

quasi riscoperta dopo tanti turbamenti; infine riflessioni e illuminazioni sul senso della vita, sul destino

comune.” Tutte le poesie riprese da Fiore e da L'autunno hanno subito felici revisioni, lo stile è controllato, essenziale, composto, e si

addice alla tematica dell'ultima sezione della raccolta (“Da una

ruvida mano”), nella quale non vi sono riprese dai primi due volumetti perché in essa la meditazione sul tempo e sulle stagioni porta a riflettere sul destino della vita umana. Il lettore si accorge di essere di fronte a un autore che scrive da una prospettiva esistenziale più avanzata in senso temporale, rispetto a quella degli anni di Fiore e de L'autunno. In alcune poesie di Fiore che riappaiono ne L'autunno e in Giovane è il tempo la Romano attua cambiamenti sostanziali pur mantenendo intatto l'incipit. Segre ha messo in luce queste “sovversioni”, paragonando, ad esempio, la poesia Non chiedere (Fiore) con quella senza titolo di Giovane è il tempo (“Non chiedere profumo di fiore”), dove il sentimento amoroso, presente in entrambe,

diventa, nella seconda versione, sofferta metafora

della caducità di ogni cosa. Allo stesso modo, l'atmosfera di incertezza de Il giardino (Fiore) si trasforma in certezza nella

corrispettiva Noi andavamo leggeri (Giovane è il tempo), dove l’avvenente presenza della natura si sostituisce all'essere amato e quello che era desiderio, speranza, illusione, si fa consapevolez-

za dell'assenza dell’altro.* Seguendo la via tracciata da Cesare Segre, ho anteposto all'analisi della narrativa di Lalla Romano la trattazione completa della sua opera poetica, senza rispettare l'ordine cronologico seguito per il resto della sua produzione, poiché sarebbe impro-

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ponibile parlare della prosa della scrittrice senza fare riferimento alla sua attività poetica. I versi di Fiore, L'autunno e Giovane è il fempo presentano uno sviluppo tematico che progredisce dall'amore come scoperta dei sensi alla riflessione sulla caducità della vita umana, ma soprattutto mostrano un linguaggio che via via si fa più concentrato, più rarefatto. Al di là dell’alternanza dei ritmi, dei metri e delle strofe che a volte rispettano la sintassi e a volte la infrangono, ci troviamo sempre di fronte a un lin-

guaggio dove la parola emerge potenziata dalle pause e acquista un'incisività e una potenza espressiva che ritroveremo in seguito nella prosa. Si pensi, ad esempio, alle brevi lasse sulle quali sono costruiti tutti iromanzi della Romano. Sino alla fine degli anni Quaranta la poesia e la pittura assorbono tutta l’attenzione della scrittrice, che solo durante la seconda guerra mondiale “scopre”, come lei stessa dichiara, la narra-

tiva. Fu la traduzione dei Tre racconti di Flaubert che le “consentì la straordinaria scoperta che la prosa può essere altrettanto rigorosa della poesia, che prosa e poesia anzi sono la stessa cosa”. La scoperta che la prosa può essere “poesia” apre nuovi orizzonti al temperamento artistico della Romano, la quale, dagli anni Cinquanta in poi, si dedica quasi esclusivamente alla narrativa. Quando la scrittrice definisce Un cuore semplice una storia narrata nei suoi elementi essenziali bisogna tener presente che si riferisce a un concetto di “storia” piuttosto personale, in parte ispirato a Flaubert. Iromanzi della Romano si basano, infatti, su vicende quotidiane che lasciano la “grande storia” sullo sfondo, non perché l’autore se ne disinteressi ma, al contrario, perché

possiede un'idea molto precisa del posto che a essa compete nell’ambito della sua opera: La storia con la maiuscola deve essere presente solo come avvenimenti che si ripercuotono negli “inter-

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ni”, e io scelgo sempre storie molto “interne”; credo sia interesse della grande storia che il romanzo sia rivolto a particolari, storie di personaggi possibili o SanI0 reali... L'importanza della “grande storia” nei romanzi del nostro autore è secondaria all'idea che “l'impegno dello scrittore è solo verso la sua opera”.! Lei stessa dichiara che, nello scrivere, le ragioni estetiche devono avere la precedenza su qualsivoglia preoccupazione

storica, politica, sociale

e morale.

Sulla base

dell'estetica crociana e del concetto di stile espresso da Flaubert, la nostra insiste sull'importanza del “come”, ripetendo che “la forma è contenuto” e che “lo stile è tanto sotto quanto dentro le parole. È tanto l’anima quanto il corpo di un’opera”. Per la scrittrice la conoscenza di Flaubert costituisce un punto fondamentale nello sviluppo della sua “poetica”. La traduzione di Un cuore semplice, infatti, l'ha indotta a scoprire che la vita

di tutti i giorni può diventare poesia, che la narrazione di eventi comuni può essere poetica. Nei suoi libri la Romano scrive con estrema sincerità, usando quasi sempre i nomi reali delle persone e dei luoghi di cui narra, senza, tuttavia, confondere mai la narrazione poetica con la cronaca vera della vita familiare. Per lei scrivere significa ‘far rivivere l'emozione in quella che era la sua pregnanza, la sua purezza, la sua intensità” per mezzo della memoria." Partendo da una realtà tangibile che esiste, o è esistita intorno a lei, l’autore opera un processo di “riduzione”, ovvero “sottrae” alla realtà il superfluo e lascia affiorare solo quegli aspetti che ritiene poeticamente validi: la poesia diventa così ricerca di una verità nascosta. La scelta creativa è quindi basata

su una estrazione maieutica dal vissuto:

Mi sono accorta che il mio piacere nello scrivere deriva dal cercare di fermare in qualche modo l’im-

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s

magine o il suono, la luce o le parole che avevano per me la forma della bellezza, cioè della novità:

quel qualcosa di fresco, che dava l'impressione di

non averlo mai visto prima, di non averlo mai sen-

tito prima [...] la fantasia di uno scrittore si deve manifestare nel suo modo di scrivere, nelle sue frasi, nella scelta delle parole, nella punteggiatura,

negli spazi, nei silenzi, nella misura con cui è com-

posta la sua opera."

È evidente che in quest'ottica la memoria acquista una posizione chiave. La ricerca di “quel qualcosa di vivo”, che è fine ultimo della poesia, è possibile solo attraverso il vaglio memoriale. Nella geografia poetica della scrittrice, quindi, il lettore si trova sempre di fronte un io narrante che ripercorre il passato sul filo della memoria che indaga. Il raccontare a posteriori ha contribuito a fare attribuire alla Romano l’impropria “etichetta” di memorialista e di scrittrice autobiografica, definizione da lei vigorosamente confutata negli scritti di Un sogno del nord:

Da principio ci furono per me dei momenti, dei lampi; ma con queste cose si fanno poesie, non si costruiscono romanzi. Il fine è comunque lo stesso. Conservare (salvare) per la memoria, che è la ricchezza dell'umanità. Memoria che è giusto chiamare figlia delle Muse (le opere sono questo). L'altra, la madre (Mnemosine) viene prima: è la memoria di ognuno. Nello scrivere è già creativa, in quanto è

lei che fa la scelta iniziale...”

È ovvio che un tipo di memoria che distilla il vissuto non ha niente a che vedere con la memoria autobiografica, giacché la memoria della scrittrice attua la scelta creativa. Contro il pregiudizio del vissuto in letteratura, la Romano

porta ad esempio

Rembrandt, affermando che il pittore “è più grande e tragico quando studia un uomo vecchio e deluso nella struttura e

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nell'impasto del suo stesso volto, che quando lo cerca in un altro”. In accordo con il filosofo Poulet, la scrittrice sostiene che

“... la memoria per uno scrittore è tutto, del presente non si può scrivere o quando se ne scrive è diventato passato”. Come a dire che il presente è un prodotto del passato, e il passato sopravvive nel presente. Per la nostra passato e presente sono

entrambi contenuti nel non-tempo della memoria.! Difendendo la sua opera contro l'accusa di autobiografismo, essa afferma infatti: Servirsi del vissuto senza infingimenti, mutamenti di dati, nomi, e così via, è uno dei tanti modi che si

possono scegliere nella creazione letteraria. In tutti i miei libri ho sempre scelto questa strada, perché evidentemente è congeniale al mio modo di considerare sia la letteratura sia la vita [...] La piattezza

realistica o l'enfasi sentimentale derivano da povertà o mancanza di stile, non già dalla scelta del vissuto [...] la forza della rappresentazione (artistica) consiste nel linguaggio, è una forza poetica." Siamo giunti con questa affermazione all'elemento fondamentale della “poetica” romaniana: lo stile. Le parole, “quelle e non altre”, costituiscono la misteriosa chiave attraverso cui nasce la poesia: le parole creano immagini e quindi un ritmo da cui

nasce “l'incanto del romanzo”.° La poesia si eleva dunque dalla prolissità della vita come “una sonata nasce per virtù della sua forma al di sopra del frastuono del mondo”.” Lo stile è, per la Romano, l’unico metro su cui dovrebbe essere giudicato chi scrive. Paragonando il suo stile a quello di Proust, la scrittrice fa notare che il suo linguaggio è l'opposto di quello proustiano: mentre Proust, infatti, “aumenta”, lei “stringe”.’ Il modo di scrivere, più che il soggetto della scrittura è ciò che maggiormente le sta a cuore; solo grazie alla parola lo scrittore si sottrae

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alla “pesantezza” del linguaggio quotidiano.” L'influenza che la

poesia ha avuto sullo stile è evidente nel suo scrivere in lasse,”

ovvero in brevi capitoletti che ricordano più la concisione del linguaggio poetico che il fluire della prosa. Lo stile franto della sua scrittura nasce dalla necessità di “concentrare” per esprimere solo l'essenziale: I miei libri sono fatti di brevi capitoli che, come ha notato Cesare Segre, iniziano in sordina e termina-

no con una considerazione mia o di qualche personaggio, che ne costituisce l’acme. Li scrivo e li penso così, come momenti dell'esperienza particolarmente significativi, un po’ sulla scia delle Epifanie di Joyce. Non sono una narratrice nel senso dell’ampiezza alla maniera ottocentesca... In genere impiego molto tempo attorno alla prima pagina, che è come l'intonazione di una composizione mu-

sicale: deve darmi il tono giusto...”

Nello stile della Romano, quindi, si combinano una gamma

di componenti, e l’attenzione visiva al dettaglio e il modo di organizzare la narrazione risentono, come da lei stessa dichiara-

to, della sua attività pittorica. La tendenza a percepire il mondo attraverso momenti di illuminazione, rivelazione o “epifanie”, durante i quali la realtà improvvisamente colpisce l'artista e lacerandosi si rivela in tutta la sua essenza, si trasforma in una

prosa stringata che testimonia della pratica poetica. Sovente è stato chiesto alla scrittrice di spiegare come e perché cominci a scrivere un libro. Nel rispondere, la Romano cita il filosofo francese Joubert: “Non ci sono libri belli se non quelli che sono stati a lungo contemplati”.?° “Contemplazione” è, secondo la Romano, una specie di corteggiamento che avviene tra scrittore, personaggi e soggetto. L'autrice sostiene di non sce-

gliere mai “a priori” di scrivere su una certa cosa. Di solito il 17

soggetto la “perseguita” sino a quando deve per forza prendere la penna in mano e, quando comincia un libro, scrive seguendo

l'impulso del momento, accumulando una quantità di frammenti nel corso di qualche anno. Quando infine li riorganizza è guidata dal tono della prima pagina che costituisce la costante sulla quale la narrazione si orchestra.” Poiché i romanzi della Romano sono scritti in prima persona e l’io narrante è sempre una donna (fatta eccezione per L'uomo che parlava solo) che spesso potrebbe essere confusa con l’autore, la scrittrice in varie interviste ammonisce il lettore contro la tentazione di una diretta identificazione tra io narrante e autore,

ovvero tra mondo fittizio e realtà. Benché essa parli della propria vita e nei suoi romanzi la voce narrante spesso appaia come una specie di alter ego della scrittrice, chi legge non deve mai dimenticare che ciò che si incontra in un libro costituisce sempre una rimozione del reale, in quanto frutto di una scelta creativa

soggettiva. Quando la Romano cominciò a dedicarsi alla narrativa, Bacchelli la incoraggiò a scrivere in terza persona e lei seguì il suo consiglio ne La penombra che abbiamo attraversato. Il risultato, però, non la soddisfece e il libro venne riscritto in prima

persona. L'autrice giustifica tale scelta stilistica dicendo: ‘Sento comunque il bisogno di dire ‘To’, forse perché vengo dalla poestat” Ho ritenuto opportuno accennare ai punti fondamentali sui quali si basa la “poetica” di Lalla Romano perché la coerenza del suo sviluppo artistico attraverso pittura, poesia e narrativa porta

il lettore a considerarne l’opera come lo sviluppo di un unico

“seme”, come un albero che crescendo si espande, pur rimahendo indissolubilmente legato al suo nucleo iniziale.

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NOTE

! Lalla Romano, nata a Demonte (Cuneo) nel 1906, frequenta la Facoltà di lettere all'Università di Torino tra il 1924 e il 1928, laureandosi con una tesi sul poeta

stilnovista Cino da Pistoia. In questi anni si dedica alla pittura e frequenta lo studio di Giovanni Guarlotti, sino a quando Lionello Venturi, suo professore di

storia dell’arte e critico di fama, le suggerisce di entrare alla scuola che Felice Casorati ha aperto a Torino. La Romano si interessa di arti figurative, espone i suoi quadri e all’inizio della seconda guerra mondiale è già un'artista conosciuta. SLI Romano, Fiore, Frassinelli, Torino 1941. dato Romano, Opere, a cura di Cesare Segre, vol. I, Meridiani, Mondadori, Milano 1991, p. XIV.

‘ Ibid., p. XV. ° Ibid., pp. XV-XVI. ° La tempesta che ne I papaveri (Fiore) abbatte i grani e dona invece sfrenatezza ai “rossi papaveri” scompare ne L'estate (L'autunno), dove la mente viene paragonata ai “grani” e contrapposta ai “fatui” papaveri. Questa nuova immagine, inserita tra quelle naturali, smorza l’effetto di gioia vitale creato dai versi della prima redazione. Cfr. C. Segre, “Attraverso le poesie di Lalla Romano”, in Leggere poesia, a cura di Anna De Simone, Liceo Classico Statale Carducci di Milano,

maggio 1991, pp. 24-5. 7 L. Romano, Opere, cit., p. XVI.

* Per una trattazione dettagliata degli aspetti delle poesie di Lalla Romano si veda l’acuta analisi di C. Segre, in “Attraverso le poesie di Lalla Romano”, cit.,

pp. 25-6. ? A proposito del suo incontro con la narrativa la Romano scrive: “Pur appartenendo alla generazione di Vittorini e Pavese ho iniziato a dedicarmi alla narrativa solo negli anni Cinquanta... Prima di allora mi ero dedicata alla pittura, avevo scritto poesie e qualche racconto, ero stata sempre innamorata dell’arte e della letteratura, ma avevo conservato un certo disprezzo per la narrativa, giudicandola un genere inferiore... A ‘convertirmi’ fu Pavese, mio compagno di università e, in seguito, mio caro amico. Durante la guerra [...] mi aveva dato da tradurre i

Tre racconti di Flaubert... Uno dei tre racconti era un vero capolavoro, portava il titolo di Un cuore semplice ed era la storia di una domestica. La traduzione, non

facile, di questa prosa semplice ed essenziale, mi consentì la straordinaria scoperta che la prosa può essere altrettanto rigorosa della poesia, che prosa e poesia, anzi, sono la stessa cosa” (L. Romano, “Vi racconto una storia. Itinerari nella

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narrativa italiana contemporanea” in Scuola e Territorio, Documenti n. 20, Rimini

1985, p. 155).

!0 E. Grassi, “Intervista a Lalla Romano” in «Il ragguaglio librario», settembre 1982, n.9, pp. 290.1.

!! S. Antonielli, “Il mio progetto” in «Fondazione Corrente», 16 dicembre 1980. 12 In Nota del traduttore a G. Flaubert, L'educazione sentimentale, traduzione di L. Romano, Einaudi, Torino 1984, p. 593.

13 A. Ria, “La mia maniera di essere”, intervista a Lalla Romano, in «Il ponte», XLVII (1992), n. 2, p.111.

! Ibid., pp. 108-9. !5 L. Romano, Un sogno del nord, Einaudi, Torino 1989, p. 196.

1 Ibid., p. 178. ! G. Manzini, “Quando la giovinezza è una grande avventura” in «Paese Sera», 16 novembre 1979.

!8 La Romano, intervistata sul problema del passato, afferma: “I ricordi finché restano dentro di me li considero qualcosa di contemporaneo, di attuale” (D. Righetti, “Lalla Romano

racconta i suoi 80 anni” in «Il Giorno», 8 novembre

1986).

!° G. Tesio, “Lalla Romano” in «Belfagor», XXXV (1980), n. 6, p. 679.

2° L. Romano, Un sogno del nord, cit., p. 197.

2! Ibid.

2. /Paragonando il suo stile a quello di Proust, la Romano sottolinea: “Il linguaggio proustiano è tutto involuto, tortuoso, tutto aumentato. Io stringo, asciugo, sono l'opposto” (A. Mongiardo, “Lalla Romano” in «Il Messaggero», 1 dicembre 1980). ? Riguardo al linguaggio artistico, la Romano sostiene che “l'importante per uno scrittore è riuscire a sottrarsi a questa pesantezza [del linguaggio usuale, fatto di luoghi comuni], non il raccontare certe vicende piuttosto che altre” (L. Romano, “Vi racconto una storia. Itinerari nella narrativa italiana contemporanea”, cit., p. 159).

% Si confronti P.P. Pasolini, “Dolore e passione nel racconto di una nonna innamorata” in «Tempo», 1 luglio 1973, ripubblicato in P.P. Pasolini, Descrizione di descrizioni, Einaudi, Torino 1979, pp. 121-125. Pasolini usa il termine “lassa”

per definire lo stile spezzato della Romano, perché, secondo il critico, tale scrittura per brevità e accuratezza lessicale è più vicina alla poesia che alla prosa. 5 L. Romano, “Vi racconto una storia. Itinerari nella narrativa italiana”, cit., pp.

157-8.

x

2 L. Romano, Un sogno del nord, cit., p. 197.

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Parlando di come nascono i suoi libri la Romano afferma: “Tutti i miei libri sono nati, come le piante, da un seme: che non è mai un'idea, ma un sentimento,

un legame con un ambiente e con uno o più personaggi, i quali hanno un rapporto variamente condizionato, ma molto importante, con me” (L. Romano, Le parole tra noi leggere, Einaudi, Torino 1977, p. V).

28 G. Manzini, “Quando la giovinezza è una grande avventura”, cit.

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2. I RACCONTI

Oggetto di questo capitolo sono sia le prime esperienze narrative di Lalla Romano, ovvero i racconti apparsi nella prima parte de La villeggiante (1975) sotto il titolo di “Avventure mancate”, sia quelli della seconda parte che danno il titolo al volume, ma che sono stati scritti più tardi. Ci occuperemo pure di I tedeschi a Boves e di Una strada qualunque che furono pubblicati su un giornale partigiano nel 1945.° Gli scritti del periodo 1930-48 (la raccolta ‘Avventure mancate” e i racconti I tedeschi a Boves e Una strada qualunque) possono considerarsi come il primo avvicinamento della Romano alla prosa e meritano, a nostro avviso, un esame

accurato,

giacché in essi, sia pure in nuce, si possono

discernere quelle scelte narrative e quegli orientamenti artistici che caratterizzeranno la produzione futura della scrittrice.’ L'uso della terza persona o quello di narratori maschili non si ripeteranno nei romanzi, ma la presenza di un io narrante femminile diventerà in seguito la costante della narrativa romaniana da Maria a Le lune di Hvar.

Il primo racconto di “Avventure mancate”

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si intitola Crona-

che della sartoria (1930) ed è diviso in tre parti, “Il vicinato”, “Il

viaggio” e “Adelina”, ripartite a loro volta in brevi capitoletti. Questa scansione, più tipica della poesia che della prosa, contraddistinguerà gran parte della scrittura di Lalla Romano. In Cronache della sartoria, tuttavia, i capitoletti non costituiscono ancora piccole unità sequenziali come nei romanzi successivi,

perché questi segmenti, nonostante presentino gli stessi personaggi, possono essere letti come brevi storie a sé stanti, senza

perdere la loro integrità tematica.

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Ne “Il vicinato” un narratore descrive la “routine” giornaliera di un sarto e delle sue lavoranti. L'uso della terza persona e del presente indicativo suscita nel lettore l'impressione che l’esistenza dei personaggi sia “congelata” in una specie di eternità, giacché fissare la vita in una perpetua ripetizione equivale a negarle ogni possibile sviluppo e a ridurla alla staticità di un tableau, dove tutto è vivo, ma immobile:

Loro, le ragazze cucitrici, non guardano mai fuori, perché gli occhi restano abbagliati dalla luce... Tutte lavorano in silenzio... Scorre il tempo, arde silenziosamente nella spera di sole della finestra, dove i

rari passanti scivolano come ombre dietro l’inferriata...

Nella seconda lassa vengono ricordati i venditori di gelato che erano soliti stazionare ogni estate vicino al negozio del sarto. La rievocazione è tutta al passato:

L'estate l’annunziavano ogni anno i gelatieri, che lavoravano per la stagione nel cortile. Arrivavano sul finire di maggio... L'automobile occupava minacciosamente l’androne, così che le sarte quando dovevano attraversarlo si appiattivano contro il muro... Partivano all'alba e alla sera rientravano ad uno ad uno: facevano rintronare l’androne correndo sull’acciottolato...” Nonostante il cambiamento di tempo verbale tra la prima e la seconda lassa, nel lettore permane l'impressione iniziale, giacché l’imperfetto, come il presente, crea un senso di ripetitività e perciò produce un effetto statico, tipico, appunto, di un tableau.

“Il viaggio”, seconda parte di Cronache della sartoria, è invece il resoconto di una escursione che il sarto e le sue lavoranti intraprendono per visitare un santuario sulle montagne. 23

Questo segmento narrativo è a sua volta suddiviso in tre staccati, che corrispondono ai tre giorni che la comitiva passa sulle montagne dopo aver smarrito il cammino. Nonostante l’uso della terza persona e dei tempi passati, la narrazione non fluisce in un continuum, perché, anche se la progressione temporale è rispettata, il numero degli aggettivi impiegati per descrivere i colori, il paesaggio e le bellezze naturali crea una tale ricchezza di immagini che il lettore viene distolto suo malgrado dal filo narrativo. I dettagli visivi che descrivono i vagabondaggi tragicomici del gruppo sono così numerosi che abbiamo l'impressione di assistere a una nuova serie di tableau: Il pastore che, in piedi su di un roccione presso la sua capanna percorreva lentamente con l'occhio la valle emergente nel sole dalle lontane nebbie azzurrine, aguzzò lo sguardo avvistando qualcosa di insolito. Una strana processione si muoveva sul pendio opposto: sull'erba rasa e secca, scintillante per la rugiada percossa dal sole, spiccavano le figurine nere. Appariva nei volti pallidi e sfatti, nel passo incerto, l'estrema stanchezza...” La descrizione della valle, del cielo, e persino dell'erba del

pendio si frappone tra il momento in cui il pastore comincia a guardare e quello in cui distingue le “figurine nere”. Questi dettagli rallentano la percezione del lettore, in quanto lo sforzo di visualizzazione “oscura” gli avvenimenti. L'autore, insistendo sui particolari, pare trasferire nella narrazione una preoccupazione tipica di chi dipinge: quella di “rappresentare” nel modo più accurato possibile. Sembra quasi che la scrittrice stia

cercando di provvedere tutte le informazioni taneamente; ma, mentre questo è possibile in vere si devono fare i conti con le limitazioni progredisce linearmente e non spazialmente.

24

disponibili simulpittura, nello scridi un mezzo che Ne “Il vicinato” e

ne “Il viaggio” troviamo due elementi che riemergeranno in altre opere della Romano: l'ammirazione per i montanari in Pralève e il sottile senso dell'umorismo in Inseparabile e ne Le parole tra noi leggere. La terza parte di Cronache

della sartoria, “Adelina”,

narra

dell'incontro di Adelina, durante il viaggio al santuario, con un giovane dal quale si sente attratta. Quella che sarebbe potuta diventare una storia d'amore, si conclude però bruscamente per

ragioni che non vengono chiarite. Il giovane, in un primo tempo affascinato da Adelina, improvvisamente fugge: “... l'aveva deposta piano a terra, ed era scappato”.° Il narratore conclude la storia lasciando il lettore a ponderare sulle possibili cause della fuga. La stessa suspense è creata in un momento precedente del racconto, quando un giovane sconosciuto viene a cercare: Adeli-

na nel negozio e la ragazza, dopo essersi dileguata sottobraccio con lui, dichiara che il giovanotto è il fidanzato di sua sorella, ma

nessuno le crede." Già nei primi racconti la Romano è spesso reticente nei confronti dei suoi personaggi, i quali rimangono avvolti nel mistero. A questa sorta di “reticenza” la scrittrice rimane fedele anche quando, parlando del suo modo di trasfor-

mare persone reali in personaggi, afferma di non avere interesse a scoprirne i segreti, bensì di essere affascinata proprio da quel qualcosa che essi si portano celato dentro." Il secondo racconto, intitolato L'abito da ballo (1932), tratta

ancora una volta di un amore tanto infelice quanto misterioso. Il narratore è un uomo che ricorda di avere affittato una camera in una casa in cui la padrona aveva incontri alquanto rumorosi col fidanzato. La storia è costruita come un romanzo giallo. Il lettore rimane perplesso, incapace di decidere se il fidanzato della donna sia esistito o meno, giacché il narratore stesso ammette di non

averlo mai visto o sentito parlare. La donna contrae poi una 25

strana malattia che potrebbe anche essere una gravidanza e alla fine muore. Questo racconto non presenta solo un caso di voluto limite dell’informazione, ma è addirittura un esempio di narra-

zione “ambigua”. La tecnica narrativa della Romano punta quia costruire un testo che giustifica interpretazioni opposte. Questa storia può considerarsi, pur nella sua brevità, come una speri-

mentazione o come una sorta di “opera aperta” stando alla definizione di Eco. Secondo il critico, esistono opere in cui il messaggio non è univoco, ma aperto all'iniziativa del fruitore, in

quanto tali opere si prestano a molteplici interpretazioni. In questo caso, infatti, il lettore ha la facoltà di credere

o non

credere all'esistenza del fidanzato e di usare il testo come supporto a entrambi le tesi. Nessuno dei romanzi della Romano potrà definirsi simile a L'abito da ballo, ma in molti di essi, come

già in “Adelina”, parte dell’informazione verrà sottratta al lettore. Questa “reticenza” narratoriale diventerà in seguito una delle costanti della scrittura romaniana.' L'aria di Roma (Racconto di un vecchio), scritto nel 1938 è, come la storia precedente, una narrazione continua, ossia non divisa in segmenti separati. Il narratore è un uomo ormai vecchio che ricorda un breve viaggio a Roma intrapreso nella sua giovinezza, in compagnia di un’attraente fanciulla. Come suggerisce il sottotitolo, l’introspezione psicologica e la rievocazione memoriale dominano la storia. L'uomo, ormai provato dalla vita, rive-

de se stesso al primo incontro con l’amore e l'attrazione sessuale: Quella gente, che la divertiva, e il vino, e poi — ma

cosa può capire un ventenne? e che ne sapeva lei

stessa? — qualcosa aveva trasformato Anna. Mi guardava negli occhi ridendo senza motivo... Mi . provocava, e il gioco era così nuovo in lei che la desideravo più che mai, ma con rabbia."

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Quella che avrebbe potuto essere un'avventura amorosa rimane solo un viaggio nella città eterna, e si riduce a un’esperienza frustrante. Il narratore è estremamente sensibile alla bellezza di Roma, nota dettagli che rivelano familiarità con la pittura e tradiscono la presenza della sensibilità estetica dell’autore.'° Il congresso

(1947) è, come

L'aria di Roma, una narrazione continua, con pochissimo dialogo; ciò che accade nella mente

dei due personaggi, specialmente nella donna, è descritto in terza persona. Durante un burrascoso congresso, Al. e Vic., reciprocamente attratti, decidono di lasciare la riunione e di fare una passeggiata per la città. Nelle loro peregrinazioni, finiscono per smarrire il momento magico dell'incontro e la loro rimane un’innocente passeggiata. Il racconto è tutto basato sull'analisi psicologica: il personaggio maschile è filtrato attraverso gli occhi della donna, che analizza il compagno introspettivamente. Per sfuggire alla realtà nella quale sono immersi, all’instabilità emotiva e all’infelicità che sentono, i due personaggi proiettano i loro desideri sulla realtà che li circonda, ma ne rimangono continuamente delusi. Questo tipo di analisi psicologica diventerà poi determinante ne L'uomo che parlava solo, Le parole tra noi leggere e Inseparabile. Pomeriggio sul fiume (1945) dovrebbe figurare prima e non dopo Il congresso (1947), secondo l'ordine cronologico di composizione sempre rispettato in “Avventure mancate”. Questo slittamento non è, a mio avviso, casuale, e la ragione è da ricercarsi

nelle caratteristiche che accomunano Pomeriggio sul fiume al racconto che segue, La signora (1948); entrambi, infatti, presentano

un “io” narrante femminile e il resoconto dei suoi sogni. La signora è in verità scritto in terza persona, il che sembra contraddire quanto affermato sopra. Tuttavia, poiché il narratore opera all’interno della mente della donna, e tutti gli eventi

27

sono filtrati attraverso il punto di vista di questa, la distanza psicologica tra narratore e personaggio è minima: in questo modo la terza persona si avvicina alla prima. Il racconto si orchestra su sette capitoletti che rispettano la progressione temporale e trattano dei giorni che una donna trascorre in un piccolo albergo di montagna. Annoiata, la giovane si sente attratta da un signore di mezza età che soggiorna nello stesso albergo. L'intera storia è un resoconto dell'effetto che questa attrazione provoca sulla donna, la quale è, tuttavia, ben conscia di non

volere che questo suo interesse si trasformi in una relazione o in qualcosa di serio. La protagonista si rende conto che la sua deve rimanere un'esperienza non soddisfatta, ma è affascinata dai desideri, dalle fantasie, dai sogni notturni e a occhi aperti che

l'uomo le ispira, ed è tutta presa dall'analisi delle sue emozioni. Pomeriggio sul fiume (1945) è il racconto più complesso e più problematico di “Avventure mancate”; all'inizio troviamo un

narratore femminile che dice: Mi accade abbastanza spesso di fare questo sogno. Avere davanti agli occhi una pagina scritta, e doverla leggere... Leggo qualche linea ma... l'imbarazzo diventa angoscioso perché sul foglio compaiono non più parole, ma cose. Oggetti: un aratro, una sedia. Eppure io devo leggere. Faccio un tremendo

sforzo per tradurre in parole le cose...”

Successivamente il sogno diventa realtà:

Da qualche tempo ho scoperto che qualcosa to importante mi accade da sveglia. C'è un to, per esempio, che ho davanti agli occhi. cosa terribile: lo vedo. Vedo i due amici che

di molracconEcco la pedala-

no verso il fiume, e la luce del pomeriggio d'agosto,

e poi gli amanti... Luce, persone, movimento, anche suono. Cose, ma io cerco parole... Non dev'essere

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così, le cose non devono nascere prima. Prima le

parole. Come nella delizia del leggere. Le parole

creano le cose."

Il sogno del narratore è un modo per trasmettere a chi legge la preoccupazione di colui che, cominciando a scrivere, si trova

ad affrontare il difficile compito di “ricreare la realtà attraverso il linguaggio”. Gli oggetti oppongono resistenza quando chi narra cerca di “tradurli” in parole. Poiché si afferma che “le parole creano le cose”, aderendo a un concetto filosofico espresso da Cassirer, secondo cui ciò che non può essere nominato non può esistere," mi sembra opportuno sottolineare che nel passo sopracitato non solo si fa riferimento al problema di fare letteratura, ma viene espresso un timore tipico di chi è abituato a percepire “luce, persone, movimento, anche suono”, cioè di chi

è solito vedere il mondo con gli occhi del pittore. Questa è una preoccupazione che va al di là della difficoltà di “come” maneggiare il linguaggio e testimonia lo sforzo di colui che, dotato di un'estrema sensibilità visiva, cerca di comunicare l’intero spet-

tro dei dettagli percepiti nella realtà. Quando “la storia nella storia” comincia, il narratore avverte il lettore che tutto è ugual-

mente importante: i due personaggi non sono più importanti del paesaggio, sono “due in un paesaggio”. L'importanza del dettaglio descrittivo è apertamente proclamata: I due sono testimoni, ma non attori. Così due in un

paesaggio. E si avverte un senso, si indovina anche una storia. Ma tutto deve avere la stessa importanza. Gli amici si chiamano Giulio e Berto. Risalgono

in bicicletta il corso Regina. È un pomeriggio d’ago-

sto, tardo pomeriggio. Luce gialla e radente, grandi ombre sul viale...

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La narrazione procede in terza persona per il resto della storia e dapprima viene usato il presente indicativo: Berto decide di scendere dove il fiume fa gomito e la riva si sporge tutta nella luce. Scendono per un sentiero ripido nell'ombra dell’altipiano e di un’alta muraglia, un sentiero dirupato di terra nera e pattume. In fondo, prima che incominci la ghiaia del fiume, è un folto di erbacce dalle grosse foglie

lucide e grappoli di bacche verdi e gialle... Nascondono i vestiti sotto le foglie. Il costume di Berto ha due buchi e si vede il bianco della pelle. Berto zoppica sui sassi, Giulio invece cammina spedito...”

La brevità delle frasi e i particolari descrittivi danno l’impressione di assistere a una proiezione alla moviola. I dettagli creano un'immagine così impressionistica della realtà che il ritmo della storia decelera: il lettore rimane più colpito dal colore delle bacche che da ciò che sta accadendo (la discesa verso il fiume di Berto e Giulio). A un certo punto del racconto, i tempi cambiano,

si passa dal presente al passato e viceversa. Sarebbe facile giustificare l'alternanza dei tempi verbali asserendo che la Romano non riesce ancora a controllarne l’uso. Invece questi cambiamenti devono essere interpretati come un tentativo di doppio registro temporale, necessario per chiarire quando a parlare è il narratore e quando sono i personaggi:

Giulio fu il primo che vide gli amanti sul prato ai piedi del terrapieno. Erano troppo lontani perché si vedessero in faccia; erano in costume anche loro... L'aria è fresca e leggera ma reca un sentore di marcio. Giulio: Dev’essere la Snia. Si alza, fa per bagnarsi... Berto arrischiò la punta del piede ma l’acqua era troppo fredda per lui...’*

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Il tempo presente dà al lettore l'impressione che il narratore sia vicino a Berto e Giulio e stia annotando puntigliosamente tutto ciò che i due dicono e fanno; il tempo passato, invece, fa sì

che la storia sembri raccontata da un narratore che vede attraverso gli occhi dei suoi personaggi. Il racconto è notevole dal punto di vista stilistico per l’uso del doppio registro verbale e da quello tematico perché, a differenza delle altre storie di “Avventure mancate”, qui l'avventura a cui i due protagonisti assistono è consumata fisicamente. Anche in questa “avventura non mancata” è però implicita una certa frustrazione: i due amanti fuggono via separatamente e pare si sentano in colpa. Come

fa notare L. Surdich, il titolo “Avventure mancate”,

dato a questi primi racconti, è significativo, poiché ciascuna storia prospetta “un'occasione propizia per un'esperienza d’eccezione (l'avventura appunto)... che viene tuttavia rintuzzata da una chiusura nella delusione”.? Insomma le storie di “Avventure mancate” non sono felici, ai personaggi si presentano delle occasioni che potrebbero avere esiti positivi, ma sorgono sempre degli impedimenti, la felicità sembra bandita da questi racconti: i personaggi sono imprigionati in una routine esistenziale che non lascia scampo. Due brevi racconti, I tedeschi a Boves e Una strada qualunque, che, come ho precedentemente accennato, furono scritti e pubblicati nel 1945 su un giornale partigiano, non sono inclusi in “Avventure mancate”. La ragione di questa esclusione è da ricercarsi nella loro particolarità, che li allontana dal resto della prima produzione romaniana. I due componimenti costituiscono infatti un caso a parte nell'iter della Romano poiché, nonostante presentino caratteristiche stilistiche simili a quelle degli altri racconti, sono da considerarsi come il prodotto del momen-

to storico che li ha generati.

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Una strada qualunque celebra il ritorno della libertà e i parti giani che l'hanno resa possibile.’* La storia si apre con un narratore che descrive una strada solitaria. Via via che il numero dei dettagli aumenta, — nome, luogo, quello che la gente dice nei negozi —, il lettore si rende conto che, nonostante

l’uso della

terza persona, chi narra è coinvolto personalmente in ciò che accade in questa strada: “Una signora della strada, bianca di capelli ma giovane nel cuore (mia madre), passando sorrideva ai ragazzi...”.?° Questa non è una “strada qualunque”, come il titolo sembrerebbe far credere, ma la strada dove la voce narrante

ha vissuto gli anni della guerra. In questa strada la scuola è stata trasformata in prigione, i fascisti torturano e deportano i prigionieri, la gente viene uccisa. La strada, arricchendosi di sempre

maggiori particolari, in apparente contraddizione col titolo, assurge a simbolo di una condizione generale di sofferenza comune a qualsiasi altra strada italiana durante gli anni bui del fascismo e della guerra. In questo senso è da interpretarsi l'aggettivo “qualunque” che indica appunto il fatto che ciò che accade in questa strada succede in molte altre; di conseguenza essa diventa simbolo di tutte. Il racconto è purtroppo affetto da un certo desiderio di celebrazione sociale che produce a volte un tono declamatorio: ‘“Popolo partigiano, il popolo di tutti i giorni, strada per strada, s'era unito ai fratelli della montagna, ha liberato con loro la sua città”.* Il controllo stilistico della Romano viene sopraffatto dal desiderio di comunicare la sensazione di unanime felicità sentita la mattina della liberazione di Cuneo, ma il risultato appare a tratti sfortunatamente retorico. I tedeschi a Boves è scritto in prima persona con una dònna

come narratore-focalizzatore degli avvenimenti. Questa scelta formale si confà alla penna della scrittrice e rende questo raccon-

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to artisticamente più riuscito di Una strada qualunque, proprio grazie alla presenza di un io-intermediario che intensifica e umanizza il tema della storia. Nel settembre 1943, Boves è invasa da gruppi di soldati alla ricerca di indumenti civili per poter sfuggire ai tedeschi e raggiungere le loro case.” La famiglia della Romano, sentendosi minacciata — grosse formazioni di soldati tedeschi sono state viste salire lungo la valle — fugge in un piccolo paese, Spinetta. Come tutti i personaggi della storia anche il lettore soffre di uno stato di confusione, non sapendo che cosa stia per accadere; l'atmosfera d’inquietudine e di paura è perfettamente resa dalla suspense che il narratore crea:

La donna disse che un soldato era sceso dalle colline e chiedeva un vestito borghese... Poi cominciarono a passare soldati e ufficiali... Non parlavano o se parlavano era per maledire i generali... Noi non sapemmo più niente di Boves... La mattina alle quattro fummo svegliati nel letto, e chi aveva bussato ci avvertì di scappare... Il babbo partì... Le cannonate si ripetevano... Si decise di scappare...’ Il lettore scopre ciò che i tedeschi hanno fatto a Boves nel dialogo tra la Romano e una ex domestica della famiglia che per miracolo è scampata al massacro: Invece di prendere per la collina dove si sarebbero salvati, avevano attraversato il paese... Un soldato

gli sbarrò la strada. Il fabbro alzò le braccia. Si è arreso subito, mi raccontò poi la Cia; ma glielo ammazzarono sotto gli occhi di lei e dei ragazzi.

Aveva settant'anni.”

La concisione delle frasi usate spinge il lettore a ponderare

sulla rapidità e ingiustizia con cui è facile morire in guerra. Attraverso la breve descrizione dell'assassinio del marito di Cia,

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la Romano provoca in noi una tale risposta emotiva che, quando viene descritto il massacro di Boves, sarebbe impossibile restare

maggiormente colpiti, giacché ci si aspetta ormai ogni tipo di nefandezze. Mentre il lettore rimane scosso, la narrazione invece

continua controllata e priva di ogni commento sull'accaduto: Prima di lasciare il paese guardai anch'io attraverso una fessura nel corridoio dove c’era il mucchio nero di due cadaveri carbonizzati che si credeva fossero del fotografo e della moglie, che invece erano... La figlia era lì e stava interrogando un uomo se sapesse qualcosa di suo padre”.

Non c’è nessuna condanna delle atrocità tedesche, l’eloquenza dei fatti è sufficiente. Solo alla fine della storia la Romano esprime il suo severo giudizio morale: Alcuni giorni dopo in un salotto di Cuneo una signora mi disse che era penoso ma giusto quello che era successo perché la popolazione di Boves aveva applaudito al passaggio di un morto tedesco. Anche i borghesi hannno le loro leggende. Però in

esse non è poesia, ma vergogna." I primissimi racconti della Romano presentano quindi un notevole interesse verso la vita di tutti i giorni, l’analisi psicologica e i sogni. Stilisticamente essi mostrano la predilezione dell'autrice per una scrittura in segmenti separati. La particolare attenzione dedicata ai dettagli descrittivi crea talvolta un tipo di narrazione fatta di “momenti statici”, nei quali rappresentare sembra più importante che non narrare. La Romano sperimenta varie tecniche narrative: usa alternativamente la terza e la prima persona, impiega narratori maschili e femminili, senza trovare

ancora una dimensione stilistica definitiva.

Nell’esaminare le prime esperienze narrative di Lalla Romano abbiamo seguito un percorso cronologico. Occupandoci in questa sede della seconda parte de La villeggiante in cui appaiono due scritti datati 1958, compiamo un salto temporale che non sembra tenere conto del fatto che tra il 1951 e il 1957 la scrittrice pubblica Le metamorfosi, Maria e Tetto murato. Tuttavia, poiché i segmenti narrativi della omonima sezione del libro possono considerarsi racconti, abbiamo ritenuto opportuno includerli in questo capitolo. La villeggiante, apparsa nel 1978 come Pralève, tratta del periodo trascorso da una giovane donna in una valle alpina. La narratrice mostra un'attenzione particolare per la natura e un grande rispetto per la gente di montagna. Coglie con occhio di artista le bellezze naturali e nello stesso tempo offre sottili analisi psicologiche dei personaggi da lei incontrati. Infatti, il frate, l'ingegnere, la signora Audisio, Silvia Cretaz, Nanda e il pittore sono ritratti con brevi rapidi tocchi che riescono a cogliere, nonostante la reticenza esibita, la natura segreta della

loro personalità. In quadri separati, chi narra ricrea l'atmosfera di questa solitaria valle, visitata da un esiguo gruppo di amanti della natura e abitata da paesani che vivono praticamente esclusi dal resto della società. Anche se l’affettuosa esplorazione di questo mondo alpino si articola sulla pagina in segmenti, il lettore la percepisce come un tutto organico che nel suo insieme costituisce un vero romanzo, un romanzo della montagna. Pralève è un luogo d’elezione dove la bellezza regna sovrana, ci si

libera dalle consuetudini cittadine, ci si avvicina alla dignità e alla moralità austera dei paesani e si diventa più veri: Che a Pralève si fosse trapiantati in una dimensione diversa l'avevo capito subito. Si era liberi, o meglio, liberati; ma anche si faceva parte di un ordine. Tale

condizione doveva provenire non soltanto dal carattere naturale del luogo, ma anche da quello della

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comunità formata dagli abitanti, nativi o di passaggiDES

La villeggiante esibisce una perfezione stilistica che manca ai racconti di “Avventure mancate”. Tuttavia, se paragoniamo le

due parti del libro dobbiamo concordare con chi sostiene che la grazia della seconda parte è frutto di quell’abile lavorio di depurazione che la Romano ha intrapreso sin dai primi racconti e che, senza di essi, sarebbe stato impossibile.” Non solo la progressione artistica della prosa romaniana dai primi racconti a questi è evidente, ma molte delle caratteristiche stilistiche de La villeggiante sono già rintracciabili in nuce nei racconti di “Avventure mancate”.

In ultima analisi, la scrittura della Romano

ne La

villeggiante è caratterizzata da un forte sentimento poetico e da un senso dell'equilibrio che testimonia la raggiunta maturità stilistica e che si riflette in una scrittura priva di cadute di gusto o di zone superflue, e rivela una tendenza a esprimere l’essenziale, frutto di una ricerca che si è orientata coerentemente verso

questi traguardi sin dagli inizi.

NOTE

! La villeggiante (Einaudi, Torino 1975) è diviso in due sezioni: la prima si intitola “Avventure mancate” e contiene racconti scritti tra il 1930 e il 1948, a parte il penultimo, Ingrid, che è del 1964, e l’ultimo, Avventura romana, pubblicato senza

data. Poiché questi due racconti non presentano alcuna novità sia dal punto di vista stilistico che da quello tematico rispetto a quanto appurato dall'analisi dei primi sei, non ho ritenuto opportuno inserirli in questa trattazione. La seconda parte de La villeggiante, ripubblicata nel 1978 come Pralève (Einaudi, Torino), è costituita da un gruppo di scritti che possono essere considerati racconti e

quindi, anche se composti a un decennio di distanza dai primi, ho ritenuto doveroso includerli in questo capitolo.

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° L. Romano, I tedeschi a Boves in «Giustizia e libertà», Cuneo, 15 ottobre 1945; L. Romano, Una strada qualunque in «Giustizia e libertà», Cuneo, 3 maggio 1945. Questi due racconti sono stati poi pubblicati, con lievi modifiche, nella sezione

daria ‘45” di Un sogno del nord (Einaudi, Torino 1989, pp. 273-78). A proposito dell'aspetto sperimentale dei racconti di “Avventure mancate”

Carlo Bo scrive: “... i primi tentativi [...] pur essendo a un livello notevole, non

riescono a nascondere le incertezze e gli impacci che sono propri degli inizi [...] quelle ‘avventure mancate [...] rappresentano lo sforzo delle prime identificazioni e ci danno la pianta un po’ grezza delle strade che subito dopo [la scrittrice] avrebbe abbandonate o accettate con gravi sospetti” (C. Bo, «Corriere della sera»,

13 luglio 1975).

* L'uomo che parlava solo esibisce un io narrante maschile, ma, costituendo appunto l’unica eccezione tra tutti i romanzi di Lalla Romano, credo confermi la

regola.

° L. Romano, La villeggiante, Einaudi, Torino 1975, pp. 5-32. ° Ibid., pp.5-6. ” Ibid., p.-8.

® Ibid., p. 13. ? Ibid., p.24. 10“... quello l'aveva presa per un braccio e... era filato via con lei. Adelina aveva detto poi che quello era il fidanzato di sua sorella; ma chi ci credeva?” (L. Romano, La villeggiante, cit., p. 223).

!! Riguardo alla sua “reticenza” verso i personaggi, la Romano commenta: “Ritengo che la mia ricerca non debba essere rivolta a ‘informarmi’ di più su queste persone, che anzi trovo attraenti così come mi appaiono, coi loro segreti e le cose che di sé non vogliono far sapere” (E. Grassi, “Intervista a Lalla Romano” in «Il ragguaglio librario», settembre 1982, n.9, p. 291). 1 Il narratore focalizzatore della storia, infatti, dice: “Del resto l’uomo in que-

stione non solo non lo vidi mai, ma non l'ho mai udito entrare né uscire, né

l’intesi salutare, parlare, muoversi comunque” (L. Romano, La villeggiante, cit., p. 30). 13 Eco scrive: “... queste nuove opere [...] consistono [...] non di un messaggio conchiuso e definito, non in una forma organizzata univocamente, ma in una

possibilità di varie organizzazioni affidate all'iniziativa dell’interprete, e si presentano quindi non come opere finite che chiedono di essere [...] comprese in una direzione strutturale data, ma come opere ‘aperte’, che vengono portate a termine dall’interprete nello stesso momento in cui le fruisce esteticamente” (U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Torino 1976, p. 33).

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!4 La Romano, paragonando il linguaggio del marito al suo di scrittrice, afferma: “Vorrei dire questo: il suo stile, cioè il suo linguaggio, era simile al mio nella scrittura: concreto per le sensazioni, reticente sui fatti, segreto ma non ipocrita nei sentimenti” (L. Romano, Nei mari estremi, Mondadori, Milano 1987, p. 38). La

“reticenza” della Romano riguarda i fatti, gli eventi, ma si accompagna sempre a una sincerità per i sentimenti e le sensazioni che raggiunge spesso la spietatezza, si veda ad esempio Nei mari estremi. 15 L. Romano, La villeggiante, cit., p. 38.

1) “Roma sembrava d’oro, al tramonto, e l’Altare della Patria sporgeva bianco, di zucchero. Dietro, c'era una campagna boscosa, verde; si vedeva pascolare un gregge, e nel folto un piccolo frontone classico, qualcosa alla Poussin” (L. Romano, La villeggiante, cit., p. 40).

Y L. Romano, La villeggiante, cit., p. 51.

18 Ibid., pp. 51-2. !° E. Cassirer, Language and Myth, Dover Publications, New York 1946, p. 38. L. Romano, La villeggiante, cit., p. 52.

21 Ibid., p. 52. 2° Ibid., pp. 52-3. % L. Surdich, «Il secolo XIX», 1 luglio 1975. La Romano stessa prese parte attiva alla Resistenza nei gruppi partigiani di Giustizia e libertà a Cuneo. © L. Romano, “Una strada qualunque” in «Giustizia e libertà», Cuneo, 3 maggio 1945.

2 Ibid.

2? Il generale Badoglio proclama l’Armistizio l’8 settembre del 1943 e nello stesso giorno viene ordinato lo scioglimento dell'esercito italiano. 28 L. Romano, I tedeschi a Boves in «Giustizia e libertà», Cuneo, 15 ottobre 1945.

°° Ibid. °° Tbid. ° Ibid.

L. Romano, La villeggiante, cit., p. 95. C. Bo fa notare a proposito dello sviluppo stilistico della Romano: “... chi segua il disegno di questa fragile architettura [...] assisterà [...] con ammirazione all'importante lavoro di depurazione; la grazia, la felicità della seconda parte non ci sarebbero state senza questa costante opera di scarico della zavorra, senza questa eliminazione di ciò che pure la Romano avrebbe potuto tentare, e magari con qualche successo, nell'ordine della letteratura commerciale. Ma se si legge meglio, se si va oltre le tracce qui appena accennate, si capisce che già allora fra il Trenta e il Quarantacinque la salvezza le veniva [...] dal suo bisogno di

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respingere col soccorso dei grandi libri le occasioni più facili” (C. Bo, «Corriere della sera», 13 luglio 1975).

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3. I PRIMI ROMANZI

Nel decennio 1951-61 la Romano si dedica quasi esclusivamente alla narrativa; nel 1945 smette di dipingere e, dopo la pubblicazione de Le metamorfosi (1951), scrive soprattutto romanzi (unica eccezione le poesie de L'autunno, pubblicate nel 1955).' In una intervista del 1960 la scrittrice definisce il suo sviluppo artistico come “un cammino dalla poesia alla prosa” e Le metamorfosi come uno stadio intermedio di tale processo: “Quando affrontai la narrazione con l’intermezzo delle Metamorfosi [...] ero matura per la tensione, la tenuta che comporta il continuum di un roman-

zo”. Le metamorfosi, primo libro in prosa della Romano, occupa una posizione-chiave nella geografia letteraria della nostra autrice, poiché fa da trait d'union tra le prime esperienze narrative e i romanzi che seguono e segna il momento di transizione dalla poesia alla prosa. L'avventurosa storia editoriale del volume è alquanto indicativa: apparso nel 1951 nella serie “I gettoni” diretta da Vittorini, viene ripresentato nel 1967 con una struttura

diversa, per essere infine ripubblicato nel 1983 in una edizione molto simile a quella originale. L'odissea del libro non solo dimostra che la Romano ha sempre avuto una speciale predilezione per esso, ma incoraggia anche il lettore a indagare sulle ragioni che potrebbero celarsi dietro l'interesse della scrittrice per quest'opera. Il libro‘ consta di sessantotto sogni, narrati senza aggiunte, cambiamenti o sottrazioni, perché, sottolinea la Romano, “... se

si vuole raccontare il sogno, bisogna lasciarlo nudo”. Il titolo, come viene chiarito nella Avvertenza all'edizione del 1967, si

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ispira a Ovidio, e dimostra il fascino esercitato dalle Metamorfosi ovidiane sulla scrittrice: Non fu citato Ovidio: come troppo banale, suppongo. Invece quando avevo letto le sue Metamorfosi... fin da allora pensai che le trasformazioni di cui abbondano i miti potevano essere state suggerite dai sogni. (Quell’intuizione trovò poi conferma nei

testi degli etnologi.) Il titolo viene di là.

Nella stessa Avvertenza la Romano nega che le Metamorfosi di Kafka siano state fonte d'ispirazione per la sua opera, come è stato spesso suggerito dalla critica. La scrittrice ammette peraltro l’esistenza di una certa atmosfera kafkiana in alcuni sogni come Il palo (che decisamente ricorda Il ponte di Kafka), ma sostiene di non essersi mai preoccupata di rielaborare in forma letteraria i sogni, perché ciò che le sta a cuore è la loro fedele riproduzione. Sempre nell’Avvertenza la Romano spiega le ragioni che stanno alla base del suo libro e perché i sogni in esso contenuti si debbano considerare nell'accezione di metamorfosi o trasformazioni: “I sogni, come i miti, le fiabe, sono simboli o

allegorie della vita. Nella vita le trasformazioni da giovane a vecchio, da ricco a povero, ecc. sono lente, infinitesimali; nel

sogno [...] avvengono istantaneamente”. I sogni per la Romano sono quindi un modo per conoscere la realtà, ma una realtà con “le insegne cambiate”. Questo spiega l’epigrafe iniziale del libro, tratta dal Talmud: “Il sogno è la sua stessa interpretazione”, e infatti la Romano sostiene che: dial

sogno ci parla. Ci parla per immagini, simboli, metafore. Simbolo qui è nell'accezione di segno. Non significa altro che se stesso. Come del resto ogni poesia, romanzo 0 quadro”. Nel paragonare i sogni alla narrativa e alla pittura, la Romano è conscia della differenza che esiste tra i sogni, costituiti da “immagini in movi-

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mento”, e le altre forme interpretative della realtà. La scrittrice cerca di aggirare il problema affermando: Il sogno è vissuto, in qualche modo; deve essere raccontato. Lo scrittore conosce appunto le cose

raccontandole. Si tratta di traduzione... Deve diventare

parola,

sintassi,

discorso.

Esisterà

Spia

poesia soltanto quando sarà diventato discorso." La Romano parla di “traduzione” perché quella da lei attuata è un'operazione creativa di tipo particolare, in cui l’autore non ha bisogno di operare sul materiale perché“... ilsogno ha già fatto un’astrazione. Perciò nella relazione del sogno non occorre

lasciar cadere nulla”.!! La mente del sognatore ha già inconsciamente fatto delle scelte simili a quelle decise consciamente dall'artista quando “la fantasia (come la memoria) astrae dalla realtà quello che le serve”. Per la Romano

quindi, lo stesso

principio opera nell'arte come nei sogni. Possiamo perciò affermare che la posizione de Le metamorfosi nel panorama dell’opera romaniana è rilevante specialmente dal punto di vista stilistico. La necessità di rendere i sogni in una prosa essenziale, quasi povera, permette all’autrice di depurare il suo linguaggio dagli eccessi descrittivi presenti in alcuni dei suoi primi racconti. La soluzione al problema del come rendere questi sogni è trovata nell'equazione “sogno uguale fiaba”. La Romano, infatti, afferma: “Il tempo del sogno è come quello della fiaba: immemoriale, arcaico e insieme fulmineamente pre-

sente. L'analogia del tempo è anche quella dello stile. Lo stile della fiaba è secco, rapido, tutto-cose: così quello del sogno”. Lo stile de Le metamorfosi è quindi necessariamente concreto: predominano i verbi e i sostantivi, gli aggettivi sono usati con parsimonia e le frasi sono brevi. Il lettore ha l'impressione di assistere a una rappresentazione surreale; la sequenza delle

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azioni ricorda quella del palcoscenico, e infatti la Romano suggerisce nella prefazione di leggere i sogni “come balletti, sonati-

ne, pantomime”.'“ Basti, come esempio, l'incipit de Il palo: Mi trovavo in una città dalle vie larghissime. Le case erano basse e chiuse, disabitate. Per le strade

circolavano soltanto vigili urbani e poliziotti. Io pure ero un vigile e dall'alto del mio piedistallo manovravo a un crocicchio un disco dalle luci colo-

rate. Sbagliai però un segnale. Fui punito e trasformato in un palo. Ero un piccolo palo di ferro, piantato sulla ringhiera di un vecchio ponte. Sotto il ponte scorreva un canale fiancheggiato da due sen-

tieri...!*

I sogni sono narrati in prima persona da quattro voci narranti maschili e una femminile. La struttura del libro è complessa: è diviso in cinque parti che corrispondono ai cinque narratori e i sogni sono raggruppati in sezioni precedute da un'epigrafe (inventata dall’“autore-traduttore”) che in qualche modo si riferisce al loro contenuto; ciascun sogno ha un titolo distinto. Questa organizzazione permette al lettore di interpretare il testo in modi diversi: il libro può essere fruito come un’opera letteraria che contiene racconti “insoliti”, oppure le cinque parti possono essere usate per analizzare e ricostruire le personalità dei cinque “personaggi” narranti. La Romano è conscia della possibilità di un’interpretazione psicanalitica, e nella prefazione avverte il lettore che: Le metamorfosi non sono un romanzo psicologico, nemmeno virtuale [...]. L'unità, vale a dire la conti-

nuità e il ritmo di un libro importano oltre che all'autore anche al lettore (ideale), però l’incontro primo e più impegnativo avviene sulla pagina. Sarà dunque utile richiamare l’idea dell’essenziale

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singolarità del sogno. Ogni sogno sta a sé, è un'isola. E un “divertimento per flauto solo”. È evidente che dietro la scelta dei sogni “tradotti” in racconto esiste una notevole operazione intellettuale, che non fu apprezzata quando il libro fu pubblicato la prima volta. Fatta eccezione per Vittorini, che paragonò il piacere derivato dalla lettura di questi sogni al “mangiare noccioline al cinema”, per Sereni che scrisse un articolo di elogio sul «Corriere della Sera», definendo i sogni come “visioni liriche”! e per De Robertis che parlò di “poemetti in prosa”, i critici del tempo erano troppo orientati in senso neorealista per vedere di buon occhio un libro apparentemente lontano da qualsiasi preoccupazione sociale?” Un esame testuale più attento e meno datato culturalmente, dimostra che sotto la tipica qualità “non razionale” dei sogni traspare la realtà sociale in cui sono immersi i sognatori: il fascismo, le torture, la guerra e la vita militare appaiono ne Il teatro, Il lanciabombe e in altri episodi. Tralascio a questo punto di parlare del ruolo della Storia che, seppure in modo parziale, è presente ne Le metamorfosi, perché affronterò il problema nella sezione su Tetto murato. Maria (1953), Tetto murato (1957) e L'uomo che parlava solo (1961), primi romanzi della Romano, sono importanti, oltre che per il loro intrinseco valore artistico, soprattutto perché tracciano il “percorso” lungo il quale si svilupperà la produzione letteraria successiva. Maria, pubblicato da Vittorini nella serie “I gettoni”, fu dapprima ignorato dalla critica. Solo Montale scrisse, sul «Corriere della Sera», un’entusiastica recensione, che de-

nunciava il silenzio della critica ufficiale: LI

Se Maria portasse una firma più nota si potrebbe

predire al libro una lunga e durevole fortuna; se portasse poi una firma straniera tutti ripeteremmo

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la solita solfa degli stranieri che sanno raccontare come noi non sappiamo e che hanno nel sangue la poesia dei ‘petits riens’. La storia di Maria è invece opera di una scrittrice italiana, e per giunta poco conosciuta. Ciò non ci impedisce di dire che la Romano ha scritto un libro bellissimo.” Montale rimproverò a Vittorini di aver pubblicato il libro ne “I gettoni”, il cui proposito era di far conoscere le opere di scrittori alle prime armi, sostenendo che Maria “non si può definire un gettone, perché è la prova di un ingegno maturo”. Anche Carlo Bo condivise la presa di posizione di Montale, scrivendo: ‘... come mai un direttore avveduto come il Vittorini e un editore come Giulio Einaudi hanno considerato Maria nell’ambito e nella misura dei ‘gettoni’? Qui non siamo più di fronte a una prova, a un tentativo, il libro si raccomanda per la

sua stupenda autonomia”. In effetti la Romano

metamorfosi; aveva Diario di Delacroix. uno dei racconti da te°* che è legittimo

aveva già scritto poesie, racconti, e Le

anche tradotto i Tre racconti di Flaubert e il Flaubert la influenzò in modo determinante: lei tradotti, Un cuore semplice, la colpì talmendedurre che la Romano fu in parte ispirata a

scrivere sulla sua domestica, Maria, dal racconto flaubertiano

della serva Felicita. Dopo la recensione di Montale e di Bo Maria guadagnò l’attenzione di critici come De Robertis, Longhi, Contini; nel 1954 il libro vinse il Premio Veillon.

La struttura di Maria non è del tutto dissimile da quella de Le

metamorfosi. Il libro è diviso in ventidue capitoli, ciascuno suddiviso in brevi lasse che in questo romanzo costituiscono per la prima volta unità sequenziali. Il testo appare diviso in segmenti, ma leggendolo si scopre che la progressione temporale e la continuità dell’azione non sono sovvertite: non esistono “buchi”

temporali tra i capitoletti. La Romano, tuttavia, evita di definire 45

il “quando” perché mira alla creazione di un ritmo narrativo che suggerisca il passare del tempo. Gli eventi stessi indicano la progressione temporale: il figlio di chi narra, neonato all’inizio del romanzo, alla fine guida la motoclicletta. Il lettore capisce che sono passati circa vent'anni. La Seconda guerra mondiale è occasionalmente menzionata, e poiché è di pubblico dominio la nozione della sua durata si possono stabilire date precise. I riferimenti alla guerra sono di natura piuttosto particolare, come attestano i seguenti esempi: Si sentivano, intanto, dei colpi, sordi, lontano; e altri, più vicino, crepitanti. Era, anche per noi, la

guerra. [...] Al paese, come dappertutto, ne capitavano troppe, e lei [Maria] gli spaventi e la compassione la consumavano [...] Aldo era stato deportato

in Germania, e di lui si era avuto un biglietto dal Brennero, portato da un compagno che era riuscito a scappare. Angelo era scomparso, nella Russia. E Francesco, il sagrestano, era sempre in pericolo,

benché zoppo, perché faceva i vestiti ai partigiani.”

La Storia è osservata nelle ripercussioni che essa provoca nella vita dei personaggi: la macro-storia è riflessa nella microstoria. Né alla Storia, né ad altro è permesso di interferire col

fulcro La sogni visivi

della narrazione: la storia di Maria. prosa di Maria è a volte concisa e semplice come quella dei de Le metamorfosi, e a volte ricca di dettagli descrittivi e come in “Avventure mancate”. In questo romanzo, tutta-

via, la sensibilità stilistica della Romano appare affinata, cosic-

ché i dettagli abbondano solo quando sono necessari a descrivere un paesaggio o un ambiente particolarmente importanti, come la casa della narratrice o il Villar-Casa Barcellona dove Maria è nata. La Romano non tenta, come in Cronache della sartoria, di rappresentare la realtà nel modo più accurato possibile, bensì

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cerca di porre in risalto solo quegli aspetti che servono a provocare nel lettore l'impressione da lei voluta. Il libro si apre con un esempio tipico di tale tecnica narrativa: Stava seduta sull'orlo della sedia, con i piedi incrociati e le mani raccolte in grembo; era magra e minuta, vestita di nero: con un colletto, rotondo, di

pizzo. Teneva la testa reclinata su una spalla; i suoi occhi azzurri e fermi, dalle palpebre piegate all’in-

giù, avevano un'aria rassegnata e un po’ triste.”

La descrizione di Maria caratterizza il personaggio senza offrirne tutti i tratti fondamentali: mancano dettagli comunemente considerati essenziali come l'età o il colore dei capelli, ma

vengono dati particolari come il modo in cui Maria siede, il colletto che indossa, l’espressione degli occhi e la posizione della testa. L'io narrante fornisce al lettore solo ciò che ritiene significativo. Poiché, secondo chi narra, l'apparenza esteriore di Maria

riflette la sua personalità, soltanto i dettagli che rivelano modestia e accettazione delle difficoltà dell’esistenza vengono rivelati. Una prosa concisa caratterizza la narrazione; la Romano riporta le parole, i pensieri di Maria, in brevi dialoghi usando un linguaggio sempre colloquiale: Maria riceveva molta posta. Se le notizie erano buone, annunziava: Tutti sono bene, e il tono era di

contentezza, ma anche di gratitudine.” Maria, che proviene da un povero ambiente rurale, decide di

andare a servizio nella casa della narratrice per aiutare la famiglia. È lei la protagonista indiscussa del racconto: si parla della sua vita, delle sue idee, del suo mondo, però tutto è filtrato

attraverso gli occhi dell’io narrante. Il fatto che la Romano parli, come attestano molte interviste, della sua domestica, dei primi

anni del suo matrimonio della nascita di suo figlio, non deve

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indurre il lettore a dimenticare che realtà e letteratura non possono coincidere. Chi legge non deve quindi confondere la voce narrante con l’autore, ma piuttosto deve considerare l'io come personaggio-focalizzatore della storia. La ragione per cui la Romano ha deciso di scrivere su Maria è chiarita nella prefazione all'edizione del 1973: Vivendo

con Maria, mentre

non pensavo

affatto

che avrei scritto di lei, avevo avvertito questo: che dov'era Maria, lì era come un'aria speciale, quasi

un ordine invisibile nel disordine del mondo... Avevo riscontrato in Maria uno stile di vita, che ammiravo; ebbene, la mia ammirazione non era

tanto morale quanto diciamo pure estetica, letteraria: vale a dire che per me Maria era già un personaggio prima che mi venisse in mente di comporlo, di crearlo con parole. Perché nulla nel libro è “fuori”, cioè stonato rispetto al tema prescelto. Il mondo di Maria è visto da me, naturalmente; ma il mio

lavoro è stato per così dire guidato dal rispetto per quel mondo, in cui conta solo ciò che è essenziale,

come nel linguaggio stesso della poesia. Vivendo

con Maria, la Romano

scopre in lei rare qualità

umane: Maria, nella sua semplicità, diventa un modello. Quello che rende il libro un “piccolo capolavoro”, come Contini lo ha definito,” è il rapporto che si instaura tra “signora” e “serva”: un legame affettivo che dura tutta una vita e che coinvolge la storia delle rispettive famiglie. Colei che narra, mentre descrive Maria,

connota anche se stessa e il suo mondo borghese-cittadino, opposto a quello contadino di Maria. L'esistenza di Maria ruota intorno a un mondo campagnolo nel quale una miriade di personaggi minori appare e scompare continuamente: Fredo, Guido, Maria piccola, Giuseppe, Milio e altri. L'affetto che lega l’io narrante e suo figlio a Maria e al suo mondo è così forte che

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continua anche dopo che la donna lascia l’impiego per tornare a vivere con i suoi familiari. Quando, alla fine del libro, la narratri-

ce si reca al villaggio per incontrare Maria, la trova, dopo una vita passata ad aiutare gli altri, in povertà: La corriera stava per partire. In quegli ultimi minuti parlammo di lei, delle sue apprensioni per il prossimo inverno [...]. Alla fine disse la cosa più triste: “Noi siamo iscritti nella lista dei poveri”. Io ne fui angosciata; e diamo a prendere la condita col grasso...” sa: “Chissà”, disse,

lei continuò, tranquilla: “Anminestra. Non è cattiva, ma è Poi, come parlando a se stes“cosa sarà di noi, nell’inver-

no Questa triste nota finale è in armonia con il ritratto di Maria

creato nel corso del racconto e con la cronaca delle continue sfortune che si abbattono sulla sua famiglia. La quieta accettazione da parte di Maria della povertà, e la disperazione che il suo stato provoca nella narratrice, illustrano sia l'affetto che il

rispetto che le due donne sentono l’una per l’altra. In questo legame di silenziosa comprensione e di simpatia, cominciato nel momento in cui le due donne si sono incontrate, sta il nocciolo

poetico del libro. La Romano rivela la sua natura di poeta anche quando parla dei luoghi, tratteggiati sempre lievemente, ma che diventano presenze vive sia che si tratti di una strada, di un bosco, o di un cascinale: luoghi e personaggi si imprimono nella memoria per la cifra simbolica che ci offrono dell’esistenza. G. Manacorda in un articolo ne «Il Contemporaneo» un anno dopo la pubblicazione di Tetto Murato (1957), criticò la decisione di conferire al libro il Premio Pavese:

Oggi siamo già al punto che nel nome di Pavese si deve combattere una battaglia nel senso di una revisione del realismo? Oggi è bene premiare un'ope-

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ra in cui la guerra e la Resistenza scadono (beninteso, senza nessun malanimo) a pretesto per una privilegiata vicenda interiore. Non vorremmo essere fraintesi: Lalla Romano ha scritto un bel libro, che

nel suo genere potrebbe anche essere un modello, ma la funzione culturale di un premio che si intitola a Cesare Pavese può essere svolta da un libro come Tetto murato? Sinceramente ne dubitiamo...”! Considerando che questo articolo fu scritto quando il Neorealismo stava già perdendo terreno, è chiaro che critici come Manacorda

e Salinari, che avevano

favorito modelli letterari

incentrati sul dato sociale, si schierassero contro una produzione

letteraria che eludeva i parametri di ciò che per loro non era “realismo”. Manacorda, di solito critico finissimo, sembra aver interpretato restrittivamente non solo Tetto murato, ma

anche

l'opera di Pavese; in realtà il punto di vista del critico non costituiva un caso isolato rispetto all’epoca. Pavese era davvero considerato il maggior esponenete di quella corrente letteraria chiamata Neorealismo fiorita tra il 1945-52. Alcuni decenni più tardi gli stessi critici rivedranno le loro posizioni e cesseranno di considerare Pavese come uno scrittore neorealista. Il lettore contemporaneo, godendo del privilegio di una più ampia prospettiva storica, trova più validi gli articoli di Montale e De Robertis,

che nel 1958 analizzarono Tetto Murato ignorando la “moda” del

momento.” La Romano, conscia della battaglia critica che il suo libro aveva scatenato, incluse alla fine della terza edizione di Tetto

Murato una nota (Nota 1985), nella quale essa polemizza con vari critici. Il seguente brano è la risposta a Salinari: Salinari giudicò “maturo” il libro (quanto alla forma penso), ma l'aver confinato la Resistenza sullo

sfondo era un’imperdonabile inadeguatezza. Indi-

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gnata fui io, che trovai retorica l'esigenza di un intento celebrativo. Non era indifferente nel romanzo, la circostanza storica: anzi la possibilità dell'intimismo era offerta proprio da quel vivere al margine, in una sospensione forzata che comportava concentrazione, disponibilità alla contemplazione, alla scoperta della bellezza pura, povera; e soprattutto favoriva il nascere di sentimenti intensi, però taciuti, segreti.”

Come sottolinea l'autrice, quindi, la guerra e la Resistenza fungono da “cornice” al romanzo e senza di esse la vicenda narrata non potrebbe sussistere. La grande Storia è perciò una presenza importante in quanto costituisce il substrato sul quale gli eventi germogliano, anche se il libro non verte né sulla guerra né sulla Resistenza.

Uno

dei protagonisti, Paolo, è coinvolto

nella Resistenza, e i partigiani sono rappresentati con considerazione e rispetto, ma il fulcro del racconto è la relazione che, data

l’insolita situazione esistenziale, si sviluppa tra i quattro protagonisti. La struttura del libro è simile a quella di Maria, in quanto anche qui i capitoli sono suddivisi in lasse sequenziali.* La Romano usa due differenti registri stilistici: idialoghi sono concisi e la lingua è semplice, mentre il vocabolario delle descrizioni è rigorosamente selezionato, ricercato e poetico. Abbiamo di nuovo una narrazione in prima persona, al passato, raccontata da Giulia. All’inizio del romanzo Giulia vive, temporaneamente sepa-

rata dal marito Stefano, in una città del Piemonte; un giorno conosce una giovane coppia, Ada e Paolo, che minacciati dai fascisti decidono di rifugiarsi in un posto chiamato Tetto Murato. Giulia visita giornalmente Tetto Murato, e quando Stefano è in città vi si reca con lui. Le due coppie finiscono col conoscersi

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molto bene: Ada è attratta da Stefano, mentre Giulia si sente vicina a Paolo. Il romanzo tratta delle “affinità elettive” che si sviluppano tra i quattro personaggi e della loro profonda amicizia. Quando Paolo, che è malato ed emotivamente più debole della moglie, dice ad Ada che è un po’ innamorato di Giulia, la

donna risponde: “È tanto naturale. Non poteva non accadere. Lei ti somiglia”. Per caso la conversazione giunge alle orecchie di Giulia e provoca una reazione che rivela il rapporto particolare che si sta sviluppando tra le due coppie: Mi dissi anche che se Paolo aveva parlato in quel modo con lei, significava che “in principio” era lei. (E del resto, se fosse dipeso da me, avrei voluto che

fosse altrimenti?) Mi attaccai sempre più a lei; attingevo forza dal pensiero di lei: quasi, in qualche modo, potessi partecipare della sua sicurezza.”

Non esiste gelosia fra i personaggi; Giulia è felice di scoprire che, anche se Paolo ha interesse per lei, ama Ada, e non vorrebbe

che fosse altrimenti, giacché nutre grande affetto per entrambi i coniugi: è attratta da Paolo, ma ammira la forza di Ada. A proposito delle due protagoniste, Pullini scrive: La loro lotta con la malattia di Paolo (che è lotta con la guerra e la fame) si compie con armi diverse, che

per una sono la pietà, per l’altra la resistenza: due strumenti complementari ed entrambi essenziali a Paolo, che diventa il simbolo della precarietà nella vita fisica e sociale del tempo e il punto di incontro

del dialogo fra le due donne. Esse finiscono per amarsi attraverso di lui senza gelosie, tanto avvertono la reciproca differenza e necessità.” La vicenda ha inizio intorno al luglio del 1943 e fihisce nell'autunno del 1945, poco dopo la Liberazione, ma i capitoli che trattano dell'inverno 1944-45 occupano la maggior parte del

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testo (37 capitoli su 52). Quando una lunga parte del testo è dedicata a un breve segmento temporale di solito si è di fronte a una narrazione dettagliata, ricca di dialoghi e descrizioni. Una narrazione ‘“decelerata”, come Genette la definisce," è il prodotto artistico di un autore che favorisce l'accuratezza, cosicché il

“quando” e il “dove” diventano tanto importanti quanto il “che cosa”. La Romano è conscia della scelta narrativa fatta e lo dichiara nella Nota: Davvero Tetto Murato è un romanzo pieno di immagini; del resto la stessa cosa si può dire degli altri miei libri, e sarebbe facile rammentare l’antica di-

mestichezza dell'autrice con la pittura... I miei libri non sono “dello sguardo”: le immagini sono un mezzo (un gusto), non un fine. Magari non si prestano a rappresentare conflitti esterni, avventure della Storia, e privilegiano una certa immobilità; anche se si inseriscono nel tempo, nello svolgersi della vicenda, scandito dai giorni e dalle stagioni. È abbastanza straordinario che da questo in apparenza blando ritmo nasca una tensione, un'attesa quasi urgente, evidentemente interiore e un po’ misteriosa. Leggendo Tetto murato non si può trascurare l’importanza delle stagioni e dell'ambiente. Le descrizioni naturali non sono,

come l’autore sottolinea, un ornamento alla narrazione. La Romano stessa fa notare la corrispondenza tra il momento, il luogo

e gli eventi della storia. Capire ciò che accade tra i personaggi è essere consci della stagione, perché le due cose sono strettamente connesse, come dimostrano i seguenti brani: Cadde altra neve, e ancora neve. Il silenzio fasciò

sempre più compatto, la camera; la luce opaca, fioca, dei brevi giorni, non giungeva più fino al letto

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di Paolo; solo il risvolto del lenzuolo rifletteva il

bianco di fuori e diffondeva uguale tristezza [...]. La stagione improvvisamente mutò: il sole ritrovò nei

meriggi la calma indolenza dell'autunno. Arrivando vedevo Paolo seduto al sole sulle assi sconnesse del balcone di legno, e lo raggiungevo inerpicandomi lesta per una scaletta ripida. Di lassù si sentiva tutt'intorno fondere la neve. Il sole di febbraio era ben più ardente del sole d'autunno, eppure — forse perché Paolo era lì, come allora — mi pareva che fosse veramente tempo."

un ritorno, un circolo felice del

Quando l'inverno finisce, Ada e Paolo lasciano Tetto Murato

e Giulia raggiunge suo marito a Milano. La fine della stagione conclude un periodo particolare dell’esistenza dei protagonisti. La vita isolata in disagiate condizioni ha facilitato la crescita nelle due coppie delle migliori qualità umane: generosità, altruismo, amore, abnegazione, il tutto condito da una eccezionale

affinità sentimentale e intellettuale. Questa esperienza è stata vissuta e condivisa in silenzio da ciascuno di loro; la frase di

Pavese in apertura al libro “Non c'è vero silenzio se non condiviso” suggerisce appunto la silenziosa, ma reciproca, comprensione dei personaggi. L'inverno passato a Tetto Murato è una stagione simbolica, un momento indimenticabile di arricchimento spirituale. Giulia, ricordando Tetto Murato, rimpiange tale “perdita”: Stefano era — e in questo veramente assomigliava a Ada — intento al presente e pieno di amore per esso... Quando parlavamo tra noi, anch'io riuscivo a credere di poter portare con noi Paolo e Ada, facevo progetti per una vita in cui non fossimo divisi. Ma quando ero sola sentivo Tetto Murato come qualcosa di perduto. Mi ribellavo; volevo che

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Tetto Murato continuasse. Ero sicura che avrebbe potuto continuare altrove, che era possibile in terra,

come già lo era stato.*

All'inizio del libro veniamo a sapere che Tetto Murato è il nome dato, nella provincia di Cuneo, a “un gruppo di case, cortili e orti, il tutto cinto da un muro quadrato”.‘ Il titolo non

indica però solo il luogo fisico; l'aggettivo “murato” si riferisce all'isolamento prodotto da questo tipo di costruzione, ma soprattutto indica quel qualcosa che i personaggi vivono all’interno delle mura del “tetto” e che è destinato a rimanere “murato” nelle loro anime. Giulia sa che ciò che “ha provato” a Tetto Murato non si ripeterà più, ma rimarrà per sempre parte della sua coscienza. Tetto Murato è un'isola, un posto favoloso, quasi

magico, e la narratrice lo sottolinea, usando gli aggettivi “silenzioso” e “misterioso” così spesso da trasformarli in parole-chiave. Il senso di mistero è aumentato dalla mancanza di informazioni precise. La malattia di Paolo, il suo passato e la sua strana madre rimangono enigmi. Paolo e Ada non forniscono spiegazioni e la narratrice non “chiede” mai nulla: il modo in cui Giulia conosce e capisce i due opera a livello di intuizioni, sensazioni, deduzioni e sentimenti. Ada e Paolo proiettano sull'ambiente una specie di incantesimo, che affascina Giulia: Arrivando a Tetto Murato trattenevo un istante il fiato. Il silenzio fasciava, più compatto della neve, le case semisepolte, e il grande pino nero, infinitamente malinconico, sembrava indicare e insieme

nascondere un segreto.‘

Com'è stato messo in risalto, Tetto murato è un’opera che crea un'atmosfera particolare; la vicenda si basa su eventi quotidiani, ma ciò che conta è lo stato d'animo che la storia evoca. Il

racconto è tutto costruito sullo scavo interiore, tuttavia le sensa-

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zioni dei personaggi non vengono rivelate, ma si intuiscono attraverso le immagini del paesaggio e i brevi dialoghi, così da 45 : creare un'atmosfera quasi da favola. Nell'aprile 1957 la Romano fa un viaggio in Grecia; le sue esperienze e le sue impressioni vengono alla luce nel 1959 in un diario di viaggio, intitolato appunto Diario di Grecia. Come fa notare un critico nella sua recensione: Nel diario trovano spazio e respiro il gusto del particolare e la vibrazione psicologica, la captazione pronta della realtà e il riverbero emotivo, elementi che nel loro vario combinarsi costituiscono il meglio della vocazione espressiva della scrittrice.‘ Il libro presenta, infatti, una

rara qualità lirica che nasce da uno stile conciso e allo stesso tempo allusivo. È opportuno a questo punto citare alcuni passi del diario per chiarire come sia quello stile dal timbro indefinibile che va ascoltato dal vivo. Costeggiando le isole greche, per esempio, la Romano annota:

Scivoliamo tra isole bianche e petrose, nel sole. Danno un'impressione quasi cruda di nudità. Forse consiste, l'essere isole, in quella leggerezza di uccello appena posato, e in quell’irremovibilità, insieme, di statue che si debbono aggirare. Appaiono con nostro stupore; con nostro rimpianto dileguano.

Attraversando Atene: ‘“... appare grande [...] in un suo disordine e larghezza, quasi fasto, di miseria. Interi quartieri di robivecchi su vasta scala e con carattere di permanenza: una vita che seguita su un metro di liquidazione perenne”.* Percorrendo la campagna greca: ‘“... vigne dalla terra magra di color viola pallido, viti nane, tralci nuovi dalle piccole foglie chiare, e fichi pure

nani dai tronchi quasi bianchi, dalle foglie azzurre”.‘°La Grecia 56

classica si confronta con quella moderna; le reminiscenze culturali, i miti, i ricordi di scuola si sovrappongono al paesaggio, agli incontri, alle visite delle antiche rovine. Ad Argo il mondo antico e quello attuale si scontrano: “Noi, malati di idealismo, non

curiamo di toccar con mano; mentre è proprio questo, scoprire che la Grecia ‘non è un libro’, quello che ci fa soffrire...”.° La Romano ci offre con Diario di Grecia l'esempio di una raggiunta

perfezione stilistica. Il libro è davvero un “poemetto in prosa”, per usare il termine col quale De Robertis aveva definito Le metamorfosi. Una svolta importante nella carriera artistica della Romano

fu la pubblicazione nel 1961 de L'uomo che parlava solo. Paolo Milano, recensendo il libro, ne sottolinea la particolarità: Il più bel racconto italiano che ho letto in questa stagione è L'uomo che parlava solo [...]). Ho detto racconto, non sapendo qual altro vocabolo usare. Poiché, quanto al suo genere e stile, (romanzo breve, diario, meditazione? soliloquio, rappresentazione obiettiva, trama lirica?) L'uomo che parlava solo è inclassificabile, come tutti quei rari libri che si attengono pudicamente e tenacemente al vero..

L'uomo che parlava solo segna l’inizio della fase più importante nello sviluppo della produzione letteraria della Romano. La complessità del testo è la prova della destrezza raggiunta dalla scrittrice nell’articolare la narrazione. Qui la Romano crea un tipo particolare di monologo interiore, che emerge dall’inconscio del protagonista e progredisce attraverso libere associazioni mentali. La narrazione, però, non

raggiunge mai la complessità dello stream of consciousness, giacché è sempre chiaro a che cosa il protagonista si riferisca e la punteggiatura è costantemente rispettata. Poiché la Romano fa

d7

un uso particolare del “flusso di coscienza”, è difficile decidere se quest'opera appartenga o meno al suddetto genere letterario. Il libro, tuttavia, presenta tutte le caratteristiche che Humphrey richiede al soliloquio e ciò ci permette quindi di classificarlo

come tale.” L'uomo che parlava solo è in effetti un romanzo-flusso di coscienza costruito sul soliloquio di un personaggio. Il narratore ricorda eventi passati e presenti della sua vita e cerca di afferrarne il significato. Per la prima volta, dopo i racconti scritti tra il ‘30 e il ‘48, la

Romano ha scelto un narratore maschile. L’unicità de L'uomo si estende anche alla tematica: questo romanzo, infatti, non ha, a

differenza di tutti gli altri, nessun legame con la vita dell'autore. A questo punto si potrebbe obiettare che la Romano in fondo ha sempre incoraggiato il lettore a considerare i fatti autobiografici contenuti nelle sue opere come

“letteratura”, ma nel caso de

L'uomo bisogna fare una distinzione: “inventare” una storia è ciò che uno scrittore fa spesso, ma creare un protagonista del sesso

opposto con una personalità complessa come in questo romanzo è piuttosto insolito per chi abitualmente costruisce i suoi romanzi partendo da eventi personali. L'analisi della psiche maschile è così accurata che rimaniamo affascinati dalla conoscenza che la scrittrice sembra averne, specialmente in un caso come questo in

cui la storia è un unico mosaico di dettagli psicologici.

La struttura è simile a quella dei precedenti romanzi: capitoli suddivisi in lasse, frasi concise, linguaggio semplice e colloquiale. Ci sono un narratore-protagonista e due altri personaggi

sempre filtrati attraverso la coscienza dell'io narrante: Alda, la giovane amante che lo ha da poco abbandonato, e Nora, la moglie. Il romanzo si apre con il narratore che parla a se stesso: Tutti gli orologi si sono fermati. Io mi trovo in

bilico, fermo su un punto. No, è un filo: teso. Do-

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vrei percorrerlo, passare di là; se sarò capace, se non cadrò nel vuoto. Questo filo davanti

a me non

so nemmmeno se sia il mio futuro o il mio passato... Non sto mica sognando, come potrei cadere? Mi trovo nel punto più basso; sono sul fondo. Non su un filo, ma su una strada, una piatta pianura senza strade [...]. Invece sono qui, seduto su una panchina, davanti al mare... Chiudo gli occhi. La pianura piatta è sempre vuota. Lei mi ha detto che tutto è cominciato, “quello” che l’ha staccata da me, una

volta che aveva voluto entrare in una chiesa... Io l'avevo accompagnata a sentire le musiche perché questo le faceva piacere, come del resto accompa-

gno mia moglie alla messa... Domani torniamo in città. Eppure gli orologi non camminano. Tutto è fermo. Anche la pioggia, così verticale, non è altro.

che immobilità.”

L'immagine degli orologi è una metafora che illustra la sospensione temporale e sottolinea lo stato di confusione del narratore: passato e futuro non sono più entità definite nella sua mente. Quando chiude gli occhi, chi narra “vede” una terra desolata, un'immagine creata dalla sensazione di vuoto prodotta dal suo io interiore. L'immagine della piana deserta attraversa rapida la sua mente, poi improvvisamente l’uomo ripiomba nella realtà, è seduto su una panchina vicino al mare ma la memoria interferisce con ciò che sta vedendo e ricorda quello che l'amante gli ha detto prima di sparire. La realtà torna ad avvolgere l'uomo: domani lui e la moglie ritorneranno a casa. Nel suo animo, tuttavia, la sensazione di immobilità supera ciò che lui

percepisce del mondo esterno: la pioggia sembra immobile. Il soliloquio dà modo all'autore di spaziare nel tempo, mescolando presente, passato, futuro, di rappresentare la vita interiore ed

esteriore del protagonista e soprattutto di creare simboli e meta-

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fore con le quali trasmettere un significato altrimenti difficile da verbalizzare. È d’uopo domandarsi che cosa dia unità al racconto, visto che non esiste né trama né azione nel senso tradizionale (essen-

do tutto già avvenuto). La risposta a tale quesito sta nel “filo” menzionato dal protagonista: quel filo che sin dalle prime pagine egli si propone di dipanare è l'espediente retorico sul quale la Romano costruisce la narrazione. Il “filo” è ciò che aiuterà il protagonista a trovare una via d'uscita nel labirinto della sua coscienza, e aiuterà il lettore a seguire questa complessa ricerca mentale. Il “filo” costituisce quindi il principio ordinatore del materiale narrativo. In questo romanzo non c'è né unità di tempo né di spazio, nessun luogo o momento è preponderante, solo il tentativo dell’uomo di scoprire la “verità” dà coesione alla storia. Il motivo del filo riappare spesso, tuttavia a mano a mano che il protagonista progredisce nella sua ricerca e acquista una certa conoscenza di sé, esso cambia e si trasforma da vaga traccia,

sottile appunto come un filo, in qualcosa di più chiaramente definito, come attestano i seguenti brani:

Forse ho capito il perché del senso di vertigine degli orologi fermati, o impazziti. È che io ho fermato, ho preteso di fermare, di sospendere la vita:

per giudicarla. Mi trovo in bilico... Devo ritrovarmi, seguire il filo, riannodare. “Mi devi promettere che cercherai”. Lei voleva dire proprio questo [...]. Quello che io cerco, comunque, adesso non è... il

senso della mia vita, cioè me stesso, quanto quello che lei mi ha lasciato da trovare: il perché della sua fuga... Da una ricerca, attraverso la mia vita, di » quello che mi ha portato fino a lei, dovrà risultare quello che ha portato lei via da me [...]. Con pazienza, ricostruirò, anzi, costruirò tutta la storia... Nella

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mia storia i fatti sono già avvenuti... e il senso è appunto da ricercare. Così, io che conosco i fatti, non conosco il senso, o almeno tutto il senso... Tro-

varlo è il gusto della storia. Quando l'avrò trovato, avrò esaminato i fatti, e tutto sarà come prima, come adesso, cioè; eppure anche diverso.”

Il risveglio della coscienza dell’uomo e il conseguente desiderio di conoscenza fanno sì che egli ripensi ai primi anni del suo matrimonio, a un amore platonico della sua giovinezza, alla sua relazione con Alda, alla tragica morte

di sua madre, ma

anche ad altri eventi solo apparentemente poco importanti. Persino i dettagli più superficiali della sua vita monotona diventano cruciali perché scaturiscono da sensazioni, emozioni e desideri

sepolti nella coscienza ai quali l’uomo non aveva mai prestato attenzione. Ogni piccolo o grande avvenimento che la sua memoria rintraccia contribuisce in egual misura alla ricostruzione delle scelte da lui fatte. La qualità lirica del romanzo nasce dalla resa dei processi mentali del protagonista, i quali trascendono di solito la lingua denotativa, ma non possono eludere il linguaggio metaforico. Attraverso l’uso di immagini ricorrenti, la Romano comunica al

lettore stati d'animo che riescono a esprimere la vita interiore del protagonista in tutta la sua complessità e a comunicare il dramma, l’insoddisfazione e il potenziale emotivo del protagonista.

Alla fine della storia l’uomo non ha trovato le risposte che cercava, è solo più conscio della sua sconfitta esistenziale, le due

donne importanti per lui, l'amante e la moglie, lo hanno abbandonato: Lo potevo sapere in partenza, che per quanto si vada in fondo, in noi stessi, non possiamo trovare altro che noi. Gli altri rimangono, in noi, col loro

segreto: come fuori di noi. Concluderò con una

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definizione ambigua perché duplice di me. (Alla mia solita maniera.) Per Nora io sono (lei mi crede)

una specie di libertino, per Alda sono stato (lei mi credeva) una specie di prete... Solo che io sono un libertino-prete, non un prete-libertino. Uno troppo allegro per una moglie, troppo malinconico per una ragazza. Ma non è stato così; anzi, al contrario.

Per Nora io sono qualcosa... di tetro... Ma Alda io la vedo ridere...”

L'unica conoscenza che il protagonista ha acquisito dopo la sua dolorosa ricerca interiore è la certezza dell’impossibilità sia di cambiare se stessi che di comprendere completamente gli altri. Ne L'uomo che parlava solo, come generalmente accade in letteratura, il “processo” è più importante del “risultato”, come

Wellek suggerisce.” Possiamo affermare che ciò che accomuna i romanzi apparsi tra il ‘51 e il ‘61 è la presenza di un narratore che ricorda il passato: la memoria acquista un ruolo importantissimo anche nelle opere che seguiranno la produzione di questo decennio. Partendo dai primissimi tentativi letterari per risalire ai romanzi di questo periodo osserviamo che il linguaggio della Romano si fa più flessibile e così multiforme da soddisfare le diverse necessità narrative, diventando di volta in volta poetico, colloquiale, conciso, descrittivo e addirittura visivo. La costruzione di una

storia su un evento autobiografico (Maria) e l'approfondimento dell’introspezione psicologica dei personaggi, iniziata sempre con Maria, continuata in Tetto murato e ne L'uomo che parlava solo,

sono caratteristiche che verranno ampiamente sviluppate nei romanzi del periodo 1964-81.

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NOTE

! Nel 1955 la Romano pubblica una raccolta di poesie, L'autunno (La Meridiana, Milano), nel 1974 esce Giovane è il tempo (Einaudi, Torino) una collezione che

riunisce (con rielaborazioni) la maggior parte delle poesie già apparse ne L’autunno e in Fiore (Frassinelli, Torino 1941).

2 F. Vincenti, Lalla Romano, La Nuova Italia, Firenze 1974, pali

° Ibid., p.1.

ei riferisco alla terza edizione Einaudi del 1983, che riproduce la prima del

51.

UR Crovi, “Identikit di cinque vite attraverso il sogno”in «Ii Giorno», 2 maggio

1983. GATE Romano, Le metamorfosi, Einaudi, Torino 1983, p. 186.

” Ibid., p. 185. * Ibid., p. 183. ? Ibid., p. 182. !° Ibid., p. 184. ! Ibid., p. 184. 1 Ibid., p. 184. ! Ibid., p. 185. ! Ibid., p. 187. !5 Ibid., p.8. !6 Ibid., pp. 186-7. S. Antonielli, “Il mio progetto intellettuale” in «Fondazione corrente», 16 dicembre 1980.

!8 Vv. Sereni, «Milano Sera», 11-2 giugno 1951. 19 E, Siciliano, «Corriere della sera», 14 aprile 1983. 20 E, Siciliano, in occasione della terza edizione de Le metamorfosi, scrive circa le

critiche che suscitò la prima pubblicazione del libro: “Quando il libro fu pubblicato fu circondato da indubbia attenzione [...]. Quando i critici italiani si trovano

davanti a qualcosa che dirotta dai passi obbliganti e obbligati della tradizione a loro nota [...] indulgono nell’uso di quell’aggettivo, ‘letterario’, un aggettivo che vuol dire nulla e vuol dire molto, molto di negativo e limitante. Ho detto che il libro uscì in piena stagione neorealistica: niente era più lontano dal gusto neorealista de Le metamorfosi. Contro l’ubriacatura della realtà effettuale Lalla Romano si affidava alla verità cangiante, trascolorata del sogno: non ribaltava il vero, ma

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affidava il vero a quel mondo ‘con le insegne cambiate’ che è il mondo onirico” («Corriere della sera», 14 aprile 1983).

21 E. Montale, «Corriere della sera», 28 agosto 1953.

2? Ibid. 2 C. Bo, “La fiera letteraria”, 20 settembre 1953; nello stesso articolo Bo attribui-

sce il silenzio che ha circondato Maria all'atto della pubblicazione (il libro vincerà il Premio Veillon un anno dopo la sua uscita) a una certa “tendenza neorealista” ancora imperante: “Un libro come Maria, se vivessimo in altri climi e con altre

capacità di attenzione, potrebbe assumere un altro significato, potrebbe intanto voler dire che la strada della verità non è fatta in un solo modo e non passa per forza sulle voci irte e grosse della realtà: che il mondo non si consuma in una sentenza negatrice o in una costruzione di ottimismo a buon prezzo e [...] potrebbe insegnare a molti scrittori del ‘tempo’ che la verità va prima affondata nella nostra storia, perduta e poi ripresa sotto un'altra luce e dopo una lunga trasformazione interiore”.

% Per l'influenza di Flaubert sull'opera della Romano si veda il capitolo 1. 5 L. Romano, Maria, Einaudi, Torino 1953, p. 89 e passim.

2° Tbid., p.9.

7 Tbid., p.45. L. Romano, Maria, Einaudi, Torino 1973, pp. 5-7. G. Contini, «Letteratura», vol. XII, settembre /dicembre 1955.

% L. Romano, Maria, Einaudi, Torino 1953, pp. 1434.

G. Manacorda, «Il Contemporaneo», 11 agosto 1958.

°° G. De Robertis, «Tempo», 27 febbraio 1958. L. Romano, Tetto murato, Einaudi, Torino 1985, p. 156.

Le lasse costituiscono in Tetto murato unità sequenziali come in Maria.

® Cfr. G. Pullini, «Comunità», XII (1958), n. 58, p. 90. L. Romano, Tetto murato, cit., p. 141.

?Ibid., pp. 141-2. G. Pullini, «Comunità», cit., p-90. G. Genette, Narrative Discourse, Cornell University Press, Ithaca 1980, p- 73.

L. Romano, Tetto murato, cit., pp. 155-56. Ibid., p. 115 e passim.

‘°° Ibid., pp. 149-50. 4 Ibid., p.43. 4 Ibid., p. 106.

i

A. Bocelli scrive a proposito di Tetto murato: “Un racconto di sfumature e penombre, di sottile scavo interiore ottenuto non per analisi ma per immagini, fra le quali non hanno scarso posto quelle di paesaggio: un paesaggio tramato di

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memoria [...] pur non mancando di dialogato, anche vivace, il racconto procede come in un'atmosfera ovattata, incantata” («La Stampa», 23 luglio 1971).

‘ L. Surdich, «Il secolo XIX», 22 marzo 1974.

ui È Romano, Diario di Grecia, in Opere, a cura di C. Segre, vol. I, Mondadori,

Milano 1991, p. 680. Diario di Grecia apparve nel 1959 e poi fu ripubblicato da Einaudi nel 1974. 4 L. Romano, Diario di Grecia, in Opere, cit., p. 690.

* Ibid., p.701. ® Ibid. p215 P. Milano, «L'Espresso», 19 giugno 1961. A proposito del soliloquio R. Humphrey scrive: “Il soliloquio nel romanzo del ‘flusso di coscienza’ può essere definito come la tecnica che trasmette i processi psichici di un personaggio direttamente da questo al lettore senza l'interferenza dell'autore [...]. Ragion per cui [il soliloquio] è più limitato nel livello di scavo della coscienza rappresentabile di quanto non sia il monologo interiore propriamente detto. Il punto di vista è sempre quello dei personaggi, e il livello di coscienza è di solito più vicino alla razionalità” (Stream of Consciousness in the Modern Novel, University of California Press, Berkeley 1954, p. 36). La traduzione è mia. 5. L. Romano, L'uomo che parlava solo, Einaudi, Torino 1961, p. 912.

% Ibid., p. 25 e passim.

5 Ibid., pp. 171-2. % R.Wellek, Theory of Literature, Harcourt, New York 1977, p. 215.

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4. I ROMANZI MAGGIORI

Il titolo di questo capitolo si riferisce a un gruppo di romanzi, La penombra che abbiamo attraversato (1964), Le parole tra noi leggere (1969), L'ospite (1973), Una giovinezza inventata (1979) e Inseparabile (1981), considerati dalla critica come le opere fondamentali della scrittrice. Nel 1964 La penombra che abbiamo attraversato si colloca secondo al Premio Viareggio e rende la Romano nota al grande pubblico; la fama dell'autrice aumenta maggiormente nel 1969 dopo il conseguimento del Premio Strega per Le parole tra noi leggere, che nello stesso anno diventa un best-seller. Tutte le opere pubblicate a partire dal 1969 vengono recensite su riviste e quotidiani e non sfuggono all'attenzione del mondo letterario. Nonostante la crescente fama della scrittrice negli anni tra il 1964 e il 1981, un drappello di critici continua a considerare l’uso che la Romano fa della memoria come una “pecca” della sua narrativa. Tutti iromanzi di questo periodo sono, difatti, il resoconto di un io narrante femminile che ricorda un periodo precedente della propria vita; la connessione autobiografica tra gli eventi della vita dell'autrice e le storie dei suoi romanzi ha contribuito a tenere acceso il dibattito. Il fatto che la Romano rievochi la sua infanzia (La penombra), la sua giovinezza (Una

giovinezza), la crescita di suo figlio (Le parole) e di suo nipote (L'ospite e Inseparabile), costituisce il punctum dolens contro il quale si è scagliata parte della critica. Vigorelli e Salinari esprimono la loro violenta opposizione a un tipo di “letteratura della memoria” e la Vincenti è d'accordo con loro quando tratteggia quelli che, secondo lei, sono i limiti della narrativa romaniana:

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... il riferimento troppo diretto o scoperto al dato vissuto, come avviene appunto nella “letteratura della memoria”, comporta un atteggiamento gravemente preclusivo nei riguardi della rielaborazione fantastica di quel dato medesimo, preclusione

che inevitabilmente si configura come abdicazione,

rinuncia, e si risolve pertanto in una forma di [...] accettazione passiva, e tutt'altro che immune da

compiacenze nei confronti della realtà. Il che contrasta vistosamente con il concetto stesso di invenzione letteraria che in quanto atto di conoscenza implica necessariamente un giudizio la cui carica eversiva è la conoscenza della sua validità estetica.”

La Vincenti pare dimenticare che la letteratura è in ogni caso una “rimozione” del reale: non importa quanto un romanzo appaia autobiografico, esso rimane sempre il frutto della scelta estetica dello scrittore. Sembrerebbe assurdo optare per una “ricetta” letteraria alla quale gli scrittori si debbano attenere, ma la Vincenti in effetti propone l’“invenzione” come stadio obbligatorio della creazione artistica, dimenticando che ogni “tipo” di letteratura è accettabile, inclusa la cosiddetta “letteratura della memoria”, purché l’opera nel suo insieme raggiunga risultati esteticamente apprezzabili e presenti una sua unità artistica. Consapevole del dibattito suscitato, la Romano include nella terza edizione de La penombra un commento (Nota all'edizione 1977) nel quale mette in discussione la posizione critica di Salinari e di altri. Benché il brano seguente si riferisca in special modo a La penombra, la difesa che l'autrice fa della sua scelta artistica può estendersi a tutte le sue opere: Il Salinari («Vie Nuove») trova che La penombra è un bel libro, eppure un libro scontato. Segue un discorso sul “rifugiarsi nella memoria per allontanar-

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si dalla realtà”. Senonché il libro non è una fuga dalla realtà, ma proprio una ricerca di essa. Altri se ne

accorsero,

come

mostrerò.

I pregiudizi

sono

due: quello appunto contro la letteratura della memoria, argomento assai generico e davvero scontato, perfino ingenuo; e quello, più grave perché filosofico, contro l'infanzia come tema e, sospetto, an-

che come condizione umana. Il Salinari accusa me e altri (non nominati) di essere “scrittori che non si

decidono mai a diventare adulti”... Non è che io voglia polemizzare col critico, a distanza di anni; ho riferito in proposito perché si tratta di opinioni

tuttora diffuse, temo.’

Non ritengo necessario esaminare in dettaglio il punto di vista del manipolo di critici che all’epoca attaccò i romanzi sopracitati, poiché non si aggiungerebbe nulla di nuovo a quello che Salinari e la Vincenti affermano. È opportuno invece ricordare che studiosi e letterati come Bo, la Banti, Borlenghi, Montale, Siciliano, Pullini e Pasolini, per citarne solo alcuni, costitui-

scono il ben più numeroso gruppo di coloro che lodarono queste opere. Prima di analizzare i singoli romanzi vorrei infine citare Spinazzola, che nella sua introduzione a Inseparabile (1981), rie-

sce a porre ordine nell’intricata matassa delle polemiche contro l'uso romaniano della memoria, illuminando il modo di fare letteratura della scrittrice: Non c’è dubbio che è proprio lei, Lalla Romano, a

parlare per bocca della voce narrante cui è affidata la conduzione del racconto. Anche questa scelta ha suscitato equivoci, quasi segnasse un limite imposto volontariamente alle proprie capacità creative e non

uno

stratagemma

coraggioso,

per esaltare

l’esemplarità di vicende reinventate espressivamente senza adulterare il sapore inconfondibile di

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esperienza vissuta. “In un libro tutto è vero, niente è vero”: l'affermazione contenuta in Inseparabile sintetizza l'efficacia del doppio gioco instaurato dalla Romano tra il piano dell’esistenza effettuale e quello dell’immaginazione letteraria [...] la struttu-

razione del racconto è determinata dalla concorrenza di due tecniche, combinate in proporzioni diver-

se secondo l'indole dei vari volumi ma in fondo sempre compresenti. In primo luogo, l'inclinazione a collocare gli eventi anche più prossimi, appena trascorsi, nella luce definitiva di un passato ormai irrecuperabile, se non coi mezzi dell’evocazione memoriale. Assieme, la volontà di assumere fatti e vicende lontani nel tempo quali oggetti di un’inchiesta attualistica, percependoli tuttora vivi e come tali carichi di significati ancora tutti da scoprire, con partecipazione lucida e sgomenta.* Un'attenta lettura dei romanzi di questo periodo rivela, infatti, che la memoria è per la Romano un mezzo per esplorare la realtà, e non diventa mai, contrariamente a quanto affermato da

alcuni dei critici summenzionati, un modo per evadere in un passato idealizzato. Per mettere in luce il complesso disegno narrativo de La penombra che abbiamo attraversato o, per citare la Romano, “la figura nel tappeto”° intessuta nella narrazione, è necessario esaminare la struttura del romanzo. Il libro è diviso in due parti, ciascuna di dodici capitoli, a loro volta ripartiti in lasse. La narrazione procede a diversi livelli: la storia ha una dimensione . spaziale (la narratrice visita la casa nella quale è nata e il paesino dove ha passato l'infanzia), che può essere immaginata come un piano orizzontale costantemente intersecato da molteplici assi temporali, metaforicamente rappresentabili come perpendicola-

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ri che tagliano il piano orizzontale. Ci sono quattro fasi temporali che si alternano: il tempo precedente la nascita dell'io protagonista (“il tempo di prima”), che è favoloso, quasi “mitico” perché percepito solo frammentariamente attraverso le frasi dei genitori; il tempo della fanciullezza della voce narrante; un passato più recente durante il quale la protagonista visita Ponte Stura, soggiorna all'hotel Giglio (pagina uno del testo, il momento in cui la storia comincia) e alcuni momenti di illuminazione nei quali chi narra si immerge nel non-tempo della coscienza, in cui tutto “è”. MINI

Il capitolo iniziale funge da introduzione al libro, infatti la

prima lassa si apre con la protagonista che, seduta nella sua camera d'albergo a Ponte Stura (Demonte), lascia vagare il pensiero: La camera, piccola come una cella, era tinta di un

giallo feroce. Il letto enorme era di ferro... Mi ero distesa sul letto e cercavo di pensare a cose innocue... Da bambina sentivo criticare gli alberghi. Sentivo dire che c'erano le pulci. A me pareva una specie di privilegio degli alberghi. Nelle case si dava l'allarme se si trovava una pulce... I bambini poveri, le compagne di scuola avevano tanti puntini rossi sulla pelle del collo, che erano morsicature delle pulci. Dipendeva dal fatto che dormivano senza lenzuola. Anche Murò aveva qualche volta le pulci; ma le pulci dei cani non si attaccavano alle persone. Papà aveva trovato le cimici, in un albergo. (Le cimici, più temibili delle pulci, erano una rarità, quasi un lusso). Papà aveva sollevato il cuscino: le cimici nere, piatte, correvano sul lenzuolo.

Papà raccontava adagio, con una precisione favolosa. Io vedevo le cimici come l’immagine lontana, rimpicciolita, di un esercito... Ma forse non era stato in un albergo. Forse era stato nel santuario di Sant'Anna di Vinadio, dove papà era ospitato con

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riguardo... dal santuario il babbo portava a noi bambine gli “abitini...’’.° I tempi verbali (“era tinta”, “era di ferro”) indicano un mo-

mento indefinito nel passato; “da bambina” segna lo sbalzo improvviso della memoria in un passato più remoto, e ciò che segue è quello che la protagonista ha udito e pensato degli hotel quando era piccola. La memoria di chi narra progredisce per associazioni mentali: hotel — pulci - compagne di scuola — cane; infine ricorda che suo padre aveva trovato delle cimici in un albergo. È la bambina che immagina le cimici avanzare come un esercito e le considera come una “rarità”, mentre l’adulta non è

sicura se il fatto sia successo in un albergo o in un monastero. La donna che mette in discussione il passato coesiste per tutta la narrazione a fianco della bambina di “allora”; si sarebbe tentati

di parlare di due voci narranti, ma quella “infantile” è sempre controllata da quella “matura”: Non ero mai stata in un albergo, a Ponte; anche i

parenti venivano ospitati in casa... Il più familiare era l'Europa... poi c’era l'albergo del Giglio sulla piazza Nuova, che era stato disegnato da papà ed era “di lusso”. Ormai non era più di lusso nemmeno il Giglio. Avevo ben letto sulla guida che tutti gli alberghi di ponte Stura sono di quarta categoria. Ne avevo sofferto. Era dunque così misero il paese dove papà era stato ammirato, amato, dove “essi” erano stati felici, dove “eravamo stati ricchi”? Mi

era parsa una diminuzione, una umiliazione loro.”

L'esame del passato porta la protagonista a scoprire la verità: ciò che la bambina credeva è sottoposto al giudizio razionale dell'adulto, che si rende conto che il paese e l'hotel non sono più e forse non sono mai stati come lei li aveva percepiti.

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Nella terza lassa il narratore ricorda che durante la fine della Prima guerra mondiale la famiglia lasciò Ponte e si trasferì in città. All'epoca l'io narrante non seppe la ragione del cambiamento: ‘Quanto alla nostra partenza, so soltanto che era autun-

no e che pioveva. Inoltre che la mamma distribuiva ogni sorta di oggetti... Non ricordo nient'altro. So solo che c'era la guerra — era l'autunno di Caporetto — e c’era aria di disfatta”.* Anni più tardi la madre rivela alla figlia che si erano dovuti spostare perché al padre era stato negato un aumento di stipendio. La partenza da Ponte segna la fine di un’“era” e l'evento quasi dimenticato ha più importanza nella storia di quanto sembri a tutta prima. Gli anni trascorsi a Ponte sono un’“età dell'oro” come dimostra il fatto che la protagonista è scossa e turbata non appena capisce che il tempo in cui la sua famiglia era “ricca”, “felice” e “ammirata” non è mai esistito, eccetto che nella sua immmaginazione

(ciò che è sembrato vero alla bambina di solito appare tra virgolette nel testo).

Nella sesta lassa ci viene rivelato il perché del ritorno al paese natale: “Ci accorgemmo noi bambine, che la mamma

non desi-

derava parlare di Ponte... Ma in uno dei suoi ultimi giorni in una pausa del male improvvisamente disse: Come eravamo felici!”.° La morte della madre ha scatenato nella narratrice il desiderio di tornare alle radici, di conoscere meglio i propri genitori e di conseguenza anche se stessa. Il suo è un viaggio nei meandri della coscienza che risale sino a dove la memoria può arrivare: L'antica felicità, che alla mamma era parsa tutt'uno con Ponte, quando ero bambina l'avevo avvertita soltanto per lampi... Era, credo, una corrente profonda che alimentava le mie radici; ma intanto io ero sbattuta da conflitti, incertezze, paure. In esse

tentavo di isolare dei filoni, dei temi... Appena fui capace di riflettere presi a distinguere un presente e

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un passato; nel passato stesso distinguevo due tempi: uno comprendeva la mia prima infanzia e la vita dei genitori, di cui per accenni intravedevo qualcosa; dietro si stendeva un altro tempo più vago, che conteneva gli antefatti: qualche episodio dell’infanzia dei genitori e della loro giovinezza... Il sentimento dominante era quello di essere arrivata tardi: quando il più importante era avvenuto. Il tempo meraviglioso era “quello di prima”... Appartenevano al tempo di prima certe feste che io cercavo di immaginare. L'incanto era suggerito dal modo in cui la mamma nominava i luoghi, le persone. I nomi erano pronunziati da lei con espressione estatica, più che nostalgica: eppure fuggevolmente, come usava lei, così che apparivano e sparivano e sembravano misteriosi. Papà e mamma erano an-

dati in slitta a Festiona...!°

I genitori della protagonista, la loro adolescenza e i primi anni di matrimonio costituiscono il nucleo tematico del primo capitolo. La loro relazione amorosa riemerge spesso nel romanzo perché, per rivisitare il passato, è necessario riuscire a comprendere i genitori, per ricostruire la loro storia e giungere infine alla propria, come sottolinea l'incipit del secondo capitolo: Sono uscita nella strada davanti all'albergo, e ho sentito l’aria. L'aria mi può bastare. È la mia aria... Non è mai esaurito il bisogno di quell'aria. Io la penso di lontano, e mi nutre. Mi tormenta, anche:

per qualcosa di irraggiungibile, ma anche di fatale. Essa è per me il passato: tutto quello che è avvenuto. Per me è anche “loro”. In loro sono compresa io. La conoscenza di loro e di me, come non era veramente distinta allora, tanto meno lo è adesso."

73

Lo sforzo della narratrice per acquistare una conoscenza più chiara di se stessa e dei propri genitori è ciò di cui il libro tratta: capire i genitori equivale a capire se stessa. Conoscere le proprie origini significa diventare più consci della propria personalità e delle ragioni e complessità delle scelte fatte. Scavare nel passato implica non solo l’uso della memoria come mezzo per rintracciare ciò che da bambini si è percepito, ma anche la reinterpretazione delle “immagini fotografiche” trovate nei meandri della mente. Il significato di queste immagini diventa cruciale solo in seguito all'’accumulazione dei fatti accaduti dopo. Questo è l'iter psicologico seguito dalla protagonista, iter cominciato dopo che “tutto è già accaduto” e i suoi

genitori sono entrambi morti. Come suggerisce Bo nella sua recensione: Per comprendere una vita, il rapporto di un'esistenza che la morte sembra aver fissato per sempre, è necessario il riscatto nel dolore... Solo quando uno abbia fatto il giro della proria impotenza nei riguardi degli altri, è in grado di intravedere quello che non ha visto e quanto ha stupidamente bruciato nella corsa attraverso la penombra."

Se la ricerca della narratrice comincia dalla prima relazione importante che ogni essere umano ha, quella con i genitori, il viaggio nel passato non può che iniziare nella casa nativa. Ogni vano della casa stessa evoca memorie diverse: nel soggiorno l’io narrante ricorda gli amici della famiglia; nella camera degli ospi-

ti le persone che vi hanno dormito: zii, zie e le bellissime cugine; nella cucina, Ciota, la domestica. La madre insieme al padre e alla sorella più piccola predominano sugli altri personaggi, poiché costituiscono il nucleo della vita emotiva della protagonista.

z4

Nel corridoio si impone il ricordo della madre che si guarda allo specchio:

Io sono in braccio a Rinette e guardo la mamma nello specchio. La mamma punta uno spillone nel cappello grande, piumato. I suoi occhi luccicano nell'ombra. Li ricordo tristi, sebbene il viso di lei

sorridesse. (Tutta lei è in questo mistero... Dopo l'ho spiegato, l'ho negato, l’ho ritrovato sempre). La madre, tenera ma introversa, è rimasta un “mistero” perla

figlia sia bambina che adulta, e infatti la narratrice rivela di non essere mai riuscita a comprenderne a fondo l’enigmatica personalità. I dodici capitoli della prima parte ricreano l’intero mondo della fanciullezza: i vicini, i parenti, l'interesse del padre per la musica, la pittura, la fotografia, la sua gelosia per la bellissima moglie, le sue spedizioni di caccia. La narrazione fluisce in una

prosa semplice eppure precisa: “Mi sono appoggiata al balconcino a ringhiera. Il legno vecchio, solcato, arido, era divenuto

simile al sughero. La vernice (quella!) era penetrata nel legno;

lavata e rilavata, seccata e riseccata”.! I dettagli sono cruciali perché sono la prova di un'esistenza precedente, sono i resti del passato. La ringhiera del balcone è la stessa lungo la quale la narratrice era solita giocare. Il vecchio legno, osservato minuziosamente come fosse un reperto archeologico, è la rarità che lei è andata cercando, la prova tangibile di un mondo che il tempo ha cancellato. È ovvio che gli oggetti devono diventare familiari al bambino così da far parte di quella “sicurezza” che i genitori

rappresentano in modo maggiore. In seguito l'adulto tende a “investire” quegli stessi oggetti di sentimenti, cosicché essi diventano i “segni” di un'epoca che fluisce e rifluisce dai primordi della coscienza; come tali essi diventano mitici, misteriosi.

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La seconda parte del romanzo si apre con la protagonista che dice: “Intorno

alla casa era il mondo,

nel quale dovetti pur

avventurarmi da sola”, e tutti i capitoli che seguono trattano del mondo esterno alla famiglia. Se nella prima parte la divisione della casa ha fatto da cornice ai ricordi della narratrice, nella

seconda è il suo vagare per Ponte che dà unità alla materia

narrata. Vagabondando dalla casa al centro del paese (piazza Nuova) ritornano alla mente della donna i negozianti, i loro figli (Capitolo 4), e il giardino di Tota (Capitolo 5). Entrando nella

vecchia scuola (Capitolo 6), l'io rievoca i compagni di scuola e gli insegnanti. Dalla scuola, alla piazza, al cimitero: a questo punto il lettore si rende conto che la maggior parte dei personaggi evocati sino a ora sono morti: gli insegnanti, i parenti e gli amici dei genitori sono sepolti qui. Questa è la vendetta del tempo sulla vita: la morte, percepita dalla bambina di un tempo come decadimento e paura di essere abbandonata (Capitolo 8, lassa V), è accettata dall'adulta come inevitabile conseguenza del vivere. La visita della narratrice al cimitero chiude il circolo;

l’evocazione del mondo di Ponte Stura si interrompe, ogni cosa ritorna al proprio posto: il passato è morto così come le persone che lo hanno vissuto. La vicenda, tuttavia, raggiunge il suo apice emotivo quando la protagonista visita quello che era stato l’ufficio del padre nel Municipio:

Ho risalito lo scalone del Comune... Era l'ufficio di papà... Fui penetrata di colpo, dal senso di quell’ufficio. Quasi mi rendessi conto per la prima volta

dell’umiltà di quel lavoro del babbo, di quella sua vita che a me bambina era apparsa tanto magnifica. Ormai la sua vita mi appare bella di nuovo, ma in un significato che da bambina non avrei potuto capire. E la certezza di adesso non è nemmeno un conforto per la mia incomprensione di allora."

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È la donna matura che, dopo aver ricordato gli anni della sua fanciullezza, può ricostruire il passato in una prospettiva più chiara; ora che ha conosciuto il dolore può capire i genitori e dare significato alla loro esistenza: Noi della loro storia non avevamo mai immaginato nulla. Per anni la mamma ci sembrò solo bella e gaia; papà era, secondo noi, più interessante. Lei certo diventò più allegra quando noi fummo cresciute, anche se lo era sempre al suo modo improvviso, rapido. La gioia della mamma nell’accoglierci quando tornavamo da scuola, il suo correre incontro a papà che rincasava, noi lo giudicavamo ingenuo; mentre papà, che vedevamo più grave, quasi taciturno rispetto al tempo di Ponte Stura, era considerato da noi più profondo della mamma. Questo fu nella nostra fanciullezza. Dopo, il nostro giudi-

zio fu rovesciato. Papà ci sembrò troppo semplice; incominciammo a intravedere una gravità nei silenzi della mamma, ad avvertire qualcosa di intenso, di misterioso nella sua bellezza. Fin che la no-

stra stessa giovinezza ci rese ottuse: indifferenti a quello che “loro” potevano essere o non essere. Accettammo con naturalezza, quasi con noncuran-

za che essi fossero buoni, con una specie di compatimento che fossero felici. Quando papà si ammalò, non ci rendemmo conto che la mamma era ancora quasi giovane; sapevamo soltanto che lui era vecchio. Ma quando lei è morta, abbiamo avvertito quella perdita con una lucidità crudele; come un'operazione chirurgica subita senza anestesia."

Superata l'indifferenza adolescenziale e il dolore causato dalla morte dei genitori, specialmente della madre, che ha reciso l’ultimo legame tangibile con il passato, la maturità si può dire raggiunta. La narratrice, ormai “sola al mondo”, capisce ciò che

ZI

i genitori hanno rappresentato per lei. L'epifania finale del libro consiste appunto nella scoperta e nell’accettazione della solitudine del vivere, condizione comune a tutti gli esseri umani che

varcano la soglia della maturità. La protagonista è ferma nello stesso punto dove, molto tempo prima, accompagnata dalla madre, era solita portare il pranzo al padre. Improvvisamente il passato rivive: Arrivava sorridente, con la sua giacca da cacciatore, i gambali di cuoio; si asciugava il sudore. Lo

abbracciavamo, ci sedevamo sul prato. Lui invitava quelli che avevano lavorato con lui, i “canneggiatori” a favorire... La valle, come la casa, è abitata per

sempre da “loro” e da me bambina. Serba quasi la traccia di una presenza fisica. Ma non ha più esistenza per questo. Non può, anzi, contenere altre vite. Perciò nell’andar via, in quel lontano autunno,

avevo pensato: era...!* Ponte Stura e i genitori rivivono quindi nel non-tempo della mente della narratrice. Il presente non ha significato per la protagonista: il paese, la valle, la gente sono quelli della sua fanciullezza e vivono immutabili nella sua coscienza emotiva. Sin dall'inizio del libro, l'io narrante accenna all’eterna esistenza del mondo di Ponte: Piazza Nuova: è uguale nell'insieme, vuota... Il no-

me è quello di un partigiano; ma la storia, “quello che è avvenuto dopo”, per me non esiste a Ponte. Ponte per me è immobile. Come l'omino laggiù in fondo alla piazza. Anche allora un omino uguale

stava là... Al pari di lui Ponte Stura è dunque im- . mobile... Forse per questo, perché le cose non permangono immobili senza perdere la vita, Ponte Stura continua lentamente a morire. Ma io ne sono

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consolata. Io penso a quell’immutabilità in cui consiste la sua “vera” esistenza: la mia." Ponte, il luogo delle origini, è come il mito al di là del tempo. La Romano stessa sottolinea quest’aspetto nella Nota all’edizione 1977:

In una intervista mi si domandò se consideravo perduto quel mondo. Risposi: “Non c'è rimpianto né nostalgia, nel libro, perché quel mondo non è perduto”. È vero che è passato, irrevocabilmente,

ma il suo pregio io lo sento ora, vale a dire lo comprendo, lo amo, infine lo posseggo. Come dice Faulkner, ‘la felicità non è, ma era”? È la visione più chiara di quella zona d'ombra (penombra) chiamata fanciullezza, raggiunta attraverso la rivisitazione di essa, che ha reso la protagonista capace di possedere infine quel mondo. L'epigrafe del romanzo tratta da Faulkner (“La felicità non è, ma era...) testimonia la scoperta di una ricchezza emotiva che è passata, ma tuttora presente perché è viva nella coscienza di chi narra. La qualità poetica del romanzo emerge dall'uso di un linguaggio alquanto asciutto e sobrio che lascia trapelare la sensibilità e la naîveté della bambina e allo stesso tempo permette alla donna adulta di essere “spietata” e di “correggere” le percezioni del suo giovane io attraverso una matura, ma compassionevole

visione dell’esistenza. Nella Nota all'edizione 1977 la Romano spiega perché ha scelto come titolo del romanzo una frase tratta dal Combray di Proust: “Ma il titolo anche se contiene un omaggio a Proust, non vuole essere una indicazione di lettura... Fu scelto per il suo misterioso e insieme pregnante significato allusivo”.?!

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La “penombra” vuol essere pertanto quella zona incerta e misteriosa che ogni essere umano deve attraversare per raggiungere la maturità, e che — il libro sembra indicare — deve essere rivisitata dall’adulto per diventare fonte di felicità. Ne La penombra però questo tempo ritrovato è immune da sentimentalismi o compiacenze, perché, come fa notare Bo, “Figure, paesaggi, sensazioni: tutto si sistema in una visione che non conserva più nulla di idilliaco o di compiaciuto ma, al contrario, restituisce un forte senso della vita, una capacità di far riandare su una strada

nuova tutta la storia passata”. Nel 1969 la Romano pubblica Le parole tra noi leggere.” Il libro è frutto di un estenuante sforzo, come l’autore stessa afferma

nella Nota introduttiva: “Quando consegnai questo libro, ero stremata. Ci avevo lavorato per quattro anni con una grande tensione: per non tradire la linea maestra, il filone essenziale:

siccome i motivi che man mano vi confluivano erano tanti”.°* La tensione è causata dalla scelta tematica: “Quello che volevo fare

questa volta l'ho detto nel corso del libro stesso: ‘Io mi sono messa a scrivere di lui (mio figlio) nell'intento di ricomporre,

così da poterlo leggere (come si dice ‘leggere un quadro’) un personaggio ermetico e perciò stesso emblematico’”.? La Romano, citando un brano estrapolato direttamente dal romanzo, sembra enfatizzare la connessione autobiografica esistente tra autore e narratore della storia. Ho già tuttavia messo in luce, esaminando le opere precedenti, esempi analoghi di “autobiografismo” (Maria, La penombra). Mi limiterò pertanto a riaffermare che da un punto di vista critico non si può dare per scontato alcun tipo di identità tra la “persona” che narra e l’autore. Avendo preso atto di ciò, tratterò la narratrice de Le parole come un qualsiasi personaggio della storia.

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La difficoltà incontrata dall'autore è stata la strutturazione del rapporto madre-figlio. Trattandosi di un legame affettivo molto stretto il pericolo era di scivolare nel “troppo umano” -— così la Romano definisce l'eccesso di pathos —, ma la raggiunta maturità artistica le ha permesso di risolvere il problema: La difficoltà era grande perché volevo trovare un linguaggio adeguato al tema, al rapporto con “l’altro”, il ragazzo scontroso e spregiudicato. Bisognava bandire la componente elegiaca, accentuare l'ironia, la crudezza. Questa ricerca mi costò molti

mesi di tentativi, di assaggi. Poi sentii che avevo

trovato. Il linguaggio è tutto: è la chiave.” Basta analizzare la prima pagina del testo per constatare che il linguaggio poetico-evocativo di Maria e de La penombra che abbiamo attraversato è completamente sovvertito mediante un intervento stilistico definito da Anna Banti come “un parlato scabro e mordente che nelle riflessioni si accosta allo stile della nota a piè di pagina”.” Questo linguaggio ricorda l’essenzialità de Le metamorfosi e il parlato colloquiale, ma allo stesso tempo ricco di deduzioni e riflessioni, de L'uomo che parlava solo. Nonostante alcune somiglianze con le precedenti opere, Le parole segna un nuovo sviluppo nella produzione romaniana dal punto di vista stilistico e da quello tematico. La storia è raccontata in prima persona dalla narratrice che è la madre di P.; P. è il protagonista del romanzo. Alcuni critici,

sollevando un quesito già discusso a proposito di Maria, si chiedono se il vero protagonista della storia sia la madre o il figlio. Mentre nel caso di Maria è parso logico affermare che la protago-

nista è la domestica e la co-protagonista la narratrice, in quest'opera la madre è in realtà l'antagonista, mentre il protagonista è il figlio. Il romanzo, infatti, tratta di P., ma è la madre a

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ripercorrere la tormentata relazione col figlio a partire dall'infanzia fino al matrimonio di lui, nell’ambito di uno spazio tem-

porale che va dal 1933 al 1966. Le sei parti del libro sembrano a tutta prima rispettare la progressione cronologica; la prima parte, infatti, tratta della fanciullezza di P. a partire dall'epoca fascista sino all’inizio della Seconda guerra mondiale; la seconda parte narra di P. alle scuole medie nel dopoguerra; la terza racconta dell'adolescenza di P.

a Milano, dei suoi viaggi in motocicletta e del suo amore per Marlène; la quarta continua la sua storia d'amore ed elenca i suoi successivi e sfortunati tentativi di carriera, la quinta e la sesta, infine, esplorano il suo lavoro e il suo matrimonio. La dimensione temporale, tuttavia, non è così lineare come può apparire, in quanto l'ordine cronologico è sovente sovvertito dai frequenti sbalzi tra l’‘“adesso” e l’“allora”, come

dimostra

prima lassa: Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza, con rabbia. Adesso, gli giro intorno; un tempo invece lo assalivo. Ma anche adesso ogni tanto — raramente — sbotto. Allora lui mi guarda con la sua famosa calma e dice: “Tu mi manchi di rispetto!” La mia collera di ora deve essere un residuo delle antiche battaglie, quando io reagivo come se lui fosse una parte di me che tradiva se stessa e dunque mi tradiva. Ai miei assalti e assedi ormai più che altro ammirativi, lui oppone freddezza, noia e perfino gentilezza (distratta). Ma soprattutto io non rinunzio a tentare di conoscerlo, discorsiva-

mente voglio dire. So bene che le domande sono un sistema sbagliato; ma ci ricasco. Lui è seduto davanti a me, immerso in un libro... Io provo a comin-

ciare un discorso... senza alzare il capo risponde: “Non so”.

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,

la

Chi narra ricorda il passato, opponendolo al presente (“adesso” “un tempo”). La relazione della narratrice con P., tuttavia,

non ha subito significativi cambiamenti nel corso degli anni: madre e figlio continuano a lottare, anche se meno violentemente di un tempo. L'affetto viscerale che unisce la madre a P. è la causa del suo comportamento aggressivo: l’amore appassionato

che lei gli ha offerto non è mai stato corrisposto in maniera adeguata (“lui oppone freddezza, noia...) e questo l’ha fatta sentire rifiutata, frustrata e in ultima analisi tradita. La “guerra” tra i due ha conosciuto solo tregue temporanee perché la madre non può cessare di cercare di “conoscere” il figlio, specialmente un figlio come P., la cui esistenza è caratterizzata dal tentativo costante di essere se stesso e dalla noncuranza verso le aspettative altrui. L'amore e il desiderio di “conoscenza” (“io non rinunzio a tentare di conoscerlo”) sono i due impulsi che spingono la narra| trice a progredire nella sua “indagine a posteriori”. Tuttavia, per “leggere” suo figlio, essa deve mettere ordine nel magma emotivo del suo “amore-odio”. Il sentimento materno deve essere tenuto a bada per evitare il pathos. L'unico modo per riuscirvi è l’ironia, e il tono della prima pagina (trovato, l'autrice sostiene, dopo molti tentativi) è chiaramente ironico. L'ironia crea la distanza indispensabile alla madre per isolare se stessa dagli eventi e parlare delle imprese del figlio senza percepirle come tragedie, riuscendo così ad afferarne anche il lato umoristico. L'ironia si trasforma poi in autocritica quando la voce narrante giudica le sue azioni passate. La struttura del libro presenta una novità rispetto alle opere precedenti: la narrazione include una serie di “documenti”. Le

frasi, i disegni, le lettere, gli oggetti, le poesie, i sogni e i temi scolastici del figlio sono usati per capirlo e caratterizzarlo. Qual83

siasi cosa che il giovane abbia fatto, detto o scritto si qualifica come “documento”: la memoria della narratrice è la fonte del ricordo, ma il materiale documentario, sia inserito nel testo (poesie, lettere, temi scolastici, note di diario) che descritto (disegni,

quadri, sculture, oggetti artigianali, sogni), costituisce il filo conduttore lungo il quale opera la memoria. Gli episodi completamente raccontati dalla madre senza nessuna “documentazione” sono pochissimi; colei che narra di solito usa i “documenti” corredandoli coi suoi commenti. A volte i “documenti” non hanno bisogno di alcuna spiegazione, come nel caso in cui una lassa contenga una lettera scritta da P. e la seguente la risposta della madre a lui; oppure quando si tratta di una lettera scritta dalla madre al marito a proposito del figlio. In questo modo l'interazione dei “documenti” si autocommenta. La Vincenti sostiene che la debolezza del romanzo è da imputarsi proprio a questo particolare arrangiamento di “documenti”:

... la troppo scoperta parzialità della madre [...] nei confronti del figlio, che sconfina in una sorta di accecamento, si trasforma [...] in mancanza di dominio sul materiale narrativo, com'è evidenziato

dal sovraccarico esorbitante di citazioni e documenti che appesantiscono il racconto conducendolo pericolosamente e ineluttabilmente sul versante della cronaca famigliare [...], privandolo così di quella autonomia inventiva che gli avrebbe consentito di risultare convincente sul piano della poesia. Da cui l'impossibilità di giudicare il libro da un punto di vista esclusivamente letterario, vale a dire

tenendo conto dei suoi soli esiti estetici a causa dei

troppi elementi extraletterari...’

La Vincenti interpreta l'inserimento dei “documenti” come una debolezza stilistica, mentre, a mio avviso, è proprio la loro presenza ciò che costituisce l'elemento interessante del libro. I

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“documenti”, lungi dall'essere elementi extraletterari, costitui-

scono la colonna portante della narrazione. Senza di essi il libro sarebbe solo il resoconto della madre e correrebbe il rischio di diventare una storia “contaminata” da un amore quasi morboso. Il problema dell’esistenza “reale” dei “documenti” credo travalichi, trattandosi di un’opera narrativa, il nostro compito critico. Poiché la madre sa di aver fallito nel suo tentativo di capire la personalità del figlio, l’unica possibilità rimastale per conoscerlo, tenendo presente che lui non ha nessun desiderio di essere conosciuto, è esaminare gli oggetti che lui ha fatto, le lettere che ha scritto, i suoi disegni e ciò che ha detto. In questo senso i “documenti”, in quanto entità tangibili delle azioni di P., sono indispensabili all'indagine e costituiscono gli unici punti saldi sui quali è possibile ricostruire una storia i cui parametri potrebbero altrimenti sfuggire. Il fulcro drammatico del romanzo nasce appunto dallo sforzo della narratrice di “capire” retrospettivamente: spesso quello che lei aveva creduto o pensato nel passato si dimostra errato nel presente alla luce dei “documenti”. Nel costruire l’intera narrazione su “documenti”, la Romano ha seguito un schema che può essere chiaramente isolato, come dimostra il seguente brano: Aveva uscite memorabili, e chi le apprezzava era proprio il maestro di religione, un prete... Una di queste uscite, che erano poi esclamazioni, gli venne fatto di lanciarla davanti a casa, provocato da un

versetto biblico che si trovava nel suo libro di scuola: “Io sono il Signore, Dio degli eserciti” “Dio non mi piace. Sembra il duce!...” Qualche volta le frasi parevano nate da un umore sarcastico, volterriano. Le diceva ad alta voce, ma come parlando tra sé. A proposito della Madonna assunta in cielo: ‘Chissà come si troverà male, lei sola col corpo! ...”. “A cosa servivano le unghie dei leoni nel Paradiso terre-

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stre?” domandò al prete. Siccome i leoni fraternizzavano con le gazzelle, come si vedeva nelle illustrazioni. (Aveva intuito il principio di Lamarck!)... Il fatto che riuscisse con la logica a mettere in difficoltà perfino la Bibbia mi rammentava analoghe demolizioni da parte del mio grande zio Peano. Che fosse lui finalmente l'erede? Ne dubitavo... Lo strano era che lui bambino assomigliava allo zio... Anche adesso gli somiglia. Anche adesso la logica governa il suo agnosticismo, gli detta la battuta repentina, lucida, giusta [...]. In quel tempo dei suoi sette-otto anni, usciva qualche volta dal suo incan-

tato silenzio con una frase breve... La più concisa la mormorò, fermamente, mentre stava per affronta-

re, al solito senza voglia, la minestra posta davanti a lui sulla tavola. Guardava assorto davanti a sé, e

disse: “Meglio il non essere che l'essere”. Mi rendevo conto che la frase era filosofica solo in apparenza; però rimasi senza fiato. Che la sua disposizione per la logica fosse di uno che è per diventare col tempo un filosofo, non era poi da escludere... Del resto la frase si può spiegare, si può risalire all’occasione voglio dire. Doveva essere suggerita proprio dalla minestra. La portata filosofica non era consapevole, però l’astrattezza rendeva universale quel pessimismo che purtroppo in lui era organico e si manifestava appunto col disgusto davanti al cibo, all'impegno vitale... Temo di aver soltanto riso; del resto lui non badava alle mie reazioni.”

La narratrice da principio riporta quello che P. ha detto sulla religione e poi esamina il processo mentale del figlio; la madre non idealizza il figlio, ma riconosce nel modo di pensare del fanciullo la stessa logica che farà di lui adulto un agnostico. Il lato emotivo della donna la spinge a credere in una rassomiglianza tra P. e lo zio, famoso matematico, ma la parte razionale

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di lei sa che questo è insostenibile. La Vincenti interpreta il paragone tra P. e i vari uomini famosi come il tentativo materno di far penperine un essere affetto da nevrosi come un piccolo genio.” Il desiderio della madre di vedere il figlio eccellere è umano e giustificabile, ma non implica necessariamente idealiz-

zazione. L'orgoglio materno è attivo in chi narra, ma è temprato dalla razionalità. La madre vorrebbe che il figlio possedesse l'intuizione di Lamarck, ma racchiudendo tale affermazione tra

parentesi e ponendovi un punto esclamativo, l’autore trasforma questa “profezia” in qualcosa di ironico. La somiglianza tra figlio e zio inoltre è vanificata dalla opposizione tra presente e passato: se una somiglianza una volta sembrava esistere tra di loro, ora è confinata alle somiglianze fisiche più che a Sl intellettuali. Questa idealizzazione per contrario è ancora più evidente nelle conclusioni tratte dalla madre: il rifiuto del cibo da parte di P., per esempio, è interpretato come sintomo di quella insoddisfazione e infelicità che hanno caratterizzato l'atteggiamento del figlio sin dall'infanzia. La madre riconosce in questo il primo segno di quell’“oblomovismo”, che viene evidenziato nell’adolescenza di P. dai temi scolastici e dalle lettere, e che nell'età

adulta si trasformerà in indifferenza verso il successo. L'avverbio “purtroppo” (“... quel pessimismo che purtroppo in lui era organico...) tradisce la sofferenza di chi narra: il figlio agli occhi della madre appare come un pessimista nato, condannato a essere infelice. La madre si pente della reazione avuta allora (“Temo di aver soltanto riso...) alla frase del figlio, e questo

pentimento mette in evidenza la severa autocritica a cui la donna si sottopone. La narratrice soffre per non aver compreso qualcosa che a tutta prima sembrava ridicolo, ma che in seguito ha assunto proporzioni drammatiche. Il dolore di adesso è cau-

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sato non solo dalla leggerezza del comportamento di un tempo, ma anche dalla persistente indifferenza di P. verso i genitori. L'inserzione di “documenti” segue quindi un modello iterativo che può essere riassunto nella formula: documenti-deduzioni-conclusioni, documenti-deduzioni... e così via. La narratrice presenta i fatti, li commenta, infine trae delle conclusioni; da

questa ripetizione emerge la personalità dei protagonisti. P. è caratterizzato da ciò che dice e fa nei “documenti”, ma il giudi-

zio che la madre dà di lui rivela a sua volta la personalità di lei. Il “ritratto” del figlio creato dalla madre rispecchia anche la donna, così, cercando di definire un'anima, se ne scoprono due.

Usando la successione documenti-deduzioni-conclusioni la Romano raggiunge un risultato tematico e stilistico davvero originale: un doppio effetto di caratterizzazione. All'interno dello schema generale applicabile a tutti i “documenti” bisogna fare però una distinzione: mentre la maggior parte dei “documenti” ricostruisce il passato, gli inserti dialogici sono usati per chiarirlo; i dialoghi, infatti, intercorrono sempre tra madre e figlio nel

presente (l’“adesso” narrativo), come è evidenziato dal brano seguente:

Adesso dice tranquillo che ha letto in qualche posto quali sono i caratteri del tipo asociale e che sono (io correggo: erano) i suoi: anoressia, piromania... “Piromania?” Dice se non ricordo quella volta che aveva messo il fuoco in cucina, a Torino. No. “Era una

domenica di pomeriggio, la donna era uscita, voi avevate visite in quella stanza piccola che poi è diventata la mia camera dopo la guerra. Vi eravate accorti di qualcosa perché ero agitato e rosso quando venivo a prendere il dolce. Il fuoco era nel sec- +. chio dell'immondizia e aveva già preso un fianco di un mobile.” “Era contro la visita?” “È probabile.” “Come quando avevi sparso le puntine da disegno

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sul pavimento dell'ingresso.” “Il fuoco è un’altra cosa. A Cuneo avevo incendiato un prato d’erba secca e avevo stanato però senza volerlo — le coppiette da dietro le siepi.” La mia rimozione si spiega con la paura retrospettiva, ma non del tutto. Paura non degli incendi, ma di un determinismo criminale in lui. Quella che conoscevo era la sua

passione per il fuoco come incendio. Sapevo che aggirandosi per la città sperava sempre che gli accadesse di trovarsi presente a un incendio... So bene che la passione (estetica) per gli incendi non è la piromania; la quale significa sradicamento, solitudine. O davvero era il furioso bisogno di essere amato di uno che rifiutava e pareva ignorare la tenerezza. Il nodo (doloroso) della sua esistenza è

quello che è; ma la definizione patologica è sua, cioè non innocua del tutto: ma solo nel senso della sua ferocia autodistruttiva.” Questa lassa può essere divisa in due parti. Il dialogo è dapprima reso in tutta la sua vivacità; il lettore ha l'impressione di

presenziare alla conversazione poiché l'autrice ha eliminato tutti gli “Io ho detto” e “Lui ha risposto”. Ciò che la madre pensa è invece confinato alla seconda parte della lassa. La partecipazione della narratrice è minima nella prima parte, cosicché P. ha la possibilità di esprimere pienamente se stesso in uno dei suoi rari momenti comunicativi. Evitando l’uso di parole normalmente usate nel discorso diretto, il dialogo diventa conciso e acquista la

stessa immediatezza della lingua parlata. Questa lassa appare nel testo tra altre che trattano delle cosiddette azioni “criminali” perpetrate da P. durante l'adolescenza; il movente di queste avventure /disavventure è tuttora sconosciuto alla madre, difat-

ti la donna è costretta a distanza di anni a chiedere chiarimenti al figlio ormai adulto. La documentazione dialogica vaglia le pas-

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sate impressioni della madre, permettendole di mutare punto di vista alla luce di quello che P. rivela al momento. Chi narra usa termini psicologici sia nel fare commenti sul figlio che su se stessa. L'approccio psicologico diventa più evidente quando la donna racconta i sogni suoi e del figlio, anche se qui, come già ne Le metamorfosi, non viene fornita alcuna interpretazione dei sogni. La totalità dei sogni della madre mostra una preoccupazione costante per P., mentre i sogni del figlio rivelano atteggiamenti inauditi per un soggetto come lui: “Ho sognato papà.” (stupore) “Sogno che lo difendo, che lo proteggo.” Trasecolo. Sempre le sue rivelazioni mi sconvolgono: come se davvero lo conoscessi attraverso clichés, formule, i detestati luoghi

comuni. Al diavolo la psicologia, la psicanalisi. Ma la colpa non è dell’intellettualismo. E sordità mia. Mi viene in mente Laide e “l'uomo più buono della provincia”. Dunque io sono come quelli del Villar che hanno paura di lui! “Una volta (da bambino) uccidevo tutti i suoi colleghi perché lo costringevano a lavorare troppo.” Dunque lo amava più di me. Io reagivo anche per egoismo, contro il lavoro che mi sottraeva il mio compagno. Mi vergogno quasi, quasi mi dispero.” L'introspezione psicologica, pure, non aiuta la narratrice a

scalfire l'entità esistenziale di P. Nonostante il suo intellettualismo, le sue riflessioni e le sue deduzioni, la madre sa di aver

fallito nel suo compito. Sin dall'inizio del romanzo è conscia di non essere stata capace di penetrare nel circolo delle donne amate da P.: In verità non ero io la “madre”. Intanto c’era Maria,

non distratta come me da altri compiti, interessi.

,

Facevo scuola, frequentavo l'università e le biblio-

teche; ma soprattutto mi occupava la pittura, che

90

e e

consideravo il mio mestiere... La nonna — mia madre — assomigliava un po’ a me nel lasciarsi trasportare dalle emozioni, ma in modo più discreto... Anche lei però come Maria si arrendeva a tutti i suoi estri; e lui la amava

come

amava

Maria e come

adesso per un certo verso ama sua moglie.” Alla fine del romanzo la madre-narratrice capisce di aver progredito assai poco nella conoscenza del figlio: ... temo di aver appena scalfito — o forse nemmeno — il blocco della sua personalità. Temo di avergli girato intorno, come nella vita. Vorrebbe dire che rimane l'accumulo, l’iterazione, non la roccia. La

roccia formata (non quella preesistente). Ho sempre visto il farsi di questa storia come una formazione geologica, per strati, come quella di un canyon... Forse che mi aspettavo di vedere, dopo il mio saccheggio, lui stesso “diminuito”? Ora, si dà il

caso che anche lui ha scritto per conoscere la stessa persona: se stesso. La differenza è che io lo sapevo prima, lui l’ha scoperto scrivendo. Ne consegue che

lui è ermetico anche a se stesso.”

La madre, dopo aver scandagliato trent'anni di vita, è ancora incapace di comprendere il figlio. Il lettore, invece, godendo di una prospettiva privilegiata, percepisce questa storia come l’interazione di due anime appassionate, speciali, ma così simili da non poter smettere né di attrarsi né di lottare. Madre e figlio hanno in comune la stessa dose di creatività, indipendenza e amore esclusivo, cosicché le loro personalità sono destinate a una perenne conflittualità. Agli occhi del lettore la frustrazione della madre e l'autonomia del figlio costituiscono una situazione senza via d'uscita perché, come la narratrice osserva, “non si

può diventare quello che non si è già”. Come sostiene Siciliano

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Lalla Romano è uno scrittore vero, reale, — nel sen-

so che il suo scrivere scaturisce da un intransigente bisogno di testimoniare la realtà da cui è investita. Intransigente, nel senso che non concede alla propria invenzione altro spazio se non quello che è a portata della sua stretta esperienza: lo spazio contenuto dentro le pareti della vita familiare. Il fatto è che [...] non è Lalla Romano a chiudersi in quelle pareti: quelle pareti rappresentano per lei i confini

del mondo.” Questi confini di cui parla il critico non devono essere intesi in senso restrittivo, poiché ne Le parole abbiamo di fronte una Romano che non solo cerca di “rendere esemplari” i suoi affetti,

ma anche “le condizioni psicologiche di una società che affettivamente

può dirsi malata”. Insomma,

le contraddizioni e le

rivolte di questo rapporto madre-figlio, grazie a un linguaggio scabro e mordente, varcano i confini del privato per estendersi in un'insolita proiezione del giovane ‘“contestatore’” di questo secolo. La presa diretta del reale ne Le parole conserva, nonostante la drammaticità del tema, il carattere allusivo-lirico tipico della prosa romaniana. Ci troviamo d'accordo con Forti il quale afferma: ‘Le parole tra noi leggere è il massimo sforzo di obbiettivazione di cui è capace una scrittrice come la Romano, che anche

quando si affida alla percezione più diretta e concreta della realtà, tende a cavarne gli accenti e i ritmi di quella che, infine,

non potremmo non chiamare poesia.” L'ospite (1973) è composto da sessantaquattro brevi capitoli, ripartiti in lasse. Il narratore è una nonna, che racconta in prima persona di quando si è presa cura di suo nipote, mentre i genitori del piccolo erano in Asia; Emiliano è appunto l’“ospite” del titolo.

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Il romanzo comincia con l’arrivo del nipotino nella casa della nonna, ma la sequenza temporale non è rispettata. La narrazione passa dall'“adesso” narrativo, un momento indefinito del passato durante la permanenza di Emiliano, a un tempo precedente la sua nascita e infine al tempo della prima visita che i nonni fecero al bambino appena nato (Capitolo 14-35). Poi la narrazione ritorna al “presente” (Emiliano è nella casa della nonna), e nel capitolo finale si progredisce di un anno (Emiliano ha quasi due

anni). Il romanzo non ha né unità temporale né trama nel senso tradizionale. Gli eventi sono collegati vagamente tra di loro; ogni breve capitolo tratta di un episodio che ha a che fare con Emiliano, ma non è necessariamente connesso a quello che lo precede o segue. Il flusso narrativo è minato non solo dalla sovversione dell'ordine cronologico, ma anche dalla suddivisione del materiale in capitoletti. Ciò che dà coesione al racconto è il tono e il tema; il narratore evoca, con tono meditativo e poeti-

co, un'esperienza sentimentale che ha profondamente influenzato la sua vita emotiva. Il linguaggio, tuttavia, è svelto, conciso: l'io narrante registra ciò che succede non solo dentro di lei, ma anche nel mondo circostante. Il tema è il rapporto speciale che si stabilisce tra la nonna e il nipote di meno di un anno. Parlo di rapporto speciale perché Emiliano è un piccolo essere che sta prendendo coscienza di sé, mentre la nonna è una donna dalla sensibilità artistica che ha già vissuto a lungo. Come sottolinea Pasolini, recensendo il libro, L'ospite non è la storia della tipica relazione tra nonna e nipote: Una donna anziana è innamorata di un ragazzo molto più giovane di lei, il quale, però, è [...] innamorato di un’altra donna, più giovane [...]. L'amore che ha travolto la donna anziana per il giovane non è un amore platonico: è un amore completo, che

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comprende dunque, i sensi e il sesso. E anche se non giunge mai al compimento naturale, alla congiunzione, esso ha però tutti i riconoscibili e incoercibili caratteri della passione [...] La donna anziana

innamorata del giovane è una nonna innamorata del suo nipotino, il quale, a sua volta, naturalmente

è innamorato della madre; la quarta persona, in ombra [...] è il figlio, il padre del bambino oggetto del precedente amore finito infelicemente.‘° Pasolini insiste un po’ troppo sulla passione erotica della narratrice, e benché porti avanti il suo punto di vista in modo convincente, è facile constatare che questo erotismo non esiste

nel testo. D'altra parte, Pasolini ha ragione quando giudica il libro come la storia dell'amore appassionato di una nonna. Il romanzo è, infatti, il resoconto dettagliato del “divenire” di una

passione; sin dall'inizio del libro il lettore si rende conto che il soggiorno di Emiliano sconvolge la vita di chi narra: Intorno era il mio solito mondo non più mio... Non potevo più leggere, né scrivere, né di notte, dormire. Lui dorme, col suo impercettibile respiro; sul tavolino (per scrivere) tutto è pronto nel caso che si svegli, la camomilla, l’acqua, la pappa per le cinque del mattino. Non ho pensieri ansiosi. Soltanto tendo l'orecchio. Noto che da un orecchio ci sento un po’ meno, dunque sto su un fianco. Come potrei non sentirlo, è assurdo. Una felicità sottile, impalpabile,è racchiusa nel piccolo spazio troppo folto. Non dormo.”

La narratrice è così occupata dai bisogni del nipote che non può più dedicarsi a nessuna delle sue usuali attività. Benché questa sia una conseguenza logica del prendersi responsabile cura di un infante, la nonna va al di là di quello che è necessario: la felicità provata nell'osservare Emiliano addormentato le im-

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pedisce addirittura di dormire. Come in ogni questione sentimentale assistiamo a un crescendo: dapprima la nonna abbandona le sue solite attività, poi smette di dormire, infine cessa persino di ascoltare la musica, non appena capisce che il nipotino è in qualche modo allarmato dal suono: Mi ero privata anche della musica (trasmessa o in dischi) che trascorre perenne come l’eco di un fiume lungo le mie giornate [...] Del resto [...] più che un vero tentativo di ritrovare cose mie, ozi miei, era

stato un gesto abitudinario... Ero ancora attraversata da queste intermittenze, soprassalti del mio io solito. Mi resi conto che Emiliano, con quel suo attimo di sgomento, esprimeva infinitamente, inef-

fabilmente di più: come se la musica fosse sostitutiva di qualcosa che lui era... In questo caso si trattava di una scoperta: quella di venire coinvolta, dalla presenza del bambino, in qualcosa di labile e insie-

me sottratto al tempo; come quando avevo ascoltato la prima volta Monteverdi (o Bach) o avevo visto un Vermeer (o uno Chardin). E sempre un “rivedere”. Ma lo shoc, la rivelazione, si prova una volta

sola.‘

Emiliano, sebbene incapace di parlare, può comunicare; il suo comportamento

è spontaneo, come quando reagisce allo

stimolo della musica, ma le sue semplici reazioni hanno l’effetto di epifanie sull’io narrante: il nipotino diventa così sublime come la pittura o la musica. Emiliano è speciale, non perché sia bello o ispiri protezione, ma perché la sua personalità è percepita come tale dalla nonna. Chi narra è capace di andare al di là della superficie degli eventi e quindi di cogliere, attraverso momenti di illuminazione, l'essenza della giovane anima:

Mai siamo capitati che Emiliano frignasse, strillasse. Mai: sembrava innaturale. Sorrideva, invece, o 95

rideva. Rideva! e con allegria, come “pour cause”. E “parlava”: faceva piccole voci... con una sfumatura di scherzo, persino di canzonatura. Si veniva via di là placati, rassicurati... La mia sicurezza si configurò in una immagine-idea. Mentre pensavo a Emiliano e lo vedevo in quella loro casa piccola... improvvisamente mi resi conto di come lo pensavo. Se penso a loro adesso, dissi, mi sembra che

abbiano nella casa un protettore. Non misurai nemmeno, subito, la portata di quella scoperta, mi limitai a trovarla ancor più vera, nel dirla... Volevo dire

qualcuno come un saggio, un santo, una presenza benefica. La sua debolezza di bambino non rendeva per niente inverosimile la cosa... [...] ... Seconda epifania. “E là,” dice Marlène, e indica la cameracubo. Lui è là, sul piano del suo letto, nel piccolo

spazio delimitato da una coperta arrotolata a ferro di cavallo. Seduto. Questa è la novità: seduto, non

appoggiato, le braccia un po’ aperte, in attitudine di abbandono, come

dicesse: “Ecco, adesso sono

così”. Mi sembra una trasformazione enorme. A ogni gradino, salto di qualità, mi rendo conto che si tratta dell'evoluzione, della trasformazione del ‘fi-

glio dell’uomo”, e che non manca di maestà. Che Emiliano ne sembri consapevole è ciò che trascende

l'evento biologico.*

Più la nonna si innamora del piccolo più abbandona il suo “vecchio io”; siamo di fronte a un caso di “abiezione” come in

ogni tradizionale storia d'amore destinata a finir male. In questo senso Pasolini ha ragione quando afferma che è possibile rintracciare, passo passo, il cambiamento della personalità della narratrice sino a quando si trasforma in una “schiava d'amore”. Il desiderio di essere amata da Emiliano diventa così prepotente che la nonna non esita a prendersi cura dei bisogni alimentari del nipotino per guadagnare agli occhi di lui la posizione di

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vicemadre, tuttavia, Emiliano ha già una sua personalità e spesso le sue preferenze vanno al nonno Innocenzo o alla domestica Rachele, con esiti dolorosi per la nonna.‘ La beatitudine provata con Emiliano trasforma la donna in ciò che lei ha sempre rifiutato di essere: una casalinga. La nonna porta il nipotino al parco (un posto che detesta), va a fare la spesa con lui, cucina per lui. La narratrice, mentre osserva nel parco le coppie giovani e di mezza età, arriva al punto di considerare se stessa ed Emiliano come una coppia “estrema”: “Emiliano ed io eravamo dunque la terza coppia: le due età estreme. E pure amorosa”. La nonna è così attratta dal nipotino che per un attimo contempla la folle possibilità della morte del figlio e della nuora così da prendersi cura di Emiliano per sempre: “E se non tornassero? Una punta di tentazione incredibile si infiltra: va detta perché tutto (che è poi sempre un quasi-tutto) va detto. Sarebbe tutto nostro. Il fantasma di una gioia selvaggia ammicca

sul bordo della follia”.‘° Il desiderio di possesso della nonna ricorda quello della madre per il figlio ne Le parole tra noi leggere; tuttavia, ne L'ospite la drammaticità si stempera in un sottile umorismo e in una più distaccata visione del mondo. Antonielli identifica nel “quasi tutto” sopracitato il nodo della narrativa romaniana. Secondo il critico

“Lalla Romano deduce dalla propria vita la materia del proprio narrare, come dimostrano i suoi innumerevoli rimandi a circostanze e a luoghi... e individua nello spazio intercorrente fra il “tutto” e il “quasi-tutto” la delicatissima zona, tecnica e morale, dei propri affanni espressivi. Leggendo L'ospite, ci si accorge che appunto su questa zona ella si è sempre cimentata, tesa a un non facile equilibrio fra

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persona epersonaggio, identità umana e identità letteraria.

Il problema dell’autobiografismo si impone, ma siamo di fronte a un autobiografismo laterale, ovvero a un “quasi-tutto” che come tale si colloca nell’ambito della creazione artistica. L'impatto di Emiliano è considerato come “una avventura estrema”, infatti la nonna afferma: “Di un’analogia fui subito cosciente: Teorema. Una presenza che sconvolge le vite. Dopo, non sarà più come avanti, per nessuno”. La donna paragona l’effetto del nipotino sulla sua vita emotiva a un evento così capitale come la morte della propria madre: “Anche allora avevo l'impressione di essere sommersa da qualcosa di enorme. Sapevo che tutto sarebbe finito e che non ci sarebbe stato mai più... Ora vorrei invece conservare per sempre lui come è, fuori

del tempo che lo muterà”.”° L'età di Emiliano, il fatto che barcolli incerto sulla soglia della coscienza, fa sì che il suo sorriso, il suo modo di guardare, di “parlare”, appaia quasi-divino o buddaico. Nonostante necessiti cure, nella sua debolezza sta la sua forza e nel suo stato pre-razionale il bimbo diventa dispensatore di felicità e amore. Un anno più tardi, quando ritorna a casa della nonna, Emiliano è cambiato, è diventato più sicuro di se stesso, più persona che dio: Noi rivedevamo il bambino che aveva dato grazia alla sua impotenza, che aveva reso giocosa l’umiliazione dello zampettare... Era stato [...] un piccolo dio. Ora è soltanto umano. Prevale sempre la gioia, in lui, ma non è più olimpica. La sua grazia nativa è più articolata, complessa, e in certi momenti persino consapevole.”

.

Crescendo, e di conseguenza diventando più “umano”, Emiliano perde parte di quel carattere simbolico di “figlio dell’uo-

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mo”

1152

È

È

=

} 5 x x e si trasforma in bambino; termina il felice incantesimo,

sebbene egli mantenga parte della sua grazia. Il cambiamento di Emiliano, però, è registrato dall’io narrante solo un anno dopo che la loro “storia d'amore” si è interrotta. Al termine del soggiorno del nipote la nonna

soffre, invero, di una acuta crisi

sentimentale: Nel pomeriggio si fece il trasloco; li accompagnai in via Coletta... Quando rientrai, trovai la casa buia e

vuota. Un silenzio sordo. E quel senso di occasione non

colta, di felicità perduta, che da giovani fa

parere senza valore la vita. In verità tutta quella mia passione intorno a Emiliano era stata appunto analoga agli amori immaginari dell'adolescenza: non meno dolorosi per questo... Le sofferenze sentimentali che paiono sempre eccessive dal punto di vista del buon senso e del buon gusto derivano la loro violenza e infine la loro dignità dal valore misteriosamente alto della persona umana, miste-

riosamente in quanto non si sa se tale valore consista in qualcosa di reale, l’unicum ineffabile, o non sia un riflesso del sentimento: in questo caso un abbaglio, un inganno? Nel caso di scomparsa della persona amata, risulta più evidente, più consistente il senso della realtà. Abolita la presenza, il fascino della persona è sottratto alla sensualità, ma non solo non è diminuito per questo, è anzi esaltato. Che sia affidato alla memoria significa soltanto che condivide la sorte delle opere umane: non certo

immortali nel tempo.” La rarità del libro sta proprio in questa delicatissima “storia d'amore” finita come doveva, con il ritorno di Emiliano dai genitori. Il fascino del romanzo scaturisce dalla capacità della narratrice di estrarre meieuticamente significati simbolici dal quotidiano. Alla fine del racconto il lettore si rende conto che la

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storia è costruita su un doppio binario: il prendersi cura di un infante, con tutti i piaceri e i dolori connessi, e i sentimenti, le

riflessioni e le epifanie che l'io narrante prova durante tali attività. Emiliano è a volte “una presenza benefica, un piccolo dio”, e a volte un bebè che scopre il mondo ed è affascinato da “rose e motociclette”. Antonielli fa notare che L'ospite contiene un “eccesso di letteratura”: Nel caso della Romano non si trattava di una “letteratura” da valutare sul piano dello stile [...] Si trattava di una cultura umanistica, letteraria, figurati-

va e musicale, troppo spesso chiamata a commentare i fatti anche minimi della vita [...]. Notavo dun-

que una letteratura più che altro dipendente [...] da una disposizione a guardare la vita da dietro un velo di cultura...” Questa obiezione è simile a quella mossa a Le parole dalla Vincenti, che considerava un inutile sfoggio di cultura il fatto che la Romano paragonasse il figlio a vari personaggi famosi o si rifugiasse nella sua vasta cultura ogniqualvolta si trovasse di fronte a una realtà criptica. I due critici sembrano sorvolare sul fatto che sia ne Le parole che ne L'ospite i riferimenti sono un mezzo a cui il narratore ricorre nello sforzo di tradurre in parole un messaggio altrimenti troppo complicato da comunicare; non

si può quindi sottovalutare l'importante e precisa funzione simbolica di questi riferimenti. Ne L'ospite, ad esempio, Emiliano non è descritto come un bel bambino, ma come “un Mante-

gna”;° in questo modo la sua bellezza non necessita aggettivi perché l’immagine evocata dal “segno” è già chiarificatrice. La trasformazione fisica di Emiliano è tutta raccontata attraverso immagini: “Nei primi giorni era il bambino in fasce del Poldi Pezzoli. Poi ricordò, mentre dormiva, il bambino che dorme abbandonato sulle ginocchia di sua madre, a Brera (un Bergo-

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gnone). Mai comunque più in là del ‘400. Il secolo è importante:

lo stile formale è anche stile di vita”.”” Questi riferimenti non sono frutto dello sfoggio culturale dell'autrice, bensì servono per trasmettere al lettore in modo immediato, grazie appunto al referente a cui rimandano, impressioni e sensazioni che rese altrimenti perderebbero di incisività. Antonielli, come già la

Vincenti, non coglie l'importanza delle “citazioni culturali” del-

la Romano; il critico ha ragione quando afferma che questi riferimenti sono legati all'interesse della scrittrice per la pittura, la musica e la letteratura, ma non sembra notare che i richiami sono usati per sfruttare al massimo la potenzialità dell’immagine all’interno della narrazione. L'altra connessione evidente tra L'ospite e Le parole è la ricorrenza dei personaggi. Anche se è vero che a cominciare da Maria gli stessi personaggi appaiono ne La penombra, Le parole e L'ospite, la presenza degli stessi personaggi nel caso degli ultimi due romanzi richiede un'analisi particolare. A tutta prima sembrerebbe che ne L'ospite il rapporto tra la narratrice e suo figlio, padre di Emiliano, sia una continuazione della “vecchia” relazione esistente tra i due ne Le parole. Lo stesso tono ironico e la stessa tensione riaffiorano ogniqualvolta la nonna ha a che fare con Piero. Poiché la relazione madre-figlio ne Le parole è di natura molto complessa, sarebbe stato facile per l’autore dare

eccessivo spazio a tale rapporto anche ne L'ospite. Invece la scrittrice rimane fedele al tema del romanzo che è appunto la storia di una nonna e di un nipotino, e limita lo spazio di tutti gli altri personaggi, figlio incluso: Un giorno Piero uscì con una frase così forte [...].

Suo padre, che rientrava per colazione [...] gli fece un piccolo discorso “di incoraggiamento” sul tema

paternità. Lui all’impiedi ascoltava serio [...] Alla fine, come a concludere, disse tranquillo: “Ma io ho

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quindici anni!” Impossibile al solito capire se la sua sia una forma di limitazione, o di libertà. Se sia da

parte sua un argomento di accusa, o di difesa. Ma di lui, basta.”

Nel passo sopracitato, come già ne Le parole, la narratrice rimane perplessa di fronte alle affermazioni del figlio, ma tralascia di parlare di lui perché ne L'ospite il protagonista è Emiliano. La ricorrenza dei personaggi riporta a galla l’importanza dell'elemento autobiografico nei romanzi romaniani, giacché diventa palese che la scrittrice narra di quel mondo familiare che costituisce il nucleo della sua vita emotiva. Una risposta illuminante a questo problema è data da Borlenghi che fa notare come sia poco rilevante il fatto che un autore parli o meno della propria vita:

Non ha rilievo che un particolare d'avvio, o un’osservazione, attingano al campo della memoria, o a

espliciti elementi autobiografici, perché nella loro realtà, quei particolari [...] hanno vanificato ogni supporto autobiografico. E la loro realtà origina dall’interesse con cui si muovono nella tessitura del racconto, con cui si ordinano nella loro naturale dimensione narrativa. Questo appunto interessa nei suoi romanzi: lo spazio, che delimita il respiro di ogni singolo breve capitolo, mentre, nel loro ordinarsi, i brevi capitoli trasformano il tempo e lo sviluppo dei fatti e ogni sorta di rapporti, e corso di

eventi, in una durata di significati, di sentimenti...”

Potremmo concludere affermando che ne L'ospite l'intreccio di dramma e pensiero, di emozioni e aspetti concreti, di citazioni culturali (Lorenzetti, Shakespeare, Cocteau, Levi-Strauss, Pasco-

li, Gozzano) si equilibra, come sottolinea Pasolini, in una “lingua

pura, eletta e selettiva; non c'è mai un errore di gusto [...] lo

spirito [...] che presiede alla lingua della poesia, presiede a que-

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sto breve romanzo in prosa, fatto come di brevi lasse, leggere e

assolute.”

Una giovinezza inventata (1979) conduce il lettore indietro nel

tempo sino agli anni universitari della Romano a Torino: una protagonista femminile evoca il suo io giovanile e inesperto. Avendo seguito sino a questo punto lo sviluppo della produzione romaniana, saremmo tentati di affermare che la narratrice di Una giovinezza è una sorta di alter ego della scrittrice.” Questo romanzo costituisce, infatti, il tassello mancante di quel mosaico

che ricostruisce fittiziamente (in quanto frutto della scelta creativa dell'autore) l’esistenza della Romano. I precedenti romanzi — con l'eccezione de L'uomo che parlava solo — ricreano fasi diverse della sua vita: l'infanzia (La penombra), i primi anni di matrimonio (Maria, Tetto murato), l'essere madre (Le parole), l'essere non-

na (L'ospite). La sola area non ancora esplorata era la sua giovinezza. Per un autore che ha sempre sostenuto di essere interessato al mondo dei propri sentimenti, il vuoto di un periodo così cruciale non poteva non essere colmato. La giovinezza è spesso un momento turbolento che si identifica con la presa di coscienza della propria emotività e della propria indipendenza. Per una Romano eccezionalmente sensibile, gli anni torinesi sono stati

molto importanti. Lasciare i genitori e la città di provincia, innamorarsi, conoscere gli intellettuali più famosi dell’epoca, scoprire la pittura, la storia dell’arte e la poesia, hanno fatto di questo periodo uno dei momenti più formativi della sua vita. Sarebbe errato, tuttavia, considerare Una giovinezza come un diario o una sorta di autobiografia, perché il libro è un “romanzo

di formazione” nella tradizione di Joyce (Il ritratto dell'artista da giovane), di Flaubert (L'educazione sentimentale) e di Proust (Recherche). Nelle prime pagine del libro la protagonista stessa con-

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fessa a Venturi, suo professore di storia dell’arte e critico insi-

gne, le sue incertezze artistiche: Dissi a Venturi che volevo scrivere (raccontare) ma

che non era possibile, perché a me sarebbe piaciuto scrivere soltanto storie della mia famiglia. Nulla mi avrebbe interessato quanto il mio mondo... Rise, e con l’aria di chi ha già risolto il problema, si alzò,

sfilò da uno scaffale alle mie spalle un volume in brossura, e me lo porse. Era il primo volume della

Recherche.”

L'artista, ancora titubante di fronte alla propria vocazione,

anticipa qui uno dei punti fondamentali di quella che sarebbe diventata poi la poetica romaniana. In questo romanzo la Romano ricrea quindi la “sua” educazione artistica e sentimentale - sottolineo ancora una volta che non sto suggerendo alcuna identificazione tra autore e narratrice, semmai solo una certa

rassomiglianza, ammesso e non concesso che si possa stabilire una corrispondenza tra realtà e finzione. Il libro si apre con la protagonista che ricorda il giorno del suo arrivo, accompagnata dal padre, a Torino: Suppongo che a quel tempo le valigie fossero tutte

a soffietto; comunque la nostra io la portavo con disinvoltura. Era di pelle come faceva notare la mamma e non pareva che in fatto di valigie si potesse andare più in là. Doveva risalire al viaggio di nozze e certo era servita nei viaggi di prima della guerra, quando, secondo una mia impressione, eravamo stati ricchi. Non credo che la valigia fosse pesante, quel giorno; del resto la portava papà... Credevo di sapere tutto di lui. Papà era una parte nota di me: la montagna, la caccia, Giulio Verne. Ora contava la parte ignota che mi aspettava. Non ero propriamente ansiosa; infatti ero distratta, sicu-

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ra che le cose importanti si sarebbero imposte... Papà, che prendeva sul tragico le cose della scuola, aveva trovato opportuno che anticipassi la partenza per passare un certo periodo di tempo in casa dello zio Giuseppe, professore universitario, e inco-

minciare così ad ambientarmi...**

La rievocazione di chi narra avviene in un presente indefinito, (“suppongo... non credo”); poi, dopo il primo capitolo, non appena la memoria si immerge sempre più a fondo nello scavo del passato, anche i tempi verbali cambiano, viene usato l’im-

perfetto e il passato remoto. La giovane protagonista appare come un'anima sensibile, alla scoperta di se stessa, conscia di vivere una Vita protetta, di essere sessualmente inesperta, ma

intellettualmente dotata. La genesi del titolo del libro rivela le intenzioni dell'autrice. Il titolo è tratto da un verso de La provincia dell'uomo di Elias Canetti; lo stesso verso appare anche nell’epigrafe: “Una giovinezza inventata che diventa verità nella vecchiaia”. Nel risvolto di copertina si legge la ragione di tale scelta: “... ‘inventata’ nell'accezione di incantata, vissuta con la fantasia, come mito,

favola: dolorosa nell’impatto col compromesso imposto dall’esistenza al quale l'essere autentico si ribella”. Il vero significato dell’epigrafe emerge solo se il lettore mette in relazione il verso di Canetti con lo scrivere come processo artistico: la gioventù è “ri-vissuta” nell’immaginazione dell'autore per essere narrata, per diventare testo; “inventata” deve essere inteso come “creata fittiziamente”. In questo modo la “verità” scoperta dalla narratrice nella vecchiaia sgorga dal vantaggioso punto di vista che l'io maturo ha nei confronti di quello inesperto, distanza che facilita il sottile lavoro di scavo della memoria e allo stesso tempo impedisce qualsiasi scadimento nel rimpianto o nell’effusione nostalgica.

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Il libro è diviso in tre parti, ciascuna ripartita in capitoli, segmentati in lasse. La prima e la seconda parte trattano dell’'arrivo della protagonista a Torino, del suo soggiorno prima a casa dello zio, poi in un pensionato religioso, e della sua vita scolastica. La terza parte parla della sua vita sentimentale, del suo incontro con due giovani, dello sfortunato amore per uno di essi, delle sue visite alla scuola di Casorati e della sua amicizia galante con Venturi. Nel romanzo

coesistono due diversi registri stilistici, usati

per scopi diversi. Uno stile che richiama la “prosa d’arte” caratterizza le lettere, le poesie, le note di diario, una “confessione

filosofica” scritta a Pastore e un frammento di racconto intitolato Il manichino amoroso, che è la trasposizione letteraria della presa di coscienza da parte della protagonista del fallito amore per Altoviti. Questi “documenti” esprimono lo stato mentale della giovane, giacché non ricreano solo le sue lotte intime, ma anche i problemi da lei incontrati negli anni Venti come donna con interessi culturali e aspirazioni artistiche. Icommenti e le riflessioni dell'io narrante maturo sono invece espressi in uno stile conciso e concreto. La funzione dei due registri stilistici è quella di marcare la distinzione tra l’io di allora e quello di adesso, tra l’anima tormentata di ieri e quella riflessiva di oggi:

In quel tempo rispondevo a una ex compagna di liceo emigrata altrove... Spesso scrivevo e poi non spedivo. Scrivevo soprattutto per me, per cercare di dar forma o almeno sfogo a quello che mi osses-

sionava: la difficoltà a fare un discorso trasparente e preciso, e insieme l'orgoglio di sentirmi isolata, diversa. “Cara Em., tu non capisci; ed io vibrerei

tutta di gioia se credessi davvero che nessuno mi capisce, che nessuno può comprendere il tormento senza nome che stilla dalla mia mente un sottile veleno: mentre la giovinezza è serena nel mio volto

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.

e la mia bocca piena di risate e di canti. L'incompiutezza di tutto (forse non è chiaro ciò ch'io voglio significare) mi tormenta. Nulla posso pensare, nulla posso amare senza amarezza e un’angoscia senza volto che anch'essa mi sfugge. Ecco io guardo le montagne azzurre dopo il tramonto e sento la mia anima tremare colta da improvviso brivido divino. Ma io ho fatto uno sforzo per scrivere questo, le

parole sono stupide, non possono dare l’immagine delle montagne in questo momento. Per chi le ha viste servono a ricordargliele, non altro... Così tutte

le descrizioni sono una cosa assurda...” Avevo anche incominciato analoghi frammentari sfoghi: una specie di diario... Erano appunti, un po’ maniacali, convulsi, scarabocchiati a matita... ‘sofferenza stu-

pida, un po’ anche divina stupidità delle cose scritte perché hanno altro volto? perché faccio uno sforzo a scriverle... il tempo corre davanti a me, inerte

come una fiumana — ...quanto ingombro! tante cose pesanti — una è il mio corpo giovane bello e stupi-

dos I vari “documenti” sono sempre incorniciati dai commenti di

chi narra (“Spesso scrivevo...Avevo anche incominciato...”), cosicché la Romano, spiegando perché i “documenti” sono stati scritti, pone il suo io giovanile in una prospettiva critica ed evita il pericolo di una rimembranza idilliaca della sua gioventù. Il tono piuttosto datato delle lettere e degli altri inserti, necessario per far rivivere la sensibilità di una persona di quel tempo, viene equilibrato dall’incisività dei commenti. Non sarebbe difficile ammettere che la successione dei “documenti” in stile d'epoca tende ad affaticare il lettore. Nell’economia del libro, però, i “documenti” sono indispensabili per sottolineare la distanza psicologica esistente tra la donna giovane e quella più matura. Alla fine del libro il ritratto dell'io giovanile è convincente e

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completo; l'io ricreato risulta sensibile, vivace, incerto, attratto in

direzioni opposte da un’amalgama di interessi sentimentali, artistici e intellettuali. I documenti” si mescolano al racconto di eventi, descrizioni

di posti e di persone; ci sono numerosi personaggi minori che interagiscono con la protagonista, e una varietà di luoghi da lei visitati sono delineati con precisione. La giovane studia pittura, dapprima con Morelli, poi con Casorati; la sua sensibilità artistica è viva, ma non è ancora finalizzata, perciò tende a manifestar-

si in un “modo” particolare di percepire il mondo; da ciò nasce la sua spiccata attenzione per gli ambienti, i paesaggi e le persone. Il libro nel suo insieme può essere fruito non solo come un Bildungsroman, ma anche come un accurato affresco della Torino degli anni Venti. La città con le sue strade e le sue piazze è colta in tutto il suo fascino nelle varie stagioni; lo stesso accade ai personaggi famosi che la protagonista incontra (Casorati, Venturi, Peano, Pastore, Momigliano...) e a quelli meno famosi (zie, compagne di scuola, monache...). Il racconto, nondimeno, ruota

intorno alla giovane donna che è la protagonista della storia. Il linguaggio, escludendo i “documenti”, è a volte conciso e a volte descrittivo. La prosa ha perso il taglio netto dei romanzi precedenti, le frasi brevi, tipiche de Le parole e de L'ospite, sono scom-

parse; qui proliferano descrizioni, ritratti e il richiamo ai racconti

inclusi ne La villeggiante è d'uopo. È però opportuno non dimenticare che la Romano a questo punto della sua carriera è capace

di mutare lo stile a seconda delle diverse necessità narrative. La scrittrice rivela, nella creazione del prodotto artistico, una piena

maturità stilistica. Infatti, brani descrittivi in Una giovinezza oscillano tra il realistico e il simbolico: ‘ Gli zii abitavano all'ultimo piano di un grande palazzo d'angolo sulla piazza Castello, alla confluen-

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za di una strada elegante con due strade antiche e buie. La casa, per quanto moderna, aveva qualcosa di inquietante. L’androne, che dava sui portici, era molto alto e semibuio, chiuso in fondo da una ve-

trata opaca; le pareti erano tappezzate dalle vetrine

di un fotografo: mentre passavo, le facce dei meda-

glioni da cimitero mi guardavano [...]. Così lo vidi

entrare la prima volta, poi infinite (?) volte. Un giovane, ma non uno studente: un uomo incredibilmente bello. Un’apparizione insolita, un po’ irreale in quel luogo. Posò sul tavolo davanti a sé con un leggero toc un bastone (di malacca?) che portava appeso al braccio, posò il cappello, leggero e insieme un po' solenne... M'incantava il suo capo chino sulle pagine. Lo guardavo come avevo sempre guardato le immagini della pittura. I suoi tratti erano insieme forti e dolci, inscritti in una pura forma

geometrica: come diceva Venturi del San Sebastiano di Antonello da Messina. Sui miei fogli cercavo di tracciare le linee della testa, che vedevo un po' di lato. La fronte alta e convessa, le sopracciglia lineari, il naso diritto, sensibile, la bocca dal taglio deciso e carnoso, il mento rotondo. Era giovane [...]. Quan-

do mi considerai capace di orientarmi [...] decisi di esplorare i posti. Era il mattino dopo una nevicata. ... Avevo di fronte la strada e, dietro, la collina boscosa: folta, candida, scintillante al sole. Rimasi

incantata, intimorita. Il cuore mi doleva come già nell'infanzia per l'emozione della bellezza troppo spiegata e insieme misteriosa. Era quasi una visione, alla quale però il morso del freddo e la trasparenza dell’aria davano una corporeità. Considerai quella visione un presagio in qualche modo grandioso, ma insieme problematico, rischioso. Queste descrizioni mostrano come lo stile si sia fatto duttile e

funzionale alla narrazione: nulla è superfluo. La casa dello zio

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Peano (primo brano), per esempio, è descritta in dettaglio perché è il primo posto in cui la protagonista alloggia quando arriva a Torino; l’edificio deve aver impressionato la giovane, che infatti lo ricorda vividamente. Per la stessa ragione Altoviti (secondo brano), che ha alimentato nel cuore della fanciulla una lunga e turbolenta passione d'amore, è descritto per quasi due pagine, così da offrire il più lungo ritratto contenuto nel libro. La bellezza dell’uomo solletica il senso estetico della ragazza e scatena in lei lo stesso piacere provato di fronte alla perfezione di un’opera d’arte. Anche quando chi narra usa poche parole per definire un personaggio — “Il professor Venturi era astratto e carnale insie-

me: un Buddha o un putto enorme” — il lettore ha l'impressione che l'occhio della protagonista sia già quello di colei che è esperta di arti figurative, giacché riesce non solo a delineare i personaggi con pochi tratti, ma anche a coglierne i punti salienti della personalità attraverso l'aspetto esteriore. A un'attenta analisi i brani sopracitati mostrano un movimento dal realistico al simbolico, che risulta evidente se si paragonano i primi due con l’ultimo. Il terzo brano è la descrizione di un paesaggio che evoca nella ragazza sentimenti che contribuiscono a chiarire il suo stato spirituale. L'emozione causata dalla bellezza della natura scatena un’epifania nella fanciulla che si scopre ricca di aspettative, ma anche di paure per il futuro. Qui, come in molte parti del libro, ci inoltriamo nel simbolico: il paesaggio naturale è la fonte del presagio, ma quello che conta è la scoperta di un altro paesaggio, quello interiore. Nel loro insieme le descrizioni presentano un'alternanza di elementi realistici e simbolici; questi ultimi però hanno sempre la funzione di rendere palese lo stato emotivo della protagonista. La natura, Torino, la gente, non appaiono tanto come erano, bensì come la narratrice li ha percepiti a un certo punto della sua vita; questa

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componente simbolica ricorda continuamente al lettore che la storia tratta di un'esperienza soggettiva. Questa componente, inoltre, rivelando gli stati d'animo della protagonista, funge da

sottile forma di caratterizzazione. La giovane non è interessata alla vita politica e sociale del tempo; essa ripetutamente afferma: ‘Per me il fascismo era un

adolescente dalle mani fredde”;° la fanciulla è troppo presa dalla sua vita intima per preoccuparsi del mondo esterno. La ragazza, tuttavia, identifica il fascismo con ciò che le ripugna e di conseguenza lo rifiuta: Poi le vanterie fasciste: le aggressioni dei battaglioni Balilla contro gli esploratori cattolici e simili. Mi risultavano odiose: per la goffaggine e la violenza, non per il significato politico, del quale non mi

interessavo, e che del resto mi pareva secondario.”

Benché la protagonista non dimostri di avere una coscienza politica, il libro contiene un’implicita critica al regime. Tutti i personaggi affiliati al fascismo portano il segno della corruzione. Nino, il cugino fascista, non è la sola figura negativa; anche i professori fascisti soffrono di una forma di contaminazione:

Entrai una sola volta nell'aula dove faceva lezione il professor Ciani, di letteratura italiana. Vidi un piccolo personaggio arido, pedante. Non tornai. Poi seppi che era fascista... Anche del professore di letteratura latina si sapeva che era fascista. Altezzo-

so, nervosissimo... La fanciulla è invece affascinata dalla borghesia intellettuale torinese. I professori che a lei piacciono, le persone da lei incontrate alla scuola di Casorati sono tutte antifasciste. Per questa ragione la ragazza d'istinto opta per la borghesia illuminata e opera una scelta che, pur essendo emotiva, finisce per diventare

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politica: se le persone “migliori”, quelle che lei ama e ammira,

sono contro il regime, il fascismo è qualcosa da respingere. L’apparente disinteresse della protagonista per la Storia costituisce un buon esempio di “macrostoria” riflessa nella “microstoria”, in accordo con uno dei principi poetici formulati dalla Romano in varie interviste.” La Storia quindi non è assente, ma emerge attraverso i piccoli episodi di tutti i giorni. Il lettore attento, infatti, trova nel testo tutti gli elementi necessari per

comporre un vivido affresco della Torino degli anni Venti all’insorgere del fascismo. A mio avviso, tuttavia, Una giovinezza deve essere considera-

to soprattutto come il racconto di un'educazione culturale, di un'età difficile e di un tempo della vita. Il romanzo è stato, a ragion veduta, definito il “ritratto di un'inquietudine feconda”,

giacché le incertezze e le curiosità della protagonista-alter ego della scrittrice si sarebbero poi incanalate in una ricca esperienza artistica.” Come fa notare un critico: Dalla tormentata giovinezza di Lalla Romano sarebbe scaturito quel suo modo acuto e singolare di osservare la realtà, quella sua appassionata e insieme distaccata partecipazione alla vita, quel linguaggio preciso e sfumato al tempo stesso che rappresenta la sua conquista più notevole.”

Potrebbe essere difficile per il lettore che non abbia familiarità con i precedenti romanzi della Romano capire a fondo Inseparabile (1981), a causa dei numerosi riferimenti a L'ospite e a Le parole che il romanzo contiene. Inseparabile è diviso in cento capitoletti non più lunghi di una pagina e mezzo; la loro brevità li rende più simili a lasse che a capitoli nel senso tradizionale. Il romanzo si apre in medias res con una narratrice femminile che parla di una certa Marlène:

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Lei è misteriosa. Forse perché non parla; ma è qualcosa di più sottile e insieme di più disarmante. Riconosco di essere sempre stata un po’ innamorata di lei... Piero è segreto, piuttosto che misterioso. E il segreto esiste; infatti è volontario... Nemmeno lui parla; però scrive, anche se raramente, e scrive

in modo lucido, corposo, perfino quando usa [...] il linguaggio criptico delle favole... Penso anzi che ricorra a questo linguaggio un po’ incantato per esprimere e insieme conservare il suo segreto. Il quale è legato in gran parte al mistero di lei. Sì, èun circolo. Il sorriso di lei è sempre aperto, diretto,

come appariva nella sua fotografia di bambina, che un tempo era appesa nell’officina di Piero, e che non esiste più... Del resto lei non sembra essere misteriosa per uno almeno: suo figlio... [...] Il dio benevolo che Emiliano era stato non è mai scomparso del tutto. Siccome non si deve scherzare con l’idea di Dio, né abusarne, bisogna distinguere se si tratta veramente di qualcosa che sembri andare al di là della semplice presenza umana. Ebbene, penso che sia così... Quando aveva dormito da noi che

— appena parlava — svegliandosi al mattino dichiarava: “Bella nanna!”. Adesso lo conosco bene, e so

che quell’affermazione era anche per noi: rassicurante.”

La prima lassa tratta di Piero e Marlène, rispettivamente figlio e nuora di chi narra. Questo incipit potrebbe servire a introdurre i personaggi e a chiarirne la relazione con la narratrice, invece Piero, Marlène e il loro figlio entrano nella narrazione senza preambolo. La voce narrante, infatti, non fornisce infor-

mazioni sui tre, poiché è tutta presa dal cercare di chiarire l'impatto che costoro hanno avuto su di lei. L'io, tuttavia, non fa la | storia del comportamento di questi personaggi, bensì offre un riassunto in termini emotivi e soggettivi della relazione intrec-

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ciata con loro, relazione della quale il lettore non è necessariamente a conoscenza. Tutto quello che apprendiamo è che Marlène è misteriosa, Piero segreto, e che i due hanno personalità diverse

ma problematiche. A causa della priorità data alle impressioni emotive e personali, il lettore è forzato a inoltrarsi in un’oscura storia familiare

cominciata in un passato piuttosto remoto. Anche il linguaggio contribuisce all’ambiguità del racconto: la struttura di una frase come quella riguardante la fotografia di Marlène (‘... e che non esiste più”) è grammaticalmente ambivalente, il pronome relativo “che” potrebbe riferirsi sia alla sparizione della fotografia che a quella dell’officinetta. Il lettore può fare delle deduzioni, ma non può essere certo della sua interpretazione. Nella seconda lassa si parla di Emiliano; la narrazione passa dal presente al passato, ma il livello di informazione non aumenta. La narratrice ricorda un tempo passato in cui suo nipote Emiliano fu lasciato alle sue cure. A questo punto chi non ha familiarità con L'ospite non è in grado di capire quando e perché Emiliano è stato un dio, né può comprendere cosa lo ha reso un divino dispensatore di gioia e amore agli occhi della nonna. Emiliano come “piccolo dio” diventa in questo modo più di un riferimento, infatti è una citazione tratta direttamente da L'ospi-

te, il cui tema principale è appunto lo sviluppo della speciale personalità di Emiliano. L'inizio di Inseparabile quindi si ricollega idealmente a L'ospite e ne presuppone la conoscenza. Inseparabile contiene anche numerose autocitazioni comprensibili appieno solo da parte di quel lettore “ideale” che conosce i

precedenti romanzi della Romano.”° Nel capitolo 35, ad esempio, l'io narrante, ricordando una conferenza su Pasolini a cui

aveva partecipato e dove era presente anche la nuora, dice:

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Io ero impreparata al solito sull'argomento, che non era il poeta ma il politico, il moralista politico... io, che parlavo per Marlène,

citai la definizione

pasoliniana del “mio” personaggio nel libro sul mio nipotino: di “nonna perversa” (da me preferita comunque a quella di “nonna leziosa”).7 Qui la narratrice sembrerebbe rivelare se stessa, non solo nonna di Emiliano, ma anche come autrice de L'ospite.

come

L'aggettivo possessivo “mio”, però, si apre a varie interpretazioni: “mio” può significare “creato da me”, ma la presenza delle virgolette potrebbe essere letta anche come “di me”, “di me stessa”, cioè ‘di me stessa come personaggio”; le virgolette paiono quindi indicare la cautela dell'autore nell’asserire il possesso del romanzo, giacché un libro gode, come qualsiasi opera d’arte, di una sua vita indipendente. Nella seconda parte di Inseparabile Dionigi, il nuovo compagno di Marlène, si reca a casa della narratrice per parlare del comportamento di Piero, portando con sé una copia de Le parole:

Entrò, aitante, cupo. Sedette in una poltrona di fronte a me, il nonno più in là. Aveva in mano il mio libro Le parole, e lo posò sul tavolino tra noi. Per quel libro, uscito già da qualche anno, accadeva ancora che persone non particolarmente letterate mi chiedessero una dedica: lo scambiavano per una specie di manuale a uso di genitori con figlio difficile; Finalmente Dionigi passò al libro, lo prese in mano, si alzò in piedi e con solennità disse: “Io devo sapere se tutto quello che sta qui dentro è

vero”... In quel libro c’era il dramma mio, mio e di

Piero, e c'era Marlène, ma tutto era visto con amo-

re. Aprì il libro a una certa pagina — aveva messo il segno — e mi sottopose il testo. Si trattava di una piccola storia comica, quella di Piero chiuso nell’ar-

madio per spiare la portinaia. “Cosa vuol sapere?”

tia)

“Io devo sapere in che casa sono capitato”. Ma parlò il nonno: “Senta, un libro è un libro, non va

letto per controllare. In un libro tutto è vero, niente è vero.” Il giovane rimase perplesso, poi cambiò tono...?

Chi narra afferma di essere l'autrice de Le parole e spiega cosa successe quando il libro fu pubblicato: il romanzo divenne un best-seller perché fu interpretato (o mal interpretato) come un manuale per genitori con figlio difficile. L'interesse principale della citazione, tuttavia, non nasce dal fatto che si possa o meno stabilire una certa identità tra narratore e autore, bensì dall'effetto di caratterizzazione creato. La narra-

trice racconta ciò che è accaduto (l’arrivo di Dionigi...), poi fa commenti sul suo romanzo (Le parole), infine riporta la parte del dialogo che verte sul libro. In questo modo il lettore capisce che tipo di persona sia Dionigi: in primo luogo è incapace di cogliere il divario esistente tra realtà e finzione; secondariamente, indaga

su un episodio che è essenzialmente marginale nella storia d'amore di Piero e Marlène. Questo atteggiamento rivela l’incapacità di Dionigi di cogliere sia l'umorismo che l’irrilevanza dell'episodio, e ciò palesa la semplicità dell’uomo. L'atteggiamento di Dionigi durante l’incontro con la narratrice sottolinea inoltre l’inettitudine sociale di costui e mette in luce una delle pecche principali del suo carattere. In seguito, infatti, per via della sua difficile personalità il giovane sarà coinvolto in una lite con un contadino per un motivo futile quale l’appropriazione indebita di un giocattolo di Emiliano. Dal colloquio della nonna con Dionigi emerge l'impossibilità da parte di costui di capire la natura umana e quindi di mitigare o risolvere situazioni che potrebbero diventare pericolose. Questa condòtta causerà la tragica fine dell’uomo: finirà ucciso da un contadino a causa di una disputa sull’affitto. Il lettore che conosce Le parole

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riesce sin dall'inizio di Inseparabile a decifrare i commenti della narratrice su Piero, Marlène, Emiliano e Dionigi, grazie al bagaglio di informazioni acquisito in precedenza. Senza questo vantaggio informativo egli correrebbe il rischio di perdere di vista dettagli cruciali. Quando, ad esempio, la narratrice si rivolge a Dionigi chiedendogli cosa voglia sapere sull’episodio in questione, il lettore “ideale” sa che non c’è in realtà nulla da sapere. Chi non ha letto Le parole e L'ospite, potrebbe, non conoscendo la storia d'amore di Piero e Marlène, non comprende sull’irrilevanza dell'episodio sul quale si appunta l’attenzione di Dionigi. Il marito di chi narra, come in tutti

imomenti cruciali della

storia, interviene per risolvere pacificamente ogni questione. La sua risposta sembra rendere perplesso Dionigi, che, probabilmente non afferrandone il significato, cambia argomento. Il lettore “ideale” si trova di nuovo avvantaggiato poiché, godendo di una conoscenza privilegiata, comprende le molteplici implicazioni della frase di Innocenzo. Il marito afferma che un romanzo appartiene alla finzione ed è quindi assurdo usarlo per verificare a posteriori la realtà, poiché in un libro “tutto è vero, niente è vero”. Un romanzo

è, infatti, il risultato della scelta

estetica dello scrittore, di conseguenza non può mai essere la rappresentazione fedele di ciò che realmente è accaduto, checché ne dica l’autore stesso. D'altra parte quello che l’autore ha percepito può orchestrarsi sulla pagina in modo così magistrale da costringere il lettore a confrontarsi con verità sconosciute. In questo senso l’arte diventa “più vera” della realtà, esemplificando verità normalmente disperse nell'esistenza di ognuno, ma percepite dall'artista in modo così profondo da riuscire a trasformarsi in scrittura. La chiave per una completa comprensione di Inseparabile non può eludere quindi i numerosi riferimenti intertestuali. Mentre

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Una giovinezza presuppone una buona conoscenza del latino e del greco per decifrare le citazioni classiche e una notevole base musicale e artistica per cogliere il significato dei vari accenni culturali, in Inseparabile detti riferimenti esistono, ma sono af-

fiancati da numerosi richiami ai precedenti romanzi. Ho accennato in precedenza alla ricorrenza dei personaggi nelle opere della scrittrice. Inseparabile segna un ulteriore sviluppo in quel processo iniziato con Maria, continuato ne Le parole e L'ospite. Ma mentre questi romanzi potevano essere letti indipendentemente gli uni dagli altri, nel caso di Inseparabile ciò non è più possibile. Qui la “retro-storia” dei personaggi è tale che il collegamento con ciò che precede è indispensabile. Possiamo dire che Inseparabile basa la sua significazione sui testi precedenti, richiamando l’attenzione su di essi e guadagnando intelligibilità in relazione a essi. Se i riferimenti venissero interpretati come entità a sé stanti, ne sarebbe sminuito il significato del romanzo, come dimostrano i brani seguenti:

Come suo padre bambino, Emiliano a due anni citava se stesso in seconda persona... Il tu invece di io aveva dunque per noi l'incanto della ripetizione. Il “tu” bambino non è sfuggente, non è finzione di irresponsabilità come negli scrittori timidi (Pavese), quasi un tu maiestatis impacciato e un po’ so-

lenne. È semplicemente di apprendistato... [...] .. Telefonai a Dronero: era morta Maria la sera prima. Ma questo era anche dolce, come tutto quello che concerneva Maria. Del resto pensai subito: per me non è morta. Telefonai a Piero. Disse che veniva ai funerali... [...] [Emiliano] Si svegliò una notte [...] e

chiese un biscotto... Lui rosicchiava il suo biscotto e commentò: “Ma si è mai visto mangiare un biscotto di notte?” (ci rammentò il “piange per un occhio” di Piero bambino, che aveva recriminato come una

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debolezza il suo piangere perché aveva male a un

occhio)...”

Innanzitutto è interessante notare che la narratrice, facendo

una distinzione tra l’uso della seconda persona negli adulti e nei bambini, porta Pavese ad esempio. Il riferimento è a Il mestiere di vivere, il diario pavesiano scritto interamente in seconda persona, ma la fonte non è specificata. Esiste in effetti una progressione nella difficoltà dei riferimenti culturali contenuti in Inseparabile; si ha quasi l'impressione che questi richiami siano rivolti a un pubblico che, procedendo nel racconto, si fa via via più colto. Nei passi sopracitati il “tu” di Piero ed Emiliano può sembrare una semplice ripetizione. In realtà, al lettore che ha familiarità con Le parole salta subito agli occhi il diverso uso della seconda persona nel padre e nel figlio. Ciò che in Piero è frutto di un io tormentato e segno precoce di autocritica, diventa in Emiliano proiezione di un’umoristica visione del mondo, prodotto di una

gioiosa vitalità. Il lettore che ha seguito il personaggio di Piero da Maria a L'ospite coglie questa diversità. Al di là della marginale ripetizione del tu, la personalità solare dei figlio non potrebbe essere più distante da quella problematica del padre. Mentre Emiliano scherza su se stesso, mangiando un biscotto in piena notte, Piero bambino ne Le parole piange con rabbia alla scoperta della sua debolezza: “Quanto abbiamo riso per la storia “dell’occhio”! Maria ci raccontò che lui si era fatto male urtando contro qualcosa e aveva pianto; poi andava ripetendo tra sé, con un

tono tra stupito e indignato: “Lui piange per un occhio!”."° Infine, per quanto riguarda Maria, può sembrare strano che si definisca la morte della donna “dolce”, ma questa è una sorta di

metonimia, un richiamo all'intera storia della vita di Maria narrata nel romanzo omonimo. Maria costituisce il “retroterra” necessario per capire perché Maria sia dolce, straordinaria e gene-

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rosa anche da morta. L'affermazione della narratrice “per me non è morta” è invece un richiamo a La penombra. Non possiamo dimenticare che in quest’ultima opera si afferma che il mondo della fanciullezza della protagonista permane immutabile nel non-tempo della memoria e le persone da lei amate vivono per sempre nella sua coscienza emotiva, è ovvio quindi che anche l'amata Maria subisca lo stesso processo ed entri nel mondo della permanenza. I romanzi della Romano formano nella loro totalità e nel loro

sviluppo un'insolita “storia” familiare. Ogni libro è come la punta di un iceberg nel quale la massa della significazione è in parte sommersa nel “passato”. Inseparabile non fa eccezione alla regola, ma se non venisse posto in relazione a ciò che lo precede soffrirebbe di una maggiore “dispersione” di significato. Questo romanzo, infatti, contiene molti “vecchi” temi e motivi.

La passione della nonna per Emiliano, che sembrava esaurirsi ne L'ospite, riaffiora in Inseparabile; chi narra è di nuovo una

nonna innamorata che soffre quando il nipote preferisce il nonno a lei: In questo tempo già così appassionato... io mi por-

tavo dentro anche il mio eterno bisogno di essere amata di più, da Emiliano. Lui ormai non mi ricu-

sava come faceva da piccolo... ma dovevo accorgermi che sceglieva il nonno, se c'eravamo entrambi.

“Perché non vuoi la nonna?” Arrivavo a questo. E lui, dolce ma fermo: “A me piace il nonno”. Era tanto giusto, che non mi suonava nemmeno crudele, e per un certo tempo non soffrii più — o di meno — e accettai la mia parte. La mia natura eccessiva trovava persino conforto nell’umiliazione, natural-

mente immaginaria, di cui mi compiacevo. Loro, per esempio, camminavano davanti e lui discorreva col nonno come un uomo. Io, dietro, portavo la

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*

valigia, mi figuravo di sembrare la serva, e real-

mente provavo consolazione al pensiero di servirlo. Emiliano si difendeva dalla mia richiesta d'amore con l'ironia, con lo scherzo; ma anche conceden-

do proprio come una grazia, la sua indulgenza, il favore. “Ti voglio bene, sai nonna”. Taccio, felice. “E se non ti voglio bene?” “Piango”, dico. Sorride,

al modo dell’antico piccolo dio... Certe frasi suonavano così amorose, che mi facevano male come se Da avessero ferita: “Sono Emiliano e sono qui per Sebbene la relazione tra Emiliano e la nonna sia migliorata, lei è sempre innamorata del nipote e in questo senso il suo personaggio appare come una continuazione di quello de L’ospite. Emiliano invece, nonostante sia il protagonista de L'ospite come di Inseparabile, è cambiato. Il nipote esibisce qui un carattere più complesso di quello dell’infante del precedente romanzo, giacché quelle caratteristiche eccezionali, già presenti in nuce nel neonato, si sono ora sviluppate e hanno formato una splendida personalità. Inseparabile tratteggia lo sviluppo di Emiliano da tre anni a quando diventa un ragazzino, così lo definisce la narratrice nell'ultimo capitolo del libro. Il fulcro del romanzo è un Emiliano vitale, divertente, sensibile, generoso, insomma così straordi-

nario che rimane difficile al lettore non soffrire della stessa passione che affligge la nonna. Emiliano è osservato nel momento della separazione dei genitori, incerto e dibattuto tra padre e madre. Il titolo del romanzo attesta la reazione del bambino a una situazione di per sé traumatica. Prima che il racconto cominci, al lettore vengono date delucidazioni sull'origine del titolo:

Le sue pitture hanno sempre un titolo. Se si tratta di animali, non si accontenta del nome; poiché li copia da testi, estrae dall’informazione una parola che ne

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indica il carattere. Così, dipinto un pappagallo, scrisse in capo al foglio la parola fatale: INSEPARABILE. Credo che le grandi scelte siano inconsce. Se Emiliano fu colpito da quella parola, certamente non è stato perché vi abbia colto un'allusione. Quello che avvertì fu la potenza affermativa che consiste nel negare la negazione. Inseparabile significa “legame nonostante tutto”. Inseparabile è lo specchio della sua tenue, intensa vita.

In apertura al libro appare un'epigrafe tratta da Goethe: “In ogni grande separazione vi è un germe di follia”. La relazione tra titolo ed epigrafe è evidente: la separazione implica sempre una certa dose di sofferenza e quindi di pazzia. Il titolo nega la separazione,

ed Emiliano,

difatti, riesce a tenere testa a tale

dolorosa situazione. Anche in questo romanzo, come già nei precedenti, è la narratrice che osserva le azioni e le reazioni di

Emiliano e poi trae le debite conclusioni. Grazie alla sensibilità di chi narra e alla sua capacità di introspezione, la personalità di Emiliano viene delineata e così facendo la voce narrante rivela se stessa. Se paragoniamo la nonna de L'ospite e di Inseparabile alla madre de Le parole, ci accorgiamo che il personaggio ha subito un radicale cambiamento: il pathos represso e i tormenti interiori della madre si sono trasformati in pietas nella nonna. Persino durante i più tragici eventi prevale sempre nella nonna una misura di saggezza che ha poco in comune con le turbolenze della madre de Le parole. Ne è un esempio il commento della nonna alla morte di Dionigi:

Non mi sono mai sentita — né allora né in seguito —

meno angosciata per la sorte dell’uomo che aveva ucciso (“l’uomo senza volto” della restituzione dei

giocattoli) che per il destino dell'uomo ancora giovane amato da Marlène. Più pietose ancora, le donne: la madre (di Dionigi) che tanto avevo ammira-

dar

to, e la moglie (ignota) dell'altro disgraziato. In fondo era stata una povera storia di rancore contadino [...] si affacciava — per noi — anche una speran-

za: di un possibile ritorno. E ci occupava un pensiero: come da una tragedia possa nascere una soluzione imprevedibile... Anche in questa si potevano riconoscere

tre tempi. Le cause

(remote, segrete,

‘storiche’’), l'incidente (minimo, futile), il delitto. E ora l'avvio della lenta, risanatrice, opera della vi-

tali

L'accresciuta saggezza della narratrice non si manifesta solo nella compassione, ma anche in altri modi; l’autocritica che la madre de Le parole aveva duramente imposto a se stessa si trasforma nella nonna di Inseparabile in un atteggiamento più lieve, quasi umoristico. Sperando che il nipote un giorno diventi pittore, la nonna dice: “Per me, Emiliano è pittore. Ero stata sicura

anche di Piero, su questo; e magari l'ho bloccato. Ma Emiliano si

salverà. Avere una nonna

(intellettuale) non è così dannoso

come avere una madre”.* L’'autoironia è rimasta corrosiva come sempre, ma qui la risultante è più umoristica che sarcastica. È questa differenza di tono che contraddistingue appunto lo sviluppo psicologico-emotivo dell'io narrante nei romanzi del periodo 1964-81.

Spinazzola parla, recensendo Inseparabile, di “narrativa dei sentimenti, aliena dai vizi del sentimentalismo” perché, secon-

do il critico, “lo sguardo della scrittrice si concentra sulla vita degli affetti familiari, con un'attenzione analitica che rifugge dalla retorica del patetismo melodrammatico [...]}. La Romano si attiene a una fenomenologia di comportamenti privati descritti con lucidità puntigliosa, senza morbidezze compiaciute né in-

dulgenze a buon mercato”.* Questo controllo esercitato dall’autore si riflette nel linguaggio: un fraseggiato breve, asciutto,

123

concreto, depurato dai luoghi comuni del parlato, e quindi elegante. Inseparabile è nell'insieme un’opera dolorosa, nonostante i guizzi di humour, perché è la storia degli sforzi compiuti da Emiliano per legare a sé le persone da lui amate. Nonostante i risvolti angosciosi, su tutto campeggiano sempre la fresca grazia di Emiliano, la sua intelligenza, la sua logica precoce che, riaffer-

mando l'autenticità degli affetti, trasmettono al lettore la sua adorabile carica vitale.

NOTE

! G. Vigorelli («Tempo», 22 agosto 1964) a proposito de La penombra scrive: “... anche là dove culmina talvolta in poesia, per merito soprattutto di una scrittura decantata e incorrotta, [...] non si può non denunciare la fallacia di questa lunga

ma ovvia marcia della memoria. Questo libro [...] per me è un piccolo gioco di decalcomania, a metà autoelegiaco a metà automadrigalesco”. Salinari sostiene una tesi simile nell'articolo, intitolato “Una stanca letteratura in calzoncini corti” («Vie Nuove», 22 ottobre 1964), in cui, riferendosi a La penombra, afferma: “Un bel

libro, dunque, eppure un libro scontato, che si muove nell’ambito di una tematica che ha inondato tutta la letteratura novecentesca e che appare, oggi, un po’ stucchevole [...]. Si ha così la fuga dalla realtà per rifugiarsi nella memoria, in particolare nella memoria degli anni infantili [...].. Non sempre questa fuga ha un carattere antirealistico [...]). Ma chi è venuto dopo (Pavese, Proust) o si è manife-

stato uno stanco ripetitore o ha ripercorso la strada della memoria per allontanarsi davvero dalla realtà, sotto la spinta dell’involuzione subita dalla società italia-

na negli ultimi quindici anni e della delusione seguita alle grandi speranze della Resistenza. Ecco perché questa letteratura della memoria degli anni infantili, questa letteratura ‘in calzoncini corti’, questa letteratura di scrittori che non si decidono mai a divenire adulti, anche quando si muove sul piano di una dignità letteraria elevatissima, anche quando riesce a darci qualche suggestiva pagina di poesia (com'è nel caso di Lalla Romano), ci lascia insoddisfatti. somma, senza

nulla togliere ai meriti di questi scrittori (e in particolare ai meriti del libro di cui stiamo parlando), non è questa la letteratura che noi preferiamo”.

124

F. Vincenti, Lalla Romano, La Nuova Italia, Firenze, 1974, p. 46. L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Einaudi, Torino, 1977, p. 207.

L. Romano, Inseparabile, Mondadori, Milano, 1981, pp. 6-10. L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato, cit., p. 208. Ibid., pp. 5-6. Ibid., pp. 6-7. Ibid., p. 7. go so Wi è & n 0

Ibid., p. 7.

!° Ibid., p.8. ! Ibid., p.14. C. Bo, «Corriere della sera», 21 giugno 1964. L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato, cit., p. 40.

4 !5 ! !” 18. !° 2° 21

Ibid., Ibid., Ibid., Ibid., Ibid., Ibid., Ibid., Ibid.,

p. 42. p.101. pp. 172-3. pp. 199-200. pp. 202-3. p. 20. p. 209. p. 208.

C. Bo, «Corriere della sera», 21 giugno 1964. 2 Il titolo del libro è tratto da un verso di La bufera di Eugenio Montale: “... le parole/ tra noi leggere cadono. Ti guardo/ in un molle riverbero...”. % L. Romano, Le parole tra noi leggere, Einaudi, Torino, 1969, p. V.

% % 2 2

Ibid. p. VI. Ibid., p. VI. A. Banti, «Paragone», giugno 1969. L. Romaro, Le parole tra noi leggere, cit., p. 5.

2 E. Vincenti, Lalla Romano, cit., p. 57.

% L. Romano, Le parole tra noi leggere, cit., pp. 20-22.

3! F. Vincenti, Lalla Romano, cit., pp. 54-56. ®.L. Romano, Le parole tra noi leggere, cit., pp. 88-89.

% % % % 9 ® 9

Ibid., p. 256. Ibid., p. 13. Ibid., p. 259. Ibid., p. 148. E. Siciliano, «L'opinione», 11 maggio 1969. A. Bevilacqua, «Oggi illustrato», 14 maggio 1969. M. Forti, «Il bimestre», n. 6, febbraio 1970, p. 35.

125

40

P.P. Pasolini, “Dolore e passione nel racconto di una nonna

innamorata”,

«Tempo», 1° luglio 1973. 41 L. Romano, L'ospite, Einaudi, Torino, 1973, p. 7. 42

Ibid., pp. 111-2.

43

Ibid., pp. 485-9.

44

“Volevo essere amata da Emiliano perché mi trovavo a sostituire sua madre, cioè per lui; ma avrei voluto essere amata anche per me. Vederlo rallegrarsi della mia presenza. Esattamente come quando si ama e la felicità è scoprire nell'altro la gioia dell'incontro... Ebbene mi accorsi, dovetti constatare che Emiliano non si rivolgeva mai a me spontaneamente, come faceva, con segni di compiacimento e con determinazione, verso Innocenzo e Rachele” (L. Romano, L'ospite, cit., p. 25).

45

L. Romano, L'ospite, cit., p. 77.

Ibid., p. 110. S. Antonielli, «Belfagor», XXIV, 1974, n. 2, p. 230.

L. Romano, L'ospite, cit., p. 118. Ibid., p. 115.

Ibid., p. 118.

Ibid., pp. 123-4.

Ibid., p. 60. Ibid., p. 122. Ibid., p. 85. S. Antonielli, «Belfagor», XXIV, 1974, n. 2, p. 228. L. Romano, L'ospite, cit., p. 42.

Ibid., p. 43. Ibid., p. 54. A. Borlenghi, «L'approdo letterario», XIX, 1973, n. 62, p. 122. P.P. Pasolini, «Tempo», 1 luglio 1973. 61

C. Segre nella sua introduzione al primo volume dei Meridiani definisce Una giovinezza inventata “l'unico romanzo veramente autobiografico di una scrittrice che ha quasi sempre utilizzato materiali autobiografici per creare libri non autobiografici” (L. Romano, Opere, Mondadori, Milano, 1991, p. XLVII). Una giovinezza è indubbiamente il romanzo della Romano in cui il lettore deve fare lo sforzo maggiore per mantenere scisse le “voci” del narratore e dell'autore, giacché spesso la seconda affiorae riecheggia nella prima. 62

L. Romano, Una giovinezza inventata, Einaudi, Torino, 1979, p. 208.

63

Per un excursus sulla poetica romaniana si veda il capitolo 1. L. Romano, Una giovinezza inventata, cit., p. 56.

Ibid., risvolto di copertina. Ibid., pp. 47-48.

® a_&

126

Ibid., # Ibid., ® Tbid., ® Ibid., 7! Ibid.,

p. 54. p. 149. p. 36. pp. 37-38. p. 102.

Si confronti ad esempio E. Grassi, “Intervista a Lalla Romano”, in «Il ragguaglio librario», settembre 1982, n.9, pp. 290-1.

? A.Mazza, «Letture», XXXV, 1980, p. 210.

" Ibid.

OL. Romano, Inseparabile, Mondadori, Milano, 1986, pp. 23-25. 76

La definizione di “lettore ideale” è tratta da Structuralist Poetics di J. Culler

(Cornell University Press, Ithaca, 1975). Per lettore “ideale” si intende colui che riesce a fruire in modo perfetto di tutte le implicazioni del testo; il lettore “ideale” è un costrutto teorico al quale però il lettore critico deve tendere di continuo. 7 L. Romano, Inseparabile, cit., p. 89.

® Ibid., pp. 109-10. ??_ Ibid., pp. 29-54. 8° L. Romano, Le parole tra noi leggere, Einaudi, Torino, 1969, p. 12. 81 L. Romano, Inseparabile, cit., pp. 60-61. 82

Ibid. (Citazione tratta dalla prima pagina non numerata dell'edizione Mondadori del 1986.)

® Ibid., pp. 181-2. # Ibid., p. 217. 85 Vv. Spinazzola, «L'Unità», 29 ottobre 1981.

* Ibid.

da7

5. LE OPERE FOTOGRAFICHE

Nel 1986 la Romano pubblica Romanzo di figure, una collezione di fotografie scattate da suo padre a Demonte, tra il 1904 e il 1914. Una precedente edizione di Romanzo di figure era apparsa nel 1975 sotto il titolo di Lettura di un'immagine, ma le immagini riprodotte dall'album di famiglia non erano riuscite perfettamente. Quando la Romano trova i dagherrotipi originali nella casa di Cuneo, decide di ripresentare le foto in una versione tecnicamente più accurata. Nella prefazione a Lettura di un'immagine la scrittrice afferma: “In questo libro le immagini sono il testo e lo scritto un'illustrazione”. Nell’introduzione a un altro libro “fotografico”, La trec-

cia di Tatiana, la Romano scriverà più tardi: Prima fu proprio “la treccia”: ed è stata subito “di Tatiana”. Si era insinuata la letteratura: ma non era ancora la chiave. La novità fu che potevo leggere quella e le altre immagini... nel loro linguaggio di segni come nel mio di parole. Perché “anche la fotografia è scrittura” [...]. L'immagine fotografica — frammento di realtà sottratto al tempo e al movimento — quando sia intesa come scrittura si emancipa, riscatta se stessa e soprattutto riscatta la realtà. Che cosa sono quei titoli che ho apposto, quelle frasi? Uno svelamento, una decriptazione. La sco-

perta fulminea di altri discorsi possibili. Non serviva il fluire narrativo: era sufficiente l’inizio, l’allu-

sione.”

.

Per la Romano le fotografie sono immagini e in quanto tali “testo”, perché possono essere lette e interpretate come la scrit-

128

tura. Ciascuna immagine costituisce un frammento letterario, e la funzione delle epigrafi che accompagnano il “testo” non è di illustrare o “spiegare”, ma semplicemente di suggerire delle “prospettive di lettura.’ La scelta dei titoli delle opere ‘“fotografiche” chiarisce l'intenzione dell'autrice; tuttavia, mentre Lettura

di un'immagine si limita ad additare, la seconda edizione del libro, Romanzo di figure, ribadisce, sottolineandola, la posizione

di privilegio accordata all'immagine. L'inserimento nel titolo di una parola come “romanzo” ha, infatti, una duplice funzione:

suggerisce più direttamente l’idea dell'immagine come scrittura, ma implica anche una stretta affinità tra il romanzo come genere letterario e la fotografia (la Romano sostiene che proprio la “flessibilità” del romanzo come genere le ha fornito l’idea per il titolo). Romanzo di figure ha, come tutti i romanzi, un “autore”, il

fotografo Roberto Romano, ma, a differenza della maggior parte delle opere narrative, ha anche un secondo autore, la Romano

stessa, che ha selezionato le 105 fotografie, le ha raggruppate in 14 sezioni secondo il tema (“I cacciatori”, “La valle”, “Ritratto di signora”, “La società”...) e le ha “commentate”. Il volume ha una

struttura complessa, le sezioni fungono da capitoli, e la prefazione intende qualificare il libro come romanzo: È facile rintracciare in queste immagini i segni del costume e non difficile quelli di un gusto figurativo; ma la ricerca essenziale è quella di scoprire chi era l’uomo che vi ha espresso se stesso e il suo mondo nel modo indiretto, lucido e insieme allusi-

vo che è quello dell’arte. Mio padre, come ogni artista, per quanto minore, faceva delle scelte: libe-

re, in quanto non professionali... però appassionate, e in questo senso rivelatrici... Nell’ordinare per temi e in una progressione vagamente narrativa queste immagini, ho visto trasparire e prendere

129

consistenza quasi un ritratto di mio padre; mentre mi ero accinta a una lettura esclusivamente visiva,

come se le fotografie fossero senza autore. In realtà non c'è immagine che non sia in qualche modo una cifra del suo animo. Affiorano inoltre, visti (intuiti) da lui, tratti del carattere e del destino delle sue

figlie bambine; come di altre persone, legate a lui per affinità (o per contrasto). Ma di tutte le persone che appaiono in questa specie di romanzo per immagini, la più segreta rimane quella più amata da

mio padre: sua moglie.

Attraverso le fotografie, Roberto Romano ha rivelato indiret-

tamente la sua personalità e la sua sensibilità, i suoi affetti e i suoi gusti. Le foto, ritraendo il mondo nel quale egli ha vissuto e le persone che ha amato, sono la testimonianza storica di un'epoca talmente lontana che è definita dalla scrittice come “l'ultima età dell'innocenza” per due ragioni: perché è remota e perché ha coinciso con la giovinezza dei genitori. La totalità delle immagini non solo offre un grande affresco della provincia italiana all’inizio del secolo, ma mostra anche l'abilità del foto-

grafo nel cogliere e illustrare la natura umana. In questo senso le immagini “sono” romanzo; l'intuizione artistica di Roberto Romano e la sua capacità di introspezione lo rendono capace di penetrare il carattere delle persone fotografate e di rivelarlo attraverso l'immagine anziché attraverso la parola. Il fotografo accentra la sua attenzione sulle persone che ama. I gesti e le espressioni del viso della moglie e delle figlie sono colti così sapientemente che la loro personalità “emerge” dalle immagini: le tre donne diventano le protagoniste del romanzo. L'idea della Romano di considerare il fotografo come scrittore e la scoperta di una stretta affinità tra letteratura e fotografia è espressa anche da Susan Sontag, che, nel suo saggio sulla fotografia, scrive:

130

Una fotografia passa per incontrovertibile prova che una data cosa è esistita [...]. Qualunque siano le limitazioni (attraverso il dilettantismo) o le pretese

(attraverso l'abilità artistica) del singolo fotografo, una fotografia, qualsiasi fotografia, sembra avere una più innocente, e perciò più accurata, relazione

con la realtà visibile di quanto abbiano altri oggetti mimetici... Mentre un quadro o una descrizione in prosa non possono mai essere altro che frutto di una interpretazione limitatamente selettiva della realtà, una fotografia può essere trattata come una copia limitatamente selettiva della realtà. Ma nonostante la pretesa di veridicità che fornisce a tutte le fotografie autorità, interesse, attrattiva, il lavoro dei

fotografi non costituisce nessuna generica eccezione al solito losco commercio tra arte e verità... Nel. decidere come una fotografia dovrebbe sembrare,

nel preferire un'esposizione a un'altra, i fotografi impongono sempre degli standard sui loro soggetti. Benché esista un senso in cui la macchina fotografica davvero cattura la realtà, e non solo la inter-

preta, le fotografie sono tanto un'interpretazione del mondo quanto lo sono la pittura e ildisegno.” La Romano e la Sontag, pur seguendo vie diverse, giungono entrambe all’equazione scrittura /immagine e sembrano persino trovarsi d'accordo sul particolare “potere” della fotografia. Per la Romano il fascino della fotografia sta nella possibilità di costituire una netta “fetta” temporale, mentre per la Sontag il fascino stesso deriva dal fatto che la foto testimonia “il perenne divenire

del tempo”, ovvero è un memento mori.” Non dobbiamo dimenticare però che la Romano ha sempre affermato di considerare il passato come presente:” Maria, La penombra che abbiamo attraversato e Le parole tra noi leggere mettono in evidenza che ciò che è emotivamente significativo per la scrittrice sopravvive nella sua

131

coscienza incorrotto dal tempo. Non potevano certo fare eccezione le fotografie della famiglia e del mondo dell'infanzia che, indissolubilmente legate al fulcro dell’esistenza emotiva della Romano, appartengono di diritto al non-tempo della memoria. Le foto, tuttavia, possiedono una doppia valenza simbolica perché conservano anche il valore emblematico delle cose appartenute a un passato perduto per sempre.

L'interesse della Romano per l'immagine non è nuovo: nei romanzi precedenti il 1975, la fotografia ha svolto un ruolo molto importante. Maria contiene numerose descrizioni delle foto-ricordo dei parenti della protagonista e, ne Le parole tra noi leggere, le foto fatte dal figlio sono ampiamente analizzate. L'esempio più notevole è costituito da La penombra che abbiamo attraversato poiché il romanzo contiene la descrizione verbale di molte fotografie presentate in Romanzo di figure. Bastino come esempio i seguenti due brani tratti da La penombra, i quali corrispondono rispettivamente alle foto di pagina 126 e 132 della sezione “I bambini” di Romanzo di figure:

Vennero a casa i bambini in maschera con le loro mamme, perché papà facesse la fotografia. Indossavano costumi luccicanti, avevano sciarpe a tracolla, in mano cembali. Le bambine erano zingare... Mi avevano proposto di entrare lo stesso nella fotografia; quell’invito che non teneva conto della mia “impreparazione’” mi esasperò... Allora le signore si fecero dare roba dalla mamma, scampoli, sciar-

pe; mi puntarono con spilli una specie di turbante di seta gialla... dissero che ero “un arabo”. Piena di disprezzo per quel costume improvvisato, acconsentii a entrare nel gruppo mettendomi, in piedi su uno sgabello, dietro a tutti, in modo che si vedesse

soltanto la testa. In mezzo agli altri bambini composti, gravi, riuscii torbida, sfocata, gli occhi un

132

balenio — luccicavano di lacrime — lo sguardo pieno di umiliazione e di rancore [...]. Per un altro carne-

vale ebbi anch'io un costume, da ciociara. Di seta color lilla con una greca di panno nero, il bustino di velluto, e in capo un fazzoletto posato piatto, ricadente sulle spalle. Eppure non fui per niente allegra, ma annoiata e delusa. La funzione della fotografia in questi romanzi è quella di fornire “suggestive chiavi di interpretazione dei personaggi e del complicato rapporto che tra loro si intreccia”,"° come sottolinea Antonio Ria. La Romano di solito usa la fotografia come espediente per la caratterizzazione: le foto diventano ‘“documenti”, prove attraverso le quali il personaggio o la situazione diventa più trasparente, come Ria fa notare: In realtà si potrebbe leggere l’opera di Lalla Romano camminando sul bordo della fotografia, quasi si trattasse di un sentiero parallelo, enigmaticamente alleato alla parola. Una presenza che — al di là dell’esplicito frequente riferimento alle foto — si traduce in una sensibilità visiva, come componente non secondaria nello stile della scrittrice. E fa meraviglia che un regista non abbia ancora pensato a tradurre in film qualcuno dei suoi romanzi, come Tetto Murato, tutto giocato direttamente su immagi-

ni, concreto, quasi fotografico, appunto."

Mentre ne Le parole le ragioni, il quando e il come delle foto sono spiegati in dettaglio, le epigrafi di Romanzo di figure non sono per nulla esplicative. La funzione della fotografia in Ro-

manzo di figure è totalmente diversa da quella riscontrata dalla medesima nelle opere narrative. Qui, l'immagine come “fetta temporale” è fisicamente presente e su di essa la memoria si sofferma solo per arricchirsi.

133

La Romano ha dimostrato sin dai primi racconti una sensibilità visiva, un'attenzione al dettaglio che affiora nelle descrizioni della gente e della natura. Nella sua lunga carriera letteraria è riuscita a plasmare questa sensibilità secondo le diverse necessità narrative, rarefacendo e riducendo lo stile sino a raggiungere una prosa lirica ed essenziale. Il fatto che la Romano sia una pittrice passata alla letteratura dopo anni di pratica nelle arti figurative, ci permette di affermare che il suo interesse per la fotografia è una sorta di “continuazione” della sua “antica” passione per la pittura. Secondo la Sontag, infatti, esiste una diretta connessione tra fotografia e pittura: la prima sarebbe una forma di “fissaggio” come la seconda, ma su scala più ampia. Nel caso della Romano, quindi, l'interesse per la fotografia è da considerarsi come la continuazione di quella vena artistica che, nata dalla pittura, riaffiora nella narrativa.

L'importanza della fotografia all’interno della produzione letteraria della Romano raggiunge il suo culmine con la pubblicazione di Romanzo di figure, ma è evidenziata anche da altre due

opere “fotografiche”: La treccia di Tatiana e Terre di lucchesia."* Le fotografie de La treccia di Tatiana sono di Antonio Ria e sono “commentate” con brevi epigrafi dalla Romano. Nella prefazione del libro la scrittrice ribadisce, come già in Lettura di un'imma-

gine e in Romanzo di figure, l'equivalenza tra scrittura e immagine. Nonostante la struttura de La treccia sia simile a quella di Romanzo di figure, non ho ritenuto necessario esaminare in dettaglio quest'opera perché essa segue un percorso invertito rispetto

a quello di Romanzo di figure.’ Ne La treccia le epigrafi soggettive e mai esplicative degli eventi appaiono simili a quelle di Romanzo di figure, ma la felice combinazione simbolica, il potenziamento reciproco tra immagine e parola non è quasi mai raggiunto: le epigrafi restano “disgiunte” dalle immagini. Le splendide foto-

134

grafie di Ria e il linguaggio poetico della scrittrice rimangono i prodotti di due autori separati e non riescono a creare quell’unità artistica che fa di Romanzo di figure una delle opere più interessanti della scrittrice. La treccia di Tatiana rimane quindi ai margini del mondo narrativo romaniano: ne è parte perché l'interesse per l'immagine rientra nel percorso artistico della scrittrice, ma il libro nel suo insieme non riesce a inseririsi nell’universo poetico costruito dalla concatenazione dei romanzi. Per quanto riguarda Terre di lucchesia il discordo non cambia: le belle foto di Max Nobile sono affiancate dalla prosa nervosa e mobilissima della Romano, definita da Ria nel risvolto di copertina “epifania della parola”. Il libro si impone dal punto di vista visivo e le epigrafi della Romano sono splendide “rivelazioni poetiche”. Tuttavia, anche Terre di lucchesia rimane ai margini del mondo narrativo romaniano per le ragioni già menzionate a proposito de La treccia di Tatiana. A questo punto è d’uopo chiedersi perché Romanzo di figure sia il libro “fotografico” più importante della Romano e perché lo si debba considerare come l’ultimo anello di quel processo circolare che, cominciato con la pittura, progredisce con la narrativa e sfocia nella fotografia. La risposta al quesito si trova nelle epigrafi del romanzo stesso dove la scrittrice, facendo paragoni tra l'espressività dei gesti o dei volti e l'universo pittorico, dà

grande rilievo agli elementi formali delle immagini. Ad esempio, a proposito di un gruppo di contadini, la Romano scrive: - realismo alla Courbet — fa pensare a un interesse populista o antropologico — certo vuole anche testimoniare intorno a quel modo di vita: le capanne col tetto di paglia, la donna sull’asino che calza suole invece di scarpe, come i tibetani — ma la visione è pittorica, materica,

non

illustrativa — la vitalità

dell'immagine testimonia un interesse fraterno.

135

A commento di un gruppo di pecore in pastura: ‘— idillio pastorale visto come una composizione astratta — spazi e volumi di

misura musicale — forme pure: pecore come odalische di Ingrès —”.!° Nella sezione intitolata “Ritratti destini”, in nota al bellissimo

ritratto di una giovinetta che tiene in braccio una bambina:

— ritratto di ragazza — la bambina, assorta lontano, è un po’ sfocata — la curva del braccio alla quale risponde quella della mantellina bianca rinchiudono l’immagine della bambina, qui episodica — protagonista è la ragazza, la bambinaia - la sua bellezza è plastica, classica (un Caravaggio con una malinconia — ottocento —) la camicetta a righe non è impressionista, ma anch'essa neoclassica — la sua bella e grande mano che si posa a equilibrare la composizione è già di lavoratrice e la sua rassegnazione anche —.” Riguardo quattro cacciatori (uno il fotografo stesso, Roberto Romano) in piedi su una roccia con fucili e cani:

— la composizione ascendente segue la linea della montagna — la prossimità delle figure impone un senso drammatico: ma i tre fedeli sono compresi e tranquilli - mio padre ha un'espressione intensa, di sognatore con determinazione —."*

Dalle epigrafi citate è palese che il proposito della scrittrice non è di commentare le fotografie o di illustrarne l'occasione, bensì di osservare artisticamente e soggettivamente le immagini. L'occhio della Romano, educato alle arti figurative, è il punto

dal quale le fotografie sono esplorate. L'attenzione è data ai volumi, alla composizione, alla disposizione delle figure e, gli stessi standard che potrebbero essere applicati a un quadro sono usati per ciascuna foto. I numerosi riferimenti a pittori celebri

136

chiariscono l'impatto che l'immagine ha sulla sensibilità artistica di chi scrive, giacché quando questa viene stimolata rievoca opere che trasmettono in modo immediato e preciso l'impressione che l’autore vuole creare. Le epigrafi d'altronde non si riducono semplicemente a un esame tecnico delle immagini da un punto di vista artistico, bensì costituiscono interpretazioni soggettive della realtà fotografica. La foto dei contadini, ad esempio, rivela alla Romano

l'atteggiamento di suo padre verso i poveri: la compassione del fotografo è dedotta dal modo in cui i personaggi sono disposti. In altre foto la scrittrice interpreta i sentimenti dei soggetti e persino i loro destini, studiandone l’espressione. Questa decodificazione dei segni non è, naturalmente, oggettiva: la verità a cui la Romano mira non è quella dei fatti, bensì quella dei sentimen-

ti. Alla “oggettività fotografica”, la cui esistenza è negata dalla

Sontag, la Romano ha sovrapposto la sua soggettività e il risultato è la creazione poetica. Il tono impersonale che caratterizza le epigrafi (assenza di pronomi personali-soggetto, frasi mai concluse da un punto ma solo separate con un trattino, terza persona usata anche quando la scrittrice commenta foto di se stessa) non impedisce al lettore di acquisire una profonda conoscenza del mondo rappresentato. L'effetto poetico è raggiunto tramite la combinazione delle immagini con una scrittura realistica, ma allo stesso tempo allusiva; il risultato è quella dimensione complessa e simbolica che caratterizza ogni opera d’arte. Le fotografie e le epigrafi si complementano a vicenda in modo perfetto, cosicché è difficile per il lettore decidere se la scrittura della Romano decodifichi o complichi le immagini. Il risultato è uno speciale viaggio visuale nel

mondo privato dell'immaginario romaniano.

137

Potremmo concludere affermando che Romanzo di figure è un libro singolare, in parte per la presenza di epigrafi scarne, spezzate, dalla prosa nervosa, nelle quali si alternano le decifrazioni psicologiche e i giudizi estetici, ma soprattutto perché, come sostiene Pazzi, la parola che dapprima è “seconda all'immagine, innamorata corteggiatrice del potere visivo di questa [...] nel momento

in cui l’immagine

sale sul trono della parola [...]

nell’attimo della sua resa, la parola della narratrice si riaccende e

ritorna a tutta la sua corrosiva e allusiva capacità di costruzione.

20

NOTE

! L. Romano, Lettura di una immagine, Einaudi, Torino 1975, p. IX. 2 L. Romano A. Ria, La treccia di Tatiana, Einaudi, Torino 1986, p. V. In un altro

articolo la Romano ribadisce l'equazione fotografia=scrittura, affermando: “Non è certo casuale che io abbia intitolato il mio primo libro ‘con fotografie’ Lettura di una immagine. Infatti quello che conta per me è che le immagini possano essere lette. Si è incominciato col dire: leggere un quadro; ora, per la fotografia la funzione è analoga...” (L. Romano, “Quando una fotografia diventa testo” in «Infinito», n. 20, ottobre/novembre 1986).

® L. Romano, Romanzo di figure, Einaudi, Torino 1986, p. V.

‘ Ibid., pp. VI-VII. ° S. Sontag, On Photography, A Delta Book, New York 1977, p. 57. La traduzione di questa citazione e di tutte quelle che seguono è mia.

° Ibid. p.15. ” Ibid. p. 15. * A proposito del passato la Romano afferma: “Io considero il passato come presente, cioè tutto quello che del passato vive in me, appartiene al mio presente” (L. Romano, “Anche le immagini sono parole” in «Il giornale di Sicilia», 12 luglio 1986). * L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Einaudi, Torino 1977, pp. 23-4

e passim.

138

!° A. Ria, “Un microcosmo ritrovato”, Galleria «Il Diaframma /Canon», Milano, ottobre 1986 (catalogo mostra).

! Ibid.

1? L. Romano A. Ria, La treccia di Tatiana, Einaudi, Torino 1975; L. Romano-Max Nobile, Terre di lucchesia, Pacini Fazzi Editore, Lucca 1991.

!° G. Scimè fa notare che: “... in Lettura di una immagine e La treccia di Tatiana i percorsi sono invertiti. Nel primo l’immagine serviva per il recupero della memoria [...] nel secondo la fotografia è stimolo per la libertà delle interpretazioni emotive ed intellettuali” (G. Scimè, “Scritto per immagini” in «L'Unità», 6 luglio

1986). Più che di recupero memoriale direi che le epigrafi e le immagini di Lettura di una immagine e di Romanzo di figure si complementano perfettamente perché entrambe fanno parte di uno stesso universo narrativo che ha le sue radici in quel passato dal quale scaturisce tutta la narrativa romaniana.

4 Nota di A. Ria in L. Romano Max Nobile, Terre di lucchesia, Pacini Fazzi

Editore, Lucca 1991.

!5 1° ! !8 !9

L. Romano, Romanzo di figure, cit., p. 31. Ibid., p. 37. Ibid., p. 189. Ibid., p. 19. Cfr. S. Sontag, On photography, cit., p. 6.

20 R. Pazzi, “Album di bambina che sarà famosa” in «Corriere della sera», 1°

ottobre 1986.

139

6. GLI ULTIMI ROMANZI: NEI MARI ESTREMI E LE LUNE DI HVAR

Nel maggio 1987 la Romano pubblica nei Nei mari estremi. Parlando del libro su «L'Unità», la scrittrice afferma:

L'inizio e la fine di una vita sono momenti importantissimi, “estremi”, questa è la cosa che mi ha sempre interessato e che ho cercato di raccontare

nei miei libri, e in questo più che mai...'

L'autore ribadisce la necessità di raccontare del proprio mondo anche in un’altra intervista dello stesso periodo: ... secondo me l'impegno per uno scrittore è scrivere le cose che sa, che ama... Io appartengo a quel genere di scrittori che pensa che chi scrive debba parlare di quello che sa, e l’unica cosa che sappiamo è la nostra esperienza.” Alla luce di queste affermazioni risulta evidente che Nei mari estremi, come le opere precedenti, si basa su un'esperienza vissuta dalla scrittrice. Il libro, tuttavia, è autobiografico nell’accezione romaniana del termine; infatti, come abbiamo più volte riba-

dito nel corso di questo saggio, nel caso del nostro autore si può

parlare solo di autobiografia laterale. In quest’ultimo romanzo il lettore si trova però di fronte a un aspetto ancora “inedito” della vita della Romano: la storia d'amore con il marito, Innocenzo

Monti, durata sino alla tragica fine dell’uomo. La prima parte del libro è più breve della seconda e narra dei quattro anni di fidanzamento

sino al matrimonio

140

(1932); la seconda

parte,

“Quattro mesi”, pur essendo più lunga della prima, copre un lasso di tempo molto più breve: il periodo della terribile malattia di Innocenzo prima della morte (1984).

Nei mari estremi può essere paragonato sotto certi aspetti a Inseparabile e a L'Ospite, essendo ricco di autocitazioni: la scrittrice fa riferimenti a personaggi ed episodi trattati in altri romanzi, dando per scontato che il lettore ne sia a conoscenza, senza offrire alcuna delucidazione. Il libro è scritto in segmenti che raramente superano la pagina e mezzo, la cui coesione non è data dalla sequenza temporale degli eventi, del resto sovente rispettata, ma da un tema dominante che costituisce la colonna portante del racconto, dalla quale si dipartono “variazioni” come in una composizione musicale. Non è facile localizzare all’interno della cornice temporale della storia l'io narrante femminile che rievoca il passato: la sua posizione è deducibile solo se si presta attenzione ai dettagli. Nel brano seguente, ad esempio, l’unico indizio per capire che la narratrice parla di un tempo ormai lontano è l’avverbio “di allora”:

Era stata Silvia — l'aveva scoperto prima di me — a dirmi: “Guarda le sue mani”. Lui era in piedi, le gambe un po' divaricate (con gli scarponi, eravamo in montagna); raccontava... Per i nostri gusti di al-

lora — miei e di Silvia — quella stilizzazione del gesto... era attraente, emozionante...’ La parte del libro in cui si racconta l’incontro della protagoni-

sta con Innocenzo rispetta la cronologia dei fatti; vi sono, tuttavia, anticipazioni che riguardano eventi futuri, come quando, parlando dell’ammirazione di Innocenzo per i genitori di lei, la

donna ricorda che il marito li aveva sognati molti anni dopo la loro scomparsa:

141

Gli sembrarono persone grandi, come sovrani, eppure semplici, benigni. Uguale, improvvisa e sconvolgente presenza loro apparve a lui tanto tempo dopo. Loro erano morti da anni. Fu di nuovo un'apparizione: un sogno. Me lo raccontò, subito — di notte— ancora preso da timore e gioia... Chi narra, inoltrandosi nei meandri della memoria, omette le

date; la spiegazione per questa “imprecisione” è fornita nel capitolo undicesimo: “Si diceva ‘1’8 e il 9’ e si intendeva la coincidenza di due giorni festivi a dicembre. L’8 e il 9 di quell’anno è una delle rarissime date del mio curriculum interiore sprovvisto di reperti cronologici”.° Per una scrittrice che sostiene che la memoria è tutto e che le persone amate vivono immutabili nella sua coscienza emotiva, le date non possono rivestire importanza: nell’atemporalità del ricordo tutto è simultaneo. Da questo punto di vista gli sbalzi temporali del racconto, dal passato al presente e viceversa, sono perfettamente giustificati. Poiché le associazioni mentali eludono il tempo, il fatto che esista un “buco” di vent'anni tra due eventi non fa alcuna differenza. La memoria romanzesca della Romano non elude solo il tempo, Tesio la definisce “un vaglio che decanta la passione e la restituisce lucida e precisa... Non è idillio, non rifugio, non na-

sconde le ferite e non gioca a rimpiattino”.° Il recupero memoriale della scrittrice, infatti, si impossessa della realtà per sottoporla a un processo di decantazione al fondo del quale rimane l’essenza dell'esistenza, la verità poetica. In tutti i suoi romanzi l’autrice si misura con i conflitti dell’esistere, tuttavia, con Nei mari

estremi raggiunge il vertice più alto della sua meditazione. I grandi temi esistenziali sui quali è basato il romanzo,

anche

quando diventano tragici, sono espressi in uno stile rapido, alieno da ogni retorica, che dà leggerezza al racconto e lo trasforma in una meditazione metafisica.

142

La storia è narrata da un io femminile che si pone nei riguardi dell’esistenza in una posizione insolita: il suo punto di vista è quello di una persona dalla vita ormai quasi conclusa che, da questa prospettiva “moritura”, cerca di capire a fondo il passato. Certi eventi della sua vita, difatti, si sono chiariti solo dopo che

la protagonista ha acquisito maturità ed esperienza: “Allora non domandai cosa avessero detto. L'ho saputo soltanto alla fine della nostra vita (della sua e ormai anche della mia tra non

molto)”. L'aggettivo “nostra” indica che la narratrice considera la sua esistenza già terminata, come quella di Innocenzo, nonostante lei sia ancora viva. La ragione di tale atteggiamento sgorga dalla consapevolezza di aver vissuto a lungo. Esiste però, a mio avviso, una ragione più recondita: la morte del marito ha segnato la fine della felice vita a due e quindi dell’esistenza della donna nel suo pieno significato. La prima parte del libro, “Quattro anni”, tratteggia l’inizio di un amore durato cinquantadue anni. Episodio dopo episodio l’io narrante rievoca i primi incontri con Innocenzo, l'insorgere dell'attrazione, il primo bacio, l'innamoramento, il matrimonio e la luna di miele, durante la quale si cementa quell’intesa sessua-

le che doveva unire la coppia sino al termine della vita coniugale. AI funerale di Innocenzo la protagonista, con schiettezza quasi indiscreta, proclama che le nozze d’oro sono state persino meglio della prima notte di matrimonio: Perché proprio a Barbara e Maurizio, amici ma non intimi, per qualche impulso ho rammentato che due anni prima avevamo raggiunto le nozze d’oro? E dire, come dissi, che erano state migliori delle

prime, che era stato molto più bello? E aggiungere sempre con leggerezza, che le prime sono sempre un po’ imbarazzanti, no?... Lo so: non potevo sop-

143

portare che lo considerassero “defunto”, e nemme: 8 no che lo pensassero “vecchio”. La personalità di Innocenzo emerge come in un mosaico da ciò che la narratrice ricorda e dalle reazioni degli altri personaggi. Questo metodo, tipico di altri romanzi romaniani, crea un

doppio effetto di caratterizzazione: descrivendo la personalità di Innocenzo, colei che narra rivela se stessa. Le impressioni, le

reazioni e i pensieri dell'io narrante, dei familiari e degli amici, insieme con il resoconto delle vicende, formano un amorevole,

eccezionale, eppur realistico ritratto dell'uomo. Innocenzo è il protagonista principale (la narratrice è co-protagonista), ed è interessante vederlo al centro della narrazione,

giacché, nei romanzi precedenti, è sempre stato una sorta di deus ex machina che appariva solo nei momenti difficili per appianare i problemi. Il narratore, nella seconda parte di Nei mari estremi, definisce la maniera in cui ha creato il personaggio di Innocenzo nelle sue opere e apertamente sovverte tale immagine:

Nei miei libri Innocenzo è un personaggio virile: razionale, protettore; ma lui era anche femmineo, tenero, fantastico. Così la bellezza “virile” del suo

viso non era aggressiva, ma delicata, nella forte struttura... Per me la sua particolare bellezza di sempre — infinitamente contemplata — era la sua faccia dormente. Era S. Orsola che dorme con la guancia appoggiata a una mano (Carpaccio, alle Gallerie di Venezia). Quella era la sua attitudine per il sonno. Questo carattere — raro di forza e

dolcezza, lo ritrovo anche in altri quadri. Nel Giovane di Giorgione, in cui la dolcezza è accentuata dai capelli lunghi sciolti, e anche nell’Autoritratto di Courbet.

144

»

La voce

narrante,

alter ego della scrittrice, per chiarire il

comportamento di Innocenzo non esita a paragonarlo al “suo” modo di scrivere: “Vorrei dire questo: il suo stile, cioè il suo linguaggio, era simile al mio nella scrittura: concreto per le sensazioni, reticente sui fatti, segreto ma non ipocrita nei sentimenti”.!° L'autore giudica l'immagine letteraria di Innocenzo da lei creata nei romanzi e allo stesso tempo giudica l’uomo in carne ed ossa, rivelando aspetti della personalità del marito sino a ora mai toccati. Si ricorre a riferimenti letterari (i fratelli Grimm,

Proust, Moravia, la Duras), oltre che ad autocitazioni, e soprat-

tutto a referenti tratti dalla musica e dalla pittura per comunicare impressioni e concetti astratti: per eprimere le due qualità fondamentali di Innocenzo, forza e dolcezza, l’uomo è parago-

nato a Il Giovane di Giorgione e all’Autoritratto di Courbet. A creare paralleli che mettono in luce le doti di Innocenzo concorrono anche altri personaggi, come la sorella della narratrice, Luciana, la quale intravede una certa rassomiglianza tra Innocenzo e il famoso statista piemontese: “È come Cavour: ‘pron-

to, prudente, risoluto’”.! Le qualità visibili di Innocenzo corrispondono all'immagine che l’uomo proietta di sé, ma esistono anche aspetti meno evidenti della sua personalità. Quando il padre, favorendo gli altri figli, obbliga Innocenzo a interrompere gli studi per lavorare in banca, lui nasconde il suo dolore alla fidanzata e occorreranno anni prima che la donna venga a conoscenza del fatto. Innocenzo in seguito perdonerà il padre, affermando che “I militari non capiscono niente della vita borghese”.!° L'io narrante interpreta la frase di Innocenzo come il gesto di colui che è tanto generoso da capire che non si è trattato di un torto inflitto con consapevolezza, bensì per incapacità di giudizio. La generosità di Innocenzo è una delle costanti del suo carattere. Egli cerca sempre di risolvere da solo le difficoltà

145

personali così da proteggere la moglie da ogni dolore, e arriva al punto di preoccuparsi della salute di lei anche quando sa di essere colpito da un male incurabile. Persino dopo la morte di Innocenzo, la narratrice riceve un'ultima prova del profondo affetto del marito:

Mi aveva detto che da giovane si augurava di morire prima di me; poi aveva capito che era meglio non lasciarmi sola. Luciana mi ha ricordato quella volta nel cimitero del Villar, dove una lapide indicava la morte di una coppia a distanza di pochi giorni, e il commento di lui: “Fortunati!”. Suo fratello Luigi: “Quando l'abbiamo visitato, nell'agosto, ci parlava soltanto del tuo braccio ingessato, come se fosse la sua sola preoccupazione”. Lui stava morendo, e lo sapeva. Aveva sottolineato queste parole del suo Shakespeare (da Otello): “... ho amato senza mali”

zia, ma senza misura”.

13

Innocenzo lavora tutta la vita nella banca dove è entrato da giovane e ne diventa presidente. Nel suo lavoro, come nella sua vita personale, lo caratterizza una grande umanità: riesce a opporre indifferenza all'odio e a ignorare le persone che gli fanno dei torti, finendo poi col perdonarle. Gli ultimi capitoli della prima parte (dal 34 al 37) mostrano un cambiamento di tono che da spensierato si fa serio in sintonia con quello che segue. Il “buco” temporale di quasi cinquantadue anni tra il fidanzamento dei due (prima parte) e la morte di Innocenzo (seconda parte) è colmato nel capitolo 34 dalle tre righe iniziali di Maria; con questa brevissima autocitazione, l’autore suggerisce al lettore che i primi anni del suo matrimanio, come molta parte della sua vita, sono già stati raccontati nei precedenti romanzi.

146

I sogni, elemento ricorrente nell'opera romaniana, hanno una funzione importante anche in Nei mari estremi. Nel capitolo 3, ad esempio, il sogno di un'amica d'infanzia della protagonista contiene la premonizione di ciò che sarebbe accaduto più di mezzo secolo dopo: “Lei mi aveva raccontato in una lunga lettera che aveva sognato le mie nozze. Lo sposo era bruno, e io ero felice. Ma la carrozza era da lutto e i cavalli avevano gualdrappe nere”. Per illustrare l’infelicità di Innocenzo, incompreso dai genitori, viene usato un sogno

tratto da Le metamorfosi, e la

narratrice stessa sottolinea che uno dei sognatori anonimi del libro è in realtà Innocenzo. Più avanti per spiegare le stressanti condizioni di lavoro del marito, viene riportato un sogno del

figlio: “Papà aveva la testa fasciata, aveva male ai denti e in banca lo costringevano a lavorare. Allora io ho ucciso tutti i suoi direttori”. I sogni contribuiscono ad alterare il tono narrativo: l’amore e la felicità creano timore per la perdita dell'amato, la morte già presente nei sogni diventa il motivo dominante anche del capitolo 36. Qui la narratrice ricorda che poco dopo il matrimonio, Innocenzo aveva tradotto per lei I morti di Joyce e da

allora lei aveva sempre unito l’idea della neve con la morte." Il capitolo 37 invece è costituito solo da pochi versi tratti da una poesia di Giovane è il tempo: Da una ruvida mano siamo spinti riluttanti animali scacciati dal calore di una tana sulle strade ventose [ ] 17

Il tono è di minaccia, i versi sono metafora di una precaria condizione umana; il tutto trasmette al lettore il senso della fine

sempre in agguato. Negli ultimi capitoli della prima parte infatti

147

la morte si insinua nella narrazione sino a diventare una presen-

za spettrale. La seconda parte del libro si apre senza variazioni di tono: la narratrice ha sempre avuto paura di perdere Innocenzo e ha sempre percepito la morte come assenza. “Quattro mesi” però non inizia subito con la malattia di Innocenzo. Sino al capitolo 45 sono rievocati vari eventi: il modo di amarsi della coppia, gli amori adolescenziali di Innocenzo, la sua infanzia, i suoi amici,

il suo ambiente di lavoro e il suo senso dell'umorismo. Le eccezionali doti di Innocenzo acquistano maggior definizione, ma la minaccia della fine pervade ogni paragrafo, come il sottofondo musicale di un’opera. Nel definire Innocenzo e allo stesso tempo se stessa l'autrice pare dare per scontato che il lettore sia quello “ideale”. Nei mari estremi, infatti, contiene riferimenti a tutte le precedenti opere della scrittrice: iromanzi sono menzionati o addirittura citati nel testo e quasi tutti i personaggi incontrati sino a ora ricompaiono qui. Nella seconda parte del libro, però, i riferimenti riguardano

per lo più persone (personaggi nell'universo romanzesco romaniano) scomparse, o che, come Innocenzo, sapevano di dovere morire. L'atmosfera del capitolo 45 prepara lo scenario per una più intensa considerazione della morte. Questo capitolo narra dell'ultima visista a Saint-Nicolas nelle Alpi, luogo di escursione prediletto dalla coppia. La bellezza insolita del paesaggio ha sempre dato alla narratrice l'impressione di contemplare l’aldilà. Inocenzo, di solito molto veloce in montagna, adesso proce-

de con estrema fatica; l’uomo sa che deve morire, ma

in un

ultimo slancio di generosità, volendo proteggere la consorte dal dolore, non le rivela la verità. Ci sono cose, tuttavia, che si

possono percepire e la visione dell’aldilà evocata dall’inconscio di chi narra riemerge quando la donna scopre il destino di Innocenzo:

148

È un paesaggio, non penso di dover dire simbolico, reale di un aldilà. È un iceberg spaccato: una nave passa nel mezzo tra le due pareti di ghiaccio, come attraverso una valle. L'ho sempre chiamata “nei mari estremi”. Reale, cioè pensato con le parole, ma visto dopo quell'immagine e soltanto attraverso

quell’immmagine."*

La Romano

stessa sottolinea l’importanza dell'immagine.

Nel testo, “visto” e “attraverso” sono in corsivo così da mettere

in rilievo la priorità dell'immagine sulla parola, in quanto capace di comunicare in modo più diretto. Il potere dell'immagine ha radici nella pittura e nella fotografia: sarebbe impossibile non ricordare Romanzo di figure con le immagini-testo, i primi raccon-

ti che tendono a ritrarre più che a narrare e infine la frequentazione pittorica della scrittrice. Nel capitolo 101 l'immagine dell’aldilà riappare; Innocenzo è morto e la narratrice riassume il significato del libro e del titolo: Mia madre non era stata distrutta come Innocenzo;

fu in qualche modo presente alla propria quasi-assenza... Innocenzo non ebbe quella felice leggerezza di lei; eppure io so che era infinitamente grato della sua vita e certo anche della sua morte. Ma nella sua lunga, lenta, ardua fine lui era ormai si-

tuato “più in là”, nell'aria rarefatta, quasi irrespirabile dei grandi silenzi, quella che io chiamo dei “mari estremi”.!

L'immagine a cui la narratrice fa riferimento è di nuovo quella della nave che passa tra le due spaccature di un iceberg, simbolo del difficile passaggio tra vita e morte, attraverso quella zona nella quale la vitalità si attenua e il non-essere si rafforza. È l’inizio del distacco, dell'assenza, un momento supremo e diffi-

cilissimo della vita, che implica estrema solitudine e coscienza

149

della propria condizione, come dimostra la conversazione tra la donna e Innocenzo quando lei gli chiede di rompere il suo lungo meditativo silenzio: Non mi parlava, non mi guardava. “Guardami, sono qui”.

“Sono io che non ci sono”. Era coscienza — dunque presenza — della diminutio (così chiamavo tra me il suo approssimarsi alla fine). Era come una crescita della non-presenza. Un attenuarsi dell’esserci... Avvertii una inafferrabilità, e insieme una maestà dell’inafferabile. Quasi

un'affermazione del “non esserci più”. L'affermarsi infine di una estrema impotenza [...] È assorto, triste. “A cosa pensi?”

“Alla realtà” Ero pronta alla verità... Certo Innocenzo intendeva la sua condizione reale: la vitalità decrescente, di-

minuita. Realtà spaventosa e fatale sulla quale non voleva ingannarsi. Se non avessi domandato, non l'avrebbe detto. Era un’accettazione. Non proclamata, nemmeno affermata. Semplicemente detta.?°

L'accettazione da parte di Innocenzo del suo lento declino è toccante: la moglie cerca di seguirlo passo passo nel suo cammino, sorreggendolo con la forza del suo affetto, senza drammi, solo con la celata disperazione di chi accetta un destino che non si può alterare. Quando Innocenzo comincia il viaggio nei “mari estremi” la donna è costretta a lasciarlo progredire da solo. Nei mari estremi è la storia di uno splendido amore e di una terribile morte. Amore e morte sono due temi universali, ma la Romano riesce a imprigionarli in una sorta di “diario minimo”, rievocando i fatti di una vita per nulla insolita, ricca di eventi semplici. È “la mediazione della parola che esplora, dà forma alla memoria e perciò ferma, oltre la tirannia del tempo reale, il

150

valore di una vita in comune; che riesce a decantare, nell’essen-

zialità e nel rigore dell'immagine, il vissuto quotidiano e il suo

significato”.° Grazie a una scrittura fatta di suggerimenti e silenzi, ora diretta, ora allusiva, la Romano

trascende il particolare

per approdare a una dimensione metafisica, alla verità, quindi alla poesia. Un romanzo, questo, emblematico del destino umano che turba il lettore sia per il suo valore simbolico che per la

spietata e coraggiosa esplorazione dell’agonia della persona amata. Sul risvolto di copertina del libro l’autore scrive: L'immagine evocata dal titolo (che è quella di una novella di Andersen) mi ha sempre accompagnata negli anni, come figura di momenti estremi. Momenti quasi sottratti al tempo, in quanto appartengono al suo margine, alla sua fine... Momenti nei quali si gioca un rischio supremo. Ma è anche, misteriosamente, un'immagine di apertura. Il romanzo si snoda, o meglio si aggira intorno a due temi universali e insieme quotidiani della vita. Temi che compaiono e ricompaiono, come in una composizione musicale. Il testo è, se si vuole, un seguito di

variazioni. È un intreccio di fatti (episodi), senti-

menti e pensieri vissuti: scelti perché ancora viventi. Caldi cioè della mutevole e ricca materia di cui siamo fatti: noi e i nostri sogni.” Con un notevole senso sdrammatizzante e la ben nota reticenza — quali sono i due temi? qual è l’immagine evocata dal

titolo? la Romano svela la struttura del libro e offre una preziosa indicazione di lettura; seguendola il lettore, giunto alla fine del

racconto, scopre che i “mari estremi” sono quei momenti nei quali il tempo e l'eternità convergono, nei quali la vita e la morte si incontrano.

151

Se possiamo ancora usare il termine romanzo nel caso di Nei mari estremi, Le lune di Hvar (1991) si potrebbe definire tale solo se

si desse una nuova accezione al termine, visto che ci troviamo di fronte ad appunti, pensieri, ricordi, brevi conversazioni registrati dall’io femminile protagonista della storia, durante le quattro estati passate in Jugoslavia in compagnia di un fotografo di molti anni più giovane di lei. Le lune di Hvar, tuttavia, per quanto diverso in apparenza da Nei mari estremi, in realtà presenta molti punti di contatto con il precedente romanzo. In entrambi i libri tematicamente ci troviamo di fronte a un “viaggio”’”’ ricostruito sul filo della memoria, un viaggio inteso nell'accezione più ampia del termine. Strutturalmente Le lune costituisce un ulteriore passo avanti in quello sviluppo stilistico che si snoda attraverso tutte le opere della Romano con stupefacente coerenza da un cinquantennio. Come vedremo, le lasse di Nei mari estremi subiscono qui un processo di rarefazione, raggiungendo la concentrazione e la pregnanza del verso. Nel risvolto di copertina l’autore stessa puntualizza la natura particolare del libro: Questo libro è nato dalla volontà del libro stesso. Io l'ho trovato scritto: da me, ovviamente, ma senza

che l'avessi voluto. Non era nemmeno

propria-

mente “scritto”; erano annotate soltanto frasi, parole. È un libro privo di testo. Solitudine, contemplazione, libertà estrema: una sorta di “memoria immediata” guidò, quasi forzò la mia mano, di solito

riluttante. Su quegli appunti avvenne una coincidenza: di me con la mia scrittura... Per curiosità,

ricopiai quei frammenti: pigramente, a tempo perso. Quando poi li lessi, rivelarono una sorprendente unità. Avevano creato un ritmo, un racconto. Io

detesto dire troppo; ma quello che resta è rigorosamente vero: voglio dire limpido, non logico. Le

152

parole devono essere poche, tra spazi e silenzi: così

vivono.”

La Romano presenta questo insolito romanzo avvertendo il lettore che il filo del racconto è esile. Non si cerchi quindi una narrazione tradizionale, sembra suggerire l’autore, perché siamo di fronte a frammenti, schegge, per mezzo dei quali è possibile ricostruire la storia dei due personaggi attraverso le quattro estati, le “quattro lune”, passate a Hvar. In verità, però, i veri protagonisti non sono solo i due, direi piutttosto che l’io narrante e il fotografo sono “due in un paesaggio [...] si avverte un senso, si indovina anche una storia. Ma tutto deve avere la stessa

importanza”? Sono ricorsa a una citazione tratta da uno dei primissimi racconti della Romano perché mi pare che questa frase, oltre a testimoniare la coerenza dello sviluppo artistico della scrittrice, fornisca una perfetta definizione di ciò che la

Romano si è prefissata in quest’ultimo libro, nonostante esista una notevole “distanza” tra le due produzioni letterarie. I “due in un paesaggio” sono il giovane fotografo e l’anziana signora che dice “io”; il loro è un rapporto singolare, tra di loro esiste “un rapporto di multipli: come tra 90 e 30, o tra 40 e 20”,°° ma l’età non ha importanza quando c’è il sentimento. Lui, A., nei

confronti dell'io narrante dimostra un misto di affetto filiale e materno, è devoto, protettivo, premuroso: «A. cambia le lenzuola, mi sceglie asciugamani morbidi (ne riceviamo tre a testa), lava le stoviglie (come sempre) - mi cura come farebbe una madre (lui)»;” “ho passato quasi tutta la notte piangendo, e Antonio raccoglieva le mie lacrime sulle dita”.?* Lei dimostra un affetto più scontroso: Io:-— Mi domando perché stiamo bene insieme. A.:- Perché ci somigliamo.

153

- No, io amo il primo mattino, tu il mezzogiorno,

che a me fa paura. — Entrambi vogliamo l'assoluto. — A me piacciono i vecchi asciutti, tu sei giovane e umido (sudato). Li unisce l’amore per la musica, la natura, l’arte e una libertà

che permette a entrambi di essere se stessi e allo stesso tempo di star bene assieme, di vivere una sorta di stato di grazia. Le allusioni sentimentali non mancano, ma sono contenute, depu-

rate, decantate e quella che poteva diventare una storia d’eccezione è invece una leggerissima storia di affinità elettive e affetti pudichi, costellata da qualche screzio, qualche incomprensione, qualche momento di subitanea tristezza. Abbiamo parlato di “due in un paesaggio” infatti il terzo protagonista è appunto il paesaggio. Su di esso regna incontrastata la luna, che appare e scompare, sempre diversa, ma sempre presente: talora “malefica... bieca, cieca”,” “violenta... paurosa...

si sfoglia in grandi petali inquieti sull’acqua”,” “unghia sottile, bianca, con un meraviglioso tocco di luce sull'orlo a levante”;

talora “gialla, morbida, languida”,” ‘piena, rosa arancio, legger-

mente velata, presto splendida”, “improvvisa, enorme, uguale al sole”.° Luna, mare, cielo, dominano questo paesaggio, osser-

vato a tutte le ore del giorno e della notte, attraverso il filtro di una cultura artistica che rende ogni immagine precisa e poetica. Il paesaggio non è solo natura, è animato da personaggi: coppie di giovani bellissimi, nudisti, bambini, villeggianti, camerieri, albergatori, passanti salutano, sorridono e scompaiono dal campo visivo della protagonista, che seduta sulla sua “panchina estrema” guarda scorrere la vita come un fiume. Figure colte in un guizzo fulmineo, in un gesto, in una frase da‘uno sguardo che interiorizza e coglie l'essenza di cose e persone:

Passa una con sedere parlante

154

Per me che vengo dalle arti visive, qui c’è l’attrazio-

ne dei nudi, più interessanti se mostruosi. Però li apprezzo solo immobili (scultura). Preferisco comunque l’espressionismo al neoclassico. Il mare è tornato blu, le vele come spine bianche,

sottili. Panchina estrema. Sugli scogli il vecchio con la pelle di seta appena rosa, i capelli bianchi. ic]

Il vecchio, ragno rosa.” Non mancano

nomi di ristoranti, cibo delizioso, pesce fre-

schissimo: “noi prosciutto e formaggio, poi “brodetto dalmata”

(pesce patate e cipolla, con brodo squisito)”,” “sarago e orata al x

È

forno: il meglio”, aromatico”.?

Non

i

ty

È

î

“pesce in brodetto rosso scuro piccante e

mancano

la musica,

concerti

di Albinoni,

Tchaikovski, Bach, Mozart, passeggiate sotto la luna con il vento che fruscia tra i pini arsi dal salmastro, conversazioni al caffè in

piazza, letture. Un inesauribile guardare quello dell’io narrante, un “guardare come scrittura”,‘° un guardare che è un “rivedere” e soprattutto un “non sapere troppo”; con queste affermazioni, disseminate qua e là nel libro, siamo giunti al nodo cruciale del racconto e della poetica romaniana. Un guardare, quello della protagonista, che sul filo della “memoria immediata” richiama altre estati, altri compagni, altri luoghi, ma in modo fulmineo,

subitaneo, e non lascia spazio alla rievocazione nostalgica. Ci troviamo di fronte a una memoria in un certo senso “fotografica”, ovvero al permanere di una antica cultura artistica che tramite una notevolissima sensibilità visiva scandaglia la realtà e ne coglie l'essenza: “la stella della sera — sul costone boscoso si ripete l'Empire des lumières: storie vissute in un’altra vita, i lumi

dentro le case scure, il cielo chiaro”, “il padre col bambino in

155

braccio — uguale al Prassitele (Ermes e Bacco)”, “... il sole attra-

verso uno spiraglio luminoso (raggi come nel Paradiso perduto Doré) — suo riflesso rosa-oro nel mare”!

I frammenti, le schegge sui quali si orchestra la narrazione si fanno nel corso del racconto progressivamente più essenziali, più scarni, e acquistano quella concentrazione tipica della poesia: “vela alta e dolce entra nel varco e passa davanti all'isola — scivola sullo specchio — ore 10 — aliscafo con due pennacchi di fumo nero”, “martedì 29 — fichi a colazione — mare di latte —

barche come insetti bianchi”.‘” Appunti come brevi poesie che ricordano la produzione in versi della scrittrice da Fiore a Giovane è il tempo. Come abbiamo visto, la Romano è rimasta fedele alla sua libertà stilistica sin dagli esordi della sua carriera, basti

ricordare Le metamorfosi del lontano 1951. Lo stile, già innovativo agli inizi, si è evoluto in modo continuo, ma coerente: si pensi,

ad esempio, a Romanzo di figure con le brevi epigrafi che accompagnano le fotografie-testo e a Nei mari estremi dove le lasse rendono impossibile ogni progetto di costruzione romanzesca (la Romano del resto non si è mai interessata al romanzo nel senso tradizionale del termine), riducendosi a una essenzialità

che, seppur non raggiunge i livelli de Le lune di Hvar, ne è precorritrice. Una scrittura, quindi, quella romaniana, che ha sfidato le convenzioni sin dai suoi esordi, sintomo di una libertà creativa indomabile e di una coerenza poetica che corre sull'arco di mezzo secolo. Il “punto di incontro tra la Romano di allora e quella di oggi” sta proprio nella coerenza della scelta e del linguaggio della scrittrice.‘ Bo definisce Le lune di Hvar come “una sorta di ricapitolazione per essenze di tutto il suo lavoro”. Il compito del lettore de Le lune di Hvar è, infatti, quello di cogliere “un ritmo, un racconto” tra “spazi e silenzi” per afferrare le allusioni,

*

156

il “non detto”. Un libro moderno, questo, che implica la collabo-

razione di un lettore attento che deve “riempire i silenzi e gli spazi bianchi”; un lettore capace di riconoscere punto per punto cosa sottenda il lavoro di “sottrazione” dell'autore. Come in Inseparabile, ne L'ospite e Nei mari la sensibilità visiva della scrittrice ricorre a referenti artistici. Ne Le Lune di Hvar, tuttavia, anche le citazioni hanno subito un processo “ridutti-

vo”; quello che rimane è solo uno sguardo che coglie forme, colori: “meraviglia del rosa acido su un corpo bruno”,” “giovani pini verde-oro leggeri, piumosi nel vento”. Quello che resta quindi del mondo dopo il filtro dell'occhio narrante è l’immagine “inventata” dall'arte, ovvero in questo caso dalla magia della parola. La scrittura crea come la fotografia, proprio come accade agli stemmi fotografati da A., la cui bellezza è scoperta e rivelata solo tramite la fotografia ed è quindi “inventata” da questa.” In una sorta di processo circolare ci ritroviamo al vecchio paradosso wildiano della natura che imita l’arte, o forse potremmo dire,

citando la Romano, che tutto è sempre un “rivedere”. La memoria, da sempre fonte di investigazione primaria in tutte le opere della scrittrice, è definita “immediata” nel risvolto di copertina; tale termine riveste un'importanza cruciale, difatti

la Romano stessa ne fornisce una spiegazione: La registrazione nella memoria di eventi (momenti che diventeranno parola) accade in lei con una immediatezza che lei stessa definisce fulminea. Lalla chiama “eterno presente” quel tempo, quei frammenti di tempo ritrovati intatti... Imomenti “ritrovati”, aggregandosi, compongono qualcosa di nuovo, di unico: il libro.

Questi momenti ritrovati e imprigionati nella loro fulminea immediatezza dalla trasparenza della scrittura sono, a mio avvi-

157

so, l’unico filo conduttore sul quale si dipana Le lune di Hvar. Siamo di fronte a una memoria autobiografica, che autobiografi-

ca non è perché lascia cadere molta zavorra dal vissuto, a persone amate o ammirate dalla scrittrice che nella scrittura divengono personaggi perché, come lei stessa afferma, ‘non sono notizie

su di loro o su di me quello che scrivo, ma tratti, vivi in me, della loro immagine”,° a una acuta sensibilità visiva di estrazione

pittorica e a un gusto per la concentrazione della parola più vicina alla poesia che alla prosa. Questi i tratti salienti della poetica romaniana che in questo romanzo, pur sotto una veste “estrema”, rimangono fondamentali e riconoscibilissimi. Sareb-

be difficile isolare in questo romanzo-sfida un significato centrale, ciononostante credo sia nel giusto chi ha colto la natura metafisica del libro: Bellezza dell'essere nel suo infinito manifestarsi. Perciò ne gode chi sa avvicinarla e guardarla questa bellezza fuori delle bugie e fuori delle assolute certezze. Insomma un viaggio verso la sapienza, che non è maestria né traguardo, ma piuttosto accoglimento dell'essere per quel che è e appare, pacificazione dell'io e del sé pur dentro la mancanza e

l'errore.”

Le lune di Hvar è l’ultimo anello di un processo circolare che riconduce il lettore agli esordi del cammino artistico della scrittrice. Uno sviluppo, quello della Romano, che, cominciato con le

arti figurative e passato attraverso la poesia, giunge alla prosa per distillarsi via via e arrivare a una scrittura che nella sua essenzialità acquista l'immediatezza dell'immagine visiva e ritorna alla poesia. LI

158

NOTE

! P. Paganin, “Lalla Romano: sapore di storia” in «L'Unità», 24 giugno 1987. 2? M. Grassi, “Grandi

scrittori: Lalla Romano

si racconta”

in «Panorama», 21

giugno 1987, pp. 139-40. ® L. Romano, Nei mari estremi, Mondadori, Milano 1987, p. 9. Con questo libro la

Romano vince il Premio Grinzane Cavour nel 1988. È possibile rintracciare gli stessi temi di Nei mari estremi nei brevi aforismi pubblicati sotto il titolo di Minima mortalia (L. Romano, Minima mortalia, in «Strumenti critici», V, settembre 1990, n.

3, pp. 369-78). Questi pensieri scritti al tempo dell'inizio della malattia di Innocenzo, poi persi e infine ritrovati e ampliati dopo la morte del marito, presentano varie corrispondenze a livello contenutistico con il romanzo. Segre, nella nota che segue questi aforismi, nell’incoraggiare il lettore alla ricerca di tali corrispondenze, avverte che “queste pagine sono pagine ‘in vita’, mentre il romanzo è ‘in morte’ (L. Romano, Minima mortalia, cit., p. 378), ovvero sottolinea che, mentre

nel romanzo tutto è già avvenuto ed è la memoria che ripercorre il vissuto, i frammenti invece sono il vissuto colto nell’immediatezza del momento. Nella nota introduttiva la Romano così definisce i Minima mortalia: “Questi frammenti

[...] illuminano, mi pare, tutto il racconto, in quanto addirittura lo presuppongono. Qua e là lo aggiornano, lo precisano, sempre lo adombrano, lo suggeriscono. Sono i primi appunti di una partitura che doveva fatalmente svilupparsi” (L. Romano, Minima mortalia, cit., p. 370).

4 L. Romano, Nei mari estremi, cit. p. 30.

° Ibid., p.24. 6 G. Tesio, “Lalla Romano” in «Belfagor», XXXV, novembre 1980, n. 6, p. 678. ? L. Romano, Nei mari estremi, cit., p-30.

8 ? !° !

Ibid., pp. 201-202. Ibid., p.117. Ibid., p. 38. Ibid., p. 43.

1? Ibid., p. 218.

! 14 !5 16 17

Ibid., p. 64. Ibid., p. 65. Ibid., p. 135. Ibid., p. 112. La poesia Da una ruvida mano è tratta dal volume di poesie Giovane è il tempo,

Einaudi, Torino 1974, p. 66.

159

18

L. Romano, Nei mari estremi, cit., p. 139.

19

Ibid., pp. 219-20.

20

Ibid., p. 172 e passim.

21

G. Grassano, “L’ultimo libro di Lalla Romano: Nei mari estremi in «Otto /Novecento», XII, marzo/aprile 1988, n. 2, p. 181. 22 L. Romano, Nei mari estremi, cit., risvolto di copertina. 23

R. Barbolini e S. Petrignani, «Panorama», 22 settembre 1991.

L. Romano, Le lune di Hvar, Einaudi, Torino 1991, risvolto di copertina. L. Romano, Le metamorfosi, Einaudi, Torino 1983, pp. 186-87. L. Romano, Le lune di Hvar, cit., p. 5.

Ibid., p. 79. Ibid., p. 106. Ibid., p.71. Ibid., p. 13.

Ibid., p.9. Ibid., Ibid., Ibid., Ibid., Ibid.,

p. 23. p.31. p. 35. p. 80. pp. 26-27.

Ibid., p. 69. Ibid., p. 69. Ibid., p. 104.

Ibid., p. 17. Ibid., p. 77.

Ibid., p. 82. Ibid., p. 48. Ibid., p. 46. Ibid., p. 77.

Ibid., p. 114. Ibid., p. 116. G. Borgese, «Corriere della sera», 13 ottobre 1991. C. Bo, «Gente», 31 ottobre 1991.

L. Romano, Le lune di Hvar, cit., p. 56.

Ibid., p. 59. Ibid., p. 86.

In Un sogno del nord la Romano scrive a proposito del vecchio paradosso wildiano della natura che imita l’arte: “... siccome la natura non esiste se non come astrazione nostra, quando l’arte ne ha creato un'immagine nuova, da allora

160

siamo in grado di riconoscerla” (L. Romano, Un sogno del nord, Einaudi, Torino 1989, p. 21). In un’altra sezione (“Dalla parte dello scrittore”) del libro la Romano spiega il significato del titolo di Una giovinezza inventata: “Inventata nel senso di creata fantasticamente, nata da un'esperienza creativa” (L. Romano, Un sogno del nord, cit., p. 181). È solo l’atto creativo quello che svela la realtà per la Romano,

quindi solo l’arte, ovvero la parola, la fotografia, la pittura ecc. hanno questo potere epifanico. Quando l'oggetto artistico colpisce la nostra sensibilità, allora noi “riconosciamo” quello che viene rappresentato; questo equivale per la Romano a un “rivedere”.

5% Autodizionario degli scrittori italiani, a cura di F. Piemontese, Leonardo, Milano 1990, p. 301. Il passo citato è in terza persona nonostante sia la Romano a scrivere di se stessa. 5 G. Cherchi, «Panorama», 4 agosto 1991.

5 E. Pecora, «Il Mattino», 12 novembre 1991.

161

7. UN SOGNO DEL NORD: CONCLUSIONI

Nel 1989 la Romano pubblica Un sogno del nord. Il libro è una raccolta di “brevi prose” (così le definisce l’autore nella prefazione) composte tra il 1945 e il 1988. Gli scritti sono raggruppati in dodici sezioni le cui date di composizione sono omesse per una ragione precisa: .. Ogni pezzo è databile, ma non datato. Databili perché sovente occasionali, legati magari alla cronaca; non datati in quanto non vi ho apposto la data... Presumo siano in grado [...] di non rischiare

l'oscurità o l'inedia per mancanza di referenze storiche... Forse perché l’attenzione era rivolta a qualche particolare immagine, emozione non deperibile: tale cioè da mantenere a lungo la contemporaneità... Le date impongono l'ordine diacronico. Qui l'ordine è un altro. I pezzi sono raggruppati per affinità, ma non rigorosamente. La mancanza del riferimento cronologico non stupisce in un autore come la Romano per la quale ciò che è importante permane immutabile nel mondo della memoria e della coscienza emotiva; la coesione di questi scritti esiste su una traiettoria non temporale, bensì tematica. Attraverso l'esame delle dodici sezio-

ni del libro è possibile ricostruire il “ritratto” sia personale che poetico della scrittrice. Per il lettore “ideale”, infatti, queste brevi prose dovrebbero rappresentare una sorta di traccia sulla quale seguire l'iter artistico della Romano dal dopoguerra a oggi. Questi scritti, tuttavia, sebbene risentano a volte di un certo clima

162

socioculturale, non permettono

mai una diretta ricostruzione

del periodo storico in cui sono nati.”

È d’uopo quindi esaminare le varie sezioni del libro per cercare di evidenziarne i temi e proseguire poi, ad analisi avvenuta, alla ricostruzione del “ritratto” artistico dell'autore. Il brano iniziale porta lo stesso titolo del volume, “Un sogno del

nord”, e descrive le impressioni di un io narrante femminile durante un viaggio in Svezia. Gli scritti che seguono parlano di altri brevi e lunghi viaggi e di “scoperte”: a Cheneil in autunno, le Grandes Jorasses, tre alberi del cortile di casa, una spedizione di pesca con il nipotino, una domenica in trattoria sul Ticino.

Quello che accomuna le prose di questa prima sezione non è tanto l'occasione, quanto le riflessioni che gli eventi sollecitano. Attraverso

uno stile rapido, scattante, ricco di riferimenti ai

sogni dell'infanzia della narratrice e al suo bagaglio culturale e artistico, nasce un “clima” che pervade tutta la sezione. Parlo di “clima” e non di tema perché la Romano non definisce mai, ma suggerisce o accenna, cosicché il “discorso” sulla natura e sull'arte, sulla pittura e sull'immagine, si crea quasi da sé attraverso le riflessioni di chi vive l’esperienza. Un esempio può essere il passo che tratta della suggestione dell'io narrante per i nomi scandinavi, suggestione, che cominciata nell'infanzia con le novelle di Andersen? e continuata nell'adolescenza con la lettura di Ibsen, riaffiora durante un soggiorno svedese:

Nel mio secondo viaggio a Stoccolma mi fu dato di penetrare materialmente, vale a dire inoltrandomi attraverso uno spazio e spiritualmente con l’emozione, la contemplazione, nel profondo “sogno del nord”. Questo evento [...] fu la navigazione attraverso l’Arcipelago [...] Era sera. All’orizzonte una striscia rossa, bassa nel cielo, era un Munch: forse

proprio quello di Il grido. Ma esiste un quadro, non 163

scandinavo, però di gusto nordico, del surrealista

Magritte, che rende l'incantesimo “baltico” di quelle case segrete. Non è surreale se non nel senso di “più che reale”, cioè vero. La luce interna della casa - fascino delle finestre illuminate, così strindber-

ghiano — e quella del fanale — altrettanto strindberghiano - e il cielo della sera — una sera perenne — chiaro al di sopra del buio dei folti alberi. E intitolato L'empire des lumières. La navigazione dell’Arcipelago è trascorrere in un paesaggio interiore. Lo dice Strindberg: “Quella visione ricordava un paese visto solo in uno splendido sogno, o in una precedente esistenza”.*

La capacità di penetrare un paesaggio sino a interiorizzarlo è evidente in tutti gli scritti di questa sezione; le immagini si impongono con nitidezza pittorica, scatenano sensazioni, diventano “mito”. Conoscere il mondo attraverso la penetrazione visiva viene proposto anche nell’ultimo scritto intitolato ‘La natura imita l’arte”. Citando il paradosso wildiano e affermando che “la natura non esiste se non come astrazione nostra, poiché solo quando l’arte ne ha creato un'immagine nuova, da allora siamo in grado di riconoscerla”, la Romano insiste sulla supremazia

dell'immagine. Così la festa campagnola di nozze sulle rive del Ticino, a cui la scrittrice assiste per caso, diventa subito un

Renoir: Sotto gli alberi sono molti tavoli apparecchiati e una folla di persone di tutte le età. Una luce verde piove dagli alberi, e macchie di sole toccano qua e là i toni chiari o bruni delle vesti. Nonostante le fogge diverse degli abiti, l’effetto è preciso: è il

Moulin de la Galette, quella festa della pittura e della |, vita... La piccola folla in festa è come chiusa in quella penombra, isolata fuori dal tempo: un’im-

magine appunto.°

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È la natura che rimanda all'arte, poi con cammino inverso si ritorna dall'arte alla natura, in un processo circolare che abbraccia tutta la prosa romaniana dai primi racconti sino agli ultimi

romanzi. La seconda sezione, “Un dio giovane da Tiffany”, prende il titolo dal primo scritto in essa contenuto; il “clima” non è mutato, sono ancora impressioni di viaggio in cui predominano le immagini, come attesta il brano iniziale:

Penso che si possa comunicare l’esperienza visiva di un viaggio. Dall’oblò [...] colgo immagini pittoriche molto nette: sulla Francia sono le composizioni geometriche di toni verdi e gialli dell’astrattista Soldati; sull’Irlanda piccoli rettangoli viola e verde spento: un prezioso Klee; dopo, i tracciati amplissimi e rigorosamente ad angolo retto sui deserti dell'Arizona, saranno dei Mondrian. Natura che imita l’arte, puntualmente. Nell’aereoporto Kennedy, ecco, sul banco della dogana, una natura morta di tipo “naif” [...]: una bambola, due arance [adi L'America, Londra, Los Angeles, Pont du Garde, immagini

che diventano metafore del carattere e della storia di luoghi e persone e ne rivelano l'essenza. Poiché l’immagine è così rivelatrice per chi sa coglierla, non potevano mancare nella terza sezione del libro, “Metamorfosi del sacro”, il cinema e la letteratura. La montagna sacra di Jordo-

rovskij e Jesus Christ Superstar sono interpretati secondo un'attenta lettura visiva che diventa segno del “sacro” e si apre a una interpretazione personale, penetrante e iconoclasta: Jesus Christ Superstar è rivalutato a scapito de La Montagna sacra. In Trasfigurazione secondo Bergman, il film del regista svedese Sussurri e grida, definito dalla critica ufficiale un caso di “realismo morboso”, viene letto in chiave pittorica: superando la lettura naturali-

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stica più ovvia, torici, a quella sorella morta, significato. Nel

la Romano giunge, grazie agli accostamenti pitsimbolica per cui anche il ritorno in vita della considerato il punto debole del film, acquista brano intitolato Il miasma del sacro, rifacendosi a

le Nozze di Cadmo e Armonia di Calasso, l'autrice distingue fra

magico e sacro: “... il magico è favola, sogno, bellezza; non così il sacro, che implica una violenza sempre in qualche modo reale, non metaforica”.® Nello scritto che segue, Ancora gli Dei, gli dei latini e greci vengono rivalutati appunto per il carattere di “sacro non violento” che rappresentano. La quarta sezione, “Ombre”, è la più interessante del volume. Gli scritti parlano tutti di amici scomparsi: Sereni, Solmi, Pavese,

Vittorini, C. Levi, Bacchelli, Pasolini, Aldrovandi, Momigliano,

Turin e Peano. Agli incontri con gli amici di una vita si mescolano riflessioni personali, letterarie e artistiche sulla loro opera come sulla propria; il tono diaristico si alterna a quello confidenziale; immagini intime e sentimenti affiorano in mezzo ai gesti, agli avvenimenti e ai ricordi. Il “non detto” si impone e dà a tutti gli scritti della sezione un sapore poetico. In Nel dormiveglia di un pomeriggio d'estate la Romano offre dell'amico Sergio Solmi uno dei ritratti più belli del libro: il poeta e l’uomo, il pubblico e il privato si mescolano e si rincorrono in una narrazione confidenziale, in un “colloquio”, come appunto si dichiara in apertura al brano, che l'io narrante immagina di avere con l’amico morto. La quinta sezione, “Incontri”, tratta di altri personaggi famosi: Moravia,

Soldati, Giulio Einaudi, Lubitsch; siamo

ancora

nell’ambito del cinema e della letteratura, ma poiché l’attenzione si appunta più sulle opere che sugli autori, questi scritti rispecchiano in particolar modo la poetica della Romano. Par-

lando dello stile di Soldati la scrittrice commenta di riflesso anche il suo; mettendo in evidenza il carattere autobiografico

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dello Smeraldo di Soldati l’autrice rivela cosa sia per lei l’’autobiografia”: Mi servo sempre — per mio uso — della distinzione desanctiana tra immaginazione e fantasia. Soldati le possiede entrambe. La suggestione immaginativa non agisce su di me: la tollero, se si accompagna, almeno per intermittenze, all'altra, la sola veramente creativa. Qui, nello Smeraldo, si compensano

benissimo... Tutte le opere di poesia sono opere filosofiche, non sistematiche si intende. Anzi, meno

lo sembrano e più lo sono. I romanzi che non sono filosofici non sono nulla. Il nuovo romanzo di Mario Soldati è filosofico. Non perché contenga specificamente pensieri; lo è perché è impegnato sul serio, e secondo me per la prima volta totalmente, con la realtà. La realtà “sua”. Ho detto tante volte a Soldati: “Quando ti deciderai a scrivere un libro in

prima persona?”. Mi suggeriva — in un incontro, appunto per strada — il titolo La continuazione, per il mio romanzo che s’intitolò poi Le parole ecc... Gli dicevo quanto rischiassi, con l’affrontare impietosamente quel mio dramma. “Tu puoi,” mi disse, “col tuo modo di scrivere; io non posso, col mio”.

L’autobiografia, in uno scrittore moderno, non può essere che “estrema”. Il romanziere autobiografico è tale se già ha vissuto la sua vita come dramma; ma lo riconosce solo a posteriori: è la condizione.’ Qui emerge una concezione del “fare poesia” che è fondamentale per capire l’opera romaniana. L'uso dell'io e della realtà personale “filtrata”, ridotta all'essenziale, e poi rivissuta sul filo della memoria indagatrice sono le costanti sulle quali sono costruiti tutti iromanzi della scrittrice da Maria a Le lune di Hvar. La sesta sezione, ‘La città”, tratta di cronaca, di femminismo, di Simone de Beauvoir, di Marguerite Duras, di questioni politi-

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co-sociali, di Cuneo e Milano (le due città dove la Romano ha

vissuto) e di quei problemi che concernono la vita cittadina, poiché, secondo l’autore, “... si sa che chi dà il tono al costume è la città. La campagna ha peso sull’eternità ma non, forse, sulla storia”.!° Nel passo Marte e Marie l’autore parla di femminismo, ma soprattutto parla della sua esperienza di donna scrittrice, e ritorna al nodo centrale della sua poetica, il “suo autobiografismo”:

Difficoltà che posso aver incontrato a ottenere da parte di alcuni un riconoscimento serio del mio lavoro le ho sempre attribuite, piuttosto che al sesso, alla mia modesta autorevolezza sociale; [...] so-

no difficoltà dovute a una insofferenza, questa proprio maschile, verso il “contenuto” dei miei scritti: scopertamente, quasi insolentemente autobiografico, e dunque di donna; mentre la “forma”... che è

l'essenziale, che è “tutto”, viene considerata... come una veste, il cosiddetto “scriver bene”... Ma il bello

è che il pregiudizio non è poi realmente contro il contenuto, ma inconsciamente proprio contro il piglio intellettuale, ironico, non convenzionale (non

sottomesso) della mia prosa."

Dal generale si passa al particolare: dal femminismo all’esperienza personale. Il fatto che la Romano abbia vissuto all’interno della cerchia intellettuale italiana, come attesta la sezione “Om-

bre”, non implica che la scrittrice sia sempre stata alla ribalta della scena culturale. Anche se ciò può stupire, considerando la

fama odierna dell'autrice, la Romano è rimasta per lungo tempo in ombra, in parte per il suo carattere schivo e in parte per la sua stessa scrittura. Le critiche di sempre contro il suo “modo autobiografico” di scrivere non sono tanto da imputarsi al fatto che l'autrice racconti di sé, come molte scrittrici fanno, bensì nasco-

no da un uso della parola che è sempre stato all'avanguardia,

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irrispettoso della sintassi e delle mode letterarie, asciutto e franto: uno stile appunto più vicino alla poesia che alla prosa, come lo definisce Pasolini. Il problema artistico riemerge con più evidenza nella settima sezione, intitolata “Dalla parte dello scrittore”. Qui la Romano

dà sfogo alle sue pene, cercando di chiarire una poetica che nella sua semplicità e coerenza di sviluppo avrebbe dovuto apparire limpidissima e invece ha attirato critiche e incomprensioni. Mettendo in campo vari autori e critici a partire da un articolo di Giuliano Gramigna sulla funzione dei sentimenti nel romanzo, la scrittrice postula dapprima la necessità di una “identificazione” tra lettore

e romanzo,

sostenendo

che ciò deve accadere

anche tra autore e romanzo,” per poi ritornare al problema dell’autobiografismo: Orbene, se così stanno le cose, come credo, mi do-

mando come i lettori (critici) intelligenti possano

così sovente farsi sviare dal pregiudizio del vissuto, nel caso di romanzi più scopertamente autobiografici. Non è certo più facile per questo tipo di scrittore, il processo di identificazione; anzi è più difficile, proprio perché si tratta per lui di por mano — impietosamente e insieme con estrema delicatezza (ri-

spetto) — al magma del suo stesso interno-esterno esistenziale. Ma il gioco (una volta si diceva il tormento) creativo non è meno libero: se il suo impegno è inteso e teso soltanto al lavoro da fare: per cui il materiale — autobiografico o no — diventa indifferente eppure prezioso come il modello e la tavolozza per il pittore. In questo caso un pittore che fa l’autoritratto. Rembrandt è più grande e tragico quando studia un uomo vecchio e deluso nella struttura e nell'impasto del suo stesso volto, che

quando lo cerca in un altro."

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Ne La scrittura e l'inconscio, secondo scritto della settima sezione, la Romano cerca ancora una volta di stroncare i pregiudizi di coloro che si oppongono all’uso del vissuto in letteratura e chiarisce l’importanza del sogno, menzionando Una giovinezza inventata e spiegando perché il libro non sia né un'autobiografia né una confessione, bensì una testimonianza “che può anche essere vista sotto l'angolo storico; perché la storia non è raccontata nei testi di storia, ma nei romanzi... La storia nasce dall’au-

tenticità e lo scrittore non può essere autentico se non quando parla di se stesso, della sua epoca, anche se per qualcuno è

necessaria una rappresentazione a lato”. I personaggi di Una giovinezza, spiega la scrittrice, mantengono il nome che hanno nella realtà perché non è sufficiente assumere un nome fittizio per diventare personaggio; una persona reale diventa personaggio quando risulta “inventata”, ovvero “inventata nel senso di

creata fantasticamente, nata da un'esperienza creativa”. Alla base di questa esperienza creativa sta la memoria, catalizzatrice delle esperienze che essa trasforma in immagini e quindi in mito, in un processo analogo a quello del sogno; per questo la Romano afferma “per me memoria vuol dire sogno”.!° In Corporale, terzo scritto della sezione, si parla dell'omonimo romanzo di Volponi e si critica la tendenza di molti lettori a identificare l’autore con il protagonista del romanzo; in Io e Kafka viene trattata la rispondenza tra i sogni de Le metamorfosi e alcuni

racconti di Kafka, partendo dal saggio di Piero Citati su Kafka stesso. Contemplazione e Perché scrivo sono una sorta di manifesto della poetica romaniana. Nel primo si torna, parlando de Le parole, al problema della memoria, qui definita “misura principe di ogni narrazione, come di ogni vita”. Secondo la Romano, la

memoria attua la prima scelta all’interno del vissuto, ritenendo

solo quello che “vale”. A ciò si assommarno poi i reperti tratti

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“dall'esistenza riflessa: dalla lettura dei poeti, dalla pittura, dalla x 18 à % È 7 È musica”. Per questo iÈ romanzi R della scrittrice sono ricchi di citazioni, che non costituiscono un inutile sfoggio di cultura, ma sono piuttosto “bagaglio del vissuto”. Nel secondo (Perché scrivo) l’autore spiega la genesi della sua opera: Si scrive, anzitutto, affinché qualcosa possa arriva-

re a essere. Vale a dire che all'origine è il desiderio di fermare — come quando si vuole fissare con un disegno un oggetto, un viso — qualcosa che non sarà più deperibile se non nella materia (carta, le-

gno, marmo, ecc.). Un libro (un quadro) da quando esiste entra nel movimento, nel fluire della Storia; ma, nella sua essenza, nel suo valore interno, è

fuori del tempo... Cosa voglio fermare? Parole, innanzi tutto (comunque non pensieri, immagini piuttosto)... Occorrono però molte parole per fare un romanzo. Perché quelle parole? Io sono convinta che nella scelta sta la spiegazione di tutto... Dapprincipio ci furono per me dei momenti, dei lampi; ma con queste cose si fanno poesie, non si costruiscono romanzi. Il fine è comunque lo stesso. Conservare (salvare) per la memoria, che è la ricchezza dell'umanità... Incominciai a riconoscere, con un'attenzione costante, anche se involontaria, lo

stesso splendore, la stessa suggestione che mi incantavano in certe parole, in alcune sequenze, serie

di eventi, nel corso della vita (della mia). Scoprii

che fra le cose (i luoghi, le persone) esistevano corrispondenze, ritorni... In una parola: vi riconobbi un ritmo. Seguendo un ritmo si può cogliere un tema (una storia) estraendola dalla complessità, dalla prolissità della vita; come una sonata nasce per virtù della sua forma al di sopra del frastuono del mondo. Dal ritmo nasce l'incanto del romanzo.

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Il vissuto, la memoria, le immagini, il ritmo: sulla traiettoria

di questi punti fondamentali si dipana l’intera opera romaniana. L'analogia tra parola e immagine, così come tra libro e quadro, non è casuale e lo conferma l'ottava sezione dedicata alla pittura. Sappiamo che la Romano aveva studiato pittura con Casorati nella scuola aperta dal maestro a Torino nel 1928; il passaggio dalle arti figurative alla poesia e in seguito alla prosa è stato uno sviluppo più che una svolta nella carriera artistica della scrittrice, come attesta il passo intitolato Poesia della pittura. A proposito di una mostra del pittore Francesco Menzio, l’autore parla di “pittura come poesia”, e sottolinea che “portare la pittura alla condizione della poesia significa considerarla alla misura dell’ispirazione e della ‘occasione’ [...] Si può dire del pittore, come del poeta, che egli è ‘interprete di sé e del mondo””.°° In altri brani della sezione (una mostra di Boccioni, di iperrealisti

americani, ecc.) attraverso sottili analisi pittoriche che denotano una conoscenza della materia da addetta ai lavori, con riferimenti che spaziano dalla letteratura al cinema, la Romano opera

una distinzione fra pittura e romanzo, basandosi sul fatto che la prima è “fruibile con un colpo d’occhio” e non richiede “tempo e fatica come un libro, una composizione musicale”. Il problema della supremazia dell'immagine è da collegarsi all'importanza che essa ha all’interno dell’opera romaniana. La grammatica franta e piegata, lo stile conciso, netto, la prosa racchiusa in brevi segmenti sono appunto il tentativo di arrivare

all'essenzialità, all’incisività tipica dell'immagine e costituiscono il tentativo di eguagliare l'immediatezza del visivo. Non occorre rammentare i primi racconti della Romano dove l’influsso della pittura è così evidente da “rallentare” la narrazione; è

sufficiente ricordare come l’immagine abbia condizionato lo sviluppo di tutta la sua produzione letteraria. Ne è testimone la

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nona sezione del volume intitolata “Io e l'immagine”, nella qua-

le non poteva mancare il riferimento a Lettura di un'immagine, il “romanzo fotografico” della scrittrice. In questo libro, come ricorderemo, alle foto sono accostate epigrafi dalla funzione illustrativa e non informativa, poiché lo scopo è di fornire “una

prospettiva di lettura delle immagini stesse in quanto simboli o metafore”, infatti, secondo l’autore, “se il linguaggio letterario è poetico, in quanto metaforico, lo è a buon diritto anche quello delle immagini”. Il fatto che le immagini possano essere lette come un quadro e appartengano alla “parola”, e quindi alla poesia, dimostra l'equivalenza che per la Romano esiste tra arte e poesia, tra immagine e scrittura. In questa sezione l’autore non parla solo di fotografia e pittura, ma anche delle copertine di Einaudi ai suoi libri (grafiche, quadri, fotografie), che per lei hanno un valore pregnante perché la loro scelta non è stata casuale, ma legata a un gusto estetico che va oltre la forma per collegarsi metaforicamente al contenuto del libro. Le ultime tre sezioni del libro, “Un palco alla scala”, “La mia

aria” e “Cuneo ‘45”, mostrano un’intonazione meno saggistica dei precedenti. “Un palco alla scala” parla di lirica e di musica classica, quest’ultima definita “misura di tutte le arti”, e ribadi-

sce quell’interesse musicale che il lettore ha già riscontrato attraverso i numerosi riferimenti contenuti nei romanzi. “La mia aria” tratta di Demonte e Cuneo, due luoghi “raccontati” in Maria, Tetto Murato e ne La penombra. Alcuni brani come La casa dello zio canonico e La cucina sono dei veri e propri racconti che illuminano un “tempo” mai esplorato nei romanzi maggiori. “Cuneo ‘45” infine contiene due prose, I tedeschi a Boves e Una strada qualunque, già pubblicate sul giornale partigiano «Giustizia e libertà» nel 1945.” Le due ultime sezioni sono un omaggio a Cuneo e a Demonte; qui gli eventi, gli incontri ricordati e i

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commenti sul carattere riservato e austero dei piemontesi ci offrono non solo l'affresco di un mondo che non esiste più, ma soprattutto forniscono uno scorcio dell'adolescenza dell'autore, narrato in una prosa che ricorda i romanzi maggiori. Questa sezione, ricollegandosi per contenuto e stile ai romanzi, getta luce anche sul retroterra della Romano, la conoscenza del quale è indispensabile per quel lettore attento che, ad esempio, voglia capire la ragione che sottende il continuo riferimento a “la mia aria” contenuto ne La penombra. Nel suo insieme Un sogno del nord costituisce una sorta di compendio dell’opera romaniana e presenta di conseguenza un “ritratto” letterario dell'autrice, poiché qui sono approfonditi tutti i punti fondamentali della sua poetica. Il libro illumina le opere precedenti e ne è a sua volta illuminato, giacché i temi e i motivi orchestrati nei romanzi vengono qui trattati in modo più strettamente teorico. Attraverso una lettura parallela dei romanzi e di Un sogno del nord il lettore acquista la visione precisa di un cammino artistico che si muove con straordinaria coerenza di sviluppo per oltre mezzo secolo.

Dopo aver esaminato le opere della Romano dagli esordi sino a Le lune di Hvar, aiutandoci con gli scritti di Un sogno del nord, resta comunque difficile assegnare alla scrittrice un posto specifico nel panorama della letteratura italiana contemporanea. Un cinquantennio di produzione artistica che si dipana lungo un periodo di grande cambiamento nella letteratura italiana come nel mondo, rendono la sua opera refrattaria a ogni categorizzazione, soprattutto perché ci si trova davanti a un autore che ha sempre ignorato le mode letterarie. Quando negli anni Trènta la Romano scrive i primi racconti, rifiuta la “prosa d’arte”, indifferente ai canoni dettati dallo establishment letterario; quando,

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nel 1951, pubblica Le metamorfosi, sciocca i critici perché in pieno Neorealismo si interessa di sogni e tralascia le realtà sociali. Non

si vuole affermare, tuttavia, che la Romano

sia stata

“impermeabile” ai movimenti culturali del suo tempo perché ogni scrittore, vivendo in una data società, ne resta in qualche modo influenzato, specialmente chi, come lei, ha stretto rapporti

di amicizia con quasi tutte le figure di spicco della letteratura italiana del Novecento.” Nonostante questi influenti legami, l’autrice è riuscita a mantenersi al di fuori di ogni moda letteraria, e questo grazie a una creatività dal percorso insolito che risente di una educazione artistica formatasi sulle arti figurative e sulla poesia. La particolare concezione dell’arte della Romano, se da una parte le ha impedito di seguire una “scuola”, quindi di collocarsi all’interno di una definita corrente letteraria, dall'altra

le ha permesso di poter sviluppare la sua vena artistica senza condizionamenti. Questa libertà creativa si è a volte purtroppo risolta nel tardo riconoscimento di opere come Maria, Tetto murato, Le metamorfosi e Inseparabile, ignorate o quasi dalla critica all’atto della pubblicazione.” Direi che quello che contraddistingue la Romano dagli esordi sino a oggi è la sua “modernità”. Lei stessa ne è consapevole, infatti in una recente intervista afferma: “Non dovrei essere io a

dirlo, ma credo di sì, credo di essere una scrittrice moderna... ”.°° L'autore è anche conscia del fatto di non aver mai goduto della debita considerazione da parte della critica e lo dichiara apertamente: “Quello che ho sempre trovato che mi mancava è un riconoscimento, diciamo globale, della mia maniera di scrivere...”; consacrata scrittrice dei petits riens, del quotidiano, dei

ricordi, della memoria, i critici, con alcune eccezioni, per lungo tempo non hanno colto il carattere innovativo della sua scrittura. 175

Uno sguardo ai testi di critica letteraria del Novecento mostra quanto il giudizio globale sull'opera romaniana sia stato approssimativo. Manacorda, nella sua Storia della letteratura italiana contemporanea, pone la Romano tra gli “gli scrittori della memoria” e Stacchini la colloca tra “gli scrittori della ricerca psicologica e memoriale”.”° Per la Vincenti l’autore sta “nel solco di quella tradizione tra neorealista e intimista, non immune da accenti lirici, [...] tipica di quella ‘linea piemontese’ che fa capo a Cesare Pavese”. Barberi Squarotti, invece, afferma che la Ro-

mano persegue “una ricerca al di là dei termini chiusi del Neorealismo”? e la associa agli scrittori che reagirono a esso. È sempre possibile incasellare o raggruppare gli scrittori, specialmente se il compito del critico è quello di tirare le somme sulla storia letteraria di un periodo; nondimeno, nessuna delle sud-

dette “etichette” è, a mio avviso, accurata, né dice abbastanza

sulla Romano. È indubbio che il riconoscimento della scrittrice da parte della critica è andato a rilento nonostante il conferimento di numerosissimi premi letterari. Solo nel 1991 con la pubblicazione del primo volume delle Opere nei Meridiani Mondadori la Romano entra nell'Olimpo letterario: la collana pubblica soltanto i classici della letteratura sia italiana che mondiale e quasi sempre opere di autori scom-

parsi. La consacrazione ufficiale è avvenuta tardi, dopo cinquant’'anni di lavoro quasi in sordina. Fortunatamente Cesare Segre, nell'importante saggio introduttivo, rende giustizia al

cammino artistico della scrittrice, mettendo in rilievo l’importanza della sua prima produzione in versi all’interno dell’opera e giungendo poi a penetranti interpretazioni sia della poetica

che dei romanzi della Romano.” Al prestigioso saggio di Segre si è affiancato anche Giulio Ferroni che nella Storia della letteratura (1991) dà un posto di rilievo alla nostra autrice e finalmente le

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concede quello spazio che nei precedenti manuali i critici le avevano negato, limitandosi al massimo a poche righe, a volte in nota.” Possiamo quindi affermare che la Romano, nell’ambito della letteratura italiana, si è guadagnata una posizione da outsider, giacché i suoi libri si sono sempre distaccati dalla produzione letteraria del momento

e solo alcuni critici come Vittorini,

Montale, Pasolini sono stati per primi capaci di apprezzarli al

momento della pubblicazione, intuendone il valore e la modernità. Il carattere moderno della scrittura romaniana è evidente già ne Le metamorfosi

(1951), scritto in uno

stile concreto,

“tutto

cose”, dalle frasi brevi, ma evocative, dalla lingua rapida, ma

vicina al dettato poetico. Questa modernità procede lungo un percorso a parabola, infatti da un libro all’altro l’uso dei mezzi stilistici subisce continui mutamenti. Da Nei mari estremi a Le lune di Hvar il linguaggio si essenzializza, la prosa già frantumata in capitoletti di una pagina si riduce a poche righe, a frammenti; lo stile già limpido e asciutto diventa rapido, spoglio, fulminante, simile al verso nel suo procedere per immagini create attraverso la massima concentrazione possibile della parola. Una scrittura, quella del nostro autore, che, come fa notare Segre, “esclude il

racconto filato”* e si esprime in “costruzioni sintattiche estremamente semplici, lineari” dovute al fatto che “nessuno scrittore misura come la Romano il peso delle virgole, dei due punti

e dei punti, la funzione fatale del punto fermo”. Se il cammino stilistico della Romano ha subito una evoluzione costante, i temi sui quali si articola la sua poetica sono rimasti immutati sin dagli inizi della sua carriera. Già nei lontani anni Venti l'artista “da giovane” aveva confessato al suo professore di storia dell’arte che le sarebbe piaciuto scrivere soltanto storie della sua famiglia e, difatti, è sufficiente uno sguardo alla

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sua produzione letteraria per rilevare una coerenza

tematica

notevole. La maggior parte dei romanzi della Romano presenta, come abbiamo appurato, un io narrante femminile che sul filo della memoria ricostruisce il passato: l'infanzia, l'adolescenza, la vita matrimoniale, l’esperienza di madre e di nonna. Ogni romanzo ha un protagonista diverso, ma la maggior parte di essi presenta gli stessi personaggi. A partire da Inseparabile la quantità dei riferimenti intertestuali è tale che il lettore, sprovvisto del “retroterra” creato dai precedenti romanzi, può avere difficoltà a seguire a fondo la narrazione; un esempio ne siano le tre righe iniziali di Maria inserite in Nei mari estremi per colmare narrativamente un “buco” temporale di cinquant'anni. Che ci sia un incremento dell’autobiografismo dai primi romanzi agli ultimi è innegabile, tuttavia, etichettare la Romano come una scrittrice autobiografica sarebbe veramente riduttivo. L'autore utilizza “materiali autobiografici per creare libri non autobiografici”” come acutamente sottolinea Segre, perché la Romano

lavora sulla memoria

per sottrazione, estraendo dal

vissuto solo quello che per lei è essenziale, vero; scrivere per lei equivale a ricercare una verità nascosta, ovvero a “far rivivere

l'emozione in quella che era la sua pregnanza, la sua purezza, la sua intensità”.* Questa verità, però, “non si concede mai intera,

bensì in occasioni, illuminazioni, epifanie”.” Da questo lo scavo continuo nella memoria per cogliere questi lampi di verità e l'estrema attenzione, sul piano stilistico, al tono. I romanzi della Romano eludono per complessità la semplice cronaca familiare. La scrittrice, invero, dà “spazio” narrativo non solo all’io narran-

te, ma anche ai personaggi. Questi sono quasi sempre filtrati attraverso gli occhi della voce narrante, ma riescono a cortquistarsi una loro autonomia attraverso due espedienti narrativi: i “documenti” e i dialoghi. In questo modo il pericolo dell’inva-

178

denza dell'io narrante viene scongiurato e allo stesso tempo si ottiene un duplice effetto di caratterizzazione: personaggi e narratore si definiscono a vicenda. La maggioranza dei romanzi della Romano è strutturata non linearmente, muovendosi dal presente al passato e viceversa; il complesso itinerario temporale e l'opposizione tra presente e passato sono due costanti della sua narrativa. L'autore ha affermato in diverse interviste che “noi siamo il passato”, in accordo con il filosofo francese Poulet che, a proposito del tempo, scrive:

“il presente è qualcosa che non è ancora diventato passato”. Nelle opere della scrittrice il passato illumina il presente perché l'insegnamento di “ieri” permette di capire meglio l’“oggi”, cosicché passato e presente formano un'unica entità. Il passato costringe spesso la narratrice a porre a confronto il suo io “attuale” con quello “antico”: in questo modo la narrativa romaniana non scivola mai nella rimembranza, ma diventa arricchita rivisi-

tazione del passato. Una terza dimensione temporale caratterizza i romanzi della Romano: il non-tempo. Nella coscienza emotiva di chi narra ogni cosa permane immutata: Ponte Stura è come appare nel presente e come era un tempo; Pietro è sia l’uomo che il bambino infelice; Innocenzo è morto, ma ancora circonda di affetto la

moglie. Ciò che la scrittrice crea, grazie all'opposizione di passato e presente e alla narrazione di semplici eventi quotidiani, è la

rappresentazione della crescita di una coscienza, del difficile processo del vivere, sempre complesso e altamente umano. I romanzi della Romano sono ricchi di riferimenti alla musica, alle arti figurative, alla filosofia, alla letteratura e alla poesia.

Questi sono i mezzi ai quali l’autore ricorre nella lotta per significare, spesso sono l’unico modo per comunicare metaforica-

mente, ma in modo rapido e preciso, un messaggio altrimenti

179

troppo complesso. I sogni soddisfano lo stesso bisogno: quello di riassumere e trasmettere lo stato emotivo dei personaggi in questione. La poesia e la pittura, le due maggiori attività artistiche della Romano antecedenti la letteratura, hanno influenzato

la sua prosa in maniera differente. L’influsso della pratica poetica sulla sua scrittura è evidente sin dagli esordi. L'autore scrive in brevi capitoletti dallo stile rapido, ma la nudità del linguaggio è in realtà il risultato di un processo che implica la sovversione della sintassi e la manipolazione della punteggiatura.‘ Uno stile che attraverso gli anni si fa sempre più simile alla poesia, come testimoniano le epigrafi dei libri “fotografici” (Romanzo di figure, La treccia di Tatiana, Terre di lucchesia) e il romanzo-sfida Le lune di

Hvar. Il rapporto tra pittura e scrittura è di natura duplice. All’interno della scrittura romaniana esiste una dialettica continua tra parola e immagine che si esprime in modi diversi nelle varie fasi della sua carriera. Se nei primi racconti la penna gareggia con il pennello, cercando di “rappresentare” più che di narrare, nei romanzi la Romano cerca di eguagliare tramite la parola il potere di rappresentazione diretta dell'immagine; naturalmente tale parola viene piegata e manipolata per raggiungere l’immediatezza e la pregnanza dell'immagine visiva. A tale scopo l’autore non solo “frantuma” la prosa che quindi procede per quadri, capitoletti, ma ricorre a referenti delle altre arti, soprattutto pittura e fotografia. L'acuta sensibilità visiva dell'autore si manifesta nell'attenzione continua per il dettaglio, ma nell'arco della

sua produzione anche i dettagli subiscono un processo di decantazione e, negli ultimi romanzi, la scrittrice fissa nella sua prosa solo quei particolari che colgono l'essenza delle cose. Le opere “fotografiche”, in special modo, confermano la posizione privilegiata che l'immagine ha sulla parola, e dimostrano la persi-

180

stenza e allo stesso tempo la fluidità di quegli interessi artistici, presenti all’inizio della carriera della Romano, che hanno via via acquistato aspetti molteplici nel suo iter narrativo. Il significato di Nei mari estremi, ad esempio, è contenuto nell'immagine ricorrente della nave che passa in mezzo alla spaccatura di un iceberg in un mare in tempesta, e non sarebbe comunicabile in modo più efficace ed esplicito se non attraverso tale immagine. Non c'è dubbio che la Romano sia una scrittrice colta; la sua

vasta erudizione affiora nei numerosi riferimenti culturali e nei titoli derivati da versi di Proust, Canetti, Montale.‘ L'autore,

però, manipola le fonti: le frasi prese a prestito perdono il significato originale e diventano emblematiche nel senso da lei desiderato. La complessità dei titoli pone il lettore di fronte a una metafora che per essere capita lo costringe a seguire con attenzione i motivi ricorrenti sui quali è intessuta la narrazione, che eludendo il racconto filato, è costruita come un’opera musicale su variazioni. Potremmo quindi concludere affermando che i romanzi della Romano hanno una struttura insolita, giacché non presentano mai una trama, bensì si articolano su un insieme di motivi che si intrecciano, appaiono, scompaiono, riappaiono e diventano chiari solo dopo l'impegno di una lettura attenta. La prosa romaniana è spesso lirica e intimista, ricca di introspezioni psicologiche e di epifanie, che sono il risultato della maniera soggettiva attraverso cui chi narra percepisce la realtà. I romanzi sono anche realistici. Essi trattano di eventi quotidiani, ma a una più attenta analisi è evidente che i romanzi sono costruiti su un doppio registro, quello della realtà quale sembra e quello della realtà quale viene percepita da chi narra, la cui sensibilità va oltre la superficie delle cose e raggiunge un livello più profondo,

scavando nel mondo interiore suo e dei personaggi, per rag181

giungere una dimensione nella quale l’esistenza umana acquista un significato universale.

NOTE

! L. Romano, Un sogno del nord, Einaudi, Torino 1989, p. V. Con questo libro la Romano vince il Premio Isola di Arturo Elsa Morante per la narrativa nel 1989. ? Nella Notizia che funge da breve introduzione a Un sogno del nord, la Romano sottolinea uno dei concetti fondamentali della sua poetica, affermando:

“Che

cosa, alla fine, compongono questi scritti brevi? Non già pretendono di scoprire una traccia della Storia (anche se ci sono dentro, naturalmente). La sola storia alla quale accennano, è la mia, per quello che vale” (L. Romano, Un sogno del nord, cit.,

p. V). Per un discorso più ampio sul posto che compete alla Storia nell'opera romaniana si veda il capitolo 1. * È opportuno sottolineare la connessione tra la novella di Andersen e Nei mari estremi, in quanto il richiamo alla favola non si limita al titolo, ma coinvolge anche il contenuto del romanzo, che narra appunto dei momenti rischiosi e fatali della vita. In Un sogno del nord, infatti, la Romano afferma: “Il nome “Baltico” era, nell'infanzia, all'origine dei miei sogni sui nomi. Anzitutto era un suono; evocava lontananze indefinite, mari deserti e freddi, lunghi crepuscoli... Poi mi incantò

il titolo di una novella di Andersen — anche i titoli erano fonte di sogni — che alludeva a una solitudine rischiosa e fatale, quasi disumana: Nei mari estremi” (L.

Romano, Un sogno del nord, cit, p. 5).

‘ Ibid., p.9. ° Tbid., p.21. 9 Ibid., p.21. ” Ibid., p.27. * Ibid., p. 54. ? Ibid., p.111. !° Ibid., p. 131. !! Ibid., p. 147. !° La Romano condanna l’identificazione tra lettore e protagonista, ma sostiene che l’identificazione tra lettore e romanzo, così come tra autore e romanzo, è indispensabile per la comprensione e la riuscita del testo letterario, e a questo proposito cita Flaubert: “ ‘Mme Bovary c'est moi’ non vuol dire che Flaubert

182

diventò Emma Bovary, anche se a un certo punto sentì persino il sapore dell’arsenico, ma il libro tutto quanto” (L. Romano, Un sogno del nord, cit., p. 178).

!° 44 !° !° !” !8. !° 2° 21 2

Ibid., Ibid., Ibid., Ibid., Ibid., Ibid., Ibid., Tbid., Ibid., Ibid.,

p. 178. p. 181. p. 181. p. 181. p. 195. p. 195. pp. 196-7. pp. 204-206. p. 215. p.221.

Questi due racconti hanno subito alcune revisioni stilistiche rispetto a quelli pubblicati nel 1945. Nell’analizzare i due racconti (si veda il capitolo 2) mi sono basata sui testi apparsi sul giornale partigiano «Giustizia e libertà» (1945) e non su quelli di Un sogno del nord. © Si veda la sezione “Ombre” di Un sogno del nord in cui si narra dei vari caffè milanesi dove la Romano, Solmi, Sereni e altri letterati e artisti per anni si sono incontrati (L. Romano, Un sogno del nord, Einaudi, Torino 1989, pp. 66-7).

® La maggior parte dei romanzi della Romano fu “scoperta” dai critici solo dopo la pubblicazione. Esempio lampante ne è il caso di Maria; Montale, sdegnato dal silenzio critico che circondò l'apparizione del libro, scrisse sul «Corriere della Sera»: “Se Maria portasse una firma più nota si potrebbe predire al libro una lunga e durevole fortuna; se portasse poi una firma straniera tutti ripeteremmo la solita solfa degli stranieri che sanno raccontare come noi non sappiamo e che hanno nel sangue la poesia dei ‘petits riens’...’’ (E. Montale, “Maria” in «Corriere della Sera», 28 giugno 1953). 2606 Petrignani, “Briciole di gloria” in «Panorama», 13 ottobre 1991. 2A. Ria, “La mia maniera di essere”, intervista a Lalla Romano, in «Il ponte»,

XLVII, febbraio 1992, n. 2, p. 118. 28 G. Manacorda, Storia della letteratura contemporanea, Editori Riuniti, Roma

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% F. Vincenti, Lalla Romano, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 5. ® G. Barberi Squarotti, La narrativa italiana del dopoguerra, Universale Cappelli, Rocca San Casciano 1968, p. 174.

183

® L. Romano, Opere, a cura di C. Segre, vol. I, Meridiani, Mondadori, Milano,

1991. Nel giugno del 1992 è uscito il secondo volume dei Meridiani Mondadori curato da C. Segre con un'ottima bibliografia critica a cura di Antonio Ria. ®G. Ferroni così definisce il linguaggio romaniano: “... una lingua che, innalzando a una misura ‘classica’ i modi linguistici della borghesia settentrionale, riesce a seguire le pieghe e le sfumature più sottili attraverso un originale uso della paratassi, con cadenze nitide e ferme, in cui si aprono improvvise sospensioni...” (G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, vol. IV, “Il Novecento”, Einaudi, Torino 1991, p. 561).

% L. Romano, Opere, a cura di C. Segre, cit., p. XI.

® Ibid., p. XI. % Tbid., p. XI.

Tbid., p. XLVII. 3A. Ria, “La mia maniera di essere”, intervista

a L. Romano, in «Il Ponte», cit.,

paliie % L. Romano, Opere, a cura di C. Segre, cit., p. XI.

‘° G. Poulet, Studies in Human Time, The Johns Hopkins University Press, Balti-

more 1956, p. 35. La traduzione è mia. 4! Si confronti P.P. Pasolini, “Dolore e passione nel racconto di una nonna innamorata” in «Tempo», 1 luglio 1973. Nel suo articolo Pier Paolo Pasolini definisce la scrittura franta della Romano, per la brevità e l’accurata scelta delle parole, più vicina alla poesia che alla prosa. 4°. La penombra che abbiamo attraversato è tratto da Proust (“la pénombre que nous avons traversée”); Una giovinezza inventata deriva da un verso di Canetti (“Una

giovinezza inventata, che diventa verità nella vecchiaia”); Le parole tra noi leggere è montaliano (“... le parole/ tra noi leggere cadono. Ti guardo/ in un molle riverbero...”), da La bufera.

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