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Italian Pages [190]
LA RIVOLUZIONE PIUMATA I NUOVI DINOSAURI E L'ORIGINE DEGLI UCCELLI VOLUME SECONDO
DAI TIRANNOSAUROIDI AGLI UCCELLI MODERNI
testo e illustrazioni di Andrea Cau
ISBN: 979-8-64-971976-6 Pubblicazione indipendente
INDICE dei capitoli Volume Secondo
Prologo Tirannie Mine vaganti Eresie Un Big Bang piumato? Artigli terribili Minimalismo giurassico Ala [sic] iacta est Il mistero della Valle Inadatta Volare Il modello anatomico moderno La non-estinzione degli aviani Epilogo
5 13 41 53 71 85 105 112 124 136 145 152 169
Riassunto iconografico Glossario Fonti bibliografiche per le illustrazioni Ringraziamenti
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Volume Secondo dai tirannosauroidi agli uccelli moderni
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"Le prove in questi cinque esemplari [di Archaeop teryx] puntano indubbiamente su
un antenato nei piccoli dinosauri teropodi celurosauriani." John H. Ostrom, Giugno 1976
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Prologo Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò
N el 1855, in una cava di calcare presso Riedenburg, in Baviera, fu scoperto un piccolo fossile. Da generazioni, le cave di calcare bavarese restituivano fossili eccezionali. In larga parte pesci ed invertebrati, vissuti nelle acque basse e calme di una antichissima laguna, conservati in modo eccellente; occasionalmente, anche gli scheletri di piccoli rettili, sia acquatici che volanti. Rispetto ad altri fossili rinvenuti nelle cave giurassiche bavaresi, quello di Riedenburg appariva alquanto misero: una manciata di ossa incomplete, in gran parte resti delle zampe, di un animale non più grande di un piccione. Due anni dopo la scoperta, l'esemplare fu interpretato dal paleontologo tedesco H. Meyer essere un rettile volante, una nuova specie del già noto genere Pterodactylus, battezzata P. crassipes. Nel 1860, il fossile di Pterodactylus crassipes fu acquistato dal museo Teylers di Haarlem, in Olanda, insieme ad una copiosa collezione estratta dai livelli calcarei della Germania meridionale. E lì rimase, quasi dimenticato per oltre un secolo, fino a quando fu notato da uno studioso di rettili volanti, P. Wellnhofer. Dopo aver esaminato il fossile, Wellnhofer mise in dubbio l'attribuzione data un secolo prima da Meyer: le ossa non avevano forma e proporzioni tipiche di Pterodactylus, né di altri rettili volanti noti. Una identificazione definitiva del fossile arriverà solamente nel 1970, quando esso fu analizzato dal paleontologo americano J. Ostrom. Per quanto frammentario, lo scheletro mostrava le proporzioni generali di un'altra specie fossile estratta dalle medesime cave bavaresi: il celebre uccello giurassico ancestrale, Archaeopteryx lithographica. Ostrom quindi concluse che l'esemplare battezzato da Meyer nel 1857 non fosse un rettile volante, bensì un uccello primitivo. Con una punta di soddisfazione, Ostrom aveva quindi "riscoperto" il primissimo esemplare di uccello giurassico trovato al mondo, dato che il fossile di "Pterodactylus crassipes" era stato battezzato tre anni prima della scoperta del primo esemplare "ufficiale" di Archaeopteryx litographica. Ostrom concluse che la specie "P. crassipes", basata su un esemplare così frammentario ed enigmatico, non fosse valida, e che il fossile in questione fosse quindi da "ricollocare" nel genere Archaeopteryx. Il paleontologo americano fu impressionato dalla rivalutazione di quel piccolo fossile, a prima vista secondario. L'esemplare di Haarlem (come 5
fu chiamato da allora lo scheletro di "Pterodactylus crassipes") difatti aveva mandato un messaggio inquietante: esistono fossili che possono essere attribuiti - erroneamente - ai rettili pur essendo invece degli uccelli. Ostrom si domandò quanto la mancanza di tracce evidenti di piumaggio nell'esemplare di Haarlem avesse "depistato" i paleontologi per oltre un secolo. Alcuni anni dopo, egli noterà che qualora lo stesso Archaeopteryx fosse stato scoperto privo di tracce di piumaggio, probabilmente esso sarebbe classificato tra i rettili, invece che tra gli uccelli. Negli anni immediatamente successivi alla rivalutazione dell'esemplare di Haarlem, Ostrom raccolse i dati relativi a tutti i rettili fossili che nell'ultimo secolo erano stati considerati dai paleontologi come possibili antenati degli uccelli. In particolare, Ostrom analizzò i vari rettili triassici, antenati di uccelli e coccodrilli, poi prese in considerazione i primi coccodrilli terrestri dell'inizio del Giurassico dalle proporzioni anatomiche molto più gracili e minute rispetto alle specie di oggi, ed infine si concentrò sui dinosauri carnivori. In modi e con motivazioni differenti, ognuno di quei gruppi era stato proposto come il possibile punto di partenza dell'evoluzione degli uccelli. Dopo aver confrontato le loro caratteristiche con quelle di Archaeopteryx, Ostrom concluse che il candidato più valido per l'origine degli uccelli fosse Theropoda, il gruppo composto dai dinosauri carnivori. Ad eccezione del piumaggio, notò Ostrom, l'anatomia generale dello stesso Archaeopteryx era indistinguibile da quella dei più piccoli dinosauri predatori. Il primo uccello estratto dalle cave bavaresi giurassiche altro non era, quindi, che un piccolo dinosauro "glorificato" dalle piume. Gli uccelli, pertanto, discendevano dai dinosauri. Nei successivi venti anni, la comunità paleontologica fu il campo di un acceso dibattito, tra una maggioranza crescente di sostenitori dell'ipotesi di Ostrom, ed una piccola ma agguerrita opposizione che non riteneva il legame tra dinosauri ed uccelli la spiegazione dell'origine di questi ultimi. Il fulcro della discussione rimaneva Archaeopteryx: era esso, in definitiva, un dinosauro piumato? Nell'Agosto del 1996, due geologi del Museo Geologico Cinese di Pechino, Q. Ji e S. Ji, rinvennero un fossile presso il villaggio di Shang Yuanxiang, nella provincia di Liaoning, a metà strada tra Pechino e la Corea. L'esemplare, praticamente completo e con lo scheletro in eccellente stato di preservazione, mostrava una creatura dalla lunga coda, gli arti anteriori corti ma robusti e zampe posteriori simili a quelle di un uccello. A rendere eccezionale la scoperta era però la traccia, ben evidente lungo il 6
dorso e parte del ventre, della pelle dell'animale, una pelle caratterizzata da essere ricoperta da un fitto piumaggio filamentoso. Nella nota preliminare pubblicata alcuni mesi dopo dai due geologi, essi rimarcarono che la presenza di piumaggio non lasci dubbi sulla attribuzione di questo animale agli uccelli. Interpretato come il più primitivo tra tutti gli uccelli, più arcaico dello stesso Archaeopteryx, il nuovo animale fu battezzato Sinosauropteryx prima, letteralmente, "il primo rettile piumato cinese" . Nella nota, gli autori si mantennero agnostici in merito al dibattito pro o contro un legame tra uccelli e dinosauri. Nondimeno, il nuovo fossile pareva proprio l'elemento chiave per chiudere la questione: disporre, finalmente, di un animale piumato ancora più arcaico del "primo uccello" avrebbe potuto sancire quale dei due fronti del dibattito fosse il vincitore. La notizia della scoperta di un uccello ancora più primitivo di Archaeopteryx fece rapidamente il giro del mondo. Purtroppo, l'articolo di Ji e Ji era piuttosto avaro di informazioni. Una scoperta di tale portata, che pareva colmare un vuoto evolutivo rimasto insoluto da più di un secolo, si accompagnava ad una grande frustrazione. La descrizione di questo fantomatico precursore di Archaeopteryx era pubblicata in un'oscura rivista cinese, scritta in mandarino. La sua fruibilità fuori dalla Cina era praticamente nulla, e per qualche anno non fu nemmeno disponibile una traduzione inglese. Nel frattempo, iniziò a circolare la notizia che un secondo esemplare della stessa specie fosse stato rinvenuto in livelli analoghi a quelli del primo fossile. Non solo, le voci che nel nord-est della Cina ci fosse un nuovo, eccezionale giacimento fossilifero circolavano sempre più frequentemente nei congressi di paleontologia, così come alle fiere internazionali di fossili. La febbre dell'oro paleontologico si diffuse lungo i vari istituti scientifici mondiali, per cercare di ottenere nuove informazioni su questi fossili, per avere una verifica indipendente, oltre che per aggiudicarsi l'esclusiva sul possibile prossimo fossile piumato, sicuramente in arrivo. Finalmente, un gruppo internazionale di paleontologi ebbe modo di visionare i due esemplari. Ciò che si trovarono di fronte fu persino più sconcertante dell'aver trovato il tanto atteso antenato di Archaeopteryx. La pelle dei due animali era chiaramente ricoperta da un sottile piumaggio filamentoso, una lanuggine sfrangiata che correva lungo il dorso, i fianchi e il retro della testa, simile al piumino dei pulcini. Quindi, Ji e Ji non avevano frainteso il reperto, né avevano esagerato la sua eccezionalità. Esso era genuino. Ma lo scheletro dei due animali non era proprio ciò che 7
molti si aspettavano di associare ad un precursore del primo uccello. Ad eccezione del piumaggio, il fossile di Sinosauropteryx era difatti indistinguibile da dinosauri come Compsognathus, il piccolo teropode rinvenuto più di un secolo prima nelle stesse cave bavaresi da cui provengono gli esemplari di Archaeopteryx. Se fosse stato scoperto solamente il suo scheletro, senza alcuna traccia delle piume, Sinosauropteryx sarebbe stato classificato senza dubbio tra i dinosauri teropodi, tra i rettili. L'unica possibile interpretazione per Sinosauropteryx era che esso fosse un dinosauro piumato! La Rivoluzione Piumata iniziò così, con un fraintendimento. Ritenuto inizialmente un uccello per via del piumaggio, Sinosauropteryx è un dinosauro, quindi, secondo gli schemi tassonomici tradizionali, un rettile. Se si ignorano le sue piume, Sinosauropteryx è indistinguibile dai "classici" dinosauri carnivori, così come li conosciamo dalla fine dell'Ottocento. Pareva essersi ripetuta, in modo speculare, la storia di "Pterodactylus crassipes", l'esemplare interpretato inizialmente come rettile ma che Ostrom aveva poi riclassificato come uccello. E in modo speculare a ciò che aveva immaginato Ostrom (un uccello primitivo privato del piumaggio sarebbe interpretato come rettile), così ora un dinosauro dotato di piumaggio era interpretato come uccello primitivo. I due animali con cui ho aperto questo Secondo Volume de "La Rivoluzione Piumata" sono, rispettivamente, il primo uccello fossile ed il primo rettile (nel senso "tradizionale" del termine) fossile scoperti con tracce di piumaggio: essi sono gli episodi iniziale e finale di una singola epopea scientifica. La rivalutazione di "Pterodactylus crassipes" e quella speculare - di Sinosauropteryx prima sono difatti i due lati della medesima medaglia, le due interfacce dello stesso specchio evoluzionistico, contro il quale i paleontologi hanno riflesso per oltre un secolo i propri pregiudizi interpretativi: poste a venticinque anni di distanza una dall'altra, queste due vicende aprono e chiudono la grande transizione scientifica che iniziò con il "Rinascimento" dei dinosauri (negli anni '70), proseguì con il grande dibattito sull'origine degli uccelli (negli anni '80), e che si chiuse con la scoperta degli eccezionali giacimenti fossiliferi ricchi di dinosauri piumati (negli anni '90). La rottura dello specchio e la dissoluzione del confine virtuale tra rettili e uccelli ha aperto la Rivoluzione Piumata in cui stiamo vivendo, ormai, da oltre due decenni. Nel Primo Volume, ho tracciato le fasi iniziali della sequenza evolutiva che parte dall'ultimo antenato comune di coccodrilli ed uccelli, vissuto all'inizio dell'Era Mesozoica (circa 250 milioni di anni fa), sequenza che 8
risale lungo la linea che conduce all'origine dei dinosauri, prosegue per i primi dinosauri teropodi e giunge all'ultimo antenato che gli uccelli hanno in comune con i grandi carnosauri giurassici. Questo antenato con i carnosauri si ritiene sia vissuto circa 170-180 milioni di anni fa. Siamo solamente a metà strada lungo il cammino che porta agli uccelli moderni: si stima che durante questa prima fase, circa il 40-45% delle innovazioni anatomiche (che possiamo osservare nei fossili) e che formano il modello anatomico degli uccelli odierni si sia formato a accumulato nella biologia di questi animali. Volendo usare una "misura" del grado di avvicinamento all'anatomia degli uccelli, se l'antenato comune di uccelli e coccodrilli si colloca al livello "zero" di questa sequenza, e gli uccelli moderni li collochiamo al valore "100", tutti i gruppi incontrati nel Primo Volume si dispongono lungo vari gradini posizionati tra i valori "10" e "40". Questo non significa che la loro evoluzione fu una semplice spinta verso una condizione ideale rappresentata dagli uccelli, né avrebbe senso dire che un dinosauro primitivo sia un uccello "al 15%" . Abbiamo visto come ciascun gruppo, indipendentemente dagli altri, abbia poi evoluto proprie specializzazioni ed innovazioni: il valore menzionato qui sopra è solo un modo molto semplificato per stimare quanto delle caratteristiche che oggi formano l'anatomia peculiare degli uccelli fosse già presente anche nei vari dinosauri e dinosauromorfi triassici e giurassici. Notate quindi che il restante 55-60% delle innovazioni anatomiche oggi uniche degli uccelli non fosse ancora realizzato a metà del Giurassico: difatti, più della metà di ciò che "definisce" gli uccelli sarà acquisito durante la seconda parte di questa storia, tra 180 e 80 milioni di anni fa (tra la metà del Giurassico e la fine del Cretacico). Ripercorrendo - molto sommariamente - il cammino seguito nel precedente volume, durante i primi ottanta milioni di anni della storia evolutiva che conduce agli uccelli attuali, incontriamo numerosi elementi che, pur essendo oggi fondamentali per permettere il volo battuto, in origine non comparvero come adattamenti per la locomozione in aria. Tra la metà del Triassico e la prima parte del Giurassico, difatti, gli antenati degli uccelli acquisiscono innumerevoli innovazioni anatomiche sia negli apparati che lasciano tracce fossili, come lo scheletro o la pelle, sia in quelli che possiamo dedurre indirettamente dalle tracce ossee, come l'apparato respiratorio e muscolare, innovazioni ognuna delle quali legata a peculiari adattamenti e condizioni specifiche del contesto ambientale in cui questi animali vissero e prosperarono. Molto spesso, queste condizioni erano ben diverse dalle quelle in cui, oggi, gli uccelli vivono e 9
prosperano. Queste innovazioni nell'anatomia e nella fisiologia hanno progressivamente portato animali quadrupedi e dall'aspetto "tipicamente" rettiliano ad assumere una morfologia sempre più simile a quella che osserviamo negli uccelli, pur tuttavia non acquisendo completamente la piena biologia di questi ultimi. Il risultato furono animali che - se fossero vivi oggi - difficilmente riusciremmo a collocare dentro le categorie tradizionali di "rettile" ed "uccello" : animali "non più unicamente rettiliani" ma nemmeno "completamente aviani", sia a livello di biologia che di comportamento. In particolare, la prima fase della storia dei dinosauri ha comportato l'acquisizione di due dei caratteri chiave degli uccelli, che più li distinguono dai loro parenti rettiliani: la postura bipede eretta (l'animale cammina solo sulle zampe posteriori, le quali sono erette verticalmente e non proiettate di lato), e un piumaggio filamentoso che ricopre buona parte del corpo. Abbiamo visto come la "fondazione" dei dinosauri predatori, i teropodi, sia avvenuta nel momento in cui l'arto anteriore dei primi dinosauri si "vincolò" all'apparato boccale, formando una nuova entità, un "modulo" unico e del tutto inedito nel regno animale. La versatilità di quel "modulo" è stata difatti una delle chiavi del grande successo dei dinosauri predatori, che a partire dal Giurassico, 200 milioni di anni fa, occuparono stabilmente tutte le principali nicchie ecologiche carnivore dei continenti. Abbiamo descritto, infine, la grande Corsa agli Armamenti, e come questa contrappose tutti i dinosauri, sia prede che predatori, in una serrata co evoluzione e competizione per le risorse. In particolare, la corsa agli armamenti ha potuto spingere i dinosauri verso il gigantismo, grazie alla particolare combinazione di elementi che formano la biologia unica di questi animali, e che li differenzia sia dagli altri animali mesozoici, sia dalle specie viventi oggi. Avevamo concluso il Primo Volume menzionando un gruppo dei dinosauri predatori che non parve essere molto coinvolto dalla Corsa agli Armamenti, e che, almeno durante il Giurassico, non produsse specie giganti: i celurosauri. Coelurosauria, il grande ramo dei dinosauri teropodi al cui interno si dispiega l'intera seconda parte del cammino che porta agli uccelli moderni, è anche quello che maggiormente ci ha fornito informazioni sulle fasi progressive di "costruzione" della biologia degli uccelli. In particolare, la maggioranza dei fossili di dinosauro noti finora che preservano tracce di piume appartiene a questo gruppo. Ci si domanda come mai i resti di piume siano meno frequenti (o del tutto assenti) nei fossili degli altri gruppi di dinosauri predatori. La risposta si articola su lO
una sommatoria di fattori, e non implica necessariamente che negli altri tipi di dinosauro non ci fosse in vita il piumaggio. Abbiamo visto, nel Primo Volume, che tracce di piumaggio (o di filamenti che sono interpretabili come una forma primitiva di piuma) siano presenti in alcuni fossili di dinosauri omitischi (uno dei tre gruppi principali di Dinosauria, assieme a teropodi e sauropodomorfi) e persino negli pterosauri (i rettili volanti imparentati con i dinosauri): pertanto, non ci sono ragioni evoluzionistiche per negare, a priori, la presenza di piumaggio anche nei teropodi che non appartengono a Coelurosauria. Abbiamo anche visto che nella maggioranza dei casi la preservazione (e, specularmente, la non preservazione) delle piume sia regolata da un mix di fattori ambientali e geologici relativi più al sito in cui il corpo del nostro animale piumato va a depositarsi, piuttosto che alle effettive caratteristiche dell'animale. Più che ragioni biologiche, quindi, per comprendere come mai certi fossili siano privi di piume dobbiamo cercare cause geologiche, che incidono sulla probabilità di formazione di fossili così fragili, e che quindi possono influenzare la conservazione di quelle tracce. Le impronte di piume, ed il loro grado di preservazione nei fossili, sono vincolati a innumerevoli fattori legati al tipo di sedimento in cui il corpo dell'animale si deposita, oltre che alle condizioni fisiche e chimiche che favoriscono la trasformazione del corpo in fossile: non deve quindi sorprendere se, ad oggi, i resti di questo tessuto siano così rari e frammentari. La rarità delle condizioni di fossilizzazione rende anche più eterogenea la possibilità che un determinato animale possa depositarsi in quei contesti, poiché non tutti i gruppi di dinosauro mostrano la medesima abbondanza nel tempo e nello spazio. Se, banalmente, un tipo di dinosauri era poco abbondante in quei contesti dove è più facile che le piume fossilizzino, sarà scarsa la probabilità di trovare fossili di quel tipo di dinosauro che conservino tracce di piume. La maggiore frequenza di resti di piume nei celurosauri è probabilmente dovuta ad una fortunata serie di eventi, che ha favorito i resti di questi dinosauri rispetto ad altri gruppi, ma anche, banalmente, al fatto che essi siano i dinosauri più abbondanti nei siti con le condizioni idonee per la fossilizzazione delle piume. Ad esempio, la maggioranza dei siti fossiliferi idonei alla preservazione delle piume, noti finora, risale all'intervallo tra 160 e 120 milioni di anni fa in Asia nord-orientale: in quelle particolari coordinate di tempo e spazio, i fossili di celurosauri abbondando, mentre gli altri gruppi sono molto più rari. Forse, un giorno, troveremo livelli adatti alla fossilizzazione delle piume risalenti ad altri momenti del Mesozoico, ed in altre regioni del 11
mondo, nelle quali abbondano gli altri tipi di teropode: in quel caso, allora, parte della storia che ho tracciato nel Primo Volume, ed il suo contributo relativo all'evoluzione del piumaggio, sarà in gran parte da aggiornare.
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Capitolo primo Tirannie
COELUROSAURIA
c
MANIRAPTOROMORPHA
ll più famoso tra tutti i dinosauri, Tyrannosaurus è anche il portabandiera di uno dei rami principali di Coelurosauria: Tyrannosauroidea. Paradossalmente, nonostante sia il più celebre rappresentante del suo gruppo, questo genere è una forma molto peculiare di tirannosauroide, e non può essere preso come modello di riferimento per comprendere il resto della stirpe. (Ricostruzione in vivo di Tyrannosaurus basata sulla ricostruzione scheletrica realizzata da S. Hartman, 2009)
In una breve nota del settembre 1892, il paleontologo americano E.D. Cape descrive alcune ossa del torace di un grosso dinosauro rinvenute in livelli della fine del Cretacico da Laramie, nel Sud Dakota (databili a circa 66-67 milioni di anni fa). Le ossa erano incomplete, in parte erose, e niente altro di quell'individuo era stato rinvenuto. Per quanto scarsi, questi resti sono degni di menzione da parte di Cape principalmente per le loro dimensioni: grandi vertebre cilindriche lunghe 9 cm e col diametro di 20 cm. Come egli riportò, si trattava della "specie di dinosauro più gigantesca da Laramie" . Cape battezzò questa specie Manospondylus gigas (da non confondere con il nome di un altro dinosauro, Massospondylus), e la collocò all'interno di un gruppo di dinosauri vegetariani istituito da pochi anni, Agathaumidae (nome oggi in disuso, ed equivalente in parte a ciò che oggi chiamiamo Ceratopsidae, uno dei più diversificati gruppi di dinosauri omitischi, comprendente il celebre Triceratops). Quindici anni dopo, in una revisione dei dinosauri ceratopsidi, Manospondylus fu riconosciuto non essere un omitischio, bensì un teropode: la presenza di cavità pneumatiche nelle due vertebre, difatti, esclude l'appartenenza agli omitischi (vedere il Primo Volume). Nove anni dopo, il nome Manospondylus, creato per quelle due vertebre, sarà definitivamente
"soppresso", in quanto basato su resti troppo frammentari per poter fondare una specie valida. Più che il ridotto numero delle ossa, fu la mancanza in quei resti di caratteri distintivi a livello di specie a condannare Manospondylus. L'unica informazione sicura fornita da quei resti è che appartengono ad un teropode gigantesco, e ciò è troppo poco per definire una specie valida. Il primo nome scientifico dato al più colossale tra tutti i teropodi era così rimosso dalle tassonomie ufficiali. Autore della definitiva esclusione di Manospondylus dal pantheon dei dinosauri iconici fu H.F. Osborn, proprio colui che, nel 1905, aveva dato il nome all'unico teropode della fine del Cretacico del Nord America che abbia le dimensioni giuste per poter essere il "proprietario" delle vertebre battezzate con il nome di "Manospondylus gigas": Tyrannosaurus rex. Alcuni studiosi hanno di recente sollevato la questione se, in base alle norme ufficiali di nomenclatura zoologica, il nome "valido" del più celebre animale estinto, cioè il nome scientifico in regola con il codice di tassonomia, debba essere Manospondylus gigas piuttosto che Tyrannosaurus rex. Se i due nomi si riferiscono alla stessa specie - è la motivazione principale - si dovrebbe concludere che il nome battezzato per primo sia quello valido. Il codice di nomenclatura zoologica risponde negativamente a queste speculazioni, in modo netto: per una serie di motivazioni slegate dal destino di Tyrannosaurus, il termine "Manospondylus" non è un nome valido, e quindi non può prendere il posto di altri nomi, persino in casi, come questo, in cui siamo praticamente sicuri che le ossa di Manospondylus gigas appartengano allo stessa specie che chiamiamo Tyrannosaurus rex. Al di là delle motivazioni di forma, la diatriba è, nella sostanza, alquanto pretestuosa e, nella pratica, del tutto inutile. Forse, in un universo alternativo, Mare Bolan è stato il fondatore dei "M. Gigas", ma in questo è, legittimamente, ricordato come frontman dei "T. Rex" . I nomi scientifici sono oggetti per la comunicazione scientifica, non feticci da cambiare in base alla moda, ed il codice di nomenclatura è uno strumento al nostro servizio e non un totem da applicare in modo acefalo. Per quanto sovente descritto come una accozzaglia di bizantinismi e ottuse norme burocratiche, il Codice Internazionale di Nomenclatura Zoologica è anche guidato dal buon senso, e include clausole per salvaguardare l'utilità dei nomi in casi come quello della fantomatica "resurrezione nominale" di M. gigas e la conseguente soppressione del binomio "T. rex": abbandonare un nome ormai di larghissimo uso sia nella letteratura scientifica che nel discorso comune per rimpiazzarlo con un termine conosciuto solamente dagli 14
addetti ai lavori e comunque non più usato in alcuna pubblicazione scientifica fin dal 1916, non produrrebbe alcun miglioramento nella conoscenza di questo dinosauro, e porterebbe solo molta confusione, soprattutto tra chi non è pratico di regole tassonomiche. Comunque si voglia chiamare l'animale a cui appartenevano quelle ossa, esso rappresenta la versione estrema di una genealogia molto longeva di teropodi predatori, noti come tirannosauroidi, una genealogia che solo di recente si sta dimostrando essere molto più complessa e ramificata della semplice traiettoria che ha portato al famoso Tyrannosaurus. Dato che i nomi a volte possono essere fuorvianti, è bene leggere con attenzione i termini che userò in questo capitolo: Tyrannosaurus è uno tra i vari membri di Tyrannosauridae, e, a sua volta, Tyrannosauridae (suffisso "-idae") è uno tra i vari rami di Tyrannosauroidea (suffisso "-oidea") [in generale, la regola terminologica è che "Qualcos-idae" è sempre un ramo di un "Qualcos-oidea" più ampio e diversificato]. I più antichi tirannosauroidi conosciuti risalgono alla metà del Giurassico, e sono quindi 100 milioni di anni più antichi di Tyrannosaurus. Già questo dato esprime l'enorme successo di Tyrannosauroidea: la sua storia copre un arco di tempo pari ad una volta e mezzo l'intera "era dei mammiferi", e non si riduce alla manciata di milioni di anni della fine del Cretacico, durata effettiva della specie T. rex. I tirannosauroidi del Giurassico Medio e Superiore si collocano principalmente in due gruppi, proceratosauridi e stokesosauridi, di cui il primo è il meglio noto grazie ad alcuni scheletri quasi completi rinvenuti in Cina. Usando il proceratosauride Guanlong, noto per alcuni esemplari ben conservati, come riferimento, si può delineare l'anatomia generale e l'ecologia dei primi tirannosauroidi. Essi non si discostano nelle caratteristiche generali da quelli che riteniamo essere stati i primissimi celurosauri, che purtroppo non abbiamo ancora scoperto, ma che deduciamo in base alle caratteristiche condivise dai principali rami di Coelurosauria: animali lunghi al massimo due-tre metri, e dalla costituzione fisica molto leggera ed affusolata. Nella testa, il muso è più allungato rispetto ad altri teropodi giurassici (come gli allosauridi). In particolare, in questi animali la narice del cranio era molto ampia e stretta, ed estesa per più di un terzo del muso. Questa caratteristica non implica necessariamente che anche la narice "carnosa" (quella che avremmo visto nell'animale in vita) fosse così allungata, dato che in molti rettili la cavità nasale del cranio è generalmente ben più ampia dell'apertura "carnosa" delle narici, visibile 15
in vita, le quali occupano solamente la parte più anteriore della cavità
ossea. L'allungamento della narice ossea deve essere interpretato come un accorgimento biomeccanico, come altri visti in precedenza, per alleggerire il cranio in concomitanza con il suo allungamento: è plausibile che in vita questa finestra fosse per larga parte occupata da tessuto adiposo, dalle vie respiratorie vere e proprie e dai sacchi aerei. Per quanto alleggerito dalla lunga narice, il muso dei tirannosauroidi non era comunque fragile: le ossa nasali erano difatti fuse assieme e rinforzate al centro da una lunga cresta, che in alcuni casi si espandeva in alto a formare un vistoso ventaglio. Abbiamo visto questi due caratteri (fusione delle ossa nasali e formazione della cresta centrale) anche negli spinosauridi (vedere il Primo Volume): si tratta quindi di una soluzione anatomica molto efficace che fu "inventata" da più linee di teropodi quando svilupparono dei musi allungati, per permettere alla testa di sopportare le forze di torsione a cui era soggetta durante il morso e la manipolazione della preda (non bisogna dimenticare che l'apparato boccale sarà sempre la principale "arma" dei teropodi, ed il loro strumento primario per la presa e manipolazione di oggetti, incluse le prede: gli uccelli hanno ereditato questa tendenza a manipolare gli oggetti servendosi del becco come "mano"). Dato che la presenza di una cresta mediana sul muso è condivisa anche da alcuni allosauroidi primitivi (come Monolophosaurus) e da alcuni ceratosauri giurassici (lo stesso Ceratosaurus prende questo nome, "rettile cornuto", dalla sua cresta nasale), è intrigante sospettare che questa caratteristica legata all'irrobustimento del muso sia una innovazione anatomica comune di tutti i primi averostri, sia ceratosauri che tetanuri. Se questa interpretazione evoluzionistica fosse confermata, allora la cresta nasale dei primi tirannosauroidi non fu una loro "specializzazione" peculiare, bensì un retaggio dell'antico modello anatomico comune a tutti i teropodi giurassici, retaggio della iniziale radiazione degli averostri, poi perduto quando i tirannosauroidi si adattarono ad un nuovo stile di vita verso la metà del Cretacico. Nel Primo Volume, è stato introdotto il concetto di "modulo testa braccio", come utile criterio per interpretare l'evoluzione di molte caratteristiche nei dinosauri predatori. Applicando il concetto di modulo alla testa dei primi tirannosauroidi, possiamo quindi dedurre quale fosse la morfologia delle loro braccia. Abbiamo visto che gli spinosauridi avevano evoluto musi molto allungati, irrobustiti dalla ossa nasali fuse e rinforzate da una cresta mediana, e che questa morfologia del cranio era associata ad arti anteriori specializzati per una presa "a tenaglia" ed 16
armati di lunghi artigli falciformi. Pertanto, alla luce delle caratteristiche dei loro crani, ci aspettiamo che gli arti anteriori dei primi tirannosauroidi giurassici rispecchino il modello visto in alcuni allosauroidi e, soprattutto, negli spinosauridi. Gli arti anteriori conservati nei proceratosauridi confermano questa predizione: essi sono relativamente allungati, dotati di mani ben sviluppate ed armate con tre artigli falciformi. Difatti, per buona parte della loro storia, i tirannosauroidi avranno arti anteriori perfettamente funzionanti, in alcuni casi armati di grandi artigli molto allungati. La riduzione dell'arto anteriore, così spesso associata al "modello tirannosauriano" (al punto da comparire in vignette e meme di vario tipo), è assente in tutti i tirannosauroidi vissuti prima di 90 milioni di anni fa. Per quanto vada contro l'iconografia "popolare" di questi teropodi, per tre quarti della loro storia non sono esistiti tirannosauroidi con arti anteriori ridotti: T. rex e simili (i tirannosauri "classici") erano l'eccezione, non la regola. Alcune scoperte recenti hanno molto arrichito le nostre conoscenze sulla parte intermedia della storia dei tirannosauroidi, compresa tra 130 e 90 milioni di anni fa, quindi precedente la comparsa dei tirannosauri "classici" (quelli, appunto, con arti anteriori ridotti). Una è più direttamente legata alla Rivoluzione Piumata, dato che riguarda proprio la pelle di questi teropodi. Dagli ormai celebri livelli delle "Pompei Cretaciche" della Cina nord-orientale (introdotte nel Primo Volume), risalenti a 125 milioni di anni fa, sono state estratte tre specie di tirannosauroidi: in due casi, i loro resti includevano tracce della pelle. Di questi, il primo esemplare, lungo circa 2 metri, potrebbe essere imparentato coi proceratosauridi, oppure essere più prossimo alle forme successive, compresi i tirannosauridi "classici", ed è stato chiamato Dilong. Il secondo, lungo circa 8 metri, è un possibile proceratosauride gigante, battezzato Yutyrannus. Entrambi rispecchiano la morfologia generale già vista in Guanlong: cranio e muso allungati, dotato di una cresta nasale centrale, ed arti anteriori sviluppati e muniti di tre lunghe dita armate di grandi artigli. Sebbene le tracce di pelle negli esemplari (uno di Dilong e tre di Yutyrannus) siano in tutti i casi parziali, esse si distribuiscono su buona parte del corpo, e mostrano una fitta copertura di filamenti che andava dalla testa, al collo, fino agli arti e la coda. Pertanto, è plausibile che in questi dinosauri il piumaggio ricoprisse la gran parte del corpo. Il piumaggio in questione è formato da filamenti singoli oppure riuniti alla base a formare uno stelo comune, ramificato all'apice. Se in Dilong i filamenti sono relativamente corti, nel ben più grande 17
Yutyrannus possono superare i 20 cm di lunghezza. Questo ultimo fossile è attualmente il più grande animale per il quale sia documentata la presenza di piumaggio: con una massa stimata in circa due tonnellate, almeno quaranta volte quella degli altri dinosauri ricoperti di piumaggio scoperti finora, esso dimostra che non esistono vincoli fisiologici per la presenza di questo tegumento in animali di tali dimensioni. La scoperta di un grande tirannosauroide piumato ha acceso un dibattito su quanto grande fosse il più grande animale piumato esistito. La questione è se Yutyrannus ci documenti il limite massimo delle dimensioni raggiungibili da animali piumati (con l'implicita conclusione che tutti i dinosauri sopra le due tonnellate fossero privi di piumaggio), oppure se il limite fosse ben al di sopra di quelle dimensioni (o non ci sia alcun limite). In assenza di prove dirette dai fossili, tutte le opzioni rientrano nel variegato mondo nelle speculazioni, spesso viziate dalla propria idea di come e perché il piumaggio possa o non possa essere presente in animali di grandi dimensioni. Numerosi fattori giocano e si combinano per determinare se un animale sia ricoperto da un tegumento filamentoso (piume o pelo) oppure ne sia privo, e non tutti questi fattori sono deducibili dai fossili. Come è stato mostrato nel Primo Volume, la Rivoluzione Piumata ci ha mostrato che la condizione "default" dei dinosauri è di essere ricoperti sia da piumaggio che da squame, e che quindi, in assenza di fattori che possano modificare quella condizione, si deve assumere che tutti i dinosauri siano, come "progetto base", animali dotati di entrambi i tegumenti. Dato che, almeno nei mammiferi, noi osserviamo animali privi di pelo nonostante che la condizione "default" di quel gruppo sia la pelliccia, un simile argomento è stato sollevato a proposito di alcuni dinosauri, soprattutto quelli di maggiori dimensioni, per sostenere la perdita del piumaggio in quelle specie. Prendendo come riferimento i mammiferi, si presume che la perdita del tegumento filamentoso sia regolata da vari fattori, sia biologici che ambientali. Il primo fattore, spesso abusato in queste discussioni, è il clima: si assume che in climi caldi gli animali di grandi dimensioni tendano a perdere il rivestimento filamentoso, dato che la presenza di un manto filamentoso (come il pelo o il piumaggio) porterebbe l'animale a surriscaldarsi pericolosamente. Questo genere di argomenti richiede la ricostruzione - anche solo grossolana - delle condizioni climatiche in cui vissero gli animali in questione. I dati paleoclimatici dimostrano che durante il Mesozoico il clima globale è stato, in generale, più caldo 18
dell'attuale. Tuttavia, non bisogna assumere che l'intero pianeta sia stato uniformemente caldo e tropicale per 1 60 milioni di anni, né minimizzare la diversità climatica di quei tempi. Durante tutto il Mesozoico, sono pur sempre esistiti dei gradienti climatici latitudinali e altitudinali, quindi anche i dinosauri avevano a disposizione contesti climatici freddi, sebbene non glaciali come quelli dei nostri poli (attualmente, tralasciando per un attimo gli effetti del riscaldamento globale indotto dall'attività umana, noi siamo pur sempre dentro una età glaciale, ovvero, una fase della storia del pianeta caratterizzata dalla presenza costante - per tutto l'anno - di ampie calotte glaciali ai poli). In base al tipo di vegetazione fossile, il clima dedotto per l'ambiente in cui visse Yutyrannus è di tipo temperato fresco, con inverni prossimi allo zero. Le regioni più vicine ai poli ebbero condizioni anche più fredde. Le zone dell'Alaska e parte dell'Australia meridionale (allora saldata all'Antartide) furono caratterizzate, durante il Cretacico, da climi temperato-freddi, non molto diversi da quelli del Nord Europa attuale. L'immagine di dinosauri piumati a loro agio in un contesto invernale, persino nevoso, per quanto poco in linea con l'iconografia tradizionale dei lucertoloni impantanati in paludi tropicali, non è quindi fantascienza, e sta lentamente entrando anche nell'immaginario popolare. Nondimeno, durante il Mesozoico si ebbero anche ampie regioni caratterizzate da climi aridi, nonché condizioni molto più torride di quelle che sperimentiamo oggi: è indubbio che questa varietà climatica abbia inciso sulla diversità dei tegumenti, anche se non sempre è chiaro stabilire una relazione diretta tra i due fenomeni. Ad esempio, spesso si dimentica che una delle funzioni del piumaggio è di contrastare l'insolazione, proteggendo la pelle, soprattutto quella della testa e del dorso, dai danni provocati da una esposizione diretta e prolungata alla luce solare: questo è un problema che affligge ogni animale che viva in ambienti assolati, indipendentemente dalle sue dimensioni. Fin dalla loro origine, i dinosauri hanno acquisito vari adattamenti nel cranio finalizzati a migliorare lo scambio di calore nella testa, e per impedire il surriscaldamento del cervello (vedere il Primo Volume): è plausibile che anche il piumaggio sia stato un utile accorgimento per ridurre il rischio di "colpi di sole" . Pertanto, dedurre, in modo automatico, che la completa perdita del piumaggio sia un vantaggio per grandi animali in climi assolati non è, quindi, così scontato. Sebbene il clima sia indubbiamente un fattore chiave per comprendere quanto esteso fosse il piumaggio nei grandi dinosauri, il 19
ridurre la questione ad una combinazione di climatologia e dimensioni corporee semplifica eccessivamente il fenomeno. Giraffe e rinoceronti hanno masse simili (intorno a due tonnellate) e sono presenti nei medesimi contesti climatici, ma solo i secondi hanno ridotto il pelo, mentre le prime conservano il classico manto della maggioranza dei mammiferi. Pertanto, la semplice stima della massa corporea in funzione del clima non ci informa automaticamente sulla presenza o meno di tegumento filamentoso in un animale di grandi dimensioni. L'esempio delle giraffe e dei rinoceronti ci suggerisce parte della soluzione: i due tipi di animale hanno proporzioni corporee molto differenti, con le giraffe molto più snelle e affusolate dei rinoceronti, e quindi con un rapporto tra superficie corporea e massa ben più alto rispetto ai pachidermi. Dato che lo scambio di calore tra corpo e ambiente (e quindi la possibilità di disperdere l'eccesso di calore) è legato a quel rapporto, è possibile che le differenze di tegumento tra giraffe e rinoceronti siano almeno in parte legate alle differenti forme e proporzioni corporee. Seguendo questo argomento, si deduce che animali con corporature tozze e compatte tendano a perdere il tegumento filamentoso, per migliorare l'efficienza nello scambio di calore, altrimenti svantaggiati dal basso rapporto superficie-volume dei loro corpi compatti. Da questo punto di vista, quindi, viene il sospetto che i grandi dinosauri, soprattutto quelli caratterizzati da avere lunghe code e colli affusolati, oppure quelli dotati di creste ed espansioni cefaliche (coma e "scudi nucali") che aumentavano la superficie della testa con un minimo aumento del volume, così come quelli muniti di allungamenti dei processi vertebrali (come Spinosaurus, vedere il Primo Volume), avessero un rapporto superficie-volume più alto di specie prive di questi attributi. Con condizioni così differenti, che si distribuivano in modo eterogeneo tra le condizioni estreme rappresentate oggi da struzzi e giraffe (da un lato) e da elefanti e rinoceronti (dall'altro), è difficile dedurre la modalità di dispersione del calore (e quindi, anche nella densità del tegumento filamentoso) in questi animali estinti. Purtroppo, attualmente non esistono studi specifici che, in modo rigoroso e quantitativo, abbiano analizzato i vari rapporti superficie-volume nei dinosauri. Il problema principale che rende difficile questo tipo di studi è che la sola forma dello scheletro potrebbe non dirci molto sulla effettiva superficie esterna del corpo di un animale: ad esempio, non avendo mai visto un elefante, dubito che qualcuno potrebbe dedurre la presenza di strutture come la proboscide e i grandi padiglioni auricolari, e quindi inevitabilmente 20
sottostimerebbe l'effettiva superficie corporea di qm•sti animali. Il rapporto tra superficie corporea e massa nei grandi dinosauri, infine, introduce un altro elemento, molto difficile da stimare in modo rigoroso: quanto calore produceva il metabolismo di un grande dinosauro? Si tratta di una delle più lunghe e controverse discussioni in merito ai dinosauri, iniziata cinquanta anni fa. Senza una stima accurata del calore prodotto da questi animali durante la loro vita, i discorsi appena citati restano inevitabilmente grossolani. Oltre che grossolani, rischiano anche di essere ragionamenti circolari, che pretendono di dedurre ciò che invece assumono come ipotesi di partenza. Per esempio, prendere come riferimento un grande mammifero assume implicitamente che un grande dinosauro avesse un analogo livello di produzione di calore, ma ciò è più speculativo che fondato su dati diretti. La verità, onestamente, è che non sappiamo in modo preciso quanto calore generasse il metabolismo dei dinosauri, né se abbia senso prendere i mammiferi come riferimento per dedurre l'estensione del loro rivestimento filamentoso. Per quanto la discussione sul metabolismo dei dinosauri abbia riempito interi volumi negli ultimi cinquanta anni, essa è stata, in gran parte, più qualitativa che quantitativa, spesso sostenuta abusando di termini molto generici e grossolani come "sangue freddo" e "sangue caldo", sovente finalizzata ad alimentare una ottusa dicotomia tra due feticci contrapposti, la "versione rettiliana" e la "versione mammaliana" dei dinosauri. Ad oggi, non è chiaro quanto fosse elevato (in termini numerici) il metabolismo dei grandi dinosauri. Inoltre, sempre più pressante si fa il sospetto che i mammiferi non siano un buon modello per stimare la biologia dei grandi dinosauri, e che molte interpretazioni e ricostruzioni realizzate negli ultimi quaranta anni abbiano spinto troppo all'eccesso l'analogia coi mammiferi. Pare quasi che lo spirito di Owen sia ancora tra noi (vedere il Primo Volume), e che la biologia dei dinosauri sia, come nel 1 840, ancora vista come analoga a quella dei mammiferi. A rievocare lo spirito di Owen è stato, paradossalmente, il rinato interesse per i dinosauri, quel "Rinascimento" nelle loro ricerche, iniziato alla fine degli anni '60 del XX secolo. Il "Rinascimento" nacque come critica al modello, dominante nella prima metà del Novecento, che vedeva nei dinosauri un "esperimento fallito" dell'evoluzione, una forma eccessivamente specializzata di rettile, a sua volta inteso come modello anatomico "inferiore" rispetto a quelli di uccelli e mammiferi. Nata come critica verso quella idea stereotipata di rettile "a sangue freddo" intorno a cui 21
ruota l'idea tradizionale di dinosauro, anche il "Rinascimento" degli anni '70 e '80 ha peccato di eccessiva stereotipia, in questo caso opposta a quella precedente, plasmando i "dinosauri rinascimentali" come "rettili a sangue caldo" ricalcati - spesso in modo acritico - sui mammiferi. L'ossessione di allontanare i dinosauri il più possibile dal "modello rettile" (visto negativamente) potrebbe difatti aver indotto molti autori a spingere troppo in avanti l'analogia coi mammiferi (vista come sola alternativa). La questione, banalmente, è se abbia senso ridurre le opzioni a due fronti contrapposti ("modello-rettile" vs "modello-mammifero"), o se piuttosto ciò non sia stato un'inutile zavorra concettuale che ha frenato la nostra comprensione di questi animali. Più autori negli ultimi anni sono stati critici verso le implicazioni più estreme del "Rinascimento" dei dinosauri, verso la peculiare visione di questi animali resa molto popolare anche, ma non solo, da "Jurassic Park" (romanzo che si ispira esplicitamente alla generazione paleontologica artefice del "Rinascimento" dei dinosauri). Dopo mezzo secolo, occorre cambiare paradigma, aggiustando il precedente e rimuovendo i suoi elementi più radicali. Uno dei messaggi più profondi della Rivoluzione Piumata che stiamo vivendo oggi è che dovremo abbandonare la concezione, nata negli anni '70 e resa "ortodossia popolare" a livello globale con il film "Jurassic Park", che ha voluto leggere la biologia dei dinosauri come molto analoga a quella dei mammiferi. L'eccessivo riferimento ai mammiferi, difatti, ha prodotto una serie di miti e nuovi stereotipi sui dinosauri, altrettanto radicali e fuorvianti degli ottusi lucertoloni impantanati (di stampo primo novecentesco) che la "Rinascita" avrebbe voluto sostituire. Il più tenace di questi miti lo affronteremo parlando dei dromeosauridi. Dovremo liberarci da quella che, in analogia con Freud, possiamo chiamare "l'invidia della mammella", e dovremo smettere di voler vedere nei mammiferi gli analoghi più plausibili per la biologia dei dinosauri. Il messaggio della Rivoluzione Piumata è che dobbiamo collocare i dinosauri (e la loro biologia) nel solo luogo evoluzionisticamente sensato: il continuum che unisce rettili ed uccelli, e non in quella arbitraria condizione di "pseudo-mammiferi" creata da Owen nell'Ottocento e riesumata più di un secolo dopo dal "Rinascimento dinosauriano" . Abbiamo visto, nel precedente volume, che i dinosauri sono molto diversi dai mammiferi in elementi chiave della loro biologia, come il sistema masticatorio, la postura degli arti anteriori e la strategia riproduttiva. Queste differenze non possono essere sottovalutate. Dal punto di vista 22
evoluzionistico, non ha senso ritenere che il metabolismo dei dinosauri fosse particolarmente analogo a quello mammiferi, dato che la biologia dei mammiferi odierni è il prodotto di una storia molto peculiare, iniziata 100 milioni di anni prima dell'origine dei dinosauri. Alla pari di ciò che osserviamo nelle caratteristiche scheletriche, è ragionevole assumere che i differenti dinosauri mesozoici fossero metabolicamente "intermedi" - con diverse gradazioni - tra i coccodrilli e gli uccelli, e che i differenti tipi di dinosauro avessero differenti livelli e tipologie di metabolismo lungo la gamma di opzioni che va "dall'alligatore allo struzzo" . Ed è altrettanto plausibile che molti dinosauri abbiano realizzato delle specifiche novità metaboliche attingendo dal comune canovaccio di rettili e uccelli, realizzando modalità che non hanno equivalenti moderni. Difatti, proprio il mix di caratteri "un poco da rettile, un poco da uccello" che caratterizza tutti i dinosauri potrebbe essere stato la chiave del loro enorme successo. Focalizzarsi troppo sui mammiferi, voler imporre la biologia di questi ultimi alla interpretazione dei dinosauri, è quindi una forzatura che non aiuterà a comprendere le loro peculiarità, prima tra tutte la comparsa, evoluzione e distribuzione del piumaggio. Al di là delle digressioni epistemologiche, temo che senza misurazioni dirette qualunque ipotesi metabolica sul piumaggio nei grandi dinosauri rimanga pur sempre una mera valutazione qualitativa. Senza dati quantitativi, non è possibile fare confronti chiari con gli animali di oggi, con il risultato che ogni argomento pro o contro il piumaggio nei dinosauri giganti ricade nella serie di speculazioni più o meno plausibili. Il timore è che, in assenza di animali vivi sui quali fare misurazioni biologiche rigorose (come prelevare la temperatura corporea e far svolgere delle attività fisiche in condizioni standardizzate di laboratorio), buona parte delle ipotesi sul metabolismo dei dinosauri ricada nella gara a chi riesce ad elaborare il più raffinato modello teorico per corroborare la propria personale ipotesi di lavoro. Il lettore avrà intuito che io sono allergico a quel tipo di speculazioni teoriche, e preferisco parlare solo di ciò che si può determinare dai fossili. Proprio come Yutyrannus ha smentito coloro che ritenevano il piumaggio un attributo possibile solo nei dinosauri sotto il quintale di peso, sarà nei fossili che avremo le risposte a queste controversie, e non da modelli matematici che, per quanto raffinati, sono pur sempre elaborazioni vincolate alla robustezza delle ipotesi usate per costruirli. Le mie ultime due affermazioni possono essere fraintese, dato che "ciò che si può determinare dai fossili" è un criterio alquanto ambiguo. 23
Nel precedente volume, ho sottolineato che la paleontologia non è mai una traduzione "letterale" del fossile, il quale deve sempre essere interpretato alla luce di una teoria generale, biologica e geologica, che va oltre il mero atto descrittivo del reperto. In particolare, ho rimarcato il valore fondamentale della tafonomia per qualsiasi discorso paleontologico, ovvero, la necessità di far precedere qualsiasi argomento sulla (paleo)biologia di un animale estinto da una rigorosa analisi delle condizioni geologiche che hanno permesso la formazione e preservazione di quel fossile. Nel caso del tegumento dei dinosauri, ho mostrato come il medesimo tipo di tessuto possa preservarsi oppure scomparire del tutto (nel fossile) a seconda delle condizioni ambientali e sedimentarie in cui il corpo si è depositato. Abbiamo visto come il piumaggio sia molto "esigente" per potersi preservare per milioni di anni e giungere fino a noi, e che non tutti i contesti ambientali siano favorevoli alla sua fossilizzazione, con il risultato che il medesimo animale può produrre un tipo ben differente di fossile a seconda che il suo corpo sia preservato in antiche sabbie piuttosto che nel fondale fangoso di un lago, oppure sia stato sepolto dalla cenere vulcanica. Tutti questi fattori geologici devono essere presi accuratamente in considerazione ogni volta che si cerca di interpretare la documentazione fossile. Ed è qui che entra in scena la pelle di Tyrannosaurus. Alcuni esemplari di Tyrannosauridae (il sottogruppo "classico" dei tirannosauroidi, formato dalle specie di maggiori dimensioni, munite di arti anteriori ridotti, e vissute nell'ultima parte del Cretacico, tra 80 e 66 milioni di anni fa) preservano tracce della pelle. Prima di descrivere questi resti di pelle, è necessario puntualizzare il contesto in cui questi esemplari si sono fossilizzati. Essi sono inclusi in letti sabbiosi e argillosi, in alcuni casi antiche anse di fiumi, in altri casi si tratta di depositi sabbiosi formati in ambienti molto aridi. In tutti questi casi, le condizioni di fossilizzazione sono molto diverse da quelle - descritte nel Primo Volume - in cui si preservarono le tracce di piumaggio (ovvero, sedimenti fini di fondali di piccoli specchi d'acqua, poco ossigenati, mescolati a finissime ceneri vulcaniche): in generale, il sedimento è qui più grossolano e le condizioni ambientali molto meno adatte alla preservazione delle piume. Nella maggioranza dei casi, la pelle non è conservata sotto forma di tessuto fossilizzato, ma solamente come impronta (sia in negativo che in positivo) della medesima contro il sedimento fangoso. In altri casi, la pelle è conservata come crosta fossile aderente direttamente sulle ossa. Per spiegare una simile preservazione 24
della pelle contro lo scheletro, con scomparsa quasi completa degli altri tessuti, dobbiamo quindi presumere che la carcassa fosse già fortemente disidratata e rinsecchita quando fu ricoperta dal sedimento, e che quindi l'animale sia morto in un ambiente molto caldo, asciutto ed arido: sono le così dette "mummie fossili" . I frammenti di pelle di tirannosauride finora rinvenuti sono associati principalmente a ossa del collo, del bacino e della coda, soprattutto della regione ventrale, e non superano l'ampiezza di qualche centimetro. Le impronte, sia in negativo che in positivo, mostrano un fitto mosaico di piccoli tubercoli piatti, vagamente poligonali, ampi al massimo qualche millimetro. Questa squamatura è quindi molto minuta (ricorda vagamente la buccia di un agrume) e relativamente irregolare sia nella forma che nella posizione reciproca degli elementi (le squame non si dispongono secondo delle geometrie lineari, come linee e reticoli). Spesso, nella loro disposizione, le squamature paiono assecondare le pieghe che la pelle stessa ha impresso sul sedimento. L'interpretazione più "immediata" che è stata data a questi fossili è che essi documentino una pelle "rettiliana", squamosa e tubercolata, nei grandi tirannosauridi. Se effettivamente questi fossili dimostrano una pelle squamata nei tirannosauridi, bisogna rimarcare che l'aspetto esteriore di questi animali che si ottiene è ben diverso da quello dei "tipici" rettili squamati, dotati di una evidente geometria e texture esteriore, formata da reticoli e sequenze di squame evidenti. In questo caso, non abbiamo né la livrea a mosaico poligonale di un varano, né la vistosa ornamentazione dei coccodrilli. Le dimensioni delle squame nei tirannosauridi appaiono molto ridotte se confrontate con la taglia corporea dell'animale: queste piccolissime squame irregolari, di dimensione millimetrica, distribuite su corpi lunghi anche dieci metri, avrebbero dato una texture "farinosa" all'animale. Pertanto, a differenza di quanto proclamato nei media, questi fossili non "restituiscono" l'immagine tradizionale dei tirannosauridi, simile a quella dei rettili odierni, ma implicano piuttosto una livrea alternativa fittamente e finemente granulosa. Il mio sospetto è che l'interpretazione della pelle fossile, descritta qui sopra, sia eccessivamente "letterale", poiché non tiene conto di almeno tre fattori: la presenza di tegumento filamentoso in altri tirannosauroidi (in particolare, Yutyrannus), la differente modalità di fossilizzazione delle piume rispetto alle squame, ed il tipo di sedimento in cui questi fossili sono preservati. Possiamo prendere i fossili di pelle nei 25
tirannosauridi "alla lettera", così come appaiono, senza considerare questi fattori? La risposta è negativa. Dato che Yutyrannus mostra inequivocabilmente tracce di piumaggio, ed è di dimensioni e proporzioni corporee simili a quelle dei tirannosauridi "classici" (tralasciamo per un attimo gli esemplari più grandi di Tyrannosaurus, che sono chiaramente i casi limite nel gruppo: la maggioranza dei tirannosauridi è di dimensioni comparabili a quelle di Yutyrannus), i sostenitori della "interpretazione letterale" devono spiegare come mai il piumaggio sia "scomparso" in alcuni grandi tirannosauroidi (Yutyrannus) e non in altri della stessa taglia (ad esempio, Albertosaurus). Una spiegazione sostiene che la differenza di tegumento sia legata alle condizioni climatiche dell'Asia orientale di 120 milioni di anni fa (contesto di Yutyrannus), più fredde rispetto a quelle del Nord America e della Mongolia di 70 milioni di anni fa (il contesto dei tirannosauridi in questione). Questa spiegazione "climatica" appare un po' troppo semplicistica e ad hoc per essere soddisfacente, poiché prende in considerazione solo un fattore (la presunta differenza climatica tra i due ambienti) e legge i dati fossili "troppo" alla lettera. Alcuni tirannosauridi della fine del Cretacico sono noti in Alaska, regione con condizioni simili, se non più rigide, di quelle in cui visse Yutyrannus: dobbiamo negare il piumaggio anche in questi animali? La differenza principale tra questi due tipi di fossile non è nelle presunte condizioni climatiche degli animali in vita, ma in quelle tafonomiche dei loro corpi post-mortem, ovvero, nei contesti geologici in cui le tracce della pelle si sono formate e preservate nella roccia. Come ho notato prima, i fossili di tirannosauridi con tracce di pelle si sono depositati in livelli sabbiosi e argillosi, spesso dopo che la carcassa era andata incontro ad una intensa disidratazione. Sono condizioni ben diverse da quelle che hanno permesso la preservazione delle piume nella "Eldorado asiatica" (Primo Volume), condizioni che possono portare alla "scomparsa post-mortem" del piumaggio prima della fossilizzazione. Spesso, i corpi di animali mummificati naturalmente, rinvenuti in zone aride, perdono gran parte del pelo o del piumaggio sotto l'effetto del clima asciutto sotto il quale i corpi sono mummificati, risultando delle carcasse incartapecorite prive di tegumento filamentoso prima ancora di essere sepolte dai sedimenti: in quei casi, il tegumento non ha possibilità di lasciare alcuna traccia nel fossile. Inoltre, il sedimento sabbioso che ingloba la maggioranza dei resti di tirannosauridi qui citati tende ad essere troppo grossolano rispetto al mix di ceneri vulcaniche e fango che 26
ha permesso la fossilizzazione delle piume di Yutyrannus, e tale grossolanità impedisce che i sottili filamenti delle piume possano lasciare una impronta distinguibile. Quindi, è legittimo sospettare che le differenze di preservazione tra la pelle di Yutyrannus e quella dei tirannosauridi "classici" non siano una prova diretta di qualche reale differenza nel tegumento in questi animali, ma siano bensì influenzate da differenti condizioni di seppellimento e fossilizzazione, che solo in un caso (quello di Yutyrannus) hanno permesso alle piume di fossilizzare. Un sostegno di questo sospetto viene da Kulindadromeus, il piccolo omitischio nel quale la pelle mostra sia piumaggio che squame (vedere il Primo Volume): abbiamo visto che in quel dinosauro, i ciuffi di filamenti poggiavano su piccoli basamenti della pelle, piatti e di forma poligonale, ampi qualche millimetro e disposti fittamente secondo uno schema irregolare. Se rimuoviamo i filamenti e consideriamo solo i basamenti cornei, la pelle di Kulindadromeus è praticamente identica a quella descritta per i tirannosauridi! Nel precedente volume, avevo ipotizzato che, qualora Kulindadromeus non si fosse fossilizzato in condizioni adatte alla preservazione dei filamenti, avremmo concluso, erroneamente, che i n vita la sua pelle fosse composta unicamente da una serie di piccole squame tubercolate, priva di piumaggio. Dato che la pelle dei tirannosauridi si è fossilizzata in contesti non idonei alla preservazione delle piume e al tempo stesso mostra questo fitto sistema di tubercoli co!ll simili ai basamenti di Kulindadromeus, non possiamo escludere l'eventualità che ciò che stiamo osservando nei tirannosauridi sia solo la parte squamata della pelle, e che l'assenza del piumaggio sia solamente una conseguenza del contesto ambientale e sedimentologico non idoneo alla preservazione delle piume. Questa interpretazione concilierebbe l'assenza di piumaggio nei tirannosauridi "classici" con la loro parentela stretta con animali piumati come Yutyrannus ed è coerente con le differenze nei processi di fossilizzazione che deduciamo dalle differenze nei rispettivi sedimenti. Essa ha il pregio di non richiedere spiegazioni ad hoc su "differenze climatiche" (non così scontate da dimostrare) né introduce processi di "evoluzione regressiva delle piume" (ad oggi, mai osservati negli uccelli, nonostante che molti vivano in climi molto aridi e abbiano un metabolismo molto più elevato - e quindi, una produzione di calore corporeo più intensa - di quanto realisticamente ipotizzabile per i grandi dinosauri). Sebbene la scoperta di vari tipi di tegumento abbia generato molta della attenzione recente su questi teropodi, è la scoperta di nuove - e 27
spesso inattese - forme di tirannosauroidi a rappresentare la vera novità degli ultimi decenni. L'aspetto più interessante di alcune di queste nuove forme, vissute 30-60 milioni di anni prima dei celebri tirannosauridi della fine del Cretacico, è che essi non sono collocabili lungo la linea diretta che, partendo dal ceppo comune con proceratosauridi e stokesosauridi, arriva a Tyrannosauridae: essi formano, difatti, un gruppo in parte slegato, inatteso e per certi tratti completamente alternativo al modello rappresentato da Tyrannosaurus. In particolare, essi dimostrano che i tirannosauroidi non prosperarono solamente nell'emisfero settentrionale (dal quale provengono tutti i tirannosauroidi fin qui menzionati), ma si diffusero anche e soprattutto nei continenti meridionali, in quello che fino a pochi anni fa pareva essere stato il "dominio" esclusivo del "triumvirato" formato da abelisauridi, spinosauridi e carcarodontosauridi (vedere il Primo Volume). I primi resti di questi nuovi tirannosauroidi ad essere rinvenuti erano molto frammentari ed enigmatici, e questo ha contribuito a rendere incerta, per almeno una quindicina di anni, la loro identificazione e collocazione evolutiva tra i teropodi. Il primissimo esemplare di questa nuova stirpe fu scoperto alla fine degli anni '90 del secolo scorso in livelli dell'inizio del Cretacico Superiore della Patagonia (risalenti a circa 85-90 milioni di anni fa), e battezzato Megaraptor. Il nome è stato involontariamente ispirato da un errore di identificazione di una delle poche ossa del primo esemplare scoperto: un enorme ungueale (la falange terminale che in vita portava l'artiglio) a forma di falce affilata, che fu inizialmente considerato essere un osso del piede, simile al famoso ungueale a falce del piede dei dromaeosauridi come Velociraptor (descritti nei prossimi capitoli). La scoperta, alcuni anni dopo, di nuovi esemplari, tra cui uno con l'intero arto anteriore conservato, ha dimostrato che questo enorme ungueale era alloggiato sul primo dito della mano, e non apparteneva al piede. Durante i primi quindici anni del XXI secolo, altri teropodi enigmatici sono stati scoperti in America Meridionale e Australia, tutti accomunati da bizzarre caratteristiche nella pneumatizzazione delle ossa, nella forma del braccio e nella forma allungata del piede. Tutti questi nuovi teropodi sono stati inclusi in un gruppo, chiamato Megaraptora, inizialmente classificato all'interno dei carnosauri allosauroidi (introdotti nel Primo Volume). Più recentemente, nuovi resti, tra cui parti del cranio di almeno tre generi, hanno mostrato inattese somiglianze con i tirannosauroidi, poi confermate dalla scoperta di un esemplare immaturo di Megaraptor il cui cranio ricorda molto quello 28
dei tirannosauroidi primitivi come Dilong . Proprio come i tirannosauroidi della prima metà del Cretacico, i megaraptori hanno musi affusolati, narici allungate, una marcata pneumatizzazione delle ossa che formano la scatola cranica, e braccia ben sviluppate munite di tre artigli falciformi. I megaraptori appaiono quindi come una stirpe specializzata di tirannosauroide vissuta principalmente nell'emisfero meridionale tra 130 e 90 milioni di anni fa. Almeno in Australia, i megaraptori furono i dinosauri predatori più grandi e abbondanti del continente, occupando il ruolo che, nel resto dell'emisfero meridionale, era occupato principalmente dal "triumvirato" . La caratteristica più appariscente dei megaraptori è l'enorme sviluppo del primo ungueale della mano, che in alcuni generi è conformato come una grande falce stretta ed affilata. Un arto anteriore armato di grandi falci affilate indica una funzione di taglio e penetrazione nelle braccia, che agivano quindi come i due rami di una tenaglia molto efficiente. In base al concetto di "modulo testa-braccio", descritto nel precedente volume, deduciamo che un arto anteriore armato di falci così voluminose, chiaramente usate per trattenere, impalare e lacerare la preda, sia associato ad un cranio allungato e leggero, e ad un apparato boccale non troppo vincolato a sviluppare un morso particolarmente potente: il muso lungo ed affusolato, armato di denti poco seghettati, che osserviamo nei megaraptori, è ancora una volta coerente con l'idea che il cranio ed il braccio nei dinosauri predatori tendano a co-evolvere in sintonia. I megaraptori possono quindi essere interpretati come una evoluzione analoga a quella degli spinosauridi, avvenuta in seno ai tirannosauroidi: a conferma di questa analogia, anche le ossa dell'avambraccio dei megaraptori, non solo la mano, mostrano caratteristiche simili a quelle degli spinosauridi. Non sorprende che per almeno un decennio e mezzo, lo status tirannosauroide dei megaraptori non sia stato riconosciuto. Oltre alla frammentarietà dei primi resti, a "depistare" i paleontologi hanno inciso due elementi che, tradizionalmente, non sono associati ai tirannosauroidi: il grande sviluppo delle braccia e la diffusione nell'Emisfero Meridionale. Per quasi un secolo, i dati a disposizione hanno supportato l'idea che l'evoluzione dei tirannosauroidi fosse una sequenza lineare molto semplice, avvenuta unicamente nell'Emisfero Settentrionale, che partiva da animali relativamente piccoli come Dilong e produceva animali come Tyrannosaurus tramite il progressivo aumento delle dimensioni, il consequente sviluppo delle mandibole e la contemporanea riduzione 29
delle braccia. I megaraptori ci mostrano che la storia dei tirannosauroidi fu ben più complessa e ramificata, e che non ci fu una singola tendenza evolutiva a plasmare questi animali. Prima di arrivare ai "tirannosauri classici", il gruppo produsse una radiazione cosmopolita di forma munite di musi molto allungati e arti anteriori armati di grandi artigli. A rileggere la storia di questo gruppo, alla luce delle nuove scoperte, non sorprende constatare che, fin dalla fine del XIX secolo, fossero già noti alcuni teropodi che in parte colmano la distanza evolutiva tra megaraptori e "tirannosauri classici" : scoperto in livelli della fine del Cretacico dal Nord America orientale, e noto per possedere un grande ungueale nella mano, il genere Dryptosaurus è difatti un parente dei tirannosauridi "classici" che presenta alcuni caratteri in comune coi megaraptori. Un altro tirannosauroide dell'Emisfero Settentrionale che mostra un interessante mix di caratteri, in parte simili ai tirannosauridi "classici" ed in parte simili ai megaraptori, è Xiongguanlong, vissuto circa 1 10 milioni di anni fa in Cina: il suo cranio è difatti molto allungato, e presenta un muso molto simile a quello dei megaptori, associato a caratteri della parte posteriore del cranio e delle vertebre simili ai grandi tirannosauridi della fine del periodo. La maggioranza dei megaraptori è nota da livelli compresi tra 1 10 e 85 milioni di anni fa. Sebbene alcuni resti, come l'enigmatico Siats degli Stati Uniti, indichino la presenza dei megaraptori anche nell'Emisfero Nord, la maggioranza di questi teropodi era endemico di Sud America e Australia. Durante quel periodo, i due continenti erano collegati tra loro tramite l'Antartide, ed è quindi plausibile che in futuro fossili di megaraptori saranno trovati anche in quel continente. Alcuni resti frammentari, scoperti di recente in Argentina, potrebbero indicare la persistenza dei megaraptori nell'emisfero meridionale fino alla fine del Cretacico, in coesistenza con gli abelisauridi (gli unici membri del "triumvirato" a persistere dopo l'estinzione dei camosauri, 90 milioni di anni fa). La eventuale coesistenza di abelisauridi e megaraptori non deve soprendere: le evidenti differenze nelle caratteristiche sia del cranio che dell'arto anteriore suggeriscono differenti ecologie negli abelisauridi rispetto ai megaraptori, che implicano una ridotta competizione per le risorse tra questi due gruppi. Nello stesso intervallo di tempo, ma nell'emisfero settentrionale, in particolare nella regione che andava dall'Asia Orientale, risaliva lungo lo stretto di Bering (a quel tempo in parte emerso) e arrivava alla metà occidentale del Nord America (a sua volta, separata dalla zona orientale 30
del continente da un ampio mare interno), si stava svolgendo l'ultima grande transizione faunistica dei dinosauri. Per quanto ultima in ordine cronologico se rapportata alle altre faune a dinosauri, essa è la più famosa al grande pubblico, poiché è stata oggetto, soprattutto nel suo versante americano, di numerose campagne di scavo, iniziate alla fine del XIX secolo e attive ancora oggi. Appartengono a questa peculiare provincia faunistica, detta "asiamericana", gruppi di dinosauri molto popolari, come i ceratopsidi, gli adrosauridi, e gli ankilosauri (tutti orni tischi), i vari celurosauri maniraptoriformi (oggetto dei prossimi capitoli) e, sopra tu tti (in termini di catena alimentare) i grandi tirannosauroidi "classici", appartenenti a Tyrannosauridae. La storia evolutiva di Tyrannosauridae si comprende alla luce delle vicende dei grandi teropodi della metà del Cretacico nell'emisfero settentrionale. Intorno a 110 milioni di anni fa, i teropodi di maggiori dimensioni nell'emisfero settentrionale sono in maggioranza membri di Allosauroidea, predatori giganti specializzati nella caccia dei sauropodi e dei grandi ornitischi corazzati. I grandi proceratosauridi presenti nella primissima parte del Cretacico, come Yutyrannus, non sono invece documentati. L'assenza di grandi tirannosauroidi a metà del Cretacico potrebbe essere un artefatto della documentazione fossile, dato che almeno in Cina è presente, in concomitanza con alcuni allosauroidi, un grande teropode munito di artigli a falce, che potrebbe essere una forma gigante prossima ai megaraptori: Chilantaisaurus. In attesa di nuovi resti che chiariscano lo status di questo teropode, si assume che i tirannosauroidi fossero in larga parte rappresentati da specie di dimensioni inferiori a quelle degli allosauroidi loro contemporanei. Va notato che nella anatomia dell'apparato boccale e degli arti anteriori, così come nella ecologia generale, i grandi tirannosauroidi primitivi della prima metà del Cretacico (come Yutyrannus) non erano molto differenti dagli allosauroidi, e ciò suggerisce una qualche sovrapposizione nelle nicchie ecologiche, e quindi competizione. Apparentemente, i grandi proceratosauridi non risultarono vincenti rispetto agli allosauroidi . Associati ai grandi allosauroidi della fine del Cretacico Inferiore, sono soprattutto tirannosauroidi più piccoli e leggeri, dotati di crani allungati e arti anteriori relativamente sviluppati: essi appaiono adatti a nicchie ecologiche ben diverse da quelle dei carnosauri. Proprio alla metà del Cretacico, in Nord America compaiono altri tirannosauroidi, anche questi di ridotte dimensioni (non superano i due tre metri in lunghezza), caratterizzati da una peculiare innovazione a 31
livello del piede. Questa novità non si osserva unicamente in questi tirannosauroidi, ma compare in almeno altri quattro gruppi di celurosauri che, proprio a metà del Cretacico, iniziano a proliferare nell'Emisfero Settentrionale (e che saranno ampiamente descritti nei prossimi capitoli). La comparsa, a metà del Cretacico, di un medesimo adattamento nel piede in ben cinque gruppi distinti di Coelurosauria è un fenomeno molto intrigante, e suggerisce una nuova "ondata" della corsa agli armamenti: questa volta non più indotta dalla predazione dei teropodi verso altri dinosauri, bensì innescata in seno ai vari gruppi di celurosauri. Vedremo i dettagli di questa innovazione anatomica a livello del piede, detta "arctometatarso", in un prossimo capitolo. Ciò che conta rimarcare qui è che l'arctometatarso permetteva ai suoi possessori una maggiore agilità ed efficienza nella corsa rispetto ai dinosauri privi di tale adattamento. La comparsa dell'arctometatarso in un gruppo di piccoli tirannosauroidi è quindi indicatrice di una maggiore specializzazione alla corsa in questo ramo particolare di Tyannosauroidea. Per una serie di motivazioni legate alla biomeccanica della corsa, gli animali bipedi che si specializzano come corridori tendono a ridurre l'arto anteriore rispetto ai loro parenti non-corridori. Il motivo di questa modifica è, fondamentalmente, legato al posizionamento del baricentro (il punto del corpo in cui idealmente possiamo collocare la forza peso dell'animale): tanto più lo collochiamo vicino alle zampe posteriori tanto più stabile risulterà il corpo del nostro bipede (è il motivo per cui Homo sapiens ha una postura del corpo verticale: ciò colloca automaticamente il suo baricentro proprio sopra i suoi piedi). Pertanto, riducendo la massa delle parte anteriore del corpo, il baricentro tende ad arretrare, allineandosi al bacino, e questo va a tutto vantaggio della efficienza nella corsa. Dato che le mandibole (e quindi, il cranio) furono sempre il principale organo predatorio nei teropodi (vedere il Primo Volume), in questi tirannosauroidi la pressione selettiva volta a spostare il baricentro verso il bacino si concentrò soprattutto sulla riduzione delle braccia, ma non coinvolse la testa. Ecco quindi che in questi nuovi piccoli tirannosauroidi la pressione indotta dalla corsa agli armamenti, finalizzata a perfezionare l'efficienza nella corsa, "impose" una progressiva riduzione dell'arto anteriore, organo non rilevante per la corsa e che poteva essere "sacrificato" rispetto all'apparato mandibolare (vedere il caso analogo degli abelisauridi, nel Primo Volume). Abbiamo visto in numerosi esempi sia in questo volume che nel precedente, che l'arto anteriore dei dinosauri predatori co-evolve sempre in concerto con 32
l'apparato boccale. Di conseguenza, una volta che l] lll'sti pi ccoli tirannosauroidi imboccarono la strada della specializzazione nella corsa, la concomitante riduzione del braccio (legata all'efficienza nella corsa) impose necessariamente il perfezionamento della funzione predatoria nelle mandibole, così da compensare la riduzione di efficienza nelle braccia. Pertanto, come conseguenza del processo appena descritto, l'esigenza di ridurre il peso della parte anteriore del corpo "indirizzò" questi animali a concentrare sempre più nelle mandibole l'intero onere della predazione. Partendo da tyrannosauroidi dotati di crani allungati ed affusolati, la necessità di ridurre le dimensioni delle braccia ridusse l'efficienza della "presa a tenaglia", ed impose all'apparato boccale di sviluppare una nuova funzione di presa, sempre più efficiente, in grado di compensare la riduzione del ruolo delle braccia. Era così comparso un nuovo tipo di tirannosauroide, più agile e veloce, non più armato di arti anteriori allungati, ma invece armato di mandibole molto più forti e robuste. I denti di questi nuovi tirannosauroidi si modificarono secondo una modalità nuova per i teropodi, assecondando la nuova funzione delle mandibole: non più denti affilati, finalizzati a tagliare la carne, bensì spessi e robusti, di forma vagamente simile a banane, in grado di resistere alla maggiore pressione prodotta dal loro morso. Intorno a 90 milioni di anni fa, gli allosauroidi si estinguono. Nel frattempo, numerosi gruppi di celurosauri e di ornitischi iniziano a d iversificarsi nell'Emisfero Settentrionale. Sono animali di dimensioni meno colossali rispetto ai sauropodi, ma relativamente più agili, nei confronti dei quali uno stile di caccia "da inseguitore" risulta più efficace rispetto a quello dei grandi allosauroidi, che fondavano la buona riuscita dell'attacco maggiormente nell'agguato e nello scontro diretto contro prede relativamente lente ma tenaci. Liberatasi la nicchia dei grandi predatori, questi nuovi corridori si trovarono quindi aperta una opportunità che era stata negata agli altri tirannosauroidi, la possibilità di espandersi anche verso dimensioni più grandi, sfruttando l'inusuale potenza del loro morso - associata ad un piede da corridore - per abbattere prede di qualsivoglia dimensione e velocità. Erano comparsi i tirannosauridi. Sebbene i tirannosauridi introducano un nuovo modello di predatore tra i tetanuri, compresi gli altri tirannosauroidi, abbiamo già incontrato una strategia analoga nel Primo Volume, introdotta dagli abelisauridi. Anche gli abelisauridi, difatti, svilupparono una tecnica di caccia incentrata unicamente sull'efficienza dell'apparato boccale: anche 33
in quel caso ciò comportò la riduzione dell'arto anteriore. Ed anche in quel caso, gli abelisauridi si differenziarono dai loro parenti per aver perfezionato gli adattamenti alla corsa. Tuttavia, a differenza dei tirannosauridi, la modifiche più significative negli abelisauridi comportarono l'aumento della massa muscolare deputata all'accelerazione, e non il perfezionamento della forma del piede. Il fatto che, intorno a 80-90 milioni di anni fa, i grandi allosauroidi e i grandi megalosauroidi, privi di particolari adattamenti alla corsa (non "cursori"), scompaiano, e che immediatamente (in termini geologici) inizino i due "domini paralleli" di Tyrannosauridae (in Asiamerica) e di Abelisauridae (nell'emisfero meridionale e nell'arcipelago che allora formava l'Europa), è molto intrigante. Possibile che questo cambiamento nelle tecniche predatorie predominanti nei grandi teropodi a cavallo della seconda metà del Cretacico, in ambo i continenti, sia la conseguenza di qualche trasformazione ambientale globale, che favorì un modello più adatto allo scatto ed alla velocità? Torneremo su questo tema in un prossimo capitolo, quando sarà descritto l'arctometatarso. Sebbene, a grandi linee, i tirannosauridi siano quindi una "versione celurosauriana" del medesimo modello espresso dagli abelisauridi, esistono importanti differenze tra i due gruppi, che possono aiutare a capire il perché della grande novità apportata da Tyrannosauridae al panorama degli adattamenti raggiunti dai dinosauri predatori. Abbiamo visto che il cranio degli abelisauridi si accorciò ed irrobustì, per permettere un morso molto rapido, e che in parallelo, esso abbia sviluppato delle protezioni per la testa, incluso l'ispessimento della pelle del muso, e la formazione di visiere attorno alle orbite, per proteggere gli occhi dagli impatti violenti. Entrambe queste innovazioni erano presenti anche nei grandi allosauroidi. Il primo di questi adattamenti (la protezione del muso) invece non si ripete nei tirannosauridi, che non mostrano le rugosità nelle ossa del muso (sopra cui ancorava la pelle) che si osservano nei due gruppi menzionati prima. Al contrario, anche i tirannosauridi svilupparono alcune protezioni intorno agli occhi. Perché nei tirannosauridi il muso non richiedeva la stessa protezione vista in allosauroidi e abelisauridi? Una spiegazione potrebbe essere che essi non furono soggetti allo stesso tipo di selezione avvenuta negli altri gruppi di predatori. E ciò potrebbe indicare un diverso modo di approcciare e affrontare la preda. All'inizio del capitolo, abbiamo visto che fin dalla origine dei tirannosauroidi nel Giurassico Medio, le ossa nasali erano fuse assieme e portavano una lunga cresta centrale: la fusione delle ossa si 34
mantiene nei tirannosauridi, mentre la cresta scompare, sostituita da una sequenza di basse protuberanze allineate sul nasale (simili vagamente ad una serie di dossi posti uno di seguito all'altro) sicuramente più solide e robuste di una lunga cresta centrale. La perdita della cresta centrale suggerisce uno stile di vita più bellicoso, che non poteva permettersi l'ostentazione di strutture relativamente fragili come erano le ampie creste affilate viste nei proceratosauridi. In parallelo alla trasformazione del nasale, sempre robusto ma non più sormontato da una cresta centrale, il palato dei tirannosauridi si rafforza, risultando simile a quello degli spinosauridi. Il rafforzamento del palato, spesso citato come prova di un perfezionamento nella capacità respiratoria (in quanto separa maggiormente le vie nasali dalla bocca), è anche - e soprattutto - un adattamento per animali il cui muso sia sottoposto a forze di torsione (quelle che generiamo estraendo un tappo di sughero da una bottiglia). L'ipotesi più probabile è che i tirannosauridi perfezionarono gli adattamenti per torcere la testa con forza sempre maggiore, e che ciò abbia richiesto un rafforzamento sia del nasale che della zona del palato. Al tempo stesso, i tirannosauridi non ebbero la necessità di rinforzare la superficie esterna del muso stesso, come invece avvenne in abelisauridi e allosauroidi (i quali, invece, non rinforzarono il palato e non paiono avere perfezionato la capacità di torcere la testa). Sono queste prove evidenti di due diversi stili di caccia, uno dei quali comportava la torsione della testa mentre l'altro era soggetto a impatti laterali. Possiamo quindi ipotizzare questi modelli di caccia: allosauroidi e abelisauridi, letteralmente, si lanciavano a fauci spalancate contro le prede, in analogia con il comportamento dei grandi squali (coi quali condividono le forma generale dei denti: stretti e seghettati), mentre i tirannosauridi, forti della loro efficienza ed agilità nella corsa, non avevano la necessità di sferrare un unico scatto devastante, ma potevano "concedersi il lusso" di approcciare la preda nel punto più adatto, ruotare le mandibole nel modo più idoneo per azzannarla (e quindi, minimizzando i danni derivanti da un impatto "fatto alla cieca"). Se il morso negli allosauroidi e negli abelisauridi puntava a produrre ferite dissanguanti, quello dei tirannosauridi era fondato sulla potenza. Le mandibole e la parte posteriore del cranio nei tirannosauridi dimostrano una enorme superficie per i muscoli che serrano le mandibole: il morso prodotto era sì meno rapido che negli altri teropodi, ma molto più intenso. I denti dei tirannosauridi, di conseguenza, non erano conformati per produrre tagli sulle carni, ma agivano come punti di pressione con cui, brutalmente, 35
sfondare pelle, carni e persino lo scheletro delle loro prede: a quel punto, il tirannosauride torceva la testa di lato, strappando e portandosi dietro una parte dei tessuti (sia ossa che muscoli) della preda, che risultava irrimediabilmente mutilata. Lo scopo del morso dei tirannosauridi non era, come invece nel caso di abelisauridi o allosauroidi, quello di sfiancare la preda (per poi attendere che questa collassasse per la perdita di sangue o l'evisceramento), bensì di abbattere direttamente la propria vittima, sul posto, spezzandole le ossa, senza dover attendere che questa morisse per dissanguamento. Da questo punto di vista, i tirannosauridi ricordano quindi più i coccodrilli (che generano morsi di enorme potenza) piuttosto che i varani di Komodo (che generano morsi meno potenti ma molto pià laceranti). La ricostruzione dei due diversi stili di caccia ha delle interessanti implicazioni. Probabilmente, sia gli allosauroidi che gli abelisauridi avevano un approccio visivo alla preda più "grossolano" rispetto ai tirannosauridi: essi scattavano dalla posizione di agguato e colpivano "alla cieca", in qualche punto della preda, per produrre serie di ferite. Ciò spiega la maggiore protezione del muso in allosauroidi ed abelisauridi: l'animale, di fatto, non si preoccupava di azzannare la preda in modo mirato, ciò che contava era colpirla con rapidità prima che questa reagisse (specialmente se era ben più grande e forte dell'assalitore). Il morso dei tirannosauridi invece richiedeva una precisa calibrazione della propria posizione rispetto all'obiettivo, poiché non si limitava a lacerare le carni, ma doveva penetrare più in profondità per poi staccare quanto più tessuto possibile con un movimento di torsione regolato rispetto alla posizione della preda. L'animale quindi non si lanciava "alla cieca" sull'obiettivo, e non era soggetto alla stessa mole di impatti brutali che invece deduciamo essere parte dello stile di caccia degli altri grandi teropodi. Deduciamo, pertanto, che nei tirannosauridi la vista stereoscopica (che permette di valutare la prodondità di campo sia durante la caccia che nel momento di azzannare la preda) fosse fondamentale per la buona riuscita dei loro attacchi. A conferma di questa deduzione, i crani dei tirannosauridi mostrano una maggiore sovrapposizione nei campi visivi dei due occhi: gli occhi erano maggiormente orientati in avanti rispetto alle altre specie di grandi predatori. Combinato con la grande dimensione assoluta che deduciamo per i loro bulbi oculari (grandi anche come grosse arance), e con la generale acutezza cromatica tipica di uccelli e rettili, è plausibile concludere che i tirannosauridi avessero una eccezionale sensibilità 36
visiva, anche a grandi distanze. A differenza di quanto mostrato in alcuni film famosi, Tyrannosaurus non avrebbe avuto alcun problema a vedervi, forse ben prima che voi foste in grado di vedere lui. Analogamente alla peculiarità di Tyrannosauridae rispetto agli altri tirannosauroidi, anche Tyrannosaurus è molto peculiare rispetto agli altri tirannosauridi, e difatti si può considerare un outsider per il gruppo. La più nota peculiarità di Tyrannosaurus è - banalmente - nelle dimensioni corporee, che in questo genere sono le massime dell'intero gruppo, e probabilmente dell'intero Theropoda. La massa adulta stimata per Tyrannosaurus varia a seconda del metodo usato per la stima, ma è comunque sicuramente superiore a 6 tonnellate, e potrebbe sfiorare l O tonnellate. La maggioranza degli altri tirannosauridi ha masse adulte comprese tra 2 e 4 tonnellate, ed una morfologia che, per quanto sempre robusta viste le notevoli dimensioni coinvolte, è sostanzialmente più snella e affusolata rispetto a Tyrannosaurus. Inoltre, la morfologia del cranio di questo animale è molto aberrante, caratterizzata da una parte posteriore della testa più ampia e massiccia rispetto alle altre specie (dove alloggiavano enormi muscoli masticatori), e che portava le orbite ad essere orientate ancor più marcatamente in avanti (ciò implica una più raffinata visione stereoscopica). Tyrannosaurus era quindi un animale più massiccio e robusto rispetto agli altri tirannosauridi, i quali erano nondimeno più agili e dinamici. La morfologia estrema di Tyrannosaurus è una caratteristica degli individui maturi, mentre gli esemplari giovani (con meno di 10 anni di età, deducibili dall'analisi della crescita ossea) mostrano proporzioni molto più snelle ed affusolate, in linea con gli altri tirannosauridi. Inoltre, gli esemplari immaturi tendono ad avere denti più affilati, meno robusti e più simili ai denti "classici" dei teropodi. La vistosa differenza nelle dimensioni, nelle caratteristiche e nelle proporzioni tra stadi giovanili ed immaturi di Tyrannosaurus rispetto agli individui maturi implica che questa specie fosse caratterizzata da una "segregazione ecologica" estrema negli stadi di crescita, ovvero, una netta differenza nelle modalità di caccia, nello stile di vita e nel tipo di preda preferito dagli animali immaturi rispetto agli adulti. Ciò smentisce l'idea che questi animali formassero "gruppi familiari", dato che è improbabile che gli enormi adulti pesanti varie tonnellate e dotati di denti in grado di frantumare le ossa avessero le stesse esigenze alimentari dei ben più piccoli, agili e veloci individui immaturi, i cui denti erano incapaci di spezzare le ossa. Questa interpretazione non deve sorprendere, dato che anche i rettili 37
predatori odierni, come i coccodrilli e i varanidi, mostrano una segregazione ecologica tra giovani e adulti che li spinge a cercare prede differenti. La differenza nelle dimensioni, morfologie e proporzioni tra esemplari immaturi e maturi di tirannosauridi, che con Tyrannosaurus ha raggiunto il caso più estremo, ha generato delle controversie sulla specie a cui riferire alcuni esemplari provenienti dai medesimi livelli di T. rex. La controversia ha ruotato principalmente intorno ad un cranio, lungo la metà di quelli tipici di Tyrannosaurus, scoperto a metà del XX secolo, classificato inizialmente come una nuova specie del genere Gorgosaurus (un tirannosauride lungo fino a 9 metri, risalente a 70-75 milioni di anni fa), e poi riferito nel 1988 ad un genere proprio, battezzato "Nanotyrannus". La vicenda di Nanotyrannus è una conseguenza dello status "iconico" di Tyrannosaurus, che trascende la mera descrizione di specie fossili, e si colloca pienamente nella "mitologia popolare" di questi animali che sovente sfocia nella mistificazione. Dubito che se una identica vicenda avesse avuto come protagonista un altro tipo di fossile, avremmo visto una simile controversia trascinata per anni, tanto accesa nei toni quanto estenuante nei tempi. La questione scientifica è piuttosto banale: l'esemplare in questione fu inizialmente interpretato come una nuova forma di Tyrannosauridae di dimensioni ridotte, lunga la metà del più famoso Tyrannosaurus, e interpretata quindi come una specializzazione distinta, che coesistette con Tyrannosaurus occupando una distinta nicchia ecologica. La natura di questa specie di tirannosauride "nano" ruota attorno allo status dell'esemplare usato per istituire la specie, e fu risolta un ventennio fa: nel 1999, fu definitivamente dimostrato che le differenze tra questo cranio e quelli tipici di Tyrannosaurus erano tutte interpretabili come condizioni giovanili, come attributi transitori degli esemplari immaturi, attributi che non possono essere usati per definire alcuna specie valida di tirannosauride. L'esemplare in questione è quindi, senza alcun dubbio, un giovane tirannosauride: di conseguenza, le caratteristiche usate per definire "Nanotyrannus" sono niente altro che attributi giovanili dei tirannosauridi. Ciò "condanna", dal punto di vista formale, il genere Nanotyrannus. Dato che le regole di nomenclatura impongono che la validità di una specie sia stabilita a partire dalle caratteristiche presenti nell'esemplare usato per battezzarla, se quell'esemplare mostra solo caratteristiche giovanili, la specie di cui è l'esemplare di riferimento perde di validità: essa non è una vera specie naturale, ma solo una condizione particolare di un momento della crescita 38
individuale caratteristica di un gruppo biologico. Ad oggi, tutti gli scheletri di tirannosauridi di dimensioni ridotte e morfologia gracile rinvenuti nei medesimi livelli in cui è noto anche Tyrannosaurus sono risultati essere tutti esemplari immaturi: non esiste alcuna prova della presenza di una "specie nana" di tirannosauride in associazione con T. rex. I così detti "tirannosauri nani" erano solo esemplari immaturi: così come un bambino non può essere usato per istituire una specie chiamata "Homo nanus" ma resta sempre un Homo sapiens, per lo stesso motivo il cranio che definisce "Nanotyrannus" è solamente un esemplare di Tyrannosaurus. Nonostante Nanotyrannus sia stato definitivamente "eliminato" ben venti anni fa, esiste (e continua ad essere prodotta) una lunga serie di pubblicazioni popolari, documentari e anche qualche articolo tecnico, che continuano a sostenere l'esistenza - o la possibilità - di questo teropode. Tuttavia, come spiegato sopra, Nanotyrannus non può esistere, per la semplice ragione che il suo esemplare di riferimento non è distinguibile dall'aspetto che ci attendiamo per il cranio immaturo di Tyrannosaurus dedotto sulla base delle regole di crescita generali che abbiamo identificato dalla comparazione tra le varie specie di tirannosauridi. Per il modo con cui è stato definito, il genere Nanotyrannus è quindi condannato all'oblio, e non può essere "salvato" attribuendo a quel nome nuovi esemplari: ad oggi, la sola opzione plausibile è di abbandonare quel nome, e riferire il suo esemplare ad un individuo immaturo dell'unico tirannosauride in quelle formazioni geologiche conosciuto tramite esemplari adulti, Tyrannosaurus rex. A conferma di questa conclusione, tutti gli esemplari immaturi di tirannosauride provenienti da questi livelli si collocano, sia come dimensioni che come morfologia, lungo la singola sequenza di trasformazioni che partendo da Nanotyrannus arriva a Tyrannosaurus. Questo risultato si spiega quindi solo in due modi alternativi: uno richiede che siano esistite nei medesimi ambienti innumerevoli specie di tirannosauride di diverse dimensioni e con differenti specializzazioni alimentari (e che, curiosamente, non si trovino mai gli stadi giovanili delle specie più grandi, in primis, T. rex); l'altro richiede che tutte queste forme siano solamente differenti stadi di crescita di una singola specie (T. rex). Il buon senso ci porta a considerare valida solo la seconda opzione. Riassumendo, il più recente antenato comune di uccelli e tirannosauroidi
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era un celurosauro vissuto all'inizio del Giurassico Medio. Animale lungo al massimo un paio di metri, era un predatore opportunista, dotato di cranio allungato e omamentato da una cresta nasale, munito di denti affilati e seghettati, ed arti anteriori ben sviluppati e dotati di tre dita armate di artigli a falce (più un vestigio del quarto dito non visibile esternamente). L'animale era ricoperto da un piumaggio filamentoso, esteso su buona parte del corpo.
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Capitolo secondo Mine vaganti
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Nonostante il suo aspetto dimesso e poco spettacolare, questo è il dinosauro più bizzarro, enigmatico ed inatteso scoperto negli ultimi cinquanta anni. (Ricostruzione in vivo di Chilesaurus, basata sulla ricostruzione scheletrica in Novas et al., 2015).
Questo libro ed il precedente volume sono costruiti sopra una medesima impalcatura, una struttura logica e narrativa, basate su uno scenario evoluzionistico che collega gli uccelli moderni ad antichissimi rettili vissuti 250 milioni di anni fa, lungo una storia che si dispiega in un processo ramificato durato centinaia di milioni di anni. Nel prologo del Primo Volume, ho accennato il modo con cui i paleontologi ricostruiscono queste "impalcature" evoluzionistiche, come delineano gli scenari fondati su innumerevoli prove fossili, e che costituiscono la struttura di qualsiasi albero filogenetico illustrato in libri, articoli scientifici o documentari. Come ogni rappresentazione della realtà, lo scenario evoluzionistico sarà sempre meno accurato e più semplice del fenomeno stesso che vuole interpretare. Nonostante i nostri sforzi di costruire scenari i più accurati possibile, la realtà sarà sempre più ricca e sfuggente delle nostre filosofie, come notò, in modo molto più elegante e poetico di questo testo, lo stesso Shakespeare. Corollario di questa dichiarazione di limite e ammissione di umiltà è che qualsivoglia scenario evolutivo presenta sempre delle zone incerte, dei margini deboli, delle inevitabili omissioni. E per quanto noi tendiamo a scegliere quegli scenari che riducono al minimo le zone di
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incertezza e i punti non perfettamente spiegati, persisteranno sempre e comunque dei limiti e delle zone d'ombra nelle nostre narrazioni. Ciò è intrinseco a (ed inevitabile in) qualsiasi ricostruzione del remoto passato. Numerosi fattori concorrono a mantenere un margine di incertezza in ognuna delle ipotesi evoluzionistiche che elaboriamo per spiegare i fossili. Avere consapevolezza di questi fattori ci aiuta a interpretare i risultati delle nostre analisi, e ci permette di sviluppare soluzioni per migliorare il dettaglio e la robustezza degli scenari che abbiamo elaborato. Focalizzandoci sui fossili, essi possono essere fonte in incertezza in due modi principali, che possiamo chiamare "modo soft" e "modo hard" . L'incertezza soft è dovuta, banalmente, alla incompletezza dei fossili stessi. Nella maggioranza dei casi, un fossile è un resto parziale di un organismo estinto, e pertanto è una fonte intrinsecamente incompleta di informazione. Nel caso dei dinosauri (ed, in generale, degli animali vertebrati), le informazioni che abbiamo dai fossili riguardano quasi unicamente i loro scheletri: di conseguenza, quella che noi elaboriamo è sempre una "storia degli scheletri delle specie", prima ancora che una "storia delle specie" . Sebbene dalle ossa noi possiamo dedurre informazioni su altri elementi della biologia (in particolare, informazioni sulla muscolatura che si ancorava a quei muscoli, o sul tipo di cibo più adatto avendo a disposizione determinati denti e mandibole), molti elementi restano impossibili da determinare direttamente dalle ossa fossili. L'incertezza soft varia con il grado di completezza di uno scheletro: la storia evolutiva di una specie nota solo da una serie di vertebre della coda è sicuramente più incerta di quella di una specie nota da decine di scheletri completi. Nondimeno, i nostri metodi di indagine ci permettono di fare ipotesi robuste anche per specie conosciute da pochi resti. Se, per esempio, rinvengo un fossile limitato solamente a poche ossa del muso, e queste hanno tutte le caratteristiche che ritrovo unicamente nei musi di scheletri quasi completi di abelisauridi (vedere il Primo Volume), l'ipotesi più robusta per interpretare questo nuovo fossile è che appartenga ad un animale che ha, nel resto della sua anatomia, le caratteristiche degli abelisauridi, e non quelle di altri gruppi. Ovviamente, solo la scoperta di uno scheletro completo potrà confermare questa ipotesi, ma in assenza di ulteriori dati, quella interpretazione è la migliore a disposizione, poiché è quella più in accordo con ciò che sappiamo degli altri dinosauri, e quindi - a parità di informazione disponibile - risulta una spiegazione più semplice di qualsiasi possibile alternativa. In certi casi, il fossile è così frammentario che, pur riconoscendone il 42
valore (ad esempio, perché testimonia la presenza di un gruppo in un continente dove non era prima conosciuto, o perché estende la durata nel tempo di una linea evolutiva, o perché esso stesso è la sola prova disponibile di una specie altrimenti ignota) siamo tentati di ignorarlo, poiché temiamo che la sua frammentarietà porti più incertezze di quante ne possa risolvere. Per quanto motivata, il paleontologo deve rigettare tale tentazione. Ogni fossile deve essere considerato un tassello di un enorme mosaico che stiamo tentando di riassemblare: disporre di qualche tassello frammentario o scheggiato è sicuramente meglio che non avere quei tasselli per niente, e l'ignorare o il gettare via dei tasselli solo perché non sufficientemente indicativi di dove fossero collocati non aiuta la ricostruzione del passato. Per questo motivo, in paleontologia, ogni fossile, anche il più frammentario e parziale, sarà sempre benvenuto. Nondimeno, può risultare che una specie, nota da resti frammentari, sia così difficile da interpretare che non si può andare molto oltre la semplice menzione della sua esistenza: essa fluttua in un "limbo" privo di connessioni stabili col resto della documentazione fossile, in attesa di nuove scoperte che possano dipanare la nebbia. In altri casi, che ricadono invece nelle "incertezze hard", la specie in questione è nota da resti relativamente completi (per gli standard della paleontologia), ma nondimeno è così bizzarra ed inattesa che non è possibile stabilire con certezza dove si collochi nel grande schema evolutivo che abbiamo costruito. I motivi dell'incertezza, in questo caso, non sono dovuti alla mancanza di informazione, bensì alla natura n chimerica" di tale informazione: il fossile ricorda per alcune caratteristiche un primo gruppo, ma per altre caratteristiche ricorda un secondo gruppo, slegato dal primo, e per altre caratteristiche ancora pare ricordare un terzo gruppo, e così via. Casi come questo sono dovuti ad un fenomeno che permea tutta la filogenetica (la scienza che ricostruisce le parentele tra le specie), detto "omoplasia", ed al quale dedicherò un prossimo capitolo. Un fossile "molto omoplastico" pare non collimare completamente con alcuno dei gruppi consolidati, ed al tempo stesso ha elementi in comune con ciascuno. Questo status ambiguo rende tali fossili molto sconcertanti, poiché mina la validità dei gruppi "tradizionali", e quindi, implicitamente, mette in crisi la stessa struttura generale sopra la quale sono stati definiti i singoli gruppi. Questi fossili, vere e proprie "mine vaganti" nella ricostruzione filogenetica, sono sicuramente le scoperte più intriganti e, al tempo stesso, preoccupanti per chiunque voglia ricostruire la storia evolutiva di un gruppo fossile. Qualsiasi 43
opzione si scelga per collocare la nuova specie dentro l'albero che abbiamo definito per i gruppi principali, essa richiede comunque delle spiegazioni speciali per giustificare le ulteriori somiglianze che la specie ha con gli altri gruppi (somiglianze che potrebbero eventualmente sostenere la validità delle opzioni alternative a quella che abbiamo scelto). A differenza delle "incertezze soft", che sono - banalmente - una conseguenza della nostra ignoranza sui dettagli (il fossile è frammentario, e non ci fornisce molte informazioni), le "incertezze hard" sono molto più incisive, poiché sollevano un dubbio radicale sulla correttezza dello scenario ("l'albero") sopra il quale stiamo collocando tutte le specie. Le incertezze hard difatti sono dei potenziali segnali di allarme sulla robustezza globale della storia che abbiamo costruito, poiché aprono scenari non previsti, stabiliscono potenziali collegamenti tra gruppi che, prima della scoperta della nuova specie "chimerica", non avremmo sospettato, e quindi sollevano un dubbio - anche solo potenziale sull'intera impalcatura della nostra storia. In questo capitolo, parlo di due casi di incertezza filogenetica "hard", fossili che si possono collocare in varie posizioni alternative lungo la sequenza evolutiva che ho descritto qui e nel Primo Volume. A seconda della posizione che essi assumono rispetto alle altre linee evolutive principali, questi fossili enigmatici potrebbero eventualmente indicare e confermare scenari "eterodossi", non sospettabili prima della loro scoperta. Il primo esempio è una specie scoperta di recente, proveniente da una zona che fino ad ora è stata piuttosto avara di dinosauri: la costa pacifica del Sud America. Noto da vari esemplari, risalenti alla fine del Giurassico (circa 150 milioni di anni fa), esso è il primo dinosauro cileno conosciuto (e battezzato Chilesaurus), ma soprattutto è uno dei dinosauri più strani, bizzarri ed inattesi finora scoperti. Ad un'osservazione superficiale, Chilesaurus non è particolarmente inusuale: è un dinosauro di dimensioni medie (non supera tre metri di lunghezza), bipede e con corti arti anteriori. Il cranio è poco conservato, e non fornisce molte informazioni, a parte la presenza di un muso apparentemente corto munito di curiosi denti a forma di spatola, inclinati in avanti. Questo tipo di dentatura suggerisce una dieta onnivora, e mandibole non adatte ad afferrare o trattenere le prede. Le vertebre sono pneumatizzate, e in questo ricordano i neoteropodi (Primo Volume). Il braccio è corto e robusto, così come le mani, munite solamente di due dita funzionali (munite di artigli). Il terzo dito è molto ridotto, e probabilmente in vita era incluso nella muscolatura 44
del palmo, una condizione che si verifica sopra tutto nei teropodi tetanuri. Il bacino non è particolarmente specializzato, tranne l'osso pubico che è assottigliato e inclinato verso il retro del corpo, in maniera simile a quella degli omitischi (Primo Volume). Lo scheletro della gamba mostra le caratteristiche generali dei dinosauri, ed il piede ha quattro dita ben sviluppate (a differenza dei neoteropodi, in cui il primo dito è ridotto, ed il piede è funzionalmente tridattilo ). Chilesaurus mostra quindi un bizzarro mosaico di caratteristiche, che ricordano tutti i principali gruppi di Dinosauria. Il cranio non mostra gli adattamenti carnivori tipici dei teropodi, mentre le vertebre sono simili a questi ultimi, la mano è corta e poco adatta a trattenere le prede, sebbene le ossa del polso ricordino i teropodi tetanuri (Primo Volume), il bacino ricorda gli ornitischi, mentre la gamba ricorda i primi saurischi. Qualunque posizione si prenda per collocare Chilesaurus in un punto di Dinosauria, occorre comunque concludere che esso sia anche il prodotto di una storia peculiare che produsse in modo autonomo alcune caratteristiche presenti in altri gruppi. L'interpretazione che ritengo più solida coi dati attuali è che Chilesaurus sia un teropode tetanuro primitivo, evolutosi in relativo isolamento dagli altri gruppi, e pertanto andato incontro ad una sua storia peculiare, probabilmente adatta a sfruttare una ecologia onnivora simile a quella di alcuni omitischi. Alcuni autori hanno focalizzato la loro attenzione sulle caratteristiche "ibride" di Chilesaurus che ricordano sia i neoteropodi che gli omitischi, e che potrebbero quindi confermare l'ipotesi "Ornithoscelida", discussa nel precedente volume (ovvero, un legame molto stretto tra dinosauri ornitischi e teropodi neoteropodi, legame che smentirebbe la tradizionale unione di teropodi e sauropodomorfi nel gruppo Saurischia). Se fosse confermata la sua simultanea affinità con ornitischi e primi neoteropodi, Chilesaurus sarebbe quindi un discendente della transizione evolutiva che dai primi teropodi avrebbe portato sia ai neoteropodi che agli omitischi. Per quanto intrigante, per ora questa ipotesi non regge la prova di tutti i dati disponibili, dato che Chilesaurus mostra anche numerose caratteristiche dei tetanuri, caratteristiche che i promotori di Ornithoscelida non prevedono essere comparse alla base del ceppo che porta anche agli omitischi. Chilesaurus è talmente bizzarro che non collima nemmeno con la bizzarra ipotesi di Ornithoscelida. In attesa di nuove prove, l'ipotesi che "spiega" Chilesaurus come un teropode tetanuro primitivo adattato ad una dieta onnivora e specializzatosi in parziale isolamento dal resto dei dinosauri giurassici è una opzione migliore 45
rispetto a quella che lo vede come un "sopravissuto" della ipotetica transizione che, nel Triassico, a partire da dinosauri simili a teropodi avrebbe condotto agli ornitischi (lo scenario "Ornithoscelida"). Come nel caso di Chilesaurus, anche il secondo gruppo di "mine vaganti" proviene dai continenti meridionali. I primi resti di questo gruppo furono scoperti all'inizio del XX secolo, in Egitto, nella medesima località da cui proviene il bizzarro Spinosaurus (vedere il Primo Volume). Non è chiaro se tutti i resti in questione appartengano alla medesima specie, dato che sono riferibili a più individui di differenti dimensioni. I resti più grandi, tra cui alcune ossa della gamba, indicano comunque un grande teropode, lungo una decina di metri, di dimensioni paragonabili ai grandi allosauroidi, agli spinosauridi ed ai tirannosauridi. A questo animale è stato dato il nome di Bahariasaurus. Nonostante le grandi dimensioni, Bahariasaurus appare come un animale relativamente snello ed affusolato. Purtroppo, l'estrema frammentarietà dei resti, tra cui la completa assenza di ossa dalla metà anteriore del corpo, ha reso molto difficile stabilirne le relazioni con il resto dei teropodi. Intorno alla metà degli anni '90 del XX secolo, furono rinvenuti i resti di un teropode di dimensioni medio-grandi, relativamente snello ed affusolato, in livelli marocchini della stessa età di quelli egiziani contenenti Bahariasaurus. Questo nuovo teropode, battezzato Deltradromeus, mostra numerose somiglianze con alcuni dei resti egiziani attribuiti a Bahariasaurus, e fu inizialmente considerato un celurosauro primitivo, forse legato agli ornitomimosauri (prossimi capitoli). Sebbene più completo di Bahariasaurus, anche in questo caso, non è noto alcun resto del cranio. Alcuni anni dopo, lo stesso gruppo di ricerca che aveva scoperto Deltadromeus rivalutò la sua posizione, e lo collocò tra gli abelisauroidi "gracili" (quindi non più membro dei celurosauri, bensì all'interno di Ceratosauria), in un gruppo comprendente forme bizzarre come Elaphrosaurus e Noasaurus (vedere il Primo Volume). Non è la prima volta che un abelisauroide di morfologia gracile proveniente dal continente africano è stato collocato prima tra i celurosauri e poi spostato nei ceratosauri: Elaphrosaurus, scoperto in Africa orientale negli anni '20 del XX Secolo, ha avuto una sorte analoga. Inizialmente, Elaphrosaurus fu considerato un celurosauro, e solo negli anni '90 fu ricollocato in Ceratosauria, alcuni anni prima della scoperta di Deltadromeus. Il motivo di questi spostamenti lungo Theropoda è la generale somiglianza tra alcuni abelisauroidi ed alcuni celurosauri (che saranno oggetto di prossimi capitoli), somiglianza che poteva indurre i primi ad essere 46
confusi con i secondi . Un caso analoso è avvenuto di recente, con un altro theropode africano di morfologia gracile, battezzato Afromimus, collocato inizialmente tra i celurosauri e poi riconosciuto essere un abelisauroide. Anche in questi casi, a creare "confusione" è l'omoplasia, la comparsa di caratteristiche simili in gruppi non direttamente imparentati tra loro. La diatriba sui "bahariasauridi" pareva quindi risolta, interpretandoli come abelisauroidi gracili di grandi dimensioni, vagamente simili ad alcuni celurosauri corridori. Tuttavia, alcuni anni fa, fu scoperto un nuovo teropode, piuttosto bizzarro, da livelli dell'inizio del Cretacico Superiore della Patagonia, simili come età a quelli africani di Bahariasaurus e Deltadromeus, che ha rimescolato nuovamente le carte evolutive. Anche questo teropode è di dimensioni medio-grandi, ed anche questo ha una morfologia gracile. Ed anche in questo caso, purtroppo, non abbiamo resti del cranio. Questo dinosauro, battezzato Gualicho, è molto simile a Deltadromeus, ha ulteriori caratteristiche simili agli abelisauroidi gracili, ma, al tempo stesso, ha anche caratteristiche nel braccio, nella mano, nella gamba e nella coda, che ricordano i tetanuri, in particolare i tirannosauroidi e i megaraptori. Pertanto, l'enigma dei bahariasauridi è ancora aperto: sono celurosauri che somigliano ad abelisauroidi, oppure sono abelisauroidi che somigliano a celurosauri? Oppure, essi sono la prova che la soluzione all'enigma sia altrove? Se la soluzione sulle parentele di questi bizzarri teropodi fosse quella di abbandonare le categorie tradizionali e riscrivere la storia evolutiva di Theropoda da capo? Possibile che i bahariasauridi ci indichino uno scenario nuovo ed eterodosso, in cui gli abelisauroidi (o parte di loro) non erano legati ai ceratosauri, bensì ai celurosauri? Avrebbe senso un qualche scenario radicale, in cui i bahariasauridi sono parenti stretti contemporaneamente sia dei celurosauri che degli abelisauroidi? Dobbiamo forse abbandonare Tetanurae (il gruppo formato da camosauri e celurosauri) e riformare i suoi rami, i:.:mestandone alcuni coi ceratosauri, in modo analogo a ciò che l'ipotesi di Omithoscelida ha provato a fare smantellando un secolo di consolidate certezze tra saurischi ed omitischi? Ammetto che queste ultime opzioni sono molto estreme, e per ora del tutto speculative. Nondimeno, esse sono alimentate dalla scoperta di forme bizzarre come i bahariasauridi. Forse, la bizzarria di questi dinosauri non è hard, ma solamente soft: qualora trovassimo i resti del loro cranio, parte dell'enigma potrebbe dissolversi, e la loro posizione rispetto agli altri gruppi stabilizzarsi. Pertanto, è solo con nuovi fossili che potremo risolvere la questione. Al tempo stesso, già ora è chiaro che durante 47
l'evoluzione di Theropoda, accadde spesso che le medesime innovazioni furono sviluppate indipendentemente da gruppi diversi, e che ciò abbia creato una intricata "anarchia" evolutiva non sempre facile da risolvere per i paleontologi. Chiudo il capitolo in modo insolito, parlando di un terzo gruppo che, a prima vista, non dovrebbe essere citato qui, dato che è composto da specie note spesso grazie a scheletri eccezionalmente completi, e che quindi non ricadono nelle due definizioni di "incertezza soft" e "incertezza hard" illustrate nel capitolo. Nondimeno, ho motivi per sospettare che questo gruppo di specie di teropodi sia il più problematico in assoluto, dato che potrebbe non esistere affatto! Intorno al 1860, negli stessi anni in cui erano scoperti i primi fossili di Archaeopteryx - il "primo uccello" estratto da cave giurassiche della Baviera - le medesime cave restituirono lo scheletro di un piccolo dinosauro teropode. Battezzato Compsognathus, questo dinosauro non è più grande di un giovane pollo, e fu difatti il primo dinosauro di piccole dimensioni ad essere scoperto. La sua taglia ridotta, e la sua morfologia generale vagamente simile a quella di Archaeopteryx, furono notate immediatamente dai sostenitori di un legame tra dinosauri ed uccelli, già un decennio dopo la sua scoperta. A partire dalla fine del XX secolo, altri dinosauri di piccole dimensioni e con una morfologia simile a Compsognathus sono stati scoperti in varie località di età compresa tra la fine del Giurassico e la metà del Cretacico (150-100 milioni di anni fa). Uno di questi fu il primo dinosauro rinvenuto con tracce di piumaggio: Sinosauropteryx, dai livelli della "Pompei Cretacica" cinese, e risalente a 125 milioni di anni fa. Esso è molto simile a Compsognathus nelle caratteristiche dello scheletro, incluse le dimensioni modeste, la mancanza di specializzazioni nel cranio, e la presenza di arti anteriori corti in cui il primo dito è più robusto degli altri. La differenza più significativa tra i due fossili è la presenza in Sinosauropteryx di tracce di filamenti lungo buona parte del corpo, simili a quelli che, alcuni anni dopo, saranno descritti per i tirannosauroidi (capitolo precedente), in alcuni ornitischi e negli pterosauri (vedere il Primo Volume). L'assenza di tracce di piumaggio in Compsognathus è probabilmente dovuta a differenti modalità di fossilizzazione, che non hanno permesso la preservazione dei sottili filamenti in questo animale. Nel precedente volume, ho discusso di come le differenti condizioni di fossilizzazione incidano sulla preservazione o meno delle piume. Non deve soprendere che le medesime cave di calcare possano a volte preservare il piumaggio 48
(Archaeopteryx) oppure non conservare alcuna traccia della pelle (Compsognathus). A questo proposito, va notato che alcuni esemplari di Archaeopteryx, provenienti da livelli calcarei simili a quelli di Compsognathus, non sono stati rinvenuti in associazione alle piume, ma solamente sotto forma di scheletri "nudi" . Ciò ci fa sospettare che il fossile di Compsognathus abbia avuto una sorte simile a quella degli Archaeopteryx "nudi", e che quindi un giorno potremmo trovare un esemplare piumato. Chissà che strada avrebbe preso la paleontologia dei dinosauri se, nel 1860, avessimo scoperto un esemplare di Compsognathus con tracce di piume invece di uno scheletro "nudo" . A conferma della aleatorietà dei processi di fossilizzazione, da livelli bavaresi quasi contemporanei a quelli di Compsognathus provengono altri due piccoli teropodi, scoperti negli ultimi decenni, vagamente simili nelle caratteristiche generali a questo ultimo, ma con una preservazione del tegumento molto differente tra loro. Uno di questi, battezzato ]uravenator, mostra parte del piumaggio a livello della coda, mentre il Hecondo, battezzato Sciurumimus, mostra un abbondante piumaggio filamentoso su varie parti del corpo (come Sinosauropteryx). Ad eccezione di questa differenza nel grado di preservazione del tegumento, i loro scheletri sono molto simili. Tutti questi teropodi condividono una medesima morfologia generale: sono lunghi meno di due metri, hanno un cranio "generalista" privo di omamentazioni, di creste o di particolari specializzazioni, hanno arti anteriori moderatamente corti, muniti di tre dita artigliate, ed in alcuni casi il primo dito della mano è robusto e porta un artiglio più sviluppato degli altri. Almeno in Compsognathus la mano pare avere solo due dita funzionanti munite di artigli. Tutti hanno arti posteriori affusolati, e una coda a volte molto allungata. La somiglianza generale ha indotto molti paleontologi a classificare tutti questi teropodi in un unico gruppo, chiamato Compsqgnathidae. Secondo questa interpretazione, i compsognatidi sarebbero una linea di piccoli celurosauri primitivi e poco specializzati. Per quanto a prima vista sia la spiegazione più ovvia della loro morfologia, io nutro dei dubbi sulla correttezza di quello scenario. Più confronto i compsognatidi con gli altri tetanuri e più è forte il sospetto che, in realtà, "Compsognathidae" non sia un gruppo zoologico naturale. Nello specifico, sospetto che i suoi membri non siano affatto la prova dell'esistenza di specie vere e proprie di piccoli celurosauri poco specializzati. Il sospetto nasce ispirato dalla interpretazione iniziale data 49
ad uno di loro, Sciurumimus, ritenuto essere un giovane megalosauroide (vedere il Primo Volume). Ispirato da questa intrigante ipotesi, mi domando se tutti i compsognatidi siano in realtà esemplari molto immaturi di specie di dinosauro predatore, di grandi dimensioni, e non appartenano a specie di piccole dimensioni adulte. A questo proposito, è da rimarcare che la maggioranza dei fossili riferiti ai compsognatidi sia basata su esemplari chiaramente immaturi (con proporzioni dello scheletro e struttura ossea tipiche di animali molto giovani). Il mio sospetto è che quella che stiamo osservando non sia la morfologia "adulta definitiva" di questi animali, bensì l'aspetto dell'animale quando ancora molto giovane. Nel precedente volume, abbiamo visto che i dinosauri, specialmente quelli di grandi dimensioni, andavano incontro a radicali mutamenti anatomici durante la crescita, che portavano gli adulti ad avere morfologie e proporzioni ben diverse da quelle dei giovani. Nel precedente capitolo, ho parlato di "Nanotyrannus" : esso fu inizialmente interpretato come una specie nana di tirannosauride proprio a causa delle marcate differenze anatomiche rispetto ai "tirannosauridi classici" . In seguito, una analisi rigorosa delle sue caratteristiche ha mostrato che esse siano gli attributi giovanili che ci attendiamo in Tyrannosaurus, e che un animale adulto con le caratteristiche di Nanotyrannus, di fatto, non esista. Il mio sospetto, quindi, è che, se non tutti, almeno una parte dei compsognatidi sia rappresentata da esemplari molto giovani di specie di teropodi di grandi dimensioni, in particolare, di tetanuri di tipo carnosauriano (sia megalosauroidi che allosauroidi). Se ammettiamo questa ipotesi, allora i compsognatidi, intesi come specie di piccoli celurosauri generalizzati, non sono mai esistiti! Le prove a sostegno di questa ipotesi sono in parte "indiziarie", ma non possono essere ignorate. Ad esempio, i compsognatidi compaiono nel Giurassico e scompaiono a metà del Cretacico, hanno quindi una distribuzione nel tempo che ricalca quella dei megalosauroidi e degli allosauroidi: come mai questi piccoli teropodi hanno la medesima durata temporale dei grandi camosauri? Un altro indizio è l'assenza quasi totale di resti di allosauroidi o di megalosauroidi molto giovani (ad oggi, a parte qualche resto frammentario, non conosciamo scheletri dei primi stadi di crescita di questi grandi teropodi): possibile che non sia mai stato scoperto alcuno scheletro di questi dinosauri al di sotto i due metri di lunghezza (ovvero, la dimensione tipica dei compsognatidi)? Dalle dimensioni delle uova e delle ossa pelviche di questi animali, deduciamo che nei primissimi anni di vita i grandi camosauri avessero dimensioni 50
analoghe a quelle dei compsognatidi: perché troviamo i fossili di compsognatidi, spesso in ottimo stato di preservazione, ma mai i giovani dei grandi camosauri (che dovrebbero avere dimensioni e robustezza scheletrica simile a quella dei compsognatidi, e quindi una simile probabilità di fossilizzare)? Forse, semplicemente, perché i giovani dei camosauri sono proprio i compsognatidi stessi! Non è un caso, a questo proposito, che i compsognatidi siano privi di creste o altre omamentazioni del cranio: questi attributi sono chiaramente dei caratteri sessuali secondari, tipici dello stadio adulto, quindi ci aspettiamo che siano assenti negli animali molto giovani poiché si formavano solamente nella fase "adolescenziale" durante la maturazione verso lo stadio adulto. Infine, ciascuno dei vari compsognatidi mostra curiose similitudini con diversi gruppi di tetanuri, che potrebbero indicare una parentela diretta di ciascuna specie con uno di quei gruppi: questi caratteri indeboliscono la validità di un unico gruppo zoologico, Compsognathidae, comprendente questi piccoli teropodi, poiché ricollocano ciascun compsognathide dentro un qualche ramo dei camosauri. Oltre al già citato Sciurumimus, che ricorda in varie caratteristiche proprio i megalosauridi, il caso per me più interessante è il primo dinosauro italiano, il celebre "Ciro", battezzato nel 1998 col nome scientifico di Scipionyx samniticus. Questo piccolo dinosauro, le cui caratteristiche generali si confermano essere quelle di un individuo molto giovane (sicuramente morto a pochi mesi dalla nascita), è ufficialmente classificato tra i compsognatidi. Eppure, in numerosi dettagli, Scipionyx ricorda più gli allosauroidi che i celurosauri, e questo fa sospettare che esso sia quindi un "pulcino" di camosauro. Forse, se non fosse morto prematuramente, una volta cresciuto, "Ciro" avrebbe potuto raggiungere le dimensioni e le caratteristiche di animali come Allosaurus: va rimarcata, a questo proposito, la presenza in livelli europei e nordafricani di età simile a Scipionyx, di allosauroidi come Concavenator, Eocarcharia e Neovenator. Se confermata, questa interpretazione prevede che, da adulto, il primo dinosauro italiano fosse simile per forma e dimensioni a questi generi. La questione sulla validità dei compsognatidi (intesi come un gruppo naturale di specie di piccoli celurosauri non specializzati) è importante poiché ha implicazioni sulla storia evolutiva degli altri celurosauri. Si assume, tradizionalmente, che i primi celurosauri fossero animali simili ai compsognatidi: piccoli e privi di specializzazioni. Ma se risultasse che i compsognatidi sono i "pulcini" dei camosauri e che quindi la loro collocazione nei celurosauri (nonché la stessa esistenza di un gruppo 51
chiamato "Compsognathidae") sia un errore, allora dovremmo rivedere l'idea stessa della condizione ancestrale dei celurosauri costruita su di loro, e abbandonare l'idea che i celurosauri siano partiti da piccoli animali poco specializzati. Ad oggi, non sono stati compiuti molti studi per stabilire l'effettivo stadio di crescita dei vari esemplari di compsognatide, ma nei casi in cui ciò è stato fatto (ad esempio, Scipionyx), essi non sono risultati essere esemplari adulti. Sebbene un esemplare del compsognatide Sinosauropteryx sia stato rinvenuto con delle strutture ovoidali nell'addome simili a uova, non è chiaro se si tratti effettivamente di uova oppure, come già osservato in altri dinosauri da livelli analoghi, di resti di pasto. Pertanto, rimane aperta l'opzione che vede questi piccoli teropodi non come membri di un gruppo di specie di piccole dimensioni e prive di specializzazioni, ma come esemplari giovanili dei principali gruppi di tetanuri di media e grande taglia. Indipendentemente dall'interpretazione più valida per i compsognatidi, fin dall'inizio del Giurassico Superiore (160 milioni di anni fa) iniziano a comparire nuovi celurosauri, piuttosto inusuali: a differenza degli altri tetanuri, ed anche dei tirannosauroidi (ed eventualmente, dei compsognatidi), questi teropodi paiono abbandonare progressivamente la dieta macrofaga e ipercarnivora (ovvero, specializzata verso prede di dimensioni pari o superiori a quelle del predatore) per occupare nuove nicchie, fino ad allora quasi del tutto ignorate dalla maggioranza dei teropodi. Da questo nuovo ceppo di teropodi, i maniraptoromorfi, prende origine la più grande radiazione adattativa di Theropoda, comprendente al suo interno anche gli uccelli.
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Capitolo terzo Eresie
MAN l RA PTO ROMO R P H A
MAN I RA PTO RA
Maniraptoromorpha comprende almeno cinque gruppi adattati ad una dieta onnivora o vegetariana. Il più grande di tutti i maniraptoromorfi è probabilmente Deinocheirus, di dimensioni paragonabili a quelle dei grandi tirannosauridi. La sua bizzarra anatomia è stata risolta solo di recente, dopo mezzo secolo dalla scoperta dei primi resti enigmatici. (Ricostruzione in vivo di Deinocheirus basata sulla ricostruzione scheletrica di Lee et al., 2014).
B uona parte del Primo Volume è stata dedicata a descrivere la serie di innovazioni anatomiche accumulate durante la transizione dai primi dinosauri della metà del Triassico che ha condotto ai neoteropodi giurassici. Tali innovazioni sono interpretate come il progressivo adattamento di questa linea di dinosauri ad un regime alimentare ipercarnivoro (ovvero, quasi unicamente basato sulla carne) e macrofagico (ovvero, capace di assumere carne da animali grandi quanto o persino più del predatore stesso). I theropodi si differenziarono quindi dalla condizione ancestrale dei dinosauri (che era prettamente onnivora, focalizzata su prede più piccole del predatore, e generalista) occupando l'apice di tutte le catene alimentari continentali del Giurassico. Pertanto, confrontati con gli altri dinosauri, i primi teropodi apparvero come una "anomalia" spinta verso un regime alimentare unicamente carnivoro all'interno di un gruppo nato invece come prettamente onnivoro. Nel Giurassico, mano a mano che si diversificavano, i teropodi sfruttarono in vario modo lo stile di vita carnivoro e cacciatore, sviluppando i differenti adattamenti che ho discusso nei precedenti capitoli e nel Primo Volume. Se all'interno di Dinosauria la dieta ipercarnivora era una anomalia, all'interno di Theropoda essa era quindi la norma. 53
L'evoluzione è, per definizione, discendenza con modificazioni: allontanamento dalla condizione ancestrale. Pertanto, se un gruppo di successo si espande ripetutamente dentro una particolare condizione, fino a "saturarla", la sua evoluzione porterà, prima o poi, qualcuno dei suoi membri ad allontanarsi da quella norma, ad "uscire dal seminato", acquistando adattamenti a condizioni nuove. Sia chiaro, ciò non è obbligatorio che accada. I teropodi avrebbero potuto continuare ad essere unicamente carnivori per tutta la loro storia, visto il successo con cui sapevano svolgere quel ruolo. Eppure, proprio come Theropoda si differenziò dagli altri membri di Dinosauria "provando una nuova dieta", così alcuni membri di Theropoda svilupparono, intorno alla metà del Giurassico, adattamenti verso "una nuova dieta" . Se nel Triassico la novità era stata l'ipercarnivorìa, nel Giurassico questa ultima era ormai divenuta la prassi dei teropodi, la condizione "ortodossa" per quel gruppo. Abbandonata da decine di milioni di anni, l'antica onnivorìa dei primi dinosauri risultava, invece, una possibile novità per i nuovi rami di Theropoda, una strada inusuale da esplorare (qualora ci fossero state le condizioni per intraprenderla). L'acquisizione di una dieta onnivora, che in alcuni casi porterà anche ad una dieta spiccatamente vegetariana, rappresenta difatti la grande "eresia" intrapresa da alcuni gruppi di teropodi della seconda metà del Giurassico e, soprattutto, del Cretacico: l'abbandono dell'ecologia "ortodossa" e l'esplorazione di nicchie mai occupate prima. Almeno tre linee di Theropoda si spingeranno in quella direzione. La prima è stata menzionata nel precedente volume. Alcuni abelisauroidi gracili, come Limusaurus, mostrano difatti chiari adattamenti alla dieta onnivora, se non persino erbivora: accorciamento del muso, generale alleggerimento del cranio, perdita dei denti (sostituito da un becco) e atrofia delle mani, non più usate per assistere la cattura della preda. La seconda linea è rappresentata dall'enigmatico Chilesaurus, discusso nel precedente capitolo. La terza linea produrrà invece una progenie molto più diversificata, la più ricca di tutto Theropoda: sono i maniraptoromorfi. Maniraptoromorpha è il gruppo di celurosauri che comprende tutte le specie più strettamente imparentate agli uccelli rispetto ai tirannosauroidi. I più antichi maniraptoromorfi conosciuti risalgono al Giurassico Superiore (160-145 milioni di anni fa), ma è plausibile che il gruppo sia comparso almeno una decina di milioni di anni prima, dato che il suo "gruppo fratello", Tyrannosauroidea, è noto fin dal Giurassico Medio (per come sono definiti, i due gruppi devono essere comparsi nel 54
medesimo momento geologico, per divergenza reciproca dal loro ultimo antenato comune: la presenza di Tyrannosauroidea almeno 165 milioni di anni fa implica quindi che anche Maniraptoromorpha fosse già presente a quel tempo). Inoltre, ad eccezione di una manciata di possibili maniraptoromorfi primitivi, tutti i fossili giurassici attribuiti a questo gruppo sono classificabili dentro qualche ramo già diversificato, avente proprie specializzazioni. Questi indizi implicano una storia iniziale di Maniraptoromorpha ancora sconosciuta, e che precede quella documentata dai fossili. I maniraptoromorfi si classificano in cinque rami principali: Ornithomimosauria, Alvarezsauroidea, Therizinosauria, Oviraptorosauria e Paraves. Incontreremo i vari gruppi lungo questo e nei prossimi capitoli. Attualmente, abbiamo fossili giurassici riferibili senza dubbio a Paraves e Alvarezsauroidea, più alcuni resti molto enigmatici che potrebbero appartenere a Therizinosauria. Sebbene non esistano ad oggi resti di omitomimosauri giurassici, il più antico membro del gruppo, il sudafricano Nqwebasaurus (il nome si scrive così, ma si pronuncia con un "click" della lingua seguito da "basaurus";fide C. Dal Sasso), risale all'inizio del Cretacico (140 milioni di anni fa, "appena" cinque milioni di anni dopo la fine del Giurassico). Infine, un gruppo molto bizzarro di maniraptoromorfi giurassici - che incontreremo più avanti - potrebbe essere classificato dentro Oviraptorosauria. Pertanto, numerosi indizi, alcuni diretti, altri indiretti, attestano la rapida diversificazione di questo grande gruppo fin dalla seconda metà del Giurassico. Tra i rami che più si differenziano proprio alla fine di quel periodo, in seno a Paraves, si nidifica l'origine del gruppo degli uccelli, Avialae. I resti dei primi maniraptoromorfi sono scarsi, ed in molti casi non è chiaro se siano effettivamente dei membri primitivi di questo gruppo o piuttosto siano riferibili ad altri rami di Coelurosauria (in particolare, Tyrannosauroidea). Ad esempio, alcuni celurosauri della fine del Giurassico, come Coelurus e Tanycolagreus (entrambi dal Nord America), presentano una morfologia relativamente gracile e snella, che li accomuna ai maniraptoromorfi: al tempo stesso, essi mostrano alcuni caratteri in comune coi tirannosauroidi, e quindi non è ancora del tutto chiaro a quale ramo di Coelurosauria appartengano. Probabilmente, il più plausibile membro primitivo di Maniraptoromorpha è Ornitholestes, dal Giurassico Superiore del Nord America. Questo genere è noto da un singolo scheletro ben conservato, che include anche un cranio quasi completo. Sebbene il resto dello scheletro di questo teropode sia stato descritto una 55
quindicina di anni fa, il cranio non è mai stato descritto nel dettaglio, a parte il lavoro iniziale che lo introdusse, più di un secolo fa. In attesa di una descrizione aggiornata, alcuni dettagli del cranio di Ornitholestes sono comunque molto interessanti, e meritano menzione, poiché anticipano alcune tendenze che incontreremo lungo la storia dei maniraptoromorfi. Il muso di questo teropode, relativamente corto, alloggia una dentatura peculiare, in cui i primissimi denti, quelli posti sulla punta del muso, sono più grandi dei successivi, ed inclinati leggermente in avanti. Questa morfologia è adatta per afferrare e manipolare il cibo principalmente con la punta del muso, una condizione che ricorda i denti incisivi di molti mammiferi, ed è sovente associata ad una dieta vegetariana e frugivora (che si nutre di frutta). Sebbene il resto dello scheletro non sia molto differente da altri celurosauri giurassici, è intrigante constatare che un muso corto e denti "incisiviformi" siano una caratteristica di altri due gruppi di maniraptoromorfi: gli oviraptorosauri primitivi e gli enigmatici scansoriopterigidi. I dati attuali suggeriscono che queste somiglianze siano il prodotto di una evoluzione parallela avvenuta separatamente nei tre gruppi (forse per sfruttare risorse alimentari simili), tuttavia, è intrigante speculare se Ornitholestes sia alla base del ramo che porta agli oviraptorosauri e, eventualmente, anche agli scansoriopterigidi. Mentre i tre gruppi appena menzionati si specializzarono accorciando il muso e riducendo il numero dei denti, molti altri maniraptoromorfi seguiranno una tendenza opposta, evolvendo musi allungati muniti di un gran numero di denti relativamente piccoli e strettamente assiepati. Questa seconda condizione si allontana definitivamente dal modello ipercarnivoro presente nella maggioranza dei teropodi incontrati finora. Questi ultimi portavano una serie di denti relativamente larghi e robusti, di lunghezze differenti, ma tutti coi margini seghettati, che funzionavano come grandi coltelli da carne. Al contrario, le dentature dei nuovi maniraptoromorfi sono formate da una schiera più numerosa di piccoli denti di dimensione e profilo uniforme, spesso privi di seghettatura, poco adatti a tagliare la carne se considerati singolarmente, ma molto efficaci se lavoravano in concerto. Questo nuovo modello di dentatura non è molto utile per catturare grandi prede o per lacerare pelle e muscoli, ma è molto più versatile per nutrirsi di insetti, per afferrare piccoli animali, o per sminuzzare materiale vegetale, come foglie e infiorescenze. A cavallo del passaggio dal Giurassico al Cretacico, i diversi gruppi di maniraptoromorfi si specializzano lungo direzioni differenti, acquisendo ciascuno una dieta particolare, in alcuni casi perdendo in parte o del tutto 56
i denti e sostituendoli con dei becchi cornei simili a quelli di alcuni gruppi di dinosauri vegetariani (come gli ornitischi, Primo Volume). L'evoluzione di questi nuovi teropodi, spesso adatti ad una dieta vegetariana, potrebbe essere legata alla così detta "Rivoluzione Terrestre Cretacica", ovvero, la grande transizione negli ecosistemi mondiali che, a metà del Cretacico, inaugura alcuni degli elementi fondanti gli ecosistemi moderni, in primis, una stretta associazione e coevoluzione tra piante terrestri ed insetti. A questo proposito, sebbene sia difficile stabilire relazioni così dirette per fenomeni che si dispiegano alla scala delle decine di milioni di anni, è comunque da sottolineare che, nel medesimo intervallo di tempo in cui i maniraptoromorfi si ramificano e diversificano, gli insetti vanno incontro ad una enorme radiazione adattativa (che porterà ai gruppi dominanti ancora oggi), mentre il mondo vegetale è interessato da una altrettanto importante rivoluzione, l'affermazione e diffusione delle piante con fiore, le angiosperme: possibile che la radiazione di nuovi celurosauri onnivori e vegetariani sia stata spinta anche dalla concomitante rivoluzione vegetale e negli insetti? Anche per questi celurosauri valeva la "regola" del modulo formato da testa e braccio, così pregnante nella biologia dei teropodi (vedere il Primo Volume): di conseguenza, le nuove modalità di dentatura (e mandibole) acquisite dai maniraptoromorfi si accompagnarono a nuove trasformazioni a livello dell'arto anteriore. In particolare, la progressiva scomparsa della funzione predatoria nelle mandibole (a seguito della dieta onnivora e poi vegetariana) svincolò l'arto anteriore dalla funzione di supporto nella cattura e manipolazione della preda. Il braccio fu quindi "d-utilizzato" per nuove funzioni, alcune delle quali - vedremo - mai sperimentate prima nei dinosauri. Il primo ramo dei maniraptoromorfi che incontriamo è Ornithomimosauria. Attualmente, questo gruppo è conosciuto solamente per fossili di età cretacica (tra 140 e 66 milioni di anni fa), tuttavia è plausibile che la prima fase dell'evoluzione degli ornitomimosauri sia avvenuta durante la seconda metà del Giurassico (tra 1 70 e 150 milioni di anni fa) ma che non siano stati finora scoperti fossili relativi a quell'intervallo. I motivi di questa lacuna possono essere legati alla incompletezza della documentazione (ad esempio, è possibile che i primi ornitomimosauri siano vissuti in regioni avare di fossili giurassici, come l'Africa), oppure, potrebbero rispecchiare una limitata differenziazione del gruppo prima del Cretacico. Come in tutti i gruppi particolarmente longevi, è plausibile che i primissimi membri del gruppo fossero poco 57
differenziati rispetto alla condizione "base" dei maniraptoromorfi, così da essere quasi indistinguibili dagli altri celurosauri: ciò potrebbe rendere molto difficile identificare un "genuino" ornitomimosauro giurassico rispetto agli altri maniraptoromorfi primitivi. Attualmente, il più antico e primitivo tra gli ornitomimosauri conosciuti è Nqwebasaurus, risalente all'inizio del Cretacico del Sudafrica. L'animale mostra già alcuni tratti tipici del gruppo: la dentatura non è più adatta ad una dieta ipercarnivora, ed è formata da denti relativamente piccoli e strettamente assiepati uno all'altro, poco incurvati e privi di seghettature. La parte posteriore del muso non portava denti, e mostra un margine affilato che forse in vita era irrobustito da un becco corneo. Coerentemente con la sua natura di teropode, anche l'arto anteriore di Nqwebasaurus è modificato rispetto alla condizione ancestrale dei celurosauri. Le mani di questo teropode portano tre lunghe dita munite di ungueali (la falange che porta l'artiglio) di forma affusolata ma poco incurvata. Gli artigli non erano quindi di tipo "falciforme" e non agivano come arpioni per agganciarsi alla preda come una morsa, né fungevano da lame per lacerare o penetrare le carni. L'impianto generale di questa mano si conserva in tutti i successivi ornitomimosauri, nei quali spesso si osserva una omogeneità nella forma e lunghezza delle tre dita, caratteristica che suggerisce una funzione comune alle tre dita, forse svolta di concerto tenendole serrate una all'altra (ad esempio, per scavare). Per Nqwebasaurus è quindi ipotizzata una dieta a base di invertebrati (insetti, molluschi) o piccoli vertebrati (lucertole, uova, mammiferi) che potevano essere ingoiati interi. La preferenza per una dieta meno fondata sulla carne e più generalista (se non persino onnivora) è una tendenza che caratterizza tutti i successivi ornitomimosauri. Questa dieta può essere soddisfatta anche senza un "arsenale" di denti da ricambiare continuamente (come accade nei rettili carnivori): dato che la produzione di sempre nuovi denti è una attività metabolicamente "dispendiosa", non soprende che l'abbandono della dieta ipercarnivora durante l'evoluzione di questi teropodi sia sovente accompagnata dalla perdita dei denti. Se nel Cretacico Inferiore (tra 140 e 100 milioni di anni fa) incontriamo ancora ornitomimosauri muniti di denti piccoli e affilati (in alcuni casi, come in Pelecanimimus, i denti, fittamente assiepati, superano il centinaio), a partire dalla metà del periodo il gruppo sarà formato unicamente da specie del tutto prive di denti, munite di un becco corneo che ricordava in parte quello di molti uccelli odierni. Liberati dalla necessità di generare morsi potenti o elevate pressioni a livello delle mani, 58
sia il cranio (e, di conseguenza, il collo) che l e braccia negli ornitomimosauri si allungano e alleggeriscono. Il cranio degli ornitomimosauri si fa progressivamente più affusolato, così come si riduce la muscolatura deputata a chiudere le mandibole e a serrare il morso. In tutti i vertebrati terrestri, la muscolatura temporale, la cui contrazione fa chiudere le mandibole, scorre lungo la metà posteriore della testa, ai lati della scatola cranica (neurocranio), e si inserisce sul tetto del cranio: essa letteralmente avvolge e circonda la scatola cranica e quindi anche il cervello. Fintanto che la funzione principale del cranio era stata quella di produrre un morso molto potente e tenace, le necessità della muscolatura temporale di avere spazio per espandersi durante il morso aveva "dominato" rispetto alle esigenze fisiologiche del cervello: la prima si espandeva a scapito di qualsiasi possibilità di espansione del secondo, che alloggiava all'interno della testa ma restava pur sempre "limitato" nello spazio non occupato dai muscoli masticatori. Con la riduzione della funzione masticatoria, il cervello può quindi tentare di espandersi, può aumentare di volume e quindi può "pretendere" spazio nel cranio che prima era dedicato alla muscolatura masticatoria. Vedremo che questo processo coinvolgerà tutti i maniraptoromorfi: la riduzione della dentatura e della muscolatura delle mandibole permetterà difatti al cranio di essere meno vincolato alle tensioni meccaniche legate al morso, e ciò consentirà di allargare il volume della cavità cranica per alloggiare un cervello relativamente più ampio rispetto a quello presente negli altri dinosauri. Una prova che il cervello in questi dinosauri si sia ampliato rispetto alla maggioranza degli altri gruppi è data dalla superficie interna delle ossa che formano la scatola cranica: nei maniraptoromorfi, esse mostrano il percorso dei vasi sanguigni principali che irroravano il tessuto nervoso, segno che il cervello si era espanso occupando l'intera cavità encefalica ed i vasi sanguigni superficiali del cervello scorrevano contro la superficie delle ossa adiacenti !asciandovi contro la loro traccia. Questa caratteristica (che si mantiene negli uccelli) non si osserva nella maggioranza dei rettili, il cui cervello ha un volume che è minore della cavità cranica che lo contiene: lo spazio tra ossa e cervello è difatti circondato da uno strato ispessito di tessuto meno vascolarizzato (le meningi}, il quale a sua volta aderisce alle pareti della scatola cranica senza lasciare l'impronta dei vasi sanguigni cerebrali. L'aumento del volume del cervello (in concomitanza con una riduzione della muscolatura del cranio) rispetto alla condizione classica dei rettili è un tratto che gli uccelli hanno quindi ereditato dai loro antenati 59
maniraptoromorfi. Abbiamo visto che la nuova dieta dei maniraptoromorfi è coerente con le modifiche che hanno plasmato il cranio di questi animali. Piuttosto che essere specializzata per colpire ed abbattere grandi prede, la testa diventa un organo per assumere con maggiore frequenza e rapidità una gran quantità di piccole fonti di cibo, sia animato che non animato. Il collo di questi animali si modifica di conseguenza: non più un collo robusto, muscoloso e potente, in grado di muovere una testa voluminosa e di generare spinte che, unite alla potenza del morso, potevano strappare grandi quantità di carne, bensì un collo affusato, leggero e molto più mobile, capace di seguire rapidamente una piccola preda che cerca di nascondersi, o di spostare rapidamente la testa mentre foraggia nel fogliame. Sia negli ornitomimosauri che in altri maniraptoromorfi, il collo si allunga e acquisisce una maggiore mobilità a scapito della sua potenza. Di fatto, la combinazione di collo e testa si trasforma in un lungo "braccio" capace di raccogliere rapidamente ed in modo continuo tutte le possibili fonti di cibo che l'ambiente fornisce. L'acutezza visiva e la rapidità dei riflessi vengono quindi selezionate per permettere questa nuova dieta. Tutte le modifiche anatomiche che osserviamo nei maniraptoromorfi sono quindi alla base del comportamento che oggi osserviamo in moltissimi uccelli, compresi i nostri polli, i quali dedicano buona parte della giornata a "pascolare" alla ricerca di cibo, beccando rapidamente a terra e frugando tra la vegetazione per raccogliere qualsiasi particella di cibo disponibile. Come accennato precedentemente, secondo il concetto di "modulo", le modifiche nel cranio e nel collo avvenute negli ornitomimosauri devono essere state accompagnate da modifiche nel loro arto anteriore. Gli ornitomimosauri sono caratterizzati da arti anteriori relativemente allungati e snelli. In particolare, la grande cresta che sull'osso del braccio (l'omero) formava la superficie di ancoraggio dei muscoli pettorale e deltoide (muscoli deputati a chiudere e aprire le braccia) è molto ridotta, e ciò suggerisce che in questi teropodi la funzione di "tenaglia" - che caratterizzava la maggioranza degli altri dinosauri predatori - sia venuta meno. Ciò non stupisce, alla luce delle modifiche che abbiamo visto nel cranio e nella dentatura. Curiosamente, una riduzione analoga era avvenuta anche negli abelisauroidi, alcuni dei quali hanno acquisito una anatomia generale vagamente simile a quella degli ornitomimosauri. Tuttavia, a differenza degli abelisauroidi, negli ornitomomosauri non si verificò l'atrofizzazione del braccio: mano e avambraccio, al contrario, 60
mostrano di essere perfettamente funzionanti, sebbene non più adattati ad una funzione predatoria. Alcuni indizi aiutano a interpretare la funzione acquisita dal braccio in questi maniraptoromorfi: le due ossa dell'avambraccio (radio e ulna) acquistano una maggiore connessione reciproca, mentre le ossa del polso sono ridotte e poco mobili. Queste due trasformazioni comportano una riduzione della mobilità della mano rispetto al resto del braccio e ci dicono che il braccio negli ornitomimosauri agiva come uno strumento relativamente rigido, poco propenso a torsioni o flessioni. La forma delle dita della mano, e il tipo di mobilità di queste dita, ci suggeriscono che la funzione principale del braccio era di agire come un rastrello, usato per scavare o per strappare materiale vegetale: le tre dita, che nella maggioranza dei dinosauri predatori sono di lunghezza differente tra loro, negli omitomimosauri tendono invece ad essere quasi della stessa lunghezza. Quando le dita si flettevano (ad esempio, quando si piegavano per afferrare un oggetto), esse convergevano e si serravano una contro l'altra, formando un'unica superficie a forma di uncino, probabilmente usata per scavare o raccogliere materiale vegetale. Non si può parlare del braccio degli omitomimosauri senza menzionare il più spettacolare tra tutti i membri di questo gruppo, un dinosauro che per mezzo secolo è stato noto solamente per un paio di arti anteriori di enormi dimensioni, ed il cui enigma è stato risolto solo di recente: Deinocheirus. I primi resti di Deinocheirus furono scoperti a metà degli anni '60 nel sud della Mongolia, e consistono unicamente in due arti anteriori associati alle ossa della spalla, quasi completi, più frammenti della gabbia toracica. Le dimensioni di queste braccia sono le massime mai scoperte in un teropode, dato che superano i due metri e mezzo. In particolare, le mani portano tre dita di lunghezza simile, armate di grandi ungueali robusti e moderatamente incurvati. Sebbene nella letteratura divulgativa si speculò molto su quale fosse l'aspetto dell'animale (che doveva essere, in ogni caso, gigantesco), i paleontologi hanno immediatamente riconosciuto la somiglianza tra l'arto anteriore di Deinocheirus e quello degli omitomimosauri: in particolare, la forma dell'omero (l'osso del braccio) e quella dei metacarpali (le ossa del palmo della mano) sono molto più simili a quelle degli ornitomimosauri rispetto a qualsiasi altro gruppo di dinosauro. Tuttavia, l'enigma sulle caratteristiche anatomiche e sull'ecologia di questo dinosauro è stato risolto solo nell'ultimo decennio, grazie alla scoperta di altri due esemplari, molto più completi, uno dei quali conserva il cranio 61
praticamente integro. L'animale è risultato essere ancora più bizzarro di quanto le sue enormi braccia lasciassero sospettare. Difatti, pur confermato come membro di Omithomimosauria, Deinocheirus è una forma molto aberrante rispetto alla maggioranza dei membri di questo gruppo, i quali sono caratterizzati da morfologie molto snelle e adattamenti alla corsa. Deinocheirus è invece un gigante graviportale (ovvero, adattato a sostenere un grande peso corporeo) privo di adattamenti alla corsa. Il cranio ricorda vagamente quello degli ornitischi adrosauridi: le mandibole hanno l'estremità anteriore piatta, simile ad una spatola, e sono prive di denti, il muso è molto allungato, e la mandibola inferiore è molto più spessa di quella superiore. Questo ultimo dettaglio implica una grande massa muscolare deputata a chiudere la bocca (i muscoli in questione si ancoravano alla superficie delle ossa della metà posteriore della mandibola): associato alla forma a spatola del muso, questo mix di caratteri suggerisce un adattamento semi-acquatico (la muscolatura boccale così sviluppata sarebbe un adattamento per vincere la resistenza dell'acqua che si opporrebbe alla chiusura di mandibole così lunghe e spatoliformi). I resti di pesci nella cavità addominale di uno dei due nuovi scheletri di Deinocheirus confermano - se non proprio una dieta piscivora - perlomeno uno stile di vita associato ad ambienti ricchi di specchi d'acqua. Da notare che l'allungamento del muso e l'ispessimento della parte posteriore del cranio siano entrambi presenti anche negli spinosauridi (vedere il Primo Volume). Le analogie con gli spinosauridi non si fermano al muso. Una, la abbiamo già vista, è la presenza di mani armate di artigli relativamente robusti. L'altra, la più inattesa, è nelle vertebre del torace, che sono sormontate da lunghe spine neurali che ricordano vagamente quelle di alcuni spinosauridi (anche se, va notato, questo attributo è presente anche in altri tipi di dinosauro, non solo tra i teropodi). Se Deinocheirus appare quindi essere una versione gigante (di dimensioni paragonabili a quelle dei grandi tirannosauridi) e semi acquatica di ornitomomisauro, gli altri esponenti del gruppo sono invece caratterizzati da uno spiccato adattamento alla corsa ("cursorio"). Dedurre un adattamento cursorio in un fossile non è sempre facile. L'idea, apparentemente ovvia, che gli animali muniti di arti allungati e ampie superfici per la muscolatura delle zampe siano automaticamente dei corridori è fuorviante. Nel precedente volume abbiamo visto che sotto una certa dimensione corporea tutti i teropodi sono di "morfologia gracile" mentre sopra una determinata dimensione tutti tendono ad 62
essere "robusti" . Il mero fatto di essere "gracile" predispone all'avere qualche capacità cursoria, e, al contrario, il mero fatto di essere "robusto" tende a sfavorire uno stile di vita da corridore. Difatti, il primo vincolo all'adattamento alla corsa sono le dimensioni corporee. Animali troppo piccoli hanno falcate troppo corte, e per quanto agili non raggiungono comunque velocità elevatissime. Animali troppo grandi sono, banalmente, troppo pesanti perché il loro sistema muscolare possa far loro raggiungere velocità elevate (la massa corporea cresce più velocemente della forza muscolare necessaria a muoverla, vedere il Primo Volume). Esiste quindi una "fascia dimensionale" più adatta all'evoluzione delle capacità cursoria, fascia che negli animali attuali oscilla tra il mezzo quintale e la mezza tonnellata di peso. Tuttavia, anche all'interno di tale fascia, il semplice fatto di essere dotato di arti allungati non implica automaticamente che un animale abbia una particolare specializzazione alla corsa. Molti animali moderni hanno scheletri molto snelli ed affusolati, ma nondimeno sono privi di specializzazioni alla corsa. Noi riconosciamo un adattamento alla corsa quando l'animale presenta delle particolari modifiche "aggiuntive" che lo rendono (al netto di tutti gli altri fattori in gioco) più veloce rispetto alla velocità che ci attendiamo solo in base alle sue dimensioni corporee. Un animale delle dimensioni giuste ha adattamenti alla corsa quando le sue zampe presentano due caratteristiche generali. Focalizzandoci solo sulle zampe posteriori (dato che i teropodi sono bipedi), l'arto è composto da tre elementi principali: la coscia (la parte che connette la zampa al bacino), la gamba (tra il ginocchio e la caviglia) ed il piede (la parte terminale che tocca il terreno). Confrontati con gli altri animali, nei corridori gamba e piede tendono ad essere più allungati rispetto alla coscia, ed il piede si fa digitigrado (ovvero, poggia a terra solo le dita e non più la pianta del piede). Tutti i dinosauri sono digitigradi, quindi partono già "predisposti" per la corsa. Tuttavia, un vero corridore deve avere anche le proporzioni idonee affinché la sua gamba sia efficiente nella propulsione. Il motivo di questo diverso allungamento è legato al modo con cui i muscoli delle zampe lavorano formando delle leve, ed alla distribuzione della muscolatura che fa azionare queste leve. Una coscia corta "concentra" la massa muscolare in prossimità del corpo, mentre gamba e piede allungati aumentano la falcata prodotta dal moto della zampa: questo mix di condizioni massimizza la potenza e la velocità prodotta dalla zampa. Apparentemente, basterebbe allungare gamba e piede per ottenere un 63
animale corridore, se non fosse che questo allungamento produce degli effetti collaterali indesiderati, effetti che vengono compensati dalla seconda caratteristica generale che definisce un animale corridore. Difatti, se allunghiamo le ossa (come quelle di gamba e piede) le rendiamo automaticamente più fragili (sia alla torsione che alla frattura) rispetto ad ossa più corte, vanificando quindi la possibilità di produrre con tale allungamento delle migliori prestazioni nella corsa. Ci troviamo quindi nella situazione paradossale per cui per poter generare una maggiore velocità nell'andatura andiamo incontro ad una maggiore fragilità delle ossa sottoposte a tali sollecitazioni. Per ovviare a questo limite, tutti i gruppi di animali corridori hanno evoluto delle soluzioni anatomiche che aumentano la resistenza delle ossa della gamba e del piede sia alla torsione che alla frattura mano a mano che, lungo la serie evolutiva, gli arti si allungavano. Queste soluzioni tendono a rendere gamba e piede più compatti oppure meglio capaci di trasmettere e scaricare in modo "sicuro" le forze generate dalla reazione del terreno ad ogni passo durante la corsa. Una soluzione realizzata in numerosi gruppi di animali corridori consiste nella semplificazione del piede: il numero delle dita utilizzate nella corsa (o presenti del tutto) si riduce progressivamente mano a mano che il gruppo in questione si adatta ad uno stile di vita più cursorio. Queste modifiche aumentano la robustezza e compattezza generale del piede poiché riducono il numero delle articolazioni e degli elementi sottoposti allo sforzo (un singolo osso è più stabile e compatto dell'insieme di più ossa tenute assieme da legamenti e tendini). L'esempio più famoso di questa soluzione è dato dai cavalli (e da tutti gli equidi viventi), nei quali tutti e quattro gli arti portano solamente un dito (il centrale, equivalente al dito medio nella nostra mano), mentre le altre dita sono del tutto scomparse (o, in alcuni casi, ridotte a piccoli vestigi ossei aderenti al dito principale). Un altro caso analogo è dato dagli struzzi, nei quali il piede poggia solo su due dita, una della quali (anche in questo caso, il dito centrale, omologo al nostro terzo dito del piede) è quella più robusta e sulla quale grava la maggioranza del peso e della sollecitazione meccanica durante la corsa. Un episodio analogo a quello di cavalli e struzzi si è verificato anche tra i teropodi mesozoici: in alcuni abelisauroidi gracili (vedere il Primo Volume), come Velocisaurus e Vespersaurus, il piede poggia quasi unicamente sul dito centrale (il terzo), mentre le altre due dita (secondo e quarto dito) sono più corte e sottili, meno coinvolte nella locomozione e nello scarico delle forze. Dato che 64
questi abelisauroidi hanno gamba e piede relativamente allungati e ossa del piede così compatte, si tratta chiaramente di un adattamento alla corsa. Nonostante la soluzione "semplificatrice" che abbiamo visto in cavalli e struzzi (e in alcuni abelisauroidi) sia quella più frequente tra i vertebrati corridori, essa non fu seguita dai maniraptoromorfi mesozoici. Ciò non significa che essi non si adattarono ad uno stile di vita più cursorio, dato che in almeno quattro gruppi abbiamo prove evidenti a sostegno di un perfezionamento nella corsa. Paradossalmente, i maniraptoromorfi non seguirono la soluzione "classica", nonostante che almeno in un altro gruppo di teropodi estinti (gli abelisauroidi, citati prima) essa fu invece adottata. Ciò è ancora più paradossale quando rimarchiamo che questa condizione "semplificata" fu poi adottata da alcuni uccelli moderni come gli struzzi, i quali sono a loro volta dei maniraptoromorfi. Per una serie di ragioni legate alla particolare anatomia del loro piede, nei maniraptoromorfi mesozoici si sviluppò una versione alternativa di adattamento cursorio, che invece di semplificare la struttura del piede puntò ad aumentare la complessità della sua morfologia, costruendo un raffinato meccanismo capace non solo di aumentare la resistenza del piede, ma anche di massimizzare l'efficienza nello scarico delle forze generate durante la corsa. Tale adattamento è esclusivo dei celurosauri mesozoici, e comparve almeno cinque volte, ognuna occorsa indipendentemente dalle altre: una volta nei tirannosauridi (vedere i capitoli precedenti) e quattro volte in Maniraptoromorpha. A questa peculiare specializzazione del piede è stato dato il nome di arctometatarso, che, alla lettera, significa "metatarso incuneato" . Il metatarso è ciascuna delle ossa che formano la parte principale del piede: per ciascun dito del piede corrisponde un lungo metatarso che collega tale dito alle ossa della caviglia. Nella condizione arctometatarsale, il terzo metatarsale (ovvero quello su cui appoggia il dito centrale delle tre tipiche del piede dei teropodi) ha una forma a cuneo: è più stretto e sottile verso la caviglia e più ampio nell'altra direzione, verso il dito corrispondente. Dato che le forze che sono scaricate lungo le articolazioni sono proporzionali all'ampiezza delle ossa coinvolte in tale articolazione, si deduce che a livello della caviglia il terzo metatarsale di questi dinosauri (ridotto ad un cuneo assottigliato) non avesse alcuna funzione di trasmissione e scarico della forze: a livello della caviglia, le forze quindi si trasmettevano solamente lungo il secondo ed il quarto metatarsale. Al contrario, nella parte del piede rivolta verso le dita (parte che di fatto 65
poggiava sul terreno e quindi riceveva la reazione di questo ultimo ad ogni passo della corsa) era il terzo metatarsale ad avere la maggiore superficie di appoggio, ed in parte si sovrapponeva alle due ossa adiacenti. Il risultato di questa combinazione di caratteristiche era un piede che pur conservando tre ossa distinte agiva funzionalmente come una singola unità strettamente interconnessa nella trasmissione e scarico . delle sollecitazioni meccaniche.
Differenza tra un metatarso "tradizionale" ed un arctometatarso. A sinistra, i tre metatarsali centrali (del secondo, terzo e quarto dito) del piede del camosauro Al/osaurus, con configurazione "tradizionale"; a destra, i tre metatarsali del piede del tirannosauroide Albertosaurus, con arctometatarso. n terzo metatarsale è in entrambi indicato in colore. Notare che nell'arctometatarso, il terzo metatarsale si incunea in alto (in , direzione della caviglia) tra i due metatarsali adiacenti (zona ombreggiata scura), i quali si sovrappongono al terzo nella sua parte iniziale, mentre lo stesso metatarsale si sovrappone agli altri due nella parte in basso (in direzione delle dita) . Le frecce nere indicano le forze peso che gravano sulla caviglia; le frecce grigie indicano le forze-peso
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scaricate sulle dita che poggiano
a
terra.
Analisi biomeccaniche dimostrano che la particolare geometria dell'arctometatarso aveva l'effetto di conferire alle ossa del piede (mentenute assieme da ampi fasci di legamenti), a parità di lunghezza, una elevata elasticità ed al tempo stesso una maggiore resistenza rispetto alla configurazione classica del piede dei teropodi. In breve, se nel piede classico degli altri teropodi i tre metatarsali si comportavano come tre cilindri adiacenti uno all'altro (come tre canne di un organo), ed ognuno svolgeva la propria funzione specifica di trasmettere le forze dalla caviglia solamente al proprio dito, nell'arctometatarso i tre metatarsali erano invece interconnessi per agire come elementi di una singola unità. In particolare, le forze provenienti dalla caviglia si trasmettevano unicamente ai lati della struttura, per poi confluire lungo il terzo metatarsale (posto al centro del piede) e da lì scaricare principalmente sul dito centrale. Così facendo, l'arctometatarso consentiva di mantenere tutte e tre le dita del piede distinte e ben sviluppate (come nel piede "classico" dei dinosauri) ma al contempo permetteva di scaricare le forze a terra in modo analogo al piede "semplificato" di animali corridori come cavalli e struzzi. Inoltre, a parità di lunghezza, un arctometatarso risulta più resistente ed elastico di un metatarso "classico" : a parità di dimensioni corporee, un teropode con arctometatarso possedeva un piede più allungato senza subire un calo della resistenza delle ossa coinvolte (e quindi in grado di sopportare le sollecitazioni prodotte dalla corsa). Visti i vantaggi che l'arctometatarso conferisce in termini di efficienza nella corsa, non stupisce la sua presenza in almeno cinque gruppi di celurosauri. Inoltre, dato che esso rimaneva comunque un insieme di tre ossa distinte, si comprende come mai esso non abbia potuto evolvere negli uccelli corridori moderni (i quali invece optarono per la soluzione "semplificatrice"): vedremo difatti che a ridosso dell'origine degli uccelli moderni queste tre ossa si fusero completamente tra loro, perdendo così la possibilità di evolvere un qualche tipo di arctometatarso. Più complesso è capire come e perché l'arctometatarso sia comparso in questi gruppi indipendentemente uno dall'altro, durante la seconda metà del Cretacico, e come mai non sia comparso in altri dinosauri. Una possibile ragione è che solamente nei celurosauri la gamba aveva acquisito le "pre-condizioni" che sono necessarie allo sviluppo dell'arctometatarso. Ad esempio, negli abelisauroidi (incluse le specie dotate di adattamenti cursori), l'articolazione dell'anca non permette la 67
stessa orientazione della coscia che abbiamo nei celurosauri, e forse questo potrebbe aver influenzato le altre articolazioni della zampa posteriore, rendendo meno vantaggioso il passaggio all'arctometatarso. Sicuramente, le grandi dimensioni e la conformazione "robusta" nei megalosauroidi e negli allosauroidi hanno impedito a questi gruppi di "esplorare" quel nuovo modello di locomozione. Interessante, a questo proposito, constatare che nei tirannosauroidi l'arctometatarso è sì presente (vedere il Primo Capitolo di questo volume) ma che sia comparso prima del gigantismo: ovvero, affinché questo gruppo potesse acquisire tale modifica nel piede, occorreva che le sue dimensioni corporee fossero relativamente ridotte. I primi tirannosauroidi con arctometatarso, scoperti di recente e risalenti a 90 milioni di anni fa, hanno dimensioni analoghe a quelle degli omitomimosauri corridori. Una volta raggiunta la condizione arctometatarsale, i tirannosauridi poterono sfruttarla per evolvere arti posteriori più lunghi e agili rispetto agli altri grandi teropodi, e questo agevolò la loro evoluzione verso il gigantismo: ad esempio, a parità di dimensioni, un tirannosauride gigante (come Tyrannosaurus) ha difatti arti posteriori più lunghi rispetto ad un allosauroide gigante (come Tyrannotitan), e questo fu possibile proprio grazie all'arctometatarso. Sebbene si possa escludere una spiccata capacità cursoria in Tyrannosaurus adulto, viste le sue enormi dimensioni, è comunque ragionevole supporre che l'arctometatarso del suo piede gli conferisse una vantaggio nella locomozione assente negli altri dinosauri giganti: studi recenti dimostrano che nei teropodi giganti, l'allungamento del piede (consentito dall'arctometatarso) migliorerebbe l'efficienza della camminata sulle lunghe distanze, più che permettere un aumento della velocità assoluta. La possibilità di risparmiare energia nel muovere un enorme corpo va a tutto vantaggio di predatori che, date le loro dimensioni, avevano bisogno di una maggiore quantità di prede e, di conseguenza, dovevano poter disporre di vasti territori in cui approvvigionarsi. Non ci sono motivi per pensare che l'arctometatarso sia legato ad una particolare dieta: questa innovazione è infatti comparsa sia in animali ipercamivori (i tirannosauridi) sia onnivori o potenzialmente vegetariani (come gli ornitomimosauri, o come nei troodontidi e gli oviraptorosauri, che incontreremo nei prossimi capitoli). Piuttosto, è intrigante riflettere se l'evoluzione di questo adattamento in più gruppi sia stata indotta dalla competizione reciproca (sia tra prede e predatori che tra differenti gruppi per ottenere le medesime risorse), e quindi si possa considerare una 68
nuova forma di corsa agli armamenti (una corsa, letteralmente, alla cursorialità). Il sospetto nasce constatando che l'arctometatarso compare in più gruppi durante la stessa fase del Cretacico (intorno a 1 1 0 e 90 milioni di anni fa) e nel medesimo contesto geografico (il blocco formato da Nord America occidentale e Asia orientale, collegate dalla regione di Bering). L'ipotesi è molto intrigante e suggestiva, ma purtroppo, come spesso accade nella paleontologia dei vertebrati terrestri, è difficile da confermare in modo rigoroso: i resti fossili dei primi rappresentanti di ciascun gruppo dotati di arctometatarso sono così frammentari e "diluiti" lungo decine di milioni di anni (e spesso con datazioni molto poco dettagliate), che è veramente arduo stabilire delle connessioni dirette di "causa ed effetto" tra la comparsa di una innovazione in un gruppo e l'eventuale "reazione" degli altri. Recentemente, anche Ornithomimosauria è entrato nel club dei dinosauri per i quali siano note delle tracce del piumaggio. In alcuni esemplari di ornitomimidi dal Cretacico Superiore del Canada (risalenti a circa 75 milioni di anni fa) sono preservate impronte della pelle, sia intorno al dorso che adiacente agli arti anteriori. Questi fossili erano noti da vari decenni, ma solamente dopo la scoperta dei fossili piumati cinesi, alla fine degli anni '90 del XX secolo, essi sono stati analizzati con la consapevolezza che simili tracce siano preservate assieme alle ossa. Le impronte del piumaggio confermano in generale quanto già visto in altri celurosauri (come i tirannosauroidi e Sinosauropteryx), e mostrano filamenti sottili distribuiti lungo buona parte del corpo degli animali. Inoltre, sopra le ossa degli arti anteriori sono visibili le impronte parziali di un tipo nuovo di piumaggio, caratterizzato da steli più ampi e robusti rispetto ai filamenti incontrati finora. Purtroppo, i fossili in questione sono limitati a tracce carboniose sulle ossa, e non permettono di stabilire se quelle che stiamo osservando sulle braccia degli ornitomimosauri fossero solamente una versione "ingrandita" dei filamenti diffusi negli altri dinosauri, oppure già delle penne vere e proprie, come quelle che adornano le ali degli uccelli. Le possibili cause per l'origine delle penne, il perché alcuni maniraptoromorfi abbiano acquisito un tipo di piumaggio più complesso ed elaborato rispetto ai filamenti degli altri dinosauri, saranno affrontati nel prossimo capitolo, quando incontreremo i primi veri fossili dotati senza dubbio di penne remiganti sulle braccia e timoniere sulla coda, i maniraptori.
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Riassumendo, il più recente antenato comune di uccelli e omitomimosauri era un maniraptoromorfo vissuto nel Giurassico Medio. Onnivoro opportunista dalla morfologia gracile e snella, non più lungo di un paio di metri, era dotato di denti relativamente più piccoli e numerosi, un cranio più leggero ed una capacità encefalica maggiore rispetto alla maggioranza degli altri teropodi. Dotato di lunghi arti anteriori muniti di tre dita armate di artigli falciformi, il corpo era ricoperto da filamenti piumosi ed, eventualmente, da penne più allungate sugli arti anteriori.
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Capitolo quarto Un Big Bang piumato?
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Durante la seconda metà del Mesozoico, i maniraptori furono i dinosauri di dimensioni medio-piccole più abbondanti e diversificati, con specie sia carnivore che vegetariane. In alto, l'alvarezsauroide primitivo Haplocheirus, il therizinosauroide americano Nothronychus e l'oviraptorosauro asiatico Rinchenia. Gli animali non sono in scala. (Ricostruzioni in vivo basate sulle ricostruzioni scheletriche in Choiniere et al. (2010: Haplocheirus), Zanno et al. (2009: Nothronychus) ed una ricostruzione realizzata da Marco Auditore (Rinchenia)).
Un libro che ha avuto un'importante influenza sulla mia primissima formazione naturalistica fu il saggio di S.J. Gould intitolato "La Vita Meravigliosa", incentrato sui celebri fossili dal Cambriano Medio di Burgess, in Canada. Anni dopo, durante la preparazione della mia tesi di laurea, ebbi modo di riflettere sul tema principale di quel libro, giungendo alla conclusione che la tesi sostenuta là da Gould fosse errata. Ciò non toglie nulla al valore di quel libro, che ogni tanto rileggo con piacere, ma è un segno di un cambiamento di paradigma tra la generazione paleontologica gouldiana e quella più recente di cui faccio parte. Per comprendere i motivi della mia rivalutazione di quel caro libro - e del perché la menzioni qui - occorre fare un salto a ben prima dell'evoluzione aviana, e andare indietro di mezzo miliardo di anni. 71
Gli argilloscisti di Burgess, da cui sono estratte le specie fossili protagoniste del libro di Gould, documentano una ricca associazione di invertebrati marini vissuti circa 530 milioni di anni fa, all'inizio dell'Era Paleozoica. Gli animali più abbondanti in questi livelli sono artropodi, il gruppo zoologico ancora oggi più ricco di specie, e in cui sono inclusi gli insetti, gli aracnidi ed i crostacei. Data la sua antichità geologica, non stupisce che nessuna specie degli artropodi di Burgess abbia equivalenti diretti moderni. Nondimeno, tra gli artropodi di Burgess ci sono alcune specie che mostrano i caratteri anatomici generali dei tre principali gruppi di artropodi ancora oggi viventi, e che quindi si possono classificare all'interno dei medesimi grandi raggruppamenti in cui collochiamo gli artropodi attuali. Tuttavia, un tale collocamento è possibile solo per una minoranza di specie: la grande maggioranza degli artropodi di Burgess non è classificabile all'interno dei tre rami principali e "classici" del gruppo, quelli definiti sulla base delle caratteristiche anatomiche generali che vediamo nelle specie moderne. Se la maggioranza degli artropodi cambriani non può essere inclusa nei gruppi "tradizionali", dove li collochiamo? Gould si sofferma su queste forme letteralmente "aliene", e si domanda se esse - e la loro abbondanza nel Cambriano - ci diano un qualche messaggio generale su come procede l'evoluzione della vita. La tesi gouldiana è che le innumerevoli forme "bizzarre" presenti nel Cambriano, non classificabili in alcuna categoria moderna, siano la prova che, a quei tempi, la vita animale fosse soggetta ad una maggiore "creatività evolutiva" e che, in seguito, solo pochi modelli anatomici tra quelli allora presenti siano rimasti in vita: questi pochi rami sopravvissuti furono i precursori delle specie moderne e di tutte le specie comparse dopo il Cambriano. Secondo l'interpretazione gouldiana, quindi, nel Cambriano vissero innumerevoli modelli anatomici di artropode, mentre oggi ne sono rimasti solo tre. Per comprendere la logica di questo scenario, bisogna accordarsi su cosa si intende con "modello anatomico". Un modello anatomico non è altro che uno schema generale con cui noi descriviamo come è costruito un animale. Ad esempio, avere il corpo diviso in tre segmenti, uno dei quali porta le antenne mentre il secondo porta le zampe, è un possibile modello anatomico di artropode. Un altro potrebbe essere definito dall'avere più di tre segmenti del corpo ma non portare antenne nel primo. In pratica, i modelli anatomici dei fossili si definiscono man mano che si descrivono gli esemplari: fintanto che i fossili sono descrivibili coi modelli "moderni", non occorre introdurne nuovi, ma nel momento in cui 72
un fossile del Cambriano non è descrivibile secondo i modelli base con cui oggi identifichiamo i tre rami principali degli artropodi, allora occorre introdurre un nuovo modello per descrivere questa forma cambriana "aliena" . Questa è, operativamente, la logica che spinge Gould a ipotizzare innumerevoli modelli anatomici aggiuntivi nel Cambriano: ogni volta che un fossile non rientra nei modelli noti, occorre introdurre per lui un modello ulteriore. Gould chiama il "numero dei modelli" a disposizione con il termine di "disparità" (mentre il numero delle specie è chiamato "diversità"): secondo la sua interpretazione delle faune cambriane, quindi, a quel tempo esisteva una maggiore disparità nonostate la minore diversità. Oggi, la disparità degli artropodi è molto minore (tre modelli), ma i pochi modelli rimasti hanno accumulato una maggiore diversità (milioni di specie). La domanda che il famoso paleontologo americano si poneva è come mai la disparità sia stata inizialmente più ricca e poi sia calata, e come mai non sia mai aumentata dopo il Cambriano, a differenza della diversità. Inoltre, questo scenario potrebbe essere generalizzato, ed applicato alla storia di altri gruppi? Questa seconda domanda iniziò a circolare tra gli studiosi di teropodi quando, nella seconda metà degli anni '90, furono scoperti in Cina gli eccezionali giacimenti contenenti i dinosauri piumati. Nel Prologo di questo secondo volume, ho narrato la storia del primo dinosauro piumato, scoperto in Cina nel 1996: Sinosauropteryx. A parte il piumaggio, relativamente semplice, Sinosauropteryx non somiglia ad animali come Archaeopteryx: esso è, fondamentalmente, un piccolo teropode privo di specializzazioni, molto più simile ad animali come Compsognathus. Questa scoperta, se da un lato confermava il legame tra dinosauri e uccelli, pareva slegare l'evoluzione del piumaggio dall'evoluzione di una anatomia "da uccello" . Mentre i ricercatori si concentravano su questo fossile eccezionale e sulle sue implicazioni, all'inizio dell'estate del 1998, la rivista scientifica internazionale Nature pubblicò la scoperta di altri due nuovi dinosauri piumati cinesi. E questa volta, gli animali mostravano un tipo di tegumento più elaborato rispetto ai semplici filamenti di Sinosauropteryx: vere e proprie penne, dotate di uno stelo centrale (rachide) dal quale dipartiva una fitta serie di filamenti secondari (barbe) disposti a formare la tipica geometria pinnata che caratterizza il piumaggio degli uccelli. Nel primo esemplare, battezzato Protarchaeopteryx, le penne erano visibili solamente sulla coda, mentre nel secondo, battezzato Caudipteryx, le penne erano presenti sia alla fine della coda che inserite ai lati della mano, nella medesima posizione delle penne 73
remiganti primarie dell'ala degli uccelli. Sebbene dotati di vere e proprie penne, questi due fossili non parevano essere uccelli. Gli scheletri mostravano le caratteristiche generali della maggioranza dei celurosauri. In particolare, la successiva scoperta di altri esemplari di Caudipteryx dimostrò che questo animale, lungo circa un metro, era da classificare in un gruppo di dinosauri teropodi noto ai paleontologi già da alcuni decenni: gli oviraptorosauri. I primi scheletri di oviraptorosauri furono scoperti negli anni '20 del XX secolo in Canada e Mongolia. I resti, in maggioranza molto frammentari, furono inizialmente considerati degli omitomimosauri o animali simili ad Ornitholestes (vedere il precedente capitolo). Una mandibola appartenente a questo gruppo, priva di denti, scoperta in Canada, fu considerata negli anni '40 come appartenente ad un gruppo di uccelli primitivi, ma non fu riconosciuta immediatamente come appartenente ad un dinosauro teropode. Solamente a partire dagli anni '70, la scoperta in Mongolia di resti più completi permise di riconoscere questo gruppo come a sé stante, distinto dagli altri celurosauri, e caratterizzato da un insieme di adattamenti molto bizzarri. Fossili unicamente del Cretacico, gli oviraptorosauri sono dotati di crani dal muso corto e robusto, privo di denti (o quando presenti, come nelle specie primitive come Caudipteryx, i denti sono poco numerosi, relativamente piccoli e privi di seghettature). Nelle specie della seconda metà del Cretacico, lo scheletro è ampiamente pneumatizzato (vedere il Primo Volume), al punto da ricordare quello di molti uccelli. E come negli uccelli, la coda degli oviraptorosauri è più corta che nella maggioranza dei dinosauri, inclusi gli altri celurosauri. In alcuni casi, le ossa della fine della coda erano fuse tra loro, formando un processo detto "pigostilo", una struttura che è presente in tutti gli uccelli moderni e che funge da base di ancoraggio per le penne della coda (timoniere). Sebbene nel resto dello scheletro gli oviraptorosauri non siano molto differenti da altri maniraptoromorfi, la presenza di così marcate similitudini con gli uccelli, sia nel cranio che nelle vertebre che nella coda, non poteva che intrigare i paleontologi. Con la scoperta, grazie ai fossili di Caudipteryx, che gli oviraptorosauri avevano sia penne remiganti sulle braccia che penne timoniere sulla punta della coda (proprio a livello della zona dove alcune specie avevano sviluppato il pigostilo), l'idea che questi bizzarri dinosauri potessero non solo somigliare, ma proprio essere degli uccelli arcaici parve meritevole di una valutazione. All'inizio degli anni 2000, alcuni paleontologi sollevarono quindi l'ipotesi che gli oviraptorosauri non 74
fossero solamente dinosauri imparentati con gli uccelli ma (anche) degli uccelli molto primitivi. Mentre alcuni paleontologi valutavano le affinità tra oviraptorosauri e uccelli, gli ormai ambitissimi livelli cinesi restituivano i fossili di altri celurosauri, anche questi piumati. Nel 1999, un team cinese descriveva su Nature i resti parziali di un curioso maniraptoromorfo, al quale diedero il nome di Beipiaosaurus. Pur incompleto, l'animale mostrava denti simili a quelli dei dinosauri vegetariani, lunghe braccia con le estremità a forma di falce, un bacino ampio e robusto e arti posteriori relativamente corti. Sulla lastra di roccia, adiacenti alle ossa delle braccia, erano evidenti le tracce di filamenti, una versione allungata di quelli presenti in Sinosauropteryx. Esemplari di Beipiaosaurus scoperti in seguito confermarono la presenza in questo dinosauro di piumaggio filamentoso associato a strutture simili a lunghi steli appiattiti, che forse potrebbero essere gli steli di grandi penne. Le caratteristiche dello scheletro collocano Beipiaosaurus dentro un gruppo molto enigmatico di teropodi, che solo pochi anni prima era stato classificato definitivamente tra i maniraptoromorfi: Therizinosauria. I terizinosauri sono stati tra i dinosauri più enigmatici e controversi per almeno quattro decenni, prima che, a metà degli anni '90, lo studio di uno scheletro ben conservato permise di risolvere le affinità di questi animali a livello dei celurosauri. Prima di quello studio, i paleontologi si erano divisi su come interpretare il bizzarro mix di caratteristiche in questi animali, mix che permetteva, alternativamente, di collocare i terizinosauri in tutti e tre i rami principali di Dinosauria (omitischi, sauropodomorfi, oppure teropodi). Oggi, i terizinosauri sono considerati un gruppo di teropodi specializzati per una dieta vegetariana: le caratteristiche nel cranio e nel bacino, simili a quelle dei sauropodomorfi e degli ornitischi, sono specifici adattamenti alla dieta vegetariana, ma non implicano un legame diretto con quei due gruppi di dinosauri. Beipiaosaurus, uno dei primi terizinosauri, non mostra tutte le caratteristiche bizzarre che troviamo nei terizinosauri vissuti alla fine del Cretacico, caratteristiche più marcatamente legate alla dieta vegetariana, e conferma invece il legame tra questi dinosauri e gli altri maniraptoromorfi. Curiosamente, molte delle caratteristiche che collocano i terizinosauri nei maniraptoromorfi li legano nello specifico con gli oviraptorosauri: ciò, tuttavia, stona con l'ipotesi che questi ultimi siano invece degli uccelli primitivi, dato che i terizinosauri non presentano tali caratteri "da 75
uccello" . Come interpretare questo mix di caratteristiche? Quale delle due relazioni per gli oviraptorosauri è più probabile: con gli uccelli o con i terizinosauri? Negli stessi anni in cui i terizinosauri erano definitivamente collocati dentro i maniraptoromorfi, un gruppo internazionale di paleontologi pubblicava la scoperta di un bizzarro celurosauro dalla Mongolia. L'animale, grande come un pollo, era caratterizzato da inusuali articolazioni nelle vertebre, lunghi arti posteriori che mostravano una forma molto spinta di arctometatatarso (vedere il precedente capitolo) e arti anteriori molto corti e robusti, che terminavano con una curiosa mano dotata di un solo dito, tozzo ma pienamente funzionante, apparentemente adatto per scavare. Numerosi elementi dello scheletro di questo animale, battezzato Mononykus, ricordano gli uccelli, e questo indusse i suoi scopritori a classificarlo con questi ultimi. Secondo tale interpretazione, Mononykus era un uccello primitivo, specializzato nella corsa e incapace di volare. Il cranio del fossile, purtroppo, era quasi del tutto mancante. Alcuni anni dopo, sempre dalla Mongolia, la scoperta di un cranio completo di una specie strettamente imparentata con Mononykus aggiungerà ulteriori elementi alla lista degli attributi "da uccello" in questi curiosi teropodi. Contemporaneamente, dalla Patagonia, altri paleontologi descrivevano un altro teropode simile a Mononykus, il quale però non mostrava tutti gli elementi "da uccello" presenti nei fossili mongoli, ma che, contemporaneamente, mostrava numerose affinità con un altro bizzarro teropode patagonico, descritto all'inizio degli anni '90, e battezzato Alvarezsaurus. Studi ulteriori confermarono che sia le specie dalla Mongolia che quella dalla Patagonia formano un nuovo gruppo di maniraptoromorfi, chiamati alvarezsauroidi. L'elemento enigmatico di questo nuovo gruppo era che al suo interno si trovano specie più simili agli uccelli ed altre specie "tradizionali", vagamente simili agli ornitomimosauri. In analogia con i casi precedenti, i paleontologi si domandarono quale delle due relazioni per gli alvarezsauroidi fosse più probabile: con gli uccelli o con gli ornitomimosauri? I tre esempi citati (oviraptorosauri, terizinosauri ed alvarezsauroidi) sono solo una parte delle controverse scoperte avvenute nell'ultimo decennio del secolo scorso. Durante la seconda metà degli anni '90, numerosi fossili, non soltanto dai nuovi giacimenti cinesi in cui erano preservate tracce del piumaggio, aggiunsero un caleidoscopio di celurosauri alla lista dei dinosauri più simili agli uccelli. Sebbene non ci 76
fosse unanime consenso su come interpretan• t u tti lJUcsti fossili, un quadro generale stava emergendo: duran tl' i l C rt•tad co, erano esistiti vari gruppi di maniraptoromorfi, ciascuno cara tterizzato da proprie peculiari specializzazioni nella dentatura, nel cran i o, neg l i arti. Al tempo stesso, ogni gruppo mostrava anche una pecu liare serie di similitudini con gli uccelli. Pareva che ogni gruppo, inclusi gli uccelli, fosse prodotto mescolando elementi presi a caso dagli altri. Infine, sempre più fossili cinesi confermavano che tutti questi animali erano, in modo variegato, ricoperti dal piumaggio, spesso conformato proprio come quello degli uccelli moderni (con lunghe penne sulle zampe anteriori e sulla coda). Il quadro emergente indicava che, intorno a 130 milioni di anni fa, erano vissuti numerosi "modelli" di dinosauro piumato, tutti variazioni dell'anatomia che oggi vediamo solo negli uccelli. AI tempo stesso, nessuno di questi modelli era riconducibile completamente al modello anatomico degli uccelli "veri e propri" : ognuno mostrava un proprio mix di caratteristiche oggi tipiche degli uccelli, mescolate con caratteri "da teropode classico", producendo un variegato campionario di animali piumati. Attributi tipici degli uccelli, come la perdita della dentatura, sostituita da un becco, lo sviluppo di lunghi arti anteriori, la fusione delle ossa del polso e della caviglia, l'accorciamento della coda, oppure modifiche nel bacino e nella pneumatizzazione dello scheletro, erano mescolati con elementi altresì presenti in animali come i tirannosauroidi e gli omitomimosauri. Di fronte al crescere delle scoperte, all'aumentare del numero di celurosauri dotati di piumaggio scoperti a cavallo dell'anno 2000, i paleontologi realizzarono uno scenario nuovo. Nel Mesozoico, gli uccelli erano solamente una tra le tante manifestazioni di un "canovaccio" comune, un canovaccio molto creativo ed esuberante. La presenza simultanea, all'inizio del Cretacico, di così tanti e bizzarri "modelli di animale simile ad un uccello" ricordava la presenza simultanea, a metà del Cambriano, di tanti e bizzarri "modelli di artropode" . L'analogia tra la "Eldorado piumata" appena scoperta e i famosi giacimenti di Burgess era quindi evidente. Possibile che i livelli cinesi dell'inizio del Cretacico mostrassero per l'evoluzione degli uccelli ciò che Burgess aveva rappresentato per gli artropodi? Ci fu un tempo in cui la disparità degli animali piumati fu molto maggiore di quella attuale. Quale era la causa di una tale esuberanza di disparità? Immerso nel clima di eccitazione generale per le straordinarie scoperte cinesi che permeava il mondo della paleontologia a tutti i livelli, nel 2001 77
iniziai la mia tesi per la laurea magistrale in Scienze Naturali. Dato che nessun progetto disponibile nel mio dipartimento mi allettava, decisi di svilupparne uno in proprio. L'idea che a metà del Mesozoico ci fosse stato un analogo della "Esplosione del Cambriano" (la rapida comparsa di tutti i principali gruppi animali, tra 540 e 500 milioni di anni fa), ma relativo ai dinosauri piumati, una "esplosione piumata" della quale gli uccelli sono oggi i soli sopravvissuti, era molto esaltante. Quello scenario combinava un tema di grande attualità e fascino (i nuovi dinosauri piumati, di recentissima scoperta) con una problematica più ampia e generale (le dinamiche a larga scala con cui l'evoluzione procede). Decisi quindi di analizzare nel dettaglio l'evoluzione dei celurosauri, per capire se e come si potesse risolvere la questione sull'origine degli uccelli (ormai ampiamente confermata essere avvenuta in seno a Coelurosauria) con la diversità di animali piumati che erano stati scoperti. Il mio obiettivo era capire se ci fosse un qualche processo generale che aveva plasmato e indirizzato l'evoluzione dei dinosauri piumati, oppure, se l'evoluzione di questi animali nel Giurassico e nel Cretacico fosse stata una anarchica esuberanza di modelli alternativi. Lo scenario evoluzionistico che Gould aveva delineato in "La Vita Meravigliosa" era sostanzialmente anarchico: all'origine di un grande gruppo (come gli artropodi, o anche i dinosauri piumati) ci sarebbe una improvvisa diversificazione di numerosi modelli anatomici alternativi, non ricondicibili uno nell'altro, una esplosione iniziale della disparità, seguita poi dalla scomparsa della maggioranza dei modelli e la persistenza di una ridotta minoranza di modelli che poi si diversificano al loro interno. Se questo scenario fosse stato valido anche per i dinosauri piumati, sarebbe stato difficile, se non impossibile, stabilire dei legami robusti tra i differenti rami dei celurosauri. Effettivamente, a leggere gli studi pubblicati tra il 1995 ed il 2000, pareva proprio che l'anarchia regnasse tra gli studiosi di teropodi: differenti gruppi di ricerca, o persino differenti analisi svolte dai medesimi ricercatori, non riuscivano a risolvere la matassa di specie e modelli anatomici che erano stati scoperti. Come ho illustrato prima, molto brevemente, con la stessa robustezza di dati si poteva sostenere un legame tra oviraptorosauri ed uccelli, oppure tra alverzsauroidi e uccelli, oppure tra oviraptorosauri e terizinosauri, e così via. Ognuno degli scenari funzionava e pareva sensato, a seconda delle parti anatomiche che si prendevano in considerazione. Di fronte al proliferare anarchico degli scenari alternativi, la resa pareva inevitabile: possibile che l'abbandono di una soluzione non fosse affatto una resa, ma 78
la soluzione stessa? Questa era, in sostanza, l'opzione gouldiana: l'anarchia originaria era il fatto evolutivo, e non era solamente una situazione provvisoria bisognosa di essere risolta. Se ricordate quanto detto in un precedente capitolo, una condizione evolutivamente irrisolvibile può essere dovuta ad "incertezza soft", quando è legata alla mancanza di dati, oppure essere una "incertezza hard" quando è essa stessa un fatto intrinseco del fenomeno. La tesi gouldiana quindi si poteva tradurre così: l'origine dei dinosauri piumati è una incertezza hard, intrinsecamente irrisolvibile, dovuta alla contemporanea diversificazione di numerosi modelli di dinosauro piumato a partire da un singolo ceppo iniziale. Riflettendo sulla questione, realizzai che la tesi gouldiana si poteva analizzare da diversi punti di vista, salendo differenti livelli di complessità. Se lo scenario "anarchico" era corretto, dovremmo attenderci l'anarchia a tutti i livelli. Ad esempio, se analizzassimo l'evoluzione dell'arto anteriore dei celurosauri, isolatamente, senza prendere in considerazione il resto dello scheletro, dovremmo constatare l'anarchia anche a quel livello. E dovremmo trovare l'anarchia anche se ripetessimo la stessa indagine analizzando solamente le vertebre, oppure il bacino, oppure il cranio. Provai quindi a ricostruire l'evoluzione dei celurosauri analizzando separatamente i vari distretti anatomici, per poi confrontare i differenti risultati: se lo scenario anarchico fosse stato valido, non avrei potuto identificare delle regolarità e similitudini tra i differenti risultati. Così non fu. Se si escludeva l'analisi del distretto formato dalle ossa della gamba, in cui l'evoluzione ricorrente dell'arctometatarso introduceva un fattore di disturbo che "mescolava le carte", l'evoluzione che emergeva dall'analisi degli altri distretti anatomici tendeva a seguire sempre il medesimo scenario. Unendo tutti i tasselli, il mosaico era il seguente: partendo dall'origine dei celurosauri e puntando verso gli uccelli, prima si separavano i tirannosauroidi e gli ornitomimosauri, poi si separavano i terizinosauri, gli alvarezsauroidi e gli oviraptorosauri, ed infine gli uccelli assieme ad alcuni gruppi come i dromaeosauridi ed i troodontidi (che saranno oggetto dei prossimi capitoli). Questo risultato non poteva essere casuale, dato che ricorreva per ben cinque delle analisi indipendenti prodotte dai differenti distretti dello scheletro. Pertanto, l'idea della anarchia totale (implicita nello scenario gouldiano) era smentita, e uno schema generale, per quanto a tratti nebuloso, era comunque presente e sufficientemente robusto da lasciare tracce di sé in buona parte dei distretti che formano lo scheletro. 79
L'abbandono dello scenario gouldiano implica che i differenti "modelli" di dinosauro piumato non sono "variazioni alternative" a partire da un canovaccio ancestrale, bensì elaborazioni di un singolo ceppo che ha accumulato progressivamente delle novità anatomiche. Si tratta dello schema generale che ha fondato questo volume ed il precedente: l'evoluzione degli uccelli è stata uno tra gli innumerevoli prodotti di un processo di accumulazione graduale di innovazioni anatomiche. Ogni dinosauro ha, nella sua anatomia, una parte di quelle innovazioni, e tanto più la sua relazione di parentela con gli uccelli è stretta, tanto più numerose sono le parti condivise dell'anatomia. Al tempo stesso, ogni gruppo di dinosauro ha anche sviluppato una propria storia peculiare, durante la quale ha accumulato anche innovazioni proprie, spesso in risposta a condizioni simili a quelle che hanno plasmato, indipendentemente, altri gruppi di dinosauri. Il risultato è quindi un mosaico di innovazioni per ciascuno gruppo, in parte condivise con gli altri, in parte prodotte "in proprio" e mai replicate altrove, in parte sempre prodotte "in proprio" ma poi comparse indipendentemente anche in altri rami. La conclusione finale di questa indagine fu, quindi, che la controversia sulle relazioni tra i dinosauri piumati, che dominava intorno all'anno 2000, fosse una forma di incertezza soft, e come tale progressivamente risolvibile e dipanabile mano a mano che le nuove scoperte avrebbero aggiunto informazioni. A venti anni di distanza, i fatti hanno dato ragione a questa spiegazione, ed ormai le relazioni generali tra i celurosauri maniraptoromorfi, anche grazie a innumerevoli nuovi fossili scoperti, sono consolidate in modo significativo. Le nuove incertezze, menzionate in un precedente capitolo, si sono spostate in altre zone di Theropoda. Il quadro generale sulle relazioni di parentela tra i principali gruppi di maniraptoromorfi è ormai consolidato e, a meno di rivoluzionarie scoperte che introducano attori finora sconosciuti, possiamo considerarlo l'impalcatura sulla quale inserire ogni scenario per la fase finale dell'evoluzione che porta agli uccelli. Ad eccezione degli ornitomimosauri, tutti gli altri gruppi sono inclusi in un insieme chiamato Maniraptora. All'interno dei maniraptori, il ramo che si separa per primo è quello che porta agli alvarezsauroidi. Per quanto alcune specie della fine del Cretacico siano molto simili agli uccelli, in particolare per alcuni elementi del cranio, delle vertebre e del bacino, i primi alvarezsauroidi del Giurassico Superiore, come Haplocheirus, non presentano queste caratteristiche, che quindi dobbiamo interpretare come una 80
specializzazione finale del gruppo, specializzazione che quindi non ci dà indicazioni su una eventuale parentela tra questi animali e gli uccelli. Dei restanti maniraptori, i terizinosauri sono i primi a separarsi, e seguono anche essi una storia che porterà le ultime specie ad acquisire alcune caratteristiche in comune con gli oviraptorosauri. Questi ultimi formano un gruppo assieme ai maniraptori più strettamente imparentati con gli uccelli (troodontidi e dromeosauridi), al quale è stato dato il nome di Pennaraptora. Il nome fa riferimento alla presenza di penne vere e proprie, una innovazione che, ad oggi, non osserviamo negli altri maniraptoromorfi, i quali hanno sì forme elaborate di piumaggio, ma non presentano le penne remiganti e timoniere vere e proprie. La presenza delle penne "vere e proprie" solamente negli oviraptorosauri e nei paraviani (il gruppo formato da uccelli, troodontidi e dromeosauridi) resta quindi un'ipotesi "di lavoro", la più coerente con quanto vediamo attualmente nei fossili: tuttavia, nulla vieta che, in futuro, si scoprano alvarezsauroidi o terizinosauri dotati di remiganti e timoniere (o anche solo una delle due tipologie di penne). Prendendo questa "ipotesi di lavoro" come punto di partenza, quale può essere stata l'origine di questa nuova forma di piumaggio, così elaborata (e dispendiosa)? Fare ipotesi sull'evoluzione di una nuova struttura anatomica, non disponendo di molti fossili e con la consapevolezza che il quadro a disposizione sia sicuramente incompleto, è sempre un azzardo. Nondimeno, alcuni principi generali della biologia e recenti scoperte nei fossili ci suggeriscono una possibile spiegazione. Dato che negli oviraptorosauri e nella maggioranza dei paraviani che incontreremo in seguito non sono presenti adattamenti scheletrici per il volo, escludiamo che le penne remiganti e timoniere siano comparse nei maniraptori per una funzione aerodinamica. Il fatto che negli uccelli moderni queste penne abbiano principalmente una funzione legata al volo è quindi da considerare una specializzazione successiva alla comparsa delle penne. Qualunque fosse l'originaria funzione delle penne, esse si svilupparono in animali esclusivamente terricoli, camminatori e corridori al suolo, che non avevano alcuna tendenza ad acquisire la capacità di volare (che arriverà solo dopo, in un gruppo molto particolare di maniraptori). Pertanto, anche se usiamo lo stesso nome introdotto in origine per gli uccelli volatori per designare le medesime strutture negli altri pennaraptori, le penne "remiganti" e "timoniere" non erano usate per la funzione che ha dato loro il nome negli uccelli. Se questi animali non volavano, a cosa serviva un campionario di 81
lunghe penne relativamente rigide inserite ai lati della mano e alla fine della coda? Non tutte le strutture anatomiche evolvono per una funzione legata allo stile di vita "quotidiano" (come la nutrizione o la locomozione) ma possono essere selezionate in quanto aumentano il successo riproduttivo dell'animale che le porta. Sono strutture ornamentali che, per una serie di meccanismi comportamentali ed evoluzionistici, si fissano nella popolazione in quanto risultano "attraenti" per i potenziali partner. Questo fenomeno, detto "selezione sessuale" può essere così potente da soverchiare la "normale" selezione adattativa, permettendo a strutture apparentemente inutili, se non palesemente svantaggiose (in quanto ingombranti o persino di intralcio), di svilupparsi in una specie. L'origine del piumaggio sulla coda e sulla mani dei maniraptori potrebbe essere stata indotta dalla selezione sessuale? Forse, la risposta è a metà strada tra l'opzione funzionale e quella legata alla selezione sessuale. I ritrovamenti fossili supportano questa interpretazione. Alcuni scheletri di oviraptorosauri conservati in condizioni eccezionali mostrano gli animali morti accovacciati sopra le proprie uova. Si ritiene che questi animali siano stati sorpresi da improvvise tempeste di sabbia, ed istintivamente si siano accovacciati sopra le proprie uova, in attesa della fine della tempesta che, per loro sfortuna, giunse troppo tardi, non prima che la sabbia li ebbe completamente sepolti vivi, preservandoli per quasi 80 milioni di anni. Sebbene questi fossili non preservino tracce del piumaggio, riteniamo che essi avessero sia penne remiganti che timoniere, come preservate in Caudipteryx e altri pennaraptori. Ricostruendo l'animale in posizione di cova, come appare documentato dal fossile, e includendo sia le penne remiganti che le timoniere nella ricostruzione, si nota che le uova, disposte a terra per formare un anello concentrico attorno alle gambe dell'animale, siano a loro volta cinte sia dalle braccia che dalla coda. Le lunghe penne degli arti superiori e della coda quindi potevano svolgere una funzione protettiva durante la cova delle uova. Nella maggioranza dei nidi fossili degli altri dinosauri, non troviamo associati i resti dei genitori. Si ritiene che, in modo simile ai coccodrilli odierni, la maggioranza dei dinosauri costruisse nidi di sabbia e materiale vegetale, che sorvegliasse il nido fino alla schiusa delle uova, ma che non interagisse direttamente con le uova durante la loro maturazione. I fossili degli oviraptorosauri in "posizione di cova" documentano l'evoluzione di un nuovo comportamento riproduttivo in seno a Pennaraptora, comportamento che si è mantenuto ancora oggi negli uccelli. 82
Va notato che - in base ai fossili noti finora - solamente i pennaraptori siano dotati di penne remiganti e timoniere, e che solo questi dinosauri siano stati scoperti in "posizione di cova" . Il fatto che i nidi degli altri dinosauri non mostrino un così stretto legame tra genitore e covata, ci induce a pensare che il comportamento "da chioccia" e lo sviluppo di lunghe penne remiganti e timoniere possano essere stati selezionati assieme, e che siano coinvolti in una medesima innovazione biologica: un nuovo modo di deporre e covare le uova, che coinvolgeva più direttamente il genitore, potrebbe aver favorito gli individui dotati di piumaggio più elaborato poiché più idoneo a coprire e proteggere le uova durante la cova. La selezione sessuale potrebbe aver innescato questo processo, favorendo nella competizione per il partner proprio gli esemplari dotati di piumaggio più vistoso, più attraenti ma anche più idonei a covare. Oltre al piumaggio, la sequenza evolutiva che va dall'origine dei maniraptori al gruppo più strettamente legato agli uccelli (Paraves) è caratterizzata da numerose innovazioni e modifiche nello scheletro. Una di queste è legata al modo con cui la mano poteva flettere lateralmente rispetto all'avambraccio, ed ha dato il nome al gruppo, chiamato "Maniraptora" proprio in riferimento all'innovazione occorsa a livello delle mani. Più che la comparsa di una innovazione anatomica, essa fu piuttosto il perfezionamento di una caratteristica che era già comparsa all'inizio della storia dei tetanuri (vedere il Primo Volume), nei quali le ossa del polso avevano acquisito una conformazione tale da favorire una maggiore mobilità a livello dell'articolazione tra avambraccio e mano. Nei maniraptori, alcune ossa del polso si fondono tra loro, formando un unico osso dalla forma a mezzaluna, incurvato in direzione dell'avambraccio e dotato di un solco lungo cui scorrevano gli altri elementi dell'articolazione. Il risultato di questa innovazione fu la possibilità per questi animali di piegare maggiormente la mano di lato. Se negli altri tetanuri la maggiore mobilità della mano aveva contribuito alla capacità predatoria di questi animali, nei maniraptori (in maggioranza onnivori e non più attivi cacciatori di grandi prede) è plausibile che questa innovazione sia stata favorita proprio in concomitanza con l'acquisizione delle penne remiganti (che si inseriscono proprio lungo il lato esterno del palmo della mano, e poi - nei paraviani - si estenderanno anche al lato esterno dell'avambraccio): la possibilità di flettere lateralmente la mano permetteva a questa ultima di "piegarsi di lato" quando l'animale non usava le braccia, consentendo quella postura dell'arto che ancora oggi gli 83
uccelli assumono quando richiudono le ali. La possibilità di ripiegare un organo di lato è un requisito fondamentale qualora tale organo sia selezionato ad aumentare di dimensioni, poiché fornisce una "posizione di riposo" e "di difesa" per quel medesimo organo ora che è divenuto più voluminoso e ingombrante: la possibilità di ritrarre la mano di lato, minimizzandone l'esposizione quando non utilizzata, permetterà ad alcuni maniraptori di intraprendere una nuova strategia evolutiva, una strada in cui la mano (ed il braccio stesso) diventeranno molto più lunghi e robusti che in qualsiasi altro dinosauro. Sebbene non ancora usata come organo per il volo, è nei primi pennaraptori che si formano tutti i requisiti fondamentali dell'ala degli uccelli: un arto anteriore molto allungato e robusto, facilmente ripiegabile, dotato di penne remiganti in grado di conferire un'ampia superficie aerodinamica regolabile. Riassumendo, il più recente antenato comune di uccelli, alvarezsauroidi, terizinosauri e oviraptorosauri era un maniraptoro vissuto nel Giurassico Medio. Onnivoro opportunista lungo non più di un paio di metri, era caratterizzato da arti anteriori relativamente allungati, mani capaci di piegarsi lateralmente e tre lunghe dita affusolate munite di artigli falciformi. Il corpo era ricoperto da un piumaggio complesso che includeva vere e proprie penne dotate di uno stelo centrale ed un vessillo di barbe. Le uova erano deposte in nidi solo parzialmente ricoperti da sedimento e materiale vegetale, ed erano protette ed incubate anche dal corpo del genitore.
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Capitolo quinto Artigli terribili ..
PA RAV E S
AV E RA PTO RA Come i teropodi si erano differenziati dagli altri dinosauri specializzandosi per una dieta spiccatamente carnivora, così un ramo di paraviani si differenziò dagli altri maniraptoromorfi specializzandosi per una dieta spiccatamente carnivora: i dromeosauridi. (Ricostruzione in vivo di Halszkaraptor basata sulla ricostruzione scheletrica realizzata da Marco Auditore, 2017).
L a Storia è scritta dai vincitori. Il detto vale anche in ambiti molto meno cruenti e più positivi della guerra, come può essere la Scienza. Al pari della storia, anche il mito è una elaborazione dei vincitori, ma ha il vantaggio di penetrare più rapidamente e profondamente nelle generazioni nate dopo gli eventi che narra. Nella mia generazione, rhc fu bambina negli anni '80 e si è formata inizialmente sulla letteratura divulgativa esistente a cavallo del decenno 1985-1995, esiste un m i to legato alla storia della paleontologia dei dinosauri, un mito canonizzato da un libro di grande successo, pubblicato proprio nel 1985: "L'enigma dei dinosauri" di J.N. Wilford. Nel suo libro, Wilford ripercorre la storia della scienza dei dinosauri, arrivando fino ai suoi tempi (la metà degli anni '80 del secolo scorso). Il successo di quel libro è stato tale che molti della mia generazione, anche quando solo blandamente appassionati di paleontologia, conoscono la "storia della scienza dei dinosauri" principalmente nella forma narrata da Wilford. Il libro ripercorre il secolo e mezzo che va dalla scoperta dei primissimi resti di dinosauro, nell'Inghilterra degli anni '20 del XIX secolo, fino alla generazione 85
"iconoclasta" e contestatrice degli anni '70 del XX secolo, esemplificata dalla figura del paleontologo americano Robert Bakker. Sebbene spazi ampiamente lungo figure chiave della scienza dei dinosauri, il libro di Wilford è incentrato soprattutto sui paleontologi di area anglosassone (inglesi e americani), e come tale trasmette una rappresentazione parziale della complessa e multiforme popolazione dei paleontologi dei dinosauri, che - in una narrazione più esaustiva e completa - includerebbe innumerevoli autori europei (continentali), asiatici e sudamericani. Non sto accusando Wilford di parzialità né di "anglocentrismo" : in quanto giornalista scientifico americano, egli ha chiaramente improntato il suo libro soprattutto sulla componente anglosassone, probabilmente perché quella da cui aveva maggiori fonti e riferimenti bibliografici. Tuttavia, il successo del suo libro ha inevitabilmente trasmesso ad un'intera generazione di lettori non specialisti un'immagine distorta, in cui la storia della scienza dinosaurologica fu quasi unicamente un affare inglese e statunitense. Un secondo elemento della narrazione wilfordiana che ha plasmato l'immaginario popolare sulla storia della scienza dei dinosauri è l'accento portato sulle conseguenze di alcuni studi e ricerche avvenute intorno al 1970 (anche in quel caso, purtroppo, focalizzando la narrazione unicamente sugli attori anglosassoni di tale fase), studi che avviarono quello che da allora è noto come "Rinascimento dei Dinosauri" . Il termine stesso fu introdotto da uno dei protagonisti di quella fase, R. T. Bakker, in un suo articolo divulgativo del 1975: anche in questo caso, è interessante constatare che il termine nacque in un contesto divulgativo, e non propriamente "accademico" . Dato che Bakker è proprio tra i più accesi promotori delle tematiche più estreme del "Rinascimento dei Dinosauri", è molto significativo il fatto che sia egli stesso ad aver battezzato tale fase con quel termine: il nome nasce quindi, palesemente, come la auto celebrazione di una peculiare concezione dei dinosauri, vista come rivoluzionaria, innovatrice e, soprattutto, come volta a "correggere" gli errori del passato, riportando i dinosauri al giusto status che "meritano" . Una analisi rigorosa del "Rinascimento dei Dinosauri", e soprattutto delle peculiari concezioni paleontologiche ed evoluzionistiche dei suoi attori, richiederebbe un libro a sé. Quello che occorre rimarcare, qui, è che il "Rinascimento" fu figlio del suo tempo e del contesto culturale in cui si formò, e non fu quindi una inevitabilità storica né l'unica direzione possibile per la scienza dei dinosauri. Se una parte dei temi e delle ipotesi sostenuti dal "Rinascimento" sono tuttora condivisibili e coerenti con ciò 86
che conosciamo della biologia ed evoluzione dei dinosauri, altri temi, ipotesi e scenari, soprattutto quelli più speculativi, sono stati riveduti e corretti. Sebbene ancora poco noto, specialmente tra gli appassionati, è bene sottolineare che una parte importante delle tematiche e delle impostazioni che fondarono tale visione dei dinosauri sono oggi superate, se non revisionate in toto sicuramente riprese e analizzate con criteri ed approcci nuovi. A livello popolare, soprattutto dopo l'enorme successo di un romanzo e del relativo film che hanno tratto spunto dai temi del "Rinascimento" Ourassic Park), quella che fu l'iconoclastìa eretica degli anni '70 è diventata di fatto l'ortodossìa (i ragazzi del XXI secolo appassionati di dinosauri si immaginano questi animali fondamentalmente ricalcati sulle iconografie figlie del "Rinascimento"). A livello accademico, invece, le nuove generazioni di paleontologi sono andate ben oltre le autodefinite "eresie" bakkeriane e hanno inaugurato una fase "post-rinascimentale" della paleontologia dei dinosauri, fase che sì riconosce l'eredità del grande dibattito anglossassone degli anni '70-80 in merito alla biologia dei dinosauri, ma che non è rimasta ferma a quelle concezioni, soprattuto dopo le straordinarie scoperte che fondarono la Rivoluzione Piumata degli anni '90, e a seguito dell'introduzione di nuovi metodi di indagine. Non intendo minimizzare l'importanza del "Rinascimento" . Al tempo stesso, è doveroso sottolineare che esso fu meno "radicale" e "rivoluzionario" di come si è auto-rappresentato. Una parte importante delle istanze sollevate negli anni '70 furono rielaborazioni di temi che, in forma ovviamente consistente col tempo, erano già stati introdotti dai paleontologi ottocenteschi. Difatti, più che una rivoluzione radicale in termini assoluti, il "Rinascimento" degli anni '70 fu piuttosto un doveroso ripristino di dibattiti e analisi che parevano essersi assopiti a metà del XX secolo. Al tempo stesso, sarebbe ingiusto non riconoscere il ruolo e l'importanza che alcune scoperte paleontologiche, divenute iconiche di quel momento, ebbero poi per le generazioni successive. Indipendentemente dall'effettiva profondità della cesura con il passato avvenuta con il "Rinascimento", esso viene fatto partire da una scoperta avvenuta nell'Agosto del 1964. In quella data, da un sito del Montana risalente a circa 110 milioni di anni fa, un team dell'Università di Yale rinvenne i resti parziali di quattro dinosauri, riferibili a due specie distinte. Un esemplare apparteneva ad una specie di dinosauro ornitischio di medie dimensioni, relativamente abbondante in quei livelli e già noto (sebbene non ancora descritto né dotato di nome) fin dall'inizio 87
del secolo. Gli altri tre esemplari mostravano tutti le stesse caratteristiche, ed erano riferibili alla medesima specie, un nuovo dinosauro teropode di dimensioni medio-piccole. Entrambe le nuove specie riceveranno i loro nomi in una serie di pubblicazioni tecniche tra il 1969 ed il 1970, opera del capo del team di Yale, il paleontologo J.H. Ostrom. In particolare, le pubblicazioni relative al materiale teropode sono universalmente riconosciute come l'atto di nascita del "Rinascimento dei Dinosauri". Il teropode descritto da Ostrom nel 1969-70 è un celurosauro lungo circa tre metri, battezzato Deinonychus antirrhopus. Ostrom collocò questo nuovo dinosauro in un gruppo fino ad allora poco studiato, basato solo su due forme note per scheletri parziali scoperti negli anni '20 in Canada (Dromaeosaurus) e Mongolia (Velociraptor): Dromaeosauridae. Questo studio portò proprio in quegli anni alla rivalutazione del materiale raccolto mezzo secolo prima, e fu accompagnato dalla scoperta, da parte di paleontologi mongoli e polacchi, di nuovi esemplari quasi completi di Velociraptor in Mongolia. Ulteriori esemplari di Deinonychus e una rivalutazione del materiale originario saranno descritti sempre da Ostrom nel 1974: l'immagine popolare di questi dinosauri, resi celeberrimi (sebbene in modo molto romanzato) da "Jurassic Park", sarà plasmata proprio a partire dagli studi degli anni '70. Parallelamente allo studio di questo nuovo dinosauro, Ostrom accumulò la mole di informazioni utilizzata per una serie di articoli, tra il 1970 ed il 1976, finalizzati a stabilire le affinità degli uccelli rispetto ai rettili: saranno proprio le innumerevoli somiglianze tra il nuovo teropode del Montana e Archaeopteryx a fornire al paleontologo di Yale la più solida base per il definitivo legame tra uccelli e dinosauri teropodi. La storia della scoperta di Deinonychus ed il suo doppio valore, per il "Rinascimento" dinosaurologico e per la soluzione dell'origine degli uccelli, sono stati ampiamente rimarcati e analizzati negli ultimi cinquanta anni. A mezzo secolo di distanza, l'enorme quantità di scoperte e informazioni acquisite a supporto della biologia dei dinosauri e dell'origine dinosauriana degli uccelli ci permette di rivedere questo dinosauro liberandolo dall'enorme responsabilità di essere un'icona storica e scientifica, ci dà la possibilità di comprendere meglio la sua biologia ed evoluzione in sé e non tanto come strumento per sostenere quei due temi generali. In particolare, i numerosi maniraptoromorfi scoperti negli ultimi 30 anni hanno ridimensionato l'importanza di questo dinosauro per comprendere l'origine della biologia aviana. Per alcuni decenni (tra gli anni '70 e '90) Deinonychus è stato preso a modello base 88
per cogliere il passaggio "agli uccelli", e la sua biologia è stata quasi il solo criterio per dedurre la condizione ancestrale degli uccelli all'interno dei dinosauri. Questo approccio ora deve essere superato e rivisto in modo critico. Oggi, paradossalmente, Deinonychus ed i suoi parenti prossimi (gli eudromaeosauri) ci appaiono difatti come una specializzazione molto peculiare all'interno di Maniraptora, specializzazione quasi aberrante rispetto alla maggioranza dei maniraptoromorfi, e ciò li rende poco utili per cogliere i particolari processi che hanno condotto all'origine degli uccelli. Sebbene sia assodato che animali come Deinonychus siano tra i dinosauri più prossimi ai primi uccelli, non è da animali "come Deinonychus" che si originò il ramo aviano. Nei due precedenti capitoli, abbiamo visto che i maniraptoromorfi si differenziarono dagli altri teropodi perdendo numerosi adattamenti alla dieta ipercarnivora e macrofagica (fondata quasi unicamente su carne di prede di dimensioni comparabili se non superiori a quelle del predatore), e che di conseguenza la grande maggioranza dei maniraptoromorfi si specializzò verso nuove ecologie, differenti da quella ipercarnivora, come una dieta onnivora, insettivora o vegetariana. Ciò comportò la perdita di quegli adattamenti nel cranio e nell'arto anteriore che fondavano il "modulo testa-braccio" dei teropodi predatori (discussi nel Primo Volume). Vedremo nel prossimo capitolo che anche il ceppo da cui originarono sia i dromaeosauridi (come Deinonychus) che gli uccelli fosse privo di specializzazioni ipercarnivore, e che in origine probabilmente comprendeva solo specie onnivore ed insettivore. Eppure, numerose caratteristiche dei dromeosauridi, nonché le informazioni tratte da alcuni spettacolari ritrovamenti fossili, escludono una dieta onnivora o vegetariana in questi animali. All'interno della radiazione "non carnivora" dei maniraptoromorfi, i dromeosauridi (ed in particolare gli eudromaeosauri come Deinonychus) rappresentarono difatti una grande anomalia, dato che questo gruppo mostra numerosi adattamenti per la dieta carnivora e, almeno negli eudromaeosauri, anche la macrofagia. Confrontato con lo scheletro di un maniraptoromorfo (come l'alvarezsauroide Shuvuuia o il therizinosauro Erlikosaurus), Deinonychus si differenzia per avere un minor numero di denti, che però sono in proporzione più grandi, più affilati e forniti di una marcata serie di seghettature sia sul margine anteriore che posteriore (come negli antichi tetanuri ipercarnivori). Inoltre, Deinonychus ha un cranio relativamente più robusto (come negli antichi tetanuri ipercarnivori), ed un collo più 89
corto e robusto, dotato di maggiori punti di ancoraggio per la muscolatura (come negli antichi tetanuri ipercarnivori). Al tempo stesso, Deinonychus presenta tutte le innovazioni nell'arto anteriore tipiche dei maniraptoromorfi. Simile agli altri maniraptori, anche Deinonychus presenta lunghi arti anteriori con tre dita munite di artigli falciformi, e come quelli ha una articolazione del polso che permette alla mano di flettere lateralmente. Sappiamo da almeno tre specie rinvenute nei giacimenti del Cretacico Inferiore della Cina, che anche i dromaeosauridi erano ricoperti di piumaggio complesso, e che questo fosse più elaborato che negli oviraptorosauri, dato che portava lunghe penne remiganti non solo a lato della mano ma anche lungo tutto l'avambraccio, oltre a una più lunga serie di penne timoniere. In alcuni di questi fossili, inoltre, il piumaggio remigante era esteso anche all'arto posteriore, con il piede munito di lunghe penne simili a quelle della mano. Si tratta quindi di un rivestimento di piume che è persino più esteso ed elaborato di quello in molti uccelli odierni (nei quali, in grandissima maggioranza, i piedi non sono ricoperti di piume complesse)! Infine, in Deinonychus (e negli altri dromeosauridi) sono presenti due innovazioni anatomiche peculiari, una delle quali è unica di questi teropodi, mentre l'altra è condivisa anche con gli antenati più prossimi degli uccelli (i paraviani). La prima riguarda la coda, che si irrigidisce per buona parte della sua lunghezza grazie ad una serie di lunghissime estensioni ossee e tendinee che avvolgevano quasi tutta la coda formando un astuccio (i fossili cinesi ci mostrano che tutta questa guaina tendinea era poi ricoperta da lunghe penne). La seconda, a livello del piede, riguarda il secondo dito specializzato in modo da poter iper-estendere (ovvero, sollevarsi rispetto alle altre dita) e che porta un grande ungueale a forma di falce (che in vita doveva sostenere un enorme artiglio corneo). Questo ultimo tratto anatomico, assieme alle modifiche nel cranio e nella dentatura, non lasciano dubbi su una specializzazione predatoria in questi maniraptori. Forme e proporzione di questo dito (e del suo ungueale) sono tipici di dita adatte a ghermire e penetrare le carni. La conferma definitiva di una spiccata tendenza nei dromeosauridi a nutrirsi anche di animali grandi almeno come loro viene da alcuni fossili eccezionali. Tra tutti, il più spettacolare è un fossile scoperto in Mongolia nel 1971, formato da due dinosauri evidentemente morti assieme e inglobati in un deposito sabbioso: un dromeosauride (Velociraptor) avvinghiato mortalmente ad un ornitischio ceratopsiano (Protoceratops). Le ipotesi più gettonate per spiegare l'associazione dei due corpi 90
descrivono un'improvvisa tempesta di sabbia, o il collasso di una duna ai cui piedi i due animali stavano lottando, seppellendoli quasi istantaneamente, e preservandoli per 80 milioni di anni. Da notare che l'omitischio pesava almeno il doppio del teropode. Che l'associazione dei due corpi non fu casuale né prodotta da eventi fisici dopo la morte degli animali è confermata dalla posizione delle zampe del dromeosauride: una mano è ancora ancorata alla testa dell'omitischio, mentre le mandibole di questo ultimo sono ancora serrate contro l'altro avambraccio del teropode. Inoltre, uno dei due piedi del predatore è proiettato a livello della gola del Protoceratops, con il secondo dito del piede in una posizione che, in vita, era occupata dai tessuti molli del collo dell'ornitischio: il predatore aveva letteralmente conficcato l'enorme falce del piede nella gola della preda. Il tratto più distintivo dei dromeosauridi è proprio il secondo dito del piede, specializzato come arma di offesa. Molti studi si sono concentrati sulla biomeccanica e la funzione di questo dito, per comprendere come fosse usato dai dromeosauridi. Tuttavia, prima ancora che con analisi di tipo "funzionale", possiamo cogliere il significato di questo adattamento ricostruendo la sua storia evolutiva. Sebbene esso sia considerato a livello popolare un tratto distintivo dei dromeosauridi, il secondo dito iperestensibile e dotato di ungueale falciforme è presente anche in altri maniraptori, in particolare nei troodontidi (prossimo capitolo). Tutti questi gruppi formano un ramo particolare di Maniraptora, chiamato Paraves, che comprende anche gli uccelli. Va notato che un secondo dito del piede con modifiche simili sia presente ancora oggi in numerosi uccelli. Pertanto, l'origine di questo attributo precede l'origine dei dromeosauridi veri e propri, e si colloca proprio alla base del ramo da cui partono anche gli uccelli. Dato che i primi paraviani non mostrano gli adattamenti per la dieta ipercarnivora e macrofagica dei dromeosauridi, lo vedremo nel prossimo capitolo, deduciamo che il secondo dito "specializzato" sia comparso prima dell'adattamento alla predazione. In breve, i dromeosauridi acquisirono questa morfologia da antenati onnivori e la "riciclarono" per uno stile di vita più marcatamente predatorio. A ulteriore conferma di questo scenario, negli ultimi 20 anni sono stati scoperti dei nuovi dromeosauridi i quali non mostrano tutti gli adattamenti alla dieta macrofagica ed ipercamivora, e che si collocano su rami distinti di Dromaeosauridae che intrapresero differenti strategie ecologiche rispetto ai "classici" Deinonychus e Velociraptor. I microraptorini sono dromeosauridi noti soprattutto dai famosi 91
livelli cinesi del Cretacico Inferiore, e difatti sono ad oggi i membri di questo gruppo per i quali siano noti abbondanti resti del piumaggio. In alcune specie, come Microraptor, il piumaggio mostra spettacolari penne remiganti sulle braccia e "pseudo-remiganti" sulle zampe posteriori, che conferivano a questi animali una sorta di "condizione a quattro ali" . Una tale scoperta, del tutto inattesa, ha sollevato un acceso dibattito sulla possibilità che gli uccelli stessi, che oggi sono unicamente "a due ali", possano discendere da paraviani "a quattro ali", cioè muniti di penne anche nelle zampe posteriori: è curioso che un simile scenario, detto "tetrapteryx", fosse già stato proposto all'inizio del XX secolo da alcuni paleontologi. Non è del tutto chiaro se e in che modo il piumaggio "a quattro ali" dei microraptorini permettesse a questi animali, pesanti al massimo qualche kilogrammo, una forma di volo planato. Sicuramente, lo scheletro dell'arto anteriore non presenta adattamenti che consentano il volo attivo come lo osserviamo negli uccelli moderni, un battito delle ali sufficientemente intenso e frequente da generare una spinta aerodinamica. Inoltre, l'ipotesi che le penne delle zampe posteriori di questi teropodi fossero parte di una superficie alare per il volo planato contrasta con la postura obbligatoriamente eretta delle loro zampe, che sono conformate esattemente come in tutti gli altri dinosauri e quindi non potevano divaricare le ali "posteriori" per disporle sullo stesso piano delle ali "anteriori" . L'abbondanza di fossili di Microraptor scoperti nei livelli ad elevata preservazione della Cina ha permesso di identificare almeno due fossili con resti di pasto nell'addome di questi animali. In un caso, si tratta dei resti di un piccolo uccello enantiornite (vedere prossimi capitoli), mentre in un altro, il dromeosauride aveva resti di pesce: questo dimostra una grande versatilità alimentare in questi predatori, la maggioranza dei quali era lunga al massimo un metro e mezzo. La possibilità che alcuni dromeosauridi fossero in grado di nutrirsi di pesce (o, in generale, piccole prede acquatiche) è ulteriormente supportata da altri dromeosauridi scoperti di recente. Uno di questi gruppi è particolarmente interessante nel quadro generale dell'evoluzione dei maniraptori, in quanto è conosciuto unicamente dall'emisfero meridionale, in particolare dal Sud America (e, forse, anche dal Madagascar), dimostrando che i dromeosauridi, a differenza della maggioranza degli altri maniraptoromorfi, si diffusero anche nel supercontinente di Gondwana (formato dalle masse di Africa, Madagascar, Sud America, Antartide, India ed Australia, che proprio 92
nella seconda metà del Mesozoico iniziarono a separarsi reciprocamente). Questi "dromeosauridi australi" formano un gruppo chiamato Unenlagiinae. Gli unenlagiini sono purtroppo conosciuti in larga parte da resti frammentari, sebbene almeno un genere, Buitreraptor, sia noto da alcuni esemplari in buono stato di conservazione. L'anatomia di questo unenlagiino è peculiare, ma non è chiaro quanto essa sia "tipica" dell'intero gruppo. Almeno un genere, Austroraptor, condivide con Buitreraptor alcuni adattamenti particolari nel muso e nei denti, che potrebbero indicare una tendenza generale del gruppo alla dieta piscivora. In questi animali, difatti, il muso è molto allungato, e portava una serie di numerosi denti privi di seghettature ai margini, ma solcati sulla superficie da scanalature simili a quelle presenti nei denti di molti tipi di rettili acquatici. Il cranio di Austroraptor mostra inoltre una bizzarra inclinazione del muso rispetto alla parte posteriore della testa, che ricorda gli spinosauridi (vedere il primo volume). Tutti questi attributi confermano quindi una ecologia in grado di nutrirsi di pesce, analoga a quella ipotizzata per gli spinosauridi. A questo proposito, è molto intrigante constatare che gli unenlagiini compaiano alcuni milioni di anni dopo la scomparsa degli spinosauridi: possibile che questi dromeosauridi abbiano occupato la nicchia appena "liberata" dalla scomparsa degli spinosauridi? L'ipotesi è molto suggestiva, ma richiederà una maggiore conoscenza della distribuzione spaziale e temporale di questi dromeosauridi. Se Buitreraptor era di dimensioni paragonabili a quelle della maggioranza dei maniraptori dell'emisfero settentrionale, Austroraptor era (per gli standard maniraptoriani) un gigante lungo almeno cinque metri. La grande differenza di dimensione tra gli unenlagiini suggerisce che il gruppo fosse molto variegato e di successo, e che non fossero tutti adattati alle medesime nicchie ecologiche. Attualmente, nessun unenlagiino mostra adattamenti macrofagici e quindi è improbabile che fosse specializzato alla dieta ipercamivora come i dromeosauridi "classici" (gli eudromeosauri). Dato che i microraptorini non presentano tutti gli adattamenti macrofagici degli eudromeosauri, pur essendo evolutivamente più prossimi a questi ultimi rispetto agli unenlagiini, deduciamo che la condizione ancestrale dei primi dromeosauridi fosse quella di un carnivoro opportunista, capace all'occorrenza anche di consumare prede acquatiche, ma che non fosse specializzato alla cattura di grandi prede: nello stile di vita, i primi dromeosauridi non erano molto simili a Deinonychus. L'ipotesi che la dieta macrofagica "alla Velociraptor" sia una 93
specializzazione peculiare dei soli eudromeosauri ma che non sia la condizione generale di Dromaeosauridae è confermata dalla scoperta molto recente di un quarto gruppo di dromeosauridi, privi di adattamenti macrofagici, e caratterizzati da un modello anatomico del tutto inatteso. I primi fossili, molto frammentari, attribuibili a questo nuovo gruppo furono scoperti in Mongolia negli anni '70, e battezzati Hulsanpes. Sempre in Mongolia, negli anni '90, fu scoperto un altro scheletro parziale, riferibile ad un piccolo dromeosauride apparentemente molto primitivo, battezzato Mahakala, che combinava alcune caratteristiche generali dei paraviani con alcune inusuali specializzazioni nel braccio e nella coda. Purtroppo, la quasi totale assenza di resti del cranio, e la disarticolazione dello scheletro, non permisero di dedurre molto sulle sue caratteristiche e adattamenti. Solo di recente, con la scoperta di un terzo scheletro, questa volta quasi completo, è stato possibile realizzare che questi due piccoli dromeosauridi erano parte di una nuova linea di paraviani, molto aberrante, caratterizzata da un mix di adattamenti per uno stile di vita almeno in parte acquatico. Questo nuovo animale, lungo circa 80 cm e chiamato Halszkaraptor, mostra difatti un'anatomia del tutto inattesa per un dromeosauride. L'animale era dotato di un cranio molto simile a quello di un uccello, caratterizzato da un muso allungato a appiattito munito di un gran numero di denti incurvati ma privi di seghettature. Sempre nel muso, le narici erano arretrate, in maniera analoga ad alcuni spinosauridi, e la parte del muso posta di fronte alle narici era riccamente innervata. Il collo di Halszkaraptor è, in rapporto alle dimensioni corporee, il più lungo tra tutti i paraviani mesozoici, e forma metà della lunghezza dalla testa alla base della coda. Nelle ossa del collo, è presente una peculiare combinazione di adattamenti che aumentavano la sua mobilità laterale: adattamenti simili si trovano anche nelle prime ossa della coda, e suggeriscono una relativa agilità nei movimenti laterali dell'asse del corpo. Curiosamente, simili adattamenti non si trovano negli altri teropodi suoi contemporanei, ma sono presenti in vari gruppi di animali acquatici. Infine, sebbene l'arto posteriore sia abbastanza "tradizionale" per un paraviano (esso include il secondo dito specializzato per l'iperestensione dotato di ungueale falciforme), le braccia, relativamente corte, sono caratterizzate da un avambraccio appiattito e una mano dalle proporzioni inusuali: entrambe queste caratteristiche, assenti negli altri maniraptori, sono simili agli adattamenti generali acquisiti da molti tipi di uccelli e rettili capaci di nuotare. Halszkaraptor quindi sembra combinare un muso, denti, vertebre e arti anteriori da animale adatto ad uno stile di 94
vita acquatico, con un corpo simile ad un uccello. Per quanto a prima vita aberrante e bizzarro, Halszkaraptor non è del tutto "alieno" per i paraviani, dato che, da un lato, abbiamo visto analoghi adattamenti alla dieta piscivora negli unenlagiini, e, tra gli uccelli moderni, esistono alcune specie acquatiche, come gli anatidi del genere Mergus, che mostrano una simile combinazione di adattamenti. Tutte queste scoperte ci dimostrano che, in origine, i dromeosauridi fossero sì carnivori, ma cacciassero soprattutto piccole prede: essi ci appaiono degli opportunisti in grado anche di sfruttare gli ambienti acquatici. Solamente negli eudromeosauri (come Deinonychus) l'intera anatomia si specializzò più marcatamente verso la macrofagia. Pertanto, questi ultimi si possono considerare un "ritorno" all'antica ecologia predatoria, tipica di tutti i grandi teropodi, ecologia che era stata "abbandonata" dai maniraptoromorfi. Questa interpretazione ci aiuta a capire come mai i dromeosauridi più piccoli, come Halszkaraptor e Buitreraptor, siano più simili agli uccelli nella forma, proporzioni e adattamenti, mentre gli eudromeosauri, soprattutto le specie di maggiori dimensioni come Utahraptor, avessero invece una anatomia più vagamente simile ai "classici dinosauri carnivori", caratterizzati da crani più volumunosi e proporzioni corporee più robuste: il modello anatomico "alla Deinonychus" non rappresenta la condizione originaria dei dromeosauridi, la quale è, piuttosto, molto più simile a quella dei primi uccelli come Archaeopteryx. Questo risultato rovescia la prospettiva con cui per quasi mezzo secolo abbiamo guardato Deinonychus! Sebbene per decenni esso sia stato il modello morfologico ed ecologico per dedurre l'origine degli uccelli, oggi sappiamo che è più probabile che valga il contrario: è la morfologia ed ecologia dei primi uccelli come Archaeopteryx che probabilmente ci mostra la condizione ancestrale da cui sono derivati animali come Deinonychus. Questa condizione ancestrale sarà il tema del prossimo capitolo. Eppure, per quanto sicuramente una "versione carnosauriana" in seno ai maniraptoromorfi, gli eudromeosauri hanno introdotto un modello nuovo di teropode predatore, non completamente riducibile a quelli degli altri tetanuri comparsi nel Giurassico, un modello sicuramente vincente, dato che rimane sostanzialmente immutato per cinquanta milioni di anni fino alla fine del Cretacico. Abbiamo visto che il "modello predatorio teropode" comparve quando in una linea di dinosauri bipedi onnivori l'arto anteriore iniziò a "collaborare" con l'apparato boccale per svolgere assieme la funzione di cattura e uccisione 95
della prede. L'innovazione consistette nel "dirottare" parte del sistema locomotorio (gli arti anteriori), che non svolgeva più funzione locomotoria, verso la funzione predatoria. Quella è stata, in estrema sintesi, la grande novità dei teropodi. Negli antenati dei dromeosauridi (i primi paraviani, da cui discendono anche gli uccelli) si ripeté un processo analogo, ma con un'ulteriore innovazione. Il "modello predatorio paraviano" comparve quando in una linea di dinosauri bipedi onnivori l'arto posteriore iniziò a "collaborare" con l'apparato boccale per svolgere assieme la funzione di cattura e uccisione della prede. Ciò spinse la specializzazione del secondo dito, che da organo per la camminata divenne un'arma per afferrare e uccidere prede (inizialmente di piccole dimensioni). Perché i paraviani (e poi gli stessi dromeosauridi) non ripeterono il processo avvenuto nei loro antichi antenati triassici, ovvero, perché non "tornarono" carnivori ripristinando il modulo "cranio-braccia"? Il motivo è che nei maniraptori onnivori, antenati dei paraviani, l'arto anteriore aveva perso parte delle caratteristiche tipiche del "modello predatorio teropode" . Il braccio dei maniraptori era relativamente allungato (quindi alquanto gracile, poco adatto a funzionare come una tenaglia per trattenere con forza una preda viva che si dibatte). Inoltre, nella mano dei maniraptoriformi le dita avevano perso la capacità di iper-estendere (ovvero, sollevarsi in modo da aumentare l'escursione degli artigli rispetto alla preda) tipica degli altri teropodi. Quelle caratteristiche erano presenti (e fondamentali) in tutti i predatori incontrari finora (in particolare, gli spinosauridi, gli allosauroidi e i megaraptori), poiché formavano il complesso anatomico della "tenaglia". La mano dei maniraptoromorfi, in generale, era più snella e allungata ma al tempo stesso portava dita più rigide e immobili di quelle degli altri teropodi, quindi meno adatte per agire come organo che possa collaborare nella cattura di grandi prede. Pertanto, quando i paraviani passarono da una dieta onnivora ad una più spiccatamente carnivora, il loro arto anteriore non aveva più tutti i requisiti per riprendere completamente la funzione predatoria perduta. Per compensare l'impossibilità di ripristinare completamente delle braccia con piena capacità predatoria, in questi teropodi si accumulò una serie di innovazioni a livello delle gambe: come conseguenza, il piede acquisì una funzione predatoria nuova, analoga a quella che aveva plasmato la mano nei primi teropodi. Se confrontiamo il piede di un dromeosauride "classico" (come Deinonychus) con la mano di un teropode ipercarnivoro "classico" (come 96
Allosaurus), notiamo delle interessanti similitudini. In entrambi, l'arto è relativamente corto ma robusto (i dromeosauridi non acquisirono mai l'arctometatarso: solo una forma incipiente era presente negli unenlagiini e nei microraptori, ma questo era del tutto assente negli eudromeosauri e negli halszkaraptorini), così da avere una maggiore resistenza alla torsione e alle forze di reazione prodotte contro il corpo della preda. In entrambi, solo tre dita sono funzionali (il primo, secondo e terzo nella mano di Allosaurus; il secondo, terzo e quarto nel piede di Deinonychus) ed in entrambi il dito più interno (il primo in Allosaurus, il secondo in Deinonychus) è il più corto, il più robusto, quello dotato della massima capacità di divaricare ed iperestendersi ed è quello che porta l'ungueale (e l'artiglio corneo corrispondente) più voluminoso e a forma di falce. In pratica, il secondo dito del piede dei dromeosauridi era una "replica" del primo dito della mano presente nei grandi teropodi capaci di una presa delle braccia "a tenaglia". Pertanto, i dromeosauridi acquisirono tutta una serie di innovazioni nella gamba e nella coda per migliorare l'agilità e la mobilità della gamba, e per permettere così ai due piedi di agire in modo simile alle mani dei grandi teropodi ipercarnivori, come uno strumento per trattenere, trafiggere ed impalare le prede. Questa funzione, in collaborazione con il cranio robusto e munito di denti seghettati, permise ai dromeosauridi (e in particolare, agli eudromeosauri) di occupare nicchie ecologiche simili a quelle tipiche della maggioranza degli altri teropodi carnivori. Dato che l'arto anteriore dei dromeosauridi era comunque dotato di una capacità di presa (seppure ridotta rispetto a quella dei tetanuri "classici") ed era armato di tre artigli falciformi, questi maniraptori svilupparono una forma estrema di predazione "alla teropode", in cui le mandibole erano coadiuvate non solo dalle mani, ma anche (e soprattutto) dai piedi. L'efficienza di questo modello "estremo" spiega la persistenza e relativa stabilità del piano anatomico degli eudromeosauri dalla metà del Cretacico Inferiore (120 milioni di anni fa) fino alla fine del Mesozoico. Vedremo nel prossimo capitolo che la serie di innovazioni nella gamba e nella coda, che permisero l'evoluzione di un'ecologia ipercarnivora nei dromeosauridi, permetteranno anche ad altri paraviani di occupare nicchie ecologiche del tutto nuove. Chiudo il capitolo sui dromeosauridi parlando di uno dei più celebri dibattiti legati a questi animali. Dibattito il cui seme iniziale fu piantato proprio da Ostrom, nel 1969. Un seme che, probabilmente, ha prodotto una controversia molto più grande e vistosa di quella che il 97
pacato paleontologo di Yale intendeva proporre quando lo lasciò cadere nel ricco humus intellettuale del "Rinascimento", a chiusura della celebre monografia su Deinonychus. Questa ultima si basa principalmente sui tre esemplari scoperti dal team di Ostrom nel 1964 in un singolo sito nel Montana. In un'area di circa 10 metri quadrati, il team di Ostrom rinvenne i resti di tre Deinonychus ed un ornitopode (poi battezzato da Ostrom col nome di Tenontosaurus). Questo ultimo è un dinosauro vegetariano lungo circa due volte Deinonychus, e pesante probabilmente cinque-sei volte più del dromeosauride. La presenza dei corpi di tre predatori della stessa specie associati a quello di una possibile preda spinse Ostrom a concludere il capitolo della monografia di Deinonychus dedicato a ricostruire l'ecologia e lo stile di vita di questo dinosauro, con una frase che, sebbene impostata col periodo ipotetico, e soppesata per non affermare più di quanto i fossili potevano dire, affermava che: "Le caratteristiche anatomiche di Deinonychus, ed in particolare gli adattamenti nel piede, sono quelle di un cacciatore di animali anche di dimensioni superiori alle sue. Questa supposizione non pare irragionevole, se consideriamo che più esemplari di questa specie sono stati rinvenuti assieme in una piccola area. Nel medesimo sito, oltre ai Deinonychus, si rinvengono solamente i resti di un omitopode grande almeno cinque-sei volte il teropode. La presenza di numerosi esemplari di questo ultimo suggerisce che Deinonychus potesse essere stato gregario e potesse cacciare in branco"(Ostrom, 1969).
La suggestione è legittima, quando i fatti si palesano così "ovviamente": abbiamo tre carnivori della stessa specie, anatomicamente adattati alla cattura di prede di grandi dimensioni, morti assieme ad una possibile preda di grandi dimensioni. Come non considerare questo sito la prova di una struttura sociale in Deinonychus? La legittima speculazione sulla possibile natura sociale di un predatore così particolare non poteva lasciare indifferenti i paleontologi del "Rinascimento Dinosauriano", soprattutto se a proporre tale ipotesi era il paleontologo universalmente riconosciuto come il "padre" di tale rinascimento, nonché un autore noto per non lasciarsi trascinare in scenari fantasiosi o eccessivamente speculativi. Supportata da tale autorevole paternità, l'ipotesi della caccia sociale dilagò nei trenta anni successivi, soprattutto grazie alla letteratura divulgativa, in cui questo concetto, da ipotesi di lavoro, fu rapidamente consacrato a "interpretazione standard" per Deinonychus ed i dromeosauridi. Il film "Jurassic Park", con i tre famelici "raptor" ricalcati proprio sui tre Deinonychus del sito di Ostrom, diffuse 98
questa immagine a livello mondiale, ben ol tre i confini della discussione tecnica. L'ipotesi che i teropodi avessero potuto cooperare nella cattura di prede più grandi di loro si diffuse anche in ambito accademico, e più autori citarono questa ipotesi in casi in cui più esemplari della stessa specie erano rinvenuti associati. La Scienza non è fondata sul principio di autorità. Per quanto autorevole possa essere un ricercatore, la sua parola non costituisce dogma, né tantomeno è considerato eretico o blasfemo metterla in discussione, soprattutto se l'autore stesso dell'ipotesi in questione non intende proporre tale scenario come una verità inattaccabile. All'inizio degli anni 2000, due autori, Roach e Brinkman, questo ultimo allievo di Ostrom, si proposero di analizzare in maniera rigorosa (e, a questo punto, dopo trenta anni di dilagante successo, anche con indole "distaccata") la robustezza e sostenibilità dell'ipotesi della caccia sociale, in particolare per i dromeosauridi. Parte delle argomentazioni sviluppate da quella revisione è stata presentata nell'ultimo capitolo del Primo Volume, a proposito della presunta socialità in Allosaurus ed in altri teropodi. Abbiamo visto che, una volta analizzati con rigore geologico e tafonomico (ovvero, indagando le condizioni geologiche ed ambientali che hanno permesso la preservazione di quei resti), i siti comprendenti più individui di una medesima specie di teropode tendano ad indicare aggregazioni non sociali avvenute in periodi di stress ambientale, durante i quali la serrata competizione per le risorse ridotte induce alla concentrazione degli animali nei medesimi siti e spinge anche al cannibalismo. Lo stesso risultato è applicabile al sito dei Deinonychus? Lo studio di Roach e Brinkman analizza la questione sia dal punto di vista biologico (confrontando i dromeosauridi con le specie viventi più simili dal punto di vista sia ecologico che evoluzionistico) che da quello geologico (ovvero, analizzando le caratteristiche geologiche dei ritrovamenti fossili, usando l'indagine tafonomica). In particolare, i due autori si soffermano proprio sulle "scene del crimine", e con approccio investigativo ne raccolgono i dati utili per ricostruime la dinamica. Ho usato il plurale (scene del crimine) perché i siti in questione sono due: oltre al celebre sito scoperto dal team di Ostrom negli anni '60, gli autori analizzano un secondo sito in cui sono presenti resti di Deinonychus e Tenontosaurus, scoperto in Oklahoma negli anni '90. Sono proprio le somiglianze e le differenze tra i due siti a fornire un primo indizio per la risoluzione della questione. Se nel primo sito abbiamo tre Deinonychus e un Tenontosaurus, nel secondo abbiamo numerosi Tenontosaurus (almeno 99
sei scheletri parziali, sia adulti che immaturi, con differenti gradi di preservazione) ed un solo Deinonychus. Già questa differenza ci manda due importanti messaggi: innanzi tutto, che è altamente improbabile che il secondo sito sia la testimonianza di una caccia sociale da parte di Deinonychus, dato che non è realistico pensare che una specie di predatore uccida così tanti esemplari della sua preda (consumandoli poi in modo parziale: come ho scritto sopra, alcuni esemplari di Tenontosaurus sono molto meglio preservati e completi di altri). Quindi, il secondo sito ci dice che la semplice associazione di ossa di Deinonychus e di Tenontosaurus nel medesimo scavo non è una prova sufficiente per dedurre che il teropode fosse un predatore sociale, ma che occorre valutare più opzioni. Quali possibili cause portarono all'accumulo di questi corpi, in ambo i siti? Nel primo sito, è interessante notare che sia gli scheletri dei tre teropodi che quello dell'ornitopode mostrano una medesima modalità di preservazione: buona parte dello scheletro è disarticolata (le ossa sono sparpagliate e separate) tranne quelle della coda e dei piedi. Un qualche agente (fisico o biologico) deve aver "discriminato" alcune parti del corpo rispetto ad altre in tutti gli scheletri del sito. Inoltre, oltre ai resti dei tre scheletri di Deinonychus, nel sito sono presenti più di una ventina di denti isolati (non inseriti nelle ossa originarie), attribuibili a quella specie di teropode. Questi denti non sono riferibili ai tre scheletri, dato che sono tutti "denti caduti", ovvero denti "anziani" ormai privi di radice e perduti dagli animali in vita. A differenza dei mammiferi, nei quali abbiamo solo due dentizioni (denti da latte e denti permanenti), i dinosauri avevano più dentizioni successive, ovvero sostituivano i denti vecchi con denti nuovi per tutto l'arco della loro vita. I denti non cadevano tutti assieme (altrimenti, l'animale sarebbe rimasto senza denti, morendo di fame), ma in serie "programmate", che permettevano all'animale di avere in bocca sempre un numero adeguato di denti funzionanti. I denti "caduti" quindi sono niente altro che denti "anziani" che si staccano naturalmente dalla bocca, spinti dal dente giovane sottostante che sta spuntando. Sebbene i denti "vecchi" prossimi alla sostituzione possano cadere dalla bocca in qualsiasi momento lungo l'arco della giornata, il momento del pasto è quello più favorevole al loro distacco, proprio perché le forze generate dal morso contro il cibo aumentano la probabilità che il dente, la cui radice è stata ormai riassorbita nella gengiva, si stacchi e cada. Non stupisce, pertanto, che i denti "staccati" dei teropodi tendano ad essere trovati in associazione ai resti dei loro pasti. Tornando al sito di Ostrom, un numero così alto di denti "caduti" 1 00
rinvenuti nello scavo non può essersi staccato simultaneamente da solo tre animali (come ho scritto sopra, un teropode che perda così tanti denti in una sola volta avrebbe avuto grosse difficoltà a nutrirsi prima che i nuovi denti in eruzione raggiungano la lunghezza idonea per funzionare), ed implica la presenza sul luogo di molti altri Deinonychus al momento della formazione del sito: per lasciare sul terreno quel numero di denti, si stima che almeno una ulteriore decina di Deinonychus fosse presente al banchetto. Dettaglio fondamentale, i denti "caduti" non si rinvengono solamente associati alle ossa del Tenontosaurus, ma anche associati alle ossa dei tre Deinonychus: anche questi ultimi furono parte del banchetto. Questo risultato non deve stupire. Se ricordate la discussione in merito alla socialità in Allosaurus, abbiamo rimarcato che il cannibalismo sia un comportamento diffuso nei rettili carnivori, soprattutto in condizioni di stress ambientale. I dati, quindi, portano verso una interpretazione simile a quella svolta per Allosaurus e gli altri assemblaggi di più individui di teropodi, discussi nel precedente volume. L'ipotesi della caccia sociale non spiega ugualmente bene le prove qui accumulate. Infine, una ulteriore scoperta, sempre dal primo sito, conferma senza appello l'ipotesi che questi teropodi non fossero un gruppo sociale coordinato, bensì una aggregazione "anarchica" di individui in competizione tra loro, forse più simile ad un banco di pesci pirana che ad una muta coordinata di licaoni: in una delle tre code di Deinonychus presenti nel sito è stato rinvenuto un ungueale della mano di un altro Deinonychus letteralmente conficcato dentro l'astuccio di tendini che avvolveva le ossa (lo si deduce dall'impronta dei lunghi tendini della coda, tipici dei dromeosauridi, che avvolgono ambo i lati dell'ungueale). L'artiglio della mano di un Deinonychus era rimasto conficcato nella coda di uno degli altri Deinonychus, ed era stato strappato via dal resto della mano del suo proprietario. L'unica interpretazione plausibile di questa scoperta è che i due animali fossero nel pieno di una feroce lotta, uno contro l'altro, a ridosso del corpo del Tenontosaurus. La scoperta, oltre a evidenziare l'estrema ferocia dei dromeosauridi nei si ti dove banchettavano, esclude quindi una qualche forma di interazione solidale in questi animali, dato che nei gruppi sociali le competizioni o la gerarchia vengono risolte con comportamenti molto meno cruenti e spesso ritualizzati, che minimizzano la scontro fisico: qui ci troviamo in una situazione opposta, di estremo agonismo competitivo e di evidente cannibalismo. L'ipotesi che i quattro corpi furono consumati da almeno una 101
decina di Deinonychus spiega bene come mai siano tutti disarticolati allo stesso modo, e come mai piedi e code siano le parti meglio conservate: quelle sono le parti del corpo meno ricche di carne. Nel caso della coda, in ambo le specie essa era rivestita da una fascia fibrosa di tendini, sicuramente meno appetibile del resto del corpo: le code non furono quindi spolpate né disarticolate dai carnivori, che si concentrarono sulle altre parti delle carcasse, più appetibili. Anche il secondo sito conferma questo scenario: sia lo scheletro del singolo Deinonychus che quelli dei Tenontosaurus sono associati a numerosi denti "caduti" di Deinonychus, a conferma che anche in questo caso, i corpi lì preservati furono consumati da decine di dromeosauridi. La ricostruzione ambientale di ambo i siti indica un clima arido, e la preservazione di numerosi corpi di Tenontosaurus nel secondo sito suggerisce che questi luoghi fossero anse di fiumi in secca, pozze in prosciugamento dove si concentravano gli animali vittime di una stagione particolarmente arida. L'ipotesi più plausibile, alla luce di tutte le prove raccolte, è che questi siti documentino da un lato un comportamento individualistico e territoriale per Deinonychus, simile a quello dei grandi varani dell'isola di Komodo, ma anche analogo a quello di molti uccelli saprofagi moderni, come avvoltoi e grifoni, che aggregano in gran numero sulle carcasse e lottano ferocemente tra loro per avere la priorità sul banchetto. Dobbiamo quindi immaginare che i Deinonychus, soprattutto durante i momenti di maggiore siccità, si concentrassero in massa in questi siti ricchi di carcasse, e che lottassero tra loro qualora il numero di dromeosauridi presenti fosse molto superiore alla disponibilità di cibo (col risultato che anche i Deinonychus eventualmente uccisi nella calca erano poi mangiati dagli altri): ciò potrebbe spiegare la presenza di tre dromeosauridi morti nel sito con il solo Tenontosaurus (la minor presenza di carne induceva una maggiore ferocia tra i carnivori), mentre nel sito con numerosi ornitopodi solo un teropode fu ucciso nella calca (la maggiore disponibilità di carne attenuava la ferocia tra i carnivori). Recentemente, uno studio basato sugli isotopi dell'ossigeno estratti dai denti fossili di Deinonychus ha confermato lo scenario "individualistico" e "asociale" per questo dinosauro (e, in generale, per tutti i teropodi mesozoici) che era emerso dalle analisi paleontologiche e tafonomiche "tradizionali" . Le analisi isotopiche nei fossili permettono di identificare differenze geochimiche riconducibili alla dieta e all'ecologia dell'animale fossilizzato. Il principio si basa sul diverso comportamento fisico dei vari isotopi di un medesimo elemento chimico, in questo caso, 1 02
gli isotopi dell'ossigeno presenti nei carbonati che costituiscono parte dei denti fossili. Queste differenze di comportamento fisico tra isotopi sono influenzate dal comportamento alimentare e dall'ecologia dell'animale in vita, e si accumulano nella struttura del dente, preservandosi poi nel fossile. Studi sugli animali attuali mostrano che la dieta incide sulle differenze isotopiche: ad esempio, i giovani animali che sono nutriti dai genitori tendono ad avere un segnale isotopico molto simile a quello degli adulti (dato che si nutrono dalle medesime fonti alimentari), mentre negli animali in cui le cure parentali sono ridotte, ed i giovani sono autonomi ed indipendenti dagli adulti per la sopravvivenza, si osservano significative differenze isotopiche tra giovani e adulti. Le analisi isotopiche sui denti di Deinonychus mostrano una marcata differenza nei valori tra giovani e adulti, una differenza simile a quella che osserviamo nelle popolazioni di rettili moderni in cui gli adulti si nutrono di prede differenti rispetto a quelle consumate dai giovani, e questi ultimi non sono nutriti dai genitori. Questo risultato non corrisponde a quello che si ottiene analizzando i mammiferi (in cui allattamento e cure parentali molto intense - comprendenti la nutrizione della prole - tendono ad "allineare" il segnale isotopico dei giovani a quello dei genitori), e ciò conferma che Deinonychus fosse segregato in classi di età, e che quindi non ci fossero cure parentali né condivisione del cibo tra giovani e adulti. Mancando cure parentali particolarmente complesse, viene meno la coesione familiare che è alla base delle strutture sociali più avanzate: pertanto, mancando gruppi familiari in cui diverse generazioni collaborano, è molto improbabile che questo dinosauro abbia evoluto una qualche forma di socialità in grado di produrre altrettanto complesse interazioni di caccia coordinata. Questo risultato conferma quindi uno stile di vita "da varano" piuttosto che "da lupo" per i dromeosauridi. Sebbene l'immagine di Deinonychus come cacciatore gregario dalla complessa struttura sociale, analogo ai lupi moderni, sia divenuta un'icona popolare negli anni del "Rinascimento" dei dinosauri, l'analisi rigorosa delle prove geologiche e biologiche di questi siti indica spiegazioni alternative, molto più plausibili poiché ampiamente supportate sia dalle evidenze fossili dirette sia dal comportamento che ancora oggi osserviamo nei rettili e negli uccelli carnivori. Forse, più di un lettore sarà rimasto deluso dalla conclusione che il comportamento di Deinonychus fosse più simile a quello di un avvoltoio o di un varano rispetto a quello di animali "più blasonati" quali lupi e leoni. La Natura non si conforma ai nostri canoni estetici né alle nostre categorie etiche. Per 1 03
quanto possano apparirci ignobili, un mangiatore di carogne ed un individualista con tendenza cannibale sono ruoli perfettamente legittimi e validi sul piano biologico. Aldilà di valutazioni "di gusto", spero che tutti abbiano apprezzato la logica ed il metodo con cui la paleontologia, analizzando con rigore tutte le prove, sia geologiche che biologiche, abbia permesso di fare luce sulla spietata competizione intraspecifica che regolava la vita di questi efficienti maniraptori carnivori mesozoici. Riassumendo, il più recente antenato comune di uccelli e dromeosauridi era un paraviano vissuto nel Giurassico Medio. Bipede di dimensioni ridotte (lungo circa un metro) e ricoperto da un complesso piumaggio comprendente penne remiganti e timoniere, aveva acquisito modifiche nella gamba che permettevano a questo predatore opportunista di insetti e piccoli vertebrati di usare il secondo dito del piede come arma per la cattura delle prede.
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Capitolo sesto Minimalismo giurassico
AV E RA PTO RA
AV I A LA E
I troodontidi sono paraviani enigmatici, le cui caratteristiche sono condivise in parte con i dromeosauridi in parte con gli uccelli. Le specie più antiche di questo gruppo probabilmente ci illustrano più delle successive l'anatomia generale da cui discendono tutti i paraviani. (Ricostruzione in vivo del troodontide Sinovenator, basata su una ricostruzione scheletrica realizzata da Marco Auditore, 2019).
N egli anni immediatamente successivi alla pubblicazione de "L'Origine delle Specie" di C.R. Darwin, anche ispirati dal concetto di discendenza comune introdotto così efficacemente in quell'opera, alcuni paleontologi e naturalisti discussero varie ipotesi sulla discendenza degli uccelli dai rettili. La scoperta, un paio di anni dopo il volume di Darwin, del primo scheletro di Archaeopteryx catalizzò parte delle attenzioni di questi studiosi proprio su quel fossile. Eppure, esso non fu universalmente ed unanimamente riconosciuto come forma di tranzione tra rettili e uccelli. Rivisto dalla nostra prospettiva, il panorama delle ipotesi proposte nella seconda metà del XIX secolo è quanto mai variegato e divergente, ed in alcuni casi ha ispirato (più o meno direttamente) anche il dibattito che rifiorirà un secolo dopo. Il più famoso tra i primi promotori di un legame tra uccelli e dinosauri, sebbene non il primo, fu T.H. Huxley. Il contributo di Huxley alla discussione sull'origine degli uccelli è stato in parte frainteso. Sebbene egli sia spesso citato come promotore di un'origine dinosauriana degli uccelli, il principale obiettivo di Huxley non fu di stabilire dove si collocassero gli uccelli all'interno del grande albero dei rettili, bensì di stabilire a quale gruppo moderno i dinosauri fossero più affini. Huxley concluse che tra tutti gli animali odierni, gli uccelli, più 1 05
degli (altri) rettili, fossero quelli con la maggiore affinità con i dinosauri, e che i due gruppi (dinosauri e uccelli) formassero un ramo peculiare dei rettili. Va rimarcato che nella visione di Huxley, dinosauri ed uccelli erano visti come membri di un ceppo comune, ma non necessariamente gli uni i precursori degli altri. A conferma del generale fraintendimento moderno di molte ipotesi ottocentesche, sebbene oggi Archaeopteryx sia universalmente citato quale "anello di congiunzione" tra rettili e uccelli, quando Huxley menzionò quel "singolo fossile" dai livelli giurassici bavaresi quale miglior prova della transizione dai rettili agli uccelli, non si riferiva ad Archaeopteryx (che egli ben conosceva grazie al primo scheletro conservato a Londra), bensì a Compsognathus. Per il naturalista inglese, era questo secondo fossile a rappresentare il più significativo "anello di congiunzione" tra rettili e uccelli, mentre Archaeopteryx, per quanto eccezionale, era visto come "già uccello", e quindi aveva solo il merito di mostrare che gli uccelli primitivi conservavano ancora delle caratteristiche rettiliane. Il dibattito sul legame tra uccelli e dinosauri cambiò impostazione generale quando, intorno al 1870-1890, il darwinismo perse i favori della maggioranza dei paleontologi. Tra la fine del XIX e i primi venti anni del XX secolo, le teorie evoluzionistiche più affermate tra gli studiosi dei fossili non davano un particolare ruolo ed importanza alla selezione naturale ed alla discendenza comune (elementi chiave della teoria darwiniana), bensì ritenevano che la storia evolutiva dei diversi gruppi fosse il prodotto di forze interne agli esseri viventi, spinte intrinseche di natura quasi meccanica, slegate dall'influenza dell'ambiente, soggette a "leggi" deducibili dall'analisi dello sviluppo embrionale. Le più famose "leggi evoluzionistiche" sviluppate in quel periodo comprendono la "legge biogenetica fondamentale", secondo la quale la storia evolutiva di una specie è deducibile dalla sequenza di fasi del suo sviluppo embrionale; la "legge di Cope" sull'aumento progressivo delle dimensioni lungo la storia evolutiva di un gruppo; la legge della "non specializzazione degli antenati" (secondo cui l'antenato di un nuovo gruppo deve essere una forma "generalista" e non particolarmente specializzata); e la "legge di Dolio" sulla irreversibilità dei caratteri, ovvero, sulla impossibilità che una struttura anatomica andata perduta durante l'evoluzione possa evolvere nuovamente. Vista sotto questa nuova prospettiva teorica, l'ipotesi che gli uccelli avessero un qualche legame diretto con i dinosauri fu considerata molto poco plausibile. In primo luogo, perché ammettere i dinosauri come antenati degli uccelli 1 06
avrebbe violato la "legge di Cope" in quanto avrebbe richiesto che i discendenti fossero più piccoli dei loro antenati (a quel tempo, i dinosauri di piccole dimensioni scoperti erano molto pochi, e si assumeva che il gruppo fosse composto sostanzialmente da giganti). Inoltre, dato che i dinosauri allora noti erano tutti dotati di innumerevoli specializzazioni e adattamenti peculiari, e nessuno pareva sufficientemente "non specializzato", ammettere la discendenza degli uccelli dai dinosauri avrebbe violato la legge della "non specializzazione degli antenati". Infine, i dinosauri parevano aver perduto una serie di ossa dal loro scheletro, ossa che sono invece ancora presenti negli uccelli, e ciò, ammettendo la discendenza dei secondi dai primi, andava contro la "Legge di Dolio" . In particolare, si riteneva - erroneamente - che nei dinosauri le clavicole (coppia di ossa poste nella zona pettorale) fossero scomparse all'inizio della loro evoluzione: la presenza di clavicole negli uccelli (fuse assieme per formare la furcula, vedere il Primo Volume) quindi imponeva che essi discendessero da animali che non avevano mai perduto tali ossa durante la loro evoluzione. Ciò escludeva i dinosauri dalla lista dei precursori degli uccelli (oggi sappiamo che i dinosauri possedevano le clavicole, e che esse non andarono perdute durante la loro evoluzione: quindi quella obiezione era errata, a prescindere dalla validità della "Legge di Dolio"). Tra gli anni '20 e '40 del XX secolo, una serie di studi sia in biologia che paleontologia demolì progressivamente la validità delle "leggi evoluzionistiche" sviluppate nei decenni precedenti. Il darwinismo tornò ad essere il modello fondamentale per interpretare la storia dei fossili, anche grazie all'integrazione delle nuove scoperte nel campo della genetica. In particolare, emerse sempre più chiara l'idea che l'evoluzione possa includere "reversioni", il ritorno a condizioni precedenti, e che la storia evolutiva sia pertanto molto più eterogenea e complessa di quanto deducibile osservando la sequenza lineare di (presunti) stadi percorsi dagli embrioni durante il loro sviluppo. Uno dei concetti biologici più innovativi introdotti in quel periodo fu l'idea che la comparsa di innovazioni (indotte da mutazioni del materiale genetico ereditato dai genitori) non interessi soltanto gli individui adulti, ma possa avvenire in qualsiasi momento della vita di un individuo, compresi gli stadi embrionali, larvali o giovanili. L'idea che una innovazione avvenuta a livello della vita embrionale o giovanile possa imprimere una nuova direzione all'evoluzione era rivoluzionaria, poiché implicava che caratteristiche "transitorie", tipiche solamente degli 1 07
stadi immaturi, potessero risultare "vincenti" evolutivamente e quindi dare una direzione al cambiamento evolutivo altrimenti irrealizzabile se questo agisse solamente a livello di stadio adulto. Questo concetto diede il colpo di grazia alle idee sulla rigida linearità dell'evoluzione che aveva per decenni affascinato e influenzato il lavoro dei paleontologi a cavallo dei due secoli. Nel Primo Volume, abbiamo visto come la storia evolutiva dei primi pan-aviani (i primissimi precursori di tutti i dinosauri, vissuti all'inizio del Triassico) fosse comprensibile grazie al concetto della pedomorfosi, ovvero, l'evoluzione negli adulti delle specie discendenti di caratteristiche prima presenti solo negli stadi giovanili. Il concetto di pedomorfosi è figlio della rivoluzione concettuale avvenuta tra gli anni '20 e '40 del secolo scorso. Una delle cause che possono spingere la pedomorfosi è il raggiugimento della maturità riproduttiva prima del completamento della maturità fisica, che a sua volta ha anche come effetto la riduzione delle dimensioni corporee nelle nuove specie. Un simile scenario sarebbe stato impensabile ai tempi della "Legge di Cope", che imponeva alle specie di evolvere solamente in direzione di un aumento delle dimensioni. Se riguardiamo la serie dei vari antenati comuni condivisi dagli uccelli con i differenti gruppi di celurosauri incontrati nei precedenti capitoli, noteremo che dalla comparsa dei primi tetanuri, all'inizio del Giurassico Inferiore (200 milioni di anni fa: ultimo capitolo del precedente volume), fino alla comparsa dei primi paraviani, nel Giurassico Medio (175 milioni di anni fa), le dimensioni corporee ad ogni stadio siano sempre inferiori alle precedenti: si passa da animali lunghi tre-quattro metri, ad animali lunghi meno di un metro. Si tratta quindi di una miniaturizzazione consistente (con riduzione della massa corporea di 50100 volte), che ha portato questi maniraptori a differenziarsi marcatamente dal modello ecologico che era stato plasmato dalla "corsa agli armamenti" . La progressiva miniaturizzazione di questi teropodi, difatti, ha "riportato indietro" alcune caratteristiche che erano andate perdute negli altri teropodi durante la fase di aumento delle dimensioni, ed al tempo stesso ha permesso l'acquisizione di alcune novità anatomiche difficilmente realizzabili con un'anatomia di dimensioni maggiori. Abbiamo visto che la miniaturizzazione avvenuta all'inizio della storia dei dinosauromorfi (descritta nel Primo Volume) consentì una serie di modifiche e innovazioni nell'apparato locomotorio che portarono alla 1 08
postura eretta e bipede. Anche il processo di miniaturizzazione che caratterizza la linea di celurosauri e che conduce ai paraviani interessò l'apparato locomotorio. Già nei primissimi paraviani, compresi gli antenati dei dromeosauridi (capitolo precedente), la riduzione del peso corporeo sgravò parte della muscolatura della coda e della gamba dall'onere di sostenere e spingere il corpo. Questi muscoli si ridussero di massa e potenza, ma acquisirono maggiore rapidità, e furono specializzati per permettere alla gamba ed al piede di muovere con maggiore agilità e indipendenza uno dall'altro. Ciò consentì la specializzazione del piede in un organo (anche) per la cattura e manipolazione della preda, preludio della trasformazione di questi arti in armi per abbattere grandi prede, come abbiamo visto negli eudromeosauri. Altri paraviani, pur dotati di queste modifiche nella coda e nella gamba, non presero la strada della ipercarnivorìa. Un gruppo rimase sostanzialmente di dimensioni molto piccole, per gli standard dei dinosauri, con animali adulti lunghi meno di un metro e pesanti al massimo un paio di kilogrammi. Il gruppo più longevo e diversificato (a parte gli uccelli stessi) furono i troodontidi. In particolare, le specie più antiche, risalenti alla fine del Giurassico e all'inizio del Cretacico (150-130 milioni di anni fa) meglio delle forme successive ci mostrano una anatomia e morfologia molto prossima a quella dell'antenato comune condiviso da tutti i paraviani. Questi piccoli ed agili maniraptori mostrano una dentatura adatta alla dieta insettivora, ed un cranio che ricorda molto quello dei giovani degli altri gruppi di dinosauri: in rapporto alle dimensioni corporee, difatti, sia il cervello che le orbite sono più ampi, mentre il muso è più gracile e delicato. Queste proporzioni "immature" sono proprio una conseguenza della miniaturizzazione. Inoltre, rispetto alla maggioranza degli altri teropodi, le differenze di proporzioni tra gli arti anteriori e posteriori si fanno meno marcate: l'arto anteriore è ora molto affusolato, ed è lungo quasi quanto la gamba. Sebbene a prima vista alquanto "ingombranti" rispetto alle braccia tipiche dei dinosauri bipedi (nei quali il braccio tende ad essere più corto e robusto), le innovazioni a livello della spalla e del polso, realizzata già all'inizio della storia dei maniraptori, permettevano a queste lunghe braccia di essere "raccolte", e chiuse ai lati del torace, quando non erano utilizzate per trattenere qualche oggetto. Munite di lunghe penne remiganti, sia sulla mano che sull'avambraccio, queste affusolate appendici richiudibili sono praticamente indistinguibili dalle ali degli uccelli di oggi, se non fosse che portavano dita ben funzionanti armate di 1 09
artigli a falce e non fornivano una spinta ascensionale. Fossili spettacolari, conservati in livelli di ceneri vulcaniche finissime, hanno preservato alcuni di questi corpi in posizione di morte. L'animale è rannicchiato su sé stesso, con la testa ed il collo appoggiati sotto una delle due braccia, e la coda che si piega in avanti e di lato e scorre sotto l'altro braccio. L'animale è accucciato, in una posizione molto simile a quella che assumono gli uccelli quando dormono. Le penne remiganti e quelle timoniere fungevano quindi da "coperta" per l'animale, quando esso si rannicchiava o dormiva. Non sappiamo se gli animali in questione furono sepolti dalla cenere mentre dormivano, o piuttosto assunsero tale postura difensiva per proteggersi dalla cenere: in ambo i casi questi fossili documentano la comparsa di un comportamento del tutto identico ad uno tipico degli uccelli moderni già nei primi paraviani giurassici. Una postura rannicchiata e accucciata permette all'animale di ridurre la dispersione del calore, e il rivestimento di piume e lunghe penne crea un cuscinetto d'aria che isola il corpo dal freddo: questi adattamenti risultarono particolarmente importanti per i piccoli paraviani, la cui morfologia ora così minuscola ed affusolata avrebbe sicuramente favorito una eccessiva dispersione del calore. Il piumaggio più elaborato e nuovi modelli di comportamento furono quindi selezionati in questa fase per far fronte agli svantaggi termici delle ridotte dimensioni corporee. Un vantaggio dell'essere più piccoli e relativamente più agili rispetto alla maggioranza degli altri dinosauri è quello di poter sfruttare nicchie che fino a quel momento i dinosauri (almeno allo stadio adulto) non avevano occupato frequentemente. Ad esempio, il livello più fitto del sottobosco e l'interno delle cavità degli alberi, dove abbondano invertebrati, lucertole e piccoli mammiferi. Sebbene ancora marginalmente, questi animali si avventurano sempre più intorno, alla base e anche sopra gli alberi. L'agilità nel manipolare le prede anche con le zampe posteriori, acquisita dai primi paraviani, conferisce difatti anche una maggiore agilità a questi animali bipedi nel rischioso mondo delle fronde arboree, nel quale la raffinatezza nel saper posare il piede nel punto giusto del ramo può fare la differenza tra restare in vita o precipitare al suolo. Sebbene ancora impercettibilmente, nei piccoli paraviani giurassici una serie di fattori anatomici e comportamentali inizia a selezionare questi animali per renderli sempre più a loro agio in una dimensione dello spazio che fino a quel momento non aveva inciso molto sulla loro evoluzione: la verticalità.
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Riassumendo, il più recente antenato comune di uccelli e troodontidi era un averaptoro vissuto alla fine del Giurassico Medio. Bipede di dimensioni ridotte (lungo meno di un metro) aveva un cranio che nell'adulto conservava molti dei caratteri giovanili della maggioranza degli altri teropodi, come orbite e volume cerebrale relativamente ampi rispetto alla dimensione della testa. I denti erano privi di seghettature ed il muso era gracile e poco allungato. Gli arti anteriori erano lunghi quasi quanto la gamba e snelli, dotati di tre dita sottili e affusolate che terminavano in artigli falciformi. Il piede presentava il secondo dito specializzato tipico dei paraviani, sebbene non di dimensioni comparabili a quelle dei dromeosauridi. La sua dieta era generalista, prevalentemente insettivora e comprendente piccoli vertebrati.
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Capitolo settimo
Ala [sic] iacta est
AV I A LA E
PYG O STY l i A Gli avialiani sono paraviani caratterizzati d a un inusuale allungamento ed irrobustimento delle braccia rispetto alla condizione tipica dei maniraptori. Sebbene le loro braccia siano sovente chiamate "ali" in quanto portate dai precursori degli uccelli, la causa adattativa del loro allungamento potrebbe non essere direttamente legata ad una funzione nel volo. (Ricostruzione in vivo dell'anchiomitide Anchiornis, e dello jeholomitide Jeholornis, entrambe basate su ricostruzioni scheletriche di Scott Hartman, 2003 e 2018).
I l Rubicone è un torrente della Romagna che scorre per una ottantina di chilometri prima di sfociare in Adriatico. Il suo nome sarebbe ignoto alla maggioranza dell'umanità se esso non fosse associato ad un celebre episodio della storia romana, narrato anche da Svetonio. Al tempo di Caio Giulio Cesare, il torrente definiva parte del confine tra l'Italia romana e la Gallia Cispadana, e come tale costituiva un punto di non-ritorno per chi, come il celebre generale romano, fosse stato intenzionato a superarlo in armi, alla testa di un esercito, diretto verso Roma. Da allora, il "passaggio del Rubicone" implica una transizione irrevocabile, un momento di svolta, il manifestarsi di cambiamenti epocali. Nei fatti, il Rubicone è solamente un corso d'acqua a regime torrentizio, il cui alveo nei secoli è cambiato e mutato, al punto che gli storici non concordano se esso sia effettivamente il vero confine attraversato da Cesare. Ed anche qualora sia identificato con sicurezza il punto preciso in cui - prestando fede a Svetonio - il generale romano pronunciò la celebre espressione sui dadi, è fuori di discussione che non fu in quel luogo ed istante che la Storia 1 12
compì la svolta che portò la Repubblica Romana verso la sua fine. I processi storici non sono mai decisi da singoli momenti drammatici o da colpi di scena, ed il loro dispiegarsi si diluisce e intreccia secondo complesse dinamiche non riducibili a pezzi teatrali. Nondimeno, il passaggio del Rubicone, in quanto "colpo di scena", ha un impatto e rimane nella memoria molto più vividamente della innumerevole serie di fenomeni - ben più importanti e significativi - che lo hanno reso possibile. La narrazione popolare sull'evoluzione della Vita è ricca di "passaggi del Rubicone", momenti di svolta che sanciscono una transizione epocale. Sono rappresentazioni stereotipate di eventi che, al pari del passaggio del torrente romagnolo, cristallizzano una cesura irreversibile con il passato, una cesura che è fittizia, poiché sovraccarica di importanza a discapito della piena comprensione dei complessi processi che hanno condotto a quel momento e che hanno continuato ad operare anche dopo tale punto del tempo. Non è forse un "Rubicone" il primo pesce che esce dall'acqua, l'impavido terranauta devoniano che conquistò l'asciutto? Non è forse un "Rubicone" la prima scimmia che scende dall'albero, l'eroica esploratrice della savana che si sollevò sulle sole gambe (con sottofondo di R. Strauss)? Non è forse un "Rubicone" il primo uccello giurassico che si libra in esplorazione del cielo? Non occorre rimarcare che quelle particolari scene non siano mai avvenute. Esse sono icone, costruzioni narrative. Nessun animale (sia individuo che specie) è un attore che si presta a recitare una scena madre nel Teatro della Vita. La gradualità e complessità dei processi è tale che ognuno dei tre fenomeni menzionati sopra (l'origine dei tetrapodi, l'origine degli ominidi, l'origine degli uccelli) coinvolse innumerevoli specie, in svariati contesti, e sotto i più disparati ambiti ecologici, dispiegati in archi di tempo di milioni di anni . Ridurre queste lunghe transizioni evolutive ad un singolo "atto", al pari dell'attraversamento di un confine, è quindi una (enorme) semplificazione prodotta dalla nostra mente. Nel caso particolare della transizione che ha portato agli uccelli, la Storia (quella umana, non quella naturale) ha contribuito a rinforzare lo stereotipo ed a consolidare l'icona: per oltre centotrenta anni, difatti, i paleontologi hanno avuto a disposizione solamente una manciata di fossili che documentassero la complessa transizione dalla biologia rettiliana a quella aviana, fossili tutti provenienti dalla medesima collocazione stratigrafica (alcuni livelli tardo-giurassici bavaresi) e tutti 1 13
quasi all'unanimità riferiti al medesimo genere, Archaeopteryx. Caricato di un enorme fardello evoluzionistico, con l'onere di fornire le uniche informazioni paleontologiche relative al passaggio dai rettili arcosauri del Triassico agli uccelli moderni, Archaeopteryx è stato per oltre un secolo il fulcro di qualsiasi narrazione su come si originarono sia il piumaggio che il volo aviano. Proclamato "primo degli uccelli", Archaeopteryx è stato quindi consacrato a "Rubicone" del passaggio dai rettili agli uccelli. Tutto ciò che è "prima" di Archaeopteryx (prima del primo uccello) era quindi, implicitamente, un "non-uccello", ovvero un rettile, e tutto ciò che è "dopo" Archaeopteryx risultava automaticamente "aviano", ornitologico. Questa arbitraria divisione del processo storico naturale - figlia unicamente delle contingenze con cui la paleontologia ha progredito in modo eterogeneo negli ultimi 130 anni ha contribuito a trasfigurare quel particolare momento del continuum evolutivo, elevandolo a "punto di svolta", sovraccaricandolo di connotazioni e significati che, oggi ne abbiamo le prove, tale momento non possedeva. Oggi, Archaeopteryx conserva in pieno il suo valore storico e culturale, mentre il suo significato evoluzionistico e paleontologico sono stati - giustamente - ridimensionati e ricondotti a ciò che esso era nel Giurassico Superiore, quando visse: uno tra gli innumerevoli paraviani comparsi nel pieno della grande radiazione adattativa dei maniraptori. Per questo motivo, per ricondurre Archaeopteryx al suo giusto grado di primus inter pares tra i paraviani, ho evitato di includere una sua ricostruzione nell'immagine che apre il capitolo, per dedicarla ad altri membri della medesima linea evolutiva, figli della Rivoluzione Piumata, ugualmente significativi sebbene meno iconici del celebre " Urvogel" bavarese. Il ramo dei paraviani che comprende Archaeopteryx e gli uccelli moderni prende il nome di Avialae, nome che fa riferimento alla trasformazione dell'arto anteriore in un organo per il volo, in ala. Il nome è in parte fuorviante, poiché se da un lato non ci sono dubbi che un sottogruppo di Avialae (che incontreremo in un prossimo capitolo) aveva l'arto anteriore pienamente adatto al volo, non è chiaro se e quanto questo adattamento fosse già realizzato nei primi avialiani, tra cui lo stesso Archaeopteryx. L'origine e l'evoluzione del volo, che avviene sicuramente in seno ad Avialae, è difatti un processo distinto dall'origine ed evoluzione degli avialiani (i membri di Avialae). I primissimi avialiani conosciuti, risalenti al Giurassico Superiore, sono praticamente indistinguibili dai primi rappresentanti degli altri rami -
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paraviani, in particolare i troodontidi (vedere capitolo precedente), al punto che è dibattuto se essi siano, effettivamente, uccelli oppure troodontidi. Tra i più antichi avialiani, i meglio conosciuti sono gli anchiornitidi, un gruppo identificato solamente una decina di anni fa, da livelli cinesi risalenti all'inizio del Giurassico Superiore. Recentemente, uno degli esemplari di Archaeopteryx, "l'esemplare di Haarlem" (vedere il prologo di questo volume), è stato "rimosso" dal genere Archaeopteryx: ribattezzato Ostromia (in onore di J.H. Ostrom), e classificato come un possibile anchiomitide. Gli anchiomitidi ci mostrano quella che, probabilmente, è l'anatomia generale dalla quale sono derivati sia gli uccelli che i troodontidi, più alcuni elementi che saranno poi più diffusi ed elaborati nei successivi avialiani del Cretacico. Teropodi molto piccoli (lunghi circa mezzo metro) e delle proporzioni affusolate, gli anchiornitidi hanno un cranio privo di particolari specializzazioni alimentari: i denti, senza seghettature e lievemente incurvati, suggeriscono una dieta insettivora. L'arto anteriore è lungo quanto il posteriore, con la mano particolarmente allungata (sebbene di proporzioni simili a quelle di altri paraviani). Una particolarità di questi teropodi è la ridotta dimensione di un osso del bacino, l'ischio, osso che forma la parte posteriore del cinto pelvico: la riduzione nelle dimensioni di questo osso implica che i muscoli locomotori che si inserivano sulla sua superficie erano meno sviluppati rispetto alla "condizione classica" dei teropodi, ed erano migrati verso l'interno della coscia, alla base della coda. Anche la coda è molto sottile e affusolata: come nel caso dell'ischia, i muscoli deputati al movimento della coscia, che si originavano proprio ai lati delle prime 5-10 ossa delle coda e si collegavano alla gamba, erano quindi ridotti rispetto alla condizione tipica dei maniraptori. Queste modifiche nella muscolatura preposta al movimento della gamba, muscoli che fornivano la spinta del passo e collaboravano al mantenimento della postura eretta, è inusuale per un teropode. Abbiamo visto nel primo volume come l'origine del bipedismo eretto nei dinosauri abbia richiesto una serie di modifiche ed innovazioni a livello del bacino e della gamba. Per tutta la storia che abbiamo percorso finora, il principale "motore" che generava la spinta per la locomozione bipede in tutti questi animali è stato il fascio di muscoli che dalla base della coda si connettava alla coscia. Ora abbiamo un gruppo di piccoli teropodi che mostra una significativa riduzione proprio nei muscoli che più hanno spinto in avanti il successo dei dinosauri. Parte della riduzione è probabilmente legata alle ridotte dimensioni corporee: per le medesime leggi fisiche che 1 15
imponevano un grande aumento della muscolatura durante l'evoluzione del gigantismo, una riduzione delle dimensioni permette un significativo "risparmio" nella massa muscolare, dato che animali più piccoli richiedono, in proporzione, una percentuale di massa muscolare molto minore. Tuttavia, queste motivazioni "geometriche" da sole non spiegano le modifiche che osserviamo in questi piccoli paraviani, dato che non osserviamo riduzioni altrettanto drammatiche dei muscoli in altre parti del corpo di questi animali. Una possibile spiegazione è legata ad un qualche cambiamento nello stile di vita: possiamo ipotizzare che questi piccoli teropodi non avessero le medesime necessità locomotorie della maggioranza degli altri dinosauri, e che ciò "permise" (o agevolò) una riduzione del loro "motore muscolare"? Seguendo questa ipotesi, una simile trasformazione anatomica potrebbe essere legata all'abbandono di uno stile di vita "all'aperto", fondato sulla corsa e sull'attraversamento di ampi spazi aperti, ed indicare l'adattamento ad un contesto ambientale più chiuso, ristretto, nel quale non occorre essere un camminatore resistente né un corridore. Il sospetto è che questo "nuovo ambiente" possa essere la fitta boscaglia, il sottobosco, se non persino le fronde più basse degli alberi, ambienti in cui essere piccoli e leggeri è più importante dell'essere camminatori resistenti o corridori efficienti. Il parziale, ma comunque significativo, allungamento dell'arto anteriore nei primi avialiani rispetto alla maggioranza degli altri teropodi potrebbe essere un ulteriore indizio a sostegno dell'ipotesi sviluppata qui sopra. In tutti i dinosauri incontrati finora, il mondo era sostanzialmente a "due dimensioni", il mondo a livello del terreno, descrivibile dalle due dimensioni sulle quali camminare. Il sottobosco, la boscaglia ed i rami bassi degli alberi introducono un mondo a "tre dimensioni", in cui alla superficie piana del terreno si aggiunge una dimensione ulteriore, la verticalità degli alberi, che può essere scalata o discesa perpendicolarmente al terreno. In quel contesto, disporre di un paio di arti supplementari che possano aiutare la presa contro i tronchi o l'appiglio sui rami, diviene un fattore selettivo importante. Gli arti anteriori dei teropodi, già perfettamente specializzati per afferrare la preda con ambo le braccia, dotati di lunghe dita artigliate capaci di trattenere saldamente un corpo, risultano quindi molto utili per questi piccoli animali qualora vogliano tentare una arrampicata, senza che debbe intervenire qualche speciale innovazione che renda le braccia in grado di svolgere tale funzione. A differenza di altri tipi di dinosauro (ad esempio, gli ornitischi bipedi), i cui arti anteriori avevano perduto la 1 16
funzione di presa "a tenaglia" dei primi dinosauri, nei piccoli paraviani non occorreva introdurre qualche particolare modifica anatomica nell'arto anteriore per renderlo utile nell'arrampicata: fu sufficiente un progressivo allungamento dell'arto per poter aumentare il proprio raggio di escursione, per aumentare la superficie con cui fare presa contro tronchi e rami. Possiamo quindi immaginare che i primi avialiani, come gli anchiornitidi, fossero animali di boscaglia, abitanti del sottobosco, quindi prettamente terricoli, ma che fossero comunque in grado di balzare sopra tronchi e rami, e di scalarli "abbracciandoli" usando gli arti anteriori. Dato che è probabile che anche in questi teropodi le due braccia si muovessero coordinatemente (retaggio della "presa a tenaglia" dei loro antenati predatori), è possibile che l'arrampicata si svolgesse con un movimento coordinato di apertura e chiusura delle braccia, usato per "abbracciare" il tronco. Questo comportamento potrebbe quindi aver selezionato i primi avialiani a sviluppare braccia sempre più lunghe e robuste. Se negli anchiornitidi l'arto anteriore è lungo quanto quello posteriore, in altri avialiani, come lo stesso Archaeopteryx, esso è più lungo e robusto della stessa gamba, ad ulteriore conferma che esso avesse quindi acquisito una funzione nuova, assente nella maggioranza dei teropodi, una funzione che richiedeva un arto più forte e sviluppato. Possiamo parlare di ali? Archaeopteryx era dotato di veri e propri arti adatti al volo? La controversia sulla capacità di volo in Archaeopteryx è uno dei temi più dibattuti in paleontologia. Sebbene non ci siano dubbi sulle maggiori dimensioni dell'arto rispetto alla maggioranza dei teropodi, le sole dimensioni e proporzioni della zampa non implicano un organo adatto al volo. L'anatomia di Archaeopteryx, ed in generale quella della maggioranza dei primi avialiani, non mostra gli adattamenti specifici che permettono agli uccelli di oggi un qualche tipo di volo attivo (ovvero, non meramente planato bensì spinto attivamente dal battito delle ali). Vedremo nei prossimi capitoli come la questione sull'origine del volo "moderno" che caratterizza gli uccelli odierni sia distinta dalla questione su come vissero i primi avialiani. Qui, e nei successivi capitoli, invito il lettore ad uno sforzo concettuale: sebbene noi tutti sappiamo che è da animali come i primi avialiani che discendono gli uccelli moderni, dobbiamo sforzarci di non imporre a questi primi avialiani il ruolo di "precursori" delle caratteristiche degli uccelli attuali. Per troppo tempo, Archaeopteryx e tutti i primi avialiani scoperti dopo di lui sono stati 1 17
forzatamente interpretati come "anelli di congiunzione" e "forme di transizione" tra gli altri dinosauri e gli uccelli moderni: questa forzatura ha imposto in modo spesso ottuso che qualsivolgia attributo anatomico ed ecologico dei primi avialiani fosse letto alla luce della loro "condizione di transizione" . Essi dovevano "prefigurare" i successivi uccelli volatori, e fungere quindi da "stadio evolutivo verso il volo" . Questo modo di pensare commette l'errore di leggere e interpretare un fenomeno (Archaeopteryx) alla luce di eventi collocati nel suo futuro remoto (i primi uccelli moderni): al contrario, noi dovremmo sviluppare qualsiasi interpretazione dei primi avialiani, e dei processi che plasmarono la loro anatomia ed ecologia, assumendo che tali processi non fossero necessariamente i medesimi che hanno condotto, milioni di anni dopo, alle forme moderne. Per tutto questo libro ho rimarcato come ogni fase della storia evolutiva che porta agli uccelli sia una "tappa" solamente se letta a posteriori, mai nel momento in cui si svolse, e che pertanto è soltanto analizzando i fattori presenti nel momento in cui esisteva (e non quelli che plasmeranno le "tappe successive") che possiamo comprendere le ragioni biologiche della sua evoluzione. Guardando questi avialiani per le loro caratteristiche peculiari, e non come "tappa intermedia" verso un volatore moderno, proviamo a interpretare la loro anatomia, fingendo di non sapere che essi siano comunque imparentati con gli uccelli di oggi. Vari elementi dell'anatomia di Archaeopteryx sono stati analizzati e confrontati con gli animali moderni per determinare se siano indicativi di una capacità di volo. In particolare, la forma delle penne remiganti (impressa nel calcare litografico), le proporzioni dei vari elementi dell'arto anteriore, così come la forma e curvatura degli artigli (anche questi impressi nel calcare litografico, e che potrebbe indicare una capacità arboricola) o la stima delle dimensioni del muscolo pettorale (principale generatore del battito dell'ala nelle specie volanti odierne). I risultati sono ambigui e contraddittori. La forma delle penne è simile a quella nelle specie di uccelli volanti: è interessante notare che una forma simile è presente anche nelle penne di alcuni paraviani non direttamente legati agli uccelli, come il dromeosauride Microraptor, per il quale è stato proposto che l'ampio piumaggio su tutti e quattro gli arti potesse funzionare come un ''biplano" in grado di sostenere almeno il volo planato. Questa ultima ipotesi implicherebbe che i piccoli dromeosauridi (poco più grandi di Archaeopteryx) fossero almeno in parte arboricoli. Tuttavia, altri studi sul celebre avialiano bavarese indicano che le penne non avessero una sufficiente robustezza per formare una 1 18
superficie aerodinamica coerente. Inoltre, la muscolatura dedotta per Archaeopteryx non parrebbe essere sufficiente per permettere una forma attiva di volo battuto, ma ciò non preclude una potenza sufficiente per permettere di spiccare balzi verso l'alto, "sostenuti" anche da una breve fase di battito delle braccia. La forma degli artigli, presa isolatamente, non implica una qualche capacità di volo, ma al più conferma lo scenario "arboricolo" che ho delineato con gli anchiornitidi. Nel pieno della controversia sull'origine degli uccelli, tra gli anni '70 e '90 del secolo scorso, è prevalsa l'idea che la soluzione delle capacità aeree di Archaeopteryx fosse legata alla soluzione dell'origine degli uccelli rispetto ai dinosauri. Ovvero, assumere che Archaeopteryx (e gli uccelli) discendano dai teropodi (animali tutti squisitamente terricoli e poco o nulla adatti ad uno stile di vita arboricolo) era sovente portato come argomento per negare una qualche fase arboricola all'inizio della storia di Avialae. E, viceversa, sostenere una fase arboricola nei primi uccelli era implicitamente usato come argomento per negare l'origine degli uccelli dai teropodi. Tuttavia, non ci sono motivi per cui i due temi siano automaticamente collegati. Uno è un tema "adattativo", che cerca di capire quale fosse lo stile di vita dei primi avialiani, il secondo è un tema "genealogico", che cerca di capire da quale gruppo animale discendano gli avialiani. Essi sono, pertanto, slegati e uno non vincola l'altro. Nulla impedisce che gli uccelli siano teropodi e al tempo stesso che abbiano acquisito adattamenti arboricoli. Oggi che l'origine dinosauriana degli uccelli è enormemente consolidata da prove fossili, la questione su quale fosse lo stile di vita dei primi uccelli è stata liberata dalla necessità di dover confermare o meno un legame coi dinosauri: questo ultimo è, ormai, un "fatto" (nel senso paleontologico di una teoria ampiamente sostenuta da prove fossili, che la rendono molto solida e robusta nei confronti delle possibili alternative) e non più un'ipotesi di lavoro. Piuttosto che dibattere dentro una rigida dicotomia tra sostenitori di uno scenario arboricolo ed uno terricolo per i primi avialiani, è necessario riconoscere che i primi avialiani acquisirono in vario grado delle peculiarità anatomiche, le quali difficilmente si inquadrano dentro uno scenario totalmente terricolo. L'adattamento ad uno stile di vita anche solo parzialmente arboricolo, inoltre, non implica automaticamente una propensione al volo. Questo ultimo è un concetto spesso del tutto dimenticato nelle discussioni sull'origini degli uccelli: l'acquisizione di adattamenti arboricoli potrebbe non essere stata in alcun modo legata ad una qualche "necessità aerea" . Innumerevoli animali moderni mostrano 1 19
spiccati adattamenti arboricoli, pur mancando completamente qualsiasi tendenza ad acquisire una qualche capacità di volo. Penso che lo stesso argomento possa essere applicato ai primi avialiani, liberandoci dal fardello di dover a tutti i costi trovare qualche "adattamento al volo" in Archaeopteryx o negli anchiornitidi. Se lo stile di vita dei primissimi avialiani è ancora controverso, più chiara è l'ecologia di altri avialiani, comparsi all'inizio del Cretacico Inferiore, e che mostrano ulteriori adattamenti in comune con gli uccelli moderni, pur mantenendo una anatomia generale da "classico paraviano" . Il gruppo più ricco di specie è costituito dagli jeholornitidi, ad oggi tutti provenienti da livelli cinesi di 120 milioni di anni fa, ed in alcuni casi preservati in modo eccellente, conservando anche traccia del piumaggio e resti del loro pasto. Gli jeholornitidi avevano un cranio più corto e robusto rispetto agli avialiani giurassici, e munito di pochi denti nella parte anteriore del muso: si ritiene quindi che in questi animali, buona parte della bocca fosse rivestita da un becco corneo, simile a quello presente in molti maniraptoromorfi onnivori (vedere capitoli precedenti). La presenza di resti vegetali, in particolare semi e infruttescenze, nella cavità addominale di alcuni jeholornitidi conferma che questi avialiani erano onnivori se non pienamente vegetariani. La parte posteriore del corpo di questi avialiani non è significativamente modificata rispetto ad Archaeopteryx, e presenta una coda allungata, rigida ma poco muscolosa. L'arto anteriore è invece molto sviluppato, ben più lungo e robusto dell'arto posteriore. Nel braccio, la muscolatura pettorale che si inserviva su uno sterno ampio e ossificato: la presenza delle sterno osseo, e non solamente cartilagineo come invece si osserva in Archaeopteryx e negli anchiornitidi, suggerisce un potenziamento della muscolatura che, negli uccelli odierni, è il principale motore del battito dell'ala. Tuttavia, è ancora poco chiaro se e come questi avialiani potessero effettivamente spiccare il volo o se fossero in grado di sostenere una qualche forma di volo attivo. Una possibile alternativa, che si collega al discorso fatto per i precedenti avialiani, è che le braccia così lunghe e robuste degli jeholornitidi fossero parte di un adattamento per l'arrampicata sugli alberi: la presenza in questi animali di dita lunghe e munite di artigli ben sviluppati è difatti più coerente con una capacità arboricola che ad un uso dell'arto come ala. Più che come "volatori incipienti", forse dovremmo vedere questi primi avialiani vegetariani come una forma di "analogo" dei primati tra i dinosauri: specie piccole ed agili, adatte ad arrampicare sugli alberi per nutrirsi di foglie e frutta. Ulteriore conferma di questa 1 20
ipotesi, il piede di questi avialiani presenta una innovazione assente negli altri teropodi, inclusi i primi avialiani giurassici: il primo dito (equivalente al nostro alluce), che nella maggioranza dei teropodi è piccolo e non tocca il terreno né partecipa al passo, in questi animali è più sviluppato, posizionato quasi a livello delle altre tre dita e, soprattutto, è in grado di opporsi a queste dita, ovvero, di chiudersi in direzione delle altre dita. L'apponibilità dell'alluce, che vediamo anche nei primati, è un evidente adattamento all'arrampicata ed alla vita arboricola. Avendo introdotto uno scenario "arboreo" e "arrampicatore" all'origine degli avialiani, chiudo il capitolo parlando di un gruppo di maniraptori scoperto durante i primi anni della Rivoluzione Piumata, molto enigmatico, il cui nome stesso, "scansoriopterigidi", significa "ali che arrampicano" . Questi piccoli teropodi (nessuno supera il mezzo metro di lunghezza, sebbene sia da rimarcare che i primi esemplari scoperti siano chiaramente degli esemplari molto immaturi) provengono unicamente dai medesimi livelli cinesi in cui sono stati scoperti gli anchiornitidi (tra la fine del Giurassico Medio e l'inizio del Superiore, risalenti a circa 160 milioni di anni fa). L'anatomia dei scansoriopterigidi è molto bizzarra: la testa ha forma, proporzioni e dentatura molto simili a quelle dei primi oviraptorosauri (vedere precedenti capitoli) mentre il resto del corpo ricorda maggiormente i paraviani, in particolare gli avialiani, nelle proporzioni dell'arto anteriore, che è allungato e ben sviluppato, e del piede, il cui alluce è ben sviluppato e posizionato a livello delle altre dita (quindi, potenzialmente, utile per arrampicare). Alcune specie hanno una coda relativamente corta, mentre in altre essa è allungata e simile a quella dei primi dromeosauridi. La mano di questi teropodi è l'elemento caratteristico più aberrante: il terzo dito, quello più esterno, è molto più lungo delle altre dita, e ciò contrasta con la maggioranza dei teropodi in cui questo dito è più corto e gracile del secondo. Per un decennio, i paleontologi hanno dibattuto sulla funzione di questo dito e sull'ecologia di questi piccoli teropodi, finché la scoperta di un nuovo esemplare, pubblicato nel 2015, ha mostrato che il terzo dito allungato sosteneva una membrana di pelle sottesa ai lati del corpo, membrana che, a sua volta, era attraversata da una bacchezza ossea collegata all'articolazione del polso: dato che membrane di pelle sottese dalle dita e bacchette ossee "accessorie" utilizzate per mantenere la membrana in tensione si osservano oggi in diversi gruppi di animali planatori (come gli scoiattoli volanti), l'ipotesi più probabile è che gli scansoriopterigidi fossero animali arboricoli e planatori. 121
Le capacità arboricole e planatorie degli scansoriopterigidi sono oggetto di acceso dibattito. In particolare, quale è il loro significato in relazione all'origine ed evoluzione del volo negli uccelli? La questione è legata alla posizione evolutiva di questi bizzarri teropodi: sebbene le caratteristiche "arboricolo-planatorie" possano richiamare gli uccelli (e implicare che gli scansoriopterigidi siano membri di Avialae), la straordinaria somiglianza dei crani degli scansoriopterigidi con quelli degli oviraptorosauri è troppo forte per non implicare una qualche parentela. Ecco un altro caso di incertezza hard: gli scansoriopterigidi sono avialiani primitivi oppure oviraptorosauri primitivi? Nel secondo caso, dovremmo concludere che le loro curiose specializzazioni arboricole e planatorie si svilupparono in modo indipendente e distinto da quelle degli avialiani. Una terza interpretazione, molto intrigante, potrebbe essere che essi siano entrambi (sia oviraptorosauri che paraviani), ovvero che gli oviraptorosauri stessi (comprendenti gli scansoriopterigidi come loro ramo primitivo) possano a loro volta essere un ramo aberrante degli avialiani, un ramo che ha "perduto" nel Cretacico quelle caratteristiche "da avialiano" che erano ancora presenti nei loro primi membri giurassici (gli scansoriopterigidi). L'idea che gli oviraptorosauri possano essere un ramo aberrante di uccelli primitivi, discendente da animali giurassici simili ad Archaeopteryx, non è nuova, e fu ampiamente dibattuta negli anni a cavallo del 2000, per poi essere accantonata. Gli scansoriopterigidi riaprono la questione, introducendo degli attori inattesi, che potrebbero riconnettere gli oviraptorosauri con gli uccelli. Attualmente, non è possibile risolvere questa controversia, e si spera che nuovi fossili siano scoperti a colmare il divario anatomico tra i vari maniraptori e i bizzarri scansoriopterigidi. La scoperta di piccoli maniraptori planatori ed arboricoli, potenzialmente alla base della linea degli avialiani, dimostra che i maniraptori avevano le potenzialità per adattarsi ad un contesto arboreo e persino di acquisire qualche capacità aerea, e ciò solleva una questione chiave per comprendere l'origine degli uccelli moderni: in quale contesto ecologico ed ambientale si è sviluppato il volo "vero e proprio", e come si è giunti alla capacità di generare un volo attivo, sostenuto dal battito di ali, quindi non solamente mantenuto passivamente da una membrana di pelle usata per planare? Riassumendo, il più recente antenato comune di uccelli, anchiornitidi e
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Archaeopteryx era un avialiano vissuto alla fine del Giurassico Medio. Paraviano non più lungo di mezzo metro, era un bipede opportunista, principalmente insettivoro e prevalentemente terricolo, ma che era comunque in grado di arrampicare e sfruttare le risorse disponibili anche sugli alberi. Gli arti anteriori erano lunghi almeno quanto i posteriori, con lunghe dita artigliate. La coda, pur allungata, era relativamente sottile rispetto alla condizione tipica nella maggioranza dei teropodi. Il piumaggio era ben sviluppato ed elaborato, in particolare sugli arti e sulla coda.
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Capitolo ottavo Il Mistero della Valle Inadatta
PYG O STY L I A
O R N I T H OT H O RAC E S
I dinosauri avevano costruito il proprio dominio sulle terre emerse grazie all'efficienza del loro apparato locomotorio, il cui motore principale era il muscolo caudofemorale lungo, inserito sulla coda e ancorato alla coscia. Vista dalla prospettiva dei loro precursori, l'estrema riduzione della coda nei pigostiliani è quindi un'eresia sconvolgente e rivoluzionaria. Ancora più sconvolgente è constatare che i primi pigostiliani non erano dotati delle innovazioni che consentono agli uccelli moderni di volare. Come vivevano questi teropodi, privi di entrambe le innovazioni locomotorie di Dinosauria? (Ricostruzione in vivo di Sapeornis, basata sulla ricostruzione scheletrica di Scott Hartman, 2003).
L a propaganda anti-evoluzionistica, carente di prove a suo favore e grossolana nei metodi, usa frequentemente delle formulette retoriche per minare la credibilità della teoria darwiniana. Una delle obiezioni più ricorrenti abusate dal fronte antidarwiniano è l'idea che la selezione naturale, così come definita dai biologi, sia una contraddizione e che quindi non possa operare in Natura come motore del cambiamento evolutivo. Il nucleo di questa obiezione è l'idea che la selezione naturale possa solamente perfezionare qualcosa di esistente che sia "già adattativo" ma che non abbia alcuna possibilità di selezionare favorevolmente un attributo prima che esso sia già adattativo. In pratica, quindi, la selezione naturale non può esistere, perché se un attributo è già adattativo, allora essa non è necessaria, ma se un attributo non è ancora 1 24
adattativo, essa non può renderlo tale. L'evoluzione delle ali è citata sovente come esempio di questa argomentazione. Le ali sono ampie superfici corporee mosse da un complesso sistema di muscoli. Un'ala deve avere una dimensione e complessità sufficiente per svolgere la sua funzione di organo per il volo, dato che una mera appendice laterale non è sufficiente: se lo fosse, gli animali che volano non avrebbero bisogno di possedere ali complesse. Pertanto, sostengono gli anti-evoluzionisti, un'ala deve comparire già perfettamente funzionante oppure non può certo evolvere per progressivo perfezionamento a partire da un elemento precedente che sia del tutto privo di qualsiasi funzione aerodinamica. Come potrebbe la selezione naturale favorire gli individui dotati di piccole appendici laterali, e quindi spingere verso ali sempre più complesse ed efficienti, se queste strutture iniziali non sono in grado di conferire alcun reale vantaggio rispetto ad individui privi di tali appendici? Si tratta del famoso "paradosso dell'ala a metà" : quale vantaggio nel volo potrebbe mai fornire una "proto-ala" sviluppata solo al 50% delle effettive prestazioni minime di un'ala vera e propria? Apparentemente, nessuno, e quindi non potrebbe in alcun modo essere favorita dalla selezione naturale. Darwin stesso, consapevole di questa obiezione, fu il primo a proporre una soluzione al paradosso: una "prato ala", pur non essendo in grado di svolgere le funzioni di un'ala vera e propria, potrebbe comunque essere adattativa per qualche altra funzione, distinta dal volo, e questo permetterebbe alla selezione naturale di conservare tale struttura, persino di accrescerne importanza e versatilità, fino al raggiungimento di una soglia "minima" di utilità oltre la quale la selezione naturale stessa la spingerebbe favorevolmente per diventare un'ala vera a propria. L'idea che un organo possa svolgere differenti funzioni, e non tutte con la medesima efficienza, è perfettamente coerente con le leggi della Biologia. Un animale non è una macchina rigida progettata per un numero fisso di mansioni, bensì è un complesso di organi ognuno in grado di svolgere differenti funzioni con differente efficienza. Ad esempio, la gamba è un organo finalizzato principalmente per la locomozione, ma può all'occorrenza funzionare anche come arma di difesa o offesa: non occorre che l'animale sia "progettato" fin dall'inizio per usare le gambe come armi, è sufficiente che sia sufficientemente versatile per poterle usare come tali quando occorre. Abbiamo visto nel Primo Volume che il braccio dei dinosauromorfi primitivi smise di fungere da organo per la camminata quando questi acquisirono la piena 1 25
postura bipede, e che l'arto fu rapidamente d-utilizzato come organo per afferrare oggetti: anche se, probabilmente, all'inizio la nuova funzione fu marginale ed imperfetta (e probabilmente era già disponibile ai loro antenati quadrupedi), essa conferì comunque un qualche vantaggio agli animali che la manifestavano, selezionandoli favorevolmente nella competizione, vantaggio che a sua volta spinse verso un progressivo perfezionamento dell'arto come organo di supporto per la predazione. L'evoluzione ci appare sì cieca e bizzarra nel modo con cui stravolge i propri elementi, ma anche opportunista, e sovente porta un organo "adatto" ad un ruolo a svolgere mansioni del tutto nuove e alternative qualora le condizioni lo permettano. Pertanto, la maggioranza degli adattamenti che osserviamo in Natura ha almeno una parte delle sue componenti che deriva da adattamenti e condizioni di vita differenti rispetto alla mansione che osserviamo ora. Non occorre quindi gridare al paradosso né stracciarsi le vesti di fronte al fantasma della "ala a metà" invocato dagli anti-evoluzionisti: quello che occorre fare è piuttosto analizzare ogni stadio delle sequenze evolutive e cercare di identificare le condizioni particolari che permisero la sua esistenza e sopravvivenza. Anche se una "ala a metà" è inutile per volare, forse fu utilissima per una antica funzione oggi abbandonata. Il concetto che un organo possa, durante la sua evoluzione, cambiare funzione e quindi essere soggetto a differenti tipi di selezione naturale (o persino a fasi in cui non fu soggetto ad alcuna selezione particolare), è un corollario dell'idea stessa di evoluzione, per cui non solo l'organo si modifica nel tempo, ma anche la sua funzione subisce trasformazioni e cambiamenti. In Biologia, esiste una rappresentazione molto efficace di questo concetto, il "picco adattativo" . Possiamo immaginare una struttura biologica (ad esempio, l'arto anteriore), come un alpinista che stia attraversando una serie di cime montuose: la vetta di ogni cima rappresenta il raffinato prodotto della selezione naturale, che ha favorito progressivamente una particolare funzione. Se ogni cima della catena montuosa rappresenta un particolare adattamento, il passaggio da una cima all'altra implica l'abbandono della funzione originaria, la "discesa" verso una zona di funzionalità bassa (o nulla) e la progressiva risalita verso un nuovo picco (sede della nuova funzione). Il concetto di picco adattativo introduce quindi delle regioni "male adattative", le valli tra una cima e la successiva, depressioni nelle quali l'organo è privo di funzione o comunque non svolge alcuna funzione particolare in modo efficiente o raffinato. Ad esempio, possiamo immaginare che il braccio dei 1 26
primi dinosauromorfi, appena "disceso" dal picco dell'andatura quadrupede (sopra il quale aveva soggiornato, confortevolmente, per oltre un centinaio di milioni di anni, dopo che l'arto anteriore si originò dalla pre-esistente pinna carnosa dei pesci sarcopterigi del Paleozoico ), rimase per qualche tempo nel fondo della valle "senza alcuna funzione" per poi rapidamente salire, spinto dalla selezione naturale, verso la cima di un nuovo picco, quella della capacità predatoria. Qualora il braccio fosse rimasto a lungo nella valle, sarebbe andato rapidamente incontro ad atrofia e completa riduzione (nel Primo Volume, abbiamo visto che questo avvenne probabilmente negli arcosauri poposauroidi, la cui biologia generale non permetteva al braccio di essere d-utilizzato per una nuova funzione dopo che questi rettili ebbero acquisito la loro peculiare forma di bipedismo): anche se la selezione naturale non agisce a valle per perfezionare un particolare adattamento, è comunque in grado di favorire la riduzione e la scomparsa di un organo qualora sia più vantaggioso disfarsene piuttosto che mantenerlo come fardello inutile. Il concetto di picco adattativo è sicuramente un'utile metafora, ma non deve essere preso troppo alla lettera. I "picchi" e le "valli" esistono solamente nella nostra rappresentazione, non nella realtà. Uno stesso organo può simultaneamente occupare diversi picchi, ognuno a quote differenti. Nell'esempio precedente, l'arto posteriore è molto in alto sul picco della locomozione quadrupede, ma al tempo stesso occupa anche una posizione collinare sul basso pendio che porta al picco delle armi. Inoltre, la geografia di picchi e valli rispecchia più la nostra conoscenza (ed ignoranza) che la realtà del fenomeno. Non possiamo escludere che molte valli siano solamente dei picchi che non siamo in grado di identificare e definire. E tale incapacità può spesso essere la conseguenza dei nostri pregiudizi o miopie. Ho il sospetto che la prima fase dell'evoluzione degli avialiani sia molto viziata dai nostri pregiudizi su "come" debba evolvere la biologia moderna degli uccelli. L'idea classica, semplicistica all'estremo, è che gli uccelli moderni ed il loro sistema di volo siano il risultato del progressivo "perfezionamento" di animali come Archaeopteryx. Usando l'immagine dei picchi adattativi, da teropodi privi di capacità di volo, posti a valle del picco del volo, sono emersi animali come Archaeopteryx, i quali hanno progressivamente scalato il picco del volo, fino a diventare le specie moderne. Seguendo questa logica, i paleontologi e i biologi evoluzionisti hanno cercato in innumerevoli modi di stabilire quale quota del picco del volo fosse stata raggiunta da Archaeopteryx, dando per scontato che esso 1 27
debba comunque essere in un qualche punto della scalata che porta al volo moderno. Sempre secondo questa visione lineare dell'evoluzione degli uccelli, gli avialiani comparsi dopo Archaeopteryx, nel Cretacico, dovrebbero a loro volta collocarsi lungo varie quote intermedie tra quella di Archaeopteryx (qualunque essa sia) e la vetta moderna. Eppure, più osservo alcuni di questi avialiani cretacici, e più mi convinco che questa sequenza lineare di progressivo perfezionamento al volo non funziona. In questo capitolo, affronto di petto la questione se tutti gli uccelli mesozoici siano collocabili lungo la sequenza di adattamenti che conduce al volo moderno, arrivando alla conclusione che, probabilmente, il picco adattativo del volo come lo concepiamo oggi sia più basso di quello che pensiamo, e che forse né Archaeopteryx né altre specie mesozoiche, ormai tradizionalmente considerate volatori primitivi, abbiano mai asceso tale cima, scalando - letteralmente - una ben diversa altura adattativa prima che altri avialiani iniziassero effettivamente a salire lungo il monte del volo moderno. I veri scalatori del picco del volo saranno introdotti nel prossimo capitolo. Negli anni immediatamente precedenti la scoperta dei primi dinosauri dotati di piumaggio, negli ormai celebri livelli del Cretacico Inferiore della Cina nord-orientale, dai medesimi siti iniziarono ad essere scoperti gli scheletri di numerosi uccelli primitivi, con un'anatomia più simile alle specie moderne rispetto ad Archaeopteryx. Anche nel caso che gli spettacolari dinosauri piumati non fossero mai stati rinvenuti, la scoperta di decine, e poi centinaia di esemplari di uccelli, spesso in eccellente stato di conservazione, avrebbe significato una piccola ma importante rivoluzione per l'ornitologia. Prima degli anni '90 del XX secolo, il numero di scheletri di uccelli mesozoici, a parte la manciata di Archaeopteryx, era veramente irrisorio. Inoltre, la maggioranza di questi uccelli era molto simile nelle caratteristiche generali alle specie moderne (vissute nel Cenozoico, dopo l'estinzione di massa di 66 milioni di anni fa), e quindi non forniva particolari informazioni su cosa fosse avvenuto agli uccelli durante il Mesozoico. La scoperta di uccelli fossili, chiaramente differenti rispetto alle specie attuali, ma con una anatomia più "moderna" rispetto a quella del famoso primo uccello bavarese, procedette a ritmo accelerato durante gli anni che aprirono la Rivoluzione Piumata: oggi, almeno un centinaio di specie, spesso con decine di esemplari per specie, proviene dai livelli risalenti a 130-120 milioni di anni fa della Cina. Eppure, nonostante a prima vista tutti questi fossili siano indiscutibilmente classificabili come "uccelli" secondo l'accezione 128
che abbiamo dato a questa parola sulla base delle specie viventi oggi, non è ugualmente chiaro se essi fossero nel comportamento e nello stile di vita riconducibili al modello ornitologico che vediamo intorno a noi. In particolare, per quanto "dotati di ali" simili a quelle moderne, spesso conservate in modo eccellente, con l'intero assetto delle penne remiganti e la forma generale dell'ala, i paleontologi non sono concordi su quali fossero le capacità aeree di questi animali. Come negli uccelli moderni, questi fossili presentano lunghi arti anteriori, più ampi e robusti dei posteriori, su cui si inseriscono lunghe penne remiganti. Come negli uccelli moderni, in alcune di queste forme la dentatura è completamente scomparsa, sostituita da un becco: anche nei casi in cui i denti non siano del tutto scomparsi, essi sono relativamente ridotti sia di numero che nella dimensione. Avevamo osservato entrambe le caratteristiche (riduzione della dentatura e sviluppo dell'arto anteriore) già in alcuni avialiani menzionati nel precendete capitolo, gli jeholornitidi. Rispetto a questi ultimi, ed a tutti gli altri dinosauri, questi nuovi avialiani hanno inoltre subìto una trasformazione radicale, che coinvolge una zona anatomica di fondamentale importanza per la biologia dei dinosauri: la coda. Essa si è ridotta drammaticamente, risultando di fatto un corto moncherino la cui estremità è formata dalla ultime ossa fuse assieme. L'estremità terminale di ossa fuse nella coda prende il nome di pigostilo, e Pygostylia è il nome del gruppo formato da questi avialiani, e che include anche tutte le specie viventi oggi. Per comprendere la radicalità della coda pigostiliana rispetto alla condizione tipica di tutti i dinosauri (compresi i primi avialiani), occorre ricordare che la coda (in particolare, i suoi due terzi anteriori) sono la zona di origine del più grande muscolo nel corpo dei rettili, il caudofemorale lungo, muscolo che rappresenta il principale "motore" di questi animali. Partendo dalla coda e inserendosi sull'osso della coscia (femore), questo muscolo difatti produce la protrazione della gamba e, pertanto, il passo dell'animale. Sebbene avessimo già notato una riduzione nella dimensione della coda nei primi avialiani (Archaeopteryx ha una ventina di vertebre nella coda, contro la quarantina tipiche della maggioranza dei teropodi), con i pigostiliani la coda si riduce definitivamente ad una quindicina di elementi, di cui solo i primi quattro cinque sono in grado di muoversi. Pertanto, nei pigostiliani il principale muscolo che nei dinosauri era deputato alla spinta locomotoria si riduce enormemente ed è, quindi, atrofizzato. Usando la metafora del picco adattativo, con i pigostiliani la coda discese rapidamente dalla vetta del 1 29
picco locomotorio e si ritrovò in una valle di apparente inutilità. Vedremo, nei prossimi capitoli, che in seguito la coda di alcuni pigostiliani salirà rapidamente un nuovo picco adattativo, divenendo parte integrante di un nuovo adattamento: ma ciò non accadde immediatamente, e numerosi pigostiliani mesozoici mostrano piccole code apparentemente prive di qualunque funzionalità. Se il muscolo caudofemorale lungo nei pigostiliani si era ridotto ad un vestigio, come era mossa la gamba di questi animali? Inoltre, per quale motivo questi avialiani abbandonarono uno dei più importanti elementi del sistema locomotorio che aveva sancito il successo dei dinosauri nei precedenti cento milioni di anni? Alla prima domanda possiamo rispondere osservando che nei pigostiliani si verificarono una serie di modifiche nelle ossa del bacino, in concomitanza con le riduzione della coda, che suggeriscono un generale "riassetto" della muscolatura che collegava la gamba al bacino stesso. Ad esempio, l'osso pubico, che negli altri paraviani tende ad essere orientato in basso, verticalmente, nei pigostiliani si inclina in direzione della parte posteriore del bacino, arrivando quasi ad essere parallelo alla coda. Di conseguenza, tutti quei muscoli che negli altri dinosauri collegavano l'osso pubico alla gamba ed avevano la funzione di mantenere la gamba verticale, nei pigostiliani sono ora orientati verso la coda, e quando si contraevano lavoravano in maniera analoga al lavoro che era svolto in precedenza dal muscolo caudofemorale. Pertanto, tutta una serie di muscoli che negli altri dinosauri (generalmente molto più grandi e pesanti dei pigostiliani) avevano soprattutto una funzione stabilizzatrice della gamba, nei pigostiliani vengono "arruolati" per svolgere anche una funzione di muscoli locomotori, producendo la trazione che muoveva l'osso della coscia. Un tale "arruolamento" di questi muscoli per una funzione più dinamica che stabilizzatrice era possibile proprio perché le gambe dei pigostiliani, animali molto più piccoli e leggeri degli altri dinosauri, non erano più sottoposte ad una forza peso rilevante come quella che aveva plasmato per milioni di anni il sistema muscolare dei loro antenati. Appurato che i pigostiliani avevano subìto una radicale riorganizzazione della coda e del bacino (e dei muscoli corrispondenti), quale fu la motivazione (o le motivazioni) adattativa ed ecologica di questa trasformazione così significativa? La riduzione estrema del sistema caudofemorale suggerisce che il modo di muoversi e camminare in questi piccoli teropodi fosse cambiato rispetto alla condizione "classica" dei dinosauri bipedi. Dato che l'andatura bipede dei dinosauri si era 130
dimostrata così efficiente e versatile, è improbabile che la riorganizzazione pigostiliana abbia rappresentato una alternativa vincente rispetto al modello classico. Innanzitutto, sia la lunghezza assoluta delle gambe che le proporzioni relative delle parti della zampa posteriore mostrano che i pigostiliani non erano sicuramente in grado di correre con la medesima velocità ed efficienza degli altri dinosauri. Questi avialiani hanno difatti falcate molto corte, paragonabili a quelle dei giovanissimi esemplari della maggioranza delle altre specie, e non mostrano alcun adattamento cursorio. Tutti questi elementi escludono quindi che la trasformazione anatomica nella gamba pigostiliana fosse in qualche modo "adattativa" rispetto alla condizione tipica degli altri teropodi. In breve, qualunque sia stato il motivo che portò i pigostiliani a ridurre la coda e a modificare la struttura del bacino, esso non portò questi animali a perfezionare la loro efficienza nella camminata e nella corsa rispetto ai loro antenati: questa fu, a tutti gli effetti, una discesa da un picco adattativo di successo che portò questi nuovi teropodi in una valle molto poco adattativa dal punto di vista della locomozione. Il ragionamento che ho appena svolto giunge a questa conclusione: i pigostiliani non potevano competere con gli altri teropodi (compresi i primi avialiani con coda lunga) sul terreno della locomozione bipede. Se essi intrapresero la loro peculiare trasformazione anatomica, ciò avvenne perché essi andarono ad occupare una qualche nicchia del tutto nuova, in cui la locomozione bipede originaria non era necessaria, una nicchia che non era disponibile per gli altri teropodi. Fin dalla loro scoperta, questi pigostiliani primitivi sono stati considerati come una tappa intermedia verso l'acquisizione del volo moderno: possiamo considerare il volo la "nuova nicchia" occupata dai pigostiliani, inaccessibile agli altri teropodi? Per almeno due motivi, io sono scettico verso l'interpretazione classica, e dubito che i primi pigostiliani del Cretacico inferiore fossero in qualche modo diretti verso l'acquisizione del volo moderno. Il primo motivo è che i pigostiliani primitivi, per quanto a prima vista molto simili agli uccelli moderni, sono privi degli adattamenti chiave che permettono il volo negli uccelli moderni. Ad esempio, l'articolazione della spalla di questi avialiani mesozoici non permette di sollevare completamente l'ala rispetto al livello della schiena, come invece avviene in ogni uccello moderno quando vola. Il battito delle loro ali era quindi "incompleto" . Inoltre, alcune di queste specie, come Sapeornis, sono del tutto prive di uno sterno ossificato: questo osso, che forma la regione centrale della zona pettorale, negli uccelli moderni è la 131
piattaforma di ancoraggio di un enorme muscolo pettorale in grado di generare e mantenere attivamente il battito delle ali. Anche nelle specie dotate di sterno ossificato, come nei confuciusornitidi, questo è troppo piccolo e comunque privo di quella espansione mediana (la carena) che negli uccelli di oggi aggiunge ulteriore superficie per i muscoli pettorali. Inoltre, le mani di tutti questi primi pigostiliani sono molto lunghe e munite di dita perfettamente sviluppate e armate di grandi artigli: negli uccelli moderni, vedremo nei prossimi capitoli, la mano è invece più corta e compatta, e le dita hanno artigli ridotti a vestigi. La mano dei primi pigostiliani non mostra quindi alcuna trasformazione verso un organo funzionale ad un battito d'ala, e conserva la funzione di presa tipica degli altri teropodi. Infine, la coda dei primi pigostiliani era del tutto priva del ventaglio di penne timoniere che osserviamo nelle specie odierne, e che in questi ultimi svolge un ruolo di timone durante il volo. Concludendo, sebbene a prima vista i primi pigostiliani ricordino molto gli uccelli moderni (hanno lunghi arti anteriori dotati di lunghe penne, e hanno una coda ridotta in lunghezza), essi non presentano quasi nessuno dei dettagli anatomici che nelle specie viventi permettono il volo. Una possibile soluzione al paradosso potrebbe essere che i primi pigostiliani erano animali planatori, incapaci di battere le ali ma comunque in grado di lanciarsi dai rami e di discendere in sicurezza planando. Sebbene non si possa escludere questa ipotesi, essa appare più un tentativo di "giustificare" lo scenario tradizionale piuttosto che una interpretazione dei fatti paleontologici. Siccome si presume che il volo planato sia una forma di volo più semplice del volo attivo, si assume che esso sia la forma intermedia tra l'assenza di volo ed il volo battuto. Eppure, non ci sono motivi per pensare che il volo planato sia una fase necessaria verso il volo attivo. Innanzitutto, molti gruppi animali hanno sviluppato il volo planato (ad esempio, varie specie di rane, alcune di serpenti, vari gruppi di mammiferi, alcuni vissuti nel Mesozoico) ma poi non diedero origine a delle specie capaci di volo attivo: ciò suggerisce che il volo planato sia un adattamento "fine a sé stesso" legato ad un particolare stile di vita e non rappresenti necessariamente una tappa intermedia verso il volo attivo. Inoltre, l'anatomia dei planatori è in generale differente da quella dei volatori attivi: ad esempio, le proporzioni delle braccia e delle mani nei planatori sono spesso incompatibili con quelle degli veri volatori, e quindi è difficile pensare che dai primi si possa passare ai secondi. A questo proposito, è interessante confrontare i primi pigostiliani con gli scansoriopterigidi 1 32
incontrati nel precedente capitolo: questi ultimi hanno proporzioni anatomiche coerenti con quelle degli animali planatori, proporzioni che non vediamo nei primi pigostiliani. In conclusione, non ci sono motivi per considerare i primi pigostiliani come adatti al volo planato, né come animali muniti di qualche chiaro adattamento al volo battuto (perlomeno, non ne mostrano più di quanti ne potremmo trovare nei primi avialiani incontrati nel precedente capitolo, come gli jeholornitidi o lo stesso Archaeopteryx). Come risolvere l'enigma? I primi pigostiliani (come Sapeornis e Confuciusornis) avevano chiaramente abbandonato il modello locomotorio tipico dei teropodi, erano quindi "scesi" dal picco adattativo dei camminatori-corridori, ed al tempo stesso non mostrano chiari adattamenti né al volo planato né per quello attivo rispetto alle possibili prestazioni aeree che possiamo ammettere per i primi avialiani con coda lunga. Questi animali stazionavano in una valle poco adattativa per teropodi terricoli, e non paiono aver risalito alcuna cima della vetta del volo. La soluzione dell'enigma potrebbe essere fornita dall'osservazione di alcuni animali di oggi. Proprio come nel precedente capitolo ho invitato il lettore e liberare la mente dalle nostre aspettative evoluzionistiche, per cercare di capire questi animali in base alle loro caratteristiche peculiari e non come "tappe provvisorie" verso anatomie e capacità di volo moderne, così ora rinnovo l'invito a guardare questi animali fingendo di non sapere che essi siano parenti degli uccelli moderni. Prendiamo Sapeornis, e confrontiamolo con gli animali odierni, trascurando per un attimo gli uccelli. Sapeornis è caratterizzato da braccia lunghissime (una volta e mezzo più lunghe delle gambe, un record tra tutti i dinosauri mesozoici), braccia munite di lunghe mani dotate di due sole dita funzionali, entrambe armate di artigli ricurvi. Il piede è corto, ma mostra chiari adattamenti prensili (l'alluce è robusto e opponibile). La coda è cortissima e del tutto priva di funzionalità. Oggi, esistono alcuni animali con tutte queste carattetistiche: le proscimmie lorisidi, i bradipi e le scimmie ominidi. Tutti questi animali hanno le braccia molto più lunghe delle gambe, hanno adattamenti nella mano o nel piede per la presa dei rami, e tutti hanno la coda di dimensioni molto ridotte. Rispetto ai loro parenti privi di questi adattamenti, sono tutti relativamente lenti ed impacciati quando si spostano a terra, dato che hanno perso le caratteristiche cursorie o comunque l'abitudine a spostarsi a lungo al suolo. Tutti questi animali sono infatti molto più adatti ad arrampicare sugli alberi, e passano buona 1 33
parte della vita sui rami: al tempo stesso, essi non mostrano alcuna tendenza verso il volo planato né verso quello attivo. Essi sono animali arboricoli e la loro anatomia rispecchia proprio l'adattamento a spostarsi tra i rami. La mia ipotesi è quindi che i primi pigostiliani non avessero alcuna tendenza verso il volo, ma fossero invece un ramo di avialiani specializzatosi per una vita prettamente arboricola. Essi perfezionarono quindi la tendenza all'arrampicata che era già presente, in forma molto blanda, nei primi avialiani. Pertanto, rapportati ai loro antenati (probabilmente simili agli jeholornitidi), essi rappresentano da un lato una discesa dal picco delle capacità locomotorie terricole, e da un altro una ascesa lungo il picco delle capacità arboricole. A differenza dei primi avialiani (come Archaeopteryx), questi teropodi avevano perduto gli adattamenti locomotori ancestrali, tipici di animali terricoli, perché si erano specializzati ad uno stile di vita in cui gli altri teropodi non erano in grado di competere. Questa ipotesi "arrampicatrice" ha il pregio di non richiedere adattamenti al volo planato o attivo nei primi pigostiliani, e quindi non impone che il loro stile di vita sia una tappa forzata ed intermedia verso il volo degli uccelli moderni. Inoltre, essa ha il pregio di spiegare bene le caratteristiche di questi animali (inclusa l'assenza di chiari adattamenti al volo), e si può facilmente considerare un'estensione dell'adattamento alla vita arboricola che era iniziato nei primi avialiani (vedere capitolo precedente): l'evoluzione è sempre trasformazione di qualcosa pre esistente (in questo caso, la condizione che avevamo delineato nel capitolo precedente) e non una spinta verso qualcosa che si colloca nel futuro (il volo moderno). Infine, questa ipotesi giustifica la perdita degli adattamenti locomotori ancestrali collocando questi animali in una nicchia dove non occorre disporre di adattamenti alla camminata o alla corsa, e porta a suo favore degli analoghi viventi che mostrano proprio il peculiare mix di caratteristiche in questi teropodi. La "perdita" degli adattamenti locomotori "terricoli" tipici dei dinosauri difatti non costituisce un problema né un limite per un animale arboricolo ed arrampicatore, che non trascorre quasi più del tempo al suolo. Sebbene l'idea che gli uccelli moderni possano discendere da forme arboricole non sia nuova, le ipotesi precedenti si focalizzavano sulla vita arboricola come "trampolino" per il volo planato, e non consideravano quello stile di vita "fine a sé stesso": esse avevano introdotto l'adattamento alla vita sugli alberi per fornire un contesto plausibile al volo, che veniva assunto come "dato di fatto" . Qui, invece, io deduco la 1 34
vita arboricola sulla base delle caratteristiche dei primi pigostiliani senza considerare se essi fossero o no in qualche modo capaci di una forma di volo, né in relazione all'evoluzione delle specie più recenti. La condizione arboricola è quindi dedotta dall'anatomia dei fossili, e non imposta come contesto per giustificare l'eventuale adattamento al volo (a sua volta imposto per avere una forma intermedia verso il volo moderno). Non mi risulta che lo scenario "arrampicatore puro", che esclude una qualche forma di volo nei primi pigostiliani - e che propongo qui - sia stato discusso in passato: in particolare, non mi pare che animali come i bradipi o i loris siano mai stati invocati come possibili analoghi per qualche uccello mesozoico. Eppure, non ci sono motivi per negare l'ipotesi che la nicchia occupata oggi da questi mammiferi possa essere stata occupata da qualche piccolo teropode arboricolo: in tal caso, i primi pigostiliani sono i migliori candidati per questo ruolo. Nonostante che questa ipotesi escluda una fase con volo planato nei primi pigostiliani, nei prossimi capitoli vedremo che lo scenario qui delinato può fornire le condizioni ad animali non molto diversi da Sapeornis o Confuciusornis perché ad un certo punto essi "riciclino" alcune delle innovazioni anatomiche perfezionate per una vita prettamente arboricola e le utilizzino come base per un modello locomotorio fino a quel momento rimasto appannaggio unicamente degli pterosauri: il volo attivo. Riassumendo, il più recente antenato comune di Sapeornis e degli uccelli moderni era un pigostiliano vissuto all'inizio del Cretacico. Avialiano di ridotte dimensioni, pesante meno di un chilogrammo, era un animale arboricolo onnivoro, dotato di un muso relativamente corto e munito di un ridotto numero di denti privi di seghettatura. La coda era vestigiale. Dotato di arti anteriori estremamente allungati e di arti posteriori più corti, era in grado di arrampicare servendosi sia delle mani che dei piedi, dotati di alluce opponibile. Il piumaggio degli arti conferiva una superficie aerodinamica utile in caso di caduta.
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Capitolo nono Volare
O R N I T H OT H O RAC E S
O R N I TH U ROMO R P H A Poco noti al grande pubblico degli appassionati, gli enantiomiti sono uno dei gruppi di dinosauri di maggior successo. (Ricostruzione in vivo di Mirarce, basata sulla ricostruzione scheletrica in Atterholt et al., 2018).
Nel precedente capitolo, abbiamo incontrato i pigostiliani, un gruppo di avialiani caratterizzato dalla riduzione estrema della coda. La documentazione fossile del passaggio dagli avialiani dotati di lunga coda (condizione ancestrale degli uccelli, ereditata dagli altri dinosauri) a quelli dotati di coda corta è scarsa: per quanto le nostre conoscenze sulla prima fase della storia degli uccelli abbiano fatto un enorme balzo in avanti nell'ultimo quarto di secolo grazie ai ricchi giacimenti cinesi del Cretacico Inferiore, le tappe del passaggio alla condizione pigostiliana sono ancora lacunose. Pygostylia è costituito da tre rami principali, due dei quali incontrati nel precedente capitolo: i sapeornitidi, privi di sterno osseo (probabilmente, lo sterno era presente, ma unicamente cartilagineo) e con lunghi arti anteriori; i confuciusornitidi, dotati di un ridotto sterno ossificato e completamente privi di dentatura; e gli ornitotoracini, gruppo che comprende tutti gli uccelli moderni e la grande maggioranza di quelli mesozoici scoperti finora. I tre gruppi compaiono nella documentazione fossile cinese praticamente nel medesimo momento (i più antichi confuciusornitidi ed i più antichi ornitotoracini risalgono a 130 milioni di anni fa, mentre i sapeornitidi sono leggermente più recenti), e non abbiamo, per ora, forme intermedie che colleghino in modo inequivocabile i tre gruppi. Tuttavia, se per sapeornitidi e confuciusornitidi è ancora controverso stabilire se fossero effettivamente 136
capaci di una forma di volo attivo (motivo per cui, nel precedente capitolo, ho proposto l'ipotesi "arrampicatrice" per questi due gruppi), non ci sono dubbi sul fatto che, in seno agli ornitotoracini, sia avvenuta l'evoluzione della capacità di volare attivamente, ovvero di generare un battito d'ali sostenuto e permanente, che consente all'animale di sollevarsi in aria e di manovrare senza dover dipendere da posizioni sopraelevate o da correnti d'aria favorevoli. La capacità di volare in modo autonomo e attivo negli ornitotoracini è legata ad una serie di innovazioni anatomiche, assenti negli altri pigostiliani, e localizzate soprattutto a livello dell'arto anteriore e dello scheletro della regione pettorale (da qui il loro nome di "ornitotoracini" : "dotati del torace degli uccelli"). Lo sterno osseo, già presente nei confuciusornitidi, si amplia ed acquista una carena, ovvero una cresta centrale orientata lungo alla linea mediana del ventre ai cui lati si inseriscono i muscoli pettorali: questa cresta aumenta quindi la superficie di ancoraggio di questo muscolo, che accresce di volume e di potenza. L'osso che connette la spalla allo sterno (il coracoide), che negli altri dinosauri ha una forma piatta e poco allungata, negli ornitotoracini si allunga assumendo la forma di una barra, aumentando lo spazio (e quindi la leva) su cui si estende il muscolo pettorale. Parallelamente, l'articolazione della spalla migra, spostandosi dalla posizione laterale tipica dei maniraptori (e simile vagamente alla condizione presente anche nelle nostre spalle), ovvero rivolta ai lati del corpo, e si porta più in alto sul dorso (vagamente analoga alla posizione delle nostre scapole), rivolta verso la schiena: così facendo, il braccio è in grado di descrivere un arco molto più ampio, che si estende ben al di sopra e al di sotto del torace, consentendo il battito dell'ala. La mano si semplifica, riducendosi di lunghezza e divenendo di fatto quasi unicamente un elemento di supporto delle penne remiganti: se negli altri pigostiliani avevamo delle lunghe mani artigliate, utili per afferrare i rami, ora abbiamo un organo specializzato principalmente per modulare il battito dell'ala, flettendosi come un'unità coerente e non come l'insieme di dita indipendenti. In particolare, il primo dito della mano si accorcia e riduce: esso perde la capacità di afferrare saldamente gli oggetti, ma conserva l'antica abilità, sviluppata dai primi dinosauri, di divaricare rispetto al resto della mano (vedere il Primo Volume). Questa capacità viene ora "ricidata" per una nuova funzione: regolare la posizione di un ciuffetto di penne, ancorate al primo dito, rispetto al resto delle remiganti. Così facendo, il primo dito permette all'animale di direzionare il flusso dell'aria che scorre durante il 1 37
battito dell'ala. Questo ciuffo di penne, detto alula (vedere il Prologo del Primo Volume) è una delle chiavi del successo degli uccelli nella loro esplorazione dello spazio aereo, perché permette all'animale di non precipitare quando modifica la propria orientazione e velocità rispetto al flusso dell'aria. Un volatore privo di alula ha bisogno di un flusso d'aria particolarmente veloce per ricevere una spinta aerodinamica efficace, e quindi è limitato nelle sue manovre unicamente a quei movimenti che non rallentino tale flusso d'aria: il suo volo deve quindi assecondare il flusso e non può permettersi tutte quelle manovre, in particolare le decelerazioni o i bruschi cambiamenti di direzione, che possano ridurre la velocità del corpo rispetto all'aria. L'alula "affranca" il volatore da questi vincoli fisici, ampliando la gamma di movimenti e prestazioni che può svolgere in volo senza il rischio di entrare in stallo e precipitare.
Heterodontosaurus
Herrerasaurus
Caelophysis
Deinonychus
Zhouornis
Evoluzione della mano lungo i pan-aviani. In ciascun dito illustrato, il pollice è a sinistra, ed ogni metacarpale è colorato più scuro rispetto alle falangi corrispondenti. I primi dinosauri (come Heterodontosaurus) conservavano le cinque dita tipiche dei rettili, ma con il quarto e quinto già molto ridotti in dimensione. Nei teropodi (come Herrerasaurus) le due dita esterne si riducono ulteriormente, mentre le prime tre acquisiscono artigli falciformi. Nei neoteropodi (come Coelophysis), il quinto dito scompare del tutto, il quarto è vestigiale, il terzo si accorcia rispetto al secondo, ed il primo perfeziona la capacità di divaricare rispetto al resto della mano. Nei maniraptori (come Deinonychus) il secondo dito è molto allungato e porta le penne remiganti. Inoltre alcune ossa del polso si fondono a assumono una forma a mezzaluna. Negli ornitotoracini (come Zhouornis), i metacarpali si fondono all'osso a forma di mezzaluna, il primo dito si riduce e porta le penne dell'alula, mentre il terzo, vestigiale, perde ogni funzionalità (Immagini modificate da Cau et al, 2015, e Dal Sasso et al, 2018).
L'evoluzione dell'alula degli uccelli rappresenta un'innovazione aerodinamica fondamentale, che fu possibile grazie all'eredità degli 138
antichi dinosauri predatori: il meccanismo scheletrico e muscolare con cui gli uccelli oggi manovrano in aria, regolando la posizione delle penne dell'alula, è difatti il medesimo che permetteva ai grandi predatori mesozoici di regolare la posizione del primo dito della mano, dotato dell'artiglio più grande e robusto, rispetto al resto della mano quando questa afferrava la preda. L'alula quindi non fu una "creazione" improvvisa saltata fuori dal nulla, ma fu la rielaborazione di un meccanismo già presente in tutti i dinosauri predatori: usando la metafora del picco adattativo, nell'evoluzione della mano degli uccelli, l'alula non fu "costruita" da zero partendo da valle, bensì fu "presa in prestito" direttamente dal picco della "capacità di presa sugli oggetti", appena abbandonato. Le modifiche necessarie per trasformare il pollice dei teropodi nell'alula, difatti, sono abbastanza semplici: fu sufficiente accorciare il dito rispetto al resto della mano ed acquisire un ciuffo di penne aggiuntive. Ciò comportò il definitivo abbandono da parte dell'arto anteriore del picco "predatorio" che era stato inaugurato dai primi teropodi triassici. Dotati di una più potente muscolatura pettorale, di una spalla in grado di produrre una maggiore escursione del braccio, e muniti di una mano in grado di regolare elegantemente il flusso dell'aria, gli ornitotoracini avevano "riciclato" una serie di adattamenti già presenti nei teropodi precedenti (compresi gli altri pigostiliani), realizzando un sofisticato connubio di elementi per librarsi in aria senza il rischio di precipitare al suolo. I primi omitotoracini furono dei pigostiliani adatti come gli altri ad una vita arboricola, ma che in più perfezionarono la possibilità di saltare con sempre meno rischio da un ramo all'altro, generando autonomamente una spinta ascensionale con il battito delle braccia ricoperte di penne. I requisiti per produrre il battito delle ali, in particolare la tendenza ad aprire e chiudere le braccia in sincrono, erano già presenti nei pigostiliani che arrampicavano, i quali, a loro volta, avevano ereditato gran parte di questi elementi dai loro antenati che vivevano unicamente al suolo. In particolare, la tendenza ad afferrare un oggetto (come un tronco d'albero) usando ambo le braccia, pre-requisito del battito dell'ala, fu a sua volta la rielaborazione del precedente "abbraccio" usato dai teropodi predatori per trattenere le loro prede. Come per numerosi casi incontrati nei capitoli precedenti, vediamo che l'evoluzione è spesso un "riciclaggio" di strutture e modelli di comportamento evoluti precedentemente per condizioni e contesti diversi da quelli attuali. Alcune delle innovazioni anatomiche che formano 1 39
l'apparato alare degli ornitotoracini sono analoghe agli adattamenti arboricoli che vediamo in alcuni animali moderni. Possiamo quindi ipotizzare che questi adattamenti, comparsi per migliorare la capacità di arrampicare, si siano "accumulati" in silenzio come potenziali requisiti per il volo, fino a quando l'intera anatomia non ebbe acquisito il minimo di condizioni idonee per rendere "vantaggiosa" la strada del volo. Gli altri pigostiliani, come i sapeornitidi, non disponevano dell'intero ''bagaglio" di adattamenti potenziali, e quindi è presumibile che non avessero alcuna tendenza a librarsi in aria. Probabilmente, i primissimi ornitotoracini non erano "interessati" a divenire animali volatori: essi, molto banalmente, trassero vantaggio da tutte quelle innovazioni utili allo stile di vita arboricolo e che, incidentalmente, rappresentavano anche dei potenziali strumenti per librarsi in aria. Non bisogna dimenticare che la vita arboricola comporta dei rischi, il principale dei quali è dato dalla caduta dai rami: quasiasi elemento anatomico o comportamentale che, anche solo come effetto collaterale, riduca il rischio di caduta, o comunque rallenti la velocità di caduta dell'animale, sarà ovviamente selezionato favorevolmente, accumulandosi anche in animali che non sono "attivamente" spinti ad acquisire la capacità di volò. Ad esempio, anche se a prima vista le lunghe penne remiganti e timoniere - già presenti nei maniraptori terricoli (ed evolutesi probabilmente come attributi legati alla selezione sessuale) - non forniscono alcun vantaggio nell'arrampicata, possono comunque essere utili nel fornire una superficie "paracadute" qualora l'animale cada al suolo: pertanto, pur non essendo funzionale all'arrampicata, il piumaggio sarebbe conservato e persino selezionato favorevolmente nei pigostiliani arboricoli. Mano a mano che si perfezionavano gli adattamenti arboricoli in questi pigostiliani, e quindi mano a mano che essi risalivano il picco arboricolo, essi ascendevano "virtualmente" anche la base del picco del volo, poiché accumulavano tutta una serie di adattamenti potenzialmente utili anche per un animale volatore: così facendo, il passaggio al volo vero e proprio fu molto rapido e non richiese particolari rivoluzioni né stravolgimenti della biologia di questi animali. Ciò può spiegare come mai, attualmente, non disponiamo di fossili intermedi tra i primi pigostiliani "solamente arboricoli" ed i primi ornitotoracini: la transizione al volo fu relativamente rapida (alla scala dei tempi geologici), e quindi è bassa la probabilità che sia documentata nei fossili. Se si escludono alcune specie enigmatiche di difficile collocazione, Ornithothoraces è divisibile in due gruppi principali: Enantiornithes ed 1 40
Ornithuromorpha. Questo ultimo include anche gli antenati delle specie moderne, e sarà descritto nel prossimo capitolo. Gli enantiorniti, a cui è dedicato questo capitolo, meriterebbero da soli un libro, dato che costituiscono probabilmente il gruppi di dinosauri di maggiore successo del Mesozoico! La frase può apparire esagerata (è possibile che più di un lettore, pur appassionato di dinosauri, non abbia mai sentito nominare gli enantiorniti prima di leggere queste pagine), ma è ben motivata. Primo, attualmente si conosce circa un centinaio di specie di enantiorniti, su un totale di circa un migliaio di specie di dinosauri mesozoici battezzate: quindi, una specie di dinosauro ogni dieci-dodici è un enantiornite, una proporzione che molti gruppi più "blasonati" non possono certo vantare. Secondo, questo gruppo fu identificato da una manciata di specie solamente quaranta anni fa, ma oggi è arricchito da nuove specie descritte praticamente con cadenza mensile: la sua diversità documentata cresce a ritmo molto sostenuto. Terzo, anche se il gruppo è ormai noto in quasi i tutti i continenti tranne Africa e Antartide (dove i fossili di dinosauro sono in generale scarsi, specialmente quelli di piccole dimensioni), la grande maggioranza degli enantiorniti conosciuti proviene da una ristretta parte del Cretacico Inferiore e da una ridotta zona della Cina: dato che è molto improbabile che questi animali vissero solamente nelle zone dove abbiamo trovato i loro fossili, tutti gli elementi geologici e paleontologici a disposizione per interpretare questo dato ci inducono a pensare che la ricchezza dei siti cinesi sia la vera "misura" dell'abbondanza globale di questi animali nel Cretacico, e che, pertanto, estrapolando il numero di fossili estratti da quei pochi siti cinesi, rapportandoli ai 70 milioni di anni dell'intero Cretacico, ed estendendo tale abbondanza a scala planetaria, deduciamo che questo gruppo deve aver prodotto migliaia di specie, molte più di quelle stimabili per qualsiasi altro ramo di Dinosauria. Superficialmente, gli enantiorniti appaiono molto simili ad alcuni uccelli moderni (in particolare, molti di loro ricordano vagamente certi passeriformi): entrambi i gruppi sono difatti accomunati dalle innovazioni anatomiche legate alla capacità di volo attivo, e condividono la forma corporea generale che associamo al "modello anatomico degli uccelli" . Tuttavia, sarebbe molto fuorviante interpretare gli enantiorniti come una "versione mesozoica" di ciò che poi gli uccelli moderni realizzarono dopo l'estinzione di massa della fine del Cretacico. Innanzitutto, perché una parte importate delle caratteristiche che definiscono proprio il "modello anatomico degli uccelli" come li 141
conosciamo oggi si è evoluta dopo che le linee evolutive di Ornithuromorpha ed Enantiornithes si separarono: tutte queste innovazioni anatomiche (che saranno illustrate nel prossimo capitolo) non sono presenti negli enantiorniti. Inoltre, gli stessi enantiorniti acquisirono delle proprie peculiarità che non osserviamo negli uccelli moderni. I due gruppi, pertanto, costituiscono due diverse realizzazioni di un modello generale di cui le specie viventi oggi sono solo una tra le possibili opzioni. In particolare, il cranio degli enantiorniti conserva alcune caratteristiche tipiche di tutti i maniraptori, come la presenza di due distinte finestre nella parte posteriore del cranio (negli uccelli moderni, una delle due finestre si apre completamente, di fatto "scompare" dal cranio, mentre l'altra confluisce nella cavità oculare). Inoltre, la maggioranza delle specie conserva i denti (in alcuni casi, questi denti presentano persino una forma di seghettatura). Una differenza rilevante tra enantiorniti e uccelli moderni è nella geometria delle ossa che formano l'articolazione della spalla: negli enantiorniti, queste ossa sono connesse secondo una configurazione che è "opposta" rispetto a quella nelle specie odierne (il nome "enantiornite", letteralmente: "uccello opposto", allude proprio a questa differenza anatomica): dove gli uccelli attuali hanno una convessità che penetra una concavità, gli enantiorniti hanno una concavità penetrata da una convessità. Dato che per passare da una versione all'altra occorre "transitare" dalla condizione ancestrale di tutti gli avialiani, ciò solleva l'intrigante speculazione che i due gruppi abbiano acquisito almeno parte dell'impianto scheletrico che permette il battito dell'ala in modo indipendente, a partire da un antenato comune non ancora pienamente capace di volo attivo. Infine, è significativo che - in analogia con i primi pigostiliani introdotti nel precedente capitolo - non ci siano prove di penne timoniere nelle code degli enantiorniti per i quali siano conservate tracce del piumaggio: in alcuni casi, la coda era adornata da due lunghe penne simili a nastri (probabilmente, un carattere sessuale secondario dei maschi adulti), ma non portava il ventaglio di penne che nelle specie moderne è utilizzato come "timone" durante il volo. Questo ultimo dettaglio implica che la tecnica di volo degli enantiorniti non fosse del tutto analoga a quella delle specie odierne, e che, in particolare, a parte le manovre regolabili con l'alula, questi avialiani non avessero "esplorato" l'intero repertorio di volo che osserviamo negli uccelli di oggi. La maggioranza degli enantiorniti conosciuti ha dimensioni 1 42
comprese tra quelle di un passero e quelle di un corvo, e presenta adattamenti arboricoli, in particolare la piena capacità delle dita delle zampe posteriori di afferrare saldamente un ramo o la superficie di un tronco. Alcune specie della seconda metà del Cretacico (una fase della storia enantiornite che finora ha fornito meno fossili rispetto ai ricchi giacimenti dell'inizio del periodo) raggiungono dimensioni maggiori, simili a quelle di un'aquila o di un tacchino, e suggeriscono una ancora poco nota storia di diversificazione sia anatomica che ecologica in questi avialiani per tutto il Cretacico. In alcuni enantiorniti del Cretacico Superiore, le proporzioni dell'ala suggeriscono una riduzione della capacità di volo rispetto alla condizione originaria dei primi ornitotoracini, analoga alla riduzione della capacità di volo in molti gruppi attuali. Forse, in futuro scopriremo qualche enantiornite di dimensioni anche maggiori, e che, in analogia con i grandi uccelli attuali, aveva perduto completamente la capacità di volare (o, forse, sono già stati scoperti ma non sono stati riconosciuti come tali). Dato che gli scheletri di questi teropodi sono in maggioranza così piccoli e fragili, essi sono facilmente deperibili: è probabile che molte specie abitanti ambienti poco favorevoli alla fossilizzazione (come gli ambienti desertici o lontano da specchi d'acqua) non abbiano lasciato tracce della loro esistenza. Fino ad ora, non abbiamo prove inequivocabili di enantiorniti adatti ad uno stile di vita anche solo in parte acquatico (adattamenti che invece abbondano nelle specie moderne), sebbene in un gruppo, i longipterigidi, la forma del muso (allungato ed affusolato) sia simile a quella di animali che si nutrono di piccoli invertebrati acquatici. Inoltre, il piede di alcune specie della fine del Cretacico, purtroppo note solo da resti molto limitati, ricorda gli adattamenti al nuoto che osserviamo in alcuni uccelli moderni. Il destino degli enantiorniti sarà lo stesso della maggioranza degli altri dinosauri: alla fine del Cretacico, nonostante un successo planetario, questi avialiani scompaiono senza lasciare discendenti. Fossili di questo gruppo si ritrovano fino nei livelli terminali del periodo, sia nell'Emisfero Settentrionale che in quello Meridionale, mentre nessuno strato più recente di 66 milioni di anni ha restituito finora traccia di enantiorniti. L'estinzione totale di questo gruppo di enorme successo rispecchia la crisi globale che colpisce tutto il pianeta e che chiude il Mesozoico. Vedremo nel prossimo capitolo che anche altri avialiani vissuti alla fine del Mesozoico si estingueranno assieme agli altri dinosauri. Sovente, specialmente a livello popolare, l'estinzione dei dinosauri è descritta in 1 43
contrapposizione alla sopravvivenza degli uccelli. Questa dicotomia è sbagliata e fuorviante, non tiene conto del pesante tributo che anche gli avialiani hanno dovuto pagare alla fine del Cretacico. Gli uccelli andarono incontro ad una massiccia estinzione, e solamente un gruppo di avialiani, dal quale derivano tutte le specie viventi oggi, riuscì a sopravvivere. Pertanto, dipingere l'estinzione che chiude il Mesozoico come un "filtro" dal quale passarono indenni gli uccelli ma che bloccò "i dinosauri" (intesi qui come tutti i dinosauri ad eccezione degli uccelli) manca il centro della questione e crea una falsa dicotomia tra un modello dinosauriano che scompare ed uno aviano che sopravvive. Se ci fu una sommatoria di fattori che permise agli antenati degli uccelli moderni di sopravvivere, tale sommatoria non era presente negli enantiorniti né in altri avialiani che, se fossero viventi oggi, tutti noi classificheremmo senza indugio nella medesima categoria dei sopravvissuti. Qualsiasi sia stato il "difetto" che portò i dinosauri "classici" all'estinzione, esso era presente anche nella maggioranza degli uccelli del tempo. Se moltissimi animali che - almeno ad una osservazione superficiale - ci appaiono "più uccelli che dinosauri" fecero la stessa fine dei "grandi rettili", allora non è nella dicotomia "rettile vs uccello" che troveremo la spiegazione del perché alcuni sopravvissero e molti si estinsero. Come mostrato in più punti di questi due volumi, l'idea che esista una netta separazione tra "i rettili" (inclusi i dinosauri) rispetto agli uccelli cade e perde di consistenza non appena osserviamo i fatti paleontologici nel dettaglio. Anche nell'estinzione finale del Mesozoico, non ha senso dividere gli uccelli dagli altri dinosauri: il destinto dei primi fu praticamente lo stesso di quello dei secondi, ed anche per gli uccelli la grande crisi di 66 milioni di anni fa rappresentò un momento di catastrofica rivoluzione. Vedremo in un prossimo capitolo come (e forse, perché) un particolare tipo di avialiano potè sopravvivere dove la grande maggioranza dei suoi simili fallì. Riassumendo, il più recente antenato comune di enantiorniti e uccelli moderni era un ornitotoracino vissuto all'inizio del Cretacico Inferiore. Pigostiliano di dimensioni ridotte (pesante meno di mezzo chilogrammo), era un animale arboricolo dalla coda vestigiale, dotato di arti anteriori modificati in ali e capaci di generare un battito sostenuto e prolungato. L'animale era in grado di manovrare in volo a bassa velocità modulando la posizione dell'alula. Il piede, munito di alluce apponibile, garantiva una presa sicura sui rami e contro i tronchi. 1 44
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Capitolo decimo Il modello anatomico moderno
O R N I T H U ROMO R P H A
A differenza degli enantiomiti, gli omituromorfi mostrano una spiccata propensione a vivere al suolo e a sfruttare gli ambienti acquatici. Il "ritorno a terra" di questi avialiani fu realizzato rielaborando la muscolatura della gamba e del bacino, e perfezionando il sistema di volo con l'aggiunta di un nuovo elemento, il timone di coda. (Ricostruzione in vivo di Yixianornis, basata sulla ricostruzione scheletrica in Clarke et al., 2006).
I l grande successo degli enantiomiti durante il Cretacico testimonia la "conquista" da parte dei dinosauri di un nuovo tipo di ambiente in cui fino ad allora essi non si erano avventurati stabilmente: le fronde degli alberi, le chiome e tutti quei contesti in cui occorreva essere molto piccoli e leggeri e possibilmente dotati di prestazioni aerodinamiche, perlomeno per evitare di precipitare al suolo. La riduzione estrema del sistema muscolare inserito sulla coda, motore della locomozione di tutti i dinosauri, implica che i pigostiliani fossero relativamente meno adatti alla locomozione a terra rispetto ai loro parenti con coda lunga. Probabilmente, un enantiomite a terra non avrebbe potuto trovare nella corsa una salvezza da un predatore, e sicuramente sarebbe risultato più lento e meno resistente nell'andatura di un "classico" maniraptoro terricolo. Se, da un lato, questo limite locomotorio a terra costituiva una spinta negli ornitotoracini a migliorare e potenziare sempre più la capacità di volo quale alternativa alla corsa, dall'altro rappresentava un ostacolo enorme alle potenzialità di questi animali qualora si fossero avventurati "nuovamente" nel contesto terricolo dominato dagli altri
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teropodi. La perdita della coda, difatti, rendeva molto difficile, se non impossibile per questi animali una "seconda scalata" al picco dell'andatura bipede, sopra il quale i dinosauri "classici" continuavano a diversificarsi con successo. Nei medesimi livelli del Cretacico Inferiore, risalenti a 130 milioni di anni fa, in cui sono presenti i primi confuciusornitidi ed i primi enantiorniti, si rinvengono anche i più antichi rappresentanti di un terzo gruppo di pigostiliani. Essi condividono con gli enantiorniti numerose innovazioni legate al volo battuto, compreso lo sterno osseo, la carena centrale nello sterno, le modifiche nella mano e nelle ossa della spalla. A quelle innovazioni, i rappresentanti di questo terzo gruppo aggiungono progressivamente anche delle peculiari caratteristiche a livello del torace, della coda e del piede. Nel giro di una dozzina di milioni di anni, questo ramo di pigostiliani si differenzia e caratterizza nettamente rispetto al modello che abbiamo visto nei loro parenti enantiorniti, e acquisisce una morfologia generale che è molto prossima a quella che vediamo negli uccelli di oggi. Questo ramo, chiamato Ornithuromorpha (o, in alcune trattazioni, Euornithes) pur non avendo un record fossilifero cretacico abbondante come quello di Enantiornithes, negli ultimi venti anni si è arricchito di dozzine di specie, la maggioranza delle quali scoperte nei famosi giacimenti cinesi che hanno preservato anche il piumaggio dei dinosauri. Il modello anatomico ornituromorfo introduce tre innovazioni assenti negli altri avialiani. Lo sterno si ingrandisce ulteriormente e si espande in direzione dell'addome. Non solo lo sterno aumenta di dimensioni assolute, ma anche la carena posta nella sua superficie ventrale si allunga in avanti e si approfondisce, permettendo una enorme espansione del muscolo pettorale. Se l'effettiva capacità propulsiva dei pettorali enantiorniti è oggetto di discussione, così come la loro capacità di decollare da qualsivoglia condizione, non ci sono dubbi che gli ornituromorfi abbiano rapidamente acquisito una completa indipendenza nella generazione della spinta ascensionale. In particolare, è probabile che gli ornituromorfi fossero perfettamente in grado di decollare da terra, e che non fossero quindi vincolati dalla presenza di posizioni elevate (come le chiome degli alberi) o dalla disponibilità di correnti ascensionali. E qualora queste capacità fossero confermate anche per gli enantiorniti, a maggior ragione dobbiamo dedurle per gli ornituromorfi. La possibilità di decollare dal suolo rappresenta un indubbio vantaggio per animali che, in quel contesto, dovrebbero essere 1 47
svantaggiati rispetto ai teropodi terricoli. Da ciò, si può supporre che gli ornituromorfi fossero maggiormente a loro agio al suolo rispetto agli enantiorniti. Che questa non sia una speculazione lo deduciamo dall'anatomia del piede di questi pigostiliani, il quale spesso è privo di adattamenti per afferrare i rami ed appollaiarsi (tipici invece degli enantiorniti arboricoli), ma è dotato di dita lunghe ed affusolate, in alcuni casi conformate in modo da poter agire come organi per il nuoto. Con gli omituromorfi, compare per la prima volta un gruppo di dinosauri che sfrutta ampiamente l'ambiente acquatico. Almeno tre gruppi (i gansuidi, gli esperornitiformi, entrambi del Cretacico, e parte degli aviani cenozoici fino alle specie attuali) hanno evoluto adattamenti per muoversi e nutrirsi in acqua. Questa tendenza ad invadere gli ambienti acquatici è inusuale se confrontata con gli altri dinosauri incontrati finora, in grande maggioranza di abitudini prettamente terricole: a parte gli spinosauridi, limitati nello spazio e nel tempo alla prima metà del Cretacico di una ristretta zona alle basse latitudini, o gli enigmatici halszkaraptorini, attualmente noti solamente nella seconda parte del Cretacico dell'Asia centrale, nessun gruppo di dinosauri aveva prodotto una stirpe così numerosa di specie adattate ad uno stile di vita semi-acquatico e distribuite a scala globale quanto gli omituromorfi. Ancora oggi, il ramo vivente degli ornituromorfi include varie centinaia di specie diffuse negli ambienti sia marini che d'acqua dolce. Le modifiche della gamba per una locomozione a terra e persino per una propulsione in acqua sono legate alla riorganizzazione delle ossa del bacino di questi avialiani, che ha portato numerosi muscoli della zona pelvica a divenire i nuovi generatori della spinta locomotoria al posto dell'ormai atrofizzato muscolo caudofemorale. Quelle stesse ossa del bacino che erano ridotte di dimensione nei primi avialiani (ad esempio, negli anchiornitidi), negli ornituromorfi si allungano ed espandono in direzione della coda, fornendo supporto per fasci muscolari deputati a muovere la gamba e a generare il passo. Non solo questi muscoli si riorganizzano per sostituirsi al ruolo del caudofemorale, ma la gamba stessa sviluppa una nuova conformazione muscolare a livello del ginocchio, che ora diventa il principale snodo del passo. In particolare, una cresta ossea posta appena sotto il ginocchio, cresta che è presente in tutti i dinosauri terricoli ma che proprio nei primi avialiani si era ridotta in concomitanza con la riduzione delle prestazioni nella camminata, negli ornituromorfi si espande nuovamente e si accompagna ad una seconda cresta, comparsa ex nova, posta al suo fianco: i muscoli che si inseriscono ·
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su queste creste formano la "coscia" del pollo (sebbene la vera coscia sia l'articolazione dell'anca, e non quella del ginocchio: la "coscia del pollo" è difatti l'equivalente del nostro polpaccio), e sono specializzati nel piegare il ginocchio durante la camminata. Gli ornituromorfi quindi "re inventano" la camminata terricola tipica dei dinosauri (ma che i primi avialiani avevano messo in secondo piano), ed abbandonano la "valle inadatta" in cui erano scesi i pigostiliani a seguito della riduzione della coda. Pertanto, è improprio dire che gli uccelli moderni camminino come i loro antenati dinosauriani: la camminata che vediamo nelle specie attuali è difatti una peculiarità degli ornituromorfi, una invenzione parziale indotta dalla loro discendanza da animali che avevano perduto parte delle innovazioni locomotorie dei dinosauri loro predecessori. Da ciò concludiamo che usare gli uccelli moderni (ad esempio, i grandi corridori come gli struzzi) come modello per ricostruire il modo di camminare dei dinosauri bipedi sia in parte fuorviante, dato che il modello di camminata aviana moderna è il risultato di una fase molto recente di "re-invenzione" del sistema muscolo-scheletrico di gamba e bacino a partire da animali arboricoli che avevano abbandonato il precedente modello dinosauriano "classico" . L'evoluzione, per l'ennesima volta, ci appare come molto più eterogenea e bizzarra di quanto le nostre narrazioni lineari vorrebbero farci credere. Infine, negli ornituromorfi la coda acquisisce una nuova funzione. Abbiamo visto che nei primi avialiani essa era assottigliata e che nei primi pigostiliani si era ridotta drammaticamente, diventando una piccola appendice apparentemente priva di funzione, se non - forse - come sostegno per una coppia di lunghe penne ornamentali (probabilmente presenti solo nei maschi adulti di alcune specie). Negli ornituromorfi, la parte terminale della coda, formata da ossa fuse (il pigostilo ), si accorcia ulteriormente e diviene la base su cui si inserisce un ventaglio di penne simili a quelle delle ali, dette timoniere. Penne simili erano presenti nella coda di molti maniraptori, ma erano scomparse nei primi pigostiliani: anche in questo caso, quindi, gli ornituromorfi paiono "ripristinare" elementi anatomici dei maniraptori, elementi che erano scomparsi negli altri pigostiliani, adattandoli ad una funzione nuova. In questo caso, il ventaglio di penne, ancorato al pigostilo e mosso dai muscoli alla base della coda, permettono all'animale di manovrare efficacemente durante il volo. La coda negli ornituromorfi diviene quindi una componente fondamentale del sistema di volo, il timone con il quale l'animale è in grado di compiere con maggiore efficacia ed indipendenza i cambiamenti 1 49
di direzione e di quota. Con l'evoluzione di una funzione di timone nella coda, il modello di volo che caratterizza gli uccelli moderni è completo. Se i primi avialiani, come Archaeopteryx, vissuti 150 milioni di anni fa, ci hanno mostrato un primo accenno delle ali degli uccelli (lunghi arti anteriori con piumaggio dotato di proprietà aerodinamiche), e se con i primi pigostiliani, vissuti 130 milioni di anni fa, abbiamo avuto il primo impianto generale del "corpo degli uccelli" (dotato di ali e di una corta coda), è solo intorno a 120 milioni di anni fa, lungo la storia ornituromorfa, che possiamo finalmente osservare l'anatomia generale di tutti gli uccelli a noi familiari: animali dotati di ali e di coda corta munita di penne timoniere. Per tutto il Cretacico, gli ornituromorfi si differenziano in vari gruppi, alcuni più longevi, altri limitati cronologicamente (o, perlomeno, attualmente conosciuti solo in un ristretto intervallo temporale). A partire dalla metà del periodo (intorno a 100 milioni di anni fa), i gruppi meglio rappresentati nei livelli cinesi centro della "Rivoluzione Piumata" (come gli hongshanornitidi, i songlingornitidi ed i gansuidi) sono sostituiti da nuove forme caratterizzate da una semplificazione nel numero degli elementi ossei che formano i vari elementi dello scheletro: ad esempio, i metatarsali del piede si fondono completamente tra loro, formando una singola unità detta tarsometatarso. Il grado di fusione delle ossa del piede è tale che nell'adulto di questi uccelli, compresi i loro discendenti moderni, non è più possibile separare le ossa principali del metatarso (su cui articolano le tre dita principali del piede): questo processo di fusione estrema delle ossa precluderà nelle specie che si adatteranno alla corsa l'evoluzione di una forma di arctometatarso (vedere il terzo capitolo di questo volume: l'arctometatarso richiede una relativa elasticità dei legamenti che collegano le articolazioni tra metatarsali distinti). Anche le ossa del palmo della mano seguono un processo analogo e si fondono tra loro formando una struttura unica, detta carpometacarpo: la mano ormai è quasi unicamente un elemento dell'ala ed ha perduto ogni funzione legata alla predazione o all'arrampicata. Inoltre, le vertebre che formano la serie sacrale su cui si connette il bacino aumentano di numero, passando dalle sette-otto dei primi pigostiliani a più di dieci. Parallelamente, le ossa del bacino si fondono completamente, al punto che le articolazioni tra i vari elementi risultano invisibili nell'adulto. Persino le ossa del cranio si semplificano: la parte posteriore perde alcune delle ossa che formavano i margini delle antiche finestre arcosauriformi (vedere il Primo Volume), e quelle più a stretto contatto con la scatola cranica si 1 50
assottigliano e fondono. In generale, l'intero scheletro degli ornituromorfi della seconda metà del Cretacico pare soggetto ad un generale processo di semplificazione e massiccia fusione tra elementi distinti. Uno scheletro così rigido e compatto era in grado di sopportare e gestire le intense sollecitazioni del volo attivo e prolungato. La completa fusione delle ossa è un attributo tipico degli stadi finali, più maturi, nella crescita dei vertebrati. Di fatto, è come se negli ornituromorfi fosse stata accelerata la maturazione dello scheletro, che così tendeva a completare la fusione delle ossa molto prima di quanto, normalmente, avverrebbe negli altri dinosauri. La maturazione rapida dello scheletro fu ottenuta tramite l'accelerazione della crescita, la quale, tuttavia, non comportò in questi avialiani un aumento delle dimensioni rispetto a quelle degli altri uccelli mesozoici. La crescita fu sì molto rapida, ma limitata nel tempo: raggiunto lo stadio adulto in un paio di anni o anche meno, essa si fermava, senza indurre una ulteriore crescita delle dimensioni. Questa condizione differiva degli altri dinosauri, in cui, pur rallentando con la maturità, la crescita non si fermava nemmeno nell'adulto. Intorno alla metà del Cretacico Superiore, circa 90-80 milioni di anni fa, compare un nuovo tipo di ornituromorfi. A prima vista, essi non risultano particolarmente inusuali all'interno del cespuglio ornituromorfo in pieno rigoglio alla fine del Mesozoico, e che comprende forme come gli ittiornitiformi, gli esperornitidi o i patagopterigidi. In questo caso, le innovazioni di questo gruppo comprendono adattamenti già visti in altri gruppi di dinosauri, come l'aumento delle ossa del sacro (che connettono colonna vertebrale e bacino) o la perdita completa dei denti, sostituiti da un becco corneo. Essi erano in maggioranza animali adatti al sottobosco, terricoli e onnivori, ma comunque forniti di un eccellente apparato alare che consentiva loro di decollare da terra e mantenersi in volo per lunghe distanze, spinti dal lavoro di un enorme muscolo pettorale alimentato da un metabolismo particolarmente rapido. Conseguenza del metabolismo muscolare accelerato, anche il loro tasso di crescita era insolitamente rapido, persino per gli standard degli ornituromorfi, e questo, oltre a comportare una sistematica fusione delle ossa dello scheletro, completava la maturità fisica e sessuale in solo un anno dalla schiusa. La possibilità di crescere e riprodursi entro un anno dalla schiusa potrebbe non significare molto per la sopravvivenza contingente di un singolo individuo, ma può avere conseguenze enormi quando applicata all'intera popolazione, o se risulta caratteristica di un intero gruppo di specie tra loro imparentate. E 151
questa caratteristica, apparentemente marginale in tempi di vacche grasse, potrebbe fare la differenza tra il successo e la sconfitta in momenti di vacche magre, nel pieno di una crisi planetaria. La crisi giunse, inaspettata e devastante, 66 milioni di anni fa, stravolgendo globalmente quanto realizzato nei precedenti 180 milioni di anni. Quel gruppo di bizzarri omituromorfi erano gli aviani (detti anche neorniti), gli uccelli moderni, gli unici dinosauri che superarono la catastrofe che chiude il Mesozoico. Riassumendo, il più recente antenato comune di hongshanomitidi, songlingornitidi, gansuidi, patagopterigiformi, esperornitidi ed uccelli moderni era un omituromorfo vissuto all'inizio del Cretacico Inferiore. Pigostiliano pesante circa un chilogrammo, era un onnivoro in grado di vivere sia tra gli alberi che al suolo. L'arto posteriore ed il bacino erano adatti alla locomozione a terra. L'enorme muscolatura pettorale permetteva all'animale di decollare da differenti contesti, e di sostenere a lungo il volo battuto. La coda, molto corta, era modificata per portare un ventaglio di penne timoniere utilizzate per manovrare in volo.
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Capitolo undicesimo La non-estinzione degli aviani
AV E S Nessuna delle oltre diecimila specie di uccello moderno ha conservato tutte le caratteristiche ancestrali degli aviani della fine del Cretacico. Tuttavia, è plausibile che l'ecologia originaria del gruppo non fosse molto diversa da quella prettamente terricola degli odierni tinamidi. (lllustrazione di un Tinamus).
Molte questioni scientifiche orbitano attorno ad un sistema binario, la coppia formata dai criteri di continuità e discrezione. A volte, il problema risulta chiaro e dettagliato perché illuminato dal concetto del continuo, altre volte è invece reso più netto e comprensibile se riceve luce dal concetto del discreto. Il medesimo tema può essere osservato sotto ambo le luci, ed il contrasto prodotto dalle due diverse prospettive permette di apprezzare la forma completa di ciò che, illuminato solo da un'unica sorgente, appariva come una superficie illusoriamente piatta e monotona. Per millenni, l'uomo ha osservato la Natura ignaro della enorme
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profondità di tempo che ha richiesto la fondazione e realizzazione degli esseri viventi che lo circondano. Anche i primi naturalisti, padri della moderna tassonomia biologica, non poterono uscire dal vincolo contingente del tempo presente, e crearono categorie plasmate su ciò che osservavano nell'unico intervallo temporale a disposizione, nel mondo che appariva loro evidentemente fisso ed immutabile. Nel mondo attuale, all'interno del quale tutta la nostra civiltà e le sue categorie sono state costruite, gli uccelli sono un'entità fissa, discreta e distinta dai rettili. I due gruppi sono separati da un'enorme voragine morfologica, fisiologica, comportamentale. Nel presente, non esiste nulla che colmi tale voragine, e ciò è sufficiente per proclamare i due tipi animali come realtà chiare ed evidenti. Le nostre tassonomie tradizionali sono correttamente conformi con l'evidenza del mondo in cui viviamo. Esse sono, pertanto, contingenti al momento in cui sono state definite. Ma se fossimo vissuti nel Cretacico, e tutta la nostra civiltà e le sue categorie fossero state realizzate all'interno di quel contesto naturale, è probabile che non esisterebbe un concetto di "uccello" distinto da quello di "rettile" . Nel Cretacico Superiore, avremmo osservato intorno a noi uccelli del tipo a noi oggi familiare, ma anche altri uccelli, lievemente differenti ma non per questo radicalmente distinti, come gli altri ornituromorfi. Avremmo osservato anche altri avialiani, non eccessivamente differenti dagli ornituromorfi, come gli enantiorniti. Avremmo osservato avialiani dalla coda lunga, non troppo bizzarri rispetto ai pigostiliani, esattamente come oggi osserviamo scimmie con coda lunga e scimmie con coda corta e ciò non costituisce motivo di turbamento nelle classificazioni. Ed accanto ai vari avialiani, avremmo osservato innumerevoli paraviani non troppo diversi dagli avialiani a coda lunga, come i troodontidi. Ed accanto a questi paraviani, avremmo osservato una grande diversità di maniraptori, all'interno dei quali i paraviani non sono che una tra le variazioni sul medesimo tema generale. Ed accanto ai maniraptori, avremmo osservato innumerevoli gruppi di celurosauri, non eccessivamente differenti rispetto ai maniraptori, come gli ornitomimosauri. Ed accanto ai celurosauri avremmo osservato altri teropodi terricoli, come gli abelisauroidi gracili, i quali, pur riconoscendoli distinti, non si discostavano radicalmente dal modello anatomico generale condiviso coi celurosauri. E all'interno di quel modello anatomico bipede, non avremmo avuto problemi a ricondurre anche l'anatomia generale degli ornitopodi bipedi. Ed allora, constatateremmo che l'anatomia generale degli ornitopodi bipedi non è altro che una variazione sul tema che osserviamo anche in altri ornitischi, 1 54
come i dinosauri corazzati. E a quel punto, sarebbe difficile trovare un motivo valido per non includere in quel medesimo gruppo, che comprende animali quadrupedi corazzati, anche i coccodrilli (soprattutto perché, nel Cretacico, esistevano anche coccodrilli terricoli e forme gracili ed affusolate simili ai primi dinosauromorfi). Nel Cretacico, quindi, la vasta discontinuità che oggi osserviamo tra uccelli e coccodrilli non esisterebbe, e difficilmente potrebbe fondare una qualche tassonomia naturale. Se noi e la nostra Scienza fossimo nati e vissuti immersi nella diversità biologica del Cretacico, la distinzione tra uccelli e coccodrilli non sarebbe radicale, non sarebbe una voragine incolmabile, e riconosceremmo i due gruppi come gli estremi tra le innumerevoli espressioni di un singolo, denso continuum di forme ed adattamenti collegati tra loro. Per noi sarebbe naturale ed ovvio vedere quanto rigogliosa sia la continuità delle forme, e costruiremmo le nostre tassonomie alla luce della caleidoscopica esuberanza di un medesimo modello biologico comune. Non avrebbe senso parlare di "rettili" contrapposti ad "uccelli", perché sarebbe vano ed arbitrario porre qualsiasi confine tra le due categorie: qualsivoglia sia il punto in cui fissare tale limite, da ambo i suoi lati avremmo animali che smentiscono e irridono l'idea di una loro separazione. Avrebbe senso chiamare i troodontidi "rettili" e gli anchiornitidi "uccelli"? I due gruppi sono praticamente identici. Avrebbe senso chiamare i maniraptori "uccelli" ma gli ornitomomosauri "rettili"? Il confine ci apparirebbe ridicolo. Avrebbe senso chiamare il piccolo Kulindadromeus ricoperto di filamenti piumosi col nome di "uccello" e battezzare i loro cugini anchilosauridi dalla pesante corazza di squame come "rettili"? Eppure, entrambi sono ornitischi. Siamo giunti al nucleo della Rivoluzione Piumata. Abbiamo visto come ogni singolo passaggio della trasformazione evolutiva che dai rettili triassici ancestrali ha portato agli aviani della fine del Cretacico sia graduale, continuo, mai radicale, mai drammatico. Le coppie di organismi che incontriamo prima e dopo ogni passaggio della sequenza non mostrano mai una trasformazione così drammatica da dover invocare un "salto di categoria" . Lungo l'intera serie evolutiva, non esiste alcuna discontinuità la cui importanza sia giustificabile se non da motivazioni arbitrarie. Ci troviamo a constatare che Reptilia è come la Berlino della Guerra Fredda, alla quale fu imposto il Checkpoint Charlie sulla base di arbitrarie contingenze storiche del tutto slegate dal reale tessuto della 1 55
città. Allo stesso modo, non possiamo imporre alcuna cesura né divisione reale tra animali squamati ed animali piumati, perché Aves non è una realtà distinta da Reptilia, ma solamente un suo sottogruppo definito in modo arbitrario e contingente. La realtà biologica come ci appare nei fossili è il continuo, e quello che osserviamo nel mondo attuale è un falso discontinuo, una voragine illusoria aperta tra due categorie arbitrarie. Eppure, alla pari del Checkpoint Charlie, per quanto le categorie attuali siano riconosciute come arbitrarie e la discontinuità sia una illusione, esse hanno una ragione storica, una causa traumatica: noi esseri umani del tardo Pleistocene abbiamo plasmato le categorie di "rettile" ed "uccello" dopo che il continuum biologico del Cretacico fu spezzato da un evento naturale di enorme potenza, esso sì una discontinuità reale, che ha prodotto, non solo in senso figurato, una enorme voragine, dai cui margini noi abbiamo ereditato la biologia attuale. L'evento che definisce il limite tra il Mesozoico ed il Cenozoico, evento datato a circa 66 milioni di anni fa, rappresenta la più grande discontinuità nel registro fossilifero dopo la fine del Permiano. Il termine "evento" in paleontologia indica un episodio relativamente breve alla scala del tempi geologici, ma estremamente intenso nei suoi effetti. La durata di tale evento, vista dalla prospettiva di un essere vivente, potrebbe anche essere molto lunga, nell'ordine delle migliaia di anni, e quindi non necessariamente risultare "percettibile" nella misura in cui ognuno di noi percepisce lo scorrere degli eventi. Pertanto, in molti casi, gli "eventi" alla scala geologica appaiono come lunghissimi processi graduali se osservati dagli esseri viventi: ciò che geologicamente è una discontinuità netta apparirebbe quindi come un lunghissimo continuum agli occhi degli organismi che vivano durante quel momento. Tuttavia, almeno nel caso dell'evento che chiude il Mesozoico, la causa scatenante è praticamente istantanea persino alla scala temporale degli organismi: l'impatto di un corpo minore del Sistema Solare con la Terra. Sui meccanismi fisici e sulle conseguenze geologiche, ambientali e climatiche dell'impatto della fine del Cretacico è stato scritto moltissimo. Eppure, solo di recente abbiamo raccolto dati diretti sull'evento e sulle immediate conseguenze ambientali di tale cataclisma. Non tutte le dinamiche innescate da un impatto di così grande energia sono chiare. Gli effetti "istantanei" o relativi alle primissime ore e giorni dopo l'impatto potrebbero non essere necessariamente quelli che hanno innescato l'evento vero e proprio che porta alla crisi biologica globale che conclude "l'età dei dinosauri". Visto dalla nostra prospettiva distante decine di 1 56
milioni di anni, l'evento in sé è alquanto nebuloso, e noi possiamo dipingerne i meccanismi in modo molto approssimativo e parziale. Se non ci sono dubbi che la conseguenza a larga scala dell'impatto avvenuto nel Golfo del Messico 66 milioni di anni fa fu una estinzione di massa, più difficile è capire come e perché un fenomeno squisitamente astronomico e geofisico produca poi la selettività nella sopravvivenza delle forme di vita sulla Terra. L'ultima frase può sembrare sconcertante, dato che appare evidente che un impatto di dimensioni colossali capace di produrre un cratere ampio un centinaio di chilometri liberi un'energia distruttiva al di sopra di qualsiasi catastrofe l'uomo abbia mai sperimentato. Ma è proprio di fronte alla dimensione delle energie liberate che noi perdiamo la capacità di discriminare come esse possano condurre alla scomparsa di talune specie e non di altre. Difatti, buona parte dei discorsi sull'estinzione della fine del Mesozoico, prodotti nell'ultimo trentennio dopo che il sito dell'impatto fu identificato, si sono focalizzati sulla relativamente semplice questione del processo fisico (l'impatto e le sue conseguenze geofisiche ed atmosferiche), ma hanno ovviamente marginalizzato le ben più complesse questioni sulle conseguenze nel mondo vivente. Ciò ha lasciato molto margine a narrazioni semplicistiche in cui, preso atto dell'impatto e dato per scontato che esso abbia alterato le condizioni ambientali a scala globale per un intervallo di tempo variabile dai mesi ad una dozzina di anni, si deduce che gli ecosistemi siano collassati, trascinandosi dietro una lunga serie di specie estinte. Alcune semplificazioni, specialmente a livello popolare, sono oltre che grossolane anche fuorvianti. La vulgata sull'estinzione di fine Cretacico è che "i dinosauri scompaiono e i mammiferi sopravvivono" . Già il solo fatto che gli uccelli siano dinosauri smentisce la prima parte della frase. Ma anche la seconda parte è falsa, dato che tutti i gruppi principali di mammiferi mesozoici furono colpiti in misura variabile e subirono estinzioni in alcuni casi di entità paragonabile a quella dei dinosauri. Pertanto, piuttosto che perpetrare la falsa dicotomia per cui i dinosauri perirono e i mammiferi passarono indenni l'evento, è più corretto constatare una "uniformità di destino": sia Dinosauria che Mammalia furono colpiti dall'evento, ed in ambo i gruppi ci furono numerose specie vittime accanto a quelle sopravvissute. Rimarcare questa uniformità di destino aiuta ad inquadrare il fenomeno, e libera il campo da falsi problemi. Siccome l'estinzione colpì sia i mammiferi che i dinosauri, e siccome sia tra i mammiferi che tra i dinosauri ci furono superstiti, è inutile cercare nelle differenze biologiche tra mammiferi e 1 57
dinosauri la spiegazione della sopravvivenza degli uni rispetto alla scomparsa degli altri. Analogo ragionamento si può applicare concentrandoci unicamente sui dinosauri. L'idea che "gli uccelli sopravvissero mentre gli altri dinosauri scomparvero" è ugualmente errata e fuorviante. Nella lista dei gruppi di dinosauri che scomparvero ci sono molti omituromorfi e tutti gli enantiorniti, ovvero animali che non avremmo alcun dubbio a classificare come uccelli. Anche gli uccelli subirono perdite pesanti nell'estinzione di 66 milioni di anni fa. Capire il perché ed il come dell'ultima frase è, a mio avviso, persino più importante della (molto inflazionata) questione del perché i dinosauri (quelli "classici", i "non uccelli") scomparvero. Difatti, il vero problema allora non è il cercare di comprendere quali fenomeni abbiano portato alla scomparsa di ornitischi, sauropodomorfi o dei grandi teropodi terricoli. Il vero paradosso è perché gli enantiorniti, così abbondanti e di successo, siano scomparsi assieme ai grandi dinosauri "classici", mentre gli antenati diretti degli uccelli che ci circondano, gli aviani, ovvero animali molto più simili agli enantiomiti rispetto a qualunque dinosauro "classico", siano invece sopravvissuti. In breve, la domanda con cui chiudo la Rivoluzione Piumata non è "perché si estinsero i dinosauri?", bensì "perché non si estinsero gli aviani?". Risolvere questa domanda, infatti, significa anche rispondere alla domanda del perché noi oggi viviamo in un mondo dove "rettile" ed "uccello" appaiono come entità distinte, separate da una enorme discontinuità anatomica e funzionale (prodotta dalla voragine catastrofica in cui sono caduti tutti i gruppi di pan-aviani ad eccezione degli aviani stessi). Per risolvere l'enigma, occorre avere una qualche stima, anche grossolana, sulla presenza ed abbondanza di uccelli di tipo moderno (aviani) alla fine del Mesozoico. Stimare il numero minimo di gruppi moderni (non necessariamente rappresentati da specie simili a quelle che vivono oggi) già presenti prima dell'impatto ci aiuta a pesare l'anomalia della sopravvivenza aviana rispetto agli altri dinosauri. Da siti risalenti agli ultimi venti milioni di anni del Cretacico, dalla Mongolia all'Europa settentrionale, fino all'Antartide, sono noti i resti di omituromorfi molto simili agli aviani. In larga parte, si tratta di ossa singole, spesso parziali, che tuttavia mostrano caratteristiche "moderne" (ovvero, tipiche delle forme vissute dopo il Mesozoico), in particolare a livello dell'articolazione della spalla e della caviglia. Sebbene in passato questi resti siano stati classificati dentro gruppi moderni ("ordini", usando la tassonomia tradizionale), oggi la grande maggioranza di loro non è più considerata 158
una prova che gruppi moderni fossero presenti già nel Cretacico. Essi piuttosto testimoniano la presenza del ceppo ancestrale degli aviani già a partire da 80 milioni di anni fa, ma non permettono di stabilire se e quante linee "moderne" (che portano fino ad oggi) fossero già distinte e separate prima della crisi biologica di 66 milioni di anni fa. Stabilire il numero (anche minimo) di linee moderne già presenti nel Cretacico è indispensabile per comprendere l'entità dalle "sopravvivenza" aviana durante la fase di estinzione: tanto più numerosi sono i gruppi moderni identificabili nel Cretacico finale, più alto risulta il numero minimo di aviani che non perì nella catastrofe. Prendiamo due opzioni estreme, e valutiamo le differenti implicazioni che ciascuna comporta. Nel primo caso estremo, ammettiamo che 66 milioni di anni fa sia sopravissuta una sola specie di aviano, e che tutti gli uccelli successivi (inclusi quelli viventi oggi) siano discendenti da quella singola specie superstite. In base a questo scenario, una sola specie ornituromorfa scampò alla catastrofe, e tutte le altre perirono. In tal caso, dovremmo concludere che anche gli ornituromorfi andarono incontro ad una estinzione molto dura, quasi totale, quasi analoga (al netto di una singola specie) a quella degli altri dinosauri (inclusi gli enantiorniti). In quel caso, dovremmo concludere che la persistenza degli uccelli moderni dopo il Mesozoico fu puramente accidentale e indistinguibile da un "colpo di fortuna" : al netto del singolo superstite fortunato, il destino degli ornituromorfi fu praticamente identico a quello degli altri dinosauri, e non è possibile distinguerlo dal fato avverso che colpì invece gli altri. Per fare un esempio analogo, immaginiamo un disastro aereo in cui tutti i passeggeri del volo muoiano tranne una persona molto fortunata. La sopravvivenza di quel singolo è sicuramente dovuto ad una sommatoria di fattori, ma è praticamente impossibile capire quali siano, quando tutte le altre persone, comprese quelle sedute accanto a lui, sono invece morte. Dobbiamo quindi concludere che il superstite fu, appunto, molto fortunato, ma non possiamo dire molto altro. Nel secondo caso estremo, ammettiamo che 66 milioni di anni fa, appena prima della catastrofe, sulla Terra ci fossero numerose specie di aviani primitivi, e che tutti siano sopravissuti. Da questi sopravissuti sarebbe originata tutta la diversità degli uccelli attuali. In questo secondo caso, dovremmo quindi concludere che gli aviani furono immuni alla crisi biologica, e che pertanto la loro schiacciante sopravvivenza implichi una qualche carta vincente, un qualche elemento tipico della loro biologia, assente negli altri dinosauri (inclusi gli enantiorniti), che conferì loro un 1 59
enorme vantaggio. Tornando all'esempio del disastro aereo, in questo caso avremmo un'intera famiglia, genitori e figli, che sopravvive al disastro mentre tutti gli altri passeggeri soccombono. Un evento del genere non può essere ricondotto al "puro caso", perché tutti i superstiti sono imparentati tra loro, essi sono legati da una causa precedente l'incidente e che non è condivisa dai deceduti, e ciò rende altamente improbabile che essi siano rimasti in vita per una sommatoria di casualità pure. Quale che sia la ragione della sopravvivenza, il sospetto che essa sia vincolata a qualche fattore condiviso tra i superstiti è quindi molto forte. Il buon senso ci dice che la verità sul fato aviano alla fine del Cretacico sia da qualche parte in mezzo ai due casi estremi menzionati prima. I fossili attualmente noti ci aiutano a definire in quale punto delle possibili opzioni collocare la soluzione. Almeno due generi di ornituromorfi vissuti alla fine del Cretacico sono classificabili in linee moderne. Uno, Vegavis, è un potenziale anseriforme primitivo (ovvero, membro della linea degli anatidi e dei loro parenti), oppure, in alternativa, è classificato come membro primitivo di Galloanserae, il ramo aviano che comprende sia anseriformi che galliformi (la linea che include fagiani, quaglie, polli e loro parenti). Il secondo genere, di recentissima scoperta, è Asteriornis, un galliforme primitivo. Questi fossili sono noti da livelli di poco precedenti la fine del Cretacico, uno in Europa e l'altro in Antartide, a dimostrazione di una distribuzione globale degli aviani a ridosso della catastrofe. Il fatto che questi due fossili siano entrambi riconducibili a Galloanserae ha delle implicazioni evoluzionistiche importanti per stimare il numero minimo di aviani presenti prima della estinzione di massa. Difatti, la presenza di alcuni galloanseri già alla fine del Cretacico implica che almeno le tre principali diramazioni di Aves (oltre a Galloanserae, sono Palaeognathae e Neoaves) fossero già separate una dall'altra prima di 66 milioni di anni fa. Pertanto, già oggi possiamo stimare che il numero minimo di linee di aviani esistenti al momento dell'impatto fosse tre-quattro: almeno uno-due galloanseri, un neoaviano, ed un paleognato. Questo numero è probabilmente una stima per difetto, dato che è presumibile che gli aviani fossero più abbondanti di quanto dicano gli scarsi fossili scoperti finora. Il fatto che almeno quattro (ma probabilmente più) specie di aviani fossero presenti al momento dell'estinzione e sopravvissero, mentre il 100% degli enantiorniti ed il lOO% di tutti gli altri dinosauri si estinse, suggerisce che gli aviani disponessero di qualche "asso", qualche caratteristica unicamente loro, condivisa da tutti gli aviani ma assente 1 60
negli altri dinosauri (inclusi gli enantiomiti), e che essa diede loro un qualche vantaggio, anche minimo ma tuttavia sufficiente per aiutarli a resistere fino al momento in cui gli effetti più deleteri della catastrofe non fossero diminuiti di intensità. L'asimmetria tra il numero minimo di sopravvissuti aviani e la totale scomparsa di tutti gli altri rami di Dinosauria è difatti troppo marcata per essere casuale. Difficile, altrimenti, spiegare come mai gli aviani passarono la crisi con almeno quattro specie (e, ripeto, probabilmente un numero maggiore) mentre enantiorniti, dromeosauridi, troodontidi, oviraptorosauri, alvarezsauridi, ornitomomosauri, tirannosauridi, abelisauridi, noasauridi, titanosauri, adrosauridi, tescelosauri, anchilosauridi, nodosauridi, pachicefalosauridi e ceratopsi (solo a citare i principali gruppi di dinosauri presenti 66 milioni di anni fa) scomparvero del tutto senza alcun appello. Il contrasto è troppo marcato per essere casuale. Tale caratteristica "salvifica" potrebbe non essere necessariamente legata a qualche peculiarità adattativa che fosse selezionabile "in tempi normali", e forse potrebbe persino non avere qualche particolare significato rispetto al resto della biologia dinosauriana. Eppure, tale attributo, condiviso solo tra gli aviani, aumentò la loro probabilità di sopravvivenza durante i momenti critici della catastrofe. Proviamo a confrontare gli aviani con gli altri dinosauri, alla ricerca di qualche elemento peculiare, e poi proviamo a capire se tale elemento possa avere un qualche valore "di sopravvivenza" durante una crisi ambientale di portata globale. Ricordiamoci che tra gli "altri dinosauri" ci sono anche gli altri ornituromorfi e gli enantiorniti. Prima di analizzare queste caratteristiche, è bene dipingere anche solo a grandi linee quale scenario catastrofico è oggi considerato il canovaccio più plausibile per tutta questa vicenda. L'ipotesi che la Terra sia stata colpita da un corpo minore del Sistema Solare, di alcuni chilometri di diametro, proprio alla fine del Cretacico fu elaborata inizialmente per giustificare delle anomalie nelle concentrazioni di elementi chimici piuttosto rari sulla Terra, e riscontrati in abbondanza nei sedimenti a cavallo del passaggio dal Cretacico al Paleogene. L'ipotesi quindi assume che la fonte di questi elementi chimici sia il corpo impattante la Terra. Si stima che l'impatto tra la Terra ed un bolide di circa 10 chilometri di diametro abbia prodotto un cratere di almeno un centinaio di chilometri (poi effettivamete identificato nel Golfo del Messico), e liberato nell'atmosfera dell'intero pianeta una grande quantità di gas, vapore e pulviscolo (derivati dalla disintegrazione del bolide e di parte della crosta terrestre nell'area dell'impatto) 161
sufficiente per alterare la circolazione atmosferica e la penetrazione della luce solare per un intervallo di tempo che va da qualche mese ad alcuni anni (scenario detto "Inverno Nucleare", in analogia con le simulazioni degli effetti di un conflitto globale con armi nucleari). Diversi modelli matematici hanno simulato differenti gradi di devastazione e di danno sia climatico che atmosferico, ma tutti concordano nello stimare che la fase più drammatica del deterioramento dell'atmosfera e del clima sia durata per un intervallo di tempo compreso tra un anno ed un decennio. Passata quella fase, il clima e l'atmosfera devono essere tornati più o meno rapidamente a condizioni "pre-impatto". Pertanto, anche senza entrare nei dettagli, già ora possiamo stabilire che, qualsiasi siano stati gli effetti particolari sulle singole specie, l'intera fase "catastrofica" e di "crisi globale" si estende in un raggio di tempo che va da qualche anno a qualche decennio, con condizioni atmosferiche e climatiche ampiamente variabili ed in rapida evoluzione durante tutta la crisi. Questa è la scala di tempo dentro la quale un qualche attributo vincente degli aviani deve aver fatto la differenza tra l'estinzione e la sopravvivenza. Notare che durante la crisi ipotizzata in questo scenario si presume che il clima e le condizioni atmosferiche siano andati incontro a trasformazioni anche rapide ed intense, spesso contrastanti le une rispetto alle altre: non dobbiamo quindi immaginare un singolo contesto a scala globale esteso in modo monotono durante l'intera crisi (come, per esempio, una notte perenne, o una fase di continuo abbassamento della temperatura), ma piuttosto come una rapida serie di trasformazioni drammatiche delle condizioni ambientali. Notare inoltre che un intervallo di tempo come quello stimato rende irrilevante stabilire se e come qualche animale sia sopravvissuto all'immediata devastazione dell'impatto: a noi serve trovare qualche elemento biologico che permetta alla specie di sopravvivere per tutta l'intera fase di crisi ambientale, anche di durata decennale, non solamente alla fase di "inverno nucleare" che spesso viene menzionata parlando dell'impatto di fine Mesozoico. Difatti, è possibile che molte specie sopravvissute al primissimo anno post-impatto (probabilmente, il più duro dal punto di vista climatico ed ambientale) possano poi essersi estinte nei primi decenni successivi, durante la successiva fase di "d-equilibrio climatico", per motivi non legati direttamente agli effetti immediati dell'impatto. Dalla lista dei potenziali attributi vincenti, possiamo subito escludere la maggioranza delle caratteristiche anatomiche aviane, perché queste sono condivise in vario modo da tutti gli altri dinosauri, in 1 62
particolare dagli enantiorniti, ma non diedero a questi ultimi alcun vantaggio. Se queste caratteristiche fossero state pertinenti, ci aspetteremmo una sopravvivenza più diluita e diffusa anche tra altri dinosauri. Escludiamo quindi elementi come il piumaggio, la presenza del becco, la capacità di volare, il bipedismo o le ridotte dimensioni corporee. Un elemento a favore degli aviani potrebbe essere stato la loro distribuzione geografica globale alla fine del Cretacico (dalla Mongolia all'Antartide), che aumentò la probabilità che qualche specie abbia avuto la fortuna di essere al posto giusto al momento giusto, trovando un possibile ambiente rifugio? Per quanto non sia da escludere che una ampia distribuzione geografica aumenti la probabilità di sopravvivenza, alzando il numero di potenziali rifugi per una popolazione, non ci sono motivi per escludere un simile vantaggio anche per gli enantiorniti, ugualmente cosmopoliti come gli aviani. Pare quindi improbabile che la mera distribuzione geografica abbia dato qualche vantaggio nel pieno di una catastrofe globale. Recentemente, è stato proposto che durante la crisi ambientale prodotta dall'impatto di fine Cretacico, gli aviani abbiano avuto un vantaggio "ecologico" sugli enantiorniti. Secondo questo scenario, gli aviani, principalmente terricoli e consumatori delle risorse del suolo, avrebbero subito gli effetti del collasso della vegetazione (causato dall'immediato oscuramento dell'atmosfera prodotto dalla nube eiettata dall'impatto) meno pesantemente rispetto agli enantiomiti, principalmente arboricoli (vedere capitoli precedenti) e quindi molto più legati alla presenza della vegetazione arborea. Per quanto accattivante, questo scenario non spiega l'estinzione degli altri ornituromorfi, con ecologia non troppo dissimile da quella dei primi aviani né del gran numero di dinosauri non-aviani anche essi prettamente terricoli. La lista delle possibili caratteristiche adattative degli aviani che potrebbero averli "salvati" è lunga, ma temo che sia destinata a risultare sempre insoddisfacente e parziale. Per quanto ci sforziamo di cercare un qualche adattamento anatomico o ecologico aviano, possiamo sempre identificare qualche specie con il medesimo adattamento ma che nondimeno si estinse. Non si può negare che l'estinzione sia stata una sommatoria di fattori, e che gli aviani abbiano avuto la fortuna di possedere la somma più alta di elementi vincenti, ma resta il sospetto che una simile spiegazione sia una forzatura per non ammettere che non è possibile identificare un qualche fattore nella loro anatomia o ecologia che 1 63
abbia effettivamente giocato a favore degli uccelli di tipo moderno. La soluzione dell'enigma potrebbe essere scritta nella struttura generale della catastrofe, piuttosto che in qualche suo elemento particolare che ha agito come filtro tra estinti e sopravvissuti. L'estinzione di massa della fine del Cretacico non coinvolse solamente i dinosauri, ma colpì organismi di tutte le forme, dimensioni ed ecologie, dai microscopici componenti del plankton marino, ai giganteschi mosasauri, alle ammoniti, agli pterosauri, a numerosi gruppi di mammiferi, squamati e molluschi. Pertanto, con una così ampia diversità di vittime, è improbabile che l'estinzione abbia agito su un particolare adattamento, o ecologia o habitat. Quando un'estinzione è così ampia e sistemica, significa che essa andò ad intaccare elementi più generali delle specie, e non le loro specificità adattative ed ecologiche. I sopravvissuti quindi non furono tali in virtù di qualche loro specifico adattamento, dato che è improbabile che una specie ben adattata a sopravvivere alla primissima fase di "inverno post-impatto", caratterizzato da scarsità di luce, crollo delle temperature e morìa della vegetazione, sia poi stata ugualmente adatta a fronteggiare la successiva fase di rapido innalzamento delle temperature, al provvisorio effetto serra ed alla fase arida che si stima essere avvenuta negli anni successivi alla ricaduta al suolo della maggioranza del pulviscolo liberato in atmosfera con l'impatto. Nessuna specie, per quanto generalista, frugale ed adattabile, era comunque "preparata" a fronteggiare tutta la serie, così rapida e intensa, di stravolgimenti estremi del clima e dell'ambiente, perché episodi del genere sono troppo rari per permettere alle specie di evolvere contromisure nei loro confronti. Tutti, sia i gruppi scomparsi che quelli sopravvissuti, dovettero quindi sopportare condizioni di estrema instabilità ambientale e di rapido combiamento (spesso in direzioni diametralmente opposte) del clima. Ed è proprio nella generale instabilità e intensità delle variazioni, accumulatesi in pochi anni dopo l'impatto, che sta la chiave per capire chi, come gli aviani, potè sopravvivere. L'ipotesi che sviluppo qui è che la sopravvivenza di una specie durante la fase più acuta della crisi, che non si limita all'immediatezza dell'impatto ma si estende anche alla decina di anni successivi, non sia legata a qualche adattamento anatomico o fisiologico peculiare della specie, bensì a qualche caratteristica "strutturale" delle popolazioni, qualche attributo "di livello superiore" all'individuo, ovvero un elemento non necessariamente adattativo e funzionale alle esigenze "quotidiane" del singolo individuo, ma che diede alla specie in toto la resistenza 1 64
sufficiente per arrivare numericamente robusta fino alla fine degli anni più duri. Un tale attributo, pertanto, potrebbe anche non aver dato alcun vantaggio particolare ai singoli durante la crisi, avvantaggiando solamente le loro popolazioni. Se gli aviani disponessero di un tale attributo, assente negli altri dinosauri, avremmo fatto un passo in avanti verso la soluzione dell'enigma. Questo elemento è presente, e lo possiamo determinare nei fossili. Dalle sezioni delle ossa fossili, noi possiamo determinare la curva di accrescimento di una specie, ovvero, la dinamica con cui in media l'individuo aumentava di dimensioni dalla nascita fino alla maturità. Per la grande maggioranza dei dinosauri, queste curve ci indicano che essi crescevano ad una velocità superiore a quella tipica dei rettili odierni, e che la maturità fisica e riproduttiva erano raggiunte dopo vari anni, in genere dopo un decennio. Questa dinamica di crescita si osserva anche nei vari uccelli mesozoici, con una significativa eccezione: gli aviani mostrano il tasso di crescita più rapido di tutti i dinosauri, e tra i più alti del mondo animale, talmente elevato che la maturità sessuale era (ed è tuttora) raggiunta prima che l'animale abbia compiuto un anno dalla schiusa dall'uovo. Il tasso di crescita eccezionalmente rapido degli aviani non costituisce di per sé un particolare vantaggio adattativo, dato che tutti gli altri dinosauri mesozoici non mostrano alcuna tendenza ad accelerare così marcatamente la loro velocità di crescita (che, va ripetuto, è comunque molto maggiore di quella degli altri rettili), ma è probabilmente legata alla serie di innovazioni nello scheletro e nella muscolatura che definisce il modello di volo ornituromorfo: l'accelerazione della crescita fu, pertanto, un "effetto collaterale" dell'evoluzione al volo portata all'estremo in alcuni ornituromorfi. Nondimeno, pur non costituendo un particolare vantaggio adattativo "in tempi normali", la rapidità con cui gli aviani raggiungono la fase adulta potrebbe aver dato loro quel piccolo vantaggio necessario alle loro specie per resistere alla crisi ambientale di fine Mesozoico. Per illustrare questa ipotesi, simuliamo una situazione semplificata, ed immaginiamo di avere tre specie di dinosauri della fine del Cretacico: un aviano, un omituromorfo non imparentato direttamente con gli uccelli moderni, ed un troodontide (vedere i capitoli precedenti). Immaginiamo che queste specie vivano nei medesimi contesti ambientali, sfruttino risorse alimentari simili e che siano sottoposte allo stesso tasso di mortalità individuale dovuto alle rigide condizioni ambientali successive all'impatto. Per ridurre il numero dei fattori in gioco, quindi, 1 65
immaginiamo che tutti gli individui delle tre specie abbiano la stessa probabilità di sopravvivere alla crisi, e che questa probabilità sia del 5% annuo. Ovvero, ogni anno, di 100 individui delle tre specie, solo 5 arrivano vivi all'anno successivo. Inoltre, immaginiamo che anche il tasso riproduttivo sia stato compromesso dalla crisi ambientale, e che in media, solo un uovo per ogni individuo prodotto in un anno schiuda con successo. Con questi indici di sopravvivenza, abbastanza duri per i singoli individui e per le loro covate, seguiamo la storia di ciascuna specie, immaginando che in ciascuna lo stesso numero di uova schiuda esattamente il giorno dell'impatto (per semplificare, collochiamo queste uova in una zona non direttamente coinvolta con l'impatto stesso, ad esempio, in Asia centrale, lontano dal Golfo del Messico dove è avvenuto l'impatto). Le tre specie sono quindi ecologicamente molto simili, e si presume quindi che subiranno le conseguenze ambientali e climatiche dell'impatto in modi sostanzialmente simili. La unica differenza tra le tre specie è che gli aviani raggiungono la maturità riproduttiva dopo un anno dalla schiusa, gli altri omituromorfi dopo tre anni, e i troodontidi in dieci anni (tutti questi valori sono realistici, basati sulle misurazioni tratte dai fossili). Lo scopo della simulazione è valutare se, al netto di altri fattori che per ora non siamo in grado di valutare, la semplice differenza nel tasso di crescita individuale degli aviani rispetto agli altri dinosauri incida sulla sopravvivenza delle specie. Un anno dopo l'impatto, tutte e tre le popolazioni hanno subìto la medesima sorte: il tasso di sopravvivenza individuale è del 5%, e quindi su 1000 individui nati un anno prima da ciascuna popolazione, ora ne abbiamo solo 50 ancora in vita. Con l'inizio del secondo anno, gli aviani grazie alla loro crescita molto rapida - entrano nella fase adulta ed iniziano a riprodursi, mentre né gli omituromorfi né i troodontidi sono ancora in grado di produrre uova. Passa un altro anno, e le tre popolazioni stanno ancora subendo gli effetti della crisi ambientale globale: il loro tasso di sopravvivenza individuale è sempre del 5%, ma mentre la popolazione di aviani ha già iniziato a riprodursi, generando un pulcino per adulto, le altre due specie non sono ancora in grado di riprodursi e vedono ridurre progressivamente le loro popolazioni. All'inizio del terzo anno, abbiamo più generazioni di aviani in vita (somma dei nati il primo anno ancora vivi e dei nuovi nati sopravvissuti), contro solo i pochi superstiti della prima generazione di omituromorfi e troodontidi. Già a questo punto, è probabile che il numero di esemplari per quelle due specie sia già ampiamente sotto la soglia in cui uno 1 66
zoologo della conservazione getterebbe la spugna e dichiarerebbe la specie estinta. Nel frattempo, la specie di aviano ha iniziato lentamente, ma inesorabilmente, a crescere, pur subendo come le altre due un tasso di mortalità individuale annua del 95%. Con il quarto anno, anche la popolazione di omituromorfo inizia lentamente a crescere, ma il suo numero rimane bassissimo, molto sotto quello della popolazione aviana. Il troodontide, purtroppo, è probabilmente già entrato a far parte del campo della paleontologia e non più della biologia. Alla fine del periodo di crisi, che immaginiamo essere durato non oltre la ventina di anni, il mondo inizia a tornare a condizioni meno dure, il tasso di sopravvivenza individuale inizia a salire, e i superstiti vedono un futuro più roseo di fronte a loro. La popolazione di aviani ha continuato tenacemente a riprodursi ogni anno, mentre quella dell'altro ornituromorfo è partita con qualche anno di ritardo, restando più a lungo sotto la soglia di rischio in cui eventi casuali possono cancellarla. Non soprende quindi se, dopo la fine della crisi, essa scompaia del tutto anche per la competizione con la ben più numerosa popolazione dell'aviano. Unica superstite, con una popolazione ormai sopra la soglia di estinzione, e con un intero pianeta a disposizione solo per sé, la stirpe aviana si avvia verso un glorioso destino alle soglie dell'Era Cenozoica. Ovviamente, la simulazione descritta è una situazione molto semplificata, ma ci dimostra che non occorre invocare qualche innovazione adattativa legata alle effettive conseguenze dell'impatto, sia di natura anatomica o ecologica, per spiegare la sopravvivenza aviana rispetto agli altri dinosauri. Per avere l'estinzione totale di tutti i dinosauri ad eccezione degli aviani (inclusi gli altri ornituromorfi) è stato sufficiente introdurre una differenza nel tasso di maturazione individuale, differenza che noi sappiamo essere effettivamente esistita: la crisi, per le sue caratteristiche di durata pluriennale, ha poi fatto il resto. Falcidiando gli individui di tutte le specie (inclusi gli aviani!) tutti allo stesso modo, essa ha, indirettamente, favorito le popolazioni con tassi di maturazione più rapidi, quindi gli aviani rispetto a tutti gli altri dinosauri. Rimarco che la sopravvivenza individuale nella simulazione è la medesima in tutti gli animali, inclusi gli aviani: preso individualmente, un singolo aviano ed un singolo troodontide avrebbero avuto la medesima probabilità di sopravvivere alle avverse condizioni della crisi ambientale. Il diverso destino delle specie non fu quindi influenzato dalla sopravvivenza dei suoi componenti, ma fu deciso dal modo con cui le loro popolazioni furono rapide a rifornirsi di nuovi individui per fronteggiare la mortalità 1 67
diffusa, nonostante tale fattore non abbia inciso in alcun modo sulla sopravvivenza particolare dei singoli animali. Per evitare fraintendimeni, questo scenario non si propone come teoria generale per spiegare l'intera estinzione della fine del Cretacico, ma è piuttosto plasmato per e finalizzato unicamente a spiegare la sopravvivenza degli aviani rispetto al resto di Dinosauria, nonostante che essi non fossero particolarmente diversi dagli altri uccelli o da molti dinosauri piumati nello stile di vita o nelle capacità di sfruttare l'ambiente. Nondimeno, è ragionevole supporre che durante le grandi estinzioni di massa, che colpiscono indiscriminatamente forme di vita di tutti i livelli ecologici e di tutti i gruppi filogenetici, qualsiasi fattore che possa incidere sulla "resistenza numerica" delle popolazioni, specialmente rispetto ai loro potenziali competitori nello sfruttamento delle poche risorse disponibili, deve aver giocato un ruolo fondamentale per il destino delle singole specie. Concludendo, è probabile che gli uccelli moderni debbano la loro sopravvivenza nella catastrofe ambientale che colpì il pianeta 66 milioni di anni fa, e che portò tutti gli altri gruppi di dinosauri all'estinzione in tempi quasi istantanei (alla scala geologica), ad un "effetto collaterale" (una proprietà emergente al livello di popolazione) del loro particolare metabolismo. Durante la seconda metà del Cretacico, essi avevano progressivamente raffinato e portato all'estremo una caratteristica generale di tutti i dinosauri, la rapidità della crescita rispetto alla condizione base dei rettili. La causa di questa accelerazione nella crescita negli aviani potrebbe essere legata alle esigenze del loro scheletro specializzato per il volo attivo, e quindi non rappresentare un reale adattamento contro le crisi ambientali. Nondimeno, tale adattamento conferì un vantaggio alle specie nei confronti della instabilità ambientale e climatica che persistette per vari anni sull'intero pianeta dopo l'impatto avvenuto nel Golfo del Messico. Con la scomparsa di tutti gli altri dinosauri, si creò un'enorme lacuna dentro Reptilia. Da una parte della lacuna, rimasti orfani dentro Avialae, Theropoda e Dinosauria, restarono solamente i bizzarri aviani, ora unici portatori delle piume. Dall'altra parte della voragine, tutti gli altri rettili superstiti, nessuno dotato di piume. Il mondo di oggi, in cui è "ovvio" separare gli uccelli dai rettili, deve questa sua caratteristica alle conseguenze inusuali di una specializzazione metabolica, che salvò le penne (letteralmente) agli aviani. Una piccola specializzazione fisiologica comparsa a metà del Cretacico potrebbe quindi essere la causa fondante 1 68
della dicotomia tra "rettili" ed "uccelli" che noi osserviamo nel mondo di oggi e che ha forgiato due tra le più "ovvie" categorie zoologiche. Forse, senza quella piccola discontinuità fisiologica, anche gli aviani avrebbero fatto la fine degli altri dinosauri, ed oggi non esisterebbe alcun animale piumato sulla Terra.
1 69
Epilogo La Rivoluzione Permanente
Gli uccelli sono dinosauri e nulla nella loro biologia ha senso se non alla luce dei dinosauri. Qualunque sia il criterio con cui riconoscere i dinosauri nel registro fossilifero, o quale che sia il concetto di "dinosauro" che volete applicare per identificare questi animali all'interno del grande sistema della biologia, gli uccelli lo rispecchiano (o meno) allo stesso modo con cui qualsivoglia altro dinosauro rispecchia (o meno) quel criterio. La quantità di innovazioni morfologiche e trasformazioni anatomiche che accomuna un uccello a Tyrannosaurus è maggiore di quella che accomuna questo ultimo a Triceratops. Se il secondo appartiene alla medesima categoria zoologica del primo, anche gli uccelli devono fame parte. Lo status dinosauriano degli uccelli non è soltanto un aggettivo trendy ottenuto forzando la tassonomia. Esso è una conseguenza del nostro modo di interpretare la diversità biologica. La teoria dell'evoluzione ci impone di considerare gli aviani niente altro che una variazione all'interno del tema dinosauriano. Più che la mera sommatoria di differenze e similitudini, è il processo evolutivo che porta dall'ancestrale rettile quadrupede triassico al nostro moderno volatore piumato, a proclamare la natura dinosauriana degli uccelli. Più della metà delle caratteristiche identificabili a livello di fossili e che oggi separano gli uccelli dagli altri rettili sono presenti anche nei "dinosauri classici" . Esse non sono comparse in un singolo balzo evolutivo né si concentrano in un singolo gruppo di precursori aviani o di "specie iconiche" (come Archaeopteryx), ma sono diluite e distribuite lungo molte decine di milioni di anni di progressiva diversificazione dei dinosauri. La storia dei dinosauri è la storia degli uccelli. Alla fine di questa lunga narrazione, che ha spaziato oltre 180 milioni di anni, dall'inizio del Triassico fino alla fine del Cretacico, tentare di stabilire "quando" (nel tempo) e "dove" (nell'albero evolutivo) siano "comparsi gli uccelli" ci appare non solo indefinibile, ma, soprattutto, del tutto vano e fuorviante. Gli uccelli non "compaiono" in un momento particolare di questa sequenza, non escono belli e pronti fuori dall'uovo di un rettile (come sosteneva una bizzarra ipotesi ottocentesca) ma sono la progressiva sommatoria di tutte le storie particolari incontrate durante l'intera successione evolutiva iniziata nel Triassico inferiore. Per meglio apprezzare questa conclusione, prendiamo 1 70
come esempio le ali, l'elemento più caratteristico e distintivo degli uccelli, e ripercorriamo la sua evoluzione. L'ala moderna degli aviani è un complesso mosaico di elementi, oggi magistralmente coordinati per assolvere alla funzione di sollevare l'animale in aria e permettergli di manovrare elegantemente vincendo la forza di gravità. Ogni elemento che forma la raffinata meccanica alare è comparso in momenti e in contesti differenti lungo la storia mesozoica dei pan-aviani. Ad esempio, l'orientazione attuale della spalla, diretta lateralmente e verso l'alto per meglio estendere il battito del braccio, è comparsa all'inizio del Cretacico, negli omitotoracini. Essa è una modifica di una precedente configurazione, vantaggiosa per animali arrampicatori comparsi nel Giurassico Superiore. A sua volta, questa caratteristica è derivata dalla condizione della spalla rivolta lateralmente, caratteristica dei paraviani, e legata alla necessità di richiudere comodamente le lunghe braccia che essi avevano evoluto all'inizio del Giurassico Medio. E, a sua volta, l'articolazione laterale della spalla paraviana è una modificazione della precendente articolazione, rivolta sia di lato che posteriormente, che i dinosauri ancestrali avevano acquisito nel momento in cui, a metà del Triassico, realizzando il pieno bipedismo, non ebbero più la necessità di proiettare le zampe anteriori parallelamente al terreno per ottenere l'andatura quadrupede tipica dei loro predecessori. Ognuna delle modifiche nella conformazione della spalla presuppone lo stadio precedente, e ciascuna si era evoluta in funzione di un particolare contesto ecologico ed ambientale. Senza l'evoluzione al bipedismo dinosauriano, senza l'evoluzione del lungo braccio paraviano, senza la fase "arboricola" dei primi avialiani, non si potrebbe comprendere perché gli uccelli abbiano oggi una così peculiare configurazione della spalla. E questo è solo uno tra i numerosi elementi che formano l'ala aviana. Il battito dell'ala degli uccelli è alimentato dal lavoro del muscolo pettorale, che negli uccelli volatori è enormemente sviluppato. L'ampliamento del muscolo pettorale degli ornitotoracini fu possibile senza drammatiche rivoluzioni della loro biologia perché questo muscolo era già significativamente sviluppato in tutti i dinosauri predatori, nei quali funzionava come "motore" del meccanismo a "tenaglia" con cui questi animali trattenevano le prede con ambo le mani. E, a sua volta, l'uso di questo muscolo nei teropodi come generatore di forze rivolte verso la zona pettorale altro non fu che il "riciclaggio" di una funzione di sollevamento della zona toracica (contro la forza di gravità) acquisita dai primi dinosauromorfi quadrupedi quando iniziarono a sviluppare una 171
postura eretta degli arti. Sia il quadrupede semi-eretto del Triassico, che il bipede dalle mani rapaci, potenziarono i propri muscoli pettorali per le proprie specifiche esigenze di sopravvivenza, in alcun modo "presagendo" una funzione alare in qualche bizzarro discendente giurassico o cretacico. Nondimeno, a posteriori, essi furono passaggi necessari e fondamentali per il perfezionamento sia del sistema muscolare che di quello neuronale che permettono agli uccelli di oggi di produrre il battito delle loro ali. La mano degli uccelli di oggi è formata da tre dita, numero che non ha alcuna particolare implicazione con il volo, ma che fu ereditato dai dinosauri predatori quando, specializzando il braccio come organo per la presa delle prede, subirono una selezione semplificatrice che fece scomparire le due dita più esterne (corrispondenti ai nostri anulare e mignolo): la semplificazione della mano fu una necessità imposta dalla particolare articolazione semi-pronata del gomito di tutti di dinosauri (vedere il primo volume). Probabilmente, se non ci fosse stato il vincolo della semi-pronazione, i dinosauri predatori avrebbero conservato tutte le cinque le dita della mano. Pertanto, non si comprende la presenza di solo tre dita nella mano aviana se non si riconosce che, durante una lunga fase del Mesozoico, i loro precursori non usarono la mano per volare ma erano dei bipedi incapaci di pronare completamente l'avambraccio che usavano le mani come armi per trattenere la preda. La pressione predatoria plasmò la mano tridattila dei pan-aviani, molto prima che essi usassero tale mano per manovrare in volo. Sempre nella mano degli uccelli, l'elegante meccanismo dell'alula, mossa dal primo dito della mano e capace di divaricare rispetto alle altre dita, è l'ennesimo "riciclaggio" di un elemento comparso in un contesto terricolo e predatorio, evoluto nei primi dinosauri per permettere alla loro mano incapace di pronare di modulare efficacemente le dita per trattenere con ambo le mani, in modo più efficace, un oggetto. Senza l'evoluzione del bipedismo nei primi dinosauri, che liberò l'arto anteriore dalla funzione locomotoria, senza l'apparente inefficienza della semi-pronazione in animali a postura eretta che impose a questi animali dei "compromessi" nell'uso delle braccia, senza l'evoluzione di una funzione predatoria nell'arto anteriore, senza la selezione semplificatrice nella mano avvenuta in seno ai teropodi, non potremmo comprendere come mai gli uccelli abbiano evoluto una morfologia alare così peculiare. Il piumaggio, che più di ogni altro elemento esteriore distingue gli uccelli dai rettili, e che forma la superficie aerodinamica dell'ala, è una 1 72
innovazione molto antica dei pan-aviani. In origine, esso doveva essere un sottile tegumento che difendeva dal freddo e dall'insolazione, acquisito all'inizio del Triassico in una nuova stirpe di piccoli corridori bipedi. Per buona parte della storia pan-aviana, il piumaggio deve aver svolto una funzione principalmente protettiva e legata alla regolazione della temperatura, ma non è da escludere che, come molti tegumenti nel mondo animale, esso abbia fin da subito avuto anche un ruolo nella comunicazione e nella selezione sessuale. Ed è probabile che fu proprio la selezione sessuale a spingere l'allungamento delle penne della braccia in alcuni celurosauri, i quali poi acquisirono anche una innovativa tecnica di cova delle uova che comporta l'azione diretta del genitore a difesa e protezione della covata. In quel contesto, le penne di braccia e coda, già selezionate come attributo sessuale, furono anche selezionate come elemento necessario di una nuova strategia di cura parentale sulle uova. Se le nostre galline covano accucciandosi sulle loro uova, lo fanno perché hanno ereditato questo comportamento dai maniraptori mesozoici. Infine, quando una linea di maniraptori di ridotte dimensioni si adattò progressivamente a sfruttare l'ambiente arboreo, le lunghe penne delle braccia e della coda furono "riciclate" anche come potenziali "paracadute", e subirono una progressiva selezione verso una funzione aerodinamica. Tale funzione, conservata nei primi avialiani arrampicatori, fornirà, letteralmente, il sostegno fisico su cui realizzare l'ala e le timoniere degli ornitotoracini. La biologia degli uccelli è quindi un mosaico stratificato di elementi acquisiti lungo tutta la storia dinosauriana. Senza l'evoluzione del bipedismo nei primi dinosauri non avremmo avuto i requisiti necessari alla peculiare strategia predatoria teropodiana. Senza la funzione "a tenaglia" delle braccia nei teropodi non avremmo avuto la furcula ed il sistema pettorale che oggi permette il battito alare. Senza la corsa agli armamenti del Giurassico e la tendenza al gigantismo dei neoteropodi, non avremmo la serie di innovazioni graviportali a livello della gamba che oggi permettono agli uccelli di camminare anche in assenza di un muscolo caudofemorale voluminoso. Senza la fase di arrampicatori arboricoli, non avremmo avuto la riduzione della coda, passaggio fondamentale per poi trasformare quella parte del corpo in un timone di volo. Senza la selezione sessuale dei maniraptori terricoli, non avremmo il ventaglio di penne timoniere degli uccelli moderni. Senza l'evoluzione dei sacchi aerei per ventilare efficacemente il polmone nei primi dinosauri, in concomitanza con l'evoluzione della postura bipede eretta, e senza la loro 1 73
progressiva espansione nei dinosauri predatori, gli uccelli non avrebbero potuto evolvere la capacità di captare con tanta efficienza l'ossigeno atmosferico necessario per alimentare il loro intenso motore muscolare e termico. Senza l'evoluzione di una pastura bipede eretta (nei primi dinosauri) sostenuta da un enorme ampliamento dei muscoli del bacino e della coscia (nei neoteropodi), non ci sarebbe stata l'evoluzione di un metabolismo muscolare più intenso di quello rettiliano "classico", e quindi, in definitiva, non ci sarebbe stato il fulcro da cui si è raggiunto il tasso di crescita molto accelerato caratteristico degli uccelli odierni. Questo ultimo, forse, è stato la chiave che ha aperto loro le porte della salvezza, durante la catastrofe che, 66 milioni di anni fa, spazzò via tutti i loro parenti, tutti portatori, in vario grado, delle innovazioni e trasformazioni anatomiche che oggi definiscono gli animali chiamati "uccelli" . Per oltre un secolo e mezzo, tutti gli scenari sull'evoluzione degli uccelli hanno dovuto compensare la cronica mancanza di prove fossili con argomentazioni e ipotesi generali. Di conseguenza, le aspettative ed i "pregiudizi" particolari degli studiosi hanno avuto un peso non marginale nella ricostruzione della storia aviana. Disponendo solamente di Archaeopteryx, quasi sospeso a metà strada nell'enorme lacuna esistente tra i possibili rettili triassici a cui tutti riferivano l'origine profonda degli uccelli, e le forme moderne comparse alla fine del Mesozoico, i paleontologi hanno elaborato narrazioni semplici e lineari, scenari relativamente monotoni, nei quali si assumeva che un gruppo di piccoli rettili arboricoli, non dissimili da lucertole, si adattarono progressivamente al volo planato, fino ad acquisire le fattezze del celebre "Urvogel" bavarese. Secondo tali narrative, le penne furono quindi selezionate come elementi dell'apparato alare. Da Archaeopteryx in poi, questi animali perfezionarono le tecniche di volo, per poi trasformarsi gradualmente negli uccelli di oggi. Queste narrazioni, oggi, ci appaiono del tutto insoddisfacenti. Ne comprendiamo i limiti e le cause storiche, ma non possiamo più perpetrarle. L'evoluzione degli uccelli non fu lineare, e l'adattamento al volo fu solamente una delle forze in atto, per giunta una delle più recenti e tardive. Lo scenario che oggi abbiamo a disposizione, fondato su decine di stadi morfologici e funzionali scoperti nei fossili, è molto più esuberante di quanto sospettabile dagli studiosi di anche solo mezzo secolo fa. All'origine della linea aviana abbiamo rettili quadrupedi e predatori, animali terricoli e dalla pesante corazzatura della pelle. 1 74
Durante la prima parte del Triassico, un ramo di questi arcosauriformi andò incontro a progressiva miniaturizzazione, che risultò in un corpo più snello, agile e leggero. La perdita della corazzatura andò di concerto con l'elaborazione di un tegumento filamentoso, leggero ma capace di svolgere una funzione nella regolazione della temperatura in animali più piccoli e affusolati tendenti alla dispersione del calore. La corporatura molto più leggera permise di perfezionare il bipedismo, e questo a sua volta liberò il polmone dai vincoli meccanici legati all'andatura quadrupede rettiliana. Dotati di un efficiente meccanismo di ventilazione polmonare, questi animali aumentarono la massa muscolare necessaria al mantenimento della pastura eretta, ed accelerarono il loro metabolismo rispetto alla condizione ancestrale dei rettili. Il bipedismo e la pastura eretta così acquisiti, a sua volta liberarono completamente l'arto anteriore dei primi dinosauri dall'antica funzione locomotoria, e lo indirizzarono verso una nuova funzione, in supporto alla predazione. La mano, vincolata all'antica semi-pronazione dell'avambraccio (eredità della pastura divaricata degli arti) fu plasmata nei teropodi verso una condizione tridattila, più efficiente e tenace nel trattenere e dilaniare le prede. L'acquisizione di una nuova modalità predatoria, e la competizione serrata tra tutti i dinosauri all'inizio del Giurassico, spinse la Corsa agli Armamenti, catalizzò l'aumento delle dimensioni ed impose un perfezionamento della pastura eretta, con conseguenze nell'organizzazione dell'arto posteriore. Il successo dei dinosauri li portò rapidamente ad occupare sempre nuove nicchie, ed alcune specie si specializzarono per un modello di vita più agile e dimesso rispetto a quello massiccio e graviportale trainato dalla Corsa agli Armamenti. Una seconda fase di miniaturizzazione (la prima aveva coinvolto i dinosauromorfi ancestrali del Triassico) caratterizzò così i celurosauri, in particolare i paraviani. Numerosi attributi giovanili, transitori negli altri dinosauri predatori di grandi dimensioni, furono conservati ed elaborati in questi piccoli teropodi, ed essi acquisirono orbite ed encefali più ampi, e proporzioni più affusolate degli arti. L'alleggerimento dello scheletro selezionò un nuovo tipo di attributo sessuale, non più a livello di creste ed omamentazioni dello scheletro, bensì nel piumaggio, che sviluppò lunghe penne sulle braccia e sulla coda. Questi attributi risultarono utili anche per una nuova modalità di cura parentale, possibile in animali non più giganteschi, che comprendeva la cova direttamente sotto il corpo del genitore, e non più affidata al calore di nidi di terra e vegetali, tipici degli arcosauri. La riduzione delle dimensioni e l'allungamento degli arti 1 75
anteriori, in concerto, permisero ad alcuni paraviani di avventurarsi sempre più in sicurezza sugli alberi, selezionando in questi piccoli predatori una tendenza all'arrampicata. Nel nuovo contesto arboreo, il sistema muscolare caudofemorale dei loro precursori terricoli non fu più necessario, e la coda fu ridotta al massimo, risultando un mero vestigio. L'arto anteriore aumentò di dimensioni e robustezza, per migliorare la presa sui rami, e per compensare la riduzione del sistema locomotorio della gamba. Accumulando progressivamente innovazioni per l'arrampicata, questi animali iniziarono anche a "scalare" il picco delle capacità aerodinamiche, inizialmente per migliorare la presa sui rami e per minimizzare il rischio di cadute rovinose, poi come vero e proprio comportamento attivo, come tendenza a compiere balzi sempre più lunghi e arditi tra gli alberi. Dotati di lunghe braccia e di un'ampia superficie aerodinamica data dal piumaggio, questi animali furono infine in grado di spiccare veri e propri battiti alari, sempre più potenti e prolungati. Il perfezionamento della capacità di produrre un battito alare modificò l'orientamento della spalla, la forma delle ossa della regione pettorale e impose una semplificazione nella mano. Il primo dito della mano degli antichi predatori smise di agire come un pugnale regolabile e divenne un organo stabilizzatore per il volo, l'alula. Il successo nell'esplorazione dell'ambiente aereo ed arboreo portò una linea di questi piccoli teropodi dalla coda corta a ritornare sempre più frequentemente al suolo: migliorando l'efficienza e la versatilità delle ali, essi rielaborarono il modello locomotorio terricolo dei dinosauri con coda lunga in un nuovo tipo di camminata non più basata sul sistema caudofemorale. Dotati di enormi muscoli pettorali e di una coda in grado di funzionare come un timone, gli omituromorfi poterono decollare ed atterrare in qualsiasi condizione ambientale, e non furono più vincolati solamente alle fronde degli alberi, iniziando ad esplorare anche i contesti acquatici. Come l'enorme sviluppo della muscolatura della zona pelvica e della gamba aveva fornito ai primi dinosauri bipedi un motore muscolare costantemente attivo, in grado di mantenere elevata la loro temperatura corporea, così l'enorme sviluppo della muscolatura pettorale fornì agli ornituromorfi un secondo motore muscolare costantemente attivo, che accelerò ulteriormente il loro metabolismo ed il loro tasso di crescita. Essi furono in grado di raggiungere la maturità fisica in un solo anno dalla schiusa, mantenendosi di dimensioni ridotte. Il risultato finale di questa lunghissima sequenza di trasformazioni, durata più di 150 milioni di anni, fu un rettile piumato dal metabolismo elevatissimo, il cervello 1 76
espanso, l'arto anteriore trasformato in ali munito di tre dita semplificate, la pastura eretta e bipede obbligatoria, il piede tridattilo ed una estrema ossificazione in tutti gli elementi scheletrici. In una parola, un uccello. La Rivoluzione Piumata, iniziata nemmeno 25 anni fa grazie alla scoperta di eccezionali giacimenti fossiliferi in Cina, non è conclusa. Tutto ci induce ad un grande ottimismo, perché ciò che abbiamo scoperto finora è ragionevolmente solo una frazione di ciò che può ancora essere scoperto. La quantità di nuovi fossili che sono descritti e pubblicati ogni mese cresce ad un ritmo mai visto prima nella storia della paleontologia: questa è, senza alcun dubbio, l'Età dell'Oro per lo studio dei dinosauri. Diversi fattori, sia biologici che geologici, ci dicono che la quantità di materiale, di specie e di sorprese è ben maggiore di quanto rivelato finora. Gli scenari evolutivi più robusti portano a collocare la comparsa del piumaggio almeno al momento della comparsa dei dinosauri (la divergenza tra omitischi e saurischi) o persino più indietro, con i primi ornitodiri (la divergenza della linea dinosauromorfa e di quella degli pterosauri): in entrambi i casi, la comparsa del piumaggio risalirebbe alla prima metà del Triassico, ad almeno 235-240 milioni di anni fa. Dato che, attualmente, i fossili piumati più antichi scoperti sono di età medio Giurassica (165 milioni di anni fa), ciò implica che manca all'appello tutta la prima parte della storia del piumaggio, corrispondente ai 70 milioni di anni che separano la metà del Triassico dalla metà del Giurassico. Interi gruppi, che ragionevolmente erano ricoperti da piumaggio (anche solo in forma semplice e filamentosa) fino ad oggi non hanno dato prove fossili di questo attributo. Ma è molto probabile che ciò sia solo un limite della documentazione, non una reale assenza di piume in questi animali. Solo la scoperta di nuovi fossili potrà confermare questo sospetto, che è comunque supportato dall'esperienza degli ultimi anni Prima della scoperta di Tianyulong e Kulindradromeus, quanti avrebbero immaginato ornitischi piumati? E prima della scoperta di Yutyrannus, chi avrebbe sostenuto l'esistenza di grandi teropodi piumati, inclusi i tirannosauroidi? Io non mi stupirò qualora, in futuro, altri gruppi di dinosauri che oggi si stenta ad immaginare ricoperti di piume risulteranno dotati di quel tegumento. Una seconda fonte di speranza e ottimismo è di tipo geografico. La grandissima maggioranza dei fossili di dinosauro con tracce di piume proviene da una serie limitata di località fossilifere dell'Asia orientale. Il resto del mondo, finora, ha dato solo una manciata di siti, e tutto lascia .
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sperare che, intensificando le ricerche, in futuro troveremo altri "Eldorado" paleontologici fuori dalle zone oggi più famose. La recente scoperta che anche alcuni siti "tradizionali" del Canada (da cui estraiamo dinosauri da quasi un secolo) abbiano conservato tracce di piumaggio, è una prova che, una volta che abbiamo imparato come guardare i fossili e sappiamo cosa cercare, le piume risulteranno meno rare ed elusive di quanto ritenuto fino ad ora. Casi analoghi sono riportati in Europa ed Australia. Intere regioni e continenti sono stati appena scalfiti dalla Rivoluzione Piumata. Ad esempio, l'Africa è la grande speranza per i paleontologi: ancora poco studiata, questo continente è troppo poco rappresentato nelle nostre ricostruzioni perché questo quadro sia realistico. La ricerca di fossili di dinosauri in zone dove fino a pochi anni fa non pensavamo di trovarli sarà coronata da molti successi e gradite sorprese. L'Italia è un esempio eccellente di questa speranza: in trenta anni siamo passati dalla certezza quasi assoluta che la nostra penisola non potesse ospitare resti di dinosauri alla scoperta di almeno quattro siti paleontologici con i loro resti (alcuni in eccezionale stato di preservazione), nonché dozzine di siti che conservano le loro impronte: è probabile che questi numeri siano destinati a crescere. L'eccezionale preservazione del primo dinosauro italiano, il teropode Scipyonyx, fa ben sperare che, forse, anche il nostro paese fornirà giacimenti fossiliferi dotati di piumaggio. La Rivoluzione Piumata non è affatto conclusa, ed è probabile che gli episodi più straordinari e significativi di questa grande avventura scientifica non siano ancora avvenuti. La mia speranza, quasi una certezza, è che molto di quanto scritto in questi due volumi sarà presto da ampliare, revisionare e aggiornare.
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Riassunto iconografico
Le principali tappe della storia pan-aviana. In ciascun nodo di ramificazione, sono indicate l'età di comparsa del gruppo, e le innovazioni anatomiche più significative acquisite lungo la progressiva "costruzione" del modello anatomico aviano. l, Pan-Aves
(250 milioni di anni fa): riduzione delle dimensioni
corporee, perdita della corazza ossea sul dorso e sviluppo di piumaggio filamentoso, postura eretta ed espansione del muscolo pettorale, sacchi aerei. 2, Dinosauria (235 milioni di anni fa): perfezionamento della postura eretta, andatura bipede obbligatoria. 3, Theropoda (230 milioni di anni fa): specializzazione della mano come organo di supporto per la predazione. 4, Neotheropoda (220 milioni di anni fa): inizio corsa agli armamenti ed aumento di dimensioni, espansione dei sacchi aerei, furcula, primo dito del piede ridotto (piede tridattilo). 5, Tetanurae (200 milioni d i anni fa): allungamento del muso, capacità di
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flettere la mano di lato, riduzione del quarto e quinto dito della mano. 6, Coelurosauria (175 milioni di anni fa): riduzione delle dimensioni, espansione della cavità cerebrale. 7, Maniraptora (170 milioni di anni fa): dieta onnivora e perdita di seghettatura nei denti, allungamento del braccio, penne remiganti e timoniene, cova delle uova. 8, Paraves (165 milioni di anni fa): ulteriore riduzione delle dimensioni, riduzione del muscolo caudofemorale, secondo dito del piede specializzato per una funzione predatoria. 9, Avialae (160 milioni di anni fa): arto anteriore allungato e robusto, penne remiganti dotate di funzione aerodinamica. 10, Pygostylia (140 milioni di anni fa): ulteriore riduzione delle dimensioni corporee, coda ridotta a vestigio, alluce apponibile. 11, Omithothoraces (135 milioni di anni fa): espansione della muscolatura pettorale, arto anteriore modificato in ala, pollice modificato in alula. 12, Omithuromorpha (125 milioni di anni fa): ulteriore espansione della muscolatura pettorale, nuovi adattamenti alla camminata bipede, coda specializzata in timone per il volo, fusione e semplificazione nelle ossa di mani e piedi. 13, Aves (80 milioni di anni fa): perdita completa dei denti, fusione delle ossa nel cranio e di buona parte dello scheletro, accelerazione della crescita.
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Glossario
ciuffo di penne specializzato inserito su (e mosso da) il primo dito della mano. Alvarezsauroidea: ramo di Maniraptora che comprende forme onnivore, forse insettivore, con peculiari specializzazioni nella mano (incluse, in alcune forme asiatiche, la riduzione della mano ad un solo dito). Sono noti principalmente da fossili cinesi, mongoli e patagonici. Antorbitale, finestra: apertura del cranio, posta ai due lati del muso di fronte alle orbite, tipica degli arcosauriformi. Arcosauria: gruppo di rettili formato da uccelli, coccodrilli e tutti i loro parenti fossili. Comprende tutti i pan-aviani, compresi i dinosauri. Arcosauri formes: gruppo di rettili comprendente gli arcosauri e vari gruppi triassici imparentati con loro. Arctometatarso: specializzazione del piede tipica di molti gruppi di Coelurosauria, finalizzata a migliorare l'efficienza nella corsa. Avialae: ramo di Paraves che include gli uccelli. Carnivoro: animale che include una quota sostanziale di carne nella sua dieta. Camosauria: ramo di Tetanurae comprendente forme unicamente ipercamivore e macrofagiche. Di dimensioni da medie a gigantesche (fino ad una dozzina di metri di lunghezza), distribuiti globalmente, si estinguono a metà del Cretacico. Cenozoico: terza era dell'eone Fanerozoico, tra 66 milioni di anni fa e oggi. Ceratosauria: ramo di Theropoda che include sopratutto specie carnivore di dimensioni adulte comprese tra 2 e 9 metri, noti dall'inizio del Giurassico fino alla fine del Cretacico, principalmente nei continenti del Gondwana. Cinto: parte dello scheletro postcraniale che collega gli arti con la colonna vertebrale. Il cinto pettorale collega l'arto anteriore, il cinto pelvico collega l'arto posteriore. Coelurosauria: ramo di Tetanurae che comprende Maniraptoromorpha e Tyrannosauroidea. Corsa agli armamenti: evoluzione parallela in differenti gruppi animali che sviluppano adattamenti di difesa e/o di offesa nei confronti uno dell'altro. Cretacico: terzo ed ultimo periodo del Mesozoico, tra 145 e 66 milioni di Alula:
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anni fa). ramo di pan-Aves che comprende Omithischia, Sauropodomorpha e Theropoda. Dromaeosauridae: ramo di Paraves caratterizzato da una progressiva tendenza verso la dieta ipercamivora e alla macrofagia. Alcuni suoi sottorgruppi mostrano specializzazioni piscivore e semi-acquatiche. Ecologia: scienza biologica che studia gli scambi di materia ed energia nei sistemi viventi. Filogenetica: scienza biologica che studia le relazioni genealogiche tra le specie. Giurassico: secondo periodo del Mesozoico, tra 201 e 145 milioni di anni fa. Gondwana: supercontinente meridionale derivato dalla frammentazione di Pangea durante il Mesozoico. Comprende gli attuali Africa, Madagascar, Sud America, India, Australia e Antartide. Graviportale: adattamento che permette di sostenere un grande peso corporeo (varie tonnellate). Ipercamivoro: animale carnivoro che si nutre quasi unicamente di vertebrati terrestri. Macro fago: camivoro/ipercamivoro che include nella dieta anche prede di dimensioni simili o superiori alle sue. Maniraptora: ramo di Maniraptoromorpha che comprende gli uccelli e tutti i gruppi piu affini agli uccelli rispetto agli omitomimosauri. I suoi rami principali sono Alvarezsauroidea, Oviraptorosauria, Paraves, e Therizinosauria. Maniraptoromorpha: ramo di Coelurosauria che comprende gli uccelli e tutti i gruppi piu affini agli uccelli rispetto ai tirannosauroidi. I suoi rami principali sono Omithomimosauria e Maniraptora. Mesozoico: seconda era dell'eone Fanerozoico, tra 252 e 66 milioni di anni fa. Onnivoro: animale in grado di sfruttare risorse alimentari sia di origine animale che vegetale. Omithischia: uno dei rami principali di Dinosauria che include forme onnivore e vegetariane, sia quadrupedi che bipedi. Sono ampiamente documentati in tutti i continenti nel Giurassico e nel Cretacico, alla fine del quale si estinguono. Oviraptorosauria: ramo di Maniraptora che comprende forme onnivore simili agli uccelli nelle modifiche del cranio e della coda. Sono noti unicamente dal Cretacico dell'Emisfero Settentrionale. Dinosauria:
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Paleozoico:
prima era dell'eone Fanerozoico, tra 541 e 252 milioni di anni
fa. Pan-Aves: ramo di Arcosauria che include gli uccelli e tutte le forme estinte piu affini agli uccelli rispetto ai coccodrilli. Ne fanno parte tutti i dinosauri. Pangea: supercontinente comprendente tutte le terre emerse, formatosi alla fine del Paleozoico e frammentatosi durante il Mesozoico. Paraves: il ramo di Maniraptora che include uccelli, dromeosauridi e troodontidi. Piscivoro: animale carnivoro che si nutre in maggioranza di prede acquatiche, in particolare, pesci. Pneumatizzazione: in anatomia, espansione di sacche collegate al sistema respiratorio all'interno di altri organi. I pan-aviani sono gli unici animali ad avere una ampia pneumatizzazione dello scheletro postcraniale. Postcraniale: parte dello scheletro ad esclusione della testa. Comprende la colonna vertebrale, i cinti e gli arti. Remigante: tipo di penna che si inserisce sulla mano e sull'avambraccio. Saurischia: uno dei rami principali di Dinosauria; include Sauropodomorpha e Theropoda. Sauropodomorpha: ramo di Dinosauria che comprende forme onnivore e vegetariane, primitivamente bipedi poi unicamente quadrupedi, tra cui i sauropodi, i piu grandi animali di terraferma esistiti. Sono ampiamente documentati in tutti i continenti, dal Triassico Superiore al Cretacico, alla fine del quale si estinguono. Scansoriopterygidae: peculiare gruppo di piccoli maniraptori noto unicamente dal Giurassico Superiore della Cina. Gli arti anteriori e le mani erano specializzati per sostenere una membrana di pelle, probabilmente usata per planare. Silesauridae: ramo di pan-Aves che potrebbe collocarsi su una linea molto prossima ai dinosauri oppure essere inclusa tra gli ornitischi piu primitivi. Forme onnivore ed erbivore di dimensioni medio-piccole, sono noti unicamente nel Triassico Superiore. Ta fonomia: Ramo della paleontologia che studia ed interpreta le condizioni fisiche, chimiche, geologiche ed ambientali che consentono la formazione di un fossile. Tecodonte: tipo di dentatura, caratterizzata da denti le cui radici sono inserite in alloggiamenti interni alle ossa della bocca (alveoli). Il termine era in passato usato per classificare molti arcosauriformi triassici. Tegumento: quasiasi tipo di struttura della pelle che ricopre il corpo.
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apertura nella parte posteriore del cranio, che permette ed agevola la contrazione dei muscoli masticatori. Timoniera: tipo di penna che si insisce sulla coda. Theropoda: il ramo di Saurischia che include tutti i dinosauri predatori. Originariamente carnivori, alcuni gruppi hanno poi acquisito una dieta onnivora o vegetariana. Gli uccelli sono un gruppo di teropodi celurosauri maniraptori. Troodontidae: uno dei rami principali di Paraves. Probabilmente, il gruppo di dinosauri "tradizionali" più prossimi agli uccelli. Zi fodonte: tipologia di dente caratterizzato da un profilo simile alla lama di un coltello, con i bordi anteriore e posteriore muniti di seghettature dello smalto. Sono denti specializzati per una dieta carnivora. Temporale, finestra:
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Ringraziamenti Questo libro è ispirato da quasi venti anni di riflessioni, studi e pubblicazioni che ho dedicato all'evoluzione dei dinosauri e all'origine degli uccelli. Ringrazio i numerosi colleghi e amici che in questi anni hanno contribuito, in vario modo, alle mie ricerche, fornendo materiale, consigli, occasioni di discussione, o condividendo qualche birra. In particolare, un ringraziamento a Simone Maganuco, Fabio Dalla Vecchia, Federico Fanti, Pasca! Godefroit, Lukas Panzarin e Darren Naish. La maggioranza delle ricostruzioni in vivo incluse in questi volumi sono state possibili grazie alle ricostruzioni scheletriche realizzate da Marco Auditore e Scott Hartman, che ringrazio.
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